MIGLIAIA DI MIGRANTI IN ARRIVO,
DECINE DI MORTI
di Adriana Pollice
«Mediterraneo. Il numero crescente di sbarchi e tragedie smentisce il ministero degli interni. E la guerra alle Ong impedisce soccorsi rapidi ed efficaci. Partono da Tunisia e Algeria ma anche dalla Libia, Stato fallito con cui Roma ha stretto accordi»
Con il saluto d’onore degli ufficiali di bordo, ieri mattina sono sbarcate sul molo del porto di Reggio Calabria le salme di 5 donne e 3 uomini, tutti annegati. Erano sulla nave Diciotti della Guardia costiera e facevano parte del gruppo di migranti recuperati venerdì, in diverse operazioni, al largo delle coste libiche.
Ce l’hanno fatta a salvarsi in 765, tra i quali 112 minori (63 non accompagnati). Dal gruppo erano già stati prelevati con l’elicottero 14 ustionati gravi per contatto con il carburante dello scafo su cui erano stipati, tre talassemici e una bambina con dolori al petto.
Dopo le operazioni di rito, partiranno per i centri di accoglienza di undici regioni. Arrivano da 27 stati differenti, sparsi tra Asia e Africa, dal Pakistan al Nepal, dalla Somalia al Libano. Venerdì la nave militare spagnola Cantabria aveva incrociato al largo della Libia un gommone affondato con 64 sopravvissuti e 23 annegati.
Ieri il papa, in un discorso alle università cattoliche, si è augurato per il futuro una classe dirigente aperta ad accogliere: «Vorrei invitare gli atenei a educare i propri studenti, alcuni dei quali saranno leader politici, imprenditori e artefici di cultura, a una lettura attenta del fenomeno migratorio in una prospettiva di giustizia, di corresponsabilità globale e di comunione nella diversità culturale».
Sono stati 2mila i migranti soccorsi nel Mediterraneo tra lunedì e venerdì. Il ministro degli interni Marco Minniti, lo scorso week end alla conferenza programmatica del Pd, aveva vantato i risultati della sua politica in tema di blocco degli sbarchi: «Gli arrivi in Italia sono diminuiti del 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e ci sono stati 8.500 rimpatri volontari assistiti».
Gli accordi con la Libia (incluse le milizie attive sul territorio) prevedono il blocco delle partenze e il contenimento dei flussi nei centri di detenzione locali (in condizioni terribili), in cambio di mezzi navali, addestramento, sostegno economico. Evidentemente il meccanismo si è rotto.
Questa settimana, infatti, la marina libica ha recuperato in diverse operazioni 900 migranti, tra questi anche sette cadaveri, al largo delle proprie coste ma le motovedette, invece di riportarli a terra, li hanno imbarcati su mezzi militari europei verso l’Italia.
La politica messa in campo da Minniti con le Ong non ha certo migliorato le cose. Il numero di soccorritori è drasticamente diminuito rendendo le operazioni più insicure.
Mercoledì la nave Aquarius di Sos Méditerranée ha dovuto sostenere quattro interventi in 18 ore, 588 naufraghi salvati: «Abbiamo soccorso un gommone con 108 persone a bordo e ci siamo preparati a soccorrere un secondo gommone. Prima che la nostra lancia arrivasse sulla scena, l’imbarcazione si è rotta e le persone hanno cominciato a saltare in acqua. Erano in molti in acqua. Abbiamo lanciato i mezzi di galleggiamento e stabilizzato la situazione. Anche se abbiamo fatto tutto quello che potevamo, non potremo mai essere sicuri che tutti siano stati salvati», ha spiegato Madeleine Habib, coordinatrice delle operazioni Search and Rescue dell’Aquarius. Impossibile sigillare le frontiere italiane anche sui fianchi est e ovest. Venerdì nel crotonese è riuscito ad approdare un barcone con 48 migranti.
A condurli sulle coste calabre, dietro il pagamento di 6mila dollari a testa, uno scafista russo, Timur Shirchenko, arrestato dalla polizia italiana. Ieri una motovedetta della guardia costiera siciliana ha intercettato una piccola barca con 23 persone a bordo: erano tutti algerini ed erano diretti in Sardegna. Tratti in salvo, sono stati trasportati nel porto di Calasetta, nel Sulcis. Ancora nel Sulcis, il giorno precedente, erano arrivati 38 algerini.
Si tratta delle cosiddette barche fantasma, natanti di ridotte dimensioni che da Algeria e Tunisia arrivano indisturbati sulle spiagge di Sicilia e Sardegna portando piccoli gruppi. La marina tunisina ieri ha bloccato 12 connazionali su uno scafo in avaria al largo di Sfax.
Ieri sono sbarcati nel porto di Taranto 324 migranti dalla fregata tedesca Mecklenburg. Stamattina a Salerno ne sono attesi 400, accanto ai superstiti ci saranno anche i cadaveri: 26 salme, tutte donne. Domani arriverà a Crotone la nave dell’Ong Proactiva Open Arms con 378 scampati al mare.
Il tema migrazioni entra nella campagna elettorale per le regionali siciliane con Forza Italia, in vantaggio nei sondaggi, che attacca il Pd: «Il tappo libico è saltato – dice il parlamentare Gregorio Fontana –, ci sono di nuovo i morti, gli sbarchi sono ripresi. Solo che vengono dirottati verso le coste pugliesi e calabresi per evitare che l’ennesimo fallimento dell’esecutivo vada a interferire con le elezioni siciliane. Il bluff governativo è venuto alla luce».
IN MILLE PEZZI
IL «CODICE MINNITI»
di Alessandro Del Lago
«Morti a mare. Minniti aveva dichiarato che con il codice di comportamento imposto alle navi di soccorso e gli accordi con i libici, «si cominciava a vedere la luce in fondo al tunnel». Quale luce e quale tunnel? La soluzione escogitata da Minniti l’Africano era semplice: scopare la questione dei migranti sotto il tappeto libico»
n naufragio in ottobre, quando le condizioni dl mare sono già pessime, 23 i morti recuperati. Probabilmente, molti di più i cadaveri scomparsi nelle vastità marine. 600 salvataggi in un solo giorno. Altri morti e centinaia di salvataggi sempre nel Canale di Sicilia negli ultimi tre giorni.
Le cronache riportano questi dati con una certa impassibilità, come se si trattasse di normali conteggi amministrativi o di statistiche demografiche. Ma c’è qualcosa che non torna. Anzi, molto.
Basta riandare allo scorso ferragosto alle parole del ministro degli interni Minniti, al culmine di una campagna condotta contro le Ong e alimentata da media e procure.
Minniti aveva dichiarato che con il codice di comportamento imposto alle navi di soccorso e gli accordi con i libici, «si cominciava a vedere la luce in fondo al tunnel». Quale luce e quale tunnel? La soluzione escogitata da Minniti l’Africano era semplice: scopare la questione dei migranti sotto il tappeto libico affinché le impaurite popolazioni italiche, soprattutto al nord, non avessero più preoccupazioni e anche – honni soit qui mal y pense («guai a chi pensa male» ) – per sottrarre voti a leghisti, berlusconiani e grillini, che sulla paura dei migranti stanno costruendo la loro fortuna elettorale.
E come sistemare la faccenda? Finanziando il governicchio di al Serraj a Tripoli, che controlla poco più di un fazzoletto di terra in riva al mare, e i signori della guerra anti-Isis. Noi vi diamo soldi e armi e vendiamo sottocosto un po’ di vedette. Voi in cambio, ci fermate i migranti, cioè li internate nei vostri campi.
E i migranti che, inevitabilmente, continueranno ad arrivare? Qui Minniti, coerentemente con la discrezione appresa occupandosi di servizi segreti, tace, gira la testa, glissa. Esattamente come hanno fatto tutti i suoi predecessori, primi ministri e dell’interno, da Amato in poi.
Anche i sassi sanno che rispedendo i migranti in Libia se ne condanna una buona percentuale a morte, e gli altri alle torture, agli stupri e all’inedia. La Libia non è un paese «safe», come esigono le ipocrite normative internazionali, ma un guazzabuglio di bande in cui tutti combattono contro tutti e l’Isis, sconfitto in Iraq e Siria, fa affluire i suoi uomini.
E gli scontri armati tra le centinaia di milizie libiche, dati per «finiti» in realtà sono ripresi proprio in questi giorni. Gli interlocutori del «patto» di Minniti si combattono fra loro.
Le denunce di Msf, Amnesty International ecc. sono incessanti. Persino l’Onu, solitamente cauta in materia, ha ammonito che con le limitazioni imposte alle navi delle Ong e gli accordi con la Libia i morti sarebbero aumentati, nel deserto e in mare. Silenzio delle istituzioni.
L’evidente motto di Minniti, occhio non vede e cuore non sente, ha funzionato per un paio di mesi, con qualche protesta delle Ong e sparse sparatorie in mare dei libici, che hanno invaso le acque internazionali per proteggere i propri interessi nell’affare. Finché, in questi giorni, gommoni e barconi hanno ricominciato a fare la spola e i migranti annegano.
Bisogna essere ciechi per non vedere che dai paesi sub-sahariani, con redditi annuali inferiori a quanto una media famiglia italiana spende in un mese in beni di prima necessità, centinaia di migliaia di migranti si metteranno in marcia verso il Marocco, la Libia, la Tunisia, l’Algeria, l’Egitto.
Se vengono fermati a una frontiera, cercano di passare da un’altra parte, come farebbe ognuno di noi nei loro panni. Bisogna essere ipocriti fino all’oscenità per continuare a blaterare di un piano Marshall per l’Africa che nessuno metterà mai in cantiere.
E bisogna essere trasparenti come funzionari dei servizi segreti per tacere che in Ciad, sud della Libia e Niger, per non parlare dell’Africa centro-occidentale, si combattono guerre con partecipazione occidentale (contro l’Isis, certo, ma soprattutto per il controllo delle materie prime e dell’influenza geopolitica).
Così, chi si mette in marcia per non morire di fame o in qualche bombardamento, finirà, se sopravvive, in qualche campo libico o tenterà, come sempre, la sorte in un gommone.
La luce infondo al tunnel vero, ministro Minniti?
Internazionale,
Domenica 5 novembre in Sicilia si vota per eleggere il presidente della regione e i deputati dell’assemblea regionale. Gli schieramenti principali che si contendono la guida di palazzo dei Normanni sono tre. Nello Musumeci, 62 anni, ex Msi e poi An, guida una coalizione di centrodestra che comprende i partiti Forza Italia, Fratelli d’Italia, Udc e Noi con Salvini. Fabrizio Micari, 54 anni, rettore dell’università di Palermo dal 2015, è il candidato del Partito democratico, sostenuto anche dal presidente della regione, Rosario Crocetta. Giancarlo Cancelleri, 42 anni, geometra, è il candidato del Movimento 5 stelle.
Alla corsa partecipano anche Claudio Fava, 60 anni, giornalista e scrittore, sostenuto da una coalizione di sinistra, composta da Mdp, Sinistra italiana, Rifondazione comunista e Verdi. E Roberto La Rosa, 61 anni, avvocato, alla guida del movimento indipendentista Siciliani liberi.
Per tutti gli osservatori, e per gli stessi partiti che partecipano alla competizione elettorale, il voto siciliano è un passaggio fondamentale in vista delle elezioni politiche previste per marzo 2018.
I cinquestelle, dopo le inchieste a Roma e le difficoltà a Torino, cercano un rilancio proprio a partire dai risultati nell’isola: “Prima la Sicilia, poi il governo”, è stato lo slogan usato da Beppe Grillo. Il centrodestra misura la sua ritrovata unità, mentre Matteo Renzi ha provato a minimizzare: “Le elezioni siciliane non sono un test nazionale”, ha detto.
Secondo gli ultimi sondaggi, la partita è tra il candidato del centrodestra e quello dei cinquestelle. L’istituto Demos ha calcolato che Musumeci otterrebbe il 35,5 per cento delle preferenze, mentre Cancelleri il 33,2, Micari il 15,7, Fava il 13,8 e La Rosa l’1,8.
Tuttavia, c’è ancora incertezza e i candidati stanno provando a sfruttare questi ultimi giorni per convincere gli elettori. I temi più dibattuti sono astensionismo, disoccupazione, povertà, emigrazione e immigrazione.
Il 5 novembre sono chiamati alle urne 4,6 milioni di siciliani, ma il 26 per cento di loro non sa che ci sono le elezioni. “È un dato che, accanto alla progressiva disaffezione dei cittadini alla politica regionale, pesa in modo significativo sulla partecipazione al voto”, dice Pietro Vento, direttore dell’istituto Demopolis che ha condotto la ricerca.
Dal 2001, il presidente della regione è eletto a suffragio diretto. In questi 16 anni, l’affluenza ha registrato alti e bassi, fino a scendere per la prima volta sotto il 50 per cento nelle elezioni del 2012.
Oggi solo il 12 per cento dei siciliani avrebbe fiducia nella regione come istituzione, mentre nel 2006 era il 33 per cento. Nel 2012, il M5s aveva capitalizzato questa disaffezione, incentrando la campagna elettorale sulla distanza dal sistema dei partiti che aveva governato fino ad allora, e diventando il partito più votato dell’isola. In questi cinque anni, intanto, nel governo guidato da Rosario Crocetta si sono alternati 59 assessori, facendo del presidente il governatore meno apprezzato in Italia.
Il centrosinistra è apparso più volte diviso nel sostegno a Crocetta, così come si era diviso nel 2010, ai tempi dell’appoggio al governo guidato da Raffaele Lombardo, fondatore del Movimento per le autonomie in seguito indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in appello per voto di scambio. Il centrodestra ha invece ritrovato l’unità dopo la spaccatura nel 2012 tra Musumeci e Gianfranco Micciché, leader storico di Forza Italia in Sicilia, che in quell’occasione decise di correre da solo.
Disoccupazione
Il lavoro è stato uno dei temi più dibattuti in questa campagna elettorale, ed è in generale un problema con cui i governi dell’isola fanno i conti da sempre. Il lavoro e, ovviamente, la mancanza di occupazione. Nel 2016 cinque regioni italiane hanno fatto registrare un tasso di disoccupazione alto più del doppio rispetto alla media dell’8,6 per cento nell’Unione europea. La Sicilia è al secondo posto in Italia per numero di disoccupati.
Povertà
Una delle conseguenze della mancanza di lavoro è un tasso di povertà tra i più alti in Italia. In Sicilia, secondo l’Istat, più della metà dei residenti – il 55,4 per cento – vive in famiglie a rischio povertà o esclusione. Nell’isola, i livelli di grave deprivazione materiale sono più che doppi rispetto alla media italiana. Mentre se si prende in considerazione la variabile del reddito, con una media di 25mila euro a famiglia la Sicilia è all’ultimo posto in Italia.
Come in una specie di effetto domino, tutto questo influisce enormemente su chi decide di abbandonare l’isola. Nel 2016, i siciliani che hanno trasferito la residenza all’estero sono stati 11.501, il 17 per cento in più rispetto all’anno prima. In totale, sono più di 700mila: ragazzi, ragazze, donne, uomini e intere famiglie che in questi anni se ne sono andati e hanno contribuito a fare della Sicilia la prima regione in Italia per numero di iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire).
Nella lista delle venticinque città italiane con più iscritti all’Aire, la provincia di Agrigento ne conta quattro, un caso unico in Italia. Aragona è il comune italiano dove l’incidenza del numero dei residenti all’estero su quello dei residenti nel paese tocca il punto più alto: 8.491 persone su 9.463, l’89 per cento.
Se si considera che le statistiche non tengono conto di tutti quei siciliani che se ne sono andati ma non hanno cambiato residenza, si capisce che i numeri messi insieme finora non sono che la punta dell’iceberg di un problema ben più grave e profondo.
Immigrazione
Accanto ai numeri di chi se ne va, ci sono quelli di chi arriva. Secondo il ministero dell’interno, da gennaio 2017 a oggi, le persone sbarcate in Italia sono più di 111mila. La maggior parte di loro è arrivata nei porti di Catania, Augusta, Pozzallo, Lampedusa, Palermo e Trapani.
Nel 18 per cento dei casi, il loro paese d’origine è la Nigeria, il 9,5 per cento arriva dalla Guinea, il 9,4 per cento dal Bangladesh, l’8,8 per cento dalla Costa d’Avorio. A dispetto dei titoli sui mezzi d’informazione che parlano di “invasione”, la situazione negli ultimi anni è questa:
Delle 181mila persone arrivate in Italia nel 2016, in Sicilia 1.370 sono state accolte nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar); 4.498 sono finite negli 88 centri di accoglienza straordinaria (ce ne sono cinque volte di più in Lombardia, più del doppio in Campania, in Toscana e in Piemonte); 206 negli hotspot di Lampedusa, Pozzallo e Trapani; e 4.559 nei centri di prima accoglienza.
Nello stesso anno, le persone con permesso di soggiorno nell’isola erano 113mila, il 2,9 per cento di tutte le persone con permesso di soggiorno in Italia. Molte di loro sull’isola vivono e lavorano. Gli stranieri residenti sono infatti quasi 190mila, cioè il 3,7 per cento dei residenti siciliani.
Di fronte a questi numeri, la retorica dell’invasione si sgonfia. Eppure molti leader nazionali per sostenere i candidati locali hanno preferito mantenere il focus sull’immigrazione, invece di parlare e affrontare i numeri che raccontano una regione su cui da anni grava il rischio di fallimento.
Ilsole24ore, 4 novembre 2017. Gentiloni inaugurerà F.i.co, la Disneyland del cibo. Una partneship dove il pubblico ha messo i 100 mila metri quadri dell'ex mercato ortofrutticolo e il privato ha investito dei soldi che gli garantiranno un ritorno del 6% annuo, con postilla spassosa
La Disneyland del cibo, il parco dedicato alla biodiversità dell’agricoltura italiana, il primo al mondo per dimensione e contenuti, aprirà a Bologna il 15 novembre. E’ F.I.CO. (Fabbrica Italiana contadina) una struttura di 10 ettari, sorta su quello che era il mercato ortofrutticolo CAAB, destinato alla dismissione ora risorto a nuova vita. Un percorso chilometro da visitare in bici dove il tema sarà la didattica: due ettari di campi e stalle con più di 200 animali e 2000 cultivar all’aria aperta ed 8 ettari coperti che ospitano i percorsi per capire la trasformazione alimentare con le diverse filiere per la produzione di carni, pesce, formaggi, pasta, olio, dolci, birra. E ancora botteghe, mercati, ristoranti, un campo da calcetto, aree dedicate ai bambini e alla lettura, un centro congressi in grado di ospitare fino a mille persone, tutto coordinato dalla Fondazione Fico a cui collaborano ai progetti didattici l'Università Alma Mater Studiorum di Bologna, l'Università di Trento, l'Università Suor Orsola Benincasa, l'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e il Future Food Institute.
I 10 ettari dell'ex mercato ortofrutticolo trasformati nella Disneyland del cibo |
E’ lungo l’elenco dei soci che hanno contribuito al fund raising: circa il 38% del capitale è stato sottoscritto dai principali Enti Previdenziali italiani delle professioni come la Cassa Forense, Enpam, Enpav, Epap, Enpab, Enpaia, Inarcassa ed Eppi, un altro 30% è stato sottoscritto da banche, fondazioni bancarie, Camera di Commercio di Bologna, Coop Reno, Coop Alleanza 3.0, Eataly e Prelios SGR. Il resto è nelle mani del Caab, la società del Comune di Bologna che gestisce la struttura destinata a Fico precedentemente occupata dall'ex Mercato Agro-Alimentare di Bologna. Un finanziamento quello delle casse previdenziali che si coniuga con la volontà di investire in un asset reddituale, ma anche di partecipare a un progetto che ha come obiettivo quello di fare cultura nel campo nutrizionale e degli stili di vita di una corretta alimentazione.
Un modello in cui confluiscono investitori privati e università, con il compito di creare occupazione (sono previsti più di 700 i nuovi posti di lavoro, a cui se ne aggiungono altri 3mila per l’indotto), ma anche un ritorno per gli investitori, circa il 6% di rendimento l’anno e un fatturato a regime stimato tra 85 e 90 milioni di euro.
Farinetti: «Puntiamo a 6 milioni di visitatori»
«Puntiamo a portare 6milioni di visitatori entro i prossimi tre anni e farlo diventare un volano per il turismo e l’export di uno dei nostri patrimoni riconosciuti in tutto il mondo, il cibo ». Oscar Farinetti, patron di Eataly, è il testimonal di Fico-EatalyWorld di cui è anche socio direttamente e attraverso la sua creatura destinata a quotarsi in Borsa entro il 2019. E proprio Eataly che rappresenta l’anima commerciale della struttura, avrà il compito di fare da volano di Fico: «Creeremo dei corner all’interno dei punti vendita di Eataly in Italia e all’estero dedicati a Fico perché diventi un volano per il turismo e per i suoi 53 siti riconosciuti dall’Unesco. Gli americani hanno inventato Pippo, Pluto e Paperino. Noi, invece, abbiamo un patrimonio mostruoso da valorizzare».
Le dispiace non avere realizzato Fico nella sua Torino? «Ci stavo pensando da tempo quando da Bologna è arrivata la proposta: la città è posizionata benissimo ed è raggiungibile in poco tempo. Senza dimenticare che in Emilia Romagna ci sono Parma con le sue eccellenze alimentari e la Romagna con il turismo entrambi bacini di attrazione per visitatori italiani e stranieri». Le collaborazioni con Enit, Ferrovie dello Stato e Poste Italiane vanno in questa direzione: «L’ultima che abbiamo firmato la collaborazione con Poste Italiane consentirà di spedire interi prosciutti e forme di parmigiano in tutto il mondo». Dal turismo al business con il centro congressi che può ospitare fino a mille persone ed è già prenotato fino a marzo.
Farinetti appena tornato da Los Angeles per l’apertura del nuovo Eataly pensa ai nuovi progetti «tutti nel campo ambientale» perché «l’obiettivo è salvare il pianeta (...) Non lo salvo io», scherza. «Questo secondo me è il mestiere del futuro, che creerà nuovi posti di lavoro», ha affermato il manager. «Immaginate la creatività italiana, pale eoliche disegnate da Renzo Piano, i pavimenti fatti dal distretto di Forlì che creano energia», ha detto facendo qualche esempio. Fico ci prova con l’impianto fotovoltaico più grande d’Europa e un’organizzazione che punta sul riciclo e sul recupero degli scarti alimentari. Entrare dentro Fico sarà gratis, raggiungibile dalla stazione dei treni e dall’aeroporto di Bologna con bus ibridi ogni mezz’ora.
postilla
Che tra gastronomia e affari ci siano importanti relazioni lo sapevamo. Che ci siano anche tra gastromia e cultura lo sapevamo anche: il Pantagruel di François Rabelais e il pittore Giuseppe Arcimboldo li abbiamo sempre amati; e non parliamo della Università del gusto di Carlin Petrini a Bra. Purtroppo la triade Gastronomia-Affari-Cultura è più difficilmente raggiungibile. A volte i risultati dei tentativi compiuti dagli ignoranti è semplicemente ridicolo. Come, appunto, quello di Oscar Farinetti, del quale offriamo ai lettori un gustoso saggio, dove la cultura di Farinetti è aiutata niente di meno che dall'ubiquo Vittorio Sgarbi. Eccolo in un commento di Tomaso Montanari.
conques online, 4 novembre 2017. Il 1948 è l'anno in cui comincia ad allargarsi la forbice tra salari e profitti. Lo segnala l'ultimo discorso del grande sindacalista
«La mattina del 3 novembre 1957, poche ore prima di morire,Giuseppe Di Vittorio tiene questo discorso ai dirigenti e agli attivistisindacali di Lecco».
postilla
GiuseppeDi Vittorio assume il 1948 come l’anno in cui, in Italia, la curva dell’aumentodei profitti si distaccò da quelle dei salari e l'ampiezza della forbice aumentò continuamente. Quello fu infatti l’anno in cui la storia registra eventi che modificano profondamente gli equilibri tra ila crescita dei salari da un lato, i profitti e le renditedall’altro. Gli eventi principali, che provocarono la sempre più profondadivaricazione tra ricchi e poveri nei paesi “sviluppati”, furono la rottura, nel mondo dell’unità antifascista che avevasconfitto il nazifascismo, e in Italia lavittoria elettorale della Democrazia cristiana con la pesante intromissionedegli USA, l'estromissione delle sinistre dal pgovernola rottura del sindacato unitario dei lavoratori (la CGIL) con ildistacco elle due componenti CISL (aprevalenza democristiana) e Uil (a prevalenza socialdemocratica e repubblicana,mentre comunisti e socialisti rimanevano nella CGIL.
la Repubblica
Per avere un’opinione sul divieto di pubblicare le notizie «non essenziali» contenute nelle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria bisogna intendersi su ciò che, qui e oggi, è davvero “essenziale”. Ferma restando l’avversione ad ogni arbitraria gogna mediatica e la necessità di non assecondare voyeurismi morbosi, sembra davvero impossibile stabilire cosa sia o non sia essenziale senza rammentare che siamo il terzo paese più corrotto d’Europa (peggio di noi solo Grecia e Bulgaria), e che (sempre secondo gli ultimi dati di Transparency Italia) la società civile e i media italiani hanno un punteggio di 42 su 100 nella stima della loro efficacia come mezzi di superamento della cultura della corruzione.
Il Fatto Quotidiano, 1 Novembre 2017. Per garantire la salute del capitale il G7 sulla salute che si terrà a Milano il 5 e il 6 novembre si appresta a privatizzare quel che resta della sanità pubblica. (p.s.)
Il 5 e 6 novembre si riunirà a Milano il G7 sulla salute. I temi all’ordine del giorno, definiti dalla ministra Lorenzin, saranno: le conseguenze sulla salute dei cambiamenti climatici, la salute della donna e degli adolescenti e la resistenza antimicrobica. Da un tale incontro non uscirà assolutamente nulla se non un semaforo verde per trarre ulteriore profitto dalla nostra salute e dalla devastazione del pianeta.
Considerato chi siederà attorno a quei tavoli non è possibile immaginare nulla di diverso. Sono gli stessi governi che in gran segreto dal 2013 stanno trattando l’accordo TiSA (Trade in Services Agreement) sugli scambi dei servizi, tra questi quelli finanziari, ma anche l’istruzione e la sanità.
Nel 2014 WikiLeaks, l’organizzazione di Julian Assage, ha per la prima volta rivelato l’esistenza di tali trattative. Il Tisa sarebbe il più grande accordo commerciale mai discusso: i servizi infatti rappresentano circa il 70% del Pil mondiale, che potrebbe portare, secondo una simulazione realizzata per l’Italian Trade Agency/ICE ad un possibile aumento degli scambi di servizi fra paesi aderenti all’accordo nell’ordine del 20%, quasi 400 miliardi di euro considerando i livelli del 2013.
Il 4 febbraio 2015 l’agenzia AWP Associated Whistleblowing Press (agenzia formata da giornalisti investigativi) ha reso pubblico un documento del Tisa dove si può leggere: “C’è un potenziale enorme ancora non sfruttato per la globalizzazione dei servizi sanitari”. La ragione, come viene spiegato, è che “sino ad ora questo settore di servizi ha giocato solo un ruolo ridotto negli scambi internazionali. Ciò è dovuto al fatto che i sistemi sanitari sono finanziati ed erogati dallo Stato o da enti assistenziali e non sono di nessun interesse da parte degli investitori stranieri a causa dell’assenza di finalità commerciali”. La soluzione è semplice: privatizzare tutto aprendo le porte ai grandi fondi finanziari, alle compagnie internazionali di assicurazioni e contemporaneamente cancellando il ruolo dello Stato come responsabile della salute della propria popolazione.
In Italia questo significa fare carta straccia della nostra Costituzione. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, di lingua, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” Così recita l’art. 3 che prosegue: “ E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”. Questa è senza dubbio la parte più innovativa che testimonia la grandezza della nostra Costituzione e che spiega perché tanti hanno fatto di tutto per modificarla. Infatti non si limita ad affermare dei principi teorici di uguaglianza ma affida esplicitamente allo Stato il compito di rimuovere tutti quegli ostacoli che non rendono pienamente fruibili i diritti declamati.
Nel caso della salute l’art. 32 recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti…”. Nessuno può quindi essere privato delle terapie necessarie a causa della sua condizione economica.
Ma per i governi l’importanza della nostra salute è pari a 0; un diritto universale è trasformato nel più produttivo businessdel secolo per gli squali della finanza internazionale e per i loro terminali politici. Se le aziende di Big Pharma non si sono scomposte di fronte alla condanna a 14 miliardi di dollari di multe in cinque anni per corruzione e pubblicità fasulla è perché si paga volentieri quando il reato produce guadagni molte volte maggiori delle sanzioni!
Nel frattempo undici milioni di italiani hanno rinunciato a curare almeno una patologia e negli Usa i più poveri muoiono in media 14 anni prima dei più ricchi; la metà delle persone sieropositive nel mondo non possono accedere alle cure e in quello che era il ricco Occidente oltre un milione di persone non possono assumere le nuove efficaci terapie contro l’epatite C solo per fare degli esempi.
Di fronte alle falsa recita del G7 decine di associazioni hanno costituito il comitato “Salute senza padroni e senza confini”e, insieme al Gue, gruppo parlamentare «Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica» e al gruppo consiliare «Milano in Comune», hanno organizzato a Milano due iniziative.
Sabato 4 novembre un “Forum internazionale per il diritto alla salute e l’accesso alle cure” nel quale si confronteranno ricercatori, scienziati, medici, biologi di altissima professionalità con attivisti di tutto il mondo per individuare obiettivi condivisi. I temi del Forum saranno: la disuguaglianza sociale come determinante di malattie, l’accesso alle cure, la privatizzazione dei servizi sanitari e le conseguenze sulla salute dei cambiamenti climatici.
Domenica 5 novembre si svolgerà un incontro tra i movimenti italiani attivi nella difesa della salute per organizzare insieme delle campagne nazionali.
Il 27 ottobre sono state consegnate alla Camera dei Deputati le firme della campagna “Ero Straniero. L’umanità che fa bene”, a sostegno della legge di iniziativa popolare di modifica della Bossi Fini: quasi 90.000 firme, di cui più di 20.000 raccolte nei Comuni della Città Metropolitana di Milano. Il progetto di legge dal titolo “Nuove norme per la promozione del regolare soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”, prevede: il permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione e attività d’intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri non comunitari; la reintroduzione del sistema dello sponsor (sistema a chiamata diretta); la regolarizzazione su base individuale degli stranieri “radicati”; nuovi standard per riconoscere le qualifiche professionali; misure per l’inclusione attraverso il lavoro dei richiedenti asilo; l’uguaglianza nelle prestazioni di sicurezza sociale; garanzie per un reale diritto alla salute dei cittadini stranieri; l’effettiva partecipazione alla vita democratica; l’abolizione del reato di clandestinità.
il manifesto, 3 novembre 2017 «Cercare voti nel 50% che non va più a votare o spostare consensi in chi si recherà al seggio? È la scelta che dovrà fare chi lavora per una lista unica della sinistra», con postilla
Le elezioni di primavera si avvicinano. Ciononostante il dibattito sulla praticabilità e le condizioni di una lista unica a sinistra, alternativa al Pd, non decolla. O, più esattamente, tutti ne parlano ma prevalgono i tatticismi e i non detti, i silenzi sui contenuti programmatici e sul metodo per arrivarci, i ballons d’essai per un “federatore” o un leader. Se si continua così la lista unica non si farà o sarà una aggregazione di vertice assai simile a quelle ripetutamente sconfitte nel decennio scorso. Conviene dunque, come si dice, mettere i piedi nel piatto.
Nelle decine e decine di dibattiti a cui ho partecipato dopo l’assemblea del Brancaccio del 18 giugno ho incontrato migliaia di persone, prevalentemente con i capelli bianchi ma anche giovani, provenienti da forze politiche ma ancor più “cani sciolti” delusi dalla politica e dai suoi interpreti.
La richiesta è stata unanime: ci vuole una lista unica (perché separati non si va da nessuna parte e si perde tutti) e in assoluta discontinuità con il passato (perché di personalismi, di accordi di vertice, di contenuti ambigui, di riproposizione degli stessi metodi e delle stesse facce non se ne può più). E poi: se non si farà una lista rispondente a entrambi quei requisiti non andremo a votare (come nelle elezioni scorse o per la prima volta).
So bene che quel che ho toccato con mano non è un campione statistico ma credo si tratti di un sentire assai diffuso, non solo nello zoccolo duro della sinistra.
Ci sono, del resto, dati univoci che lo confermano. In un quadro generale di fuga dal voto, chi se ne allontana di più è il popolo della sinistra (o quello che un tempo era il popolo della sinistra). Nelle ultime elezioni regionali (novembre 2014-maggio 2015) la più bassa affluenza alle urne si è verificata nella rossa Emilia Romagna, dove ha votato il 37,71 per cento dei cittadini (poco più di uno su tre), e in quelle amministrative della primavera scorsa la fuga dal voto ha riguardato soprattutto roccaforti storiche della sinistra (che, non per caso, hanno smesso di essere tali).
Basta guardare Genova e La Spezia, dove, al secondo turno, ha votato rispettivamente il 42,6 per cento (al primo 48,3) e il 46,5 per cento (55,3) degli aventi diritto.
Una parte consistente degli elettori della sinistra e di quelli a cui tradizionalmente la sinistra si è rivolta (cioè chi sta peggio) non vota più o guarda altrove: al Movimento 5Stelle e alla Lega, beneficiari di un voto di rancore sociale e di vendetta nei confronti di una classe politica ritenuta, nel suo insieme, responsabile della crisi e della disuguaglianza senza freni.
Questo trend ha avuto una inversione solo nel referendum costituzionale del 4 dicembre in cui il voto ha raggiunto la percentuale del 65,47 per cento, assolutamente inedita per quel tipo di consultazione: in cifra assoluta 33.244.258 votanti, 4.250.000 in più di chi ha votato nelle tanto celebrate elezioni europee del 2014.
Ovviamente non tutto quel surplus di elettori e della connessa valanga dei No ha sposato un progetto politico di sinistra. Ma una parte consistente lo ha fatto, manifestando con quel voto la propria contestazione nei confronti di un establishment (Governo, poteri economici e finanziari, grandi giornali) vissuto come estraneo e ostile. E si è trattato di uomini e donne, soprattutto giovani, che hanno trovato – lo si è toccato con mano nella campagna referendaria – entusiasmo e motivazioni che sembravano definitivamente perdute. La loro irruzione sulla scena pubblica è il fatto nuovo che può sconvolgere gli equilibri e aprire le porte al cambiamento.
Oggi la scelta per la sinistra è, dunque, chiara: rivolgersi a quel popolo per costruire insieme un’alternativa o muoversi nello spazio stretto del 50 per cento che ancora vota cercando di spostare qualche punto percentuale (magari approfittando del cupio dissolvi di altri, come sta accadendo per il centrosinistra in Sicilia).
Per una sinistra minimamente consapevole l’opzione non può che essere la prima. Ma non basta dirlo. Occorre praticarlo con scelte esplicite di rottura e di discontinuità Anzitutto con un programma essenziale e comprensibile a tutti fondato sul protagonismo del pubblico negli investimenti e nella creazione di posti di lavoro, su una effettiva progressività fiscale, sulla messa in sicurezza del territorio, sull’abbandono delle grandi opere e l’abbattimento delle spese militari, sul ripristino delle tutele fondamentali del lavoro, sul rilancio della scuola pubblica e del welfare, sulla centralità della questione morale, su politiche di accoglienza serie e responsabili.
Con una profonda novità di metodo comprensiva di un passo indietro dei partiti (reale e non gattopardesco), della definizione partecipata e dal basso delle candidature, di una leadership collegiale e rispettosa della parità di genere, di un impegno per la riduzione delle spese della politica. Su queste basi si può e si deve costruire una lista unica.
Subito – ché il tempo è ormai poco – e senza perdersi in discussioni sulle alleanze e nella ricerca di leader più o meno improbabili. Altrimenti quel che si profila sono soltanto divisioni o ammucchiate inconcludenti e impresentabili. Se così fosse è facile prevedere che saranno (saremo) in molti a tirarsi fuori dall’ennesimo suicidio annunciato.
Pepino ha ragione, ma non la dice tutta. Non basta riferirsi ai valori, alle formule, ai protagonisti della sinistra dei secoli scorsi- e agli sfruttati da loro difesi. Ciò che occorre per raccogliere il disagio e la rabbia degli sfruttati di oggi è molto diverso da quello del passato, e ben diverse sono le sfide che deve raccogliere una forza politica che voglia svolgere nel passato la Sinistra. Ci siamo ampiamente interrogati sulla questione nell'articolo La parola Sinistra, cui rinviamo (e.s.)
il manifesto,
Cerignola tornerà ad ospitare l’opera di Ettore de Conciliis dedicata a Giuseppe Di Vittorio. Il murale, sin dalla metà degli anni Ottanta abbandonato in frantumi nei depositi comunali – fu divelto per far posto ai nuovi cantieri di piazza della Repubblica – sarà ricollocato domani 3 novembre in piazza della Libertà. Con il restauro del murale «Giuseppe Di Vittorio e la condizione del Mezzogiorno» si conferma il recupero di una stagione pubblica e sociale della pittura italiana espressa tra gli anni sessanta e settanta del Novecento di cui de Conciliis, Rocco Falciano e le esperienze pittorico-installative del Centro di Arte Pubblica e Popolare di Fiano Romano restano un prezioso riferimento.
A Cerignola, intanto, si assiste ad un miracolo laico. L’opera, ridotta a scoria non più leggibile del nostro Novecento, tenuta in vita da un importante lavoro volontario che, negli anni, durante i vari trasferimenti, ha fotografato e documentato lo stato dei frammenti e permesso una prima catalogazione dei pezzi, ha confermato una straordinaria capacità di resistenza estetica. I lavori di restauro sul murale, in un hangar della zona industriale di Cerignola, sono appena terminati. Seguito dallo stesso de Conciliis, sui pannelli è intervenuto il lavoro Francesco Daddario. Il restauro, oltre al problema della caducità dei materiali industriali, si è presentato difficile per la messa in sicurezza ed il riassemblaggio dei quasi trecento frammenti in cui risultava scomposto. L’opera, completa investiva una superficie pittorica di circa centotrenta metri quadrati. I pannelli in Glasal – un fibrocemento simile all’eternit – accoglievano i colori delle resine industriali frammiste a pigmenti naturali.
L’opera – terminata in laboratorio nel settembre del 1974 e successivamente assemblata sul posto – evitando facili soluzioni agiografiche, racconta le vicende delle lotte contadine. Il volto del capo della Cgil si accompagna a quelli della moltitudine degli operai e dei braccianti. L’ulivo è raffigurato come rizoma ancestrale di un popolo che migra da un Mezzogiorno invaso dalle banconote partorite dal ventre della prostituta Babilonia. L’effetto fu disturbante.
Oggetto di una preoccupante campagna giornalistica, a tre giorni dalla sua installazione i neofascisti mitragliano il murale. Numerose, furono le testimonianze di solidarietà. In un suo scritto Renato Guttuso, ricordando l’esperienza di de Conciliis accanto a Siqueiros nel cantiere del Poliforum, definisce l’opera «generosa, geniale e disinteressata». Ad oggi, dell’originaria struttura installativa risultano quasi completamente recuperati i tre schermi laterali; completamente disperso, invece, quello inferiore.
Ancorati sui tre lati di un tronco di piramide rovesciato, i quattro pannelli, tagliati, a diverse altezze, in forma di bandiera, nel punto più alto raggiungevano, con la struttura metallica tubolare, i dieci metri. Dinamismo e integrazione plastica individuavano la struttura portante come forma significante capace di espandere e continuare la pittura. L’installazione, su tre lati, favoriva una lettura ottica d’insieme mentre, dal basso verso l’alto – con la presenza dello schermo oggi disperso – veniva assicurata la fruizione da un punto d’osservazione ravvicinato.
La possibilità di attraversare l’opera e la sua poliangolarità consentivano una particolare esperienza percettiva che, dal libero movimento dello spettatore, risultava aumentata, moltiplicata nella sua meccanica espressiva dalle infinite alterazioni delle sue possibilità visuali.
Confermata anche dalle letture di Carlo Levi e di Paolo Portoghesi, il murale per Di Vittorio guadagnava, nel suo rapporto con lo spazio pubblico, la coesistenza di valori pittorici, scultorei ed architettonici. La sfida, rinnovata nella nuova collocazione, resta quella di trovare, per un’opera che pittoricamente continua, in maniera aperta, ad interrogarci, il giusto rapporto tra percezione, spazio e invenzione plastica.
Riferimenti
Per comprendere (o ricordare) chi è stato Giuseppe Di Vittorio leggi l’articoloGiuseppe Di Vittorio e il “New Deal” per l’Italia, con i riferimenti in calce, e la Letterad’un bracciante sindacalista a un conte capitalista
internazionale,
Questa settimana i primi ministri di Israele e Regno Unito festeggiano un’enorme conquista sionista. Ma è arrivato il momento di fare un esame di coscienza. Il tempo di festeggiare è finito. Sono passati cento anni di colonialismo, prima britannico poi israeliano, e a farne le spese è stato un altro popolo. È stato un disastro senza fine. La dichiarazione Balfour avrebbe potuto essere un documento giusto, se avesse garantito un trattamento equo sia al popolo che sognava quella terra sia al popolo che la abitava. Il Regno Unito però preferì i sognatori, pochissimi dei quali vivevano in quel paese, a discapito degli abitanti, che stavano lì da centinaia di anni e che erano la maggioranza assoluta. A loro preferì non dare alcun diritto nazionale. Immaginate se uno stato promettesse di trasformare Israele nella patria nazionale degli arabi israeliani e chiedesse alla maggioranza ebraica di accontentarsi dei “diritti civili e religiosi”. È quello che successe all’epoca, ma in modo ancora più discriminatorio: gli ebrei erano una minoranza ancora più esigua (meno di un decimo) di quanto non lo siano oggi gli arabi israeliani.
Così il Regno Unito gettò i semi di una catastrofe che oggi continua ad avvelenare entrambi i popoli con i suoi frutti. Non c’è da festeggiare. Anzi, il centesimo anniversario della dichiarazione dev’essere un monito a rimediare all’ingiustizia mai riconosciuta, né dal Regno Unito né, ovviamente, da Israele. Dalla dichiarazione Balfour nacquero non solo lo stato di Israele, ma anche le politiche nei confronti delle “comunità non ebree”, come si legge nella lettera inviata dal ministro degli esteri britannico lord Arthur James Balfour al barone Rothschild, rappresentante della comunità ebraica e sionista convinto. La discriminazione degli arabi israeliani e l’occupazione delle terre dei palestinesi sono la continuazione diretta di quella lettera. Il colonialismo britannico spianò la strada a quello israeliano, anche se non era nelle sue intenzioni farlo continuare per altri cento anni.
Anche nel 2017 Israele s’impegna a garantire “diritti civili e religiosi” ai palestinesi, che però non hanno una patria. Balfour fu il primo a prometterne una. In quel periodo, negli anni della prima guerra mondiale, il Regno Unito fece varie promesse contraddittorie. Ne fece anche agli arabi, ma ha mantenuto solo quelle fatte agli ebrei. Come ha scritto Shlomo Avineri su Haaretz, l’unico scopo della dichiarazione Balfour era quello di minimizzare l’opposizione degli ebrei statunitensi alla partecipazione degli Stati Uniti alla guerra.
Dopo la dichiarazione Balfour, molti ebrei emigrarono in Palestina. Da subito si comportarono come padroni e il loro atteggiamento nei confronti degli abitanti non ebrei non è cambiato. Non fu un caso che un piccolo gruppo di ebrei sefarditi che abitavano in Palestina si oppose a Balfour e difese l’uguaglianza con gli arabi. E non fu un caso che furono messi a tacere.
La dichiarazione Balfour permise alla minoranza ebrea di controllare il paese, ignorando i diritti nazionali di un altro popolo. Cinquant’anni dopo la pubblicazione del documento, Israele conquistò la Cisgiordania e Gaza. Le invase con lo stesso piglio colonialista. E ancora oggi prosegue la sua occupazione, trascurando i diritti degli altri abitanti.
Balfour pensava che nello stato d’Israele gli ebrei avevano dei diritti e i palestinesi non li avevano e non li avrebbero mai avuti. Come i suoi successori nella destra israeliana, Balfour non lo ha mai nascosto. Nel suo discorso tenuto al parlamento britannico del 1922, lo dichiarò apertamente.
Nel centesimo anniversario della dichiarazione Balfour, la destra nazionalista dovrebbe chinare il capo e ringraziare la persona che ha dato origine alla superiorità ebraica in Israele, cioè Arthur James Balfour. I palestinesi e gli ebrei che vogliono giustizia invece dovrebbero essere in lutto. Se non ci fosse stata quella dichiarazione, forse oggi questo paese sarebbe diverso e più giusto.
il manifesto,
«Europa. Quelle strategie capaci di ribaltare la visione, arretrata e solo finanziaria, dell’attuale classe dirigente europea. Per gestire l’immigrazione come risorsa del futuro. Non più Stati e Regioni ma piccoli e grandi Comuni, uniche entità in cui la democrazia rappresentativa può essere affiancata da forme di partecipazione diretta»
Assistiamo al progressivo svuotamento dell’Unione europea intesa come organismo politico di governo, sia di ciò che succede nei territori di sua competenza, sia dei rapporti con gli altri paesi con cui è in relazione. È la sua riduzione a pura entità contabile addetta a tradurre in prescrizioni le decisioni dell’alta finanza, senza alcuna capacità o volontà di condizionarne o prevenirne le scelte letali.
A vigilare sulla obbedienza dell’Unione e degli Stati membri c’è la Bce che controlla la borsa: non il denaro che la grande finanza mette in circolazione e poi usa secondo convenienze alle quali anche la Bce si deve adeguare, come mostra il rimpolpamento delle casse delle banche svuotate dai loro amministratori; bensì il denaro che circola tra i cittadini e tra le imprese per mandare avanti le proprie attività, e che senza denaro vengono meno; ma che ormai sopravvivono sotto la minaccia di venir paralizzate, come in Grecia due anni fa.
L’UE, gli uomini e le donne che ne occupano le istituzioni, non hanno idea di come affrontare i problemi all’ordine del giorno: quello dei profughi, sia in Europa, dove continueranno ad arrivare, che nei paesi da dove fuggono. Eppure è la questione su cui l’Unione si sta sfaldando, ricostituendo i confini tra uno Stato membro e l’altro e spingendo i rispettivi governi in direzioni opposte. E sui profughi si è creata in tutti i paesi del continente anche una faglia tra accogliere e respingere che sta facendo saltare tutti i precedenti assetti politici.
Poi ci sono le guerre che l’Unione ha lasciato crescere lungo tutti i suoi confini; a volte accodandosi agli Stati uniti, a volte gestendole direttamente, a volte lasciando incancrenire la situazione, senza prendere iniziative comuni e autonome per riportarvi la pace. Con il passare del tempo, quei confini si sono allargati fino a comprendere tutti i paesi da cui provengono i profughi che ora l’Europa e il governo italiano cercano in tutti i modi di respingere.
In terzo luogo, la lotta per il clima riguarda sia gli impegni che l’Unione non sta rispettando, sia la necessità di rendere di nuovo abitabili territori da cui le popolazioni fuggono in massa, alimentando anche, ma certo non solo, il flusso dei profughi che cercano di raggiungere l’Europa.
Poi c’é la virata nazionalista e razzista in atto che sta trascinando tutto il continente in una corsa scomposta a chi promette di respingere di più e meglio i profughi. Infine il grand guignol della secessione catalana mette in evidenza quanto cittadini e cittadine europee siano insofferenti delle regole che Unione e Stati membri si sono date. Ma anche su di essa l’Unione è più muta e immobile di una mummia; e viaggia veloce verso la sua dissoluzione.
Ci vorrà un po’ perché una burocrazia abituata a gestire come feudi le istituzioni dell’Unione e una classe politica pavida e priva di visione riconoscano di occupare niente altro che un guscio vuoto, governato non da loro, ma dal cosiddetto pilota automatico inserito da Draghi a nome e per conto dell’alta finanza. Ma prima o dopo dovranno accorgersene e suscita ilarità l’idea che a restituire carne e sangue all’Unione possa essere Macron, passione di Habermas e Scalfari, ma soprattutto marionetta e beniamino dei beneficiari dello svuotamento delle istituzioni politiche europee.
Nessuno dei problemi all’ordine del giorno può essere affrontato senza misurarsi con tutti gli altri. E se il bandolo della matassa è una ineludibile quanto improbabile svolta di 360 gradi nei confronti dei profughi – perché da questo dipende l’agibilità politica necessaria ad affrontare tutto il resto – occorre prendere atto che alla base di tutto c’è la politica di austerità a cui governi nazionali e istituzioni europee continuano a essere attaccati come un’ostrica al suo guscio. È questa la vera barriera che gli Stati dell’Unione hanno eretto, a partire dal 2008, contro l’arrivo di un numero di profughi mai superiore a quello dei migranti che arrivavano ogni anno nei decenni precedenti e con i quali l’Europa aveva realizzato la ricostruzione postbellica, il «miracolo economico» e la sua trasformazione in un’economia globale: ruolo che da dieci anni sta invece perdendo.
Oggi, chiuse in una visione meschina, miope, cinica e alla fine razzista, le classi dirigenti europee hanno imboccato un vicolo cieco che decreta la morte o l’imbalsamazione dell’Unione, ma segna anche il loro irriducibile tramonto.
All’orizzonte si affaccia ormai l’ombra nera di un passato che ritorna senza nemmeno essersi cambiato gran che d’abito.
A fermarla non possono essere personaggi che hanno ridotto il progetto di Ventotene a un morto che cammina, ma solo la costruzione di un movimento di massa che, partendo dall’unificazione delle tante forze disperse oggi impegnate in iniziative di accoglienza e di inclusione dei profughi, sappia farne la leva per affrontare anche gli altri problemi: con un programma di conversione ecologica per creare milioni di posti di lavoro con cui offrire a profughi e migranti le stesse opportunità di inclusione che spettano ai milioni di disoccupati e di precari che le politiche di austerità hanno disseminato negli ultimi dieci anni.
Con una riorganizzazione delle comunità straniere – profughi e migranti sia di recente che di antica immigrazione – che ne faccia i protagonisti di un programma di pacificazione dei loro paesi di origine.
Quello che le cancellerie europee hanno dimostrato di non sapere né voler perseguire; ma anche con tanti progetti di risanamento ambientale e sociale di quei territori che riapra la prospettiva di un ritorno volontario di tutti quelli che lo desiderano: innescando così un movimento circolare fondato su una vera cooperazione, non affidata alle multinazionali né ai governi corrotti e feroci tenuti in piedi dalle cancellerie europee, ma a organizzazioni di profughi, di migranti, delle loro comunità di origine. E da una grande leva di giovani europei desiderosi di sperimentarsi in un programma di riconversione ecologica che abbracci sia i propri paesi che quelli in cui mettere alla prova il proprio impegno solidale.
Infine, con una rifondazione dell’Europa, non come federazione di Stati né di Regioni che ne scimmiottino le politiche fallimentari, bensì di municipalità. Comuni piccoli riuniti e di decentramenti di Comuni grandi legati tra di loro attraverso processi negoziali e uniche entità in cui la democrazia rappresentativa, ormai alle corde, possa essere positivamente affiancata da una democrazia partecipata di prossimità. Per riterritorializzare mercati, produzioni agricole e attività industriali, relegando progressivamente euro e mercato mondiale a ruoli sussidiari; e per riportare così democrazia e politica al loro significato originario: quello di autogoverno.
il manifesto,
Israele/Palestina. Oggi è l'anniversario del documento con cui cento anni fa la Gran Bretagna promise un "focolare ebraico" in Palestina. Israele celebra, i palestinesi chiedono le scuse di Londra. La partenza ieri del premier israeliano Netanyahu per Londra, dove prenderà parte con i massimi rappresentanti politici britannici, ad eccezione del leader laburista Jeremy Corbyn, alle celebrazioni per il 100esimo anniversario della Dichiarazione Balfour - che promise un “focolare ebraico” in Palestina aprendo la strada alla nascita di Israele -, è stata accompagnata ieri dall’ironico saluto organizzato a Betlemme da Banksy.
il manifesto
«Liste&alleanze. L'avvocata dell'area civica del Brancaccio: Grasso stimabile ma il metodo no, prima scriviamo il programma e poi chi lo sa incarnare davvero. Bersani e D’Alema come capi no, serve più coraggio. Ma per le candidature anche Rifondazione ricordi che le assemblee saranno democratiche e sovrane»
Il 18 novembre terranno un’assemblea nazionale «di restituzione del programma, con tavoli tematici in cui confluiranno le proposte arrivate dai territori e sulla piattaforma online. Lavoro, diseguaglianza, economia, Europa» così la spiega Anna Falcone, avvocata e capofila dell’«alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza», a sinistra chiamata sbrigativamente ’quelli del Brancaccio’, dal teatro romano dove si sono autoconvocati lo scorso 18 giugno. Il numero degli iscritti al movimento ancora non c’è, spiega, «abbiamo attivato le adesioni online, per pronunciarsi sulle nostre proposte bisognerà fare un’iscrizione certificata. Ma ancora non abbiamo tirato le somme». Dopo l’assemblea quest’area confluirà – se ce ne sono le condizioni – con altre forze della sinistra in un’altra assemblea, a dicembre, per il varo di una lista unitaria. «Abbiamo chiesto che sia un’assemblea democratica, non solo confronto fra gruppi dirigenti. Bisogna dimostrare che cambiamo metodo, non solo proposta politica. Non dobbiamo rischiare di essere un’accozzaglia di sigle. Il nostro obiettivo è portare al voto almeno il 50 per cento degli elettori di sinistra che non vota più».
Avvocata, avete gelato gli entusiasmi dei vostri compagni di strada sul presidente Grasso. Non è ’il nostro programma vivente’ come lo definisce Nichi Vendola?
«Ho la massima stima di Grasso, gli riconosco un’identità di sinistra che ha speso nella sua storia precedente da servitore dello stato. Ma dopo aver perso sei mesi dietro all’indicazione della leadership di Pisapia vorrei evitare di perdere altri mesi sull’indicazione di un altro leader, Grasso o no. Non sarà un leader più o meno carismatico a riportare al voto i delusi, ma riuscire a far capire che la nostra proposta può cambiare loro la vita. Anche in parte, sul lavoro, sulle diseguaglianze fra chi vive nelle periferie del paese o in quelle sociali».
Il problema è il metodo con cui scegliere un leader, o non volete un leader?
»Intanto non vogliamo un leader indicato dai media, anche loro come la politica hanno un problema serio di scollamento dalla vita reale. Chiediamo di procedere per priorità: scriviamo un programma insieme, diamo risposte convincenti, e solo alla fine sceglieremo le migliori candidature e la migliore leadership che incarni quel programma. Invertire le priorità è segno di debolezza. Ed è debolezza cercarsi ogni volta un soggetto terzo, buono per la sua credibilità personale, a prescidere dal programma. C’è una nuova classe dirigente che emerge, una nuova generazione che dovrebbe prendersi la responsabilità di essere portavoce del progetto. Comunque a me piacerebbe una leadership diffusa».
Intanto di voi ’civici’ in prima fila siete sempre e solo in due, lei e il professore Montanari. Le vostra ’leadership diffusa’ quando arriverà?
«Dopo l’assemblea del 18 novembre. Ma guardi che la stragrande maggioranza dei nostri incontri in giro per l’Italia si svolgono senza di noi».
Un leader della lista comunque dovrete sceglierlo. Il Rosatellum prevede che sia indicato il «capo della forza politica».
«Chi incarna un programma dev’essere coerente con quello. Se scegliamo prima il leader svuotiamo di significato e di forza il programma. In una società quotata prima si sceglie la nuova mission e poi l’amministratore delegato giusto per la mission».
Ai tempi di Pisapia eravate contro un leader che aveva votato sì al referendum. Non va bene neanche chi è stato nel Pd?
«Ci mancherebbe altro. Vogliamo costruire un campo largo e non facciamo liste di proscrizione. Se parla di Grasso, ripeto, è persona stimabilissima. Ma oltre al metodo c’è un problema di coraggio. Grasso è rassicurante perché ha servito lo stato. Ma gli italiani non ci chiedono di essere rassicurati, ci chiedono di essere coraggiosi. Se la leadership fosse nelle mani dei cittadini sono sicura che farebbero una scelta più coraggiosa».
Per Rifondazione, che partecipa alle vostre assemblee, ministri e esponenti dei governi del fu centrosinistra devono restare fuori dalle liste. Tradotto: no a Bersani, D’Alema. E altri. La pensa così anche lei?
«Certo non possono essere leader. Ma per le candidature invito tutti, anche Rifondazione, a ricordare che le assemblee saranno democratiche e sovrane. Si converge su un programma, e tutto il resto arriverà in coerenza. Non credo che ci voterebbero se dicessimo: abbiamo un programma radicale, innovativo e coraggioso, alla Corbyn, alla Sanders, ma un leader della stagione dei governi precedenti. A Rifondazione ricordo anche di non iniziare dai veti che dividono. Abbiamo un obiettivo preciso: andare in parlamento per evitare che i suoi due terzi possano cambiare la Costituzione. Per questo dobbiamo far eleggere una seria rappresentanza di una nuova sinistra.».
Davvero avete frenato la convergenza con Mdp per le offerte tattiche di dialogo di Speranza a Renzi?
«C’è una parte di Mdp che continua a pensare in maniera ossessiva all’elettorato del Pd e fa passi comprensibili in quel mondo, volti a raccogliere l’elettorato in fuga dal Pd. Ma è una cosa incomprensibile all’esterno. L’elettorato in fuga dal Pd ci voterà non per i tatticismi e le stoccatine ma per un programma coraggioso, magari anche più di quello di Italia bene comune».
E ora con Mdp vi siete chiariti?
«È un problema che deve chiarire Mdp al suo interno e con la sua base. Che viene alle nostre assemblee ed ha le idee chiare. Non capisco le timidezze dei dirigenti».
il manifesto
Guido Viale, Parole usurate. Slessico familiare, prospettive aperte (Edizioni Interno 4, pp.184, euro 14)
È l'operazione che compie Guido Viale nel suo recente Parole usurate. Slessico familiare, prospettive aperte, un testo tempestivo e prezioso per l’ampiezza dei campi semantici (e culturali) esplorati, ma anche per il vigore dell’argomentare e il nitore dell’esposizione. Pur nella necessaria sintesi del quadro, «uno schizzo del mondo in cui viviamo, certo incompleto», Viale individua tuttavia le parole-chiave per disvelare l’universo concentrazionario in cui il pensiero unico ha trascinato l’immaginario contemporaneo. Si pensi a uno dei termini più osannati dal conformismo totalitario di oggi: il merito. Viale ricorda come dietro l’esaltazione del valore, del meglio, del più bravo, si celi «una visione del mondo che giustifica e promuove la competizione universale - una versione totalizzante di darwinismo sociale - come soluzione ’naturale’ di tutti i problemi: il sistema ottimale, si sostiene, per allocare le risorse - anche quelle cosiddette ’umane’ - e promuovere il benessere di tutti. Il darwinismo sociale legittima le diseguaglianze responsabilizzando o colpevolizzando gli individui per la loro condizione: ciascuno è quello che è - povero o ricco, potente o emarginato, dirigente o subordinato, vittorioso o soccombente - perché ’se l’è meritato’, ’se l’è voluto’, ’se l’è andata a cercare’».
In questo "slessico", tuttavia, non troviamo solo la demolizione teorica di lemmi ormai usurati del pensiero dominante. Alcune parole offrono a Viale l’opportunità di revisioni sorprendenti per originalità e ardimento intellettuale. Basti pensare al termine proprietà: «La più antica, persistente e fondativa forma di appropriazione, ovvero di proprietà (’il terribile diritto’, per Stefano Rodotà), nelle diverse forme che ha assunto nel corso della storia, è quella degli uomini sulle donne. Su di essa si sono modellate tutte le altre forme di proprietà che hanno accompagnato il succedersi delle civiltà: sugli animali addomesticati, sui campi, sui pascoli e le foreste, sugli schiavi, sui palazzi, sul denaro, sul capitale, sui mezzi di produzione, sulla conoscenza, sul genoma: tutte forme di accaparramento di ciò che è fecondo o ritenuto tale, di ciò che produce o promette di produrre. Il modello è la fecondità della donna, la produzione della propria prole, considerata da sempre la forma fondamentale e irrinunciabile della ricchezza: la perpetuazione, in altre vite, della propria esistenza».
L’attenzione di Viale spazia su temi lontani tra loro e anche dai suoi precedenti interessi. Osserva i mutamenti psicologici indotti dai media: « Le cascate di parole e immagini che ci investono attraverso i media audiovisivi difficilmente si depositano e, come la moneta cattiva scaccia quella buona, l’inflazione di informazioni e immagini prodotta dai media restringe progressivamente lo spazio riservato ai contenuti meditati. La scuola – ancora quasi interamente affidata alla parola scritta in quotidiana competizione con la marea di suoni, immagini e parole, gridate, sussurrate o cantate, prodotta dai media – è stata la prima vittima di questo passaggio».
E tuttavia Viale segnala anche le grandi conquiste del pensiero alternativo e antagonistico, soprattutto quelle provenienti da una nuova «ecologia delle mente», per citare Bateson, e quelle del mondo ambientalista, che propongono un’«economia circolare» e non più «estrattiva», riconsegnano gli uomini alla loro dimensione naturale, riconsiderando la natura come un tutto organico in cui si consuma anche il nostro destino di viventi. E di certo un contributo culturale importante è quello dei capitoli finali del libro, in cui Viale condensa le conquiste teoriche del pensiero anticapitalistico degli ultimi decenni proiettandole verso una dimensione progettuale.
Leggendo queste pagine non ci si può sottrarre alla considerazione di un gigantesco paradosso. Nell’ambito della sinistra radicale si è accumulato, anche in Italia, un sapere sociale di straordinaria ricchezza e potenza, che rimane frammentato e disperso, e a cui corrisponde, in larghissima parte, un ceto politico che sembra aver chiuso ogni rapporto con la cultura.
Internazionale
I poveri che gravitano attorno alla stazione lo fanno per cercare risposta a semplici necessità, come quella di trovare un bagno per lavarsi o un riparo tranquillo per la notte. E, ancora, la stazione è un luogo dove chiedere l’elemosina o proporsi come facchini. Al culmine di questa campagna, il sindaco Virginio Merola ha incontrato i rappresentanti del governo e delle Ferrovie dello stato italiane spa (Fs). Invece di respingere l’odiosa equiparazione della povertà con il crimine, dalla riunione è uscita la promessa di realizzare “in tempi rapidi [il] maxi progetto di adeguamento strutturale della stazione per filtrare gli accessi”. La stazione sarà dotata di gate, cioè di varchi presidiati che consentono l’accesso ai binari solo a chi ha un titolo di viaggio. Una soluzione già da tempo studiata dalla Rete ferroviaria italiana (Rfi, gruppo Fs) e auspicata dalla destra bolognese.
In verità, la nostra vita è costantemente nutrita anche, o forse soprattutto, da chi "non c'è più"e che facciamo rivivere ogni volta che ascoltiamo una musica, guardiamo un'opera d'arte, leggiamo un libro importante avuto in dono – collettivamente- dal suo autore .
Come scienziati sociali, come studiosi di urbanistica e di culture urbane, siamo debitori ad Amalia Signorelli, che si spenta il 25 ottobre, di un patrimonio veramente importante di conoscenze e di strumenti metodologici con i quali leggere "l'esserci nel mondo", le sue trasformazioni, i conflitti sociali e culturali. Del suo maestro, il grande Ernesto De Martino, ci ha aiutato a capire la statura e a decifrarne i pensieri e lo stile, facendolo poi suo in modo autonomo e originale. E' così che ha saputo trasferire le categorie demartiniane nello studio delle dinamiche “indotte e condizionate dall'esistenza di uno spazio urbano costruito, dotato di certe capacità di costrizione e condizionamento dell'agire umano” (in Antropologia urbana, 1996:202).
Con la lente speciale del ben noto concetto di "crisi della presenza" Amalia Signorelli si è inoltrata nel mondo "altro da noi" nel quale siamo tuttavia immersi e che quasi mai siamo in grado di comprendere e spiegare: gli immigrati, i subalterni (gramscianamente intesi) i discriminati nei rapporti di genere.
Tenerissimo il suo gioire di fronte a Concettina, una delle contadine meridionali incontrate negli anni della sua ricerca antropologica sul tarantismo, che si rivolse a lei per chiederle di darle “la medicina per non comprare bambini”, la pillola anticoncezionale, e che Amalia ha interpretato come l'emergere di un'inedita volontà di un futuro “in cui l'eros non le fosse precluso dalla paura delle gravidanze a ripetizione”. E appassionata la sua vicinanza agli abitanti del centro storico di Pozzuoli "deportati"nel quartiere-ghetto di edilizia popolare di Monterusciello.
Ma la "comprensione" la vicinanza politica (quel rifiuto dello sfruttamento, del dominio, dell'alienazione come fatti inevitabili che hanno fatto di lei una donna coerentemente "di sinistra'") non ha impedito ad Amalia di ricercare con rigore scientifico le specificità e i connotati della cultura dei subalterni, della loro concezione dello spazio e delle loro relazioni con lo spazio, radicalmente e irrimediabilmente altre rispetto a quelle dei dominanti, a partire dai professionisti della progettazione urbana e architettonica.
Il suo importante saggio pubblicato sulla rivista "La ricerca Folklorica"(20, 1989) con l'eloquente titolo Spazio concreto e spazio astratto. Divario culturale e squilibrio di potere tra pianificatori e abitanti dei quartieri di edilizia popolare ha dato l'avvio ai successivi studi e scritti sulle città e sull'immigrazione che ci hanno proposto fino all'ultimo interpretazioni originali e decisamente controcorrente, anche rispetto a chi si sente parte della sinistra.
Nell'intervista di Simona Maggiorelli ripubblicata da Left il 25 ottobre, giorno della sua morte, Amalia parla della necessità di oltrepassare sia lo sterile razionalismo sia il decostruzionismo tutto emozionale per rintracciare quel filo rosso che collega tutti gli accadimenti della storia umana. Ma, aggiunge, se quel filo rosso non lo si riesce a trovare, “bisognerà costruirlo e costruirlo credibile”. Lei l'ha fatto e ora tocca a noi continuare.
Pressenza, . «Siamo sempre in tempo a tornare al dialogo. Succeda quel che succeda, non smetteremo di chiederlo. Ma ora ci tocca difendere le istituzioni catalane, lottare per preservare la coesione sociale e il benessere di Barcellona e della Catalogna». (m.p.r.)
A furia di parlare di scontro tra treni al condizionale ci siamo arrivati, si fa fatica a pensare che sia successo oggi. Un decennio di negligenze del Partito Popolare nei confronti della Catalogna culmina oggi con l’approvazione in Senato dell’articolo 155. Rajoy lo ha presentato in mezzo agli applausi dei suoi, facendo vegognare tutti coloro, come noi, che rispettano la dignità e la democrazia. Applaudivano il loro fallimento? Coloro che sono stati incapaci di proporre qualunque soluzione, incapaci di ascoltare e di governare per tutti, consumano oggi il colpo di stato alla democrazia con l’annichilamento dell’autogoverno catalano.
Sulla stessa rotaia ma in direzione contraria c’è un treno più piccolo, quello dei partiti indipendentisti, a tutta velocità, con piglio kamikaze, dietro una lettura sbagliata delle elezioni del 27 Settembre. Una velocità imposta da interessi partitici, in una fuga in avanti che si consuma oggi con una Dichiarazione d’Indipendenza fatta in nome dell Catalogna, ma che non ha l’appoggio della maggioranza dei catalani.
Non ci stancheremo di ripeterlo: è un errore rinunciare all’80% a favore di un referendum concordato prendendosi un 48% a favore dell’indipendenza. Molti, moltissimi, sono anni che mettiamo in guardia sul pericolo e, nelle ultime settimane, che lavoriamo pubblicamente e privatamente per evitare questo scontro. Siamo la maggioranza, in Catalogna e in Spagna, noi che vogliamo che le macchine si fermino, che si imponga il dialogo, il buon senso e una soluzione concordata.
Siamo sempre in tempo a tornare al dialogo. Succeda quel che succeda, non smetteremo di chiederlo. Ma ora ci tocca difendere le istituzioni catalane, lottare per preservare la coesione sociale e il benessere di Barcellona e della Catalogna. Staremo con la gente, lottando affinché non si tocchino i loro diritti. Curando le ferite che tutto questo sta causando e chiedendo alla gente del resto dello stato di lottare uniti perché questa democrazia è anche la loro. Nemmeno smetteremo di chiedere al Partito Socialista che cessi di appoggiare coloro che oggi applaudono; se no sarà impossibile che siano parte di un’alternativa credibile e che dia speranza.
Ho chiaro dove starò: coinvolta nella costruzione di nuovi scenari di autogoverno che ci diano più democrazia, non certo meno. Questo comprende cacciare il Partito Popolare che oggi, con i suoi applausi crudeli, fa festa del dolore di tutto un popolo. Ma anche, e sopratutto, lavorare per rendere femminile la politica, per ottenere che l’empatia sia una pratica abituale che permetta di costruire grandi consensi in cui la nostra diversità sia il nostro maggior tesoro.
Non in mio nome: né 155 né dichiarazione d'Indipendenza.
il Fatto Quotidiano,
E così l’appello parte dalla pagina “Boia chi molla”. “L’Italia – si legge – ha bisogno di noi. Uniamoci e risolviamo la situazione”. E dunque ecco l’attualità declinata alla maniera neo-fascista. Dallo Ius Soli all’immigrazione alla nuova legge di Emanuele Fiano (il ddl sulla propaganda fascista), lui figlio di Nedo che ad Auschwitz ci passò, perse la famiglia, e riuscì a sopravvivere. Tema questo dibattuto su molte pagine. Fiano “il talebano”. Giuseppe Noce dalla pagina “Benito Mussolini” avverte il politico del Pd: “La guerra è finita caro Fiano, non ricordare sempre le stesse cose anzi bisogna togliere i campi di concentramento che li avete lasciati per ricordare l’Olocausto basta. Le cose brutte vanno tolte sono baracche che fanno male invece ne avete fatto dei luoghi di pellegrinaggio”. Mario e Patrizia Curatolo rilanciano: “Figlio de na… anche se cerchi di cancellare qualsiasi scritta o scultura appartenenti al fascio ricordati che saranno indelebili nel cuore di ognuno di noi appartenente al fascio viva il Duce”.
Territorio e identità deviata. “Difendi la tua città”, le cosiddette pagine del “gentismo”. “Sei di Pavia”, ad esempio. “L’odio non potrà mai scalfire la purezza del nostro amore”. Citando il testo del gruppo Rac Ddt: “Basta una canzone, basta un bottiglia. Quante braccia tese, è la tua famiglia”. Nelle ricerca di Giovanni Baldini le pagine dei gruppi musicali sono circa 122. Soli neri e simboli nazisti, white power, odio e aryan rock. Come quello dei veneti Katastrof che inneggiano a Priebke: “Tu sei rimasto fedele all’ideale supremo. Sarai sempre esempio per la bianca gioventù!”. Di tutto e di più nella nebulosa dei neo-fascisti italiani. Legati dalla nostalgia, nascosti dentro l’odio populista per il diverso.
La locandina del concorso |
WHEN THE ACSA AND THE STEEL LOBBY INVITE YOU TO DESIGN A “HUMANITARIAN DETENTION CENTER”
link al sito di .
The Association of Collegiate Schools of Architecture (ACSA) is currently organizing a design competition for architecture students in the United States and Canada in partnership of the steel lobby represented here by the American Institute of Steel Construction (AISC). As usual, in this kind of partnerships, the lobby’s product does not solely constitute the main element that is required to be used in the designed projects, it is also ‘generously’ promoted by the ACSA in a paragraph entitled “Advantages of Steel” that ratifies the ambiguity between the neutrality they are expected to manifest in a brief not explicitly characterized as an ad space and the sponsorship of a material lobby. Although there would be a lot to write about these practices, the subject of this article is elsewhere.
"The Opportunity: challenges architecture students to create a more humanitarian design of a Detention Center by emphasizing family and community rather than isolation. Steel offers great benefits in this endeavor, as it allows for longer spans and more creative light filled spaces."
These two lines of brief are then followed by an online page describing the specifics of the competition. The first sentence is eloquent: “The Steel Competition seeks to understand the potential of an architecture of alterity by positioning a third-space between difference and the same by redefining ICE, or an Immigration and Custom Enforcement Facility to create a more Humanitarian Design of a Detention Center” (my emphasis). Language is important and the idea of creating a position that would neither be “different” or “the same” appears as a symptom of what Orwell calls “newspeak” in 1984 (1949): the encompassing of all truth discourses in one sentence to deactivate language’s signification and enforce the status quo.
When one reads further, the language of humanitarism begins to appear. We learn that 65.3 millions of people are currently displaced worldwide, and that “according to the UNHCR statistics, one person for every 113 is currently displaced from their communities because of conflict, resulting in the largest number of asylum-seekers looking for a better, safer life than ever recorded in history.” The next sentence then set the tone: “For the asylum-seeker or immigrant, the in-between grey area is where the question is being addressed: does this person or family have jurisdiction to be on another countries soil?” Besides the inaccurate use of the term “jurisdiction” here (perhaps it was decided that using the word “rights” would have mobilized an imaginary of social struggles that would have not served the brief), we understand that despite the tragic reality that the figures just described, the hospitality of displaced people in countries that appear in the brief as independent in the reasons that triggered these displacements cannot be implemented, hence the need for the existence of detention centers. The last sentence of the brief finishes to crystallize the newspeak call for projects: “How can we look at the design of a Detention Center—a nonplace that exists between immigrant and citizenship, or difference and the same—as a way to architecturally humanize displacement?”
It is important to understand that the extreme ambiguity of language here (“a nonplace […] between […] difference and the same,” “architecturally humanize displacement”) is less due to the poor writing skills of the brief’s authors and much more about the way the packaging of the information is made to erase the complicity of architects with the program itself and made them feel instead as humanitarian workers, whose role is not to question the structure in which they operate, but rather propose a punctual help to those who experience its violence. The terms of structure should however invite us to think otherwise, as this term belongs to the lexical field known of architects. However, if we do not limit the definition of architects to the narrow understanding of a diploma-sanctioned profession, but rather extend it to all actors whose technical expertise in terms of space organization is mobilized to materialize the spatial order we call a building, we can see how political programs of this kind could not be implemented (durably) without their contribution.
Architects’ general capacity for outrage is a somehow laudable one, and we’ve seen it when the American Institute of Architects (AIA) only waited a few hours after the current US President’s election to declare its will to work in concert with his administration (see past article), or when architects were consulted to build the rest (many seem to forget that a third of it already exists!) of the militarized border wall between the US and Mexico; yet, the formulation of the outrage is at least as important than the outrage itself. Too often, this formulation occupies the space Western ideology leaves on purpose to its own critique in order to gain more legitimacy, and therefore ultimately reinforces that against what it claims to be fighting. As always when it comes to the architects’ contribution to carceral facilities, the question should be less about whether or not they should accept such commissions than to examine the ways through which architecture is almost always exclusively materializing the social order in which the carceral condition is not simply a part but also an unsurpassable dimension.
But this competition does not just allow us to wonder about architects’ responsibility in the enforcement of this social order; it also inadvertently allows us to ponder on what is humanitarianism. The very notion of “humanitarian Detention Center” that constitutes the explicit program of this competition could indeed appear to many as a contradiction in itself, a detention center being, by definition, at odds with the notion of humanitarianism. I however would like to insist that not only there is no contradiction contained in the association of these terms, but that the latter even expresses the core of Western militarized humanism. Humanitarianism does not consists in a political struggle against the violence of its structures. Rather, it claims to embody an apolitical position that mitigate this violence when, in fact, it makes this violence disappear from regimes of visibility, legitimizes it, and ultimately reinforces these structures to which it is fully part of. What these considerations for architects and humanitarians only leave as tenable option, is their contribution to the dismantlement of the social order and its violence that they materialize. In this regard, solidarity with political movements that aim at abolishing all forms of carceral institutions constitutes a good start.
Internazionaleeddyburg e ora qui tradotto interamente. E' un esortazione a superare la fobia per i migranti perchè "renderanno più ricchi i loro nuovi paesi, in tutti i sensi".(i.b.)
La versione in inglese, precedentemente ripresa da eddyburg la trovate qui.
Era un passaporto britannico rilasciato ai cittadini di origine indiana nati in Kenya prima dell’indipendenza dal Regno Unito, come mia madre. Ma nel 1968 il parlamentare britannico Enoch Powell, del Partito conservatore, aveva fatto il suo celebre discorso sui “fiumi di sangue”, mettendo in guardia il suo paese dai pericoli che correva accogliendo le persone con la pelle scura o nera, e il parlamento aveva approvato una legge che privava sommariamente centinaia di migliaia di detentori di passaporti britannici dell’Africa orientale del diritto di vivere nel paese che gli aveva dato la nazionalità. Il passaporto non valeva letteralmente la carta su cui era stampato. Era diventato, di fatto, un marchio di Caino.
Per gran parte della nostra storia come specie, da quando ci siamo evoluti da cacciatori raccoglitori a pastori, noi esseri umani non siamo stati in sintonia con il movimento radicale e continuo reso possibile dalla modernità. Per lo più siamo rimasti in un unico luogo, nei nostri villaggi. Tra il 1960 e il 2015, il numero complessivo dei migranti è triplicato raggiungendo il 3,3 per cento della popolazione mondiale. Oggi le persone che vivono in un paese diverso da quello in cui sono nate sono 250 milioni, una su 30.
Nello stesso tempo c’è stato un aumento drammatico della disuguaglianza economica. Oggi gli otto individui più ricchi del mondo – tutti uomini – hanno più di quanto possiede metà del pianeta, vale a dire 3,6 miliardi di persone messe insieme. La concentrazione di ricchezza porta anche a una concentrazione di potere politico e a un dirottamento dello sdegno per la disuguaglianza, che viene allontanato dalle élite per essere indirizzato contro i migranti. Quando i contadini inseguono i ricchi con i forconi, per i ricchi la cosa più sicura da fare è dire: “Non date la colpa a noi, ma a loro”, e indicare gli ultimi arrivati, i più deboli.
Qual è la diferenza tra rifugiato e migrante? È una scelta terminologica strategica da fare alla frontiera quando ti chiedono chi sei. L’etimologia è il destino. Se sei solo un migrante “economico” potresti essere rispedito indietro, ma potresti anche essere temuto se t’identificano come rifugiato. Che tu stia fuggendo da qualcosa o fuggendo verso qualcosa, sei comunque in fuga.
Il rifugiato, come ha detto il sociologo Zygmunt Bauman in un’intervista del 2010 al New York Times, porta con sé lo spettro del caos e dell’illegalità che lo hanno costretto ad abbandonare la patria. Porta con sé il disordine economico e politico che fu provocato dai paesi ricchi e ordinati quando si sbarazzarono della popolazione in eccesso scaricandola sulla colonie e poi si ritirarono, lasciando dietro di sé stati poco definiti. Ma il rifugiato soffre per la mancanza di uno stato. Non può
“tornare a casa”, perché la sua casa è stata distrutta da bande di criminali o dalla desertificazione. E così, portando sulle spalle il fardello del suo stato fallito, viene a bussare alle porte dell’occidente, e se ne trova una aperta s’infila dentro, non benvenuto ma a malapena tollerato.
Nelle nazioni ordinate respingiamo il rifugiato perché è la somma delle nostre peggiori paure, il futuro incombente del ventunesimo secolo portato in forma umana alle nostre frontiere. Dal momento che nel paese da cui proviene non era necessariamente povero – forse un anno fa, prima che tutto cambiasse, era un uomo d’affari o un ingegnere – il rifugiato è il promemoria vivente del fatto che anche a noi potrebbe succedere la stessa cosa. Tutto potrebbe cambiare radicalmente e irrevocabilmente, all’improvviso.
L’occidente non viene distrutto dai migranti, ma dalla paura dei migranti. Eppure i paesi più ricchi del mondo non riescono a decidere cosa vogliono fare: vogliono certi emigranti e altri no. Nel 2006, il governo olandese cercò di rendersi sgradevole ai potenziali migranti musulmani e africani realizzando un film. Nei Paesi Bassi, con scene di coppie gay che si baciavano e donne in topless che prendevano il sole. Il film era un sussidio didattico per un esame d’ammissione che costava 433 dollari. Era obbligatorio per i migranti che arrivavano per ricongiungersi con i loro familiari, esclusi quelli che guadagnavano più di 54mila dollari all’anno o i cittadini di paesi ricchi come gli Stati Uniti. Il film mostrava anche i quartieri fatiscenti dove gli immigrati potevano ritrovarsi a vivere. C’erano interviste con immigrati che definivano gli olandesi “freddi” e “distanti”. Il film si dilungava sugli ingorghi di traffico, i problemi per trovare lavoro e gli allagamenti periodici.
Nel 2011 la città di Gatineau, in Québec, pubblicò una “dichiarazione di valori” in cui metteva in guardia i nuovi immigrati dagli “odori forti emanati dalla cucina”, che potevano disturbare i canadesi. La dichiarazione informava anche i migranti che in Canada non si potevano corrompere i funzionari pubblici e che era meglio presentarsi puntuali agli appuntamenti. Faceva seguito a una guida pubblicata da un’altra cittadina del Quebec, Hérouxville, in cui si avvertiva che lapidare a morte qualcuno in pubblico era espressamente vietato. L’ammonizione fu tenuta in debito conto dall’unica famiglia di immigrati della cittadina, che si astenne dal lapidare le sue donne in pubblico.
In Germania, la “cultura di accoglienza” è cambiata nell’arco di una sola stagione, dal settembre di espiazione del 2015, con l’apertura delle frontiere, al “rifugiati stupratori andate a casa” dopo le molestie di Colonia del capodanno dello stesso anno. Di tutti i profughi, quello che spaventa di più è il migrante maschio senza una donna, con gli occhi che divorano famelicamente la carne nuda della donna bianca. Le parole usate dalla stampa popolare o dai politici di destra per descrivere questi afgani o marocchini sono simili alla terminologia impiegata per definire i neri negli Stati Uniti all’inizio del novecento: pervertiti affamati di sesso. Nel 1900, il senatore Benjamin Tillman del South Carolina dichiarò nell’aula del senato federale: “Non abbiamo mai creduto che un nero fosse uguale a un bianco, e non accetteremo di vedergli soddisfare la sua lussuria sulle nostre mogli e le nostre figlie senza linciarlo”.
Dopo aver attraversato il confine con la Serbia a Röszke, abbiamo passato quattro ore a cercare di raggiungere il gruppo di tende che avevamo visto vicino alla frontiera, proprio accanto all’autostrada. Abbiamo guidato su strade sterrate nella campagna spopolata, superando frutteti di mele, pesche e prugne. Dal finestrino della macchina ho staccato da un ramo una prugna viola. Non era ancora perfettamente matura. Una donna ci ha detto quale strada prendere per “l’accampamento pachistano”. Abbiamo percorso un sentiero pieno di buche accanto all’autostrada e siamo arrivati. Era uno slum sudasiatico improvvisato, ma con tende da campeggio invece di fogli di plastica, proprio come al festival musicale di Sziget da cui ero appena arrivato. Il festival era pieno di ragazzi, fiori dell’Europa
bianca, che pagando un ingresso di 363 dollari a testa potevano godersela per un’intera settimana in una città di tende tutta per loro. Anche nell’accampamento c’erano dei ragazzi, ma più piccoli e scuri: preadolescenti e bambini in fuga con le loro famiglie. Giocavano a cricket nell’immondizia. Usare il bagno al posto di frontiera costava un euro, così le persone nella lunga fila di macchine in attesa di varcare il confine usavano i cespugli che erano le case provvisorie dei migranti, dove loro dormivano e mangiavano aspettando che le porte d’Europa si aprissero.
Abbiamo aperto il bagagliaio della macchina e distribuito bottiglie d’acqua, cioccolata, calzini e biancheria. Degli uomini si sono avvicinati e quando hanno capito che ero indiano hanno scosso la testa e si sono messi a parlarmi in urdu del loro viaggio. Uno di loro veniva dalla città pachistana di Lahore. Era lì da pochi giorni. Gli ungheresi non lo lasciavano passare anche se non voleva restare nel paese, ma andare in Germania o in Svezia. I serbi non lo lasciavano tornare in Macedonia. “È chiuso davanti ed è chiuso dietro”, mi ha detto. Si è accostata una grande auto nera da cui sono scesi due grossi poliziotti serbi vestiti di nero. “Per favore, andatavene”, ci hanno detto: non avevamo un permesso ufficiale per visitare l’accampamento. Ci hanno ricordato che gli ungheresi erano peggio dei serbi: “Hanno droni e videocamere” per monitorare l’accampamento dall’altro lato della frontiera.
Per i pochi rifugiati che riescono a superare la recinzione non c’è nessuna terra promessa. In quei mesi, qualunque migrante sorpreso a una distanza di meno di otto chilometri dalla frontiera veniva arrestato e deportato. Da allora questa disposizione è stata estesa a tutti i migranti fermati in Ungheria. Nel novembre del 2015 Orbán ha dichiarato: “Tutti i terroristi sono fondamentalmente immigrati”. Come tante altre dichiarazioni uscite dalla sua bocca, anche questa è falsa: molti responsabili di atti di terrorismo, in Europa e altrove, appartengono alla popolazione nativa del luogo, come Timothy McVeigh e Anders Behring Breivik. Otto mesi dopo, Orbán ha capovolto la dichiarazione ampliandola: tutti i migranti sono terroristi. “Ogni singolo migrante rappresenta un rischio per la sicurezza pubblica e per il terrorismo”. Un prerequisito essenziale per negare l’ingresso ai migranti è presupporre un dualismo, uno scontro di civiltà, in cui una è nettamente superiore all’altra.
A luglio, il presidente statunitense Donald Trump ha fatto un discorso in Polonia su ciò che caratterizza la civiltà occidentale: “Oggi, l’occidente deve misurarsi anche con le potenze che cercano di mettere alla prova la nostra volontà, di minare la nostra fiducia e di sfidare i nostri interessi. Il mondo non ha mai conosciuto nulla di simile alla nostra comunità di nazioni. Noi scriviamo sinfonie. Noi promuoviamo l’innovazione. Noi celebriamo i nostri antichi eroi, le nostre tradizioni e i nostri costumi senza tempo, e cerchiamo sempre di esplorare e scoprire nuove frontiere. Noi premiamo il talento. Noi aspiriamo all’eccellenza e amiamo le grandi opere d’arte che onorano dio. Noi abbiamo a cuore lo stato di diritto e proteggiamo la libertà di parola e d’espressione. Noi diamo forza alle donne in quanto pilastri della nostra società e del nostro successo. Noi mettiamo la fede e la famiglia – non il governo e la burocrazia – al centro della nostra vita. E soprattutto, noi apprezziamo la dignità di ogni vita umana, proteggiamo i diritti di ogni persona e condividiamo la speranza di ogni anima di vivere nella libertà. Ecco quello che siamo. Questi sono i legami inestimabili che ci uniscono come nazioni, come alleati e come civiltà”.
Evviva la civiltà occidentale, che ha dato al mondo il genocidio dei nativi americani, la schiavitù, l’inquisizione, l’olocausto, Hiroshima e il riscaldamento globale. Quanto è ipocrita il dibattito sull’immigrazione. I paesi ricchi si lamentano a gran voce della migrazione da quelli poveri. Ecco com’è stato truccato il gioco: prima ci hanno colonizzato, hanno rubato i nostri tesori e ci hanno impedito di costruire le nostre industrie. Dopo averci saccheggiato per secoli, se ne sono andati disegnando le mappe in modo da assicurare una conflittualità permanente tra le nostre comunità. Poi ci hanno portato nei loro paesi come lavoratori ospiti, ma ci hanno scoraggiato dal portare le nostre famiglie. Dopo aver costruito le loro economie con le nostre materie prime e la nostra manodopera, ci hanno chiesto di tornarcene a casa e si sono stupiti quando non lo abbiamo fatto. Hanno rubato i nostri minerali e corrotto i nostri governi così le loro multinazionali potevano continuare a depredare le nostre risorse; hanno insozzato l’aria sopra di noi e le acque intorno a noi, rendendo brulle le nostre fattorie e privi di vita i nostri oceani; ed erano pieni di orrore quando i più poveri tra noi sono arrivati alle loro frontiere, non per rubare ma per lavorare, per pulire la loro merda e scopare i loro uomini.
Eppure avevano bisogno di noi. Avevano bisogno di noi per aggiustare i loro computer, guarire i loro malati e insegnare ai loro bambini, perciò hanno preso i migliori e i più brillanti di noi, quelli che erano stati istruiti a caro prezzo dagli stati in difficoltà da cui provenivano e ci hanno di nuovo sedotto a lavorare per loro. Oggi ci chiedono di nuovo di non venire, per quanto disperati e affamati ci abbiano fatto diventare, perché i più ricchi tra loro hanno bisogno di un capro espiatorio. Ecco come viene truccato il gioco ora.
Nel 2015 Shashi Tharoor, l’ex sottosegretario generale dell’Onu per le comunicazioni e la pubblica informazione, fece un trascinante discorso alla Oxford Union per sostenere la causa delle riparazioni (simboliche) dovute all’India dal Regno Unito. “Quando i britannici sbarcarono sulle sue sponde, la quota dell’India nell’economia mondiale era il 23 per cento. Quando se ne andarono, era scesa a meno del 4 per cento. Perché?”, chiese. “Semplicemente perché l’India era stata governata nell’interesse del Regno Unito. La crescita del Regno Unito è stata finanziata per duecento anni
dalla spoliazione dell’India”. Il discorso di Tharoor mi ha ricordato un episodio, una volta che mio nonno era seduto in un parco alla periferia di Londra. Un anziano inglese si avvicinò a lui agitando un dito: “Perché sei qui?”, chiese l’uomo. “Perché sei nel mio paese?”. “Noi siamo i creditori”, rispose mio nonno, che era nato in India, aveva passato la sua vita lavorativa in Kenya e ora era in pensione a
Londra. “Voi vi siete presi tutta la nostra ricchezza, i nostri diamanti. Ora siamo venuti a incassare”.
Perché messicani, guatemaltechi, honduregni e salvadoregni vogliono disperatamente trasferirsi a nord, ndare nelle città degli Stati Uniti per lavorare come lavapiatti e donne delle pulizie? Perché gli americani gli vendono i fucili e gli comprano la droga. Nei loro paesi i dati sugli omicidi sono quelli di una guerra civile. Perciò si spostano verso la causa della loro miseria: anche loro sono i creditori. Se non volete che si trasferiscano da voi, non comprate la droga.
Perché i siriani partono? Non per le luci di Broadway o il fascino primaverile di Unter den Linden. È perché l’occidente – e in particolare gli statunitensi e i britannici – ha invaso l’Iraq, una guerra illegale e non necessari che ha aggravato quattro anni di siccità legata al riscaldamento globale e messo in moto il processo che ha distrutto l’intera regione. Hanno mietuto ciò che l’occidente ha seminato. Se la giustizia esistesse, gli Stati Uniti sarebbero obbligati ad accogliere tutti gli arabi sfollati dalle loro case. I 648 ettari del ranch della famiglia Bush in Texas sarebbero pieni di tende per ospitare iracheni e siriani. Chi rompe paga.
Ma gli ospiti che portano il peso maggiore sono quelli che hanno avuto un ruolo molto minore degli Stati Uniti nel creare il problema. Nel 2016 il Libano, con una popolazione di 6,2 milioni di abitanti, ha ospitato più di un milione e mezzo di rifugiati. L’84 per cento dei profughi si trova nel mondo in via di sviluppo. L’amministrazione Trump ha preso misure per ridurre il numero dei profughi da accogliere negli Stati Uniti da 110mila a 50mila nel 2017 e potrebbe tagliare ulteriormente il programma l’anno prossimo. Invece la Turchia, con una popolazione che è il 25 per cento di quella statunitense, ha più di tre milioni di siriani registrati all’interno delle sue frontiere.
Il sogno di ogni migrante è vedere un ribaltamento della situazione, con lunghe file di statunitensi e britannici davanti all’ambasciata del Bangladesh, del Messico o della Nigeria per implorare un permesso di soggiorno. Il mio mentore, il grande scrittore di lingua kannada U.R. Ananthamurthy, una volta fu invitato in Norvegia per fare un discorso a un festival di letteratura. Ma il governo norvegese non gli diede un visto fino all’ultimo momento, pretendendo che fornisse certificati, dichiarazioni bancarie e prove circostanziate per dimostrare che non intendeva restare nel paese. Quando finalmente arrivò a Oslo, l’ambasciatore indiano diede una festa in suo onore. “Per i norvegesi è facile ottenere un visto indiano?”, chiese Ananthamurthy all’ambasciatore. “Oh sì, facciamo in modo che sia molto semplice”. “Perché?”, obiettò lo scrittore. “Rendetelo difficile!”.
La mia famiglia ha girato tutta la Terra – dall’India al Kenya all’Inghilterra agli Stati Uniti e di nuovo in India – e si sta ancora spostando. Uno dei miei nonni lasciò le campagne del Gujarat per Calcutta ai bei tempi del novecento; l’altro mio nonno, che viveva a mezza giornata di viaggio con un carro da buoi, partì poco dopo per Nairobi. A Calcutta, il mio nonno paterno si mise a fare il gioielliere insieme al fratello maggiore; a Nairobi, il mio nonno materno cominciò la sua carriera, a 16 anni, spazzando il pavimento dell’ufficio di contabilità dello zio. Così ebbe inizio il viaggio della mia famiglia dal villaggio alla città. Era, me ne rendo conto adesso, meno di cento anni fa.
Il discorso di Enoch Powell nel 1968 prendeva di mira le persone come i miei familiari: asiatici estafricani che stavano cominciando a migrare nel paese di cui erano cittadini. Prevedeva la rovina per un Regno Unito tanto sciocco da accoglierli: “È come vedere una nazione attivamente impegnata nell’erigere la propria pira funeraria. Guardando al futuro, sono pieno di presagi. Come un antico romano, mi sembra di vedere ‘il Tevere che schiuma sangue’”.
Mezzo secolo dopo, il Tamigi non sta schiumando sangue. Di fatto è vero il contrario. Quella dei rifugiati asiatici estafricani – cristiani, indù, musulmani, parsi e sikh – è una delle comunità di qualunque colore più ricche del Regno Unito; i loro successi nell’istruzione hanno superato quelli dei nativi bianchi. Neanche l’Hudson schiuma sangue. “Negli ultimi dieci anni, la crescita della popolazione, immigrazione compresa, ha rappresentato circa la metà del tasso di crescita economica potenziale degli Stati Uniti, contro appena un sesto in Europa e niente in Giappone”, spiega sul New York Times l’analista Ruchir Sharma. “Se non fosse per la spinta che viene da bambini e immigrati, l’economia degli Stati Uniti ricorderebbe molto quella di Europa e Giappone, che consideriamo lenti
come tartarughe”.
I paesi che accolgono gli immigrati, come il Canada, se la cavano meglio di altri che non li accettano, come il Giappone. Ma che Trump, May o Orbán lo vogliano o no, gli immigrati continueranno ad arrivare, per cercare la felicità e una vita migliore per i loro figli. Alle persone che hanno votato per loro dico: non abbiate paura dei nuovi arrivati. Molti sono giovani e pagheranno le pensioni degli anziani che vivono sempre più a lungo. Porteranno con sé l’energia, perché nessuno ha più iniziativa di chi ha lasciato una casa per compiere un lungo e difficile viaggio fin qui, legalmente o meno. E se avranno le opportunità più basilari si comporteranno meglio dei giovani dei paesi in cui si trasferiscono. Creeranno posti di lavoro. Cucineranno, danzeranno e scriveranno in modi nuovi e stimolanti. Renderanno più ricchi i loro nuovi paesi, in tutti i sensi. L’armata di migranti che sta arrivando sulle vostre sponde in realtà è una lotta di salvataggio.
(segue)
La democrazia non è il popolo che deve decidere. “la sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti”. Così Eugenio Scalfari su la Repubblica del 15 ottobre, aggiungendo che nessuno in Italia, purtroppo, la pensa come lui. Rassicuriamo Scalfari: se in Italia coloro che la pensano come lui non osano manifestarsi, in campo internazionale questa idea trova molti proseliti tra sociologi, economisti e politologi: viene chiamata “tecnocrazia” e non è molto diversa dall’aristocrazia, il governo dei filosofi-guardiani teorizzato da Platone, a parte il non trascurabile particolare di essere iscritta nel capitalismo finanziario. In questa linea, La rinascita delle città stato, libro dello stratega geopolitico Parag Khanna, il cui titolo originale, più esplicativo, è Technocracy in America.
Sostiene l’autore che la democrazia è un sistema politico datato, ormai del tutto inefficiente per affrontare le sfide del mondo contemporaneo. Propone, quindi, che al posto di una sgangherata democrazia subentri la “tecnocrazia”, una post democrazia che “ha la virtù di essere sia utilitarista (nel senso di cercare il massimo vantaggio inclusivo per la società) che meritocratica”. Segue un elenco dei vantaggi della tecnocrazia che “diventa una forma di salvezza dopo che una società si rende conto che la democrazia non garantisce il successo di un paese”. Tecnocrazia il cui verticismo dovrebbe essere temperato da un continuo feedback da parte dei cittadini, mediante referendum o altre forme di consultazione.
Ma quale è il significato di tecnocrazia? L’autore oscilla tra un’accezione minimale, un efficiente apparato amministrativo e burocratico al servizio della politica - ma questa non è tecnocrazia - e un significato pieno, come potere conferito e amministrato da tecnici. Esempio del primo significato è la Svizzera, citata come paese modello, mentre il secondo si materializza nella “città-stato” di Singapore, dove si è consolidata una vera tecnocrazia, ciò che implica un partito unico e un governo che si tramanda da padre in figlio.
Quattro sono le principali obiezioni che si possono opporre al politologo indiano. La prima è che non è chiaro il processo di selezione dei tecnocrati. Bene la meritocrazia, ma chi gestisce il tutto? La seconda è che ogni forma di potere tende ad autoperpetuarsi: obiettivo ultimo del potere è il potere stesso, a prescindere dalle buone intenzioni e dagli obiettivi iniziali - lo stanno a dimostrare, nella storia, le innumerevoli tecnocrazie militari che si sono trasformate in dittature. La terza obiezione è che la tecnocrazia di Parag Khanna, definita come “un governo efficiente al servizio dei cittadini”, trascura il fatto che nel mondo capitalistico i cittadini non sono un’entità omogenea, tanto più nella società americana in cui le differenze di censo e di opportunità sono gigantesche e tendono ad approfondirsi: al servizio dei cittadini o del popolo è uno slogan che occulta ogni differenza di classe o di luogo. Infine, il libro ignora completamene lo sfondo in cui opera qualsiasi governo - democratico o tecnocratico che sia - la globalizzazione del capitalismo finanziario che ha indebolito i poteri economici degli stati e ora ne sta assumendo altri, come quelli giudiziari nelle controversie sui grandi trattati commerciali.
Il tutto in una visione del mondo che assegna a ogni stato il compito di combattere una tenzone mondiale per attrarre nel proprio territorio più investimenti finanziari possibili a scapito dei concorrenti. Si capisce perciò che il paese scelto come modello dall’autore sia la “città stato” di Singapore (qui le dimensioni ridotte giocano un ruolo a favore) dove in pochi decenni una nazione arretrata si è trasformata nel paradigma di “tecnocrazia diretta” di maggior successo; dove il primo ministro Lee Kuan Yew, morto nel 2015 con successione filiale, ha “deciso di plasmare la pianificazione strategica sul modello Shell” (si spera senza ripeterne i disastri ambientali) e affida il surplus di bilancio a un proprio fondo sovrano. In linea, anche l’ammirazione per il capitalismo statale del regime cinese, regolato da un governo tecno-politico senza democrazia, mentre appare del tutto fuori luogo il riferimento alla Svizzera.
Libro allora da buttare? Tutt’altro, per almeno tre buoni motivi. Il primo è l’analisi dei guasti e delle degenerazioni della democrazia americana, documentata dettagliatamente e spietatamente. L’autore ne lamenta corruzione e inefficienza, noi lamentiamo che questa democrazia ha portato all’elezione presidenziale di Donald Trump e a un’accelerazione verso i più grandi disastri ecologici e sociali, oltre che verso la guerra. Il secondo motivo che ci riguarda da vicino è la strategia seguita da Singapore per vincere la battaglia nella concorrenza mondiale del capitale. Il maggiore investimento di Singapore è nel capitale umano, sia mettendo a disposizione degli studenti più bravi migliaia di ricche borse di studio per frequentare quotate università straniere, sia attirando i migliori esperti nei rami delle comunicazioni e delle tecnologie avanzate: l’istruzione è la priorità nazionale. Il terzo motivo è la profonda conoscenza di cosa significhi una governance efficiente (che non postula necessariamente una tecnocrazia) in una competizione in cui entrano in sinergia le risorse e il know how del capitalismo più avanzato con apparati amministrativi ben preparati. Una illustrazione che consente di misurare tutta l ‘arretratezza culturale della nostra classe dirigente, pervicacemente ancorata alle grandi opere infrastrutturali come motori di uno sviluppo vecchio di trenta anni.
In sintesi: democrazia in dosi minimali e consenso affidato a ricorrenti consultazioni, piani strategici proiettati nel futuro e non di corto respiro, enormi investimenti nel capitale umano. Ma tutto ciò si può fare anche in un regime democratico? La tesi dell’autore, che qui si rivolge soprattutto alla democrazia statunitense, è che la concorrenza elettorale, sempre più condizionata dai finanziatori che a loro volta condizioneranno le future scelte politiche, porti in sé i germi di un progressivo decadimento delle forme di governo: negli accordi sottobanco, nei veti strumentali, nelle spese inutili, in un mix di inefficienza e corruzione. L’alternativa, se non si vuole l’uomo forte, è una governance tecnocratica in cui la democrazia si esplichi in forme di consultazione e di costruzione di consenso on line (notiamo per inciso che questa è la scelta inconsapevole del movimento 5 stelle quando pensa a un governo di tecnici votato via internet).
Noi, in Italia, abbiamo tecnocrati che hanno dato pessima prova di sé. Per fortuna ci teniamo la nostra democrazia ammaccata, anche se tutte le recenti disposizioni legislative sono mirate a ridurre la sovranità del popolo, valga la recentissima legge elettorale. Abbiamo un parlamento inefficiente e espropriato delle proprie funzioni. Investiamo in ricerca, istruzione, università, preparazione dei giovani e dei licenziati, meno della metà degli altri paesi europei e una frazione rispetto a Singapore, fatte le debite proporzioni. Siamo governati non da una “tecnocrazia”, ma da una “castocrazia”, fatta da politici attenti solo a carriera e privilegi, da lobbisti spregiudicati quando non corruttori, da anziani banchieri e da costruttori garantiti dallo stato (a favore delle banche e qui il cerchio si chiude). Ovvio che la “castocrazia” italiana, non sappia disegnare altri orizzonti di sviluppo se non quello delle infrastrutture inutili o dannose, il cemento al posto del cervello. E poiché tutto questo ha un costo, i politici continuano a mettere sul tavolo un patrimonio che non è loro, ma di tutti: territorio, ambiente, paesaggio.
Internazionale articoli per comprendere adici storiche e politiche delle divisioni etniche, nonché una forte povertà da entrambe le parti rendono la crisi birmana molto complessa
Lo scontro tra buddisti e musulmani per la terra e le risorse nello stato del Rakhine non è una novità. Dal quattrocento al settecento in questa regione ci furono ripetuti conlitti tra gli imperi musulmani che si espandevano da ovest e il regno buddista di Mrauk U, nell’Arakan (Rakhine). Questi conflitti terminarono solo nel 1785, quando la regione fu conquistata dal regno di Birmania. Fu però soprattutto il colonialismo britannico (1824-1948) a gettare i semi della crisi attuale. La Birmania faceva parte dell’impero britannico e fu meta di grandi migrazioni dal subcontinente indiano.
I britannici incoraggiarono in particolare i bengalesi a migrare in Birmania per far fronte alla carenza di manodopera o per il lavoro nelle piantagioni. Nel distretto di Akyab (oggi Sittwe), per esempio, dal 1871 al 1911 la popolazione musulmana triplicò, mentre quella rakhine, buddista, aumentò di appena un quinto. Comprensibilmente, quindi, nella memoria culturale dei rakhine c’è la percezione di essere stati “travolti” dagli “immigrati musulmani”.
Più in generale, l’immigrazione verso la Birmania raggiunse il livello massimo nel 1927, con 480mila nuovi arrivi su una popolazione di 13 milioni di persone. a quel tempo gli abitanti di etnia indiana avevano ormai assunto posizioni di rilievo nell’economia del paese, non solo come braccianti nell’agricoltura ma anche come professionisti qualificati, commercianti e finanzieri. Durante la crisi economica degli anni trenta, molti contadini indebitati con gli usurai indiani fallirono e gli indiani diventarono grandi proprietari terrieri.
La risposta a questo rapido afflusso demografico fu una forma di nazionalismo economico con connotazioni razziali che resiste ancora oggi. È un fenomeno non tanto diverso dal nazionalismo xenofobo che ha accompagnato talvolta l’immigrazione di massa per motivi economici neipaesi occidentali. Scoppiarono rivolte contro gli indiani nel 1930 e 1931 e in particolare contro i musulmani nel 1926 e nel 1938. Queste ultime furono guidate dalla maggioranza etnica bamar e non interessarono il Rakhine. Solo nel 1942, dopo che il Regno Unito fu sconitto dalle forze d’invasione giapponesi, nella regione scoppiarono scontri tra le diverse comunità. Le milizie rakhine sfruttarono il conflitto per vendicarsi dei loro nemici musulmani, costringendo decine di migliaia di persone a riparare in India. Come se non bastasse, i britannici armarono le forze volontarie rohingya, ufficialmente per attaccare le forze d’occupazione giapponesi; in realtà, però, spesso i gruppi armati volontari attaccarono gli insediamenti rakhine, le pagode e i monasteri buddisti. I rohingya, inoltre, accompagnarono la riconquista britannica del Rakhine, in seguito alla quale i gruppi rakhine furono repressi con la forza.
Con la decolonizzazione, i musulmani di ritorno temettero giustamente di essere accorpati allo stato birmano postcoloniale e organizzarono una rivolta (mujahid) a favore dell’annessione del Rakhine settentrionale al Pakistan orientale, scatenando una serie di operazioni di controinsurrezione dell’esercito birmano per tutti gli anni cinquanta. Un’eredità fondamentale di questi spostamenti di popolazioni causati dal secondo conflitto mondiale e dai successivi disordini è che i musulmani che via via tornarono nel Rakhine furono bollati come “immigrati clandestini bengalesi”.
Questa storia complessa e drammatica è il motivo per cui i rohingya (termine diventato comune solo dopo l’indipendenza della Birmania) non sono tra le 135 minoranze etniche ufficialmente riconosciute e sono classificati come “bengalesi”.
Data l’esperienza del colonialismo britannico, non sorprende che il nazionalismo popolare birmano abbia avuto in dall’inizio un tono fortemente razzista, in particolare nei confronti dei cosiddetti kalar, gli “intrusi” dalla pelle scura provenienti dal subcontinente indiano. L’obiettivo fondamentale del governo dopo l’indipendenza fu la birmanizzazione dell’economia, dominata dagli stranieri. Memore del trauma degli anni trenta, nel 1953 il governo nazionalizzò la terra e vietò l’affitto privato agli agricoltori (divieto che in larga misura rimane ancora oggi), sradicando quel che restava della classe dei proprietari terrieri indiani.
La birmanizzazione culminò nella nazionalizzazione di 15mila imprese dopo il colpo di stato militare del 1962, che spinse tra i 125mila e i 300mila birmani di etnia indiana ad abbandonare il paese. Questi si aggiunsero ai 400mila indiani, britannici e anglobirmani già evacuati durante la decolonizzazione. Il movimento 969, nato dopo il 2011, che incoraggia i buddisti a boicottare le imprese musulmane, è solo l’ultimo rigurgito di questo nazionalismo economico xenofobo.
La colonizzazione lasciò anche profondi traumi religiosi. Dopo aver causato la perdita della sovranità indigena e l’afflusso dei musulmani, i britannici si rifiutarono di assolvere ai tradizionali doveri del potere sovrano buddista – per esempio quello di nominare gli abati – favorendo la crescita delle attività dei missionari cristiani e provocando una profonda crisi culturale tra i buddisti. La restaurazione del buddismo diventò così un elemento centrale del nazionalismo bamar, e sia la religione sia la cultura bamar diventarono elementi dominanti degli sforzi di ricostruzione postcoloniale, mentre le minoranze etniche e religiose furono sempre più marginalizzate.
Oggi molti buddisti in Birmania sono sinceramente convinti che, come nel periodo coloniale, la loro religione e la loro cultura siano minacciate da un’“onda anomala” di immigrazione musulmana. L’Indonesia, che ha avuto imperi buddisti e indù, è spesso spesso citata come esempio di quello che potrebbe succedere in Birmania se non saranno prese contromisure drastiche. In realtà questi timori non hanno alcuna base oggettiva: solo il 3 per cento della popolazione birmana è musulmana, contro circa l’89 per cento di buddisti. ma la cosa è irrilevante, perché la maggior parte della gente è condizionata da anni di propaganda del governo, cattiva istruzione e deferenza generalizzata verso i monaci buddisti, alcuni dei quali hanno fomentato l’islamofobia. Del resto, la paura di essere culturalmente travolti non è nuova, e non è legata solo alla transizione “democratica” cominciata dopo il 2010. Ci sono state rivolte antimusulmane anche durante il regime militare, nel 1997 e nel 2001, e il famigerato monaco nazionalista Ashin Wirathu, esponente del maBatha, l’associazione per la tutela della razza e della religione, è stato arrestato per istigazione alla violenza nel 2003.
Questa vicenda spiega perché oggi ci sia un difuso consenso per il maBatha, per le leggi sulla tutela della razza e della religione (che discriminano i musulmani) e per la pulizia etnica condotta dall’esercito birmano nel Rakhine. e spiega perché, politicamente, Aung San Suu Kyi ha uno spazio di manovra così limitato, anche se bisogna dire che non ha fatto quasi nulla per smontare queste pericolose leggende o per favorire l’armonia tra le diverse comunità. Anzi, L’uso del termine “bengalesi” da parte dei suoi collaboratori, i suoi commenti passati sul “potere globale musulmano” e l’epurazione dei candidati musulmani dalle liste elettorali dell’Nld nel 2015 fanno pensare aun certo pregiudizio antimusulmano.
L’espulsione originaria alla base delle continue persecuzioni dei rohingya (e più in generale degli attacchi antimusulmani) c’è un intreccio di fattori materiali e ideologici che vanno oltre la questione superficiale e a breve termine dell’appropriazione della terra. molti musulmani sono guardati con sospetto per il solo fatto di essere associati al colonialismo e alla rivolta mujahit. Dopo la ine del colonialismo, anche se il termine “rohingya” veniva usato nei circoli ufficiali, i rohingya non furono mai riconosciuti come uno dei gruppi etnici ufficiali della Birmania. All’inizio avevano il diritto di voto e alcuni di loro furono eletti in parlamento (uno diventò anche viceministro). Poi però, con l’ascesa del nazionalismo buddista bamar e le crescenti resistenze delle minoranze etniche contro l’omologazione (che portarono allo scoppio di una delle guerre civili più lunghe del nostro tempo), lo stato diventò sempre più ostile verso i musulmani.
Nel 1962 l’esercito espulse i soldati musulmani. Nel 1977 si diffuse la voce che molti “bengalesi” avevano approfittato dei blandi controlli alla frontiera per attraversare il confine dal Pakistan orientale (Bangladesh dal 1971) ed entrare nel Rakhine: il regime appoggiato dai militari reagì ordinando una serie di operazioni di “pulizia” alla vigilia del censimento nazionale e rimpatriando in Bangladesh 200mila musulmani.
Poi, sulla base della nuova legge sulla cittadinanza del 1982, i rohingya furono gradualmente privati dei loro diritti. Spesso non potevano nemmeno dimostrare di essere residenti in Birmania, anche perché i documenti ufficiali erano stati distrutti e loro erano stati costretti a rimpatriare con la forza. Dopo il 1988, quando i rohingya assunsero un ruolo di primo piano nel movimento per la democrazia sperando di recuperare i loro diritti, furono ancora una volta vittime di una violenta repressione, che nel 1992 provocò un nuovo esodo di 250mila persone verso il Bangladesh.
In tutto questo bisogna distinguere la posizione dei rakhine buddisti, che si considerano “vittime” sia del numero crescente di “immigrati clandestini bengalesi” (anche se il rapporto è ancora di due a uno a loro favore) sia del governo centrale a maggioranza bamar. Il Rakhine è il secondo stato più povero della Birmania, e il poco sviluppo che c’è stato si deve a una manciata di megaprogetti – che non creano occupazione a livello locale e i cui benefici sono monopolizzati dal regime e dagli investitori stranieri – o alla crescita di un’industria ittica con alti tassi di sfruttamento. In alcuni villaggi del Rakhine le condizioni non sono molto diverse da quelle dei campi profughi dove vivono molti rohingya. In una situazione di scarsità di risorse e di forte competizione economica, i rakhine guardano con risentimento all’attenzione che l’occidente riserva ai rohingya e percepiscono come “di parte” le donazioni e i finanziamenti stranieri. Questo spiega gli attacchi ai camion degli aiuti e le proteste contro le sedi dei donatori, considerati colpevoli di aver offeso il buddismo.
Con la transizione democratica cominciata nel 2011 i rakhine hanno colto l’occasione per organizzarsi politicamente, conquistando la maggioranza all’assemblea dello stato. Molti hanno appoggiato le brutali azioni dell’esercito e della polizia come forma di rivalsa contro i loro avversari, e hanno approfittato dei disordini per occupare i terreni coltivati dai rohingya. Alcuni, invece, sono scappati con i rohingya, a riprova della disperazione e della povertà condivise. Non è un caso che condizioni così straordinariamente difficili abbiano scatenato la violenza di entrambe le comunità. Le prime milizie rakhine antimusulmane si formarono negli anni quaranta; oggi ne sono attive tre, ognuna delle quali promuove l’“autodeterminazione” del Rakhine e rifiuta i rohingya in quanto “bengalesi”. anche i rohingya hanno più volte preso le armi, e il vero mistero è come mai l’Arakan Rohingya Salvation Srmy (Arsa) abbia impiegato tanto a formarsi di fronte a simili persecuzioni e violenze. Gli attacchi dell’Arsa ai posti di polizia e contro l’esercito birmani – l’ultimo dei quali, alla fine di agosto, ha provocato l’offensiva armata che ha provocato l’attuale esodo dei rohingya – sono atti disperati di uomini armati di catapulte e “pistole” di legno.
Insomma, anche se le semplici motivazioni economiche non vanno sottovalutate, il quadro politico ed economico dietro l’attuale crisi è molto più complesso. Come per altri conflitti etnici nel paese, le tensioni sono il riflesso della crisi da cui è nato lo stato birmano. La Birmania è stata fondata senza un vero consenso dei vari gruppi etnici sulla natura dello stato o sull’organizzazione del potere e la divisione delle risorse. Gli sciovinisti bamar buddisti, impreparati a fare le concessioni necessarie per assicurarsi la partecipazione degli altri gruppi alla costruzione dello stato, hanno cercato di imporre la loro visione con la forza, aprendo la strada a una serie di scontri nelle zone di confine. I rohingya sono quelli che hanno sofferto di più, perché si sono visti negare anche lo status di minoranza. Mentre lo stato bamar cerca di accorpare con la forza i gruppi etnici riconosciuti all’interno dell’Unione birmana, fa di tutto per espellere con la forza i rohingya.
Il campo profughi di Balukali, Cox’s Bazar, 2 ottobre 2017
Fonte: Internazionale 1128
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LA FINE DELLA FAVOLA BIRMANA
di Thant Myint-U
Finalcial Time
Oggi la situazione in Birmania è preoccupante, come non accadeva dai giorni più bui della dittatura militare. L’attenzione di tutto il mondo si è giustamente concentrata sulla crisi dei rohingya e sulle centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga, uno dei più grandi esodi di profughi dalla seconda guerra mondiale.
Il peggio potrebbe non essere finito. I bisogni essenziali sono tutt’altro che soddisfatti e non si è ancora cominciato a parlare seriamente di un possibile ritorno dei profughi né di un’inchiesta sulle violazioni dei diritti umani. C’è la possibilità che i paesi occidentali rispondano con sanzioni mirate. anche se non sono state imposte sanzioni formali, l’interesse degli investitori stranieri e il numero di turisti subiranno di sicuro un crollo. Questo in un momento in cui la fiducia degli investitori locali è debole e il settore bancario instabile.
Presto milioni di persone tra le più povere dell’Asia potrebbero dover affrontare un futuro drammatico. Il minimo peggioramento economico minaccerà direttamente il processo di pace in Birmania, già molto fragile. Nel paese sono attivi una ventina di “gruppi etnici armati”, il più grande dei quali conta più di 20mila uomini, e centinaia di milizie locali. Negli ultimi anni in più occasioni ci sono stati scontri violenti e lungo i confini con la Thailandia e la Cina vivono quasi 500mila sfollati.
La crescita economica da sola non sarà sufficiente a portare la pace, ma senza la spinta di un’economia inclusiva e in rapida crescita il processo di pace esaurirà il suo slancio. L’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), responsabile degli attacchi che lo scorso agosto hanno scatenato l’ultima ondata di violenze, potrebbe potrebbe colpire ancora. In uno scenario ancora peggiore, i gruppi jihadisti internazionali potrebbero prendere di mira le città della Birmania centrale, dove altri due milioni di musulmani non rohingya vivono in pace, almeno per il momento, con i loro vicini buddisti, indù e cristiani. Il terrorismo importato dall’estero potrebbe innescare nuove violenze tra le diverse comunità, con conseguenze devastanti.
Molti in occidente hanno visto per decenni la Birmania quasi esclusivamente attraverso le lenti di una lotta tra il movimento per la democrazia, guidato da Aung San Suu Kyi, e una giunta militare senza volto. Pochi si sono sforzati di comprendere la profondità e le complessità delle sfide del paese o hanno cercato di trovare una soluzione pragmatica. I fallimenti nella gestione del potere hanno avuto un costo politico minimo. Nel paese circola il mito della Birmania come una nazione ricca che ha sbagliato, di un’epoca d’oro non troppo lontana rovinata da dittatori militari. Il corollario di tutto questo è che un unico cambiamento, per esempio la nascita di un governo democratico, basti a sprigionare il potenziale del paese e a restituirgli il posto che gli spetta tra i più ricchi della regione. Non c’è traccia di un vero programma di modernizzazione. Si tende a sorvolare sugli effetti di vent’anni di sanzioni, trent’anni di isolamento volontario, cinquant’anni di governo autoritario, settant’anni di guerre interne e più di un secolo di colonialismo. Ovunque si vedono le conseguenze di decenni in cui la spesa pubblica per la sanità e l’istruzione è stata cancellata. Le tendenze xenofobe sono radicate in tutti gli schieramenti politici. Le istituzioni statali sono fragilissime e in molte parti del paese quasi assenti. Di sicuro alcune cose sono migliorate negli ultimi anni: la vita politica oggi è più libera rispetto a qualsiasi momento negli ultimi cinquant’anni e si sta almeno tentando di compiere una transizione dalla dittatura militare a un governo quasi democratico. Nessuno vuole tornare all’isolamento. ma l’insieme delle side che oggi il paese ha di fronte è così imponente che è difficile capire come questa tendenza positiva possa sopravvivere.
Senza lungimiranza
Non si tratta solo del processo di pace, dell’economia e della crisi dei rohingya. Migrazioni, urbanizzazione, cambiamento climatico e la rivoluzione delle telecomunicazioni stanno ridefinendo la società birmana. I rapporti con la Cina sono in una fase critica, con la possibilità che enormi progetti infrastrutturali ridisegnino la geografia del paese. al contempo quasi nessuno si sofferma sul quadro a lungo termine.
Pensiamo allo stato del Rakhine settentrionale, che oggi è teatro di violenze e domani potrebbe essere il luogo dove torneranno i profughi: cosa sarà tra dieci o quindici anni? Una fermata lungo la nuova autostrada tra Cina e India? O sarà sommerso a causa del cambiamento climatico?
Perfino un governo esperto e aiutato da tecnocrati preparati avrebbe difficoltà a gestire ciò che la Birmania sta affrontando, per non parlare dei possibili progetti per il futuro. Il mondo fa bene a dare
priorità alla crisi in corso. ma è altrettanto importante liberare il campo una volta per tutte dalla favola birmana e capire che lavorare in questo paese significa avere a che fare con uno stato quasi fallito. Bisogna raddoppiare gli sforzi per valorizzare le risorse del paese, soprattutto attraverso investimenti nella sanità e nell’istruzione; e, cosa forse più importante, contribuire a trasmettere un’idea di futuro nuova e positiva. Altrimenti la crisi di oggi sarà solo la prima di una lunga serie.
IL GRANDE ESODO
di Francis Wade
Quelli del 2012 sono stati i primi focolai di violenza tra buddisti e musulmani in Birmania mentre il paese attraversava la fase di transizione dal regime militare, e si sono conclusi con la quasi totale segregazione delle due comunità in gran parte della zona occidentale del paese. Diversi mesi dopo, sempre nel 2012, sono andato a intervistare i rohingya nei campi profughi. Ma né io né la maggior parte dei giornalisti arrivati sul posto ci siamo preoccupati di parlare con l’“altra parte”, i buddisti rakhine che si erano resi responsabili di molte violenze ma che a loro volta, anche se in misura minore, avevano subìto aggressioni dai rohingya. all’epoca nessuno sapeva esattamente quali forze, interne ed esterne, avessero spinto i buddisti a commettere quelle atrocità.
Ho pensato al ragazzo del villaggio quando, alla fine di agosto, in Birmania è cominciata un’ondata di violenze molto più sanguinosa. a nord di Sittwe, in un piccolo lembo di terra, sono stati incendiati più di duecento villaggi. In meno di due mesi quasi 600mila rohingya sono scappati in Bangladesh per sfuggire alla campagna di terrore dell’esercito birmano in risposta agli attacchi di un gruppo di ribelli rohin magya contro alcune postazioni della polizia.
Le testimonianze dei profughi, che parlano di esecuzioni sommarie dei civili e di donne stuprate dai soldati birmani, sono sconvolgenti, ma altrettanto sconvolgente è l’atteggiamento cinico e sarcastico di una fetta ampia e trasversale della società birmana di fronte alle violenze. Questo clima si avverte non solo nel Rakhine, dove i contrasti tra la maggioranza rakhine e i rohingya hanno radici profonde, ma in tutto il paese; e non solo tra la gente comune, ma anche nei palazzi del potere. “Guardate quelle donne”, ha detto recentemente un funzionario del Rakhine quando gli hanno chiesto dei presunti stupri di massa. “Chi mai le violenterebbe?”.
Il sostegno popolare alla campagna dell’esercito ha portato alla luce un violento pregiudizio contro i rohingya. La forza e la quasi universalità di questo sentimento stride con la lettura semplicistica degli osservatori occidentali, secondo i quali le tensioni etniche e religiose in Birmania esistono da molto tempo ma sono state oscurate tanto dalla dittatura militare quanto da una visione binaria della situazione politica del paese: da una parte la società, virtuosamente unita contro i militari, dall’altra il regime.
Paura della democrazia
Una nuova sintonia
Queste paure sono state abilmente sfruttate dai militari e, più recentemente, dai leader nazionalisti in lotta per il potere nella nuova Birmania. e spiegano in parte perchéla campagna militare contro i rohingya non ha perso legittimità neanche tra chi condivide gli ideali democratici: le operazioni nel Rakhine sono viste da molti come un mezzo per difendere una democrazia giovane. ma il fatto che la persecuzione di un’intera popolazione possa essere considerata moralmente giustificabile non si spiega solo con l’ansia delle tensioni politiche.
C’è evidentemente la convinzione che i rohingya siano portatori di una corruzione innata che va sradicata a tutti i costi. Durante la transizione democratica del paese la percezione della portata di questa minaccia è cambiata, e oggi l’ostilità nei confronti dei rohingya non è più circoscritta alle città e ai villaggi della parte occidentale del paese. È dai tempi del regime militare che le varie componenti della società birmana non sembravano così in sintonia, a prescindere dalle differenze geografiche. Oggi, però, sono unite da un obiettivo profondamente diverso.
il manifesto Corriere della Sera 28 ottobre 2017. Articoli di Giuseppe Grosso e Paolo Lepri. (m.p.r.)
il manifesto
L’AZZARDO DELL'INDIPENDENZA.
SCATTA IL COMMISSARIAMENTO
Catalogna. Il Parlament dichiara la República catalana: 70 Sì, 10 No, 2 voti in bianco e 53 deputati assenti su 135. E a Madrid il senato mette in moto l’articolo 155. Rajoy destituisce Puigdemont e il suo governo e convoca elezioni regionali il 21 dicembre.
Carme Forcadell, la presidente del Parlament catalano, conta i voti. Dietro di lei, la senyera quasi si intreccia con la bandiera spagnola, in un’immagine che è la definizione visiva del concetto di «paradosso». Sgrana i «sì», settanta, con la compunzione di una sacerdotessa. Ogni tanto, qualche «no»: uno, due, dieci in totale; e due schede bianche. Basta e avanza per dichiarare, alle 15,27, la Repubblica catalana. Con i parlamentari costituzionalisti usciti dall’aula per protesta, i repubblicani si alzano in piedi e intonano l’inno della nascente Catalogna indipendente.
Hanno vinto: dopo un tira e molla logorante, che ha monopolizzato il dibattito politico (non esiste più corruzione, della disoccupazione non si parla più, la crisi non si sa dov’è finita) e sfibrato la società catalana e del resto di Spagna, gli indipendentisti hanno presentato al mondo la loro creatura. O forse hanno perso, perché, dopotutto, lo scontro frontale consegna agli annali Puigdemont e compagni, ma condanna la causa nazionalista alla reazione repressiva di Madrid e quindi al fallimento. Rajoy, a pochi minuti dal voto del parlament, lo ha ribadito via Twitter: «Lo stato di diritto ripristinerà la legalità».
Insomma, se fino all’altro ieri esisteva uno spiraglio per il dialogo – tanto invocato da ogni parte e così poco praticato – il salto mortale di Puigdemont, lo chiude irrimediabilmente. E allora forse non ha vinto nessuno, tranne l’egoismo e l’infantilismo politico che hanno dimostrato sia Barcellona che Madrid, entrambi, fin dall’inizio della crisi, ottusamente determinati ad arrivare alla resa dei conti. I generali indipendentisti tutto questo lo sanno bene. Sanno che ieri hanno portato a casa la più classica delle vittorie di Pirro e perciò, subito dopo il voto (segreto, su richiesta di Junts pel Sì), hanno mostrato alle telecamere dei volti tiratissimi. Come, del resto, quelli del gruppo di Catalunya si que es pot (la costola catalana di Podemos), spaccati al loro interno tra favorevoli e contrari (questi ultimi allineati alla posizione ufficiale del partito). «Il risultato elettorale dà Puigdemont e al suo esecutivo il diritto di governare, non quello di dichiarare l’indipendenza», ha commentato Pablo Iglesias, che però ha manifestato il suo dissenso nei confronti della reazione di Rajoy.
Al rumore festoso della piazza, faceva però da contrappunto la solennità dell’emiciclo del Senato, dove si preparava il castigo alla hybris catalana. Con 214 voti a favore e 47 contrari, veniva approvata l’applicazione, per la prima volta dal varo della Carta costituzionale, del famigerato articolo 155, appoggiato anche dal Psoe, che ha votato per la linea dura insieme a Pp, Ciudadanos e Coalición Canarias. I «no» sono arrivati dalle bancate di Unidos Podemos, Erc, Partido Nacionalista Vasco e PDeCAT.
Affilati i coltelli in Senato, Rajoy ha convocato per le 7 un consiglio dei ministri straordinario con l’obiettivo di rendere immediatamente operative le misure previste dal 155. Nel mirino, ovviamente, Puigdemont e il suo governo; il paese resta con il fiato sospeso in attesa di sapere l’intensità della risposta di Madrid. Rajoy ricompare verso le 20,20, e spara dritto alla testa dell’indipendentismo, mentre in Catalogna, impazzano i balli e i canti: Puigdemont esautorato, il suo governo rimosso, e il capo della polizia catalana destituito. E – a sorpresa – annuncia già la data delle prossime elezioni regionali: il 21 di dicembre. Ma è solo l’inizio: il 155, verrà applicato «progressivamente e proporzionalmente alle circostanze», come accordato con il Psoe. Ed è molto probabile che a questi primi provvedimenti segua il commissariamento totale dei Mossos d’Esquadra (fondamentale nella strategia del governo di restaurazione dello status quo) e la limitazione dell’autonomia dei mezzi di comunicazione pubblici catalani. «La normalità si costruisce sulla legge; dobbiamo restituire la voce a tutti i catalani». E ricomporre una frattura sociale che impiegherà anni a saldarsi.
LA VIA DEL DIALOGO
MA SI PUÒ ANCORA RICOSTRUIRE
di Paolo Lepri
Non basterà un tweet per riportare serenità in un Paese lacerato, non basteranno quei novantasei caratteri che il presidente del governo Mariano Rajoy ha scritto circa tre minuti dopo la dichiarazione d’indipendenza approvata dal Parlament di Barcelona mentre la folla riunita nel Parc de la Ciutadella continuava ancora a lanciare boati di gioia. «Chiedo tranquillità a tutti gli spagnoli. Lo Stato di Diritto ripristinerà la legalità in Catalogna». In questo momento difficile, purtroppo, la tranquillità promessa dal primo ministro sembra essere infatti soltanto una improbabile utopia.
Ma questa utopia «minore», questo desiderio di ritorno alla normalità, è forse quello che chiede la maggioranza dei cittadini. Non solo quelli che hanno in queste ultime settimane esposto le bandiere della loro «casa comune» — una casa in cui le autonomie sono sempre state una realtà indiscussa — alle finestre di Madrid e di altre città lontane dalla ribellione. Anche quelli che non hanno parlato, i tanti che non hanno votato nel referendum per l’indipendenza di questa comunità autonoma riconosciuta già come «nazione».
Si poteva evitare tutto quello che sta accadendo? La politica non si può leggere con il filtro delle emozioni. Ma l’essenza stessa delle autonomie spagnole e la trama dello Stato democratico costruito dopo gli anni oscuri del franchismo sono molto lontane, concettualmente, dall’avventurismo della rottura.
La leadership catalana ha invece voluto ignorare, in questi mesi di crisi, che non esiste nell’Europa di oggi un nazionalismo «positivo» e che la rivendicazione delle diversità può passare soltanto attraverso la difesa dei principi costituzionali, del rispetto degli assetti pacifici, dell’unità contro la disgregazione. È un errore imperdonabile. Non è un caso che la dichiarazione di indipendenza unilaterale sia stata giudicata «illegale» perfino dal leader di Podemos Pablo Iglesias, nonostante la posizione ambigua che il suo movimento-partito ha avuto durante tutto questo snervante braccio di ferro.
La storia di questi ultimi decenni - una storia che tanto Rajoy quanto Carles Puigdemont hanno deciso di dimenticare - insegna che si può negoziare su tutto e che si deve negoziare anche con quelli che possono essere ritenuti i nemici. Chi non lo ha fatto ha sbagliato. È forse inutile dire che il governo di Madrid, nato debole, anzi debolissimo, dopo il risultato interlocutorio di due appuntamenti elettorali, ha maggiori responsabilità iniziali dei suoi avversari. Le passeggiate del presidente del governo nel giardino della Moncloa con il suo cane Rico avrebbero potuto produrre qualche riflessione in più. E l’inspiegabile repressione nelle strade di una Barcellona pacifica ha confuso, come spesso accade, la bilancia dei torti e della ragioni.
È stato detto che le istituzioni europee hanno assistito alla crisi dal palco bruxellese degli spettatori, preoccupandosi solo di solidarizzare con il governo di Madrid per evitare guai maggiori. Certo, è vero che l’Unione non avrebbe potuto fare molto di più, anche se avesse voluto, senza creare precedenti pericolosi, senza allontanarsi dal proprio mandato. Ma situazioni eccezionali richiedono sforzi di intelligenza eccezionali. Se la rivoluzione del 1989, per esempio, fosse stata affrontata con meno coraggio e fantasia, una svolta epocale come l’unificazione tedesca non si sarebbe concretizzata così rapidamente. Dispiace vedere il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk dichiarare ieri sera che «non è cambiato niente». No, è cambiato tutto. Si tratta ora di ricostruire, non più di tenere insieme. A Madrid e Barcellona si deve fare un passo indietro, l’Ue deve farne molti altri in avanti. Anche fuori dai sentieri tracciati.
la Repubblica