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il manifesto, 8 settembre 2017 (m.p.r.) con riferimenti

Come si può esprimere tutta l’indignazione e la rabbia per la triste conclusione (perché di questo si tratta con il ritorno dell’ambasciatore in Egitto) del caso Regeni, ovvero del martirio di un nostro giovane ricercatore? Non si può.

Il grido di dolore e insieme di sdegno resta nella gola, soffocato; tanto è lo sgomento per le ciniche parole del ministro Alfano. Ma in questa tristissima vicenda Alfano non è solo. Si chiama realpolitik, spirito del tempo, realismo e si pronuncia con assassinio di Stato. Perché i rapporti «ineludibili» tra Egitto e Italia, le cosiddette «ragion di Stato», hanno ancora prevalso cinicamente di fronte alla difesa di una vittima innocente, o meglio, colpevole di svolgere un dottorato di ricerca con una indagine sul campo in un paese dove vige una dittatura.

Diciamolo con chiarezza: l’Egitto è un paese governato da un dittatore, amico di un altro degno rappresentante della democrazia: Putin. In quale altro paese democratico si uccide così barbaramente un giovane studioso? E dove giornalisti (Abdallah Rashad non ultimo) vengono sequestrati dai servizi segreti senza che se ne sappia più nulla? Un delitto degno dello Stato più reazionario. Era già successo; succede sempre, e ancora questa volta (nutrivamo qualche speranza!) abbiamo assistito al prevalere degli interessi economici su quello delle persone, cittadini italiani inermi.

Guai a trovarsi in situazioni simili! Si scoprirà che il tuo Paese non ti difende, che hai la disgrazia di essere nato in Italia. Così va il mondo: è il neoliberismo bellezza!! E il silenzio dell’università di Cambridge? Quello della Francia? Gli affari sono affari e una persona è una persona. Questo rattrista e ci riempie di sdegno: se il mondo perde di vista l’umano, ovvero lo mette in second’ordine rispetto al business, niente ha più senso. Il sacrificio di una giovane vita vale assai meno di un affare. Così aumentano le esportazioni egiziane verso il nostro paese: 29% in più, pari ad un valore di 761 milioni di dollari e guai a comprometterle per un banale caso di omicidio.

Questo paese sa solo fare la voce grossa con i migranti, con i «dannati della terra», con quelli che non hanno diritti, ma si inchina perfino ai più biechi dittatori che promettono commesse in cambio del silenzio su un assassinio. Questo mercimonio non ha neppure la dignità di quella tragedia che anteponeva le ragion di Stato invocate dal Re Creonte a quelle dell’amor filiale di Antigone. Nel caso di Giulio Regeni non c’è alcuna tragedia: era tutto scontato che si concludesse così, con una farsa, anzi, una beffa, e dove le «ragion di Stato» si chiamano fare affari. In soccorso al prode Alfano è arrivato un altro alfiere della democrazia: Casini, che ha detto che tutto questo clamore sul caso non è altro che uno sciacallaggio per bieche opportunità politiche. Ben detto, da un esperto di queste cose.

Si prova solo vergogna ad essere cittadini italiani in casi come questo. Non erano le ragioni dei migranti che mettevano in serio pericolo la tenuta democratica del Paese. Il ministro Minniti è nudo: non si è accorto, o non ha voluto vedere, che quella tenuta democratica a rischio non veniva da fuori del Paese, ma dal suo Parlamento, da quella scelta scellerata di far rientrare l’ambasciatore in Egitto. Una decisione che ha inflitto una ferita profonda nella fiducia dei cittadini a essere tutelati nei loro diritti (e nella loro incolumità) da un Paese che si dice democratico. E su tutte pesa il silenzio imbarazzante dell’Ue troppo attenta a non compromettere gli equilibri di quei paesi, al di là del Mediterraneo, che, come la Turchia di Erdogan, hanno dato la loro parola (di dittatori) per contenere (massacrare) i profughi in fuga.

Così, a seppellire le ultime speranze di far luce su questo assassinio, le parole di Alfano: «Contro l’oblio vorremmo fosse intitolata l’Università italo-egiziana la cui istituzione è un progetto che auspico troverà nuova linfa con l’invio dell’ambasciatore Cantini. A Giulio sarà intitolato anche l’auditorium dell’Istituto di cultura italiana al Cairo e saranno organizzate cerimonie commemorative nella data della sua morte nelle sedi di tutte le istituzioni italiane in Egitto». Amen.

riferimenti
eddyburg con attenzione ha seguito la triste vicenda nella sezione eventi 2016: Giulio Regeni assassinio di stato. L'auspicio era di ottenere giustizia per un delitto orrendo. Il ritorno dell'ambasciatore in Egitto e le parole del ministro Alfano, le "ragion di stato", ci dicono purtroppo che giustizia non sarà fatta.

«il manifesto, 7 settembre 2017

STUPRI, TORTURE, SCHIAVISMO:
DENUNCIA-SHOCK SULLA LIBIA
di Michele Gonnella

«Stati d'accusa. La presidente internazionale dell’ong Msf Liu: «L’Italia e l’Europa vogliono essere complici»
«Quello che ho visto in Libia è l’incarnazione della crudeltà umana al suo estremo». Joanne Liu, presidente internazionale di Medici senza Frontiere, strappa il velo dell’ipocrisia, della realpolitik del ministro Marco Minniti, invocata come panacea da prestigiosi commentatori e fini analisti, sui respingimenti in Libia ad opera dei libici ma con il valido contributo, di soldi e di retorica, dell’Italia e dell’Europa. Lei lo chiama «ultra cinismo».

Ma sono le immagini e le storie che racconta di uomini e donne stipati e massacrati nei lager libici, picchiati, schiavizzati, torturati «per il solo crimine di desiderare una vita migliore» – la delegazione di Msf è appena tornata dalla Libia dove ha visitato i centri di detenzione ufficiali, proprio quelli finanziati dall’Italia con il plauso europeo – «storie che mi tormenteranno per anni», dice Liu, più della lettera-appello indirizzata da Msf al primo ministro italiano Paolo Gentiloni e agli altri leader europei, che non riescono più a nascondere la realtà.

Tripoli, donne profughe nelcentro di detenzione dopo la cattura

Ciò che la canadese Joanne Liu chiama con parole prive di equivoci: «complicità» con i criminali, cioè con «un modello di business che trae profitto dalla disperazione». Parole che, paradossalmente, hanno provocato commenti stizziti o minacciosi a difesa del governo soprattutto dall’opposizione di destra, da Calderoli a Romani. Nella conferenza stampa di ieri a Bruxelles – e nel video-messaggio diffuso sui social dall’Ong che non ha firmato il codice Minniti – c’è la spiegazione, documentata, di questo giudizio e delle ragioni dell’appello all’Europa a mettere in campo immediatamente un’altra strada, quella delle «vie legali e sicure» per accogliere e non inprigionare questa umanità africana in fuga.

Il premier Gentiloni ha risposto a stretto giro che si «augura» che «gli sviluppi che abbiamo avuto in queste settimane con le autorità libiche ci consentano di avere la possibilità di chiedere, e forse anche ottenere, condizioni umanitarie che sei mesi fa neanche ci sognavamo di chiedere».

L’Europa dal canto suo risponde con non meno stridente coscienza «delle condizioni inaccettabili, scandalose e inumane». «Non siamo ciechi e sordi», ribatte puntuta la portavoce della Commissione, Catherine Ray, ricordando lo stanziamento di 142 milioni di euro per assistere organizzazioni internazionali come l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni in Libia. E annunciando inoltre come la Commissione Juncker stia cercando di realizzare un meccanismo per «monitorare» l’uso dei fondi europei per addestrare la Guardia costiera libica.

A tutta questa fumoseria fa da contraltare la crudezza delle condizioni di detenzione verificate dalla delegazione di Msf. «Quando sono entrata in un centro di detenzione a Tripoli – inizia Liu – c’era una guardia, enorme, che ha spalancato la porta e ha ricacciato la gente indietro con un bastone. Un mare di persone magre, emaciate, trattate come fossero animali». «Sussurravano “Tirateci fuori da qui”. Ho ho potuto solo dire loro: “Vi sento”». E ancora: «Una donna incinta era svenuta perché costretta a stare in piedi per ore su un piede solo, sotto il sole. Mi ha detto: “La mia storia non è neanche la peggiore”. E mi ha confidato di un’altra donna incinta stuprata nella stanza accanto a quella dove è stato rinchiuso il marito dopo essere stato picchiato davanti a tutti nel cortile». Poi c’è il ragazzo arrivato in Libia dalla Guinea per studiare e lasciato talmente senza cibo nel centro da rischiare la vita per malnutrizione. «Non riusciva a guardarmi in faccia mentre mi parlava e gli scendevano le lacrime».

Msf ha scelto di visitare solo i centri di detenzione del governo di Tripoli i Detention Centres for Illegal Migration, dove l’ong ha accesso. «L’Unhcr – Jan Peter Stellem di Msf – riferisce di circa 40 centri di detenzione ufficiali, ma ci sono molti campi illegali. In questo momento lavoriamo in 8 centri di detenzione: siamo stati anche in altri, ma a volte il controllo cambia e allora bisogna rinegoziare l’accesso al centro».

La gestione dei miliziani libiche invece – come risulta anche da inchieste giornalistiche – non si può mettere in discussione.

UN URLO
CONTRO LA COMPLICITÀ
di Tommaso Di Francesco


La lettera d’accusa al piano migranti dell’Italia e dell’Ue inviata da Joanne Liu e da Loris De Filippi, rispettivamente, presidente internazionale e responsabile italiano di Medici Senza Frontiere (Msf), sia a Bruxelles che al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni – che negli stessi minuti vantava da Lubiana: «I risultati sull’immigrazione si vedono nel senso della riduzione degli sbarchi e dei flussi» – non appartiene a quelle rivelazioni che possono passare inascoltate. Perché gridano, urlano una verità ormai incontrovertibile.

Il titolo infatti di questo nuovo rapporto della Ong – la stessa che il «Codice Minniti» ha messo all’indice mentre salvava vite umane nel Mediterraneo – potremmo sintetizzarlo con le stesse parole di Msf: «I governi europei complici nell’alimentare il business della sofferenza in Libia».

Accusa Joanne Liu, reduce da un viaggio-inchiesta in Libia di una settimana fa: «Il dramma che migranti e rifugiati stanno vivendo in Libia dovrebbe scioccare la coscienza collettiva dei cittadini e dei leader dell`Europa» che invece, «accecati dall’obiettivo di tenere le persone fuori dall'Europa, con le politiche e i finanziamenti europei stanno contribuendo a fermare i barconi in partenza dalla Libia, ma in questo modo non fanno che alimentare un sistema criminale di abusi».

Perché «la riduzione delle partenze dalle coste libiche – denuncia Msf – è stata celebrata come un successo nel prevenire le morti in mare e combattere le reti di trafficanti, ma sappiamo bene quello che succede in Libia. Ecco perché questa celebrazione è nella migliore delle ipotesi pura ipocrisia o, nella peggiore, cinica complicità con il business criminale».

Ecco gli abusi testimoniati: «Nei centri di detenzione di Tripoli le persone sono trattate come merci da sfruttare. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l’altra. Gli uomini ci hanno raccontato come a gruppi siano costretti a correre nudi nel cortile finché collassano esausti. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. Tutte le persone che abbiamo incontrato – accusa la lettera- dossier di Msf – avevano le lacrime agli occhi e continuavano ripetutamente a chiedere di uscire da lì».

È la conferma del primo reportage televisivo di Amedeo Ricucci per la Rai di un anno fa, di quello della Reuters di questa estate, dei duri giudizi di Angelo Del Boca e Alex Zanotelli, del viaggio a Sabhrata dell’Associated Press (e di questi giorni della Frankfurter Allgemeine) che ha svelato come le milizie di quella città (e delle altre, costiere e non), istruite, finanziate e armate dai nostri servizi, cambino casacca. Diventando da trafficanti le milizie di controllo della disperazione dei migranti, gestendo volta a volta, viaggi micidiali a mare, traffici di esseri umani, torture, stupri e centri di detenzione.

Ma che il j’accuse di Medici Senza Frontiere non può stavolta essere nascosto e tacitato nel silenzio del potere e dei media contigui, viene anche dalla stessa Commissione europea, già in imbarazzo per quei reportage.

«I centri d’accoglienza in Libia sono prigioni – dice la Commissaria Ue al commercio Cecilia Malmstroem già in Libia nel 2016 – e le condizioni in effetti sono atroci»; e anche Catherine Ray, portavoce di Federica Mogherini (Mister Pesc) ammette: «Siamo consapevoli, le condizioni di detenzione sono scandalose e inumane», ma l’Ue vuole «cambiare quelle condizioni» è per questo che «Unhcr-Onu e Oim vengono finanziate con 180milioni di euro». Si danno la zappa sui piedi e non se ne accorgono.

La risposta a questo patto criminale è stata finora in Italia una vergognosa esaltazione dell’emergente ministro degli interni Marco Minniti che sarebbe stato capace di convincere la cosiddetta Libia. Ma quale? Se quello Stato non esiste più e che sono almeno quattro le parti in cui è divisa dopo la guerra della Nato, con interposti conflitti tra centinaia di clan e fazioni armate.

Una capacità di convinzione appoggiata col «patto di Parigi» anche da Germania, Francia e Spagna. Che, per tenere lontano il misfatto occidentale, autorizzano in Libia, in Ciad e in Niger l’istituzione di un sistema concentrazionario di lager purché i disperati non arrivino in Europa. Con l’aggiunta della «coperta di Linus» di un presunto controllo dei diritti umani da parte dell’Unhcr e dell’Oim.

Per una fase temporale che semplicemente dimentica di rispondere a questa domanda: che fine fa adesso quel milione di migranti e profughi intrappolati in Libia, in cammino nei deserti e senza più vie di fuga? L’importante è che la loro tragedia sia nascosta nella sabbia.

Minniti, manco a dirlo, ammirato a manca e più ancora a destra come astro nascente, ha trovato in quella occasione una schiera di inaspettati elogiatori: Gabanelli, Travaglio, Gramellini, ecc… E guai a criticarlo. Il presidente del Pd Matteo Orfini ha tuonato: «Chi lo critica è una sinistra salottiera»; e gli «antimperialisti» Pierferdi Casini e Nicola Latorre hanno addirittura subodorato l’ingerenza Usa per il petrolio libico. Siamo davvero curiosi di sapere che cosa dirà ora questo stuolo militante di ammiratori sulla pelle altrui.

Le conseguenze dell'esternalizzazoine dell'"accoglienza" in salsa europea. Articoli di Enrico Fierro da

il Fatto Quotidiano e Francesca Mannocchi da L'Espresso. 8 settembre 2017 (p.d.)


il Fatto Quotidiano
“TORTURE E VIOLENZE IN LIBIA
PAGATE PER METTERLI NEI LAGER”
di Enrico Fierro
«L’accusa a Italia ed Europa. Duro rapporto di Medici Senza Frontiere sui campi di Tripoli: “Chi aiuta i trafficanti, chi salva vite o chi consente di trattarle come merci?”»

È impietoso, documentato, offre soluzioni e all’Europa la possibilità di salvarsi la faccia di fonte al mondo. È il rapporto che Medici senza frontiere ha inviato ieri alla Ue e ai governi e che è sui tavoli di Paolo Gentiloni e Marco Minniti. Italia ed Europa tirano un sospiro di sollievo per il calo drastico degli sbarchi, i migranti sono stati fermati in Libia, la “pancia” delle opinioni pubbliche europee soddisfatta. Ma a quale prezzo? La situazione dei campi per i profughi in Libia “è vergognosa”, i finanziamenti e le politiche europee “alimentano un sistema criminale di abusi”.

Medici senza frontiere ha trascorso un anno a Tripoli, ha curato e assistito i migranti, quello che operatori, medici e volontari hanno visto è agghiacciante. “Estorsioni, abusi fisici e privazione dei servizi di base” subiti da uomini, donne e bambini. In quei campi di detenzione, gestiti da milizie spesso contigue ai trafficanti di carne umana, “le persone vengono trattate come merce da sfruttare”. I racconti di esseri umani ammassati “in stanze buie e sporche, prive di ventilazione, costretti a vivere uno sopra l’altro”, sono da brividi. “Uomini costretti a correre nudi” nei cortili dei centri di detenzione fino all’esaurimento di ogni forza, “donne stuprate e costrette a chiamare le famiglie e chiedere soldi per essere liberate”. “La loro disperazione è sconvolgente”, commenta Msf. E allora, celebrate il calo degli sbarchi, ma “è pura ipocrisia, oppure, nella peggiore delle ipotesi, complicità con il business criminale che riduce gli esseri umani a mercanzia nelle mani dei trafficanti”. Attacco duro alla Ue e alle scelte del governo italiano da parte di una delle più stimate organizzazioni umanitarie a livello mondiale.

Msf non dimentica di essere stata attaccata, delegittimata, non dimentica che la Guardia costiera libica “finanziata dall’Europa ci ha sparato addosso”, e pone una domanda: “Chi è davvero complice dei trafficanti, chi cerca di salvare vite umane, oppure chi consente che le persone vengano trattate come merci?”. Infine una domanda al capo del governo italiano Paolo Gentiloni: “Permettere che esseri umani siano destinati a subire stupri, torture e schiavitù, è davvero il prezzo che, per fermare i flussi, i governi europei sono disposti a pagare?”. L’interrogativo, pesante e ineludibile, è sul tavolo della Ue e del governo italiano.

Quella di Msf non è l’unica denuncia sulle condizioni dei campi di detenzione in Libia e sulla particolare diplomazia anti-immigrati del governo italiano. Una interrogazione al Parlamento europeo tenta di squarciare il velo sui rapporti con le milizie e i trafficanti. Relatrice la deputata di Possibile, Elly Schlein, firmatari tanti deputati europei e molti italiani, tra questi Barbara Spinelli e Sergio Cofferati. I deputati vogliono sapere “quali misure si intenda assumere per assicurare che i fondi Ue non finiscano nelle mani delle milizie che gestiscono il traffico di esseri umani”. Si tratta di 46 milioni di euro stanziati per la formazione della Guardia costiera libica, per il controllo delle frontiere e il miglioramento delle condizioni di vita nei centri di detenzione. Tema, quello dei rapporti tra milizie, trafficanti e governi, soprattutto quello italiano, sollevato da una inchiesta dell’Associated Press, il 30 agosto scorso. Nel reportage si parla esplicitamente di un “accordo diretto” tra milizie libiche e governo italiano, soprattutto nella città di Sabrata, a ovest della Libia, uno dei porti da dove partivano i gommoni degli scafisti. Le milizie tirate in ballo sarebbero due, entrambe capeggiate da due fratelli, detti “i re del traffico”, della potente famiglia al Dabashi. Si tratta della Al-Ammu (500 combattenti e legata al governo Sarraj), e la Brigata 48, vicina al ministro dell’Interno. Un punto delicatissimo e che riguarda direttamente l’azione del governo italiano, ma che per il momento ha ricevuto solo una flebile replica dalla Farnesina: “Non trattiamo con i trafficanti”. L’opinione pubblica deve accontentarsi.

L'Espresso
LA COSTA DEI LAGER:
I CENTRI DI DETENZIONE DEI MIGRATI
IN LIBIA, DOVE NEANCHE L'ONU ENTRA
di Francesca Mannocchi

«In Libia ce ne sono ormai dozzine. Ufficiali, gestiti da milizie vicine al governo. E segreti, in mano alle bande di trafficanti di armi e droga. e tribù hanno capito che tenere i migranti sotto chiave è un guadagno proprio come farli partire».

Zawhia? «Appartiene alla Libia solo sulla carta, ma in realtà ha le sue leggi, è uno stato a se stante». Mahmoud ha quasi quarant’anni, lavora per una società che si occupa della sicurezza delle aziende straniere a Zawhia, città nella parte occidentale della Libia, a circa 50 chilometri dalla capitale Tripoli. Siamo nella parte di paese solitamente indicata come “controllata dal governo di al-Sarraj”, quello riconosciuto internazionalmente, ma che invece è in mano a milizie contrapposte e bande armate che si spartiscono tutti i traffici illegali, compreso quello dei migranti.

Anche per percorrere le cinquanta miglia che separano Tripoli da Zawhia è meglio andare in barca, via mare: in automobile è troppo pericoloso. La strada costiera, rimasta chiusa più di due anni per gli scontri tra milizie rivali, ora è di nuovo aperta, ma una delle tribù della zona, quella dei Warshafana, organizza check point improvvisati per rapire le persone - e naturalmente gli stranieri valgono di più.
Quando arriviamo al porto di Zawhia, intorno a noi il silenzio è irreale. Sul pontile ci sono una manciata di pescatori: puliscono le barche, rimettono in ordine le reti. Non c’è traccia della guardia costiera e non ci sono più i volti noti del contrabbando che qui era facile incontrare fino a poche settimane fa. Non c’è traccia nemmeno dei migranti africani, che prima affollavano il porto. Un uomo di Sabratha, città vicina e anch’essa tristemente nota per il traffico di uomini, sorride: «Se pensate che il traffico si sia davvero bloccato, siete solo illusi. I trafficanti si stanno solo riorganizzando. Molti di loro si stanno spostando nella zona di Garabulli, un centinaio di chilometri più a est. Alcuni stanno solo aspettando qualche settimana per riorganizzare i viaggi non più con i gommoni ma con le grandi navi di legno che contengono più migranti».
Lungo la strada che porta al centro di detenzione di Zawhia, l’autista ha mille occhi, si guarda intorno come se fossimo sempre sul punto di incontrare le bande armate. Che hanno le mani su qualsiasi cosa e gestiscono il centro di detenzione illegale della zona. Quello inaccessibile: sia ai giornalisti sia alla polizia sia alle organizzazioni umanitarie.
Nel centro di detenzione “ufficiale” sono rinchiuse circa 1.100 persone, quasi tutti uomini, divisi in gruppi da 100 o 200 persone per stanza. Una delle guardie apre il lucchetto della cella, e gli occhi dei ragazzi incrociano i nostri, in cerca di aiuto, in cerca di risposte. John è uno dei detenuti, viene dal Gambia. «Non viene mai nessuno qui, nemmeno le Ngo. Siamo completamente abbandonati. I libici ci trattano bene solo quando arriva qualche giornalista come voi, ma appena la porta alle vostre spalle si chiude noi torniamo ad essere meno che animali. E nessuno ci dice che ne sarà di noi, fino a quando staremo rinchiusi qui e perché». Accanto a lui c’è Alizar, 17 anni, eritreo, uno tra le centinaia di migliaia di minori che fuggono dai loro paesi da soli e restano incastrati nell’inferno libico. Alizar è orfano, non riesce a lasciare la Libia e comunque non potrebbe tornare nel suo Paese, perché in Eritrea la leva è obbligatoria anche per i ragazzi giovanissimi e lui ormai è un disertore. Se tornasse, sarebbe ucciso.
Lasciamo Zawhia alzando gli occhi verso la raffineria sullo sfondo, il fumo, la fiamma, che sono simboli della ricchezza del paese, verso un’altra prigione di migranti, quella di Surman. Da Zawhia dista pochi chilometri, ma bisogna percorrere strade secondarie per evitare check point e sottrarci alle milizie di zona: ce ne sono decine, specializzate nell’assaltare e rubare i mezzi blindati o nei rapimenti i locali. E poi ci sono le milizie islamiche: sono poche, nascoste, tuttavia molto pericolose.
Il centro di detenzione di Surman è un ammasso di cemento in mezzo al nulla. Dentro ci sono circa 250 tra donne e bambini. L’unica porta è chiusa a chiave da un lucchetto. In una stanza ci sono quattro donne stese a terra con quattro neonati: hanno tutte partorito nel centro di detenzione, nessuna di loro ha mai visto un dottore, nessuno le ha visitate, nessuno ha visitato i bambini. Non hanno niente: al posto dei pannolini usano delle coperte di lana, anche se è agosto, tenute addosso ai bimbi con dei pezzi di plastica.
Due bambini sembrano denutriti. La scorsa settimana, ci dicono, è morta una donna che aveva partorito un mese prima: ora il suo corpo è nell’ospedale di zona e nessuno sa che farne. Oggi di suo figlio, Bright, si prende cura Happiness, una ragazza, anche lei nigeriana, che ha attraversato il deserto insieme alla mamma del bambino. «Mentre stava morendo le ho promesso che mi sarei occupata io di Bright, ma come posso fare?», ci dice Happiness con il bimbo in braccio. «Qui non c’è latte, non ci sono medici, non viene nessuno ad aiutarci». Un’altra donna ci dice di aver perso le tracce di suo marito, arrestato con lei sulle coste di Zawhia. Un’altra racconta di aver viaggiato da sola nel deserto: ricorda la sete feroce, e di aver bevuto la sua pipì per sopravvivere. E ricorda di aver visto, lungo il cammino, scheletri di chi al deserto non è sopravvissuto. Questo è il destino cui sono condannati le centinaia di migliaia di migranti intrappolati in Libia.
In quasi tutti i centri di detenzione libici le organizzazioni umanitarie e i funzionari internazionali delle Nazioni Unite non possono arrivare per ragioni di sicurezza. Non arrivano dottori, non arrivano assistenti. Non arriva nessuno.
In una spiaggia lungo la costa tra Zawhia e Sabratha incontriamo un uomo che chiameremo Khaled: parla volentieri, qui lontano da orecchie indiscrete, ma preferisce non rivelare la sua identità per ragioni di sicurezza. «Tutto ha un prezzo qui in Libia, tutto si paga», dice. «I migranti erano un affare quando i trafficanti dovevano organizzare i gommoni per farli arrivare in Italia e sono un affare anche oggi che devono essere trattenuti qui con la forza. Parliamo di milioni di dollari. Secondo voi i trafficanti libici interrompono le partenze perché il ministero dell’interno italiano blocca le navi umanitarie lungo le coste? I trafficanti interrompono le partenze solo in cambio di soldi». Khaled riferisce poi di un incontro segreto tra alcuni uomini dell’intelligence italiana e i capi delle principali milizie di Zawhia e Sabratha: per la “sicurezza delle coste” le milizie avrebbero chiesto cinque milioni di dollari, e nella trattativa la milizia Anas Dabbashi, che già controlla la sicurezza del compound Mellitah Oil e Gas, avrebbe chiesto un hangar proprio a Mellitah dove basare il proprio quartier generale.
Altre fonti ben informate di Tripoli, riferiscono di numerosi incontri nella parte orientale della capitale libica tra i servizi italiani e le milizie che gestiscono la sicurezza della città, Nawasi e Tajouri. Le milizie avrebbero chiesto di garantire il blocco delle partenze, dietro il pagamento di una quota giornaliera a migrante.
La situazione economica nella Libia “di Serraj” del resto è al collasso. Un dollaro al cambio ufficiale vale un dinaro e mezzo, al mercato nero nove dinari, anche dieci. I libici non possono prelevare più di duecentocinquanta dinari ciascuno, al mese. Poco più di venticinque dollari. Anche le banche sono in mano alle milizie, sono le bande a decidere chi può avvicinarsi ai bancomat. Subito dopo la rivoluzione i nuovi deboli apparati statali avevano cercato di smobilitare e contemporaneamente premiare i combattenti che avevano rovesciato il regime: così anziché dissolversi le milizie hanno conquistato autonomia, potere e i soldi e le armi libiche sono diventate un piatto ricco, cui le bande più potenti hanno attinto indiscriminatamente.
Nella capitale, Tripoli, i gruppi armati si dividono tra chi sostiene e chi si oppone al governo di Sarraj. Tra i primi, le milizie più potenti sono le forze Rada, gruppo salafita di Abdel Rauf Kara, che ha il quartier generale nell’aeroporto di Mitiga, le milizie Nawasi che si occupano della sicurezza del primo ministro e la Brigata dei rivoluzionari di Tripoli, la più grande nella capitale, guidata da Haitham Tajouri. Questo Tajouri è un signore della guerra, ha interessi economici enormi in città, i libici raccontano che quasi tutte le filiali delle banche della capitale siano controllate dai suoi uomini.
Lo scorso maggio Tripoli è stata teatro di violenti scontri tra milizie rivali per il controllo del mercato nero della valuta. Negli scontri tra le brigate Nawasi, in possesso degli uffici della società Libyana (poste e telecomunicazioni) nella parte ovest della città, e la brigata Ghazewy, presente nella città vecchia è morta una donna e diversi sono stati i feriti.
Le milizie non dominano solo la vita economica del paese: ne determinano anche la vita politica. Lo scorso maggio la brigata Nawasi ha attaccato il ministero degli esteri del governo Sarraj, accusando il ministro Mohamed Taher Sayala di aver rilasciato una dichiarazione troppo amichevole nei confronti del nemico Haftar. Sempre gli uomini della brigata Nawasi meno di un mese fa hanno fatto irruzione nell’ufficio del capo della sicurezza della Guardia Costiera Libica, Tareq Shanboor, accusato di aver criticato le decisioni italiane in Libia.
Shanboor stava lavorando come ogni giorno, quando una decina di uomini armati è entrata nel suo ufficio dicendo: vattene per sempre e senza ribellarti, da oggi l’ufficio sarà gestito sotto la nostra autorità. Hisham - un impiegato di una banca di Tripoli - ci spiega che ha impedito alla figlia maggiore di andare all’università: ha paura che gli uomini delle milizie la rapiscano. Solo a giugno e nella capitale i rapimenti sono stati più di cento, quasi duecento le rapine a mano armata. «Non guardate questa città da lontano, come fosse una cartolina», ci dice Hisham. «Se la guardate da lontano la vita sembra scorrere normalmente, ma qui la sicurezza è un miraggio, viviamo nel terrore, siamo tutti sotto il ricatto delle milizie. Tutti, cittadini e governo. La rivoluzione è stata una bolla, un’illusione. Il prezzo del pane e della frutta è cinque volte quello di pochi mesi fa, la gente non sa più cosa vendere. Ormai tutto è in mano a bande armate».
Questa è la Libia in cui l’Europa e l’Italia cercano di bloccare i migranti. «I trafficanti fermeranno le partenze per un mese, forse due. Hanno chiesto soldi, ne chiederanno ancora. È il prezzo che i vostri paesi pagano per non accogliere migranti», ci dice il nostro accompagnatore Mahmoud, mentre guarda il mare. E a voce bassa aggiunge che al posto di Gheddafi, ora ci sono centinaia di piccoli Gheddafi. Durante il regime del dittatore la vita era come anestetizzata, senza gioia e senza odore. Oggi, invece, nel regime delle milizie, la vita puzza e basta.

».

la Repubblica, 8 settembre 2017 (c.m.c)

Il ruolo dei Parlamenti nel combattere le disuguaglianze e nel costruire società inclusive” è uno dei tre temi che verranno affrontati al G7 dei Parlamenti che si incontrerà oggi e domani tra Roma e Napoli. Gli altri due sono i rapporti con i cittadini e l’ambiente. Pur senza sopravvalutare la portata di incontri che hanno, nel migliore dei casi, una valenza più simbolica che altro, è interessante che i rappresentanti dei parlamenti dei paesi più sviluppati, inclusa l’Italia che li ospita, si pongano un tema che fino a non molto tempo fa era considerato fuori moda, oltre che troppo connotato come “di sinistra”.

Rimesso con forza all’attenzione anche dagli ultimi rapporti Ocse, soprattutto a seguito degli effetti asimmetrici della crisi, esso è entrato nel dibattito e nell’agenda politica. Le disuguaglianze di reddito, infatti, sono aumentate in quasi tutti i paesi e ancor più quelle nella ricchezza, con l’Italia che si trova nel gruppo dei paesi con maggiore disuguaglianza, benché sotto gli Stati Uniti e il Regno Unito, ma sopra Francia e Germania. A complicare la questione, per l’Italia, sta il fatto che il tasso di disuguaglianza è più alto nelle regioni più povere, nel Mezzogiorno, a conferma che vi è un nesso, come sottolinea anche l’Ocse, non solo tra disuguaglianza e povertà, ma anche tra disuguaglianza e difficoltà nello sviluppo.

Le disuguaglianze non riguardano, per altro, solo quelle nel reddito e nella ricchezza, ma la divisione del lavoro e delle opportunità tra uomini e donne, le chances di mobilità sociale, di sviluppo e valorizzazione del proprio capitale umano e di partecipazione sociale, tra persone di diversa origine sociale. Per non parlare delle disuguaglianze tra aree geografiche del mondo che, insieme alle guerre e alle dittature, sono all’origine di gran parte dei fenomeni migratori.

Se vi è consenso ormai abbastanza diffuso che le disuguaglianze possano costituire un problema per la tenuta e lo sviluppo di una società, il dissenso si sposta sulle cause e anche sul tipo di disuguaglianze che sono percepite, appunto, come problema e, di conseguenza, come oggetto di possibili policy. Gran parte del successo dei populismi si basa sulla individuazione di un particolare tipo di disuguaglianza, o di relazione tra diseguali, con una dicotomizzazione netta tra “noi” e “loro”, che si tratti di autoctoni delle fasce di popolazione più marginalizzate contro gli immigrati, dei giovani contro i vecchi, dei “cittadini” contro i “politici”, dei “poveri” contro “i ricchi”, dei paesi mediterranei contro il nord Europa (e viceversa).

Queste dicotomizzazioni aiutano a raccogliere consensi, ma non a effettuare analisi adeguate della situazione, quindi a sviluppare quelle politiche integrate e di largo raggio che sole possono contribuire a ridurre le disuguaglianze, non solo ingiuste, ma inefficienti dal punto di vista dello sviluppo e del ben-essere collettivo. Si tratta, necessariamente, di un mix di politiche redistributive, che proteggano dagli effetti della disuguaglianza, e di politiche pre-distributive, che intervengano sui vincoli alla formazione e valorizzazione del capitale umano (fin da bambini), che rimuovano gli ostacoli alla partecipazione, che intervengano a impedire la formazione di rendite monopolistiche nel mercato.

È qui che si definisce, a mio parere, il ruolo dei parlamenti, se si pongono il compito del contrasto alle disuguaglianze. Proprio perché sono l’arena in cui si confrontano interessi diversi, hanno, avrebbero, un’opportunità unica di costruire un discorso pubblico e una azione legislativa non polarizzate/polarizzanti, e neppure frammentate per accontentare questo o quel gruppo, ma sistematiche e inclusive. Ove il termine “inclusive” dovrebbe significare politiche, e leggi, che si coordinano nell’obiettivo di contrastare le disuguaglianze, definendo chiaramente interconnessioni, ma anche priorità e gradualità, al fine di rafforzarsi reciprocamente, ma anche di non contraddirsi e creare nuove forme di disuguaglianza - una eventualità ricorrente, ahimè, in molte politiche italiane.

Questo compito di coordinamento delle politiche e di monitoraggio delle conseguenze delle proprie decisioni dovrebbe essere fatto proprio dai parlamenti anche in un’ottica internazionale. Mi rendo conto che si tratta di un auspicio ingenuo, specie in questo periodo dove tornano i nazionalismi e i muri. Ma è una questione che non può essere elusa se si vogliono davvero contrastare le disuguaglianze.

il manifesto, 7 settembre 2017

L’articolo 10 della Costituzione prescrive che gli stranieri che non possono esercitare le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» hanno diritto ad essere accolti nel nostro Paese, in quanto «persone» titolari, ai sensi del nostro articolo 2 della Costituzione, di diritti inviolabili a prescindere dalla loro nazionalità o Paese di provenienza. Non è una vaga, utopica aspirazione, ma il cuore del progetto della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (non solo dei cittadini italiani, nda), sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

È per questo che in Italia esiste un «diritto costituzionalmente garantito» all’asilo: non si può decidere se applicare o meno questa norma, dobbiamo chiederne noi l’attuazione, insieme a quella di tutti i principi che qualificano la nostra democrazia, e che ad oggi restano in gran parte inattuati. Eppure, in queste drammatiche settimane estive, lo Stato italiano – attraverso il suo governo, e segnatamente il suo ministro dell’Interno – non solo non ha attuato questo principio fondamentale ma ha decisivamente scoraggiato le organizzazioni non governative che soccorrevano in mare i migranti, e ha preso accordi con le autorità di Paesi in cui non sono garantite le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», affinché i loro cittadini e i migranti che ne attraversino i territori non possano fuggirne: cioè non possano aspirare, come noi tutti, a una vita libera e dignitosa. Siamo di fronte a un grave tradimento della nostra Carta fondamentale e dei Trattati e documenti internazionali che riconoscono e tutelano i diritti delle persone e dei richiedenti asilo. Crediamo che di fronte alle masse che lasciano la propria casa in cerca di diritti, di vita e di futuro la risposta dell’Occidente non possa essere la chiusura e il tradimento dei principi su cui si fondano le nostre democrazie.

Il fenomeno migratorio non si fermerà di fronte al nostro egoismo. Anzi, rischierà di degenerare in uno scontro di civiltà, già abilmente fomentato da chi coltiva la guerra come forma di lucro e dominio sui popoli, a prezzo del sangue dei più deboli e innocenti. Non possiamo, non dobbiamo, essere pedine di questo gioco al massacro. Abbiamo un orizzonte diverso, che guarda al mondo come casa di tutti e alla globalizzazione dei diritti, come fine dell’azione politica internazionale di chi crede davvero nella democrazia e nell’universalità dei diritti fondamentali. Tutti i Paesi più ricchi, a partire dall’Italia, devono garantire non solo l’accoglienza promessa delle Carte, ma impegnarsi in una strategia condivisa a livello sovranazionale che crei e garantisca ovunque le condizioni di eguaglianza e giustizia sociale la cui assenza è la vera e prima causa della grande migrazione in atto. E anche sulla natura e le dimensioni di questo fenomeno la Sinistra ha, innanzi tutto, il dovere di dire la verità: le migrazioni sono processi fisiologici e costanti in un mondo globalizzato, diventano massicce quando le minacce alla vita delle persone diventano intollerabili, quando una parte del mondo vive in condizioni disumane, o non vive affatto, e una piccola parte di privilegiati vive con le risorse di tutti.

Ecco: questo egoismo rischia di trasformarsi in un detonatore. Dobbiamo disinnescarlo. Anche perché sui migranti si sta costruendo l’ennesima menzogna mediatica, che devia l’attenzione dalle emergenze reali della politica, dalle cause reali dei nostri problemi. Insomma: prima si è provato a dire che era colpa della Costituzione. Sappiamo come è finita, il 4 dicembre scorso. Ma ora i mali del Paese, le nostre vite precarie, il taglio orizzontale di diritti e futuro: tutto è colpa dei migranti! Fumo negli occhi di una politica che non sa cambiare e non vuole rimettere al centro le persone, ma spera di «neutralizzarle» mettendo poveri contro poveri, disperati contro disperati. Non ci siamo cascati il 4 dicembre, non ci cascheremo adesso. Anche perché la piccola parte di migranti che sbarca sulle nostre coste rappresenta solo l’1% del flusso migratorio globale. Fra questi, solo una piccola parte aspira a fermarsi in Italia: non sono un’invasione, né un’ondata oceanica. Non rappresentano affatto una minaccia, semmai una grande opportunità: umana, culturale e anche economica.

Il nostro Paese, in drammatica crisi demografica, ha bisogno di nuovi italiani. Le nostre antiche città aspettano nuovi cittadini. E la perfino timida legge sullo ius soli in discussione in Parlamento è davvero il minimo che si possa fare per costruire questa nuova Italia. Ecco: stiamo lavorando a un progetto condiviso che permetta a questo Paese di risollevarsi e ripartire, in cui ci sia lavoro vero per tutti, non elemosine e precarietà per pochi. Chi non si ponga in questa prospettiva, chi non ambisca a creare le condizioni per un «Nuovo Inizio» democratico, sociale ed economico, non ha capito qual è il compito fondamentale della politica che vogliono gli italiani. Ancora una volta: è di questi nodi cruciali che dobbiamo e vogliamo discutere, non della sterile alchimia di sigle e leader.

Continuiamo a credere nella formula che abbiamo proposto al Brancaccio il 18 giugno scorso: ci vuole una sola lista a sinistra del Partito Democratico – un partito la cui involuzione a destra è apparsa, proprio sui temi dell’immigrazione, palese. Crediamo che anche la situazione della Sicilia confermi questa lettura: mentre il Pd guarda a destra, la sinistra cerca l’unità e la forza per proporre alternative radicali allo stato delle cose.

Si apre un autunno cruciale: proseguono le assemblee regionali, si moltiplicano quelle in città di ogni dimensioni, si preparano quelle tematiche fissate per il fine settimana a cavallo tra settembre e ottobre. Il loro formato è quello che abbiamo sperimentato da giugno in poi: aperto a tutti (associazioni, partiti, singoli cittadini) e senza dirigenze, egemonie o portavoce autonominati. Decideremo poi insieme, e democraticamente, in una grande assemblea nazionale che sarà indetta alla fine del lavoro sul programma, il tipo di organizzazione che vorremo darci. Tutto questo è importante: ma è solo un mezzo, uno strumento per metterci in grado di dare il nostro contributo all’attuazione della Costituzione. Il primo traguardo da cui ripartire per costruire un nuovo orizzonte di democrazia partecipata e di cittadini liberi.

«Chi ne ha patito i danni si è ritrovato oggetto, nel corso dell’inchiesta e del dibattimento, di una vera e propria deformazione della sua identità. Alla morte fisica segue un processo di degradazione della persona, della sua biografia e della sua vicenda umana».

il manifesto, 6 settembre 2017 (m.p.r.)

Pensandoci bene, trascorso un certo numero di ore ed esercitata la più rigorosa autodisciplina per non incorrere in eccessi ineleganti, devo concludere che l’esito dell’audizione del Ministro Angelino Alfano presso le Commissioni Esteri di Camera e Senato è stato addirittura rovinoso. A parte le solite e lodevoli eccezioni - in questo caso particolarmente rare - il senso complessivo della discussione ha evidenziato alcuni elementi decisamente imbarazzanti. E se le principali considerazioni sul merito e sulla sostanza di un dibattito deludente sono state già espresse, rimangono alcune questioni in apparenza di dettaglio che sono persino più rivelatrici. Eccole.

Giulio Regeni, nel corso dell’audizione, ha subìto quel meccanismo che abbiamo chiamato di «doppia morte». È un dispositivo che è stato applicato, in numerose circostanze, nei confronti di vittime di abusi e violenze da parte di uomini e apparati dello Stato. Chi ne ha patito i danni si è ritrovato oggetto, nel corso dell’inchiesta e del dibattimento, di una vera e propria deformazione della sua identità. Alla morte fisica segue un processo di degradazione della persona, della sua biografia e della sua vicenda umana. Lentamente, la vittima rivelerà comunque una sua colpevolezza (e chi può dirsi totalmente innocente?). È quanto, in ultimo, accade a Giulio Regeni.

Da molti degli interventi nel corso della seduta, si ricavava la sensazione quasi palpabile che il ricercatore italiano sia stato - a sua insaputa, per carità - una spia britannica: presumibilmente torturato e ucciso nella stessa Cambridge, in una oscura sentina di quell’Ateneo, al fine di metterlo a tacere. Non esagero (basti ascoltare il resoconto di quel dibattito e i suoi toni). Di conseguenza, se ne dovrebbe dedurre che il regime di Al-Sisi non sarebbe, certo, il più liberale del mondo ma, per «ragioni geo-strategiche» e per realismo politico, le sue responsabilità nell’orribile omicidio di Regeni andrebbero messe in secondo piano rispetto alle più gravi colpe della democrazia inglese. La quale ultima ha mosso e continuerebbe a muovere le fila di una trama spionistico-diplomatica nella quale si è trovato impigliato inavvertitamente «il povero ragazzo».
Si badi al linguaggio. Perché, a tal proposito, insistere nel definire «ragazzo» un giovane uomo di 28 anni? E perché «studente», dal momento che aveva la qualifica professionale di ricercatore? Per la verità, in tanti interventi quelle parole così maldestre e le altre cui alludevano (l’ingenuità, la sprovvedutezza, l’inesperienza) rivelavano un sentimento assai diffuso tra i membri di quelle stesse Commissioni ma anche in parte della classe politica e della stessa opinione pubblica: un astio malcelato nei confronti di chi è giovane, intellettualmente preparato, ricco di talento e - ahi lui - grosso modo di sinistra.
E, infatti, la figura così limpida e fascinosa di Giulio Regeni suscita, in alcuni segmenti della mentalità comune, un sentimento assai simile a una sorta di sottile invidia. Può sembrare tragicamente grottesco, se solo si pensa al corpo straziato di Regeni. Eppure credo che sia così: lo spirito del tempo porta con sé un rancore e una voglia di rivalsa che rendono insopportabile la limpidezza di quelle figure che si trovano a essere, nell’agonia e nella morte, simbolo intenso di valori forti. Da qui, l’irresistibile pulsione a lordarle, quelle figure, o almeno a ridimensionarle per ridurle alla nostra mediocre misura. Si tratta di meccanismi che degradano l’identità e la reputazione e che richiamano l’odiosa pratica del character assassination. Ancora. Nel corso dell’audizione il deputato Erasmo Palazzotto ha chiesto che le Commissioni Esteri ascoltino i genitori di Regeni e il loro legale, Alessandra Ballerini.

La proposta non è stata finora accolta e temo che non verrà presa in considerazione. Al di là delle motivazioni formali, la vera ragione è che, da sempre, nei confronti dei familiari si assume un atteggiamento sminuente, se non denigratorio, anche quando si propone come massimamente rispettoso. «La più affettuosa comprensione» e la «la più doverosa solidarietà», ovviamente, verso il loro dolore e, allo stesso tempo, la riduzione delle loro parole alla sola dimensione dell’emotività. Dunque, la voce del cuore come contrapposta alla ragion di stato. Ma questo, oltre a essere meschino, è sommamente sciocco.

La politica, l’autentica politica, quella intelligente e razionale, quella lungimirante e capace di una prospettiva strategica, ha sempre tenuto in gran conto la sfera dei sentimenti, delle passioni e delle sofferenze. Le vittime e i familiari delle vittime hanno svolto spesso un ruolo cruciale proprio nel dare profondità e razionalità all’azione pubblica e al ruolo delle istituzioni. I genitori di Giulio Regeni, da oltre un anno e mezzo, svolgono una funzione essenziale non solo perché esprimono il senso di un dolore incancellabile, ma anche - ecco il punto - perché trasmettono un’idea politica saggia sulle cause dell’omicidio del figlio, sulle circostanze e il contesto che lo hanno prodotto e, infine, sulle scelte da adottare affinché quella morte non cada nell’oblio.
Quindi l’audizione dell’altro ieri, tra i molti altri significati (pressoché tutti negativi), si è configurata come una ulteriore occasione persa. La tragedia di Giulio Regeni viene in genere considerata come un fatto non politico o pre-politico o, nell’interpretazione più favorevole, umanitario. Mentre, all’opposto, può ritenersi che le questioni sollevate da questa vicenda - non solo da essa, ovviamente - possano costituire il cuore della politica e il suo fondamento materiale e sociale.

« la Repubblica, 6 settembre 2017 (c.m.c)

Tra le sfide più ardue che gravano sui governi democratici di società multietniche vi è quella di riuscire a tenere insieme la richiesta di libertà con la richiesta di sicurezza, perché la prima tende a essere aperta e inclusiva (con ambizioni ideali universalistiche) mentre la seconda è escludente (arrivando anche a propagandare deliri nazionalisti). Il bisogno di mantenere alta la fiducia della maggioranza, spinge spesso i governi a mostrare più volentieri i muscoli. Ma nei casi delle società multietniche, la regola più coraggiosa e lungimirante (e in questo senso, la più prudente) è quella che sa ispirare politiche che limitino l’insicurezza senza deragliare dal binario delle libertà civili e dell’inclusione.

Una strada in questa direzione è quella che mostra la vicinanza delle istituzioni a chi è culturalmente vulnerabile; dare sicurezza comporta mostrare anche la faccia della prossimità, non soltanto quella della coercizione. Questa strategia si adatta a tutti i Paesi democratici multietnici, all’Italia in particolare, la cui politica della sicurezza deve saper guardare oltre le decisioni emergenziali sulle frontiere. Come interagire con i “diversi” che abitano nel Paese? Come possono le istituzioni democratiche far sentire la loro vicinanza a chi è oggetto di discrimazione? E come può la maggioranza culturale riuscire a comprendere che questo è nel suo stesso interesse?

Un tentativo di dare risposta a questa domanda è suggerito dalla pubblicità a tappeto che compare nei vagoni della metropolitana di New York e con la quale il governatore Andrew Cuomo annuncia un numero verde collegato al Dipartimento dei diritti umani per denunciare casi di discriminazione, subita o di cui si è stati testimoni. Il programma fa parte di un progetto inaugurato lo scorso anno con l’intento di dare a coloro che subiscono discriminazione una qualche certezza di ascolto, il senso di non essere soli contro un nemico coriaceo e contagioso come il pregiudizio. Il programma si affianca a un altro in funzione da anni sulla denuncia di casi di violenza, di stupro e di persecuzione o stalking. Questo nuovo servizio si concentra sulla discriminazione verbale o gestuale; ed è nato in coincidenza con la campagna elettorale di Donald Trump che ha marcato un’eccezionale impennata nell’uso esplicito di linguaggio discriminatorio, una pratica che sta avvelenando la sfera pubblica in questa società multirazziale, e però anche razzista in diverse parti del Paese e fasce della popolazione.

Tre sono le figure che nel messaggio pubblicitario indicano le identità potenzialmente oggetto di discriminazione: un uomo asiatico, una donna velata e una donna con il casco da operaio. In altre parole, le identità nazionali, quelle religiose, quelle di genere, e quelle associate alla classe lavoratrice. L’inserto pubblicitario suggerisce due interessanti piste interpretative. La prima riguarda le minoranze vulnerabili: che non sono solo quelle identitarie, come la religiosa e l’etnica, ma ora anche quella socio- economica. La classe e il genere insieme sono indicative del fatto che il lavoro dipendente e operaio è esposto alla discriminazione sia da parte di altri gruppi sociali sia da parte dei lavoratori stessi tra di loro. La seconda pista di lettura è che lo stato o la pubblica amministrazione vogliono essere percepiti vicini a coloro che hanno meno protezione sociale, economica e culturale; vogliono essere visti come un punto di riferimento che non rimane indifferente di fronte ad azioni che non sono direttamente violente e punibili.

Comportamenti che feriscono o umiliano, con gesti e parole, non sono necessariamente oggetto del codice penale. Tuttavia possono e devono trovare ascolto da parte delle autorità. Il razzismo verbale è l’uso del linguaggio con lo scopo esplicito di offendere, sminuire, avvilire in pubblico, davanti agli altri, per raccogliere consenso e ampliare l’audience a favore della discriminazione. Il razzismo può essere meglio combattuto prevenendo la sua radicalizzazione tramite il discorso — di qui l’importanza di abituare i cittadini a pensare che le istituzioni debbano presiedere a una comunità aperta, occuparsi delle forme della comunicazione dei e tra i cittadini. Lo spazio pubblico è un bene di tutti.

L’annuncio pubblicitario del governatore Cuomo può essere letto e recepito come il segno che l’autorità è consapevole di dover svolgere una funzione non soltanto repressiva, ma anche di attenzione e di vicinanza. La logica di questa politica dell’attenzione è di intervenire disincentivando, di indurre indirettamente comportamenti decenti. È prevedibile che molti nel vecchio continente, e nel nostro Paese, storcano il naso per quel che con disprezzo viene classificato “politically correct”. Tuttavia le società multietniche devono riuscire (è nel loro interesse che riescano) a strategizzare regole di comportamento e di uso del linguaggio capaci di delineare uno spazio pubblico nel quale persone diverse siano e si sentano libere di interagire in tranquillità. L’escalation della violenza verbale (oltre che fisica) nel nostro Paese dimostra quanto urgente sia questo lavoro di manutenzione dello spazio pubblico.

«"Aiutiamoli (a crepare) a casa loro": perfetta unità sulla questione profughi e migranti delle tre forze che si contendono il controllo politico del paese, Pd, destra e 5stelle».

guidoviale.it blog, 5 settembre 2017 (p.d.)

Condivido i timori del ministro Minniti per «la tenuta democratica del paese»; è ora di prenderne atto. Solo che a creare questa drammatica situazione hanno contribuito in modo sostanziale lo stesso ministro, la sua politica, il suo partito e il governo di cui fa parte. La tenuta democratica del paese, già messa in forse da un parlamento di nominati, eletto con una legge incostituzionale, che ha legiferato illegalmente per quattro anni, mettendo le mani anche sulla Costituzione, è ormai al tracollo. Perché sulla questione profughi e migranti, su cui si decide il futuro dell’Italia, dell’Europa e del poco che ancora resta della democrazia, le tre forze che si contenderanno il controllo politico del paese- la destra, i 5stelle e il Pd hanno raggiunto una perfetta unità: «aiutiamoli (a crepare) a casa loro»; respingiamoli a ogni costo. Non c’è scelta. Poco importa se le destre lo proclamano con slogan razzisti e anche fascisti che i 5stelle ripetono da pappagalli mentre il Pd fa, ma sempre meno, ipocrita professione di spirito umanitario. In vista delle elezioni, e senza guardare oltre, Minniti vuole dimostrare che quello che destre e 5stelle propongono lui sa realizzarlo. E in parte ci riesce, incurante della catastrofe che sta contribuendo a mettere in moto.

Fermare gli sbarchi pagando e rivestendo con una divisa scafisti e trafficanti fino a ieri indicati come “il nemico”, in combutta con le Ong perché blocchino in mare, riportino a terra o imprigionino nel deserto profughi e migranti non è buona politica. Sappiamo che cosa fanno di quegli esseri umani intrappolati in Libia o ai suoi confini meridionali: le violentano, li fanno schiavi, li affamano, li imprigionano in condizioni igieniche inimmaginabili, li uccidono, li torturano per estorcere ai loro parenti altro denaro, li trattengono in veri Lager – pagati con fondi europei – e prima o dopo li imbarcheranno di nuovo verso l’Europa. O minacceranno di farlo come faceva Gheddafi, o come farà dopo le elezioni tedesche anche Erdogan, per strappare all’Unione europea altro denaro e nuove legittimazioni: a Erdogan ormai viene permesso tutto. Così, dall’Ucraina in mano a una milizia nazista, ai «moderati» che combattono Assad in nome della jihad, dai janjaweed che fermano in Sudan i profughi eritrei alla guardia costiera e ai «sindaci» libici incaricati di bloccare i flussi verso il Mediterraneo, l’Europa si circonda, armandole fino ai denti, di milizie usate come ascari, ma che non conosce, non controlla, e che sono sicura garanzia del mantenimento di un perpetuo stato di guerra in tutte le regioni ai suoi confini, aumentandone degrado e la produzione di nuovi profughi.
Non c’è argine a questa deriva. Le forze politiche italiane, come i governi dell’Unione europea e i partiti che li sostengono, Syriza compresa, hanno rotto la diga della solidarietà, lasciando campo libero a una ferocia covata a lungo sottotraccia, che ora riemerge come razzismo che si sente legittimato dalle politiche dei governi. A queste politiche non c’è per ora alternativa. A contrastarle ci sono solo le migliaia e migliaia di iniziative impegnate in tutta Europa dell’accoglienza, i milioni di individui che ne condividono lo spirito, le moltissime associazioni che cercano di mantener viva la solidarietà. Ma non sono unite da un programma comune e non è chiaro, al di là degli sforzi per non sopprimere in sé e negli altri uno spirito di umanità, che cosa si possa fare contro questa offensiva.
Ma la risposta non può più attendere. Invece di puntare lo sguardo su profughi e migranti, spaventare e spaventarsi per il loro numero – molti meno dei «migranti economici» che diversi paesi europei, Italia compresa, avevano accolto o regolarizzato ogni anno prima del 2008; e soprattutto meno delle nuove leve di cittadini e cittadine che verranno a mancare tra la popolazione europea di qui in poi – bisogna guardare a chi da quegli arrivi si sente minacciato. Se profughi e migranti sono considerati dai governi un peso e non una risorsa da valorizzare non c’è da stupirsi se molti passano alle vie di fatto per liberarsene con le spicce. E se casa e lavoro decenti (e scuola, e assistenza sanitaria, e pensione) sono un miraggio per un numero crescente di europei, la presenza e non solo l’arrivo di poche o tante persone tenute in inattività forzata, spesso in cattività, ed esibite come un carico inaccettabile a chi gli abita accanto non può che moltiplicare e acuire quell’ostilità di cui governi nazionali e locali sono i primi a far mostra. Non c’è argine agli arrivi o imposizione di rimpatri che possa invertire questa situazione.
Ma le case per tutti ci sono, solo che sono in gran parte vuote. Il lavoro per tutti, cittadini, profughi e migranti, c’è: è quello necessario alla riconversione energetica a cui tutti i governi si sono impegnati a Parigi e a cui nessuno ha ancora messo mano. Il denaro per finanziarla c’è: Draghi continua a tirare fuori dal cappello centinaia di miliardi che finiscono in tasca alle banche. Quello che manca è la politica per mettere insieme queste tre cose. Invece ci si è rivolti all’Europa per farle condividere una militarizzazione di stampo coloniale di confini sempre più ampi e lontani. Ma il «piano Marshall» da esigere, e rispetto a cui mobilitare non tanto governi e partiti, quanto la vera opposizione sociale ai programmi di contenimento e di respingimento, è un grande investimento, capillare e articolato, sulla riconversione ecologica.
Non siamo né finiremo «sommersi». Molti dei profughi arrivati negli ultimi anni e sicuramente quelli provenienti da zone di guerra o di conflitto armato torneranno nei loro paesi se e appena sarà possibile. E se altri ne arriveranno, quello che occorre sono politiche di sostegno alle loro esigenze immediate a partire dai corridoi di ingresso e di promozione della loro capacità di organizzarsi: per progettare, anche grazie ai legami che hanno con le loro comunità di origine, delle alternative pratiche alla rapina dei loro territori e ai conflitti che li hanno costretti a fuggire. È con loro che vanno fatti i progetti di cooperazione e anche i negoziati per restaurare la pace, dando spazio a queste forze e tenendo il più possibile lontani dai loro paesi multinazionali e mercanti di armi. Invece di deportazioni mascherate da rimpatri con cui i governi europei cercano di tacitare quel rancore degli elettori che essi stessi alimentano si innesterebbe così una libera circolazione delle persone da e verso i loro paesi di origine; a beneficio di tutti.
«Nessuno può aspettarsi troppo da una strategia focalizzata sul contenimento del fenomeno migratorio. Soprattutto se non si costituisce un’alternativa legale credibile per l’arrivo dei migranti nell’UE».

la Repubblica, 4 settembre 2017

Il mare non ammette frontiere. Come non le ammettono i motivi che spingono i migranti a partire. Queste due massime, che nessun Paese soggetto ai flussi migratori dovrebbe dimenticare, tornano in primo piano in Spagna. Per anni il governo di Mariano Rajoy si è gloriato della propria attività diplomatica in Africa, che avrebbe vaccinato il Paese contro l’epidemia migratoria di cui soffre la vicina Italia. Intanto però le cose cominciano a cambiare. Le cifre dell’esodo verso le coste italiane calano, mentre gli arrivi in Spagna sono quadruplicati. È quindi urgente riformare il discorso politico. E convincersi una volta per tutte che continuando a gestire il problema migratorio per compartimenti stagni non si fa altro che aggravare il problema.

La Spagna avrebbe avuto un’occasione d’oro per dar prova di lungimiranza a luglio, quando Roma chiese la collaborazione di Parigi e Madrid per gli sbarchi che mettevano a dura prova le autorità italiane. Ma l’esecutivo spagnolo e quello francese risposero con un no. I motivi erano due: le supposte carenze diplomatiche di Roma, che avrebbe trascurato il dialogo coi Paesi di provenienza dei migranti, e il rischio del cosiddetto “effetto chiamata”: gli spagnoli sostenevano che una ripartizione dei migranti tra i Paesi europei sarebbe stata interpretata dalle mafie come un messaggio, facendo crescere la pressione.

Questi argomenti risultano poco convincenti. Più di dieci anni fa la Spagna affrontò da sola una crisi delle carrette del mare. E la risolse negoziando coi Paesi d’origine dei migranti che sbarcavano sulle sue coste. Ciò che allora venne fatto in maniera poco onorevole (il governo socialista di Zapatero ricorse ad accordi basati sul pagamento di denaro per far cessare il transito verso la Spagna) viene presentato oggi a Bruxelles come un successo. Ma c’è una lezione da trarre da quell’esperienza: mai più un Paese deve essere lasciato solo a gestire una sfida comune. I migranti che a rischio della vita attraversano il Mediterraneo (ma anche l’Atlantico, nel caso della Spagna) non lo fanno per stabilirsi a Tarifa, a Lesbo o a Lampedusa. Il loro obiettivo, la loro terra promessa è l’Europa che, seppure con gradazioni diverse, può offrire lavoro, scuole, servizi sanitari in condizioni infinitamente migliori. È questo il vero “effetto chiamata”, che nessun individuo di buon senso può credere di poter cancellare.

Secondo le cifre fornite da Frontex, quest’estate il numero degli arrivi sulle coste spagnole ha toccato livelli record dal 2009: tra gennaio e luglio sono stati registrati più di 11mila immigrati - un dato che ha già superato quello di tutto il 2016. Quest’impennata coincide con una flessione degli arrivi in Italia attraverso la Libia, il cui governo ha incominciato a cedere alle pressioni europee per un maggior controllo delle sue coste. Solo il tempo dirà se questi dati costituiscono un picco o se, al contrario, inaugurano una tendenza che infliggerebbe più d’un mal di testa alle autorità spagnole.
In ogni caso, la versione di un supposto attivismo di Madrid a fronte dell’abulia di Roma fa acqua da tutte le parti. L’Italia, inventrice della diplomazia moderna, ha creduto per anni di tenere la situazione sotto controllo grazie a una serie di accordi con la Libia. Mentre la Spagna, al di là degli aiuti ad alcuni Paesi d’origine dei migranti, si è affidata quasi interamente alla cooperazione col Marocco. Le rivolte del Rif e le tensioni alla barriera di Ceuta sono allarmanti, e mostrano un orizzonte tutt’altro che sereno. Oltre tutto, il patto col Marocco sfiora i limiti della legalità europea. Secondo le notizie diramate in agosto dall’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, ci sono continue denunce di respingimenti al confine tra il Marocco e le città autonome di Ceuta e Melilla. E per ogni migrante che raggiunge le coste spagnole, altri due vengono bloccati dalle autorità di Rabat. Senza il discutibile sostegno del Marocco, la Spagna sarebbe travolta, come lo è stata l’Italia.
Nessuno - né a Madrid né a Bruxelles - può aspettarsi troppo da una strategia focalizzata sul contenimento del fenomeno migratorio. Soprattutto se non si costituisce un’alternativa legale credibile per l’arrivo dei migranti nell’Unione Europea. È giunto il momento di cambiare prospettiva.

L’autrice è corrispondente del País a Bruxelles © LENA, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Elisabetta Horvat

«Il brano è tratto da

Retrotopia, l’ultimo libro di Zygmunt Bauman il quale sostiene che nella società contemporanea l’utopia guarda a un passato che consideriamo più rassicurante». Robinson/la Repubblica, 3 settembre 2017 (c.m.c)


«L’utopia di Tommaso Moro di instaurare “il Cielo sulla Terra” non esiste più perché il futuro, troppo incerto e spaventoso, è considerato inaffidabile e ingestibile. Così, mentre prende piede l’individualismo che cancella il senso di comunità, il passato si trasforma in una condizione rassicurante e nell’unica prospettiva accettabile»

Zygmunt Bauman, Retrotopia, Laterza, (traduzione di Marco Cupellaro), in uscita il 7 settembre,

Ecco - per chi le avesse dimenticate - le parole con cui all’inizio degli anni Quaranta Walter Benjamin, nelle Tesi di filosofia della storia, commentava l’Angelus Novus - da lui ribattezzato “ angelo della storia” - dipinto nel 1920 da Paul Klee: «L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

A quasi un secolo da quella lettura, di imperscrutabile e incomparabile profondità, a guardar bene l’opera di Klee si scorge di nuovo l’angelo della storia ad ali spiegate. Ma ciò che forse colpisce di più l’osservatore è il cambio di rotta, come se quell’angelo fosse colto nel bel mezzo di un’inversione di marcia: il volto dal passato si rivolge al futuro, le ali vengono respinte dalla tempesta che, stavolta, spira dall’inferno del futuro ( immaginato, previsto e temuto prima ancora che accada) verso il paradiso del passato (un passato probabilmente solo raffigurato a posteriori, dopo averlo perduto e visto andare in rovina). Ma le ali dell’angelo sono schiacciate, adesso come allora, con una violenza tale “ che egli non può più chiuderle”. La possibile conclusione è che in quel disegno il passato e il futuro sono colti mentre si scambiano i rispettivi vizi e virtù registrati da Klee — come ci spiega Benjamin — un secolo fa. Tocca ora al futuro, deprecato perché inaffidabile e ingestibile, finire alla gogna ed essere contabilizzato come voce passiva, mentre il passato viene spostato tra i crediti e rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui la scelta è libera e le speranze non sono ancora screditate.

La nostalgia — dice Svetlana Boym, docente di Letterature slave e comparate a Harvard — «è un sentimento di perdita e spaesamento, ma è anche una storia d’amore con la propria fantasia». Nel Seicento la nostalgia era considerata una malattia da cui si poteva guarire: per curarla i medici svizzeri, ad esempio, raccomandavano oppio, sanguisughe e una gita in montagna; ma « nel ventunesimo secolo quella lieve indisposizione si è trasformata in una condizione insanabile. Il ventesimo secolo, iniziato con un’utopia futurista, si è chiuso con la nostalgia». Boym conclude diagnosticando « un’epidemia globale di nostalgia« e avverte: « Il pericolo della nostalgia è che tende a confondere la casa vera con quella immaginaria » . […] Cinquecento anni dopo che Tommaso Moro diede il nome di Utopia al millenario sogno umano di tornare in paradiso o di instaurare il Cielo sulla Terra, l’ennesima triade hegeliana formata da una doppia negazione si avvia a completare il proprio giro.

A partire da Moro, le aspettative di felicità dell’uomo sono state sempre legate a un determinato topos ( un luogo stabilito, una polis, una grande città, uno Stato sovrano, tutti retti da un sovrano saggio e benevolo): ma una volta sganciate e slegate da qualsiasi topos, individualizzate, privatizzate e personalizzate (“ subappaltate” ai singoli esseri umani che le portano con sé come le chiocciole la propria casetta), adesso tocca a loro essere negate da ciò che avevano coraggiosamente e quasi vittoriosamente cercato di negare.

Dalla doppia negazione dell’utopia in stile Tommaso Moro ( prima negata e poi risorta) affiorano oggi “ retrotopie”: visioni situate nel passato perduto/ rubato/ abbandonato ma non ancora morto, e non — come la loro progenitrice due volte rimossa — legate al futuro non ancora nato, quindi inesistente […] La privatizzazione/ individualizzazione dell’idea di “ progresso” e degli sforzi per migliorare costantemente l’esistenza fu offerta dai governanti, e accolta da gran parte dei governati, come una liberazione che poneva fine ai severi obblighi della sottomissione e della disciplina, in cambio della rinuncia ai servizi sociali e alla protezione dello Stato.

Per tante persone — sempre di più — quella liberazione si rivelò una fortuna e insieme una disgrazia, o forse una fortuna adulterata da una dose notevole e crescente di disgrazia. Ai disagi dei vincoli subentrarono — non meno umilianti, spaventosi e gravosi — i rischi, che inevitabilmente finirono per saturare quella condizione di autonomia imposta per decreto. Se la paura di non dare un contributo ( con le sanzioni che ciò comportava) poteva essere tenuta a bada dal conformismo e dall’obbedienza che fino a ieri imperavano al posto dove oggi vige l’autonomia, a quella paura è subentrato il terrore, non meno straziante, di risultare inadeguati.

Mentre le vecchie paure scivolavano lentamente nell’oblio e le nuove si ingigantivano e si intensificavano, promozione e declassamento, progresso e arretramento si scambiavano le parti — e si moltiplicavano sempre più gli individui che, come pedine su una scacchiera, erano ( o si sentivano) condannati alla sconfitta. Ecco così spiegata la nuova inversione di rotta del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici: le speranze di miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità.

Un simile dietrofront trasforma il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, in sede di incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale che esso conferisce, a quello di vedersi “ riprendere” la casa e le cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere- prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato. La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, si trasforma perciò in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. Gli effetti di un simile cambiamento […] si vedono e si toccano a tutti i livelli della convivenza sociale, nella nascente visione del mondo e nelle strategie di vita che tale visione insinua e prepara.

Il fenomeno che definisco “ retrotopia” deriva dalla negazione della negazione dell’utopia, che con il lascito di Tommaso Moro ha in comune il riferimento a un topos di sovranità territoriale: l’idea saldamente radicata di offrire, e possibilmente garantire, un minimo accettabile di stabilità, e quindi un grado soddisfacente di fiducia in sé stessi. Al tempo stesso, la retrotopia si discosta dall’eredità di Moro in quanto approva, fa proprie e assimila le contribuzioni/ correzioni apportate dal suo precedessore immediato, che aveva rimpiazzato l’idea di “ perfezione assoluta” con l’assunto di non- definitività e di endemico dinamismo dell’ordine delle cose, ammettendo in tal modo la possibilità ( e desiderabilità) di una infinita successione di cambiamenti ulteriori, che l’originaria idea di utopia delegittimava e precludeva a priori.

Fedele allo spirito dell’utopia, la retrotopia è spronata dalla speranza di riconciliare finalmente la sicurezza con la libertà: impresa mai tentata — e, in ogni caso, mai realizzata — né dalla visione originaria né dalla sua prima negazione. […] Le più significative tendenze di “ ritorno al futuro” che si riscontrano in questa incipiente fase “ retropica” della storia dell’utopia […] ovviamente, non rappresentano un ritorno diretto e immediato a una modalità di vita praticata in passato: sarebbe semplicemente impossibile, come ha ben dimostrato Ernest Gellner. Essi rappresentano invece — per richiamare la distinzione concettuale proposta da Derrida — tentativi consapevoli di iterazione ( e non reiterazione) dello status quo che esisteva, o si immagina esistesse, prima della seconda negazione, sulla base di un’immagine in ogni caso riciclata e modificata significativamente attraverso un processo di memorizzazione selettiva strettamente intrecciata all’oblio selettivo.

Come che sia, nel tracciare la strada che porta a Retrotopia, i principali punti di riferimento sono gli aspetti veri o presunti del passato che, pur avendo dato buoni risultati, sarebbero stati inopportunamente abbandonati o irresponsabilmente mandati in rovina. Per collocare nella giusta prospettiva l’innamoramento retrotopico per il passato, è opportuno premettere un altro avvertimento. Boym nota che un’epidemia di nostalgia “ spesso segue le rivoluzioni”, e saggiamente aggiunge che nel caso della Rivoluzione francese del 1789 « non fu solamente l’ancien régime a produrre la rivoluzione, ma anche la rivoluzione, per certi versi, a produrre l’ancien régime, dandogli una forma, un senso di compiutezza e un alone di rispettabilità».

Fu invece il crollo del comunismo a far nascere l’idea che gli ultimi decenni dell’impero sovietico fossero stati “ un’età dell’oro di stabilità, forza e normalità, che è l’immagine oggi prevalente in Russia”. In altri termini, ciò a cui di solito “ torniamo” nei nostri sogni nostalgici non è il passato “ in quanto tale” — wie es ist eigentlich gewesen, com’è stato davvero — , quel passato che Leopold von Ranke raccomandava di recuperare e rappresentare ( come diversi storici hanno cercato di fare, con scarsi consensi). […] Ci sono buone ragioni per ipotizzare che l’avvento del World Wide Web e di Internet abbia segnato il declino dei “ Ministeri della Verità”, ma non certo il tramonto della “ politica della memoria storica”, di cui ha semmai moltiplicato le possibilità di applicazione, reso infinitamente più accessibili gli strumenti per praticarla e potenzialmente spinto all’estremo le conseguenze.

In ogni caso, la scomparsa dei “Ministeri della Verità” (ossia del monopolio incontrastato dell’autorità costituita sulle sentenze in materia di veridicità) non ha certo spianato la strada ai messaggi inviati alla coscienza pubblica da chi per mestiere ricerca e comunica la “verità dei fatti”, ma ha semmai reso quella strada ancora più accidentata, tortuosa, infida e incerta.

I paradossi della storia che solo pochi scrutatori delle anime possono forse comprendere: come mai un popolo così multietnico e così abuso all'emigrazioni è così xenofobo e razzista?

il manifesto, 3 settembre 2017

Ci aveva già provato la Lega Nord, anni fa. Forse la reazione, culturale e politica, dell’Italia democratica fu troppo debole, allora. Ci riprova ora uno dei tanti gruppuscoli neofascisti, quello probabilmente di maggior capacità di mobilitazione, nel silenzio pavido degli uni e nella oggettiva complicità degli altri – quella cospicua parte del popolo italiano che ha già introiettato la paura dell’immigrato.

Alludo al manifesto che Forza Nuova ha lanciato per accendere italiani e italiane di sacro fuoco etnico-nazionale, ricorrendo a un prodotto propagandistico del peggior periodo della nostra storia, quello della Repubblica Sociale Italiana: un manifesto murale, diffuso anche sulla stampa di regime, che mostrava un «negro» che ghermisce una donna bianca, e il testo recitava: «Difendila dai nuovi invasori» e poi, in piccolo: «Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia». Gli invasori erano, nel ’44 i soldati degli eserciti alleati, in quello che fu l’anno dello sbarco ad Anzio e in Sicilia, e la crisi del fascismo, succube del nazismo hitleriano, appariva ormai irreversibile. Il manifesto era firmato da un disegnatore sperimentato, Gino Boccasile, l’inventore della Signorina Grandi Firme, efficacissimo illustratore delle copertine della Domenica del Corriere, poi firmatario del Manifesto della razza, infine, appunto, convinto aderente alla Rsi.

Forza Nuova, riproponendo l’icona del negro stupratore di bianche fanciulle, nella Rete (ma si annuncia anche, pare, la stampa murale in grande formato), aggiunge un commento per così dire esemplare, dal punto di vista dell’uso politico della storia, una storia naturalmente manipolata, ignorata, o rovesciata. Si legge infatti: «Le violenze dell’epoca del manifesto a cui ci siamo ispirati furono contestualizzate all’interno della sconfitta che chiamarono "liberazione", quelle di questi anni e di questi giorni le occultano spudoratamente, tacendo il fatto che sono attuate da nuovi invasori a cui paghiamo vitto, alloggio, bollette, schede telefoniche, cellulari e sigarette. I nuovi barbari sono peggiori di quelli del ’43-45, oggi come allora fiancheggiati dai traditori della Patria».

Difficile sintetizzare meglio la morale politica del fascismo, e mostrarne l’eterno ritorno, per così dire, sotto le mutevoli vicende di nazioni e popoli. Difficile esplicitare in così poche parole una mentalità, ahinoi sempre più diffusa, che fondandosi su false informazioni, o su vere e proprie menzogne, gioca sulla ingannevole contrapposizione «noi/loro», accettandola supinamente. Il «successo» del post (oltre 10 mila like in poche ore) è una riprova in tal senso, ma ancor più lo è la gran massa dei commenti, un osceno florilegio del peggior razzismo cosciente o più spesso inconsapevole, un buco nero in cui annega ogni residuo di intelligenza. «L’emergenza» denunciata ogni giorno da un intero ceto politico, o quasi, non è quella dei migranti, ma quella degli stolti e degli ignoranti. La strada è lunga e in salita.

C'è più d'uno, nell'area che va da Salvini a Minniti, che ci inciterà ad obbedire proclamando: ce lo chiede l'Ungheria.

il Fatto quotidiano, 2 settembre 2017
«Il primo ministro ungherese "imita" il capo della Casa Bianca, che continua a chiedere al Messico di finanziare la costruzione di un muro di separazione tra i due paesi. Attesa per mercoledì la sentenza sul ricorso di Budapest e Bratislava contro il ricollocamento dei richiedenti asilo»

.Make Europe great again. Che Viktor Orbán fosse un fan di Donald Trump si era capito. La novità è il primo ministro ungherese sta prendendo spunto dalle mosse del capo della Casa Bianca. Come Trump annunciò di voler fare con il Messico, ora Orbán vuole mettere in conto all’Unione europea la spesa per il muro anti-migranti costruito al confine con Serbia e Croazia. Tutto ciò alla vigilia della sentenza della Corte di giustizia Ue, che il prossimo 6 settembre si pronuncerà sul ricorso presentato da Ungheria e Slovacchia contro il piano di ricollocamento dei richiedenti asilo da Italia e Grecia.

In una conferenza stampa tenutasi 31 agosto, il capo dello staff del governo di Budapest, János Lázár, ha annunciato che l’Ungheria chiederà alla Commissione europea di pagare almeno metà della cifra sostenuta dal paese per la costruzione della barriera, cominciata nel 2015 e costata 800 milioni di euro. La richiesta di Orbán sarà formalizzata in una lettera destinata a Bruxelles al presidente della Commissione Jean-Claude Juncker.

Il rimborso richiesto, dunque, sarà di 400 milioni per 170 km di filo spinato. “L’Ungheria, con i suoi confini fortificati attraverso il muro, la polizia e l’esercito, sta proteggendo tutti i cittadini europei dal flusso di migranti irregolari – ha detto Lázár – il momento che l’Ue aiuti l’Ungheria così come ha fatto con l’Italia, la Grecia e la Bulgaria. Non si possono usare due pesi e due misure”.

Solo il 27 agosto, Donald Trump rilanciava il suo muro anti-migranti, al confine con il Messico. “Essendo il Messico una delle maggiori nazioni criminali al mondo, dobbiamo avere il muro. Il Messico lo pagherà attraverso un rimborso o altro”, ha scritto il presidente Usa su Twitter.

L'ideologia del colonialismo perdura e continua a trovare accoliti, e le storie di sopraffazione si ripetono senza un analisi critica e una condanna degli errori fatti,

Internazionale, 31 agosto 2017, con postilla (i.b.)

Si è scritto molto sulla foto di Angelo Carconi che ritrae un poliziotto che accarezza una ragazza eritrea durante lo sgombero con gli idranti di piazza Indipendenza, a Roma. Lo sguardo tra i due ci parla di una relazione complicata (ambigua, coloniale, violenta) cominciata verso la fine del diciannovesimo secolo e mai terminata. Tracce di questa storia sono ancora presenti nel quartiere dove è avvenuto lo sgombero, tra piazza Indipendenza e la stazione Termini. Qui si sono intrecciate la storia delle prime migrazioni dal Corno d’Africa e la storia del colonialismo italiano.

Negli anni settanta del secolo scorso il Corno d’Africa era in fiamme. Si scappava dalle dittature. I somali scappavano da Siad Barre, gli etiopici-eritrei dal sanguinario Menghistu Hailè Mariàm. Le terre del corno si tingevano di sangue e l’Italia, di cui molti conoscevano già la cultura, fu considerata naturale terra d’approdo. L’Italia infatti – anche dopo la fine del colonialismo storico – ha avuto su quelle terre una forte influenza ideologica. Basti pensare che fino al 1974 le scuole in Somalia erano italiane, perché dire Italia era come dire Europa. E anche ad Asmara, in Eritrea, portare i figli alla scuola italiana era non solo prestigioso per le famiglie, ma anche una chiave d’ingresso (almeno molti lo speravano) assicurata per il futuro.

Italiani d’Africa
Quindi, nonostante le brutture del colonialismo, l’Italia e il Corno d’Africa rimasero in qualche modo in una relazione ambigua. Perché anche se il colonialismo era finito, non era terminato il modo coloniale di relazionarsi. Gli italiani in quei paesi (ci andavano per lavoro) facevano sempre i padroni, insidiavano sempre le donne – “le belle abbissine”, “le faccette nere” – e andavano a caccia, fingendosi un po’ dei vecchi coloni. Dall’altro lato somali ed eritrei (e in misura molto minore gli etiopici) sognavano quell’Italia di cui conoscevano a memoria tutte le canzoni.

Gianni Morandi andava per la maggiore, ma anche Rita Pavone, Peppino di Capri, Mina e successivamente (ma erano già gli anni ottanta) i Ricchi e Poveri o Umberto Tozzi. Uno dei più famosi hotel di Mogadiscio, l’Uruba, per concludere le sue serate danzanti metteva su una serie di lenti e tutti sapevano che quando scattava Ciao di Pupo era l’ora di ritirarsi, il momento di rubare un bacio alla propria bella.

Il Corno d’Africa sognava l’Italia, la considerava la quintessenza della modernità, perché dopo la guerra molti (l’imperatore d’Etiopia per primo, grazie alla realpolitik) preferirono non rivangare quei cattivi ricordi di stragi, eccidi, uso di gas e andare avanti. Quindi basta con il generale Rodolfo Graziani e la sua violenza, meglio ballare sulle note di Adriano Celentano e dei suoi 24.000 mila baci.

Ma il passato se non lo rielabori ti arriva addosso come un boomerang. E se ne accorsero i primi emigranti somali ed eritrei che si trovavano negli anni settanta a passare proprio a piazza Indipendenza il tempo libero. Molte donne lavoravano come colf, ma c’era chi studiava, chi sperava in un futuro migliore. L’Italia non era quella terra del bello che avevano sognato. Niente Gianni Morandi o Adriano Celentano. Era un paese polveroso pieno di problemi, denso di pericoli (c’era il terrorismo) quasi quanto la terra d’origine. E non è un caso che fu proprio in quel momento che il passato coloniale riemerse con tutta la sua ferocia, con le sue idee di razza inferiore e razza superiore, con gli stereotipi di questi neri pigri, di queste nere da mangiare in un sol boccone (spopolavano allora i film sexy con l’eritrea Zeudy Araya). Fu in quel momento che il razzismo colpì con ferocia quei primi migranti.

Fu allora, esattamente nel 1979, che il somalo Ahmed Ali Giama fu bruciato vivo per scherzo da quattro ragazzi italiani annoiati sotto il portico di via della Pace. Il povero Ahmed era reo di essere povero ed essere nero. E lo stesso succederà negli anni ottanta, nel 1985 ad Udine, a Giacomo Valent, figlio di un italiano e di una somala, massacrato dai suoi compagni di scuola con 63 coltellate perché nero, benestante e di una famiglia cosmopolita. Si odiava il ricco come il povero se era nero.

Ed ecco che tutta la propaganda sul Corno d’Africa, sui perfidi abissini, di mussoliniana memoria, fece di nuovo capolino sia nelle chiacchiere in famiglia sia nei discorsi pubblici. C’era diffidenza verso questi migranti dalla pelle scura, verso i loro primi figli. Sguardi cattivi, non solo curiosi. E lì ci fu la delusione di molti somali e molti eritrei. Come racconta bene Garane Garane in un libro ormai mitico per gli studiosi postcoloniali, Il latte è buono, il protagonista del romanzo, Gashan, subisce al controllo passaporti il primo colpo:

«Il passaporto per cortesia…
Passaporto? Perché?, chiese Gashan con l’aria incredula.
Perché? Ma siamo in un altro paese. Ci saranno passaporti da voi? O mi sbaglio, disse con stizza il poliziotto.
Sono somalo. Non mi ha riconosciuto?»

Ecco quel “non mi ha riconosciuto” è il segno di una fratellanza mancata. Gashan sa tutto dell’Italia. Ha studiato l’italiano a scuola, ha mangiato i dolci italiani al Hazan vicino alla casa d’Italia dove il pasticcere è italiano, conosce la musica, conosce il cinema, sa cose dell’Italia che nemmeno l’Italia sa di se stessa. Gashan si sente tradito dall’ignoranza dell’Italia su di lui. E via via che il romanzo procede e capisce che nessuno lo conosce, né tantomeno conosce la Somalia, la sua delusione diventa sconcerto. Gashan si sente straniero proprio in quell’Italia che sentiva come casa. L’unico che lo riconosce è la statua di Giulio Cesare ai Fori imperiali, e solo a lui Gashan apre il cuore. Solo le tracce di marmo, solo le tracce nell’architettura conoscono ancora il suo nome. La fredda statua gli dà quell’asilo che l’Italia gli nega.

Lo stesso di fatto è successo con lo sgombero di via Curtatone. Lo sgombero sarebbe stato grave anche se si fosse trattato di romeni, nigeriani, maliani, bengalesi. Ma il fatto che si trattasse di eritrei lo ha reso più grave ai miei occhi. Se gli eritrei, che sono stati i primi a venire in questo paese, ancora si dibattono tra occupazioni e razzismo, come pensiamo di risolvere il problema di tutti gli altri? Vuol dire che c’è una dissociazione con la propria storia. Una volontà di vivere in perenne emergenza. E dire che basterebbe solo fare pochi passi da piazza Indipendenza verso la stazione Termini per capire quanto profonda sia questa relazione.

Piazza dei Cinquecento, Roma, 1950 circa

Piazza dei Cinquecento, la piazza della stazione, è dedicata ai caduti italiani della battaglia di Dogali, una delle più grandi sconfitte militari che l’Italia abbia subìto in Africa insieme alla battaglia di Adua. Una sconfitta militare che costò caro all’Italia in termini di caduti e di consenso nel paese. Su Dogali gli italiani si divisero e molti si chiesero come mai proprio loro che si erano liberati da poco dal giogo coloniale austriaco ora volevano far subire la stessa sorte a degli africani che nemmeno conoscevano e con cui non c’era nessuna inimicizia.

Quei primi vagiti di colonialismo, voluto da politici e ufficiali (non dal popolo), furono fallimentari e ce lo illustra molto bene lo storico Angelo del Boca nel suo volume dedicato agli italiani in Africa Orientale. Del Boca in particolare spiega che a Dogali la battaglia fu una sconfitta perché gli ufficiali sottovalutarono di fatto il nemico, in quanto africano. Un ammasso di errori di strategia, di pressappochismo, di arroganza e di pensiero razzista portarono a un eccidio. Uno dei fatti che mi ha sempre colpito della battaglia in questione è che, all’interno di una cornice militare, tra eritrei-etiopici e italiani si siano consumate vendette private.

Sempre Del Boca ci riferisce che mentre infuriava la battaglia alcuni italiani si sentirono chiamare per nome da alcuni soldati nemici. Erano gli eritrei che a Massaua lavoravano nei magazzini e negli opifici italiani. E che nei loro luoghi di lavoro erano stati umiliati e picchiati. Ogni volta che passo attraverso la stazione Termini penso che quella piazza è stata dedicata non solo a una battaglia persa, ma a un modo di procedere (tutto made in Italy) fallimentare nelle relazioni con l’altro.

Una storia mai finita

Certo potrei dirvi che la storia coloniale è stata rimossa e finirla qui. Ma il punto non è solo la rimozione (che c’è), ma anche la mancata rielaborazione di cosa stiamo stati insieme nel bene e nel male. Italia ed Eritrea, Italia e Somalia, Italia ed Etiopia, Italia e Libia non si sono mai guardati davvero in faccia e nelle relazioni (parlando dei potenti) c’è un ambiguo proseguimento di vecchi schemi. Una “fratellanza” sbandierata per poi poter fare affari con dittatori feroci (lo vediamo nella gestione della questione migranti con il generale libico Haftar) o per sversare rifiuti tossici in terre un tempo incontaminate. Elvira Frosini e Daniele Timpano nel loro spettacolo dedicato al colonialismo italiano Acqua di colonia dicono non a caso che “qualche affaruccio lo abbiamo combinato pure dopo”, cioè dopo il colonialismo, ed ecco elencati Enrico Mattei e Ilaria Alpi, gli affari sporchi che nel tempo hanno legato Italia e Africa. Come se questo maledetto colonialismo in verità non fosse mai finito.

C’è una mancata rielaborazione. Una mancata decolonizzazione. Un mancato guardarsi negli occhi e raccontarsi. Forse per questo quella foto mi ha colpito. Mi sono astratta e ho cercato di capire se prima o poi nel futuro ci sarà un vero riconoscimento reciproco. E guardando la donna, il suo pianto così dignitoso, ho pensato a un altro eritreo, Zerai Deres. Di lui circola una foto in rete: ha bei riccioli, baffetti ben curati. Una giacca elegante, uno sguardo fiero. Durante il fascismo, almeno secondo le fonti eritree-etiopiche, quest’uomo si rese protagonista di un atto d’insubordinazione contro il fascismo in pieno centro di Roma, zona stazione Termini, presso la stele di Dogali. Zerai Deres probabilmente era uno degli interpreti degli internati etiopici che per rappresaglia furono incarcerati dopo l’attentato al generale Rodolfo Graziani del 1937.

Stele di Dogali, Roma, luglio 2014

Il 13 giugno 1938 Zerai Deres si trovava nei pressi del monumento dei caduti di Dogali e guardando negli occhi il leone di Giuda (simbolo dell’Etiopia, trafugato dal fascismo e messo davanti alla stele, restituito all’Etiopia nel 1970 grazie ad Aldo Moro) cominciò a sentire nel petto una rabbia che lo portò prima a inneggiare all’imperatore Hailé Sellasié, poi a inveire contro l’Italia e il fascismo, e infine a colpire con una sciabola quanti più italiani possibile, ferendone alcuni. Qui la storia si fa nebulosa. Zerai Deres era un patriota? O il suo gesto era dettato da questioni personali? Davvero ci fu un atto d’insubordinazione al fascismo nella città di Roma e non ci è stato tramandato nulla?

La donna con le sue lacrime così dignitose mi ha ricordato quel Zerai Deres che si perde tra storia e leggenda. Anche la zona di Roma è più o meno la stessa. Piazza Indipendenza non è tanto lontana da dove si trova la stele di Dogali. Ed ecco che lo spazio tra il poliziotto e la ragazza diventa qualcosa di veramente importante. Lì dentro c’è un vuoto di senso che dobbiamo colmare. Ci si guarda negli occhi, certo, ma ci si riconosce? E questo forse quello che dovremmo fare nel prossimo futuro: riconoscerci come parte di una stessa storia.

postilla
E' difficile affrontare la decolonizzazione, senza cadere nel neocolonialismo, se di quel periodo non si ammettono e condannano gli errori e gli orrori commessi nel nome di una presunta superiorità culturale. Rimangono ancora troppi coloro che considerano quel capitolo della nostra storia un passato glorioso e che oggi ne condividono ancora i valori e gli ideali.

A questo proposito, mi torna in mente l'articolo di Carlo Gubitosa, qui sotto riportato, a commento della vignetta di Spataro su Montanelli. Lo stesso Montanelli, giornalista e intelletuale di grande autorevolezza, ricordava con compiacenza la sua esperienza coloniale, che includeva anche l'acquisto acquisto a Sangareti di una dodicenne "assieme a un cavallo e un fucile, tutto a 500 lire". (i.b.)

L'espresso, 10 Luglio 2013

IL FUMETTISTA, MONTANELLI, LA "MOGLIE BAMBINA" INERITREA E L'AMORE COME REATO PENALE NEL FASCISMO

Carlo Gubitosa

E' incredibile quante cose si imparano con una vignetta, soprattutto se arriva da qualcuno che sa rovistare nelle pieghe della storia. E' quello che ha fatto il fumettista Alessio Spataro tuffandosi di testa nell'archivio Youtube della Rai per una "anticommemorazione" illustrata di Indro Montanelli, di cui tra pochi giorni ricorre l'anniversario della morte.

L'oggetto della contestazione e' un episodio della vita di Montanelli gia' noto ma non notorio, pubblico ma non troppo pubblicizzato, una "non-notizia" che personalmente ignoravo, rimasta ai margini del dibattito pubblico su questa icona del giornalismo: l'"acquisto" di una moglie dodicenne (piu' precisamente una "madama") durante la stagione del colonialismo fascista in Eritrea.

Correva l'anno 1936, e quella che sarebbe diventata una delle penne piu' prestigiose d'Italia scriveva nel numero di gennaio del periodico "Civilta' Fascista" un articolo in cui si sosteneva che "non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà".

Ma evidentemente non tutti i tipi di "fraternizzazione" erano sgraditi a Montanelli, come ha raccontato il diretto interessato in una intervista rilasciata a Enzo Biagi per la Rai nel 1982: "aveva dodici anni, ma non mi prendere per un Girolimoni, a dodici anni quelle li' erano gia' donne. L'avevo comprata a Saganeiti assieme a un cavallo e un fucile, tutto a 500 lire. (...) Era un animalino docile, io gli (sic) misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi insieme alle mogli degli altri ascari".

L'episodio era gia' stato rievocato in precedenza nel 1969, durante il programma di Gianni Bisiach "L'ora della verita'", in cui Montanelli ha descritto la sua esperienza coloniale: "Pare che avessi scelto bene - racconto' Montanelli - era una bellissima ragazza, Milena, di dodici anni. Scusate, ma in Africa e' un'altra cosa. Cosi' l'avevo regolarmente sposata, nel senso che l'avevo comprata dal padre. (...) Mi ha accompagnato assieme alle mogli dei miei ascari (...) non e' che seguivano la banda, ma ogni quindici giorni ci raggiungevano (...) e arrivava anche questa mia moglie, con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita. (...) non c'e' stata nessuna violenza, le ragazze in Abissinia si sposano a dodici anni".

Un episodio che getta una pesante ombra sulla memoria del giornalista, ma al tempo stesso permette di fare luce su pagine oscure della nostra storia, che vanno ben oltre quella compravendita di una bambina dodicenne troppo giovane per fare da moglie a chicchessia.

L'occasione per approfondire il clima dell'epoca e' stata la polemica innescata dalla rievocazione di Spataro, dove il fronte degli indignati per quell'azione intrisa di colonialismo e in odore di pedofilia si e' scontrato con la frangia giustificazionista del "cosi' fan tutti" (o perlomeno cosi' facevano tutti all'epoca di quei fatti).

Ma siamo sicuri che fossero proprio tutti a fare cosi'? Sembra di no, visto che dalla nebbia cibernetica dei ricordi, oltre alla moglie bambina di Montanelli (abbandonata al suo Tucul e al suo destino quando il giornalista e' rientrato in Italia) e' emersa tra una replica e l'altra anche la storia dell'"imputato Seneca", l'uomo che ha sfidato per amore le leggi razziali in base alle quali era proibito elevare al rango di moglie vera e propria una "madama" acquistata per i soggiorni nelle colonie.

Il "madamato", infatti, non era un vero e proprio matrimonio con parita' di diritti e doveri, ma una forma di "contratto sociale" segnata dal dominio autoritario del colonizzatore sull'indigeno, dell'uomo sulla donna, dell'adulto sul bambino, del libero sul prigioniero, del ricco sul povero, del forte sul debole. E alla fine avevi qualcosa che era meno di una moglie e poco piu' che una schiava.

Era importante fare in modo che queste relazioni di dominio con le "belle abissine" non sconfinassero mai nel terreno dei sentimenti, e per questo nel Regio Decreto 740 del 19 aprile 1937, dal titolo eloquente "Sanzioni per rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi", si era stabilito che "il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d'indole coniugale con persona suddita dell'Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell'Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da uno a cinque anni".

La ragione di questo divieto alle "relazioni d'indole coniugale" l'ha spiegata Gianluca Gabrielli in un articolo del 2012 pubblicato sulla Rivista dell'Associazione Nazionale degli antropologi culturali:

La legge contro le unioni miste - scrive Gabrielli - vuole punire esemplarmente gli italiani che mostrano di non aver rispettato il codice di comportamento "razziale" dei dominatori. Il dispositivo quindi non è stato varato per colpire direttamente la donna africana, non è lei da educare in senso razzista. È l'italiano che interessa, che deve mantenere una distanza evidente e ostentare superiorità con le popolazioni del luogo, perché la distanza e la superiorità assicurano il dominio.

Ed e' per questo che tra i "capi d'accusa" a carico di Seneca vengono elencati normalissimi gesti di premura verso una compagna, tra cui la colpa "di aver preso con sé un'indigena, di averla portata con sé nei vari trasferimenti, di volerle bene, di averla fatta sempre mangiare e dormire con sé, di avere consumato con essa tutti i suoi risparmi, di avere fatto regali ad essa e alla di lei madre, di averle fatto cure alle ovaie perché potesse avere un figlio, di avere preso un'indigena al suo servizio, di avere preparato una lettera a S.M. il Re Imperatore per ottenere l'autorizzazione a sposare l'indigena o almeno a convivere con lei". Gesti che diventano crimini perche' l'oggetto di queste attenzioni e' un'africana, un'inferiore, un "suddito".

Sfogarsi nelle trasferte comprandosi le "madame" andava bene, ma nella sentenza che condanna Seneca si afferma che "in questo caso, non è il bianco che ambisce sessualmente la venere nera e la tiene a parte per tranquillità di contatti agevoli e sani, ma è l'animo dell'italiano che si è turbato ond'è tutto dedito alla fanciulla nera sì da elevarla al rango di compagna di vita e partecipe d'ogni atteggiamento anche non sessuale della propria vita".

E quando si passa dalle "ambizioni sessuali" ai "turbamenti dell'anima", aggiungendo la sfrontatezza di voler elevare la "fanciulla nera" al ruolo di "compagna di vita" anche fuori dal letto, non c'e' perdono possibile per la cultura fascista. Per i giudici che hanno condannato l'imputato Seneca quella donna non era rimasta un puro oggetto sessuale per "contatti agevoli e sani", ma c'era il rischio che potesse diventare non solo oggetto di affetti, ma anche moglie e cittadina dell'impero, e tutto questo per il colonizzatore e' una sciagura da evitare a tutti i costi.

Per smentire il "cosi' fan tutti" associato alla sottomissione delle donne, all'acquisto di minorenni, alla pratica del "madamato" basta una semplice controprova che sgretola in un attimo quel "tutti" cosi' perentorio. E pur essendo cosa comune a quei tempi comprare persone di cui disporre liberamente, e avere rapporti sessuali con dodicenni, c'e' sempre in ogni epoca della storia qualche "imputato Seneca" che spinge la civilta' lontano dalla barbarie.

E' a questa gente che dobbiamo guardare, e non alla morale corrente: ne' a quella in vigore al tempo delle "madame" dodicenni, ne' a quella attualmente in voga nella nostra epoca di "utilizzatori finali" di diciassettenni.

Ricostruire l'"acquisto" di Montanelli e il contesto in cui e' maturato, assieme all'esperienza speculare di Seneca che cercava una compagna di vita e non una "madama a tempo", potra' sembrare una inutile riesumazione di fatti gia' noti, o una mancanza di rispetto verso una firma storica del giornalismo italiano.

Resto comunque persuaso che il recupero della memoria storica, l'analisi critica dei dati di realta' e i racconti fatti senza piaggeria faranno contento il Montanelli giornalista ovunque egli si trovi, anche a costo di lasciare un po' amareggiato il Montanelli colonialista e acquirente di dodicenni, e i suoi fan talmente appassionati e devoti da perdonargli qualsiasi errore di gioventu', anche il piu' abominevole.

Prosegue, a tutti i livelli, l'inumana e antistorica discriminazione dei migranti "economici" dagli altri, come se chi fugge dalla miseria e dalla carestia provocata dagli stessi attori delle guerre e delle persecuzioni non appartenesse alla stessa umanità.

il manifesto, 2 settembre 2017
«Ero straniero. Esistono strumenti efficaci e rispettosi del diritto internazionale e della nostra umanità per gestire le grandi migrazioni, a partire dalle misure della nostra legge di iniziativa popolare»

È disumana, totalitaria e persino autolesionista la distinzione, fatta propria da quasi tutte le forze politiche italiane – da Salvini a Renzi, passando per i Cinque stelle – e recentemente anche dalla totalità degli stati dell’Unione europea, tra i rifugiati politici a cui sono dovute l’accoglienza e la protezione internazionale e i migranti economici: i «cattivi» che, invece, abbiamo la facoltà di respingere con tutti i mezzi, anche militari, anche illeciti, e ai quali non riconosciamo il diritto universale di fuggire da una vita di stenti e aspirare a un’esistenza migliore. Una logica alla quale come Radicali ci opponiamo con forza.

Da sempre, e non solo quando era terra di milioni di migranti, l’Italia ha difeso la libertà delle persone di attraversare i confini tra gli stati – di migrare per salvarsi dalla guerra, dalla fame, dalla povertà estrema – come diritto inalienabile, prima del diritto ormai affermato di libertà di movimento di merci, servizi, capitali.

Del resto la ricca Europa, con mezzo miliardo di abitanti, non solo ha bisogno – e ne avrà sempre di più negli anni a venire – di stranieri che vengano a lavorare nelle nostre fabbriche, nei nostri cantieri, nelle nostre famiglie, ma sarebbe in grado di gestire agevolmente, solo se lo volessero tutti gli Stati membri, anche flussi straordinari di profughi causati da carestie o guerre.

Invece proprio su iniziativa del nostro Paese e sulla base di un intollerabile alibi – «aiutiamoli a casa loro», alcuni Stati membri dell’Ue con l’avallo dell’Alto Rappresentante per gli Affari esteri Federica Mogherini, hanno deciso per la seconda volta e di nuovo senza nessuno dei passaggi formali necessari, di appaltare ad altri la soluzione, prevalentemente con mezzi militari, del problema. Senza curarsi delle inaudite violenze a cui saranno sottoposti i migranti e di cui saremo complici.

L’Italia ha stipulato patti e ha negoziato accordi economici per il controllo della frontiera esterna dell’Unione, se possibile, ancora peggiori di quelli con il governo turco, poiché stretti direttamente con le tribù libiche – cioè i «sindaci» ricevuti dal ministro Marco Minniti al Viminale – che probabilmente sono le stesse che hanno gestito e si sono contese il lucroso traffico dei migranti e i lager nel deserto nei quali vengono derubati, torturati, uccisi i profughi. Non si spiegherebbe altrimenti l’improvvisa interruzione degli sbarchi verso le nostre coste, che non può essere dovuta solo all’attivismo delle motovedette italiane donate ai militari libici.

Di fronte a questo grave sovvertimento dei valori in atto, come Radicali Italiani ribadiamo l’urgenza di sconfiggere la grande bugia sull’immigrazione. Esistono strumenti efficaci e rispettosi del diritto internazionale e della nostra umanità per gestire le grandi migrazioni, a partire dalle misure della nostra legge di iniziativa popolare «Ero straniero – L’umanità che fa bene» per superare la Bossi-Fini.

Una legge che, mentre i nostri governi sono impegnati ad alzare muri nel Mediterraneo e ai confini dell’Europa, chiede invece di aprire varchi: canali legali e sicuri di ingresso in Italia per i migranti per motivi di lavoro, di studio o di protezione internazionale e la loro accoglienza e inclusione nelle nostre società. Alla base nessuna odiosa distinzione tra chi fugge da guerre e persecuzioni e chi fugge dalla fame e dalla povertà, ma diritti e doveri chiari per tutti.

La stessa legge offre anche la soluzione al problema dei 500 mila migranti irregolari presenti in Italia introducendo un permesso di soggiorno temporaneo, condizionato all’integrazione attraverso il lavoro. Come ha lucidamente sottolineato il capo della polizia Gabrielli, «ci sono etnie che non otterranno mai lo status di rifugiati e sono destinati a restare illegalmente: per impedirlo, se non si riesce a ottenere i rimpatri, non resta che l’integrazione, che peraltro è un’opportunità da utilizzare per salvaguardarci dalla criminalità e dal terrorismo».

Nei prossimi giorni come Radicali Italiani insieme a Emma Bonino, all’ampia «coalizione» di organizzazioni che promuovono con noi la campagna «Ero straniero» e con il sostegno di centinaia di sindaci che hanno aderito, rilanceremo con nuove iniziative la raccolta firme su questa legge popolare: la sola proposta oggi in campo per rispondere al ricatto della paura con la fermezza della ragione, della legalità e dell’umanità.

L'autore è segretario di Radicali Italiani

«È lo stesso mercato a prevedere il mancato pagamento fra i rischi assunti dai creditori, i cui tassi di interesse calcolano il rischio del non rimborso».

il manifesto, 2 settembre 2017 (c.m.c.)

Parlare di annullamento del debito oggi significa affrontare un vero e proprio tabù. Secondo la narrazione dominante, infatti, un mancato pagamento è qualcosa di eccezionale che bisogna evitare a ogni costo. Peccato che la storia si incarichi di dimostrare l’esatto contrario. La prima proclamazione di annullamento del debito di cui si ha riscontro risale all’anno 2400 a.C. nella città di Lagash (Sumer), mentre il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750) fu contrassegnato da quattro annullamenti generali dei debiti dei cittadini con i poteri pubblici. In totale, gli storici hanno identificato con precisione una trentina di annullamenti generali del debito in Mesopotamia tra il 2400 e il 1400 a. C..

Venendo a tempi più recenti, nel periodo 1800-1945 si contano 127 cessazioni del pagamento, mentre negli ultimi sessanta anni (1946-2008) si sono avuti non meno di 169 sospensioni del pagamento di debiti sovrani, della durata media di tre anni. Per fare solo alcuni esempi, dalla propria indipendenza fino al 2006 l’Argentina ha dichiarato 7 cessazioni del pagamento, il Brasile nove e il Messico otto; in Europa, la Spagna ha dichiarato una cessazione del pagamento 13 volte, mentre la Germania e la Francia 8 volte ciascuno.

Ma che significa annullare un debito? Significa dare il via a un processo di indagine (audit) indipendente sul debito pubblico per verificare nel dettaglio come, da chi e con chi è stato contratto, per quali obiettivi e interessi e con quali conseguenze per le condizioni di vita degli abitanti.

Significa, in altri termini, dire al Ministro dell’Economia Padoan che la nuova stagione delle privatizzazioni che intende aprire per abbattere il debito – una superholding in cui far confluire tutte le partecipazioni dello Stato sotto il cappello di Cassa Depositi e Prestiti, per poi privatizzare il 50% di quest’ultima – è una trappola a cui non vogliamo più sottostare, perché ciò che va rimessa in discussione è la legittimità stessa del debito.

La sola idea di un percorso di questo tipo fa inorridire le grandi lobby dei poteri finanziari, le quali – nel più classico stile degli usurai – sono meno interessate all’effettivo saldo di quanto «dovuto», che non al mantenimento della catena che lo stesso pone alle rivendicazioni di reddito, beni e servizi delle popolazioni.
Ma è un passaggio obbligato se si vuole uscire definitivamente dal cappio delle politiche liberiste.

D’altronde, è di nuovo la storia a dimostrare come, quando è stato ritenuto necessario per superiori interessi geopolitici, il debito sia stato cancellato con un semplice tratto di penna dagli stessi creditori: è stato così per la Germania nel 1953, quando la necessità di una Germania Ovest economicamente forte di fronte all’Urss e ai suoi alleati ha permesso la quasi totale cancellazione degli ingenti debiti post seconda guerra mondiale; ed è stato così per l’Iraq nel 2004, quando le nuove autorità, designate dalle forze di occupazione, beneficiarono di una riduzione del debito bilaterale (dovuto ad altri Stati) nell’ordine dell’80%.

Ma è d’altronde lo stesso mercato a prevedere il mancato pagamento fra i rischi assunti dai creditori, i cui tassi di interesse calcolano il rischio del non rimborso, altrimenti non si capirebbe l’esistenza dello spread fra un paese e l’altro. Perché delle due l’una: o si dichiara impossibile il mancato pagamento e allora il denaro dovrebbe essere prestato a tutti allo stesso tasso d’interesse o si presta il denaro a tassi differenti perché si prevede la possibilità del non pagamento, che dunque può avvenire, come affermato nel 1999 dal Consiglio dei diritti dell’uomo, ogniqualvolta. «l’esercizio dei diritti fondamentali della popolazione dei paesi debitori all’alimentazione, all’abitazione, al lavoro, all’educazione, ai servizi sanitari e a un ambiente salubre non possono essere subordinati all’applicazione di politiche di aggiustamento strutturale e di riforme economiche legate al debito».

Si tratta in buona sostanza di dire a chiare lettere che le nostre vite vengono prima del debito, i nostri diritti prima dei profitti e il «comune» prima della proprietà.

È quello che si appresta a mettere in campo Cadtm Italia nei prossimi mesi.

«Alleanza “tattica”. I talebani sono agli antipodi rispetto allo Stato Islamico su fini e metodi, ma si è creato un interesse obiettivo di venire a patti».

il Fatto Quotidiano, 1°settembre 2017 (p.d.)

31.7. Attacco a Kabul a un compound della polizia afghana vicino all’ambasciata irachena (rivendicazione Isis). 25.8. Attacco alla moschea sciita di Imam Zaman. Venti morti e 35 feriti (attacco Isis). 29.8. Attacco alla filiale della Kabul Bank dove soldati e poliziotti stavano ritirando il salario. Cinque morti e nove feriti. Rivendicato dai talebani. Kabul brucia. Per i talebani e i jihadisti concentrare i propri sforzi sulla capitale afghana, oltre che un importante valore simbolico ne ha uno, ancor più importante, strategico. Infatti tutte le volte che i talebani sono riusciti a riconquistare una città di piccole o medie dimensioni sono stati spazzati via dall’aviazione americana che bombarda a chi cojo cojo, come avvenne a Kunduz il 3 ottobre 2015 quando riuscirono a centrare, con precisione chirurgica, anche un ospedale di Medici senza frontiere, che da quelle parti, e non sul Mediterraneo, ha una funzione insostituibile.

A Kabul gli americani e le forze della Nato non possono comportarsi con la stessa criminale disinvoltura, non perché colpirebbero sicuramente dei civili (dei civili afghani non gli potrebbe fregar di meno, in sedici anni di guerra ne sono stati uccisi dai 200 ai 300 mila senza che nemmeno Amnesty International osasse emettere un solo lamento) ma sicuramente dei soldati “regolari”, poliziotti, spie, infiltrati, Ong, collaborazionisti di ogni genere, imprenditori “amici”. Devono quindi agire con più cautela, con uomini sul terreno.

Si è detto che sarebbe in corso un’alleanza fra talebani e gli uomini di Al-Baghdadi. Un’alleanza in senso stretto non è possibile, allo stato. Perché diversi sono gli obiettivi dei due movimenti. I talebani vogliono ridare all’Afghanistan la sua indipendenza. La loro è una guerra ‘laica’. Quella jihadista è una guerra religiosa per piegare al verbo sunnita, in salsa wahabita, il mondo intero. Questo almeno in superficie, perché i moti più profondi del jihadismo sono sociali, come ho scritto più volte e come adesso è stato ammesso anche dal Procuratore della Repubblica di Trieste Carlo Mastelloni: “L’islamizzazione eversiva di ogni disagio, sia esso sociale, etnico che esistenziale sembra un dato ormai accertato idoneo a collocare in secondo piano persino la stessa conversione religiosa”.

A obiettivi diversi corrispondono metodi diversi. I talebani hanno sempre mirato a colpire obiettivi militari e politici, risparmiando il più possibile i civili, perché non hanno alcun interesse a inimicarsi la popolazione afghana sul cui appoggio si sostiene, da sedici anni, la loro resistenza. I jihadisti non hanno nessuna remora a colpire la popolazione, in particolare quella sciita (numerosi sono stati in Afghanistan gli attentati alle moschee sciite durante le funzioni, con centinaia di morti). Faccio notare che nei sei anni e mezzo di governo talebano la consistente minoranza sciita non è mai stata toccata. Nell’Afghanistan del Mullah Omar si poteva essere sunniti, sciiti, hazara e anche laici (Gino Strada era lì con i suoi uomini, e donne, di Emergency). L’importante era che tutti rispettassero la legge. Punto e basta.

Qualcosa però è cambiato nello scenario afghano. I Talebani, pur rimanendo militarmente, socialmente, culturalmente egemoni in tutta la vastissima area rurale del Paese (mentre la presenza dell’Isis, quasi esclusivamente militare, è assai più ridotta) si sono indeboliti. Non è stato facile per loro fronteggiare contemporaneamente gli occupanti occidentali e gli invasori dell’Isis. Inoltre la morte del Mullah Omar è stato un colpo durissimo per il movimento talebano. Omar con l’enorme prestigio che si era conquistato combattendo contro i sovietici, combattendo i “signori della guerra” che avevano fatto dell’Afghanistan terra di assassinii, di stupri, di taglieggiamenti e di ogni sorta di abuso sulla povera gente, riportando la pace e l’ordine nel Paese, governandolo saggiamente, senza inutili ferocie che gli erano estranee e guidando poi per quattordici anni la resistenza agli occupanti occidentali, riusciva a tenere compatto il movimento e coerente con i suoi obiettivi. I successori non sono alla stessa altezza.

Inoltre gli americani, con grande intelligenza, sono riusciti a far fuori, col solito drone teleguidato, il suo “numero due”, Mansour, che, se non aveva lo stesso prestigio di Omar, appartenendo alla “vecchia guardia” ne condivideva le idee e le linee politiche e militari, che possiamo definire, con tranquilla coscienza, moderate. Quindi molti giovani talebani, che non hanno fatto la resistenza, vittoriosa, agli invasori sovietici, la guerra, altrettanto vittoriosa, contro i “signori della guerra”, che non conoscono la rigida etica talebana, così puntigliosamente precisata dal “libretto azzurro” del 2009 del Mullah Omar, più che dalla moderazione della dirigenza talebana sono attratti dalla ferocia senza limiti, ma efficace, dell’Isis di cui vanno a ingrossare le fila. Inoltre molti foreign fighters che hanno perso la partita in Iraq stanno convergendo in Pakistan e in Afghanistan.
C’è quindi un interesse obiettivo dei Talebani di venire a patti con l’Isis. Per il momento sembra che abbiano smesso di combattersi fra di loro, finendo di fare il gioco dei loro nemici comuni, anche se per motivi diversi: gli occidentali. Ma qualche alleanza “tattica” è probabilmente già in atto. L’ultimo attentato alla Kabul Bank è stato rivendicato dai talebani ma ha anche modalità Isis (il kamikaze, l’autobomba, il fatto che a ritirare i salari c’erano sì soldati, poliziotti, collaborazionisti, ma anche molti civili afghani). Un’alleanza strategica è possibile, ma solo sulle basi poste dal nuovo leader talebano, che ha preso il posto di Mansour, Maulvi Haibatullah Akhundzada: “Voi ci aiutate a combattere gli occupanti occidentali, ma con i nostri metodi non con i vostri. Niente obiettivi civili”, la sua linea. Che ha il seguito seguente: “Una volta cacciati gli occidentali, noi vi permettiamo di attraversare l’Afghanistan e di entrare in Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan che sono fra i vostri obbiettivi” (Progetto Khorasan, con esclusione ovviamente dell’Afghanistan). Vedremo. Speriamo.
il manifesto, 1° settembre 2017 (p.d.)

Ai distributori di New York e Washington la benzina già costa già dieci centesimi in più solamente rispetto a una settimana fa. I depositi e le raffinerie della East Coast sono a corto di petrolio, l’«oil» che, tramite una vasta rete di condutture, proviene dal Texas e dal Golfo del Messico, resta lì. La pipeline gestita da Colonial, che innerva tutta la costa orientale, è paralizzata e non si sa ancora quanto ci vorrà per renderla di nuovo operativa. L’economia americana, con la sua strutturale bulimia di petrolio, è messa duramente alla prova. Questa volta non è l’arretrata Louisiana a essere messa in ginocchio ma il Texas dei petrolieri e delle booming cities come Houston. Lo stato americano delle booming cities come Houston, uno degli stati trainanti e indispensabile serbatoio dell’intero sistema energetico.

Gli uragani americani, si sa, picchiano molto duro, specie negli stati del sud, e ormai non solo in quell’area degli Usa. Si può ancora dubitare che la loro forza brutale sia diventata vieppiù distruttiva per via del cambiamento climatico? Chi lo nega – Trump in testa – avrà la decenza di non ripeterlo, almeno in questi giorni? Di sicuro, ogni volta che un hurricane assume la portata di Katrina o di Harvey – ma è il caso anche di uragani meno impetuosi – l’America mette in evidenza le sue fragilità. Dovute anche alla sua indiscutibile potenza economica. Alle distorsioni di una crescita che non si pone confini.

In un’area metropolitana di sei milioni di abitanti – Houston e dintorni – si scopre l’esistenza di impianti chimici molto pericolosi dentro il centro abitato. Impianti vulnerabili. Così alle devastazioni di un meteo impazzito s’aggiunge l’allarme di una fabbrica che produce perossido organico e i cui serbatoi, uno dopo l’altro, deflagrano creando nubi altamente tossiche. Houston, scrive The Nation «è un monumento a un capitalismo senza limiti». Il gigante americano, con il suo nuovo presidente gradasso, si scopre debole. E se ieri insolentiva i paesi di confine, oggi deve ringraziare il Messico, che invierà in Texas personale medico, tecnici, provviste, farmaci e veicoli. Lo fece già nel 2005, quando duecento militari messicani portarono acqua, viveri e medicine agli abitanti di New Orleans stremati da Katrina. E allora s’accorsero perfino, i media americani, che Cuba era meglio equipaggiata per fronteggiare quella stessa emergenza che prima aveva colpito l’isola.

Il presidente Donald Trump, che vive in una sua realtà parallela, probabilmente considera superata la crisi texana, per il solo fatto di aver visitato le zone del disastro senza avere aggiunto altri danni, e già si dedica ad altro, alla sua riforma fiscale, che poi non è altro che l’ennesima riedizione della reaganomics, la ricetta che lo stesso Bush padre definì «voodoo economics», l’economia dello stregone. In borsa non ci credono, ovviamente, molti affaristi conoscono di persona the Donald, manager e i consiglieri di amministrazione delle maggiori banche corrono al disimpegno nei confronti dei loro stessi gruppi. Warren Buffett non crede neppure agli ultimi dati sulla crescita sbandierati dall’amministrazione: «Non sembra di essere in un’economia che sale del tre per cento, sembra più un’economia al più due».

Tutto questo in uno scenario in cui non è ancora chiara l’entità dei danni provocati da Harvey e le loro conseguenze, non solo per il Texas. L’intero scenario va ricalibrato, ma appare evidente che la ripresa del Texas dipenderà da ingenti aiuti federali, proprio mentre la destra al potere racconta favole di un’America che può fare a meno dello stato. Ma loro sono oggi i primi a non crederci. Ted Cruz, il senatore del Texas che era considerato il candidato presidenziale in pectore, prima del ciclone Trump, oggi invoca l’intervento di Washington nel suo stato. Fu lo stesso che cercò di bloccare gli aiuti agli stati della costa orientale colpiti dall’uragano Sandy. E già, «siamo tutti socialisti dopo un disastro naturale, perfino il senatore del Texas Ted Cruz», commenta sarcastico The Nation.

Internazionale, 31 agosto 2017 (i.b).

«Dall’uragano Katrina alle crisi finanziarie, alcune multinazionali statunitensi sfruttano da anni le emergenze per imporre riforme liberiste e fare enormi profitti, a spese dei cittadini più poveri. Oggi i dirigenti di queste aziende sono ai vertici dell’amministrazione Trump».

Nei viaggi che ho fatto per scrivere reportage dalle zone di crisi ci sono stati momenti in cui ho avuto l’inquietante sensazione non solo di assistere al succedere di un evento, ma di scorgere un barlume di futuro, un’anteprima di dove ci porterà la strada che abbiamo preso se non afferriamo il volante e non diamo una bella sterzata.

Quando sento parlare il presidente degli Stati uniti Donald Trump, che evidentemente si diverte a creare un clima di caos e destabilizzazione, penso spesso di avere già visto quella scena. Sì, l’ho vista negli strani istanti in cui ho avuto l’impressione che mi si spalancasse davanti il nostro futuro collettivo. uno di questi momenti arrivò a new Orleans dopo l’uragano Katrina, nel 2005, mentre guardavo calare sulla città inondata orde di mercenari armati. Erano lì per trovare il modo di guadagnare dal disastro, perino mentre migliaia di abitanti, abbandonati dal governo, erano trattati come pericolosi criminali solo perché cercavano di sopravvivere.
E mi era successo anche nel 2003 a Baghdad, poco dopo l’invasione. In quei giorni l’occupazione statunitense aveva diviso in due la città. al centro, dietro enormi muraglioni di cemento e rilevatori di esplosivi, c’era la zona verde, un pezzettino di Stati uniti ricostruito in pieno Iraq, con bar che servivano superalcolici, fast food, palestre e una piscina dove sembrava che ci fosse una festa perenne. Oltre quel muro c’era una città ridotta in macerie dai bombardamenti, dove spesso mancava la corrente elettrica per gli ospedali e dove la guerriglia tra le fazioni irachene e le forze d’occupazione stava diventando rapidamente ingestibile. era la zona rossa.
All’epoca la zona verde era il feudo di Paul Bremer, che era stato assistente dell’ex segretario di stato Henry Kissinger e direttore della sua società di consulenza. era stato nominato dal presidente George W. Bush primo inviato statunitense in Iraq. Dato che non c’era un governo locale operativo, Bremer era in pratica il leader supremo del paese. Il suo era un impero totalmente privatizzato. In un elegante completo da uomo d’affari e anfibi da combattimento, era sempre protetto da una falange di mercenari vestiti di nero, che lavoravano per la compagnia militare privata Blackwater, oggi scomparsa (ha cambiato nome ed è stata comprata dal gruppo Constellis). La zona verde era gestita, insieme a una rete di altre aziende private, dalla Halliburton, una delle più grandi aziende al mondo per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi. In passato era stata guidata da Dick Cheney, all’epoca vicepresidente degli Stati uniti.
Quando i funzionari statunitensi si arrischiavano a uscire dalla zona verde, viaggiavano all’interno di un convoglio corazzato, circondati da soldati e mercenari che puntavano le mitragliatrici in tutte le direzioni. gli iracheni non avevano nessuna protezione, a parte quella fornita dalle milizie religiose in cambio della loro lealtà. Il messaggio lanciato dai convogli era forte e chiaro: alcune vite contano molto più delle altre. Bremer, al sicuro dentro la fortezza della zona verde, emanava decreti su come rifare l’Iraq trasformandolo in un modello di libero mercato. a pensarci bene, somigliava molto alla Casa Bianca di Donald Trump.
Bremer decise che l’Iraq doveva avere una lat tax del 15 per cento (abbastanza simile a quello che ha proposto Trump), che i beni pubblici dovevano essere messi all’asta al più presto (Trump ci sta pensando) e che i poteri del governo dovevano essere drasticamente ridotti (la stessa idea di Trump). Senza mai perdere di vista i giacimenti di combustibili fossili in Iraq, era deciso a completare la ricostruzione del paese prima che la popolazione andasse alle urne, e aveva sempre l’ultima parola sulla forma che avrebbe avuto il futuro “libero” degli iracheni.
Con una scelta particolarmente surreale, Bremer e il dipartimento di stato statunitense fecero arrivare dalla russia gli stessi consulenti che avevano guidato il disastroso esperimento della “terapia d’urto economica”, una deregolamentazione intrisa di corruzione e di smania delle privatizzazioni che aveva fatto nascere la nota classe degli oligarchi russi. Dentro la zona verde gli ospiti, tra cui Egor Gajdar, noto come il “dottor Shock” russo, tennero per i politici scelti dagli statunitensi alcune conferenze sull’importanza di realizzare una profonda ristrutturazione dell’economia rapidamente e senza esitazioni, prima che la popolazione si potesse riprendere dalla guerra. gli iracheni non avrebbero mai accettato queste misure se avessero avuto voce in capitolo (e infatti più tardi ne ripudiarono parecchie). Fu solo la crisi gravissima a rendere concepibile il piano di Bremer.
In pratica, l’evidente proposito bremeriano di mettere all’asta i beni iracheni di proprietà dello stato con la scusa della crisi confermò il sospetto generalizzato che l’invasione servisse a mettere le ricchezze dell’Iraq a disposizione delle aziende straniere. Il paese stava sprofondando nella violenza. I militari e i mercenari statunitensi reagivano con altra violenza. Somme enormi di denaro sparirono nel buco nero degli appalti, soldi passati alla storia come i “miliardi spariti dell’Iraq”.
Non fu solo la fusione senza soluzione di continuità tra potere delle multinazionali e guerra vera e propria a sembrarmi una finestra aperta su un futuro distopico tante volte immaginato dalla fantascienza e dai ilm di Hollywood. Fu anche l’evidente uso della crisi per imporre con la forza misure che non sarebbero mai state realizzabili in tempi normali. È stato in Iraq che ho maturato la tesi alla base del libro Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri (Rizzoli 2008).
Inizialmente quel libro si sarebbe dovuto concentrare esclusivamente sulla guerra di Bush, ma poi avevo cominciato a notare le stesse strategie (e le stesse aziende, come Halliburton, Blackwater, Bechtel) nelle zone disastrate di tutto il mondo. Prima arrivava una grave crisi, una calamità naturale, un attacco terroristico e poi c’era la guerra lampo delle misure a favore delle multinazionali. Spesso la strategia dello sfruttamento della crisi era discussa alla luce del sole, non c’era alcun bisogno di formulare oscure teorie del complotto.
Un copione chiaro
Man mano che scavavo più a fondo, capivo che questa strategia era stata l’alleata silenziosa del neoliberismo per più di quarant’anni. Le strategie dello shock seguono un copione chiaro: aspetti una crisi, dichiari un breve periodo di quella che a volte viene chiamata “iniziativa politica straordinaria”, sospendi alcune o tutte le regole della democrazia e poi imponi appena possibile le misure volute dalle multinazionali. La mia ricerca dimostrava che in teoria qualsiasi situazione difficile, se presentata con sufficiente isterismo dai leader politici, può lubrificare gli ingranaggi. Potrebbe essere un evento estremo come un colpo di stato militare, ma funziona molto bene anche uno shock economico come un crollo dei mercati o una crisi del debito. In un periodo di iperinflazione o dopo il crollo delle banche, per esempio, le élite di un paese sono state spesso in grado di presentare a una popolazione in preda al panico gli attacchi allo stato sociale o i salvataggi fatti con il denaro pubblico come misure indispensabili per tenere in piedi il settore finanziario privato, perché secondo loro l’alternativa era l’apocalisse economica.
I repubblicani statunitensi alimentano l’atmosfera di crisi costante che circonda Trump per imporre molte politiche impopolari e favorevoli alle grandi aziende. e senza dubbio sarebbero pronti a muoversi con più decisione e rapidità se ci fosse uno shock esterno ancora più grande. anche perché diversi ministri del governo statunitense sono stati protagonisti di alcuni dei più chiari esempi di dottrina dello shock della storia recente. l’attuale segretario di stato rex Tillerson ha fatto carriera soprattutto sfruttando le opportunità create dalla guerra e dall’instabilità. la exxonMobil, di cui è stato amministratore delegato dal 2006 al 2017, ha guadagnato più di molte altre grandi aziende petrolifere grazie all’aumento del prezzo del greggio causato dall’invasione dell’Iraq nel 2003. Ha anche sfruttato direttamente la guerra in Iraq, ignorando i consigli del dipartimento di stato e facendo prospezioni nel Kurdistan iracheno. un’iniziativa che, scavalcando il governo di Baghdad, avrebbe potuto innescare una guerra civile e ha contribuito a far scoppiare il conflitto interno nel paese.
Come amministratore delegato della ExxonMobil, Tillerson ha tratto vantaggi dal disastro anche in altri modi. Ha passato la sua vita professionale in un’azienda che ha deciso di finanziare e diffondere la disinformazione e studi scientifici falsi sul clima, anche se le ricerche dei suoi stessi scienziati confermavano che il cambiamento climatico causato dagli esseri umani era una realtà. Secondo un’inchiesta del Los Angeles Times, la ExxonMobil si è molto impegnata per capire come ricavare ulteriori profitti e come proteggersi dalla stessa crisi su cui gettava dubbi. lo ha fatto con le perforazioni nell’artico (che grazie al cambiamento climatico si stava sciogliendo) e riprogettando un gasdotto nel mare del nord in previsione della crescita del livello delle acque e di uragani devastanti. nel 2012 Tillerson ha ammesso pubblicamente che il cambiamento climatico è una realtà, ma quello che ha detto subito dopo è signiicativo: gli esseri umani come specie si sono sempre adattati, “quindi ci adatteremo anche a questo. Ci adatteremo ai cambiamenti climatici che toccano le aree agricole”.
Tutto sommato ha ragione: gli esseri umani si adattano quando un territorio smette di produrre cibo. lo fanno spostandosi. lasciano la casa in cerca di posti dove vivere e nutrire se stessi e le loro famiglie. Purtroppo, e Tillerson lo sa bene, non viviamo in un’epoca in cui i paesi aprono volentieri le frontiere alla gente afamata e disperata.
In realtà oggi Tillerson lavora per un presidente che ha deinito i profughi in arrivo dalla Siria, un paese dove la siccità ha accelerato le tensioni che hanno portato alla guerra civile, dei cavalli di Troia del terrorismo. Questo presidente ha imposto un divieto d’ingresso temporaneo negli Stati uniti ai migranti siriani. Questo presidente, parlando dei bambini siriani richiedenti asilo, ha detto: “Posso guardarli dritto negli occhi e dirgli ‘non potete entrare’”. Questo presidente non ha cambiato idea neanche dopo aver ordinato il lancio di missili sulla Siria, in teoria spinto dalle immagini terriicanti degli attacchi con armi chimiche contro i bambini siriani, “bambini bellissimi” (ma non è stato abbastanza commosso da accoglierli insieme ai loro genitori). Questo presidente ha annunciato progetti per far diventare l’identificazione, la sorveglianza, la detenzione e l’espulsione degli immigrati i tratti distintivi della sua amministrazione. Dietro le quinte, senza fretta, sono pronti a entrare in azione molti altri componenti della squadra di Trump, estremamente abili nello sfruttare queste situazioni.
Tra il giorno delle elezioni presidenziali, l’8 novembre 2016, e la fine del primo mese di amministrazione Trump, il 20 febbraio, le quotazioni in borsa delle due più grandi aziende carcerarie private negli Stati uniti, la CoreCivic e la geo, sono raddoppiate, salendo rispettivamente del 140 e del 98 per cento. Perché sorprendersi? Se la exxon ha imparato a guadagnare dal cambiamento climatico, queste aziende fanno parte della iorente industria delle prigioni private, della sicurezza e della sorveglianza, un’industria che vede nelle guerre e nelle migrazioni – due fenomeni spesso collegati ai problemi climatici – altrettante interessanti e sempre più ghiotte opportunità di mercato.
Negli Stati Uniti l’Immigration and customs enforcement (Ice), l’agenzia governativa che si occupa della sicurezza dei conini, ha mandato dietro le sbarre 34mila immigrati accusati di essere entrati illegalmente nel paese, il 73 per cento dei quali è detenuto in carceri private. Quindi non è afatto strano che le azioni di queste aziende siano decollate dopo l’elezione di Trump. Poco dopo hanno avuto altre occasioni per festeggiare: una delle prime cose che ha fatto il ministro della giustizia Jef Sessions è stata cancellare la decisione dell’amministrazione Obama di non usare prigioni private per i detenuti comuni.
Trump ha scelto come viceministro della difesa Patrick Shanahan, un dirigente della Boeing che, a un certo punto, era stato incaricato di vendere costosi armamenti all’esercito statunitense, tra cui gli elicotteri apache e Chinook. Shanahan ha anche supervisionato il programma di difesa con missili balistici della Boeing. Tutto questo fa parte di una tendenza più ampia. Come ha scritto lee Fang sulla rivista online The Intercept nel marzo del 2017, “Trump ha militarizzato il cosiddetto sistema delle porte girevoli, piazzando in posizioni chiave del governo persone di aziende militari private e lobbisti e cercando di aumentare rapidamente le spese militari e i programmi per la sicurezza nazionale. Finora sono stati candidati o insediati almeno quindici funzionari che hanno legami economici con l’industria privata della difesa”.
Il sistema delle porte girevoli (cioè il passaggio da incarichi pubblici ad aziende private e viceversa) non è nuovo, natural mente. I militari in pensione trovano sempre lavoro e contratti nelle aziende del settore degli armamenti. la novità è il numero di generali sul libro paga delle aziende militari private che Trump ha inserito nel governo in ruoli in cui hanno la possibilità di stanziare finanziamenti, compresi quelli previsti dal piano per l’aumento delle spese per l’esercito, il Pentagono e il dipartimento della sicurezza nazionale, che vale più di 80 miliardi di dollari all’anno.
L’altra novità sono le dimensioni del settore della sicurezza interna e della sorveglianza, cresciuto in modo esponenziale dopo gli attacchi dell’11 settembre, quando l’amministrazione di George W. Bush annunciò l’inizio di un’infinita “guerra al terrore” e garantì che tutto l’esternalizzabile sarebbe stato esternalizzato. nuove aziende dai vetri oscurati sono spuntate come funghi velenosi per tutta la Virginia, e quelle già esistenti, come la Booz allen Hamilton, sono entrate in nuovi mercati. Daniel gross, in un articolo scritto nel 2005 per Slate, rese alla perfezione l’atmosfera di quella che tanti chiamavano la bolla della sicurezza: “la sicurezza nazionale potrebbe essere appena arrivata allo stadio toccato da internet nel 1997. ll’epoca ti bastava sbattere una ‘e’ davanti al nome della tua azienda e il tuo collocamento in borsa schizzava alle stelle. Oggi puoi fare altrettanto con fortress (fortezza)”.
Molti esponenti del governo vengono da aziende specializzate in alcune funzioni che, non molto tempo fa, sarebbe stato impensabile esternalizzare. Il capo dello staf del consiglio nazionale per la sicurezza è Keith Kellogg, un generale di corpo d’armata in pensione. Tra i tanti incarichi di Kellogg nelle compagnie di sicurezza private c’è stato quello con la Cubic. Secondo l’azienda, Kellogg guidava “un progetto di addestramento al combattimento a terra ed era impegnato ad allargare la clientela mondiale della compagnia”. Se pensate che “l’addestramento al combattimento” sia un’attività che un tempo gli eserciti svolgevano in proprio avete ragione.

Cocktail velenoso

È interessante notare quante delle persone nominate da Trump vengono da aziende che non esistevano prima dell’11 settembre: l-1 Identity Solution (specializzata nella biometrica), Chertof group (fondata da Michael Chertof, segretario per la sicurezza nazionale con George W. Bush), Palantir Technologies (un’azienda di sorveglianza fondata, tra gli altri, dal miliardario e cofondatore di PayPal Peter Thiel, un grande sostenitore di Trump). le aziende che si occupano di sicurezza attingono pesantemente per il loro personale alle agenzie governative del settore militare e della sorveglianza. Con Trump molti lobbisti e dipendenti di queste imprese stanno tornando a lavorare per il governo, dove molto probabilmente cercheranno di avere altre occasioni per monetizzare la caccia a quelli che il presidente Trump ama definire bad hombres (uomini cattivi, i narcotrafficanti messicani). Questo crea un cocktail velenoso. Prendi un certo numero di persone che guadagnano direttamente dalla guerra in corso e le inili nel governo. Chi si batterà per la pace? l’idea che una guerra possa mai finire sul serio sembra una pittoresca reliquia di quello che negli anni di George W. Bush fu archiviato come “pensiero pre- 11 settembre”.

Poi c’è il vicepresidente Mike Pence, considerato da tanti l’adulto nella classe indisciplinata di Trump. eppure è proprio Pence, ex governatore dell’Indiana, ad avere il curriculum più inquietante quando si tratta di sfruttare senza pietà le sofferenze umane. appena ho saputo che sarebbe stato lui il candidato alla vicepresidenza di Trump mi sono detta: “Conosco questo nome. l’ho visto da qualche parte”. Poi mi è venuto in mente. era stato al centro di una delle storie più sconvolgenti che abbia mai seguito: lo sfrenato capitalismo del disastro legato all’uragano Katrina e all’inondazione di new Orleans. le cose che Pence ha fatto speculando sulle sofferenze umane sono così agghiaccianti che vale la pena di analizzarle un po’ più a fondo, anche perché ci dicono molto su quello che possiamo aspettarci da quest’amministrazione nel caso di crisi più gravi.
Prima di approfondire il ruolo di Pence, è importante precisare a proposito dell’uragano Katrina che, anche se in genere è definito una “calamità naturale”, non ci fu niente di naturale nelle conseguenze che ebbe su new Orleans. Quando Katrina si abbatté sulla costa del Mississippi, nell’agosto del 2005, era stato abbassato da uragano di livello 5 a un ancora devastante livello 3. Ma quando arrivò a new Orleans aveva perso quasi tutta la sua forza ed era stato declassato a “tempesta tropicale”.
È un dettaglio importante, perché una tempesta tropicale non avrebbe mai sfondato le difese di new Orleans contro le alluvioni. Invece Katrina ci riuscì: gli argini artificiali che proteggevano la città non ressero. Perché? Oggi sappiamo che, nonostante i ripetuti allarmi sui possibili rischi, la ma nutenzione degli argini era stata insufficiente. I motivi erano due. Il primo era il disprezzo per le vite dei neri poveri del lower ninth Ward, la zona di new Orleans più a rischio in caso di cedimento degli argini. Questo faceva parte di una più ampia negligenza nella gestione delle infrastrutture pubbliche in tutti gli Stati uniti, esito diretto di decenni di misure neoliberiste. Perché quando fai una guerra sistematica alla stessa idea di sfera pubblica e di bene pubblico, ovviamente l’impalcatura pubblica della società – le strade, i ponti, gli argini, i sistemi idrici – scivolerà in un tale stato di degrado che ci vorrà poco per superare il punto di rottura. Questo succede quando si tagliano pesantemente le tasse, con il risultato che non ci sono più soldi da spendere per niente, a parte la polizia e l’esercito.
Non furono solo le infrastrutture pubbliche a tradire new Orleans, e in particolare i più poveri, che erano in gran parte afroamericani, come in molte città statunitensi. La tradirono anche i responsabili del sistema d’intervento contro il disastro, la seconda grande crepa. l’ente del governo federale incaricato di intervenire in crisi simili è la Federal emergency management agency (Fema), insieme alle amministrazioni degli stati e a quelle municipali, che svolgono un ruolo cruciale nella pianificazione dell’evacuazione e della risposta al disastro. a new Orleans il governo fallì a tutti i livelli.
La Fema ci mise cinque giorni per portare acqua e viveri agli abitanti di new Orleans che avevano cercato riparo nel Superdome, il palazzo dello sport. le immagini più strazianti di quei giorni furono quelle delle persone confinate sui tetti delle case e degli ospedali con cartelli che imploravano aiuto mentre gli elicotteri passavano sopra le loro teste. le persone si aiutarono a vicenda come potevano. Si salvarono in canoa e in barca a remi. Si diedero da mangiare a vicenda. Dimostrarono la stupenda capacità umana di essere solidali, spesso rafforzata dai momenti di crisi. Ma il settore pubblico fu l’esatto contrario. non dimenticherò mai le parole di Curtis Muhammad, attivista di vecchia data dei diritti civili a New Orleans, quando disse a proposi to di quell’esperienza: “Ci ha fatto capire che nessuno si occupava di noi”.
Quell’abbandono fu profondamente disuguale, e le disparità seguirono le linee di spartizione tra bianchi e neri e tra le classi sociali. Molti riuscirono a lasciare la città con i loro mezzi: salirono in auto, andarono in un albergo asciutto e telefonarono alla loro assicurazione. altri restarono perché erano convinti che le difese contro l’uragano avrebbero retto. Ma molti altri restarono perché non avevano scelta: non avevano un’auto o erano troppo malati per guidare o, semplicemente, non sapevano cosa fare. erano le persone che avevano assoluto bisogno di un piano di evacuazione e soccorso efficace. non furono fortunate. I più poveri, abbandonati in una città senza cibo né acqua, fecero quello che avrebbe fatto chiunque in quelle circostanze: si presero le provviste dai negozi del posto. Fox news e altre testate ne approfittarono per definire i residenti neri di new Orleans “sciacalli” che presto avrebbero invaso le parti asciutte e bianche della città. Sugli edifici comparirono scritte minacciose: “Spareremo agli sciacalli”. Furono istituiti posti di blocco per intrappolare la gente nelle aree sommerse. Sul Danzier bridge i poliziotti sparavano a vista ai residenti neri (alla fine cinque agenti implicati sono stati dichiarati colpevoli e la città ha patteggiato un risarcimento di 13,3 milioni di dollari alle famiglie coinvolte in quello e in altri casi simili dopo Katrina). nel frattempo bande di vigilanti bianchi armati battevano le strade in cerca “dell’occasione per dare la caccia ai neri”, come spiegò in seguito un residente in un articolo del giornalista d’inchiesta A.C. Thompson.
Con i miei occhi
Ero a new Orleans e ho visto con i miei occhi quant’erano su di giri i poliziotti e i militari, per non parlare delle guardie private di aziende come la Blackwater, arrivate da poco dall’Iraq. Sembrava di essere in una zona di guerra, con i poveri e i neri al centro del mirino, gente il cui unico crimine era cercare di sopravvivere. Quando arrivò la guardia nazionale per organizzare l’evacuazione totale della città, lo fece con un cinismo e un’aggressività diicili da comprendere. I soldati puntavano i mitra contro i cittadini che salivano sui pullman senza dargli la minima informazione su dove li stessero portando. Spesso i bambini venivano separati dai genitori.
Quello che vidi durante l’inondazione mi sconvolse. Ma quello che successe dopo Katrina mi sconvolse ancora di più. Mentre la città barcollava sotto i colpi del disastro e i suoi abitanti erano sparpagliati in giro e non potevano proteggere i loro interessi, spuntò un piano per far approvare alla velocità della luce una lista dei desideri delle multinazionali. Milton Friedman, che all’epoca aveva 93 anni, scrisse un articolo per il Wall Street Journal in cui diceva: “Quasi tutte le scuole di new Orleans sono in macerie, come le case dei bambini che le frequentavano. Ora i bambini sono sparsi ovunque. È una tragedia. Ma è anche l’occasione buona per riformare radicalmente il sistema scolastico”.
Richard Baker, all’epoca deputato repubblicano della louisiana, dichiarò: “Finalmente abbiamo ripulito le case popolari di new Orleans. non ci saremmo riusciti, ma ce l’ha fatta Dio”. Mi trovavo in un rifugio per sfollati a Baton rouge quando Baker fece quella dichiarazione. Le persone con cui parlai erano sconvolte. Immaginatevi di essere costretti ad abbandonare casa vostra e dormire su una branda in un centro congressi per poi scoprire che quelli che in teoria dovrebbero rappresentarvi dichiarano che è stato una specie d’intervento divino. a quanto pare, Dio ama molto gli investimenti immobiliari.

Baker ebbe la sua “pulizia” delle case popolari. nei mesi successivi all’uragano, mentre gli abitanti di New Orleans e tutte le loro scomode obiezioni, la loro ricca cultura e il profondo radicamento erano fuori dalle scatole, furono abbattute migliaia di case popolari – molte delle quali avevano subìto danni minimi perché si trovavano in un punto elevato della città – e furono sostituite da condomini e grattacieli dal costo proibitivo per chi aveva vissuto lì fino ad allora.

Ed è qui che entra in gioco Mike Pence. Quando Katrina si abbatté su New Orleans, Pence era presidente del potente Republican Study Committee (Rsc), un comitato repubblicano fortemente ideologizzato che riuniva politici conservatori. l’11 settembre 2005, appena quattordici giorni dopo il crollo degli argini e con interi quartieri di New Orleans ancora sott’acqua, l’Rsc tenne una riunione nella sede della Heritage Foundation a Washington. Sotto la guida di Pence fu stilato un elenco di “idee a favore del libero mercato per reagire all’uragano Katrina e agli alti prezzi del petrolio”. Si trattava in tutto di 32 misure di pseudo-aiuto agli alluvionati, ognuna presa direttamente dal manuale del capitalismo del disastro.
Emergeva con chiarezza l’intenzione di scatenare una guerra a oltranza al settore pubblico e alle tutele dei lavoratori, un fatto paradossale, perché Katrina fu una catastrofe umanitaria in primo luogo a causa dei problemi delle infrastrutture pubbliche. E si notava anche la determinazione a sfruttare qualsiasi occasione per rafforzare il settore petrolifero e del gas naturale. L’elenco comprendeva raccomandazioni per sospendere la legge che imponeva agli appaltatori federali di pagare stipendi dignitosi, per trasformare l’intera area colpita in una zona di libera impresa e per “eliminare le restrittive regole ambientali che intralciano la ricostruzione”.
Il presidente Bush accolse molte di quelle raccomandazioni nel giro di una settimana, anche se alla fine, sottoposto a dure pressioni, fu costretto a reintrodurre le misure standard per la tutela dei lavoratori. Un’altra raccomandazione chiedeva di distribuire ai genitori dei voucher da usare nelle scuole private e nelle charter school (istituti a scopo di lucro finanziati dai contribuenti), una mossa in linea con le idee tanto amate da Betsy DeVos, la ministra dell’istruzione di Trump. Nel giro di un anno a new Orleans ci fu il sistema scolastico più privatizzato degli Stati uniti.
E non è finita. Nonostante i climatologi abbiano riscontrato un collegamento diretto tra l’intensità degli uragani e il riscaldamento degli oceani, Pence e il suo comitato fecero una serie di richieste al congresso: abrogare le regole ambientali sulla costa del golfo del Messico, rilasciare i permessi per nuove raffinerie negli Stati uniti e dare il via libera alle “perforazioni nell’arctic national wildlife refuge”, un’area naturale protetta dell’Alaska. Queste iniziative faranno aumentare automaticamente le emissioni di gas serra, il maggior contributo umano al cambiamento climatico, e provocheranno cicloni più devastanti. eppure furono immediatamente appoggiate da Pence e poi adottate da Bush con la scusa della risposta a un uragano devastante.
Vale la pena di soffermarsi un attimo per spiegare alcune conseguenze di tutto questo. l’uragano Katrina diventò una catastrofe a new Orleans grazie a una combinazione di forte maltempo, forse collegato al cambiamento climatico, e infrastrutture fragili e trascurate. le presunte soluzioni proposte dal gruppo guidato all’epoca da Pence avrebbero inevitabilmente aggravato il cambiamento climatico e indebolito le infrastrutture pubbliche. Pence e i suoi compagni di viaggio “liberisti” erano intenzionati a fare esattamente le cose che in futuro causeranno automaticamente altre Katrina. e oggi Pence ha il potere di estendere queste idee a tutti gli Stati uniti.
Un progetto preciso
Il settore petrolifero non è l’unico che ha guadagnato dall’uragano Katrina. Immediatamente dopo il disastro, calò su New Orleans l’intera banda di multinazionali di Baghdad, formata da Bechtel, Fluor, Halliburton, Blackwater, CH2M Hill e Parsons, tristemente famose per il mediocre operato in Iraq. avevano un progetto preciso: dimostrare che i servizi privati forniti in Iraq e in Afghanistan avevano un mercato anche negli Stati Uniti e, già che c’erano, ottenere contratti senza gare d’appalto per un totale di 3,4 miliardi di dollari.
L’esperienza delle aziende chiamate a operare sembrava spesso estranea alla logica con cui erano assegnati i contratti. Prendiamo, per esempio, l’agenzia privata a cui la Fema pagò 5,2 milioni per svolgere il lavoro cruciale di allestire un campo base per i soccorritori a Saint Bernard Parish, un sobborgo di new Orleans. La costruzione del campo registrò ritardi e non fu mai completata. Durante le successive indagini si scoprì che la ditta che si era aggiudicata l’appalto, la lighthouse Disaster relief, era in realtà un’organizzazione religiosa. “Prima di allora avevo organizzato al massimo un campo per ragazzi con la mia parrocchia”, confessò il direttore della lighthouse, il reverendo Gary Heldreth. Dopo che le varie ditte subappaltatrici si furono intascate la loro fetta di torta, non restò quasi niente per la gente che ci lavorava. lo scrittore Mike Davis rintracciò il pagamento da parte della Fema al gruppo Shaw di 15 dollari al metro quadrato per installare i teloni impermeabili azzurri sui tetti danneggiati, anche se i teloni erano forniti dal governo. Dopo che i vari subappaltatori avevano intascato la loro fetta, i lavorato ri che inchiodarono i teloni furono pagati meno di venti centesimi al metro quadrato. “In parole povere, ogni livello della catena alimentare degli appalti è grottescamente ipernutrito tranne lo scalino più in basso, quello dove si fa il lavoro vero,” ha scritto Davis. Questi presunti “appaltatori” erano in realtà marchi vuoti, come la Trump Organization, che incassava i proitti e poi metteva il suo nome su servizi modesti o inesistenti.
Per compensare le decine di miliardi che andavano ai privati in contratti ed esenzioni fiscali, nel novembre del 2005 il congresso a maggioranza repubblicana annunciò che doveva tagliare 40 miliardi dal bilancio federale. Tra i programmi più colpiti ci furono i prestiti agli studenti, il programma di assistenza sanitaria Medicaid e i buoni alimentari. e così gli statunitensi più poveri finanziarono la pacchia degli appaltatori due volte: la prima quando lo sforzo dei soccorsi dopo Katrina si trasformò nelle mance sregolate alle grandi imprese, senza che fornissero posti di lavoro decenti o servizi pubblici funzionanti; la seconda quando i pochi programmi che assistevano direttamente i disoccupati e i lavoratori poveri a livello nazionale furono falcidiati per pagare quelle parcelle gonfiate.
New Orleans è il modello del capitalismo del disastro, progettato dall’attuale vicepresidente degli Stati Uniti e dalla Heritage foundation, il pensatoio di estrema destra a cui Trump ha esternalizzato gran parte del bilancio della sua amministrazione. Alla fine la risposta a Katrina innescò la caduta libera della popolarità di George W.Bush, un crollo che costò ai repubblicani la presidenza nel 2008. nove anni dopo, con i repubblicani che controllano il congresso e la Casa Bianca, non è difficile immaginare che questo esperimento di risposta privatizzata a una calamità sia adottato su scala nazionale. La presenza a new Orleans di una polizia militarizzata e di milizie private armate fu una sorpresa per molti. Da allora il fenomeno si è allargato, con le forze di polizia in tutto il paese piene fino a scoppiare di equipaggiamenti militari, tra cui mezzi corazzati e droni, mentre le aziende per la sorveglianza privata garantiscono spesso addestramento e appoggio. Vedendo la sfilza di aziende private di sorveglianza e militari che occupano posizioni chiave nell’amministrazione Trump, possiamo aspettarci che tutto questo si ampli ulteriormente a ogni nuovo shock.
L’esperienza di Katrina è anche un cupo monito per chi non ha ancora smesso di sperare nei mille miliardi di dollari promessi da Trump per finanziare investimenti nelle infrastrutture. Questi finanziamenti sistemeranno qualche strada e ponte e creeranno posti di lavoro (anche se molti di meno rispetto a quelli che creerebbero gli investimenti nelle infrastrutture verdi). Dettaglio cruciale: Trump ha fatto capire che userà il più possibile non il settore pubblico ma una partnership tra pubblico e privato, una formula che ha pessimi precedenti di corruzione e può portare a stipendi molto più bassi di quelli che riceve chi lavora nei veri progetti pubblici. Dati i trascorsi di affarista di Trump e il ruolo di Pence nell’amministrazione, abbiamo tutti i motivi di temere che questa spesa in infrastrutture produrrà una cleptocrazia in stile Katrina, un governo di ladri, con i frequentatori di Mar-a-lago (la lussuosa villa di Trump in Florida) che si elargiscono enormi somme di quattrini dei contribuenti.
New Orleans ci ha regalato un quadro straziante di quello che ci possiamo aspettare quando ci sarà il prossimo shock. Purtroppo non è affatto un quadro completo: l’attuale governo degli Stati Uniti può tentare ben altro con il pretesto della crisi. Per diventare immuni agli shock, dobbiamo prepararci anche a questa possibilità.
Un' ulteriore degenerazione della cooperazione internazionale ormai destinata alla gestione dei flussi migratori. Sparita anche la retorica della sradicazione della povertà e della sostenibilità. L'Occidente si rivela per quello che è: rapace.

il manifesto 31 agosto 2017 (i.b.)

Gli accordi di Parigi sulla gestione dei flussi migratori nei Paesi del nord Africa sancisce una nuova cornice geopolitica. Nell’ambito del lungo periodo della Guerra fredda, in cui gli Stati africani ottennero o si conquistarono l’indipendenza dal giogo coloniale, nacque la cosiddetta Cooperazione allo sviluppo, uno strumento geopolitico sostanzialmente volto a coprire, con la retorica sviluppista, la necessità dei due blocchi di spartirsi le risorse africane, e non solo, imponendo, al posto delle tanto decantate democrazie, i «loro figli di puttana», secondo la celebre definizione che Roosevelt diede del dittatore nicaraguense Somoza. Un caso tra tutti, il più emblematico perché poi riprodotto serialmente con la copertura ed il sostegno sia dell’Est sia dell’Ovest, è quello del Congo, in cui l’assassinio del giovane ed indipendentista Primo ministro Lumumba segnò l’avvento della lunga e sanguinaria cleptocrazia di Mobutu, inaugurando i termini reali del paradigma di «sviluppo» che si voleva imporre.

Eppure, in quel contesto, proprio per affermare la supremazia del modello occidentale contro quello del socialismo reale sovietico, e viceversa, si arrivò ad investire nel sostegno alle popolazioni africane sino allo 0,5% del Pil, con risultati certo deludenti dati gli obiettivi chiaramente neocoloniali, ma anche con la creazione ed il sostegno, in special modo da parte delle Ong di sviluppo, allora ci si definiva così, di una società civile africana consapevole del proprio ruolo nel Continente e nel mondo. Basti ricordare l’altezza di leader come Kenyatta, Nyerere, Sankarà, e dei dibattiti che allora si confrontavano sulle loro idee, come pure analizzare le cifre, irrisorie, degli spostamenti di popolazione africana nei decenni dagli anni Sessanta agli Ottanta. Poi, con il crollo del muro di Berlino, l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo venne meno perché il nemico sovietico era stato sconfitto e non c’era più bisogno di convincere ma semplicemente di vincere.
Si entra così nella fase in cui nasce il WTO contro l’Onu, ed il libero commercio mondiale diviene il nuovo paradigma universale. Le conseguenze delle disparità tra ricchi e poveri, tra inclusi ed esclusi, cominciano ad acuirsi ed i flussi di popolazioni ad aumentare. Si arriva poi ai giorni nostri in cui il bioliberismo, cioè la biopolitica come forma costitutiva del liberismo, dopo aver normalizzato i movimenti sociali e messo in crisi le esperienze alternative latino americane, cerca di dare la spallata finale alle idee socialiste acuendo una divisione internazionale del lavoro di enormi proporzioni. È questo che sta condannando l’Africa, non a caso il continente con maggiori diseguaglianze e assenza di Diritti umani, ad essere sempre più un fornitore netto di materie prime strategiche, dal coltan al petrolio, dagli esseri umani al legno. Qui giocano oramai indisturbati, al riparo da movimenti sociali di una qualche forza, gli Usa, la Cina, quel che resta dell’Europa e le elites locali.

Ecco allora che a Parigi, Francia, Italia, Germania, cercano di riprendersi una fetta di influenza imponendo politiche para-coloniali e paramilitari a governi inesistenti come quello libico, o lasciando indisturbati quelli «amici» che non hanno nessuna intenzione di rispettare i Diritti umani, ma solo di assicurarsi il mantenimento di quel potere che hanno conquistato a suon di repressone e mazzette occidentali. Il solo evidenziare che gli accordi di Parigi siano stati in primis gestiti dai ministri degli Interni e che la cooperazione allo sviluppo, o quello che ne rimane, sia una componente chiaramente accessoria e residuale, inaugura una fase in cui gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, approvati all’unanimità dalle Nazioni Unite nell’ormai lontano 2015, e che prevedevano l’impegno dello 0,7% del Pil a sostegno di target quali l’eradicazione della povertà, il sostegno ai Diritti umani, la parità di genere, l’accesso all’acqua per tutti, alla salute e all’istruzione in un quadro globale di rispetto dell’ambiente, non vengono neppure nominati. Una regressione culturale e politica grave dunque, in cui gli interessi di una parte, quella già ricca della popolazione europea ma anche africana, vengono fatti prevalere su quella, maggioritaria, destinata a restare fuori dal supermercato globale o, alla meglio, ad entrarci solo come merce.

Siamo in realtà in una lunga campagna elettorale europea in cui Stati e governi in difficoltà crescente sperano di riacquistare crediti imponendo muri sempre più distanti, affinché i problemi legati alla migrazione, all’integrazione, ai cambiamenti culturali e climatici, all’esclusione sciale, restino fuori dalla percezione dell’opinione pubblica o vengano attribuiti all’invasione dei migranti. Eppure, in queste giornate calde, devastate da incendi e da scarsità di acqua, dovrebbe essere chiaro che tutto è collegato e che soprattutto, respingendo i profughi economici, oltre a quelli politici, non si fa che mettere la cenere sotto un tappeto oramai logoro e sporco, sporco come le coscienza dei leader che si stringono le mani creando così ponti di interessi che sanno essere in contrasto anche tra loro, perché così facendo si brucia e consuma, oltre all’ambiente, un’altra risorsa cui non si può rinunciare: la solidarietà umana.
* L’autore è Presidente Terre des Hommes
Trasformiamo in lager buona parte del continente africano, finanziamo milizie mafiose, reprimiamo i migranti e trasformarli in carne viva da vendere. Come non definire colonial-criminale questa politica, in cui si spende Marco Minniti? Articoli di Domenico Romano, Tommaso Di Francesco e un'intervista ad Alex Zanotelli.

il manifesto, 31 agosto 2017

«ACCORDO TRA L’ITALIA E LE MILIZIE
PER FERMARE I MIGRANTI IN LIBIA»
di Domenico Romano

«Patto criminale. L’agenzia Ap: “I servizi italiani trattarono con i trafficanti. Poi lo stop alle partenze”»
Dietro la forte diminuzione di sbarchi nel nostro Paese potrebbe esserci un accordo siglato dal governo italiano direttamente con due milizie libiche coinvolte nel l traffico di esseri umani. A rivelarlo è una lunga e dettagliata inchiesta dell’agenzia americana Associated press che cita numerose testimonianze, tra le quali anche quella di un portavoce di una delle due milizie.

«Non c’è nessun accordo tra il governo italiano e i trafficanti», ha smentito ieri una nota della Farnesina, mentre da Bruxelles una portavoce dell’esecutivo europeo ha rifiutato di commentare le notizie in arrivo dalla Libia: «Suggerisco di chiedere alle autorità italiane», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti. «Quando si tratta di fondi europei – ha poi sottolineato la portavoce -, sono soggetti a controlli molto stretti, con destinazione molto chiara. Noi continuiamo a seguire le regole, come facciamo sempre».

La scorsa settimana era stata un’altra agenzia di stampa, la Reuters, a riferire di una milizia denominata «Brigata 48» che a Sabrata impedisce ai barconi carichi di migranti di prendere il mare. Sabrata è ormai da tempo uno dei principali punti di imbarco per i disperati che dalla Libia tentano di raggiungere l’Italia. Secondo la Reuters la milizia, formata da «agenti, militari e civili», in cambio del suo lavoro riceverebbe finanziamenti direttamente dal governo di Tripoli guidato dal premier Fayez al Serraj (nella foto con Minniti e Gentiloni).

Notizie che adesso troverebbero conferma nell’inchiesta condotta in Libia dall’Ap. Due, secondo l’agenzia americana, le milizie coinvolte: oltre alla già citata «Brigata 48» anche un’altra denominata «Al Ammu», il cui nome ufficiale sarebbe «Brigata del martire Anas al-Dabashi». Quest’ultima dal 2015 si occuperebbe della sorveglianza dell’impianto petrolifero di Melitah che l’Eni gestisce insieme alla National oil corporation (Noc) libica. Entrambe le milizie avrebbero base a Sabrata e sarebbero guidate da due fratelli appartenenti al clan dei Dabbashi che controlla la città.

L’Ap ricorda come nello scorso mese di luglio gli arrivi lungo le coste italiane siano notevolmente diminuiti rispetto all’anno passato, tendenza confermata ad agosto con appena 2.936 sbarchi rispetto ai 21.294 del 2016. «Una diminuzione dell’86%», spiega l’agenzia, che attribuisce la flessione in parte alle condizioni del mare e all’attività della Guardia costiera libica ma, soprattutto, «all’accordo con le due più potenti milizie della Libia occidentale».

A sostegno delle sue affermazioni l’agenzia cita almeno cinque funzionari della sicurezza e attivisti di Sabrata che confermano il coinvolgimento delle milizie nel traffico di uomini. Un funzionario arriva a descrivere i fratelli Dabashi come «i re del traffico» di esseri umani a Sabrata. «Nel suo ultimo rapporto di giugno – scrive inoltre l’Ap – le Nazioni unite hanno indicato la milizia al Ammu come il principale agevolatore del traffico di esseri umani».

Secondo quanto affermato da Bashir Ibrahim, definito dall’Ap come il portavoce di al-Ammu, due mesi fa le milizie avrebbero raggiunto un accordo «verbale» con il governo italiano per fermare le partenze dei migranti e da allora avrebbero impedito la partenza delle imbarcazioni imponendo anche alle altre organizzazioni criminali di interrompere il traffico. «Come contropartita ricevono attrezzature, barche e stipendi», ha spiegato Ibrahim, secondo il quale in questo momento sarebbe i atto «una tregua» destinata a durare finché durano i sostegni alle milizie. «L’integrazione ufficiale delle due milizie tra le forze di sicurezza di Serraj – scrive l’Ap – permetterebbe all’Italia di lavorare direttamente con loro visto che non sarebbero considerate come trafficanti ma parte del governo riconosciuto».

Secondo alcuni attivisti di Sabrata intervistati dall’Ap l’Italia avrebbe gestito l’accordo saltando il governo Serraj e inviando agenti dei servizi in Libia a trattare direttamente con i capi delle milizie. «I trafficanti di ieri sono la forza anti-traffico di oggi», ha detto un poliziotto che ha preferito mantenere l’anonimato. «Quando la luna di miele tra i trafficanti e gli italiani finirà ci troveremo in una situazione pericolosa» ha aggiunto il funzionario spiegando come le forze regolari non siano sufficientemente armate per affrontare le milizie. «Un portavoce del governo italiano- conclude l’Ap – ha detto che l’Italia non commenta notizie che riguardano i servizi segreti»


ZANOTELLI: «PER RAZZISMO E LINEA MINNITI
SAREMO GIUDICATI DALLA STORIA»


Rachele Gonnelli intervista Alex Zanotelli

«Intervista a padre Alex Zanotelli. Il missionario: Le ong colpite per presunte collusioni con i trafficanti con cui ora è il governo a stringere patti L’accordo per bloccare chi fugge da guerra e torture in Libia è criminale»

«Un giorno diranno di noi e di ciò che stiamo facendo sui migranti ciò che noi diciamo sui nazisti e sulla Shoah». Padre Alex Zanotelli si è svegliato male ieri e ha iniziato così la giornata, con una sorta di scomunica, se non fosse che è un missionario e non un papa. «Sì, sto male – ammette come un fiume in piena – sono arrabbiatissimo, mi fa star male ciò che sento, specialmente questa guerra contro le ong perché, si diceva, facevano accordi con i trafficanti e ora invece è il governo a fare accordi con i trafficanti. Si resta a bocca aperta, sono esterrefatto, bisogna reagire, meno male che c’è papa Francesco ma non basta, chiedo a tutti i missionari e i sacerdoti di schierarsi, di fare di più».

I paesi forti dell’Europa hanno approvato la linea italiana di fermare i migranti in Libia e prima ancora in Ciad e Niger. Cosa prevede che succederà?

«È dall’anno scorso che, Renzi prima, con quello che venne chiamato l’Africa compact, e Gentiloni poi, il governo italiano cerca di copiare l’accordo con Erdogan per sigillare anche la rotta africana come già quella balcanica. È un atto criminale su cui un giorno verremo giudicati dal tribunale della Storia. Anche il caso Regeni è connesso con questa politica di esternalizzazione delle frontiere, come la chiama Renzi».

Come c’entra il caso Regeni con l’accordo con la Libia del premier Serraj?

«C’entra perché quando si parla di Libia si deve ricordare che lì non c’è uno Stato sovrano, ma una situazione caotica, di guerra e violenze, scatenata tra l’altro proprio dall’intervento militare di Francia e Italia in quella guerra assurda del 2011 contro Gheddafi. Ora, vista l’estrema debolezza del premier di Tripoli Serraj, è chiaro che bisogna tener buono il generale Haftar, perché non si sa mai con chi fare accordi, chi prevarrà, quindi visti i legami di Haftar con l’Egitto di al Sisi si manda l’ambasciatore al Cairo. Anche Regeni fa parte del grande gioco dell’Europa in Africa. Questo accordo con la Libia è peggiore di quello con Erdogan, che pure è un dittatore, perché in Libia ci sono solo milizie che si combattono e queste milizie possono essere benissimo imbrigliate con la mafia o la camorra. C’è un problema di legalità enorme».

La base legale è ancora l’accordo sulla detenzione dei migranti fatto da Berlusconi con Gheddafi.

«Sì, è un misto di ironia e ferocia quasi machiavellico. Il problema è che sappiamo bene cosa succede a chi resta bloccato in questa Libia. Tutte le testimonianze parlano di stupri, torture, schiavitù. E in ogni caso la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sul rispetto dei diritti umani. Perciò siamo alla criminalità pubblica, istituzionale».

Paolo Mieli pur riconoscendo che si utilizzano personaggi equivoci delle milizie di Sabratha e tra i capi tribù spacciati per sindaci del Fezzan, definisce provvidenziale la linea Minniti di bloccare i migranti in Libia e a sud della Libia.

«Si vuole utilizzare soprattutto il Ciad, che tra i due paesi del Sahel interessati è quello più forte militarmente, per bloccare i migranti nel deserto prima del loro arrivo in Libia. Non ce la faranno, sfonderanno altrove. Magari riusciranno a rallentarli un po’ e così vinceranno le elezioni ma questo è quanto. Già adesso sono aumentati gli arrivi in Spagna. Si apriranno altre rotte, è ovvio. Non si può fermare chi fugge da guerre e situazioni terribili e terrificanti. E hanno diritto a scappare, mentre l’Europa, cioè noi abbiamo il dovere, in base a tutte le convenzioni dell’Onu, di accoglierli».

Minniti spiega di essere motivato a salvaguardare la tenuta democratica del Paese.

«Già i suoi decreti mi facevano star male poi questa affermazione…sono rimasto a bocca aperta, non so chi pensi di essere. Ma posso capire la real politik del governo, mi fa più male il silenzio della chiesa di base. Se non è la coscienza critica non so a cosa serva, fortuna che c’è papa Francesco ma non basta ed è la prima volta che lo sprone viene dall’alto. Mentre l’odio è scatenato, il razzismo sta crescendo, ci inonda, indotto da molti fattori ma soprattutto dal fatto che non vogliamo accettare che il nostro benessere, il nostro stile di vita, per cui il 10% del mondo consuma il 90% delle risorse, non può più continuare. E noi andavamo bene con le adozioni dei negretti a distanza, ma quando l’adozione è a vicinanza non va più bene, disturba».

LO STILE COLONIALE DI MINNITI
di Tommaso Di Francesco

Che arriva dal patto di Parigi di quattro Paesi decisivi per i destini dell’Ue? Niente di concreto e niente di vero. Solo uno stile coloniale, confermato dalle ultime dichiarazioni di Minniti: «Se non avessimo fatto questo in Libia c’era da temere per la tenuta democratica del Paese». Smentito ieri clamorosamente dal ministro della giustizia Orlando. Quindi trasformiamo in lager buona parte del continente africano «per la democrazia»? In realtà finanziando milizie mafiose, come rivela un veridico reportage dell’aurorevole Ap, per reprimere i migranti. Come non definire colonial-criminale questo lessico e questi intenti?

Da Parigi dunque solo l’evidenza di una pervicace quanto elettorale volontà di dimostrare ad ogni costo alle rispettive opinioni pubbliche il comune intento a contenere, il più possibile lontano dalla coscienza europea ed occidentale, il fenomeno epocale delle migrazioni, quelle dei rifugiati da guerre e persecuzioni e quelle da miseria.

E nonostante sia eguale questa condizione, invece con infinita perfidia si è ribadito a Parigi per bocca di Angela Merkel la nefasta distinzione che relega i cosiddetti «migranti economici» in un limbo di morte.

Perché niente di concreto? Lo ha ribadito anche la rappresentante della politica estera Ue Mogherini: non ci sarà alcuna promessa di piano Marshall per l’Africa «già spendiamo – ha spiegato – 20 miliardi di euro, in aiuto allo sviluppo, alla cooperazione, in partenariati commerciali…». Per un continente ricchissimo come l’Africa, nel quale siamo impegnati direttamente e indirettamente con il commercio di armi in tante guerre, e dal quale ogni giorno rapiniamo risorse petrolifere, minerarie e terre, per affari che rimpinguano il nostro interscambio commerciale e i bilanci delle multinazionali, lo scambio ineguale che proponiamo è «addirittura» di 20 miliardi di euro all’anno più varie centinaia di milioni per le operazioni di contenimento vere e proprie.

Tutti finanziamenti che finiscono per la maggior parte nelle mani predatorie delle leadership locali corrotte (anche da noi). Una somma – con le chiacchiere sui «limiti di Dublino», e sulla presunta «perfezione» del ruolo dell’Italia» – che, com’è chiaro, non può essere sufficiente allo sforzo che si annuncia. Che intanto propone centri di identificazione in Africa, con tanto di coinvolgimento dell’Unhcr e dell’Oim.

Ma che fine farà subito quel milione di profughi che in questo momento è rimasta intrappolata in territorio libico? Dice il governo Minniti-Gentiloni che ci penseranno i «sindaci» delle città costiere libiche, la guardia costiera libica e forze militari che la Francia metterà a disposizione in Niger e Ciad (paesi le cui economie sono nelle mani di Parigi e si rifletta sull’assenza-presenza del Mali dove è in corso un intervento militare francese).

Per la conoscenza che abbiamo della Libia e sulla base di veridici reportage, prima della Reuters e ieri dell’Ap – che preoccupano la stessa Ue per i quali il governo italiano si trincera dietro un «non commentiamo le operazioni dei Servizi» – vale la pena ripetere che le città libiche, della costa e non, altro non sono che potentati e clan locali spesso legati ad una storia di jihadismo estremo. E che la cosiddetta guardia costiera spesso cambia casacca e si trasforma nella milizia di questi potentati. Che, come a Sabrhata, spesso si spartiscono anche il lucroso traffico di migranti, controllando relativi e spaventosi centri di detenzione dove non entrano i diritti umani.

Ora tutte queste forze di controllo sono impegnate da noi, dopo la campagna vergognosa di colpevolizzazione delle navi umanitarie delle Ong, sia contro i profughi sia contro le Ong rimaste uniche e sempre in minor numero a soccorrerli in mare.

Perché niente di vero? Si parla di Europa, ma sono solo quattro Paesi che, se pur centrali, sono stati continuamente contraddetti in questi tre anni fra loro e da tutti gli altri, da quelli dell’Est e dall’Austria. E poi si parla di «Libia» e di «autorità libiche», ma Fayez al Serraj chi rappresenta? Le Libie sono tante, dopo la devastazione della guerra a Gheddafi, e tutte in conflitto fra loro. Lo ha insediato la nostra Marina, ora gli arriverà – ma a lui solo o anche al signore della guerra della Cirenaica Khalifa Haftar e agli altri clan del Fezzan? – anche un pacchetto di milioni di euro.

Del resto questo scambio «per la democrazia» è già accaduto per l’altro interlocutore fondamentale dell’Occidente, il Sultano Erdogan, che ha appena finito di essere il santuario delle milizie jihadiste dell’Isis ed è impegnato in un repulisti violento contro ogni opposizione; o come l’altro leader sponsorizzato dall’Italia, il presidente golpista egiziano Al Sisi. Naturalmente e subito nel pieno disprezzo del diritto-dovere all’accoglienza e alla normalizzazione dei flussi: questo un governo democratico dovrebbe fare, non rincorrere le pulsioni razziste.

E di fatto trasformando la Libia e ora anche Niger e Ciad in un grande campo di concentramento. Un fatto è certo: piuttosto che attenti al numero di morti a mare, nella grande fossa che è diventata il Mediterraneo, valutiamo la riduzione degli arrivi con un occhio ai sondaggi, meno il 46% in estate ma solo meno 6% in un anno. Disperazione e vittime non si devono vedere. Né si deve dire che se fortunatamente i morti diminuiscono, i flussi no.

Ora li «concentriamo» tra sponda libica a confini a sud del Sahara, armando milizie e facendo le sentinelle su un percorso di 5mila chilometri? Meglio se il misfatto avviene nel grande deserto a sud della Libia e nel Sahel, lontano da telecamere e coinvolgimenti diretti, ma con tanto di timbro dell’Onu, la coperta di Linus buona per tutte le stagioni. È in quel deserto che, adesso, stiamo ricacciando milioni di persone alla disperata quanto impossibile ricerca di una nuova, mortale, via di fuga.

«È urgente ormai interrogarsi su quando un aumento del libero scambio generi benefici, e a vantaggio di chi, e quando invece gli effetti deleteri siano molto superiori ai vantaggi». vocidall'estero, 30 agosto 2017 (c.m.c)

Il sito Global Research mette in luce l’inversione di rotta delle istituzioni mainstream sulla globalizzazione. Sopraffatte dalle giuste intuizioni dell’opinione pubblica, sono costrette ad ammettere che la globalizzazione più che aumentare la ricchezza, la distribuisce in maniera iniqua, riversandone una quantità maggiore sui già ricchi e mettendo in reale competizione solo i più poveri. È urgente ormai interrogarsi su quando un aumento del libero scambio generi benefici, e a vantaggio di chi, e quando invece gli effetti deleteri siano molto superiori ai vantaggi. Una discussione finora totalmente ignorata dai politici ed economisti che considerano gli accordi di libero scambio sempre “buoni a prescindere”.

Tutti abbiamo sentito dire che la globalizzazione fa crescere l’economia per tutti e aumenta la nostra ricchezza… Ma ora gli economisti e le organizzazioni più importanti iniziano a dire che la globalizzazione aumenta la disuguaglianza.

L’Ufficio Nazionale di Ricerca Economica (NBER) – la più grande organizzazione di ricerca economica degli Stati Uniti, che vanta come membri numerosi premi Nobel e dirigenti del Consiglio dei Consulenti Economici – a maggio ha pubblicato un rapporto secondo il quale:

«Le recenti tendenze verso la globalizzazione hanno aumentato la disuguaglianza negli Stati Uniti, aumentando in maniera sproporzionata il reddito dei più ricchi.L’aumento della competizione delle importazioni ha avuto un effetto deleterio sui lavori manifatturieri, ha portato le aziende a migliorare la loro produzione e causato una diminuzione dei redditi dei lavoratori.»

Il NBER spiega che la globalizzazione permette ai dirigenti di utilizzare il sistema a proprio vantaggio:

«Questo articolo esamina il ruolo della globalizzazione nel rapido aumento dei redditi più alti. Grazie all’utilizzo di un’ampia fonte di dati riguardanti migliaia di dirigenti presso aziende degli Stati Uniti tra il 1993 e il 2013, scopriamo che le esportazioni, così come la tecnologia e la dimensione dell’azienda, hanno contribuito all’aumento dei compensi dei dirigenti. Isolando le variazioni nell’export non legate alle azioni e alle qualità dei dirigenti, mostriamo che la globalizzazione ha influenzato il salario dei dirigenti non solo attraverso il mercato, ma anche in altri modi. Inoltre, shock esogeni alle esportazioni hanno aumentato i compensi dei dirigenti per lo più attraverso i bonus anche in casi di cattiva gestione, elemento che conferma l’ipotesi che la globalizzazione ha aumentato le opportunità per i dirigenti di acquisire rendite di posizione. Nel loro insieme, questi risultati indicano che la globalizzazione ha giocato un ruolo più centrale nella rapida crescita dei compensi ai dirigenti e della disuguaglianza americana di quanto si pensasse, e che l’acquisizione di rendite di posizione è una tassello importante del quadro complessivo.»

Un documento della Banca Mondiale sostiene che la globalizzazione “potrebbe aver portato a un aumento della disuguaglianza dei salari”. Fa notare che:

«Dati USA recenti suggeriscono che i costi dell’aggiustamento per chi lavora in settori esposti alla competizione delle importazioni cinesi sono molto più alti di quanto precedentemente ipotizzato. Il commercio potrebbe aver contribuito ad aumentare la disuguaglianza nelle economie ad alto reddito…»

La Banca Mondiale cita inoltre l’economista premio Nobel Eric Maskin, secondo cui la globalizzazione aumenta la disuguaglianza in quanto aumenta la disparità di competenze dei diversi lavoratori.

Un rapporto del Fondo Monetario Internazionale nota che:

«Un alto livello di commercio e flussi finanziari tra i paesi, in parte reso possibile dalle scoperte tecnologiche, è comunemente ritenuto causa di un aumento della disuguaglianza di reddito… Nelle economie avanzate, la capacità delle aziende di adottare tecnologie per ridurre l’impiego di manodopera e la tendenza a spostare le produzioni all’estero sono state citate come fattori importanti nel declino del settore manifatturiero e nell’aumento del divario di compenso tra le diverse competenze (Feenstra and Hanson 1996, 1999, 2003) …

È stato mostrato che i flussi finanziari in aumento, in particolare gli Investimenti Esteri Diretti (IDE), e i flussi di portafoglio, aumentano la disuguaglianza sia nelle economie avanzate, sia nei mercati emergenti (Freeman 2010). Una possibile spiegazione è la concentrazione di attività e passività straniere in settori relativamente caratterizzati da maggiori competenze ed elevato livello di tecnologia, che spinge verso l’alto la richiesta e i salari dei lavoratori più qualificati. Inoltre, gli IDE potrebbero indurre cambiamenti tecnologici specifici per competenze, essere associati a contrattazioni salariali divise per competenze, e risultare in un aumento della formazione dei lavoratori già formati anziché di quelli meno formati (Willem te Velde 2003). Inoltre, Investimenti Diretti in uscita dalle economie avanzate in settori a bassa competenza, potrebbero di fatto risultare relativamente ad alta competenza nei paesi a cui si rivolgono nelle economie emergenti (Figini and Görg 2011), accentuando così la richiesta di lavoratori ad alta formazione in questi ultimi paesi. La deregolamentazione finanziaria e la globalizzazione sono stati inoltre citati come fattori determinanti per l’aumento della ricchezza finanziaria, della relativa intensità di competenze, e dei salari all’interno dell’industria finanziaria, uno dei settori a crescita più rapida delle economie avanzate (Phillipon and Reshef 2012; Furceri and Loungani 2013).»

La Banca dei Pagamenti Internazionali – La “Banca Centrale delle Banche Centrali” – nota inoltre che la globalizzazione non è tutta rose e fiori. Il Financial Times spiega:

«Tuttavia tre recenti articoli di esponenti di spicco della Banca dei Pagamenti Internazionali si spingono oltre, sostenendo che la globalizzazione finanziaria stessa rende i cicli di boom e crash molto più frequenti e destabilizzanti di quanto sarebbero altrimenti.»

McKinsey & Company nota che:

«Anche se la globalizzazione ha ridotto la disuguaglianza tra paesi, l’ha aggravata all’interno dei paesi stessi.»

L’Economist sottolinea che:

«La maggior parte degli economisti è stata presa alla sprovvista dal rifiuto [della globalizzazione]. Alcuni invece l’avevano previsto. Val la pena studiare come hanno ragionato… Branko Milanovic dell’università di New York crede che tali costi perpetuano un ciclo di globalizzazione. Sostiene che periodi di integrazione globale e progresso tecnologico generano crescenti disuguaglianze… I sostenitori dell’integrazione economica hanno sottovalutato i rischi… che ampi settori della società si sentissero tagliati fuori…»

Il New York Times riporta:

«Gli esperti si sono sbagliati riguardo ai benefici del commercio per l’economia americana?

La rabbia e la frustrazione degli elettori, dovuta in parte ai cambiamenti tecnologici e alla continua globalizzazione, [hanno reso Trump e Sanders molto popolari e] stanno già avendo un impatto rilevante sul futuro dell’America, mettendo in discussione il concetto, in precedenza largamente condiviso, che scambi commerciali più liberi siano necessariamente una cosa positiva. "Il populismo economico della campagna presidenziale ha costretto a riconoscere che l’espansione del commercio è una lama a doppio taglio", ha scritto Jared Bernstein, ex consigliere economico del Vice Presidente Joseph R. Biden Jr.

Quello che più colpisce è che la classe lavoratrice arrabbiata – così spesso bollata come miope, incapace di capire i vantaggi economici legati al commercio – sembra aver capito un concetto che gli esperti solo tardivamente stanno ammettendo essere vero: i benefici del commercio per l’economia americana non sempre giustificano i costi ad esso associati.

In uno studio recente, tre economisti – David Autor dell’Istituto di Tecnologia del Massachusset, David Dorn dell’Università di Zurigo e Gordon Hanson dell’Università di San Diego, in California – hanno messo profondamente in discussione le convinzioni di quelli come noi, cresciuti nella convinzione che le economie si riprendano velocemente dagli shock del commercio. In teoria, un paese industrialmente sviluppato come gli Stati Uniti si adegua alla competizione delle importazioni spostando i lavoratori verso industrie più avanzate che possono competere con successo sui mercati globali.

Gli autori hanno esaminato l’esperienza dei lavoratori americani dopo l’esplosione della Cina sui mercati mondiali circa due decenni fa. Il presunto adeguamento, hanno concluso, non è avvenuto. O quantomeno non lo è ancora. Nei mercati del lavoro locali più colpiti i salari sono rimasti bassi e la disoccupazione alta. A livello nazionale non c’è alcun segno che su altri mercati del lavoro ci siano stati vantaggi in grado di compensare. Inoltre, hanno scoperto che i salari in discesa sui mercati del lavoro locali esposti alla competizione cinese hanno ridotto i redditi di 213 dollari all’anno per ogni adulto.

In un ulteriore studio da loro scritto con Daron Acemoglu e Brendan Price dell’MIT, hanno stimato che la crescita delle importazioni dalla Cina tra il 1999 e il 2011 è costata 2,4 milioni di posti di lavoro negli USA.
Sostengono che «questi risultati dovrebbero farci cambiare opinione sui vantaggi di breve e medio termine associati al commercio. Dopo che non siamo stati capaci di anticipare le significative dislocazioni causate dal commercio, la letteratura deve ora stimare in maniera più convincente i vantaggi del commercio, in modo che il sostegno al libero scambio non sia basato soltanto sulla teoria più alla moda, ma sulla base di evidenze che mettono in luce chi ci guadagna, chi ci perde, di quanto, e a quali condizioni».

Il sostegno alla globalizzazione basato sul fatto che essa aiuta a espandere la “torta” economica del 3% diventa molto meno forte nel momento in cui essa cambia anche la distribuzione delle “fette” del 50%, sostiene Autor.”

E Steve Keen – professore di economia e capo della Suola di Economia, Storia e Politica all’Università di Kingston a Londra – fa notare che:

«Molte persone tenteranno di convincervi che la globalizzazione e il libero scambio potrebbero portare benefici a tutti, se solo i vantaggi fossero suddivisi più equamente. L’unico problema di questa bella festa è che i vicini di casa non erano invitati. Ma adesso vi promettiamo che distribuiremo i vantaggi più equamente. Continuiamo con la festa. La globalizzazione e il libero scambio sono ottimi.

Questa convinzione è comune tra la maggior parte dei politici di entrambe le fazioni, ed è un dogma di fede per la professione economica.
Si tratta di una fallacia basata sul nulla, e lo è stata fin da quando David Ricardo sognava riguardo all’idea del ‘Vantaggio Comparato e dei vantaggi del Commercio’ due secoli fa.Il gioco delle tre carte [della globalizzazione] è come quello della maggior parte della teoria economica: pulito, plausibile e sbagliato. È il prodotto di un ragionamento a tavolino di persone che non hanno mai messo piede in una delle fabbriche che le loro teorie economiche hanno mandato in rovina.

E quindi i vantaggi del commercio per tutti e per tutte le Nazioni, che dovrebbero poter essere divisi in maniera più equa, semplicemente neppure esistono. La specializzazione è una truffa – che ha fatto innamorare le élite di Washington (a loro vantaggio, ovviamente). Anziché far migliorare le condizioni di un Paese, la specializzazione le rende peggiori, con macchinari rottamati che non servono più a nulla, e con meno modi per reinventare nuove industrie dalle quali la crescita arriva davvero.

Un’eccellente ricerca a livello globale dell’Università di Harvard “Atlas of Economic Complexity” ha identificato che la diversificazione, non la specializzazione, è l’”ingrediente magico” che genera realmente la crescita. I Paesi più di successo hanno un set di industrie diversificato, e crescono di più rispetto alle economie più specializzate perché possono inventare nuove industrie integrando quelle esistenti.

Naturalmente la specializzazione, e il commercio di cui ha bisogno, generano un sacco di servizi finanziari, di spese di assicurazione e di riunioni internazionali per negoziare accordi commerciali. La ricca élite che bazzica i festini di Washington si arricchisce, ma il Paese nel suo complesso ci perde, specialmente la classe lavoratrice.»

Alcune grandi società stanno perdendo interesse nella Globalizzazione

Ironicamente, il Washington Post faceva notare nel 2015 che le stesse mega multinazionali stavano perdendo interesse nella globalizzazione… e molte iniziano a riportare le fabbriche a casa:

«Ma nonostante tutta questa attività ed entusiasmo, quasi nessuno dei vantaggi promessi dalla globalizzazione si è materializzato, e quello che fino a poco tempo fa era un tema tabù nelle multinazionali – ossi, dovremmo rivalutare, o addirittura frenare, la nostra strategia globale di crescita? – è diventata una questione urgente, anche se ancora solo sussurrata.Considerando i fallimenti della globalizzazione, praticamente tutte le più grandi società stanno facendo fatica a trovare il modello di business internazionale più produttivo.

Il Reshoring – ossia riportare le operazioni manifatturiere nelle fabbriche occidentali dai mercati emergenti – è una delle opzioni. Mentre il costo del lavoro aumenta in paesi come la Cina, la Thailandia, il Brasile e il Sud Africa, le società stanno scoprendo che produrre le merci, per esempio, negli Stati Uniti quando sono destinate al mercato nord americano è molto più efficiente a livello di costi. I vantaggi sono ancora maggiori se consideriamo la produttività dei paesi in via di sviluppo.

Inoltre, le nuove tecnologie distruttive di manifattura – come le stampanti in 3D, che permettono una produzione in situ di componenti e parti presso i siti di assemblaggio – rendono l’idea di riportare le fabbriche dove i prodotti assemblati verranno venduti ancor più praticabile. Società come GE, Whirlpool, Stanley Black & Decker, Peerless e molte altre hanno riaperto fabbriche in precedenza chiuse o ne hanno aperte di nuove negli Stati Uniti.»

L'ENI coinvolta negli ignobili traffici degli schiavisti e dei capibanda della criminalità internazionale. Scenario, i «fetidi lager africani dove i migranti arrestati ridiventano manodopera quasi gratuita a disposizione dei loro carcerieri».

il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2017

«5 milioni di euro - I soldi erogati alle milizie coinvolte anche nella sicurezza degli impianti Eni. Ed è un accordo solo provvisorio»

Questione di punti di vista. La linea del governo sull’immigrazione piace alla Merkel e a Macron, non dispiace in Italia all’opposizione ed entusiasma la nostra stampa, che ne canta i numeri: sbarchi calati del 72%, scafisti in ritirata, Guardia costiera libica arrembante e adesso perfino umanitaria, avendo trasferito ben diecimila migranti intercettati in mare in “campi di accoglienza”. Vista dalla Libia la situazione quantomeno sconta un problema di traduzione.

Lì sono invece chiamati “campi di detenzione”, trattandosi in effetti di fetidi lager africani dove i migranti arrestati ridiventano manodopera quasi gratuita a disposizione dei loro carcerieri. E la “lotta agli scafisti” in arabo più o meno suona come una formula sarcastica, tipo “comprare una breve tregua dagli scafisti, e dopo chissà”, che potrebbe corrispondere ai misteriosi accadimenti recenti sulla costa tra Sabrata e Zawiya.

Lungo un centinaio di chilometri a ovest di Tripoli, quel tratto di litorale è in relazione con l’Italia per due motivi: ospita il terminal Eni ed è il principale pontone degli scafisti, quello da cui parte il maggior numero di imbarcazioni dirette alla Penisola.

Queste due funzioni si intersecano – ricavo da un puntiglioso reportage pubblicato da Middle East Eye e non smentito dagli interessati. Infatti la Mellitah Oil and Gas (una joint-venture tra Eni e Noc, la compagnia statale libica, che gestisce concretamente le attività in loco) ha affidato la guardiania del terminal e dell’annesso compound alla milizia di Ahmed Dabbashi; quest’ultima sarebbe da anni nel traffico di esseri umani, al pari di un altro contractor di Noc, la milizia di Mohammed Kashlaf, anch’essa nel giro delle guardianie petrolifere. Il terzo mammasantissima è il comandante al-Bija, capo dei guardacoste, citatitissimo nei rapporti di Human Right Watch e della missione Onu al Consiglio di sicurezza.

Intorno a queste tre figure si serra la razionalità dell’economia locale. Le milizie arrestano e depredano i migranti arrivati sulla costa, sistematicamente i neri, e li stipano nei centri di detenzione, statali o “privati” (un luogotenente di Kashlaf, l’ex colonnello Fathi al-Far, fino a ieri controllava il lager di Zawiya). Prigionieri e alla fame, per racimolare i soldi necessari a pagare il viaggio in Europa i migranti sono costretti ad accettare le condizioni dei loro custodi, che li affittano come lavoratori-schiavi spesso al settore petrolifero. Questo calvario può durare anni. Al termine i migranti ottengono il diritto a imbarcarsi, per un prezzo che include tanto la traversata quanto la mazzetta per il comandante al-Bija, altrimenti implacabile nell’intercettare natanti non autorizzati (da lui).

Perché d’improvviso milizie e guardacoste ora sorvegliano la costa e impediscono le partenze (non tutte)? Sono arrivati medicinali per l’ospedale di Sabrata. Ma soprattutto, spiega Middle East Eye, l’Italia ha accordato incentivi alle milizie, pare per 5 milioni di euro. La milizia di Kashlaf avrebbe chiesto ai nostri servizi segreti un hangar per custodire l’autoparco e per gli uffici: l’ha avuto.

Come insegna l’Afghanistan, i miliziani puoi affittarli per un po’ ma non comprarli per sempre. Sulla costa si dà per certo che l’accordo reggerà un mese, grossomodo fino alle elezioni tedesche. Magari la tregua durerà un po’ di più, ma finirà.

Nel frattempo pare improbabile che gli europei si affanneranno a permettere all’Alto commissariato per i rifugiati di accedere ai campi di detenzione e valutare il diritto di ciascun prigioniero a ottenere protezione internazionale: sia perchè quegli sventurati in Europa nessuno li vuole, sia perchè le milizie potrebbero reagire male se le privassimo di un’altra fonte di reddito.

Potremmo pagare per compensare i mancati profitti: ma quanto e per quanto? Avendo capito come butta, con un giornalista suo estimatore, il generale Haftar si è detto disponibile a risolvere il problema di flussi e migranti in cambio di 20 miliardi di euro, venti volte quello che Erdogan finora ha incassato dall’Ue. Nei territori controllati dai suoi lanzichenecchi Haftar fa torturare a morte gli oppositori e protegge un suo luogotenente ricercato dalla Corte penale internazionale.

Per tutto questo non è affatto escluso che la linea intrapresa dal governo produca un disastro umanitario made in Europe. Il ministro dell’Interno Marco Minniti finora si è dimostrato abile (e spregiudicato, anche se non credo che la figura dello sceriffo law and order gli corrisponda). Ha riattivato la politica estera italiana in Libia, per giunta adesso finanziata dalla Ue; ridotto il numero degli affogati; arginato flussi migratori che qualsiasi al-Sisi del Mediterraneo poteva usare per ricattarci. Ma né Minniti né alcuno in Europa sa come risolvere due problemi enormi: come estrarre dalla Libia 150 mila migranti, come stabilizzare un Paese prigioniero delle milizie. Su questo scacco forse dovremmo iniziare a riflettere piuttosto che raccontarci balle.

: «Era seccante e costoso vederli morire nel Mediterraneo, ora moriranno nel deserto, potrebbe essere costoso lo stesso, ma almeno non li vediamo». il Fatto quotidiano, 30 agosto 2017

Bene, riassumiamo le linee etico-strategiche della nuova politica sulla migrazione dall’Africa. Noi non siamo capaci di fare gli hot spot di identificazione in modo decente. O fanno schifo con un cesso per seimila persone, o chi li gestisce ci specula sopra come una specie di schiavista, o c’è un giro di mazzette, o tutte e tre le cose. Quindi il nostro geniale piano è di spostare tutte queste belle cose verso sud, e che se la vedano un po’ loro. Naturalmente non è un servizio gratuito: bisogna dare qualcosa a chi si prende questa briga, la Libia, il Ciad, il Niger. L’abbiamo già fatto con il signor Erdogan, che incassa dei bei soldi per fare da tappo alla migrazione da sud-est, dalla Siria in particolare.

Certe cronache plaudenti si esaltano per numeri dell’aiuto europeo all’Africa, e alla Libia in particolare: già pronti 170 milioni! Urca! È un po’ come dire: mi compro una villa al mare e ho già pronti 27 euro e mezzo.

Dunque i migranti, i disperati, uomini e donne che attraversano mezzo mondo verso nord nella speranza di mangiare tutti i giorni, o di non essere arrestati dal regime, o di non dover fare il militare a vita come in Eritrea, hanno un buon valore di scambio, diciamo paragonabile a quello del petrolio e delle materie prime. È un affare far arrivare il gas in Italia, ed è un affare non far arrivare i migranti.

Naturalmente tutto questo prevede un aggiustamento delle rotte, delle strategie per spostare grandi carichi di persone. Insomma cambia la logistica dello schiavismo, e per ora gli accordi di Parigi sono questo, niente di più: era seccante e costoso vederli morire nel Mediterraneo, ora moriranno nel deserto, potrebbe essere costoso lo stesso, ma almeno non li vediamo e non sentiamo quel disagio di veder crepare la gente sotto casa. Se si espellono dal vocabolario parole come “etica”, “morale” e “umanità”, va tutto benissimo (si attende con ansia la pubblicazione di un vocabolario Italiano-Minniti). In ogni caso, sia chiaro, alle vite di quelli che prima morivano o venivano ripescati nel Mare nostrum e che ora rischiano la pelle nel Sahara, non frega niente a nessuno, sono numeri, statistiche, flussi da bloccare. La distinzione tra migranti politici e migranti economici – che a Parigi è stata molto sottolineata – è ormai accettata dalla politica di ogni colore, come se la situazione economica di un paese che non riesce a dar da mangiare ai suoi cittadini, costringendoli a rischiare la vita per scappare da lì, non fosse una questione politica, che scemenza. Insomma, l’Europa mette un tappo – un altro – per difendere i suoi confini da quella clamorosa fake news che si chiama “invasione”, una parola prima rumorosamente inventata dalla destra xenofoba e leghista, poi sdoganata dai media, e ora praticamente diventata verità ufficiale anche se i numeri dicono il contrario. Naturalmente siamo tutti contenti se i cittadini di Sabrata, in Libia, avranno un laboratorio per analisi mediche, ovvio, e se Zwara avrà la sua rete elettrica costruita dall’Europa, benissimo, molto bene.

Si segni a verbale, però, che tutto questo sarà (forse, speriamo che le pompe idriche a Kufra vengano fatte con più efficienza delle casette per i terremotati del centro Italia, ecco) costruito sulle spalle di centinaia di migliaia di migranti internati in lager libici, o morti di sete nel deserto, o arrestati prima della partenza. Il piano europeo di Parigi sottolinea anche l’esigenza di “fare opera di pedagogia” (questo l’ha detto Macron), cioè spiegare bene (suggerirei delle slide) a gente che mette in gioco la sua vita, che fa viaggi di anni, che viene picchiata, incarcerata, derubata, violentata e torturata ad ogni tappa, che qui non li vogliamo. Una pedagogia del “sono cazzi vostri”, insomma, salutata come una grande vittoria europea sul fronte dell’“emergenza immigrazione”. Amen.

«Si tratta di un embrione il cui sviluppo andrà sorvegliato con attenzione perché i limiti evidenti che lo caratterizzano non diventino strutturali».

la Repubblica, 30 agosto 2017 (c.m.c)

Con il completamento dell’ultimo passaggio, anche l’Italia avrà finalmente un embrione di reddito minimo per i poveri a livello nazionale. Per chi si batte da decenni — fin dalla prima Commissione povertà presieduta da Gorrieri nel 1986 — perché questo avvenisse, è sicuramente una buona notizia. L’esistenza di una rete di protezione di ultima istanza è un pezzo importante del sistema di welfare, che ne qualifica il carattere solidaristico e non solo di assicurazione contro i rischi. È anche importante che accanto al sostegno al reddito siano previste attività diversificate di integrazione sociale, che vedano coinvolti più attori locali: dalla formazione all’accompagnamento al lavoro, ai servizi di riabilitazione, al sostegno alla partecipazione sociale.

Anzi, sarà opportuno che non ci si limiti a coinvolgere solo le associazioni di volontariato e di terzo settore, come si tende a fare quando si tratta di poveri, ma anche le agenzie del lavoro e le associazioni datoriali. Si tratta tuttavia di un embrione il cui sviluppo andrà sorvegliato con attenzione perché i limiti evidenti che lo caratterizzano non diventino strutturali. Il primo limite, da cui derivano in larga misura gli altri, è il sotto-finanziamento.

Anche se raggiungesse i due miliardi per il prossimo anno, come sembrerebbe da alcune fonti (ma altre danno una cifra inferiore), non servirebbe a coprire tutti i quattro milioni e 598 mila poveri assoluti stimati in Italia, e neppure tutto il milione e 131 mila minori al loro interno, nonostante le famiglie con minori siano nel gruppo identificato come il target prioritario della misura. Proprio per questo, almeno per ora, la soglia Isee che dà accesso al Reddito di inclusione è stata fissata a un livello più basso (6000 euro) di quello che individua la povertà assoluta e l’importo massimo erogabile per famiglie molto numerose non supera quello della pensione sociale, nonostante questo sia stato pensato per rispondere ai bisogni di un anziano solo, non di una famiglia numerosa. È per lo meno curioso che venga fissato questo criterio proprio mentre, su altri tavoli, ancora una volta ci si preoccupa di integrare le pensioni sociali ed anche quelle minime.
La combinazione di soglie di Isee e importi del sussidio molto bassi rende altamente probabile che vengano selezionati i casi non solo di povertà più estrema, ma che hanno più difficoltà ad uscire dalla povertà tramite l’accesso a occupazioni adeguatamente remunerate. Questo rischio è rafforzato dai criteri aggiuntivi introdotti per accedere prioritariamente al sostegno, ovvero le caratteristiche della famiglia: presenza di minori, di donne incinte, di ultracinquantacinquenni disoccupati di lungo periodo e non beneficiari di Naspi, disabile. Chi è giovane o comunque ha meno di cinquantacinque anni, non ha figli minori, non è incinta, non è disabile e non vive con nessuna di queste categorie di persone, difficilmente avrà accesso al sostegno a parità di condizioni economiche, o anche se sta peggio. Escluse sono anche, a parità di Isee, le famiglie in cui anche un solo componente fruisca del Naspi o abbia una occupazione, in contraddizione con l’obiettivo di incentivare i beneficiari a trovare una occupazione.
Alla luce di questa individuazione restrittiva dei beneficiari, che rende il Rei poco universalistico e tendenzialmente categoriale, tanto più assurda appare la norma che fissa in 18 mesi il periodo massimo di godimento del sussidio. Innanzitutto perché logica vorrebbe che, così come avviene nella maggior parte dei paesi, il sostegno si dà finché il bisogno persiste. Si possono, anzi devono, fare controlli periodici sulla partecipazione dei beneficiari alle attività proposte e sulla loro effettiva disponibilità ad impegnarsi. Ma se, nonostante tutto l’impegno e la disponibilità, non si è trovata una via di uscita, perdere il sostegno significa ritornare al punto di partenza.

Difficile che nei sei mesi di attesa obbligatoria prima di poter fare di nuovo domanda di sostegno la situazione migliori. Anzi il rischio è che si interrompano percorsi potenzialmente virtuosi. In secondo luogo, è ampiamente noto che sono le persone con meno difficoltà personali e famigliari ad uscire più velocemente dall’assistenza. Chi ha più difficoltà richiede più tempo.

Perché questo embrione di sostegno ai poveri diventi davvero un pilastro del welfare, dove si combinano protezione e abilitazione, riconoscimento di diritti e di responsabilità, occorrerà correggere al più presto questi ed altri limiti che ne vincolano pesantemente la portata. Lo strumento per farlo è il piano nazionale contro la povertà, che prevede uno strumento di pianificazione triennale. Secondo gli estensori del provvedimento, questo dovrà gradualmente ampliare la platea dei beneficiari, l’importo del Reddito di inclusione, il massimale del beneficio e il limite mensile di prelievo in contanti, oggi limitato solo al 50 per cento dell’importo, mentre il resto è vincolato all’acquisto di determinati beni. Sarà importante che questa pianificazione avvenga ascoltando chi lavora sul territorio e chi conosce le esperienze consolidate di altri paesi. Ed anche che si coordini con gli altri tavoli in cui si discute di distribuzione di risorse scarse.

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