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«L’estrema degradazione della politica la cogliamo in questo momento, con la minaccia di far cadere il governo qualora il Pd voti al Senato per la decadenza di Berlusconi. Un passaggio obbligato, una presa d’atto prevista da una legge vengono trasformati in un atto di discrezionalità politica. Una volta di più la legalità scompare, quasi che non facesse più parte del nostro corredo istituzionale».

La Repubblica, 20 agosto 2013

IN QUESTE affannose giornate abbiamo avuto la conferma che il nostro sistema vive in un vuoto di politica e in una precarietà costituzionale che stanno corrodendo la democrazia in alcuni suoi elementi costitutivi – l’eguaglianza davanti alla legge e la costituzione della rappresentanza. La consapevolezza di questo rischio traspare dalle dichiarazioni del presidente della Repubblica sul rispetto delle sentenze e le condizioni per la concessione della grazia.

Così come dalla decisione del Senato di affrontare con procedura d’urgenza la riforma della legge elettorale, ora presentata come priorità assoluta dal presidente del Consiglio. Ma queste indicazioni non paiono aver modificato il modo d’essere d’una politica ormai avvelenata.

Sono gli effetti di un lungo incancrenirsi, mai adeguatamente contrastato. Ci si è affidati sempre più all’azzardo, si rimane appesi a dichiarazioni personali che possono fare o disfare un governo, l’orizzonte si riduce sempre di più, davvero si vive alla giornata, e persino la giornata si accorcia, si è appesi a quello che qualcuno dirà nella mezz’ora successiva. Privata di senso, prigioniera di emergenze vere o costruite, la politica italiana comunica un senso di vuoto. Lo rendono evidente le vicende del governo, poiché la dignità con la quale Enrico Letta cerca di farlo sopravvivere finisce con il sottolineare ogni giorno, impietosamente, proprio la dipendenza da una condizione che subordina questa sopravvivenza agli interessi di un autocrate e alle schermaglie personali che percorrono il Pd. L’estrema degradazione della politica la cogliamo in questo momento, con la minaccia di far cadere il governo qualora il Pd voti al Senato per la decadenza di Berlusconi. Un passaggio obbligato, una presa d’atto prevista da una legge votata anche dal Pdl, vengono trasformati in un atto di discrezionalità politica. Una volta di più la legalità scompare, quasi che non facesse più parte del nostro corredo istituzionale, mentre sarebbe il caso di riflettere sul fatto che nell’incandidabilità si riflette una più profonda logica costituzionale, la necessità di sanzionare l’“indegnità morale”, di cui parla nell’articolo 48 a proposito dell’esclusione dal diritto di voto.

Ma dalle minacce a Parlamento, governo e partiti si è ora passati ad una pressione esplicita sul presidente della Repubblica, ben oltre le “interferenze” alle quali Napolitano aveva reagito. Cercando di coinvolgerlo in una crisi propriamente politica, e così imputandogli indirettamente la responsabilità di una eventuale crisi di governo, si vuol produrre una rottura istituzionale, imponendo la prevalenza delle ragioni di una parte su principi e regole che garantiscono gli equilibri costituzionali. L’irresponsabilità di questi comportamenti è evidente, e rivela quale sia il modo in cui il Pdl ha inteso il suo esser parte delle “larghe intese”, trasformando l’argomento dell’emergenza nella pretesa di imporre il proprio punto di vista. Un governo dichiarato senza alternative può dunque divenire terreno per le manovre più spregiudicate e pericolose.

Per uscire da questa situazione, bloccata e non “blindata”, serve fermezza nelle risposte istituzionali e chiarezza nelle reazioni politiche, da parte del Pd in primo luogo. Verranno? Solo se la scena politica verrà sgombrata da questo rischio, sarà possibile affrontare seriamente la riforma elettorale, poiché sappiamo che la sopravvivenza della legge Calderoli aggiunge emergenza a emergenza, viola la Costituzione, sì che non si può tornare a votare con quelle regole. Vi è dunque un obbligo costituzionale di liberare dall’illegittimità un atto fondativo della democrazia, la costituzione stessa della rappresentanza politica. E, nel momento in cui ci si arrovella intorno all’ingovernabilità, è bene avere memoria del fatto che quella legge fu concepita proprio per impedire alla coalizione guidata da Prodi, pronosticata vincitrice alle elezioni del 2006, di poter governare. Lì è la vera origine di molti guai di oggi, e di un inquinamento della politica dal quale è indispensabile liberarsi senza continuare a subordinare questa riforma alle convenienze. Dietro le parole assai esplicite di Enrico Letta vi è anche la consapevolezza che la priorità attribuita a questa riforma esige l’apertura di una discussione parlamentare che non può essere confinata nel recinto sempre meno praticabile delle larghe intese?

Proprio le ultime vicende, inoltre, rivelano l’urgenza di uscire da una logica per cui ci si dichiara continuamente prigionieri politici di una qualche emergenza, distogliendo così lo sguardo dalle possibili dinamiche parlamentari, che non sono necessariamente quelle che abbiamo conosciuto in questi mesi. Si è costruita l’immagine di un sistema bloccato intorno ad un’unica possibile maggioranza, istituendo una nuova

“conventio ad excludendum”, che si alimenta di reciproche incomprensioni e associa la fine dell’attuale maggioranza con il ritorno al voto. Ma lo scioglimento delle Camere, in una democrazia rappresentativa, non è un atto d’imperio, ma deve partire dalla registrazione di un dato di realtà — l’impossibilità di dar vita ad un diverso governo, ad un’altra maggioranza. Questa riflessione appartiene agli obblighi della politica, al modo in cui si costruiscono le relazioni tra le forze parlamentari, mai date una volta per tutte, alla capacità di non di alzare steccati. Ci vuole coraggio per questo allargamento di orizzonti, e in giro se ne vede poco. Anzi, i tentativi di far sì che il nostro non si presenti come un sistema bloccato, in grado di uscire dalle strettoie sempre più evidenti di questa maggioranza, si scontrano con la vista corta dei vari protagonisti.

Proprio questo bisogno di aperture e di ritorno al coraggio politico impone di non dimenticare la regressione nella quale siamo piombati, ormai vera e propria barbarie, con marcati caratteri eversivi. I vizi di una politica intossicata non possono essere registrati senza una reazione. Se oggi il tema capitale è quello della ricostruzione di una vera cultura politica, siamo

di fronte ad un compito che appartiene non a una generica “società civile”, invocata troppe volte con effetti disastrosi, ma esige un impegno delle diverse forze politiche, sociali, civili che in questi anni hanno concretamente mostrato come un’altra politica sia possibile. Non si tratta di vicende marginali o minoritarie. Ricordo l’opposizione vincente alla “legge bavaglio”; i ventisette milioni di votanti vittoriosi nei referendum contro la privatizzazione dell’acqua, il nucleare, le leggi ad personam; la concreta e coraggiosa battaglia per la legalità dell’associazione Libera; la scelta della Fiom di credere nei giudici e di farsi così sindacato dei diritti; Emergency, con una proiezione internazionale del diritto alla salute che lo fa diventare emblema di una lotta per la pace; manifestazioni come quella del 2 giugno a Bologna, dove decine di associazioni si sono unite per la difesa della Costituzione.

Ma la difesa della Costituzione non può esaurirsi nella sacrosanta denuncia delle manipolazioni delle regole di garanzia relative al suo cambiamento. Vi sono ormai le condizioni perché proprio dai suoi principi parta la ricostruzione di una politica che torni ad essere, come deve, “costituzionale”. Questo è il punto d’incontro delle diverse forze appena ricordate che, non a caso, vogliono individuare un terreno comune di azione. Dal vuoto politico ad uno spazio politico. Qui anche le persone di buona volontà presenti nel sistema politico potranno trovare, se lo vorranno, possibilità di dialogo e consenso sociale, indispensabili per battere le resistenze che lì si annidano.

L’ambiguità non giova al PD: se non ne esce «andrà in pezzi, eil Caimano potrà allegramente piangere la digestione del suo agognato boccone democratico».

La Repubblica, 21 agosto 2013

È comprensibile che Enrico Letta difenda l’operato del proprio governo. Nelle condizioni date può vantare anche alcune lodevoli iniziative; in particolare l’aver insistito sul ritorno all’Europa ripreso da Mario Monti. Ma le condizioni date, cioè la coabitazione con un partito che ha sempre privilegiato interessi settoriali, e persino personali, rispetto a quelli generali, costituiscono una zavorra pesantissima. Obbligano il presidente del Consiglio a una continua mediazione tra visioni politiche contrapposte. Forse va ricordato ancora una volta: il governo Letta-Alfano, come amano precisare i dirigenti del Pdl, nasce dall’emergenza, non dalla convinzione di avere una mission comune e di condividere le stesse prospettive. Non si configura in nulla come un governo di grande coalizione, che è tutt’altra cosa.

Infatti il Pdl è perfettamente cosciente della provvisorietà di questo esecutivo, nonostante spanda una mielosa cortina fumogena in cui lo esalta come frutto di larghe intese e addirittura volto alla “pacificazione”. Ne è talmente cosciente che interpreta l’azione di governo come un momento della prossima campagna elettorale. Non per nulla ha elevato l’Imu ad icona intangibile della sua partecipazione governativa. Che l’abolizione della tassa sugli immobili metta di nuovo in sofferenza le finanze pubbliche non ha alcuna importanza: l’essenziale è guadagnare consensi trasversali grazie a un messaggio così fortemente emotivo e seducente. Navigare in queste acque è difficile, ed Enrico Letta ci sta provando con tutta la sua capacità e buona volontà. Ma forse dovrà arrendersi all’evidenza dei fatti. E cioè che il Pdl è solo e soltanto interessato a sfruttare elettoralmente la propria presenza al governo. E se fino a poche settimane era l’Imu l’alfa e l’omega dei pidiellini per cui o Letta si piegava o l’esecutivo saltava, ora si è aggiunta anche la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi.

Le prime dichiarazioni dei democratici, a partire da quella del segretario Guglielmo Epifani, poi riprese, seppur con tono più sfumato, dallo stesso presidente del Consiglio, non lasciavano spazio ad una via di uscita per il Cavaliere. Ma da qui alla decisione finale passerà almeno un mese. Un tempo lunghissimo a disposizione di Berlusconi per esercitare ogni tipo di pressione al fine di trovare una soluzione “politica”. Altrimenti, dichiarano oggi i falchi, un minuto dopo i ministri del Pdl si dimetteranno. Questa minaccia - del tutto credibile perché non c’è nessuno in quel partito che possa nemmeno ventilare una ipotesi diversa dalla chiusura a riccio a difesa del leader - paradossalmente butta la palla in campo al Pd: se i democratici non trovano un modo per evitare la decadenza di Berlusconi saranno loro i responsabili della crisi di governo. Questo ricatto non sembra senza effetto tra i democratici. Alle dichiarazioni sdegnose di alcuni fanno pendant operazioni di sostegno toto corde al premier (documento Boccia) che, alla bisogna, possono tramutarsi nella richiesta di una “iniziativa politica” per salvare il governo (cioè Berlusconi). L’offensiva mediatica contro i “falchi” del Pd ha già trovato una certo eco nelle parole di Letta al meeting di Rimini quando ha parlato di professionisti del conflitto. Lungo questa strada si arriva alla delegittimazione di chi considera il Pdl tuttora l’avversario da contrastare. Invece, la democrazia dell’alternanza, benché sia stata messa in mora da un risultato elettorale inedito e dalla disastrosa gestione post elettorale del Pd, non per questo ha perso il suo valore. La si può mettere tra parentesi per circostanze eccezionali e per una durata limitata. Ma la contrapposizione tra forze politiche alternative è la norma, e a tale normalità democratica è necessario tornare quanto prima. Per la salute del sistema politico, innanzitutto.

Si sta invece diffondendo la richiesta che il Pd sia, ancora una volta, “responsabile”, come fosse una sorta di fratello maggiore di giovani scavezzacollo. Tocca a lui essere giudizioso; e anche magnanimo e comprensivo. E quindi trovare un accomodamento alle magagne altrui. In effetti, la responsabilità è un tratto storico degli antenati del Pd sia di marca comunista (con in cima i miglioristi di Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano) che democristiana (pensiamo ai placidi dorotei di tante legislature). Il presidente della Repubblica ha fatto appello a questo fattore genetico nel novembre 2011 al momento della nascita del governo Monti, e vi insiste ancor oggi. Queste pressioni sul partito democratico aumenteranno giorno dopo giorno. Alla fine rischierà lui di pagare il prezzo della condanna di Berlusconi: se si divaricheranno le posizioni tra chi vuole mantenere un atteggiamento rigoroso e chi, in nome della responsabilità e della governabilità, vuole accedere a qualche forma di salvataggio del Cavaliere il Pd andrà in pezzi. E il Caimano potrà allegramente piangere la digestione del suo agognato boccone democratico.

Aegiptus docet. Si sono aggrovigliati in n unico nodo tutte le illusioni sulla capacità del Mercato e delle sue istituzioni di risolvere le crisi e i conflitti della società planetaria. Il manifesto, 20 agosto 2013

Il potere fa il diritto. Ma chi detiene davvero il potere? Non solo in Egitto, nel mondo.

Mohammed Morsi è stato eletto presidente in elezioni democratiche. Dopo la vittoria a valanga dei partiti islamici nel voto per il parlamento, Morsi s'impose nelle elezioni presidenziali ma questa volta per un'incollatura al secondo turno sul candidato del vecchio regime e dell'esercito.

Secondo molte testimonianze, Morsi avrebbe esercitato il potere in modo abusivo. Più per debolezza e imperizia che per uno sfoggio di forza. E infatti il suo bilancio è deludente proprio sulle non meglio precisate riforme. Il parlamento fu sciolto dalla magistratura con un pretesto. Il presidente si prese una rivincita di Pirro affossando il principio della separazione dei poteri. Non immaginava che di lì a poco, invocati dalla piazza, esercito e polizia agli ordini del generale che lui stesso aveva scelto per il vertice della gerarchia militare avrebbero deposto, arrestato e fatto sparire il presidente eletto con la copertura della Corte suprema e dei ribelli o ex-ribelli per la libertà.

La legittimità originaria del potere di Morsi è un dato di fatto. Lo ha riconosciuto anche Barack Obama, interrompendo per qualche minuto le vacanze, a costo di dispiacere al generale Abdel Fatah al-Sisi e al fronte liberal-secolarista che ha grandemente contribuito ad affossare il governo dei Fratelli.

Obama non ha più il prestigio di quattro anni fa, quando presentò la nuova politica sul Medio Oriente parlando dal Cairo (come ospite di Mubarak), ma è ancora il presidente americano. L'enorme eco del discorso del 2009 era il prodotto di un eccesso di fede nel Destino manifesto dell'America dopo gli otto anni bui di George W. A confronto dell'appannamento complessivo dell'appeal del primo presidente nero Usa, la decisione comunicata con un po' di imbarazzo che gli Stati Uniti continueranno a foraggiare i militari egiziani con l'ormai consueto sussidio di un miliardo e mezzo di dollari ogni anno è solo routine. A suo modo, è stata una dichiarazione d'impotenza (ancora il potere). Il sistema di «sicurezza» con cui gli Usa mantengono il controllo strategico del Medio Oriente per la lotta contro il terrorismo, presidiando il petrolio del Golfo e lo status quo in Israele, non può fare a meno dell'Egitto.

In Egitto e più in generale nel Medio Oriente l'esercito è stato determinante nell'opera destruens dell'ancien régime ma si è rivelato del tutto incapace di elaborare un progetto valido e inclusivo di stato democratico ricomponendo via via la società in evoluzione nel rispetto dei diritti. Con la riforma agraria e le nazionalizzazioni, il processo di modernizzazione perseguito da Nasser ha sforbiciato lo strapotere dei ceti parassitari ma alla fine lo stesso raïs dovette ammettere che invece dei lavoratori la rivoluzione aveva beneficiato una borghesia egoista e avida. Le liberalizzazioni di Sadat e Mubarak non hanno neppure incominciato a cimentarsi con le aspettative degli «esclusi». L'islam politico, con tutti i limiti della sua scarsa sensibilità per la dimensione istituzionale, vuole o vorrebbe rappresentare le classi che sono sempre state sacrificate. Nelle situazione di una società con più giovani e più istruiti, la tentazione che spinge ora l'esercito a riprendere in proprio il potere è di far pagare la modernizzazione agli strati bassi pur di assicurarsi il consenso dei ceti che contano?

Non è all'islam che va attribuita la responsabilità della crisi della democrazia in Egitto ma semmai ai vizi di un ordine che sembra condannare le forze armate a riempire con le buone o con le cattive tutti gli spazi invece di favorire doverosamente la pluralità (di cui in teoria un parlamento funzionante dovrebbe essere lo specchio).

È clamoroso che i ribelli così occidentalizzanti di Piazza Tahrir, uomini e donne, abbiano aperto la strada di nuovo alla dittatura militare. Eppure, anche se non spinte dall'islam, le rivoluzioni del 2011 non sono mai state contro l'islam. Si può capire allora perché, dopo le aperture iniziali agli islamici, Stati Uniti e governi europei siano tentati di riallacciare con le élites militari e civili che conoscono meglio: gli stati attesi oggi alle sfide del mercato globale sono per certi aspetti il secondo o terzo tempo dell'opera coloniale e neocoloniale. È probabile che in Occidente molti abbiano rimpianto i militari anche quando Erdogan è sembrato traballare sotto la minaccia della protesta nelle strade e piazze di Istanbul.

Nella rappresentazione prevalente, le «Primavere arabe» hanno due immagini di marca ben distinte: nella fase che Alberoni definirebbe dell'innamoramento un movimento spontaneo senza capi e senza programmi; nella fase del contratto l'insediamento come forza dirigente della Fratellanza musulmana, portavoce dell'islam politico, da sola, in coalizioni o come un valore più mistico che politico sullo sfondo per il futuro. Sono passati solo due anni (ed è poco) ma si faticherebbe a dare una configurazione precisa al «riformismo» dei Fratelli. Ad aver rotto la crosta dell'indifferenziato c'è solamente la controversia, in parte nominalistica, sulla formulazione dei passaggi ritenuti critici delle nuove Costituzioni. Pressoché tutte le Costituzioni dei paesi arabi hanno sempre indicato nell'islam la religione ufficiale dello stato ma poiché gli islamisti sono usciti dalle catacombe, quando si parla di religione o di principi generali del diritto o dei rapporti di genere c'è più diffidenza e si centellinano i sostantivi e gli aggettivi. Per il resto, laici e religiosi pescano nello stesso bagaglio sui temi dello sviluppo salvo confrontarsi con gli impedimenti di una realtà che livella implacabilmente i buoni propositi. Si intuisce che alla base del blocco a favore del «progresso» ci sono la città, la piccola borghesia, i professionisti mentre l'islam ha la sua base fra i poveri e le masse rurali. Non è più disponibile l'opzione socialista a indirizzare, magari solo virtualmente, il cambiamento. Così come non c'è un'Urss a far balenare un'alleanza alternativa al patto ineguale del capitalismo e del neo-colonialismo. È dai tempi del primo Khomeini, quando il bipolarismo non era ancora stato liquidato, che la «rivoluzione» - tanto più nel mondo islamico - ha perso i connotati convenzionali. Anche per questo la religione ha preso così tanto piede come fattore di aggregazione e mobilitazione nelle promesse, nonché, sull'altro fronte, nella resistenza persino cieca di chi vede minacciato un modo di vita ritenuto superiore.

Ovviamente, né Morsi né il governo tripartito a direzione Ennahada in Tunisia aveva i mezzi e ha avuto il tempo per rinnovare significativamente le strutture produttive e distributive di paesi che languono nella morsa del capitalismo dipendente. Era un sogno, un'illusione, per di più in un periodo di crisi e con gli effetti secondari, a strascico, di settimane e mesi di agitazioni. Adesso è un argomento di mera polemica. In Libia lo stato è al collasso ma siccome il petrolio ha ritrovato i volumi di quando c'era Gheddafi l'emergenza ha meno ripercussioni all'esterno.

Stando alla vulgata della globalizzazione, le crisi più pericolose potevano sempre essere tenute a freno se non risolte imitando o esportando il modello che aveva trionfato nella guerra fredda. Gli sconquassi vaticinati da Samuel Huntington avrebbero selezionato i migliori, se necessario mediante guerre piccole o medie. Non è questa la legge suprema del mercato, la ragione delle sue fortune?

Con quanto è successo nel Nord Africa l'agenda del Nuovo ordine mondiale ha bisogno di una profonda rivisitazione. Si diceva che le rivolte pacifiche vincevano più facilmente perché trovavano comprensione e appoggio nel mondo "civile" ma ormai, accantonate le rivoluzioni arancione che misero in allarme anche la Russia con le sommosse nel suo «estero vicino», dilaga l'impiego delle armi. Dalla Libia in poi la scena è di nuovo occupata dalle rivolte cruente, poco importa se per iniziativa dei ribelli o per la repressione scatenata dai regimi in pericolo. Dopo quanto è accaduto al Cairo sarà imbarazzante riproporre il passaggio obbligato di elezioni free and fair. Qualificare come «terrorismo» la reazione dei sostenitori di Morsi e della Fratellanza è un artificio - e un falso per Tariq Ramadan - ma è anche una profezia che prima o poi rischia di auto-realizzarsi. La Fratellanza musulmana non è confinata all'Egitto: la cancellazione della sua vittoria elettorale e addirittura del movimento peserà sicuramente di più sul piano regionale dello strappo dei militari algerini contro il Fronte islamico della salvezza vent'anni fa.

A questo punto il presunto modello islamico a cui concorreva anche la Turchia perde ogni parvenza di omogeneità e persino di verosimiglianza. Nessuno parla più del Califfato. Lo scisma fra sunniti e sciiti, con terreni di scontro nelle due questioni cruciali di Siria e Iran, non lascia molti margini. L'Arabia Saudita ha rotto l'incantesimo e ha scelto il «male maggiore» apprestandosi a difendere con la forza tutto ciò che è conservazione. Avendo praticato ovunque possibile la guerra con prove che l'hanno divisa fra Marte e Venere, l'Europa si illude ancora di farsi sentire partendo dai suoi compitini e dai suoi aiutini? Sarebbe molto più realistico se tutti prendessero atto che l'idea di un apparato di seconda istanza a livello mondiale gestito con spirito di parte al fine di rimediare alla carenze dei singoli stati del Sud in transizione e delle rispettive leadership si è dissolta nei massacri e nei fuochi della Tian'anmen egiziana e che non ci si può più sottrarre a una vera svolta.

Un’analisi disperata d’un disumano appiattimento sul presente, raccontata con lo sguardo raso-terra sulla politica italiana d’oggi.

La Repubblica, 19 agosto 2013

Ispirava l’azione e, anzitutto, i messaggi della politica. I leader e i partiti erano tutti impegnati a scrivere programmi, progetti. A fare promesse. Perché anche le promesse riguardano il futuro. La politica della Prima Repubblica: era orientata da ideologie. Grandi narrazioni della storia, proiettate nel futuro. Che sarebbe stato migliore del passato e del presente.

La politica della Seconda Repubblica ha, invece, affidato la produzione di immagini del domani agli esperti di marketing. Ha ricondotto le identità e i progetti alla personalità del leader. Così il tempo ha perduto significato. Come i progetti.

La figura di Berlusconi, modello e artefice di quest’epoca, ha riassunto in sé ogni promessa. Facendola apparire attuale e attuabile, se non oggi, almeno domani. La sua biografia “personale”, in un tempo pervaso dal mito del mercato e della competizione individuale, ha comunicato alla società che tutti “ce la potevano fare”. Tutti potevano diventare come lui. Egli stesso “prometteva” sviluppo e benessere al Paese. Perché il Paese, in fondo, è come un’azienda. E lui, il Grande Imprenditore, era l’unico in grado di farla funzionare. Così, del futuro, in politica, si è perduta ogni traccia. E noi ci siamo trovati incapsulati nel presente infinito.

Oggi, nessuno pare in grado di guardare lontano. Le utopie, gli ideali: non funzionano più neppure come slogan. Le promesse: si riducono all’abolizione dell’Imu sulla prima casa. Entro agosto, ovviamente, per non fare passare troppo tempo. Perché un mese è già un orizzonte troppo lontano, per la politica dei nostri tempi.

D’altronde, l’ispiratore della Seconda Repubblica, Berlusconi, fatica ad alzare gli occhi oltre l’immediato. È lì, a casa, in attesa del prossimo 9 settembre, quando la Giunta per le elezioni si esprimerà sulla sua decadenza dallo
status
di senatore. Con il voto del Pd. In quel caso, ha avvertito – e minacciato – il ministro Gaetano Quagliariello, la vita del governo sarebbe a rischio. Il presidente, Giorgio Napolitano, tuttavia, ha ribadito, anche di recente, che, senza una legge elettorale diversa, in
grado di garantire governabilità, dopo il voto, non scioglierà le Camere. Dunque, il “futuro” tracciato dal Pdl è lungo (si fa per dire) un mese. Poi si vedrà. Anche perché il Pdl, in realtà, non esiste più. È una sigla vuota. Rinnegata, più che negata, per primo, da Berlusconi stesso. Il quale, per guardare avanti, ha fatto un salto all’indietro. Di quasi vent’anni. Ha, infatti, deciso di rilanciare Forza Italia. La sigla del suo partito personale, insieme al quale è “sceso in campo”. Nel 1994.

Silvio Berlusconi, d’altra parte, è costretto a scandire il tempo e il calendario in una successione di scadenze, a breve distanza, l’una dall’altra. Per motivi politici e giudiziari. Possibili – e improbabili – elezioni. E nuovi gradi di giudizio, che lo attendono. Così, ieri, in un messaggio ai suoi sostenitori, non ha indicato un percorso. Si è limitato a dire: “Io resisto”.
Il Pdl oppure Forza Italia e tutte le sigle che fanno riferimento all’universo politico di Berlusconi appaiono, quindi, sospese. Incapaci di dettare non una prospettiva, ma un’agenda per i prossimi mesi. Perché non hanno un nome certo. Perché la precarietà del loro leader – unico e insostituibile – si riproduce su di loro, moltiplicata.


L’altro soggetto politico che davvero conti, oggi, è il Partito Democratico. L’unico vero “partito”, lo ha definito ieri Eugenio Scalfari. Di certo non il partito unico. Né unitario. Ma, semmai, incerto. Sulla leadership possibile. Da cui dipende la sua strategia, se non il suo futuro. Il Pd è atteso da una stagione tesa e instabile. Il congresso, in settembre. Le primarie per il segretario di partito, a fine novembre. Probabilmente. Anche se molto dipende dal destino del governo. Che nessuno, nella maggioranza, ha voglia o, comunque, è in grado di far cadere. Ma neppure di sostenere in modo convinto. Così, il governo procede “per necessità”. Ed è come se corresse sul filo. Sempre in bilico. Non può dare l’idea di avere un futuro. Né, per questo, può proporre un’idea di futuro. Gli altri partner di maggioranza, d’altra parte, il futuro l’hanno consumato in fretta. Scelta Civica, la formazione politica di Mario Monti, ormai, è poco rilevante, nell’opinione pubblica. Riavvicinata,
nei sondaggi, dall’Udc. A causa del calo di Scelta Civica, assai più che per la ripresa dell’Udc. Così, dimostra un futuro corto non solo la prospettiva di un soggetto politico di Centro, capace di ancorare il sistema politico italiano.

Ma anche l’idea di una Destra diversa, guidata da un Centro sicuramente affidabile. E, tuttavia, troppo piccolo per essere preso sul serio.
Peraltro, neppure le forze politiche di opposizione sembrano avere un futuro sul quale investire. Non la Lega, divisa all’interno. Impegnata, per sopravvivere, per avere ascolto, a ingaggiare battaglie di respiro corto e senza dignità. Come quella intrapresa contro la ministra Kyenge.
Neppure il M5S sembra interessato a progettare il futuro. Perché il suo successo è strettamente legato all’insuccesso degli altri. Di soggetti politici senza futuro. E, comunque, il modello di azione e di comunicazione interpretato da Beppe Grillo enfatizza il presente. L’immediato. È la politica come happening permanente. Sostenuta dalla Rete e attraverso la Rete. Un ambiente dove è possibile a tutti inter-agire, in modo diretto. E immediato.
Non a caso Enrico Letta, aprendo il meeting di Cl, a Rimini, ha “promesso” che a ottobre la legge elettorale sarà riformata. Si andrà oltre il “Porcellum”. A ottobre. Perché è difficile guardare più in là di ottobre. D’altronde, anche con una nuova legge, al di là degli annunci, pochi sembrano disposti ad affrontare nuove elezioni. In Parlamento, ma anche fra i cittadini.

Lo stesso Letta, non a caso, gode di un consenso personale elevato e gran parte degli elettori si dice contraria all’ipotesi che il suo governo cada. Non per “fiducia”, ma per “timore”. Di quel che potrebbe capitare poi. In fondo, anche noi ci siamo adattati. Alla scomparsa del domani. Così invecchiamo senza rendercene conto, perché, insieme al tempo, abbiamo abolito i giovani e la gioventù, dal nostro orizzonte. Stiamo diventando professionisti dell’incertezza. Navigatori dell’eterno presente. Ma proseguire in questa direzione ancora a lungo pare impossibile. Se il futuro è scomparso, restituiteci almeno
il passato.

Ilmanifesto

Mentrel'Italia va a ramengo due temi ostruiscono l'agenda pubblica nazionale: lagaranzia di agibilità politica pretesa da Silvio Berlusconi nonostante siastato sgarrettato dalla sentenza di terza istanza, che azzera l'effetto lavacrodi qualsiasi malefatta attribuito all'intercettamento di consensi elettoralioltre certe soglie (prescindendo dagli aspetti manipolatorii in tali consensi,ottenuti grazie al controllo oligopolistico dei canali informativi), e la datadel congresso Pd; auspicato/temuto quale momento della possibile incoronazionedi Matteo Renzi, con presumibili terremoti nelle nomenclature interne dipartito.

Uno degli aspetti grotteschi in tali "stringenti" priorità,imposte dalla forza dell'apparentemente ineluttabile, è che i personaggi daesse promossi - Berlusconi e Renzi - sono entrambi aureolati della nomea digrandi innovatori: l'apoteosi dell'apparente sull'effettivo, in linea perfettacon una fenomenologia in cui le campagne promopubblicitarie hanno soppiantatola comunicazione politica. Infatti, innovatori di che cosa? Forse nelletecniche di vendita della propria immagine come brand, come logo. Niente di piùdella ininterrotta ripetizione di assunti a slogan che asseriscono essere ilvecchio leader della destra "uomo del fare" e il nuovo emergente delcentrosinistra "uomo del rinnovare". E poco importa se vent'annipassati sul palcoscenico governativo, sovente beneficiando di maggioranzebulgare, non abbiano consentito a Berlusconi di dare pratica dimostrazionedelle proprie conclamate virtù realizzatrici; mesi di sovraesposizionemediatica non chiariscono definitivamente in che cosa si concretizzi ilrinnovamento secondo il sindaco di Firenze, tranne un generico blairismo tradottoin condiscendente frequentazione di ricchi in quanto tali (Briatore,Montezemolo, Marchionne...). Probabilmente l'elemento che svela la comunanzatra la vecchia star e la nuova entrata della politica spettacolo consiste nelposizionamento elettorale sovrapposto, ribadita dall'affermazione di Renzi cheil Pd deve organizzarsi per intercettare il voto degli scontenti Pdl. Tradotto:essere più Pdl del Pdl; ossia una totale omologazione assumendo i tratticonnotativi dell'avversario. E quali sono questi tratti? Si può dire chevennero alla luce chiaramente proprio agli inizi dell'avventura berlusconiana,quando Forza Italia si proclamava promotrice di una "rivoluzioneliberale". Tale rivoluzione - in effetti - altro non era che una tardiva rimasticaturadelle ricette thatcheriane e reaganiane che vent'anni prima avviarono l'attaccoal Welfare State con la deregulation , arma per la distruzione di massa nellaguerra della neoborghesia finanziaria, insofferente a controlli e tosaturefiscali, contro il ceto medio e le sue conquiste in materia di cittadinanzasociale. Linea strategica nitida, sebbene devastante qualsivoglia convivenzacivica, che il berlusconismo perse rapidamente per strada; nei meandri dellecollusioni stingenti sul malavitoso del proprio leader e nelle contraddizioniproprie di un personale politico in parte avventizio, in parte riciclatorovistando tra i cascami di Tangentopoli e del Neofascismo. A distanza di duedecenni sembra intenzionato a riprovarci pure Renzi. In un'operazione che -prescindendo dal merito appare ormai fuori tempo massimo. Per le profondetrasformazioni della composizione sociale su cui si basava. Si potrebbe dire,per la fine della stagione dominata dai baby boomers , la generazione nata nelsecondo dopoguerra; in quella che - in un certo senso - è anche la storia dellementalità novecentesche. Tutto ruota attorno all'idea socializzante di scopocondiviso e azione pubblica. Nel periodo che intercorre tra due conflittimondiali e ulteriori catastrofi, gli Stati democratici appresero a programmarela società e i cittadini ad apprezzarne il ruolo nel ridurre i livelli diinsicurezza prodotti da quelle crisi. I loro figlioli, nati e cresciuti in uncontesto di crescente sicurezza materiale, incominciarono a considerare leconquiste pubbliche del passato una forma di controllo repressivo. La NuovaSinistra fornì le necessarie concettualizzazioni e come scriveva lo storicoTony Judt - «le rabbiose contestazioni proletarie contro i capitalistisfruttatori cedettero il passo a slogan spensierati e ironici che chiedevanolibertà sessuale». Una critica postmodernista che venne ampiamente utilizzataallo scopo di argomentare efficacemente la restaurazione dell'individualismopossessivo. Quella che sarà chiamata "la rivincita degli austriaci"(alla Hayek): i liberali da Guerra Fredda che balzarono fuori conquistando ilcampo, quando l'attenzione era ancora rivolta al conflitto, ormai ritualizzatoe politicamente inerte, tra socialdemocratici riformisti e anarcocomunistiantisistema. Dunque, i babies postmaterialisti come base sociale della lungaegemonia NeoCon. Le cui miserie argomentative al servizio dell'assiomaticadell'interesse ("avido è bello") vennero presentate come "ilnuovo che avanza", in una landa ai margini come l'Italia, dalberlusconismo anni 90. Con un'ulteriore complicazione: l'apocalisse sociale,accompagnata per mano dalle televisioni commerciali, del rampantismo fattosiceto egemone (la neoborghesia cafona). Un fenomeno in ritardo già allora, ma sucui Berlusconi ha campato per anni grazie all'insipienza sociologica dei propricompetitori (incapaci di produrre una teoria alternativa della società). Sicchéora appare un revival a dir poco incartapecorito, nel dilagare delle povertànuove e vecchie, dopo che a Wall Street è crollato un muro producendo effettisistemici che nel tempo appariranno ancora più drammatici di quello di Berlino.Da qui l'impressione di macabra ironia nel sentire riproporre l'appellativo diinnovatori per i politici organici a quei baby boomers , ormai trasformati inceto medio intellettuale precarizzato e di mezza età. Per i loro epigoni. Ma adoggi è questo quanto ci passa il convento.

Le trasformazioni della distribuzione della popolazione incidono sull'assetto urbanistico sia a livello di bacini locali, di quartiere, metropolitani, regionali, che a livello globale. Un caso europeo paradigmatico, e una prospettiva di osservazione che troppo spesso sfugge, anche alle star del giornalismo nostrano.

The New York Times, 13 agosto 2013, postilla (f.b.)

Titolo originale: Germany fights population drop - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

SONNEBERG — A una prima occhiata, questa cittadina di medie dimensioni nella Germania centrale, schiere di ampie case costruite quando qui fioriva l'industria dei giocattoli, appare linda e prosperosa. Ma Heiko Voigt, vicesindaco, ci indica decine di abitazioni vuote, che dubita troveranno mai un acquirente. Il fatto è che la popolazione tedesca diminuisce, e centri come questo fanno di tutto per nascondere i vuoti. Voigt ha già fatto da supervisore alla demolizione di sessanta case e dodici condomini, infilando strategicamente spazi verdi in quelli che erano un tempo insediamenti assai più densi. “Cerchiamo di mantenere almeno un bell'aspetto” spiega.

Non c'è nulla di meglio della Germania profonda, per osservare gli effetti di un calo di fertilità in tutta Europa che dura da decenni, una questione inquietante per l'economia e anche la psicologia del Continente. In alcune aree abbondano giardini abbandonati, finestre sbarrate, problemi con le fognature che non funzionano adeguatamente per il fatto di essere troppo vuote. Una forza lavoro sempre più coi capelli bianchi, e le catene di montaggio che vengono riorganizzate per ridurre al minimo piegamenti e spostamenti di pesi. Dall'ultimo censimento, la Germania ha scoperto di aver perduto un milione e mezzo di abitanti. Entro il 2060, secondo gli esperti, il paese potrebbe perderne ancora un 19%, fino a scendere a 66 milioni.

E a parere dei demografi c'è un futuro simile in vista per altri paesi europei, una questione sempre più urgente dato che con la crisi il problema non fa altro che aggravarsi. Al tempo stesso col peso dei problemi bancari e di bilancio, sono davvero in pochi a riuscire a far qualcosa in proposito. Ma la Germania è una specie di oasi di tranquillità, e qui si prova a investire parecchio per cercare una via d'uscita dalle fosche prospettive, e indicare la strada anche al resto del Continente. Però sinora, nonostante i quasi 200 miliardi di euro in sostegni alle famiglie, si è solo capito quanto sia difficile provarci. Ciò anche perché la soluzione sta nel ridefinire valori, atteggiamenti, abitudini, in un paese con una storia difficile riguardo all'accoglienza degli immigrati, e dove le donne con figli che lavorano vengono tuttora considerate in qualche modo “corvi”, che trascurano la famiglia.

Ma se la Germania vuole non ritrovarsi senza una adeguata forza lavoro, secondo gli esperti, deve trovare un modo per far continuare a lavorare anche gli anziani, dopo decenni di tentativi per farli andare presto in pensione, e attirare immigrati facendoli sentire a casa propria e costruirsi una nuova vita. Deve anche far entrare più donne nel mercato del lavoro, sostenendole al tempo stesso perché facciano più figli: cosa difficile in un paese che tradizionalmente mette sull'altare la madre casalinga. Pochi dubbi che per l'Europa si tratti di una crisi urgente. Molti recenti studi mostrano come storicamente tassi elevati di disoccupazione — oltre il 50% dei giovani — in paesi quali Grecia, Italia o Spagna, facciano abbassare ulteriormente il numero delle nascite. Secondo l'Unione Europea, il totale dei nati vivi in 31 paesi è calato del 3,5%, da 5,6 a 5,4 milioni, fra il 2008 e il 2011. Solo nel 1960 nei 27 paesi dell'unione erano nati 7,5 milioni di bambini.

Anche prima dell'emergere di queste tendenze c'erano previsioni di calo demografico per molti paesi entro il 2060; in alcuni casi, vedi Lettonia o Bulgaria, anche più della Germania. Con una quota di anziani sempre più elevata. A ciascun pensionato nell'Unione corrispondono quattro persone in attività. Nel 2060, in media diventeranno due, secondo i calcoli ufficiali sull'invecchiamento pubblicati nel 2012. Alcuni esperti temono che la Germania abbia atteso anche troppo a lungo per affrontare il problema. Altri giudicano questa posizione troppo pessimista. Comunque sia, la Germania ci sta pensando molto seriamente.

Le famiglie numerose hanno smesso di essere la norma già dagli anni '70 in quella che era allora la Germania Occidentale, paese ricco e con un tasso di fertilità che diminuiva a 1,4 figli per donna, restandoci poi in seguito, ben al di sotto del 2,1 che garantisce una popolazione. Storia simile in altri paesi anche se non in tutti. Esiste in Europa una fascia della fertilità estesa dalla Francia alla Gran Bretagna ai pesi della Scandinavia, sostenuta sia dagli immigrati che dai servizi sociali per le donne che lavorano. Accrescere il tasso di fertilità per la Germania si è rivelato assai poco facile. Secondo i critici il paese ha sbagliato sprecando soldi messi a disposizione delle famiglie, secondo criteri di sostegno a figli, casalinghe, esenzioni fiscali per coppie sposate. Secondo i demografi sarebbe assai meglio investire a sostegno delle donne che provano a bilanciare maternità e lavoro, ampliando i servizi scolastici e per l'infanzia. Dati recenti dimostrerebbero che così si potrebbe accrescere il tasso di fertilità. “Osservando le cifre si nota come più eguaglianza tra i generi significhi più nascite” commenta Reiner Klingholz dell'Istituto Berlinese per la Popolazione e lo Sviluppo.

Ma è certo difficile ribaltare anni di sussidi alla famiglia tradizionale. “Toccare queste cose significa suicidarsi politicamente” spiega Michaela Kreyenfeld dell'Istituto Max Planck per la Ricerca Demografica di Rostock. E tutte le madri che lavorano affrontano ostacoli tali da disincentivare più figli. Nonostante la recente legge che garantisce un posto all'asilo per tutti i bambini oltre un anno, contro il minimo di tre anni precedente, secondo gli esperti le strutture sono ancora carenti per accessibilità a tutti. Poi le scuole finiscono le lezioni a mezzogiorno, pochi i programmi di doposcuola. Melanie Vogel, 39 anni, di Bonn, trova difficile, costoso, deprimente cercare di conciliare casa e lavoro, e ha deciso di avere un solo figlio. Tutte le sue amiche lavorano al massimo a tempo parziale, la suocera disapprova, e lo stesso vale per i clienti dell'impresa di cui è contitolare insieme al marito. “Prima che nascesse il figlio, per tutti ero Melanie, donna d'affari” racconta la Vogel. “Poi per quasi tutti sono diventata solo una mamma”.

Molte madri che lavorano si ritrovano emarginate in “mini” occupazioni a bassi salari: diciamo 17 ore la settimana per meno di 500 euro al mese. Sono più di quattro milioni in Germania, circa un quarto della forza lavoro femminile, con lavori così. Un altro modo per intervenire sul declino demografico è convincere gli anziani a posticipare la pensione. Il governo sta agendo gradualmente, da 65 a 67 anni, e le imprese hanno reagito in fretta. La quota della fascia d'età dai 55 ai 64 anni è cresciuta al 61,5% nel 2012, contro il 38,9% del 2002. La Volkswagen ha riorganizzato la catena di montaggio per rendere più rari i piegamenti e sollevare le braccia, cose che affaticavano. Tre anni fa sono stati introdotti sgabelli reclinabili che sostengono il collo anche nelle posizioni più difficili per raggiungere alcuni punti dell'automobile in costruzione, mentre l'installazione delle parti pesanti, ruote e frontali, oggi è totalmente automatizzata.

Altre compagnie offrono orari flessibili per i più anziani. Hans Driescher, fisico dell'ex Germania Orientale, a 74 anni lavora ancora al Centro Aerospaziale, a dieci anni dall'età del pensionamento ufficiale. Ha iniziato con 55 ore al mese, ma ora è sceso a 24. D'estate sta nel suo orto, lavora il resto dell'anno. Con i forti tassi di disoccupazione in Europa orientale e meridionale, il paese ha un'ottima occasione per scegliere i migliori lavoratori dai paesi vicini, e ha iniziato a farlo. Ma con migliaia di posizioni ancora disponibili è opinione di molti che sia necessario modificare le leggi sull'immigrazione, accettando curricula esteri, per competere con altri paesi nella medesima situazione.

Si è dimostrato difficile in passato integrare in Germania i lavoratori stranieri, specie i turchi, e oggi si riflette sulla propria cultura, su cosa c'è da fare per diventare più ospitali. Non è chiarissimo con quali risultati. Una recente ricerca rileva che più della metà dei greci e spagnoli se ne vanno dalla Germania entro un anno. Molti sono i giovani altamente qualificati che guardano al mercato globale. E tanti se se ne presentasse la possibilità tornerebbero volentieri a casa. L'immigrazione è un fatto più temporaneo, con gli spostamenti facili tra un paese europeo e l'altro. “Credo che dovremo cominciare a guardare anche fuori dall'Europa” conclude Klingholz.

postilla
Ecco, questo scenario europeo con l'esempio della Germania, è esattamente l'opposto di quanto ci raccontano in Italia non solo la Lega Nord e le formazioni razziste sempre terrorizzate all'idea della convivenza, ma anche fonti “insospettabili” come il professor Giovanni Sartori. Il quale proprio il giorno di Ferragosto ha approfittato di un editoriale su Corriere della Sera per affiancare in modo assolutamente incongruo la crisi climatica globale, la bomba demografica della sovrappopolazione del pianeta, e last but not least la cosiddetta incompetenza tecnica del ministro Cécile Kyenge a trattare di ius soliius sanguis. Tutto proprio nel momento in cui, come ci racconta l'articolo dal New York Times, parrebbe delinearsi uno scenario in cui esiste un rapporto diretto fra uscita dalla crisi economica (che impedisce tra l'altro politiche demografiche e energetico-ambientali) e libera circolazione e integrazione (f.b.)

L’istituto giuridico della grazia in Italia: come, perché e quando, se è chiesta, può essere concessa; "ragioni umanitarie" e "agibilità politica. Un commento di Gaetano Azzariti e un'intervista di Andrea Fabozzi ad Andrea Pugiotto.

Il manifesto, 15 agosto 2013


I confini stretti della clemenza
di Caetano Azzariti

Qualora Silvio Berlusconi decidesse di chiedere la grazia al capo dello Stato non è affatto detto che questa possa essere concessa. La domanda - come ricorda Napolitano - dovrebbe essere sottoposta a «un esame obiettivo e rigoroso» per verificare se sussistono le condizioni che possono motivare un atto di clemenza presidenziale. Una decisione della Corte costituzionale (la numero 200 del 2006, puntualmente richiamata nella dichiarazione presidenziale) ha chiarito quali sono questi requisiti.

L'esercizio del potere di grazia - ha scritto la Consulta - risponde a finalità essenzialmente umanitarie. Nel caso di Silvio Berlusconi quali sarebbero le ragioni umanitarie? A scanso d'equivoci, si tenga presente che gli argomenti dell'accanimento-persecuzione dei giudici nei confronti del leader del centrodestra ovvero la pretesa rivendicazione di innocenza nei confronti dello specifico reato di evasione fiscale non possono essere utilizzati per motivare la domanda di grazia, dovendo darsi per scontato che l'atto di clemenza individuale ha come suo presupposto il riconoscimento della legittimità della pena inflitta. Come si scrive in ogni manuale di diritto, l'istituto della grazia incide sull'esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta. Non si spiegherebbe altrimenti la ritrosia di molti detenuti alla presentazione della domanda di grazia: Adriano Sofri, ad esempio, rivendicando la propria innocenza, non ha mai accettato di presentare domanda.

Nel caso di Berlusconi appare assai significativo, inoltre, che il capo dello Stato abbia sì fatto riferimento alla possibilità di esaminare con attenzione un'eventuale richiesta di clemenza, ma abbia altresì escluso di poter concedere la grazia motu proprio, come pure l'articolo 681 del codice di procedura penale autorizzerebbe a fare. Dunque, la richiesta al leader del centrodestra è anzitutto quella di smentire se stesso, ponendo fine alla sua guerra personale con i giudici.

Riconosciuta, però, così la legittimità della condanna, per quale ragione dovrebbe essere concessa la grazia? Non vi sono gravi ragioni di salute che in molti casi motivano l'atto di clemenza. Né può dirsi che le condizioni in cui verrebbe a scontare la pena (gli arresti domiciliari presso una delle sue ville ovvero l'affidamento al servizio civile) possono essere ritenute contrarie al senso di umanità che deve essere assicurato al condannato ai sensi dell'articolo 27 della nostra costituzione. Né, infine, può sostenersi nel caso di Berlusconi che la grazia favorirebbe «l'emenda del reo ed il suo reinserimento nel tessuto sociale» (seguendo le indicazioni di una sentenza della Corte costituzionale del 1976, n. 134).

In realtà, è evidente a tutti l'unica ragione per la quale si dovrebbe accordare la grazia a Silvio Berlusconi: la ragion di Stato, che nel nostro piccolo si sostanzia con la sopravvivenza del governo di larghe intese. È il ruolo di «leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza» (così Napolitano) che indurrebbe a restituire almeno una parte di «agibilità politica» ad un condannato per reati accertati in via definitiva dalla Corte di cassazione sulla scia di due precedenti e conformi giudizi. Dunque, una grazia «politica».

E qui è il vero ostacolo che dovrebbe precludere la strada alla concessione della grazia da parte del nostro presidente della Repubblica. Almeno se ci si vuole attenere a quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale richiamata da Napolitano (la n. 200 del 2006), che, se ha assegnato l'esclusiva titolarità del potere di grazia al presidente della Repubblica, ha altresì ritenuto di escludere che si possano ritenere fondamentali altri elementi se non quelli di natura umanitaria. Il potere di grazia - ha scritto la Consulta - spetta al capo dello Stato proprio perché egli rappresenta l'«unità nazionale» ed è dunque estraneo al «circuito» dell'indirizzo politico-governativo. Non dovrebbero dunque rientrare tra le sue valutazioni quelle attinenti alla sfera della politica, ma limitarsi ad adottare provvedimenti di clemenza per ragioni umanitarie.

Molti costituzionalisti - chi scrive tra questi - hanno criticato a suo tempo la decisione della Consulta, proprio sostenendo l'indeterminatezza di questa distinzione tra ragioni umanitarie e ragioni politiche che si pongono alla base di ogni decisione di clemenza nei confronti di un condannato; proprio per questo non si condivise - a suo tempo - l'attribuzione al solo presidente della Repubblica di un potere di grazia. Ma, come per le sentenze della Cassazione, anche le decisioni del giudice costituzionale devono essere applicate con rigore. In assenza di ragioni umanitarie la grazia a Berlusconi non può essere concessa, mentre il suo ruolo decisivo per la salvaguardia degli equilibri politici, così fortemente custoditi dal presidente Napolitano, non possono essere posti alla base di un atto di clemenza. Un comma 22 per il soldato Berlusconi.

La grazia? Un rischio per Letta
Andrea Pugiotto intervistato d Andrea Fabozzi

Se il presidente della Repubblica graziasse Berlusconi innescherebbe un cortocircuito istituzionale. Si tratterebbe di un atto irregolare che ricadrebbe sul ministro che deve controfirmarlo e su tutto il governo

Andrea Pugiotto è professore di diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. Ha scritto diversi articoli e monografie dedicati al potere presidenziale di grazia. Professore, nella nota del Quirinale si fa riferimento a un provvedimento di clemenza per Berlusconi, specificando la necessità che venga formalmente richiesto. Le pare corretto?

Sì. L'articolo 681 del codice di procedura penale - richiamato nella nota - riconosce l'impulso alla concessione della grazia su domanda del condannato o su proposta di altri soggetti legittimati (ad esempio un suo legale o un familiare). La titolarità del potere porta con sé anche la possibile concessione d'ufficio da parte del Quirinale. In tutti i casi, è messa in moto una complessa istruttoria che sfocia nella decisione del Capo dello Stato, sentito il parere non vincolante del Guardasigilli.

A suo avviso il caso di Silvio Berlusconi rientra tra quelli che in astratto possono essere oggetto di un atto di clemenza individuale?
La risposta è nella Costituzione, così come interpretata dalla Consulta nella sentenza n. 200/2006: la grazia si giustifica solo quale «eccezionale strumento destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria». Ha uno scopo eminentemente equitativo, dunque, non di politica attiva. Da qui il riconoscimento della titolarità del potere al «Capo dello Stato, quale organo super partes, rappresentante dell'unità nazionale, estraneo al circuito dell'indirizzo politico-governativo». Quella sentenza ha inteso spoliticizzare l'atto di clemenza - fino ad allora abusato - proprio per evitare che una decisione governativa possa interferire con l'operato della magistratura, giudicante e di sorveglianza.

Eppure non sono mancate, in passato, grazie politiche
È vero, quando erano concesse in serie e supplivano a un mancato provvedimento d'indulto. E tutto si svolgeva in modo opaco e senza garanzie procedurali di sorta, con un presidente sempre con la penna in mano chiamato a firmare quanto deciso da altri. La sentenza della Corte ha segnato uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Il cambio di registro si vede già dalle cifre: per dire, Einaudi concesse 15.578 grazie, Leone 7.498, Pertini 6.095, Cossiga 1.395; Napolitano, il primo presidente a dover fare i conti con la sentenza costituzionale, ne ha finora concesse, non a caso, una ventina.

Tra queste, nessuna è qualificabile come atto politico di clemenza?
La regola fissata in Costituzione è stata seguita fedelmente dal presidente Napolitano. Fino al suo ultimo atto di grazia, concessa il 5 aprile scorso, al generale statunitense Joseph L. Romano, condannato in via definitiva per aver concorso in Italia al rapimento dell'iman Abu Omar, deportato e torturato in Egitto. Leggendone le motivazioni, si è trattato di un atto dettato da ragioni di politica estera. Proprio per ciò è da dubitare della sua regolarità costituzionale. E ciò che non è regolare non è un precedente valido su cui è lecito costruire una prassi. In tal senso, trovo opportuno che il Quirinale, nella sua nota, torni a richiamare espressamente le norme di legge, la giurisprudenza e le consuetudini costituzionali in materia, dalle quali - cito - «il Capo dello Stato non può prescindere».

Ma se il potere di dare la grazia è presidenziale, chi controlla la regolarità del suo atto di clemenza?
Per Costituzione, tutti gli atti del presidente vanno controfirmati, a pena d'invalidità, anche la grazia. È il ministro di giustizia che, controfirmandola, ne attesta la regolarità. Non si tratta di un atto dovuto: se la grazia ha finalità politiche (e non umanitarie) la controfirma va negata, a tutela delle prerogative governative. Non facendolo, il Guardasigilli risponderà politicamente davanti al parlamento, e con lui il governo di cui fa parte.

Dunque se in futuro prendesse forma un atto di clemenza per Berlusconi...

La Guardasigilli Cancellieri e il governo Letta non potrebbero chiamarsi fuori. Un bel cortocircuito istituzionale: la nota del Quirinale risponde ad una preoccupazione fondamentale di stabilità del quadro politico e di rispetto della separazione tra poteri. Eppure, prefigurando la possibilità di un atto di clemenza, squisitamente politica, rischia di mettere in serie difficoltà non solo la magistratura, ma pure l'esecutivo.

Un'eventuale grazia a Berlusconi inciderebbe anche sulla pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici?
Questo è un altro punto molto delicato, perché prefigura la possibilità che un soggetto, interdetto da una sentenza e da una decisione del senato giuridicamente obbligata, venga politicamente riabilitato dalla grazia presidenziale. È un ulteriore prova che ci si sta muovendo fuori dal perimetro costituzionale di una clemenza umanitaria. Segnalo che la nota del Quirinale circoscrive espressamente gli effetti dell'eventuale grazia «sull'esecuzione della pena principale». È una scelta che rientra nelle prerogative presidenziali. In passato lo stesso Napolitano ha, invece, concesso provvedimenti di clemenza riguardanti esclusivamente la pena accessoria, ma solo perché quella principale era già stata espiata o dichiarata prescritta: condizioni in cui non si trova Berlusconi.

Rispetto ai precedenti richiamati dal Quirinale, come incide il fatto che Berlusconi non ha ancora iniziato a scontare la pena e che su di lui pendono altri processi ed altre condanne?
Incide molto. Prima di ogni decisione sulla concessione della grazia vengono sempre svolti rigorosi accertamenti circa il periodo di pena espiato, l'assenza di pericolosità del condannato, gli esiti del processo rieducativo, la condotta tenuta in detenzione. Aggiungo che, secondo il Quirinale, la grazia non può essere concessa a ridosso dalla sentenza definitiva di condanna, perché non è un quarto grado di giudizio. E il presidente Napolitano ha sempre espresso contrarietà a graziare condannati per reati di particolare gravità (e frode fiscale, concussione per costrizione e prostituzione minorile lo sono).

Esclusa, dunque, la praticabilità costituzionale della grazia, l'alternativa della commutazione della pena è meno problematica?
Commutare le pene detentive in pecuniarie è prerogativa del Quirinale, concessa nel «caso Sallusti», evocato in questi giorni. Impropriamente: la condanna di un direttore di giornale per omesso controllo sul contenuto di un articolo assomiglia a una responsabilità oggettiva. La pena detentiva sarebbe stata, dunque, priva del suo scopo rieducativo. da qui la sua giustificata commutazione. Nessuna analogia, dunque, con il caso Berlusconi.

Dunque il problema della «agibilità politica» del Cavaliere non si risolve al Quirinale?
No, se il principio di legalità ha ancora cittadinanza in questo paese. Dove esiste un problema di giustizia negata e di pene che le condizioni delle carceri commutano in trattamenti inumani e degradanti, per i quali l'Italia è condannata dalla Corte di Strasburgo. Ripetutamente, come un criminale recidivo. Entro il 28 maggio 2014 siamo condannati a risolvere un sovraffollamento carcerario «strutturale e sistemico». Invece di cercare salvacondotti ad personam, perché non ragionare di un provvedimento di clemenza collettiva per la Repubblica e la sua legalità costituzionale?


«Se l'Egitto, che è il più popolato paese del Mediterraneo con più di 90 milioni di abitanti, diventa una specie di nuova Siria sarà una piramide di sangue e salterà l'intera regione mediorientale. E con essa il mondo intero che ha interessi strategici nell'area. Le conseguenze saranno incalcolabili».

Il manifesto, 15 agosto 2013

Le immagini e le notizie che arrivano dal Cairo, direttamente raccolte per il manifesto con rigore e coraggio dal nostro Giuseppe Acconcia, parlano di morte. In un massacro è sfociato alla fine, del resto così com'era cominciato, l'ultimo atto dei militari golpisti egiziani che il 3 luglio scorso hanno deposto il presidente democraticamente eletto Morsi. Perché un golpe è un golpe è un golpe. Anche se una parte del paese - quella filo-occidentale ma sostenuta dalla petromonarchia saudita - batte le mani "ribelli". Che altro se non un massacro ci si doveva aspettare? Quando si depone con la forza un presidente eletto, lo si arresta e lo si sbatte in galera con tutti i leader del suo movimento, quando si chiudono tutti i media a lui favorevoli, quando si spara ormai da più di un mese sui manifestanti che lo sostengono?

Il tutto ad opera di un esercito che è uno Stato nello Stato, che vive di privilegi ed è finanziato direttamente con un miliardo e 300 milioni di dollari ogni anno dagli Stati uniti. E che si è formato non sui libri di Franz Fanon e Che Guevara ma con gli istruttori statunitensi e sui manuali delle esercitazioni della Nato. All'alba di ieri le forze speciali egiziane coadiuvate da carri armati e bulldozer dell'esercito hanno attaccato i presidi di massa delle due piazze del Cairo occupate da decine di giorni dalla protesta pro-Morsi dei Fratelli musulmani, sparando direttamente sulla gente. Poi il coprifuoco e il proclama dello stato d'assedio. È stato un bagno di sangue. Su un elemento occorre riflettere: i militari coscientemente non hanno voluto aspettare i tempi della mediazione proposta all'ultimo momento da Ahmed Tayeb, la principale autorità religiosa sunnita dell'Egitto e guida della storica moschea di Al Azhar, che infatti ha condannato l'attacco. Dal quale prendono le distanze il presidente Mansour e il vice presidente El Baradei - che si sarebbe dimesso per protesta - pure insediati dai militari. Come gli Stati uniti che, sempre più al seguito degli interessi dell'Arabia saudita, ormai vedono l'Egitto sfuggirgli di mano, dopo avere sostenuto Mubarak, poi Morsi, poi i militari golpisti, poi...
Ma ora Barack Obama che figura farebbe ad approvare la macelleria che va in onda al Cairo? Siamo alla conta dei morti civili, donne, vecchi, bambini. Ridicolo e tragico il fatto che fino all'ultimo il governo del prestanome Beblawi e il ministero degli interni e quello della difesa in mano ai militari abbiano insistito a ridimensionare il numero delle vittime a poche decine, mentre i giornalisti internazionali già contavano centinaia di cadaveri in piazza. Se davvero l'obiettivo dei Fratelli musulmani era il martirio, esso è stato pienamente realizzato dai generali golpisti comandati dall'uomo forte Al Sisi. Se ora per reazione la Fratellanza risponderà con la violenza e con le armi a questa strage, come sta accadendo purtroppo in ogni città egiziana - dove è anche a repentaglio la minoranza dei cristiani copti schierati con i militari - vuol dire che l'esercito golpista ha scelto di mettere in conto la discesa nel baratro. Cioè la possibilità di una guerra civile contro l'islamismo politico fin qui moderato.
È una sfida contro la ragione. Perché se l'Egitto, che è il più popolato paese del Mediterraneo con più di 90 milioni di abitanti, diventa una specie di nuova Siria sarà una piramide di sangue e salterà l'intera regione mediorientale. E con essa il mondo intero che ha interessi strategici nell'area. Le conseguenze saranno incalcolabili. Non reggerà più non solo l'ennesimo teatrino dei "colloqui di pace" tra israeliani e palestinesi messi in scena dagli Stati uniti. È in forse la stessa esistenza d'Israele, sempre più integralista e sempre più coinvolta in un conflitto inter-islamico che ormai gli è ai confini e in parte l'attraversa, e che comunque vede lo Stato ebraico come corpo estraneo e nemico giurato. Le Nazioni unite, ma anche l'Italia e la Francia, rimaste fin qui alla finestra, chiedono agli egiziani di fermare il bagno di sangue. Ma che possono Paesi che hanno smaccati interessi energetici e che hanno consumato la loro credibilità diplomatica nella guerra in Libia prima e nel disastro in Siria poi?
Come si sta violando la Costituzione per garantire, dietro l’alibi della “stabilità”, la subordinazione del centrosinistra agli interessi di un evasore fiscale condannato da una sentenza definitiva. Domani sapremo se Giorgio Primo avrà saputo dire le parole giuste.

La Repubblica, 13 agosto 2013

Che differenza c’è tra la temuta paralisi e l’auspicata “stabilità”? In attesa che se ne discuta in apposito concilio (da convocarsi a Bisanzio), alcuni soloni d’accatto stanno illustrando urbi et orbi quale è oggi il prezzo della “stabilità”: un scambio di salvacondotti. A Berlusconi, condannato per frode fiscale, dev’essere garantita “agibilità”, cioè l’impunità; in cambio, si assicura la sopravvivenza del governo Letta. Il suo ruolo di capopartito e capopopolo conferirebbe a Berlusconi, secondo costoro, uno status speciale, come il capo di un esercito invasore che tratti alla pari col governo del luogo; compito precipuo del capo dello Stato, o se no del governo, o se no del Parlamento, sarebbe dunque inventarsi un inghippo per cancellare la condanna appena pronunciata. Ma, come ha scritto Ezio Mauro, «il fatto è che in democrazia, e vigente una Costituzione, non c’è modo di trascrivere questa specialità nel diritto, nei suoi codici e nelle procedure».

Questo preteso “stato di eccezione” (che suona come una campana a morto per la legalità) ha già provocato un capovolgimento delle priorità del governo Letta, del quale i voti controllati da Berlusconi sono essenziale puntello. Si era detto che una nuova legge elettorale e le emergenze dell’economia e del lavoro sarebbero state in cima alla lista, ma non è più così, perché anche qui vige la logica dello scambio (più appropriata, a dire il vero, per i sequestri di persona): non vi sarà riforma elettorale senza riforma della Costituzione, come è infatti previsto nel disegno di legge costituzionale 813. Ed è giusto così, secondo la Road Map delle riforme costituzionali, redatta da Massimo Rubechi, che il Pd ha diffuso il 7 agosto fra i suoi deputati del Pd, dato che «la riforma della legge elettorale è naturalmente legata alla forma di governo e pertanto vi è un nesso di consequenzialità tra revisione costituzionale e forma elettorale ». Si alza dunque il prezzo dello scambio: per garantire la precaria “stabilità” che il governo deve conquistarsi centimetro per centimetro e giorno per giorno, il Pd deve impegnarsi a portare a termine la riforma della Costituzione (la Road Map può sembrare una specie di catechismo per deputati riottosi o distratti).

Secondo Alessandro Pizzorusso, «le revisioni della Costituzione devono essere necessariamente puntuali e circoscritte, dovendosi far luogo a una specifica legge costituzionale per ogni singolo emendamento»; secondo Alessandro Pace, il ddl 813 configura «un uso illegittimo del potere di revisione al fine di poter modificare surrettiziamente la Costituzione », anche perché configura una radicale modifica della Carta nel vasto ambito di “supermaterie” come (recita testualmente il ddl 813) «la forma di Stato e la forma di governo». Eppure, ci assicura la Road Map,chiunque sollevi dubbi sul ddl 813 «sposa impostazioni estremiste », e lo fa «per fini propagandistici ». La Costituzione va cambiata, e in fretta: perciò la procedura prevista dal ddl 813 è in deroga all’articolo 138 della Costituzione (unica procedura legittima per modificarla): ma, secondo la famosa formula di Alf Ross, in tutte le Costituzioni «la norma chestabilisce le condizioni del mutamento si colloca a un livello superiore a quello della norma da modificare » (Groppi). Secondo la Road Map, al contrario, le deroghe all’articolo 138 sono legittime, per «non sottoporre il processo di revisione alle storture del nostro sistema parlamentare», cioè al bicameralismo. In altri termini, per modificare la Costituzione che prevede il bicameralismo, bisogna dare per scontato (prima della modifica) che esso è una stortura, e agire in deroga, come se fosse stato già abolito.

Tanta è la fretta, e tanta la voglia di cambiare la Carta, che si è inventata un’inedita procedura: la Costituzione-matrioska. Come in un gioco di scatole cinesi, la nuova Costituzione che sarà approvata dalle Camere contiene una scatola più piccola, quella della Commissione dei 42 (nominati dai capigruppo e dei presidenti delle Camere) prevista dal ddl 813, che predisporrà i testi da portare poi in aula. Dentro questa scatola, un’altra ancora: la Commissione per le riforme istituzionali nominata dal governo Letta il 12 giugno (i 35 “saggi”, oggi 34 dopo le dimissioni di Lorenza Carlassare), che è al lavoro nell’ombra, tanto per non perdere un secondo. E infine la scatola più piccola, i “saggi” nominati dal Presidente della Repubblica il 30 marzo, che in quattro e quattr’otto ha prodotto le sue proposte di riforma costituzionale, datate 12 aprile. Si dà per scontato che le idee prodotte dai “saggi” del Presidente in dodici giorni siano il seme di quelle su cui lavorano i “saggi” del Governo, per consegnarle poi ai 42 delle Camere, e infine alle assemblee. Peggio, si dà per scontato che cambiare la Costituzione debba essere un lavoro fatto en petit comité, da gruppi nominati dall’alto e non (come la Costituente del 1946) eletti dal popolo con il compito specifico di definire la forma di Stato e la forma di governo.

La Road Map descrive con esultanza questa procedura, neppure adombrata nell’unica norma vigente per la modifica della Carta, l’articolo 138, anzi ricorda come precedente la Commissione nominata da Berlusconi nel 1994 e presieduta dal leghista Speroni, ministro per la devoluzione. Ma il paradosso principale è un altro: quello che abbiamo è, grazie al Porcellum, un Parlamento non di eletti ma di nominati, eppure è ad esso che dobbiamo chiedere a gran voce, noi cittadini, un atto di resipiscenza e la difesa, non lo stravolgimento, della Costituzione.

Il Filibustering del M5S che ha rimandato di un mese la discussione alla Camera del ddl 813 ci dà un piccolo spazio di riflessione, nel quale è da sperare che i parlamentari sappiano recuperare legalità per le istituzioni, dignità per se stessi. La stessa Costituzione offre gli strumenti per farlo, per esempio l’articolo 50 («Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere »). L’articolo 67 prescrive che «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». È un articolo andato in desuetudine anche per effetto del Porcellum, che rinforza i vincoli di obbedienza al capopartito: perciò non piace a Grillo, ma non piace neanche a chi sostiene che un presidente del Consiglio incaricato (come qualche mese fa Bersani) non possa presentarsi alle Camere se non con la certezza previa della maggioranza. Ma se i parlamentari hanno libertà di coscienza, come si fa ad avere questa certezza senza presentarsi alle Camere? L’accordo dietro le quinte coi capipartito e coi capigruppo ignora l’articolo 67, presuppone la santa ubbidienza di deputati e senatori a chi li ha messi in lista, stravolge la Costituzione. Perché la “stabilità” tanto agognata non si trasformi in paralisi sotto il ricatto dell’“agibilità” di Berlusconi, è sulla dignità del Parlamento e dei suoi membri che bisogna puntare. Perché non sia sotto sequestro la Costituzione, ostaggio di scambi impensabili.

Il pregiudizio (degli uomini nei confronti delle donne, di tutti nei confronti dei diversi) è creato dalle relazioni di potere tra dominatori e dominati per renderlo così spontaneo da farlo accettare senza sforzo. Riflessioni sul razzismo dell'Italia di questi anni

La Repubblica, 13 agosto 2013

Il pregiudizio non è innocuo. Il suo braccio armato è il razzismo, un’ideologia che unisce gli uguali contro i diversi e che mobilita parole e, quando può, il potere della legge per realizzare il piano di ripulire la società degli indesiderati. Un’ideologia che miete adepti con facilità perché facile da coniugare, elementare ed esprimibile con le parole dell’ignoranza ordinaria, istintiva. Scriveva John Stuart Mill nell’introduzione del Saggio sulla soggezione delle donne

(1869) che l’idea che la donna sia inferiore nell’intelletto e nelle capacità è così diffusa e radicata da apparire a tutti (perfino alle sue vittime) naturale: poiché istintiva e irriflessa, essa deve essere naturale! Diversamente come potrebbe annidarsi con tanta spontaneità nelle menti di milioni di persone?

È vero proprio il contrario: quel pregiudizio è una costruzione sociale, tutto fuor che naturale e spontaneo. Creato dalle relazioni di potere tra dominatori e dominati per renderle – questo il vero obiettivo – così spontanee da farle accettare senza sforzo. Lo stesso accade con tutti i pregiudizi: l’eterosessualità è la condizione naturale; la razza bianca è naturalmente superiore; il genere maschile ha una naturale disposizione alla leadership; i settentrionali sono naturalmente più intraprendenti ... e si potrebbe continuare, con una lista davvero lunga al punto che perfino tra gli uguali salterebbe fuori prima o poi una ragione di discriminazione. Si parte dall’umanità per cercare le forme inferiori e si arriva alla gente del proprio villaggio, tra la quale certamente albergano dei reietti. La logica del razzismo è quella dell’esclusione e si diffonde a macchia d’olio, per cui non si finisce mai di escludere.

La pericolosità del razzismo deriva dalla sua facilità di attecchire, alimentato da ignoranza e rifiuto di riflessione. È una gemmazione della pigrizia mentale, il consolidamento di un’atavica tendenza ad orientarsi nel mondo senza troppo sforzo. A Zurigo, nella civilissima e bianchissima Svizzera, qualche giorno fa la star della televisione americana (e una delle persone più ricche degli Usa), Oprah Winfrey è stata trattata come Julia Roberts in Pretty woman: voleva acquistare una borsa da 28mila euro e si è sentita rispondere che era troppo costosa per lei, che avrebbe potuto comprare l’intero negozio. In Italia, continuano gli attacchi e gli insulti feroci al ministro Kyenge.

Il pregiudizio vive di inettitudine mentale e di faciloneria. Per questo rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno d’accordo tra loro, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda. Proprio perché genera emulazione il razzismo non è mai un fenomeno isolato: infatti, se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull’appoggio dell’opinione. Ecco perché quando si legge che l’ex leader della Lega Nord arringa i suoi a ricorrere ai fucili perché non si può riconoscere uno Stato che ha tra i suoi ministri una donna nera, occorre reagire. Non si possono rubricare quelle parole come un commento sbagliato, una frase infelice, un’uscita propagandistica folcloristica: il razzismo non è mai innocente. E umilia tutti.

Abolire il "porcellum è necessario, ma tornare al "mattarellum non basta per avere un istituzioni nazionali democratiche capaci di legiferare e governare.

Corriere della Sera, 11 agosto 2013

Caro Direttore, nella attuale fase politica di accresciuta incertezza, che potrebbe preludere ad una crisi del governo di «larghe intese», c'è un punto su cui è difficile dissentire, almeno per chi non metta i propri immediati interessi di parte al di sopra di ogni altra considerazione: è più che mai urgente approvare una nuova legge elettorale, prima che si vada al voto. Che l'attuale legge sia la più inadatta alle circostanze dipende non solo dai suoi difetti principali tante volte denunciati (premio di maggioranza spropositato e liste bloccate), ma anche dalla particolarità del sistema politico che in questo momento caratterizza il Paese. Se si andasse a votare oggi, con un Paese diviso non già fra due grandi partiti concorrenti per la maggioranza, ma fra almeno quattro o cinque (o come minimo tre) schieramenti apparentemente incompatibili fra loro, l'unica cosa che conterebbe sarebbe come conquistare un voto in più degli altri.

In un quadro almeno tripolare (centrodestra, centrosinistra, Movimento 5 Stelle, senza contare il centro e la sinistra «radicale»), se uno di questi tre «poli» conquistasse la maggioranza dei seggi, in quanto minoranza più forte (anche per un voto), avremmo un Parlamento assai poco rappresentativo, quindi poco adatto a mantenere un minimo di unità del Paese. Nel caso di vittoria del centrodestra o del centrosinistra, avremmo inoltre la prosecuzione a oltranza di una situazione (che ben conosciamo) di scontro frontale e di reciproca delegittimazione; nel caso (meno probabile) di vittoria dei Cinque Stelle, che esprimerebbe una sorta di definitiva affermazione dell'antipolitica, si aprirebbe una enorme incognita sugli indirizzi politici del paese. Se poi nessuno dei tre schieramenti prevalesse in entrambe le Camere, saremmo da capo con la situazione di oggi. Ancora, questo tipo di competizione porterebbe le forze maggiori a includere e valorizzare, per avere «un voto in più», le forze «estreme» che svolgono un ruolo tendenzialmente divaricante e foriero di rigide contrapposizioni: gli atteggiamenti delle forze maggiori sarebbero fatalmente condizionati e influenzati dalla spinta «estremizzante» delle forze minori forzatamente reclutate. Anche una eventuale evoluzione del sistema in senso tendenzialmente bipolare avverrebbe nella direzione di un bipolarismo «estremizzante» e iper-conflittuale.

Dunque, occorre una nuova legge elettorale. Ma quale? Il semplice ripristino del «Mattarellum» che pure farebbe superare alcuni dei difetti dell'attuale legge, non risponderebbe alle esigenze della situazione descritta. Si riprodurrebbe, solo spostata nei singoli collegi, la gara per «un voto in più», con la quasi certezza che a «vincere» sarebbe sempre una minoranza in ogni collegio, e una minoranza, oppure nessuno, sul piano nazionale. Diverso sarebbe se si passasse ad un sistema a doppio turno (con ballottaggio a due nel secondo): in ogni collegio si formerebbe una maggioranza, e sarebbero gli elettori a determinare, nel secondo turno, le affinità e le «alleanze» capaci di produrre tale maggioranza. Conseguentemente a livello nazionale potrebbe prodursi, anche se non necessariamente si produrrebbe, una «vera» maggioranza. Una limitata quota proporzionale (già presente nel «Mattarellum») potrebbe ridurre il rischio della totale scomparsa delle «terze forze» e in generale delle forze minori in Parlamento.

C'è però un'altra possibilità: che, prendendo atto dell'attuale sistema politico in fase di trasformazione, e della necessità di dar vita a maggioranze «vere» in Parlamento, i partiti vi adeguassero il sistema elettorale fondandolo su un proporzionale con robuste clausole di sbarramento (per contrastare l'eccesso di frammentazione). Le singole forze o coalizioni potrebbero così competere davanti all'elettorato proponendosi per quello che sono, ciascuna con una propria precisa identità e con i propri programmi, senza la preoccupazione di dover reclutare le rispettive ali estreme per «vincere». Il Parlamento rifletterebbe la fisionomia del paese, «semplificata» ma non stravolta; e le maggioranze che in esso potrebbero formarsi sarebbero frutto di convergenze non «forzate» dall'ossessione della competizione elettorale.

Non è vero che in tal modo si sarebbe destinati necessariamente allo stallo permanente: al contrario, alleanze e coalizioni (larghe o meno larghe, ma sempre maggioritarie) potrebbero formarsi sulla base di reali affinità di intenti e di programmi, e non su quella precaria dell'interesse elettorale immediato e della necessità di «contrapporsi». Le forze minori che non vogliano o non possano convergere, comprese quelle «estreme», potrebbero avere la loro voce in Parlamento, ma non impedire che maggioranze, larghe o meno larghe, si formino per governare il Paese sulla base di indirizzi sufficientemente coerenti. I sistemi elettorali, si sa, non sono buoni o cattivi in sé, ma in relazione alla configurazione esistente del sistema politico. In un momento storico in cui tutto nel nostro Paese appare precario, in cui i partiti esistenti sono, per diverse ragioni, tutti in crisi, in cui non ci sono solo inevitabili contrasti ma sfide «mortali», e quindi emerge un bisogno di ricomposizione e di ricollocazione delle forze politiche e dello stesso elettorato, chiamato a fare le sue scelte su basi più razionali e meno immediatamente emotive, tutto fa pensare che questa potrebbe essere la linea giusta. Magari rinviando ad un Parlamento così eletto anche il compito di mettere mano alle possibili riformecostituzionali.

«È ora che il governo metta da parte l’ideologia e la retorica della larghe intese dalla quale è come ipnotizzato, per tornare a fissare tre o quattro punti essenziali e dirci se è in grado o meno di realizzarli nell’arco dei prossimi mesi. Altrimenti si concentri almeno su uno, la nuova legge elettorale, e si torni al voto».

La Repubblica, 10 agosto 2013

Il governo Letta era stato presentato in prima battuta come una maggioranza innaturale, dettata dall’emergenza, destinata a fare tre o quattro cose importanti per poi tornare al voto con una nuova legge elettorale. Subito dopo però è intervenuta l’ideologia delle larghe intese a cambiare i termini del patto. Si è cominciato a parlare di pacificazione nazionale, a richiamare l’esempio del compromesso storico. L’emergenza è finita in secondo piano rispetto alla stabilità, le cose da fare sono diventate meno importanti della necessità di durare. Il risultato concreto di questa ideologizzazione delle larghe intese è che abbiamo un governo incapace di fare appunto quelle tre o quattro cose che un governo a termine, di minori ambizioni, avrebbe già almeno messo in cantiere.

È ingiusto dire che il governo non stia facendo nulla. Sta facendo, come ha ammesso il reggente del Pd Epifani, «piccole cose buone». La legge sul femminicidio è un esempio di queste buone cose, neppure tanto piccole. Ma per quanto riguarda tutto il resto, l’emergenza economica e quella politica, le due autentiche missioni del governo, il durare finora si è rivelato nemico del fare. La legge elettorale è in alto mare e a occhio e croce vi rimarrà a lungo. La politica economica e quella fiscale sono tutte da definire. Sta per arrivare il treno di una ripresa economica che l’Italia rischia di perdere, perché non esiste ancora un singolo provvedimento governativo a favore del credito alle imprese. La politica fiscale, altra leva per rilanciare il Paese, è ancora più in alto mare della legge elettorale. Qui si scontrano due concezioni semplicemente opposte di equità fiscale, come ha scritto Massimo Giannini ieri, fra destra e sinistra. Con un debito pubblico che ha sfondato la quota dei 2mila miliardi, il governo delle larghe intese non riesce neppure a mettersi d’accordo sull’Imu, una voce che riguarda al massimo 3 o 4 miliardi del gettito fiscale. Nel tentativo di mediare a tutti i costi, il ministro dell’economia Saccomanni è arrivato a proporre ieri nove diverse soluzioni al problema dell’Imu, una trovata da far impallidire le celebri “rose dei nomi” dell’era dorotea. Quando è evidente a chiunque che di soluzioni ne esistono soltanto due, mantenere la tassa sulle prime case oppure abolirla. In un caso come nell’altro cambierà pochissimo nell’economia del Paese e nelle tasche dei cittadini. Compresi i proprietari dellacasa di famiglia, il cui vero problema non è l’Imu, ma semmai i tassi altissimi dei mutui.

Un governo a termine, d’emergenza, si sarebbe posto ben altre questioni. Ma l’ideologia delle larghe intese impone di parlare di ciò che non è importante e di fare quel che non serve, nell’attesa di trovare un compromesso su qualsiasi cosa. Così una nazione che negli ultimi cinque anni ha perso il 25 per cento della produzione industriale e l’8 per cento del Pil si sta accapigliando da quattro mesi sui processi di Berlusconi, la ridicola guerra dell’Imu, la riforma della Costituzione e quella della giustizia. In pratica, la solita surreale agenda imposta dai media di Berlusconi. La stessa agenda che ci ha portato a un passo dal baratro e dalla bancarotta di Stato, mentre si parlava d’altro.

È ora che il governo metta da parte l’ideologia e la retorica della larghe intese dalla quale è come ipnotizzato, per tornare a fissare tre o quattro punti essenziali e dirci se è in grado o meno di realizzarli nell’arco dei prossimi mesi. Altrimenti si concentri almeno su uno, la nuova legge elettorale, e si torni al voto.

Femminismo "della seconda ondata" e società, dal capitalismo del welfare state alla crisi del neoliberalismo. Una recensione dell'ultimo libro della studiosa statunitense.

Il manifesto, 9 agosto 2013
L'ultimo libro della filosofa statunitense è un corpo a corpo con il femminismo della seconda ondata. E una proposta teorica per sviluppare una critica alle «politiche dell'identità» e alle misure redistributive condotte in nome della parità di genere.

Il titolo dell'ultimo libro di Nancy Fraser, pubblicato dalla casa editrice inglese Verso, riassume bene l'intento dell'autrice di ricostruire e discutere criticamente la traiettoria controversa del femminismo della seconda ondata, quello diffusosi a partire dagli anni Sessanta negli Stati Uniti: Fortunes of Feminism. From State-Managed Capitalism to Neoliberal Crisis. «Fortune» è un termine polisemico che indica sia il destino che la buona fortuna o il successo. E in effetti l'obiettivo che si propone l'autrice è per l'appunto quello di analizzare sia la buona sorte del femminismo della seconda ondata, dalla sua affermazione accademica alla sua capacità di trasformare pratiche, discorsi e linguaggi, sia il suo paradossale destino, quello di aver accompagnato e per certi versi involontariamente legittimato il passaggio da un capitalismo regolato dallo stato nazione al capitalismo neoliberista.

Fortunes of Feminism è una raccolta di saggi scritti tra il 1985 e il 2012, che dà il senso non solo della traiettoria storica del femminismo della seconda ondata, ma anche del percorso intellettuale dell'autrice. Nancy Fraser è una delle voci più note e autorevoli della teoria femminista americana. Il suo lavoro teorico è caratterizzato dal tentativo di combinare insieme, in maniera non eclettica, parte della tradizione della teoria critica francofortese, aspetti del post-strutturalismo francese e delle sue intepretazioni in ambito statunitense, e infine elementi derivanti dalla critica marxiana dell'economia politica e dal femminismo marxista. A partire da questa prospettiva, Fraser si è confrontata a più riprese con alcune delle maggiori teoriche femministe americane. Si possono vedere, ad esempio, il volume pubblicato nel 1994 dalla casa editrice Routledge, Feminist Contentions, contenente uno scambio filosofico tra Judith Butler, Nancy Fraser, Seyla Benhabib e Drucilla Cornell sul tema del rapporto tra femminismo e postmodernismo, o il dibattito con Judith Butler sulla relazione tra genere, sessualità e capitalismo, pubblicato sulle pagine della New Left Review a metà degli anni Novanta.

Una giustizia bifocale

La riflessione di Fraser sulle tematiche di genere è stata profondamente influenzata dalle sue elaborazioni sul concetto di giustizia e sulle sue differenti accezioni. In effetti, Fraser è stata una delle maggiori protagoniste del dibattito su ridistribuzione e riconoscimento all'interno della teoria critica. In Justice Interruptus (1997) e in Redistribution or Recognition? (2003), scritto insieme ad Axel Honneth, Fraser ha sviluppato una concezione «bifocale» o «bidimensionale» della giustizia, in risposta al divorzio tra politiche dell'identità di genere e politiche di classe. Giustizia è un concetto complesso e non univoco, che deve contenere almeno due dimensioni principali. Una relativa a quella che Fraser chiama «ridistribuzione», vale a dire la struttura economica di una società, la sua dimensione di classe, le istituzioni che regolano il lavoro e la sua divisione sociale, l'accesso alle risorse, ai servizi e al welfare. Un'altra relativa al «riconoscimento», categoria hegeliana tornata in auge nella teoria critica e femminista degli ultimi decenni, dove viene generalmente adoperata per indicare l'atto del «riconoscere» e dunque rispettare lo status, i diritti, l'identità e la differenza di un'altra persona. La nozione di riconoscimento ha giocato un ruolo fondamentale, ad esempio, all'interno dei movimenti di liberazione Lgbtq, delle teorie della differenza sessuale e dei discorsi sul multiculturalismo.

Nella declinazione data da Fraser del riconoscimento non si tratterebbe tanto di riconoscere una differenza, che rischierebbe in tal modo di essere reificata, quanto di riconoscere uno status sociale. Nel caso della politica di genere, ad esempio, non si tratterebbe di rivendicare il riconoscimento di una differenza sessuale e di una conseguente identità femminile ossificata e destoricizzata, ma piuttosto il riconoscimento dello status sociale delle donne come membri in senso pieno della società, capaci di partecipare alle interazioni sociali su un terreno di parità.

L'arido economicismo

La scommessa di Fraser è che un approccio «bifocale» alla concezione della giustizia permetterebbe di identificare la relativa autonomia di queste due distinte dimensioni, senza pertanto operare delle riduzioni dell'una all'altra o senza considerare l'una un mero epifenomeno dell'altra. Il riconoscimento dell'esistenza e relativa indipendenza di queste due dimensioni della giustizia, infatti, darebbe una risposta al problema irrisolto del superamento del modello caro a parte della tradizione marxista della «struttura» e della «sovrastruttura». Allo stesso tempo, una considerazione della giustizia come pluridimensionale consentirebbe di individuare anche gli intrecci e le interconnessioni tra queste diverse dimensioni. Per quanto le due dimensioni del riconoscimento e della ridistribuzione siano relativamente indipendenti, infatti, esse contribuiscono entrambe alla riproduzione della società capitalistica. Inoltre, fenomeni quali diseguaglianza economica, sessismo e razzismo sono sempre caratterizzati da entrambe le forme di ingiustizia. Per questo motivo, una politica di ridistribuzione separata da quella di riconoscimento e viceversa rappresentano due approcci inadeguati ai fini di una significativa trasformazione sociale. Due approcci che finiscono col riprodurre un economicismo monco e un culturalismo altrettanto monco. Le relazioni causali tra le due dimensioni e la loro relazione con la riproduzione della società capitalista nel suo complesso richiederebbero un supplemento di elaborazione teorica, per evitare di cadere nuovamente precisamente nella teoria dualista che Fraser vuole evitare.

Recentemente, Fraser ha rivisto e integrato la sua precedente concezione «bifocale», al fine di aggiungere un'ulteriore dimensione della giustizia, e dell'ingiustizia: quella della rappresentanza. Per rappresentanza va inteso l'insieme di istituzioni, norme e procedure che stabiliscono a livello politico quali siano i confini dell'agire politico, chi è incluso e chi è escluso da una determinata comunità sociale e politica, e infine quali processi di contestazione pubblica siano accettati e quali no. Si tratta di una dimensione ormai divenuta centrale a seguito della globalizzazione neoliberista e della crisi di quella che Fraser definisce come la cornice «keynesiana-westfaliana», vale a dire della cornice dello stato nazione come ambito privilegiato delle politiche economiche e di riconoscimento e della loro contestazione.

È alla luce di queste elaborazioni che vanno letti i saggi contenuti in Fortunes of Feminism. Per quanto redatti in un arco temporale di più di venti anni, all'interno del volume i saggi sono organizzati in uno schema coerente, definito da Fraser come un «dramma in tre atti». Il dramma è per l'appunto quello del femminismo della seconda ondata. Nel primo atto, scrive Fraser, «le femministe si sono unite ad altre correnti radicali, facendo esplodere un immaginario socialdemocratico che aveva occultato l'ingiustizia di genere e tecnicizzato la politica». Con il declino delle energie utopiche e radicali degli esordi, il femminismo della seconda ondata è stato attratto nell'orbita di una politica centrata sull'identità ed è entrato in una fase caratterizzata dalla svolta dalla «ridistribuzione al riconoscimento», in direzione di un politica culturale basata sulla valorizzazione della «differenza». Il terzo atto del dramma è quello che si sta svolgendo oggi, aperto dalla crisi del neoliberismo, che, facendo esplodere le contraddizioni economiche in tutta la loro asprezza, ha riaperto la possibilità di un ritorno e di un ripensamento di una politica e di una teoria femminista radicali, capaci di combinare le diverse dimensioni della giustizia.

Fallimenti paralleli

Il contenuto dei saggi raccolti nel volume è apparentemente disparato: si spazia dalla critica di genere della teoria sociale critica di Habermas a una genealogia del concetto di dipendenza nel dibattito sul welfare-state statunitense; da un'analisi critica degli usi e abusi di Lacan nella teoria femminista a una discussione su una possibile riformulazione femminista del pensiero di Polanyi. Questa varietà di contenuti, tuttavia, si combina con una coerenza teorica di fondo e con due fili conduttori principali. Il primo, già menzionato, concerne l'elaborazione di un concetto di giustizia di genere, alla luce di una concezione multidimensionale di giustizia più in generale. Differenti teorie femministe e proposte programmatiche (dal salario per le casalinghe al pieno impiego femminile) vengono, dunque, tutte analizzate e sottoposte al test della giustizia: che tipo di giustizia di genere queste teorie e proposte permettono di realizzare? Quali aspetti rimangono insoddisfacenti o del tutto trascurati? Il secondo filo conduttore ha invece a che vedere con la dimensione più propriamente politica dell'agire collettivo. Quali proposte e teorie consentono e facilitano alleanze tra le lotte? Quali contengono in sé elementi trasformativi, contestatori e emancipatori e potenzialità di sovvertire l'ordine sociale mediante l'agire collettivo?

L'austuzia della storia

Da questo punto di vista sia le teorie della differenza che la identity politics falliscono entrambi i test. Entrambe non riescono a dar conto della complessità delle identità sociali, della loro instabilità e soprattutto del modo in cui si trasformano mediante le pratiche, le esperienze e l'agire collettivo. Entrambe, inoltre, hanno contribuito alla svolta in direzione del femminismo culturale. Questo ha agevolato la cooptazione di discorsi provenienti dal femminismo all'interno del nuovo ordine sociale capitalista. Per una sorta di «astuzia della storia», la diffusione di atteggiamenti culturali generatisi all'interno del femminismo della seconda ondata è divenuta parte costitutiva di un'altra trasformazione, che quel femminismo non aveva né anticipato né voluto: la trasformazione dell'organizzazione sociale capitalista postbellica. In altre parole, alcuni degli assi centrali del femminismo della seconda ondata, l'antieconomicismo, l'antiandrocentrismo,l'antistatalismo, per citarne alcuni, sono stati soggetti a un processo di risignificazione che li ha trasformati in elementi di legittimazione ideologica del nuovo ordine neoliberista. Questo, tuttavia, è stato solo il secondo atto del dramma e, come già accennato, il terzo atto è già cominciato e oggi, come scrive Fraser, «è il momento in cui le femministe dovrebbero pensare in grande». Questo è il terzo atto a cui Fortunes of Feminism vuole dare un contributo.

SCAFFALI
Dal riconoscimento
allo status delle donne

Nancy Fraser è docente di filosofia e politica alla New School for Social Research, a New York. Inoltre è Einstein Fellow della città di Berlino e titolare della cattedra «Giustizia globale» al Collège d'études mondiales di Parigi. Esponente di spicco del femminismo americano e della teoria critica a livello internazionale, è autrice di numerosi volumi e articoli. Il primo volume è apparso nel 1989: «Unruly Practices. Power, Discourse and Gender in Contemporary Social Theory». I due volumi «Justice Interruptus. Critical Reflections on the "Postsocialist" Condition» (Routledge) e «Redistribution or Recognition? A Political-Philosophical Exchange» (con Axel Honneth, Verso) hanno riscosso un successo internazionale e sono stati tradotti in otto lingue. Sono apparsi in traduzione italiana rispettivamente per i tipi di PensaMultimedia («La giustizia incompiuta. Sentieri del post-socialismo») e di Meltemi («Redistribuzione o riconoscimento?»). È apparso in traduzione italiana anche il volume «Il danno e la beffa. Un dibattito su ridistribuzione, riconoscimento, partecipazione» (Pensa MultiMedia, 2012). Diversi dei saggi contenuti in «Fortunes of Feminism» sono stati pubblicati in italiano in riviste e volumi collettanei. Il prossimo progetto di Nancy Fraser è il volume «Crisis, Critique, Capitalism: Re-reading Marx, Polanyi, and Habermas in the 21st Century», nel quale l'autrice si propone di reintrodurre il progetto di una critica della crisi della società capitalistica all'interno della teoria critica di origine francofortese.

La Repubblica, 8 agosto 2013

«Cosa vuol dire esseredi sinistra? È un impulso prepolitico, una radice antropologica che viene primadi una scelta di campo consapevole. Davanti alle disparità di classe o di censoo di condizione sociale, c’è chi si compiace, traendone la certificazione delproprio essere superiore. E c’è chi si scandalizza, come capitò a NorbertoBobbio quando scoprì da bambino la miseria dei contadini che morivano di fame.Lo “scandalo della diseguaglianza”, lo chiamò proprio così. Un’indignazionenaturale, che non è comune a tutti». Nella casa dove visse Gobetti, tra i libridi Antonicelli e i grandi faldoni dell’azionismo, Marco Revelli ci fa stradalungo i segreti cunicoli di un palazzo ottocentesco, da cui forse ha inizioparte della storia. Una storia di sinistra che nel caso di Revelli — classe1947 e una nutrita bibliografia tra storia, economia e sociologia — s’incarnaanche nella figura del padre Nuto, cantore del “mondo dei vinti” e miticocomandante di Giustizia e Libertà. «Una montagna troppo alta da scalare», diceil figlio con la mitezza di chi se lo può permettere.


Lo “scandalo delladiseguaglianza”. Lei quando cominciò ad avvertirlo?
«Da bambino, quando facevole scuole elementari a Cuneo. Negli anni Cinquanta la frattura sociale eramolto visibile, e nella mia classe convivevano ceti molto diversi. Una mattinavenne chiamata la madre di due miei compagni, a quel tempo alloggiati in unacaserma abbandonata. Davanti a tutta la scolaresca fu severamente rimproverataperché i suoi bambini non si lavavano. Io provai un grande disagio. Non dissinulla a casa».

E anche oggi, in unarealtà nazionale radicalmente mutata, lo scandalo si ripete.
«Quello nato dopo la mortedel Novecento è un mondo infinitamente più diseguale. Ed è un mondo che nonoffre alternative a se stesso. Sono queste le grandi sconfitte storiche dellasinistra, ossia di una forza politica e culturale che possiede nel Dna ilvalore dell’eguaglianza e la capacità di immaginare un’alternativa allo statodi cose presente».

Però ogni volta che hapromesso un mondo più felice ha prodotto grande infelicità.
«La catastrofe delsocialismo reale è parte della scomparsa della sinistra, che ne è stataparalizzata. Ma una sinistra che rinuncia a proporre un altrove cessa di esseresinistra. È nata proprio per quello. Accadde nel 1789 a Versailles, quando allasinistra della presidenza dell’assemblea si schierarono coloro i quali eranocontro il potere di veto del Re. Così cadde l’ultimo pilastro dell’AncienRégime. Non c’è bisogno di alzare la ghigliottina. Basta un voto per sancire lafine di un ordine. E l’inizio di un altro».

La sinistra come ilCandide di Voltaire, che gioisce del mondo in cui vive ritenendolo il migliorepossibile.
«Sì, un Candide un po’tardivo, con un risvolto beffardo. La sinistra ha rinunciato a immaginareun’alternativa proprio nel momento in cui il mondo in cui aveva deciso diidentificarsi stava entrando in crisi. Mi riferisco all’ultima reincarnazionedel capitalismo — il “finanzcapitalismo” secondo la felice definizione diLuciano Gallino — cioè un’economia già provata, che per tenersi in piedi habisogno del doping della finanza. Bene, quando la casa cominciava a manifestarele prime crepe, la sinistra s’è seduta alla tavola apparecchiata, contenta diesserci: finalmente siamo come gli altri».Finalmente siamo uomini di mondo: lescarpe di buona fattura, le belle case, gli agi borghesi un tempo contestati...
«Una sorta diapocalisse culturale, sia sul piano delle filosofie — la fine della ricerca disenso — sia su quello sociale. Più che combattere il privilegio, l’impressioneè che si sia cercato di entrare nella sua cerchia. Ma le radici cattiveaffondano nel Pci, di cui forse andrebbe riscritta la storia».
Dalla suaricostruzione, però, i padri sembrano migliori dei figli.
«Gli eredi dellesinistre novecentesche non sono stati all’altezza del compito. È un universopopolato di figure fragili. O perché continuano a proporre categorie che sonomorte con il Novecento, con effetti patetici. O perché dalla Bolognina in poi -più che interpretare e governare i processi storici — hanno scelto digalleggiare su un senso comune condiviso».

Vuole dire che lasinistra è rimasta senza eredi?
«C’è una sinistraradicale che muore volontariamente intestata, ossia senza testamento, ed èquella espressa da Rossana Rossanda. E la sinistra più istituzionale ha seguitoaltre rotte. La mia generazione - in questo senso - ha completamente fallito.Rappresentiamo nella politica un enorme buco nero. E il fallimento s’acuisce neiconfronti delle nuove generazioni, che hanno tutte le ragioni per mettercisotto processo. Abbiamo monopolizzato l’idea della trasgressione senza riuscirea costruire un mondo vivibile e alternativo».

Sta parlando dellagenerazione sessantottina.
«Sì, le nostre ideenon sono state utilizzate dai poveri del mondo, ma dai supermercati. Vogliamotutto, lo vogliamo subito. Però ci sono state anchecose buone».

Come reagì suo padreNuto alla scelta del figlio di militare in Lotta Continua?
«Lo spaventava ilnostro estremismo, ma era affascinato dalla diversità rispetto al mondopolitico ufficiale. Però vedendomi troppo impegnato al ciclostile una volta midisse: scegli la professione che vuoi, ma fai in modo di non dover dipenderedalla politica. Non saresti un uomo libero».

Cosa significò per leicrescere in una famiglia di sinistra?
«Mio padrerappresentava il peso della storia. Una volta il maestro disse in classe che ipartigiani rubavano le mucche. Tornai a casa un po’ turbato e gli raccontai tutto.La sera mi diede un pacchetto con Le lettere dei condannati a morte dellaResistenza, e una dedica per il mio insegnante: “Perché sappia come sannomorire i partigiani”. Passai una notte insonne, stretto tra due autorità.L’indomani consegnai il libro al maestro, che restò in silenzio».

Una guida preziosa.
«Anche faticosa. Unamontagna troppo alta da scalare, come dice Venditti. Era impegnativonell’adesione ai suoi valori perché ne avvertivo una responsabilità famigliare.Ma era impegnativo anche nel necessario conflitto. Con i padri è un passaggioobbligatorio, se no ti porti dietro il complesso di Telemaco ».

Entrambi dalla partedei vinti. Però ai contadini di Nuto Revelli lei ha sostituito gli operai.
«Un’altra cosa che glidevo: mi ha insegnato ad ascoltare. Da giovane arrogante, che distribuiva ivolantini davanti ai cancelli della Michelin, io allora lo contestavo: ma cosavai ad occuparti di un mondo che è già morto? È una fortuna che, da egoisticoltivatori anche reazionari, siano diventati classe operaia, dunquerivoluzionaria, eredi della filosofia classica tedesca... ».

E lui?
«Sorrideva, ma noncambiava idea. E aveva ragione lui. Quelli che sono andati in fabbrica non sonodiventati gli eredi della filosofia classica tedesca. E dall’altra parte èfinita una civiltà che aveva certo elementi di ferocia, ma era provvista di unesemplare equilibrio nel rapporto tra uomo e natura, quello stesso che oggidovremmo avere l’umiltà di ripristinare. Lui diceva sempre: abbiamo trasformatodecine di migliaia di specialisti della montagna in operai di fabbricadequalificati, e poi le montagne ci cadono in testa. Sì, aveva ragione lui. Perfortuna sono riuscito a dirglielo».

E ora, a sinistra, dacosa si riparte?

«Intanto bisognauscire dall’involucro. Rompere la bolla in cui si è cacciata la politica. Unacostellazione di oligarchie, in cui si diventa oligarchi alla velocità dellaluce. Nel momento in cui vieni eletto in Parlamento diventi altro da te. Hovisto persone cambiare, nello sguardo, nel linguaggio, nel modo di vestire.L’ho visto in tutti, quasi senza eccezioni. Se vuole ripartire, la sinistradeve spezzare quell’involucro».
Visione equilibrata (troppo) delle difficoltà del PD a causa dell'incapacità a proporre un’uscita dalla crisi alternativa a quella neoliberista, a cui rimane subalterno. Nel partito, della sinistra rimangono solo i fantasmi.

LaRepubblica, 8 agosto 2013

POSTA di fronte al «fatto enorme» (parola di Epifani) della condanna definitiva di Berlusconi, la direzione del Partito Democratico oggi è costretta a fare i conti con la paura di cambiare che la attanaglia. I primi cento giorni del governo Letta sono vissuti con imbarazzo: lo stesso Epifani parla di un governo con le mani legate dal debito pubblico, ostaggio degli eccessi di rigorismo dell’Unione europea, vincolato dai parametri di bilancio imposti all’Italia.

Insomma, nessuna svolta riformista di cui la sinistra possa menar vanto: il segretario del Pd riconosce che Letta sta facendo solo «piccole cose, buone ma piccole». Eppure, ben al di là dei rapporti di forza parlamentari con cui il Quirinale l’ha costretto a fare i conti, permane in questo gruppo dirigente un dubbio esistenziale. L’eventualità di governare l’Italia senza la destra, nel bel mezzo di una crisi drammatica e dall’esito ignoto, è davvero augurabile?

Le oscillazioni e l’insicurezza sono sintomi talmente fastidiosi che ci viene fin troppo facile accusare il Pd di autolesionismo. Ma non è certo invidiabile la posizione di chi guida in Italia un partito riformista tuttora sprovvisto di convincenti terapie alternative per la cura della malattia misteriosa che dal 2008 ha ridotto del 25% la produzione industriale, impoverito la maggioranza dei cittadini, aggravato il debito pubblico, diminuito e resi più precari i posti di lavoro. La Grande Depressione non apre certo scenari rivoluzionari in alternativa al fallimento dei riformisti. Ma costringe semmai questi ultimi a fare i conti con gli eccessi di compiacenza mostrati nei confronti della grande finanza globalizzata. Questione scomoda da elaborare. Nel frattempo, messi alle strette, i principali dirigenti del Pd forse si stanno chiedendo se non sia solo velleitaria, ma perfino sconveniente, la fine dell’alleanza col Pdl cui Napolitano li “costringe” dal novembre 2011.

Dietro ai pretestuosi litigi sulle regole congressuali e dietro all’ormai stantio dilemma “Renzi o non Renzi”, s’intravedono motivazioni più profonde che rendono ostico al Pd riconoscersi nel governo Letta. Basti pensare, in estrema sintesi, al paradosso per cui il più “eretico” dei dirigenti economici del partito, Stefano Fassina, è stato chiamato a fare il vice del ministro più “ortodosso” del governo stesso, Fabrizio Saccomanni. Come già nel governo Monti, anche nel governo Letta si è voluto garantire che i processi decisionali in materia economico- finanziaria siano delegati a figure di tramite, rese autorevoli in Europa dalla loro fisionomia tecnica. Il medesimo paradosso rovesciato s’incarna nell’avventura di Fabrizio Barca che durante la settimana lavorativa fa il dirigente al ministero dell’Economia per poi, durante il week end, mettere in guardia i militanti del Pd da quelle stesse compatibilità di cui egli fu portatore come ministro tecnico del governo Monti.

Né per Fassina né per Barca si può parlare di furbizia. Al contrario. Essi personificano il disagio di essere chiamati a recitare in commedia un copione diverso, se non opposto, a ciò in cui credono. Per quanto tempo ancora ha da protrarsi la forzatura di un’ortodossia imposta dall’esterno sulle gracili spalle della sinistra riformista italiana, prima che le tocchi il destino dei socialisti greci del Pasok, ridotti ai minimi termini per lealtà ai diktat europei?

La destra non ha simili problemi di credibilità. Può stare nel governo di unità nazionale per convenienza del suo capo evasore fiscale condannato, e al tempo stesso sparare cannonate contro l’euro e la Merkel. Può condividere con Casaleggio una visione catastrofista del futuro incognito che ci attende, magari pregustando come fa Grillo i vantaggi elettorali che la sofferenza sociale gli garantirà. La sinistra invece non può essere catastrofista. Nel 2013 non promette rivoluzioni miracolose, è per sua natura europeista, rifiuta di contrapporre i popoli l’uno all’altro. Pesa troppo su di noi la memoria delle tragedie novecentesche. Ma se anche i presagi di ripresa economica amplificati da governo e Bankitalia fossero veritieri, chissà quando, non toccherà alla sinistra poterla rivendicare, dato il contesto di ingiustizia sociale e perdita di diritti in cui s’inserisce.

Succede così che lo stato di necessità in cui il Pd si trova imbrigliato almeno dal novembre 2011 – quando Napolitano nominò Monti senatore a vita e organizzò il sostegno parlamentare al suo governo tecnico – espunga dal suo dibattito interno le questioni più scabrose. Ha senso, come e quanto, pagare gli interessi su un debito pubblico che rimarrà inestinguibile? Dove reperire le risorse per interventi efficaci contro la povertà? È attuabile una “tosatura” della finanza speculativa? Il fiscal compact è un imperativo categorico? Gli accordi internazionali sottoscritti sulle spese militari sono modificabili?

Mantenersi volutamente ambigui su scelte dirimenti di questa natura, come su tante altre, è certamente spiegabile con la loro estrema difficoltà. Ma il non scegliere ha già condannato la politica all’impotenza e all’eterodirezione. Rassegnarsi all’eccezionalismo come regola induce a perdere la fiducia in se stessi. E spiega perché oggi qualcuno nel Pd viva ancora come necessario perfino l’appoggio di una destra che predica la sospensione del principio di legalità a vantaggio del suo capo.

Intervista di Eleonora Martini a StefanoRodotà: «Sto pensando a un modo di unire le forze di quei soggetti civili,politici e sociali tornati da tempo protagonisti e che ora non possono piùessere trascurati».

Il manifesto

La grazia a Berlusconi?

«Inaccettabile. Anche perché sarebbe come istituire una super-Cassazione». Il giurista Stefano Rodotà parla di «rischio istituzionale che non va corso». È un momento delicato questo, dice, che richiederebbe un po' di «coraggio e lungimiranza politica» da parte dei partiti. «Subito la riforma della legge elettorale, e poi il voto», auspica. E nel frattempo, «insieme ad altri», sta pensando a un modo di «unire le forze dei soggetti civili, politici e sociali» tornati da tempo protagonisti e che «non possono più essere trascurati».

Mentre per il Financial Times «cala il sipario sul buffone di Roma», Sandro Bondi usa toni apocalittici minacciando la «guerra civile». Frasi che il Quirinale giudica come «irresponsabili». C'è da preoccuparsi o è solo un'altra farsa?

Ciò che sta avvenendo non è solo una reazione simbolica, rivolta a impressionare l'opinione pubblica. I comportamenti tenuti sono qualificabili come eversivi, nel senso che negano i fondamenti della democrazia costituzionale... La richiesta ufficiale del Pdl che, dicono, formalizzeranno nell'incontro con Napolitano, è di «eliminare un'alterazione della democrazia». Sono parole e comportamenti da valutare come rifiuto dell'ordine costituzionale. Al di là delle conseguenze, non si può cedere ancora all'abitudine di derubricare e sottovalutare quelle che vengono considerate «intemperanze verbali». Sono molto colpito dalla parola «irresponsabile» attribuita al presidente Napolitano, che di solito è molto cauto. Ma è evidente che la situazione configurata da Berlusconi e dal Pdl - considerare «un'alterazione della democrazia» una sentenza passata in giudicato - è eversiva. È un fatto di assoluta gravità che non possiamo sottovalutare.

Dunque i toni apocalittici vanno presi sul serio?
Assolutamente sì.

Ma non era tutto prevedibile?
Certo, il governo delle larghe intese è stato un grandissimo azzardo perché tutti sapevano che in pista c'era la vicenda giudiziaria di Berlusconi e che il Pdl non avrebbe certo mostrato responsabilità. Si è scelta questa strada nella speranza che non sarebbe accaduto, ma la storia di Berlusconi, fin da quando rovesciò il tavolo della bicamerale di D'Alema per sottrarsi al giudizio, testimonia esattamente che tutto era prevedibile. E allora oggi confidare in un ravvedimento operoso è pericoloso. Perché Berlusconi può continuare a condizionare pesantemente non solo il governo ma l'intero sistema costituzionale. Presidente della Repubblica, parlamento, magistratura: l'intero sistema costituzionale è in questo momento sotto ricatto.

Un ricatto che rischia di immobilizzare in ogni caso Napolitano. Secondo lei, il capo dello Stato dovrebbe concedere la grazia a Berlusconi?
No. Indipendentemente dai toni, penso che Napolitano non debba concedere la grazia. E sembra che il Quirinale vada prudentemente in questa direzione. Napolitano dovrebbe dire e dirà che una richiesta proveniente da Schifani e Brunetta è irricevibile dal punto di vista formale, anche perché per concedere la grazia vanno prese in considerazione una serie di condizioni, non ultima la condotta del condannato. Su Berlusconi invece pendono altri procedimenti e una condanna di primo grado nel processo Ruby. Rispetto a una persona che ha questo profilo, si può intervenire con un provvedimento di clemenza? Ma c'è di più: una grazia all'indomani della condanna assumerebbe la funzione di un quarto grado di giudizio, cioè una sconfessione della magistratura, facendo di Napolitano una sorta di super-Cassazione che elimina tutti gli effetti della condanna. È un rischio istituzionale che non va corso.

Ieri sul manifesto il presidente della Giunta per le autorizzazioni Dario Stefano ha ricordato l'iter istituzionale che seguirà la decadenza di Berlusconi da senatore. Non è un atto dovuto, dunque?Ricordiamoci che Alfano ritirò la fiducia al governo Monti dopo l'approvazione della norma sulla decadenza e sull'ineliggibilità. Naturalmente la decadenza dovrebbe essere un atto dovuto e questo passaggio previsto in Parlamento può apparire una singolarità. Ma la legge è molto chiara sul punto: il passaggio in Parlamento è una presa d'atto di un provvedimento operativo nei confronti di uno dei suoi membri. La procedura può essere anche macchinosa ma l'esito non può essere discrezionale.

Il voto non riserverà sorprese?
Forse, visto che la legalità per una certa parte politica è un optional. Ma al Senato c'è una maggioranza che va ben al di là dei numeri del Pdl; sarebbe un fatto davvero istituzionalmente inqualificabile.

Come mai ora sarebbe «necessaria» quella riforma della giustizia fin qui ritenuta «impensabile»?
Appunto. Questa riforma assume il significato della rivincita politica di Berlusconi nei confronti della magistratura. Riscrive - nella situazione drammatica che vive l'Italia - le priorità dell'agenda come condizione per far vivere il governo. Ma anche questa non è una novità. Faccio un solo esempio: quando si costituì la Commissione bicamerale D'Alema Berlusconi chiese che al primo posto fosse iscritta la questione giustizia. Non era compresa tra i compiti della commissione ma ne divenne l'architrave, per accontentare Berlusconi. E infatti, come ci ha rivelato alcuni giorni fa l'ex ministro Flick il suo pacchetto di riforma della Giustizia venne allora bloccato; D'Alema stesso glielo chiese con una lettera. Non si può continuare su questa strada.

Nemmeno con il lavoro dei «saggi»?
Considero quella commissione istituita solo per dare consigli, che non può diventare in nessun modo politicamente rilevante né tantomeno vincolante. E in più ritengo nel merito largamente inaccettabili le loro proposte.

Allora elezioni subito? Con questa legge elettorale?
No, perché rischiamo di nuovo l'ingovernabilità. E ormai sappiamo - ce lo ha detto la Corte costituzionale e ricordato il suo presidente - che andremmo a votare con una legge viziata di incostituzionalità. Sulla questione a dicembre ci sarà una sentenza della Consulta, su richiesta della Cassazione. Ma al di là di questo, c'è anche un problema politico: si può accettare di andare al voto con una legge incostituzionale e politicamente devastante per gli effetti che ha prodotto? Propongo di riconvocare subito le camere per affrontare la legge elettorale. Non occorre sospendere le vacanze: possiamo utilizzare lo spazio riservato alla riforma costituzionale calendarizzata all'inizio di settembre per arrivare subito a una riforma elettorale. D'altronde non si può fare una riforma costituzionale con chi mette in discussione l'ordine costituzionale, è incosciente in questo clima. E invece occorre un'iniziativa immediata per anticipare i tempi e modificare in brevissimo tempo la legge elettorale, partendo a settembre dalla proposta più semplice, quella di Giachetti di ritorno al mattarellum. È l'unica iniziativa politica possibile per mettere minimamente in sicurezza il sistema.

Settembre è un tempo breve e lungo insieme. E il M5S ha smentito di essere disponibile a un governo, sia pur programmatico, con il Pd.
Indipendentemente dalle dichiarazioni del M5S, il Pd dovrebbe porre il problema di sciogliere le camere solo nel caso fosse accertata la mancanza di una maggioranza per costituire un governo, anche di breve durata, che si faccia carico immediatamente della riforma della legge elettorale. Ed è un problema che si presenta solo al Senato. Ma è un passaggio politico che richiede iniziativa, coraggio e lungimiranza politica da parte dei partiti; non ci si può solo chiedere cosa farà il capo dello Stato. Lui deve essere lasciato nella condizione di fare il suo lavoro ma non nel vuoto politico che si era determinato quando i tre responsabili dei partiti che oggi costituiscono la maggioranza, incapaci di eleggere un qualsiasi presidente della Repubblica, si ripresentarono da Napolitano facendo una mossa politicamente gravissima, dettata da debolezza politica.

Lei stesso ne fu protagonista...
Venni coinvolto ma oggi guardo alla vicenda con distacco. Piuttosto come allora in questo periodo, non solo in questi giorni, si è sedimentato attorno al tema della difesa della Costituzione - ma in senso alto: difesa dei valori e dei principi - un'attenzione di forze sociali politiche e civili che non può essere assolutamente trascurata. Ci sono state moltissime iniziative, tra le quali io metto anche l'ostruzionismo parlamentare di Sel e del M5S che ha inseguito la forzatura dell'approvazione ai primi di agosto della legge sulla revisione costituzionale. Ma in questo momento sono necessario iniziative non solo per sostenere la difesa di questi principi ma anche per porre le forze politiche davanti alla loro responsabilità.

Quali iniziative?
È ancora presto per dirlo, con altri abbiamo appena cominciato a pensarci, ma qualcosa è assolutamente necessario fare.

Potrebbe tornare lei stesso protagonista?
I discorsi da protagonista li ho sempre scartati. Dico solo che oltre alle responsabilità dei partiti, c'è una responsabilità propria di soggetti politici sociali e civili che in questo periodo si sono mobilitati - ne abbiamo visto un esempio a Bologna il 2 giugno - e che devono trovare forme di espressione. Non è questione di investitura, semmai l'investitura l'hanno ricevuta in molti e questo è il momento di unire le forze...

Appello alla responsabilità di Pd e M5S, decisiva nel momento politico, e una domanda: «c’è un’Italia che ha saputo tenere campo e contrapporsi ad una “pedagogia” berlusconiana intrisa di disprezzo per lo Stato?».

La Repubblica, 6 agosto 2013

È davvero un’autobiografia della seconda repubblica quella che ci è stata posta sotto gli occhi dalla scomposta mobilitazione del centrodestra? Da quell’aggressione alla costituzione che ha accomunato falchi e amazzoni?

Che ha accomunato Bondi e i fedelissimi d’agosto, presunte colombe e veri esecutori a comando? Lo è solo in parte, certo, ma qualcosa pur ci dice l’impresentabile coorte di Silvio boys che si è mobilitata nei giorni scorsi: ce lo dice il fatto stesso che quella mobilitazione non abbia provocato e non provochi un ulteriore e immediato crollo dei consensi al centrodestra. Negli ultimi mesi e anni ci avevano detto qualcosa di importante anche i tratti nuovi della corruttela, il salto di qualità rispetto a Tangentopoli: il prevalere della corruzione “privatistica” su quella che ancora si appellava ad esigenze di partito, l’assenza persino di giustificazioni ideologico- politiche, l’assuefazione al congiunto operare di arricchimento illecito e di eversione delle regole della democrazia.

Ora si è toccato un nuovo culmine: il primo avviso di garanzia già incrinò la credibilità di Bettino Craxi ma una condanna definitiva non è stata sufficiente sin qui a far scomparire dalla scena pubblica Silvio Berlusconi, come avverrebbe in ogni altra nazione europea. Una condanna definitiva, va aggiunto, sancita da giudici della Corte di Cassazione che il Giornale stesso cha definito in un titolo, all’indomani della sentenza, “toghe moderate e di lungo corso” (e il giorno dopo ha dato avvio alla “macchina del fango” contro di esse). Una condanna che non è stata preceduta da molte altre solo per le prescrizioni garantite da indecenti leggi ad personam.

Rispetto a vent’anni fa, inoltre, è mutata la forma di autodifesa dei leader: così fan tutti, diceva Craxi, e invocava un’autoassoluzione collettiva. Così faccio io e mi proclamo innocente, ha gridato dal palco abusivo davanti casa Silvio Berlusconi. Io, unico potere legittimo perché eletto dal popolo: non essendo stata eletta, la magistratura non è un potere dello Stato. E il potere giudiziario, di grazia, chi lo dovrebbe esercitare? La cuoca di Arcore?

Appare chiaro da tempo che Tangentopoli fotografa solo una fase di passaggio, non il culmine di un percorso iniziato negli anni Ottanta: segnala un’occasione perduta di Ricostruzione, di riconquista delle ragioni del nostro essere nazione. Solo la prima tappa del pessimo cammino che ci ha portati sin qui. Si è discusso più volte sul “perché” quell’occasione non sia stata colta e la richiesta di giustizia sia stata dissipata, quasi colpevolizzata con lo scorrere del tempo. Forse non se ne è discusso a sufficienza ma occorre ora rivolgere con decisione lo sguardo a questi ultimi vent’anni: agli effetti della stagionedi Berlusconi sul centrodestra e sul centrosinistra, e al tempo stesso sul corpo vivo della società italiana. Da tempo la capacità di presa dell’ex Cavaliere sul suo elettorato si è grandemente indebolita, puntellata solo dalla inadeguatezza degli avversari: lo testimoniano gli oltre sei milioni di voti persi alle ultime elezioni politiche e il successivo crollo a quelle amministrative. Una ulteriore conferma, queste ultime, che nel Paese c’è ancora un (ristretto) “zoccolo duro” dell’antidemocrazia e dell’illusionismo berlusconiano ma non “un popolo”, come in parte c’era pur stato, né una classe dirigente (e neppure il fantasma di essa), che non c’è mai stata. Non occorreva poi attendere l’ultima, mal riuscita mobilitazione agostana per comprendere come il finale del “Caimano”, con la sollevazione popolare contro i giudici, sia da moltissimo tempo fuori dal campo del possibile.

Occorre però chiedersi: c’è un’Italia che ha saputo tenere realmente il campo e contrapporsi ad una “pedagogia” berlusconiana intrisa di disprezzo per lo Stato (per le regole fiscali come per l’istruzione pubblica, per la magistratura come per ogni valore e bene collettivo)? Quella “pedagogia” ha trovato di fronte a sé, contro di sé, un’altra e opposta “pedagogia”, un’altra Italia? L’ha trovata nella politica? L’ha trovata nella società civile? Troppo poco, occorre dire, altrimenti non saremmo arrivati a questa barbarie, a questa diffusa indifferenza verso l’eversione quotidiana.

Da questa consapevolezza occorre prender avvio se vogliamo trovare una leva per ripartire. Il baratro che si è rivelato per intero in questi giorni ci fa comprendere che sarà impresa difficile, se non difficilissima, e di lunghissimo periodo. E che ci riguarda tutti: nella stagione di Berlusconi la devastazione delle regole ha fatto passi da gigante nell’insieme della società, non solo nel Palazzo, e anche lì va contrastata con una forza e con una decisione che sin qui sono apparse solo in parte. La necessaria inversione di tendenza riguarda naturalmente, in primissimo luogo, la politica. Prima ancora della condanna di Berlusconi la finzione delle larghe intese è stata lacerata in via definitiva dal centrodestra, dalla sua estraneità dichiarata alle regole costitutive di ogni patto: ogni sua rassicurazione è stata ed è un’ingannevole cortina fumogena volta a guadagnar tempo. Ad attendere il momento migliore per andare all’offensiva, e a quel punto alla disperata.

Il centrosinistra è la prima forza del Paese, detti regole e contenuti essenziali per chiudere rapidamente questa fase: in primo luogo accelerando (e radicalizzando) le misure annunciate su costi e moralità della politica, e dando corpo in tempi brevi alla legge elettorale possibile, fosse anche una legge di transizione, per uscire dal porcellum. Riconquisti, anche, quel senso di responsabilità che le lotte interne hanno sin qui offuscato, per usare un eufemismo.

All’assunzione di responsabilità è chiamato con forza, infine, anche il Movimento Cinque Stelle. Oggi è chiaro quali errori ha compiuto all’indomani del voto, e quali conseguenze ne sono venute: se si sottraesse di nuovo alle scelte necessarie avrebbe molte difficoltà a presentarsi ai suoi stessi elettori. Annibale è già dentro le mura, il tempo è scaduto da molto.

«Il manifesto, 6 agosto 2013

Da più di trent'anni in Italia corruzione e malaffare s'intrecciano alle vicende e alle scelte della politica. Nel lungo processo seguito alla dissoluzione delle due grandi componenti ideal politiche, quella democristiana e quella comunista, hanno prosperato tutte le possibili forme di uso distorto della politica: dall'affarismo personalistico democristiano all'avventura dissipatoria di Bettino Craxi e dei suoi sodali, i veri inventori e iniziatori del sistema italico da basso Impero nel quale viviamo. Poi è arrivato Silvio Berlusconi, a sistematizzare con la sua forza finanziaria e mediatica e il carisma personale che è difficile disconoscergli l'uso in grande della politica a fini di potere personale e di copertura delle proprie innominabili turbe psichiche e morali. C'è un filo diretto fra l'una e l'altra scansione del triste processo? Certo che c'è, basterebbe esaminare con attenzione le storie e i rapporti personali e le fortune pubbliche e private di ognuno di questi protagonisti per rispondere affermativamente. Se non lo rivelasse in maniera esplicita quel che emerge vistosamente dai vari anelli di questa storia, ci avrebbe pensato la potente struttura della massoneria deviata a fornirgliene una (e oggi? mah, io no lo so, ma sarebbe interessante che qualcuno che se ne intende se ne occupasse).

A questa fenomenologia di profondo degrado politico e morale si sono accompagnati, e da un certo momento in poi si sono profondamente intrecciati, due altri aspetti di eguale portata storica. Il primo è rappresentato dal vasto consenso che, nella latitanza di una politica alternativa seria, hanno riscosso le proposte di una politica corrotta (sul molteplici piani) e affaristica.

Qui il discorso dovrebbe calarsi sull'Italia: su ciò che l'Italia è o non è, su ciò che avrebbe potuto essere e non è stata (dall'Unità nazionale in poi, s'intende; ma in maniera più pressante dalla Resistenza fino ai nostri giorni). Non possiamo dilungarci. Basti qui rilevare che, nel corso degli ultimi trent'anni, cui all'inizio alludevamo, le due sponde del processo si sono avvicinate sempre di più: la politica corrotta ha favorito l'emergere di una nazione infetta; la nazione infetta ha manifestato un suo ampio consenso, e persino la sua gratitudine, alla politica corrotta.

L'altro aspetto storico di notevole importanza è di segno opposto. L'affermazione di una politica corrotta all'interno di una nazione infetta ha incontrato un argine, forse superiore alle previsioni, nell'applicazione delle leggi, cioè da parte, essenzialmente, della magistratura. Ciò è accaduto sia nei primi grandi casi di corruzione della politica (l'affarismo democristiano, l'avventura socialistico-craxiana); sia, ancor più clamorosamente, nei casi recenti riguardanti scelte personali, scelte affaristiche e scelte politiche tout court di Silvio Berlusconi.

Questa resistenza ha avuto un aspetto positivo e uno negativo. L'aspetto positivo riguarda, appunto, la forza di resistenza di pezzi intieri dell'apparato dello Stato, allevati nel culto della separazione dei poteri e dello Stato di diritto, e non corrompibili (se lo fossero stati, no?, questa storia non sarebbe nemmeno cominciata). L'aspetto negativo riguarda l'evidente incapacità della politica, - quella sana, o presunta tale, - di sottrarsi con le sue sole forze al ricatto della corruzione.

Per carità, nel lungo periodo di cui parliamo sono stati Presidenti della Repubblica personalità come Ciampi, Scalfaro, Napolitano: sarebbe certo un errore ridurre tutta la storia politica italiana alla tabula rasa, che comunque, a vederne le conclusioni, si direbbe la sua vera sostanza. Forse sarebbe più esatto dire che a opporre un argine con gli argomenti giusti non sono riusciti e spesso non hanno neanche pensato i gruppi dirigenti dei partiti democratici, che avrebbero invece dovuto farne la loro principale missione (anche da qui si dipartirebbe un troppo lungo discorso, che faremo un'altra volta, ammesso che ce ne sia ancora l'opportunità).

Richiamo queste poche e piccole cose, che tutti conoscono ma pochi ricordano, per dare maggior forza alle mie argomentazioni successive. Ciò di cui oggi parliamo non nasce a caso, ha radici profonde. Le mezze misure non bastano più, gli accomodamenti fanno ancora più male. Dico questo perché penso che quel che è avvenuto in queste ultime settimane e in questi ultimi giorni nel nostro paese non costituisca una scoperta improvvisa, una novità sorprendente, ma un punto di non ritorno. Dalla direzione che ora s'imbocca dipende tutto il resto.

Silvio Berlusconi è stato condannato in via definitiva per frode fiscale. Quello che, su questa legittima e ormai incontestabile sentenza, egli è riuscito a costruire seduta stante ha tutti caratteri di una manovra eversiva contro la separazione dei poteri e contro lo Stato di diritto, cioè contro la nostra democrazia. Non ci sono parole per descrivere ciò che ha detto nel suo messaggio televisivo. Non ci sono parole per descrivere il senso dell'appello alla piazza nei dintorni della sua principesca abitazione romana, e il fatto medesimo che esso sia stato possibile e si sia realizzato.

Siamo cioè di fronte a un pregiudicato che per salvarsi, e persino per rilanciarsi, fa appello alla folla, cioè all'indeterminato più incontrollabile della volontà popolare (per un gioco della sorte Palazzo Venezia è a due passi), per dire che le regole del gioco son quelle che lui ha inventato e pratica per sé. Anche un bambino capirebbe che la sua dichiarazione di lealtà al Governo Letta non è che una copertura al suo gioco eversivo. Tengo in piedi il Governo, a patto che mi riconosciate l'impunità.

Questo gioco va immediatamente contrastato e sconfitto. Io, che sono un moderato fra gli estremisti, dico che in questo momento la questione decisiva non è quella della sopravvivenza del Governo Letta. La questione decisiva è la difesa della libertà repubblicana. Questa è la linea del Piave delle istituzioni, del Parlamento e dei partiti «sani», che su questo punto devono dimostrare se la loro «sanità» è vera o solo presunta. Sono gli altri, i «berluscones», che devono accettare la difesa della legalità a tutti i costi, se vogliono tenere in piedi il governo; non viceversa, come, ahimè, cercheranno in tutti i modi di motivare e fare (e non solo loro, ma anche altri).

La difesa della legalità repubblicana consiste del resto in questo momento in tre semplici cose: 1) l'applicazione in tutti i suoi modi e forme della sentenza; 2) la decadenza ipso facto - cioè, anche qui, pura e semplice - del condannato dal suo seggio parlamentare; 3) la moltiplicazione urbi et orbi di tutte le voci disponibili (istituzioni, Parlamento, politica) a favore della legalità repubblicana e di condanna esplicita e senza riserve delle molteplici, infami dichiarazioni dei sostenitori del Capo contro la magistratura e a favore della sovversione (serve fare esempi?).

Un ruolo importante, anzi decisivo, è destinato a svolgere in questi frangenti il Presidente Napolitano. Come lui sa meglio di chiunque altro, la difesa della legalità repubblicana non tollera né mediazione né sconti: paradossalmente, come già dicevo, è perciò più semplice, c'è solo da tener ferme le regole, e difenderle contro gli attacchi forsennati cui sono sottoposte.

Chiedo, chiediamo al Presidente Napolitano di farsi garante della corretta e totale applicazione della sentenza della Cassazione, con tutte le necessarie e inevitabili ricadute. Chiedo, chiediamo, al Presidente Napolitano che vada in televisione a dire, con uno di quei suoi discorsi semplici e diretti di cui è capace, che a nessuno è consentito di evocare e sollecitare lo scontro con lo stato di diritto e contro la separazione dei poteri, e che la campagna eversiva suscitata da Silvio Berlusconi e dai suoi amici in questi giorni non è tollerabile, è anch'essa un reato, che replica un reato.

La crisi delle democrazie in Europa nel corso del Novecento, e segnatamente in Italia, sono state sempre favorite dalla debolezza delle classi dirigenti e dalla loro incapacità di segnalarne la progressiva avanzata. Il rischio che la democrazia fosse travolta in genere è stato segnalato ventiquattro ore dopo che sera stata travolta (così come il più delle volte coloro che ne segnalavano il rischio sono stati accolti dalle risate e dal dileggio dei contemporanei). L'Italia, come sempre, è un paese speciale. In Italia oggi il rischio della catastrofe della democrazia non consiste nel colpo di Stato (di cui peraltro, il nostro personaggio, se ce ne fosse bisogno, sarebbe capace). Consiste in una cosa anch'essa più semplice, e in fondo più lurida, e cioè nella pratica cancellazione e dissoluzione delle regole e dei valori che la sovraintendono e la rendono possibile. Questo rischio oggi è assolutamente reale: non a caso il pregiudicato invoca come prima riforma la riforma della giustizia, con lo scopo, ora e sempre, di mettersi al riparo dai rischi della sua applicazione.

O lo si ferma prima che questa soglia sia varcata: oppure tutto il resto, - governo e governance, riscatto possibile dei partiti democratici dalla loro subalternità, ricostruzione del rapporto etica-politica - sarà perduto. Chi sottovaluta è complice. Solo chi è consapevole di questo, e agisce di conseguenza, può ricominciare.

La cronaca di Concita De Gregorio e Il commento di Curzio Maltese alla (finta) uscita di scena del nefasto clown,

la Repubblica, 5 agosto 2013 Viene in mente, per l'abissale contrasto, una famosa uscita di scena di un grande clown, Charlie Chaplin, in Luci della ribalta.
Quella maschera triste in scena a palazzo Grazioli
di Concita De Gregorio

Non sono venuti. La prima a salire sul palco per dare un’occhiata portandosi la mano alla fronte come si fa davanti ad orizzonti di folla oceanici è Daniela Santanchè, già candidata alla vicepresidenza della Camera nel governo di larghe intese e miti pretese, oggi qui impegnata a dire che la grazia dal Quirinale deve arrivare e che lei di Napolitano non ha paura, «è un uomo come noi», che lei è pronta a fare la rivoluzione a marciare sul Colle. Già questo dettaglio indice di quanto la “manifestazione spontanea” possa impensierire il presidente del Consiglio Enrico Letta, a Napolitano caro come un figlio, circa le sorti di un governo di cui il pregiudicato Silvio Berlusconi è azionista di riferimento e Santanchè cupa cheerleader. Purtroppo non sono venuti. I 500 pullman attesi, tutto pagato per tutti, devono aver avuto un intoppo che non è solo, come dice Fabrizio Cicchitto col consueto senso delle istituzioni, l’ostinazione di «quel cretino di Marino», sindaco di Roma, a dire che la manifestazione non è stata autorizzata, che nessuno ha chiesto il permesso di bloccare via del Plebiscito e di deviare gli autobus dal centro della Capitale. Di usare la città come se fosse il suo personale salotto e pazienza per chi da piazza Venezia doveva passare ieri per esempio per andare in ospedale, o a un appuntamento d’amore o a prendere il treno, in fondo è domenica, è agosto e chissenefrega degli altri. “Il Popolo della Libertà per la libertà di Silvio”, dice uno striscione. Il senso della mesta messa in scena è tutto qui: un partito al servizio della personale vicenda privata del suo duce. Ed è difatti dal Balcone, che ci si aspetta che si affacci. In un gioco di specchi nei balconi di Palazzo Venezia sono invece assiepati oggi i fotografi, il dirimpettaio sul suo terrazzino ha messo su la bandiera tricolore, è un uomo di Stato intende dire, l’una volta missino Gasparri si protende dall’alto del balcone verso i militanti e li incita a cantare. “Meno male che Silvio c’è”, intona qualcuno memore del “Silvio ci manchi” su cui Francesca Pascale, fidanzata dell’ex premier, ha investito fin dai tempi di Telecafone con successo.

Arrivano insieme a Palazzo Grazioli, lei col barboncino Dudù, lui impegnato a infilarsi la giacca con un gesto che le foto impietose immortalano insieme alla nudità dell’ampio ventre. Il tempo di cambiarsi, Pascale ha scelto il tubino nero in altri contesti celebre, ed eccoli. Sulle note dell’Inno di Mameli, Fratelli d’Italia. Entrambi in nero, vestiti come a lutto. Lui in maglietta girocollo che ringiovanisce, devono avergli detto. E anche di usare prudenza, devono avergli suggerito dal Colle e da Palazzo Chigi, di fare molta attenzione alle parole giacchè la “guerra civile” evocata dal fidato Bondi ha indispettito non poco il Presidente. Perciò il discorso è lento, e mesto.

Sono le sei e un quarto di pomeriggio quando, in una giornata torrida insolentita dai gesti di scherno di Alessandra Mussolini legittima nipote e dal ribollire dell’asfalto, il Nostro non dal balcone si affaccia ma dal portone, e sale sul palchetto replicato da un paio di schermi. Qualche migliaio di persone sventolano bandiere opportunamente fornite agli angoli della via dall’organizzazione, bandiere di Forza Italia giacchè è da lì, dal suo personale partito e non dal Popolo delle libertà, che il condannato B. intende ripartire. «Sono qui, resto qui, non mollo», dice, e dunque boia chi molla.

Gli autobus che hanno portato i manifestanti — molte coppie di anziani, parecchi giovanotti con occhiali scuri a goccia, una grande maggioranza di signore in età che siripetono commenti sul suo charme — sono dall’Umbria sono alla fermata Anagnina, quelli da Reggio in piazza Venezia dove però purtroppo non possono sostare, sempre per via di “quel cretino” del sindaco, dunque gli autisti stanno in moto girano in tondo. Matteoli e Micchichè raggiungono il retropalco, Franco Carraro è già in prima fila, Anna Maria Bernini e Mara Carfagna arrancano fra i sudati annaffiati da bottigliette d’acqua fornite dal servizio d’ordine. È chiaro che chi è dentro al Palazzo ha maggior rango rispetto a chi è fuori, segnali di dispetto di alcuni esclusi che, platealmente — Carraro fra questi — se ne vanno.

Dal palco, con la maschera del volto atteggiata ad un pianto senza lacrime, Berlusconi deve dire due cose: che il governo vive, questa è la più importante e la prima, la più deludente per quelli che erano arrivati coi cartelli “Basta larghe intese”, “Ora condannateci tutti”. Vive, il governo, perché la libertà dell’ex premier per cui il suo Popolo è venuta a manifestare prevede che ci sia qualcuno che gliela garantisce, e il cinico calcolo dice che solo tenendo in vita questo governo Berlusconi può sperare. Se poi sarà il Pd a volere le elezioni faccia pure, lui per parte sua, sia chiaro, resta. Condannato in ultima istanza, ma resta. Ed è questa la seconda cosa che ha da dire, a proposito della condanna: che lui è innocente. Ovazione, boato. Innocente condannato da giudici comunisti, tristi impiegatucci dello Stato — sventolare di bandiere — che non lo fermeranno, certo che no, perché lui di quel 7 milioni e rotti che doveva allo Stato negli anni in cui di quello stesso Paese era alla guida, mica qualche migliaio di euro di Imu saldati in ravvedimento come la Idem, di quei 7 milioni frodati al fisco ha già ripagato tutto, perciò cosa vogliono da lui.

Si capisce che Enrico Letta sia in apprensione, sì, in specie quando pensa a una campagna elettorale eventuale. E si capisce anche la prudenza di un discorso breve, inconcludente, che lascia perplessa la minoranza di manifestanti venuta da casa senza bus che si aspettava invece — dice la signora Gemma, romana — che “Silvio mandasse tutto a monte, perché Silvio è il numero uno e se si va a votare domani vince lui”. Questo un po’ il rischio, in effetti, visto da altre dimore politiche. In piazza gridano “libero, libero” a un uomo che con ogni evidenza è libero già: di fare della pubblica via il suo teatro e di dire che la Cassazione è comunista e antidemocratica. Tre o quattro ragazzi di passaggio intonano Bella Ciao, vengono aggrediti da una selva di voci che gridano “in Siberia” e cacciati dalla strada. Una donna dice che nessun pregiudicato dovrebbe stare al governo, le lanciano monetine. Per chi deve tornare a Gallipoli in bus s’è fatta una cert’ora, la sparuta pattuglia in occhiali scuri comincia a defluire. Carfagna era già stata scortata via mezz’ora fa. Le finestre di palazzo Venezia si chiudono, quelle di fronte di casa Berlusconi si accostano. Era questo, solo questo. Un piccolo intermezzo agostano ad uso delle tv, con parecchi figuranti e il protagonista a difendere se stesso, come sempre. Ricordava un po’ le antiche manifestazioni dell’ultimo Msi, pochi ma molto convinti. Letta ha seguito in diretta tv. Napolitano è stato costantemente informato. Poteva andare peggio, in fondo, dal loro punto di vista. E’ stato breve, ma triste.


Il salvacondotto del Cavaliere
di Curzio Maltese

NON si voterà a ottobre. Il governo Letta non cadrà, i ministri della destra non si dimetteranno e neppure i parlamentari. Alla fine come sempre Berlusconi ha compiuto la scelta più astuta e pragmatica, mantenendo l’unico salvacondotto di cui oggi può disporre: rimanere nella maggioranza di governo e condizionarne il cammino.

All’(ex) uomo più potente d’Italia questo oggi rimane, di tanta speme. Il suo popolo comincia ad abbandonarlo, come testimoniavano ieri le sparute comitive di pasdaran accorsi all’appello. C’era davvero poca gente davanti a Palazzo Grazioli, nonostante i tentativi del Tg5, in versione cinegiornale Luce, di farla apparire una folla oceanica. Falsa cronaca e truccati i sondaggi che sbandierano un’impennata di consensi alla quale il capo è il primo a non credere. Berlusconi dunque non rovescerà il tavolo perché probabilmente non otterrebbe l’agognato salvacondotto dagli elettori. Tanto meno può sperare di ottenerlo dal Quirinale.

Non s’è mai visto un presidente della Repubblica concedere una grazia a un condannato che è anche imputato in molti altri processi, non si è mai ravveduto e anzi continua ad attaccare la magistratura. Senza contare che il gesto di clemenza avrebbe un effetto devastante sull’immagine del-l’Italia all’estero, dove la «caduta del buffone» (The Economist) da giorni suscita commenti in bilico fra disgusto, fastidio e commiserazione per il nostro Paese. L’argomento principale dei cortigiani alla Santanchè, e cioè che uno votato da dieci milioni di italiani (in realtà sono otto) avrebbe diritto naturale alla grazia, oltre Chiasso fa ridere. Richard Nixon aveva appena stravinto le elezioni in 49 stati su 50 quando fu travolto dal Watergate, ben prima dei processi. Helmuth Kohl aveva governato quasi quanto Bismarck, unificato la Germania e preso venti milioni di voti dei tedeschi, quando fu spazzato dalla scena politica per aver creato fondi neri per 300 mila euro. Meno di un millesimo dei fondi neri creati dal nostro.

Senza potersi appellare al popolo o al Quirinale, l’unico salvacondotto che rimane a Berlusconi è quello del governo di larghe intese. Non sarebbe del resto stato semplice convincere i ministri della destra, che ieri non si sono fatti vedere al bel funerale, a mollare le poltrone. Ora il problema politico passa paradossalmente tutto nel campo del Pd. Il premier Letta e il partito di maggioranza sono attesi a prove ardue. Berlusconi non rimarrà buono e calmo nei prossimi mesi, continuerà ad alternare le giornate da statista a quelle da arruffapopolo, i toni concilianti responsabili a quelli
ricattatori. Il Pd è come quei signori eccentrici che prendono a guinzaglio un ghepardo e pretendono di trattarlo come un chihuahua. Dovranno tenere a bada gli istinti ferini del Cavaliere e della corte al seguito, nello stesso tempo fronteggiare la rivolta morale della base e negli intervalli pensare a come uscire dalla crisi. Un compito difficile perfino per gente bravissima nell’arte del temporeggiare. Già oggi la grande missione del governo, quella di portare fuori il Paese dalla crisi, per la destra è diventata secondaria rispetto all’urgenza di prendersi una vendetta sulla magistratura, mascherata da riforma della giustizia.

Tirare a campare, diceva all’epoca Giulio Andreotti, è sempre meglio che tirare le cuoia. Ma in questo caso le due strategie potrebbero coincidere.

Un partito che non più “partito” cioè (“parte” di una società plurale) ma aspira a essere “tutto”. Una deriva molto pericolosa. Del resto, non è da una matrice “socialista” che nacque il fascismo italiano, e da una “nazionalsocialista” il nazismo?

La Repubblica, 4 agosto 2013
Il Partito Democratico si aggroviglia in una diatriba che è sulle sue interne regole del gioco ma ha implicazioni ben più estese. Per questo le sue vicende convulse vanno seguite con attenzione e analizzate con occhio critico, con il pensiero rivolto alle ricadute sulla politica nazionale. La disputa su chi ha diritto di votare per il segretario (che per statuto sarà poi anche il candidato premier alle prossime elezioni politiche) riguarda tutti noi, non soltanto i democratici. Quando fu fondato, questo partito fu pensato e strutturato come se dovesse diventare il protagonista di una democrazia bipolare all’americana e con vocazione presidenzialista. Questa era la visione di Walter Veltroni. Liquidata la piramide di organismi che governavano iscritti/e e articolavano idee politiche sulle quali identificarsi e a partire dalle quali dare battaglia agli avversari, il nuovo partito doveva essere un’associazione leggera di simpatizzanti e soprattutto votanti di leader e candidati. Una macchina per registrare il consenso elettorale più che farsi promotrice di creare consenso sulle idee. Lo statuto del partito riflette questa trasformazione.

Ecco la definizione contenuta nel primo articolo: “Il Partito Democratico è un partito federale costituito da elettori ed iscritti”. Costituito da chi ha diritto di voto, cioè, quindi idealmente da tutti noi cittadini/e italiani/e. Non solo dagli iscritti. Potrebbe sembrare che questa visione inclusiva sia in sintonia con la natura democratica – non chiudere le paratie con la società, rendere il partito permeabile e aperto a tutti in ogni momento. È una visione peculiarmente post-partitica per la quale la figura più importante (quella che oggi fa più discutere) è quella dell’elettore, non dell’iscritto. Gli elettori possono certo votare questo partito quando lo ritengono opportuno, ma non sono per questo parte “del partito democratico” come lo sono invece gli iscritti. Questi, non i primi, sono i componenti del partito, perché questi, non i primi, hanno rinunciato alla segretezza del voto dicendo a tutto il mondo da quale “parte” stanno. È questa la ragione per la quale sarebbe ovvio pensare che le cariche del partito siano oggetto di decisione da parte di chi si dichiara pubblicamente legato alla “parte”. La scelta del segretario dovrebbe competere a chi è espressamente parte. Semmai, questa inclusione universale potrebbe essere adattata alla scelta del candidato premier (come avviene negli Stati Uniti), benché anche in questo caso le paratie dovrebbero poter essere abbassate in qualche punto del grande oceano del corpo elettorale, affinché destra e sinistra non si confondano come in un grande minestrone di idee e interessi pronti a salire sul carro dell’ipotetico vincitore.

Ecco dunque che lo statuto definisce anche gli “elettori/ elettrici” democratici. Lo fa al comma 3 dell’articolo 2: “Ai fini del presente Statuto, ove non diversamente indicato, per ‘elettori/elettrici’ si intendono le persone che, cittadine e cittadini italiani nonché cittadine e cittadini dell’Unione europea residenti in Italia, cittadine e cittadini di altri Paesi in possesso di permesso di soggiorno, iscritti e non iscritti al Partito Democratico, dichiarino di riconoscersi nella proposta politica del partito, di sostenerlo alle elezioni, e accettino di essere registrate nell’Albo pubblico delle elettrici e degli elettori”. L’elettore che dichiara il proprio voto e quindi rinuncia a quelle garanzie di segretezza di cui godono tutti gli elettori italiani secondo la Costituzione, viene a costituire un altro raggruppamento, diverso da quello degli iscritti. Gli “elettori/e” sono elencati in un Albo che è pubblico e per questa ragione possono, come gli iscritti, partecipare alle scelte elettorali – votare per il candidato segretario e per il candidato premier. Si intuisce quanta importanza possa avere per i candidati fare affidamento su pacchetti di “elettori/ elettrici”. Alla fine dell’elezione, gli iscritti contano assai meno degli “elettori/elettrici” in quanto il loro numero è molto più basso e poi non tende, come quello degli iscritti all’Albo, a variare in coincidenza con le elezioni del segretario o del premier.

Lo statuto del Partito democratico ha come si vede una vocazione plebiscitaria, per la quale il collettivo degli iscritti ha meno rilevanza del numero dei votanti (anche per questa ragione la sua vita politica interna è molto povera). Una vocazione che interpreta la partecipazione come plebiscito che deve confermare l’appetibilità di un leader e della sua immagine, piuttosto che mettere a fuoco un programma di governo. Questo si verifica già ora, quando i candidati che hanno annunciato di competere per il ruolo di segretario “ci mettono la faccia” ma molto meno le idee. È del resto il capo che deve essere oggetto di plebiscito non i programmi, troppo complessi e deliberativi. Il partito plebiscitario ha un deficit di rappresentatività a fronte di un eccesso di personalismo.

L’innamoramento di molti democratici per la forma semi- presidenziale di governo trova nella struttura del loro partito una ragione non peregrina. Il modello di partito che lo statuto del Pd propone induce a leggere la democrazia elettorale come democrazia plebiscitaria più che come democrazia rappresentativa, più radicata nel leader che nel Parlamento, più intenta a votare sì/no che a discutere e schierarsi per una qualche visione. Un partito poco deliberativo. E questo trova conferma anche nell’unificazione delle cariche di segretario e di candidato a premier, la quale impone che la scelta del primo venga fatta pensando non a che cosa propone e rappresenta rispetto all’identità del partito, ma a quanto attraente sia per l’opinione pubblica e il network mediatico, a quante. Chance ha di vincere le elezioni. Partito debole per una leadership forte, con molte inquietanti implicazioni che si distendono oltre via del Nazareno.

Greenreport, 2 agosto 2013

Molti di noi posseggono uno smartphone. E a molti di noi sarà capitato, proprio di fronte a questi telefonini, di lasciarsi andare al fascino della marca, dello status symbol, delle potenzialità esponenzialmente crescenti di oggetti iper-tecnologici. Nello scegliere tra ciò che offre il mercato, ogni catalogo è sfogliato quasi fosse un breviario, alla ricerca della migliore offerta o del rapporto qualità/prezzo più soddisfacente.

Sullo sfondo, come un rumore bianco, il pensiero di dove quel telefono è stato fabbricato. Con quali componenti? Il nostro telefono usa materiale environmental friendly? L’azienda che lo produce rispetta vincoli stringenti di sostenibilità? E, ancora, è stato impiegato lavoro minorile sotto-pagato per produrre il nostro telefono? Oppure no? Queste domande, forse, assillano i nostri desideri per qualche minuto. E poi tornano a fare il loro lavoro: quello, cioè, dell’ininfluente rumore bianco.

La questione non è banale perché si tratta di un tema centrale delle letteratura non solo economica, ma anche sociologico-antropologica: qual è il rapporto tra economia di mercato e valori morali?

Il filosofo Michael Sendel, autore di un corso di teoria della giustizia che è un clamoroso successo anche su Youtube, ha scritto un saggio molto rilevante, (Quello che i soldi non possono comprare (I limiti morali del mercato), in cui affronta rigorosamente il tema.

Da un punto di vista empirico, tuttavia, è ancora più rilevante lo studio pubblicato su Science da due ricercatori, Amin Falk e Nora Szech (università di Bonn): Morals and Markets . Attraverso il metodo sperimentale, infatti, i due studiosi hanno investigato il nesso causale tra mercato e valori morali, giungendo a un risultato tanto robusto quanto rilevante: l’economia di mercato erode i valori morali.

Lo studio è semplice e ben congegnato. Sostanzialmente, più di 700 soggetti sono stati divisi in tre gruppi (per ripetute sessioni), ognuno dei quali ha partecipato a un trattamento diverso che aveva di fronte il medesimo dilemma: scegliere tra la possibilità di ricevere del denaro o salvare la vita a un topolino.

Un primo gruppo di persone (individual treatment) ha partecipato all’esperimento senza interazioni con altri. Ogni soggetto di questo gruppo veniva messo di fronte a due opzioni:
- opzione A: ricevere 10 euro di compenso
- opzione B: salvare la vita a un topolino, altrimenti destinato ad essere eliminato dai ricercatori del laboratorio

Il secondo gruppo di persone, invece, ha partecipato a un esperimento (bilateral market) in cui, a coppie, si creava un’interazione tra un possibile venditore – cui veniva data, di fatto, in dotazione la vita del topolino – e un possibile compratore, per una negoziazione massima di 20 euro. In sostanza, il venditore poteva decidere se vendere la vita del topolino o se rifiutare qualunque scambio, salvando così l’animale. In caso di accordo, il venditore riceveva il prezzo e il compratore i 20 euro meno il prezzo pattuito. La morte del topolino, conseguenza della negoziazione, è un perfetto esempio di esternalità negativa di uno scambio.

Un ultimo gruppo, infine (multilateral market) ha partecipato all’esperimento con un’asta che consisteva in un mercato di 9 venditori e 7 compratori, in cui si poteva contrattare, come sempre, la salvezza del topolino o un determinato prezzo per cui venderla.

I risultati sono molto interessanti: nel trattamento individuale, solo il 45.9% degli individui decide di accettare i 10 euro, determinando la morte del topo; nella negoziazione a 2, il 72.2% delle persone vende la vita del topo per un prezzo inferiore a 10 euro; infine, nel trattamento con asta multilaterale, il 75.9% dei giocatori vende la vita del topolino, con prezzi che crollano drasticamente.

L’interpretazione offerta dai ricercatori offre molteplici spiegazioni:
- Quando ha luogo un’interazione di mercato, il fatto che ci siano più persone implica automaticamente la possibilità di condividere una responsabilità e, di conseguenza, anche la colpa di un atto immorale
- L’interazione di mercato rivela, attraverso uno scambio di informazioni, anche le norme sociali di un particolare contesto. Questo fa sì che, se una persona vede qualcun altro vendere la vita di un topo, può pensare che ciò sia moralmente accettabile. E compiere di conseguenza la medesima scelta
- Quanto più il mercato si amplia, tanto più prevale una sorta di liquefazione della responsabilità e di marginalità del singolo soggetto coinvolto. Se chi partecipa a un mercato arriva a pensare che il suo comportamento sia ininfluente per l’esito finale dello scambio, una sorta di rilassamento morale potrebbe prevalere.

Lo studio di Falk e Szech è di grande rilevanza, soprattutto in tempi di economia globale e crisi, allorché proprio la deresponsabilizzazione ha generato, nel mondo finanziario, comportamenti speculativi e immorali non in grado di tenere nel dovuto conto le conseguenze di lungo periodo di un azzardo morale.

I due ricercatori concludono l’articolo senza un giudizio di merito sull’economia di mercato: nessuno, infatti, sostiene che altre modalità di rapporto tra economia e società (economie centralizzate e totalitarie, per esempio) producano risultati moralmente più accettabili. Questo studio, tuttavia, getta luce in modo scientificamente robusto sul rapporto causale tra mercato e valori, ponendo l’accento sulla questione della responsabilità. Un principio troppo spesso negletto dalla società odierna.

«Berlusconi cade nel punto esatto da cui aveva incominciato: l'incrocio tra affari e politica. Per questo la sentenza della Cassazione illumina l'intero ventennio, con una rilevanza sul giudizio politico che non può essere attenuata da nessuna opportunità o prudenza». Il manifesto, 3 agosto 2013
Quello che tutti sapevano, ora - da giovedì 1 agosto alle 19,38 - è giudizio definitivo e irrevocabile: per vent'anni la politica di questo Paese è stata influenzata e a lungo guidata da un fuorilegge. Da un evasore fiscale seriale che ha continuato a frodare lo Stato (che era chiamato a rappresentare) anche quando ne era Capo del Governo e leader del principale partito, titolare di un potere conquistato e mantenuto grazie alle proprie smisurate risorse e alla impotenza di un'opposizione di Sua Maestà culturalmente subalterna e politicamente connivente.
Berlusconi cade nel punto esatto da cui aveva incominciato: sull'incrocio tra affarismo e politica. Tra potenza economica costruita sul filo dell'illegalità e potere politico da essa alimentato con metodi "non ortodossi". Per questo la sentenza della Cassazione illumina l'intero ventennio che ci sta alle spalle, con una rilevanza sul giudizio politico che non può essere attenuata da nessuna ragione di opportunità o di prudenza.
Con buona pace di chi, Pd in testa, ripete l'inaccettabile tormentone che invita a tener separate le questioni giudiziarie da quelle politiche (come se la Politica potesse prescindere dalla Giustizia, e le valutazioni tattiche dal giudizio storico). Quali che siano le immediate risposte degli estenuati protagonisti dell'attuale establishment politico (le furie impotenti del centrodestra, gli imbarazzi imbarazzanti del centrosinistra, i sussurri e le grida degli uni e degli altri), è certo che un'epoca si è chiusa, definitivamente. Un tabù è stato infranto (l'impunità dell'"unto dal signore"). Un principio di legalità è stato affermato (la Legge non si arresta al portone del Palazzo).
Un potente è caduto, un po' come accadde settant'anni fa, più o meno negli stessi giorni, quando un altro ventennio si chiuse, e il suo protagonista si trovò i carabinieri alle porte e un'ambulanza per riservargli un'uscita discreta verso gli "arresti domiciliari" sul Gran Sasso. Può darsi che il Cavaliere (oggi No Cav, per incompatibilità del titolo con la condizione di pregiudicato) resista ancora in qualche estrema ridotta. Che possa ancora fare del male (e molto). Ma il suo ciclo è finito.
Quali siano le conseguenze di tutto ciò, è al momento difficile calcolare. Sul piano immediato, certo è che oggi più di ieri appare del tutto inconcepibile l'idea che questa maggioranza (di cui lo stesso Berlusconi è il principale azionista e nella quale il suo partito personale ha un peso decisivo) possa anche solo pensare di metter mano alla Costituzione. Non ne ha né la legittimazione politica (resta minoritaria in valori assoluti nel Paese), né la dignità morale. Nella profondità abissale della crisi italiana la Carta Costituzionale è l'unico punto fermo cui riferirsi. Minarne l'integrità sarebbe un delitto. Mai come ora, dopo lo scempio di questo ventennio, si tratta di applicarla nella pienezza dei suoi valori, non certo di cambiarla.
Allo stesso modo, appare davvero aberrante parlare, con questa maggioranza e con questo Parlamento, dopo questa sentenza e le reazioni che l'hanno seguita, di "riforma della giustizia". Ed è difficile comprendere le ragioni per cui il Capo dello Stato abbia evocato questo tema, dando l'impressione di offrire in qualche modo la Magistratura come vittima sacrificale all'ira funesta del centrodestra nelle stesse ore in cui il loro Capo, nel suo sconquassato messaggio televisivo, l'attaccava frontalmente. A meno che lassù, sul colle più alto, si ritenga che tutto possa essere sacrificato all'unico dio della stabilità di governo, secondo una logica che solo apparentemente può essere considerata prudente, ma che nella sostanza sarebbe pericolosissima (ancorché in linea con le peggiori oligarchie globali in guerra con il costituzionalismo democratico).

Sul più lungo periodo è probabile che il big bang che sta devastando il centrodestra travolga, per contagio, anche quel che resta del centrosinistra, con qualche milione di elettori di destra alla ricerca di una casa, e altrettanti di sinistra alla ricerca di una ragione. Questo l'effetto velenoso del pasticciaccio brutto di piazza del Quirinale, e del progetto delle "grandi intese" destinato a cancellare anche quei pochi anticorpi morali che erano sopravvissuti a sinistra all'infezione berlusconiana. Ancora una volta ci tocca assistere, come settant'anni or sono, al fallimento di un'intera classe dirigente. E come allora, le uniche speranze possibili (lo sappiamo quanto esili, o comunque poco visibili) sono affidate all'emergere di una classe politica "altra", non logorata né contaminata, culturalmente e politicamente libera dai vizi di un ventennio di vergogna.

Condividere o meno il governo del paese con un grande evasore fiscale (7 miliardi di €) condannato in via definitiva da una magistratura indipendente è o no una questione politica? E allora la politica sappia decidere, oppure lasci libero il campo all'anarchia. Il manifesto, 3 agosto 2012

Sin dal suo discorso d'insediamento Enrico Letta ha chiarito di non essere disposto ad «andare avanti ad ogni costo». La domanda allora è: la condanna a 4 anni per frode fiscale del leader indiscusso e carismatico del partito che lo sostiene ha fatto superare questo limite?

Per evitare di rispondere a questa che è la semplice ma vera questione da porsi oggi dopo la decisione della Cassazione ci si potrebbe trincerare dietro a considerazioni di tipo istituzionale. È evidente, ad esempio, che la divisione dei poteri fa sì che le decisioni della magistratura non possano esercitare alcuna influenza diretta sugli equilibri parlamentari, di conseguenza il rispetto della sentenza e l'esecuzione della condanna non comportano di per sé il venir meno della maggioranza di governo. L'affermazione di Epifani che impegna il Pd a far «rispettare, applicare e eseguire» la sentenza è dunque del tutto corretta, ma non concludente. Anzi, la richiesta rivolta alle forze politiche, e al Pdl in particolare, di «non usare forzature istituzionali» mostra una difficoltà a scendere sul vero terreno di scontro per affrontare i reali termini del problema politico che la condanna di Berlusconi pone. Più incisiva la nota del Quirinale, diffusa dopo la sentenza, che non solo richiama al rispetto verso la magistratura, ma chiarisce anche quali sono le condizioni per proseguire il cammino comune: ponendo al centro dell'agenda politica i problemi della giustizia.

Per uscire dalla crisi - scrive Napolitano - c'è bisogno di ritrovare serenità e coesione sui temi istituzionali (la giustizia in primis) che per troppi anni hanno diviso aspramente il paese. Ha ragione il Presidente, è questa la questione politica di fondo su cui si giocherà il futuro del governo. Ma ci si deve anche chiedere che vuol dire in concreto aprire oggi un confronto sulla magistratura. È chiaro il punto di vista del Pdl. Le dichiarazioni e poi il video-messaggio di ieri sera di Berlusconi lo hanno ribadito senza possibilità di equivoci.

Non si può vivere in questo Paese prigionieri della magistratura, è necessario riportare sotto controllo quei pubblici funzionari che non essendo «eletti dal popolo ma selezionati attraverso un concorso» non possono porsi come «potere dello Stato». In realtà non può stupire che vi sia uno spirito punitivo nei confronti dell'ordine della magistratura e che l'indipendenza sia il vero oggetto polemico, nonché l'asse di un possibile accordo politico. I toni bassi tenuti alla vigilia della decisione della cassazione, imposti esclusivamente da ragioni di strategia processuale, sono già scomparsi. È evidente che Forza Italia ri-nascerà rivendicando «la più indispensabile di tutte le riforme», per liberare l'Italia da «un esercizio assolutamente arbitrario del più terribile dei poteri: quello di privare un cittadino della sua libertà».

Le altre forze politiche, il Pd in primo luogo, ma anche il Presidente del consiglio, sono disposti a farsi trascinare sul terreno della «vendetta» nei confronti della magistratura? Non ci si illuda ancora una volta, non si potrà evitare lo scontro ed immaginare che si possano pacatamente affrontare le reali e gravi disfunzioni che affliggono il sistema giudiziario. Se è stato impossibile sin qui, ora il clima è peggiorato.

Come uscirne? Con un'azione di chiarezza e verità. La maggioranza delle larghe intese ha sino ad ora combinato poco sul piano economico (i dati statistici sono impietosi e la paralisi politica sulle decisioni di maggior respiro sono palesi) e sta operando in modo confuso e avventato sul piano istituzionale (dalla legge sui rimborsi elettorali alla revisione costituzionale). Se non si vuole «andare avanti ad ogni costo» si deve definire un programma di governo diverso da quello fin qui non realizzato, che magari ponga al centro del proprio operato un'uscita dalla crisi economica socialmente compatibile. Le proposte non mancano. Vero è che esse sono assai diverse tra loro, tagliano trasversalmente le forze politiche e gli stessi gruppi parlamentari tanto di maggioranza quanto di opposizione. Abbiamo assistito, in questo inizio di legislatura alla costituzione di diversi «intergruppi», che si sono formati su proposte concrete e assai avanzate. Si potrebbe pensare a rilanciare l'azione di governo sulla base di programmi innovativi.

Si spaccherebbe il fronte che attualmente sostiene il governo? È possibile, forse probabile, magari auspicabile. Ma almeno si creerebbero le condizioni per un rilancio dell'azione di un governo che si rivolge al futuro del paese, guardando oltre la sentenza di condanna per reati fiscali.

Una chiara illustrazione del merito della sentenza e della portata del giudizio della magistratura. E i primi segnali dei tentativi della

politique politicienne di annullarne le conseguenze politiche. La Repubblica, 2 agosto 2003

19 e 40 di giovedì 1 agosto 2013 cambia la storia personale, giudiziaria, e quindi politica, di Silvio Berlusconi. La Cassazione - «i giudici a Berlino» come tante volte proprio lui li ha definiti - conferma la sentenza di primo e secondo grado del processo Mediaset che, a Milano, lo ha condannato a 4 anni per frode fiscale. Un’evasione da 7,3 milioni di euro negli anni 2002 e 2003, con fatture risalenti al ‘96-98, una vera e propria fabbrica di fatture false per la compravendita dei diritti televisivi sui film. Rinviata invece alla Corte di appello la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici che adesso i giudici dovranno ricalcolare rispetto ai5 anni stabiliti in precedenza.

Ma Berlusconi, proprio per via della condanna che supera i due anni, e per la legge Severino sulle cause di non candidabilità, non solo non potrà essere eleggibile per sei anni, in base al tetto massimo stabilito, ma il suo stato dovrà essere sottoposto a un voto del Senato, dove è stato eletto. Il decreto legislativo 235 del dicembre2012, all’articolo 3, stabilisce che la sopravvenuta «causa di incandidabilità » comporti un voto del Parlamento. A “salvarlo” potrebbe essere l’indulto di 3 anni del 2006 che riduce la sua pena da 4 anni a uno solo. A questo punto dovrà essere la giunta per le elezioni e autorizzazioni del Senato a dirimere il caso, a stabilire se prevale la «condanna» a quattro anni,oppure la pena effettiva di un anno frutto dello sconto dell’indulto.

Sarà il tormentone dell’estate e dei prossimi mesi. Il presidente di Sel della giunta Dario Stefàno annuncia che intende trattare «subito » la questione. Altrettanto fa il capogruppo Pd, l’ex pm Felice Casson. Già mercoledì prossimo, nella prima seduta utile, si discuterà della questione che si prean-nuncia “calda” tant’è che Pier Ferdinando Casini parla di legge sull’incandidabilità non applicabile proprio per via dell’indulto.

Ma torniamo alla Cassazione, all’aula Brancaccio, dove per tre giorni s’è concentrata l’attenzione dei media di tutto il mondo. Torniamo a quell’attimo di suspense che c’è stato al momento della lettura della sentenza, proprio per via del rinvio a Milano dell’interdizione. Il presidente Antonio Esposito - seduto accanto al relatore Amedeo Franco, ai giudici Claudio D’Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo - legge il dispositivo, conferma la condanna dei coimputati, il produttoreUsa Frank Agrama a 3 anni, l’ex consulente Mediaset Daniele Lorenzano a 3 anni e 8 mesi, e l’ex manager dell’azienda Gabriella Galetto a un anno e 2 mesi e, poi affronta la questione dell’interdizione.Esposito parla di «annullamento con rinvio» e tutti pensano che l’intero processo sia destinato a saltare, rinviato interamente in appello, proprio come gli avvocati del Cavaliere avevano chiesto con forza il giorno prima.

Invece ecco il passaggio successivo, il rinvio riguarda la sola interdizione, proprio come aveva chiesto il sostituto procuratore generale Antonello Mura, toga di Magistratura indipendente, quindi certo non un magistrato “rosso”. Sostenuto dall’intera procura della Cassazione, tant’è che davanti all’aula Brancaccio, per salutarlo, si è fermato mercoledì lo stesso pg Gianfranco Ciani, sottoscrivendo la sua requisitoria, Mura aveva chiesto la piena conferma delle due sentenze di Milano, dissociandosi dal calcolo dell’interdizione. Aveva proposto di ridurla da 5 e 3 anni. Il collegio ha preferito non agire di sua iniziativa, anche se avrebbe potuto farlo,ma rinviare alla corte d’appello. Che, a questo punto, dovrà attendere le motivazioni della sentenza, poi potrà riunirsi e decidere. Berlusconi, a verdetto emesso, potrà di nuovo presentare appello. Una procedura che nel suo insieme, tra motivazioni, nuovo appello e ulteriore ricorso alla Suprema corte, potrebbe anche portare via sei-otto mesi.

Ma eccoci a un bilancio del processo. Vince la procura di Milano, perdono i legali di Berlusconi. Respinti del tutto i 94 motivi di ricorso presentati da Niccolò Ghedini e Franco Coppi che, 90 minuti dopo il verdetto, in una nota congiunta con Piero Longo, l’altro avvocato storico di Berlusconi che in Cassazione ha ceduto il posto alla new entry Coppi, parlano di una sentenza che «lascia sgomenti ». Per loro c’erano «solidissime ragioni e argomenti giuridici per una piena assoluzione». Annunciano che, nelle prossime ore, «valuteranno ogni iniziativa utile, anche nelle sedi europee, per far sì che questa ingiusta sentenza sia radicalmente riformata».

Ghedini e Coppi, quasi presagendo il risultato, snobbavano la lettura della sentenza. In aula c’è la figlia di Coppi, Francesca, ci sono gli avvocati Pisano, Mazzacuva e Dinacci per Agrama, Lorenzano e Galetto. Ma loro, i due protagonisti della difesa, restano a palazzo Grazioli con Berlusconi. L’appassionata difesa del giorno prima è risultata del tutto perdente, non ce l’ha fatta Ghedini, con il suo pesante affondo contro il pg Mura, né tantomeno Coppi, su cui Berlusconi aveva puntato le ultime speranze. Vince la tesi della pubblica accusa per cui Mediaset è stato «un giusto processo» dove non sono stati lesi i diritti della difesa, come lamenta Ghedini.

Soprattutto, dalle carte, emerge in pieno la colpevolezza di Berlusconi, quel suo essere l’ideatore e il regista di un preciso progetto di evasione fiscale realizzato gonfiando i costi nell’acquisto dei diritti tv per evadere le tasse e creare fondi neri, poi spostati sulle società off-shore. Inutilmente Coppi ha sostenuto che Berlusconi, dal ’94, non ha più seguito la vita delle sue aziende. Quindi non può essere colpevole. Se anche lo fosse, dovrebbe rispondere non di un reato, ma di un semplice abuso penalmente irrilevante. All’opposto il collegio ha riconosciuto la sua piena responsabilità e colpevolezza. Nessuna sentenza annullata, come avrebbe preteso Coppi, ma confermata in pieno.

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