Bloccato per ora un passo ulteriore nello smantellamento del Welfare state, ma non è finita. Obama vuole innovare, avevamo già conquistato il diritto alla salute smantellano un pezzo per volta.
La Repubblica, 22 ottobre 2013
Mentre negli Stati Uniti si è consumato uno scontro feroce tra i democratici e l’ala più estrema della destra repubblicana sulla storica riforma sanitaria del Presidente Barack Obama, in Italia il governo ha deciso saggiamente di non procedere lungo la strada di ulteriori tagli alla spesa per la sanità, sebbene fossero in atto pressioni pesantissime in tal senso.
L’attacco alla sanità pubblica nasce dalla crisi dei bilanci statali della maggior parte dei paesi avanzati, una crisi che sta spingendo inesorabilmente verso l’adozione di politiche di drastico contenimento della spesa. E poiché è diffusa la convinzione che la sanità sia essenzialmente una voce di costo da ridurre, il diritto alla tutela della salute è messo sempre più a rischio. In Italia ciò potrebbe aprire la strada ad un nuovo sistema, peggiore e profondamente iniquo. Dobbiamo tener presente che in questa fase di crisi, con 8 milioni di cittadini in povertà e circa 15 milioni a rischio di esclusione sociale, la sanità pubblica sta svolgendo un ruolo fondamentale di ammortizzatore sociale. Oggi la componente sanitaria copre circa il 25% della spesa complessiva per prestazioni di protezione sociale erogate dalle amministrazioni pubbliche, dopo la previdenza che ne rappresenta la componente più rilevante con il 65%. Inoltre, l’articolo 32 della Costituzione Italiana, nel sancire la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, obbliga, di fatto, lo Stato a promuovere ogni opportuna iniziativa utile alla migliore tutela della salute. Ma da diversi anni in Italia sono in atto tendenze preoccupanti: nel 2011 la spesa sanitaria pubblica pro capite è stata del 22% inferiore alla media dei principali paesi europei, mentre la spesa farmaceutica pro-capite è stata del 14,5% al di sotto della media con un andamento in controtendenza rispetto agli altri paesi dell’Unione. L'unico aspetto positivo riguarda la gestione dei conti della sanità italiana: dal 2005 al 2011 il disavanzo di esercizio è passato da 5,7 miliardi a 1,3 miliardi di euro. La fetta più grossa del disavanzo è riconducibile a cinque regioni (Liguria, Lazio, Campania, Calabria e Sardegna): è qui che si concentra oltre l'87% del deficit nazionale.
Ora, nessuno mette in dubbio che la sanità pubblica debba essere modernizzata e debba diventare più efficiente, ma è molto discutibile che ciò possa essere ottenuto attraverso una pesante restrizione della spesa, che metterebbe a rischio il funzionamento degli ospedali e la capacità di offrire un’assistenza adeguata alle fasce sociali più deboli.
Diversa è la situazione negli Stati Uniti, dove l’estrema destra repubblicana ha cercato di sabotare con tutti i mezzi la nascita di un forte sistema sanitario pubblico. L’occasione per sferrare l’attacco frontale è stata fornita dalla necessità di alzare il tetto dell’indebitamento federale, pari a 16.700 miliardi di dollari, per continuare a finanziare le spese governative e per rispettare gli impegni con i creditori. In cambio dell’innalzamento del tetto del debito, i repubblicani avrebbero voluto delle modifiche della riforma sanitaria che, nell'immediato, ne avrebbero bloccato l'attuazione e, nel medio-lungo periodo, ne avrebbero svuotato la portata. Ricordiamo che la riforma sanitaria di Obama permetterà a trentatré milioni di americani che ne sono privi di avere un’assicurazione sulla salute. Di questi, 17 milioni saranno associati a Medicaid, l’assistenza pubblica per i poveri; mentre altri 16 milioni fruiranno di una sovvenzione pubblica tramite un credito d’imposta correlato al livello di reddito. Per concludere, siamo convinti che in questa fase di crisi la priorità non sia quella di ridurre ulteriormente il finanziamento pubblico alla sanità, ma quella di potenziare gli investimenti pubblici per la modernizzazione delle infrastrutture ospedaliere, per l’innovazione delle tecnologie sanitarie, per la formazione professionale e per gli interventi di diagnostica e prevenzione. Si tratta di una strategia che non solo permetterà di aumentare l’efficienza della sanità pubblica, ma consentirà anche di offrire maggiore protezione sociale alle fasce più deboli, condizione fondamentale per rilanciare i consumi e quindi la produzione e l’occupazione nel nostro paese.
omune_info, 21 ottobre 2013
Cercavo un appellativo o una metafora che potesse calzare l’iniquo operato del governo delle larghe intese in tutto l’iter degli annegamenti al largo di Lampedusa dal 3 ottobre fino alla celebrazione farsa dei funerali di Stato in absentia dei corpi degli oltre 300 annegati da respingimento (ossia giovani per lo più provenienti dal Corno d’Africa annegati a causa di leggi inique approvate da entrambe le compagini governative e che sono state oggetto di oltre 100 richiami per violazioni dei diritti umani da parte dei massimi organismi internazionali per i diritti umani). Mi sono venute in mente locuzioni bibliche del tipo “sepolcri imbiancati” per denunciarne l’ipocrisia ma alla fine ho dovuto coniare la neo-locuzione “governo tombarolo”. Per tombarolo, nel significato classico del termine, si intende un violatore di tombe, ladruncolo alla ricerca di tesori o di modesti averi che al malcapitato defunto i familiari avevano fatto indossare o messi al loro fianco per accompagnarli nel viaggio dell’aldilà. L’attività di addobbare la salma si può considerare un’attività consolatoria per chi restava nel senso che nel rito si riaffermava una certa “normalità” dello status del defunto, continuava a condividere interessi anche estetici con chi continuava invece a vivere. L’attività del tombarolo invece consisteva nella cinica, egoista raccolta dei frutti del rito.
Oggi ad Agrigento, dopo vari tentennamenti, il governo italiano, in tutte le sue compagini e colori di pelle, si presta a un’ulteriore operazione di spoliazione dei morti, cioè cercheranno di spogliare nuovamente il corpo in absentia di oltre trecento giovani eritrei, somali e altri provenienti dal bacino mediterraneo di qualsiasi gioiello potessero ancora avere addosso. Nelle varie piazze di Italia nelle scorse settimane, si sono sentiti spesso i rappresentanti istituzionali locali rammaricarsi per il “tragico naufragio”, versare lacrime, forse anche sentite, per le vite spezzate. Ma come dice una canzone del cantautore lampedusano Giacomo Sferlazzo “Unnavi curpi u mari” (cioè il mare non ha colpe) se la barca in pericolo non è stata soccorsa da ben tre pescherecci per paura di ritorsioni da parte del sistema penale italiano. Non sono le forze della natura a respingere bensì precise forze politiche che hanno codificato sistemi iniqui per impedire la libera circolazione anche di persone in pericolo di vita, mentre si sforzano in ogni modo di fare leggi che consentano la libera circolazione di merci e capitali (questi ultimi senza controllo alcuno).
Nei media a grande diffusione si sono spese migliaia di parole e di righe di scrittura per fare ipotesi su scafisti, navi madre e non si è quasi mai sentito pronunciare il nome “Isaias Afewerki” il dittatore che in Eritrea impone il servizio militare a vita, che ha il maggior numero di giornalisti al mondo ospiti delle sue prigioni e i cui arsenali sono rimpinguati dalle armi provenienti dall’industria bellica del fiorente nord–est italiano. Il paese è stato definito dalle più importanti associazioni per i diritti umani una prigione a cielo aperto eppure a quasi a nessun giornalista viene la tentazione di fare un collegamento tra le condizioni politico-sociali economiche di quel paese e l’arrivo di tanti giovani in fuga. Non si è trovata traccia nella stampa italiana di un giornalismo d’indagine che si prenda la briga di investigare le committenze del governo eritreo per quanto riguarda industrie tessili e molti altri prodotti di imprenditori italiani. Né si è fatta alcuna illazione sul perché sia stato consentito a rappresentanti ed ufficiali eritrei di ispezionare e riconoscere le salme, proprio quelle di giovani provenienti da un paese per cui l’italia finisce per riconoscere lo status di rifugiato politico. Non si palesa nessuna contraddizione nel fatto che ai rappresentanti delle istituzioni eritree sia lecito curiosare tra i corpi dei morti e non ai parenti venuti con gran sacrificio da lontano per avere almeno la consolazione di dare l’ultimo saluto al proprio congiunto. Infatti nella fretta e furia del governo italiano di far sparire i corpi un gran numero di essi non sa neppure dove sia ubicata la tomba del proprio congiunto. E tutto questo per non parlare della sorte toccata ai sopravvissuti a cui sono state prese le impronte e che sono stati prontamente accusati del reato di clandestinità. Quindi paradossalmente per i morti si è prospettata la possibilità di garantire la cittadinanza mentre per i vivi si è proceduto a dare ben altra ospitalità nei famigerati centri di identificazione di espulsione.
Si possono in un certo senso anche scusare i sindaci, gli assessori, rappresentanti dell’italiano medio al cui “ruolo” (per usare una parola di cui ci si riempie molto la bocca in Italia) non compete la conoscenza approfondita di politica estera, ma ai massimi rappresentanti del governo italiano questo compete e come. Eppure, in questo strano rito funebre, dove saranno assenti i corpi degli annegati da respingimento, accanto alle massime rappresentanze del governo italiano sederanno non i genitori e gli amati delle persone annegate ma i rappresentanti del governo eritreo, cioè gli aguzzini dalle due sponde. In un discorso classico delle migrazioni queste “istituzioni” rappresenterebbero le forze di “push” e “pull” (cioè le forze che “spingono” a lasciare un paese e le forze che “attraggono” verso un altro paese) solo che nel caso, dell’Italia e della sua ex colonia Eritrea perfino queste incombenze sono svolte con una grande doppiezza per cui il paese che teoricamente dovrebbe “attirare” è quello che in realtà respinge (e adesso si munisce perfino di droni per farlo con maggiore efficienza) e il paese che spinge è quello che attraverso tutta una serie di sotterfugi ci guadagna dall’esodo di massa dei suoi giovani “attirando” dentro le sue casse parte dei loro magri guadagni (le ambasciate eritree dotate in tutto il mondo di una fittissima rete di informatori esigono una tassa mensile del 2 per cento sugli introiti dai loro connazionali anche se sono fuggiti all’estero come rifugiati politici).
Quindi oggi i tombaroli nostrani e quelli del regime di Afewerki pure in assenza delle salme, dopo aver creato le condizioni che hanno portato alla morte di oltre 300 persone che cercavano la vita, procederanno con le belle parole a spogliare la parte più fulgida della loro impresa. Cioè, le “istituzioni” ben lontano dal prodigarsi in un atto di cambiamento, cercheranno con una narrazione pietistica di trafugare la narrazione di fiducia nel futuro, di progetto di realizzare le proprie aspirazioni che era insita nella fuga delle persone annegate. Il loro corpo in fuga da e in arrivo a rappresentava la possibilità di una diversa narrazione, troncata appunto non dalla natura ma dalle leggi inique degli esseri umani. La maggior parte di loro, attraverso sacrifici di intere famiglie, era alla ricerca di un posto in cui la vita non fosse compressa dai voleri e dagli interessi di un regime (un desiderio di cambiamento di condiviso da milioni di giovani in tutto il Nord Africa e Medio Oriente, appunto quelli che in altre nazioni si trovano protagonisti di rivolte e rivoluzioni).
Credo che il miglior tributo che possiamo dare alle loro speranze nel futuro è di spegnere il canale sulla dissacrazioni dei tombaroli governativi, di unirci ai fratelli e alle sorelle eritrei che venerdì prossimo organizzeranno una manifestazione a Montecitorio per far rivivere la narrazione alternativa. Ed impegnarci perché questa storia non venga dimenticata appena spente le luci dei riflettori, non solo perché quella storia merita di vivere ma anche perché non è poi una storia tanto diversa dalla nostra, è la ricerca di una diversa narrazione di quelle che possono essere le nostre vite, il nostro presente e il nostro futuro.
Pina Piccolo, traduttrice e insegnante italo-americana, vive a Imola e, tra le altre cose, si occupa di xenofobia e antirazzismo. Questo articolo è stato pubblicato anche su Alma blog
Liberate finalmente le pagine dei giornali dai resti di Priebke pubblichiamo un testo che forse molti giovani non conoscono, e molti anziani hanno dimenticato. Non ci sembra che in questi giorni sia stato ripreso, ma forse si. Comunque, è anche un bel testo: ed era uno dei tanti buchi negli archivi di
eddyburg
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA
A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con una famosa epigrafe (recante la data del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti), dettata per una lapide "ad ignominia", collocata nell'atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l'avvenuta scarcerazione del criminale nazista.
«manifesto, 20 ottobre 2013
È stato un risultato inaspettato e incontestabile. I movimenti per il diritto all'abitare, i No Tav e i No Muos, quello dei migranti e dei rifugiati che chiedono l'abolizione della legge Bossi-Fini, i sindacati di base (Usb e Cobas), le reti antagoniste dei movimenti sociali, e anche quelle degli altri centri sociali, entrambe presenti in forze ieri a Roma al corteo della «sollevazione generale», hanno superato una prova complicata, gestendo in maniera dura ma in fondo limitato un «assedio» alla Cassa Depositi e Prestiti e ai ministeri dell'Economia e delle Infrastrutture che poteva trasformarsi in un'ecatombe politica e in una mattanza di giovani, famiglie occupanti e migranti. Questo può essere un primo passo verso una politica contro l'austerità, che ha chiare basi sociali e mette al centro la richiesta del blocco degli sfratti per morosità, la riforma del Welfare e la richiesta di un reddito minimo. Potrebbe essere questo un primo, serio, tentativo per superare lo choc provocato dalla sconfitta politica del 15 ottobre 2011 che hanno fatto implodere il movimento, mentre negli Stati Uniti nasceva Occupy Wall Street, in Spagna si affermavano gli indignados e in Italia ci si è rinfacciati il risentimento e le responsabilità.
Settantamila persone, forse anche di più, hanno partecipato al corteo della «sollevazione generale», parola che ha acquisito un nuovo significato. Erano in molti fino a ieri mattina, alla partenza di un corteo possente, allegro, cosmopolita a temere scontri all'ultimo sangue con le forze dell'ordine. In serata, all'arrivo a Porta Pia, la «sollevazione» è stata intesa come «sollievo», ma anche come una presa di parola estranea al desiderio mimetico che tiene in ostaggio i movimenti italiani rispetto a quanto si muove all'estero. Da oggi, forse, si potrà cambiare registro, e non dire che bisogna fare come negli Stati Uniti o come in Spagna «perché in Italia non può succedere niente».
I segnali di un nuovo, tremendo fallimento, c'erano tutti, a cominciare da una campagna mediatica criminalizzante, ricavata da veline di questura o da «rapporti dell'intelligence» che sin dal mattino, dal sito dell'Huffington Post ad esempio, preannunciava l'incredibile, surreale, uso da parte dei manifestanti inevitabilmente «violenti» di «macchine idropulitrici» contro gli agenti in servizio. La scena che invece si è presentata a piazza San Giovanni è stata quella di una marea umana di almeno 15 mila persone in testa al corteo, quelle che vivono nelle sessanta occupazioni di palazzi pubblici abbandonati, residence e hotel al centro come nelle periferie della Capitale. Uno spettacolo di umanità commovente, orgogliosa, che accusa l'ipocrisia delle larghe intese con il cartello di alcuni migranti ripreso sui social network: «Scusate se non siamo affogati» a Lampedusa. Rivendica con gli eritrei, i somali, i maghrebini, i peruviani, gli africani, i rom la riscrittura di tutti i trattati europei sull'immigrazione, il cosiddetto «Dublino 2», dell'efferata Bossi-Fini e della sua genealogia securitaria che risale alla precedente legge Turco-Napolitano. Chiede il blocco degli sfratti, un piano casa per affrontare in maniera sistematica una tragedia della crisi: gli sfratti e i pignoramenti. E, infine, di cancellare le «grandi opere», a partire dall'odiata Tav Torino-Lione, di rinunciare ai «grandi eventi» sui quali viene costruita l'economia nazionale (dalla più visibile Expo 2015 a Milano alle mega-manifestazioni sportive o culturali), redistribuendo risorse in base a criteri di giustizia sociale.
Strappato il velo della disinformazione, il corteo della «sollevazione» ha assunto il profilo più netto di una società, tendenzialmente maggioritaria nel sentire comune, che inizia a riconoscersi a partire dalla vita negata, da un mutuo che non può essere pagato a causa della perdita di un lavoro o di una precarietà che non lascia tregua con poche centinaia di euro al mese, quando va bene. Una «sollevazione» che non ha alcuna rappresentanza in parlamento, sia essa «grillina», «legalitaria», «anti-berlusconiana» e nemmeno di «sinistra». Questa è la nuova questione sociale che, a cinque anni dall'inizio della crisi, sta provando a darsi una rappresentanza autonoma.
Ci sono state due «sanzioni». La prima, la più dura, all'ingresso del Tesoro in via Quintino Sella dove a più riprese il cordone composto da quattro camionette della Finanza è stato bersagliato da petardi, bottiglie, sassi a cui è stato risposto con una carica di allegerimento da parte dei Carabinieri. La seconda è stata contro il consolato tedesco in via San Martino della Battaglia. I manifestanti le hanno intese come azioni contro le politiche dell'austerità che producono, in Italia come in Germania, la schiavitù dei contratti a termine o dei «mini-job».
Uno stralcio del libro postumo «Italia sì Italia no» di Margherita Hack che esce martedì in libreria, a testimonianza dell'impegno civile della scienziata recentemente scomparsa.
L'Unità, 19 ottobre 2013
Vorrei un’Italia moderna
Chi ama l'Italia dovrebbe essere obiettivo e critico, riconoscerne i difetti ma anche i pregi. Cerchiamo perciò di passare in rassegna cosa funziona in questa nostra azienda Italia e cosa no, e come si potrebbe intervenire per renderla più vivibile e accogliente per tutti. E il modo più giusto e più chiaro per iniziare a parlare di questa nostra Italia è riferirsi alla Costituzione che continua a indicarci la via da percorrere. Passeremo in rassegna i principali articoli della prima parte della Costituzione, ossia i princìpi fondamentali. Si discute da tempo della necessità di riforme che la rendano più agile. È irritante leggere sui giornali dell’urgente necessità di queste riforme, senza che mai o quasi mai si spieghi in cosa consistano e il perché della loro urgenza. Esse riguarderebbero l’ordinamento della Repubblica e il suo funzionamento. Per esempio, le leggi le fa il Parlamento, devono essere approvate da Camera e Senato in forma identica.
Questo per evitare colpi da mano dall’una o dall’altra parte, a cui poteva essere particolarmente sensibile un paese appena uscito da una dittatura, ma in pratica oggi può avere anche l’effetto di rallentare e persino impedire l’approvazione di una legge, apportando piccole insignificanti modifiche, così da rimandarla avanti e indietro, da una Camera all’altra per la difesa di piccoli particolari interessi. Nient’altro che una gran perdita di tempo. È necessaria una migliore preparazione scientifica delle classi dirigenti: consideriamo l’assurdo della condanna a 6 anni dei geologi che non hanno previsto, e non potevano prevederlo, il terremoto dell’Aquila.
Casomai erano da condannare gli architetti che potevano costruire tenendo conto del rischio di terremoti, soprattutto in una zona tanto soggetta a eventi sismici. La scarsa importanza data alla ricerca dipende anche dalla scarsa cultura di chi ci governa. Tagli alle università, agli enti di ricerca, stipendi vergognosamente bassi dei docenti di scuola elementare e media e dei ricercatori se si confrontano con i guadagni astronomici di politici, giocatori di calcio, cantanti, presentatori televisivi. Tutti fatti che stanno ad indicare in quanta poca considerazione è tenuta la cultura dalla maggioranza degli italiani.
Non vorrei le panchine negate
Mancanza di cultura vuol dire anche paura e rifiuto del diverso, non capire quanto invece possa arricchirci la conoscenza di abitudini e costumi diversi, come maggiore cultura vuol dire anche maggiore apertura e solidarietà verso l’altro. Uno splendido esempio d’inciviltà ce lo ha dato la Lega. Durante la permanenza al governo, la Lega con il sentimento di fratellanza verso gli immigrati che la contraddistingue ha fatto togliere – dove ha potuto – le panchine dalle stazioni ferroviarie, dai giardini pubblici ecc. perché non possano sdraiarsi per dormire i senza tetto.
Vorrei una vera democrazia
L’Italia che vorrei? Quella disegnata dalla nostra Costituzione, in parte attuata quasi subito, in parte dopo molti anni e in parte non ancora. Il significato della nostra Costituzione fu illustrato da Piero Calamandrei in un discorso rivolto agli studenti nel 1955 e riportato qui sotto perché altri studenti e tutti i cittadini di oggi ne comprendano la profonda moralità. Ma la madre della nostra Costituzione è nata ad Atene più di 25 secoli fa e da Pericle fu illustrata ai cittadini (...)
Vorrei più fervore
Sono novantenne, ho avuto la fortuna di nascere e traversare quasi un intero secolo. Un secolo speciale in cui si sono avuti più cambiamenti che nei cinquanta secoli in cui sono cresciute e si sono sviluppate le civiltà cinesi, fenice, egizie, fino alla grande civiltà greca, radice della moderna Europa. Ancora all’inizio dell’Ottocento il mezzo di trasporto era il carro o la carrozza trainati da animali. Le prime ferrovie risalgono al 1830, e in Italia le prime sono state a Napoli, che ha anche avuto la prima metropolitana. Infatti, contrariamente a quanto si pensa, il governo dei Borboni fu moderno e innovativo. Ai primi del Novecento Giosuè Carducci nella poesia Davanti San Guido scrive «ansimando fuggía la vaporiera» e ripenso ai fochisti tutti neri di carbone e seminudi davanti alla fornace della locomotiva che alimentavano continuamente. Mi viene il dubbio: ma li ho visti davvero da bambina o me lo immagino? E intanto la Freccia Rossa scivola silenziosa sui binari paralleli all’autostrada, appare e scompare in un attimo lasciandosi indietro le macchine che viaggiano a 150 km/ora.
Non vorrei Berlusconi
Abbiamo avuto «mani pulite» a cancellare il binomio Dc-Pci poi sostituito con il peggior periodo dal punto di vista della moralità pubblica, del rispetto delle leggi, del senso dello stato che ha fatto dell’Italia un paese da operetta e riempito il parlamento d’indagati e incompetenti, scodinzolanti davanti a quel fenomeno da avanspettacolo che è stato (e che è ancora oggi) Berlusconi.
Non vorrei tanti sprechi
È opportuno ricordare i disastri e lo sperpero di denaro pubblico per puri fini propagandistici. Per esempio, i costi per attrezzare il convegno del G8 alla Maddalena e poi decidere di trasferirlo invece all’Aquila, appena uscita da un devastante terremoto, e assegnare in pompa magna ai terremotati casette di compensato, tralasciando invece la ricostruzione, che è ancora lontana. Altro bell’affare è stata la proposta del ponte sullo stretto di Messina, che probabilmente non si farà mai, non solo per i costi ma per la pericolosità, poggiato com’è su una zona altamente sismica. Però studi e progetti sono stati fatti e bisogna pagarli. (...) Oggi, che una profonda crisi economica ha colpito il mondo occidentale, e al governo dell’Italia, dopo che erano state provvisoriamente chiamate in aiuto persone serie (il solito governo tecnico), ora c’è una «strana» coalizione, cosa possiamo aspettarci? Anche se senza la bacchetta magica, e con una colorazione piuttosto destrorsa, com’è oggi l’Italia? È vero che c’è una miseria crescente? O forse ci eravamo abituati a vivere al di sopra delle nostre possibilità.
La questione della sepoltura si è posta subito dopo il ritrovamento dei corpi degli uccisi alle Fosse Ardeatine. Mi raccontava la signora Vera Simoni, figlia del generale Simone Simoni (torturato a via Tasso e ucciso alle Fosse Ardeatine) che il generale John Pollock, comandante delle truppe alleate dopo la liberazione di Roma, aveva pensato che, visto che i corpi erano già sotterrati, si potevano lasciare lì e costruirci sopra un monumento. Ma sua madre, e altre vedove delle Ardeatine, si opposero: noi vogliamo il riconoscimento di tutti, uno per uno, dissero. Da lì cominciò il tremendo lavoro del professor Attilio Ascarelli, dei suoi collaboratori, e dei familiari in lutto, per tirar fuori i corpi dalla terra, riconoscerli, e finalmente seppellirli. Sotterrare non è lo stesso che seppellire: di mezzo, scrive Ernesto de Martino, c'è il pianto e c'è il rito, che servono a far passare la perdita in valore.
Per questo le spoglie di Erich Priebke sono un problema così grande. Da un lato, c'è la questione di disporre di un corpo - magari, per certi cristiani, anche di pregare per la sua anima, cosa a cui anche i peggiori assassini hanno diritto (anche se sospetto che nel caso di questo peccatore non pentito non servirà a molto). Dall'altro, c'è il problema del rito: quale valore pensano di estrarre da questo passaggio i preti lefebvriani e i neonazisti, se non la pubblica proclamazione ed elogio dei perversi e protervi «valori» per i quali Priebke ha ucciso? (sarà una coincidenza, ma per parecchio tempo Albano, la cittadina dei Castelli Romani dove si vuole celebrare il funerale, è stato terreno di caccia dei neonazisti e fondamentalisti di Militia. Il loro leader Paolo Boccacci viveva lì, e già altre volte i cittadini democratici sono dovuti intervenire materialmente per impedire sfilate neonaziste in paese).
E infine: c'è il pianto. C'è qualcuno che davvero piange per Erich Priebke? Non noi, non le famiglie delle sue vittime (qualcuno dice di avere perdonato, altri non perdoneranno mai: sono scelte profonde che spettano a ciascun individuo); nemmeno suo figlio, stando a quello che dice a i giornali. E certamente non i suoi manipolatori e le squadracce neonaziste, per i quali Erich Priebke già da vivo - ma sempre incapace di capire e di sentire - era meno e più di una persona, un docile fantoccio da esibire a comando, e adesso da morto è solo un'occasione. Viene da averne pena. Sotterriamolo e, senza dimenticare niente, lasciamolo lì.
«Un punto di equilibrio dell'Africa cancellato dall'Occidente al fine di esercitare il controllo sulle sue ricchezze Dopo l'indipendenza, si sono succeduti colpi di stato e il «regno» di Mobutu imposti dalle multinazionali». La tenebra di Conrad sta nelle ossessioni dei visitatori bianchi. Il manifesto, 15 ottobre 2013
Per motivi oscuri il Congo è preso spesso come termine di riferimento negativo per giudizi offensivi. Un classico è «baluba» usato come insulto da chi non sa nulla del popolo o regno luba (il prefisso «ba» o «wa» serve a qualificare il plurale di un etnonimo nelle lingue bantu). Si spiega forse anche così l'accanimento contro il ministro Cécile Kyenge, originaria appunto del Congo. E poco importa che la denigrazione risulti particolarmente fuori luogo perché, come documenta anche un importante libro sulla storia del Congo uscito di recente in francese (David Van Reybrouck, Congo, une histoire, Actes Sud), il Congo, a cominciare dal fiume che porta questo nome, appartiene all'eccellenza dell'Africa.
L'interfaccia con il Nord
Nelle sue varie conformazioni territoriali, statali o di bacino commerciale il Congo è stato uno dei poli attraverso cui nelle varie epoche l'Africa ha partecipato al sistema globale, sia pure come oggetto più che come soggetto. L'Africa, a differenza anche di paesi come Cina e India, non ha mai capeggiato un'economia-mondo. Con questi limiti, il Congo è stato al centro degli eventi dall'inizio dei rapporti fra Africa ed Europa con le imprese marittime dei portoghesi e poi nei secoli della tratta e finalmente con l'avvio della spartizione del continente nero.
Il primo vescovo nero consacrato a Roma nel Cinquecento veniva dal Congo: Henrique, figlio del re Affonso I. Gli storici della tratta valutano che un terzo di tutti gli schiavi trasportati nelle Americhe (4 milioni su 12) erano originari della regione congolese. Il possedimento personale di Leopoldo II aprì la «corsa» all'Africa e divenne il teatro delle peggiori rapine del colonialismo speculativo. Anche nell'indipendenza il Congo ha scontato la maledizione di essere il cuore malato dell'Africa. L'«anno dell'Africa» ha registrato la sua crisi più grave nel Congo. Nella fase della «rinascenza» negli anni Novanta il processo di democratizzazione o più semplicemente di cambio si è inceppato nel Congo con la cosiddetta prima guerra mondiale per il Congo, coinvolgendo sui due fronti una mezza dozzina di Stati.
L'Onu ha inaugurato le operazioni di pace nel Terzo mondo per far fronte alla secessione del Katanga nel 1960: Dag Hammarskjöld e Patrice Lumumba, i due attori principali di una trama finita in tragedia, non erano fatti per intendersi e sarebbero morti a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro, vittime dirette o indirette di una congiura su scala internazionale in cui l'Occidente toccò il fondo dell'ignominia. Ancora oggi l'Onu è presente nel Congo con una missione che per il numero degli effettivi impiegati non ha pari nel mondo ma senza venire a capo della lotta senza quartiere che suscitano le ricchezze di questo vero e proprio «scandalo geologico».
La «tenebra» che ispirò il genio narrativo di Joseph Conrad non era tanto nel Congo profondo quanto nello sguardo e nelle ossessioni dei suoi visitatori bianchi. Quando le atrocità commesse da Leopoldo II, che personalmente non ha mai messo piede nel suo Congo ma che contava su funzionari ligi alle sue direttive, non poterono più essere ignorate per le denunce di tanti missionari e del diplomatico-giornalista Roger Casement, alla cui vita sfortunata ha dedicato un libro Varga Llosa (Il sogno del celta), autori del calibro di Mark Twain, Arthur Conan Doyle e dello stesso Conrad diedero voce all'indignazione del mondo che «sapeva». Per calmare lo scandalo, Leopoldo II fu espropriato dal suo stesso governo ma, come dimostra Van Reybrouck, i belgi, anche se sostituirono il rigore ai capricci, non si dimostrarono tanto migliori di un sovrano avido e megalomane. La prova finale fu il passaggio delle consegne fra il Belgio e il governo indipendente il 30 giugno 1960. I preparativi - dalla «tavola rotonda» fra governo e partiti nazionalisti alle prime elezioni e all'ammainabandiera - durarono in tutto sei mesi. Al discorso di re Baldovino che sembrava scritto ai tempi della Conferenza di Berlino il capo del governo Lumumba, un nazionalista più che un rivoluzionario, rispose con una filippica che non si era mai sentita in simili cerimonie.
L'invenzione della cleptocrazia
Dopo il tradimento di Tshombe furono poste le premesse per la «restaurazione». Il Congo non poteva sfuggire al controllo dell'alta finanza. Tutto era pronto per il lungo «regno» di Mobutu: è stata coniata la voce «cleptocrazia» per definire un regime che, fra violenze, retorica dell'autenticità e corruzione, sfuggiva ai parametri della scienza politica. Quando fu necessario, gli Stati Uniti lasciarono cadere il Faraone d'Africa prima della Francia. Alle miserie non c'è mai fine. Malgrado le due elezioni del 2006 e del 2011 la legittimità di Kabila figlio, la stabilità del governo e la stessa integrità dello Stato sono ancora in bilico. Il Congo è una realtà in larga parte non avverata. Ci sarebbe bisogno invece del suo peso per bilanciare nella politica africana il duopolio conflittuale di Nigeria e Sud Africa, che non riescono a riempire il vuoto che dalle indipendenze degli anni Sessanta si è aperto in mezzo al continente.
I detrattori nostrani dei neri sarebbero sorpresi se leggessero questa pagina quasi conclusiva del libro dello storico belga già citato: «A Kinshasa (la capitale del Congo) sta crescendo una generazione per la quale gli europei sono più esotici dei cinesi. Esiste di nuovo un Congo di bambini che non hanno ancora mai visto un bianco nella realtà, proprio come alla fine dell'Ottocento». L'arroganza di chi è cresciuto al riparo della modernità coloniale potrebbe essere il segno che quel mondo così gratificante non esiste più mentre nessuno in Italia e forse in tutta Europa ha un'idea di quale politica adottare. Non per niente, ci sono anche illustri intellettuali che, senza saperlo, nutrono le stesse paure di Calderoli.
«Sudici. Oziosi. Lenti. In un saggio di Vito Teti, Maledetto Sud (Einaudi) gli stereotipi attribuiti ai meridionali. I quali spesso li adottano a modelli».
La Repubblica, 14 ottobre 2013
Non è semplice districarsi nell’ingorgo di parole rovesciate sul Mezzogiorno d’Italia e su chi vi abita. Si rincorrono denigrazioni e autocompiacimento. Fioccano stereotipi e antistereotipi che rumorosamente e poi stancamente si aggrovigliano. Ma il risultato paradossale è che questo vociare produce una forma di afasia: sullo stato delle regioni meridionali, salvo eccezioni (Gianfranco Viesti, Carlo Trigilia e Giovanni Valentini, autori rispettivamente di Il Sud vive sulle spalle del Nord che produce. Falso, Laterza, Non c’è Nord senza Sud, Il Mulino, e Brutti, sporchi e cattivi, Longanesi), negli ultimi tempi si ragiona e si indaga poco.
Vito Teti, antropologo dell’Università della Calabria, prova a rompere il cortocircuito e in (Einaudi, pagg. 131, euro 10) mette in fila i più diffusi fra quegli stereotipi, ne legge la storia e ne ribalta la scontata interpretazione. Prendiamo il sudiciume. L’immagine dei meridionali sporchi, che, giocando sull’ambivalenza del termine, vengono altrimenti detti “sudici”, risale all’immediato periodo postunitario. Una caratteristica che studiosi attenti come Napoleone Colajanni alla fine dell’Ottocento attribuivano alle condizioni di vita misere e alla malaria, in molta pubblicistica di matrice positivista diventa un’etichetta razziale, il sintomo di una inferiorità di tipo morale. Ma con l’emigrazione, annota Teti, cresce il rilievo attribuito alle condizioni igieniche. All’inizio del Novecento, chi torna dal Belgio, dalla Svizzera e dalla Germania costruisce quelli che chiamano “rioni degli americani”: casette intonacate di bianco, con i bagni e le fogne, costruzioni che si affiancano ai tuguri nei quali si vive a contatto con le mucche e i maiali. Sono «mutamenti di costume e di mentalità, prima che di ordine pratico, che comunque sfatano il luogo comune della sporcizia e del sudiciume delle popolazioni», annota Teti. Nel secondo dopoguerra verranno gli acquedotti costruiti dalla Cassa per il Mezzogiorno. Ma che nel Sud Italia abitino esseri umani luridi per destino naturale lo ribadisce il deputato leghista Matteo Salvini in un video che ha furoreggiato in rete: «Senti che puzza, scappano anche i cani. Sono arrivati i napoletani. Son colerosi e terremotati. Con il sapone non si sono mai lavati».
Il lavoro di Teti non si esaurisce nello smontaggio di un odioso stereotipo a carico dei meridionali, operazione condotta con il racconto, con la memoria, con esperienze di studioso e di camminatore e poi attingendo a una corposa letteratura (Corrado Alvaro ha un posto di rilievo). La decostruzione prosegue interrogandosi su come i meridionali fronteggino questi modelli che si vorrebbe applicare loro quasi fossero un marchio a fuoco. E la risposta è analitica e per niente assolutoria. Le montagne di rifiuti che hanno insozzato le strade di Napoli e del napoletano, per esempio, «hanno finito con il conferire verità a uno dei più noti stereotipi antimeridionali ». Una maledizione che si nutre di «una sporcizia da elevare a emblema di una psicologia primitiva». Come se al Sud si fosse deciso che lo stereotipo negativo andasse interiorizzato e ad esso ci si dovesse uniformare. Ci volete così? Eccoci qui, eccovi serviti.
La vicenda dei rifiuti è un dramma. La maledizione è dilunga durata. E ne sono responsabili gruppi dirigenti nazionali e locali. Le immondizie accatastate e bruciate a Napoli alimentano il furore leghista e però nascondono il traffico di rifiuti tossici che per anni dalle industrie del Nord sono stati sversati nel casertano ad opera della camorra. «L’incontro tra il peggiore Sud e il peggiore Nord», chiosa Teti. Il Sud e il Nord condannati a riconoscersi nel loro conflitto.
Accanto al sudiciume ecco l’ozio: ai meridionali non piace lavorare, si sente dire. Teti ritorna con la memoria al suo paese in Calabria, dove tutti i suoi compagni di classe appena potevano emigravano a Toronto (a Toronto c’era anche suo padre) e dove «le persone, condannate alla fatica e alla sobrietà, solo in occasioni eccezionali, per qualche ora, potevano abbandonarsi ai bagordi». Inoltre la critica dell’ozio figura fra i capisaldi polemici dell’illuminismo napoletano (Ferdinando Galiani, Giuseppe Maria Galanti...). E semmai oziosi lo diventavano quei meridionali affranti dalla disoccupazione. A un certo punto, però, per un complesso intreccio di politica e clientele, si è andata affermando «l’idea che convenisse oziare o fuggire e che il fare, in quelle situazioni, diventasse più improduttivo nel non fare». Tanto ci avrebbe pensato l’assistenzialismo. Anche in questo caso, fra falsi invalidi, eserciti di forestali e di dipendenti regionali, «lo stereotipo del meridionale ozioso diventa quasi una maledizione che si avvera».
Lo stereotipo genera in molti di coloro che lo subiscono «una psicologia da assediati». Si accentuano i localismi, i risentimenti, con tutti e due i piedi si finisce nelle trappole identitarie. Anche la malinconia diventa vizio rancoroso. Matura «un razzismo di rimessa». Tanta saggistica e tanto cattivo giornalismo, denuncia Teti, invece di rovesciare i luoghi comuni, creano pretesti per la formazione di autostereotipi. E così «il Sud e il Nord vengono privati della loro normalità e anche della loro vocazione all’apertura e alla complessità».
Una complessità che Teti rivendica anche quando decodifica gli stereotipi edulcorati, pittoreschi, folklorici. Il Mezzogiorno come luogo dell’esotismo opposto alla praticità del Settentrione. Il Mezzogiorno genuino, incontaminato, isola scampata alla modernità, spazio del mangiar sano. Il Mezzogiorno come deposito storico di quelle virtù dalla lentezza alla dieta mediterranea - che non si vuole celebrare solo come alternative a certa attualissima ingordigia consumista, ma che si immagina eredità di un passato del tutto fantasioso. In ogni caso, spiega Teti, quando si costruisce un’immagine del Mezzogiorno senza sfumature, senza contrasti, senza differenze al suo interno - una cosa sono i caotici agglomerati urbani della costa, un’altra i lindi paesi dell’interno appeninico -, un Mezzogiorno da scoprire come un atollo del Pacifico, si dà vita a un’architettura leggendaria, «quasi sempre incapace di fornire un’elaborazione che non sia di reazione allo sguardo esterno». Il tutto come se non ci fossero state, tanto per indicarne una, le indagini di un Ernesto De Martino.
La conclusione di Teti è altrettanto argomentata quanto la diagnosi. La denigrazione incrementata dal razzismo si può arginare raccontando a se stessi «le verità scomode, anziché negarle o farcele rinfacciare con cattiveria dagli altri». E assumendo un lucido abito intellettuale, come insegnano Dante e Machiavelli, Guicciardini e Leopardi. A quel punto si possono anche ribaltare gli stereotipi in positivo. Compresa la malinconia e persino l’ozio.
Ai vecchi tempi si sarebbe parlato di una manifestazione pacifica e di massa. E quella di ieri in difesa della Costituzione è stata davvero una grande manifestazione di popolo. Non solo perché decine e decine di migliaia di persone hanno riempito la bella piazza romana occupando la larga cornice delle porte laterali fino alla sommità del Pincio (e pure la quantità conta moltissimo). Ma perché sul grande palco che riuniva gli organizzatori c'era la più evidente fotografia della novità politica rappresentata: i costituzionalisti di Rodotà insieme alla Fiom di Landini coinvolti, in forma pubblica e organizzata, in un percorso che lì in quella piazza stracolma riceveva il suo battesimo. Come hanno detto in molti, è solo l'inizio. Un buon inizio.
A proposito dei resti, morali e materiali, dell’autore della strage delle Fosse ardeatine.
La Repubblica, 12 ottobre 2013
LA CHIESA si rifiuta di celebrare i suoi funerali, l’Argentina respinge la salma, Roma gli nega la sepoltura. Priebke è morto e nessuno lo vuole. Il suo corpo, quel corpo di vecchio che lui nelle uscite con la badante si studiava di mantenere eretto come si conveniva a un ufficiale delle SS, ora è composto nella bara.
Ma in quella morte non c’è nessuna pace. La sorte di quel cadavere rischia di diventare un incubo. Dove sarà sepolto? Questa era stata la prima domanda che ci si era posti. E la risposta era stata: in Argentina, dove aveva vissuto per mezzo secolo indisturbato. Era un desiderio più che una risposta, dettato dal senso della speciale sacralità del suolo italiano e romano dove riposano le vittime delle Fosse Ardeatine. E invece no, l’Argentina non lo vuole. Così è cominciata una storia che promette di essere una strana ma importante cartina di tornasole di abitudini antiche e di problemi nuovi. Qui sono presenti e in conflitto l’opinione pubblica, le regole civili e le norme ecclesiastiche. L’esecrazione per l’uomo che ha ucciso i martiri delle Ardeatine ma poi ha negato di averlo fatto, ha mentito sulla Shoah sapendo di mentire e ha continuato lui vivo a infangare la memoria delle sue vittime, è un sentimento talmente forte che solo la vecchiezza estrema dell’antico uccisore di inermi ha potuto stemperarla: con la sua morte è rimasto a tutti solo il desiderio di dimenticarlo al più presto.
In Italia si seppellisce quasi sempre con rituale religioso. Pochi lo rifiutano. E la Chiesa non nega praticamente mai le esequie ecclesiastiche: non sono più i tempi in cui le ceneri degli eretici mandati al rogo erano disperse nell’acqua del Tevere o i protestanti e gli ebrei venivano sepolti furtivamente a notte lungo il Muro Torto. Per gli italiani i funerali in chiesa fanno parte di un loro speciale cristianesimo diventato abitudine e normalità anche per molti non credenti. Tanto è vero che non esistono da noi luoghi deputati per un rito laico dell’ultimo saluto. Anzi, come ha detto l’avvocato di Priebke Paolo Giachini, quelli religiosi sono un diritto di tutti.
Ma il Vicariato ha detto no e la decisione nella diocesi che ha per vescovo l’argentino Bergoglio diventato Papa Francesco deve essere stata attentamente meditata e non presa a caso. Cerchiamo di affidarci al codice di diritto canonico per capire meglio. Qui si elencano molte categorie a cui deve essere negata la sepoltura ecclesiastica: eretici, apostati, scomunicati e altro ancora, persone che fino all’ultimo, consapevolmente, senza pentirsi, abbiano negato e combattuto la dottrina della Chiesa e si siano esplicitamente a lei dichiarati avversi. Ma c’è un caso recente che tutti hanno in mente e che forse ci può aiutare a capire come funzionino queste regole: quello di Giorgio Welby. La sua ferma e consapevole rinuncia alle cure e l’espressa volontà di far staccare la macchina che lo aiutava a respirare lo rese agli occhi del Vicariato di Roma ribelle lucido e consapevole alla dottrina della Chiesa contro il suicidio e l’eutanasia e dunque indegno di funerali religiosi. Fu per molti un dramma, una lacerazione delle coscienze: ma come, la Chiesa non perdona? Toccò al cardinal Ruini allora vicario della città di Roma spiegare che la Chiesa poteva concedere il rito religioso anche ai ribelli alla dottrina ortodossa (in quel caso ai suicidi) purché si potesse accampare il dubbio che fossero mancati in loro « piena avvertenza e deliberato consenso». Ecco il punto: Welby fino all’ultimo e con piena lucidità rifiutò di riconoscersi in quella religione che gli imponeva di vivere a forza, attaccato a una macchina. La sua scelta espresse le convinzioni di molti e fu comunque oggetto di grande e diffuso rispetto; quella del vicariato invece apparve gelidamente crudele.
Ma Priebke? Su di lui a differenza che nel caso di Welby, la condanna del vicariato va d’accordo col giudizio unanime dell’opinione pubblica. Priebke fino all’ultimo ha rifiutato di pentirsi di ciò che aveva fatto e ha mantenuto ferme con «piena avvertenza e deliberato consenso» le convinzioni che lo avevano portato alla strage delle Fosse Ardeatine. Ecco il punto fondamentale: oggi una diocesi di Roma non più governata dal vicario cardinal Ruini ma dal vescovo Bergoglio – papa Francesco, ha voluto dare il segno che ci sono peccati così gravi da imporre il rifiuto dello spazio sacro per il rito funebre. Si dovrà dunque riscrivere a partire da questo segno il patto italiano di convivenza e sovrapposizione tra abitudini sociali e riti religiosi cristiani. E comunque il senso del peccato imperdonabile che è per l’opinione pubblica la rivendicazione impenitente della strage delle Fosse Ardeatine coincide, a quanto pare, con la sentenza del vicariato cattolico di Roma.
Resta la necessità di una sepoltura di quel corpo: la più rapida e discreta possibile, ma pur sempre una sepoltura. Su questo si deve essere chiari. Non è degno di una società civile infierire sui corpi dei morti: e se l’Italia è stata così civile da offrire al criminale Priebke un processo secondo le regole e una pena attenuata e quasi cancellata in ragione della sua età, non sarà certo il caso di fare passi indietro su questo percorso. Del morto Priebke vorremmo non dover parlare più se non in sede di analisi storica, per conoscere meglio i meccanismi che hanno fatto di uomini comuni come lui la banda di assassini di cui è stato membro e per ragionare sulla storia che abbiamo alle spalle – per far sì che non si ripeta più. Ma non c’è dubbio che un corpo umano debba essere sepolto. Non solo perché questo è ciò che dalla preistoria in poi ha distinto la nostra specie dalle altre specie animali. Anche perché sarà la sepoltura, che ci auguriamo nella notte e nell’ombra, a chiudere alle nostre spalle la storia di una vita di vile ed efferata ferocia e ad allontanare da noi per sempre quella vivente provocazione che era la passeggiata dell’uomo nella città da lui insanguinata.
Riflessiamo sulla perdità di libertà e futuro che pagheremmo se ci facessimo davvero convincere che alternative non sono possibili. L
a Repubblica, 12 ottobre 2013
ESISTE un gioco che a molti esperti pare astruso, o perché superfluo o perché poco serio e fuorviante. È il gioco della storia che si fa con i se: che ha dunque come oggetto non solo il mondo com’è stato fatto – come ci sta davanti – ma come avrebbe potuto essere, se invece di imboccare una strada ne avesse presa un’altra. Declinato al presente è più di un gioco: è un esercizio intellettuale che mette il pensiero in movimento, un metodo per guardare all’oggi come a una storia che possiamo scrivere in un modo o nell’altro, non dipendendo il suo svolgimento da forze impersonali ma dalla persona che ciascuno di noi è.
Così per l’Europa. L’Europa può andare in una direzione oppure un’altra, affatto diversa. È tutta piena di questa congiunzione ipotetica – il se – e nuove e impreviste possono essere le risposte alle domande che ci facciamo: di quale Europa stiamo parlando? Come definire la sua necessità, il suo dover essere? Qual è il patrimonio che si vuol difendere? E soprattutto, da qualche anno: come trasformare la rabbia che sta suscitando prima in bisogno («qualcosa mi manca» – «per ottenere quel che voglio occorre passare di lì»), poi in progetto?
Sia detto per inciso: l’Europa non sarebbe stata pensata in un certo momento – nel mezzo d’una guerra, mentre la Germania piegava il continente – se qualcuno non avesse cominciato a immaginare un «se» ritenuto improponibile e fuorviante dai più. Il metodo, oggi, consiste nel chiedersi come sarebbe il mondo che viviamo, se la crisi che ha lambito l’Europa, cinque anni fa, fosse stata affrontata in modo differente. In genere, gli storici guardano con un certo disprezzo a questi esercizi mentali: la storia, dicono, non essendoci contemporanea non si fa con i se. Non esiste la storia virtuale. Studiare i se della storia è utile, per capire qualcosa di fondamentale. È esistito sempre (esiste sempre) un attimo, un punto di svolta e d’incertezza, in cui l’alternativa era possibile, in cui gli eventi avrebbero potuto prendere un’altra piega: perché la storia è fatta di pieghe, e le pieghe ci interessano quasi più della cronologia, che ci presenta un tessuto già stirato a puntino dai posteri o dai vincitori. Nella Germania prehitleriana si poteva fare una politica antirecessiva, al posto dell’austerità applicata dal governo Brüning, e forse Hitler non avrebbe ottenuto nel ’33 consensi così spettacolari. Oppure: gli americani avrebbero potuto rifiutare accordi con la mafia siciliana, quando liberarono il nostro paese dal fascismo, e la storia italiana del dopoguerra sarebbe stata diversa, forse non staremmo ancora a parlare di patti fra Stato e mafia. E via ipotizzando e usando i se, i forse, i congiuntivi, i condizionali.
L’Europa com’è andata sviluppandosi dal 2008 in poi si presta assai bene a quest’esercizio mentale. I modi in cui la crisi viene ormai da anni gestita – dai governi in primis, e dalle autorità di Bruxelles che tendono a esprimere le volontà non dell’intera area che rappresentano ma dei paesi più forti – sono molto singolari: è come se non stessimo facendo la storia, ma vivessimo conficcati dentro una storia predeterminata.
È questo che rende così insopportabile il mantra che sentiamo ripetere: «Non c’è alternativa ». È una locuzione adeguata agli eventi quando sono trascorsi, e scritti in un certo modo. Quando si condensano in una narrazione teleologica, finalistica, e tutti i «se» vengono scartati come futili o idealisti. Nulla si può cambiare, neanche lontanamente sono ipotizzabili alternative. E non a caso è così in voga questa parola: Narrazione. La Narrazione è predefinita, l’autore può magari tenerci con il fiato sospeso – per esempio quando scrive un giallo – ma lui sa come andranno a finire le cose, chi è il colpevole e chi il vincitore o l’innocente o l’eroe. Mentre noi no, queste cose non le sappiamo: per nostra fortuna possiamo prenderci la libertà di sbizzarrirci e questa virtualità è una nostra fortuna. Così la Narrazione della nostra crisi: gli autori del giallo europeo hanno iscritto nella scaletta le cure di austerità, la divisione fra centro (Germania essenzialmente) e periferie sud, anche il disfarsi della democrazia e delle costituzioni nazionali, visto come ineluttabile danno collaterale di una stabilità politica eretta a nuovo valore etico incondizionato (questo significa la locuzione «valore assoluto », recentemente impiegata dal Presidente del Consiglio). La frode è questa scaletta, che non solamente è inconfutabile ma ha la pretesa di raggiungere una vetta (l’Europa politica padrona di sé) con mezzi rigorosamente inadatti a scalarla.
La frode è quest’hegeliana certezza che il presunto razionale sia reale, e il presunto reale razionale. La storia non la stiamo fabbricando con le nostre mani, perché già è messa nero su bianco. Questo vero e proprio assassinio del possibile è la principale caratteristica dell’Europa quale oggi esiste, e si può capire l’indignazione che suscita, e anche la rabbia e il rigetto. Chi si arrabbia, chi perde la pazienza e «non ci crede più» – gli euroscettici è il nome che hanno avuto per un certo tempo, oggi si parla di populisti – sono i soggetti della storia in cui forse c’è da sperare. Se non esistessero – se non esistesse una crisi che si acuisce – non staremmo a interrogarci sul bisogno o non bisogno d’Europa. La rabbia dei cittadini è un’opportunità che ci viene data, come è un’opportunità lo spread. La rabbia stessa è spread, non finanziario ma umano: è scarto fra i cittadini e l’idea di Europa, fra popoli e istituzioni democratiche, sia nazionali che europee. È reazione a un patto sociale violato, a un patrimonio negato. Quando penso a questo tipo di spread, mi torna in mente l’Uomo senza Qualitàdescritto da Musil alla luce crepuscolare di un’altra grande idea che stava degenerando: quella dell’impero austro-ungarico. Ulrich, l’Uomo senza Qualità, definisce se stesso un Möglichkeitsmensch, un uomo della possibilità – un possibilitario – che non smette d’innervosirsi davanti al cosiddetto senso della realtà, della «cose come sono».
Vorrei citare il passaggio in questione, perché nell’ordine dei verbi toglie il monopolio all’indicativo, restituendo dignità ai condizionali, ai congiuntivi, al controfattuale: «Chi è dotato del senso della possibilità non dice ad esempio: “Qui è accaduto, accadrà o deve accadere questo oppure quello”, bensì: “Qui potrebbe o dovrebbe accadere un certo evento”. E se, di una cosa qualsiasi, gli si spiega che è come è, allora penserà: “Certo, ma potrebbe benissimo essere diversa”. Quindi, il senso della possibilità è addirittura definibile come la capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere, e di non ritenere ciò che è più importante di ciò che non è (...). La vita di questi uomini della possibilità è tessuta, si potrebbe dire, con un filato più sottile, un filato fatto di fumo, immaginazione, fantasticherie e congiuntivi; quando un bambino manifesta una simile tendenza, gliela si fa passare con metodi energici e, davanti a lui, quegli individui vengono definiti visionari, sognatori, codardi e saccenti o criticoni. Chi vuol lodare quei matti, li definisce anche idealisti».
Dicono Grillo e Casaleggio, Capi dei grillini, rinnovatori della politica e predicatori della "nuova democrazia":«se avessimo sostenuto l'abolizione del reato di clandestinità - in campagna elettorale avremmo avuto percentuali da prefisso telefonico».
il manifesto, 11 ottobre 2013
Eppure nelle parole di Grillo e Casaleggio c'è qualcosa di peggio, la dimostrazione di quanto sia strumentale la loro politica: se avessimo sostenuto l'abolizione del reato di clandestinità - sostiene il tandem Grillo-Casaleggio - in campagna elettorale «avremmo avuto percentuali da prefisso telefonico». Il cuore della questione è tutto qui: il calcolo elettorale per inseguire le peggiori pulsioni popolari, incubatrice del razzismo, dell'indifferenza verso gli ultimi della terra.
Grillo ha sicuramente buoni maestri su questo terreno. Non solo in Italia, ma anche Oltralpe. Come Le Pen padre, e ora la figlia Marine accreditata dai sondaggi francesi come la possibile carta vincente in una futura elezione presidenziale. Se il Movimento 5Stelle assumesse una posizione protezionista e anti-immigrazione si allineerebbe al lepenismo e al leghismo. Senza se e senza ma. Saremmo quindi in presenza, in Italia, di una nuova destra che mette insieme l'antipolitica, il disprezzo verso i partiti (tutti ladri, tutti uguali), la paura verso l'immigrazione, il qualunquismo sociale (occupazione, sanità pubblica, welfare non interessano), l'assenza di democrazia interna sostituita da una taumaturgica Rete, il Movimento guidato dal padre-padrone e da un presunto ideologo.
È interessante l'accusa che rivolgono ai loro parlamentari accusandoli di essere dei piccoli Stranamore. Proprio loro, Grillo e Casaleggio, così simili al personaggio del film di Kubrick, con quel miscuglio di buffoneria e fanatismo nelle virtù salvifiche della tecnologia. Una specie di trasferimento freudiano sul corpo parlamentare dei tic che li hanno resi leader famosi.
Che Grillo avesse una scarsa considerazione dei suoi deputati e senatori ormai lo avevamo capito. Ora sappiamo anche in quale conto tiene gli elettori del Movimento. E in ogni caso dovrebbero dire la loro i tanti parlamentari che vengono da movimenti, associazioni, partiti di sinistra dove la cultura della solidarietà ha sempre avuto un ruolo primario. E potrebbero rispondere ai tanti elettori che hanno votato 5Stelle in nome del cambiamento. È cambiamento respingere donne incinte, bambini, ragazzi, uomini che lasciano tutto con la speranza di tornare a vivere? Ma Grillo lo sa che milioni di italiani, ben prima dei tunisini, degli eritrei, dei somali sono andati in giro per il mondo per cercare fortuna, lavoro, pace?
L'ecatombe di Lampedusa, il sacrificio disumano che in quel mare si è compiuto, sta facendo venire a galla, insieme ai poveri resti, anche il fondo violento e pericoloso del qualunquismo populista. Che va compreso e combattuto prima che si trasformi in un'alba dorata italiana.
«Non è difficile vedere negli anni Ottanta la corposa incubazione della stagione successiva, con il radicale modificarsi dei rapporti di lavoro e il dominio di un sistema dei media sempre più invasivo e distorsivo».
La Repubblica, 10 ottobre 2013
Un primo ventennio vi è certo stato, nel Novecento italiano, ed ha coinciso con un regime: ha devastato e sepolto l’Italia liberale, e sulle sue ceneri è nata la Repubblica.
Qui però le questioni si complicano: ove si guardi alla storia politica il 1945 è una cesura indubbia ma lo è anche per la storia economica o per quella sociale e del costume? Con il procedere dei decenni, poi, le periodizzazioni ci appaiono via via più discutibili e meno rigide, più ricche di contaminazioni e ambiguità. È sicuramente facile identificare la fase della Ricostruzione, segnata anche dalla guerra fredda (e dal centrismo in politica), o quella del miracolo economico (e del primo, più fecondo centrosinistra). Una grandissima trasformazione, il nostro “miracolo”: ha riguardato economia e consumi, culture e immaginari, geografia sociale e produttiva, modalità dell’abitare e del vivere, sino al rapporto fra religione e laicità o all’attuazione di una Costituzione troppo a lungo “congelata”: non c’è parte del nostro vivere collettivo che non sia stato segnata in profondità dal breve e tumultuoso scorrere di quegli anni. Una «mutazione antropologica», per dirla con Pier Paolo Pasolini.
Da lì in poi le periodizzazioni proposte di volta in volta lasciano invece molti dubbi, a partire da quella “stagione dei movimenti” che il ’68 avrebbe innescato e che rischia di coprire col suo manto anche pulsioni corporative o localistiche. E che confluisce in anni settanta variamente messi agli atti come stagione delle riforme o – per altri e opposti versi – della strategia della tensione e poi degli anni di piombo. Definizioni che alla lunga distanza appaiono molto parziali mentre sembra ingigantirsi invece la cesura di cui sono simbolo alla fine del decennio i funerali di Aldo Moro: quasi “funerali della Repubblica”, come è stato scritto. Spartiacque fra un “prima” e un “dopo” nel modo di essere della società e della politica. Di lì a poco, nello sconfitto rifluire del terrorismo, diventeranno sempre più visibili i guasti che stanno corrodendo istituzioni e partiti«muore ignominiosamente la Repubblica», scriveva il poeta Mario Luzi.
Non è difficile cogliere infine negli anni Ottanta anche la corposa incubazione della stagione successiva: con il radicale modificarsi dei luoghi di lavoro e dei ceti sociali, l’irrompere di nuove culture (o inculture), il dominio di un sistema dei media sempre più invasivo e distorsivo, e sempre più intrecciato alla politica. Con la crisi, non solo italiana, dei partiti basati sull’appartenenza e la militanza. Ma anche con il degradare delle istituzioni, con un salto di qualità nella corruzione politica, con lo sprezzo crescente dei valori collettivi. Solo un anticipo di quel che avverrà poi, scandito e accentuato dal tracollo del panorama politico precedente, dall’affermarsi prepotente del partito mediatico e personale, dall’erosione quotidiana della legalità e del diritto. Da questo punto di vista è certo lecito parlare di ventennio berlusconiano ma c’è da chiedersi se abbiamo avuto davvero una “seconda repubblica”.
Per avere qualche dubbio è sufficiente uno sguardo alla Francia: lì la “numerazione” delle repubbliche è scandita da grandissimi traumi (la Rivoluzione, il 1848, la Comune di Parigi, l’occupazione nazista, la crisi algerina), seguiti da profonde modifiche istituzionali. Davvero un’altra cosa, e per molti versi è utile cogliere invece le radici dell’ultimo ventennio: ci aiuta a capire meglio con quali e quante macerie dobbiamo ora fare i conti. Quanto sia lunga e difficile la nuova Ricostruzione che ci aspetta.
«È tempo di liberare la politica e la vita stessa delle persone dalle pesanti ipoteche, dell'ossessivo riferimento alle sole ragioni dell'economia con consapevolezza piena del fatto che la lotta per i diritti è parte integrante e irrinunciabile della costruzione di una democrazia costituzionale».
Il manifesto, 9 ottobre 2013
In Italia il riferimento ai beni comuni ha assunto tratti particolarmente forti quando, nel giugno del 2011, ventisette milioni di cittadini hanno votato contro la privatizzazione dell'acqua e la considerazione dei servizi idrici come fonte di profitto. Ma questa imponente manifestazione della volontà popolare non ha incontrato soltanto la resistenza degli interessi dei soggetti direttamente coinvolti, cioè i gestori dei servizi. Si è dovuta scontrare anche con tenaci resistenze pubbliche, tutt'altro che scomparse, che hanno finito con l'assumere persino tratti di illegalità, tanto che la Corte costituzionale è dovuta intervenire per imporre il rispetto del risultato referendario. L'antica profezia di Tocqueville, che già prima del Manifesto dei comunisti aveva indicato nella proprietà «il gran campo di battaglia» dei tempi a venire, trova così continue conferme.
Qui è oggi la radice del conflitto, divenuto nell'ultima fase particolarmente acuto. La proclamata fine delle ideologie, delle grandi narrazioni, nella realtà è stata intesa e praticata come nascita di uno spazio nel quale ha potuto insediarsi l'unica narrazione ritenuta legittima, quella del mercato, che in tal modo si è via via «naturalizzato» e ha assunto le forme dell'unica regola accettabile. Su questo dovrebbero riflettere i critici di quella che definiscono l'irrealistica ideologia dei diritti. Il riferimento ai diritti fondamentali, infatti, non solo incorpora princìpi fondativi e irrinunciabili come quelli di eguaglianza e dignità, ma concretamente si presenta sulla scena globale non come ideologia, ma come concreta narrazione che unisca persone e luoghi, che percorre il mondo in forme inedite, incontra sempre più nuovi soggetti, costruisce un diverso modo d'intendere l'universalismo, fa parlare lo stesso linguaggio a persone lontane, e così fa scoprire un mondo nuovo e appare come la vera, grande, drammatica narrazione comune del nostro presente.
Una conferma possiamo trovarla ancora sul terreno del lavoro, dove il conflitto determinato dalla pretesa di affidare tutto alla logica di mercato è più evidente, dove l'asimmetria tra i poteri è stata amplificata dalla crisi economica, dove si sono così ridotti gli spazi della stessa azione sindacale. È significativo allora che, di fronte ai ripetuti interventi con i quali la Fiat ha preteso di cancellare diritti dei lavoratori, la Fiom abbia scelto la via della tutela della legalità attraverso il ricorso ai giudici, con risultati che né la sola azione sindacale, né la flebile politica erano riusciti a ottenere. È una lezione di realismo, e un motivo di meditazione, per chi ritiene che ci si debba affidare sempre e solo alla politica, mentre è del tutto evidente che proprio una intransigente difesa dei diritti, e una consapevole alleanza con essi, possono restituire alla politica le sue ragioni. I diritti non sono altro rispetto alla politica, ne sono parte costitutiva.
I fantasmi della sicurezza
L'orizzonte globale non è dominato soltanto dall'imperativo economico, con il mercato che si sostituisce alla società. Un altro imperativo, quello della sicurezza, guida la trasformazione verso una società planetaria della sorveglianza e del controllo. Lo spazio costruito dalla tecnologia, con Internet che si presenta come il più grande spazio pubblico conosciuto dall'umanità, viene continuamente eroso dal combinarsi delle spinte degli interessi di soggetti imprenditoriali privati e di soggetti pubblici che vogliono impadronirsi delle persone e della loro vita attraverso le informazioni.
Così, le ricorrenti affermazioni sulla morte della privacy, sulla sua scomparsa come regola sociale, pur rispecchiando dinamiche effettive, nella realtà assumono un tono perentorio proprio per offrire una legittimazione materiale alle raccolte di dati personali senza confini e regole. Bisogna essere consapevoli, allora, del fatto che, quando si certifica la scomparsa della privacy, in realtà stiamo accettando la scomparsa di una delle dimensioni, la più importante a dire di molti, della libertà dei contemporanei, espropriati non solo della riservatezza, ma di diritti fondamentali, della costruzione autonoma dell'identità. Non a caso l'indignazione ha percorso il mondo dopo le rivelazioni legate alla diffusione di documenti americani riservati da parte di Wikileaks e alla conferma, più che alla scoperta, della rete planetaria di controllo con la quale gli Stati Uniti hanno avvolto il mondo.
Per molte vie, dunque, la negazione dei diritti mostra come sia sotto attacco la vita stessa, con effetti che possono riguardare l'antropologia delle persone, trattate come puri oggetti. Proprio intorno alla vita si coglie con nettezza il congiungersi dei diversi diritti, e la ragione della loro indivisibilità, non affidata soltanto a un riconoscimento normativo.
Si consideri, esempio tra i tanti, la condizione dei bambini. Di recente in Germania si è riconosciuta l'azionabilità del loro diritto alla scuola materna e a Napoli è stata ritenuta legittima l'assunzione di insegnanti per assicurare proprio questo diritto anche in deroga ai vincoli di bilancio. Trova così riconoscimento, fin dall'inizio, quel diritto al libero sviluppo della personalità che si specifica ulteriormente come diritto all'autodeterminazione, all'autonomia nel governo della propria vita, che deve essere sottratto alla tirannia economica. E qui s'incontrano le questioni complesse della bioetica e del biodiritto, che impongono di considerare possibilità e limiti del ricorso alle opportunità di intervento sul proprio corpo messe a disposizione dalla tecnoscienza.
Liberare la vita delle persone
Ma questa più intensa riflessione intorno alla persona e ai suoi diritti deve essere condotta in forme che tengano sempre ferma l'essenziale importanza del legame sociale, la cui rilevanza è espressa non soltanto dai riferimenti alla solidarietà. Tema capitale è quello dell'accettazione della diversità, meglio di un pieno riconoscimento dell'altro che vada al di là dello schema classico della tolleranza e si manifesti come accettazione e inclusione. Mentre questa si presenta in un numero crescente di Paesi come una linea maestra in materia di diritti, in Italia assistiamo da qualche anno a un ritorno pubblico di omofobia, razzismo, discriminazione. Sembriamo incapaci di vincere le «politiche del disgusto» per lasciare il posto alle politiche dell'umanità.
Pur con diversi caratteri, il riduzionismo in materia di diritti incarna da qualche anno le politiche europee, con il loro ossessivo riferimento solo alle ragioni dell'economia. Così non viene soltanto tradita la promessa fatta nel 2000 con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Viene amputata la stessa dimensione istituzionale dell'Unione, poiché l'articolo 6 del Trattato di Lisbona ha stabilito che, dal 2009, la Carta «ha lo stesso valore giuridico dei trattati».
È tempo di liberare, insieme, la politica e la vita stessa delle persone da queste pesanti ipoteche, con consapevolezza piena del fatto che la lotta per i diritti è parte integrante e irrinunciabile della costruzione di una democrazia costituzionale.
Quattro considerazioni, acute e amare, sulle reazioni del Potere alla strage dei “clandestini” in cerca d’asilo.
La Repubblica, 9 ottobre 2013
INUTILE parlare di Europa madrepatria della democrazia, e proclamare nella sua Carta dei diritti che siamo «consapevoli del suo patrimonio spirituale e morale», dei suoi «valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà », quando tutto in noi pare spento: tutti i miti che fanno la nostra civiltà, assieme ai tabù che la sorreggono.
E tra i primi forse il mito di Antigone, senza il quale non saremmo chi siamo. Oppure la solenne legge del mare, che obbliga a salvare il naufrago, quasi non esistesse peggiore sciagura delle acque che si chiudono mute sull’uomo. Il mare è senza generosità, scrive Conrad: inalterabile, impersona l’«irresponsabile coscienza del potere». Sono uniti, i due miti, dalla convinzione che fu già di Sofocle: la norma superiore cui Antigone ubbidisce – fissata da dèi arcaici, precedenti gli abitanti dell’Olimpo – il re di Tebe non può violarla, accampando la convenienza politica e le proprie transeunti idee di stabilità. È norma insopprimibile, e Creonte che antepone il diritto del sovrano, il nomos despòtes, paga un alto prezzo.
Così la legge del mare. Quando sfoggia vergogna, l’Europa suol cantilenare, come dopo Auschwitz, una sua frase inane ma contrita: «Mai più!» Inane perché contempla il passato, non il presente. Ma almeno è contrita. Oggi nemmeno questo: il «mai più» neanche è pronunciato, la violazione è attribuita a cieca fatalità e si esibisce impudica. Un ministro – si chiama Angelino Alfano, già ignorò il diritto d’asilo nell’affare kazako – sta sul bordo del mare e dice che i 232 morti sottratti alle acque di Lampedusa non saranno gli ultimi: «Non c’è ragione per pensare e per sperare che sarà l’ultima volta».
Colpisce il divieto di pensare, più ancora di quello di sperare. Neanche pensare possiamo, che l’Europa sia qualcosa di diverso da un fortilizio militarizzato. Che stiamo lì per difendere non solo un muro di cinta, ma gli esseri umani che disarmati provano a valicarlo. Per il ministro, ben altra è la questione amletica: dobbiamo sapere «se l’Europa intenda difendere la frontiera tracciata dal trattato di Schengen. Uno Stato che non protegge la sua frontiera semplicemente non è. L’Europa deve scegliere se essere o non essere».
Quattro considerazioni, a questo punto.
Seconda considerazione: l’Europa ha sue responsabilità, ma l’Italia non ne ha di minori. Il reato di clandestinità, introdotto nel 2009 dal governo Berlusconi, definisce un crimine in sé l’esodo senza permessi anticipati. Di qui la parentela con la guerra: come se il clandestino fosse un combattente irregolare e specialmente insidioso, perché non combatte a viso scoperto, indossando l’uniforme, ma conduce una sorta di guerriglia che si confonde e confonde. Ecco la legge di Tebe che si sovrappone alla norma di Antigone. La sicurezza e la stabilità – quest’ultima è addirittura eretta da Enrico Letta a «valore assoluto » , nuovo non negoziabile articolo di fede – esigono sacrifici e morte. Il migrante, bollato, è un pericolo sociale. La Corte Costituzionale s’oppose (sentenza n. 78/2007), escludendo che lo stato d’irregolarità sia sintomo presuntivo di pericolosità sociale; ma il reato appena ritoccato (scompare la pena detentiva) resta. Fin dal 2002 la legge Bossi-Fini preparò il terreno: ingiungendo il respingimento immediato del migrante (poco importa se restituito o no alle dittature cui scampava) e rendendo impraticabili le procedure di concessione di asilo. Di qui il pervertirsi della norma instaurata prima ancora che Cristo nascesse – Soccorrere è un dovere, non soccorrere è un reato — iscritta nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati come nella Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione (art. 18). Non soccorrere è peccato di omissione, e più precisamente crimine di indifferenza. Che senso ha dire «mai più», se non vediamo che il delitto di clandestinità per forza incentiva l’omissione di soccorso. Chi aiuta il naufrago incorrerà in processi e pene per favoreggiamento del reato, e preferirà voltare lo sguardo altrove. È già successo. Nei paesi occupati dai nazisti, in Polonia ad esempio, chi tendeva la mano all’ebreo rischiava la morte.
Terza considerazione: parole come vergogna andrebbero abolite, nel lessico della politica. Nascono dall’emozione, dalla scossa introspettiva, non necessariamente osano l’aperto, l’agorà dove si disfano e si correggono le leggi positive. Dette dal Santo Padre hanno un senso, ma in politica conta l’azione, non l’emozionarsi e il compatire. Lo Stato sociale e la politica di asilo sono nati per sostituirsi alla carità, che è grandiosa e non si vanta e non si gonfia, ma è affidata al singolo o alla Chiesa.
Infine la quarta considerazione: le guerre da cui evadono i “migranti” il più delle volte ci vedono protagonisti. Le abbiamo attizzate noi, pretendendo di portare ordine e creando invece caos e Stati disfatti: in Africa orientale, Afghanistan, Iraq, Somalia e Eritrea, Siria. I confini siriani che scatenano conflitti, fu l’Europa coloniale a disegnarli. Gli esodi hanno a che vedere con noi. Qualche tempo fa, in una trasmissione della radio tedesca ( Südwestrundfunk, 26 giugno 2008, il titolo era: Guerra nel Mediterraneo), venne intervistato un alto dirigente della Guardia di Finanza italiana, Saverio Manozzi, arruolato nell’agenzia Frontex. Difficile dimenticare quello che ammise. Più che salvare, i guardiani delle mura erano chiamati alla caccia, alle retate: «Ho avuto a che fare con ordini secondo cui il respingimento consisteva nel salire a bordo dei barconi o delle navi, e nel portar via i viveri e il carburante affinché i transfughi non potessero continuare il viaggio, e facessero marcia indietro». Salvataggi e aiuti sono considerati un azzardo morale, perché fomentano sempre nuovi immigrati. Meglio dissuaderli con l’arma ultima: quasi 20.0000 affogati nel Mediterraneo, dal 1988. Si muore anche appesi ai fili spinati di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole sulle coste del Marocco. O nelle acque del fiume Evros, ai confini fra Turchia e Grecia. In Francia, respinti sono i Rom.
Di azzardo morale si parla molto in questi anni di crisi. È l’assillo dei moderni Creonte. Gli Stati indebitati dell’Unione non vanno troppo aiutati: la solidarietà (welfare compreso) incita i viziosi a rammollirsi, a peccare ancora e ancora. Se assicuri la casa dal fuoco, non baderai più ai fiammiferi che accendi: ti rilasserai. La logica della polizza assicurativa si fonda sul sospetto, non sulla promessa e il dover-essere di Antigone. Se cadi disteso per terra o nel fondo marino qualche colpa ce l’avrai. Come dice Kafka: stramazzando susciterai ribrezzo, paura, perché dal tuo corpo emanerà il «puzzo della verità ».
«Contro una misura ragionevole e urgente si leveranno obiezioni per non turbare fragili equilibri, fare i conti con varie “sensibilità” all’interno della maggioranza. Miserie di una politica che rivelerebbe l'incapacità a cogliere i temi del nostro tempo».
La Repubblica, 8 marzo 2013
LE TERRIBILI tragedie collettive sono ormai diventate grandi rappresentazioni pubbliche, che vedono tra i loro attori i rappresentanti delle istituzioni, ben allenati ormai nel recitare il ruolo di chi deve dare voce ai sentimenti di cordoglio, dire che il dramma non si ripeterà, promettere che «nulla sarà come prima». Il pellegrinaggio a Lampedusa era ovviamente doveroso, arriverà anche il presidente della Commissione europea Barroso, si è già fatta sentire la voce del primo ministro francese perché sia anche l’Unione europea a discutere la questione. Sembra così che sia stata soddisfatta la richiesta del governo italiano di considerare il tema in questa più larga dimensione, guardando alle coste del nostro paese come alla frontiera sud dell’Unione.
Attenzione, però, a non operare una sorta di rimozione, rimettendoci alle istituzioni europee e non considerando primario l’obbligo di mettere ordine in casa nostra. Lunga, e ben nota da tempo, è la lista delle questioni da affrontare, a cominciare dalla condizione dei centri di accoglienza dove troppo spesso ai migranti viene negato il rispetto della dignità, anzi della loro stessa umanità. Ma oggi possiamo ben dire che vi è una priorità assoluta, che deve essere affrontata e che può esserlo senza che si obietti, come accade per i centri di accoglienza, che mancano le risorse necessarie. Questa priorità è la cosiddetta legge Bossi-Fini.
LA BOSSI-FINI è quasi un compendio di inciviltà per le motivazioni profonde che l’hanno generata e per le regole che ne hanno costituito la traduzione concreta. Per questa legge l’emigrazione deve essere considerata come un problema di ordine pubblico, con conseguente ricorso massiccio alle norme penali e agli interventi di polizia. All’origine vi è il rifiuto dell’altro, del diverso, del lontano, che con il solo suo insediarsi nel nostro paese ne mette in pericolo i fondamenti culturali e religiosi. Un attentato perenne, dunque, da contrastare in ogni modo. Inutile insistere sulla radice razzista di questo atteggiamento e sul fatto che, considerando pregiudizialmente il migrante irregolare come il responsabile di un reato, viene così potentemente e pericolosamente rafforzata la propensione al rifiuto. Non dimentichiamo che a Milano si cercò di impedire l’iscrizione alle scuole per l’infanzia dei figli dei migranti irregolari, che si è cercato di escludere tutti questi migranti dall’accesso alle cure mediche, pena la denuncia penale.
«In Italia esiste una messinscena della politica. Politica e' confronto tra idee e progetti. Oggi mancano le idee e i progetti, e a maggior ragione manca il confronto. Dunque, manca la politica». Un’intervista di Luana Milella a uno dei promotori del 12 ottobre prossimo.
L’Unità, 6 ottobre 2013
Letta e la fine del ventennio? «Un’affermazione valida per la messinscena della politica». Lo scontro dentro il Pdl? «Vedo un tentativo di eliminare gli “incommoda”». Si va verso una nuova Repubblica? «Non vedo né la prima né la seconda né la terza». Berlusconi è finito? «Non mi interessa lui, ma i problemi che lui ha contribuito a creare». Il professor Gustavo Zagrebelsky non si smentisce. Caustico. Netto nel non assolvere “questa” politica. Ma pronto a negare la prospettiva di una prossima avventura nella politica.
Lei, Rodotà, don Ciotti, Landini e Carlassare. Nomi che fanno rumore se si ritrovano assieme. Come succede il 12 ottobre. Che accade, alla fine voi di Libertà e giustizia vi siete decisi a far nascere un nuovo partito?
«Sgomberiamo il campo fin da subito. La risposta è no e aggiungo, siccome da diverse parti si è fatto credere il contrario, che è un “no” evangelico: Quel che è sì è sì, quel che no è no, e tutto è opera del maligno ».
Però il Vangelo non mette mai un limite alla provvidenza...
«Se fosse sì, non sarebbe la provvidenza, ma la “sprovvidenza”. Ci mancherebbe solo che si pensasse di fare un nuovo, ulteriore, partitino».
Però... però... mi lasci dire, quando il manifesto dell’incontro, che non a caso si intitola “La via maestra”, parla di «miserie, ambizioni personali, rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato» non può che venire in mente il rifiuto di “questa” politica. Che ne richiama una nuova.
«Certamente. Ma per operare un rinnovamento o addirittura un ribaltamento delle pratiche politiche e sociali che ci affliggono in questi anni non c’è bisogno “di nuovi soggetti politici” - espressione, tra le tante, che io odio -. C’è bisogno invece, secondo noi, che ciascuno, quale che sia il suo impegno nella società, faccia valere nelle sedi che gli sono proprie (politica, sindacato, cultura, scuola, tutto insomma ciò che ha riguardo con la vita civile) l’esigenza del rinnovamento. Comprenda e faccia comprendere che, continuando così, il nostro Paese si mette su un binario morto».
Lei, come sempre, è bravissimo nello scegliere espressioni e concetti forbiti, ma parliamo politichese: ci giura che un partito nuovo non nascerà?
«Nessuno di noi è profeta. Ma il 12 ottobre non c’è la fondazione di alcun partito. Anzi, il nostro intento è quello di raccogliere le preoccupazioni e le forze, non di dividerle ulteriormente».
Scusi se insisto, ma mi pare che qualcuno sia convinto che state proprio lavorando verso quell’approdo.
«Ribadisco, il nostro è un intento politico, ma non nel senso dei partiti. Se si può dir così, è un intento anche più ambizioso: lavorare alla rinascita di una politica, nel senso autentico della parola».
Lei non vede la politica “giusta” in Italia?
«In Italia esiste solo una messinscena della politica. La politica comporta il confronto tra idee e progetti. Oggi mancano le idee e i progetti, e a maggior ragione manca il confronto. Dunque, manca la politica. Venendo meno la politica, la democrazia stessa deperisce. Perché mai i cittadini si dovrebbero impegnare, anche solo nella cabina elettorale, se tanto tutto è destinato a restare quello che è? Viviamo da alcuni anni in stato di necessità. Ma la democrazia è lo stato della libertà».
Come mai, però, associazioni che pur avrebbero potuto rispondere al vostro appello solo rimaste silenti?
«L’adesione è larghissima. Chi si è tenuto in disparte, l’ha fatto, mi sia permesso di osservare, perché è caduto nell’equivoco del “nuovo soggetto politico”. Chiarito il quale, mi auguro che ci siano ripensamenti».
La nostra Costituzione. Lei torna lì, alla Carta del ‘48. Contestata, e che si cerca di riscrivere. Perché va tenuta ferma?
«C’è un paradosso. Tutti o quasi rendono omaggio alla prima parte della Costituzione, quella che tratta dei diritti, dei doveri, della giustizia, del lavoro, della libertà, della solidarietà. Quella parte descrive un tipo di società, molto lontana da quella in cui viviamo, che a noi invece pare tuttora di vivissima attualità. Proprio questa parte della Carta, però, è quella più largamente inattuata o violata. Le si può rendere omaggio in astratto perché ce ne si può dimenticare in concreto. C’è poi la seconda parte, che riguarda l’organizzazione della politica, e quindi i mezzi necessari per promuovere quel tipo di società. Oggi la discussione riguarda la riforma di questa seconda parte. Ma prima e seconda parte sono collegate e alcune delle modifiche che si prospettano, modifiche che definirei oligarchiche, si muovono nella direzione opposta all’attuazione della prima parte».
Costituzione e costituzionalisti. La Moralità pubblica. Che pensare quando si legge dello scandalo dei professori sotto accusa per i concorsi truccati?
«Nel campo universitario c’è un ineliminabile aspetto di cooptazione. Naturalmente, quella che dovrebbe essere cooptazione dei migliori può degenerare in corruzione. La linea di confine è labilissima. Anche se, oltre un certo limite, lo scandalo diventa evidente. Mi auguro che si chiarisca che quella linea di confine non è stata superata».
Letta ha detto che mercoledì «si è chiuso un ventennio». Alfano ha vinto su Berlusconi, il Parlamento ha confermato il governo. Davvero un ventennio è finito?«Chi e come lo si può dire?».
Letta lo dice.
«Temo che sia un’affermazione valida per la messinscena, quello che volgarmente si definisce il teatrino della politica. Quando evochiamo “ventenni” che si chiudono, credo che si debba pensare a quel rinnovamento profondo della politica di cui dicevo prima. Qualcuno potrebbe ipotizzare che si tratti solo di una razionalizzazione di ciò che ci sta appena alle spalle e che sta cercando di mettere ai margini gli “incommoda”».
A proposito di “incommoda”, guardiamo all’estate di Berlusconi, al disperato tentativo di evitare la condanna, una politica concentrata su questo mentre la gente è sempre più povera. Lei pensa davvero che si possa tornare indietro? Non c’è troppa prima repubblica, addirittura peggio della prima, in questa seconda?
«È difficile non vedere una profonda continuità nelle strutture e nelle concezioni profonde del potere politico, economico e sociale, e perfino criminale, della nostra società. Da questo punto di vista non c’è stata né una prima, né una seconda, né una terza Repubblica. Sono mutate le forme esteriori. Il 12 ottobre ci interrogheremo non sulle forme, ma sulla sostanza. E ci auguriamo che da qui possa nascere un vero rinnovamento».
Un giudizio flash su Berlusconi. È ancora “vivo” politicamente, ha ancora appeal da spendere o è politicamente già in archivio?
«A me non interessa tanto questo; mi interessa piuttosto che, Berlusconi o non Berlusconi, ci si occupi dei problemi del nostro Paese, la cui gravità Berlusconi ha contribuito ad accentuare e che rimarranno tali e quali davanti a noi, anche senza di lui».
Lo spauracchio delle elezioni. Minacciato da mesi. Che vantaggi avrebbero gli italiani da un nuovo voto?
«Un voto che riproduca la situazione attuale non serve a niente. Un voto che rimetta in moto il confronto politico sarebbe invece essenziale. Ma per questo occorrerebbe un’altra legge elettorale».
«Il manifesto, 5 ottobre 2013
Lei ha firmato i referendum per l'aboilizione del reato di immigrazione clandestina. Ma non sono state raccolte le firme necessarie, ed oggi i radicali accusano anche voi di ipocrisia e disimpegno.
«Noi disponiamo di forze modeste. Ed è successo che su quei referendum si è stagliata l'ombra di Berlusconi, che non ha consentito più di capire il merito dei quesiti. Quel tipo di adesione è stato un deterrente alla mobilitazione. So che è piaciuta molto a una parte del vertice radicale, ma non ha fatto bene».
Lei parlava di 'continuità' del governo. Letta invece parla di 'nuova maggioranza'. Dalla Bossi-Fini all'Imu, i 'diversamente berlusconiani' hanno posizioni più illuminate di Berlusconi?
»Il politichese solleva solo cortine fumogene. Si è tentato di separare Berlusconi dal berlusconismo costruendo una mitizzazione negativa tutta legata alla persona, piuttosto che un'analisi critica dell'intero ciclo culturale. Con un esito paradossale: che il viale del tramonto del Cavaliere si compie con Berlusconi che lascia in dote al centrosinistra il berlusconismo. Tant'è che su tutto si naviga nell'ambiguità, a cominciare dalla tragedia di Lampedusa. Tutti si appendono alla bandiera del Papa, credendo che si tratti di una gara di omelie. Il Papa stesso cerca di sottrarsi alla mafia delle retoriche e ci richiama con franchezza evangelica alla realtà. Mi rivolgo agli scienziati della politica del Pd: davvero è consentito solo al papa criticare il liberismo? Davvero non c'è relazione fra liberismo e miseria, aggressione all'ambiente, finanziarizzazione dell'economia, perdita di diritti e di reddito?
Crede che nel Pd le risponderebbero di di no?
«Lo chiedo a quelli che oggi hanno applaudito Alfano. Hanno capito che ha promesso di irrobustire la frontiera repressiva in mare?
Non pensa che Letta sia riuscito a rompere il Pdl, che può tornare utile quando si tornerà al voto?
«È uno scenario inedito? Da quanti anni facciamo il tifo per il migliore del centrodestra, da Fini in poi, e cerchiamo di migliorare il centrodestra? Lo sguardo non mai è sul perché il centrosinistra perde le partite fondamentali in tutta Europa. Oggi un ragazzino che si affaccia alla politica può pensare che guerra è parola imparentata alla sinistra, visto che la volevano fare Obama e Hollande, due che hanno raccolto una speranza gigantesca e che tradendola precipitano nel consenso. Questo riformismo gira a vuoto perché gli manca la capacità di coniugare la speranza con scelte concrete.
Nonostante questo in Europa vi siederete nel gruppo del Pse?
«Non è un approdo ideologico. Vogliamo consolidare i rapporti con i verdi e con la sinistra europea. Ma vogliamo stare nel luogo che deve affrontare la crisi della sinistra. È il luogo in cui mettere insieme la rifondazione dell'Europa e costruzione di un campo largo della sinistra».
Due giorni fa lei ha incontrato Renzi. Cosa vi siete detti?
«Gli ho chiesto di non rendere la discussione una compilazione di proposte shock. Abbiamo bisogno di confrontarci su una visione».
Vi siete scontrati sul tema dell'eguaglianza. Avete fatto pace?
«Gli ho detto che c'è una relazione fra il Pd che discute per il congresso e il Pd che vota i provvedimenti di questo governo. Discutere di eguaglianza mentre si sottraggono alla parte più povera dell'Italia tre miliardi di euro per restituirli alla porzione più ricca dell'Italia, sotto forma di rimborso Imu, è una scelta che va nella direzione delle diseguaglianze. Nessuno che voti provvedimenti del genere ci intrattenga sull'attualità della nozione di eguaglianza. Così come l'abolizione della Bossi-Fini non ha come scena di realizzazione il congresso del Pd ma le aule parlamentari, qui e ora. Per me è dirimente: il Pd non è il destino di Sel. Può essere un alleato qualora ce ne siano le condizioni. E le condizioni non sono quelle vergognose di un'alleanza in continuità con le politiche del governo Monti. Facendo anche la scenetta ipocrita di contestarle nei dibattiti pubblici: oggi non se ne trova uno, nel Pd, che difenda la legge Fornero».
È un messaggio al Pd?
«Per noi la rottura della coalizione Italia bene comune è stata dura. Ed è stato duro mantenere un'ispirazione unitaria di fronte al crimine organizzato del non voto su Prodi. Ed è o duro subire a ogni snodo della storia politica italiana quel tentativo di demolizione che consiste nel denunciarci quali o traditori della patria o traditori del proletariato. Anche le pressioni nel giorno della fiducia a Letta sono il segno di una mentalità predona».
Quali pressioni?
«Si è aperta la caccia alle emozioni. Che fa Sel, hanno detto a ogni nostro singolo parlamentare, voterà come Berlusconi? È stato un assedio, sembrava fossimo nel '45, o nel '98. A fine serata tutti questi savonarola hanno votato come Berlusconi. Faremo un'opposizione ancora più determinata a questo governo. Non scimmiottiamo le pratiche teatrali e populiste sul modello dei 5 stelle. Ma questo non può significare deragliare dal binario dell'opposizione. Essere sinistra di governo è una grande sfida. Perché finora ha significato essere la sinistra delle compatibilità, qualche volta della resa. Partiamo dall'agenda della realtà, non dall'ideologia, ma la governabilità è un valore solo per un governo che che abbia l'obiettivo della stabilità delle famiglie e delle giovani generazioni. Se facciamo errori su questo siamo destinati a fallire».
Sarete in piazza il 12 ottobre con Landini, Rodotà e Don Ciotti?
«È molto di più di una manifestazione. È l'indicazione del cuore programmatico dell'alternativa che parte da quella Carta strattonata e oggetto di attenzioni moleste».
Letta le direbbe: conservatore.
«Nel degrado del lessico politico, conservatorismo e riformismo sono diventate parole pazze. Il conservatorismo era l'insieme dei dispositivi sociali e culturali che cercano di tutelare l'universo dei privilegi. Il riformismo era l'apertura di varchi in quel blocco conservatore. Se è così, la Costituzione è il più vibrante documento di critica radicale al conservatorismo».
Tre articoli di Alessandro Dal Lago, Marco Rovelli e Monica Frassoni , dal
manifesto del 5 ottobre 2013, svelano l'ipocrisia e la disinformazione delle proposte e dei commenti di chi malauguratamente ci governa a proposito dell'ennesima strage di migranti "clandestini"
Per quello che è successo a Lampedusa non ci sono aggettivi. Ma le cose che si sentono in queste ore fanno venire la nausea. Non parlo della Lega, che come sempre merita solo silenzio. Parlo di quell'onda di untuosità, ipocrisia e smemoratezza che ci sta sommergendo. Come se l'Italia, l'Europa e l'Occidente volessero passare una mano di calce su una realtà di cui sono responsabili, ma che non ammetterebbero mai, perché in tal caso non potrebbero che auto-accusarsi.
Che significa proporre Lampedusa per il Premio Nobel per la pace, come Alfano sulla scia di Berlusconi? Con tutta l'ammirazione che possiamo provare per i singoli cittadini che si tuffano in mare per salvare i migranti, come è avvenuto tante volte in questi anni, in Sicilia o in Puglia, è evidente che la proposta di Alfano mira a una bella auto-assoluzione dell'Italia e, indirettamente, dei suoi brillanti governi.
Si dice che alcuni pescherecci abbiano ignorato l'incendio che ha preceduto l'affondamento del battello. E perché? Perché una norma del Testo unico sull'immigrazione prevede il sequestro delle barche che soccorrono i migranti, in quanto si renderebbero responsabili del «favoreggiamento» dell'immigrazione clandestina. Una norma ignobile, disumana, che espone i pescatori al rischio di perdere imbarcazione e lavoro (e che va a eterna vergogna di chi l'ha concepita).
Ora, chi sono i responsabili? I pescatori o chi ha inventato le norme sui respingimenti, cioè Bossi, Fini e i loro consiglieri? Per fortuna, Fini è scomparso nel nulla e Bossi giù di lì. Ma con che faccia quelli del Pdl blaterano di premi Nobel e vergogna, dopo che hanno varato loro, anni fa, la Bossi-Fini?
Ma non sono i soli a dar priva di amnesia. Quello di Lampedusa è il terzo caso di naufragio con strage di massa nel Mediterraneo. Il primo avvenne a fine dicembre 1996, quando una carretta maltese si scontrò con la nave Yohan, da cui stava trasbordando dei migranti, e colò a picco portando con sé quasi trecento esseri umani. Ci vollero anni perché la verità, raccontata all'inizio solo da questo giornale, emergesse. L'anno dopo, la Kater i Rades affondò con un'ottantina di persone, perché entrata in collisione con la corvetta italiana Sibilla, che stava procedendo a una manovra di dissuasione, cioè stava impedendo alla nave albanese di proseguire verso l'Italia con il suo carico di profughi. I due capitani, quello albanese e il comandante italiano, furono condannati a pochi anni di prigione. Ma nessuno si è mai sognato di chiamare in causa chi aveva organizzato l'operazione «Bandiere bianche», che aveva lo scopo di tener lontano gli albanesi dai nostri "sacri confini", per usare una nota espressione di Beppe Grillo. E chi c'era al governo allora, se non Romano Prodi e un buon numero di esponenti dell'attuale Pd?
Ed eccoci all'ecatombe dell'altro ieri. Qualcuno ci spiegherà prima o poi come è possibile che un barcone con centinaia di persone a bordo traversi il Canale di Sicilia, e arrivi fino a poche centinaia di metri da Lampedusa, in una zona di mare sorvegliata da radar, satelliti e battelli militari di ogni tipo, senza che nessuno, tranne uno o due barche da diporto, se ne accorga. Con tutta la paranoia pubblica e ufficiale che circonda la sorveglianza dei nostri confini, il fatto è inspiegabile. E temiamo che resterà tale.
Ma la questione essenziale è che, finché migranti e profughi saranno costretti alle ventura in mare, questi naufragi si ripeteranno. Ma non perché non funziona Frontex, ma esattamente perché c'è Frontex. Questa bella trovata della burocrazia europea non ha il compito di proteggere i migranti, ma, esattamente, di tenerli lontani - e cioè di rafforzare la clandestinità a cui i migranti sono costretti e che ne ha portato 20.000 ad annegare nel Canale di Sicilia e nel resto del Mediterraneo. È un circuito infernale. Leggi come la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini hanno sempre avuto lo scopo di impedire l'accesso legale dei migranti in Europa, con i respingimenti, le norme draconiane sul favoreggiamento e i Cpt o Cie. Chi ha di fronte a sé la prospettiva della morte in guerra o per fame non può che tentare la via del mare. È vero che scafisti e canaglie d'ogni genere li traghettano a pagamento verso l'Europa. Ma smettiamo di considerare responsabili solo loro. Il gangsterismo americano degli anni Venti fu un effetto del proibizionismo e non viceversa.
Se vogliamo che queste stragi finiscano permettiamo ai profughi e migrati di trovare una possibilità da noi. Facciamoli entrare legalmente. Non sono milioni, come blaterano i paranoici e i leghisti. Sono centinaia di migliaia di esseri che ci chiamano. E noi, i civili europei, siamo cinquecento milioni di
IL NEGAZIONISMO DEI NOSTRI TEMPI
di Marco Rovelli
Una barca a fuoco in mezzo al mare, un mare pavimentato di morti che vengono a galla. Il tremendo è qui, ora. Un'immagine che si fatica persino a dire apocalittica, ché di fronte ad essa si può solo fare silenzio. Tutto il resto è schiuma, parole balbettate per articolare lo sgomento. Ma il silenzio è una virtù non praticata, in questo tempo, che è il tempo del troppo pieno.
Siamo incapaci di fermarci di fronte a quei corpi dilaniati dal fuoco e dall'acqua, incapaci di ascoltarli. Non è il tempo del rispetto, questo, né della vergogna (e su questo mi trovo per una volta concorde con le parole di un prete di alto rango). Se fossimo capaci di silenzio, rispetto e vergogna, sapremmo che quel massacro che ci affiora oggi davanti agli occhi è un massacro costante, continuo, cadenzato, che fa del Mediterraneo il cimitero più popolato del nostro mondo. Ma preferiamo non vedere, negare. Sì, siamo negazionisti: sui nostri mari c'è una "tempesta devastante" (una shoah, appunto) e noi fingiamo - con gli occhi, con il cuore - che nulla accada. Quei pescatori che non si fermano mentre ci sono uomini che affogano non sono mostri. Lo fanno perché rischiano di vedersi sequestrata la barca per colpa di una legge assassina. Si limitano a obbedire alla legge. Non sono mostri, sono come noi: sanno, e fingono di non sapere, perché la legge li ha ridotti a pensare solo alla propria salvezza.
Poi ci sono quelli di noi (e uso "noi" per designare i cittadini italiani, per quanto non senta con molti di loro alcuna comunanza) che rivendicano con orgoglio la propria ferocia. In rete, ad esempio, all'apparire della notizia, sono subito cominciati a fioccare parole come neve che cade dal cielo già marcita. Gente che non riesce a far spazio all'umano, mai - che non sa, con ogni evidenza, conoscersi in quanto umana. Gente che si scaglia, ad esempio, contro il buonismo dell'Italia: ma quale buonismo? Fingono di non vedere che abbiamo la legge più repressiva ed escludente, quella legge firmata da quei due trapassati della politica che sono Bossi e Fini? Entrare regolarmente in Italia è un'impresa improba, più che altrove in Europa. I tribunali sono affollati di processi per il reato di clandestinità. Il sistema repressivo fondato sui Cie non funziona, è solo una spesa enorme senza risultati. L'accoglienza nei confronti dei rifugiati è inesistente. Del resto per i migranti eritrei, che erano una parte cospicua del barcone dei cinquecento, l'Italia è solo un paese di transito: è a nord che vogliono andare, l'Italia a chi fugge dall'oppressione e dalla guerra non offre niente. Quello che lascia basiti, a leggere il profluvio di parole gonfie di odio talvolta insaputo, è il grado di ignoranza così diffuso rispetto alla realtà, e l'arroganza con cui questa ignoranza viene proferita.
C'è una vera e propria sindrome allucinatoria e persecutoria di molti italiani, che fantastica carte di identità subito per tutti, la possibilità per gli immigrati di non lavorare, la libertà di girare indisturbati per loro, di avere case e lavoro immediatamente. Deliri costruiti su fantasie patologiche, che però formano il materiale del giudizio di molti elettori. (del resto a legittimarle c'è la barbara demenza di un Langone, per dire, che sul Foglio scrive contro gli "invasori").
Ma un appunto va fatto pure al presidente: stroncare il traffico, dice. Quello è il rimedio, signor presidente? Davvero la responsabilità è solo degli scafisti? Davvero non la sfiora l'idea che se rendi illegale la possibilità di muoversi da un paese all'altro, per ciò stesso sei tu a produrre gli scafisti? Davvero non le viene in mente che si tratta ripensare dalle fondamenta le politiche migratorie? Davvero un governo appena decente può pensare di non rimettere mano alla Bossi-Fini (cosa che non ha fatto del resto il governo Prodi) e farsi promotore in Europa di un'altra modalità di gestione dei flussi migratori? Rivedere le leggi, ecco che cosa dovremmo fare se sapessimo fare silenzio. Ma non succederà. Domani, sarà semplicemente un altro giorno.
QUANTI E COME SONO STATI SPESI I FONDI
di Monica Frassoni
Lo sgomento, il dolore, la solidarietà di fronte alla tragedia nel Mediterraneo, tomba di più di 20.000 persone negli ultimi 20 anni, non possono farci dimenticare che quanto accaduto non è né un caso né una fatalità. La strada percorsa fino ad ora è stata prioritariamente quella perdente e crudele della repressione, del rafforzamento della Fortezza Europa. E' quanto emerge dal modo in cui sono state spese le risorse in materia di asilo e migrazione. Questo non significa auspicare frontiere aperte sempre e per tutti. Significa semplicemente prendere atto del fatto che pensare di bloccare completamente le migrazioni e di chiudersi totalmente al richiamo dei popoli in fuga dalla guerra è un'illusione tragica e costosa. Tre esempi molto chiari: come ben spiega il rapporto del Consiglio d'Europa di due giorni fa, l'Italia non ha una politica d'immigrazione e di asilo efficace. La concentrazione esclusiva su misure di repressione e di controllo e, in particolare, l'introduzione del reato di immigrazione clandestina, insieme all'incapacità di assicurare ai rifugiati assistenza ha peggiorato la situazione. Le norme italiane producono illegalità e insicurezza invece di ridurle. Per questo è davvero urgente cambiarle. Invece il ministro Alfano ha riunito a Lampedusa il comitato per "l'ordine e la sicurezza" come primo atto. Non un buon auspicio.
Per fare queste tre cose, assumere consapevolezza piena di una realtà: la miseria delle popolazioni dell’Africa e il carattere repressivo di gran parte degli stati che le governano sono il risultato delle strategie messe in atto dal capitalismo nella fase dello sfruttamento colonialistico e in quella della globalizzazione neoliberista.
La Repubblica, 5 ottobre 2013
TRAGHETTI. La prima cosa che ci vuole sono traghetti sicuri verso porti accoglienti, quand’anche i politici non possano dirlo apertamente.È questa la prima ovvia necessità se si vuole evitare che il Canale di Sicilia si trasformi in una nuova Fossa delle Marianne. Quel tratto di mare non è di per sé insidioso per la navigazione; diventa tale quando lo solcano barche malconce e stipate all’inverosimile. Peggio dei vagoni merci diretti a Auschwitz esattamente settant’anni fa, se proprio vogliamo fare il calcolo del numero di persone ammucchiate in una superficie più o meno analoga.
La differenza è che ad Auschwitz ci si andava deportati a morire, contro la propria volontà. Mentre sulle carrette del mare le persone si imbarcano volontariamente, pagando cifre con cui sugli aerei si viaggia in business class, nella speranza di vivere.
Per questo la prima urgenza sono i traghetti che garantiscano un trasporto civile e sicuro dalle coste africane verso porti europei attrezzati. Non solo perché lo impone il codice fondamentale dell’umanità. Ma anche perché il metodo inverso dei respingimenti in mare, dopo quattro anni di applicazione e dopo migliaia di morti, non è risultato dissuasivo. Sono disperati ma non certo stupidi i fuggiaschi dalla Siria, dall’Eritrea, dalla Somalia. Se continuano a partire assumendosi una così elevata percentuale di rischio, significa che lo considerano il male minore. Probabilmente hanno ragione. Hanno conosciuto ben altra ferocia che non la voce grossa di qualche politicante italiano. Hanno già visto morire troppa gente per tornare indietro dopo un naufragio.
Organizzando un adeguato servizio di navigazione per i migranti in fuga dalla guerra e dalla miseria — che resteranno peraltro una quota esigua rispetto al totale dei milioni di profughi accampati in attesa di fare ritorno alle loro case — le Nazioni Unite e l’Unione Europea infliggerebbero un duro colpo alle organizzazioni criminali degli scafisti. Esse lucrano enormi profitti, grazie ai quali diventano sempre più forti e pericolose. Fino ad impadronirsi di intere regioni e fino a sottomettere le istituzioni locali, com’è già avvenuto con i trafficanti d’armi e di droga. Illudersi di risolvere questo problema per via mi-litare, rafforzando — come pure è necessario — il monitoraggio del canale di Sicilia con altre motovedette italiane o europee, è pura demagogia.
La seconda cosa da fare è restituire ai profughi il fondamentale diritto perduto: uno status giuridico certificato. Documenti d’identità validi. La convenzione di Ginevra del 1954 è superata. Oggi il diritto internazionale può avvalersi di una rete di codificazione informatica ben più efficiente, in grado di tutelare e sorvegliare le moltitudini di persone costrette alla mobilità. Se siamo stati capaci di organizzare il monitoraggio sistematico delle merci, cui viene garantita la libera circolazione, non si vede perché lo stesso non possa avvenire per gli esseri umani. È questione sovranazionale di volontà politica, ma anche di civiltà giuridica: la condizione di profugo ridotto all’apolidia, cioè deprivato di un passaporto valido e quindi impedito sia nel diritto a un lavoro regolare sia nel diritto alla mobilità regolare, ormai riguarda decine di milioni di persone. Va regolamentata prima che dia luogo a guerre di nuovo tipo. Non bastano le sanatorie, come quella promulgata dal governo Berlusconi nell’aprile 2011 in seguito alle primavere arabe. Anche se vale la pena ricordare che quella sanatoria riguardò in tutto 22 mila fuggiaschi, e che in quell’anno fatidico sbarcarono sulle nostre coste meno di 50 mila profughi. Fate voi la proporzione: 50 mila profughi in un paese di 60 milioni di abitanti. Restiamo sempre ben al di sotto delle cifre allarmistiche sparate dagli imprenditori politici della paura. Occorrerà certo attrezzarsi per accogliere e smistare un flusso in crescita dalla sponda sud del Mediterraneo, ma per favore non ci si venga a parlare di invasione.
La terza cosa da fare è una modifica della legge Bossi Fini del 2002 che ha di fatto irrigidito la normativa per il riconoscimento degli aventi diritto all’asilo politico. Sembra incredibile, ma ne ospitiamo una quota infima rispetto ai nostri partner europei, il che oggi ci rende poco credibili quando chiediamo aiuto a Bruxelles. Tanto più dopo l’introduzione del reato di clandestinità nel 2009, rivelatosi utile solo a “legittimare” la pratica illegale dei respingimenti in mare.
È giusto pretendere che l’Europa non si volti dall’altra parte e che, potenziando le strutture comunitarie di Frontex, partecipi all’opera di accoglienza e monitoraggio dei profughi. Purché tale richiesta sia preceduta da un doveroso ripasso della storia e della geografia. La forma allungata della nostra penisola che si protende grazie a migliaia di chilometri di coste verso la sponda sud del Mediterraneo, ne determina una vocazione naturale; che i nostri antenati hanno saputo trasformare più volte in supremazia culturale, commerciale, finanziaria. Ciò che è valso per il passato, vale anche per il futuro: non c’è crescita, non c’è progresso italiano che non si avvalga di una relazione armoniosa con l’insieme del bacino Mediterraneo. Oggi la sponda sud è in fiamme, ma nel mare non si possono costruire dighe. E la penisola non può rattrappirsi.
Il lutto nazionale proclamato ieri dal nostro governo deve quindi essere valorizzato nel suo significato più profondo, che va oltre l’umana pietà: gli uomini, le donne e i bambini che muoiono nel tentativo di approdare sulle nostre coste appartengono alla nostra comunità, abbiamo un destino condiviso.
«Un intervento della sociologa americana, ospite al festival Internazionale di Ferrara. Le "autorità illegittime" dell'Europa sono le imprese transnazionali: come un governo ombra, agiscono attraverso le lobby e gli oscuri comitati di esperti, decidendo tutto ciò che riguarda la nostra vita quotidiana.
Il manifesto, 4 ottobre 2013
Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la sicurezza finanziaria vostra e quella della vostra famiglia, le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, vi è un importante cambiamento politico di cui dovete essere consapevoli. Io chiamo questo cambiamento la «ascesa di autorità illegittima». Il governo di rappresentanti chiaramente identificabili e democraticamente eletti viene gradualmente soppiantato da un nuovo governo ombra in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo di più in più decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana.
Tecniche da mercenario
Cominciamo con le lobby ordinarie, attori famigliari ai margini dei governi per un paio di secoli. Hanno migliorato le loro tecniche, sono pagate più che mai e ottengono risultati. Negli Stati Uniti, devono almeno dichiararsi al Congresso e dire quanto sono pagate e da chi.
A Bruxelles, c'è solo un registro «volontario», che è una presa in giro, mentre dieci-quindicimila lobbisti si interfacciano ogni giorno con la Commissione europea e con gli euro-parlamentari. Difendono il cibo spazzatura, le coltivazioni geneticamente modificate, prodotti nocivi come il tabacco, sostanze chimiche pericolose o farmaceutici rischiosi, difendono i maggiori responsabili delle emissioni di gas a effetto serra e le grandi banche.
Meno conosciute delle lobby favorevoli a singole imprese transnazionali, ma in crescita a livelli di comparto industriale sono «istituti», «fondazioni» o «consigli», spesso con sede a Washington DC, che difendono anche l'alcool, tabacco, cibo spazzatura, prodotti chimici, gas serra, ecc, ma con un approccio diverso. Essi impiegano esperti influenzati per scrivere articoli che creino dubbi nella opinione pubblica anche in merito a fatti scientificamente assodati; creano falsi «comitati» o gruppi di «cittadini» finalizzati a difendere i loro prodotti e a sostenere che la «libertà di scelta» del consumatore viene limitata dalla invadenza di chi vuole prendere le decisioni al posto dei singoli.
Tornando su Bruxelles, decine di «comitati di esperti» formate da personale Tnc, praticamente prive di partecipazione da parte dei cittadini o delle Ong, preparano regolamenti dettagliati in ogni possibile settore. Dalla metà degli anni 1990, le più grandi compagnie americane dei settori bancario, pensionistico, assicurativo e di revisione contabile hanno unito le forze e, impiegando tremila persone, hanno speso cinque miliardi dollari per sbarazzarsi di tutte le leggi del New Deal, approvate sotto l'amministrazione Roosevelt negli anni '30, che avevano protetto l'economia americana per sessant'anni. Attraverso questa azione collettiva di lobbying, hanno guadagnato totale libertà per trasferire attività in perdita dai loro bilanci, verso istituti-ombra, non controllati.
Queste compagnie hanno potuto immettere sul mercato e scambiare centinaia di miliardi di dollari di titoli tossici «derivati», come i pacchetti di mutui sub-prime, senza alcuna regolamentazione. Poco è stato fatto dopo la caduta di Lehman Brothers per regolamentare nuovamente la finanza e nel frattempo, il commercio dei derivati ha raggiunto la cifra di $ 2.300.000.000.000 al giorno, un terzo in più di sei anni fa. Tutti noi conosciamo i risultati delle attività di lobby finanziaria: la crisi del 2007-2008, in cui siamo ancora invischiati.
Ci sono poi organismi quali l'International Accounting Standards Board, sicuramente sconosciuto al 99 per cento della popolazione europea. Quando l'Ue si è confrontata con l'allargamento a ventisette e con l'incubo di ventisette diversi mercati azionari, con diversi insiemi di regole e norme contabili, ha chiesto supporto a un gruppo ad hoc di consulenti provenienti dalle quattro maggiori società mondiali di revisione contabile.
Nel corso degli anni successivi, questo gruppo è stato silenziosamente trasformato in un organismo ufficiale, lo Iasb, ancora formato dagli esperti delle quattro grandi società, ma che adesso sta elaborando regolamenti per sessantasei paesi membri, tra cui l'intera Europa. Lo Iasb è diventato ufficiale grazie agli sforzi di un Commissario Ue non eletto dai cittadini, Charlie MacCreevy, un neoliberista irlandese, egli stesso un esperto contabile, senza alcun controllo parlamentare. Per chi fosse interessato a saperlo, è stato detto che l'agenzia era «puramente tecnica».
Gli evasori competenti
Fino a quando non potremo chiedere alle imprese di adottare bilanci dettagliati per paese, continueranno a pagare - abbastanza legalmente - pochissime tasse nella maggior parte dei paesi in cui hanno attività. Le aziende possono collocare i loro profitti in paesi con bassa o nessuna tassazione e le loro perdite in quelli ad alta fiscalità.
Per tassare in maniera efficace, le autorità fiscali hanno bisogno di sapere quali vendite, profitti e imposte sono effettivamente di competenza di ciascuna giurisdizione. Oggi questo non è possibile, perché le regole sono fatte su misura per evitare la trasparenza. Piccole imprese nazionali o famigliari con un indirizzo nazionale fisso, continueranno a sopportare la maggior parte del carico fiscale o a fare a meno dei servizi pubblici che una tassazione equa delle Tnc avrebbe potuto garantire.
Ho contattato lo Iasb per chiedere se una rendicontazione dettagliata per paese fosse nella loro agenda, e mi hanno cortesemente risposto che non lo era. Non c'è di che stupirsi. Le quattro grandi agenzie i cui amici e colleghi fanno le regole, perderebbero milioni di fatturato, se non potessero più consigliare i loro clienti sul modo migliore per evitare la tassazione.
Nel luglio di quest'anno, sono iniziati i negoziati della Transatlantic Trade and Investment Partnership, o Ttip. Questo accordi definiranno le norme che regolamenteranno la metà del Pil mondiale - gli Stati Uniti e l'Europa - e sono in preparazione dal 1995, quando le più grandi multinazionali da entrambi i lati dell'oceano si sono riunite nel Trans-Atlantic Business Dialogue per lavorare su tutti gli aspetti delle pratiche regolamentari, settore per settore. I negoziatori stanno ora lavorando sulla bozza di progetto che il Tabd ha redatto.
Il commercio transatlantico ammonta a circa mille e cinquecento miliardi dollari all'anno, ma c'è poco da negoziare sull'aspetto delle tariffe, questi pesano media solo un tre per cento. L'obiettivo è invece di privatizzare il maggior numero possibile di servizi pubblici ed eliminare le barriere non tariffarie, come per esempio i regolamenti e ciò che le multinazionali chiamano «ostacoli commerciali». Al centro di tutti i trattati commerciali e di investimento oggi è la clausola che consente alle aziende di citare in giudizio i governi sovrani, se la società ritiene che un provvedimento del governo danneggi il suo presente, o anche i suoi profitti «attesi».
Il Trans-Atlantic Business Dialogue ha recentemente cambiato il suo nome in Consiglio economico transatlantico e descrive il suo lavoro come volto a «ridurre i regolamenti per potenziare il settore privato». Si definisce un «organo politico» e il suo direttore afferma con orgoglio che è la prima volta che «il settore privato ha ottenuto un ruolo ufficiale nella determinazione della politica pubblica Ue / Usa».
Con questo trattato, se approvato secondo le intenzioni delle Tnc, includerà modifiche ai regolamenti riguardanti la sicurezza dei prodotti alimentari, prodotti farmaceutici, prodotti chimici, ecc; stabilità finanziaria (libertà per gli investitori di trasferire i loro capitali senza preavviso); nuove proposte fiscali, come la finanziaria tassa sulle transazioni; sicurezza ambientale (ad esempio il diritto di imporre norme più rigorose sulle industrie inquinanti) e così via. I governi non potranno privilegiare operatori nazionali in rapporto a quelli stranieri per i contratti di appalto (una parte significativa di ogni economia moderna). Il processo negoziale si terrà a porte chiuse, senza il controllo dei cittadini.
Democrazia a rischio
Come se non bastasse l'infiltrazione nei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario da parte delle imprese transnazionali, anche le Nazioni Unite sono ormai un obiettivo delle Tnc. Alla conferenza Rio + 20 sull'ambiente delle Nazioni Unite nel 2012, le imprese transnazionali formavano la più grande delegazione e misero in scena il più grande evento, noto come «Business Day». Il rappresentante permanente della Camera di commercio internazionale presso le Nazioni Unite dichiarò tra fragorosi applausi, «Siamo (...) la più grande delegazione d'affari che mai abbia partecipato a una conferenza delle Nazioni Unite... Le imprese hanno bisogno di prendere la guida e noi lo stiamo facendo». Le multinazionali chiedono ora un ruolo formale nei negoziati sul clima delle Nazioni Unite.
Non sono solo le dimensioni, gli enormi profitti e i patrimoni che rendono le Tnc pericolose per le democrazie. È anche la loro concentrazione, la loro capacità di influenzare, spesso dall'interno, i governi e la loro abilità a operare come una vera e propria classe sociale che difende i propri interessi economici, anche contro il bene comune. Condividono linguaggi, ideologie e obiettivi che riguardano ciascuno di noi. Se i cittadini che hanno a cuore la democrazia le ignorano, lo fanno a loro rischio.
Susan George, sociologa, politologa e scrittrice franco-statunitense, dirige il Transnational institute di Amsterdam. Ha fatto parte del comitato direttivo di Greenpeace International e di Corporate Europe Observatory. Il suo ultimo libro è Come vincere la guerra di classe»
Intervistata da Rachele Gonnelli la ministra di colore esprime sentimenti umani e li traduce in parole sagge. Peccato che il governo a cui partecipa sia quello che è.
L'Unità, 4 ottobre 2013
Cecile Kyenge convoca i giornalisti nella sala monumentale di largo Chigi in tarda mattinata. Lo sguardo è serio come sempre solo gli occhi sono un po’ più grandi, lo sguardo fisso come schiacciato dal peso degli eventi mentre confessa di provare «un dolore molto forte per questi morti», «una tragedia immane che ci impone la necessità di affrontare in maniera radicale il tema dei migranti in fuga da situazioni di conflitto». Si associa alle parole del Capo dello Stato nel chiedere «maggiore intensità per dare impulso a nuove politiche che interrompano questa serie di tragedie». La sua richiesta appare però un po’ debole rispetto agli enunciati di partenza: chiede «fin da subito» un coordinamento interministeriale sotto l’egida della Presidenza del Consiglio per mettere in essere un piano comune di aiuto ai profughi e di sostegno alle comunità locali su cui al momento pesa l’onere più grosso dell’accoglienza e della solidarietà. Tutti intorno allo stesso tavolo, lei con i colleghi Alfano agli Interni, Mauro alla Difesa, Cancellieri alla Giustizia, Bonino agli Esteri. È cosciente di una responsabilità molto grande che l’Italia si trova ad avere e vuole condividerla, ma soprattutto insiste sul metodo del dialogo, «la condivisione dice è la prima cosa».
Per approntare un piano serviranno mesi. Dopo quanto è successo non sarebbe meglio dare un segnale forte di svolta come l’abolizione della Bossi-Fini?
«Chiedo un coordinamento proprio per affrontare anche la questione delle modifiche delle norme sull’immigrazione, che devono essere riviste all’interno di questo quadro di condivisione e dialogo. Il dialogo è il punto principale e perciò dobbiamo distanziarci nettamente da chi dà messaggi opposti, di paura e di minaccia. Io sono per una legge che parta dalla visione del fenomeno migratorio come fenomeno naturale. Ma le risposte devono adattarsi a tutte le categorie di persone».
La Bossi-Fini crea problemi anche alla Libia, da cui gli immigrati partono ma dove non possono tornare, pena l’arresto. Come risolvere questo problema?
«Ci sono stati degli accordi, stipulati anni fa, con i Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo che vanno presi in esame. Domenica prossima mi recherò a Lampedusa e in questa visita farò accertamenti e cercherò ulteriori risposte. Ciò che è certo è che i migranti fuggono da Paesi in cui ci sono guerre e conflitti e che a tutto ciò deve dare risposta anche una politica internazionale che deve tendere a rafforzare la pace e la democrazia».
L’Europa ci critica per la nostra normativa inadeguata sull’immigrazione ma non dovrebbe fare di più? Si è assunta la sua parte di responsabilità?
«Il Consiglio d’Europa giudica sbagliata la nostra normativa e ci chiede di dare risposte positive che vadano nel senso dell’inclusione, della legalità, della cittadinanza. Durante il nostro turno semestrale di presidenza, che inizierà nel luglio prossimo, l’immigrazione sarà in agenda e già abbiamo iniziato a lavorare sul tema per una nostra iniziativa. Italia e Grecia oggi sono i Paesi più in prima linea rispetto ai flussi migratori. Lo scorso 23 settembre a Roma 18 Paesi della comunità europea hanno avuto un primo summit ed è possibile che l’immigrazione assuma presto un senso di priorità negli interventi. È chiaro che tutti devono rimboccarsi le maniche, non soltanto noi. L’Europa deve fare la sua parte e ad esempio alleggerire le norme comunitarie sulla libera circolazione e la convenzione di Dublino, garantendo nei Paesi d’arrivo la possibilità di un visto di transito per gli asilanti che vogliono andare in altri Paesi, coinvolgendo dunque tutta la Comunità europea per l’ospitalità dei profughi».
Cosa pensa della proposta di creare un corridoio umanitario con base nel porto di Lampedusa? «Modificare le norme per l’immigrazione regolare e creare dei corridoi umanitari sono appunto due risposte all’esigenza di sottarre i migranti al ricatto delle organizzazioni criminali che si occupano di traffico di esseri umani. Se si vuole operare una reale strategia di contrasto dei trafficanti si devono affrontare questi due nodi».
Cosa risponde a Gianluca Pini, vice capogruppo della Lega a Montecitorio, che attacca oggi lei e la presidente Boldrini per gli sbarchi?
«Attribuire a me e alla presidente Boldrini la responsabilità morale di ciò che è successo è profondamente offensivo. E credo che sia un insulto anche a tutti i cittadini italiani si stanno adoperando per aiutare i superstiti. Questo attacco in queste ore è per me un punto di non ritorno nel rapporto con questi signori. Io cerco soluzioni, loro fomentano odio e paura, la distanza è ormai incolmabile».
Cosa c'è dietro le stragi di migranti, su cui è facile piangere, difficile ragionare e comprenderne le cause, magari proporsi di rimuoverle. Il genocidio ha radici profonde nel benessere del Primo mondo, e soprattutto dell'uno per cento che lo governa.
Il manifesto, 4 ottobre 2013
L'Africa come campo di battaglia. Ci si sarebbe aspettato che i paesi europei distaccassero almeno alcune navi al largo della Libia per raccogliere i profughi. Con l'aumento delle bombe, delle distruzioni e delle vendette dei ribelli contro i neri, ritenuti, tutti, indistintamente, «legionari» di Gheddafi, ci si sarebbe infatti aspettato che i paesi europei distaccassero alcune navi al largo della Libia per raccogliere i profughi. Quando di fronte a una tragedia nel Terzo mondo la stampa e la politica da noi incominciano a chiedersi con finta compunzione «cosa fare?», nessuno ammette che più di altri atti di guerra potrebbero venire utili dei soccorsi per le vittime della guerra o, andando veramente alle cause, un cambio di politica al centro.
Invece, al culmine dei combattimenti e della confusione, nell'Europa meridionale l'allarme per l'invasione dalla Libia e dal Nord Africa raggiunse l'apice. L'Africa come fonte inesauribile di emigranti clandestini. Con tante difficoltà e l'ombra dei «respingimenti», l'esodo si ridusse a uno stillicidio senza conseguenze visibili per italiani ed europei , anche se i francesi in campagna elettorale furono lì lì per rimettere le sbarre alla frontiera fra Ventimiglia e Mentone. Paradossalmente, invece, la valvola di sfogo dei perseguitati in Libia si è aperta a sud con effetti destabilizzanti per la regione sahelo-sahariana. Donde la necessità a breve di un'altra guerra di cui si incaricò in proprio la Francia perché il Mali le appartiene di diritto. L'Africa come retroterra coloniale.
I vecchi clichés sull'Africa sofferente hanno perso un po' del loro impatto. I bambini e la fame sono usciti dalla scena se non fosse per certi documentari che passano in tv nelle ore notturne. L'Africa è un partner a cui la stessa Italia guarda in funzione della propria crescita. Invece dei leones delle vecchie carte geografiche oggi sono di moda i lions, i paesi del continente nero che contendono alle tigri asiatiche i primi posti nell'aumento mondiale del Pil. Quasi senza eccezioni, anche gli stati in boom riproducono però il modello d'origine coloniale di economie che esportano beni primari verso il Nord e dipendono dal Nord per capitali, tecnologia e sbocchi commerciali.
Se gli istituti di ricerca finanziari fanno circolare rapporti che sottolineano i progressi dell'Africa, i think tank che interagiscono con l'intelligence militare delle grandi potenze forniscono le mappe dell'Africa con le «minacce» e le basi ritagliate al servizio della war on terror. È questa l'altra faccia della «dipendenza» dell'Africa: uno stato di belligeranza diffusa che erode la capacità degli stati nei compiti primari per la politica e l'economia.
È il caso, fra gli altri, del Corno, teatro di tante guerre incrociate. Il Corno sembra essere l'area di partenza - non necessariamente recente, perché molti impiegano anni per arrivare a destinazione - di molti dei rifugiati che si dirigono verso l'Italia (quasi tutti con l'intenzione di raggiungere il Nord Europa o il Canada). Per fortuna, vien voglia di dire, il Congo è abbastanza lontano dal Mediterraneo perché i suoi travagli, fomentati da paesi che godono di una specie di impunità a livello mondiale, riguardano milioni di disgraziati. Per come viene gestita a livello internazionale la politica africana, gli interventi volti formalmente a risolvere le crisi di stati fragili si preoccupano soprattutto della «sicurezza» dell'Occidente.
Il confine fra l'Africa come soggetto e l'Africa come oggetto è labile e uno dei risultati è appunto il movimento ininterrotto di uomini, donne e bambini alla ricerca di un rifugio. Come è apparso nel caso recente del Sud Sudan, i «poteri forti» non si pongono seriamente il problema di quale sia il tasso di «sovranibilità» e quasi di «esistibilità» dei governi che appoggiano o dei quasi-stati che vengono alla luce. Il sistema globale non vuole in periferia stati stabili ma stati succubi. Evidentemente si confida nell'azione di strutture che rispondono a logiche extra-istituzionali. La democrazia è ridotta alla convocazione di elezioni solo se e quando l'esito dello scrutinio è scontato. La governance scade a una docile subalternità rispetto alle condizionalità del mercato e degli organismi finanziari internazionali. Nel caso peggiore le mafie, come quelle che operano nel Sinai, nel Sahara o nelle reti della pirateria nell'Oceano Indiano o nel Golfo di Guinea, hanno una libertà di manovra e persino una protezione maggiore degli stati.
PSulle orme del gambero Ragioni e passioni della sinistra (Donzelli). «La sinistra poteva cambiare il paese e non c’è riuscita. Abbiamo avuto la grande occasione della nostra vita politica e l’abbiamo mancata. Bisogna raccontare la storia a ritroso per capire le cause vicine e lontane dell’insuccesso della nostra generazione»
Premessa generazionale
Se avessi vent’anni, oggi, andrei in piazza. Passerei le mie giornate a organizzare le lotte popolari. Così facevo del resto all’epoca dei miei vent’anni. Poi, insieme a tanti della mia generazione, ci siamo imborghesiti e oggi ci sembrerebbe demodé ripercorrere le gesta giovanili. Eppure non mancherebbero i motivi e le necessità. Il modo in cui il mondo si è trasformato non piace a molti di noi, di certo a chi non ha venduto l’anima; eppure non possiamo dirlo con certezza perché in parte ne portiamo la responsabilità. E lo vediamo negli occhi dei giovani di oggi, in modo ancora più lancinante in quelli dei nostri figli, quando ci guardano con l’animo sospeso di chi vorrebbe almeno una spiegazione dell’insuccesso. Ma spiegarlo è quasi più difficile che viverlo.
Appartengo a una generazione fortunata. Abbiamo fatto in tempo a conoscere la grande politica, e anzi a succhiarne la linfa vitale proprio nel momento della formazione, traendone l’insegnamento che si potesse plasmare contemporaneamente la nostra vita e l’organizzazione sociale. Non è andata proprio così, ma quella volontà di potenza ci è rimasta dentro per sempre. E intorno ai quarant’anni abbiamo avuto la grande occasione per esercitarla. Siamo entrati nella maturità proprio in quel passaggio d’epoca segnato dal crollo del muro di Berlino e dalla promessa di un mondo nuovo. Quelli impegnati nella politica di sinistra hanno avuto la possibilità di cambiare il paese e le sue città. Ancora di più, quelli che erano stati comunisti – da sempre all’opposizione – hanno avuto la fortuna di poter dimostrare, prima di tutto a loro stessi e poi agli altri, che avevano le capacità di governare meglio delle vecchie classi dirigenti. È stata la grande occasione della nostra vita politica e l’abbiamo mancata. Non solo non siamo riusciti a indirizzare il paese in un tornante nuovo della sua storia, ma non abbiamo saputo impedire che un personaggio inaudito ne prendesse la guida e lo portasse fuori strada. A me è toccato il privilegio di contribuire al governo della capitale, ed è stata l’impresa più appassionante della mia vita, a cui ho dedicato ogni energia. Abbiamo tentato davvero di cambiare Roma, ma non possiamo dire di esserci riusciti. Avremmo dovuto introdurre dei cambiamenti impossibili da cancellare per qualsiasi malgoverno successivo. Le vere riforme sono irreversibili.
La mia generazione ha dunque l’obbligo di stilare un bilancio. Finora lo ha sempre evitato, senza mai spiegare a se stessa e alle generazioni successive le ragioni dell’insuccesso. Non lo ha fatto perché avrebbe voluto dire mettere in discussione quella funzione di comando che ancora presidia, seppure in modo traballante. Una generazione che è stata capace a suo tempo di conquistare il potere sa bene anche come conservarlo.
Con il Sessantotto abbiamo fatto la rivoluzione dei costumi. Per la verità volevamo fare anche la rivoluzione sociale, ma non essendoci riusciti ci siamo accontentati di gestire il potere senza modificarne gli assetti. E abbiamo avuto modo di prolungare il nostro primato anche a causa della debolezza delle generazioni successive. Quella degli anni ottanta persa dietro ai miti del rampantismo; quella degli anni novanta illusa dalla globalizzazione irenica, e quella degli anni duemila, presto intimidita dalla repressione e dai silenzi di Genova. Ma i ventenni di oggi sono la prima forte generazione politica davvero simile a noi. Non nei contenuti, ma nella forma. Non nel modo di pensare, forse ancor più lontano di quanto dica l’anagrafe, ma nella forte condivisione di esperienze collettive. Noi figli del miracolo economico e loro figli della crisi, ci siamo formati durante fasi di transizione, quando viene meno il vecchio mondo e il nuovo non si sa come sarà.
Mi incuriosiscono questi ventenni e cerco di capirli. Esprimono una forte intensità generazionale poiché si trovano a vivere cambiamenti quasi antropologici. Intanto sono i primi autentici nativi digitali che hanno conosciuto la rete quasi mentre apprendevano il linguaggio verbale. E poi sono cresciuti in un mondo già pienamente globalizzato. Ma ne hanno conosciuto subito il lato oscuro appena si sono affacciati al mondo del lavoro, senza diritti e spesso senza qualità. Non sono novità: anche i fratelli maggiori, quelli di trenta o quarant’anni che ancora vengono chiamati giovani, hanno vissuto queste esperienze, ma indorate dall’ideologia liberista che le rendeva affascinanti o perlomeno inevitabili. I ventenni sono più disincantati e non credono agli annunciatori di magnifiche sorti. Proprio l’esperienza dei fratelli maggiori li rende più consapevoli che non vale la pena aspettare lo schiudersi del guscio, sono più determinati nel romperlo. Sono una generazione più combattiva, non in forza di un’ideologia, ma proprio perché privi di un’ideologia. In questa carenza c’è il realismo che li salva dalle bugie raccontate dall’establishment.
Spero ardentemente che tra questi ventenni sorga anche una nuova leva di militanti politici. Non so se è una speranza fondata o se è solo un’illusoria proiezione a conclusione della mia lunga esperienza. In ogni caso, in politica la volontà deve essere sempre un passo avanti alla certezza.
La nostra è una generazione fortunata, ma - qui bisogna aggiungere - anche massimamente ingenerosa. Molto abbiamo ricevuto dalla generazione precedente, e ben poco abbiamo consegnato a quella successiva. Ci siamo nutriti in gioventù degli insegnamenti di grandi personalità incontrate nei partiti, nei sindacati, nelle organizzazioni culturali. Quando ripenso alla mia esperienza, alla fortuna di aver conosciuto uomini come Berlinguer, Ingrao, Petroselli, Trentin, alle riflessioni provocate dai loro discorsi e alla scuola di rigore che veniva dalla loro autorità, provo un senso di colpa per la sterilità educativa della mia generazione. Ben poco abbiamo saputo restituire del privilegio ricevuto. Certo, si possono addurre molte attenuanti, essendo venuti a mancare i luoghi e le culture adatte ad alimentare una paideia politica, ma c’è stata anche una deliberata rinuncia da parte della mia generazione. La comunicazione ha sopraffatto la formazione. Non c’è da stupirsi, poi, se i criteri di valutazione di un giovane politico che si affaccia al mestiere diventano la bella presenza e la battuta facile. IlBeruf weberiano è stato scarnificato, immiserito e tecnicizzato fino a ridursi a un mero prolungamento della comunicazione con altri mezzi. Se l’obiettivo è il titolo sul giornale di domani, non rimane tempo per formare i giovani.
Non pretendo certo di risolvere il problema con le mie forze, ma sento almeno come obbligo di risarcimento quello di dedicare tutto il mio impegno al dialogo con i giovani militanti di sinistra. Penso oltretutto di aver molto da imparare dai ventenni, e anzi proprio dal confronto tra noi e loro possono venire non solo rielaborazioni del passato ma soprattutto invenzioni per il futuro. A questo dialogo immaginario con un giovane militante sono dedicate le pagine che seguono.
Esse evitano accuratamente i temi d’attualità. La concretezza degli argomenti viene dall’esperienza militante – sia nei ricordi di ieri sia nei dilemmi di oggi – e si cerca di metterla a confronto diretto con la ricerca teorica. Sono pensieri militanti, ma solo nella postfazione vengono confessati rivelandone l'intima tensione tra la civetta hegeliana che si alza in volo per comprendere ciò che è stato e la sentinella di Isaia che deve ancora annunciare la fine della notte. Sono pensieri che cercano una relazione inattuale tra teoria e pratica. Qui se ne discute, ma le soluzioni si trovano solo nell’esperienza collettiva. Il Politico è il proprio tempo appreso nell’azione. Chi meglio di un militante può saperlo?
Nel torrente della storia bisogna andare indietro sulle orme del gambero per scovare sotto le pietre le cause delle sconfitte. Solo così si prendono le decisioni che ribaltano le pietre, che lasciano nella sabbia il lato inciso dalle delusioni e che portano alla luce invece il lato delle ambizioni, perché possano farsi accarezzare dal flusso del cambiamento. C’è un riconoscimento da elaborare, prima di tornare a vincere.
Avendo assunto questa postura, l’andamento del testo è risultato anomalo. Comincia con una storia a ritroso per capire le cause vicine e lontane dell’insuccesso della nostra generazione. Per poi mettere sotto osservazione il suo contributo a quel ciclo politico italiano che ha deluso le aspettative di una seconda Repubblica. E tuttavia non sono stati solo limiti soggettivi, ci si è messo contro un ciclo più ampio della storia mondiale che è generoso chiamare liberista, poiché la crisi lo svela come grande Inganno. Per ripartire bisogna provare a vedere il mondo a rovescio, esercitandosi a ribaltare le politiche dominanti, ad esempio per i paesaggi, i lavori e i saperi. Ma tutto ciò sarà possibile solo riscoprendo la dignità della politica, afferrando le occasioni che il tempo attuale ci offre, con la speranza di superare la penuria di una sinistra senza popolo.