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«No, non ci stanno invadendo: l’Italia resta una delledestinazioni meno ambite. Non ci rubano ricchezza: con la differenza tracontributi versati e percepiti si pagano le pensioni di 600mila italiani. Esiccome siamo un Paese sempre più anziano, per salvare il nostro welfare neservirebbero di più»

Sono un rifugiato,ma non l’ho scelto io. Preferirei stare nel mio Paese». Aweis è nato inSomalia, da qualche anno vive a Roma. In Africa era una giovane promessa delcalcio, aveva una vita da privilegiato. «Stavo bene, con la mia famiglia e imiei amici. Giocavo a pallone ed ero proprietario di alcuni negozi di musica.Un’esistenza migliore di quella che ho oggi in Italia».
Poi è dovuto fuggire. Un giorno in Somalia è arrivato Al Shabaab, un gruppo terroristico di matrice islamica. «Sono come l’Isis», racconta Aweis. «Hanno vietato il calcio e non hanno più permesso di ascoltare musica. Volevano che lavorassi con loro, ma mi sono rifiutato. E così hanno deciso di uccidermi». Una mattina un commando di una decina di persone si presenta casa sua, lo cercano. Per fortuna Aweis è fuori. Si limitano devastare il suo appartamento. «Mi madre mi ha chiamato e mi ha detto: “figlio mio, non tornare più a casa”». La lunga odissea del ragazzo inizia in questo momento. Prima si nasconde in un villaggio somalo, poi prova a rifugiarsi in Kenya. Qui rimane tre mesi, ma senza lavoro né documenti è costretto a scappare ancora. Prova in Uganda, poi in Sudan, ovunque gli stessi problemi. Alla fine, per disperazione, cerca la strada dell’Europa. La rotta verso nord lo porta in Libia, dove il suo dramma si trasforma in un incubo. «Sono quasi morto, non basterebbe un giorno per raccontare quello che ho vissuto». Dopo alcuni mesi trattenuto dai libici, il viaggio nel Mediterraneo diventa l’unica salvezza. I soldi per salire sul gommone, le incognite della traversata. «C’erano uomini, donne, anche un bambino. Eravamo tutti pronti a rischiare la vita. Non avevamo scelta: attraversando il mare in quelle condizioni sapevamo che probabilmente non ce l’avremmo fatta, ma rimanendo in Libia avevamo la certezza di morire». L’arrivo in Europa, la fuga in Olanda. Arrestato come clandestino Aweis viene riportato a Roma. «Oggi ho trovato un lavoro - racconta - dormo a casa mia, pago l’affitto. Ho degli amici, sto bene, ma vorrei riabbracciare la mia famiglia». Il giovane somalo parla piano, scandisce le parole. «Lo so che siamo ospiti nel vostro Paese - continua - A volte diamo fastidio, l'Italia ha già i suoi problemi. Ma sono qui solo perché sono obbligato, se dipendesse da me sarei già tornato in Patria».

È una storia sorprendente, lontana mille miglia da troppi stereotipi. Aweis è stato chiamato a raccontare la sua vicenda anche per questo. Un incontro organizzato a Roma da alcune associazioni per riflettere sul fenomeno migratorio da una diversa prospettiva. C’è la fondazione Italianieuropei e l’associazione romana di studi e solidarietà. Si ragiona sui problemi, ma anche sui vantaggi economici e sociali portati all’Italia dai migranti. La serata ha un titolo paradossale: “E se davvero tornassero tutti a casa loro?”. «È una provocazione ed è un bene che rimanga tale» sorride Padre Giovanni La Manna, alla guida dell’associazione Elpis e già presidente del centro Astalli.

«Sulle migrazioni vale la pena riflettere, conoscere a fondo di cosa si sta parlando». La percezione degli italiani è spesso sbagliata, quasi sempre c’è poca consapevolezza dell’argomento. La realtà rischia di essere molto diversa da come viene rappresentata. «Forse perché in Italia si parla tanto dei migranti - spiega Leonardo Becchetti, docente di Economia politica all'università di Roma Tor Vergata - ma non parlano mai i migranti». Questioni economiche e sociali lasciano spazio a una verità sorprendente: «In Italia avremmo bisogno di molti più migranti di quelli che già ci sono». L’immagine distorta del fenomeno viene corretta da alcuni dati. Gli immigrati ci tolgono ricchezza? Non è proprio così. Anche perché con i 5 miliardi di differenza tra i contributi versati e percepiti dai migranti regolari, l’Inps paga le pensioni di 600mila italiani. E allora perché vengono tutti nel nostro Paese? Ecco un’altra inesattezza. Il fenomeno migratorio è molto ridotto rispetto alla percezione che abbiamo. Secondo l’Unhcr, dal 2008 al 2015 sono arrivati in Europa, via mare, 875mila migranti. Sono lo 0,17 per cento della popolazione europea. Senza considerare, racconta Becchetti, che l’Italia è una delle ultime mete scelte da chi scappa. Per i profughi siriani, ad esempio, rappresenta solo la quindicesima destinazione. Nessuna invasione, insomma. Del resto tra i dieci paesi con più profughi, l’unica realtà europea è Malta. Ai primi posti ci sono Libano, Giordania e diversi paesi africani.

Gli immigrati ci tolgono ricchezza? Non è proprio così. Anche perché con i 5 miliardi di differenza tra i contributi versati e percepiti dai migranti regolari, l’Inps paga le pensioni di 600mila italiani. E allora perché vengono tutti nel nostro Paese? Ecco un’altra inesattezza. Il fenomeno migratorio è molto ridotto rispetto alla percezione che abbiamo. Secondo l’Unhcr, dal 2008 al 2015 sono arrivati in Europa, via mare, 875mila migranti. Sono lo 0,17 per cento della popolazione europea

Soprattutto, non c’è alcuna catastrofe demografica in vista. Il nostro è un Paese in declino. Nel 2015 il saldo negativo tra nati e morti ha portato alla scomparsa di 140mila italiani. Eppure questo dato non è stato neppure lontanamente riequilibrato dall’arrivo di immigrati (nonostante il 2015 sia stato uno degli anni in cui si sono registrati più sbarchi sulle nostre coste). Il professor Alessandro Rosina è docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano. Dati alla mano, anche lui inquadra alcune verità poco conosciute sulle migrazioni. Anzitutto è necessario avere un’idea globale del fenomeno. Negli ultimi anni il trend sta rallentando, eppure la popolazione mondiale continua a crescere. Su questo pianeta non siamo mai stati così numerosi. Eravamo 1,6 miliardi di persone all’inizio del secolo scorso, agli inizi del 2000 siamo arrivati a 6,1 miliardi. A metà del nostro secolo arriveremo a 9,5 miliardi. Intanto la popolazione invecchia. Nel mondo non ci sono mai stati così tanti anziani. Né si è mai registrato un numero così alto di stranieri: ormai 250 milioni di persone vivono in un’area diversa dal proprio paese d’origine. Eppure, ecco la sorpresa, non è l’Africa il continente con maggiore mobilità internazionale, ma l’Asia. Del resto i flussi migratori, contrariamente a quanto si crede, nella maggior parte dei casi non partono dai paesi più poveri, ma da quelli con un certo grado di sviluppo economico e sociale. Senza considerare che spesso si consumano all’interno degli stessi territori.

All'interno del quadro globale di trasformazioni c’è l’Italia. Uno dei paesi più anziani del mondo, dove la denatalità sta raggiungendo livelli sempre più preoccupanti. «Siamo in una fase di riduzione demografica - spiega Rosina - Un declino, nonostante l’afflusso dell’immigrazione». Le prospettive a breve termine sono inquietanti. Mentre continua ad aumentare la popolazione anziana inattiva, da qui al 2031 perderemo 1,4 milioni di giovani under35. Ma anche 4,2 milioni di persone tra i 25 e i 54 anni. Forza lavoro che scompare, rendendo sempre più insostenibile il nostro welfare: dalle pensioni alla sanità pubblica. «Ormai - insiste Rosina - siamo davanti a squilibri demografici che faremo fatica a gestire e metteranno in crisi la capacità di crescere del nostro Paese». E allora, che fare? Ancora una volta diventa necessario affrontare il fenomeno con realismo. Chiudere le frontiere non è una soluzione praticabile, porterebbe a un sicuro declino economico e demografico. Ma anche accogliere tutti i migranti che chiedono di entrare in Italia è impossibile. Le disuguaglianze e le tensioni sociali derivate sarebbero insostenibili, portando a un’uguale situazione di declino. Ecco allora una terza strada. «Capire e gestire il fenomeno» spiega Rosina. L’accoglienza è necessaria, ma deve avere un limite nella capacità di integrazione. «Se vogliamo continuare a crescere, l’unica soluzione è questa».
Questo articolo e la base dell'icona sono stati ripresi dal sito web LINK/IESTA

Sbilanciamoci, Newsletter n.538, 24 novembre 2017. Recensione del libro di Marta Fana, Il mantra da smontare: "meno intervento pubblico e più flessibilità del mercato del lavoro, uguale più crescita e prosperità".

Marta Fana, Non è lavoro è sfruttamento, Editori Laterza, 2017, p. 192, €14,00, anche ebook

Il libro appena uscito di Marta Fana è una immersione nel mondo lavoro per raccontare vecchie e nuove figure professionali. È anche uno strumento necessario per la ricomposizione di un discorso alternativo a quello dell’ideologia dominante

La fine della storia è finita. Ultimamente, il numero di coloro che se ne sono accorti è in forte crescita. A livello globale sono molteplici i casi che dimostrano come siano in atto cambiamenti significativi nel dibattito pubblico. Abbiamo i Corbyn e i Sanders, che parlano esplicitamente di socialismo. Ci sono giornali e riviste come il New York Times e l’Economist che discutono l’attualità del pensiero marxista. L’Italia, invece, sembra latitare su questo fronte. Qui i mutamenti nei processi di produzione e consumo spesso sono stati importati senza un dibattito all’altezza di questi cambiamenti. Eppur qualcosa si muove. In questo contesto si inserisce Non è lavoro, è sfruttamento, il primo libro della ricercatrice Marta Fana.

L’autrice si immerge nel mondo lavoro per raccontare le esperienze di vecchie e nuove figure professionali. Troviamo i turni massacranti nel settore della logistica e la storia Abd Elsalam, ucciso durante un picchetto in una grande azienda vicino Piacenza. C’è lo sfruttamento nel settore pubblico e l’esperienza di Federica e i suoi colleghi che per anni hanno lavorato alla Biblioteca Nazionale di Roma ricevendo come compenso un rimborso spese di 400 euro per un part-time di 24 ore settimanali. C’è il cottimo dei fattorini: una consegna, tre euro, “un pezzo, un culo”. Con la differenza che per gli operai Massa contemporanei le ferie e i permessi per malattia sono solo un miraggio. Più che new economy sembra di essere tornari albori della società industriale. Come se non bastasse, il viaggio nel tempo ci porta ancora più in là, ad epoce precapitaliste. Ci finiamo con il lavoro gratuito dell’alternanza scuola lavoro, ovvero la storia di migliaia di studenti costretti a produrre senza ricevere alcuna retribuzione. E poi le storie di chi un lavoro non ce l’ha e magari neanche lo cerca. Nel nostro paese sono in tanti, troppi, a far parte di quest’ultima categoria, una percentuale della popolazione ben superiore alla media europea.

Nonostante la ricchezza della denuncia della quotidianità vissuta dai lavoratori, non siamo di fronte un elenco di testimonianze. Si tratta piuttosto di una narrazione che al dramma personale riesce a restituire una dimensione collettiva, di classe. Sì, perchè è un libro che parla di e alla classe, a quella lavoratrice. È una boccata di ossigeno che ci ricorda come la lotta di classe non sia mai scomparsa. Lo sanno bene coloro che in questi anni hanno portato avanti questo conflitto e che lo hanno vinto a mani basse, come sostiene il magnate Warren Buffett. Avendo in mente questa prospettiva, le storie di Abd Elsalam, Francesca e tutti gli altri sfruttati presenti nei vari capitoli possono essere interpretate nella loro pienezza. Le esperienze individuali non sono casi isolati, non rappresentano il risultato dell’inezia o della mancanza di vocazione personale, ma sono il frutto di un dinamica strutturale messa in moto con cinismo e razionalità. Sono le conseguenze dell’applicazione di un programma politico il cui esito non poteva essere diverso.

Ed è qui che troviamo l’altro grande contributo del libro. Marta Fana smonta l’apparato ideologico che ha giustificato decenni di liberalizzazioni del mercato del lavoro, promosse indistintamente da governi di centro-destra e di centro-“sinistra”, e ripercorre le misure legislative che una dopo l’altra hanno smantellato diritti in nome di un benessere che non si è mai materializzato. Il mantra ormai lo conosciamo e suona come un disco rotto: meno intervento pubblico e più flessibilità del mercato del lavoro, uguale più crescita e prosperità.

Eppure, questo discorso fa acqua da tutte le parti. In realtà, più che alla riduzione quantitativa della spesa pubblica assistiamo a un cambio nella composizione qualitativo dell’intervento statale. L’esperienza recente mostra che il ritornello del laissez faire si traduce unicamente nella demolizione dello stato sociale perchè, a dispetto dei proclami, lo Stato continua ad intervenire pesantemente nella sfera economica. Lo fa, per esempio, sborsando miliardi per risanare banche ridotte al fallimento da decenni di anarchia finanziaria. “Salvare i piccoli risparmiatori”, si dice. Peccato però che i piccoli risparmiatori siano poi abbandonati al loro destino quando vengono sfrattati di casa perchè non riescono a far fronte alle rate del mutuo (mutuo probabilmente contratto presso le stesse banche salvate dallo Stato). E magari gli stessi lavoratori rimangono disoccupati perchè l’azienda per cui lavoravano ha deciso di delocalizzare dall’oggi al domani, ovviamente non prima di essersi intascata milioni di denaro pubblico via sussidi e sgravi fiscali.

Se quello del minor intervento dello Stato è un falso mito, non c’è dubbio che la flessibilità del mercato del lavoro sia aumentata. Marta analizza le conseguenze di queste politiche evidenziando come le riforme non abbiano portato alla realizzazione degli obiettivi preannunciati. Al contrario, diversi studi scientifici dimostrano come una maggiore flessibilità non incide positivamente sul livello occupazionale né sulla produttività o sull’innovazione. Viviamo in un’epoca in cui il progresso tecnologico potenzialmente permetterebbe di lavorare meno ore e di raggiungere un miglioramento generalizzato del tenore di vita. Nonostante queste possibilità, la nostra è la prima generazione dal dopoguerra che sembra destinata a vivere peggio dei loro genitori, mentre i benefici derivanti dall’aumento della produttività degli ultimi decenni sono finiti nelle tasche di una minoranza privilegiata. Il bilancio della deregolamentazione e degli attacchi al mondo del lavorato è chiaro. Il risultato più tangibile è l’aumento di disoccupazione, disuguaglianza e povertà. Abbiamo fra le mani un j’accuse rivolto a un intero ciclo di politiche ideologiche e classiste.

Infine, un commento sullo stile che accompagna la lettura. Chi pensa che il libro puzzi di formalina si sbaglia di grosso. Marta è un fiume in piena che alla lucidità dell’analisi economica unisce il desiderio di rivalsa di una classe sociale da troppo tempo presa in giro e colpevolizzata. È uno scossone che mostra come lo stato di cose attuale non sia un percorso inevitabile dettato da leggi economiche “oggettive” ma il risultato di scelte precise, parziali, di classe. Non è lavoro, è sfruttamento è uno strumento necessario per la ricomposizione di un discorso alternativo a quello dell’ideologia dominante. Egemonia culturale, si diceva una volta. Il cammino è sicuramente lungo, ma oggi abbiamo un tassello in più per ricostruirla.

L'articolo è tratto da questo sito web: Sbilanciamoci, Newsletter n. 538.

VOAAfrique.com, 23 novembre 2017. «Il Rwanda pronto ad accogliere 30mila migranti africani venduti come schiavi in Libia».

A la suite de la diffusion le 14 novembre par la chaîne de télévision américaine CNN d'images montrant "un marché aux esclaves" où étaient vendus aux enchères des migrants noirs d'Afrique subsaharienne, le président de la commission de l'Union Africaine (UA), Moussa Faki Mahamat, a appelé à l'aide les pays du continent."Le Rwanda, comme le reste du monde, a été horrifié par la tragédie actuellement en cours en Libye où des hommes, des femmes et des enfants africains qui étaient sur la route de l'exil, ont été arrêtés et transformés en esclaves", a dit Mme Mushikiwabo. "Etant donné la philosophie politique du Rwanda et notre propre histoire, nous ne pouvons pas rester silencieux quand des êtres humains sont maltraités et vendus aux enchères comme du bétail", a-t-elle ajouté.

Le Rwanda a été le théâtre en 1994 d'un génocide qui a fait quelque 800.000 morts, en majorité membre de la communauté tutsie.Cette pratique "relève de la traite des êtres humains, c'est un crime contre l'Humanité", a déclaré le président français Emmanuel Macron à l'issue d'une rencontre avec son homologue guinéen Alpha Condé.

La France a qualifié mercredi de "crimes contre l'Humanité" les ventes de migrants africains comme esclaves en Libye et demandé une réunion "expresse" du Conseil de sécurité des Nations unies sur ce sujet. Cette pratique "relève de la traite des êtres humains, c'est un crime contre l'Humanité", a déclaré le président français Emmanuel Macron à l'issue d'une rencontre avec son homologue guinéen Alpha Condé.

"Ce qui s'est passé (en Libye) est scandaleux (...) inacceptable", a jugé ce dernier, qui est aussi président en exercice de l'UA.

L'article a étè repris du site web VOAAfrique.com, ou vous pouvez l'atteindre en utilisand cette connection

The SubmarineTerraferma e Nuovomondo

Negli ultimi anni il cinema italiano ha provato a raccontare, nel bene o nel male, i processi migratori in atto all’interno del nostro continente - opere come Fuocoammare, L’ordine delle coseIo sto con la sposa hanno indagato la ciclicità di tali processi e il loro effetto sulla società.

Mentre l’Italia osserva meccanicamente in televisione le stesse immagini di sbarchi e soccorsi, il cinema infatti si sforza si squarciare il velo del racconto mediatico, cercando storie universali che trasmettano i valori necessari per superare un rifiuto sociale e umano che attanaglia la nostra società.

Uno dei registi italiani che ha approfondito con maggior lucidità il tema del movimento è stato Emanuele Crialese, regista romano di origini siciliane. Oggi più che mai i temi affrontati dai suoi film risultano essenziali per una riflessione sociale e culturale sul nostro passato, ma soprattutto sul nostro futuro. Partendo dalle sue pellicole abbiamo discusso con il regista di quanto le sue esperienze abbiano influenzato il suo linguaggio e di quanto il documentare si stia sostituendo al raccontare.

L’intervista è stata condotta durante il mese di luglio di quest’anno.

Comincerei da due elementi molto presenti nei tuoi film: la terra e il mare. Entrambi vengono rappresentati come simboli di speranza e allo stesso tempo immobilità, penso alla Sicilia di Nuovo Mondo e al mare che la circonda in Terraferma. Sono due simboli forti che tu racconti con altrettanta forza. Come può il cinema far risuonare questi concetti nello spettatore?

È una domanda per la quale non ho una sola risposta perché forse non c’è una sola risposta. Partiamo dal presupposto che non a tutti arrivano i messaggi che possono arrivare a te, è una questione di sensibilità. Il cinema è un linguaggio, che viene compreso da alcuni ma non da tutti, si tratta di immagini, di personaggi, di storie, e in quest’ottica deve risuonare qualcosa in te per poterlo interpretare. Ma non è che chi non vede non capisce, semplicemente la sua sensibilità sarà interessata a farsi trasportare da altre storie.

Com’è maturato dunque il tuo linguaggio e la tua sensibilità, da dove deriva l’importanza di guardare al passato per riuscire a comprendere il presente espressa nei tuoi film? Le tue origini siciliane hanno contribuito alla costruzione delle tue storie?

Quello che ha aiutato di più è stata la condizione di clandestino dopo gli studi fatti in America, senza permesso di soggiorno e visto mi sono sentito in una condizione di alieno, come lì vengono chiamati quelli nella mia situazione. Probabilmente il fatto di essere stato per tanto tempo fuori dal mio paese, mi ha fatto guardare l’Italia e la Sicilia da una prospettiva completamente diversa. Anche per questo mi sento a disagio a parlare di migrazione, perché non abbiamo mai smesso di migrare dall’inizio della nostra storia come civiltà. lo facciamo fisicamente e mentalmente, è un movimento che porta con sé conoscenza e sviluppo, è inutile negarlo, senza movimento non c’è vita. Questo è il paradosso più grande che sono andato a scardinare: l’uomo ha bisogno di muoversi, chi non parte mai non capisce fino in fondo cosa vuol dire essere quelli che si è. Quando non ci si mette mai in discussione e si danno per scontate le proprie origini e il proprio stato sociale non si riesce veramente a riflettere sulla propria condizione.

Dall’altra però i tuoi film descrivono anche un senso di appartenenza molto radicato.

È come pensare al passato: è nel momento in cui ci ricordiamo di quello che abbiamo vissuto che ne capiamo il valore. In qualche modo quindi capiamo il valore del posto a cui siamo legati, coi suoi pregi e difetti, solo quando ne scopriamo un altro.

A proposito di presente e passato, pensi che i tuoi film abbiano assunto nuovi valori in questi ultimi anni oppure sono opere che valgono sempre così come la continua ricerca dell’uomo per il movimento?

Io spero che valgano sempre, ma non sono io a poterlo dire, sarà il tempo a decidere. Non mi sono soffermato troppo sulla durata nel futuro di queste storie, proprio perché si legano a riflessioni momentanee e personali.

Mettendo da parte per un attimo il piano personale, dall’esterno hai notato un cambio di prospettive sui tuoi film, o meglio le tue storie incidono di più nel contesto di oggi?

Sicuramente incide più adesso perché c’è stato un risveglio, quindi nei ricorsi storici ci si accorge di qualcosa che diventa la voce dell’attualità ma che in realtà non sono altro che aspetti sempre esistiti. Giravo Nuovo Mondo quindici anni fa, Terraferma cinque, adesso è due anni che si parla davvero molto di immigrazione, ma è un interesse a scoppio ritardato, non un’emergenza. L’emergenza non è di due anni fa e nemmeno di dieci, la vogliamo chiamare emergenza, chiamiamola così, ma è una cosa che abbiamo sempre fatto e con cui abbiamo sempre dovuto avere a che fare: il senso di appartenenza, dove posso far valere i miei diritti, in quale terra, dove sono cittadino, di quale paese. Queste sono domande che ci poniamo ciclicamente, in maniera più prepotente in alcuni momenti storici, ma non abbiamo mai smesso di muoverci.

È chiaro che ci sono uomini per natura stanziali, la dimensione del viaggio non gli appartiene, sono uomini che crescono una verticalità piantata nella terra e difendono la loro territorialità. Poi ci sono coloro che per indole sono spinti a cercare nuovi territori. Io mi sento appartenere a questa seconda categoria, non per scelta, ma perché questo è quello che la vita mi ha insegnato. Io sono un nomade e per questo sono molto sensibile rispetto al destino di coloro che vogliono andare altrove.

In questi giorni a Milano c’è proprio una mostra a cura di Massimiliano Gioniche racconta questo aspetto dell’umanità in movimento e della sua, spesso drammatica, ciclicità.

C’è appunto una differenza che va marcata: noi oggi trattiamo queste persone molto peggio di come facevano i nostri nonni e le generazioni prima di loro. Oggi chiudiamo i confini, ma siamo stati i primi ad aver avuto bisogno della loro apertura in passato.

Tornando alla prima domanda, oggi il mare sembra essere uno spazio con cui nessuno vuole avere a che fare, mentre la terra ha sempre più barriere.

Il mare, insieme alla sabbia e alle camere a gas, ha il potere di far sparire la memoria dei corpi. Quando riportiamo a galla, per usare un termine della psicoanalisi, le cose che abbiamo rimosso nel nostro inconscio allora arrivano i dolori, che non vanno però ostacolati, anzi elaborati e integrati, cosa che noi non siamo in grado di fare come società. Individualmente ognuno di noi può invece avere un atteggiamento diverso, ma come società dobbiamo risolvere questo nostro conflitto interno.

Ho notato che negli ultimi tempi la tendenza è quella di utilizzare una forma documentaristica per descrivere queste storie, quando invece secondo me la finzione narrativa aiuterebbe di più il processo di avvicinamento dello spettatore a questo tipo di temi. Tu come vedi il documentare rispetto al raccontare?

Qua siamo in un terreno molto farraginoso, in cui mantengo una posizione un po’ fondamentalista. Adesso c’è molta confusione intorno alla parola documentario, il documentario è un documento prezioso perché rappresentativo di una realtà che non si può mettere in scena, ma che va raccontata per quella che è, cercando di rimanere più fedeli possibili al tempo e all’individuo. In questo contesto non ci si può assolutamente esimere dal raccontare la verità, non si possono manipolare i fatti che si raccontano, oggi invece c’è una tendenza dei documentaristi a mettere in scena, quindi a drammatizzare, ciò che è già altamente drammatico. Questo atteggiamento finisce per mettere in una posizione scomoda lo spettatore, che alla fine non sa a cosa credere.

La rappresentazione è un modo per evocare una realtà molto personale usando il racconto metaforico e il gioco delle maschere, il documentario invece con la scusa del vero maschera ancora di più la realtà. Una cosa è mettere in scena quello che vedo, un’altra è inserirmi in quello che vedo e raccontare una verità parziale accompagnata da una storia che aggiungo io. Allora si usava un altro termine per definire questo tipo di produzioni, il mockumentary, in cui si dichiara da subito l’unione tra verità e messa in scena.

Sempre di più siamo messi di fronte a storie che raccontano la partenza perché sembra quasi impossibile percepire il ritorno, secondo te arriverà il momento per il cinema di raccontare il ritorno?

Bisogna capire di che ritorno stiamo parlando. È attraverso le immagini che uno ritorna a se stesso, si rielabora ciò che si vede e lo fa proprio, questo è già un ritorno alle proprie origini. Non tanto come individui ma come genere umano. Si ritorna quando si smette di negare i corsi e ricorsi storici, quando le latenze diventano presenze.

In questo contesto di eterno ritorno però i tuoi ultimi film partono comunque dall’elemento del viaggio, cosa racconteresti dopo?

Esattamente quello che hai citato tu, in questo momento sto ragionando sul tema del ritorno. Mi domando se sia qualcosa che possiamo rappresentare sapendo che lo stiamo rappresentando. Vorrebbe dire la fine di un percorso che non ha mai fine, in realtà una fine molto precisa ce l’ha, non sapremo quando né dove, ma ci sarà. Io sento che nel momento in cui c’è comunicazione tra una massa di persone che vedono e assistono a qualcosa che parla di loro, anche indirettamente, lì si compie la magia del ritorno, che non sarà mai consapevole, ma sempre metafisico e indefinito.

Avvenire

«Immediato il trasferimento dei richiedenti asilo che da mesi dormono per terra nella galleria Bombi di Gorizia». L’annuncio questa volta non arriva dal sindaco del capoluogo isontino, il forzitaliota Rodolfo Ziberna, nelle ultime settimane protagonista di un braccio di ferro con i volontari che tutte le sere portano in galleria cene calde e coperte, ma dall’assessore regionale alla Solidarietà del Friuli Venezia Giulia, Gianni Torrenti, di ritorno dal Viminale: «Nell’incontro di Roma è stato programmato un percorso di immediato trasferimento di queste persone che occupano la Galleria e vivono quindi in stato di degrado – ha dichiarato –. Ma si vuole anche capire quali siano le ragioni di tanti nuovi arrivi a Gorizia in queste settimane da parte di persone straniere che non provengono dal confine orientale, ma che erano soggiornanti in Europa da anni» (un’inedita 'rotta goriziana', insomma).

Ragioni che il neosindaco Ziberna, che aveva basato la sua campagna elettorale proprio sullo 'Stop all’immigrazione incontrollata', spiegava da una parte con la presenza a Gorizia dell’unica Commissione prefettizia per l’esame delle richieste di asilo di tutta la regione, ma anche con «il business di vere 'agenzie' che dall’Europa portano qui i richiedenti cui gli altri Paesi hanno negato lo status di rifugiati perché non ne hanno diritto ». E puntava il dito anche contro i volontari, gli unici che intanto, nei ritardi della politica e nei rigori delle notti all’addiaccio, hanno evitato il peggio: «Finché si sa che a Gorizia ogni giorno c’è chi dà da mangiare a tutti fuori dalle regole dell’accoglienza strutturata, è chiaro che verranno sempre di più qui». In realtà il Comune non dà ricovero a nessuno, il cento per cento delle strutture che a Gorizia danno un tetto ai 350 profughi e richiedenti asilo (con convenzione prefettizia) sono della Chiesa o ad essa collegate, ed è la Caritas diocesana da anni ad assicurare ogni giorno i pasti ai poveri della città, italiani o stranieri che siano. Un impegno che, sottolinea l’arcivescovo Carlo Redaelli, «ha sopperito alle mancanze delle pubbliche istituzioni, Comune e Prefettura. Bisogna saper distinguere tra accoglienza, tema complesso e annoso, ed emergenza: mentre la politica nazionale e internazionale cerca le soluzioni, non possiamo lasciare che le persone muoiano. Qui la notte siamo già a meno due...». Se dunque, come annunciato da Torrenti, la galleria Bombi sta per essere definitivamente sgomberata «siamo i primi ad esserne soddisfatti – conclude l’arcivescovo –, perché quel dormitorio a prova di bora non era certo una soluzione dignitosa: in questo caso le istituzioni pare abbiano preso le decisioni giuste anche se tardive, vedremo nel futuro se continueranno ad occuparsi di queste persone, dato che dopo i primi sgomberi già questa notte c’erano trenta persone».

La Chiesa non abbassa l’attenzione: se tornerà l’emergenza «noi ci saremo, con le nostre strutture e con misure aggiuntive», come la grande tenda riscaldata di Medici senza Frontiere, pronta da installare su suolo della diocesi. Emergenza che però il sindaco Ziberna esclude: «La scorsa settimana i cento richiedenti asilo in galleria sono già stati trasferiti con i pullman in strutture attrezzate. Le poche decine che restano lo saranno a breve, pare già venerdì mattina (domani, ndr): prima verranno accompagnati in questura a fare i documenti, poi alle adempienze sanitarie, infine nei centri di accoglienza qui in zona, dove occuperanno altrettanti posti appena lasciati liberi da altri migranti trasferiti in altre regioni d’Italia secondo il piano nazionale dell’accoglienza ». La mattina stessa la galleria, dove in questi mesi solo i volontari (tra loro anche medici del Cuamm) hanno provato a garantire il minimo accettabile di pulizia e decoro, «verrà igienizzata e chiusa da entrambi i lati, per essere riaperta al traffico automobilistico tra 3 o 4 mesi, dopo i lavori di ripristino».

Annapaola Porzio, Commissario del governo del Friuli Venezia Giulia nonché prefetto di Trieste, conferma: «Alla ben nota situazione della galleria Bombi si è data una concreta risposta disponendo il trasferimento dei richiedenti asilo. L’ultimo, avvenuto venerdì scorso, ha interessato cento migranti – ha scritto ieri in una lettera a Ziberna e al neo prefetto di Gorizia –. Malgrado ciò questa mattina nella galleria si sono registrate nuovamente numerose presenze: sull’arrivo continuo e consistente di richiedenti asilo a Gorizia sono in corso approfondimenti, anche in collaborazione con le forze di polizia». Inoltre, come da tempo chiedeva Ziberna, la Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale verrà trasferita da Gorizia a Trieste, quando non si sa, ma nel frattempo aprirà una sezione a Udine per snellire le attese dei migranti. Questo, assicura il prefetto, è il «percorso tracciato per ricondurre la situazione alla normalità». «Gorizia sta rispondendo da tempo all’accoglienza di un numero eccessivo di migranti», sottolinea infatti Torrenti, «è necessario ripristinare numeri accettabili». Per l’assessore regionale «è indispensabile la presenza di un centro di prima accoglienza, e a tal proposito c’è quello di San Giuseppe, che non deve essere una struttura permanente ma piuttosto un decoroso primo ricovero nei casi di necessità come quella creatasi nella galleria Bombi». Manco a dirlo, anche il San Giuseppe è una struttura della diocesi.

AssembleaPopolareDemocraziaUguaglianza , 23 novembre 2017. Lettera aperta a Anna Falcone e Tomaso Montanari, in relazione alla campagna elettorale in corso

Da ogni punto del variegato mondo della sinistra italiana alternativa al PD (una formazione, quella di Renzi, che per conto mio non ho mai giudicato “di sinistra”) si levano appelli e inviti a formare un raggruppamento elettorale in grado di opporsi sia al PD e alle liste a esso collegate, sia al M5S sia, ovviamente, alle destre.

Forti pressioni si esercitano sull’Assemblea Popolare Democrazia e Uguaglianza (Anna Falcone e Tomaso Montanari, appello del Brancaccio) perché aderisca formalmente a questa lista. La grande distanza che divide, nell’analisi e nella proposta politica, la posizione del Brancaccio da quelle delle sinistre italiane mi è sempre sembrata così profonda- a tutto vantaggio di quella del Brancaccio - che ho sempre nutrito forti perplessità per incontri e confusioni per le due aree politiche: condivido pienamente le ragioni dell’area Brancaccio, ho molti radicati dubbi su quelle della “sinistra”.

Riepilogo le ragioni per cui l’analisi e la proposta di Anna e Tom mi sono sembrate le uniche adeguate a comprendere, e quindi a combattere efficacemente, la crisi che travaglia il nostro pianeta e le sue popolazioni nell’ età del capitalismo globalizzato:
- La denuncia del carattere radicale della crisi che il mondo attraversava. Era una crisi che rivelava come alle sue radici vi fosse l’ideologia dello sviluppo: un’ideologia il cui dominio aveva accresciuto a dismisura la frattura tra ricchi e poveri, tra popoli che vivono nei paradisi del benessere e popoli che vivono negli inferni della carestia e delle guerre, entrambi creati dal dominio di quella ideologia.
- La netta rottura con il passato della “politica politicante”, con i suoi riti, le sue struttura organizzative, i suoi piccolo Pantheon. Craxi, Berlusconi e Renzi, certamente, ma non solo questi. In una parola, la rottura con i gusci grandi e piccoli delle sinistre (e ovviamente le destre) del secolo scorso.
- L’affermazione dell’eguaglianza come essenziale valore e principio da conquistare: un’eguaglianza non solo dei diritti statuiti, ma di quelli sostanziali di ogni essere umano, quale che sia il suo censo, il suo ruolo sociale, il sangue o il suolo dal quale proviene, la lingua che parla, la religione che professa.
- La consapevolezza che la trasformazione da compiere non era l’aggiustamento del sistema economico-sociale nel quale viviamo (il capitalismo), né la moderazione dei suoi effetti più distruttivi, ma il suo superamento radicale (il superamento dell’”economia che uccide”).

Ciò detto, esprimevo la mia perplessità su un punto: non sul piano della strategia ma su quello della tattica. Mi riferivo al difficile equilibrio tra due esigenze: quella della definizione di una identità “di parte”, radicalmente diversa dalle altre identità che si sono affermate nella storia del nostro paese, e quella dell’efficacia politica nell’immediato.

Far prevalere la ricerca dell’efficacia immediata (e quindi proporre una “lista unica della sinistra”) comportava secondo me ad annebbiare il messaggio di rottura col passato che è la forza della proposta. Il percorso che mi sembrava preferibile era: prima affermare, rendere evidente e compiuta, la propria identità/diversità, e solo dopo stabilire le alleanze necessarie per raggiungere gradualmente gli obiettivi nella pratica politica.

La mia perplessità era fondata sul fatto che quella “sinistra” cui il documento si riferiva era stata complice – se non addirittura co-autore – della tragedia che si compiva sotto i nostri occhi. L’ideologia dello sviluppo è stata pienamente condivisa dalla sinistra, e la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, cioè lo sfruttamento delle regioni e dei popoli lontani, era stato lo strumento accettato per accrescere salari e welfare nei paesi “sviluppati”(cfr in proposito il mio articolo La parola "Sinistra"]

Per concludere, accettare di far parte di una “sinistra” capace di contribuire a tagliare le radici della crisi (una “crisi” non cartacea, ma testimoniata ogni giorno dai corpi mutilati o affogati dei fuggitivi) mi sembrava e mi sembra un’ipocrisia, se non è preceduta da una esplicita presa di coscienza delle responsabilità storiche e attuali della “sinistra” e da una concreta applicazione, nella vita politica di ciascuno, di quel convincimento.

Edoardo Salzano, 20 novembre 2017
Qui la fonte da cui è tratto l'articolo

La Repubblica, 2«Ora finalmente, l’astensione di massa è entrata nella discussione politica. Ma di che cosa si discute? Soprattutto di come attirare o recuperare alla propria parte i voti perduti».Nei primi anni della democrazia, le giornate elettorali erano giorni di festa. Chi ha una certa età e un minimo di memoria, ricorda che ai seggi c’era chi si recava con il “vestito buono” e non solo perché era domenica. Si festeggiava la riconquistata libertà. Un’abissale distanza dai rassegnati rituali dei giorni nostri, quando due elettori su tre hanno disertato, non trovando valide ragioni nemmeno per quel piccolo atto di impegno politico che è la scheda depositata nell’urna. Ora finalmente, l’astensione di massa è entrata nella discussione politica. Ma di che cosa si discute? Soprattutto di come attirare o recuperare alla propria parte i voti perduti; di come pescare qualcosa in quel grande bacino di astenentisi che è diventato il più grande partito italiano, più grande di tutti gli altri messi insieme. Insomma, i partiti pensano ai propri interessi facendo promesse sempre meno credute, per sedurre gli elettori e intercettarne i voti. In prossimità delle elezioni, cioè, fanno esattamente ciò che è la causa della frustrazione della democrazia. In Italia c’è il suffragio universale: vero e falso. Vero, perché il diritto di voto è riconosciuto a tutti; falso, perché solo una minoranza lo esercita. È la differenza tra ciò che è in potenza (il diritto) e ciò che è in atto (l’esercizio del diritto). Il voto è diritto di tutti e molti non lo usano. Così la democrazia, che dovrebbe essere il sistema politico della larga partecipazione, diventa “olicrazia”, il regime in cui il governo è nelle mani di minoranze. Senza che si cambino le leggi, cambia la forma di governo.

C’è, innanzitutto, una questione quantitativa. Un tempo, “l’astenuto” era l’eccezione. Nelle prime elezioni repubblicane, nel 1948, i cittadini che andarono al voto furono il 92,23 per cento: cioè, tolti coloro che erano impediti dagli acciacchi, dalla malattia o dall’assenza dall’Italia, tutti. A partire dagli anni ’80, si scese sotto l’80 per cento e si incominciò a riflettere. Oggi possiamo dire che non è l’astenuto l’eccezione, ma è il votante, soprattutto in certe fasce d’età e in certe categorie sociali. Una volta ci si chiedeva quali fossero le ragioni del non- voto; oggi, quali le ragioni del voto: un vero e proprio ribaltamento. Il diritto c’è, ma la maggioranza non ne fa uso. Se è vero che l’esercizio dei diritti è ciò che forma l’ossatura morale d’una società (una volta si diceva che bisogna tenere sempre strette le mani sui propri diritti), allora dobbiamo concludere che siamo diventati un popolo straordinariamente malleabile, arrendevole.
I politologi si consolano troppo facilmente osservando che l’astensionismo è diffuso dappertutto, talora in misura anche maggiore che in Italia. Parlando solo dell’Europa, le statistiche provano che siamo comunque nella media dei maggiori Paesi dei quali non si potrebbe contestare il carattere democratico (Regno Unito, Francia, Germania, Svizzera, ecc.). Si dice anzi che sarebbe il sintomo di “democrazie mature”, consolidate: ci si fida a tal punto gli uni degli altri che non si considera necessario agire in proprio. In un certo senso, gli astenuti si fanno rappresentare dai votanti.
Il sintomo, tuttavia, è ambiguo. Non dappertutto e sempre esso significa la stessa cosa. Occorrerebbe andare a fondo nelle motivazioni: molta fiducia e molta sfiducia possono produrre lo stesso effetto. La fiducia è il pilastro della democrazia, ma la sfiducia ne è il tarlo. Non c’è bisogno di sondaggi, statistiche, analisi per capire che in Italia siamo di fronte al rinascente fenomeno di massa del rifiuto della politica, e per sapere di quale mescolanza di delusione, frustrazione, rassegnazione, rabbia e disprezzo esso si alimenta. Basta un po’ di ordinarie, quotidiane frequentazioni e conversazioni.
C’è, poi anche, una questione qualitativa.
Si dice che il nostro tempo è quello del populismo e dell’antipolitica, e il dilagante astensionismo è spesso indicato come un effetto dell’uno e dell’altra. Chissà perché? I populismi, comunque li si concepisca, sono sempre regimi della mobilitazione di massa (mobilitazione, non partecipazione), mentre l’astensione è una smobilitazione. L’anti- politica, poi, è un sentimento attivo che si rivolge “ contro”: contro le istituzioni, i politici, lo Stato, e può sfociare in ribellismo e in anarchismo. L’astensionismo, forse, più precisamente potrebbe definirsi non- politica, “ impolitica”: cioè l’atteggiamento rassegnato di chi dice “ lasciatemi in pace” oppure, drammaticamente, “ ho perso ogni speranza” perché non so chi votare, a chi votarmi.
C’è poi, invece, il popolo dei votanti, il popolo composto da coloro che sanno chi votare— perché mantengono viva una fedeltà, una speranza e una fiducia — e da coloro che sanno a chi votarsi — perché hanno ricevuto promesse di favori o minacce di ritorsioni. Il voto dei primi è libero; quello dei secondi, è forzato. Coloro che appartengono al mondo di chi sa a chi votarsi di certo non si astengono. Così, tanto maggiore è il loro numero, tanto maggiore è l’incidenza del voto corrotto su quello libero. Se — supponiamo — votano in cento e i voti corrotti sono venti, i venti rappresentano un quinto del totale; se votano in sessanta e i voti corrotti sono sempre venti, i venti rappresentano un terzo del totale. Ciò significa, in breve, che l’astensionismo attribuisce un plusvalore al voto di scambio e, in genere, all’influenza delle varie forme di criminalità organizzata che operano nel nostro Paese. La crescita dell’astensione le favorisce. Si ha un bel dire che, astenendosi, i cittadini reagiscono in quel modo al degrado della politica “lanciando segnali”: nel frattempo, però, non fanno altro che dare maggiore potere a coloro contro i quali vorrebbero dirigere la loro protesta.
C’è, infine, la questione politica. Tra gli astenuti, moltissimi sono coloro che dicono: voterei certamente, se solo sapessi per chi. E molti lo dicono con amarezza, perché sanno quanto è costata in lacrime e sangue la conquista del diritto di voto, per ogni spirito democratico il più sacro di tutti. Ma, per non fare vuota retorica (“ occorre”, “ serve”, “ bisogna”), non basta ( più) invocare il “ dovere civico” di cui parla la Costituzione. Deve riattivarsi il circuito della domanda (degli elettori) e dell’offerta (di chi si candida a essere eletto). C’è stato un tempo in cui si chiedeva: tu che ti astieni, che motivo hai per non votare. Oggi, spesso, si vuole sapere da chi non si astiene che motivo ha per votare. Qui c’è la questione politica. Il voto è un mercato. La parola può sembrare odiosa e lo è se il “bene” offerto è il favoritismo, il patronage d’interessi particolari a danno di quelli comuni, il clientelismo, la promessa d’illegalità, la corruzione, la partecipazione in opache strutture d’interessi. Non siamo (ancora) a questo punto ma, se i “ giri del potere” si stringeranno ancora e l’astensione di coloro che ne sono estranei crescerà, verrà il momento in cui l’elettore che fa uso del diritto di voto sarà sospettato di collusione.
La merce offerta sul mercato elettorale può, tuttavia, essere altra: onestà, esperienza, competenza, idee e ideali concreti di vita comune. Questa è la merce che manca al popolo di chi si astiene. Se qualcuno volesse farsene un’idea approfondita, potrebbe leggere il famoso saggio di Max Weber La politica come professione. I partiti che si candidano alle elezioni, così come sono, sono all’altezza del bisogno? Oppure il tempo per correre ai ripari è passato irrimediabilmente? È difficile l’innamoramento di ritorno, ma è ancor più difficile il ritorno alla politica di chi ne è stato prima illuso e poi disgustato.
Di fronte a questo compito, tanto vasto e urgente quanto essenziale per la democrazia, gli slogan, le promesse, le alchimie, le furbizie elettorali, le incoerenze, le menzogne e le recriminazioni reciproche sono contorcimenti nel vuoto che, se possibile, danno ragioni crescenti al popolo degli astenuti che osserva. C’è nell’aria un desiderio di ricominciamento; c’è un sentimento ambiguo di “piazza pulita”. Può essere il preludio a una catastrofe o a una rigenerazione. Se sarà la prima, gli storici daranno tutta la colpa alle inadeguatezze dei partiti e dei loro dirigenti, all’arroccamento nei posti e sulle posizioni acquisite e all’incapacità di cogliere il momento, comprendendo quando i vecchi tempi sono al tramonto e occorre promuoverne di nuovi.

Si dice che il nostro tempo è quello del populismo ma i populismi sono i regimi della mobilitazione di massa, mentre il non voto è smobilitazione

il manifesto,

«Sinistra. Il comportamento di certi aspiranti federatori, all’opera negli ultimi mesi, ci sono costruttori che si sono rivelati sabotatori (periamo inconsapevoli)»

Sono una dei tanti elettori italiani che guardano con vera preoccupazione all’appuntamento delle prossime elezioni perché, semplicemente, non sappiamo per chi votare.

Siamo elettori orfani, persone alla ricerca di un partito o una lista credibili, con candidati pronti ad affrontare un’elezione nazionale proponendo risposte di sinistra alle sfide del tempo: in primo luogo quelle del lavoro e delle disuguaglianze. Ma anche la sfida del clima e dell’ambiente, dell’istruzione e della sanità, del diritto e soprattutto dei diritti. Quello che cerchiamo è una proposta politica che possa guardare al mondo in cui ci troviamo, a cominciare dallo stesso mare Mediterraneo che ci circonda.

PROBABILMENTE ABBIAMO votato in modi anche diversi alle ultime elezioni, ma di una cosa siamo convinti: riteniamo che alla luce dei fatti, delle alleanze che ha stretto e delle leggi approvate dagli ultimi due governi (e di quelle passate nel dimenticatoio), l’attuale Partito Democratico non può o non vuole formulare le risposte che rivendichiamo. Per questo motivo ci appassionano ben poco le ultime manovre in atto per cercare una pezza che sia a sinistra. Vogliamo andare avanti.

E siccome la speranza sarà pur sempre l’ultima a morire, continuiamo a guardare con interesse alla discussione in corso a sinistra per la formazione di una lista comune. Siamo realisti, l’obiettivo non è semplice, trattandosi, almeno in parte, di una ricomposizione tra soggetti che hanno preso strade diverse. Ma avremmo salutato con piacere delle voci nuove nel panorama un po’ polveroso della sinistra italiana. E’ stata un’attesa lunga e frustrante.

Guardando infatti il comportamento di certi aspiranti federatori durante gli ultimi mesi, ci sono costruttori che si sono rivelati – speriamo inconsapevoli – sabotatori, facendo deragliare più di un tentativo avviato per mettere in piede un vero contendete di sinistra. In questo modo al Pd è stato lasciato campo libero per continuare a rivendicare uno spazio politico e la rappresentanza degli interessi di molti elettori che ha, nei fatti, abbandonato da tempo.

È STATO PERSO MOLTO, troppo tempo prezioso, e la delusione in giro a questo punto è tanta. Questo renderà ancora più difficile il compito dei giocatori rimasti in campo, e in particolare dei promotori dell’assemblea nazionale per la costituzione di una nuova proposta politica di sinistra del 2 dicembre, fin qui Roberto Speranza, Pippo Civati e Nicola Fratoianni, a nome dei rispettivi movimenti.

Forse se ne aggiungeranno altri, speriamo di si, perché con la rinuncia a partecipare dei due principali promotori di ’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza’, meglio noti come quelli del Brancaccio’, dopo un percorso di ben 98 assemblee in giro per il paese con l’obiettivo specifico della costituzione di una lista comune, la futura aggregazione ha perso la sua unica componente ‘civica’, guidata da due promettenti new entry sulla scena politica nazionale: Anna Falcone e Tomaso Montanari.

Senza di loro l’appuntamento del 2 dicembre rischia di perdere smalto, la freschezza del nuovo, ma soprattutto respiro: l’eco del movimento di opinione, in particolare di giovani, che contribuirono in modo decisivo a fare vincere il ‘No’ nel referendum costituzionale dell’anno scorso.

MA C’È UN ALTRO MOTIVO che ci fa rimpiangere la loro assenza. Ai due portavoce del Brancaccio va dato atto che sono stati gli unici a porre con forza la questione delle regole per la selezione dei candidati della futura lista comune. Non è una questione da poco.

Il decollo finale della nuova proposta politica deve molto alla protervia con la quale il Pd di Matteo Renzi ha imposto una indifendibile legge elettorale. Questa forzatura politica ed istituzionale ha pubblicamente sancito la tacita alleanza parlamentare del Pd con la destra dell’impresentabile Verdini, e provocato la rottura motivata del presidente del Senato Pietro Grasso, regalando alla nuova formazione di sinistra la possibilità di un leader di peso (o almeno di rango) e tutto meno che divisivo.

LA DRAMMATICA DECISIONE di Grasso ha portato i gravi difetti della legge elettorale all’attenzione di tutti. Un marchingegno cinicamente congegnato per mantenere il potere nelle mani dei capi partito, privando gli elettori non solo del potere di scelta, ma anche di una effettiva rappresentanza. Agli alti principi e alla sovranità del popolo non badava proprio nessuno.

È per questo motivo che il modo in cui si formeranno le liste elettorali del futuro soggetto politico è una questione tutto meno che secondaria, e sicuramente di pari importanza al suo programma elettorale. E questo è il secondo punto che mi preme di sottolineare.

IL PERCORSO DA AVVIARE dopo il 2 dicembre dovrà costituire la rappresentazione concreta del rigetto dei principi guida del cosiddetto Rosatellum: è una legge fatta per consegnare il potere di scelta dei candidati ai segretari dei partiti? Scegliamoli invece «con metodo democratico», come recita la Costituzione. E’ stata abbandonata la parità di genere? Assicuriamola davvero per i componenti della nuova lista. E’ consentito l’obbrobrio delle pluricandidature, permettendo ai capilista di esercitare un potere feudale di prima scelta? La nuova lista le bandirà.

Solo così si potranno smentire le rabbiose accuse lanciate nel giorno della rinuncia da un Montanari più che deluso, che, di fatto, sfida i proponenti dell’assemblea del 2 dicembre a dimostrare che quell’appuntamento non sarà, come ha detto, «un teatro che copre l’obiettivo reale: rieleggere la fetta più grande possibile degli attuali gruppi parlamentari». Se, come me lo auguro, Montanari ha torto, bisognerà dimostrarglielo, e, ciò facendo, sperare di recuperare un bel po’ di delusi come lui nel paese.

Ma se per disgrazia quel gruppo di parlamentari uscenti che si sono ritrovati intorno alla nuova proposta per un futuro soggetto politico di sinistra pensano davvero di allestire una zatterella di salvataggio personale, temo che potrebbero fare la stessa triste fine dei 147 passeggeri della famosa zattera della Medusa (di cui si salvarono solo in 15), con buona pace delle speranze nostre e loro.

Internazionalel'ex base militare di Conetta, trasformata in un centro di accoglienza, pessimo anche per il suo genere, dove cattiva gestione e speculazione imperano.

“È da stamattina che parlo con questi ragazzi, ognuno di loro è una tragedia: chi ha perso un fratello, chi è stato venduto all’asta degli schiavi in Libia, chi è stato torturato”. Lino, 62 anni, ex operaio del petrolchimico di Marghera, scoppia a piangere quando racconta le storie dei ragazzi della Costa d’Avorio, della Nigeria, del Mali con cui ha passato qualche ora nella parrocchia di Mira, una cittadina a venti chilometri da Venezia.
Sono circa quaranta e hanno dormito per terra in canonica, avvolti in coperte e sacchi a pelo, dopo aver marciato per tre giorni dall’ex base militare di Conetta, in Veneto, per raggiungere a piedi la prefettura di Venezia, a cinquanta chilometri di distanza. Fanno parte dei 250 profughi che protestano contro le condizioni di un centro di accoglienza in cui vivono 1.400 persone e dove il 3 gennaio del 2017 una richiedente asilo della Costa d’Avorio di 25 anni, Sandrine Bakayoko, è morta per una tromboembolia polmonare acuta che l’ha colpita all’improvviso mentre era nella doccia, scatenando una rivolta tra gli ospiti.
Da Campolongo Maggiore i ragazzi sono arrivati stremati nelle sei parrocchie di Mira e di Chioggia, ma hanno trovato decine di persone – parrocchiani, attivisti, semplici cittadini – ad accoglierli con pasti caldi, vestiti e coperte. La sera del 16 novembre il patriarca di Venezia Francesco Moraglia aveva chiesto alle parrocchie della zona di aprire le porte per la notte ai profughi.”La popolazione si è mobilitata e i ragazzi per fortuna hanno potuto passare una notte al caldo, perché sono stati due giorni e due notti molto fredde e la situazione stava diventando davvero pesante per loro”, afferma Barbara Barbieri, un’attivista del sito d’informazione Progetto Melting Pot Europa.

Dopo tre giorni di cammino lungo l’argine del fiume Brenta e una lunga trattativa con la questura e la prefettura, ce l’hanno fatta. La prefettura ha deciso di trasferirli in altri centri della regione: 180 rimarranno nella provincia di Venezia, gli altri saranno spostati in strutture di accoglienza nelle diverse province del Veneto. Per ognuno di loro è un’altra scommessa, una specie di lotteria, non sanno cosa li aspetta, ma sembrano soddisfatti di non essere tornati indietro, nella base militare da dove erano andati via tre giorni prima, caricandosi le valigie sulle spalle.

“Si tratta d’integrare questi ragazzi, sono persone forti che vogliono lavorare, non si può chiuderli in un ghetto come quello di Cona”, commenta Lino mentre si asciuga le lacrime che spuntano sotto gli occhiali. Ha lavorato per 42 anni al petrolchimico, ha cominciato quando ne aveva 14, ora ne ha più di sessanta e da quando è in pensione fa volontariato in una delle parrocchie di Mira. Per Lino la questione è molto semplice: i richiedenti asilo che ha incontrato in canonica hanno l’età dei suoi figli e non possono essere confinati in strutture fatiscenti, lontane da tutti i servizi.

“Lui, Benjamin, ha l’età del mio figliolo più piccolo che studia all’università. In lui vedo mio figlio”, dice, mentre indica un ragazzo alto e sorridente che indossa una felpa rossa col cappuccio. Con semplicità spiega che l’integrazione dovrebbe essere un’opportunità di lavoro anche per la popolazione locale: “Ci sarebbe bisogno di insegnanti d’italiano, di operatori sociali, di mediatori” e invece “stiamo con i forconi”.

Usa parole forti l’ex operaio per definire il centro di accoglienza che ospita metà dei richiedenti asilo presenti in tutta la regione, costretti a dormire in tensostrutture senza riscaldamento in mezzo alla campagna della bassa padovana. “Non si possono tenere ragazzi giovani, che hanno vent’anni, in un lager”, dice. “A Mira ci sono dei centri d’accoglienza, ma non ci sono stati problemi, perché sono piccole strutture dentro la città e i migranti si sono integrati bene”, continua Lino, che critica duramente il modello d’accoglienza più diffuso in Veneto, quello dei grandi centri in cui sono concentrati migliaia di richiedenti asilo.

“Se ogni comune del Veneto desse ospitalità a un piccolo gruppo di migranti, non ci sarebbe problema e invece ognuno vuole curare il suo orticello. Ma che futuro stiamo dando ai nostri figli se gli insegniamo a non accettare l’altro?”, chiede l’uomo, mentre si sistema la coppola di tweed sulla testa per ripararsi dall’umidità pungente di metà novembre. Intanto un gruppo di ragazzi è seduto sulla panchina davanti alla canonica, altri giocano a ping pong. Stanno aspettando che arrivino i pullman della prefettura per trasferirli nei nuovi centri a Verona e a Treviso.

Meglio dormire per strada

“Vivevamo in tende di plastica a Cona, freddissime d’inverno e caldissime d’estate”, spiega Ahmad, un richiedente asilo di 23 anni che viveva nel campo da quasi un anno. L’ultima protesta è scoppiata con l’arrivo dell’inverno, quando alcune stufe si sono rotte e non sono state sostituite. “Per me è meglio dormire per strada che stare in quelle condizioni, avevo raggiunto il limite”, continua Ahmad, che tiene le braccia conserte e saltella per riscaldarsi.

“Siamo stati fermati dalla polizia appena usciti dal campo, poi abbiamo ripreso a camminare il giorno successivo. Abbiamo dormito nella parrocchia di Codevigo. Poi abbiamo marciato fino a quando la polizia ci ha fermato di nuovo a Campolongo e ha portato i rappresentanti del gruppo in questura. Ma noi non avevamo intenzione di tornare indietro”, dice. Per il ragazzo, oltre alle condizioni precarie del campo, uno dei problemi dell’ex base militare è la lontananza dalla città e dalle attività produttive.

“Ci volevano quaranta minuti per arrivare alla prima fermata dell’autobus da Conetta e poi almeno un’ora di autobus per andare a Padova, che è l’unica città in cui avremmo potuto trovare lavoro”, spiega Ahmad in un inglese fluente che ha imparato a scuola in Costa d’Avorio, dove si è diplomato in ragioneria. È d’accordo con lui anche Daniel Eruenga, nigeriano originario di Benin City, che dice schietto: “Non siamo venuti in Europa per dormire tutto il giorno in un campo, vogliamo lavorare, contribuire all’economia, vogliamo pagare le tasse in questo paese”.

Eruenga stava spesso male a Conetta: “Siamo sani, ma a forza di stare al freddo, ci ammaliamo, e quando ci sentivamo male non ci davano medicine e non ci portavano all’ospedale. Ci davano una pasticca di paracetamolo per qualsiasi tipo di problema”. Gbenge, un altro richiedente asilo della Costa d’Avorio, ricorda Sandrine Bakayoko, la ragazza morta all’inizio dell’anno: “Era una splendida persona, era così giovane e bella, la sua morte non me la posso spiegare”. Dieci mesi dopo quella morte nell’ex base militare di Cona non è cambiato niente.

Bakayoko era arrivata in un porto siciliano nel settembre del 2016, poi con il marito Mohamed era stata trasferita in uno dei centri per migranti più grandi del Veneto. Era in attesa che la sua richiesta d’asilo fosse esaminata. È morta da sola mentre era nel bagno.

A dare l’allarme è stato il marito, che l’ha trovata in fin di vita. Secondo il referto dell’autopsia si è trattato di una tromboembolia polmonare bilaterale fulminante. La morte della ragazza ha scatenato una protesta dei richiedenti asilo ospitati nel centro, che hanno accusato i gestori di aver chiamato i soccorsi in ritardo. Secondo i testimoni, infatti, la ragazza si è sentita male intorno alle 7, ma i soccorsi sono arrivati diverse ore dopo.

In una nota, però, l’ospedale di Piove di Sacco ha detto che i mezzi di soccorso sono partiti subito dopo aver ricevuto la chiamata. Gli operatori del centro, spaventati dalle proteste, si sono barricati in un container e negli uffici amministrativi della struttura. La protesta è durata ore, venticinque operatori sono rimasti chiusi in un container fino alle due di notte, quando la situazione è tornata tranquilla.

A Conetta c’erano già state delle proteste in passato da parte dei migranti che si lamentavano del freddo, delle camerate sovraffollate, della mancanza di docce, dei servizi igienici inadeguati, della scarsità dei pasti, e del fatto che era impossibile frequentare corsi di italiano e raggiungere i posti di lavoro. Una delegazione della campagna LasciateCIEentrare aveva visitato il centro nel giugno del 2016 e lo aveva descritto come una “tendopoli nel nulla”. Al coro delle proteste si è aggiunta anche quella del sindaco di Cona, Alberto Panfilo, eletto nel 2014 con una lista civica di centrodestra: “La realtà è che questa gente è costretta a vivere dentro una tenda. Quando la tenda si riempie, la comunità che ha in gestione l’accoglienza ne pianta un’altra. E tutto questo avviene nell’oblio più completo”.

L’integrazione impossibile

Le condizioni preoccupanti del centro erano state oggetto di un’interrogazione del parlamentare di Sinistra italiana Giovanni Paglia nel novembre del 2016, rivolta all’allora ministro dell’interno Angelino Alfano. Nell’interrogazione Paglia descriveva “condizioni di soggiorno difficilmente compatibili con la parola accoglienza” e avvertiva che la situazione sarebbe potuta “degenerare in qualsiasi momento”. L’Associazione studi giuridici sull’immigrazione nel gennaio del 2017 aveva denunciato, inoltre, la presenza di almeno trenta minorenni nella struttura e ha portato il caso di tre di loro davanti alla Corte europea dei diritti umani (Cedu).

Le denunce, tuttavia, sono state ignorate e il centro di Conetta ha continuato a funzionare a pieno regime. Quando è morta Sandrine Bakayoko il centro ospitava circa 1.300 persone, quasi 800 in più delle 542 che avrebbe potuto accogliere. Nell’estate del 2017 sono stati censiti nel centro 1.400 profughi. Una delle ragioni del sovraffollamento di centri come questo è che i comuni del Veneto non danno disponibilità all’apertura di centri di accoglienza per richiedenti asilo: meno del 50 per cento dei comuni della provincia di Venezia ha aderito al Sistema nazionale per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), quindi spesso i migranti sono mandati dai prefetti in centri d’accoglienza straordinari (Cas): hotel ed ex caserme riconvertite.

Il prefetto di Venezia Carlo Boffi, responsabile del centro di Cona, visitando i richiedenti asilo dopo la protesta il 15 novembre ha fatto appello ai sindaci della zona: “Rinnovo ancora l’appello a tutti i sindaci della città metropolitana di collaborare a individuare nuove piccole strutture per l’accoglienza di queste persone. Più si spalmano sul territorio e meno problemi ci sono”.

I grandi centri, infatti, non sono adatti a ospitare centinaia di persone per lunghi periodi di tempo e sono molto lontani dai centri abitati. La cooperativa che gestiva l’ex base di Conetta, la Ecofficina-Edeco di Padova, è una realtà importante dell’assistenza ai profughi in Veneto, è entrata nel settore nel 2011 e da allora gestisce tre strutture di accoglienza: Bagnoli a Padova, Cona a Venezia, Oderzo a Treviso. La cooperativa, però, è al centro di tre indagini delle procure di Rovigo e di Padova. Le accuse sono truffa, falso e maltrattamenti.

La procura di Padova sta indagando su un buco in bilancio da 30 milioni di euro nelle casse di Ecofficina-Edeco per un presunto scambio di denaro tra la cooperativa e la società Padova Tre, che si occupa della raccolta dei rifiuti. Le altre due indagini riguardano: una denuncia per maltrattamenti e soprusi e la falsificazione di alcuni documenti per aggiudicarsi una gara di appalto.

Come ha mostrato l’inchiesta Mafia capitale, il sistema d’accoglienza italiano che prevede un doppio binario (uno ordinario e uno straordinario), rischia di alimentare fenomeni di cattiva gestione, perché non ci sono protocolli efficaci di monitoraggio dei centri quando si agisce con la procedura di emergenza. Molti specialisti, come Gianfranco Schiavone dell’Asgi, hanno sottolineato che l’unica possibile alternativa ai grandi centri è il ricollocamento diffuso dei profughi sul territorio nazionale con il coinvolgimento dei comuni nell’assistenza e l’applicazione degli standard e dei controlli previsti dal sistema centrale di accoglienza. Nel 2016 appena il 19 per cento dei richiedenti asilo accolti in Italia era ospitato da un centro Sprar. Se tutti gli ottomila comuni italiani partecipassero all’assistenza dei profughi, ogni centro dovrebbe ospitare al massimo una ventina di persone e il sistema sarebbe più sostenibile.

Di nuovo in marcia

“Moraglia giuda, l’euro il tuo dio”, c’è scritto sullo striscione di Forza Nuova affisso sulle pareti del patriarcato di Venezia per contestare la richiesta di accoglienza fatta dai vertici della curia veneziana, che il 17 novembre ha aperto la strada al ricollocamento dei profughi su tutto il territorio regionale. Secondo Federico Fornasari del Coordinamento nazionale dell’Unione sindacale di base (Usb), il modello di accoglienza del Veneto alimenta il razzismo e soffia sul fuoco della guerra tra poveri. “Le forze di estrema destra e la Lega nord giocano molto su questo clima di diffidenza e paura che si crea quando ci sono situazioni come quelle di Cona”, afferma Fornasari.

Intanto il 20 novembre altri cinquanta richiedenti asilo sono usciti dall’ex base militare di Conetta, pronti a mettersi in marcia verso Venezia come hanno fatto gli altri duecento qualche giorno prima. “Sono stati bloccati di nuovo dalla polizia, ma ormai è chiaro che anche chi è rimasto nel centro non vuole tornare indietro e fare finta di niente”, spiega il rappresentante sindacale, che ha seguito la marcia fin dall’inizio e ha condotto la mediazione tra i profughi e le autorità locali.

“Ormai sono due anni che seguiamo la situazione a Cona chiedendo dei miglioramenti sostanziali nel campo. Nulla di tutto questo è mai avvenuto, quindi alla fine abbiamo preso atto che quel campo non si può cambiare e oltre alle condizioni materiali c’è una questione che riguarda la qualità della vita e dell’integrazione di queste persone. Un campo come quello di Cona è in contrasto con la normativa europea sull’accoglienza. L’integrazione può avvenire solo in una condizione in cui i diritti sono riconosciuti sia ai migranti sia agli abitanti del posto”, conclude Fornasari.

“Il centro di Cona non lo possiamo considerare un centro d’accoglienza”, aggiunge Barbara Barbieri di Melting Pot Europa. “Le condizioni di vita sono terrificanti e sono anni che lo denunciamo. Lo sforzo della prefettura di spostare piccoli gruppi non è stato sufficiente”. Il centro deve essere chiuso.

Il 23 novembre i parlamentari Giulio Marcon, Davide Zoggia e Michele Mognato visiteranno la base, chiedendo al prefetto di superare questo modello d’accoglienza il prima possibile. Intanto a Cona i richiedenti asilo hanno ripreso la marcia: poche cose caricate sulle biciclette, valigie sulla testa, coperte avvolte intorno alle spalle per ripararsi dal freddo umido della bassa. Prima tappa Piove di Sacco. “Nel campo di Cona si muore”, hanno scritto i migranti su un pezzo di cartone.

il manifesto, 21 novembre 2017. Abbandona il proscenio una nuova sinistra, ecco che un'atra occupa il suo posto. Alla fine ci troveremo a cantare tutti insieme "Bandiera rossa la trionferà"

«Assemblea a Roma organizzata dai militanti dell'ex opg "Je so pazzo" di Napoli. Con rifondazione e comunisti italiani. Si lavora a una lista elettorale, la terza oltre quella di Pisapia con il Pd e di Bersani e D'Alema senza il Pd»

Sabato scorso a Roma si sarebbe dovuta tenere l’assemblea del Brancaccio, invece se n’è tenuta un’altra al Teatro Italia. Tomaso Montanari e Anna Falcone hanno deciso di fare un passo di lato («I segretari di Mdp, Possibile e Sinistra italiana hanno scelto un leader. E questo ha ‘risolto’ tutti i problemi» l’accusa di Montanari). I militanti dell’ex Opg Je so’ pazzo di Napoli hanno deciso di occupare il vuoto lasciato dai «civici» per proporre la costruzione di una lista di sinistra. Senza nessun centro a cui guardare «perché la lotta di classe non l’inventiamo noi, è nelle cose», hanno rivendicato nell’intervento finale.

Gli attivisti dell’ex Opg hanno in gestione (attraverso una delibera dell’amministrazione napoletana) uno spazio «bene comune»: nelle stanze di un convento, diventato un luogo di reclusione per criminali ritenuti pazzi e poi abbandonato, adesso c’è l’ambulatorio popolare, lo sportello legale per migranti e lavoratori in nero, corsi di italiano, doposcuola per i ragazzi del quartiere, la palestra e il teatro popolare. Un lavoro sviluppato in rete con i collettivi, i centri culturali e sociali a partire da Clash city workers e quelli che si riconoscono nella sigla «Potere al popolo», nata lo scorso settembre a Napoli e diffusa in ventidue città da nord a sud della penisola. Avevano provato a partecipare all’assemblea del Brancaccio, a giugno, ma non era scattato il feeling. Con la prima fila occupata dai leader dei partiti della sinistra, l’ex Opg aveva avvisato: «Non costruiamo un luogo per dirigenti senza territori».

Sabato si sono ritrovati con il teatro pieno: molti dei partecipanti erano transfughi del Brancaccio, tante le sigle delle lotte contro le politiche di sfruttamento degli ultimi governi come i No tav e No tap e poi anche realtà strutturate come Rifondazione comunista, il Partito comunista italiano (già Pdci) ed Eurostop. Per cambiare paradigma bisogna cambiare metodo, spiega Matteo Giardiello: «Su lavoro, sanità, scuola, migranti la discussione è monopolizzata dal, quello occupato dal Pd, oppure dal Movimento 5 Stelle o dalla destra. Per costruire una lettura e un percorso di sinistra abbiamo avviato le assemblee provinciali, che porteranno a una sintesi regione per regione. Entro la prima metà di dicembre ci sarà un nuovo incontro nazionale e poi partiremo con la raccolta delle firme. Programma, firme, candidati saranno il frutto del protagonismo delle comunità in cui operiamo».

Sul palco le testimonianze dei lavoratori del call center Almaviva di Roma, licenziati per non aver accettato un accordo capestro che tagliava del 17% stipendi da 600 euro e poi reintegrati dal giudice del lavoro, sindacalisti di base come Giovanni dell’Usb di Livorno: «Abbiamo l’esperienza per mobilitare una grossa parte di questa gente. Sapremo essere la differenza, la speranza, i giochi di segreteria lasciamoli stare, ci hanno ammazzato». E docenti come Roberto, del Coordinamento insegnanti autoconvocati: «Questa esperienza parte dalle lotte, non abbiamo tra noi i responsabili delle politiche degli ultimi anni. Vogliamo cancellare non solo il Jobs Act e la Buona Scuola ma anche il pacchetto Treu e la riforma Fornero, togliere l’appoggio alle guerre imperialiste».
Rifondazione ha aderito al percorso con un voto in direzione (26 favorevoli, 9 contrari): «Giudichiamo negativamente l’annullamento dell’assemblea del Brancaccio e positivamente l’incontro al Teatro Italia, per la capacità di far esprimere esperienze di lotta, pratiche solidali, volontà di partecipazione, nuovo entusiasmo».

Se il percorso lo scrivono i territori, all’assemblea di sabato scorso è toccato indicare il metodo, come spiega Viola dell’ex Opg: «Nella versione de L’Internazionale scritta da Franco Fortini c’è una frase che dice tutto del nostro compito: “Dove era il no, faremo il sì”. Proviamo a rovesciarlo questo mondo rovesciato e iniziamo a farlo rovesciandoci, mettendoci prima noi sottosopra».

NENA news

Secondo La più grande prigione al mondo, il nuovo libro dello storico israeliano Ilan Pappe, fin dal 1963 – quattro anni prima della guerra del 1967 – il governo israeliano stava progettando l’occupazione militare ed amministrativa della Cisgiordania.

La pianificazione dell’operazione – nome in codice “Granit” (granito) – ebbe luogo durante un mese nel campus dell’università Ebraica nel quartiere di Givat Ram a Gerusalemme ovest. Gli amministratori militari israeliani responsabili del controllo dei palestinesi si riunirono con funzionari legali dell’esercito, figure del ministero dell’Interno e avvocati privati israeliani per stilare le norme giuridiche ed amministrative necessarie per governare sul milione di palestinesi che all’epoca vivevano in Cisgiordania.

Questi piani facevano parte di una strategia più complessiva per mettere la Cisgiordania sotto occupazione militare. Questa strategia era denominata in codice “Piano Shacham”, dal nome del colonnello israeliano Mishael Shacham che ne era l’autore, e venne ufficialmente presentata dal capo di stato maggiore dell’esercito israeliano il 1 maggio 1963.

Pappe ha sostenuto a lungo che la guerra del 1967 e l’occupazione che ne seguì non furono “l’impero casuale” descritto dai sionisti progressisti. Pappe ritiene che un “Grande Israele” fosse stato prospettato fin dal 1948, e la sua pianificazione sia avvenuta fin dalla guerra di Suez del 1956.

La novità contenuta in La più grande prigione al mondo è il resoconto dettagliato da parte di Pappe esattamente di quello che i pianificatori israeliani avevano stabilito nel 1963: ossia “la più grande mega-prigione per un milione e mezzo di persone – un numero che sarebbe cresciuto fino a quattro milioni – che sono ancor oggi, in un modo o nell’altro, incarcerati all’interno dei muri reali o virtuali di questa prigione.”


Sistema di controllo

La descrizione da parte di Pappe degli incontri di Givat Ram ricorda il modo in cui aprì il suo libro più venduto, La pulizia etnica della Palestina, con la sua descrizione della “Casa Rossa” a Tel Aviv in cui il “Piano Dalet” (il Piano D) – per espellere quasi un milione di palestinesi – fu ordito 15 anni prima.

E in un certo senso La più grande prigione al mondo completa una trilogia, che comprende anche I palestinesi dimenticati: una storia dei palestinesi in Israele, che include la storia del popolo palestinese sotto il sionismo dal 1948 ad oggi.

Pappe afferma che il governo israeliano comprese nel 1963 che non sarebbe stato in grado di condurre un’espulsione di massa delle dimensioni della Nakba, espulsione forzata dei palestinesi nel 1948, a causa del controllo internazionale. Ciò spiega perché cominciò a disegnare un sistema di controllo e di divisione che avrebbe garantito una colonizzazione di successo in Cisgiordania, avrebbe privato i palestinesi dei diritti umani fondamentali, non concedendo loro la cittadinanza, e avrebbe garantito che la loro condizione di non cittadini nel loro stesso Paese non sarebbe mai stata negoziabile.

Benché la guerra del 1967 abbia determinato l’espulsione di altri 180.000 palestinesi (secondo le Nazioni Unite) e forse addirittura 300.000 (secondo il libro di Robert Bowker Palestinian refugees:Mythology, Identity, and the Search for Peace [Rifugiati palestinesi: mitologia, identità e la ricerca della pace]), secondo Pappe gli incontri di Givat Ram e quelli che seguirono prospettarono una specie di amministrazione carceraria per i palestinesi rimasti.

Già il 15 giugno, tre giorni dopo la fine della guerra, una commissione di direttori generali, compresi tutti i ministri del governo responsabili dei territori appena occupati, iniziò ad edificare quella che Pappe chiama una “infrastruttura per l’incarcerazione” dei palestinesi. Tutta questa pianificazione, egli scrive, ora si può trovare in due volumi di resoconti resi pubblici, per un totale di migliaia di pagine, derivanti dai verbali degli incontri del comitato.

Quasi subito dopo la conclusione della guerra, Israele iniziò a mettere in atto un piano ideato da Yigal Alon – membro del parlamento israeliano, la Knesset. Il piano era di creare dei “cunei” de-arabizzati, serie di colonie solo di ebrei in Cisgiordania “che avrebbero separato palestinesi da palestinesi ed essenzialmente annesso parti della Cisgiordania ad Israele.”

Questi cunei, inizialmente nella valle del Giordano e sulle montagne orientali, sarebbero stati più tardi perfezionati da Ariel Sharon, ministro dell’Edilizia di Israele e più tardi primo ministro. Alla fine avrebbero assunto le caratteristiche concrete di una prigione, nella forma di posti di blocco, di un muro dell’apartheid e di altre barriere fisiche.

Pappe contesta la tesi secondo cui le colonie israeliane, illegali secondo il diritto internazionale, siano state il risultato di un movimento messianico nazional –religioso, un argomento sostenuto in modo più articolato da Idith Zertal e Akiva Eldar nel loro libro Lords of the Land: The War Over Israel’s Settlements in the Occupied Territories, 1967-2007. [“Signori della terra: la guerra sulle colonie israeliane nei territori occupati, 1967-2007]. Al contrario fornisce prove che dimostrano il fatto che i governi sionisti laici, compreso quello di Golda Meir, del partito Laburista, corteggiarono questo movimento e lo utilizzarono per promuovere l’espansione coloniale da parte di Israele.

Percepibile

Non ci volle molto, comunque, prima che lo schema del governo provocasse una resistenza di massa, iniziata con la Prima Intifada del 1987-1993. Gli accordi di Oslo cercarono di affrontare questa resistenza. Pappe mostra che gli accordi di Oslo non ebbero mai l’obbiettivo di arrivare ad uno Stato palestinese e che definirono semplicemente la creazione di piccoli cantoni simili ai bantustan dell’apartheid sudafricano, con benefici aggiuntivi per il fatto che i costi e le responsabilità dell’occupazione vennero in larga misura trasferiti a importanti donatori ed organizzazioni internazionali – soprattutto l’Unione Europea – ed all’Autorità Nazionale Palestinese appena creata.

E’ qui che la metafora della prigione di Pappe diventa più percepibile. Finché l’ANP darà seguito alle proprie responsabilità riguardo alla sicurezza, la resistenza palestinese verrà messa a tacere, i palestinesi potranno vivere in una prigione di minima sicurezza “senza diritti civili ed umani fondamentali”, ma con l’illusione di una limitata autonomia. Appena la resistenza si manifesta, tuttavia, Israele impone i controlli di una prigione di massima sicurezza.

Quindi negli anni seguenti la Cisgiordania è diventata la prigione di minima sicurezza e Gaza - con Hamas alla guida della resistenza – è diventata quella di massima sicurezza. I palestinesi, scrive Pappe, “potrebbero essere sia i detenuti della prigione aperta della Cisgiordania o incarcerati in quella di massima sicurezza della Striscia di Gaza.” Tutto quello che è avvenuto dopo la guerra del 1967, nota Pappe, segue la “logica del colonialismo di insediamento” e quella logica prevede la possibile eliminazione dei palestinesi autoctoni. Tuttavia questo risultato non è inevitabile. Un’alternativa è possibile, afferma Pappe, se Israele smantella le colonie e apre la strada “alla logica dei diritti umani e civili.”

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Boook” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi – Zeitun.info)

HuffPost, ed. francese, 20 novembre 2017. Ecco un esempio dei modi e dei prezzi con cui sono venduti nel mondo gli schiavi prodotti dagli alleati dell'Italia di Marco Minniti, Paolo Gentiloni, Sergio Mattarella (e Renzi, Bersani, Fanceschini e via enumerando)
Qui il link al testo originale, con le impressionanti testimonianze filmate

LIBYE - Un millier de personnes ont manifesté ce samedi 18 novembre à Paris contre des cas d'esclavage en Libye dénoncés cette semaine dans un documentaire choc de la chaîne américaine CNN, selon la préfecture de police de Paris.

Dans le documentaire, on voit notamment, sur une image de mauvaise qualité prise par un téléphone portable, deux jeunes hommes. Le son est celui d'une voix mettant aux enchères "des garçons grands et forts pour le travail de ferme. 400... 700..." avant que la journaliste n'explique: "ces hommes sont vendus pour 1200 dinars libyens, soit 400 dollars chacun"

Les manifestants ont répondu à l'appel de plusieurs associations, et notamment d'un Collectif Contre l'Esclavage et les Camps de Concentration en Libye (CECCL), créé en réaction à la diffusion du reportage de CNN, selon un photographe de l'AFP. Le 16 novembre, l'ex-délégué interministériel Claudy Siar avait appelé à un rassemblementdevant l'ambassade de Libye à Paris ce samedi. Son appel a été partagé plus 4000 fois depuis.

Brandissant des pancartes "non à l'esclavage en Libye", ils étaient rassemblés vers 1dans l'ouest de Paris, avenue Foch, non loin de la place de l'Étoile où étaient positionnées des forces de l'ordre, a constaté un photographe de l'AFP. Les manifestants ont alors indiqué vouloir se rendre vers le consulat de Libye. C'est à ce moment, que le rassemblement qui avait débuté dans le calme, aurait dégénéré. Un drapeau de la Libye a notamment été brûlé.

La préfecture de police a dénoncé dans un communiqué le caractère illégal du rassemblement, dont les organisateurs devront, selon elle, être identifiés afin "que des procédures soient engagées aux fins de poursuites adaptées". "Sans qu'aucune déclaration n'ait été faite, plusieurs associations ont organisé une manifestation et un cortège depuis l'ambassade de Libye jusqu'en direction du second site diplomatique de ce pays", dans l'ouest de Paris, a-t-elle indiqué dans ce communiqué, tout en précisant qu'"aucune dégradation n'a été commise".

Le président en exercice de l'Union africaine (UA), le Guinéen Alpha Condé, et le gouvernement sénégalais notamment ont fait part cette semaine de leur indignation face à la vente des migrants-esclaves, tout comme le président nigérien Mahamadou Issoufou, qui a demandé à ce que le sujet soit mis à l'ordre du jour du sommet Union africaine-Union européenne des 29 et 30 novembre à Abidjan.

Huffington posta Nuova Venezia, 19-20 novembre 2017. «Siamo alla vigilia delle celebrazioni della Giornata Mondiale dei Poveri. Non la giornata mondiale della povertà, non la giornata mondiale contro la povertà». Articoli dei sacerdoti Camillo Ripamonti e Marco Pozza.(m.p.r.)

Huffington post, 20 novembre 2017
ELIMINARE LA POVERTÀ

NON I POVERI
di Camillo Ripamonti

Secondo la filosofa spagnola Adela Cortina l'aporofobia (la paura dei poveri) esiste al pari della paura dello straniero. Addirittura arriva a sostenere che oggi non siamo tanto di fronte a un aumento della xenofobia, ma piuttosto al dilagare della paura nei confronti dei poveri. Aporofobia è certo anche la paura degli stranieri, ma non ha come target principale l'essere straniero, quanto la condizione di marginalità che lo straniero vive.

Uno studio recente dell'Università Bicocca di Milano sulle periferie di cinque grandi città sottolinea come la percezione di insicurezza che si ha oggi non è tanto data dall'aumento di delitti, ma dalla mancanza di riferimenti generata dalla velocità con cui cambiano questi spazi urbani sia strutturalmente che come persone che vi vivono transitandovi. Lo spazio esistenziale diventa distante e percepito come insicuro, e l'insicurezza la si combatte cercando di riappropriarsi del controllo, almeno apparente, degli spazi, allontanando o individuando come nemici chi transitandovi esistenzialmente sembra renderli insicuri: migranti, mendicanti etc.

Siamo alla vigilia delle celebrazioni della Giornata Mondiale dei Poveri. Non la giornata mondiale della povertà, non la giornata mondiale contro la povertà. Ma la giornata mondiale dei poveri. Sembra un aspetto meramente linguistico, ma credo non lo sia. Nel messaggio che papa Francesco invia per questa giornata si legge:

«Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita. [...] Siamo chiamati, pertanto, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, abbracciarli, per far sentire loro il calore dell'amore che spezza il cerchio della solitudine. La loro mano tesa verso di noi è anche un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce».

In un tempo in cui si ha paura dei poveri, si cerca in tutti modi di allontanare i poveri dalla nostra vista. Non vederli ci rassicura perché avere un povero davanti agli occhi, nei luoghi in cui viviamo, ci ricorda che quella condizione domani potrebbe essere la nostra; si può cadere, e questo spaventa.

Papa Francesco lancia la Giornata Mondiale dei Poveri, non per attirare l'attenzione su di loro ma per farli protagonisti, attraverso un incontro che cambia e fa abbracciare la povertà come stile di vita: questo già credo sia un cambio radicale di prospettiva.

«... L'invito è rivolto a tutti, indipendentemente dall'appartenenza religiosa, perché si aprano alla condivisione con i poveri in ogni forma di solidarietà, come segno concreto di fratellanza. Dio ha creato il cielo e la terra per tutti; sono gli uomini, purtroppo, che hanno innalzato confini, mura e recinti, tradendo il dono originario destinato all'umanità senza alcuna esclusione".

19 novembre 2017
PREGHIAMO PER I POVERI
SENZA SCORDARE I RICCHI
di Marco Pozza

I poveri mi hanno sempre infastidito: pur avendo conosciuto da bambino la stagione della povertà - fui spettatore impotente delle lacrime di papà quando ci annunciò la perdita del lavoro - mi è sempre stata d'inciampo. L'ho patita troppo nell'anima, più che nel cibo che era misuratissimo, per amarla senza sotterfugi: quando l'ho potuto fare, l'ho sempre scansata. Il povero mi era ostacolo più che incrocio nella mia personale ricerca della felicità. Lo ammetto: anche del volto di Cristo. Ciò che gli infettati di lebbra procuravano al cuore-matto di Francesco di Assisi, gli accattoni lo ridestavano in me: «Quando ero nei peccati mi pareva cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse da loro e usai con essi misericordia».

A casa nostra, in quegli anni, Dio era un lusso che non ci si poteva permettere: meglio i santi, la Madonna, gente più concreta, alla quale chiedere il sole, la pioggia, il pane e la giusta razione di grano d'estate. Il povero, quand'è povero, conosce un solo dogma: la carne. La teologia viene dopo. Quasi sempre alla fine dei discorsi: se c'è posto. Il povero, quello che m'infastidiva, un giorno mi ha pure provocato: "Perché mi dai sempre soldi e poi scappi? - mi rinfacciò tre anni fa Alessandro, uno dei miei amici clochard. Aveva ragione: gli riempivo la mano tesa e poi fuggivo: non conoscevo, di lui, nient'altro che il nome. Una sera li rifiutò: "Non voglio più soldi da te - mi disse restituendomi gli euro - voglio dieci minuti di tempo".
Scoprii lì, seduto malvolentieri sui gradini di una chiesa di città, la storia lurida e infangata di Ale: la rabbia, l'angoscia, l'insicurezza che la povertà ti cuce addosso. Era la rievocazione, fatta con voce dell'Est, della storia di casa mia: lo ascoltavo e a me pareva fosse lui che mi ascoltasse, la sua storia era un racconto già sentito nella mia pelle. Quando mi alzai, compresi appieno perché ero così generoso di soldi con lui e qualche altro: volevo che, sazi di qualche euro, se ne andassero al più presto da me. La mia carità era il più egoista dei gesti: "Spostatevi, che io devo andare avanti" . Quel clochard ancora oggi è il mio lebbroso-di-Francesco: «Allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo».
Quell'altro Francesco, oggi Papa, perfezionò la mia caduta ricordandomi che Cristo lo trovi nella carne sofferente dei poveri. O non lo trovi. Oggi è la loro giornata, la Giornata Mondiale del Povero. Ecco perché oggi io pregherò per i ricchi: perché la povertà, quando ti tocca, non è affatto bella, è il più spietato degli incubi. È lei a posizionarti sotto le scale, negli scantinati, nei nascondigli: a fare di te un subalterno, un uomo poco libero, uno schiavo. Non è per nulla poetica come amano presentarcela taluni: anche la terra - quella che a casa mia vedo zappare, coltivare, seminare - non è sempre bella. Lo diventa quando è una scelta, un'opzione voluta, un sogno ripreso in mano. Quand'è una costrizione, è la più subdola delle disperazioni. Quella che fa nascere una sorta di eresia da destinare ai ricchi: che la fede del povero sia superiore a quella del ricco. Nient'affatto. Me l'ha spiegato san Francesco di Paola, tramite il racconto geniale di Andrea di Consoli ne Il miracolo mancato: a volte, per fare il bene, è necessario mostrarsi forti, per mettere i forti nella condizione di aiutare i deboli.
Sono i ricchi i veri protagonisti del riscatto dei poveri: una Chiesa che li esclude è una Chiesa che non riesce ad incidere nelle loro anime, ad aprire brecce nelle loro certezze. Nel Vangelo ci sono i lebbrosi, gli sbandati, gli epilettici e i morti di fame. C'è anche Veronica, Nicodemo: una usava fazzoletti di lino, l'altro aveva una tomba nella roccia. Ricchi, si fecero poveri per amore, non per costrizione. Prego per i ricchi, oggi, perché iniziano a starmi a cuore i poveri: il merito è di Alessandro. E prego per i poveri, perché diventino ricchi sfondati e scelgano di rimanere poveri, come il santo di Assisi e infiniti altri. Perché la povertà senza la possibilità della ricchezza è sempre una necessità, mai una virtù. Non è bella.

NENA news l'urbanizzazione neoliberista in Istanbul e altre città, il regista racconta la vita in Turchia nello stato di emergenza. La trasformazione urbana è una questione sistemica nel sistema socio-economico attuale. (i.b)

Il 21 luglio 2016, a meno di una settimana dal tentato golpe in Turchia, il presidente Erdoğan dichiara l’attuazione per tre mesi dello stato di emergenza (Ohal), rinnovato poi di tre mesi in tre mesi e ancora in vigore. Nel luglio 2017, con due anteprime una a Berlino e poi a Istanbul, viene presentato il documentario “La Turchia sull’orlo dell’abisso (Uçurumun kıyısında Türkiye)”, un film che racconta l’anno appena trascorso nello stato di eccezione.

Un anno denso di avvenimenti, migliaia di persone costrette alle dimissioni, giornalisti, politici, scrittori, attivisti fermati, arrestati, processati dopo mesi sempre con l’accusa di affiliazione a organizzazione terroristica ma con prove scarse o inesistenti. Un anno in cui la libertà di espressione ha subito i più gravi attacchi e nonostante ciò la popolazione è stata invitata ad esprimersi con il voto su una questione delicata e decisiva: la riforma costituzionale per il passaggio a un regime presidenziale.

Imre Azem, regista del film e già autore del pluripremiato Ecumenopolis. City without Limits (Ekümenopolis. Uçu olmayan şehir), dopo essersi dedicato per anni al tema delle trasformazioni urbane, della speculazione immobiliare come forma di manifestazione di politiche neoliberiste, ha deciso di narrare un anno di Turchia nello stato di emergenza seguendo quattro persone, quattro attivisti coinvolti in diverse battaglie politiche e impegnatisi in prima linea nella campagna elettorale del referendum.

In La Turchia sull’orlo dell’abisso in compagnia del giornalista Fatih Polat, l’architetta Mücella Yapici, l’attivista Deniz Özgür e la docente Gül Köksal, lo spettatore può vedere da vicino non solo gli effetti dello stato di emergenza ma anche percepire la tenacia e la forza con cui, nonostante tutto, le persone in Turchia non si danno per vinte e continuano la loro battaglia per il rispetto dei diritti democratici.

Alla vigilia della prima italiana del film La Turchia sull’orlo dell’abisso, in una serata organizzata da Kaleydoskop – Turchia cultura e società abbiamo incontrato il regista Imre Azem per porgli alcune domande.

Come nasce l’idea di questo documentario?

Noi abbiamo sempre realizzato documentari sulla città, nel 2011 è uscito Ekümenopolis dopo di che abbiamo prodotto brevi documentari sempre sulle trasformazioni urbane, però in tempi più recenti, in particolare dopo Gezi, abbiamo cominciato a realizzare documentari su questioni più legate alla società, alla politica. All’inizio del 2016 eravamo tornati a fare dei documentari sulla società e volevamo fare un altro film che come Ekümenopolis affrontasse il rapporto tra il mondo della finanza e lo sviluppo urbano, ma a livello globale, e per questo siamo andati negli Stati Uniti, per parlare con gli investitori di Wall Street; siamo rimasti tre mesi, stavamo facendo delle ricerche quando, proprio allora, è avvenuto il colpo di Stato.

Con il golpe in Turchia l’atmosfera è cambiata di colpo e noi abbiamo pensato che, considerato ciò che stava accadendo nel nostro paese, invece di fare le riprese in America, in Europa e in altre grandi città del mondo come avremmo dovuto fare, abbiamo deciso che questo progetto non poteva continuare, lo abbiamo abbandonato, siamo tornati in Turchia per cercare di capire come raccontare quello che stava succedendo.

Nel frattempo una produzione che ci conosceva in Germania ci ha contattato. Subito dopo il golpe, infatti, c’è stato un grosso interesse in Europa verso la Turchia e tutti volevano fare qualcosa su quello che accadeva. Noi abbiamo spiegato loro che tipo di progetto avevamo in testa e che secondo noi per capire dove stava andando la Turchia, parlare con un rappresentante dell’Akp, con uno dell’Hdp, con ognuno dei partiti politici, intervistare i politici e confrontare le loro posizioni sarebbe stata una cosa senza senso. La nostra è stata una posizione chiara, abbiamo inisistito che fosse necessario un punto di vista specifico perché pensiamo che sia importante capire che influenza abbia lo stato di emergenza sulla vita di tutti i giorni, sull’attivismo. Così solo è possibile raccontare in modo più chiaro e trasparente il futuro del paese. Loro hanno accettato questa nostra proposta e quindi abbiamo cominciato a lavorarci.

Questo progetto ha anche molto di personale perché lo racconto dal mio punto di vista e lo faccio attraverso persone che conosco direttamente, che appartengono alla mia cerchia. Non ho scelto queste persone perché in generale cercavo dei profili come i loro e basta ma perché io conosco queste persone, in particolare dopo Gezi abbiamo condiviso la lotta per la democrazia e nel documentario racconto le persone attorno a me, persone con cui ci siamo battuti insieme.

Per me è un film sincero, personale, ma visto che non nascondo il punto in cui ci siamo fermati, essendo coinvolto anch’io in prima persona, anche come voce narrante, per lo spettatore tutto è più chiaro. In questo senso spiega meglio il punto in cui siamo arrivati in Turchia e dove possiamo andare. È un film che dà più informazioni.

Il documentario s’intitola La Turchia sull’orlo dell’abisso. Una definizione inquietante per un paese che solo qualche anno fa, a livello internazionale, rappresentava un modello esemplare di sviluppo economico, democrazia e islam. Ci spieghi come sei giunto a questo titolo?

La prima volta che ho cominciato a pensare a questo film ho cominciato a scrivere di getto il testo, ho scritto molto e il titolo del film è stato di fatto il primo titolo che avevo dato al testo. Di fatto esprimeva il sentimento che provavo rispetto alla Turchia. Non è una condizione nuova, e certamente si è sviluppata piano piano in un lungo processo, però tutto d’un tratto ci siamo ritrovati su un baratro, sull’orlo dell’abisso, e la trasformazione a questo punto può diventare molto difficile: in questo senso parlo di abisso. Per la Turchia l’abisso può essere una guerra civile; io penso che ci siamo arrivati davvero molto vicini e a un certo punto tornare indietro sarà molto difficile. Tuttavia ci sono ancora speranze, penso che non siamo ancora a questo punto.

La Turchia sull’orlo dell’abisso è stato realizzato dalla Kibrit Film, fondata insieme a Gaye Günay, grazie a una produzione tedesca, la gebrueder beetz filmproduktion in collaborazione con ZDF e Arte. Che valore hanno avuto questi fondi stranieri, europei per la precisione, in un momento di grande censura per il cinema indipendente?

Abbiamo cominciato a lavorare alle riprese del film prima di accordarci con la produzione tedesca e Arte, ma avevamo ovviamente molte spese da affrontare: noleggio attrezzature, costi per i tecnici… senza fondi l’avremmo fatto comunque ma probabilmente in un formato molto più breve e meno complesso, invece così grazie ai fondi messi a disposizione abbiamo potuto dedicarci per sei mesi completamente al film oltre a un sostegno tecnico perché abbiamo avuto la disponibilità di un montatore e di una seconda camera. Riuscendo a sostenere i costi abbiamo avuto la possibilità di avere una equipe. Forse l’avremmo fatto lo stesso ma non in modo così completo e dettagliato.

Per molti anni il tuo lavoro e quello della tua casa di produzione, la Kibrit Film, si è concentrato sul tema della speculazione urbana e il suo legame con le politiche neoliberiste. Trovi qualche connessione con quello che hai raccontato finora e la deriva politica dell’ultimo periodo?

In tutti i lavori che abbiamo fatto prima d’ora, abbiamo cercato di raccontare come la trasformazione urbana sia una questione sistemica. In Turchia il processo di trasformazione urbana è stato un riflesso del sistema economico e politico e in questo senso l’amministrazione politica che è cambiata diventando sempre più autoritaria si rispecchia nella gestione della città. Anche nella trasformazione urbana ad esempio si ricorre allo stato di emergenza, con la scusa dello stato di emergenza non si accettano alcune opposizioni, non si dà il permesso per le manifestazioni, anche i procuratori usano lo stato di emergenza e con la scusa fanno passare nuove leggi…

Proprio come ora con i decreti di emergenza e senza nessun rispetto della legge, persino della costituzione, è possibile far passare le leggi che si vogliono. Questo succede anche con i progetti di trasformazione urbana, per esempio nei confronti della natura, la legge sulle miniere, per questioni ambientali; vengono avviati progetti fuori legge, anche non approvati, e in questo senso era già possibile vedere nelle città la condizione dello stato di emergenza.

Il film è uscito ufficialmente a luglio ma è da ottobre che sta girando per la Turchia in un circuito indipendente e autorganizzato. Come sta andando? Come organizzate le proiezioni?

L’anteprima del film è stata a Berlino, la seconda a Istanbul, il 12 luglio nel Ses Tiyatrosu, e ora, infatti, stiamo organizzando proiezioni in tutta la Turchia… in realtà non siamo noi che le organizziamo ma abbiamo dato la nostra disponibilità, così veniamo contattati e invitati a presentarlo. Abbiamo avuto già molte richieste: sono previste proiezioni a Mersin, Ankara, Izmir, Eskişehir, in diverse università, e anche all’estero, negli Stati Uniti, in Germania.

Il film gira quindi grazie a proiezioni private, su iniziativa di singoli o di gruppi, e per noi queste proiezioni sono molto importanti perché uno dei messaggi del film è che la lotta per la democrazia si fa insieme, stando uniti, per essere più forti. Organizzare le proiezioni con gruppi che si battono per i diritti democratici e si riuniscono, si ritrovano e discutono anche stimolati dal documentario per noi è molto importante. Soprattutto perché oggi, a parte i social network, siamo in un periodo in cui dobbiamo davvero ritrovarci, stare insieme, darci una mano e creare occasioni è fondamentale. Poi probabilmente per queste persone il film non racconta nulla di nuovo, perché sono già persone sensibili, coinvolte, ma con le proiezioni si ha modo di discutere e soprattutto si aprono barlumi di speranza, per una lotta comune. Così come, io credo, si contribuisce alla costruzione di una narrazione comune, collettiva, che è ciò di cui abbiamo bisogno.

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Il documentario La Turchia sull’orlo dell’abisso sarà proiettato per la prima volta in assoluto in Italia venerdì prossimo, il 17 novembre alle ore 20 a Napoli, presso l’ex Asilo Filangieri. La proiezione è parte del primo evento di lancio della rivista online Kaleydoskop – Turchia, cultura e società , una rivista nata quest’estate grazie a una riuscita campagna di donazioni dal basso e online da metà settembre. Fondata da una piccola redazione di cinque donne Kaleydoskop.it, progetto indipendente, racconta la vita culturale e la società in Turchia. Un progetto di cooperazione, di sostegno a forme di cittadinanza attiva in un paese, la Turchia, che sta attraversando un periodo molto critico in cui, giorno dopo giorno, si riducono sensibilmente gli spazi e le possibilità per esprimersi liberamente. Kaleydoskop.it racconta di letteratura, cinema, fotografia, satira, creazioni e documentari sonori, festival, musei, mostre, iniziative, radio, associazioni, lo fa con una costante collaborazione con artisti, giornalisti, fotografi, illustratori turchi.

Dopo la proiezione napoletana è possibile organizzare altre proiezioni del documentario contattando la redazione di Kaleydoskop via email (info@kaleydoskop.it).

Riferimenti
Qui il link al trailer di Turkey on the edge.
Per chi si fosse perso Ecumenopolis. City without limits, qui il video.

il Fatto Quotidiano,

Non c’è un check-point come a Gaza ma è l’apartheid, se così si può dire – ed è il caso di dirlo – in Canada. È così disinvoltamente gentile da far sì che ciò che è stato non sia mai stato. C’è un tabù nella patria dei totem. Salvatore Peralta arriva a Montreal dalla Sardegna. Studia, lavora – è iscritto alla McGill University – segue il suo amico Oliver alle feste dei coetanei e si presenta – “ingegnere minerario” – e i ragazzi e le ragazze gli concedono un sorriso e una canzonatura: “Finirai col sposarti una Nativa”. L’ing. Peralta si trova nella terra delle libertà. Il Canada – lo Stato federale – è il luogo più compiutamente libero, pacifista, ambientalista. È migliore e ancora più democratico degli Stati Uniti e comunque, Salvatore, se la fa spiegare la battuta. Oliver, con un certo imbarazzo, lo mette a parte del tabù massimo nella pur patria dei totem: “Gli indiani d’America qui sono come gli zingari da voi; sono ladri, ubriaconi e drogati”. Un amico, si sa, mette in guardia il proprio amico. “Meglio evitare discussioni”, aggiunge Oliver, e la domanda dell’ing. Peralta – “Ma come si fa a considerare i Nativi, zingari, quando erano presenti in queste terre prima dei colonizzatori, dei pionieri, dei bianchi…” – resta appesa.

C’era una volta Tatanka Yotanka – e cioè Toro Seduto – e però è come se tutta questa terra non sia mai stata sua. Ci sono solo 33 km dal centro di Montreal alla riserva di Kahnawake, presidio dei Mohawk, sulla riva sud del fiume San Lorenzo. Lungo il percorso si costeggiano le rapide. È il luogo dei mercanti e degli avventurieri. Ci si avvicina e muta il paesaggio. La segnaletica diminuisce. Echeggiano gli spari del poligono di tiro. La riserva non è un accampamento per come lo immagina Pecos Bill. Sono case in legno. Nessuna manutenzione. Di tanto in tanto lussi tipo castelli di Super Mario Bros. Nel centro del cupo presepe un monumento: un carrarmato con le bandiere Usa e Canada perché i Mohawk hanno la doppia cittadinanza. Un cartello illude i visitatori: il parco. Tutto quello che dice la “casetta in Canadà” non c’è. Niente fiori di lillà, magari i pesciolini, ma rifiuti e rimanenze di fuochi. “Di Toro Seduto – dice l’ing. Peralta – hanno solo lo stare seduti.”
Come il Tibet per Pechino – una non identità – così la Nazione Indiana è per Ottawa. Col multiculturalismo cool molto più efficace del totalitarismo cinese. La cancellazione della memoria della popolazione aborigena – sussidiata, relegata nelle riserve americane – sta giungendo a compimento, mentre i tibetani, al netto della realpolitik comunista, una vetrina di mobilitazione riescono ancora ad averla. Uno dei più grossi imbrogli della storia è l’Indian Act, ovvero il patto sottoscritto nel 1876 tra lo stato federale canadese e le nazioni indiane (quelle che impropriamente sono chiamate tribù). Molti rappresentanti dei Nativi, la maggior parte dei quali non alfabetizzati secondo il canone occidentale, ma legati alla tradizione orale sciamanica, segnano le carte bollate della cessione delle terre – i Treaties, i trattati – con i totem. Siglato senza la piena consapevolezza delle parti soccombenti, l’Indian Act, risultato a suo tempo perfetto – per la popolazione non aborigena – per cambiare le carte in tavola, si perpetua ancora oggi con la burocrazia.
Quelle stesse distese di boschi, le immensità di laghi e i potenti inverni del Nord che ancora oggi, attraverso lo sfruttamento, portano alle casse dello stato federale 270 miliardi di dollari vanno a contraccambiare, a favore dei Nativi, un bilancio di soli 70 miliardi. Privi d’identità, i Nativi, vivono confinati all’interno delle riserve. Registrati in un’anagrafe separata attraverso una Status card, non pagano le tasse e sono sussidiati con 800 dollari mensili (300 per mangiare, il resto per l’affitto). Fino al 1996 – solo 21 anni fa – i loro bambini dovevano frequentare le Residential schools col preciso proposito di far dimenticare il loro stesso sangue se sir John Alexander McDonald, padre della patria coloniale e primo ministro nel 1873 e nel 1878 ne segnalava l’urgenza: “Non vogliamo il selvaggio alfabetizzato, ma un nuovo essere pronto al nuovo mondo”.
Una cosa sono i diritti umani, dunque, un’altra i diritti coloniali. L’indifferenza si adopera per la più inesorabile delle pulizie etniche. È di fatto proibito professarsi “nativo”. I Nativi delle varie Nazioni, non hanno accesso alla “civiltà”. Possono andare a caccia – e a pesca – quando vogliono ma l’idea di commercializzare tutto quello che prendono e catturano va a cozzare con un embargo neppure tacito, ma esibito dai Treaties rispetto ai doveri dei selvaggi verso la cosa pubblica degli altri, i civilizzati. Dire indiano è come dire negro. Sono sempre guai per i vinti e il genocidio spirituale cui è sottoposta l’identità aborigena s’invera in quella mistificazione del politicamente corretto sulla soglia della reciproca ignoranza: i bianchi non sanno nulla dei selvaggi, e viceversa. Guai ai vinti. Ognuno chiama se stesso americano, o canadese, l’altro è definito nativo. Anche nativo è offensivo, come pure eskimese che – letteralmente – significa “mangiatore di pesce”, la formula incantata è First Nation People, un palliativo autoassolutorio con cui la società benestante si evita il fastidio di confrontarsi con la realtà di tutti quegli aborigeni: un 10% tra loro – con la gestione del gioco d’azzardo, alcool e tabacchi, e lo spaccio di droghe – si conquista un agio, il resto vive nell’indigenza e nell’accattonaggio.
A Montreal se ne incontrano tanti di questi ultimi, dei primi invece – ed è stato un quadretto di assoluta tenerezza – si nota subito lo sforzo di cautela. Non potendo farsi bianchi s’adeguano all’idea cinematografica. C’è un papà (col codino lungo fino al fondoschiena), e ci sono una mamma e una figlia adolescente. Identiche, entrambe, a Pocahontas. Fanno shopping. L’ideologia coloniale tende a farne uno stereotipo della stirpe “indiana”, tuttavia, prima delle invasioni coloniali queste etnie parlavano 12 lingue differenti, esprimevano svariati stili urbanistici e diverse culture e tradizioni. Nell’ultimo censimento del 2001 risultano 1,3 milioni di canadesi che dichiarano un retaggio nativo: First Nations, Inuit e Metis tra loro.
L’università McGill di Montreal sorge sulla città fortificata di Hochelaga, un complesso abitativo di aborigeni scoperto nel 1535 da Jaques Cartier. Abbandonata poco prima del 1600, Hochelaga contava 50 edifici ospitanti numerosi nuclei familiari dediti ad agricoltura e pesca. Il fondatore dell’università – sir James McGill – era un mercante di pellami, ogni pietra ha cancellato un’altra pietra e sotto i palazzi del centro città, già a uno scavo di soli 10 metri, giacciono strade e costruzioni dei vecchi insediamenti aborigeni.
C’era dunque una volta Tatanka Yotanka – e cioè Toro Seduto – ma è come se tutta questa terra non sia mai stata sua. Pietra sopra pietra. Alla McGill c’è un residence per i nativi – è la First People House – dove però capitano giovani stranieri, un sardo come l’ing. Peralta che la domanda se la tiene sempre appesa. Vi lavora come precettore e alla manager, un’aborigena, la domanda – “ma questo mondo è il vostro mondo?” – la rivolge con più insistenza. “Leggi un libro, prova a cercare una risposta”. Alla prima domanda, Salvatore ne aggiunge un’altra: “Tu quale libro hai letto?”. La risposta è una rasoiata: “Non leggo nulla riguardo alla mia origine, storia e cultura”. Il guaio è tutto dei vinti.

il Fatto Quotidiano,

In queste settimane, i media hanno fatto il punto su un anno di Trump (in realtà il suo mandato è iniziato solo a gennaio 2017). Sto scrivendo dall’America e mi ha stupito che ancora ci si chieda come sia stato possibile.
Ci avevano spiegato che gli elettori dell’uomo dal ciuffo color zenzero erano stati in maggioranza bianchi, poveri, blue collar, conservatori e repubblicani. Adesso, invece, l’American National Election Study rivela che almeno due terzi sono elettori di varie classi sociali, benestanti, con un reddito spesso superiore ai 100.000 dollari, molti dei quali provenienti dal Partito democratico, in odio a Hillary Clinton.
Sono in giro con un accompagnatore d’eccezione, Mario Capecchi. Con lui mi accingo a raccontare in un film la sua incredibile storia di quando, sotto la guerra, viene abbandonato bambino nelle montagne del Nord Italia. Emigra a dieci anni in America, dove lo considerano irrecuperabile perché selvaggio e analfabeta. Lottando, otterrà il premio Nobel per la Medicina. Stiamo visitando la comunità quacchera in Pennsylvania dove è cresciuto e dove al nome di Trump tutti alzano gli occhi al cielo inorriditi.
Trump ha vinto perché ha saputo parlare al ventre del Paese, stanco di un presidente dalla pelle nera, la cui elezione era stata uno choc mai elaborato. Quella parte degli Stati Uniti non poteva digerire un secondo affronto, mandando alla Casa Bianca una donna. Trump è bravo a spargere illusioni: “Sapendo fare perfettamente i miei affari, posso fare lo stesso con i vostri”. Parla come i salesman e in questo somiglia al nostro Silvio Berlusconi. Per capire cosa sta accadendo, consiglio di leggere Between the world and me, dell’afroamericano Ta-Nehisi Coates, che si rivolge al figlio 15enne per attrezzarlo a vivere in un Paese destinato al peggio. Già l’idea di erigere una muraglia ai confini del Messico per impedire a un fiume di disperati di guadagnare qualche dollaro, sfruttati come sotto lo schiavismo, dimostra le idee dell’uomo della Casa Bianca. Per fortuna la costruzione, lunga 650 miglia, il cui costo è di 40 miliardi di dollari, è rimandata perché non ci sono i soldi. Trump li ha chiesti al presidente messicano, che ha risposto con una risata. Il Trumpworld è un regno che somiglia a Disneyland. Abituato alle porte d’oro massiccio della sua magione di New York, quando Trump jr., 11 anni, è entrato alla Casa Bianca ha chiesto: papà, ma siamo diventati poveri? È questo il mondo in cui si muove il presidente. Lo hanno votato un gran numero di diseredati, senza capire che avrebbe fatto diventare i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Vedi l’annunciato taglio delle tasse dal 35% al 20%, che favorirà soprattutto corporation e i magnati.
Dobbiamo però ammettere che l’America di Trump sta correndo verso un benessere insperato. L’economia tira, la disoccupazione è scesa al 4,1%, la più bassa da 17 anni, la Borsa macina ogni settimana plusvalenze, sono stati promessi 25 milioni di nuovi posti di lavoro. Dunque tutto bene? Quando i media pensavano che Trump non ce l’avrebbe fatta gli sparavano contro, adesso che l’economia tira persino il New York Times s’è fatto rispettoso. Chiedo a Wilder Knight, un avvocato di Wall Street che ha lavorato con Trump, ma non l’ha votato, cosa pensa di questa euforia. La sua risposta è netta: il presidente sta promettendo la luna, come la sparata di investire 1.000 miliardi di dollari in infrastrutture. Per farlo dovrà indebitarsi. Trump sta amministrando l’America come uno dei suoi casinò. Un costruttore importante, Michael J. Kosoff, prevede che di questo passo, da qui a tre anni, ci sarà un nuovo crac finanziario, come quello del 2007. Quando pensiamo alla crisi che ancora paghiamo di tasca nostra, pochi ricordano che è iniziata in America con la bolla immobiliare, dunque non per colpa nostra. Solo che gli americani si sono ripresi, noi invece siamo ancora a leccarci le ferite.
Betty Lou, una insegnante di high school, mi racconta che il Trumpworld è un Paese dove c’è un riccone che ha pagato 17 milioni di dollari all’asta per il Rolex d’oro di Paul Newman. È il Paese dove in una città come Chicago c’è una sparatoria ogni 2 ore, con oltre 8.000 morti in 6 anni. È il Paese dove puoi comprare per strada un fucile a pompa a 75 dollari, coi risultato che si vedono. È il paese dove in California a spegnere gli incendi assoldano i detenuti e li pagano un dollaro all’ora. È la terra dove negli ultimi 12 mesi sono stati registrati 64.070 decessi di overdose per lo più giovani. Ed è il Paese dove il Ku Klux Kan ora che c’è Trump accorre ai suoi comizi e applaude imbracciando le armi di fronte a centinaia di poliziotti che restano a guardare. Sento il mitico Harry Belafonte, che da poco ha compiuto 90 anni. È figlio di emigrati giamaicani e forse esagera, ma secondo lui “Hitler non è così lontano da casa nostra”. Per Daniel Radcliff, il protagonista di Harry Potter, Trump ricorda Lord Voldemort, il mago della saga dal volto sfigurato.
In questi giorni Trump, tornato dalla Cina, gode alla grande vedendo al tappeto i divi di Hollywood, che gli è sempre stata contro, annichiliti dal caso Weinstein. Molti sperano che l’uomo non duri, raggiunto da un impeachment per le sue connessioni elettorali con la Russia. Non so se sperarlo, considerando che al suo posto salirebbe l’attuale vice, Mike Pence, ancora più reazionario, uno che se potesse metterebbe in galera i gay e i medici abortisti. Se le cose si mettessero davvero male, credo che per restare in sella Trump tirerebbe fuori l’asso dalla manica di un bombardamento sulla testa di Kim, il pazzo nordcoreano. Un po’ come fece Bill Clinton quando, nel 1998, due giorni prima della richiesta di dimissioni per aver mentito sulla sua relazione con Monica Lewinsky, si salvò bombardando l’Iraq. A Berlusconi, che si lamenta di essere perseguitato dai giudici, può far piacere sapere che Trump è già stato citato in giudizio 134 volte. Se il presidente teme la magistratura, non è che Hillary Clinton stia molto meglio. Viene accusata di avere pagato agenti segreti per infangare il rivale, costruendo dossier. Non riesce a difenderla il Partito democratico, in catalessi e senza più un leader, nonostante i recenti successi in Virginia e New Jersey.
Alla George School a Newtown, un college di eccellenza, ho occasione di parlare con studenti e docenti e farmi un’idea di come si vive nell’era di Trump. Se gli studenti sono preoccupati (la Casa Bianca intende tagliare i finanziamenti all’istruzione), i docenti lo sono per le sue posizioni. Ha dichiarato che il problema del surriscaldamento del globo non sussiste e preme per tornare al carbone, nonostante sia stato appena contraddetto dalle sue stesse agenzie federali, cosa mai accaduta a un presidente in carica. La gente che ha scelto Trump si sente impoverita dalla globalizzazione, odia il capitalismo ma non si accorge di avere eletto il suo massimo esponente. Ora però molti cominciano a ripensarci e infatti l’indice di popolarità del presidente è sceso al 39%. George W Bush, nel momento di massima disgrazia, era al 56%. Sono le contraddizioni di un’America che non può non preoccuparci. Ma noi italiani possiamo dirci molto diversi, se è possibile che Berlusconi torni a governarci?

il manifesto,

Il brusco arresto del percorso avviato lo scorso 18 giugno al teatro Brancaccio da Anna Falcone e Tomaso Montanari è una brutta notizia per la sinistra e per il Paese. L’idea di introdurre un’iniezione di rinnovamento e di partecipazione dal basso, della società civile più o meno organizzata, insieme ai partiti alla sinistra del Pd e non contro di loro, in una stagione segnata dall’antipolitica e da una forte disillusione, rappresenta una delle poche novità positive del dibattito politico in corso.

Le soluzioni che oggi sono in campo, senza un quadro di riferimento che vada oltre i partiti, e con i leader delle formazioni della sinistra che sottoscrivono un accordo e incoronano un capo autorevole, rischia di essere un deja vu al quale non possiamo e non vogliamo rassegnarci.

Le 100 piazze del Brancaccio hanno suscitato in migliaia di persone una grande aspettativa e la speranza che finalmente la sinistra diffusa, sotto scacco in questo Paese dove l’egemonia della destra è sempre più evidente, potesse rialzare la testa e mettere in campo una alternativa credibile ed efficace. Questo significa confermare sì il ruolo dei partiti, riconosciuto dalla nostra Costituzione, provando però a percorrere strade nuove caratterizzate da un forte rinnovamento, sia programmatico sia di metodo.

L’assemblea del 2 dicembre, presentandosi – al di la delle intenzioni dei promotori – come la ratifica di una scelta interna al “tavolo dei partiti”, certamente legittima, ma che ripropone riti noti, e rischia di tradursi in un arretramento rispetto al percorso aperto ed inclusivo che si stava profilando, mentre vi è oggi la necessità e l’opportunità di produrre uno scarto in avanti che ci allontani dall’esperienza della Sinistra Arcobaleno e dei più recenti insuccessi.

Un’altra disfatta o un risultato semplicemente consolatorio per i partiti a sinistra del Pd sarebbe un disastro, politico e culturale.

La povertà sempre più diffusa, il disagio sociale nelle mille periferie del Paese, il populismo e il neo fascismo crescenti, non consentono a nessuno di rimanere a guardare. C’è la necessità di far ripartire il percorso messo in moto con l’assemblea del Brancaccio, confidando nel fatto che le formazioni politiche che hanno promosso l’assemblea del 2 dicembre diano un segnale di apertura concreto, a partire dalla ridefinizione degli appuntamenti già previsti e fissando le tappe successive in un percorso realmente comune e trasparente. Solo così si potrà dimostrare la reale apertura ai cittadini e a quella “maggioranza invisibile” del Paese che non vota più e dal cui reale coinvolgimento - come già ribadito da più parti - dipendono la credibilità dell’appello dei partiti e il successo elettorale di una qualsiasi lista futura.

Per questo facciamo appello innanzitutto a Tomaso e Anna, a coloro che hanno condiviso quel percorso, ai partiti della sinistra alternativa a questo governo, inclusi quelli che non stanno nel percorso del 2 dicembre, e a tutte quelle persone che credono che la sinistra possa svolgere un ruolo in questo Paese e in Europa, a rivederci per costruire le condizioni per una assemblea nazionale della sinistra unita, alternativa e profondamente rinnovata, realmente aperta ai cittadini e a quanti si riconoscano nel progetto.

Rocco Albanese, Marco Barbieri, Piero Bevilacqua, Sandra Bonsanti, Stefano Brugnara, Alberto Campailla, Anna Caputo, Luciana Castellina, Sergio Cofferati, Massimo Cortesi, Andrea Costa, Vezio De Lucia, Luigi Ferrajoli, Daniele Lorenzi, Giorgio Marasà, Federico Martelloni, Walter Massa, Filippo Miraglia, Andrea Ranieri, Bia Sarasini, Salvatore Settis, Francesco Silos Labini, Domenico Rizzi

milex.org
I dati provvisori degli allegati tecnici al disegno di legge di Bilancio 2018 (1) mostrano un incremento annuo del 3,4% (circa 700 milioni) del budget previsionale del Ministero della Difesa (2), che passa dai 20,3 miliardi del 2017 ai quasi 21 miliardi del 2018. Un aumento che rafforza la tendenza di crescita avviato due anni fa: +8% (circa 1,6 miliardi) rispetto al bilancio Difesa del 2015.

Fonte: milex.org

Analizzando il dettaglio delle voci di spesa previste per il 2018, spicca un aumento di quasi il 10% dei fondi ministeriali per gli investimenti in nuovi armamenti e infrastrutture (2,3 miliardi). In aumento del 4,6% anche la spesa per il personale di Esercito, Marina e Aeronautica (10,2 miliardi) nonostante la riduzione degli organici dettata dalla Riforma Di Paola, a causa degli aumenti stipendiali per gli ufficiali superiori previsti dal recente riordino delle carriere. Ne risulta una tripartizione della Funzione Difesa di 74% per il personale, 9% per l’esercizio e 17% per gli investimenti (secondo la Riforma Di Paola dovrebbe essere rispettivamente 50%-25%-25%). A questo si aggiungono 341 milioni per la pensione ausiliaria (3) e oltre 100 milioni per le funzioni esterne (1/4 per i voli di Stato) (4).

L’aumento delle spese italiane per la Difesa risulta ancor più consistente se si tiene conto di tutte le altre voci di spesa militare ‘extra-bilancio’ sostenute da altri ministeri ed enti pubblici: i 3,5 miliardi (+5% rispetto al 2017) dei contributi del Ministero dello Sviluppo Economico per l’acquisizione di nuovi armamenti ‘made in Italy’ (5) (contributi pari al 71,5% del budget totale MiSE per la competitività e lo sviluppo delle imprese italiane), i circa 1,3 miliardi di costo delle missioni militari all’estero sostenute dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (6), gli oltre 2 miliardi del costo del personale militare a riposo a carico dell’INPS (7) e il mezzo miliardo di spese indirette per le basi USA in Italia (8). Aggiungendo queste voci di spesa e sottraendo invece i costi non propriamente militari (3 miliardi per i Carabinieri in funzione di polizia e ordine pubblico (9) e quasi mezzo miliardo per i Carabinieri in funzione di guardia forestale), il gran totale delle spese militari italiane per il 2018 raggiunge i 25 miliardi: un miliardo in più rispetto al 2017 (+4%), due miliardi in più rispetto al 2015 (+9%).

Fonte: milex.org

Ciò si traduce in un lieve incremento anche in termini di percentuale del PIL: 1,42 (contro l’1,40 del 2017) che potrebbe avvicinarsi all’1,5 se le ottimistiche stime previsionali del governo per il PIL 2018 (10) non si realizzeranno. Ancora lontani dall’assurdo obiettivo imposto dalla NATO del 2% del PIL (ritenuto irraggiungibile dallo stesso Ministero della Difesa, che riporta il dato dell’1,2% riferito al solo bilancio ministeriale di 21 miliardi), ma decisamente più di importanti alleati come Canada (1%), Germania e Spagna (entrambe all’1,2%). Insensato il confronto con le potenze nucleari francese e britannica — anche se l’Italia spende non poco per proteggere l’arsenale atomico USA della base bresciana di Ghedi (23 milioni nei prossimi anni) e per mantenere aggiornata la capacità nucleare dei bombardieri Tornado (parte dei 254 milioni previsti fino al 2031 per l’adeguamento dell’intero comparto bellico chimico-biologico-radiologico-nucleare).

Sommando gli stanziamenti 2018 della Difesa e del Mise per il ‘procurement’, il prossimo anno verrano investiti in nuovi armamenti complessivamente 5,7 miliardi, +7% rispetto al 2017. Qualche esempio (11): oltre 700 milioni stanziati per l’acquisto di altri 3 o 4 bombardieri F-35; 300 milioni per la nuova portaerei Thaon de Revel, dal costo di 1,2 miliardi e quasi 400 milioni per i nuovi pattugliato d’altura; un centinaio di milioni per l’avvio dei programmi di acquisizione di 350 nuovi carri Ariete e Centauro (oltre 2 miliardi il costo totale) e di 2.000 nuovi blindati Lince (un miliardo il costo complessivo) e 50 nuovi elicotteri da attacco (mezzo miliardo solo per lo sviluppo).

Nel 2018 la tripartizione effettiva della spesa militare sarà quindi 60% per il personale, 13% per l’esercizio e 28% per gli investimenti in armamenti e infrastrutture.

Note

(1) http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2018/Disegno-di-Legge-di-Bilancio/Allegato-t-18-20/

(2) http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2018/Disegno-di-Legge-di-Bilancio/Allegato-t-18-20/2018-DLB-04-AT-120-Difesa.pdf

(3) Il collocamento in ausiliaria consiste nella possibilità, al raggiungimento dell’età pensionabile o dei 40 anni di anzianità contributiva, di essere congedati dal servizio attivo con disponibilità ad eventuale richiamo in servizio per un periodo massimo di 5 anni. Il militare in ausiliaria percepisce (dal Ministero della Difesa) una pensione maggiorata dalla cosiddetta indennità di ausiliaria, pari al 50 per cento (70 per cento fino al 2014) della differenza tra il suo ultimo stipendio e la pensione stessa.

(4) Questa suddivisione canonica del budget della Difesa, propria dei Documenti programmatici pluriennali, è ricavabile rielaborando le diverse voci di spesa contenute nei bilanci previsionali nel modo seguente:
• “Funzione Sicurezza”: somma di “Approntamento e impiego Carabinieri per la difesa e la sicurezza” e “Approntamento e impiego Carabinieri per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare”
• “Funzione Difesa”: budget ministeriale totale al netto della suddetta Funzione Sicurezza e di “Interventi non direttamente connessi con l’operatività dello Strumento Militare”
• “Pensioni provvisorie in ausiliaria”: “Trattamenti provvisori di pensione”
• “Funzioni Esterne”: “Interventi non direttamente connessi con l’operatività dello Strumento Militare” al netto dei trattamenti provvisori di pensione.
Per le sotto-voci della “Funzione Difesa”:
• “Personale”: somma dei “redditi da lavoro dipendente” e delle “imposte pagate sulla produzione” esclusi quelli relativi ai Carabinieri in funzione difesa-sicurezza e forestale
• “Investimenti”: somma di “Ammodernamento, rinnovamento e sostegno delle capacità dello Strumento Militare” e “Ricerca tecnologica nel settore della difesa”
“Esercizio”: residuo della “Funzione Difesa”.

(5) Lo stanziamento del Ministero dello Sviluppo Economico destinato ai programmi di procurement di armamenti è riportato nel bilancio previsionale del MiSE (http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Bilancio_di_previsione/Bilancio_finanziario/2018/Disegno-di-Legge-di-Bilancio/Allegato-t-18-20/2018-DLB-04-AT-030-MISE.pdf) alla voce “Programmi di sviluppo e innovazione tecnologica nel settore dell’aeronautica, dello spazio, difesa e sicurezza” (missione 11, programma 5, obiettivo 8). Il dettaglio dei programmi finanziati si trova nell’allegato tecnico del bilancio previsionale del MISE (fino al 2015 era la ‘Tabella E’ allegata alla Legge di Stabilità) ai capitoli di spesa 7419, 7420, 7421/7423 e 7485, cui si aggiungono altri sei diversi capitoli (5311, 5312, 5313, 9706, 9707 e 9708) riguardanti il pagamento delle rate dei mutui contratti dal MISE con diversi istituti di credito (Intesa, Bbva e Cassa Depositi e Prestiti i principali).

(6) Si considera qui un stima previsionale a costo invariato rispetto a quello delle missioni internazionali per l’anno 2017 contenuto nella Deliberazione del Consiglio dei Ministri del 14 gennaio 2017 (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1000608.pdf), al netto delle spese relative alle iniziative di cooperazione allo sviluppo e sminamento umanitario (111 milioni nel 2017) e agli interventi di sostegno ai processi di pace e stabilizzazione e alla connessa partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali (34 milioni nel 2017).

(7) Il costo del personale a riposo è calcolato sottraendo al valore annuale delle pensioni erogate dall’INPS al comparto militare (riportato nei rendiconti generali INPS: https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemDir=46801) il valore dei contributi versati all’INPS dal Ministero della Difesa (riportato nei conti annuali del Tesoro: http://www.contoannuale.tesoro.it).

(8) Si considera qui un stima previsionale a costo invariato rispetto all’anno 2017. L’Italia contribuisce al 41% delle spese di stazionamento delle truppe USA nelle 59 basi americane nostro Paese – quinto avamposto statunitense nel mondo per numero d’installazioni militari, dopo Germania, Giappone, Afghanistan e Corea del Sud (http://comptroller.defense.gov/Portals/45/Documents/defbudget/fy2017/fy2017_OM_Overview.pdf e https://www.dmdc.osd.mil/appj/dwp/dwp_reports.jsp) per un importo di circa 520 milioni di euro per l’anno 2017, extra bilancio Difesa.

(9) Qui si considera solo il costo dei Carabinieri in funzione di “difesa militare”, non quello dei Carabinieri in funzione di “ordine pubblico e sicurezza”, così come indicati nella divisione funzionale riportata nel bilancio previsionale della Difesa, sezione di “Riepilogo delle dotazioni secondo l’analisi funzionale”, programma 5.1 “Approntamento e impiego Carabinieri per la difesa e la sicurezza”.

(10) La stima previsionale del PIL 2018 è quella contenuta nella Nota di Aggiornamento al DEF 2017 dello scorso 23 settembre (http://www.dt.tesoro.it/modules/documenti_it/analisi_progammazione/documenti_programmatici/def_2017/NADEF2017.pdf)

(11) Tratto dalle previsioni di spesa contenute nel Documento Programmatico Pluriennale della Difesa 2018-2020 (https://www.difesa.it/Content/Documents/DPP/DPP_2017_2019_Approvato_light.pdf)

Corriere della Sera e la Nuova Venezia,

«COSÌ ABBIAMO AIUTATO
I MIGRANTI IN MARCIA»
di Gian Guido Vecchi

«Venezia, il patriarca Moraglia: evitata l’emergenza umanitaria. Già ricollocate 150 persone»

Che effetto le ha fatto vedere questi esseri umani in marcia?

«Era un’immagine quasi biblica. Procedevano lungo l’argine, i volti provati. Non esprimevano rabbia. Piuttosto, avevano l’aspetto di persone che domandano essenzialmente dignità, il riconoscimento della loro condizione umana. Un popolo in marcia che chiede di essere considerato per ciò che ci accomuna e unisce come esseri umani».

Francesco Moraglia, patriarca di Venezia, l’altra notte ha salvato una situazione che stava diventando disperata. Più di duecento migranti in cammino da giorni, via dal cosiddetto «centro di accoglienza» ricavato nell’ex base missilistica di Conetta, nella campagna veneziana, una frazione di 190 anime dove sopravvivono ammassati milletrecento «richiedenti asilo» o forse di più, nessuno sa il numero reale. Una marcia verso Venezia per i diritti e la dignità che rischiava di finire male. Il freddo, la fame, nessun posto dove stare. Ieri pomeriggio la prefettura ha infine annunciato una soluzione, 151 sono partiti in pullman per altri alloggi «sparsi nel territorio regionale», per altri 90 «si sta lavorando». Ma la sera prima, lungo il Brenta, c’è stato un momento in cui non si sapeva che fare. Finché in prefettura è arrivata la telefonata del patriarca.

Che cosa è successo, eccellenza?

«Nel pomeriggio ho sentito che la situazione cominciava a diventare preoccupante. Si annunciavano ore di tensione e qui, di notte, inizia a fare molto freddo. Ho sentito i parroci della zona di Mira uno ad uno, ho chiesto loro se potevano individuare degli spazi dove accogliere queste persone, almeno in questa fase di emergenza. Tutti mi hanno dato la piena disponibilità. Così ho mandato il mio vicario sul posto, si è mossa la Caritas e la “macchina” diocesana. E ho chiamato il prefetto: cosa possiamo fare per evitare che la situazione esploda e diventi un’emergenza umanitaria e sociale?».

Come si è riusciti a risolvere la faccenda in poche ore?

«Grazie alle nostre strutture diocesane e ai volontari, non soltanto ma soprattutto giovani: scout, associazioni. Alla fine abbiamo ospitato 212 persone: 55 a San Nicolò di Mira, 45 a Gambarare, 45 a Borbiago, 47 a San Pietro di Oriago e altri 20 a Mira Porte. Si sono recuperate le coperte, serviti i pasti. Dalla Protezione civile sono arrivati i bagni chimici. Abbiamo chiamato anche un medico. La notte è stata serena, hanno potuto mangiare e riposare».

Li avete accolti in vari luoghi. Com’è possibile che a Cona siamo ammassate più di mille persone?
«L’impegno delle istituzioni è indiscutibile, ma è chiaro che situazioni simili esasperano gli animi. Proprio pochi giorni fa, in vista della giornata mondiale dei poveri voluta da papa Francesco, avevo scritto una lettera alla Chiesa di Venezia che parlava di questi problemi: c’è bisogno che ognuno faccia la sua parte, non eliminando o accantonando difficoltà e problemi ormai “strutturali” per il nostro vivere, ma aiutando concretamente a risolverli».

E quindi?
«Nessuno - istituzioni, enti locali, politica, società civile, realtà ecclesiali - deve sottrarsi al senso profondo del proprio impegno e delle proprie responsabilità».

Bisogna trovare soluzioni diverse?

«Sì. In queste ore si è affrontata l’emergenza. Ma bisogna stare attenti a gestire i rapporti con il territorio. La nostra è una terra generosa che conosce i disagi e le speranze di chi migra. Possiamo vincere la sfida dell’accoglienza: creare una società inclusiva, capace d’incontrare gli altri anche davanti a diritti che configgono».

Che cosa intende?

«Intendo mettere in chiaro che i nostri diritti esistono come esistono quelli degli altri. C’è qualcuno che guarda ai migranti con aria di chiedere: perché venite da noi?».

Cosa direbbe a chi dice «tornate a casa vostra»?

«Che se queste persone hanno lasciato casa loro, lo hanno fatto con dolore e sofferenza, perché non c’erano le condizioni per vivere. Chi dice così dà una risposta che non corrisponde ad una realtà percorribile. Sono passati 50 anni dalla Populorum progressio di Paolo VI, dobbiamo anche domandarci come abbiamo trattato questi popoli».

E qual è la via percorribile?

«L’unica possibile, da un punto di vista umano e cristiano, è superare il conflitto: potremo salvaguardare sia i nostri diritti sia quelli degli altri, se sapremo metterci insieme».

la Nuova Venezia
«UNA GESTIONE FALLIMENTARE
BISOGNA PRESIDIARE I CONFINI»
«La non gestione delle frontiere ha portato a questo». Il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, è intervenuto sul "bubbone Conetta" e sulla situazione dei profughi dell'ex base militare. «Ho sempre detto che la questione sta nella non gestione delle frontiere, avevo già annunciato che sarebbe finita male, questo è l'ennesimo esempio». Ha proseguito il sindaco: «Quando accalchi la gente continuamente, la fai entrare in Italia quando tutti ti dicono che non ci stiamo davvero più, è evidente che dovremo fare qualche cosa. Con il ministro Minniti le cose stanno andando meglio, con il Prefetto lavoro benissimo, sono state brave le parrocchie, la gente che ha ospitato i profughi, ma è una questione di pura emergenza che non può assolutamente essere sedimentata così».
Il problema maggiore, per Brugnaro, è dunque la gestione delle frontiere, come ribadisce, e dei confini italiani che affacciano sull'acqua, e che sono aperti. «Il tema dell'integrazione lavorativa e del rilancio delle fabbriche serve a questo. «La situazione è molto complicata, ma non può essere che continuiamo a non affrontare i problemi veri, qualcuno deve assumersi la responsabilità di presidiare i confini, siamo l'unica nazione che ha i confini in acqua aperti». Poi aggiunge intervistato ai microfoni: «Bisogna dire agli africani che non si può più venire qui da noi, in Italia, è inutile illudere le persone, così come questa idea che si può fare tutto, anche questo non è più possibile». Il sindaco, insomma, ha ribadito la sua posizione, già espressa in più di un'occasione, sottolineando che il problema non è Venezia, che anzi parrocchie, Patriarcato, Diocesi e persone di buona volontà hanno fatto tutto quello che era nelle loro capacità e anche di più. Così come fa la Prefettura, ma che il problema è serio e urgente, sta a monte e va risolto alla radice gestendo in maniera diversa i confini e le frontiere.

OpenDemocracy, 15 novembre 2017. Mentre al COP23 di Bonn si parla dei cambiamenti climatici, il gasdotto avanza indifferente alle proteste e alla incongruenza tra uso di combustibili fossili e agenda climatica: si sa gli affari prima di tutto (i.b.)
Un nuovo rapporto della Corporate Europe Observatory - espone la rete di lobbismo e ipocrisia che si celano dietro la deleteria espansione dei combustibili fossili in Europa. L’articolo dell’ Open Democracy riporta alcuni dei tanti episodi di corruzione e riciclaggio di denaro sporco legati a questa opera. (i.b)


FROM THE BOAT RACE TO AZERBAIJANI JAILS:
HOW DIRTY GAS SELLS ITSELF TO ELITE

di Jo Ram e Pascoe Sabido

The European Investment Bank (EIB) is at COP23, the UN climate talks in Bonn, talking about financing climate solutions.

Yet this week it is also facing mass protest over its possible multi-billion euro loan to the Trans-Adriatic Pipeline (TAP). The pipeline would transport Azerbaijani gas from the Turkish-Greek border to the heel of Italy. The $4.5bn TAP is the last leg of the BP-led Euro-Caspian Mega-Pipeline, or Southern Gas Corridor as the industry calls it. The entire Euro-Caspian Mega-Pipeline costs $45bn and is mired in human rights abuses, corruption scandals and numerous illegalities - but it’s still going ahead.

New research from Corporate Europe Observatory exposes the web of lobbying and PR that has allowed the pipeline to to get this far, roping in prestigious London universities and top politicians along the way.

The Trans-Adriatic Pipeline’s shareholders include oil and gas majors BP and Azerbaijani state-owned SOCAR (1), along with gas pipeline builders and operators from Italy (Snam, 20%), Belgium (Fluxys, 19%), Spain (Enagás, 16%) and Switzerland (Axpo, 5%).

But construction is being held up by communities along the pipeline whose livelihoods are being threatened. In Greece, farmers have been organising themselves through the courts and on the ground, while in Italy local communities have been physically putting themselves in the way of the diggers. The military has just locked down two local villages to ensure construction begins. In Azerbaijan, local activists and journalists opposing TAP and the entire Southern Gas Corridor have been thrown in jail on trumped up charges. Azeri President Aliyev has been keen to silence dissent and quash any hint his corrupt regime is rigging elections and violating human rights.

The recent Azerbaijani Laundromat scandal exposed the regime's use of tax havens and money laundering to fund its efforts to curry favour with European politicians and other figures – buying their silence and political support with gifts and bribes. Less notorious are the softer approaches; the campaigns to make Azerbaijan and the entire Southern Gas Corridor acceptable in the eyes of the political and economic elites in national capitals and with the European Commission. The latter is lending substantial political as well as economic support to the mega-pipeline.

A key player is The European Azerbaijan Society (TEAS), an Azeri lobby group with offices around Europe. Headed up by the son of an Azeri Minister and member of President Aliyev's inner circle, TEAS is teaming up with think tanks, lobby groups and academic institutions to organise high-level events to build credibility around the Southern Gas Corridor.

One TEAS collaborator is the prestigious King’s College London. Alongside BP and the consortium TAP AG, TEAS is an official partner and supporter of the university's European Centre for Energy & Resource Security (EUCERS). In January 2014 they organised the European Energy Forum, putting ambassadors and ministers from TAP countries on panels alongside friendly academics, think tanks, and top executives from BP and TAP AG. The supportive European Commission was not just a speaker, but also sponsored the event's networking session. The keynote was delivered by Michael Fallon, the UK's then-Minister for Energy. Two months later in Parliament his government publicly championed Azerbaijan as a European gas supplier.

TEAS also targets UK decision makers through organising and sponsoring cultural and sporting events, such as the iconic Oxford-Cambridge University Boat Race in 2014 or the jazz events organised during the Conservative, Labour and Liberal Democrat party conferences.

TEAS is just one channel used by the consortium TAP AG to win support. The combined lobbying budget of TAP AG and its shareholders exceeded €6m in 2016, with 26 lobbyists on the payroll. This secured them more than 30 meetings between late 2014-2017 with Vice-President Maros Šefčovič and his cabinet, the European Commission's Southern Gas Corridor champion.

More examples are given in the report, but the gas industry in general is a major player in Brussels, convincing the EU that gas is a 'clean' fuel (despite its methane emissions making it as bad for the climate as coal). If the gas industry and it’s PR bedfellows get their way, the result will be a completely unnecessary gas infrastructure building programme, with TAP just one of many new projects. In fact, European gas demand has fallen 13% since 2010 while liquified natural gas (LNG) infrastructure is being used at less than 25% of its capacity.

The new pipelines and gas infrastructure will lock Europe into 40-50 more years of fossil fuels and the social and environmental consequences it entails. Gas expansion is not something the EIB should be funding. Around Europe groups are calling on the public bank to not fund TAP or any new gas infrastructure. Given their posturing at COP23 around climate solutions, pulling out of gas should be a no-brainer.

Internazionale

La manifestazione nazionalista in occasione dell’anniversario dell’indipendenza polacca. Negli ultimi anni l’evento, che celebra la ricostituzione della repubblica di Polonia nel 1918, è diventato un punto di riferimento per i movimenti di estrema destra di tutta Europa. Quest’anno hanno partecipato almeno sessantamila persone, che hanno inneggiato all’Europa bianca e scandito slogan contro gli ebrei e i musulmani. “È stato un bellissimo spettacolo”, ha commentato il ministro dell’interno Mariusz Błaszczak, esponente del partito ultraconservatore Diritto e giustizia.

il manifesto,

Questa sceneggiata dei “pontieri” che provano a stringere attorno a Renzi una alleanza riparatrice, che va da Alfano alla sinistra, è così grottesca che poteva anche essere risparmiata. Contribuisce solo al degrado culturale della politica che declina nella sua autorevolezza non per la grande tattica, ma per le inutili finzioni di un tatticismo sterile di tante anime belle che blandiscono con amorevoli aperture e però nascondono il pugnale per strapazzarti.

Se l’idea di una lista unitaria di sinistra sarà confermata dopo tanti venticelli ostili, dovrebbe compiere una azione di bonifica per sminare il terreno.Sminarlo dagli esplosivi depositati dai media che inventano trattative in extremis, fantasticano su straordinarie aperture programmatiche concesse dal disperato quartier generale del Nazareno, costruiscono un clima d’ansia per denunciare, chiunque non si accodi agli ordini di Renzi, come un folle estremista degli anni Trenta che spalancò la via del potere al nazismo.

Questa invenzione mediatica di padri nobili che da un piedistallo si lanciano in prediche edificanti e divagano in sollecitazioni ecumeniche a ritrovarsi, svela che il re è nudo e che solo con la paura cerca di resistere. Scomodare il pericolo totalitario e annunciare tragedie dietro l’angolo per colpa di un libero voto degli elettori è segno di una irresponsabile visione della politica.

Cosa c’è da temere? Che un governo padronale, con una spudorata provocazione, cancelli l’articolo 18? Un qualche potere terribile potrebbe strapazzare il diritto del lavoro e regalare ai padroni la libertà di licenziare dietro una simbolica remunerazione monetaria? O c’è da tremare dinanzi all’inquietante idea che una maggioranza occasionale approfitti del plusvalore politico dei numeri per manipolare la costituzione?

A creare spavento è l’immagine di un capo pseudo-carismatico che con disciplina militare maltratta la Carta e poi organizza un plebiscito sulla propria leadership personale? O forse il pericolo incombente è che qualche politicante, a pochi mesi dal voto, imponga, con il voto di fiducia richiesto alla camera e al senato, una nuova legge elettorale che regala il governo alla destra? Si potrebbe affacciare lo spettro di un potere demagogico che aggredisce istituti tecnici come la Banca d’Italia esponendo il sistema monetario e finanziario a rischi immensi?

Dinanzi a cose già viste, questo accanimento dei media unificati per costruire un allarme cosmico si rivela pittoresco. Non ci sono catastrofi da scongiurare con unioni sacre giurate al cospetto di un improbabile negoziatore. La sola alternativa che sta dinanzi alla sinistra è di perdere sotto il comando poco amico di Renzi, lasciando così immutato un sistema dei non-partiti ormai incancrenito, o di sfidare l’imperativo del successo immediato per ricostruire una proposta politica combattiva che consenta di ripartire per un nuovo scenario.

La sinistra deve costruire una alternativa di sistema. La folle legge elettorale, che rilancia le coalizioni insincere, è un ostacolo che però non può indurre alla rinuncia di inseguire cose nuove. La dissoluzione del Pd è avvenuta per limiti oggettivi del progetto originario e per una propensione all’oblio imputabile alla leadership renziana. L’ideologia della rottamazione che porta al potere solo perché si ha un corpo giovane si è avventata in modo catastrofico sulle forme della politica già in sofferenza.

Machiavelli non escludeva i “giovanissimi” dal comando politico e militare. «E quando uno giovane è di tanta virtù che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere, sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne potessi valere». La moltitudine per questo dovrebbe «eleggere uno giovane», senza attendere che svanisca «quel vigore dell’animo e quella prontezza» che lo caratterizzano. Però questo giovane capo deve essersi prima distinto per «qualche nobilissima azione». Con il suo populismo giovanilista, Renzi ha invece esaltato solo il corpo con la camicia bianca e ha lodato l’inesperienza, l’estraneità, la semplicità, il nulla della comunicazione.

Cucire attorno al suo populismo distruttivo una finta alleanza, solo per apparire più competitivi al voto, non serve a nulla. Il Pd espugnato dal comitato d’affari è un esperimento fallito e nessun soccorso rosso potrebbe rianimarlo. Dal passaggio ineluttabile verso la disgregazione di un velleitario partito personale sprovvisto della proprietà di azienda e media, è possibile trovare risposte costruttive. Senza attendere il tonfo della sconfitta annunciata, dovrebbe subito prendere corpo una soggettività della sinistra capace di riorganizzare il conflitto per immettere nella politica interessi collettivi e sottrarla all’abbraccio mortale con il capitale, la finanza, il malaffare.

Nella odierna postdemocrazia, il denaro occupa le istituzioni, privatizza la legislazione. La politica è tramontata come luogo della decisione autonoma, il personale politico segue oscuri percorsi di carriera e appannati canoni di legittimazione. La sinistra dovrebbe essere una prima risposta al declino in una democrazia minore che abbandona il territorio al nichilismo della antipolitica disperata.

la Repubblica,

«Dopo la morte di un giovane ivoriano, investito e ucciso da un’auto, gli ospiti dell’ex base Nato hanno ripreso il cammino verso la prefettura di Venezia: “Anche i cani vivono meglio di noi” Hanno passato la notte al riparo nelle chiese messe a disposizione dal Patriarca»

CODEVIGO ( PADOVA). Solo la disperazione, la mancanza di ogni speranza, può spingere duecento uomini carichi di masserizie a dirigersi a piedi, nel freddo e nella nebbia del Veneto a novembre, lungo l’argine del Brenta sperando di arrivare a Venezia. Cinquanta chilometri a piedi per parlare con il prefetto per convincerlo a chiudere il centro di accoglienza dell’ex base Nato di Cona e trovare un’altra sistemazione per le 1.300 persone che vi sono ospitate.

Sono partiti martedì, dopo l’ennesima discussione con la cooperativa che gestisce il centro: i responsabili hanno tolto ai migranti le stufette malfunzionanti che - o meglio che dovrebbero - riscaldare le tende nelle quali sono ospitati. Questioni di sicurezza che, però, hanno scatenato una nuova protesta.
Dopo aver appreso la notizia della morte di uno di loro, investito da un’auto mentre attraversava al buio una strada provinciale a bordo della sua bici, i profughi hanno trascorso la notte nella chiesa di Codevigo, poco oltre il confine con la provincia di Padova, dove il parroco - grazie alle mediazione della Caritas - ha deciso di aprire le porte e li ha lasciati dormire tra i banchi dei fedeli.
Ieri mattina, poco dopo le 10, erano già di nuovo in marcia. Silenziosi, le coperte come scialli, gli asciugamani come copricapo. Un corteo aperto dai più politicizzati, assistiti dal sindacato Usb (Unione sindacati di base) e dai militanti di GlobalProject, seguiti dagli altri con gli zaini e i trolley sulla testa. In fondo una ventina di biciclette, cariche di pacchi, coperte, valige, come solo in Africa si usa. Un gruppo eterogeneo: vengono da Nigeria, Costa D’Avorio, Mali, Bangladesh, Pakistan, Libia, Marocco, Mauritania.
Tra i capi della rivolta c’è Camarà Alsane, 32 anni, ivoriano, da 18 mesi in Italia, parla bene l’italiano: «L’ho imparato con la gente di Cona. Non sono un migrante per la fame, al mio Paese mio padre è un uomo politico che lavorava con l’ex presidente, rischio la vita. Per questo sono scappato». La sua richiesta d’asilo è stata respinta e ora è in attesa del ricorso. Racconta le condizioni dell’ex base Nato di Cona, 540 posti regolamentari, 1.300 ospiti: nelle case stanno quelli della cooperativa, i migranti sono in 10 tende, 5 bagni, e 5 docce ognuna, acqua solo fredda, anche con questa temperatura. Come cibo, sempre pasta al pomodoro. «È l’ottava, nona volta che protestiamo. Niente cambia. Per questo abbiamo deciso di andare a farci sentire direttamente dal capo del centro di Cona, il prefetto di Venezia».

Promise Okospadt, 27 anni, nigeriano, è stato nei centri di detenzione in Libia e dice che Cona è come quelli: «In Italia, anche i cani vivono meglio di noi», sospira. Abu, 28 anni in Sierra Leone ha lasciato moglie e tre figli: «Sono venuto qui solo perché lì non potevo più vivere. Mi rivolgo alle Nazioni Unite, al Papa che è cristiano come noi: non torniamo indietro al centro di Cona, siamo trattati peggio degli schiavi-. Considerate che siamo esseri umani e trovate una soluzione». «Cona - spiega Keita Mamadi, 39 anni della Guinea - non è un centro, è una prigione. Ci prendono in giro: qualsiasi dolore abbiamo la cura è la stessa, sempre e solo paracetamolo».

Camminano con la pancia vuota, nel pomeriggio alcun abitanti di Piove di Sacco portano pacchi di biscotti e latte. La polizia in assetto antisommossa blocca la loro marcia con sei blindati dall’ora di pranzo fino al tramonto lungo l’argine del Brenta-Cunetta tra Bojon e Campolongo Maggiore.
Alle 15 arriva il prefetto di Venezia Carlo Boffi ma la mediazione non va a buon fine. «No Cona. No Cona», intonano nel corteo. Con il buio arrivano due pullman a prendere i manifestanti per portarli a Mira, a dormire nelle chiese di Gambarare e di Oriago e Mira, messe a disposizione del Patriarca di Venezia. Di lì lungo la riviera del Brenta tenteranno di arrivare fino a piazzale Roma attraverso il Ponte della Libertà.

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