loader
menu
© 2024 Eddyburg

il manifesto


L’ITALIA CONDANNATA PER TORTURA
NELLE CARCERI DI BOLZANETO E ASTI
di Eleonora Martini

«La Corte europea dei diritti dell’uomo ordina risarcimenti per oltre 4 milioni di euro. È la prima sentenza che riconosce il reato commesso in una "regolare" prigione italiana»
Due condanne in un solo giorno provenienti da Strasburgo confermano ancora una volta l’uso della tortura nelle carceri italiane, reato per il quale lo Stato non ha mai chiesto scusa alle vittime e non ha mai punito i responsabili (ma non li ha neppure sospesi durante l’inchiesta e il processo, come sottolinea la Corte europea dei diritti dell’uomo).

Sono 63 in totale le persone che, da recluse, hanno subito violenze fisiche e psicologiche da parte di autorità di polizia: due durante la detenzione nel carcere di Asti nel 2014, quando vennero sottoposte a maltrattamenti di vario tipo da parte di cinque agenti penitenziari, e 61 a Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001, durante i giorni del G8 di Genova. A tutti loro la Cedu ha riconosciuto ieri un indennizzo che va dai 10 mila agli 88 mila euro a testa (a seconda delle gravità delle violenze subite e della «conciliazione amichevole» eventualmente già pattuita con il governo italiano), condannando così Roma al pagamento complessivo di 4 milioni e 10 mila euro per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani.

«A giudizio della corte, i giudici nazionali hanno fatto un vero e proprio sforzo per stabilire i fatti e individuare i responsabili», scrive la Cedu, ma a causa della lacuna normativa di allora i torturatori sono rimasti impuniti. Il problema, sul quale i giudici di Strasburgo ovviamente non si soffermano ma che viene sottolineato dal commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, è che il reato di tortura rischia di rimanere impunito in alcuni casi anche in futuro, perché la legge entrata in vigore il 18 luglio scorso che introduce finalmente quella fattispecie di reato nell’ordinamento italiano è volutamente contorta e difficilmente applicabile.

Anche se il ministro Orlando un paio di giorni fa si è detto convinto che la nuova legge abbia recepito le direttive della Cedu contenute nella sentenza Cestaro del 2015 e ha spiegato che comunque il testo ha bisogno di essere applicato per verificare eventuali «elementi di fragilità normativa», caso in cui, ha detto, «non escludiamo una riflessione».

Dopo la condanna del giugno scorso per le torture perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz, i giudici di Strasburgo riconoscono ad altre 61 persone, alcune delle quali arrestate proprio durante quell’irruzione, il diritto ad essere risarcite per le violenze subite «dagli ufficiali di polizia e dal personale medico» a Bolzaneto, una delle due caserme, insieme a Forte San Giuliano, adibite a centri temporanei di detenzione dei manifestanti “rastrellati”. Per due giorni, le vittime vennero «aggredite, picchiate, spruzzate con gas irritanti, subirono la distruzione degli effetti personali e altri maltrattamenti – ricorda la Corte – Mai avrebbero ricevuto adeguate cure per le ferite riportate, e la violenza sarebbe continuata anche durante le visite mediche», oltre a non aver potuto contattare familiari, avvocati e consolati.

Per questi fatti «la procura di Genova indagò 145 tra poliziotti e medici, di cui 15 vennero poi condannati a pene tra i 9 mesi e i 5 anni di reclusione». Ricorda la Corte che successivamente «dieci di loro hanno beneficiato di una grazia, tre di una completa remissione della pena detentiva e due di una remissione di 3 anni; quasi tutti i delitti sono stati prescritti».

Undici dei ricorrenti davanti alla Cedu hanno già accettato di ricevere dal governo italiano 45 mila euro per una «conciliazione amichevole» e perciò hanno diritto ad un risarcimento minore. Ma a nessuna delle tante vittime dei torturatori di Genova, sottolinea Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum del 2001, «a 16 anni dai fatti, dopo varie condanne italiane e internazionali, non è ancora arrivata alcuna parola di scusa a nome dello Stato da parte dei suoi massimi rappresentanti, primi tra tutti il presidente della Repubblica. Una vergogna nella vergogna».

Forse perfino più importante e incisiva è la seconda sentenza emessa ieri dalla Cedu, perché è la prima volta che viene riconosciuta la tortura in un “regolare” carcere italiano e l’Italia viene condannata sia per il delitto in sé «(aspetto sostanziale») che per quanto riguarda la risposta delle autorità nazionali (aspetto procedurale)».

In questo caso, il governo dovrà risarcire con 88 mila euro ciascuno, due detenuti del carcere di Asti o i loro familiari (i torinesi Andrea Cirino e Claudio Renne, quest’ultimo morto in una cella a Torino nel gennaio scorso), per le torture subite nel dicembre 2014 da cinque poliziotti penitenziari, tutti assolti dal tribunale di Asti per mancanza di reato specifico. E perché «malgrado le sanzioni disciplinari imposte», ritenute dalla Cedu, «non sufficienti», gli agenti «non sono stati sospesi durante l’inchiesta o il processo».

Due sentenze che il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, considera «un campanello d’allarme che richiede importanti e urgenti azioni da parte dell’Italia».

BOLZANETO E ASTI,
LA TORTURA È NELLE CARCERI
di Patrizio Gonnella

«Stop all’impunità. La legge non basta contro i torturatori»
Oltre 4 milioni di euro di risarcimenti e l’ennesima brutta figura internazionale. A 16 anni di distanza dal G8 di Genova, dopo le sentenze sulla Diaz, e 13 anni da quanto accaduto nella prigione di Asti, arrivano altre due condanne da Strasburgo, le ennesime, per tortura. Non una parola qualunque ma tortura. Stavolta, tuttavia, ci sono alcune sostanziali differenze rispetto al passato nella decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

In primo luogo le condanne sono state due, per due fatti ben diversi tra loro. Da una parte ci sono le vicende del G8 di Genova e della caserma di Bolzaneto. Già in passato per le torture e le violenze avvenute nel luglio 2001 l’Italia era stata condannata dalla Corte di Strasburgo, sia per gli episodi della scuola Diaz che proprio per quanto avvenne a Bolzaneto. Dall’altro le brutalità commesse nelle prigioni di Asti nel 2004.

Ciò che accomuna tuttavia i due casi è che riguarda delle prigioni. Nel caso di Bolzaneto un carcere improvvisato. Nel caso di Asti una galera vera e propria (per la prima volta l’Italia viene condannata per tortura in un carcere). Prigioni dove sono avvenute violenze brutali, minacce fasciste, fino allo scalpo verificatosi nella sezione di isolamento del carcere piemontese.

La seconda novità rispetto al passato è l’entità dei risarcimenti alle vittime che superano di gran lunga quelli a cui finora la Corte di Strasburgo ci aveva abituato, arrivando in alcuni casi a riconoscere fino ad 85 mila euro ad un singolo ricorrente.

Al di là della cronaca dei fatti, tuttavia, la doppia sentenza di oggi fotografa ancora una volta il clima di impunità che si era strutturato in Italia. Per lunghi anni nel nostro paese non c’è stato modo di avere giustizia e, ancora una volta, abbiamo dovuto aspettare una decisione europea.

Ora l’Italia da qualche mese ha una legge e il termine tortura è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, come abbiamo avuto modo di dire già all’indomani dell’approvazione, il testo è molto lontano da quello della Convenzione delle Nazioni Unite che era quello che chiedevamo.

Altro elemento di queste sentenze che non può essere tralasciato è quello dell’impunità per gli autori delle violenze. Alcuni dei responsabili degli episodi oggi giudicati come tortura dalla Corte Europea sono ancora in servizio e a rispondere dei loro atti criminosi sarà solamente lo stato italiano dal punto di vista pecuniario.

Nei prossimi giorni l’Italia andrà sotto osservazione dinanzi al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura. Antigone ha presentato un rapporto indipendente sulla situazione del Paese sul quale vedremo come risponderanno le autorità italiane dopo questa ennesima condanna. In ogni caso, quello che oggi chiediamo è: che sia adottato un codice di condotta per i comportamenti in servizio di tutti gli appartenente alle forze dell’ordine; che ci sia sempre l’identificabilità di tutti coloro che svolgono compiti nei settori della sicurezza e dell’ordine pubblico; che si interrompano le relazioni sindacali con quelle organizzazioni che difendono, anche in sede legale, i responsabili di questi comportamenti; che dinanzi a questi casi lo Stato si costituisca parte civile; che vengano assunti tutti i provvedimenti amministrativi del caso contro gli autori delle violenze; che venga istituito un fondo per il risarcimento delle vittime di tortura.

il manifesto,

La legge Rosato interrompe la serie delle leggi a impianto proporzionale con forti correttivi maggioritari dichiarate parzialmente incostituzionali dalla Consulta (l’Italicum, mai utilizzato, e il Porcellum, con il quale si è votato nel 2006, nel 2008 e nel 2013).

Si torna a un sistema misto, come quello della prima riforma elettorale della Repubblica, la legge Mattarella del 1993 (con la quale si è votato l’anno successivo e poi ancora nel 1996 e 2001). Ma adesso la proporzione tra i seggi assegnati con l’uninominale maggioritario e i seggi assegnati con il sistema proporzionale è quasi rovesciata. Nella riforma del 1993 i seggi uninominali erano il 75% e quelli del proporzionale il 25%. Con il «Rosatellum» i seggi assegnati con l’uninominale sono poco meno del 37%, proporzionali tutti gli altri. Nel dettaglio, alla camera si assegnano 232 seggi con l’uninominale – chi prende anche un solo voto in più conquista il seggio – al senato 116. Il resto dei seggi sono assegnati con il sistema proporzionale, 398 alla camera (di cui 12 all’estero) e 199 al senato (di cui 6 all’estero).

A differenza del vecchio Mattarellum e degli altri sistemi misti utilizzati nel mondo, la nuova legge elettorale italiana non prevede la possibilità di voto disgiunto. Si può esprimere un solo voto, che dalla lista proporzionale si estende automaticamente al candidato nel collegio uninominale, o che si estende – vedremo successivamente secondo quale complicato calcolo – dal candidato nel collegio a una delle liste che lo sostengono. L’elettore può esprimere due voti, ma solo se sceglie una lista collegata al candidato dell’uninominale; se il secondo segno è tracciato al di fuori dello stesso rettangolo la scheda viene invalidata.

Non era così con il Mattarellum, che prevedeva due schede per l’elezione dei deputati, una per scegliere il candidato nel collegio e un’altra per votare una qualsiasi delle liste in gara nella parte proporzionale. Non è così nel sistema tedesco che prevede due voti sulla stessa scheda; il secondo voto, per la parte proporzionale, decide il numero di seggi che vanno a ciascuna lista ed è libero: l’elettore può scegliere anche un partito che non sostiene il candidato prescelto nell’uninominale.

La nuova legge prevede le coalizioni, i candidati nel collegio uninominale possono essere sostenuti da un solo partito o da un insieme di liste. In questo secondo caso hanno naturalmente più possibilità di arrivare primi e conquistare il seggio. Le coalizioni però devono essere identiche su tutto il territorio nazionale (con il Mattarellum non era così, infatti Berlusconi nel 1994 si presentò in alleanza con la Lega al nord e con gli ex missini di Fini al sud). Le coalizioni non devono presentare un simbolo comune per accompagnare i candidati nei collegi (come fu ad esempio l’Ulivo), né un programma comune. È rimasto solo l’obbligo per le singole liste di presentare un programma e indicare il capo della forza politica.

Si tratta in tutta evidenza di coalizioni destinate a durare solo il tempo delle elezioni. È vero che essendo i parlamentari liberi di votare o meno la fiducia a un governo (divieto di mandato imperativo) la rottura non si può escludere neanche con leggi più vincolanti – e infatti la coalizione Italia bene comune tra Pd e Sel si è rotta pochi mesi dopo le ultime elezioni. Ma adesso la coalizione non deve presentare neanche un programma comune; in teoria i programmi delle liste che sostengono lo stesso candidato nel collegio potrebbe essere persino opposti (ad esempio: Lega per uscire dall’euro, Forza Italia per restarci).

È rimasta però l’indicazione del capo del partito, da una parte una previsione extra costituzionale (nel nostro sistema parlamentare è il presidente della Repubblica che sceglie a chi dare l’incarico per formare il governo), dall’altra un’indicazione inutile, visto che con questa legge e questo quadro politico le alleanze per il governo si faranno in parlamento. Rompendo le coalizioni. Sono tre le soglie previste da questa legge, due sono soglie di sbarramento al di sotto delle quali non si ha diritto all’assegnazione di seggi: il 3% per le liste singole e il 10% per le coalizioni.

Le soglie sono calcolate a livello nazionale, anche (ed è la prima volta nella storia elettorale italiana) per il senato. Alle coalizioni che raggiungono il 10% e hanno al loro interno almeno una lista che supera il 3% vengono riconosciuti anche i voti di quelle liste che non hanno superato lo sbarramento ma hanno raggiunto almeno (è la terza soglia) l’1% dei voti validi. Il sistema incoraggia la presentazione di micro liste che non possono aspirare al 3% ma possono arrivare all’1%. (esempio: Mastella rimette in piedi l’Udeur). La loro funzione è quella di regalare i voti al resto della coalizione, in particolare ai partiti maggiori.

Queste micro liste non avranno loro eletti, ma è prevedibile che vengano altrimenti ricompensate dagli alleati maggiori. La soglia di sbarramento nazionale per il senato è in apparente contraddizione con l’articolo 57 della Costituzione secondo il quale «il senato della Repubblica è eletto a base regionale».

Il caso dei voti delle micro liste trasferiti agli alleati maggiori non è l’unico in cui la legge Rosato prevede una sorta di interpretazione della volontà dell’elettore. Accade anche per le schede in cui l’elettore traccia un segno solo sul candidato di una coalizione all’uninominale.

In assenza di indicazione della lista, quel voto per la parte proporzionale viene diviso tra tutte le liste della coalizione in proporzione alla quantità di voti diretti che quelle liste hanno raccolto. Oltre a introdurre il voto decimale e a rendere complicato lo spoglio delle schede, questo sistema forza la volontà dell’elettore (che, ricordiamolo, senza voto disgiunto non è libero di scegliere una lista fuori dalla coalizione) e regala un consenso superiore a quello reale ai partiti maggiori. Lo stesso accade con i voti delle micro liste.

Questo non è senza conseguenze, perché può accadere che in un collegio proporzionale un partito risulti troppo votato.

I seggi nella parte proporzionale si assegnano sulla base di liste bloccate di quattro candidati. Dopo la sentenza della Corte costituzionale contro il Porcellum, si è diffusa la convinzione che le liste bloccate non sono incostituzionali purché siano corte e i candidati riconoscibili dall’elettore. Quattro nomi si prestano sicuramente a essere riconosciuti anche perché possono essere (e lo saranno) stampati sulla scheda.

È però previsto – è stato aggiunto al testo base in commissione alla camera – che i candidati nel collegio uninominale possano essere candidati anche altre cinque volte nei collegi plurinominali. Sono i «pluricandidati». Proprio questa ultima previsione, di garanzia per i candidati «blindati», contribuirà al fenomeno delle liste «incapienti». I listini, cioè, che sono rimasti corti anche se in ogni collegio plurinominale si assegneranno fino al doppio dei seggi (otto rispetto a quattro candidati per partito), potrebbero non bastare in caso di candidati eletti anche in altri collegi e in caso di liste gonfiate dai voti regalati dai micro partiti.

E se il listino non basta, è previsto un complicato meccanismo di recupero del seggio che passa dal salvataggio del candidato sconfitto nell’uninominale (alla faccia del principio maggioritario) alla promozione dei primi esclusi in altri collegi della stessa circoscrizione o di un’altra circoscrizione, fino addirittura allo spostamento dei voti su altre liste alleate.

E così i listini corti finiscono per ottenere l’effetto opposto alla riconoscibilità degli eletti, nascondendo all’elettore i reali destinatari del loro voto. Non solo è esclusa la possibilità di votare in maniera disgiunta, ma non è previsto nemmeno lo scorporo dei voti che c’era invece nel Mattarellum per il senato.

Lo scorporo è quel sistema che, sottraendo dal totale dei voti della lista i voti del candidato collegato vincitore nel collegio, impedisce al voto di chi ha scelto il candidato vincente nel collegio di pesare due volte, anche cioè per la quota proporzionale. Nel caso in cui l’elettore tracci il segno solo sul candidato all’uninominale di una coalizione, il voto proporzionale si distribuisce a pioggia su tutte le liste che lo sostengono sulla base di un meccanismo simile all’8 per mille nella dichiarazione dei redditi. Il voto cioè viene diviso in parti decimali e assegnato alle liste proporzionalmente ai consensi diretti che queste hanno ricevuto.

Forza Italia e Pd, che immaginano di concentrare la campagna elettorale sui candidati nei collegi, non hanno voluto lo scorporo per danneggiare le liste che hanno candidati con meno chance di vincere nelle sfide maggioritarie. Tutta la legge è impostata perché possa funzionare la campagna per il voto utile. Utile cioè a vincere anche con uno scarto minimo nel collegio. Questi voti «carpiti» dal candidato si trasferiscono poi o direttamente (con un secondo segno) o indirettamente (con il meccanismo «8 per mille») sulle liste.

Mentre non è chiaro se potrà essere considerata valida la scheda in cui risulti tracciato un solo segno grande, a comprendere tutto il rettangolo della coalizione: candidato nel collegio e tutte le liste.

Saranno molti i casi di schede contestate e sarà complicato e lento il conteggio. Ma soprattutto non è detto che i piani di chi punta sul voto utile vadano a segno. Perché nella scheda facsimile si può vedere come il nome del candidato nel collegio risulti assai piccolo – non è previsto per lui un simbolo di coalizione. Dunque i simboli delle liste saranno visivamente prevalenti, soprattutto nel caso delle liste che correranno da sole, fuori dalle coalizioni e senza alleati. Come il Movimento 5 Stelle.

il Fatto quotidiano

“Io non mi riconosco più nel Pd”. Nel partito che accoglie in maggioranza il plurinquisito Denis Verdini e disegna alleanze coi centristi Giuseppe Castiglione e Angelino Alfano, Pietro Grasso non ci vuole stare. È il pomeriggio di ieri quando il presidente del Senato, appena finita la sua gestione dell’iter del Rosatellum, comunica l’uscita dal gruppo dei democratici e il suo passaggio al Misto. Restano orfani della seconda carica dello Stato, insomma, i senatori guidati da Luigi Zanda, pidino di rito democristiano che, in questi ultimi giorni, ha evitato accuratamente di citare nei suoi discorsi l’ex magistrato Grasso. A conferma che la separazione era in gestazione ormai da tempo: “La misura è colma, politicamente e umanamente. Non mi riconosco più nel merito e nel metodo di questo Pd, in comportamenti che imbarazzano le istituzioni e ne minano la credibilità e l’indipendenza. Non mi riconosco nemmeno nelle sue prospettive future”. Ci ha riflettuto una notte, dopo la baraonda in aula. Al 5Stelle Vito Crimi, che invocava le sue dimissioni, aveva replicato rassegnato: “A volte è più difficile restare che andare”. Poi ha capito che col Rosatellum si è valicato un limite di decenza politica e fingere ancora sarebbe stato ipocrita: “È una scelta sofferta, ma è l’unica che certifichi la distanza, umana e politica, da una deriva che non condivido”.

Quando Grasso, ricevendo le firme contro il Rosatellum dai professori che guidarono il Comitato del No al referendum, auspicò la riapertura della discussione sulla legge senza la forzatura del voto di fiducia e senza umiliare Palazzo Madama, dal Nazareno hanno reagito con gli insulti. Secondo il presidente del Senato, peraltro, il nuovo sistema elettorale allontana ancora di più gli eletti dagli elettori, riproponendo lo strumento dei nominati che fa tanto comodo ai segretari di partito. Si poteva almeno, ad esempio, dare l’opportunità ai cittadini di esprimere due voti disgiunti per lasciare libertà di scelta sul candidato del collegio e sulle liste in corsa. Il solo auspicio ha irritato Zanda&C. E le ragioni sono antiche. Il rapporto tra il Pd di Matteo Renzi – per l’ex magistrato ben diverso da quello che in epoca Pier Luigi Bersani lo trascinò in politica – e il numero 1 di Palazzo Madama si è frantumato durante la lunga fase che va dalla riforma costituzionale al referendum di dicembre. Ogni obiezione di Grasso – come quella sulla ricerca del “plebiscito” – è stata trattata come un oltraggio e dunque meritevole di una reazione velenosa.

Non proprio accorata, a dire la distanza tra i due mondi, la reazione di Zanda: “Mi ha comunicato per telefono la decisione di dimettersi dal gruppo poco prima di renderla nota. Per quanto mi ha detto si è dimesso principalmente perché non condivide la linea politica del partito e, in particolare, le decisioni sulla legge elettorale. Mi ha detto che, non fosse stato presidente del Senato e avesse dovuto votare, non avrebbe votato né la legge, né la fiducia sugli articoli”. La signorilità e il senso delle istituzioni dei vertici dem sono stati poi esemplificati da un tweet di Salvatore Margiotta, della Direzione Pd: “Fosse vero, Grasso dovrebbe dimettersi anche da presidente del Senato”. Per una volta sono i renziani i più tranquilli: il vicesegretario Maurizio Martina è “addolorato”; Matteo Orfini addirittura rispetta la scelta (“ovviamente non trascineremo la seconda carica dello Stato nello scontro politico”).

L’ex magistrato nelle prossime settimane dovrà far sapere se continuerà a fare politica, in che modo, dove, se da candidato in prima fila o da riserva della Repubblica. Per adesso, Grasso scarta un’ipotesi: presentarsi di nuovo agli elettori col Pd, il partito di Renzi che già mostra le intenzioni di una campagna populista. “Quando mi sono candidato nel Pd – dice – riconoscevo principi, valori e metodi condivisi, che si sono andati disperdendo nel corso degli anni”.

Anche il blocco rosso del Nazareno si è disperso. Pier Luigi Bersani ha fondato Articolo1-Mdp. Alla festa di Napoli degli “scissionisti”, Grasso aveva ricevuto ovazioni e aveva ricambiato: “Mi sento un ragazzo di sinistra”. A un mese dal quel giorno, il presidente del Senato deve capire la sinistra che Mdp può e vuole rappresentare: “Per il futuro vedremo, non è oggi la giornata giusta per pensarci”. Ovviamente, dal lato bersaniano, le pressioni per farne il frontman (con connesso saluto a Giuliano Pisapia) della prossima corsa elettorale aumenteranno. Forse un primo segno Grasso potrebbe scorgerlo nella giornata del 6 novembre, quando pian piano le schede cominceranno a uscire dalle urne siciliane: il panorama potrebbe cambiare parecchio, per ora si aspetta e ci si gode la fine degli equivoci.

la Repubblica, 27 ottobre 2017. A partire dai fatti Banca d'Itale e legge elettorale, un'efficace panoramica della squallida situazione nella quale la "politica politicante" ha gettato le isituzioni democratiche.

A METÀ strada tra il Vietnam e i Balcani, la politica lancia nel peggiore dei modi i suoi saldi di fine stagione. La nuova legge elettorale e il caso Banca d’Italia sono due mesti paradigmi di un caos repubblicano che non conosce vincitori ma solo vinti. Due amare allegorie di un processo di “rottamazione istituzionale” destinato a durare, purtroppo, fino alle elezioni del marzo 2018 e oltre.

Il rinnovo del governatore alla Banca d’Italia è frutto di una battaglia dissennata, che lascia sul campo morti e feriti. Mattarella e Gentiloni, titolari per legge del diritto di nomina, resistono all’assedio di Renzi, che ha chiesto in Parlamento la testa di Ignazio Visco. Ma a quale prezzo?

I due presidenti tengono fermo il presidio delle istituzioni, evitando a Via Nazionale un ribaltone che avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti. Ma si assumono una grande responsabilità: si fanno “garanti”, di fronte all’opinione pubblica, di un governatore che nei prossimi tre mesi dovrà comunque rispondere dei suoi atti in una commissione parlamentare d’inchiesta già in parte deformata a nido di serpenti. C’è da sperare che i veleni non spurghino, e non finiscano per intossicare anche gli organi di garanzia.
Renzi deve fare un passo indietro: ribadisce che “non condivide”, anche se la rispetta, la scelta del suo “amico Paolo”. Anche qui: a quale prezzo? Per rifarsi la verginità perduta di fronte al Paese, su Banca Etruria e sul “bail in”, il segretario non esita a compiere un “atto sedizioso” alla Camera, avallando una mozione di sfiducia nei confronti di Visco. Per lucrare un pugno di voti ai Cinque Stelle, trasforma la natura del Pd: da “unico argine ai populismi” a “partito che tra il popolo e i Poteri Forti sta dalla parte del popolo”. Troppo comodo, per una “forza di sistema”, andare all’attacco del sistema. Troppo tardi, per un ex premier che ha governato tre anni, si è caricato sulle spalle il peso del conflitto di interessi di Maria Elena Boschi e di papà Pierluigi, ha cambiato i vertici di Mps e ne ha addirittura rinviato il salvataggio per non impattare con il referendum costituzionale. Cos’è ormai questo partito democratico, di piazza e di palazzo, nessuno più sa dirlo.
Visco respinge l’offensiva renziana, difende l’autonomia di Palazzo Koch e ottiene un secondo mandato. Ma di nuovo: a quale prezzo? Non è lesa maestà affermare che qualcosa non ha funzionato, nei controlli sulle crisi bancarie di questi ultimi dieci anni costate quasi 60 miliardi di denaro pubblico. Per quanti chiarimenti Visco potrà ancora dare, il rischio è che un’ombra di sospetto continui a gravare anche in futuro su Via Nazionale, e che al suo vertice si ritrovi per altri sei anni un “governatore mascariato”. O comunque sotto accusa dal partito di maggioranza relativa.
È l’esito più perverso della scomposta campagna renziana, che propone un tema sensato nel modo più sbagliato.
Se si passa alla legge elettorale la conta delle “vittime” è ancora più pesante. Il famigerato “Rosatellum” passa con una raffica di otto fiducie. Già questo, prima ancora di ogni valutazione sul merito della sedicente “riforma”, basterebbe a svilire ulteriormente un Parlamento ridotto a quel che sembra ormai da troppo tempo. Lasciamo perdere la metafora delle “aule sorde e grigie” che approvano a forza il “Fascistellum”, perché con tutta evidenza (e per nostra fortuna) il Ventennio è stato tutt’altra storia. Ma è vero che le Camere sono state ancora una volta trasformate in un banale votificio, e piegate dall’ultimo atto di forza di una partitocrazia debole, a novanta giorni dalla fine della legislatura.
Ancora una volta (com’era già successo per il Titolo V e per il “Porcellum”) prevale l’uso congiunturale delle regole. E ancora una volta perdono tutti, in questo blitzkriegordito in due settimane da quattro partiti in cerca d’autore. Pd, Forza Italia, Lega e Ap si blindano tra loro, con un patto scellerato. Per tagliare fuori i Cinque Stelle, senza rendersi conto dell’eterogenesi dei fini, cioè di avergli regalato un formidabile argomento di propaganda per la campagna elettorale. Per tenersi mani libere, fabbricando coalizioni finte prima del voto e nascondendo “grandi coalizioni” subito dopo. Per assicurarsi un manipolo di fedelissimi, da piazzare nel Parlamento che verrà, all’insegna del motto di Arbore: meno siamo, meglio stiamo.
Dentro al Palazzo perde Gentiloni, costretto suo malgrado a subire una fiducia di cui avrebbe fatto volentieri a meno, come ha denunciato in aula l’emerito Napolitano. Perde Renzi, che per sconfiggere i demoni di Grillo e D’Alema rinnega tutti gli “idoli” che ha venerato (il popolo che sceglie, il vincitore “la sera delle elezioni”, la vocazione maggioritaria del centrosinistra). Perdono Berlusconi e Salvini, ingabbiati in una camicia di forza e accomunati forse da un elettorato, ma non certo da una politica. Perde Alfano, sospeso tra due forni in un limbo in cui finirà per cuocere comunque.
Fuori dal Palazzo perdono i grillini, che inscenano i soliti vaffa e i loro macabri rituali di piazza.
Ma soprattutto perdono gli italiani, che si ritroveranno un Parlamento fatto per due terzi da “nominati” e le pluri-candidature che consentiranno ai “trombati” nei collegi uninominali di riciclarsi nel proporzionale. Ma alla fine, dopo cotanta ricerca, i quattro partiti lo trovano, finalmente, il loro vero “autore”. È Denis Verdini, il padre-padrino di Ala. Con i suoi voti rende possibile questa “guerra lampo” fuori tempo massimo. Con una realpolitik terribile ma incontestabile il senatore condannato e pluri-inquisito celebra in aula il suo “Verdini Pride”, ricordando a tutti quello che non si può più nascondere: “Questa legge non è mia figlia, semmai è mia nipote… Noi nella maggioranza c’eravamo, ci siamo e ci saremo”. Appunto: se la legislatura non fosse agli sgoccioli, Gentiloni dovrebbe salire al Colle, e Mattarella dovrebbe prenderne atto.
Valeva la pena di sacrificare appartenenze e coerenze, per farsi salvare da Verdini? Una domanda che ancora una volta vale soprattutto per il Pd, che mentre beve l’amaro calice del Rosatellum patisce anche l’addio doloroso di Pietro Grasso. Il presidente del Senato che dopo il “colpo di mano” lascia il partito democratico è il segnale inequivoco di una “rottura sentimentale”, prima ancora che politico- istituzionale. Il segretario sacrifica un pezzo di storia e di cultura politica, sull’altare di una brutta legge elettorale che oltre tutto non dà alcuna garanzia di governabilità. Come ha scritto Roberto D’Alimonte, a un partito o a una coalizione, per governare, non basterebbe neanche il 40% nel proporzionale: dovrebbe vincere anche il 70% nel maggioritario, per avere una maggioranza risicata di almeno 317 seggi alla Camera.
Con questi numeri, la prossima legislatura sarà una penosa e pericolosa lotteria. La affrontiamo senza rete, tra opposti populismi e nefasti velleitarismi. Dopo lo strappo sul Rosatellum, non c’è in Parlamento una maggioranza “ufficiale” per approvare la legge di stabilità. Ieri Mario Draghi ha annunciato che da gennaio 2018 la quota di acquisti di titoli del debito sovrano da parte della Bce si ridurrà da 60 a 30 miliardi al mese. Tre giorni fa, mentre Renzi spacciava altri bonus milionari ai 18enni e Berlusconi prometteva pensioni a mille euro per tutti e dentiere gratis per gli anziani, nella serena Germania ancora senza governo un mese dopo le elezioni i dipendenti del ministero delle Finanze salutavano il falco Schaeuble che trasloca al Bundestag con una foto ricordo che dice tutto: Schwarze Null, un gigantesco “zero deficit”. Per i tedeschi, oggi, è una medaglia. Per noi italiani, tra pochi mesi, diventerà una minaccia.

Roverè Veronese è un comune montano di poco più di duemila abitanti, con un'economia agricola, turistica, e legata alla trasformazione del latte. È anche uno dei paesi che rivendicano la nascita di Bertoldo, paradigmatico contadino furbo. Ma soprattutto, Roverè è il luogo dove all'ultimo referendum sulla cosiddetta «autonomia», fortemente voluto dalla Lega Nord trascinandosi appresso quasi tutti gli altri, si è stabilito il record assoluto di votanti, col 76% degli aventi diritto che si è recato ai seggi, conquistandosi il titolo di capitale morale della «Repubblica Autonoma dello Zaiastan». Un territorio forse immaginifico e immaginario, questo dello Zaiastan, ma che come osservano molti analisti dei flussi elettorali si può anche fisicamente articolare su una mappa geografica seguendo determinati contorni e schivandone accuratamente altri. Il percorso logico dei vari approcci delle discipline sociali e politiche classiche al territorio ha però una caratteristica (forse una virtù, da quello specifico punto di vista) nel suo disegnare mappe, ed è una sostanziale a-spazialità. Vale a dire una tendenza prevalente a proiettare su un territorio tabula rasa qualche informazione semplice, che siano opinioni o fatti socioeconomici, e a volte poi provare a confrontarli e sovrapporli ad altri. Il che va benissimo ma spesso prescinde per sua natura dalla complessità spaziale che definisce luoghi e identità.

E se non altro rallenta, in questo lento e sostanzialmente casuale accumularsi di approssimazioni successive che vogliono essere analitiche e quantificabili, l'acquisizione del dato di sintesi, noto là dove questi processi o sono più sedimentati, o semplicemente hanno avuto un approccio meno disarticolato: non esistono in realtà degli specifici Zaiastan o territori dominati da qualche divinità politica con poteri spirituali e temporali magici, ma molto semplicemente dei territori fisici e socioeconomici che regolarmente orientano i propri consensi verso una certa offerta politica. Detto ancor più terra terra e in linguaggio volutamente brutale: l'idiotismo della vita rustica vota conservatore, l'aria della città rende liberi di votare progressista. E tutto questo, precisiamo, spesso indipendentemente da chi propone quelle istanze, vale a dire dal colore della bandiera che sta occasionalmente sventolando, destra, sinistra, centro, libertà, solidarietà, sussidiarietà e via dicendo. Capita però che l'intuizione di questo abbastanza inafferrabile cocktail si focalizzi su un simbolo, ed è allora che scattano al tempo stesso l'altra intuizione (proiettare sul territorio) e la confusione (inventarsi il Regno del Celeste o analoghi).

Caratteri del «contado» politologico: né densità né addetti agricoli
(skyline di Buccinasco da Milano, foto F. Bottini)
Forse non è un caso, se stavolta l'attenzione della politologia si è concentrata sul Veneto, ovvero sul territorio che da decenni ormai vanta quel proprio ambiguo neologismo socio-insediativo detto «città diffusa» per verniciare nobilmente l'obbrobrio ambientale dello sprawl, con una patina di millenaria speranza in un luminoso sol dell'avvenire. Nel territorio amministrativo lombardo adiacente il cosiddetto Zaiastan è forse meno lineare da definire, anche per via del nome diverso di Maroni, ma in realtà proprio nelle pianure e valli della Lombardia si può trovare esattamente conferma al medesimo fenomeno, semplicemente oscurato dall'incomoda presenza della Alamo milanese, oscena concrezione metropolitana (dal punto di vista della destra politica naturalmente) di valori meticci, genericamente progressisti, identitari giusto quando si tratta di trovare qualche etichetta Doc o Dop a valorizzare un prodotto locale. Una questione di densità edilizia, da analizzare su dati satellitari e rilievi campione locali come si fa col consumo di suolo per usi urbani? Certamente no, come ben sa chiunque si sia mai occupato della parolina magica sprawl: l'urbanizzazione dispersa pur avendo solidi intrecci con le infrastrutture di trasporto, l'impermeabilizzazione relativa del suolo, ciò che insomma il nostro conservazionismo spontaneo ha bollato da un po' con lo schifato termine «cementificazione», è ben altro.
È il vivaio, lo zoccolo duro e sinora inscalfibile, del consenso conservatore reazionario più incarognito, fabbrica di sostanziale antipolitica che vede nella triade famiglia-lavoro-piccola patria l'unico orizzonte di vita possibile, e tutto ciò che sta fuori di esso come incombente minaccia aliena. Il voto è l'equivalente del ringhio minaccioso del cane dal buio oltre la siepe della villetta o palazzina familiare, quell'idea di «casa mia» frattale che si moltiplica senza la soluzione di continuità di alcuno spazio pubblico. Posti dove solo certa forse strumentale fresconaggine ideologica da architetti-urbanisti post-qualcosa può cercare di infondere vaga aria di libertà, ribattezzando il tutto Urbs in Horto ovvero ripescando dall'Ottocento industrial-contadino una delle radici del pensiero suburbano classico. E in fondo ricercando, chissà perché e chissà come, l'ennesima uscita laterale «senza fratture» dalla tradizione contadina del localismo familiare. Mentre invece queste fratture, diciamo in altre parole questi conflitti, andrebbero addirittura promossi e somministrati ad hoc, anche se auspicabilmente governati. Altrimenti toccherà aspettare che quella frattura arrivi, senza ammortizzatori, dallo spazio globale esterno dentro cui anche quei processi di impropria urbanizzazione dispersa si collocano, lasciando che nel frattempo gli Zaia, i Maroni, e tutti gli altri che più o meno alla loro ombra campano di piccolo cabotaggio rappresentando interessi vari, con le loro politiche di «sviluppo del territorio» edilizio-autostradali, riproducano tecnicamente e per clonazione il proprio collegio elettorale ideale. Sarà anche il trionfo di Bertoldo, ma non c'è niente da ridere.
www.cittaconquistatrice.it

barbara-spinelli.it

Barbara Spinelli è intervenuta nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo nella “Discussione su tematiche di attualità – Lotta contro l’immigrazione illegale e il traffico di esseri umani nel Mediterraneo”, richiesta dal Gruppo ENF e presentata da Matteo Salvini. L’onorevole Spinelli ha preso la parola in qualità di relatore ombra per il gruppo GUE/NGL della Direttiva sulla Blue Card e sulla Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria e sul contenuto della protezione riconosciuta. Presenti al dibattito Matti Maasikas, Vice-Ministro estone per gli Affari europei, e Valdis Dombrovskis, Vice-Presidente per l’Euro e il Dialogo Sociale, Stabilità Finanziaria, Servizi Finanziari e dell’Unione dei Mercati dei Capitali.
Di seguito l’intervento:

Vorrei rivolgere a Commissione e Consiglio tre domande, sulla battaglia per bloccare l’arrivo di migranti forzati in Europa.

La prima riguarda la lotta prioritaria agli smuggler, concordata con Libia, Niger e Ciad. Cominciamo a conoscerne l’esito: impauriti dalle autorità nigerine, gli smuggler mollano i migranti nel deserto o li conducono su strade dove manca l’acqua. Risultato: i morti nel deserto aumentano esponenzialmente. Secondo Richard Danziger, responsabile dell’OIM in Africa centro-occidentale, sono ormai il doppio dei morti in mare: circa 30.000 tra il 2014 e oggi. Non tutti i fuggitivi arrivano al Mediterraneo.
La seconda domanda concerne le coste libiche, dove regna ormai una guerra tra bande: come distinguere lo smuggler dalle milizie e dalle guardie costiere, che l’Unione o l’Italia formano e pagano? Secondo l’Alto Commissariato Onu, gli abusi nei centri di detenzione sono “spaventosi” (“shocking”).
La terza domanda riguarda le garanzie sull’assistenza UNHCR in Libia. Secondo l’Alto commissario per i rifugiati a Tripoli, è un’assistenza “più che precaria: la Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra. Non ha neanche un memorandum con l’UNHCR”.
Di quest’Africa trasformata in nostra prigione, di questi morti, l’Unione è responsabile. Penso che un giorno pagheremo le colpe di cui ci stiamo macchiando.
All’onorevole Matteo Salvini vorrei dire una cosa che sa: nell’UE avete oggi ben più sostegno di quel che dite di avere.
comune-info.net, 25 ottobre 2017. «Il comando del popolo sta cedendo terreno al comando del denaro. L’unico modo per ripristinare la democrazia è il ritorno della partecipazione». (p.d.)
L’80 per cento del commercio nel mondo è in mano alle multinazionali. Ma il dato più significativo che emerge dal rapporto “Top 200”, curato dal Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms) e dedicato alle multinazionali, è probabilmente un altro: i primi duecento gruppi di imprese transnazionali realizzano, da soli, il 14 per cento di tutto il fatturato delle multinazionali. Per arrivare a cifre di quel tipo sono necessarie, tra le altre cose, grandi attività di pressione, più o meno spudorata, sui governi di tutto il mondo. Tuttavia, quello che altri rapporti e iniziative del Cnms hanno mostrato, è che il dominio di quelle imprese dipende in primo luogo dai lavoratori e dai cittadini consumatori…
Se compilassimo una lista delle prime 100 realtà economiche, includendovi i governi in base ai loro introiti fiscali e le multinazionali in base ai loro fatturati, scopriremmo che 66 sono multinazionali. La prima comparirebbe al 10° posto e sarebbe Wal-Mart con un fatturato di 485 miliardi di dollari, somma superiore alle entrate governative di paesi come Spagna, Australia, Russia, India. Lo rende noto il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, tramite il dossier Top 200 dedicato alle prime 200 multinazionali. In totale, le multinazionali, o meglio i gruppi multinazionali, visto che si tratta di raggruppamenti di imprese afferenti ad una stessa società capofila, sono 320 mila per un numero complessivo di oltre un milione di filiali. Tutte insieme fatturano 132 mila miliardi di dollari e generano profitti lordi per 17mila miliardi. E se in certi settori, come i velivoli, il petrolio, l’auto, l’acciaio, sono i protagonisti esclusivi, non meno importante è il loro peso sull’economia mondiale considerato che contribuiscono al 35-40% del prodotto lordo mondiale e che alimentano l’80% del commercio internazionale. Solo in ambito occupazionale i loro numeri si fanno più timidi dal momento che impiegano solo 300 milioni di persone pari al 15% dell’intera mano d’opera salariata mondiale.
Le Nazioni Unite definiscono multinazionale qualsiasi gruppo con filiali estere. Ma al di là di questa caratteristica, ognuna differisce dall’altra non solo per attività, ma anche per dimensioni. Al pari dei mammiferi che comprendono sia i topolini che gli elefanti, anche le multinazionali comprendono gruppi che fatturano qualche manciata di milioni di euro e altri che realizzano centinaia di miliardi. Tant’è che i primi 200 gruppi realizzano, da soli, il 14% di tutto il fatturato delle multinazionali. E se un tempo le capogruppo battevano quasi esclusivamente bandiera europea, statunitense o giapponese, oggi battono sempre di più bandiera cinese. Rimanendo alle prime 200, in cima alla lista troviamo ancora gli Stati Uniti con 63 capogruppo, ma al secondo posto incontriamo la Cina con 41 capogruppo. Con la differenza che mentre quelle cinesi sono tali di nome e di fatto perché sono per la maggior parte di proprietà governativa, tutte le altre hanno una doppia personalità: con una patria ben precisa da un punto di vista giuridico, ma apolidi da un punto di vista proprietario perché i loro azionisti sono banche e fondi di investimento di ogni paese del mondo. Tanto per confermare, ancora una volta, che il potere finale è della finanza, considerato che 25 gruppi finanziari controllano il 30% del capitale complessivo di 43mila gruppi multinazionali.
Una volta Louis Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti dal 1916 al 1939, disse che possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose. E la realtà sembra dargli ragione. Democrazia significa comando di popolo, ma indagini più accurate ci dicono che parlamenti e governi ricevono forti pressioni da parte del mondo delle imprese affinché siano varati provvedimenti a loro graditi.Spesso con successo. L’attività di pressione è definita lobby, termine inglese che indica i locali antistanti le sale di riunione di parlamentari e ministri, spazi di attraversamento che in passato venivano utilizzati dai difensori di interessi particolari per avvicinare i politici e convincerli a sostenere le loro cause.
Oggi l’attività di lobby non è più improvvisata, ma talmente organizzata da essere istituzionalizzata. Sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea è stato istituito un registro dei lobbisti nel quale debbono iscriversi tutte quelle realtà che intendono svolgere attività di lobby, potendo godere di una serie di vantaggi come l’accesso ai palazzi istituzionali e la possibilità di relazionarsi con parlamentari e funzionari. Si stima che a Bruxelles lavorino più di 25 mila lobbisti per una spesa complessiva di un miliardo e mezzo di euro incanalata in forme di rappresentanza di varia natura. Le imprese più grandi, ovviamente, dispongono di propri apparati come mostrano Exxon e Shell che nel 2016 hanno speso entrambe 5 milioni di euro, senza dimenticare Microsoft, Deutsche Bank, Dow, Google, Total, tutte sopra i 3 milioni di euro. Ma oltre che tramite i propri uffici, le imprese svolgono attività di lobby anche tramite associazioni di categoria e agenzie specializzate. Fra le prime possiamo citare CEFIC, associazione europea dell’industria della chimica con 48 lobbisti e 12 milioni di spesa nel 2016; EFPIA, associazione europea dell’industria farmaceutica con 15 lobbisti e 5 milioni e mezzo di spesa; Business Europe, associazione degli industriali a livello europeo con 30 lobbisti e 4,25 milioni di spesa; ISDA, associazione internazionale per i derivati finanziari con 5 lobbisti e 2,7 milioni di spesa. Fra le agenzie, invece, possiamo citare studi legali come Fleishman-Hillard, Burson-Martsteller, Interel European Affairs, tutti con spese per lobby di livello milionario.
Purtroppo il sistema delle lobby non è l’unica via che permette alle imprese di esercitare potere sulla politica. L’altro canale, forse ancora più potente, è quello dei finanziamenti. Da quando la gente si è allontanata dalla politica, trasformandola in un affare privato di pochi professionisti che hanno bisogno di una montagna di soldi per farsi conoscere e convincere gli elettori della bontà del proprio programma come se fosse un prodotto da vendere, il ruolo delle imprese è diventato cruciale perché i soldi ce li hanno loro. Il paese che meglio mette in evidenza l’avanzare dell’impresacrazia sono gli Stati Uniti che almeno hanno il merito della trasparenza. Dai dati forniti da Open secrets si apprende che la somma messa in campo dalle imprese statunitensi per condizionare la politica, nel 2016 ha raggiunto i 2,4 miliardi di dollari, di cui 351 milioni per contributi diretti ai partiti. Il comando del popolo sta cedendo terreno al comando del denaro. L’unico modo per ripristinare la democrazia è il ritorno della partecipazione.
Francesco Gesualdi: allievo di don Milani, fonda nel 1985 il Centro Nuovo Modello di Sviluppo. È autore di numerosi libri. Questa è la sua adesione alla campagna 2017 di Comune “Un mondo nuovo comincia da qui”

InternazionaleAgence Global). “Nell’economia di mercato quando l’offerta di lavoro è alta, i lavoratori guadagnano di più. Ma oggi questo non succede.
 È la prova che il sistema è in una crisi profonda” (i.b)

Secondo la teoria economica neo- classica, il rapporto tra i salari e l’occupazione è semplice. Quando la domanda di forza lavoro è bassa, i salari si riducono, perché i lavoratori sono in competizione tra loro per ottenere un posto. Quando la richiesta di manodopera è alta, i salari aumentano, perché questa volta sono i datori di lavoro a competere tra loro per accaparrarsi la forza lavoro. Questo ciclo instabile dovrebbe permettere al sistema del libero mercato di funzionare tranquillamente, garantendo un costante ritorno al punto d’equilibrio.

Oggi però il rapporto tra salari e occupazione non segue più questa legge: nono- stante la ripresa, i salari non aumentano o addirittura diminuiscono. Per gli esperti è un grande mistero. Il New York Times ha spiegato il fenomeno con l’aumento dei la- voratori a tempo determinato e part-time e con l’avanzata dei robot. Per tutti questi motivi, ha scritto il quotidiano, le aziende dipendono meno dai lavoratori a tempo pieno, mentre i sindacati sono sempre più deboli e per i dipendenti è più diicile lottare contro i datori di lavoro. Tutto questo è vero. Perché, però, succede ora e non è successo prima?

Un’argomentazione relativamente nuova è quella che fa riferimento ai “lavoratori che svaniscono”. Ma come possono sparire i lavoratori? Cosa signiica? A quan- to pare, un numero crescente di lavoratori smette di cercare lavoro. Forse non hanno più alcuna protezione o hanno inito i risparmi. Sono diventati senzatetto, tossico- dipendenti, o tutt’e due le cose. Ma non hanno smesso volontariamente di cercare un lavoro. Sono stati espulsi dal sistema, e questo dà un doppio vantaggio alle azien- de: non devono investire (attraverso le tasse o in altri modi) nei programmi di prote- zione sociale e possono instillare nei lavoratori che ancora cercano un impiego la paura di essere a loro volta espulsi dal sistema.


Non può durare

Ma, mi chiedo ancora, perché succede ora e non è successo prima? Per “prima” s’inten- de quando il sistema funzionava in modo normale. Prima i capitalisti avevano biso- gno di questi cicli per poter lavorare ottimizzando i guadagni sul lungo periodo. Supponiamo, però, che oggi i datori di lavoro sappiano, o semplicemente intuiscano, che il capitalismo sta attraversando una profonda crisi strutturale e che quindi è moribondo. Cosa potrebbero fare?

Se non devono preoccuparsi che il sistema sia sostenuto da una domanda efettiva, potrebbero accontentarsi di accaparrarsi tutto quello che possono inché possono. Sarebbero completamente concentrati sui risultati immediati. Si limiterebbero a cercare di aumentare i ricavi nei mercati azionari senza preoccuparsi del futuro. Non è forse quello che sta succedendo oggi in tutti i paesi ricchi e perino in quelli meno ricchi?

Naturalmente tutto questo non può durare. Ecco perché le luttuazioni sono così grandi e il caos è così profondo. E sono po- chi, senza dubbio i capitalisti più scaltri, quelli che puntano a vincere la battaglia del medio periodo, cioè quella di individuare la natura del sistema mondiale (o dei sistemi mondiali) del futuro. Non stiamo assistendo a una nuova normalità, ci troviamo di fronte a una realtà transitoria.

Quindi qual è la lezione per chi si preoccupa dei lavoratori “che stanno svanendo”? È abbastanza chiaro che bisogna lottare per difendere tutte le forme di protezione di cui i lavoratori possono ancora beneficiare. Bisogna lavorare per ridurre al minimo la sofferenza. Al tempo stesso, però, è necessario lottare per vincere la battaglia intellettuale, morale e politica sul futuro da costruire. Solo attraverso una strategia che combini la lotta per oggi con quella per il futuro si può sperare in un mondo migliore, che è senz’altro possibile, ma non certo.

il manifesto,


«Legge elettorale. Senza maggioranza, ma con cinque fiducie. Gentiloni si salva al senato grazie ai dissidenti Pd che non affondano il colpo e ai senatori di Verdini (e alla fine arriva anche il soccorso di Calderoli). Napolitano attacca la riforma e la decisione di Renzi di strappare - "sul presidente del Consiglio pressioni fortissime" - ma invita a salvare l'esecutivo. In aula tanta tattica, proteste, gestacci e una rissa sfiorata»

I numeri dicono che il governo Gentiloni non ha la fiducia del senato. Alle sei di ieri sera nell’ultima votazione sulla legge elettorale è sceso fino a 145 voti, ai quali vanno tolti i 13 dei verdiniani che non sono formalmente in maggioranza. Ma che nei nei momenti drammatici, come questo sul Rosatellum, scattano in soccorso. La sostanza è però un’altra: la riforma elettorale, la seconda in questa legislatura, è cosa fatta (oggi il via libera definitivo). «Siamo sicuri che possa reggere a lungo?» è la domanda che ha rivolto all’aula Giorgio Napolitano. La sua risposta evidentemente è no.

In una pausa dei lavori d’aula, il senatore Calderoli spiega di condividere la preoccupazione: «Anche di questa legge si occuperà la Corte costituzionale». Autore della prima riforma elettorale bocciata dalla Consulta – il celebre Porcellum – non ha smesso di detestare politicamente l’ex capo dello stato, ma è l’unico leghista seduto al suo posto quando Napolitano interviene. L’aula ha un raro momento di silenzio, il presidente emerito – 92 anni – parla da seduto: per lui una lampada speciale, un bicchiere d’acqua, fazzoletti e una lente d’ingrandimento. Il testo del discorso è scritto in caratteri molto grandi, le parole di critica sono molto forti ma controllate negli effetti. «Gentiloni è stato soggetto a forti pressioni, mi rammarico della decisione di porre la fiducia ma lo sostengo». Per il presidente che accompagnò Renzi durante tutte le forzature su Italicum e riforma costituzionale nessuna autocritica: il problema della «drastica compressione dei diritti e del ruolo dell’istituzione e dei singoli parlamentari» è una questione «delle ultime settimane». L’ex capo dello stato si preoccupa di non mettere in imbarazzo l’attuale, che presto dovrà promulgare la legge. Lo cita, eppure demolisce la persistenza nel Rosatellum della figura del capo della forza politica che «adombra un’elezione diretta del capo del governo». E giustamente corregge tante chiacchiere: «Non è mai stata affrontata di fronte alla Consulta l’obiezione di incostituzionalità sulla fiducia» per le leggi elettorali. Come dire: succederà.

Nel frattempo le fiducie scivolano via una dopo l’altra, grazie all’articolato sistema di protezione messo in piedi da Pd, Lega e Forza Italia. Per ogni votazione abbassano il numero legale una quarantina di senatori in congedo (malati) o in missione: la metà sono forzisti e leghisti che hanno l’alibi dei lavori della neonata commissione sulle banche, l’unica autorizzata a convocarsi anche durante le fiducie. In questo modo aiutano la maggioranza a tenere basso il numero legale che resta fissato a 143 senatori. Aiuta anche la decisione di sette senatori dissidenti Pd (Chiti, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ruta, Tocci e Turano), diventati nove nell’ultima votazione (con l’aggiunta di Longo e Giacobbe), di dissentire senza sabotare: sfilano sotto la presidenza segnalando la loro presenza in aula (e quindi contribuendo al numero legale) ma l’intenzione di non votare. Serve anche il definitivo approdo alla maggioranza di tre senatori ex Si e M5S (Stefano, Uras e Orellana). Ma più di tutti contribuisce la scelta dei verdiniani di votare sempre la fiducia: su 14 senatori di Ala 13 votano sì e uno è in congedo. Senza il gruppo Verdini e la «fazione Chiti» il numero legale sarebbe mancato ad ogni votazione. Salvo che nell’ultima – la quinta fiducia – quando è arrivato anche il soccorso di otto senatori leghisti e sei forzisti (tra i quali l’eterno Scilipoti) comandati in aula a votare no da Calderoli, messo in allarme dalla decisione di M5S, Sinistra italiana e Mdp di uscire dall’aula.

L’appoggio del gruppo di Verdini, politicamente assai rilevante, non si può dire che sia stato numericamente determinante per il numero legale. Le due votazioni più delicate per il governo sono state la terza e l’ultima. Alla terza votazione hanno partecipato 217 senatori, così divisi: 148 sì, 61 no, 8 presenti e non votanti di cui sette con Chiti e uno il presidente Grasso. Se i 13 verdiniani non avessero partecipato, e i 61 contrari, avendolo notato dopo la prima chiama, avessero deciso di non rispondere per tentare lo sgambetto, il numero legale si sarebbe fermato a 143 (135 più 8), cioè esattamente al minimo necessario. Dunque votazione comunque valida. Ma è un calcolo teorico, perché tra i 61 contrari ci sono alcuni senatori (uno di Fratelli d’Italia, una di Gal e uno del Pd) che non avrebbero partecipato alla tattica dell’uscita dall’aula. Al quinto voto di fiducia, invece, hanno partecipato 172 senatori, così divisi: 145 a favore, dieci presenti e non votanti (9 con Chiti e uno il presidente Grasso) e 17 contrari. Con i senatori di Ala fuori dall’aula avremmo avuto 132 voti a favore, ma comunque 159 partecipanti al voto (e dunque il numero legale) perché il gruppo Chiti non sarebbe uscito e tra i 17 contrari stavolta, oltre ai tre già citati, ci sono stati 8 leghisti e 6 di Forza Italia arrivati proprio per garantire il numero legale. In precedenza, sulle altre fiducie, grillini e sinistre hanno aspettato che il numero legale fosse raggiunto prima di scendere nell’emiciclo a votare no (con qualche senatore disattento inseguito e fisicamente bloccati dai colleghi che tenevano la conta).

A questa tattica i grillini hanno aggiunto un bel po’ del consueto colore, compresa una semi aggressione al segretario d’aula del Pd Russo in favore di telecamera (collegata in diretta con la piazza di Grillo). Diversi senatori a 5 Stelle, infatti, hanno votato coprendosi gli occhi con le mani, o addirittura bendati, o stracciando una copia della legge elettorale, o gridando contro Verdini; il senatore Giarrusso ha direttamente fatto il gesto dell’ombrello verso i banchi di Ala – al senatore D’Anna non è parso vero poter replicare con gli interessi. A quel punto Russo ha gridato «siate seri» ai grillini e i senatori Cioffi, Lucidi e Santangelo gli si sono avvicinati minacciosi (in mezzo i commessi). In precedenza gli ultimi due si erano limitati a gesti più composti, come ripetere cinque volte lo stesso discorso (visto che ai senatori non è stato concesso di fare le dichiarazioni di voto per ognuno dei cinque voti di fiducia) o slacciare il nodo della cravatta. E più volte, nel corso della lunga giornata, i 5 Stelle hanno chiesto a Grasso di fare come Paratore, che nel 1953 si dimise da presidente del senato per la fiducia sulla legge truffa. Grasso ci ha tenuto sempre a replicare. «Ho studiato, Paratore si dimise dopo la fiducia e non per impedirla», ha detto una prima volta. E poi, più esplicito, «a volte è più duro restare per il senso delle istituzioni, e continuare nonostante il malessere». Parole chiare che resteranno a verbale, e solo lì.

Avvenire,

Il caso Anna Frank ha riacceso il dibattito sull'antisemitismo nelle tifoserie ultras delle squadre sportive.

La cosiddetta «tradizione» non c’entra, dietro c’è una precisa strategia politica. La tradizione cittadina vuole il laziale più 'borghese' e il romanista più 'popolano', il primo residente nei quartieri alti di Roma Nord (con un’isola meridionale, l’Eur) e il secondo radicato a Roma Sud.

Per intenderci: Parioli-Trieste-Flaminio contro Testaccio- Garbatella-Magliana. Da qui la storica definizione del laziale 'di destra' e del romanista 'di sinistra' che, come tutte le generalizzazioni, è assai imprecisa. Molto più definita, invece, la collocazione all’estrema destra dei gruppi egemoni di entrambe le tifoserie ultras che, come accennato, fa parte di una strategia di reclutamento politico che affonda le sue radici storiche alla fine degli anni 80 e che si è fatta via via più incalzante. E che, sia detto per inciso, riguarda le curve di buona parte del Paese.

Lo ha spiegato con molta chiarezza, nemmeno due mesi fa, il leader nazionale di Forza Nuova, Roberto Fiore, annunciando che il suo movimento era in cerca di attivisti appartenenti in particolare a tre categorie: «I tifosi delle squadre di calcio, il cui attaccamento alle proprie città è forte e vivo; i tassisti, apprezzati per la loro conoscenza del territorio e l’impegno civico; i pugili noti per coraggio e disciplina».

L’obiettivo era l’organizzazione delle cosiddette «passeggiate per la sicurezza», un modo un po’ edulcorato per definire le ronde di quartiere. E durante una di queste, alla Magliana, il 23 settembre è stato denunciato (insieme ad altri 14 'camerati') Giuliano Castellino, responsabile romano di Forza Nuova e figura storica del tifo ultras giallorosso. Un passato dentro Casapound, da cui poi si è allontanato, Castellino è stato il fondatore del gruppo 'Padroni di casa' in Curva Sud. La stessa curva che frequentava Daniele De Santis, l’estremista di destra condannato per aver ucciso a colpi di pistola il tifoso del Napoli Ciro Esposito nel maggio del 2014, prima della finale di Coppa Italia tra gli azzurri e la Fiorentina. Ben nota, poi, la situazione nella Curva Nord laziale, che prima dei rivali è riuscita ad affermarsi come un punto di riferimento dell’estrema destra capitolina. Attualmente il gruppo principale, gli Irriducibili (nati nel 1987 e ben presto egemoni, ai danni dei vecchi Eagles’ Supporters), tende a parlare in nome collettivo, senza più sovraesporre i capi storici (il più noto alle cronache è Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik), spesso alle prese con problemi giudiziari di vario tipo.

Ma il momento di difficoltà degli ultimi anni, caratterizzati da uno scontro feroce con il presidente della Lazio Claudio Lotito, sembra passato e adesso sarebbe di nuovo Diabolik a comandare. Le 'truppe d’assalto' delle due curve romane (quelle che appiccicano - non solo allo stadio - adesivi come quelli di Anna Frank, oppure con la scritta 'Laziale non mangia maiale') sono invece formate per lo più da giovani e giovanissimi che si ritrovano spesso accomunati nelle manifestazioni politiche a gridare 'Roma ai romani' o 'Prima gli italiani', nei 'presidi' anti-immigrati, nei raid contro chi accoglie i rifugiati.

Insomma, non è vero – come ha detto il vicepresidente della Comunità ebraica Ruben Della Rocca – che gli ultras laziali «hanno esportato razzismo antisemita anche in Curva Sud». Non è vero per il semplice, triste fatto che razzismo e antisemitismo sono già presenti da tempo nella frange estreme di entrambe le curve dell’Olimpico, così come in molte altre curve italiane. Tanto che le espressioni «ebreo» e «giudeo» vengono utilizzate e percepite da entrambe le sponde come un’offesa.


InternazionaleThe Guardian. “Cosa nostra ha perso il controllo del mercato della droga. E ora vuole prendersi i terreni agricoli minacciando i proprietary” (i.b.)
Le sorelle Napoli conservano quell che resta del raccolto in un barattolo di vetro su un tavolo in salotto. Dentro ci sono solo una decina di spighe. Il resto del grano – 80 tonnellate – è stato distrutto dalla mafia. La famiglia Napoli lo coltiva a Corleone, in Sicilia, da tre generazioni.

Processi e arresti hanno spinto cosa nostra a tornare alle sue origini rurali. Ora la mafia vuole riprendersi le terre che le appartenevano. La prima minaccia a Marianna, Ina e Irene Napoli è arrivata nel 2009. Il padre era morto da pochi mesi quando 80 mucche e 30 cavalli hanno invaso i campi della famiglia, distruggendo il raccolto. “Abbiamo pensato a un incidente”, racconta Ina, “ma in fondo sapevamo come funzionano le cose da queste parti”.

Il pascolo non autorizzato è la più antica forma di intimidazione mafiosa in Sicilia. Poco tempo dopo cosa nostra recapitò nella fattoria due cani avvelenati e decine di carcasse di bue. Due trebbiatrici sono state distrutte e l’invasione di bestiame è andata avanti per quasi otto anni. Ogni tanto qualcuno si presentava a casa delle sorelle offrendo cinquemila euro all’anno per “gestire” i loro 90 ettari di terra. Cosa nostra pensava di poter sottomettere facilmente le sorelle, nubili.

La mafia siciliana è in crisi: dal 1990 sono stati arrestati più di quattromila affiliati e i nuovi mafiosi non hanno l’autorità di chi li ha preceduti. Il traffico di droga è ora nelle mani della ’ndrangheta. Inoltre secondo l’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), l’industria edile siciliana, da cui in passato la mafia ricavava molto denaro, dal 2007 ha perso più di un miliardo di euro.

Lontano da Palermo, nascosta nell’entroterra siciliano, cosa nostra sta cercando di ripartire da zero. “È come se cosa nostra, spinta dalla crisi, si fosse ritirata nelle campagne”, spiega Sergio Lari, procuratore generale di Caltanissetta.

Gli aiuti dell’Unione europea all’agricoltura, fino a mille euro per ettaro, forniscono un incentivo per l’attività del crimine organizzato. A febbraio le forze dell’ordine di Caltanissetta hanno arrestato nove persone affiliate ai clan di Cesarò e Bronte, che secondo gli inquirenti avevano costretto gli agricoltori a vendere centinaia di ettari di terra. Il processo è in corso.

Emanuele Feltri nel 2010 ha fondato un’azienda per l’agricoltura biologica nella valle del Simeto, che poco dopo è stata data alle fiamme dai mafiosi. “Chiedono il pizzo agli agricoltori, da 50 a 500 euro al mese. Cercano di portarli alla bancarotta distruggendo il raccolto o bruciando i campi. Per poi comprare la terra a prezzi stracciati e incassare gli aiuti europei”.

Produzione azzerata

La terra delle sorelle Napoli vale circa un milione di euro. Oltre ai campi di grano ci sono un lago artificiale e una sorgente d’acqua potabile. Prima della morte del padre l’azienda agricola produceva 36 tonnellate di grano e diverse tonnellate di ieno, per un profitto annuo di 35mila euro. Oggi produce solo 330 balle di fieno, mentre la produzione di grano è a zero. I debiti hanno raggiunto i centomila euro.

“Quest’anno abbiamo guadagnato 660 euro”, racconta in lacrime Marianna. Dal 2014 le sorelle Napoli hanno presentato 28 denunce ai carabinieri, ma da quando hanno scelto di rivolgersi alle autorità sono state emarginate dalla comunità. “La gente non ci saluta più. I braccianti non vogliono lavorare per noi”, spiega Ina. “Una persona è venuta a chiederci di ritirare le denounce per evitare che la situazione peggiori, ma non abbiamo accettato”. Pochi mesi fa la mafia ha consegnato un altro macabro regalo alle sorelle Napoli: la pelle di tre pecore. I responsabili di queste intimidazioni restano liberi.

Le autorità siciliane sono alle prese con decine di casi sulla mafia del bestiame, ma la campagna d’intimidazione in corso da otto anni contro le sorelle Napoli non è uno di questi. I casi individuali di pascolo illegale vengono considerati reati minori, puniti con multe di appena 300 euro. “Qualcuno deve indagare su tutti i casi dal 2009 a oggi, altrimenti i colpevoli dovranno pagare solo qualche multa”, spiega Giorgio Bisagna, avvocato delle sorelle.

Tra qualche mese i loro terreni saranno messi sotto la protezione di Libera terra, un’associazione che gestisce i terreni coniscati alla mafia. “I boss pensavano che rubare a due zitelle sarebbe stato facile come rubare una caramella a un bambino”, racconta Irene. “Ma si sono messi contro le zitelle sbagliate”

il manifesto, 25 ottobre 2017 «1

«Pubblichiamo il discorso pronunciato il 24 ottobre 2017 nell’aula del Senato da Mario Tronti per ricordare il centenario della Rivoluzione d’Ottobre».

Presidente, colleghe e colleghi, vi chiedo un momento di attenzione. In mezzo ai lavori convulsi di questi giorni, una pausa di riflessione può far bene. Volevo ricordare un evento, di cui ricorre quest’anno il centenario. Il 24 di ottobre, secondo il calendario giuliano, o il 7 novembre, secondo il calendario gregoriano, del 1917, esplodeva nel mondo la rivoluzione in Russia.

Mi sono interrogato sull’opportunità di proporre qui, nel Senato della Repubblica, il ricordo di questa data. Sono consapevole che questo arrivi a turbare la sensibilità di alcuni, e di alcune, che legittimamente possono nutrire, nei confronti di quell’evento, una ostilità assoluta. Ma siamo a cento anni da quella data e possiamo parlarne, come io intendo parlarne, con passione e nello stesso tempo con disincanto.
Non so se è verità o leggenda, quella volta che chiesero a Chou En-Lai, anni cinquanta del Novecento, che giudizio si sentisse di dare sulla rivoluzione francese del 1789. E la risposta fu: troppo presto per parlarne. Di quei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, secondo il reportage che ne fece il giornalista americano John Reed, ne trattano oggi molti giornali, molte riviste, molti libri. Del resto, per mettere un pizzico di ironia in avvenimenti che hanno dalla loro parte non poco di vicende tragiche, si potrebbe dire che anche questa, come facciamo spesso in quest’aula, è la commemorazione di un defunto.
Qui, a Palazzo Madama, come a Montecitorio, soprattutto nella prima Legislatura, seguita alla Costituente, presero posto alcuni protagonisti che avevano vissuto quella storia in prima persona. Questo mio ricordo vuole essere anche un omaggio a questi padri. Il 1917 è conseguenza del 1914. Senza la grande guerra non ci sarebbe stata la grande rivoluzione. E la cosa da ricordare subito è che la prima rivendicazione, che forse più di altre produsse il successo della rivoluzione, fu la rivendicazione della pace: la pace ad ogni costo, si disse, anche a costo di perdere la guerra.
Quando Lenin, contro tutti, firmò il trattato di Brest Litovsk, accettò tutte le più pesanti condizioni, pur di riportare a casa i soldati. Lenin era l’autore di quella che a mio parere è stata la più audace di tutte le parole d’ordine sovversive, quando disse: soldati operai e contadini russi non sparate sui soldati e contadini tedeschi, ma voltate i fucili e sparate sui generali zaristi.
C’era quella idea, che era stata per primo di Marx. dell’internazionalismo proletario, “proletari di tutti i paesi unitevi”: un’idea niente affatto di parte, che affonda invece le sue lunghe radici nell’umanesimo moderno. Già nei moti rivoluzionari del 1905 i soldati si erano rifiutatati di sparare sulla folla, e avevano sparato sui loro ufficiali.
1905 e 1917 sono le due tappe della rivoluzione in Russia. La lucida strategia, che sarà dei bolscevichi contro i menscevichi, era che i comunisti dovevano mettersi alla testa della rivoluzione democratica per portarla alle sue naturali conseguenze, che stavano nella rivoluzione socialista. Se democrazia è infatti il kratos in mano al demos, il potere in mano al popolo, quale strumento più democratico dei soviet, dei consigli degli operai e dei contadini?
Ma, attenzione, i soviet dovevano farsi Stato, dovevano assumere l’interesse generale. E il fatto che invece di farsi Stato si sono fatti partito, chissà che non sia stato questo il vero punto di catastrofe dell’intero progetto.
Ma comunque quella democrazia diretta non ha niente a che vedere con l’attuale democrazia immediata. Questa non solo non si fa istituzione, ma è anti-istituzionale e dunque antipolitica e allora è conservatrice, se non addirittura reazionaria.
La rivoluzione partì su tre parole d’ordine: la pace, il pane, la terra. Parole semplici, che toccarono il cuore dell’antico popolo russo. Tre cose che erano state sottratte a quel popolo. La rivoluzione gliele restituì. Per questo “l’assalto al cielo”, che avevano già tentato invano gli eroici comunardi di Parigi, vinse a Pietroburgo con l’assalto al Palazzo d’Inverno.
Colleghi, conosco bene il seguito della storia. Una rivoluzione, che era nata dalla guerra, si trovò in guerra con il resto del mondo, accerchiata e combattuta. Non intendo, per questo, nascondere, tanto meno giustificare, le deviazioni, gli errori, la violenza, i veri e propri crimini commessi.
Qui, c’è il grande problema del perché la rivoluzione, cioè il progetto di trasformazione in grande del corso delle cose, sfocia storicamente nel terrore. E il problema non riguarda solo i proletari. I borghesi non hanno agito diversamente nella loro presa del potere. La rivoluzione inglese di metà Seicento, la rivoluzione francese di fine Settecento, ambedue hanno fatto cadere nel capestro la testa del re. E la rivoluzione americana, per produrre la più stabile democrazia del mondo, è dovuta passare per una terribile guerra civile.
Rivoluzione e guerra, rivoluzione e terrore, sono dunque inseparabili? Dobbiamo dunque per questo rinunciare al tentativo di un rivolgimento totale? Occorre rassegnarsi alla pratica di cosiddette riforme graduali, che però mai riescono a minimamente mettere in discussione il rapporto, che poi è un rapporto di forza, tra il sotto e il sopra, tra il basso e l’alto della società? Questo è il problema che ci pone ancora oggi, dopo un secolo, quell’ottobre del ’17.
Ecco perché vorrei, se possibile, isolare il valore liberatorio di quell’atto rivoluzionario dai fallimenti epocali e anche dalle costrizioni antilibertarie, che lo hanno seguito nella sua realizzazione. Ricordo una data e condanno una sua negazione. Quell’atto trova la sua fondazione nel mirabile inizio di secolo. Il primo decennio del Novecento vede l’irrompere, anch’esso sovversivo, della trasvalutazione di tutte le forme: in campo artistico, con le avanguardie, arti figurative, poesia, narrativa, musica; in campo scientifico, con la fine della meccanica newtoniana e l’avanzare del principio di indeterminazione; nel pensiero filosofico con la messa in questione della ragione illuministica. Come potevano le forme della politica, organizzazioni e istituzioni, non essere travolte da questo Sturm und Drang, da questo impeto e assalto? Come la grande Vienna è il cuore di questo sommovimento culturale, così Pietroburgo diventa il cuore di un sommovimento politico.
Il secolo ne sarà interamente segnato. L’anima e le forme è lo splendido titolo di un libro del giovane Lukács, che esce nel 1911. Era l’anima dell’Europa ed era, come dirà anni dopo Husserl, la crisi delle scienze europee, a ribaltare tutte le forme ottocentesche. Lo spirito anticipa sempre la storia.
La rivoluzione del ’17 in Russia sta in mezzo a questo totale fermento. Atto di liberazione, che metterà in moto masse enormi di popolo e provocherà scelte di vita di piccole e grandi personalità. Ad esso si richiamavano molti dei ribelli antifascisti, mentre subivano il carcere e l’esilio, molti dei combattenti nella guerra di Spagna contro i franchisti, molti dei partigiani che salirono in montagna contro i nazisti. Se leggete le lettere dei condannati a morte della Resistenza, in Italia e in Europa, troverete spesso l’ultimo grido di saluto per quell’evento.
Mi rendo conto di parlarne con fin troppa partecipazione, e perfino enfasi Ma vedete, colleghi, io mi considero figlio di quella storia. E francamente vi dico che non sarei nemmeno qui se non fossi partito da lì. Qui, a fare politica per gli stessi fini con altri mezzi, senza ripetere nulla di quel tempo lontano, passato attraverso tante trasformazioni, rimanendo identico.
Vi assicuro, un esercizio addirittura spericolato, ma entusiasmante. Se entusiasmo può esserci ancora concesso in questi tristi tempi. Vi chiedo ancora scusa.
Nell'immagine "Nuovo pianeta", ©1921, di Kostantin Yuan

officinadeisaperi.it,

Come molti sanno, nell’ultimo decennio Riace, questo piccolo paese della costa jonica calabrese che conta solo milleduecento abitanti, è diventato famoso nel mondo e ha rivalutato l’immagine della Calabria: non più e solo terra di ‘ndrangheta, ma il luogo principe dell’accoglienza dello straniero. Finalmente una immagine positiva di questa regione di cui potersi vantare andando fuori per le strade del mondo. Quando nell’autunno del 2009 si celebravano a Berlino i vent’anni dalla caduta del muro, il grande regista Winnie Wenders di fronte a dieci nobel per la pace disse: «La vera civiltà, la nostra speranza come Europa io l’ho incontrata a Riace, un piccolo paese della Calabria». E quest’anno quando abbiamo letto la notizia che la famosa rivista Fortune aveva inserito il sindaco di Riace, Domenico Lucano, tra le cinquanta personalità più autorevoli della terra, in tanti abbiamo provato un sentimento di gioia ed orgoglio legittimo.
È in questo scenario che, come un fulmine in una limpida giornata autunnale, va letto il titolo a caratteri cubitali apparso sulla stampa locale e nazionale: il sindaco dell’accoglienza modello dei migranti accusato di truffa aggravata, concussione e abuso d’ufficio. Naturalmente la stampa di destra che odia gli immigrati ha scritto anche di peggio, ed era scontato. Quello che invece non è più accettabile è il modo con cui viene usato un avviso di garanzia, che significa solo che una persona è indagata, non condannata, non processata, e quindi ha diritto che la sua privacy venga rispettata.

Negli ultimi decenni l’avviso di garanzia si è trasformato in una pre-condanna, soprattutto se si tratta di persona famosa, che però quando viene prosciolta gli si concede qualche rigo illeggibile in una pagina interna al giornale. Perché la notizia, vendibile, è la presunta colpevolezza non l’innocenza della persona indagata. Ora, non si tratta di scommettere sull’onestà di Domenico Lucano, su cui molti ci metteremmo la faccia, ma si tratta di mettere a nudo un modo di fare informazione: non è possibile che un avviso di garanzia diventi pubblico, finché il PM non finisce l’istruttoria e la manda al Gip (Giudice per le indagini preliminari) questa informazione non deve diventare di dominio pubblico, e chi lo fa deve essere sanzionato. La macchina del fango, lo sappiamo, funziona così: lo butti sulla persona che vuoi colpire e qualcosa resta, anche dopo la “doccia” (il proscioglimento).

Ho conosciuto Domenico Lucano nel novembre del 1998 mentre a Badolato ero impegnato con il Cric (una ong calabrese molto attiva in quegli anni) nel primo progetto di accoglienza dei migranti che si è realizzato in Italia, che puntava all’integrazione economica, sociale e culturale. Domenico ed i suoi amici dell’associazione “Riace città futura” volevano replicare nel loro paese quanto fatto a Badolato e chiedevano un sostegno per partire. Il loro entusiasmo, la loro onestà e grande idealità ha fatto sì che mentre Badolato si spegneva Riace raccoglieva la solidarietà di tanti gruppi/associazioni del mondo pacifista, del commercio equo e solidale, della finanza etica e di una straordinaria comunità anarchica, l’ultima rimasta in Europa: Longo maï. Una comunità, nata in Provenza e diffusasi in altre zone della Francia e in diversi paesi europei, che si mobilitò per sostenere l’esperienza di Riace attraverso una forma di turismo solidale con cui svizzeri, francesi e tedeschi vennero a fare le vacanze in questo piccolo Comune calabrese allora sconosciuto al mondo. Un sostegno, anche economico, venne da Cornelius Koch, una straordinaria figura di prete cattolico che in Svizzera chiamavano l’Abate dei profughi che venne più volte a Riace insieme ad Hannes, uno dei fondatori della comunità di Longo maï (Vedi: Un chrétien subversif. Cornelius Koch, l’abbé des réfugiés, Editions d’en bas, Losanna, 2013).
Tutto questo per dire che la solidarietà, che la popolazione di Riace ha dimostrato di saper dare agli immigrati, innesca meccanismi di ulteriore solidarietà, legami sociali e reti conviviali, che si allargano a macchia d’olio ed in modo spesso imprevedibile. Ne è una ulteriore prova quello che è successo venerdì scorso: nell’anfiteatro costruito dove c’era una discarica (grazie anche all’impegno dell’ex assessore Tripodi, come ha voluto ricordare il sindaco), più di mille persone provenienti da tutta la Calabria e da varie parti d’Italia, dal Piemonte fino alla Sicilia, erano lì fino a notte fonda per essere vicini a Domenico Lucano, senza che alcun partito, sindacato o altro soggetto avesse organizzato questa manifestazione. Perché anche questo insegna questa storia: quello che le persone trovano a Riace è una grande dose di umanità, a partire da Domenico Lucano che riesce a parlare al cuore della gente senza cadere nel populismo e nella demagogia. Quello che molti di noi cerchiamo e di cui abbiamo bisogno è di Restare Umani, come scrisse prima di venire barbaramente ucciso Vittorio Arrigoni, un martire della pace, che cercava di unire le fazioni palestinesi in lotta.

Infine, la terza cosa che merita una riflessione seria sull’esperienza di Riace riguarda l’uso di quello che Lucano chiama “bonus” e che vengono usati per pagare i negozianti di Riace da parte dei migranti ospiti. Di che si tratta? Di una sorta di moneta locale che ha esattamente la stessa funzione dei “buoni pasto” che dipendenti pubblici e privati (grande aziende) usano per fare la spesa. Il vantaggio per l’economia di Riace è evidente: i migranti possono spendere questi “bonus” solo all’interno del paese e nei negozi convenzionati con l’amministrazione comunale. Questo fa sì che aumenti il legame tra i rifugiati e la popolazione locale e, inoltre, offre a loro la possibilità di fare acquisti di beni alimentari (e non solo) in base ai loro bisogni, cultura e tradizioni. Ed ancora: grazie a questo sistema l’amministrazione Lucano è riuscita a far risparmiare al progetto Sprar decine di migliaia di euro che sarebbero serviti per pagare gli interessi alle banche per avere gli anticipi di cassa con cui acquistare i beni per i migranti ospitati a Riace, mediamente duecento persone. Un sistema virtuoso che è stato accettato dalla Prefettura per sette anni e che improvvisamente quest’anno è stato messo in discussione. Un sistema che è stato ripreso e replicato anche in altri Comuni e che forse anche per questo diventava pericoloso perché dava un’autonomia agli enti locali che da diversi anni viene sempre più ridotta, grazie anche ai tagli nei trasferimenti dallo Stato ai Comuni che dal 2011 ha fatto registrare un taglio di ben 11 miliardi di euro.

Questa straordinaria storia di Riace non può finire nel macero per ragioni burocratiche o di bassa cucina. Bisogna che tutte le autorità e i rappresentanti delle Istituzioni (a partire dalla Giunta regionale) comprendano che in questo momento stare a guardare significa solo essere complici dello smantellamento di un modello di accoglienza apprezzato da tutte le persone che non hanno perso la loro umanità, che ancora credono che è possibile costruire un mondo migliore, senza muri e fili spinati, un mondo in cui la diversità – di culture, etnie, religioni – sia un valore e non un terrore.

Avvenire, 7. La Polizia è salita a bordo della Vos Hestia, impegnata nelle operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale. L'ong: «Noi estranei». E sospende le operazioni di soccorso in mare». Chissà perché e impediscono la partenza sempre e solo le navi sospettate del "reato" di soccorso i n mare w su accoglienza, Ogni barriere è buona per respingere chi chiede aiuto
La Polizia ha eseguito una serie di perquisizioni a bordo di nave Vos Hestia, l'imbarcazione di Save the Children impegnata nelle operazioni di soccorso ai migranti nel Mediterraneo centrale, che attualmente si trova nel porto di Catania. A bordo della nave, nei mesi scorsi, ha operato anche un agente sotto copertura. La perquisizione, eseguita dagli uomini del Servizio centrale operativo, è stata disposta dalla procura di Trapani che ha da tempo aperto un fascicolo sull'operato delle Ong.

La perquisizione sulla nave Vos Hestia «è relativa alla ricerca di materiali per reati che, allo stato attuale, non riguardano Save the Children», si legge in una nota dell'ong. La documentazione oggetto della ricerca «come si evince dallo stesso decreto di perquisizione» è «relativa a presunte condotte illecite commesse da terze persone».

«Non siamo indagati: fare subito chiarezza»

L'ong rende anche noto di aver sospeso le operazioni di soccorso in mare «come già pianificato data la riduzione dei flussi», e ribadisce di aver «sempre agito nel rispetto della legge durante la propria missione di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo» e
conferma «ancora una volta che l'Organizzazione non è indagata».

«Tutte le operazioni sono state condotte in strettissimo coordinamento con la guardia costiera italiana e nella massima collaborazione con le autorità. La nostra missione è sempre stata guidata unicamente dall'imperativo umanitario di salvare vite», prosegue l'ong, che conclude: «Confidiamo che la magistratura, nella quale l'Organizzazione ha piena fiducia, faccia immediata chiarezza sull'intera vicenda».

Sospese le operazioni in mare
«Oltre a ribadire la nostra totale estraneità alle indagini, Save the Children annuncia la sospensione della propria attività di ricerca e salvataggio in mare, come già pianificato, e del resto attuato anche lo scorso anno. La decisione arriva dopo aver valutato attentamente la riduzione del flusso di migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo centrale per raggiungere l'Europa e le mutate condizioni di sicurezza ed efficacia delle operazioni di ricerca e soccorso in mare nell'area», dichiara Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia. «Per troppo tempo abbiamo supplito all'inesistenza o inadeguatezza di politiche europee di ricerca e soccorso, nonché di accoglienza dei migranti, cercando di portare un contributo concreto e volto al salvataggio delle vite
di bambini e adulti», conclude Neri.

il Fatto Quotidiano,

Muhamed si è accasciato sulla terra rossa dei campi del Salento, sotto il sole micidiale di Nardò, in un giorno d’estate del 2015. Aveva 47 anni. Era arrivato dal Sudan, raccoglieva pomodori per un paio d’euro l’ora. Dodici ore al giorno. Lavorava in nero, nella rete dei caporali che portano la manodopera alle aziende agricole del sud. Soffriva di cuore – si è scoperto con l’autopsia – ma non è stato sottoposto a una visita medica prima di iniziare a lavorare. È tornato in Africa in una cassa di legno, accompagnato dalla moglie e dai due figli.

Succede, tra gli schiavi del pomodoro: ogni tanto qualcuno cade. Quella stessa estate è morta Paola Clemente, 47 anni, tarantina, trasformata suo malgrado nella prima martire del bracciantato femminile. La notizia fa il giro delle cronache locali, ogni tanto anche di quelle nazionali. Per i casi più clamorosi arriva il cordoglio delle istituzioni. Poi tutto torna esattamente come prima. Il pomodoro raccolto con il sudore e il sangue degli schiavi rimane sugli scaffali dei supermercati e finisce nelle dispense delle famiglie, in Italia e fuori. La scia criminale riguarda solo i piani bassi: la responsabilità coinvolge i caporali e gli imprenditori agricoli. Ma quel pomodoro viaggia: viene lavorato, trasformato e venduto da imprese multinazionali, finisce nella rete della grande distribuzione. I giganti sono quelli che fanno i prezzi. Si servono di un prodotto raccolto con la violenza e lo schiavismo, ma i loro nomi restano coperti. O meglio, restavano coperti fino a ieri.
L’inchiesta sulla filiera

La morte di Muhamed ha aperto una crepa. La procura di Lecce prima ha individuato i presunti responsabili: è scattata la richiesta di rinvio a giudizio per Giuseppe Mariano, proprietario dell’azienda agricola dove è caduto il bracciante, e per il caporale Sale Mohamed. Le accuse sono omicidio colposo e caporalato. Ma poi la pm Paola Guglielmi si è spinta più in là: ha ricostruito il percorso che hanno fatto i pomodori raccolti dalla vittima e dagli altri schiavi di Nardò. E ha messo nero su bianco, per la prima volta, i nomi di alcune delle grandi imprese che si sono servite della merce raccolta attraverso il caporalato. Si tratta di tre giganti dell’industria dell’oro rosso: Mutti, Conserve Italia (che produce, tra gli altri, Cirio e Valfrutta) e La Rosina. Su queste aziende – è bene specificare – non sono previste ulteriori indagini: non hanno alcuna responsabilità penale nell’inchiesta sulla morte del bracciante. Si discute, semmai, delle responsabilità etiche di chi occupa il vertice della filiera produttiva.
Il percorso dell’oro rosso

I nomi di queste imprese sono finite nell’indagine della sezione anticrimine dei Carabinieri di Lecce, quindi nelle carte della procura: “Dall’esame della documentazione attestante la filiera del pomodoro prodotto dall’azienda agricola in argomento (…) si rileva che il ‘pomodoro’ successivamente alla raccolta viene conferito alla Cooperativa agricola ‘Terre di Federico S.A.S. (…) e da qui trasportato verso le industrie deputate alla successiva lavorazione e trasformazione”. Le tre industrie – si legge – sono “Fiordiagosto Srl”, “La Rosina Srl”, “Conserve Italia Soc. Coop. Agricola”. Il documento dei Carabinieri ne ricostruisce i proprietari: “La Fiordiagosto Srl risulta di proprietà della notissima industria Mutti Spa, (…) colosso nella produzione di conservati, in particolare il pomodoro, commercializzati in tutto il mondo e facilmente reperibili sugli scaffali degli ipermercati e supermercati”, “La Rosina Srl risulta di proprietà della famiglia Russo di Angri, gruppo titolare di industrie alimentari di portata internazionale e con un suo stabilimento produttivo in provincia di Foggia, più grande in Europa, per la trasformazione del pomodoro” e infine “La Conserve Italia Soc. Coop. Agricola opera sotto la partita iva di Conserve Italia (…). Anche questa industria, come è facilmente intuibile ha rapporti commerciali e distribuisce i prodotti conservati su tutto il territorio nazionale ed all’estero”.
I giganti delle conserve

Parliamo di colossi internazionali dell’industria del pomodoro. La Mutti è forse la più importante azienda del paese (occupa oltre un quinto del mercato nazionale) ed è presente in 82 Paesi nel mondo. Si descrive così, sul suo sito: “Da oltre 100 anni, Mutti, azienda di Parma, è leader nella lavorazione del pomodoro; da quattro generazioni la famiglia Mutti si dedica esclusivamente al miglioramento del suo ‘oro rosso’ realizzando concentrato, passata e polpa di pomodoro. Prodotti che oggi sono apprezzati in tutto il mondo”. I numeri della Mutti sono in costante ascesa: nel 2015 la produzione annuale è balzata al +22% (280mila tonnellate di pomodoro), nel 2016 ha stabilito il suo record di fatturato: 270 milioni di euro. Ogni anno, dal 2000, la Mutti assegna agli agricoltori da cui si rifornisce il premio “Pomodorino d’oro”. “Un segno tangibile – secondo l’amministratore delegato Paolo Mutti – della nostra attenzione alla qualità della filiera”.
Conserve Italia è un altro gigante, una delle principali aziende nel settore delle conserve ortofrutticole in Europa. Produce, tra gli altri, i succhi di frutta Yoga e Derby e le polpe di pomodoro Cirio e Valfrutta. Il fatturato aggregato del gruppo nel 2016 ha raggiunto quota 903 milioni di euro. Il pomodoro vale quasi un quinto del giro d’affari totale: il 22,9%.
La Rosina è invece un’azienda di medie dimensioni con base in provincia di Foggia. Nel 2015 ha fatturato poco più di 13 milioni di euro. Le specialità sono datterini e pomodori pelati. Sul suo sito, vanta “un’esponenziale crescita commerciale in campo nazionale ed estero”. E aggiunge: “I Paesi verso i quali ha maggiore esportazione sono: Germania, Olanda, Belgio, Svizzera e Norvegia”. Come ha spiegato il titolare Giovanni Russo in un’intervista, la Rosina movimenta 1.500 tonnellate di pomodoro all’anno, tutte trasformate e poi vendute tramite la grande distribuzione: “Siamo presenti nelle principali insegne del territorio nazionale quali Coop Italia, Sisa, Carrefour, Sma”. Dai campi agli scaffali: la filiera inizia con il lavoro schiavistico dei braccianti e finisce con le file ordinate di barattoli e bottiglie nei supermercati.
La replica delle aziende: non ne sapevano nulla

Le imprese citate nelle carte della procura di Lecce hanno negato ogni responsabilità. Conserve Italia ha esibito il “contratto per la cessione di pomodoro da industria”, che regola i rapporti tra le organizzazioni di produttori e le industrie che trasformano i loro pomodori. Un documento a cui aveva aderito anche l’azienda agricola dove è morto Muhamed (la “De Rubertis Rita”, controllata da Giuseppe Mariano). Nel contratto con Conserve Italia, Mariano si impegnava a garantire – tra l’altro – “l’osservanza delle vigenti normative in materia di sicurezza e salute sul lavoro, dei contratti collettivi nazionali di lavoro, della normativa in materia previdenziale e assistenziale e di quella in materia di lavoro per gli immigrati”. Promesse rimasta sulla carta: Muhamed e gli altri, come detto, lavoravano in nero, per un paio d’euro l’ora, senza la minima forma di tutela e di controllo.
Maurizio Gardini, presidente di Conserve Italia, sottolinea che i rapporti con l’azienda agricola di Mariano sono cessati: “Mettiamo fuori chi non accetta di firmare i nostri protocolli di legalità, ma pure chi li firma e poi non li rispetta”. Nonostante questo impegno, i pomodori raccolti da Muhamed e dagli altri braccianti sfruttati sono finiti anche nelle loro conserve. “Non possiamo controllare tutto – replica Gardini – e non possiamo sostituirci alle autorità ispettive: questa attività spetta all’Inps e alle forze dell’ordine”.
Anche Francesco Mutti, amministratore delegato dell’azienda che porta il nome di famiglia, ha adottato argomenti simili. Quando gli viene chiesto di chiarire gli affari con chi ha sfruttato i braccianti, risponde così: “Noi non abbiamo ricevuto alcun tipo di informazione dalla procura di Lecce e comunque abbiamo interrotto qualsiasi rapporto con quell’azienda fornitrice due anni fa. Oggi solo una piccola parte dei nostri prodotti arriva dal sud e l’80 per cento della nostra raccolta ora è meccanizzata. La De Dominicis (l’azienda agricola di Mariano, ndr) ci aveva fornito un elenco dei lavoratori assunti, di più non possiamo fare”. Il Fatto Quotidiano ha provato, senza successo, a chiedere un chiarimento anche a La Rosina.
Ogni tanto un bracciante cade. I pomodori che raccoglie finiscono sulle nostre tavole. Le aziende che li mettono in commercio non ne sanno nulla.

L'Espresso,

Non ci sono più le utopie di una volta, decisamente. E quando si affacciano, magari un po' timidamente, lo fanno con i connotati cambiati.In questa nostra epoca, infatti, ad andare alla grande sono le distopie. O la Realpolitik che vola piuttosto basso, e si giustifica spesso a colpi di "Tina" ("There Is No Alternative", come soleva ripetere compiaciuta la signora Thatcher), ma che pressoché nulla ha a che spartire con il realismo alto di personaggi come Thomas Hobbes o Voltaire. E d'altronde, in effetti, ce n'è ben donde, sull'onda di una crisi finanziaria ed economica – o meglio, come palese, un autentico cambio di paradigma del capitalismo – che non molla la presa ormai da un decennio.

E il nostro immaginario, nel corso del secondo Novecento, si è così via via popolato di distopie proiettate dalla letteratura e dalla cinematografia di fantascienza, in particolare per effetto del successo della narrativa di Philip K. Dick (a cui naturalmente si rifà anche il nuovo Blade Runner 2049). E sempre fantascienza distopica è quella al centro del serial televisivo The Handmaid's Tale (Il racconto dell'ancella, ricavato dall'omonimo romanzo di Margaret Atwood del 1985), che ha furoreggiato nelle premiazioni degli ultimi Emmy Awards.

Ma se l'ansia distopica pervade l'età neoliberista – e, a volte, si ha effettivamente l'alquanto spiacevole sensazione di vivere dentro un racconto di James Ballard –, esiste anche chi si dà da fare per mettere in campo delle ricette alternative (magari discutibili, ma comunque utili per cercare di sottrarsi all'onnipresente pensiero unico).

Al proposito, c'è un piccolo Paese che mostra una spiccata vocazione a sfornare visioni utopiche. Si tratta dell'Olanda, nazione libertaria per antonomasia, patria di Erasmo da Rotterdam, di Baruch Spinoza e del comunismo consiliare di Anton Pannekoek (che fu anche il fondatore dell'Istituto di astronomia dell'Università di Amsterdam, a lui intitolato insieme a un asteroide). E, più recentemente, culla dei movimenti per il reddito universale e quello di cittadinanza. Dalle terre basse arriva l'ultima novità in materia – e chissà che non siano proprio la loro collocazione geografica e la natura orografica di piatto fazzoletto di terra, che ha quale unico orizzonte l'infinita visuale del mare e dell'oceano, ad agevolare il plusvalore del pensare oltre certe compatibilità rigide dell'esistente.

A fare dibattito oltre i confini dei Paesi Bassi (dove si è convertito in un best seller) è un libro di Rutger Bregman, classe 1988, storico ed editorialista del trendissimo giornale online nato col crowfunding De Correspondent, che ha ottenuto un paio di nomination per lo European Press Prize.

Si tratta di Utopia per realisti (Feltrinelli), dove lo studioso, dalla scrittura brillante, corre su e giù per la storia (dalla Rivoluzione francese alla robotica contemporanea, dal luddismo all'economia dello sviluppo) perorando la causa di un'utopia «da non prendere troppo sul serio», pena la caduta nel girone infernale dell'utopismo pernicioso e delittuoso di fascismo e comunismo. Dunque, per cominciare, niente fanatismo o settarismo utopistico, da cui uomini e donne di buona volontà si devono premurare di sgombrare il campo. E poi, pur avendo individuato lì l'avversario e la fonte della gran parte dei problemi e delle ingiustizie, un riconoscimento (con una punta di ammirazione) – un po' come fece Karl Marx nei confronti della borghesia e del capitalismo – alla forza trasformatrice del neoliberismo e alla sua capacità di riplasmare il Villaggio globale a propria immagine e somiglianza.

A partire dalla persuasione, espressa da Friedrich von Hayek, che «le idee e le credenze umane siano i motori principali della storia» (una visione, solo in questo, sorprendentemente similare alle convinzioni del suo antagonista per antonomasia, il grande John Maynard Keynes). Per continuare con la reinvenzione semantica e ideologica – dagli effetti devastanti – della categoria di "liberismo", la quale, nel senso comune e nell'immaginario-ideologia collettivo, ha smesso da tempo di identificare l'originaria dottrina economica per trasformarsi nella facoltà – dichiarata alla stregua di un "diritto" – di «essere solo se stessi», e di «fare quel che si desidera», come dire dalle macchine desideranti di Gilles Deleuze al "capitalismo libidinale" trionfante descritto da Bernard Stiegler.

Il punto è che indietro (dalla condizione postmoderna), in tutta evidenza, non si torna. E, quindi, bisogna immettere al suo interno un progetto – concetto caro alla modernità di derivazione illuministica – differente, e alternativo. Et voilà l'utopia per realisti, che magari rischia di provocare qualche delusione nei romantici inguaribili e negli antisistema accaniti, così come nei nostalgici della restaurazione di un (impossibile) mondo fordista. E il catalogo dell'intellettuale olandese prevede il decremento dei consumi e la riduzione dell'orario di lavoro (un cavallo di battaglia di Keynes nel suo utopistico Prospettive economiche per i nostri nipoti del 1930), una società aperta che superi i confini statali e una drastica lotta contro la povertà combattuta con un reddito universale di base. Nei cui riguardi, forzando un poco (ma senza esagerare), si può dire che Marx e Karl Polanyi erano duramente contrari, mentre Richard Nixon e Milton Friedman favorevoli (o almeno possibilisti).

Perché una destra e una sinistra classicamente intese esistono ancora, sostiene Bregman, ma faticano sempre più a dare risposte adeguate a fronteggiare i complicatissimi tempi che viviamo. E sembrano intrise di "Retrotopia", per dirla col titolo dell'ultimo testo (edito da Laterza) dello scomparso Zygmunt Bauman. E un'utopia per realisti potrebbe anche essere quella tratteggiata dallo studioso di geopolitica Parag Khanna nel suo La rinascita della città-Stato (Fazi), dove teorizza il modello degli "info-Stati", la cui governance si basa su tecnocrazia "illuminata" e Big data per dare risposte efficienti ai cittadini (e il cui simbolo è Singapore, che per qualcuno potrebbe invece identificare una distopia).

In ogni caso, qui non siamo precisamente dalle parti di Tommaso Moro, di Tommaso Campanella o di Étienne-Gabriel Morelly. Quanto, piuttosto, in presenza di utopie a congruo tasso di realismo. Visioni, per certi versi, più domestiche e praticabili, con ricadute circostanziate e determinate, e quindi contestualizzate in un quadro che si caratterizza per la resilienza e la longevità quasi inscalfibile del pensiero unico. La nozione di un'"utopia realistica" può allora suonare come un autentico paradosso. Ma, appunto, di paradossi (postmoderni) è disseminata e costellata la nostra problematica contemporaneità.

Sbilanciamoci.info

C’è qualcosa di terribile, e spaventoso, nelle circostanze che stiamo vivendo. Forse le più drammatiche da un secolo in qua. L’innegabile aria di famiglia tra fascismo e populismo non deve far dimenticare le diversità che separano l’un dall’altro. Fascismo e nazismo smantellarono il regime rappresentativo grazie alle milizie private che avevano costituito, sfruttando, con la tolleranza dello Stato, il know how violento che si era accumulato nelle trincee. A fornir loro la base decisiva di consenso fu il risentimento della classe media, frustrata dagli esiti del primo conflitto mondiale e timorosa di essere declassata dall’incedere dei partiti di massa.

Ciò malgrado, l’aria di famiglia rimane. Nella condizione attuale mancano le milizie private, ma sovrabbondano i motivi di risentimento, manipolando i quali, come dimostrano i casi recenti di Francia, Germania e Austria, i populisti stanno già trovando pacificamente quel successo elettorale che fascismo e nazismo ottennero con la violenza. Il cosiddetto populismo si sta infatti rivelando pienamente compatibile con le istituzioni rappresentative e democratiche, la cui adattabilità anche a forze politiche palesemente in contrasto con i principi cui esse s’ispirano non è mai stata considerata a sufficienza.

Quanti scrissero le costituzioni del dopoguerra si premunirono affinché l’abuso del principio di maggioranza non aprisse la strada a un nuovo regime autoritario. Non immaginavano che valori e principi fascisti potessero aggiornarsi, essere smussati e convivere con le istituzioni da essi progettate. Il Brasile ha appena dimostrato come siano possibili colpi di Stato formalmente legali. Forse è venuto il tempo di smetterla di mitizzare la democrazia: che sarà pure il peggiore dei sistemi di governo, tranne tutti gli altri, ma è davvero molto scadente.

Lungo è il catalogo degli odierni motivi di risentimento, che si sovrappongono, s’intrecciano e si stanno pure coagulando elettoralmente: grazie ai populisti, ma pure grazie ai partiti convenzionali (come i popolari austriaci), i quali da un lato nella loro azione di governo, ossequiente alle regole europee, alimentano i motivi di risentimento, dall’altro fanno concorrenza ai populisti adottandone e adattandone alcune istanze e spesso anche lo stile. Alcune vene di risentimento sono antiche: con ogni probabilità non sono le più cospicue. Sono le nostalgie fasciste che resistono in qualche angolo delle società contemporanee. C’è il risentimento antifiscale di alcuni ceti, ravvivato dalla denigrazione simbolica cui l’azione dello Stato è sottoposta dal neoliberalismo. C’è il risentimento conservatore di alcuni ambienti che hanno mal digerito i progressi sul piano dei diritti civili dell’ultimo mezzo secolo: i tentativi di rimuovere le disuguaglianze di genere e il riconoscimento dei diritti Lgtb.

Più recente, e ben più insidioso, è il risentimento fondato sulle paure di declassamento delle classi medie, che stavolta non temono più la concorrenza della classe operaia, ma vedono invece aprirsi innanzi a sé, e ai propri figli, la china dell’impoverimento e della mala occupazione. Sono risentite le classi medie più fortunate di paesi come l’Austria, l’Olanda, la Svizzera, che intendono mantenere la loro condizione di privilegio, e quelle che in paesi come l’Italia e la Francia la loro condizione di privilegio ritengono in pericolo. Enorme è il risentimento che hanno suscitato le politiche di austerità: sono risentiti in special modo i ceti popolari, da tempo non più protetti dalle politiche di welfare e di piena occupazione, nonché orfani dell’azione di rappresentanza dei partiti di massa e dei sindacati e su cui l’austerità ha scaricato gran parte dei costi della grande crisi finanziaria.

Aggiungiamo ancora il risentimento antipolitico e quello anti-migranti. I privilegi di cui il personale politico gode, le sue continue prove d’immoralità e la stigmatizzazione di quest’ultima, da parte di forze politiche che sfruttando i media ne hanno fatto il loro tema preminente, senza mai interrogarsi sulle cause, né tantomeno tentare di curarle, hanno reso questo risentimento vastissimo e anche profondamente radicato. Il risentimento più insidioso infine è quello che si appunta contro i disperati che in condizioni drammatiche attraversano il mare o si assiepano ai confini dei paesi più avanzati.

L’impatto dell’ultima ondata migratoria sulle società europee, anche le più esposte, è modesto. La condizione lavorativa, già pessima, non è peggiorata a causa degli immigrati. Le statistiche sulla criminalità non hanno subito oscillazioni apprezzabili. La pubblica assistenza non è stata più di tanto deviata verso i nuovi arrivati a scapito di altri. Né il paesaggio si è popolato di minareti. Ma la diffidenza verso l’estraneo è congenita. Soprattutto se esasperata dal terrorismo mediatico dei populisti, che, nel silenzio – è l’ipotesi più generosa – degli altri partiti, convoglia contro l’estraneo, e con proprio vantaggio, gli altri motivi di risentimento.

In Usa, in Francia e in Germania questa deriva è apparsa evidente: il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di vasti strati sociali ha favorito i successi dell’estremismo di destra. Non è in realtà da escludere che una parte del consenso che i populisti raccolgono sia da intendere più come una testimonianza di sofferenza inascoltata, che non come una prova di razzismo. Lo dimostrerebbe il fatto che allorquando un’alternativa si è profilata in Inghilterra i populisti dell’Ukip sono usciti di scena. Solo che una simile alternativa non riesce a maturare da altre parti.

Cosa possano fare i populisti al governo non è un mistero insondabile. C’è da aspettarsi che in un paese di frontiera come l’Italia mettano in atto spietate, e criminali, politiche di respingimento. Ma le ricette populiste per trattare il disagio sociale sono fatte di rigorose politiche pro-market, magari condite con una dose di sovranismo improbabile. Il presidente Macron, singolare esempio di populisme caviar, o dell’establishment, ha dato una stretta alle politiche di accoglienza, ha ridotto le tutele del mondo del lavoro e promette di ridurre l’imposizione sui ceti abbienti.

Un orientamento analogo aveva assunto la Lega nei suoi anni di governo, mettendoci di suo qualche misura di decentramento, invero assai poco funzionale. Nel caso americano, la politica di Trump si sta mostrando rischiosamente muscolare in politica estera, ma nulla sembra intenzionata a fare a beneficio dei ceti popolari che pure lo hanno votato, tranne che abbattere qualche tutela ambientale. La dice lunga sulla pretesa indigeribilità dei populisti il brillante andamento della borsa americana. L’esito di eventuali governi populisti promette pertanto di essere da un lato un clima inquietante di avvelenamento simbolico, a spese degli immigrati, dall’altro un ulteriore aggravamento delle condizioni dei ceti popolari e di quelli intermedi, che potrebbe a sua volta alimentare ulteriori rigurgiti razzisti e autoritari.

È questo il futuro che si prospetta anche per l’Italia? I giornali ventilano la possibilità di una coalizione centrista, che associ Pd e Forza Italia. I precedenti lasciano pensare piuttosto che se il centrodestra, guidato da Berlusconi, riuscisse a ottenere anche un solo voto di maggioranza in parlamento, grazie a una legge elettorale che smaccatamente lo favorisce, lascerebbe il Pd con un palmo di naso: Berlusconi non è tipo da pagare i suoi debiti se proprio non è costretto.

Al paese toccherebbe invece un disastroso ritorno alla condizione del 2011, che era segnata, oltre che dalla crisi del debito, da una profonda diffidenza internazionale verso i governanti del momento. Che l’atteggiamento dell’Unione e di molti governi nei confronti dell’Italia e dei paesi del Sud Europa sia stato vessatorio è indiscutibile. Che le misure introdotte abbiano solo tamponato la crisi, infliggendo una mazzata all’economia e alla coesione sociale, è certo: la crescita non riprende più di tanto e le disuguaglianze sono aumentate. Ciò non toglie che la diffidenza, invero tardiva, dei partners europei verso il governo di centrodestra guidato da Berlusconi fosse fondatissima.

Adesso le summenzionate misure adottate dai governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni (condite negli ultimi due casi da molte mance elettorali e infiniti favori agli imprenditori) sono paradossalmente riuscite a riabilitare Berlusconi, frettolosamente dato per spacciato, e a sovreccitare tutti quei motivi di risentimento di cui prosperano i populisti. Tutto fa pensare che il successo dei populisti in altri paesi europei, e l’involuzione verso destra dei loro governi, ricreeranno, aggravandolo, il clima di diffidenza. È allarmistico parlare di una condizione emergenziale?

Quel che colpisce è come non sia alle viste alcun credibile tentativo di contrastare tale prospettiva. Con l’arroganza che gli è consueta Renzi ha imposto una legge elettorale non solo mediocre, ma che soprattutto avvantaggerà il centrodestra. Sarebbe elementare buon senso che le disperse componenti dell’ex-centrosinistra si ritrovassero e negoziassero un onesto compromesso. Se n’è ha accorto finanche Veltroni. Ma non è aria. A parte il rifiuto di Renzi di trattare con un po’ di rispetto le forze alla sua sinistra, è forse vero che il Pd, gran parte dei suoi quadri e probabilmente pure una quota dei suoi elettori, sono ormai divenuti più omogenei, sociologicamente e culturalmente, al centrodestra per negoziare alcunché: è sorprendente quanto poca attenzione tra i simpatizzanti del Pd si dedichi alla condizione del lavoro e alla povertà in Italia. Non bastasse, gli odi personali fanno aggio sui progetti politici.

A furia di coltivare il pensiero liberal e quello Third way, invece della cultura socialdemocratica e del solidarismo cattolico, il Pd è divenuto un partito di ventura, prigioniero dei deliri di onnipotenza del suo capo e di un mito della leadership salvatrice coltivato nella pubblica opinione ormai da decenni. Ove ve ne fosse stato bisogno la propensione al servilismo ha appena trovato due conferme nel ricorso al voto di fiducia per far passare la legge elettorale alla Camera e nella mozione contro il governatore di Bankitalia, che avrà anche le sue colpe, ma che è irresponsabile processare in questo modo. Pare non conti nemmeno il fatto che, passata la sbornia delle europee, Renzi abbia inanellato una disfatta appresso all’altra. Per contro il centrodestra offre le consuete prove di pragmatismo affaristico e si ricompone.

Se però il Pd si è condannato alla sconfitta, le forze alla sua sinistra non si decidono a rompere gli indugi. Il tempo stringe e la prossima partita elettorale promette tempesta. Forse però si potrebbero ridurre i danni proponendo agli elettori una forza politica unitaria, inequivocabilmente contrapposta alle politiche pro-market, sforzandosi di radicarla nel paese. Non tutto è media, né tradizionali né social. Si può parlare ai cittadini in molti modi, perfino faccia a faccia. Che sia chiaro: se niente accadrà e a sinistra resterà un buco nero, nessuno sarà senza colpa. Gravissime sono già quelle del Pd, ma lo saranno pure quelle della sinistra che non trova la forza di mettere a tacere le proprie differenze, dopotutto secondarie alla luce delle circostanze e indecifrabili per la gran parte dei loro potenziali elettori, per decidersi a far causa comune nell’interesse di un largo segmento della società italiana.


C'è chi spera ancora che i residui, gli slogan, le strategie delle sinistre del millennio scorso servano ancora per combattere le forze dello sfruttamento globale di tutte le risorse sopravvissute: dall'aria alle persone, dalla terra all'acqua, dalle memoria all'etica. Noi abbiamo compreso che la parola Sinistra è obsoleta, e che il nuovo sfruttamento può essere battuto da nuove parole, nuove consapevolezze, nuove forme organizzative. Lo abbiamo scritto qui;
"La parola Sinistra". (e.s.)

il manifesto

C’è il ragazzo che indossa una maschera con la faccia del ministro degli Interni Marco Minniti versione vampiro, con i canini ben appuntiti che spuntano dalla bocca. E poi, poco più avanti, ci sono decine di ragazzi e ragazze che portano stretto alla vita o sulle spalle il telo termico color oro con cui i soccorritori coprono i migranti salvati dal mare. «Questo telo è un segno di solidarietà nei confronti di tutti gli uomini e le donne che rischiano la morte per fuggire», spiega una ragazza.

Non sono i quasi centomila che solo cinque mesi fa, a maggio, hanno riempito le strade di Milano in una grande manifestazione per l’accoglienza dei migranti, ma di questi tempi i circa ventimila (secondo gli organizzatori) che ieri hanno attraversato Roma per manifestare contro il razzismo rappresentano pur sempre un risultato di tutto rispetto. Come sa bene Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale dell’Arci, che infatti non nasconde la sua soddisfazione. «Considerato il momento che stiamo attraversando il risultato è molto buono», dice quando il corteo è già arrivato a piazza Vittorio, tappa finale della giornata. «L’iniziativa di oggi fa ben sperare per l’avvio di una stagione di mobilitazioni di cui abbiamo bisogno per dare maggiore spazio a chi non ha voce perché considerato ininfluente dal punto di vista elettorale», commenta Miraglia.

Contro il razzismo, per la giustizia e l’uguaglianza», c’è scritto sullo striscione che dà il via al corteo. Alla manifestazione indetta dall’Arci hanno aderito un centinaio di associazioni e organizzazioni, insieme al vescovo emerito di Caserta, monsignor Raffaele Nogaro, ad Andrea Camilleri, Moni Ovadia e don Luigi Ciotti: «L’immigrazione non è un reato perché non è reato la speranza», ha spiegato ancora ieri il fondatore di Libera e del Gruppo Abele. «Oggi ci troviamo invece a fare i conti con un sistema che garantisce il privilegio di pochi e toglie la speranza a tutti gli altri».

Il razzismo non è l’unico tema del corteo. Negli slogan, sugli striscioni e dagli altoparlanti montati sui camion si lanciano parole d’ordine anche sul diritto alla casa e a favore dello ius soli, la legge che permetterebbe a oltre ottocento mila ragazzi, figli di immigrati, di diventare cittadini italiani. Ma soprattutto contro gli accordi stretti dall’Italia con la Libia e che se finora hanno ridotto drasticamente gli arrivi lungo le coste del paese – come vantava ancora ieri il ministro Minniti – non sono certo serviti a rendere più umane le condizioni di vita dei migranti che si trovano ancora nel paese nordafricano, prigionieri delle milizie e rinchiusi in centri dove subiscono violenze di ogni genere. «Si parla sempre di immigrati, ma mai delle cause che la genera, che sono le politiche dell’occidente che hanno prodotto fame», dice Essane Niagne, nata in Italia ma originaria della Costa d’Avorio.

Dalla Campania sono arrivati sette pullman. Su uno di questi hanno viaggiato i giocatori della Rlc Lions Ska di Caserta, squadra che gioca in terza divisione «Rfc» sta per «Ritieniti fortemente coinvolto», e il messaggio è chiaro. Il 70% dei giocatori è composto da ragazzi immigrati, il 60% dei quali sono richiedenti asilo. Il calcio per loro è un ottimo modo per integrarsi, ma spesso può significare anche sbattere la faccia contro l’ignoranza della gente. «A una partita ci hanno gridato negri di merda», ricorda Makan, che viene dal Mali e nonostante tutto riesce ancora a sorridere. «Purtroppo sono episodi che capitano sempre più spesso. Quest’anno non c’è stata una partita senza insulti», conferma Marco Prato, cofondatore, nel 2011, della squadra.

Un razzismo che non appartiene solo alle curve degli stadi. A piazza Vittorio, da sopra il cassone di un camion trasformato in palco per l’occasione, una ragazza spiega cosa significa sentirsi italiani senza esserlo per colpa dell’ostruzionismo che blocca la riforma della cittadinanza. «Non siamo immigrati eppure non siamo nemmeno cittadini italiani. Vogliamo solo essere riconosciuti per la nostra identità».

il manifesto

Oggi a Roma si svolgerà la manifestazione nazionale contro il razzismo promossa da Arci, A buon diritto, Medu, Amnesty, Acli. All’appello «Migrare non è reato», sottoscritto da decine di associazioni, laiche e cattoliche, personalità della cultura, tra i primi firmatari, insieme al vescovo emerito di Caserta Raffaele Nogaro, lo scrittore Andrea Camilleri, c’è anche don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera.

Don Luigi, nell’appello che ha firmato per la manifestazione di oggi, si rifiuta la differenza tra migranti economici e rifugiati. Eppure proprio questa distinzione è oggi alla base delle politiche europee sull’immigrazione.

Don Luigi Ciotti
Don Luigi Ciotti

«È una distinzione pretestuosa, infondata. È noto lo stretto rapporto fra le guerre e gli interessi economici. Tante guerre sono state dichiarate per il possesso del petrolio, sempre più se ne dichiareranno – se non cambiano le cose – per quello dell’acqua o di altri beni necessari alla vita. Per non parlare di come i conflitti hanno fatto da volano per la produzione e il commercio delle armi.

«Ma oggi c’è un fatto nuovo. Questo sistema economico è diventato esso stesso uno strumento di guerra contro il più incolpevole e indifeso dei popoli: i poveri. È tempo di riconoscere l’intrinseca violenza di un sistema che produce enormi distanze sociali, dividendo il mondo tra pochi ricchi sempre più ricchi e tanti poveri sempre più poveri. A quanto sembra, però, uno dei pochi che ha il coraggio di denunciarlo con forza è papa Francesco, che non ha esitato a definire «di rapina» questa economia, e «ingiusto alla radice» il sistema che la include. Sono parole su cui i potenti del mondo dovrebbero riflettere, alla luce delle quali la distinzione fra rifugiati e migranti economici appare per quello che è: un esercizio retorico e ipocrita».

Cosa pensa degli accordi siglati dall’Italia con la Libia per fermare i migranti?
«Che ricalcano la logica di quelli siglati dall’Unione Europea con la Turchia per fermare l’immigrazione dei profughi siriani. Anche in questo caso un misto di cinismo e di ipocrisia, perché è noto a tutti che in quei Paesi il rispetto dei diritti umani non esiste, e che la repressione e la violenza sono strumenti usuali per reprimere ogni voce di dissenso e di libertà. Questi accordi sono allora una vergogna politica e una macchia d’infamia per l’Europa, la cui civiltà è prosperata anche grazie alla tutela delle minoranze e al rapporto con le altre culture».

In estate abbiamo assistito a una campagna di criminalizzazione verso chi si adopera a favore dei migranti. Penso a quanto accaduto con le Ong impegnate nelle operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo, ma non solo. L’intolleranza non colpisce più solo che è «diverso», ma anche chi lo aiuta. Perché secondo lei?

«Duole dirlo: per un basso calcolo politico. Si mira a guadagnare consenso dipingendo l’immigrato come un usurpatore e un invasore, e dunque criminalizzando chi si impegna per accoglierlo, dargli lavoro e dignità e, prima ancora, impedire che muoia in mano a scafisti e bande criminali. Questo non esclude di stilare protocolli per meglio coordinare le operazioni di soccorso, ma nel rispetto dei rispettivi ruoli e senza dimenticare che la stragrande maggioranza delle Ong che operano in mare o nei contesti urbani, merita riconoscenza, anche perché colma i vuoti della politica, che sull’immigrazione ha spesso voltato la testa o agito a seconda di come tirava il vento. Non si può spiegare altrimenti perché l’operazione Mare Nostrum, varata dopo i 366 morti di Lampedusa dell’ottobre 2013, dimostratasi efficace sia in termini di vite salvate che di migliore gestione del fenomeno, sia stata accantonata. I dati dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati parlano di 15mila morti in mare nell’ultimo decennio: un olocausto. È questo a dover scuotere le coscienze, non l’impegno delle Ong».

A proposito di Ong. Recenti prese di posizione dei vescovi italiani farebbero pensare a un cambiamento della posizione della Chiesa verso il fenomeno migranti. È davvero così?

«Sul tema ci possono essere diverse sfumature, ma resta inderogabile, per una Chiesa fedele al Vangelo, il principio dell’accoglienza e della cura delle persone, a partire da quelle fragili, escluse, perseguitate. E poi a garantire sulla posizione della Chiesa è la voce di papa Francesco, che nella Evangelii Gaudium ha scritto parole che non lasciano spazio a equivoci: «I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti».

Cosa direbbe a una persona per convincerla a manifestare?

«Che i migranti sono per tre ragioni la nostra speranza. La prima umana: la loro presenza è un invito a uscire da noi stessi, dai nostri egoismi e dalle nostre paure. La seconda culturale: la cultura vive finché non si chiude in se stessa, nei suoi pregiudizi e nei suoi idoli. La terza economica: la logica del mercato ci ha messo in ginocchio, solo quella del bene comune ci permetterà di rialzarci. La speranza oggi ha il volto degli esclusi. Sono loro i messaggeri di un mondo di pace, dignità e benessere.

vocidall'estero, di Stephen Metcalf dal The Guardian il neoliberalismo. (c.m.c.)

«Sul The Guardian, un approfondimento che risale alle origini del neoliberalismo per rintracciarne le caratteristiche peculiari e sottolineare l’ambizione di trasformare completamente la visione del mondo contenuta in quella “Grande Idea” di Von Hayek, che alla fine è riuscita a permeare completamente la società di oggi. Il neoliberalismo è divenuto l’idea dominante della nostra era, che venera la logica del mercato, deprivandoci delle capacità e dei valori che ci rendono più propriamente umani.

La scorsa estate, ricercatori del Fondo Monetario Internazionale hanno messo fine a una lunga e aspra disputa sul “neoliberalismo”: hanno ammesso che esiste. Tre importanti economisti dell’FMI, un’organizzazione non certo nota per la sua imprudenza, hanno pubblicato un documento che si interroga sui benefici del neoliberalismo. Così facendo, hanno contribuito a ribaltare l’idea che la parola non sia altro che un artificio politico, o un termine senza alcun reale potere analitico. Il paper ha chiaramente individuato un’ “agenda neoliberalista” che ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali e richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Gli autori hanno dimostrato con dati statistici la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 e la loro correlazione con la crescita anemica, i cicli di espansione e frenata e le disuguaglianze.

Neoliberalismo è un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica. All’indomani della crisi finanziaria del 2008, è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle, non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato. Per i Democratici negli Stati Uniti e i Laburisti nel Regno Unito, questa cessione è stata descritta come un grottesco tradimento dei loro principi. Bill Clinton e Tony Blair, è stato detto, hanno abbandonato gli impegni tradizionali della sinistra, in particolare nei confronti dei lavoratori, a favore di un’élite finanziaria globale e di politiche autoritarie che li hanno arricchiti; e, nel fare questo, hanno permesso un terribile aumento delle disuguaglianze.

Negli ultimi anni il dibattito si è inasprito e il termine è diventato un’arma retorica, un modo per la gente di sinistra di gettare le colpe su quelli che stanno anche un centimetro alla loro destra. (Non c’è da stupirsi che i centristi dicano che è un insulto insensato: sono quelli nei cui confronti l’insulto è veramente più sensato). Ma il “neoliberalismo” è qualcosa di più che una battuta legittima e gratificante. Rappresenta anche, a suo modo, un paio di lenti attraverso le quali guardare il mondo.

Osserva la realtà attraverso le lenti del neoliberalismo e vedrai più chiaramente come i pensatori politici più ammirati da Thatcher e da Reagan hanno contribuito a modellare l’ideale della società come una sorta di mercato universale (e non, ad esempio, una polis, una sfera civile o una sorta di famiglia) e gli esseri umani come dei calcolatori di profitti e perdite (e non come beneficiari di previdenze o titolari di diritti e doveri inalienabili). Naturalmente l’obiettivo era quello di indebolire lo stato sociale e l’obiettivo della piena occupazione e, sempre, di ridurre le tasse e deregolamentare. Ma “neoliberalismo” indica qualcosa di più di una lista standard di obiettivi di destra. Era un modo per riordinare la realtà sociale, e ripensare il nostro status come individui isolati.

Ancora sbirciando attraverso l’obiettivo si vede come, non meno dello stato sociale, il libero mercato è un’invenzione umana. Si vede in quale maniera pervasiva siamo invitati a pensare a noi stessi come proprietari dei nostri talenti e iniziative, con quanta disinvoltura ci viene detto di competere e adattarci. Si vede in quale misura un linguaggio che precedentemente era limitato alle semplificazioni didattiche che descrivono i mercati delle materie prime (concorrenza, trasparenza, comportamenti razionali) è stato applicato a tutta la società, fino a invadere la realtà della nostra vita personale, e come l’atteggiamento del venditore si è infiltrato inestricabilmente in tutte le forme dell’espressione di sé.

In breve, il “neoliberalismo” non è semplicemente un nome che sta a indicare le politiche a favore del mercato, o i compromessi con il capitalismo finanziario fatti dai partiti socialdemocratici falliti. È la denominazione di una premessa che, silenziosamente, è arrivata a regolare tutta la nostra pratica e le nostre credenze: che la concorrenza è l’unico legittimo principio di organizzazione dell’attività umana.

Non appena il neoliberalismo è stato certificato come reale, e non appena ha reso evidente l’ipocrisia universale del mercato, allora i populisti e i fautori dell’autoritarismo sono arrivati al potere. Negli Stati Uniti, Hillary Clinton, il super-cattivo dei neoliberal, ha perso – e nei confronti di un uomo che sapeva solo quanto basta per fingere di odiare il libero scambio. Quindi quegli occhiali sono ormai inutili? Possono fare qualcosa per aiutarci a capire cosa si è rotto nella politica britannica e americana? Contro le forze dell’integrazione globale, si è riaffermata l’identità nazionale e nel modo più duro possibile. Cosa potrebbero avere a che fare il militante della parrocchia della Brexit e l’America Trumpista con la logica neoliberale? Qual è la possibile connessione tra il presidente – un folle a ruota libera – e il paradigma esangue dell’efficienza conosciuto come libero mercato?

Non è solo che il libero mercato produce una piccola squadra di vincitori e un enorme esercito di perdenti – e i perdenti, in cerca di vendetta, si sono rivolti alla Brexit e a Trump. C’era, sin dall’inizio, una relazione inevitabile tra l’ideale utopistico del libero mercato e il presente distopico in cui ci troviamo; tra il mercato come dispensatore unico di valore e tutore della libertà, e la nostra attuale caduta nella post-verità e nell’illiberalismo.

Io credo che occorra spostare il dibattito sterile sul neoliberalismo ritornando al principio, e prendendo sul serio la misura del suo effetto cumulativo su tutti noi, indipendentemente dall’appartenenza. E questo richiede il ritorno alle sue origini, che non hanno nulla a che fare con Bill o Hillary Clinton. C’era una volta un gruppo di persone che si definivano neoliberali, e lo facevano con molto orgoglio, e ambivano a una rivoluzione totale nel pensiero. Il più importante fra di loro, Friedrich Hayek, non pensava di conquistare una posizione nello spettro politico, o di giustificare i ricchi, o aggrapparsi ai margini della microeconomia.

Pensava di risolvere il problema della modernità: il problema della conoscenza oggettiva. Per Hayek, il mercato non agevolava semplicemente il commercio di beni e servizi; rivelava la verità. Com’è che la sua ambizione si è rovesciata nel suo opposto – la sconvolgente possibilità che, grazie alla nostra venerazione sconsiderata del libero mercato, la verità potrebbe essere scacciata del tutto dalla vita pubblica?

Quando nel 1936 Friedrich Hayek ebbe l’idea, egli si rese conto, con la convinzione di un'”illuminazione improvvisa”, che si era imbattuto in qualcosa di nuovo. «Come può la combinazione di frammenti di conoscenze esistenti in menti diverse», ha scritto, «portare a risultati che, se dovessero essere perseguiti deliberatamente, richiederebbero una conoscenza da parte del regista che nessuno può possedere?»

Non si trattava di un punto tecnico sui tassi di interesse o sui crolli deflazionari. Non era una polemica reazionaria contro il collettivismo o lo stato sociale. Era un modo di far nascere un mondo nuovo. Con crescente eccitazione, Hayek capì che il mercato potrebbe essere considerato come una sorta di mente.

La “mano invisibile” di Adam Smith ci aveva già consegnato la concezione moderna del mercato: una sfera autonoma dell’attività umana e quindi, potenzialmente, un oggetto valido di conoscenza scientifica. Ma Smith era, e lo è stato fino alla fine della sua vita, un moralista del XVIII secolo. Pensava che il mercato fosse giustificato solo alla luce della virtù individuale, e temeva che una società governata da nient’altro che dall’interesse personale allo scambio non fosse affatto una società. Il neoliberalismo è Adam Smith senza il suo timore.

Che Hayek sia considerato il padre del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all’economia – è un po’ assurdo dato che egli era un economista mediocre. Era solo un giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla London School of Economics per competere con la stella nascente di John Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla.

Il piano fallì, e l’Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes, pubblicata nel 1936, fu accolta come un capolavoro. Dominava la discussione pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione, per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente, rappresentava un modello ideale. Alla fine della seconda guerra mondiale, molti eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da svolgere nella gestione di un’economia moderna. L’eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Successivamente ammise di aver sperato che il suo lavoro di critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato.

Hayek fece una figura stupida: un professore alto, eretto e dall’accento pronunciato, in abito di tweed ben tagliato, che insisteva su un formale “Von Hayek”, ma crudelmente soprannominato dietro le spalle “Mr. Fluctooations”. Nel 1936 era un accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. Adesso viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di Keynes. Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore dell’Università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del sistema dei prezzi è «un’impresa penetrante e originale alla pari della microeconomia del XX secolo e la cosa più importante da imparare oggi in un corso di economia». E comunque lo sottovaluta. Keynes non ha vissuto o previsto la guerra fredda, ma il suo pensiero è riuscito a penetrare in tutti gli aspetti del mondo della guerra fredda; così anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di Hayek.

Hayek aveva una visione globale: un modo di strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia assumendo che quasi tutte le attività umane (se non tutte) sono una forma di calcolo economico e possono così essere assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio, costo – e soprattutto prezzo. I prezzi sono un mezzo per allocare le risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base alla domanda e all’offerta. Perché il sistema dei prezzi funzioni in modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. Da quando Smith aveva immaginato l’economia come una sfera autonoma, esisteva la possibilità che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel suo complesso. All’interno di tale società, gli uomini e le donne hanno bisogno solo di seguire il proprio interesse personale e competere per le risorse scarse. Attraverso la concorrenza “diventa possibile“, come ha scritto il sociologo Will Davies, “discernere chi e che cosa ha valore“.

Tutto ciò che una persona che conosce la storia vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento – una classe media prospera e una sfera civile; istituzioni libere; suffragio universale; libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e stampa; il riconoscimento di fondo che l’individuo è portatore di dignità – non ha alcun posto nel pensiero di Hayek. Hayek ha incorporato nel neoliberalismo l’ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione necessaria contro l’unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato.

Quest’ultimo è ciò che rende il neoliberalismo “neo”. È una modifica fondamentale della credenza precedente in un mercato libero e uno stato minimo, noto come “liberalismo classico”. Nel liberalismo classico, i commercianti semplicemente chiedevano allo Stato di “lasciarli soli” – di “lasciarli fare”. Il neoliberalismo riconosce che lo stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato. Le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente, e lo stato deve essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo.

Questo non è tutto: ogni aspetto della politica democratica, dalle scelte degli elettori alle decisioni dei politici, deve essere sottoposto ad un’analisi puramente economica. Il legislatore è obbligato a lasciare abbastanza le cose come stanno per non distorcere le azioni naturali del mercato e così, idealmente, lo Stato fornisce un quadro giuridico fisso, neutrale e universale in cui le forze di mercato operano spontaneamente. La direzione consapevole del governo non è mai preferibile ai “meccanismi automatici di aggiustamento“, cioè il sistema dei prezzi, che non è solo efficiente, ma massimizza la libertà, o l’opportunità per gli uomini e le donne di fare scelte libere sulla propria vita.

Mentre Keynes volava tra Londra e Washington, creando l’ordine del dopoguerra, Hayek se ne stava imbronciato a Cambridge. Era stato mandato lì durante le evacuazioni di guerra; e si lamentava di essere circondato da “stranieri” e “orientali di tutti i tipi” e “europei di praticamente tutte le nazionalità, ma solo pochissimi dotati di una reale intelligenza“.

Bloccato in Inghilterra, senza alcuna influenza o credibilità, Hayek aveva solo la sua idea a consolarlo; un’idea così grande che un giorno avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Keynes e a qualsiasi altro intellettuale. Lasciato libero di funzionare, il sistema dei prezzi funziona come una sorta di mente. E non come una mente qualsiasi, ma una mente onnisciente: il mercato calcola ciò che gli individui non possono afferrare. Rivolgendosi a lui come a un compagno d’armi intellettuale, il giornalista americano Walter Lippmann scrisse a Hayek dicendo: «Nessuna mente umana ha mai colto l’intero schema di una società … Nella migliore delle ipotesi, una mente può cogliere la propria versione dello schema, qualcosa di molto più limitato, che sta alla realtà come una sagoma sta a un uomo reale».

È una affermazione epistemologica forte – che il mercato è un sistema per conoscere le cose che supera radicalmente la capacità di ogni mente individuale. Un tale mercato non è tanto una convenzione umana, da manipolare come qualsiasi altra cosa, quanto una forza da studiare e da placare. L’economia cessa di essere una tecnica – come credeva Keynes – per raggiungere fini sociali desiderabili, come la crescita o la stabilità del valore della moneta. L’unico fine sociale è il mantenimento del mercato stesso. Nella sua onniscienza, il mercato costituisce l’unica forma legittima di conoscenza, davanti alla quale tutti gli altri modi di riflessione sono parziali, in entrambi i sensi della parola: comprendono solo un frammento di un intero e rispondono a un interesse particolare. A livello individuale, i nostri valori sono solo personali, o semplici opinioni; a livello collettivo, il mercato li converte in prezzi, o fatti oggettivi.

Dopo essersene venuto via dalla LSE, Hayek non ebbe mai un incarico permanente che non fosse pagato da grandi sponsor aziendali. Anche i suoi colleghi conservatori dell’Università di Chicago – l’epicentro globale del dissenso libertario negli anni ’50 – consideravano Hayek come un portavoce reazionario, un “uomo di squadra della destra” con uno “sponsor di squadra della destra“, come si suol dire. Nel 1972, un amico andò a trovare Hayek, ora a Salisburgo, e trovò un uomo anziano prostrato nell’autocommiserazione, convinto che il lavoro della sua vita era stato inutile. Nessuno si interessava a quello che aveva scritto!

C’era, però, qualche segno di speranza: Hayek era il filosofo politico preferito di Barry Goldwater e a quanto si dice anche di Ronald Reagan. Poi c’era Margaret Thatcher. Thatcher esaltava Hayek di fronte a tutti, e prometteva di mettere insieme la sua filosofia del libero mercato con una ripresa dei valori vittoriani: famiglia, comunità, lavoro duro.

Hayek si incontrò privatamente con Thatcher nel 1975, proprio nel momento in cui lei, appena nominata leader dell’opposizione nel Regno Unito, si stava preparando a mettere in pratica la sua Grande Idea per consegnarla alla storia. Si consultarono in privato per 30 minuti a Londra, a Lord North Street presso l’Istituto per gli Affari Economici. Dopo l’incontro, lo staff della Thatcher gli chiese ansiosamente cosa stava pensando. Cosa poteva dire? Per la prima volta in 40 anni, il potere restituiva a Friedrich von Hayek la tanto preziosa immagine che egli aveva di se stesso, l’immagine di un uomo che poteva sconfiggere Keynes e ricostruire il mondo.

Rispose: “Lei è veramente bella”.

La Grande Idea di Hayek non è granché come idea, fino a che non la ingigantisci. Processi organici, spontanei ed eleganti che, come un milione di dita sul tavolo di una seduta spiritica, si coordinano per creare risultati che altrimenti sarebbero accidentali. Applicata ad un mercato reale – il mercato della pancetta di maiale o i futures del granturco – questa rappresentazione dei fatti è poco più che un’ovvietà. Può essere ampliata per descrivere come i vari mercati, delle materie prime e del lavoro e anche lo stesso mercato della moneta, compongano quella parte della società conosciuta come “l’economia“. Questo è meno banale, ma ancora irrilevante; un Keynesiano accetta tranquillamente questa rappresentazione. Ma cosa succede se le facciamo fare un passo avanti? Cosa succede se concepiamo tutta la società come una sorta di mercato?

Più l’idea di Hayek si espande, più diventa reazionaria, più si nasconde dietro la sua pretesa di neutralità scientifica – e più permette alla scienza economica di collegarsi alla tendenza intellettuale più importante dell’occidente sin dal 17° secolo. L’ascesa della scienza moderna ha generato un problema: se il mondo universalmente obbedisce alle leggi naturali, cosa significa essere esseri umani? L’essere umano è semplicemente un oggetto nel mondo, come qualsiasi altra cosa? Sembra che non sia possibile integrare l’esperienza soggettiva e interiore dell’uomo nella natura, nel modo in cui la scienza la concepisce, come un qualcosa di oggettivo, soggetto a regole che scopriamo tramite l’osservazione.

Tutta la cultura politica del dopoguerra gioca a favore di John Maynard Keynes e di un forte ruolo dello Stato nella gestione dell’economia. Ma tutta la cultura accademica postbellica si trova a favore della Grande Idea di Hayek. Prima della guerra, anche l’economista più conservatore pensava al mercato come lo strumento per un obiettivo limitato, l’efficiente allocazione delle risorse scarse. Fin dai tempi di Adam Smith a metà del 1700, e fino ai membri fondatori della scuola di Chicago negli anni del dopoguerra, vi era la credenza comune che gli obiettivi finali della società e della vita, si trovavano nella sfera non-economica.

Secondo questo punto di vista, le questioni di valore sono risolte politicamente e democraticamente, non economicamente – attraverso la riflessione morale e la deliberazione pubblica. La espressione classica moderna di questa convinzione si trova in un saggio del 1922 intitolato Etica e Interpretazione Economica di Frank Knight, che giunse a Chicago due decenni prima di Hayek. «La critica economica razionale dei valori dà risultati ripugnanti per il buon senso», scrisse Knight. «L’uomo economico è egoista e spietato, degno di condanna morale».

Gli economisti avevano dibattutto aspramente per 200 anni sulla questione di come considerare i valori sui quali si organizza una società mercantile, al di là di un semplice calcolo e interesse personale. Knight, insieme ai suoi colleghi Henry Simon e Jacob Viner, si trovava davanti a Franklin D Roosevelt e agli interventi sul mercato del New Deal, e fondarono l’Università di Chicago facendone quel tempio intellettualmente rigoroso dell’economia del libero mercato che rimane ancora oggi. Tuttavia, Simons, Viner e Knight iniziarono tutti la loro carriera prima che l’inarrivabile prestigio dei fisici atomici riuscisse a far fluire enormi somme di denaro nel sistema universitario e lanciasse la moda postbellica per la scienza “dura“. Non adoravano le equazioni o i modelli, e si preoccupavano di questioni non scientifiche. Più esplicitamente, si preoccupavano di questioni di valore, dove il valore era assolutamente distinto dal prezzo.

Non è solo che Simons, Viner e Knight fossero meno dogmatici di Hayek, o più disposti a perdonare lo stato per la tassazione e la spesa pubblica. Non è che Hayek fosse loro intellettualmente superiore. Semplicemente, riconoscevano come principio fondamentale che la società non era la stessa cosa del mercato, e che il prezzo non era la stessa cosa del valore. Questo ha fatto sì che venissero completamente dimenticati dalla storia.

È stato Hayek che ci ha mostrato come arrivare dalla condizione senza speranza della relatività umana alla maestosa oggettività della scienza. La Grande Idea di Hayek funge da anello mancante tra la nostra natura umana soggettiva e la natura stessa. Così facendo, pone qualsiasi valore che non possa essere espresso come un prezzo – il verdetto del mercato – su un piano incerto, come nient’altro che un’opinione, una preferenza, folklore o superstizione.

Ma più di chiunque altro, anche più di Hayek stesso, è stato il grande economista del dopoguerra di Chicago, Milton Friedman, che ha contribuito a convertire i governi e i politici al potere alla Grande Idea di Hayek. Ma prima ha dovuto rompere con i due secoli precedenti e dichiarare che l’economia è “in linea di principio indipendente da qualsiasi posizione etica particolare o da giudizi normativi” e che è «una scienza oggettiva, nello stesso senso di qualsiasi scienza fisica». I valori del vecchio ordine mentale normativo erano viziati, erano «differenze su cui gli uomini alla fine possono solo combattere». Detto con altre parole, da una parte c’è il mercato, e dall’altra il relativismo.

I mercati possono essere facsimili umani di sistemi naturali, e come l’universo stesso, possono essere senza autori e senza valore. Ma l’applicazione della Grande Idea di Hayek ad ogni aspetto della nostra vita nega ciò che di noi è più caratteristico. Nel senso che assegna ciò che è più umano degli esseri umani – la nostra mente e la nostra volontà – agli algoritmi e ai mercati, lasciandoci meccanici, come zombi, rappresentazioni rattrappite di modelli economici. Espandere l’idea di Hayek sino a promuovere radicalmente il sistema dei prezzi a una sorta di onniscienza sociale significa ridimensionare radicalmente l’importanza della nostra capacità individuale di ragionare – la nostra capacità di trovare le giustificazioni delle nostre azioni e credenze e valutarle.

Di conseguenza, la sfera pubblica – lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri – cessa di essere lo spazio della deliberazione, e diventa un mercato di click, like e retweet. Internet è la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo; uno spazio pseudo pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”. Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati. Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, “ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale.

A parte l’utilità straordinaria della tecnologia digitale, una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori.

«Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute», ha scritto una volta il filosofo ed economista Albert O Hirschman. «Un gusto che si può contestare, con se stessi o con gli altri, cessa ipso facto di essere un gusto – diventa un valore».

Hirschman ha formulato una distinzione tra quella parte di sé che è un consumatore e quella parte di sé che produce ragionamenti. Il mercato riflette ciò che Hirschman ha definito le preferenze, che sono “rivelate dagli agenti quando acquistano beni e servizi”. Ma, come afferma, gli uomini e le donne hanno anche la capacità di rivedere i loro “desideri, volontà e preferenze”, per chiedersi se veramente vogliono questi desideri e preferiscono queste preferenze “. Modelliamo noi stessi e le nostre identità sulla base di questa capacità di riflessione. L’uso del potere di riflessione del singolo individuo è la ragione; l’uso collettivo di questi poteri di riflessione è la ragione pubblica; l’uso della ragione pubblica per approvare le leggi e la linea politica è la democrazia. Quando forniamo ragioni per le nostre azioni e credenze, ci realizziamo: individualmente e collettivamente, decidiamo chi e che cosa siamo.

Secondo la logica della Grande Idea di Hayek, queste espressioni della soggettività umana senza la ratifica del mercato sono senza significato – come ha detto Friedman, non sono altro che relativismo, ogni cosa risultando buona come qualsiasi altra. Quando l’unica verità oggettiva è determinata dal mercato, tutti gli altri valori hanno lo status di mere opinioni; tutto il resto è aria fritta relativistica. Ma il “relativismo” di Friedman è una accusa che può essere rivolta a qualsiasi pretesa basata sulla ragione umana. È un insulto assurdo, visto che tutte le attività umane sono “relative” a differenza delle scienze. Sono relative alla condizione (privata) di avere una mente e alla necessità (pubblica) di ragionare e comprendere, anche quando non possiamo aspettarci delle prove scientifiche. Quando i nostri dibattiti non sono più risolti con deliberazioni basate su ragionamenti, allora l’esito sarà determinato dai capricci del potere.

È qui che il trionfo del neoliberismo si traduce nell’incubo politico che viviamo oggi. Per citare una vecchia battuta, “avevi solo una cosa da fare!”. Il grande progetto di Hayek, come originariamente concepito negli anni ’30 e ’40, era stato espressamente progettato per impedire di ricadere nel caos politico e ne fascismo. Ma la Grande Idea ha sempre coinciso con questo abominio stesso che voleva impedire che accadesse. Era, fin dall’inizio, intrisa della cosa stessa da cui sosteneva di proteggere. La società riconcepita come un gigante mercato porta ad una vita pubblica ridotta ad uno scontro tra mere opinioni; finché il pubblico frustrato non si rivolge, infine, ad un uomo forte come ultima risorsa per risolvere i suoi problemi, altrimenti ingestibili.

Nel 1989, un giornalista americano bussò alla porta di Hayek 90enne. Viveva a Freiburg, nella Germania Ovest, in un appartamento al terzo piano ad Urachstrasse. I due uomini si sedettero in una stanza con le finestre che guardavano sulle montagne e Hayek, che si stava riprendendo dalla polmonite, mentre parlavano si mise una coperta sulle gambe.

Non era più l’uomo di una volta, sprofondato nella sconfitta per mano di Keynes. Thatcher aveva appena scritto a Hayek con un tono di trionfo epocale. Niente di ciò che lei e Reagan avevano compiuto «sarebbe stato possibile senza i valori e le idee che ci hanno portato sulla strada giusta e fornito la giusta direzione». Hayek ora era soddisfatto di se stesso e ottimista sul futuro del capitalismo. Come ha scritto il giornalista, «In particolare, Hayek vede un maggiore apprezzamento per il mercato tra le giovani generazioni. Oggi i giovani disoccupati di Algeri e Rangoon non protestano per uno stato sociale pianificato a livello centrale, ma per le opportunità: la libertà di acquistare e vendere – jeans, automobili, qualunque cosa – a qualsiasi prezzo che il mercato possa sostenere ».

Sono passati trent’anni, e si può giustamente dire che la vittoria di Hayek non ha rivali. Viviamo in un paradiso costruito dalla sua Grande Idea. Più il mondo può essere fatto assomigliare ad un mercato ideale governato solo dalla libera concorrenza, più il comportamento umano diviene complessivamente “ordinato” e “scientifico”. Ogni giorno noi stessi – nessuno deve più dircelo! – ci sforziamo di diventare più perfetti come acquirenti e venditori, isolati, discreti, anonimi; e ogni giorno consideriamo il desiderio residuo di essere qualcosa di più di un consumatore come un’espressione di nostalgia, o di elitismo.

Ciò che è iniziato come una nuova forma di autorità intellettuale, radicata in una visione del mondo onestamente apolitica, si è facilmente trasformata in una politica ultra-reazionaria. Quello che non può essere quantificato non deve essere reale, dice l’economista, e come misurare i principali benefici dell’illuminazione – vale a dire, il ragionamento critico, l’autonomia personale e l’autogoverno democratico? Quando abbiamo abbandonato, per il suo imbarazzante residuo di soggettività, la ragione come una forma di verità e abbiamo reso la scienza l’unico arbitro del reale e del vero, abbiamo creato un vuoto che la pseudo-scienza è stata ben felice di riempire.

L’autorità del professore, del riformatore, del legislatore o del giurista non deriva dal mercato, ma da valori umanistici come la passione civile, la coscienza o il desiderio di giustizia. Molto tempo prima che l’amministrazione di Trump cominciasse a squalificarle, queste figure erano state private di rilevanza da uno schema esplicativo che non può spiegarle. Certamente c’è una connessione tra la loro crescente irrilevanza e l’elezione di Trump, una creatura di puro capriccio, un uomo senza principi o convinzioni che lo possano rendere una persona coerente. Un uomo senza mente, che rappresenta la totale assenza della ragione, sta governando il mondo; o portandolo alla rovina. Come una vera agenzia immobiliare di Manhattan, però, Trump, ehi – sa quel che sa: che i suoi peccati devono ancora essere puniti dal mercato.

Avvenire, 21 ottobre 2017. Ancora una lezione sul perché occorre cambiare dalla radice la società di oggi. «Se prevale come fine il profitto, la democrazia tende a diventare una plutocrazia in cui crescono le diseguaglianze e lo sfruttamento del pianeta». a.
llustri Signore e Signori,

saluto cordialmente i Membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e le personalità che partecipano a queste giornate di studio, come pure le istituzioni che sostengono l’iniziativa. Essa attira l’attenzione su un’esigenza di grande attualità come è quella di elaborare nuovi modelli di cooperazione tra il mercato, lo Stato e la società civile, in rapporto alle sfide del nostro tempo. In questa occasione, vorrei soffermarmi brevemente su due cause specifiche che alimentano l’esclusione e le periferie esistenziali.

La prima è l’aumento endemico e sistemico delle diseguaglianze e dello sfruttamento del pianeta, che è maggiore rispetto all’aumento del reddito e della ricchezza. Eppure, la diseguaglianza e lo sfruttamento non sono una fatalità e neppure una costante storica. Non sono una fatalità perché dipendono, oltre che dai diversi comportamenti individuali, anche dalle regole economiche che una società decide di darsi. Si pensi alla produzione dell’energia, al mercato del lavoro, al sistema bancario, al welfare, al sistema fiscale, al comparto scolastico. A seconda di come questi settori vengono progettati, si hanno conseguenze diverse sul modo in cui reddito e ricchezza si ripartiscono tra quanti hanno concorso a produrli. Se prevale come fine il profitto, la democrazia tende a diventare una plutocrazia in cui crescono le diseguaglianze e anche lo sfruttamento del pianeta. Ripeto: questo non è una necessità; si riscontrano periodi in cui, in taluni Paesi, le diseguaglianze diminuiscono e l’ambiente è meglio tutelato.

L’altra causa di esclusione è il lavoro non degno della persona umana. Ieri, all’epoca della Rerum novarum (1891), si reclamava la “giusta mercede all’operaio”. Oggi, oltre a questa sacrosanta esigenza, ci chiediamo anche perché non si è ancora riusciti a tradurre in pratica quanto è scritto nella Costituzione Gaudium et spes: «Occorre adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita» (n. 67) e – possiamo aggiungere con l’Enciclica Laudato si’ – nel rispetto del creato, nostra casa comune.

La creazione di nuovo lavoro ha bisogno, soprattutto in questo tempo, di persone aperte e intraprendenti, di relazioni fraterne, di ricerca e investimenti nello sviluppo di energia pulita per risolvere le sfide del cambiamento climatico. Ciò è oggi concretamente possibile. Occorre svincolarsi dalle pressioni delle lobbie pubbliche e private che difendono interessi settoriali; e occorre anche superare le forme di pigrizia spirituale. Bisogna che l’azione politica sia posta veramente al servizio della persona umana, del bene comune e del rispetto della natura.

La sfida da raccogliere è allora quella di adoperarsi con coraggio per andare oltre il modello di ordine sociale oggi prevalente, trasformandolo dall’interno. Dobbiamo chiedere al mercato non solo di essere efficiente nella produzione di ricchezza e nell’assicurare una crescita sostenibile, ma anche di porsi al servizio dello sviluppo umano integrale. Non possiamo sacrificare sull’altare dell’efficienza – il “vitello d’oro” dei nostri tempi – valori fondamentali come la democrazia, la giustizia, la libertà, la famiglia, il creato. In sostanza, dobbiamo mirare a “civilizzare il mercato”, nella prospettiva di un’etica amica dell’uomo e del suo ambiente.

Discorso analogo concerne il ripensamento della figura e del ruolo dello Stato-nazione in un contesto nuovo quale è quello della globalizzazione, che ha profondamente modificato il precedente ordine internazionale. Lo Stato non può concepirsi come l’unico ed esclusivo titolare del bene comune non consentendo ai corpi intermedi della società civile di esprimere, in libertà, tutto il loro potenziale. Sarebbe questa una violazione del principio di sussidiarietà che, abbinato a quello di solidarietà, costituisce un pilastro portante della dottrina sociale della Chiesa. Qui la sfida è come raccordare i diritti individuali con il bene comune.

In tal senso, il ruolo specifico della società civile è paragonabile a quello che Charles Péguy ha attribuito alla virtù della speranza: come una sorella minore sta in mezzo alle altre due virtù – fede e carità – tenendole per mano e tirandole in avanti. Così mi sembra sia la posizione della società civile: “tirare” in avanti lo Stato e il mercato affinché ripensino la loro ragion d’essere e il loro modo di operare.

Cari amici, vi ringrazio per l’attenzione a queste riflessioni. Invoco la benedizione del Signore su di voi, sui vostri cari e sul vostro lavoro.

blogguidoviale,

Slessico Familiare di Guido Viale, Interno4 Edizioni, distribuzione Messaggerie Libri, in libreria dal 30 Ottobre 2017.
«A distanza di quattro anni dalla pubblicazione del suo ultimo libro di inediti, l’autore milanese ritorna in libreria con un repertorio per i tempi a venire, una cassetta per gli attrezzi per aiutarci a guardare il mondo da un punto di vista diverso da quello del pensiero dominante»

Più di 100 parole, come: Atomi, Crescita, Fortezze, Merito, Proprietà, Sinistra, Terra, Trovarsi, vengono analizzate e rivisitate in 14 capitoli come: Territori del patriarcato, Deserti della vita, Natura e Cultura, Uso e riuso. «Le parole della politica – ma anche quelle dell’economia, della psicologia, del giornalismo, dell’accademia, perché tutto ormai è politica – sono logorate dall’uso che ne fa la cultura mainstream, che è da sempre quella delle classi al potere» dice Guido Viale. «Dal patriarcato al capitalismo finanziario, dalla gabbia in cui è stato intrappolato l’individuo contemporaneo ai problemi che l’arrivo di tanti stranieri porta con sé, dal cinismo che anima un’economia che saccheggia il pianeta alle prospettive aperte da un modo alternativo di concepire il nostro rapporto con il vivente e la natura, questo testo invita a rivisitare gli schemi sottostanti a molti dei nostri pensieri. Non è facile, ma si può fare: a patto di voler costruire insieme una prospettiva di vita più sana, più ricca di esperienze, più soddisfacente per tutti».

Con questo nuovo libro Guido Viale prova a stilare un repertorio per i tempi a venire, cercando di dare nuove prospettive a parole usurate con cui tutti conviviamo ma che meritano nuove interpretazioni, nuova linfa vitale.

Guido Viale è nato a Tokyo nel 1943 e vive a Milano. Laureato in filosofia all’Università di Torino, ha partecipato al movimento degli studenti del ’68 e militato nel gruppo Lotta Continua fino al 1976. Ha lavorato come insegnante, precettore, traduttore, giornalista e ricercatore. Ha svolto studi e ricerche economiche con diverse società e amministrazioni locali e lavorato a progetti di cooperazione internazionale per conto della Banca Mondiale, della Commissione Europea e del Ministero degli Affari Esteri. Ha fatto parte del comitato tecnico scientifico dell’ANPA (oggi ISPRA). Tra le sue pubblicazioni, Il Sessantotto (Mazzotta, 1978), Un mondo usa e getta (Feltrinelli, 1994 e 2000), Tutti in taxi (Feltrinelli,1996), A casa (L’ancora del Mediterraneo, 2000), Governare i rifiuti (Bollati Boringhieri, 2000), Vita e morte dell’automobile (Bollati Boringhieri, 2004), Virtù che cambiano il mondo (Feltrinelli, 2013). In questi anni ha pubblicato la nuova edizione de Il Sessantotto, Prove di un mondo diverso, La conversione ecologica, Rifondare l’Europa insieme a profughi e migranti, con le edizioni NdA Press.

Slessico familiare sarà pubblicato dalle neonate Interno4 Edizioni, casa editrice con sede a Rimini, diretta da Massimo Roccaforte e nata grazie alla collaborazione tra l’Associazione Culturale Interno4 e Goodfellas distribuzione. Interno4 Edizioni raccoglierà e svilupperà il decennale percorso editoriale della casa editrice NdA Press la cui direzione editoriale da Settembre del 2017 non è più curata da Massimo Roccaforte.

Slessico familiare s
arà presentato in anteprima nazionale Domenica 22 Ottobre alle ore 12,00, a Genova presso Palazzo Ducale all’interno della manifestazione Book Pride. Con l’autore interverrà Laura Cima. Sempre in anteprima sull’uscita in libreria, e all’interno del Salone dell’editoria Sociale di Roma, che si terrà a Porta Futuro, il libro verrà presentato Domenica 29 Ottobre alle 14,30, da Guido Viale in compagnia di Marco D’Eramo.

Altre presentazioni sono previste per il mese di Novembre tra Milano, Torino e Bologna, a cui hanno già loro disponibilità a partecipare, studiosi e ricercatori come Aldo Bonomi e Giovanni De Luna.

il Fatto quotidiano

Se l’uomo smette di pensare – e gli indizi ci sono tutti, perché il pensiero è altra cosa rispetto alla banale opinione da talk show, il pensiero è concetto, visione – il caos prevale sul logos, cioè l’armonia relazionale, “il principio costitutivo del reale”.

A quel punto è la fine, professore Mancuso.
«Sì, il mondo può fallire. Pensi alle future guerre, alle bombe atomiche, all’inquinamento, alla lotta per l’acqua. Cosa accadrà tra cent’anni?»

Potrebbe vincere il caos.«Vincerebbe e sarebbe il ritorno all’inizio indifferenziato del grande vuoto. Anche per questo la mia fede è filosofica».

Non formano un ossimoro, fede e filosofia. Da Kant a Bobbio, come lei ricorda, il mistero della vita continua ad attanagliare tante menti non credenti.«La mia fede filosofica non è teismo, che presuppone Dio separato dal mondo, né panteismo, che pensa il contrario. È il mistero dell’essere e dell’aldilà. Abbiamo a che fare con un mondo che sale, tutte le immagini portano scritto “più in là”, per citare Montale. Il regno è qui ma anche di là, dentro di me e nei cieli. Il mistero non può essere posto in laboratorio, lo ammettono anche eminenti scienziati».

Vito Mancuso è uno dei più insigni teologi e filosofi del nostro Paese. Nel suo ultimo libro, Il bisogno di pensare, elabora la formula del suo “sapere fondamentale”: Logos + Caos = Pathos. E se la ragione non resta zitella e si converte all’ottimismo, ecco che ritorna il primato del bene e anche quello dell’etica e della giustizia. È un libro che costruisce speranza e amore, questo di Mancuso.

Oggi prevale il primato dell’io. Egoismo e individualismo.«È la detronizzazione di Dio per l’intronizzazione dell’io. L’io è Dio che perde la “d” iniziale, il desiderio diventa un lupo universale».

Shakespeare, che lei cita tre volte.«L’opera è Troilo e Cressida: il desiderio, lupo universale, farà dell’intero universo la sua preda per poi, alla fine divorare se stesso».

Siamo un mondo senz’anima.«Il malessere che avvolge l’anima riguarda l’economia, la finanza vorace, la politica. Il primato del bene, che ci ha accompagnato per secoli, comportava etica e giustizia».

Lei accosta alla volontà di potenza di Nietzsche il capitalismo di oggi.«Basta guardare le multinazionali. È la modalità con cui il capitalismo schiaccia tutto. Però mi faccia dire che io non auspico un’uscita dal libero mercato, quando ci hanno provato sappiamo com’è finita. Mi auguro delle correzioni. Stasera (ieri per chi legge, ndr) per esempio andrò a Conegliano Veneto».

Nel cuore produttivo del Nord-est.«Si festeggiano i dieci anni di una fondazione di imprenditori che si sono messi insieme con l’idea di restituire quanto hanno ricevuto dal territorio».

Anima e concretezza.«In questi anni hanno raccolto un milione di euro, che hanno destinato a vari investimenti. È il valore sociale dell’impresa, la ricerca della famosa terza via tra capitalismo liberista e comunismo.

Come si chiedeva Kant: “Cosa posso sperare?”. È una domanda etica. Altrimenti ci sono il nulla e il nichilismo.«Nel primato dell’io non c’è niente di etico. E questo clima culturale che viviamo non porta a un nulla metafisico, che magari può avere un senso eroico. Siamo al nichilismo casalingo, al nulla di bottega del particulare».

Specialità in cui noi italiani siamo bravissimi
.«Non a caso ho detto particulare. Ma sia Guicciardini sia Machiavelli vivevano in un tempo che rimandava a una religione. I sacri ideali dell’umanità non si erano consumati».

È l’aspirazione all’unità dell’uomo. Guai però, lei scrive, ai dogmatismi, sia metafisici, sia materialisti.«Prenda il fascino che l’integralismo islamico o certi movimenti cattolici esercitano su tante giovani coscienze. Giovani che sentono un grande senso di unificazione, che però porta alla contrapposizione, all’ostilità e alla chiusura. È la solita questione».

Logos e caos.«Cosa vuol dire pensare? Vuol dire pesare, ponderare. La mente è come una bilancia, bisogna cercare il punto di equilibrio. Se la religione è troppo forte viene meno l’autonomia del singolo».

Dialogo non chiusura. «Più si esercita il dialogo più si genera la pace. Il fenomeno vero primordiale è la presenza della vita. Il caos è l’antitesi, un negativo che può essere tale perché c’è il logos.

L’ottimismo della ragione che ci avvicina al mistero dell’universo.«È il mistero che non comprendiamo e che va al di là della ragione. Vale per Platone, Heidegger, Kant, Einstein».

Per andare in profondità c’è bisogno di silenzio: altra condizione perduta.«Cerco di essere concreto: oggi nella vita di ciascuno c’è un gigantesco chiacchiericcio. È questa connessione cui tutti siamo esposti».

Il nostro destino tecnologico.«È la grande minaccia di questo tempo, oltre ai fanatismi politici e religiosi che ci sono sempre stati. Quella che ci impedisce di rimanere in silenzio».

Lo smartphone peggio dell’Isis.«È una dittatura che può farci perdere la capacità creativa, capace solo di farci avere delle re-azioni. È un pericolo nuovo e pervasivo».

Left

La storia inizia con gli accordi di Sykes-Picot, quando le due grandi potenze coloniali dell’epoca (inizi del Novecento) ridisegnarono sulla carta geografica il nuovo Medio Oriente, inventando Stati senza una propria identità nazionale, cancellando, prima con un tratto di penna e poi con le armi, comunità intere.

Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia, Algeria, Congo, Mozambico, Angola… È il passato che non passa, sono ferite che non si rimarginano. In periodi storici diversi, sotto regimi diversi, ma con la stessa, lunga scia di sangue. E con una verità che si vorrebbe cancellare. Una verità scomoda. Italia, Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, così come Austria, Gran Bretagna, Germania: nel continente Africano, i colonialismi europei si sono spessi trasformati in terrorismo di Stato. Non è solo la storia di Paesi saccheggiati, di popoli sottomessi a forza, di ricchezze naturali depredate da multinazionali onnivore che mantenevano dittatori sanguinari. Questo è il colonialismo “classico”. Ma quello che si vorrebbe cancellare, seppellire nel dimenticatoio, è il terrorismo di Stato: sono le stragi di civili, le città e i villaggi dati alle fiamme, le popolazioni deportate, le fosse comuni, le pulizie etniche.

Un passato che chiama pesantemente in causa l’Italia. Altro che “italiani brava gente”. Angelo Del Boca, il più autorevole storico italiano del colonialismo fascista nel Nord Africa, ha dedicato anni di ricerche e diversi saggi per dimostrare i crimini di guerra e contro l’umanità che le truppe italiane commisero in Libia, Etiopia, Eritrea… Somalia. Atrocità e torture impressionanti: a donne incinte venne squartato il ventre e i feti infilzati, giovani indigene violentate e torturate, teste mozzate portate in giro come trofei; torture anche su bambini e vecchi. Racconti documentati di massacri di massa, di uso sistematico dei gas contro la popolazione civile, di lager che nulla avevano ache “invidiare” a quelli nazisti. Il colonialismo italiano è stato brutale, selvaggio, e dietro di sé ha lasciato solo rovine e una memoria che il tempo, non solo in Libia, non ha cancellato. L’Italia ha tutto distrutto e nulla realizzato. A differenza di Francia e Gran Bretagna, rimarca in proposito Del Boca, che nei domini coloniali hanno formato una classe dirigente autoctona, l’Italia neanche questo ha fatto, impedendo anche l’istruzione, percepita come una minaccia.

Sono trascorsi quasi 80 anni da allora, ma la logica colonialista non è cambiata. Il terrorismo di Stato non viene più praticato direttamente ma per interposto regime. Cos’altro è il sostegno italiano alle milizie che in Libia si sono riciclate in guardiane dei lager nei quali vengono segregati e sottoposti alle più abominevoli torture, migliaia di migranti ricacciati indietro dalla Guardia costiera libica, spesso in combutta con i trafficanti di esseri umani, sostenuta, armata e addestrata dall’Italia? E cos’altro è, se non terrorismo di Stato per interposta persona, quello che si cela dietro all’appoggio dell’Italia, e dell’Europa, ad uno dei più brutali regimi africani: quello dell’Eritrea? Oggi come ieri, la diplomazia dei diritti non ha spazio nelle politiche neocoloniali dell’Europa: l’importante, l’imperativo categorico, è impedire una (inesistente) invasione di rifugiati e migranti dai Sud del mondo. Per ottenere questo risultato, le democrazie europee chiudono gli occhi e mettono mano ai portafogli, per arricchire i “Gendarmi” delle frontiere esterne: gli Erdogan, gli al-Sisi, i signori della guerra libici, i dittatori che spadroneggiano in Eritrea, Corno d’Africa, Sudan, Niger, Nigeria…

L’Italia non è stata la sola a praticare il terrorismo di Stato nel Vicino Oriente e in Africa. Vi sono pagine di vergogna, impastata di sangue, scritte da regni e democrazie europei che hanno depredato Paesi interi, massacrato popolazioni indigene, depredato le ricchezze naturali, sfruttato a livello di schiavitù anche i bambini. È la storia del colonialismo belga – nel Congo – di quello portoghese – in Mozambico e Angola – e poi della Francia, della Gran Bretagna, della Germania. Queste ferite sono ancora aperte. Perché hanno significato la morte di decine di milioni di persone, la negazione dei più elementari diritti umani ad altrettante. Ha significato schiavitù sessuale, fosse comuni, crimini che oggi la “civile” Europa imputa ai nazi-islamisti di Daesh. Senza memoria, non c’è futuro. E coltivare la memoria di un colonialismo “terrorista” significa non solo non mantenere viva una verità storica ma anche ragionare sui guasti del presente e su scelte rivelatesi scellerate. «L’Italia – dice a Left Angelo Del Boca – sembra aver rimosso non solo il passato coloniale del Ventennio fascista, con tutta la brutalità che l’ha caratterizzato, ma con le scelte compiute nel presente dimentica anche cosa abbia voluto dire aver fatto parte dei Paesi europei che nel 2011 hanno portato guerra e distruzione in Libia, usando strumentalmente il tema dei diritti umani, per eliminare un testimone scomodo, Muammar Gheddafi, con il quale mezza Europa, tra cui l’Italia, aveva fatto affari, e, per quanto riguarda Gran Bretagna e Francia, per scalzare l’Eni nella sua posizione petrolifera dominante. Le conseguenze di quella scellerata guerra – conclude Del Boca – sono, e non da oggi, sotto i nostri occhi. Il problema è che chi governa, quegli occhi li vuol tenere chiusi».

Un atteggiamento complice che l’Italia condivide con l’Europa. L’Europa che ha scelto di pagare raìs, generali, autocratici per fare il lavoro sporco. Che erige muri e militarizza frontiere per ricacciare indietro milioni di persone che fuggono da guerre, disastri ambientali, sfruttamento inumano di multinazionali onnivore, che sono, spesso, il frutto delle scelte europee o occidentali. È la democrazia imposta dall’esterno in Iraq, che ha liquidato Saddam Hussein consegnando il Paese ad al-Qaeda e alla dittatura sciita. È lo “scontro di civiltà” che ha ideologicamente supportato le guerre contro il terrorismo nel Grande Medio Oriente; guerre che invece di stabilizzare e pacificare, hanno destabilizzato e portato al potere tanti Pinochet mediorientali o africani. Uno per tutti: Abdel Fattah al-Sisi. È la doppia morale di chi si batte contro l’Isis, salvo poi fare affari con lo “Stato islamico” veramente realizzato: l’Arabia Saudita. Ieri era terrorismo di Stato colonialista. Oggi è usare la lotta al terrorismo jihadista per continuare a sfruttare popoli, alimentando guerre per procura. È il terrorismo di Stato del Terzo millennio. E l’Europa ne è parte attiva.

© 2024 Eddyburg