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la Repubblica, 2 ottobre 2017. Il significato del gesto di papa Francesco, nell'incrociare la sua mano di rifugiato con la mano d'un altro rifugiato. I tre diritti: il diritto alla cultura, come spirito critico, il diritto alla speranza, il diritto alla pace

Il polso del Papa col bracciale giallo col quale si numerano i profughi il suo- 390003 - non fornisce solo una immagine potentissima della visita di Francesco a Bologna. È un gesto profetico: riconfermato poco dopo davanti al corpo dell’università con una citazione, solo apparentemente innocua. In quel porgere il polso di Francesco c’è la profezia del vangelo di Giovanni (“Quand’eri giovane ti cingevi da te”). C’è la denuncia mite e durissima del tentativo di ridurre la sua istanza evangelica a espressione di un “un certo cattolicesimo”, da squalificare perché ingenua o potenzialmente “eretica” (come dice il tradizionalismo piccolissimo e rumorosissimo che si sforza di sembrare metà della Chiesa).

Tant’è che la forza profetica chiusa in quel 390003 non s’è esaurita all’hub dei profughi. Ha come riverberato nel discorso davanti all’università di Bologna, dove Francesco s’è rivolto all’ateneo più antico del mondo. Un discorso lontano da quelli d’occasione dei decenni passati e che ricorda per importanza quello di Ratisbona.
Nel settembre 2006 la prolusione tenuta da papa Ratzinger nell’ultimo ateneo dove aveva insegnato, diventò casus belli per una citazione bizantina contro l’islam. Il vezzo professorale per la citazione ad effetto (dicono che il cardinal Sodano lo avesse avvertito) si trasformò in una parola d’ordine per quel mondo xenofobo e relativista in materia di democrazia, a dispetto delle intenzioni del Papa. E ancora oggi le frange del tradizionalismo lo citano come il modo in cui un “vero” Papa dovrebbe farla vedere ai musulmani.
A Bologna Francesco ha fatto un discorso non meno denso, teologicamente e politicamente impegnativo: carico del sogno europeo e di una visione del mondo che relega la prolusione di Ratisbona al rango di precedente. L’ha fatto in un ateneo che in un certo modo è “suo”, non solo perché, come gli ha ricordato il rettore Ubertini, ha una sede a Buenos Aires: ma perché nella storia del papato le bolle del pontefice entravano in vigore quando venivano insegnate a Bologna, non quando venivano firmate a Roma.
E a Bologna Francesco ha portato un contributo alla concezione del diritto post-moderno individuando tre diritti — il diritto alla cultura, il diritto alla speranza, il diritto alla pace — che ha consegnato agli scolari e ai loro maestri.
Il diritto alla cultura, come coltivazione di un senso critico opposto ai “teatrini dell’indignazione”. Il diritto alla speranza come contrasto alle “frasi fatte dei populismi” e al “dilagare inquietante e redditizio di false notizie”. E infine il diritto alla pace.
Lo ha fatto glossando il magistero di Benedetto XV — il Papa che condannò la guerra come “inutile strage”. E lo ha fatto dichiarando che la Chiesa non è “neutrale, ma schierata per la pace” con una frase di Giacomo Lercaro: «La Chiesa non può essere neutrale di fronte al male, da qualunque parte esso venga: la sua vita non è la neutralità, ma la profezia». Quella frase Lercaro la disse il primo gennaio del 1968, prima giornata mondiale della pace, facendo suo un testo di Giuseppe Dossetti. Detta in piena guerra del Vietnam, mentre si inseguiva la chimera di favorire un cessate il fuoco con la neutralità sui bombardamenti a tappeto, quella profezia costò all’anziano cardinale la rimozione dalla sede, al culmine di un complesso complotto, con mandanti ed esecutori. Bergoglio lo ha usato senza enfasi e senza riduzioni: perché la profezia è il suo registro.
Ricevendo il Papa, sia l’arcivescovo Zuppi sia il rettore Ubertini hanno ricordato l’altro Francesco venuto a Bologna nel 1222: che predicava modus concionandi e si faceva intendere da tutti. L’altro Francesco andato ieri a Bologna ha usato quel modus. E s’è fatto intendere.

foreignpolicy.comAnche Suketu Metha, scrittore e giornalista, lui stesso migrante, esprime il suo punto di vista sulla grande sfida del nostro secolo di sistemare un afflusso assai variegato di migranti. Flusso destinato a crescere, per effetto dei cambiamenti climatici e conflitti.

Il rifugiato, dice Suketu riprendendo le parole di Bauman porta con sé lo spettro di caos e di illegalità che lo hanno costretto a lasciare la sua patria e il disordine economico e politico che è stato causato dal colonialismo, e dagli "stati-nazioni" mal definiti che si sono poi succeduti. Portando l'onere del suo stato fallito, viene a bussare alle porte dell'Ovest. Può essere stato un chirurgo nella sua presunta nazione, ma qui è pronto a svolgere qualunque compito, ma non può mai sperare di essere uno di loro a causa della leggi che proteggono la loro gilda da persone come lui. Deve essere abietto, rinunciando a una parte equa della ricchezza della sua nuova abitazione o di qualsiasi tipo di franchising politico. Tutto quello che può sperare è una misura di sicurezza personale e l'opportunità di rimandare abbastanza denaro alla sua famiglia affinché possano inviare il ragazzo più grande ad una scuola privata. Il rifugiato è rifiutato dalle nazioni ricche e ordinate perché è la somma dei nostri peggiori timori. Rappresenta la paura, che in un prossimo futuro tutto potrebbe cambiare radicalmente, irrevocabilmente, improvvisamente e anche noi potremmo essere costretti ad abbandonare .
"L'Occidente viene distrutto, non dai migranti, ma dalla paura dei migranti" afferma Metha. Di tutti i rifugiati, quello che spaventa di più e il maschio senza donna, con i suoi occhi scuri e il desiderio per la donna bianca. Questa paura porta gli elettori a scegliere leader che stanno facendo danni incalcolabili a lungo termine. Per esempio, Donald Trump negli Stati Uniti, Viktor Orban in Ungheria, Andrzej Duda e la sua "Legge e Giustizia" in Polonia. Era sempre la paura dei migranti che ha portato gli elettori britannici a votare per Brexit. Ma questa fobia, dice Metha, può essere la più grande minaccia per la democrazia. "Quando i paesi tutelano i diritti delle loro minoranze, essi tutelano anche, come effetto collaterale positivo, i diritti delle loro maggioranze. E anche l'inverso è vero è quando non tutelano i diritti delle loro minoranze, i diritti di tutti i cittadini sono in pericolo."
L'autore conclude sostenendo che gli immigrati, che piaccia o no a Trup, May Orban, continueranno ad arrivare, alla ricerca di una vita migliore per se e i loro figli. Non sono da temere, questi immigrati sono giovani e con il tempo pagheranno le pensioni per la popolazione anziana dei paesi ricchi, sempre in crescita. Non solo, portano energia, perché nessuno ha più intraprendenza di loro, che hanno lasciato la loro casa per fare un viaggio difficile qui, sia che siano giunti legalmente o meno. Cuoceranno, balleranno e scriveranno in modi nuovi ed emozionanti. Faranno i loro nuovi paesi più ricchi, in tutti i sensi della parola. "L'armata immigrata che sta arrivando alle tue sponde è in realtà una flotta di salvataggio"(i.b.)

A version of this article originally appeared in the September/October 2017 issue of FP magazine.

On Oct. 1, 1977, my parents, my two sisters, and I boarded a Lufthansa plane in the dead of night in Bombay. We were dressed in new, heavy, uncomfortable clothes and had been seen off by our entire extended family, who had come to the airport with garlands and lamps; our foreheads were anointed with vermilion. We were going to America.

To get the cheapest tickets, our travel agent had arranged a circuitous journey in which we disembarked in Frankfurt, then were to take an internal flight to Cologne, and onward to New York. In Frankfurt, the German border officer scrutinized the Indian passports for my father, my sisters, and me and stamped them. Then he held up my mother’s passport with distaste. “You are not allowed to enter Germany,” he said.

It was a British passport, given to citizens of Indian origin who had been born in Kenya before independence from the British, like my mother. But in 1968 the Conservative Party parliamentarian Enoch Powell made his “Rivers of Blood” speech, warning against taking in brown- and black-skinned people, and Parliament passed an act summarily depriving hundreds of thousands of British passport holders in East Africa of their right to live in the country that conferred their nationality. The passport was literally not worth the paper it was printed on; it had become, in fact, a mark of Cain. The German officer decided that because of her uncertain status, my mother might somehow desert her husband and three small children to make a break for it and live in Germany by herself.

So we had to leave directly from Frankfurt. Seven hours and many airsickness bags later, we stepped out into the international arrivals lounge at John F. Kennedy Airport. A graceful orange-and-black-and-yellow Alexander Calder mobile twirled above us against the backdrop of a huge American flag, and multicolored helium balloons dotted the ceiling, souvenirs of past greetings. As each arrival was welcomed to the new land, the balloons rose to the ceiling to make way for the newer ones. They provided hope to the newcomers: Look, in a few years, with luck and hard work, you, too, can rise here. All the way to the ceiling.

For most of our history as a species, since we evolved from being hunter-gatherers to pastoralists, humans have not been attuned to the radical, continuous movement made possible by modernity. We have mostly stayed in one place, in our villages. Between 1960 and 2015, the overall number of migrants tripled, to 3.3 percent of the world’s population. Today, a quarter of a billion people live in a country different from the one they were born in — one out of every 30 humans. If all the migrants were a nation by themselves, we would constitute the fifth-largest country in the world.

The signal challenge for the world’s richest countries in the 21st century is accommodation of a tremendously variegated influx of migrants. As climate change and political conflict drive ever greater numbers of people from the villages and war zones of the world, the displaced seek sanctuary anywhere they can find it. You think 5 million Syrian refugees are a problem now? What happens when Bangladesh gets flooded and 18 million Bangladeshis have to seek dry land?

At the same time, there has been a dramatic rise in income inequality. Today, the eight richest individuals, all men, own more than does half of the planet, or 3.6 billion people, combined. The concentration of wealth also leads to a concentration of political power and the redirection of outrage against inequality away from the elites and toward the migrants. When the peasants come for the rich with pitchforks, the safest thing for the rich to do is to say, “Don’t blame us, blame them” — pointing to the newest, the weakest.

What is the difference between the refugee and the migrant? It is a strategic choice of words, to be made at the border when you’re asked what you are; etymology is destiny. You could be sent back if you’re just an “economic” migrant, but you could also be shunned and feared if you’re identified as a refugee. Whether you’re running from something or running toward something, you’re on the run.

The refugee, as the Polish sociologist Zygmunt Bauman said in a 2016 interview with the New York Times, brings with him the specter of chaos and lawlessness that has forced him to leave his homeland. The economic and political disorder that was caused by the orderly rich countries when they sloughed off their redundant populations into colonies and then retreated, leaving behind ill-defined “nation-states.” The refugee, though, suffers from statelessness. He cannot “go home” because his home has been wrecked by banditry or desertification.

So, bearing the burden of his failed state, he comes knocking on the West’s doors, and if he finds one of them ajar, he slips in, not welcomed but barely tolerated. He may have been a surgeon in his alleged nation, but here he is ready to perform any task — clean the bedpans in a hospital where he is more qualified than most of the doctors — but can never hope to be one of them because of the laws protecting their guild from people like him. He must be abject, renouncing claims to an equitable share of the wealth of his new habitation or to any kind of political franchise. All he can hope for is a measure of personal security and the opportunity to remit enough money back to his family so that they can send the eldest boy to a private school near the refugee camp in which they await their chance to be reunited with their father, brother, husband in his marginal existence.

We reject the refugee in the orderly nations because he is the sum of our worst fears, the looming future of the 21st century brought in human form to our borders. Because he wasn’t necessarily impoverished in the country he came from — he might have been a businessman or an engineer just a year ago, before everything changed — he is a reminder that the same thing could happen to us, too. Everything could change radically, irrevocably, suddenly.

The West is being destroyed, not by migrants but by the fear of migrants.

And yet the world’s richest countries can’t figure out what they want to do about migration; they want some migrants and not others. In 2006, the Dutch government tried to make itself unattractive to potential Muslim and African migrants by creating a film, To the Netherlands, that included scenes of gay couples kissing and topless women sunbathing. The film was a study aid for a $433 compulsory entrance exam for people immigrating for family reunification. Except those making more than $54,000 a year, or citizens of rich countries like the United States, for whom the requirement was waived. The film also showed the run-down neighborhoods where immigrants might end up living. There were interviews with immigrants who called the Dutch “cold” and “distant.” The film warned of traffic jams, problems finding a job, and flooding in the low-lying country.

In 2011, the city of Gatineau, Quebec, published a “statement of values” for new immigrants that cautioned against “strong odors emanating from cooking,” which might offend Canadians. It also informed migrants that, in Canada, it was not OK to bribe city officials. Also, that it was best to show up punctually for appointments. It followed a guide published by another Quebec town, Hérouxville, which warned immigrants that stoning someone to death in public was expressly forbidden. The warning was duly noted by the town’s sole immigrant family, which refrained from stoning its women in public.

In Germany, the country’s “welcome culture” changed in one season, from that guilt-expiating September in 2015 to “rapist refugees go home” after the Cologne attacks that same New Year’s Eve. Of all refugees, the most frightening is the womanless male migrant, his eyes hungrily scanning the exposed flesh of the white woman. The words the tabloids and right-wing politicians use to describe these Afghan or Moroccan men are similar to terminology used to describe black men in the United States in the early 20th century: as sex-hungry deviants. In 1900, South Carolina Sen. Benjamin Tillman spoke from the U.S. Senate floor: “We have never believed him [the black man] to be the equal of the white man, and we will not submit to his gratifying his lust on our wives and daughters without lynching him.”

Fast-forward to 2017: “Pro-rata, Sweden has taken more young male migrants than any other country in Europe,” said Nigel Farage, a British member of the European Parliament, in February. “And there has been a dramatic rise in sexual crime in Sweden — so much so that Malmo is now the rape capital of Europe.” This claim was quickly debunked: By 2015, the year Sweden took in a record number of asylum-seekers, sex crimes decreased 11 percent compared with the year before.

While it is true that there are horrific stories of organized rings of rapists with immigrant backgrounds — such as a group of Pakistanis in Rotherham, in the U.K., who groomed teenage girls for sex — there’s no evidence that immigrants overall rape or steal at rates higher than the general population. Mug shots of dark-skinned criminals, whether Moroccan or Mexican, somehow strike more terror in the Western imagination than those of homegrown white rapists. The fear is primal, tribal: they’re coming for our women.

Driven by this fear, voters are electing, in country after country, leaders who are doing incalculable long-term damage: Donald Trump in the United States, Viktor Orban in Hungary, Andrzej Duda and his Law and Justice party in Poland. It was fear of migrants that led British voters to vote for Brexit, the biggest own goal in the country’s history.

The phobia of migrants can be the greatest threat to democracy. Look at Germany under Chancellor Angela Merkel, with its flourishing economy and democratic institutions, and then take a look at its neighbor Poland, whose ruling party just attempted to take over its judiciary, or Hungary, where Orban has destroyed the country’s free press. It shows that when countries safeguard the rights of their minorities, they also safeguard, as a happy side effect, the rights of their majorities. The obverse is also true: When they don’t safeguard the rights of their minorities, every other citizen’s rights are in peril.

Last summer, I drove out to the Hungarian-Serbian border with a volunteer for a church-based organization providing supplies to refugees. I had been in Hungary for a week studying its attempt to win the crown of Europe’s most hostile country for refugees. All over the country, there were blue posters bearing questions like, “Did you know? Since the beginning of the immigration crisis, more than 300 have died in terrorist attacks in Europe,” and “Did you know? Brussels wants to settle a whole city’s worth of illegal immigrants in Hungary,” and “Did you know? Since the beginning of the immigration crisis, the harassment of women has risen sharply in Europe.” The government was urging its citizens to vote in a referendum against accepting an EU quota of refugees: 1,294 refugees in 2016, for a country with almost 10 million people.

We crossed the Serbian border at Roszke and spent four hours looking for a road to get to the cluster of tents we’d seen right by the side of the highway near the border. We drove on dirt roads in the depopulated countryside, past orchards of apple, peach, and plum trees. From the car window, I picked a purple plum off a branch. It wasn’t quite ripe yet.

A woman told us which road to take to the “Pakistani camp.” We rattled down a rutted road by the superhighway and came up to the camp. It was an instant South Asian slum, but with backpacking tents instead of plastic sheets, just like the Sziget music festival I’d just come from. The festival had been filled with golden children, the flowers of white Europe, who, on payment of the $363-per-person entry fee, could luxuriate in their own tent city for a week.

There were children in the refugee camp, too, but younger and brown: preteens and toddlers on the run with their families. They played cricket amid the garbage. It cost 1 euro to use the toilet at the border. So people from the long lines of cars waiting to cross used the bushes instead, which served as the migrants’ temporary home, where they slept and ate, waiting for the doors of Europe to open.

We opened the trunk of our car and handed out water bottles, chocolates, socks, and underwear. A group of men came over; when they identified me as Indian, they shook my hand and spoke to me in Urdu about their travels. One of them was from the Pakistani city of Lahore, where there were bombings and killings. He’d been here for just a few days. The Hungarians wouldn’t let him in even though he had no desire to stay in that country; he wanted to go on to Germany, Sweden. The Serbians wouldn’t let him go back to Macedonia. “It’s closed in the front. It’s closed from the back,” he said.

A large black vehicle pulled up, and two big Serbian policemen dressed in black stepped out. “Please go,” they told us; we didn’t have official permission to visit the camp. They reminded us that the Hungarians were worse than the Serbians: “They have drones and cameras” monitoring the camp from the other side of the border fence.

For the few refugees who make it over the fence, it’s no promised land. At the time, any migrant caught within roughly five miles of the border would be arrested and deported. The Hungarian provision has since been expanded to include migrants detained in any part of the country. In November 2015, Orban told Politico, “All the terrorists are basically migrants.” Like much else coming out of his mouth, this statement was factually wrong: Many of the perpetrators of terrorism, in Europe and elsewhere, are native-born, like Timothy McVeigh and Anders Behring Breivik.

Eight months later, he turned the statement on its head, broadening it: All migrants are terrorists. “Every single migrant poses a public security and terror risk.”

An essential prerequisite to denying entrance to the migrant is to posit a dualism, a clash of civilizations, in which one is far superior to the other.

In July, U.S. President Donald Trump delivered a speech in Poland about what distinguishes Western civilization:

“Today, the West is also confronted by the powers that seek to test our will, undermine our confidence, and challenge our interests.… The world has never known anything like our community of nations.

“We write symphonies. We pursue innovation. We celebrate our ancient heroes, embrace our timeless traditions and customs, and always seek to explore and discover brand-new frontiers. We reward brilliance. We strive for excellence and cherish inspiring works of art that honor God. We treasure the rule of law and protect the right to free speech and free expression. We empower women as pillars of our society and of our success. We put faith and family, not government and bureaucracy, at the center of our lives.… And above all, we value the dignity of every human life, protect the rights of every person, and share the hope of every soul to live in freedom. That is who we are. Those are the priceless ties that bind us together as nations, as allies, and as a civilization.”

All hail Western civilization, which gave the world the genocide of the Native Americans, slavery, the Inquisition, the Holocaust, Hiroshima, and global warming. How hypocritical this whole debate about migration really is.

The rich countries complain loudly about migration from the poor ones. This is how the game was rigged: First they colonized us and stole our treasure and prevented us from building our industries. After plundering us for centuries, they left, having drawn up maps in ways that ensured permanent strife between our communities. Then they brought us to their countries as “guest workers” — as if they knew what the word “guest” meant in our cultures — but discouraged us from bringing our families.

Having built up their economies with our raw materials and our labor, they asked us to go back and were surprised when we did not. They stole our minerals and corrupted our governments so that their corporations could continue stealing our resources; they fouled the air above us and the waters around us, making our farms barren, our oceans lifeless; and they were aghast when the poorest among us arrived at their borders, not to steal but to work, to clean their shit, and fuck their men.

Still, they needed us. They needed us to fix their computers and heal their sick and teach their kids, so they took our best and brightest, those who had been educated at the greatest expense of the struggling states they came from, and seduced us again to work for them. Now, again, they ask us not to come, desperate and starving though they have rendered us, because the richest among them need a scapegoat. This is how the game is now rigged.

In 2015, Shashi Tharoor, the former U.N. undersecretary-general for communications and public information, gave a compelling Oxford Union speech that made the case for (symbolic) reparations owed by Britain to India. “India’s share of the world economy when Britain arrived on its shores was 23 percent. By the time the British left, it was down to below 4 percent. Why?” he asked. “Simply because India had been governed for the benefit of Britain. Britain’s rise for 200 years was financed by its depredations in India.”

Tharoor’s speech reminded me of the time my grandfather was sitting in a park in suburban London. An elderly British man came up to him and wagged a finger at him. “Why are you here?” the man demanded. “Why are you in my country?”

“We are the creditors,” responded my grandfather, who was born in India, spent his working years in Kenya, and was now retired in London. “You took all our wealth, our diamonds. Now we have come to collect.”

If you believe you’re a citizen of the world, you’re a citizen of nowhere,” proclaimed British Prime Minister Theresa May in October 2016.

But it was only in the early 20th century that the modern, convoluted superstructure of passports and visas came about, on a planet where porous borders had been a fact of life for years beyond count. Migration is like the weather: People will move from areas of high pressure to those of low pressure. And so they will keep coming, in boats and on bicycles, whether you want them or not — because they are the creditors.

Why are Mexicans, Guatemalans, Hondurans, and Salvadorans desperate to move north, to come to U.S. cities to work as dishwashers and cleaning ladies? It’s because Americans sell them guns and buy their drugs. Their homicide figures are indicative of a civil war. So they move to the cause of their misery; they, too, are the creditors. If you don’t like them moving here, don’t buy drugs.

Why are Syrians moving? Not for the lights of Broadway or the springtime charms of Unter den Linden. It is because the West — particularly, the Americans and the British — invaded Iraq, an illegal and unnecessary war that exacerbated a four-year drought linked to global warming and set in motion the process that destroyed the entire region. They have reaped what the West has sown. If there were any justice, America would be forced to take in every Arab displaced from his or her home because of that war. The 1,600-acre Bush family ranch in Texas would be filled with tents hosting Iraqis and Syrians. You break it, you own it.

The most burdened hosts, though, are the ones that have had a much smaller role than the United States in creating the problem. In 2016, Lebanon, with a population of 6.2 million, hosted more than 1.5 million refugees. Eighty-four percent of refugees are in the developing world. The Trump administration has moved to reduce the U.S. refugee count from a proposed 110,000 to 50,000 in 2017 and may further slash the program next year. Turkey, by contrast, with a population a quarter of the size, has more than 3 million registered Syrians living inside its borders.

It is every migrant’s dream to see the tables turned, to see long lines of Americans and Britons in front of the Bangladeshi or Mexican or Nigerian Embassy, begging for a residence visa. My mentor, the distinguished Kannada-language writer U.R. Ananthamurthy, was once invited to Norway to give a talk at a literary festival. But the Norwegian government wouldn’t give him a visa until the last minute, demanding that he produce testimonials and bank statements and evidence that he wasn’t going to stay in the country. When he finally got to Oslo, the Indian ambassador threw a party for him.

“Is it easy for Norwegians to get an Indian visa?” Ananthamurthy asked the ambassador.

“Oh, yes, we make it really easy for them.”

“Why should it be easy?” my mentor demanded. “Make it difficult!”

My own family has moved all over the Earth, from India to Kenya to England to the United States and back again — and it is still moving. One of my grandfathers left rural Gujarat for Calcutta in the salad days of the 20th century; my other grandfather, living a half-day’s bullock-cart ride away, left soon after for Nairobi. In Calcutta, my paternal grandfather joined his older brother in the jewelry business; in Nairobi, my maternal grandfather began his career, at 16, sweeping the floors of his uncle’s accounting office. Thus began my family’s journey from the village to the city. It was, I now realize, less than a hundred years ago.

Enoch Powell’s 1968 speech was aimed at people like my family, particularly my mother’s — East African Asians who were beginning to migrate to the country of their citizenship. He forecast doom for an England that would be foolish enough to take them: “It is like watching a nation busily engaged in heaping up its own funeral pyre.… As I look ahead, I am filled with foreboding; like the Roman, I seem to see ‘the River Tiber foaming with much blood.’”

A half-century later, the Thames is not foaming over with blood. It’s actually the opposite. The East African Asian refugee community — Christians, Hindus, Muslims, Parsis, and Sikhs — is one of the wealthiest communities of any color in the U.K.; their educational achievements eventually outran those of native-born whites.

The Hudson is not foaming over with blood, either. “In the past decade, population growth, including immigration, has accounted for roughly half of the potential economic growth rate in the United States, compared with just one-sixth in Europe, and none in Japan,” the analyst Ruchir Sharma points out in the New York Times. “[I]f it weren’t for the boost from babies and immigrants, the United States economy would look much like those supposed laggards, Europe and Japan.”

Countries that accept immigrants, like Canada, are doing better than countries that don’t, like Japan. But whether Trump or May or Orban likes it or not, immigrants will keep coming, to pursue happiness and a better life for their children. To the people who voted for them: Do not fear the newcomers. Many are young and will pay the pensions for the elderly, who are living longer than ever before. They will bring energy with them, for no one has more enterprise than someone who has left their distant home to make the difficult journey here, whether they’ve come legally or not. And given basic opportunities, they will be better behaved than the youth in the lands they move to, because immigrants in most countries have lower crime rates than the native-born. They will create jobs. They will cook and dance and write in new and exciting ways. They will make their new countries richer, in all senses of the word. The immigrant armada that is coming to your shores is actually a rescue fleet.

il manifesto

La situazione là fuori è desolante. Come descrivere un mondo capovolto? Capi di stato che twittano minacce di distruzione nucleare, intere regioni sconvolte dai cambiamenti climatici, migliaia di migranti che affogano lungo le coste dell’Europa e partiti apertamente razzisti che guadagnano terreno, nel caso più recente – e allarmante – in Germania.

Faccio solo un esempio, i Caraibi e gli Stati Uniti del Sud sono nel pieno di una stagione degli uragani senza precedenti. Porto Rico è completamente senza energia elettrica, e potrebbe restarlo per mesi, il suo sistema idrico e quello di comunicazione sono gravemente compromessi.

Su quell’isola, tre milioni e mezzo di cittadini americani hanno un disperato bisogno dell’aiuto del loro governo. Ma, come durante l’uragano Katrina, la cavalleria stenta ad arrivare. Donald Trump è troppo impegnato a cercare di far licenziare atleti neri, colpevoli di aver osato attirare l’attenzione sulla violenza razzista.

Per quanto sia incredibile, non è ancora stato annunciato un pacchetto federale di aiuti per Porto Rico. Secondo alcune analisi, sono già stati spesi più soldi per rendere sicuri i viaggi presidenziali a Mar-a-Lago.

E se tutto questo non fosse già abbastanza, hanno anche cominciato a spuntare gli avvoltoi: la stampa economica ribolle di articoli che spiegano come l’unico modo per far tornare la luce a Porto Rico sia vendere il loro sistema energetico nazionale. Magari anche le loro strade e i loro ponti.

Ho soprannominato questo fenomeno la «Dottrina dello Shock»: lo sfruttamento di crisi strazianti per approvare politiche che erodono la sfera pubblica e arricchiscono ulteriormente una ristretta èlite. Abbiamo visto questo lugubre circolo vizioso ripetersi ogni volta: dopo la crisi finanziaria del 2008, e oggi con i Tories che vogliono sfruttare la Brexit per far passare senza dibattito dei disastrosi accordi commerciali che avvantaggeranno le corporation.

Ho messo in evidenza Porto Rico perché lì la situazione è particolarmente urgente, ma anche perché rappresenta il microcosmo di una crisi globale molto più vasta, che contiene molti degli stessi elementi: un caos climatico sempre più rapido, storie colonialiste, una sfera pubblica debole e trascurata, una democrazia completamente disfunzionale.

La nostra è un’epoca in cui è impossibile separare una crisi dall’altra: si sono tutte fuse insieme, rinforzandosi e sprofondandosi a vicenda, come un mostro a più teste sull’orlo del collasso.

Si può pensare al presidente degli Stati uniti nello stesso modo. Avete presente quell’orribile blob di grasso che sta intasando le fogne londinesi, che voi chiamate fatberg? Trump è il suo equivalente politico. Un concentrato di tutto ciò che è nocivo a livello culturale, economico e politico, tutto appiccicato insieme in una massa autoadesiva che abbiamo molte difficoltà a rimuovere.

Che si tratti di cambiamento climatico o di minaccia nucleare, Trump rappresenta una crisi che rischia di echeggiare attraverso molte ere geologiche. Ma i momenti di crisi non devono necessariamente seguire la strada della «Dottrina dello Shock», non sono destinati per forza a creare opportunità per chi è già schifosamente ricco di arricchirsi ancora di più. Possono anche andare nella direzione opposta.

Possono rappresentare dei momenti in cui scopriamo il meglio di noi, e riusciamo a fare appello a riserve di forza e determinazione che non sapevamo di avere.(…) Ma non è solo a livello della società civile che possiamo osservare il risveglio di qualcosa di ammirevole in noi quando si verifica una catastrofe. Esiste una lunga e gloriosa storia di trasformazioni progressiste a livello sociale innescate dalle crisi. Basta pensare alle vittorie della working class per quanto riguarda l’edilizia popolare all’indomani della prima guerra mondiale, o per il sistema sanitario nazionale dopo la seconda.

Questo ci dovrebbe ricordare che i momenti di grande difficoltà e pericolo non devono necessariamente riportarci indietro: possono anche catapultarci in avanti. Queste lotte progressiste però non vengono mai vinte solo resistendo, o opponendosi all’ultimo di una lunga serie di oltraggi.

Per trionfare in un momento di vera crisi dobbiamo anche essere in grado di pronunciare dei coraggiosi e lungimiranti «sì»: un piano per ricostruire e affrontare le cause che soggiacciono alla crisi. E questo piano deve essere convincente, credibile e, più di tutto, accattivante. Dobbiamo aiutare una società stanca e timorosa a immaginarsi in un mondo migliore.
Caos climatico, colonialismo, élite dedite alla rapina, democrazia disfunzionale. È impossibile separare una crisi dall’altra: si sono tutte fuse insieme, come un mostro a più teste

Theresa May ha condotto una campagna elettorale cinica facendo leva sulla paura e sui traumi degli inglesi per accaparrarsi più potere – prima la paura di un cattivo accordo per la Brexit, poi quella per gli orribili attentati terroristici a Manchester e Londra.

Il Labour e il suo leader hanno invece risposto concentrandosi sulle cause: una «guerra al terrore» fallita, le diseguaglianze economiche e una democrazia indebolita. E soprattutto avete presentato agli elettori un programma coraggioso e dettagliato, un piano per migliorare in modo tangibile la vita di milioni di persone: istruzione e sanità gratuite, un’azione aggressiva contro il cambiamento climatico.

Dopo decenni di aspettative al ribasso e di un’immaginazione politica asfittica, finalmente gli elettori hanno avuto qualcosa di promettente ed entusiasmante a cui dire «sì». Le persone vogliono un cambiamento profondo – lo richiedono a gran voce. Il problema è che in fin troppi paesi è solo l’estrema destra a offrirlo, con un mix tossico di finto populismo economico e reale razzismo.

In questi ultimi mesi il partito laburista ha dimostrato che esiste un’altra via. Una via che parla la lingua della decenza e della giustizia, che non teme di chiamare col loro nome le forze responsabili di questa crisi, senza timore del loro potere.

Le passate elezioni hanno anche evidenziato un’altra cosa: che i partiti politici non devono temere la creatività e l’indipendenza dei movimenti civili – e che a loro volta i movimenti civili hanno molto da guadagnare dall’incontro con la politica tradizionale. È un dato molto importante, perché i partiti tendono a voler esercitare il controllo, mentre i movimenti dal basso tengono alla loro indipendenza e sono quasi impossibili da controllare. Ma ciò che testimonia il rapporto tra Labour e Momentum (il movimento che sostiene Corbyn, ndr), o con altre ottime organizzazioni, è la possibilità di combinare il meglio di entrambi questi mondi e dare vita a una forza al contempo più agile e incisiva di qualunque impresa condotta in solitudine da partiti o movimenti.

Ciò che è accaduto in Gran Bretagna è parte di un fenomeno globale. È un’ondata guidata da giovani che sono entrati nell’età adulta nel momento del collasso del sistema finanziario, e mentre la catastrofe climatica ha iniziato a bussare alla porta. Molti vengono da movimenti come Occupy Wall Street, o gli Indignados in Spagna.

Hanno cominciato dicendo no: all’austerità, ai salvataggi delle banche, al fracking e agli oleodotti. Ma col tempo hanno capito che la sfida più grande è il superamento della guerra dichiarata dal neoliberismo al nostro immaginario collettivo, alla nostra capacità di credere in qualcosa al di là dei suoi cupi confini. L’abbiamo visto accadere con la storica campagna alle primarie di Bernie Sanders, alimentata dai millennial consapevoli che una prudente politica centrista non offre loro alcun futuro. Abbiamo visto qualcosa di simile con il giovane partito spagnolo Podemos, erettosi sulla forza dei movimenti di massa sin dal primo giorno.

Campagne elettorali, le loro, che si sono infiammate a velocità incredibile. E sono arrivati vicini alla vittoria – più vicini di qualunque altro movimento politico genuinamente progressista statunitense o europeo di cui sia stata testimone nel corso della mia vita. Ma non abbastanza vicini. Per questo, nel tempo che ci separa delle elezioni, dobbiamo pensare a come assicurarci che, la prossima volta, i nostri movimenti arrivino fino in fondo.

In tutti i nostri paesi, dobbiamo fare in modo di sottolineare il legame tra ingiustizia economica, razziale e di genere. Ci spetta capire, e spiegare, come i sistemi di potere che mettono un gruppo in posizione dominante rispetto agli altri – sulla base del colore della pelle, della religione, dell’orientamento sessuale e di genere – servano sempre gli interessi del potere e del denaro.

È nostro dovere evidenziare il rapporto tra gig economy – che tratta gli esseri umani come materie prime da cui estrarre ricchezza per poi buttarle – e dig economy, quella delle industrie estrattive che trattano la terra con la stessa indifferenza. Dobbiamo indicare la strada per passare a una società fondata sulla cura reciproca e del pianeta, dove il lavoro di chi protegge la nostra terra e la nostra acqua viene stimato e rispettato. Un mondo dove nessuno, da nessuna parte, viene abbandonato – che si tratti di un edificio popolare in fiamme (come Grenfell a Londra, ndr) o di un’isola prostrata da un uragano.

È il momento di innalzare le nostre ambizioni e dimostrare come la battaglia al cambiamento climatico sia una sfida epocale per costruire una società più giusta e democratica. Perché mentre usciamo rapidamente dall’epoca dei combustibili fossili, non potremo replicare la concentrazione del benessere e l’ingiustizia proprie dell’economia del petrolio e del carbone, in cui le centinaia di miliardi di profitti sono stati privatizzati, mentre i tremendi rischi che ne conseguono sono pubblici.
Sanders, Podemos e Corbyn dimostrano che partiti e movimenti devono allearsi. I millennial non sopportano le false promesse

Il nostro motto deve essere: lasciamoci alle spalle il gas e il petrolio, ma non lasciamo indietro nessun lavoratore. Ci spetta immaginare un sistema in cui sia chi inquina a pagare la maggior parte del costo della transizione. E in paesi ricchi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, abbiamo bisogno di politiche sull’immigrazione e di una finanza internazionale che riconoscano il nostro debito nei confronti del sud del mondo – il nostro ruolo storico nella destabilizzazione delle economie e delle ecologie di paesi poveri per lunghissimi anni, e l’immensa ricchezza estratta da queste società sotto forma di esseri umani ridotti in schiavitù.

Più il partito laburista sarà ambizioso, perseverante e globale nel dipingere l’immagine di un mondo trasformato, più credibile diventerà un suo governo.

In tutto il mondo, vincere è un imperativo morale per la sinistra. La posta in gioco è troppo alta, e il tempo che ci resta troppo poco, per accontentarci di niente di meno.

Traduzione in italiano di Giovanna Branca

L’ultimo libro di Naomi Klein si chiama «No is not enough» ed è stato pubblicato da Haymarket books a giugno scorso. L’edizione italiana uscirà per Feltrinelli

Avvenire.it, 30 settembre 2017. E' ancora dal papa che arrivano parole sensate e politicamente rilevanti per gestire e custodire le nostre città: la passione del bene comune, non alzare torri ma allargare le piazze, prudenza nel governare ma coraggio. (i.b.)

Accogliere, integrare e dialogare. Papa Francesco torna a indicare alcune strade maestre da percorrere nell'accoglienza dei migranti, fenomeno che in questi ultimi anni scuote soprattutto l'opinione pubblica europea. Lo ha fatto nel discorso che ha rivolto alla delegazione dell'Associazione nazionale comuni italiani (Anci) ricevuta questa mattina nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico. Un intervento breve, ma intenso, su un tema che a papa Francesco sta molto a cuore. "La città di cui vorrei parlarvi riassume in una sola le tante che sono affidate alla vostra responsabilità - ha esordito il Papa -. È una città che non ammette i sensi unici di un individualismo esasperato, che dissocia l’interesse privato da quello pubblico. Non sopporta nemmeno i vicoli ciechi della corruzione, dove si annidano le piaghe della disgregazione. Non conosce i muri della privatizzazione degli spazi pubblici, dove il “noi” si riduce a slogan, ad artificio retorico che maschera l’interesse di pochi".

"Un sindaco - ha detto ancora Francesco - deve avere la virtù della prudenza per governare, ma anche la virtù del coraggio per andare avanti e la virtù della tenerezza per avvicinarsi ai più deboli". "Vi auguro di potervi sentire sostenuti dalla gente per la quale spendete il vostro tempo, le vostre competenze, quella familiarità del sindaco con il suo popolo, quella vicinanza, se il sindaco è vicino la cosa va avanti, sempre".

Custodire la passione del bene comune

Per costruire e servire una città "serve un cuore buono e grande, nel quale custodire la passione del bene comune". Ecco allora che "non bisogna alzare ulteriormente la torre, ma di allargare la piazza, di fare spazio, di dare a ciascuno la possibilità di realizzare sé stesso e la propria famiglia e di aprirsi alla comunione con gli altri". Anzi, il Papa consiglia i sindaci di "frequentare le periferie, quelle urbane, quelle sociali e quelle esistenziali. Il punto di vista degli ultimi è la migliore scuola, ci fa capire quali sono i bisogni più veri e mette a nudo le soluzioni solo apparenti". C'è dunque bisogno di "una politica e di una economia nuovamente centrate sull'etica: quella della responsabilità, delle realzioni, della comunità e dell'ambiente".
Migranti, superare le paure

Il Papa non si nasconde che "molti vostri concittadini avvertono un disagio di fronte all'arrivo massiccio di migranti e rifugiati. Ecco trova spiegazione dell'innato timore verso lo straniero, un timore aggravato dalle ferite dovute alla crisi economica, dall'impreparazione delle comunità locali, dall'inadeguatezza di molte misure adottate in un clima di emergenza". Ma tale disagio, aggiunge ancora Francesco, "può essere superato attraverso l'offerta di spazi di incontro personale e di conoscenza mutua". Un invito rivolto a tutti i comuni italiani, anche se il Papa si è rallegrato del fatto che "molte delle amministrazioni qui rappresentate possono annoversarsi tra i principali fautori di buone pratiche di accoglienza e di integrazione". E lascia agli amministratori un compito: aiutare a guardare con speranza al futuro, perché questo fa emergere "le energie migliori di ognuno, dei giovani prima di tutto".

Decaro: parole che ci incoraggiano

Di fronte alla sfida del cambiamento e delle migrazioni "spesso ci capita di avere paura. Spesso vorremmo tornare indietro - commenta il presidente dell'Anci Antonio Decaro -. Soprattutto quando ci sentiamo soli", ma "con la Sua parola, non lo saremo mai". "Questa incontro, ci consente di guardare avanti con più fiducia e più coraggio".

il manifesto,

L’illegittimità è un vizio congenito. Estirparlo, dissolverlo, si dimostra impossibile. E impossibile appare anche limitarne gli effetti. La lettura del Rosatellum-bis lo conferma. La composizione attuale del parlamento, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza numero 1 del 2014 e non sostituita, col dovuto scioglimento, da eletti col sistema elettorale risultante dalla stessa pronunzia della Corte, non sa infatti produrre che atti o proposte di atti illegittimi, appena attingano alla rilevanza costituzionale. Come dimostra la deformazione della Costituzione respinta dal corpo elettorale il 4 dicembre e l’Italicum, sanzionato dalla Corte costituzionale. Due constatazioni, queste, il cui significato e il cui valore sono del tutto assenti dal dibattito in corso alla Camera sulla legge elettorale che è interessato a tutt’altro che alla ricerca di un sistema rigorosamente coerente con la Costituzione.

Se lo fosse, infatti, il Rosatellum-bis non sarebbe stato presentato. Non lo sarebbe stato per l’eclatante, immediata, grossolana, irrimediabile violazione del principio fondante e qualificante il tipo di manifestazione indefettibile della volontà popolare, il voto. Voto che il Rosatellum schiaccia e distorce. Lo schiaccia amputandone la gamma delle potenzialità, quelle di scegliere il candidato o i candidati alla propria rappresentanza. Perché scelta che risulterà già operata nella lista da chi ha presentato la lista.

Chiarisco. L’articolo 48 della Costituzione fissa i caratteri del voto stabilendo che deve essere «personale ed eguale, libero e segreto». Lo personalizza quindi sia nell’elettore all’atto dell’esercizio del suo diritto di voto sia nel candidato per cui l’elettore vota, votandolo per chi è, oltre che per con chi si candida. Non lo personalizza certo in chi ha presentato o ha dettato la lista e nell’ordine con cui ha collocato i candidati della lista. Definendolo uguale, gli attribuisce la stessa efficacia di ognuno dei voti espressi nell’elezione che si svolge. Lo equipara quindi anche al voto di chi ha composto la lista. Qualificandolo come libero, ha voluto sottrarlo ad ogni coazione, compresa quella dell’ordine di lista. Stabilendone la segretezza ha voluto assicurare la massima garanzia ai caratteri che lo identificano.
Non poteva essere più rigorosa la configurazione del diritto di voto nella Costituzione. È la verità della democrazia che il voto deve rivelare, la credibilità di quel principio e di quella pratica che si denomina sovranità popolare. Il che significa che ogni compressione, ogni restrizione, ogni deviazione del diritto di voto coinvolge la forma di stato, incide sulla qualità della democrazia, incrina la Repubblica.

Il Rosatellum lo fa. E con conseguenze devastanti del sistema politico, quella di trasformare la figura di membro del parlamento, coinvolgendo immediatamente la stessa configurazione dell’istituzione di cui farà parte, e così il carattere e l’essenza della Repubblica parlamentare. Devastante perché preclude una credibile rappresentanza della base popolare della Repubblica che solo la proporzionale potrebbe assicurare all’attuale sistema politico italiano. Il Rosatellum è invece esattamente funzionale all’investitura dei «capi delle forze politiche che si candidano a governare», l’eversiva formula contenuta nel testo unico delle norme sulle elezioni al parlamento come modificato dal Porcellum. Formula che elude, esclude la funzione rappresentativa dell’elezione in parlamento per sostituirla con l’investitura di un «capo» di «forza politica» (si badi) non forza parlamentare. Formula che avrebbe imposto il rinvio di quella legge al parlamento per «manifesta incostituzionalità», rinvio sciaguratamente omesso dal presidente della Repubblica Ciampi.

Invece di sanare l’incostituzionalità manifesta, il Rosatellum la aggrava. Si guarda bene dal sopprimere l’istituzione dei «capi», prevede i collegi uninominali, li collega alle liste, e le blocca. Chi è eletto in parlamento da lista bloccata, come già l’eletto nel collegio uninominale, dovrà la sua elezione a chi ha compilato la lista collocandolo in modo da assicurargli il seggio che rientra tra quelli che la lista prevedibilmente otterrà. Rappresenterà così chi lo ha collocato nel posto corrispondente a quello che sarà prevedibilmente acquisito alla lista, in parlamento rappresenterà quindi il «capo» della forza politica. Non gli elettori.
Torna per altra via a riproporsi il progetto dell’uomo solo al comando, quello del capo della forza politica che prevarrà nelle elezioni. Lo avevamo sconfitto il 4 dicembre scorso. Far rispettare quella decisione del corpo elettorale è quindi obbligo costituzionale.

la Repubblica

Petruno Irpino (Avellino). «Si chiama Victory, ma per noi è Vittorio, anzi Vittò. E da quando a Petruro sono arrivati Vittò, Testimony, Marvellous, Shiv e tutti gli altri, anche noi vecchi abbiamo ricominciato a sentirci vivi, qui prima c’erano soltanto silenzio e funerali». Ubaldo Mazza, 80 anni, ex minatore, “zio Ubaldo” per tutti, una selva di capelli bianchi, gioca con Victory, nigeriano di 17 mesi, catapultato dalla vita con la mamma Precious in questo borgo dell’Irpinia arroccato tra boschi e castagneti. Strade di pietra, vento, montagne, l’odore del mosto e dell’uva. «Sapete? Andrà all’asilo. Con tutti questi nuovi bambini il Comune ha deciso di riaprirlo, qui la scuola era chiusa da vent’anni».

Victory corre, saltella, guarda zio Ubaldo e ridono come matti, il mondo — a volte — può anche essere salvato dai ragazzini, un vecchio e un bambino che sanno di essere una coppia irresistibile, testimonial, anzi, di una “integrazione possibile”. Italiani e migranti insieme in un progetto che la Caritas di Benevento ha chiamato Rete dei comuni welcome. Ossia un’alleanza basata sull’accoglienza e su un “welfare locale ad esclusione zero” che fermi l’esodo da questi piccoli paesi bellissimi ma ormai spopolati tra il Sannio e l’Irpinia, disseminati di vitigni abbandonati, campi incolti, bar deserti e nascite zero.

E dunque porte aperte ai profughi in attesa di asilo che attraverso i fondi degli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) stanno riportando vita, nascite e reddito tra le strade deserte dei borghi. Ma anche alle famiglie italiane più fragili che qui potrebbero ritrovare migliori condizioni di vita. E bisogna addentrarsi nel silenzio di Petruro Irpino, provincia di Avellino, 210 abitanti, dove grazie a sette bambini migranti a breve riaprirà l’asilo, per assistere a un esempio di laboratorio sociale. Dove Precious, nigeriana, fa il tirocinio da parrucchiera, mentre la piccola Testimony passa le sue mattine con Teresa, ragazza italiana che le fa da baby sitter e così si paga gli studi, mentre la mamma Pamela, anche lei nigeriana, lavora in un’azienda agricola.

Nella loro lindissima casa, Rajvir Singh e la moglie Meher, afghani di religione Sikh, preparano ravioli di verdure da cuocere in un brodo speziato, in attesa che Shiv, 10 anni, torni con lo scuolabus. Perseguitati in Afghanistan perché di religione Sikh, Rajvit, Meher e Shiv portano nel cuore il dolore più grande. Racconta Marco Milano, esperto di relazioni internazionali, oggi responsabile dello Sprar: «I talebani hanno ucciso davanti ai loro occhi il fratello di Shiv, Meher non si è mai ripresa…». Per questo Rajvit vuole restare in Italia. «Qui è bello, ci sono le montagne e la terra. Posso lavorare e mio figlio può crescere nella pace». E Rajvit entrerà a far parte della cooperativa che italiani e migranti stanno per fondare recuperando terre e coltivazioni.

«Il Greco di Tufo, l’Aglianico, il Fiano, abbiamo un patrimonio di vigneti che rischiano di morire. Molti giovani di qui — dice Marco Milano — emigrati al Nord o all’estero, stanno tornando per partecipare ai progetti “welcome”. Tanto che oltre ai bambini stranieri ricominciano a nascere i figli di coppie italiane...». Ma non c’è solo Petruro Irpino. A Chianche, dove «c’erano più lampioni che abitanti», era rimasta una sola adolescente italiana, Carmela, adesso ci sono quindici rifugiati e tra poco aprirà un nuovo alimentari “etnico”.

Il cibo è memoria e gli odori che escono dalle cucine si mescolano, il riso e pollo dei migranti, i fusilli al pomodoro delle case italiane. «Favorite — dice Zi’Ngiulina — la mia porta è aperta». Carmela ha un bel sorriso: «Studio a Benevento ma qui, a casa, mi sentivo davvero sola. Adesso con le ragazze e i ragazzi migranti è tornata la vita...». A Rocca Bascerana i rifugiati sono trenta, il sindaco Roberto Del Grosso dice con chiarezza: «L’integrazione c’è stata, possiamo ospitarne altri». «Con i 35 euro al giorno destinati ai richiedenti asilo — spiega Francesco Giangregorio dello Sprar di Chianche — paghiamo i corsi, ma affittiamo anche case dai proprietari italiani. Gli ospiti, poi, con i cinque euro al giorno che vengono loro consegnati come pocket money, fanno la spesa nei negozi di qui che infatti stanno riaprendo».

Insomma una micro-economia che ricomuncia a muoversi grazie a un melting pot italiano e straniero che consuma e chiede servizi. Donne, uomini e bambini che hanno vissuto l’orrore, i lager libici, gli stupri e adesso tra questi boschi che volgono all’autunno sembrano respirare. Hayatt, etiope, bella e riservata, oggi diventata “operatrice agroalimentare”, fuggita dopo lo sterminio della sua famiglia. Mercy e Evelyn, nigeriane, scampate (forse) alla tratta. E tanti, ottenuto lo status di rifugiati scelgono di restare. Noman, ad esempio, assunto legalmente come edile alla fine del tirocinio, così come Seck, del Mali, in una ditta di compostaggio.

«Il nostro obiettivo è che restino, ripopolino i nostri comuni e si integrino in percorsi di legalità», spiega con passione Angelo Moretti, responsabile comunicazione della Caritas, cuore e anima della rete dei “Comuni Welcome”. «I grandi centri di accoglienza del Sud sono in mano alla criminalità, lo sappiamo. Nei nostri progetti gli ospiti invece devono formarsi, vivono in piccoli gruppi, i bambini vanno a scuola. E questo dà dignità. Abbiamo lavorato molto prima che i migranti arrivassero per preparare l’integrazione. Oggi raccogliamo i frutti. E anche questa economia inizialmente assistita, si sta trasformando in economia reale, con le cooperative tra italiani e migranti».

Alle 5 del pomeriggio sulla piazza di Petruro quindici bambini giocano a pallone. Italiani, afghani, nigeriani, sudamericani, ghanesi. «Goal» lo sanno dire tutti. «Quante voci — dice Zio Ubaldo — sembra di essere cinquant’anni fa...».

Internazionale

E' un martedì pomeriggio di settembre e Carles Puigdemont, presidente della Catalogna, ha appena finito di spiegare i suoi piani per l’indipendenza, quando il suo assistente ci propone di fare una visita alla sede del governo. Puigdemont lavora nel Palau de la Generalitat, nel centro storico di Barcellona. Alcune parti dell’edificio, una delle strutture più belle in una città ricca dal punto di vista architettonico, hanno più di seicento anni.

Il suo assistente ci mostra il cortile nella parte più antica dell’edificio, le colonne decorate e gli scintillanti pavimenti di marmo che, spiega, “sono originali”. Indica le croci di san Giorgio che decorano l’edificio, per secoli un simbolo della capacità dei catalani di difendersi, ma anche della fiducia con cui questa regione rivendica la sua libertà dal governo centrale spagnolo. Passiamo per il giardino degli aranci, dove l’amministrazione organizza i ricevimenti e dove, dice l’assistente, continuerà a organizzarli quando la Catalogna sarà indipendente. Ci fa notare i pilastri della facciata, fatti con il marmo che i romani portarono sulle coste catalane dalla città di Troia.

Antichità, medioevo, cristianità, rinascimento ed età moderna. In questo luogo è riassunta tutta la storia dell’Europa, e l’assistente di Puigdemont non ha dubbi sul fatto che questo edificio, questa città e questa terra meritino più di quanto stiano ricevendo dal governo centrale. È questa la posta in gioco del referendum indetto dai separatisti: il ritorno della Catalogna sulla scena europea. Ma è anche possibile che, invece, ci troviamo di fronte agli ultimi sussulti di quello che un tempo era un grande sogno.

La mattina dopo l’incontro con Puigdemont, il 20 settembre, la polizia ha fatto irruzione in alcuni uffici della Generalitat, nelle sedi di partito e nei magazzini, arrestando quattordici persone, tra cui un vice- ministro del governo locale, e confiscando più di nove milioni di schede elettorali. Le lettere indirizzate agli scrutatori erano già state requisite. Quella sera il capo del governo spagnolo Mariano Rajoy ha tenuto un discorso in tv in cui chiedeva agli indipendentisti di annullare il referendum.

Puigdemont e Rajoy si scontrano a distanza da mesi. Si sono lanciati provocazioni reciproche come fanno i pugili prima di un incontro. La resa dei conti è prevista per il 1 ottobre, il giorno scelto per il referendum. Le perquisizioni del 20 settembre sono state il tentativo di Rajoy di impedire il voto. Puigdemont ha risposto che il referendum si farà. Ma senza organizzatori, schede elettorali e scrutatori è difficile.

I separatisti sperano che il referendum dia vita a un processo politico che conduca, alla fine, all’indipendenza. Ma il governo spagnolo non vuole fare nessuna concessione. Per mesi Madrid si è riifutata anche solo di valutare le richieste del governo catalano, preferendo affidarsi a perquisizioni e azioni legali, come se gli indipendentisti fossero un’organizzazione criminale.

Presidente fiducioso

È evidente che l’indipendenza della Catalogna comporterebbe gravi rischi. Innanzi- tutto, non è chiaro quali sarebbero le conseguenze economiche per i catalani. Per l’Unione europea, invece, potrebbe essere l’inizio di una difficile fase politica, con i separatisti di Corsica, Fiandre e Norditalia pronti a seguire l’esempio dei catalani.

L’atteggiamento intransigente di Madrid sembra destinato a far crescere le proteste. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza il 20 settembre. La rabbia cresce e non è escluso che possa arrivare alla violenza, anche se gli indipendentisti hanno ribadito che le proteste resteranno pacifiche. Ma Rajoy non vuole correre rischi e ha sospeso le ferie di tutti gli agenti in servizio in Catalogna. In sostanza Madrid ha realizzato un piccolo colpo di stato contro il governo di un paese che non è ancora nato. Puigdemont, 54 anni, ex giornalista di Girona, una città al confine con la Francia, guida la Generalitat da meno di due anni. Ma ha guidato la campagna per l’indipendenza in maniera così prudente da guadagnare sostenitori anche fuori dalla Catalogna. Ha fama di essere un appassionato d’arte: quando era sindaco di Girona ha comprato per la città una collezione di opere per 3,7 milioni di euro, che include quadri di Picasso e Mirò, addebitando parte dei costi all’ente per i servizi idrici del comune.

Ma oggi sembra essersi spinto troppo oltre, sottovalutando quello che il governo spagnolo è disposto a fare pur di sopprimere le minacce all’integrità territoriale del paese. Il 19 settembre, durante il nostro incontro, Puigdemont sembrava ancora fiducioso mentre spiegava la sua idea di Catalogna. Poco prima il parlamento spagnolo si era rifiutato di dare il via libera a un provvedimento che avrebbe rafforzato l’azione del governo di Rajoy contro i separatisti. Puigdemont era convinto che alla fine il referendum si sarebbe tenuto. Non sarà facile, ha detto, ma alla fine l’Unione europea accetterà la Catalogna come paese indipendente: non avrà altra scelta se non adeguarsi a questa “nuova realtà”. L’economia catalana, ha spiegato, è troppo importante per essere ignorata. “Noi catalani vogliamo essere rispettati per quello che siamo”, ha detto, ricordando che nel 2006 Madrid acconsentì a concedere più autonomia alla Catalogna, ma che poi quell’accordo fu bocciato dalla corte costituzionale. “È stato uno schiaffo al popolo catalano. Il messaggio era: non potete essere chi siete”. Il presidente ha anche insistito sul carattere inclusivo del suo movimento, sostenendo che “catalani sono quelli che vivono qui, lavorano qui e amano il nostro paese”.

In questo senso, il nazionalismo catalano è estremamente peculiare. A differenza dei movimenti di altri paesi, non punta sulla differenziazione. Più del settanta per cento dei catalani ha un genitore nato fuori dalla regione: per i catalani questo non è un problema anzi, è una fonte di arricchimento culturale. Gli indipendentisti considerano la Catalogna una regione lavoratrice, prospera e cosmopolita governata da un governo centrale autoritario, con sede a Madrid.

Il fronte separatista è estremamente variegato. Il movimento di Puigdemont si chiama Junts pel sí (uniti per il sì) ed è un’alleanza tra filo- europeisti, partiti di destra e il movimento di sinistra Esquerra republicana de Catalunya, che nel parlamento europeo fa parte del gruppo dei Verdi. Nell’alleanza c’è anche il gruppo Candidatura d’unitat popular (Cup), una formazione di sinistra che nel suo simbolo ha ancora una stella rossa, e non solo per ragioni sentimentali. Il programma politico del partito include la richiesta di case popolari, gas ed elettricità gratuiti, un reddito minimo garantito e la nazionalizzazione delle banche. L’unico elemento che tiene insieme questa variegata coalizione è il desiderio di una Catalogna indipendente.

Comunista e indipendentista

Una cosa che il nazionalismo catalano condivide con altri movimenti regionalisti europei è il fatto di essere un fenomeno per lo più provinciale, nel senso che la sua spina dorsale è formata dalle zone rurali e dai piccoli centri. Le comunità favorevoli all’indipendenza formano una sorta di mezzaluna intorno a Barcellona.

Il movimento è particolarmente forte in posti come Argentona, una cittadina di dodicimila abitanti a nordest di Barcellona. La bandiera degli indipendentisti, con le sue strisce gialle e rosse e una stella bianca su sfondo blu, sventola da molti balconi e finestre. La scritta “Sí” è visibile sui cartelloni pubblicitari, sulle facciate degli edifici e su adesivi appiccicati ai finestrini delle auto, uno accanto all’altro e spesso persino uno sull’altro. Gli alberi delle zone pedonali sono avvolti in teli di plastica su cui si legge “Democrazia”. E nella piazza centrale della città campeggia un enorme cartello a favore dei profughi, dove c’è scritto “Europa vergognati. Argentona si oppone al maltrattamento dei migranti”. I separatisti catalani sono forse degli estremisti, ma non degli estremisti di destra.

Eudald Calvo, un uomo di 31 anni con la barba da hipster, scarpe da tennis e un braccialetto di plastica colorato, è stato eletto sindaco di Argentona due anni fa, con il Cup. “Sono comunista. E indipendentista”, dice. Calvo sta aspettando che la polizia si presenti nel suo ufficio e gli consegni un mandato di comparizione. Anche solo concedere un’intervista sul referendum è teoricamente illegale, perché ai sindaci è proibito occuparsi del tema durante il loro orario d’ufficio.

La procura di stato ha perfino dichiarato che metterà sotto indagine tutti i settecento sindaci catalani che hanno intenzione di consentire il voto. Il governo di Madrid, sostiene Calvo, ha fatto sapere ai sindaci che potrebbero essere incriminati per disobbedienza civile, abuso d’ufficio e appropriazione indebita di denaro pubblico.

Calvo dice che ancora non sono venuti a cercarlo, ma che è solo questione di tempo. Poi indica fuori dalla finestra del suo ufficio, verso un cartello sui cui è scritto “I referendum sono la democrazia”, e dice di non aver paura di essere arrestato. “Se devo andare in prigione, allora dovranno arrestare altri 750 sindaci, oltre ad alcuni parlamentari e funzionari del governo catalano”, dice. “All’improvviso la Spagna si troverebbe con duemila prigionieri politici. Non riesco a immaginarlo”.

Per questo è convinto che il referendum si farà: “Se ricorrono alla violenza per evitare il referendum, noi non risponderemo con la violenza”, dice. “Ma immaginate la cosa in termini pratici. Con la polizia che si mette di fronte alle urne e migliaia di persone che si presentano. La polizia avrà il coraggio di fermarle?”.

Molti giovani si sono uniti al movimento per l’indipendenza. Rappresentano la generación cero, la generazione zero, quella diventata adulta negli anni della crisi economica, della disoccupazione altissima e della mancanza di opportunità. Molti di loro sognano una società nuova e migliore, un nuovo inizio e perino una rivoluzione.

Il separatismo catalano di oggi non è il prodotto di secoli di aspirazioni che si stanno finalmente manifestando. È nato dalla crisi economica spagnola e dal fatto che il governo di Madrid non ha voluto concedere maggiore autonomia alla Catalogna.

Madrid e Barcellona avevano raggiunto un accordo nel 2006, ma quattro anni dopo la corte costituzionale di Madrid, incoraggiata dal Partito popolare di Mariano Rajoy, lo ha invalidato. Questo succedeva proprio nel momento più duro della crisi economica. La conseguenza è stata che molti catalani hanno perso fiducia nei confronti del governo centrale. I catalani sono convinti di aver fatto troppe concessioni a Madrid. La Catalogna è la regione autonoma con l’economia più forte, sede di molte aziende importanti. Ma una parte rilevante delle tasse che raccoglie finisce a Madrid. Secondo gli esperti questo produce un deficit che corrisponde a una quota tra il cinque e l’otto per cento del pil catalano.

Questi conflitti non spariranno. Più Rajoy usa il pugno duro con i separatisti, più lo scontro è destinato a crescere. Anche perché a molti catalani il suo comportamento ricorda la repressione subita durante la dittatura di Francisco Franco.

Misura estrema

Artur Mas, il predecessore di Puigdemont, ha governato la regione per mezzo decennio ed è considerato il padre intellettuale del movimento indipendentista. Nonostante le perquisizioni, i sequestri e gli arresti, è convinto che il referendum si farà. “I preparativi per il referendum continuano”, dice nel suo ufficio. Mas sostiene che le schede possono essere stampate in venti- quattr’ore. “Abbiamo le urne. Abbiamo i seggi elettorali. E presto la gente saprà dove andare il giorno del voto”.

Secondo Mas il governo spagnolo è già riuscito a mettersi contro metà della popolazione catalana, e potrebbe ritrovarsi a fare i conti con un numero ancora più alto di cittadini che lo contestano. “Il movimento democratico non ha mai avuto tanti sostenitori”, afferma. “Anche i catalani che non vogliono l’indipendenza sono contrari a questo stato di polizia”.

L’ultima arma a disposizione di Rajoy sarebbe una misura estrema: potrebbe chiedere al senato di ricorrere all’articolo 155 della costituzione, che metterebbe la Catalogna sotto il controllo dello stato centrale. Ma così Rajoy, capo di un governo di minoranza, rischierebbe di perdere il potere. È già stato accusato di essere una minaccia per la democrazia, e non solo da chi simpatizza con i catalani.

Il capo del governo, per ora, non arretra di un millimetro.

Tradotto dall'Internazionale, originariamente pubblicato sul Der Spiegel, Germania

il manifestoDifendere l’università come istituzione ancora sana, è un’impresa improba. Tuttavia bisogna farlo, è necessario e doveroso farlo», con postilla

Era da poco cessata la campagna contro l’università pubblica (luogo di malaffare, di familismo, di scansafatiche), ed ecco che ci risiamo. Ora per riguadagnare la dignità perduta a causa di alcuni “baroni” corrotti, ci vorranno anni.

Anni per dimostrare che, nonostante tutto, l’università è un luogo dove si può ancora (fino a quando?) discutere e ricercare in (quasi) libertà. E’ una cittadella accerchiata dove i nemici sono sia fuori che dentro, come dimostrano le recenti vicende di cronaca. Difenderla non certo come ha fatto la ministra Fedeli affermando che «le notizie terribili di oggi dimostrano che il terreno della corruzione e dell’illegalità è nazionale». Così si sparge benzina sul fuoco facendo grave danno proprio all’istituzione che si vuole proteggere.

Difendere l’università come istituzione ancora sana, è un’impresa improba e si corre il rischio di essere accusati di complicità nel malaffare. Tuttavia bisogna farlo, è necessario e doveroso farlo.

Innanzitutto perché rappresenta, malgrado le tentazioni ministeriali, un argine contro la logica del mercato che considera inutile e, anzi, dannosa, la conoscenza critica e la conoscenza in generale. E’ una deriva pericolosa le cui conseguenze, a distanza di anni, possono farci precipitare nella barbarie.

La seconda è che i ricercatori che vi lavorano sono nella stragrande maggioranza dei casi animati solo dal desiderio di far progredire questa conoscenza, come dimostrato dai tanti riconoscimenti e attestati che essi raccolgono in giro per il mondo, sia pure a fronte di finanziamenti pubblici irrisori. Se venisse stilata una classifica mondiale delle università in base al rapporto tra produzione scientifica e finanziamenti alla ricerca, non c’è dubbio che, in molti settori, l’università italiana risulterebbe al primo posto.

La terza è che i tagli alla ricerca e il blocco, da diversi anni, del turn over hanno danneggiato irreversibilmente questa istituzione. In tutti i paesi occidentali i finanziamenti di ricerca sono cresciuti, nonostante la crisi economica, salvo che in Italia. Ed è ben noto come la scarsità di risorse aumenti la corruzione.

Nonostante queste condizioni, l’università italiana ha continuato a funzionare, ed è già un «miracolo» che sia avvenuto. Queste condizioni nessuno le ha denunciate pubblicamente: numero chiuso, tagli alla ricerca, stop al turn over, una selva di regolamenti e di adempimenti burocratici che quasi impediscono ai docenti di fare il proprio lavoro: «Nessun altro comparto della pubblica amministrazione ha subito un salasso di questa portata. E nessun altro paese europeo ha risposto alla crisi indebolendo le strutture dell’alta formazione e della ricerca», ha sostenuto Walter Tocci.

Clientelismo e mercimonio, corruzione e servilismo, sono mali da tempo presenti nelle nostre università (anche se a fare la parte del leone sono sempre o soprattutto le facoltà di Medicina e Giurisprudenza), ma di certo la riforma Gelmini non solo non li ha curati, ma la sua ispirazione aziendalistica insita nelle “riforme”, ha finito con l’essere peggiore dei mali.

La valutazione del cosiddetto “merito” è stata affidata agli algoritmi escogitati dall’Anvur incentivando il conformismo (pubblicazioni scritte in inglese, bibliometria, case editrici compiacenti, eccetera).

Per non parlare della invenzione dell’«eccellenza» che è stata la porta d’ingresso per professori entrati, senza concorso, dall’estero per chiamata diretta e che ha reso possibile le cosiddette «cattedra Natta» assegnate a docenti e ricercatori per giudizio politico (i presidenti delle commissioni dovrebbero essere di nomina del Presidente del Consiglio).

I recenti fatti di malaffare e corruzione rendono ancora più difficile, per i docenti universitari che hanno a cuore le sorti dell’università, riuscire a difenderla. Ma solo loro possono farlo dissociandosi pubblicamente da questi scandali e promuovendo un Il «processo auto riformatore dall’interno, il solo che possa salvare questa università malata.


Come può una università seria non essere un fortino assediato in una società in cui il pensiero critico è considerato un turpiloquio, in cui la menzogna propagandistica cancella ogni verità, il dissenso èun reato da reprimere, ogni tentativo di cambiare il mondo migliorandolo un tentativo di sovversione? E dove per le armi si spende mille volte di più che per la formazione? Il «processo auto riformatore dall’interno», potrà «salvare questa università malata» solo se investirà, e cambierà, la società nel suo insieme.

Sul banco degli imputati chi sfratta per trasformare le città e i territori in musei e parchi e i loro abitanti in comparse. La Giuria del Tribunale, costituita da attivisti ed esperti provenienti da tutto il mondo, analizzerà i casi e redigerà il verdetto e le raccomandazioni.

La Giuria Popolare, costituita dalle organizzazioni sociali che lottano per la difesa degli abitanti di Venezia, contribuirà al dibattito e alle decisioni.

La Sessione 2017 del Tribunale è un seguito del Foro Sociale Popolare Resistenza ad Habitat III (Quito, 2016), ed è organizzato nel quadro delle Giornate Mondiali Sfratti Zero da IAI assieme le organizzazioni sociali impegnate a Venezia nelle lotte per il diritto alla casa e contro lo spopolamento della città.

Il Tribunale Internazionale degli Sfratti (ITE) è un tribunale popolare e di opinione fondato nel 2011 dalla Alleanza Internazionale degli Abitanti con la collaborazione di organizzazioni della società civile nel quadro delle Giornate Mondiali Sfratti Zero per mettere praticamente ee interattivamente sul banco degli imputati i responsabili degli sfratti forzosi in tutto il mondo. Il Tribunale si avvale dell’esperienza di una Giuria internazionale competente e riconosciuta, oltre che sulla Convenzione Internazionale sui Diritti Economici Sociali e Culturali e altri strumenti della normativa internazionale per giudicare casi reali di sfratti forzosi che costituiscono violazioni dei diritti umani.Qui i casi presentati quest'anno alla Sessione di Venezia, che si tiene dal 28 al 30 settembre.

Il programma include la 6ª Sessione del Tribunale, incontri e scambi nei quartieri popolari, attività culturali, dibattiti.

il manifesto,
È sul piatto il Rosatellum 2.0, il nuovo disegno di legge elettorale per Camera e Senato e per l’ennesima volta ci troviamo a discutere degli stessi problemi, 2/3 dei parlamentari nominati, pluricandidature, listini bloccati, escamotage e trucchetti disparati, che solo i più consumati esperti in materia elettorale sono in grado di stanare.

Sembrava potessero bastare i ripetuti appelli del Presidente Mattarella, che parla poco, e proprio per questo andrebbe preso molto seriamente quando lo fa. Si poteva ritenere che fossero sufficienti ben due pronunce della Corte costituzionale che, superando ostacoli di carattere processuale non indifferenti, aveva pronunciato severe censure di sistemi elettorali analogamente caratterizzati dall’intento di frodare l’elettore.

Avrebbe potuto forse dare qualche ulteriore indizio la sonora sconfitta del referendum del 4 dicembre scorso, con cui 19 milioni e mezzo di elettori hanno inteso respingere un progetto di riforma costituzionale, tanto poco chiaro nella sua formulazione e nel suo linguaggio, quanto era macroscopicamente palese la direzione nella quale spingeva le istituzioni. Nulla di tutto ciò è valso ad ottenere l’ascolto e la resipiscenza delle forze politiche che dal 2013 hanno sostenuto i governi che si sono susseguiti, nel mentre cresceva sempre più lo iato tra cittadini e politica.

Quasi qualsiasi sistema elettorale che riportasse ad avere un significato l’esercizio del diritto di voto, senza trucchi e senza inganni, sarebbe bastato.

Certo, in tanti avremmo preferito un sistema proporzionale, che rilanciasse il valore della rappresentanza politica. Ciò anche alla luce del mancato inveramento della «promessa del maggioritario» di produrre un efficiente bipolarismo, dopo tre legislature di Mattarellum che hanno lasciato sul campo le macerie di un sistema politico sempre più frammentato. Ma comunque sarebbe stato già qualcosa avere un sistema elettorale volto a garantire, anzi a ricreare, la defunta rappresentanza politica, riaffermando il principio per cui ci si candida non «per vincere», ma per rappresentare qualcuno, per contribuire a costruire in parlamento uno specchio della società, un luogo in cui si possa costruire un’idea di futuro per questo disastrato paese.

Un sistema elettorale non costruito su misura contro qualcuno, senza i consueti tranelli, e teso a recuperare i caratteri del voto previsti dall’art. 48 Cost.: libero, uguale e segreto (si perché ormai nessuna delle tre caratteristiche si può più ritenere pienamente garantita).

E invece anche stavolta non andrà così. Non so se sia un cieco istinto autodistruttivo, o un’arrogante protervia quella con cui si insiste nel voler trasformare il sistema di traduzione dei voti in seggi in un complicato escamotage per perpetuare il totale sganciamento della classe politica dalla società, per proseguire nella delegittimazione dell’istituzione parlamentare e dei partiti.

Chi insiste nel produrre sistemi elettorali in cui le segreterie di partito nominano larga parte dei parlamentari ha evidentemente perso totalmente il contatto con la realtà del paese, e solo per questo non teme la ormai dilagante rabbia verso la politica e le istituzioni.

Basterebbe salire su un autobus di qualunque città, o passare mezz’ora in una Asl o in una sala d’aspetto di uno dei tanti malandati ospedali italiani, per sentire la rabbia e il disagio che dilagano ovunque.

Non ci sono più argini che tengano questa ira. Si pensa di esorcizzarla identificandola sotto il nome di populismo ed antipolitica, ma il populismo è poi l’unico pane che si continua ad offrire al corpo elettorale, giacché non lo si rappresenta, ma lo si imbonisce e blandisce con oboli, narrazioni e barzellette, riuscendo solo ad esacerbarne il rancore.

Anche di questo discuteremo il 2 ottobre con Azzariti, Carlassare, Pace, Villone, Zagrebelsky nel convegno sulla legge elettorale promosso dal Coordinamento per la Democrazia costituzionale.

L'autore è Professore ordinario di Diritto costituzionale (Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza)

il manifesto,

Sarà stato l’effetto del voto tedesco o magari, come è più probabile, le frizioni interne al partito e la paura di perdere voti. Fatto sta che ieri Angelino Alfano ha lanciato l’ennesimo altolà sullo ius soli. «Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata e un regalo alla Lega» ha mandato a dire il ministro degli Esteri al premier Paolo Gentiloni, dimenticando che in un anno e nove mesi in cui il testo è rimasto fermo al Senato forse il momento giusto per approvarlo si sarebbe potuto anche trovare.

Le parole del titolare della Farnesina suonano invece ancora una volta come una pietra tombale sulla legge e, guarda caso, arrivano appena ventiquattro ore dopo l’appello che il cardinale Gualtiero Bassetti, neo presidente della Cei, ha lanciato al parlamento e allo stesso Gentiloni perché invece si affrettino a dare il via libera al ddl sulla cittadinanza, indicato come un passaggio fondamentale per l’integrazione di decine di migliaia di giovani nati nel nostro Paese da genitori immigrati. Probabilmente la paura che la richiesta dei vescovi potesse fare breccia a palazzo Chigi e smuovere il premier, magari convincendolo a porre finalmente la fiducia sul provvedimento come promesso, deve aver convinto Alfano a intervenire per rassicurare i suoi elettori in vista del voto siciliano, scongiurando allo stesso tempo possibili (ma per la verità ormai alquanto improbabili) sorprese da parte del capo del governo.

Le sue dichiarazioni hanno comunque l’effetto di provocare il consueto fiume di reazioni da parte di chi, sempre a parole, fosse dipeso da lui la legge l’avrebbe già approvata da tempo. «Non è vero che non è questo il momento propizio», dice quindi Matteo Richetti, portavoce della segreteria Pd, che annuncia l’intenzione del partito di cercare in aula i voti necessari, uno per uno. «La maggioranza parlamentare è la maggioranza parlamentare, e chi ci sta lo approvi con noi». Già, peccato che solo qualche sera fa, parlando a «Cartabianca» su Rai3 della possibilità di approvare lo ius soli, era stato lo stesso segretario Matteo Renzi ad ammettere: «In questo momento non ci sono i numeri perché c’è paura, e se non ci sono i numeri non è che si possono stampare».

La verità è proprio questa: senza la fiducia per lo ius soli non c’è nessuna possibilità di vedere la luce in questa legislatura. Tra discussione del Def e legge di stabilità i tempi sono ormai strettissimi e senza un intervento di palazzo Chigi cercare i voti in aula è un’impresa pressoché disperata. Sulla legge pendono inoltre 48 mila emendamenti, presentati quasi tutti dalla Lega, e anche a volerli «cangurare» ne resterebbero sempre almeno 6-700. Troppi per discuterli in così poco tempo. Non a caso il coordinatore di Mdp – che insieme a Sinistra italiana e a qualche senatore ex 5 stelle è l’unico partito a non mostrare incertezze sulla legge – si appella al premier chiedendogli di dimostrare «forza e autonomia». «Basta paure e incertezze, il governo non insegua la destra. Lo ius soli riguarda 800 mila ragazzi e questo conta molto di più di Alfano», dice Roberto Speranza. E non manca chi, nel movimento di Bersani, è pronto a scommettere che un intervento del premier sbloccherebbe davvero la situazione «Se il governo mettesse la fiducia – spiega infatti una senatrice – gli alfaniani uscirebbero dall’aula e la legge passerebbe. Nessuno ha davvero voglia di far cadere il governo».

A destra intanto, com’era prevedibile, si brinda. Anzi, le parole di Alfano scatenano una gara per aggiudicarsi il merito di aver affossato la legge. «Amici, grazie a voi siamo riusciti a fermare lo ius soli e perfino l’inutile Alfano! Grazie», esulta su Facebook Matteo Salvini. Al leader del Carroccio replica però la portavoce del partito di Alfano, Valentina Castaldini: «Mentre Salvini sbraita e invoca le ruspe noi facciamo i fatti», dice. «Se sullo ius soli non viene posta la fiducia e non viene approvato è solo grazie ad Alternativa Popolare che si è opposta in maniera energica negando la propria disponibilità a votarlo. Salvini se ne faccia una ragione».

Secondo i dati del Viminale, da gennaio sono sbarcate sulle coste italiane 103.097 persone, in calo rispetto al 2016 soprattutto a causa del codice di condotta per le Ong emanato dal governo italiano e a causa degli accordi stretti tra il ministro degli Interni Marco Minniti e il governo libico di Fayez al-Sarraj che fermano le persone in Libia. Nigeria, Guinea e Bangladesh rimangono i Paesi da cui proviene la maggior parte dei profughi»

Guerre, carestie, povertà: sono tanti i fattori che spingono decine di migliaia di persone a raggiungere l’Italia dalle coste dell’Africa (già oltre 100mila nel 2017). Il nostro Paese è da tempo il principale porto di arrivo per le rotte dei migranti nel Mediterraneo: secondo i dati del Viminale, da gennaio sono sbarcate 103.097 persone, in calo rispetto alle 130.620 dello stesso periodo del 2016. Parliamo di una cifra pari circa al 2% del totale degli stranieri residenti in Italia, che secondo l’Istat sono poco più di 5 milioni.

Il dato sugli sbarchi non rappresenta che una parte di chi emigra. A migliaia non raggiungono la meta, perché bloccate prima dei porti di Libia e Tunisia o perché vittime di naufragi. L’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) riporta che, nel 2017, 2.561 persone hanno perso la vita sui barconi di fortuna in viaggio verso l’Italia, un numero comunque in calo rispetto al record dello scorso anno, quando si registrarono 5.096 morti in mare, di cui ben 700 tra il 25 e il 28 maggio.

La diminuzione degli arrivi e delle tragedie nel Mediterraneo sono anche il risultato di un drastico cambiamento nella gestione dell’emergenza immigrazione da parte del governo italiano, a partire dal codice per le Ong. Gli accordi raggiunti tra il ministro degli Interni Marco Minniti e il governo libico di Fayez al-Sarraj hanno fatto sì che da luglio a settembre 2017 – cioè nei mesi in cui generalmente partono più barconi – siano arrivate in Italia “soltanto” 19.343 persone, contro le 61.821 del 2016. Quindi, tre mesi fa, l’invito alle Ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo a sottoscrivere il codice di condotta che limita il loro raggio d’azione e prevede che, su richiesta delle autorità nazionali, le navi delle organizzazioni debbano ricevere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria per “raccogliere informazioni e prove finalizzate alle indagini sul traffico di esseri umani”. Se da una parte gli accordi hanno limitato in modo considerevole gli sbarchi, dall’altra hanno aumentato il numero di persone rimaste bloccate in Libia: secondo alcune associazioni umanitarie sarebbero circa 15mila i migranti rinchiusi nei centri di detenzione libici, fermati nel tentativo di partire.

Tra i 103.097 arrivi di quest’anno, una percentuale considerevole è costituita da minori non accompagnati. Sono stati 13.418, più del 13% del totale, e per loro il Parlamento ha approvato da pochi mesi una legge che sancisce parità di trattamento rispetto a chi gode della cittadinanza italiana o è cittadino dell’Unione europea, disponendo anche che il respingimento alla frontiera non possa essere disposto in nessun caso.

1. Nigeria:
il terrore cieco di Boko Haram
nel paese dei sei figli per donna

La maggior parte delle 103.097 persone sbarcate in Italia nel 2017 viene dalla Nigeria. Sono 17.061, pari al 16,5% degli arrivi. Il Paese è in guerra da più di 7 anni, da quando Boko Haram, l’organizzazione terroristica affiliata all’Isis in guerra contro il governo, ha ottenuto il controllo su alcuni territori. Secondo l’Onu, il fertility rate (il numero di figli per ogni donna) è di 5,7, mentre l’aspettativa di vita alla nascita è di 52 anni per gli uomini e 52,6 per le donne. Secondo i dati della Word Bank, nel 2011 85,2 milioni di persone (circa il 53% della popolazione di allora) viveva con meno di 1 dollaro e 90 al giorno, la soglia della povertà assoluta. Il rapporto 2016/17 di Amnesty International riferisce che “le forze di sicurezza continuano a commettere gravi violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate”.

2. Guinea:
i tristi primati della tortura
e delle mutilazioni genitali

La Guinea è uno degli Stati più poveri del mondo. Sono 9.056 (8,7% del totale) gli uomini e le donne in fuga dal Paese in cui tre anni fa scoppiò l’epidemia dell’Ebola, causando 2.346 morti. Lo scorso anno il nuovo codice penale ha abolito la pena di morte, ma Amnesty International denuncia ancora “episodi di tortura e maltrattamenti” da parte delle forze dell’ordine. Nella graduatoria stilata dall’Onu in base all’Isu (l’Indice di Sviluppo Umano, che incrocia dati sul reddito pro capite, sull’istruzione e sulla qualità della vita), la Guinea occupa il 183esimo posto su 188 Paesi. L’Unicef riporta che circa il 96% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subìto mutilazioni genitali di qualche tipo, in un Paese in cui un’indagine del 2015 mostrava che il 63% delle ragazze tra i 20 e i 25 anni si fosse sposata prima dei 18 anni.

3. Bangladesh:
spinti ad ovest dalla povertà
e (anche) da altri profughi

Dal Bangladesh, Paese separatosi dal Pakistan nel 1971, sono giunti in Italia 8.794 persone da gennaio, pari all’8,5% del totale degli sbarcati. In queste settimane il Bangladesh vive l’emergenza dei Rohingya, la minoranza islamica in fuga dalla Birmania. Circa 400mila profughi hanno passato il confine birmano, rifugiandosi in Bangladesh, in un Paese che è tra i più poveri dell’Asia e che non è in grado di gestirne l’accoglienza. Dal 2015 ci sono state decine di attacchi terroristici – in quello di Dacca, nel luglio 2016, morirono anche 9 italiani – riconducibili a gruppi vicini all’Isis. Secondo l’Unicef, circa il 18% delle ragazze si sposano prima dei 15 anni: è uno dei tassi più alti al mondo. Anche il dato sull’alfabetizzazione è preoccupante: solo il 61% della popolazione sopra i 15 anni sa leggere e scrivere (la media mondiale è dell’86%).

4. Costa d'avorio: una lotta tra fazioni infinita
e le cellule superstiti di Al Qaeda

Proprio quando la Costa d’Avorio sembrava uscita dall’incubo della guerra civile, iniziata nel 2002, le elezioni del 2010 hanno portato nuovamente il caos nel Paese. Il presidente Alassane Ouattara ha dovuto vedersela con le truppe legate al vecchio presidente, Laurent Gbagbo, poi arrestato e accusato di crimini contro l’umanità. Adesso il Paese, da cui nel 2017 sono arrivati in Italia 8.482 persone, pari all’8,2% del totale, fa i conti con i continui attacchi jihadisti di Aqim – una cellula di Al Qaeda – e con condizioni di estrema povertà per la popolazione. La Costa d’Avorio è al 171esimo posto sui 188 della graduatoria basata sull’Indice di Sviluppo Umano e ha un’aspettativa di vita di soli 53 anni. Il tasso di mortalità infantile è del 5,3%, tra i più alti del mondo.

5. Mali: l’intrigo internazionale
nella terra dei bambini soldato

Nel 2012 in Mali è scoppiato un conflitto interno che ha portato le truppe del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad ad occupare la parte nord del Paese. L’attività di alcuni gruppi islamisti ha complicato il quadro e nel 2013, dopo una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Francia di Hollande ha inviato i propri aerei in supporto del governo centrale, contro le truppe indipendentiste dell’Azawad e contro gli estremisti islamici. Anche l’Italia, dal 2013, ha fornito supporto logistico all’operazione. Tutte le trattative di pace sono finora saltate e il conflitto è ancora in corso, mentre le Nazioni Unite denunciato l’ampio utilizzo di bambini-soldato. Dal Mali – in cui si registra il secondo tasso di mortalità infantile più alto del mondo, pari al 10% – sono arrivate in Italia 6.121 persone da gennaio, circa al 6% del totale.

6. Eritrea: isolamento internazionale,
dittatura e schiavitù militare

Ex colonia italiana nel periodo fascista, l’Eritrea è sotto la dittatura di Isaias Afewerki da quasi 25 anni, cioè da quando, nel 1993, un referendum ne legittimò il potere. L’Eritrea è stata gradualmente isolata dalla Comunità Internazionale. Una commissione d’inchiesta voluta dall’Onu nel 2014 ha stabilito che l’Eritrea “non ha un sistema giudiziario indipendente, non ha né un parlamento né istituzioni democratiche” e “c’è un clima di impunità per i crimini contro l’umanità commessi da un quarto di secolo”. Secondo l’Onu, migliaia di persone – 5.612 quelle giunte in Italia nel 2017, il 5,4% del totale – fuggono dal servizio militare, paragonato a una schiavitù camuffata: la leva dura ufficialmente 18 mesi, ma i militari vengono poi costretti a rimanere nell’esercito.

7. Senegal: la giustizia sommaria
alle porte del Sahara

Il Senegal è uno snodo fondamentale per le partenze verso il deserto del Sahara, anticamera dei porti in Tunisia e in Libia. Da gennaio sono arrivate 5.610 persone, il 5,4% del totale, in fuga da un Paese in cui oltre 5 milioni di persone – il 37% della popolazione – vive sotto la soglia di povertà assoluta di 1 dollaro e 90 al giorno. Il rapporto 2016/17 di Amnesty International evidenzia come ci siano forti limitazioni alle libertà personali, comprese quelle sessuali, e ai diritti civili, come la facoltà di espressione e associazione. La giustizia, secondo Amnesty, è applicata in modo sommario e contribuisce a un grave sovraffollamento delle carceri. Il tasso di natalità è di circa 5 figli per ogni gni donna e fa sì che la popolazione, negli ultimi 15 anni, sia aumentata di circa il 50%.

8. Gambia: due milioni
sotto lo scacco di una Repubblica islamica

Dopo 22 anni di dittatura, lo scorso anno il presidente Yahya Jammeh è stato costretto all’esilio. Il Gambia era stato dichiarato “Repubblica Islamica” e Amnesty International ha a lungo denunciato la soppressione di ogni libertà, soprattutto per mano dei Jungulers, un esercito di sicurezza privato. Da qualche mese le cose vanno meglio, ma il Gambia resta un Paese poverissimo – 173esimo su 188 nella graduatoria basata sull’Indice di sviluppo umano – con ancora molte difficoltà a lasciarsi alle spalle la dittatura. Secondo le Nazioni Unite, nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 49 anni ben il 16% delle donne si è sposata prima dei 15 anni. Dal Gambia, dove vivono appena due milioni di persone, sono arrivate in Italia 5.594 persone negli ultimi nove mesi, il 5,4%degli sbarcati.

9. Sudan: emergenza umanitaria
tra guerra civile e secessione

Sette anni fa un referendum ha ufficializzato la separazione tra Sudan e Sudan del Sud. Al voto si era arrivati dopo una guerra civile che, seppur a intermittenza, andava avanti dagli Anni 80. Nella parte ovest dello Stato, in Darfur, si alternano periodi di guerra e di tregua in un conflitto che, si stima, ha causato negli anni oltre 400mila vittime. Mentre in Sud Sudan si è tornati a combattere e il Paese è in grave emergenza umanitaria, in Sudan Amnesty International denuncia che “le forze di sicurezza hanno preso di mira membri dei partiti politici d’opposizione, difensori dei diritti umani, studenti e attivisti politici, sottoponendoli ad arresti e detenzioni arbitrari e ad altre violazioni”. Questi fattori, uniti a una diffusa povertà, hanno spinto 5.480 persone ad arrivare in Italia nel 2017, pari al 5,3% del totale.per raggiungere le famiglie

La comunità marocchina in Italia è composta da oltre 430mila residenti, che costituiscono uno dei principali motivi per cui anche quest’anno 5.064 persone (il 4,9% del totale) hanno raggiunto l’Italia dal Paese del Maghreb. Nonostante sia considerato uno dei casi più virtuosi dell’Africa, il Marocco ha ancora molti problemi di diritti. Le Nazioni Unite, in un rapporto inviato a Rabat nei giorni scorsi, hanno chiesto interventi, per esempio, sul riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, sulla disparità di trattamento tra i generi sulle questioni di eredità – le donne sono escluse dalla successione, a meno di diverse indicazioni –, sulla condanna delle violenze coniugali e sul problema delle spose bambine. Amnesty International, intanto, continua a denunciare l’opera di contrasto del governo all’attività di diverse organizzazioni per i diritti umani.

Il governo iracheno non dialogherà con il governo regionale curdo (Krg) sui risultati del referendum “incostituzionale” di ieri tenutosi nel nord dell’Iraq. A dirlo è stato ieri il premier iracheno Haider al-Abadi durante un discorso trasmesso dalla tv di stato. “Molti dei problemi della regione curda sono interni, non con Baghdad, e aumenteranno con le richieste di separazione – ha spiegato il primo ministro – I problemi economici e finanziari di cui stanno soffrendo sono il risultato della corruzione e della cattiva amministrazione”.

Al-Abadi si mostra sicuro perché sa di avere molti alleati. Innanzitutto ha il pieno appoggio dei parlamentari iracheni che ieri hanno votato la sua richiesta di dispiegare le truppe “in tutte le zone controllate dopo il 2003 dalla regione autonoma del Kurdistan”. La decisione veniva presa nelle stesse ore in cui alcune unità dell’esercito nazionale partecipavano a esercitazioni congiunte con i turchi al confine con il territorio kurdo-iracheno.

Donne di Suleymaniya testimoniano di aver votato (Reuter)

L’addestramento militare fa il paio con altre decisioni intimidatorie prese da Baghdad: sospensione degli stipendi ai dipendenti pubblici che prendono parte al voto, stop alle compagnie pubbliche che operano nelle aree contese e ordine di cedere al governo centrale il controllo dei valichi di frontiera e dell’aeroporto di Erbil. Scelte che mostrano come le autorità irachene stiano impiegando tutte le misure a loro disposizione per far desistere i “ribelli” curdi.

Oltre al sostegno interno, il premier può poi vantare quello ben più importante in campo internazionale (Usa, Onu e Europa) e regionale (Iran e Turchia). Ieri Teheran ha lanciato un’esercitazione militare al confine, chiuso lo spazio aereo ai voli da Erbil e Suleymaniya e sospeso quelli diretti in territorio kurdo. Un tale embargo potrebbe avere – se reiterato – effetti gravi su una regione di cui l’Iran è primo partner commerciale con 5 miliardi di dollari di scambi annuali.

Durissima la reazione turca: ieri il presidente Erdogan ha minacciato l’invasione del nord dell’Iraq (dove i suoi soldati in realtà già ci sono a sostegno dei peshmerga intorno Mosul) e la sospensione degli affari commerciali in campo energetico tra Ankara e Erbil, in particolare la chiusura dell’oleodotto che collega Kirkuk alla turca Ceyhan.

Misure dure, ma che al momento non fermano il desiderio curdo all’indipendenza. Masoud Barzani, il leader del Krg, ha ribadito in più circostanze che il referendum di ieri non è vincolante e che non porterà all’indipendenza immediata, ma a uno-due anni di negoziati con Baghdad. In ogni caso, ha però precisato, “non torneremo ad una partnership fallimentare con uno Stato teocratico e settario”.

Nella sua ostinazione ad andare avanti nonostante le pressioni politiche, Barzani non è affatto solo. Secondo la Tv Rudaw di stanza a Erbil, ieri l’affluenza alle urne è stata del 78% (poco più di 5 milioni gli aventi diritto al voto) con picchi del 92% nella yazidi Sinjar, l’84% a Erbil e l’80% nella multietnica Kirkuk. Stando ai risultati provvisori diffusi dalla stessa emittente televisiva, il “Sì” è al 93%. In pratica, come era prevedibile, un vero e proprio plebiscito.

Per i curdi del Krg ieri è stata una giornata di festa: con fuochi d’artificio, musica ad alto volume, balli e canti centinaia di persone sventolanti le bandiere curde hanno festeggiato in serata la certa vittoria del Sì.

Bisogna capire solo quanto questi festeggiamenti potranno davvero durare. Nena News

il Fatto Quotidiano

Anche la Germania, l’ultimo bastione di quella stabilità così cara alle élite di governo, si ritrova nel grande tumulto che sta condizionando la vita politica di tutto l’Occidente. Si può rispondere in tre modi. Il primo è minimizzare, vivacchiare, fare finta di nulla. Tanto alla fine la Cancelliera la spunterà. Avanti così, a insistere su quello status quo iniquo e ingiusto che per primo sta lastricando la strada a nazionalismi e razzismi. È la strategia dello struzzo. E quella di buona parte del Pd.

Oppure possiamo provare a fare nostre alcune delle parole d’ordine del nuovo fascismo. Sperando che qualche fesso preferisca la copia all’originale. È questo il disegno del ministro Minniti; questo a volte il calcolo degli algoritmi a 5 stelle quando ordinano di scaraventarsi contro chi salva vite in mare. È la strategia del camaleonte.

Oppure, nel fitto della giungla, possiamo provare a restare umani. Possiamo alzarci su due gambe e creare le condizioni per una rivoluzione politica necessaria quanto ineluttabile. La prima gamba si chiama ambizione. Perché non si tratta più di litigare su qualche decimale di spesa pubblica o qualche auto blu. Non si tratta di creare spazi di testimonianza. Ma di definire un nuovo modello di società a fronte di un sistema in bancarotta morale a materiale. Anche in Germania, Paese ricco ma con il maggior numero di lavoratori poveri d’Europa. Il centrismo, la Terza Via, la vecchia socialdemocrazia: tutto ciò è morto e deve essere abbandonato.

Una società che ponga al centro la ridistribuzione di una ricchezza selvaggiamente concentrata, la garanzia di un reddito, la centralità di istruzione e ricerca, la liberazione dal giogo mortale della grande speculazione, tutto ciò e molto altro ancora, deve divenire oggi puro e semplice buonsenso. “La grande ricchezza può essere più pericolosa della criminalità organizzata”. Fu il presidente americano Roosevelt, ideatore del New Deal, a pronunciare queste parole. Le dobbiamo sentire nuovamente.

La seconda gamba si chiama Europa. Due sono stati i temi che hanno affossato Angela Merkel: la crisi dell’Eurozona e la crisi dei rifugiati. Sono temi che condizionano fortemente le nostre vite e che sono al centro della campagna elettorale italiana.

Ma sono temi su cui la politica nazionale – anche quella del Paese più forte – può sempre meno. Se ne possono aggiungerne di altri. Come lo scandalo dell’evasione fiscale delle grandi multinazionali o i cambiamenti climatici oggi sotto gli occhi di tutti. Temi che definiscono alla radice le nostre vite. Temi su cui nessun governo nazionale può esercitare reale sovranità. E quindi? Per citare lo slogan della campagna per la Brexit, bisogna “riprendere il controllo”. E questo significa non ripiegare sulla nazione ma su alcune questioni superarla. Per noi europei, significa costruire una forza pubblica continentale in grado di restituire reale controllo democratico sulle grandi scelte del futuro. E questo dipende in buona parte da noi, non dai burocrati di Bruxelles.

Dobbiamo riuscire a forgiare nuove forze politiche europee capaci di agire direttamente sui grandi temi che la politica nazionale non riesce più a governare. Non è un auspicio vuoto. Ci sono attori, come il movimento europeo DiEM25, che lo stanno facendo, con un occhio alle prossime elezioni europee del 2019. Ci vorrà tempo, certo. Ma non si esce dalla giungla senza recuperare l’orizzonte. Alziamo lo sguardo e alziamoci su due gambe. Perché non siamo struzzi ne camaleonti. Ma uomini e donne che vogliono tornare a dominare il proprio futuro.

Nigrizia.

A lanciare l’allarme è un nuovo rapporto dell’International Crisis Group, che rileva come le violenze tra pastori e contadini in Nigeria stiano diventando sempre più pericolose, tanto da poter essere equiparate all’insurrezione di Boko Haram nel nord-est del paese. Secondo lo studio, intitolato “Herders against Farmers: Nigeria’s Expanding Deadly Conflict“ (Contadini contro agricoltori: sanguinoso conflitto nigeriano in espansione), nel 2016, circa 2.500 persone sono rimaste uccise a causa degli scontri e finora il governo, sia a livello federale che statale, si è dimostrato incapace nel contrastarli.

All’origine dell’atavica conflittualità tra contadini e pastori c’è la ricerca di nuovi terreni e spazi vitali per l’allevamento delle mandrie, il possesso e il controllo dell’acqua, la chiusura delle tradizionali vie di migrazione, il furto di bestiame e i danni arrecati alle coltivazioni.

La relazione rileva però che le radici del conflitto sono più profonde e vanno ricercate nella siccità e nella desertificazione, che hanno degradato i pascoli e prosciugato molte fonti di approvvigionamento idrico nella cintura saheliana settentrionale della Nigeria. Tali cause hanno costretto molti pastori a spostarsi verso sud in cerca di pascoli e acqua per il loro bestiame.

Altre motivazioni che hanno spinto un numero crescente di pastori a migrare verso la parte meridionale della Nigeria, sono da ricercare nell’insicurezza negli stati settentrionali generata dall’insurrezione di Boko Haram e dal susseguirsi di atti di banditismo nelle zone centro-settentrionali e nord-orientali del paese.

Anche l’incremento di insediamenti umani, l’espansione delle infrastrutture pubbliche, l’acquisizione di terreni su larga scala da parte degli agricoltori e altri interessi commerciali privati, ??hanno sottratto i pascoli ai pastori. Pascoli che gli erano stati riservati dal governo dopo l’indipendenza dal Regno Unito, quando il paese era una federazione di tre regioni.

Tensioni etniche e religiose

Il report evidenzia pure che la diffusione del conflitto negli stati del sud sta ulteriormente aggravando i già fragili rapporti tra i principali gruppi regionali, etnici e religiosi del paese. Le comunità cristiane, di maggioranza del sud, risentono dell’influenza esercitata dai pastori, prevalentemente musulmani, descritti in alcune narrazioni come “milizie islamizzate”.

I pastori nomadi appartengono in prevalenza al gruppo dei fulani e tale appartenenza imprime una dimensione etnica alle violenze. Il fatto che i fulani siano presenti in molti paesi dell’Africa occidentale e centrale, implica inoltre che qualsiasi scontro di congrua rilevanza tra essi e altri gruppi nigeriani, potrebbe avere anche ripercussioni regionali.

Gli analisti dell’Istituto di Bruxelles sottolineano che negli ultimi cinque anni sono state uccise migliaia di persone e anche se i dati precisi non sono disponibili, una stima basata sull’analisi delle fonti aperte dal 2011 al 2016, indica una media annuale di oltre 2 mila vittime, superando in alcuni anni il numero di quelle provocate dagli attacchi del movimento jihadista Boko Haram.

Decine di migliaia di persone sono inoltre state forzatamente sfollate, con ingenti danni per raccolti e bestiame che hanno causato la perdita di miliardi di naira (la moneta nigeriana, un milione di naira equivale a circa 2.360 euro) e pesanti ripercussioni per le economie locali.

Indifferenza dei governi

A fronte di questa situazione, la reazione delle autorità federali e statali della Nigeria, finora è stata ben poco incisiva. Le agenzie di sicurezza federali e le forze dell’ordine non hanno istituito meccanismi di prevenzione o di risposta rapida per arginare le violenze. L’incapacità dimostrata dalle istituzioni nigeriane nel contrastare gli scontri, ha indotto sia i pastori che gli agricoltori a gestire la situazione da soli, aggravando di conseguenza il conflitto.

In conclusione, il rapporto ritiene che il fallimento del governo federale nel definire un approccio politico chiaro e coerente per risolvere la crisi e riconoscerne la portata, unito alla mancanza di una risposta decisiva ed efficace, comporti per la Nigeria il rischio di sprofondare in conflitti sempre più letali, mettendo in pericolo la sicurezza di tutti i nigeriani.

il manifesto, A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre. L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo"

«Per manifestolibri è in uscita il libro di Michele Prospero Ottobre 1917 - La rivoluzione pacifista di Lenin. Sull’argomento, poi, nelle giornate del 28 e 29 settembre, al Dipartimento di Filosofia dell’Università La Sapienza si terrà il convegno «A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre. L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo». Un’anticipazione dell’intervento al simposio del filosofo a Villa Mirafiori»

Ricostruendo i passi sempre ponderati che i bolscevichi seguirono tra il febbraio e l’ottobre del 1917 viene confermata l’immagine che Lenin aveva della politica come «matematica superiore». La strategia era in lui chiara sin da febbraio. Se i liberali hanno la forza per compiere una loro rivoluzione, che se la sbrighino pure da soli calandosi nell’arte così poco poetica della critica delle armi. Non possono pretendere che ai proletari, ai soldati fuggiaschi, alle plebi contadine spetti il compito di indossare le maschere del costituzionalismo, pressoché ignoto vocabolo nella tradizione russa.

Le fabbriche che sono insorte, la diserzione in massa dei contadini in divisa suggerirono a Lenin che era comparso un protagonista nuovo, che all’inizio marciava in forme del tutto spontanee. Il problema era di offrire al moto disordinato di piazza un’organizzazione per fare della folla irregolare un vero soggetto. Ci voleva per questo una politica organizzata. Altrimenti l’insubordinazione diventava una pura scintilla di rivolta che si dipanava senza alcun progetto. Il capolavoro di Lenin fu proprio questo: tramutare una ribellione di massa già in atto, e con una forte intonazione plebea, in un grande assalto politico a quello che lui chiamava un «anello di legno» del capitale, pronto a sgretolarsi al primo impeto.

IL SALTO NEL BUIO di ottobre presuppone una rigorosa analisi dei limiti della rivoluzione di febbraio. Per Lenin due erano i nodi irresolubili per la coalizione salita al potere. Il primo era legato alla terra e alla forte pressione contadina per avere il pane. Il nuovo potere rinviava all’infinito il voto per l’assemblea costituente proprio nel timore che avrebbe potuto diventare la cassa di risonanza delle richieste di terra. Il secondo punto di allarme era la guerra. Il governo di febbraio era per la continuazione dell’impresa bellica e anzi ogni tanto proponeva persino sanguinose controffensive patriottiche. Che rivoluzione era mai quella che deponeva lo zar ma proseguiva la sua guerra e lasciava la terra e le fabbriche ai padroni?

Per Lenin la Russia era precipitata in una situazione di emergenza (insieme sociale e bellica) e invece il governo in carica riteneva di cavarsela con la definizione del sistema elettorale per la Duma. La debolezza della soluzione liberale al problema hobbesiano dell’ordine lasciava campo alle suggestioni golpiste dei militari. Secondo Lenin la risposta al dilemma dell’autorità scaturiva dalla stessa aporia esplosa con il «dualismo dei poteri». Con la proliferazione, accanto agli organi fragili rispolverati dal governo provvisorio, di un vecchio istituto inventato nel 1905, il soviet come nuova forma della rappresentanza dal basso, era possibile compiere una rivoluzione sociale.

Non ci sarebbe stata la presa del Palazzo d’Inverno senza la testarda insistenza di Lenin a compiere l’attacco frontale per sciogliere la insostenibile contraddizione tra due poteri che rivendicavano sovranità. Nel suo partito c’era chi invitava a cogliere in maniera tradizionale le opportunità della rivoluzione liberale per cercare di strappare diritti più avanzati. La ricognizione dei rapporti di forza indusse invece Lenin a ritenere che, a differenza del 1905, non era possibile limitarsi a un riassetto della forma politica in un senso più liberale. La distruzione, il caos, l’insubordinazione diffusa richiedevano una diversa prospettiva: il potere ai soviet.

Ha faticato molto Lenin per persuadere la vecchia guardia che non si poneva la questione astratta della preferenza tra organismi liberali e forme autocratiche di potere. Il problema era di rispondere all’emergenza prodotta dalla guerra, e quindi di conquistare il potere vagante per scongiurare il caos. Non c’erano altri antidoti alla dissoluzione generale che una mobilitazione armata e di massa per la pace e la terra. La leggenda narra di un partito bolscevico costruito come una rigida macchina monolitica che raggruppava un manipolo di cospiratori assetati di potere e mossi da violenza. Questa banalizzazione del leninismo come sinonimo di spirito settario non corrisponde ai processi reali.

LA STESSA FAVOLA del centralismo democratico, come congegno della subordinazione gerarchica e della rigida omogeneità d’azione del partito-caserma, urta con la vicenda storica di un Lenin che si trovava spesso in minoranza nella sua organizzazione.

Persino la Pravda lo censurava o prendeva le distanze da un suo scritto. Lo stesso ordine di insurrezione ricevette una accoglienza assai dura. Kamenev denunciò sui giornali nemici le prove in corso di assalto al palazzo e per questo gesto irrituale attirò su di sé solo l’epiteto di crumiro. Cercò addirittura di persuadere il ricercato Lenin a farsi ammanettare. Non esisteva insomma alcun culto della personalità. Nel ’17 quello bolscevico era un partito a maglie così larghe da apparire una federazione di sensibilità eterogenee, un organismo che anche nella illegalità sembrava (un po’ troppo) vivacemente plurale.
Per convincere i riottosi della necessità di una presa delle armi non bastarono un congresso straordinario, due distinte risoluzioni votate a maggioranza dal comitato centrale. Tormentato e teso (Lenin stesso minacciò le dimissioni) fu il cammino per la presa del Palazzo d’Inverno.

L’INSURREZIONE non obbediva a una tattica militare spregiudicata, era invece l’efficace risposta storico-politica alle contraddizioni aperte dalle guerre mondiali (Lenin prevedeva che un altro ancora più distruttivo conflitto sarebbe scoppiato in un tempo sordo ai richiami del «famoso scrittore Keynes»). L’alternativa per lui non era certo tra un costituzionalismo slavo e il potere rosso, ma tra la dissoluzione nel caos del vecchio impero e la brutale dittatura militare. Dopo la quasi incruenta conquista del potere, legittimata da una deliberazione dei soviet che a settembre erano in maggioranza schierati con i bolscevichi, Lenin fu sorpreso dall’esito negativo del voto per l’assemblea costituente (prese solo il 24 per cento). In un primo tempo, anche per convivere con la contraddizione di due maggioranze antitetiche, Lenin era disponibile a un governo di coalizione con la sinistra dei socialisti rivoluzionari (cui fu affidato il dicastero chiave dell’agricoltura).

GLI ACCADIMENTI REALI, le lotte, le posizioni provocatorie dei raggruppamenti socialisti (escludere Lenin e Trotsky dal governo, nella scommessa che i bolscevichi sarebbero presto stati spazzati via) ruppero l’alleanza e portarono alla soluzione di un governo di partito. La vittoria dell’Ottobre era ritenuta un accadimento non più reversibile.

A cento anni di distanza, quell’esperienza che segnò il Novecento, produsse miti, mobilitazioni, speranze, utopie, tragedie non può essere semplicemente archiviata nella galleria degli orrori. La prima grande manifestazione di massa che si tenne a Roma liberata nel 1944 si svolse allo stadio Palatino. Parlarono insieme Nenni e Togliatti perché l’Ottobre era patrimonio comune. I loro discorsi furono stampati dall’Avanti e dall’Unità in un opuscoletto di 31 pagine con il titolo in rosso: Viva la Rivoluzione d’Ottobre! Persino Veltroni, in un cinema romano, nel ’77 celebrò i 60 anni dei soviet. Anche se la rimozione è di moda, la ricostruzione democratica in Italia è connessa con il fantastico scatto del ’17.

Nell'immagine Marc Chagall, litografia da «La Rivoluzione».

il Fatto Quotidiano

Guerre, carestie, povertà: sono tanti i fattori che spingono decine di migliaia di persone a raggiungere l’Italia dalle coste dell’Africa (già oltre 100 mila nel 2017). Il nostro Paese è da tempo il principale porto di arrivo per le rotte dei migranti nel Mediterraneo: secondo i dati del Viminale, da gennaio sono sbarcate 103.097 persone, in calo rispetto alle 130.620 dello stesso periodo del 2016. Parliamo di una cifra pari circa al 2% del totale degli stranieri residenti in Italia, che secondo l’Istat sono poco più di 5 milioni.
Il dato sugli sbarchi non rappresenta che una parte di chi emigra. A migliaia non raggiungono la meta, perché bloccate prima dei porti di Libia e Tunisia o perché vittime di naufragi. L’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) riporta che, nel 2017, 2.561 persone hanno perso la vita sui barconi di fortuna in viaggio verso l’Italia, un numero comunque in calo rispetto al record dello scorso anno, quando si registrarono 5.096 morti in mare, di cui ben 700 tra il 25 e il 28 maggio.

La diminuzione degli arrivi e delle tragedie nel Mediterraneo sono anche il risultato di un drastico cambiamento nella gestione dell’emergenza immigrazione da parte del governo Italia, a partire dal codice per le Ong. Gli accordi raggiunti tra il ministro degli Interni Marco Minniti e il governo libico di Fayez al-Sarraj hanno fatto sì che da luglio a settembre 2017 – cioè nei mesi in cui generalmente partono più barconi – siano arrivate in Italia “soltanto” 19.343 persone, contro le 61.821 del 2016.

Quindi, tre mesi fa, l’invito alle Ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo, a sottoscrivere il codice di condotta che limita il loro raggio d’azione e prevede che, su richiesta delle autorità nazionali, le navi delle organizzazioni debbano ricevere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria per “raccogliere informazioni e prove finalizzate alle indagini sul traffico di esseri umani”. Se da una parte gli accordi hanno limitato in modo considerevole gli sbarchi, dall’altra hanno aumentato il numero di persone rimaste bloccate in Libia: secondo alcune associazioni umanitarie sarebbero circa 15.000 i migranti rinchiusi nei centri di detenzione libici, fermati nel tentativo di partire.

Tra i 103.097 arrivi di quest’anno, una percentuale considerevole è costituita da minori non accompagnati. Sono stati 13.418, più del 13% del totale, e per loro il Parlamento ha approvato da pochi mesi una legge che sancisce parità di trattamento rispetto a chi gode della cittadinanza italiana o è cittadino dell’Unione europea, disponendo anche che il respingimento alla frontiera non possa essere disposto in nessun caso.

Nigeria - Il terrore cieco di Boko Haram, nel Paese dei sei figli per donna
16%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. La maggior parte delle 103.097 persone sbarcate in Italia nel 2017 viene dalla Nigeria. Sono 17.061, pari al 16,5% degli arrivi. Il Paese è in guerra da più di sette anni, da quando Boko Haram, l’organizzazione terroristica affiliata all’Isis in guerra contro il governo, ha ottenuto il controllo su alcuni territori. Secondo l’Onu, il fertility rate (il numero di figli per ogni donna) è di 5,7, mentre l’aspettativa di vita alla nascita è di 52 anni per gli uomini e 52,6 per le donne. Secondo i dati della Word Bank, nel 2011 85,2 milioni di persone (circa il 53% della popolazione di allora) viveva con meno di 1 dollaro e 90 al giorno, la soglia della povertà assoluta. Il rapporto 2016/17 di Amnesty International riferisce che “le forze di sicurezza continuano a commettere gravi violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate”.

Guinea - I tristi primati della tortura e delle mutilazioni genitali
8,7%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. La Guinea è uno degli Stati più poveri del mondo. Sono 9.056 (8,7% del totale) gli uomini e le donne in fuga dal Paese in cui tre anni fa scoppiò l’epidemia dell’Ebola, causando 2.346 morti. Lo scorso anno il nuovo codice penale ha abolito la pena di morte, ma Amnesty International denuncia ancora “episodi di tortura e maltrattamenti” da parte delle forze dell’ordine. Nella graduatoria stilata dall’Onu in base all’Isu (l’Indice di Sviluppo Umano, che incrocia dati sul reddito pro capite, sull’istruzione e sulla qualità della vita), la Guinea occupa il 183esimo posto su 188 Paesi. L’Unicef riporta che circa il 96% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subito mutilazioni genitali di qualche tipo, in un Paese in cui un’indagine del 2015 mostrava che il 63% delle ragazze tra i 20 e i 25 anni si fosse sposata prima dei 18 anni.
Bangladesh - Spinti ad Ovest dalla povertà e (anche) da altri profughi

8,5%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Dal Bangladesh, Paese separatosi dal Pakistan nel 1971, sono giunti in Italia 8.794 persone da gennaio, pari all’8,5% del totale degli sbarcati. In queste settimane il Bangladesh vive l’emergenza dei rohingya, la minoranza islamica in fuga dalla Birmania. Circa 400.000 profughi hanno passato il confine birmano, rifugiandosi in Bangladesh, in un Paese che è tra i più poveri dell’Asia e che non è in grado di gestirne l’accoglienza. Dal 2015 ci sono state decine di attacchi terroristici – in quello di Dacca, nel luglio 2016, morirono anche 9 italiani – riconducibili a gruppi vicini all’Isis. Secondo l’Unicef, circa il 18% delle ragazze si sposano prima dei 15 anni: è uno dei tassi più alti al mondo. Anche il dato sull’alfabetizzazione è preoccupante: solo il 61% della popolazione sopra i 15 anni sa leggere e scrivere (la media mondiale è dell’86%).

Costa d'Avorio - Una lotta tra fazioni infinita e le cellule superstiti di Al Qaeda
8,2%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Proprio quando la Costa d’Avorio sembrava uscita dall’incubo della guerra civile, iniziata nel 2002, le elezioni del 2010 hanno portato nuovamente il caos nel Paese. Il presidente Alassane Ouattara ha dovuto vedersela con le truppe legate al vecchio presidente, Laurent Gbagbo, poi arrestato e accusato di crimini contro l’umanità. Adesso il Paese, da cui nel 2017 sono arrivati in Italia 8.482 persone, pari all’8,2% del totale, fa i conti con i continui attacchi jihadisti di Aqim – una cellula di Al Qaeda – e con condizioni di estrema povertà per la popolazione. La Costa d’Avorio è al 171esimo posto sui 188 della graduatoria basata sull’Indice di Sviluppo Umano e ha un’aspettativa di vita di soli 53 anni. Il tasso di mortalità infantile è del 5,3%, tra i più alti del mondo.
Mali - L’intrigo internazionale nella terra dei bambini soldato
6%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Nel 2012 in Mali è scoppiato un conflitto interno che ha portato le truppe del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad ad occupare la parte nord del Paese. L’attività di alcuni gruppi islamisti ha complicato il quadro e nel 2013, dopo una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Francia di Hollande ha inviato i propri aerei in supporto del governo centrale, contro le truppe indipendentiste dell’Azawad e contro gli estremisti islamici. Anche l’Italia, dal 2013, ha fornito supporto logistico all’operazione. Tutte le trattative di pace sono finora saltate e il conflitto è ancora in corso, mentre le Nazionu Unite denunciato l’ampio utilizzo di bambini-soldato. Dal Mali – in cui si registra il secondo tasso di mortalità infantile più alto del mondo, pari al 10% – sono arrivate in Italia 6.121 persone da gennaio, circa al 6% del totale.

Eritrea - Isolamento internazionale, dittatura e schiavitù militare

5,4%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Ex colonia Italiana nel periodo fascista, l’Eritrea è sotto la dittatura di Isaias Afewerki da quasi 25 anni, cioè da quando, nel 1993, un referendum ne legittimò il potere. L’Eritrea è stata gradualmente isolata dalla Comunità Internazionale. Una commissione d’inchiesta voluta dall’Onu nel 2014 ha stabilito che l’Eritrea “non ha un sistema giudiziario indipendente, non ha né un parlamento né istituzioni democratiche” e “c’è un clima di impunità per i crimini contro l’umanità commessi da un quarto di secolo”. Secondo l’Onu, migliaia di persone – 5.612 quelle giunte in Italia nel 2017, il 5,4% del totale – fuggono dal servizio militare, paragonato a una schiavitù camuffata: la leva dura ufficialmente 18 mesi, ma i militari vengono poi costretti a rimanere nell’esercito.

Senegal - La giustizia sommaria alle porte del Sahara
5,4%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Il Senegal è uno snodo fondamentale per le partenze verso il deserto del Sahara, anticamera dei porti in Tunisia e in Libia. Da gennaio sono arrivate 5.610 persone, in fuga da un Paese in cui oltre 5 milioni di persone – il 37% della popolazione – vive sotto la soglia di povertà assoluta di 1 dollaro e 90 al giorno. Il rapporto 2016/17 di Amnesty International evidenzia come ci siano forti limitazioni alle libertà personali, comprese quelle sessuali, e ai diritti civili, come la facoltà di espressione e associazione. La giustizia, secondo Amnesty, è applicata in modo sommario e contribuisce a un grave sovraffollamento delle carceri. Il tasso di natalità è di circa 5 figli per ogni donna e fa sì che la popolazione, negli ultimi 15 anni, sia aumentata di circa il 50%.
Gambia - Due milioni sotto lo scacco di una Repubblica islamica

5,4: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Dopo ventidue anni di dittatura, lo scorso anno il Presidente Yahya Jammeh è stato costretto all’esilio. Il Gambia era stato dichiarato “Repubblica Islamica” e Amnesty International ha a lungo denunciato la sopressione di ogni libertà, soprattutto per mano dei Jungulers, un esercito di sicurezza privato. Da qualche mese le cose vanno meglio, ma il Gambia resta un Paese poverissimo – 173esimo su 188 nella graduatoria basata sull’Indice di sviluppo umano – con ancora molte difficoltà a lasciarsi alle spalle la dittatura. Secondo le Nazioni Unite, nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 49 anni ben il 16% delle donne si è sposata prima dei 15 anni. Dal Gambia, dove vivono appena due milioni di persone, sono arrivate in Italia 5.594 persone negli ultimi nove mesi.

Sudan - Emergenza umanitaria tra guerra civile e secessione
5,3%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Sette anni fa un referendum ha ufficializzato la separazione tra Sudan e Sudan del Sud. Al voto si era arrivati dopo una guerra civile che, seppur a intermittenza, andava avanti dagli Anni 80. Nella parte ovest dello Stato, in Darfur, si alternano periodi di guerra e di tregua in un conflitto che, si stima, ha causato negli anni oltre 400.000 vittime. Mentre in Sud Sudan si è tornati a combattere e il Paese è in grave emergenza umanitaria, in Sudan Amnesty International denuncia che “le forze di sicurezza hanno preso di mira membri dei partiti politici d’opposizione, difensori dei diritti umani, studenti e attivisti politici, sottoponendoli ad arresti e detenzioni arbitrari e ad altre violazioni”. Questi fattori, uniti a una diffusa povertà, hanno spinto 5.480 persone ad arrivare in Italia nel 2017, pari al 5,3% del totale.
Marocco - Immigrazione di lunga data per raggiungere le famiglie
4,9%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. La comunità marocchina in Italia è composta da oltre 430.000 residenti, che costituiscono uno dei principali motivi per cui anche quest’anno 5.064 persone hanno raggiunto l’Italia dal Paese del Maghreb. Nonostante sia considerato uno dei casi più virtuosi dell’Africa, il Marocco ha ancora molti problemi di diritti. Le Nazioni Unite, in un rapporto inviato a Rabat nei giorni scorsi, ha chiesto interventi, per esempio, sul riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, sulla disparità di trattamento tra i generi sulle questioni di eredità – le donne sono escluse dalla successione, a meno di diverse indicazioni –, sulla condanna delle violenze coniugali e sul problema delle spose bambine. Amnesty International, intanto, continua a denunciare l’opera di contrasto del governo all’attività di diverse organizzazioni per i diritti umani.

vocidall'estero,

Il CETA, trattato di libero scambio con il Canada, è infine entrato in vigore giovedì 21 settembre, ad eclatante dimostrazione di come gli Stati abbiano rinunciato alla loro sovranità, lasciando spazio ad un nuovo diritto, indipendente dal diritto degli stessi Stati e non soggetto ad alcun controllo democratico.

Il CETA sarebbe, sulla carta, un “trattato di libero scambio”. In realtà però prende di mira le normative non-tariffarie che alcuni Stati potrebbero adottare, in particolare in materia di protezione ambientale. A questo riguardo, c’è da temere che il CETA possa dare l’avvio a una corsa a smantellare le norme di protezione. A ciò si aggiungono i pericoli che scaturiscono dal meccanismo di protezione degli investimenti contenuto nel trattato.

Il CETA crea infatti un sistema di protezione per gli investitori tra l’Unione Europea e il Canada che, grazie all’istituzione di un tribunale arbitrale, permetterà loro di citare in giudizio uno Stato (o a una decisione dell’Unione Europea) nel caso in cui un provvedimento pubblico adottato da tale Stato possa compromettere “le legittime aspettative di guadagno dall’investimento”. In altre parole, la cosiddetta clausola ISDS (o RDIE) è in pratica un meccanismo di protezione dei guadagni futuri. E si tratta di un meccanismo unilaterale: nel quadro di questa disciplina, nessuno Stato può, da parte sua, citare in giudizio un’impresa privata.

È chiaro quindi che il CETA metterà gli investitori in condizione di opporsi ai provvedimenti politici ritenuti contrari ai loro interessi. Questa procedura, che rischia di essere molto dispendiosa per gli Stati, avrà certamente effetti dissuasivi già con una semplice minaccia di processo. Al riguardo, non dimentichiamo che, a seguito della dichiarazione della Dow Chemical di voler portare la causa in tribunale, il Québec fu costretto a fare marcia indietro sul divieto di una sostanza, sospettata di essere cancerogena, contenuta in un diserbante commercializzato da questa impresa.

Vi sono inoltre dubbi in merito alla reciprocità: si fa presto a dire che il trattato apre i mercati canadesi alle imprese europee, tanto più che il mercato dell’Unione Europea è già adesso aperto alle imprese canadesi. Ma basta solo guardare alla sproporzione tra le popolazioni per capire chi ci guadagnerà. Al di là di questo, c’è il problema più ampio del libero scambio, in particolare dell’interpretazione del libero scambio che si evince dal trattato. Al centro si trovano gli interessi delle multinazionali, che di certo non coincidono con quelli dei consumatori né dei lavoratori.

I rischi rappresentati dal CETA riguardano quindi la salute pubblica e, senz’ombra di dubbio, la sovranità. Ma ancora più grave è anche la minaccia posta dal trattato alla democrazia. Al momento della sua votazione finale nel Parlamento Europeo, tra i rappresentanti francesi sono stati quattro i gruppi a votare contro: il Fronte di Sinistra, gli ambientalisti dell’EELV, il Partito Socialista e il Front National. Un’alleanza forse meno anomala di quanto sembri, se si prendono in considerazione i problemi sollevati dal trattato. È indicativo il fatto che sia stato rigettato dalle delegazioni di tre dei cinque paesi fondatori della Comunità Economica Europea, e dalle seconda e terza maggiori economie dell’Eurozona. Ciononostante è stato ratificato dal Parlamento Europeo il 15 febbraio 2017, e deve adesso passare la ratifica dei singoli parlamenti nazionali. Nondimeno, è già considerato parzialmente in vigore prima della ratifica da parte degli organi rappresentativi nazionali.

Il CETA è quindi entrato in vigore provvisoriamente e parzialmente il 21 settembre 2017 per gli aspetti riguardanti le competenze esclusive dell’UE, ad esclusione, per il momento, di certi aspetti di competenza concorrente che necessitano di votazione da parte dei paesi membri dell’UE, in particolare le parti riguardanti i tribunali arbitrali e la proprietà intellettuale. Ma anche così, circa il 90% delle disposizioni dell’accordo vengono già applicate. Ciò rappresenta un grave problema politico di democrazia. Come se non bastasse, anche nel caso in cui un paese dovesse rigettare la ratifica del CETA, quest’ultimo resterebbe comunque in vigore per tre anni. È evidente che è stato fatto di tutto perché il trattato fosse formulato ed applicato al di fuori del controllo della volontà popolare.

In effetti questo non è affatto ciò che normalmente si definirebbe un trattato di “libero scambio”. Si tratta di un trattato il cui scopo è essenzialmente imporre norme decise dalle multinazionali ai singoli parlamenti degli Stati membri dell’Unione Europea. Se ciò che si voleva dare era una dimostrazione della natura profondamente anti-democratica dall’UE, non si poteva certamente fare di meglio.

Ciò pone un problema sia democratico che di legittimità di chi si è fatto fautore del trattato. In Francia uno solo dei candidati alle elezioni presidenziali, Emmanuel Macron, si era dichiarato apertamente a favore del CETA. Anche uno dei suoi principali sostenitori, Jean-Marie Cavada, aveva votato al Parlamento europeo per l’adozione del trattato. Si profila quindi nelle elezioni presidenziali, e non per la prima volta nella nostra storia, il famigerato “partito dall’esterno” che a suo tempo (per l’esattezza il 6 dicembre 1978) era stato denunciato da Jacques Chirac dall’ospedale di Cochin…[1]

Prima della sua nomina a ministro del governo di Edouard Philippe, Nicolas Hulot aveva preso nettamente posizione contro il CETA. La sua permanenza al governo, a queste condizioni, ha il valore di un voltafaccia. Come ministro della Transizione Ambientale (sic), non ha sicuramente finto un certo rammarico lo scorso venerdì mattina su Europe 1. Ha riconosciuto che la commissione di valutazione nominata da Edouard Philippe lo sorso luglio aveva identificato diversi potenziali pericoli contenuti nel trattato. Ma ha anche aggiunto: “…i negoziati erano ormai arrivati a un punto tale che, a meno di non rischiare un incidente diplomatico con il Canada, che certamente vorremmo evitare a tutti i costi, sarebbe stato difficile bloccarne la ratifica”.

Questa è una perfetta descrizione dei meccanismi di irreversibilità deliberatamente incorporati nel trattato. Non dimentichiamo inoltre che, prima di essere nominato ministro della Transizione Ambientale, l’ex-presentatore televisivo aveva più volte dichiarato che il CETA non era “compatibile con il clima”. Si può qui immaginare quanto fosse grande la spada che ha dovuto ingoiare: praticamente una sciabola.

Da parte sua, fin dalla sua elezione Emmanuel Macron si è presentato come difensore allo stesso tempo dell’ecologia e del pianeta riprendendo, capovolgendolo, lo slogan di Donald Trump “Make the Planet Great Again”. Ha spesso ribadito questo concetto, sia alle Nazioni Unite che in occasione del suo viaggio alle Antille dopo l’uragano “Irma”. Ma non si può ignorare che il suo impegno a favore del CETA e la sua sottomissione alle regole dell’Unione Europea, che ha comunque registrato un terribile ritardo sulla questione degli interferenti endocrini, dimostrino come non sia decisamente l’ecologia a motivarlo, e che al massimo questa non sia che un pretesto per una comunicazione di pessimo gusto e di bassa lega.

È dunque necessario avere ben chiare le conseguenze dell’applicazione del CETA, oltre alla minaccia che esso rappresenta per la sovranità nazionale, la democrazia e la sicurezza del paese.

[1] Haegel F., « Mémoire, héritage, filiation : Dire le gaullisme et se dire gaulliste au RPR », Revue française de science politique, vol. 40, no 6,‎ 1990, p. 875

il Fatto Quotidiano

"La natura torna al galoppo”. È un detto francese che uso per spiegare i fenomeni migratori che sono ciclici e impossibili da frenare, nonostante nuove restrizioni e frontiere fisiche e commerciali”. Si intitola per l’appunto Frontiere (Il Mulino) l’ultimo saggio del professor Manlio Graziano. Piemontese, da anni insegna Geopolitica e Geopolitica delle religioni alla Sorbonne di Parigi e presso l’istituto di Studi Geopolitici a Ginevra.


Professor Graziano, è giustificato l’allarme immigrazione che dura ormai da un paio d’anni?

No, non lo è. Nella storia ci sono state altre ondate di globalizzazione. La più eclatante nell’era moderna è stata tra il 1870 e il 1913 quando, non è un caso, si strutturò il diritto internazionale, che contribuì a ridurre l’importanza delle frontiere. Durante quella fase si spostò il 10% della popolazione mondiale, allora di circa un miliardo di persone. Significa almeno 100 milioni di individui. Una cifra che, fatte le proporzioni con gli attuali 7 miliardi di abitanti del pianeta, mostra di per sé che l’allarme che percorre l’Occidente è quantomeno prematuro.
Ma allora stava iniziando la seconda Rivoluzione industriale, c’era bisogno di qualsiasi tipo di manodopera. Oggi no.
È vero che oggi c’è più richiesta di manodopera di alto livello, ma ci sarà comunque sempre bisogno di forza lavoro a bassa qualificazione.
Quella più bassa rimane generalmente in Italia. Perché?
Chi ha delle ambizioni, voglia di emergere, di studiare per ottenere un lavoro decente sa che l’economia italiana è stagnante e quindi cerca di andare in Germania o Francia. L’Italia, inoltre, non ha l’autorevolezza sufficiente per esigere dall’Europa un comportamento più equo. Speriamo che dopo le elezioni di ieri in Germania, la situazione si stabilizzi, si esca dalla campagna elettorale, un periodo che inevitabilmente costringe i leader politici a non esporsi sul tema dell’immigrazione o a demonizzarlo come fanno in molti, proponendo soluzioni irrealistiche ammantate di buon senso che fanno presa sulla gente disorientata e ansiosa a causa dei mutamenti sempre più rapidi. Ma è un problema psicologico, non reale, questo sì devastante, alimentato da politici opportunisti. L’essere umano tende a volere certezze, ecco perché risorgono i nazionalismi e gli estremismi religiosi. La gente vi si aggrappa come alle rocce nella corrente temendo di perdere la propria identità.
Le Monde ha criticato il ministro dell’Interno Minniti accusandolo di fatto di aver pagato tangenti ai trafficanti per bloccare i migranti africani nei paesi di passaggio. Ma non le sembra che anche Macron sia connivente con questo sistema quando chiude le frontiere a Ventimiglia e senza sborsare un euro? O la Merkel, quando diede i soldi europei a Erdogan per nascondere sotto il tappeto turco i profughi di guerra che tentavano di venire in Europa attraverso il mare Egeo e la Grecia?
Sì, è così. Con la differenza che i migranti nei cosiddetti centri di accoglienza libici sono sottoposti a trattamenti inumani, a torture, stupri, schiavitù. Con la fretta di risolvere il problema, il governo italiano, se è vero quello che leggo e sento dire, sembra abbracciare soluzioni farraginose e al limite del disumano.
Cosa dovrebbe fare intanto il resto d’Europa?
Io sono un analista e non propongo soluzioni. Ma è certo che un’Europa forte e coesa dovrebbe avere un unico piano di gestione dei flussi a livello comunitario e costringere i paesi recalcitranti a soddisfare le quote di ricollocamento stabilite.
Ma anche tra chi ha tenuto fede al programma di ricollocamento, come la Germania e la Francia, sembra orientato a non accettare più i migranti, meglio rifugiati. E visto che il fenomeno durerà anni l’Italia, che è il molo dell’Europa, cosa dovrebbe fare ?
Ripeto, il mio compito non è proporre soluzioni. Ma sono convinto che se tutte le risorse fossero destinate all’accoglienza anzichè alla chiusura, quello che è un problema potrebbe diventare un’opportunità.
I tedeschi prevedono ogni anno di essere in grado di ricevere un certo numero di migranti, sorpassato il quale non sarebbero più in grado di scolarizzarli e di dare loro un’opportunità di lavorare né di curarli gratuitamente con il sistema sanitario pubblico. L’Italia non può chiudere le coste sul Mediterraneo come se fosse un confine di Stato.
Anche la cancelliera Merkel deve lisciare il pelo dell’elettorato. I tedeschi, come pure gli italiani, le risorse le avrebbero, ma per non urtare i possibili elettori preferiscono spendere per bloccare gli immigrati anziché per accoglierli.

E la soluzione proposta da Matteo Renzi di “aiutarli a casa loro”?
È assurda perché l’emigrazione è una conseguenza dello sviluppo che provoca l’espulsione dei contadini dalle campagne. Più aiuti in loco si traducono in più sviluppo e dunque in maggior emigrazione. Del resto, come dicono i cinesi, “il serpente sciocco si morde sempre la coda”.
la Repubblica Robinson«Noam Chomsky parla del suo ultimo libro e dei disastri causati dal neo-liberalismo e dal postmoderno “Gli intellettuali devono resistere contro le false realtà create dal potere”» (c.m.c)

Noam Chomsky, Le dieci leggi del potere, Ponte alle Grazie

Cinquant’anni fa, nel 1967 sulla New York Review of Books, l’allora non ancora trentanovenne Noam Chomsky, linguista geniale e innovativo (una decina di anni prima aveva cominciato a spiegare come la nostra capacità di generare frasi sia innata), pubblicava un lungo saggio sulla responsabilità degli intellettuali. Quel testo diceva, in fondo, una cosa semplice: occorre svelare le menzogne del potere e cercare di ristabilire la verità dei fatti. Era un potente manifesto che serviva alla mobilitazione della meglio gioventù d’America contro la guerra in Vietnam.

Nel frattempo, il professore, giunto all’età di ottantotto anni, è stato al centro di varie e frequenti controversie, fu più volte indicato come l’intellettuale più influente del mondo ( in genere il secondo classificato era il nostro Umberto Eco); e ora, tonico, lucido, con un eloquio difficile da interrompere concede questa intervista.

Il pretesto è la pubblicazione, con Ponte alle Grazie, di un suo saggio Le dieci leggi del potere. Requiem per il sogno americano;ma poi si parla anche del ruolo appunto del pubblico intellettuale ai tempi della crisi della gerarchia del sapere, di Trump e delle fake news.

Cominciamo dal libro e dal sogno. Una volta, l’America, nella mente di molti, prima di tutto degli immigrati, italiani ma anche ebrei dell’Est Europa fuggiti come i suoi genitori dai pogrom, incarnava la fiducia nel futuro; la certezza che i figli avrebbero vissuto meglio dei genitori; la possibilità per ciascun individuo di determinare il proprio destino. Oggi sembra che non sia così. Cosa è successo?
«Intanto, perfino al suo apice il sogno americano era una storia sfaccettata e ambivalente. Gli Stati Uniti, ai primi del Novecento, avevano leggi molto repressive contro i sindacati; i linciaggi erano prassi comune; i poveri vivevano in condizioni spaventose. Moltissimi immigrati, dopo aver guadagnato un po’ di soldi, tornavano a casa: qui era difficile condurre una vita da persona civile. Il tutto è cambiato con la Seconda guerra mondiale. È con quel conflitto che gli Usa conquistano il dominio sul globo terrestre; una posizione di potere culturale, industriale e militare senza precedenti. Poi sono venuti decenni di crescita rapidissima, potrei dire quasi egualitaria. Negli anni Settanta tutto è cambiato. Nasceva il progetto neo-liberale che ha portato alla stagnazione o al declino economico della maggioranza della popolazione. Basti pensare che i salari reali dei lavoratori nel 2007, alla vigilia del crollo di Wall Street, erano più bassi di quelli del 1979. Con l’affermarsi del neo- liberalismo sono diminuiti l’interesse e la partecipazione alla vita politica. Sono in crescita invece il risentimento, la rabbia, l’odio. L’abbiamo visto a proposito del fenomeno Trump».

Il neo- liberalismo, che in Italia chiamiamo pudicamente liberismo, ha spento il sogno americano?«Ha creato un disastro. Negli Stati Uniti è in aumento il tasso della mortalità tra le persone in età lavorativa: tra i trenta e i sessanta anni, maschi bianchi, classe operaia. Ai tempi della Grande Crisi ( sono abbastanza vecchio per ricordarla) la situazione era peggiore di oggi, ma c’era la speranza. C’era la sensazione che saremmo usciti dalla crisi; stavamo lavorando tutti insieme per un futuro migliore. Oggi invece c’è la sensazione di stagnazione e declino; e oggettivamente è così. E allora si è propensi a mettere in questione la stessa democrazia. Mi spiego. La gente ha la sensazione che il sistema non funzioni, che niente sia fatto per chi soffre e lavora. La frase ricorrente è: “ Qualunque cosa il governo faccia non la fa per me, ma per i ricchi e per i poveri che però non si meritano né aiuto né assistenza”. Il risentimento crea capri espiatori».

Come in Italia, dove il senso comune e i giornali di destra dicono: a noi fanno pagare le tasse, agli immigrati regalano gli smartphone.
« È lo stesso meccanismo per cui nella Germania nazista gli ebrei venivano considerati colpevoli di tutti i mali. Quando il sistema non funziona, e tu non sei in grado, perché nessuno ti aiuta a esserlo, di capire le cose e cambiarle, sei incline a cercare un capro espiatorio; un gruppo marginale o marginalizzato cui addossare le colpe di tutto. Qui negli States abbiamo un’immagine: gente che fa la fila. Una volta, la fila avanzava: i miei nonni erano poveri, i miei genitori meno poveri, io ho avuto il benessere. Ma ora sto fermo, mentre quelli avanti diventano super ricchi e quelli dietro godono dell’appoggio del governo per superarmi. Quelli dietro sono i neri, gli immigrati, i rifugiati. È facile essere arrabbiato con chi sta peggio di te. Per colpa della dottrina neo- liberale, da voi in Europa declinata come austerità, abbiamo la sensazione che ci hanno rubato il sogno e la speranza».

Una volta, bastava spiegare alla gente quale era la loro situazione vera. È figlia dell’illimitata fiducia nello spirito dell’Illuminismo, nel nesso tra il sapere e l’emancipazione, la figura dell’intellettuale pubblico che forte della sua nuda parola sfida il potere: da Émile Zola a Sartre, a Chomsky. Oggi gli argomenti razionali, le statistiche, la citazione dei fatti non convincono l’opinione pubblica. Perché?

« Sono successe varie cose. La prima: è nato il postmodernismo, la pretesa che non esista una verità oggettiva e che tutto il sapere è questione di potere e dello sguardo di chi narra una storia. E una gran parte del mondo universitario e degli intellettuali ha fatto suo questo metodo disgraziato. Dall’altro lato il potere pensa di poter creare una propria realtà. Nel mondo di Trump questo fenomeno è stato portato fino all’estremo, fino alla creazione dei fatti. Il motto degli uomini del presidente è il seguente: se noi diciamo che non esiste il riscaldamento globale, vuol dire che davvero non esiste. E non importa se gli scienziati ci smentiscono. Vede, io penso che la creazione dei fatti alternativi sia una conseguenza dell’allentamento dei legami sociali di cui abbiamo parlato prima. Una volta credevamo che un duro lavoro, sacrifici, dedizione ai valori (nel caso degli States ai valori cristiani) fossero sufficienti perché le cose funzionassero. E, invece, scopriamo che niente funziona. E se nulla funziona, perché dobbiamo avere fiducia nelle autorità morali, politiche, scientifiche?».

Solo questo?
« No. La sfiducia nel sapere è alimentata dal sistema dei media e dai socialmedia che creano una specie di bolla; notizie false, fake news. Da noi la rete tv di destra, Fox news, ripete sempre le stesse cose ma non dà notizie vere. Così ognuno ha il suo set di opinioni e non esiste più la verità oggettiva. Questa è la cultura dominante: inventare una realtà alternativa, negare quella esistente. È un negazionismo che raramente è esistito nella storia. Ed è pericoloso».

Ricorda il comunismo. Ciò che il potere non contempla non esiste.
«Certo, ma vorrei tornare alla sua domanda sulla crisi del sapere. Fino alla Seconda guerra mondiale gli Usa, dal punto di vista culturale, erano un Paese provinciale e arretrato, sebbene con qualche eccezione. Per studiare fisica si andava a Berlino, per diventare scrittori a Parigi e così via. Il cambiamento verificatosi con la Seconda guerra mondiale, lo spostamento del centro verso gli States, ha riguardato solo una parte della gente. Siamo ancora un Paese in cui la metà della popolazione pensa che il mondo sia stato creato diecimila anni fa e che l’evoluzionismo è una falsa dottrina. Ora ciò che è cambiato negli ultimi anni è che quella fetta della popolazione non è più un fenomeno folcloristico, ma è diventata la base politico-culturale del potere dominante».

Cosa possono fare gli intellettuali?
«Quello che gli intellettuali hanno sempre fatto: aiutare gli attivisti a creare un movimento di resistenza; farsi coinvolgere in un simile movimento. Non sono pessimista. La vera sorpresa delle ultime elezioni è stata l’affermazione di Bernie Sanders. Non fosse per le manipolazioni dell’apparato del partito avrebbe vinto le primarie contro Clinton. La sua campagna è stata fatta da un movimento ampio, popolare e indica una strada da percorrere».

Ultima domanda. Il suo essere ebreo, figlio di immigrati, ha influito sul suo essere non tanto di sinistra, quanto un intellettuale controcorrente e con un pensiero dove evidenti sono i richiami ai profeti e al messianismo?
«Domanda difficile. Molte persone con il mio stesso background hanno posizioni diverse dalla mia. Ma certo, c’è una grande influenza e una continuità tra quello che dico e penso e le mie letture della Bibbia, dei profeti e della letteratura radicale molto diffusa ai tempi della mia infanzia nelle comunità ebraiche americane».

Nena News

“La libertà verrà, è inevitabile. L’occupazione avrà fine o con l’indipendenza dello Stato di Palestina o, se vogliono, con uguali diritti per tutti gli abitanti della Palestina storica, dal fiume [Giordano] al mar [Mediterraneo]”. A dirlo è stato ieri il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sul podio della 72esima Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il discorso di Abbas è stato però complessivamente deludente: il leader di Fatah ha sì espresso parole dure nei confronti “dell’apartheid” israeliana e della complicità della comunità internazionale per il suo sostegno al “processo di colonialismo di insediamento” israeliano, ma ha anche espresso fiducia sull’abilità del presidente Usa Trump di porre fine al conflitto israelo-palestinese. Una fiducia, quest’ultima, che appare priva di alcun fondamento logico: proprio due giorni fa all’Onu The Donald ha ribadito la sua forte alleanza con Israele e, concentrandosi sull’Iran e Corea del Nord, ha ignorato del tutto la causa palestinese.

Abbas ha poi ricordato la questione di al-Aqsa a Gerusalemme dicendo che Israele sta “giocando con il fuoco” poiché sta cercando di cambiare lo status quo sulla Spianata delle Moschee, teatro questa estate di due settimane di proteste. Il presidente è ritornato su quei giorni lodando la risposta “pacifica” dei palestinesi alle decisioni delle autorità israeliane. Il passaggio ad al-Aqsa ha offerto all’anziano leader l’opportunità per mandare un messaggio a Israele: non trasformare il “conflitto politico” in uno religioso esacerbando le tensioni a Gerusalemme est.

Il popolo palestinese, ha aggiunto, ha fatto “tutti gli sforzi possibili per fare la pace con i vicini israeliani”, ma lo stato ebraico ha rifiutato tutte le iniziative. A partire dalla “soluzione a due stati” il cui rifiuto di Tel Aviv “pone a rischio l’intera regione”. Lo status quo – ha aggiunto – peggiora sempre di più per le continue violazioni della legge da parte d’Israele”. Una situazione che si fa sempre più difficile perché, ha sottolineato, la Palestina sta terminando lo spazio per formare uno stato indipendente a causa “dell’inarrestabile attività coloniale israeliana sul territorio palestinese”. Nonostante però si accorga di questa realtà sul terreno, Abbas continua a sposare la vecchia linea: la necessità di una soluzione a due stati con Israele nei confini del 1967.

Abbas ha poi criticato il sostegno ad Israele da parte della comunità internazionale apparendo più convincente: “L’apartheid – ha detto – è stata abolita in Sud Africa, ma è ancora presente in Palestina. Come può essere accettabile? Proprio per sconfiggere questa discriminazione, ha argomentato, la comunità internazionale deve fornire un esatto quadro temporale entra il quale l’occupazione israeliana dovrà terminare, deve implementare la Risoluzione 194 (il ritorno dei rifugiati palestinesi prodotti dalla fondazione d’Israele del 1948), garantire protezione internazionale ai palestinesi fin quando non sarà terminata l’occupazione israeliana e smetterla di essere complice del “processo di colonialismo d’insediamento” israeliano. La strada, ha osservato, è già stata tracciata durante la segregazione razziale in Sud Africa quando il paese africano fu oggetto di un boicottaggio internazionale.

Significativo il passaggio su Hamas e Striscia di Gaza. Qui il presidente ha dichiarato che “non ci sarà nessuno stato. E non ci sarà uno stato palestinese senza Gaza” esprimendo il suo “sollievo” per i recenti sforzi di riavvicinamento compiuti dai rivali islamisti. Proprio sulla riconciliazione nazionale, Abbas ha detto che alcuni ufficiali dell’Autorità palestinese si recheranno la prossima settimana a Gaza per “assumere le loro responsabilità” e ha aperto alla possibilità di indire in futuro le elezioni generali.

Qualche ora prima di parlare dal podio dell’Assemblea Generale dell’Onu, Abbas aveva incontrato Trump e il Segretario generale dell’Onu Guterres. Con il primo, il leader di Fatah ha parlato degli sviluppi regionali esprimendo la sua fiducia sull’abilità dell’inquilino della Casa Bianca di mediare un accordo tra Palestina e Israele. Secondo quanto riporta l’agenzia palestinese Wafa, il presidente palestinese ha affermato che il quarto incontro con Trump da quando è stato eletto alla presidenza statunitense “mostra la serietà” di quest’ultimo nel voler raggiungere “l’accordo del secolo in Medio Oriente quest’anno o nei mesi a seguire”.

Con il Segretario generale dell’Onu, invece, sono stati discussi i recenti sviluppi politici palestinesi. Abbas ha però anche esortato il capo delle Nazioni Unite a far rispettare le risoluzioni internazionali relative alla Palestina. Posizioni che, almeno a parole, il Segretario dell’Onu condivide: lo scorso mese, in visita alla Striscia di Gaza, ha chiesto la fine del decennale assedio israeliano descrivendo la situazione nella piccola enclave come “una delle crisi umanitarie più drammatiche” che ha mai visto.

il manifesto

Una cartolina da Roma, entrata ieri, con il voto quasi unanime dell’Assemblea Capitolina, tra le circa 5mila città e Regioni europee che si sono dichiarate con un atto ufficiale «libere dal Ceta». È così che l’Italia dei movimenti che si oppongono alle liberalizzazioni commerciali selvagge, ha salutato l’entrata in vigore provvisoria del trattato Ue-Canada.

«Una buona notizia, perché abolisce il 99% delle tariffe doganali canadesi con picchi in alcuni dei settori di punta del nostro export», rivendica il ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda. Peccato che la sua voce si perda in un coro di contrarietà, a partire da quella della segretaria della Cgil Susanna Camusso che ha invece chiesto al Senato, chiamato alla ratifica del trattato a partire dal 26 settembre prossimo, di fermarsi «e di promuovere i necessari approfondimenti, attendendo la verifica del suo funzionamento provvisorio, che siamo sicuri suggerirà di respingere questo trattato per contribuire a un commercio effettivamente equo e sostenibile».

Il Ceta, infatti, prima di entrare completamente in vigore deve essere votato dai due rami di tutti i Parlamenti dell’Unione perché i movimenti sono riusciti a dimostrare che è un trattato di natura mista: fatto cioè di misure commerciali, decise dall’Europa, ma anche di standard e regole che riguardano l’ambiente, la salute, il lavoro, la qualità di prodotti e servizi che non possono essere affrontati senza il benestare dei Parlamenti nazionali. Il Ceta, infatti, va a costituire una ventina di comitati euro-canadesi, i cui membri verranno decisi senza alcun coinvolgimento di noi cittadini, che su richiesta di imprese delle due parti potranno intervenire in autonomia introducendo cambiamenti nella produzione, distribuzione e progettazione di merci e servizi in modo da renderli più facili da commerciare. Se per questo saranno, però, meno amici dell’ambiente o dei nostri diritti nulla importa. Lo spiega il report curato da Greenpeace insieme all’ong americana Iatp, che punta l’indice contro gli «standard europei sotto attacco».

Se il Ceta entrasse in vigore a pieno titolo, introducendo il sistema di ricorso arbitrale (il cosiddetto Investment Court System o Ics) che consentirà agli investitori di citare quegli Stati le cui regole, a proprio giudizio, siano ingiustificatamente restrittive del commercio, le grandi corporation dell’industria conserviera delle carni, ad esempio, potranno denunciare l’Ue e gli Stati membri per i tentativi di espandere le norme sull’etichettatura di origine. Discorso analogo per la pasta e la volontà dell’Italia di introdurre relativa etichettatura d’origine. Il Canada esporta in Italia grandi quantità di frumento, che poi viene trasformato in pasta. Il presidente di Cereals Canada, Cam Dahl, ha fatto intendere la possibilità di adire le vie legali ancora prima che l’Italia avviasse l’etichettatura d’origine per la pasta, affermando di sperare «che l’Italia non faccia questo passo, ma non potendo saperlo dobbiamo essere preparati, sia per un’azione in seno alla Wto, che per misure nell’ambito del accordo commerciale Canada-Ue». Con l’entrata in vigore del Ceta, quindi, iniziative come questa potrebbero essere perseguite in modo permanente, sia a livello di Ue che di Stati membri.

Non è un caso, infatti, che Coldiretti, insieme alle associazioni di consumatori Adusbef, Federconsumatori e Movimento Consumatori, sia tra i principali oppositori del Ceta: «È un regalo alle grandi lobby industriali dell’alimentare che colpisce il vero Made in Italy e favorisce la delocalizzazione, con riflessi pesantissimi sul tema della trasparenza e delle ricadute sanitarie e ambientali», hanno affermato i produttori italiani senza mezzi termini. E insieme alla Campagna Stop Ttip Italia e alle altre organizzazioni è impegnato a mettere sotto pressione scrivendo e raggiungendo su twitter e facebook tutti i senatori italiani perché affidino a un confronto più ampio, e non a una legislatura agli sgoccioli, una decisione responsabile su quale tipo di commercio sia più adatto a difendere i nostri diritti, l’ambiente il lavoro e i legittimi interessi di imprese e cittadini.

Osservatorio Mil€x. (i.b.)

A quanto ammontano le spese militari italiane in un anno, in un giorno, in un’ora? Quanti sono gli effettivi delle nostre Forze Armate? Quanti i comandanti e quanti i comandati? Per acquistare nuovi armamenti (cacciabombardieri, navi militari, blindati e carri armati) quanti miliardi vengono impiegati, ogni anno?

Se non conoscete le risposte il video sottostante, basato sui dati ufficiali elaborati da Osservatorio Mil€x e dai principali centri di ricerca mondiali sulle spese militari, servirà ad esaudire la vostra curiosità. Se invece l’enorme e sbilanciato impatto degli investimenti armati dell’Italia era a voi noto avrete uno strumento in più per diffondere numeri e analisi. In ogni caso, un video da rilanciare!

Noi pensiamo che una valutazione seria ed approfondita della spesa miltiare del nostro Paese sia fondamentale per esercitare un corretto controllo democratico. Una valutazione che non si può condurre senza un lavoro di studio preciso e competente, che necessita tempo e professionalità. Il lavoro che l’Osservatorio Mil€x ha deciso di intraprendere fin dall’inizio e che vi chiediamo di sostenere, per garantirlo anche in futuro. Non è facile occuparsi di questi temi, che per molti dovrebbero continuare a rimanere nascosti, opachi, poco conosciuti. Per qusto motivo abbiamo bisogno del vostro aiuto, possibile anche con il crowdfunding popolare promosso in collaborazione con Banca Etica e Produzioni dal Basso.

Se pensi anche tu che sia fondamentale svelare tutti i segreti delle spese militari italiane è il momento di sostenere Mil€x e tutti i suoi sforzi. Perché nessun altro ti dirà quello che ti diciamo noi, con dati e notizie inedite. E i “soldi armati” continueranno ad essere avvolti da un’opacità inaccettabile.

Vedi qui il video.

Internazionale«Emmanuel Macron ha deciso di farla finita con le protezioni di cui godono i lavoratori francesi. Ma sono conquiste da difendere a ogni costo».

Per le persone comuni le vittorie sono rare. Sempre più rare in questi tempi dominati dal denaro e dagli uomini forti. In Francia, dove mi trovo mentre scrivo queste righe, il presidente Emmanuel Macron ha deciso di farla finita con le protezioni di cui godeva la classe operaia francese. Sono conquiste ottenute a caro prezzo, diritti fondamentali che aiutano i francesi a resistere alle pressioni imposte dal lavoro. Questi diritti comprendono il pagamento degli straordinari e le ferie, due argini contro la pressione esercitata dai datori di lavoro che vogliono incatenare i dipendenti alle loro scrivanie e alle loro macchine.

Macron riceve questi ordini dall’associazione dei datori di lavoro francesi (Medef), che da tempo desidera tagliare i costi derivanti dalla copertura medica e dai sussidi di disoccupazione, distruggere i programmi di tirocinio professionale, i contributi pubblici per l’alloggio e annullare le disposizioni relative al salario minimo. Il Medef si nasconde abilmente dietro a una retorica che esalta il progresso individuale. Non dice, per esempio, di voler tagliare i sussidi di disoccupazione per poter così ridurre i contributi versati. Piuttosto suggerisce che i lavoratori, se smetteranno di contribuire al fondo di sostegno, avranno più denaro a disposizione per i loro consumi individuali. Ma naturalmente questo significa anche che quando saranno disoccupati non esisteranno meccanismi in grado di aiutarli.

Nel progetto di Macron non c’è nessuna volontà di prendere in considerazione le difficoltà delle persone.

Macron, eletto come antidoto al crudele populismo del Front national, ha messo al cuore del suo programma politico la volontà di schiacciare le vite della popolazione francese, in particolare dei lavoratori. Non c’è niente del vecchio liberalismo in Macron, nessun tipo di chiamata patriottica a tutte le classi sociali affinché sacrifichino i loro guadagni per il bene più alto dell’investimento nazionale francese in infrastrutture e sviluppo sociale. Nessun invito alle grandi aziende o alle élite francesi a pagare più tasse o ad accettare minori profitti, nessuna volontà di prendere in considerazione le difficoltà delle persone in un’epoca d’insicurezza economica e caos culturale.

Niente di tutto questo. Il suo programma è scritto da economisti convinti della vecchia idea che la crescita debba farla da padrone assoluto, e che liberare gli istinti animali del capitalismo, facendola finita con le protezioni sociali dei lavoratori, permetterà alla sonnacchiosa economia francese di ripartire di slancio.

Ma è qui che le cose si fanno interessanti. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha osservato più da vicino le riforme di Macron e ha notato che queste non sarebbero in grado di avere un impatto significativo sui tassi di crescita. Farebbero sicuramente crescere il prodotto interno lordo francese (pil) dello 0,4 per cento nel prossimo decennio, ma si tratterebbe di un aumento minuscolo rispetto ai costi sociali che la popolazione dovrebbe affrontare.

Al governo Macron restano altri strumenti, ma i suoi pregiudizi contro i prestiti di stato, alimentati dal Fondo monetario internazionale, gli impediscono di andare in questa direzione. Per esempio, con dei tassi d’interesse effettivi a zero e una bassa inflazione, il governo potrebbe facilmente prendere a prestito del denaro per finanziare gli investimenti e favorire la situazione dell’impiego (visto che i tassi di disoccupazione sfiorano il 10 per cento). Ma il pregiudizio contro l’idea che lo stato s’indebiti per generare crescita economica è così forte che Macron non ha nemmeno preso in considerazione l’idea.

Il conto lo pagano i lavoratori

Ancor più offensivo è sostenere che lo stato francese non possa usare altro denaro per rimpinguare i vuoti bilanci dei programmi sociali per i suoi cittadini. Quasi un decennio fa, durante la crisi finanziaria, lo stato francese si è affrettato a trovare più di 360 miliardi di euro da regalare alle banche private. “Non dobbiamo rinunciare ad alcuna misura in grado di evitare un inasprimento della crisi”, dichiarò all’epoca Nicolas Sarkozy. Ma la crisi dei cittadini francesi non viene affrontata con analoga urgenza. Saranno loro a essere costretti a pagare per sostenere delle istituzioni sociali al collasso, come pensioni e previdenza sociale.

Non c’è posto, nella Francia di Macron, per una discussione sulla stagnazione economica. A pagare il conto saranno chiaramente i lavoratori francesi, ai quali si continueranno a chiedere sacrifici per tenere a galla una nave che va a fondo.

Se le riforme sono state bloccate nel 2016, perché lo stesso non dovrebbe accadere nel 2017.

Nella piccola città della Francia meridionale in cui mi trovo, guidata da una giunta comunista, le persone reagiscono con un’alzata di spalle al corso degli eventi. La speranza diffusa è che le proteste che hanno avuto luogo nelle grandi città, come Parigi, fermeranno Macron. Lo scorso anno centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in Francia per bloccare le riforme proposte dall’allora presidente della repubblica François Hollande. I raduni notturni a place de la République, a Parigi, hanno spinto Hollande a ridimensionare la riforma, di fatto minando la sua carriera politica.

La tentazione di spedire i corpi antisommossa della polizia ai sensi delle leggi sullo stato d’emergenza era forte, ma Hollande ha capito la situazione. Si è ritirato e il suo protetto Macron è salito alla ribalta. Queste alzate di spalla non sono quindi immotivate: se le riforme sono state bloccate nel 2016, perché lo stesso non dovrebbe accadere nel 2017?

Ma oggi la situazione è così spiacevole che Hollande ha criticato Macron per gli “inutili sacrifici” imposti da queste riforme del lavoro.

Alcune persone temono che se Macron e il Medef andranno avanti sulla loro strada, si velocizzerà anche l’impoverimento della popolazione francese e con esso l’ascesa del fascisteggiante Front national. I principali oppositori alla legge sul lavoro non sono il Front national ma il sindacato di sinistra della Cgt e i partiti politici di sinistra. Sono loro ad aver lanciato un appello per la manifestazione del 12 settembre, cui hanno partecipato molte persone, e del prossimo 23 settembre. Anche se la sinistra si è dimostrata efficace nella sua opposizione a queste riforme neoliberiste, non è stata altrettanto capace di trasformare questa opposizione in vantaggi elettorali. Il politico di sinistra Jean-Luc Mélenchon è visto più come un uomo di protesta che di governo. “Mélenchon è in prima fila nelle proteste”, dice Fréderic Dap dell’Istituto francese di opinione pubblica (Ifop), “ma non è visto come un’alternativa concreta” alla presidenza Macron. E questo rappresenta una grande debolezza per la sinistra.

Il partito di Mélenchon dispone di appena 17 parlamentari sui 557 che siedono nel parlamento francese. Possono fare rumore, ma non saranno in grado di definire il futuro corso degli eventi.
Una protesta organizzata da alcuni sindacati francesi contro la riforma del lavoro a Marsiglia, il 12 settembre 2017.

Intanto in India

Nel frattempo a Sijkar, nello stato del Rajastan, i contadini guidati dal movimento All India Kisan Sabha hanno portato avanti un’ininterrotta lotta di 13 giorni contro il governo per ottenere delle riforme fondamentali. È stata una lotta difficile, nella quale repressione poliziesca e indifferenza mediatica hanno cercato di soffocare la volontà dei manifestanti. Ma i contadini hanno vinto. Questi volevano semplicemente che il governo mettesse in pratica le raccomandazioni della commissione Swaminathan, creata per aiutare il governo a evitare ulteriori suicidi di agricoltori (a oggi più di trecentomila tra loro si sono suicidati per motivi direttamente legati alle riforme agricole di natura neoliberista).

Questi agricoltori, che esibivano la bandiera rossa di Kisan Sabha e del movimento comunista, sono ricorsi alla tattica del mahapadav (sit-in) per bloccare le attività del governo e paralizzare lo stato. Il governo non aveva scelta. Non potevano semplicemente uccidere la maggior parte dei contadini. Dovevano negoziare e, dal momento che gli agricoltori sapevano il fatto loro, hanno dovuto cedere alle loro richieste. Kisan Sabha ha suggerito che questa vittoria potrebbe “dare forza a simili lotte nel resto del paese”.

Forse se i lavoratori francesi verranno a conoscenza di questa battaglia e del suo esito positivo, potranno trovare nuove motivazioni per la loro lotta. La cosa potrebbe aiutarli a far capire ai loro dirigenti che nessun paese può crescere cannibalizzando i propri cittadini.

(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul sito Alternet.

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