«Un'antica possibilità di difesa individuale e collettiva dal potere costituito contemplata sin dal medioevo che sempre più viene evocata nell'azione politica in un mondo dove poche istituzioni e imprese globali hanno messo all'angolo la sovranità nazionale».
Il manifesto, 15 novembre 2013
Che cos'è il diritto di resistenza? Qual è il suo senso oggi? Esiste una interpretazione canonica di questo antico istituto avente per sua natura vocazione costituente? È possibile invocarlo oggi in modo rilevante, in via offensiva o difensiva, di fronte al protrarsi dell' illegalità costituzionale in tanti paesi europei incluso il nostro?
La ragione per aprire un dibattito su questo tema oggi è più profonda rispetto al fatto che episodi di ribellione «costituente» si stanno verificando un po' ovunque in Italia e che la magistratura e l'amministrazione stentano ad immaginare risposte diverse rispetto alla repressione penale. Infatti, da più parti è stato osservato che la crisi della sovranità statale ha determinato il risorgere di condizioni istituzionali «neo-medievali» nell'ambito delle quali si sta svolgendo un processo globale di concentrazione del potere dotato di valenza costituente. Proprio come nel corso della prima modernità gli Stati nazionali, pur con notevoli differenze l'uno rispetto l'altro, subivamo dall'alto la sfida dell'Impero e della Chiesa e dal basso quella delle rivolte contadine incentrate sui beni comuni, anche oggi, in piena postmodernità, la sovranità è contesa. I termini della contesa sono ovviamente diversi perché a metà del diciassettesimo secolo il capitalismo era nella sua fase nascente, mentre oggi è in una fase di tarda maturità in gran parte del mondo.
Tradizioni divergenti
La partita dunque è la concentrazione del potere in dimensioni più ampie rispetto alla statualità. Le soggettività sovranazionali in lotta, pubbliche o private, sono oggi immensamente più potenti in rapporto ai sovrani statali del Sacro Romano Impero, della Chiesa di Roma o delle Compagnie delle Indie. Quanto alle sfide «dal basso» è interessante domandarsi se la lunga stagione dei diritti e del costituzionalismo borghese le abbia rafforzate o piuttosto indebolite. È difficile negare che alcune garanzie costituzionali ed alcune innovazioni tecnologiche, prima fra tutti Internet, abbiano reso, almeno in certi contesti, la resistenza al potere costituito meno rischiosa di quanto non fosse un tempo. I contadini guidati da Thomas Muntzer e i Comuneros rivoltosi in Spagna nella prima parte del sedicesimo secolo, i Diggers e Levellers inglesi ai tempi dell'esercito di Cromwell oltre un secolo dopo e i Comunardi parigini rischiarono e subirono repressioni di durezza inaudita. Allo stesso tempo, però, l'appropriazione ideologica dell'illuminismo da parte del capitalismo realizzato e dei suoi cantori ha portato al trionfo ideologie individualizzanti che sono proprio quelle che hanno finito per depotenziare lo stesso senso del diritto di resistenza.
Vale perciò la pena di far tesoro delle conseguenze dell'apparente processo di democratizzazione del diritto di resistenza il quale fu teorizzato dal giusnaturalismo spagnolo, dalla tradizione calvinista e dalla distorsione interpretativa del pensiero luterano, nell'ambito di una visione dello Stato, della sovranità e del popolo molto diversa da quella moderna. Bisognerebbe tener presente che il filosofo e giurista francese Jean Bodin, arruolato fra gli inventori della sovranità moderna, considerava il corpo sociale non già come un aggregato di individui (come fece invece Thomas Hobbes) ma come un aggregato di «famiglie, collegi e corporazioni». In Spagna la stessa visione, condivisa dal giurista Francisco de Vitoria e dal gesuita Francisco Suarez (che da giurista cattolico invocò la resistenza anche armata contro Giacomo I d'Inghilterra che rivendicava sovranità divina) era quella neotomistica dello Stato come un corpo, unità organica.
Tale visione era accompagnata da una nozione trascendente di bene comune come qualcosa di diverso e superiore del semplice aggregato del bene individuale delle sue parti, portatrici di interessi divergenti che necessitavano di una sintesi. Il popolo, il cui governo era basato su leggi civili frutto di una cessione eterna di diritti naturali individuali al governante (era questa dell'irrevocabilità del consenso una visione condivisa dallo stesso Thomas Hobbes ma non da John Locke), era un corpo immortale superiore allo stesso Re. Gli individui muoiono ma il popolo come comunità rimane. Questa concezione del popolo rese possibile la convivenza di diritti naturali individuali con nozioni di sovranità assoluta, accompagnata tuttavia da un diritto di resistenza in casi estremi in cui il sovrano violasse profondamente le stesse ragioni che ne giustificavano il potere.
Durante la prima modernità questa concezione dello Stato, frutto di una visione medievale di diversi corpi politici in vario modo in conflitto per la sovranità, era ancora alla base tanto dei Cahiers de Doleance con cui gli avvocati del Terzo Stato rivendicavano sul finire del sedicesimo secolo di riequilibrare le disarmonie create dai privilegi eccessivi di clero e nobiltà, quanto delle stesse teoriche della resistenza, elaborate in Francia dai costituzionalisti ugonotti Francois Hotman, Theodore Beza (successore di Calvino a Ginevra) e Philippe Du Plessis Mornay, ai tempi delle guerre di religione esplose nel 1562. In tutte queste concezioni - spesso indicate come antenate del costituzionalismo borghese e che che affondavano le radici nella teorica di Niccolò Machiavelli - il diritto di resistenza non poteva configurarsi come individuale ma poteva soltanto appartenere a «magistrature inferiori» o «corpi collettivi» dotati di una pretesa di giurisdizione. Suarez per esempio riteneva necessaria l'autorizzazione del Papa per esercitare il diritto di resistenza; in ogni caso esso era riconosciuto con riluttanza estrema (da Lutero e fra i giuristi da Grotius); non era mai assegnato alla moltitudine popolare. La necessità di sterminare i ribelli, «come cani arrabbiati» secondo Lutero qualora questi si facessero portatori di istanze dal basso (come nel caso delle ribellioni contadine), pareva mettere d'accordo tutti. Fu la struttura istituzionale dell'Inghilterra a modificare in senso moderno il diritto di resistenza producendone quell'individualizzazione che soltanto superficialmente può considerarsi come una sua democratizzazione.
L'emancipazionismo liberale
In Inghilterra infatti la costruzione di uno Stato unitario fu compiuta molto presto e a differenza che in Spagna e Francia fu raggiunto fin dalla Magna Charta un accordo all'interno delle strutture dello Stato fra proprietà terriera e monarchia (naturalmente a spese dei beni comuni). La guerra civile e la Rivoluzione di Cromwell non furono dunque contese per definire quale fosse il luogo della sovranità (e dunque scontri costituenti) ma furono conflitti di potere anche molto aspri ma interni allo Stato costituito. Fu questa essenzialmente la ragione per cui nel sedicesimo secolo si sviluppò una tradizione di pensiero politico nell'ambito del quale gli individui senza mediazioni di corpi intermedi, potevano essere visti come parti costitutive della comunità statale (Commonwealth). Fu Sir Thomas Smith, ambasciatore di Elisabetta in Francia, in un libro pensato anche per il pubblico francese a definire il commonwealth o societé civil come «una società o un agire comune di una moltitudine di uomini liberi legati insieme da un comune accordo per la propria conservazione tanto in pace quanto in guerra», in contrasto chiarissimo con la visione di Bodin fondata sulle corporazioni.
Naturalmente, prima di salutare con il solito entusiasmo acritico le radici emancipative del pensiero liberale, occorre osservare come Smith mettesse in chiaro subito che ci sono uomini liberi che non contano, non governano, non votano, ma possono solo essere governati. Fra questi: «i lavoratori giornalieri, i mercanti e i commercianti che non hanno terra, gli artigiani e i contadini piccoli proprietari, i sarti, i calzolai, i carpentieri i muratori, i produttori di mattoni ecc.. questi non hanno né voce né autorità nel nostro commonwealth».
Nella gabbia dello Stato
È noto che fu l'individuo proprietario, principalmente il protocapitalista agrario, il protagonista vero della rivoluzione inglese, del protettorato di Cromwell e di quel grande compromesso del 1688 fra proprietà privata e sovranità pubblica «divisa» celebrato come rule of law. Il diritto di resistenza proprietario, mai proletario, venne mobilitato nel corso delle rivoluzioni del diciottesimo secolo e quando il suffragio elettorale fu finalmente esteso, a capitalismo ormai realizzato, la rule of law è stata guardiana, allora come oggi, di ogni ripensamento profondo dell'accumulo proprietario individuale. Doveva infine essere più di ogni altro John Locke a depotenziare attraverso un capolavoro di ipocrisia politica che gli fruttò fama eterna, ogni pretesa dei levellers (che comunque in gran parte non mettevano in discussione la proprietà privata ma lottavano per il suffragio elettorale) dei diggers e di ogni altra anelito di emancipazione dei subordinati. Egli chiuse così definitivamente, in solo apparente contrasto con Hobbes, la tenaglia dello stato e della proprietà privata su ogni istituzione del comune.
L'appropriazione capitalistica dell'illuminismo e la grossolanità di certa sua critica postmoderna, capace di appiattire luoghi e protagonisti quanto mai diversi, fece il resto fino a giustificare oggi visioni caricaturali dei beni comuni. In ogni caso adesso, quando non mi par tempo di moderazione, la sola politica degna di esser vissuta deve articolare nella teoria e nella prassi un diritto di resistenza collettivo che si emancipi dall'illusione individualistica e sappia interpretare la comunità come libertà.
Welfare, reddito di cittadinanza, reddito medio garantito, esclusione: temi in discussione, che rinviano a due grandi questioni: quella del diritto alla sopravvivenza e quella del lavoro. I
l manifesto, 15 novembre 2013Nel nostro paese il rischio di esclusione sociale e la crescita ininterrotta dei livelli di povertà (assoluta e relativa) sono tanto alti quanto miseri o inesistenti gli strumenti necessari a combatterli. A partire da condizioni così colpevolmente arretrate non si può che apprezzare il fatto che ben tre proposte di legge (di un gruppo di parlamentari Pd, di Sel e, infine del M5S) siano state presentate alle Camere nell'ultimo anno. Incontrando tuttavia una forte resistenza anche a sinistra dove la più grossa di tutte le balle, la promessa della piena occupazione, continua incredibilmente a godere di un vasto credito. Sentire parlare della insostituibile «dignità del lavoro» di fronte alle condizioni semiservili e ultraricattate in cui versa gran parte del lavoro precario e non poco lavoro dipendente fa accapponare la pelle. In realtà la proposta di legge dei 5Stelle, la più dettagliata delle tre, è più che altro una proposta di Reddito minimo garantito (Rmg) il quale a sua volta, ben lungi dall'assumere i caratteri universalistici e incondizionati del reddito di cittadinanza, costituisce una rivisitazione del sussidio di disoccupazione nell'epoca in cui quest'ultima ha assunto caratteri strutturali e permanenti. Cosicché l'erogazione del reddito è sottoposta a un complicato apparato di verifica e di controllo della «disponibilità all'impiego», che facilmente tende a trasformarsi in uno strumento di ricatto, quando non di coercizione. Incompatibile con quella salvaguardia della libertà e della dignità della persona stabilita dalla Carta di Nizza.
L'Rmg, in vigore in quasi tutti i paesi d'Europa, argina solo limitatamente l'imposizione di lavoro sottopagato e sovente a condizioni ben lontane anche dal più elastico concetto di «dignità». Basti pensare ai mini-job della competitiva Germania, molto simili a una istituzionalizzazione del lavoro nero e dei suoi tassi di sfruttamento, ritenuti indispensabili dalla confindustria tedesca per mantenere gli attuali livelli occupazionali.
Ma se perfino in Europa la questione di un reddito che garantisca a tutti i cittadini un livello di vita decente e libero da coazioni è lungi dall'aver trovato una risposta adeguata, in Italia siamo ancora, nel pieno di una crisi disastrosa, a sollevare la «questione morale» di un reddito svincolato dal lavoro che non c'è o non c'è in termini accettabili. E che quindi non può continuare a fungere da unità di misura dell'inclusione sociale, laddove ormai diverse forme di attività, estranee alle categorie classiche del lavoro, contribuiscono a mantenere e perfino a sviluppare quel legame sociale che i «mercati», compreso quello del lavoro, stanno finendo di devastare.
La questione del reddito di cittadinanza è la questione stessa delle società postindustriali, e ci impone un ripensamento complessivo del welfare, capace di contrastare quello smantellamento dello stato sociale che fa leva tanto sulla sua inefficienza burocratica quanto sull'insoddisfazione dei tanti che ne restano esclusi. E non è certo a partire dal sussidio elargito sotto il controllo di un ufficio di collocamento che questo ripensamento può prendere le mosse. Tuttavia il tema del reddito e di una redistribuzione delle risorse è posto. Si tratta di non fermarsi alle versioni minimaliste e inefficaci.
Due belle recensioni di un libro da leggere, per chi è interessato a un futuro della sinistra che non tradisca il suo passato, comprendendone le rgioni e le passionidal
Corriere della Sera (Paolo Franchi) e Huffington Post (Francesco Marchianò).12 novembre 2013
Corriere della sera
12 novembre 2013
Pci, 1966: l’errore di non scegliere nel duello tra Ingrao e Amendola
di Paolo Franchi
Un viaggio a ritroso nel tempo, per cercare di individuare le ragioni recenti e antiche di una sconfitta che, a sinistra, è prima di tutto la sconfitta della «generazione fortunata», che ha fatto in tempo a formarsi ai tempi della «grande politica» e poi, caduto il Muro, ha buttato al vento la sua occasione. La generazione, per intenderci, che per quarant’anni ha tenuto il campo, nel Pci, nel Pds, nel Pd: e che adesso non può, o almeno non dovrebbe, esimersi dal dovere di un rendiconto. A uso, se non altro, di chi oggi è ragazzo, o giù di lì.
Ce lo propone, questo viaggio, Walter Tocci, nel libro Sulle orme del gambero (Donzelli), un libro che interessa da vicino anche chi (è il mio caso) ne condivide solo in parte le tesi. Non è mai stato un leader, Tocci, ma la sua parte l’ha fatta, eccome, e continua a farla, da senatore e da segretario del Centro per la riforma dello Stato. I primi passi li ha mossi tra i metalmeccanici della Cisl, a Roma è stato prima un dirigente del Partito comunista nelle periferie, poi amministratore comunale e vicesindaco. Ma senza mai sottrarsi, anzi, a quello che un tempo si chiamava il lavoro culturale (in primo luogo sulle politiche urbane, i temi istituzionali, la scienza). E soprattutto senza mai smettere di interrogarsi, come si conviene a un ingraiano che alla scuola del «venerato maestro» ha appreso a coltivare il dubbio come metodo. Conclusa (malamente) la vicenda del Pci (lui era per il «no»), ha scelto, per usare la famosa espressione di Ingrao, di «restare nel gorgo», giungendo sino ad affidare le sue speranze, negli anni Novanta, all’Ulivo. Poi è andato avanti di delusione in delusione, di amarezza in amarezza, fino al 19 aprile del 2013: uno spartiacque (in questo è impossibile dargli torto), perché quei 101 franchi tiratori del Pd che impallinano Romano Prodi segnalano come la sinistra politica sia giunta «al minimo storico nella capacità di influenza sulla vita nazionale, come mai era accaduto, neppure nei momenti più difficili».
Il viaggio a ritroso dell’autore comincia da qui, e non c’è modo, in queste righe, di ripercorrerne criticamente le tappe. Ma il frangente storico in cui Tocci situa, non senza ardimento intellettuale, l’inizio di una lunga crisi, questo sì, è bene segnalarlo. Bisognerebbe risalire, addirittura, al 1966, a quell’XI congresso del Pci in cui, sostiene Tocci, vennero alla luce due diversi e opposti revisionismi post togliattiani, certo quello di sinistra, sconfitto, di Pietro Ingrao, ma pure, eccome, quello di destra, solo in parte vittorioso, di Giorgio Amendola, la cui eco si avverte ancora, nitidamente, in Giorgio Napolitano. La forma partito del Pci (ma forse, prima ancora, la forma mentis dei duellanti) impedì che prendessero corpo come due ipotesi strategiche alternative, destinate a combattersi o a trovare la via di un’inedita intesa: il partito restò sempre nelle mani di un centro che, per governarlo, si appoggiò ora sulla destra, come negli anni della solidarietà nazionale, ora sulla sinistra, come nell’ultima stagione di Enrico Berlinguer. Una formula che sembrava vincente, e invece condannò il Pci all’entropia, e impedì ai due revisionismi di crescere, dannando la sinistra all’astrattezza e la destra a un realismo destinato sovente a sconfinare nel moderatismo tout court .
La tesi, vale la pena di ripeterlo, è ardita, ma anche affascinante, e meritevole di riflessioni più approfondite. Così come varrebbe la pena di soffermarsi più attentamente su un’evidenza sempre sottaciuta, a lungo impensabile, e da Tocci enunciata con parole impietose: quel divorzio tra sinistra e popolo per cui «le persone più disagiate seguono la destra e guardano con diffidenza se non con disprezzo verso la sinistra, sempre più accasata nella neoborghesia urbana». Tocci prova a ragionarci su con passione fredda, sottraendosi ai luoghi comuni sul populismo e soprattutto restando a modo suo un militante in cerca di un filo che possa legare il passato, il presente e, perché no, il futuro. Si può dissentire da molte delle sue affermazioni. Ma, specie in tempi di politica usa e getta, già questo è un merito non da poco.
Huffington post
12 novembre 2'14
«Il mondo contemporaneo ci mette di fronte a un vero e proprio groviglio della paura, ed è questo groviglio che dovremmo iniziare a dipanare se vogliamo cercare di analizzare le cause, le conseguenze e i possibili sviluppi del malessere generalizzato che pare essersi impossessato delle società umane e minacciare il loro equilibrio».
La Repubblica, 14 novembre 2013
«Non abbiate paura!» dichiarò solennemente Giovanni Paolo II nel 1978 mentre saliva al soglio pontificio. E invitava l’umanità ad aprire «i confini degli Stati, i sistemi economici e quelli politici, gli immensi campi della cultura, della civiltà e dello sviluppo». Trent’anni più tardi, Romano Prodi, sul quotidiano La Croix,definirà «profetiche» queste parole, sottolineando come esse si rivolgano a un Occidente sempre più in preda alla paura.
L’aggettivo «profetico», utilizzato retrospettivamente, si applica più all’appello in sé che non al contenuto del messaggio. Poiché, se l’apertura annunciata o auspicata da Giovanni Paolo II è effettiva in ambito economico, e vi sancisce il trionfo del capitalismo finanziario più egemone, oggi servirebbe davvero molto ottimismo per scovare nel mondo i segni certi di una nuova primavera, magari araba. Più che mai, il mondo ha paura.
Il cambiamento di scala che riguarda la vita umana su tutto il pianeta è fondamentalmente economico e tecnologico: le innovazioni tecnologiche creano nuovi beni di consumo che, a loro volta, ricreano la domanda ed esigono nuove forme di organizzazione del lavoro. Il capitalismo è riuscito a creare un mercato che ha la stessa estensione della Terra. Le grandi aziende sfuggono alla logica dell’interesse nazionale. La logica finanziaria impone agli Stati le sue regole. E, all’improvviso, questo dominio è diventato così evidente da essere inappellabile, salvo i clamori delle manifestazioni di protesta che lo accompagnano senza produrre il minimo cambiamento. La lotta di classe c’è stata, ma la classe operaia l’ha persa. L’Internazionale trionfa, ma è capitalistica.
Al giorno d’oggi i vecchi sono piuttosto chiacchieroni, ed è Stéphane Hessel, nel 2010, a far eco al papa scomparso: «Indignatevi!». Questo secondo appello suona al contempo come una giustificazione del primo (l’indignazione è una forma sublimata di paura) e come la constatazione della sua sconfitta, visto che Stéphane Hessel denuncia sia il trattamento a cui sono sottoposti gli immigrati sia la dittatura dei mercati finanziari, l’aumento delle disuguaglianze e, in generale, gli aspetti perversi della globalizzazione capitalistica.
Non sarà che, oggi, la paura della vita abbia rimpiazzato la paura della morte? Se diamo un’occhiata alle notizie quotidiane, caratterizzate dall’incremento di violenze di ogni sorta, ricaviamo proprio questa impressione. Ma questa constatazione generale non deve spingerci a ignorare la diversità delle situazioni. A seconda delle regioni del mondo e dei regimi politici, a seconda dell’appartenenza etnica o sociale, dell’appartenenza a un sesso o a un altro, le ragioni per avere paura sono diverse, la morte è più o meno presente e la vita più o meno intollerabile. Ci sono paure da ricchi e paure da poveri, e queste rispettive paure incutono paura le une alle altre: paure delle paure, paure al quadrato in un certo senso. Gli occidentali non sfidano il mare su fragili imbarcazioni per fuggire dal loro continente mettendo a rischio la vita. Si accontentano di portare soccorso a qualche naufrago e di piangere i morti; per di più, i sopravvissuti occupano il loro spazio, sagome fantasmatiche venute da lontano e di cui non sanno come liberarsi.
Resta il fatto che un rapido inventario delle nuove paure umane ci obbliga a registrare l’incremento di forme di violenza relativamente inedite, ancor più significative per il fatto che ne sono esposti anche i paesi più ricchi dell’Occidente. Queste violenze possono essere distinte in tre categorie, a loro volta composite: le violenze economiche e sociali, specialmente nell’ambito dell’impresa, le violenze politiche (razzismo e terrorismo inclusi), e infine le violenze tecnologiche e quelle naturali, le seconde spesso scatenate o amplificate dalle prime. Queste tre forme di violenza generano paure specifiche: lo stress, il panico o l’angoscia, ma le paure, come le violenze, si sommano le une alle altre, si combinano e si influenzano l’un l’altra, a maggior ragione in un’epoca di diffusione accelerata di immagini e messaggi al pianeta intero. Nel complesso, si manifestano per l’ossessione dell’altro, confondendo ogni categoria di alterità, e per il timore del futuro. Ma questa ossessione e questo timore hanno molteplici componenti. Il mondo contemporaneo ci mette dunque di fronte a un vero e proprio groviglio della paura, ed è questo groviglio che dovremmo iniziare a dipanare se vogliamo cercare di analizzare le cause, le conseguenze e i possibili sviluppi del malessere generalizzato che pare essersi impossessato delle società umane e minacciare il loro equilibrio. [...] «Abbiate paura!», è stato questo l’avvertimento lanciato e reiterato da Bin Laden. Siamo ben lontani dall’aver dimenticato gli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno segnato simbolicamente la nostra entrata nel nuovo secolo. Non erano certo i primi della lunga lista di atti terroristici che, specialmente in Francia, nel corso degli ultimi trent’anni del Ventesimo secolo avevano creato un clima di insicurezza molto ansiogena. E non hanno neppure chiuso la lista
degli attentati suicidi che si perpetuano un po’ dappertutto sul pianeta. Ma se c’è un prima e un dopo l’11 settembre, così come c’è stato un prima e un dopo Hiroshima, non è soltanto perché questi attentati hanno rappresentato in modo spettacolare, per il numero e l’origine delle vittime (2.973 morti appartenenti a 93 paesi diversi), per la scelta degli obiettivi (il Pentagono, il World Trade Center) e dei mezzi (quattro aerei dirottati, 19 pirati sacrificati), un condensato delle follie e dei furori che minacciano il mondo, una sorta di globalizzazione del terrore; è anche perché hanno scatenato una forma di schizofrenia collettiva di cui non ci libereremo più.
È un double bind, un doppio vincolo, se si vuole, o meglio una doppia paura. Da un lato, nessuno avrebbe tollerato l’idea di rivedere un giorno delle immagini come quelle trasmesse e ritrasmesse dalle televisioni di tutto il mondo. Dall’altro, era difficile aderire senza riserve alla «guerra contro il terrore» decisa da George W. Bush contro l’Iraq, che, oltre al fatto che pareva aver sbagliato bersaglio, ufficializzava l’esistenza di una sorta di larvato conflitto mondiale di cui non erano perfettamente chiare né le ragioni né la posta in gioco. Non ne siamo ancora usciti e ci troviamo sempre di fronte a scenari tanto più sconcertanti quanto più i loro protagonisti cambiano volto e ruolo da un episodio all’altro: il fedele alleato della vigilia diventa l’insopportabile dittatore del giorno dopo, e i terroristi di ieri gli alleati responsabili di oggi.
Così come la mania di persecuzione colpisce generalmente quegli individui che hanno qualche buon motivo per sentirsi perseguitati, le paure che da qualche tempo ci incalzano hanno fondamenti oggettivi, e ciò le rende ancora più temibili: rischiano di essere cattive consigliere e possiamo paventare tanto le loro conseguenze quanto i fatti che le hanno scatenate. Il concatenamento delle paure è l’arma totale di ogni Terrore.
Difficile pensare che con un governo di destra qualche governante avrebbe osato avviare una simile impresa. Forse neppure il fascista Almirante ci avrebbe provato. Ci volevano le larghe intese e un PD come questo. Il manifesto, 14 novembre 2013
Scopo ufficiale della «campagna navale» - organizzata dal ministero della Difesa in collaborazione con i ministeri degli Esteri, dello Sviluppo Economico e il ministero dei Beni Culturali - è presentare «il Sistema Paese in movimento e rafforzare la presenza dell'Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali, oltre che fornire assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose». Questo l'annuncio ufficiale esatto del Ministero della difesa del 5 novembre con tanto di presentazione del ministro Mario Mauro.
È questo il motivo della missione, annunciato anche dalla Marina Militare il 9 novembre che la definisce «missione di promozione» ed elenca le industrie belliche che vi partecipano.
E invece ieri il ministro Mario Mauro, pizzicato nel segno a quanto pare, ha voluto reintervenire alla Camera per «fugare ogni dubbio», ha detto e per spiegare che il gruppo navale «non ha alcuno scopo di vendere sistemi d'arma all'estero» e che comunque tutto è «nel rispetto delle convenzioni internazionali e del trattato Onu». Magari non va a venderle come tappeti direttamente e negli stessi giorni della crociera di morte, ma secondo il suo stesso annuncio e quello del suo ministero, va a promuoverle, a pubblicizzarle, a piazzarle, a far commercio. Comunque per venderle, sospettiamo.
E in aree dove impazzano guerra, conflitti armati e repressioni (p. s. il Congo, la Nigeria, il Kenya), dove governi potenti finanziano guerre per procura altrove (come l'Arabia saudita in Siria, o il Barhein con la sua primavera cancellata dai militari), o dove politiche di spese sociali vengono ridimensionate se non cancellate per sostenere la sicurezza interna e le frontiere (come in Angola e Mozambico). La domanda è Quale parte in commedia sta recitando il ministro-macchietta Mario Mauro?
Ora il gruppo navale italiano alla fine è salpato ieri. Farà scalo in 7 porti mediorientali del Mar Rosso e del Golfo Persico - Gidda (Arabia Saudita), Mascat (Oman), Dubai (E.A.U.), Abu Dhabi (E.A.U.), Doha (Qatar), Mina Sulman (Bahrein), Kuwait City (Kuwait) - e in 13 porti africani: Gibuti (Gibuti), Mombasa (Kenya), Antseranana (Madagascar), Maputo (Mozambico), Durban (Sudafrica), Città del Capo (Sudafrica), Luanda (Angola), Pointe-Noire (Congo), Lagos (Nigeria), Tema (Ghana), Dakar (Senegal), Casablanca (Marocco) e Algeri (Algeria). Il gruppo, dopo un viaggio di cinque mesi, rientrerà in Italia il 7 aprile 2014.
Il costo della campagna navale è previsto in 20 milioni di euro, di cui 7 a carico dello stato e 13 dei «partner dell'industria privata». Soldi ben spesi: essi potranno usare la portaerei, lunga 244 metri e larga 39, come una grande fiera espositiva itinerante. A bordo sono stati installati gli stand in cui espongono i loro prodotti e contattano i clienti. La missione della portaerei Cavour, ha assicurato il ministro Mauro intervenendo ieri alla Camera durante l'esame del dl missioni, non è di «vendere sistemi d'arma italiani all'estero». Non si capisce allora perché al centro dell'Expo galleggiante ci siano le maggiori industrie belliche italiane con il loro campionario, che sarà mostrato ai potenziali acquirenti di porto in porto. In primo piano quelle di Finmeccanica: l'AgustaWestland che presenta elicotteri da guerra, di cui due sono esposti sulla Cavour; la Oto Melara, che espone il sistema d'arma 127/64 LW Vulcano caratterizzato da un elevato ritmo di fuoco (fino a 35 colpi al minuto) e dalla possibilità di utilizzare munizioni guidate; la Selex ES, specializzata in sistemi radar e di combattimento.; la Wass, che presenta nello stand Finmeccanica il siluro pesante Black Shark; Telespazio, che offre i suoi sistemi di telecomunicazioni militari, anche satellitari; la Mbda, che espone i missili Aspide, Aster, Teseo/Otomat e altri. La Elt offre apparecchiature elettroniche per la guerra aerea, terrestre e navale; la Intermarine, vascelli militari. I clienti che non possono permettersi i cannoni Otomelara a fuoco rapido potranno sempre trovare, nello stand Beretta sulla Cavour, una vasta gamma di pistole automatiche. I prodotti civili degli altri stand sono in genere di lusso, come gli aerei executive della Piaggio e della Blackshape.
Accanto alle armi esposte negli stand, ci sono sulla Cavour cinque caccia Sea Harrier a decollo verticale, quattro elicotteri, una settantina di fucilieri della Brigata San Marco e specialisti subacquei del Comsubin. La campagna navale infatti, oltre a promuovere le «eccellenze italiane», serve a «operazioni di contrasto alla pirateria» e all'«addestramento di personale militare» soprattutto in Africa. Per «l'assistenza umanitaria» ci sono a bordo della Cavour la Croce Rossa e le onlus Fondazione Francesca Rava e Operation Smile.
Una organizzazione perfetta. Si vanno a vendere altri armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa.
Ogni cannone, ogni missile, ogni mitraglia venduta dai commessi viaggiatori della Cavour ai governi clienti significherà meno investimenti locali nel sociale e quindi altri migliaia di bisognosi, affamati e morti, soprattutto tra i bambini, per sottoalimentazione cronica e malattie che potrebbero essere curate. Tranquilli. Perché sulla Cavour ci sono anche gli «operatori umanitari» pronti a soccorrere i disperati che abbiamo contribuito a creare con il traffico di armi, per dimostrare quanto l'Italia sia sensibile e pronta ad aiutare «le popolazioni bisognose».
Nel Rapporto 2013 della marina militare si sottolinea che che le navi da guerra sono «ambasciatrici dell'Italia». Una nave come la Cavour deve essere considerata «proiezione del Paese, non solo come strumento militare ma anche come veicolo per promuovere i nostri interessi economici: la nave, dunque, quale simbolo vincente del Made in Italy» come dimostra «il successo commerciale della nostra industria per la Difesa». In tal modo la marina militare sponsorizza anche se stessa, dimostrando che spendere 3,5 miliardi di euro per una nave come la Cavour (che costa per un giorno di navigazione 200 mila euro) e altri miliardi per dotarla dei caccia F-35, significa fare un investimento per il «Sistema Paese».
Un paese che deve essere militarmente pronto alla «proiezione di capacità per intervenire là dove necessario», ossia a proiettare le proprie forze armate là dove sono in gioco gli interessi economici e politici delle potenze occidentali, in primo luogo degli Stati uniti. Non a caso la campagna navale italiana si svolge in Medio Oriente e Africa, due delle aree strategicamente più importanti per gli Usa e la Nato.
Una volta per accusare la vocazione naturale (per la sua collocazione geografica nel Mediterraneo), dell'Italia alla guerra, nonostante l'articolo 11 della nostra Costituzione, dicevamo «portaerei-Italia». E adesso l'Italia si è fatta portaerei.
«La Francia ha commesso l’errore imperdonabile di essere fiscalmente responsabile, senza infliggere sofferenze ai poveri e ai più sventurati. E quindi deve essere punita». L'obiettivo del potere globale non è insomma uscire dalla crisi, ma rendere più forti i forti e più deboli i deboli.
La Repubblica, 12 novembre 2013
VENERDÌ scorso l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato la Francia. La notizia è arrivata in prima pagina sui giornali e molti articoli indicano che la Francia è in crisi. Ma i mercati non hanno fatto una piega: gli interessi passivi francesi, molto vicini al loro minimo storico, non si sono quasi mossi. Ma allora, che cosa sta succedendo?
La risposta è che la decisione di S&P deve essere contestualizzata nell’ambito della più vasta politica di austerità fiscale. E mi riferisco a quella politica, non a quella economica. Perché il complotto contro la Francia — può sembrare che io sia un po’ faceto, ma in verità c’è molta gente che cerca di screditare quel Paese – è un’evidente dimostrazione del fatto che in Europa, come in America, i predicozzi fiscali non si preoccupano affatto dei deficit. Anzi, sfruttano i timori di indebitamento per portare avanti un’agenda ideologica. E la Francia, che si rifiuta di stare al gioco, è diventata il bersaglio di un’incessante propaganda negativa.
Lasciate che vi dia un’idea di ciò di cui sto parlando. Un anno fa la rivista The Economist dichiarò che la Francia era «la bomba a orologeria nel cuore dell’Europa», con problemi che al confronto avrebbero reso trascurabili quelli di Grecia, Spagna, Portogallo e Italia. Nel gennaio 2013, il direttore generale senior di Cnn Money ha dichiarato «in caduta libera» la Francia, «nazione che si avvia verso una Bastiglia economica». Sentimenti assai simili a questi sono reperibili in tutte le newsletter di economia.
Tenuto conto di questo livello del discorso, uno si accosta ai dati riguardanti la Francia aspettandosi il peggio, per scoprire invece che si tratta sì di un Paese in difficoltà economica – e quale Paese non si trova in tale condizione? – , ma che in linea generale se la passa bene o forse addirittura meglio della maggior parte dei suoi vicini, con l’unica notoria grande eccezione della Germania. Di recente la crescita francese è stata apatica, ma molto superiore, per esempio, a quella dei Paesi Bassi che hanno tuttora un rating da tripla A. Secondo le stime standard, una decina di anni fa i lavoratori francesi erano in effetti un po’ più produttivi delle loro controparti tedesche. E indovinate un po’? Lo sono ancora. Nel frattempo, le prospettive fiscali della Francia appaiono chiaramente non preoccupanti. Il deficit di bilancio è sceso bruscamente e di molto dal 2010, e il Fondo monetario internazionale si aspetta un rapporto debito/Pil più o meno stabile per il prossimo quinquennio.
Che dire della zavorra sul lungo periodo rappresentata da una popolazione sempre più anziana? In Francia il problema c’è, come del resto c’è in tutte le nazioni benestanti. Ma la Francia ha un tasso di natalità superiore a quello della maggioranza dei Paesi europei, in parte grazie ai programmi statali che incoraggiano le nascite e semplificano la vita alle madri lavoratrici, al punto che le proiezioni demografiche sono di gran lunga migliori rispetto a quelle dei Paesi vicini, Germania inclusa. Intanto il sistema sanitario francese, meritevole di attenzione perché assicura prestazioni di alta qualità a spesa contenute, costituirà nell’immediato futuro un notevole vantaggio fiscale.
Attenendoci alle sole cifre, pertanto, è difficile capire perché la Francia si meriti cotanto biasimo. Ma allora, ancora una volta, che cosa sta succedendo? Ecco un primo indizio: due mesi fa Olli Rehn, commissario europeo per le questioni economiche e monetarie – nonché uno dei principali promotori delle rigide politiche di austerità – ha disapprovato la politica fiscale francese, apparentemente esemplare. Perché? Perché essa si basava su aumenti fiscali più che su tagli alle spese – e gli aumenti fiscali improvvisi, ha dichiarato, «annienterebbero la crescita e frenerebbero la creazione di posti di lavoro». In altre parole, non conta ciò che ho detto in tema di disciplina fiscale: si suppone che voi dobbiate smantellare le reti di sicurezza.
La spiegazione che S&P ha dato del declassamento del rating della Francia, anche se formulato meno chiaramente, in pratica afferma esattamente la stessa cosa: la Francia è stata declassata perché «è improbabile che l’attuale approccio del governo francese alle riforme di bilancio e alle riforme strutturali del regime tributario, così come ai prodotti, ai servizi e al mercato del lavoro, migliori sostanzialmente le prospettive a medio termine della Francia». E quindi, ancora una volta: lasciamo perdere le cifre di bilancio, dove sono i tagli alle tasse e la deregulation? Si potrebbe pensare che Rehn e S&P abbiano basato le loro domande su prove circostanziate che i tagli alla spesa sono di fatto meglio per l’economia degli aumenti delle tasse. Ma così non è. Anzi, la ricerca del Fmi indica che quando in una recessione si cerca di ridurre il deficit, vale esattamente il contrario: le fluttuazioni temporanee e repentine delle tasse arrecano molti meno danni dei tagli alla spesa. A proposito: quando qualcuno inizia a decantare le meraviglie della “riforma strutturale”, prendete le sue parole cum grano salis.
Per lo più questa definizione è un’espressione in codice per indicare la deregulation, e le prove relative alle virtù della deregulation sono decisamente contraddittorie. Come ricorderete, l’Irlanda fu elogiata per le sue riforme strutturali varate negli anni Novanta e Duemila, e nel 2006 l’attuale cancelliere dello scacchiere britannico, George Osborne, definì quello irlandese un «fulgido esempio». Ma come è andata a finire?
Forse tutto ciò suonerà familiare alle orecchie dei lettori americani e così è giusto che sia. I predicozzi fiscali degli Stati Uniti si rivelano, quasi sempre e invariabilmente, maggiormente interessati a tagliare Medicare e la Social Security che a tagliare realmente i deficit. E adesso i sostenitori europei dell’austerity si rivelano per lo più in linea con loro. La Francia ha commesso l’errore imperdonabile di essere fiscalmente responsabile, senza infliggere sofferenze ai poveri e ai più sventurati. E quindi deve essere punita.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2013 New York Times News Service
Sarà il primo democratico a guidare la città dopo vent’anni. Ha ottenuto una vittoria schiacciante grazie a una campagna elettorale contro le disuguaglianze e l’emarginazione. Internazionale n. 1025, 8 novembre 2013; dal N
ew York Times
De Blasio, 52 anni, democratico, difensore civico di New York, ha sconfitto l’ex presidente dell’azienda cittadina dei trasporti Joseph J. Lhota. La sua vittoria, la più schiacciante nella corsa a sindaco dal 1985, quando Edward I. Koch vinse con un margine di 68 punti, legittima inequivocabilmente de Blasio a seguire il suo programma di sinistra.
“Cari concittadini, oggi avete detto con fermezza che volete un cambio di rotta per questa città”, ha detto ai suoi elettori durante la grande festa a Park slope, nel quartiere di Brooklyn, dove i suoi figli adolescenti hanno ballato sul palco. De Blasio, che ha origini italiane, ha ringraziato la folla in inglese, in spagnolo e perfino con qualche parola di italiano. “Nessuna esitazione: le persone di questa città hanno scelto una strada progressista e stasera siamo pronti a metterci in marcia, insieme”.
Al di là del curriculum formidabile del candidato, la vittoria di de Blasio è il trionfo di un messaggio populista in una campagna elettorale che era diventata un referendum su un’intera epoca, quella cominciata con Rudolph W. Giuliani e finita con Michael R. Bloomberg, rieletto sindaco per tre volte.
Durante la sua corsa de Blasio ha messo in ombra gli avversari canalizzando la crescente frustrazione dei newyorchesi su temi come la disuguaglianza, la politica di sicurezza troppo aggressiva e la mancanza di alloggi a prezzi ragionevoli, e affermando che la città non deve lasciare indietro nessuno. Come forse nessuno prima di lui, ha puntato sulla sua famiglia multirazziale per comunicare con un elettorato sempre più vario, appassionando gli elettori con uno spot televisivo in cui compare Dante, il carismatico figlio quindicenne con la sua appariscente capigliatura afro. De Blasio sarà il primo democratico a guidare New York do- po vent’anni. Il suo messaggio ha risvegliato lo scontento più profondo e la voglia di cambiare degli abitanti delle cinque circoscrizioni cittadine.
Pochi errori
Il suo rivale Lhota, vicesindaco durante l’amministrazione Giuliani e con un passato di banchiere a Wall street, è entrato in gara in pompa magna e con molte promesse: un repubblicano moderato, un manager scaltro dalla forte personalità, noto per le sue citazioni dal film Il padrino e i suoi tweet poco sobri. Ma nei suoi comizi si è rivelato monotono e poco convincente. I suoi attacchi a de Blasio, descritto come un “socialista” che avrebbe riempito le strade di delinquenti, non sono sembrati di gran classe. Inoltre, nonostante i suoi legami con il mondo della finanza, è riuscito a racimolare solo 3,4 milioni di dollari di donazioni, un terzo della somma raccolta da de Blasio.
Lhota è stato spiazzato dall’incredibile ascesa del suo avversario. Cresciuto in Massachusetts, fan dei Red Sox, da ragazzo de Blasio ha abbracciato gli ideali di sinistra dei sandinisti in Nicaragua, poi ha sposato una donna che prima si dichiarava lesbica, e non ha mai diretto un’organizzazione di più di 300 persone. Ma il nuovo sindaco, che è in politica da molti anni ed è stato il responsabile delle campagne elettorali di Hillary Clinton e del deputato democratico Charles B. Rangel, ha diretto una macchina disciplinata, che ha commesso pochi errori e non ha dato niente per scontato, contrariamente a Lhota.
Per il giorno del voto de Blasio ha chiamato a raccolta circa diecimila volontari distribuendoli in quaranta punti della città per incentivare l’affluenza alle urne. Lhota è riuscito a reclutare 500 persone, pagate, in nove postazioni. Secondo gli exit poll realizzati dalla Edison Research, gli sforzi per un impegno coordinato sono stati ripagati, facendo guadagnare a de Blasio i voti di elettori di ogni etnia, genere, età, religione, reddito e livello d’istruzione.
Dicono: dobbiamo tagliare perchè ce lo chiede l'Europa: «ma chi ci impedisce di avere una seria patrimoniale, un taglio alle spese militari, una progressività fiscale? Chi è responsabile di spendere solo il 55% dei 6,7 miliardi di Fondi europei?».
Il manifesto, 8 novembre 2013
L'accusa al governo tedesco è di dettare la linea dell'austerity, a vantaggio della Germania e con il conseguente impoverimento dei paesi del Sud Europa. Ed è proprio in quest'area europea affacciata sul Mediterraneo che cresce vistosamente un vero e proprio rancore contro la Merkel e l'euro, come una coppia malefica, sadica, mai sazia del sangue alle popolazioni europee più povere, a cominciare dalla Grecia.
Nel biennio dolente, 2012/2013, ci sono state grandi manifestazioni popolari contro le politiche di austerity: dagli indignados in Spagna, occupanti Plaza del Sol per più di un mese, a quelle più cruente in Grecia (con morti e centinaia di feriti), a quelle meno eclatanti in Portogallo, Italia e, sia pure in tono minore, in Francia. Risultati? Zero. I governi delle "larghe intese" ormai prevalenti in quasi tutta l'Ue hanno continuato con ostinazione ad adottare ricette velenose capaci di produrre solo una prolungata recessione e di aumentare il rapporto debito/Pil.
Alle critiche e alle manifestazioni di protesta hanno risposto in coro: ce lo chiede l'Europa! Con questo ritornello non hanno fatto altro che accrescere la rabbia contro Bruxelles e fatto riemergere oscure forze nazionalistiche che potrebbero causare in breve tempo la fine della stessa Unione europea. Ma, è proprio vero che l'euro e le politiche di austerity decise dalla Merkel sono la causa esclusiva dei nostri mali? Andiamo per ordine. Da quando i titoli di stato dei paesi del sud - Europa, e dell'Irlanda, sono entrati nell'occhio del ciclone della speculazione finanziaria, Bruxelles è intervenuta con forza, richiedendo - in cambio del sostegno finanziario - misure drastiche che vanno dal taglio alla spesa pubblica, ai dipendenti pubblici, accelerazione dei processi di privatizzazione, ecc. La Grecia è il paese che ha subito i tagli più feroci alla spesa pubblica e le politiche di austerity/privatizzazioni più draconiane, ma anche il paese a cui è stato accordato un "dono" di 137 miliardi di debito che è stato cancellato! Poco meno dolorose sono state le ricette europee per gli altri paesi - Spagna, Portogallo... - "aiutati", con risultati ugualmente catastrofici.
Viceversa, l'Italia, che non ha chiesto aiuto a Bruxelles - unico merito di Monti - è stata sottoposta ad una sola clausola fondamentale: un tetto al deficit/Pil non superiore del 3% per quest'anno, da azzerare nei prossimi anni, fino ad arrivare ad una riduzione del rapporto debito/Pil del 60%. Attualmente è del 173% per la Grecia, del 134% per l'Italia, e decisamente più basso negli altri paesi del sud- Europa. Gli inviti a tagliare la spesa pubblica o a privatizzare fanno parte della moral suasion degli ideologici neoliberisti di Bruxelles, ma non costituiscono nessun diktat, come invece ci hanno raccontato finora i governi "tecnici".
Ora, di fronte a questi vincoli la domanda è : possiamo restare sotto il tetto del 3% del rapporto deficit/Pil creando posti di lavoro e rendendo meno sperequata la nostra società ? In altre parole: chi ci impedisce di avere una seria patrimoniale, una progressività fiscale che colpisca il redditi medio-alti, un taglio netto alla spesa militare ed alle megaopere inutili e dannose che ci costano svariati miliardi ? La risposta è: nessuno ce lo impedisce. Come dimostrano diversi studi e proposte nel merito, come quella di Sbilanciamoci o il "Piano per il lavoro" del Prc, si possono creare centinaia di migliaia di posti di lavoro tagliando spese inutili e dannose, distribuendo diversamente il carico fiscale, restando dentro questa compatibilità del deficit al 3%. Cosa c'entra Bruxelles , l'arcigna Merkel , con tutto questo? Niente. Se i governi tecnici di Monti e Letta non hanno sostanzialmente modificato il carico fiscale, spostandone il peso sui ceti medio-alti, se non hanno voluto varare una patrimoniale, se hanno continuato a sprecare miliardi in opere inutili e dannose (a partire dal Tav), se hanno incrementato i finanziamenti alla spesa militare, è solo perché sono ideologicamente e materialmente legati alla borghesia finanziaria, parassitaria (e criminale), che gestisce il potere in questo paese. Se quest'anno, ancora una volta, non riusciamo a spendere i 6,7 miliardi di Fondi europei ( Fesr e Fse) utilizzandone, male, solo il 55%, se abbiamo un sistema di corruzione capillare che ci costa, secondo alcune stime, circa 60 miliardi di euro l'anno, se abbiamo una giustizia civile che è tra le più lente del mondo e rende incerto il diritto, non è certo perché l'ha deciso Frau Merkel. Per non parlare delle gravi infrazioni in cui siamo incorsi in merito alla tutela ambientale, sovraffollamento carceri, accoglienza immigrati, ecc., con ben 103 procedure aperte con tanto di multe che pesano sul bilancio statale, come hanno ben documentato su questo giornale Canetta e Milanesi.
In breve, possiamo ben dire che in Italia l'alibi europeo - ce lo chiede l'Europa! - ha funzionato per far passare politiche neoliberiste che hanno impoverito il paese, sotterrato il movimento sindacale, smantellato il welfare. In effetti, i nostri "tecnici" per fare della buona macelleria sociale sono stati molto bravi sul piano della comunicazione, riprendendo una tradizione radicata tra i politici meridionali : la colpa è sempre di Roma che non finanzia, che si mangia i soldi, mai loro! C'è sempre un nemico esterno che giustifica le nefandezze del potere che governa un paese o una regione. Non è un caso che i movimenti nazionalisti anti-euro siano spesso cavalcati dalle forze economiche più oscure dei singoli paesi. Forse è arrivato il momento di finirla, di dare al Cesare quel che di Cesare. L'Unione europea va rifondata, le politiche economiche radicalmente cambiate, ma non dimentichiamoci le responsabilità gravissime di chi sta governando questo paese da molto, troppo, tempo.
«Si abbandonano i luoghi dei diritti di cittadinanza: lavoro e istruzione, salute, sacrificati dalla prepotenza di chi, con toni ricattatori, ha chiuso l’orizzonte politico intorno all’Imu, mentre gli altri chinano la testa e si sbracciano nelle rassicurazioni».
La Repubblica, 8 novembre 2013
ABBANDONATA alle distorte rappresentazioni della realtà fornite dai talk show televisivi, vittima di una sorta di ipnosi da “stabilità obbligata”, l’opinione pubblica stenta a cogliere quello che si presenta come il tratto più appariscente dell’attività del governo. Fin dai giorni delle trattative per la sua formazione, il governo è stato ossessivamente prigioniero della questione dell’Imu.
Della questione Imu sono ormai evidenti le conseguenze negative sulla politica economica e, più in generale, sul senso complessivo degli attuali equilibri politici. Sappiamo che la richiesta perentoria dell’abolizione per tutti dell’imposta sulla prima casa corrisponde alla pretesa berlusconiana di vedere integralmente rispettata una sua promessa elettorale come condizione per il sostegno al governo. È sempre buona cosa che gli impegni presi con i cittadini non vengano dimenticati all’indomani delle elezioni. Ma è sempre necessario valutare poi la portata che assumono quando devono divenire parte di un programma comune di una maggioranza ed essere così collocati nel quadro complessivo dell’azione governativa. Questo elementare passaggio è stato omesso, l’Imu è stata trasformata nell’unica luce capace di illuminare l’intero modo d’essere del governo, innescando una quotidiana “verifica” della possibilità stessa della sopravvivenza del governo. Da mesi assistiamo ad una caccia quotidiana alle risorse necessarie per l’abolizione dell’Imu, con coperture talvolta acrobatiche e, comunque, con il sacrificio di finalità e bisogni assai più importanti, stabilendo una impropria graduatoria tra gli obiettivi da realizzare. Dal punto di vista strettamente politico, questa vicenda ha fatto sì che l’equilibrio sia stato nettamente spostato a favore del Popolo della libertà, poiché sono subito scomparse dall’orizzonte governativo promesse elettorali altrettanto impegnative fatte dal Pd. Una asimmetria che pesa, che alimenta sfiducia nella capacità del Pd di esprimere una azione politica coerente, rafforzando pure la convinzione, sempre più diffusa, che la politica sia ormai affare di interessi di parte, lontana da un’idea di interesse comune dei cittadini.
Ma questa vicenda fa emergere una questione più generale, che può essere definita come “l’ingannevole universalismo” dell’abolizione dell’Imu. La scomparsa generalizzata di questa imposta sulla prima casa, infatti, pesa sulla fiscalità generale, come accade, o dovrebbe accadere, per tutti i servizi resi dallo Stato ai cittadini in condizione di piena parità, mentre in questo caso si deve fare riferimento alla specifica situazione in cui si trova ogni persona. La scelta di abolire l’Imu sulla prima casa indipendentemente dalla condizione economica dei proprietari diviene così parte di una dinamica che si è venuta consolidando in questi anni, e che consiste nello smantellamento del principio della progressività dell’imposizione tributaria, specificamente prevista dall’articolo 53 della Costituzione. Vale la pena di rileggere integralmente questa norma: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Davvero parole pronunciate vanamente in quel deserto di ascolto che è divenuta la politica ufficiale. E che sono una conferma ulteriore dell’assenza di sensibilità costituzionale nell’azione di governo, poiché si ignora non soltanto il principio della progressività dell’imposta, ma lo stesso principio di eguaglianza. Questo, infatti, non è violato esclusivamente quando vengono trattate in modo difforme situazioni identiche. Lo è anche quando si trattano in modo eguale situazioni tra loro diverse. E questo è proprio il caso dei proprietari delle abitazioni, che non costituiscono una categoria unificata dal titolo formale di proprietario di una prima casa, ma che devono essere considerati nelle loro molteplici e differenziate situazioni di contribuenti. Si sta così realizzando una indebita dissipazione di risorse pubbliche a vantaggio di contribuenti abbienti o ricchissimi, della rendita fondiaria, del sostegno a un mercato immobiliare in difficoltà. Risorse ben più cospicue di quelle che, con grande scandalo, si scoprono essere state destinate ai piaceri voluttuari di consiglieri regionali o comunali.
Mentre ci si incammina lungo i sentieri accidentati dell’ingannevole universalismo, si abbandonano i luoghi dove l’universalismo dovrebbe essere sempre praticato, quelli dove si insediano i diritti di cittadinanza: lavoro e istruzione, salute e abitazione. Appunto quelli sacrificati dalla prepotenza di chi, con toni ricattatori, ha chiuso l’orizzonte politico intorno all’Imu, mentre gli altri chinano la testa e si sbracciano nelle rassicurazioni.
«Una storia normale»: espressione tragica dei miti, delle immagini diffuse e venerate, delle divinità. Provate a dare un nome alle cause, a individuare gli attori che hanno foggiato maschere e spinto giovani donne a indossarle.
La Repubblica, 4 novembre 2013
Questa è una storia normale. Una storia di ragazzine spavalde, cresciute in famiglie normalmente complicate in un quartiere né bello né brutto, né alto né basso. «Due belle ragazze, sembrano molto più grandi della loro età. Imbronciate, aggressive. La più grande, durante l’interrogatorio, ha pianto solo quando le hanno detto che le avrebbero tolto il cellulare ». Ragazze andate a scuola nelle scuole pubbliche, buone scuole anni fa all’avanguardia didattica, quando l’educazione primaria era un valore protetto e condiviso, e ancora oggi comunque scuole consigliabili e consigliate, di quelle in cui si fanno i mercatini e gli scambi internazionali, la preside è brava, gli psicologi a disposizione, in certe sezioni gli insegnanti bravissimi. Una storia di bambine diventate donne presto, come sempre più spesso succede: il seno esploso dentro le magliette in prima media, il trucco in classe, il telefonino sotto il banco, i compagni maschi, bambini di undici anni, spaventati e attratti da quelle ragazze di mezzo metro più alte di loro che hanno subito smesso di
andare alle loro feste di compleanno perché hanno altro di meglio da fare il pomeriggio che stare coi bimbetti, hanno i ragazzi con la moto che le aspettano fuori. Se avete figli alle medie sapete di cosa stiamo parlando. Se avete figlie femmine lo sapete anche meglio. «Alla madre, quando le hanno comunicato che non sarebbe tornata a casa, sarebbe andata direttamente in comunità, la ragazza si è rivolta col tono di dare ordini: vai a prendermi i pantaloni e il giubbotto, almeno. La madre ha eseguito».
Dunque la storia delle “baby prostitute dei Parioli”, come è stata etichettata con la segreta ansia di renderla estrema e dunque estranea, bisogna raccontarla da capo cominciando da qui: dal dire quello che non è. Non è una storia dei Parioli, quartieri alti di Roma che è facile immaginare popolati da ragazzi annoiati, viziati, figli di genitori ricchi e distratti per quanto neanche questo sia sempre del tutto vero. No, ai Parioli c’era solo l’appartamento dove le due ragazzine incontravano i clienti: un posto preso in affitto da uno degli uomini, ora in galera, che organizzava per loro gli incontri.
Le due ragazze, oggi 15 la piccola e 16 compiuti da poco la grande, sono state bambine e sono cresciute nel quartiere Trieste, fra villa Torlonia via Salaria e via Nomentana, un triangolo soffocato dal traffico di auto e bus in corsia preferenziale, bar botteghe e studi medici di media fama e medio prezzo, vecchie scuole ospitate in edifici di mattoni rossi e bandiere italiche, media e piccola borghesia del commercio e degli uffici. Nelle scuole medie di quartiere dove le due bambine sono state in classe insieme, molti ragazzi della zona di piazza Bologna, un passo dalla Tangenziale est, molti arrivati in treno a Termini dai paesi della cintura. Qualcuno dai Parioli, sì, certo, anche. Ambiente «molto misto», lo definisce uno dei prof. Molto misto.
È Il triangolo fra l’istituto Alfieri, il liceo Giulio Cesare, il Maria Ausiliatrice che è gestito dalle suore, sì, ma i professori sono laici e non costa tanto la retta, è abbordabile, una famiglia di impiegati se la può permettere. Ci mandano i figli che hanno ripetuto un anno, magari, per provare a farli recuperare. O anche solo perché siano seguiti con più rigore, i genitori pensano questo. Le due ragazzine, compagne di classe alle medie, sono state separate alle superiori: entrambe al liceo classico ma due scuole diverse. Una pubblica e una privata. I genitori della più grande, che aveva ripetuto un anno, hanno deciso di separarla dall’amica e di riservarle un ambiente “protetto”: «È stata una tragedia. Essere separata dalla sua amica è stato vissuto da lei come una violenza terribile. Ci sono state liti tremende a casa. Era già molto aggressiva, feroce col nuovo compagno della madre, è diventata totalmente ostile», racconta una persona che le vuole bene e l’ha seguita. Famiglia in ansia, in grande difficoltà con questa figlia sofferente chiusa e ribelle, vedremo tra poco quanto.
Quindi non sono i Parioli e loro due, hanno detto a chi le interrogava e le assisteva nell’interrogatorio, non vogliono essere chiamate né bambine né prostitute: non si sentono né l’una né l’altra. Gli psicologi forensi hanno scritto nelle loro relazioni, dopo i colloqui, più o meno così: «L’idea di sé di queste ragazze corrisponde ad un’età molto maggiore di quella anagrafica. Anche l’aspetto – l’abbigliamento, gli accessori, i tatuaggi, il trucco - tradisce l’ansia di apparire adulte. In ogni caso non si percepiscono come vittime di violenza sessuale, hanno al contrario l’impressione di dominare la situazione. Sono loro che tengono in pugno le persone che incontrano e a cui chiedono denaro, pensano. Sono loro che decidono che cosa fare e con chi percepiscono gli uomini come deboli, ne parlano con disprezzo e sarcasmo, non attribuiscono al fatto di cedere il corpo in cambio di denaro nessun disvalore. Considerano anzi il fatto di suscitare desiderio una forma di potere». È un potere, suscitare
desiderio.
Una delle due, la piccola, dice al magnaccia che la rimprovera di non essere andata a un appuntamento: «Ma che ti credi che mi puoi dire tu cosa devo fare? Mettiamo che io ho altro da fare, che cazzo vuoi?». Poi, subito, posta su Facebook un messaggio all’amica: noi due insieme per sempre. Sorrisi, cuoricini, labbra che baciano l’autoscatto, appuntamento la sera al solito posto. Waiting dawn, aspettando l’alba. Collezionista di attimi. Società che “organizzano eventi”, si chiamano così.
I fatti, allora. Le due bambine sono compagne di classe, a periodi di banco. Fioriscono splendide. Entrambe non hanno il padre. La madre della più grande, quella che anni dopo farà seguire la figlia da un investigatore privato dopo averla denunciata ai servizi sociali per aggressione, dopo le denunce per furto, dopo aver cercato aiuto come poteva – la madre “buona” dicono i giornali - è impiegata in un ufficio. Ha un nuovo compagno, che non è il padre di sua figlia: medico di bel nome, grandi ospedali. Chissà come vanno le cose a casa. La madre della più piccola, una bambina di spettacolare bellezza, ha un bar nella zona bassa del quartiere che naviga in pessime acque, molti problemi di soldi, un figlio minore ammalato.
Le due bambine si coalizzano. Vivono in grande conflitto con le loro famiglie, l’adolescenza è alle porte. Le femmine fanno banda contro i maschi, alle elementari. Sono gli anni, quelli, in cui in una scuola di zona un gruppo di bambine di otto-nove anni forma una banda per accedere alla quale bisogna superare alcune prove di iniziazione: una di queste consiste nell’inserirsi una matita, una penna, un oggetto nei genitali. Alcuni genitori capiscono, denunciano, diventa un caso, intervengono gli psicologi, la bambina considerata capo banda fa da capro espiatorio, viene portata via dalla scuola. Fine della questione. Si passa alle medie, attigue al liceo. Scoppia un altro scandalo, tenuto legittimamente riservatissimo. Alcune quattordici-quindicenni organizzano a ricreazione un torneo che si svolge nei bagni della scuola. Le ragazzine stanno nel bagno, offrono una prestazione di sesso orale ai maschi che per iscriversi al torneo devono pagare cinque euro. La gara è a chi conclude più rapporti, a chi fa scemare la fila più presto. La fila è lunga, ogni aspirante paga cinque euro. Si paga comunque, il rischio da correre è che arrivi il tuo turno o non arrivi. Il certamen è pubblico, la vincitrice accolta da applausi. Comunque le gareggianti portano a casa cinquanta euro, anche di più, ad ogni prova. Si fanno soldi, così. Soldi che a casa non ci sono o non ti danno, soldi per pagare la ricarica del cellullare e per pagarsi la birra e presto qualcos’altro, la sera. Di nuovo qualche genitore denuncia, di nuovo intervengono gli psicologi. Da una relazione del tempo: «Sgomenta l’assenza di pudicizia, di senso della riservatezza e dell’intimità. Il commercio del corpo considerato la norma, nessuna censura corre tra i coetanei, solo la presa d’atto di un’abilità».
Gli adulti non trovano il varco, non capiscono cosa stia succedendo ai loro figli. Le più abili tra le figlie diventano celebri nella scuola, e fuori. Spesso le performances sono filmate coi telefonini, e condivise. Chi è più fragile soccombe, a volte tragicamente. Chi è più forte avanza. Tutti sono su Facebook. La vita di relazione virtuale è reale. Le due ragazzine decidono insieme di farsi dei tatuaggi senza dirlo ai genitori, vita reale, li esibiscono nei profili, la cosa più importante, virtuale e reale insieme, per loro. Si mettono in vetrina. Una si fa scrivere sul fianco una scritta in latino, del resto ormai lo studiano. L ’altra si fa disegnare un drago che parla di amore disperato. I maschi della classe, tredici-quattordicenni, chiedono amicizia, tollerati come bambini. Entrano a visitare il profilo giovani universitari conosciuti il sabato sera alle feste di zona, una importante università privata è dietro l’angolo, gli studenti vengono da fuori Roma, hanno amici più grandi, più soldi, diversi orizzonti. La violenza, a casa, è la norma. La grande detesta sua madre, sopporta malissimo il nuovo compagno di lei. La piccola soffre la mancanza di soldi, non c’è mai un euro per uscire la sera. Dalla relazione psicologica: «L’aggressività, la violenza, il sesso diventano esperienze più virtuali che reali. L’adolescenza chiama al compito della sessualità. Attraverso la sessualità, si può esercitare un potere, persino un dominio. Il corpo diventa uno strumento neutro, un utensile da utilizzare per accedere a ciò che si desidera». Le ricariche. Il corpo un utensile. Le ragazzine imparano che puoi dare baci e qualcosa di più, puoi dare quello che ti chiedono e che non ti costa concedere, in apparenza, in cambio di ricariche al cellulare, indispensabili per postare i tuoi filmati su Fb. «Mangi all’Hitlon sei ricco, pagami la ricarica almeno, stronzo», si legge nelle intercettazioni. Si filmano di continuo, si fotografano ogni minuto. Vivono sul profilo, dalla vita reale traggono linfa per alimentarlo. Si tatuano insieme, odiano lefamiglie insieme, si fotografano atteggiate a donne, insieme. Trovano su Internet, il posto dove passano i giorni chiuse in camera a casa, un luogo: si chiama Bake ca incontri. Dice che devi essere maggiorenne per mettere la tua offerta di sesso online ma non c’è nessun filtro nessun controllo reale. Entrano. Si offrono. Ottengono, certo, immediato successo. Uomini di età le cercano. Loro si scambiano messaggi che dicono «fico, è facile». Qualcuno furbo, criminale, le intercetta. Vede dietro i seni prorompenti, le labbra color rubino, vede nelle calze di pizzo nero dentro le scarpe da tennis due ragazzine. I tatuaggi, le promesse di dannazione e reciproco amore per sempre.
Arrivano i maschi adulti. Mirko Ieni, autista che lavora per quell’università privata del quartiere, uno che nel suo profilo Facebook ha un catalogo di “amiche” studentesse, aspiranti pr, animatrici di eventi. Le aggancia, ma loro sono convinte di agganciare lui. «Va bene vengo, ma l’albergo non mi piace», scrive la piccola. Lui mette a disposizione una stanza in una casa ai Parioli. «A quel panzone chiediamogli duecento piotte», scrive una delle ragazze. I clienti sono uomini adulti, cinquantenni che si fanno chiamare papi, commercialisti, professionisti. «Mi ha detto che sono troppo piccola», dice lei una volta. «Mi ha fatto un film quello stronzo», racconta un’altra volta all’amica, comincia la spirale dei ricatti. «Vai tu che io oggi non posso non mi fanno uscire». «Queste due mi fanno guadagnare 600 euro al giorno», esulta Mirko l’autista. I suoi amici su Fb, gli amici di Mirko, gli dicono bravo. «Chi cazzo ti credi di essere, io faccio come mi pare»,lo mette a posto, crede, la ragazzina che intanto porta a casa ogni giorno tre, quattrocento euro. E li dà alla madre che non ha soldi, il bar non va più e il fratello malato ha bisogno di cure. Dicono le cronache che la madre “cattiva” sfruttava la figlia, la faceva prostituire. Dice la madre, ora a Regina Coeli, che lei non sapeva come la figlia guadagnasse quei soldi che erano comunque benedetti. Non voleva saperlo. Forse spacciava, aveva pensato. Che sarà mai. Non certo che si facesse pagare dagli uomini, questo no: comunque non ha domandato.
Le indagini sono in corso, le responsabilità degli adulti tutte da accertare. Tutte già scritte, ma nulla di questo si può per ora con certezza ancora dire. Di certo c’è un elenco lungo così, nei tabulati delle due adolescenti, di “cliente 1 Adriano” “cliente2 Federico”. Di certo ci sono uomini spregiudicati e criminali, consapevoli, che hanno approfittato della fragilità mascherata da onnipotenza di due quindicenni, e chissà se solo di loro due. Diciamo i nomi. Riccardo Sbarra, commercialista, cliente. Nunzio Pizzacalla, militare, sfruttatore. Mario detto Michael di Quattro, commerciante, ricattatore. Mirko Ieni, autista e organizzatore di eventi, quello di «guadagno 600 euro al giorno», nel giro della prostituzione si direbbe un pappone, quello che mette i locali e organizza il traffico. Salvo che le ragazzine, quelle che la cronaca chiama baby prostitute, lo sbertucciavano: ma chi ti credi di essere,
pensi di essere tu il padrone? Le padrone siamo noi, sei un poveraccio.
L’inchiesta è in corso. Nei tabulati dei cellulari delle ragazze c’è un elenco lungo così di clienti. Tremano, i pedofili che hanno pagato le quindicenni. Commercianti, professionisti, consulenti d’immagine. Avranno di certo famiglia, i clienti delle due quindicenni: avranno mogli e figli. Sulla pagina Fb di Mirko Ieni c’è un rosario di solidarietà, «non so cosa sia successo e non ci credo, sei er mejo». I profili delle due ragazze, invece, si sono congelati una settimana fa. Quando la grande ha pianto, in tribunale, per il fatto che le toglievano il telefono: la sua identità. La piccola ora è coi nonni, le grande in una comunità. Hanno tolto loro i cellulari, sì. Di questo e solo per questo si sono disperate.
Una delle due madri è in galera accusata di aver sfruttato la figlia, o nel migliore dei casi di non aver indagato da dove venivano i pacchi di soldi che vedeva arrivare e la incitava a continuare a procacciare. L’altra delle due madri tace, assistita da avvocati avveduti e comunque asserragliata nel dolore di non aver saputo, nonostante le denunce, varcare la soglia della porta chiusa di una ragazzina ostile, violenta, incazzata nera, una bambina mascherata da donna nemica di sua madre. Una dark lady dominatrice, quindicenne tatuata in scarpe da ginnastica. Innamorata dei “Diluvio”, il gruppo musicale da cui rubava le citazioni nei suoi post, “lasciali fare, lasciali dire”. Baci scarlatti. Amori disperati. Spade tatuate, serpenti. Non si possono “tenere due piedi in una Jordan” e chissà cosa avrà voluto dire tua figlia, cosa avrà voluto dirti quando si è fotografata le scarpe e ti ha lasciata nella tua casa del quartiere Trieste, senza una parola, ti ha lasciata così.
NON può esser sottovalutato il pessimo messaggio che viene dalle pratiche segnalate in alcuni congressi locali del Pd: tessere triplicate, risse, denunce, elezioni fantasma e così via. Un danno vero per l’immagine stessa di una democrazia, non solo di un partito: di qui l’urgenza di prese di posizione concrete, drastiche ed esemplari da parte di tutti i candidati alla segreteria nazionale. L’urgenza di dissolvere ogni nebbia: senza se e senza ma, e senza accuse reciproche che malamente maschererebbero un problema collettivo. Non è lecita nessuna minimizzazione.
Quegli episodi mostrano che siamo ben lontani dal rispondere alla crisi della politica con una vera inversione di tendenza, con un colpo d’ala in zona estrema: questa però doveva provare a fare un Pd giunto dopo il voto di febbraio al punto più basso della sua pur breve e tormentata storia. In realtà col passar del tempo la speranza è diventata via via sempre più flebile, e dalla sua vita interna sono venuti segnali sempre più sconfortanti. Lo conferma l’andamento stesso delle iscrizioni, dimezzate in un anno, ed era difficile immaginare un rovesciamento così drastico rispetto alle primarie di appena un anno fa: rispetto alla vitalità che avevano messo in luce, alle passioni e alle speranze che avevano riacceso. Mancò certo dopo di esse la capacità di aprirsi realmente alla società, di muovere alla conquista di incerti e delusi: delusi anche dal funzionamento sempre più appannato della nostra democrazia. Mancò la capacità, se non la volontà, di prender atto del frastuono d’allarme che era venuto dal voto in Sicilia, con l’astensione oltre il 50% e il Movimento 5 Stelle primo partito dell’isola. Allarme presto rimosso: è sembrata prender corpo semmai l’idea nefasta che possa esservi una “democrazia al 50%”: che si possa cioè governare un paese non conquistando nuovi consensi ma perdendone meno del proprio antagonista, e considerando irrilevante il tasso e la qualità della partecipazione.
Già tempo fa Ilvo Diamanti segnalava che per una metà degli italiani era possibile anche una democrazia senza i partiti, e da allora questa convinzione si è ulteriormente diffusa. E si è diffusa ancor di più l’idea che non vi possa essere una vera democrazia con questi partiti: un giudizio terribile. Eppure non erano mancati in tempi relativamente recenti segnali di vitalità e di speranza, e si pensi solo alle elezioni amministrative o ai referendum di due anni fa.
Sembra purtroppo un’immagine lontana la lunga fila di cittadini in coda a Milano per stringer la mano al neosindaco Pisapia: quei segnali non hanno trovato a livello nazionale una sinistra capace di accoglierli, capace di lasciarsene ispirare. Capace di frenare le derive che investono ormai in modo aperto il rapporto fra cittadini e istituzioni: ma non può esservi oggi nessuna sinistra se non pone al centro la riforma radicale della politica e l’inversione di quella sfiducia che sembra aver superato ogni argine.
Si legga in questa chiave quel che è avvenuto in questi mesi nel Pd, dal non dissolto mistero dei “101” che hanno affondato la candidatura di Romano Prodi al non eccelso livello dei suoi dibattiti, o dei suo scontri, interni: si capirà meglio allora quanto la situazione si sia aggravata. Essa è stata poi ulteriormente, e inevitabilmente, appesantita dallo scenario delle larghe intese e dalla scarsa chiarezza con cui ci si è mossi all’interno di esse: con cedimenti sui contenuti che hanno peggiorato la situazione concreta e offuscato gravemente la direzione di marcia, come è avvenuto sull’Imu; e con l’assenza di priorità capaci di identificare il centrosinistra e il suo progetto di futuro. Un panorama sconsolante, e anche per questo gli episodi di questi giorni, per limitati che possano essere (e non lo sembrano più di tanto), non fanno che ingrossare una valanga di sfiducia già avviata: una valanga che rischia di travolgere qualcosa di molto più importante di un “partito di micronotabili” (sembra difficile oggi dissentire da questa impietosa analisi).
Ove le derive non fossero drasticamente e immediatamente frenate rimarrebbero davvero pochi argomenti a chi si oppone all’ipotesi di un “partito personale”: cioè a chi crede ancora ad un’organizzazione politica basata su modalità collettive e continue di progettazione e di azione. E gli stessi contorni di un “partito personale” verrebbero minati alla radice dal molteplice agire di tarli e termiti. Per molti versi dunque quel che è avvenuto in questi giorni sta mettendo preventivamente alla prova la reale idea di partito di ognuno dei candidati alla segreteria del Pd. Di qui l’urgenza di atti concreti, esemplari e drastici: in primo luogo nei confronti dei propri sostenitori che si fossero resi responsabili di quelle inaccettabili pratiche.
Intervista al sociologo francese Alain Touraine: “siamo tutti soli come attori in un teatro vuoto”con il tramonto del capitalismo industriale cadono anche le sue istituzioni: Stato, classe, famiglia Intervista al sociologo francese.
La Repubblica, 31 ottobre 2013
Da molti anni Alain Touraine si è imposto come uno dei più attenti e fini osservatori del divenire della nostra società. Di libro in libro, con paziente determinazione, il sociologo francese scruta e analizza i caratteri e le trasformazioni di un mondo che, da postindustriale, è ormai diventato «post-sociale ». Un’evoluzione che è al centro anche del suo ultimo denso saggio, La fin des sociétés (Seuil, pag.657, euro 28), summa teorica di mezzo secolo di ricerche e analisi, nella quale spiega come il dominio del capitalismo finanziario abbia ormai rimesso in discussione e reso inservibili tutte le costruzioni sociali del passato. Di fronte a questa vera e propria «fine delle società», dove anche i movimenti sociali sembrano non avere più presa sul reale, per lo studioso, che ha da poco compiuto ottantotto anni, non resta che affidarsi alla resistenza etica, unica capace di ridare un senso al vivere e all’agire collettivo.
«Una società è sempre determinata da un insieme di pratiche ma anche da un sistema di costruzione della realtà», spiega Touraine, tra i cui saggi più recenti figurano La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore) e Dopo la crisi (Armando). «In passato, le società si sono pensate e costruite in modo religioso, poi, a partire dal Rinascimento, si sono costruite attraverso il pensiero politico. In seguito, negli ultimi due o tre secoli, la società industriale si è pensata in termini socio-economici, tanto che alla fine società e economia hanno finito per identificarsi».
Negli ultimi decenni cosa è cambiato?
«A partire dagli anni Sessanta abbiamo assistito al progressivo declino del capitalismo industriale, dato che una parte sempre più importante dei capitali disponibili hanno smesso di avere una funzione economica. Ha prevalso il capitalismo finanziario e speculativo, che sottrae capitali agli investimenti produttivi. Questa trasformazione del capitalismo ha progressivamente svuotato di senso tutte le categorie politico-sociali con cui eravamo abituati a pensare la società contemporanea. Siamo entrati così in un’epoca post-sociale».
Cosa significa?
«La società si forma nel momento in cui le risorse economiche acquistano una forma sociale attraverso le istituzioni. Quando una parte delle risorse non entra più in circolo nella società, le costruzioni sociali si svuotano di contenuto. Oggi tutte le categorie e le istituzioni sociali che ci aiutavano a pensare e costruire la società - Stato, nazione, democrazia, classe, famiglia - sono diventate inutilizzabili. Erano figlie del capitalismo industriale. All’epoca del capitalismo finanziario non corrispondono più a niente. Non ci aiutano più a pensare le pratiche sociali contemporanee e a governare il mondo in cui viviamo. In questo modo, il sociale viene meno».
Da qui l’idea della fine delle società?
«Il trionfo della finanza speculativa disarma la politica e l’economia, disarticolando le società così come le abbiamo conosciute e pensate finora. Di fronte a questa situazione, alcuni pensano che la società contemporanea sia capace di trasformarsi da sola. Immaginano una società tecnico-operativa, figlia di un capitalismo tecnologico selvaggio, che non ha più bisogno di sistemi concettuali e di categorie sociali. Ma quando si fa a meno dei sistemi di costruzione della realtà, si lascia spazio alla regressione attraverso le pseudo- religioni e le pseudo-politiche, il comunitarismo e l’ossessione dell’identità,
l’edonismo individualista sfrenato che alimenta la psicosi e la violenza su se stessi e sugli altri».
Esiste un’alternativa?
«Visto che le vecchie categorie sono inutilizzabili, occorre trovarne di nuove. In particolare, interessandosi alle categorie del soggetto autocosciente. Nella società della riflessività il soggetto occupa una posizione centrale. In passato, il sociale era fondato sull’idea della relazione all’altro, oggi occorre riconoscere la priorità della relazione a se stessi. Essa è fondamentale, creativa e dà un senso alla realtà. Per questa strada, l’individuo può ridiventare un attore sociale. Non più passando dal sociale, dalla politica o dalla religione, ma passando da se stesso, in quanto soggetto».
Sul piano individuale contano la coscienza e la responsabilità...
«Naturalmente. E quando si parla di oggetto si parla di diritti. La fine delle vecchie categorie ha lasciato il vuoto. Siamo come in un teatro dove il pubblico osserva una scena senza attori. Occorre che ogni singolo spettatore si faccia carico della scena, rivolgendosi a se stesso e egli altri spettatori. E al centro della sua riflessione devono esserci i diritti fondamentali, perché i diritti costituiscono il sociale. Rispetto Stéphane Hessel, ma l’indignazione non basta. Oggi occorre ripartire dai diritti e dalla loro difesa, come già avviene in molte parti del mondo. E come fa anche il nuovo Papa, che sembra adottare volentieri il vocabolario dell’etica. Hannah Arendt ha sottolineato il diritto di avere dei diritti. Io aggiungo che i diritti stanno al di sopra delle leggi».
Attraverso il soggetto è possibile resistere alla fine delle società?
«La questione dei diritti è fondamentale per ripensare la società. La libertà, l’uguaglianza, ma anche il diritto alla dignità, che impedisce che il corpo umano possa essere venduto come una merce. La loro difesa ricrea dei legami sociali. Queste preoccupazioni etiche non sono aspirazioni astratte, dato che sono già presenti nella società civile molto di più di quanto non si possa immaginare».
Promuovendo la resistenza etica alla decomposizione del sociale, non si rischia di contrapporre l’etica alla politica?
«La contrapposizione oggi è necessaria, dato che quella che chiamiamo “politica” è ormai una realtà molto degradata e travisata. Il carattere nobile dell’azione politica può rinascere solo dall’etica. Non da una politica di classe, non da una politica della nazione, non da una politica degli interessi o da una politica del sacro. Utilizzando queste categorie del passato, la politica non sa e non riesce più a parlare alla gente. Diventa afasica».
Come fare allora per reinvestire il sociale e prendere delle decisioni che riguardano tutti?
«L’idea della politica che prende delle decisioni in nome dell’interesse comune non funziona più. Oggi occorre partire da un’esigenza etica che si trasforma in azioni concrete e in istituzioni. Si pensi ai diritti delle donne. La condizione femminile è diventata uno degli elementi determinanti per valutare il grado si sviluppo di una società. Secondo me, il solo scopo importante e nobile e della politica è quello di favorire la nascita di nuovi attori sociali. E ciò non è possibile senza passare attraverso il soggetto e i suoi diritti. Solo così si ricrea il sociale».
In questo modo sarà anche possibile restituire vitalità alle nostre democrazie in crisi?«La democrazia, che oggi appare svuotata di senso, potrà ritrovare un significato solo se sapremo creare dei soggetti democratici. Non c’è democrazia se non ci sono convinzioni democratiche. Le istituzioni da sole, senza gli attori che le animano, non possono funzionare. Per questo occorre trasformare gli individui in soggetti capaci di essere degli attori postsociali. È un compito urgente, perché oggi le convinzioni democratiche mi sembrano sempre meno diffuse».
Alla prova dei fatti le cose non sembrano stare così: quando fattori storici, politici, sistemici bloccano il processo di accumulazione la violenza della crisi si incarica di aprirgli nuove strade. E quanto più questo blocco è ingombrante e persistente tanto più la gestione della crisi assume i tratti di una forma di governo di lunga durata. Nei paesi dell'Europa meridionale, in diverse gradazioni, si è visto con chiarezza come la «terapia della crisi» si sia trasformata nell'elemento che caratterizza stabilmente il rapporto tra governanti e governati. Non nel senso di un vincolo esterno, ma in quello di una riconfigurazione restrittiva della democrazia, che si estenderà ben oltre la contingenza economica.
Una viziosa leggerezza
Insomma, per volerci esporre a nostra volta all'accusa di affezioni dottrinarie, potremmo dire che la critica dell'economista francese non può spiegare del tutto ciò che giustamente denuncia perché omette l'elemento della lotta di classe, del rapporto di forza, delle linee di frattura che attraversano le formazioni sociali della modernità. Lotta condotta con una determinazione strabiliante e un formidabile dispiegamento di mezzi a partire dagli anni Settanta contro l'insieme delle classi subalterne ed estesa poi a quella loro parte riuscita a trasformarsi nel cosiddetto «ceto medio». Quando si lamenta lo spazio sottratto dall'economia alla politica si trascura quasi sempre di sottolineare l'estrema «politicità» della ratio economica che quello spazio ha occupato. L'enorme polarizzazione della ricchezza non è l'opera di nessuna «mano invisibile», né l'effetto di un mercato «distorto», ma un obiettivo politico perseguito e raggiunto con grande dispiego di violenza. Nonché l'obiezione più forte contro la tesi di quanti sostengono, in particolare per quanto riguarda i paesi mediterranei, che la crisi del debito sia il frutto di una viziosa leggerezza interclassista, una colpa collettiva avulsa dai rapporti di classe nazionali e internazionali.
Alternative senza gambe
Volendo tornare all'aneddoto che da il titolo al libro, ci sono precise ragioni per le quali il lampione è stato piantato esattamente in quel posto e perché tutti gli oggetti che si trovano al di fuori dal suo cono di luce non interessano o debbano essere cancellati. Se l'unità di misura universalmente utilizzata è quella del Pil, non è certo perché gli economisti ignorino che aspetti decisivi della vita umana, della vita sociale e dello stesso benessere materiale, non possono esserne misurati, ma perché il ricorso a quella unità di misura corrisponde a una gerarchia, a una precisa geografia del potere, a uno schema di azione politica. E quando la scienza economica si ingegna a correggere la misura del Pil affiancandogli altri indicatori è solo perché nuove sfere vitali sono entrate a far parte del processo di valorizzazione del capitale e devono dunque essere incluse nella sua «contabilità» e ricondotte alla sua assiomatica.
Così, anche l'analisi della crisi europea che Fitoussi ci sottopone, non senza centrarne aspetti decisivi, come gli effetti deleteri indotti da una pretesa di competizione tra le economie dell'eurozona (destinata a riprodurre e inasprire gli squilibri) e dall'assenza programmatica di una politica economica continentale, risente della medesima accentuazione sull'«errore» dottrinario e sulla limitatezza dell'orizzonte tecnocratico a scapito di una analisi del ruolo politico svolto dalle élite, nei singoli stati e nello spazio complessivo dell'Unione, volto a perseguire una drastica riduzione della complessità democratica.
La formula che individua il male dell'Europa nel dualismo di una governance europea dotata di strumenti ma priva di legittimità, e di sovranità nazionali dotate di legittimità ma prive di strumenti, finisce col celare il dissolversi, nella rude evoluzione dei fatti, dell'idea stessa di legittimità, col nascondere quella rottura unilaterale del patto sociale da parte dei poteri dominanti che si è già ampiamente consumata nei singoli stati non meno che in quegli organismi di governo europei che dei rapporti di forza esistenti tra quegli stati restano l'espressione. Cosicché gli stessi rimedi, le alternative, l'esame razionale dei fattori di crisi non è chiaro su quali gambe possano marciare. A meno che il lampione non si trasformi in un sole che illumina l'insieme della realtà. Ma questo è improbabile e certamente gli interessi messi a fuoco dalla sua luce non intendono consentirlo.
«Apparentemente sono tutti molto offesi, i governanti europei, per come Barack Obama li ha fatti spiare da anni. ci si chiede: ha senso affastellare dati su tutti e su tutto, su fidati e non fidati, su amici e nemici da abbattere e gabellare questa maniacale compilazione di liste per lotta al terrorismo?». La Repubblica, 30 ottobre 2013
Apparentemente sono tutti molto offesi, i governanti europei, per come Barack Obama – imperturbato, senza farsi scrupoli – li ha fatti spiare da anni. Soprattutto il controllo di un telefonino privato, quello del cancelliere Merkel, crea sconcerto: possibile che la Nsa americana (Agenzia nazionale di sicurezza) giudichi necessario origliare per oltre un decennio quello che dal dopoguerra è l’alleato cruciale nel vecchio continente? Forse perché non è più cruciale come si pensava, né così fidato?
Il manifesto, 30 ottobre 2013
Tanti discorsi, tante polemiche, sempre più uguali a se stessi. Da quanto tempo? Almeno da vent'anni, il tempo della lenta agonia della sinistra italiana (e non soltanto). Ora il dibattito impazza - che novità - sulla legge elettorale, con gli ultimi proclami del sindaco di Firenze contro il proporzionale degradato a fabbrica di ammucchiate. E sulla povera Costituzione del '48, non abbastanza sfigurata e tradita. Della quale si intende abbattere il presidio procedurale, come se non fosse proprio quella la prima regola da salvaguardare, come se non incombesse il rischio di creare il più velenoso dei precedenti, che già domani altri potrebbe legittimamente invocare per la spallata definitiva.
Oppure si parla della crisi e delle sue conseguenze rovinose per milioni di individui, che sono poi le rovinose conseguenze di questa forma di società, in cui il pubblico è rigorosamente asservito al privato. Fingendo - tutti: dal presidente della Repubblica all'ultimo cronista - di ignorare che la crisi non è un'anomalia o un incidente di percorso, ma il prodotto più tipico del meccanismo che presiede alla riproduzione del modello. Nella fattispecie, del fallimento di finanziarie e banche specializzate nella speculazione sulla pelle degli ultimi e poi salvate a spese dello Stato, con la più spettacolare socializzazione delle perdite private che la storia del capitalismo ricordi. Se non ci fosse stata, la si sarebbe dovuta inventare questa crisi. Occasione preziosa per assestare alle masse degli ignari e dei subordinati l'ennesimo colpo basso e per inchiodarle alla colpa di «aver vissuto al di sopra delle loro possibilità». Di qui il lasciapassare per altri colossali saccheggi attraverso la leva fiscale, le privatizzazioni, i nuovi tagli al reddito e ai diritti sociali, l'aumento dell'orario di lavoro, l'abbattimento dei diritti e delle tutele, la riduzione dell'occupazione...
Si dice da più parti, simulando pensosa solidarietà, che mai la politica è stata tanto distante dalla vita reale, dai problemi, dalle ansie e dalle difficoltà dei più. E intanto si continua come niente fosse a sfornare minacce travestite da promesse. Ormai la "gente" non sa più che pensare, è sin troppo evidente. C'è chi ancora crede in qualche grillo parlante, che minaccia e lusinga. Chi, nauseato, ha staccato la spina. Chi magari seguita a onorare antiche appartenenze, più per omaggio al proprio super io che per convinzione. Ma è evidente, ogni giorno di più, che non c'è partita. La cosiddetta politica viaggia alla velocità di un accelerato. La crisi - che è sociale e delle istituzioni; morale e della speranza; economica e delle relazioni tra le persone - a quella di un meteorite. Non sono Cassandre quelle che ripetono che stiamo seduti su una santabarbara. È la pura verità. Di questo passo, o salta in aria l'euro o salta in aria direttamente l'Europa. E sarà l'inizio di un domino inarrestabile. E non sono Cassandre nemmeno quelle che mettono in guardia dalla marea montante dei populismi. Il ventre delle nostre società ribolle di pulsioni retrive. La politica ha rinunciato da decenni a civilizzarle. Da quando si è assegnata il compito di aprire la strada al mercato, che della civilizzazione non sa che farsene, anzi la vede come il fumo negli occhi.
Per questo servirebbe, oggi più che mai, uno scatto, un gesto che interrompesse finalmente questa litania di formule stanche e squarciasse il velo dell'ipocrisia. Non è vero che non si sappia che cosa si debba e si possa fare, che cosa milioni di persone desiderano, sentendo che si tratta dei loro diritti violati. Molti professionisti della politica - molti di quelli che si pensano in qualche misura di "sinistra", ovunque collocati - sanno ancora bene di che cosa si tratta. Come lo sapevano i loro predecessori fino a un passato tutto sommato recente, se è vero che questo paese ha saputo malgrado tutto camminare lungo una strada di sviluppo civile sino ai primi anni Ottanta. Contrastato, ma civile. Riuscendo a combattere contro poteri arcaici radicati.
Redistribuire la ricchezza, in primo luogo. Perché l'Italia è ancora molto ricca, solo sempre più ineguale e ingiusta. Tornare a programmare sviluppo, spesa produttiva e investimenti, cosa che solo il pubblico può fare all'altezza delle necessità di un paese in declino. Puntare su un grande programma di piena occupazione per la manutenzione del territorio e delle città, per il rilancio della scuola e dell'università pubblica, della sanità pubblica, dei servizi alla persona, delle infrastrutture materiali e immateriali. E per questo farla finita, una volta per tutte, con lo scandalo assoluto di un gigantesco furto perpetrato a danno del fisco da grandi evasori ed elusori che invece la politica coccola e remunera, pagando con gli interessi (quanto incide il servizio del debito sulla crescita esponenziale del debito stesso?) ciò che sarebbe dovuto in forma di imposte su grandi patrimoni, profitti e rendite. Non è vero che non si sappia tutto questo. Basta frequentare un qualsiasi gruppo, leggere qualsiasi rivista, seguire qualsiasi convegno che la sinistra promuove da anni a questa parte per toccare con mano importanti convergenze di analisi e propositi. E non è nemmeno vero che non lo si potrebbe fare, se lo si volesse. Pur in presenza dei vincoli iugulatori europei, di cui peraltro l'Italia potrebbe imporre la riscrittura. E comunque non è vero che - se ci si battesse con coerenza, a viso aperto per un programma di questo genere - nulla cambierebbe nello stagno della politica italiana. È vero il contrario. Si determinerebbe un terremoto, che spazzerebbe via nani e ballerine, sepolcri imbiancati e profeti di finti tsunami.
Quel che è mancato sinora è il coraggio. E la generosità. Ed è questa la maggiore responsabilità di chi - capopartito, capocorrente o capopopolo - potrebbe dire basta una buona volta a questo stato di cose, e muoversi senza riserve per innescare un processo che basterebbe poco a mettere in moto. Ci sono oggi dieci, forse quindici persone in Italia - inutile fare i nomi - che avrebbero, per ruolo o per virtù personali, la possibilità di produrre una rottura nella tendenza verso l'agonia del paese. Che potrebbero, insieme, trasmettere al paese il messaggio di fiducia e di determinazione di cui c'è urgente bisogno. Mettendo da parte calcoli di bottega e cure personali. E scommettendo sull'immenso patrimonio di forze, di intelligenze, di risorse morali che il popolo della sinistra italiana, oggi disperso e depresso, ancora possiede.
Se qualcuno non avesse ancora capito che navighiamo tra Scilla e Scilla, (o tra Cariddi e Cariddi), e magari pensasse che scegliere il PD di Renzi significa combattere Berlusconi, non possiamo che consigliargli una visita oculistica.
Il manifesto, 29 ottobre 2013
Per capire il fenomeno-Renzi, è utile seguire la comunicazione per slogan della sua campagna elettorale, l'uso accorto di alcune parole-chiave, la retorica della Leopolda. E la verità viene a galla.
Con Renzi finisce il berlusconismo?
Renzi l'ha sostenuto esplicitamente. Ma, più che di fronte ad una fine, sembra di essere di fronte ad una rottamazione, e cioè, nel linguaggio di Renzi, la sostituzione della vecchia classe politica con una nuova. C'è discontinuità nei testimonial, più che nei programmi e nei contenuti. Per questo Berlusconi teme Renzi. Come lui è un comunicatore senza contenuti. E proprio questa mancanza di definizione, allarga il potenziale bacino elettorale. Come per l'audience l'insieme più ampio è quello meno definito. Renzi è un comunicatore che, col linguaggio televisivo, potremmo definire generalista, per questo motivo è inclusivo, non esclusivo. Ha una buona parola per tutti.
Che tipo di comunicazione è quella di Renzi?
L'ha detto lui stesso: una comunicazione semplice, basata sul contatto diretto e sull'ovvietà condivisa. Ma c'è un problema, la situazione in cui si trova oggi l'Italia, è la più complessa di sempre. C'è una crisi mondiale che coinvolge soprattutto il nostro paese. E le soluzioni sono tutt'altro che semplici. Tanto che non le ha ancora trovate nessuno. Una comunicazione semplice ed un programma "di consenso", non hanno la funzione di risolvere i problemi, ma piuttosto di allargare il potenziale elettorato, coagulare maggioranze di destra e di sinistra, vincere le elezioni. Con Renzi si fa evidente il ruolo limitato giocato oggi dalla politica, nei confronti dell'economia che è il livello in cui si prendono le decisioni vere, decisioni che spesso esautorano i singoli stati. Compito della politica non è più guidare l'economia, sulla base di scelte, di principi, di valori. Scopo della politica è creare maggioranze e vincere i vari tipi di elezioni; primarie, amministrative, politiche. Pensiamo al Pd. Rispetto alla sua storia Renzi è un corpo estraneo. Ma anche gli avversari interni al partito stanno lentamente convergendo su di lui, perché Renzi è capace di fare le cose che il Pd non è riuscito fino ad ora a fare: comunicare e coagulare maggioranze.
Renzi è ancora di sinistra?
A questo proposito alla Leopolda è stato fatto un bellissimo ragionamento. Se la sinistra (che rappresenta il cambiamento) non cambia, diventa destra. Quindi la sinistra deve cambiare. Ma, aggiungo io, per cambiare, la sinistra non può che spostarsi a destra. Quindi il destino della sinistra è segnato. O rimane di destra, o cambia per diventare destra. Niente più di questo bellissimo paradosso illustra la natura di quello che Ignacio Ramonet ha battezzato al suo tempo "pensiero unico", "panseu unique". Nell'epoca del pensiero unico non ci sono alternative: o così, o così. Renzi non fa mistero di essere un ammiratore di Blair, di quella "terza via" a suo tempo impersonata dai Blair e dai Clinton, che sono, in definitiva, quelli che hanno portato a termine l'architettura dell'attuale sistema economico perfino finanziario.
Perché i suoi seguaci sono imprenditori di successo?
Vale per Renzi l'effetto Berlusconi delle origini. Come i vari Guerra, Farinetti, Baricco, Berlusconi era un imprenditore che si era fatto da sé come tale capace di Fare. Ed il Fare, al di fuori delle ideologie e delle riflessioni che non possono che frenare l'operatività, è il grande mito della politica di oggi, ed è, in particolare, lo slogan di Renzi. C'è crisi. Bisogna rimboccarsi le maniche. I suoi testimonial l'hanno fatto, nel concreto ed ognuno ha avuto successo nel suo campo. Ed arriviamo al nocciolo del problema. Per Renzi la politica non è tanto riflettere sui bisogni della collettività. Ma conferire agli imprenditori più capaci, la possibilità di esprimersi individualmente, senza limitazioni ed in piena libertà. Un vero programma liberista. Non a caso alla Leopolda si è parlato di ripristinare la giustizia sociale attraverso la meritocrazia. Il concetto di meritocrazia non è di sinistra. Dirò di più. Il successo di pochi non si riverserà sul benessere di tutti. Faccio un esempio concreto: Berlusconi. Poiché era ricco, molti credevano che potesse arricchire il paese. In effetti ha moltiplicato il patrimonio personale, ma non mi sembra che abbia arricchito il paese.
Ma Renzi è la nuova Democrazia cristiana?
Direi che è la normale evoluzione di quella "fusione fredda" che ha costituito il Pd. Ognuno voleva vederci quello in cui credeva. La sinistra una forma moderna di sinistra, l'ex Dc il lato operativo dei valori cristiani come carità e solidarietà. Renzi ha un padre democristiano. E ha ideato per Firenze (non so se è già operativo) un cimitero di feti. Oggi, dopo il vituperio del crollo della prima Repubblica, molti vorrebbero vedere rinascere una classe democristiana. Alla democrazia cristiana si riconosce di avere guidato per 50 anni il paese rendendolo economicamente prospero. Anche se il rovescio della medaglia erano i grandi misteri del paese. Apparentemente Renzi è per un'alternanza decisa tra partiti e chiede una legge elettorale uguale a quella per l'elezione a sindaco. Chi sbaglia va casa. Ma, ancora una volta, l'alternanza è tra persone e non tra programmi. Il sindaco è sempre più un'amministratore di condominio. Ed anche la politica si avvicina sempre di più ad una grande assemblea condominiale. Uno scenario in cui si invoca il cambiamento perché, come nel Gattopardo, niente deve cambiare.
Perché si è posta così la Leopolda?
La Leopolda è un meeting all'americana che serve a ricompattare un partito o una corrente politica. Ne ha fatto uso Berlusconi per Forza Italia. E ne hanno fatto uso uomini di sinistra. Ma la Leopolda è più efficace perché è ormai un'istituzione che si ripete nel tempo, E nella psicologia sociale la ripetizione è fondamentale, per fissarsi nella memoria e conferire autorevolezza e credibilità. Renzi, con la Leopolda, riprende uno stile da "presidenziali americane". E questo si riverbera, positivamente sulla sua immagine.
L'ipocrisia di chi s'indigna oggi fingendo di non aver capito quale lesione dei diritti sia nata dalle decisioni degli USA di Bush all'indomani dell'11 settembre 2001, accettate da tutti i potenti ed elevato a mantra della "sicurtà".
La Repubblica, 26 ottobre 2013
Chi aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale — quello alla privacy. Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti.
L’Europa reagisce, ma non è innocente. Non si può dire che questa sia una sorpresa, una vicenda imprevedibile, se non per la dimensione del fenomeno. Fin dai giorni successivi all’11 settembre, era chiaro che la strada imboccata dall’amministrazione americana andava verso l’estensione delle raccolte di informazioni personali, la cancellazione delle garanzie per i cittadini di paesi diversi dagli Stati Uniti, l’accesso alle banche dati private. Vi è stata una colpevole sottovalutazione di queste dinamiche e sono rimaste inascoltate le sollecitazioni di chi riteneva indispensabile un cambio di passo nelle relazioni tra Unione europea e Stati Uniti, per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden.
Angela Merkel ha reagito alla notizia di un controllo sulle sue telefonate. Ma negli anni Novanta si seppe di un sistema mondiale di intercettazione delle comunicazioni chiamato Echelon (gestito da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda), che riguardò anche Romano Prodi, allora Presidente del consiglio. Le reazioni furono deboli e il Parlamento europeo svolse una indagine assolutamente inadeguata. L’atteggiamento dell’Unione europea, quando ha negoziato con l’amministrazione americana in queste materie, è sempre stato debole, addirittura subalterno, e le pressioni delle lobbies americane continuano a farsi sentire in relazione al nuovo regolamento europeo proprio sulla protezione dei dati personali. Ora Barroso fa dichiarazioni molto dure, che tuttavia hanno senso solo se accompagnate da un profondo cambiamento di linea.
Tutto questo non diminuisce le responsabilità degli Stati Uniti, gravissime, perché è ormai chiaro che la gigantesca caccia alle informazioni non aveva come fine la sola lotta al terrorismo. Altrimenti non si sarebbero intercettate le comunicazioni di capi di Stato o di governo. Fin dai tempi di Echelon era chiaro che i dati raccolti servivano per conoscere strategie politiche ed economiche, per dare alle imprese americane un di più di informazioni per renderle più competitive rispetto a quelle europee.
Vale la pena di ricordare le parole dette all’ultima assemblea dell’Onu dalla Presidente del Brasile, Dilma Rousseff, anch’essa intercettata: «Senza tutela del diritto alla privacy non v’è libertà di opinione e di espressione, e quindi non v’è una vera democrazia». E questa dichiarazione è stata seguita dalla cancellazione del suo viaggio ufficiale negli Stati Uniti. Siamo dunque di fronte ad una vera questione di democrazia planetaria, che nessuno Stato può pensare di affrontare da solo, sulla spinta di risentimenti nazionali o personali. Angela Merkel usa parole dure, Enrico Letta invoca verità, François Hollande protesta. Ma loro sono governanti della regione del mondo dove la tutela dei dati personali ha trovato la tutela più intensa, considerata come diritto fondamentale dall’articolo 8 della Carta dei diritti dell’Unione europea. Essi hanno l’obbligo e l’occasione per aprire una fase in cui la tutela dei diritti fondamentali sia adeguata alle nuove sfide tecnologhe, che si traducono in una offerta crescente di strumenti utilizzabili proprio per violare quei diritti.
Di fronte al Datagate non bastano fiere dichiarazioni di buone intenzioni, e quindi non ci si può appagare delle parole di chi, dagli Stati Uniti, promette misure in grado di “bilanciare le esigenze di sicurezza con quelle della privacy”. Non si tratta di scegliere la via delle ritorsioni, ma bisogna dire chiaramente che, proprio per le dimensioni della vicenda, questa non può essere gestita come un affare interno statunitense. Alcuni punti fermi, comunque, vanno stabiliti subito. Accelerare le nuove normative europee sulla privacy con un rifiuto netto delle pressioni americane. Rendere effettiva la linea indicata dalla risoluzione del Parlamento europeo che ha chiesto di sospendere l’accordo che prevede la trasmissione agli Stati Uniti di dati bancari di cittadini europei per la lotta al terrorismo, già per sé inadeguato per la debolezza con la quale l’Unione concluse quell’accordo. Mettere in evidenza l’impossibilità di proseguire la negoziazione del trattato commerciale in un contesto in cui la fiducia reciproca si è incrinata, sì che non è pretesa eccessiva chiedere agli americani azioni effettivamente risarcitorie e non cedere al ricatto di chi sottolinea i vantaggi di quel trattato, ponendo così le premesse per un perverso scambio tra benefici economici e sacrificio di diritti. E poiché l’intero continente latinoamericano ha adottato il modello europeo in questa materia, è davvero impossibile pensare all’avvio di iniziative coordinate, come esige una situazione in cui la tecnologia non conosce frontiere e, quindi, conferisce agli Stati più forti l’opportunità di divenire potenze globali? A questa globalizzazione delle pure politiche di potenza, incarnate anche dai grandi padroni privati della Rete, bisogna cominciare ad opporre una politica dei diritti altrettanto
globale. Questa strategia più larga può incontrare l’opinione pubblica americana, dove già le associazioni per i diritti civili avevano avviato azioni giudiziarie e ora vi sono esplicite e diffuse manifestazioni di dissenso. Lì è vivo il “paradosso Snowden”, con l’evidente contraddizione legata alla volontà di perseguire proprio la persona che ha svelato le pratiche oggi ufficialmente ritenute illegittime. E non cediamo al riduzionismo, dicendo che si è sempre spiato e che, tanto, le tecnologie hanno già sancito la morte della privacy. Si è ormai aperta una partita che riguarda proprio i caratteri della democrazia al tempo della Rete, e questo terreno non può essere abbandonato.
Bisogna, allora, contestare la perentorietà dell’argomento che, in nome della lotta al terrorismo, vuole legittimare raccolte d’informazioni senza confini: da parte di molti, e in Italia lo ha fatto un esperto come Armando Spataro, si è dimostrata la pericolosità e l’inefficienza di raccolte d’informazione che non abbiano un fine ben determinato. Bisogna ricordare che la morte della privacy, troppe volte certificata, è una costruzione sociale che serve alle agenzie per la sicurezza di affermare il loro diritto di violare la sfera privata, visto che ad essa non corrisponde più alcun diritto. E serve ai signori della Rete, come Google o Facebook, per considerare le informazioni sugli utenti come loro proprietà assoluta, utilizzandole per qualsiasi finalità economica, come stanno già cercando di fare. Bisogna seguire la tecnologia e mettere a punto regole nuove per la tutela della privacy, com’è accaduto in passato, e con una nuova determinazione, dettata proprio dalla gravità degli ultimi fatti. Ma bisogna pure chiedersi se gli Stati, che oggi virtuosamente protestano contro gli Stati Uniti, hanno le carte in regola per quanto riguarda la tutela dei dati dei loro cittadini. Se la posta in gioco è la democrazia, né cedimenti, né convenienze sono ammissibili.
La Repubblica, 25 ottobre 2013
Non vale il movente della sicurezza, che certamente dopo l’11 settembre spinge la Casa Bianca e le sue agenzie ad uno sforzo eccezionale di prevenzione e di deterrenza a tutela del Paese attaccato per la prima volta nelle Torri e nel Pentagono, uno sforzo che vista la globalità della minaccia non può che essere universale e senza confini. E tuttavia, come abbiamo sempre detto, vivere in democrazia obbliga terribilmente. Perché se le democrazie hanno il dovere – esercitando come Stati il monopolio della forza – di garantire la sicurezza nazionale, hanno anche la necessità concorrente di fare questo rimanendo se stesse, senza sfigurarsi nei principi fondamentali fino ad assomigliare alla caricatura deformante che ne fa il terrorismo.
La coppia diritti-sicurezza, oppure libertà e forza, scricchiola sempre nei tempi di crisi, sotto attacco. Dentro la legittima paura, di cui sia lo Stato democratico che la politica devono tener conto, e dentro l’ossessione securitaria (che è un’ideologizzazione della paura) il cittadino isolato nella solitudine repubblicana del contemporaneo chiede protezione prima di tutto, il che non è molto diverso dal chiederla ad ogni costo, anche con sistemi da “Dirty Hands”, come dice Michael Walzer, perché sporcano le mani dei governi. Ma la democrazia deve credere che è possibile rispondere all’aspettativa di sicurezza conservando anche nei tempi di queste guerre bianche della globalizzazione i principi che si professano nei tempi di pace e di tranquillità.
Il modo per farlo è ancorare la funzione di governo alla regola, così da evitare abusi di sovranità: regola costituzionale all’interno, regola di diritto internazionale all’esterno. Dunque regola democratica. Che si basa su un principio: la democrazia non può essere indifferente al percorso, alle procedure e agli strumenti che utilizza per raggiungere i suoi fini, perché non contano solo questi ultimi, e l’efficacia per raggiungerli. No. La democrazia al contrario deve continuamente vigilare sulla compatibilità dei mezzi rispetto ai fini, sulla coerenza dei mezzi con i principi che professa.
Solo così, peraltro, il processo democratico di decisione può venire “controllato” dai cittadini, e non viene confiscato e oscurato nei suoi passaggi- chiave, per mostrare alla pubblica opinione soltanto il risultato finale, ottenuto chissà come, e con mezzi che vengono sottratti al giudizio, come se non ne facessero parte. La democrazia pretende che anche le sue fragilità, le sue debolezze, vengano denunciate, evidenziate e “curate” alla luce del sole perché soltanto in quella luce vive e sopravvive il concetto di cittadinanza. E perché l’opinione pubblica è intrinseca all’identità dell’Occidente, e quell’opinione chiede conoscenza e trasparenza, mentre non accetta che la decisione si sposti in luoghi segreti, oscuri e separati. In buona sostanza, in democrazia il sovrano è legittimo finché è democratico, cioè consapevole di essere soggetto alla regola. Altrimenti, deve rendere conto dell’abuso di sovranità e di potere. Proprio questo sta accadendo tra l’Europa e Obama.
La stessa cosa non sta accadendo in Italia. Qui l’inchiesta giudiziaria di Napoli e la decisione del Gup di rinviare a giudizio per corruzione Berlusconi e il suo “uomo di Stato in incognito”, cioè il faccendiere Lavitola, per aver “comperato” con tre milioni un senatore nel 2008, convincendolo ad abbandonare la maggioranza guidata da Romano Prodi mettendola in crisi, svela qualcosa di più di un abuso di potere. Rivela una violenza alla democrazia, che ha modificato la rappresentanza popolare decisa dal voto dei cittadini, deformando il rapporto tra maggioranza e opposizione e deviando il corso della legislatura. Tutto è avvenuto nell’ombra, in quanto l’“Operazione Libertà”, come la chiamava la fantasia di Arcore, era inconfessabile in pubblico. E si capisce perché. Questa operazione infatti si fonda su uno dei cardini dell’anomalia berlusconiana, quello strapotere economico (costituito anche sui 270 milioni di fondi neri portati alla luce dalla sentenza definitiva di condanna nel processo Mediaset) che consente ad un leader politico di alterare un mercato delicatissimo come quello del consenso, già adulterato dallo strapotere mediatico, che squilibra a destra ogni campagna elettorale, nell’indifferenza di tutti.
Ora, qui con ogni evidenza non c’è nessuna scusa che chiami in causa la sicurezza nazionale: se mai, quella personale del leader che visto ciò che sa di se stesso, cerca riparo nell’accumulo improprio di potere politico per costruirsi uno scudo istituzionale illegittimo. Né si può dire che la maggioranza di sinistra in quegli anni era così gracile e incerta che sarebbe morta da sola: è possibile, ma in democrazia c’è una differenza capitale tra un normale processo fisiologico di deperimento – che fa comunque parte dell’autonomia politica e parlamentare – e un assassinio di governo per avvelenamento, che fa parte invece dell’eccezionalità criminale.
Naturalmente il processo avrà il suo corso. Ma intanto c’è non solo il rinvio a giudizio di un ex Premier per un reato infamante, c’è la condanna per patteggiamento del parlamentare corrotto, che è diventato il principale e pubblico accusatore, e c’è la lettera dello “statista incognito”, cioè Lavitola, che presenta il conto ricattatorio delle sue prestazioni, enumerandole e magnificandole.
Quest’ultima vergogna nazionale è talmente clamorosa che sta facendo traboccare il vaso fragile della maggioranza e induce in queste ore un Berlusconi traballante a pensare allo strappo di governo e alla crisi, se avrà ancora i numeri. Ma il punto non è nemmeno più questo. Perché non si può aspettare che sia Berlusconi a valutare la gravità di quanto emerge a Napoli, senza che la politica, le istituzioni, i suoi antagonisti culturali e storici (cioè la sinistra) diano un nome a quanto sta emergendo e diano un giudizio. Senza che si domandino – incredibilmente – in quale Paese abbiamo vissuto in questi anni. Senza che incalzino il protagonista di questa vicenda chiedendogli di spiegare al Paese come può restare in scena – politicamente, non giudiziariamente – con un’accusa così vergognosa e circostanziata. Senza trarre le conseguenze davanti ai cittadini di una cultura politica che comporta questa pratica, la quale sconta un abuso permanente, nel segno della dismisura come fonte di potere illegittimo e dell’onnipotenza che si crede impunita.
Se le larghe intese devono silenziare la libera coscienza delle istituzioni e dei partiti, allora la stabilità diventa una ragnatela, non una risorsa. Non si tratta di anticipare sentenze. Basta molto meno per pretendere un rendiconto politico. Basterebbe una nota d’agenzia con poche parole: «Oggi il presidente del Consiglio ha avuto una conversazione telefonica con il professor Romano Prodi». Persino questo Paese capirebbe.
Accogliamoli tuttiLa Repubblica, 24 ottobre 2013, con postilla
Accogliamoli tutti, gli immigrati. Ma siamo matti? Il titolo del pamphlet di Luigi Manconi e Valentina Brinis a prima vista sembrerebbe un’astuzia dell’editore, escogitato per turbare i benpensanti: Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati (il Saggiatore, pagg. 115, euro 13). Gli autori stessi, però, ci invitano a non cadere nella trappola. Accogliamoli tutti, con le dovute precauzioni, va preso alla lettera.
La loro è tutt’altro che una provocazione estremista: si tratta di governare un flusso epocale, altrimenti lacerante. Tanto meno è un richiamo ai buoni sentimenti. Anzi. Se una precauzione innerva il saggio di Manconi e Brinis, non è certo quella di solleticare l’ostilità dei prevenuti, ma semmai di non figurare predicatori di bontà o, peggio, “buonisti”: l’orrendo neologismo abusato da anni nel dibattito pubblico sull’immigrazione, funestato dalla diffidenza e dal rancore. Manconi e Brinis enumerano le cifre avvilenti di una demografia che sembra destinare inevitabilmente l’Italia a trasformarsi in «una comunità sfilacciata e depressa, bolsa e senescente, incapace di innovazione e di invenzione».
Fanno impressione, queste cifre: il censimento del 2011 registra circa 15.000 persone che si trovano nella fascia d’età 100-105 anni. Sono più di mezzo milione gli ultranovantenni. Complessivamente, gli italiani con più di 65 anni rasentano i 13 milioni. Invece i nostri vicini di casa, le popolazioni che abitano la sponda Sud del Mediterraneo, sono composte per quasi la metà di giovani al di sotto dei 25 anni. Prescindere da tale contrasto oggettivo sarebbe solo un’ingenua rimozione: qualsiasi modello di società futura implica un governo razionale dei flussi migratori, finalizzato, per quanto ciò sia possibile, a una loro ordinata integrazione. Nessuna “mielosa retorica” dell’accoglienza, dunque. Anche perché gli immigrati «non mostrano alcuna voglia di correre in nostro soccorso». Gli ostacoli frapposti in Italia all’instaugli razione di contratti di lavoro regolari, ai ricongiungimenti familiari e alla continuità dei permessi di soggiorno, perpetuano una condizione servile e ne scoraggiano la stabilizzazione. Li abbiamo incoraggiati a sentirsi estranei. Più realisticamente, si tratta quindi di disinnescare il cortocircuito tra lo stato di marginalità in cui sono ridotti troppi immigrati; e la reazione deviante, irregolare, talora criminale che questa loro marginalità provoca.
La ministra dell’integrazione Cécile Kyenge, che firma l’introduzione del pamphlet, trae la conseguenza politica di questo ragionamento: «Ai fini della sicurezza, fanno più i diritti della repressione». In altre parole, come scrivono Manconi e Brinis, «un’accoglienza dignitosa riduce significativamente insidie e minacce». Dunque è a fini utilitaristici - per il “nostro” bene - e non sulla base di un impulso di generica solidarietà, che va radicalmente capovolta la politica fin qui seguita in materia di immigrazione. Assumere come prima finalità dell’esecutivo il presidio delle frontiere, il respingimento o l’espulsione degli irregolari, è risultato miope oltre che velleitario. Ormai lo sappiamo. L’Italia, d’intesa con l’Unione Europea, deve pianificare con lungimiranza quegli ingressi che finora si è limitata a subire. Da sei mesi Manconi è presidente della Commissione diritti umani del Senato, ma gli argomenti proposti sotto la voce Accogliamoli tutti sono di natura empirica, piuttosto che giuridica. Comunque mai ideologici. Qui si esprime il sociologo da vent’anni impegnato nella rilevazione dei comportamenti delle comunità locali costrette a fare i conti con l’immigrazione. Siamo un paese che già oggi non potrebbe fare a meno dei suoi quasi 5 milioni di stranieri residenti, l’8% della popolazione. Basti pensare che vengono dall’estero il 77,3% dei (delle) badanti. Più della metà degli addetti alle pulizie. Più di un quarto dei lavoratori edili. Quasi un terzo dei braccianti agricoli.
Se dunque possiamo considerare paradossali, retoriche, le domande poste da Manconi e Brinis - ci conviene espellerli? E se andassero via tutti? E se non venissero più? - ben più concreta appare l’incognita che pende sul nostro futuro: è proprio inevitabile che ha pagare il prezzo della faticosa integrazione degli stranieri debbano essere sempre e comunque i più poveri fra gli italiani? Benché il libro sia disseminato di numerosi esempi di integrazione riuscita nelle comunità locali, avvenuta spontaneamente o più di rado guidata da amministratori capaci, non c’è dubbio che il non governo del flusso migratorio ha alimentato un contrasto fra svantaggiati. Risultato peraltro conveniente ai soliti ben noti attori politici. Né la legge Turco-Napolitano del 1998, né tanto meno la Bossi-Fini del 2002 hanno consentito la pianificazione armonica dei flussi d’ingresso, orientandoli nella ricerca di lavoro regolare e di soluzioni abitative razionali. Per questo Accogliamoli tutti si conclude proponendo non solo l’abrogazione del reato di clandestinità, ma anche l’introduzione del visto d’ingresso per ricerca di occupazione; in luogo dell’irrealistica pretesa della normativa vigente, secondo cui l’incontro fra domanda e offerta di lavoro dovrebbe realizzarsi (chissà come) nei paesi d’origine.
Nessuna faciloneria. Nessuna celebrazione delle virtù del multiculturalismo. Il libro prende in esame anche i nodi più difficili da sciogliere in materia giuridica, come la poligamia e la mutilazione genitale femminile. Fenomeni certo ultraminoritari che necessitano di una gestione coerente con il nostro diritto, ma al tempo stesso finalizzata alla riduzione del danno. Per esempio la Coop ha risolto il problema della macellazione rituale della carne halal dopo un confronto con la Lega italiana antivivisezione: d’intesa con le comunità islamiche, si procede allo stordimento elettrico preventivo dell’animale da macellare, garantendo così la “convivenza dei valori”. Con la buona volontà, le mediazioni si trovano. Purché si riconosca che stiamo costruendo un nuovo modello sociale di cui l’immigrazione sarà componente vitale, non marginale. Lo Stato moderno europeo costruì quattro secoli fa il suo apparato repressivo nella lotta al vagabondaggio e nel contenimento dei pericoli sociali della miseria. Ma la distinzione fondata allora fra i “nostri” poveri da segregare e/o proteggere, mentre i poveri “forestieri” erano semplicemente da cacciare, non regge più le dinamiche della geopolitica e della demografia. Ne consegue, come scrive la Kyenge, che l’immigrazione deve farsi «progetto»; perché senza di essa non c’è ripresa né «risorgimento ».
Due considerazioni. (1) Davvero nell'Italia di oggi solo ragionamenti utilitaristici possono bilanciare il prevalente fastidio del "diverso"? (2) "Integrazione" significa abbandono, per quelli che "accogliamo" delle loro culture perchè diverse dalla nostra, oppure accoglienza da parte nostra di culture diverse perchè ciò è necessario per lo sviluppo della civiltà della razza umana?
«Diritti civili e sociali, revisione dei vincoli finanziari, riconversione ambientale della produzione, una nuova classe dirigente. E il filo rosso dei beni comuni. Il programma c’è, manca la forza che lo realizza».
Il manifesto, 24 ottobre 2013
A questo programma di massima le elezioni europee della primavera prossima, come hanno sostenuto Alfonso Gianni e Tonino Perna, potrebbero fornire una prima occasione per riproporlo in tutti i paesi dell'Unione. I capisaldi di quel programma sono infatti già largamente diffusi e condivisi da un ampio arco di organizzazioni, anche se finora non sono ancora stati oggetto di un confronto diretto e non hanno quasi mai trovato espressione e rappresentanza in sedi istituzionali. Riguardano innanzitutto i diritti indicati precedentemente; poi la revisione radicale dei vincoli finanziari imposti dalle politiche di austerity che hanno colpito le economie, l'occupazione e le condizioni di vita nell'Europa mediterranea (per ora, ma il disastro si sta estendendo anche all'Europa centro-settentrionale). Riguardano in terzo luogo la riconversione ambientale del tessuto produttivo: sia per arrestare, con nuovi prodotti e nuovi mercati - soprattutto, ma non solo, di prossimità - la perdita di milioni di posti di lavoro e la chiusura di decine di migliaia di imprese grandi e piccole, condannate a morte dalla crisi, dalle politiche di austerità, dalle delocalizzazioni, dalla perdita degli sbocchi tradizionali; sia per creare nuove opportunità di lavoro e di impresa in attività dal futuro sicuro, perché servono a contrastare la catastrofe ambientale che incombe sul pianeta.
Il quarto punto è la emersione di una nuova classe dirigente - già in gran parte all'opera nelle pieghe dei movimenti, del volontariato e delle organizzazioni civiche - che sia espressione diretta delle istanze di rinnovamento che provengono dalle comunità in lotta e che si sia formata - anche tecnicamente - in questa nuova temperie. Perché la crisi in corso non dipende solo da politiche sbagliate; è causata soprattutto dal deterioramento morale e culturale dell'establishment europeo: non solo quello politico, ma anche quelli manageriali, imprenditoriali e accademici.
Ma il problema principale non è il programma; è la forza per metterlo in marcia. Dove trovarla? Non si può contare sulle forze politiche esistenti, o su una loro svolta radicale, a meno di una dissoluzione che ne liberi le componenti che aspirano a un vero cambiamento di rotta. Solo una crescita quantitativa e qualitativa degli organismi e dei movimenti che alimentano il conflitto sociale giorno per giorno può costituire un riferimento solido.
Molte e importanti esperienze ci forniscono un filo conduttore per unire le rivendicazioni e le buone pratiche più avanzate dei movimenti alla possibilità di dare una formulazione sintetica al progetto di un radicale rinnovamento della politica e dei suoi obiettivi; e anche alla possibilità di raccogliere intorno ad esso molte forze, sia sociali che morali e intellettuali, ancora in gran parte disperse. Questo filo conduttore è la promozione di una politica fondata sui beni comuni.
In Italia e in gran parte dell'Europa abbiamo di fronte due problemi di fondo: da un lato, imprese che chiudono, licenziano e non assumeranno mai più, mandando in malora patrimoni giganteschi di conoscenze, di esperienza, di consuetudine alla cooperazione, di vite distrutte; dall'altro, la necessità di offrire nuove opportunità all'esercito degli esclusi dal lavoro e dal reddito, o costretti a condizioni umilianti di subordinazione nella palude di un precariato senza prospettive. Si tratta dei giovani, i cui tassi di disoccupazione sono astronomici nei paesi dell'Europa mediterranea, ma in crescita anche nelle economie più solide; ma è una condizione che riguarda tutte le fasce di età: tanti e tante trenta-quarantenni (TQ) che nella loro vita hanno conosciuto solo precariato e tante e tanti cinquanta-sessantenni espulsi dal lavoro, a cui viene progressivamente sottratta la prospettiva del pensionamento. E poi i profughi e i migranti che, inseriti nel lavoro e nelle società, potrebbero portare un contributo decisivo sia allo sviluppo economico e culturale dei paesi europei che alla pacificazione dei loro; per contribuire poi insieme, quando potranno ritornare nelle loro terre, alla formazione di un unico grande popolo mediterraneo.
Ora, non si può continuare a intervenire sulle aziende in crisi delegando ai governi il compito di trovar loro un nuovo padrone. I nuovi padroni, quando si presentano, lo fanno solo - è esperienza quotidiana - per depredare l'azienda dei suoi capitali residui, del suo marchio, del suo know-how, delle sue attrezzature migliori, per poi lasciare i lavoratori sul lastrico. Non si può puntare sulle nazionalizzazioni o sull'intervento statale; e non certo per il fatto che l'Unione europea lo vieta. Su molte di quelle imprese gli Stati hanno fatto disastri non meno gravi delle gestioni private o privatizzate. E poi lo Stato italiano non dispone più, con la dismissione dell'IRI, di manager in grado di gestire un'impresa (tanto che ricorre sempre all'ottuagenario Bondi, che di disastri ne ha già fatti molti). Quelle aziende hanno bisogno di una nuova governance, composta dalle maestranze e dalle loro rappresentanze, dai governi locali e dalle associazioni di cittadinanza dei territori che le ospitano, dalle competenze messe a disposizione da università e centri di ricerca, in un regime che le riconosca come "beni comuni", né private né pubbliche, ma a disposizione delle loro comunità di riferimento. Un programma che vale, a maggior ragione, per recuperare a una gestione condivisa i servizi pubblici locali: acqua, energia, trasporti, rifiuti, scuole, gestione del territorio; le chiavi della conversione ecologica.
L'altro problema centrale è la quantità di energie, intelligenza, creatività e aspettative degli uomini e delle donne escluse dal mondo del lavoro, che potrebbero contribuire alla rinascita culturale e produttiva dell'Europa e, innanzitutto, dei paesi dell'Ue più colpiti dall'austerity. Per recuperare quelle energie bisogna sottrarle ai ricatti della miseria, della disoccupazione e del precariato, garantendo a tutti un reddito di base incondizionato: le risorse per realizzarlo sono molte meno di quelle che vengono dissipate in armamenti, grandi opere inutili, interessi sul debito pubblico, evasione fiscale, costi della politica. Ma una volta sottratte al giogo di una vita senza prospettive, la riappropriazione in forme condivise di beni comuni oggi inutilizzati o ceduti a operatori privati grazie ai favori della politica - case, edifici, monumenti, beni culturali, suolo urbano, terre pubbliche o incolte, spiagge, biblioteche, teatri, fabbriche e capannoni - insieme al sostegno finanziario e tecnico a progetti autogestiti di avviamento di impresa potrebbe liberare le energie necessarie per fermare il degrado con programmi di conversione ecologica condivisi e gestiti dal basso.
«La Repubblica, 24 ottobre 2013
PUOI governare con il tuo carnefice? Puoi considerare «alleato» un leader politico, pregiudicato e spregiudicato, che solo cinque anni fa ha comprato un parlamentare a suon di milioni per far cadere la tua maggioranza? Di fronte al rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, deciso dal Gup di Napoli nell’inchiesta sulla corruzione del senatore De Gregorio, conviene ribaltare la questione, famosa e ormai annosa, della cosiddetta «agibilità politica» del Cavaliere. Conviene guardarla dal punto di vista non delle reazioni del centrodestra, ma delle decisioni del centrosinistra. Un rinvio a giudizio non equivale ovviamente a una sentenza di condanna.Ma significa che un giudice terzo, diverso dai pubblici ministeri inquirenti, ritiene che siano state raccolte prove sufficienti a giustificare l’avvio di un processo. Nell’inchiesta Berlusconi-Lavitola-De Gregorio le prove, più che sufficienti, paiono schiaccianti. Nella primavera del 2006 l’Unione di Prodi vince per un soffio le elezioni. A Palazzo Madama ha solo 4 voti di maggioranza. Basta una modesta transumanza, e il governo va a casa. Nel luglio successivo il Cavaliere lancia la campagna acquisti. Il senatore De Gregorio già eletto nelle file dell’Idv di Di Pietro viene agganciato da uno dei faccendieri più indecenti ma più efficienti ad Arcore, Valter Lavitola. È lui che comincia a foraggiare De Gregorio: 3 milioni di euro in tutto (ne riceverà solo una parte). Con quel «tesoretto» sul conto corrente, il senatore lancia a sua volta l’«operazione Libertà». La racconta lui stesso nelle carte dell’inchiesta, spiegando che ogni passo è stato concordato con il leader del Pdl. «Era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare l’evento finale». Cioè la caduta del governo Prodi. De Gregorio dichiara agli atti: «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una strategia di sabotaggio... ». La missione è: «Procurarsi voti in Parlamento».
Come procurarseli è fin troppo facile. Con il denaro, che per il Cavaliere, dalle toghe sporche alle olgettine ripulite, non è mai stato un problema. De Gregorio tenta prima con un senatore suo amico. «Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni», risponde il Cavaliere. L’abbocco fallisce: Caforio fa finta di stare al gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale. Ma l’Operazione Libertà è ormai partita, e nulla può fermarla. Le prove generali iniziano il 28 febbraio 2007, quando Prodi si salva al Senato per appena tre voti. «L’evento finale » si produce il 24 gennaio 2008, dopo le dimissioni del Guardasigilli Mastella che ha saputo di una richiesta d’arresto ai danni di sua moglie da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere. Prodi viene sfiduciato al Senato, dove va sotto per 5 voti. A impallinarlo, oltre a Mastella e a Lavitola, ci sono Lamberto Dini, Vito Scalera e Luigi Pallaro, eletto in Argentina e misteriosamente scomparso il giorno del voto.
Sono prove, queste? O solo calunnie? Sono prove, nient’altro che prove. La conferma arriva dallo stesso Lavitola, in una lettera spedita il 13 dicembre 2011 all’ancora premier Berlusconi. Valterino batte cassa per l’Avanti, e ricorda al «socio » tutto quello che ha fatto per lui. «Lei — scrive — subito dopo la formazione del governo, in questa legislatura, con Ghedini e Verdini presenti, mi disse che era in debito con me e che Lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie, e assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerla a comprare i senatori necessari a far cadere Prodi».
Questo è dunque lo scandalo che emerge dalle carte dell’inchiesta di Napoli. Questo è il «golpe bianco» che si sospetta Berlusconi abbia ordito contro il governo Prodi. Dietro al quale, ancora una volta, si intravede non un blitz episodico. Ma piuttosto il solito e collaudatissimo «sistema corruttivo», che ricorre in tutte le vicende giudiziarie in cui il Cavaliere è stato a vario titolo condannato, coinvolto o prosciolto (grazie alle prescrizioni e alle leggi ad personam). Un «metodo» che ha funzionato per le tangenti alla Gdf e per Mills, per il Lodo Mondadori e per i diritti tv. E se ha dato frutti nell’affare De Gregorio, è lecito pensare che ne abbia generati sia per il primo ribaltone dei due senatori che salvarono il Berlusconi I nel 1994, sia nella campagna acquisti dei «Responsabili» che salvarono il Berlusconi IV nel 2010.
Il processo di Napoli si aggiunge alla lunga sequenza di conti in sospeso che il Cavaliere intrattiene tuttora con la giustizia. Dopo la condanna definitiva per i diritti tv Mediaset, l’interdizione di due anni dai pubblici uffici sui quali dovrà pronunciarsi la Cassazione, il voto dell’aula di Palazzo Madama sulla decadenza, l’appello del processo Ruby per prostituzione minorile e concussione e l’uscita delle motivazioni della condanna di primo grado nello stesso processo (prevista per metà novembre). Basterebbe un’occhiata all’agenda giudiziaria dell’ex premier, per liquidare con un sorriso amaro le pretese di «pacificazione », le parole al vento sui doverosi «atti di clemenza», le pressioni inaccettabili su un fantomatico «motu proprio» del Capo dello Stato, le allusioni insopportabili su un ipotetico indulto ad personam del Parlamento. Non c’è scudo possibile, per un imputato-condannato di questo calibro. Non si tratta di consumare una vendetta ideologica, né di realizzare un’eliminazione politica per via giudiziaria. Più semplicemente: anche volendo (e nessuno che abbia a cuore lo stato di diritto dovrebbe volerlo) non esistono nei codici dell’Occidente «condoni tombali» che cancellino le pendenze penali passate, presenti e soprattutto future.
Il Pdl è squassato da una strana lotta intestina. Eredi rissosi si contendono inutilmente il lascito di un «de cuius» che nonostante tutto resta più vivo che mai. Di fronte alle pessime notizie che arrivano dai tribunali, i «parenti della vittima» celebrano il rito stanco di sempre. «Persecuzione», «caccia all’uomo», «attentato alla democrazia». Parole violentate, abusate, svuotate di senso. Ma lanciate come pietre contro la sinistra «togata» e contro il governo Letta. Immaginare un futuro radioso per le Larghe Intese, a questo punto, è illusorio. I segnali di rottura erano già numerosi, dalla legge di stabilità all’antimafia. Ma ora, com’era facile prevedere, è l’ossessione giudiziaria che domina la scena a Villa San Martino e a Palazzo Grazioli. Il rinvio a giudizio di Napoli segna un possibile punto di svolta. Non tanto giudiziario, quanto politico. Di fronte all’enormità dell’ultima imputazione, si torna alla domanda iniziale. C’è da chiedersi se non tocchi alla sinistra riformista il «dovere» di rompere l’alleanza innaturale con l’uomo che ha ucciso il governo Prodi, comprando quattro traditori per trenta denari. Piuttosto che concedere ancora una volta a una destra irresponsabile il «diritto» di far saltare il tavolo, legando indissolubilmente e colpevolmente i destini della nazione a quelli del suo «Cavaliere dell’Apocalisse».
«a Repubblica, 23 ottobre 2013
«I selvaggi che dovevano devastare il centro di Roma hanno dunque compiuto il capolavoro di svelare l'esistenza di un mondo sempre più numeroso prodotto dalle politiche antipopolari dell'Europa e del mondo della finanza».
Il manifesto, 23 ottobre 2013
Il sistema della comunicazione ha dovuto mostrare a tutto il mondo che in uno dei luoghi simbolici della capitale era stata costruita una grande tendopoli abitata da emigrati, da giovani e da famiglie che non possono permettersi di pagare l'affitto di un modesto alloggio. I selvaggi che dovevano devastare il centro di Roma hanno dunque compiuto il capolavoro di svelare l'esistenza di un mondo sempre più numeroso prodotto dalle politiche antipopolari dell'Europa e del mondo della finanza.
E proprio dalla tragica involuzione del mondo finanziario che è utile ripartire. Luigi Luzzatti che scrisse e fece approvare nel 1903 la prima legge istitutiva per le case popolari era infatti un economista e un banchiere: qualche decennio prima aveva fondato la Banca popolare di Milano. Pur essendo esponente della destra storica italiana aveva chiara una verità che sfugge ai ciechi liberisti di oggi: una parte delle classi popolari non ha la ricchezza sufficiente per accedere al libero mercato abitativo ed era dunque dovere dello Stato risolvere il loro problema. Una convinzione maturata all'interno del grande conflitto sociale della fine dell'800 in cui il movimento operaio seppe porsi come protagonista assoluto.
Nel ventennio che ha cancellato d'ufficio il conflitto sono aumentate in modo intollerabile le disuguaglianze sociali.
Il grande corteo di sabato era formato in larga parte di giovani che hanno compreso perfettamente che questa economia li sta facendo scivolare verso condizioni inaccettabili. E mentre un numero sempre più grande di cittadini e di famiglie paga duramente il fallimento del sistema economico di rapina dominante, il circolo ristretto dei cacciatori dei grandi appalti pubblici continua a far festa. Per il Mose di Venezia spenderemo 5, 6 miliardi di euro mentre il gruppo dirigente dell'opera è in galera per malversazioni e - addirittura - per infiltrazioni mafiose. Per la follia del ponte di Messina abbiamo gettato in pasto alle solite principali imprese centinaia di milioni per progetti inutili. Per realizzare il collegamento tra Torino e Lione spenderemo più di dieci miliardi di euro. La lucidità con cui il corteo di sabato ha posto il problema della fine della rapina alle casse dello Stato per le grandi opere inutili e la diversa utilizzazione di quella ricchezza per risolvere i problemi reali dei cittadini è un grande capolavoro politico di cui occorre dare il merito ai dirigenti del movimento: si è infatti delineata in modo radicale la riforma del bilancio dello Stato.
Il secondo grande merito è la richiesta di un reale piano per l'emergenza abitativa nelle grandi città. Lo stesso gruppo dirigente dei costruttori nazionali ha dovuto ammettere che mancano almeno 500 mila alloggi popolari: la fascia del disagio abitativo riguarda dunque 4 o 5 milioni di italiani. Da venti anni la cultura dominante ha imposto che si parlasse di questo dramma sociale soltanto come un problema di ingegneria manageriale: housing sociale, project financing e tante altre fumisterie sono servite per dividersi la torta dei finanziamenti pubblici e far scomparire i bisogni sociali reali. E' ora di chiudere questa fase.
Terzo grande merito: di fronte ai milioni di cittadini che non hanno casa e all'esercito di giovani che non trova lavoro, la soluzione offerta dall'attuale governo è la vendita del patrimonio pubblico. Il movimento chiede che questo immenso patrimonio, che appartiene alla collettività intera, venga utilizzato per risolvere il problema della casa e, per gli immobili non abitativi si aprano le possibilità di avviare esperienze di imprese giovanili che oggi non possono accedere al mercato immobiliare. Un modo per costruire nuova occupazione.
Tre pilastri di una nuova visione della società hanno finalmente fatto irruzione nell'agenda politica e istituzionale del paese. Non deve sfuggire questa novità e il fatto che l'iniziativa di sabato ha importanti sinergie con il vasto mondo dei movimenti che hanno contrastato le politiche dominanti, elaborando in questi anni i germi di una cultura alternativa. Il sapere che si è costruito sui beni comuni a partire dalla commissione presieduta da Stefano Rodotà. Il pensiero sull'applicazione rigorosa della Costituzione italiana nel campo della tutela del paesaggio sostenuto da Salvatore Settis e Paolo Maddalena. Le elaborazioni sull'uso pubblico della Cassa depositi e prestiti preda oggi delle peggiori attenzioni speculative proposto da Attac. I movimenti per la difesa della dignità del lavoro e l'uguaglianza guidati dai sindacati.
Le tende di Porta Pia possono dunque rappresentare il precipitato per la ricomposizione di idee e mobilitazioni costruite in questi anni di resistenza al pensiero unico. Si tratta di non sprecare questa preziosa occasione.
«Berlusconi magari finisce ma non il suo sistema di potere, non le televisioni che controlla e usa, non il suo progetto di scardinare Costituzione e giustizia. La tarantella delle menzogne ricomincia».
La Repubblica, 23 ottobre 2013
Si fa presto a dire basta, non se ne può più di frugare nelle pieghe di Berlusconi e del suo harem. Oppure ad annunciare, volendo forse crederci: «il ventennio è chiuso, in modo politico. Alfano ha vinto. Non si ricomincia con la tarantella» (Enrico Letta, 6 ottobre). Si fa presto a dire che altro oggi incombe: c’è la crisi, e non abbiamo più tempo né voglia di camminare con la testa voltata indietro, l’occhio fisso su Sodoma e Gomorra in fiamme alle nostre spalle. Non raccontateci quel che già sappiamo. Il corpo di Berlusconi che mi mostrate: non voglio vederlo!
Non sappiamo nulla invece, né del passato né di Gomorra. E serve la trasparenza sul corpo di Berlusconi, perché il corpo sta lì, dispositivo che ancora muove le cose. Perché ancor più crudamente rivela quel che resta opaco, impreciso: la politica che deperisce, il giudizio sulle menzogne di ieri che ingiudicate proseguono. Dietro le grida dell’harem, ecco i sussurri di chi senza dirlo lo sa: Berlusconi magari finisce ma non il suo sistema di potere, non le televisioni che controlla e usa, non il suo progetto di scardinare Costituzione e giustizia. La tarantella delle menzogne ricomincia, e sempre è condotta da oligarchie impenetrabili.
La menzogna della politica innanzitutto. Non è vero che il ventennio è stato chiuso «in modo politico »: al momento, sono i giudici ad aver deciso l’interdizione per frode fiscale, non il Parlamento. La politica italiana è tuttora priva di anticorpi. Vive nel torbido, se è vero che in Parlamento si trama per salvare il frodatore: ecco perché ogni paragone fra Larghe Intese e Grande Coalizione tedesca è frode aggiuntiva. Alfano «ha vinto»? Non si sa che vittoria sia. Se non continuasse la tarantella, Monti non avrebbe denunciato l’assoggettamento del governo ai capricci d’un leader dato per vinto.
Alfano e Quagliariello recitano un finto Termidoro post-rivoluzionario, ma Robespierre è sempre lì. E tra i Grandi Intenditori proseguono le trattative per cambiare la Costituzione, come il capo ha sempre voluto. Non riusciranno magari, ma l’obiettivo non muta anche se oggi lo chiamano governance. A parole il progetto pare ridursi a 2-3 cose semplici: minor numero di parlamentari; fine del bicameralismo perfetto (le due Camere che fanno la stessa cosa). Ben diverso il proposito, opaco ma palese. In realtà si tratta di riscrivere la Carta, troppo parlamentare per i governi forti di cui c’è bisogno. Se così non fosse non sarebbe nata una solenne Commissione di saggi, voluta dal Quirinale, e i tempi della riforma sarebbero più brevi dei 12-16 mesi previsti. Inoltre avremmo già una nuova legge elettorale, e cesseremmo di considerarla parte della Costituzione da rifare.
Qualcuno si sarà imbattuto forse, tra l’8 luglio e l’8 ottobre, nel questionario online di Palazzo Chigi attorno alla riforma istituzionale. Un questionario che non nascondeva i propri convincimenti: la Carta così com’è blocca l’esecutivo, dà troppi poteri a deputati e senatori. La democrazia parlamentare non garantisce efficienza, né il prezioso bene che è la stabilità. Il costituzionalista Mauro Volpi ha definito «truffaldino» il formulario: «Tutto è giocato sui poteri del Capo del Governo (o di un Presidente potenziato, ndr), necessari a evitare “l’instabilità politica derivante” da un assetto parlamentare. Le parole pesano come pietre». Chi aveva idee contrarie non poteva esprimerle, tanto orientato era il quiz.
Se i saggi guardassero oltre le frontiere, vedrebbero la vera favola del ventennio: non il superamento degli Stati-nazione, ma la panacea di governi che fingono sovranità inesistenti, e l’esaltazione di sacre unioni che fanno blocco contro populisti o dissenzienti (le maggioranze parlamentari del 70-80% auspicate da Letta nell’intervista al New York Times del 15 ottobre). Vedrebbero il fondale furioso della crisi europea: l’impossibilità dei cittadini di influenzare i piani di austerità, l’assenza di una comune discussione pubblica, che rafforzi le Costituzioni nazionali estendendo il perimetro di regole e diritti. È il pericolo che ha spinto la Corte costituzionale tedesca a mettere paletti all’Europa federale: nella prima sentenza sul trattato di Maastricht nel ‘93, in quella sul Trattato di Lisbona nel 2009, in quella del 2011 sul Fondo salva-Stati. Lo ha fatto in un’ottica nazionalista, ma sapendo che il rischio oggi è la diminutio dei Parlamenti, non degli esecutivi. Il cosiddetto fiscal compact (Trattato di stabilità fiscale) ha messo in luce questi pericoli.
Lo spiega bene uno dei principali costituzionalisti europei, Ingolf Pernice, che assieme ad altri giuristi ha elaborato un piano di democratizzazione delle istituzioni comunitarie ( A Democratic Solution to the Crisis, Nomos 2012; del gruppo fa parte Giuliano Amato). Il Trattato di stabilità, nella fase di elaborazione, s’è fatto senza i Parlamenti. Solo a cose fatte si chiede la partecipazione cittadina. Il Patto introduce inoltre una serie di sanzioni «automatiche », al posto di procedure concertate tra i responsabili davanti ai loro elettori. Nella nota introduttiva al testo di Pernice, Amato lo riconosce: ovunque, nell’Unione, i cittadini temono una «perdita, un furto della sovranità ». In effetti nelle costituzioni democratiche è scritto che il cittadino è sovrano, non lo Stato-nazione né l’esecutivo. Al primo va restituita la sovranità perduta, ampliandola in casa e nell’Unione. Defraudati di poteri, i cittadini rigetteranno altrimenti l’Europa e le sue unions sacrées.
La tendenza dei governi italiani (da Berlusconi in poi) è stata di camminare in senso inverso. La scelta di riarmare l’esecutivo più che i cittadini e i Parlamenti è miope oltre che autoritaria. Ignora che la fedele osservanza delle Costituzioni è condizione d’efficienza e non intralcio. Non è vero che i difensori della Costituzione aspirano allo status quo. Ben venga la loro battaglia, soprattutto se guarderà oltre le democrazie nazionali. Se farà nascere uno spazio pubblico europeo. Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo in Italia, ricorda che non è sufficiente reclamare, alle prossime elezioni europee, il diritto a scegliere il presidente della Commissione. L’elettore dovrà poter scegliere anche «un vero programma di governo per un’altra Europa: per uno spazio politico dove abbiano diritto di cittadinanza visioni radicalmente alternative di politiche economiche e sociali, e posizioni conflittuali sul significato della democrazia europea».
Probabilmente in Italia non avremo la Costituzione rifatta dai saggi. Manca lo spirito costituente. Già all’alba del berlusconismo, Bobbio ammoniva contro i ritocchi della Carta: nel dopoguerra fu possibile, «tra partiti radicalmente diversi, un patto di non aggressione reciproca di fronte al nemico comune. Oggi vedo una grande rissosità, che rende estremamente difficile mettere insieme una nuova assemblea costituente». Oggi sarebbe il cittadino a rimetterci. Non gli resterebbe che l’inerte, mesta protesta di Amarcord: «Se il governo va avanti così ... io non lo so ...».