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Tra le bizzarrie del duce dei grillini la sua concezione della democrazia è certamente quella più innovativa. E l'"innovazione" piace molto, di questi tempi.

Il manifesto, 14 gennaio 2014

Un voto fast-food, una demo­cra­zia à la carte, una con­sul­ta­zione ora­rio uffi­cio. Si o no, favo­re­vole o con­tra­rio al reato di clan­de­sti­nità? Non è una burla, né una per­for­mance sati­rica, è come, in Ita­lia, un par­tito con otto milioni di voti, con un gruppo par­la­men­tare di 150 eletti, tra sena­tori e depu­tati, sce­glie di risol­vere una que­stione così impor­tante, di quelle che bastano e avan­zano per trac­ciare una linea (o per sca­vare un fos­sato) tra destra e sinistra.

Oggi, giunta final­mente al voto la legge sulle «depe­na­liz­za­zioni» com­pren­siva dell’abolizione della ver­go­gna ita­liana del reato di clan­de­sti­nità, ecco la mossa a sor­presa, la votazione-lampo orga­niz­zata da Grillo e Casa­leg­gio.

La fedele cop­pia di cara­bi­nieri, guar­dia e guar­dia scelta del bot­tino elet­to­rale con­qui­stato alle ele­zioni poli­ti­che dello scorso feb­braio, indice un refe­ren­dum dalle 10 del mat­tino alle 18 del pome­rig­gio. Il ten­ta­tivo è di evi­tare che l’abolizione del reato di clan­de­sti­nità porti la firma gril­lina. Come già era lim­pi­da­mente emerso in otto­bre quando due sena­tori pen­ta­stel­lati ebbero l’ardire di pro­porre l’emendamento incri­mi­nato con­tro il fami­ge­rato fiore all’occhiello della legge Bossi-Fini.

Su di loro si sca­tenò l’ira fune­sta del padre-padrone e del suo pre­sunto ideo­logo inter­net­tiano. Se aves­simo soste­nuto l’abolizione del reato di clan­de­sti­nità in cam­pa­gna elet­to­rale – sostenne allora il tan­dem – «avremmo avuto per­cen­tuali da pre­fisso tele­fo­nico». Siamo con­trari «nel merito e nel metodo», aggiun­sero per chia­rire che quell’emendamento avreb­bero dovuto riman­giar­selo. In cima ai pen­sieri di que­sti per­fetti impren­di­tori della paura, c’era, e resta, il cal­colo elet­to­rale, l’inseguimento delle pul­sioni peg­giori del popu­li­smo con­tro gli immi­grati, il non schie­rarsi né a destra, né a sini­stra, per gua­da­gnare il mas­simo con­senso dalla crisi dei par­titi.

Non che Grillo e Casa­leg­gio deb­bano per forza leg­gere i sacri testi sulla demo­cra­zia, o ispi­rarsi alla defi­ni­zione che Bob­bio ne sug­ge­riva («un insieme di regole, pri­ma­rie o fon­da­men­tali, che sta­bi­li­scono chi è auto­riz­zato a pren­dere le deci­sioni col­let­tive e con quali pro­ce­dure», spie­gando che la deci­sone spetta a «un numero molto alto di sog­getti»). Ma almeno rispet­tare la Costi­tu­zione che scio­glie gli eletti dai vin­coli di man­dato, lascian­doli liberi di esprimersi.

E visto che alla fine quelle poche migliaia di voti (circa 24 mila) in mag­gio­ranza (poco meno di 16 mila) hanno appog­giato l’abolizione dell’odioso reato (9 mila quelli che, invece, avreb­bero voluto con­fer­marlo), forse Grillo e Casa­leg­gio dovranno ras­se­gnarsi a comin­ciare a resti­tuire una parte dei con­sensi sot­tratti alle destre leghi­ste. E magari domani vedersi sfug­gire anche quelli avuti in dono dal Pd di Ber­sani. Se l’abile e astuta stra­te­gia di Renzi riu­scirà a essere più effi­cace della pro­pa­ganda gril­lina sul finan­zia­mento pub­blico e la legge elet­to­rale, nem­meno le maglie strette del con­trollo della rete riu­sci­ranno a trat­te­nere il bot­tino elet­to­rale con­qui­stato caval­cando la grande paura

La magistratura ci ha liberato dellavergogna del Caimano, ciò che lapolitica politicante non aveva voluto fare. Chi ci libererà da quest’altravergogna? E’ davvero difficile essere italiani. La Repubblica online, 14gennaio 2014

Inaugurata una nuova rubrica con l'agenda della titolaredell'Integrazione, riportata già dal sito del ministero. La direttrice delquotidiano: "Nessuna istigazione". Il Pd: "Gravissimaintimidazione"
BOLOGNA- Gli appuntamenti quotidiani del ministroper l'integrazione Cecile Kyenge sono riportati dalla Padania in una nuovarubrica, "Qui Cecile Kyenge", che si affianca, nelle pagine internedel giornale, alla consueta rubrica "Qui Lega territorio" dovevengono indicati gli appuntamenti pubblici degli esponenti leghisti. Una sceltache suscita subito l'indignazione del Partito Democratico ("intimidazionegravissima") e la difesa del direttore del quotidiano leghista, chedifende l'operazione.

Quasiun elenco di posti per trovarla. Una sceltaeditoriale, quella del quotidiano del Carroccio, che dopo le recenticontestazioni a Kyenge sembra quasi un elenco di posti dove"trovarla" facilmente. E magari ripetere analoghe manifestazioni diprotesta. E del resto, non sono state poche le manifestazioni contro ilministro del governo Letta. L'ultima pochi giornifa, a Brescia, dove in piazza si sono affrontati militanti dicentrodestra e immigrati.

I precedenti. Tra quelle che hannoindignato di più, ad esempio, c'è il lancio dibanane di questa estate, a Cervia, provincia di Ravenna, doveera attesa sul palco (e dove è effettivamente andata nonostante lacontestazione). O ancora, sempre nella "sua" Emilia-Romagna, imanichini insanguinati che Forza Nuovale ha fattotrovare a Rimini. Gli appuntamento pubblici del ministrodell'Integrazione, riferiti dalla Padania, sono inrealtà quelli riportati sulla agenda del ministro, pubblicata regolarmente sulsito del ministero dell'Integrazione.

IlPd: "Gravissimo". "Ladecisione del quotidiano leghista "La Padania" di pubblicare in unarubrica fissa gli appuntamenti del ministro Kyenge è gravissima, ai limitidell'intimidazione. Prima di verificare altre strade, chiediamo alla Lega diintervenire sul proprio giornale di partito". Lo affermano i senatori PdMauro Del Barba e Roberto Cociancich. "Le manifestazioni di piazzaorganizzate, non a caso, a braccetto con Forza Nuova stanno degenerando -sottolineano i parlamentari dem - Contro il ministro è in atto una polemica chenon esistiamo a definire di stampo razzista. Il Pd, come ha recentemente dettoil segretario Renzi, farà di tutto per approvare una legge sullo ius soli".

"Nessuna istigazione". "Inostri lettori hanno visto che in questi nove mesi Kyenge non ha prodotto alcunprovvedumento in Consiglio dei ministri e in Parlamento. Sono nove mesi che fapellegrinaggio filo-immigrazionista in lungo e in largo per l'Italia e i nostrilettori vogliono essere informati sulle sue iniziative", spiega ladirettrice del quotidiano del Carroccio, Aurora Lussana. A chi le chiede se nontema che l'iniziativa

possa essere vista come una provocazione verso ilministro più osteggiato dalla Lega Nord, o essere percepita come una"istigazione" alla protesta, Lussana risponde: "No, si trattadell'elenco dei suoi appuntamenti pubblici, pubblicati sul portale delministero: noi facciamo informazione sull'attività dei membri del governo. I nostrilettori vogliono sapere dove Kyenge si reca per ascoltare i suoi annunci e lesue chiacchiere: è giusto informarli".


C’ è l’armadio della vergogna, ma anche il carrello della vergogna. Nel primo furono nascosti per mezzo secolo i fascicoli degli innumerevoli crimini commessi in Italia dai nazisti con il valido aiuto degli scherani di Mussolini. Nel secondo, un enorme carrello a due piani, per ancora più tempo sono stati accantonati (sarebbe meglio dire occultati) tutti i faldoni riguardanti le non gloriose imprese commesse dalle truppe inviate dal Duce alla conquista del mondo. E, mi duole dirlo, non c’è eccessiva differenza tra le azioni delle camicie brune tedesche e quelle delle camicie nere.

Italiani brava gente? In guerra quasi non esistono differenze, come non sono esistite e non esistono nel trattamento morale e penale di nazisti e fascisti. Tranquilli i primi, nei loro Paesi, nonostante condanne all’ergastolo comminate dai nuovi Tribunali militari. Tranquillissimi i secondi, neanche sfiorati dalle inchieste.

Ora i fatti. Tra le montagne di carte di quell’enorme carrello, che per oltre due anni ho faticosamente inseguito, c’è la relazione della Commissione istituita il 6 maggio del 1946 dal ministero della Guerra per «accertare le responsabilità nelle quali potessero essere incorsi i comandanti o i gregari italiani nei territori d’oltre confine occupati dalle forze armate italiane nell’ultima guerra». Firma la relazione, datata 30 giugno 1951 e inviata a quello che ormai è divenuto il ministero della Difesa, il senatore avvocato Luigi Gasparotto: antifascista, cofondatore del Partito della democrazia del lavoro (scomparso nei primi anni del dopoguerra insieme al Partito d’azione) e unico civile tra tanti militari. Uno dei suoi figli, rinchiuso nel lager di Fossoli, fu ucciso dai nazifascisti assieme al finto generale Della Rovere e ad altri settanta internati.

Gli accusati dalle varie nazioni aggredite dal fascismo sono 326 di cui solo 34, secondo la relazione, «sarebbe opportuno sottoporre a giudizio dell’autorità competente». Ma quest’ultima, cioè la Procura militare di Roma, quando riemersero le carte, si pronunciò qualche anno fa per la «non punibilità» di tutti, a norma, artatamente, di un articolo del codice militare di guerra, il 165, previsto per ben diverse situazioni.

La relazione parte considerando le richieste della Jugoslavia, «Paese dal quale sono state mosse le più numerose e più gravi accuse alle nostre truppe di occupazione e alle autorità civili preposte all’amministrazione dei territori occupati». Dopo aver respinto l’accusa di preordinata e sistematica violenza da parte italiana, si fa riferimento alla necessità degli occupanti di emettere provvedimenti di rigore per controbattere «gli atti di ferocia commessi dai partigiani». E che i partigiani jugoslavi non fossero anime gentili, è raccontato in un altro di quei numerosissimi fascicoli: 40 bersaglieri catturati furono evirati. Ma un generale italiano commentò: «Però noi siamo gli aggressori».

Vien anche scritto in questa relazione che «l’annientamento di interi villaggi, le rappresaglie più spietate, furono opera di gruppi etnici e religiosi in lotta fra loro». L’allusione riguarda, evidentemente, la guerra intestina tra titini e monarchici. «Tuttavia non può disconoscersi che gli ordini e le disposizioni dati da alcuni comandanti militari e da qualche autorità civile e i giudizi sommari di qualche tribunale straordinario apparissero improntati ad un rigore eccessivo». E così vengono denunciati, tra gli altri, alle autorità competenti «i generali Roatta e Robotti, il governatore della Dalmazia, Bastianini, i componenti del tribunale straordinario di Sebenico, generale Magaldi e colonnello Sorrentino, essendo stato l’altro componente, Pietro Caruso, fucilato in Roma, dove aveva esercitato le funzioni di questore, dietro condanna dell’Alta Corte di Giustizia». Roatta, già capo dei servizi segreti fascisti, mandante insieme a Mussolini, dell’assassinio in Francia dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, comandante supremo dell’armata che aveva invaso la Jugoslavia, diceva ai suoi: «Non dente per dente, ma testa per dente». E il suo successore, Robotti, si lamentava nelle riunioni dello stato maggiore perché «qui ne ammazziamo troppo pochi». Ma non c’è problema: loro e tutti gli altri se la cavarono a norma di quell’articolo 165 del Codice militare di guerra che prevede la parità della tutela penale, come se ci fosse parità tra eserciti e civili, come se si mettessero sullo stesso piano le vittime di S. Anna di Stazzema e chi le massacrò.

Albania. Dice la relazione: «Anche il governo albanese, sull’esempio di quello jugoslavo, ha rivolto molteplici gravi accuse di crimini di guerra ai connazionali militari e civili di cui hanno chiesto la consegna… Costoro, secondo quanto afferma detto governo, avrebbero ispirato, organizzato ed eseguito l’aggressione armata del 17 aprile 1939, favorito l’aggressione da parte della Germania del 6 luglio 1943, ordinato e commesso innumerevoli delitti contro il popolo albanese», consistenti in deportazioni, uccisioni, atti di terrore, atrocità. Ma «si tratta di accuse così vaghe e generiche» da non potersi prendere in considerazione. E le varie colpe addebitate ai singoli sono «quelle misure che potevano essere compatibili con le condizioni anormali create dallo stato di guerra». E poi, stigmatizza la commissione, «il governo albanese, anziché lanciarsi in accuse infondate, avrebbe dovuto ricordare l’azione oltremodo benefica svolta dall’Italia in quel Paese negli anni che precedettero l’occupazione». Come vi permettete? Siete privi di memoria?

Grecia. A norma dell’art. 45 del Trattato di pace il governo greco chiese la consegna di 23 persone, tra militari e civili. Tra queste l’ex luogotenente in Albania Francesco Jacomoni. Però, nell’aprile del 1948 le autorità greche «dichiaravano di rinunciare a dette consegne, lasciando alla magistratura italiana il compito del giudizio». Anche in questo caso, nota la relazione, ci si trova davanti a generiche enunciazioni (ma alcune inchieste riaperte dal nuovo procuratore Marco De Paolis dimostrano esattamente il contrario). Quindi, per la Commissione tutto a posto. Unica eccezione il generale Gherardo Magaldi, ancora lui, «il cui carattere violento avrebbe potuto giustificare l’accusa di uccisioni e atti di crudeltà da lui commessi e ordinati… Per questo è stato deciso di inviare il suo caso ai nostri organi giurisdizionali per compiere un’ampia istruttoria». Ma come vado ripetendo non se ne farà niente.

Russia. In una nota dell’ottobre del 1944 il governo russo denunciava come criminali di guerra il generale Roberto Lerici ed altri 11 ufficiali. «Tuttavia la Commissione si è dovuta convincere che le accuse erano basate su dati di fatto inesatti o insussistenti». Comunque il governo russo non rispose alle richieste di chiarimenti, «dimostrando, tra l’altro, di non insistere sulla consegna degli accusati». Alla commissione arrivarono richieste anche dalla Francia e dalla Gran Bretagna, di rilevanza minore, comunque anch’esse completamente azzerate. Manca, stranamente, in questa relazione finale della «Commissione d’inchiesta per i crimini di guerra italiani secondo alcuni Stati esteri» ogni riferimento a quel che combinarono in Africa i marescialli Badoglio e Graziani. In particolare quest’ultimo, che poi aderirà a Salò.

La conclusione, assai amara: in questo Paese è più facile, molto, molto più facile far riemergere la mastodontica Concordia, piuttosto che la storia, la memoria, la giustizia. Cioè, in una parola, la civiltà.


Riferimenti

Altri momenti ed episodi del versante nero dell'italiano, sempre pronto a riemergere, è inellacartella "italiani brava gente" del vecchio eddyburg.it
Del resto, nella storia della Penisola i barbari sono sempre venuti dal Nord; ma dal di là delle Alpi.

La Repubblica, 12 gennaio 2014

PERCHÉ l’assessore per l’immigrazione della Lombardia non vuole partecipare a un incontro sull’immigrazione con il ministro per l’immigrazione? La risposta è dello stesso assessore, la leghista Simona Bordonali: “Ritengo le tematiche non prioritarie”. Può essere anche divertente domandarsi quali tematiche, se non l'immigrazione, siano “prioritarie” per un assessore all'immigrazione.

Ma è più interessante notare come la poco partecipata ma molto dura contestazione di ieri, a Brescia, contro il ministro Kyenge, forse per la prima volta abbia compattato i rappresentanti politici e in qualche caso istituzionali di tutta la destra nazionale, da Forza Nuova alle camicie verdi ai neomissini di Fratelli d'Italia a militanti della rinata Forza Italia (che, a prenderli in parola, sarebbero i veri eredi dei “moderati”).

La ministra “congolese”, si sa, è il bersaglio prediletto, oltre che il più ovvio, degli umori xenofobi del nostro Paese. In quanto italiana figlia dell'immigrazione e in quanto nera è ritenuta, piuttosto che una persona a conoscenza dei fatti, una provocazione vivente, un insulto a un'idea di “italianità” puramente virtuale, al pari di ogni astrazione razzista, ma violentemente ribadita, al pari di ogni astrazione razzista. Quanto al fatto che proprio nelle scorse settimane la rivista americana Foreign Policy abbia inserito la Kyenge tra le cento personalità mondiali più influenti in funzione del cambiamento può valere, negli ambienti dell'isolazionismo italiano, solo come conferma del complotto “mondialista” ai danni della retta conduzione di ogni nazione.

Ieri a Brescia si è rischiato che la gazzarra trascendesse in botte da orbi, essendo il presidio anti-Kyenge venuto quasi a contatto con gruppi di immigrati e “militanti dei centri sociali” non meglio identificati, gli uni e gli altri. È stata una breve e intensa rappresentazione di strada, in carne e ossa, dell'odio e degli insulti che dilagano sui social network, per una volta avvantaggiati dalla loro virtualità, nel senso che, almeno, sul web le parole grevi e i concetti violenti non hanno il supporto delle urla stridule, e dei volti trasfigurati dall'eccitazione, che i telegiornali della sera ci hanno documentato. Tenuti a bada dalle forze dell'ordine (accusate da un signore quasi apoplettico per la rabbia di “proteggere solo i negri e i comunisti”), gli xenofobi di popolo e di Palazzo (c’erano anche l'assessore Beccalossi e il consigliere regionale Rolfi) si sono allontanati furibondi, e certamente convinti di essere stati discriminati nonostante incarnino la voce popolare.

Nei fatti, sempre che i fatti contino, il vero problema, per loro, non è certo uno spintone di troppo da parte della polizia; né i loro veri antagonisti coincidono, se non in piccola parte, con i ragazzi antirazzisti e gli immigrati che ieri gli si sono opposti in strada, avendo uguale diritto di manifestare. Il vero problema, per la destra lombarda e italiana, è che Kyenge era stata invitata, oltre che da un paio di enti locali, dall'Azione Cattolica di Brescia, vale a dire da quel cattolicesimo sociale che in Lombardia è molto presente e molto influente; ed è, soprattutto, profondamente “popolare”, non certo riducibile alle detestate lobby mondialiste o salottiere o comuniste o bancarie o gay o altro che, nella visione piuttosto paranoica della destra xenofoba, regola le cose del mondo con subdola protervia.

Mentre la Beccalossi, la Bordonali e Rolfi (e Maroni? ha un'opinione in proposito, Maroni?) vorrebbero dare alla Kyenge il foglio di via, e il loro manipolo di ripulitori etnici sventolava un grande biglietto di aereo “Italia-Congo” da consegnare al ministro, Azione Cattolica la invita a Brescia e le mette a disposizione un microfono e un vasto pubblico, in una delle città più cattoliche e più ex democristiane di Italia. Specie sotto un papato come questo, antifondamentalista ed ecumenico (mondialista?), i veri grattacapi, per gli xenofobi padani e italiani, non verranno dai “comunisti” dei centri sociali.

Il manifesto, 10 gennaio 2014

Con la bozza del Job­sAct, Mat­teo Renzi ha ini­ziato a ren­dere chiaro il peri­me­tro cul­tu­rale in cui intende muo­versi. E oltre alle pun­tuali osser­va­zioni cri­ti­che sul tema dell’occupazione scritte da Giu­seppe Alle­gri sul manifesto di ieri, c’è un punto della bozza – il capi­tolo 7 “buro­cra­zia” della parte dedi­cata al “sistema” — che apre un velo pre­oc­cu­pante sulle inten­zioni dell’astro nascente dell’afittica poli­tica italiana.
In que­sto caso al cen­tro della scena non ci sono i ragio­na­menti e le pro­po­ste sul lavoro. Al punto 7 si afferma che si intende appli­care alle strut­ture dema­niali ciò che vale oggi per gli inter­venti mili­tari. E’ scritto pro­prio così, e per essere ancora più chiaro: «I sin­daci deci­dono desti­na­zioni, parere in 60 giorni di tutti i sog­getti inte­res­sati, e poi nes­suno può inter­rom­pere il processo».
Il deli­cato pro­blema della deci­sione sull’utilizzazione degli immo­bili pub­blici dismessi diventa dun­que un pro­blema simile alla sicu­rezza mili­tare e a deci­dere deve essere una sola per­sona, il sin­daco, cal­pe­stando regole e demo­cra­zia, per­ché i con­si­gli comu­nali non sono nep­pure citati.
C’è in que­sta pro­po­sta una con­vinta aper­tura alla grande sven­dita dei beni pub­blici, un fatto di per sé molto grave e spe­riamo che den­tro il Pd si alzino voci con­tra­rie. Ma c’è soprat­tutto una gigan­te­sca que­stione democratica.
Il gruppo dei pen­sa­tori attorno al sin­daco di Firenze pensa evi­den­te­mente — spiace scri­verlo, ma è pro­prio così– al modello isti­tu­zio­nale del ven­ten­nio fasci­sta in cui era il pode­stà a deci­dere senza l’inutile impac­cio dei con­si­gli comunali.
Come è noto, è in atto una for­tis­sima pres­sione da parte dei grandi poteri eco­no­mici e finan­ziari per acca­par­rarsi a pochi soldi le pro­prietà pub­bli­che, dalle caserme ai beni dema­niali, come abbiamo visto nella recente discus­sione sul patto di sta­bi­lità quando tra le nuove misure era com­parsa (poi for­tu­na­ta­mente can­cel­lata) per­fino la ven­dita delle spiagge. Renzi si schiera dalla parte di que­sti poteri.
Il Job­sAct è ancora in forma di bozza, l’invito è a dare sug­ge­ri­menti e magari diranno che sul punto si sono sba­gliati: ma dalla sua prima scrit­tura si com­prende meglio quali siano i motivi pro­fondi dell’entusiasmo che Renzi ha riscosso da parte del sistema domi­nante eco­no­mico e della comu­ni­ca­zione: nep­pure Ber­lu­sconi, pur avendo appro­vato decine di leggi dero­ga­to­rie, era riu­scito a pen­sare una norma di que­sto tipo.
Renzi va oltre, rompe ogni indu­gio e si accre­dita come colui che demo­lirà ogni resi­dua regola nelle città e nell’ambiente. Il modello della riforma elet­to­rale chia­mato del “sin­daco d’Italia” non poteva avere peg­gior preludio.

E per meglio pre­ci­sare il con­cetto di demo­cra­zia che ha in mente, il gruppo ren­ziano, alla con­clu­sione del citato arti­colo 7 afferma che non sarà più pos­si­bile chie­dere «la sospen­siva nel giu­di­zio ammi­ni­stra­tivo». I comi­tati che ani­mano le ini­zia­tive in tutta Ita­lia sono ser­viti: non deb­bono distur­bare il mano­vra­tore. Una norma pale­se­mente insen­sata e inco­sti­tu­zio­nale, per­ché non si pos­sono scon­vol­gere regole e il codice civile con la scusa della ven­dita degli immo­bili pub­blici: cor­re­ranno ai ripari, ma fin d’ora con­verrà stare molto attenti al Sin­daco d’Italia.

«Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali». La Repubblica, 9 gennaio 2014

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NEL suo gran libro su La crisi della coscienza europea dal 1680 al 1715, Paul Hazard ebbe a definire l’Europa come “un pensiero che mai si accontenta”. Oggi, prigioniera di una crisi senza precedenti, l’Unione europea si accontenta di politiche economiche restrittive, quasi una frontiera invalicabile. Questa è l’Europa degli anni che viviamo. Nella quale sono deboli i tentativi di colmare il deficit di democrazia segnalato da Jacques Delors. Ed essa è scivolata verso un deficit di legittimità, che è alla base della crescente sfiducia dei cittadini, delle spinte verso la rinazionalizzazione, dell’abbandono di valori e principi dell’Unione come accade in Ungheria.

Vi era stato un momento in cui questo rischio era stato individuato, e s’era imboccata la via per contrastarlo. Nel 1999, il Consiglio europeo aveva aperto una fase costituente, affidando ad una Convenzione il compito di scrivere una carta dei diritti. La ragione di questa scelta era netta: “La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione”. Si manifestava così la consapevolezza che la costruzione dell’Europa affidata solo al mercato avesse esaurito le sue risorse. che la sua piena legittimità esigesse ormai una centralità dei diritti. Ritroviamo qui l’eco lontana dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “la società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è determinata la divisione dei poteri, non ha Costituzione”. Quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto questo — una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato della Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of Rights, che pure, com’è scritto nell’articolo 6 del Trattato di Lisbona, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Cogliendo questo spirito, addirittura quando la Carta non era vincolante, l’allora presidente Romano Prodi dichiarò subito che “Parlamento e Commissione hanno già fatto sapere che intendono applicare integralmente la Carta”. Proposito ribadito e reso più impegnativo da successive comunicazioni della Commissione.

Oggi l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse, nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per acquisire legittimità attraverso la loro adesione, e muta i cittadini da attori del processo europeo in puri spettatori, impotenti e sfiduciati di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di garanzie dei diritti. V’è in tutto questo una contraddizione, un abbandono della logica che volle il passaggio dell’espressione “Mercato unico” a “Unione europea”, che avrebbe dovuto avvicinare istituzioni e cittadini, e questi tra loro. E vi è pure un abbandono di quanto è scritto nel Preambolo della Carta, dove si afferma l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”.

Una “costituzione finanziaria” ha sostituito tutto questo, e dunque da qui bisogna ripartire, anche perché si è diffusa la consapevolezza dei guasti provocati da una sua assunzione acritica. Questo dovrebbe essere il tema centrale delle imminenti elezioni europee. Altrimenti finirà che, sul versante degli europeisti, prendano il sopravvento le lamentazioni contro i populismi antieuropei, quelli che l’Economist chiama la “Europa dei Tea Parties”, mentre bisogna guardare a fondo nelle loro ragioni e produrre gli anticorpi necessari. E questo può avvenire solo se si ricompone il contesto costituzionale europeo, reintegrandolo con la Carta, anche per riprendere un diverso filo della stessa discussione economica. Così acquisterà chiarezza anche l’obiettivo di avere più Europa politica. Per fare che cosa? Rendere ancora più stringente la logica economica? O ridare fiato ad un pensiero che non si accontenta di questo inquietante riduzionismo?

Partire dall’Europa, allora, non è un parlar d’altro, un tentativo di eludere le specifiche questioni italiane. È un passaggio obbligato proprio per definire meglio le responsabilità nazionali, oggi frammentate tra difficoltà ed egoismi dei singoli Stati, per affrontare senza reticenze non l’antieuropeismo spicciolo di chi cercherà di lucrare qualche consenso alle prossime elezioni, ma l’obiezione radicale di chi, da ultimo Wolfgang Streeck, vede ormai nell’Unione europea l’epicentro della “colonizzazione capitalistica”. La replica di Juergen Habermas a questa tesi può anche apparire non del tutto convincente, ma coglie un punto di verità quando segnala il rischio di “una rinuncia disfattista al progetto europeo”, che non aprirebbe la via a una Europa rinazionalizzata, ma manterrebbe al centro proprio le distruttive dinamiche della pura austerità. L’ipotesi è quella di democratizzare il sistema delle istituzioni europee, intervenendo sui trattati. Ma questa strategia sarebbe monca e debole se rimanesse fuori la revisione della nuova costituzione economica e, soprattutto, se si ignorasse il grande conflitto sui diritti che ha già devastato l’Europa accrescendo distanze e diseguaglianza, impoverendo intere popolazioni, e che è oggi l’ostacolo vero per la creazione di un “popolo europeo”. Se vi è un errore nelle ripulse d’una sinistra estrema, altrettanto rischiosa è l’incapacità dell’altra sinistra di considerare ineludibile questo tema.

Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali. Proprio per questo l’attenzione alla sola dimensione dell’economia sarà insufficiente se non sarà reintegrata in questo più vasto contesto.

Qui si coglie il nesso tra Europa e Italia, dove troppi continuano a separare le due questioni e dove è in atto il tentativo di scorporare dalla Costituzione tutta la parte relativa ai diritti. Si è manifestata una critica irridente i difensori dei diritti fondamentali, sfruttando una colorita battuta di Roberto Benigni sulla “Costituzione più bella del mondo”. In discussioni impegnative si dovrebbero frequentare anche altre fonti. Massimo Severo Giannini, ad esempio, che definì “splendida” la prima parte; o Leopoldo Elia, che nella Costituzione vide “una delle migliori prove del costituzionalismo europeo, soprattutto per la completezza e lo spessore della dichiarazione dei diritti civili, sociali e politici”. Questo non è trionfalismo, ma l’indicazione di una politica costituzionale che, proprio in vista di riforme della seconda parte, non può abbandonare i principi definiti nella prima. Unione europea e Italia hanno il medesimo problema di ricomposizione dell’ordine costituzionale come condizione della sopravvivenza della stessa democrazia.

A tutti gli europei, e ai loro governanti, dovrebbe essere imposta la lettura dell’ultima pagina dell’Omaggio alla Catalogna di George Orwell, con la straordinaria descrizione dell’inconsapevolezza inglese verso i segnali dell’imminente guerra mondiale. Rassicurati allora nelle loro piccole certezze (“non vi preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa domattina e il
New Statesman uscirà di venerdì”), chiusi oggi i paesi più ricchi in una insolente rottura d’ogni solidarietà e progetto comune, proprio così si erodono le basi di una “Unione” ben più degli antieuropeisti di professione.

Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato dall'associazione Futura Umanità a Roma, Teatro de' Servi, 8 novembre 2013. Futura umanità, con premessa

Premessa


Tre ragioni ci spingono a pubblicare questo scritto, che riprendiamo dal sito Futura umanità.. La prima è di carattere generale. La cancellazione della storia dalla conoscenza dei contemporanei è uno dei più robusti strumenti adoperati chi vuole conservare il mondo così com’è (e come non ci piace) contro chi vuole cambiarlo. La seconda è nel contributo che questo scritto fornisce alla comprensione del carattere profondamente innovativo della Costituzione che, lungi dal voler finalmente attuare, si pretende di stravolgere. La terza ragione sta nel fatto che la concezione del “partito” che emerge dall’analisi della concezione del comunismo italiano, al confronto con quelle oggi dominanti, ci sembra testimoniare la profondità del baratro nel quale siamo caduti (negli anni di Craxi, Berlusconi e Renzi) e dello sforzo che occorrerà fare per uscirne (e.s.)

TOGLIATTI E LA VIA COSTITUZIONALE
PER LATRASFORMAZIONE DELLA SOCIETA’

Appena rientrato in Italia dopo quasi vent’anni di esilio - il Pci, come si sa, era stato messo fuori legge dalla dittatura fascista -, Togliatti nel primo discorso pubblico pronunciato a Napoli l’11 aprile 1944 espone in modo nitido la strategia dei comunisti italiani, e indica con straordinaria chiarezza i principi da porre a fondamento di una nuova Costituzione, tali da garantire il rinascimento dell’Italia travolta dalla catastrofe della guerra.

In un Paese calpestato per metà dalle truppe naziste e per metà occupato dall’esercito anglo-americano, Togliatti afferma: «Convocata domani un’Assemblea nazionale costituente, proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi (...) del capitale monopolistico. Questo vuol dire - prosegue - che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza o sul dominio di un solo partito. In un’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti (...); noi proporremo però che questi partiti, o almeno quelli che (...) hanno un programma democratico e nazionale, mantengano la loro unità per far fronte a ogni tentativo di rinascita del fascismo». «Il regime democratico e progressivo che proponiamo, e alla costruzione del quale vogliamo collaborare e collaboreremo in tutte le forme, dovrà essere - conclude - un regime forte, il quale si difenda con tutte le armi contro ogni tentativo di sopprimere o calpestare le libertà popolari».

Se è difficile sostenere che il Pci, durante tutta la sua esistenza, abbia in qualche caso derogato da questa impostazione, è altrettanto difficile contestare che in quella fase storica la strategia togliattiana sia stata una strategia vincente. Ponendo i comunisti alla testa della guerra di liberazione e cementando l’unità dei partiti antifascisti, essa consentì di liquidare la monarchia e il fascismo, di risolvere democraticamente la questione istituzionale ridando dignità a un Paese che l’aveva perduta, e di aprire al tempo stesso la strada a una civiltà più avanzata in cui i lavoratori si innalzino al rango di classe dirigente. Come disse a suo tempo Pietro Nenni, «Togliatti era il solo veggente tra coloro che vanno alla cieca».

Nella sua visione della politica vi è un legame inscindibile tra fini e mezzi. Quindi, se il fine, vale a dire l’obiettivo strategico generale è la creazione di una democrazia progressiva che attui «un complesso di riforme della struttura economica e sociale», il partito nuovo di massa è lo strumento adatto allo scopo. Ancora nel discorso di Napoli, Togliatti afferma: «Nessuna politica può essere realizzata senza un partito, il quale sia capace di portarla tra le masse, nelle officine, nelle strade, nelle piazze, nelle case, nel popolo e di guidare tutto il popolo a realizzarla. Il nostro partito deve acquistare questa capacità». «Noi dobbiamo essere il partito più vicino al popolo (...). È dovere dei comunisti di essere vicini a tutti gli strati popolari, a tutti coloro che soffrono; agli operai che lavorano o che sono disoccupati, ai giovani, alle donne operaie o di casa, agli intellettuali, ai contadini. Dobbiamo riuscire a comprendere tutte le necessità di questi strati popolari e impegnarci a soddisfarle».

Democrazia progressiva e partito nuovo di massa sono dunque i due pilastri della strategia di Togliatti. Ed essi si incarnano nella Costituzione repubblicana e antifascista come progetto di cambiamento. Polemizzando tra gli altri con Pietro Calamandrei, il quale sosteneva che la Costituzione italiana, secondo il modello costituzionale staliniano del 1936, dovesse limitarsi a prendere atto delle realtà esistente, Togliatti replica che le condizioni della Russia sovietica erano affatto diverse da quelle italiane, e pertanto occorre distaccarsi da quel modello. In caso contrario si sarebbe decretata l’impossibilità di trasformare i fondamenti strutturali del nostro Paese. Là, sotto i colpi di un processo rivoluzionario violento, era stato distrutto il vecchio ordinamento economico-sociale ed erano state le gettate le basi di uno nuovo. Qui - osserva - una rivoluzione non è avvenuta, ma è possibile arrivare «a una profonda trasformazione sociale seguendo un cammino differente».

Con il crollo della dittatura fascista, sono state riconquistate le libertà civili e politiche. Per quanto riguarda le trasformazioni sociali da attuare, queste si possono realizzare «attraverso la democrazia, cioè accettando e rispettando il principio della maggioranza liberamente espressa». Tale è il senso della democrazia progressiva, «e il valore di questa definizione sta appunto nel fatto che essa riconosce e afferma questa tendenza a un profondo rivolgimento sociale attuato attraverso la legalità».

La conclusione cui perviene tale impostazione è limpida: la Costituzione dell’Italia democratica deve avere un carattere progettuale-programmatico «non di previsione, ma di guida», che «porti a un rinnovamento audace, profondo, di tutta la struttura della nostra società, nell’interesse del popolo e nel nome del lavoro, della libertà e della giustizia sociale». Quindi, non una Costituzione socialista, che prenda atto di un’avvenuta trasformazione e, tanto meno, che codifichi la statizzazione integrale dei mezzi di produzione, ma una Costituzione come programma per il futuro, che apra la strada a una società socialista di tipo nuovo rispetto al modello esistente. Perché - aveva sostenuto Togliatti al V congresso del partito - «soltanto ponendosi sulla via del socialismo, cioè della trasformazione dell’organizzazione della produzione e degli scambi nel senso della solidarietà sociale e umana, si può sperare di ricostruire una civiltà e di preservare la pace». Noi - aggiungeva - «siamo democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Tra democrazia e socialismo non c’è contraddizione».

È la visione di un percorso inedito e originale: la via italiana al socialismo, come Togliatti stesso la definirà nel 1956 forse in modo alquanto riduttivo. In altre parole - e in questo sta la sua genialità -, muovendo dalla presenza dell’Unione Sovietica e dal «legame di ferro» con la rottura storica rappresentata dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, il segretario del Pci delinea un processo di avanzamento verso il socialismo del tutto diverso. Una visione strategica che si ritrova nell’impianto costituzionale, soprattutto nella sua parte più innovativa, di cui Togliatti è stato artefice diretto: quella riguardante i diritti sociali e di proprietà, che oggi appare in tutta la sua grandezza e modernità, nelle mutate condizioni storiche in cui una ristretta minoranza di proprietari universali, ossia il vertice dominante del capitale finanziario globale, sta logorano al tempo stesso l’uomo e l’intiero ambiente della sua riproduzione.

Il fondamento del lavoro, che è il contrario della centralità del capitale, cambia la natura della società e dello Stato rispetto al passato. Siamo di fronte a un vero e proprio passaggio storico, giacché al centro dell’architettura dello Stato e della società non c’è più il polveroso principio della proprietà inviolabile, vale a dire il proprietario-cittadino, pilastro universale del costituzionalismo antecedente all’irruzione nella storia del movimento operaio e dei lavoratori. Bensì la nuova figura della modernità capitalistica: la persona che lavora disponendo solo di sé medesima, l’uomo e la donna proprietari solo delle loro abilità fisiche e intellettuali, della loro manualità e intelligenza, della loro forza-lavoro. Ossia, la classe dei lavoratori dipendenti o comunque eterodiretti, che in Italia sono più di 16 milioni. La stragrande maggioranza delle forze di lavoro anche in Europa e nel mondo.

Insomma, la società dei proprietari cede il passo alla società dei lavoratori. In forza di questo passaggio storico il lavoro non è più soltanto una merce che si scambia sul mercato. Diventa diritto, e poiché lo sfruttamento del lavoro umano nasce dal capitale come rapporto sociale, il lavoro posto a fondamento della società e dello Stato apre la strada a una civiltà più avanzata, in cui l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa. La Repubblica, infatti, non solo «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro», ma «promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto», in modo che essi possano concorrere al progresso materiale e spirituale della società (articolo 4). Non solo «garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni ove si svolge la sua personalità», ma «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (a. 2). Da cui scaturisce, a livello internazionale, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (a.11).

L’intiera architettura costituzionale ha una sua profonda e riconoscibile coerenza. Sul fondamento del lavoro si innalzano i nuovi diritti della persona, i diritti sociali. Muovendo dal principio che la Repubblica «tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni» e «cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori» (a. 35), la Costituzione - come è noto - stabilisce la parità di diritti e di retribuzione per uomini e donne a parità di lavoro (a. 37); introduce il diritto «a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» sufficiente comunque ad assicurare «una esistenza libera e dignitosa» (a. 36), nonché il diritto all’istruzione (a. 33), al riposo e alla salute (a. 32), alla pensione e all’assistenza sociale (a. 38). Inoltre, in una visione assai significativa e moderna della persona e della società, «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e culturale della nazione» (a. 9).

Ma - ecco la grande novità, di fatto mandata in soffitta - per dare attuazione a questa fitta trama di diritti non basta che tutti concorrano «alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» (articolo 53), seppure sia questa una condizione ineludibile. È necessario che «l’iniziativa economica privata», ancorché libera, non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Di conseguenza, la legge dovrà indicare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere coordinata a fini sociali» (a. 41). Infatti, essendo la proprietà «pubblica o privata», «i beni economici appartengono allo Stato, a enti o a privati».

La proprietà privata è garantita, ma entro limiti che ne assicurino la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (a. 42). Di più: «ai fini di utilità generale», la legge «può riservare originariamente o trasferire» «allo Stato, a enti pubblici o - sottolineo - a comunità di lavoratori o di utenti» imprese che si riferiscano a servizi pubblici, a fonti di energia o a situazioni di monopolio (a. 43). Sulla stessa linea del pluralismo nelle forme di proprietà, contrapposto al totalitarismo della proprietà privata capitalista, che rende bene l’idea di un percorso aperto, di un processo riformatore in progress, si collocano anche gli articoli 44, che impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, e 45, che favorisce lo sviluppo dell’artigianato e la cooperazione a carattere di mutualità.

Sono tutte norme del titolo III della Costituzione, solitamente ignorate nel dibattito attuale, che derivano in modo rigoroso dai principi fondamentali dalla nostra Carta. Più precisamente, sono la traduzione normativa di quei principi, in particolare di quella visione modernissima dell’uguaglianza e della libertà fissata nell’articolo tre. Dove si afferma non solo che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e hanno pari dignità sociale, ma che la Repubblica rimuove gli ostacoli economici e sociali, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza, e quindi impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dove dunque è chiaro che non basta l’uguaglianza davanti alla legge e neanche il principio di equità nella distribuzione del reddito, ma occorre intervenire nel cuore del rapporto di produzione capitalistico, ossia nel rapporto di proprietà, se si vuole garantire libertà e uguaglianza, e quindi il pieno sviluppo della persona umana.

In una parola, una rivoluzione. Nel cui svolgimento liberazione del lavoro e libertà della persona s’intrecciano, giacché il lavoro, in una sintesi inedita che non contrappone la classe all’individuo, è considerato non solo come interscambio permanente tra uomo e natura, che comporta una visione inscindibile dello sfruttamento umano e ambientale; non solo come forza produttiva fondamentale dei beni materiali e immateriali; bensì anche come fattore costitutivo della personalità. La valorizzazione del lavoro, che pervade l’intiero impianto costituzionale, diventa così la base materiale e culturale dell’uguaglianza e della libertà, e perciò anche il riferimento per la finalizzazione della proprietà e per il governo del mercato. Sono temi non dell’altroieri, ma dell’oggi e del domani.

Un progetto di tale portata, che - come è stato giustamente osservato - si spinge a introdurre elementi di socialismo9, non può essere scisso dalla classe lavoratrice, dalla sua autonomia culturale e politica, e quindi dalla sua diretta partecipazione alla guida del Paese. E infatti nell’impianto costituzionale la valorizzazione del lavoro non è separata dal protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. I quali conquistano non solo il diritto di sciopero e la libertà sindacale (a. 39 e 40), ma la concreta possibilità di farsi classe dirigente per il tramite del partito politico, considerato lo strumento indispensabile «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (a.49).

I confini della democrazia si sono enormemente allargati ben oltre il perimetro dei principi liberali. Quindi, non più deleghe al sovrano per casato o per censo, o a ristrette élites tecnico-politiche. Con l’entrata in campo della classe lavoratrice la politica assume una nuova dimensione sociale, e con i partiti di massa prende forma quella che Togliatti definisce «la democrazia che si organizza»10. Era chiaro infatti ai costituenti che i lavoratori e le classi subalterne non sono in grado di esigere i nuovi diritti costituzionalmente riconosciuti se non si organizzano e non si rappresentano politicamente.

Senza sottovalutare l’apporto delle «terze forze», vale a dire di azionisti, repubblicani e liberali democratici, di cui la Costituzione assume la grande conquista storica dei diritti civili, ma respinge la vecchia ideologia proprietaria comunque riverniciata e apparentemente spogliata di ogni relazione con il gravame soffocante dei rapporti economici, non c’è dubbio che i comunisti e i socialisti, da una parte, e i democratici cristiani, dall’altra, sono stati i principali artefici di un disegno costituzionale innovativo, le cui enormi potenzialità rimangono tuttora largamente inesplorate oltre che inapplicate.

Non si è trattato di un inciucio ante litteram, ma di una convergenza, su una reale piattaforma di cambiamento, di due grandi correnti di pensiero, l’una che risale a Marx cui i comunisti e i socialisti allora facevano riferimento, l’altra d’ispirazione cristiano-sociale il cui principale esponente era Giuseppe Dossetti. Un solidarismo d’origine diversa - osserva Togliatti intervenendo nella discussione sul progetto di Costituzione - che però «arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi». «Questo è il caso dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà». E quando Giorgio La Pira, uno dei costituenti di spicco della Dc, indica nella dignità della persona il riferimento per i diritti dell’uomo e del cittadino, Togliatti afferma che «qui vi è un altro punto di convergenza della nostra corrente, comunista e socialista, con la corrente solidaristica cristiana» giacché «socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana».

Si stabilisce così una relazione inedita, sconosciuta in altre esperienze del Novecento ad Est come ad Ovest, e ricca di implicazioni straordinariamente attuali, tra solidarietà e personalismo, tra classe sociale e individuo, tra collettività e persona, e anche tra utilità sociale e impresa, che dà all’intiero impianto costituzionale, sicuramente la vetta più alta toccata dagli italiani nel loro contrastato cammino verso la libertà e l’uguaglianza, il respiro di un’operazione di grande portata strategica su cui costruire il futuro.

E’ un progetto di nuova società. La proprietà articolata in forme diverse (pubbliche, private, comuni), limitata e finalizzata, e il mercato, regolato per soddisfare le esigenze umane e ambientali attraverso l’intervento pubblico e la presenza di soggetti sociali politicamente organizzati, si innestano in un progetto, e in un processo, di trasformazione della società diverso da ogni modello finora conosciuto, che potremmo chiamare nuovo socialismo. Di certo questo non è il modello sovietico di società socialista. D’altra parte, una Costituzione che pone il lavoro a fondamento della democrazia non si può definire liberale, giacché va ben oltre i sacri principi dell’ ‘89. Ma il progetto costituzionale non si identifica neanche con il compromesso socialdemocratico, che in tutto il Novecento mai ha superato il limite della sfera distributiva, evitando di affrontare il nodo dell’accumulazione e della struttura economica, e quindi di scalare la muraglia del modo di produzione capitalistico, cioè dei rapporti di proprietà. Il risultato è che dopo il fallimento del «socialismo realizzato» ad Est, oggi dobbiamo constatare il fallimento della socialdemocrazia ad Ovest.

In questo contesto, a mio giudizio il progetto costituzionale italiano assume un valore speciale. Esso trae i suoi fattori costitutivi dalle specifiche condizioni storico-culturali del nostro Paese, dalle caratteristiche del capitalismo italiano e dalle lezioni che i partiti della classe operaia hanno saputo trarre dalla sconfitta subita con l’avvento del fascismo. Ma sarebbe un grave strabismo non vedere che questo progetto ha un valore più generale, perché pone su basi nuove l’idea e la pratica della trasformazione della società verso il socialismo nell’intiera Europa, in Paesi capitalisticamente maturi, retti da diverse forme di democrazia politica.

Un progetto reso possibile dalla strategia dei comunisti italiani, che in Occidente hanno aperto un diverso orizzonte al processo rivoluzionario, teorizzato e praticato con coerenza da Togliatti sulla via della democrazia progressiva, da percorrere con la presenza e con le lotte del partito nuovo di massa. È semplicemente assurdo, e al tempo stesso prova di inguaribile dogmatismo, ritenere che esista un’unica via per la trasformazione della società indipendentemente dalle condizioni storiche, e un unico schema di società comunista in cui imbracare l’universo mondo.

Del resto, non era questo il pensiero di Marx - a torto imprigionato nella precettistica degli epigoni -, il quale, in un discorso del 1872 ad Amsterdam, polemizzando con gli anarchici astensionisti, aveva sostenuto che le classi lavoratrici devono «prendere il potere politico per fondare la nuova organizzazione del lavoro», altrimenti mai avrebbero visto «l’avvento del regno dei cieli in questo mondo». Ma, aggiungeva, «non abbiamo affatto preteso che per arrivare a questo scopo i mezzi fossero dappertutto identici. Conosciamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi, le tradizioni di vari Paesi», e perciò riteneva che nei Paesi più avanzati «i lavoratori possono raggiungere il loro scopo pacificamente».

L’originalità del comunismo di Togliatti consiste in un pensiero e in una pratica che superano la più che secolare oscillazione tra il tutto sociale e il tutto politico, tra massimalismo e riformismo. E quindi in un’azione politica che connette il particolare con il generale, la parzialità con la visione di sistema, la quotidianità con la prospettiva, i mezzi e i fini attraverso un’iniziativa combinata dal basso e dall’alto che dà concretezza al processo riformatore. E perciò delinea i contorni di un più alto ordinamento, di un «socialismo diverso». L’esito di questo processo - annota Togliatti nel 1962 - «dipenderà dal fatto che, per l’azione di un partito rivoluzionario, com’è il nostro, non si perda mai, nelle masse lavoratrici, la coscienza del legame tra le riforme parziali e gli obiettivi del movimento operaio e socialista, e questi non vengano mai né cancellati né offuscati»13.

La più grande innovazione introdotta da Togliatti - ha fatto notare Mario Tronti -, sta proprio nel superamento del dilemma che nel Novecento ha dilaniato in Europa socialdemocratici e comunisti: riforme o rivoluzione? La rivoluzione nella società e nello Stato attraverso le riforme: questa è la risposta che troviamo nell’impianto togliattiano. E non è un gioco di parole, o un astratto esercizio intellettuale. L’unità di riforme e rivoluzione, ovvero il rivoluzionamento della società e dello Stato attraverso riforme della struttura economico-sociale e delle sovrastrutture culturali e formative, si realizza nel processo di trasformazione guidato dalla politica concepita come partecipazione sociale e protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Il partito di massa, «intellettuale collettivo» che lotta anche sul terreno della cultura e della formazione del senso comune, è lo snodo decisivo di questa strategia, che si distacca dal leninismo costruttore del partito-avanguardia, come pure dalle socialdemocrazie imprigionate nella gabbia dei rapporti di produzione capitalistici. Un partito inteso appunto come «parte», che non si identifica quindi con lo Stato né si sovrappone alla società per dominarla, ma stabilisce con essa un rapporto interattivo allo scopo di produrre «politica reale delle classi subalterne in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamo alla massa», per dirla con Antonio Gramsci.

Si tratta di un disegno strategico poderoso e organico, fondato proprio sulle analisi di Gramsci e sulla sua teoria della funzione egemonica, da conquistare prima nella società e nell’organizzazione della cultura per poterla poi esercitare nello Stato, che capovolge gli schemi delle rivoluzioni condotte dall’alto con un atto giacobino o con la presa del Palazzo d’inverno, per calarle successivamente nel corpo sociale. Praticabile ovviamente a due condizioni: che sia presente sulla scena un partito rappresentativo del lavoro dipendente ed eterodiretto, oggi delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo; e che nell’azione politica non si spezzi il nesso tra rivoluzione e riforme, tra sociale e politico, tra prospettiva e concretezza.

Diversamente, la politica, intesa come azione per trasformare il mondo, e quindi posta al vertice delle attività umane, retrocede nel migliore dei casi a politicantismo o a puro verbalismo. Il nodo da sciogliere non è dunque quello del gradualismo, ma quello della direzione di marcia. Per essere più precisi, oggi si tratta di decidere se, facendo asse sul lavoro, s’intende porre al centro dell’azione politica il programma di profonde riforme sociali ed economiche previsto dalla Costituzione. Oppure se a quel programma si vuole chiudere definitivamente la porta, cambiando la Costituzione.

Concepita in un momento drammatico della nostra storia, la Costituzione del ’48, non parla del passato, ma del presente e del futuro degli italiani. Ed è una bussola moderna proprio perché, come è stato giustamente è osservato, ponendo il lavoro a fondamento del patto tra gli italiani dimostra la sua inesauribile vitalità in quanto sancisce «una dimensione complessa dell’eguaglianza, non riducibile alla parità delle condizioni di partenza»16. E dunque tutela non solo consolidati diritti, come quelli degli operai Fiat, ma è aperta all’affermazione di diritti nuovi, che scaturiscono dalla rivoluzione scientifica e tecnologica e dalla condizione umana del nostro tempo, e riguardano perciò le generazioni giovani, in preda alla precarietà e prive di prospettive. Come è dimostrato dal fatto, ed è solo un esempio, che per l’accesso alla conoscenza reso possibile da internet non basta affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi permangono condizioni di disuguaglianza e di esclusione.

In altre parole, le condizioni di vita della nostra epoca reclamano a piena voce un’uguaglianza reale e non retorica, che la nostra Costituzione sancisce. È certo che, come la storia ha dimostrato, la liberazione del lavoro non si potrà ottenere se non si comprende la differenza tra uomo e donna come pure la complessità della figura sociale di ciascuno e di ciascuna, andando oltre la stessa condizione materiale. Ma dalla disuguaglianza tra chi possiede i mezzi finanziari, di produzione e di comunicazione, e chi dispone solo delle proprie capacità corporee, fisiche e intellettuali, non si può prescindere, ben al di là della asserita uguaglianza di tutte e di tutti davanti la legge.

Chi obietta che il fondamento del lavoro oggi non ha senso perché è finita la stagione del fordismo e dell’operaio-massa, evidentemente ha in testa un’unica idea fissa del lavoro come categoria immutabile che non va oltre la catena di montaggio, e non fa i conti, oltre che con la dittatura del capitale sul lavoro, con una rivoluzione della scienza e della tecnica che non ha abolito il lavoro, ma ha rivoluzionato il modo di lavorare, senza rivoluzionare però il diritto di proprietà, come la Costituzione prevede. Per cui, il vero problema, come del resto è evidente dagli svolgimenti drammatici della crisi, non è la cancellazione del fondamento del lavoro, bensì la sua rielaborazione nelle nuove condizioni, applicando al tempo stesso le norme previste dal titolo III.

In conclusione, la Costituzione è un progetto vivo e vitale, di cui è necessario liberare tutte le potenzialità per uscire dalla crisi in Italia e per contribuire a dare una diversa dimensione all’Europa. Un progetto che parla alle nuove generazioni, alle lavoratrici e ai lavoratori del nostro tempo, qualunque sia la forma in cui si manifesta (o non si manifesta) la loro attività lavorativa, e indipendentemente dalle norme giuridiche in cui è regolato (o non è regolato) il loro rapporto di lavoro. In sintesi, la Costituzione è il vero progetto per cambiare l’Italia e l’Europa: di cui gli italiani oggi possono disporre grazie all’apporto decisivo di un grande politico e statista come Palmiro Togliatti, il rivoluzionario costituente, secondo la definizione di Gianni Ferrara. Dunque, il progetto per cambiare lo stato delle cose presenti esiste, ed è costato tanti sacrifici e dure lotte. Occorre recuperarlo, e farne oggi la stella polare che illumini il cammino, in un momento tra i più oscuri della nostra storia.

Il testo completo di note a pie’ di pagina è scaricabile qui: Paolo Ciofi, Palmiro Togliatti e la Costituzione:e altre relazioni al convegno sono scaricabili dal sito Futura umanità.

«Con la soglia di sbarramento, il parlamento di Strasburgo si aprirà solo a una parte di italianiSignificativamente sono esclusi coloro che vorrebbero cambiare l’Europa, e non condividono né le grandi coalizioni sinistra- destra né le disordinate risposte di 5 Stelle ai mali dell’Unione».

LaRepubblica, 8 gennaio 2014

ANCORA non sappiamo come reagiranno i cittadini europei e italiani, il 22-25 maggio quando si voterà per il nuovo Parlamento dell’Unione — se diserteranno le urne, se si interesseranno ai propri rappresentanti in Europa — ma sin da ora sappiamo una cosa: per la prima volta, nella crisi che ci assilla, parlano e decidono i popoli, e non più solo le troike, la Banca centrale, ancor peggio il Fondo monetario. Sarà la prima occasione, per loro, di respingere oppure approvare quel che è stato fatto sinora, di mandare in Parlamento deputati in cui credere. A governare la crisi ci sono anche i cittadini.

Dicono i disillusi che non conta nulla, il Parlamento di Strasburgo. Che non vale la pena mettere la scheda nell’urna, visto che ogni nodo è sgrovigliato altrove: da mercati senza obblighi, dai banchieri centrali, da un rapporto di forza tra Stati che reintroduce nel continente il vecchio equilibrio di potenze, con le sue disparità e i suoi conflitti. Vale la pena invece, perché altri strumenti democratici non esistono nell’Unione, e perché i poteri dei suoi deputati sono tutt’altro che irrilevanti. Delle leggi attuate negli Stati, l’80 per cento è co-deciso dal parlamento che abbiamo in comune. È sempre lui a censurare o appoggiare la Commissione, la sua capacità o incapacità di governare in nome di tutti. È del tutto illogica la condizione in cui ci troviamo: proprio oggi che il parlamento ha più ascendente, le politiche europee si fanno contro i popoli o scavalcandoli. È quel che accade di solito nelle guerre. Votare è l’occasione per dire che la crisi non va omologata a una guerra o a una peste. Tanto più essenziale è sapere come voteremo: con quale legge elettorale, dunque con quali speranze di essere ascoltati e di contare, senza discriminazioni.

La questione della rappresentatività democratica fu cruciale nell’Europa liberata dal nazifascismo, dopo due guerre mondiali. Lo ridivenne dopo l’89, quando a Est caddero le dittature comuniste. La crisi vissuta come stato di eccezione e di guerra crea uno scenario analogo. Uscirne con i pareggi di bilancio è come rendere più funzionali gli eserciti, quando si tratta di ritrasformare i soldati in cittadini.

Ogni ripristino della democrazia esige l’elezione di parlamenti costituenti, che riscrivano le Carte e limitino poteri divenuti esorbitanti. Ogni democrazia rifondata prescrive istituzioni che rappresentino tutti, quindi leggi elettorali sostanzialmente proporzionali. L’Italia decise questo, dopo il fascismo. Il proporzionale fu giudicato il più democratico, il più adatto a eleggere nel ’46 l’Assemblea costituente: nella ricostruzione, dovevano pesare tutte le forze estromesse dal Ventennio. Non così in Europa e soprattutto non in Italia (i 28 paesi hanno leggi elettorali diverse: un’assurdità).
Il pericolo, da noi specialmente acuto, è che nel parlamento comunitario siedano solo i partiti più agguerriti. Una soglia di sbarramento asfissiante, del 4%, rischia di vanificare il grande esercizio di democrazia che saranno le elezioni di maggio: escludendo partiti piccoli o movimenti nati durante la crisi, smobilitando moltissimi elettori. La barriera che smista e seleziona è un marchingegno inventato per favorire potentati o cricche di eminenti. Per estendere a Strasburgo le Unioni Sacre che nei singoli Stati gestiscono lo squasso. È proprio quel che vogliono gli oligarchi nazionali, e se si eccettua qualche voce di Green Italia, pochi protestano. La parola d’ordine è: tagliare le ali a rappresentanze alternative, continuare a ignorarle. Fingere democrazia, e intanto deturparla. La propensione oligarchica ha una storia lunga in Italia.
Nel ventennio berlusconiano si è accentuata, ed è la stoffa delle grandi o piccole intese. Non a caso la barriera del 4% è frutto di un surrettizio accordo al vertice, stipulato nel 2009 tra Veltroni, allora leader del Pd, e Berlusconi. Il governo Prodi era stato appena affossato e la decisione fu presa quasi di nascosto, senza consultazione alcuna con altri partiti. Nacque quel che fu chiamato europorcellum: una legge truffa simile a quella tentata nel 1953. Lo scopo: armare i forti, disarmare i piccoli (Vendola, Rifondazione, radicali, Verdi, Storace). La giustificazione: garantire l’efficienza e la governabilità a scapito della democrazia. Fassino disse, all’epoca: va evitato lo sbarco di «un’armata Brancaleone a Strasburgo». La menzogna della Stabilità — il quotidiano Wall street journal l’ha definita il 24 novembre «stabilità dei cimiteri» — cominciava a espandersi geograficamente.

La campagna elettorale europea era alle porte, e in poche settimane il vecchio proporzionale fu abolito. La trattativa iniziò nel gennaio 2009, e la nuova legge con la soglia fu varata il 20 febbraio dal parlamento italiano, tre mesi circa prima del voto. Questo significa che deliberazioni di tale portata possono esser prese ancora una volta, se solo si vuole. C’è tempo di abolire anche in Europa il porcellum, come imposto dalla Consulta per le elezioni italiane.

La cosa più sorprendente è che la battaglia contro le leggi truffa, nell’Unione, è giudicata vitale non dai paesi piccoli ma da quello più forte: la Germania. È uno dei paradossi dei tempi presenti: lo Stato che con maggiore prepotenza esige austerità è simultaneamente il più allarmato dal deficit democratico europeo, il più sensibile alle regole dello stato di diritto. In favore di una legge proporzionale, e di un Parlamento sovranazionale più rappresentativo, è addirittura scesa in campo la Corte costituzionale, con una sentenza emessa il 9 novembre 2011 che giudica incostituzionale la soglia tedesca di sbarramento (in Germania era più alta che da noi: il 5%).

Due princìpi della Legge Fondamentale erano violati, secondo i giudici di Karlsruhe: l’uguaglianza fra cittadini-elettori, e l’opportunità data a tutti i partiti di concorrere alla democrazia delle istituzioni europee. Il parlamento nazionale ne ha preso atto, e pur non abolendo la barriera l’ha portata al 3%. Molte associazioni cittadine ritengono che non basti, e hanno fatto ricorso. La Corte si pronuncerà in quest’inizio 2014. L’argomento dei giudici tedeschi è impeccabile, e in Italia andrebbe meditato al più presto. Nell’Unione «non c’è ancora un governo vero e proprio», che esiga maggioranze parlamentari stabili, continuative. Non può aprirsi un divario, fra rappresentatività e governabilità.
Senza la soglia del 5, sostengono i giudici tedeschi, i partiti europei aumenterebbero di poco, e il funzionamento del Parlamento non verrebbe debilitato da armate Brancaleone. Purtroppo solo la Corte di Karlsruhe si occupa della vera attualità europea: lo stravolgimento delle democrazie costituzionali ad opera della crisi economica e sociale. Lo fa spesso per difendere interessi solo nazionali: per frenare solidarietà europee troppo costose per i connazionali. Ma il dramma della democrazia amputata è pensato con costanza, e a fondo. In Italia è ignorato dai partiti dominanti. La divaricazione fra democrazia ed efficienza è voluta e comunque data per scontata. Con la soglia di sbarramento, il parlamento di Strasburgo si aprirà solo a una parte di italiani: a chi vota centrosinistra, destra, 5 Stelle, e alcuni altri. Significativamente sono esclusi coloro che vorrebbero cambiare l’Europa, e non condividono né le grandi coalizioni sinistra- destra né le disordinate risposte di 5 Stelle ai mali dell’Unione.
Cambiare l’europorcellum è non solo necessario, ma possibile. Si dirà che è troppo tardi. Abbiamo visto che è una fandonia: l’accordo Veltroni-Berlusconi divenne legge in un mese. Se Renzi e Grillo fanno sul serio quando reclamano più democrazia in Europa, hanno tutto il tempo per darci una legge all’altezza della strana disfatta, dal sapore bellico, in cui la crisi ci ha gettati.
«Criticare l’austerità perché crea più problemi di quanti ne risolva è giusto, ma non basta. Se non si aggiunge che essa tende a corrodere gli spazi pubblici e le basi delle istituzioni democratiche ».

LaRepubblica, 7 gennaio 2014

Il neoliberismo è in ritirata o la sua egemonia resta intatta? È quanto è stato chiesto in una recente intervista a John Bellamy Foster, direttore della Monthly Review ed autore, con Robert McChesney, di Endless Crisis, edito dalle edizioni della rivista. Non si può dire che le sue risposte siano risolutive. Sostenere che l’attuale regime neoliberale è il prodotto del grande capitale, del grande governo e della grande finanza su scala globale è più che ragionevole, ma non sufficiente. Restano aperte molte domande. Il peso che ha assunto l’economia finanziaria è il frutto di un ritiro delle politiche governative o delle loro scelte? E i tentativi di regolamentazione dei mercati che già nel 2009 hanno fatto parlare di “ritorno dello Stato” come vanno intesi? Come riflusso del neoliberismo o come sua ristrutturazione sotto altre vesti?

Per orientarsi in questa selva di questioni bisogna intanto intendersi sul significato del termine. In proposito risulta assai utile l’ampia ricerca elaborata da Pierre Dardot e Christian Laval in un volume adesso tradotto da Derive Approdi col titolo La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, a cura di Paolo Napoli. La loro tesi di fondo è che la crisi in corso, lungi dal comportare un indebolimento delle politiche neoliberiste, ha portato al loro brutale rafforzamento attraverso forme di austerità incapaci di invertire la logica speculativa dei mercati finanziari. La falsa apparenza di una inversione di tendenza è nata da una interpretazione inadeguata del liberismo come semplice ritiro dello Stato davanti alla naturalità del mercato. In questo modo si è confusa l’ideologia della fase eroica del liberismo economico con il modo in cui esso si è concretamente realizzato.

Non solo quello che chiamiamo neoliberismo — sia nella sua versione austriaca alla Hayek sia in quella anglosassone alla Friedman — non ha mai immaginato di fare a meno dello Stato, ma ha prodotto esso stesso una pratica di governo. Come ha spiegato per primo Foucault nei suoi corsi ad essa dedicati, quella neoliberale è una razionalità eminentemente governamentale, volta alla direzione delle condotte degli uomini attraverso precise norme comportamentali. Anche secondo Greta Krippner (Capitalizing on crisis. Political origins of the rise of finance, Harvard University Press 2012) non sono i mercati ad aver conquistato dall’interno gli Stati, ma gli Stati ad aver introdotto il modello concorrenziale dell’impresa in tutte le dinamiche sociali. Da un lato il soggetto individuale è portato a vedere in se stesso un capitale umano; dall’altro gli Stati competono tra loro nell’attrarre gli investimenti delle multinazionali abbassando i livelli dei salari e della previdenza sociale.

Ciò — l’estendersi della competitività a principio generale di governo — spiega non soltanto la corsa, apparentemente suicida, alle politiche dell’austerità, ma anche loro accettazione rassegnata da parte dei Paesi che più ne hanno pagato le conseguenze, come la Grecia e il Portogallo. È l’esito del consenso creato dal governo neoliberista. Esso, tutt’altro che ridursi alla contestazione delle regole esistenti, è produzione attiva di norme di vita sul piano giuridico, etico e, prima ancora, antropologico. Nel giro di pochi decenni l’intera società ne è stata plasmata in una forma talmente generalizzata da non essere avvertita in quanto tale. Oggi tutti

i rapporti, con gli altri e perfino con se stessi, sono orientati al principio mercantile del guadagno. Così, piuttosto che semplice modello economico, il neoliberalismo si configura come l’insieme degli atti e dei discorsi che governano gli uomini secondo il principio della loro concorrenza. Naturalmente se tale modello appare insuperabile quando l’economia tira, dimostra tutta la sua debolezza quando le cose cominciano a non funzionare. C’è un limite oltre il quale la forbice tra coloro che diventano sempre più ricchi e coloro che diventano sempre più poveri si divarica al punto di rompere la macchina del consenso sociale. In questo caso quella che ancora definiamo crisi monetaria assume i caratteri di una vera e propria crisi sistemica che coinvolge l’intero orizzonte dei rapporti umani.

Come contrastare questo stato di cose? Non sono pochi gli storici che ci ricordano come le grandi crisi abbiano sempre stimolato grandi idee. Come dopo il crack del 1929 è stato inventato il New Deal e il Welfare, così dal buco nero che si è aperto cinque anni orsono vanno nascendo nuove concezioni. Se economisti come Krugman, Stiglitz, Fitoussi, Boeri ritengono sbagliato pensare di ripianare i deficit pubblici a colpi di tagli della spesa sociale, altri arrivano a rovesciare radicalmente la prospettiva dell’austerity. Per esempio James W. Galbraith arriva ad assegnare un ruolo produttivo al debito pubblico, se finanziato da banche centrali disposte a comprare senza limiti i titoli di Stato emessi dai rispettivi governi. Ciò che tale concezione — derivata dalla modern monetary theory — manda in mille pezzi è la pretesa di un’impostazione economica, sposata da molti governi europei, che si presenta con la dogmaticità di una nuova religione. Nel suo libro sul nuovo banditismo bancario (Banchieri,Mondadori 2013), Federico Rampini richiama quanto sostenuto dal filosofo Michael Sandel nel saggio Quello che i soldi non possono comprare, tradotto da Feltrinelli. Oggi la discussione sui danni sociali dell’alta finanza è circoscritta entro limiti troppo angusti.

Quando si associa l’idea di mercato non solo a quella di benessere, ma anche a quella di libertà, non ci si accorge di rimanere subalterni al sistema di pensiero che ha prodotto la crisi. Criticare l’austerità perché crea più problemi di quanti ne risolva è giusto, ma non basta. Se non si aggiunge che essa tende a corrodere gli spazi pubblici e le basi delle istituzioni democratiche. Il punto che resta opaco è la differenza che passa tra la “governamentalità” neoliberale e la politica nel significato più intenso dell’espressione. Fare politica non vuol dire solo amministrare nella maniera più rimunerativa ciò che esiste, ma anche volgere lo sguardo alle possibilità contenute nel nostro futuro.

la Repubblica delle idee, 37 gennaio 2014. A partire dalla rivoluzione berlusconiana la politica non conta più per ciò che racconta, propone o promette, per l'apparenza del comportamento personale del leader

Si parla da alcuni anni di una trasformazione molecolare del modo di essere della politica e dell’etica pubblica nel nostro paese. La diagnosi si basa su alcuni segni distintivi riscontrabili all’interno dell’intero spettro politico e che appartengono al modo di operare in pubblico dei leader, allo stile del discorso dentro i partiti e nei media, alle pratiche di intervento nella sfera di formazione dell’opinione politica. Una trasformazione assai radicale della cui portata non ci rendiamo spesso conto perché è avvenuta gradualmente, in sordina. Essa si manifesta tra le altre cose nell’emergere di nuovi criteri generali nella valutazione dei fatti e nella scelta delle priorità politiche. Lo scontro di queste ore tra Matteo Renzi e Stefano Fassina è un episodio di questa più generale trasformazione. La più importante indicazione della quale è senza dubbio la pratica dirigenziale nell’uso degli organi della sfera pubblica, e cioè dei “corpi intermedi” del governo rappresentativo: i media e i partiti politici.

Chi voglia ricostruirne la genealogia dovrà partire ça va sans dire dalla rivoluzione berlusconiana, che consistette nella costruzione simultanea dell’impero mediatico e del partito-azienda. Al di là dell’unicità dell’impresa di Silvio Berlusconi, che rimane ineguagliata, resta il fatto che il modus operandi da essa inaugurato è diventato col tempo parte del comportamento pubblico: il successo politico gestito con uso dirigenziale dei corpi intermedi. Il modello privatistico dei comportamenti pubblici è la madre di una trasformazione che è diventata così profonda da essere quasi la nostra seconda natura, un costume normale che guida le azioni e le valutazioni politiche. Un modus operandi appunto, e che si avvale della democrazia dell’audience.

La democrazia dell’audience, cioè del pubblico che assiste allo spettacolo della politica, ha a poco a poco sostituito quella dell’identità di partito. Poco male, si dirà, anzi un segno di avanzamento democratico perché ha dimostrato che l’opinione della gente conta più di quella delle oligarchie di partito. Sennonché, l’idea che questo gentismo significhi più democrazia potrebbe valere al massimo nel mondo astratto della teoria. Nella realtà concreta, l’abito dirigistico che conquista l’audience può avere spiacevolissimi esiti se non incanalato da pratiche e regole virtuose che garantiscano sempre il pluralismo, il quale è l’anima della leadership, non il suo ostacolo. La vicenda italiana (che fa testo nei manuali universitari) parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico
se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico: questo è il primo comandamento del buon governo rappresentativo. Il pluralismo dei media e quello dei e nei partiti stanno insieme; essi corrispondono a un modus operandi che è diverso da quello dirigistico.

Ora, la creazione del partito-azienda, l’opera forse più rivoluzionaria nella storia della democrazia dei partiti, fu accompagnata da pratiche e comportamenti conseguenti, che inizialmente fecero scandalo e che si sono col tempo sedimentati nell’immaginario pubblico. Come per esempio il fatto che il capo di Forza Italia riunisse il partito in casa propria, ad Arcore prima e poi a Palazzo Grazioli, tanto che è probabile che pochi italiani sappiano dove si trovi la sede nazionale dei partiti gemmazione di Forza Italia. Un simile abito emerge nel Pd, la cui segreteria nazionale sente di potersi riunire nella sede dove il leader ha iniziato la sua corsa alla leadership del partito. Non si tratta questa volta di una sede privata. Ma è una sede comunque identificata con la dirigenza del leader.

Dirigere il partito è diventato col tempo simile a “tenere” il partito, non diversamente da come un bravo amministratore delegato “tiene” l’azienda che rappresenta (pur senza possedere): che significa, in senso classico, avere il controllo personale nel dettare l’agenda e nel selezionare il team più adatto a realizzarla. Il successo è più importante del modo in cui lo si ottiene; anzi liberare l’operato dagli orpelli delle regole di accountability appare come uno snellimento delle procedure per giungere a decisioni spedite. Abbiamo per anni denunziato il decisionismo dirigistico perché implicava prima di tutto la svalutazione del controllo, della dialettica interna al partito, della partecipazione delle varie opinioni alla costruzione della linea generale. Sono stati versati fiumi di inchiostro per sostenere la specificità della leadership politica rispetto ad altre. Una caratteristica di questa specificità sta nella libera discussione, che significa che il partito è luogo comune nel quale tutti, maggioranza e minoranza, possono sentirsi a casa propria (cosa non assimilabile al correntismo). Non è una questione di buonismo ma di logica della buona pratica, perché debilitare l’opposizione comporta inevitabilmente allentare il controllo sulla dirigenza che non essendo più incalzata e stimolata può perdere in energia innovativa. La trasformazione del partito per pratica dirigistica può rischiare di diventare un problema proprio per la leadership, poiché debilitare la critica indebolisce anche i vincitori più pugnaci.

Articolo tratto da "la Repubblica delle idee" qui raggiungibile in originale

A proposito di Renzi (e non solo): «La vicenda italiana parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico».

La Repubblica, 7 gennaio 2014

Si parla da alcuni anni di una trasformazione molecolare del modo di essere della politica e dell’etica pubblica nel nostro paese. La diagnosi si basa su alcuni segni distintivi riscontrabili all’interno dell’intero spettro politico e che appartengono al modo di operare in pubblico dei leader, allo stile del discorso dentro i partiti e nei media, alle pratiche di intervento nella sfera di formazione dell’opinione politica. Una trasformazione assai radicale della cui portata non ci rendiamo spesso conto perché è avvenuta gradualmente, in sordina. Essa si manifesta tra le altre cose nell’emergere di nuovi criteri generali nella valutazione dei fatti e nella scelta delle priorità politiche. Lo scontro di queste ore tra Matteo Renzi e Stefano Fassina è un episodio di questa più generale trasformazione. La più importante indicazione della quale è senza dubbio la pratica dirigenziale nell’uso degli organi della sfera pubblica, e cioè dei “corpi intermedi” del governo rappresentativo: i media e i partiti politici.

Chi voglia ricostruirne la genealogia dovrà partire,ça va sans dire dalla rivoluzione berlusconiana, che consistette nella costruzione simultanea dell’impero mediatico e del partito-azienda. Al di là dell’unicità dell’impresa di Silvio Berlusconi, che rimane ineguagliata, resta il fatto che il modus operandida essa inaugurato è diventato col tempo parte del comportamento pubblico: il successo politico gestito con uso dirigenziale dei corpi intermedi. Il modello privatistico dei comportamenti pubblici è la madre di una trasformazione che è diventata così profonda da essere quasi la nostra seconda natura, un costume normale che guida le azioni e le valutazioni politiche. Un modus operandi appunto, e che si avvale della democrazia dell’audience.
La democrazia dell’audience, cioè del pubblico che assiste allo spettacolo della politica, ha a poco a poco sostituito quella dell’identità di partito. Poco male, si dirà, anzi un segno di avanzamento democratico perché ha dimostrato che l’opinione della gente conta più di quella delle oligarchie di partito. Sennonché, l’idea che questo gentismo significhi più democrazia potrebbe valere al massimo nel mondo astratto della teoria. Nella realtà concreta, l’abito dirigistico che conquista l’audience può avere spiacevolissimi esiti se non incanalato da pratiche e regole virtuose che garantiscano sempre il pluralismo, il quale è l’anima della leadership, non il suo ostacolo.
La vicenda italiana (che fa testo nei manuali universitari) parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico: questo è il primo comandamento del buon governo rappresentativo. Il pluralismo dei media e quello dei e nei partiti stanno insieme; essi corrispondono a un modus operandi che è diverso da quello dirigistico.

Ora, la creazione del partito-azienda, l’opera forse più rivoluzionaria nella storia della democrazia dei partiti, fu accompagnata da pratiche e comportamenti conseguenti, che inizialmente fecero scandalo e che si sono col tempo sedimentati nell’immaginario pubblico. Come per esempio il fatto che il capo di Forza Italia riunisse il partito in casa propria, ad Arcore prima e poi a Palazzo Grazioli, tanto che è probabileche pochi italiani sappiano dove si trovi la sede nazionale dei partiti gemmazione di Forza Italia.

Un simile abito emerge nel Pd, la cui segreteria nazionale sente di potersi riunire nella sede dove il leader ha iniziato la sua corsa alla leadership del partito. Non si tratta questa volta di una sede privata. Ma è una sede comunque identificata con la dirigenza del leader. Dirigere il partito è diventato col tempo simile a “tenere” il partito, non diversamente da come un bravo amministratore delegato “tiene” l’azienda che rappresenta (pur senza possedere): che significa, in senso classico, avere il controllo personale nel dettare l’agenda e nel selezionare il team più adatto a realizzarla. Il successo è più importante del modo in cui lo si ottiene; anzi liberare l’operato dagli orpelli delle regole di accountability appare come uno snellimento delle procedure per giungere a decisioni spedite.

Abbiamo per anni denunziato il decisionismo dirigistico perché implicava prima di tutto la svalutazione del controllo, della dialettica interna al partito, della partecipazione delle varie opinioni alla costruzione della linea generale. Sono stati versati fiumi di inchiostro per sostenere la specificità della leadership politica rispetto ad altre. Una caratteristica di questa specificità sta nella libera discussione, che significa che il partito è luogo comune nel quale tutti, maggioranza e minoranza, possono sentirsi a casa propria (cosa non assimilabile al correntismo).

Non è una questione di buonismo ma di logica della buona pratica, perché debilitare l’opposizione comporta inevitabilmente allentare il controllo sulla dirigenza che non essendo più incalzata e stimolata può perdere in energia innovativa. La trasformazione del partito per pratica dirigistica può rischiare di diventare un problema proprio per la leadership, poiché debilitare la critica indebolisce anche i vincitori più pugnaci.

Nel PD c'è qualcuno cui non piace «il partito padronale». E se ne va dal governo.

Il manifesto, 4 gennaio 2014

Mat­teo Renzi aveva appena finito di ripe­tere le solite ras­si­cu­ra­zioni — «non sono io che metto in dif­fi­coltà il governo» — quando gli è venuto fuori un gesto arro­gante che offre l’occasione a un suo avver­sa­rio interno di attac­carlo in con­tro­piede. «Fas­sina chi?», ha fatto finta di non capire in con­fe­renza stampa il segre­ta­rio. E Ste­fano Fas­sina qual­che ora dopo si è dimesso. Ma è stata quella del vice­mi­ni­stro all’economia una mossa poli­tica stu­diata, pre­pa­rata con un paio di inter­vi­ste nell’ultima set­ti­mana. Che serve a cari­care su Renzi la respon­sa­bi­lità dell’esecutivo. Può farlo cadere, se vuole. O sosti­tuire i mini­stri del Pd, se ha voglia di imbar­carsi in un com­pli­cato rim­pa­sto.
Anzi, a que­sto punto dovrà pro­ba­bil­mente farlo. E di certo ha messo il governo in dif­fi­coltà. Ste­fano Fas­sina si dimette, e deve pre­ci­sare «irre­vo­ca­bil­mente» per­ché nell’ottobre scorso era tor­nato indie­tro da un iden­tico annun­cio dovuto a un dis­senso sulla legge di sta­bi­lità, poi Letta lo aveva con­vinto a restare. Il vice­mi­ni­stro rie­sce adesso a sca­ri­care sul gesto sgar­bato di Renzi una sua già matura scelta di rot­tura, e prova a rad­dop­piarne l’effetto. Ancora ieri mat­tina dai gior­nali Fas­sina insi­steva per un rim­pa­sto, met­tendo il suo man­dato «a dispo­si­zione» di Letta e Renzi. «La squa­dra di governo è espres­sione di un Pd archi­viato», spie­gava da «reduce» della scon­fitta cor­rente ber­sa­niana. Renzi non lo degnava di una rispo­sta, se non alla fine con quel «chi?» irri­dente che in pas­sato il sin­daco di Firenze aveva subito da D’Alema. Fas­sina non si lascia sfug­gire l’occasione. «Le parole di Renzi su di me con­fer­mano la valu­ta­zione poli­tica che ho pro­po­sto in que­sti giorni: la dele­ga­zione del Pd al governo va resa coe­rente con il risul­tato con­gres­suale; è respon­sa­bi­lità di Renzi pro­porre uomini e donne sulla sua linea», dice. E poi aggiunge la for­mula clas­sica del bravo diri­gente: «Non c’è nulla di per­so­nale, è una que­stione poli­tica».
Poli­tica, ma anche un po’ per­so­nale era di certo la posi­zione sco­moda nella quale si era venuto a tro­vare Fas­sina, respon­sa­bile di quelle poli­ti­che eco­no­mi­che che Renzi e i ren­ziani non hanno smesso un minuto di bom­bar­dare dall’esterno, prima e dopo le pri­ma­rie. Nel giorno dell’addio, il vice­mi­ni­stro si toglie lo sfi­zio di stuz­zi­care il col­lega Del Rio, unico mini­stro di lunga mili­tanza ren­ziana. È di certo lui quell’«autorevole col­lega che si arram­pica sugli spec­chi» di fronte alle cri­ti­che quo­ti­diane del segre­ta­rio Pd.
Ma con­se­gnate le dimis­sioni a Letta, Fas­sina riceve pub­blica e imme­diata soli­da­rietà solo dall’esterno del Pd. Gianni Cuperlo solo in serata esprime «dispia­cere per l’episodio che ha gene­rato le dimis­sioni», e chiede a Renzi «rispetto per le per­sone». Mat­teo Orfini, espo­nente di quella cor­rente dei gio­vani tur­chi che sta cer­cando un’interlocuzione con il neo segre­ta­rio, cor­rente della quale Fas­sina non fa parte, bac­chetta l’uno e l’altro. Renzi per «gli atteg­gia­menti gua­sco­ne­schi». Fas­sina per­ché avrebbe dovuto rea­gire «impe­gnan­dosi a fare di più». La nuova mag­gio­ranza ren­ziana avvolge l’episodio nel gelo. Il por­ta­voce della segre­te­ria Gue­rini liquida la vicenda come un disturbo dovuto a motivi per­so­nali: «Non c’è motivo di fare pole­mi­che, ma di lavo­rare, e molto. Dispiace che Fas­sina esprima in que­sto modo il suo disa­gio riguardo alla sua pre­senza nel governo». Il ren­ziano Mar­cucci parla di «dimis­sioni per futili motivi»; altri di «pan­to­mima». Renzi con­ti­nua a non accor­gersi di Fas­sina. A dimis­sioni già date, scrive su twit­ter di sen­tirsi «molto con­tento» per l’esito della prima segre­te­ria a Firenze. E aggiunge l’hashtag #lavol­ta­buona che sarebbe troppo mali­gno col­le­gare all’addio del vice­mi­ni­stro.

Anche per­ché quell’incarico all’economia andrà comun­que affi­dato, a meno di non con­si­de­rare il governo già in esau­ri­mento. E dun­que si aprirà quel rim­pa­sto che tanti pro­blemi potrebbe creare sia a Letta che a Renzi, e forse soprat­tutto a Renzi che non potrebbe più con­ti­nuare con un piede den­tro e l’altro fuori. C’è al governo per esem­pio il mini­stro Zano­nato, che è pari­menti dell’area che fu di Ber­sani. E c’è la mini­stra Can­cel­lieri: Renzi la voleva fuori, non troppo tempo fa.

Roberto Ciccarelli pone le domande giuste a proposito della crisi e degli errori che si continuano a compiere nell'affrontarla, e il saggio studioso della società gli risponde con chiarezza. Il

manifesto, 4 gennaio 2013

Nel 2013 la Cina è cre­sciuta del 7,7% e nel 2014 il Pil sarà all’8,2%. Gli Usa arri­ve­ranno a +2,9%. Il Pil cre­scerà dello zero vir­gola in Europa.Pro­fes­sor Gal­lino, la crisi è finita?

«Per nulla. La Cina è un caso a parte, men­tre la situa­zione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge. L’attuale pre­si­dente della Fed, Ben Ber­nanke, ha detto che ormai il tasso di disoc­cu­pa­zione è un para­me­tro poco rap­pre­sen­ta­tivo. Infatti la disoc­cu­pa­zione effet­tiva, che com­prende sia gli «sco­rag­giati» o i part-time che vor­reb­bero lavo­rare a tempo pieno, è molto più ele­vata di quanto sem­bri. Gli Stati Uniti hanno potuto per­met­tersi di pom­pare migliaia di miliardi di dol­lari nell’economia, ma i risul­tati sono stati abba­stanza mode­sti. Il piano di ridu­zione degli sti­moli mone­tari (tape­ring, ndr.) è risul­tato meno effi­cace sull’occupazione di quanto si creda. A set­tem­bre c’è stato un calo dal 7,3% al 7,2%, ma c’è stato anche un calo dei posti di lavoro rispetto a quelli pre­vi­sti (148 mila con­tro 188 mila). Sul mer­cato del lavoro sono entrate quindi meno per­sone di quelle sti­mate. Que­sto signi­fica che il tasso di disoc­cu­pa­zione è più alto. Oltre 100 milioni di per­sone vivono in con­di­zioni di povertà, per pro­teg­gerle non basta nem­meno il sala­rio minimo che Obama intende aumen­tare a 10 dol­lari all’ora. Il sala­rio è fermo ai livelli del 1978, il che vuol dire meno red­dito per le fami­glie che hanno dovuto met­tere al lavoro tutti, nonni e figli compresi.
L’ex segre­ta­rio Usa al Tesoro Law­rence Sum­mers parla di «sta­gna­zione seco­lare». Tutto fa pen­sare che riguardi anche l’Eurozona.«Per un vec­chio neo­li­be­rale come Sum­mers è strano sen­tirlo rispol­ve­rare un con­cetto che ha più di 70 anni. Lui dice che senza sti­moli forti dall’esterno, una fru­strata, il sistema capi­ta­li­stico è ten­den­zial­mente pro­penso alla sta­gna­zione alla quale oggi con­tri­bui­scono molti fat­tori, dalla glo­ba­liz­za­zione alla crea­zione di nuove tec­no­lo­gie e alle delo­ca­liz­za­zioni. Ciò ha por­tato al para­dosso per cui gli Usa con­tri­bui­scono alla cre­scita della Cina ma non alla pro­pria. La sta­gna­zione carat­te­rizza anche l’Europa e allarga le dise­gua­glianze in tutti i suoi paesi. Non si dice mai che in Ger­ma­nia esi­ste una parte della popo­la­zione che ha inflitto costi umani e sociali ele­vati alla mag­gio­ranza e ne prende grandi van­taggi. In que­sto mec­ca­ni­smo ha influito nega­ti­va­mente sui bilanci degli altri paesi il suo eccesso di espor­ta­zioni. Siamo nel pieno di una sta­gna­zione che durerà molti anni per­chè non si vede bene cosa fare per uscirne.

Ritiene che l’uscita dalla crisi possa avve­nire con il rilan­cio della pro­du­zione e dei con­sumi di massa iden­tici a quelli del «tren­ten­nio glo­rioso», tra il 1945 e 1973?
«Lo pen­sano i gover­nanti e alcuni eco­no­mi­sti che hanno sem­pre in mente il modello che ha pro­vo­cato la crisi: pro­durre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumen­tando la pre­ca­rietà. Non credo a que­sta pro­spet­tiva. E se mai que­sto avve­nisse sarebbe un vero disa­stro, per­chè la crisi non è solo finan­zia­ria o pro­dut­tiva, è anche evi­den­te­mente una crisi eco­lo­gica che pro­duce la deser­ti­fi­ca­zione del pia­neta, distrugge risorse che hanno impie­gato migliaia di anni per accu­mu­larsi. Rischiamo inol­tre di essere sep­pel­liti dai rifiuti, uno dei pro­blemi pro­vo­cati dall’esplosione nel 2007 del modello pro­dut­tivo, come dimo­stra la Cam­pa­nia, che è un caso esem­plare di quanto sta accadendo.

L’Ocse avverte che la cre­scita tor­nerà, ma non pro­durrà nuova occu­pa­zione sta­bile. Senza con­si­de­rare che i milioni di posti fissi bru­ciati nella crisi sono irre­cu­pe­ra­bili. Visto che la crea­zione di occu­pa­zione è la pre­messa per ogni tipo di cre­scita, come la si può finan­ziare oggi in Ita­lia e in Europa?
«Biso­gna ridi­scu­tere i trat­tati euro­pei e modi­fi­care lo sta­tuto della Banca Cen­trale Euro­pea, innan­zi­tutto. Non si tiene conto abba­stanza di quanto la legi­sla­zione dei nostri paesi sia for­te­mente con­di­zio­nata da que­sti trat­tati. In Ita­lia esi­stono 300 mila leggi e il cal­colo è dif­fi­cile. In Fran­cia o in Ger­ma­nia, dove ce ne sono 9 o 10 mila, si pensa che l’80 per cento di quelle in vigore siano ispi­rate dai trat­tati o dalle diret­tive. Se non si passa di lì, penso che sia molto dif­fi­cile fare poli­ti­che eco­no­mi­che che non siano quelle scon­si­de­rate fatte negli ultimi tre anni. I governi con­ti­nue­ranno a bat­tere i tac­chi e a fir­mare qual­siasi cosa che Bru­xel­les, la Bce o l’Fmi gli propongono.

Nono­stante tutto il pre­si­dente della Bce Mario Dra­ghi sol­le­cita i governi a con­ti­nuare le «riforme» anche nel 2014…«Così facendo non si farà molta strada per affron­tare seria­mente la crisi. Trovo scan­da­loso che il Trat­tato isti­tu­tivo dell’Unione Euro­pea e lo sta­tuto della Bce igno­rino quasi del tutto il pro­blema della nostra epoca: la crea­zione di occu­pa­zione. L’articolo 123 del Trat­tato Ue vieta alla Bce di con­ce­dere sco­perti di conto o qual­siasi forma di faci­li­ta­zione cre­di­ti­zia alle ammi­ni­stra­zioni sta­tali. È un divieto unico tra le ban­che cen­trali esi­stenti sul pia­neta, un’altra assur­dità del Trat­tato. È dif­fi­cile modi­fi­carlo a causa della con­tra­rietà dei tede­schi che attac­cano Dra­ghi. È curioso però notare che que­sto stesso arti­colo non vieta alla Bce l’acquisto dei titoli sul mer­cato secon­da­rio. Cosa che la Bce ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acqui­stò 218 miliardi di titoli di stato, di cui 103 ita­liani. Se lo si volesse usare, la Bce potrebbe pre­stare miliardi di euro in cam­bio dell’impegno di un piano indu­striale che pre­veda l’assunzione netta di nuova manodopera.

Che cosa ha fatto Dra­ghi per la crescita?
«Ha pre­stato mille miliardi alle ban­che senza porre con­di­zioni. Si è reso ridi­colo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le ban­che. In realtà que­sti soldi sono stati usati per scambi ban­cari o per acqui­stare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in que­sto caso senza porre con­di­zioni. Senza risorse, le poli­ti­che con­tro la disoc­cu­pa­zione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli euro­pei, sono pan­ni­celli caldi rispetto ai 26 milioni di disoc­cu­pati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa.

Molti eco­no­mi­sti, come la Banca Mon­diale, riten­gono che il Pil non sia più l’unico indi­ca­tore per misu­rare la cre­scita. E pro­pon­gono altri indi­ca­tori per misu­rare il tasso di svi­luppo umano. Come ren­derli vincolanti?
«Cam­biare para­digma pro­dut­tivo non implica solo cam­biare indi­ca­tori, com­porta una tra­sfor­ma­zione poli­tica. In que­sta fase man­cano le pre­messe poli­ti­che per rea­liz­zarla. I discorsi che i governi euro­pei fanno sull’economia, in Ita­lia come in Ger­ma­nia, sono di un’ottusità incom­pa­ra­bile. Vanno tutti in dire­zione con­tra­ria a quello che biso­gna fare, e di certo non ser­vono per rifor­mare la finanza, mutare il modello pro­dut­tivo e ope­rare una tran­si­zione di milioni di lavo­ra­tori verso nuovi set­tori ad alta inten­sità di lavoro. La crisi deve essere affron­tata in tutti gli aspetti e non solo su quello finan­zia­rio e pro­dut­tivo. Pur­troppo la discus­sione pub­blica è a zero.

La «green eco­nomy», o «cre­scita verde» come la defi­ni­sce l’Ocse, rap­pre­sen­tano un’alternativa a quello che lei defi­ni­sce il «tota­li­ta­ri­smo neoliberale»?
«Il cam­bia­mento di para­digma pro­dut­tivo si misura anche a par­tire dalla neces­sità di rom­pere la subor­di­na­zione al cal­colo eco­no­mico di qual­siasi azione, quella che Michel Fou­cault defi­niva la «ratio» del neo­li­be­ra­li­smo. In que­sta chiave, que­ste idee potreb­bero aprire nuovi set­tori di inter­vento carat­te­riz­zati da un’alta inten­sità di lavoro. Que­sto non signi­fica creare pian­ta­gioni di cotone dove la mac­china fa il lavoro di cento brac­cianti. Biso­gna pen­sare a set­tori dove il lavoro umano è molto attrez­zato. La ricerca bio­a­li­men­tare, al di là dei fami­ge­rati Ogm, è sicu­ra­mente una di que­sti. C’è la ricerca medica, i beni cul­tu­rali. Invece di pro­durre beni di sosti­tu­zione di tipo tra­di­zio­nale, o gad­get come i cel­lu­lari, biso­gna pen­sare all’ambiente, alla scuola, ai ser­vizi pub­blici nel senso ampio del ter­mine, alla riqua­li­fi­ca­zione idro­geo­lo­gica dei nostri territori.

Il caso dell’Ilva dimo­stra la dif­fi­coltà di con­ci­liare l’esigenza dell’occupazione con un modello pro­dut­tivo com­pa­ti­bile con l’ambiente e la salute. Come gover­nare quella che si defi­ni­sce una transizione?
«Il caso dell’Ilva è indi­ca­tivo di quello che non biso­gna fare. Ho stu­diato a lungo que­sti sta­bi­li­menti a Taranto. Quando furono costruiti rap­pre­sen­ta­rono un grande suc­cesso indu­striale, ma dove­vano essere ricon­ver­titi almeno vent’anni fa, quando la pro­du­zione side­rur­gica è radi­cal­mente cam­biata. Biso­gnava con­cor­dare con la pro­prietà una tran­si­zione, abbat­tere l’inquinamento, met­tere in grado la pro­du­zione di far fronte esi­genze indu­striali sem­pre più com­plesse. Lo hanno fatto in Ger­ma­nia, in Giap­pone e negli Stati Uniti, tranne che a Taranto. L’acciaio in sé non vuol dire nulla, ha mille carat­te­ri­sti­che diverse a seconda della desti­na­zione dei suoi pro­dotti. E ci vogliono sta­bi­li­menti più pic­coli. In que­sto modo è anche pos­si­bile aumen­tare l’occupazione.

Uscire dall’euro è una rispo­sta ade­guata per con­tra­stare le poli­ti­che di austerità?
«Que­ste poli­ti­che sono un sui­ci­dio pro­gram­mato, ben venga qua­lun­que inter­vento per allie­viarne le con­se­guenze. L’euro è un pro­blema, ma non biso­gna farla troppo facile. È nato con gravi difetti e resta una moneta stra­niera. È una cosa da pazzi, non suc­cede in nes­sun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiu­te­rebbe molto, ma uscire dall’euro è un’idea insen­sata. Il Marco sarebbe riva­lu­tato del 40%, milioni di con­tratti tra enti pri­vati e pub­blici dovreb­bero essere ridi­scussi. Ci vor­reb­bero 20 anni per farlo, entre­remmo in una spi­rale dram­ma­tica. Credo che oggi ci siano altre urgenze in Ita­lia e in Europa

Le ragioni del «fascino suggestivo assunto dalla candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, leader della sinistra di Syriza che si oppone al Memorandum della Troika e al governo di larghe intese chiamato ad applicarlo in Grecia». La Repubblica, 4 gennaio 2014

Il 4 agosto 1914 fu una data nefasta per la sinistra europea. Su richiesta del kaiser Guglielmo II e per “senso di responsabilità nazionale”, i socialdemocratici della Spd, cioè la frazione parlamentare maggioritaria del Reichstag, votarono a favore dei crediti di guerra per finanziare le operazioni militari contro Francia e Russia. Lo stesso giorno, a Parigi, i loro confratelli deputati della Sfio aderirono all’Union sacrée, cioè la grande coalizione antitedesca invocata dal presidente Raymond Poincaré. Quel 4 agosto, dunque, vennero ridotti in cenere i principi fondativi della Seconda Internazionale (“nostra patria è il mondo intero”). Gli stessi popoli che l’ideale socialista aveva riuniti in un solo movimento operaio, si accingevano a massacrarsi nelle trincee della Grande Guerra. Per giustificare la cosiddetta “tregua interna” e la rinuncia alle precedenti deliberazioni pacifiste, Friedrich Ebert, Albert Sudekum e gli altri dirigenti socialdemocratici finsero di credere che la Germania conducesse una “guerra difensiva”. Solo negli anni successivi una minoranza di sinistra si oppose alla linea socialpatriottica, ma venne accusata di “disfattismo” e duramente repressa. Stessa sorte toccò agli oppositori in Francia e in quasi tutti gli altri paesi impegnati nello sforzo bellico. La recente scelta della Spd di imbarcarsi in una Grosse koalition per attraversare sotto la guida di Angela Merkel l’attuale bufera europea, sta suscitando nella sinistra dell’Unione un malcelato imbarazzo e riecheggia queste reminiscenze storiche. Non voglio sostenere che l’accordo stipulato con la cancelliera democristiana sia paragonabile ai crediti di guerra del 1914. E però anch’esso si fonda su uno scambio asimmetrico: vengono garantiti significativi miglioramenti ai lavoratori tedeschi; ma viene nettamente bocciata l’idea socialdemocratica di un fondo europeo per la condivisione del debito. La Spd, dunque, delega per intero la politica europea al rigorismo della Merkel. La Germania resterà inflessibile nei confronti dei partner più poveri dell’Unione. Neppure la leader della sinistra interna, Andrea Nahles, si è opposta a questo dietrofront strategico, intrapreso già prima delle elezioni di settembre quando ormai la Merkel appariva imbattibile. Non una svolta repentina, ma piuttosto una capitolazione rispetto alla severità con cui inizialmente il candidato socialdemocratico alla cancelleria, Peter Steinbrueck, definiva egoista e grezza la politica europea della Merkel.

Per questo è bene ricordare il 1914, e la votazione dei crediti di guerra (che produsse una frattura insanabile nella sinistra europea): aiuta a riconoscere quanto rapidamente possa consumarsi la dissolvenza dell’internazionalismo. Che oggi preferiamo chiamare col nome di europeismo, ma che ovunque deve pur sempre fronteggiare il medesimo spettro del nazionalismo sciovinista. Ciò spiega a mio parere il fascino suggestivo assunto dalla candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, leader della sinistra di Syriza che si oppone al Memorandum della Troika e al governo di larghe intese chiamato ad applicarlo in Grecia. Tsipras non ha alcuna chance di successo. Ma suscita tanta voglia di parteggiare generosamente per il greco contro il tedesco: ovvero contro la candidatura ben più solida di Martin Schulz, l’attuale presidente del parlamento europeo, esponente di quella Spd che sembra appiattirsi nei luoghi comuni dell’ostilità tedesca ai popoli spendaccioni e fannulloni.

Il disagio viene accresciuto dalla ovvia imprescindibilità della Spd: ancora oggi, come già nel 1914, la socialdemocrazia tedesca rimane la forza principale della sinistra europea (e quando, per reazione, fu la Russia di Stalin a tentare “il socialismo in un paese solo”, mal ce ne incolse). Per questo l’egoismo tedesco inscritto nel patto di governo Merkel-Gabriel, così distanti dalla visione europeista dei loro predecessori, risulta tanto più lacerante se visto da sinistra. Per tornare al dilemma europeo simboleggiato alle prossime elezioni dal greco Tsipras contro il tedesco Schulz, quali argomenti si potranno spendere di fronte a un giovane disoccupato italiano per sconsigliargli una scelta puramente romantica, dalla parte del più debole? Se le forze progressiste dell’Ue non sono state capaci di elevare Atene a capitale di un europeismo solidale, e anzi in Grecia il socialismo del Pasok si è autodistrutto per sottomissione alle ricette calate dall’alto, c’è forse qualcuno a sinistra che immagini di ricominciare da Berlino?

Qui davvero il Partito Democratico italiano potrebbe svolgere una funzione rilevante, sforzandosi di riavvicinare il greco e il tedesco. Promuovendo una critica aperta alla Spd rinchiusa nel socialpatriottismo, finora lesinata perfino da uomini come D’Alema che non perdono occasione di vantarsi della propria familiarità col socialismo europeo. L’Italia vive direttamente il dramma della nuova figura sociale dell’uomo indebitato; ma è al tempo stesso nazione cofondatrice dell’Unione europea. Il Fiscal compact sembra condannarci a pagare per vent’anni interessi elevatissimi su un debito pubblico destinato a restare comunque inestinguibile; ma un nostro eventuale collasso finanziario trascinerebbe nei guai anche i paesi più solidi dell’Ue. E a ben pensarci ci soccorre anche la memoria di quel fatidico 1914: quando la Spd votava i crediti di guerra e quasi tutti gli altri partiti socialisti europei tradivano la reciproca fratellanza in nome di un malinteso sentimento di lealtà nazionale, fu proprio il Partito socialista italiano l’unico a mantenersi sulla linea non interventista e neutralista deliberata dal congresso di Stoccarda della Seconda Internazionale. Non bastò per impedire la catastrofe di due guerre mondiali in meno di trent’anni. Ma questa è una ragione in più per riprovarci oggi

Una sintetica analisi della realtà della "politique politicienne" italiana, dove dominano gli avanguardisti del passo indietro.

Il manifesto, 4 gennaio 2014

Il gioco in attacco, il nuovo ini­zio, l’urgenza, le tappe for­zate, i cro­no­pro­grammi: da un mese il governo Letta 2 (quello senza più Ber­lu­sconi ma con ancora Alfano) dif­fonde una fre­ne­tica ansia. Senza muo­versi di un cen­ti­me­tro, al mas­simo sosti­tui­sce i vec­chi annunci con quelli nuovi. «Faremo, stiamo per fare, eccoci», ma appena si passa dagli annunci alle pro­po­ste con­crete ecco che rimonta un immo­bi­li­smo con­fuso. Che del resto è l’unico patto pos­si­bile per la strana mag­gio­ranza, quello che ne ha garan­tito la soprav­vi­venza. Un conto è la legge elet­to­rale, e anche lì per non spac­care in par­tenza l’asse di governo c’è voluto che Renzi tri­pli­casse le pro­po­ste di modi­fica, ognuna delle quali emen­da­bile: siamo ancora alla teo­ria. Un conto sono i prov­ve­di­menti con­creti, anche i più sem­plici, mode­rati e di banale buon­senso. Basta che il segre­ta­rio del Pd accenni alle unioni civili e alla modi­fica della Bossi-Fini che Alfano ci ricordi di essere sem­pre lui, l’Angelino di Ber­lu­sconi. Minac­cia una crisi che non gli con­viene ma che è ormai l’unica alter­na­tiva all’inerzia.

Forse se ne sta con­vin­cendo anche il pre­si­dente della Repub­blica, che da almeno tre anni ha scelto invece di custo­dire le lar­ghe intese e il fetic­cio della sta­bi­lità. Meglio tardi che mai.

La pro­po­sta di Renzi sulle unioni civili è la più timida pos­si­bile. Arre­trata anche rispetto all’elaborazione del Pd — il neo segre­ta­rio del resto qual­che anno fa era in piazza al Family Day con­tro la pro­po­sta pro­diana dei Dico. Se in Europa e nel mondo si afferma il matri­mo­nio anche per le cop­pie omo­ses­suali, Renzi si ferma alla tutela pri­va­ti­stica degli affetti, la solu­zione cioè che la Corte di giu­sti­zia euro­pea sta già supe­rando con le sue sen­tenze. Anche la magi­stra­tura ita­liana, per­sino quella della Cas­sa­zione, è più avanti. Nelle retro­vie ci sono però sal­da­mente Alfano e il suo cen­tro­de­stra, che è nuovo quanto lo sono Gio­va­nardi e Sac­coni. Para­go­nati ai loro comu­ni­cati, quelli vati­cani sem­brano ormai la scin­tilla di Luci­fero. Se non sulla revi­sione della Bossi-Fini, dove la destra rimane inde­co­ro­sa­mente unita, almeno sulle unioni civili Renzi finirà col tro­vare mag­giore sin­to­nia nei ber­lu­sco­niani orto­dossi che negli alleati di governo. Acce­le­rando per que­sta via la crisi. Sarà un bene.

Molt www.Sbilanciamoci. info, 3 gennaio 2014

Dopo l'accordo tra il Lingotto e il sindacato Usa, il quartier generale del gruppo Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Usa, mentre le vendite e la produzione in Italia già da tempo rappresentano una parte molto minoritaria di quelle mondiali. Più che di un successo del sistema Italia è meglio parlare di un successo degli azionisti

L’accordo tra il gruppo Fiat e il sindacato Usa ha suscitato l’entusiasmo nei media italiani, del resto facili da accendersi per l’impresa piemontese, dati i legami abbastanza stretti che corrono da sempre tra di essa e i nostri quotidiani più importanti. Al coro si sono uniti i soliti sindacalisti Cisl e Uil, nonché ovviamente qualche rappresentante del governo. Sintetizzano tale reazione due titoli apparsi su Il Sole 24 Ore; vi si parla da una parte di “successo del sistema Italia”, mentre dall’altra si afferma che “vince l’abilità negoziale del manager”.

Ci permettiamo di dissentire da ambedue i concetti espressi dal quotidiano della Confindustria. Il “successo del sistema Italia” appare del tutto relativo se consideriamo come la percentuale di italianità del gruppo tenda ormai ai minimi. Intanto, già da tempo, un pezzo importante del gruppo, la Fiat Industrial, con i suoi camion, i suoi trattori, le sue macchine movimento terra, veleggia da un paradiso fiscale all’altro e l’Italia appare l’ultima delle sue preoccupazioni.

Ora tocca all’auto. Quasi ovviamente, il quartier generale del raggruppamento Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Stati Uniti e rischiamo quindi di perdere qualche migliaia di posti di lavoro a Torino. Del resto, le vendite e la produzione in Italia (grazie anche alle scelte fatte a suo tempo dal management) rappresentano ormai sono una parte molto minoritaria di quelle mondiali del gruppo, mentre è già annunciato che il titolo sarà quotato principalmente alla borsa di New York.

Per far digerire meglio la pillola all’opinione pubblica del nostro paese il management confermerà per l’Italia, almeno speriamo, un po’ di investimenti per rafforzarvi la produzione di alcuni modelli; attendiamo con apprensione gli annunci ufficiali in proposito. Il governo approfitterà della novità per chiedere almeno notizie sul destino vero di Mirafiori e di Cassino, come qualche persona assennata sta facendo? O addirittura per sapere quale sarà il futuro di tutti gli stabilimenti italiani? Mah, quelli sono occupati in ben più importanti faccende.

Comunque, per quanto riguarda le attività produttive, la fusione con Chrysler dovrebbe permettere alla Fiat, oltre che di sviluppare un po’ di sinergie, di mettere le mani sul tesoretto finanziario dell’azienda Usa e di trovare quindi, senza esagerare con l’Italia, un po’ di soldi per portare avanti qualche investimento anche qui da noi.

Va peraltro ricordato come la struttura finanziaria del nuovo gruppo non appare, a detta degli esperti, come molto brillante e in ogni caso essa sembra essere peggiore di quella dei suoi principali concorrenti, con l’esclusione forse della Citroen-Peugeot, che però si sta accasando con lo Stato francese da una parte e con i produttori cinesi della Dongfeng dall’altra. Essa comunque non è in grado di sviluppare una politica aggressiva sul fronte della ricerca e sviluppo e degli investimenti adeguati a posizionarsi tra i protagonisti del mercato mondiale.

Più che di un successo del sistema Italia si potrebbe parlare di un successo degli azionisti, guidati dal pirotecnico Lapo Elkann, clone di Marchionne; alla notizia della fusione i titoli del Lingotto sono subito saliti in misura rilevante. Anche l’amministratore delegato troverà il suo tornaconto nella faccenda, perché potrà consolidare da noi la fama di manager miracolo e vedere anche aumentati i suoi bonus di fine anno. Ci sia permesso di esprimere peraltro solo qualche dubbio sulla sua presunta abilità negoziale. Il sindacato statunitense aveva chiesto 5 miliardi di dollari per concludere l’affare, mentre Marchionne aveva dichiarato con sdegno che il prezzo giusto era di soli 2 miliardi. Ora scopriamo che la Veba ha ottenuto 4,35 miliardi; si tratta di una cifra molto più vicina alle richieste statunitensi che all’offerta italiana.

Di positivo per Torino c’è il fatto che la parte più importante dell’esborso per l’acquisto del 41,5% della Chrysler verrà sostenuto dalla stessa casa americana, mentre l’azienda di Torino dovrà pagare soltanto 1,75 miliardi di dollari e non sarebbe obbligata, almeno nell’immediato, a dover ricorrere ad un aumento di capitale, scelta peraltro probabilmente ineludibile tra qualche tempo.Con la fusione si costituisce il settimo gruppo automobilistico mondiale, che avrà comunque molte difficoltà a lottare con i veri protagonisti del settore.

Lo stesso Marchionne aveva dichiarato alcuni anni fa che per stare adeguatamente sul mercato bisognava produrre almeno sei milioni di vetture, ma nel 2013 la Fiat-Chrysler ne avrà consegnate forse poco più di quattro milioni.

A livello della situazione sul terreno il gruppo ha dei punti di forza commerciali in Brasile, con una posizione però sempre più insidiata dalla concorrenza, negli Stati Uniti, grazie peraltro anche alla forte ripresa del mercato locale negli ultimi anni (cosa succederà quando il mercato si fermerà?), in Italia. Il resto del quadro non appare come molto brillante. Negli altri paesi europei ormai le sue quote di mercato sono minuscole, mentre esso non esiste quasi in Asia, l’area ormai più importante del mondo per il settore e neanche in Russia, dove le previsioni per i prossimi anni indicano che tale mercato diventerà il primo in Europa, scavalcando la Germania.

In Cina, ormai il paese guida per il settore, dopo due false partenze, il gruppo sta avviando ora le sue attività produttive con molta fatica e, se tutto va bene, fra qualche anno esso avrà l’1% di quota di mercato; una meraviglia. In Russia si attende ancora l’avvio operativo della produzione di auto, che appare legata all’accordo con qualche potentato locale che ancora non sembra arrivare, mentre per il momento si dovrà limitare a produrre qualche Ducato.

Per quanto riguarda poi la gamma delle produzioni, nella nebbia delle rare e confuse dichiarazioni del management, sembra possibile negli ultimi tempi individuare una strategia ormai relativamente definita, anche se non in tutti i suoi aspetti.

Nella fascia alta del mercato, si profila un polo del lusso, con la presenza, oltre che della Ferrari, della Maserati e forse anche dell’Alfa Romeo, marchio quest’ultimo di cui però non si conoscono bene i possibili destini. Ma la produzione annunciata per i prossimi anni per la stessa Maserati, a livello di 50.000 unità all’anno, pur rilevante e sicuramente da perseguire, appare alla fine modesta, mentre le varie Mercedes, Bmw, Audi, veleggiano ormai sui milioni di unità.

Nella fascia più bassa, abbiamo dei modelli di successo quali la 500 e la Panda, di cui si cerca di tirar fuori tutte le possibili versioni, mirando a mantenere i prezzi a livello sostenuto. Ma poi c’è il vuoto, che forse sarà colmato molto in parte nel 2014 con la nuova versione della Punto; troppo poco e molto tardi. Nella fascia mediana, ci sono i prodotti della Chrysler, che è abbastanza brava però a vendere suv e pick-up, mentre fa più fatica con le berline di fascia media e media-bassa. È questo un altro punto debole rilevante della strategia di prodotto.

Alla fine, se la Fiat-Chrysler pretende di essere tra i protagonisti del mercato mondiale, sembra evidente che è difficile che possa farcela da sola; essa, a nostro parere, dovrebbe sviluppare un’alleanza con un altro produttore che, oltre ad accrescere i volumi complessivi, copra perlomeno i suoi buchi in Asia e nella fascia delle berline medie e che sia inoltre ben fornito finanziariamente. Altrimenti, la stessa sopravvivenza del gruppo potrebbe essere messa in discussione nei prossimi anni. Il 2014 si presenta come probabilmente molto movimentato per i lavoratori del settore in Italia.

«L'acquisto di Chrysler. Preoccupazione per gli stabilimenti italiani del Lingotto dopo l’acquisizione del 100% dell'azienda Usa. I sindacati: «Marchionne ci dica se investirà». Ma alla Borsa l’operazione piace: i titoli volano». Il

manifesto, 2 gennaio 2014

così Ser­gio Mar­chionne, il mana­ger «dei due mondi», è riu­scito a incas­sare un altro risul­tato: ha riu­nito i due mondi in uno, adesso la Chry­sler è tutta di Fiat e pra­ti­ca­mente le due società (man­cano ovvia­mente tempi e pas­saggi tec­nici) si avviano a diven­tare una unica maxi-azienda, un colosso mon­diale tale da poter soprav­vi­vere alla com­pe­ti­zione con gli altri giganti dell’auto. D’altronde già nel 2010, all’atto della pre­sen­ta­zione dell’ambiziosissimo «Piano Fab­brica Ita­lia», poi spaz­zato via dalla crisi inter­na­zio­nale, Mar­chionne lo aveva detto: Fiat potrà soprav­vi­vere solo in una grande alleanza trans-nazionale, che la fac­cia entrare nel ristretto gruppo di imprese (da con­tare sul dito di una mano) che soprav­vi­ve­ranno. Gra­zie all’abbattimento dei costi, gra­zie a eco­no­mie di scala su milioni di vet­ture pro­dotte, gra­zie alla fles­si­bi­lità e insieme alla potenza finan­zia­ria che solo un big può per­met­tersi. Il resto è nulla.

Innan­zi­tutto la Borsa: per­ché prima ancora che allo stesso ammi­ni­stra­tore dele­gato del gruppo e alla fami­glia Agnelli/Elkann – che hanno par­lato di avve­ni­mento «sto­rico» – ieri l’acquisto è pia­ciuto soprat­tutto agli inve­sti­tori di Piaz­zaf­fari. Il titolo Fiat già in aper­tura di con­trat­ta­zione è schiz­zato in alto, per entrare con una quo­ta­zione del +12,6%; la chiu­sura è stata ai livelli del +16,4% e uno scam­bio di ben il 6,4% del capitale.

Evi­den­te­mente i mer­cati cre­dono nell’operazione: e non solo nel nuovo sog­getto che nasce, ma anche nell’«acquisitore» a monte, ovvero la Exor, la holding-cassaforte degli Agnelli, che si avvi­cina tra l’altro sem­pre di più a spo­stare il suo bari­cen­tro finan­zia­rio e di mer­cato dalla piazza di Milano a Wall Street. Gli ana­li­sti infatti pre­fi­gu­rano un futuro sem­pre più «a stelle e stri­sce» non solo per Chrysler-Fiat (capi­tolo che apre nodi forse dolo­rosi, almeno per l’Italia, di cui par­le­remo), ma anche per Exor: che ieri è stata il secondo miglior titolo, dopo Fiat, segnando rialzi oltre il 5%.

Ma, ancora più impor­tante, il giu­di­zio degli ambienti finan­ziari ame­ri­cani, visto che il titolo di Chrysler-Fiat andrà quasi cer­ta­mente già entro la fine di quest’anno a isti­tuire la pro­pria piazza prin­ci­pale a Wall Street, lasciando Piaz­zaf­fari come mer­cato secondario.Secondo il Wall Street Jour­nal, il prezzo dei 3,6 miliardi pagato da Fiat per acqui­sire il 41,5% delle azioni Chry­sler ancora in mano a Veba (tutte le altre erano già a Torino), è «molto con­ve­niente per Fiat, migliore delle attese». Gli ana­li­sti ave­vano par­lato infatti di un valore ben più alto, tra i 4,2 miliardi e i 5 miliardi di dol­lari, e tra l’altro il metodo di paga­mento scelto (di cui 1,75 miliardi cash e 1,9 miliardi sotto forma di divi­dendo straor­di­na­rio da parte di Chry­sler a Veba) per­met­tono a Fiat di acqui­stare senza aumenti di capi­tale, così come un aumento non è ser­vito a Exor.

Ope­ra­zione finan­zia­ria riu­sci­tis­sima, quindi, ma adesso si apre una pra­te­ria di pos­si­bi­lità per le scelte indu­striali: e i sin­da­cati ita­liani, che ieri hanno ripe­tuto in coro il man­tra «adesso Fiat inve­sta in Ita­lia», die­tro que­sta frase piut­to­sto scon­tata celano a stento forti pre­oc­cu­pa­zioni. Innan­zi­tutto la sede: per­ché se è ormai pra­ti­ca­mente certo che il gruppo italo ame­ri­cano si spo­sterà (finan­zia­ria­mente) alla borsa di New York, pare altret­tanto atten­di­bile (anche se ancora non se ne parla uffi­cial­mente) che gli uffici cen­trali, dalla sede legale, al «cer­vello» della mul­ti­na­zio­nale, faranno anche loro le vali­gie: spo­stan­dosi da Torino a Detroit. Altri ancora par­lano di sede legale in Olanda (come è già avve­nuto con Cnh Fiat-Industrial), per­ché molto van­tag­giosa sul piano fiscale, e sede ope­ra­tiva negli Usa. Ma insomma, la glo­riosa e sto­rica città del Lin­gotto, che ospitò fin dal lon­tano 1899 la crea­tura di Gio­vanni Agnelli, pare ormai fuori gioco.

E poi, a cascata, tema che riguarda più da vicino gli ope­rai, gli sta­bi­li­menti pro­dut­tivi. Fiat con­ti­nuerà a inve­stire in Ita­lia, o via via si disim­pe­gnerà sem­pre di più? Il coro sin­da­cale è una­nime: ora il nostro Paese, che ha tanto pagato per arri­vare fino a que­sta «vit­to­ria» d’oltreoceano, deve incas­sare le cam­biali: Raf­faele Bonanni, della Cisl, riven­dica la linea seguita negli ultimi anni (insieme alla Uil) di soste­gno a Mar­chionne, dicendo che l’acquisto di Chry­sler «è anche merito dei sin­da­cati ita­liani». Luigi Ange­letti chiede inve­sti­menti. E Susanna Camusso, della Cgil, insi­ste: «Fiat dica cosa intende fare nel nostro Paese: auspi­chiamo che la dire­zione stra­te­gica e la pro­get­ta­zione restino ita­liane, man­te­nendo una pre­senza qua­li­fi­cata in Ita­lia». La Fiom, con Michele De Palma, chiede «la con­vo­ca­zione di un tavolo, con cui il governo chieda garan­zie per tutti gli sta­bi­li­menti ita­liani», a par­tire da Mira­fiori e Cas­sino, quelli giu­di­cati più in bilico.

Il futuro indu­striale Fiat, almeno negli sce­nari cir­co­lanti ieri, dovrebbe basarsi sul rilan­cio dell’Alfa Romeo e sul seg­mento lusso, così come è avve­nuto finora per la 500 negli Usa e il rispol­vero di Mase­rati. Sareb­bero pro­prio Cas­sino e Mira­fiori a usu­fruire dei nuovi modelli Alfa (si parla di una nuova Giu­lietta, di un’ammiraglia di un suv) e Mase­rati (con un fuo­ri­strada). Pomi­gliano pare per ora «con­dan­nata» alla sola Panda, Melfi alla Punto, e ai mini suv Fiat e Jeep

La Repubblica, 30 dicembre 2013

Si parla spesso del merito come della soluzione ai problemi della nostra società bloccata da un sistema farraginoso e burocratico e da un perverso abito clientelare che premia chi ha amici potenti, non chi ha capacità. Per questo, merito e lavoro appaiono come una coppia inscindibile: il primo come condizione per il secondo. Da un’interessante analisi del voto delle primarie del Pd dell’8 dicembre scorso condotta dall’Osservatorio sulla Comunicazione Politica dell’Università di Torino, risulta che questa sia la tesi vincente e il segno dell’identità ideologica della nuova sinistra centrista. Tra i dati aggregati e interpretati da Luciano Fasano e dai suoi collaboratori emerge che nel suo complesso il Pd è un partito di centro-sinistra autentico nel quale la componente legata alla sinistra tradizionale è scarsamente rilevante nel suo elettorato e ancora di meno tra gli eletti. A comprovare questa valutazione è la collocazione del merito accanto al lavoro e distante dall’eguaglianza nelle proposte dei delegati del gruppo che ha raccolto più consensi.

Non da oggi, il merito gioca un ruolo di primo piano nella riconfigurazione della cultura ideologica della sinistra. In una società, come la nostra, dove parenti e amici contano sempre molto, più delle vocazioni e delle doti personali, il richiamo al merito è sacrosanto. Ma è un fatto di legalità piuttosto che di giustizia sociale. Anche perché organizzare la società sulla “abilità dimostrata” è alquanto complesso visto che il merito è non solo difficile da misurare e attribuire, ma anche fortemente condizionato dal capitale sociale e dall’ambiente culturale. Per non essere ingiusta considerazione, il merito richiede molta attenzione alla distribuzione eguale delle condizioni di partenza. Per questa ragione un liberal social-democratico come John Rawls non credeva che dal merito potesse partire una politica di giustizia sociale. Perché è difficile spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto in quanto è impossibile stabilire con certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale e dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi ne riceve i frutti o é influenzato dall’operato.

Il giudizio sul merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all’utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico e luogo, ovvero al riconoscimento sociale e pubblico. Nel merito entrano in gioco ben più delle qualità della persona. Per questo nelle questioni di giustizia si dovrebbe diffidare di usarlo come criterio per distribuire risorse. Non perché non sia giusto che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché non si deve scambiare l’effetto con la causa: è l’eguaglianza di condizione, di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia; il merito è semmai la conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un’eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.

Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere ai suoi concittadini la necessità di politiche pubbliche, in primo luogo scolastiche: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono sulla stessa linea ma una di esse con dei pesi alle caviglie cosicché dopo pochi metri si troverà in irrimediabile svantaggio, nonostante si impegni con tutte le sue forze. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no. In questo caso il vincitore non avrebbe proprio alcun merito. Semmai godrebbe di un privilegio. Perché ci sia una gara onesta ed effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell’altro competitore, e lo si può fare in tre modi: o si libera la persona impedita a gara cominciata e si fa finta che ci sia giusta competizione (affermazione del privilegio), oppure si dà a chi è oggettivamente impedito un vantaggio a gara cominciata (programmi di aiuto a chi ha bisogno) oppure lo si prepara prima che la gara cominci (politiche di cittadinanza sociale).

Non si intende dire con questo che non ci può essere merito meritato; ma che non ci può essere se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le diseguaglianze di opportunità prima di valutare il merito.
Ecco perché senza l’accoppiamento con l’eguaglianza il merito non è un valore di giustizia. A meno che non si controllino tutte le relazioni sociali che presiedono alle nostre scelte individuali (cosa indesiderabile oltre che impossibile da ottenere in una società che vuole restare libera) non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi di ingiustizia sociale (mentre la sua violazione nei concorsi pubblici può comportare illegalità). Si deve invece partire dall’eguaglianza di opportunità e delle condizioni di formazione delle capacità, per esempio da scuole pubbliche di buona qualità distribuite su tutto il territorio nazionale affinché la gara possa essere davvero aperta a tutti e non si sfoltisca a valle il numero dei potenziali concorrenti.

Il manifesto, 29 dicembre 2013

Siamo un paese sme­mo­rato, dove tutto si ripete cicli­ca­mente come se acca­desse la prima volta. Dove la memo­ria e l’esperienza non pro­ce­dono per addi­zione ma per sot­tra­zione. Dove lo sde­gno per ingiu­sti­zie e misfatti pub­blici resi­ste fin­ché i media e qual­che per­so­nag­gio poli­tico vogliono farlo durare. Forti di tale con­sa­pe­vo­lezza, que­sta volta non dovremmo mol­lare. Ora che l’ondata di pro­te­ste, neppur’essa ine­dita, dei reclusi nei lager di Stato – che si chia­mino Cie, Cara o Cpsa — ha rice­vuto una spe­ciale riso­nanza pub­blica, dovremmo insi­stere fino a otte­nere una riforma radi­cale delle nor­ma­tive che rego­lano l’immigrazione e l’asilo.
Altri­menti tutto tor­nerà come prima. I lager ridi­ven­te­ranno “cen­tri di acco­glienza”: così il 21 dicem­bre l’Ansa e molti quo­ti­diani online (com­preso Il Fatto Quo­ti­diano) defi­ni­vano il Cie di Ponte Gale­ria, dando la noti­zia della «pro­te­sta choc», come dicono loro, delle lab­bra cucite. Altri­menti, anche la «pro­te­sta choc» e l’atto corag­gioso del depu­tato Kha­lid Chaouki, auto-reclusosi nel Cpsa di Lam­pe­dusa, saranno pre­sto dimen­ti­cati.
Così come oggi si dimen­tica che altre volte gli “ospiti” dei lager ita­liani — come di altri paesi, euro­pei e non — hanno fatto ricorso a que­sto gesto auto­le­sio­ni­sta alta­mente sim­bo­lico: per esem­pio, a novem­bre del 2010, nel Cie di Torino, lo fecero in una decina; alcuni mesi prima a cucirsi la bocca era stata, nel Cie di Bolo­gna, una tren­tenne tuni­sina cui era stato rifiu­tato l’asilo. Nulla seguì a que­ste «pro­te­ste choc» se non alcune depor­ta­zioni.
Siamo un paese sme­mo­rato, dove per­fino gli autori della legge 40 del 6 marzo 1998 sem­brano imme­mori del fatto che fu la loro crea­tura a inau­gu­rare la deten­zione ammi­ni­stra­tiva. Aprendo così la strada a un cre­scendo di gravi vio­la­zioni della Costi­tu­zione, dello stato di diritto, dei diritti umani, della stessa Carta dei diritti fon­da­men­tali dell’Unione Euro­pea: vio­la­zioni quasi sem­pre appro­vate dal capo dello stato di turno, com­preso l’ultimo. Siamo il paese dove anche rispet­ta­bili poli­tici e rap­pre­sen­tanti di isti­tu­zioni, per non dire di buona parte dei gior­na­li­sti, igno­rano la legi­sla­zione sull’immigrazione e quella sull’asilo; e sup­pon­gono sia suf­fi­ciente qual­che ritocco alla Bossi-Fini per “uma­niz­zare” il trat­ta­mento discri­mi­na­to­rio, ingiu­sto e/o cru­dele inflitto a migranti, pro­fu­ghi e richie­denti asilo. Ignari del fatto che si tratta invece di sman­tel­lare non solo i lager di Stato ma anche l’intero impianto che regge norme quasi tutte all’insegna del sor­ve­gliare e punire: per­lo­più ispi­rate dal prin­ci­pio di un diritto dif­fe­ren­ziato riser­vato agli “altri”, ava­ris­sime nel con­fe­rire i diritti di cit­ta­di­nanza, a comin­ciare dalla nazio­na­lità ita­liana e dal diritto di voto.
Anche su quest’ultimo ver­sante c’è il rischio che la mon­ta­gna dell’attuale pro­ta­go­ni­smo poli­tico di migranti e rifu­giati pro­duca solo qual­che topo­lino nato male. Ieri il mini­stro della Difesa, Mario Mauro, ha avuto l’ardire di pro­porre «una pic­cola modi­fica della Costi­tu­zione per dare agli immi­grati la pos­si­bi­lità di entrare nelle forze armate» e gua­da­gnare così qual­che punto per otte­nere la nazio­na­lità ita­liana. Insomma, se abbiamo capito bene, il mini­stro riba­di­sce l’idea di un diritto spe­ciale riser­vato a una spe­ciale cate­go­ria di per­sone. Abo­lita, di fatto, la leva obbli­ga­to­ria da quasi un decen­nio, si trat­te­rebbe, in sostanza, di rein­tro­durla solo per gli immi­grati: una sorta di reclu­ta­mento degli ascari, che andreb­bero così a costi­tuire i «bat­ta­glioni indi­geni», di fune­sta memo­ria colo­niale, per «mis­sioni di pace» par­ti­co­lar­mente dif­fi­cili. Non con­tento di que­sta bella tro­vata, nella stessa inter­vi­sta a Libero Mauro oppone allo ius soli, come si dice sbri­ga­ti­va­mente, l’oscura nozione dello ius cul­tu­rae: un con­cetto (si fa per dire) rubato a Gio­vanni Sar­tori, sin­go­lare impa­sto vivente di spoc­chia acca­de­mica, incom­pe­tenza nel campo spe­ci­fico, smo­data xeno­fo­bia.
Abbiamo citato que­sti spro­po­siti solo per riba­dire che occorre sven­tare il rischio che le pro­te­ste di migranti e rifu­giati e una certa atten­zione pub­blica verso la que­stione dei loro diritti siano pre­sto svuo­tate e can­ni­ba­liz­zate dalla poli­tica poli­ti­ci­sta e dai gio­chi del governo delle intese semi-larghe. Si tratta dun­que di alzare il livello della mobi­li­ta­zione. Della quale una tappa impor­tante sarà di certo l’appuntamento per scri­vere col­let­ti­va­mente la Carta di Lam­pe­dusa: dal 31 gen­naio al 2 feb­braio 2014, infatti, movi­menti, asso­cia­zioni, reti delle due sponde del Medi­ter­ra­neo si ritro­ve­ranno nell’isola per ela­bo­rare un patto costi­tuente «che metta al primo posto le per­sone, la loro dignità, i loro desi­deri, le loro spe­ranze». Ma una tappa ancor più rile­vante sarebbe quella di una mani­fe­sta­zione nazio­nale, per affer­mare con vigore che que­sta volta non per­met­te­remo che tutto rico­minci come se niente fosse accaduto.
«Il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita». Questo solo negli USA. Poi c’è il resto del mondo.

La Repubblica, 30 dicembre 2013

C’È UN fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta. C’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari. C’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. The “Masters of the Universe sono tornati”. I giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano. Se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio dedica a The Wolf, il Lupo di Wall Street, il film più atteso di questo fine 2013. Degna chiusura di un anno che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s 500 in rialzo del 30% rispetto al primo gennaio.

The Economist dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick. Time magazine invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta. L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto.

Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini.
Time saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica Forbes dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali». La sua carriera cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, Barbari alle porte). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs.

E qui viene la sorpresa. Invece di assalire Apple con una delle solite scorribande finanziarie mordi-e-fuggi, Icahn si fa il paladino di interessi generali. «Apple non è una banca», lancia l’anziano investitore a Cook. Icahn vuole che la regina degli iPhone e iPad la smetta di accumulare cash inutilizzato (ben 150 miliardi di dollari, una montagna di liquidità tanto impressionante quanto assurda) e lo distribuisca a tutti gli azionisti. Lui incluso, ovviamente, che nel capitale di Apple ha investito due miliardi. Ma l’operazione che Icahn pretende da Apple distribuirebbe benefici anche ai piccoli risparmiatori. I Padroni dell’Universo si sono convertiti come dei Robin Hood? Tutt’altro. Ma almeno il loro è un capitalismo vero, un’economia di mercato non ingessata.

Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni. Fondato nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (JP Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble. Una peculiarità di Blackrock lo distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street. Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa (come i vari Dow Jones, S&P500, Ftse).

La loro performance quindi è una fotocopia fedele dell’andamento dei mercati. I costi di gestione sono minimi. Soprattutto, Blackrock investe i capitali che gli vengono affidati, anche dai piccoli risparmiatori, attraverso fondi pensione e altri fondi comuni. Non ci mette capitali propri. Dunque, a differenza della famigerata e defunta Lehman Brothers, o di altre banche d’affari che si rivelarono fragilissime, un investitore istituzionale come Blackrock ha poco “rischio sistemico”. In un certo senso Blackrock ha obbedito anticipatamente alla nuova regola varata solo da poche settimane dall’Amministrazione Obama, quella Volcker Rule che vieta ai banchieri di fare speculazioni rischiose coi propri capitali.
È un altro caso di Padrone dell’Universo che può aiutare l’economia di mercato a evitare catastrofi come quella del 2008? Di certo l’universo capitalistico in cui si muove Blackrock dista anni-luce dalla realtà italiana. Per quanto sia un colosso, e grosso azionista di gruppi come Apple, Google, Shell e Nestlè,Toyota e Novartis, in nessuna di queste aziende la sua quota configura una “minoranza di blocco”. Né fa parte di patti di sindacato, che generalmente non esistono a Wall Street e nei mercati più evoluti. Blackrock può usare la frusta verso un management che giudica inefficiente, ma non ha poteri di veto né si può permettere di paralizzare una grande azienda.

Il ritorno dei Padroni dell’Universo è un fenomeno dalle molte facce. L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008. In particolare fra questi squilibri c’è la finanziarizzazione dell’economia, e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata. Larry Summers, ex consigliere economico di Barack Obama, in un importante discorso al Fondo monetario internazionale ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.

Il lato positivo di Wall Street forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza. Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale.

Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera duecentomila nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere. La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione. In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, la “macchina del mercato” che qui ha ripreso a girare a pieno ritmo.

«Le ragioni dell'attuale crisi consistono nel capovolgimento del rapporto fra democrazia ed economia, frutto degli ultimi trent'anni di politiche neoliberiste dettate dall'ideologia che, secondo il suo rappresentante più rigoroso Robert Nozick, lo Stato si può giustificare solo se "minimale e limitato a far rispettare i contratti fra i privati"».

Il Sole 24 ore (proprio così), 29 dicembre 2013
Il nuovo anno significativamente cade nel centenario della prima guerra mondiale e impone un bilancio con almeno due diverse valutazioni. La prima è quella che l'attuale crisi non pare sostanzialmente difforme, ancorché non identica, rispetto a quelle precedenti, che si son ripetute in cicli ricorrenti, sicché in qualche modo poi, sia pur nel dominio della confusione e della paura, hanno trovato una soluzione.
La seconda è che si tratti invece di una crisi del tutto nuova, e che l'attendismo delle democrazie non sia in grado di risolverla, ma si richieda invece un cambiamento radicale nel governo del mondo, soprattutto a causa della totalitaria natura globale della crisi stessa.

Le crisi economiche negli ultimi cento anni si sono accompagnate a quelle profonde delle democrazie, le quali ne sono uscite sostanzialmente vittoriose, nonostante l'ignavia e il fatalismo che le caratterizza, come già aveva riconosciuto il loro maggior teorico Alexis de Tocqueville.

Così in molti Paesi le risposte alla grande depressione del '29 consistettero nell'abolizione di uno dei poteri fondamentali della democrazia, cioè l'autorità legislativa; abolizione comune nelle autocrazie totalitarie, dal fascismo, al nazismo, al comunismo. È pur vero che a volte la divisione dei poteri è pericolosamente rinnegata, anche attraverso prevaricazione di qualcuno dei tre poteri, più spesso quello esecutivo, con repressione dei diritti fondamentali che della democrazia costituiscono l'essenza.
Basterà, per chiarire il discorso, fare riferimento al recente ponderoso studio di Ira Katznelson (Fear Itself: The New Deal and The Origin Of Our Time - New York, 2013) dal quale risulta con chiarezza che il New Deal di Roosvelt nacque in un'atmosfera di assoluta incertezza sulla capacità e il destino della democrazia liberale, tant'è che lo stesso New Deal e la creazione di un'economia dello Welfare State fu possibile con l'intervento soprattutto dei membri del Congresso sudisti, ai quali venne garantita la permanenza di un sistema legale di segregazione razziale. L'incontrovertibile risultato raggiunto con la partecipazione alla seconda guerra mondiale è presentato come salvaguardia della democrazia americana attraverso profondamente ambigue alleanze con il sud degli Stati Uniti ante diritti civili e con l'Unione Sovietica di Stalin.

Le ragioni dell'attuale crisi consistono nel capovolgimento del rapporto fra democrazia ed economia, frutto degli ultimi trent'anni di politiche neoliberiste dettate dall'ideologia che, secondo il suo rappresentante più rigoroso Robert Nozick, lo Stato si può giustificare solo se «minimale e limitato a far rispettare i contratti fra i privati». Ciò ha portato a una spinta alla deregolamentazione del capitalismo finanziario, alla fuga dello Stato dalla protezione dei diritti umani, dalla salute all'istruzione, al lavoro, alla dignità della vita e a favore dell'esaltazione delle disuguaglianze.

Quel che può apparire strano, e che rende la presente crisi più complessa, è che le esigenze dell'economia, ridotta all'autogoverno del mercato globale, e di mancanza di una sovranità mondiale che ne imponga una regolamentazione, hanno ridotto anche la Giustizia a una fattispecie contrattuale. Deals de Justice è il titolo del recente libro di Garapon e Servan - Schreiber (2013), nel quale si chiarisce che le grandi multinazionali, qualora sospettate di violazione della legislazione anticorruzione americana e di criminalità economica, sono indotte a collaborare con il Department of Justice (DOJ) o con la Sec (Securities and Exchange Commission), per arrivare a un accordo (Deal) al fine di evitare un lungo e dispendioso giudizio. Siamo di fronte a una sorta di ossimoro, di un diritto senza giustizia, con l'attrazione nella competenza del potere esecutivo americano dell'ordinamento del commercio internazionale, dove le imprese sono tenute a svolgere costose autoinvestigazioni e a dichiarare le proprie violazioni, in contrasto con il Bill of Rights che garantisce il diritto di non incriminarsi. Può destare sorpresa che dal 1977 i dieci più importanti accordi transattivi con le autorità americane sono stati conclusi da nove multinazionali straniere e una sola americana, tanto da far credere che questo strumento di giustizia globale dei mercati serva a proteggere le imprese americane a discapito di quelle straniere e a far affluire non indifferenti somme di denaro al Tesoro americano.

La Repubblica, 29 dicembre 2013

Nel giro di qualche ora ha ricevuto centinaia di messaggi offensivi, tra cui una trentina di questo tipo: «Era meglio se morivi a 9 anni brutta imbecille, io sperimenterei su persone come te»; oppure: «Se per darti un anno di vita sono morti anche solo 3 topi, per me potevi morire pure a 2 anni». Penso sia lecito chiedersi dove siamo finiti e che ne sia ormai della solidarietà umana.

Come Caterina Simonsen, anch’io ho scelto di non mangiare più carne, è una scelta che mi fa sentire solidale con la vita, che reputo sacra in ogni sua manifestazione, umana e animale. Anzi, penso che la vita sia sacra già a livello vegetale e che di per sé non si dovrebbero mangiare neppure le patate e le cipolle che sono tuberi e possono generare vita, e infatti i monaci giainisti non le mangiano cibandosi solo di frutti. Ma non basta, occorrerebbe chiedersi se un albero voglia darci i suoi frutti, che non ha certo prodotto per noi, e se raccoglierli non implichi una forma di violenza, per lo meno di quella legata al furto. Non a caso Gandhi scriveva che «il consumo dei vegetali implica violenza», aggiungendo però subito dopo: «Ma trovo che non posso rinunciarvi ». Da qui il profeta della non-violenza concludeva che «la violenza è una necessità connaturata alla vita corporea ». La nostra vita, in altri termini, per esistere si deve nutrire di altra vita che deve necessariamente sopprimere. Per questo nessuno è innocente e nessuno è in grado di stabilire con certezza dove si debba attestare il rispetto per la vita.

Tale conclusione sull’alimentazione vale anche per la cura medica: anche qui c’è un’inevitabile dose di violenza, come mostra già il nostro sistema immunitario del tutto simile a un esercito di professionisti senza scrupoli. Si potrebbe obiettare che i batteri eliminati dai globuli bianchi e le cavie su cui viene condotta la sperimentazione nei laboratori non sono la stessa cosa perché i primi sono aggressori e gli altri no, ma io penso che anche i batteri che entrano nel nostro corpo siano innocenti perché fanno solo il loro mestiere senza nessuna intenzione di aggredirci. In realtà la violenza è intrinseca in ogni sistema di difesa: se vuole continuare a vivere, nessun vivente può uscire indenne dalla catena di violenza di cui è impastata la vita, e per questo nessuno ha il diritto di tirare la prima pietra condannando chi mangia carne o chi sostiene la ricerca mediante sperimentazione animale.

Tuttavia dalla catena di violenza di cui è intrisa la vita alcuni esseri umani desiderano emanciparsi, e questo è un nobile ideale che a mio avviso va sostenuto. Nessun altro essere vivente può concepire tale emancipazione, solamente l’uomo lo può, mostrando in questo di essere ben al di là della vita animale. Sto dicendo che gli animalisti, con il loro sostenere un comportamento del tutto privo di violenza verso gli animali e con il loro volere per gli animali gli stessi diritti dell’uomo, mettono in atto un comportamento che li distanzia al massimo dal mondo animale. Nessun animale carnivoro infatti cesserà mai di mangiare carne, nessun animale erbivoro deciderà mai di astenersi dai bulbi e dai tuberi, nessuna specie animale estenderà mai alle altre specie i diritti di supremazia che la natura lungo la sequenza della selezione naturale le ha concesso. A parte quella umana, nessuna specie cesserà mai di seguire l’istinto sotto cui è nata. L’uomo al contrario ha imparato a poco a poco a estendere gli ideali di giustizia a tutti gli esseri umani, compresi quelli dalla pelle diversa, e oggi alcune avanguardie stanno lottando per allargare tali ideali ad altri esseri viventi. Tutto ciò, esattamente al contrario del naturalismo professato da alcuni animalisti, mostra in modo lampante lo iato esistente tra Homo sapiens e gli altri viventi. Se gli esseri umani lottano per estendere agli animali gli stessi diritti dell’uomo non è quindi perché non c’è differenza tra vita umana e vita animale, ma esattamente al contrario perché tra le due vi è una differenza qualitativamente infinita.

Ponendosi in tale prospettiva di estensione degli ideali di non-violenza anche al mondo animale, Gandhi scriveva: «Aborrisco la vivisezione con tutta la mia anima. Detesto l’imperdonabile macello di vita innocente nel nome della scienza e della cosiddetta umanità, e considero del tutto prive di valore le scoperte scientifiche macchiate di sangue innocente». Per questo, al di là delle ignobili offese a Caterina Simonsen che meritano solo l’oblio, io ritengo che nella campagna animalista contro la sperimentazione sugli animali vi sia qualcosa di importante. Si tratta dell’appello a estendere a tutti i viventi l’imperativo categorico della vita etica, formulato da Kant alla fine del Settecento solo in prospettiva antropocentrica: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai solo come mezzo». Oggi si tratta di giungere a trattare «sempre come fine e mai solo come mezzo» non solo l’umanità, ma, per quanto è possibile, tutto ciò che vive: gli animali, le piante, i mari, le montagne, il pianeta, il cosmo… tutto dovrebbe essere visto in una prospettiva non utilitaristica ma vorrei dire

contemplativa,in cui si contempla la natura delle cose rispettandole per quello che sono e cessando di calcolare solo l’utile che ne viene a noi, per una filosofia ecologica di cui il nostro tempo e il nostro spazio hanno urgente bisogno.

Attenzione però alla saggezza del grande filosofo: dicendo «mai solo come mezzo», Kant ricordava che un elemento di strumentalità è sempre connaturato al vivere, nel senso che ognuno di noi in alcune circostanze è anche un mezzo per la vita degli altri. Ciò ci dovrebbe portare a quel saggio equilibrio del cuore e della mente che mette al riparo da ogni radicalismo fanatico e che porta ad appoggiare la liceità etica della sperimentazione animale laddove davvero non vi sia altra possibilità per sconfiggere le malattie degli uomini e degli stessi animali.

Due ragioni di fondo della crisi della democrazia nella fase del neoliberismo: « l' esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; la riduzione della politica a politicismo, a pura tecnica».

l'Unità, 28 dicembre 2013

Se c’è una cosa che colpisce nell'attuale dibattito politico è l'assenza di una riflessione sui limiti del potere, anche di quello democratico. Perciò va accolta con interesse la riflessione di Giuseppe De Rita sul Corriere della sera in cui si sottolinea, nel quadro di un ragionamento articolato, l’importanza dei poteri intermedi, senza i quali anche in democrazia non ci può essere effettiva rappresentanza. È una tesi in controtendenza rispetto alle correnti dominanti, e per questo va particolarmente apprezzata.

Ciò che oggi si valorizza è infatti l'idea di un potere, anche democratico, senza «limiti» (e uso volutamente questo termine), in assenza di gravità. E in questo quadro ciò che si sostiene è la funzione e il ruolo storico-politico del leader, del capo che non deve avere intralcio nella sua azione. Senza leader, si dice, non è concepibile la politica nel mondo contemporaneo: i partiti, le associazioni appunto, i corpi intermedi non hanno perciò altro compito che non sia quello di sostenere, in funzione subordinata, la missione del capo.

Ora, in questa tesi c’è un equivoco di fondo che non sempre, anzi quasi mai, viene chiarito: è almeno dalla fine dell’Ottocento che è stata riconosciuta, anche sul piano teorico, la funzione della «grande personalità» nella storia, che si è poi affermata nel Novecento sia negli Stati totalitari che in quelli democratici. Su questo punto, connesso all’imporsi delle masse, non c’è questione. Si tratta però di chiarire quali siano, specie in democrazia, i «limiti» del potere, anche di quello del leader. Naturalmente se si vuole restare in un regime di tipo democratico.

In verità, la discussione sui limiti del potere è connessa, fin dalle origini, alla riflessione sui caratteri dello Stato moderno, perfino presso i teorici dell'assolutismo. Tanto più che questo motivo è presente, fin dal 600, nei teorici della democrazia. Quando un autore come Spinoza riflette sullo Stato monarchico delinea subito il sistema di «consigli» che deve circondare, e limitare, l'autorità del sovrano, se non si vuole che la monarchia degeneri in tirannide. Ma anche nell'Ottocento un pensatore di prima grandezza come Tocqueville individua nell'associazionismo cioè nei corpi intermedi la barriera necessaria per impedire che la democrazia, di cui pur riconosce la necessità e la ineluttabilità, degeneri in dispotismo. In questo senso, si può dire che tutta la riflessione sullo Stato moderno nei suoi punti più alti è una lunga, e complessa, meditazione sui limiti del potere: perfino Bodin scrive pagine importanti su questo punto, considerandolo cruciale.

Richiamo questo tema, e questi nomi, non per gusto della citazione, ma perché essi ci conducono a quello che oggi è il centro del problema: il venir meno, anzi l’assenza, di una riflessione sui limiti del potere è un effetto diretto della crisi in atto dello statualità moderna. E in questo contesto è una conseguenza della crisi della democrazia, la quale vive e si sviluppa se è basata su un ampio e articolato sistema di bilanciamento e di controllo dei poteri, che non possono mai essere ridotti ad «unità», cioè al potere di un leader. Se e quando questo accade si esce dalla democrazia e si entra in un altro tipo di regime politico, qualunque sia il nome che gli si voglia dare: perché alla democrazia è connaturata l’idea del limite a tutti i livelli. Essa vive, e si sostanzia, del conflitto, ma in democrazia anche il conflitto per essere fecondo deve essere organizzato, cioè limitato.

Varrebbe la pena chiedersi perché oggi le cose siano arrivate a questo punto, e non solo in Italia. Ma certo in Italia questo processo degenerativo ha avuto ragioni specifiche legate ai caratteri del ventennio che si è ora concluso e alla degenerazione della politica e dell'agire politico. Se si volessero citare due elementi caratteristici di questo periodo si potrebbe dire che esso è stato caratterizzato da un lato da una esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; dall'altro, da una riduzione della politica a politicismo, a pura «tecnica», sfociata alla fine e necessariamente, verrebbe da dire in una apologia dell’«amministrazione» con i risultati che si sono visti.

In questo ventennio la politica si è inaridita, ha perso radici, si è separata dalla gente, dalla vita quotidiana, si è messa da un 'altra parte, ha perso l'anima (direbbe Delors) provocando le reazioni che si sono viste nei giorni passati. Oggi forse il problema più grave della democrazia italiana è proprio questo discredito della politica. Eppure senza politica non c’è libertà, non c’è democrazia; ma senza «limiti» non ci sono né l’una né l’altra; non c’è vivere democratico senza «corpi intermedi»: partiti, sindacati, associazionismo in tutte le sue forme.

Sarebbe bene che le forze democratiche e di sinistra che hanno la responsabilità di non aver compreso la vastità e le implicazioni dei processi innescati nel ventennio passato ricominciassero ad interrogarsi sul valore e sul significato dei limiti del potere, senza disconoscere, ovviamente, la funzione del leader in una democrazia come quella contemporanea. Anzi, a differenza di quanto pensino, e sostengano, gli ideologi conservatori, in una democrazia liberale sono due lati dello stesso discorso.

«Il manifesto, 28 dicembre 2013

Oggi il Par­la­mento in Ita­lia non conta più nulla e non rie­sce a far nulla, con­ti­nua a pren­dere schiaffi senza che nes­suno se ne lamenti, nep­pure i diretti inte­res­sati. Schiac­ciate dal peso del soste­gno a un governo privo di un coe­rente indi­rizzo poli­tico, tenute in vita arti­fi­cial­mente, in attesa di una pre­si­denza di turno euro­pea, di impro­ba­bili riforme isti­tu­zio­nali e dello sta­bi­liz­zarsi del qua­dro poli­tico ter­re­mo­tato dopo le ultime ele­zioni, la per­dita di auto­no­mia delle camere è totale. Lo ave­vamo già segna­lato su que­ste pagine, ma vale la pena ricor­darlo: da che è ini­ziata que­sta legi­sla­tura le camere non sono riu­scite a eser­ci­tare nes­suno dei loro prin­ci­piali com­piti isti­tu­zio­nali.

Quello costi­tu­zio­nal­mente più deli­cato di ele­zione del capo dello stato s’è con­cluso con un incre­di­bile e diso­no­re­vole nulla di fatto. La scelta di con­fer­mare il vec­chio pre­si­dente, a seguito dell’accertata inca­pa­cità di eleg­gerne uno nuovo (Marini, Rodotà o Prodi che fosse), ha costi­tuito un’esplicita dichia­ra­zione di impo­tenza. Con­di­zione di ina­de­gua­tezza resa ancora più evi­dente dal discorso di re-insediamento di Napo­li­tano dinanzi alle Camere riu­nite, il quale non ha man­cato di richia­mare le debo­lezze dell’attuale sistema politico-parlamentare, men­tre i par­la­men­tari applau­di­vano.
Per non par­lare dell’incapacità mani­fe­sta di for­mare un governo dalle chiare con­no­ta­zioni poli­ti­che e di indi­vi­duare una mag­gio­ranza defi­nita. Fosse stata anche la neces­sità– o più pro­ba­bil­mente le sol­le­ci­ta­zioni pre­si­den­ziali da un lato e la paura di una fine trau­ma­tica della legi­sla­tura dall’altro — a indurre il Par­la­mento a con­fe­rire la fidu­cia prima al governo Letta-Berlusconi, poi a quello Letta-Alfano, ora a quello Letta-Renzi, certo non può negarsi che gli equi­li­bri all’interno del Par­la­mento e con il governo sono stati stra­volti. La stessa atti­vità all’interno delle camere non poteva che risentirne.
La fisio­lo­gica dia­let­tica tra mag­gio­ranza e oppo­si­zioni è stata scon­volta, sosti­tuita dalla con­cen­tra­zione nelle mani dei par­titi delle «lar­ghe intese» dei diversi ruoli politico-parlamentari: tutti (o quasi) a soste­nere il Governo, ma fino ad un certo punto, dovendo tutti riven­di­care la pro­pria diver­sità. Dun­que, svol­gendo tanto il ruolo di mag­gio­ranza quanto quello di oppo­si­zione.
In que­sto clima con­fuso le Camere non pos­sono che ope­rare senza diret­tive sicure, in modo ondi­vago. Non tanto l’inadeguatezza dei rego­la­menti par­la­men­tari, quanto l’impossibilità di una loro appli­ca­zione coe­rente allo spi­rito che deve ani­mare un’efficace atti­vità dell’organo legi­sla­tivo rende sem­pre più evi­dente la para­lisi del Par­la­mento. Non si può cer­ta­mente impu­tare alle regole par­la­men­tari, ad esem­pio, l’inettitudine dimo­strata nei con­fronti della riforma della legge elet­to­rale. È lo stato con­fu­sio­nale in cui versa la poli­tica oggi in Ita­lia che deve essere messa sotto accusa.

È anche vero che non è solo il Par­la­mento a ver­sare in uno stato coma­toso. Anzi esso è un riflesso della con­di­zione in cui versa la poli­tica. Con­cen­trata sui destini per­so­nali e sul ricam­bio gene­ra­zio­nale, attra­ver­sata da lotte fra­tri­cide per il pre­do­mi­nio nei feudi e nei ter­ri­tori tra­di­zio­nali della poli­tica poli­ti­cante, dispo­sta a sca­ri­care sugli altri (sog­getti o isti­tu­zioni che siano) le colpe del vuoto di una poli­tica nazio­nale.

Troppo facile diventa pren­der­sela con l’organo più debole in que­sto momento in Ita­lia. Il Par­la­mento, appunto. Così, il Governo sca­rica le Camere, sot­traendo a esse la deci­sione sul finan­zia­mento dei par­titi: l’emanazione di un decreto legge in mate­ria è dei giorni scorsi. Ora, il Pre­si­dente della Repub­blica bac­chetta il Par­la­mento per avere inse­rito norme ete­ro­ge­nee in sede di con­ver­sione di un decreto legge. Una prassi assai risa­lente e spesso uti­liz­zata, cio­non­di­meno cer­ta­mente da con­dan­nare. Ma siamo sicuri che il Par­la­mento sia l’unico col­pe­vole? Anche l’indicazione di una modi­fica dei rego­la­menti par­la­men­tari appare fran­ca­mente ridut­tiva rispetto alla gra­vità della crisi in atto, che coin­volge il sistema poli­tico nel suo com­plesso e i rap­porti tra i diversi poteri.
Come può, ad esem­pio, non con­si­de­rarsi il ruolo deci­sivo che ha eser­ci­tato il Governo in Par­la­mento, il quale ha con­tri­buito in modo deter­mi­nante a far appro­vare emen­da­menti ete­ro­ge­nei nel corso dell’iter di con­ver­sione del decreto, appo­nendo per­sino la fidu­cia all’ultima vota­zione; per poi fare una rapida mar­cia indie­tro, lasciando solo il Par­la­mento, unico desti­na­ta­rio delle repri­mende del capo dello stato.

Dovremmo tutti pre­oc­cu­parci dello stato in cui versa il nostro Par­la­mento, da esso dipen­dono le sorti della nostra demo­cra­zia. Dinanzi a tanta con­fu­sione l’accusa delle disfun­zioni non basta. Sarebbe auspi­ca­bile che qual­cuno si ergesse a difen­sore dell’istituzione par­la­men­tare e richia­masse anche gli altri poteri al rispetto della cen­tra­lità dell’organo della rap­pre­sen­tanza politica

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