Tra le bizzarrie del duce dei grillini la sua concezione della democrazia è certamente quella più innovativa. E l'"innovazione" piace molto, di questi tempi.
Il manifesto, 14 gennaio 2014
Oggi, giunta finalmente al voto la legge sulle «depenalizzazioni» comprensiva dell’abolizione della vergogna italiana del reato di clandestinità, ecco la mossa a sorpresa, la votazione-lampo organizzata da Grillo e Casaleggio.
Su di loro si scatenò l’ira funesta del padre-padrone e del suo presunto ideologo internettiano. Se avessimo sostenuto l’abolizione del reato di clandestinità in campagna elettorale – sostenne allora il tandem – «avremmo avuto percentuali da prefisso telefonico». Siamo contrari «nel merito e nel metodo», aggiunsero per chiarire che quell’emendamento avrebbero dovuto rimangiarselo. In cima ai pensieri di questi perfetti imprenditori della paura, c’era, e resta, il calcolo elettorale, l’inseguimento delle pulsioni peggiori del populismo contro gli immigrati, il non schierarsi né a destra, né a sinistra, per guadagnare il massimo consenso dalla crisi dei partiti.
E visto che alla fine quelle poche migliaia di voti (circa 24 mila) in maggioranza (poco meno di 16 mila) hanno appoggiato l’abolizione dell’odioso reato (9 mila quelli che, invece, avrebbero voluto confermarlo), forse Grillo e Casaleggio dovranno rassegnarsi a cominciare a restituire una parte dei consensi sottratti alle destre leghiste. E magari domani vedersi sfuggire anche quelli avuti in dono dal Pd di Bersani. Se l’abile e astuta strategia di Renzi riuscirà a essere più efficace della propaganda grillina sul finanziamento pubblico e la legge elettorale, nemmeno le maglie strette del controllo della rete riusciranno a trattenere il bottino elettorale conquistato cavalcando la grande paura
La magistratura ci ha liberato dellavergogna del Caimano, ciò che lapolitica politicante non aveva voluto fare. Chi ci libererà da quest’altravergogna? E’ davvero difficile essere italiani. La Repubblica online, 14gennaio 2014
C’ è l’armadio della vergogna, ma anche il carrello della vergogna. Nel primo furono nascosti per mezzo secolo i fascicoli degli innumerevoli crimini commessi in Italia dai nazisti con il valido aiuto degli scherani di Mussolini. Nel secondo, un enorme carrello a due piani, per ancora più tempo sono stati accantonati (sarebbe meglio dire occultati) tutti i faldoni riguardanti le non gloriose imprese commesse dalle truppe inviate dal Duce alla conquista del mondo. E, mi duole dirlo, non c’è eccessiva differenza tra le azioni delle camicie brune tedesche e quelle delle camicie nere.
Italiani brava gente? In guerra quasi non esistono differenze, come non sono esistite e non esistono nel trattamento morale e penale di nazisti e fascisti. Tranquilli i primi, nei loro Paesi, nonostante condanne all’ergastolo comminate dai nuovi Tribunali militari. Tranquillissimi i secondi, neanche sfiorati dalle inchieste.
Ora i fatti. Tra le montagne di carte di quell’enorme carrello, che per oltre due anni ho faticosamente inseguito, c’è la relazione della Commissione istituita il 6 maggio del 1946 dal ministero della Guerra per «accertare le responsabilità nelle quali potessero essere incorsi i comandanti o i gregari italiani nei territori d’oltre confine occupati dalle forze armate italiane nell’ultima guerra». Firma la relazione, datata 30 giugno 1951 e inviata a quello che ormai è divenuto il ministero della Difesa, il senatore avvocato Luigi Gasparotto: antifascista, cofondatore del Partito della democrazia del lavoro (scomparso nei primi anni del dopoguerra insieme al Partito d’azione) e unico civile tra tanti militari. Uno dei suoi figli, rinchiuso nel lager di Fossoli, fu ucciso dai nazifascisti assieme al finto generale Della Rovere e ad altri settanta internati.
Gli accusati dalle varie nazioni aggredite dal fascismo sono 326 di cui solo 34, secondo la relazione, «sarebbe opportuno sottoporre a giudizio dell’autorità competente». Ma quest’ultima, cioè la Procura militare di Roma, quando riemersero le carte, si pronunciò qualche anno fa per la «non punibilità» di tutti, a norma, artatamente, di un articolo del codice militare di guerra, il 165, previsto per ben diverse situazioni.
La relazione parte considerando le richieste della Jugoslavia, «Paese dal quale sono state mosse le più numerose e più gravi accuse alle nostre truppe di occupazione e alle autorità civili preposte all’amministrazione dei territori occupati». Dopo aver respinto l’accusa di preordinata e sistematica violenza da parte italiana, si fa riferimento alla necessità degli occupanti di emettere provvedimenti di rigore per controbattere «gli atti di ferocia commessi dai partigiani». E che i partigiani jugoslavi non fossero anime gentili, è raccontato in un altro di quei numerosissimi fascicoli: 40 bersaglieri catturati furono evirati. Ma un generale italiano commentò: «Però noi siamo gli aggressori».
Vien anche scritto in questa relazione che «l’annientamento di interi villaggi, le rappresaglie più spietate, furono opera di gruppi etnici e religiosi in lotta fra loro». L’allusione riguarda, evidentemente, la guerra intestina tra titini e monarchici. «Tuttavia non può disconoscersi che gli ordini e le disposizioni dati da alcuni comandanti militari e da qualche autorità civile e i giudizi sommari di qualche tribunale straordinario apparissero improntati ad un rigore eccessivo». E così vengono denunciati, tra gli altri, alle autorità competenti «i generali Roatta e Robotti, il governatore della Dalmazia, Bastianini, i componenti del tribunale straordinario di Sebenico, generale Magaldi e colonnello Sorrentino, essendo stato l’altro componente, Pietro Caruso, fucilato in Roma, dove aveva esercitato le funzioni di questore, dietro condanna dell’Alta Corte di Giustizia». Roatta, già capo dei servizi segreti fascisti, mandante insieme a Mussolini, dell’assassinio in Francia dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, comandante supremo dell’armata che aveva invaso la Jugoslavia, diceva ai suoi: «Non dente per dente, ma testa per dente». E il suo successore, Robotti, si lamentava nelle riunioni dello stato maggiore perché «qui ne ammazziamo troppo pochi». Ma non c’è problema: loro e tutti gli altri se la cavarono a norma di quell’articolo 165 del Codice militare di guerra che prevede la parità della tutela penale, come se ci fosse parità tra eserciti e civili, come se si mettessero sullo stesso piano le vittime di S. Anna di Stazzema e chi le massacrò.
Albania. Dice la relazione: «Anche il governo albanese, sull’esempio di quello jugoslavo, ha rivolto molteplici gravi accuse di crimini di guerra ai connazionali militari e civili di cui hanno chiesto la consegna… Costoro, secondo quanto afferma detto governo, avrebbero ispirato, organizzato ed eseguito l’aggressione armata del 17 aprile 1939, favorito l’aggressione da parte della Germania del 6 luglio 1943, ordinato e commesso innumerevoli delitti contro il popolo albanese», consistenti in deportazioni, uccisioni, atti di terrore, atrocità. Ma «si tratta di accuse così vaghe e generiche» da non potersi prendere in considerazione. E le varie colpe addebitate ai singoli sono «quelle misure che potevano essere compatibili con le condizioni anormali create dallo stato di guerra». E poi, stigmatizza la commissione, «il governo albanese, anziché lanciarsi in accuse infondate, avrebbe dovuto ricordare l’azione oltremodo benefica svolta dall’Italia in quel Paese negli anni che precedettero l’occupazione». Come vi permettete? Siete privi di memoria?
Grecia. A norma dell’art. 45 del Trattato di pace il governo greco chiese la consegna di 23 persone, tra militari e civili. Tra queste l’ex luogotenente in Albania Francesco Jacomoni. Però, nell’aprile del 1948 le autorità greche «dichiaravano di rinunciare a dette consegne, lasciando alla magistratura italiana il compito del giudizio». Anche in questo caso, nota la relazione, ci si trova davanti a generiche enunciazioni (ma alcune inchieste riaperte dal nuovo procuratore Marco De Paolis dimostrano esattamente il contrario). Quindi, per la Commissione tutto a posto. Unica eccezione il generale Gherardo Magaldi, ancora lui, «il cui carattere violento avrebbe potuto giustificare l’accusa di uccisioni e atti di crudeltà da lui commessi e ordinati… Per questo è stato deciso di inviare il suo caso ai nostri organi giurisdizionali per compiere un’ampia istruttoria». Ma come vado ripetendo non se ne farà niente.
Russia. In una nota dell’ottobre del 1944 il governo russo denunciava come criminali di guerra il generale Roberto Lerici ed altri 11 ufficiali. «Tuttavia la Commissione si è dovuta convincere che le accuse erano basate su dati di fatto inesatti o insussistenti». Comunque il governo russo non rispose alle richieste di chiarimenti, «dimostrando, tra l’altro, di non insistere sulla consegna degli accusati». Alla commissione arrivarono richieste anche dalla Francia e dalla Gran Bretagna, di rilevanza minore, comunque anch’esse completamente azzerate. Manca, stranamente, in questa relazione finale della «Commissione d’inchiesta per i crimini di guerra italiani secondo alcuni Stati esteri» ogni riferimento a quel che combinarono in Africa i marescialli Badoglio e Graziani. In particolare quest’ultimo, che poi aderirà a Salò.
La conclusione, assai amara: in questo Paese è più facile, molto, molto più facile far riemergere la mastodontica Concordia, piuttosto che la storia, la memoria, la giustizia. Cioè, in una parola, la civiltà.
Del resto, nella storia della Penisola i barbari sono sempre venuti dal Nord; ma dal di là delle Alpi.
La Repubblica, 12 gennaio 2014
PERCHÉ l’assessore per l’immigrazione della Lombardia non vuole partecipare a un incontro sull’immigrazione con il ministro per l’immigrazione? La risposta è dello stesso assessore, la leghista Simona Bordonali: “Ritengo le tematiche non prioritarie”. Può essere anche divertente domandarsi quali tematiche, se non l'immigrazione, siano “prioritarie” per un assessore all'immigrazione.
Ma è più interessante notare come la poco partecipata ma molto dura contestazione di ieri, a Brescia, contro il ministro Kyenge, forse per la prima volta abbia compattato i rappresentanti politici e in qualche caso istituzionali di tutta la destra nazionale, da Forza Nuova alle camicie verdi ai neomissini di Fratelli d'Italia a militanti della rinata Forza Italia (che, a prenderli in parola, sarebbero i veri eredi dei “moderati”).
La ministra “congolese”, si sa, è il bersaglio prediletto, oltre che il più ovvio, degli umori xenofobi del nostro Paese. In quanto italiana figlia dell'immigrazione e in quanto nera è ritenuta, piuttosto che una persona a conoscenza dei fatti, una provocazione vivente, un insulto a un'idea di “italianità” puramente virtuale, al pari di ogni astrazione razzista, ma violentemente ribadita, al pari di ogni astrazione razzista. Quanto al fatto che proprio nelle scorse settimane la rivista americana Foreign Policy abbia inserito la Kyenge tra le cento personalità mondiali più influenti in funzione del cambiamento può valere, negli ambienti dell'isolazionismo italiano, solo come conferma del complotto “mondialista” ai danni della retta conduzione di ogni nazione.
Nei fatti, sempre che i fatti contino, il vero problema, per loro, non è certo uno spintone di troppo da parte della polizia; né i loro veri antagonisti coincidono, se non in piccola parte, con i ragazzi antirazzisti e gli immigrati che ieri gli si sono opposti in strada, avendo uguale diritto di manifestare. Il vero problema, per la destra lombarda e italiana, è che Kyenge era stata invitata, oltre che da un paio di enti locali, dall'Azione Cattolica di Brescia, vale a dire da quel cattolicesimo sociale che in Lombardia è molto presente e molto influente; ed è, soprattutto, profondamente “popolare”, non certo riducibile alle detestate lobby mondialiste o salottiere o comuniste o bancarie o gay o altro che, nella visione piuttosto paranoica della destra xenofoba, regola le cose del mondo con subdola protervia.
Mentre la Beccalossi, la Bordonali e Rolfi (e Maroni? ha un'opinione in proposito, Maroni?) vorrebbero dare alla Kyenge il foglio di via, e il loro manipolo di ripulitori etnici sventolava un grande biglietto di aereo “Italia-Congo” da consegnare al ministro, Azione Cattolica la invita a Brescia e le mette a disposizione un microfono e un vasto pubblico, in una delle città più cattoliche e più ex democristiane di Italia. Specie sotto un papato come questo, antifondamentalista ed ecumenico (mondialista?), i veri grattacapi, per gli xenofobi padani e italiani, non verranno dai “comunisti” dei centri sociali.
«Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali». La Repubblica, 9 gennaio 2014
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NEL suo gran libro su La crisi della coscienza europea dal 1680 al 1715, Paul Hazard ebbe a definire l’Europa come “un pensiero che mai si accontenta”. Oggi, prigioniera di una crisi senza precedenti, l’Unione europea si accontenta di politiche economiche restrittive, quasi una frontiera invalicabile. Questa è l’Europa degli anni che viviamo. Nella quale sono deboli i tentativi di colmare il deficit di democrazia segnalato da Jacques Delors. Ed essa è scivolata verso un deficit di legittimità, che è alla base della crescente sfiducia dei cittadini, delle spinte verso la rinazionalizzazione, dell’abbandono di valori e principi dell’Unione come accade in Ungheria.
Vi era stato un momento in cui questo rischio era stato individuato, e s’era imboccata la via per contrastarlo. Nel 1999, il Consiglio europeo aveva aperto una fase costituente, affidando ad una Convenzione il compito di scrivere una carta dei diritti. La ragione di questa scelta era netta: “La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione”. Si manifestava così la consapevolezza che la costruzione dell’Europa affidata solo al mercato avesse esaurito le sue risorse. che la sua piena legittimità esigesse ormai una centralità dei diritti. Ritroviamo qui l’eco lontana dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “la società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è determinata la divisione dei poteri, non ha Costituzione”. Quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto questo — una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato della Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of Rights, che pure, com’è scritto nell’articolo 6 del Trattato di Lisbona, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Cogliendo questo spirito, addirittura quando la Carta non era vincolante, l’allora presidente Romano Prodi dichiarò subito che “Parlamento e Commissione hanno già fatto sapere che intendono applicare integralmente la Carta”. Proposito ribadito e reso più impegnativo da successive comunicazioni della Commissione.
Oggi l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse, nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per acquisire legittimità attraverso la loro adesione, e muta i cittadini da attori del processo europeo in puri spettatori, impotenti e sfiduciati di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di garanzie dei diritti. V’è in tutto questo una contraddizione, un abbandono della logica che volle il passaggio dell’espressione “Mercato unico” a “Unione europea”, che avrebbe dovuto avvicinare istituzioni e cittadini, e questi tra loro. E vi è pure un abbandono di quanto è scritto nel Preambolo della Carta, dove si afferma l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”.
Una “costituzione finanziaria” ha sostituito tutto questo, e dunque da qui bisogna ripartire, anche perché si è diffusa la consapevolezza dei guasti provocati da una sua assunzione acritica. Questo dovrebbe essere il tema centrale delle imminenti elezioni europee. Altrimenti finirà che, sul versante degli europeisti, prendano il sopravvento le lamentazioni contro i populismi antieuropei, quelli che l’Economist chiama la “Europa dei Tea Parties”, mentre bisogna guardare a fondo nelle loro ragioni e produrre gli anticorpi necessari. E questo può avvenire solo se si ricompone il contesto costituzionale europeo, reintegrandolo con la Carta, anche per riprendere un diverso filo della stessa discussione economica. Così acquisterà chiarezza anche l’obiettivo di avere più Europa politica. Per fare che cosa? Rendere ancora più stringente la logica economica? O ridare fiato ad un pensiero che non si accontenta di questo inquietante riduzionismo?
Partire dall’Europa, allora, non è un parlar d’altro, un tentativo di eludere le specifiche questioni italiane. È un passaggio obbligato proprio per definire meglio le responsabilità nazionali, oggi frammentate tra difficoltà ed egoismi dei singoli Stati, per affrontare senza reticenze non l’antieuropeismo spicciolo di chi cercherà di lucrare qualche consenso alle prossime elezioni, ma l’obiezione radicale di chi, da ultimo Wolfgang Streeck, vede ormai nell’Unione europea l’epicentro della “colonizzazione capitalistica”. La replica di Juergen Habermas a questa tesi può anche apparire non del tutto convincente, ma coglie un punto di verità quando segnala il rischio di “una rinuncia disfattista al progetto europeo”, che non aprirebbe la via a una Europa rinazionalizzata, ma manterrebbe al centro proprio le distruttive dinamiche della pura austerità. L’ipotesi è quella di democratizzare il sistema delle istituzioni europee, intervenendo sui trattati. Ma questa strategia sarebbe monca e debole se rimanesse fuori la revisione della nuova costituzione economica e, soprattutto, se si ignorasse il grande conflitto sui diritti che ha già devastato l’Europa accrescendo distanze e diseguaglianza, impoverendo intere popolazioni, e che è oggi l’ostacolo vero per la creazione di un “popolo europeo”. Se vi è un errore nelle ripulse d’una sinistra estrema, altrettanto rischiosa è l’incapacità dell’altra sinistra di considerare ineludibile questo tema.
Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali. Proprio per questo l’attenzione alla sola dimensione dell’economia sarà insufficiente se non sarà reintegrata in questo più vasto contesto.
Qui si coglie il nesso tra Europa e Italia, dove troppi continuano a separare le due questioni e dove è in atto il tentativo di scorporare dalla Costituzione tutta la parte relativa ai diritti. Si è manifestata una critica irridente i difensori dei diritti fondamentali, sfruttando una colorita battuta di Roberto Benigni sulla “Costituzione più bella del mondo”. In discussioni impegnative si dovrebbero frequentare anche altre fonti. Massimo Severo Giannini, ad esempio, che definì “splendida” la prima parte; o Leopoldo Elia, che nella Costituzione vide “una delle migliori prove del costituzionalismo europeo, soprattutto per la completezza e lo spessore della dichiarazione dei diritti civili, sociali e politici”. Questo non è trionfalismo, ma l’indicazione di una politica costituzionale che, proprio in vista di riforme della seconda parte, non può abbandonare i principi definiti nella prima. Unione europea e Italia hanno il medesimo problema di ricomposizione dell’ordine costituzionale come condizione della sopravvivenza della stessa democrazia.
A tutti gli europei, e ai loro governanti, dovrebbe essere imposta la lettura dell’ultima pagina dell’Omaggio alla Catalogna di George Orwell, con la straordinaria descrizione dell’inconsapevolezza inglese verso i segnali dell’imminente guerra mondiale. Rassicurati allora nelle loro piccole certezze (“non vi preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa domattina e il
New Statesman uscirà di venerdì”), chiusi oggi i paesi più ricchi in una insolente rottura d’ogni solidarietà e progetto comune, proprio così si erodono le basi di una “Unione” ben più degli antieuropeisti di professione.
Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato dall'associazione Futura Umanità a Roma, Teatro de' Servi, 8 novembre 2013. Futura umanità, con premessa
Tre ragioni ci spingono a pubblicare questo scritto, che riprendiamo dal sito Futura umanità.. La prima è di carattere generale. La cancellazione della storia dalla conoscenza dei contemporanei è uno dei più robusti strumenti adoperati chi vuole conservare il mondo così com’è (e come non ci piace) contro chi vuole cambiarlo. La seconda è nel contributo che questo scritto fornisce alla comprensione del carattere profondamente innovativo della Costituzione che, lungi dal voler finalmente attuare, si pretende di stravolgere. La terza ragione sta nel fatto che la concezione del “partito” che emerge dall’analisi della concezione del comunismo italiano, al confronto con quelle oggi dominanti, ci sembra testimoniare la profondità del baratro nel quale siamo caduti (negli anni di Craxi, Berlusconi e Renzi) e dello sforzo che occorrerà fare per uscirne (e.s.)
In un Paese calpestato per metà dalle truppe naziste e per metà occupato dall’esercito anglo-americano, Togliatti afferma: «Convocata domani un’Assemblea nazionale costituente, proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi (...) del capitale monopolistico. Questo vuol dire - prosegue - che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza o sul dominio di un solo partito. In un’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti (...); noi proporremo però che questi partiti, o almeno quelli che (...) hanno un programma democratico e nazionale, mantengano la loro unità per far fronte a ogni tentativo di rinascita del fascismo». «Il regime democratico e progressivo che proponiamo, e alla costruzione del quale vogliamo collaborare e collaboreremo in tutte le forme, dovrà essere - conclude - un regime forte, il quale si difenda con tutte le armi contro ogni tentativo di sopprimere o calpestare le libertà popolari».
Se è difficile sostenere che il Pci, durante tutta la sua esistenza, abbia in qualche caso derogato da questa impostazione, è altrettanto difficile contestare che in quella fase storica la strategia togliattiana sia stata una strategia vincente. Ponendo i comunisti alla testa della guerra di liberazione e cementando l’unità dei partiti antifascisti, essa consentì di liquidare la monarchia e il fascismo, di risolvere democraticamente la questione istituzionale ridando dignità a un Paese che l’aveva perduta, e di aprire al tempo stesso la strada a una civiltà più avanzata in cui i lavoratori si innalzino al rango di classe dirigente. Come disse a suo tempo Pietro Nenni, «Togliatti era il solo veggente tra coloro che vanno alla cieca».
Nella sua visione della politica vi è un legame inscindibile tra fini e mezzi. Quindi, se il fine, vale a dire l’obiettivo strategico generale è la creazione di una democrazia progressiva che attui «un complesso di riforme della struttura economica e sociale», il partito nuovo di massa è lo strumento adatto allo scopo. Ancora nel discorso di Napoli, Togliatti afferma: «Nessuna politica può essere realizzata senza un partito, il quale sia capace di portarla tra le masse, nelle officine, nelle strade, nelle piazze, nelle case, nel popolo e di guidare tutto il popolo a realizzarla. Il nostro partito deve acquistare questa capacità». «Noi dobbiamo essere il partito più vicino al popolo (...). È dovere dei comunisti di essere vicini a tutti gli strati popolari, a tutti coloro che soffrono; agli operai che lavorano o che sono disoccupati, ai giovani, alle donne operaie o di casa, agli intellettuali, ai contadini. Dobbiamo riuscire a comprendere tutte le necessità di questi strati popolari e impegnarci a soddisfarle».
Democrazia progressiva e partito nuovo di massa sono dunque i due pilastri della strategia di Togliatti. Ed essi si incarnano nella Costituzione repubblicana e antifascista come progetto di cambiamento. Polemizzando tra gli altri con Pietro Calamandrei, il quale sosteneva che la Costituzione italiana, secondo il modello costituzionale staliniano del 1936, dovesse limitarsi a prendere atto delle realtà esistente, Togliatti replica che le condizioni della Russia sovietica erano affatto diverse da quelle italiane, e pertanto occorre distaccarsi da quel modello. In caso contrario si sarebbe decretata l’impossibilità di trasformare i fondamenti strutturali del nostro Paese. Là, sotto i colpi di un processo rivoluzionario violento, era stato distrutto il vecchio ordinamento economico-sociale ed erano state le gettate le basi di uno nuovo. Qui - osserva - una rivoluzione non è avvenuta, ma è possibile arrivare «a una profonda trasformazione sociale seguendo un cammino differente».
Con il crollo della dittatura fascista, sono state riconquistate le libertà civili e politiche. Per quanto riguarda le trasformazioni sociali da attuare, queste si possono realizzare «attraverso la democrazia, cioè accettando e rispettando il principio della maggioranza liberamente espressa». Tale è il senso della democrazia progressiva, «e il valore di questa definizione sta appunto nel fatto che essa riconosce e afferma questa tendenza a un profondo rivolgimento sociale attuato attraverso la legalità».
La conclusione cui perviene tale impostazione è limpida: la Costituzione dell’Italia democratica deve avere un carattere progettuale-programmatico «non di previsione, ma di guida», che «porti a un rinnovamento audace, profondo, di tutta la struttura della nostra società, nell’interesse del popolo e nel nome del lavoro, della libertà e della giustizia sociale». Quindi, non una Costituzione socialista, che prenda atto di un’avvenuta trasformazione e, tanto meno, che codifichi la statizzazione integrale dei mezzi di produzione, ma una Costituzione come programma per il futuro, che apra la strada a una società socialista di tipo nuovo rispetto al modello esistente. Perché - aveva sostenuto Togliatti al V congresso del partito - «soltanto ponendosi sulla via del socialismo, cioè della trasformazione dell’organizzazione della produzione e degli scambi nel senso della solidarietà sociale e umana, si può sperare di ricostruire una civiltà e di preservare la pace». Noi - aggiungeva - «siamo democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Tra democrazia e socialismo non c’è contraddizione».
È la visione di un percorso inedito e originale: la via italiana al socialismo, come Togliatti stesso la definirà nel 1956 forse in modo alquanto riduttivo. In altre parole - e in questo sta la sua genialità -, muovendo dalla presenza dell’Unione Sovietica e dal «legame di ferro» con la rottura storica rappresentata dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, il segretario del Pci delinea un processo di avanzamento verso il socialismo del tutto diverso. Una visione strategica che si ritrova nell’impianto costituzionale, soprattutto nella sua parte più innovativa, di cui Togliatti è stato artefice diretto: quella riguardante i diritti sociali e di proprietà, che oggi appare in tutta la sua grandezza e modernità, nelle mutate condizioni storiche in cui una ristretta minoranza di proprietari universali, ossia il vertice dominante del capitale finanziario globale, sta logorano al tempo stesso l’uomo e l’intiero ambiente della sua riproduzione.
Il fondamento del lavoro, che è il contrario della centralità del capitale, cambia la natura della società e dello Stato rispetto al passato. Siamo di fronte a un vero e proprio passaggio storico, giacché al centro dell’architettura dello Stato e della società non c’è più il polveroso principio della proprietà inviolabile, vale a dire il proprietario-cittadino, pilastro universale del costituzionalismo antecedente all’irruzione nella storia del movimento operaio e dei lavoratori. Bensì la nuova figura della modernità capitalistica: la persona che lavora disponendo solo di sé medesima, l’uomo e la donna proprietari solo delle loro abilità fisiche e intellettuali, della loro manualità e intelligenza, della loro forza-lavoro. Ossia, la classe dei lavoratori dipendenti o comunque eterodiretti, che in Italia sono più di 16 milioni. La stragrande maggioranza delle forze di lavoro anche in Europa e nel mondo.
Insomma, la società dei proprietari cede il passo alla società dei lavoratori. In forza di questo passaggio storico il lavoro non è più soltanto una merce che si scambia sul mercato. Diventa diritto, e poiché lo sfruttamento del lavoro umano nasce dal capitale come rapporto sociale, il lavoro posto a fondamento della società e dello Stato apre la strada a una civiltà più avanzata, in cui l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa. La Repubblica, infatti, non solo «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro», ma «promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto», in modo che essi possano concorrere al progresso materiale e spirituale della società (articolo 4). Non solo «garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni ove si svolge la sua personalità», ma «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (a. 2). Da cui scaturisce, a livello internazionale, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (a.11).
L’intiera architettura costituzionale ha una sua profonda e riconoscibile coerenza. Sul fondamento del lavoro si innalzano i nuovi diritti della persona, i diritti sociali. Muovendo dal principio che la Repubblica «tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni» e «cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori» (a. 35), la Costituzione - come è noto - stabilisce la parità di diritti e di retribuzione per uomini e donne a parità di lavoro (a. 37); introduce il diritto «a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» sufficiente comunque ad assicurare «una esistenza libera e dignitosa» (a. 36), nonché il diritto all’istruzione (a. 33), al riposo e alla salute (a. 32), alla pensione e all’assistenza sociale (a. 38). Inoltre, in una visione assai significativa e moderna della persona e della società, «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e culturale della nazione» (a. 9).
Ma - ecco la grande novità, di fatto mandata in soffitta - per dare attuazione a questa fitta trama di diritti non basta che tutti concorrano «alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» (articolo 53), seppure sia questa una condizione ineludibile. È necessario che «l’iniziativa economica privata», ancorché libera, non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Di conseguenza, la legge dovrà indicare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere coordinata a fini sociali» (a. 41). Infatti, essendo la proprietà «pubblica o privata», «i beni economici appartengono allo Stato, a enti o a privati».
La proprietà privata è garantita, ma entro limiti che ne assicurino la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (a. 42). Di più: «ai fini di utilità generale», la legge «può riservare originariamente o trasferire» «allo Stato, a enti pubblici o - sottolineo - a comunità di lavoratori o di utenti» imprese che si riferiscano a servizi pubblici, a fonti di energia o a situazioni di monopolio (a. 43). Sulla stessa linea del pluralismo nelle forme di proprietà, contrapposto al totalitarismo della proprietà privata capitalista, che rende bene l’idea di un percorso aperto, di un processo riformatore in progress, si collocano anche gli articoli 44, che impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, e 45, che favorisce lo sviluppo dell’artigianato e la cooperazione a carattere di mutualità.
Sono tutte norme del titolo III della Costituzione, solitamente ignorate nel dibattito attuale, che derivano in modo rigoroso dai principi fondamentali dalla nostra Carta. Più precisamente, sono la traduzione normativa di quei principi, in particolare di quella visione modernissima dell’uguaglianza e della libertà fissata nell’articolo tre. Dove si afferma non solo che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e hanno pari dignità sociale, ma che la Repubblica rimuove gli ostacoli economici e sociali, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza, e quindi impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dove dunque è chiaro che non basta l’uguaglianza davanti alla legge e neanche il principio di equità nella distribuzione del reddito, ma occorre intervenire nel cuore del rapporto di produzione capitalistico, ossia nel rapporto di proprietà, se si vuole garantire libertà e uguaglianza, e quindi il pieno sviluppo della persona umana.
In una parola, una rivoluzione. Nel cui svolgimento liberazione del lavoro e libertà della persona s’intrecciano, giacché il lavoro, in una sintesi inedita che non contrappone la classe all’individuo, è considerato non solo come interscambio permanente tra uomo e natura, che comporta una visione inscindibile dello sfruttamento umano e ambientale; non solo come forza produttiva fondamentale dei beni materiali e immateriali; bensì anche come fattore costitutivo della personalità. La valorizzazione del lavoro, che pervade l’intiero impianto costituzionale, diventa così la base materiale e culturale dell’uguaglianza e della libertà, e perciò anche il riferimento per la finalizzazione della proprietà e per il governo del mercato. Sono temi non dell’altroieri, ma dell’oggi e del domani.
Un progetto di tale portata, che - come è stato giustamente osservato - si spinge a introdurre elementi di socialismo9, non può essere scisso dalla classe lavoratrice, dalla sua autonomia culturale e politica, e quindi dalla sua diretta partecipazione alla guida del Paese. E infatti nell’impianto costituzionale la valorizzazione del lavoro non è separata dal protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. I quali conquistano non solo il diritto di sciopero e la libertà sindacale (a. 39 e 40), ma la concreta possibilità di farsi classe dirigente per il tramite del partito politico, considerato lo strumento indispensabile «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (a.49).
I confini della democrazia si sono enormemente allargati ben oltre il perimetro dei principi liberali. Quindi, non più deleghe al sovrano per casato o per censo, o a ristrette élites tecnico-politiche. Con l’entrata in campo della classe lavoratrice la politica assume una nuova dimensione sociale, e con i partiti di massa prende forma quella che Togliatti definisce «la democrazia che si organizza»10. Era chiaro infatti ai costituenti che i lavoratori e le classi subalterne non sono in grado di esigere i nuovi diritti costituzionalmente riconosciuti se non si organizzano e non si rappresentano politicamente.
Senza sottovalutare l’apporto delle «terze forze», vale a dire di azionisti, repubblicani e liberali democratici, di cui la Costituzione assume la grande conquista storica dei diritti civili, ma respinge la vecchia ideologia proprietaria comunque riverniciata e apparentemente spogliata di ogni relazione con il gravame soffocante dei rapporti economici, non c’è dubbio che i comunisti e i socialisti, da una parte, e i democratici cristiani, dall’altra, sono stati i principali artefici di un disegno costituzionale innovativo, le cui enormi potenzialità rimangono tuttora largamente inesplorate oltre che inapplicate.
Non si è trattato di un inciucio ante litteram, ma di una convergenza, su una reale piattaforma di cambiamento, di due grandi correnti di pensiero, l’una che risale a Marx cui i comunisti e i socialisti allora facevano riferimento, l’altra d’ispirazione cristiano-sociale il cui principale esponente era Giuseppe Dossetti. Un solidarismo d’origine diversa - osserva Togliatti intervenendo nella discussione sul progetto di Costituzione - che però «arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi». «Questo è il caso dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà». E quando Giorgio La Pira, uno dei costituenti di spicco della Dc, indica nella dignità della persona il riferimento per i diritti dell’uomo e del cittadino, Togliatti afferma che «qui vi è un altro punto di convergenza della nostra corrente, comunista e socialista, con la corrente solidaristica cristiana» giacché «socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana».
Si stabilisce così una relazione inedita, sconosciuta in altre esperienze del Novecento ad Est come ad Ovest, e ricca di implicazioni straordinariamente attuali, tra solidarietà e personalismo, tra classe sociale e individuo, tra collettività e persona, e anche tra utilità sociale e impresa, che dà all’intiero impianto costituzionale, sicuramente la vetta più alta toccata dagli italiani nel loro contrastato cammino verso la libertà e l’uguaglianza, il respiro di un’operazione di grande portata strategica su cui costruire il futuro.
E’ un progetto di nuova società. La proprietà articolata in forme diverse (pubbliche, private, comuni), limitata e finalizzata, e il mercato, regolato per soddisfare le esigenze umane e ambientali attraverso l’intervento pubblico e la presenza di soggetti sociali politicamente organizzati, si innestano in un progetto, e in un processo, di trasformazione della società diverso da ogni modello finora conosciuto, che potremmo chiamare nuovo socialismo. Di certo questo non è il modello sovietico di società socialista. D’altra parte, una Costituzione che pone il lavoro a fondamento della democrazia non si può definire liberale, giacché va ben oltre i sacri principi dell’ ‘89. Ma il progetto costituzionale non si identifica neanche con il compromesso socialdemocratico, che in tutto il Novecento mai ha superato il limite della sfera distributiva, evitando di affrontare il nodo dell’accumulazione e della struttura economica, e quindi di scalare la muraglia del modo di produzione capitalistico, cioè dei rapporti di proprietà. Il risultato è che dopo il fallimento del «socialismo realizzato» ad Est, oggi dobbiamo constatare il fallimento della socialdemocrazia ad Ovest.
In questo contesto, a mio giudizio il progetto costituzionale italiano assume un valore speciale. Esso trae i suoi fattori costitutivi dalle specifiche condizioni storico-culturali del nostro Paese, dalle caratteristiche del capitalismo italiano e dalle lezioni che i partiti della classe operaia hanno saputo trarre dalla sconfitta subita con l’avvento del fascismo. Ma sarebbe un grave strabismo non vedere che questo progetto ha un valore più generale, perché pone su basi nuove l’idea e la pratica della trasformazione della società verso il socialismo nell’intiera Europa, in Paesi capitalisticamente maturi, retti da diverse forme di democrazia politica.
Un progetto reso possibile dalla strategia dei comunisti italiani, che in Occidente hanno aperto un diverso orizzonte al processo rivoluzionario, teorizzato e praticato con coerenza da Togliatti sulla via della democrazia progressiva, da percorrere con la presenza e con le lotte del partito nuovo di massa. È semplicemente assurdo, e al tempo stesso prova di inguaribile dogmatismo, ritenere che esista un’unica via per la trasformazione della società indipendentemente dalle condizioni storiche, e un unico schema di società comunista in cui imbracare l’universo mondo.
Del resto, non era questo il pensiero di Marx - a torto imprigionato nella precettistica degli epigoni -, il quale, in un discorso del 1872 ad Amsterdam, polemizzando con gli anarchici astensionisti, aveva sostenuto che le classi lavoratrici devono «prendere il potere politico per fondare la nuova organizzazione del lavoro», altrimenti mai avrebbero visto «l’avvento del regno dei cieli in questo mondo». Ma, aggiungeva, «non abbiamo affatto preteso che per arrivare a questo scopo i mezzi fossero dappertutto identici. Conosciamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi, le tradizioni di vari Paesi», e perciò riteneva che nei Paesi più avanzati «i lavoratori possono raggiungere il loro scopo pacificamente».
L’originalità del comunismo di Togliatti consiste in un pensiero e in una pratica che superano la più che secolare oscillazione tra il tutto sociale e il tutto politico, tra massimalismo e riformismo. E quindi in un’azione politica che connette il particolare con il generale, la parzialità con la visione di sistema, la quotidianità con la prospettiva, i mezzi e i fini attraverso un’iniziativa combinata dal basso e dall’alto che dà concretezza al processo riformatore. E perciò delinea i contorni di un più alto ordinamento, di un «socialismo diverso». L’esito di questo processo - annota Togliatti nel 1962 - «dipenderà dal fatto che, per l’azione di un partito rivoluzionario, com’è il nostro, non si perda mai, nelle masse lavoratrici, la coscienza del legame tra le riforme parziali e gli obiettivi del movimento operaio e socialista, e questi non vengano mai né cancellati né offuscati»13.
La più grande innovazione introdotta da Togliatti - ha fatto notare Mario Tronti -, sta proprio nel superamento del dilemma che nel Novecento ha dilaniato in Europa socialdemocratici e comunisti: riforme o rivoluzione? La rivoluzione nella società e nello Stato attraverso le riforme: questa è la risposta che troviamo nell’impianto togliattiano. E non è un gioco di parole, o un astratto esercizio intellettuale. L’unità di riforme e rivoluzione, ovvero il rivoluzionamento della società e dello Stato attraverso riforme della struttura economico-sociale e delle sovrastrutture culturali e formative, si realizza nel processo di trasformazione guidato dalla politica concepita come partecipazione sociale e protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il partito di massa, «intellettuale collettivo» che lotta anche sul terreno della cultura e della formazione del senso comune, è lo snodo decisivo di questa strategia, che si distacca dal leninismo costruttore del partito-avanguardia, come pure dalle socialdemocrazie imprigionate nella gabbia dei rapporti di produzione capitalistici. Un partito inteso appunto come «parte», che non si identifica quindi con lo Stato né si sovrappone alla società per dominarla, ma stabilisce con essa un rapporto interattivo allo scopo di produrre «politica reale delle classi subalterne in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamo alla massa», per dirla con Antonio Gramsci.
Si tratta di un disegno strategico poderoso e organico, fondato proprio sulle analisi di Gramsci e sulla sua teoria della funzione egemonica, da conquistare prima nella società e nell’organizzazione della cultura per poterla poi esercitare nello Stato, che capovolge gli schemi delle rivoluzioni condotte dall’alto con un atto giacobino o con la presa del Palazzo d’inverno, per calarle successivamente nel corpo sociale. Praticabile ovviamente a due condizioni: che sia presente sulla scena un partito rappresentativo del lavoro dipendente ed eterodiretto, oggi delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo; e che nell’azione politica non si spezzi il nesso tra rivoluzione e riforme, tra sociale e politico, tra prospettiva e concretezza.
Diversamente, la politica, intesa come azione per trasformare il mondo, e quindi posta al vertice delle attività umane, retrocede nel migliore dei casi a politicantismo o a puro verbalismo. Il nodo da sciogliere non è dunque quello del gradualismo, ma quello della direzione di marcia. Per essere più precisi, oggi si tratta di decidere se, facendo asse sul lavoro, s’intende porre al centro dell’azione politica il programma di profonde riforme sociali ed economiche previsto dalla Costituzione. Oppure se a quel programma si vuole chiudere definitivamente la porta, cambiando la Costituzione.
Concepita in un momento drammatico della nostra storia, la Costituzione del ’48, non parla del passato, ma del presente e del futuro degli italiani. Ed è una bussola moderna proprio perché, come è stato giustamente è osservato, ponendo il lavoro a fondamento del patto tra gli italiani dimostra la sua inesauribile vitalità in quanto sancisce «una dimensione complessa dell’eguaglianza, non riducibile alla parità delle condizioni di partenza»16. E dunque tutela non solo consolidati diritti, come quelli degli operai Fiat, ma è aperta all’affermazione di diritti nuovi, che scaturiscono dalla rivoluzione scientifica e tecnologica e dalla condizione umana del nostro tempo, e riguardano perciò le generazioni giovani, in preda alla precarietà e prive di prospettive. Come è dimostrato dal fatto, ed è solo un esempio, che per l’accesso alla conoscenza reso possibile da internet non basta affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi permangono condizioni di disuguaglianza e di esclusione.
In altre parole, le condizioni di vita della nostra epoca reclamano a piena voce un’uguaglianza reale e non retorica, che la nostra Costituzione sancisce. È certo che, come la storia ha dimostrato, la liberazione del lavoro non si potrà ottenere se non si comprende la differenza tra uomo e donna come pure la complessità della figura sociale di ciascuno e di ciascuna, andando oltre la stessa condizione materiale. Ma dalla disuguaglianza tra chi possiede i mezzi finanziari, di produzione e di comunicazione, e chi dispone solo delle proprie capacità corporee, fisiche e intellettuali, non si può prescindere, ben al di là della asserita uguaglianza di tutte e di tutti davanti la legge.
Chi obietta che il fondamento del lavoro oggi non ha senso perché è finita la stagione del fordismo e dell’operaio-massa, evidentemente ha in testa un’unica idea fissa del lavoro come categoria immutabile che non va oltre la catena di montaggio, e non fa i conti, oltre che con la dittatura del capitale sul lavoro, con una rivoluzione della scienza e della tecnica che non ha abolito il lavoro, ma ha rivoluzionato il modo di lavorare, senza rivoluzionare però il diritto di proprietà, come la Costituzione prevede. Per cui, il vero problema, come del resto è evidente dagli svolgimenti drammatici della crisi, non è la cancellazione del fondamento del lavoro, bensì la sua rielaborazione nelle nuove condizioni, applicando al tempo stesso le norme previste dal titolo III.
In conclusione, la Costituzione è un progetto vivo e vitale, di cui è necessario liberare tutte le potenzialità per uscire dalla crisi in Italia e per contribuire a dare una diversa dimensione all’Europa. Un progetto che parla alle nuove generazioni, alle lavoratrici e ai lavoratori del nostro tempo, qualunque sia la forma in cui si manifesta (o non si manifesta) la loro attività lavorativa, e indipendentemente dalle norme giuridiche in cui è regolato (o non è regolato) il loro rapporto di lavoro. In sintesi, la Costituzione è il vero progetto per cambiare l’Italia e l’Europa: di cui gli italiani oggi possono disporre grazie all’apporto decisivo di un grande politico e statista come Palmiro Togliatti, il rivoluzionario costituente, secondo la definizione di Gianni Ferrara. Dunque, il progetto per cambiare lo stato delle cose presenti esiste, ed è costato tanti sacrifici e dure lotte. Occorre recuperarlo, e farne oggi la stella polare che illumini il cammino, in un momento tra i più oscuri della nostra storia.
Il testo completo di note a pie’ di pagina è scaricabile qui: Paolo Ciofi, Palmiro Togliatti e la Costituzione:e altre relazioni al convegno sono scaricabili dal sito Futura umanità.
«Con la soglia di sbarramento, il parlamento di Strasburgo si aprirà solo a una parte di italianiSignificativamente sono esclusi coloro che vorrebbero cambiare l’Europa, e non condividono né le grandi coalizioni sinistra- destra né le disordinate risposte di 5 Stelle ai mali dell’Unione».
LaRepubblica, 8 gennaio 2014
ANCORA non sappiamo come reagiranno i cittadini europei e italiani, il 22-25 maggio quando si voterà per il nuovo Parlamento dell’Unione — se diserteranno le urne, se si interesseranno ai propri rappresentanti in Europa — ma sin da ora sappiamo una cosa: per la prima volta, nella crisi che ci assilla, parlano e decidono i popoli, e non più solo le troike, la Banca centrale, ancor peggio il Fondo monetario. Sarà la prima occasione, per loro, di respingere oppure approvare quel che è stato fatto sinora, di mandare in Parlamento deputati in cui credere. A governare la crisi ci sono anche i cittadini.
Dicono i disillusi che non conta nulla, il Parlamento di Strasburgo. Che non vale la pena mettere la scheda nell’urna, visto che ogni nodo è sgrovigliato altrove: da mercati senza obblighi, dai banchieri centrali, da un rapporto di forza tra Stati che reintroduce nel continente il vecchio equilibrio di potenze, con le sue disparità e i suoi conflitti. Vale la pena invece, perché altri strumenti democratici non esistono nell’Unione, e perché i poteri dei suoi deputati sono tutt’altro che irrilevanti. Delle leggi attuate negli Stati, l’80 per cento è co-deciso dal parlamento che abbiamo in comune. È sempre lui a censurare o appoggiare la Commissione, la sua capacità o incapacità di governare in nome di tutti. È del tutto illogica la condizione in cui ci troviamo: proprio oggi che il parlamento ha più ascendente, le politiche europee si fanno contro i popoli o scavalcandoli. È quel che accade di solito nelle guerre. Votare è l’occasione per dire che la crisi non va omologata a una guerra o a una peste. Tanto più essenziale è sapere come voteremo: con quale legge elettorale, dunque con quali speranze di essere ascoltati e di contare, senza discriminazioni.
La questione della rappresentatività democratica fu cruciale nell’Europa liberata dal nazifascismo, dopo due guerre mondiali. Lo ridivenne dopo l’89, quando a Est caddero le dittature comuniste. La crisi vissuta come stato di eccezione e di guerra crea uno scenario analogo. Uscirne con i pareggi di bilancio è come rendere più funzionali gli eserciti, quando si tratta di ritrasformare i soldati in cittadini.
La campagna elettorale europea era alle porte, e in poche settimane il vecchio proporzionale fu abolito. La trattativa iniziò nel gennaio 2009, e la nuova legge con la soglia fu varata il 20 febbraio dal parlamento italiano, tre mesi circa prima del voto. Questo significa che deliberazioni di tale portata possono esser prese ancora una volta, se solo si vuole. C’è tempo di abolire anche in Europa il porcellum, come imposto dalla Consulta per le elezioni italiane.
La cosa più sorprendente è che la battaglia contro le leggi truffa, nell’Unione, è giudicata vitale non dai paesi piccoli ma da quello più forte: la Germania. È uno dei paradossi dei tempi presenti: lo Stato che con maggiore prepotenza esige austerità è simultaneamente il più allarmato dal deficit democratico europeo, il più sensibile alle regole dello stato di diritto. In favore di una legge proporzionale, e di un Parlamento sovranazionale più rappresentativo, è addirittura scesa in campo la Corte costituzionale, con una sentenza emessa il 9 novembre 2011 che giudica incostituzionale la soglia tedesca di sbarramento (in Germania era più alta che da noi: il 5%).

«Criticare l’austerità perché crea più problemi di quanti ne risolva è giusto, ma non basta. Se non si aggiunge che essa tende a corrodere gli spazi pubblici e le basi delle istituzioni democratiche ».
LaRepubblica, 7 gennaio 2014
Il neoliberismo è in ritirata o la sua egemonia resta intatta? È quanto è stato chiesto in una recente intervista a John Bellamy Foster, direttore della Monthly Review ed autore, con Robert McChesney, di Endless Crisis, edito dalle edizioni della rivista. Non si può dire che le sue risposte siano risolutive. Sostenere che l’attuale regime neoliberale è il prodotto del grande capitale, del grande governo e della grande finanza su scala globale è più che ragionevole, ma non sufficiente. Restano aperte molte domande. Il peso che ha assunto l’economia finanziaria è il frutto di un ritiro delle politiche governative o delle loro scelte? E i tentativi di regolamentazione dei mercati che già nel 2009 hanno fatto parlare di “ritorno dello Stato” come vanno intesi? Come riflusso del neoliberismo o come sua ristrutturazione sotto altre vesti?
Per orientarsi in questa selva di questioni bisogna intanto intendersi sul significato del termine. In proposito risulta assai utile l’ampia ricerca elaborata da Pierre Dardot e Christian Laval in un volume adesso tradotto da Derive Approdi col titolo La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, a cura di Paolo Napoli. La loro tesi di fondo è che la crisi in corso, lungi dal comportare un indebolimento delle politiche neoliberiste, ha portato al loro brutale rafforzamento attraverso forme di austerità incapaci di invertire la logica speculativa dei mercati finanziari. La falsa apparenza di una inversione di tendenza è nata da una interpretazione inadeguata del liberismo come semplice ritiro dello Stato davanti alla naturalità del mercato. In questo modo si è confusa l’ideologia della fase eroica del liberismo economico con il modo in cui esso si è concretamente realizzato.
Non solo quello che chiamiamo neoliberismo — sia nella sua versione austriaca alla Hayek sia in quella anglosassone alla Friedman — non ha mai immaginato di fare a meno dello Stato, ma ha prodotto esso stesso una pratica di governo. Come ha spiegato per primo Foucault nei suoi corsi ad essa dedicati, quella neoliberale è una razionalità eminentemente governamentale, volta alla direzione delle condotte degli uomini attraverso precise norme comportamentali. Anche secondo Greta Krippner (Capitalizing on crisis. Political origins of the rise of finance, Harvard University Press 2012) non sono i mercati ad aver conquistato dall’interno gli Stati, ma gli Stati ad aver introdotto il modello concorrenziale dell’impresa in tutte le dinamiche sociali. Da un lato il soggetto individuale è portato a vedere in se stesso un capitale umano; dall’altro gli Stati competono tra loro nell’attrarre gli investimenti delle multinazionali abbassando i livelli dei salari e della previdenza sociale.
Ciò — l’estendersi della competitività a principio generale di governo — spiega non soltanto la corsa, apparentemente suicida, alle politiche dell’austerità, ma anche loro accettazione rassegnata da parte dei Paesi che più ne hanno pagato le conseguenze, come la Grecia e il Portogallo. È l’esito del consenso creato dal governo neoliberista. Esso, tutt’altro che ridursi alla contestazione delle regole esistenti, è produzione attiva di norme di vita sul piano giuridico, etico e, prima ancora, antropologico. Nel giro di pochi decenni l’intera società ne è stata plasmata in una forma talmente generalizzata da non essere avvertita in quanto tale. Oggi tutti
i rapporti, con gli altri e perfino con se stessi, sono orientati al principio mercantile del guadagno. Così, piuttosto che semplice modello economico, il neoliberalismo si configura come l’insieme degli atti e dei discorsi che governano gli uomini secondo il principio della loro concorrenza. Naturalmente se tale modello appare insuperabile quando l’economia tira, dimostra tutta la sua debolezza quando le cose cominciano a non funzionare. C’è un limite oltre il quale la forbice tra coloro che diventano sempre più ricchi e coloro che diventano sempre più poveri si divarica al punto di rompere la macchina del consenso sociale. In questo caso quella che ancora definiamo crisi monetaria assume i caratteri di una vera e propria crisi sistemica che coinvolge l’intero orizzonte dei rapporti umani.
Come contrastare questo stato di cose? Non sono pochi gli storici che ci ricordano come le grandi crisi abbiano sempre stimolato grandi idee. Come dopo il crack del 1929 è stato inventato il New Deal e il Welfare, così dal buco nero che si è aperto cinque anni orsono vanno nascendo nuove concezioni. Se economisti come Krugman, Stiglitz, Fitoussi, Boeri ritengono sbagliato pensare di ripianare i deficit pubblici a colpi di tagli della spesa sociale, altri arrivano a rovesciare radicalmente la prospettiva dell’austerity. Per esempio James W. Galbraith arriva ad assegnare un ruolo produttivo al debito pubblico, se finanziato da banche centrali disposte a comprare senza limiti i titoli di Stato emessi dai rispettivi governi. Ciò che tale concezione — derivata dalla modern monetary theory — manda in mille pezzi è la pretesa di un’impostazione economica, sposata da molti governi europei, che si presenta con la dogmaticità di una nuova religione. Nel suo libro sul nuovo banditismo bancario (Banchieri,Mondadori 2013), Federico Rampini richiama quanto sostenuto dal filosofo Michael Sandel nel saggio Quello che i soldi non possono comprare, tradotto da Feltrinelli. Oggi la discussione sui danni sociali dell’alta finanza è circoscritta entro limiti troppo angusti.
Quando si associa l’idea di mercato non solo a quella di benessere, ma anche a quella di libertà, non ci si accorge di rimanere subalterni al sistema di pensiero che ha prodotto la crisi. Criticare l’austerità perché crea più problemi di quanti ne risolva è giusto, ma non basta. Se non si aggiunge che essa tende a corrodere gli spazi pubblici e le basi delle istituzioni democratiche. Il punto che resta opaco è la differenza che passa tra la “governamentalità” neoliberale e la politica nel significato più intenso dell’espressione. Fare politica non vuol dire solo amministrare nella maniera più rimunerativa ciò che esiste, ma anche volgere lo sguardo alle possibilità contenute nel nostro futuro.

Si parla da alcuni anni di una trasformazione molecolare del modo di essere della politica e dell’etica pubblica nel nostro paese. La diagnosi si basa su alcuni segni distintivi riscontrabili all’interno dell’intero spettro politico e che appartengono al modo di operare in pubblico dei leader, allo stile del discorso dentro i partiti e nei media, alle pratiche di intervento nella sfera di formazione dell’opinione politica. Una trasformazione assai radicale della cui portata non ci rendiamo spesso conto perché è avvenuta gradualmente, in sordina. Essa si manifesta tra le altre cose nell’emergere di nuovi criteri generali nella valutazione dei fatti e nella scelta delle priorità politiche. Lo scontro di queste ore tra Matteo Renzi e Stefano Fassina è un episodio di questa più generale trasformazione. La più importante indicazione della quale è senza dubbio la pratica dirigenziale nell’uso degli organi della sfera pubblica, e cioè dei “corpi intermedi” del governo rappresentativo: i media e i partiti politici.
Chi voglia ricostruirne la genealogia dovrà partire ça va sans dire dalla rivoluzione berlusconiana, che consistette nella costruzione simultanea dell’impero mediatico e del partito-azienda. Al di là dell’unicità dell’impresa di Silvio Berlusconi, che rimane ineguagliata, resta il fatto che il modus operandi da essa inaugurato è diventato col tempo parte del comportamento pubblico: il successo politico gestito con uso dirigenziale dei corpi intermedi. Il modello privatistico dei comportamenti pubblici è la madre di una trasformazione che è diventata così profonda da essere quasi la nostra seconda natura, un costume normale che guida le azioni e le valutazioni politiche. Un modus operandi appunto, e che si avvale della democrazia dell’audience.
La democrazia dell’audience, cioè del pubblico che assiste allo spettacolo della politica, ha a poco a poco sostituito quella dell’identità di partito. Poco male, si dirà, anzi un segno di avanzamento democratico perché ha dimostrato che l’opinione della gente conta più di quella delle oligarchie di partito. Sennonché, l’idea che questo gentismo significhi più democrazia potrebbe valere al massimo nel mondo astratto della teoria. Nella realtà concreta, l’abito dirigistico che conquista l’audience può avere spiacevolissimi esiti se non incanalato da pratiche e regole virtuose che garantiscano sempre il pluralismo, il quale è l’anima della leadership, non il suo ostacolo. La vicenda italiana (che fa testo nei manuali universitari) parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico
se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico: questo è il primo comandamento del buon governo rappresentativo. Il pluralismo dei media e quello dei e nei partiti stanno insieme; essi corrispondono a un modus operandi che è diverso da quello dirigistico.
Ora, la creazione del partito-azienda, l’opera forse più rivoluzionaria nella storia della democrazia dei partiti, fu accompagnata da pratiche e comportamenti conseguenti, che inizialmente fecero scandalo e che si sono col tempo sedimentati nell’immaginario pubblico. Come per esempio il fatto che il capo di Forza Italia riunisse il partito in casa propria, ad Arcore prima e poi a Palazzo Grazioli, tanto che è probabile che pochi italiani sappiano dove si trovi la sede nazionale dei partiti gemmazione di Forza Italia. Un simile abito emerge nel Pd, la cui segreteria nazionale sente di potersi riunire nella sede dove il leader ha iniziato la sua corsa alla leadership del partito. Non si tratta questa volta di una sede privata. Ma è una sede comunque identificata con la dirigenza del leader.
Dirigere il partito è diventato col tempo simile a “tenere” il partito, non diversamente da come un bravo amministratore delegato “tiene” l’azienda che rappresenta (pur senza possedere): che significa, in senso classico, avere il controllo personale nel dettare l’agenda e nel selezionare il team più adatto a realizzarla. Il successo è più importante del modo in cui lo si ottiene; anzi liberare l’operato dagli orpelli delle regole di accountability appare come uno snellimento delle procedure per giungere a decisioni spedite. Abbiamo per anni denunziato il decisionismo dirigistico perché implicava prima di tutto la svalutazione del controllo, della dialettica interna al partito, della partecipazione delle varie opinioni alla costruzione della linea generale. Sono stati versati fiumi di inchiostro per sostenere la specificità della leadership politica rispetto ad altre. Una caratteristica di questa specificità sta nella libera discussione, che significa che il partito è luogo comune nel quale tutti, maggioranza e minoranza, possono sentirsi a casa propria (cosa non assimilabile al correntismo). Non è una questione di buonismo ma di logica della buona pratica, perché debilitare l’opposizione comporta inevitabilmente allentare il controllo sulla dirigenza che non essendo più incalzata e stimolata può perdere in energia innovativa. La trasformazione del partito per pratica dirigistica può rischiare di diventare un problema proprio per la leadership, poiché debilitare la critica indebolisce anche i vincitori più pugnaci.
Articolo tratto da "la Repubblica delle idee" qui raggiungibile in originale
A proposito di Renzi (e non solo): «La vicenda italiana parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico».
La Repubblica, 7 gennaio 2014
Si parla da alcuni anni di una trasformazione molecolare del modo di essere della politica e dell’etica pubblica nel nostro paese. La diagnosi si basa su alcuni segni distintivi riscontrabili all’interno dell’intero spettro politico e che appartengono al modo di operare in pubblico dei leader, allo stile del discorso dentro i partiti e nei media, alle pratiche di intervento nella sfera di formazione dell’opinione politica. Una trasformazione assai radicale della cui portata non ci rendiamo spesso conto perché è avvenuta gradualmente, in sordina. Essa si manifesta tra le altre cose nell’emergere di nuovi criteri generali nella valutazione dei fatti e nella scelta delle priorità politiche. Lo scontro di queste ore tra Matteo Renzi e Stefano Fassina è un episodio di questa più generale trasformazione. La più importante indicazione della quale è senza dubbio la pratica dirigenziale nell’uso degli organi della sfera pubblica, e cioè dei “corpi intermedi” del governo rappresentativo: i media e i partiti politici.
Ora, la creazione del partito-azienda, l’opera forse più rivoluzionaria nella storia della democrazia dei partiti, fu accompagnata da pratiche e comportamenti conseguenti, che inizialmente fecero scandalo e che si sono col tempo sedimentati nell’immaginario pubblico. Come per esempio il fatto che il capo di Forza Italia riunisse il partito in casa propria, ad Arcore prima e poi a Palazzo Grazioli, tanto che è probabileche pochi italiani sappiano dove si trovi la sede nazionale dei partiti gemmazione di Forza Italia.
Abbiamo per anni denunziato il decisionismo dirigistico perché implicava prima di tutto la svalutazione del controllo, della dialettica interna al partito, della partecipazione delle varie opinioni alla costruzione della linea generale. Sono stati versati fiumi di inchiostro per sostenere la specificità della leadership politica rispetto ad altre. Una caratteristica di questa specificità sta nella libera discussione, che significa che il partito è luogo comune nel quale tutti, maggioranza e minoranza, possono sentirsi a casa propria (cosa non assimilabile al correntismo).
Nel PD c'è qualcuno cui non piace «il partito padronale». E se ne va dal governo.
Il manifesto, 4 gennaio 2014
Anche perché quell’incarico all’economia andrà comunque affidato, a meno di non considerare il governo già in esaurimento. E dunque si aprirà quel rimpasto che tanti problemi potrebbe creare sia a Letta che a Renzi, e forse soprattutto a Renzi che non potrebbe più continuare con un piede dentro e l’altro fuori. C’è al governo per esempio il ministro Zanonato, che è parimenti dell’area che fu di Bersani. E c’è la ministra Cancellieri: Renzi la voleva fuori, non troppo tempo fa.
Roberto Ciccarelli pone le domande giuste a proposito della crisi e degli errori che si continuano a compiere nell'affrontarla, e il saggio studioso della società gli risponde con chiarezza. Il
manifesto, 4 gennaio 2013
Nel 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% e nel 2014 il Pil sarà all’8,2%. Gli Usa arriveranno a +2,9%. Il Pil crescerà dello zero virgola in Europa.Professor Gallino, la crisi è finita?
Ritiene che l’uscita dalla crisi possa avvenire con il rilancio della produzione e dei consumi di massa identici a quelli del «trentennio glorioso», tra il 1945 e 1973?
«Lo pensano i governanti e alcuni economisti che hanno sempre in mente il modello che ha provocato la crisi: produrre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumentando la precarietà. Non credo a questa prospettiva. E se mai questo avvenisse sarebbe un vero disastro, perchè la crisi non è solo finanziaria o produttiva, è anche evidentemente una crisi ecologica che produce la desertificazione del pianeta, distrugge risorse che hanno impiegato migliaia di anni per accumularsi. Rischiamo inoltre di essere seppelliti dai rifiuti, uno dei problemi provocati dall’esplosione nel 2007 del modello produttivo, come dimostra la Campania, che è un caso esemplare di quanto sta accadendo.
Nonostante tutto il presidente della Bce Mario Draghi sollecita i governi a continuare le «riforme» anche nel 2014…«Così facendo non si farà molta strada per affrontare seriamente la crisi. Trovo scandaloso che il Trattato istitutivo dell’Unione Europea e lo statuto della Bce ignorino quasi del tutto il problema della nostra epoca: la creazione di occupazione. L’articolo 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di concedere scoperti di conto o qualsiasi forma di facilitazione creditizia alle amministrazioni statali. È un divieto unico tra le banche centrali esistenti sul pianeta, un’altra assurdità del Trattato. È difficile modificarlo a causa della contrarietà dei tedeschi che attaccano Draghi. È curioso però notare che questo stesso articolo non vieta alla Bce l’acquisto dei titoli sul mercato secondario. Cosa che la Bce ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acquistò 218 miliardi di titoli di stato, di cui 103 italiani. Se lo si volesse usare, la Bce potrebbe prestare miliardi di euro in cambio dell’impegno di un piano industriale che preveda l’assunzione netta di nuova manodopera.
Che cosa ha fatto Draghi per la crescita?
«Ha prestato mille miliardi alle banche senza porre condizioni. Si è reso ridicolo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le banche. In realtà questi soldi sono stati usati per scambi bancari o per acquistare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in questo caso senza porre condizioni. Senza risorse, le politiche contro la disoccupazione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli europei, sono pannicelli caldi rispetto ai 26 milioni di disoccupati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa.
Molti economisti, come la Banca Mondiale, ritengono che il Pil non sia più l’unico indicatore per misurare la crescita. E propongono altri indicatori per misurare il tasso di sviluppo umano. Come renderli vincolanti?
«Cambiare paradigma produttivo non implica solo cambiare indicatori, comporta una trasformazione politica. In questa fase mancano le premesse politiche per realizzarla. I discorsi che i governi europei fanno sull’economia, in Italia come in Germania, sono di un’ottusità incomparabile. Vanno tutti in direzione contraria a quello che bisogna fare, e di certo non servono per riformare la finanza, mutare il modello produttivo e operare una transizione di milioni di lavoratori verso nuovi settori ad alta intensità di lavoro. La crisi deve essere affrontata in tutti gli aspetti e non solo su quello finanziario e produttivo. Purtroppo la discussione pubblica è a zero.
La «green economy», o «crescita verde» come la definisce l’Ocse, rappresentano un’alternativa a quello che lei definisce il «totalitarismo neoliberale»?
«Il cambiamento di paradigma produttivo si misura anche a partire dalla necessità di rompere la subordinazione al calcolo economico di qualsiasi azione, quella che Michel Foucault definiva la «ratio» del neoliberalismo. In questa chiave, queste idee potrebbero aprire nuovi settori di intervento caratterizzati da un’alta intensità di lavoro. Questo non significa creare piantagioni di cotone dove la macchina fa il lavoro di cento braccianti. Bisogna pensare a settori dove il lavoro umano è molto attrezzato. La ricerca bioalimentare, al di là dei famigerati Ogm, è sicuramente una di questi. C’è la ricerca medica, i beni culturali. Invece di produrre beni di sostituzione di tipo tradizionale, o gadget come i cellulari, bisogna pensare all’ambiente, alla scuola, ai servizi pubblici nel senso ampio del termine, alla riqualificazione idrogeologica dei nostri territori.
Il caso dell’Ilva dimostra la difficoltà di conciliare l’esigenza dell’occupazione con un modello produttivo compatibile con l’ambiente e la salute. Come governare quella che si definisce una transizione?
«Il caso dell’Ilva è indicativo di quello che non bisogna fare. Ho studiato a lungo questi stabilimenti a Taranto. Quando furono costruiti rappresentarono un grande successo industriale, ma dovevano essere riconvertiti almeno vent’anni fa, quando la produzione siderurgica è radicalmente cambiata. Bisognava concordare con la proprietà una transizione, abbattere l’inquinamento, mettere in grado la produzione di far fronte esigenze industriali sempre più complesse. Lo hanno fatto in Germania, in Giappone e negli Stati Uniti, tranne che a Taranto. L’acciaio in sé non vuol dire nulla, ha mille caratteristiche diverse a seconda della destinazione dei suoi prodotti. E ci vogliono stabilimenti più piccoli. In questo modo è anche possibile aumentare l’occupazione.
Uscire dall’euro è una risposta adeguata per contrastare le politiche di austerità?
«Queste politiche sono un suicidio programmato, ben venga qualunque intervento per allieviarne le conseguenze. L’euro è un problema, ma non bisogna farla troppo facile. È nato con gravi difetti e resta una moneta straniera. È una cosa da pazzi, non succede in nessun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiuterebbe molto, ma uscire dall’euro è un’idea insensata. Il Marco sarebbe rivalutato del 40%, milioni di contratti tra enti privati e pubblici dovrebbero essere ridiscussi. Ci vorrebbero 20 anni per farlo, entreremmo in una spirale drammatica. Credo che oggi ci siano altre urgenze in Italia e in Europa
Le ragioni del «fascino suggestivo assunto dalla candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, leader della sinistra di Syriza che si oppone al Memorandum della Troika e al governo di larghe intese chiamato ad applicarlo in Grecia». La Repubblica, 4 gennaio 2014
Il 4 agosto 1914 fu una data nefasta per la sinistra europea. Su richiesta del kaiser Guglielmo II e per “senso di responsabilità nazionale”, i socialdemocratici della Spd, cioè la frazione parlamentare maggioritaria del Reichstag, votarono a favore dei crediti di guerra per finanziare le operazioni militari contro Francia e Russia. Lo stesso giorno, a Parigi, i loro confratelli deputati della Sfio aderirono all’Union sacrée, cioè la grande coalizione antitedesca invocata dal presidente Raymond Poincaré. Quel 4 agosto, dunque, vennero ridotti in cenere i principi fondativi della Seconda Internazionale (“nostra patria è il mondo intero”). Gli stessi popoli che l’ideale socialista aveva riuniti in un solo movimento operaio, si accingevano a massacrarsi nelle trincee della Grande Guerra. Per giustificare la cosiddetta “tregua interna” e la rinuncia alle precedenti deliberazioni pacifiste, Friedrich Ebert, Albert Sudekum e gli altri dirigenti socialdemocratici finsero di credere che la Germania conducesse una “guerra difensiva”. Solo negli anni successivi una minoranza di sinistra si oppose alla linea socialpatriottica, ma venne accusata di “disfattismo” e duramente repressa. Stessa sorte toccò agli oppositori in Francia e in quasi tutti gli altri paesi impegnati nello sforzo bellico. La recente scelta della Spd di imbarcarsi in una Grosse koalition per attraversare sotto la guida di Angela Merkel l’attuale bufera europea, sta suscitando nella sinistra dell’Unione un malcelato imbarazzo e riecheggia queste reminiscenze storiche. Non voglio sostenere che l’accordo stipulato con la cancelliera democristiana sia paragonabile ai crediti di guerra del 1914. E però anch’esso si fonda su uno scambio asimmetrico: vengono garantiti significativi miglioramenti ai lavoratori tedeschi; ma viene nettamente bocciata l’idea socialdemocratica di un fondo europeo per la condivisione del debito. La Spd, dunque, delega per intero la politica europea al rigorismo della Merkel. La Germania resterà inflessibile nei confronti dei partner più poveri dell’Unione. Neppure la leader della sinistra interna, Andrea Nahles, si è opposta a questo dietrofront strategico, intrapreso già prima delle elezioni di settembre quando ormai la Merkel appariva imbattibile. Non una svolta repentina, ma piuttosto una capitolazione rispetto alla severità con cui inizialmente il candidato socialdemocratico alla cancelleria, Peter Steinbrueck, definiva egoista e grezza la politica europea della Merkel.
Per questo è bene ricordare il 1914, e la votazione dei crediti di guerra (che produsse una frattura insanabile nella sinistra europea): aiuta a riconoscere quanto rapidamente possa consumarsi la dissolvenza dell’internazionalismo. Che oggi preferiamo chiamare col nome di europeismo, ma che ovunque deve pur sempre fronteggiare il medesimo spettro del nazionalismo sciovinista. Ciò spiega a mio parere il fascino suggestivo assunto dalla candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, leader della sinistra di Syriza che si oppone al Memorandum della Troika e al governo di larghe intese chiamato ad applicarlo in Grecia. Tsipras non ha alcuna chance di successo. Ma suscita tanta voglia di parteggiare generosamente per il greco contro il tedesco: ovvero contro la candidatura ben più solida di Martin Schulz, l’attuale presidente del parlamento europeo, esponente di quella Spd che sembra appiattirsi nei luoghi comuni dell’ostilità tedesca ai popoli spendaccioni e fannulloni.
Il disagio viene accresciuto dalla ovvia imprescindibilità della Spd: ancora oggi, come già nel 1914, la socialdemocrazia tedesca rimane la forza principale della sinistra europea (e quando, per reazione, fu la Russia di Stalin a tentare “il socialismo in un paese solo”, mal ce ne incolse). Per questo l’egoismo tedesco inscritto nel patto di governo Merkel-Gabriel, così distanti dalla visione europeista dei loro predecessori, risulta tanto più lacerante se visto da sinistra. Per tornare al dilemma europeo simboleggiato alle prossime elezioni dal greco Tsipras contro il tedesco Schulz, quali argomenti si potranno spendere di fronte a un giovane disoccupato italiano per sconsigliargli una scelta puramente romantica, dalla parte del più debole? Se le forze progressiste dell’Ue non sono state capaci di elevare Atene a capitale di un europeismo solidale, e anzi in Grecia il socialismo del Pasok si è autodistrutto per sottomissione alle ricette calate dall’alto, c’è forse qualcuno a sinistra che immagini di ricominciare da Berlino?
Qui davvero il Partito Democratico italiano potrebbe svolgere una funzione rilevante, sforzandosi di riavvicinare il greco e il tedesco. Promuovendo una critica aperta alla Spd rinchiusa nel socialpatriottismo, finora lesinata perfino da uomini come D’Alema che non perdono occasione di vantarsi della propria familiarità col socialismo europeo. L’Italia vive direttamente il dramma della nuova figura sociale dell’uomo indebitato; ma è al tempo stesso nazione cofondatrice dell’Unione europea. Il Fiscal compact sembra condannarci a pagare per vent’anni interessi elevatissimi su un debito pubblico destinato a restare comunque inestinguibile; ma un nostro eventuale collasso finanziario trascinerebbe nei guai anche i paesi più solidi dell’Ue. E a ben pensarci ci soccorre anche la memoria di quel fatidico 1914: quando la Spd votava i crediti di guerra e quasi tutti gli altri partiti socialisti europei tradivano la reciproca fratellanza in nome di un malinteso sentimento di lealtà nazionale, fu proprio il Partito socialista italiano l’unico a mantenersi sulla linea non interventista e neutralista deliberata dal congresso di Stoccarda della Seconda Internazionale. Non bastò per impedire la catastrofe di due guerre mondiali in meno di trent’anni. Ma questa è una ragione in più per riprovarci oggi
Una sintetica analisi della realtà della "politique politicienne" italiana, dove dominano gli avanguardisti del passo indietro.
Il manifesto, 4 gennaio 2014
Il gioco in attacco, il nuovo inizio, l’urgenza, le tappe forzate, i cronoprogrammi: da un mese il governo Letta 2 (quello senza più Berlusconi ma con ancora Alfano) diffonde una frenetica ansia. Senza muoversi di un centimetro, al massimo sostituisce i vecchi annunci con quelli nuovi. «Faremo, stiamo per fare, eccoci», ma appena si passa dagli annunci alle proposte concrete ecco che rimonta un immobilismo confuso. Che del resto è l’unico patto possibile per la strana maggioranza, quello che ne ha garantito la sopravvivenza. Un conto è la legge elettorale, e anche lì per non spaccare in partenza l’asse di governo c’è voluto che Renzi triplicasse le proposte di modifica, ognuna delle quali emendabile: siamo ancora alla teoria. Un conto sono i provvedimenti concreti, anche i più semplici, moderati e di banale buonsenso. Basta che il segretario del Pd accenni alle unioni civili e alla modifica della Bossi-Fini che Alfano ci ricordi di essere sempre lui, l’Angelino di Berlusconi. Minaccia una crisi che non gli conviene ma che è ormai l’unica alternativa all’inerzia.
Forse se ne sta convincendo anche il presidente della Repubblica, che da almeno tre anni ha scelto invece di custodire le larghe intese e il feticcio della stabilità. Meglio tardi che mai.
La proposta di Renzi sulle unioni civili è la più timida possibile. Arretrata anche rispetto all’elaborazione del Pd — il neo segretario del resto qualche anno fa era in piazza al Family Day contro la proposta prodiana dei Dico. Se in Europa e nel mondo si afferma il matrimonio anche per le coppie omosessuali, Renzi si ferma alla tutela privatistica degli affetti, la soluzione cioè che la Corte di giustizia europea sta già superando con le sue sentenze. Anche la magistratura italiana, persino quella della Cassazione, è più avanti. Nelle retrovie ci sono però saldamente Alfano e il suo centrodestra, che è nuovo quanto lo sono Giovanardi e Sacconi. Paragonati ai loro comunicati, quelli vaticani sembrano ormai la scintilla di Lucifero. Se non sulla revisione della Bossi-Fini, dove la destra rimane indecorosamente unita, almeno sulle unioni civili Renzi finirà col trovare maggiore sintonia nei berlusconiani ortodossi che negli alleati di governo. Accelerando per questa via la crisi. Sarà un bene.
Molt www.Sbilanciamoci. info, 3 gennaio 2014
Dopo l'accordo tra il Lingotto e il sindacato Usa, il quartier generale del gruppo Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Usa, mentre le vendite e la produzione in Italia già da tempo rappresentano una parte molto minoritaria di quelle mondiali. Più che di un successo del sistema Italia è meglio parlare di un successo degli azionisti
L’accordo tra il gruppo Fiat e il sindacato Usa ha suscitato l’entusiasmo nei media italiani, del resto facili da accendersi per l’impresa piemontese, dati i legami abbastanza stretti che corrono da sempre tra di essa e i nostri quotidiani più importanti. Al coro si sono uniti i soliti sindacalisti Cisl e Uil, nonché ovviamente qualche rappresentante del governo. Sintetizzano tale reazione due titoli apparsi su Il Sole 24 Ore; vi si parla da una parte di “successo del sistema Italia”, mentre dall’altra si afferma che “vince l’abilità negoziale del manager”.
Ci permettiamo di dissentire da ambedue i concetti espressi dal quotidiano della Confindustria. Il “successo del sistema Italia” appare del tutto relativo se consideriamo come la percentuale di italianità del gruppo tenda ormai ai minimi. Intanto, già da tempo, un pezzo importante del gruppo, la Fiat Industrial, con i suoi camion, i suoi trattori, le sue macchine movimento terra, veleggia da un paradiso fiscale all’altro e l’Italia appare l’ultima delle sue preoccupazioni.
Ora tocca all’auto. Quasi ovviamente, il quartier generale del raggruppamento Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Stati Uniti e rischiamo quindi di perdere qualche migliaia di posti di lavoro a Torino. Del resto, le vendite e la produzione in Italia (grazie anche alle scelte fatte a suo tempo dal management) rappresentano ormai sono una parte molto minoritaria di quelle mondiali del gruppo, mentre è già annunciato che il titolo sarà quotato principalmente alla borsa di New York.
Per far digerire meglio la pillola all’opinione pubblica del nostro paese il management confermerà per l’Italia, almeno speriamo, un po’ di investimenti per rafforzarvi la produzione di alcuni modelli; attendiamo con apprensione gli annunci ufficiali in proposito. Il governo approfitterà della novità per chiedere almeno notizie sul destino vero di Mirafiori e di Cassino, come qualche persona assennata sta facendo? O addirittura per sapere quale sarà il futuro di tutti gli stabilimenti italiani? Mah, quelli sono occupati in ben più importanti faccende.
Comunque, per quanto riguarda le attività produttive, la fusione con Chrysler dovrebbe permettere alla Fiat, oltre che di sviluppare un po’ di sinergie, di mettere le mani sul tesoretto finanziario dell’azienda Usa e di trovare quindi, senza esagerare con l’Italia, un po’ di soldi per portare avanti qualche investimento anche qui da noi.
Va peraltro ricordato come la struttura finanziaria del nuovo gruppo non appare, a detta degli esperti, come molto brillante e in ogni caso essa sembra essere peggiore di quella dei suoi principali concorrenti, con l’esclusione forse della Citroen-Peugeot, che però si sta accasando con lo Stato francese da una parte e con i produttori cinesi della Dongfeng dall’altra. Essa comunque non è in grado di sviluppare una politica aggressiva sul fronte della ricerca e sviluppo e degli investimenti adeguati a posizionarsi tra i protagonisti del mercato mondiale.
Più che di un successo del sistema Italia si potrebbe parlare di un successo degli azionisti, guidati dal pirotecnico Lapo Elkann, clone di Marchionne; alla notizia della fusione i titoli del Lingotto sono subito saliti in misura rilevante. Anche l’amministratore delegato troverà il suo tornaconto nella faccenda, perché potrà consolidare da noi la fama di manager miracolo e vedere anche aumentati i suoi bonus di fine anno. Ci sia permesso di esprimere peraltro solo qualche dubbio sulla sua presunta abilità negoziale. Il sindacato statunitense aveva chiesto 5 miliardi di dollari per concludere l’affare, mentre Marchionne aveva dichiarato con sdegno che il prezzo giusto era di soli 2 miliardi. Ora scopriamo che la Veba ha ottenuto 4,35 miliardi; si tratta di una cifra molto più vicina alle richieste statunitensi che all’offerta italiana.
Di positivo per Torino c’è il fatto che la parte più importante dell’esborso per l’acquisto del 41,5% della Chrysler verrà sostenuto dalla stessa casa americana, mentre l’azienda di Torino dovrà pagare soltanto 1,75 miliardi di dollari e non sarebbe obbligata, almeno nell’immediato, a dover ricorrere ad un aumento di capitale, scelta peraltro probabilmente ineludibile tra qualche tempo.Con la fusione si costituisce il settimo gruppo automobilistico mondiale, che avrà comunque molte difficoltà a lottare con i veri protagonisti del settore.
Lo stesso Marchionne aveva dichiarato alcuni anni fa che per stare adeguatamente sul mercato bisognava produrre almeno sei milioni di vetture, ma nel 2013 la Fiat-Chrysler ne avrà consegnate forse poco più di quattro milioni.
A livello della situazione sul terreno il gruppo ha dei punti di forza commerciali in Brasile, con una posizione però sempre più insidiata dalla concorrenza, negli Stati Uniti, grazie peraltro anche alla forte ripresa del mercato locale negli ultimi anni (cosa succederà quando il mercato si fermerà?), in Italia. Il resto del quadro non appare come molto brillante. Negli altri paesi europei ormai le sue quote di mercato sono minuscole, mentre esso non esiste quasi in Asia, l’area ormai più importante del mondo per il settore e neanche in Russia, dove le previsioni per i prossimi anni indicano che tale mercato diventerà il primo in Europa, scavalcando la Germania.
In Cina, ormai il paese guida per il settore, dopo due false partenze, il gruppo sta avviando ora le sue attività produttive con molta fatica e, se tutto va bene, fra qualche anno esso avrà l’1% di quota di mercato; una meraviglia. In Russia si attende ancora l’avvio operativo della produzione di auto, che appare legata all’accordo con qualche potentato locale che ancora non sembra arrivare, mentre per il momento si dovrà limitare a produrre qualche Ducato.
Per quanto riguarda poi la gamma delle produzioni, nella nebbia delle rare e confuse dichiarazioni del management, sembra possibile negli ultimi tempi individuare una strategia ormai relativamente definita, anche se non in tutti i suoi aspetti.
Nella fascia alta del mercato, si profila un polo del lusso, con la presenza, oltre che della Ferrari, della Maserati e forse anche dell’Alfa Romeo, marchio quest’ultimo di cui però non si conoscono bene i possibili destini. Ma la produzione annunciata per i prossimi anni per la stessa Maserati, a livello di 50.000 unità all’anno, pur rilevante e sicuramente da perseguire, appare alla fine modesta, mentre le varie Mercedes, Bmw, Audi, veleggiano ormai sui milioni di unità.
Nella fascia più bassa, abbiamo dei modelli di successo quali la 500 e la Panda, di cui si cerca di tirar fuori tutte le possibili versioni, mirando a mantenere i prezzi a livello sostenuto. Ma poi c’è il vuoto, che forse sarà colmato molto in parte nel 2014 con la nuova versione della Punto; troppo poco e molto tardi. Nella fascia mediana, ci sono i prodotti della Chrysler, che è abbastanza brava però a vendere suv e pick-up, mentre fa più fatica con le berline di fascia media e media-bassa. È questo un altro punto debole rilevante della strategia di prodotto.
Alla fine, se la Fiat-Chrysler pretende di essere tra i protagonisti del mercato mondiale, sembra evidente che è difficile che possa farcela da sola; essa, a nostro parere, dovrebbe sviluppare un’alleanza con un altro produttore che, oltre ad accrescere i volumi complessivi, copra perlomeno i suoi buchi in Asia e nella fascia delle berline medie e che sia inoltre ben fornito finanziariamente. Altrimenti, la stessa sopravvivenza del gruppo potrebbe essere messa in discussione nei prossimi anni. Il 2014 si presenta come probabilmente molto movimentato per i lavoratori del settore in Italia.
«L'acquisto di Chrysler. Preoccupazione per gli stabilimenti italiani del Lingotto dopo l’acquisizione del 100% dell'azienda Usa. I sindacati: «Marchionne ci dica se investirà». Ma alla Borsa l’operazione piace: i titoli volano». Il
manifesto, 2 gennaio 2014
così Sergio Marchionne, il manager «dei due mondi», è riuscito a incassare un altro risultato: ha riunito i due mondi in uno, adesso la Chrysler è tutta di Fiat e praticamente le due società (mancano ovviamente tempi e passaggi tecnici) si avviano a diventare una unica maxi-azienda, un colosso mondiale tale da poter sopravvivere alla competizione con gli altri giganti dell’auto. D’altronde già nel 2010, all’atto della presentazione dell’ambiziosissimo «Piano Fabbrica Italia», poi spazzato via dalla crisi internazionale, Marchionne lo aveva detto: Fiat potrà sopravvivere solo in una grande alleanza trans-nazionale, che la faccia entrare nel ristretto gruppo di imprese (da contare sul dito di una mano) che sopravviveranno. Grazie all’abbattimento dei costi, grazie a economie di scala su milioni di vetture prodotte, grazie alla flessibilità e insieme alla potenza finanziaria che solo un big può permettersi. Il resto è nulla.
Innanzitutto la Borsa: perché prima ancora che allo stesso amministratore delegato del gruppo e alla famiglia Agnelli/Elkann – che hanno parlato di avvenimento «storico» – ieri l’acquisto è piaciuto soprattutto agli investitori di Piazzaffari. Il titolo Fiat già in apertura di contrattazione è schizzato in alto, per entrare con una quotazione del +12,6%; la chiusura è stata ai livelli del +16,4% e uno scambio di ben il 6,4% del capitale.
Evidentemente i mercati credono nell’operazione: e non solo nel nuovo soggetto che nasce, ma anche nell’«acquisitore» a monte, ovvero la Exor, la holding-cassaforte degli Agnelli, che si avvicina tra l’altro sempre di più a spostare il suo baricentro finanziario e di mercato dalla piazza di Milano a Wall Street. Gli analisti infatti prefigurano un futuro sempre più «a stelle e strisce» non solo per Chrysler-Fiat (capitolo che apre nodi forse dolorosi, almeno per l’Italia, di cui parleremo), ma anche per Exor: che ieri è stata il secondo miglior titolo, dopo Fiat, segnando rialzi oltre il 5%.
Ma, ancora più importante, il giudizio degli ambienti finanziari americani, visto che il titolo di Chrysler-Fiat andrà quasi certamente già entro la fine di quest’anno a istituire la propria piazza principale a Wall Street, lasciando Piazzaffari come mercato secondario.Secondo il Wall Street Journal, il prezzo dei 3,6 miliardi pagato da Fiat per acquisire il 41,5% delle azioni Chrysler ancora in mano a Veba (tutte le altre erano già a Torino), è «molto conveniente per Fiat, migliore delle attese». Gli analisti avevano parlato infatti di un valore ben più alto, tra i 4,2 miliardi e i 5 miliardi di dollari, e tra l’altro il metodo di pagamento scelto (di cui 1,75 miliardi cash e 1,9 miliardi sotto forma di dividendo straordinario da parte di Chrysler a Veba) permettono a Fiat di acquistare senza aumenti di capitale, così come un aumento non è servito a Exor.
Operazione finanziaria riuscitissima, quindi, ma adesso si apre una prateria di possibilità per le scelte industriali: e i sindacati italiani, che ieri hanno ripetuto in coro il mantra «adesso Fiat investa in Italia», dietro questa frase piuttosto scontata celano a stento forti preoccupazioni. Innanzitutto la sede: perché se è ormai praticamente certo che il gruppo italo americano si sposterà (finanziariamente) alla borsa di New York, pare altrettanto attendibile (anche se ancora non se ne parla ufficialmente) che gli uffici centrali, dalla sede legale, al «cervello» della multinazionale, faranno anche loro le valigie: spostandosi da Torino a Detroit. Altri ancora parlano di sede legale in Olanda (come è già avvenuto con Cnh Fiat-Industrial), perché molto vantaggiosa sul piano fiscale, e sede operativa negli Usa. Ma insomma, la gloriosa e storica città del Lingotto, che ospitò fin dal lontano 1899 la creatura di Giovanni Agnelli, pare ormai fuori gioco.
E poi, a cascata, tema che riguarda più da vicino gli operai, gli stabilimenti produttivi. Fiat continuerà a investire in Italia, o via via si disimpegnerà sempre di più? Il coro sindacale è unanime: ora il nostro Paese, che ha tanto pagato per arrivare fino a questa «vittoria» d’oltreoceano, deve incassare le cambiali: Raffaele Bonanni, della Cisl, rivendica la linea seguita negli ultimi anni (insieme alla Uil) di sostegno a Marchionne, dicendo che l’acquisto di Chrysler «è anche merito dei sindacati italiani». Luigi Angeletti chiede investimenti. E Susanna Camusso, della Cgil, insiste: «Fiat dica cosa intende fare nel nostro Paese: auspichiamo che la direzione strategica e la progettazione restino italiane, mantenendo una presenza qualificata in Italia». La Fiom, con Michele De Palma, chiede «la convocazione di un tavolo, con cui il governo chieda garanzie per tutti gli stabilimenti italiani», a partire da Mirafiori e Cassino, quelli giudicati più in bilico.
Il futuro industriale Fiat, almeno negli scenari circolanti ieri, dovrebbe basarsi sul rilancio dell’Alfa Romeo e sul segmento lusso, così come è avvenuto finora per la 500 negli Usa e il rispolvero di Maserati. Sarebbero proprio Cassino e Mirafiori a usufruire dei nuovi modelli Alfa (si parla di una nuova Giulietta, di un’ammiraglia di un suv) e Maserati (con un fuoristrada). Pomigliano pare per ora «condannata» alla sola Panda, Melfi alla Punto, e ai mini suv Fiat e Jeep
La Repubblica, 30 dicembre 2013
Non da oggi, il merito gioca un ruolo di primo piano nella riconfigurazione della cultura ideologica della sinistra. In una società, come la nostra, dove parenti e amici contano sempre molto, più delle vocazioni e delle doti personali, il richiamo al merito è sacrosanto. Ma è un fatto di legalità piuttosto che di giustizia sociale. Anche perché organizzare la società sulla “abilità dimostrata” è alquanto complesso visto che il merito è non solo difficile da misurare e attribuire, ma anche fortemente condizionato dal capitale sociale e dall’ambiente culturale. Per non essere ingiusta considerazione, il merito richiede molta attenzione alla distribuzione eguale delle condizioni di partenza. Per questa ragione un liberal social-democratico come John Rawls non credeva che dal merito potesse partire una politica di giustizia sociale. Perché è difficile spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto in quanto è impossibile stabilire con certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale e dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi ne riceve i frutti o é influenzato dall’operato.
Il giudizio sul merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all’utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico e luogo, ovvero al riconoscimento sociale e pubblico. Nel merito entrano in gioco ben più delle qualità della persona. Per questo nelle questioni di giustizia si dovrebbe diffidare di usarlo come criterio per distribuire risorse. Non perché non sia giusto che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché non si deve scambiare l’effetto con la causa: è l’eguaglianza di condizione, di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia; il merito è semmai la conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un’eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.
Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere ai suoi concittadini la necessità di politiche pubbliche, in primo luogo scolastiche: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono sulla stessa linea ma una di esse con dei pesi alle caviglie cosicché dopo pochi metri si troverà in irrimediabile svantaggio, nonostante si impegni con tutte le sue forze. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no. In questo caso il vincitore non avrebbe proprio alcun merito. Semmai godrebbe di un privilegio. Perché ci sia una gara onesta ed effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell’altro competitore, e lo si può fare in tre modi: o si libera la persona impedita a gara cominciata e si fa finta che ci sia giusta competizione (affermazione del privilegio), oppure si dà a chi è oggettivamente impedito un vantaggio a gara cominciata (programmi di aiuto a chi ha bisogno) oppure lo si prepara prima che la gara cominci (politiche di cittadinanza sociale).
Non si intende dire con questo che non ci può essere merito meritato; ma che non ci può essere se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le diseguaglianze di opportunità prima di valutare il merito.
Ecco perché senza l’accoppiamento con l’eguaglianza il merito non è un valore di giustizia. A meno che non si controllino tutte le relazioni sociali che presiedono alle nostre scelte individuali (cosa indesiderabile oltre che impossibile da ottenere in una società che vuole restare libera) non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi di ingiustizia sociale (mentre la sua violazione nei concorsi pubblici può comportare illegalità). Si deve invece partire dall’eguaglianza di opportunità e delle condizioni di formazione delle capacità, per esempio da scuole pubbliche di buona qualità distribuite su tutto il territorio nazionale affinché la gara possa essere davvero aperta a tutti e non si sfoltisca a valle il numero dei potenziali concorrenti.
«Il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita». Questo solo negli USA. Poi c’è il resto del mondo.
La Repubblica, 30 dicembre 2013
C’È UN fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta. C’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari. C’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. The “Masters of the Universe sono tornati”. I giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano. Se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio dedica a The Wolf, il Lupo di Wall Street, il film più atteso di questo fine 2013. Degna chiusura di un anno che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s 500 in rialzo del 30% rispetto al primo gennaio.
The Economist dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick. Time magazine invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta. L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto.
Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini.
Time saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica Forbes dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali». La sua carriera cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, Barbari alle porte). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs.
Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni. Fondato nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (JP Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble. Una peculiarità di Blackrock lo distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street. Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa (come i vari Dow Jones, S&P500, Ftse).
Il ritorno dei Padroni dell’Universo è un fenomeno dalle molte facce. L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008. In particolare fra questi squilibri c’è la finanziarizzazione dell’economia, e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata. Larry Summers, ex consigliere economico di Barack Obama, in un importante discorso al Fondo monetario internazionale ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.
Il lato positivo di Wall Street forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza. Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale.
Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera duecentomila nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere. La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione. In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, la “macchina del mercato” che qui ha ripreso a girare a pieno ritmo.
«Le ragioni dell'attuale crisi consistono nel capovolgimento del rapporto fra democrazia ed economia, frutto degli ultimi trent'anni di politiche neoliberiste dettate dall'ideologia che, secondo il suo rappresentante più rigoroso Robert Nozick, lo Stato si può giustificare solo se "minimale e limitato a far rispettare i contratti fra i privati"».
Il Sole 24 ore (proprio così), 29 dicembre 2013
Il nuovo anno significativamente cade nel centenario della prima guerra mondiale e impone un bilancio con almeno due diverse valutazioni. La prima è quella che l'attuale crisi non pare sostanzialmente difforme, ancorché non identica, rispetto a quelle precedenti, che si son ripetute in cicli ricorrenti, sicché in qualche modo poi, sia pur nel dominio della confusione e della paura, hanno trovato una soluzione.
La seconda è che si tratti invece di una crisi del tutto nuova, e che l'attendismo delle democrazie non sia in grado di risolverla, ma si richieda invece un cambiamento radicale nel governo del mondo, soprattutto a causa della totalitaria natura globale della crisi stessa.
Così in molti Paesi le risposte alla grande depressione del '29 consistettero nell'abolizione di uno dei poteri fondamentali della democrazia, cioè l'autorità legislativa; abolizione comune nelle autocrazie totalitarie, dal fascismo, al nazismo, al comunismo. È pur vero che a volte la divisione dei poteri è pericolosamente rinnegata, anche attraverso prevaricazione di qualcuno dei tre poteri, più spesso quello esecutivo, con repressione dei diritti fondamentali che della democrazia costituiscono l'essenza.
Basterà, per chiarire il discorso, fare riferimento al recente ponderoso studio di Ira Katznelson (Fear Itself: The New Deal and The Origin Of Our Time - New York, 2013) dal quale risulta con chiarezza che il New Deal di Roosvelt nacque in un'atmosfera di assoluta incertezza sulla capacità e il destino della democrazia liberale, tant'è che lo stesso New Deal e la creazione di un'economia dello Welfare State fu possibile con l'intervento soprattutto dei membri del Congresso sudisti, ai quali venne garantita la permanenza di un sistema legale di segregazione razziale. L'incontrovertibile risultato raggiunto con la partecipazione alla seconda guerra mondiale è presentato come salvaguardia della democrazia americana attraverso profondamente ambigue alleanze con il sud degli Stati Uniti ante diritti civili e con l'Unione Sovietica di Stalin.
Le ragioni dell'attuale crisi consistono nel capovolgimento del rapporto fra democrazia ed economia, frutto degli ultimi trent'anni di politiche neoliberiste dettate dall'ideologia che, secondo il suo rappresentante più rigoroso Robert Nozick, lo Stato si può giustificare solo se «minimale e limitato a far rispettare i contratti fra i privati». Ciò ha portato a una spinta alla deregolamentazione del capitalismo finanziario, alla fuga dello Stato dalla protezione dei diritti umani, dalla salute all'istruzione, al lavoro, alla dignità della vita e a favore dell'esaltazione delle disuguaglianze.
La Repubblica, 29 dicembre 2013
Nel giro di qualche ora ha ricevuto centinaia di messaggi offensivi, tra cui una trentina di questo tipo: «Era meglio se morivi a 9 anni brutta imbecille, io sperimenterei su persone come te»; oppure: «Se per darti un anno di vita sono morti anche solo 3 topi, per me potevi morire pure a 2 anni». Penso sia lecito chiedersi dove siamo finiti e che ne sia ormai della solidarietà umana.
Come Caterina Simonsen, anch’io ho scelto di non mangiare più carne, è una scelta che mi fa sentire solidale con la vita, che reputo sacra in ogni sua manifestazione, umana e animale. Anzi, penso che la vita sia sacra già a livello vegetale e che di per sé non si dovrebbero mangiare neppure le patate e le cipolle che sono tuberi e possono generare vita, e infatti i monaci giainisti non le mangiano cibandosi solo di frutti. Ma non basta, occorrerebbe chiedersi se un albero voglia darci i suoi frutti, che non ha certo prodotto per noi, e se raccoglierli non implichi una forma di violenza, per lo meno di quella legata al furto. Non a caso Gandhi scriveva che «il consumo dei vegetali implica violenza», aggiungendo però subito dopo: «Ma trovo che non posso rinunciarvi ». Da qui il profeta della non-violenza concludeva che «la violenza è una necessità connaturata alla vita corporea ». La nostra vita, in altri termini, per esistere si deve nutrire di altra vita che deve necessariamente sopprimere. Per questo nessuno è innocente e nessuno è in grado di stabilire con certezza dove si debba attestare il rispetto per la vita.
Tale conclusione sull’alimentazione vale anche per la cura medica: anche qui c’è un’inevitabile dose di violenza, come mostra già il nostro sistema immunitario del tutto simile a un esercito di professionisti senza scrupoli. Si potrebbe obiettare che i batteri eliminati dai globuli bianchi e le cavie su cui viene condotta la sperimentazione nei laboratori non sono la stessa cosa perché i primi sono aggressori e gli altri no, ma io penso che anche i batteri che entrano nel nostro corpo siano innocenti perché fanno solo il loro mestiere senza nessuna intenzione di aggredirci. In realtà la violenza è intrinseca in ogni sistema di difesa: se vuole continuare a vivere, nessun vivente può uscire indenne dalla catena di violenza di cui è impastata la vita, e per questo nessuno ha il diritto di tirare la prima pietra condannando chi mangia carne o chi sostiene la ricerca mediante sperimentazione animale.
Tuttavia dalla catena di violenza di cui è intrisa la vita alcuni esseri umani desiderano emanciparsi, e questo è un nobile ideale che a mio avviso va sostenuto. Nessun altro essere vivente può concepire tale emancipazione, solamente l’uomo lo può, mostrando in questo di essere ben al di là della vita animale. Sto dicendo che gli animalisti, con il loro sostenere un comportamento del tutto privo di violenza verso gli animali e con il loro volere per gli animali gli stessi diritti dell’uomo, mettono in atto un comportamento che li distanzia al massimo dal mondo animale. Nessun animale carnivoro infatti cesserà mai di mangiare carne, nessun animale erbivoro deciderà mai di astenersi dai bulbi e dai tuberi, nessuna specie animale estenderà mai alle altre specie i diritti di supremazia che la natura lungo la sequenza della selezione naturale le ha concesso. A parte quella umana, nessuna specie cesserà mai di seguire l’istinto sotto cui è nata. L’uomo al contrario ha imparato a poco a poco a estendere gli ideali di giustizia a tutti gli esseri umani, compresi quelli dalla pelle diversa, e oggi alcune avanguardie stanno lottando per allargare tali ideali ad altri esseri viventi. Tutto ciò, esattamente al contrario del naturalismo professato da alcuni animalisti, mostra in modo lampante lo iato esistente tra Homo sapiens e gli altri viventi. Se gli esseri umani lottano per estendere agli animali gli stessi diritti dell’uomo non è quindi perché non c’è differenza tra vita umana e vita animale, ma esattamente al contrario perché tra le due vi è una differenza qualitativamente infinita.
Ponendosi in tale prospettiva di estensione degli ideali di non-violenza anche al mondo animale, Gandhi scriveva: «Aborrisco la vivisezione con tutta la mia anima. Detesto l’imperdonabile macello di vita innocente nel nome della scienza e della cosiddetta umanità, e considero del tutto prive di valore le scoperte scientifiche macchiate di sangue innocente». Per questo, al di là delle ignobili offese a Caterina Simonsen che meritano solo l’oblio, io ritengo che nella campagna animalista contro la sperimentazione sugli animali vi sia qualcosa di importante. Si tratta dell’appello a estendere a tutti i viventi l’imperativo categorico della vita etica, formulato da Kant alla fine del Settecento solo in prospettiva antropocentrica: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai solo come mezzo». Oggi si tratta di giungere a trattare «sempre come fine e mai solo come mezzo» non solo l’umanità, ma, per quanto è possibile, tutto ciò che vive: gli animali, le piante, i mari, le montagne, il pianeta, il cosmo… tutto dovrebbe essere visto in una prospettiva non utilitaristica ma vorrei dire
contemplativa,in cui si contempla la natura delle cose rispettandole per quello che sono e cessando di calcolare solo l’utile che ne viene a noi, per una filosofia ecologica di cui il nostro tempo e il nostro spazio hanno urgente bisogno.
Attenzione però alla saggezza del grande filosofo: dicendo «mai solo come mezzo», Kant ricordava che un elemento di strumentalità è sempre connaturato al vivere, nel senso che ognuno di noi in alcune circostanze è anche un mezzo per la vita degli altri. Ciò ci dovrebbe portare a quel saggio equilibrio del cuore e della mente che mette al riparo da ogni radicalismo fanatico e che porta ad appoggiare la liceità etica della sperimentazione animale laddove davvero non vi sia altra possibilità per sconfiggere le malattie degli uomini e degli stessi animali.
Due ragioni di fondo della crisi della democrazia nella fase del neoliberismo: « l' esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; la riduzione della politica a politicismo, a pura tecnica».
l'Unità, 28 dicembre 2013
Se c’è una cosa che colpisce nell'attuale dibattito politico è l'assenza di una riflessione sui limiti del potere, anche di quello democratico. Perciò va accolta con interesse la riflessione di Giuseppe De Rita sul Corriere della sera in cui si sottolinea, nel quadro di un ragionamento articolato, l’importanza dei poteri intermedi, senza i quali anche in democrazia non ci può essere effettiva rappresentanza. È una tesi in controtendenza rispetto alle correnti dominanti, e per questo va particolarmente apprezzata.
Ciò che oggi si valorizza è infatti l'idea di un potere, anche democratico, senza «limiti» (e uso volutamente questo termine), in assenza di gravità. E in questo quadro ciò che si sostiene è la funzione e il ruolo storico-politico del leader, del capo che non deve avere intralcio nella sua azione. Senza leader, si dice, non è concepibile la politica nel mondo contemporaneo: i partiti, le associazioni appunto, i corpi intermedi non hanno perciò altro compito che non sia quello di sostenere, in funzione subordinata, la missione del capo.
Ora, in questa tesi c’è un equivoco di fondo che non sempre, anzi quasi mai, viene chiarito: è almeno dalla fine dell’Ottocento che è stata riconosciuta, anche sul piano teorico, la funzione della «grande personalità» nella storia, che si è poi affermata nel Novecento sia negli Stati totalitari che in quelli democratici. Su questo punto, connesso all’imporsi delle masse, non c’è questione. Si tratta però di chiarire quali siano, specie in democrazia, i «limiti» del potere, anche di quello del leader. Naturalmente se si vuole restare in un regime di tipo democratico.
In verità, la discussione sui limiti del potere è connessa, fin dalle origini, alla riflessione sui caratteri dello Stato moderno, perfino presso i teorici dell'assolutismo. Tanto più che questo motivo è presente, fin dal 600, nei teorici della democrazia. Quando un autore come Spinoza riflette sullo Stato monarchico delinea subito il sistema di «consigli» che deve circondare, e limitare, l'autorità del sovrano, se non si vuole che la monarchia degeneri in tirannide. Ma anche nell'Ottocento un pensatore di prima grandezza come Tocqueville individua nell'associazionismo cioè nei corpi intermedi la barriera necessaria per impedire che la democrazia, di cui pur riconosce la necessità e la ineluttabilità, degeneri in dispotismo. In questo senso, si può dire che tutta la riflessione sullo Stato moderno nei suoi punti più alti è una lunga, e complessa, meditazione sui limiti del potere: perfino Bodin scrive pagine importanti su questo punto, considerandolo cruciale.
Richiamo questo tema, e questi nomi, non per gusto della citazione, ma perché essi ci conducono a quello che oggi è il centro del problema: il venir meno, anzi l’assenza, di una riflessione sui limiti del potere è un effetto diretto della crisi in atto dello statualità moderna. E in questo contesto è una conseguenza della crisi della democrazia, la quale vive e si sviluppa se è basata su un ampio e articolato sistema di bilanciamento e di controllo dei poteri, che non possono mai essere ridotti ad «unità», cioè al potere di un leader. Se e quando questo accade si esce dalla democrazia e si entra in un altro tipo di regime politico, qualunque sia il nome che gli si voglia dare: perché alla democrazia è connaturata l’idea del limite a tutti i livelli. Essa vive, e si sostanzia, del conflitto, ma in democrazia anche il conflitto per essere fecondo deve essere organizzato, cioè limitato.
Varrebbe la pena chiedersi perché oggi le cose siano arrivate a questo punto, e non solo in Italia. Ma certo in Italia questo processo degenerativo ha avuto ragioni specifiche legate ai caratteri del ventennio che si è ora concluso e alla degenerazione della politica e dell'agire politico. Se si volessero citare due elementi caratteristici di questo periodo si potrebbe dire che esso è stato caratterizzato da un lato da una esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; dall'altro, da una riduzione della politica a politicismo, a pura «tecnica», sfociata alla fine e necessariamente, verrebbe da dire in una apologia dell’«amministrazione» con i risultati che si sono visti.
In questo ventennio la politica si è inaridita, ha perso radici, si è separata dalla gente, dalla vita quotidiana, si è messa da un 'altra parte, ha perso l'anima (direbbe Delors) provocando le reazioni che si sono viste nei giorni passati. Oggi forse il problema più grave della democrazia italiana è proprio questo discredito della politica. Eppure senza politica non c’è libertà, non c’è democrazia; ma senza «limiti» non ci sono né l’una né l’altra; non c’è vivere democratico senza «corpi intermedi»: partiti, sindacati, associazionismo in tutte le sue forme.
Sarebbe bene che le forze democratiche e di sinistra che hanno la responsabilità di non aver compreso la vastità e le implicazioni dei processi innescati nel ventennio passato ricominciassero ad interrogarsi sul valore e sul significato dei limiti del potere, senza disconoscere, ovviamente, la funzione del leader in una democrazia come quella contemporanea. Anzi, a differenza di quanto pensino, e sostengano, gli ideologi conservatori, in una democrazia liberale sono due lati dello stesso discorso.
«Il manifesto, 28 dicembre 2013
Oggi il Parlamento in Italia non conta più nulla e non riesce a far nulla, continua a prendere schiaffi senza che nessuno se ne lamenti, neppure i diretti interessati. Schiacciate dal peso del sostegno a un governo privo di un coerente indirizzo politico, tenute in vita artificialmente, in attesa di una presidenza di turno europea, di improbabili riforme istituzionali e dello stabilizzarsi del quadro politico terremotato dopo le ultime elezioni, la perdita di autonomia delle camere è totale. Lo avevamo già segnalato su queste pagine, ma vale la pena ricordarlo: da che è iniziata questa legislatura le camere non sono riuscite a esercitare nessuno dei loro principiali compiti istituzionali.
È anche vero che non è solo il Parlamento a versare in uno stato comatoso. Anzi esso è un riflesso della condizione in cui versa la politica. Concentrata sui destini personali e sul ricambio generazionale, attraversata da lotte fratricide per il predominio nei feudi e nei territori tradizionali della politica politicante, disposta a scaricare sugli altri (soggetti o istituzioni che siano) le colpe del vuoto di una politica nazionale.
Dovremmo tutti preoccuparci dello stato in cui versa il nostro Parlamento, da esso dipendono le sorti della nostra democrazia. Dinanzi a tanta confusione l’accusa delle disfunzioni non basta. Sarebbe auspicabile che qualcuno si ergesse a difensore dell’istituzione parlamentare e richiamasse anche gli altri poteri al rispetto della centralità dell’organo della rappresentanza politica