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Quasi trent’anni di politica basati su una immane frode fiscale. C’est l’Italie!

La Repubblica, 2 agosto 2013

IL FALSO miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l’avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta, trascinando nella rovina vent’anni di storia politica travagliata del nostro Paese.
La Corte di Cassazione ha infatti confermato la condanna di Berlusconi a quattro anni per frode fiscale, chiedendo alla Corte d’Appello di rideterminare il calcolo della pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici, dopo che il Procuratore Generale aveva proposto di ridurla. La condanna diventa dunque definitiva, il crimine è accertato, e tutto il mondo oggi sa che Berlusconi ha frodato il fisco, la sua azienda, gli altri azionisti e il mercato, per costruirsi una provvista illecita di fondi neri all’estero da usare per alterare un altro mercato, quello delicatissimo della politica.
Di questa storia titanica ed enormemente dilatata dalla dismisura populista e dalla sproporzione economica, tutto viene a morire dentro la sentenza di Cassazione, azienda, politica, affari, partito e infine, e soprattutto, una concezione illiberale e poco occidentale della destra, concepita e teorizzata come il territorio degli abusi e dei soprusi, legittimati dal carisma del leader, talmente “innocente” per definizione da sottrarsi ad ogni controllo di legittimità e di legalità.

Questa era in realtà la vera posta in gioco, e pesava infatti quasi fisicamente sulle toghe dei giudici che leggevano ieri in piedi la sentenza in nome del popolo italiano: sapendo che da oggi si trasformeranno in bersagli polemici e personali per la furia iconoclasta della destra, nello sciagurato Paese in cui ci vuole coraggio anche solo per amministrare la giustizia secondo diritto. La posta in gioco era dunque arrivare non alla condanna, come abbiamo sempre detto, ma alla sentenza. Dimostrare che anche in Italia vige lo Stato di diritto, e vale la separazione dei poteri. Confermare che per davvero la legge è uguale per tutti, com’è scritto sui muri delle aule di giustizia.

Per giungere a questo esito – rendere compiutamente giustizia – ci sono voluti 10 anni di indagini, 6 anni di cammino processuale continuamente accidentato dai “mostri” giudiziari costruiti con le sue mani dal premier Berlusconi per aiutare l’imputato Berlusconi, minando il codice e le procedure con trappole a sua immagine e somiglianza. Una impressionante sequela di abusi ad uso personale e diretto, senza vergogna, dal Lodo Alfano ai “legittimi” impedimenti,alle prescrizioni brevi, ai processi lunghi: abusi in serie che nessun cittadino imputato avrebbe potuto permettersi, e nessun leader occidentale avrebbe potuto praticare. Rivelatisi infine inutili anche i “mostri”, che hanno menomato il processo ma non sono riusciti ad ucciderlo, è scattato il ricatto psicologico su istituzioni deboli e partiti disancorati da ogni radice identitaria.
È la pressione fantasmatica del “dopo”, che impedisce di leggere il presente giudicando il passato, e dunque tiene la politica prigioniera in un’unica dimensione, quella di un precario presente, trasformando la stabilità non in un valore (come avviene ovunque) ma in un tabù: che viene prima delle identità distinte da preservare nella loro diversità e addirittura prima delle responsabilità che i partiti hanno di fronte alla loro opinione pubblica.
Ecco dunque le minacce sul “dopo”, gli “eserciti di Silvio” già schierati con le armi al piede, il leader diviso come sempre da vent’anni tra la tentazione rivoluzionaria di rovesciare il tavolo nell’ultima ordalia e la prudenza democristiana di restare aggrappato al legno del governo come all’ultimo spazio possibile di negoziazione. Qualcosa di quasi metafisico, che dimostra come la politica sia prigioniera. Nessuno ha parlato del reato in discussione, della sua gravità e delle sue conseguenze e tutti hanno guardato solo all’autore del reato, come se fosse possibile separare le due cose, e la specialità del soggetto annullasse il crimine, o lo derubricasse, amnistiandolo di fatto nel senso comune.
Ma il senso comune è il prodotto di un’operazione politica, che tende a occultare la clamorosa evidenza dei fatti. Perché ciò che è successo ieri con la sentenza è frutto di comportamenti precisi, almeno 270 milioni di euro sottratti a Mediaset e agli azionisti, diritti su film comprati a cento dagli intermediari berlusconiani e rivenduti a Mediaset a mille, per costruire nei passaggi intermedi un tesoro illegale di fondi neri in Svizzera, a Montecarlo, alle Bahamas, nella disponibilità piena e illecita del Cavaliere.

Altro che processo politico. La Cassazione ha sanzionato ieri definitivamente una frode imprenditoriale gigantesca, da parte dell’imprenditore “che si è fatto da sé” e che “ama il suo Paese” Adesso sappiamo qual è la sostanza di questo amore e di quella costruzione industriale e politica. Gli stessi sottosegretari sbandati che ieri sera annunciavano di andarsi a dimettere «nelle mani di Berlusconi » non si accorgono che stanno confermando come tutta questa destra italiana si muova dentro uno Stato a parte, dove valgono altre leggi, diverse sudditanze, logiche separate e gerarchie autonome.

Tutto questo porta a credere che il governo non cadrà, ma per impotenza. Il governo è infatti l’ultima espressione politica che resta a questa destra senza più leader, l’unico strumento per tenerla viva, e insieme. Anzi, Berlusconi – che già attacca la magistratura «irresponsabile» – proverà a trasferire la sua tragedia personale dentro la maggioranza e nelle istituzioni, contagiandole con la sua anomalia, ieri certificata nelle televisioni e nei siti di tutto il mondo.
L’unica salvezza per la sinistra e per le istituzioni è leggere con spirito di verità quanto è avvenuto in questi anni e la Cassazione ha certificato ieri, dando un giudizio preciso sulla natura di questa destra e del suo leader, senza nascondere la testa dentro la sabbia, perché su questa natura si gioca la differenza per oggi e per domani tra destra e sinistra, cioè il nostro futuro.

Non è la destra che deve decidere se può restare al governo dopo questa sentenza. È la sinistra. Perché la pronuncia della Cassazione non è politica: ma il quadro che rivela è politicamente devastante. Per questo chi pensa di ignorarlo per sopravvivere avrà una vita breve, e senz’anima.

Il mistero avvolge l’assenza del gesuita Paolo Dall’Oglio. Ne pubblichiamo un testo recente, parole difficili di un prete schierato a difesa del suo popolo, drammatico equilibrio tra partecipazione alla lotta armata e ricerca della pace sconfiggendo i fanatismi.

Huffington post, 28 luglio 2013

(Padre Paolo Dall’Oglio, Huffington Post Italia). Un lettore desidera “la risposta del prete” alla questione sulla legittimità dell’uso della forza da parte della comunità internazionale per favorire il successo della rivoluzione democratica e islamista siriana.

Comincerò da prete e finirò da siriano. Nel mio cuore non c’è contraddizione.

La Chiesa conosce per esperienza dolorosa bimillenaria la debolezza del suo insegnamento sulla guerra giusta e la legittima difesa. Tuttavia, nonostante le riflessioni forti e utili in senso opposto, l’Autorità magisteriale ecclesiale ha sempre ritenuto di dover reinterpretare i versetti biblici che sembrerebbero consigliare ai cristiani di sottomettersi inermi e miti a mafie, regimi, imperi, colonie, feudalesimi, sistemi razzisti e via spadroneggiando. La Bibbia, di per sé ben contraddittoria, è letta in modo compatibile con il riconosciuto diritto-dovere di favorire la giustizia e, al limite, difenderla e promuoverla con le armi, per evitare la vittoria duratura del sopruso istituzionalizzato.

Con inspiegabile ritardo, la Chiesa si è ormai convinta che la democrazia faccia parte dei diritti inalienabili delle persone umane e che quindi, se da un lato è sicuramente meglio quando la si può difendere e ottenere in modo non violento, resta d’altro canto vero che l’uso della forza per difendere una democrazia in grave pericolo o liberarsi dalla dittatura è legittimo nel quadro dell’insegnamento cattolico. Esistono tuttavia delle condizioni da rispettare perché l’uso della forza resti legittimo… e questo da spazio a utili discussioni. Nel frattempo però vige il dovere per ciascuno nella situazione particolare di giudicare e di agire.

Quando dieci mesi fa il Papa Benedetto visitò il Libano disse, sicuramente per effetto delle opinioni dei prelati mediorientali favorevoli al regime del clan Assad, che era peccato mortale vendere le armi ai contendenti nella guerra intestina siriana. In quell’occasione twittai che se era peccato vendercele, allora bisognava darcele gratis! Visto che il regime torturatore, e distruttore del popolo con ogni mezzo, di armi ne ha più che abbastanza, per non parlare degli amici pronti a donargliele.

Sono sempre stato a favore delle azioni non violente per la rivendicazione e la promozione della giustizia. Tuttavia ciò non può giustificare una condanna della lotta dei siriani per la loro libertà, autodeterminazione e dignità umana. L’azione non violenta ha un significato ugualmente valido di accompagnamento, di correzione e di orizzonte prospettico per rompere il ciclo maledetto dell’odio armato.

Si registrano, è vero, delle derive criminali abominevoli in alcuni gruppi della rivoluzione siriana. Il fatto che siano probabilmente teleguidati dal regime non risolve il problema. È preciso dovere della comunità internazionale d’istituire fin d’ora una corte di giustizia per i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra in Siria. Essa sarà indipendente e perseguirà i crimini di tutti. Ciò che oggi ipocritamente e stupidamente si fa è il giustificare i crimini sistematici e istituzionali del regime con quelli episodici di gruppi e persone del campo rivoluzionario, commessi contro le stesse regole che il popolo insorto si è dato.

È lecito chiedersi se, vista l’orribile efficacia della repressione del regime siriano, nell’ambito dell’ignavia internazionale, non fosse più morale arrendersi al regime stesso per evitare il peggio. Certo questo corrisponderebbe eventualmente all’insegnamento etico ecclesiale sulla proporzionalità dell’uso della violenza, anche calcolato sulle possibilità ragionevoli di successo. Molti di noi si erano chiesti fin dall’inizio se fosse realistico insorgere in modo non violento contro un simile regime, ben conoscendone la crudeltà e mancanza di scrupoli. La deriva violenta poi, conseguenza della repressione, appariva come una prospettiva infinitamente dolorosa e pericolosa. In questo, certo, la mancanza di chiarezza dei democratici occidentali è stata una vera trappola. Ci hanno spinto a muoverci promettendoci protezione e solidarietà e ci hanno vigliaccamente abbandonato; poi ci giudicano se ci siamo rivolti malvolentieri ai loro nemici per salvarci dal genocidio promessoci dagli Assad.

L’eroismo dei siriani è ragionevole e dunque morale perché proporzionale alla mostruosità e durevole caparbietà del regime baathista-alawita. Inoltre, tale eroismo è ormai adeguato alla prospettiva di farci ammazzare in massa qualora rinunciassimo a proseguire la lotta fino ad una sostanziale vittoria. Ciò non significa che non vi sia il dovere di trovare vie negoziali per salvare l’essenziale della rivoluzione, senza finire in una guerra interminabile che comunque perderebbe il paese. Anche la determinazione sanguinaria del regime rappresenta qualcosa sul piano dell’autodeterminazione dei siriani, di un certo numero di siriani, di alcuni gruppi rilevanti di siriani… e dunque vige il dovere di pensare a delle soluzioni politiche negoziali, senza aspettare solo di vincere con le armi.

Infine uno sforzo di riflessione morale va fatto sull’uso del chimico in Siria. Che il regime degli Assad disponesse di armi chimiche è noto a tutti. Se avesse potuto dotarsi dell’atomica, o almeno di testate armate con materiale nucleare di scarto, non avrebbe mancato di farlo. Israele glielo ha impedito fisicamente. Quando il Presidente Obama ha fissato la linea rossa delle armi chimiche, ha di fatto consentito di utilizzare impunemente tutte le altre contro il popolo siriano. Infatti non si è battuto ciglio quando si sono spediti i missili balistici contro i nostri quartieri residenziali e zone industriali.

In diverse occasioni si è capito che la preoccupazione principe dell’Occidente non fosse di natura morale ma strategica. Si temeva infatti che le armi chimiche finissero in mano agli insorti e si diffidava il regime da un uso irresponsabile di tale arsenale. Si è detto senza peli sulla lingua che la priorità era quella di assicurare innanzi tutto la sicurezza dell’alleato israeliano.

Forse si temeva che, per agitare più efficacemente lo spauracchio terrorista islamico, il regime fosse tentato di farsi rubare un po’ di materiale pericoloso. E ciò affinché, una volta usato (come si pretende da parte dei Russi a gran voce sia avvenuto a Khan al-Asal ad Aleppo) si potesse dimostrare che il virtuoso regime siriano era il vero baluardo della civiltà di fronte alla barbarie terrorista islamista. Forse una simile linea rossa c’era, ma non tanto pubblicizzata, fin da quando i siriani inviavano i terroristi islamici in Iraq a farsi esplodere contro gli americani e i loro alleati…

Ma guardiamo alla cosa dal punto di vista etico della rivoluzione siriana. Ammettiamo per un istante che ci fossimo appropriati di armi chimiche sottratte agli arsenali di regime conquistati eroicamente. Immaginiamo di avere la capacità di usarle contro le forze armate del regime per risolvere il conflitto a nostro favore e salvare il nostro popolo da morte certa. Cosa ci sarebbe d’immorale? Tutte le armi possibili sono usate contro di noi. È ampiamente dimostrato che il regime fa esperimenti micidiali d’uso delle armi chimiche contro i partigiani rivoluzionari e la popolazione civile, proprio per vedere di superare quella maledetta linea rossa impunemente.

Chi volesse profittare della scusa dell’arma chimica usata da noi (noi, si fa per dire!) una volta (e non è affatto dimostrato) contro il regime, dovrà riconoscere di usare un argomento del tutto insostenibile e che gli si rivolge contro. Tutti questi che ci danno lezione di morale militare hanno gli arsenali pieni di nucleare, chimico, biologico e via ammazzando!

Se avete paura, giustamente intendiamoci, per la sicurezza dello stato di Israele, allora siate bravi, intervenite a pacificare la Siria, distruggete l’arsenale chimico, restituiteci il diritto all’autodeterminazione democratica e poi mettete alla giovane democrazia siriana quelle linee rosse che riterrete necessarie. In fondo per voi non cambia nulla sul piano della sicurezza se come partner regionale avete un regime assassino o una baldanzosa Siria democratica!

Invece se ci lasciate sbranare dal regime assassino, allora, ve lo promettiamo, la necessaria doverosa e disperata autodifesa ci consiglierà, ci obbligherà a costituire un tale micidiale pericolo alla sicurezza regionale da obbligarvi ad assumervi comunque le vostre responsabilità. Siete di fronte a gente che ha perso tutto, gli occhi sono accecati dalle croste delle troppe lacrime, i nostri figli sono crocefissi nelle galere del vostro alleato oggettivo. Abbiamo anche vissuto una guerra così sporca che i ragionamenti morali del Padre Paolo ci lasciano alla fine indifferenti. Solo un minimo di giustizia ci farà rinsavire. Solo un minimo di sincera autocritica da parte vostra ci permetterà di pensare a quel negoziato… che sappiamo in fondo necessario. Non è per minacciare, è invece per allarmare riguardo ad un pericolo oggettivo e già reale che mi lascio andare a propositi così drammatici. Ogni giorno, dei giovani rivoluzionari democratici, male armati e affamati, passano ai gruppi islamisti meglio organizzati, più motivati, meno digiuni, più addestrati e più garantiti di vita eterna in caso ci si debba sacrificare.

Per noi siriani della rivoluzione, la riconciliazione tra forze islamiste radicali e forze democratiche è una necessità strategica. Le scaramucce dolorose e i crimini insopportabili avvenuti tra noi devono trovare soluzione, essere riassorbiti, per presentarci uniti di fronte al pericolo totale rappresentato dal regime, appoggiato direttamente o indirettamente da troppi. Il tentativo di seminare guerra intestina tra le forze anti-Assad (a prescindere dal necessario intercettamento e disinnesco delle derive criminali) deve fallire. Questo gli agenti e i consiglieri militari americani farebbero bene a capirlo subito. Favorire i partner più affidabili, incoraggiare le evoluzioni più auspicabili è buono. Spingerci ad ammazzarci tra di noi non può esserlo.

Allorché l’Occidente, ma anche Russia e Iran, e l’Onu nel suo insieme, si pentiranno del crimine di complice irresponsabilità da loro commesso ai danni dei siriani, allora provvederanno a che Bashar al-Assad lasci Damasco e si ritiri coi suoi sulle montagne ancestrali, consegni i pieni poteri a un governo transitorio che prepari il vero passaggio democratico.

Le grandi potenze metteranno in grado le comunità locali siriane di assicurare la propria sicurezza, instaureranno efficacemente una corte internazionale di giustizia per la Siria, separeranno temporaneamente i contendenti del conflitto civile sulla base delle linee geografiche di appartenenza comunitaria, in vista d’una Siria unitaria confederale, assisteranno la massa dei civili diseredati e ridotti in miseria disperata, favoriranno l’evoluzione dell’islamismo politico nel suo plurale desiderio di democrazia musulmana, incoraggeranno le minoranze (proteggendole pure, è ovvio) a reinvestirsi nella cosa pubblica comune.

Quando questo succederà, allora noi vi promettiamo di fare di tutto per riassorbire la deriva violenta, radicale, islamista, qaedista! È nel nostro interesse. Essa infatti costituisce una non soluzione proprio per i ragazzi che vi ci sono arruolati. Sono nostri figli e non ci interessa perderli. Nessuna soluzione alla Tora Bora, neanche per i jihadisti stranieri!

La Siria sarà capace di elaborare una strategia pedagogica islamica di riassorbimento dell’estremismo. Non è la prima volta nella storia. Abbiamo la teoria e conosciamo la pratica. Non si può giocare il futuro del mondo sull’ipotesi islamo-pessimista. Lo sanno anche i politici che si fanno pubblicità a forza di xenofobia. Se non si vuole essere morali almeno si cerchi d’esser pratici. Razionalità sincera e moralità concreta vanno finalmente a braccetto.

«Dalla società dell’eguaglianza, che parlava di pieno impiego e di fine delle povertà materiali, si è così passati ad una società della diseguaglianza, dove distanze abissali dividono le persone».

La Repubblica, 1° agosto 2013
Vi è una soglia di diseguaglianza superata la quale le società allontanano le persone tra loro in maniera distruttiva, ne mortificano la dignità, e così negano il loro stesso fondamento che le vuole costituite da “liberi ed eguali”? Evidentemente sì, visto che Barack Obama, abbandonando i passati silenzi, è intervenuto su questo tema, sottolineando che diseguaglianze nei diritti, nel rispetto della razza, nel reddito mettono in pericolo coesione sociale e democrazia. La denuncia riflette preoccupazioni che hanno messo in evidenza come le diseguaglianze siano pure fonte di inefficienza economica.

È all’opera una sorta di contro modernità, che contagia un numero crescente di paesi, e vuole cancellare l’“invenzione dell’eguaglianza”. Proprio questo era avvenuto alla fine del Settecento, quando le dichiarazioni dei diritti fecero dell’eguaglianza un principio fondativo dell’ordine giuridico, e non più soltanto un obiettivo da perseguire all’interno di un ordine sociale che trovava nella natura la fonte della solidarietà, affidata ai doveri della ricchezza, alla carità, a un ordine gerarchico intessuto di relazioni spontanee tra superiori e inferiori. Questo disegno armonico si era rivelato incapace di reggere il peso delle diseguaglianze, e da qui è nata la rivoluzione dell’eguaglianza, che ha abbattuto la società degli status, e dato vita al soggetto libero ed eguale. Da generico dovere morale la lotta alle diseguaglianze diveniva compito pubblico. Passaggio colto con l’abituale nettezza da Montesquieu: «fare l’elemosina a un uomo nudo, per strada, non esaurisce gli obblighi dello Stato, che deve assicurare a tutti i cittadini la sopravvivenza, il nutrimento, un vestire dignitoso, e un modo di vivere che non contrasti con la sua salute».

Erano venuti i tempi di quella che Pierre Rosanvallon ha chiamato “l’eguaglianza felice”. Non perché una magia avesse cancellato le diseguaglianze. Ma perché un cammino era tracciato, e l’eguaglianza non era solo una promessa, ma un compito al quale lo Stato non poteva sottrarsi (continua a dircelo l’art. 3 della Costituzione). Questo cammino è stato interrotto, per ragioni diverse. La crisi fiscale dello Stato, con una riduzione delle risorse disponibili per il welfare accentuata nell’ultima fase. La teorizzazione di una eguaglianza sempre più legata alle sole opportunità di partenza e non ai risultati, quasi che diritti come salute e istruzione possano essere svuotati del loro esito concreto. Sullo sfondo, le tragedie del Novecento, con la separazione della libertà da una eguaglianza imposta anche con una violenza che spingeva a rifiutare, insieme all’egualitarisno, forzato, l’eguaglianza stessa. E soprattutto il ritorno del mercato come legge naturale indifferente all’universalismo.

E così il mondo si è fatto sempre più diseguale. Negli anni ’80 Peter Glotz parlò di una società dei due terzi, dove la maggioranza degli abbienti, raggiunto il benessere, abbandonava gli altri al loro destino. Oggi le cifre sono più drammatiche, i meccanismi di esclusione più profondi. Lo slogan estremo – “siamo il 99%” – è stato reso popolare dal movimento Occupy Wall Street e, al di là dell’esattezza della percentuale, fotografa una tendenza al concentrarsi della ricchezza nelle mani di una quota sempre più ristretta di persone (le sti-

parlano di un 10% della popolazione che possiede tra il 50 e l’85% della ricchezza). Una concentrazione che si è rafforzata nell’ultima fase, e che testimonia una spettacolare inversione di tendenza. Infatti, nel 1913 in Francia l’1% possedeva il 53% della ricchezza, quota scesa al 20% nel 1994; in Svezia, la discesa era stata dal 46% del 1900 al 23% del 1980; negli Stati Uniti, il 10% possedeva il 50% prima della crisi del 1929 e il 35% nel 1980.

Dalla società dell’eguaglianza, che parlava di pieno impiego e di fine delle povertà materiali, si è così passati ad una società della diseguaglianza, dove distanze abissali dividono le persone, come hanno messo in evidenza i dati riguardanti il rapporto tra i redditi dei nostri manager e quelli dei dipendenti (in testa Marchionne con un rapporto 1 a 460). Il mondo solidale si perde nella frammentazione e negli egoismi. Gli effetti si manifestano con il ritorno della povertà, la riduzione dei diritti sociali, la trasformazione del lavoro in precariato o sfruttamento, la violenza dei meccanismi di esclusione e di rifiuto dell’altro, la chiusura nei ghetti. Le diseguaglianze stravolgono la vita delle persone, le condannano al grado zero dell’esistenza, anzi a quella “infelicità” che Wilkinson e Pickett hanno cercato di misurare con indici concreti. Così la diseguaglianza si scompone, va oltre la distanza economica, si alimenta con le tensioni legate alla razza, con le politiche del disgusto per il “diverso”, con le diseguaglianze digitali. E regredisce a cittadinanza censitaria, perché i diritti non sono garantiti dall’eguaglianza, ma dalle risorse per comprarli sul mercato.

Nel mondo diseguale emergono soggetti che incarnano la nuova condizione. La classe precaria, alla quale Guy Standing vorrebbe affidare l’intero compito del rinnovamento. O i migranti, più ragionevolmente ricordati da Gaetano Azzariti come la realtà che meglio descrive la società globale e diseguale. Proprio perché tanto grandi sono gli effetti distruttivi delle diseguaglianze, torna così il bisogno di ripensare l’eguaglianza, quella “società degli eguali” alla quale è dedicato il bel libro di Rosanvallon, che indica di nuovo la via dell’eguaglianza perché la stessa democrazia possa tornare ad essere,o divenire, “integrale”.

Per vent'anni i dirigenti del PD hanno voluto assomigliare a Berlusconi: logico che ora dicano "vogliamo governare con lui anche se è condannato per frode fiscale".

Il manifesto, 31 luglio 2013
Siamo messi male, lo sapevamo, ma in queste ore ne abbiamo vistosa conferma, persino patetica, con quell'immagine dell'Italia, paese alla periphery d'Europa, come con franchezza ci definisce, e deferisce, il Fondo monetario. Che osserva, come del resto tutte le televisioni che stazionano sulla scalinata del Palazzaccio romano, le istituzioni repubblicane e le sorti del governo appese alle ultime battute di un processo decennale.

Siamo arrivati a questo passaggio cruciale mentre ancora brucia il risultato delle ultime elezioni politiche, con l'autoaffondamento del centrosinistra e la disintegrazione delle liste di alternativa. Il dopo-elezioni ha sparso altro sale sulla ferita, rendendoci spettatori della rissa del gruppo dirigente del Pd e, soprattutto, della scelta presidenziale delle larghe intese.

In questo ultimo passaggio giudiziario la colonna sonora è oltretutto scandita da un grande festival dell'ipocrisia, interpretato dai ritornelli dei più accaniti fan del condominio con Berlusconi. Costoro cantano in coro che non capiscono perché mai bisognerebbe proprio ora rompere con l'alleato di palazzo Chigi solo per una eventuale sentenza di condanna. Dicono che governare con il pregiudicato non cambia nulla, anzi sostengono che fingendo indifferenza per i suoi destini penali, il governo dà prova di difendere la propria autonomia. La verità naturalmente è un'altra: amministrare con i berlusconiani non è una necessità, ma l'approdo per cui il Pd, o larga parte del partito, ha lavorato sodo. E ora, giustamente, il sudato traguardo viene difeso a qualunque prezzo. Anche perché il non aver saputo battere politicamente l'avversario degli ultimi vent'anni ha una spiegazione semplice, logica, coerente: volergli somigliare. Fino a raggiungere la massima condivisione con l'unico leader politico di riferimento, e regalargli una rendita di posizione che né lui, né i suoi alleati hanno interesse a dilapidare.

Il copione di questo ultimo atto si svolge avendo sullo sfondo una situazione economica che ci colloca fuori dall'Europa. Un piccolo esempio spiega meglio di un saggio la deriva nazionale: su 100 pannelli solari installati in Italia, 98 sono importati, 1 è prodotto da un'impresa estera in Italia e 1 da un'impresa italiana. Una struttura produttiva fuori gioco e la situazione sociale va di concerto.

Tuttavia qualche segnale positivo la giornata di attesa l'ha prodotto: le azioni Mediaset e Mondadori hanno messo le ali, come se il mercato avesse annusato che per il Cavaliere tira buon vento. Se i lauti guadagni in Borsa delle imprese berlusconiane fossero l'annuncio di una sentenza favorevole, avremo solo la conferma dell'impunità che sempre ne ha accompagnato la lunga carriera politica. Oltre a riconoscere che spendere una fortuna in avvocati alla fine è un ottimo investimento. Del resto quanti «berlusconi» sono ospiti delle nostre fatiscenti carceri? Se pure per una volta la legge fosse uguale per tutti, sarebbe l'eccezione che conferma la regola.

Naturalmente, una eventuale assoluzione, totale o parziale (con il conseguente rischio della prescrizione), è da escludere che sia frutto delle forsennate pressioni a preservare un assetto di potere che si appresta a chiudere il cerchio della crisi modellando l'impianto costituzionale nella forma più aderente ai nuovi equilibri.

Papa Francesco da un lato, la politicuzza dall’altro. Che baratro in mezzo! Lì cadranno i birilli, trascinando tutti noi.

La Repubblica, 31 luglio 2013

L’HA detto pure papa Francesco, il 25 luglio nella cattedrale di San Sebastiàn a Rio de Janeiro: meglio fare casino, hacer lio, Ecco cos’è non lapolitica liquida che si sperde e che tanti decantano, ma la resilienzadi una materia dura che resiste, e sotto gli urti rimbalza. «Le parrocchie, le scuole, le istituzioni sono fatte per uscire fuori (…). Se non lo fanno diventano una Ong e la Chiesa non può essere una Ong».

Se il signor Sposetti sapesse quel che dice, sul partito democratico di cui è tesoriere dal 2001, non sosterrebbe senza arrossire: «Sarà la fine di tutto, se i giudici condannano Berlusconi: il Pd non reggerà l'urto e salterà come un birillo». Saprebbe la differenza che c’è tra il resiliente e l’acqua che si chiude intatta sulla barca che affonda. Fra l’intelligenza e quella che lui stesso chiama la «fase fessa» del proprio partito e della democrazia italiana.

Qualche giorno fa l’aveva detto anche Obama: che il suo paese è tuttora malato di razzismo, che l’Unione americana non sarà mai perfetta ma meno imperfetta può divenire. Che il divenire è tutto. Che tra gli americani, e non solo tra i loro politici, deve iniziare unesame di coscienza, dopo la mancata condanna di chi nel febbraio 2012 ammazzò a bruciapelo un disarmato diciassettenne afro-americano, Trayvon Martin. Che deve infine cominciare una «conversazione sulla razza», in grado di vedere nell’Altro o nel Diverso «non il colore della pelle, ma il contenuto del suo carattere». Altrettanto in Germania: fin dal 1999, quando Schröder divenne Cancelliere, fu cambiata la legge sulla concessione della nazionalità, adottando lo ius soli accanto allo ius sanguinis cui per secoli i tedeschi erano rimasti aggrappati. Il governo socialdemocratico-verde capì che, nella globalizzazione, l’omogeneità etnica era divenuta bieco anacronismo.

Non così in Italia, dove in politica regnano le cerchie scostanti, i clan che fuggono l’aria aperta, inaccessibili e sordi al resto della cittadinanza e al mondo che muta. Vent’anni di diseducazione civica, di leggi infrante, di immunità, hanno asserragliato politici e partiti nelle cantine dei propri clericalismi: immobili, disattenti alla società dove «si fa casino», si disturba e si fa baccano. Sono diocesi incapaci di correggersi, di entrare in quella che papa Bergoglio chiama l’onda della rivoluzione copernicana.

Cos’è per lui rivoluzione? «Ci toglie dal centro e mette al centro Dio. Apparentemente sembra che non cambi nulla, ma nel più profondo di noi stessi cambia tutto. La nostra esistenza si trasforma, il nostro modo di pensare e di agire si rinnova, diventa il modo di pensare e di agire di Gesù, di Dio. Cari amici, la fede è rivoluzionaria e io oggi ti chiedo: sei disposto, sei disposta a entrare in quest’onda rivoluzionaria?». E dove nasce l’onda? «Nelle periferie esistenziali», dove l’indifferenza dilaga. E come mai s’è andata formando l’indifferenza? «Vedete, io penso che questa civiltà mondiale sia andata oltre i limiti, perché ha creato un tale culto del dio denaro, che siamo in presenza di una filosofia e di una prassi di esclusione dei due poli della vita (gli anziani, i giovani), che sono le promesse dei popoli». Sui giovani ha aggiunto: «Abbiamo una generazione che non ha esperienza della dignità guadagnata con il lavoro».

Di simile trasformazione avrebbe bisogno la politica, affetta dall’isterico ristagno che è la stasi: non del liquido Renzi, ma della dura e antica materia che fa fronte alle scosse. Non di un Tony Blair che s’assoggetti al culto del denaro, alle guerre di Bush jr., e vinca uccidendo la sinistra. La destra ha le sue impassibilità morali, e non stupisce. Ha da difendere privilegi, clan, impunità: in particolare quella del proprio padre- padrone, senza il quale teme di morire. Vivrà anche se il capo, condannato per frode fiscale, estromesso dal Senato, comanderà da fuori: mentre i Democratici no, cadono come birilli a forza d’inconsistenze e tradimenti.

Il Pd è cresciuto in questo clima e ne è stato contaminato (non è vero che è stato troppo antiberlusconiano: il ventennio è stato tutto all’insegna della compromissione) ma tanti elettori e alcuni aspiranti leader sentono che bisogna far casino se non si vuol restare fessi. Perché se il Pd insiste nell’autodistruzione e nell’immobilità, chi guiderà coalizioni diverse, se sarà necessario, e cosa andrà messo «al centro»?

Qualche sera fa, il 26 luglio a una festa dei Democratici a Cervia, il ministro Kyenge, già chiamata orango non da un leghista qualunque ma dal vicepresidente del Senato Calderoli, è stata fatta bersaglio di un lancio di banane. Nel Pd: breve indignazione, presto dimenticata. È stata breve anche con Calderoli. Nessuno ha avuto l’ardire di rispondere: non entreremo in Senato, i giorni in cui a presiedere sarà lui.

Non sono mancati, come è giusto, gli elogi della reazione ironica di Cécile Kyenge (“Che spreco di cibo! Uno schiaffo alla povertà”). «Non c’è miglior modo di contrastare chi si sente razza superiore, che farlo sentire un cretino e mostrarlo al mondo», scrive Alessandro Robecchi. Ma i provocatori fascisti hanno potuto fare irruzione senza problemi, e i servizi d’ordine che alzino barriere non esistono da tempo. L’ironia è ignominia per un partito che seppe resistere, in ore gravi della storia italiana. L’esclusione va combattuta, assieme al razzismo. E che si aspetta per una legge sull’omofobia? Anche qui ascoltiamo Bergoglio, sull’aereo di ritorno da Rio: «Le lobby tutte non son buone. Ma se una persona è gay, chi sono io per giudicarla?».Basta un papa, per la rivoluzione copernicana che s’impone? Dante era convinto che occorresse il potere sovrano dell’imperatore,perché il pastore della Chiesa «rugumar può» – può ruminare le Scritture – ma non guidare laicamente la città dell’uomo. È una saggezza che vale ancora. Ma è difficile quando l’autorità laica non cura il bene pubblico ma solo i privilegi e il potere dei propri potentati. L’opposizione della dirigenza Pd a primarie aperte per la futura guida del Pd (e per la candidatura alla premiership) è segno di quest’otturazione di spazio, attorno a un centro che è stato tolto. Anche qui: meglio perdere e salvare la parrocchia, senza avventurarsi in alto mare alla ricerca non solo dei cari iscritti estinti ma degli elettori vivi.

Meglio il Regno della Necessità di Enrico Letta, che farà magari alcune leggi buone con alcuni buoni ministri ma è pur sempre figlio delle larghe intese che gli italiani non volevano. Né si può dire che Letta sia solo lì per fare una legge elettorale e risparmiarci immediati crolli economici. Il cantiere che ha messo in piedi prevede una vasta revisione della Costituzione. E con chi si trova a riformarla se non con un capo del Pdl per cui le larghe intese sono non un provisorium ma una pacificazione, dunque un appeasement, un salvacondotto. Come riscriverla se non con un Parlamento di nominati, che la Cassazione ha già dichiarato non legittimo, visto che potenzialmente incostituzionale è la legge elettorale da cui discende.

È una gran fortuna che il Vaticano non si intrometta nella città dell’uomo. Ma l’ipocrisia diminuirebbe un po’, se la politica venisse scossa, rimessa al centro, e, parafrasando Bergoglio, qualcuno chiedesse di non farne un frullato, perché «c’è il frullato di arancia, c’è il frullato di mela, c’è il frullato di banana, ma per favore non bevete frullato di politica». Anche la politica è intera, come la fede, «e non si frulla».che chiudersi dentro i recinti delle proprie parrocchie e immaginarsi potenti, anche se dentro già si è morti. Meglio «uscire fuori, per strada», e disturbare, e farsi valere, piuttosto che installarsi «nella comodità, nel clericalismo, nella mondanità, in tutto quello che è l’essere chiusi in noi stessi».

L'immagine riprodotta nell'icona è di Fabrizio Mingoia

Dalla «Escuela de Verano» parte l'idea di una rivista internazionale di studi «gramsciana». Mentre nelle università italiane si ritiene «superato», il resto del mondo lo riscopre per interpretare l'attualità. Il manifesto, 30 luglio 2013

La città natale di Pablo Ruiz Picasso, oggetto negli ultimi decenni di una devastazione ambientale che certo poco sarebbe piaciuta all'autore delle Demoiselles d'Avignon, con costruzione di giganteschi alberghi (che i giornali locali vantano come primato nazionale), non è solo luogo di vacanza, anche se, malgrado la crisi economica, qui si percepisca ancora la dolcezza del vivere. Malaga ha una università di medie dimensioni, nata quarant'anni fa, molto vivace, e una cattedra Unesco, che organizza da sei anni dei corsi estivi, su varie tematiche, in diverse discipline, sempre con finalità fortemente connotate sul piano civile e indirettamente politico. Si crede, qui, insomma, in una cultura che abbia come meta ultima non il mero accrescimento di conoscenze, e men che meno l'acquisizione di competenze tecniche, bensì la formazione della cittadinanza.

Quest'anno la "Escola de Verano" comprendeva dodici corsi, che coprivano discipline come il Diritto pubblico, la Comunicazione, la Pedagogia, la Biologia, il Diritto penale, la Scienza politica. E per la prima volta anche i fumetti, nella loro dimensione politica. Alcuni docenti che collaborano alla Cattedra Unesco, in memoria di Francisco Fernandez Buey, uno studioso morto prematuramente meno di un anno fa, proposero al direttore della cattedra, Bernardo Diaz Nosty, un corso su Antonio Gramsci. Qualcuno espresse perplessità giudicando il corso troppo specialistico, ma alla fine la proposta passò. Risultato: il corso su Gramsci ha avuto di gran lunga il maggior numero di iscritti, e addirittura il maggior numero di partecipanti di tutta la storia della Scuola estiva. Una sorpresa un po' per tutti, anche perché il titolo del corso, "La vigencia del pensamento de Antonio Gramsci", era molto "tagliato", e dava quasi un messaggio politico, al punto che qualche studioso italiano contattato per svolgere il ruolo di docente ha rifiutato. E ha fatto male. Perché il corso, diretto da Ana Jorge Alonso, ha rappresentato una esperienza entusiasmante. Innanzi tutto per il pubblico frequentante: persone di ogni età e professione, dagli studenti ai professori delle Superiori, dai docenti universitari (inimmaginabile da noi che dei docenti vadano a frequentare, come iscritti paganti, una Summer School della loro università) ai sindacalisti, dai militanti di sinistra a semplici appassionati. Ogni lezione era seguita da un dibattito intensissimo, pieno di curiosità, dove non si facevano comizi, ma si ponevano domande intelligenti, che traducevano un'autentica volontà di sapere. E molti cominciavano i loro interventi nella discussione spiegando il loro Gramsci: ossia come l'avevano conosciuto e che cosa sapevano di lui. Un insegnante di scuola media ha detto che di Gramsci sapeva a mala pena il nome, e quando ha visto qualche mese fa il programma del corso, è andato a cercare informazioni su Wikipedia e altri siti, ed è rimasto «impressionato» da ciò che ha trovato e letto (così ha detto). Ha deciso di iscriversi: ha seguito l'intera settimana, occupando sempre lo stesso posto - stessa fila, stesso banco - prendendo appunti, facendo domande, diligente e attivo, testimoniando, giorno dopo giorno, il proprio crescente entusiasmo. Notevole la presenza di laureandi, dottorandi, docenti di discipline che si potrebbero immaginare (sbagliando) estranee all'universo gramsciano, come il Diritto, la Linguistica, la Traduzione, la Psicologia.

In tutti i partecipanti (oltre 40, alcuni provenienti dal circondario, qualcuno addirittura da città distanti fino a un centinaio di chilometri), è visibilmente andato crescendo l'interesse per la vita, il pensiero e la fisionomia politica di questo rivoluzionario pensoso, di questo marxista critico, di questo comunista umanistico, la cui fortuna attuale scaturisce precisamente dalla differenza tra la sua posizione e il suo pensiero rispetto alla dogmatica marxista e il socialismo reale, la sua distanza da ciò che chiamiamo, semplificando, stalinismo. Si è insistito, da vari punti di vista, precisamente sulla «diversità» di Gramsci, e ci si è interrogati sulla sua «attualità», anche se la risposta che personalmente darei è di assoluta inattualità ma nel contempo di drammatica necessità. Difficile immaginare oggi, tanto a livello nazionale, quanto sovranazionale, una estraneità così assoluta: il rigore etico, l'onestà intellettuale, la coerenza politica, la stessa ricchezza umana, di cui la vita, l'azione e il pensiero di Antonio Gramsci sono prova provata, duramente provata, appaiono distanti anni luce dalle regole e dalle prassi del tempo presente. Eppure quanto bisogno vi sarebbe precisamente di questi tratti, per fare cultura, una cultura disinteressata, ossia non finalizzata a una carriera accademica o al mercato, ma nel contempo una cultura che miri a comprendere, come scriveva il giovane studente dell'università di Torino nel 1916, il nostro posto nel mondo, i nostri diritti e i nostri doveri, per acquisire consapevolezza, apprendere il principio di responsabilità. Tutti passi fondamentali per l'azione politica. Gramsci sarebbe utile, e direi necessario anche per tentare di fare una politica che ricuperi la propria nobiltà, che associ una concezione realistica dei rapporti di forza, con la spinta dell'utopia trasformatrice. Curiosamente, proprio in Italia questa "vigencia" di Gramsci sembra ignorata: una giovane ricercatrice che collabora alla Cattedra Unesco, ma ha rapporti con l'Università di Torino, mi racconta che, venuta appunto sotto la Mole, avendo annunciato il corso su Gramsci al gruppo di docenti e ricercatori torinesi, ha ricevuto un gelido commento: «Da noi Gramsci è superato». E costoro sono scienziati della politica...

A dispetto del giudizio di costoro, il corso malagueño ha confermato di vedere nell'elaborazione di Gramsci, una eccezionale ricchezza multiversa e un'assoluta originalità: del giornalista rivoluzionario, poi del dirigente politico, infine, nel prigioniero del fascismo che riflette sulla sconfitta del movimento operaio. Per Gramsci il marxismo costituisce una fonte essenziale, ma non è la sola; e il comunismo la prospettiva, ma con caratteri suoi propri: si tratta di due etichette insufficienti, in definitiva, anche se entrambe corrette. Con Gramsci ha inizio un'era nuova nella storia del pensiero occidentale: tale il messaggio che Malaga lancia oggi. Per diffonderlo, alla conclusione del corso, si è deciso, unanimemente, di radunare la comunità gramsciana nel luogo ideale in cui gli intellettuali sempre si incontrano e lanciano le loro idee: non un nuovo centro studi (ne esistono), non una cattedra (ce ne sono, specie in America Latina), non un'associazione (la International Gramsci Society nacque negli Usa nel 1989, grazie a Joseph Buttgieg, e ha una vivace Sezione italiana, presieduta fino alla morte dal compianto Giorgio Baratta, ora da Guido Liguori); nulla di tutto questo. Ma, semplicemente, una rivista, che si chiamerà classicamente Gramsciana, ospiterà contributi in diverse lingue, avrà un Consiglio di direzione e un Comitato scientifico internazionali. Alla rivista Malaga affida il compito di riprendere il discorso della "Escola de Verano" 2013.

Non basta dire “chi sono io per giudicare” se si ha il potere di cambiare.

La Repubblica, 30 luglio 2013

È MOLTO probabile che i commenti alle dichiarazioni del Papa sulle persone omosessuali si dividano in due correnti tra loro contrapposte. Da un lato coloro che desiderano una decisa riforma delle posizioni della Chiesa cattolica intenderanno le parole del Papa come rivoluzionarie, diverse, foriere di cambiamenti. Dall’altro lato coloro che intendono conservare lo status quo leggeranno le stesse parole del Papa come del tutto coerenti con le posizioni di sempre, quelle ribadite più volte da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E occorre dire in verità che, in assenza di atti effettivi di governo da parte di papa Francesco volti a modificare la legislazione canonica vigente, entrambe le posizioni hanno una loro legittimità. Il Papa infatti non ha detto nulla che anche Benedetto XVI non avrebbe sottoscritto, dicendo che: 1) le persone omosessuali in quanto tali vanno accolte e per nulla discriminate, mentre gli atti sessuali delle stesse non possono trovare accoglienza all’interno dell’etica cattolica; 2) per i divorziati risposati il primato deve essere assegnato alla misericordia; 3) la donna deve avere più spazio nel governo della Chiesa, anche se la Chiesa non potrà giungere a concederle l’ammissione al sacerdozio, alle donne cattoliche definitivamente precluso.

Perché allora da parte di tutti nel mondo si avverte nelle parole del Papa un senso di novità e di speranza, di innovazioni? Perché questo entusiasmo per parole che nei contenuti non modificano in nulla la tradizionale impostazione etica e dogmatica cattolica? Io penso che sia per il clima di empatia che circonda la persona del Pontefice e per il bisogno di cambiamento e di riforma che i cattolici di tutto il mondo avvertono. Ma soprattutto per la frase, questa sì del tutto innovativa per un Papa, “chi sono io per giudicare?”. Una frase che, a mio avviso, né Benedetto XVI né Giovanni Paolo II avrebbero mai potuto o voluto pronunciare.

Queste parole collocano il Papa non più tra i capi di Stato e i potenti di questo mondo che per definizione giudicano, ma tra i discepoli di Gesù attenti a mettere in pratica le parole del maestro: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati, perdonate e sarete perdonati” (Luca 6,37). Da tutto questo però deve scaturire una conseguente azione di governo finalmente all’insegna della novità evangelica (così come lo sono i gesti straordinariamente semplici e potentissimi di questo Papa).

Ho parlato prima di empatia e vorrei sottolineare che l’empatia è molto importante, non solo, com’è ovvio, a livello psicologico, ma anche a livello teologico. Il termine infatti rimanda alla parola greca pathos, che significa passione, e che costituisce uno dei concetti centrali del cristianesimo, a partire dalla passione di Cristo e dall’amore che definisce l’essenza di Dio, amore che a sua volta è passione e genera passione. Il fatto che papa Francesco sia circondato da un abbraccio di empatia a livello mondiale non si spiega solo a livello umano per la sua carica personale e per la spontaneità e la semplicità dei suoi gesti; si spiega anche a livello teologico e spirituale per il suo essere in grado di rappresentare la passione di Dio per il mondo. Quindi l’empatia che circonda il Papa (e che porta a vedere in ogni sua parola qualcosa di nuovo anche quando di per sé non c’è nessuna novità) è estremamente preziosa, è un segno dello Spirito si direbbe nel linguaggio teologico. E il Papa non la deve deludere, deve esserne all’altezza fino in fondo, venendo incontro al bisogno di cambiamento che la gran parte dei cattolici nel mondo avverte riguardo alla Chiesa.

È infatti insostenibile la posizione cattolica tradizionale riguardo sia alle persone omosessuali, sia alle persone divorziate, sia al ruolo attualmente ricoperto dalle donne all’interno del governo della Chiesa. E occorre coerenza: non si può proclamare a parole il rispetto per le persone omosessuali e la pari loro dignità di figli di Dio e poi giudicare la loro condizione come condannata dalla legge naturale e dalla Bibbia; al contrario, se veramente si vuole mostrare in modo concreto il rispetto di cui si parla nei loro confronti, occorre mettere in atto ermeneutiche conseguenti sia della legge naturale (da intendersi in senso formale come armonia delle relazioni e non come definizioni di ruoli e di comportamenti) sia delle pagine bibliche che condannano le persone omosessuali relegando tali pagine accanto a quelle che favoriscono la guerra o l’inimicizia verso le altre religioni (e che non meritano di essere più prese in considerazione).

Occorre cioè giungere all’evangelico “non giudicare” e “non condannare”. Allo stesso modo se veramente si vuole che sia la misericordia ad avere il primato per i divorziati risposati occorre mettere in atto una disciplina canonica dei sacramenti che conceda loro di accostarvisi senza nessuna discriminazione (segnalo al riguardo il recente libro di Oliviero Arzuffi, Caro papa Francesco. Lettera di un divorziato, Oltre edizioni). Allo stesso modo, infine, se veramente si vuole che la donna abbia maggiore potere all’interno della Chiesa si deve procedere di conseguenza e, anche senza giungere all’ordinazione sacerdotale, si deve permettere che le donne diventino cardinali e ministri con pieni poteri del governo della Chiesa (oggi per accedere al cardinalato occorre essere diaconi o sacerdoti, e le donne possono accedere al diaconato, lo testimonia il Nuovo Testamento, basta leggerlo e applicarlo).

“Chi sono io per giudicare?”, ha detto il Papa e in questo si è fatto discepolo di Gesù. Ma Jorge Mario Bergoglio in quanto pontefice regnante può far sì che questa mentalità non giudicante diventi la prassi corrente della Chiesa in ordine alle persone omosessuali e ai divorziati risposati. Di fronte a lui sta il compito di non deludere l’empatia che lo circonda e le speranze di rinnovamento evangelico di molti credenti e “uomini di buona volontà”.

Un'intervista a proposito delle violenze subita da Cecilia Kyenge, nera e donna. «I pregiudizi si sono rafforzati in questi anni insieme alla decadenza della cultura civica e politica, perché il linguaggio si è privatizzato; invece che cittadini che si relazionano come estranei in uno spazio pubblico, ci scambiamo opinioni personali, le quali si accavallano senza cura alla forma del linguaggio».

Il manifesto, 30 luglio 2013
Gli insulti alla ministra dell'Integrazione Kyenge, ma anche le offese alla presidente della Camera Laura Boldrini e le violenze quotidiane contro le donne. «E' come un coacervo di tutti i pregiudizi e soprattutto della relazione machista con le donne» osserva Nadia Urbinati, politologa e docente di Teoria della politica alla Columbia University di New York. Non proprio stupita dall'impennata di episodi di razzismo delle ultime settimane. «E' da diversi anni ormai che parliamo e scriviamo di razzismo in Italia. Io ricordo alcuni anni fa, all'inizio del governo Berlusconi, numerosi casi di razzismo nei confronti degli immigrati, la campagna contro gli illegali e i boat-people. C'è stato un processo di consolidamento di pratiche e pregiudizi che è andato insieme alla depoliticizzazione delle relazioni pubbliche, rendendo la società più permeabile al razzismo.

Va bene, stiamo raccogliendo i frutti di venti anni di politica leghista sull'immigrazione. Ma il ministro Kyenge viene presa di mira in quanto donna e nera.

Ritengo che i pregiudizi si siano rafforzati in questi anni insieme alla decadenza della cultura civica e politica, perché il linguaggio si è privatizzato; invece che cittadini che si relazionano come estranei in uno spazio pubblico, ci scambiamo opinioni personali, le quali si accavallano senza cura alla forma del linguaggio, al fatto che esso può offendere e far male. Parlerei di decadenza del linguaggio della politica e di egemonia pubblica di modelli soggettivi di comportamento. Non mi stupisce per niente in questo senso il legame donne e etnia. Anche nella cultura americana è così. I pregiudizi si attraggono l'un l'altro, si accumulano. Negli Stati del Sud degli Stati uniti, o nella zone del Midwest dove è più forte il radicamento del partito repubblicano, questo connubio tra cultura contro l'affermative action, cioè contro le pari opportunità, si coagula con i pregiudizi contro i neri e tutte le minoranze che reclamano un trattamento comparato alla loro condizione di svantaggio.

Ma il fatto che Kyenge oltre a essere nera sia una donna di governo influisce? Dopo l'elezione di Obama in America, nel 2008, aumentarono le aggressioni nei confronti dei neri. Fa paura un nero che ha potere?
Sì che fa paura. Io ricordo che appena si comprese che Obama stava sopravanzando Bush alcuni gruppi legati al partito repubblicano (poi confluiti nel Tea Party) cominciarono a diffondere dubbi sulla sua identità americana. Dichiarandolo non americano, lo si decretò escluso, ma anche un nemico totale se provava a scalare le istituzioni dello Stato. Per i razzisti del Tea Party non era concepibile avere un presidente che fosse nero e americano. C'è quasi un'idea incorporata nel pregiudizio che chi è oggetto di pregiudizio appartiene a un sotto non a un sopra, quindi non può diventare parte della leadership politica. Quando questo succede è un motivo di scandalo. Anzi, provoca la perdita di autorevolezza delle istituzioni. Un ministro nero vuol dire che il ministero ha meno valore. Per anni (e ancora oggi) questo è valso anche nel caso delle donne.

E questo si riflette anche sul ministro Kyenge.
Certo perché è nera e donna, un "difetto" dal quale, oltretutto, lei non si può emancipare. Essere nera e donna intacca le istituzioni dello Stato.

Tra le donne finite nel mirino c'è anche la presidente Boldrini.
Come tutti coloro che difendono una cultura dei diritti contro la non-cultura della sopraffazione pregiudiziale.

Non è la prima volta che in Italia abbiamo un presidente della Camera donna. Penso a Nilde Iotti e Irene Pivetti. Eppure non hanno scatenato gli attacchi che adesso è costretta a subire la presidente Boldrini.
Direi che i tempi erano diversi. Entrambe le precedenti due presidenti si collocavano in un'Italia che non aveva ancora questa forte presenza multiculturale e multietnica. Ora invece abbiamo una situazione in cui queste espressioni di diversità hanno addirittura voce politica nello Stato. Quindi difendere Kyenge, come ha fatto la presidente Boldrini, significa esporsi a due rischi: essere oggetto di offese come donna e come sostenitrice di posizioni che per chi ha pregiudizi razziali sono insostenibili.

Ma cos'è che fa più paura: l'essere donna o l'essere neri?

Qui in Italia l'essere neri. Tuttavia l'attacco alle donne è gravissimo e rientra nello stesso discorso sul razzismo; un nuovo esempio di debolezza del cosiddetto mondo maschile, prepotente e violento.

Questi episodi sono l'espressione di una minoranza becera oppure su certi temi è proprio il sentire nazionale che sta cambiando?
Guardi io non so quantificare quante persone si identificano con simili atti, però il nostro paese ha subito profonde trasformazioni dopo tre decenni di influenza nella cultura popolare dalle televisioni commerciali, che hanno formato intere generazioni imponendo un linguaggio spesso molto povero e soprattutto inadatto a dialogare ma pronto invece a pontificare e asserire. Modi del discorso diffusi anche in politica. E questi episodi di razzismo sono così ripetuti e continui che viene quasi da pensare che quel che si dice, la condanna di questi fatti, non abbia presa, non abbia più influenza.

Come vede il futuro?
Non lo so. Penso però che questa situazione di blocco che stiamo vivendo, questa alleanza politica anomala deve finire prima possibile, perché non stimola la chiarezza delle idee, non lascia la libertà agli attori di essere se stessi. Perché c'è un veto incrociato, per cui non si può fare tutto ma non si può nemmeno dire tutto. Se in politica non esistono più differenze, che sono il sale della politica, esse si travasano altrove. Vanno a finire nei rapporti privati, diventano divisioni identitarie di etnie e genere. Ecco una ragione non secondaria della recrudescenza del razzismo e della violenza contro le donne. Certo, sarebbe sbagliato pensare che questa è una ragione del razzismo - non è questo che voglio dire. Voglio semplicemente mettere l'accento sul fatto che l'impotenza della politica, il blocco della dialettica politica o tra avversari politici, rende più agevole aprire nuovi terreni di contrapposizione, dove non le idee ma i pregiudizi hanno cittadinanza.

Si continua a sperare che il Pd cambi strada, almeno un po’. Ma i contadini dicevano: a lavar l’asino si perde il ranno e il sapone.

La Repubblica, 30 luglio 2013

CHI fiocinerà il “moby pig”, questo mostruoso e inaffondabile sistema elettorale che infesta i mari della politica? Finora, nessuno dimostra il coraggio di un Capitano Achab. Eppure tutti disprezzano il Porcellum, a incominciare dai loro ideatori, “i saggi” del centrodestra, allora guidati dal (dis)onorevole Roberto Calderoli. Ma se si può comprendere l’imbarazzato silenzio di questa parte politica, non si capisce proprio la timidezza e l’afasia del centrosinistra, e del Pd in particolare. È vero che il Partito democratico fatica a decidere qualunque cosa ma almeno potrebbe ritrovarsi unito nello sconfessare il gioco di rinvii e rimandi con cui si seppelliscono le ipotesi riformatrici della legge elettorale. L’invenzione dilatoria degli ultimi giorni è quella di costituzionalizzare il sistema elettorale. Una insensatezza tipica del genio politico italico.

In nessun grande paese democratico la carta costituzionale specifica quale debba essere il sistema di voto per il Parlamento. Questo per una ragione molto semplice: le leggi elettorali necessitano di “manutenzione”, di aggiustamenti e di revisioni periodiche. Non ha senso dover attivare complesse procedure di revisione costituzionale per decidere se, ad esempio, la soglia di sbarramento vada spostata dal due al quattro per cento, oppure se in un sistema misto si debba usare una sola scheda al posto di due. La noncostituzionalità delle norme elettorali nelle democrazie mature riflette anche un consensus sulle regole e un certo grado di fair play quando vi si mette mano. Se si infrange questo stile, come accadde in Francia quando nel 1986 il presidente François Mitterrand volle introdurre d’un colpo il sistema proporzionale per motivi strumentali — mettere in difficoltà la droite gollista e moderata e favorire il nascente Front National di Jean-Marie Le Pen — i contraccolpi sono forti, tanto che, all’epoca, un ministro di peso come Michel Rocard si dimise e due anni dopo si ritornò al precedente sistema a doppio turno.

Forse il ministro per le Riforme, buon conoscitore della Francia, ha in mente quell’episodio e, vista la “porcata” dei suoi sodali dieci anni fa, vuole mettere la legge al riparo da colpi di mano. Al netto delle buone intenzioni, fatto sta che la soluzione proposta dal ministro, oltre ad essere sbagliata in sé, è del tutto inopportuna. Restare appesi al Porcellum ancora per tutto il lungo tempo necessario per una riforma costituzionale, ammesso e non concesso che si arrivi a un accordo e non si ripeta la pantomima della Bicamerale quando Silvio Berlusconi rovesciò il tavolo da un giorno all’altro, significa non poter più (ragionevolmente) andare al voto. Significa, in buona sostanza, congelare questo governo e la permanenza del Pdl nella stanza dei bottoni, con tutte le conseguenze che ne derivano, come ha dimostrato, tra gli altri, il caso del rimpatrio forzato della moglie e della figlia del dissidente kazako.

La vera posta in gioco nella querelle sul sistema elettorale è questa, e nulla a che fare con le dotte discussioni sul miglior sistema possibile. Ma ancora: è comprensibile che un ministro del Pdl sia sensibile alle strategie del proprio partito; lo è molto meno che il Pd vi si adatti. Evidentemente alla classe dirigente dei democrat sfugge un passaggio, e cioè che il Pdl ha molta più forza di condizionamento sul governo in assenza di una nuova legge perché nessuno, a incominciare dal Quirinale, vuole tornare a votare con il Porcellum. E dato che maggioranze alternative non sono in vista, il Popolo della libertà usa anche questa arma di pressione. Tra l’altro, una mancata riforma sarebbe addebitata tutta al Pd, in quanto partito di maggioranza. Il Partito democratico ha fin qui dimostrato scarsa capacità propositiva su praticamente ogni terreno. Almeno metta le proprie impronte digitali sulla riforma elettorale cancellando una norma così impopolare.

Se la ragione non dico dominasse, ma almeno occupasse un po’ di spazio nella mente degli eletti (pardon, dei parlamentari) non ci sarebbero dubbi dopo questo magistrale riepilogo della questione delle modifiche costituzionali. Ma…

La Repubblica, 28 luglio 2013

Si può cambiare la Costituzione, e come? Per tutto il 1947 la Costituente discusse appassionatamente questo punto cruciale. Tutti erano d’accordo che la Carta è «nelle sue grandi mura definitiva, e deve aver vita di secoli » (Meuccio Ruini), e che va intesa come “rigida”, un insieme organico di cui non si può cambiare un articolo senza incidere sull’insieme. Secondo il democristiano Lodovico Benvenuti (più tardi Segretario generale del Consiglio d’Europa), i principi della Carta «non possono esser rimessi all’arbitrio di qualsiasi maggioranza parlamentare», anche per evitare che affrettate modifiche richiedano «la complicità del presidente della Repubblica». Costantino Mortati (Dc) osservò che «la Costituente fu eletta ad hoc e nel periodo della sua formazione i partiti hanno presentato i loro programmi sulla nuova Costituzione», mentre «una Camera a venire, eletta per un compito normale di legislazione», non sarà mai altrettanto legittimata a cambiarne il testo.

Si ritenne necessario «stabilire forti garanzie per evitare che la Costituzione sia modificata con leggerezza » (Lussu), ricorrendo a «una procedura straordinaria particolarmente complicata» per arginare colpi di maggioranza (così il liberale Martino, poi presidente del Parlamento europeo). Il 15 gennaio 1947 fu approvata la proposta del socialista Paolo Rossi (poi presidente della Corte costituzionale), secondo cui le Camere, dopo aver varato una modifica costituzionale, erano automaticamente sciolte, e la modifica entrava in vigore solo dopo essere stata riapprovata tal quale dalle nuove Camere. Dopo acceso dibattito si giunse a quello che è oggi l’art. 138, con le sue tre garanzie contro i colpi di mano. Prima di tutto, la doppia lettura da parte delle Camere, a tre mesi l’una dall’altra, onde «diluire nel tempo il procedimento di revisione al fine di accertarne la rispondenza ad esigenze veramente sentite e stabili» (Mortati), anche perché «tre mesi paiono sufficienti perché l’opinione pubblica si metta in moto»; in secondo luogo, la maggioranza di due terzi, e in difetto di questa «il ricorso alla fonte stessa della sovranità, il referendum popolare», fermo restando che «la legge, finché è legge, sia religiosamente osservata» (Rossi).

Questa calibratissima ingegneria istituzionale viene spazzata via dal disegno di legge 813, firmato da Enrico Letta e dai ministri Quagliariello e Franceschini. Secondo i proponenti, le Camere che oggi abbiamo, composte di membri nominati con la pessima legge elettorale che tutti deplorano e nessuno modifica, esprimeranno (con accordi fra i capigruppo e i presidenti delle Camere) una mini-Costituente di 40 membri. Tal Comitato esamina a tappe forzate («non sono ammesse questioni pregiudiziali, sospensive e di non passaggio agli articoli») le proposte di riforma della Costituzione «afferenti alla forma di Stato, alla forma di Governo e al bicameralismo», le elabora in quattro mesi e le trasmette alle Camere, che devono concluderne l’esame entro 18 mesi. Vengono mantenuti referendum e doppia lettura, ma l’intervallo è ridotto da tre mesi a uno. Il precedente è la Bicamerale del 1997, la cui unica funzione fu traghettare Berlusconi attraverso una legislatura di centrosinistra senza far nulla sul conflitto d’interesse.

Secondo Alessandro Pace (audizione al Senato, 21 giugno), un vizio di fondo inficia questo ddl. «Il Parlamento può modificare l’art. 138, ma finché quella procedura è in vigore deve rispettarla: l’art. 138 è bensì modificabile, ma non derogabile», il ddl 813 costituisce perciò «una modifica surrettizia con effetti permanenti». Ma le anomalie non si fermano qui: perché il governo ha nominato una commissione di “saggi” «incaricata di fornire i suoi input nel merito delle modifiche da apportare alla Costituzione »? Come mai gli emendamenti alle proposte di revisione co-
stituzionale possono essere presentati dal governo e dai capigruppo, ma non da un singolo deputato come nella Costituente? Che vuol dire l’art. 4, secondo cui «qualora entro il termine non si pervenga all’approvazione di un progetto di legge costituzionale, il Comitato trasmette comunque un progetto di legge»? Quale progetto di legge, se nessuno è stato approvato? Perché infine (lo hanno incisivamente notato Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro) al Comitato è rimesso anche l’esame delle leggi elettorali, come se il Porcellum fosse diventato un pezzo di Costituzione?

Perché tanta fretta, perché tante anomalie? Perché, ci informa la relazione del ddl 813, la Costituzione dev’essere adeguata al «mutato scenario politico, sociale ed economico ». Chi difende la Costituzione com’è pecca di «conservatorismo costituzionale », spiegano Letta-Quagliariello- Franceschini, poiché la forma dello Stato e del governo furono immaginate dalla Costituente «nella temperie della guerra fredda». Questo affondo storiografico è un’impronta digitale, rivela da dove vengono le certezze di chi ci governa: dall party line, diffusa nell’attardato thatcherismo di ambienti finanziari e imprenditoriali, secondo cui la crisi economica nasce dalle troppe concessioni alle classi meno abbienti. Come ha ricordato Barbara Spinelli in queste pagine (26 giugno), chi ha divulgato questa linea in Italia è Berlusconi, secondo cui la nostra Costituzione «fu scritta sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate », è una “Costituzione sovietica”. Ancor più chiaro è il rapporto sull’area euro della società finanziaria J.P. Morgan (28 maggio), secondo cui «all’inizio della crisi, si pensava che i problemi nazionali fossero di natura economica, ma si è poi capito che ci sono anche problemi di natura politica. Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, sorti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica, (...) e sono ancora determinati dalla reazione alla caduta delle dittature. Queste Costituzioni mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Perciò questi sistemi politici periferici hanno, tipicamente, caratteristiche come: governi deboli rispetto ai parlamenti, stati centrali deboli rispetto alle regioni, tutela costituzionale del diritto al lavoro, consenso basato sul clientelismo politico, diritto di protestare contro ogni cambiamento. La crisi è la conseguenza di queste caratteristiche. (...) Ma qualcosa sta cambiando: test essenziale sarà l’Italia, dove il nuovo governo può chiaramente impegnarsi in importanti riforme politiche ».

La finanza internazionale comanda, il governo italiano esegue, come usa alla periferia del mondo. Leggendo il ddl 813 in filigrana sul documento di JP Morgan (un ordine di servizio che viene da lontano), dobbiamo aspettarci un governo più forte e centralizzato, un parlamento più debole, la compressione dei diritti dei lavoratori e di ogni protesta, l’archiviazione dell’antifascismo. Se ciò è contrario alla Costituzione basta cambiarla, e in fretta: perciò, capovolgendo il responso delle urne e le priorità dichiarate, la riforma del Porcellum è stata messa in soffitta, la riforma della Costituzione in corsia preferenziale.

«Ci sarà pure un giudice a Berlino», diceva il mugnaio di Potsdam che arrivò fino al Re di Prussia per avere giustizia. Ci sarà pure a Roma un custode della Costituzione, dicono oggi i cittadini. A chi chiederemo se davvero la crisi economica è un frutto dell’antifascismo? Se per risolverla occorre stravolgere la Costituzione modificando «la forma di Stato e di governo » generata dalla Resistenza? Se dobbiamo rassegnarci a quel che Barbara Spinelli ha chiamato il «giudizio universale» di JP Morgan, a «demolire la Costituzione in nome della cosmica giustizia dei mercati»?

. un articolo di G. Bettin, L. Casarini, S. Dazieri, C. Freccero, U. Mattei. Il manifesto, 28 luglio 2013

Le sollecitazioni che giungono dagli interventi sul manifesto di Giulio Marcon, Giorgio Airaudo e Massimiliano Smeriglio ci inducono a intervenire. Ovviamente lo facciamo ben sapendo che il punto di vista nostro, che non siamo militanti di partito, è per forza diverso dal loro, anche se ci accomuna, oltre che l'amicizia, la stessa tensione a voler fare qualcosa per smuovere una situazione politica a sinistra a dir poco avvilente.

Ad esempio noi non crediamo che il problema della «nuova sinistra» o comunque di un percorso alternativo che guardi alle novità politiche, culturali e sociali di questi anni, sia definirsi per il grado di disponibilità più o meno alta dei propri parlamentari a dialogare e a mescolarsi con quelli che per scelta o per condizione si autorganizzano per fare politica fuori. O meglio, questo può essere tuttalpiù uno stile, certamente più dignitoso di altri modi di fare elitari e totalmente separati. Lasciamo perdere l'approfondimento che meriterebbe il concetto dell'«autonomia del politico», che storicamente si afferma a sinistra non oggi, nel tempo dei partiti temporanei, personali e mediatici, ma all'apice del periodo dei partiti di massa e della grande partecipazione. Il nodo che qui ci interessa evidenziare è che la frattura tra rappresentanza e società è oggi un dato strutturale. È il frutto della fine di un'epoca, di una lunga transizione che ha a che fare più con le evoluzioni del sistema capitalistico e degli effetti di quest'ultime nelle società occidentali, che con la degenerazione soggettiva, la corruzione etica e materiale, con cui si sono connotati nel tempo il parlamentarismo e la partitocrazia. Quindi bisognerebbe sbarazzarsi di una sorta di "pensiero debole" che a tratti assume quasi il carattere dell'ideologia, e che teorizza la partecipazione come valore in sé.

Partecipare a che cosa, perché, come, con quali obiettivi? - queste sono le domande. È da molto tempo che dal mondo dei partiti della sinistra non liberista non vengono che delusioni. Perché è proprio il carattere strutturale della crisi della rappresentanza che alla fine presenta il conto, e dunque è la tattica per sopravvivere nelle istituzioni ad avere la meglio sulle nobili ragioni dichiarate. Se si parte da questo, si assume il fatto che elezioni, rappresentanza, partito sono tutte cose limitate, contraddittorie nel processo sociale di cambiamento.

Così ci illudiamo e illudiamo di meno e forse, pensiamo più a dimostrare con i fatti ciò che siamo, piuttosto che descriverli senza riuscire poi a metterli in pratica. Noi, per questo, avanziamo una semplice proposta in primo luogo a Sel, da cui vengono queste importanti aperture, e a chiunque ci stia: considerare le prossime elezioni europee il terreno concreto per aprire uno dei molteplici percorsi costituenti possibili. Uno, e non il percorso, perché siamo convinti che l'alternativa non ha oggi né un motore unico né una ricetta già pronta. È fatta di conflitti giustamente contro le istituzioni, e anche di anomalie dentro le istituzioni. Ognuno dovrebbe provare a dare il proprio contributo, senza pensare che sia quello risolutivo, senza pensarsi autosufficiente.

È ora, per qualsiasi nuova sinistra, di considerare proprio l'Europa come spazio politico centrale del conflitto. Invece che trattare le elezioni europee come una specie di sottoprodotto di quelle nazionali, e dunque utilizzarle solo per posizionamenti tattici tutti in funzione di strategie locali, bisognerebbe rovesciare la questione: oggi in Europa si decidono le politiche da imporre agli Stati, e non viceversa. L'Europa degli spread e della Bce, della troika, della Merkel e di Draghi, quella dell'austerity e del pareggio di bilancio, è la plastica rappresentazione del feroce antieuropeismo conservatore dei poteri forti. Il solo pensiero che questo spazio politico e sociale, orfano di costituzione, possa prendere forma, trasformandosi in un terreno di conflitto e disseminandosi di nuove istituzioni democratiche contro i presidi autoritari delle dittature monetarie e finanziarie, fa tremare i polsi ai signori di Francoforte e Berlino. L'Europa degli stati a sovranità limitata è esattamente disegnata per essere retta attraverso differenziali interni: lo spread, i bilanci, il deficit, il default, il commissariamento. Che si traducono in differenziali sociali: diseguaglianze, impoverimento, razzismi, sfruttamento.

È un campo di battaglia vero, l'Europa, strategico e non tattico, per chi immagina un nuovo percorso di liberazione collettiva. Invece di fare tattica dunque, se si vuole contribuire al cambiamento, bisogna mettersi a disposizione. Ad esempio proponendo, Sel e tanti/e altri/e fuori da Sel, la costruzione di una lista euro-mediterranea, quasi di scopo, attorno aduna visione chiara e netta: no all'austerity, centralità della crisi ecologica e climatica e riconversione ecologica dell'economia, reddito di base incondizionato, liberazione e generazione dei beni comuni, opposizione alle grandi opere inutili, no al fiscal compact, ricostruzione del welfare e del pubblico, diritti, lavoro di qualità, cittadinanza. Questo significherebbe concretizzare quella partecipazione di cui si parla sempre attorno ad un possibile percorso costituente di qualcosa che oggi non c'è. Rifuggendo da qualsiasi logica di rassemblement degli sconfitti, minoritaria per vocazione, e allontanandosi allo stesso tempo dall'idea che la sfida che tutti abbiamo di fronte si possa giocare solo attraverso piccoli aggiustamenti del proprio recinto, che poi alla fine è un angolino nel recinto più grande di qualcun altro. Attorno a questa proposta va stabilito da subito che chi partecipa deve poterlo fare anche nel momento delle decisioni. Definirla lista euro-mediterranea avrebbe un significato preciso: il coinvolgimento nella sua costruzione, attraverso momenti di consultazione, dei movimenti e delle realtà dell'altra sponda del Mediterraneo, che sono la nostra Europa. Euro-mediterranea anche per dare centralità al rapporto con le popolazioni del sud Europa, dalla Grecia alla Spagna. Una lista da costruire attraverso primarie aperte, e che si giochi in Europa subito come anomalia: che parli a quella parte del socialismo europeo che è in sofferenza dopo anni di egemonia culturale e politica del neoliberismo, che si riferisca ai verdi e al pensiero ecologico come paradigma di un'alternativa che rifiuta l'ideologia della crescita, che si rapporti con Syriza e con la componente non antieuropea della sinistra anticapitalistica, che parli a quel mondo cattolico che ha fatto vincere in Italia il referendum sull'acqua. Che consideri finalmente una composizione del lavoro completamente diversa da quella del novecento, che non ha nessun contratto nazionale a tempo indeterminato a cui riferirsi, nessuna pensione da attendere, nessuna cassa integrazione. Una lista che produca momenti di incontro in Europa e in Italia, di elaborazione comune, di costruzione di alleanze sempre più ampie. Che si faccia promotrice di iniziative pubbliche unitarie di pensiero critico, contro la dittatura commissaria della finanza, che appoggi i movimenti che su questi temi hanno aperto percorsi di conflitto. Che dia il suo contributo insomma, in termini di rottura istituzionale, e non di compatibilità.

Perché poi, alla fine di tutto, c'è sempre il solito discorso: cosa vogliamo fare? Vogliamo essere un "errore" di sistema, o come fa il Pd da Napolitano in giù, coloro che il sistema lo salvano? Non è una proposta rivoluzionaria o chissà quanto difficile. Bisognerebbe che Sel, o anche Sel, decidesse che su questo terreno, l'operazione politica che va fatta è di largo respiro, profondamente in discontinuità con quanto accade normalmente di questi tempi nella politica italiana. Bisognerebbe guardare oltre se stessi, e considerare una fortuna il fatto di poter decidere di non appiccicare il proprio simbolo per poter esistere, ma invece di essere motore determinante di qualcosa di nuovo, più ampio, coraggioso. Noi, umilmente, perché abbiamo sempre nulla da insegnare e tutto da imparare, troviamo più onesto ragionare attorno a questioni concrete e se vogliamo anche limitate, quando si parla di partiti, elezioni e liste. E pensiamo che la partecipazione, nell'epoca della sondocrazia, vada sostanziata come costruzione di possibili terreni comuni, e non lasciata all'inerzia dell'azione buona in sé. Si può anche non partecipare, ed è assolutamente comprensibile con quello che è oggi la politica istituzionale nel suo complesso, e si può anche fare della non partecipazione un'arma contro lo stato di cose presenti. Queste elezioni europee rischiano infatti di passare alla storia per il livello di astensione che si determinerà, e non per altro. E i movimenti hanno perfettamente ragione a diffidare delle forme di politica istituzionale, perché la conquista di nuova democrazia passa per forza anche dal superamento di ciò che c'è, partiti in primis. Ma dipende anche molto dall'offerta che si mette in campo, e da ciò che la motiva veramente.

La vergogna è di ciascuno di noi, ci rende il peggiore dei popoli, «come ha confermato l’inamovibilità del vicepresidente del Senato, Calderoli, protetto dal suo» tollerato da altri, eletto dagli italiani.

La Repubblica, 28 luglio 2013
Es e non ci riescono i vertici dello Stato a espellere i razzisti dalle istituzioni – come ha confermato l’inamovibilità del vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, protetto dal suo partito – ciascuno di noi è chiamato a farsene carico. Il lancio di banane contro una concittadina dalla pelle nera, chiamata dal governo a occuparsi dell’integrazione di milioni di immigrati, ha un nesso inequivocabile con la violenza verbale di chi l’aveva paragonata a un orango. Altri le hanno augurato di subire uno stupro. Hanno appeso manichini insanguinati nei luoghi in cui lei doveva intervenire. Hanno messo in dubbio il suo diritto alla cittadinanza italiana per il fatto di essere nata in Congo. Insinuano che la sua laurea in oculistica la renderebbe inadeguata alla funzione ministeriale. Si lamentano che usufruisca di una scorta di polizia.

Di fronte a queste infamie esprimiamo, certo, ammirazione per il self control mostrato da Cécile Kyenge; e consideriamo elegante il suo sforzo di minimizzare nonostante le continue umiliazioni cui viene sottoposta insieme alla sua famiglia e a tanti altri cittadini che ne condividono il faticoso percorso di vita. Ma se anche lei minimizza, noi non possiamo permettercelo. Mi spiace dissentire da Mara Carfagna: per quanto felice sia la battuta sullo spreco di cibo con cui la ministra ha avuto la prontezza di liquidare a Cervia quel lancio di banane, l’ironia non sarà mai grimaldello sufficiente a controbattere un’azione sistematica d’inciviltà. Illudersi che si tratti solo di pochi “stolti”, parola di Carfagna, è una falsa consolazione. Per favore, non chiudiamo gli occhi di fronte all’evidenza: la pazzesca campagna razzista scatenata contro Kyenge è il condensato di un odio che in Italia si è diffuso anche usufruendo di una prolungata, non più tollerabile, legittimazione dall’alto. Gli “stolti” hanno goduto di comprensione, se non di giustificazione, e così si sono moltiplicati.

Questo razzismo italico ha radici antiche nelle guerre coloniali e nell’antisemitismo novecentesco. Ma negli ultimi vent’anni si è rigenerato anche grazie a un’ostentata, scandalosa tolleranza ai vertici delle istituzioni.

Il 24 luglio scorso, in Francia, il deputato Gilles Bourdouleix si è dovuto dimettere dal suo partito per aver sostenuto, nel corso della visita a un campo rom, che “forse Hitler non ne ha uccisi abbastanza”. Gli stessi giorni, in Italia, Calderoli se l’è cavata con una ramanzina del suo segretario che nel frattempo convocava una manifestazione nazionale contro l’immigrazione clandestina, tanto per fare pari e patta. Perché la xenofobia, più o meno mascherata, viene considerata un’arma politica redditizia cui sarebbe un peccato rinunciare, anziché un limite invalicabile della politica democratica. Gli osservatori internazionali faticano a capacitarsene. Si domandano come sia possibile che un paese membro dell’Unione Europea non disponga di anticorpi sufficienti a estromettere dal dibattito pubblico chi nega la pari dignità fra cittadini in base al luogo di nascita, al colore della pelle, al credo religioso. Ignorano il retaggio storico di cui la destra italiana ancora non è riuscita a liberarsi, neanche quando ha formalmente accettato le regole costituzionali.

Se dunque il razzismo dall’alto precede e giustifica le pulsioni da stadio dei lanciatori di banane, tocca a noi, dal basso, organizzare la catena umana della solidarietà. Giustamente si è già detto, anche da parte del premier Letta, che le offese rivolte a Cécile Kyenge feriscono l’insieme della collettività nazionale. Ora si tratta di mettere in pratica questo sentimento maggioritario della condivisione. La solidarietà a Kyenge, e con lei a tutte le vittime del razzismo residenti in Italia, indipendentemente dal passaporto che hanno in tasca, deve manifestarsi con segni tangibili. Nei giorni scorsi ci ha commosso la foto di gruppo dell’ex presidente americano George Bush che, insieme a tutto il suo staff, si è rasato i capelli per immedesimarsi nell’esperienza di un bambino malato di cancro. L’immedesimazione, appunto. Forse è attraverso questo sentimento potente che la società civile può intraprendere una risposta efficace ai lanciatori di banane e ai loro ispiratori.

Approvata la bozza del disegno di legge del governo per disFARE l'assetto istituzionale dell'Italia. Ma il percorso è ancora lungo. Per ora si distrugge, poi (forse, e chissà come) si costruirà.

La Repubblica, 27 luglio 2013, con postilla

Un giorno, il governo spera presto, non avremo più le vecchie province. Di loro si perderà il ricordo e il nome, cancellato anche dalla Costituzione. Nell’attesa dei tempi per mettere mano alla Carta, Palazzo Chigi si porta avanti con il lavoro e prepara il terreno con un disegno di legge sulle province ribattezzato “svuota poteri”. Perché nelle province non si voterà più e al loro posto dal 1 luglio 2014 dovremmo avere, in tutto e per tutto, 11 Città metropolitane.
E prima ancora, per quelle che restano fuori, delle Unioni di comuni che si spartiranno con le Regioni le competenze provinciali, gli immobili, i dipendenti. Così gli attuali organismi diventeranno enti di secondo grado, con un presidente eletto da sindaci e presidenti di Unioni che lavoreranno gratis. Risparmio previsto sui gettoni di presenza 120 milioni di euro. Dovranno pianificare interventi su ambiente, territorio e rete scolastica. E le uniche cose che resteranno veramente da gestire saranno la costruzione e la manutenzione delle strade provinciali. Alla fine, secondo i calcoli del ministro Del Rio si risparmierà circa un miliardo l’anno. Enrico Letta fa dunque un altro passo verso la promessa abolizione.
E per questo il Consiglio dei ministri ha approvato questo schema di disegno di legge per “svuotare” le province dei loro poteri, renderle delle scatole vuote. Un ddl che marcerà insieme alla modifica costituzionale. Un percorso scelto per rispettare la sentenza della Corte Costituzionale del 3 luglio che ha bocciato un provvedimento analogo del governo Monti perché adottato con decreto legge. In pratica il governo pensa che il primo gennaio del 2014 dovranno nascere le 11 città metropolitane già previste: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, e Reggio Calabria. Naturalmente è prevista anche Roma capitale che avrà regole tutte sue. E non a caso ieri Enrico Letta, prima del Cdm ha incontrato il sindaco capitolino Ignazio Marino.
Evidentemente non tutte le attuali province ricadranno nell’area delle città metropolitane. In questo caso, la legge prevede una fase transitoria che scatterà non appena questa legge sarà approvata. Dunque, prima del sì alle modifiche costituzionali, entro 20 giorni i presidenti e i commissari in carica dovranno convocare i sindaci della provincia per fare nascere un ente di secondo grado. Spariranno i presidenti eletti, le giunte e i consigli provinciali. Al loro posto una grande assemblea di sindaci e presidenti delle Unioni comunali, altra novità della legge, che eleggerà il presidente provinciale.
Ma il percorso è lungo. Perché quello approvato dal Cdm è solo uno schema che dovrà andare alla Conferenza unificata Stato-Regioni per il parere. Che deve ancora darlo sul ddl costituzionale. Mercoledì scorso il punto è stato rinviato. Poi ci vorrà il via libera definitivo del Cdm e i due progetti potranno iniziare l’iter parlamentare. Con l’Unione province italiane che è già sulle barricate, convita che il testo sia incostituzionale. E no sono arrivati dal presidente della provincia di Milano, Guido Podestà, Pdl, e dal vicepresidente del Consiglio milanese, il democratico Roberto Caputo.
Postilla
Chissà se tutti sanno che “elezioni di secondo grado” significano che non voteranno più i cittadini, ma solo i membri della casta: meno democrazia, e più potere alle aziende private che si occuperanno di ciò cui dovrebbero provvedere le province. Chissà se tutti sanno che cancellare le province significa cancellare, fuori dalle città metropolitane (che i decisori non sanno ancora che cosa dovranno essere) la pianificazione di livello intercomunale e, quindi diventerà più difficile contrastare il consumo di suolo, gestire l’ambiente e i rifiuti, localizzare in modo utile ai cittadini i servizi sul territorio promuovere l’agricoltura locale ecc.
Chissà se tutti sanno che spendere di meno per le province significherà spendere più per il dissesto idrogeologica, l’inquinamento, la mobilità, e avere una peggiore qualità della vita. Non lo sanno certamente i legislatori i quali, ahimè, sono in gran parte quegli stessi che hanno fatto fallire la riforma del 1990: quella che prescriveva la ristrutturazione delle province e la costituzione di “città metropolitane” democratiche nel quadro di un corretto equilibrio tra istituzioni democratiche, territorio e popolo. Si dice che Giove rende dementi quelli che vuole distruggere. Ma questa volta ha reso dementi quelli che, lo vogliano o no, stanno distruggendo noi.
Sull’argomento vedi anche l’eddytoriale n. 159
Se il diritto al lavoro e alla salute fossero stati presi sul serio all’Ilva non ci saremmo trovati nell’attuale situazione disastrosa, da un punto di vista sociale e ambientale, perchè oggi i danni prodotti richiedono costi molto più alti che se si fosse operato diversamente. Pubblichiamo uno stralcio del libro di i, "Ilva connection" (Manni Editore).

www. Sbilanciamoci.info, 26 luglio 2013

Stefano Rodotà, giurista e politico di vaglia, non ha bisogno di presentazioni. Una delle principali fonti, attraverso cui il professore interpreta e commenta i fenomeni e i processi sociali, è la vecchia, cara Costituzione, “un capitale culturale inutilizzato”. Invece di passare il tempo a mitigarne, o peggio snaturarne le caratteristiche rivoluzionarie bisognerebbe impegnarsi ad applicarla, facendola finalmente diventare patrimonio collettivo. Pur nel vortice mediatico dei giorni successivi alla sua candidatura a presidente della Repubblica, a cui il Partito democratico non ha voluto dare il sostegno preferendo la strada dell’abbraccio con Berlusconi, Rodotà è disponibile a esprimere il suo punto di vista sul conflitto che contrappone due diritti fondamentali, al lavoro e alla salute. Ed è un punto di vista netto, di sinistra e, soprattutto, fedele alla Carta costituzionale.

“Ha preso piede una lettura semplificata dei diritti”, dice, “e con essa una considerazione diffusa secondo cui i diritti costano, non ce li possiamo permettere. Di conseguenza viene fatta una selezione per espellere dall’insieme dei diritti quelli sociali. Certo i diritti costano, ma a nessuno viene in mente di eliminare il diritto di voto nonostante abbia il suo costo economico. Invece sui diritti sociali, appunto, si è disposti a soprassedere. A questa logica rispondo proponendone una opposta: i diritti sociali costano, certo, ma il prezzo economico da pagare se non vengono rispettati è ancora maggiore”. E qui il caso dell’Ilva di Taranto diventa illuminante: “Vengono presentati in contrapposizione due diritti fondamentali come quello al lavoro e quello alla salute. Non sono in contrapposizione, piuttosto sono ineliminabili come ci spiega la Costituzione a partire dalle sue prime righe. L’articolo 1 pone addirittura il lavoro a fondamento della Repubblica”. Il lavoro che la Costituzione pone come radice della Repubblica deve inoltre rispettare la dignità di chi lo esegue, dunque la sua sicurezza “che non vuol dire semplicemente indossare il casco”, dignità significa salute, rispetto della vita e dell’ambiente. “Se il diritto al lavoro e alla salute fossero stati presi sul serio, all’Ilva non ci saremmo trovati nell’attuale situazione disastrosa, da un punto di vista sociale e ambientale. Oggi i danni prodotti richiedono costi altissimi, molto più alti che se si fosse operato diversamente”, continua Rodotà, “cioè nel rispetto della Costituzione. Ecco uno dei motivi per cui il ragionamento sui costi dei diritti sociali va rovesciato. È l’insieme dei diritti, fondamentali nel nostro caso, che va reintegrato”.

L’attacco alle basi della Costituzione passa anche attraverso “il tentativo avviato dal governo Berlusconi e proseguito con il governo Monti di ribaltare l’obiettivo insito nell’articolo 41. L’iniziativa privata, si dice, è libera, ma non può essere in contrasto con l’utilità sociale o recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. E pensare che questa scrittura”, sottolinea Rodotà, “è stata fatta insieme ai liberali nella Costituente. E per sicurezza, lo ripeto, si intende la qualità del lavoro. Questa linea politica costituzionale va riaffermata e praticata”. Quale sia lo scopo di questi ripetuti attacchi all’articolo 41 per modificarlo è evidente: “La forzatura si basa sull’idea che la cosiddetta legge naturale del mercato sia al di sopra della Costituzione. Solo il ripristino della linea politica costituzionale, al contrario, ci consente il rispetto dei diritti e favorisce la possibilità di trovare gli equilibri necessari. C’è una sentenza della Corte europea che ha un valore straordinario perché definisce illegittima l’attività economica che contrasta con la dignità delle persone. Come si fa, di fronte a questo pronunciamento, a non riconoscere l’importanza e la lungimiranza della Costituzione italiana?”.

La violazione dello spirito costituzionale viene letta da Stefano Rodotà nelle conseguenze sociali di scelte politiche inique che costringono “un numero crescente di cittadini a rinunciare alle cure, alle analisi, ai farmaci perché non sono in grado di sopportarne il costo. Insomma, c’è chi non può tutelare la propria salute per mancanza di mezzi: così si torna a una cittadinanza censitoria. La seconda considerazione, però, è che quando si determina una situazione di tale ingiustizia invece di risparmiare si è costretti a spendere ancora di più; insomma, intervenire in ritardo e dopo scelte politiche sbagliate aggrava sia i costi sociali, che stanno diventando drammatici, sia i costi economici”. Rodotà ribadisce la natura classista di queste politiche incentrate sulla “legge naturale del mercato” che espelle i diritti sociali dall’insieme dei diritti: “Altro che non ce li possiamo permettere, è la loro violazione che non ci possiamo permettere. Se a determinare le scelte è il mercato e non il mandato costituzionale, automaticamente crescono le ingiustizie”.

L’Ilva, per risparmiare, peggiora le condizioni di lavoro e intossica il territorio determinando una drammatica emergenza sanitaria. E in più, la diossina e i fumi vengono sparati prioritariamente nei quartieri più poveri, vicino ai quali è stata costruita la fabbrica, Tamburi a Taranto come Cornigliano a Genova... “È quel che ti stavo dicendo: c’è un’ingiustizia di censo, per cui chi ha i soldi si cura e si costruisce la casa lontano dalle fonti inquinanti. La qualità dei diritti di cui mi posso avvalere è legata alla mia capacità economica. È una logica eticamente e socialmente inaccettabile e anche, insisto, insostenibile sul piano economico”.

? Il manifesto, 27 luglio 2013

1. L'allarme lanciato venerdì dal manifesto sull'intenzione politica di far tornare l'acqua di Napoli in mano ai privati è più che giustificato. La proposta di legge della giunta Caldoro, nel ridisegnare i confini degli ambiti territoriali ottimali in cui è suddiviso il servizio idrico in Campania e quindi l'affidamento dello stesso, appare esattamente congegnata per provare ad affossare la prima esperienza di ripubblicizzazione definitivamente completata dopo i referendum di 2 anni fa, quella che si è costruita attorno alla nuova Azienda speciale Abc di Napoli.

Quello che però va rimarcato non è solo la gravità di questo disegno, ma che esso è ben lungi dall'essere un fatto isolato ed estemporaneo. In realtà, dopo il periodo che va dalla fine dell'anno scorso alla primavera di questo, in cui l'esempio di Napoli stava contagiando altre importanti realtà territoriali del Paese, da Reggio Emilia a Vicenza, da Palermo a Torino e altre ancora e si stava delineando un quadro che faceva balenare come possibile la ripubblicizzazione del servizio idrico nel Paese procedendo per progressive "conquiste" territoriali, da un po' di tempo in qua ( da quando è nato il governo Letta, potrebbe pensare qualche persona maliziosa come il sottoscritto) l'aria sembra improvvisamente cambiata. C'è in corso un tentativo di isolamento del percorso di Reggio Emilia in quella regione, dove assistiamo ad una sempre più marcata titubanza del comune di Piacenza ad incamminarsi sulla strada della ripubblicizzazione, cosa che pareva assodata qualche mese fa e che ora, invece, sembra nuovamente propendere per la ricerca di un partner privato e dove il comune di Rimini, altra situazione dove la concessione è scaduta e dove la ripubblicizzazione è possibile, pare orientarsi per costituire una società mista con l'ingresso di un soggetto privato. In Sicilia il governo Crocetta ha deciso di mettere da parte la proposta di legge di iniziativa popolare promossa a suo tempo dal Forum siciliano per l'acqua, sostenuto da più di 135 amministrazioni locali e da 35.000 siciliani, per approdare ad una soluzione "gattopardesca" che, nella sostanza, lascerebbe inalterato il quadro di gestione privatistica lì esistente. A Mantova da lungo tempo, ancora da prima del referendum, era iniziata e poi si era fermata la procedura di gara per la scelta di un socio privato nella gestione del servizio idrico e ora, invece, proprio in questi giorni, siamo in presenza di una fortissima accelerazione per giungere a quell'esito. Potrei continuare ancora in quest'elenco che inizia ad essere troppo lungo per essere considerato un fatto casuale.
L'ultima citazione, però, se la merita la vicenda torinese: lì il Consiglio comunale, all'inizio di marzo, aveva approvato una delibera, non del tutto convincente, ma che comunque apriva la strada alla possibilità di trasformare il soggetto gestore Smat, SpA a totale capitale pubblico, in Azienda speciale. Qualche giorno fa la Provincia di Torino, con una delibera sostenuta da uno schieramento di larghe intese, sbarra la strada a quest'ipotesi, con una serie di motivazioni inconsistenti e addirittura tenendo a precisare nel testo della stessa delibera (sic!) che " l'approvazione delle presenti linee di indirizzo si pongono in naturale contraddizione con l'approvazione della proposta del Comitato Acqua Pubblica ( noi e il comitato torinese l'avevamo capito bene, ma forse bisognava spiegarlo a qualche consigliere provinciale !). Siamo in "trepida" attesa di conoscere l'intendimento del sindaco Fassino e del Consiglio comunale, con la curiosità di capire se esso confermerà la delibera approvata a suo tempo oppure se si piegherà al diktat dell'Amministrazione provinciale.
2. La questione, peraltro, non si ferma qui, al tentativo di chiudere gli spazi che si erano aperti in molte realtà territoriali. C'è qualcosa di ancora più inquietante, vari tasselli che iniziano a comporre un mosaico che sembra andare in un'unica direzione. Qualche giorno fa al Ministero del Tesoro si è tenuta una riunione per studiare sul come dare applicazione ad un provvedimento previsto dal decreto liberalizzazioni del governo Monti ma mai attuato, e cioè l'assoggettamento delle SpA a totale capitale pubblico e delle Aziende speciali al Patto di stabilità previsto per gli Enti locali: non c'è bisogno di dire che tale ipotesi equivale da sola ad aprire un nuovo ciclo di privatizzazioni dei servizi pubblici locali, rendendo nei fatti impraticabili tali forme di gestione.
Ancora meno simpatici sono gli avvertimenti che arrivano dall'Unione europea e dal Fondo Monetario Internazionale: la prima, alla fine di maggio, nel momento in cui ha chiuso la procedura di deficit eccessivo relativa al nostro Paese, tra le felicitazioni pressoché unanimi, ha formulato 6 raccomandazioni al governo Letta, tra cui spicca quella di " promuovere l'accesso al mercato per la prestazione dei servizi pubblici locali"; il secondo, al termine della sua consultazione con il governo italiano il 4 luglio, ha redatto un documento, passato all' "onore" delle cronache giornalistiche per la sua ingerenza in tema di IMU, in cui si legge testualmente che " l'agenda delle privatizzazioni, specialmente a livello locale,...deve essere implementata velocemente".
Se a ciò aggiungiamo le recenti dichiarazioni di Letta, davanti ai banchieri della City londinese, e di Saccommani al recente vertice del G-20 a Mosca, con le quali si evidenziano le forti possibilità esistenti rispetto a nuove privatizzazioni, iniziando dalle grandi SpA pubbliche nazionali per finire a quelle locali, non ci vuole molto a comprendere che siamo in presenza di un'idea corposa, in base alla quale un governo, incapace di affrontare i veri nodi della crisi se non propagandando l'ideologia delle grandi opere e una nuova iniezione di flessibilità ( ma è più serio dire precarizzazione) del lavoro, sceglie di fare di un nuovo ciclo di privatizzazioni uno dei volani, peraltro destinato a dare risultati fallimentari, della propria azione. Che, molto probabilmente, si proverà a costruire, sempre che il governo ci sia ancora, con la prossima legge di stabilità dell'autunno, magari anche con una nuova legge sulle forme di gestione dei servizi pubblici locali volta ad impedire il ricorso all'azienda speciale.
3. Si deve sapere che questo progetto urta violentemente contro la volontà della maggioranza assoluta del corpo elettorale che si è espresso 2 anni fa con i referendum sull'acqua e che troverà sulla sua strada l'insieme del variegato movimento dell'acqua, che, nonostante tanti detrattori e, a parte lodevoli eccezioni, tra il silenzio assoluto dei mass-media, ha continuato a lavorare in questi anni che ci hanno separato da quella scadenza, dimostrando una persistenza che è stata e sarà il più forte ostacolo per chi vorrebbe ignorare e contraddire quell'esito referendario. Abbiamo praticato l' "obbedienza civile" per il rispetto del risultato referendario sulle tariffe del servizio idrico, violato palesemente dall'Authority per l'Energia elettrica e il Gas, e, proprio per questo, impugnato in sede giudiziaria quel provvedimento; abbiamo promosso una forte iniziativa nei territori per la ripubblicizzazione del servizio idrico, elaborato proposte sul finanziamento del servizio idrico e per promuovere gli investimenti, sollecitato la nascita dell'Integruppo dei parlamentari per l'acqua pubblica per ripresentare la proposta di legge per il governo e la gestione pubblica dell'acqua e del servizio idrico. Andremo ancora avanti nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, sapendo che la nostra è una battaglia che riguarda l'insieme dei soggetti che si battono per i beni comuni e per la democrazia: ma di questo, e delle iniziative da mettere in campo, avremo senz'altro modo di tornare a parlare.
L'autore è un autorevole esponente di Funzione Pubblica Cgil e del Forum Italiano Movimenti per l'Acqua, ed è stato uno dei protanisti della battaglia per il referendum

«il manifesto, 26 luglio 2013
«La democrazia moderna è da sempre impregnata di attività statali tese a sorvegliare e punire le attività dei cittadini ritenute anticonformiste».

Lo scandalo «Datagate», l'immenso apparato coperto per il controllo di qualsivoglia comunicazione veicolata dalle reti mondiali telefoniche e internet predisposto dalla National Security Agency americana con il programma informatico Prism (e ora smascherato da Edward Snowden, l'ultimo di quelli che Ignacio Ramonet chiama i «paladini della libertà di espressione», il manifesto del 13 luglio), stupisce per le dimensioni quantitative del fenomeno (svariati miliardi di intercettazioni); non sorprende certo per le logiche che sottende.

Saremmo in presenza - secondo lo stereotipo marxiano rivisitato - del solito governo «comitato d'affari», strumento del quartiere generale legge e ordine? La faccenda è ben più complicata (e introversa) del semplice quanto consapevole camuffamento di interessi dominanti. Sebbene saldature tra élites politiche ed economiche siano perennemente all'ordine del giorno nella fisiologia del potere e i governi tengano sempre in estrema considerazione quelli che sono i rapporti di forza in campo, non di questo si parla.

Il tema - semmai - è sottotraccia e quasi subliminale, oltre l'appercezione cosciente e la concettualizzazione legittimata a ortodossia: il segno di una cattiva coscienza, sempre oggetto di autocensura perbenistica, che accompagna la liberaldemocrazia fin dai primi momenti della sua instaurazione; una sorta di sindrome duplicativa alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde come archetipo vittoriano della coesistenza schizofrenica di personalità opposte nello stesso soggetto. Ergo, una patologia che si annida nei riflessi condizionati e negli automatismi inconsci di un'intera «civilizzazione»; l'immortale ipocrisia dell'omaggio del vizio alla virtù. Maurice Duverger la definiva «le due facce dell'Occidente»: l'ambivalenza della soppressione dei privilegi aristocratici accompagnata dalla creazione di nuove oligarchie attraverso le ineguaglianze economiche.

L'indicibile svelato

Sicché, un sistema che alla luce del sole promette eguaglianza dei diritti mantenendo sottotraccia disparità di potere che ne contraddicono i presupposti, abbisogna di un forte controllo sulla propria base sociale e altrettanto elevati ambiti di segretezza; quell'apparato disciplinare, in larga parte composto da arsenali comunicativi a messa in funzione automatica, esplorato con particolare acume nella seconda metà del secolo scorso da Michel Foucault: «la forma giuridica generale che garantiva un sistema di diritti uguali in linea di principio, era sottesa da meccanismi minuziosi, quotidiani, fisici, da tutti quei sistemi di micropotere, essenzialmente inegalitari e dissimmetrici».

Contraddizione inconfessabile che sfocia in maniacalità da minaccia incombente: il rapporto paranoico-schizoide con il demos, ossia il celebrato cratos dell'ordine democratico, la cui sacralizzazione laica si accompagna al timore, ereditato dalle epoche precedenti e incistato nel subconscio collettivo del privilegio, di quello stesso demos come potenziale agente di sovversione. L'indicibile che solo ben di rado viene detto; e con tutte le prudenze dell'outing di un vizio infamante.

Ad esempio, agli albori del capitalismo industrialista, il grande sistematizzatore dello stato nascente - Adam Smith - nelle sue Lezioni di giurisprudenza definiva esplicitamente il governo «una combinazione dei ricchi per opprimere i poveri e conservare i propri vantaggi». Mentre - eccezioni a parte - la retorica pubblica ha sempre promosso argomentazioni finalizzate a rimuovere consapevolezze destabilizzanti: olisticamente organicistiche format Menenio Agrippa; quindi tendenti a proporre modelli di rappresentazione che anestetizzassero le distinzioni e il pensiero critico nei subalterni attraverso la propaganda ecumenica nelle sue più svariate e conformistiche modalità.

I ricostruttori dell'eccezionalismo liberaldemocratico occidentale nella vulgata mainstream narrano come agli albori della modernità il Leviatano fosse preposto al compito di tenere a bada la ferinità del popolo e che il passaggio successivo fu quello di porre sotto controllo il Leviatano stesso mediante bilanciamenti e regolazioni.

Questo nella dimensione lumeggiata dalla benevolenza. Mentre, nelle penombre incupite dall'avversione, i retropensieri dei ceti privilegiati hanno continuato a coltivare pregiudizi ansiogeni sulle potenzialità eversive di classi percepite come pericolose. Da tenere prudentemente e costantemente a bada, intrappolandole in meccanismi e modelli di rappresentazione che ne depotenziassero la sovversività; l'antico timore tanto delle secessioni (Aventino) come delle insurrezioni (jacqueries), allontanato grazie a un abile gioco di specchi deformanti con cui apprestare falsi bersagli per il risentimento dei subalterni.

Giustamente Alessandro Pizzorno sottolineava, tempo fa, gli aspetti di manipolazione insiti nelle tipiche contraddizioni di identità collettive formatesi sul terreno pluralista e poi riassorbite dalle strutture della rappresentanza mediante burocratizzazione e cooptazioni individuali («l'orgoglio dell'invenzione politica occidentale, il pluralismo, appare destinato ad accrescere il cinismo fra i potenti, la segretezza fra i governanti e l'indifferenza fra i membri della città»).

Non a caso sono proprio i Padri Fondatori americani, inventori della democrazia rappresentativa, a mettere per primi a punto quanto lo storico Howard Zinn definisce «il sistema di controllo nazionale più efficace dei tempi moderni... associando il paternalismo al comando». Ma essi stessi ne erano completamente consapevoli? Non si direbbe. Intrappolati nelle proprie reti argomentative - come in un tipico caso di rimozione - definivano «patriottismo» quegli apparati di sorveglianza sociale che avevano escogitato per deviare lo sguardo delle moltitudini (lontano da quel patriziato coloniale che si rappresentava garante dell'interesse generale).

Qui sta il punto: fino da allora e ancora oggi la strana mescolanza che alimenta il gioco democratico, fatta di buoni sentimenti inclusivi e inconfessate/inconfessabili segretezze escludenti, è shakerata con un riflesso condizionato: l'ossessione dei conflitti sociali distruttivi e non gestibili, da esorcizzare dirottandoli verso falsi bersagli. Sotto le settecentesche sequoie del New England erano le giubbe rosse di re Giorgio o i nativi americani; in età industrialista il sottoproletario, l'immigrato o magari l'ebreo; oggi il terrorista extracomunitario. Più reazione automatica che non congiura di Master of Universe o improbabili power élite alla Wright Mills.

Il nemico latente

Per dirla con Manuel Castells, «il dominio sociale reale origina dal fatto che i codici culturali impregnano la struttura sociale in un grado tale che il possesso di tali codici apre l'accesso alle strutture del potere». Pensiero pensabile (secondo la formula di Noam Chomsky); che non deve mai prendere consapevolezza che il retropensiero su cui si regge l'intera impalcatura argomentativa di partecipazioni deliberative, cittadinanze inclusive e cosmopolitismi vari è il chiodo fisso del nemico latente. L'ossessione che nel cervello stratificato del Moderno si annida in quello arcaico da rettile, istintuale e aggressivo, su cui si è sviluppato quello «angelicato» liberaldemocratico. Senza mai averlo addomesticato.

Da qui il rovesciamento della massima di Clausewitz «la politica è la guerra continuata con altri mezzi»: spia dell'incubo di un ordine legale circondato da nemici interni ed esterni, contro cui predisporre in permanenza guerre segrete. Sicché - tornando alla cronaca di questi giorni - probabilmente il presidente Barack Obama è davvero sincero nel sostenere le ragioni della sua personale crociata contro il partigiano Snowden, che ha rivelato lo scandalo del «Grande Fratello» stelle-e-strisce; minaccia mortale per quell'assetto di cui il primo presidente afroamericano è il curatore fallimentare.

Nella restaurazione in atto del dominio ipocrita dei pochi sui tanti, mentre il perbenismo compassionevole rifiuta di riconoscere interdipendenze tra povertà e disuguaglianze in crescita sinergica.

Estremo appello al PD perché interrompa il suicidio e almeno aiuti ad abolire il Porcellum. Scommettiamo che resterà inascoltato? Vorremmo perdere, ma …

La Repubblica, 25 luglio 2013

Il clima politico che accompagna questo governo anomalo assomiglia a quello di quei giorni in cui il cielo resta incerto pur senza mostrare variazioni importanti, quando promette di piovere ma non piove o promette il sereno ma non si rasserena.Un’immutante incertezza che consuma le energie proprio mentre le mobilita per tener in vita uno stato che, tutti lo sanno, non può che essere provvisorio. Forse questa consapevole transitorietà ha l’effetto di stimolare negli attori una forte resistenza contro ogni mutamento di stato. Non si può che spiegare così l’incomprensibile atteggiamento dei partiti alleati di governo, del Pd in primo luogo, nei confronti della riforma della legge elettorale. Al cittadino che segue quotidianamente le cronache politiche risulta del tutto incomprensibile la ragione per la quale una decisione così minima come quella auspicata da Ezio Mauro e Eugenio Scalfari (raccogliendo e rappresentando l’opinione di molti italiani) non viene presa subito: l’abolizione del Porcellum. È probabile che chi resiste a questa decisione, chi la teme o l’osteggia, pensi che dal momento in cui ci siano almeno in teoria le condizioni per andare al voto, il governo stesso perda legittimità e si inneschi fatalmente una logica da campagna elettorale. Ma avere una legge elettorale utilizzabile non è necessariamente un invito ad andare ad elezioni anticipate.

La linea di condotta di blindare il governo rendendo difficile, oneroso e lungo il processo di riforma della legge elettorale non è saggia proprio se si ha a cuore la durata del governo. Infatti, non è la stabilità empirica - il durare nel tempo - che dà garanzia di tenuta politica. Se le forze politiche di questa alleanza sanno di poter godere senza sforzo del privilegio della sopravvivenza garantita - e a questo scopo invocano appunto la dottrina della necessità, per cui non si dà via d’uscita possibile e praticabile a questa maggioranza - esse saranno indotte a rischiare il meno possibile. Vivacchiare invece che vivere. Ma questo non favorisce chi ha fatto accettare ai propri elettori il boccone indigesto di una maggioranza anomala nel nome di un’emergenza economica da gestire, domare e possibilmente cercare di risolvere. Il Pd che ha promesso di accettare questa alleanza costrittiva per lanciare politiche di occupazione o contrastare la crescente povertà delle famiglie italiane ha tutto da perdere da una immobile sopravvivenza: e una maggioranza blindata da una legge elettorale inagibile è la premessa peggiore perché premia una stabilità poco virtuosa, nonostante l’impegno del Presidente del Consiglio. Sapere che il governo può terminare il suo operato fungerebbe da stimolo: perché solamente un’azione efficace gli garantirebbe il diritto di restare in carica.

L’idea che avere una legge elettorale agibile fin da ora significherebbe correre alle urne è anch’essa poco convincente; inoltre è un argomento non proprio ragionevole e diremmo anzi non proprio legittimo. Un governo democratico deve avere in ogni momento una legge elettorale agibile per operare in un’atmosfera che sia compiutamente democratica. La necessità di preservare un governo non la si conquista rendendo le elezioni impraticabili ma rendendo ogni alternativa a quel governo meno conveniente.

Non ci avventuriamo nell’immaginare che cosa convenga al Pdl. Ma è certo che conviene al Pd far sì che la situazione nella quale si trova impegnato in prima persona corrisponda il più possibile a quel che ha promesso al suo elettorato quando ha accettato obtorto collo di allearsi con il suo antico avversario: promuovere politiche economiche volte a combattere la disoccupazione e a creare le condizione per la crescita, e mettere mano alla legge elettorale per togliere i due vulnus che la minano: il fatto che non aiuta ma compromette la formazione di una maggioranza e il fatto che non rappresenta con eguaglianza e giustizia tutti i cittadini.

«. La Repubblica, 24 luglio2013

STABILITÀ: così spesso viene invocata e così febbrilmente, in Italia, che quasi non ci accorgiamo che è divenuta virtù teologale che assorbe ogni altra virtù: non mezzo, ma finalità ultima dell’agire politico. Non siamo i soli a subirne i ricatti: in tutta Europa, le ricette anticrisi l’assolutizzano. Dicono che la Grecia è per fortuna lontana, invece ci sta vicina come la pelle. Quotidianamente vengono additati i nemici della stabilità politica, e piano piano ogni inquietudine, ogni opposizione, ogni giornale che amplifichinotizie poco gradite al comando son guardati con diffidenza. Il “rischio Italia” non c’è, ha detto il governatore Visco al vertice dei Venti, il 20 luglio, ma «resta il gran peso dell’instabilità politica e istituzionale, a frenare la crescita». Non ha specificato in cosa consista secondo lui l’instabilità, ma conosciamo le ragioni generalmente addotte: le divisioni tra partiti di governo (per infantilizzarli son chiamate litigiosità), gli attacchi al ministro Alfano responsabile delle deportazioni kazake, i subbugli che seguiranno un’eventuale condanna definitiva di Berlusconi per appropriazione indebita, frode fiscale, falso in bilancio (diritti Mediaset).

La stabilità assurge a valore supremo, non negoziabile, e se vogliamo custodirla dobbiamo disgiungerla da princìpi democratici essenziali come l’imperio della legge, la responsabilità del governante, la sua imputabilità: tutte cose che turbano. Viviamo nel regno della necessità e del sonno, non della libertà e del divenire. Non c’è alternativa alle larghe intese, da cui ci si attende nientemeno che la pace, o meglio la pacificazione. Cos’è stata ed è l’opposizione a Berlusconi? Guerra. Le critiche a Alfano? Guerra. L’Italia ha già vissuto epoche simili, a bassa intensitàdemocratica: sin da quando fu necessario, nella Liberazione, far patti con la mafia. O nella guerra fredda, escludere i comunisti dal governo. Stesso clima negli anni della solidarietà nazionale contro il terrorismo, dell’emarginazione di Falcone e Borsellino durante le stragi di mafia. La storia dell’Italia postbellica è cronicamente all’insegna della stabilità idolatrata. Il mito delle larghe intese è figlio di questa idolatria. Dalla convinzione, diffusa nei vari partiti, che i mali del Paese siano curabili solo se lo scontro politico s’attenua, fra destra e sinistra: se i contrari si fondono, ut unum sint.

Si glorifica il compromesso storico, e sulla sua scia le grandi coalizioni, le strane maggioranze. È un mito che urge sfatare, e non solo perché il Pdl di Berlusconi non è comparabile alle destre europee. Più fondamentalmente, il mito è un inganno.Le unità nazionali, anche in condizioni democratiche normali, sono sempre strade di ripiego, votate all’instabilità. Furono sempre malferme, le grandi coalizioni tedesche: le riforme decisive vennero fatte dalla sinistra o dalla destra quando governavano da sole. Furono labili e piene di disagio (di fibrillazioni:

anche qui il termine è psico-medico) le coabitazioni francesi fra maggioranze presidenziali e parlamentari discordanti. Non è vero che i mali si medicano abolendo il conflitto fra blocchi contrapposti. In Europa e America, le unioni sacre immobilizzano la politica, e l’immobilità non è vera stabilità.

Anche di fronte a pericoli gravi (terrorismo, mafia, autoritarismo) non sono le larghe intese a garantire stabilità. Vale la pena ricordare la Grande Coalizione tentata prima dell’avvento di Hitler, nella Repubblica di Weimar. Fra il 1928 e il 1930 nacque un governo di socialdemocratici, Popolari tedeschi e bavaresi, Centro cattolico. Furono anni di tensioni indescrivibili, che accelerarono la fine della democrazia e che Hindenburg, Presidente, coscientemente usò per sfibrare i socialdemocratici, imporre un regime presidenziale (Präsidialregierung), cedere infine a Hitler (il partito nazista non supera il 2,6 per cento dei voti nel ‘28. Nel 1930 otterrà il 18,3, nel ‘33 il 43,9). L’ultimo governo parlamentare di Weimar, diretto dal socialdemocratico Hermann Müller, s’infranse su scogli che riecheggiano i nostri in maniera impressionante.

Un’austerità dettata dai vincitori della prima guerra mondiale, una disoccupazione che raggiunse 2,8 milioni nel marzo ‘29, e la coalizione che vacillò sull’acquisto di costosi armamenti (la Corazzata-A), e l’insanabile conflitto su tasse e sussidi ai senza lavoro: ecco i veleni che uccisero Weimar, e paiono riprodursi oggi in Italia. A quel tempo, fuori dai Palazzi del potere, rumoreggiavano i nazisti sempre più tracotanti, i comunisti sempre più costretti da Mosca a imbozzolarsi nella separatezza. Il movimento di Grillo imita quell’imbozzolamento. Casaleggio non riceve ordini esterni ma è come se li ricevesse. Non si capisce altrimenti come mai d’un sol fiato profetizzi immani tumulti sociali, e respinga ogni futuro accordo tra 5Stelle e Pd. Le sue parole scoperchiano quel che è destabilizzante nelle larghe intese; ma le rendono più che mai ineludibili, fatali.

Come nella guerra la prima vittima è la verità, così nelle grandi coalizioni la prima vittima è il principio, autocorrettore, della responsabilità dei ministri, collettiva e individuale (art. 95 della Costituzione). Prioritario è durare: la sacrata stabilità è a questo prezzo. Il prezzo di una responsabilità triturata dai sofismi (è politica? O oggettiva?), di una Costituzione disattesa, o di una moratoria chiesta dalla destra sulle questioni etiche (leggi su omofobia o coppie gay: una promessa elettorale della sinistra). Difficile chiamare stabilità questo non strano, più che ovvio guazzabuglio. Nella Fattoria degli animali, la casta trionfatrice dei maiali narrata da Orwell annuncia a un certo punto che tutti gli animali sono eguali, ma ce ne sono di più eguali degli altri. Nelle grandi coalizioni accade qualcosa di analogo. Anch’esse secernono una casta, pur di sfuggire ai partiti sottoscrittori delle intese, e i governanti assumono una postura singolare: si fanno prede di leggi deterministe, è come non possedessero il libero arbitrio e di conseguenza non fossero imputabili. Il leone che sbrana la gazzella agisce così: mosso dalla necessità della sopravvivenza, non deve render conto a nessuno, tribunale o popolo elettore.

Le unioni nazionali funzionano sempre male, ma se funzionano è perché ciascuno riconosce e rispetta i limiti che il partner non può valicare senza rinnegarsi. La grande coalizione di Weimar naufragò perché Hindenburg l’aveva suscitata col preciso intento di consumare i socialdemocratici. La morte della democrazia parlamentare era programmata dall’inizio; il governo presidenziale di Brüning, ultimo Cancelliere della Repubblica, era già da tempo concordato tra Centro cattolico e destre popolari.

I guai succedono quando l’abitudine alla non-responsabilità diventa tassello principale della stabilità, o governabilità. Enorme è il chiasso, ma ogni cosa stagna: è la stasi. Nessuno si avventuri a staccare spine, ammonisce Napolitano. Tantomeno si provi a irritare i mercati e le banche d’affari, che già l’hanno fatto sapere: non si fidano di Stati con Costituzioni nate nella Resistenza (rapporto di JP Morgan del 28-5-13). Per questo è interessante sapere quel che intenda la Banca d’Italia, quando nell’instabilità vede un freno alla crescita. Quale stabilità?

Ci sono momenti in cui si ha l’impressione che l’Italia abbia vissuto nel Regno della Necessità quasi sempre, tranne nel momento magico del Comitato di liberazione nazionale, della Costituzione repubblicana. I governanti che sono venuti dopo sono stati potenti stabilizzatori, più che responsabili. Quando parla al popolo, lo stabilizzatore gli dà poco rispettosamente del tu e d’istinto cade nel frasario del gangster: «Ti faccio un’offerta che non potrai rifiutare».

Una lettura psicanalitica delle ragioni profonde che hanno condotto alle “larghe intese” e al governo Letta-Berlusconi getta inaspettati raggi di luce sulla situazione politica italiana, che gli eletti dal popolo (e forse il popolo stesso) non sanno o non vogliono vedere.

La Repubblica, 23 luglio 2013

Siamo chiari: la tesi che il governo delle larghe intese avrebbe inaugurato un nuovo tempo politico, quello, appunto, della cosiddetta pacificazione, che coincideva, tra le altre cose, con la riabilitazione di Berlusconi come statista ponderato, si fondava su quello che in termini strettamente psicoanalitici si chiama “rimozione della realtà”. Ovvero l’esatto contrario di quel “principio di realtà” che era apparso carico di promesse sincere nel discorso inaugurale del presidente Letta alla Camera dei deputati. Di cosa si tratta quando in psicoanalisi parliamo di “rimozione della realtà”? Accade esemplarmente nella psicosi.

Prendiamo una storia clinica narrata da Freud: una madre colpita dalla tragedia della perdita prematura di una figlia la sostituisce con un pezzo di legno che avvolge in una coperta che tiene amorevolmente in braccio sussurrandogli tutte quelle parole dolci e affettuose che la figlia morta non potrà più sentire. Questa sostituzione implica la negazione delirante di una realtà troppo dolorosa per essere riconosciuta come tale. Il pezzo di legno cerca di supplire pietosamente al buco scavato dalla realtà dal trauma della morte prematura della bambina. Quella figlia così teneramente amata non esiste più, se n’è andata, è morta.

L’idea della pacificazione non assomiglia forse a questa sostituzione delirante? Essa non può aspirare ad alcuna dignità politica, non può essere la base di un nuovo patto politico, perché si fonda su una negazione delirante della realtà. Di quale realtà? La realtà della morte in Italia di una destra autenticamente liberale, capace di fare gli interessi generali del Paese anziché essere uno strumento al servizio di un uomo che avendo notevoli problemi con la giustizia da un ventennio utilizza la politica per difendere strenuamente i propri interessi personali. Nell’esempio raccontato da Freud il delirio consiste nel rifiuto della realtà e nella sostituzione della realtà con qualcosa che non esiste.

L’idea della pacificazione si fondava su un vero e proprio accecamento di questo genere: la figura di Berlusconi statista appare a tutti gli uomini ragionevoli, di destra come di sinistra, una affermazione delirante, cioè completamente scissa dalla realtà. All’indomani delle elezioni la sua forza rappresentativa si era oggettivamente assai ridotta e non si era esaurita irreversibilmente solo grazie alla scelta scellerata del Pd di non candidare Matteo Renzi. Eppure questo governo si è realizzato ancora alla sua ombra ed è ostaggio del suo capriccio.
L’idea della pacificazione vuole sostituire la dimensione politica del conflitto con la negazione delirante della realtà. La realtà è che in Italia destra e sinistra non possono governare insieme non perché, come ritiene un’altra forma di rimozione della realtà qual è il catarismo grillino, sono uguali ma perché sono profondamente diverse. Se su queste pagine ho frequentemente ricordato come il ruolo nobile e alto della politica consista nella sua capacità di comporre dialetticamente le diverse istanze di cui è fatta la vita dellapolis, mi pare altrettanto fondamentale oggi ricordare che in una democrazia non bisogna avere paura del conflitto perché il conflitto politico è il sale della democrazia. Soprattutto se la negazione del conflitto comporta l’idea di una falsa unità, di una convergenza solo apparente tra le opposizioni. Tra l’altro è proprio la possibilità che il conflitto politico trovi delle adeguate rappresentazioni democratiche e parlamentari ad essere la prevenzione più efficace ad ogni forma di violenza irrazionale.

Come la povera madre che anziché affrontare il dolore per la morte della propria figliola, la rimpiazza con un pezzo di legno, il governo Letta sembra insistere nel credere – sfidando davvero ogni principio di realtà – che sia possibile governare con una destra pronta ad occupare le sedi dei Tribunali e a far cadere il governo se il suo capo non verrà messo al riparo dall’azione della giustizia.

In psicoanalisi esiste una legge del funzionamento mentale che vale la pena oggi ricordare perché si presta a leggere anche i fenomeni della vita collettiva: quello che si vuole cancellare dalla memoria – nel nostro caso il ventennio berlusconiano – ritorna sempre nella realtà e ha spesso la forma dell’incubo. Per generare cambiamento autentico, nella vita individuale come in quella collettiva, è necessaria innanzitutto la memoria della nostra provenienza.

Non è un caso che tutti i tiranni tendano a cancellare il rapporto con la memoria e a falsificare i libri di storia. In 1984 ilGrande Fratello orwelliano rende come prima cosa impossibile il pensiero storico perché sa che quel pensiero è sempre pensiero critico, pensiero che sa fare obiezione alla falsificazione. Come accade alla povera madre delirante raccontata da Freud si vorrebbe trasformare la bimba morta e perduta per sempre in una bimba viva e sorridente. Ma un pezzo di legno non fa una bambina, così come Berlusconi non fa uno statista. La pacificazione rischia allora di essere una pura falsificazione. È questo, in fondo, il suo peccato originale.

Riflessione su alcune ragioni della de-ideologizzazione del PD e della conseguente resa della ex-sinistra all'ideologia TINA (There Is No Alternative), causa principale del prolungato suicidio dell'erede del Pci.

il manifesto, 23 luglio 2013
«Mentalità e corpo del partito lontani dalla rappresentanza sociale del mondo del lavoro, vera discontinuità progettuale per la sinistra - e "cose" nate dal 1991 e la struttura di politici di professione: sono questi i termini che rendono difficile la svolta congressuale»

Nelle ultime settimane, nell'ambito di un intelligente forum del Corriere della Sera, mi hanno colpito queste righe pubblicate in un post: «Ci sentiamo soli anche quando siamo in molti a condividere il destino, ... Siamo indifferenti (...) non ce ne importa più niente delle loro manovre e manovrine, ci hanno spento ogni passione insieme alle speranze ....Maledetti loro, maledetti noi che non abbiamo più un briciolo di forza per reagire, subiamo, abbozziamo, imprechiamo un po' e via andare (...). Non siamo più capaci di fare massa, abbiamo visto tutto quello che c'era da vedere e abbiamo capito che c'è poco o niente da fare. (...)». Sempre sullo stesso giornale, ma in un altro forum, uno dei partecipanti alla discussione dice di sentirsi in uno stato di «disperazione che diventa resa».

Il nesso tra la prevalenza ideologica e pratica del non ci sono alternative allo stato di cose presente e la «disperazione che diventa resa» è del tutto evidente. Quale è stato, quale è, il contributo del Pd alla trasformazione di questa ideologia in senso comune?

Alfredo Reichlin in un recente intervento ha fatto riferimento ad «un grande bagaglio di valori, di bisogni, e di passioni che ancora esiste» e che dovrebbe trovare, proprio nel suo partito, risposte adeguate (l'Unità, 9 luglio). In verità Reichlin non sembra molto ottimista sul fatto che il Pd sia in grado di elaborare una riflessione politica al livello delle domande poste dalla disperazione sociale. Egli sottolinea la «pochezza del (...) dibattito congressuale», pochezza che attiene alla mancanza di «autonomia culturale» del partito, che indica in questi termini: convinzione prevalente «che il mondo non presenta scelte diverse». Nonostante il profondo ed assai ragionevole pessimismo, egli spera in una «vera svolta» al congresso» del Pd, perché è di una vera svolta che c'è «bisogno». Purtroppo nella storia non c'è alcun rapporto determinato tra bisogni e svolte nella direzione indicata da quei bisogni. In particolare nella storia dei subalterni, di coloro la cui disperazione tante volte si è conclusa in una resa.

Una «svolta» in cui, con diverse gradazioni nell'oscillazione tra ottimismo e pessimismo, confidano anche molti degli intervenuti su questo giornale a proposito del dibattito precongressuale del Pd. «Svolta» legata a quello che Asor Rosa ha chiamato «l'anello mancante», cioè il «progetto». Il progetto, appunto, non una generica carta d'intenti, bensì un insieme strutturato capace di coniugare una visione strategica centrata su «l'organizzazione democratica e partecipativa, la difesa degli interessi e del sociale, la rappresentanza del lavoro» e tutti i passaggi intermedi necessari e congruenti omogenei con la strategia. Un progetto che il Pd non ha, dice ancora Asor Rosa, ma che, forse, a seconda degli sforzi e della convinzione di alcune delle forze in quel campo, potrebbe configurarsi come l'esito del congresso. L'alternativa è un Pd «perduto» e «se il Pd è perduto, dovremo lavorare, qualcun altro dovrà lavorare per decenni perché un nuovo processo abbia inizio» (il manifesto 18 giugno).

Sono questioni di grandi rilevanza, di fronte alle quali, però, ci si deve porre qualche interrogativo. Perché quel progetto, finora, è stato del tutto assente dalla elaborazione e dalla pratica politica del Pd? Il Pd ha una storia alle spalle e non solo quella a partire dall'ottobre 2007. La linea della «normalizzazione», che è vero progetto, non è stata soltanto quella che ha interessato i «mesi passati», bensì quella che ha caratterizzato «cose» e Pd nei molti anni passati, a partire dal 1991. L'insistita ricerca del «paese normale» ha rappresentato il filo della continuità capace di dare ragione a scelte politiche supposte contingenti. Senza questo preciso orizzonte culturale e politico non si spiegano i due ultimi governi «costituenti». E quello attuale che, come dice giustamente Asor Rosa, «si delinea come il governo più importante e più decisivo per le nostre sorti dal 1946 ad oggi».

La normalità, secondo il «Grande dizionario della lingua italiana», è «una condizione abituale, consueta e ampiamente accettata e che non presenta alcuna irregolarità, né lascia presagire alcun elemento di imprevisto e di inquietudine». L'«Enciclopedia Einaudi» precisa che nella normalità «non si pende né a destra né a sinistra». Noi «somos reformistas, no de izquierdas», così la carta d'identità del Pd come immediatamente presentata dal suo fondatore.

Che poi la realtà di quel partito sia stata e sia più mossa rispetto alla fotografia inaugurale che ne ha fatto Veltroni è altrettanto vero, ma si tratta di movimenti nell'ambito di una comune mentalità informata ai criteri della «normalità». Come c'insegna Braudel, la mentalità è una struttura, non si modifica sulla base delle scadenze congressuali.

D'altra parte come sarebbe stato possibile partecipare alla definizione degli obbiettivi economico sociali degli ultimi due governi, votare convintamente fiscal pact e costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, senza una larga condivisione dei suddetti criteri di «normalità», che sono quelli della teoria economica mainstream?

Oltre le strutture culturali esistono poi altri elementi strutturali che rendono improbabili mutamenti radicali dei modi di essere di quel partito.

Quando si cercava di comprendere scelte politiche e gestione delle stesse anche attraverso l'analisi delle strutture organizzative atte a sostenerle, una importante rivista di riflessione politico-teorica in cui Asor Rosa (e Tronti) hanno avuto un ruolo di primo piano, pubblicava un'accurata ricerca sul ceto politico del Pci tra compromesso storico e svolta dei primi anni Ottanta («Laboratorio Politico», 2-3, 1982). La ricerca individuava con molta chiarezza le caratteristiche del quadro intermedio che aderisce al Pci nei primissimi anni Settanta e che alla metà del decennio approdava a ruoli dirigenti e professionali anche a livello nazionale. Un blocco di politici di professione sempre più caratterizzato da un'immissione precoce negli apparati e da una carriera tutta interna al partito. E, aggiunge l'autrice del saggio, la sociologa Chiara Sebastiani, «una componente fortemente individuale sembra prevalere sulla formale dedizione al partito; e una identificazione con il partito organizzazione assai più che con il partito classe».

«... tutto mi induceva a credere che il partito avesse subito una sconfitta dalla quale non si sarebbe rialzato. Avevo aderito a un corpo promesso alla vittoria e mi pareva impossibile associarmi a una sconfitta». In questa considerazione di uno dei protagonisti di un romanzo di Paul Nizan del 1938 ci sono motivi di riflessione per spiegare tante scelte fatte a ridosso del «meraviglioso '89» da gran parte di quel tipo di «ceto politico». Il ceto politico intermedio-dirigente del Pd ha portato alle estreme conseguenze le logiche della progressione di carriera, disancorandola dalla rappresentanza sociale. Non conosco studi specifici a proposito, ma solo alcune esperienze che penso si avvicinino molto ad un ideal-tipo.

Un neodeputato e attuale membro della segreteria nazionale del Pd, ad esempio, si è iscritto al PdS alla metà degli anni Novanta in una importante realtà industriale. Era ancora studente e non aveva nessuna esperienza politica. Pochi mesi dopo era già segretario della federazione di quella zona industriale. Da allora la brillante carriera procede rapidamente: consigliere regionale, segretario regionale e via a crescere. Qualche mese fa dichiarava di essere dalemiano, ma di guardare anche «con attenzione e stima a Matteo» (Il Tirreno, 24 maggio). Chi è interessato a conoscere l'evoluzione attuale del nostro potrebbe avere indicazioni essenziali sui meccanismi che muovono davvero le strutture portanti del Pd.

Ora, elemento centrale dell'«anello mancante» dovrebbe essere, tra i molti indicati da Asor Rosa, tutti strettamente legati, quello della rappresentanza sociale del mondo del lavoro. Ma un partito che prenda sul serio una questione del genere deve avere tradizione di legami sociali e di riferimenti culturali di grande spessore. La questione rimanda, infatti, al nodo del rapporto tra la fase attuale della crisi della democrazia e l'attuale fase di accumulazione. Rimanda insomma ad un insieme di strumenti analitici e di comportamenti del tutto contraddittori con la struttura «mentalità» e con la struttura organizzativa del «corpo» del partito.

In un libro molto bello e recentissimo (Racconti dell'errore, Einaudi, 2013), un libro di letteratura creativa che insegna molto a chi fa il mestiere di studioso di storia, Asor Rosa delinea un atteggiamento che nella sostanza è il suo: Il Vecchio «ad onta della sua fama di sbandierato estremismo - presumeva di mettere d'accordo, con grande moderazione, o se preferite, con astuto spirito di compromesso, capra e cavoli». Atteggiamento assai lodevole, comune anche a chi scrive che, del resto, estremista non è mai stato. Credo, però, che in questo caso il salvataggio sia davvero impossibile.

La difesa della continuità governativa sic et simpliciter, lasciando passare questo episodio come un infortunio di qualche funzionario distratto, non ripara il danno gigantesco di credibilità del nostro Paese agli occhi della comunità internazionale. La Repubblica, 21 luglio 2007

Il principio venne poi sancito in Francia nellaDichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (art. 15) laddove si asserisce solennemente che «la Società ha il diritto di chiedere conto ad ogni agente pubblico della sua amministrazione ». Quindi, poiché ogni atto del governo è compiuto in nome del ministro, questi deve assumerne la responsabilità di fronte al Parlamento e di fronte all’opinione pubblica. Se sono stati commessi errori il ministro può prendere provvedimenti disciplinari e sanzionatori nei confronti dei funzionari, ma ciò, come scrivono i costituzionalisti anglosassoni, «non lo assolve dalla responsabilità politica». A meno che il governo intero non si assuma collettivamente l’onere dell’azione compiuta. È esattamente quanto ha fatto Enrico Letta.

Pur avendo voluto più di ogni altro far luce sulla questione dell’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia, il presidente del Consiglio ha fatto scudo ad Alfano (e alla Bonino) avocando a tutto il governo la responsabilità – collettiva – dell’affaire kazako. In questo modo al pluri-incaricato ministro dell’Interno, vice presidente del Consiglio e segretario del Pdl, Angelino Alfano è stata assicurata la salvezza politico-personale. I costi di questa rescue-operation rischiano però di essere superiori ai benefici. Il presidente della Repubblica ha steso il suo manto protettivo sul governo per evitare rischi di instabilità e metterlo al riparo dalle pressioni speculative di una estate che si preannuncia torrida su questo versante. C’è da sperare che sia stata la scelta più opportuna per il sistema nel suo complesso. Tuttavia la difesa della continuità governativa sic et simpliciter, lasciando passare questo episodio come un infortunio di qualche funzionario distratto, non ripara il danno gigantesco di credibilità del nostro Paese agli occhi della comunità internazionale.

L’intrusione nei più delicati apparati dello Stato e ai livelli più alti di un ambasciatore (sic!) e di altro personale diplomatico di un Paese non alleato e tenuto a distanza dal consesso delle nazioni democratiche per i caratteri autocratici del suo regime mette in pessima luce l’affidabilità e l’impermeabilità della nostra amministrazione. Abbiamo dato la sensazione di avere un apparato di sicurezza influenzabile e penetrabile da emissari di Paesi retti da despoti autoritari e, per di più, di essere supini e servizievoli nei confronti delle richieste di questi interlocutori esterni, tanto da venire persino telecomandati nelle indagini. Infine, abbiamo manifestato totale insensibilità e disprezzo (proprio gli italiani brava gente) nei confronti di persone deboli e indifese – una donna e una bambina – impacchettate e spedite a forza verso la totale disponibilità del satrapo kazako.

In tutto questo c’è la responsabilità politica del ministro che ha oggettivamente (e forse soggettivamente) consentito l’operazione deportazione; e tutto questo non accadeva in una sperduta caserma dell’entroterra molisano, ma ai piani alti del suo ministero. Se Alfano non è nemmeno politicamente responsabile dei vertici della sua struttura, allora è veramente irresponsabile. E la sua irresponsabilità finirà per costarci carissima nell’impalpabile quanto inflessibile “mercato” della credibilità internazionale.

L’unica via d’uscita da un ulteriore “schettinizzazione” dell’immagine del nostro Paese consiste in un atto autonomo da parte del ministro dell’Interno, con un sussulto di dignità che gli farebbe e gli restituirebbe onore: offrire dimissioni volontarie. Se Alfano non ha questa sensibilità nelle sue corde, almeno che ci sia qualcuno a suggerirglielo.

«Il manifesto, 20 luglio 2013

È regola eterna che nel vuoto della politica le istituzioni di garanzia tendano ad assumere poteri governanti, supplendo alle mancanze dei soggetti titolari. Ciò non è certamente un bene, soprattutto se questo spostamento, contro la natura delle cose, tende a diventare permanente, annullando l'ordine e i ruoli definiti nella Costituzione. Sin dai più antichi studi sulle forme di governo il pericolo maggiore di degenerazione complessiva del sistema è stato espressamente individuato nell'affermarsi, in via di fatto, di un potere che finisce per assorbire stabilmente quello degli altri soggetti i quali dimostrano di non essere più in grado di governare. Così, per Aristotele, se la politia è quella forma di governo nella quale i governanti mirano al bene comune, qualora il potere sia assorbito da un unico soggetto, essa rischia di trasformarsi in tirannide, dove chi è al governo mira soltanto al proprio vantaggio.

V'è un unico modo per ostacolare l'affermarsi delle forme di governo «deviate»: attenersi al rigoroso rispetto del governo delle leggi. Anche in tempo di crisi. Se ci si affida invece al governo degli uomini, la «passione» finirà per sconvolgere gli assetti di potere. Perle di saggezza che hanno retto il governo della polis e che ci sono state tramandate nel corso dei secoli, per essere reinterpretate dalla tradizione illuministica che ha indicato nella divisione dei poteri il fondamento di ogni sistema politico non assolutistico. «È un'esperienza eterna - scriverà Montesquieu - che qualunque uomo che ha un certo potere è portato ad abusarne». C'è un solo modo affinché ciò non avvenga: «Bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere».

La crisi del sistema politico italiano è tutta qui. A fronte di soggetti politici afoni, lacerati da lotte intestine (vedi il Pd) o preoccupati di salvaguardare interessi personali (vedi il Pdl), si è andato espandendo il potere di governo del garante della Costituzione. Inizialmente non poteva che essere così. Il Capo dello Stato, infatti, nel nostro sistema costituzionale ha il compito di «reggere» e quindi «risolvere» gli stati di crisi. Non può stupire, dunque, se nell'agonia dell'ultimo governo Berlusconi, in assenza di un'opposizione in grado di far cadere il governo e dar vita a una nuova maggioranza, il Presidente abbia assunto un ruolo decisivo. Si fosse trattato di un intervento straordinario, unico nel suo genere, compiuto per la salvezza delle Repubblica e la salvaguardia del sistema costituzionale, persino alcune forzature istituzionali si sarebbero potute giustificare.

Il punto critico è però apparso via via con sempre più preoccupante evidenza: gli interventi operati in via di supplenza dal Capo dello Stato, in modo sempre più intenso e penetrante, non sono riusciti a ristabilire l'ordine delle competenze e superare la crisi politica. Probabilmente, accecati dal contingente e dalla prolungata crisi economica, s'è sottovalutata la profondità di quella politica. In ogni caso, quel che conta è che si è assistito a una progressiva resa di tutti i poteri governanti: prima il Parlamento, sempre più relegato a strumento di registrazione di decisioni altrove assunte, poi lo stesso Governo, non più in grado di reggere il peso delle proprie responsabilità, nonostante l'appoggio fantasma di un numero spropositato di parlamentari di una maggioranza tanto larga quanto impotente. Il governo Letta, e ancor prima la vicenda della ri-elezione di Napolitano, sembrano ora chiudere il cerchio.

Un'unica istituzione garante occupa il vuoto lasciato dai poteri governanti. Non è, evidentemente, un problema di uomini, bensì di governo delle leggi. È la grande regola della divisione dei poteri, la necessità che a fronte di chi esercita il potere nel pieno della propria responsabilità costituzionale, deve esservi - oltre ad una viva opposizione che controlla - chi garantisce il rispetto delle regole costituzionali. Nella distinzione dei ruoli di ciascuno. Se non si dovessero ristabilire al più presto gli equilibri della nostra forma di governo i rischi di degenerazione sono assai probabili. Ma se si vuole evitare la caduta è necessario che la politica riprenda a parlare il linguaggio della polis , «bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere».

Da Enrico Letta e Giorgio Napolitano nei rapporti con il Kazakistan, a Roberto Calderoli e l'indecenza razzista, per non parlar di Angiolino Alfano e del PD. Episodi recenti del doloroso tramonto di uno Stato democratico.

La Repubblica, 20 luglio 2013

MOLTI fatti, in questi giorni, hanno destato scandalo, suscitato proteste, acceso qualche fuoco d’indignazione. Ma non sono il frutto di una qualche anomalia, non rientrano nella categoria delle eccezioni o degli imprevisti. Appartengono a quella “normalità deviata” che caratterizza ormai da anni il funzionamento del sistema politico. Ha corroso il costume civile, accompagna il disfacimento del sistema industriale e la terribile impennata della povertà.

Il caso Alfano è davvero una illustrazione esemplare del modo in cui questa normalità deviata è stata costruita, fino a divenire l’unica, riconosciuta forma di normalità istituzionale. Lasciando da parte la responsabilità oggettiva per fatti di cui non avrebbe avuto conoscenza, bisogna chiedersi quale ruolo giochi la responsabilità politica. Dove va a finire questa specifica forma di responsabilità quando si adotta questo tipo di argomentazione? Scompare, anzi è da tempo scomparsa, creando una zona di immunità nella quale i titolari di incarichi istituzionali si muovono liberi, quasi estranei alle strutture che pure ad essi fanno diretto riferimento, anche quando il funzionamento di queste strutture produce gravi conseguenze politiche. La responsabilità politica, anzi, finisce con l’essere considerata come una insidia, un rischio. Guai a farla valere se così vengono messi in pericolo la stabilità del governo, gli equilibri faticosamente o acrobaticamente costruiti.

Questo particolare tassello della normalità deviata finisce con il rivelare la più profonda distorsione del nostro sistema politico – l’essere ormai prigioniero di uno stato di emergenza permanente. Questo è divenuto l’argomento che inchioda il sistema politico alle sue difficoltà, negandogli la possibilità di sperimentare soluzioni diverse da quelle che, via via, mostrano i loro evidenti limiti, fino a sottrarre alla politica ogni legittimo margine di manovra. Di nuovo la normalità deviata, di fronte alla quale vien forte la tentazione di pronunciare un “elogio della follia politica”, che spesso consente di cogliere i tratti reali di una situazione assai meglio del realismo proclamato. Era davvero imprevedibile quello che sta accadendo, l’intima fragilità delle “larghe intese” che, prive di qualsiasi collante politico, sono in ogni momento esposte a fibrillazioni, ricatti, strumentalizzazioni? È la mancanza di coraggio politico a produrre instabilità.

Così non soltanto l’orizzonte dell’azione di governo si accorcia sempre di più, fino a ridursi al giorno dopo. Soprattutto si perde la capacità di operare in modo adeguato alle situazioni di crisi e di ripartire le risorse rispettando le vere priorità, le emergenze effettive. Infatti, si accettano come variabili indipendenti quelle che, invece, sono pretese settoriali o prepotenze di parte. Problemi procedurali a parte, com’è possibile ripartire le scarse risposte disponibili assumendo come tabù intoccabile l’acquisto degli F-35, mentre premono altre e più drammatiche necessità? Com’è possibile inchiodare fin dal primo giorno l’azione del governo intorno alla questione dell’Imu, condizionando l’intera strategia economica per soddisfare una promessa elettorale di Berlusconi, mentre svaniscono quelle del Pd?

In questa normalità sempre più deviata non riescono a trovare posto le vere, grandi emergenze. Mentre si dissolve l’apparato industriale, non vi sono segni di una vera politica industriale. Neppure questa è una novità, perché si tratta di una eredità dei governi Berlusconi e pure del governo Monti, dove quelle due parole venivano liquidate quasi con disprezzo come si facesse cenno a una inammissibile interferenza nel mercato. E da questa ulteriore assenza di politica viene un contributo all’aggravarsi della situazione economica, che ormai deve essere letta partendo dalle cifre impressionati sulla povertà. Le ha analizzate efficacemente e impietosamente Chiara Saraceno, sottolineando pure la necessità di modifiche strutturali, come quelle riguardanti l’avvio di forme di reddito garantito. Un governo blindato, non è necessariamente sinonimo di governo forte e efficiente.

Ma la normalità deviata non la ritroviamo solo nel circuito istituzionale. È dilagata nella società, con effetti perversi che verifichiamo continuamente osservando il degradarsi delle regole minime della convivenza civile. So bene che il caso Calderoli è vicenda miserevole. Ma bisogna ritornarci perché si sono ricordati i precedenti di questo eminente rappresentante della Lega, dalla maglietta contro l’Islam all’annuncio di passeggiate con maiali dove si pensava di costruire una moschea. Nulla di nuovo, allora. Gli insulti alla ministra Kyenge appartengono a questa perversa normalità, accettata e addirittura premiata con incarichi istituzionali. Ma Calderoli non era e non è solo, è parte di una schiera che ha fatto del linguaggio razzista, omofobo, sessista un essenziale strumento di comunicazione, per acquisire consenso e costruire identità. E infatti, per giustificarlo, si è detto che le sue erano parole da comizio, dunque legittime, senza rendersi conto dell’enormità di questa affermazione: la propaganda politica può travolgere il rispetto dell’altro, negandone l’appartenenza stessa al comune genere umano, pur di arraffare un miserabile voto.

Ma era una battuta, si è detto. Lo sentiamo dire da anni, senza che questa pericolosa deriva sia mai stata contrastata seriamente da nessuno. Anzi, è stata sostanzialmente legittimata da due categorie – i realisti e i derubricatori. Innocue quelle battute, derubricate a folklore, a modo per avvicinare il linguaggio della politica a quello dei cittadini. Ma il linguaggio è strumento potente e impietoso, e oggi ci restituisce l’immagine di una società degradata, nella quale sono stati inoculati veleni che l’hanno drammaticamente intossicata. Inutili moralismi, ribattono i realisti, che guardano alla Lega come forza politica, addirittura come una “costola della sinistra”. Ma una cosa è considerare la rilevanza politica di un fenomeno, altro è accettarne ogni manifestazione, rinunciando a contrastare proprio ciò che frammenta la società, ne esaspera i conflitti.

Altre deviazioni potrebbero essere ricordate. E tutto questo ci dice che, per tornare ad una decente normalità, serve una innovazione politica profonda, che esige altre idee e altri soggetti.

Epifani: “il caso non è chiuso”: Cercheranno paletti per contenere i berluscones, intanto sono i pali che li sorreggono. Tra tanti modi possibili per concludere un’esperienza politica il partito democratico ha scelto il peggiore.

La Repubblica, 19 luglio 2013


I

l governo Letta deve andare avanti, il ministro Alfano non sarà sfiduciato dal Pd. Ma il “caso kazako” non è chiuso: non può essere archiviato così. «Sono troppi i dubbi, le nebbie, è una vicenda grave», ammette Epifani, confermando però la linea dei Democratici, che lega in un nodo inestricabile le dimissioni di Alfano e la tenuta dell’esecutivo. Fino all’ultimo ieri, il segretario democratico ha sperato, prima di entrare nella fossa dei leoni dell’assemblea dei senatori, che qualcosa potesse accadere: che Alfano cioè, in un sussulto di responsabilità, lasciasse il Viminale. Niente da fare. Stamani a Palazzo Madama si voterà la mozione di sfiducia presentata da Sel e dal M5S, e il Pd voterà contro. I senatori democratici alla fine si sono messi in riga, anche i renziani che avevano chiesto di presentare almeno un documento di censura nei confronti del responsabile dell’Interno.

Nell’assemblea dem parla Epifani, interviene il ministro Franceschini, indica la strada da percorrere il capogruppo Luigi Zanda. Soprattutto pesano le parole di Napolitano, durante la cerimonia del Ventaglio, al Quirinale. Nella riunione democratica, che sfiora la rissa, si ripete l’sos del capo dello Stato e il rischio enorme di un’Italia senza governo. Stefano Esposito, della corrente dei “giovani turchi”, alza i toni e avverte: «Io non sono più disponibile a reggere il gioco delle tre carte di quelli che utilizzano strumentalmente il partito per fare i fighetti e costruirsi le carriere personali. Al momento del voto sulla sfiducia, attenderò la seconda chiama, se ci saranno assenze sospette o voti difformi, voterò la sfiducia e poi mi sospendo dal gruppo». Applausi. E lui ripete in modo ancora più colorito («Sono stanco di quelli che fanno i froci con...»), l’esasperazione di chi per disciplina di partito sta ingoiando le larghe intese con Berlusconi. In 80, alla fine, votano la linea di Epifani, 7 si astengono. Gli stessi renziani rientrano nei ranghi, tranne tre: Marcucci, Cuomo, De Monte che con Puppato, Tocci Ricchiuti e Casson sono gli astenuti.

Ma il dissenso e il disagio nel Pd è fortissimo. I Democratici chiedono che Zanda oggi in aula censuri politicamente Alfano e che il partito non smetta il pressing perché il ministro lasci il Viminale, restituisca al più presto le deleghe: c’è una sua responsabilità politica nel caso Shalabayeva. «Alfano rifletta suun passo indietro», insistono i bersaniani. Dario Franceschini, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, nella riunione alza il cartellino rosso: «Dentro questo governo si sta in squadra, è spiacevole vedere che c’è chi ci mette la faccia, e chi dice “io farei così” perché altri si sporcano le mani». E qui, scoppia lo scontro a distanza con Pippo Civati. Civati, che ha criticato il capo dello Stato («Napolitano? Siamo al commissariamento») sente minaccia di espulsione da parte di Franceschini nei confronti dei dissidenti. Il ministro nega con un tweet di fuoco: «Da Civati falsità e discredito, si scusi immediatamente, mai detto né pensato a espulsioni». Deputato e candidato alla segreteria, Civati contrattacca e spiega che, pur non essendo alla riunione, il senso era chiaro e perciò darà forfait alla riunione serale alla Camera. Malesseri crescenti. Il Pd teme spaccature e fratture fino alla scissione. Per questo la settimana prossima è convocata una direzione del partito con Letta per discutere del governissimo e dei paletti da mettere al Pdl. «Ci vuole un rilancio dell’azione del governo», ripetono in tanti, sia sui temi ma anche un rimpasto e il cambio al Viminale. Verducci non molla: «Via le deleghe a Alfano». Intanto il comitato per le regole del congresso ha stabilito la distinzione tra segretario e candidato premier.

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