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Non si può continuare a privilegiare la governabilità sulla democrazia, soprattutto ora che il recente passato ha dimostrato che la riduzione della democrazia non assicura nemmeno una maggiore governabilità.

La Repubblica, 28 dicembre 2013

Vi sono temi che, tra bilancio e prospettive, consentono di gettare un primo sguardo sull’anno che verrà. Si può cominciare dalla riforma della legge elettorale, per la quale si parla di una proposta condivisa da presentare alla Camera, o addirittura da approvare in commissione, prima che siano pubblicate le motivazioni con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime alcune norme del cosiddetto Porcellum. Ipotesi assai bizzarra, poiché potrebbe accadere che, una volta note le motivazioni, si riscontri qualche divergenza tra queste e il testo all’esame del Parlamento. Con evidente e immediato effetto di delegittimazione della riforma o, comunque, dando argomenti per comprensibili polemiche su una questione così controversa. Nella materia istituzionale è sempre pessima la tentazione di creare fatti compiuti, di pensare che si possa impunemente fare un uso congiunturale delle istituzioni, perché queste hanno un più profondo spessore, che fa poi riemergere la loro logica e rivela la debolezza di una politica frettolosa.

Non ci si può semplicisticamente trincerare dietro il fatto che il comunicato della Corte costituzionale ricorda che il Parlamento è legittimato a legiferare in materia elettorale. Un riconoscimento, peraltro ovvio, che tuttavia si trova in un contesto che ha messo in evidenza i due vizi di illegittimità accertati dalla Corte, riguardanti il premio di maggioranza, punto centrale delle discussioni in corso, e le liste bloccate. Questo vuol dire, per chiunque abbia la competenza linguistica minima per leggere un testo così chiaro, che il Parlamento deve rispettare i criteri che la Corte specificherà per evitare che la legge elettorale determini una distorsione inammissibile tra voti e seggi e faccia scomparire ogni possibilità per i cittadini di scegliere i loro rappresentanti. La legalità costituzionale vale a tutto campo, e la legge elettorale non può fare eccezione.

Le ragioni del fastidio verso la decisione della Corte sono due, ed è bene parlarne con chiarezza. Da anni ha finito con il prevalere una pericolosa forzatura culturale riassunta nella formula secondo la quale le elezioni servono ad investire il governo, respingendo sullo sfondo la loro funzione di dare rappresentanza aicittadini, sì che è sembrata e sembra ancora legittima qualsiasi manipolazione delle leggi elettorali per assicurare il primo obiettivo. Quando leggeremo le motivazioni della Corte, è presumibile che ci troveremo di fronte ad argomentazioni che, ripristinando la legalità costituzionale, indicheranno il corretto equilibrio tra rappresentanza e governabilità, mentre oggi l’attenzione è spasmodicamente volta solo a quest’ultimo fine.

Vi è poi l’insofferenza determinata dal timore che il sistema elettorale determinato dall’intervento della Corte ci riporti ad un inaccettabile proporzionalismo. Di nuovo una confusione tra questioni diverse. La Corte ha fatto il suo dovere, eliminando vizi di incostituzionalità determinati da una inammissibile prepotenza politica. Spetta ora alla politica trovare la corretta via d’uscita da una situazione di cui essa porta tutta la responsabilità. E deve farlo senza adoperare argomenti tipo «torneremo alla Prima Repubblica», che sottintendono un giudizio sulla cosiddetta Seconda come una fase di cui dovrebbero essere salvaguardati non si sa quali meravigliosi benefici, mentre è davanti agli occhi di tutti il disastro politico, culturale e sociale con il quale si sta concludendo. Un osservatore acuto come Carlo Galli ha messo in guardia contro questa rimozione del recentissimo passato, ricordando che «non sta scritto da nessuna parte che un sistema bipolare, forzato dalla legge elettorale, garantisca stabilità. Anzi, i nostri ultimi venti anni dimostrano il contrario».

Nessuna seria politica può essere disgiunta dalla consapevolezza storica e culturale, di cui bisogna dar prova discutendo anche di un’altra questione che già divide e suscita polemiche, quella riguardante un riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. Il punto di riferimento, pure questa volta, ci porta verso la Corte costituzionale, che nel 2010 ha sottolineato la necessità di riconoscere i “diritti fondamentali” che spettano a quanti si trovano in questa condizione. Non è ammissibile, allora, che si rifiuti di affrontare questo tema chiedendo una moratoria su tutte le questioni “eticamente sensibili”. Questo è un altro retaggio della sciagurata stagione che abbiamo dietro le spalle, di cui dobbiamo liberarci senza ricorrere all’argomento sostanzialmente ingannevole del gradualismo — facciamo oggi un piccolo passo e poi si vedrà. Una linea che potrebbe essere considerata accettabile se un primo provvedimento facesse esplicitamente parte di una strategia più generale. Oggi, invece, vi è il concreto rischio che, in questo modo, si finisca con il certificare l’esistenza di una condizione italiana che preclude la possibilità di vere politiche dei diritti civili, sì che potremmo permetterci solo iniziative

al ribasso, nelle quali si riflettono le impotenze della politica e non le dinamiche reali della nostra società. Che cosa sarebbe avvenuto se questa logica riduzionista e minimalista fosse stata adottata al tempo del divorzio e dell’aborto?

Un ingannevole gradualismo, infatti, sarebbe oggi pagato con il rifiuto di considerare il fatto che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha previsto che le scelte riguardanti la costituzione di una famiglia non sono più dipendenti dalla diversità di sesso, che la Corte europea dei diritti dell’uomo si muove in questa direzione e che la nostra Corte di Cassazione, nel 2012, ha riconosciuto alle coppie omosessuali il diritto alle stesse tutele previste per quelle eterosessuali. Questo è ormai il contesto all’interno del quale considerare il problema, come confermano significativi dati di realtà, come quelli riguardanti le adozioni e l’omogenitorialità, di cui una seria discussione parlamentare deve tener conto.

Temi come questo non possono più essere affrontati in maniera reticente, perché riguardano il modo in cui si stabiliscono i rapporti tra istituzioni e società. E, visto che tanto si parla della necessità di riforme, invece di pensare solo a norme che limitano la rappresentanza, sarebbe il caso di occuparsi delle leggi di iniziativa popolare, per le quali è tempo di prevedere l’obbligo dell’esame da parte delle Camere. Sono già state presentate proposte in questo senso, vi è un cenno alla fine della relazione dei Saggi, e basterebbero modifiche dei regolamenti parlamentari. Si aprirebbe così un importante canale di comunicazione tra cittadini e Parlamento, dando un segnale concreto di attenzione per la volontà popolare, che troppe volte si cerca di azzerare anche quando si è espressa attraverso un referendum, come si è appena cercato di fare in Parlamento con il tentativo, per fortuna respinto, di imporre al Comune di Roma la privatizzazione del servizio idrico in contrasto con i risultati del referendum sull’acqua. Possibile che non ci si renda conto che al rifiuto della politica, sempre più marcato, si debba rispondere proprio progettando forme di coinvolgimento più diretto, che diano ai cittadini la consapevolezza che dalla politica possa venire un valore aggiunto che incontra i loro diritti e i loro bisogni?

«Dialogo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repubblicana», per Editori Riuniti. Una conversazione che apre mille interrogativi e intreccia i fili di quarant'anni di storia».

il manifesto, 27 dicembre 2013

Nel 1994, Vit­to­rio Foa e Aldo Natoli, due delle figure più alte della sto­ria della sini­stra in Ita­lia, si sedet­tero davanti a un regi­stra­tore e comin­cia­rono a rac­con­tare – o meglio, Vit­to­rio Foa invitò Natoli a rac­con­tare, accom­pa­gnan­dolo con il con­trap­punto di domande e com­menti mai intru­sivi, sem­pre rifles­sivi, in un intrec­cio dia­lo­gico di con­di­vi­sione e di diver­sità. Ave­vano rispet­ti­va­mente 84 e 81 anni, da tempo ave­vano rio­rien­tato l’impegno poli­tico di una vita verso la ricerca sto­rica e la rifles­sione poli­tica, con esiti memo­ra­bili, dalla Geru­sa­lemme riman­data di Foa all’Anti­gone e il pri­gio­niero di Natoli; ma la con­ver­sa­zione fra i due non è una sem­plice rivi­si­ta­zione del pas­sato, bensì un ragio­na­mento a tutto campo che illu­mina le con­trad­di­zioni del presente.

Come ogni sto­ria orale che si rispetti, infatti, anche que­sta con­ver­sa­zione è un docu­mento sul pas­sato, ma è soprat­tutto un docu­mento del pre­sente: il rac­conto — Vit­to­rio Foa / Aldo Natoli, Dia­logo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repub­bli­cana (Edi­tori Riu­niti, pp. 303, euro 23) — comin­cia con l’infanzia mes­si­nese di Aldo Natoli, e ne per­corre tutta la vita fino al momento del col­lo­quio, finendo per farci capire molte cose sulla crisi morale prima che poli­tica, che la sini­stra attra­ver­sava allora e che è andata peg­gio­rando fino ad oggi.

Abbiamo vis­suto un buon quarto di secolo ormai assil­lati da lea­der che, dopo una vita pas­sata fra una carica di par­tito e l’altra, ci spie­ga­vano che non erano mai stati comu­ni­sti e che quella era una sto­ria di orrori che non li riguar­dava. Ci sono voluti dei non comu­ni­sti come Vit­to­rio Foa (e penso anche a certe cose di Bob­bio dopo l’89) per resti­tuire a que­sta sto­ria l’ascolto e il rispetto senza i quali non capiamo non solo la sini­stra, ma tutta l’Italia moderna. E ci vogliono comu­ni­sti come Aldo Natoli, che que­sta sto­ria l’hanno vis­suta fino in fondo con par­te­ci­pa­zione cri­tica e appas­sio­nata, per resti­tuir­cene il senso soprat­tutto morale. Ascol­tare que­ste pagine (arric­chite da accu­rate note e pro­fili bio­gra­fici dei cura­tori, Anna Foa e Clau­dio Natoli) riem­pie di orgo­glio per­ché abbiamo avuto fra noi com­pa­gni di que­sta gran­dezza, di smar­ri­mento (che cosa resta senza di loro?), di rim­pianto per non averli ascol­tati abba­stanza, di pena per averli lasciati soli.

Come ogni serio lavoro di memo­ria, que­sta inter­vi­sta intrec­cia due punti di vista –l’intervistato e l’intervistatore – e due momenti del tempo: il punto di vista «di allora» e il punto di vista di «adesso». Per esem­pio. Par­lando dell’8 set­tem­bre, Foa domanda: «Come alcune cose le vede­vamo allora e come è cam­biata la nostra testa dopo qua­ranta anni di pace?». Quello che mi col­pi­sce è in primo luogo l’uso del plu­rale: Foa si mette den­tro que­sta sto­ria che in modi insieme simili e diversi è anche la sua. Come sem­pre nella gram­ma­tica dell’intervista, è ciò che i due dia­lo­ganti hanno in comune che rende l’intervista pos­si­bile e com­pren­si­bile, ma è la dif­fe­renza che esi­ste fra loro che la rende interessante.

E poi, attra­verso il dia­logo con Natoli, Foa cerca di capire non solo come «è cam­biata la testa» del suo inter­lo­cu­tore, ma anche come è cam­biata la sua: le domande che l’intervistatore rivolge al suo inter­lo­cu­tore le rivolge, ine­vi­ta­bil­mente, anche a se stesso. Natoli, a sua volta, coglie l’opportunità – direi quasi, come in tante delle inter­vi­ste migliori, rac­co­glie la sfida – per ripen­sarsi. Non intende but­tare a mare que­sta sto­ria, non solo sua, ma non fa apo­lo­gia né di se stesso né del par­tito. Ogni volta, davanti a un inter­lo­cu­tore che lo rispetta e lo ascolta, si rimette in discus­sione, spiega le sue incer­tezze, i dubbi, gli errori.

Ne viene fuori, fra l’altro, una sto­ria della sini­stra molto più arti­co­lata, molto più sfu­mata e mobile di quanto non ce l’abbiano rac­con­tata tante volte. Per esem­pio: a pro­po­sito del patto Hitler-Stalin del 1939, Natoli ricorda di averlo ini­zial­mente soste­nuto come una neces­sità ine­vi­ta­bile – ma ricorda anche le discus­sioni dram­ma­ti­che che por­ta­rono a scis­sioni e scon­tri nel gruppo romano, finendo per lasciarlo iso­lato e in mino­ranza, «in una situa­zione che in qual­che modo con­fi­nava con la dispe­ra­zione»; e rac­conta di avere cam­biato posi­zione dopo la spar­ti­zione della Polo­nia e dopo che l’Internazionale arrivò a dire che i nazi­sti non erano il nemico prin­ci­pale. Foa, a sua volta ripen­sando al se stesso di allora, insi­ste sulla dimen­sione della sog­get­ti­vità, che è poi alla radice della scelte poli­ti­che: «L’impressione che ho avuto io è che i comu­ni­sti, cioè voi, pur appro­vando il Patto, non osten­ta­vate que­sta appro­va­zione, cioè che l’antifascismo, pro­fondo, era domi­nante nel vostro ambito. Mi sba­gliavo o ero nel giu­sto, secondo te?». Qui mi col­pi­sce, intanto, il «voi comu­ni­sti» – più tardi, par­lando della Resi­stenza, diventa, come abbiamo visto «noi». C’è in que­sto uso dei pro­nomi tutta la com­pli­cata sto­ria dei rap­porti interni alla sini­stra, che nell’intervista si espli­cita poi nel rac­conto sul ’48 e il Fronte popo­lare. Ma c’è anche la trac­cia di una dif­fe­renza che si fa comun­que ascolto e rimane rispetto: invece di accu­sare i comu­ni­sti di com­pli­cità con Hitler, Foa (allora azio­ni­sta, poi socia­li­sta) scava sotto la super­fi­cie e ascolta da com­pa­gno. E Natoli: «Io que­sto lo sen­tivo pro­fon­da­mente. Per cui den­tro di me ero con­vinto che gli accordi del Patto non dove­vano riper­cuo­tersi sugli orien­ta­menti non solo teo­rici ma anche pra­tici del movi­mento comu­ni­sta inter­na­zio­nale», cioè sull’antifascismo.

La stessa com­ples­sità, lo stesso scavo nelle ragioni e torti di allora, accom­pa­gna tutto il rac­conto di Natoli, dalla svolta di Salerno all’Ungheria, senza nascon­dere il suo con­senso di volta in volta alle scelte del par­tito, eppure dando conto di come que­sto con­senso si faceva sem­pre più fati­coso e la sua rela­zione col par­tito sem­pre meno age­vole. Non ci sono epi­fa­nie, svolte bru­sche: è un pro­cesso gra­duale di cam­bia­mento, e non è nep­pure un pro­cesso lineare – per esem­pio, Natoli non esita a ricor­dare di avere difeso il golpe comu­ni­sta a Praga nel 1948: «In quel momento non è che lo vedessi in modo cri­tico, lo vedevo in senso posi­tivo, a quel tempo io ero asso­lu­ta­mente ligio a quel qua­dro stra­te­gico». Lo spiega col clima di guerra fredda, con il mon­tare dell’anticomunismo, cioè ci fa capire le ragioni di un errore; ma non per que­sto nega di avere avuto torto. Ma poi si trova a con­durre la sua bat­ta­glia più memo­ra­bile, quella con­tro il «sacco di Roma» negli anni ’50, pra­ti­ca­mente da solo, tra il disin­te­resse della diri­genza nazio­nale; o prende gra­dual­mente le distanze da una linea del par­tito che non coglieva le capa­cità di rin­no­va­mento del capi­ta­li­smo e viveva nell’illusione di una suo immi­nente crollo. E, natu­ral­mente, l’Ungheria, quando la distanza comin­cia a farsi incolmabile.

Seguono gli anni delle bat­ta­glie interne al par­tito, Ingrao, Amen­dola, la sco­perta del Viet­nam come modello anche di auto­no­mia poli­tica rispetto all’Urss e alla Cina, l’incontro con la Cina. E di nuovo il dia­logo con Foa, la con­di­vi­sione e le dif­fe­renza. Foa ricorda che «la Rivo­lu­zione cul­tu­rale, per noi, anche per me, solo in parte, è parsa una ban­diera» (e di nuovo il «noi», ma arti­co­lato in un «me»); e Natoli con­clude che «la Rivo­lu­zione cul­tu­rale come tale fini­sce alla fine del 1968 con l’intervento dell’esercito… Alla fine del 1968 il movi­mento di base, che era la carat­te­ri­stica fon­da­men­tale della Rivo­lu­zione cul­tu­rale, viene represso con l’esercito». Ma la Cina resta uno dei suoi inte­ressi prin­ci­pali anche dopo le scon­fitte, i cam­bia­menti, le delu­sioni: «non sono riu­scito a distac­car­mene». E poi la nascita del Mani­fe­sto – rivi­sta, gruppo poli­tico, gior­nale – spe­ranze, crisi, con­di­vi­sioni, dis­sensi, separazioni….

I due inter­lo­cu­tori di que­sto libro sono stati anche pro­ta­go­ni­sti della sto­ria di que­sto gior­nale. Faremmo bene a ricordarcene

«La Repubblica, 24 dicembre 2013

SEI anni sono passati dall’inizio della crisi, e tre sono gli stati d’animo di chi in Europa governa lo squasso o lo patisce. C’è chi si complimenta con se stesso, convinto che il peggio sia alle spalle: nei Paesi debitori le bilance di pagamento tornano in pareggio, l’intervento lobotomizzatore è riuscito, anche se il paziente intanto è stramazzato. Ci sono i catastrofisti, che ritengono euro e Unione un fiasco. Di qui l’appello a riprendersi la sovranità monetaria sconsideratamente immolata. Infine ci sono gli europeisti insubordinati: essendo la crisi non finanziaria ma politica, è l’Unione che urge cambiare, subito e radicalmente.

I veri rivoluzionari sono gli ultimi, perché vogliono scalzare il potere delle inette oligarchie che l’hanno guastata e crearne un altro, non oligarchico. La questione della sovranità sequestrata non viene affatto negata, ma posta in altro modo: esigendo accanto alle malridotte sovranità statali una sovranità europea effettiva, solidale e quindi federale, dotata di una Banca centrale prestatrice di ultima istanza. Nietzsche li avrebbe chiamati i «legislatori del futuro», dediti a un «compito colossale» ma ineludibile: non contentarsi di constatare la crisi, ma «determinare il Dove e Perché» del cammino umano, fissando nuovi princìpi.

Sono gli unici in grado di adottare l’antica, nobile filosofia scettica: la realtà costituita è apparenza, e il compito colossale consiste nel confutarla col pensiero e gli atti. A ogni tesi corrisponde un’antitesi: il mondo non è senza alternative. Quest’ultimo è insensato oltre che menzognero, ragion per cui i rivoluzionari sono avversari dell’immobilismo, che professa l’Europa a parole. Quando sentono parlare di bicchiere mezzo pieno s’impazientano, perché un pochetto di vino va bene per i tempi tiepidi, non per i bollenti. Non a caso la parola greca skepsis significa ricerca, indagine: gli scettici si dissero “ricercatori”, visto che tutte le questioni erano aperte.

Non stupisce che umori analoghi si manifestino a Atene, nei programmi di Alexis Tsipras, leader della sinistra radicale ellenica ed europea. La Grecia infatti è stata non solo un Paese immiserito dal trattamento deflazionistico. L’hanno usata come cavia, come animale da esperimento biologico. Biologico alla lettera: quanto e come avrebbe resistito, viva, alla cura da cavallo? Non ha resistito. La bilancia dei pagamenti è risanata ma si è gonfiato un partito nazista, Alba Dorata. Dal paese-cavia giungono notizie costernanti: ai suicidi, s’aggiungono quest’inverno i morti carbonizzati da malconce stufe a legna, usate quando non hai soldi per l’elettricità (sito di Kostas Kallergis). Tra i legislatori del futuro non dimentichiamo i Verdi di Green Italia. Lista Tsipras e Verdi potrebbero unire gli sforzi, se non saranno esclusi dal Parlamento europeo che sarà eletto il 22-25 maggio. La lotta non è tra europeisti e antieuropeisti (i poli sono tre, non due). È tra chi si compiace in pigri rinvii, chi fugge, e chi vuol scompigliare l’Unione disunita. Questo pensano i firmatari dell’appello di domenica sul Manifesto. È urgente - dicono - un’inversione di tendenza, che affidi alle istituzioni nazionali e comunitarie il compito di realizzare politiche espansive, e alla Banca centrale europea una funzione prioritaria di stimolo alla crescita: «Ammesso che considerare il pareggio di bilancio un vincolo indiscutibile sia potuto apparire sin qui una scelta obbligata, mantenere tale atteggiamento costituirebbe d’ora in avanti un errore imperdonabile, e la responsabilità più grave che una classe dirigente possa assumersi al cospetto della società che ha il dovere di tutelare». Tra le firme: Stefano Rodotà, Luciano Canfora, Marcello De Cecco, Adriano Prosperi, Guido Rossi, Salvatore Settis.

C’è una cosa che abbiamo capito, in questi anni: l’Europa così com’è - e forse le democrazie - non sono attrezzate per pensare e affrontare le crisi, se per crisi s’intende non un’effimera rottura di continuità ma un punto di svolta, un’occasione che ci trasforma. Crisi simili sono temute, perché minano oligarchie dominanti e ricette fondate su vecchie nozioni di Pil, oggi molto contestate. Come nella peste di Atene o nella guerra civile di Corcira (Corfù), narrate da Tucidide, la corruzione dilaga e gli uomini diventano «indifferenti alle leggi sacre come pure a quelle profane» (alle costituzioni democratiche, oggi). Nessuno crede che otterrà giustizia e uguaglianza («Nessuno sperava di restare in vita fino al momento della celebrazione del processo e della resa dei conti»). Quanto ai capi della fazioni di Corcira: «A parole servivano lo Stato; in realtà lo consideravano alla stregua del premio di una gara ». Quello che abbiamo visto in questi giorni a Lampedusa e a Roma - in centri sfacciatamente chiamati d’accoglienza - è rivelatore: uomini e donne denudati per ripulirli d’una scabbia contratta dopo l’ingresso nei recinti, e a Roma ribelli che si cuciono le bocche. Chi ha visto il film di Emanuele Crialese ( Nuovomondo) ricorderà la vergogna di Ellis Island, presso la statua della libertà a New York: l’umiliazione dei controlli medici, fisici, mentali, cui i trapiantati erano sottoposti. Isola delle Lacrime, era chiamata. Il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini va oltre: denudare in pubblico un essere umano ricorda i Lager.

Se la crisi è paragonabile a una peste, se sconvolge costituzioni e democrazia, se secerne rabbie tanto vaste (la Lega parla di «euro criminale »), non bastano più i piccoli progressi di cui si felicitano i governanti. Esemplare è l’Unione Bancaria concordata il 18 dicembre a Bruxelles dai leader europei. È stata descritta come un «risultato storico». In realtà è un inganno, spiegano critici seri come Wolfgang Münchau e Guy Verhofstadt sul Financial Times, o Federico Fubini su . L’unione delle banche vedrà la luce solo fra 10 anni, come se la crisi non esistesse già adesso, e le somme che saranno allora a disposizione delle banche in difficoltà sono ridicole: appena 55 miliardi di euro, «quanto basta per un unico intervento di medie dimensioni (una sola banca, ndr), a fronte di bilanci bancari che in totale valgono 25 mila miliardi» (Fubini, 20-12). Anche l’economista Rony Hamaui, sul sito Voce. it, è esterrefatto: è bene che non siano i contribuenti ma i privati a pagare, ma la somma in cantiere è niente, «se pensiamo che i governi europei hanno mobilitato in questi anni risorse per oltre 4500 miliardi ». Angela Merkel ha voluto quest’accordo al ribasso: la sua rielezione, e la coalizione con i socialdemocratici, sono non un progresso ma una regressione e una chiusura.

Non è la prima volta che l’Europa si trincera nell’ottusità, davanti a scosse gravi. Anche in politica estera è così. Parigi ad esempio chiede aiuti per gli interventi in Africa, ma si guarda dal condividere e discutere la sua politica estera con il resto dell’Unione, e con Berlino che lo domanda da quando nacque l’euro. Purtroppo le dittature sembrano più equipaggiate delle democrazie, di fronte alle crisi e alle rivoluzioni. Vedono crisi e sovversioni in ogni angolo, il che le rende paradossalmente più mobili, guardinghe. La rapidità con cui Putin decide le sue mosse è significativa: sia quando profitta della sua ricchezza energetica per legare a sé l’Ucraina e vietarle l’associazione con l’Unione europea, sia quando scarcera i propri dissidenti: tardi ma al momento giusto.

La sete dell’uomo forte non meraviglia. È la sete dei catastrofisti, ma anche di chi difende lo status quo. Solo i legislatori del futuro resistono. Sanno che il futuro dovrà costruirsi sul rispetto delle Costituzioni, e su un’idea di bene pubblico che è stata l’Europa a inventare, per far fronte col Welfare alla triplice sciagura della povertà, della disuguaglianza, delle guerre civili.

Il manifesto, 24 dicembre 2013

Fac­ciamo gli auguri di fine anno ai migranti che si sono cuciti la bocca a Ponte Gale­ria e a quelli che hanno ini­ziato lo scio­pero della fame. Fac­cia­moli a tutti gli stra­nieri che si pre­pa­rano a pas­sare le cosid­dette feste al chiuso dei Cie, nella soli­tu­dine, nello squal­lore, nell’incertezza sul pro­prio destino chissà fino a quando. E fac­cia­moli al depu­tato Kha­lid Chaouki il quale, chiu­den­dosi nel cen­tro di acco­glienza di Lam­pe­dusa, terrà desta per un po’ l’attenzione dei media sulla ver­go­gna della deten­zione ammi­ni­stra­tiva dei migranti.

Ma non li fac­ciamo a tutti gli altri che col­la­bo­rano con il silen­zio, l’ipocrisia o l’indifferenza a man­te­nere quella ver­go­gna. Primo dell’elenco, il par­tito di Chaouki, il Pd, che quei cen­tri li ha inven­tati (con il nome di Cpt) gra­zie a Livia Turco e all’attuale pre­si­dente della Repub­blica, e non si è mai sognato di chiu­derli. E non par­liamo degli attuali com­pa­gni di strada del Pd, a comin­ciare da Alfano, il cui par­tito approvò la Bossi-Fini nel 2002 e quindi è in tutto e per tutto cor­re­spon­sa­bile delle norme più stu­pide e ves­sa­to­rie, come i 18 mesi di deten­zione nei Cie e il reato di immi­gra­zione clandestina.

Non ci sen­tiamo di fare nes­sun augu­rio nem­meno al governo, il quale, dopo lo scan­dalo delle docce anti-scabbia e le pro­te­ste di Ponte Gale­ria, pensa di abbre­viare la deten­zione nei Cie, ma solo per ren­dere le espul­sioni più facili.

Non li fac­ciamo nem­meno a quei par­la­men­tari 5 stelle che hanno comin­ciato timi­da­mente a discu­tere dell’abolizione del reato di immi­gra­zione clan­de­stina, ma sono stati imme­dia­ta­mente zit­titi da Grillo e Casa­leg­gio, e hanno lasciato per­dere, dando una note­vole prova di coe­renza, corag­gio e indi­pen­denza. Per non par­lare del blog di Beppe Grillo, che ogni giorno stre­pita con­tro la casta e fa pub­bli­cità ad auto­mo­bili, assi­cu­ra­zioni e com­pra­ven­dite d’oro, ma sulla que­stione dei Cie tace rigo­ro­sa­mente, per non scon­ten­tare la parte for­ca­iola del pro­prio elettorato.

Non abbiamo nulla da augu­rare nem­meno alle coo­pe­ra­tive, magari ade­renti alla Lega­coop, che gesti­scono Cda e Cie, e si giu­sti­fi­cano con la scusa pue­rile che, se non lo fanno loro, lo farà qual­cun altro. Che cosa non si fa per lucrare sui 50 euro gior­na­lieri che lo stato spende per ogni internato!

Meno che mai fac­ciamo gli auguri a Ceci­lia Malm­ström, com­mis­sa­rio Ue per la giu­sti­zia e gli affari interni, che oggi fa finta di indi­gnarsi per Lam­pe­dusa ma pochi giorni fa ha siglato un accordo con la Tur­chia sui migranti irre­go­lari che, in sostanza, pre­vede la libera cir­co­la­zione dei cit­ta­dini tur­chi nei paesi dell’Unione in cam­bio della dispo­ni­bi­lità di Ankara a ripren­dersi clan­de­stini e immi­grati. Insomma, i migranti come merce di scam­bio per il lento e fatale avvi­ci­na­mento della Tur­chia all’Europa.

La que­stione dei migranti, degli sbar­chi e dei cen­tri di inter­na­mento sparsi in tutta Europa e nei paesi satel­liti di Asia e Africa, è la prova della fal­sità con cui la Ue affronta, nel com­plesso e paese per paese, la povertà estrema che la lam­bi­sce. Esclu­si­va­mente inte­res­sata a difen­dere il suo pre­ca­rio benes­sere, debole con i forti (la grande finanza, gli Usa che la spiano come e quando vogliono), l’Unione è impla­ca­bile con i deboli, a cui elar­gi­sce solo deten­zioni e invi­si­bi­lità, natu­ral­mente amman­tan­dole con il lin­guag­gio dei diritti e della giustizia.

E così, davanti a un’ingiustizia così abis­sale e rimossa da tutti, non augu­riamo nulla nem­meno a quel bel coa­cervo di egoi­smi nazio­nali e trans-nazionali che va sotto il nome di Europa

La Repubblica, 22 dicembre 2013

Quando sei in fila all’Agenzia delle entrate o alle Poste a pagare un bollettino, al forno a comprare il pane. Non ce n’è per noi, cosa volete che ce ne importi di quelli, che poi alla fine sono anche mezzi criminali. Sempre, quasi sempre. Va bene. Allora diciamo che sì, è così: se non ti salvi tu non puoi salvare gli altri, te lo spiegano bene ogni volta che l’aereo decolla. Prima assicurati di aver messo la tua maschera di ossigeno e il tuo giubbotto, poi aiuta il vicino. Il bambino, la donna incinta, il vecchio. Non importa. Prima metti al sicuro te stesso. Perfetto, è giusto. Se poi c’è di mezzo la paura, la diffidenza, il sospetto che il vicino possa essere o diventare un nemico, figuriamoci se c’è bisogno di dirlo. Sono anche mezzi criminali, quasi sempre. La tua maschera di ossigeno, prima.

Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva. Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come? Con una specie di ago ricavato dal ferro di un accendino, e col filo di una coperta. Otto hai detto? Otto. Quattro tunisini e quattro marocchini. I nomi no, non li so. Non li dicono mai i nomi degli stranieri, solo il numero. C’è una ragione. Il nome ti porta diritto dentro una storia, dentro una vita. Il numero fa numero, e basta. Però dicono l’età. Questi sono ragazzi: vent’anni i più giovani, trenta i più vecchi. Hai detto venti? Venti, sì. Ce l’avete un nipote di vent’anni? Come vi sentireste se tornando a casa lo trovaste con la bocca cucita con ago e filo? Ve lo riuscite ad immaginare? Ecco, così. Tornate e lo trovate col sangue che cola dalla bocca cucita. Allora magari uno torna a casa e va a vedere su Internet le foto del posto dove è successo, il Cie di Porta Galeria a Roma. Cie, che vuol dire Centro di identificazione ed espulsione. Ci si può stare fino a un anno e mezzo in quel posto lì, con le sbarre delle gabbie ricurve verso l’interno, come quelle delle bestie pericolose in certi zoo. Che ora si chiamano bioparchi, in genere, e quelle gabbie non ci sono più nemmeno per le tigri. Allora magari anche se è il sabato prima di Natale e devi andare a comprare il bagnoschiuma per tua nuora, con quei pochi soldi che hai, ecco magari allora ci pensi che in Italia c’è una legge che si chiama Bossi-Fini (ha proprio i nomi di quelli che l’hanno fatta, Bossi e Fini, se ti concentri te li ricordi tutti e due) che autorizza a tenere in quel lager degli esseri umani che hanno l’età di tuo figlio, di tuo nipote, e certo anche tuo figlio e tuo nipote non hanno lavoro ma almeno non vengono annaffiati nudi d’inverno con una sistola, almeno parlano una lingua che la gente intorno capisce, almeno hanno te e se sono in pericolo ti possono chiamare al telefono, vienimi a prendere che c’è un problema serio. Loro no. Quelli che si sono presi le labbra con la mano sinistra e con la destra se le sono cucite non hanno nessuno da chiamare: si possono solo dare fuoco, e certo anche gli italiani lo fanno a volte, si possono ammazzare, anche questo capita senza bisogno di venire dall’Africa, o anche — ti possono dire con questo speciale martirio di ago e filo — nemmeno la parola gli è rimasta più per gridare. La parola, che viene dal pensiero e distingue l’uomo dalla bestia. Non serve più a niente nemmeno quella. Ecco, magari dieci minuti, allora, prima di uscire a comprare il pandoro, ci pensi.

Mario Melloni (l'indimenticabile "Fortebraccio") li avrebbe chiamati "lorsignori". Oggi guidano il più grande partito della "sinistra" italiana. Il manifesto, 22 dicembre 2013

Ai tempi del governo Monti, nel momento di mag­gior pole­mica sull’articolo 18 dello sta­tuto dei lavo­ra­tori, fu il pre­si­dente degli indu­striali Gior­gio Squinzi a get­tare acqua sul fuoco («la licen­zia­bi­lità dei dipen­denti è l’ultimo dei nostri pro­blemi»). Oggi, invece, con balzo felino, Squinzi sale sul carro di Renzi, il poli­tico ten­tato da una revi­sione dell’articolo 18, peral­tro modi­fi­cato pro­prio dal tan­dem Monti-Fornero. Così l’appello di Lan­dini a Renzi («Fai una cosa intel­li­gente, ripri­stina l’articolo 18») sem­bra desti­nato a rima­nere inascoltato.

Sul carro ren­ziano è da sem­pre ben piaz­zato Oscar Fari­netti, un cam­pione del made in Italy ali­men­tare. Inter­vi­stato dal Fatto, l’imprenditore che ogni sera offre le sue ricette (pur­troppo poli­ti­che) da tutti i talk-show tele­vi­sivi, ha chia­rito il suo pen­siero. Secondo lui la tutela dal licen­zia­mento ille­git­timo andrebbe abo­lita per­ché in realtà l’articolo 18 è solo un grande scudo die­tro il quale si ammassa l’esercito dei fan­nul­loni: «Il lavoro garan­tito per chi non ha voglia di lavo­rare è un delitto». E i sin­da­cati? «Sono un impe­di­mento di sicuro». Basta e avanza, e non c’è nep­pure biso­gno di aprire l’imbarazzante capi­tolo delle per­qui­si­zioni cor­po­rali subite dai suoi dipen­denti per veri­fi­care che, a fine turno, non si met­tano in tasca qual­che fet­tina di prosciutto.

Natu­ral­mente la cop­pia Renzi-Farinetti non è la prima e non sarà l’ultima che mal sop­porta il sin­da­cato, che pre­fe­ri­rebbe avere mano libera sui licen­zia­menti, che mette sullo stesso piano padrone e ope­raio, che rac­conta la favola del merito, come fos­simo tutti uguali, tutti impren­di­tori di noi stessi. Il libe­ri­smo come la falsa coscienza sono la merce che oggi vende di più. Basta non esa­ge­rare pre­ten­dendo pure di essere con­si­de­rati lea­der (o impren­di­tori) di sinistra

«Mezzogiorno. Il meridione affonda inesorabilmente, vittima dei suoi mali, mentre il resto del paese rimane indifferente. «Se muore il Sud» di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella pone l’accento sulle responsabilità della «peggiore classe dirigente occidentale». Ora siamo di fronte a un bivio: o si cambia o muore tutta l’Italia». Il manifesto, 19 dicembre 2013

Poco meno di un secolo fa, un grande meri­dio­na­li­sta come Guido Dorso auspi­cava per il Mez­zo­giorno la nascita di una classe diri­gente di grande rigore morale, capace di «distrug­gere le cause della sua infe­rio­rità da se stesso» gra­zie alla spinta pro­pul­siva dei suoi figli migliori. Oggi, tra­scorsi il fasci­smo e un lungo dopo­guerra, sepolta la Prima Repub­blica e affie­vo­li­tosi l’abbaglio del ber­lu­sco­ni­smo, l’impressione è che quell’auspicio inat­tuato sia diven­tato un’urgenza.

Pur non men­zio­nando espres­sa­mente l’autore di La rivo­lu­zione meri­dio­nale, Ser­gio Rizzo e Gian Anto­nio Stella, in Se muore il Sud (“Fuo­chi” Fel­tri­nelli, pagg. 315, euro 19) per diversi aspetti si muo­vono sulla stessa fal­sa­riga. La for­tu­nata cop­pia anti-casta, cemen­tata sulle pagine del Cor­riere della Sera, mette sul banco degli impu­tati pro­prio quella classe diri­gente «che lascia affon­dare un pezzo dell’Italia». L’analisi dei due gior­na­li­sti, non priva di affetto verso il Sud ma pro­prio per que­sto impie­tosa, prende di mira le élite meri­dio­nali, quella classe poli­tica che non ha fatto nulla per argi­nare il declino e far sì che la sto­ria di un pezzo d’Italia non si tra­sfor­masse in un cahier de doléan­ces di occa­sioni per­dute. Piut­to­sto, essa è stata pro­ta­go­ni­sta in nega­tivo, com­plice e più spesso attiva pro­mo­trice dello scem­pio siste­ma­tico del ter­ri­to­rio e del sacco di risorse, sta­tali ed euro­pee.

Chi è abi­tuato agli arti­coli e ai libri di Rizzo e Stella sa bene come essi siano una bril­lante com­bi­na­zione di dati che inqua­drano i feno­meni rac­con­tati e aned­doti che li con­cre­tiz­zano. Così, i 677 mila euro per il Festi­val del pepe­ron­cino cala­brese o il con­tri­buto alla sagra del tara­tatà a Castel­ter­mini, in Sici­lia, diven­tano l’emblema della grande illu­sione sva­nita di tra­sfor­mare final­mente il Mez­zo­giorno attra­verso i fondi comu­ni­tari, com’è invece riu­scito all’Estonia. E le cen­ti­naia di sper­peri, inef­fi­cienze e ritardi innaf­fiati di belle parole, scan­dali inter­na­zio­nali come quello di Pom­pei che cade a pezzi o il pae­sag­gio della Terra di lavoro cam­pana che oggi risul­te­rebbe irri­co­no­sci­bile agli occhi di scrit­tori come Goe­the e Dic­kens che ne magni­fi­ca­rono le bel­lezze, com­pon­gono un puzzle deva­stante che getta di certo più di un’ombra su chi ha gover­nato que­ste terre, ma dovrebbe spin­gere a inter­ro­garsi anche sulla disgre­ga­zione morale e sociale che è stata causa ed effetto, allo stesso tempo, di cotanto scem­pio. Andrebbe trac­ciato un bilan­cio anche del fal­li­mento dell’idea che la moder­niz­za­zione indu­striale avrebbe eman­ci­pato le popo­la­zioni meri­dio­nali da ogni resi­duo feu­dale: a Bagnoli, ammet­tono Rizzo e Stella, dopo l’Ilva c’è stato il nulla. Biso­gne­rebbe chie­dersi infine per­ché l’arricchimento dif­fuso non ha gio­vato alla cre­scita col­let­tiva ma piut­to­sto ha for­nito linfa all’individualismo piccolo-proprietario, lo stesso che com­porrà il «blocco edi­li­zio» foto­gra­fato nel 1970 da Valen­tino Par­lato sulla Rivi­sta del mani­fe­sto: una for­ma­zione sociale com­po­sta da pic­coli pro­prie­tari, grandi spe­cu­la­tori e ric­chi pos­si­denti, votata poli­ti­ca­mente alla con­ser­va­zione, alla ren­dita e all’immobilismo sociale che ha cam­biato irri­me­dia­bil­mente i con­no­tati al ter­ri­to­rio e ancora oggi fa sen­tire tutto il suo peso quando si tratta, ad esm­pio, di tas­sare la pro­prietà pri­vata e le abi­ta­zioni.

L’opinione di Rizzo e Stella è che oggi lo spread tra Nord e Sud d’Italia è «per molti aspetti più ango­sciante di quello con la Ger­ma­nia». Vale la pena rie­pi­lo­garlo: i diplo­mati meri­dio­nali sono il 31,7 per cento, quelli cen­tro­set­ten­trio­nali il 56. I lau­reati meri­dio­nali che hanno un lavoro il 48,7 per cento, quelli cen­tro­set­ten­trio­nali il 71. La disoc­cu­pa­zione gio­va­nile è a livelli da allarme rosso: i cosid­detti “neet” – not in edu­ca­tion, employe­ment or trai­ning – per­sone che non cer­cano nem­meno più un lavoro, sono un milione e 850 mila, il 9% della popo­la­zione. Un eser­cito a dispo­si­zione delle mafie o della depres­sione. Secondo la Con­far­ti­gia­nato, la Cam­pa­nia è la regione d’Europa con il minor tasso d’occupazione: lavora appena il 39,9% degli abi­tanti. Infine, l’Istat ci dice che il 48% dei meri­dio­nali è a rischio povertà.

Si tratta di un’emergenza che dovrebbe pre­oc­cu­pare, e non poco, qual­siasi governo, non fosse altro per­ché una simile gigan­te­sca zavorra sta tra­sci­nando a fondo tutta l’Italia. Invece, l’annosa “que­stione meri­dio­nale” è con­se­gnata al peg­giore meri­dio­na­li­smo di ritorno, intriso di vit­ti­mi­smo e nostal­gie neo­bor­bo­ni­che, ran­cori anti-unitari fuori tempo mas­simo e miti infon­dati: ritorni di fiamma che Rizzo e Stella hanno il merito di demo­lire senza mezzi termini.

Come aveva già soste­nuto di recente lo sto­rico Fran­ce­sco Bar­ba­gallo in La que­stione ita­liana (Laterza edi­tore), i due autori riten­gono che quello meri­dio­nale sia un pro­blema nazio­nale, non fosse altro per­ché il gap tra le due parti del Paese ha ripreso a cre­scere a un ritmo inso­ste­ni­bile e che il male anche il Nord si meri­dio­na­lizza sem­pre più. Basta leg­gere il capi­tolo dedi­cato alla mafia a Milano: sono 26 i “locali” della ‘ndran­gheta cen­siti dalla Com­mis­sione anti­ma­fia, a livelli quasi cala­bresi. Eppure, il pro­blema non può essere solo eco­no­mico. Se è vero, come ci dice sem­pre Bar­ba­gallo, che dall’Unità d’Italia a oggi l’unico periodo in cui il diva­rio tra le due Ita­lie si è ridotto è stato quello del boom eco­no­mico a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, è altret­tanto vero, come ci spiega Vezio de Lucia nel suo Nella città dolente (Castel­vec­chi edi­tore), che è stato pro­prio in que­sto periodo che è comin­ciato il più grande sac­cheg­gio del ter­ri­to­rio che la sto­ria d’Italia abbia mai cono­sciuto, immor­ta­lato nel suo nascere da Fran­ce­sco Rosi in Le mani sulla città.

Il Sud è irri­me­dia­bil­mente per­duto, dun­que? Le pagine di Stella e Rizzo con­se­gnano al let­tore la sen­sa­zione che non ci sia molto in cui spe­rare: una classe poli­tica inetta e cor­rotta, un defi­cit di cul­tura demo­cra­tica che non si rie­sce a sanare, gro­vi­gli di clien­tele e affa­ri­smi dif­fi­cili da sbro­gliare. Nono­stante tutto, i due gior­na­li­sti non si iscri­vono al par­tito dei tagli: «Un paese serio avrebbe fatto di più per il Mez­zo­giorno», scri­vono. «Ci avrebbe inve­stito con impe­gno. In scuole, infra­strut­ture, strade, poli­ti­che gio­va­nili che des­sero sfogo alle intel­li­genze scin­til­lanti di tanti ragazzi del Sud. Ma nulla è stato peg­gio che lasciare ai poli­tici più spre­giu­di­cati, ai feu­da­tari della buro­cra­zia e ai capi­ba­stone mafiosi la gestione ricat­ta­to­ria, clien­te­lare ed elet­to­rale delle inden­nità per i tanti brac­cianti». È acca­duto invece che le menti migliori siano state costrette ad andar via e a lasciar campo libero a un sistema feu­dale, mafioso, con­trad­dit­to­rio nel suo pre­sen­tarsi come iper­mo­derno senza essere entrato a pieno nella moder­nità.

Ma si può ricon­durre tutto alle respon­sa­bi­lità delle sole classi diri­genti? Alla ceri­mo­nia di con­se­gna del pre­mio Vol­poni, lo scorso 30 novem­bre a Porto Sant’Elpidio nelle Mar­che, lo scrit­tore par­te­no­peo Ermanno Rea ha adom­brato la pos­si­bi­lità di una tara antro­po­lo­gica, già fatta risa­lire in La fab­brica dell’obbedienza, con l’aiuto di un grande filo­sofo napo­le­tano dell’800, Ber­trando Spa­venta, agli effetti dere­spon­sa­bi­liz­zanti della Con­tro­ri­forma cat­to­lica. «Il giorno in cui vedrò un napo­le­tano fer­marsi a un sema­foro alle 3 di mat­tina, con la strada sgom­bra, vorrà dire che gli ita­liani sono gua­riti», ha detto in quella occa­sione. Un altro grande scrit­tore par­te­no­peo, Raf­faele La Capria, in L’armonia per­duta se la prende con la «pic­cola bor­ghe­sia», dispo­sta a ogni com­pro­messo per paura di finire vit­tima della «rea­zione», come nella rivo­lu­zione man­cata del 1799.

Il fan­ta­sma di Fran­ce­sca Spada, la pro­ta­go­ni­sta di Mistero napo­le­tano di Ermanno Rea, ne La comu­ni­sta torna a Napoli per con­se­gnare allo scrit­tore il suo mes­sag­gio: il Mez­zo­giorno riu­scirà a sal­varsi solo se avrà «l’entusiasmo dell’impossibile», vale a dire la capa­cità di ripren­dere a imma­gi­nare un futuro, di costruire un’utopia. Rizzo e Stella, più con­cre­ta­mente, sosten­gono che il Sud si trova davanti a un bivio: pro­se­guire con il solito andazzo e morire. O rico­min­ciare. Tor­nando a sognare, dan­dosi degli obiet­tivi ambi­ziosi e pun­tando sui pro­pri figli migliori. Rom­pendo «le catene clien­te­lari con la più vec­chia, sca­dente e cor­rotta classe poli­tica del mondo occi­den­tale» e spez­zando quel patto scel­le­rato che ha con­sen­tito al peg­gior ceto diri­gente del Nord di accor­darsi, come scrisse Gae­tano Sal­ve­mini un secolo fa, con il peg­gior ceto diri­gente del Sud. Se così non acca­drà, a essere per­duta sarà tutta l’Italia. Oggi, come un secolo fa, si auspica una rivo­lu­zione che sia opera degli stessi meri­dio­nali. «Sarà que­sta», con­clu­deva Guido Dorso, «la vera rivoluzione».

l'immagine è di Franco Arminio
«Dietro a una parte delle reazioni eccessive contro il dibattito sulla disuguaglianza c’è il desiderio di alcuni grossi esperti di depoliticizzare il nostro discorso economico, di renderlo tecnocratico, non di parte. Ma questo è un sogno impossibile».

La Repubblica, 21 dicembre 2013
Il film di Oliver Stone, Wall Street, ritratto di plutocrati in ascesa secondo i quali l’avidità è un bene, è uscito nelle sale nel 1987. I politici, però, intimoriti da chi grida alla “lotta di classe”, hanno fatto il possibile per evitare di fare del sempre crescente divario tra i benestanti e il resto della popolazione una questione di primaria importanza.

Le cose, tuttavia, potrebbero cambiare. Possiamo anche parlare del significato della vittoria di Bill de Blasio nella corsa a sindaco di New York o della convalida da parte di Elizabeth Warren dell’espansione di Social Security. E resta ancora da vedere se la dichiarazione del presidente Barack Obama secondo cui la disuguaglianza è «la sfida che definisce la nostra epoca» si tradurrà in qualche cambiamento politico. In ogni caso, la discussione si è già spostata al punto da suscitare una reazione eccessiva da parte degli esperti che sostengono che la disuguaglianza non è poi chissà che grande problema.

Hanno torto. L’argomentazione migliore per dare alla disuguaglianza una bassa priorità è lo stato depresso dell’economia. Non è forse più importante ripristinare la crescita economica invece di preoccuparsi di come sono distribuiti gli utili della crescita? Beh, no. Prima di tutto, anche solo guardando all’impatto diretto che ha l’aumento delle disuguaglianze sulla classe media americana ci si accorge che di fatto esso crea davvero un grosso problema. Oltre a ciò, molto probabilmente la disuguaglianza ha rivestito un ruolo fondamentale nel provocare il caos economico nel quale ci ritroviamo, e ne ha rivestito uno cruciale nel nostro dimostrarci incapaci di mettere a posto le cose.

Ma partiamo dalle cifre. In media, gli americani oggi continuano a essere molto più poveri di quanto fossero prima della crisi economica. Per il 90 per cento delle famiglie che guadagnano meno, questo impoverimento riflette sia un restringimento della torta economica, sia una percentuale in calo di quella torta. Che cosa ha avuto maggiore importanza? La risposta, sbalorditiva, è che le due sono più o meno equivalenti. In altri termini, la disuguaglianza è aumentata così rapidamente negli ultimi sei anni da fungere da enorme peso morto per i redditi dei normali americani, tanto quanto una mediocre performance economica, anche se questi anni comprendono quelli della peggiore recessione economica che ci sia stata dagli anni Trenta.

Se poi si assume una prospettiva sul più lungo periodo, l’aumento della disuguaglianza sta diventando di gran lunga il singolo fattore più importante dietro alla stagnazione dei redditi della classe media.Oltre a ciò, se si cerca di comprendere sia la Grande Recessione sia la non così grande ripresa che le ha fatto seguito, gli impatti economici e soprattutto politici della disuguaglianza incombono minacciosi all’orizzonte.

È ormai comunemente riconosciuto che l’indebitamento in forte aumento dei nuclei famigliari ha contribuito a spianare la strada alla nostra crisi economica. Questa impennata del debito è coincisa con l’aumento della disuguaglianza, e i due fenomeni probabilmente sono correlati (sebbene ciò non sia inoppugnabile). Dopo che la crisi ha colpito, il continuo spostamento dei redditi dalla classe media verso una piccola élite è stato di ostacolo per la domanda dei consumatori, e di conseguenza la disuguaglianza è collegata sia alla crisi economica sia alla debolezza della ripresa che le ha fatto seguito.

Dal mio punto di vista, tuttavia, il ruolo veramente cruciale rivestito dalla disuguaglianza nella catastrofe economica è stato di natura politica.
Negli anni prima della crisi, a Washington prevaleva un notevole consenso bipartisan a favore della deregulation finanziaria, consenso non giustificato dalla teoria né dalla storia. Quando è subentrata la crisi, c’è stata una corsa a salvare le banche. Ma, non appena si è conclusa questa fase, si è affermato un nuovo consenso, che ha comportato di lasciar perdere la creazione di nuovi posti di lavoro e di concentrarsi sulla presunta minaccia derivante dai deficit di bilancio.

Che cosa hanno in comune i consensi pre-crisi e quelli post-crisi? Entrambi sono stati devastanti dal punto di vista economico: la deregulation ha contribuito a rendere possibile la crisi, e la precipitosa svolta verso l’austerità fiscale ha fatto più di qualsiasi altra cosa per intralciare la ripresa. Entrambi i consensi, tuttavia, corrispondevano agli interessi e ai pregiudizi di una élite economica la cui influenza politica è balzata alle stelle in parallelo con la sua ricchezza. Ciò diventa quanto mai chiaro se cerchiamo di capire perché Washington, nel bel mezzo di una crisi dell’occupazione che si protrae, per taluni aspetti è ormai ossessionata dalla presunta necessità di tagliare Social Security e Medicare. Questa ossessione non ha mai avuto senso, dal punto di vista economico: in un’economia depressa con tassi di interesse bassi quasi da record, il governo dovrebbe spendere di più e non di meno. Oltre a ciò un’epoca di disoccupazione di massa non è certo il momento più opportuno per concentrarsi sugli eventuali problemi fiscali nei quali ci imbatteremo a qualche decennio di distanza. L’attacco a questi programmi, per altro, non è avvenuto su richiesta dell’opinione pubblica.

I sondaggi condotti presso i soggetti molto facoltosi, tuttavia, hanno messo in evidenza che — a differenza dell’opinione pubblica in generale — essi considerano i deficit di bilancio una questione cruciale e sono favorevoli quindi a ingenti tagli nei programmi assistenziali e alle reti di sicurezza. Indubbiamente, le priorità di quelle élite hanno il sopravvento sul nostro discorso politico.

Ciò mi porta al mio punto finale. Dietro a una parte delle reazioni eccessive contro il dibattito sulla disuguaglianza credo che c’è il desiderio di alcuni grossi esperti di depoliticizzare il nostro discorso economico, di renderlo tecnocratico, non di parte. Ma questo è un sogno impossibile. La classe sociale e l’ineguaglianza finiranno sempre coll’influenzare — e distorcere — il dibattito perfino in relazione a quelle che possono apparire questioni puramente tecnocratiche. Il presidente, dunque, aveva ragione. La disuguaglianza è davvero la sfida che definisce la nostra epoca. Faremo qualcosa per raccogliere tale sfida e reagire adeguatamente?

(Traduzione di Anna Bissanti)

Il vero genio si fa riconoscere subito. Poi dicono che non è vero che il nuovo leader del maggior partito della "sinistra" italiana si chiami Renzusconi.

La Repubblica, 19 dicembre 2013
RIGUARDAVA un’iniziativa da organizzarsi il prima possibile a Lampedusa, dove accadono cose molto brutte, anche solo a vedersi. Con un po’ di sorpresa, e almeno pari sgomento, si è invece visto Renzi presentare il libro di Bruno Vespa. Insieme ad Angelino Alfano, nella Sala Santa Chiara, già sede della conferenza stampa di presentazione del Ncd, a due passi da Palazzo Chigi, Montecitorio e Senato, come dire nel pieno della Roma politica, o della Città Proibita, a volerla proprio considerare in tal modo.

Il fatto è che quasi mai i luoghi sono neutrali. Non solo, ma lo scenario nel quale il Rottamatore si è lasciato comodamente incastonare strideva parecchio con tanti suoi proclami dell’ultima e penultima ora, «Io non logoro, strappo», «vedrete che infilo un paio di botte », «occorre innescare un cambiamento rivoluzionario», «scardinare il loro sistema» e così via.

Tutto, in quella specie di bomboniera palatina, era in effetti allestito all’insegna dell’ecclesiologia cerimoniale di Vespa. Ben cinque copie del Libro dei libri, Sale, zucchero e caffè (Mondadori), geometricamente disseminate sul tavolo dei presentatori, trasmettevano il senso dell’ennesima consacrazione ridimensionando il peso di Renzi e Alfano. Alle loro spalle, il roseo fondale riverberava la copertina del bestseller e con enormi lettere il nome dell’autore; ma soprattutto la sacra icona del piccolo Vespa in bianco e nero, una specie di Gesù bambino para-istituzionale, incombeva sul capo dei ragazzoni della post-politica. Vestiti oltretutto allo stesso modo, cioè alla maniera del medesimo Vespa, che pure si distingueva - ah, potenza della futilità! - per una cravatta molto più shocking della loro.

E allora, osservandolo con quel pizzico di scetticismo che i vincitori accecati dal successo nemmeno mettono nel conto, faceva impressione vedere quel giovane, così attento all’antipolitica, così«a piedi tra la gente», o in bici, comunque senza scorta, accanirsi attorno alla più iniziatica e quindi incomprensibile ossessione di palazzo, i maledettissimi sistemi elettorali; e veniva da chiedersi: ma è lo stesso Renzi che nel gran torneo dell’utensileria simbolica contro il «cacciavite» di Letta voleva usare il «trapano»? Lo stesso del «caterpillar», del «finish», dell’«altrimenti ci arrabbiamo»?Vespa, al suo fianco, pareva così appagato di tale trasfigurazione da assumere una posa di trasognata immobilità. Né salvavano Renzi, che è un naturale e prodigioso primo della classe, le faccette e le sopportazioni dinanzi alle pignolerie di Alfano, né le attese battute («Battute a parte» è la premessa che ripete spesso); mentre dietro a quel gioco segreto di bigliettini scambiati sul tavolo si poteva di già anche cogliere uno - nemmeno il più sfolgorante - dei perenni archetipi del potere: noi sì, voi no.

Alla Leopolda, in un gran bel discorso, Alessandro Baricco evocò Holderlin: «Il futuro è un ritorno». Ma ecco che con il medesimo e rassegnato scetticismo di cui sopra questo verso si può storcere nel senso nella regolarità, anzi nella ineluttabilità con cui tutti o quasi gli homines novi, specie quelli che promettono sfracelli, finiscono per rispondere al richiamo di Vespa; e con ciò, per la gloria anche commerciale del pontefice della terza Camera, si ritrovano inesorabilmente conglobati in un modulo di rappresentazione, in un format di potere, in un insieme di premesse simboliche, e dunque omologati o meglio «vespizzati».Se ne può trovare conferma nella mesta sorte di Mario Monti, che proprio adagiandosi sulle bianche poltroncine di Porta a porta,su consiglio di qualche geniale stratega della comunicazione, cominciò a dissipare il suo patrimonio di serietà, prima che Bersani spargesse lacrime sul vecchio parroco di Bettola, e Berlusconi continuasse a risuscitare malati, firmare contratti, mostrare il Ponte di Messina e incantare serpenti su quel tronetto.

Per cui paradossalmente Renzi è tornato a essere se stesso solo quando, con evidente maleducazione, si è astratto dal soporifero dibattito e connettendosi altrove ha cominciato a testa bassa a scrivere sms, o forse erano tweet, comunque Vespa sembrava un po’ seccato, diamine, proprio adesso...

E non è questione di pretesa superiorità etica, né di radical-chic, o di «puzza sotto il naso», come dice anche giustamente Renzi. Quell’aria da «recita in famiglia», come la battezzò tanti anni fa Enzo Forcella, quel chiamarsi insistentemente e ipocritamente per nome, «Angelino», «Matteo»; quella domandina finale sull’abito grigio indossato al Quirinale, e la rispostina finto offesa del Rottamatore sui problemi dell’Italia, e la zampata ironico-condiscendente di Vespa, «Sa, noi giornalisti siamo così frivoli... «, e Renzi che vuole metterci l’ultima parola, «per questo vi vogliamo così bene».Vero. Ma sappia che la prossima tappa è il servizio di Chiconlui sorridente in famiglia che fa l’occhietto e lava i piatti, come un Alemanno qualsiasi.

A proposito dell’ultimo libro dello storico Guido Crainz,

Diario di un naufragio (Donzelli). Con la limpida narrazione di «un ventennio tra i fallimenti 
della sinistra e l’avanzata del populismo» arriva fino ai nostri giorni il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi. L’Unità, 18 dicembre 2013

La cronaca degli ultimi dieci anni potrebbe aprirsi sulla scena di piazza Navona, nel febbraio del 2002, quando con un colpo di teatro Nanni Moretti scosse una manifestazione dell’Ulivo al grido: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». Il Pd, sopravvissuto a quell’esperienza, sopravvissuto a sconfitte elettorali, vivendo i suoi momenti di gloria e le sue crisi identitarie, socialdemocratico, neoliberista, chissà che, ha dismesso quei dirigenti e ne sta, in questi giorni, cercando altri. Nuovi? Reduci della passata politica? Innovatori autentici? Viene in mente il titolo di un film del ’68 di Lina Wertmüller: Riusciranno i nostri eroi... Altra epoca e le epoche contano. Altra epoca di contraddizioni feroci, ma anche di slanci libertari, democratici (di una democrazia che cercava nella sua imperfezione una propria via alla partecipazione contro i legacci e i limiti istituzionali), riformatori (dal divorzio al diritto di famiglia, dallo statuto dei lavoratori alla 180), altra epoca che si smarrì nei gioiosi anni 80 e nel ventennio berlusconiano. Resta l’interrogativo: riusciranno i nostri eroi?

Le ultime righe della cronaca che Guido Crainz, storico (si leggano i tre volumi che compongono il ritratto dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, pubblicati da Donzelli), ricostruisce nel suo ultimo Diario di un naufragio (pagine 256, euro 19,50, Donzelli) mi sembrano attestino la difficoltà fino alla disperazione dell’impresa: eredità e detriti della stagione berlusconiana che gravano «come un macigno sulla nostra capacità politica di ricostruire il paese e di progettare». Ammettendo appunto che è impossibile ancora considerare per conclusa la «stagione berlusconiana»: conclusa, come si spera, magari sul terreno politico-elettorale, improbabile che lo sia sul piano della cultura profonda, del costume di un paese.

La critica al pd

Il «diario», il «giorno per giorno» di uno storico, cronista, commentatore, riguarda le forze politiche in campo, i loro comportamenti (in tutti i sensi, anche in quello che testimonia la progressione della corruttela, da Tangentopoli al Batman di Anagni, dalle tangenti di Craxi alle condanne di Berlusconi, mentre si vede crescere «la forbice fra i durissimi sacrifici imposti al paese e i perduranti privilegi e sperperi di un sistema politico travolto dagli scandali»), i loro fallimenti. Nella rappresentazione dei fallimenti, senza tregua è la critica al Pd, una insistenza polemica che si comprende da parte di chi sta a sinistra e di chi coltiva attese di cambiamento e di chi pensa o spera che ancora nel Pd vi siano le forze, l’intelligenza, la moralità su cui far leva per interrompere la discesa all’inferno (come sarebbe stato possibile scriveva Crainz proprio nei giorni delle ultime elezioni se il Pd avesse avuto anche il coraggio di una proposta radicale, di «una radicalità senza precedenti» nei contenuti programmatici e nell’alto e nuovo profilo del governo).

Ma nel Diario di un naufragio colpiscono altre note: non tanto quelle che ci restituiscono alcuni diversi frammenti di una storia dell’antipolitica che va, nel dopoguerra, dal qualunquismo di Giannini al «nullismo» di Grillo, quanto quelle che riferiscono di una partecipazione al voto che tocca nel dopoguerra tetti inusuali, anche in Europa, scavalcando l’asticella del 90 per cento e che declina a partire dalle regionali del 1980 fino a precipitare senza sosta sotto la soglia del 50 per cento. Di fronte all’Italia che vota c’è un’altra Italia, ugualmente consistente, tanto varia da diventare inafferrabile: delusa, scoraggiata, indifferente o estranea alla politica, perché semplicemente pensa ad altro, un’altra Italia dentro la quale si è inabissata quella società civile, che ai tempi del «grido» di Nanni Moretti aveva illuso di rappresentare la chiave di volta di una resurrezione-rigenerazione del paese. Sistema politico e società civile capita che si dividano con pari dedizione le spoglie di pochi valori sopravvissuti e il peso o il vantaggio di tanti peccati (cominciando da una diffusa disponibilità alla corruzione e all’obnubilamento mediatico, al torpore di fronte alle più gravi accuse, minori e prostituzione e persino alle condanne). Quando, in un miracoloso travaso, grazie ad esempio al tragico Grillo, la società civile non si è riversata nel sistema politico, dimostrando adattabilità e nessuna difficoltà ad apprendere. Come se la «mutazione», si fosse del tutto compiuta, senza scampo.

La malattia del belpaese
Il Diario di Crainz mi pare dimentichi alcune «voci» nel repertorio dei protagonisti del naufragio, intanto gli intellettuali (un tramonto e basta) e poi la stampa italiana, pesantemente, malinconicamente in deficit di fronte a una missione che le spetterebbe per definizione: informare sullo stato del paese, sulle varie forme, politiche e sociali, in cui la malattia si manifesta, tralasciare le scritture consolatorie quando i buoi scappano, ignorare gli amori di Dudù per la barboncina bianca di Palazzo Grazioli quando in «terra dei fuochi» i bambini muoiono di cancro. Restituire davvero al Belpaese Benpensante l’immagine della tragedia che incombe, naufragio, terremoto, frana, allagamento o veleno, per mare e terra, politica e morale, immagine da fine del mondo. Non ci rimarrebbe una speranza in più se almeno un foglio, dalle tirature potenti, avesse rivendicato autonomia di fronte ai suoi padroni, avesse alzato qualche velo, sostenuto qualche battaglia (magari per difendere il semplice principio che la legge è uguale per tutti)?

La Sinistra europea,l’organizzazione che rag­gruppa la mag­gio­ranza delle forze comu­ni­ste e rosso-verdi del Vec­chio con­ti­nente, ha un candidato per le elezioni del presidente della Commissione europea.

Il manifesto, 18 dicembre 2013

Il dado è tratto. Dall’altro ieri il par­tito della Sini­stra euro­pea (Se) ha un can­di­dato alla pre­si­denza della Com­mis­sione euro­pea: il 39enne lea­der della greca Syriza, Ale­xis Tsi­pras. L’organizzazione che rag­gruppa la mag­gio­ranza delle forze comu­ni­ste e rosso-verdi del Vec­chio con­ti­nente ha chiuso dome­nica il pro­prio con­gresso a Madrid, indi­vi­duando nel poli­tico elle­nico la figura che dovrà con­durla nella sfida elet­to­rale del pros­simo mag­gio. La scelta della Se – che segue quella del Par­tito socia­li­sta euro­peo (Pse), che ha desi­gnato il tede­sco Mar­tin Schulz – è impor­tante, per­ché aiuta a dare un signi­fi­cato dav­vero «euro­peo» all’appuntamento elet­to­rale di primavera.

In realtà, a mag­gio i cit­ta­dini non eleg­ge­ranno diret­ta­mente il suc­ces­sore del con­ser­va­tore por­to­ghese José Manuel Bar­roso: le norme «costi­tu­zio­nali» dell’Unione euro­pea non pre­ve­dono un sistema pre­si­den­ziale. Il numero uno della com­mis­sione – l’esecutivo dell’Ue – è scelto dai capi di governo riu­niti nel con­si­glio euro­peo, che devono obbli­ga­to­ria­mente tenere conto delle ele­zioni del par­la­mento euro­peo. L’eurocamera di Stra­sburgo ha un ruolo non secon­da­rio, per­ché detiene un potere d’investitura: se non con­vince la mag­gio­ranza asso­luta dei depu­tati euro­pei, il pre­si­dente inca­ri­cato dai lea­der nazio­nali deve farsi da parte, e si rico­min­cia da capo. Almeno poten­zial­mente, si tratta di rela­zioni poli­ti­che non così lon­tane da quelle vigenti in una (pur imper­fetta) demo­cra­zia rappresentativa.

Natu­ral­mente, oltre al pre­si­dente ci sono i sin­goli com­mis­sari (i «mini­stri» della Ue), che ven­gono desi­gnati da cia­scun governo nazio­nale: una pro­ce­dura che di fatto impe­di­sce che la com­mis­sione di Bru­xel­les sia poli­ti­ca­mente omo­ge­nea. L’europarlamento ha comun­que un’ulteriore carta da gio­care, per­ché deve con­ce­dere la «fidu­cia» anche alla com­mis­sione nel suo con­giunto: nel caso in cui la sua com­po­si­zione fosse pale­se­mente in con­tra­sto con l’indirizzo poli­tico emerso dalle urne, i depu­tati di Stra­sburgo potreb­bero negargliela.

Den­tro que­sta com­plessa archi­tet­tura isti­tu­zio­nale, lo spa­zio per un’autentica lotta poli­tica è cer­ta­mente molto ridotto, ma la Se appare inten­zio­nata ad occu­parlo. Dalla tri­buna del con­gresso di Madrid il lea­der di Syriza ha sot­to­li­neato la dop­pia sfida che attende la Se: lot­tare con­tro le poli­ti­che di auste­rità, «minac­cia per i popoli d’Europa», e con­tro l’estrema destra, «un peri­colo per la demo­cra­zia». Pro­prio secondo l’esempio della Gre­cia, dove la for­ma­zione di Tsi­pras con­tra­sta sia il governo di «grande coa­li­zione» fra i con­ser­va­tori del pre­mier Anto­nis Sama­ras e i socia­li­sti, sia i neo­na­zi­sti di Alba dorata. Fra le idee-forza della Se, il neo­can­di­dato ha ricor­dato la tra­sfor­ma­zione della Banca cen­trale di Fran­co­forte in un pre­sta­tore di ultima istanza per gli stati Ue (come le nor­mali ban­che cen­trali), la lotta con­tro l’elusione fiscale, un «new deal» per com­bat­tere la disoc­cu­pa­zione e una diversa gestione della crisi dei debiti sovrani. Nella piat­ta­forma finale votata dai dele­gati com­pa­iono anche il «no» al Trat­tato di libero scam­bio Ue-Usa e alla pri­va­tiz­za­zione delle risorse natu­rali, e l’introduzione del diritto al refe­ren­dum su scala europea.

Men­tre la nomina di Tsi­pras non ha incon­trato osta­coli, la rie­le­zione alla pre­si­denza della Se del fran­cese Pierre Lau­rent (segre­ta­rio del Pcf) ha sca­te­nato malu­mori interni. Dovuti a que­stioni che di euro­peo hanno pochis­simo, essendo tutte interne alla sini­stra tran­sal­pina: il Par­tie de gau­che dell’ex can­di­dato pre­si­den­ziale Jean-Luc Mélen­chon ha annun­ciato la pro­pria auto­so­spen­sione dall’organizzazione con­ti­nen­tale in pole­mica con la ricon­ferma di Lau­rent. Motivo: il Pcf e il movi­mento di Mélen­chon sono ai ferri corti per le muni­ci­pali del pros­simo marzo, causa l’alleanza dei comu­ni­sti con i socia­li­sti del pre­si­dente Hol­lande. Un «effetto col­la­te­rale» delle assise di Madrid, che rischia di ren­dere arduo il cam­mino della Se in uno stato-chiave come la Fran­cia. Come se già non bastasse, a com­pli­care la mis­sione di Tsi­pras, la debo­lezza strut­tu­rale della Se nei Paesi dell’Europa centro-orientale, dove, con la sola ecce­zione della Repub­blica ceca, rac­co­glie per­cen­tuali da pre­fisso tele­fo­nico o è com­ple­ta­mente assente. Senza dimen­ti­care, ovvia­mente, l’Italia, dove la lista col­le­gata alla Se dovrà fare i conti con lo sbar­ra­mento al 4%.

Per giustificare il degrado del territorio, della società e della politica proclamano: "E' l'Europa che lo chiede". Guardate un po' quale Europa. Ne vogliamo un'altra.

L'Unità, 18 dicembre 2013

Al Parlamento europeo i funzionari della troika di Ue, Fmi e Bce che gestiscono i programmi di salvataggio dei Paesi euro in difficoltà sono finiti sul banco degli imputati. Non hanno valutato le conseguenze sociali delle misure imposte, ha scritto l'eurodeputato socialista spagnolo Alejandro Cercas in una relazione presentata ieri. In questi giorni inoltre iniziano ad arrivare i risultati di un'inchiesta condotta da diversi media europei sulle consulenze milionarie pagate ad un ristretto gruppo di note agenzie internazio- nali, le stesse che hanno contribuito a provocare la crisi internazionale con la finanza creativa dei derivati.

Da parte loro i funzionari della troika temono di diventare il capro espiatorio da dare in pasto ai cittadini infuriati in vista delle elezioni europee, anche se i veri disastri li hanno combinati i governi dei Paesi in crisi, ma il lavoro degli economisti super specializzati di Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale è sempre più aspramente criticato, perfino dalle loro stesse istituzioni.

Il costo dei salvataggi

Eppure all'inizio le intenzioni erano buone. Nonostante l'euro sia nato con la regola che ogni Stato membro è responsabile del proprio bilancio, il principio del «no-bail out», dal 2010 in poi diversi Paesi sono stati salvati dalla bancarotta grazie miliardi di euro di aiuti economici, per la maggioranza tedeschi, in cambio di risanamento dei conti e riforme. I funzionari delle tre istituzioni sono stati chiamati quindi a stilare i programmi e a verificarne l'applicazione. A maggio 2010 è stato varato il programma di salvataggio della Grecia, a dicembre è toccato all' Irlanda, a maggio 2011 al Portogallo e a giugno di quest'anno a Cipro. I programmi, soprattutto in Irlanda e in Portogallo, sono riusciti a riportare i parametri economici in linea con gli obiettivi e nessuno dubita che senza gli aiuti europei i cittadini dei quattro Paesi se la sarebbero passata peggio, ma la conseguenze sociali delle misure imposte sono state comunque catastrofiche e ora sono in molti a prendere le distanze dalla filosofia di quegli interventi.

I primi sono stati gli economisti del Fmi, che hanno ammesso che fare troppi tagli di bilancio con una recessione globale in corso ha effetti più nocivi del previsto. Poi a novembre il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, ha pubblicato un articolo sul quotidiano greco To Vima e ha ammesso esplicitamente che «la troika ha fatto più danni che bene».

Sempre a novembre il Parlamento europeo ha avviato un'inchiesta basata su questionari e audizioni. Ieri l'eurodeputato Cercas, portavoce del gruppo dei Socialisti & Democratici per le questioni sociali, ha deplorato la «completa marginalizzazione» dell' Assemblea di Strasburgo e ha sottolineato che i programmi «sono stati disegnati senza alcuna stima» delle conseguenze sociali e senza fare valutazioni di impatto o consultare i vari organi specializzati dell'Ue.

Un disastro sociale

Il risultato è stato «il record storico di distruzione di occupazione e precarizzazione delle condizioni di lavoro». I gruppi più vulnerabili, donne e immigrati, sono stati quelli colpiti più duramente mentre la disoccupazione giovanile farà sentire i sui effetti a lungo nel Vecchio Continente. Inoltre molte delle misure imposte, come tagli a pensioni, servizi di base e sanità, hanno aumentato la povertà, anche quella dei minori, e peggiorato il dialogo sociale.

Alle accuse degli eurodeputati si aggiungono poi le notizie che arrivano dalla stampa internazionale che ha avviato varie inchieste sul lavoro della troika. Il sito EuObserver ricorda che tutti i programmi di salvataggio sono stati stilati con l'aiuto di poche società di consulenza «indipendenti» (Alvarez and Marsal, BlackRock, Oliver Wyman e Pimco) pagate in totale 80 milioni di euro. Alcune di queste sono in palese conflitto di interesse perché gestiscono gli stessi fondi di investimento che speculano sui debiti degli Stati e utilizzano in subappalto sempre le stesse quattro grandi agenzie mondiali di certificazione e consulenza (Deloitte, Ernst&Young, Kpmg and Price Waterhouse Coopers). Gli incarichi inoltre sono distribuiti senza gare di appalto trasparenti.

Il risultato, ha spiegato al sito Richard Boyd Barrett, un deputato della sinistra irlandese, è che i consulenti «sono parte dello stesso circolo dorato di banchieri e funzionari che ha provocato la crisi».

«Si assi­ste allo svuo­ta­mento pro­gres­sivo delle forme rap­pre­sen­ta­tive della nostra demo­cra­zia costi­tu­zio­nale. Ma quanto può soprav­vi­vere una demo­cra­zia senza un Par­la­mento?».

Il manifesto, 16 dicembre 2013

Cos’altro deve suc­ce­dere prima che ci si ponga seria­mente il pro­blema del ruolo del Par­la­mento? In que­sta legi­sla­tura è esplosa — nel disin­te­resse dei più — la sua crisi. Un organo par­la­men­tare impo­tente, inca­pace di assol­vere alle sue essen­ziali fun­zioni costi­tu­zio­nali.Prima il pastic­ciac­cio brutto dell’elezione del capo dello Stato, che si è con­cluso con un fatto mai acca­duto in pre­ce­denza: la rie­le­zione per un nuovo set­ten­nato del vec­chio Pre­si­dente. Non può stu­pire più di tanto allora il raf­for­za­mento del potere del capo dello Stato di fronte al vuoto deci­sio­nale del Parlamento.

In seguito la vicenda della for­ma­zione del governo delle lar­ghe intese. Sul piano isti­tu­zio­nale l’effetto prin­ci­pale è stato quello di ren­dere l’esecutivo l’unico tito­lare della fun­zione di indi­rizzo poli­tico e di ren­dere super­fluo — anzi inop­por­tuno — il con­fronto par­la­men­tare. Una volta defi­nito l’accordo in sede gover­na­tiva, esso non può certo essere rine­go­ziato in Par­la­mento.

Rimane un’unica pos­si­bi­lità alle Camere: quella di non fare. Le ragioni dell’immobilismo par­la­men­tare sono diverse e com­plesse, ma è evi­dente che un organo che può, nei fatti, eser­ci­tare solo un potere di veto, prima o poi sarà sopraf­fatto. E così è avve­nuto. Nel caso della legge elet­to­rale, impan­ta­nata nella discus­sione par­la­men­tare e para­liz­zata dagli inte­ressi con­trap­po­sti dei vari par­titi e movi­menti poli­tici pre­senti in Par­la­mento, inca­paci di giun­gere a una sin­tesi; alla fine s’è tro­vata una solu­zione con la pro­nun­cia della Corte costi­tu­zio­nale. Un inter­vento assai oppor­tuno, reso neces­sa­rio dall’inerzia del legi­sla­tore e dalla palese lesione della lega­lità costi­tu­zio­nale. Ora, in molti appa­iono risen­titi della deci­sione del giu­dice delle leggi, ma fareb­bero meglio a inter­ro­garsi sul com’è potuto avve­nire che un Par­la­mento non fosse in grado nep­pure di defi­nire le pro­prie regole costi­tu­tive.
Da ultimo, la legge sul finan­zia­mento ai par­titi poli­tici. Una legge che — a fatica — era in discus­sione al Senato e aveva già pas­sato il vaglio della Camera. La que­stione del finan­zia­mento delle for­ma­zioni poli­ti­che è, in verità, assai con­tro­versa, e dun­que sarebbe stato utile, per giun­gere a un com­pro­messo tra le diverse con­ce­zioni, un con­fronto, anche acceso, in seno all’organo della rap­pre­sen­tanza. E invece la debo­lezza del Par­la­mento, tanto più su un tema così sen­si­bile, ha reso pos­si­bile al Governo, di inter­ve­nire in sua vece.
Non sem­bra che il Par­la­mento abbia gran­ché pro­te­stato per que­sto inter­vento sosti­tu­tivo del governo. Eppure ne avrebbe avuto motivo. Avrebbe infatti dovuto riven­di­care il pro­prio potere e ricor­dare che il governo, in assenza di una delega del Par­la­mento, può ema­nare decreti aventi valore di legge, solo «in casi straor­di­nari di neces­sità e d’urgenza». Avrebbe almeno dovuto chie­dere quale fosse l’urgenza di inter­ve­nire anti­ci­pando la discus­sione già pre­vi­sta al Senato. Non lo ha fatto, e forse se ne intui­sce la ragione: per timore di vedersi rispon­dere che l’«urgenza» era det­tata dall’«impotenza» del Par­la­mento.
Un Par­la­mento preso a schiaffi. Che lascia il passo agli altri poteri (dal Pre­si­dente della Repub­blica al governo, pas­sando per la Corte costi­tu­zio­nale), ma inca­pace di rea­gire. A volte addi­rit­tura sol­le­vato dalla sup­plenza di altri organi, che ese­guono il lavoro “sporco” al quale esso è isti­tu­zio­nal­mente pre­po­sto, ma che non rie­sce più a svol­gere.
Ed è così, mesta­mente, che si assi­ste allo svuo­ta­mento pro­gres­sivo delle forme rap­pre­sen­ta­tive della nostra demo­cra­zia costi­tu­zio­nale. Ma quanto può soprav­vi­vere una demo­cra­zia senza un Par­la­mento?
Distratti dal chiac­chie­ric­cio e dalla lotta per con­qui­stare un posto al sole da parte del nuovo esta­blish­ment, si rischia di non vedere il peri­colo più grande: la dege­ne­ra­zione del parlamentarismo.

«Renzi è il prodotto del fallimento di una classe dirigente proveniente dal Pci e in parte dalla Dc, che non è stata in grado di praticare un progetto per l’Italia e per l’Europa nella fase della globalizzazione capitalistica, e nel pieno di una crisi che scuote dai fondamenti la civiltà occidentale modellata sul paradigma del liberismo finanziario». FondazionePintor.net, dicembre 2013

Occorrerà tornare con attenzione sul significato e sulle conseguenze della clamorosa scalata di Matteo Renzi al vertice del Pd attraverso il plebiscito delle primarie. Intanto però una cosa è certa. Renzi è senza dubbio il prodotto del fallimento di una classe dirigente proveniente dal Pci e in parte dalla Dc, che non è stata in grado di costruire e di praticare un progetto per l’Italia e per l’Europa nella fase della globalizzazione capitalistica, e nel pieno di una crisi che scuote dai fondamenti la civiltà occidentale, modellata sul paradigma del liberismo finanziario americano.
Ma il nuovo segretario fiorentino è anche un frutto maturo della Bolognina, quando Occhetto sciolse il Pci tagliando le radici del movimento operaio e cancellando un’intera esperienza storico-politica su cui si è costruita la Repubblica democratica. Cosicché, invece di rinnovare la sinistra e di promuovere innovazione, ha prodotto subalternità alla cultura liberista e ai poteri dominanti nell’economia e nella società, separando le nuove forme della politica dalla base operaia e popolare, abbandonata alla deriva senza rappresentanza e rappresentazione. Non è difficile vedere che tra i due fenomeni vi è un intreccio.
Come un lampo che illumina la scena, Reichlin ha dato un giudizio da tenere sempre a mente, e che non mi stanco di ripetere: “abbiamo confuso il liberismo con il riformismo”. È la dichiarazione esplicita della subalternità del Pd, che nella mutazione genetica che lo ha allontanato anche dalla socialdemocrazia e persino dalla sinistra - come testimonia il nome stesso - ha generato una crisi di rappresentanza oggi diventata esplosiva e un modo di fare politica, capovolto nelle sue finalità, che con il Pci nulla ha a che fare. Non per caso Occhetto ha dichiarato al Mattino che Renzi è un suo legittimo erede.
Almeno fino a Berlinguer, il Pci si proponeva di trasformare la società sulla via costituzionale della democrazia, dell’uguaglianza e della libertà, e dell’accesso della classe lavoratrice alla direzione dello Stato. Quelli che a torto si sono dichiarati suoi eredi, da Occhetto a D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, avevano l’obiettivo massimo di amministrare quel che passa il convento, senza alcun disegno strategico alternativo. Ma neanche questo sono stati capaci di fare, e alla fine sono apparsi come gli immobili conservatori dello statu quo.
Ora, di fronte a un dato di fatto inoppugnabile, e alla cancellazione del Pci dal sistema politico da più di vent’anni, che senso ha presentare da più parti, con grande frastuono di tromboni e di trombette, la vittoria di Renzi come una resa dei conti definitiva con i comunisti? Evidentemente, non si tratta di un semplice fraintendimento, e neppure della constatazione ovvia che il vincitore proviene dalla componente ex Dc, o che l’appeal di D’Alema è sceso sotto i tacchi. C’è qualcosa di più profondo che muove la classe dirigente del capitalismo italiano e i media ad essa connessi, di cui occorre indagare le motivazioni e le finalità. Non mi riferisco solo al fatto che le Tv e la stampa dominante - a cominciare da la Repubblica nonostante l’avverso parere di Scalfari - hanno spinto in tutti i modi il compulsivo pifferaio di Firenze. In tanti acclamano Renzi come il nuovo eroe che schiaccia l’idra del comunismo. È una novità che dà da pensare, soprattutto se viene interpretata come un’indicazione programmatica per il presente e per il futuro. Qualche esempio ci aiuta a capire. “Il Pci non esiste più”. Con le primarie del Pd “si è consumato un evento epocale per la politica italiana: finalmente è stato chiuso il Pci”, annuncia trionfante in prima pagina il Giornale diretto dal condannato e graziato Salustri. Quindi, viva Berlusconi (anche lui condannato ma non graziato), che finalmente con il sindaco fiorentino ha debellato il suo nemico storico. Davvero un risultato epocale.
Anche il Corriere della sera applaude per il felice decesso, ma con i necessari distinguo, come si addice a un celebrato serbatoio del pensiero della borghesia una volta illuminata. Il Pci morto e sepolto? Non proprio, sottilizza il prof. Panebianco, a quanto pare esperto anche in necrologia: meglio dire “forse agonizzante”. Sebbene lui, in tutta sincerità, preferirebbe scolpire un bell’epitaffio sulla tomba del morente. Ma per giungere a questo esito, precisa il politologo-necrologo, Renzi deve agguantare “l’ oro del Pci”. Che non è il famoso oro di Mosca, bensì il patrimonio immobiliare del vecchio partito, ossia le sedi dei circoli e le case del popolo costruite con le mani e con il cuore da milioni di donne e di uomini. In tal modo il becchino del Pci dovrebbe prosperare con il patrimonio di chi il Pci l’ha costruito.
Se le parole hanno un senso, questa sarebbe a dir poco appropriazione indebita. Comunque, una bella lezione di moralità politica, messa a punto da un addottorato ed esperto professore. Le variazioni sul tema sono infinite, essendo il Corriere ricco di benpensanti teste anticomuniste, a cominciare dal capostipite Mieli. Così, se Battista è contento perché il noto pensatore e scienziato della politica Oscar Farinetti prende il posto di Enrico Berlinguer, e Di Vico ci spiega che la strumentalizzazione del movimento dei forconi altro non è se non “la vecchia tattica del Pci di contrapporre simbolicamente Paese legale e Paese reale”, un Cazzullo di giornata tira le somme: “sembra dissolversi una volta per tutte il mito del comunismo italiano, per cui un’ideologia criminale diventava per l’élite della penisola giusta o comunque nobile”.
Quando la storia ha tanti buchi come un colabrodo, fa brutti scherzi. E allora ci si dimentica che il Pci in Italia, per quanti errori possa aver commesso, ha sempre combattuto per la democrazia e la libertà, per i diritti dei lavoratori e per l’uguaglianza sostanziale; che in Italia i comunisti non hanno incarcerato nessuno, al contrario il loro capo Antonio Gramsci è stato fatto morire in carcere dal fascismo; che non hanno attentato alla vita dei loro avversari politici, al contrario Palmiro Togliatti ha subito un attentato che lo ha ridotto in fin di vita. Non sono stati i comunisti italiani a incendiare le Camere del lavoro, e dopo la Liberazione a sparare contro i contadini a Portella della Ginestra e gli operai a Reggio Emilia. O a organizzare trame eversive e il terrorismo, messo in atto fino alla esecuzione dell’operaio comunista Guido Rossa, proprio per impedire che i comunisti potessero governare e cambiare l’Italia secondo i principi della democrazia costituzionale. Diciamolo con chiarezza, senza tema di smentite.
Tutte le principali conquiste sociali, civili e politiche ottenute in Italia a cominciare dalla Costituzione - che oggi si vorrebbero rovesciare nel loro contrario - non sarebbero state possibili senza la presenza e lotta dei comunisti. Il Pci ha dato dignità, rappresentanza e forza politica agli operai, ai lavoratori “del braccio e della mente”, alle donne, ai giovani e anche agli anziani: a tutti coloro che deprivati del potere economico e politico hanno lottato per un avanzamento di civiltà costruendo un vasto sistema di alleanze.
Oggi, di fronte a una crisi e a politiche regressive che distruggono la vita di tante persone e l’intero ambiente in cui la vita si riproduce, le parole di Enrico Berlinguer ci appaiono di sconcertante attualità: “La difesa del potere d’acquisto dei salari per il sindacato costituisce un dovere istituzionale, mancando al quale esso sparirebbe, e per il nostro partito, per noi comunisti, costituisce un vincolo indispensabile per qualificare un nuovo tipo di sviluppo generale dell’economia italiana”. Per lui era chiaro che bisognasse aprire la strada a una civiltà più avanzata nel cuore dell’Europa, che superasse il modo di produzione capitalistico fondato sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’emarginazione di strati sempre più ampi di popolazione, liberando nel contempo lo Stato dall’occupazione dei partiti e combattendo i privilegi ovunque annidati. Tanto più che in mancanza di un’alternativa al potere della classe dominante la democrazia degrada e si corrompe, convertendosi in oligarchia. E la barbarie è alle porte. Un tema che oggettivamente si ripropone oggi, sebbene sia stato cancellato dal sistema politico il soggetto della trasformazione, e il lavoro, frantumato e diviso, non abbia alcun peso nella configurazione della politica. Mentre nella società monta il malessere, il disincanto e la rabbia che non trovano sbocchi, e affiorano qua e là pessimi segnali di squadrismo fascista. Sotto la dittatura del capitalismo finanziarizzato globale, che intende sostituire alla centralità del lavoro la centralità dell’impresa in ogni ambito della vita, stiamo andando verso una regressione storica.
Una Restaurazione, che però non è un semplice ritorno al passato, giacché la dittatura del capitale ha bisogno in Italia di una cospicua modernizzazione che elimini vaste sacche di parassitismo e di inefficienze del sistema, e di una controriforma istituzionale verso il decisionismo presidenzialista. Ma che più in generale, per realizzarsi compiutamente, deve impiantare una sofisticata costruzione ideologica, che cancelli la discriminante di classe tra capitale e lavoro, e dunque anche nell’immaginario sopprima la sua antitesi. Vale a dire le lavoratrici e i lavoratori postfordisti del nostro tempo, figli della rivoluzione digitale e scientifica, politicamente organizzati come soggetto libero e autonomo. Il lavoro che si organizza e si rappresenta in forma politica nella sua libertà e autonomia: è questa fondamentale conquista storica del Novecento che vogliono definitivamente eliminare in Italia e in Europa, senza il rischio di possibili ricadute e riviviscenze. Insomma, una sepoltura tombale per l’eternità.
Precisamente a questo scopo serve l’abbattimento della Costituzione, pericoloso riferimento ideale e simbolico, oltre che progetto di un possibile cambiamento. E poiché i comunisti italiani sono quelli che più si sono avvicinati a una trasformazione in senso socialista di una società capitalisticamente avanzata per una via democratica e costituzionale diversa dal modello sovietico e dalla socialdemocrazia, questo spiega il rigurgito di anticomunismo postdatato ma anche preventivo e a futura memoria, specificatamente italiano e non solo berlusconiano, che è stato rilanciato in occasione del plebiscito per Renzi. Dei comunisti italiani va cancellata dunque la storia e anche la memoria: perché a nessuno venga in mente che ci si possa organizzare e lottare in forme democratiche e di massa per un sistema economico diverso e per una società solidale di diversamente uguali, in cui il massimo profitto non sia la stella polare e l’economia venga posta al servizio dell’uomo e non viceversa, e in cui buongiorno voglia dire davvero buongiorno. Quello che ci fanno sapere, a scanso di equivoci risuscitando la gogna anticomunista, è che dal capitalismo non si può uscire, e che questa società ingiusta e insostenibile non si può rovesciare. Non solo: il governo - ci dicono - è cosa nostra, di noi che stiamo sopra. Voi che state sotto non avete voce in capitolo, e lì dovete restare. Questa è la sostanza. E queste sono le questioni di fondo che emergono dopo la mirabolante ascensione del segretario fiorentino.

«Sarebbe una scia­gura – peg­gio, un delitto – rega­lare ai cen­tu­rioni delle destre sociali il mono­po­lio della comu­ni­ca­zione con que­sto mondo e la pos­si­bi­lità di quo­tarne i (cat­tivi) sen­ti­menti alla pro­pria borsa».

Il manifesto, 13 dicembre 2013

Torino è stata l’epicentro della cosid­detta “rivolta dei for­coni”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cer­carla, la rivolta, per­ché come diceva il pro­ta­go­ni­sta di un vec­chio film, degli anni ’70, ambien­tato al tempo della rivo­lu­zione fran­cese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene, devo dirlo sin­ce­ra­mente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sem­brata una massa di fasci­sti. E nem­meno di tep­pi­sti di qual­che clan spor­tivo. E nem­meno di mafiosi o camor­ri­sti, o di eva­sori impu­niti.
La prima impres­sione, super­fi­ciale, epi­der­mica, fisio­gno­mica – il colore e la fog­gia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muo­versi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impo­ve­riti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprat­tutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impo­ve­rito: gli inde­bi­tati, gli eso­dati, i fal­liti o sull’orlo del fal­li­mento, pic­coli com­mer­cianti stran­go­lati dalle ingiun­zioni a rien­trare dallo sco­perto, o già costretti alla chiu­sura, arti­giani con le car­telle di equi­ta­lia e il fido tagliato, auto­tra­spor­ta­tori, “padron­cini”, con l’assicurazione in sca­denza e senza i soldi per pagarla, disoc­cu­pati di lungo o di breve corso, ex mura­tori, ex mano­vali, ex impie­gati, ex magaz­zi­nieri, ex tito­lari di par­tite iva dive­nute inso­ste­ni­bili, pre­cari non rin­no­vati per la riforma For­nero, lavo­ra­tori a ter­mine senza più ter­mini, espulsi dai can­tieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.


Le fasce mar­gi­nali di ogni cate­go­ria pro­dut­tiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sot­tili, oggi in rapida, forse ver­ti­gi­nosa espan­sione… Intorno, la piazza a cer­chio, con tutti i negozi chiusi, le ser­rande abbas­sate a fare un muro gri­gio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloc­cate da un fil­tro non asfis­siante ma suf­fi­ciente a gene­rare disa­gio, anch’essa presa dai pro­pri pro­blemi, a guar­darli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un fune­rale. E si pensa «potrebbe toc­care a me…». Loro alza­vano il pol­lice – non l’indice, il pol­lice – come a dire «ci siamo ancora», dalle mac­chine qual­cuno rispon­deva con lo stesso gesto, e un sor­riso mesto come a chie­dere «fino a quando?».

Altra comu­ni­ca­zione non c’era: la “piat­ta­forma”, potremmo dire, il comun deno­mi­na­tore che li univa era esi­lis­simo, ridotto all’osso. L’unico volan­tino che mostra­vano diceva «Siamo ITALIANI», a carat­teri cubi­tali, «Fer­miamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripe­te­vano era: «Non ce la fac­ciamo più». Ecco, se un dato socio­lo­gico comu­ni­ca­vano era que­sto: erano quelli che non ce la fanno più. Ete­ro­ge­nei in tutto, folla soli­ta­ria per costi­tu­zione mate­riale, ma acco­mu­nati da quell’unico, ter­mi­nale stato di emer­genza. E da una visce­rale, pro­fonda, costi­tu­tiva, antro­po­lo­gica estraneità/ostilità alla poli­tica.
Non erano una scheg­gia di mondo poli­tico viru­len­tiz­zata. Erano un pezzo di società disgre­gata. E sarebbe un errore imper­do­na­bile liqui­dare tutto que­sto come pro­dotto di una destra gol­pi­sta o di un popu­li­smo radi­cale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squa­dre. E i cul­tori della vio­lenza per voca­zione, o per fru­stra­zione per­so­nale o sociale. C’era di tutto, per­ché quando un con­te­ni­tore sociale si rompe e lascia fuo­riu­scire il pro­prio liquido infiam­ma­bile, gli incen­diari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra che spiega il feno­meno. Non s’innesca così una mobi­li­ta­zione tanto ampia, diver­si­fi­cata, mul­ti­forme come quella che si è vista Torino. La domanda vera è chie­dersi per­ché pro­prio qui si è mate­ria­liz­zato que­sto “popolo” fino a ieri invi­si­bile. E una pro­te­sta altrove pun­ti­forme e selet­tiva ha assunto carat­tere di massa…

Per­ché Torino è stata la “capi­tale dei for­coni”? Intanto per­ché qui già esi­steva un nucleo coeso – gli ambu­lanti di Parta Palazzo, i cosid­detti “mer­ca­tali”, in agi­ta­zione da tempo – che ha fun­zio­nato come prin­ci­pio orga­niz­za­tivo e deto­na­tore della pro­te­sta, in grado di rami­fi­carla e pro­muo­verla capil­lar­mente. Ma soprat­tutto per­ché Torino è la città più impo­ve­rita del Nord. Quella in cui la discon­ti­nuità pro­dotta dalla crisi è stata più vio­lenta. Par­lano le cifre.

Con i suoi quasi 4000 prov­ve­di­menti ese­cu­tivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno pre­ce­dente, uno ogni 360 abi­tanti come cer­ti­fica il Mini­stero), Torino è stata defi­nita la “capi­tale degli sfratti”. Per la mag­gior parte dovuti a “moro­sità incol­pe­vole”, il caso cioè che si veri­fica «quando, in seguito alla per­dita del lavoro o alla chiu­sura di un’attività, l’inquilino non può più per­met­tersi di pagare l’affitto». E altri 1000 si pre­an­nun­ciano, come ha denun­ciato il vescovo Nosi­glia, per gli inqui­lini delle case popo­lari che hanno rice­vuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro men­sili impo­sti da una recente legge regio­nale anche a chi è clas­si­fi­cato “incol­pe­vole” e che non se lo pos­sono per­met­tere.
“Maglia nera” anche per le atti­vità com­mer­ciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esi­stenti, 15 al giorno) in città, e 626 in pro­vin­cia (di cui 344 tra bar e risto­ranti). E’ l’ultima sta­ti­stica dispo­ni­bile, ma si può pre­sup­porre che nei mesi suc­ces­sivi il ritmo non sia ral­len­tato. Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima. Men­tre per le pic­cole imprese (la cui morìa ha mar­ciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiu­sure al giorno in Ita­lia) Torino si con­tende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “for­coni”) la testa della clas­si­fica, con le sue 16.000 imprese scom­parse nell’anno, cre­sciute ancora nel primo bime­stre del 2013 del 6% rispetto al periodo equi­va­lente dell’anno prima e del 38% rispetto al 2011 quando furono por­tate al pre­fetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese arti­giane chiuse nella provincia.

E’, letta attra­verso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi suc­ce­du­tisi nella tran­si­zione all’oltre-novecento, tutta intera la com­po­si­zione sociale che la vec­chia metro­poli di pro­du­zione for­di­sta aveva gene­rato nel suo pas­sag­gio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fab­brica cen­tra­liz­zata e mec­ca­niz­zata nel ter­ri­to­rio, la dis­se­mi­na­zione nelle filiere corte della sub­for­ni­tura mono­cul­tu­rale, la mol­ti­pli­ca­zione delle ditte indi­vi­duali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo pro­dut­tivo auto­mo­bi­li­stico, le con­su­lenze ester­na­liz­zate, il pic­colo com­mer­cio come sur­ro­gato del wel­fare, insieme ai pre­pen­sio­na­menti, ai co .co .pro, ai lavori a som­mi­ni­stra­zione e inte­ri­nali di fascia bassa (non i “cogni­tari” della crea­tive class, ma mano­va­lanza a basso costo… Com­po­si­zione fra­gile, che era soprav­vis­suta in sospen­sione den­tro la “bolla” del cre­dito facile, delle carte revol­ving, del fido ban­ca­rio tol­le­rante, del con­sumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finan­zia­ria ha allun­gato le mani sul collo dei mar­gi­nali, e poi sem­pre più forte, e sem­pre più in alto.
Non è bella a vedere, que­sta seconda società riaf­fio­rata alla super­fi­cie all’insegna di un sim­bolo tre­men­da­mente obso­leto, pre-moderno, da feu­da­lità rurale e da jacque­rie come il “for­cone”, e insieme por­ta­trice di una iper­mo­der­nità implosa. Di un ten­ta­tivo di una tran­si­zione fal­lita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui ripro­po­sti in alto, nei gazebo delle pri­ma­rie (che pure dice­vano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show tele­vi­sivi. E’ sporca, brutta e cat­tiva. Anzi, incat­ti­vita. Piena di ran­core, di rab­bia e per­sino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.

Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella sog­get­ti­vità”) del ciclo indu­striale, con il lin­guag­gio del con­flitto rude ma pulito. Qui la poli­tica è ban­dita dall’ordine del discorso. Troppo pro­fondo è stato l’abisso sca­vato in que­sti anni tra rap­pre­sen­tanti e rap­pre­sen­tati. Tra lin­guag­gio che si parla in alto e il ver­na­colo con cui si comu­nica in basso. Troppo vol­gare è stato l’esodo della sini­stra, di tutte le sini­stre, dai luo­ghi della vita. E forse, come nella Ger­ma­nia dei primi anni Trenta, saranno solo i lin­guaggi gut­tu­rali di nuovi bar­bari a incon­trare l’ascolto di que­sta nuova plebe. Ma sarebbe una scia­gura – peg­gio, un delitto – rega­lare ai cen­tu­rioni delle destre sociali il mono­po­lio della comu­ni­ca­zione con que­sto mondo e la pos­si­bi­lità di quo­tarne i (cat­tivi) sen­ti­menti alla pro­pria borsa. Un enne­simo errore. Forse l’ultimo

Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato e si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale».

connessioniprecarie.org, 2 luglio 2017 (c.m.c.)

L’intervista è stata realizzata mercoledì 28 giugno a Bologna, dove Judith Butler si trovava come promotrice della conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory (Duke University, University of Virginia, Università di Bologna).

La scorsa settimana hai promosso a Bologna un convegno internazionale sul ruolo critico delle università, che in questo momento negli Stati Uniti, dichiarandosi santuari per i migranti senza documenti, si stanno attivamente opponendo alle politiche di deportazione di Trump. Pensi che anche questo tipo di iniziativa rientri nel loro ruolo critico e come sarà colpita dalla riorganizzazione dello Stato pianificata da Trump e Bannon e dall’azione sempre più arbitraria della polizia?
È molto importante che le università dichiarino lo status di «santuari». Manda un segnale forte al governo federale dichiarando che le università non applicheranno le politiche di deportazione. Il programma di Trump non è ancora effettivo, ma i funzionari dell’immigrazione e incaricati delle deportazioni possono agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia vanno in un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo discrezionale di andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone senza documenti. Le università però hanno il potere di decidere se consegnare ai funzionari i nomi di quelli che non hanno documenti o se resistere alle loro richieste. Hanno il potere di bloccare l’implementazione dei piani di deportazione e questo significa che possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste all’applicazione delle politiche federali.

Anche alla luce di questo tipo di resistenza, alcuni vedono nell’elezione di Trump un’opportunità per i movimenti sociali. Condividi questa prospettiva?
Ci sono due modi di leggerla. C’è chi crede in una concezione dialettica della storia per cui un movimento di resistenza, per crescere, ha bisogno di un leader fascista, sicché dovremmo essere contenti in questa circostanza. Da parte mia non sarò mai contenta di avere un leader fascista, o neofascista, o autoritario… stiamo ancora cercando di capire come descrivere questo potere. Spero che i movimenti sociali non abbiano bisogno di questo per essere galvanizzati. C’è però un secondo modo di vederla, e che sono più disponibile ad accettare, per cui il trionfo della destra negli Stati Uniti ha reso imperativo che la sinistra si unisca con una piattaforma e una direzione davvero forti. Non è chiaro se questo possa accadere attraverso il partito democratico, o se ci debba essere un movimento di sinistra ‒ il che non coincide necessariamente con una politica di partito ‒ che sappia che cosa sta facendo e come e, su questa base, possa decidere se accettare un partito, o se avanzare le proprie rivendicazioni a un partito. Ma non è detto che si debba cominciare dall’essere un partito politico. A volte è positivo che i movimenti sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui opporsi, ma non dobbiamo accomodarci in una distinzione o situazione esistente, per cui ci sono i democratici, i repubblicani e tutto il resto è considerato una minoranza radicale senza potere. È il tempo che i movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme separate dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è nella posizione di negoziare.

In che modo la campagna elettorale, e in particolare l’apertura di Sanders verso i movimenti sociali ‒ che è stata spesso contraddittoria e incapace di raccogliere le loro istanze ‒ può offrire indicazioni rispetto a come strutturare l’opposizione a Trump nei termini che hai appena descritto?
La corsa di Sanders alla presidenza è stata molto interessante, perché ha messo insieme molta gente ed è stata molto più popolare di quanto Clinton si aspettava che fosse, conquistando alle primarie anche Stati che si pensava avrebbero sostenuto Hillary. Ma è stato anche frustrante, perché non era chiaro se Sanders sapesse come rivolgersi agli afroamericani, sembrava che pensasse che quella di classe fosse l’oppressione primaria e quelle di razza e genere fossero secondarie, e questa è una prospettiva che abbiamo combattuto negli anni’70 e ’80. Da una parte si è vista una sinistra capace di attrattiva, e questo è stato interessante, ma forse non lo è stata abbastanza. Forse è necessario distinguere Sanders dall’«effetto Sanders», che sta coinvolgendo molti più gruppi permettendo loro di pensare che possono avere un po’ di potere. Sanders si è definito socialista, anche se in una versione soft, ma un partito socialista non c’è ancora anche se alcuni si sono appellati a lui per uscire dal partito democratico e costituirne un altro. Vedremo se può succedere negli Stati uniti, sarebbe degno di nota.

I migranti sono stati protagonisti negli ultimi anni di importanti movimenti sociali e sono tutt’ora impegnati nell’organizzazione dell’opposizione al razzismo istituzionale di Trump. Nel tuo lavoro hai molto insistito sulla loro posizione, sottolineando il modo in cui hanno esercitato performativamente un «diritto ad avere diritti». Ma possiamo considerare i migranti non solo come una figura dell’esclusione da «noi, il popolo», ma anche come una prospettiva che ci permette di capire le trasformazioni contemporanee della cittadinanza e del lavoro nel suo complesso. Come fai i conti con queste trasformazioni nella tua teoria della precarietà?
Forse non ho una teoria della precarietà, ti posso dire che cosa sto facendo adesso, perché ho scritto Vite precarie dopo l’11 settembre per rispondere a quelle circostanze storiche, ma in altri libri sono emerse altre circostanze e magari si possono adattare ad alcune persone e ad altre no. Nel bene e nel male, il mio è un pensiero vivente e può cambiare, non ho una singola teoria che si adatti a tutte le circostanze, posso modificare la mia teoria, questo è il modo in cui lo descriverei. Quello che posso dire è che io vivo nello Stato della California e l’agricoltura lì si basa fondamentalmente sul lavoro migrante, se Trump fosse in grado di deportare migranti messicani senza documenti, costruire muri e bloccare l’afflusso di nuovi messicani, i principali interessi economici che lo hanno supportato sarebbero immediatamente in difficoltà. Di fatto l’economia della California funziona con i migranti senza documenti, non ci sono dubbi. E se andiamo indietro nella storia della California, vediamo che le ferrovie sono state costruite dai migranti cinesi. Molti di noi sono stati migranti, mia nonna non parlava nemmeno bene l’inglese, siamo arrivati, siamo andati a scuola, ci siamo dimenticati di essere migranti, pensiamo che i migranti siano sempre gli altri. Ma chi non è un migrante? Questa dimenticanza è parte della formazione del soggetto americano ed è diventata davvero pericolosa nel momento in cui abbiamo deciso che i migranti sono esterni a quello che siamo. Sono parte di quello che siamo, ci basiamo sul loro lavoro, siamo il loro lavoro.

Contro questa condizione, i migranti – non solo negli Stati Uniti ‒ hanno scioperato, e l’8 marzo di quest’anno c’è stato uno sciopero transnazionale delle donne. Nel tuo ultimo libro (Notes toward a Performative Theory of Assembly, nella traduzione italiana L’alleanza dei corpi) tu includi lo sciopero tra i modi in cui è possibile ‘assemblarsi’. Lo sciopero non è solo un modo di convergere, ma stabilisce anche una linea di opposizione nella società, una linea lungo la quale si pratica l’interruzione di un rapporto sociale di potere. La tua riflessione sulle assemblee articola la necessità o la possibilità di questo tipo di linea di conflitto come condizione stessa dell’assemblea?
Spesso, quando i sindacati vogliono unirsi per discutere le condizioni del loro lavoro, assistiamo a tentativi disperderli o negare il loro diritto di riunirsi in assemblea. Almeno nel diritto degli Stati Uniti e in qualche misura in quello internazionale, questo diritto nasce anche dalle assemblee sindacali, fatte per discutere le condizioni di lavoro o per decidere di scioperare. Ci sono modi di riunirsi in assemblea là dove c’è uno sciopero. Ma nell’era di internet possiamo entrare in rete nel web e decidere uno sciopero senza riunirci di persona. La vera domanda diventa allora come il modo tradizionale di funzionamento dell’assemblea, per cui i corpi si assemblano nello stesso spazio, sta in relazione con il networking digitale, o con una modalità politica di mettersi in rete che può anche essere la base per lo sciopero. Non intendo dire che nella vita contemporanea non c’è assemblea senza un insieme di connessioni digitali, o che non sappiamo nemmeno di essere assemblati se non mandiamo un messaggio che lo comunica. Tuttavia, l’assemblea può dare voce a certe rivendicazioni che devono essere comunicate attraverso il web. Di solito gli scioperi, soprattutto quelli internazionali, che sono molto interessanti, sono principalmente forme di messa in rete per la resistenza. Si tratta di una forma tra le altre possibili di associazione e alleanza tra gruppi, una forma che è legata all’assemblea anche se non sono esattamente la stessa cosa. Non c’è un’unica sfera pubblica per tutti, nemmeno internet è la stessa sfera pubblica per tutti, non tutti ce l’hanno e non tutti comunicano, non c’è un’unica sfera pubblica globale, non c’è una piazza mondiale. I media aiutano a fare in modo che succeda, quando succede. L’anno scorso coloro a cui non è assolutamente permesso di assemblarsi, i detenuti nelle prigioni palestinesi, negli Stati uniti e in altre parti del mondo, hanno fatto uno sciopero della fame. Molte persone che si opponevano alla pratica carceraria dell’isolamento sono andate in sciopero della fame e lo hanno fatto esattamente nello stesso momento. Hanno comunicato attraverso le reti di sostegno dei prigionieri, hanno creato un network internazionale senza bisogno di un’assemblea, hanno scioperato nello stesso momento per attirare l’attenzione dei media sul fatto che l’isolamento è una pratica disumana a cui tutti insieme si stavano opponendo. Alleanze a rete di questo tipo sono precisamente quello che è necessario per portare una questione al centro dell’attenzione politica. Anche lo sciopero delle donne è molto interessante perché non ha un solo centro, ed è accaduto in tutto il mondo in modi e luoghi diversi.

Infatti, lo sciopero dell’8 marzo è stato lanciato dalle donne argentine di Ni una menos con un appello internazionale che ha avuto un’incredibile risonanza in tutto il mondo. Non si è trattato di uno sciopero tradizionale, inteso come strumento di contrattazione sindacale, ma è stato un modo per rifiutare una condizione di violenza e oppressione che assume molte forme
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Lo sciopero della fame e quello delle donne non sono scioperi tradizionali, di tipo sindacale, ed è importante che siano accaduti. La cosa che mi pare più interessante sono i network che li hanno resi possibili e che hanno permesso che accadessero, perché questi network possono comporre movimenti globali di solidarietà. Se però si riducono a uno sciopero che dura per un certo numero di ore per un giorno solo, questo non è abbastanza, perché un’azione simbolica. Ma anche un’azione simbolica può aiutarci a vedere quali sono i network, chi sono le persone che ne fanno parte in Argentina, qual è la loro relazione con la Turchia, con Bologna o con il Sudafrica. Il punto è usare l’occasione dello sciopero simbolico per solidificare reti internazionali che possano poi produrre effettivamente un senso più forte della sinistra femminista transnazionale o dell’opposizione transnazionale alle condizioni inumane nelle prigioni.

Forse però ci sono delle differenze tra lo sciopero della fame in prigione e lo sciopero delle donne o quello dei migranti. In prigione diventa un modo di conquistare in primo luogo quello che chiami un «diritto di apparire» per mettere sul tavolo rivendicazioni che altrimenti sarebbero inascoltate. Lo sciopero delle donne e quello dei migranti hanno stabilito una linea di conflitto, nel caso dell’8 marzo la linea in cui si mostra che la violenza patriarcale è la base per la riproduzione di rapporti sociali di potere su scala globale. Da questo punto di vista è interessante che lo sciopero sia stato proposto in Argentina, dove la violenza contro le donne sta diventando un’arma sistematica del governo neoliberale.
Penso che anche lo sciopero della fame in prigione stabilisca una linea di opposizione, perché in prigione tu non comunichi, non ti riunisci in assemblea, non avanzi rivendicazioni soprattutto se sei in isolamento. La voce dei detenuti non si sente, hanno bisogno di altri che possano articolare la loro posizione, che parlino per loro, e attraverso quel network hanno trovato il modo di articolare una rivendicazione che altrimenti non sono nella condizione di avanzare e che riguarda la violenza strutturale delle prigioni, che è anche un confronto frontale con quella violenza strutturale. Osservando il modo in cui le prigioni funzionano in Brasile o in Argentina, diventa evidente la relazione delle prigioni con la violenza della polizia, con il femminicidio, possiamo trovare una violenza strutturale che le connette. Angela Davis lavora sulle prigioni negli Stati uniti e in Brasile e sostiene che la violenza delle prigioni si manifesta attraverso un razzismo che colpisce i poveri e le donne in modo strutturale, una violenza dello Stato che articola disuguaglianze sociali fondamentali. D’altra parte dobbiamo considerare che i media hanno i loro cicli. Quanto più ci appoggiamo ai media per creare connessioni transnazionali, tanto più dobbiamo stare attenti al modo in cui il ciclo dei media ci fa diventare una notizia che un attimo dopo scompare. C’è un momento in cui siamo in sciopero e poi chi se ne ricorda? Che cosa succede poi? Come si traduce questo in pratiche o nuovi network, in nuove possibilità per i movimenti? Il modo in cui i media gestiscono lo sciopero di un giorno può dargli vita per un momento e poi estinguerlo. Dobbiamo trovare modi per lavorare contro questa temporaneità dei media per sostenere le nostre connessioni politiche.

Il problema riguarda però la capacità di accumulare sufficiente potere da forzare i media a dare conto di quello che accade. Lo sciopero è precisamente un modo di dare prova di un potere, che è in primo luogo il potere di non essere vittime, di rifiutare una condizione di oppressione.
Sono d’accordo. Dire, come spesso fanno i media, che le donne non si mobilitano o che siamo ormai post-femministe per me non è altro che una barzelletta. Non sarò mai post-femminista. È grandioso avere un momento globale in cui le donne emergono in marcia, come è successo a Washington e in tutto il mondo il 21 gennaio, ma questo deve continuare a succedere, e abbiamo bisogno di scioperi e manifestazioni che abbiano le loro infrastrutture, i loro network, i loro modi di sviluppare fini e strategie e forme di resistenza. Dobbiamo costruire queste connessioni.

La marcia del 21 gennaio e lo sciopero dell’8 marzo hanno visto le donne protagoniste ma hanno coinvolto moltissimi altri soggetti. Le donne in queste occasioni hanno posto una questione generale, ad esempio rifiutando le politiche neoliberali che smantellano il welfare e che impongono proprio alle donne di farsi carico del lavoro riproduttivo e dei servizi che non sono più erogati dal pubblico. A questo riguardo, pensi che le donne, in virtù della loro posizione materiale e simbolica, possano avere anche una posizione specifica nella lotta contro le relazioni neoliberali di potere su scala globale?
Io penso che le donne debbano assumere una posizione politica specifica per via del fatto che sono prioritariamente responsabili di relazioni di cura nei confronti dei bambini o degli anziani, e quando i servizi dello Stato e pubblici sono distrutti dal neoliberalismo o dal fallimento di altre infrastrutture, penso che questo ponga su di loro un carico ulteriore che ha effetti anche sul lavoro produttivo. Vorrei dire anche, però, che è estremamente importante includere tra le donne anche le donne trans, che dobbiamo avere una visione più ampia di che cosa significa essere una donna, una visione che includa anche le donne che non prendano parte alla riproduzione o al lavoro domestico, che hanno scelto di non essere o semplicemente per altre ragioni non sono sposate, che hanno altre alleanze sessuali e sono senza figli. Le donne ora vivono forme sociali molto diverse che includono e devono includere anche le donne trans. Uno dei problemi che ho con l’idea che le donne siano completamente identificate con la sfera riproduttiva è che in questo modo si operano delle restrizioni. Se, nel cercare di dare una specificità e una visibilità alle condizioni materiali delle donne, stabiliamo una specifica comprensione simbolica di che cosa la donna è, tutte le donne ne sono colpite, diventa un limite.

Sono completamente d’accordo, e il punto mi sembra precisamente la possibilità di rifiutare quel modo di essere identificate come donne. Si tratta di rifiutare la divisione sessuale del lavoro che costringe le donne a occupare certi ruoli, proprio questo rifiuto diventa politicamente rilevante oggi. Ma allo stesso tempo l’idea di includere le persone trans nella categoria delle donne non rischia di limitare la possibilità di questo rifiuto, esattamente perché presuppone una definizione identitaria di che cosa sia «donna»?
Non credo. Sta già succedendo. Ci sono persone che vivono come donne, senza essere riconosciute come tali. E ci sono persone riconosciute come donne che non si pensano affatto come donne. Dobbiamo accettare che spesso la percezione sociale non corrisponde all’esperienza vissuta delle persone. Non è solo una questione identitaria perché riguarda il modo in cui sei trattata a casa, a scuola, nelle istituzioni religiose, nel lavoro, se sei chiamata nell’esercito, quale bagno usi… ci sono un sacco di questioni pratiche che dipendono dalla designazione di genere, che può anche avere implicazioni concrete sulla vivibilità o invivibilità della vita. Se qualcuno mi interpella come donna in un certo modo e si aspetta che io viva in quel modo, in certe circostanze sociali, non potrei vivere in quella società, dovrei andarmene, ci sono implicazioni concrete e materiali che seguono a questo tipo di designazione e penso che se ci limitiamo a parlare di questioni di identità ‒ come ti definisci, qual è il tuo pronome, se è una questione di scelta individuale e di nominare se stessi – ci sfugge il fatto che spesso si tratta di una questione di vita o di morte.

Capisco il punto ma mi piacerebbe insistere. Da una parte sostieni, e sono d’accordo, che sia necessario rifiutare l’identificazione delle donne con le loro funzioni riproduttive, con i ruoli di madre, moglie, di coloro che sono ‘naturalmente’ deputate alla cura. In questo senso non si tratta semplicemente di una scelta individuale, ma di contestare l’imposizione di un ruolo e di una posizione sociale e la riproduzione di un rapporto di potere che presuppone quel ruolo e quella posizione. Dall’altra sostieni che altre soggettività di genere dovrebbero essere considerate donne, perché questo colpisce materialmente la loro possibilità di vivere. È indiscutibile che sia necessario allargare il riconoscimento di diritti civili e sociali, ma non c’è una qualche contraddizione tra il primo e il secondo punto, nella misura in cui il primo implica il rifiuto di una definizione che comporta anche l’imposizione di un ruolo, mentre il secondo la presuppone?
Questo mi permette di chiarire quello che intendo. Penso che ci siano molte donne che vogliono essere e sono madri e questo significa molto per loro, e non dovrebbero rifiutarlo, è grandioso che siano madri, hanno un grande piacere a essere madri e a vivere come vogliono vivere, e ci sono donne che vogliono essere sposate ed essere sposate con uomini. E se lo vogliono e questo le soddisfa è giusto e non devono rifiutarlo. Ma dare una definizione di donna che valga per tutti è un errore. Perché questo limita le possibilità all’interno dello spettro di che cosa significa essere una donna. Ci sono altre che non vogliono essere madri ma si pensano nonostante tutto come donne, che hanno relazioni di convivenza senza essere sposate e non intendono farlo, e questo è un altro spettro di possibilità in quello che chiamiamo essere donna. E ci sono donne trans che sono donne in molti modi, che sentono con forza che questo è esattamente ciò che sono socialmente e psicologicamente, e vogliono vivere in quella categoria ma non hanno lo spazio di farlo. Non penso che quelle che sono sessualmente donne debbano rifiutare di fare figli o di sposarsi, non lo direi mai, ma ci sono lesbiche che vogliono sposarsi e questo va bene, e ci sono trans che vogliono avere figli e sposarsi e questo va bene, e se non vogliono sposarsi e avere figli potrebbero comunque essere coinvolte nella cura dei figli con altre persone, non dobbiamo prendere una sola scelta e renderla una norma per tutti, questa sarebbe una forma di violenza simbolica.

Lo sarebbe senz’altro. Ma non bisognerebbe perdere di vista una critica della famiglia come luogo in cui si organizzano rapporti di oppressione e di dominio. Se guardiamo la cosa dal punto di vista della libertà individuale è certamente necessario mantenere l’apertura che hai appena descritto. Ma istituzioni come il matrimonio e persino la scelta, certamente personale, della maternità vanno anche pensate in relazione al loro significato sociale, ai ruoli che prescrivono alle donne ed è in questo senso che sono state oggetto della critica femminista. Proprio questo cercavo di dire all’inizio: le donne in un certo modo hanno la possibilità, proprio perché si suppone che occupino certe posizioni, di criticare quelle istituzioni in quanto riproducono rapporti sociali di potere.
Capisco questo, ma penso che le istituzioni abbiano una storia, non sono le stesse in ogni cultura e contesto storico. Per esempio, se il femminismo vuole essere globale è estremamente importante che veda che non tutte le donne si muovono in una cornice di libertà individuale come in Europa, che ci sono diversi rapporti di connessione familiare e parentela che allargano la famiglia, e che questa non ha solo la forma della famiglia nucleare. Se pensiamo alla parentela e alla famiglia nucleare come una modalità di parentela tra le altre, e a relazioni di sostegno diverse dalla famiglia nucleare, partire da un modello occidentale è un’ingiusta imposizione culturale. Non mi interessa la questione della scelta personale e individuale, mi interessa di più che cosa è invivibile, è una cornice diversa, perché per alcune persone non sarebbe vivibile la struttura familiare o la struttura di parentela allargata, mentre per altre persone è l’unico modo per sopravvivere e fiorire, e altre persone vivono forme di ambivalenza fortissime nella struttura familiare, come uomini che si prendono cura della casa o curano i figli o sono in rapporti che non dipendono dalla divisione sessuale del lavoro. Ci sono alcune persone che stanno attivamente ristrutturando questi rapporti e ci stanno riuscendo in qualche misura, le famiglie lesbiche e gay non sono famiglie tradizionali, sono famiglie miti, ci sono madri dal primo matrimonio o dal secondo matrimonio, con un padre gay, le relazioni di amicizia possono dare strutture di parentela più elaborate. Non penso che possiamo risalire a Engels per trovare la famiglia come una struttura oppressiva che rimarrà sempre tale, l’analisi strutturalista non ci permette una concezione storica della famiglia, e io penso che ci serva un’analisi che ci permetta di capire come questa istituzione funziona.

Sono d’accordo che non si possa prescindere dalle condizioni storiche in cui si articola la critica alla famiglia. Ma mi pare anche piuttosto chiaro che nelle condizioni attuali, in Europa e non solo in Europa, il neoliberalismo sta riportando al centro una concezione tradizionale della famiglia, e quindi prescrivendo alle donne una specifica posizione, perché si tratta di una struttura fondamentale di riproduzione della società, tanto più in un contesto in cui la fine di ogni politica sociale impone un’assoluta individualizzazione delle responsabilità per la propria vita come quella che tu stessa descrivi nella tua riflessione. Mi pare che questo renda necessaria una critica femminista della famiglia e non solo l’idea che debba essere allargata a figure che non rientrano nel suo modello.
Capisco quello che dici e possiamo complicare ancora di più questa situazione perché abbiamo un femminismo neoliberale, abbiamo Hillary Clinton, lei si è fatta da sola, è un autoimprenditrice, vuole che le donne avanzino negli affari, che facciano le piccole imprenditrici, si è forse preoccupata se la cura dei figli sia finanziata e non sia soggetta a tagli e coinvolta in politiche di austerità? Avrebbe dovuto! E invece è con i Clinton che sono cominciati i tagli ai welfare e l’abbattimento di tutto quello che è rimasto della socialdemocrazia negli Stati uniti. Molte donne non hanno votato per lei, molte donne nere non si sono sentite rappresentate da lei, molte donne bianche povere non si sono sentite rappresentate da lei, il suo femminismo è completamente centrato sull’autoavanzamento e questo è l’obiettivo neoliberale.

Questo è stato un punto ampiamente dibattuto nell’accademia negli Stati uniti quando Nancy Fraser ha sostenuto che il femminismo è diventato l’ancella del neoliberalismo, e che questo è accaduto nel momento in cui le identity politics hanno preso il posto delle istanze di redistribuzione della ricchezza durante gli anni ’80.
Penso che anche qui dobbiamo distinguere il femminismo che è diventata una politica ufficiale di Stato, anche se per certi versi non lo è più, non abbiamo più femminismo nelle istituzioni e nemmeno donne, è stato un colpo di coda durissimo. Ma molti aspetti del femminismo socialista, del movimento delle donne contro la violenza, o dei movimenti contro la povertà che in modo sproporzionato colpisce le donne non sono stati ascoltati dal femminismo ufficiale. Ed è una pena vedere come il femminismo sia stato incorporato, ne saranno forse contente le femministe liberali, che sono soprattutto o esclusivamente bianche, ma la critica del liberalismo o del neoliberalismo non è certo esaurita.

Questo ci riporta alla capacità dei movimenti di consolidarsi. Nelle tue note sulle assemblee hai molto insistito sul fatto che le assemblee sono temporanee, contingenti, e sottolinei che ciò non è necessariamente un limite perché possono accadere in ogni momento. Questa idea di contingenza o transitorietà come si confronta con il problema della continuità e dell’organizzazione delle assemblee? Se la contingenza è il modo di essere delle assemblee, non c’è il rischio che solo la loro rappresentazione nelle istituzioni possa dare loro continuità?

Oltre alla temporaneità io ho sottolineato che le assemblee possono articolare un certo tipo di critica. Per esempio anche lo sciopero delle donne dell’8 marzo ha articolato dei principi, per cui il punto diventa come quei principi sono tradotti in pratiche e organizzazione e movimento. Penso che il grande momento pubblico abbia un’importanza quando i principi che annuncia sono raccolti da altri tipi di movimento che magari non sono così spettacolari e pubblici. Ma c’è un altro punto che mi interessa sottolineare: un’assemblea che dura molto tempo diventa un accampamento, o magari un’occupazione, che dura più tempo o si allarga e può diventare un movimento sociale e anche una lotta rivoluzionaria. A seconda da quanto spesso accadono, da quanto grandi diventano, da quanto a lungo durano, puoi tracciare il modo in cui ciò che comincia come un piccolo gruppo di persone che si riunisce può trasformarsi nel tempo e nello spazio in un più largo e sostenuto movimento sociale. Questo mi interessa e mi porta a pensare allo sciopero generale, non uno sciopero per un giorno, non «oggi non lavoriamo», ma «non lavoreremo più finché non cambiano le condizioni», non solo questo giorno ma ogni giorno finché queste condizioni sono mantenute. Lo sciopero generale è il rifiuto di un regime, di un’intera organizzazione del mondo, della politica, di un regime di apartheid, di un regime coloniale, li abbiamo visti abbattuti dai movimenti di massa. So che la gente dice che i movimenti non possono fare niente, invece lo fanno, sbagliamo a sottovalutare il potere dei movimenti di massa, ma ci vuole tempo per accumulare e la gente deve avere più di qualche slogan per andare avanti, devono sapere che ci sono principi, un’analisi, per potersi considerare parte di quello che sta succedendo e che quello che accade in una parte del mondo è connesso a quello che succede da un’altra parte. Se pensiamo alle popolazioni che sono rese precarie dalle politiche economiche neoliberali, o da governi autoritari, o dalla decimazione dei beni pubblici, dei sussidi, dell’educazione, della salute, ci sentiamo molto soli finché non realizziamo che altri stanno facendo esperienza dell’accelerazione e intensificazione della povertà o dell’abbandono o della perdita del lavoro. Deve essere chiaro che questo accade sul piano transnazionale e deve essere messo in termini che la gente possa capire, perché possa riconoscere l’ingiustizia della propria sofferenza. C’è il pericolo che la gente pensi che la propria situazione è solo un problema locale, quando invece ha una dimensione transnazionale. E se possiamo tornare indietro alla lotta al femminicidio, quella è un’enorme ispirazione per me, perché ci sono statistiche terribili su quante donne e quanti trans sono uccisi in un posto come l’Honduras, che forse ha le statistiche peggiori, in Brasile in Argentina, sono statistiche sconcertanti, ma lo sforzo di costruire network tra le donne e quelli che si oppongono ai femminicidi è impressionante. Mi rendo conto di quanto duro debba essere leggere quelle statistiche, riunirsi e fare un’analisi che la gente possa accettare e quanto è stato importante per quel movimento essere prima di tutto interamericano, e che i tribunali abbiano dichiarato il femminicidio un crimine. Il problema è che la polizia in tutti quegli Stati non ha nessuna intenzione di farsi carico del crimine e riconoscerne l’importanza, e spesso arrestano le donne che denunciano, è un terrorismo di Stato inflitto a coloro che portano questo problema in pubblico, perché la struttura del patriarcato locale e le alleanze patriarcali tra la polizia e lo Stato sono molto forti. Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato, in cui si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani e si rivolgono alle corti interamericane e producono alleanze transnazionali non dipende dal potere dello Stato, ma chiede conto allo Stato della sua complicità. Penso che questo sia enormemente interessante, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale, quindi penso che dovremmo studiare questi movimenti e trarne ispirazione. Forse non sono ancora riusciti a porre fine a questa pratica atroce, ma hanno allargato la possibilità di farsi ascoltare, ora il mondo sa che cosa accade, e hanno prodotto network per supportarsi e sviluppare impressionanti pratiche di resistenza.

«Con­trap­porsi alle pri­va­tiz­za­zioni signi­fica bat­tersi con­tro una lotta poli­tica che la classe diri­gente con­duce con­tro beni pub­blici, beni comuni, pos­si­bi­lità di par­te­ci­pare alle deci­sioni poli­ti­che. In que­ste lotte, non pare che la Cgil abbia bat­tuto con forza il pugno sul tavolo». Il

manifesto, 12 dicembre 2013

Con il socio­logo tori­nese Luciano Gal­lino riflet­tiamo sulla con­sta­ta­zione della segre­ta­ria Cgil Susanna Camusso secondo la quale «nell’attuale qua­dro eco­no­mico e sociale non è più suf­fi­ciente evo­care lo scio­pero gene­rale come unica moda­lità in cui si deter­mina il con­flitto sul tema del lavoro». Su que­sta affer­ma­zione si è tor­nati a riflet­tere ieri a Roma durante la pre­sen­ta­zione del libro Orga­niz­zia­moci (Edi­tori Riu­niti) che rac­conta alcune forme alter­na­tive di pro­te­sta: il «com­mu­nity orga­ni­zing» teo­riz­zato dal grande teo­rico ame­ri­cano Saul Alin­sky, quello pra­ti­cato oggi da sin­da­ca­li­sti come Valery Alzaga nella sua forma di «labour organizing».

«È un’affermazione che cerca di rispon­dere ad una tra­sfor­ma­zione epo­cale — risponde Gal­lino — La pro­du­zione è stata fram­men­tata nelle catene glo­bali del valore e que­sto ha inde­bo­lito il potere dei sin­da­cati e dei lavo­ra­tori. Un conto è quando uno scio­pero inter­rompe la pro­du­zione in uno sta­bi­li­mento. Un altro è quando quella stessa pro­du­zione è divisa in dieci sta­bi­li­menti in quin­dici paesi. In que­ste catene il peso del sin­golo anello pro­dut­tivo o azien­dale è molto dimi­nuito ed è anche facil­mente sosti­tui­bile. Se un’azienda in Thai­lan­dia non fun­ziona, si passa in India».

I sin­da­cati hanno capito come con­tra­stare que­sta stra­te­gia?
«Non mi pare si sia fatto abba­stanza. Lo scio­pero è sto­ri­ca­mente nato per recare danno ad un’impresa. Si sup­pone che l’interruzione della pro­du­zione per un giorno o più sia un danno per il capi­tale. Con la gra­vis­sima crisi in cui spro­fonda l’Europa, e il mondo intero, è para­dos­sale con­sta­tare che que­sta asten­sione con­viene alle imprese che sof­frono di un eccesso di capa­cità pro­dut­tiva. Que­sta con­co­mi­tanza ha ridotto il potere del lavoro. A ciò si aggiunge l’azione poli­tica con­tro i sin­da­cati che nel nostro paese reg­gono ancora in qual­che modo, men­tre in altri paesi le iscri­zioni sono crol­late. Ciò non toglie che i sin­da­cati abbiano respon­sa­bi­lità non da poco nella loro dif­fi­colta a chia­mare a rac­colta i lavoratori».

Lo scio­pero, tut­ta­via, non è affatto tra­mon­tato come forma di lotta. Basti pen­sare a quelli auto-organizzati dai tran­vieri a Genova o a Firenze con­tro la pri­va­tiz­za­zione del tra­sporto pub­blico. Che impatto hanno avuto, se ne hanno avuto uno, sulla Cgil?
«Que­gli scio­peri hanno avuto un obiet­tivo spe­ci­fico e impor­tante: cer­care di inter­rom­pere la folle corsa con­tro la pri­va­tiz­za­zione, per modi­fi­care le poli­ti­che gestio­nali ma soprat­tutto, come è acca­duto anche a Torino, per fare cassa. Genova su que­sto tema ha richia­mato una note­vole atten­zione, anche se non mi pare abbia influito sul governo il cui chiodo fisso è pri­va­tiz­zare. Con­trap­porsi oggi alle pri­va­tiz­za­zioni signi­fica bat­tersi con­tro una forma di lotta poli­tica che la classe diri­gente del nostro paese con­duce con­tro i beni pub­blici, i beni comuni e la pos­si­bi­lità di par­te­ci­pare in qual­che modo alle deci­sioni poli­ti­che. In que­ste lotte, non mi pare che la Cgil abbia bat­tuto con forza il pugno sul tavolo».

Com’è cam­biato il ruolo della Cgil dalla mani­fe­sta­zione al Circo Mas­simo nel 2002 alla quale par­te­ci­pa­rono 3 milioni di per­sone?
«È cam­biato molto. Biso­gna dire che il 2002 era l’anno in cui si stava tam­po­nando lo scop­pio della bolla delle dot com, le imprese inter­net con miliardi in borsa. Il pro­cesso che oggi abbiamo sotto gli occhi era già avan­zato. Allora però c’era ancora la domanda aggre­gata e ciò per­met­teva una libertà di mano­vra che oggi non c’è più. Anche per que­sto lo scio­pero diventa un’arma spuntata».

Nel frat­tempo sem­bra essere defi­ni­ti­va­mente sal­tato il clas­sico legame tra par­tito e sin­da­cato, tra Cgil e Pd che sem­brava essere assi­cu­rato ancora da Epi­fani e oggi sem­bra escluso con Renzi. Un rap­porto che già ai tempi di Cof­fe­rati aveva cono­sciuto ten­sioni, in par­ti­co­lare con la «sini­stra» Pd…
Già ai tempi di Cof­fe­rati c’erano pro­blemi, figu­ria­moci adesso che il rap­porto è eva­ne­scente, visto che per quello che si sa, le pro­po­ste eco­no­mi­che e sul lavoro di Renzi vanno in dire­zione di un ulte­riore allon­ta­mento. Quel po’ di sini­stra che esi­steva nel Pd mi pare che dopo gli ultimi cam­bia­menti si sia ridotta ulte­rior­mente. Il sin­da­cato, parlo soprat­tutto della Cgil, ha biso­gno di un par­tito a cui appog­giarsi. Se non c’è un rife­ri­mento cul­tu­rale o poli­tico, si ritrova solo. Con la segre­te­ria di Renzi quel po’ di soste­gno che nono­stante tutto c’era nel Pd scen­derà ulte­rior­mente. Mi pia­ce­rebbe essere smentito.

Cosa pensa di forme di lotta come quelle con­tro le grandi opere o per i beni comuni?
Ser­vono, figu­ria­moci. In più abbiamo la neces­sità di pen­sare a migliaia di pic­cole opere per ridare un certo pre­gio alle cose che sono dege­ne­rate negli ultimi anni. Però il loro impatto sulla dimen­sione strut­tu­rale del capi­ta­li­smo non c’è o è molto pal­lida. Que­ste lotte hanno un’utilità per certi scopi spe­ci­fici, come si è visto con il refe­ren­dum sull’acqua. Anche se poi i comuni se ne sono infi­schiati. Lo si è visto nello scio­pero dei tra­sporti a Genova dove il discorso sui beni comuni ha avuto un’incidenza. Biso­gna però chie­dersi per­chè i poli­tici insi­stono per dare sem­pre più spa­zio alla vul­gata neo­li­be­rale. Ci sono ecce­zioni, ma la mag­gio­ranza dei comuni è domi­nata dall’ideologia neo­li­be­rale che domina nel governo e nei par­titi poli­tici, nes­suno escluso, o quasi.

Dun­que, insieme alla ricerca di forme di pro­te­ste alter­na­tive biso­gna par­tire da una bat­ta­glia cul­tu­rale che con­tra­sti l’ideologia domi­nante?
È così. Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la demo­cra­zia, dall’altro il capi­ta­li­smo. È pos­si­bile avere l’una senza l’altro? È pos­si­bile un qual­che tipo di accet­ta­bile con­ci­lia­zione tra i due come nel tren­ten­nio dopo la seconda guerra mon­diale? Lo sarà solo se alcuni milioni di per­sone si sve­glie­ranno, insieme ai par­titi poli­tici. Oggi, pro­ba­bil­mente, una qual­che solu­zione è pos­si­bile. Altri­menti andremo verso un capi­ta­li­smo senza demo­cra­zia o con forme dav­vero povere di democrazia.

«Micromega, 10 dicembre 2013
È sempre difficile, nelle analisi storiche, individuare le discontinuità nella linea del tempo: le rotture, i punti di non ritorno, insomma svolgere quel lavoro, che pure è fondamentale per chi faccia professione di storico, che si chiama periodizzazione. Esistono, certo, processi di lunga durata, e di breve periodo; ma la nostra capacità, mentre li ricostruiamo, deve essere quella di individuare delle cesure all'interno di quei processi. E giustificarle, spiegarle, o almeno tentare di darne ragione, per quanto sia possibile, ricordando sempre che nella storia agiscono tre fattori: le scelte degli individui, i contesti e il caso.

Tutta questa premessa è per arrivare a dire che non è semplice capire come nasca Matteo Renzi, che giunge oggi alla guida del Partito Democratico. Quello che mi pare chiaro è che Renzi è, per ora, il punto terminale di un tragitto costellato di vicende delle quali sono stati protagonisti, comprimari o comparse vari personaggi, figure e figuri, ora semplicemente inetti, ora più o meno squallidi, talvolta peggio.

A me pare sicuro che l'8 dicembre 2013 sarà una data periodizzante, nella futura ricostruzione storica del Pd, ma avrà dei riflessi non da poco sulla scena nazionale, altrimenti forse non varrebbe neppure la pena di discuterne tanto, come si sta facendo: purtroppo, aggiungo. Ebbene, mi pare che con Renzi, si sia compiuta definitivamente, la mutazione genetica del "partito della classe operaia", del partito che ha guidato l'opposizione al fascismo prima, la Resistenza al nazifascismo dopo, del partito che più di ogni altro ha contribuito alla identità della Repubblica a cominciare dalla stesura della sua Carta costituzionale, del partito che ha difeso i ceti subalterni, del partito che ogni volta si è battuto per frenare le derive autoritarie della DC, o di contrastare l’altra deriva, quella terroristica, del partito che di fatto ha svolto il compito di una onesta classe dirigente democratica, quel compito che i democratico-cristiani con la pletora di partiti e partitini satelliti non ha mai pienamente saputo svolgere, anzi, sovente cedendo a tentazioni di tutt’altro genere.

Insomma, la mutazione politica, culturale, sociale (ossia dei ceti di riferimento), e, persino, antropologica, è compiuta, è arrivata a una meta. Diceva Walter Veltroni, in un memorabile (in senso negativo) discorso del 2000, in occasione dei cinquant’anni della Fondazione intestata ad Antonio Gramsci: “Noi non siamo più a metà del guado, la nostra traversata è compiuta. Gramsci non ci appartiene più: siamo arrivati a Rosselli”. Al di là dell’ignoranza del poveretto (nel ’37, quando morirono entrambi, variamente uccisi dal fascismo, Rosselli era, in certo senso, persino più a sinistra di Gramsci!), non c’è dubbio che Gramsci non appartenga più ai suoi pretesi eredi: e per fortuna! Del partito di Gramsci (e di Bordiga, non dimentichiamolo!), di Togliatti, di Berlinguer, nel PD che oggi viene consegnato, a furor di popolo, all’oscuro Matteo Renzi, non rimane alcunché. La “trasformazione” è compiuta.

Ora si provvederà alla “rottamazione”, in nome di inquietanti e ambigue parole d’ordine che richiamano il giovanilismo fascistoide, ma anche il “novitismo” dei forzitalioti, e di tutti i loro sodali politici, e dei loro tristi ideologi che per decenni hanno cantato le lodi del cambiamento: oggi, ricordiamolo, la destra è per il cambiamento. È una destra all’attacco, con vesti diverse, ma la sostanza è la stessa: cancellare il welfare state, rimovendo ogni ostacolo sul cammino che conduce a tanto nobile obiettivo: e la Costituzione è l’ostacolo n. 1.

La creazione del PD, dopo la "svolta" nefasta della Bolognina (e non c’è dubbio che quell’atto, di cui non era a conoscenza praticamente nessun dirigente del Pci), guidata dall'improvvido nocchiero Achille Occhetto (vi ricordate di lui?), con il grottesco abbraccio con i resti della DC e delle frattaglie residue del PSI (una parte), fu l'esito di un processo di metamorfosi il cui risultato estremo, dopo gli ulteriori guasti compiuti da D'Alema, Fassino, Veltroni (soprattutto), Bersani, e l'imbarazzante, ultima gestione di Epifani, è il Pieraccioni della politica, il berluschino Renzi.

Che vincesse era scontato; che stravincesse no. E nella sua vittoria hanno giocato non soltanto le miserie della classe politica (specie quella nuova, devo dire) del PD, ma i cambiamenti stessi della politica, sempre all’insegna della modernizzazione e del “cambiamento”. Del “nuovo”: e Renzi, occorre riconoscerlo, ha saputo perfettamente interpretare il ruolo.

Populismo di tipo modernizzatore, a differenza di quello volgare di un Grillo (ma la sostanza non cambia), aderenza alle posizioni confindustriali su economia, scuola, diritti del lavoro, welfare, immigrazione, sistema elettorale (basti pensare all’apologia del “maggioritario”), eccetera. In realtà Renzi di programmi non ne ha: parla molto per non dire nulla, ma quel nulla lo dice bene, in modo che piaccia al suo popolo, ma non dispiaccia ai ceti dominanti e alle loro agenzie di comunicazione. Il suo è lo smalto sul nulla per citare un verso di Gottfried Benn.

Ma ora la sinistra, quel che ne rimane, dovrà pure fare una riflessione seria, che, oggi, appare drammaticamente urgente. E tentare di ripartire, se ne ha le forze, subito. Un lato positivo, peraltro, forse c'è: che farà quel 30% del PD che non è per Renzi? A chi mi accuserà di rimpiangere il bel tempo antico, replicherò, come la mitica Edith Piaf: “No, non rimpiango nulla”. Invece, constato l'ennesimo atto di una catastrofe. Ma come ci insegna la tragedia greca dalla catastrofe si può rinascere.

Le condizioni virtuose per una buona legge elettorale. La Repubblica, 12 dicembre2013

È responsabilità della politica ridare fiducia nelle istituzioni. Mettendo fine a comportamenti che calpestano la moralità pubblica (il misuso e l’abuso delle risorse pubbliche) e all’impotenza a decidere. Quest’ultimo è il caso della mancata riforma elettorale. Non c’è più spazio per i tentennamenti; la crisi sociale che attanaglia il paese da Nord a Sud è di tale gravità da non consentire tempi supplementari. Superare l’impotenza è un dovere e una necessità. Un’impotenza della politica che è il residuo dell’erosione della fiducia che si è accumulata nel ventennio berlusconiano e che ha minato la capacità cooperativa tra avversari e perfino tra i membri di uno stesso partito. Uno stato di discordia sulle regole e quindi di impotenza a prendere decisioni che non ha precedenti nella storia repubblicana. Sembra che ci sia una resistenza programmata a non voler trovare il bandolo della matassa dal quale ripartire per ricostruire il tessuto politico della nostra democrazia. Questa mancanza di virtù politica decisionale non è ulteriormente tollerabile. La politica deve rompere questo incantesimo negativo e dare ai cittadini uno strumento elettorale che consenta loro di andare a votare con la certezza di poter usare un metodo equo e funzionale.

Certo, la cancellazione del Porcellum da parte della Consulta crea problemi di legittimità decisionale di questo Parlamento come ha messo in luce Gustavo Zagrebelsky nella sua recente intervista a Repubblica. Ma una classe politica che voglia acquistare autorevolezza presso i cittadini lo fa anche dimostrando di essere in grado di uscire dall’impasse con gli strumenti che la Costituzione le dà.
Una buona legge elettorale deve conciliare le tre promesse che il sistema rappresentativo fa: che la maggioranza abbia il diritto di governare; che l’opposizione non si senta ingiustamente trattata; e che i cittadini si percepiscano come parte del gioco, coinvolti nella scelta dei candidati cosicché il loro suffragio non sia un plebiscito ma una scelta elettorale di chi dovrà far parte dell’organo (il Parlamento) che ha il potere di legiferare.
Tra le virtù di un buon sistema elettorale ce n’è una particolarmente importante: far sentire a chi perde le elezioni di non avere subito ingiustizia e di continuare a fidarsi di chi ha vinto. Neutralizzare le passioni negative. Il sistema elettorale ha tra le altre cose il compito di alimentare quelle emozioni di cui la competizione politica ha bisogno, come la delusione per una sconfitta e la determinazione a rimontare la china. Lo scopo della democrazia elettorale è di minimizzare la diffidenza. L’aritmetica applicata alla politica ha la capacità di sedare la passione del risentimento e di tonificare le energie per la lotta di domani. Tenendo a mente queste condizioni virtuose si dovrebbe riflettere sul sistema elettorale migliore.
Nel presente dibattito il maggioritario sembra godere di più ampio consenso. I suoi sostenitori si suddividono in due gruppi: coloro che vogliono ancora ricorrere al premio di maggioranza (bocciato dalla Consulta nella forma abnorme in cui il Porcellum l’aveva concepito) e coloro che vogliono il doppio turno, conosciuto anche come modello francese. Indubbiamente il primo dei due ha controindicazioni evidenti in quanto lavora contro la ricostruzione della fiducia contenendo un elemento di arbitrarietà (il premio).
L’altro metodo, quello del doppio turno, ha il merito di creare solide maggioranze. Dall’altro canto, però siccome esso riduce il peso dell’opposizione, se non è incastonato in un sistema politico retto su un forte senso di sovranità del corpo nazionale può non essere in grado di cementare la fiducia. Si cita la Francia come modello ma si trascura di dire che la Francia è per tutti i francesi “La France”, il popolo- re-uno-indiviso al quale presidenti e maggioranze eletti si inchinano, prima che al loro partito.
Dove c’è, come in Francia, una sovranità forte e indiscussa le maggioranze sono comunque una parte rispetto alla quale il tutto ha preminenza indiscussa di riferimento e di limite, per chi vince come per chi perde. Questo non pare sia il nostro caso. Certo, noi abbiamo già una forma di maggioritario nel modo di eleggere i sindaci. Ma i sindaci operano nella sfera amministrativa nella quale la debolezza del consiglio comunale che questo sistema comporta non è un serissimo problema. Ma lo sarebbe se applicato a livello nazionale poiché il parlamento fa leggi e non è desiderabile un sistema che rende il collettivo deliberante più debole dell’esecutivo.
Un’ultima osservazione, dovuta, riguarda l’uso dei “modelli”. Noi siamo spesso troppo attratti dal seguire modelli che altri hanno creato sulla propria esperienza. Anche noi dovremmo fare altrettanto. L’Italia è plurale, spesso divisa, con un forte senso della complessità di appartenenza nazionale e quindi ha bisogno di rappresentare il pluralismo e cercare strategie per la cooperazione invece che imporre semplificazioni procustee nel tentativo di dar vita a un bipolarismo perfetto. Si deve poter trovare una mediazione tra garantire la pluralità e formare maggioranze non aleatorie. Un sistema elettorale che sia ragionevolmente rappresentativo della diversità senza consentire che la pluralità diventi frammentazione.

ondi respingendo chi tenta di evadere da miseria e repressione. e-mail dell'11 dicembre 2013

Un’azione di guerra dove nulla è stato lasciato al caso. Dal nome, Operazione Mare Nostrum, a indicare la piena sovranità su uno specchio d’acqua frontiera Nord-Sud, muro invalicabile per la moltitudine di diseredati in fuga da sanguinosi conflitti e inauditi ecocidi. Il Comando operativo, poi, assegnato al Capo di Stato Maggiore della Marina militare. E i mezzi aeronavali impiegati: cacciabombardieri, elicotteri da combattimento, navi da sbarco, fregate, sommergibili e, a bordo, i reparti d’élite delle forze armate. L’Italia torna a fare la guerra alle migrazioni e ai migranti nel Mediterraneo, sfruttando strumentalmente la tragedia accaduta a poche miglia da Lampedusa il 3 ottobre 2013. Allora morirono 364 tra donne, uomini e bambini senza che l’imponente dispositivo aeronavale nazionale, Ue, NATO e extra-NATO che presidia ogni specchio di mare, facesse alcunché per soccorrere i naufraghi.

Un’operazione militare e umanitaria, l’hanno ipocritamente definita il Governo e lo Stato Maggiore della Difesa, rispolverando l’espressione utilizzata per giustificare gli interventi di guerra in Bosnia, Kosovo, Iraq, Afghanistan, Libia e Corno d’Africa ed aggirare la Costituzione e il senso comune. “Si prevede il rafforzamento del dispositivo italiano di sorveglianza e soccorso in alto mare già presente, finalizzato ad incrementare il livello di sicurezza della vita umana ed il controllo dei flussi migratori”, recita il contorto comunicato ufficiale della Presidenza del Consiglio, mettendo insieme improbabili intenti solidaristici e le immancabili logiche sicuritarie e repressive.

Vaghi i compiti e le funzioni attribuiti alle forze armate; volutamente inesistenti le regole d’ingaggio, ma dettagliatissimo l’elenco dei dispositivi di morte impiegati per rendere off limits il Mediterraneo. All’operazione Mare Mostrum sono presenti quasi tutte le più sofisticate produzioni del complesso militare-industriale del sistema Italia. Sul fronte anti-migranti esordisce la nave d’assalto anfibio LPD di 133 metri di lunghezza “San Marco”, che, come ha spiegato il ministro della Difesa Mario Mauro, ha la “capacità di esercitare il comando e controllo in mare dell’intero dispositivo, con elicotteri a lungo raggio, capacità ospedaliera, spazi ampi di ricovero per i naufraghi e un bacino allargabile per operare con i gommoni di soccorso in alto mare”. Poi due fregate lanciamissili classe “Maestrale”, ciascuna con 225 uomini e un elicottero imbarcato; un’unità da trasporto costiero, classe “Gorgona” per il supporto logistico; due pattugliatori d’altura classe “Comandanti/Costellazioni”; due corvette della classe “Minerva”.

Più articolati i mezzi aerei: due elicotteri EH.101 della Marina militare dotati di strumenti ottici ad infrarossi e radar di ricerca di superficie, da imbarcare sulla “San Marco” o schierare negli scali di Lampedusa e Pantelleria; quattro elicotteri AB 212 AS, ancora della Marina, giunti a Lampedusa dopo essere stati oggetto di inutili operazioni di bonifica anti-amianto negli stabilimenti di Grottaglie (Ta) e Catania; un aereo Piaggio P-180 con visori notturni, impiegabile anch’esso dall’aeroporto di Lampedusa; un bimotore Breguet 1150 “Atlantic” del 41° Stormo dell’Aeronautica militare di Sigonella, con equipaggi misti Aeronautica-Marina, per il pattugliamento marittimo delle aree interessate; due elicotteri HH-3F e HH-139 SAR (Search and Rescue) del 15° Stormo dell’Aeronautica di Cervia (Ra), gli unici mezzi con evidenti funzioni di ricerca e soccorso in mare in caso d’incidenti. Tra personale imbarcato e di supporto a terra, la nuova crociata anti-migranti conta su 1.500 militari, tra cui spiccano in particolare quelli di pronto intervento della Brigata “San Marco”, indicata dai Comandi della Marina come “uno strumento efficacissimo, capace di rischierarsi rapidamente e di operare in qualsiasi parte del mondo con particolare riguardo alle attività d’interdizione marittima, all’antipirateria e alla difesa delle installazioni sensibili”.

Per l’Operazione Mare Nostrum sono utilizzate anche le Reti radar della Guardia Costiera e della Guardia di finanza, le Stazioni dell’Automatic Identification System della Marina militare e, per la prima volta nella storia per operazioni di vigilanza delle frontiere, finanche un velivolo senza pilota “Reaper MQ 9” del 32° Stormo dell’Aeronautica militare di Amendola (Fg). Quest’ultimo non è altro che uno dei droni-spia già utilizzati dall’Italia nelle guerre in Iraq, Libia e Afghanistan (solo in quest’ultimo conflitto il Reaper ha già totalizzato dal 2007 ad oggi 1.300 sortite a favore delle forze NATO, contro più di 6.000 obiettivi). Il velivolo teleguidato può volare fino ad 8.000 metri di quota per oltre 20 ore consecutive, consentendo di realizzare riprese elettro-ottiche, all’infrarosso e radar. Secondo il Ministero della Difesa, il drone impiegato in Mare Nostrum “svolge attività di sorveglianza aerea con il duplice fine di salvare vite umane in pericolo e identificare le navi madri, utilizzate dagli scafisti”.

“Anche se la missione annunciata è stata definita umanitaria e di soccorso, desta qualche sospetto la composizione dello strumento aeronavale navale messo in campo”, ha rilevato Il Sole 24 Ore. In particolare, il quotidiano di Confindustria pone l’accento sulle caratteristiche delle unità navali da sbarco e delle fregate lanciamissili, scarsamente utilizzabili in interventi di soccorso in caso di naufragi. “Si tratta di navi da oltre 3 mila tonnellate, pesantemente armate, con poco spazio a bordo per ospitare naufraghi e molto onerose”, aggiunge Il Sole 24 Ore, rilevando invece come queste unità consentano azioni militari più complesse, “da coordinare magari con il governo libico”. Anche lo schieramento dei droni e della “San Marco” risponderebbe all’intento strategico di contribuire al dispositivo di “contenimento” libico delle imbarcazioni di migranti. “Grazie alla loro autonomia di volo i droni possono sorvegliare costantemente i porti di partenza dei barconi consentendo alle navi militari di raggiungerli appena al di fuori delle acque libiche”, spiega ancora Il Sole 24 Ore. “La nave “San Marco” ospita anche mezzi da sbarco e fucilieri di Marina: mezzi e truppe idonei a riaccompagnare in sicurezza sulle coste libiche immigrati recuperati in mare sotto la scorta deterrente delle fregate lanciamissili”.

Ancora più esplicita l’analisi dell’ex capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica militare Leonardo Tricarico, neopresidente della Fondazione ICSA (ha sostituito il sen. Marco Minniti del Pd dopo la sua nomina a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri e autorità delegata alla sicurezza della Repubblica). “Sul piano tecnico-operativo bisognerebbe puntare su un robusto passo diplomatico con i Paesi rivieraschi per far sì che i droni, anziché essere impiegati in una ricerca senza mèta in mare aperto (non sono mezzi di sorveglianza d’area), vengano utilizzati per il pattugliamento delle coste libiche, per individuare in maniera precoce le attività preparatorie all’imbarco e fermarle per tempo”, scrive il gen. Tricarico. “In fin dei conti con la Libia vi sono già attività di cooperazione avviate, è operante un contratto per il controllo della frontiera sud, è stato formalmente accettato un piano italiano di controllo delle frontiere terrestri e marittime, stiamo addestrando da molti mesi le loro forze di sicurezza”. La rivista specializzata Analisi Difesa, vicina agli ambienti più conservatori delle forze armate, ha fatto esplicito riferimento alla recentissima stipula di accordi tra le forze armate italiane e il premier Alì Zeidan per rafforzare la presenza di polizia nelle città costiere della Libia e “impedire nuove partenze” di migranti. “L’obiettivo di riportare in Libia i barconi, bloccandoli appena lasciano le coste nordafricane – scrive Analisi Difesa - giustificherebbe la presenza di navi da guerra come le “Maestrale” (utili a esprimere deterrenza contro le milizie libiche armate fino ai denti) e la “San Marco”.

Legittimo dunque il sospetto di alcuni giuristi e delle associazioni antirazziste e di difesa dei diritti umani secondo cui con “Mare Nostrum” si potrebbero ripetere ed ampliare le deportazioni di migranti e richiedenti asilo che furono eseguite qualche anno addietro dai Paesi NATO in accordo con le autorità governative libiche. In verità, dopo il varo del governo Letta dell’operazione militare-umanitaria, lo stesso ministro Angelino Alfano ha ammesso che i migranti fermati in mare dalle unità della Marina e dell’Aeronautica potrebbero essere “sbarcati” in alcuni porti sicuri della sponda sud del Mediterraneo. “Ci sono le regole del diritto internazionale della navigazione e non è detto che se interviene una nave italiana porti i migranti in un porto italiano”, ha precisato il ministro dell’Interno. Come sottolineato dal prof. Fulvio Vassallo Paleologo, componente del Consiglio direttivo dell’ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), con gli auspicati “sbarchi” di migranti in porti “sicuri” non italiani, “c’è il rischio fondato che si ripetano i respingimenti verso i paesi che non garantiscono la tutela dei diritti umani, come è accaduto nel 2009, quando la Guardia di Finanza italiana riportò in Libia decine di migranti”. Una pratica per la quale l’Italia è stata condannata, nel 2012, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Ulteriori perplessità dal punto di vista giuridico sorgono poi dalla decisione del governo italiano di assegnare a bordo delle unità della Marina militare alcuni funzionare del Dipartimento di Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere per eseguire in alto mare le identificazioni e i foto segnalamenti dei migranti “soccorsi”. “L’attività di prima identificazione compiuta subito dopo il salvataggio non sembra che si tratti di formalità che si possa adempiere a bordo di una nave in acque internazionali, quando forse sarebbe auspicabile il più rapido sbarco a terra”, evidenzia il prof. Vassallo Paleologo. “Ancora più grave sarebbe se a bordo delle unità impegnate nell’operazione Mare Nostrum si svolgessero veri e propri interrogatori, senza alcuna garanzia procedurale, magari alla caccia di qualche nave madre, mentre potrebbero esserci altri barconi in procinto di affondare. Sui naufraghi reduci da un salvataggio traumatico non si possono esercitare quelle attività di polizia che si dovrebbero compiere negli uffici di frontiera con le garanzie procedurali previste dalla legge, con l’intervento di mediatori culturali e non solo di interpreti, con una corretta informazione sulle leggi applicate, in modo da salvaguardare il diritto di chiedere asilo ed i diritti di difesa”.
Le modalità d’impiego del personale di pubblica sicurezza a bordo delle unità navali da guerra è stato stigmatizzato dal sindacato di polizia COISP. “Tredici poliziotti sono stati impegnati dal Dipartimento della P.S. e si occupano di effettuare operazioni di foto-segnalamento di centinaia di migranti”, denuncia il COISP. “Sono stati imbarcati sulle navi della Marina Militare senza che venisse fornito loro alcun tipo d’informazione sul trattamento di missione, alloggiati in ambienti un tempo riservati al personale di leva, in condizioni inaccettabili e inimmaginabili”. Il sindacato ha poi rilevato un’“inammissibile disparità” del trattamento economico riservato al personale delle forze armate e a quello di PS. “Agli agenti della polizia di stato vengono erogati una manciata di euro per una missione ordinaria, mentre al personale della Marina viene riconosciuta una indennità giornaliera feriale di 60 euro e di 100 euro per i giorni festivi”. Tra emolumenti e indennità per il personale e costi operativi dei mezzi aeronavali, l’intervento militare-umanitario assorbirà una spesa tra i 10 e i 12 milioni di euro al mese. Il governo non ha previsto stanziamenti aggiuntivi sul capitolo “difesa” ed è presumibile che il denaro per alimentare la macchina da guerra anti-migranti sarà prelevato dal fondo straordinario di 190 milioni di euro messo a disposizione per far fronte alla nuova emergenza immigrazione. Come dire che da qui alla fine del 2013, gasolio e pattugliamenti aeronavali bruceranno il 20% di quanto è stato destinato per tutto l’anno a favore del soccorso e dell’accoglienza dei migranti. L’ennesima vergogna in un Paese sempre meno libero, democratico ed ospitale.
Che cosa c’è sotto la schiuma della vittoria di Matteo Renzi. La Repubblica, 11 dicembre 2013

PRIMA ancora che Matteo Renzi vincesse le primarie, era chiaro che la stabilità intesa come valore assoluto era una cornice vuota, senz’alcun dipinto dentro. Giaceva a terra, come il potere dei vecchi regimi che i rivoluzionari raccattano facilmente. Il nuovo segretario del Pd gli ha assestato il colpo di grazia, domenica a Firenze («ai teorici dell’inciucio diciamo: v’è andata male») e in un baleno il mondo di ieri è apparso ingrigito, obsoleto.

È così anche se Renzi non sarà che schiuma delle cose. Già da tempo in Europa son fallite le strategie anticrisi che come fondamento hanno scelto la sospensione della democrazia e dell’idea stessa di conflitto, sociale o politico. Anziché spegnersi, la crisi s’è acuita. Perfino il Wall Street Journal,in nome dei mercati, ha scritto il 24 novembre che i toni sempre bassi, i compromessi tra oligarchi, la pacificazione come dogma, prefigurano la «stabilità dei cimiteri». Continueranno a prefigurarla se Renzi non oserà un’autentica resa dei conti con Letta, e si consumerà in trattative, rinvii presto sgualciti, fiducie concesse avaramente, ma pur sempre concesse.Il suo tempo è brevissimo, perché enorme è la forza d’inerzia dei vecchi regimi, anche se incartapecoriti. Possiedono l’energia del corpo che non cessa di gorgogliare anche dopo morto, come nell’Illustre Estinto di Pirandello: sottosegretari deputati e curiosi s’affollano nella camera ardente, e nel silenzio quasi sacro della scena può accadere l’inatteso: «Un improvviso borboglìo lugubre, squacquerato, nel ventre del cadavere, che intronò e atterrì tutti gli astanti. Che era stato? —Digestio post mortem,— sospirò, dignitosamente in latino, uno di essi, ch’era medico, appena poté rimettersi un po’ di fiato in corpo».

Il che vuol dire: nel ventre d’Italia tutto è ancora possibile, anche il borboglìo squacquerato che inneggia alla stabilità degli inciuci, e questo per il semplice fatto che il Paese vi sta rannicchiato da anni. Dante avrebbe detto, con i suoi magnifici neologismi: s’è in-ventrato nella stabilità oligarchica. Con linguaggio più moderno l’ultimo rapporto del Censis — presentato il 6 dicembre — usa metafore identiche. Narra un’Italia imbozzolata, senza «sale alchemico»: «sciapa, infelice », cerca riparo nella Reinfetazione.Reinfetazione è quando ti rifai feto: torni nella pancia, il cordone ombelicale ti tiene al guinzaglio.Finché non nasci, resti stabile tu e anche chi comanda: «Con annunci drammatici, decreti salvifici, complicate manovre, la classe dirigente si presenta come l’unica legittima titolare della gestione della crisi» (Censis). È il dispositivo, al tempo stesso disciplinatore e rasserenante, che il pacificatore Napolitano coltiva da anni.

Nella reinfetazione,scrive De Rita nel suo 47° rapporto, tutti i soggetti politici, i rappresentanti, le forze sociali, vivono «in stato di sospensione nelle responsabilità del Presidente della Repubblica». Vogliose, ma incapaci di «tornare a respirare».Questo teorema avvizzisce d’un colpo: in realtà la reinfetazione«riduce la liberazione delle energie vitali. Implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti». Usa crisi e paure per salvaguardare il potere di poche, chiuse cerchie. Riduce e demonizza il conflitto, quando dovrebbe invece considerarlo sale della rinascita. Tradisce le speranze in Rodotà o Prodi. È probabile che gran parte degli elettori, votando Renzi e anche Civati (82%, insieme), più che un nuovo capopopolo abbia cercato precisamente questo: uscire dal ventre, chiudere l’era fetale, e fatale, cara a Napolitano. Riabilitare il conflitto, a cominciare da quello contro le larghe, strette, o larvate intese. Non sappiamo fino a che punto Renzi ne sia conscio. Se non lo è non gli basterà la veduta lunga consigliata da Fabrizio Barca. Entro un anno sarà sfinito.
Il rapporto del Censis non è stato il solo segno precursore. Non avremmo i sussulti odierni, senza la scossa di 5 Stelle. E anche la Corte costituzionale ci ha messo del suo, il 4 dicembre, abolendo un Porcellum carezzato per 8 anni dalla classe politica. È vero, nel gennaio2012 proprio la Consulta bocciò il referendum col ritorno al Mattarellum chiesto da 1,2 milioni di cittadini. È innegabile, essa ci restituisce il grado zero della democrazia (la proporzionale). Ma mette i politici davanti alla verità e dice: volutamente avete preferito regole che hanno promosso i rappresentanti dei partiti anziché dei cittadini, allargando la faglia tra voi e loro, e questo lo dichiariamo illegittimo. Se non vi date da fare, avrete il proporzionale come nella Repubblica di Weimar. Una iattura? La questione è controversa, tra gli storici tedeschi: se Hitler vinse, sostengono molti, la colpa non fu solo del proporzionale.
Zagrebelsky ricorda giustamente che lo Stato continua,dopo la sentenza. Ma Stato non è sinonimo di governo. E il Parlamento attuale, pur non annullato, di fatto è «delegittimato dal punto di vista democratico»(Repubblica 8-12). Si è delegittimato lasciando che il gong, ogni volta, venisse suonato da fuori: da outsider come Grillo, i magistrati della Consulta, gli elettori dei referendum. Anche qui il Censis parla chiaro: la salvezza, anche economica, verrà dagli esterni. Dagli immigrati che si fanno imprenditori con più lena degli italiani, dalle donne che fondano aziende, persino dai giovani che fuggono all’estero e si riveleranno una risorsa. Tutti costoro, e tutti i movimenti cittadini di protesta, sono come un esercito straniero di liberazione: pronti ad approdare in Italia come le truppe anglo-americane in Sicilia e Calabria nel luglio e settembre ’43.È uno sbarco generalizzato - Grillo ha dato il via, poi son venute la Consulta, le parole del Censis, le euforiche primarie - e per forza il popolo è «allo sbando», come l’8 settembre ’43 all’armistizio.

Colpisce che l’espressione - Paese sbandato - appaia in tanti commenti di questi giorni. L’aveva usata Elena Aga Rossi, nel bel libro sulla fine della guerra (Una nazione allo sbando,2003). Furono anni di viltà, doppiezze furbesche: così affini agli anni presenti. Il governo Badoglio ordinò la resa agli alleati, ma senza rompere l’inciucio col socio nazista. Il giorno dopo fuggì col Re consegnando ai tedeschi due terzi dell’Italia, Roma compresa. Seguì una reazione disperata del Paese, caotica. I più tornarono a casa senza battersi, e però la patria non morì: il 9 settembre nacque il Comitato di liberazione, e furono tanti i militari che rifiutando la doppiezza combatterono Hitler. Tuttavia il caos poteva esser risparmiato, se la rottura con il fascismo fosse stata netta. Se non fosse perdurata l’abitudine a restare nel suo ventre, a reinfetarsi.Ne nacquero film come Tutti a casa di Luigi Comencini, o ancor più Vita difficile di Dino Risi. Il protagonista di quest’ultimo - impersonato da Sordi - senza fine narra il nostro sperare e disperare, credere e sbandare. I suoi urli d’ira sulla litoranea di Viareggio, contro il Paese che ha tradito lui e la Resistenza, esplodono tali e quali in questi anni, questi giorni.

Il voto a Renzi è l’ultimo della serie.È una vittoria che molti (Renzi stesso, magari) vorrebbero usare a piacimento: per emarginare e silenziare le grida di cui è figlia. Troppo presto forse Enrico Letta ha detto: «Non è un voto contro di noi. È un argine contro il populismo e la deriva distruttiva, estremista» di Grillo, più che di Berlusconi. Il senso del voto è in mano a Renzi. Non mente quando dice: l’urlo dei Vday è altro dalle primarie. Ma nella sostanza è simile quel che muove ambedue: la rabbia, la sete di rigenerazione. Ignorarlo è rischioso, non solo per lui.È rischioso anche per l’Europa, bisognosa di scosse simili. Non per scaricarla (lo Stato del tutto sovrano è imbroglio) ma per edificare, questo sì, una vera Comunità.
«Il paradosso è questo: mentre diventa diverso da sé (rinnovandosi), il Pd diventa sempre più uguale agli altri, al pensiero unico corrente, alle ricette note, ai discorsi già sentiti, ed alcuni, addirittura, sentiti in Europa venti e più anni orsono – e in larga parte falliti».

AR alessandro robecchi, blog, 9 dicembre 2013

Dunque, i dati prima di tutto. Un’affluenza altissima alle Primarie del Pd e un’affermazione mastodontica del nuovo segretario, Matteo Renzi. Due dati che non consentono scorciatoie né letture furbette: al netto delle piccole e grandi polemiche (il voto degli esterni, la grandinata di presenza televisive, la simpatia dei grandi media, anche non di sinistra), Matteo Renzi si prende il Pd con l’appoggio massiccio della base, con una procedura democratica e con pieno merito rispetto agli sfidanti. Gli elettori del Pd, in larga maggioranza gli danno fiducia e gli chiedono di guidare un partito che non ne azzecca una da anni, appesantito da un apparato vecchio e inefficiente (e non parlo solo dei soliti nome-parafulmine, i D’Alema, le Bindi, eccetera, ma del corpaccione del partito, specie nelle realtà locali) e indeciso a tutto.Dunque, ora non resta che vedere.

Non mancano molti elementi di “antipatia” (categoria non solo politica, a dire il vero), che non varrebbe nemmeno la pena di elencare. L’aplomb da “rampanti” di una parte della sua base militante, per dirne una. Le lodi al decisionismo che ricordano un po’ il craxismo dei primi tempi, la capacità mimetica di un leader che si è saputo vendere come nuovo e viene dritto dritto dallo stesso apparato che dice di voler abbattere. Eccetera. Aggiungo: un sapiente capitalizzare le energie delle generazioni deideologizzate, quelle cresciute nell’era del berlusconismo, quelle convinte che siano state le generazioni prima a rovinargli la vita e non invece la vittoria senza se e senza ma delle politiche liberiste. E’ questo – solo questo, ma non è poco – il “berlusconismo” renziano che a volte si evoca. Oltre, s’intende, ad intendere "nuovo" come sinonimo di "migliore", che non è vero quasi mai, specie se non è nemmeno tanto nuovo.

Insomma, un bel mix che andrà controllato passo passo. Basti dire che c’è oggi tra chi esulta per Matteo Renzi, gente che sperò nella riforma Fornero (uh, vedrai… i precari… lasciamola lavorare…), che sorrise nei primi tempi di Monti, eccetera eccetera. Inesperienze da perdonare. Così come sono comprensibili, anche se non ammirevoli, certe esagerazioni nei toni: un’aspirante classe dirigente che sgomita e aspira ad occupare i posti evacuati dai “rottamati”, a piazzarsi, a far parte dell’onda perché in cima all’onda c’è odore di incarichi e di carriera.

Tutto normale, già visto in altre circostanze e in qualche modo comprensibile. Aggiungerei una componente che ha, nel successo di Renzi (il renzismo verrà), un peso notevole, ed è l’irresistibile fascino della vittoria. Dopo tante delusioni, e pareggi stiratissimi, e sconfitte a iosa, vincere non pare vero, tanto che il “vincere perché”, il “vincere per far cosa” sembra passare in secondo piano. Il leader del primo partito della sinistra italiana è costretto a urlare nel suo discorso di insediamento che “la sinistra non finisce”, come a convincere e a convincersi, bizzarra puntualizzazione, parole dal sen fuggite. E si capisce anche perché, visto che i discorsi sulla tattica impongono ora di verificare lo scontro tra un capo del governo (Letta, Pd, area cattolica, Margerita, Dc) e un capo del partito (Renzi, Pd, area cattolica, Margherita, Dc).

Ma la strategia è quello che più interessa. Le politiche di Renzi sono state largamente annunciate. A cominciare dall’ideologo finanziere Davide Serra, per proseguire con l’appoggio di vecchi apparati di lungo e lunghissimo corso, per contiuare, come corollario, anche alcune gaffes o fughe in avanti (o indietro?) di certi suoi ultras (Blair, la Thatcher…).

Insomma, il disegno non è ancora chiarissimo, ma si vede in filigrana la trama portante: un liberismo con la faccia più buona, la sostituzione di una lotta generazionale alla lotta di classe (ne ho scritto su Micromega), l’assenza quasi totale di discorsi sulla redistribuzione del reddito e, invece, un ditino alzato verso quelle componenti della società (i pensionati, per dirne una) considerate una zavorra. La meritocrazia senza uguaglianza, cioè di fatto la promessa alle classi dirigenti attuali che a dirigere saranno ancora e sempre loro. Niente di nuovo, a parte i toni, i colori e il linguaggio (non nuovissimo nemmeno quello, peraltro, come dimostra l’ampio uso di stilemi pubblicitari e a volte addirittura veri e propri spot commerciali di grandi marche).

Dunque il paradosso è questo: mentre diventa diverso da sé (rinnovandosi), il Pd diventa sempre più uguale agli altri, al pensiero unico corrente, alle ricette note, ai discorsi già sentiti, ed alcuni, addirittura, sentiti in Europa venti e più anni orsono – e in larga parte falliti (penso alle ricette blairiane, per esempio).

Del discorso primo e sostanziale che un partito di sinistra dovrebbe fare (vorrei dire: sarà prima o poi costretto a fare) non c’è traccia. Non c’è traccia di un programma che punti a stringere un po’ quella forbice tra lavoro e rendita, tra produzione e finanza, tra poveri e ricchi, che in questi ultimi trent’anni si è invece costantemente allargata. Meno poveri e meno ricchi, più garanzie e meno privilegi. Di più per tanti e meno per pochi. Di questo non c’è traccia. Nemmeno un minimo sindacale. La Cgil, per dire (che ha un milione di difetti, si sa, e si vedano gli ultimi discorsi autocritici di Landini sulla necessità di dare rappresentanza ai milioni di lavoratori precari che non ce l’hanno) è stata attaccata nella campagna di Renzi più della classe imprenditoriale e delle politiche che l’hanno favorita , più dei grossi finanzieri (che lo guardano con simpatia, tra l’altro); più dei poteri forti (che ne seguono attentamente le mosse, spesso applaudendo).

Sul palco di Renzi abbiamo visto imprenditori (tanti), finanzieri, “affluenti” delle professioni, ma lavoratori zero. I piccoli passi nel senso di una maggiore giustizia sociale sono vaghi (persino il finanziere Serra parla di aumentare le tasse sulle rendite finanziarie, ma non dice come, né di quanto, né quando, mentre sulle pensioni su fa assai preciso: da lì si aspetta di prendere 10, 15 miliardi, un’enormità, e non parla di pensioni d’oro).Ora, dunque, buon lavoro.

E ora, che (cazzo) fare? Per chi da una sinistra moderna spera altre cose è un momento al tempo stesso delicato ed entusiasmante. Delicato perché alternative in giro (sul mercato della politica, dicono quelli che hanno del mercato una venerazione) non se ne vedono. Sel non pare in grado, la paccottiglia nostalgica dà la nausea e le idee forti non si vedono. Entusiasmante, perché cade finalmente (era ora!) il grande equivoco: la sudditanza emotiva, affettiva, politica al Pd come naturale erede del vecchio (anche odioso, anche ingombrante, anche paternalista) Pci non ha più motivo di esistere. Non c’è più. Il Pd è oggi un partito del grande gioco, si misura con enormi differenze dal populismo furbetto e aggressivo di Grillo e dal partito personale e personalissimo di un Berlusconi agli ultimi atti della sua farsa. Ma il disegno grande, quello complessivo, quello che può cambiare la società italiana, non pare così diverso: mercato, mercato e mercato. Ci penserà lui, come ci ha pensato (e si è visto) negli ultimi decenni.

Dunque, liberi tutti. E trovo ci sia in questo davvero un senso di liberazione, il sospiro di chi si libera di un fardello. Il poco e pochissimo collante ideologico che ancora legava certi “liberi di sinistra” al Pd non c’è più, nemmeno in lontananza.

Si dirà che non è bello essere senza rappresentanza politica, e c’è del vero. Ma tocca anche dire che quando mai c’è stata? Nel Pd dei D’Alema e dei Veltroni? Non direi. Dunque, cade soltanto un equivoco. Sarà bello vedere l’entusiasmo di oggi alla prova dei fatti, sarà istruttivo controllare tra uno, due, tre anni, se chi sta male oggi starà meglio nelle sue condizioni materiali e immateriali. Siccome non c’è una ricetta che prometta di arginare le forze liberiste del mercato (e anzi si promette loro un ritrovato efficientismo), la risposta c’è già. Ma vederla sarà diverso che intuirlo.

Dunque, auguri a chi ci crede e ci ha creduto, sarà piacevole riparlarne quando le parole lasceranno il posto ai fatti, quando saranno finiti gli spot e comincerà il programma. Quando la nuova classe dirigente che ora grida alla vecchia “tutti a casa” (con toni assai grillini, in qualche caso) avrà preso il comando. Mi siedo qui, guardo lo spettacolo, aspetto, osservo il filmino della vittoria odierna, che somiglia al seme di una vecchia, e ben nota, sconfitta.

«Quella che arri­verà sta­notte nel Pd sarà un’altra "ultima svolta". Con Renzi nei panni del "nuo­vi­sta", Cuperlo in quelli del rinnovatore-conservatore, Civati che tenta la via di una sini­stra di con­fine con i movi­menti: no Tav, via Mae­stra, acqua pub­blica». Il manifesto, 8 dicembre 2013

È esa­ge­rato farsi tor­nare in mente la Bolo­gnina, l’ultimo con­gresso del Pci, le lacrime di Occhetto, il «resto nel gorgo» di Ingrao e la scis­sione di Cos­sutta. Ma quella che arri­verà sta­notte nel Pd sarà un’altra «ultima svolta». Con Renzi nei panni del «nuo­vi­sta», Cuperlo in quelli del rinnovatore-conservatore, Civati che tenta la via di una sini­stra di con­fine con i movi­menti: no Tav, via Mae­stra, acqua pub­blica. Sta­volta non ci saranno scis­sioni, ma non si può esclu­dere il rischio di quella che D’Alema defi­ni­sce una «scis­sione silen­ziosa di militanti».

Qual­che set­ti­mana fa del resto Mario Tronti — pre­sti­gioso padre dell’operaismo, pre­si­dente del Crs e oggi sena­tore del Pd — ha par­lato di que­sto pas­sag­gio come l’eventualità per il Pd «dell’uscita defi­ni­tiva dalla sto­ria della sini­stra ita­liana» e del rischio della sini­stra di diven­tare «una mino­ranza nean­che poli­tica, ma intel­let­tuale». Già un anno fa, alle pri­ma­rie di coa­li­zione, Euge­nio Scal­fari aveva par­lato della «muta­zione antro­po­lo­gica» del Pd nel caso avesse vinto Renzi. Quest’anno, di fronte alla quasi-certezza che Renzi sia segre­ta­rio parla di un’« avven­tura» e «in poli­tica le avven­ture pos­sono gio­vare all’avventuriero ma quasi mai al paese che rappresentano».

È inu­tile girarci intorno, lo scon­tro di oggi - da una parte Renzi, dall’altra Cuperlo e Civati - non è sulle prime pagine dell’agenda che il nuovo segre­ta­rio si tro­verà davanti - lar­ghe intese, legge elet­to­rale, ricon­trat­ta­zione dei vin­coli euro­pei - sulle quali i tre si equi­val­gono nella sostanza, tranne Civati che rom­pe­rebbe le lar­ghe intese subito. Il nodo di oggi il cam­bio di natura di un Pd che fin qui ha guar­dato al cen­tro ma si è tro­vato «a svol­gere, quasi di mala­vo­glia, una fun­zione di sini­stra», per dirla con un for­mi­da­bile sag­gio di Wal­ter Tocci, schie­rato con Civati (Sulle orme del gam­bero, Don­zelli), un vade­me­cum per la let­tura del fal­li­mento della gene­ra­zione che oggi passa la mano. E del par­tito che lascia in ere­dità, «da un lato lea­der media­tici e dall’altro nota­bili ter­ri­to­riali sono tenuti insieme da una sorta di patto di fran­chi­sing, in cui i primi si occu­pano della cura del brand e i secondi dell’organizzazione del con­senso». Il «par­tito in fran­chi­sing» lo abbiamo visto ai con­gressi, segnati male dal voto aperto fino all’ultimo (voluto da Renzi), dalle lotte fra clan fino alle incur­sioni dei pm, com’è suc­cesso a Salerno.

Cuperlo nella sua sto­ria ha avuto qual­che incer­tezza sulla bontà delle pri­ma­rie. Renzi ha costruito un muro di ghiac­cio con la Cgil, che pre­sta l’attuale segre­ta­rio e cen­ti­naia di qua­dri al Pd, per non par­lare dei voti (la segre­ta­ria dello Spi Carla Can­tone è can­di­data nelle liste di Cuperlo). Cose che hanno a che vedere appunto con la natura del Pd. Non a caso ieri Cuperlo ha ripe­tuto che «è in gioco l’autonomia della sini­stra». Un con­cetto che ieri a Empoli si è incar­nato in una scena all’ultimo comi­zio di Renzi. È com­parsa una vec­chia ban­diera del Pci, por­tata in piazza da un mili­tante set­tan­tot­tenne che l’aveva rice­vuta dal padre par­ti­giano. L’ha voluta por­gere - senza rega­larla - a Renzi, gio­vane ram­pollo della genea­lo­gia cen­tri­sta ita­liana. Il gesto aveva tutta la forza di un pas­sag­gio sim­bo­lico. Senza un affi­da­mento defi­ni­tivo, però.

Fuori dai sim­boli, le dif­fe­renze fra i tre sono chiare: tutti chie­dono la ricon­trat­ta­zione dei vin­coli euro­pei. Cuperlo ha un clas­sico pro­filo labu­ri­sta (piano straor­di­na­rio per l’occupazione), Renzi ha rispol­ve­rato i libri del giu­sla­vo­ri­sta Pie­tro Ichino, già suo sug­ge­ri­tore (poi pas­sato con Monti), con­tratto unico a tutele pro­gres­sive e can­cel­la­zione defi­ni­tiva dell’art.18. Cuperlo e Civati sono con­tro le pri­va­tiz­za­zioni, Renzi è più ’laico’ (il suo eco­no­mi­sta di rife­ri­mento Gut­geld pro­pone la pri­va­tiz­za­zione di Rai e Poste). Civati e Renzi sono con­tro il Tav, Cuperlo ha fra i suoi i soste­ni­tori delle tri­velle in Val di Susa. Sui diritti, Civatiè a favore dei matri­moni gay e per le ado­zioni, Cuperloè fermo ai matri­moni civili e Renzi alla «civil partnership».

Quanto all’idea dipar­tito, Renzi pre­para il suo Pd di «cir­coli, ammi­ni­stra­tori,par­la­men­tari». Civati chiede refe­ren­dum con gli iscritti, Cuperlocon­te­sta l’idea di un par­tito degli ammi­ni­stra­tori e che nondistin­gua fra se e il governo. Dif­fe­renze pro­fonde, ben al di là delleliti di con­do­mi­nio emerse in que­sti giorni. Che potreb­bero tro­vare unamag­gio­ranza, ma non una sin­tesi, visto che una fetta di mili­tantiper­ce­pi­sce il pro­ba­bile segre­ta­rio Renzi come uno dei tanti lea­der dipas­sag­gio che ha avuto il Pd, in attesa della corsa per Palazzo Chigi. Il chericon­se­gne­rebbe il Pd all’insostenibile pro­filo irre­so­luto di oggi,e di sempre.
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