loader
menu
© 2025 Eddyburg
Lavoro, Europa, Beni comuni, Diritti civili, Iniziativa legislativa popolare, Eguaglianza: ecco i titoli di una nuova agenda del fare, se davvero si volesse cambiare, in meglio.

La Repubblica, 3 ottobre 2013
Stiamo vivendo il grado zero della politica. E in questo vuoto di politica rischia di precipitare l’intera società italiana, sì che diventa sempre più evidente che solo una riflessione severa può consentirci di non rimanere impigliati in aggiustamenti mediocri che finirebbero inevitabilmente con il peggiorare la situazione.

Dobbiamo prendere atto che si è corso un azzardo politico, e ora ne stiamo pagando il prezzo, prevedibile e elevatissimo. Era nato un governo fin dall’inizio prigioniero delle smanie di un autocrate, come ormai riconoscono i suoi stessi seguaci. E le costrizioni imposte all’azione del Governo sono state rese ben evidenti da due semplici fatti. Lo stallo infinito intorno alla questione dell’Imu, imposto dalla volontà di soddisfare una promessa elettorale di Berlusconi, mentre svanivano quelle del Pd. L’impossibilità di affrontare il nodo della riforma della legge elettorale, malgrado le ripetute sollecitazioni del Presidente della Repubblica, che era giunto fino a farne una delle ragioni costitutive del nuovo Governo e della maggioranza delle larghe intese.

Tutto questo è avvenuto in un contesto ben più insidioso, fatto di fibrillazioni continue che hanno privato la politica di ogni orizzonte temporale e di senso. Fin dal primo momento, il Governo Letta è stato oggetto di continue, insistenti sollecitazioni da parte dell’infedele alleato di governo, che rattrappiva le “larghe” intese in una quasi quotidiana negoziazione, che imponeva le questioni prioritarie, fissava paletti, con una pressione che assumeva spesso le sembianze del ricatto. Mentre l’orizzonte apparente era quello di diciotto mesi, del cosiddetto “cronoprogramma”, quello reale si rivelava sempre più angusto. Settimane prima, giornate poi, fino a giungere alle indegne vicende dell’ultima fase, quando ci si è ridotti ad interrogarsi di ora in ora sulla possibile sopravvivenza del governo. Di fronte ad una situazione così drammatica il Pd ha mostrato una gran debolezza, considerando come unico e supremo bene il solo fatto che il Governo riuscisse a durare.

In questo modo la politica è stata privata di ogni significato, ridotta a pura schermaglia, ha rivelato una trama sempre più misera, intessuta di illegittimi interessi personali, con aggressioni a chiunque, persino nella maggioranza o nello stesso Governo, cercava di introdurre qualche barlume di ragione, di aprire qualche spiraglio verso una più larga comprensione delle questioni reali. Già pesantemente insidiata da una sostanziale sottomissione all’economia e ai suoi diktat, la politica è stata così immersa in un presente senza prospettive, nell’affanno di emergenze di cui non si coglieva più il significato.

Questo dissolversi della politica ha finito con l’incarnare un estremo paradosso. Una politica governativa fragile fino all’inesistenza si è aggrappata ad una immaginaria grande politica costituzionale. Poiché questa ha bisogno di tempi più lunghi di quelli scanditi dagli affanni del giorno per giorno, si è pensato che in tal modo il Governo avesse contratto una sorta di assicurazione sulla vita. E invece si è di fronte ad una stanca coazione a ripetere, al tentativo di un intero ceto politico ormai in confusione di scaricare tutte le responsabilità della situazione presente sulla Costituzione. Un diversivo divenuto pericoloso, poiché una seria politica costituzionale può nascere solo da una adeguata riflessione della politica su se stessa. Mancando questa riflessione, divenuta la politica ufficiale sempre più regolamento di conti all’interno di oligarchie, era inevitabile che la riforma costituzionale assumesse un marcato carattere strumentale, rivelasse la sua natura congiunturale. Da qui la manipolazione delle regole di garanzia indicate dalla Costituzione, da qui la tentazione d’ogni regime debole di cercare una via d’uscita in un accentramento del potere.

A questo punto una conclusione sembrerebbe obbligata. Un minimo di moralità politica, direi quasi un comune senso del pudore, imporrebbe di non nominare più, in un momento così delicato, i cambiamenti costituzionali, per i quali mancano le condizioni essenziali: un comune sentire dei soggetti politici che a ciò s’impegnano e una loro piena legittimazione. È del tutto palese, invece, che le forze politiche sono divise su tutto, sono prive di vera cultura costituzionale, sono oggetto di una ripulsa da parte dei cittadini, impietosamente confermata da tutte le rilevazioni demoscopiche, che collocano al di sotto del cinque per cento la fiducia nei confronti di partiti e Parlamento.

Se davvero si volesse cominciare la ricostruzione di un circuito di fiducia tra istituzioni e cittadini, restituendo a questi ultimi una vera “agibilità politica”, la riforma elettorale dovrebbe uscire dalle ipocrisie e dalle convenienze, e divenire la vera emergenza da affrontare subito. Per fare questo passo, indispensabile per riportare il nostro sistema politico alla legalità costituzionale, servono senza dubbio coraggio e fantasia politica. Virtù perdute, in un paese che coltiva con delizia lo “stato di necessità”, come alibi permanente per non fronteggiare in modo adeguato i veri problemi e per sottrarsi all’obbligo di restituire alla politica visione e orizzonti larghi.

La politica non è morta, ma rischia di essere coltivata fuori dai luoghi istituzionali. Da molte parti vengono proposte precise per costruire un’agenda politica che colga i dati di realtà e guardi al futuro. Ricordo solo alcune parole. Lavoro, considerato fondamento della democrazia come vuole l’articolo 1 della Costituzione, al quale guardare anche nella prospettiva di una riforma complessiva del sistema delle tutele, considerando le proposte tutt’altro che eversive sull’introduzione di forme di reddito garantito. Europa, come spazio della politica e non della sola economia, dunque non amputato della sua Carta dei diritti fondamentali. Beni comuni, che evocano le questioni concretissime del regime giuridico della rete telefonica, di servizi idrici rispettosi dei risultati dei referendum del 2011, della conoscenza in rete di cui non può impadronirsi l’Agicom. Diritti civili, che tanto hanno giovato ad Angela Merkel, con aperture sulle quali dovrebbero meditare tanti politici che si dicono cattolici. Iniziativa legislativa popolare, come canale effettivo di comunicazione tra cittadini e istituzioni. Eguaglianza soprattutto, di fronte a 14 milioni di poveri, quasi il 22% della popolazione. Utopie concrete, da coltivare, se si vogliono evitare i rischi di un passaggio dalla disaffezione per la politicaalla rottura della coesione sociale.

Non una svolta storica, certo un drastico mutamento di scenario: in Italia ha vinto un'altra destra. Il 12 ottobre vedremo se c'è qualche altro attore di rilievo sulla scena.

Il manifesto, 3 ottobre 2013

Moriremo democristiani? Sarà questa la via d'uscita dal berlusconismo? E' la traiettoria che la conclusione del nuovo voto di fiducia al governo delle larghe intese sembra indicare. Nessun passaggio epocale, nessuna giornata storica da segnare sul calendario, come con grande enfasi il presidente del consiglio annunciava nel suo intervento all'assemblea del senato, ancora immaginando una clamorosa spaccatura del centrodestra berlusconiano. Ma un cambiamento dello scenario politico sì. A rivelarlo, in diretta televisiva, la mesta espressione da cane bastonato di Silvio Berlusconi quando, alzandosi dal seggio, dal quale presto dovrà decadere, ingoiava pubblicamente la crisi di governo rinnovando la sua fiducia al ministero di Enrico Letta. Proprio il condannato che urla al golpe, proprio lui che avrebbe voluto giocare l'ultimo asso delle elezioni anticipate.

E tutto grazie a quel mezzo parricidio compiuto da Angelino Alfano verso il suo padre-padrone, grazie al nano che si erge sulle spalle del gigante per una pubblica, inedita manifestazione di dissenso verso il cupio dissolvi di un leader sbandato. Un gesto di resistenza e un istinto di sopravvivenza capace di spostare il baricentro del centrodestra dal radicalismo berlusconiano al centrismo democristiano.

Un esito in gran parte farina delle pressioni di Confindustria, della Conferenza episcopale, delle cancellerie europee, dello smarrimento di quell'elettorato che ancora segue, dopo l'abbandono dei sei milioni e mezzo di voti delle ultime elezioni. E ovviamente possibile solo oggi, nella fase più acuta della crisi economica e istituzionale, quando gli incubi hanno sostituito i sogni, nel momento terminale di una stagione politica iniziata con la rivoluzione del '94.

Se e quanto questa lotta interna per la leadership del Pdl determinerà una meno perigliosa navigazione del governo lo vedremo già nei prossimi giorni, quando il parlamento sarà chiamato a votare per la decadenza di Berlusconi da senatore, quando i ministri dovranno scrivere e spedire a Bruxelles la legge finanziaria, quando rivedremo all'opera un governo costretto tanto più ad annacquare le sue politiche quanto più larghi sono gli interessi che è chiamato a tutelare. Come le scelte su Imu e Iva, come il sì al rifinanziamento degli F35 e il no al salario minimo hanno ampiamente, simbolicamente dimostrato.

Dal presidente Letta nessun accenno di autocritica, piuttosto un continuo autoelogio, l'insistente sottolineatura del buon, anzi ottimo, lavoro svolto fin qui dai suoi ministri. Restano dunque tutte, semmai rafforzate dal rinnovo del patto politico, le ragioni di un'opposizione a intese sciagurate, che non intendono segnare alcuna discontinuità con i governi precedenti, ma anzi ne rivendicano l'eredità. Con il Pd di Letta e Renzi, registi di una traghettamento del partito nell'antica casa dorotea del grande centro democratico e cristiano.

Si rassegnino dunque gli italiani che hanno votato per un'alternativa al montismo e che invece assistono a una sua replica. A loro si chiede di restare a guardare, di affidarsi alle larghe intese. Esattamente il contrario di quel che si dovrebbe fare: trovare il modo di costruire un'alternativa di largo consenso capace di corrispondere al bisogno di giustizia sociale che non verrà da questo governo.

Per uscire da un'Italia berlusconiana senza Berlusconi unire legalità e diritti sociali. Difendere la Costituzione e completarla la posta in gioco il 12 ottobre

. Il manifesto, 2 ottobre 2013

Può succedere, in un paese come il nostro, che nell'anno definito dal Cnel come il «peggiore della storia dell'economia italiana nel secondo dopoguerra»; con la disoccupazione giovanile a livelli record e così pure l'incremento dei rapporti di lavoro precari; con importanti aziende come Telecom e Alitalia un tempo privatizzate oggi prede del capitale finanziario d'oltralpe per pochi milioni di euro; può succedere che si apra una crisi di governo che prelude a una crisi istituzionale vera e propria per mancanza di vie d'uscita all'orizzonte. Può succedere che questa crisi non si apra in virtù della insopportabilità della situazione economica e sociale a causa delle pedissequa osservanza di tutti gli ultimi governi ai diktat pro-austerity della troika, ma per fornire un filo di speranza a un condannato con sentenza definitiva di continuare a calcare le scene della "grande politica". Può succedere che il presidente del consiglio in carica rinviando - con ciò pensando di compiere un atto di grande furbizia - provvedimenti economici che avrebbe dovuto prendere per evitare un disastroso incremento dell'Iva, o prospettando al suo posto un altrettanto rovinoso, se non peggiore, incremento del prezzo dei carburanti, fornisca così una insperata sponda al condannato e ai suoi sodali di ergersi populisticamente a difensore dei cittadini vessati dalle tasse. Può succedere che un Presidente della Repubblica per la prima volta rieletto a questo fine, veda il suo disegno delle larghe intese frantumarsi come un sogno di cristallo.

In effetti è successo e in queste ore ne vedremo le possibili evoluzioni. L'orizzonte del dibattito politico nelle stanze ufficiali non sembra però andare oltre il giorno fissato per le dichiarazioni di Letta al parlamento. Lì si vedrà se il Pdl saprà mantenersi insieme, malgrado la vistosa crepa apertasi dopo l'atto autoritario della imposizione delle dimissioni a ministri e deputati da parte del suo capo - uomo impaurito e confuso, dice oggi un suo antico cantore, come Vittorio Feltri - o se invece, come quelli del Pd e non solo sperano, si determineranno nuove condizioni per un Letta-bis, magari persino con l'appoggio di parte della attuale opposizione di sinistra, come accadde ai tempi di Dini.

Dietro a tutto ciò si avverte il disegno dei centri pensanti, pochi per la verità, delle nostre classi dominanti che vorrebbero dare vita a quella che fino a poco fa si sarebbe chiamata una formazione di centro di stampo europeo, ma che oggi, visto lo slittamento in quella direzione del Pd, che si accentuerebbe con la vittoria di Renzi, sarebbe obiettivamente collocata a destra. Ovvero quello che l'Italia non ha mai avuto, se si eccettua il piccolo partito liberale, una forza politica di destra non manifestamente eversiva.

In quest'ultimo caso e solo in questo, la legislatura potrebbe avere ancora durata, anche se pessima. Diversamente tutta la questione è se andare alle elezioni con il Porcellum, come vorrebbero sia Berlusconi che Grillo, o fare l'unica cosa ragionevole: modificare la legge elettorale cancellando almeno l'ignobile premio di maggioranza e reintroducendo una preferenza per evitare un parlamento assolutamente non rappresentativo delle volontà politiche dei cittadini e per di più rifatto con dei rinominati. Ma le ragioni della ragione e quelle della politique politicienne difficilmente si incontrano. Per il resto ha ragione persino Saccomanni. La legge di stabilità è già fatta dalla troika, visto che il suo parere è preventivo rispetto a quello del parlamento, quindi se ne potrebbe occupare persino un governo dimissionario senza la necessità di uno nuovo.

Quello che serve, e che ancora non c'è, dobbiamo dircelo, è la ripresa di un movimento popolare e sociale, un forte sommovimento democratico che scardini i cancelli della politica di palazzo.
La prima occasione è l'appuntamento già fissato del 12 ottobre. Per non sprecarla occorre però evitare un rischio fin troppo evidente. Bisogna essere espliciti su questo punto, altrimenti si corre il pericolo di un grave insuccesso.

Il rischio è quello di una separazione delle tematiche democratiche e costituzionali da quelle sociali. La proclamazione nello stesso mese di ottobre di altri appuntamenti dedicati ai temi della lavoro e della casa, separati e, per usare un eufemismo, scarsamente comunicanti con quello del 12, sottolinea il pericolo che stiamo correndo. E' già accaduto nel passato. Si potrebbe dire, ora che possiamo fare un bilancio quasi ventennale, che tutta la lotta contro il berlusconismo ha sofferto di questa separazione o quantomeno di un incontro difficoltoso e pieno di equivoci e reciproci sospetti, fra chi si batteva per la legalità e la giustizia repubblicane e chi, per scelta e/o per necessità, privilegiava i temi della condizione dei lavoratori e dei disoccupati, dei giovani precari e della mancanza di abitazioni e servizi sociali. Questo iato ha facilitato la possibilità per i berluscones di giocare la carta del populismo. Cosa che tuttora stanno facendo.

La scesa in campo in particolare della Fiom in prima persona, quale soggetto e organizzazione sociale portante dello schieramento antiberlusconiano, ha solo in parte ovviato a queste divisioni e incomprensioni, visibili anche fisicamente nella separazione di cortei e manifestazioni. Quando non si è trattato addirittura di polemiche contrapposizioni nei contenuti, nelle parole d'ordine, nelle modalità delle proteste.

La manifestazione del 12 ha quindi un problema di qualità, prima ancora che di quantità, poiché quest'ultima dipende dalla prima. Se il messaggio che passa è solo quello della legalità e dell'osservanza costituzionale è troppo poco per mobilitare ampi settori popolari. Particolarmente ora, dentro una crisi politica dai contorni e esiti del tutto oscuri. Nella prima conferenza stampa tenuta dai cinque promotori, Landini ha fatto bene a dire con forza che non ci si mobilita per difendere la Costituzione - non solo - ma per applicarla integralmente. Intendendo quindi che parti di essa sono rimaste lettera morta e altre sono sotto tiro sul piano della organizzazione materiale della società prima ancora che su quello dei testi scritti.

Queste parti riguardano tutte, o in modo assolutamente prevalente, i temi sociali. In primo luogo quelli del lavoro; della rimozione degli ostacoli a trovarne uno dignitoso - che ci porta dritto al tema del reddito di base -; della salvaguardia degli istituti del welfare state; della loro gratuità e universalità; dell'equa retribuzione; della democrazia nei luoghi di lavoro; del diritto ad una vita dignitosa sotto ogni aspetto che incrocia il diritto all'abitare; della difesa dell'ambiente e del paesaggio che contrasta con le megaopere distruttive come la Tav. Punti fondanti della nostra Carta Costituzionale che sono minati dalle politiche economiche dell'austerity decise contro ogni buon senso in Europa, ma pedissequamente applicate, anche con eccessi - come nel caso della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ai tempi di Monti - , dalla maggioranza delle larghe intese e dal governo.

Non si tratta di affogare la manifestazione del 12 ottobre in un universalismo rivendicativo indistinto, né di caricarla di toppe attese e responsabilità, ma avere la consapevolezza che l'attaccamento alla Costituzione che gli italiani hanno già dimostrato nel 2006 sconfiggendo il disegno del premierato (che i cosiddetti saggi vorrebbero riproporci), è fatto di molti, differenti ma potenzialmente convergenti sensibilità e bisogni. Tutte queste sensibilità e tutti questi bisogni devono e possono concorrere a un appuntamento così ambizioso, la cui riuscita sarà frutto solamente dell'autorganizzazione, e devono rendersi visibili nella fisionomia della manifestazione e nei contenuti dei discorsi che animeranno la sua fase conclusiva in piazza del Popolo.

«Non ci può essere Parlamento senza libertà dei parlamentari. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini, che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche la libertà di decisione di chi siede in Parlamento».

La Repubblica, 2 ottobre 2013

Indipendentemente dagli esiti del sommovimento interno al Pdl, è certo che il Paese sta subendo (non da oggi) le conseguenze della crisi della democrazia dei partiti e della rappresentanza. Paga il prezzo di una democrazia deformata. Le comunità politiche come le persone hanno una figura che le rende identificabili. Tra i tratti distintivi della democrazia costituzionale ci sono elezioni regolari, separazione dei poteri, diritti civili fondamentali e, non ultimo, l’autonomia dei rappresentanti tanto da chi li elegge quanto da chi li mette in lista. La rappresentanza senza mandato imperativo è una componente essenziale dell’immagine della democrazia perché da essa dipende l’autonomia decisionale del Parlamento e, per diretta derivazione, la libertà politica dei cittadini. Alterare lo statuto della rappresentanza equivale a sfigurare la democrazia, a deformarla.

Nel corso di questi anni la democrazia italiana ha subito deformazioni evidenti rispetto al profilo originale definito dalla Costituzione. Tra queste, vi sono i tentativi ripetuti e a volte riusciti di assoggettare i rappresentanti alla volontà di qualcuno. Qui sta il segno macroscopico della crisi dei partiti politici i quali, proprio come la rappresentanza che contribuiscono a creare, non sono equiparabili ad associazioni di interessi o a imprese private, nemmeno se (come la deludente proposta di legge ora in discussione vorrebbe) a contribuire alla loro esistenza sono direttamente i privati, con i loro finanziamenti e le loro donazioni. La crisi politica che si sta abbattendo sul Paese è il segno esplicito dell’assalto alla rappresentanza e ai partiti, del tentativo di catturarli nell’orbita di un qualche interesse particolare. Il fondatore, sponsor e leader del Pdl, Silvio Berlusconi, strumentalizzando la debolezza oggettiva del quadro parlamentare, tiene da settimane sotto ricatto il Paese con la richiesta di conservare il seggio al Senato e quindi l’immunità parlamentare. Perciò ha imposto ai ministri del suo partito di dimettersi. Al momento dell’insediamento, questi ministri avevano giurato nelle mani del presidente della Repubblica con la seguente formula di rito: »Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione» .

La fedeltà alla legge e alla nazione può entrare in conflitto con altre fedeltà; non dovrebbe succedere ma può succedere. E quel giuramento serve a tutelare i ministri (e noi tutti) da possibili fedeltà a poteri che sono antitetici alla legge e all’interesse “esclusivo” della nazione. Berlusconi ha cercato di imporre ai “suoi” ministri di stracciare quel giuramento nel nome di una fedeltà superiore alla loro stessa coscienza e alla loro ragione (una richiesta umiliante, come si intuisce). Quale che sia il destino di questa maggioranza, l’immagine della Repubblica ne risulta gravemente compromessa. Se non corretta, la deturpazione della rappresentanza può cambiare la fisionomia della nostra democrazia, facendone un campo di battaglia tra due sovranità, quella della nazione e della legge e quella dell’uomo forte. Il rischio è altissimo. Da anni assistiamo ad attacchi all’autonomia delle istituzioni. L’emergenza che si sta consumando in queste ore è però di una gravità estrema. La lotta verte sull’autorità degli eletti dal committente: di chi sono i ministri e in quali mani hanno giurato? Se sono ministri della nazione essi non dipendono da nessuno in particolare e sono autonomi da ogni volontà. Lo stesso vale per i rappresentanti, come recita l’Art. 67 della Costituzione. La richiesta del mandato imperativo era già stata ventilata da Beppe Grillo, quando si avvide che una volta eletti in Parlamento i rappresentanti del M5S avevano il potere di rivendicare la loro libertà di decisione. Anche in quel caso si trattò di una lotta tra fedeltà inconciliabili: alla legge o alla volontà del capo di partito. La tensione ritorna periodicamente, e non sembra destinata a rientrare in tempi brevi.

Essa mette in luce una verità fondamentale: non ci può essere Parlamento senza libertà dei parlamentari. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini, che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche la libertà di decisione di chi siede in Parlamento o di chi, come ministro, giura fedeltà alla Nazione. Come sanno bene i partiti politici, nemmeno la loro più ferrea disciplina può togliere al singolo rappresentante la libertà di decidere e votare secondo il proprio giudizio. La dignità delle istituzioni e quella personale coincidono. Da questa coincidenza dipende la nostra libertà come cittadini.
La tensione in corso nel Pdl sta a dimostrare che un partito politico non può essere un’azienda, anche qualora lo voglia il suo fondatore. Non lo può perché non può preventivamente escludere il dissenso interno e quindi la libertà dei suoi aderenti. Il partito politico è per necessità un’associazione pubblica e libera, insofferente a padronanze e a una dipendenza più o meno suddita. Ridare alla nostra democrazia la sua immagine originale, quella tratteggiata dalla Costituzione, significa mettersi sulla strada maestra della rigenerazione dei partiti politici e della rappresentanza. Liberando entrambi da lealtà private e da mesmerismi carismatici che mentre saziano le emozioni trascurano i problemi del Paese e deturpano l’immagine della nostra Repubblica.

Una speranza: «l’alternativa se il Pd scoprisse che la Carta è stata l’arcinemico della destra berlusconiana. Se separasse la sovranità dei cittadini da quella degli Stati, per una Costituzione estesa all’Europa». La Repubblica, 2 ottobre 2013

FORSE è venuta l’ora di dire in termini chiari che l’imperatore è nudo: in Italia, e in tutti i Paesi dell’Unione europea immersi nella crisi. Non ha più scettro né manto. E non è vero quello che i nostri capi di governo vanno dicendo: che saremmo in mano alla trojka di Bruxelles, se svanisse il bene molto equivoco di una stabilità politica che dipende dal condannato Berlusconi. Quel condizionale - saremmo - va sostituito con l’indicativo.

L’Italia non rischia commissariamenti se cade il governo Letta, così come non li rischiava quando caddero Berlusconi o Monti, perché da tempo siamo sotto tutela. I nostri imperatori sono oltre che nudi, finti. La stabilità tanto vantata, da salvare ad alti costi, è in realtà stasi sanguigna, imperio di un’oligarchia che fa capo non a un re ma a un reggente. Nel vocabolario Treccani, reggente è colui che «esercita le funzioni della Corona in sostituzione del re, in via straordinaria e in determinati casi (incertezza su chi ha diritto al regno, incapacità giuridica o impedimento fisico del monarca)». Tanto più perniciosa una stabilità che dovesse scaturire dalla spaccatura, clamorosa ma forse provvisoria, del Pdl. Anche abbandonato dai suoi, Berlusconi non cesserà di influenzarli. Surrettiziamente, continuerà a esser lui la garanzia della nostra solvenza finanziaria e della nostra onestà: soprattutto se in extremis voterà la fiducia.

Monti d’altronde lo annunciò, il 16 ottobre 2011 sul Corriere, un mese prima di divenire Premier: «Siamo già oggetto di “protettorato”: tedesco-francese e della Banca centrale europea». Il protettorato ha assunto fattezze più civili, ma protettorato resta. Inutile continuare a dire che siamo sull’orlo del commissariamento. Ci siamo dentro, come Atene, Lisbona, Dublino, Madrid. A forza di fissare l’abisso, l’abisso guarda dentro di noi e ci inghiotte. Se le cose non stessero così, non ci allarmeremmo: «Chi sarà capace di parlare con Draghi, dopo Monti e Letta?» In altre parole: chi amministrerà, conscio di non essere che un reggente?

Questo non vuol dire che i giochi siano fatti per sempre. Che subordinazione e reggenza siano fatali leggi della natura. Vuol dire però che tutto va mutato, a Roma e in Europa: i vocabolari mistificatori che usiamo, le politiche che ne discendono, il nostro sguardo sulle istituzioni, le Costituzioni.

Dice lo scrittore austriaco Robert Menasse, dei monarchi europei: «Uno Stato nazionale non può più risolvere problemi da solo, la sovranità è già ceduta ». Tanto più in Italia, le cui anomalie hanno dilatato la subalternità oltre misura. Non solo l’anomalia di Berlusconi. È anomalia anche governare con un partito estraneo alla cultura giuridica. È anomalia anche un Parlamento che con bradipica lentezza espelle (se espelle) un senatore condannato per frode fiscale, quando la legge ordina di farlo «immediatamente».

Senza fare chiarezza impossibile affrontare l’instabilità vera: il disfarsi delle democrazie, e in primis della nostra. Lo dice chi proprio per questo s’aggrappa alla Costituzione, e il 12 ottobre a Roma scenderà in piazza per difenderla. Se trema la democrazia, per forza tremerà la sua Carta fondativa. Cosa significa oggi avere governi di reggenza, ipocritamente sovrani? Significa che «il monarca tradizionale è in una condizione di incapacità giuridica, di impedimento fisico». Lo scettro è in mano a potenze esterne, e il reggente lo sa ma non lo dice.

Gli effetti già li vediamo, li viviamo.
La nostra Repubblica si è fatta presidenziale, sotto Napolitano, e la metamorfosi non è stata decisa dal popolo sovrano: è avvenuta come se l’avesse dettata, motu proprio, la natura. L’antagonismo politico piano piano è stato bandito, bollato come populista secondo la già collaudata, emergenziale logica degli opposti estremismi. È populista Berlusconi, che entrò in politica per restaurare un’oligarchia corrotta dopo Mani Pulite. Sono definiti specularmente populisti Syriza in Grecia o i movimenti cittadini vicini a Grillo, che dell’era Mani Pulite sono figli. Ne consegue l’impotenza crescente delle costituzioni nazionali, quasi ovunque in Europa. Il popolo di cittadini non può far valere bisogni e paure, quando è amministrato (non governato) da oligarchie che pretendono regalità che non hanno più. Quando un rapporto della JP Morgan (28 maggio ’13) definisce infide le costituzioni nate dalla Resistenza, caratterizzate come sono «da esecutivi deboli verso i parlamenti; dai diritti dei lavoratori; dall’eccessiva licenza di protestare contro modifiche sgradite dello status quo».

Nella storia francese, il periodo in cui Filippo d’Orleans amministrò al posto di Luigi XV si chiama reggenza ed è sinonimo di governi brevi, dediti a sanare bilanci. Orleanismo è predominio delle coterie: cioè delle consorterie, o cricche. Perché, visto che siamo sotto tutela, battersi perché la Costituzione incompiuta si compia? Perché è il suo spirito che conta: i suoi articoli sono la confutazione vivente degli imperatori apparenti come dei commissariamenti fatali. Nelle costituzioni democratiche non è scritto che lo Stato-nazione è sovrano. Pienamente sovrani sono i cittadini, e ciascuno di essi deve contare ai vari livelli del potere: comunale, nazionale, ed europeo. La democrazia è oggi postnazionale: le elezioni europee del 22-25 maggio prossimo sono importanti come quelle nazionali, ma governi e partiti fanno lo gnorri. Non è nemmeno scritto, nelle costituzioni, che una sola politica sia buona, e le vie diverse illegittime o populiste.

La Carta sta lì a dirci le forme della democrazia che vogliamo, ma anche i suoi contenuti: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; il lavoro, l’istruzione e la stampa libera come fondamenti; la tutela del patrimonio naturale e artistico; la separazione dei poteri; la protezione dei deboli, degli svantaggiati, di chi dissente. Nelle crisi le Carte sono preziose perché aprono possibilità, non congelano i rapporti di potere esistenti. Consentono politiche alternative, non organizzano solo alternanze: né da noi né in Europa. Muoiono, se niente si muove. Oggi sono i nazionalisti a reclamare il nuovo (in Germania o in Austria, dove le destre estreme, antieuropee, hanno raccolto domenica il 30,8 % dei voti) ma perché la sinistra classica ha smesso da tempo di incarnare l’alternativa. Prima del voto tedesco, su Spiegel online, il giornalista Wolfgang Munchau ha messo in relazione il declino socialdemocratico con il rifiuto di un’alternativa, nazionale e europea, all’austerità della Merkel.

Risale agli anni ’90 la rottura con Keynes, quando Schröder concepì la terza via: che non era affatto terza ma – come per Blair, per il Pd – adesione al mercato senza freni naufragato nel 2007-2008. Erano ancora keynesiani Brandt e il suo ministro del Tesoro Karl Schiller, nel ’69. Lo fu anche Schmidt, negli anni ’70. Solo l’estrema sinistra tedesca (la Linke) resta keynesiana.
Un’alternativa è possibile, se non se ne ha paura. Alexis Tsipras, capo di Syriza in Grecia, ha chiesto il 20 settembre al Forum Kreisky di Vienna un’Europa non frantumata dall’austerità, e una lotta «contro l’alleanza fra cleptocrazia ellenica e élite europee». Simile la lotta in Italia: il fronte costituzionalista di Rodotà e Landini, Zagrebelsky e Settis, dice questo. Quanto a Berlino, una maggioranza parlamentare alternativa alla Merkel esiste già (socialdemocratici, verdi, Linke), ma solo sulla carta. Da otto anni i socialdemocratici rinunciano a gettar ponti verso la Linke, a liberarla dal passato comunista.

Da noi l’alternativa potrebbe nascere se il Pd non proponesse solo reggenti, e scoprisse che per vent’anni la Carta è stata l’arcinemico della destra berlusconiana. Se dicendo il vero sul commissariamento, separasse la sovranità dei cittadini da quella degli Stati, e si battesse per una Costituzione che sarà compiuta quando i suoi princìpi s’estenderanno all’Europa.

SIl manifesto, 1 ottobre 2013

Steve Pieczenik, che seguì il sequestro per il Dipartimento di Stato americano, torna a parlare. E la procura chiede il sequestro del file per chiarire la pista delle «interferenze esterne». È il consulente della Cia che la Commissione stragi ha cercato a lungo, arrivando persino a fissare la data del suo volo per l'Italia che fu poi annullato all'ultimo momento. Steve Pieczenik, psichiatra esperto di guerra psicologica inviato a Roma nella primavera del '78 dal Dipartimento di Stato Usa per seguire il sequestro del presidente della Dc Aldo Moro, è tornato ieri a rivendicare il ruolo decisivo degli Stati Uniti nella strategia adottata in quei giorni dalle autorità italiane: «Se i comunisti fossero arrivati al potere ci sarebbe stato un effetto a valanga - ha spiegato Pieczenik intervistato da Radio 24 -. Gli italiani non avrebbero più controllato la situazione. Cercavamo un centro di gravità per stabilizzare l'Italia e a mio avviso il centro di gravità si sarebbe creato sacrificando Aldo Moro».

Poco dopo la messa in onda dell'intervista la Procura di Roma ha chiesto il sequestro e l'acquisizione del file. Il pm Luca Palamara, titolare dell'ultimo procedimento aperto sul sequestro e l'omicidio di Moro, sarebbe intenzionato a sentire Pieczenik per chiarire con lui la pista delle «interferenze esterne», ricorrendo se necessario anche a una rogatoria internazionale.

«Sono io che ho suggerito a Cossiga di screditare Moro». «Sono stato io a bocciare l'iniziativa del Vaticano che aveva raccolto i soldi per pagare il riscatto». Pieczenik non è nuovo a uscite clamorose - aveva già reso le stesse dichiarazioni in un'intervista a Panorama nel '94 - e il suo protagonismo desta qualche sospetto tra gli storici che hanno studiato il caso Moro. Il suo profilo però è di indubbio rilievo.

«Pieczenik fu effettivamente inviato dal Dipartimento di Stato Usa durante il sequestro Moro come esperto di terrorismo, sequestro di ostaggi e guerra psicologica - spiega a il manifesto lo storico e senatore del Pd Miguel Gotor -. Era un giovane consulente dell'amministrazione americana (all'epoca aveva 34 anni, ndr) che ha avuto, anche in seguito, incarichi molto importanti. Ma l'ipotesi che sia stato lui a determinare la storia italiana mi pare una caricatura. Di sicuro andrebbe ascoltato, se ci fosse la volontà di riaprire una Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro».

Nato a Cuba nel '43 da genitori russi e polacchi, Pieczenik è stato assistente del Segretario di Stato Henry Kissinger e ha ricoperto ruoli rilevanti sotto diversi presidenti americani, da Ford a Bush Senior. Incarichi delicatissimi, come la consulenza strategica sulla guerra psicologica per gli agenti della Cia. Inviato al Viminale - ufficialmente come "consulente" - due settimane dopo la strage di via Fani per seguire la delicata gestione del sequestro di Moro, lavorò a stretto contatto con i funzionari del ministero dell'Interno guidato da Francesco Cossiga fino al ritrovamento, il 9 maggio '78, del cadavere di Moro in via Caetani.

«Non ci sono elementi per dire se Pieczenik fosse legato ai vertici di Gladio e alla struttura Stay Behind - prosegue il senatore Gotor -: ma durante i 55 giorni del rapimento alloggiò all'Excelsior, l'hotel romano in cui il "maestro venerabile" della P2 Licio Gelli aveva una suite». Sarebbe lui, dunque, ad aver ideato dalle stanze dell'Interno la linea della fermezza, con un intento preciso: tramutare la minaccia del sequestro di Aldo Moro in una nuova spinta per consolidare la posizione dell'Italia nella sfera d'influenza atlantica.

Lo aveva già spiegato nel libro di Emmanuel Amara pubblicato in Francia nel 2006, e passato sotto silenzio: «La posta in gioco non era la vita di una persona: erano le Br - racconta Pieczenik in Abbiamo ucciso Aldo Moro - e la destabilizzazione dell'Italia. Mi aspettavo che le Br si rendessero conto dell'errore che stavano commettendo e liberassero Moro. Fino alla fine ho avuto paura che lo liberassero: una mossa che avrebbe fatto fallire il mio piano. Avrebbero vinto loro». Sempre sotto la sua «consulenza» il 18 aprile '78 sarebbe stato concepito il falso comunicato del Lago della Duchessa, subito attribuito alle Br, in cui si annunciava l'avvenuta esecuzione di Moro: un comunicato, come emergerà in seguito, «redatto da un oscuro personaggio, Tony Chichiarelli, per conto di apparati dello Stato vicini alla Presidenza del Consiglio» precisa Gotor, che rilancia la necessità di una nuova Commissione d'inchiesta bicamerale sul caso Moro. Le domande rimaste senza risposta sono innumerevoli.

Chi era Sergeji Sokolov, un misterioso studente di storia del Risorgimento giunto a Roma pochi mesi prima della strage di via Fani, e che avrebbe frequentato le lezioni di Aldo Moro alla «Sapienza»? Che ruolo ha giocato Pieczenik a Roma nella primavera del '78? A che ora è stato ritrovato per la prima volta il corpo del presidente della Dc in via Caetani? È vero che Cossiga sapeva già dalla prima mattina, come rivela l'artificere Vitantonio Raso, accorso per aprire la Renault 4 in cui c'era il corpo di Aldo Moro?

Riferimenti
Vedi su eddyburg gli articoli di Miguel Gator e di Andrea Colombo dal manifesto. Vedi anche i numerosi scritti nella cartella dedicata a Enrico Berlinguer; dai suoi testi e da quelli su di lui si comprende facilmente il significato dirompente della sua politica.

«I cittadini assistono al teatrino di una retorica dello sviluppo che produce recessione, un’austerità senza traguardi o successi, una “stabilità” sempre più chiaramente sinonimo di paralisi» Ma si potrebbe uscirne.

La Repubblica, 1 ottobre 2013

Destinazione Italia:più o meno questo sarà stato lo slogan in voga nelle capitali europee alla fine del Quattrocento. E infatti la Penisola divenne presto terreno di scontro fra eserciti spagnoli, francesi, “imperiali”: fu così che il regno di Napoli passò per secoli sotto la Spagna e il ducato di Milano fu dominato prima dalla Spagna poi dall’Austria, per non dire del sacco di Roma perpetrato dai lanzichenecchi, con il Papa asserragliato in Castel Sant’Angelo (1527).

Destinazione Italia si chiama il recente decreto del governo, mirato ad attrarre investimenti stranieri, ma varato in sinistra coincidenza con la svendita di Telecom (o Telco) a un’impresa spagnola, mentre già suonano le campane a morto per Ansaldo Energia (destinata ai coreani) e per Alitalia, che dopo un farsesco “salvataggio” costato al contribuente cinque miliardi sta per passare in mano francese. L’Italia è dunque in vendita? I cittadini assistono impotenti al teatrino di una retorica dello sviluppo che produce recessione, di un’austerità senza traguardi e senza successi, di una “stabilità” sempre più chiaramente sinonimo di paralisi. Il rimedio viene additato in nuove svendite di patrimonio pubblico (anche di beni culturali), e la quotidiana erosione dei diritti (al lavoro, all’educazione, alla salute, alla cultura) viene giustificata in nome dell’Europa, come se fosse un invasore straniero.

Come se l’Italia non potesse concorrere a scrivere un’agenda europea di ben altro segno. Da anni i beni pubblici e le stesse istituzioni dello Stato vengono smantellate da “destra” e da ”sinistra”, con una larga intesa che i governi Monti e Letta hanno solo reso più esplicita. Abituata agli agi e alle pigrizie della rendita parassitaria, buona parte della classe imprenditoriale italiana ha da decenni imbandito il banchetto dove si dividono le spoglie di un’Italia in rotta. Spolpandone il corpo martoriato proprio mentre si autoelogiano come accorti manager, imprenditori e operatori finanziari si trasformano in sensali, comprano a basso prezzo per rivendere (all’estero) a prezzo ancor più basso, e trovano chi li definisce “eroici patrioti” (così Berlusconi chiamò l’armata Brancaleone del “salvataggio” Alitalia). Si chiama “privatizzazione” e viene considerata la panacea di tutti i mali, ma non crea nuova ricchezza, bensì la trasferisce alle oligarchie dei furbi e degli sciacalli, a svantaggio delle classi meno agiate e dei giovani; genera disoccupazione, esilia i diritti e fragilizza la comunità, contro lo stesso principio di «promozione della coesione sociale e territoriale» affermato dal Trattato di istituzione della Comunità europea (art. 16).
È quella che David Harvey chiama accumulation by dispossession: la ricchezza pubblica (cioè dei cittadini) viene espropriata per concentrarla in poche mani. Compito congeniale a quella «immane piramide di sfruttatori» emersa dal fascismo e dal dopoguerra, «che coltiva l’insensibilità nei delitti contro il pubblico denaro e appesta tutto, confonde tutto, dando all’Italia la sua pietosa fama di furberia, tortuosità, vanità, bassa sensualità ». Questa diagnosi di Corrado Alvaro vale ancora; è ancor vero che l’«antica, onoranda borghesia creatrice, con attitudine alla mercatura, all’industria, all’agricoltura» di cui l’Italia poté vantarsi «si conta ormai sulle dieci dita».

Per frenare l’emorragia ci sarebbero due strade (o una combinazione fra le due): una politica di investimenti pubblici, come suggerito da Guido Roberto Vitale, e l’applicazione dell’art. 46 della Costituzione, che «riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende», come ha ricordato Susanna Camusso.

C’è da scommettere che il governo non tenterà né l’una né l’altra. A qualsiasi investimento di fondi pubblici si oppone infatti non tanto la sbandierata congiuntura economica, ma la sistematica rimozione della monumentale evasione fiscale, protetta da tutti i governi come un fortilizio. L’Italia è al terzo posto al mondo per evasione fiscale, preceduta solo da Turchia e Messico (dati Ocse): 154,54 miliardi di euro di tasse non pagate nel solo 2012 (valutazione Confcommercio); e basterebbe recuperarne il 10 % per affrontare le prime emergenze senza nuovi sacrifici e imposizioni.

Di dare esecuzione alla “democrazia economica” prevista dalla Costituzione, poi, non se ne parla: come potrebbe «promuovere l’elevazione economica e sociale del lavoro» (art. 46) un governo che in nome dell’austerità ignora il diritto al lavoro (Costituzione, art. 4)? Come potrebbe affidare «a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese [...] di preminente interesse generale» (art. 43), se lo stesso presidente del Consiglio (coi ministri Quagliariello e Franceschini) firma la proposta di modifica radicale della Costituzione in quanto scritta «nella temperie della guerra fredda » e non più adatta al «mutato scenario politico, economico e sociale»?

Se queste parole (datate 10 giugno) echeggiano quelle della finanziaria J. P. Morgan (28 maggio) secondo cui «le Costituzioni dei Paesi della periferia meridionale mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica delle sinistre dopo la sconfitta del fascismo », e perciò vanno cambiate? Se la stessa relazione Morgan indica nell’Italia «il test essenziale di questo cambiamento»?

Ma l’Europa non è un impero esterno che, dopo aver conquistato gli Stati membri, possa imporre manu militari un proprio sistema di regole difformi dall’ordinamento di ciascun Paese. Dev’essere un concerto di voci, anche dissimili, in cui ogni Paese possa portare la propria tradizione culturale, civile, giuridica. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea «lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri» (art. 345), dunque lo statuto della proprietà pubblica e privata in Italia è e resta quello della sua Costituzione (sovraordinata ai Trattati Ue): la proprietà privata dev’essere finalizzata all’«utilità sociale» (art 42), i beni pubblici e comuni sono garanzia indispensabile all’esercizio dei diritti fondamentali dei cittadini (come riaffermato dalla Commissione Rodotà).

All’Europa come una sorta di Germania extralarge, caricatura delle idee europeistiche da cui nacque l’Unione, è necessario sostituire un’altra idea di Europa, un’Europa delle culture e dei diritti, dove le drammatiche disuguaglianze fra i cittadini, anzi fra gli stessi Paesi (la Grecia!) non vengano attribuite a una sorta di fatalità di natura (le “leggi dei mercati”), ma intese come una stortura da correggere, come la prova provata di errori gravi nella costruzione del sistema. Se mai l’Italia vorrà essere fedele alla propria Costituzione, questa è la sua prima missione in Europa.
Una cronaca di Giampaolo Cadalanu, un’intervista di Francesca Caferri alla scrittrice nigeriana Lola Shoneyin sul recente episodio della guerra globale in corso: distruzione e morte in una scuola di musulmani.

La Repubblica, 30 settembre 2013, con postilla

Nigeria, Boko Haram fa strage di studenti
di Giampaolo Cadalanu

Assalto ad un collegio nel nord del Paese: almeno 50 morti, colpiti mentre dormivano

IL FRONTE della lotta alle sacrileghe influenze occidentali è lì, davanti alle lavagne appese su pareti scrostate, o magari sotto l’ombra delle acacie, nei cortili delle scuole africane, davanti ai ragazzi in cerca di un’istruzione e di un futuro. “Boko Haram” è allo stesso tempo un marchio e un programma: “L’istruzione occidentale è peccato”, questo vuol dire il nome in lingua Hausa della “Congregazione e popolo per la propagazione degli insegnamenti del profeta e della jihad”, il gruppo terroristico vicino ad Al Qaeda che agisce nel nord della Nigeria. Un’organizzazione integralista che anche ieri ha tenuto fede al suo motto, attaccando un istituto agrario nella zona rurale di Gujba, stato di Yobe, in Nigeria nord orientale. Una cinquantina di studenti sono stati massacrati durante il sonno, nel dormitorio scolastico, dopo una impegnativa giornata sui banchi.

Il bilancio della strage, cominciata prima dell’alba secondo le prime ricostruzioni, è ancora provvisorio: fino a tarda sera le forze di sicurezza erano impegnate a portar via i corpi dei ragazzi, fra i 18 e i 22 anni. Alcuni feriti, una ventina secondo fonti della polizia locale, sono stati trasportati d’urgenza all’ospedale di Damaturu, una quarantina di chilometri più a nord. Un ragazzo sopravvissuto ha raccontato al corrispondente dell’Associated Press che gli assalitori sono arrivati con due pickup e diverse motociclette: alcuni di loro erano vestiti con mimetiche o uniformi delle forze armate nigeriane. Lo studente ha ipotizzato con l’Ap che i terroristi conoscessero la pianta del college, perché si sono diretti senza esitare verso i quattro edifici-dormitorio maschili, evitando quello femminile. Gli uomini di Boko Haram hanno aperto il fuoco su tutto ciò che si muoveva e hanno dato fuoco alle costruzioni, provocando un fuggi fuggi generale. Un migliaio di ragazzi si sono precipitati fuori dal college per rifugiarsi nella foresta. Chi restava, veniva colpito da colpi d’arma da fuoco. Secondo il preside della scuola, le vittime erano per la maggior parte giovani di religione musulmana.

Dopo la strage, le autorità scolastiche non hanno risparmiato le critiche ai responsabili statali per l’istruzione dello stato di Yobe: appena due settimane fa il commissario incaricato Mohammed Lamin aveva chiesto alle scuole delle zone infestate da Boko Haram di aprire, garantendo la protezione delle forze di sicurezza. Le scuole locali avevano chiuso dopo il massacro di luglio, a Damaturu, in cui i fondamentalisti avevano ucciso 29 studenti e un docente, bruciando vivi alcuni di loro. Ma a Gujba la protezione promessa non c’era, ha denunciato l’amministratore del campus, Idi Mato.

La ribellione di Boko Haram ha spinto il governo nigeriano a dichiarare lo stato di emergenza in tutta la parte nord-occidentale del paese. I militanti pretendono l’instaurazione della legge islamica nella federazione, nonostante almeno la metà dei 160 milioni di nigeriani professi la fede cristiana. L’insurrezione dei fondamentalisti ha provocato almeno 1700 vittime dal 2010, solo la scorsa settimana sono state uccise trenta persone. Persino BarackObama martedì scorso ha definito Boko Haram uno dei gruppi più pericolosi del mondo, parlando con il capo di Stato nigeriano Goodluck Jonathan. Entrambi i presidenti hanno confermato il loro impegno nella lotta al terrorismo.

Vogliono distruggere le scuole per condannarci alla povertà eterna”
di Francesca Caferri

Parla la scrittrice Lola Shoneyin: “Gli estremisti sognano un popolo senza speranze”

L’EDUCAZIONE, quella di una giovane donna in particolare, è centrale nelle pagine del suo primo e acclamato romanzo “Prudenti come Serpenti”. Naturale dunque che Lola Shoneyin, voce fra le più importanti della nuova letteratura africana, abbia le idee chiare sul nuovo attacco, l’ultimo di una serie, condotto da Boko Haram contro una scuola. «Stanno cercando di tagliare alle radici il futuro di questo paese», dice alla vigilia della sua partenza per l’Italia, dove sarà fra i protagonisti del festival della rivista internazionale.

Lola Shoneyin, perché sempre più spesso gli estremisti di Boko Haram scelgono le scuole come obiettivo?
«La risposta sta nel loro nome: Boko Haram, ovvero l’educazione occidentale è proibita.

Sparare su una scuola vuol dire uccidere giovani ma soprattutto terrorizzare centinaia di genitori che domani non manderanno in aula i figli per timore che la prossima volta tocchi a loro. Questo in una zona come il Nord della Nigeria, dove ci sono aree in cui il tasso di istruzione femminile è del 5%, significa mettere un’ipoteca sul futuro di un’intera generazione».

Sta dicendo che non è solo una questione religiosa a muovere Boko Haram?
«Certo, non è solo religione. La fede ha un ruolo, perché parliamo di estremisti motivati da un credo deviato e estremamente conservatore. Ma la questione di fondo è la povertà: Boko Haram va a pescare fra chi non ha speranze e pensa che morire aspirando al paradiso sia meglio che vivere senza prospettive. La colpa della situazione che sta minando alle basi la stabilità della Nigeria è della politica, di chi 20 o 30 anni fa ha lasciato migliaia di giovani senza istruzione e quindi senza possibilità di fare qualcosa nella vita. Sono questi ragazzi a militare frale fila di Boko Haram oggi».

Il presidente Goodluck Jonathan ha fatto della sconfitta di Boko Haram una priorità, inviando forze speciali ad affrontare i terroristi. Sta funzionando?
«Il governo centrale sta provando a fare qualcosa. Quello che non capisce è che non basteranno i militari: non arrivano a percepire quanto il fondamentalismo religioso abbia scavato a fondo nella società, occupando gli spazi lasciati liberi dalla politica stessa. Per vincere davvero questa guerra ci vogliono scuole, posti di lavoro e una società libera dalla corruzione».

È Boko Haram il problema principale della Nigeria, come appare a noi occidentali, o la sua visione è un’altra?
«Il problema vero della Nigeria si chiama corruzione. Siamo un paese ricchissimo in cui il gap fra i pochi che hanno moltissimo e la maggioranza che non ha nulla non fa che aumentare. La rabbia monta sempre di più: Boko Haram è riuscito a incanalarla».

postilla
Ma non saranno certo governi corrotti, veicoli dell’asservimento neocolonialista dell’Africa all’imperialismo culturale ed economico del 1° mondo (del finanzcapitalismo neoliberale) a sconfiggere Boko Haram

« Il manifesto, 28 settembre 2013
A meno che non abbiano messo in scena uno stracciarsi di vesti rituale, una salmodia a favore di telecamera in attesa di continuare ad occuparsi di regole congressuali e decadenze senatoriali, c'è da aspettarsi che i nostri gruppi dirigenti - non solo politici ed economici, ma anche intellettuali - reagiscano allo shock dell'acquisizione di Telecom da parte di un oligopolio straniero avviando una seria riflessione sulla stagione delle privatizzazioni e sul ruolo dello Sato in economia. E c'è da augurarsi che lo facciano in maniera la meno ideologica e la più empirica possibile.

Quella stagione delle privatizzazioni cui si faceva cenno, infatti, fu accompagnata da una grancassa mediatica, finalizzata a puntellare l'egemonia liberista nel senso comune, per cui l'obbligo era quello di liberarsi dall'ideologia statalista, dove l'accento ricadeva non tanto sull'aggettivo - statalista - quanto sul sostantivo - ideologia: chi si ostinava (ed erano comunque in pochi) ad insistere sulla necessità per lo Stato e per la collettività di mantenere il controllo su alcuni settori strategici, non lo avrebbe fatto avendo a cuore le sorti del paese, ma in odio, per ragioni appunto ideologiche, al libero mercato.

I fatti, tuttavia, hanno la testa dura, e si sono occupati di dimostrare l'esatto contrario. Fu il liberismo una ideologia, ricette applicate in spregio ad ogni analisi seria della situazione e della stessa storia del paese. Proprio da questa storia potremmo trarre alcune importanti riflessioni, se non lezioni. Gli ideologi al potere negli anni Novanta, ripiegati sul proprio credo, evitarono accuratamente di porre a se stessi e all'opinione pubblica una domanda semplice quanto pregnante: chi garantisce meglio lo sviluppo del Paese, sia in senso quantitativo (quantità di capitali investiti) sia qualitativo (livelli occupazionali, riduzione del divario tra Nord e Sud, tasso di innovazione)? Il capitale pubblico o il capitale privato?
Già agli albori del miracolo economico, un periodo della nostra storia presentato come la summa della capacità espansiva del capitalismo italiano, era stato il Piano Sinigaglia, un piano pubblico avviato da Finmeccanica ed osteggiato dai grandi interessi privati, a permettere al Paese di reggere bene o male la concorrenza intraeuropea nell'allora decisivo settore della siderurgia.
Ma la necessità di un forte e decisivo ruolo dello Stato in economia fu, a lungo, appannaggio unico delle opposizioni di sinistra, ed in particolar modo dei "planisti" socialisti. Pur parlando un linguaggio molto più venato di classismo (per necessità e convinzione, non certo per moda, come pure è stato scritto) rispetto ad i loro omologhi europei, i Riccardo Lombardi, gli Antonio Giolitti, erano convinti che il volano dello sviluppo italiano avrebbe dovuto saldamente rimanere nelle mani dei pubblici poteri: e non in spregio alle regole del mercato, o in amore a ricette preconfezionate provenienti da oltre-cortina, ma per la realistica presa d'atto che in Italia di capitali disponibili all'investimento strategico ce ne erano pochi, e quei pochi mal distribuiti territorialmente e merceologicamente.
Dalla conversione a questa intuizione da parte di segmenti via via maggioritari di gruppi dirigenti - pur con le necessarie distinzioni, esponenti del mondo laico come Ugo La Malfa o Eugenio Scalfari, e di quello cattolico come il professor Pasquale Saraceno, il sindacalista Giulio Pastore e lo stesso Amintore Fanfani arrivarono a convergere almeno parzialmente con le ricette socialiste - si arrivò allo scorporo delle aziende pubbliche dalla Confindustria e alla nascita del sistema delle Partecipazioni Statali, mentre l'architrave dell'operazione che doveva portare all'implemento del ruolo propulsivo dello Stato fu rappresentato dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica.
Anche in quella occasione, tuttavia, i gruppi dirigenti privati non dettero buona prova di sé: Guido Carli, presidente della Banca d'Italia, in alleanza con l'intero fronte confindustriale, condusse e vinse la battaglia affinché i rimborsi derivanti dall'esproprio delle aziende private fossero riversati, anziché ai singoli azionisti, alle società ex-elettriche, nell'illusione (in seguito riconosciuta come tale dallo stesso Carli), che quella ingente mass a di capitali potesse essere reinvestita in attività ad alta concentrazione di innovatività e capacità di sviluppo - il tutto invece naufragò miseramente in quel buco nero di corruzione ed inefficienza che fu la nascita della Montedison.
Paradossalmente, e torniamo agli anni Novanta, furono proprio gli eredi del movimento operaio e del cattolicesimo sociale, di nuovo incontratisi in una nuova e più sbiadita riproposizione del centro-sinistra, a smantellare il sistema delle partecipazioni statali, agendo con una furia iconoclasta ad far impallidire, almeno per la velocità con cui essa dilagò, la Gran Bretagna degli anni Ottanta, accompagnando il tutto con una martellante campagna intellettuale (questa sì, ideologica) volta a convincere l'opinione pubblica delle magnifiche sorti e progressive che il gigantesco processo in atto apriva per il paese. Ora che la telefonia è in mano straniera; che la liberalizzazione nel campo dell'energia elettrica si è dimostrata - numeri alla mano - molto meno vantaggiosa di quanto si pensasse; che il futuro dell'industria nel campo dell'auto e della siderurgia è a rischio per diversi eppur convergenti fattori; che fole privatiste si raccontano (sciaguratamente anche da sinistra) a proposito di Eni e Finmeccanica; e soprattutto, ora che l'ideologia liberista ha mostrato empiricamente la corda, gli eredi della tradizione del movimento operaio e del cattolicesimo democratico avrebbero il dovere politico-intellettuale di ripensare, ancorché criticamente, l'esperienza e la lezione dei antecessori, e rinnovare la lotta per un intervento pubblico in economica, l'unica maniera per concorrere decisamente al tanto sbandierato sviluppo del paese.

Il manifesto, 28 settembre 2013
Fino a ieri dicevano che il problema non era il Movimento No Tav ma le sue frange estremiste e violente. Fino a ieri. Oggi la maschera è caduta. Con la criminalizzazione politica e mediatica finanche di Stefano Rodotà, con la riesumazione dei reati di opinione, con la perquisizione domiciliare nei confronti di Alberto Perino (leader storico del movimento) tutto è diventato più chiaro. Il nemico da battere è il Movimento di opposizione all'alta velocità in Val Susa. Ma la percezione della natura dell'operazione in corso comincia - qua e là - a farsi strada. Anche in alcune inchieste televisive e in alcune decisioni del Tribunale del riesame di Torino.

Così la corrazzata bipartisan degli sponsor dell'opera - la lobbie politico affaristico scoperchiata dall'arresto dell'ex presidente Pd della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti - spara le sue ultime cartucce, mettendo in campo persino - come tutore della legalità (sic!) - l'incredibile Angelino Alfano. Fin qui tutto secondo copione. Ma accade che tra i sostenitori dell'opera si arruolino anche intellettuali come Massimo Cacciari, spintosi ad affermare, in una recente intervista, che il Tav fa schifo, ma lo si deve fare perché così ha deciso la maggioranza. A fronte di suggestioni siffatte, che inquinano il dibattito, è bene ripassare i fondamentali.

Identificare tout court la democrazia con le decisioni contingenti della maggioranza è un pericoloso errore. Basti ricordare uno dei padri del pensiero liberale, quell'Alexis de Tocqueville che, nel 1831-32, scriveva: «Quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte non sono maggiormente disposto a infilare la tesa sotto il giogo perché un milione di braccia me lo porge. Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere». Il senso è evidente e attuale.

Il principio di maggioranza serve per diffondere il governo delle società, sottraendolo all'arbitrio di uno solo o di pochi, ma una scelta ingiusta non cessa di essere tale sol perché adottata dalla maggioranza. Tanto ciò è vero che alcune costituzioni contemporanee prevedono esplicitamente un diritto/dovere di resistenza, sulla scorta dell'art. 21 del progetto di Costituzione francese del 19 aprile 1946 secondo cui: «Qualora il governo violi la libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza, sotto ogni forma, è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri». Interessante ricordare che una analoga proposta («Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all'oppressione è un diritto e un dovere del cittadino») venne formulata alla nostra assemblea costituente dall'on. Dossetti e non fu approvata solo perché ritenuta implicita nel sistema...

La democrazia non coincide con il principio di maggioranza, che pure ne è uno dei cardini. Non per caso l'articolo 1 della nostra Carta fondamentale prevede che la sovranità del popolo si «esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». E tra i limiti invalicabili dell'attività legislativa e dell'azione politica ci sono quelli posti dagli articoli 9 e 32 a tutela dell'ambiente e della salute: i diritti previsti da tali norme hanno carattere assoluto, a differenza, per esempio, del diritto di iniziativa economica che - secondo l'art. 41 - è bensì «libera» ma «non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

In questo contesto il confronto con le popolazioni e le istituzioni locali (mai realizzato in Val Susa, dopo il timido tentativo della fase iniziale dell'Osservatorio, presto superato dalla pregiudiziale secondo cui «di tutto si può discutere ma non della necessità che l'opera sia fatta»...) non è un lusso o un di più ma un passaggio ineludibile in un sistema democratico e continuare a ignorarlo realizza non solo una rottura sempre più difficile da sanare con la valle ma anche una ferita profonda alla democrazia dell'intero Paese.

Qualche anno fa - nel volumetto Imparare democrazia (Einaudi, Torino, 2007) - Gustavo Zagrebelsky ha scritto parole su cui farebbero bene a riflettere i troppi «maestri di democrazia» che pontificano sul Tav: «La ragione d'essere e di operare delle minoranze è la sfida alla bontà della deliberazione presa, nell'aspettativa di prenderne un'altra diversa. Per questo, ogni deliberazione in cui una maggioranza sopravanza numericamente una minoranza non è una vittoria della prima e una sconfitta della seconda. È invece una provvisoria prevalenza che assegna un duplice onere: alla maggioranza di dimostrare poi, nel tempo a venire, la validità della sua decisione; alla minoranza, di insistere per far valere ragioni migliori. Ond'è che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa) chiude definitivamente una partita. Entrambe attendono e, al tempo stesso, precostituiscono il terreno per la sfida di ritorno tra le buone ragioni che possano essere accampate. La massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Essa solo apparentemente è democratica, poiché nega la libertà di chi è minoranza, la cui opinione, per opposizione, potrebbe dirsi vox diaboli e dunque meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi più. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti».

Non si può continuare nel tentativo di uscire dalla crisi applicando i dispositivi che l'hanno provocata e continuano ad aggravarla. Cambiare strada (cominciando coll'attribuire al Parlamento europeo poteri reali) è difficile ma è indispensabile.

La Repubblica, 27 settembre 2013

Poco prima delle elezioni, una nota rivista tedesca di studi politici ha pubblicato un articolo intitolato “Quattro anni di Merkel, quattro anni di crisi europea”. L’autore, Andreas Fisahn, non si riferiva affatto al rinnovo ch’era ormai certo del mandato alla Cancelliera, bensì al precedente periodo 2010-2013, in cui l’austerità imposta da Berlino tramite Angela Merkel ha rovinato i paesi Ue. Ma la sua diagnosi ci porta a dire che la riconferma di quest’ultima assicura che senza mutamenti di rilievo nelle politiche dell’Unione il prossimo quadriennio potrebbe essere anche peggio.

Sui guasti pan-europei delle politiche di austerità come ricetta per risolvere la crisi, in nome della stabilità dei bilanci pubblici, non ci possono essere dubbi. I disoccupati nella Ue hanno superato i 25 milioni, di cui oltre 19 nella sola zona euro, e 4 in Italia. La compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori ha creato decine di milioni di lavoratori poveri, a cominciare dalla Germania dove i salari reali, caso unico in Europa, sono oggi inferiori a quelli del 2000. Quasi ovunque sono stati brutalmente tagliati i trattamenti pensionistici – da noi ne sanno qualcosa gli esodati, ma non soltanto loro – insieme con i fondi per l’istruzione, la sanità, i trasporti pubblici. Paesi quali la Grecia e il Portogallo sono stati letteralmente strangolati dalle prescrizioni della troika venuta dal Nord, senza che esse abbiano minimamente giovato ai loro bilanci. In tutta la Ue i comuni devono fronteggiare difficoltà di bilancio mai viste per continuare ad assicurare i servizi locali ai residenti.

Codesti risultati delle politiche di austerità, imposte alla fine dalla Germania, dovrebbero bastare per concludere che è necessario cambiare strada. Per contro i governi europei insistono sul sentiero battuto, a riprova del fatto che gli dèi fanno prima uscire di senno coloro che vogliono abbattere. La loro persistenza nell’errore ha preso sempre più forma di misure autoritarie, ideate e avallate da Berlino, Francoforte e Bruxelles. Hanno stanziato quattromila miliardi per salvare le banche, di cui oltre duemila impiegati soltanto nel 2008-2010, ma se i cittadini provano a dire che con 500 euro di pensione o 800 di cassa integrazione non si vive li mettono a tacere con cipiglio affermando che i tagli è l’Europa a chiederli. Come si legge in un altro articolo della stessa rivista citata sopra (firmato da H.-J. Urban), l’autoritarismo dei governi Ue trova un solido alimento nella retorica in tema di sorveglianza e disciplina finanziaria della Bce. La quale parla, nei suoi documenti ufficiali, di “processi di comando permanente”; “regole rigorose e vincolanti di disciplina politico-fiscale”; “credibilità ottenuta tramite sanzioni”; “sorveglianza rafforzata sui bilanci pubblici”, nonché di “robusti meccanismi di correzione” (leggasi pesanti sanzioni) che dovrebbero scattare in modo automatico. Giusto quelli che nei giorni scorsi han messo in fibrillazione il nostro governo, perché forse il bilancio dello Stato ha superato il fatidico limite del 3 per cento sul Pil di un decimo di punto percentuale.

Allo scopo di contrastare sia le politiche dissennate che pretendono di curare la crisi ricorrendo alle stesse dottrine che l’hanno causata, sia il crescente autoritarismo con cui i governi Ue le impongono sotto la sferza costruita da Berlino ma brandita ogni giorno dalla troika di Bruxelles (che in realtà è un quartetto, poiché molte delle sue più aspre prescrizioni sono elaborate dal Consiglio europeo, di cui fanno parte i capi di Stato e di governo dei paesi Ue), esiste una sola strada: la riforma dei trattati Ue, ovvero dei trattati di Maastricht, Lisbona ecc. oggi ricompresi nella versione consolidata che comprende le norme di funzionamento dell’Unione. I trattati particolari che ne sono discesi, fino all’ultimo dissennato “Patto fiscale”, che se fosse mai rispettato assicurerebbe all’Italia una o due generazioni di miseria, hanno come base il Trattato Ue, per cui da questo bisognerebbe partire.

Tra le revisioni principali da apportare al Trattato (alcune delle quali sono prospettate anche da Fisahn, l’autore citato all’inizio: ma articoli e libri che avanzano proposte a tale scopo, in quel tanto di pensiero critico che sopravvive in Europa, sono dozzine) la prima sarebbe di attribuire al Parlamento Europeo dei poteri reali, laddove oggi chi elabora i veri atti di governo è un organo del tutto irresponsabile, non eletto da nessuno, quale è la Commissione europea. Lo statuto della Bce dovrebbe includere la facoltà, sia pure a certe condizioni, di prestare denaro direttamente ai governi, rimuovendo l’assurdità per cui è l’unica banca centrale del mondo cui è vietato di farlo. Inoltre, esso dovrebbe porre accanto alla stabilità dei prezzi, quale finalità primaria delle sue azioni, un vincolo miope imposto a suo tempo dalla Germania che non ha ancora elaborato il lutto per l’inflazione del 1923, lo scopo di promuovere la piena occupazione. Dovrebbe altresì prevedere, la revisione del Trattato Ue, una graduale riforma radicale del sistema finanziario europeo volta a ridurre i suoi difetti strutturali, cioè l’eccesso di dimensioni, complessità, opacità (il sistema bancario ombra pesa nella Ue quanto il totale degli attivi delle banche), di facoltà di creare denaro dal nulla mediante il debito;

laddove nella versione attuale il Trattato si preoccupa soprattutto di liberalizzare ogni aspetto del sistema stesso, con i risultati disastrosi che si sono visti dal 2008 in avanti: in special modo in Germania. A fronte di tale indispensabile riforma, gli interventi in atto o in gestazione, tipo il Servizio europeo di vigilanza bancaria o l’unione bancaria, sono palliativi da commedia di Molière. Infine l’intero trattato dovrebbe essere riveduto in modo da prevedere modalità concrete di partecipazione democratica dei cittadini a diversi livelli di decisione, dai comuni ai massimi organi di governo dell’Unione. Come diceva Hannah Arendt, senza tale partecipazione la democrazia non è niente.

So bene che a questo punto chi legge sta pensando che tutto ciò è impossibile. Stante la situazione politica attuale, nel nostro paese come in altri e specialmente in Germania, non ho dubbi al riguardo. Ma forse si potrebbe cominciare a discuterne. Ci sarebbe un politico italiano volonteroso e capace di avviare simile discussione? Anche perché l’alternativa è quella di continuare a discutere per altri venti o trent’anni, intanto che il paese crolla, di come fare a ridurre il deficit di un decimo dell’un per cento.


Inutile nascondersi dietro un dito: il capitale è diventato internazionale mentre i lavoratori sono restati nel bozzolo dei nazionalismi. Occorre che oggi anche le controparti si sforzino di "internazionaliste", magari a partire dalle università. I

l manifesto, 27 settembre
Mercoledì scorso, all'indomani dell'affondo spagnolo sulla proprietà di Telecom, L'Unità e Il Tempo uscivano con un titolo di prima pagina praticamente identico nel suo significato: Fermiamo la svendita dell'Italia. Stampa e telegiornali elencavano sconsolati le numerose aziende italiane passate «in mani straniere», i «gioielli del made in Italy» che avevano cambiato nazionalità. Su queste stesse pagine, in un articolo peraltro apprezzabile, Enrico Grazzini, affermava in conclusione: «Il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia».

Tutto ciò è preoccupante e sono, come sempre accade, il linguaggio e la rappresentazione a segnalare il pericolo. Che non è affatto riconducibile alla conduzione scriteriata di singole vicende, sia pure rilevanti, come quella di Telecom o di Alitalia. Già nel definire «straniere», mani europee, si indirizza l'opinione pubblica verso una concezione competitiva della presenza dei singoli stati nell'Unione. Se poi ci si mette di mezzo anche il «patriottismo» i termini della questione si fanno ancora più sinistri. In tutta la discussione sul mercato delle aziende e sulla politica industriale la dimensione europea semplicemente scompare. Si torna a parlare di famiglie e di «gioielli di famiglia». Ma, tanto per restare nel campo dei gioielli in senso stretto, dubito che anche un solo disoccupato o precario italiano si sia disperato per il passaggio di Bulgari «in mani straniere». Così come non credo che i capitali esteri penetrati nelle griffe del bel paese, soffocheranno la «creatività» del made in Italy, se ancora ve ne è una, e ridurranno una occupazione ormai ampiamente delocalizzata. O che la proprietà transalpina di Parmalat debba farci rimpiangere Calisto Tanzi.

C'è qualcosa di paradossale, anzi di incomprensibile, nel rivendicare l'italianità delle imprese italiane dopo avere elencato con dovizia di particolari l'insipenza, o la corruzione, della classe politica, allegramente privatizzatrice, che ci ha governato e ci governa. Dopo aver illustrato la grettezza, l'inefficienza, la vista corta di buona parte del nostro mondo imprenditoriale. Fino a reclamare una Norimberga (La Repubblica) per i crimini commessi in Italia «contro il capitalismo». Che dio li perdoni per questo paragone. Sarebbe dunque questa l'italianità da preservare? La patria economica da difendere fino alla morte, magari accettando tassi di sfruttamento più «competitivi»? O qualcuno intravede un improvviso e imprevisto momento di redenzione? Che i capitali circolino liberamente e i mercati si attengano solo alle proprie regole non è certo una novità. Il problema è che altro non circola, resta racchiuso nella presuntuosa impotenza delle «patrie».

C'è poi una singolare leggenda presente soprattutto nella mitologia sindacale. Quella secondo cui i padroni nazionali sarebbero più teneri con i loro dipendenti, forse preoccupati da una ostilità sociale più prossima, meno cinici dello «straniero» che si avvale della distanza. È una visione paternalistica, arcaica e stucchevole, smentita innumerevoli volte. Nessun patriottismo imprenditoriale (fatta salva l'eticità difesa fino alla disperazione da qualche piccola o media impresa) è mai valso a contrastare chiusure, delocalizzazioni, esuberi, riduzione dell'occupazione e dei salari. C'è infine chi crede che i padroni nostrani sarebbero più ricattabili, o condizionabili, da un governo del paese seriamente impegnato nella politica industriale. L'esperienza ci dice il contrario. A maggior ragione in una situazione di crisi in cui scarseggiano tanto i bastoni quanto le carote. Ci dicono i sindacati italiani: Telefonica, la compagnia spagnola che sta assumendo il controllo di Telecom, ha scaricato diversi settori produttivi, creando esuberi e disoccupazione. Lo stesso potrebbe fare anche qui da noi. Ma dove stavano il sindacato italiano e gli altri sindacati europei quando questo accadeva? Nelle rispettive patrie, naturalmente, a strepitare contro l'Europa invece di organizzare lotte sovranazionali che la trasformino, contrastando le politiche liberiste. Al di sotto della dimensione europea, rinchiusi nel cortile nazionale, si perde sempre e comunque. Facile a dirsi, ne convengo. Ma se non si coltiva almeno un simile immaginario contro ogni forma di patriottismo (economico, politico o culturale), di retorica dell'italianità e del «sistema-paese» l'Europa e tutto ciò che essa contiene resterà saldamente non in «mani straniere», ma in quelle di una élite speculativa senza remore e senza argini.

Un piccolo esempio di «internazionalismo» possibile, e uso di proposito questo termine desueto: le politiche restrittive imposte dalla troika alla Grecia stanno conducendo alla chiusura dei maggiori atenei di quel paese. Non sarebbe un segnale chiaro e determinato se tutte le università d'Europa chiudessero, almeno per un giorno, in segno di lutto per qualcosa che accade altrove, ma incombe sul futuro di tutti? Si avvicina il centenario del 1914. Cerchiamo di celebrarlo con saggezza.

a Repubblica) e Norma Rangeri (manifesto), 27 settembre 2013

La Repubblica
L’EVERSIONE BIANCA
di Ezio Mauro

ADESSO Silvio Berlusconi è solo davanti alla crisi di sistema che sta provocando. Anche se ha costretto i suoi parlamentari a firmare dimissioni in bianco per tentare un ultimo atto di forza che è in realtà una dichiarazione estrema di debolezza e di paura, è istituzionalmente solo.

La minaccia di un Aventino di destra ha infatti costretto il Capo dello Stato a denunciare “l’inquietante” strategia della destra, l’“inquietante” tentativo di forzare il Quirinale a sciogliere le Camere, la “gravità e l’assurdità” di evocare colpi di Stato e operazioni eversive contro Berlusconi, ricordando infine che le sentenze di condanna definitive si applicano ovunque negli Stati di diritto europei, così come Premier e Presidente della Repubblica non possono interferire con le decisioni di una magistratura indipendente, nel mondo in cui viviamo.

La gravità di questo richiamo, su elementari principi di democrazia, segnala l’emergenza istituzionale in cui siamo precipitati. Bisognava fermare per tempo — istituzioni, opposizioni, intellettuali, giornali, un establishment degno di questo nome — la progressione di un’avventura politica che costruiva se stessa come sciolta dalle leggi, dai controlli, dalle norme stesse della Costituzione: disuguale nella pratica abusiva, nel potere illegittimo e nella norma deformata secondo il bisogno. Ora si vedono i guasti, con la disperata pretesa di unire in un unico fascio tragico i destini di un uomo, del governo, del parlamento e del Paese, nell’impossibile richiesta di salvare dalla legge un pregiudicato per crimini comuni.

Bisogna fermarlo, subito. Tutte le forze che si riconoscono nella Costituzione devono dire basta, difendere i fondamentali della Repubblica, respingere l’estorsione politica, sconfiggere questa anomalia nel parlamento, nella pubblica opinione, nel voto. In Occidente non c’è spazio per questo sovvertimento istituzionale, per questa eversione bianca strisciante e ora firmata e conclamata.

Chi non la combatte è complice.

manifesto
FRUTTI AVVELENATI
di Norma Rangeri

L'Aventino della destra ha un obiettivo molto semplice: togliere al capo dello stato, in caso di crisi di governo, la possibilità di chiamare il parlamento a esplorare l'esistenza di un'altra maggioranza come prevede e stabilisce la Costituzione.

Non sono infatti i ministri a dare le dimissioni, ma i parlamentari a prometterle. Una mossa inedita e disperata, «un fatto istituzionalmente inquietante... che produrrebbe l'effetto di colpire alla radice la funzionalità delle Camere», come ha ben compreso il capo dello stato, che infatti reagisce duramente ricordando che «non meno inquietante» è la pressione che in questo modo si vorrebbe esercitare per arrivare «allo scioglimento delle camere». Le sentenze, torna ancora a ripetere il presidente della repubblica, in uno stato di diritto «si applicano». Mentre il presidente del consiglio, inseguito dal fantasma di Jo Condor, serra i ranghi e chiede un chiarimento in parlamento.

Ma gli effetti perversi e «inquietanti» della mossa estremista di Berlusconi sono già abbastanza chiari e originano dalla eccezionale torsione impressa al quadro politico proprio da chi ha creduto che un'alleanza di governo con un eversore in doppiopetto potesse disinnescarlo e tamponare le falle di un sistema allo sbando da ogni punto di vista (costituzionale, politico, sociale, economico).

Chi ha immaginato che il grumo del ventennio berlusconiano potesse essere arginato da un confronto diretto tra Napolitano e Berlusconi ha drammaticamente sottovalutato la natura sfascista di un partito nato e cresciuto in conflitto con poteri costituzionali (legislativo, esecutivo, giudiziario). Chi ha pensato che la sorda lontananza tra i partiti e gli elettori potesse essere colmata senza promuovere e riconoscere un protagonismo sociale (e il nostro paese per fortuna ne è ricco) capace di riaprire i canali ostruiti di un assetto democratico debole, svuotato, narcotizzato, ha sottovalutato la frattura crescente tra una classe dirigente asserragliata nel bunker dei propri privilegi e una maggioranza dei cittadini impauriti del futuro.

Siamo a un giro di boa, con l'uomo ancora potente che prende il sopravvento sul politico al tappeto, convinto che falsificando i dati di realtà («la sinistra è criminale», «la democrazia non c'è più», «la magistratura è eversiva»), la sua carriera fuorilegge, la sua figura deformante potrà mimetizzarsi e sfuggire al giudizio finale anche dei suoi stessi elettori. Ma il marketing che in tempo di «pace» è stato capace di affascinare i berlusconiani e gli arcoriani di complemento (una parte della sinistra politica e televisiva), oggi, nel tempo delle sentenze e dell'elmetto, fa paura anche ai sodali della prima ora che invano consigliano a Berlusconi di prendere atto della realtà, di dimettersi, rassegnarsi agli arresti domiciliari e liberare la strada al governo.

Anche per questo chi scenderà in piazza il 12 ottobre vede se possibile rafforzato il compito di difendere i diritti tutelati dalla Costituzione (a cominciare da quelli del lavoro). L'iniziativa, aperta e indipendente dai partiti, chiede di tornare con i piedi nella società, invita cittadini e associazioni a una partecipazione larga, oltre i confini della sinistra. La migliore garanzia di una tenuta democratica.

«Nell'ultimo libro di Mario Tronti,

Per la critica del presente il lessico politico del Novecento è messo alla prova per definire una sinistra non subalterna. Da qui la critica dell'autore ai movimenti sociali, ritenuti "un'istanza simbolica". Ma così facendo l'obiettivo di una "potenza politica organizzata" rimane una visione». Il manifesto, 26 settembre 2013

Voci e visioni.

È da questa partizione che converrà partire per intendere lo spirito che anima il breve scritto (breve solo quanto al numero di pagine che lo compongono, non certo ai temi che tocca) che Mario Tronti dedica alla critica del presente (Ediesse, pp. 152, euro 12). Voci, dunque. Non quelle di un dizionario, di un glossario, di un lessico aggiornato della politica. Che dizionari e lessici definiscono, non problematizzano le definizioni. Qui è invece la dimensione della ricerca a prevalere. Non a partire da un vuoto, o dalla pretesa di assoluto del «nuovo», che ha smesso di avanzare e si è prepotentemente accomodato. Ma muovendo dal lato ignoto, irrisolto, divenuto tale o forse mai del tutto compreso, delle «voci» che hanno segnato la storia e la politica del Novecento: Autonomia, Popolo, Stato, Partito, Lavoro, Crisi. È una tonalità, una Stimmung, quasi nietzschiana a pervadere questo scritto, a conferirgli la forza evocativa e, al tempo stesso, frammentariamente perentoria dell'aforisma. La consapevolezza, più lucidamente severa che rabbiosa, di una sorta di indebolimento patologico dell'epoca in cui viviamo, di una soddisfatta apatia su cui prospera il potere di pochi. Deriva, decadimento. E la necessità di tornare a «filosofare con il martello», senza timore di schiacciarsi le dita. Rompendo il senso comune, l'idea, vuoi compiaciuta, vuoi rassegnata, che non si diano alternative allo stato di cose presente, se non nei termini di modesti aggiustamenti o di un evoluzionismo beatamente e sconsideratamente ottimista. Un pensiero, insomma, che orienti il cambiamento senza subire l'egemonia di ciò che è dato, che compenetri l'agire collettivo conferendogli potenza creativa, solidità e durata.

Autonomia, dunque, è la voce decisiva, quella con cui tutte le altre debbono misurarsi. L'elemento fondativo che non si limita a regolare, ma abbatte e istituisce, distrugge e crea. Non c'è rottura dell'esistente senza scontro con il nomos che lo fonda. Ma «Autonomia» non unisce, divide. Non è semplicemente il punto di vista incondizionato di una parte, ma anche i punti di vista che la attraversano e la lacerano. Che si fronteggiano e si scontrano. È la politica stessa, non una sua prerogativa esclusiva. Non basta rivendicare l'autonomia della politica dai poteri economici che la hanno asservita o sostituita. Autonomia è anche dalla tradizione, dall'influenza di paradigmi logorati, dall'uso paralizzante della storia, da quel concetto di esperienza, oggi in gran voga, che ci sconsiglia dal tentare qualsiasi esperienza ulteriore. Individui e collettività, movimenti e partiti, classi e corporazioni, governanti e governati, stati e istituzioni sovranazionali si fronteggiano in nome della propria «autonomia», aspirano cioè a darsi la propria legge, all'esercizio in proprio della Politica. Dove sta, allora, il confine tra le pretese degli interessi particolari e la politica come autonomia? Sta appunto in quella determinazione a istituire altro, a costruire un diverso paradigma, a gettare le fondamenta di un nuovo assetto che il tempo presente ha escluso perfino dal campo del nominabile.

Gli incerti confini

Ma quale è la mano in grado di impugnare il martello? Una classe dirigente, una élite (una avanguardia?) - risponde Tronti - capace di trasformare il popolo impolitico del populismo nel popolo politico dei lavoratori e orientarne l'azione. I lavoratori dunque. Chi sono costoro? Un arcipelago dagli incerti confini, la piena occupazione tanto integralmente realizzata da includere financo il suo contrario, coscienza e inconsapevolezza, indipendenza e subalternità, competizione e coopeazione, rabbia e ottundimento. È il capitale, in primo luogo quello finanziario che scorre nelle vene dell'intero pianeta, a governare questo puzzle di contrasti, a impugnare saldamente il martello, e non per fare della filosofia. A imporre la prevalenza del «dentro» sul «contro», della rendita sui bisogni e le aspirazioni della collettività umana. Fuori da ogni contratto sociale e dunque da ogni mediazione. Il raggio di azione della mediazione politica si limita oggi a quanto dentro il patto sociale è rimasto, sia pure l'esagerazione simbolica del 99 per cento. È invece indifesa e inefficace nei confronti dei poteri che ne sono usciti verso l'alto, godendo della più piena autonomia. Ma fuori dal contratto sociale vi è solo un crudo rapporto di forze. Non si può mettere allora a tema la politica senza mettere a tema la violenza. Chiedersi di che cosa si tratti, quale sia la forza e il modo di esercitarla che vinca senza annientare chi la mette in campo e le sue ragioni. È una «voce» che manca, anche se tutte le altre (stato, partito, crisi), ne sono attraversate, nei loro geni e nella loro storia. E gran parte dell'umanità la subisce in forme quotidiane ed estreme. Voce roca o addirittura impronunciabile, che Luisa Muraro ha preso in esame non molto tempo fa con un coraggio inconsueto per i tempi che corrono.

I lavoratori e l'élite dunque. Ma come si configura questo rapporto a partire da una condizione disomogenea, stratificata, perfino contraddittoria? Forse il motore delle lotte e la soggettività che le organizza non possono più essere pensati come un gruppo dirigente (che si rivela, più che altro, rissosa estensione della politica personalizzata). Piuttosto come un luogo di elaborazione, un blocco teorico e un tavolo operativo al quale si sovrappongono e si susseguono diversi commensali, portandovi sapere diffuso e molteplice esperienza, all'altezza del tempo presente e a confronto con la vita reale. Autonomia che non germoglia dalla separatezza, dalla professione intesa come corporazione, ma dall'aver appreso a orientarsi tra i paradossi della contemporaneità.

Il cattivo nuovo

Si dice che le rivoluzioni divorino i propri figli, e anche i loro padri. Lo si è visto, sempre. Che se così non fosse non si tratterebbe di rivoluzioni. Tra Rivoluzione e Partito non c'è rapporto lineare, c'è attrito, c'è contraddizione. La fondazione travolge i fondatori, e forse sarà proprio per questo che nessuno intende fondare più nulla. Ma Rivoluzione di tutte le «voci» è la più impronunciabile, in un tempo in cui non vi è tecnologo, pubblicitario o mattatore che non annunci quotidianamente la sua «rivoluzione». Rassegniamoci, non è una faccenda all'ordine del giorno, se non in questa inflazione retorica del termine.

Partito non gode di miglior fama. «Casta» o forse, più precisamente, milizia mercenaria, quella di cui Machiavelli ci invitava a diffidare, pronta a tradire per maggior guadagno e incline a fingere di menar le mani senza farsi troppo male. Ma non è vero che i partiti non rappresentino - scrive Tronti - rappresentano fin troppo, riproducono l'esistente, rispecchiano, non hanno nulla da dire o da proporre, inseguono i vizi e i capricci della cosiddetta società civile. Vero. Eppure c'è un rispecchiamento «contro». Quello che rovesciava l'organizzazione di fabbrica nel partito operaio, l'esercito industriale in esercito rivoluzionario. E oggi? Quali caratteristiche, quali forme dei poteri che ci dominano possono essergli rovesciate contro? Questo è il problema del partito oltre il partito, della «macchina da guerra», quella vera, non quella «gioiosa» della guerra dei bottoni. Il problema di maneggiare la realtà, compreso il «cattivo nuovo» che la pervade. Qualcuno, guardando al capitale finanziario, indica la parte dei debitori, la loro organizzazione contro la rendita (Maurizio Lazzarato), il sacrosanto rifiuto di pagare i costi della crisi, di piegarsi alla potenza del denaro che produce denaro. È un terreno interessante, temuto dai padroni della finanza, ma accidentato, infestato di compromissioni, minacciato da derive nazionaliste.

Oggetto della visione è invece la sinistra. Ci vorrebbe Bernadette per carpirne i segreti. Ha perduto molto. Cultura, radicamento, qualità antropologiche, concezione del mondo. Le ha tentate tutte: strategie mimetiche, «alleggerimenti», lo smart e il cool. Ha preso commiato dal vecchio linguaggio, ma non ne ha creato uno nuovo oltre l'imitazione impacciata di quello del mercato. Si è arenata sulla secca della «responsabilità». Ecco: essere di sinistra è essere responsabili! Verso chi e che cosa? Verso i patti a cui il capitale ci vincola senza esserne vincolato? Verso la Nazione e l'idea di popolo che ne discende? Verso il sistema delle leggi esistenti? Verso le regole della competitività? Poco importa, la «responsabilità» è diventata una qualità senza referenti, una sacralizzazione del limite che lo sottrae alla contingenza e lo proietta verso l'eternità. È la mancanza di alternative come dogma e come identità. Ma sinistra non è solo questo. C'è una storia e un retaggio concettuale che la collocano dalla parte degli oppressi, che oppongono il basso all'alto, un pensiero che svela gli equilibri oligarchici del potere e ricerca gli strumenti per scardinarli. C'è o c'era? Sinistra può ancora significare questa scelta di campo?

L'impasse della ambivalenza

I movimenti dal basso - scrive Tronti - sono la domanda, non la risposta. Idea non realizzata, ma da realizzare, una «istanza simbolica». Non credo sia produttivo porre la questione in questi termini. Né l'una, né l'altra cosa. Nella domanda stessa c'è buona parte della risposta, nell'idea i criteri della sua realizzazione, nelle forme dell'agire un principio di organizzazione, non testimonianza simbolica, ma imposizione di stati di fatto, pratica dell'obiettivo, come si diceva una volta. Certo, i movimenti possono perdere e, da un bel pezzo, continuano a perdere. Ma non è così anche per le forze organizzate della sinistra? Da dovunque partiamo siamo nella stessa impasse. Ma se non altro i movimenti quando perdono la partita lo capiscono ed è solo questa comprensione che permette di ricominciare, di radunare le fila e andare avanti. Se vi è un luogo dove l'autonomia, del pensiero e della pratica, ha ancora cittadinanza, è lo spazio dei movimenti. L'unico nel quale la politica si sforzi di sciogliere le ambivalenze del presente. Non ci riesce? Non basta? Certo che non basta. Ma se continuiamo ad attenerci allo schema delle masse che chiedono, delle élites che ascoltano, raccolgono e traducono in programma, già per il fatto che tutto questo non è accaduto, non accade né promette di accadere, i contorni di una «potenza politica organizzata» resteranno una visione, per la quale, appunto, servirebbe la mediazione di Bernadette.

Denaro crea denaro crea potere crea denaro... è l’uroboro, serpente mitologico che si morde la coda e soffoca la Polis. Azione suicida tra pratiche oscene nel rapporto tra politica ed economia, dominato da religione del Mercato e mito della crescita.

LaRepubblica, 26 settembre 2013

Un’immagine che può, forse, costituire una sintesi efficace e può fornire qualche suggestione è quella dell’uroboro, immagine mitologica del serpente che mangia la sua coda e ciò ch’essa contiene, nutrendosi di se stesso (dal greco ouròboros,dove ourà staper “coda” e boròs sta per “mordace”, aggettivo riferito al serpente). Quest’immagine, ricca di significati analogici e metaforici, sfruttata dalla filosofia dell’eterno ritorno e dalle visioni esoteriche dell’uno immutabile e autosufficiente, una volta che sia spogliata di questo sovraccarico, può bene definire il rapporto tra denaro e politica, nei termini di uno scambio di ritorno e di reciproco sostentamento. Il potere sostiene e rivitalizza il (procacciamento di) denaro e il denaro sostiene e rivitalizza (l’acquisizione e il mantenimento de) il potere.

C’è poi un aspetto proprio del circolo denaro-potere, che deriva dalla circostanza che, nell’economia finanziarizzata, il denaro non è statico, ma aspira all’accrescimento di se stesso: denaro che si produce dal denaro. C’è qui un carattere non del denaro come tale, ma dell’antropologia, per così dire, dell’uomo di denari:«crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crevit»(Giovenale,Satire,V, II, 140-1, che aggiunge:«Et minus hanc optat qui non habet»). Il libero mercato dei capitali è l’humus astratto ideale di quest’aspirazione crescente. Per questo, mentre l’uroboro-serpente è sempre uguale a se stesso, l’uroboro- sistema politico finanziario tende di per sé ad assumere proporzioni sempre maggiori e incombenti sull’ambiente in cui si sviluppa, traendone risorse incrementali.

Per rimanere nell’immagine, la tendenza alla crescita significa innanzitutto ch’esso stringe sempre più strettamente le sue spire sulla società, impoverendola delle sue risorse per finalizzarli ai propri scopi di crescita; in secondo luogo, ch’esso modella la società e le sue divisioni alla stregua delle sue esigenze riproduttive, secondo una tripartizione o, meglio, secondo tre cerchi concentrici.

Coloro che stanno nel serpente sono i privilegiati del potere e del denaro, i quali, con funzioni diverse (politiche, ideologiche, tecnico-esecutive, avvocatesche), stanno e lucrano all’interno dello scambio denaro- potere. Attorno a loro, stanno coloro che operano per fornire loro l’humus materiale necessario, in ciò che resta della “economia reale”. In una sorta di servitù volontaria, costoro collaborano a mantenere in piedi un sistema di potere, subendo restrizioni nel loro tenore di vita, nelle condizioni di lavoro, nella disponibilità di servizi, nella sicurezza e nella previdenza sociale: sistema di potere che, pur sfruttandoli a un ritmo crescente, li vede quali vittime colluse perché, e fino a quando, li protegge dal rischio d’essere cacciati nel terzo cerchio.

Nel terzo cerchio stanno gli inutili, i reietti, i disoccupati, abbandonati a se stessi come zavorra che non ha diritto di appesantire le altre parti della società, di frenare o impedire la “crescita”: parola-chiave dell’uroboro.

Il ciclo denaro-potere-denaro è, o mira a diventare, totalmente e assurdamente autoreferenziale. Ciò significa ch’esso trova pienamente in se stesso la ragione del suo essere in azione. È mezzo e fine al tempo stesso. Se noi volessimo cercare una definizione potente e adeguata di nichilismo, diremmo proprio così: non semplicemente la mancanza di scopi, che di per sé significa semplicemente insensatezza,irrazionalità, gusto del bel gesto, cinismo, ma la coincidenza dei mezzi e dello scopo. Così avremmo una definizione dotata di terribile razionalità: la pianificata e consapevole direzione verso l’illimitata dilatazione di sé, nell’ignoranza e nell’indifferenza rispetto a ciò che sta attorno. O, meglio, nell’ignoranza e nell’indifferenza fino al momento in cui ciò che sta attorno, nel suo ribollire, incomincia a rappresentare un pericolo per la propria autoriproduzione.

Abbiamo udito, e forse qualcunosi ricorda, l’affermazioned’un uomo di governo “tecnico”: in autunno, ci aspettano pericolose agitazioni sociali; ergo occorre intervenire con qualche misura di equità. Un governo non nichilistico avrebbe detto: la società è inquieta, tensioni sociali la percorrono; dobbiamo comprenderne le ragioni e dalle ragioni procedere per promuovere la giustizia. Se lo scopo è evitare le perturbazioni, non si esce affatto dall’autoreferenzialità; anzi, la si conferma e se ne rafforzano le cinte. Nella stessa logica, le perturbazioni possono essere attenuate o sconfitte non solo con qualche misura d’equità adottata in stato d’emergenza, ma anche, se del caso, nella stessa logica emergenziale, con la repressione. In ciò si mostra la vena autoritaria d’ogni sistema di governo nichilistico, alias autoreferenziale.

Nel nichilismo e nell’autoreferenzialità, nel cerchio chiuso di potere e denaro, non c’è posto per la politica. C’è posto solo per il cieco dominio che rifiuta d’interrogarsi sul senso del suo esistere. È puro non-senso. C’è da stupirsi, allora, se quella che ancora insistiamo a chiamare politica,sempre meno attragga la maggioranza dei cittadini, coloro che sono fuori del cerchio? Come suonano vuote, retoriche e ipocrite le invocazioni di un nuovo patto tra cittadini e politici, senza che si mettano minimamente in discussione le ragioni di quel divorzio!La democrazia è forma della politica e la politica è la sostanza della democrazia. Ma, se viene a mancare la sostanza, la forma si riduce a vuoto involucro, a simulacro ingannatore. Nel mondo antico, la sostanza della politica era la pòlis, un concetto pieno di contenuto spirituale. Per tutti, la pòlis era la “giusta città”, di cui gli uomini liberi erano fieri, nella quale volevano vivere e per la quale erano pronti a grandi sacrifici. Pericle ne fa l’elogio celeberrimo, nell’epitaffio per i morti del primo anno della guerra peloponnesiaca (Tucidide,La guerra del Peloponneso,II, 35-46). Al di là dell’enfasi, dell’autocelebrazione, dell’interessata edulcorazione o, addirittura,dello stravolgimento della realtà, in quel discorso c’è un dato profondo, una verità perenne: se il potere non si dà un fine che lo trascende, se le sue leggi non s’identificano con la vita buona dei cittadini in generale, quale ch’essa sia, non c’è politica e tantomeno ci può essere democrazia. Lo ribadisce, in un passo altrettanto celebre di Le supplici di Euripide, Teseo, rivolgendosi all’araldo, figura rappresentativa di tutti i dispotismi vuoti di senso, che pretendono dai sudditi l’ubbidienza per l’ubbidienza, indipendentemente dalle buone ragioni che possano invocarsi per esigerla.

Nel tempo nostro, non c’è una pòlis, giusta città per natura e necessità, che a noi tocchi di riconoscere, difendere e accrescere. Tutto è stato distrutto, tutto è rimesso alle nostre mani e alle loro cure; tutto deve essere ricostruito. Quando la vita politica non è più un dato della natura, come l’aria, il suolo e il clima, ma deve essere costruita e rico-struita, il progetto della giusta città è quella cosa che decidiamo insieme che debba essere e che chiamiamo “costituzione”.Si dirà: allora siamo salvi! Una Costituzione, l’abbiamo e, per di più, tutti, o quasi tutti, le prestano ossequio. Si discute — è vero — dell’opportunità di modificare le forme della politica ma, almeno sulla sostanza, cioè sui principi e sui fini del nostro stare insieme — quelli indicati nella prima parte della Costituzione — tutti si dicono concordi. Nessuno (o quasi nessuno) propone modifiche.

Non c’è verità in queste parole. I principi e i fini della Costituzione possono essere lasciati stare, tali e quali sono scritti, per la semplice ragione che li si può ignorare, come se non esistessero. Che ne è del lavoro come diritto; dei doveri di solidarietà sociale; dell’uguale dignità di tutti i cittadini; dell’ambiente come patrimonio comune; della funzione sociale della proprietà; degli obblighi tributari che devono ispirarsi alla progressività; dei diritti sociali come l’istruzione, la salute, la protezione dei più deboli? Sono solo esempi. Le norme che parlano di queste cose tracciano le linee di una “buona città”, quale abbiamo voluto stabilendo una Costituzione. Ma possono essere lasciate tranquille, perché si può far finta che non esistano. Esse, per diventare realtà operante, richiedono politiche adeguate e le politiche si fanno secondo le forme. Le forme sono previste nella seconda parte della Costituzione, e, queste sì, molti vorrebbero cambiarle profondamente.

Chi sono questi “molti”? Se sono coloro che, al più o al meno, stanno nel cerchio più profondo della società, quello del connubio potere-denaro, possiamo pensare che agiscano per darsi gli strumenti per spezzarlo e dare spazio alla politica, oppure è più facile sospettare che l’operazione ch’essi hanno in corso serva a stringerlo ancora di più? Rafforzare il governo e deprimere il parlamento, confidare nella “decisione” e diffidare della “partecipazione”, a che cosa può servire, nel momento del disfacimento e del pericolo che, insieme alla democrazia, minaccia le immobili oligarchie del potere e del denaro, incapaci di uscire dalla loro crisi senza un colpo alla Costituzione?

NotaSi inaugura oggi a Piacenza la sesta edizione del Festival del diritto in programma fino a domenica 29. L’intervento di Zagrebelsky sarà svolto oggi, 26 settembre, alle 18 alla Sala dei Teatini con Stefano Rodotà. Tra gli ospiti, Enzo Bianchi, Remo Bodei, Laura Boldrini, Ilvo Diamanti, Carlo Galli, Gad Lerner, Antonio Spadaro, Nadia Urbinati

CIl manifesto, 26 settembre 2013

«Nessuno fermerà l'opera decisa dallo Stato». Così Angelino Alfano al cantiere Tav di Chiomonte, dove si è preso una breve pausa montana nel faticoso lavoro che l'ha impegnato in queste settimane per tentare di mantenere in corsa il più celebre frodatore dello Stato della storia italiana. Nello stesso giorno in cui il filosofo - ed europarlamentare - Vattimo viene indiziato di reato dalla Procura di Torino. E pochi giorni dopo l'ignobile aggressione verbale ai danni di Stefano Rodotà, accusato addirittura di «giustificare» il terrorismo per aver definito, con rigorosa scelta dei termini, «deprecabile, ma comprensibile» uno sciagurato proclama proveniente dal fondo di una galera. L'episodio non meriterebbe altro spazio - è già stato ampiamente trattato - se non chiamasse in causa, anch'esso, il Tav. E se non rivelasse una curvatura inquietante del nostro assetto politico e comunicativo. Val la pena dunque soffermarci ancora un po', a cominciare dal livello, di per sé rivelatore, del linguaggio.

Se Stefano Rodotà, di fronte al recente proclama eversivo di di Silvio Berlusconi in televisione, avesse dichiarato che si trattava di un atto "deprecabile ma comprensibile", nessuno di noi si sarebbe stupito. E' senza dubbio vergognoso che un delinquente, condannato in via definitiva, compaia a reti unificate a tentar di scatenare i propri seguaci contro i propri giudici, ma nel contempo si può perfettamente capire perché uno con quella storia di impenitente frodatore dello Stato a cui sia stata regalata la golden share del governo usi quel potere di ricatto per difendere la propria pessima causa. Allo stesso modo potremmo dire che la carognata del ministro Alfano nei confronti di uno dei più rispettabili e nobili cittadini di questo paese è "deprecabile ma comprensibile". Nel senso che l'uscita a freddo, brutale nella sua volgarità, del ministro degli interni contro il mitissimo Rodotà fa senza dubbio indignare, ma nel contempo si può capire benissimo perché l'abbia fatto ora, quando serve un diversivo per mascherare le malefatte del padrone del suo partito. E soprattutto nel momento in cui occorre mobilitare tutte le energie disponibili a difesa di un sistema degli affari che ha nel Tav la propria cupola e il proprio forziere.

Potremmo risolverla come un problema di ridotta capacità linguistica. Tanto ridotta da non permettere di riconoscere il significato grammaticale del termine "comprendere", che significa in primo luogo capire. In latino intelligere, cioè «cogliere i motivi di qualcosa» e non «giustificare qualcuno» (il Grande Dizionario Italiano di De Mauro associa all'aggettivo «comprensibile» il significato «che si può capire», cioè «chiaro», «decifrabile», e solo come ultima accezione, nell'uso figurato, l'espressione «giustificabile«). Ma, sebbene antropologicamente «comprensibile», sarebbe una spiegazione ancora parziale. In realtà il gesto triviale del ministro si inserisce in un clima che sta segnando l'asfittica vita del governo delle "larghe intese" (il bisogno di rimuovere anche linguisticamente l'idea stessa di una alternativa; la necessità di esorcizzare ogni voce non conforme). E che rivela appieno la propria carica d'intollerante aggressività nel caso del Tav, capo di tutte le tempeste e madre di tutte le male politiche, vero e proprio paradigma della mutazione genetica in corso nel nostro sistema democratico e nella nostra classe politica.

È a proposito del Tav che è stata evocata la parola tossica "terrorismo", varcando un confine linguistico cruciale. Perché rimetterla in circolazione oggi, proiettandola su quella realtà territoriale sensibilissima, giocandola in una congiuntura politica e sociale delicatissima, significa assumersi una responsabilità grave: significa cioè alzare il tiro in misura spropositata, abnorme, sdoganando il potenziale simbolico distruttivo del termine, evocando scenari astorici o anti-storici ma carichi di tensioni emotive, creando le condizioni per la messa al bando "lineare" di ogni posizione antagonistica, di ogni atto non conforme, delle stesse espressioni del pensiero critico schiacciate su quell'immaginario cruento (come appunto il ministro dell'interno ha fatto). Significa, in altre parole, introdurci artificialmente nella dimensione esistenziale di uno "stato d'eccezione" permanente, nel senso originario e letterale del termine, il quale evoca una situazione di sospensione della normalità e della Norma (a cominciare dalla Norma fondamentale, la Costituzione, giù giù verso le "normali" regole del Diritto, fino alle regole del linguaggio e a quelle del corretto comportamento personale e istituzionale). Il che non vuol dire negare che in quel contesto possano essere stato commessi reati, su cui è legittimo indagare e per i quali se comprovati comminare sanzioni commisurate alla gravità effettiva dell'atto, ma a cui non è ammissibile somministrare l'alto voltaggio di una straordinarietà emotivamente alimentata e politicamente enfatizzata.

Terrorista, d'altra parte - lo ricordava ieri Guido Viale su questo giornale - è l'epiteto con cui l'ex governatrice dell'Umbria Maria Rita Lorenzetti aveva qualificato un Dirigente dell'Assessorato all'Ambiente della Regione Toscana, colpevole di mettere i bastoni tra le ruote alla cricca politico-affaristica legata ai lavori costosissimi e devastanti del Tav fiorentino. Aveva aggiunto anche «mascalzone, bastardo e stronzo», a esemplificazione di un quadro mentale da "razza padrona" saturo di senso di onnipotenza - è la stessa che in una conversazione telefonica se ne era uscita con un «e a noi chi ci ammazzerà mai?!» per esprimere gergalmente la propria certezza di impunità - che pervade ormai, come una gramigna, il ceto politico di potere trasversalmente, facendo registrare una sorta di mutazione antropologica. Che a sua volta rivela un nuovo, preoccupante, salto di qualità nel rapporto tra politica e affari e, di conseguenza, tra dimensione affaristica della politica e deterioramento democratico delle istituzioni.

Il fatto è che quando in gioco c'è una grande quantità di denaro, intorno ad esso si eleva un muro che sospende la normale dialettica politica e le stesse regole della deliberazione democratica. E quanto più la posta si fa ricca, tanto più quel muro si fa invalicabile, il meccanismo intoccabile, la discussione inutile perché la decisione sta a monte. La Tav resta, oggi, la più ricca preda in questo gioco: quella in cui maggiore è la concentrazione monetaria e più facile la gestione nei circuiti affaristico-clientelari. Ma la logica del governo delle grandi intese non è diversa: anche qui una cinta muraria istituzionale isola (fin che può, ma il suo potere è alto) un'artificiale maggioranza di governo da ogni possibile turbolenza esterna perché la governabilità deve essere data come un a priori. L'alternativa che non tollera alternative.

Per questo quanto accade in val di Susa ha un valore paradigmatico, che sarebbe importante tener ben presente in questi giorni difficili, in cui tra mille difficoltà si rende urgente riorganizzare una qualche forma di resistenza civile a una deriva pericolosa. Ed il bisogno di riempire il vuoto di senso - e di legalità costituzionale - nel cuore del sistema politico, si fa impellente. Il 12 ottobre sarà una tappa importante di questo processo, che interpella tutti, e da cui - come ha sottolineato don Ciotti nel presentare la manifestazione - nessuno si deve sentire escluso.

Il capitalismo italiano ha preferito la speculazione immobiliare, e poi quella finanziaria, all'attività produttiva, la rendita al profitto Chi governava, dagli anni Ottanta in poi ha lasciato fare, per non dover contrastare il "blocco edilizio". Eccone gli effetti .

Il manifesto, 25 settembre 2013

Un governo inetto e senza idee ha rispolverato nelle scorse settimane la geniale idea di privatizzare i beni pubblici. Non sappiamo cosa effettivamente si vorrebbe vendere e Letta non lo dice a noi, ma va a raccontarlo in giro per il mondo. Evidentemente nessuno sembra pensare che cedere un rilevante volume di immobili in un mercato estremamente depresso significherebbe andare incontro ad un fallimento totale. Se invece si trattasse di esitare delle quote di imprese ancora a controllo pubblico, vorrebbe dire che si è cancellata del tutto la memoria degli eventi passati, come è ormai del resto normale nel nostro paese. Da questo punto di vista vogliamo credere, per essere benevoli, che l'annuncio sia stato imposto dalla troika ad un governo sempre più commissariato, per placare un po' i burocrati di Bruxelles e i funzionari della Bundesbank.

L'Italia, negli anni novanta, ha portato avanti la più grande dismissione di beni pubblici dell'intera Europa. La vendita si è rivelata uno dei più clamorosi fallimenti politici del dopoguerra e le sue conseguenze le stiamo sentendo ancora oggi. Una dismissione che, insieme agli accordi del 1992, governo-sindacati-industria, sulla concertazione e alla legge Treu del 1997 sulla flessibilità, è stato il capitolo iniziale di un crollo progressivo del complesso di grandi imprese e il punto di avvio di una crisi profonda del sistema industriale, che da allora non si è più ripreso. Ricordiamo così, tra le altre, le vicende incredibili dell'Ilva, dell'Alitalia, vicina all'insolvenza, di Autostrade, da cui i Benetton traggono molte risorse spremendo gli automobilisti a volontà, infine della stessa Telecom Italia, ora ceduta per pochi soldi alla spagnola Telefonica.Il capitale straniero punta alle imprese che possono essere profittevolmente integrate nelle loro reti mondiali o, comunque, ai settori nei quali il nostro paese ha ancora (per quanto?) qualcosa da dire, come l'agroalimentare o il sistema moda.

Nel primo caso si spartiscono il bottino soprattutto gli spagnoli (tra acquisizioni vecchie e nuove ricordiamo Riso Scotti, Fiorucci Salumi, Bertolli, Carapelli, Olio Sasso) e i francesi (con Parmalat in particolare, Galbani, Locatelli, Invernizzi, Orzo Bimbo), mentre i cinesi si affacciano nel Chianti. In quello della moda sono invece i transalpini a prevalere (Loro Piana, Bulgari, Fendi, Gucci, Pucci, Bottega Veneta, Brioni, ecc).; anche in questo caso si stanno affacciando i cinesi con i cantieri Ferretti. E la storia ha cominciato ora a svolgersi persino nel calcio, con la Roma e l'Inter in mani lontane.

Se veniamo al settore specifico delle telecomunicazioni, tutti i principali operatori presenti sul mercato italiano (Telecom Italia, ora spagnola,Vodafone, britannica, Wind, russo-egiziana, 3 italia, cinese) sono ora stranieri. Si potrebbe affermare che nelle economie aperte è normale che delle aziende siano possedute dal capitale di altri paesi; quello che appare meno normale è che invece il bottino all'estero delle imprese italiane sia di recente davvero magro. Ricordo, per marcare quanto le cose siano cambiate, che alcuni decenni fa i francesi si erano allarmati molto dell'invasione che allora sembrava in atto nel paese da parte del capitale italiano.

Il problema è che nessun imprenditore italiano ha i mezzi e/o la voglia per intervenire in Telecom. Nel frattempo lo stesso problema si pone per Alitalia, Pirelli, Ilva e per molte altre. Nel settore bancario sarebbero necessari migliaia di miliardi per ricapitalizzare gli istituti in difficoltà, da Monte dei Paschi, a banca delle Marche, a Bpm, a banca Carige. Ma nessuno sa dove si potranno prendere i soldi e intanto il governo si occupa del finanziamento ai partiti e se Berlusconi deve o no pagare l'Imu.

Per altro verso appare grottesco che ora gli stessi partiti assedino il governo, con tutta la demagogia e la faccia tosta di cui sono capaci, chiedendo ad alta voce sempre al povero Letta di dare conto delle cessioni Telecom e Alitalia, come se si trattasse di fulmini a ciel sereno di cui non si capisce la ragione. Quelli che strillano naturalmente hanno almeno altrettante colpe di chi cerca invece di nascondersi.

Merita comunque di ricordare le esemplari vicende di Telecom Italia, nata nel 1994 dalla fusione di cinque diverse società operanti nel settore. Nel 1997 si procede, con Prodi presidente del consiglio, alla privatizzazione, azione mal concepita e mal gestita, la prima di una serie di disavventure. Telecom passa sotto il controllo precario di un gruppo di soci guidato dagli Agnelli, che mettono pochi soldi nell'impresa. Presto arriva Roberto Colaninno con altri imprenditori piccoli e medi del nord, il governo li celebra come un soffio d'aria nuova nelle stanze stagnati del capitalismo italiano. L'azienda sarà pagata moltissimo, soprattutto facendo debiti, naturalmente tutti accollati al gruppo. I capitani coraggiosi non ce la faranno a gestire l'enorme indebitamento e nel 2001 passano il testimone ad un altro geniale imprenditore, Tronchetti Provera, con sullo sfondo il sostegno di Enrico Cuccia, le cui grandi imprese finanziarie stanno finalmente dando in questi ultimi anni i loro frutti migliori. L'imprenditore, come al solito, paga la Telecom ad un prezzo esorbitante e la riempie di altri debiti. Interviene un nuovo governo Prodi. Nel voler salvare l'italianità del gruppo, si preoccupa anche molto, però, di salvare lo stesso Tronchetti Povera. Così si fa di nuovo viva Mediobanca, che, nel 2007, forma una nuova cordata con le due grandi banche di "sistema", nonché Generali e infine Telefonica come partner industriale. Incidentalmente, il sistema bancari non nega soldi, e tanti, a nessuno degli attori in commedia.

I nuovi soci prendono la quota di controllo di Telco, che possiede a sua volta il 22,4% delle azioni Telecom, nel frattempo crollate a livelli infimi. Arriva un nuovo gruppo dirigente e Franco Bernabè diventa amministratore delegatoper non decidere sostanzialmente alcunché. A suo discarico si deve considerare che nessuno vuole mettere soldi in una società che avrebbe un disperato bisogno di capitale fresco e che intorno a lui nuotano molti squali, tra i quali lo stesso Berlusconi, che per un momento sembra volersi impadronire della presa, per poi cambiare idea, visti anche i problemi al contorno.

L'azienda è oggi in un angolo in un mercato ultracompetitivo, con una rete vetusta, con un mercato di riferimento, quello italiano, in grande difficoltà e con il solo punto forte in America Latina. Ecco che ora Telefonica si offre di comprare il tutto versando un obolo. Si pongono in ogni caso dei problemi molto rilevanti. Intanto la Telecom dovrebbe fare grandi investimenti nella banda larga, ma la società è indebitata (circa 66 miliardi di euro) ed avrebbe bisogno di un aumento di capitale. Telefonica si guarderà bene dal portare avanti le due pratiche, mentre il nostro paese continuerà a perdere terreno sia rispetto a quelli industrializzati ed a quelli emergenti (una diffusione ampia della banda larga potrebbe portare ad un aumento di un punto nel Pil annuo del nostro paese) e, d'altro canto, è giusto che una infrastruttura di base venga abbandonata al capitale estero senza alcun vincolo?

Un'altra questione riguarda Tim. La società è un protagonista importante della scena brasiliana, che anzi contribuisce a sostenere i bilanci della capogruppo; ma Telefonica è già oggi il numero uno del settore in quel paese, mentre Tim è il numero due. L'antitrust locale obbligherà i nuovi padroni a disporre in tutto o in parte della nuova preda; allora Telecom Italia diventerà come impresa molto meno appetibile.

Naturalmente la questione più grande rimanda al governo e agli imprenditori nazionali; di fronte ai problemi veri ambedue i protagonisti rimangono inerti per quanto riguarda le competenze rispettive. Ma almeno per gli imprenditori c'è, del resto, un precedente illustre. Durante la crisi degli anni trenta Mussolini voleva praticamente regalare la telefonia agli Agnelli, ma i grandi imprenditori, con lungimiranza, rifiutarono. Il settore era troppo nuovo e i rischi rilevanti. Ora avanti con l'Alitalia. Siamo sicuri che i capitani coraggiosi della nostra penisola si faranno avanti entro pochi giorni per mettere tutti i soldi necessari e tutte le loro vaste competenze per rilanciare la nostra magnifica compagnia di bandiera.

Da tre giorni infuria lo scontro al lussuoso shopping center il Westland Center di Nairobi, nel cuore del "pianeta degli slums". Corrispondenza di Rita Plantera e commento di Luciano Del Sette.

Il manifesto, 24 settembre 2013

Nairobi campo di battaglia tra polizia e qaedisti
di Rita Plantera

Continua ormai da tre giorni il braccio di ferro al Westgate di Nairobi tra le forze di sicurezza kenyane e militanti del gruppo islamico al-qaedista somalo Al-Shabaab che sabato scorso vi hanno fatto irruzione facendo esplodere granate e colpi d'arma da fuoco all'Artcafè israeliano del lussuoso shopping center.

Circa 69 i morti - di nazionalità kenyana, ghanese, canadese, francese, olandese e britannica - 170 i feriti, un migliaio le persone liberate e un imprecisato numero di dispersi probabilmente ancora ostaggi del commando che da sabato notte è asserragliato da qualche parte nel prestigioso centro commerciale di proprietà anche israeliana. Tre al momento gli assalitori uccisi durante le operazioni lanciate per rompere l'assedio a partire da sabato sera e continuate fino a ieri da parte delle Kenya Defence Forces, la Regular and Administration Police e l'Anti-Terror Police Unit coadiuvate da agenti dell'Fbi e del Mossad israeliano.

Quest'ultimo, secondo l'agenzia Afp, avrebbe fornito sostegno logistico partecipando attivamente alle operazioni delle forze kenyote mentre secondo l'agenzia Reuters avrebbe solo preso parte come consulente nel delineare la strategia d'intervento. Dettagli insignificanti visto che la presenza del Mossad sul suolo kenyota in operazioni anti-terrorismo si inserisce nel quadro delle solide relazioni di lunga data e di cooperazione in ambito di sicurezza e intelligence tra i due Paesi. Cooperazione che, come sostiene lo stesso Haaretz, il quotidiano nazionale israeliano, è destinata a rafforzarsi dopo l'attacco al Westgate.

Sebbene a rivendicare l'assedio di Nairobi sia stato il gruppo Al-Shabaab di matrice qaedista, la portata dell'assalto e le forze antiterrorismo coinvolte hanno sin dalle prime ore palesato che il target dell'attacco potesse andare ben oltre i confini kenyani per includere quelli dello Stato ebraico. Ipotesi ora confermata dalle dichiarazione di Jiulius Karangi, capo di stato maggiore generale del Kenya secondo cui il commando terroristico sarebbe «chiaramente una formazione multinazionale da ogni parte del mondo» e «questo non è un evento locale ma di terrorismo globale».

Lo stesso Al-Shabaab ha diffuso via twitter i nomi di 9 assalitori, tutti di età compresa tra i 22 e i 27 anni e di nazionalità americana, britannica, canadese, somala, finlandese e kenyota. Al Shabaab nonostante sia un gruppo islamico di estrazione somala riesce a coinvolgere adepti stranieri nella sua lotta contro le politiche dell'Unione africana e dei Paesi occidentali in Africa.

L'attacco al Westgate di Nairobi di sabato va ad aggiungersi agli attentati all'ambasciata americana a Nairobi del 1998 con 200 morti e a quello del 2002 contro l'Hotel Paradise di Mombasa, Kenya, di proprietà israeliana - 13 le vittime - e il tentativo di abbattimento di un aereo di linea israeliano. Ma Israele era stato obiettivo di attacchi terroristici in Africa già nel 1976 quando fu dirottato il volo dell'Air France diretto in Uganda. In quell'occasione fu l'esercito kenyota a fornire preziosa assistenza per liberare gli ostaggi durante il raid all'aeroporto di Entebbe.

Risale ai tempi del Ministro degli Esteri israeliano Golda Meir e del Primo ministro della Repubblica del Kenya Mzee Jomo Kenyatta il rafforzamento delle solide relazioni soprattutto militari che vedono l'impegno costante di Israele a fornire non solo armi ma anche know-how alla più grande economia dell'Africa orientale, partner prezioso perché gateway strategico tra il Mediterraneo e i Paesi dell'Africa sub-sahariani. Ed è con lo stato ebraico che a novembre 2011 la Repubblica del Kenya raggiunge accordi a supporto dell'Operation Linda Nchi ( Defend the Country ) con cui aveva invaso la Somalia neanche un mese prima per cacciare Al-Shabaab dalle città di confine e per costruire una regione autonoma a difesa degli interessi turistici della zona di costiera ed economici di sfruttamento delle risorse, come poi fu svelato da Wikileaks a proposito dell'operazione Jubaland.

La stessa area di frontiera che sebbene sia sede della città portuale di Mombasa - centro di transito commerciale verso tutta l'Africa orientale e i Paesi occidentali - rimane strangolata da decenni dalla povertà dei quartieri popolari e dall'emergenza dei campi profughi di Kakuma e Dadaab dove sono stipati almeno 450.000 rifugiati in uno spazio destinato a 170.000 nell'indifferenza generale delle autorità kenyote e della comunità internazionale.

Simbolo della crescita vertiginosa degli interessi economico-finanziari dell'Occidente e della sua espansione nelle economie più forti dell'Africa, da sabato scorso il Westgate Shopping Mall di Nairobi si sta rivelando un monito e un allarme su scala globale ai governi forti di tutto l'Occidente.

Il Westgate, enclosure per la minoranza ricca
di Luciano Del Sette

Centro commerciale di lusso. Con questa definizione i media hanno liquidato nelle cronache il Westgate, teatro della strage di Nairobi. Troppo sbrigativamente, perché i centomila metri quadri, gli ottanta negozi, i bar, i ristoranti, che ogni giorno spalancano le porte ai clienti, rappresentano ben di più. Il Westgate è la perfetta metafora dell'enorme e incolmabile distanza tra il popolo degli slum e i ricchi politici e imprenditori kenyani; è un mondo invalicabile anche per chi, ad esempio i colletti bianchi, può contare su uno stipendio.

Ricchezza per pochi

Una volta superato il controllo delle guardie armate di pistola e metal detector, si materializza davanti agli occhi una dimensione scintillante di luci e materiali pregiati, avvolta da un'ininterrotta colonna musicale, disegnata da giardini tropicali immersi nell'acqua delle fontane. Le scale mobili fanno la spola tra le vetrine degli antiquari, dei marchi globalizzati, delle griffe «made in», dei gioiellieri e della bigiotteria etnica. Cerchi un cd? Lo store che li vende è gigantesco. Cerchi una camicia in stile safari? Venticinque dollari. Fuori da qui, appena duecento metri, sotto le tende di un mercato di strada, venticinque dollari sono un'enormità. Si parla a bassa voce, nel Westgate. Non si spingono carrelli come succede dentro i centri commerciali dell'Occidente. Le signore e i signori di varie età e di medesima condizione privilegiata, escono da un negozio impugnando una borsa di cartone patinato.

Sotto accusa l'Artcaffé

Metafora nella metafora delle distanze sociali ed economiche sono l'Artcaffé, e la sua terrazza, da cui, insieme alle gradinate di accesso, hanno fatto irruzione all'interno dell'edificio i terroristi di Al Shabaab. Il locale appartiene, come gran parte del complesso, a un gruppo di imprenditori israeliani. Sulla terrazza sfilano in passerella i privilegiati di Nairobi e siedono i turisti. Spazi enormi ripartiti in aree (caffetteria, bar, ristorazione, pasticceria), arredati guardando a New York e alle metropoli d'Europa. Un addetto filtra il flusso degli avventori. Dietro i banchi e in mezzo ai tavoli, ragazze e ragazzi bellissimi spendono sorrisi. O meglio sono costretti a farlo. Su internet si incontrano decine e decine di blog che mettono sotto accusa l'Artcaffé.

Nessun assunto

Nessun cameriere è assunto, moltissimi lavorano il tempo di un weekend e poi si vedrà, gli stipendi sono da fame; chi viene preso in forza, sempre senza contratto, deve comprarsi la divisa. A ciò si aggiunge un diffuso razzismo nei confronti di coloro che (neri di pelle) non sono ritenuti all'altezza del posto. Leggendo i blog, sembra di stare nel Sudafrica dell'apartheid: un posto rifiutato anche quando c'è, frasi sprezzanti tipo «ma lo sai che qui un caffè costa molto caro?», chiamate facili alla polizia se qualcuno insiste a protestare. Su Trip Advisor svariate recensioni denunciano episodi simili o peggiori.

Schiaffo a parte e sonoro, la decisione del management israeliano di non comprare il caffè in Kenya, ma di importarlo da altri Paesi. Che nella scelta terroristica del Westgate e dell'Artcaffé come obiettivi abbia dato il suo contributo tutto questo, appare allora ipotesi non certo affidata a un vuoto esercizio di dietrologia.

«Rilette oggi, le “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” colpiscono per l’intuizione di un leader che guardava molto in là. il compromesso storico era una proposta politica ragionevole, però al tempo stesso una via di palingenesi. Si presentava come il massimo della continuità, ma insieme innescava una novità esplosiva».

La Repubblica, 23 settembre 2013

A quarant’anni di distanza i nodi della storia si sciolgono senza smettere di aggrovigliarsi. Per cui dinanzi all’anniversario del compromesso storico, la formula coniata da Enrico Berlinguer al termine di tre successivi articoli pubblicati su
 Rinascita 
tra il 23 settembre e il 12 ottobre con il titolo “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, l’irresistibile tentazione è di far partire il ricordo da come era ridotta l’automobile, enorme e sgraziatissima berlina della nomenklatura, dopo lo spaventoso incidente mentre portava il segretario del Pci all’aeroporto di Sofia.
Le foto si vedono in Sofia 1973: Berlinguer deve morire,
di Giovanni Fasanella e Corrado Incerti (Fazi, 2005). Era il 3 ottobre, a missione conclusa, e in quel groviglio di vetri e lamiere rese informi da un camion militare, Berlinguer riportò diverse contusioni, ma volle ripartire lo stesso. Allora in diversi, anche molto vicini a lui, maturò il sospetto, reso noto da Emanuele Macaluso nel 1991, che i bulgari avessero tentato di fargli la pelle. Perché troppo “indipendente” dalla casa madre del comunismo.


Ma quel 3 ottobre né l’intransigente leader bulgaro Todor Zhivkov, né le varie correnti del Kgb sapevano ancora nulla del compromesso storico. Eppure, grazie proprio a quel misterioso incidente, una volta rientrato in
Italia, il leader comunista si mise a riposo, anzi a letto, dove con calma, «rassegnato all’immobilità » come raccontò poi a Vittorio Gorresio, ebbe modo di finire la seconda puntata e di scrivere per intero la terza, nel cui ultimo capoverso è presente la fatidica espressione.


Dietro quelle due parolette c’era un mondo oggi del tutto sparito e in parte anche dimenticato, se non rimosso. Il golpe cileno, i colpi di Stato, l’imperialismo americano. Ma nel retroterra non era difficile avvertire la lezione “geniale” di Lenin, più volte richiamata nel testo. Poi la duttilità dottrinaria di Gramsci. Quindi la tradizione del realismo togliattiano alla luce dell’elaborazione di Franco Rodano secondo il quale la “rivoluzione” era da intendersi in Occidente come un processo interno allo sviluppo della democrazia. Anche in questo senso avere il 51 per cento, come Allende, non serviva più, o non serviva ancora.
C’era infine un’attenzione assai viva al mondo cattolico, alle gerarchie ecclesiastiche, al Vaticano, alla Dc, i cui continui sommovimenti vedevano in quello scorcio prevalere una composita maggioranza di centrosinistra. Ma soprattutto c’era Aldo Moro, che in estate a proposito della “difficile democrazia” italiana con linguaggio ispiratissimo
 aveva annunciato: «Non noi, con la nostra volontà, ma la storia stessa, l’evoluzione e i movimenti dello spirito umano potranno forse, in tempi imprevedibili, modificare questa situazione».
Per la cronaca: c’erano in quel momento anche il colera,
Amarcord,
 rivolte nelle carceri e
 Jesus Christ superstar.


Tonino Tatò, che aveva il senso della solennità e di Berlinguer era l’angelo custode, ha poi descritto nei dettagli il momento preciso in cui il compromesso storico venne al mondo, durante la convalescenza: «Lui sta seduto in pizzo in pizzo alla poltroncina, dinanzi al tavolo tondo del soggiorno, in canottiera, pantaloni di flanella, pianelle di cuoio ai piedi, sigaretta accesa tra le labbra (allora fumava le Turmac rosse), occhio sinistro semichiuso per evitare il fumo, biro con inchiostro nero nella mano destra,
davanti a parecchi fogli».
Ha quasi finito, ma l’ultima frase è tanto decisiva quanto incompiuta. Tatò chiede il foglio e legge: «La gravità dei problemi, le minacce incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo un...». È qui che Berlinguer si è fermato. Ma la parola che gli ronza in testa è sempre quella: “Compromesso”. Solo, occorre affiancarla con un attributo che le assegni «un senso di durata strategica». Inutile rimarcare che a quei tempi le parole, in politica, avevano molto più peso di oggi.


Quando il compromesso storico venne fuori, non fu accolto con benevolenza dai più attenti osservatori. «Formula infelice», decretò
 Gorresio; «vaga e rozza», scrisse Enzo Forcella. In un incontro con gli studenti lo stesso Berlinguer riconobbe che si trattava di un’espressione provocatoria usata anche per «destare attenzione». Questo in effetti accadde. Poco dopo, incontrando a Ravenna gli operai dell’Anic, gli disse uno di loro che sull’autobus la mattina non si parlava più di calcio, ma di compromesso storico. Tutto lascia pensare che Berlinguer abbia risposto con uno dei suoi indimenticabili sorrisi. Per cui: «Io non credo che sia proprio così, credo che si parli ancora e anche di calcio», d’altra parte non c’era niente di male e anche lui - ma in verità disse “anche noi” e non era
plurale maiestatis,
 ma il più profondo sintomo d’identificazione - parlava di calcio.


A pensarci bene, dopo tanti anni, il compromesso
storico teneva insieme due termini in contrasto fra loro. Nella retorica questa figura ha il nome di ossimoro. Ma non solo per questo dispiacque, oltre che al Psi, anche nello stesso Pci. Giorgione Amendola, che guardava ai socialisti, e Pietro Ingrao, che puntava sulla spaccatura della Dc, rimasero perplessi. Luigi Longo, il presidente del partito, disse chiaro - e suonò inaudito - che la formula non gli piaceva «e non so nemmeno
se rende bene l’idea». Avrebbe preferito, con Gramsci, «blocco storico» - ma a quel punto era un’altra cosa. Sia come sia, Maurizio Ferrara diede poi alle stampe, in sonetti romaneschi,
 Er compromesso rivoluzzionario.
Più tardi il Bagaglino mise in scena
 I compromessi sposi.
Ma quando intorno al 1975 partì la solidarietà nazionale, dal terreno coniugale la faccenda scivolò sul piano orgiastico con “l’ammucchiata”.


Rilette oggi, le “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” colpiscono per l’intuizione di un leader che guardava molto in là, ma forse proprio per questo dovettero suscitare parecchi timori, anche molto lontano dall’Italia. Nelle sue asciutte argomentazioni ideologiche il compromesso storico era una proposta politica ragionevole, però al tempo stesso una via di palingenesi. Si presentava come il massimo della continuità, ma insieme innescava una novità esplosiva. E soprattutto arrivava troppo presto, eppure forse era già troppo tardi. A riprova che non solo la politica, ma anche la storia, con i suoi nodi e garbugli, e in fondo la vita stessa vivono, se non di ossimori, di cose molto complicate e solo in apparenza inconciliabili. L’orrido “inciucio” era comunque molto di là da venire.

In eddyburg potete trovare un'intera cartella dedicata scritti di e su Enrico Berlinguer.

«La premessa è che il vero, il bene, il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri».

La Repubblica, 23 settembre 2013

LO STATO laico è un aspetto della secolarizzazione, cioè del rovesciamento della base di convivenza tra gli esseri umani: dalla trascendenza all’immanenza; dall’eternità al saeculum; da Dio agli uomini; dalla Chiesa alle istituzioni civili. Questo rovesciamento ha investito tutti gli aspetti delle relazioni sociali e quindi anche le relazioni politiche. La città degli uomini s’è resa autonoma dalla città di Dio.
La secolarizzazione, tuttavia, non significa affatto poter fare a meno d’una dimensione trascendente della vita collettiva. Senza una forma di trascendenza, non c’è società possibile. Ci sarebbe soltanto collisione d’interessi in conflitto. La società secolarizzata ha posto il rapporto tra istituzioni civili e fedi religiose in una luce diversa da quella che, per secoli, l’ha illuminato. La scena non si è affatto semplificata. La questione resta aperta, e le discussioni mai sopite ne sono la prova. Thomas Mann ha espresso questo rapporto mobile con l’immagine dello scambio della veste: «Significherebbe disconoscere l’unità del mondo ritenere religione e politica due cose fondamentalmente diverse, che nulla abbiano né debbano avere in comune, così che l’una perderebbe il proprio valore e finirebbe per essere smascherata come falsa qualora si potesse dimostrare che in essa vi è traccia dell’altra […] In verità religione e politica si scambiano per così dire le vesti […] ed è il mondo nella sua totalità che parla, quando l’una parla la lingua dell’altra».

Ciò che, invece, è chiaro è che la secolarizzazione ha scalzato la Chiesa dal monopolio della funzione culturale unificatrice ch’essa, nei secoli, ha preteso di occupare: la gerarchia è stata sostituita da patti, espliciti o impliciti, esclusivamente orizzontali. Il contrattualismo e il convenzionalismo sono le teorie politiche di questa concezione. Non esistono più sovrani di diritto divino; il governo delle società non è per grazia di Dio, ma per volontà del popolo o della nazione.
Noi siamo immersi in questa visione orizzontale dei rapporti sociali. Ma, ciò significa forse che non abbiamo più bisogno di un “terzo unificatore”, d’un punto di riferimento comune che stia sopra ciascuno di noi? Di una forza culturale che c’induca ad atteggiamenti solidaristici, ci muova a obiettivi comuni, promuova atteggiamenti, se non amichevoli, almeno non ostili tra chi riconosce la propria appartenenza a una cerchia d’individui che, insieme, formano unità? La dimensione puramente intersoggettiva dei rapporti è sufficiente a creare legami nella vita concreta d’individui che, per lo più, non si sono mai incontrati, faccia a faccia? L’esigenza di qualcosa che li trascende, in cui si possa convergere, è permanente, anche se il modo di soddisfarla è vario nel tempo.

Quest’esigenza, che ci pervade in misura più o meno intensa a seconda delle circostanze storiche, nasce dal fatto che la società non è la mera somma di molti rapporti bilaterali concreti, tra persone che si conoscono reciprocamente. È, invece, un insieme di rapporti astratti di persone che si riconoscono parti d’una medesima cerchia umana, senza che gli uni nemmeno sappiano chi gli altri siano. Questa è la questione decisiva per ogni vita sociale: “senza conoscersi personalmente”. Come può esserci società, tra perfetti sconosciuti?

Qui entra in gioco “il terzo” astratto, il punto di convergenza trascendente. Più si risale indietro nel tempo, più risulta difficile distinguere tra istituzioni religiose e istituzioni civili. Jan Assmann, il sapiente studioso del posto delle religioni nell’Antichità, ha mostrato questo intreccio, affascinante per un verso, terribile per un altro. Per molti secoli, il terzo astratto si è rappresentato come il Dio, o gli Dei, della religione ufficiale, vigente in ciascuna delle società umane. Si tratta della cosiddetta “religione civile” o, meglio, della religione in funzione d’unità sociale. Nella tradizione classica, la religio civilis, cioè il culto dovuto ai propri dei, assurgeva a fondamento della virtù repubblicana, quella virtù che induceva i singoli ad anteporre all’interesse individuale il bene comune, il bene della res publica, e li disponeva ad atti di dedizione ed eroismo, testimoniati nelle historiae della Roma repubblicana.

Facciamo un salto nel tempo. Nell’ “allons enfants de la Patrie” della Marsigliese c’è già tutta l’essenza del problema moderno della religione civile: la Patrie era il nuovo terzo; i citoyens erano i suoi figli, i suoi enfants: dunque fratelli tra loro; i patriotes erano i nuovi credenti che si riconoscevano tra loro per mezzo dei loro simboli politici, dopo aver abbattuti quelli teologici dell’Antico Regime. Nel 1789, si trattava della Patria. Nel 1793-1794, in pieno disfacimento della Francia rivoluzionaria, il “terzo” cambia natura, si cristallizza. L’asse su cui stava la Patria si riposiziona e si “teologizza”. Compare la Dea Ragione, con i suoi templi, spesso chiese profanate, con i suoi riti e i suoi officianti. Il 7 maggio 1794, un decreto sulle feste repubblicane istituisce il culto dell’Essere Supremo, voluto da Robespierre in persona e da lui stesso celebrato, l’8 giugno, avvolto in un manto azzurro, al campo di Marte sotto la regia di J.L. David. La vecchia religione e il vecchio Dio erano stati uccisi, ma se ne tentava una risurrezione deista, per tenere insieme una società in disgregazione. Quella cerimonia, artificiosa e ridicola perfino agli occhi di molti giacobini, era però segno di qualcosa di molto poco ridicolo, anzi di terribile. L’Essere supremo, evocato come il “terzo” della fase terminale della Rivoluzione, ne diventava l’onnipotente protettore che tutto giustificava. Sotto il suo sguardo tutelare, due giorni dopo la celebrazione, entrava in vigore la Legge di pratile, la legge che porta al colmo il regime del terrore giacobino, in nome dell’ossimoro formulato da Robespierre stesso: “dispotismo della libertà”. La vicenda rivoluzionaria è rivelatrice. “Il terzo”, quando si prospetta sulla scena, è, all’inizio della storia, un fattore di liberazione. Ma, in seguito, ciò che è stato liberatorio può trasformarsi in strumento d’oppressione morale, quando perde la sua autonomia, subordinandosi alle ragioni e agli interessi del potere e diventando propaganda e imbonimento e, perfino, “terrore”.

In un saggio del 1967, dal titolo La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, il costituzionalista cattolico tedesco Ernst Wolfgang Böckenförde ha formulato un “motto” che oggi è diventato quasi una parola d’ordine per chi propugna l’esigenza di ricollocare la religione alla base della politica, nell’interesse non tanto della religione, quanto della politica stessa. È il motto della cosiddetta post-secolarizzazione: «Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio ch’esso si è assunto per amore della libertà». Cerchiamo di comprendere. Ogni regime politico si basa su un principio dominante, una “molla”, una “passione” che alimenta l’ethos pubblico che lo fa muovere. Ed è nella natura delle cose, anche politiche, che questo principio primo – nel nostro caso, “l’amore per la libertà”, tenda a rendersi assoluto, con ciò realizzando non la perfezione ma l’inizio dell’autodissoluzione. Non c’è ragione per escludere che ciò valga anche per qualunque forma di governo, compresa la democrazia basata sulla libertà. Se essa alimenta la pura e integrale libertà, cioè l’egoismo senza freni e correttivi altruistici, realizzando integralmente la sua “molla” individualistica, sprigionerà anch’essa la forza autodistruttiva d’ogni regime che voglia rendersi assoluto.

La denuncia teorica, circa l’incapacità delle democrazie liberali di garantire i propri presupposti di stabilità, si accompagna, come conferma empirica, a una fiorente letteratura sulla decadenza delle società occidentali che, per diversi aspetti, è una ripresa drammatizzata di quella diffusa nell’Europa del secolo scorso, tra le due guerre mondiali. Queste società, materialiste, disgregate, disperate, nichiliste, egoiste, prive di nerbo morale, preda di pulsioni autodistruttive, sarebbero giunte a «odiare se stesse», secondo la vibrante accusa del magistero cattolico. I sintomi sarebbero la diminuzione del tasso di natalità, l'invecchiamento delle generazioni e la chiusura alla vita e al futuro; lo sviluppo abnorme di scienze e tecniche frammentate, prive di senso e anima e dotate di ambizioni smisurate; l’edonismo e l’idolatria del denaro associato al potere. Benedetto XVI, calcando la mano, ha introdotto un’espressione sorprendente e, almeno a prima vista, perfettamente contraddittoria: la “dittatura del relativismo”. Sarebbe una “dittatura” che «lascia il proprio io solo con le sue voglie » (espressione che ricalca le più crude formule di condanna usate nei confronti del liberalismo del primo ‘800). Su questo humus s’innesta una nuova proposta del magistero cattolico come forza salvifica generale, anzi universale, valida al di sopra delle divisioni pluralistiche della società. Ovviamente, una proposta di questo genere, in quanto formulata quasi come offerta di protettorato etico da parte del magistero cattolico, contraddice la libertà e l’uguaglianza delle coscienze individuali: due aspetti irrinunciabili dello “stato liberale secolarizzato”. Essa sottintende la condanna del relativismo, che è invece l’essenza dell’uguale libertà; pretende l’esistenza di materie eticamente “non negoziabili” nelle quali il legislatore civile debba porsi al servizio delle concezioni della Chiesa; comporta disuguaglianza tra le confessioni religiose, a favore del primato di quella cristiano-cattolica a detrimento di tutte le altre, per non dire delle visioni del mondo atee. Queste – secondo un’espressione terribile, anch’essa di Böckenförde – sarebbero destinate a «vivere come nella diaspora». In altri termini, la cittadinanza piena sarebbe appannaggio dei soli cattolici, e lo Stato assumerebbe, ancora una volta, la veste confessionale.

Il Concilio Vaticano II ha tentato una “conciliazione” del cattolicesimo con il “mondo moderno”, espressione sintetica per dire: col pluralismo etico e politico. L’invito ai cattolici a impegnarsi a fianco dei non cattolici, con spirito di collaborazione e autonomia di giudizio era chiaro. Così come chiaro era l’inibizione d’usare l’autorità della Chiesa per sostenere posizioni politiche (“non osino” invocarla a proprio vantaggio). Sappiamo come sono andate le cose, soprattutto nel nostro Paese. Questa indicazione, peraltro non priva di zone d’ombra, è stata oscurata, messa in disparte, a vantaggio d’una presenza molto accentuata della Chiesa nella vita politica, per affermare le proprie verità.

Ora, il pendolo sembra oscillare dall’altra parte. La gerarchia, con i suoi abusi, le sue pompe, le sue ricchezze, la sua arroganza, pare lasciare il passo a un atteggiamento diverso che riscopre la parte del Concilio Vaticano II che, per mezzo secolo, è stato oscurato (non abrogato: nella storia della Chiesa nulla è mai abrogato definitivamente).

Uno spirito diverso da quello del passato spira nei primi atti e nelle prime parole del papa attuale, Francesco. Nella Enciclica Lumen fidei (n. 34), troviamo scritto risultare «chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti».
Nella lettera a Eugenio Scalfari, pubblicata su questo giornale l’11 settembre scorso, il Papa indica la necessità di «cercare […], le strade lungo le quali possiamo, forse, incominciare a fare un tratto di cammino insieme». Non si dovrebbe parlare, per il Papa, «nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione ».

In ogni spirito che s’ispira alla laicità e, al contempo, crede all’utilità, anzi alla necessità che forze morali possano unirsi per combattere il materialismo nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo mercantile, l’invito a «reimpostare in profondità la questione» suscita non solo interesse, ma perfino entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene, il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri. Il centro del discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà. Il vero, il bene, il giusto possono dipanarsi nella storia, senza mai, però, raggiungere la pienezza. Le tappe del cammino sono i giudizi che gli esseri umani pronunciano “in coscienza”. Per i credenti, la pienezza ci sarà, ma non ora, in “questo” tempo; per i non credenti, l’idea stessa d’una raggiungibile “pienezza” è senza significato. Tuttavia, non è affatto privo di significato l’operare insieme per combattere la menzogna, il male, l’ingiustizia.

Tutti siamo nella dimensione del contingente: i credenti, nella fede di poter sempre umilmente procedere verso il bene; i non credenti, nella convinzione di poter sempre provvisoriamente combattere il male. Il terreno per operare insieme, per fare un cammino insieme, è aperto. Una chiosa, però: il Papa, rispondendo a Scalfari, parla di “tratto di cammino”. Questa espressione non è priva d’ambiguità: dove si colloca, e chi decide dove si colloca la fine del “tratto”? E che cosa accadrà, allora? Su questo, un chiarimento da parte di coloro che si protendono la mano sarebbe necessaria.

No, Berlusconi questa volta non c’entra: ma c’entriamo tutti noi, portatori e vittime del pensiero corrente. La forza delle parole a volte è assassina.

La Repubblica, 20 settembre 2013

IERI le cronache erano un camposanto di donne uccise. Di mattina, la rassegna di Radio 3 e la discussione di “Tutta la città ne parla” rimettevano a confronto l’allarme per le violenze contro le donne e il femminicidio con la minimizzazione. La minimizzazione è brutta, presume a torto di avere i fatti dalla sua, e non ha capito.

A Ferragosto il ministero dell’Interno ha comunicato i dati sulla criminalità. Circa il 30 per cento degli omicidi commessi in Italia, ha detto il ministro, ha come vittime le donne. I giornali hanno scelto questa frase per intitolare (Il totale era di 505 omicidi). Poi ho letto commenti come questo: “Ma allora il 70 per cento degli ammazzati sono uomini! E parlano di femminicidio”. Naturalmente, le cifre rilevanti riguardano il confronto fra il numero di uomini uccisi da donne, e il numero di donne uccise da uomini. Un uomo ucciso da un uomo è senz’altro un maschicidio, anzi doppio, perché è maschio l’autore e la vittima. E nessuno si sognerebbe di chiamare femminicidio l’uccisione di una donna da parte di un’altra donna.

Chi è insofferente all’invenzione di un nome speciale per l’uccisione di donne perché donne, e resta attaccato a un nome “neutrale” (come se “omicidio” fosse neutrale, e come se “uxoricidio”, che vuol dire ammazzare la moglie, non venisse usato anche per i rari mariti ammazzati) dovrebbe mirare alla parità: che si può ottenere o facendo sì che gli uomini riducano l’uccisione di donne al numero delle donne uccise da uomini, o che le donne uccidano molti più uomini, preferibilmente mariti ed ex mariti e fidanzati e clienti ecc., fino a raggiungere il record dei maschi. Questa buffissima applicazione teorica delle quote rosa non è buffa come sembra. È un ennesimo segnale di uno scandalo che in troppi hanno voglia di normalizzare. Dunque: quei dati grossolani del ministero dell’Interno dicono che dal 1° agosto 2012 al 31 luglio 2013 le donne uccise sono state circa 150. Degli omicidi commessi dal partner, l’83,3 per cento è stato commesso da uomini. Degli omicidi commessi dall’ex partner, il 100 per cento – tutti – sono stati commessi da uomini. Abbiate ancora pazienza: nei dati Eures (citati dai minimizzatori) le donne uccise nei primi sei mesi dell’anno sono “già 81”; fra il 2000 e il 2012 sono state “2200, una media di 171 all’anno, una ogni due giorni”. Erano 173 nel 2009, 158 nel 2010, 170 nel 2011, 159 nel 2012 (qui il calcolo è sull’anno da gennaio a dicembre). Nella presentazione, il rapporto scrive: “Femminicidi. Troppo spesso ignorati i segnali di rischio”. Come ormai si dovrebbe sapere, il totale degli omicidi ha avuto un brusco calo, mentre quelli che hanno per vittime le donne sono stabili, dunque coprono una quota crescente del totale – il 30 per cento. Questi i numeri: che sono eloquenti.
Vediamo ora i pensieri, e i pregiudizi. Si dice: la continuità nel numero dei femminicidi mostra che si tratta di un dato endemico, fondato in fenomeni così “strutturali” che non c’entrano con l’emergenza. È un argomento troppo vero per essere intelligente. Dato che la discriminazione uomo-donna è il fondamento diretto o indiretto di ogni razzismo, farlo finalmente emergere è, appunto, un’emergenza. Ma sfugge ai minimizzatori un punto decisivo: molte altre cose sono endemiche nei nostri costumi, e si modificano solo lentamente – benché questa, del maschilismo, sia la più lenta e renitente. Esempio: il nostro modo di pensare agli animali. Non offenderà le donne, che sanno come gli uomini le abbiano domate e tenute alla catena non molto diversamente da quelli. Dunque anche nel rapporto fra uomini e donne le cose cambiano. Chi insiste sul femminicidio “endemico” – o sugli stupri e le botte, tutti endemici – immagina solo la protrazione di un patriarcalismo arcaico, dal passo infinitamente più lento di altri progressi.
Non è così. Quel patriarcalismo non vuole cedere, ma perde terreno, e libera via via le sue vittime, le donne ma anche i disgraziati uomini, che perdendo la proprietà delle donne hanno un mondo da conquistare. Invece c’è nel femminicidio contemporaneo e nelle violenze contro le donne – basta seguirne gli episodi, e basta anche, diciamolo, fare bene i conti con se stessi – qualcosa di interamente nuovo, perché nuova è la libertà che le donne rivendicano, e a cui gli uomini devono abituarsi, e rallegrarsene se ne sono capaci, o rassegnarsi se non altro – e troppo spesso non si abituano né si rassegnano, e se ne vendicano. Non sono uomini all’antica: sono modernissimi uomini antichi, mortificati dalla libertà delle donne, che sentono come il furto della loro libertà. Anche alle persone che finalmente si impegnano ad avere conti e statistiche serie su questi temi, direi di non gingillarsi troppo con l’ovvietà che l’enorme incremento di denunce contro i maltrattamenti maschili sono il frutto di una sensibilità e soprattutto di una solidarietà che fino a poco fa non si poteva sperare. Certo che è così. Le botte domestiche “sommerse” saranno ancora la schiacciante maggioranza. Ma questo, appunto, è ovvio. Meno ovvio è riconoscere, e far riconoscere, le botte nuove e inaspettate di uomini che non stanno al passo con l’immagine femminile pubblica e pubblicitaria, e se ne rifanno a casa, fra il porno online e la moglie.

Ammoniscono: è diventato di moda gridare all’allarme per i femminicidi. Può darsi, ma non era meglio quando – negli ultimi ventimila anni, diciamo – era di moda non parlarne, tranne qualche tragico greco. Deplorano: si grida all’emergenza per mettersi in mostra. Argomento scivoloso, basta rovesciarlo: mi si noterà di più se sconfesso l’emergenza?

Infine: le comparazioni statistiche fra noi e la Finlandia, o la Lettonia. Mostrano un paio di cose. Intanto, che là curano meglio le statistiche. Poi quello che ho appena detto, che il progresso nei costumi è zoppo, da questa gamba. Poi, che le notti sono lunghe e senza luce, e gli uomini bevono, e picchiano la moglie. Si suicidano anche, di più. Ma anche là, dove l’emancipazione è più spinta, le mogli probabilmente bevono di più, ma non picchiano il marito in proporzione. I romanzi di Larsson andavano presi sul serio, soprattutto nelle didascalie informative premesse a ogni capitolo. Mostravano le magagne, di genere e politiche, della bella Svezia, anche lei tentata di prendersela con l’immigrazione. Dopo di che, senza dimenticare per un momento le percentuali dei panni sporchi dentro le “nostre” famiglie, l’immigrazione ci e si pone un problema. Per lei, spesso, lo scontro con la libertà femminile è ancora più brusco e frontale. Che a volte reagiamo in modo orrendamente simile, noi e uno zio pakistano espiantato, è solo un ulteriore avvertimento sulla scorza sottile.

Vogliono proseguire nella svendita di beni pubblici per far cassa e uscire dalla crisi. Non hanno imparato che il danno per i cittadini è certo, e i vantaggi solo per i ricchi che compreranno? «La realtà è che il debito pubblico è insostenibile, si può solo congelarlo». Il manifesto, 17 settembre 2013

Letta ha annunciato che il prossimo impegno del governo, se resterà in piedi, sarà un grande programma di privatizzazioni, cioè di svendita di quote di aziende statali e di misure per costringere i Comuni a disfarsi del loro residuo controllo sui beni comuni e sui servizi pubblici locali. Il tutto, naturalmente, per far quadrare i bilanci, abbattere il debito pubblico e riportare il deficit (che ormai viaggia verso il 3,5% del Pil) entro il margine "prescritto". Tutti obiettivi impossibili: ai prezzi odierni, la svendita anche di tutti i beni pubblici vendibili (un grande affare per chi compra) non porterebbe nelle casse statali che un centinaio di miliardi o poco più; cioè meno di quanto lo Stato pagherà in un anno tra interessi e rateo di rimborso del debito imposto dal fiscal compact. E l'anno dopo ci si ritroverà al punto di prima, ma senza più beni comuni e aziende pubbliche. La realtà è che il debito pubblico italiano è insostenibile e l'unico modo per farvi fronte è congelarlo.

Ma per capire dove portano le privatizzazioni già largamente praticate dai precedenti governi di centrosinistra guardate l'Ilva: un gioiello tecnologico (di 50 anni fa) creato dall'industria di Stato e ispirato alla cultura allora imperante del gigantismo industriale; poi svenduto, una ventina di anni fa - a una famiglia già compromessa che aveva fatto i soldi con i rottami di ferro - in ossequio alla cultura delle privatizzazioni messa in auge dagli allora campioni del centrosinistra: Andreatta, Ciampi, Prodi & Co. La motivazione di quel passaggio di mano era che le cattive performance del settore (peraltro in crisi, da allora, in tutta Europa) erano dovute ai condizionamenti della "politica", ormai insediatasi nel management dell'azienda; e che solo una gestione privata l'avrebbe salvato da quelle interferenze. La validità di quella tesi può essere verificata dal fatto (tra gli altri) che i Riva sono oggi i principali azionisti privati di Alitalia, cioè di quella cordata fallimentare messa su da Berlusconi per gestire in nome dell'italianità della "nostra" compagnia aerea la sua campagna elettorale del 2006: le interferenze della politica funzionano tanto con la proprietà pubblica che con quella privata. In cambio di quell'operazione senza alcun senso economico i Riva si erano però garantiti mano libera nella prosecuzione di una gestione scellerata dell'azienda.

Nonostante due condanne penali in cui il capostipite della dinastia era già incorso. Tra i risultati di quello scambio di favori c'è stata un'autorizzazione integrata ambientale (Aia) confezionata su misura dell'Ilva dalla ministra Prestigiacomo e da un uomo per tutte le stagioni, vero "dominus" del Ministero dell'Ambiente, Corrado Clini.

Così i Riva hanno gestito gli impianti dell'Ilva "a esaurimento": investendo cioè solo l'indispensabile per tenerli in funzione e fare profitti da imboscare all'estero, fottendosene dell'impatto ambientale, della salute, della sicurezza e della vita di maestranze e cittadinanza; contando sul fatto che gli impianti sarebbero andati a rottamazione più o meno nel momento in cui il mercato globale avrebbe reso insostenibile la gestione di uno stabilimento di quelle dimensioni.

Per questo l'idea di risanarlo e ammodernarlo (che è cosa differente dal mettere in sicurezza maestranze e città fin che continuerà a funzionare) è un po' peregrina. Non c'era, dietro la gestione Riva, alcuna strategia che non fosse quella di spremere uomini, impianti e territorio fin che fosse possibile. Come non c'è altra strategia dietro la gestione dell'odierno commissario e del suo vice. In più, all'Ilva c'era - ed è rimasta operativa anche dopo la nomina di Bondi - una conduzione criminale del personale e delle lavorazioni, affidata a una struttura parallela e illegale di "fiduciari": cioè di persone non incluse nell'organico dell'azienda, che comandano in fabbrica al posto dei capi - imponendo quelle operazioni pericolose che sono all'origine dei morti, degli infortuni e di gran parte dell'inquinamento della città - ma che non rispondono mai del loro operato, perché ufficialmente «non esistono»; una struttura che dipendeva direttamente dai Riva e che ora - verosimilmente - risponde al presidente Ferrante: un altro uomo per tutte le stagioni: già Prefetto, candidato del centrosinistra a sindaco di Milano, presidente di Impregilo sotto accusa per i disastri dei rifiuti in Campania e dell'alta velocità nel Mugello.

Sono stato un solo giorno a Taranto, nell'agosto dell'anno scorso, invitato dal Comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti, e in un giorno solo sono venuto a sapere tutto di quella struttura illegale. Tutti sapevano che c'era e che cos'era, con nomi e cognomi. Ma per mesi e per anni nessuno, a quanto mi consta - né sindacati, né partiti, né amministrazioni locali, né curia, né Regione, né governo, né tantomeno il nuovo presidente, il commissario o il suo vice - ha sentito il bisogno di denunciare una pratica del genere. E' dovuta intervenire la magistratura, con diciotto anni - verosimilmente - di ritardo, per arrestare la cupola di quell'associazione a delinquere. Il che dà un'idea del livello di compromissione costruito intorno all'intreccio tra "politica", in senso lato, e "privatizzazioni". D'altronde l'Ilva ha un dopolavoro - l'Associazione Vaccarella - attraverso cui transitano ingenti finanziamenti gestiti dai sindacati, che non ne hanno mai dato conto; e a Taranto c'è un palazzetto dello sport dell'Ilva, denominato - chissà perché? - PalaFiom. Ve lo immaginate voi un PalaFiom della Fiat di fronte ai cancelli di Pomigliano o di Mirafiori? Evidentemente qualcosa non quadra.

Ora che i Riva hanno fermato per ritorsione tutti gli altri impianti italiani, Letta deve decidere che cosa fare. Ma non può fare niente, perché sia lui che i suoi predecessori si sono legati le mani con leggi e accordi di cui si sono fatti garanti e con cui hanno legato una pietra al collo del paese per mandarlo definitivamente a fondo. Il governo non può ridare l'Ilva ai Riva, per lo meno fino a che non avranno restituito almeno gli otto miliardi che hanno rubato. Non può cercare un compratore estero, perché questi userebbe l'impianto per mettere piede in Italia e poi dismetterlo il più in fretta possibile, come hanno fatto tutti gli altri cosiddetti «investitori esteri», non solo con la Lucchini nel siderurgico; ma con Alcoa, Siemens, Telecom, Alstom, Parmalat e tante altre. Non può nazionalizzare l'Ilva o gli altri stabilimenti dei Riva sotto sequestro perché l'Europa «non lo consente»; e perché "i soldi" per l'esproprio aumenterebbero deficit e debito; e non si può fare.

Ma la nazionalizzazione - dell'Ilva, o del Gruppo Riva, o degli stabilimenti Fiat condannati alla cassa integrazione perpetua, o di qualsiasi altra fabbrica in crisi - è per ora impraticabile anche per chi fosse eventualmente propenso a "passar sopra" a quei vincoli (e per ora nessuno di coloro che hanno voce in capitolo lo è). Perché manca la struttura per gestire aziende del genere. Una volta c'era l'Iri: una robusta struttura pubblica, che era anche una scuola di management di livello internazionale, quali che ne fossero le pecche politiche, che certo non mancavano. Adesso invece c'è solo più Bondi: un arzillo ottuagenario pronto a tutto, che si è lasciato dietro le spalle una intera carriera di aziende scomparse o distrutte: Montedison, Lucchini, Telecom, Ligresti e Parmalat (riempita, quest'ultima, di miliardi con le penali pagate dalle banche che avevano tenuto bordone a Tanzi, per finire subito tra le fauci di un pirata che li ha usati per farsi i fatti propri); più una breve permanenza al governo della spending review e alla formazione della lista Monti, dove, com'è ovvio, non ha combinato niente.

Così, se Landini ha promesso che la Fiom non permetterà più la chiusura di altre fabbriche, anche a costo di promuoverne l'occupazione da parte delle maestranze - e ha fatto bene - resta da definire che cosa fare poi di quelle aziende, che sono ogni giorno di più, una volta che i lavoratori le abbiano occupate: restituirle al padrone che le vuole chiudere? Cercare un nuovo padrone perché a chiuderle sia lui, dopo aver portato via macchinari, brevetti e marchio, come hanno già fatto in tanti? Affidare anche quelle a Bondi? Nazionalizzarle, anche se il management per gestirle non c'è?

In realtà quello che c'è da fare, e subito, è raccogliere e costruire, con un appello al paese, un nuovo management: un tessuto esteso di persone disposte a sostituire i vecchi proprietari - o, eventualmente, a integrare la precedente dirigenza - per mettersi a disposizione di tutte quelle situazioni che invece di accettare la chiusura sono disposte ad affrontare la sfida di una nuova gestione, socializzata e condivisa: non una mera "autogestione" da parte delle maestranze, anche se l'utilizzo della legge Marcora, o di un suo sostituto, potrebbe fornire uno strumento per imboccare una strada del genere. Ma una gestione che, accanto alle maestranze, coinvolga anche le comunità locali, le loro associazioni, le amministrazioni dei comuni e degli altri enti locali del territorio, le università (cioè i docenti e le organizzazioni degli studenti disponibili) la schiera crescente di ex manager messi sul lastrico, l'esercito di coloro che hanno fatto apprendistato di responsabilità gestionali nel terzo settore. E' l'unico modo per mettere insieme, e mettere alla prova in un confronto serrato con situazioni concrete, una nuova classe dirigente: un passo indispensabile se si vuole esautorare quella attuale. Intanto bisogna mettere all'ordine del giorno espropri e requisizioni. O ci sono altre strade persalvarci dal disastro?

A molti, non solo ad AAR «l'idea che a qualcuno venga in mente di candidare Matteo Renzi alla segreteria del partito o addirittura alla premiership ha un sapore comico e paradossale» Ma tant'è. A questo siamo arrivati. E scendere ancora più in basso, sembrerebbe incredibile, ma è ancora possibile.

Il manifesto, 18 settembre 2013

Il Pd sta messo davvero male. Se sono attendibili le stime fornite da Ilvo Diamanti su la Repubblica del 16 settembre (ma in genere lo sono), il Pd arranca in cima alla classifica di un voto eventuale, ma tallonato da presso dal Pdl in sorprendente rimonta. Uno può fare a questo punto tutti i commenti che vuole sulla desolante iniquità dell'elettorato italiano, ma forse sarebbe meglio pensare ai casi propri: se uno cresce e l'altro no, in genere la colpa può essere divisa a metà, e in questo caso certamente lo è.

Quando l'esperimento post-elettorale di Bersani fu mandato, prima del tempo limite, a carte quarantotto, scrissi su questo giornale che per ottenere quel risultato, e passare d'autorità al governo delle larghe intese, bisognava sacrificare sull'altare della politica di unità nazionale anzitutto e soprattutto il Pd. Mi dispiace dirlo, avrei preferito non averci azzeccato, ma invece è andata puntualmente così. Pare che il Pd abbia diminuito della metà i suoi iscritti: motivi dichiarati dai sondaggisti, il governo delle larghe intese (ma su questo tornerò) e i tentennamenti, le paure, le incertezze in merito alla decenza del cittadino Berlusconi.

Se le cose stanno così, - e mi pare ragionevolmente che stiano così, - la settimana che si è aperta risulta decisiva. Il Pd ha di fronte a sè l'ultima chance: non ce ne saranno altre fino alle prossime elezioni, destinate a essere anche più catastrofiche del previsto se non verrà giocata come si deve. L'ultima chance si compone di due segmenti, strettamente collegati fra loro.

Il primo riguarda il voto nella Commissione del Senato sulla decadenza del cittadino Berlusconi. Difficile sottovalutare l'importanza grandiosa che il comportamento dei componenti Pd in Commissione è destinato ad assumere nell'impostare con estrema chiarezza il processo che dovrà concludersi in aula. Se saranno fermi a votare la decadenza, sarà messo un tassello importante nella faticosa riconquista di una "buona politica" in questo sventurato paese. Altrimenti dovremo rassegnarci ad andare a rotoli. Il secondo segmento riguarda l'Assemblea nazionale del partito, che si terrà il 20 settembre, per impostare il futuro congresso e, più o meno esplicitamente, per delineare il percorso del partito fino alle prossime elezioni.
Sia consentito a uno come me che non ha bisogno di essere rottamato da chicchessia perché è da tempo un rottamato biologico che ogni anno che passa lo diventa sempre di più (meno comunque, spero, di quanto qualcuno si augurerebbe) dire che l'idea che a qualcuno venga in mente di candidare Matteo Renzi alla segreteria del partito o addirittura alla premiership ha un sapore comico e paradossale, di cui, guardandoci tutti un momento allo specchio, si dovrebbe tenere conto. Battute, gesti, ammoina e colore locale... neanche un'idea, un progetto, un'apertura culturale di qualche minimo peso, ma soltanto il sospetto, non dichiarato ma tangibile, di una sostanziale vocazione di destra. Insomma, la riproduzione in sede Pd del fenomeno Grillo fuori del Pd: per affermare e trionfare, ci si appoggia sull'estrema estenuazione di un elettorato che, di delusione in delusione, di sconfitta in sconfitta, si è anch'esso depoliticizzato, deculturalizzato, depotenziato.

La domanda che mi si potrebbe porre è appunto questa, se si dovesse tener conto anche in questo caso delle sullodate stime diamantine: cosa c'è da lamentarsi se Renzi svetta in cima alle classifiche dei potenziali premier democratici? Egli interpreta oggi lo spirito del mondo.

Alla domanda rispondo con un'altra domanda: possibile che al degrado, se non universale, certo oggi molto diffuso, si debba rispondere in questo modo? Possibile che non esista un modo serio, collettivo, ragionato, sociale, di rifare anzitutto il partito, che, consegnato nelle mani di questo improvvisato leader, sarebbe destinato, e consapevolmente portato, allo sfacelo totale?

Auspico che a questa perniciosa prospettiva uomini e donne che vengono da organizzazioni e da esperienze di movimento in cui si sa di cosa parlo, pongano un argine. E se è necessario prolungare i tempi per ottenere questo risultato, si tenga in piedi il governo Letta con la maggioranza parlamentare che si potrà raccogliere una volta conseguita la decadenza di Berlusconi. Se ne approfitti per fare una legge elettorale nuova, rispettosa dei diritti di cittadinanza. E nel frattempo si torni a tessere la tela di un centro-sinistra sempre più allargato, - allargato a Sel ma anche ai movimenti sempre più presenti nel nostro paese, cresciuti negli interstizi di una politica spesso rinunciataria e deficitaria. Si tratta di ricostruire un partito, non d'imboccare l'ennesima avventura personalistica e autoritaria.

Incredibile: suolo edificatorio in città non ce n'è, e regaliamo a chi ristruttura metri cubi da costruire altrove, magari nelle lande del Carso. Contro il consumo di suolo, utilizzando anche l’area vasta.

Il Piccolo, 17 settembre 2013, postilla

È diventato un fiume carsico, sopravanzato dal Piano del traffico che aveva precedenza. Ma in Comune il nuovo Piano regolatore è tema del momento. A novembre scadono le salvaguardie, cioé il divieto di autorizzare modifiche sul territorio in attesa della nuova norma urbanistica. Dopo una imponente serie di incontri con cittadini e categorie, e con l’analisi geologica già inviata all’esame della Regione, che fisionomia si sta disegnando per la Trieste targata Cosolini-Marchigiani, dopo che il fallito “profilo Dipiazza” è stato cassato dalla giunta di centrosinistra?

Ecco le prime anticipazioni, con novità assolute per Trieste, sulla base della filosofia di base di questo disegno urbanistico: no al consumo di suolo («peraltro suolo edificabile a Trieste proprio non ce n’è, è finito» certifica l’assessore alla Pianificazione Elena Marchigiani), sì alla riqualificazione, alla vivibilità, all’unità del territorio e dell’”area vasta” provinciale e transfrontaliera, al recupero di aree dismesse (Campo Marzio in primo luogo), di pastini e boschi in Carso.

Prima sorpresa. Il Prg segnalerà zone e quartieri di brutta qualità dove sarà permesso demolire per meglio ricostruire secondo criteri concordati col Comune. Se quel lotto rinnovato in via urbanistica e architettonica (ma coi medesimi volumi) avrà anche un’alta classe energetica, il costruttore guadagnerà metri cubi da “spendere” altrove, dove permesso, cioé il diritto di innalzare o allargare in misura pari alla cubatura ottenuta in premio. È un meccanismo sperimentale. Ma non l’unico.

Il secondo, ancora più innovativo e ora in fase di rilascio da parte dell’avvocatura del Comune (parere-filtro per verificarne la pacifica congruità giuridica) riguarderà i privati, incentivati a rendere le case energeticamente più efficienti. È in progetto una “banca dei metri cubi”. Un giacimento virtuale di diritti a costruire alimentato da chi restaurerà in senso “green”. Così facendo guadagnerà un certo numero di metri edificabili (come fossero dei “punti”, altrimenti detti “crediti volumetrici”) che potrà usare in proprio, o se la sua zona non consente ampliamenti anche in un’altra sua proprietà situata in area dove il Piano regolatore prevede invece “densificazione”.

Se quel cittadino altri appartamenti non ha, com’è probabile, i suoi metri cubi di premio confluiranno appunto in una “banca”, alla quale altri, residenti in zone ampliabili, potranno approvvigionarsi. Pagando il corrispettivo a chi aveva “versato” quei diritti, che verrà dunque ricompensato per la spesa di restauro fatta in precedenza. Una leva per spingere dall’interno la trasformazione della città che il nuovo Prg intende sollecitare.

Poi c’è la pianificazione di “area vasta”. Proprio l’altro giorno Comune e Provincia lo hanno concordato: il Prg sarà sottoscritto da entrambi gli enti e via via dai Comuni del territorio, e da quelli confinanti già più volte interpellati, per condividere in un “patto” per lo sviluppo strategico del territorio le linee di indirizzo su ambiente, mobilità, identità dei borghi, sviluppo della costa e degli insediamenti agricoli, industriali e commerciali. Anche la Regione è della partita: «L’assessore Mariagrazia Santoro dice Marchigiani ne è entusiasta, il nostro lavoro sarà prezioso per il Piano paesistico regionale e il Piano del governo del territorio». Poi si entra per cerchi concentrici dai pastini del Carso al sottosuolo e fino al cuore del centro storico. Dove il perimetro verrà ampliato conservando il disegno del Prg ante-Dipiazza, sarà consentito frazionare appartamenti troppo grandi e trasformare negozi dismessi in parcheggi. Per il 2015 si annuncia un Piano specifico per l’area. Si sfiora il Porto («i piani esistenti sono ancora condivisi»), si tocca la zona industriale («”location” piuttosto misera oggi, da rendere attrattiva e più servita modificando anche via Flavia, oggi interfaccia della città»). E un’altra novità è l’ideale “Strada della ricerca”: dall’Altopiano, dove alla discussa ex caserma di Banne è esclusa ogni ipotesi di nuova residenzialità, all’Ezit, ma anche dentro il tessuto urbano, il Prg identificherà zone dove l’Area di ricerca potrà insediarsi, non più esiliata fuori.

In Carso nuove regole per consentire allevamento e coltivazione

(nella manchette le parole dell'assessore)

Nella città di mare si torna a parlare anche di Carso. Il Piano regolatore, in perfetta intesa con le categorie produttive, ne terrà conto aprendo a coltivazioni e allevamenti. «Dai colloqui di questi mesi si è capito che moltissimi sono disposti a intraprendere un’attività - conferma Marchigiani (nella foto) -, ma ora non è chiaro che cosa è consentito e che cosa no. Faremo linee-guida per dare a coltivatori e allevatori quello che serve e non di più». Cioè permessi per capanni, per delimitare, per tornare ad “abitare” un territorio che, pur da preservare, va anche gestito, in armonia tra «il rispetto dei valori ambientali e la possibilità di cura attiva da parte di soggetti economici, il territorio - avverte l’assessore - diventa ancora più instabile e a rischio quando nessuno ha interesse a prendersene cura. Il paesaggio è frutto dell’opera dell’uomo, se tale opera viene preclusa il paesaggio degrada». Dunque: Carso attivo.

postilla

Ahimè come si propagano i danni provocati da chi ha inventato i “diritti edificatori” e i connessi “crediti volumetrici. Per le indubbie qualità del pensiero che anima le proposte dell’assessore all’urbanistica di Trieste inseriamo l’articolo anche nella cartella “stupidario”. Si vergogni di parlare di pianificazioni urbanistica”chi crede che la città e il territorio si organizzano decentemente spostando volumi e funzioni qua e là sul territorio.
Nell'icona una immagine della "landa" carsica

© 2025 Eddyburg