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Il manifesto, 19 ottobre 2017 nell’intervista di Chiara Cruciati la fortedenuncia di Jeff Halper, l’attivista israeliano che da una vita combatte per idiritti della Palestina; nella cronaca di Michele Giorgio i recenti atti direpressione dei soldati di Israele contro i palestinesi.

HALPER: «GUERRE CONTRO I POPOLI: IL MODELLO È ISRAELE»Chiara Cruciati intervista Jeff Halper
«Il capitalismo globale reprime i popoli usando il concetto di pacificazione. Ma l’Occidente non ha molta esperienza in questo tipo di conflitti. E Israele gli fornisce armi e high tech», spiega lo storico attivista israeliano Jeff Halper
Guerre contro-insurrezionali, anti-terrorismo,guerre non convenzionali, limitate, guerre a bassa intensità. Nell’ultimodecennio il mondo ha assistito alla trasformazione del concetto di conflittomilitare: da guerre tra Stati e eserciti a guerre contro i popoli. Repressione,stato di polizia, frontiere chiuse al passaggio di esseri umani ne sono laplastica rappresentazione.

In cima alla piramide del mercato globale dellasicurezza c’è Israele, paese che conduce da 70 anni una guerra contro un interopopolo, quello palestinese. Ne abbiamo discusso con ©, fondatore di “The People Yes! Network" e di “Icahd,Comitato israeliano contro la demolizione di case”. In questi giorni è in Italia per la presentazionedel libro La guerra contro il popolo. Israele, i palestinesi e lapacificazione globale (Ed. Epokè).

I sistemi usati oggi in Europa per impedirel’ingresso dei rifugiati lungo le rotte terrestri sono spesso made in Israel.
«Muri, sistemi di sorveglianza, barriere high techche individuano i movimenti umani: è tutto israeliano. Israele vende in Europale tecnologie di confine sviluppate sui palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.Questa è la Palestina globalizzata. Israele sa che i palestinesi nonrappresentano alcuna minaccia ma forniscono un conflitto di basso livello chegli permette di sviluppare armi e sistemi di sicurezza e sorveglianza daesportare sul mercato globale. Israele è all’avanguardia perché ha un popolointero da usare come cavia da laboratorio».

Il libro introduce i concetti di «conflittosecuritario» e «industria globale della pacificazione». Perché il modelloisraeliano è diventato globale?
«L’occupazione israeliana va posta oggi all’internodel sistema capitalista globale che, entrato in crisi, è divenuto maggiormentecoercitivo. Cambia anche la guerra: dalle guerre tra Stati, convenzionali, si èpassati oggi a guerre contro i popoli, repressive di istanze popolari e a bassaintensità. Il capitalismo globale reprime i popoli utilizzando il concetto dipacificazione, ovvero una forma di repressione popolare che rende la baseincapace di reagire e riorganizzarsi.

«E, a parte il caso del Vietnam per gli Stati uniti,il nord globale – il centro del sistema capitalista mondiale – non ha moltaesperienza in questo tipo di conflitti. Ed è qui che Israele si inserisce: hale armi, le tattiche, il sistema di sicurezza e sorveglianza, il sistema dicontrollo della popolazione a cui oggi anelano le classi dirigenti di tutto ilmondo. E questo dà a Israele un potere nuovo, sul mercato militare ma anche sulpiano politico».

Un know how militare che si traduce in cartamonetapolitica e diplomatica?
La sua incredibile influenza è proporzionale albisogno che di Israele ha il capitalismo globale. La chiamo la «politica dellasicurezza» che intreccia l’economia israeliana (fondata sulla commistione traindustria bellica e high tech) a influenza politica internazionale.
Alcuni esempi. L’avvicinamento alla Cina: Israele èil secondo o il terzo esportatore di armi a Pechino, tradizionalmente vicinaalle istanze palestinesi. O la normalizzazione con l’Arabia saudita che sulpiano ideologico dovrebbe essere una nemica ma con cui condivide obiettivi(l’Iran) e bisogni (la repressione interna)».

Durante le proteste di Black Lives Matter negliUsa, gli attivisti palestinesi inviavano consigli su come resistere allecariche della polizia. Se il sistema securitario si globalizza, se ilcapitalismo si globalizza, è possibile che si globalizzi anche la resistenza?
«Il problema è l’assenza della sinistra. Ilcapitalismo è globalizzato, la cooperazione è globalizzata, gli Stati sonoglobalizzati e lo sono anche terrorismo e reti criminali. Solo la sinistra nonriesce a globalizzarsi. Il movimento delle donne non parla agli attivistipro-palestinesi, il movimento per il clima non parla a quello per i dirittidegli afroamericani e così via. I movimenti di base tendono a restare isolati,limitati, a concentrarsi su temi specifici senza fare i dovuti collegamenti conaltre questioni.
«La ragione sta nell’incapacità della sinistra divedere il quadro completo. Le nuove generazioni sono nate e cresciute sotto ilmodello globale del neoliberalismo, un sistema che ha annullato i movimentiglobali e distrutto la collettività, imponendo l’individualismo e la riduzionedei cittadini a consumatori. La sinistra dovrebbe dotarsi di un’agenda globaleche leghi le diverse questioni».

Il neoliberismo vive anche istigando la guerra tragli ultimi.
«Leopinioni pubbliche si sono assuefatte alla violenza di questo modellosecuritario. Il cittadino medio pensa a come proteggersi da soggetti cheapparentemente mettono in pericolo il suo lavoro, la sua casa, i suoi interessi,affibbiando le responsabilità del neoliberismo ai soggetti da questo esclusi.Anche qui Israele è modello ad una visione distorta, al non-impatto del modellorepressivo sulla società».

RAID NELLE SEDI DEIMEDIA PALESTINESI,
ALTRE 2600 CASE PER I COLONI
di Michele Giorgio

«Cisgiordania. Pugno di ferro di Israele nei Territori occupati dopo l'annuncio del governo Netanyahu che non negozierà con un governo palestinese con all'interno il movimento islamista Hamas».

Arresti notturni in Cisgiordania, migliaia di nuove case per coloni, demolizioni di abitazioni a Gerusalemme Est e raid dell’esercito nelle sedi di organi d’informazione palestinesi. Tutto nel giro di poche ore. Notizie che certo non rappresentano una novità nei Territori palestinesi che Israele occupa del 1967. Tuttavia questa escalation potrebbe essere collegata alla decisione del governo Netanyahu di far uso del pugno di ferro contro la riconciliazione tra il movimento islamista Hamas e il partito Fatah.
L’altro giorno è passata nell’esecutivo israeliano la linea del ministro ultranazionalista Naftali Bennett che aveva chiesto di dare una risposta forte all’accordo al Cairo tra le due principali forze politiche palestinesi divise per dieci anni da uno scontro devastante. Il premier Netanyahu che, secondo gli analisti aveva inizialmente scelto una posizione più prudente, ha deciso che il suo governo non negozierà con quello palestinese se al suo interno ci sarà anche Hamas del quale è tornato a chiedere il disarmo.
«Le decisioni del gabinetto israeliano sono una scusa per arrivare a un punto morto» denunciano i palestinesi. Il «no» di Netanyahu al negoziato con il futuro governo di unità nazionale avrebbe lo scopo, aggiungono, di aprire la strada al “piano di pace” dell’Amministrazione Trump che, secondo le indiscrezioni, propone la soluzione della questione palestinese nel quadro di una trattativa tra Paesi arabi e Israele.

Sono 1.323 i nuovi alloggi che saranno costruiti per i coloni israeliani nella Cisgiordania occupata, dove ieri un palestinese avrebbe tentato di accoltellare un soldato israeliano ma è stato bloccato e ferito. Un numero che porta, in appena tre giorni, a 2.646 il totale delle nuove unità abitative negli insediamenti coloniali, rivela l’organizzazione pacifista Peace Now. A questi appartamenti si aggiungono i 31 approvati lunedi, per la prima volta dal 2002, per i coloni nella città di Hebron. Una colata di cemento che non turba il leader dell’opposizione laburista Avi Gabbai che a inizio settimana aveva escluso l’evacuazione anche di una sola colonia nel quadro di un accordo di pace. Poi ha fatto una parziale retromarcia.

Invece vengono demolite subito le case palestinesi “illegali” nei territori sotto occupazione. Tra martedì e ieri le ruspe del comune israeliano di Gerusalemme hanno trasformato in un cumulo di macerie un edificio nel quartiere di Beit Hanina e due abitazioni a Silwan. «Ai palestinesi vengono rilasciati pochi permessi edilizi mentre dal 1967 i governi di Israele sono stati coinvolti nella costruzione a Gerusalemme Est di 55mila case per israeliani contro le 600 per i palestinesi», ricorda Daniel Seidemann di “Terrestrial Jerusalem”. L’Onu riferisce che dall’inizio dell’anno sono stati demoliti a Gerusalemme 116 edifici palestinesi.

Sarebbero parte, secondo il portavoce militare israeliano, di una operazione dell’Esercito contro «l’istigazione alla violenza e al terrorismo» i raid compiuti martedì notte negli uffici di otto redazioni giornalistiche palestinesi a Betlemme, Nablus, Ramallah e Hebron, città che ufficialmente sono sotto la piena autorità, anche di sicurezza, dell’Anp di Abu Mazen. I soldati hanno sequestrato computer, documenti, filmati, registrazioni audio negli studi di Pal Media, Ram Sat, Trans Media, Al Quds, Al Aqsa, Palestine Alyoum e di altre due emittenti.

«È stata una brutale aggressione. L’occupazione israeliana vuole prevenire la copertura mediatica delle atrocità che compie», ha protestato il portavoce dell’Anp, Yousif Mahmoud. Immediata la replica dell’Esercito: «Le forze di sicurezza continueranno a lavorare contro l’incitamento al terrorismo». Da Londra la Commissione di sostegno ai giornalisti (Journalist Support Committee) ha condannato i raid, sottolineando che sono 33 i reporter palestinesi nelle prigioni israeliane, gli ultimi due, arrestati ieri, sono i fratelli Amer e Ibrahim al Jaabari di Trans Media. Nelle stesse ore sono stati arrestati altri 16 palestinesi.

il manifesto, 18 ottobre 2017. Un intervento del nostro opinionista nel dibattito sulla sinistra. Per un disguido ci è giunto in ritardo, ma il suo interesse ci sembra immutato

E’ ormai evidente, uno spettro si aggira per i cieli della politica italiana e minaccia la nostra prospera democrazia: la Cosa Rossa. Nessuno sa precisamente che cosa sia, ma assume già caratteri inquietanti. Giuliano Pisapia, che non è ancora riuscito a trovare «la formula che mondi possa aprirci», la indica ormai montalianamente come «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», una deriva minoritaria da scansare come la peste. Il giornalismo politico, che spesso va in cerca di sigle semplici, da qualche tempo la considera come l’indistinto coacervo dell’estremismo italiano. Fabrizio D’Esposito, ad esempio, riferisce « dell’inclinazione massimalista a fare una Cosa Rossa» a sinistra del Partito Democratico. (La corsa a contendersi il mito dell’Ulivo, Il Fatto quotidiano, 10 novembre 2017), contrapposta a «una spinta riformista». Ma pare che la paura per l’indistinta creatura dilaghi anche tra le più alte cariche dello Stato. Circola voce secondo cui la presidente della Camera, Laura Boldrini, «appare lontanissima dalla “Cosa rossa” » (Daniela Preziosi, "MdP-SI verso l’accordo", , 10/10/ 2017). Destino delle parole. E pensare che il termine, il terribile sintagma, apparso lo scorso anno sulle cronache politiche di tutta la stampa italiana, era stato coniato per designare qualcosa di nuovo che stava nascendo a sinistra del PD. Ma destino anche della vita politica di questo davvero malmesso Paese.

Per mesi a sinistra (come del resto a destra, ma forse meno) non si è dibattuto che di posizionamenti, di qua o di là, di leader, questo o quello, di partecipazioni consentite e vietate, tu si tu no, e mai un ragionamento programmatico, una indicazione di contenuto strategico che illuminasse la scena della depressa vicenda politica nostrana. Appena si fa un accenno ai contenuti si ricorre a formulette di pronto uso. Ma in questo caso la semplificazione non è innocente. La Cosa Rossa sta diventando un dispositivo ideologico per bollare con il marchio infamante dell’estremismo, del minoritarismo, del velleitarismo, del massimalismo (altri ismi si aggiungeranno a breve) le uniche forze politiche realmente ispirate da un progetto riformatore. E’ davvero singolare vedere bollati Sinistra Italiana, Possibile, il movimento civico di Tomaso Montanari e Anna Falcone come esponenti di un progetto estremista.

Qualcuno ha avuto la pazienza di leggere la Piattaforma programmatica di Sinistra Italiana, che ha celebrato il suo congresso fondativo nel febbraio di quest’anno? Qualcuno ha trovato velleitarismi eversivi nel discorso di apertura di Montanari al Brancaccio, un esponente che vuole fare dell’applicazione della nostra Costituzione l’asse di un programma strategico? Saremmo al ridicolo, se non fossimo al tragico, alle ulteriori prove di una degradazione culturale della politica nazionale che non sembra conoscere confini. La difesa e l’applicazione della Costituzione diventano programmi eversivi, nonostante il 60% degli elettori italiani abbiano da poco votato per la sua intangibilità.

Ma sotto l’immiserimento colturale o, meglio, di conserva con esso, si cela una trama di pratiche politiche oggi dominante nel fronte che si definisce riformista. La sinistra diventa una Cosa Rossa innominabile e infrequentabile perché impedirebbe le necessarie alleanze con le pattuglie parlamentari del trasformismo militante degli Alfano o dei Lupi, e di qualunque altro transfuga si presti alla bisogna. L’intransigenza politica e morale diventa così settarismo, impedisce elasticità di manovra, flessibilità e adattabilità nelle alleanze. Per alcuni esponenti di MDP e per tanti di Campo progressista, infatti, il riformismo che conta è quello che si fa dai banchi del governo, con buoni piazzamenti negli scranni del Parlamento, e consistente nella realizzazione di “quel che si può”, senza rischiare troppo, tenendo nel debito conto gli equilibri dominanti. Primum vivere.. E’ tale riformismo, indistinguibile da quello del centro-destra, che ha ispirato negli ultimi anni le magnifiche sorti e progressive dell’Italia di oggi.

Avvenire,

L’Italia è un caso esemplare delle grandi malattie economiche delle nazioni cosiddette “avanzate” in questi anni. L’Ocse ha dedicato un lungo rapporto a due dei malanni che affliggono, in misura diversa, tutte le economie sviluppate: l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle diseguaglianze economiche. Dato che le differenze nel successo delle persone sono anche il risultato cumulato di diseguaglianze che emergono fin dai primissimi anni di vita, è la tesi dell’Ocse, ogni governo può organizzare un’agenda di politiche che – agendo su istruzione, sanità, mondo del lavoro e redditi – possono prevenire la formazione delle diseguaglianze per i bambini, mitigare gli squilibri economici che si sono già sviluppati negli adulti, gestirli per i più anziani.

È un tipo di lavoro politico che l’Italia dovrebbe affrontare sul serio e molto presto, dato che è già il terzo paese con l’età media più alta del mondo e con un rapporto tra anziani e persone in età lavorativa destinato a salire dall’attuale 38% al 74% nel 2050 si troverà ad avere una situazione demografica da brividi nel giro di trent’anni. Partiamo già da una situazione molto problematica, fa capire l’Ocse nel “focus” dedicato al nostro paese. Negli ultimi tre decenni la situazione economica e lavorativa dei giovani è drasticamente peggiorata: dalla metà degli anni Ottanta, calcola l’Ocse, i redditi dei lavoratori con più di 60 anni sono saliti del 25% di più rispetto a quelli di chi ha meno di 35 anni. Un squilibrio aumentato quindi con un ritmo quasi doppio rispetto a quello già ampio (13%) della media dell’Ocse.

Questi giovani che si sono fatti più poveri vivono anche una maggiore diseguaglianza dei loro redditi rispetto alla generazione dei loro genitori e dei loro nonni. L’Ocse calcola e compara il livello di diseguaglianza nei redditi per persone della stessa età per i nati negli anni Venti, Cinquanta e Ottanta, e per l’Italia vede una variazione quasi nulla per la classe degli attuali 60enni (+0,6%) e molto più decisa (+4,7%) per gli attuali trentenni. «Dal momento che l’ineguaglianza tende a salire durante la vita lavorativa, una più alta diseguaglianza tra i giovani di oggi porterà probabilmente a una più alta diseguaglianza nei pensionati del futuro, soprattutto dato il forte collegamento tra redditi lavorativi e pensioni» avverte l’Ocse, che sottolinea come in Italia a causa della «mancanza di una forte rete di sicurezza sociale» il livello di ineguaglianza della vita lavorativa si confermi integralmente nella vita da pensionati. In media nelle nazioni dell’Ocse, la diseguaglianza si riduce di un terzo con la pensione. Gli studiosi lanciano un avvertimento esplicito: «Assicurare una pensione decente sarà particolarmente difficile per le persone con bassi livelli di educazione, che hanno meno probabilità di lavorare in età avanzata, e per le donne, perché molte di loro lasciano il mercato del lavoro per prendersi cura dei parenti».

La ricetta per superare questi problemi, concludono i ricercatori dell’Ocse, si basa sul miglioramento dell’offerta educativa in età scolare e pre-scolare. Questo tipo di investimento darebbe più chance ai figli delle famiglie più povere e nello stesso tempo aiuterebbe le donne a partecipare alla forza lavorativa del paese. Dopodiché occorrono migliori interventi per gestire il passaggio dalla scuola al lavoro, contrastare la disoccupazione di lungo periodo e offrire possibilità di formazione per gli adulti.

il manifesto,

«Nel suo discorso del 10 ottobre, Puigdemont ha fatto un mezzo passo indietro. Darebbe prova di responsabilità Rajoy se facesse altrettanto. Dubito che lo faccia, ma sarei felice di sbagliare». A parlare è Alfonso Botti, storico, ispanista e firma nota ai lettori del manifesto. Docente dell’Università di Modena e Reggio Emilia, è condirettore della rivista «Spagna contemporanea» e dal 2015 di «Modernism».

Si è occupato di nazionalismi e del rapporto tra cattolicesimo e modernità tra Otto e Novecento – Nazionalcattolicesimo e Spagna nuova, 1881-1975 (1992), La questione basca (2003), Storia della Spagna democratica (2006) con C. Adagio – facendo alcune incursioni nella storia politica spagnola più recente: Politics and Society in Contemporary Spain. From Zapatero to Rajoy (2013), curato con B.N. Field. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a dare una profondità storica a quanto sta accadendo oggi in Catalogna.

Partiamo dalla storia. Con l’avvento della Repubblica, la Catalogna e i Paesi baschi ottennero i loro primi Statuti di autonomia in una Spagna finalmente decentrata. Anche per questo i militari si sollevarono provocando quella guerra civile che spazzò via, con la democrazia, l’autogoverno catalano (e basco). Come è cambiata la questione dei nazionalismi periferici nel corso del Novecento?

«Vedo due costanti nell’evoluzione storica dei due nazionalismi: emergono (e riemergono) in concomitanza delle crisi economiche e si radicalizzano ogni qualvolta Madrid li reprime o respinge richieste di maggiore autonomia. Più forte dell’esplicita richiesta d’indipendenza è sempre stata la domanda di sovranità, cioè del diritto di decidere. Il quale, certo, è stato anche un’eufemistica copertura delle reali aspirazioni, ma lasciava aperta la strada a soluzioni di tipo federale. Aggiungo che non bisogna dimenticare che la Spagna (insieme al Portogallo) è l’unico paese europeo nel quale non sono sorti movimenti xenofobi e populisti di destra. Forse anche perché la presenza dei nazionalismi catalano e basco, entrambi fortemente europeisti, ha agito da deterrente».

Quali sono state le trasformazioni nella composizione politica e sociale del movimento indipendentista catalano?

»A differenza di quello basco (che nacque cattolico integralista e si democratizzò dalla metà degli anni Trenta), il nazionalismo catalano è stato ideologicamente più articolato e punto di confluenza di repubblicani, federalisti, moderati, cattolici democratici e conservatori. Storicamente vi si avverte l’egemonia di una parte della borghesia catalana, con innervature popolari. La novità degli ultimi anni è la forte presenza giovanile, per la quale – sintetizzando – direi che la nazione ha funto da rifugio alla crisi dei progetti fondati sulla classe».

Si può parlare anche di una ripresa di un «nazionalismo spagnolo»? In che modo le vicende catalane degli ultimi anni hanno modificato l’identità nazionale a pochi anni dal lancio del progetto di Zapatero di una «Spagna plurale»?
«Dietro il «patriottismo della Costituzione» ha senz’altro ripreso vigore il vecchio nazionalismo spagnolo, che tuttavia in questo modo sembra prendere le distanze dalla visione centralista tipica della destra spagnola. Con Zapatero era riaffiorata una sensibilità storicamente presente nella tradizione socialista: quella disponibile a discutere un nuovo modello di paese, fondato su una pluralità di nazioni e magari su un federalismo asimmetrico. Problema complesso e di difficile soluzione, ma che almeno Zapatero aveva colto come urgente, facendo sì che il nuovo Statuto catalano, che conteneva la controversa definizione della Catalogna come nazione, fosse approvato dalle Cortes nel 2006. I popolari di Rajoy ricorsero al Tribunale costituzionale, con le conseguenze che ora abbiamo davanti agli occhi.
Centinaia di sacerdoti catalani si sono schierati a favore del referendum, i loro vescovi hanno invitato al dialogo».

Come interpretare il ruolo della Chiesa spagnola in questa fase e anche in relazione alla sua storia?
«Sulla questione nazionale la faglia che divide la società spagnola e catalana attraversa anche la Chiesa da oltre un secolo. Negli ultimi mesi ho studiato sui documenti dell’Archivio Segreto Vaticano l’atteggiamento della S. Sede di fronte ai nazionalismi catalano e basco, costantemente alla ricerca di quella legittimazione che da Roma non ebbero mai. Anzi, la S. Sede stigmatizzò a più riprese il clero nazionalista perché faceva politica, come se quello spagnolista non facesse altrettanto».

La linea di Podemos e quella dei socialisti. Quale percorso alle spalle? E oggi in che modo l’esplosione della questione indipendentista interroga questi due soggetti e, più in generale, le diverse sinistre spagnole?

«Durante la lotta antifranchista socialisti e comunisti sostennero il principio dell’autodeterminazione di catalani e baschi. Morto Franco, cambiarono bruscamente posizione e con la Costituzione del 1978 pensarono di aver trovato la quadratura del cerchio. Podemos e l’area post-comunista si collocano nel solco di quella tradizione, il PSOE forse vorrebbe, ma non può. La vecchia guardia dei Felipe González, Alfonso Guerra e il socialismo andaluso di Susana Díaz tengono in ostaggio Pedro Sánchez. Voglio essere chiaro: a mio avviso non è di sinistra essere nazionalisti, mettere mano alla Costituzione sì».

Quali sarebbero le conseguenze di una secessione per i settori sociali subalterni?

«Le classi popolari hanno pagato i tagli alla spesa pubblica voluti da Artur Mas. Per questo la CUP ha imposto la sua sostituzione alla guida della Generalitat. L’indipendentismo catalano nasconde le proprie profonde divisioni dietro la bandiera della secessione, ma disegnando uno scenario del tutto virtuale non potrebbe governare una Catalogna indipendente. La CUP pensa che l’indipendenza favorirà i lavoratori. Fa venire in mente quel socialismo che nel 1914 pensò che la guerra avrebbe creato le condizioni per la rivoluzione in Europa. Sappiamo tutti cosa venne dopo».

C’è chi ha osservato che non è più possibile contestare il governo centrale senza essere etichettati come indipendentisti e viceversa per quanto riguarda le critiche all’indipendentismo. Quali conseguenze hanno avuto le vicende degli ultimi mesi sulla tenuta del sistema democratico? Si può parlare di un pericolo di “semplificazione” del dibattito politico spagnolo?

«Siamo di fronte alla più grave crisi istituzionale, politica e sociale dal ritorno della democrazia in Spagna. L’attuale polarizzazione delle posizioni cancella le sfumature e con esse la politica nella sua accezione più alta. Lo avverto nelle posizioni dei tanti amici e colleghi catalani e spagnoli con i quali sono in contatto quotidiano. C’è solo da sperare che il sussulto di sensatezza che ha attraversato nei giorni scorsi la Spagna all’insegna del parlem si estenda. Le centinaia di migliaia di catalani andati alle urne configurano un fenomeno di disubbedienza civile, pacifica e di massa che un governo democratico dovrebbe saper leggere e considerare come problema politico a cui dare risposta».

Micromega



“Va costruita una via italiana per una nuova sinistra che abbia come pilastro il protagonismo dei cittadini”. I modelli da seguire? “Corbyn e Podemos sono le due esperienze che guardo con maggiore interesse”. Anna Falcone, avvocato cassazionista e combattiva leader dell'Alleanza per la democrazia e l’uguaglianza, sta provando insieme a Tomaso Montanari a creare per le prossime politiche del 2018 una lista unitaria di sinistra, ma con facce e schemi rinnovati: “Gli italiani non sopporterebbero nessuna riedizione di film già visti, la chiave del cambiamento sta nella partecipazione”.

Anna Falcone, il momento è veramente ora? Esiste lo spazio politico per un soggetto a sinistra del Pd?
«Il momento era buono già dopo la vittoria del 4 dicembre. Ma non è troppo tardi, siamo ancora in tempo: con il voto referendario – che ha rispedito al mittente la riforma costituzionale ispirata al modello dell’“uomo solo al comando” – è maturata nel Paese la consapevolezza che esiste un’alternativa possibile a quelle politiche neoliberiste di precarizzazione del lavoro, mercificazione dei diritti e cancellazione dello Stato sociale che hanno attraversato gli ultimi governi. E c’è un popolo vastissimo pronto a sostenere una forza politica che se ne faccia interprete. A condizione di segnare una netta rottura con il passato, di ridare protagonismo alla partecipazione dei cittadini, di rivendicare senza compromessi i diritti che ci sono stati tolti per costruire una società più giusta, inclusiva e realmente fondata sul riconoscimento dei talenti e sulla solidarietà sociale».

Lo scorso 18 giugno, al Teatro Brancaccio di Roma, è nata l'“Alleanza per la democrazia e l’uguaglianza”, un nuovo soggetto che mira a rilanciare la Sinistra nel Paese attraverso il protagonismo dei cittadini. A quasi 4 mesi da quell'esordio, qual è la situazione?

«Più che un nuovo soggetto, direi un percorso democratico che mira a creare uno spazio aperto ai singoli cittadini, alle forze civiche e politiche, alle realtà sociali che vogliono impegnarsi in un percorso di costruzione della “Sinistra che non c’è ancora”. Non è un tentativo di mettere insieme i cocci del vecchio ceto politico, ma di costruire, anche in Italia, una forza capace di interpretare la voglia di partecipazione, di riscatto. Gli obiettivi sono da un lato creare un fronte unito e plurale in grado di contrastare le riforme dettate da un turbocapitalismo rapace a governi deboli e forze politiche autoreferenziali; dall'altro dar vita, in prospettiva, anche in Italia, a una forza politica capace di invertire la rotta di un modello di sviluppo fondato sulla cancellazione dei diritti e sullo sfruttamento cieco e dissennato dell’ambiente, territorio, delle risorse artistiche e culturali del Paese».

Cosa ne pensa della nuova legge elettorale in discussione? Siamo ad una nuova legge truffa?
«È il vergognoso prodotto di una maggioranza eletta con una legge incostituzionale, che – avendo fallito con l’Italicum l’obiettivo di tornare a blindare candidature, eletti e composizione del Parlamento – ricorre oggi a un accordo con i partiti di destra, con cui mira a governare per reiterare le politiche neoliberiste di cui entrambi sono stati promotori. Lo scopo non è dare una legge elettorale più giusta al Paese (il Consultellum con soglie equiparate fra Camera e Senato sarebbe stato più che sufficiente), ma favorire un governo di larghe intese PD-Destre, impedire agli italiani di scegliere candidati ed eletti, mortificare i partiti di opposizione, Sinistra e M5S. Il dramma è che, nella preoccupazione di mantenere ben saldo il potere nelle loro mani, hanno ulteriormente minato la fiducia dei cittadini nei confronti della politica e delle istituzioni. Insomma, le forze della futura “santa alleanza” che si presenta come l’unica alternativa possibile (sempre l’unica eh!) per salvare il Paese dai “populismi” è la prima vera causa della fuga dalle urne e del rifugio nel voto di protesta e di rottura».

So che lei è intenta a costruire la Sinistra dai territori ma come giudica la rottura tra Giuliano Pisapia e Mdp-Articolo 1? Pisapia andrà con Renzi ed Mdp si metterà a servizio per la costruzione del Quarto Polo?

«Pisapia ha un progetto diverso da quello del popolo di Mdp: lui vuole ricostruire il centro-sinistra (che non c’è più) anche con Renzi. La sinistra del Pd che, dopo un lungo travaglio, è andata via dal Partito democratico, perché non si riconosce più nei suoi metodi e nelle sue politiche, vuole costruire un progetto autonomo fondato sul rilancio dei diritti e, giustamente, incompatibile con Renzi. Non è solo una questione di “geometrie politiche”, ma di credibilità. Non so dove andrà Pisapia, ma gli iscritti di Mdp partecipano già alle nostre riunioni sul programma, insieme a molti elettori delusi del Pd, e c’è un dialogo aperto per costruire un Polo civico e di Sinistra».

In realtà Massimo D'Alema ha ripetuto più volte che vuole ricostruire il centrosinistra ma che ciò richiede una discontinuità di contenuti e di leadership. Anche Anna Falcone vuole ricostruire il centrosinistra senza Renzi? Siete in sintonia?

«D’Alema ha compreso con grande lucidità, e prima di altri, che quello che manca al Paese è una grande forza politica che torni a rappresentare i diritti e le ragioni del lavoro, dei giovani senza futuro, della vecchia classe media che non esiste più, che è molto più a sinistra di noi e che non vota, né voterebbe mai questo Pd. Noi lo sosteniamo fin dall’inizio: quello da riconquistare non è un partito che è stato scippato di mano, e non ci interessano i regolamenti di conti fra vecchia e nuova dirigenza, ma un elettorato enorme e disperso che si astiene o che si rifugia nel voto di protesta. Un popolo che vorrebbe contribuire a un progetto più grande, che ambisca a costruire un futuro alternativo per questo Paese. Per farlo non bisogna stringere accordi con Renzi: il suo modello sociale lo abbiamo sotto gli occhi ed è incompatibile con questo progetto. Non bisogna insistere in politiche di compromesso, altrimenti vince la destra. Per essere coerenti con la costruzione di questo spazio politico nuovo e conseguenti con questi obiettivi occorre riconnettersi con un popolo senza guida e senza rappresentanza, un popolo vivo – e l’abbiamo visto il 4 dicembre – che freme per tornare a contare, a sognare, a costruire insieme un mondo migliore».

Ma riuscirete a fare un Quarto polo che andrà da Mdp a voi del Brancaccio passando per Sinistra Italiana, Possibile e Rifondazione? Una sola lista di sinistra, è questo l'intento? Lavora per questo?

«Una sola lista civica e di Sinistra, lo abbiamo detto nel nostro appello e lo ribadiamo. Ci sono tutti i presupposti e sono fiduciosa. La sfida non è solo la lista, ma costruire, anche in Italia, la via per la nuova Sinistra, una forza partecipata, innovativa e lungimirante, che possa imprimere alla politica quella svolta prodotta da Podemos in Spagna e da Corbyn nel Regno Unito. Solo per citare due esempi che, uniti a quello francese, dimostrano come la Sinistra vince solo se unita e se torna a fare la sinistra, a lottare per i diritti e su proposte concrete e alternative, con coraggio e senza compromessi».

Se alla fine andrete divisi – serpeggia malumore per l'alleanza con D'Alema e Bersani - non sarà impossibile raggiungere la soglia per entrare in Parlamento?

«Confido nel senso di responsabilità di tutti: la posta in gioco è molto alta ed è più importante degli interessi dei singoli pezzi e leader. Non abbiamo paura di sparire, ma di avere un Parlamento con tre diverse destre e un popolo fuori non rappresentato».

Ultima cosa, fondamentale: non teme che finirà con la solita sommatoria dei ceti politici simil Arcolabeno o Lista Ingroia? Perché questa volta dovrebbe essere diverso che in passato?
«Perché gli italiani non sopporterebbero nessuna riedizione di film già visti e anche loro hanno imparato che non ci sono leader salvifici che possano risolvere da soli i problemi di tanti. La chiave del cambiamento sta nella partecipazione. Una consapevolezza ormai chiara anche nei leader degli attuali partiti di sinistra: quando il futuro arriva, sopravvive solo chi sa interpretarlo. Questa è la stagione del coraggio: più ne avremo, più gli elettori ci premieranno».

il Fatto quotidiano, 18 ottobre 2017 «

Sulla nuova legge elettorale e il patto scellerato che ne ha assicurato l’approvazione alla Camera si è ormai detto tutto. O quasi. Un punto mi pare sia rimasto ancora al margine nei commenti di questi giorni: il reale rapporto fra la legge e il crescente astensionismo. La legge Rosato istiga alla sfiducia nelle istituzioni perché disprezza la Costituzione e le sentenze della Consulta, insiste sulle liste bloccate, è pensata come una conventio ad excludendum di alcuni partiti ai danni di altri; inoltre, ha costretto il governo a un improprio voto di fiducia che lo delegittima, e, se sarà firmata da Mattarella, ne appannerà la figura.

La sfiducia nelle istituzioni genera astensionismo, questo lo dicono tutti; ma il prevedibile calo di affluenza alle urne viene di solito presentato come un by-product della legge elettorale, un effetto previsto ma collaterale. E se allontanare i cittadini dalle urne fosse invece, in una strategia perversa ma tutt’altro che fantapolitica, scopo primario di una legge come questa? Gli indizi abbondano, a cominciare dai grandi festeggiamenti dopo le Europee del 25 maggio 2014 per il 40,81 % del Pd, definito da Renzi “risultato storico”.

Nei commenti di allora (verificare per credere) ben pochi notarono che la coalizione di ferro fra non votanti e schede bianche o nulle superava di molto, col suo 49,63%, il risultato del Pd. E che la percentuale Pd, se calcolata sul totale dell’elettorato, valeva in realtà solo il 20,64%. Ma i trionfalismi di Renzi travolsero la scena politica italiana, innescando l’arrogante marcia di una riforma costituzionale scritta coi piedi e approvata a occhi chiusi da un Parlamento di nominati. La sicumera con cui si dava per scontata la vittoria nel referendum era dovuta al calcolo che alle urne si presentassero da una parte solo i fedelissimi (per convenienza o per inerzia) e dall’altra un manipolo di “gufi” ormai condannati a vani piagnistei. Il referendum del 4 dicembre, grazie a una mobilitazione di imprevista ampiezza, portò invece alle urne milioni di persone (specialmente giovani) che affossarono la stolta riforma e chi vi si era prestato.
Ma questa inversione di tendenza, anche per la natura assai composita degli elettori del No, non incide minimamente sulla tendenza a un astensionismo crescente, dimostrato anche dai voti alle elezioni regionali (47,4% di votanti in Basilicata, un drammatico 37,67% in Emilia; in Sicilia vedremo). Intanto, nulla fanno i nostri governi per recuperare alla democrazia i 22 milioni di cittadini che non votarono alle Europee. Perso il referendum, non è cambiato il piano di chi vuole impadronirsi di un’Italia in cui la fiducia nelle istituzioni cala ogni giorno: avere sempre più voti (in percentuale) su sempre meno votanti. E, tramontato il sogno di una maggioranza solitaria del Pd, raggiungere comunque questo risultato mediante una qualche larga intesa, riesumando Verdini e Berlusconi e rastrellando voti a qualsiasi costo. Per poi ritentare, con sprezzo del referendum, lo stravolgimento della Costituzione già fallito una volta.

Perciò, un anno dopo aver contestato l’appoggio alla riforma costituzionale del presidente emerito Napolitano con una lettera aperta pubblicata da Repubblica il 4 ottobre 2016 (con risposta di Napolitano), stavolta mi trovo in pieno accordo con le sue pesanti osservazioni sul cosiddetto Rosatellum. Ma non sarebbe forse l’ora, alla vigilia di nuove elezioni, di fare il bilancio degli errori compiuti all’indomani delle elezioni del febbraio 2013 ? Allora il Pd, anziché tentare altre coalizioni anche di limitato scopo e durata, scelse l’abbraccio mortale con Berlusconi. Allora il capo dello Stato pretese irritualmente dal presidente incaricato Bersani di garantire una maggioranza parlamentare prima di presentarsi alle Camere, e Bersani piegò la testa rinunciando al mandato. Allora Beppe Grillo derise apertamente chi invitava M5S e Pd a negoziare una coalizione d’obiettivo, con il programma di risolvere annose questioni come una sana legge elettorale e una legge sul conflitto d’interessi, e i due appelli in merito (9 marzo: Un patto per cambiare, se non ora, quando? e poi 10 marzo: Facciamolo!), pur raccogliendo 200 mila firme in pochi giorni, restarono lettera morta.

Molto è cambiato da allora, ma qualcosa di uguale è rimasto: la scarsa democrazia interna dei partiti, dal Pd al M5S, che favorisce l’astensionismo creando condizioni favorevoli a una politica che sull’astensionismo fa leva; mentre i fuoriusciti dal Pd non trovano nemmeno la strada per far blocco tra loro. La legge elettorale contribuisce a tener fissa la bussola del discorso politico sul “come” e non sul “che cosa”, sulle coalizioni e non sulle necessità del Paese, sui giochi di potere e non sui programmi di governo. Proprio nessuno vuol provare a porvi rimedio? Nessuno vuol provare a capovolgere le regole del gioco, facendo leva sulla democrazia interna di partito e su un chiaro progetto di attuazione dei diritti costituzionali per riportare alle urne quegli stessi giovani elettori che il 4 dicembre mostrarono fiducia nella Costituzione?

il manifesto,

Sarà una giornata per dire no al razzismo, ma anche agli accordi che Italia e Europa stanno siglando con alcuni Paesi africani per imprigionare i migranti sull’altra sponda del Mediterraneo. E contro le leggi Minniti-Orlando su immigrazione e sicurezza che non solo non fanno alcuna distinzione tra chi delinque e chi invece arriva nel nostro Paese in cerca di lavoro, ma aboliscono anche il secondo grado di giudizio per il riconoscimento del diritto di asilo.

Sarà una giornata come a Roma non si vedono da anni. L’appuntamento è per sabato prossimo e sono attese migliaia di persone da tutta Italia. Solo l’Arci – tra le sigle che hanno promosso l’iniziativa insieme a Libera, A Buon diritto, Amnesty International Medu e altre – ha organizzato 22 pullman, altri sette sono attesi dalla Campania e poi da Lecce, Bari, Milano, Genova, Bologna. «Abbiamo bisogno di giovani, ragazze e ragazzi italiani e nuovi cittadini per costruire il futuro di questo Paese» si legge in una lettera-appello firmata da monsignor Raffaele Nogaro, don Luigi Ciotti, Andrea Camilleri, Enrico Ianniello, Moni Ovadia. Toni Servillo, Giuseppe Massafra, Luciana Castellina e Carlo Petrini. Per chi deciderà di aderire alle 14,30 da piazza della Repubblica partirà un corteo che attraverserà via Cavour e via Merulana per concludersi in piazza Vittorio.«Un mondo laico e religioso vasto – spiega una nota dell’Arci – che da sempre è schierato in difesa del diritto di migrare e che agisce in prima persona, anche disobbedendo a decisioni italiane ed europee che sono in aperto contrasto tanto con la nostra Costituzione che con i fondamentali principi internazionali».

Da anni assistiamo a un escalation di comportamenti sempre più aggressivi nei confronti di migranti, rom e qualunque forma di diversità. Dalle ruspe leghiste per spianare i campi rom si è arrivati in poco tempo a siglare accordi con milizie libiche alle quali è stato affidato il compito di impedire ai barconi carichi di disperati di prendere il mare. Il modo in cui questo avviene è, come raccontano innumerovoli testimonianze, tenendo prigionieri uomini, donne e bambini in centri all’interno dei quali le violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno. Da una settimana l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, sta lavorando a Sabrata, in passato uno dei principali punti di partenza dei barconi diretti in Italia, per assistere circa 14 mila migranti che le milizie libiche tenevano prigionieri all’interno di hangar, magazzini, case e fattorie, riuscendo in questo modo a far diminuire notevolmente il numero di sbarchi nel nostro Paese. La maggior parte dei migranti tratti in salvo sono traumatizzati e agli operatori dell’Unhcr hanno raccontato di aver subito violenze sessuali, di essere stati costretti a lavori forzati o a prostituirsi. «La strada degli accordi con i regimi dei paesi dall’altra sponda del Mediterraneo – scrivono tra gli altri monsignor Nogaro e Andrea Camilleri – non solo implica aiuti economici e governi opachi dalla democrazia malconcia, ma il prezzo dell’alleanza con le milizie libiche vuol dire costruire un inferno dove i migranti sono torturati, stuprati o mandati a morire di sete nel deserto, come ha denunciato l’Onu».

Una strada che l’Europa, Italia in testa, sembra decisa a percorrere sempre più e la recenti successi elettorali ottenuti in Germania e Austria da forze xenofobe e populiste non faranno altro che rafforzare ulteriormente questa scelta. Utilizzando anche l’ipocrita distinzione tra rifugiati e migranti economici, «etichette – proseguono i firmatari della lettera-appello – con le quali si classificano gli sventurati che attraversano l’Africa e il Medio Oriente sperando nell’accoglienza dell’Italia e dell’Europa. I rifugiati, come i cosiddetti migranti economici, tentano tutti di sfuggire alla morte».

Al corteo parteciperanno anche numerose realtà e centri sociali dietro uno striscione che ricorderà come «Nessuna persona è illegale». Tra gli altri ci saranno i romani di Baobab, Action, Esc, Communia, ma è è prevista anche la partecipazione di realtà milanesi, bolognesi e da Genova. «Vogliamo essere in piazza – è scritto nell’appello dei centri sociali – perché riteniamo urgente rispondere al clima di odio razziale e di guerra ai poveri che sta imperversando nelle nostre città e che viene alimentato ad arte dal razzismo istituzionale e dallo sciacallaggio d formazioni esplicitamente neofasciste. Vogliamo essere in piazza insieme agli uomini e alle donne migranti che continuano a mostraci grande coraggio e determinazione nel disegnare le proprie rotte e costruire il proprio futuro».

L'appello è pubblicato qui, su eddyburg

Nuova Società

Tra i compagni con cui ho avuto modo di lavorare nel mio lungo percorso di impegno politico a livello istituzionale, Raffaele Radicioni occupa un posto particolare dovuto a due precisi fattori: la specificità dei complessi problemi che assieme abbiamo dovuto affrontare ed il suo carattere mite, saldamente impiantato però sulla coerenza ed il rigore del suo pensiero politico e intellettuale. Anche nei momenti più accesi di maggiore tensione del dibattito nella sala Rossa di Palazzo Civico, Raffo (come lo chiamavano gli amici) non ha mai alzato il tono della voce, rispondeva con pacatezza, punto su punto, anche alle accuse più grossolane che gli venivano rivolte, ad esempio, di voler ostacolare lo sviluppo della città, di essere un antiquato conservatore, contro la modernità e la crescita urbana e quindi anche economica.

Ci fu il caso di due consiglieri del Pci irretiti dalle sirene craxiane, molto di moda in quegli anni, che fecero il salto della quaglia, motivandolo perché contrari alla politica urbanistica dell’Assessore Radicioni che ledeva gli interessi della città. Con tono, si potrebbe dire evangelico, nella riunione del gruppo comunista che precedette l’infuocata seduta del Consiglio con all’ordine del giorno il caso, invitò tutti noi alla calma, quasi scusando i due voltagabbana «perché - disse - non sanno quello che stanno facendo, non sono in grado di capire». Non era altezzosità la sua, era una semplice, implicita critica rivolta al suo partito per il non sufficiente impegno culturale nella battaglia delle idee, tra la gente, per spiegare che il diritto alla casa, ad esempio, non significava costruire, costruire, senza regole, anonimi caseggiati alla periferia, privi di servizi in molti casi, come accade negli anni ’50, ’60, addirittura senza la urbanizzazione primaria: strade, fognature, illuminazione pubblica.

Così la modernità di una città per Radicioni non era decretata dal numero di grattacieli. Anche se il problema si pose con l’opera di una star dell’architettura, di un amico, un maestro sicuramente progressista collocato a sinistra, come Renzo Piano, progettista della sede dell’Istituto Bancario San Paolo, per soddisfare l’ambizione, per non dire il capriccio, dell’allora presidente dell’Istituto che ha voluto lasciare un ricordo di sé medesimo, nella città. Noi (uso il plurale perché anch’io venni così considerato) siamo stati definiti, scherzosamente, ma con un lieve senso di irrisione, “urbamistici”, o “urbamastici”. Torino è stata la culla di questa nuova disciplina, grazie al Movimento di Comunità fondato da Adriano Olivetti. Per essermi iscritto ad un corso tenuto dal prof. Giovanni Astengo, presso la sede di Comunità del mio quartiere, fui criticato poiché avevo ceduto al paternalismo del grande capitalista di Ivrea, dimenticando la lotta di classe. Il settarismo non è mai morto.

Infine voglio menzionare in questo ricordo sicuramente non esaustivo, la coerenza di Raffo contro il dissennato consumo dei suoli, contemporaneamente alla mercificazione, con la compra-vendita, delle cubature. I fautori di questo mercato (compresi molti parroci guidati da un uomo della Curia che hanno venduto la cubatura delle loro chiese ai proprietari delle case confinanti affinché potessero sopraelevare gli edifici esistenti) lo hanno giustificato definendolo in sede politica «urbanistica contrattata», in modo scriteriato sono giunti a fare cassa, per finanziare addirittura la spesa corrente, cioè, la parte ordinaria del bilancio.

Caro Raffo, nel rivolgerti l’ultimo saluto, credo di poter dire a nome di tutti coloro che, non retoricamente amano Torino, che la città ti è debitrice di riconoscenza. Tu hai rappresentato concretamente il vero schieramento progressista e riformatore poiché hai operato per un reale cambiamento ponendo quale base, quale comun denominatore, il valore dell’uomo. La sfida, tuttora aperta, è tra la cultura della “prossimità” e la cultura del “rambismo” che ha al centro esclusivamente il profitto e quindi i consumi. È necessario, come tu ci hai insegnato, riproporre questo confronto senza imbrogli e senza ipocrisie, senza temere l’accusa di non essere moderni: avere la capacità, la volontà, l’intelligenza di misurarsi con i reali valori della modernità significa affrontare le grandi contraddizioni presenti nella società contemporanea, per garantire un futuro a questa “macchina” meravigliosa che è la città dell’uomo.

Per ricordare all’indomani della sua scomparsa le posizionidi Raffaele Radicioni e la forza dei suoi argomenti riprendiamo il raccontodella polemica che si aprì all’interno del Pci e sulla sua stampa negli anni incui Raffo diede il meglio di sé.

Il nuovo tema che si affacciavanei dibattiti sull’urbanistica era quello della “urbanistica contrattata”. Ilprimo episodio rilevante fu una polemica sull’Unità, nell’estate del 1982,tra due assessori, entrambi comunisti, entrambi eletti in due grandi città:Maurizio Mottini, a Milano e Raffaele Radicioni, a Torino.

Mottini partiva dallaconsiderazione che «era emersa negli anni più recenti una critica diffusa,talvolta una insofferenza, nei confronti del concetto stesso di pianocome strumento del potere pubblico per affrontare e risolvere problemi diinteresse generale»; osservava correttamente come questo atteggiamento criticofosse un sintomo della più generale tendenza «al riflusso nel ‘privato’, allariscoperta dei valori e dei problemi dell'individuo», e come fosse collegato alfatto che «sul versante politico e ideologico siassiste al rilancio di un neoliberismo, che non di rado si tinge deicolori di una volontà di rivincita dei valori della conservazione o megliodella restaurazione» [M. Mottini, Urbanista, cambia piano, in «l'Unità», 18 agosto 1982].

Indubbiamente, le primeavvisaglie dei tentativi di “liberare” le decisioni sul territorio dai vincolidi regole dettate dall’interesse comune avevano radici nel più vasto processodi riflusso verso l’individualismo e il privatismo, nelle nuove ideologie chesi affermavano e nella ripresa di potere degli interessi economici di nuovodominanti. Mottini individuava però anche a sinistra segnali che andavano nellastessa direzione: è significativo, afferma, che «nell'ambito stesso dellacultura di sinistra il tema delle libertà individuali, come presupposto di unasocietà dinamica, venga additato come via d'uscita ai fenomeni di sclerosidelle forme realizzate partendo da una lettura consolidata e ortodossa dellalezione marxista».

Da queste premesse Mottinipartiva per esprimere una critica all’urbanistica: «Il piano urbanistico, comenormativa che regola il comportamento dei soggetti che decidono, ha prodottotroppo spesso disegni mai realizzati o realizzati in piccola parte»; «ciò che èin crisi - aggiungeva - non è il concetto di piano urbanistico, ma il concettodi gestione pubblica del piano urbanistico». La ricetta che proponeva è disostituire la gestione pubblica col governo pubblico, dovegovernare significa «utilizzare i meccanismi di mercato, indirizzandoli con unaserie di incentivi e disincentivi alla soluzione dei problemi di interessegenerale. Alla politica del vincolo occorre sostituire la politica dell'usopubblico dell'interesse privato».[ibidem]

Pianificazione territoriale eprogrammazione concertata tra pubblico e privato divengono momenti di un solodiscorso, «non più un prius definito eimmobile cui seguirà una sia pur complessa gestione di attuazione». In altreparole, il piano non è autonomo rispetto agli interessi economici, non delineaa priori le scelte necessarie per risolvere i problemi dal punto di vistadell’interesse collettivo, ma è un insieme di scelte che si concertano(contrattano) con gli interessi economici. Stupisce nel ragionamento diMottini il fatto che trascuri completamente di domandarsi quali siano gliinteressi economici con i quali il pubblico dovrebbe “contrattare” il destinodella città. Sembra ignorare che questi interessi non siano quelli legati alsalario e al profitto, al lavoro e all’impresa, all’attività economica voltaalla produzione di ricchezza da immettere sul mercato, ma semplicemente quelli,parassitari da ogni punto di vista, della rendita immobiliare.

Il contrasto all’appropriazioneprivata della rendita immobiliare è invece al centro dell’intervento criticodell’altro assessore all’urbanistica, Raffaele Radicioni.[R. Radicioni, Anche per l'urbanista il '68 è lontano, «l'Unità», 3 set. 1982.] Dopoun’ampia illustrazione dei difetti costituzionali rilevati nella legislazioneurbanistica e dei tentativi fallimentari dei parlamenti di sanarlicompiutamente (dalle sentenze costituzionali del 1968 alla proposta governativadi riconoscere pienamente la rendita immobiliare a valori di mercato),afferma che riconoscere, in caso d’esproprio o di vincolo, il valore di mercatodei suoli significherebbe optare «definitivamente a favore del potere diedificare congiunto inscindibilmente con il diritto di proprietà e per questavia [riconsegnare] alla proprietà privata, attraverso una leva economicairrefrenabile (il valore dei suoli), il potere e il diritto di decidere come,quanto, in che modo, trasformare la città». «Ma ciò che più preoccupa -prosegue l’assessore torinese - è constatare la distrazione con la quale negliultimi anni questa vicenda viene seguita dalle forze riformatrici, fra cuideterminante è il ruolo esercitato dal nostro partito». L’argomento «non èstato oggetto di agitazione e scarsi sforzi sono stati compiuti per suscitaresia il confronto politico che l'approfondimento culturale, assolutamentenecessari nel momento in cui leggi troppo sommarie o affrettate rivelano di nonreggere al vaglio della Corte Costituzionale».

«Per altro non passa occasione che nel nostro partito autorevoli e valenti compagni ci ricordino giustamente come ritardi e sconfitte, registrati dal movimento riformatore sui temi della casa, del governo della città sarebbero imputabili in ampia misura ad una frattura manifestatasi in alcuni periodi fra idee di riforme illuministe, patrimonio di intellettuali, ed esigenze, aspirazioni, di larghe masse popolari. Bene, io mi domando se dalla vicenda che ho richiamato si debba concludere che il tema del controllo sulla acquisizione della rendita (che penso costituisca uno degli strumenti principali del governo della città, se non il principale) sia da considerare ideologico o comunque fuori dalle possibilità di unità fra esigenze popolari per la casa, per la città, per l'equilibrio del territorio e gli orientamenti, le denunce, le esperienze di intellettuali ed amministratori».

«C’è una sola strada per usciredalla crisi della città, conclude Radicioni, «rilanciare nel Paese, fra lemasse popolari, nei luoghi di cultura, negli enti locali e ovviamente inparlamento una convinta battaglia con al centro il nodo della acquisizione allacollettività della rendita, come strumento fondamentale per il governo dellecittà». Ma le orecchie del Pci erano aperte ad altre musiche. Lo comprendemmomolto presto».
Da: Edoardo Salzano, Memorie di un urbanista. L’Italia cheho vissuto, Corte del Fòntego editore, Venezia 2010, pp.116-117


la Repubblica,

Dopo le elezioni tedesche, anche quelle austriache confermano le trasformazioni politiche in corso nel vecchio continente, la cui faccia sta decisamente prendendo una fisionomia di destra, e perfino nazi-fascista. Il populismo è lo stile e la strategia che le vecchie idee di destra (il razzismo, l’intolleranza, l’ideologia identitaria nazionalista, il mito maggioritarista e anti-egualitario) adottano per conquistare gli elettori moderati. I partiti di destra sono quelli che meglio usano questa strategia; ne hanno anzi bisogno per uscire dall’isolamento nel quale l’ideologia socialdemocratica li aveva condannati per decenni.

Sebastian Kurz, alla guida del partito dei popolari, ha trasformato il suo partito in un movimento elastico, aggressivo sui social, attento all’immagine e capace di usare gli argomenti giusti: la paura dell’immigrazione, la preoccupazione per la precarietà occupazionale, l’erosione del benessere.

L’Austria è tra i Paesi più ricchi d’Europa e con una popolazione residente straniera che sfiora il 15%. La campagna elettorale di Kurz è stata radicalmente personalistica (il suo nome ha dato il nome alla lista) e ossessivamente imbastita sulla paura, tanto da fare apparire l’Austria come un Paese straniero agli austriaci, sul baratro economico e con il rischio di avere una maggioranza religiosa islamica. La personalizzazione e la radicalizzazione del messaggio hanno fatto volare il suo partito. Altrettanto vincente la strategia del partito di estrema destra neo-nazista, detto della libertà, guidato da Heinz-Christian Strache che potrebbe essere alleato del partito di Kurz.

La ricetta per il governo del Paese di questa ipotetica coalizione è un misto di protezionismo e liberismo: chiusura delle frontiere agli immigrati, difesa dell’identità culturale cattolica, sicurezza e taglio delle tasse. Liberisti e nazionalisti alleati. Il restyling dei due partiti di destra ha pagato, smussando il messaggio nazista e islamofobico e insistendo su una strategia che da qualche anno sta facendo proseliti a destra.

La critica alla tecnocrazia di Bruxelles non porta più alla proposta di uscire dall’Unione. L’Europa va conquistata, non lasciata. Il populismo transnazionale di destra non propone il ritorno agli stati nazionali indipendenti, non ha nostalgie per un’Europa pre-Trattato di Roma. Comprende l’utilità dell’Unione e vuole però guidarla in conformità a quella che il leader ungherese Viktor Orbán (il primo ad aver lanciato la proposta di una destra populista transnazionale) ha definito come l’identità spirituale del continente: la cristianità. La secolarizzazione, soprattutto nella parte occidentale del continente, è un fatto difficilmente negabile. E quindi l’appello alla cristianità ha poco a che fare con la spiritualità religiosa e molto con l’identità nazionale. Il populismo di destra è oggi un progetto identitario transnazionale.

La storia del populismo è innestata nella storia della democrazia; una competizione con la democrazia costituzionale sulla rappresentanza e la rappresentazione del popolo, che nei Paesi europei è in effetti la nazione. La tendenza a identificare il popolo con un’entità organica omogenea è il motore che muove questa potente interpretazione della sovranità come sovranità di una parte, maggioritaria, contro un’altra, per umiliare l’opposizione e soprattutto le minoranze culturali.

Le democrazie del dopoguerra hanno neutralizzato questa tendenza olistica articolando la cittadinanza nei partiti politici. E il dualismo destra/sinistra è stato un baluardo di protezione della battaglia politica dalle pulsioni identitarie, nazionaliste e fasciste. La fine di questa distinzione è oggi il problema; essa è stata favorita dalla sinistra stessa che, nel solco del blarismo ha sostenuto la desiderabilità di andare oltre la divisione destra/sinistra. Una iattura che ha preparato il terreno alla destra.

L’uso di strategie comunicative populiste si dimostra vincente anche perché l’audience è informe e con deboli distinzioni idelogiche; facile da conquistare con messaggi generici, gentisti diremmo, ovvero basati sul buon senso e capaci di arrivare a tutti indistintamente. La caduta di partecipazione elettorale, che l’erosione della distinzione destra/ sinistra ha portato con sé, è un segnale preoccupante di cui purtroppo quel che resta della sinistra non si avvede. L’esercito elettorale di riserva è pronto, depoliticizzato abbastanza da essere catturato da messaggi populisti di destra, generici, e molto semplici.

Il caso austriaco, come quello tedesco di poche settimane fa, è quasi da manuale nel dimostrare quanto danno abbia fatto alla democrazia la convinzione che destra e sinistra appartengano al passato. Di questa insana idea si approfitta la destra, che da parte sua non ha mai messo quella distinzione in soffitta.

l'Avvenire

Il rappresentante Alto commissariato Onu per i rifugiati a Tripoli racconta il caos di Sabratha. «Compiute 730 visite nei centri ufficiali di detenzione e ottenuta la libertà per 1.400»
«I violenti scontri tra milizie della zona di Sabratha hanno provocato prima di tutto un altissimo numero di sfollati interni, cittadini libici che stanno affrontando nuovamente situazioni di precarietà e disagio. E poi sono state scoperte diverse prigioni clandestine dove erano rinchiusi migliaia di rifugiati e migranti, almeno 10 mila persone per stare a una stima prudenziale, che si trovavano in attesa di poter attraversare il Mediterraneo e che oggi stiamo assistendo».

Roberto Mignone è il rappresentante dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati in Libia. Risponde, considerato il ruolo e il contesto, calibrando il tono e le parole. L’agenzia guidata da Filippo Grandi ha scelto per il non facile ritorno a Tripoli un funzionario con una lunga esperienza negli interventi di risposta rapida in situazioni d’emergenza. Solo nel 2016, da Principal emergency response coordinator dell’Acnur, Mignone è intervenuto durante emergenze e catastrofi in Burundi, Senegal, Ecuador, Honduras, Guatemala, El Salvador, Panama, Venezuela, Sud Sudan e Iraq.

Qual è la situazione a Sabratha?
«Da una settimana lo staff dell’Agenzia Onu per i Rifugiati è al lavoro per far fronte agli urgenti bisogni umanitari nella città e nelle zone limitrofe. Non facciamo differenze, perciò le Nazioni Unite stanno assistendo tutte le persone che necessitano di aiuti, e tra queste vi sono decine di migliaia di libici sfollati interni, anch’essi vittime troppe volte dimenticate di questa crisi. Al termine degli scontri, 3.000 famiglie libiche sono state costrette ad abbandonare le proprie case e più di 10.000 tra rifugiati e migranti sono in difficoltà e hanno bisogno urgente di assistenza. Ci sono 2.000 famiglie che hanno fatto ritorno nelle loro abitazioni, ma necessitano comunque di assistenza. Più di 500 sono le case danneggiate o distrutte dai colpi di mortaio e dai bombardamenti. Le autorità locali parlano anche di un certo numero di scuole danneggiate e stiamo lavorando per riaprirle».

Migranti e rifugiati si sono trovati nel mezzo delle periodiche battaglie. Con quale risultato?
«I combattimenti hanno permesso di scoprire un imprecisato numero di prigioni clandestine, sotto il diretto controllo delle milizie e dei trafficanti di uomini. E da queste migliaia di persone sono scappate. Migranti e rifugiati sono stati trasferiti nell’hangar che si trova nella zona di Dahman, dove questo sito sta iniziando a essere utilizzato come punto di raccolta e ospita al momento 4.500 persone».

Quali sono le vostre priorità in Libia?
«Innanzitutto lavorare sull’identificazione dei casi più vulnerabili, persone che rischiano di essere trasferite nei centri di detenzione. L’Acnur ha già fatto presente alle autorità la necessità che i rifugiati al momento detenuti vengano rilasciati immediatamente e trasferiti in un posto sicuro dove possiamo fornire loro assistenza. Intanto lavoriamo a stretto contatto con le autorità di Sabratha, Sorman e Zuara, per individuare e avviare progetti di risposta rapida, compresa la riapertura delle scuole per gli sfollati interni».

Riuscite ad avere libertà di movimento all’interno del Paese?
«A giugno un convoglio delle Nazioni Unite è stato attaccato a colpi di mitra e bazooka e solo per un caso non è stata una strage di funzionari internazionali. Nonostante questo, il personale internazionale dell’Acnur viaggia ogni settimana in Libia per missioni di rotazione. Io stesso sto aspettando dalle Nazioni Unite (che valutano i rischi per la sicurezza e autorizzano o vietano gli spostamenti, ndr) il via libera per raggiungere Sabratha».

L’Acnur riesce ad accedere nei centri di raccolta dei migranti? Che tipo di lavoro riuscite a compiere?
«Ad oggi abbiamo compiuto 730 visite nei centri di detenzione ufficiale, dove interveniamo per offrire cure mediche, assistenza materiale, e per identificare i casi su cui possiamo intervenire per ottenerne il rilascio (1.400 le persone liberate nel 2016, ndr) e la concessione dello status di rifugiato, ma si tratta di procedure complicate perché bisogna sempre concordare tutto in anticipo con le autorità libiche».

Cosa chiedete in particolare alle autorità di Tripoli?
«Fino ad ora abbiamo registrato 43.133 persone come rifugiati o richiedenti asilo. Di questi l’85% era in Libia da tempo. Ma non dimentichiamo che ci troviamo ad agire in un contesto precario. La Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra sullo stato dei rifugiati del 1951, e Tripoli non ha neanche un memorandum con l’Acnur. Quello che ci permettono di fare è registrare e identificare i migranti, su cui discutiamo caso per caso per riconoscere la protezione internazionale».

Cosa dovrebbero fare la comunità internazionale e Paesi come l’Italia, che sono in stretto contatto con il governo riconosciuto, per facilitare il vostro lavoro?
«Un esempio: stiamo cercando di negoziare con le autorità anche sul numero di nazionalità meritevoli di protezione, in modo da poterle ampliare poiché la Libia ammette solo un ristretto gruppo di provenienze. Ma qui abbiamo casi di profughi da Yemen, Sud Sudan, Congo. Ci sono poi anche profughi siriani, arrivati quando nel loro Paese era scoppiata la guerra. Per il momento Tripoli non ne riconosce lo status, ma confidiamo di ottenere risultati in tempi brevi. E crediamo che queste istanze siano ben note a quanti nel mondo si relazionano e possono insistere con Tripoli».

il Fatto Quotidiano

Piove a gocce grosse come biglie. In pochi minuti il sole si oscura e con la stessa velocità la strada si trasforma in una palude. Le capanne flettono sotto il peso dell’acqua, i viottoli che scendono per le collinette diventano ruscelli. Un mese fa questo era un bosco, oggi è il campo profughi di Balukhali, dove vivono oltre 100 mila rifugiati. Ma i numeri dell’esodo rohingya sono ancora più imponenti. Da fine agosto una violenta azione dell’esercito birmano ha messo in fuga verso il Bangladesh oltre mezzo milione di persone, tutte bloccate in una manciata di chilometri quadrati all’estremo sud del Paese. In un quarto d’ora torna il sole e illumina il fango lasciato dall’acquazzone. Il termometro schizza sopra i 35 gradi, che con l’umidità sembrano 45.
“Sono rimasto solo – Rohaman, sedici anni, non perde il sorriso nemmeno mentre racconta il massacro della sua famiglia – l’esercito è arrivato e ha iniziato a sparare, era notte. I miei genitori e mia sorella dormivano, sono bruciati con la casa”. Rohaman quella sera era da suo zio. Quando ha visto il fuoco è scappato nella foresta. “Mi sono nascosto lì per 12 giorni – continua il ragazzo – senza mangiare, senza dormire”. Ha altri otto fratelli, anche loro sono scappati: “Saranno in un altro campo o forse ancora in Myanmar”. Racconta che di Buthi Dung, il suo piccolo villaggio, non è rimasto più nulla: “Tutto è stato bruciato, le trecento persone che ci vivevano o sono fuggite o sono morte”.
La storia di Rohaman è piena di dettagli, di colpi di macete, di arti amputati, di stupri, ma soprattutto di paura. Tutto questo però non è verificabile. Il Myanmar non permette ai giornalisti e agli osservatori internazionali di visitare il Rakine, la regione interessata dagli scontri. Le immagini satellitari, analizzate da Human Right Watch, hanno registrato il rogo di oltre 65 villaggi nelle ultime sei settimane. Per chi scappa si tratta della mano incendiaria dell’esercito birmano. Per i generali, invece, sono gli stessi rohingya a dar fuoco alle proprie case per poi fuggire in Bangladesh. Ma la versione della giunta militare, che guida il Myanmar da quasi 30 anni, non convince gli osservatori internazionali: “Le operazioni della Birmania contro i rohingya, sembrano applicare i principi della pulizia etnica”, ha detto a metà settembre Zeid Ràad el Hussein, l’Alto Commissario dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra.
Le accuse della comunità internazionale fanno ancora più rumore, perché offuscano l’aura di Aung San Suu Kyi, icona mondiale della nonviolenza. Nel 1990, poco dopo che la giunta militare s’impadronì del potere, Suu Kyi si presentò alle elezioni e le vinse. L’esercito la fece incarcerare. L’anno successivo la signora di Rangoon fu insignita del Nobel per la Pace. Da lì in poi, fino al 2010, visse agli arresti domiciliari. Oggi, dopo aver vinto le elezioni del 2015, sarebbe dovuta essere il primo ministro, ma i militari le hanno assegnato un ruolo creato ad hoc: consigliere di Stato. Per tre settimane dall’inizio della crisi, Suu Kyi ha mantenuto il silenzio sulle violenze perpetrate contro la minoranza rohingya. Il 18 settembre ha, finalmente, detto la sua: difendendo le forze di sicurezza che starebbero prendendo tutte le misure necessarie per non colpire i “civili innocenti” e per evitare “danni collaterali”. Strano che dopo anni di arresti domiciliari l’eroina birmana si schieri con i suoi (ex) aguzzini.
All’ingresso del campo di Balukhali su un cartellone nero si legge “Basta omicidi. Aung San Suu Kyi riconsegna il Nobel”. Se violenze e ferite possono essere nascoste, bastano pochi passi tra i rohingya rifugiatisi in Bangladesh per vedere i segni della malnutrizione. Da ogni tenda spuntano bambini nudi da braccia, gambe scheletriche e con il ventre gonfio. In piedi davanti all’ingresso della capanna di bambù c’è una donna con un bimbo di poche settimane tra le braccia. “Siamo scappati quando lui aveva 20 giorni – spiega Nurtaz Bagan, 25anni e cinque figli – non avevo latte da dargli. Prima di arrivare qui non mangiavo da giorni”. L’esercito di Dhaka registra tutti i rohingya che entrano nel Paese e li invia verso i campi profughi, a pochi chilometri dal confine. Non è il governo a prendersi cura di loro, ma le ong. Lunghe file dall’alba al tramonto segnano il ritmo dei pasti. Dei recinti di bambù racchiudono centinaia di bambini che aspettano nel fango. Chi di loro ha un piatto lo usa per ripararsi dal sole. Dai pentoloni escono mestolate di riso e salsa piccante. Non ce n’è per tutti. Si corre, si litiga, qualcuno scoppia a piangere, molti resteranno a digiuno anche oggi.
Un mormorio ritmico e ripetitivo arriva dalla cima di una collinetta. Uomini in galabeya bianca e barba lunga appoggiano la fronte a terra. La moschea è il luogo più pulito di tutto il campo. Il trentenne Ayoub Khan sorregge il padre anziano mentre si infila le ciabatte dopo aver terminato il rito della preghiera. “Non meritava di lasciare la sua casa prima di morire – dice mentre prende sottobraccio il genitore e lo accompagna verso la tenda – ci danno la caccia perché siamo rohingya, perché siamo musulmani”. Ayoub divide la capanna con tutta la famiglia allargata, meno di 20 metri quadrati dove dormono e mangiano 13 persone. “Sono laureato, ma non mi hanno mai fatto lavorare. In Birmania noi rohingya non possiamo avere impieghi qualificati. Ci odiano e ci perseguitano”.
In Myanmar la maggioranza della popolazione è buddista. I rohingya sono confinati nel nord del Paese, alla frontiera con il Bangladesh. Nei secoli quell’area passa di mano diverse volte. Si crea così una minoranza musulmana con lingua e cultura diversa dal resto dello Stato. Durante la Seconda guerra mondiale i britannici armano i rohingya, i giapponesi fanno lo stesso con i buddisti. I massacri si susseguono per anni. Non basta la fine del conflitto mondiale: le armi continuano ad arrivare dal Regno Unito, questa volta per fermare l’avanzata dell’Unione Sovietica. Nel 1948 la Birmania diventa indipendente. Subito la maggioranza burma e buddista inizia una discriminazione sistematica contro la minoranza musulmana. Media e società civile etichettano i rohingya come migranti illegali bangladesi. La repressione genera una resistenza violenta che negli ultimi anni si riunisce nell’Arsa, un gruppo di matrice islamica che lotta per la liberazione dell’Arkan, antico regno dei rohingya. Per ogni attacco dell’Arsa l’esercito birmano colpisce i villaggi musulmani. I civili scappano. Il copione si ripete, fino a degenerare ad agosto nella più grande crisi umanitaria dei nostri giorni.
Nessuno è in grado di dare dati ufficiali né su quanti siano i rohingya entrati in Bangladesh né su quanti ce ne siano nei campi. Lungo le strade che attraversano gli insediamenti gli uomini camminano schiacciati dal peso dei lunghi bambù che trasportano. “Dieci pali lunghi quattro metri – dice un ragazzo con gli alberi in equilibrio sulla spalla – due teloni di plastica e qualche cordino. Basta questo per costruirmi casa”. Tra il fango e la pioggia i profughi stanno costruendo una città con canne di bambù. Le tagliano, legano e intrecciano, trasformandole in tetti, muri e recinti. Tutto destinato a durare meno della stagione monsonica.
Non c’è un piano di sviluppo, non ci sono bagni né acqua corrente. Mancano le scuole e le strutture sanitarie, ma si contano già decine di moschee. Le fogne non sono altro che dei canali di scolo che scaricano in mezzo alle colline, proprio accanto ai primi embrioni di negozi. L’odore acre di feci mischiate ad acqua lasciata al sole, è un campanello d’allarme importante. La organizzazione mondiale della Salute ha già annunciato un piano di vaccinazioni obbligatorie contro il colera.
I campi si snodano per una lingua d’asfalto lunga quasi dieci chilometri, alle due estremità i posti di controllo dell’esercito di Dhaka. I rohingya possono entrare, ma non uscire. Siamo nel distretto di Cox’s Bazar, la riviera romagnola del Bangladesh, 120 chilometri di spiaggia con sabbia bianca, la perla del turismo nazionale. Il mezzo milione di rifugiati ha visto quel mare solo una volta, quando lo ha attraversato scappando dalla Birmania.
Shamlapur è un villaggio di pescatori, il Myanmar dista meno di un’ora di navigazione. Sul bagnasciuga sono adagiate diverse barche lunghe una decina di metri, hanno poppa e prua affusolate verso l’alto. “Ci sono stati molti naufragi – racconta Saad Bin Hossain, regista di Dhaka che sta documentando la fuga dei rohingya – lunedì scorso l’ultimo. Sono arrivati a riva 12 cadaveri, dieci erano bambini”. L’acqua è scura, carica della terra che i monsoni gettano in mare. “Si può attraversare il confine anche a piedi – continua Saad – ma è più pericoloso. Ho visto il corpo di un ragazzo imputridire nella no man’s land, ha pestato una mina anti-uomo, con lo zoom della telecamera lo potevo vedere in faccia, i suoi resti sono ancora lì”.

il Fatto Quotidiano,

A cent’anni di distanza, non c’è nulla di più attuale del primo libro dedicato da un grande intellettuale italiano alla disfatta per antonomasia della Grande Guerra: Viva Caporetto, opera prima di Curzio Malaparte, fu scritto tra il 1918 e il ‘19, uscì nel ‘21, e per la sua violenza verbale fu sequestrato e ristampato subito in forma riveduta e con un altro titolo, La rivolta dei Santi maledetti (da cui cito), anch’esso peraltro sequestrato prima nell’Italia liberale del tardo 1921 e poi in quella fascista del ‘23. La tesi di fondo è semplice, anche se discutibile: Caporetto non è stata una vergognosa ritirata, ma anzi il momento culminante di una rivoluzione sociale mossa dal popolo delle trincee, quel popolo misto che un’élite politica e militare cialtrona e corrotta aveva mandato allo sbaraglio, e che con il disobbedire, col sabotare, col denunciare le inutili stragi, l’assurdità degli ordini e l’assenza di strategia, già prima della ribellione operata “gettando lo scudo” nell’ottobre del ‘17, si era esposto a ritorsioni, fucilazioni sommarie, o come minimo alla pesante accusa di disfattismo.
“Dire la verità è fare del disfattismo” pare abbia detto un giorno del ‘17 il generale Di Robilant, comandante della IV armata. La verità era che il sentimento patriottico nel Paese non lievitava, e che col passare dei mesi si approfondiva il solco di incomunicabilità e diffidenza tra le classi dirigenti (molti gli interventisti da salotto, non di rado imboscati; i pacifisti, loro, mantenevano agli occhi di Malaparte almeno una dignitosa coerenza) e le masse dei combattenti, sempre più insofferenti dei “lustri e sdegnosi ufficiali di cavalleria, dei panciuti e pettoruti ufficiali superiori”, di Cadorna “chiuso nella sua lucente armatura di princìpi e di tradizioni, alto nella sua aristocratica fierezza”. “Non amo un generale alto, che sta a gambe larghe, / fiero dei suoi riccioli e ben rasato. / Uno basso ne voglio, con le gambe storte, / ma ben saldo sui piedi, e pieno di coraggio”: forse memore della nota satira del greco Archiloco, il colto Malaparte constata la sostanziale sfiducia di Cadorna nei confronti delle sue truppe (un errore di valutazione e di ethos su cui torna oggi lo storico Marco Mondini nel fresco saggio Il capo, che tiene dietro all’imprescindibile La guerra italiana del 2014, sempre per i tipi del Mulino), e salva solo gli ufficiali di trincea, i “pastori di genti” (omericamente, i “poimènes laòn”) i quali compartivano con le reclute l’insensatezza degli ordini e l’orrore della carneficina. Quegli stessi che, passata la catastrofe, il generale Diaz mise al centro del suo piano di rivitalizzazione di un’armata destinata alla riscossa.
Interventista della prim’ora e precoce volontario in Francia, dove poi nel ‘18 fu gravemente ferito ed ebbe i polmoni corrosi dall’iprite, Malaparte non accusa però solo la “confraternita di unti dal Signore” abituati a lambiccare strategie in una concezione astratta “che risentiva molto delle ville venete, non del fango e del sangue delle trincee”. Il suo disgusto – che è quello degli antichi combattenti per nulla convertiti all’antimilitarismo – si estende al “bosco elegante ed umanitario” delle crocerossine, ai giornalisti superficiali o prezzolati, alla retorica vuota e gratuita in cui si bagna un Paese di ciurmadori e politicanti, il Paese dell’ “armiamoci e partite”. Un Paese che (come aveva ricordato, in altro senso, l’interventista Apollinaire – amico di Malaparte al “Lapin agile” di Montmartre – nell’ode All’Italia del 1915) più degli altri dovrebbe sentire responsabilità dinanzi agli uomini quando il dilemma si pone fra civiltà e barbarie: “L’Italia, dove il diritto è nato, è fra i paesi più incivili del mondo: vi manca assolutamente, cioè, il senso del diritto. Chi si sente cittadino, fra noi? Chi rispetta lo Stato?”.
La realtà della barbarie della Grande Guerra è oggi nota da molti studi; e si guarda ormai più sobriamente alla reale portata della “dissidenza” dei soldati rispetto a tale barbarie e a chi la ordinava. Tuttavia, a cent’anni di distanza, Viva Caporetto è un libro notevole per almeno due ragioni: da un lato esso aiuta a cogliere i primi germi di un sentimento di odio sociale tra il “popolo” e la “casta”, a conoscere dunque quella humus di risentimento e di insoddisfazione che portò molti reduci di ogni colore ad aderire al fascismo – un approdo cui giunse lo stesso “socialista rivoluzionario” Malaparte, per la sorpresa di Gobetti e degli ordinovisti con cui collaborava; e fu un’adesione ricca di ombre e di incomprensioni. D’altra parte, l’opera prima del giovane scrittore toscano colpisce per il coraggio di un’analisi che non aspetta le “bocce ferme” (come farà Emilio Lussu con Un anno sull’altipiano, uscito nel 1938, e a Parigi: ne fu tratto, con palese forzatura antimilitarista, Uomini contro di Francesco Rosi), ma si sobbarca a un’operazione di verità “in presa diretta”, esponendo l’autore ad attacchi e persecuzioni nei primi tempi del Ventennio. Al netto delle sue derive nazionalistiche e irrazionalistiche, e al netto di una diagnosi a tratti volutamente provocatoria, un Malaparte polemico e non ancora surrealista (né passibile della taccia di opportunismo, che spesso l’accompagnerà), pianta il cuneo in quello scollamento fra propaganda e realtà, fra narrazione delle classi dirigenti e vita dei “soldati semplici”, fra retorica e concretezza, che anche in tempo di pace resterà uno dei principali problemi del nostro Paese.

il manifesto, 14 ottobre 2017.

«Riconosco che con il reddito d’inclusione approvato dal governo Gentiloni si è fatto qualcosa ma il 60% dei poveri è tagliato fuori. Mi piacerebbe che si trovassero i soldi subito per le sofferenze umane, sono stanco di sentir parlare di sofferenze bancarie. Che cosa dobbiamo aspettare? Le nuove elezioni politiche? La povertà è un reato, un crimine di civiltà».

Lo ha detto Don Luigi Ciotti intervenendo all’iniziativa «Ad Alta Voce» tappa romana in piazza San Giovanni Bosco, a Cinecittà, della carovana contro le diseguaglianze e per il reddito di dignità promossa dalla Rete dei Numeri Pari in trenta città. «Sono il segno – ha detto il fondatore di Libera – che se una resistenza c’è già stata in Italia, ma oggi ci vuole una nuova resistenza, per seminare il positivo. È il noi che vince. Il cambiamento ha bisogno del contributo di ciascuno di noi».

L’intervento è stato fatto in chiusura dell’incontro organizzato nel cuore del Tuscolano, in piazza Giulio Agricola, davanti alla gigantesca basilica di San Giovanni Bosco, la stessa che è stata ingiustamente resa nota nel 2015 dai funerali di Vittorio Casamonica, già considerato uno dei «Re di Roma», accusato di usura, racket e traffico di stupefacenti. La stessa chiesa fu negata nel 2006 per i funerali di Piergiorgio Welby, militante del Partito Radicale, deceduto dopo l’intervento del personale medico che decise di rispondere alla sua volontà di terminare la sua agonia. La «Rete dei numeri pari» ha voluto organizzare l’incontro per dimostrare l’esistenza di una società diversa. «Da qui vogliamo dire che esiste un’altra Italia – ha detto Giuseppe De Marzo (Rete Numeri Pari) che pensa che la solidarietà sia un elemento distintivo della democrazia e provano a evidenziarlo costruendo percorsi di mutualismo in tutto il paese». In piazza si è tenuto un pranzo sociale, mentre il giornale di strada «Shaker, pensieri senza fissa dimora» – prodotto dal centro di accoglienza e di prima assistenza ai senza fissa dimora «Binario 95» alla stazione Termini – è stato distribuito dai suoi redattori.

Dal palco della manifestazione è stata declinata un’agenda politica basata sul diritto alla casa, su quello allo studio, sui diritti delle donne e la dignità delle persone. A questi temi Don Ciotti ha aggiunto due nodi importanti: lo «Ius soli» e la legge elettorale. «Lo Ius Soli – ha detto – è una legge giusta, mi fa piacere l’impegno del presidente del Consiglio ad approvarlo in questa legislatura». E sulla legge elettorale: «È terribile, è la democrazia che viene calpestata». «L’inclusione sociale sta alla base della democrazia – ha aggiunto Don Ciotti – Alzate la voce quando gli altri scelgono un comodo silenzio. Se molti diritti sono stati calpestati è anche colpa nostra che non li abbiamo difesi abbastanza». «La speranza si costruisce partendo dai poveri ha aggiunto – Da lì si deve partire – ha aggiunto – ad alta voce, per restituire l’economia alla vita, perché se così non è, non sappiamo che cosa farcene di questa economia».

la Repubblica

Leggende della musica come Joan Baez, la voce della protesta degli anni 70, Robert Plant, Emmylou Harris, Brandi Carlile e Steve Earle - insieme ad altri musicisti - stanno donando il loro tempo e talento per Lampedusa, riconoscendo l'immane sforzo che la piccola isola siciliana sta compiendo da vent'anni per i profughi. Lampedusa: Concerts for refugees è un tour di otto concerti da Seattle a Dallas, passando per lo storico teatro Wiltern di Los Angeles. Abbiamo parlato al telefono con Joan Baez (la Bob Dylan femminile) prima che salisse sul bus con il resto della compagnia e proseguire verso l'Arizona e il Texas per le altre tappe di questa importante iniziativa, organizzata dalla compagnia gesuita Jesuit Refugee Service in partnership con l'alto commissariato dell'Onu per i profughi (Unhcr). Il tour è finalizzato a raccogliere fondi e sensibilizzare l'opinione pubblica sulla crisi dei rifugiati nel mondo.

"Ci sono 65.3 milioni di persone nel mondo costrette a lasciare la propria terra per violenza, persecuzioni e calamità naturali," spiega Rob Robinson, direttore di Jrsusa e organizzatore dell'evento. Più di 21 milioni sono rifugiati. Metà dei profughi hanno meno di 18 anni, e meno del 50 percento dei giovani hanno accesso all'educazione. È per questo che proprio l'educazione è al centro del nostro impegno in questi concerti. Nel novembre del 2015 il Jrs ha lanciato la Global Education Initiative per l'educazione dei giovani profughi". "E Lampedusa è un emblema di questo problema globale" aggiunge la sempre combattiva Baez. "È un simbolo, e le immagini che si associano a quel simbolo sono molto forti, oggi come nel passato".

Joan, come è iniziato il suo coinvolgimento con questa serie di concerti per Lampedusa?

Emmylou Harris era stata la prima a entrare in contatto col gruppo di gesuiti che avevano l'appoggio della Uhncr, con cui avevo lavorato fin dagli anni 70. Il Jesuit Refugee Service è un'organizzazione umanitaria che da 36 anni opera in oltre 45 Paesi nel mondo. Sono molto seri e impegnati, e mi fido di loro ciecamente. Emmylou è una donna di forti convinzioni, è una specie di calamita cui non puoi sottrarti quando si mette in testa una cosa e decide di coinvolgerti. Mi ha fatto capire la forza del progetto. Insieme sul palcoscenico cerchiamo di far capire l'importanza di questa causa. Soprattutto quella di dare educazione ai profughi.


Quindi crede che la musica possa scuotere le coscienze?
Di sicuro la musica riesce a smuovere lo spirito, ovvero riesce a creare forme di empatia talora inconsapevoli. Ed è già qualcosa. Dà alla gente una sensazione di speranza, anche quando sembra che ce ne sia poca. La musica vera anela sempre a un mondo migliore. Io sono cresciuta con quel tipo di musica. Si può fare politica con la musica. Io ci credo.

Il problema dei profughi le è sempre stato a cuore.
Oggi più che mai. E con le cose che stanno succedendo a Washington - e non è Trump, lui è solo lo strillone - con questo sentore di regressione conservativa e isolazionista, credo che mai come adesso dobbiamo cantare ad alta voce. La destra estrema è in crescita qui negli Usa, come in altri Paesi dell'occidente. Trump non ha fatto altro che sdoganare la destra americana. Allora dobbiamo darci da fare - noi persone di coscienza - più che mai. E dobbiamo incoraggiare le persone al potere a comportarsi in maniera decente, civile, avere compassione e empatia, tutte quelle cose che stanno sparendo dai nostri vocabolari. Una mia amica ha una t-shirt con la scritta: Make America Mexico Again, che trovo strepitosa. Non dovremmo dare tanta importanza alle celebrazioni individuali o di gruppo, che sono sempre divisive.
Ha visitato campi profughi? È mai stata a Lampedusa?
No, a Lampedusa non sono mai stata, ma adoro l'Italia e la Sicilia. Sono anni che non visito campi profughi dopo le mie esperienze in Cambogia e Vietnam. Lo vorrei fare appeno finisco questa serie di concerti e altri impegni pressanti. E vorrei andare a Lampedusa, certo. Questi concerti sono in onore di quell'isola, che è diventata una stazione di passaggio di tante persone in fuga da situazioni atroci. Lampedusa è il simbolo globale dell'accoglienza, del nuovo umanesimo.
Lei è anche impegnata a dipingere, sua nuova passione.
Ho iniziato a dipingere seriamente circa sei anni fa, e faccio soprattutto ritratti. Il volto umano e ciò che racconta rimane il mio soggetto favorito. Esprimi tutta una vita sul volto e un bravo artista riesce a coglierla e raccontarla. Sto pensando a una mostra e forse a un libro, un giorno.
Per il problema dei profughi, quale sarebbe la canzone di battaglia più appropriata?
Ce n'è qualcuna nuova, come Deportees o The Immigrant Song, che cantiamo in questa tournée. Ma se mi chiede se ci sia oggi una canzone come Blowing in the wind, no, non c'è.

il Fatto Quotidiano,

Non ci sta Mimmo Lucano a passare come uno dei tanti politici malandrini e truffatori che speculano sui bisogni dei rifugiati. Riace è il paese dell’accoglienza e lui non è un Buzzi qualsiasi. Il suo borgo, che dall’alto di colline bianche di calcare guarda allo Jonio, non è Mafia Capitale. Venerdì in centinaia hanno affollato le piazze del suo paese per portargli solidarietà. “Non posso accettare che per colpa mia si mortifichi un ideale”, ha detto con le lacrime agli occhi.
Le accuse che rischiano di stritolarlo sono pesanti, “truffa aggravata allo Stato e alla Ue, concussione, abuso d’ufficio”. La morte del modello Riace. Quello che ha portato la rivista Fortune ad inserire Lucano tra le cinquanta personalità più influenti del mondo, e che fece dire a Wim Wenders che “la vera utopia non è il crollo del Muro, ma quello che sono riusciti a fare a Riace”. E allora Mimmo ’o curdu (come lo chiamano) vuole essere interrogato e subito. Martedì sarà davanti ai pm di Locri. Ma prima vuole che si passi al setaccio la sua vita. Proprietà, conti correnti, beni della sua ex moglie e dei suoi tre figli e quelli del padre, maestro elementare in pensione. Noi lo abbiamo fatto. Lucano ha una piccola casa al borgo, una Giulietta comprata a rate, e due conti alle poste, con un unico versamento fisso, poco più di mille euro, la sua indennità da sindaco. Solo a giugno di quest’anno una impennata, un bonifico di 10mila euro accreditato dalla associazione umanitaria tedesca Friends of Dresden Deutschland.
Erano il frutto di un premio, soldi suoi, quindi, che in buona parte (9500 euro prelevati ad agosto) ha destinato “ad attività di accoglienza”. Un altro premio in denaro, scrive nella lettera inviata al procuratore di Locri, ha voluto che fosse destinato ai terremotati di Amatrice. Ma la battaglia di Lucano è difficile, perché il conflitto che ha innescato è di livello altissimo. È lo scontro tra legalità formale e giustizia sostanziale, emergenza e regole burocratiche, umanità e protocolli, freddi burocrati e uomini in carne e ossa.
Leggere le varie relazioni fatte, nell’ordine dal Servizio centrale di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati e dalla Prefettura di Reggio Calabria, è fare un viaggio in un labirinto di articoli di legge, commi, capitolati d’appalto. Un insieme di regole formali, che così come sono non funzionano. Se si vuole assicurare una vita dignitosa e l’integrazione dei profughi, vanno cambiate radicalmente, sostiene Lucano. Destinato sempre a scontrarsi con un “tuttavia”, avverbio onnipresente nelle conclusioni degli ispettori. Relazione del dicembre 2016 della prefettura di Reggio, frutto di una ispezione richiesta dallo stesso sindaco Lucano dopo quella del Servizio centrale di protezione del 20-21 luglio. Premessa.
“Il modello Riace assicura la necessaria accoglienza e assistenza nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e della dignità degli stranieri”. Rapporti con gli abitanti: “Pacifica convivenza. Clima di armonizzazione e serena integrazione”. Lavoro degli immigrati e laboratori artigiani: “Virtuosa riqualificazione ambientale grazie a progetti sostenibili”. Tutto bene? No, perché a questo punto irrompe il mortale “Tuttavia”… “Tuttavia gli aspetti positivi non giustificano di per sé previsioni derogatorie alla normativa vigente”.
Gli ispettori venuti da Reggio, e che vogliono smontare “l’idilliaco alone” che aleggia su Riace, contestano le concessioni con gli enti esistenti (le coop sorte in paese), le strutture di ricezione (le case date ai migranti, il cui costo mensile, 300 euro, è giudicato alto), l’assunzione dei 70 operatori, la carenza di personale specializzato. Un numero consistente di profughi viene ancora ospitato nonostante la scadenza dei termini previsti dalla legge.
Poi la bomba: a Riace si batte moneta, come fosse uno Stato autonomo. Si tratta di buoni di carta che vengono dati agli ospiti per fare la spesa. Sono parte dei 35 euro destinati per ogni migrante e hanno impresso l’immagine del Che, di Berlinguer e Pasolini. I pochi commercianti di Riace li accettano in attesa di essere pagati con i soldi veri, quelli del ministero che arrivano sempre con mesi di ritardo. Quei “buoni”, si legge in un’altra relazione del Servizio centrale sono “succedanei della moneta”, acquistate i ticket, oppure ricorrete a prestiti bancari in attesa dei soldi del Viminale.
Risposta di Lucano: “Non voglio sottrarre risorse ai progetti per pagare interessi bancari”. Le controdeduzioni di Mimmo Lucano alle relazioni, sono durissime. Le ispezioni sono state “eseguite in modo approssimativo e parziale”, non sono stati sentiti gli immigrati, né le gente di Riace. “Avete controllato solo carte e documenti. Vi siete limitati alla burocrazia”. Sugli affidamenti diretti. Ad ogni sbarco, “ministero e prefettura mi chiamavano per ospitare altre persone, se c’è stata mancanza di iter trasparenti, questa può essere una responsabilità condivisa con gli organi superiori”.
Si sono utilizzate le cooperative del posto “perché avevamo bisogno di coinvolgere la popolazione locale. Non vogliamo aprire le porte alle holding dell’accoglienza che controllano il mercato, spesso illegale, della gestione di mega centri e di Cara su scala nazionale”. Noi non abbiamo “costruito ghetti”, ma “accoglienza diffusa”, da qui la ristrutturazione e l’uso delle case abbandonate del borgo. Infine la risposta sugli immigrati trattenuti oltre i tempi previsti dalla normativa. “Per evitare le critiche degli ispettori dovremmo abbandonarli?”, scrive Lucano. “ Se dopo sei mesi ci ritroviamo in strada decine di immigrati, qual è l’utilità del progetto e della relativa spesa? Questo epilogo tutela l’ordine pubblico e la legalità, oppure favorisce criminalità e disordine?”.
Gli esseri umani “non hanno scadenza”, dice Mimmo ’o curdu, “e l’accoglienza non è un valore ad orologeria”. Burocrazia e realtà. A Riace 150 rifugiati sono usciti dai progetti di assistenza e vivono stabilmente in paese, “definitivamente inseriti nel contesto sociale ed economico”. È l’utopia della normalità.

la Repubblica,.» (c.m.c.)

La maggior parte dei commentatori della legge elettorale in discussione in Parlamento assume come punto di vista le ragioni, buone o cattive che siano, dei partiti e di coloro che ne fanno parte. Ma, una legge elettorale deve essere considerata anche, anzi soprattutto, dalla parte degli elettori, i cui diritti mi paiono sottovalutati, per non dire ignorati. I cittadini, invece che come protagonisti di quel momento-clou della democrazia che sono le elezioni, sono trattati come pedine d’un gioco nelle mani di chi sta sulla loro testa. In democrazia, dovrebbe essere piuttosto il contrario. Si tratta di cose ovvie e il fatto che debbano essere dette indica di per sé che si è perso il contatto con la realtà.

In primo luogo, non qualunque legge elettorale è compatibile con il rispetto dell’elettore, ma solo la legge sufficientemente chiara da essergli facilmente comprensibile. Si deve sapere qual è il valore del proprio voto, cioè come verrà utilizzato nel procedimento elettorale che parte da lui e si conclude con l’assegnazione dei seggi in Parlamento. La storia dei sistemi elettorali in Italia è una storia di progressiva complicazione, giunta ora al punto dell’incomprensibilità.

È nata perfino una nuova figura professionale: quella degli esperti-tecnici di sistemi elettorali. Solo loro ne capiscono qualcosa e non sempre sono d’accordo su ciò che credono di avere capito. Ogni complicazione rispetto a idee chiare e semplici corrisponde all’interesse particolare di questo o di quel partito o gruppo politico, onde è facile concludere: tante complicazioni, altrettante manipolazioni. Oggi siamo arrivati a un vertice forse non più superabile. Si dirà: i sistemi elettorali, tutti, sono congegni complicati. Ma, c’è un limite che sarebbe bene non superare per evitare che i cittadini, quando vanno a votare, non sappiano quello che fanno, che siano marionette mosse da fili che nemmeno riescono a vedere e a comprendere. Esagerazione? Si vada agli articoli 77, 83 e 83 bis della legge ora approvata dalla Camera e si dica se si capisce qualcosa circa il computo e la valenza del voto per l’elezione dei candidati nelle due quote previste, la quota uninominale e quella proporzionale.

Il legislatore si è reso conto della perversione e ha pensato due cose. La prima è di affiancare “esperti” agli organi cui spettano lo scrutinio e la proclamazione dei risultati e degli eletti (questa, per la verità, non è cosa nuova, ma una conferma che sul legislatore elettorale le complicazioni esercitano un’irresistibile forza attrattiva). La seconda è di scrivere sulla scheda elettorale le “istruzioni per l’uso”. Così l’elettore, ricevuta la scheda, dovrebbe studiare prima di votare. Se ha dei dubbi, forse potrebbe interpellare il presidente del seggio. Il presidente del seggio, eventualmente, potrebbe voler sentire qualche parere, perché si tratta di cose importanti.

Basta immaginare che cosa potrebbe accadere per rendersi conto della ridicolaggine o, se si vuole, della presa in giro. Molti saranno scoraggiati dall’andare a votare, più di quanti già siano. La platea dei votanti, e con essa la democrazia, si sta contraendo a coloro che in qualche modo e per qualche ragione militano in un partito o in un movimento. Ma, le elezioni non dovrebbero essere solo per i “militanti”. Si diffonde così l’idea della politica come cosa riservata a una nuova oligarchia che degli interessi generali poco si cura, preferendo dedicarsi principalmente agli interessi suoi e a regolarli al proprio interno. A qualunque oligarchia e anche a questa, la partecipazione politica importa niente. Anzi, è un fastidio. Per questo la crescente diserzione dalle urne non suscita preoccupazione, non suona come un campanello d’allarme.

Ancora dal punto di vista dei diritti dell’elettore, un punto critico della legge è il voto unico che vale per due fini diversi. Il sistema elettorale è congegnato in modo tale da sommare una parte di eletti con un sistema uninominale maggioritario (il 36 per cento) con un’altra parte di eletti secondo un sistema proporzionale di lista (il 64 per cento). Per questa seconda parte, le liste dei candidati sono prestabilite dai partiti e sono bloccate, non esistendo il voto di preferenza. Qui s’innesta la polemica sui “nominati”, che continueranno a prosperare per i due terzi o, dicono alcuni, per il cento per cento, posto che anche i candidati nei collegi uninominali saranno necessariamente indicati dai partiti. Di questo si è discusso ampiamente e non è il caso di ritornarci su.

Invece da discutere è il meccanismo per cui l’elettore è chiamato a esprimere il suo unico voto per scegliere il candidato nel collegio uninominale e quel suo voto è calcolato anche per eleggere i candidati nelle liste proporzionali a lui collegate. Uninominale e proporzionale sono due sistemi basati su logiche addirittura opposte. Mescolarli significa di per sé fare confusione e adulterare artificiosamente la rappresentanza che può essere concepita o nell’un modo o nell’altro, ma non e nell’uno e nell’altro: le idee di giustizia elettorale sono incompatibili. Come può lo stesso voto valere la prima volta per un sistema e la seconda per il sistema opposto? Si dirà: anche in passato c’è stato questo mescolamento, con il sistema detto Mattarellum. Tuttavia, allora l’elettore disponeva di due voti, per l’una e per l’altra quota della rappresentanza. Oggi, egli può trovarsi nella contraddittoria posizione di volere eleggere il candidato maggioritario, ma di non voler contribuire a eleggere i candidati proporzionali della lista bloccata preconfezionata per lui (qualcuno direbbe: propinata) dal partito, oppure viceversa.

È un sistema tecnicamente bastardo che nell’uno o nell’altro caso coarta la libera volontà dell’elettore. Anche a questo proposito si vede con quanto poco rispetto i cittadini elettori siano considerati dal loro legislatore. Poiché più volte la Corte costituzionale in passato e con insistenza ha ritenuto illegittimi i sistemi di voto che coartano in questo modo la libera volontà dell’elettore, cioè i sistemi nei quali non è garantito il rapporto uno a uno, una scelta un voto, è facile di previsione che i dubbi d’incostituzionalità su questo punto tutt’altro che marginale siano difficilmente superabili.

Si poteva sperare che l’occasione della legge elettorale fosse colta per cercare di colmare l’enorme fossato che separa la maggioranza dei cittadini dalle espressioni della politica. Bisogna riconoscere che l’occasione è andata sprecata, che anzi ciò che abbiamo davanti agli occhi è l’allargamento del fossato. Che cosa ci dicono le piazze contrapposte al “palazzo”? Le prime ribollenti, il secondo che procede imperterrito come se niente fosse. Che cosa ci dice l’astensione già altissima che si preannuncia ancora più alta, a testimonianza di umori, questi sì, antipolitici perché intrisi di rabbia e di repulsione nei confronti di una politica sempre più, come si dice, “autoreferenziale”? C’è poco da consolarsi guardando all’astensionismo di altri Paesi: là c’è disinteresse ma qui c’è disprezzo. E dove tra i rappresentanti e i rappresentati c’è disistima diffusa, lì la democrazia è a rischio. Il coperchio può saltare da un momento all’altro e sprigionare energie di qualunque temibile natura. C’è qualcuno che seriamente si rende conto di questo pericolo?

Tra governanti e governati, quale che sia il sistema costituzionale, è sempre esistito un solco. È inevitabile. La dimensione, però, è variabile, e la democrazia non può permettersi che s’allarghi oltre misura. Oggi la misura è certamente già superata. Solo il fatto che vi sia un movimento che finora ha parlamentarizzato e quindi politicizzato lo scontento impedisce di vedere chiaramente quanto il solco sia largo e profondo. Per rendersene conto basterebbe ascoltare i discorsi che si fanno liberamente nelle strade e nelle piazze tra persone che, una volta, si sentivano parti d’una comunità politica e ora non più. Vogliono solo essere lasciati in pace. Con questo popolo dei diseredati della politica, i politici hanno progressivamente perso il contatto.

Per lo più, nel migliore dei casi, ascoltano quello che resta dei loro militanti e dei loro elettori e lì tra loro, ovviamente, trovano consolazioni. Ma, così, si condannano ad avere una visione distorta e tranquillizzante della realtà. Oppure, avvertono pericoli e s’inquietano. Ma, per arginare questo risentimento, invece di conoscerne e riconoscerne le ragioni, finiscono per rinforzarlo chiudendosi nel bunker ch’essi stessi hanno eretto a propria difesa. Tanti mezzi difensivi sono utilizzabili; tra questi anche le leggi elettorali. Che le elezioni servano a una classe politica per difendersi, e non per aprirsi, non è, però, cosa della democrazia.

il manifesto

Dai bonus alle permanenze oltre limite, il modello di accoglienza funziona ma cozza con la burocrazia, da cui l'inchiesta della procura. Ma lui dice: sono innamorato dell'onestà e della giustizia, non ho niente da nascondereono arrivati in tanti, da tutta la Calabria e oltre, per sostenere il sindaco di Riace, Mimmo Lucano. La procura di Locri lo indaga per «abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche in relazione alla gestione del sistema di accoglienza».

Lui ha lo sguardo indignato ma sicuro delle proprie ragioni. E si commuove davanti all’affetto di tanti compagni: «Ciò che dirò in procura martedì prossimo, lo dico adesso a voi. Ribadisco la piena fiducia nel lavoro dei magistrati». Poi racconta l’inizio di quello che oggi è definito il modello di accoglienza Riace.

Cominciò tutto nelle famiglie riacesi che ospitavano i profughi, in modo spontaneo. «Io sono partito una ventina d’anni fa, con i miei ideali, quando ho conosciuto Dino Frisullo e la causa curda», spiega Lucano ripercorrendo le tappe che hanno portato all’apertura del fascicolo da parte della procura.

«C’è stata – prosegue – un’attività di monitoraggio nel luglio 2016 che ha messo in evidenza delle irregolarità burocratiche. Dopo pochi giorni abbiamo ricevuto un’altra visita ispettiva da parte dei funzionari della prefettura di Reggio Calabria. E nonostante noi lo abbiamo richiesto diverse volte, non ci è stato mai fornito l’esito di questa ispezione».

Eppure finì sul tavolo di un cronista de Il Giornale che – aggiunge il sindaco – «la usò per denigrare il nostro operato. Persino Forza Nuova e Fiamma Tricolore misero mano a quella relazione, quando vennero a manifestare qui contro di noi».

Il rapporto con la prefettura rimane in effetti ancora pieno di ombre. Non potrà mai recepire la dimensione umana dell’accoglienza. «Quella dimensione che non può scadere dopo 6 mesi, come prevederebbe la normativa», precisa il primo cittadino con riferimento a una delle contestazioni che gli vengono mosse: l’utilizzo dei fondi a sostegno di migranti non più ospitabili perché i progetti sancirebbero il loro allontanamento alla scadenza dei 6 mesi. Eppure sono ben 80 le persone che lavorano nei progetti, più altre 14 dopo la creazione di un asilo nido multietnico.

«La nostra è un’economia diffusa in cui è difficile per le mafie avere un controllo perché è coinvolto tutto il territorio. E a proposito, mi piacerebbe vedere le carte relative ai controlli sulle strutture di Isola Capo Rizzuto e Crotone», attacca Lucano, precisando che i suoi familiari “sono stati costretti ad andare via per cercare lavoro altrove, mentre sul mio conto corrente io possiedo solo 500 euro».

Per quanto riguarda la questione dei bonus, rivendica la correttezza del suo operato: «Serviva una moneta locale per l’accesso ai servizi sul territorio locale». Gli sembrava infatti assurdo che profughi sfuggiti alla guerra dovessero pure subire i ritardi della burocrazia italiana nell’erogazione dei fondi.

«Sono più innamorato della giustizia che della legalità», chiosa il primo cittadino, denunciando i limiti di una legalità strabica, che spesso autorizza delle grandi ingiustizie sociali ma non riconosce diritti elementari.

«Che cosa potrei raccontare ai miei figli ed a tanti compagni venuti qui da altre parti del mondo, se commettessi atti disonesti? Noi non siamo legati ad un partito, ma ad ideali forti».

Scattano in piedi tutti i presenti. Spontaneo affiora un applauso che sembra non finire mai. Dopo Lucano, prendono la parola in tanti.

Omar, arrivato qui dal Ciad nel 2012, spiega il meccanismo perverso che porta molte amministrazioni dei progetti Sprar a chiedere prestiti alle banche quando non riescono a coprire le spese per l’accoglienza: «Sono costrette a contrarre prestiti per anticipare i fondi che vengono erogati con molto ritardo. Spesso sono a tassi agevolati, ma non è giusto usare i fondi pubblici per pagare le banche. Con i buoni, noi permettiamo ai profughi di fare acquisti, aiutando anche le piccole realtà locali a restare in vita, e quando i soldi arrivano, ripaghiamo i debiti».

Tramonta il sole alle spalle di Riace. Ma tutto è ancora più chiaro, adesso, dopo le parole del popolo dell’accoglienza.

Internazionale

Il dibattito in Italia sulla riforma della cittadinanza da votare prima che finisca l’attuale legislatura è la cartina al tornasole di resistenze culturali (e politiche) molto più radicate e profonde. Conviene dirlo subito, con parole chiare: l’Italia è un paese molto più complicato, stratificato, maturo di come spesso è possibile percepirlo attraverso la grande vulgata mediatica che vorrebbe raccontarlo. Non necessariamente migliore, semplicemente più complesso. Ed è proprio su questo iato che dobbiamo interrogarci.
Secondo l’ultimo Dossier statistico immigrazione, gli stranieri nel nostro paese sono circa cinque milioni e mezzo (a cui vanno aggiunti un milione di cittadini di origine straniera che hanno già acquisito la cittadinanza italiana). Provengono in maggioranza da Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina. Costituiscono più o meno l’8 per cento della popolazione residente nella penisola, ma in una regione come l’Emilia Romagna arrivano al 12 per cento.

Una classe dirigente chiusa

Nel 1989, quando il muro di Berlino cadeva e il bracciante sudafricano Jerry Masslo veniva ucciso a Castel Volturno, facendo scoprire all’Italia lo sfruttamento nei campi e il razzismo, erano ancora poche centinaia di migliaia di persone. È evidente che nell’arco di un quarto di secolo è avvenuta una profonda mutazione del paese. Oggi abitiamo in una società molto più plurale. Eppure alla crescita della popolazione di origine straniera, alla creazione di una nuova classe di operai e di braccianti stranieri nel nostro paese, all’affermarsi di un ceto di piccoli imprenditori e commercianti, all’emergere delle seconde e delle terze generazioni residenti, non fanno ancora seguito adeguate forme di rappresentanza, che vadano al di là di tutte quelle espressioni puramente simboliche come i consiglieri comunali aggiunti (e quindi privi di voto).
La classe dirigente italiana (intendendo per classe dirigente non solo la classe politica, ma anche i vertici delle istituzioni e dei ministeri, i giornali, le università, le tv, i sindacati, le grandi aziende, le fondazioni, gli enti pubblici e privati…) è ancora bianca, di madrelingua italiana. Salvo rare eccezioni: la più nota – e allo stesso tempo isolata – è stata la ministra dell’integrazione del governo Letta, Cécile Kyenge. Da dove nasce questa differenza profonda con il resto dell’Europa, con la Francia, la Germania, il Regno Unito, i paesi del nord Europa? Cosa fa dell’Italia un paese ancora così impermeabile all’apertura verso la società plurale?
Curiosamente, chi parla di “casta” non sottolinea mai questo aspetto – realmente castale – del potere e del sottopotere nostrani. Era molto più cosmopolita ed eterogenea la composizione delle camicie rosse di Garibaldi durante la spedizione dei mille che non quella di qualsiasi consiglio comunale di oggi, dalle Alpi alla Sicilia.

Contraddizioni

Eppure la contraddizione, a volte, emerge. Basta collegare tra loro eventi solo apparentemente distanti. Il movimento che è sceso in piazza in molte città italiane per chiedere una nuova legge sulla cittadinanza che superi gli steccati dello ius sanguinis è fatto soprattutto da ragazzi e ragazze delle cosiddette seconde generazioni. Dai figli, cioè, cresciuti e spesso anche nati in Italia, di chi ha fatto per primo il grande viaggio verso l’Europa. E che sono “anche” di madrelingua italiana. Quali forme di rappresentanza hanno? Quali vengono loro offerte?
Un’altra contraddizione evidente emerge nel mondo del lavoro. Non solo in quello nelle fabbriche, ma anche in quello nelle campagne o nei poli della logistica. Laddove più gravi e profonde sono le forme di sfruttamento, più cosmopolita è la composizione di quella che – a tutti gli effetti – è una nuova classe operaia. È così nei campi dove si raccolgono le arance o i pomodori. È così per i facchini che lavorano in subappalto per le grandi multinazionali di spedizioni pacchi.
La vicenda di Abd Elsalam – il facchino egiziano di 53 anni, travolto un anno fa da un camion durante un blocco operaio davanti allo stabilimento della Gls di Piacenza – lo rivela appieno. Oltre agli eventi che hanno portato alla sua morte, e al fatto che presumibilmente il camionista che lo ha investito è stato esortato ad aggirare il picchetto, a stupire sono le condizioni in cui lavorava. Il contesto. In quell’azienda, su 140 dipendenti, non c’era un solo italiano. Erano tutti egiziani, algerini, tunisini, albanesi, macedoni… Pertanto, la sera in cui Elsalam è rimasto ucciso, non c’era neanche un solo italiano a prendere parte al blocco contro la Gls per il mancato rispetto di un accordo sindacale. Come si era organizzata la loro lotta? In che modo si stanno organizzando vertenze simili in giro per l’Italia?

Una spia del futuro

La lotta in questi contesti è più aspra che altrove, ed è lì che sta emergendo una generazione nuova di delegati sindacali stranieri: sia nei sindacati confederali, sia – e spesso soprattutto – in quelli di base. Cominciano a essere loro la prima forma di rappresentanza di un’Italia diversa. Ma da qui a una rappresentanza più vasta ancora ce ne vuole. Finora, non si è ancora superata la dimensione locale o quella dei sindacati di categoria.

Da sempre le trasformazioni del lavoro, della composizione del mondo dei lavoratori e della loro rappresentanza, sono la prima spia per capire cosa si agita nel profondo della società. E come, intorno a quelle trasformazioni, l’organizzazione sociale può essere modificata. Del resto è proprio lì, nel mondo del lavoro, tanto quanto sui banchi di scuola, che si sta generando il vero incontro tra “vecchi” e “nuovi” italiani. Accanto all’incontro, ovviamente, non mancano gli attriti. Ed è proprio per gestirli che bisogna modificare le regole e le forme della rappresentanza.

il manifesto

E’ imperdonabile dopo una legge elettorale rigettata dalla Consulta per i suoi tratti incostituzionali. Imperdonabile che una legge rigettata e prodotta per emendare una precedente formula invalidata perché anch’essa contraria ai principi della Carta, il governo riprovi nel mestiere della manipolazione della tecnica di trasformazione dei voti in seggi. Un capo politico che ha per ideologia la “rottamazione” non può che sprigionare una immensa carica distruttiva.

Desta semmai meraviglia che gli osservatori che lo hanno a lungo incensato parlino solo oggi di “colpo di mano” o persino di legge “fascistellum” non cogliendo che le laceranti prove di forza in aula sono i frutti del tutto prevedibili dell’ideologia della rottamazione. Che Renzi conduca all’eutanasia il suo non-partito è irrilevante. Che distrugga, con la sua opera provocatoria, anche degli assi portanti della repubblica è invece una cosa piuttosto grave.

Il successo del no a dicembre era un macigno scagliato non solo contro il governo, costretto ad archiviare la grande riforma che “da 70 anni il paese attendeva”. Conteneva anche una censura esplicita verso la condotta poco accorta di ben due presidenti. Di sicuro non si può invocare il soccorso del Quirinale per arginare prove di arbitrio che attengono per intero alla deriva della cultura politica del Pd che è diventato il principale attore dell’agguato alla costituzione. Ma la campana del 4 dicembre ha suonato anche per il Colle.

Che dopo 10 anni di elezioni illegali di nuovo aleggi lo spettro di una condotta corsara per fabbricare una legge conveniente ai capi (per la nomina del ceto politico obbediente e per la penalizzazione dei concorrenti alla conquista di Palazzo Chigi) è uno scenario che non può che allarmare i custodi. Il capo dello Stato, in condizioni normali, deve tenersi lontano dal gioco politico. Quando però si persevera nell’emergenza, e la competizione si svolge con forzature illiberali delle regole, il distacco non è di sicuro un inchino doveroso all’autonomia della politica ma un gesto di indifferenza al gioco che diventa sempre più sporco.

Rispetto all’abuso di potere, il capo dello Stato è uno degli argini di cui il sistema dispone. Quando nel 2005 Ciampi non si oppose, come invece doveva, al Porcellum seguì una condotta censurabile perché la nuova legge era approvata a ridosso del voto e non si era ancora affermata la consuetudine di un possibile pronunciamento della Consulta. Quindi, in quel tempo, il presidente era il custode fondamentale dell’ordinamento e il suo silenzio sulla legge Calderoli comportò guasti sistemici prolungati. Accettare il conflitto tra poteri è un bene per l’equilibrio delle istituzioni, un malinteso spirito conciliativo provoca invece tensioni istituzionali irreparabili.

Il fatto nuovo della possibilità di un coinvolgimento della corte nel giudizio di costituzionalità del diritto elettorale attenua certamente la responsabilità del controllo iniziale spettante al capo dello Stato. Il sistema delle garanzie alla fine, inventando il controllo della Consulta, ha ritrovato il modo di espellere un intervento incostituzionale denominato Porcellum prima e Italicum dopo. Però la ristrettezza dei tempi che separano dal voto, questa volta non consente un tempestivo vaglio della Consulta per ristabilire la legalità contro gli abissi di una nuova legge elettorale imposta a colpi di voti di fiducia.

Il calcolo (per Renzi e Salvini) è di celebrare il voto di marzo con una formula imposta manu militare con tutti i suoi evidenti vizi per poi rinviare alla prossima legislatura il compito eventuale di rimediare alla manomissione ormai compiuta. Per questo spregiudicato uso del potere, il Quirinale non può rifugiarsi nello scudo della responsabilità affievolita: i margini di correzione a protezione del principio di legalità sono tutti nella penna del presidente.

Il rischio sistemico, dinanzi a deputati nominati in liste solo approvate dal popolo, e con i risvolti di incostituzionalità paventati da Napolitano nella figura del “capo della coalizione”, è di tramutare il presidente in funzionario della minoranza che rinunciando all’intervento sanzionatorio priva l’equilibrio dei poteri di un supporto terzo che è indispensabile.

La conseguenza della firma concessa all’Italicum è stata attenuata dalla riparazione ex post della Consulta. Però sono ancora attive le pesanti conseguenze di una scommessa istituzionale che, su una mera ipotesi (assetto monocamerale), ha costruito il meccanismo elettorale maggioritario per la sola camera.

Può il capo dello Stato firmare una seconda legge imposta alle camere con l’arma indebita del voto di fiducia che umilia la funzionalità del parlamento e stravolge la base di una democrazia competitiva con un uso partigiano della tecnica elettorale? La repubblica non sarebbe più la stessa, costretta ad un pendolo pauroso che oscilla tra abuso di potere e ribellione del popolo.

il Fatto Quotidiano

Il Bacio feroce ha il sapore del sangue, come quasi tutto in questa storia di cuccioli selvaggi, vittime e carnefici negli stessi corpi, divisi tra i compiti a casa, i messaggi alle fidanzatine e gli omicidi. Undici mesi dopo La paranza dei bambini, Roberto Saviano torna in libreria con il seguito del romanzo criminale ambientato a Forcella.

È la prima volta che scrive due libri a così poca distanza uno dall’altro: quella del romanzo, narrato in terza persona, è la sua dimensione di scrittore?
Ci sono arrivato. Il racconto in terza persona concede molte libertà, la principale è il tentativo di restituire al lettore l’intimità dei personaggi. Di provare a entrare non solo nelle loro teste, ma proprio nelle loro viscere.
I dialoghi sono tutti scritti in napoletano, anche se un napoletano non “canonizzato” ma imbastardito, come scrive in nota: un lavoro sulla lingua ancora più approfondito rispetto alla Paranza. Perché questa scelta?
A Napoli il napoletano non è considerato un dialetto, ma una lingua viva, parlata anche e soprattutto dai giovani. E in quanto viva, è soggetta a evoluzione. Non avrei potuto utilizzare, nei dialoghi, il napoletano del canone, ma dovevo necessariamente avvicinarlo a quello parlato. Mi sono ovviamente chiesto se non fosse il caso di rendere tutto più italiano, ma andando avanti nella scrittura mi rendevo conto di non riuscire ad abbandonare il napoletano perché è esattamente la lingua che parlano le storie che racconto. La lingua, come i luoghi, rappresenta il tentativo, che sempre faccio, di raccontare una ferita che non è solo di Napoli o del Sud, ma che lacera ogni periferia. Il napoletano potrebbe essere qualsiasi dialetto o gergo, in ogni caso, una lingua da iniziati.
Parlando del precedente romanzo ci aveva detto: “Non credo nella possibilità di una giustizia”. E poi: “Questi ragazzi non hanno avuto speranza”. Ma l’urgenza di raccontarli fa pensare che lei nutra qualche illusione. O no?
Ovvio, se non fossi un illuso non sarei uno scrittore. Così come se non nutrissi illusioni di sorta non crederei affatto nella necessità del racconto.
Perché ha deciso di presentare Bacio feroce anche insieme a ragazzini che potrebbero beneficiare dello Ius soli? Che relazione c’è tra la cittadinanza e i temi di cui parla nei suoi libri?
Una relazione strettissima. Racconto, nei miei libri, di ragazzi che passano la vita a tentare – riuscendoci! – di uscire dal diritto; in libreria con me ci saranno invece ragazzi che attraversano questo mondo con un cammino opposto. Mostro questa contraddizione: c’è chi dal diritto vuole uscire e chi nel diritto vuole entrare. Lo Stato ignora entrambi, ipotecando il futuro e il presente di tutti noi. C’è poi un passaggio nel libro che ritengo significativo: è un invito alle madri a educare i propri figli al fallimento. Educarli a essere vincenti sempre e sempre i primi significa anche educarli a eliminare gli altri sottraendo loro diritti.
Tra meno di un mese si vota in Sicilia: che pensa dei tantissimi candidati coinvolti a vario titolo in vicende giudiziarie? Impareranno mai la lezione?
Il tema degli impresentabili è il vero tema della politica italiana, un tema enorme ma, evidentemente, di alcune candidature non si riesce proprio a fare a meno; e non ci si riesce perché si valutano solo i pacchetti di voti di cui questi impresentabili sono esclusivi proprietari. Tutto il dibattito sulla credibilità della politica, di fronte a certe dinamiche, non è che vada semplicemente in secondo piano, scompare del tutto. Il risultato negli elettori, come sappiamo, è un senso di impotenza. E quindi cosa accade? Accade che in una situazione in cui “voto o non voto non cambia nulla”, allora il mio voto lo faccio fruttare… E se negli anni Ottanta si prometteva di favorire un candidato per un posto di lavoro, oggi lo si fa per 50 euro.
Della fiducia sulla legge elettorale lei ha detto: “Sembra un agguato”.
È un agguato alla democrazia. È proprio delle democrazie malate cambiare la legge elettorale a ridosso delle elezioni e ha ragione da vendere chi usa parole forti per condannare questa vergogna. Con questo modus operandi, completamente sovrapponibile a quello del centrodestra del 2005, quando introdusse il Porcellum, cade un ulteriore velo di ipocrisia sul finto riformismo del Pd a guida Renzi. Il Consiglio europeo si è pronunciato raccomandando di non cambiare la legge elettorale a ridosso delle elezioni perché creerebbe un deficit di conoscenza e quindi una oggettiva violazione dei diritti dei cittadini. Con quale autorità morale potrà mai l’Italia criticare Erdogan e Putin se poi diamo per scontato che il sistema democratico regga nonostante tutte queste violazioni?

Si è, provocatoriamente, candidato contro Luigi Di Maio alle consultazioni dei 5 Stelle: perché?

Per toglierlo dall’imbarazzo di una consultazione democratica completamente falsa e per sottolineare quello che è il male oscuro del M5S: la necessità di rappresentarsi come una forza politica che pratica la democrazia al proprio interno quando la realtà dei fatti fotografa un Movimento che ha una struttura padronale. La mancanza di trasparenza sulle dinamiche di voto interno rende del tutto risibili le teorie sulla politica dal basso.
Secondo un sondaggio realizzato per in giugno, la sinistra unita con lei leader avrebbe avuto il 16%. Secondo un recente retroscena del Giornale, Prodi starebbe pensando a lei come guida di un nuovo Ulivo…
Un esempio di fake news. Fare politica non è il mio mestiere: finirei per essere una faccia da esibire. La politica, per come la intendo io, deve partire dalle idee, non dalle persone.

vocidall'estero, (c.m.c)

Riprendiamo dal sito Voci dall'estero la traduzione in italiano di un articolo comparso sulla webzine Counterpunch l'8 ottobre 2017. Si trattauna ampia analisi sulle origini e la pratica di un fenomeno finora poco esplorato ma già fortemente penetrato nelle mentalità, soprattutto della gente di sinistra: la moderna ideologia “antifascista”, che nel nome si richiama alla rispettata tradizione dei combattenti per la libertà, usurpandone il credito grazie al facile meccanismo associativo, ma nei fatti non è che una degenerazione che include nel concetto di “fascismo” tutto quel che esula dal “politicamente corretto”.All'argomento abbiamo già dedicato un'ampia rassegna su eddyburg.v

“I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti” – Ennio Flaiano, scrittore italiano e coautore di soggetti e sceneggiature dei più grandi film di Federico Fellini.

Nelle ultime settimane, una sinistra totalmente disorientata è stata esortata da più parti a unirsi intorno ad un’avanguardia a volto coperto che si definisce Antifa, per antifascista. Incappucciata e vestita di nero, Antifa è sostanzialmente una variante dei Black Bloc, famosi per scatenare violenza nelle manifestazioni pacifiche in molti paesi. Importata dall’Europa, l’etichetta Antifa suona più politica. Serve anche allo scopo di stigmatizzare gli obiettivi che attacca come “fascisti”. Nonostante il suo nome europeo importato, Antifa è fondamentalmente solo un altro esempio della continua degenerazione nella violenza dell’America.

Precedenti storici

Antifa è salita alla ribalta per il suo ruolo nel rovesciamento della orgogliosa tradizione di “libertà di espressione” di Berkeley, per aver impedito di parlare lì a esponenti della destra. Ma il suo momento di gloria è stato il suo scontro con i conservatori a Charlottesville il 12 agosto, soprattutto perché Trump ha commentato che c’erano “persone valide da entrambe le parti”. Con esuberante Schadenfreude, i commentatori hanno colto al volo l’opportunità di condannare l’odiato Presidente per la sua “equivalenza morale”, dando così una benedizione ad Antifa.

Charlottesville è stata per Antifa l’occasione per il lancio di un successo editoriale: il Manuale Antifascista, il cui autore, il giovane accademico Mark Bray, è un Antifa sia in teoria che in pratica. Il libro “sta avendo un rapido successo“, si è rallegrato l’editore, Melville House. Infatti ha ottenuto subito il plauso di importanti media mainstream, come il New York Times, The Guardian e NBC, che finora non si erano distinti per precipitarsi a recensire libri di sinistra, men che mai quelli di anarchici rivoluzionari.

Il Washington Post ha accolto con favore Bray come il portavoce dei “movimenti di attivisti rivoluzionari” e ha osservato che «il contributo più illuminante del libro è quello sulla storia dell’impegno antifascista del secolo scorso, ma la sua parte più rilevante per il mondo di oggi è la sua giustificazione del soffocamento della libertà di espressione che colpisce i suprematisti bianchi».

Il “contributo illuminante” di Bray è quello di raccontare una versione lusinghiera della storia di Antifa a una generazione la cui visione dualistica della storia, basata sull’Olocausto, l’ha privata delle informazioni e degli strumenti analitici per giudicare eventi multidimensionali come la recrudescenza del fascismo. Bray presenta l’Antifa di oggi come il glorioso erede legittimo di ogni nobile causa dall’abolizionismo in poi. Ma non c’erano antifascisti prima del fascismo, e l’etichetta “Antifa” non si applica in alcun modo a tutti i numerosi avversari del fascismo.

La pretesa implicita di portare avanti la tradizione delle Brigate Internazionali che hanno combattuto in Spagna contro Franco non è altro che un ingenuo meccanismo associativo. Dato che dobbiamo rispettare gli eroi della Guerra Civile Spagnola, una parte di questa stima dovrebbe riversarsi sui loro autoproclamati eredi. Purtroppo, non esistono veterani della Brigata di Abraham Lincoln ancora vivi che possano indicare la differenza tra una grande difesa organizzata contro l’invasione di eserciti fascisti e le schermaglie sul campus di Berkeley. Come per gli anarchici della Catalogna, il brevetto dell’anarchismo è scaduto molto tempo fa, e chiunque è libero di mettere in commercio il proprio generico.

Il movimento Antifascista originale fu uno sforzo dell’Internazionale Comunista di cessare le ostilità con i partiti socialisti europei al fine di costruire un fronte comune contro i movimenti trionfanti guidati da Mussolini e Hitler.

Dal momento che il fascismo si è affermato, e Antifa non è mai stata un serio avversario, i suoi apologeti puntano sull’argomento dello “stroncare sul nascere“: “se solo” gli antifascisti avessero battuto i movimenti fascisti abbastanza presto, questi sarebbero stati stroncati sul nascere. Dato che la ragione e il dialogo non sono riusciti a fermare l’ascesa del fascismo, sostengono, dobbiamo usare la violenza di strada – che, a proposito, fallisce ancora più decisamente.

Questo è totalmente astorico. Il fascismo esaltava la violenza e la violenza era il suo banco di prova preferito. I comunisti e i fascisti combattevano per le strade e l’atmosfera della violenza ha aiutato il fascismo a crescere come un bastione contro il bolscevismo, guadagnando il sostegno fondamentale dei grandi capitalisti e militaristi nei loro paesi, che li hanno portati al potere.

Dal momento che il fascismo storico non esiste più, l’Antifa di Bray ha allargato il proprio concetto di “fascismo” per includere tutto ciò che viola l’attuale canone di Identità Politica: dal “patriarcato” (un atteggiamento prefascista, quantomeno) a “transfobia” (problema decisamente post-fascista).

I militanti mascherati di Antifa sembrano essere più ispirati da Batman che da Marx o anche da Bakunin. Storm Trooper del Partito di Guerra NeoliberaleDal momento che Mark Bray offre le credenziali europee per l’attuale Antifa Usa, è opportuno osservare ciò che Antifa rappresenta in Europa oggi.

In Europa, la tendenza manifesta due forme. Gli attivisti Black Bloc invadono regolarmente diverse manifestazioni di sinistra per distruggere le vetrine e combattere contro la polizia. Queste manifestazioni di testosterone hanno un significato politico minore, se non provocare pubblici appelli a rafforzare le forze di polizia. Sono fortemente sospettati di infiltrazioni della polizia.

Ad esempio, lo scorso 23 settembre, diverse dozzine di ruffiani mascherati in nero, tirando giù manifesti e lanciando pietre, tentavano di assaltare il palco da cui lo smagliante Jean-Luc Mélenchon doveva arringare la folla di La France Insoumise, oggi partito leader della sinistra francese. Il loro messaggio inespresso sembrava affermare che per loro nessuno può essere abbastanza rivoluzionario. Di tanto in tanto, effettivamente individuano a caso uno skinhead da picchiare. Ciò serve a confermare le loro credenziali “antifasciste”.

Usano queste credenziali per arrogarsi il diritto di diffamare gli altri, in una specie di inquisizione informale autoproclamata. Come primo esempio, alla fine del 2010, una giovane donna di nome Ornella Guyet è comparsa a Parigi alla ricerca di lavoro come giornalista in vari periodici e blog di sinistra. Ha “cercato di infiltrarsi dappertutto”, secondo l’ex direttore di Le Monde diplomatique, Maurice Lemoine, che quando l’ha assunta come tirocinante “da subito, intuitivamente, non ha avuto fiducia in lei“.

Viktor Dedaj, che gestisce uno dei principali siti di sinistra in Francia, Le Grand Soir, è stato tra coloro che hanno cercato di aiutarla, solo per avere una spiacevole sorpresa pochi mesi dopo. Ornella era diventata un inquisitore, dedito a denunciare “il cospirazionismo, la confusione, l’antisemitismo e il rosso-bruno” su Internet. Questo ha preso la forma di attacchi personali nei confronti di individui che lei giudicava colpevoli di questi peccati. Quello che è significativo è che tutti i suoi obiettivi si opponevano alle guerre di aggressione degli Stati Uniti e della NATO in Medio Oriente.

In effetti, i tempi della sua crociata coincidevano con le guerre dei “cambi di regime” che distrussero la Libia e la Siria. Gli attacchi prendevano di mira i principali critici di quelle guerre.

Viktor Dedaj era in cima alla sua lista. E c’era anche Michel Collon, vicino al Partito dei Lavoratori belga, autore, attivista e direttore del sito bilingue Investig’action. E anche François Ruffin, produttore cinematografico, editore del giornale di sinistra Fakir, eletto recentemente all’Assemblea Nazionale nella lista del partito di Mélenchon La France Insoumise. E così via. L’elenco è lungo.Le personalità prese di mira sono diverse, ma tutti hanno una cosa in comune: l’opposizione alle guerre di aggressione. Per di più, a quanto ne so, quasi tutti quelli che si oppongono alle guerre sono nella sua lista.

La tecnica principale è la colpa presunta per associazione. In cima alla lista dei peccati mortali sta la critica dell’Unione Europea, associata al “nazionalismo” associato al “fascismo” associato all’ “antisemitismo”, con una tendenza al genocidio. Ciò coincide perfettamente con la politica ufficiale dell’UE e dei governi dei suoi paesi aderenti, ma Antifa usa un linguaggio molto più duro.

A metà giugno 2011, il partito anti-UE Union Populaire Républicaine guidato da François Asselineau è stato oggetto di insinuazioni feroci su siti Internet di Antifa firmati da “Marie-Anne Boutoleau” (uno pseudonimo di Ornella Guyet). Temendo la violenza, i responsabili hanno annullato gli incontri del UPR a Lione. L’UPR ha fatto una piccola indagine, scoprendo che Ornella Guyet era nell’elenco degli oratori di un seminario del marzo 2009 sui media internazionali organizzato a Parigi dal Centro per lo Studio delle Comunicazioni Internazionali e dalla Scuola dei Media e degli Affari Pubblici presso la George Washington University. Un’associazione sorprendente per una così zelante attivista contro i “rosso-bruni”.

Nel caso in cui qualcuno abbia dubbi, “rosso-bruno” è un termine usato per macchiare chiunque abbia generalmente opinioni di sinistra – cioè “rosso” – con il colore fascista “marrone”. Questa accusa può basarsi sul fatto di avere lo stesso parere di qualcuno di destra, sul parlare sulla stessa piattaforma con qualcuno di destra, pubblicare accanto a qualcuno di destra, essere visti in una manifestazione contro la guerra a cui partecipa anche qualcuno di destra, e così via. È un qualcosa di particolarmente utile per il Partito della Guerra, poiché ai giorni nostri molti conservatori si oppongono alla guerra più della gente di sinistra, che si è bevuta il mantra della “guerra umanitaria”.
Il governo non ha bisogno di reprimere le manifestazioni contro la guerra. Ci pensa Antifa.

L’umorista franco-africano Dieudonné M’Bala M’Bala, stigmatizzato per antisemitismo dal 2002 per la sua scenetta televisiva in cui ironizzava su un colono israeliano come parte dell’ “Asse del bene” di George W. Bush, non è solo un obiettivo, ma serve come presunzione di colpevolezza per associazione per chiunque difenda il suo diritto alla libertà di parola – come il professore belga Jean Bricmont, praticamente nella lista nera in Francia per aver cercato di spendere una parola in favore della libertà di espressione durante un talk show televisivo. Dieudonné è stato bandito dai media, denunciato e multato innumerevoli volte, persino condannato al carcere in Belgio, ma nei suoi spettacoli continua a fare il pienone di sostenitori appassionati, e il principale messaggio politico è l’opposizione alla guerra.

Tuttavia, le accuse di essere tolleranti su Dieudonné possono avere gravi effetti sugli individui in posizioni più precarie, in quanto in Francia il semplice accenno di “antisemitismo” può distruggere una carriera. Gli inviti vengono annullati, le pubblicazioni rifiutate, i messaggi non ottengono risposta.

Nell’aprile del 2016, Ornella Guyet è sparita dalla circolazione, in un contesto di forti sospetti sulle sue personali associazioni.
La morale di questa storia è semplice. Rivoluzionari radicali auto-proclamati possono essere la psicopolizia più utile per il partito della guerra neoliberale.
Non voglio dire che tutti, o la maggior parte, degli Antifa siano agenti dell’establishment. Solo che possono essere manipolati, infiltrati o qualcun altro si può spacciare per uno di loro, proprio perché si autorizzano da soli e di solito sono più o meno a volto coperto.

Silenziare il necessario dibattito

Chi è certamente sincero è Mark Bray, autore di The Intifa Handbook. È chiaro da dove proviene Mark Bray, quando scrive (p.36-7): «… la soluzione finale di Hitler uccise sei milioni di ebrei nelle camere a gas, con plotoni di esecuzione, per fame e mancanza di cure mediche in campi squallidi e nei ghetti, con le percosse, facendoli lavorare fino alla morte e portandoli al suicidio per disperazione. Nel continente circa due ebrei su tre sono stati uccisi, compresi alcuni dei miei parenti».

Questa storia personale spiega perché Mark Bray sente con tanta passione il tema del “fascismo”. Questo è perfettamente comprensibile in una persona ossessionata dalla paura che “possa accadere di nuovo”. Tuttavia le ondate emotive, anche le più giustificate, non portano necessariamente saggi consigli. Le reazioni violente alla paura potrebbero sembrare forti ed efficaci quando in realtà sono moralmente deboli e praticamente inefficaci.

Siamo in un periodo di grande confusione politica. Etichettare ogni manifestazione “politicamente scorretta” come fascismo impedisce la chiarezza del dibattito su questioni che hanno molto bisogno di essere definite e chiarite. La scarsità di fascisti è stata compensata identificando la critica dell’immigrazione come fascismo. Questa identificazione, in connessione con il rifiuto delle frontiere nazionali, deriva gran parte della sua forza emotiva soprattutto dalla paura ancestrale della comunità ebraica di essere esclusa dalle nazioni in cui si trova.

La questione dell’immigrazione ha aspetti diversi in luoghi diversi. Nei paesi europei non è la stessa cosa che negli Stati Uniti. C’è una distinzione di base tra immigrati e immigrazione. Gli immigrati sono persone che meritano considerazione. L’immigrazione è una politica che deve essere valutata. Dovrebbe essere possibile discutere la politica senza essere accusati di perseguitare la gente. Dopo tutto, i leader sindacali tradizionalmente si sono opposti all’immigrazione di massa, non per razzismo, ma perché può essere una strategia capitalista deliberata per ridurre i salari.

In realtà, l’immigrazione è un soggetto complesso, con molti aspetti che possono portare a ragionevoli compromessi. Ma estremizzare il problema fa cadere la possibilità di compromesso. Facendo dell’immigrazione di massa la regina delle prove sull’essere fascisti o meno, l’intimidazione di Antifa impedisce una discussione ragionevole. Senza discussione, senza la disponibilità ad ascoltare tutti i punti di vista, la questione semplicemente dividerà la popolazione in due campi, pro e contro. E chi vincerà un tale confronto?

Un recente sondaggio* mostra che l’immigrazione di massa è sempre più impopolare in tutti i paesi europei. La complessità della questione è dimostrata dal fatto che nella maggior parte dei paesi europei la maggioranza della gente crede di avere il dovere di accogliere i rifugiati, ma non approva la continua immigrazione di massa. L’argomento ufficiale secondo cui l’immigrazione è cosa buona e utile è accettato solo dal 40%, rispetto al 60% di tutti gli europei, i quali ritengono che “l’immigrazione è un male per il nostro Paese”. Una sinistra la cui causa principale sono le frontiere aperte diventerà sempre più impopolare.

Violenza infantile

L’idea che il modo per far tacere qualcuno sia di assestargli un pugno sul muso è americana come i film di Hollywood. È anche tipica della guerra tra gang di alcune zone di Los Angeles. Fare banda con quelli “come noi” per combattere le bande degli “altri” per il controllo del territorio è caratteristica dei giovani in circostanze incerte. La ricerca di una causa può conferire a questi comportamenti uno scopo politico: sia fascista che antifascista. Per i giovani disorientati, è un’alternativa all’entrare nei Marines.

L’Antifa americano assomiglia molto a un matrimonio della classe media tra l’Identità Politica e la guerra tra gang. Mark Bray (pag. 175) mostra la sua fonte di Antifa di Washington affermando che il motivo per voler fare parte dei fascisti è di schierarsi dalla parte del “ragazzo più potente del quartiere” e tirarsi indietro in caso di paura. La nostra banda è più dura della tua.

Questa è anche la logica dell’imperialismo statunitense, che dice abitualmente dei suoi nemici: “Non lo capiscono che con la forza”. Anche se Antifa afferma di essere un movimento rivoluzionario radicale, la loro mentalità è perfettamente tipica dell’atmosfera di violenza prevalente nell’America militarizzata.

In un altro verso, Antifa segue la tendenza degli eccessi della Identità Politica che stanno schiacciando la libertà di parola in quella che dovrebbe essere la sua cittadella, il mondo accademico. Le parole sono considerate così pericolose che devono essere istituiti degli “spazi sicuri” per proteggere le persone dalle parole. Questa estrema vulnerabilità al danno causato dalle parole è stranamente legata alla tolleranza per la violenza fisica reale.

Caccia all’oca selvatica

Negli Stati Uniti, l’aspetto peggiore di Antifa è lo sforzo di guidare la disorientata sinistra americana in una caccia all’oca selvatica, seguendo “fascisti” immaginari invece di mettersi apertamente insieme per elaborare un programma positivo coerente. Gli Stati Uniti hanno la loro parte di individui strambi, aggressioni gratuite, idee pazzesche, e individuare questi personaggi marginali, da soli o in gruppi, è una distrazione enorme.

Le persone veramente pericolose negli Stati Uniti sono al sicuro a Wall Street, nei Think Tanks di Washington, negli uffici dirigenziali della sterminata industria militare, per non parlare delle redazioni di alcuni dei media mainstream che attualmente stanno adottando un atteggiamento benevolo verso gli “anti -fascisti”, semplicemente perché sono utili per concentrarsi sull’anticonformista Trump invece che su se stessi.

Antifa USA, definendo la “resistenza al fascismo” come resistenza nei confronti delle cause perse – la Confederazione, i suprematisti bianchi e, per quel che conta, Donald Trump – sta in realtà distraendo l’attenzione dalla resistenza all’establishment neoliberale dominante, che si oppone anch’esso alla Confederazione e ai suprematisti bianchi ed è già in gran parte riuscito a catturare Trump attraverso la sua implacabile campagna di denigrazione. Quel corpo dirigente che, con le sue insaziabili guerre in paesi lontani e l’introduzione di metodi di polizia, ha usato con successo la “resistenza popolare a Trump” per renderlo ancora peggiore di quanto già non fosse.

L’uso facile del termine “fascista” ostacola la identificazione ragionata e la definizione del vero nemico dell’umanità di oggi. Nel caos contemporaneo, i più grandi e pericolosi sconvolgimenti del mondo derivano tutti dalla stessa fonte, difficile da definire, ma a cui possiamo dare l’etichetta provvisoria semplificata di Imperialismo Globalizzato. Questo equivale a un poliedrico progetto di ridefinizione del mondo per soddisfare le esigenze del capitalismo finanziario, del complesso industriale militare, della vanità ideologica degli Stati Uniti e della megalomania dei capi delle potenze “Occidentali” minori, in particolare Israele. Potrebbe essere chiamato semplicemente “imperialismo”, tranne che è molto più vasto e più distruttivo dell’imperialismo storico dei secoli precedenti. È anche molto più mascherato. E poiché non contiene alcuna chiara etichetta di “fascismo”, è difficile denunciarlo in termini semplici.

La fissazione sulla prevenzione di una forma di tirannia che sorse oltre 80 anni fa, in circostanze molto diverse, ostacola il riconoscimento della mostruosa tirannia di oggi. Combattere la guerra precedente porta alla sconfitta.

Donald Trump è un outsider a cui non sarà permesso di entrare. L’elezione di Donald Trump è soprattutto un grave sintomo della decadenza del sistema politico americano, totalmente governato dal denaro, dalle lobby, dal complesso militare-industriale e dai grandi media. Le loro menzogne stanno minando la base stessa della democrazia. Antifa ha portato avanti l’offensiva contro l’unica arma ancora nelle mani del popolo: il diritto alla libertà di parola e di riunione.

Note.

*«Où va la démocratie?», inchiesta della Fondazione per l’innovazione politica a cura di Dominique Reynié, (Plon, Parigi, 2017).

il Fatto Quotidiano,

Le politiche sull’immigrazione del governo italiano e gli accordi con la Libia nel mirino del Consiglio d’Europa. È il commissario per i Diritti umani Nils Muiznieks a chiedere spiegazioni al ministro dell’Interno Marco Minniti. Il commissario giudica in modo positivo l’impegno dell’Italia nel salvare vite umane nel Mediterraneo e le politiche di accoglienza, ma lo Stato, sottolinea Muiznieks, ha il dovere di garantire i diritti umani.
“La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è chiara su questo dovere. Alla luce dei recenti rapporti sulla situazione dei diritti umani dei migranti in Libia, consegnandoli alle autorità libiche o ad altri gruppi li si espone a un rischio reale di tortura o trattamenti inumani o degradanti. Per questo motivo chiedo al governo italiano di chiarire il tipo di operazioni di sostegno che pensa di fornire alle autorità libiche nelle loro acque territoriali e quali salvaguardie l’Italia abbia messo in atto per garantire che le persone intercettate o soccorse da navi italiane in acque libiche non si trovino in situazioni contrarie all’articolo 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo”.

Fin qui le richieste contenute in una lettera del 28 settembre scorso, evidentemente scaturita da notizie e reportage pubblicati dai più importanti giornali internazionali. Ieri la risposta del ministro Minniti. “Mai navi italiane o che collaborano con la Guardia costiera italiana hanno riportato in Libia migranti tratti in salvo. L’attività delle autorità italiane è finalizzata alla formazione, equipaggiamento e supporto logistico della Guardia costiera libica, non ad attività di respingimento”, chiarisce il titolare del Viminale. “Ci tengo a sottolineare – aggiunge inoltre Minniti – che la più recente strategia italiana, condivisa e apprezzata a livello europeo, è imperniata anche, ma non solo, sul sostegno alle autorità libiche deputate al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori, per favorire una gestione degli stessi e contribuire, obiettivamente, a ridurre il rischio di incidenti e naufragi, rischio che potrà essere azzerato solo con l’interruzione delle partenze”. Ed è proprio questo il nodo: fino a che punto reggono gli accordi ufficiali con le fragili autorità libiche, e quelli “ufficiosi” (ammessi pubblicamente dagli stessi capi delle bande di trafficanti, ma sempre smentiti dalla Farnesina) con le più potenti milizie, soprattutto quelle che si finanziano con il traffico di esseri umani e il contrabbandi di greggio?

A giudicare dalle ultime notizie arrivate dalla Libia sembra che la situazione si stia già sfaldando e che presto assisteremo a una ripresa degli sbarchi. Secondo le notizie riportate da Saleh Graisia, portavoce della “Sala operativa per la lotta all’Isis”, nei giorni scorsi migliaia di migranti sono rimasti intrappolati a Sabrata, a 70 chilometri da Tripoli, dopo essersi ritrovati in mezzo agli scontri tra opposte milizie. Centinaia di morti e feriti, e migliaia di profughi rinchiusi nei centri di raccolta della milizia di Al Ammu, una delle principali organizzazioni del traffico di esseri umani. Nei suoi magazzini, rivelano fonti governative libiche, sarebbero stati ammassati migliaia di profughi pronti a partire. Almeno 3.000 sarebbero stati rintracciati dall’ente che contrasta l’immigrazione clandestina e trasferiti nei campi di detenzione ufficiali. In questi centri, dove ancora scarso è l’intervento e il controllo dell’Onu, sono garantiti i diritti umani?

Il rispetto di questi standard, è la risposta di Minniti alla lettera di Nils Muiznieks “è costantemente al centro del dialogo dell’Italia con le autorità libiche, proprio per favorire forme operative di cooperazione sempre più strutturate con le agenzie delle Nazioni Unite”.

postilla

Da ciò che si comprende, la questione del rispetto dei diritti umani «è costantemente al centro del dialogo dell’Italia con le autorità libiche», ma i fuggitivi sono sempre intrappolati tra il deserto e i campi di concentramento dei trafficanti di schiavi. E Minniti è tranquillo.

la Repubblica,




Vittorio Lingiardi, Mindscapes, Raffaello Cortina pagg. 262


Il modo migliore per cogliere il paesaggio è sedervisi dinanzi facendo altro: leggere, immergersi nei pensieri, fantasticare. Insomma distrarsi. Poi alzare gli occhi e guardarlo all’improvviso, così da cogliere la natura alla sprovvista, «vederla prima che abbia modo di cambiare aspetto». Solo così si riesce a comprendere quello che gli alberi bisbigliano tra loro e a intravedere senza veli il paesaggio stesso: il suo mistero che appare e subito scompare. Così consiglia Nathaniel Hawthorne, l’autore de La lettera scarlatta.

Il paesaggio non è infatti «solo quella porzione di natura che si mostra ai nostri occhi», quanto piuttosto un luogo invisibile in cui il mondo interno e il mondo esterno, natura e psiche, s’incontrano e si confondono, «inaugurando nuovi confini». Vittorio Lingiardi nelle ultime pagine di Mindscapes (Raffaello Cortina), da cui sono tratte queste parole, scrive: «Il paesaggio è la nostra psiche nel mondo».

Lo psichiatra e psicoanalista ha pubblicato un libro inusuale, dove la sua pratica analitica si mescola ai libri letti e alle immagini raccolte nel corso del tempo in un succedersi di osservazioni, commenti, citazioni. Un volume che è insieme narrazione ed esplorazione, racconto e autobiografia per interposta persona. Libro personale, intimo, ma anche rivolto verso il fuori,
cerca di delineare il nesso tra psiche e paesaggio, collocandosi in questo modo a metà strada tra l’una e l’altra realtà.

Ogni essere umano, uomo o donna, ha dentro di sé un paesaggio, quello della propria terra d’origine, e fuori di sé un altro paesaggio, quello che ha incontrato nei percorsi della sua vita viaggiando o migrando altrove per motivi di studio e di lavoro, o per affetto. La parola che dà il titolo al volume è un neologismo; deriva da landscape, termine introdotto alla fine del Sedicesimo secolo in inglese, un vocabolo tecnico utilizzato dai pittori per indicare il paesaggio quale oggetto di raffigurazione. Lingiardi fa una cosa simile: descrive lo spazio vissuto incontrato nel setting analitico; usa le parole, quelle della poesia, intense e assolute, e insieme le immagini di opere d’arte. è un libro-patchwork, in cui riquadri di forme e colori differenti sono cuciti insieme usando il filo dell’emozione.

Ogni pagina è un continuo rivivere e riferire ciò che l’autore ha scoperto e pensato in rapporto al proprio corpo; sia che usi le frasi di un narratore o quelle di un filosofo o psicologo, sia che commenti le immagini, tutto è riferito al proprio corpo. Le parti più belle del libro sono quelle in cui l’autore racconta i suoi pazienti, e quelle in cui ripercorre i libri di colleghi e maestri, come Christopher Bollas. Lo scopo della terapia, come di questo libro, è di «appaesarci», di farci sentire più vicini a noi stessi attraverso il paesaggio. L’esperienza che connota il nostro tempo è quella dello spaesamento: smarrimento, perdita di contatto con il paesaggio interiore ed esteriore.

Il pensiero generativo del libro, dice Lingiardi, appartiene a Jean-Bertrand Pontalis, psicoanalista francese: per avere qualche speranza di essere davvero noi stessi, dobbiamo avere molti luoghi dentro di noi. Il che significa che la nostra psiche si presenta sotto forma di una geo-grafia, e che siamo legati, per vari e complessi motivi, ai luoghi stessi: per amore, per rancore, per nostalgia, per malinconia. I luoghi sono al plurale, quasi mai al singolare. Noi siamo plurali, e per questo abbiamo bisogno di molti luoghi. Lingiardi con la sua curiosità e passione c’insegna che è finita l’epoca monoteistica dell’unico luogo. Abbiamo tante patrie, reali, ideali o immaginarie, tanti paesaggi interiori da coltivare per sopravvivere, per mantenerci in equilibrio, per sognare e immaginare al di là di noi stessi.

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