Il manifesto, 19 ottobre 2017 nell’intervista di Chiara Cruciati la fortedenuncia di Jeff Halper, l’attivista israeliano che da una vita combatte per idiritti della Palestina; nella cronaca di Michele Giorgio i recenti atti direpressione dei soldati di Israele contro i palestinesi.
«Cisgiordania. Pugno di ferro di Israele nei Territori occupati dopo l'annuncio del governo Netanyahu che non negozierà con un governo palestinese con all'interno il movimento islamista Hamas».
Sono 1.323 i nuovi alloggi che saranno costruiti per i coloni israeliani nella Cisgiordania occupata, dove ieri un palestinese avrebbe tentato di accoltellare un soldato israeliano ma è stato bloccato e ferito. Un numero che porta, in appena tre giorni, a 2.646 il totale delle nuove unità abitative negli insediamenti coloniali, rivela l’organizzazione pacifista Peace Now. A questi appartamenti si aggiungono i 31 approvati lunedi, per la prima volta dal 2002, per i coloni nella città di Hebron. Una colata di cemento che non turba il leader dell’opposizione laburista Avi Gabbai che a inizio settimana aveva escluso l’evacuazione anche di una sola colonia nel quadro di un accordo di pace. Poi ha fatto una parziale retromarcia.
Sarebbero parte, secondo il portavoce militare israeliano, di una operazione dell’Esercito contro «l’istigazione alla violenza e al terrorismo» i raid compiuti martedì notte negli uffici di otto redazioni giornalistiche palestinesi a Betlemme, Nablus, Ramallah e Hebron, città che ufficialmente sono sotto la piena autorità, anche di sicurezza, dell’Anp di Abu Mazen. I soldati hanno sequestrato computer, documenti, filmati, registrazioni audio negli studi di Pal Media, Ram Sat, Trans Media, Al Quds, Al Aqsa, Palestine Alyoum e di altre due emittenti.
il manifesto, 18 ottobre 2017. Un intervento del nostro opinionista nel dibattito sulla sinistra. Per un disguido ci è giunto in ritardo, ma il suo interesse ci sembra immutato
E’ ormai evidente, uno spettro si aggira per i cieli della politica italiana e minaccia la nostra prospera democrazia: la Cosa Rossa. Nessuno sa precisamente che cosa sia, ma assume già caratteri inquietanti. Giuliano Pisapia, che non è ancora riuscito a trovare «la formula che mondi possa aprirci», la indica ormai montalianamente come «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», una deriva minoritaria da scansare come la peste. Il giornalismo politico, che spesso va in cerca di sigle semplici, da qualche tempo la considera come l’indistinto coacervo dell’estremismo italiano. Fabrizio D’Esposito, ad esempio, riferisce « dell’inclinazione massimalista a fare una Cosa Rossa» a sinistra del Partito Democratico. (La corsa a contendersi il mito dell’Ulivo, Il Fatto quotidiano, 10 novembre 2017), contrapposta a «una spinta riformista». Ma pare che la paura per l’indistinta creatura dilaghi anche tra le più alte cariche dello Stato. Circola voce secondo cui la presidente della Camera, Laura Boldrini, «appare lontanissima dalla “Cosa rossa” » (Daniela Preziosi, "MdP-SI verso l’accordo", , 10/10/ 2017). Destino delle parole. E pensare che il termine, il terribile sintagma, apparso lo scorso anno sulle cronache politiche di tutta la stampa italiana, era stato coniato per designare qualcosa di nuovo che stava nascendo a sinistra del PD. Ma destino anche della vita politica di questo davvero malmesso Paese.
Per mesi a sinistra (come del resto a destra, ma forse meno) non si è dibattuto che di posizionamenti, di qua o di là, di leader, questo o quello, di partecipazioni consentite e vietate, tu si tu no, e mai un ragionamento programmatico, una indicazione di contenuto strategico che illuminasse la scena della depressa vicenda politica nostrana. Appena si fa un accenno ai contenuti si ricorre a formulette di pronto uso. Ma in questo caso la semplificazione non è innocente. La Cosa Rossa sta diventando un dispositivo ideologico per bollare con il marchio infamante dell’estremismo, del minoritarismo, del velleitarismo, del massimalismo (altri ismi si aggiungeranno a breve) le uniche forze politiche realmente ispirate da un progetto riformatore. E’ davvero singolare vedere bollati Sinistra Italiana, Possibile, il movimento civico di Tomaso Montanari e Anna Falcone come esponenti di un progetto estremista.
Ma sotto l’immiserimento colturale o, meglio, di conserva con esso, si cela una trama di pratiche politiche oggi dominante nel fronte che si definisce riformista. La sinistra diventa una Cosa Rossa innominabile e infrequentabile perché impedirebbe le necessarie alleanze con le pattuglie parlamentari del trasformismo militante degli Alfano o dei Lupi, e di qualunque altro transfuga si presti alla bisogna. L’intransigenza politica e morale diventa così settarismo, impedisce elasticità di manovra, flessibilità e adattabilità nelle alleanze. Per alcuni esponenti di MDP e per tanti di Campo progressista, infatti, il riformismo che conta è quello che si fa dai banchi del governo, con buoni piazzamenti negli scranni del Parlamento, e consistente nella realizzazione di “quel che si può”, senza rischiare troppo, tenendo nel debito conto gli equilibri dominanti. Primum vivere.. E’ tale riformismo, indistinguibile da quello del centro-destra, che ha ispirato negli ultimi anni le magnifiche sorti e progressive dell’Italia di oggi.
Avvenire,
L’Italia è un caso esemplare delle grandi malattie economiche delle nazioni cosiddette “avanzate” in questi anni. L’Ocse ha dedicato un lungo rapporto a due dei malanni che affliggono, in misura diversa, tutte le economie sviluppate: l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle diseguaglianze economiche. Dato che le differenze nel successo delle persone sono anche il risultato cumulato di diseguaglianze che emergono fin dai primissimi anni di vita, è la tesi dell’Ocse, ogni governo può organizzare un’agenda di politiche che – agendo su istruzione, sanità, mondo del lavoro e redditi – possono prevenire la formazione delle diseguaglianze per i bambini, mitigare gli squilibri economici che si sono già sviluppati negli adulti, gestirli per i più anziani.
È un tipo di lavoro politico che l’Italia dovrebbe affrontare sul serio e molto presto, dato che è già il terzo paese con l’età media più alta del mondo e con un rapporto tra anziani e persone in età lavorativa destinato a salire dall’attuale 38% al 74% nel 2050 si troverà ad avere una situazione demografica da brividi nel giro di trent’anni. Partiamo già da una situazione molto problematica, fa capire l’Ocse nel “focus” dedicato al nostro paese. Negli ultimi tre decenni la situazione economica e lavorativa dei giovani è drasticamente peggiorata: dalla metà degli anni Ottanta, calcola l’Ocse, i redditi dei lavoratori con più di 60 anni sono saliti del 25% di più rispetto a quelli di chi ha meno di 35 anni. Un squilibrio aumentato quindi con un ritmo quasi doppio rispetto a quello già ampio (13%) della media dell’Ocse.
Questi giovani che si sono fatti più poveri vivono anche una maggiore diseguaglianza dei loro redditi rispetto alla generazione dei loro genitori e dei loro nonni. L’Ocse calcola e compara il livello di diseguaglianza nei redditi per persone della stessa età per i nati negli anni Venti, Cinquanta e Ottanta, e per l’Italia vede una variazione quasi nulla per la classe degli attuali 60enni (+0,6%) e molto più decisa (+4,7%) per gli attuali trentenni. «Dal momento che l’ineguaglianza tende a salire durante la vita lavorativa, una più alta diseguaglianza tra i giovani di oggi porterà probabilmente a una più alta diseguaglianza nei pensionati del futuro, soprattutto dato il forte collegamento tra redditi lavorativi e pensioni» avverte l’Ocse, che sottolinea come in Italia a causa della «mancanza di una forte rete di sicurezza sociale» il livello di ineguaglianza della vita lavorativa si confermi integralmente nella vita da pensionati. In media nelle nazioni dell’Ocse, la diseguaglianza si riduce di un terzo con la pensione. Gli studiosi lanciano un avvertimento esplicito: «Assicurare una pensione decente sarà particolarmente difficile per le persone con bassi livelli di educazione, che hanno meno probabilità di lavorare in età avanzata, e per le donne, perché molte di loro lasciano il mercato del lavoro per prendersi cura dei parenti».
La ricetta per superare questi problemi, concludono i ricercatori dell’Ocse, si basa sul miglioramento dell’offerta educativa in età scolare e pre-scolare. Questo tipo di investimento darebbe più chance ai figli delle famiglie più povere e nello stesso tempo aiuterebbe le donne a partecipare alla forza lavorativa del paese. Dopodiché occorrono migliori interventi per gestire il passaggio dalla scuola al lavoro, contrastare la disoccupazione di lungo periodo e offrire possibilità di formazione per gli adulti.
il manifesto,
«Nel suo discorso del 10 ottobre, Puigdemont ha fatto un mezzo passo indietro. Darebbe prova di responsabilità Rajoy se facesse altrettanto. Dubito che lo faccia, ma sarei felice di sbagliare». A parlare è Alfonso Botti, storico, ispanista e firma nota ai lettori del manifesto. Docente dell’Università di Modena e Reggio Emilia, è condirettore della rivista «Spagna contemporanea» e dal 2015 di «Modernism».
Si è occupato di nazionalismi e del rapporto tra cattolicesimo e modernità tra Otto e Novecento – Nazionalcattolicesimo e Spagna nuova, 1881-1975 (1992), La questione basca (2003), Storia della Spagna democratica (2006) con C. Adagio – facendo alcune incursioni nella storia politica spagnola più recente: Politics and Society in Contemporary Spain. From Zapatero to Rajoy (2013), curato con B.N. Field. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a dare una profondità storica a quanto sta accadendo oggi in Catalogna.
Partiamo dalla storia. Con l’avvento della Repubblica, la Catalogna e i Paesi baschi ottennero i loro primi Statuti di autonomia in una Spagna finalmente decentrata. Anche per questo i militari si sollevarono provocando quella guerra civile che spazzò via, con la democrazia, l’autogoverno catalano (e basco). Come è cambiata la questione dei nazionalismi periferici nel corso del Novecento?
«Vedo due costanti nell’evoluzione storica dei due nazionalismi: emergono (e riemergono) in concomitanza delle crisi economiche e si radicalizzano ogni qualvolta Madrid li reprime o respinge richieste di maggiore autonomia. Più forte dell’esplicita richiesta d’indipendenza è sempre stata la domanda di sovranità, cioè del diritto di decidere. Il quale, certo, è stato anche un’eufemistica copertura delle reali aspirazioni, ma lasciava aperta la strada a soluzioni di tipo federale. Aggiungo che non bisogna dimenticare che la Spagna (insieme al Portogallo) è l’unico paese europeo nel quale non sono sorti movimenti xenofobi e populisti di destra. Forse anche perché la presenza dei nazionalismi catalano e basco, entrambi fortemente europeisti, ha agito da deterrente».
Quali sono state le trasformazioni nella composizione politica e sociale del movimento indipendentista catalano?
»A differenza di quello basco (che nacque cattolico integralista e si democratizzò dalla metà degli anni Trenta), il nazionalismo catalano è stato ideologicamente più articolato e punto di confluenza di repubblicani, federalisti, moderati, cattolici democratici e conservatori. Storicamente vi si avverte l’egemonia di una parte della borghesia catalana, con innervature popolari. La novità degli ultimi anni è la forte presenza giovanile, per la quale – sintetizzando – direi che la nazione ha funto da rifugio alla crisi dei progetti fondati sulla classe».
Si può parlare anche di una ripresa di un «nazionalismo spagnolo»? In che modo le vicende catalane degli ultimi anni hanno modificato l’identità nazionale a pochi anni dal lancio del progetto di Zapatero di una «Spagna plurale»?
«Dietro il «patriottismo della Costituzione» ha senz’altro ripreso vigore il vecchio nazionalismo spagnolo, che tuttavia in questo modo sembra prendere le distanze dalla visione centralista tipica della destra spagnola. Con Zapatero era riaffiorata una sensibilità storicamente presente nella tradizione socialista: quella disponibile a discutere un nuovo modello di paese, fondato su una pluralità di nazioni e magari su un federalismo asimmetrico. Problema complesso e di difficile soluzione, ma che almeno Zapatero aveva colto come urgente, facendo sì che il nuovo Statuto catalano, che conteneva la controversa definizione della Catalogna come nazione, fosse approvato dalle Cortes nel 2006. I popolari di Rajoy ricorsero al Tribunale costituzionale, con le conseguenze che ora abbiamo davanti agli occhi.
Centinaia di sacerdoti catalani si sono schierati a favore del referendum, i loro vescovi hanno invitato al dialogo».
Come interpretare il ruolo della Chiesa spagnola in questa fase e anche in relazione alla sua storia?
«Sulla questione nazionale la faglia che divide la società spagnola e catalana attraversa anche la Chiesa da oltre un secolo. Negli ultimi mesi ho studiato sui documenti dell’Archivio Segreto Vaticano l’atteggiamento della S. Sede di fronte ai nazionalismi catalano e basco, costantemente alla ricerca di quella legittimazione che da Roma non ebbero mai. Anzi, la S. Sede stigmatizzò a più riprese il clero nazionalista perché faceva politica, come se quello spagnolista non facesse altrettanto».
La linea di Podemos e quella dei socialisti. Quale percorso alle spalle? E oggi in che modo l’esplosione della questione indipendentista interroga questi due soggetti e, più in generale, le diverse sinistre spagnole?
«Durante la lotta antifranchista socialisti e comunisti sostennero il principio dell’autodeterminazione di catalani e baschi. Morto Franco, cambiarono bruscamente posizione e con la Costituzione del 1978 pensarono di aver trovato la quadratura del cerchio. Podemos e l’area post-comunista si collocano nel solco di quella tradizione, il PSOE forse vorrebbe, ma non può. La vecchia guardia dei Felipe González, Alfonso Guerra e il socialismo andaluso di Susana Díaz tengono in ostaggio Pedro Sánchez. Voglio essere chiaro: a mio avviso non è di sinistra essere nazionalisti, mettere mano alla Costituzione sì».
Quali sarebbero le conseguenze di una secessione per i settori sociali subalterni?
«Le classi popolari hanno pagato i tagli alla spesa pubblica voluti da Artur Mas. Per questo la CUP ha imposto la sua sostituzione alla guida della Generalitat. L’indipendentismo catalano nasconde le proprie profonde divisioni dietro la bandiera della secessione, ma disegnando uno scenario del tutto virtuale non potrebbe governare una Catalogna indipendente. La CUP pensa che l’indipendenza favorirà i lavoratori. Fa venire in mente quel socialismo che nel 1914 pensò che la guerra avrebbe creato le condizioni per la rivoluzione in Europa. Sappiamo tutti cosa venne dopo».
C’è chi ha osservato che non è più possibile contestare il governo centrale senza essere etichettati come indipendentisti e viceversa per quanto riguarda le critiche all’indipendentismo. Quali conseguenze hanno avuto le vicende degli ultimi mesi sulla tenuta del sistema democratico? Si può parlare di un pericolo di “semplificazione” del dibattito politico spagnolo?
«Siamo di fronte alla più grave crisi istituzionale, politica e sociale dal ritorno della democrazia in Spagna. L’attuale polarizzazione delle posizioni cancella le sfumature e con esse la politica nella sua accezione più alta. Lo avverto nelle posizioni dei tanti amici e colleghi catalani e spagnoli con i quali sono in contatto quotidiano. C’è solo da sperare che il sussulto di sensatezza che ha attraversato nei giorni scorsi la Spagna all’insegna del parlem si estenda. Le centinaia di migliaia di catalani andati alle urne configurano un fenomeno di disubbedienza civile, pacifica e di massa che un governo democratico dovrebbe saper leggere e considerare come problema politico a cui dare risposta».
il Fatto quotidiano, 18 ottobre 2017 «
Sulla nuova legge elettorale e il patto scellerato che ne ha assicurato l’approvazione alla Camera si è ormai detto tutto. O quasi. Un punto mi pare sia rimasto ancora al margine nei commenti di questi giorni: il reale rapporto fra la legge e il crescente astensionismo. La legge Rosato istiga alla sfiducia nelle istituzioni perché disprezza la Costituzione e le sentenze della Consulta, insiste sulle liste bloccate, è pensata come una conventio ad excludendum di alcuni partiti ai danni di altri; inoltre, ha costretto il governo a un improprio voto di fiducia che lo delegittima, e, se sarà firmata da Mattarella, ne appannerà la figura.
La sfiducia nelle istituzioni genera astensionismo, questo lo dicono tutti; ma il prevedibile calo di affluenza alle urne viene di solito presentato come un by-product della legge elettorale, un effetto previsto ma collaterale. E se allontanare i cittadini dalle urne fosse invece, in una strategia perversa ma tutt’altro che fantapolitica, scopo primario di una legge come questa? Gli indizi abbondano, a cominciare dai grandi festeggiamenti dopo le Europee del 25 maggio 2014 per il 40,81 % del Pd, definito da Renzi “risultato storico”.
Perciò, un anno dopo aver contestato l’appoggio alla riforma costituzionale del presidente emerito Napolitano con una lettera aperta pubblicata da Repubblica il 4 ottobre 2016 (con risposta di Napolitano), stavolta mi trovo in pieno accordo con le sue pesanti osservazioni sul cosiddetto Rosatellum. Ma non sarebbe forse l’ora, alla vigilia di nuove elezioni, di fare il bilancio degli errori compiuti all’indomani delle elezioni del febbraio 2013 ? Allora il Pd, anziché tentare altre coalizioni anche di limitato scopo e durata, scelse l’abbraccio mortale con Berlusconi. Allora il capo dello Stato pretese irritualmente dal presidente incaricato Bersani di garantire una maggioranza parlamentare prima di presentarsi alle Camere, e Bersani piegò la testa rinunciando al mandato. Allora Beppe Grillo derise apertamente chi invitava M5S e Pd a negoziare una coalizione d’obiettivo, con il programma di risolvere annose questioni come una sana legge elettorale e una legge sul conflitto d’interessi, e i due appelli in merito (9 marzo: Un patto per cambiare, se non ora, quando? e poi 10 marzo: Facciamolo!), pur raccogliendo 200 mila firme in pochi giorni, restarono lettera morta.
Molto è cambiato da allora, ma qualcosa di uguale è rimasto: la scarsa democrazia interna dei partiti, dal Pd al M5S, che favorisce l’astensionismo creando condizioni favorevoli a una politica che sull’astensionismo fa leva; mentre i fuoriusciti dal Pd non trovano nemmeno la strada per far blocco tra loro. La legge elettorale contribuisce a tener fissa la bussola del discorso politico sul “come” e non sul “che cosa”, sulle coalizioni e non sulle necessità del Paese, sui giochi di potere e non sui programmi di governo. Proprio nessuno vuol provare a porvi rimedio? Nessuno vuol provare a capovolgere le regole del gioco, facendo leva sulla democrazia interna di partito e su un chiaro progetto di attuazione dei diritti costituzionali per riportare alle urne quegli stessi giovani elettori che il 4 dicembre mostrarono fiducia nella Costituzione?
il manifesto,
Sarà una giornata per dire no al razzismo, ma anche agli accordi che Italia e Europa stanno siglando con alcuni Paesi africani per imprigionare i migranti sull’altra sponda del Mediterraneo. E contro le leggi Minniti-Orlando su immigrazione e sicurezza che non solo non fanno alcuna distinzione tra chi delinque e chi invece arriva nel nostro Paese in cerca di lavoro, ma aboliscono anche il secondo grado di giudizio per il riconoscimento del diritto di asilo.
Sarà una giornata come a Roma non si vedono da anni. L’appuntamento è per sabato prossimo e sono attese migliaia di persone da tutta Italia. Solo l’Arci – tra le sigle che hanno promosso l’iniziativa insieme a Libera, A Buon diritto, Amnesty International Medu e altre – ha organizzato 22 pullman, altri sette sono attesi dalla Campania e poi da Lecce, Bari, Milano, Genova, Bologna. «Abbiamo bisogno di giovani, ragazze e ragazzi italiani e nuovi cittadini per costruire il futuro di questo Paese» si legge in una lettera-appello firmata da monsignor Raffaele Nogaro, don Luigi Ciotti, Andrea Camilleri, Enrico Ianniello, Moni Ovadia. Toni Servillo, Giuseppe Massafra, Luciana Castellina e Carlo Petrini. Per chi deciderà di aderire alle 14,30 da piazza della Repubblica partirà un corteo che attraverserà via Cavour e via Merulana per concludersi in piazza Vittorio.«Un mondo laico e religioso vasto – spiega una nota dell’Arci – che da sempre è schierato in difesa del diritto di migrare e che agisce in prima persona, anche disobbedendo a decisioni italiane ed europee che sono in aperto contrasto tanto con la nostra Costituzione che con i fondamentali principi internazionali».
Da anni assistiamo a un escalation di comportamenti sempre più aggressivi nei confronti di migranti, rom e qualunque forma di diversità. Dalle ruspe leghiste per spianare i campi rom si è arrivati in poco tempo a siglare accordi con milizie libiche alle quali è stato affidato il compito di impedire ai barconi carichi di disperati di prendere il mare. Il modo in cui questo avviene è, come raccontano innumerovoli testimonianze, tenendo prigionieri uomini, donne e bambini in centri all’interno dei quali le violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno. Da una settimana l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, sta lavorando a Sabrata, in passato uno dei principali punti di partenza dei barconi diretti in Italia, per assistere circa 14 mila migranti che le milizie libiche tenevano prigionieri all’interno di hangar, magazzini, case e fattorie, riuscendo in questo modo a far diminuire notevolmente il numero di sbarchi nel nostro Paese. La maggior parte dei migranti tratti in salvo sono traumatizzati e agli operatori dell’Unhcr hanno raccontato di aver subito violenze sessuali, di essere stati costretti a lavori forzati o a prostituirsi. «La strada degli accordi con i regimi dei paesi dall’altra sponda del Mediterraneo – scrivono tra gli altri monsignor Nogaro e Andrea Camilleri – non solo implica aiuti economici e governi opachi dalla democrazia malconcia, ma il prezzo dell’alleanza con le milizie libiche vuol dire costruire un inferno dove i migranti sono torturati, stuprati o mandati a morire di sete nel deserto, come ha denunciato l’Onu».
Una strada che l’Europa, Italia in testa, sembra decisa a percorrere sempre più e la recenti successi elettorali ottenuti in Germania e Austria da forze xenofobe e populiste non faranno altro che rafforzare ulteriormente questa scelta. Utilizzando anche l’ipocrita distinzione tra rifugiati e migranti economici, «etichette – proseguono i firmatari della lettera-appello – con le quali si classificano gli sventurati che attraversano l’Africa e il Medio Oriente sperando nell’accoglienza dell’Italia e dell’Europa. I rifugiati, come i cosiddetti migranti economici, tentano tutti di sfuggire alla morte».
Al corteo parteciperanno anche numerose realtà e centri sociali dietro uno striscione che ricorderà come «Nessuna persona è illegale». Tra gli altri ci saranno i romani di Baobab, Action, Esc, Communia, ma è è prevista anche la partecipazione di realtà milanesi, bolognesi e da Genova. «Vogliamo essere in piazza – è scritto nell’appello dei centri sociali – perché riteniamo urgente rispondere al clima di odio razziale e di guerra ai poveri che sta imperversando nelle nostre città e che viene alimentato ad arte dal razzismo istituzionale e dallo sciacallaggio d formazioni esplicitamente neofasciste. Vogliamo essere in piazza insieme agli uomini e alle donne migranti che continuano a mostraci grande coraggio e determinazione nel disegnare le proprie rotte e costruire il proprio futuro».
L'appello è pubblicato qui, su eddyburg
Nuova Società
Tra i compagni con cui ho avuto modo di lavorare nel mio lungo percorso di impegno politico a livello istituzionale, Raffaele Radicioni occupa un posto particolare dovuto a due precisi fattori: la specificità dei complessi problemi che assieme abbiamo dovuto affrontare ed il suo carattere mite, saldamente impiantato però sulla coerenza ed il rigore del suo pensiero politico e intellettuale. Anche nei momenti più accesi di maggiore tensione del dibattito nella sala Rossa di Palazzo Civico, Raffo (come lo chiamavano gli amici) non ha mai alzato il tono della voce, rispondeva con pacatezza, punto su punto, anche alle accuse più grossolane che gli venivano rivolte, ad esempio, di voler ostacolare lo sviluppo della città, di essere un antiquato conservatore, contro la modernità e la crescita urbana e quindi anche economica.
Ci fu il caso di due consiglieri del Pci irretiti dalle sirene craxiane, molto di moda in quegli anni, che fecero il salto della quaglia, motivandolo perché contrari alla politica urbanistica dell’Assessore Radicioni che ledeva gli interessi della città. Con tono, si potrebbe dire evangelico, nella riunione del gruppo comunista che precedette l’infuocata seduta del Consiglio con all’ordine del giorno il caso, invitò tutti noi alla calma, quasi scusando i due voltagabbana «perché - disse - non sanno quello che stanno facendo, non sono in grado di capire». Non era altezzosità la sua, era una semplice, implicita critica rivolta al suo partito per il non sufficiente impegno culturale nella battaglia delle idee, tra la gente, per spiegare che il diritto alla casa, ad esempio, non significava costruire, costruire, senza regole, anonimi caseggiati alla periferia, privi di servizi in molti casi, come accade negli anni ’50, ’60, addirittura senza la urbanizzazione primaria: strade, fognature, illuminazione pubblica.
Così la modernità di una città per Radicioni non era decretata dal numero di grattacieli. Anche se il problema si pose con l’opera di una star dell’architettura, di un amico, un maestro sicuramente progressista collocato a sinistra, come Renzo Piano, progettista della sede dell’Istituto Bancario San Paolo, per soddisfare l’ambizione, per non dire il capriccio, dell’allora presidente dell’Istituto che ha voluto lasciare un ricordo di sé medesimo, nella città. Noi (uso il plurale perché anch’io venni così considerato) siamo stati definiti, scherzosamente, ma con un lieve senso di irrisione, “urbamistici”, o “urbamastici”. Torino è stata la culla di questa nuova disciplina, grazie al Movimento di Comunità fondato da Adriano Olivetti. Per essermi iscritto ad un corso tenuto dal prof. Giovanni Astengo, presso la sede di Comunità del mio quartiere, fui criticato poiché avevo ceduto al paternalismo del grande capitalista di Ivrea, dimenticando la lotta di classe. Il settarismo non è mai morto.
Infine voglio menzionare in questo ricordo sicuramente non esaustivo, la coerenza di Raffo contro il dissennato consumo dei suoli, contemporaneamente alla mercificazione, con la compra-vendita, delle cubature. I fautori di questo mercato (compresi molti parroci guidati da un uomo della Curia che hanno venduto la cubatura delle loro chiese ai proprietari delle case confinanti affinché potessero sopraelevare gli edifici esistenti) lo hanno giustificato definendolo in sede politica «urbanistica contrattata», in modo scriteriato sono giunti a fare cassa, per finanziare addirittura la spesa corrente, cioè, la parte ordinaria del bilancio.
Caro Raffo, nel rivolgerti l’ultimo saluto, credo di poter dire a nome di tutti coloro che, non retoricamente amano Torino, che la città ti è debitrice di riconoscenza. Tu hai rappresentato concretamente il vero schieramento progressista e riformatore poiché hai operato per un reale cambiamento ponendo quale base, quale comun denominatore, il valore dell’uomo. La sfida, tuttora aperta, è tra la cultura della “prossimità” e la cultura del “rambismo” che ha al centro esclusivamente il profitto e quindi i consumi. È necessario, come tu ci hai insegnato, riproporre questo confronto senza imbrogli e senza ipocrisie, senza temere l’accusa di non essere moderni: avere la capacità, la volontà, l’intelligenza di misurarsi con i reali valori della modernità significa affrontare le grandi contraddizioni presenti nella società contemporanea, per garantire un futuro a questa “macchina” meravigliosa che è la città dell’uomo.
«Per altro non passa occasione che nel nostro partito autorevoli e valenti compagni ci ricordino giustamente come ritardi e sconfitte, registrati dal movimento riformatore sui temi della casa, del governo della città sarebbero imputabili in ampia misura ad una frattura manifestatasi in alcuni periodi fra idee di riforme illuministe, patrimonio di intellettuali, ed esigenze, aspirazioni, di larghe masse popolari. Bene, io mi domando se dalla vicenda che ho richiamato si debba concludere che il tema del controllo sulla acquisizione della rendita (che penso costituisca uno degli strumenti principali del governo della città, se non il principale) sia da considerare ideologico o comunque fuori dalle possibilità di unità fra esigenze popolari per la casa, per la città, per l'equilibrio del territorio e gli orientamenti, le denunce, le esperienze di intellettuali ed amministratori».
la Repubblica,
Dopo le elezioni tedesche, anche quelle austriache confermano le trasformazioni politiche in corso nel vecchio continente, la cui faccia sta decisamente prendendo una fisionomia di destra, e perfino nazi-fascista. Il populismo è lo stile e la strategia che le vecchie idee di destra (il razzismo, l’intolleranza, l’ideologia identitaria nazionalista, il mito maggioritarista e anti-egualitario) adottano per conquistare gli elettori moderati. I partiti di destra sono quelli che meglio usano questa strategia; ne hanno anzi bisogno per uscire dall’isolamento nel quale l’ideologia socialdemocratica li aveva condannati per decenni.
Sebastian Kurz, alla guida del partito dei popolari, ha trasformato il suo partito in un movimento elastico, aggressivo sui social, attento all’immagine e capace di usare gli argomenti giusti: la paura dell’immigrazione, la preoccupazione per la precarietà occupazionale, l’erosione del benessere.
L’Austria è tra i Paesi più ricchi d’Europa e con una popolazione residente straniera che sfiora il 15%. La campagna elettorale di Kurz è stata radicalmente personalistica (il suo nome ha dato il nome alla lista) e ossessivamente imbastita sulla paura, tanto da fare apparire l’Austria come un Paese straniero agli austriaci, sul baratro economico e con il rischio di avere una maggioranza religiosa islamica. La personalizzazione e la radicalizzazione del messaggio hanno fatto volare il suo partito. Altrettanto vincente la strategia del partito di estrema destra neo-nazista, detto della libertà, guidato da Heinz-Christian Strache che potrebbe essere alleato del partito di Kurz.
La ricetta per il governo del Paese di questa ipotetica coalizione è un misto di protezionismo e liberismo: chiusura delle frontiere agli immigrati, difesa dell’identità culturale cattolica, sicurezza e taglio delle tasse. Liberisti e nazionalisti alleati. Il restyling dei due partiti di destra ha pagato, smussando il messaggio nazista e islamofobico e insistendo su una strategia che da qualche anno sta facendo proseliti a destra.
La critica alla tecnocrazia di Bruxelles non porta più alla proposta di uscire dall’Unione. L’Europa va conquistata, non lasciata. Il populismo transnazionale di destra non propone il ritorno agli stati nazionali indipendenti, non ha nostalgie per un’Europa pre-Trattato di Roma. Comprende l’utilità dell’Unione e vuole però guidarla in conformità a quella che il leader ungherese Viktor Orbán (il primo ad aver lanciato la proposta di una destra populista transnazionale) ha definito come l’identità spirituale del continente: la cristianità. La secolarizzazione, soprattutto nella parte occidentale del continente, è un fatto difficilmente negabile. E quindi l’appello alla cristianità ha poco a che fare con la spiritualità religiosa e molto con l’identità nazionale. Il populismo di destra è oggi un progetto identitario transnazionale.
La storia del populismo è innestata nella storia della democrazia; una competizione con la democrazia costituzionale sulla rappresentanza e la rappresentazione del popolo, che nei Paesi europei è in effetti la nazione. La tendenza a identificare il popolo con un’entità organica omogenea è il motore che muove questa potente interpretazione della sovranità come sovranità di una parte, maggioritaria, contro un’altra, per umiliare l’opposizione e soprattutto le minoranze culturali.
Le democrazie del dopoguerra hanno neutralizzato questa tendenza olistica articolando la cittadinanza nei partiti politici. E il dualismo destra/sinistra è stato un baluardo di protezione della battaglia politica dalle pulsioni identitarie, nazionaliste e fasciste. La fine di questa distinzione è oggi il problema; essa è stata favorita dalla sinistra stessa che, nel solco del blarismo ha sostenuto la desiderabilità di andare oltre la divisione destra/sinistra. Una iattura che ha preparato il terreno alla destra.
L’uso di strategie comunicative populiste si dimostra vincente anche perché l’audience è informe e con deboli distinzioni idelogiche; facile da conquistare con messaggi generici, gentisti diremmo, ovvero basati sul buon senso e capaci di arrivare a tutti indistintamente. La caduta di partecipazione elettorale, che l’erosione della distinzione destra/ sinistra ha portato con sé, è un segnale preoccupante di cui purtroppo quel che resta della sinistra non si avvede. L’esercito elettorale di riserva è pronto, depoliticizzato abbastanza da essere catturato da messaggi populisti di destra, generici, e molto semplici.
Il caso austriaco, come quello tedesco di poche settimane fa, è quasi da manuale nel dimostrare quanto danno abbia fatto alla democrazia la convinzione che destra e sinistra appartengano al passato. Di questa insana idea si approfitta la destra, che da parte sua non ha mai messo quella distinzione in soffitta.
l'Avvenire
Il rappresentante Alto commissariato Onu per i rifugiati a Tripoli racconta il caos di Sabratha. «Compiute 730 visite nei centri ufficiali di detenzione e ottenuta la libertà per 1.400»
«I violenti scontri tra milizie della zona di Sabratha hanno provocato prima di tutto un altissimo numero di sfollati interni, cittadini libici che stanno affrontando nuovamente situazioni di precarietà e disagio. E poi sono state scoperte diverse prigioni clandestine dove erano rinchiusi migliaia di rifugiati e migranti, almeno 10 mila persone per stare a una stima prudenziale, che si trovavano in attesa di poter attraversare il Mediterraneo e che oggi stiamo assistendo».
Roberto Mignone è il rappresentante dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati in Libia. Risponde, considerato il ruolo e il contesto, calibrando il tono e le parole. L’agenzia guidata da Filippo Grandi ha scelto per il non facile ritorno a Tripoli un funzionario con una lunga esperienza negli interventi di risposta rapida in situazioni d’emergenza. Solo nel 2016, da Principal emergency response coordinator dell’Acnur, Mignone è intervenuto durante emergenze e catastrofi in Burundi, Senegal, Ecuador, Honduras, Guatemala, El Salvador, Panama, Venezuela, Sud Sudan e Iraq.
Qual è la situazione a Sabratha?
«Da una settimana lo staff dell’Agenzia Onu per i Rifugiati è al lavoro per far fronte agli urgenti bisogni umanitari nella città e nelle zone limitrofe. Non facciamo differenze, perciò le Nazioni Unite stanno assistendo tutte le persone che necessitano di aiuti, e tra queste vi sono decine di migliaia di libici sfollati interni, anch’essi vittime troppe volte dimenticate di questa crisi. Al termine degli scontri, 3.000 famiglie libiche sono state costrette ad abbandonare le proprie case e più di 10.000 tra rifugiati e migranti sono in difficoltà e hanno bisogno urgente di assistenza. Ci sono 2.000 famiglie che hanno fatto ritorno nelle loro abitazioni, ma necessitano comunque di assistenza. Più di 500 sono le case danneggiate o distrutte dai colpi di mortaio e dai bombardamenti. Le autorità locali parlano anche di un certo numero di scuole danneggiate e stiamo lavorando per riaprirle».
Migranti e rifugiati si sono trovati nel mezzo delle periodiche battaglie. Con quale risultato?
«I combattimenti hanno permesso di scoprire un imprecisato numero di prigioni clandestine, sotto il diretto controllo delle milizie e dei trafficanti di uomini. E da queste migliaia di persone sono scappate. Migranti e rifugiati sono stati trasferiti nell’hangar che si trova nella zona di Dahman, dove questo sito sta iniziando a essere utilizzato come punto di raccolta e ospita al momento 4.500 persone».
Quali sono le vostre priorità in Libia?
«Innanzitutto lavorare sull’identificazione dei casi più vulnerabili, persone che rischiano di essere trasferite nei centri di detenzione. L’Acnur ha già fatto presente alle autorità la necessità che i rifugiati al momento detenuti vengano rilasciati immediatamente e trasferiti in un posto sicuro dove possiamo fornire loro assistenza. Intanto lavoriamo a stretto contatto con le autorità di Sabratha, Sorman e Zuara, per individuare e avviare progetti di risposta rapida, compresa la riapertura delle scuole per gli sfollati interni».
Riuscite ad avere libertà di movimento all’interno del Paese?
«A giugno un convoglio delle Nazioni Unite è stato attaccato a colpi di mitra e bazooka e solo per un caso non è stata una strage di funzionari internazionali. Nonostante questo, il personale internazionale dell’Acnur viaggia ogni settimana in Libia per missioni di rotazione. Io stesso sto aspettando dalle Nazioni Unite (che valutano i rischi per la sicurezza e autorizzano o vietano gli spostamenti, ndr) il via libera per raggiungere Sabratha».
L’Acnur riesce ad accedere nei centri di raccolta dei migranti? Che tipo di lavoro riuscite a compiere?
«Ad oggi abbiamo compiuto 730 visite nei centri di detenzione ufficiale, dove interveniamo per offrire cure mediche, assistenza materiale, e per identificare i casi su cui possiamo intervenire per ottenerne il rilascio (1.400 le persone liberate nel 2016, ndr) e la concessione dello status di rifugiato, ma si tratta di procedure complicate perché bisogna sempre concordare tutto in anticipo con le autorità libiche».
Cosa chiedete in particolare alle autorità di Tripoli?
«Fino ad ora abbiamo registrato 43.133 persone come rifugiati o richiedenti asilo. Di questi l’85% era in Libia da tempo. Ma non dimentichiamo che ci troviamo ad agire in un contesto precario. La Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra sullo stato dei rifugiati del 1951, e Tripoli non ha neanche un memorandum con l’Acnur. Quello che ci permettono di fare è registrare e identificare i migranti, su cui discutiamo caso per caso per riconoscere la protezione internazionale».
Cosa dovrebbero fare la comunità internazionale e Paesi come l’Italia, che sono in stretto contatto con il governo riconosciuto, per facilitare il vostro lavoro?
«Un esempio: stiamo cercando di negoziare con le autorità anche sul numero di nazionalità meritevoli di protezione, in modo da poterle ampliare poiché la Libia ammette solo un ristretto gruppo di provenienze. Ma qui abbiamo casi di profughi da Yemen, Sud Sudan, Congo. Ci sono poi anche profughi siriani, arrivati quando nel loro Paese era scoppiata la guerra. Per il momento Tripoli non ne riconosce lo status, ma confidiamo di ottenere risultati in tempi brevi. E crediamo che queste istanze siano ben note a quanti nel mondo si relazionano e possono insistere con Tripoli».
il Fatto Quotidiano
il Fatto Quotidiano,
il manifesto, 14 ottobre 2017.
L’intervento è stato fatto in chiusura dell’incontro organizzato nel cuore del Tuscolano, in piazza Giulio Agricola, davanti alla gigantesca basilica di San Giovanni Bosco, la stessa che è stata ingiustamente resa nota nel 2015 dai funerali di Vittorio Casamonica, già considerato uno dei «Re di Roma», accusato di usura, racket e traffico di stupefacenti. La stessa chiesa fu negata nel 2006 per i funerali di Piergiorgio Welby, militante del Partito Radicale, deceduto dopo l’intervento del personale medico che decise di rispondere alla sua volontà di terminare la sua agonia. La «Rete dei numeri pari» ha voluto organizzare l’incontro per dimostrare l’esistenza di una società diversa. «Da qui vogliamo dire che esiste un’altra Italia – ha detto Giuseppe De Marzo (Rete Numeri Pari) che pensa che la solidarietà sia un elemento distintivo della democrazia e provano a evidenziarlo costruendo percorsi di mutualismo in tutto il paese». In piazza si è tenuto un pranzo sociale, mentre il giornale di strada «Shaker, pensieri senza fissa dimora» – prodotto dal centro di accoglienza e di prima assistenza ai senza fissa dimora «Binario 95» alla stazione Termini – è stato distribuito dai suoi redattori.
Dal palco della manifestazione è stata declinata un’agenda politica basata sul diritto alla casa, su quello allo studio, sui diritti delle donne e la dignità delle persone. A questi temi Don Ciotti ha aggiunto due nodi importanti: lo «Ius soli» e la legge elettorale. «Lo Ius Soli – ha detto – è una legge giusta, mi fa piacere l’impegno del presidente del Consiglio ad approvarlo in questa legislatura». E sulla legge elettorale: «È terribile, è la democrazia che viene calpestata». «L’inclusione sociale sta alla base della democrazia – ha aggiunto Don Ciotti – Alzate la voce quando gli altri scelgono un comodo silenzio. Se molti diritti sono stati calpestati è anche colpa nostra che non li abbiamo difesi abbastanza». «La speranza si costruisce partendo dai poveri ha aggiunto – Da lì si deve partire – ha aggiunto – ad alta voce, per restituire l’economia alla vita, perché se così non è, non sappiamo che cosa farcene di questa economia».
la Repubblica
Joan, come è iniziato il suo coinvolgimento con questa serie di concerti per Lampedusa?
il Fatto Quotidiano,
la Repubblica,.» (c.m.c.)
La maggior parte dei commentatori della legge elettorale in discussione in Parlamento assume come punto di vista le ragioni, buone o cattive che siano, dei partiti e di coloro che ne fanno parte. Ma, una legge elettorale deve essere considerata anche, anzi soprattutto, dalla parte degli elettori, i cui diritti mi paiono sottovalutati, per non dire ignorati. I cittadini, invece che come protagonisti di quel momento-clou della democrazia che sono le elezioni, sono trattati come pedine d’un gioco nelle mani di chi sta sulla loro testa. In democrazia, dovrebbe essere piuttosto il contrario. Si tratta di cose ovvie e il fatto che debbano essere dette indica di per sé che si è perso il contatto con la realtà.
In primo luogo, non qualunque legge elettorale è compatibile con il rispetto dell’elettore, ma solo la legge sufficientemente chiara da essergli facilmente comprensibile. Si deve sapere qual è il valore del proprio voto, cioè come verrà utilizzato nel procedimento elettorale che parte da lui e si conclude con l’assegnazione dei seggi in Parlamento. La storia dei sistemi elettorali in Italia è una storia di progressiva complicazione, giunta ora al punto dell’incomprensibilità.
È nata perfino una nuova figura professionale: quella degli esperti-tecnici di sistemi elettorali. Solo loro ne capiscono qualcosa e non sempre sono d’accordo su ciò che credono di avere capito. Ogni complicazione rispetto a idee chiare e semplici corrisponde all’interesse particolare di questo o di quel partito o gruppo politico, onde è facile concludere: tante complicazioni, altrettante manipolazioni. Oggi siamo arrivati a un vertice forse non più superabile. Si dirà: i sistemi elettorali, tutti, sono congegni complicati. Ma, c’è un limite che sarebbe bene non superare per evitare che i cittadini, quando vanno a votare, non sappiano quello che fanno, che siano marionette mosse da fili che nemmeno riescono a vedere e a comprendere. Esagerazione? Si vada agli articoli 77, 83 e 83 bis della legge ora approvata dalla Camera e si dica se si capisce qualcosa circa il computo e la valenza del voto per l’elezione dei candidati nelle due quote previste, la quota uninominale e quella proporzionale.
Il legislatore si è reso conto della perversione e ha pensato due cose. La prima è di affiancare “esperti” agli organi cui spettano lo scrutinio e la proclamazione dei risultati e degli eletti (questa, per la verità, non è cosa nuova, ma una conferma che sul legislatore elettorale le complicazioni esercitano un’irresistibile forza attrattiva). La seconda è di scrivere sulla scheda elettorale le “istruzioni per l’uso”. Così l’elettore, ricevuta la scheda, dovrebbe studiare prima di votare. Se ha dei dubbi, forse potrebbe interpellare il presidente del seggio. Il presidente del seggio, eventualmente, potrebbe voler sentire qualche parere, perché si tratta di cose importanti.
Basta immaginare che cosa potrebbe accadere per rendersi conto della ridicolaggine o, se si vuole, della presa in giro. Molti saranno scoraggiati dall’andare a votare, più di quanti già siano. La platea dei votanti, e con essa la democrazia, si sta contraendo a coloro che in qualche modo e per qualche ragione militano in un partito o in un movimento. Ma, le elezioni non dovrebbero essere solo per i “militanti”. Si diffonde così l’idea della politica come cosa riservata a una nuova oligarchia che degli interessi generali poco si cura, preferendo dedicarsi principalmente agli interessi suoi e a regolarli al proprio interno. A qualunque oligarchia e anche a questa, la partecipazione politica importa niente. Anzi, è un fastidio. Per questo la crescente diserzione dalle urne non suscita preoccupazione, non suona come un campanello d’allarme.
Ancora dal punto di vista dei diritti dell’elettore, un punto critico della legge è il voto unico che vale per due fini diversi. Il sistema elettorale è congegnato in modo tale da sommare una parte di eletti con un sistema uninominale maggioritario (il 36 per cento) con un’altra parte di eletti secondo un sistema proporzionale di lista (il 64 per cento). Per questa seconda parte, le liste dei candidati sono prestabilite dai partiti e sono bloccate, non esistendo il voto di preferenza. Qui s’innesta la polemica sui “nominati”, che continueranno a prosperare per i due terzi o, dicono alcuni, per il cento per cento, posto che anche i candidati nei collegi uninominali saranno necessariamente indicati dai partiti. Di questo si è discusso ampiamente e non è il caso di ritornarci su.
Invece da discutere è il meccanismo per cui l’elettore è chiamato a esprimere il suo unico voto per scegliere il candidato nel collegio uninominale e quel suo voto è calcolato anche per eleggere i candidati nelle liste proporzionali a lui collegate. Uninominale e proporzionale sono due sistemi basati su logiche addirittura opposte. Mescolarli significa di per sé fare confusione e adulterare artificiosamente la rappresentanza che può essere concepita o nell’un modo o nell’altro, ma non e nell’uno e nell’altro: le idee di giustizia elettorale sono incompatibili. Come può lo stesso voto valere la prima volta per un sistema e la seconda per il sistema opposto? Si dirà: anche in passato c’è stato questo mescolamento, con il sistema detto Mattarellum. Tuttavia, allora l’elettore disponeva di due voti, per l’una e per l’altra quota della rappresentanza. Oggi, egli può trovarsi nella contraddittoria posizione di volere eleggere il candidato maggioritario, ma di non voler contribuire a eleggere i candidati proporzionali della lista bloccata preconfezionata per lui (qualcuno direbbe: propinata) dal partito, oppure viceversa.
È un sistema tecnicamente bastardo che nell’uno o nell’altro caso coarta la libera volontà dell’elettore. Anche a questo proposito si vede con quanto poco rispetto i cittadini elettori siano considerati dal loro legislatore. Poiché più volte la Corte costituzionale in passato e con insistenza ha ritenuto illegittimi i sistemi di voto che coartano in questo modo la libera volontà dell’elettore, cioè i sistemi nei quali non è garantito il rapporto uno a uno, una scelta un voto, è facile di previsione che i dubbi d’incostituzionalità su questo punto tutt’altro che marginale siano difficilmente superabili.
Si poteva sperare che l’occasione della legge elettorale fosse colta per cercare di colmare l’enorme fossato che separa la maggioranza dei cittadini dalle espressioni della politica. Bisogna riconoscere che l’occasione è andata sprecata, che anzi ciò che abbiamo davanti agli occhi è l’allargamento del fossato. Che cosa ci dicono le piazze contrapposte al “palazzo”? Le prime ribollenti, il secondo che procede imperterrito come se niente fosse. Che cosa ci dice l’astensione già altissima che si preannuncia ancora più alta, a testimonianza di umori, questi sì, antipolitici perché intrisi di rabbia e di repulsione nei confronti di una politica sempre più, come si dice, “autoreferenziale”? C’è poco da consolarsi guardando all’astensionismo di altri Paesi: là c’è disinteresse ma qui c’è disprezzo. E dove tra i rappresentanti e i rappresentati c’è disistima diffusa, lì la democrazia è a rischio. Il coperchio può saltare da un momento all’altro e sprigionare energie di qualunque temibile natura. C’è qualcuno che seriamente si rende conto di questo pericolo?
Tra governanti e governati, quale che sia il sistema costituzionale, è sempre esistito un solco. È inevitabile. La dimensione, però, è variabile, e la democrazia non può permettersi che s’allarghi oltre misura. Oggi la misura è certamente già superata. Solo il fatto che vi sia un movimento che finora ha parlamentarizzato e quindi politicizzato lo scontento impedisce di vedere chiaramente quanto il solco sia largo e profondo. Per rendersene conto basterebbe ascoltare i discorsi che si fanno liberamente nelle strade e nelle piazze tra persone che, una volta, si sentivano parti d’una comunità politica e ora non più. Vogliono solo essere lasciati in pace. Con questo popolo dei diseredati della politica, i politici hanno progressivamente perso il contatto.
Per lo più, nel migliore dei casi, ascoltano quello che resta dei loro militanti e dei loro elettori e lì tra loro, ovviamente, trovano consolazioni. Ma, così, si condannano ad avere una visione distorta e tranquillizzante della realtà. Oppure, avvertono pericoli e s’inquietano. Ma, per arginare questo risentimento, invece di conoscerne e riconoscerne le ragioni, finiscono per rinforzarlo chiudendosi nel bunker ch’essi stessi hanno eretto a propria difesa. Tanti mezzi difensivi sono utilizzabili; tra questi anche le leggi elettorali. Che le elezioni servano a una classe politica per difendersi, e non per aprirsi, non è, però, cosa della democrazia.
il manifesto
Dai bonus alle permanenze oltre limite, il modello di accoglienza funziona ma cozza con la burocrazia, da cui l'inchiesta della procura. Ma lui dice: sono innamorato dell'onestà e della giustizia, non ho niente da nascondereono arrivati in tanti, da tutta la Calabria e oltre, per sostenere il sindaco di Riace, Mimmo Lucano. La procura di Locri lo indaga per «abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche in relazione alla gestione del sistema di accoglienza».
Lui ha lo sguardo indignato ma sicuro delle proprie ragioni. E si commuove davanti all’affetto di tanti compagni: «Ciò che dirò in procura martedì prossimo, lo dico adesso a voi. Ribadisco la piena fiducia nel lavoro dei magistrati». Poi racconta l’inizio di quello che oggi è definito il modello di accoglienza Riace.
Cominciò tutto nelle famiglie riacesi che ospitavano i profughi, in modo spontaneo. «Io sono partito una ventina d’anni fa, con i miei ideali, quando ho conosciuto Dino Frisullo e la causa curda», spiega Lucano ripercorrendo le tappe che hanno portato all’apertura del fascicolo da parte della procura.
«C’è stata – prosegue – un’attività di monitoraggio nel luglio 2016 che ha messo in evidenza delle irregolarità burocratiche. Dopo pochi giorni abbiamo ricevuto un’altra visita ispettiva da parte dei funzionari della prefettura di Reggio Calabria. E nonostante noi lo abbiamo richiesto diverse volte, non ci è stato mai fornito l’esito di questa ispezione».
Eppure finì sul tavolo di un cronista de Il Giornale che – aggiunge il sindaco – «la usò per denigrare il nostro operato. Persino Forza Nuova e Fiamma Tricolore misero mano a quella relazione, quando vennero a manifestare qui contro di noi».
Il rapporto con la prefettura rimane in effetti ancora pieno di ombre. Non potrà mai recepire la dimensione umana dell’accoglienza. «Quella dimensione che non può scadere dopo 6 mesi, come prevederebbe la normativa», precisa il primo cittadino con riferimento a una delle contestazioni che gli vengono mosse: l’utilizzo dei fondi a sostegno di migranti non più ospitabili perché i progetti sancirebbero il loro allontanamento alla scadenza dei 6 mesi. Eppure sono ben 80 le persone che lavorano nei progetti, più altre 14 dopo la creazione di un asilo nido multietnico.
«La nostra è un’economia diffusa in cui è difficile per le mafie avere un controllo perché è coinvolto tutto il territorio. E a proposito, mi piacerebbe vedere le carte relative ai controlli sulle strutture di Isola Capo Rizzuto e Crotone», attacca Lucano, precisando che i suoi familiari “sono stati costretti ad andare via per cercare lavoro altrove, mentre sul mio conto corrente io possiedo solo 500 euro».
Per quanto riguarda la questione dei bonus, rivendica la correttezza del suo operato: «Serviva una moneta locale per l’accesso ai servizi sul territorio locale». Gli sembrava infatti assurdo che profughi sfuggiti alla guerra dovessero pure subire i ritardi della burocrazia italiana nell’erogazione dei fondi.
«Sono più innamorato della giustizia che della legalità», chiosa il primo cittadino, denunciando i limiti di una legalità strabica, che spesso autorizza delle grandi ingiustizie sociali ma non riconosce diritti elementari.
«Che cosa potrei raccontare ai miei figli ed a tanti compagni venuti qui da altre parti del mondo, se commettessi atti disonesti? Noi non siamo legati ad un partito, ma ad ideali forti».
Scattano in piedi tutti i presenti. Spontaneo affiora un applauso che sembra non finire mai. Dopo Lucano, prendono la parola in tanti.
Omar, arrivato qui dal Ciad nel 2012, spiega il meccanismo perverso che porta molte amministrazioni dei progetti Sprar a chiedere prestiti alle banche quando non riescono a coprire le spese per l’accoglienza: «Sono costrette a contrarre prestiti per anticipare i fondi che vengono erogati con molto ritardo. Spesso sono a tassi agevolati, ma non è giusto usare i fondi pubblici per pagare le banche. Con i buoni, noi permettiamo ai profughi di fare acquisti, aiutando anche le piccole realtà locali a restare in vita, e quando i soldi arrivano, ripaghiamo i debiti».
Tramonta il sole alle spalle di Riace. Ma tutto è ancora più chiaro, adesso, dopo le parole del popolo dell’accoglienza.
Internazionale
Contraddizioni
La lotta in questi contesti è più aspra che altrove, ed è lì che sta emergendo una generazione nuova di delegati sindacali stranieri: sia nei sindacati confederali, sia – e spesso soprattutto – in quelli di base. Cominciano a essere loro la prima forma di rappresentanza di un’Italia diversa. Ma da qui a una rappresentanza più vasta ancora ce ne vuole. Finora, non si è ancora superata la dimensione locale o quella dei sindacati di categoria.
il manifesto
E’ imperdonabile dopo una legge elettorale rigettata dalla Consulta per i suoi tratti incostituzionali. Imperdonabile che una legge rigettata e prodotta per emendare una precedente formula invalidata perché anch’essa contraria ai principi della Carta, il governo riprovi nel mestiere della manipolazione della tecnica di trasformazione dei voti in seggi. Un capo politico che ha per ideologia la “rottamazione” non può che sprigionare una immensa carica distruttiva.
Desta semmai meraviglia che gli osservatori che lo hanno a lungo incensato parlino solo oggi di “colpo di mano” o persino di legge “fascistellum” non cogliendo che le laceranti prove di forza in aula sono i frutti del tutto prevedibili dell’ideologia della rottamazione. Che Renzi conduca all’eutanasia il suo non-partito è irrilevante. Che distrugga, con la sua opera provocatoria, anche degli assi portanti della repubblica è invece una cosa piuttosto grave.
Il successo del no a dicembre era un macigno scagliato non solo contro il governo, costretto ad archiviare la grande riforma che “da 70 anni il paese attendeva”. Conteneva anche una censura esplicita verso la condotta poco accorta di ben due presidenti. Di sicuro non si può invocare il soccorso del Quirinale per arginare prove di arbitrio che attengono per intero alla deriva della cultura politica del Pd che è diventato il principale attore dell’agguato alla costituzione. Ma la campana del 4 dicembre ha suonato anche per il Colle.
Che dopo 10 anni di elezioni illegali di nuovo aleggi lo spettro di una condotta corsara per fabbricare una legge conveniente ai capi (per la nomina del ceto politico obbediente e per la penalizzazione dei concorrenti alla conquista di Palazzo Chigi) è uno scenario che non può che allarmare i custodi. Il capo dello Stato, in condizioni normali, deve tenersi lontano dal gioco politico. Quando però si persevera nell’emergenza, e la competizione si svolge con forzature illiberali delle regole, il distacco non è di sicuro un inchino doveroso all’autonomia della politica ma un gesto di indifferenza al gioco che diventa sempre più sporco.
Rispetto all’abuso di potere, il capo dello Stato è uno degli argini di cui il sistema dispone. Quando nel 2005 Ciampi non si oppose, come invece doveva, al Porcellum seguì una condotta censurabile perché la nuova legge era approvata a ridosso del voto e non si era ancora affermata la consuetudine di un possibile pronunciamento della Consulta. Quindi, in quel tempo, il presidente era il custode fondamentale dell’ordinamento e il suo silenzio sulla legge Calderoli comportò guasti sistemici prolungati. Accettare il conflitto tra poteri è un bene per l’equilibrio delle istituzioni, un malinteso spirito conciliativo provoca invece tensioni istituzionali irreparabili.
Il fatto nuovo della possibilità di un coinvolgimento della corte nel giudizio di costituzionalità del diritto elettorale attenua certamente la responsabilità del controllo iniziale spettante al capo dello Stato. Il sistema delle garanzie alla fine, inventando il controllo della Consulta, ha ritrovato il modo di espellere un intervento incostituzionale denominato Porcellum prima e Italicum dopo. Però la ristrettezza dei tempi che separano dal voto, questa volta non consente un tempestivo vaglio della Consulta per ristabilire la legalità contro gli abissi di una nuova legge elettorale imposta a colpi di voti di fiducia.
Il calcolo (per Renzi e Salvini) è di celebrare il voto di marzo con una formula imposta manu militare con tutti i suoi evidenti vizi per poi rinviare alla prossima legislatura il compito eventuale di rimediare alla manomissione ormai compiuta. Per questo spregiudicato uso del potere, il Quirinale non può rifugiarsi nello scudo della responsabilità affievolita: i margini di correzione a protezione del principio di legalità sono tutti nella penna del presidente.
Il rischio sistemico, dinanzi a deputati nominati in liste solo approvate dal popolo, e con i risvolti di incostituzionalità paventati da Napolitano nella figura del “capo della coalizione”, è di tramutare il presidente in funzionario della minoranza che rinunciando all’intervento sanzionatorio priva l’equilibrio dei poteri di un supporto terzo che è indispensabile.
La conseguenza della firma concessa all’Italicum è stata attenuata dalla riparazione ex post della Consulta. Però sono ancora attive le pesanti conseguenze di una scommessa istituzionale che, su una mera ipotesi (assetto monocamerale), ha costruito il meccanismo elettorale maggioritario per la sola camera.
Può il capo dello Stato firmare una seconda legge imposta alle camere con l’arma indebita del voto di fiducia che umilia la funzionalità del parlamento e stravolge la base di una democrazia competitiva con un uso partigiano della tecnica elettorale? La repubblica non sarebbe più la stessa, costretta ad un pendolo pauroso che oscilla tra abuso di potere e ribellione del popolo.
il Fatto Quotidiano
Il Bacio feroce ha il sapore del sangue, come quasi tutto in questa storia di cuccioli selvaggi, vittime e carnefici negli stessi corpi, divisi tra i compiti a casa, i messaggi alle fidanzatine e gli omicidi. Undici mesi dopo La paranza dei bambini, Roberto Saviano torna in libreria con il seguito del romanzo criminale ambientato a Forcella.
Si è, provocatoriamente, candidato contro Luigi Di Maio alle consultazioni dei 5 Stelle: perché?
vocidall'estero, (c.m.c)
Riprendiamo dal sito Voci dall'estero la traduzione in italiano di un articolo comparso sulla webzine Counterpunch l'8 ottobre 2017. Si trattauna ampia analisi sulle origini e la pratica di un fenomeno finora poco esplorato ma già fortemente penetrato nelle mentalità, soprattutto della gente di sinistra: la moderna ideologia “antifascista”, che nel nome si richiama alla rispettata tradizione dei combattenti per la libertà, usurpandone il credito grazie al facile meccanismo associativo, ma nei fatti non è che una degenerazione che include nel concetto di “fascismo” tutto quel che esula dal “politicamente corretto”.All'argomento abbiamo già dedicato un'ampia rassegna su eddyburg.v
“I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti” – Ennio Flaiano, scrittore italiano e coautore di soggetti e sceneggiature dei più grandi film di Federico Fellini.
Nelle ultime settimane, una sinistra totalmente disorientata è stata esortata da più parti a unirsi intorno ad un’avanguardia a volto coperto che si definisce Antifa, per antifascista. Incappucciata e vestita di nero, Antifa è sostanzialmente una variante dei Black Bloc, famosi per scatenare violenza nelle manifestazioni pacifiche in molti paesi. Importata dall’Europa, l’etichetta Antifa suona più politica. Serve anche allo scopo di stigmatizzare gli obiettivi che attacca come “fascisti”. Nonostante il suo nome europeo importato, Antifa è fondamentalmente solo un altro esempio della continua degenerazione nella violenza dell’America.
Precedenti storici
Antifa è salita alla ribalta per il suo ruolo nel rovesciamento della orgogliosa tradizione di “libertà di espressione” di Berkeley, per aver impedito di parlare lì a esponenti della destra. Ma il suo momento di gloria è stato il suo scontro con i conservatori a Charlottesville il 12 agosto, soprattutto perché Trump ha commentato che c’erano “persone valide da entrambe le parti”. Con esuberante Schadenfreude, i commentatori hanno colto al volo l’opportunità di condannare l’odiato Presidente per la sua “equivalenza morale”, dando così una benedizione ad Antifa.
Charlottesville è stata per Antifa l’occasione per il lancio di un successo editoriale: il Manuale Antifascista, il cui autore, il giovane accademico Mark Bray, è un Antifa sia in teoria che in pratica. Il libro “sta avendo un rapido successo“, si è rallegrato l’editore, Melville House. Infatti ha ottenuto subito il plauso di importanti media mainstream, come il New York Times, The Guardian e NBC, che finora non si erano distinti per precipitarsi a recensire libri di sinistra, men che mai quelli di anarchici rivoluzionari.
Il Washington Post ha accolto con favore Bray come il portavoce dei “movimenti di attivisti rivoluzionari” e ha osservato che «il contributo più illuminante del libro è quello sulla storia dell’impegno antifascista del secolo scorso, ma la sua parte più rilevante per il mondo di oggi è la sua giustificazione del soffocamento della libertà di espressione che colpisce i suprematisti bianchi».
Il “contributo illuminante” di Bray è quello di raccontare una versione lusinghiera della storia di Antifa a una generazione la cui visione dualistica della storia, basata sull’Olocausto, l’ha privata delle informazioni e degli strumenti analitici per giudicare eventi multidimensionali come la recrudescenza del fascismo. Bray presenta l’Antifa di oggi come il glorioso erede legittimo di ogni nobile causa dall’abolizionismo in poi. Ma non c’erano antifascisti prima del fascismo, e l’etichetta “Antifa” non si applica in alcun modo a tutti i numerosi avversari del fascismo.
La pretesa implicita di portare avanti la tradizione delle Brigate Internazionali che hanno combattuto in Spagna contro Franco non è altro che un ingenuo meccanismo associativo. Dato che dobbiamo rispettare gli eroi della Guerra Civile Spagnola, una parte di questa stima dovrebbe riversarsi sui loro autoproclamati eredi. Purtroppo, non esistono veterani della Brigata di Abraham Lincoln ancora vivi che possano indicare la differenza tra una grande difesa organizzata contro l’invasione di eserciti fascisti e le schermaglie sul campus di Berkeley. Come per gli anarchici della Catalogna, il brevetto dell’anarchismo è scaduto molto tempo fa, e chiunque è libero di mettere in commercio il proprio generico.
Il movimento Antifascista originale fu uno sforzo dell’Internazionale Comunista di cessare le ostilità con i partiti socialisti europei al fine di costruire un fronte comune contro i movimenti trionfanti guidati da Mussolini e Hitler.
Dal momento che il fascismo si è affermato, e Antifa non è mai stata un serio avversario, i suoi apologeti puntano sull’argomento dello “stroncare sul nascere“: “se solo” gli antifascisti avessero battuto i movimenti fascisti abbastanza presto, questi sarebbero stati stroncati sul nascere. Dato che la ragione e il dialogo non sono riusciti a fermare l’ascesa del fascismo, sostengono, dobbiamo usare la violenza di strada – che, a proposito, fallisce ancora più decisamente.
Questo è totalmente astorico. Il fascismo esaltava la violenza e la violenza era il suo banco di prova preferito. I comunisti e i fascisti combattevano per le strade e l’atmosfera della violenza ha aiutato il fascismo a crescere come un bastione contro il bolscevismo, guadagnando il sostegno fondamentale dei grandi capitalisti e militaristi nei loro paesi, che li hanno portati al potere.
Dal momento che il fascismo storico non esiste più, l’Antifa di Bray ha allargato il proprio concetto di “fascismo” per includere tutto ciò che viola l’attuale canone di Identità Politica: dal “patriarcato” (un atteggiamento prefascista, quantomeno) a “transfobia” (problema decisamente post-fascista).
I militanti mascherati di Antifa sembrano essere più ispirati da Batman che da Marx o anche da Bakunin. Storm Trooper del Partito di Guerra NeoliberaleDal momento che Mark Bray offre le credenziali europee per l’attuale Antifa Usa, è opportuno osservare ciò che Antifa rappresenta in Europa oggi.
In Europa, la tendenza manifesta due forme. Gli attivisti Black Bloc invadono regolarmente diverse manifestazioni di sinistra per distruggere le vetrine e combattere contro la polizia. Queste manifestazioni di testosterone hanno un significato politico minore, se non provocare pubblici appelli a rafforzare le forze di polizia. Sono fortemente sospettati di infiltrazioni della polizia.
Ad esempio, lo scorso 23 settembre, diverse dozzine di ruffiani mascherati in nero, tirando giù manifesti e lanciando pietre, tentavano di assaltare il palco da cui lo smagliante Jean-Luc Mélenchon doveva arringare la folla di La France Insoumise, oggi partito leader della sinistra francese. Il loro messaggio inespresso sembrava affermare che per loro nessuno può essere abbastanza rivoluzionario. Di tanto in tanto, effettivamente individuano a caso uno skinhead da picchiare. Ciò serve a confermare le loro credenziali “antifasciste”.
Usano queste credenziali per arrogarsi il diritto di diffamare gli altri, in una specie di inquisizione informale autoproclamata. Come primo esempio, alla fine del 2010, una giovane donna di nome Ornella Guyet è comparsa a Parigi alla ricerca di lavoro come giornalista in vari periodici e blog di sinistra. Ha “cercato di infiltrarsi dappertutto”, secondo l’ex direttore di Le Monde diplomatique, Maurice Lemoine, che quando l’ha assunta come tirocinante “da subito, intuitivamente, non ha avuto fiducia in lei“.
Viktor Dedaj, che gestisce uno dei principali siti di sinistra in Francia, Le Grand Soir, è stato tra coloro che hanno cercato di aiutarla, solo per avere una spiacevole sorpresa pochi mesi dopo. Ornella era diventata un inquisitore, dedito a denunciare “il cospirazionismo, la confusione, l’antisemitismo e il rosso-bruno” su Internet. Questo ha preso la forma di attacchi personali nei confronti di individui che lei giudicava colpevoli di questi peccati. Quello che è significativo è che tutti i suoi obiettivi si opponevano alle guerre di aggressione degli Stati Uniti e della NATO in Medio Oriente.
In effetti, i tempi della sua crociata coincidevano con le guerre dei “cambi di regime” che distrussero la Libia e la Siria. Gli attacchi prendevano di mira i principali critici di quelle guerre.
Viktor Dedaj era in cima alla sua lista. E c’era anche Michel Collon, vicino al Partito dei Lavoratori belga, autore, attivista e direttore del sito bilingue Investig’action. E anche François Ruffin, produttore cinematografico, editore del giornale di sinistra Fakir, eletto recentemente all’Assemblea Nazionale nella lista del partito di Mélenchon La France Insoumise. E così via. L’elenco è lungo.Le personalità prese di mira sono diverse, ma tutti hanno una cosa in comune: l’opposizione alle guerre di aggressione. Per di più, a quanto ne so, quasi tutti quelli che si oppongono alle guerre sono nella sua lista.
La tecnica principale è la colpa presunta per associazione. In cima alla lista dei peccati mortali sta la critica dell’Unione Europea, associata al “nazionalismo” associato al “fascismo” associato all’ “antisemitismo”, con una tendenza al genocidio. Ciò coincide perfettamente con la politica ufficiale dell’UE e dei governi dei suoi paesi aderenti, ma Antifa usa un linguaggio molto più duro.
A metà giugno 2011, il partito anti-UE Union Populaire Républicaine guidato da François Asselineau è stato oggetto di insinuazioni feroci su siti Internet di Antifa firmati da “Marie-Anne Boutoleau” (uno pseudonimo di Ornella Guyet). Temendo la violenza, i responsabili hanno annullato gli incontri del UPR a Lione. L’UPR ha fatto una piccola indagine, scoprendo che Ornella Guyet era nell’elenco degli oratori di un seminario del marzo 2009 sui media internazionali organizzato a Parigi dal Centro per lo Studio delle Comunicazioni Internazionali e dalla Scuola dei Media e degli Affari Pubblici presso la George Washington University. Un’associazione sorprendente per una così zelante attivista contro i “rosso-bruni”.
Nel caso in cui qualcuno abbia dubbi, “rosso-bruno” è un termine usato per macchiare chiunque abbia generalmente opinioni di sinistra – cioè “rosso” – con il colore fascista “marrone”. Questa accusa può basarsi sul fatto di avere lo stesso parere di qualcuno di destra, sul parlare sulla stessa piattaforma con qualcuno di destra, pubblicare accanto a qualcuno di destra, essere visti in una manifestazione contro la guerra a cui partecipa anche qualcuno di destra, e così via. È un qualcosa di particolarmente utile per il Partito della Guerra, poiché ai giorni nostri molti conservatori si oppongono alla guerra più della gente di sinistra, che si è bevuta il mantra della “guerra umanitaria”.
Il governo non ha bisogno di reprimere le manifestazioni contro la guerra. Ci pensa Antifa.
L’umorista franco-africano Dieudonné M’Bala M’Bala, stigmatizzato per antisemitismo dal 2002 per la sua scenetta televisiva in cui ironizzava su un colono israeliano come parte dell’ “Asse del bene” di George W. Bush, non è solo un obiettivo, ma serve come presunzione di colpevolezza per associazione per chiunque difenda il suo diritto alla libertà di parola – come il professore belga Jean Bricmont, praticamente nella lista nera in Francia per aver cercato di spendere una parola in favore della libertà di espressione durante un talk show televisivo. Dieudonné è stato bandito dai media, denunciato e multato innumerevoli volte, persino condannato al carcere in Belgio, ma nei suoi spettacoli continua a fare il pienone di sostenitori appassionati, e il principale messaggio politico è l’opposizione alla guerra.
Tuttavia, le accuse di essere tolleranti su Dieudonné possono avere gravi effetti sugli individui in posizioni più precarie, in quanto in Francia il semplice accenno di “antisemitismo” può distruggere una carriera. Gli inviti vengono annullati, le pubblicazioni rifiutate, i messaggi non ottengono risposta.
Nell’aprile del 2016, Ornella Guyet è sparita dalla circolazione, in un contesto di forti sospetti sulle sue personali associazioni.
La morale di questa storia è semplice. Rivoluzionari radicali auto-proclamati possono essere la psicopolizia più utile per il partito della guerra neoliberale.
Non voglio dire che tutti, o la maggior parte, degli Antifa siano agenti dell’establishment. Solo che possono essere manipolati, infiltrati o qualcun altro si può spacciare per uno di loro, proprio perché si autorizzano da soli e di solito sono più o meno a volto coperto.
Silenziare il necessario dibattito
Chi è certamente sincero è Mark Bray, autore di The Intifa Handbook. È chiaro da dove proviene Mark Bray, quando scrive (p.36-7): «… la soluzione finale di Hitler uccise sei milioni di ebrei nelle camere a gas, con plotoni di esecuzione, per fame e mancanza di cure mediche in campi squallidi e nei ghetti, con le percosse, facendoli lavorare fino alla morte e portandoli al suicidio per disperazione. Nel continente circa due ebrei su tre sono stati uccisi, compresi alcuni dei miei parenti».
Questa storia personale spiega perché Mark Bray sente con tanta passione il tema del “fascismo”. Questo è perfettamente comprensibile in una persona ossessionata dalla paura che “possa accadere di nuovo”. Tuttavia le ondate emotive, anche le più giustificate, non portano necessariamente saggi consigli. Le reazioni violente alla paura potrebbero sembrare forti ed efficaci quando in realtà sono moralmente deboli e praticamente inefficaci.
Siamo in un periodo di grande confusione politica. Etichettare ogni manifestazione “politicamente scorretta” come fascismo impedisce la chiarezza del dibattito su questioni che hanno molto bisogno di essere definite e chiarite. La scarsità di fascisti è stata compensata identificando la critica dell’immigrazione come fascismo. Questa identificazione, in connessione con il rifiuto delle frontiere nazionali, deriva gran parte della sua forza emotiva soprattutto dalla paura ancestrale della comunità ebraica di essere esclusa dalle nazioni in cui si trova.
La questione dell’immigrazione ha aspetti diversi in luoghi diversi. Nei paesi europei non è la stessa cosa che negli Stati Uniti. C’è una distinzione di base tra immigrati e immigrazione. Gli immigrati sono persone che meritano considerazione. L’immigrazione è una politica che deve essere valutata. Dovrebbe essere possibile discutere la politica senza essere accusati di perseguitare la gente. Dopo tutto, i leader sindacali tradizionalmente si sono opposti all’immigrazione di massa, non per razzismo, ma perché può essere una strategia capitalista deliberata per ridurre i salari.
In realtà, l’immigrazione è un soggetto complesso, con molti aspetti che possono portare a ragionevoli compromessi. Ma estremizzare il problema fa cadere la possibilità di compromesso. Facendo dell’immigrazione di massa la regina delle prove sull’essere fascisti o meno, l’intimidazione di Antifa impedisce una discussione ragionevole. Senza discussione, senza la disponibilità ad ascoltare tutti i punti di vista, la questione semplicemente dividerà la popolazione in due campi, pro e contro. E chi vincerà un tale confronto?
Un recente sondaggio* mostra che l’immigrazione di massa è sempre più impopolare in tutti i paesi europei. La complessità della questione è dimostrata dal fatto che nella maggior parte dei paesi europei la maggioranza della gente crede di avere il dovere di accogliere i rifugiati, ma non approva la continua immigrazione di massa. L’argomento ufficiale secondo cui l’immigrazione è cosa buona e utile è accettato solo dal 40%, rispetto al 60% di tutti gli europei, i quali ritengono che “l’immigrazione è un male per il nostro Paese”. Una sinistra la cui causa principale sono le frontiere aperte diventerà sempre più impopolare.
Violenza infantile
L’idea che il modo per far tacere qualcuno sia di assestargli un pugno sul muso è americana come i film di Hollywood. È anche tipica della guerra tra gang di alcune zone di Los Angeles. Fare banda con quelli “come noi” per combattere le bande degli “altri” per il controllo del territorio è caratteristica dei giovani in circostanze incerte. La ricerca di una causa può conferire a questi comportamenti uno scopo politico: sia fascista che antifascista. Per i giovani disorientati, è un’alternativa all’entrare nei Marines.
L’Antifa americano assomiglia molto a un matrimonio della classe media tra l’Identità Politica e la guerra tra gang. Mark Bray (pag. 175) mostra la sua fonte di Antifa di Washington affermando che il motivo per voler fare parte dei fascisti è di schierarsi dalla parte del “ragazzo più potente del quartiere” e tirarsi indietro in caso di paura. La nostra banda è più dura della tua.
Questa è anche la logica dell’imperialismo statunitense, che dice abitualmente dei suoi nemici: “Non lo capiscono che con la forza”. Anche se Antifa afferma di essere un movimento rivoluzionario radicale, la loro mentalità è perfettamente tipica dell’atmosfera di violenza prevalente nell’America militarizzata.
In un altro verso, Antifa segue la tendenza degli eccessi della Identità Politica che stanno schiacciando la libertà di parola in quella che dovrebbe essere la sua cittadella, il mondo accademico. Le parole sono considerate così pericolose che devono essere istituiti degli “spazi sicuri” per proteggere le persone dalle parole. Questa estrema vulnerabilità al danno causato dalle parole è stranamente legata alla tolleranza per la violenza fisica reale.
Caccia all’oca selvatica
Negli Stati Uniti, l’aspetto peggiore di Antifa è lo sforzo di guidare la disorientata sinistra americana in una caccia all’oca selvatica, seguendo “fascisti” immaginari invece di mettersi apertamente insieme per elaborare un programma positivo coerente. Gli Stati Uniti hanno la loro parte di individui strambi, aggressioni gratuite, idee pazzesche, e individuare questi personaggi marginali, da soli o in gruppi, è una distrazione enorme.
Le persone veramente pericolose negli Stati Uniti sono al sicuro a Wall Street, nei Think Tanks di Washington, negli uffici dirigenziali della sterminata industria militare, per non parlare delle redazioni di alcuni dei media mainstream che attualmente stanno adottando un atteggiamento benevolo verso gli “anti -fascisti”, semplicemente perché sono utili per concentrarsi sull’anticonformista Trump invece che su se stessi.
Antifa USA, definendo la “resistenza al fascismo” come resistenza nei confronti delle cause perse – la Confederazione, i suprematisti bianchi e, per quel che conta, Donald Trump – sta in realtà distraendo l’attenzione dalla resistenza all’establishment neoliberale dominante, che si oppone anch’esso alla Confederazione e ai suprematisti bianchi ed è già in gran parte riuscito a catturare Trump attraverso la sua implacabile campagna di denigrazione. Quel corpo dirigente che, con le sue insaziabili guerre in paesi lontani e l’introduzione di metodi di polizia, ha usato con successo la “resistenza popolare a Trump” per renderlo ancora peggiore di quanto già non fosse.
L’uso facile del termine “fascista” ostacola la identificazione ragionata e la definizione del vero nemico dell’umanità di oggi. Nel caos contemporaneo, i più grandi e pericolosi sconvolgimenti del mondo derivano tutti dalla stessa fonte, difficile da definire, ma a cui possiamo dare l’etichetta provvisoria semplificata di Imperialismo Globalizzato. Questo equivale a un poliedrico progetto di ridefinizione del mondo per soddisfare le esigenze del capitalismo finanziario, del complesso industriale militare, della vanità ideologica degli Stati Uniti e della megalomania dei capi delle potenze “Occidentali” minori, in particolare Israele. Potrebbe essere chiamato semplicemente “imperialismo”, tranne che è molto più vasto e più distruttivo dell’imperialismo storico dei secoli precedenti. È anche molto più mascherato. E poiché non contiene alcuna chiara etichetta di “fascismo”, è difficile denunciarlo in termini semplici.
La fissazione sulla prevenzione di una forma di tirannia che sorse oltre 80 anni fa, in circostanze molto diverse, ostacola il riconoscimento della mostruosa tirannia di oggi. Combattere la guerra precedente porta alla sconfitta.
Donald Trump è un outsider a cui non sarà permesso di entrare. L’elezione di Donald Trump è soprattutto un grave sintomo della decadenza del sistema politico americano, totalmente governato dal denaro, dalle lobby, dal complesso militare-industriale e dai grandi media. Le loro menzogne stanno minando la base stessa della democrazia. Antifa ha portato avanti l’offensiva contro l’unica arma ancora nelle mani del popolo: il diritto alla libertà di parola e di riunione.
Note.
*«Où va la démocratie?», inchiesta della Fondazione per l’innovazione politica a cura di Dominique Reynié, (Plon, Parigi, 2017).
il Fatto Quotidiano,
Fin qui le richieste contenute in una lettera del 28 settembre scorso, evidentemente scaturita da notizie e reportage pubblicati dai più importanti giornali internazionali. Ieri la risposta del ministro Minniti. “Mai navi italiane o che collaborano con la Guardia costiera italiana hanno riportato in Libia migranti tratti in salvo. L’attività delle autorità italiane è finalizzata alla formazione, equipaggiamento e supporto logistico della Guardia costiera libica, non ad attività di respingimento”, chiarisce il titolare del Viminale. “Ci tengo a sottolineare – aggiunge inoltre Minniti – che la più recente strategia italiana, condivisa e apprezzata a livello europeo, è imperniata anche, ma non solo, sul sostegno alle autorità libiche deputate al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori, per favorire una gestione degli stessi e contribuire, obiettivamente, a ridurre il rischio di incidenti e naufragi, rischio che potrà essere azzerato solo con l’interruzione delle partenze”. Ed è proprio questo il nodo: fino a che punto reggono gli accordi ufficiali con le fragili autorità libiche, e quelli “ufficiosi” (ammessi pubblicamente dagli stessi capi delle bande di trafficanti, ma sempre smentiti dalla Farnesina) con le più potenti milizie, soprattutto quelle che si finanziano con il traffico di esseri umani e il contrabbandi di greggio?
A giudicare dalle ultime notizie arrivate dalla Libia sembra che la situazione si stia già sfaldando e che presto assisteremo a una ripresa degli sbarchi. Secondo le notizie riportate da Saleh Graisia, portavoce della “Sala operativa per la lotta all’Isis”, nei giorni scorsi migliaia di migranti sono rimasti intrappolati a Sabrata, a 70 chilometri da Tripoli, dopo essersi ritrovati in mezzo agli scontri tra opposte milizie. Centinaia di morti e feriti, e migliaia di profughi rinchiusi nei centri di raccolta della milizia di Al Ammu, una delle principali organizzazioni del traffico di esseri umani. Nei suoi magazzini, rivelano fonti governative libiche, sarebbero stati ammassati migliaia di profughi pronti a partire. Almeno 3.000 sarebbero stati rintracciati dall’ente che contrasta l’immigrazione clandestina e trasferiti nei campi di detenzione ufficiali. In questi centri, dove ancora scarso è l’intervento e il controllo dell’Onu, sono garantiti i diritti umani?
Il rispetto di questi standard, è la risposta di Minniti alla lettera di Nils Muiznieks “è costantemente al centro del dialogo dell’Italia con le autorità libiche, proprio per favorire forme operative di cooperazione sempre più strutturate con le agenzie delle Nazioni Unite”.
postilla
Da ciò che si comprende, la questione del rispetto dei diritti umani «è costantemente al centro del dialogo dell’Italia con le autorità libiche», ma i fuggitivi sono sempre intrappolati tra il deserto e i campi di concentramento dei trafficanti di schiavi. E Minniti è tranquillo.
la Repubblica,
Vittorio Lingiardi, Mindscapes, Raffaello Cortina pagg. 262
Il modo migliore per cogliere il paesaggio è sedervisi dinanzi facendo altro: leggere, immergersi nei pensieri, fantasticare. Insomma distrarsi. Poi alzare gli occhi e guardarlo all’improvviso, così da cogliere la natura alla sprovvista, «vederla prima che abbia modo di cambiare aspetto». Solo così si riesce a comprendere quello che gli alberi bisbigliano tra loro e a intravedere senza veli il paesaggio stesso: il suo mistero che appare e subito scompare. Così consiglia Nathaniel Hawthorne, l’autore de La lettera scarlatta.
Il paesaggio non è infatti «solo quella porzione di natura che si mostra ai nostri occhi», quanto piuttosto un luogo invisibile in cui il mondo interno e il mondo esterno, natura e psiche, s’incontrano e si confondono, «inaugurando nuovi confini». Vittorio Lingiardi nelle ultime pagine di Mindscapes (Raffaello Cortina), da cui sono tratte queste parole, scrive: «Il paesaggio è la nostra psiche nel mondo».
Lo psichiatra e psicoanalista ha pubblicato un libro inusuale, dove la sua pratica analitica si mescola ai libri letti e alle immagini raccolte nel corso del tempo in un succedersi di osservazioni, commenti, citazioni. Un volume che è insieme narrazione ed esplorazione, racconto e autobiografia per interposta persona. Libro personale, intimo, ma anche rivolto verso il fuori,
cerca di delineare il nesso tra psiche e paesaggio, collocandosi in questo modo a metà strada tra l’una e l’altra realtà.
Ogni essere umano, uomo o donna, ha dentro di sé un paesaggio, quello della propria terra d’origine, e fuori di sé un altro paesaggio, quello che ha incontrato nei percorsi della sua vita viaggiando o migrando altrove per motivi di studio e di lavoro, o per affetto. La parola che dà il titolo al volume è un neologismo; deriva da landscape, termine introdotto alla fine del Sedicesimo secolo in inglese, un vocabolo tecnico utilizzato dai pittori per indicare il paesaggio quale oggetto di raffigurazione. Lingiardi fa una cosa simile: descrive lo spazio vissuto incontrato nel setting analitico; usa le parole, quelle della poesia, intense e assolute, e insieme le immagini di opere d’arte. è un libro-patchwork, in cui riquadri di forme e colori differenti sono cuciti insieme usando il filo dell’emozione.
Ogni pagina è un continuo rivivere e riferire ciò che l’autore ha scoperto e pensato in rapporto al proprio corpo; sia che usi le frasi di un narratore o quelle di un filosofo o psicologo, sia che commenti le immagini, tutto è riferito al proprio corpo. Le parti più belle del libro sono quelle in cui l’autore racconta i suoi pazienti, e quelle in cui ripercorre i libri di colleghi e maestri, come Christopher Bollas. Lo scopo della terapia, come di questo libro, è di «appaesarci», di farci sentire più vicini a noi stessi attraverso il paesaggio. L’esperienza che connota il nostro tempo è quella dello spaesamento: smarrimento, perdita di contatto con il paesaggio interiore ed esteriore.
Il pensiero generativo del libro, dice Lingiardi, appartiene a Jean-Bertrand Pontalis, psicoanalista francese: per avere qualche speranza di essere davvero noi stessi, dobbiamo avere molti luoghi dentro di noi. Il che significa che la nostra psiche si presenta sotto forma di una geo-grafia, e che siamo legati, per vari e complessi motivi, ai luoghi stessi: per amore, per rancore, per nostalgia, per malinconia. I luoghi sono al plurale, quasi mai al singolare. Noi siamo plurali, e per questo abbiamo bisogno di molti luoghi. Lingiardi con la sua curiosità e passione c’insegna che è finita l’epoca monoteistica dell’unico luogo. Abbiamo tante patrie, reali, ideali o immaginarie, tanti paesaggi interiori da coltivare per sopravvivere, per mantenerci in equilibrio, per sognare e immaginare al di là di noi stessi.