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Alcune delle ragioni per cui è necessario votare per il Consiglio d'Europa, per mandarci qualcuno il quale non solo sappia che cosa è un Parlamento, ma anche «non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno».

La Repubblica, 13 febbraio 2014

Sulle condizioni di vita dei cittadini europei, già afflitti dalle politiche di austerità, incombono altri rischi presenti in alcuni trattati che la Ue si accinge a varare o sono appena entrati in vigore. Riguardano i salari pubblici e privati; i diritti del lavoro; le politiche sociali; lo stato della sanità pubblica; il sistema previdenziale; la sicurezza alimentare; infine la possibilità di una crisi economica ancora più grave dell’attuale. Le prossime elezioni europee offrono una importante occasione sia per cominciare finalmente a discutere in pubblico di tali rischi, sia per fermare un paio dei trattati ancora non sottoscritti perché su di essi il Parlamento europeo ha diritto di veto.

Un trattato che potrebbe venire subito bloccato da Strasburgo è quello sull’Unione bancaria. L’idea alla base era valida: impedire che in futuro l’eventuale dissesto di grandi banche private sia di nuovo caricato sul bilancio pubblico dello Stato in cui hanno sede, com’è avvenuto dal 2008 in poi. Ma la bozza varata nel dicembre scorso contiene gravi difetti. L’autorità per accertare se una banca è in difficoltà e avviare al caso una procedura di fallimento o amministrazione controllata (resolution) sarebbe affidata alla sola Bce. Il che da un lato attribuisce alla Bce un potere enorme, dall’altro lascia fuori dall’Unione bancaria il Regno unito, poiché non fa parte dell’Eurozona; il quale non solo è la maggior area finanziaria del continente, con tre banche sulle prime venti (Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland) che totalizzano 7 mila miliardi di dollari di attivi; è pure il Paese in cui nella primavera 2008, quindi prima ancora che in Usa, si verificarono i maggiori disastri bancari. Inoltre il meccanismo di risoluzione è complicatissimo, e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire. Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare - con calma, entro il 2026 - per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi.

Ma il difetto peggiore della bozza dell’Unione bancaria consiste nell’avallare l’idea che la crisi apertasi nel 2008 fosse dovuta a difetti di regolazionedel sistema bancario, piuttosto che a un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito. Sulla strada di questo trattato si profila al momento un grosso ostacolo. Infatti il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz, ha già dichiarato che lo considera un pessimo errore, per cui il Parlamento voterà no. Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni.

Un’altra minaccia pendente sulla testa degli europei è il Ttip (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti). La Ce ha tenuto centinaia di riunioni riservate con gli americani per varare un accordo che offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa, e a quelle europee di fare altrettanto in Usa. Basti pensare che gli Usa non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernentila libertà di associazione sindacale; il diritto a contratti collettivi in tema di salari; la parità di retribuzione uomodonna; il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica.

Se il Ttip fosse approvato, le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni. Le medesime società potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro; una legislazione che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana. Pertanto il Ttip è stato accusato da numerose Ong di essere un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario, e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire.

Contro la minaccia del Ttip si ergono fortunatamente degli oppositori di peso. Uno potrebbe essere di nuovo il Parlamento europeo, visto che questo ha già bocciato nel 2012 un progetto analogo che si chiamava Acta (Accordo commerciale contro la contraffazione). Esso avrebbe esteso grandemente la sorveglianza elettronica non solo sui siti web, ma perfino sui pc dei privati. Un altro oppositore è nientemeno che il Senato Usa, dove il leader della maggioranza demo-cratica, Harry Reid, pochi giorni fa ha respinto la richiesta del presidente Obama di aprire all’esame del Ttip (e di un trattato gemello con l’Asia) una “pista veloce”(fast track).

Ciò comporterà un cospicuo allungamento dei tempi per la discussione del Ttip, piaccia o no a Bruxelles.Poi c’è il Patto fiscale, che da quest’anno obbliga gli stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60 per cento del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1560 miliardi. Il debito si aggira sui 2060 miliardi, pari al 132 per cento del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario (la differenza tra le tasse che lo stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi). Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu? Naturalmente, ecco levarsi il ditino ammonitore degli esperti neoliberali: ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito/Pil. Certo, se il Pil crescesse in termini reali del 4 per cento l’anno, pari a oltre 62 miliardi nel 2014 e poi via a crescere, il Patto fiscale farebbe meno paura. Accade però che le previsioni più ottimistiche non vadano al di là dell’1 per cento o meno per molti anni a venire. Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto.

Le soluzioni potrebbero essere diverse, tra le quali chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito/Pil la colossale spesa per interessi. Ma in fondo il problema non è il suddetto rapporto. È l’idea che a forza di contrarre la spesa pubblica si arrivi a ripagare il debito. Grazie a tale idea perversa, lo stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il Paese in una spirale inarrestabile di deflazione. In altre parole, l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna. Sarebbe un grande tema da sottoporre al più presto a una discussione pubblica, insieme agli altri indicati sopra, e adattissimo per l’agenda del Parlamento europeo; a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno.

E’ inutile offendersi per le parolacce degli altri se ogni volta che mettiamo piede nella politica La Repubblica, 12 febbraio 2014 La Repubblica, 12 febbraio 2014
SIAMO scesi proprio in basso, se un vicesegretario di Stato americano, Victoria Nuland, programma la caduta del governo ucraino con il proprio ambasciatore a Kiev e parlando dell’Unione dice, con l’arroganza d’un capo-mandamento a caccia di zone d’influenza: «Che l’Europa si fotta! » («...and you know, fuck the EU»). Già c’era stata, in ottobre, la storia avvilente di Angela Merkel spiata da Washington, tramite controllo del cellulare. Non un incidente di percorso, se pochi mesi dopo l’Europa è declassata così radicalmente dal lessico della Nuland, perché sospettata di troppa prudenza sul regime change ai propri confini.

Simile degenerazione è tuttavia un utile momento di verità. La risposta meno feconda è quella di chi, sgomento, s’offende per le male parole. Lo scontro come momento di verità, di svolta, obbliga invece gli Europei a guardare se stessi, l’occhio non fisso sull’America ma sulle proprie azioni e omissioni che spiegano tanto precipizio. Li costringe a scoprire l’inconsistenza, la vista corta, il grande inganno d’una presenza il più delle volte fittizia nel mondo, ignara delle sue mutazioni, fatta spesso solo di retorica, al rimorchio di un’America sempre più nazionalista, che non riconosce leggi sopra le proprie.

Il dopo-guerra fredda ci lascia in perenne stato d’impotenza, stupore e dipendenza. In questo mondo che cambia non siamo entrati, né come Stati e ancor meno come Unione che agisce in proprio. Non abbiamo una politica estera nemmeno per quanto riguarda la nostra area di frontiera - l’«estero vicino», come viene chiamato in Russia - né a Est della Polonia né a Sud nel Mediterraneo. E quando vogliamo esser presenti, come in Ucraina, applichiamo senza molto pensarci gli schemi neocoloniali adottati nel dopo guerra fredda. Crediamo di pesare se sappiamo imporre cambi di regime: un’esercitazione quasi fine a se stessa, completamente disinteressata alla storia dei paesi di cui pretendiamo occuparci. Appoggiamo questa o quella forza a noi vicina, e sistematicamente sbagliamo alleati. È già avvenuto in Iraq, Libia, Siria. Alberto Negri ha spiegato bene quest’incapacità congenita ad assumersi il rischio che consiste nel fare politica, dunque nell’imparare dai propri errori: «Un po’ di esercizio di memoria, magari tornando agli sviluppi tragici dei Balcani negli anni ’90, dovrebbe suggerire anche la situazione in Ucraina: l’Europa troppo spesso applaude incondizionatamente le rivolte popolari che hanno un sapore democratico e libertario per poi fare da spettatrice muta e inefficace davanti a sanguinosi sviluppi. Non è forse andata in questo modo anche in Siria?» ( Sole 24 ore, 25-1-14).

L’Ucraina è emblematica perché il modello sembra ripetersi. È lo schema del mondo diviso in mandamenti, appunto: in quartieri da accaparrare, e spartire fra capi-picciotti. Se la Nuland usa il linguaggio del padrino è perché in Ucraina va in cerca di clienti, affiliati. Con l’Europa entra in un rapporto di rivalità mimetica, imitativa: di competizione e dominio. La rivolta in sé degli ucraini l’incuriosisce poco, e per questo viene occultata la presenza nei tumulti di destre estreme e neonaziste (il partito Svoboda e il gruppo Pravi Sektor, «Settore di destra»). Importante è mettere proprie bandierine sul tecnocrate ed ex banchiere centrale Arseniy Yatsenyuk, nel caso americano. Su Vitali Klitschko, ex campione di pugilato e capo di Alleanza Democratica per la Riforma nel caso dell’Unione. Fottiti Europa vuol dire che c’è lotta per la conquista di clientes.

Che un intero paese è visto, dagli uni e dagli altri, come cosa nostra. Questa politica neocoloniale, l’Europa la conduce senza metterci né soldi, né intelligenza politica. Ci mette la propria superiorità morale: cioè parole soltanto, anche se belle. Se la prende con la Russia ignorando due cose. Primo: la russofobia di parte del movimento proeuropeo non è diretta contro Mosca o Putin, ma contro gli ucraini di origine russa (22% della popolazione, soprattutto a Est e in Crimea). Secondo: se il paese è lacerato tra Mosca e Bruxelles è perché l’Unione s’è fatta meno attraente. Per gli ucraini — autoctoni e russi — ridotti alla miseria, non è indifferente il prestito annunciato da Putin (15 miliardi di dollari) né la promessa di forniture di energia a costi bassi.

Siamo di fronte a due colonialismi, con la differenza che quello europeo offre poca sostanza e molta ideologia. In realtà non è l’Unione a entrare nel rapporto di rivalità mimetica con Washington. Chi si è attivata è innanzitutto la Merkel, che ha interessi sia partitici sia geopolitici nel proprio retroterra. Accade così che ogni staterello dell’Unione ha il proprio particulare da difendere, e questo rafforza ancor più la convinzione Usa che l’Europa sia un pupazzo, da «fregare» senza farsi scrupoli.

Nel nostro piccolo, noi italiani non siamo da meno e addirittura diventiamo esemplari, come dimostra il caso dei marò processati in India. Sono due anni che Roma insiste per farli tornare a casa: è quasi l’unica nostra attività di politica estera, e anche in questo caso manca qualsiasi strategia politica, che tenga conto del mondo in mutazione e dell’importanza che ha oggi l’India. La giustizia indiana - è vero - sembra messa peggio della nostra. L’accusa di terrorismo è brandita con fini interni. Ma le responsabilità vanno chiarite, e anche qui offendersi e sgomentarsi è vano. Anche qui manca una valutazione fredda della realtà indiana, e di quel che è successo nei mari del Kerala.
Solo nascoste in rete - nel sito Wu Ming - troviamo vere documentazioni sulla vicenda dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre: due militari utilizzati dal nazionalismo indiano, ma che hanno pur sempre causato la morte, il 15 febbraio 2012, di due pescatori indiani inermi (hanno anch’essi un nome: Valentine Jalastine e Ajish Binki). È sperabile che la giustizia indiana non li condanni - se colpevoli - a pene pesanti (sulla condanna a morte esiste un veto dell’Unione) ma non ha senso continuare a chiamarli eroi nazionali. È comprensibile la convinzione di Napolitano, anche se da verificare, secondo cui l’affare è stato «gestito in modi contraddittori e sconcertanti» dall’India: l’accusa di terrorismo, se mantenuta, non tiene.
È assai meno comprensibile la promessa che ha fatto telefonicamente ai due fucilieri: «Tornerete (in Italia) con onore». Perché con onore, prima di conoscere il verdetto indiano e le motivazioni di un’eventuale condanna? Può darsi che i marò rientrino in Italia. Non è detto che vi tornino con onore, fino a che non abbiamo prove decisive su quanto accaduto il giorno dell’uccisione dei pescatori indiani. È quello che ha scritto Ferdinando Camon su La Stampa (Perché i marò non hanno un video?, 5 febbraio): i marinai colpiti dai fucilieri sostengono che gli è piovuta addosso una gragnuola di colpi senza preavviso, l’emissario italiano Staffan de Mistura ha ammesso in una tv indiana che «i nostri hanno sparato in acqua, ma purtroppo alcuni colpi sono andati nella direzione sbagliata». Fondatamente Camon sostiene che avrebbero dovuto sparare in aria, cioè a vuoto, se si voleva solo preavvertire: «I colpi orizzontali non sai mai dove finiscono». Non esistono infine video probanti, che certifichino la tesi dell’innocenza. Citiamo il caso dei marò per dire che la politica estera sta divenendo in Europa questione di visibilità partitiche. Giustamente il giornalista Matteo Miavaldi, che vive in Bengala, è caporedattore del sito China Files e ha indagato per Wu Ming i dettagli della storia dei marò, ricorda che le destre di La Russa o Gasparri usano l’affare per propagare risentimenti nazionalisti. In queste condizioni non stupiamoci più di tanto, se d’un tratto s’alza in piedi un vicesegretario di Stato americano per scaraventarci addosso parole oscene.
Sorie di Palazzo che, ove non si conoscevano, si intuivano. Le domande che si aprono sono numerose. la più inquietante è la seguente: se non fossero stati la magistratura o i "complotti", chi avrebbe detronizzato il Caimano?

Il manifesto, 11 febbraio 2014
Sarà anche «fumo, sol­tanto fumo», come scrive, con toni di fredda irri­ta­zione, il pre­si­dente Napo­li­tano nella let­tera di rispo­sta inviata ieri al Cor­riere della Sera. Ma è un fumo denso con un effetto forte e diretto sul brac­cio di ferro in corso per il cam­bio della guar­dia a palazzo Chigi. Un fumo che accre­sce il senso di sof­fo­ca­mento per la con­di­zione di estrema opa­cità che avvolge i palazzi romani alla vigi­lia dell’iter par­la­men­tare di una riforma isti­tu­zio­nale e di una nuova legge elettorale.

Nono­stante a monte del botta e rispo­sta tra via Sol­fe­rino e il Qui­ri­nale ci sia solo un lungo arti­colo del gior­na­li­sta Alan Fried­man che riper­corre i pas­saggi cru­ciali del 2011, quando Ber­lu­sconi fu dimis­sio­nato e Monti pro­mosso da pro­fes­sore della Boc­coni a sena­tore a vita e pre­si­dente del con­si­glio, tut­ta­via aver rie­vo­cato quel momento di estrema fibril­la­zione poli­tica è bastato a far sof­fiare sul debole fuoco dell’impea­ch­ment, acceso dal Movimento5Stelle, anche gli uomini di Forza Ita­lia. In fin dei conti, i ber­lu­sco­niani sono gli unici a poter riven­di­care di aver soste­nuto la stru­men­ta­lità del pas­sag­gio di con­se­gne tra il Ber­lu­sconi deca­dente (anche se all’epoca non ancora deca­duto) e il Monti astro nascente di un rina­sci­mento ita­liano eva­po­rato nello spa­zio di qual­che mese. Gli unici anche se poi si accon­cia­rono a votare il governo Monti.

Tutti gli altri attori di quell’eccezionale momento politico-istituzionale, com­preso il Cor­riere che oggi ne rie­voca i momenti salienti come si trat­tasse di un cla­mo­roso scoop, accol­sero quella scelta del Capo dello Stato, sul filo della Costi­tu­zione e della demo­cra­zia par­la­men­tare, come una salu­tare ini­zia­tiva. Addi­tando chi ne stig­ma­tiz­zava la rot­tura con la prassi demo­cra­tica di un pas­sag­gio elet­to­rale, come irri­du­ci­bile gua­sta­tore, come incu­ra­bile oppo­si­tore di un tra­ghet­ta­mento indo­lore al post-berlusconismo.

Solo che adesso, quando siamo a un altro snodo politico-istituzionale, a un’altra mano­vra di palazzo nel pas­sag­gio di con­se­gne tra un Letta uscente e un Renzi entrante, quando assi­stiamo a un mas­sic­cio spo­sta­mento di poteri (da Con­fin­du­stria in giù) con­tro l’attuale pre­si­dente del con­si­glio, il Qui­ri­nale si ritrova arbi­tro della par­tita, di nuovo chia­mato a evi­tare la con­sul­ta­zione elet­to­rale per mano­vrare una vir­tuale crisi di governo. Con l’aggravante di aver già stres­sato l’assetto isti­tu­zio­nale con un rad­dop­pio del set­ten­nato, e di essere den­tro una mischia poli­tica con una pro­ce­dura di impea­ch­ment che comun­que potrebbe arri­vare a un voto par­la­men­tare. E non si vede quale dia­volo potrebbe for­nir­gli il coper­chio giu­sto per chiu­dere il vaso di pan­dora della poli­tica italiana.

Riprendiamo dal nostro archivio e ripubblichiamo uno scritto sulla strumentale deformazione storica delle "foibe", stoltamente ripresa quest'anno dal presidente Mattarella. È un'intervista di Tommaso di Francesco, fuori dal coro dei nazionalisti nostrani dalla memoria dimezzata.

Il manifesto, 9 febbraio 2014

«Certo che biso­gna tor­nare sulle foibe, ogni volta, ogni anno». A dieci anni esatti dall’istituzione del Giorno del Ricordo (il 10 feb­braio), il bilan­cio di Pre­drag Mat­ve­je­vic è ancora una volta cri­tico e insi­ste a «ricor­dare tutti i ricordi». Nel 2004 un’iniziativa revi­sio­ni­sta sto­rica della destra post-fascista, rici­clata e diven­tata di governo ed elet­to­ral­mente can­di­da­bile gra­zie a Sil­vio Ber­lu­sconi, portò a buon fine la sua bat­ta­glia nega­zio­ni­sta del pas­sato di cri­mini ita­liani nell’ex Jugo­sla­via. Cen­trando l’obiettivo di ridurre la pro­spet­tiva all’ultimo, infau­sto periodo, delle respon­sa­bi­lità slave. A que­sto punto di vista tutto l’arco costi­tu­zio­nale s’inchinò. Favo­rendo negli anni pro­cessi cosid­detti cul­tu­rali — fic­tion, ceri­mo­nie, opere tea­trali — di rimo­zione della verità sto­rica. Su que­sto abbiamo voluto ancora una volta ascol­tare per i let­tori del mani­fe­sto il grande scrit­tore dell’asilo e dell’esilio, l’autore di Bre­via­rio medi­ter­ra­neo — per citare solo una delle sue opere — che ama ancora defi­nirsi jugo­slavo. «A pro­po­sito di sto­ria, che ver­go­gna che qui, in Croa­zia, la Chiesa che ha così gravi respon­sa­bi­lità nella con­ni­venza con il nazi­fa­sci­smo e con l’ideologia usta­scia, abbia pra­ti­ca­mente diser­tato due set­ti­mane fa le cele­bra­zioni del Giorno della Memo­ria» ci dichiara subito Pre­drag Marvejevic.

Sono pas­sati dieci anni dall’istituzione di que­sta Gior­nata da parte delle isti­tu­zioni ita­liane, che ha sem­pre visto la pro­te­sta dei nostri sto­rici demo­cra­tici. Che bilan­cio va fatto?

Intanto che non biso­gna smet­tere di rac­con­tare la verità. André Gide diceva: «Biso­gna ripetere…nessuno ascolta». Ognuno, soprat­tutto in que­sta epoca sem­bra chiuso nella pro­pria sor­dità. Il bilan­cio non è posi­tivo, se a cele­brare il Giorno della memo­ria alla Risiera di San Sabba, il lager nazi­sta al con­fine tra due popoli, accor­rono anche post-fascisti abili a can­cel­lare i cri­mini del fasci­smo ita­liano nelle terre slave. E ogni anno abbon­dano fic­tion e rap­pre­sen­ta­zioni che invece di rac­con­tare il pathos col­let­tivo che riguarda almeno due popoli, ridu­cono tutto, nella forma e nei con­te­nuti, alla sola tra­ge­dia delle vit­time ita­liane. Ho scritto sulle vit­time delle foibe anni fa in ex Jugo­sla­via, quando se ne par­lava poco in Ita­lia. Ero cri­ti­cato. Ho avuto modo di soste­nere gli esuli ita­liani dell’Istria e della Dal­ma­zia (detti “eso­dati”). L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via “fra asilo ed esi­lio”. Con­ti­nuo anche ora che sono ritor­nato a Zaga­bria. Con­di­vido il cor­do­glio ita­liano, nazio­nale e umano, per le vit­time inno­centi. Cre­devo comun­que che le pole­mi­che su que­sta tra­ge­dia, spesso uni­la­te­rali e ten­den­ziose, fos­sero finite. Invece si ripe­tono ogni anno, sem­pre più strumentalizzate.

C’è qual­che epi­so­dio par­ti­co­lare di stru­men­ta­liz­za­zione che ricorda?

Voglio ricor­dare il caso del 2008 dello scrit­tore di con­fine, il grande Boris Pahor. Ecco uno scrit­tore che ha fatto della cora­lità del dolore la sua mate­ria, e infatti ha rac­con­tato la tra­ge­dia dei cri­mini com­messi dai fasci­sti in terra slava e il lascito di odio rima­sto. Di fronte all’onorificenza che gli offriva il pre­si­dente della repub­blica Gior­gio Napo­li­tano, insorse dichia­rando che avrebbe detto no, l’avrebbe rifiu­tata, se dalla pre­si­denza ita­liana non arri­vava una chiara presa di posi­zione con­tro i silenzi sugli eccidi per­pe­trati da Mussolini.

Che cosa fu in realtà il cri­mine delle Foibe?

Sì, le foibe sono un cri­mine grave. Sì, la stra­grande mag­gio­ranza di que­ste vit­time furono pro­prio gli ita­liani. Ma per la dignità di un dolore corale biso­gna dire che que­sto delitto è stato pre­pa­rato e anti­ci­pato anche da altri, che non sono sem­pre meno col­pe­voli degli ese­cu­tori dell’ “infoi­ba­mento”. La tra­gica vicenda è infatti comin­ciata prima, non lon­tano dai luo­ghi dove sono stati poi com­piuti quei cri­mini atroci. Il 20 set­tem­bre 1920 Mus­so­lini tiene un discorso a Pola (non certo casuale la scelta della loca­lità). E dichiara: «Per rea­liz­zare il sogno medi­ter­ra­neo biso­gna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, infe­riore e bar­bara». Ecco come entra in scena il raz­zi­smo, accom­pa­gnato dalla “puli­zia etnica”. Gli slavi per­dono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, ave­vano, di ser­virsi della loro lin­gua nella scuola e sulla stampa, il diritto della pre­dica in chiesa e per­sino quello della scritta sulla lapide nei cimi­teri. Si cam­biano mas­sic­cia­mente i loro nomi, si can­cel­lano le ori­gini, si emi­gra… Ed è appunto in un con­te­sto del genere che si sente pro­nun­ciare, forse per la prima volta, la minac­cia della “foiba”. È il mini­stro fasci­sta dei Lavori pub­blici Giu­seppe Caboldi Gigli, che si era affib­biato da solo il nome vit­to­rioso di “Giu­lio Ita­lico”, a scri­vere già nel 1927: «La musa istriana ha chia­mato Foiba degno posto di sepol­tura per chi nella pro­vin­cia d’Istria minac­cia le carat­te­ri­sti­che nazio­nali dell’Istria» (da “Gerar­chia”, IX, 1927). Affer­ma­zione alla quale lo stesso mini­stro aggiun­gerà anche i versi di una can­zo­netta dia­let­tale già in giro: «A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin», che ha fatto bene a ricor­dare su il mani­fe­sto nei giorni scorsi Gia­como Scotti nel suo sag­gio. Le foibe sono dun­que un’invenzione fasci­sta. E dalla teo­ria si è pas­sati alla pra­tica. L’ebreo Raf­faello Came­rini, che si tro­vava ai “lavori coatti” in que­sta zona durante la seconda guerra mon­diale ha testi­mo­niato nel gior­nale trie­stino Il Pic­colo (5. XI. 2001): «Sono stati i fasci­sti, i primi che hanno sco­perto le foibe ove far spa­rire i loro avver­sari». La vicenda «con esito letale per tutti» che rac­conta que­sto testi­mone, cit­ta­dino ita­liano, fa venire brividi.

Come è vis­suto il Giorno del Ricordo nell’ex Jugo­sla­via, quali “ricordi” reali va a risvegliare?

La sto­ria (con la S maiu­scola) potrebbe aggiun­gere alcuni altri dati poco cono­sciuti in Ita­lia. Uno dei peg­giori cri­mi­nali dei Bal­cani è cer­ta­mente il duce (pogla­v­nik) degli usta­scia croati Ante Pave­lic. E il campo di Jase­no­vac è stato una Ausch­witz in for­mato ridotto, con la dif­fe­renza che lì il lavoro mici­diale veniva fatto “a mano”, men­tre i nazi­sti lo face­vano in modo “indu­striale”. Aggiun­giamo che quello stesso cri­mi­nale Pave­lic con la scorta dei suoi più abietti seguaci, poté godere negli anni trenta dell’ospitalità mus­so­li­niana a Lipari, dove rice­ve­vano aiuto e corsi di adde­stra­mento dai più rodati squa­dri­sti. Le “cami­cie nere” hanno ese­guito nume­rose fuci­la­zioni di massa e di sin­goli indi­vi­dui. Tutta una gio­ventù ne rimase fal­ciata in Dal­ma­zia, in Slo­ve­nia, in Mon­te­ne­gro. A ciò biso­gna aggiun­gere una catena di campi di con­cen­tra­mento, di varia dimen­sione, dall’isoletta di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. Spesso si tran­si­tava in que­sti luo­ghi per rag­giun­gere la risiera di San Sabba a Trie­ste e, in certi casi, si finiva anche ad Ausch­witz e soprat­tutto a Dachau. I par­ti­giani non erano pro­tetti in nes­sun paese dalla Con­ven­zione di Gine­vra e per­tanto i pri­gio­nieri veni­vano imme­dia­ta­mente ster­mi­nati come cani. E così molti giun­sero alla fine delle guerra acca­niti: “infoi­ba­rono” gli inno­centi, non solo d’origine ita­liana. Sin­gole per­sone esa­cer­bate, di quelle che ave­vano per­duto la fami­glia e la casa, i fra­telli e i com­pa­gni, ese­gui­rono i cri­mini in prima per­sona e per pro­prio conto. La Jugo­sla­via di Tito non voleva che se ne par­lasse. Abbiamo comun­que cer­cato di par­larne. Pur­troppo, oggi ne par­lano a loro modo soprat­tutto i nostri ultra-nazionalisti, una spe­cie di “neo-missini” slavi. Ho sem­pre pen­sato che non biso­gne­rebbe costruire i futuri rap­porti in que­sta zona sui cada­veri semi­nati dagli uni e dagli altri, bensì su altre espe­rienze. Ad esem­pio cul­tu­rali… Per que­sto auspico la pro­cla­ma­zione con­giunta de “Il giorno dei ricordi”. E que­sto mi sem­bra il nuovo inten­di­mento che emerge e per i quale dob­biamo batterci.

Riferimenti

Rinviamo all'ampia documentazione raccolta in eddyburg nella cartella Italiani brava gente, e in particolare agli articoli degli storici Enzo Collotti (11 febbraio 2007), Giacomo Scotti (13 febbraio 2007), Claudia Cernigol (27 febbraio 2005) e dai giornalisti Simonetta Fiori (3 maggio 2005) e Corrado Staiano (4 febbraio 2005). Nell'immagine bambini jugoslavi internati dai fascisti italiani nel campo di Arbe

Il valore è prodotto dal lavoro del lavoratore, scriveva Adam Smith ne "La ricchezza delle nazioni". Una rilettura più che utile oggi. S

bilanciamoci.info, 7 febbraio 2014

«Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o salario, del lavoro. Nella situazione originaria che precede sia l'appropriazione della terra sia l'accumulazione dei capitali, tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, che non ha né proprietario fondiario né padrone con cui spartirlo. Se questa situazione fosse durata, i salari del lavoro sarebbero aumentati insieme ai progressi delle capacità cui dà luogo la divisione del lavoro» .

Questo scriveva Smith (Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, 1776, ed. ital. Isedi, pag.65), per sottolineare che il valore è prodotto dal lavoro del lavoratore e basta. Ma poi, o subito, sono arrivati il proprietario fondiario e il padrone che si sono appropriati di buona parte della ricchezza prodotta dal lavoro del lavoratore, imponendo un sottosalario padronale.
Insomma anche il saggio Adam Smith era un po' comunista. E, nell'attuale stato di grave crisi dell'economia mondiale, bisognerebbe denunziare i danni prodotti da rendita e profitto e tornare a mettere in evidenza la lotta di classe, che oggi vede prevalere quelli che non lavorano e non producono.

«Di quale caduta Grillo è sintomo? Di un immane dislocamento tellurico nelle democrazie odierne, che sposta i poteri dagli Stati verso entità incontrollate. Non solo verso l’Europa ancora flebile, ma verso la finanza-mondo e mercati senza regole».

La Repubblica, 5 febbraio 2014
SON molti a turbarsi, e con ragione, per le offese del Movimento 5 Stelle ai rappresentanti dello Stato. Per la misoginia che colpisce il Presidente della Camera, per il «boia» gridato al Capo dello Stato. Per i libri bruciati in immagine di Corrado Augias, accusato di troppa e incongrua violenza critica. Ma forse è venuto il momento di analizzare quel che sta sotto la pentola di tanto caos. Di capire la fiamma che la surriscalda. Grillo infatti non è la causa del caos. Ne è il prodromo, il sintomo. Se non esaminiamo questi sottosuoli resteremo coi nostri sentimenti: di tristezza, di nudità politica. Alla ferita non sapremo dare un nome, continueremo a pescare solo nel passato. Sintomo, ricordiamolo, significa anche caduta, e comunque la segnala.

Di che cosa, di quale caduta Grillo è sintomo? Di un immane dislocamento tellurico nelle democrazie odierne, che sposta i poteri dagli Stati verso entità incontrollate. Non solo verso l’Europa ancora flebile, ma verso la finanza-mondo e mercati senza regole. La crisi scoppiata nel 2007 ha acuito questo sisma enormemente. Le democrazie ne sono travolte: specie quelle guastate da corruzione, cleptocrazia, mafie con cui occultamente si patteggia. Proprio in questi giorni un rapporto della Commissione Ue ci accusa. Il costo della nostra corruzione è di 60 miliardi l’anno: 4% del pil, metà del costo della corruzione in Europa. Ma ovunque le democrazie degenerano, come spiega Guido Rossi sul Sole 24 Ore: l’effetto inevitabile delle disuguaglianze legate alla crisi «è la svalutazione del potere legislativo e la riduzione degli Stati a semplici mediatori.(...) La più evidente conclusione rivela l’impotenza di ogni singolo Stato di risolvere una crisi sregolata da un disordine di globalizzazione a mosaico, che porta le singole imprese o gli individui a operare un Jurisdiction Shopping ». È un fenomeno accertabile a occhio nudo. In alcuni paesi - Grecia, Portogallo, Cipro, Irlanda - chi oggi guida le scelte economiche è la trojka (Banca centrale europea, Commissione, Fondo monetario).

Princìpi costituzionali decisivi sono ovunque scavalcati. La Germania riesce a custodirli, ma isolandosi senza splendore. Altri paesi, colpevolizzati, sacrificano costituzioni e parlamenti in omaggio diretto o indiretto alle trojke. Nell’aprile 2013 la Corte costituzionale portoghese respinse quattro misure di austerità che violavano il principio di uguaglianza, e Bruxelles la tacitò. Le stesse elezioni son considerate un irritante. Scandalosa fu giudicata, nell’ottobre 2011, la volontà dell’ex premier greco Papandreou di indire un referendum sulle discipline della trojka. Così in Italia. Scopo primario della nuova legge elettorale è la governabilità, ripetono Pd, Berlusconi, Letta. Ma la governabilità «mortifica gravemente la rappresentanza», ha ricordato domenica Eugenio Scalfari.

In questo quadro si colloca la rivolta di 5 Stelle contro la ghigliottina cui è ricorsa Laura Boldrini. Anche se biecamente insultata, è lecito criticarla per aver decapitato il dibattito sul decreto Imu-Bankitalia. Il taglio operato dalla lama è un ennesimo segno del sisma: i parlamenti sono d’ingombro, e negati. Memorabili le parole di Mario Mauro (ministro della Difesa, destra di Alfano) giorni fa a Porta a Porta: «Questa legge elettorale non è contro i piccoli, ma contro un grande partito che oggi rappresenta l’impostazione tripolare del paese. È nata per far fuori Grillo », dunque l’opposizione.

Per questo è così importante che al caos risponda una politica non solo sentimentale, e non solo nazionale. L’alternativa è il predominio di interessi settoriali, anche se globali, radicalmente estranei alla nozione, cruciale in Europa, di bene pubblico. Il continente s’è unito nel dopoguerra proprio per creare uno spazio che consentisse agli Stati di salvare i loro patrimoni democratici, e anzi di potenziarli. Europa federale vuol dire assunzione di regole, stato di diritto. Il commercio, la finanza transnazionale, la moneta: impossibile governarli se l’Europa non ha una politica estera, e una democrazia piena. Altrimenti non è unione ma comitato d’affari e di lobby. Che questa sia la posta in gioco è dimostrato dal negoziato euro-americano sul nuovo Trattato commerciale transatlantico (Ttip): discusso segretamente da ristrette cerchie di esperti della Commissione Ue e del Ministero del Commercio Usa, senza partecipazione democratica. Stupisce che il Movimento di Grillo, sensibile da anni alla globalizzazione, dedichi al tema poca energia. Anch’egli pare concentrarsi sui sintomi della crisi, più che sulla crisi. Eppure, i pericoli del Trattato sono molteplici: quel che si cerca, è la completa libertà delle multinazionali di agire scavalcando le regole e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia.
Queste regole son viste come «generatrici di problemi», «irritanti commerciali» ( trade irritants) dovuti a indebite interferenze del pubblico. Vanno aggirate da comitati e corti ad hoc (ecco lo shopping giuridico citato da Rossi). La tassa sulle transazioni finanziarie, esecrata da Usa e Fondo monetario, è tra i principali «irritanti». La minaccia che incombe è una sorta di Ilva globale, economica e democratica: prima viene la produttività, poi la salute dei cittadini; prima la governabilità, poi la rappresentatività e la dialettica governi-opposizioni. I fautori più settari del Trattato Europa-Usa vogliono imporre «l’eliminazione, la riduzione, la prevenzione di politiche nazionali superflue», scrive un loro documento. Superflue sono le leggi, le Costituzioni, la regolazione della finanza, la lotta per il clima.
Tutto questo in nome di un Progresso che arricchisce pochi e impoverisce i più. Che polverizza norme nate da anni di buona politica comunitaria. Opporre l’Europa a tali sviluppi significa tuttavia cambiarla alle radici: rinvigorire la sua rappresentanza democratica, darle più risorse (un bilancio in crescita, dunque poteri impositivi) per vincere la depressione con un New Deal dell’Unione. E significa rinvigorire la rappresentanza negli Stati, visto che tutti sono chiamati a trovare risposte: maggioranze, minoranze, governi, parlamenti. Tale dev’essere il nuovo patto costituzionale, non solo in Italia. Grillo lo sa. Nei suoi sette punti europei ci sono, oltre al referendum sull’uscita dall’euro, esigenze condivise da molti: no al pareggio di bilancio nella costituzione, sottrazione degli investimenti dal calcolo del debito pubblico, eurobond, finanziamento di agricolture biologiche, politiche comuni tra i paesi del Mediterraneo. Gli euroscettici inquietano, ma come non essere scettici di fronte a un’Unione che dovesse sacrificare le regole, il diritto, e i più poveri che quel diritto protegge!
Al momento dominano i conservatori, ma il futuro è in mano anche a chi chiede un Piano Marshall per l’Europa, come il leader della sinistra greca Alexis Tsipras. Nel 2012 lo Spiegel lo definì eversore, ma per l’Unione è lievito. E di lievito abbiamo bisogno, perché riviva quel che disse Roosevelt nel ’32: «I nostri leader repubblicani ci parlano di leggi economiche - sacre, inviolabili, immutabili - che causano situazioni di panico che nessuno può prevenire. Ma mentre essi blaterano di leggi economiche, uomini e donne muoiono di fame. Dobbiamo essere coscienti del fatto che le leggi economiche non sono state fatte dalla natura. Sono state fatte da esseri umani. Quando - e non se - ne avremo la possibilità, il governo prenderà la guida per debellare la depressione». Se vogliamo «rompere il circolo vizioso» della sola austerity e coinvolgere meglio i cittadini nelle scelte, come ha detto Napolitano ieri a Strasburgo, l’Europa dovrebbe prendere la guida allo stesso modo.

«Il cor­to­cir­cuito tra tv e rete è il campo di bat­ta­glia in cui si svolge que­sta guerra tra lobby in lotta per la con­qui­sta del con­senso. Da una parte la stra­te­gia di Grillo e Casa­leg­gio che pia­ni­fi­cano la loro mac­china da guerra met­tendo in rete la pro­vo­ca­zione ses­si­sta . Dall’altra la tele­vi­sione che risponde met­tendo a dispo­si­zione delle “isti­tu­zioni” i pro­grammi di prima serata».

Il manifesto, 4 febbraio 2014
In un paese abi­tuato a tra­durre il dramma in farsa, la vio­lenta bagarre par­la­men­tare dei 5Stelle, tra­sfor­mata da Grillo in un lin­ciag­gio ses­si­sta con­tro la pre­si­dente della Camera, è diven­tata una ridi­cola rissa dome­ni­cale da talk-show. Tanto più grot­te­sca per­ché arric­chita da una tem­pe­stiva dichia­ra­zione del pre­si­dente del con­si­glio, che pure sape­vamo occu­pa­tis­simo negli Emi­rati per tro­vare un ade­guato acqui­rente della nostra com­pa­gnia di bandiera.

Nono­stante i pres­santi impe­gni inter­na­zio­nali, le dure cri­ti­che di Con­fin­du­stria, il disa­stro del paese sott’acqua, la botta dell’Unione euro­pea con­tro la deva­stante cor­ru­zione, Enrico Letta non ha voluto farci man­care la sua opi­nione sullo scon­tro tra Daria Bignardi, la con­dut­trice del pro­gramma “Le inva­sioni bar­ba­ri­che” (titolo per­fetto), e un ex con­cor­rente del “Grande Fra­tello” (all’epoca ani­mato pro­prio da Bignardi) oggi diven­tato un dipen­dente dell’ufficio stampa dei gruppi par­la­men­tari pen­ta­stel­lati. «E’ scan­da­loso - attacca il pre­si­dente del con­si­glio men­tre ha accanto l’ignaro Sheikh Moha­med bin Zayed Al Nahyan - e non posso non com­men­tare le frasi folli di Grillo verso Daria Bignardi e suo marito».

In sin­tesi è acca­duto che la con­dut­trice abbia ini­ziato l’intervista al par­la­men­tare gril­lino, Di Bat­ti­sta, chie­den­do­gli dei tra­scorsi fasci­sti del padre. Per tutta rispo­sta, l’ex con­cor­rente del “Grande Fra­tello” le ha scritto una let­tera aperta sul Blog di Grillo chie­den­dole come si sen­ti­rebbe lei se un inter­vi­sta­tore le chie­desse che effetto fa aver spo­sato il figlio di un assas­sino (il marito di Bignardi è Luca Sofri, figlio di Adriano). Come si vede siamo finiti nel sot­to­scala del dibat­tito poli­tico, den­tro quel taf­fe­ru­glio media­tico che ha avve­le­nato da gran tempo l’habitat cul­tu­rale nella disa­strosa era ber­lu­sco­niana. E chi, tra i pro­ta­go­ni­sti della tele­no­vela, è senza pec­cato sca­gli pure la prima pietra.

Il cor­to­cir­cuito tra tv e rete è il campo di bat­ta­glia in cui si svolge que­sta guerra tra lobby in lotta per la con­qui­sta del con­senso. Da una parte la stra­te­gia di Grillo e Casa­leg­gio che pia­ni­fi­cano la loro macchina da guerra met­tendo in rete la pro­vo­ca­zione ses­si­sta per testarne l’effetto, pro­pa­garlo in tele­visione e riti­rarlo quando ha avve­le­nato l’aria. Dall’altra la tele­vi­sione che risponde met­tendo a dispo­si­zione delle “isti­tu­zioni” i pro­grammi di prima serata (Laura Bol­drini a Rai­tre da Fazio, a La7 prima Di Bat­ti­sta e subito dopo, a mo’ di con­tro­canto, il giornalista-scrittore Cor­rado Augias, ieri sera chia­mato anche a “Ottoe­mezzo”), per stig­ma­tiz­zare i gril­lini come fascisti-eversori. Da una parte un nichi­li­smo par­la­men­tare fatto appo­sta per non otte­nere alcun risul­tato con­creto che smen­ti­rebbe l’inaffidabilità del par­la­mento. Dall’altra i rap­pre­sen­tanti delle ammac­cate e tra­bal­lanti isti­tu­zioni che hanno buon gioco a mesco­lare insieme il vero fasci­smo (l’incitamento allo stu­pro), con le forme cri­ti­ca­bili, estreme di un’opposizione fasulla.

Lo spet­ta­colo è assi­cu­rato, il tele­cit­ta­dino è intrap­po­lato, pronto per il pros­simo son­dag­gio elettorale.

«L’economia non riesce a stare al passo con la promessa della democrazia. Il problema è che, ora, anche la politica sembra voler seguire le orme dell’economia e cessare di preoccuparsi di quella promessa».

La Repubblica, 4 febbraio 2014

Una democrazia dei due terzi: è questa la rappresentazione della società che proviene dai dati resi noti da Bankitalia. Si tratta di una conferma dello stato della diseguaglianza socio-economica, che non solo non tende a correggersi, ma si riafferma come caratteristica endogena, un male cronico. L’economia non riesce a stare al passo con la promessa della democrazia. Il problema è che, ora, anche la politica sembra voler seguire le orme dell’economia e cessare di preoccuparsi di quella promessa; anch’essa è sempre meno inclusiva e sempre più preoccupata a rappresentare i molti, non tutti o quanti più è possibile. Avere voce forte è un prerequisito per contare ed essere contati, e le procedure sono sempre più disposte a riflettere questo fatto invece di correggerlo.

È ragionevole tentare un parallelo tra lo squilibrio economico e la fisionomia della democrazia? La domanda è retorica, poiché l’opinione pubblica ha la percezione di questo parallelo, anche se lo stato della ricerca che valga a confermarlo è ancora in fieri. Ci sono tuttavia buoni indizi per tentare una triangolazione tra la crescita della diseguaglianza e della povertà, il restringimento della partecipazione elettorale, e l’inclusività delle regole del gioco. Il massiccio parlare di democrazia, l’ideologia che la vuole come la migliore forma di governo, e la sua solitudine planetaria si accompagnano paradossalmente a una crescita di indifferenza verso la politica e di sfiducia nelle sue attuali procedure di decisione. Rivedere le regole è a un tempo un riflesso e un esito di questa società più diseguale e divisa.

I dati di Bankitalia confermano del resto un trend ventennale che parla di un progressivo peggioramento del reddito familiare medio e di un allargamento della forbice tra chi può (poco o molto) e chi non può (poveri relativi, impoveriti e a rischio di povertà). Il trend è questo: crescita della concentrazione dei redditi e della povertà. I poveri o coloro che non riescono a far fronte ai bisogni minimi sono circa il 14 percento (con punte del 25 percento nel Mezzogiorno); i bilanci delle famiglie sono distribuiti in maniera corrispondente: il 10 percento delle famiglie più ricche possiede quasi la metà della ricchezza netta totale mentre è raddoppiata in quattro anni la fascia di coloro che sono caduti in povertà. Dati che confermano il dubbio: la ricchezza è concentrata nel 64 percento della popolazione; ovvero, per semplificare al rialzo, poco più di due terzi dentro, gli altri fuori.

Benché la correlazione tra diseguaglianza economica e stato della democrazia sia costruita su ipotesi (ma scienziati sociali stanno dovunque lavorando per comprovarla con dati certi), viene spontaneo il dubbio che l’andamento della forbice sociale abbia ricadute più o meno dirette sulla politica. Non è un caso del resto che la partecipazione elettorale abbia subito un declino progressivo negli ultimi due decenni, quasi a seguire la traiettoria dell’eguaglianza economica: alle recenti consultazioni politiche hanno votato circa il 75 percento alla Camera e 70 percento al Senato, cifre che rispecchiano quelle relative al numero delle persone nelle mani delle quali sta la ricchezza. Difficile stabilire una corrispondenza diretta; sufficiente avere squadernata davanti agli occhi la similitudine tra questi due dati.

Dati empirici di alcuni decenni provano che il sistema politico è “usato” o praticato più da chi si posiziona meglio nella società. Ciò non significa, ovviamente, che la democrazia sia “posseduta” da chi la pratica, dagli inclusi o dai meglio rappresentati. Starsene a casa, restare indifferenti alla politica o non avere la propria voce rappresentata non comporta perdere nulla in termini di diritti e uguaglianza legale. Tuttavia si dovrebbe essere allarmati per il deprezzamento della democrazia da parte di una fetta sempre più larga di cittadini, tra l’altro confermato da dati recenti, che parlano di delusi del funzionamento delle istituzioni e di desiderio di governi forti, con pochi esperti e poche sigle partitiche. Forbice tra le classi, forbice tra gli elettori, forbice tra cittadini e politici: una società divisa, con pesi sociali sempre meno proporzionati, e una tendenza alla registrazione ineguale della voce dei cittadini. Una fisionomia sfigurata che mostra il paradosso del trionfo della forma democratica di governo proprio mentre si assiste a un effettivo restringimento del valore inclusivo delle sue istituzioni.

Razzismo, grillismo, populismo, In Italia e altrove. «Nel corso del XX secolo l’idea e la prassi della democrazia hanno fatto passi avanti, ma restano fragili, e dovrebbero essere costantemente ripensate, rinnovate, reinventate. Questa è oggi la posta in gioco decisiva».

La Repubblica, 4 febbraio 2014

In parallelo, indipendentemente da Beppe Grillo e dai suoi, si moltiplicano le manifestazioni e gli attacchi razzisti contro la ministra Cécile Kyenge. Molti commentatori guardano con preoccupazione a questi fatti, e c’è chi vi scorge un segnale premonitore della rinascita del fascismo. Va detto però che l’Italia non detiene il triste privilegio di questa sindrome inquietante.

Al di là delle Alpi assistiamo a una radicalizzazione delle proteste di piazza. Il 2 febbraio, gli oppositori della legge che autorizza il matrimonio di coppie dello stesso sesso hanno sfilato pacificamente in difesa della famiglia tradizionale; ma già una settimana prima, domenica 26 gennaio, le vie di Parigi avevano assistito a un evento senza precedenti: una manifestazione antigovernativa intitolata “Giorno della collera”, che ha radunato una folla eterogenea di cattolici integralisti, reazionari dichiarati, militanti di estrema destra, amici del comico antisemita Dieudonné, ma anche simpatizzanti dell’ultrasinistra. I manifestanti, non paghi di attaccare il presidente della Repubblica, hanno contestato la sua legittimità, e nella capitale francese, per la prima volta in modo così massiccio dalla fine della seconda guerra mondiale, sono risuonati slogan esplicitamente antisemiti. Di fatto, gli atti e gli insulti razzisti si stanno moltiplicando in ogni direzione: nei confronti di ebrei e musulmani, o contro la ministra della Giustizia Christiane Taubira, francese della Guyana.

Si tratta di eventi diversi che certo non possono essere assimilati tra loro. Lo stesso Movimento 5 Stelle ad esempio presenta una forte ambivalenza ideologica e politica, con un misto di temi della sinistra classica sul piano sociale e di quella postindustriale sulle questioni dell’ambiente e dell’acqua, mentre rivendica una forma diversa di democrazia, benché guidato da un leader quasi onnipotente. E al tempo stesso è combattuto - fenomeno classico per questo tipo di movimenti - tra una funzione di canalizzazione della protesta, legata alla sua stessa accettazione del principio elettorale, e la volontà di rimanere un outsider che infrange le regole, sopprime i tabù e ostenta permanentemente la propria diversità, rifiutando di essere considerato un partito come gli altri.

In Francia, i movimenti di piazza sfuggono per il momento a ogni rappresentanza politica. Il partito dell’ex presidente Sarkozy, l’Ump (Union pour un Mouvement Populaire) ha condannato la manifestazione del 26 gennaio, ma è diviso sull’atteggiamento da adottare nei confronti dei difensori intransigenti della famiglia tradizionale. Martine Le Pen, che in vista di conquistare il potere si è impegnata in una strategia di responsabilizzazione, dà prova di grande prudenza a fronte di queste mobilitazioni.

Ma al di là delle differenze, indubbiamente il clima che si è instaurato, in Italia come in Francia, è pesante. Ormai non si tratta più del sempiterno allarme per l’ascesa dei populismi in Europa. Quello che vediamo potrebbe essere l’inizio di una disgregazione generalizzata dei fondamenti stessi delle nostre società democratiche.

Questa dinamica si spiega con la congiunzione sempre più esplosiva di diversi fattori: l’insufficiente crescita economica e le sue conseguenze sociali - in particolare l’alto livello di disoccupazione e le crescenti disuguaglianze - alimentano le tensioni, il ripiegamento, la diffidenza generalizzata, la ricerca di capri espiatori: gli immigrati, gli ebrei, ma anche l’Europa, che a molti appare al tempo stesso lontana e intrusiva, poco democratica e oramai incapace di assicurare prosperità e protezione. Le istituzioni - parlamentari in Italia, semi-presidenziali in Francia - girano a vuoto; l’astensionismo e il discredito dei partiti guadagnano terreno, e col disinteresse per la cosa pubblica cresce l’attesa del leader forte - l’uomo della Provvidenza. Le classi dirigenti - politica, economica, sociale, culturale, intellettuale - sono delegittimate, contestate, talvolta odiate.

Davanti a questo quadro cupo, è il caso di parlare di un ritorno agli anni Venti e Trenta del secolo scorso? A mente fredda, dobbiamo ricordare che la Storia non si ripete, anche se balbetta. Nel corso del XX secolo l’idea e la prassi della democrazia hanno fatto passi avanti, ma restano fragili, e dovrebbero essere costantemente ripensate, rinnovate, reinventate. Questa è oggi la posta in gioco decisiva. La soluzione non verrà soltanto dalla “società civile”, ritenuta per sua natura buona e virtuosa, benché percorsa da orientamenti contraddittori; dipenderà anche dai responsabili politici, economici, sociali e culturali. Spetta a loro adottare comportamenti esemplari, promulgare riforme di vasta portata nei rispettivi Paesi e in Europa, elaborare un progetto, ricostruire una narrativa mobilitante. Nella speranza che non sia troppo tardi.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Si può dire che la stampa di destra ha stru­men­ta­liz­zato il caso (magari per striz­zare l’occhiolino a un deter­mi­nato elet­to­rato)? (…)Si può dire che la legge voluta tanto dal mini­stro La Russa è stata pro­mul­gata incom­pleta, come spesso capita, senza linee di guida di ingag­gio spe­ci­fi­che e soprat­tutto chiare? I due marò non pagano ora que­sta appros­si­ma­zione per non par­lare di presappochismo?

Ci voleva una grande mente per imma­gi­nare che un inci­dente pri­vato con per­so­nale mili­tare a bordo avrebbe potuto tra­sfor­marsi in una crisi tra governi? Si può dire che non ho sen­tito par­lare di pro­ce­dure acu­sti­che o mano­vre elu­sive o dis­sua­sive prima di pas­sare alle armi? Si può far notare che in quelle acque non sono mai avve­nuti attac­chi di pira­te­ria? Il capi­tano della Enrica Lexie è un civile, risponde al suo arma­tore ed infatti è tor­nato in porto asse­con­dando le auto­rità indiane. Un corto cir­cuito inevitabile.

E la pro­ce­dura non pre­vede di fare imme­dia­ta­mente rap­porto alle auto­rità in caso di attacco pirata, cosa che mi pare non sia avve­nuta? Per­ché i due marò appena scesi a terra hanno prima soste­nuto di non essere stati loro e poi di essere stati loro ma in acque inter­na­zio­nali? Si può som­mes­sa­mente far notare che le vit­time sono i due poveri pesca­tori indiani che per un pugno di rupie erano usciti in mare mai imma­gi­nando di non tor­nare vivi?

Si può dire che un’obbiettivo di assol­dare «per­so­nale spe­cia­liz­zato» non è solo ridurre al minimo il rischio d’assalto alle navi ma anche tagliare i costi assi­cu­ra­tivi sem­pre più esosi? Si può dire che per la Marina mili­tare per ogni giorno di imbarco per marò incassa 500 euro ed è un’entrata dif­fi­cile da rifiu­tare? Si può dire che l’Italia è l’unico Paese ad aver rego­lato un uso così esteso di forze armate su mer­can­tili pri­vati (gra­zie Sil­vio)? Si può sot­to­li­neare che i due marò non hanno mai pas­sato un solo giorno nelle spa­ven­tose car­ceri indiane? Si può dire che i due marò non godono di immu­nità fun­zio­nale in quanto mili­tari per­ché non lavo­ra­vano per conto dello Stato ma di una com­pa­gnia pri­vata? E che tutto sarebbe stato facil­mente chia­rito se i nostri due mili­tari aves­sero ripreso tutto con un fil­mato? ultimo ma non minore… in que­sto pastic­cio inter­na­zio­nale quanto costa la nostra povera rile­vanza nazio­nale e scarsa cre­di­bi­lità politica

Una notizia (dalla stampa locale) e un commento non veneziano scritto per

eddyburg, 3 febbraio 2014. con postilla veneziana

La notizia

ROMA - «Abbiamo preso l'impegno di esplorare l'opportunità di costruire un museo islamico a Venezia nel Canale grande». Lo ha detto il presidente del consiglio Enrico Letta in conferenza stampa da Doha, aggiungendo di aver «discusso di questa opportunità, dobbiamo vedere e fare una valutazione profonda di questo progetto». (la Nuova Venezia, 3 febbraio 2014)

Il commento

di Andrea Costa
Conferenza stampa, assaiilluminante quella del Premier Letta.
Il viaggio in Quatar,emirato assolutista e teocratico, principale alleato degli Stati Uniti nelladestabilizzazione mediterranea (maggiore finanziatore e sostenitore deiFratelli Musulmani in Egitto, Turchia, "primavera"libica etc.), è assai istruttivo sul ruolo ritagliato all'Italianello scacchiere internazionale. Uno staterello "cuscinetto" dalpotenziale industriale assai ridimensionato e dalla sovranità ancor piùridotta, in prima linea nelle prossime guerre volte a scongiurare irifornimenti energetici europei dalla Russia di Putin, in favore delgasdotto South Stream, oggetto dell'alleanza USA-estremismoislamico.

L'ingresso deifondi del Quatar (soci in affari internazionali degli StatiUniti) nelle aziende strategiche italiane ne è l'indispensabilepremessa e condizione, con tutti i corollari che ne conseguiranno ma conun importante antefatto. Dopo aver salvato le decotte imprese automobilistichedi Detroit (con buona parte degli aiuti economici italiani ricevuti in questilustri) dietro importanti pressioni del Dipartimento di Stato americano e delPresidente Obama (altro che liberistici divieti di ingerenze nell'economia!),la Fiat lascia resistibilmente l'Italia, risucchiata in una fusione perincorporazione dove, caso inedito, la parte da padrone la fa il debitore"risanato".

Sembra dunque chiaro comenon solo più per le politiche economiche, ma anche in politica estera, il"pilota automatico" profetizzato da Mario Draghi, l'unicoeuropeo giunto alla vicepresidenza della Goldman Sachs e con dirittodi accesso e confidenze coi Soprasistemi di sicurezza USA, sia l'esclusivamodalità "eterodirezionata" di governo del nostro Paese.

Non poteva mancarel'immancabile regalìa culturale e simbolica, in piena continuità conl'utilizzo disinvolto del nostro patrimonio artistico per"solennizzare" accordi di politica estera. Letta nipote, haproclamato napoleonicamente la nascita di un "museo islamico sulcanal Grande" a Venezia. Dubito che il Sindaco di Venezia ne sappiaqualcosa. Non è un problema: con il pilota automatico pensano a tutto loro.Basta solo allacciare le cinture e godersi il viaggio. Le archistarsono già in subbuglio: Vuoi che dopo aver perduto l'itifallicograttacielo griffato Cardin...Venezia rimanga al riparo dallecommesse internazionali? Sono anche avvertiti i direttori di tuttele più prestigiose biblioteche di Stato italiane, in primis quellaMarciana e dei musei "d'arte orientale": Il Ministero nonha una lira e le collezioni costano...scommettiamo che qualcuno penserà bene diandare a piluccare qua e là per lo stivale, oggetti e antichi codici del nostropatrimonio nazionale?

Non dubito che il sindaco di Venezia, come i suoi immediati precursori, sarà entusiasta dell'idea geniale del geniale premier.

Una lettura giornalistica (e come al solito ricca di punti fermi) delle trasformazioni avvenute nell' Italia degli ultimi decenni: appena al di là della superficie ma non priva di elementi d'interesse.

La Repubblica, 3 febbraio 2014, con postilla

DALLE grandi fabbriche delle metropoli del Nord si è spostato nelle piccole aziende del Nordest — e dell’Italia centrale. Giuseppe De Rita, con il suo linguaggio immaginifico, negli anni Novanta, aveva definito questa tendenza: “cetomedizzazione”. Un processo antropologico, oltre (e più) che socioeconomico. Si spiega attraverso «l’innalzamento di coloro i quali erano alla base della piramide e lo scivolamento di una parte della vecchia elite». In altri termini, a partire dagli anni Ottanta, si è assistito al declino della borghesia urbana e industriale, peraltro, in Italia, tradizionalmente debole. E al parallelo affermarsi di una piccola borghesia, diffusa nel mondo delle piccole imprese e del lavoro autonomo. Distante e ostile rispetto allo Stato e alla politica. Educata ai valori della competizione individuale e, meglio ancora, dell’individualismo possessivo, per citare Macpherson. Questa realtà socio-economica si è trovata, a lungo, sprovvista di rappresentanza.

Non gliela potevano, certamente, dare i partiti di massa della Prima Repubblica, DC e PCI. Integrati nello Stato e nel sistema pubblico. Nelle reti comunitarie del territorio. Nel sistema assistenziale. La “cetomedizzazione” ha, invece, trovato risposta dapprima nella Lega Nord. Nata e cresciuta, appunto, lungo la linea pedemontana, dove, fin dagli anni Ottanta, si è affermato lo sviluppo di piccola impresa. Sul solco della Lega e nel vuoto di rappresentanza lasciato dai partiti della Prima Repubblica si è proiettato, Silvio Berlusconi. Che ha offerto ai ceti-medi: volto, linguaggio. Identità. Berlusconi: l’Imprenditore in politica. Che fa politica. Al posto dei politici di professione. Contro di loro. Trasforma la politica in marketing. Il partito in impresa. La propria impresa in partito. Berlusconi: ha dato rappresentanza alla neo-borghesia, con basi e radici nel Lombardo-Veneto. Condividendo la “missione” della Lega. Anche se, alla fine, ha garantito soprattutto se stesso e i propri interessi. Berlusconi: ha trasformato il ceto medio nella “società media”, il “pubblico” con cui comunicare e a cui fornire identità attraverso i media. Mentre gran parte degli italiani confluiva nell’ampio e indistinto bacino dei “ceti medi”. Ancora nel 2006 quasi il 60% della popolazione (indagine Demos-Coop) si auto-collocava tra i ceti medi. Il 28% nelle classi popolari (i ceti medio-bassi). Il 12% nelle classi più elevate. L’Italia media aveva radici profonde impiantate nel Nord e basi solide tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti (questi ultimi, però, posizionati più in alto). Anche il 60% degli operai, allora, si sentiva “ceto medio”.

Poi è arrivata la crisi. Economica e politica. Ha scosso, con violenza, le basi del ceto medio. Ne ha indebolito la condizione e, al tempo stesso, il sentimento, l’auto-considerazione. Ne ha accentuato il senso di vulnerabilità. Lo stesso, d’altronde, è avvenuto altrove. Anche negli USA, come mostrano le indagini di PEW Research Center, la quota di coloro che si identificano fra i ceti medi dal 53% nel 2008 cala al 44% nel 2014. Poco più di quanti si (auto) posizionano nei ceti più bassi: 40%. Quasi il doppio rispetto al 2008. Anche e forse soprattutto per questo motivo Obama ha promosso il suo piano di incentivi all’occupazione e all’economia. Tra cui l’innalzamento delle retribuzioni minime di alcune categorie di dipendenti federali. Per alimentare i consumi, ma anche per contrastare il senso di deprivazione relativa che spinge verso il basso le aspettative di mobilità sociale. In Italia, però, questo processo è avvenuto in modo molto più rapido e sostanziale. L’ascensore sociale, in pochi anni, si è inceppato. E oggi la maggioranza assoluta degli italiani ritiene di essere discesa ai piani più bassi della gerarchia sociale (Sondaggio Demos- Fond. Unipolis). Coloro che si sentono “ceti medi” sono, infatti, una minoranza, per quanto ampia. Poco più del 40%. Così, l’Italia non è più cetomedizzata. È un Paese dove le distanze sociali appaiono in rapida crescita. Tanto che l’85% della popolazione (sondaggio Demos-Fond. Unipolis) oggi ritiene che “le differenze fra chi ha poco e molto siano aumentate”.

Non è un caso che questa dinamica abbia coinvolto, in modo particolarmente intenso, le basi e il terreno originario della neoborghesia. I lavoratori autonomi: meno del 40% di essi si considera “ceto medio”. Oltre il 50%, invece, si percepisce di classe medio-bassa. La stesse misure si osservano nel Nord. La cui distanza sociale, rispetto al Mezzogiorno, sotto questo profilo, appare molto ridotta. Anzi, il peso di coloro che si auto-posizionano in fondo alla scala sociale, nel Nordest (55%) — “patria” della neo-borghesia autonoma — è superiore rispetto al Sud (53%). Gli operai, infine, sono tornati al loro posto. In fondo alla scala sociale (63%). È il declino dell’Italia media e cetomedizzata. Segna il brusco risveglio dal “sogno italiano” interpretato dal berlusconismo. Poter diventare tutti padroni (almeno, di se stessi). Ciascuno nel proprio piccolo (o nel proprio grande). Mentre le questioni territoriali sembrano svanire. E si sente parlare sempre meno della Questione Settentrionale, ma anche di quella Meridionale. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, si afferma una forza politica, i cui consensi sono distribuiti in modo omogeneo in tutto il territorio italiano. Alimentati e unificati dalla sfiducia verso lo Stato e verso la politica. E dalla delusione sociale. Non è un caso che, tra le principali forze politiche, il M5s sia quella dove si osserva la maggiore quota di elettori che si identificano con i ceti più bassi (quasi il 60%) e, per contro, la minore quota di chi si sente ceto medio (39%).

Il declino del ceto medio lascia un Paese senza sogni, incapace di sognare. Dove le distanze sociali hanno ripreso a crescere, mentre il territorio affonda nelle nebbie. Soprattutto il Nordest, capitale della neoborghesia autonoma. Il declino del ceto medio, in Italia, definisce — e impone — una questione “nazionale” che nessuna riforma elettorale potrà risolvere.

Postilla.

Pur nella superficialità giornalistica dell’analisi emergono due dati interessanti a proposito di quel coacervo di ceti sociali che si collocano tra i proprietari e gestori del capitale e quelli della loro forza lavoro: il mitico “ceto medio”. Il primo: mentre nei paesi del Terzo mondo il ceto medio aumenta, la società diventa più complessa, cresce la popolazione che si avvicina al benessere, in Italia accade il contrario. Il secondo. Nel nostro paese (e forse nell’insieme del Primo mondo) la previsione marxiana della crescente pauperizzazione dei gruppi sociali intermedi tra le classi dei capitalisi e dei proletari tende ad avverarsi.

Centinaia di attivisti da tutta Europa riscrivono la nuova Carta dei diritti del migrante, fondata sull'uomo non sulle cose. Dal cuore caldo della società un'iniziativa per affrontare un tema - quella delle nuove forme dello sfruttamento dei popoli - oggi cruciale nella guerra mondiale per il destino di noi tutti.

Il manifesto, 2 febbraio 2014

Sull’isola butta vento di libec­cio. Le onde schiu­mano alte e i tra­ghetti sono rima­sti al sicuro, attrac­cati alle ban­chine di Porto Empe­do­cle. Molti han dovuto abban­do­nare le spe­ranza di rag­giun­gere l’isola. Eppure sono in tanti, qui, gli atti­vi­sti venuti a scri­vere la Carta di Lam­pe­dusa, per dise­gnare dal basso una nuova geo­gra­fia dei diritti. Tanti che, in tutta l’isola, non hanno tro­vato una sala suf­fi­cien­te­mente capiente per con­te­nere tutti i pre­senti, e hanno dovuto così chie­dere lo spa­zio della sala con­fe­renze interna allao scalo aeroportuale.

Solo venerdì, durante la riu­nione intro­dut­tiva dei lavori, i par­te­ci­panti regi­strati erano oltre tre­cento. Que­sto primo incon­tro ha for­nito una impor­tante occa­sione di con­fronto con gli abi­tanti desi­de­rosi di rac­con­tare la vita di chi è costretto a vivere una vita in cui tutto si tra­sforma in emer­genza. L’intervento della sin­daca, Giusi Nico­lini, di cui rac­con­tiamo a lato, è stato seguito da quelli dei rap­pre­sen­tanti degli impren­di­tori e di alcune asso­cia­zioni locali.

«La gente di Lam­pe­dusa non ne può più di tutti quei poli­tici che ven­gono qui a far pas­se­rella: pro­mette mari e monti e poi se ne va, abban­do­nan­doci in un mare di pro­blemi — con­fessa Angelo Man­drac­chia, por­ta­voce degli impren­di­tori -. Il vostro approc­cio però è diverso. Non pre­ten­dete di inse­gnarci come fare acco­glienza. Non pro­met­tete niente. Cri­ti­cate que­ste poli­ti­che migra­to­rie che sca­ri­cano tutto il pro­blema sulle pic­cole comu­nità di fron­tiera. E noi di Lam­pe­dusa siamo i primi a poter dire, come dite voi e pro­prio per­ché lo abbiamo con­sta­tato sulla nostra pelle, che que­ste scia­gu­rate poli­ti­che migra­to­rie sono inu­tili, costose e scon­fitte in par­tenza. Non pos­siamo fare a meno di doman­darci ogni giorno, cosa potremmo rea­liz­zare con tutti i milioni di euro che spen­dono per mili­ta­riz­zare l’isola, se fos­sero invece inve­stiti per una vera acco­glienza e per miglio­rare le con­di­zioni di vita degli abi­tanti. Lo sa lei che basta qual­che set­ti­mana di mal­tempo per lasciarci tutti senza frutta, senza ver­dura e anche senza gas?».

La straor­di­na­ria par­te­ci­pa­zione con la quale i lam­pe­du­sani hanno accolto gli atti­vi­sti sbar­cati nella loro isola da tutta Ita­lia oltre che da tanti altri Paesi d’Europa e del Nor­da­frica, è pro­prio la prima nota da sot­to­li­neare. Le ini­ziali dif­fi­denze sono state supe­rate in tanti incon­tri nelle scuole, nella sede del Comune e, non da ultimo, ai tavo­lini dei bar e delle pastic­ce­rie. Un con­fronto utile per capire come Lam­pe­dusa stia vivendo que­sta sua alta­le­nante e schi­zo­fre­nica con­di­zione di isola caserma e di isola dell’accoglienza allo stesso tempo. Per­ché la bella Lam­pe­dusa è prima di tutto una caserma a cielo aperto e la pre­senza mili­tare in città è a dir poco asfis­siante. Le strada prin­ci­pale che attra­versa il paese, la pedo­nale via Roma, è con­ti­nua­mente attra­ver­sata in senso per­pen­di­co­lare da camio­nette e da blin­dati dei cara­bi­nieri. Sui muri, si con­tano a decine e decine i car­tel­loni con la scritta «Zona mili­tare. Vie­tato l’accesso». E poi eli­cot­teri, mili­tari in assetto da guerra, guar­die di finanza, poli­zia di fron­tiera. Impos­si­bile anche foto­gra­fare il «cimi­tero» dei relitti, quanto resta cioè dei bar­coni che tra­spor­ta­vano i pro­fu­ghi, che ha subito qual­che giorno fa un ten­ta­tivo di incen­dio da parte di ignoti. L’area è pre­si­diata da mili­tari che allon­ta­nano i curiosi. E se spie­ghi che sei un gior­na­li­sta ti rispon­dono: «Pro­prio per questo».

Ieri invece è stato il giorno della scrit­tura della Carta, ini­ziata in una sala sem­pre più stretta che non ha smesso di riem­pirsi per tutta la mat­ti­nata e che fati­cava a con­te­nere tutti. Punto su punto, sono stati discussi e redatti nella loro forma defi­ni­tiva tutti i capi­toli che costi­tui­ranno la Carta di Lam­pe­dusa e sui quali, vale la pena ricor­darlo, è stato svolto nei mesi pre­ce­denti un grande lavoro di scrit­tura col­let­tiva sul web. Una lunga e fati­cosa gior­nata di discus­sioni e di aggiu­sta­menti, tanto per chi for­niva il suo con­tri­buto alla ste­sura del docu­mento che dei tanti atti­vi­sti impe­gnati sul fronte della comu­ni­ca­zione per aggior­nare blog, siti e social net­work. Anche per­ché, le realtà pre­senti erano dav­vero tante. Ed è pro­prio que­sto il secondo punto da evi­den­ziare. La grande mobi­li­ta­zione crea­tasi attorno all’appello lan­ciato dal Pro­getto Mel­ting Pot Europa. Asso­cia­zioni, ita­liane ma anche euro­pee e nor­da­fri­cane, lai­che e cat­to­li­che, movi­menti, sin­da­cati, media indi­pen­denti, sin­goli cit­ta­dini ma anche inviati di ammi­ni­stra­zioni comu­nali , pra­ti­ca­mente l’arcipelago anti­raz­zi­sta che ruota intorno ad un Euro­me­di­ter­ra­neo dise­gnato sulle «fron­tiere» della libera circolazione.

«La ste­sura della Carta è stata un lavoro col­let­tivo ecce­zio­nale — ha con­cluso Nicola Gri­gion di Mel­ting Pot -. Il testo che è un vero e pro­prio patto tra tanti e diversi, ma allo stesso tempo una dichia­ra­zione pro­gram­ma­tica, frutto di uno forzo di con­di­vi­sione che è già di per sé un fatto poli­tico impor­tan­tis­simo. Ora ci aspet­tano mesi di lotte e cam­pa­gne da con­durre, a par­tire da quelle per la chiu­sura dei cen­tri di deten­zione. Ma anche un periodo in cui affron­tare le poli­ti­che che l’Europa ha costruito nel Medi­ter­rano. Per rove­sciarle. Una sfida che non pos­siamo per­met­terci di perdere

Ecco come andare avanti per costituire, almeno per le elezioni europee, una lista di sinistra anche in Italia. Lo propongono Bar­bara Spi­nelli, Andrea Camil­leri, Luciano Gal­lino, Paolo Flo­res d’Arcais, Marco Revelli, Guido Viale.

Eddyburg aderisce. Il manifesto, 1 febbraio 2014
Vogliamo rin­gra­ziare tutte e tutti coloro che hanno fir­mato l’appello per una lista di cit­ta­di­nanza uni­ta­ria e apar­ti­tica che pro­muova la can­di­da­tura di Ale­xis Tsi­pras a Pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea alle pros­sime ele­zioni euro­pee. Gra­zie al vostro impe­gno abbiamo supe­rato le 14.000 firme in meno di nove giorni, nono­stante il silen­zio della stampa e dei media. Tut­ta­via le ade­sioni rac­colte (tra cui nomi della cul­tura, della scienza, dell’arte, del gior­na­li­smo e dello spet­ta­colo) sono una goc­cia nel mare delle elet­trici e degli elet­tori che vogliamo e dob­biamo rag­giun­gere. Non inten­diamo infatti rivol­gerci solo all’elettorato della sini­stra cosid­detta radi­cale, ma molto al di là. A quanti non votano più per­ché delusi o disgu­stati dalla poli­tica uffi­ciale o, non vedendo più l’utilità dell’Europa, con­se­gnano il pro­prio destino agli attuali «equilibri».

A chiha votato Pd con­tro­vo­glia, per­ché in asso­luto disac­cordo con l’accettazione supina dei trat­tati euro­pei che ci con­dan­nano all’austerità e alla rovina. A chi ha votato Cin­que Stelle, mal­grado una lea­der­ship poten­zial­mente auto­ri­ta­ria e ondi­vaga, in assenza di una alter­na­tiva credibile.

Rico­no­scersi nella figura di Ale­xis Tsi­pras, che ha costruito una forza elet­to­rale mag­gio­ri­ta­ria non su tema­ti­che e appelli dema­go­gici anti­eu­ro­pei­sti, ma su un impe­gno con­creto a rine­go­ziare i trat­tati e il fun­zio­na­mento dell’Unione euro­pea, rende evi­dente la posta in gioco di que­ste ele­zioni: un dise­gno auten­ti­ca­mente euro­pei­sta, con­tro l’ipotesi della can­cel­liera Mer­kel e di Shulz di pie­gare l’Europa alla stessa logica della Grosse Koa­li­tion tedesca.

Per tutti noi che abbiamo ade­rito e per quelli che ade­ri­ranno a que­sto pro­getto le cose comin­ciano dun­que ora. È asso­lu­ta­mente neces­sa­rio orga­niz­zarci al più pre­sto, per­ché il tempo stringe e le cose da fare sono tan­tis­sime.

Dob­biamo dare un nome alla lista, defi­nirne ulte­rior­mente il pro­gramma, sce­gliere i can­di­dati, creare strut­ture ope­ra­tive e comi­tati di soste­gno nazio­nali e locali, rac­co­gliere entro il 14 aprile le firme neces­sa­rie alla pre­sen­ta­zione della lista (oltre 150.000; 30.000 per cia­scuna delle cin­que cir­co­scri­zioni e almeno 3.000 in ogni Regione, com­prese le più pic­cole, su moduli uffi­ciali che inclu­dano già il nome dei can­di­dati!), nomi­nare uno o più teso­rieri e rac­co­gliere i fondi per finan­ziare la cam­pa­gna elet­to­rale in maniera auto­noma e indipendente.

Abbiamo deciso la via della rac­colta delle firme, anzi­chè ten­tare di appog­giarci a qual­che forza pre­sente in Par­la­mento, per sot­to­li­neare l’autonomia della lista che con voi costrui­remo, e per­ché lo sforzo per la rac­colta delle firme rap­pre­senta un buon ini­zio della cam­pa­gna elettorale.

I sei pro­mo­tori saranno i garanti dei prin­cipi apar­ti­tici, demo­cra­tici, inclu­sivi e orien­tati a un fede­ra­li­smo che pro­muova il rin­no­va­mento radi­cale delle isti­tu­zioni dell’Unione euro­pea, scon­giu­rando così inter­fe­renze o ten­ta­tivi di appro­pria­zione del pro­getto che già in pas­sato hanno fatto fal­lire ana­lo­ghe ini­zia­tive, nate con intenti altret­tanto unitari.

Entro pochi giorni lan­ce­remo una con­sul­ta­zione on-line per deci­dere il nome della lista, alle­gando un invito al suo finan­zia­mento, e atti­ve­remo un comi­tato ope­ra­tivo, che potrà ampliarsi in seguito, secondo le esi­genze che emer­ge­ranno. Invie­remo una mail per for­nire a tutti le moda­lità per entrare in con­tatto con i fir­ma­tari della stessa zona e con loro avviare la costi­tu­zione di comi­tati pro­mo­tori locali, indi­cando al con­tempo refe­renti che fac­ciano da col­le­ga­mento con i garanti.

Alle asso­cia­zioni, comi­tati di lotta, club, orga­niz­za­zioni poli­ti­che, cul­tu­rali, civi­che e ambien­ta­li­ste, non­ché ai par­titi che inten­dono soste­nere il pro­getto man­te­nendo una loro auto­no­mia ope­ra­tiva, pro­po­niamo di asso­ciarsi a livello nazio­nale e a livello locale in uno o più comi­tati di soste­gno alla lista, secondo il modello adot­tato per il refe­ren­dum per l’acqua.

Nella lista, in coe­renza con il pro­gramma, potranno venir can­di­date per­sone, anche con appar­te­nenze par­ti­ti­che, che non abbiano avuto inca­ri­chi elet­tivi e respon­sa­bi­lità di rilievo in un par­tito nell’ultimo decen­nio; le pro­po­ste rela­tive alle can­di­da­ture dovranno essere pre­sen­tate entro e non oltre il 16 feb­braio, poi­ché il 22 dello stesso mese ini­zierà la rac­colta delle firme e per quella data i can­di­dati dovranno essere noti e in regola con le pra­ti­che di accet­ta­zione; saranno fis­sate regole rigide sulla con­du­zione della cam­pa­gna elet­to­rale, sta­bi­lendo che i fondi che ogni can­di­dato avesse even­tual­mente a pro­pria per­so­nale dispo­si­zione ven­gano divisi con il comi­tato ope­ra­tivo, in modo che le spese per­so­nali non supe­rino una per­cen­tuale fissa della spesa complessiva.

Il 24 di feb­braio ini­zierà la rac­colta delle 150.000 firme che rap­pre­senta il mag­giore sforzo a cui sarà sot­to­po­sta l’organizzazione che tutti insieme saremo riu­sciti a met­tere in piedi per quella data.

Quello che stiamo atti­vando tutti insieme è un pro­getto nuovo: nei sog­getti pro­mo­tori, nel per­corso, nelle moda­lità. Per que­sto richiede a cia­scuno la capa­cità di pen­sarsi den­tro un per­corso col­let­tivo e non in quanto inter­prete di istanze di parte. Que­sta è la dif­fi­coltà mag­giore e biso­gna esserne consapevoli.

Chi ha chie­sto il voto ai cit­ta­dini ita­liani per farsi eleg­gere in par­la­mento e in quel con­te­sto rap­pre­sen­tare l’opposizione deve sì rispet­tare il man­dato che ha rice­vuto, ma deve poi assu­mersi la respon­sa­bi­lità di osser­vare le regole di quella sede isti­tu­zio­nale e con­durre la pro­pria bat­ta­glia nelle forme con­sen­tite dalla demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva (com­preso natu­ral­mente un duro ostru­zio­ni­smo). Tanto più che pro­prio il gril­li­smo obbe­di­sce a una mania­cale atten­zione ai riti e alle forme (inter­net­tiane) con cui sce­gliere gli obiet­tivi dell’azione par­la­men­tare. Ma a che scopo se poi anzi­ché usare la forza dei numeri e la qua­lità degli argo­menti per creare alleanze e farsi motore di un’opposizione vin­cente, tutto si riduce (e si svi­li­sce) nella messa in scena di un po’ di gazzarra?

For­zare il gioco fino a tra­sfor­mare le aule par­la­men­tari in un sur­ro­gato della piazza signi­fica impic­carsi alle pro­prie dif­fi­coltà, rive­lando tutta l’ambiguità e le con­trad­di­zioni di un Movi­mento che poi, alla resa dei conti, obbe­di­sce alla linea pro­cla­mata da Grillo nei comizi: l’unica via è pren­dere la mag­gio­ranza asso­luta dei voti e poi gover­nare da soli. Niente di diverso dal ritor­nello che abbiamo sen­tito ripe­tere in tutti que­sti anni da Ber­lu­sconi: datemi i voti e lascia­temi fare. L’eterna pul­sione dell’uomo solo al comando. La stessa logica che oggi assume le sem­bianze del sin­daco di Firenze, osan­nato da gior­nali e tele­vi­sioni per il ras­si­cu­rante piglio decisionista.

Sal­tare sui ban­chi del governo, costrin­gere la pre­si­dente della camera a chiu­dere i pro­pri uffici per evi­tarne l’occupazione, lan­ciare insulti ses­si­sti con­tro le depu­tate del Pd, fino a usare l’arma estrema dell’impeachment verso il Pre­si­dente della Repub­blica, come si trat­tasse di scri­vere un volan­tino, tutto que­sto serve solo a con­qui­stare i cin­que minuti di cele­brità, offu­scando però la sostanza, il merito delle que­stioni poli­ti­che sol­le­vate. Che pure il M5Stelle ha por­tato nelle aule par­la­men­tari in molte occa­sioni. Per esem­pio sul caso Sha­la­bayeva, sull’acquisto degli F35, sulla truffa delle slot-machine, sul salva-Roma, sui casi Can­cel­lieri e De Giro­lamo, sull’articolo 138 della Costi­tu­zione.

Inten­dia­moci, nes­sun sacra­rio è stato vio­lato e chi parla di squa­dri­smo fasci­stoide gioca allo stesso gioco dei gril­lini. Senza nem­meno avere tutte le carte in regola per dare lezioni di demo­cra­zia, visto che solo l’uscita dal governo delle lar­ghe intese dei fal­chi ber­lu­sco­niani ha tolto di mezzo la pro­gram­mata mano­mis­sione della Costituzione.

Così quel che alla fine il ricco spet­ta­colo media­tico mette in evi­denza è la dif­fi­cile agi­bi­lità di una bat­ta­glia di oppo­si­zione sia nelle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive che nella società. Anche per­ché nelle aule del par­la­mento dei nomi­nati, i par­titi, sem­pre più comi­tati elet­to­rali, non rap­pre­sen­tano più da molti anni la voce del paese. Non vanno nelle scuole, nei luo­ghi di lavoro, nei quar­tieri. E le lotte gene­rose delle asso­cia­zioni, che invece ani­mano la demo­cra­zia di base, incon­trano solo il grande muro di gomma delle nomen­cla­ture che respin­gono il con­flitto o trat­tan­dolo dura­mente come un affare di ordine pub­blico, o facen­dolo gal­leg­giare in un perenne sur­place, in un eterno moto inerziale.

E que­sta sorda cam­pana suona per tutti, gril­lini compresi

L’odio degli straricchi e strapotenti è un buon segnale per i governanti che svolgono il loro compito nell’interesse del loro popolo, come diceva ieri Roosvelt e potrebbe dire oggi Obama. Ma nessun plutocrate odierà Enrico Letta o Matteo Renzi.

La Repubblica, 30 gennaio 2014

La crescente ineguaglianza ha costi economici evidenti: salari stagnanti malgrado produttività in aumento, debito che cresce e ci rende più esposti alla crisi finanziaria. Essa comporta però anche notevoli costi in termini sociali e umani: per esempio, è dimostrato che una grande ineguaglianza conduce a un peggioramento della sanità e a una mortalità più alta.

Ma c’è dell’altro. Si è scoperto che l’ineguaglianza estrema crea una categoria di persone distaccate in maniera inquietante dalla realtà, e al tempo stesso conferisce loro grande potere. L’esempio per il quale in questo periodo molti sono in subbuglio è quello dell’investitore miliardario Tom Perkins, socio fondatore di Kleiner Perkins Caufield & Byers, una società di investimento in capitali di rischio. In una lettera che ha indirizzato al direttore del Wall Street Journal, Perkins biasima le critiche ufficiali mosse nei confronti “dell’uno per cento” - i più abbienti della popolazione - , e le paragona alle aggressioni naziste contro gli ebrei, lasciando intendere che saremmo in dirittura d’arrivo per un’altra Notte dei Cristalli.

Si potrebbe affermare che si tratta soltanto di un altro pazzo tra tanti, e potremmo chiederci anche perché il Wall Street Journal pubblichi contenuti di questo genere. In realtà, Perkins non è un caso anomalo. Non è nemmeno il primo titano della finanza a mettere sullo stesso piano dei nazisti i sostenitori dell’imposizione fiscale progressiva. Già nel 2010 Stephen Schwarzman, presidente e direttore esecutivo del Blackstone Group, aveva dichiarato che le proposte volte a eliminare le scappatoie fiscali per i manager di hedge fund e private equity andavano equiparate «all’invasione da parte di Hitler della Polonia nel 1939».

Ci sono anche numerosi ricchi e potenti che sono riusciti a tener fuori Hitler dalle proprie considerazioni e nondimeno hanno ed esprimono con veemenza opinioni politiche ed economiche nelle quali paranoia e megalomania si mescolano in egual misura. So che quanto dico può sembrare esagerato, ma ascoltate tutti i discorsi e leggete gli articoli di opinione di chi si schiera con Wall Street e accusa il presidente Barack Obama - che non ha fatto nient’altro che dire cose scontate e ovvie, cioè che alcuni banchieri hanno agito male - di demonizzare i più abbienti e di accanirsi contro di loro. E guardate anche quanti di coloro che lanciano queste accuse hanno la pretesa, ridicola ed egocentrica, di affermare che proprio i loro sentimenti feriti (e non altre cose, come l’indebitamento delle famiglie e una precipitosa austerità fiscale) sono il principale fattore che frena l’economia.

Giusto per essere chiari: i più abbienti, e quelli di Wall Street in particolar modo, in effetti sotto Obama stanno peggio di quanto starebbero se nel 2012 avesse vinto Mitt Romney. Tra la parziale riduzione degli sgravi fiscali varati a suo tempo da Bush e l’aumento delle tasse che sovvenziona in parte la riforma sanitaria, le aliquote fiscali dell’uno per cento della popolazione sono tornate più o meno ai livelli pre-Reagan. Per di più, nel corso del 2012 i riformatori del sistema finanziario si sono aggiudicati alcune vittorie strabilianti, e questa è una cattiva notizia per i faccendieri la cui ricchezza proviene in buona parte dallo sfruttamento di una regolamentazione inefficace. In pratica, dunque, si può davvero sostenere che l’uno per cento della popolazione ha perso alcune importanti battaglie politiche.

Ogni gruppo, tuttavia, si trova prima o poi a dover far fronte alle critiche e nelle battaglie politiche finisce sul versante dei perdenti. Questa è la democrazia. La vera domanda da porsi è che cosa accadrà dopo. La gente normale affronta tutto ciò senza battere ciglio e, pur essendo arrabbiata o scontenta dai contrattempi della politica, non va sbraitando di essere perseguitata, non paragona chi la critica ai nazisti, non afferma con insistenza che il mondo ruota attorno ai suoi sentimenti feriti. I ricchi, però, sono diversi da voi e da me.

È vero, in parte sono diversi perché hanno più soldi e il potere che ai soldi sempre si accompagna. Possono circondarsi, e lo fanno fin troppo spesso, di cortigiani che dicono loro quello che vogliono sentirsi dire e che mai e poi mai direbbero loro che sono fatui. Sono abituati a essere trattati con deferenza non soltanto dai sottoposti che assumono, ma anche dai politici che desiderano ardentemente i loro contributi elettorali. Di conseguenza, quando scoprono che con i soldi non si compra tutto né ci si può tutelare da ogni avversità, restano sconvolti. Sospetto anche che gli odierni Padroni dell’Universo a questo punto nutrano perplessità perfino sulla natura del loro successo. Qui non stiamo parlando di capitani d’industria o di persone che fabbricano cose, ma di faccendieri, di persone che comandano a bacchetta e si arricchiscono occultando una parte del loro denaro al fisco. Possono anche vantarsi di creare posti di lavoro, di far girare l’economia, ma creano davvero valore aggiunto? Molti di noi ne dubitano, e così pure, presumo, alcuni dei ricconi stessi, con quella forma di insicurezza che porta a scatenarsi con furia ancora maggiore contro chi muove critiche nei loro confronti.

In ogni caso, queste sono cose che abbiamo già visto. È impossibile leggere sproloqui come quelli di Perkins o di Schwarzman senza che torni in mente il famoso discorso di Franklin D. Roosevelt del 1936 al Madison Square Garden quando, parlando dell’odio di cui era fatto oggetto da parte delle forze del «capitale organizzato», dichiarò: «E io do il benvenuto al loro odio».

Obama, purtroppo, non ha fatto niente di simile a quanto fece Roosevelt per guadagnarsi l’odio di ricchi immeritevoli. Nondimeno, ha fatto molto più di quanto molti progressisti sono disposti a riconoscergli e, come Roosevelt, sia lui sia i progressisti in generale dovrebbero dare il benvenuto a quell’odio, in quanto segno evidente che stanno facendo qualcosa di giusto.

Traduzione di Anna Bissanti © 2014 New York Times News Service

«Un premio pari quasi alla metà dei voti ottenuti viola il principio d’eguaglianza già censurato dalla Corte». Bocceranno anche il Renzuschellum. Giustamente.

La Repubblica, 30 gennaio 2014

Metterebbe un timbro di costituzionalità sull’Italicum di Renzi e Berlusconi?
«Proprio no». Il costituzionalista Alessandro Pace risponde così a Repubblica.
Siamo dentro o fuori la Costituzione?
«Siamo molto fuori».

La principale anomalia?
«La soglia prevista per beneficiare del premio di maggioranza è troppo lontana dal 50,1% per potersi chiamare così».

La correzione necessaria?
«Un premio di maggioranza degno di tal nome dovrebbe spettare solo al partito o alla coalizione che superasse il 45. Data l’attuale situazione politica una soglia “ragionevole” potrebbe essere, a tutto concedere, anche quella del 40. Ma, a stretto rigore, anche questa sarebbe criticabile».

Un consiglio ai parlamentari?

«Se non ci si accorda su una soglia superiore al 40, si deve passare a un altro sistema. Preferibilmente all’uninominale a doppio turno, che garantisce la governabilità senza creare diseguaglianze nel voto. Il ballottaggio dovrebbe essere tra candidati singoli, non tra liste o, peggio, tra coalizioni».

La Consulta ha fissato paletti su premio e preferenze. Può scattare un nuovo ricorso?
«Il tetto al 37% è sicuramente in contrasto con la Corte, e mi meraviglia che il segretario del Pd non se ne sia reso conto. Un premio pari a quasi la metà dei voti ottenuti in sede elettorale non fa che reiterare la violazione del principio d’eguaglianza già censurata dalla Corte nel Porcellum. Anche la mancanza delle preferenze solleva gravi problemi di costituzionalità ».

È positivo che un partito non possa superare il 55%?
«Posto che la Carta prevede 630 deputati, il premio di 31 seggi alla coalizione di maggioranza è francamente eccessivo: garantirebbe la governabilità a troppo caro prezzo “per la rappresentatività dell’assemblea parlamentare”. E cito la Corte».

Le preferenze restano un punto chiave. Averle escluse viola il diritto di voto dei cittadini?
«Certamente sì. La Corte ha bocciato il Porcellum per questo e per l’eccessivo premio di maggioranza. Però, nel referendum del ‘91, gli italiani hanno votato per la preferenza unica, essendo note le irregolarità sottese alle preferenze multiple. Ma tuttora non è assicurata la segretezza del voto nelle circoscrizioni estere, come risultò nel caso Di Girolamo. Né le cose sono cambiate. Quindi, sia in Italia che all’estero, preferenza unica è garanzia della libertà del voto e della sua assoluta segretezza».

Le liste corte non bastano?
«Certo che no».

Le primarie possono sostituire le preferenze?
«Sì. Non si può dimenticare però che i partiti sono associazioni private. Bisognerebbe prima dettare regole sulla democrazia interna. Pertanto, campa cavallo…».

Piccoli partiti. È accettabile lo sbarramento al 4,5%?
«È eccessivo, soprattutto senza il finanziamento pubblico. Che dovrebbe essere legislativamente previsto, ma la cui spettanza va condizionata all’effettiva esistenza di un’organizzazione interna democratica ».

Ecco la legge con cui si preparano a farci votare.Un abito cucito addosso ai partiti della prima e delle seconda repubblica, una camicia di forza per il Parlamento della terza. Passa anche la norma Salva-Lega, altro omaggio a Forza Italia. Ma nel Pd l’opposizione si restringe alla "minoranza della minoranza".Il

manifesto, 30 gennaio 2014

Tre sole modi­fi­che, la legge elet­to­rale rimane sostan­zial­mente quella sot­to­scritta da Renzi e Ber­lu­sconi nello sto­rico incon­tro in casa Pd. La prima modi­fica è quella sulla quale il Cava­liere ha resi­stito di più, dando il via libera finale solo ieri, a ridosso del pranzo. Sale di due punti per­cen­tuali la soglia da rag­giun­gere per chiu­dere le ele­zioni al primo turno: con il 37% e oltre (era il 35%) la prima coa­li­zione si aggiu­dica un 15% omag­gio (era il 18%). Altri­menti bal­lot­tag­gio. La seconda modi­fica è solo un ritoc­chino: scende di 0,5 punti per­cen­tuali la soglia di sbar­ra­mento per i par­titi coa­liz­zati. Prima erano esclusi tutti quelli sotto il 5%, adesso «solo» quelli sotto il 4,5%. Anche secondo l’ultimo son­dag­gio dif­fuso dalle tele­vi­sioni Media­set, ieri sera, è una modi­fica inu­tile. Non c’è nes­sun par­tito che sta sotto il 5% che rie­sce però a rag­giun­gere il 4,5%. Sareb­bero comun­que esclusi Scelta civica, Sel, Udc, Fra­telli d’Italia e Lega. Per la Lega però si farà un’eccezione. Gra­zie alla terza modi­fica. Bat­tez­zata appunto «salva Lega» per­ché apre le porte della camera a quei par­titi che, pur restando sotto la soglia del 5% pre­vi­sta per i par­titi coa­liz­zati, si pre­sen­tano in non più di sette regioni (ad esem­pio quelle del Nord) rag­giun­gendo il 9% in almeno tre.

La dop­pia mano­vra sul pre­mio di mag­gio­ranza, ispi­rata dal Qui­ri­nale, è il risul­tato che porta a casa Renzi dopo una set­ti­mana di trat­ta­tive. Adesso c’è una soglia, il 37% appunto, e anche un limite al pre­mio, il 15%. Sono due rispo­ste a due dei pro­blemi indi­vi­duati dalla Corte Costi­tu­zio­nale nel Por­cel­lum. Pec­cato però che si tratti di limiti solo for­mali. Per­ché nella legge Renzi-Berlusconi è rima­sto il «baco» dei par­titi fan­ta­sma. Cioè tutti quelli che con i loro voti per­met­te­ranno alla coa­li­zione di aggiu­di­carsi il pre­mio, ma non avranno diritto a nean­che un depu­tato per­ché reste­ranno sotto lo sbar­ra­mento del 5%. Più di 150 depu­tati saranno così eletti con i voti dei pic­coli par­titi, ma nelle liste del par­tito più grande che vin­cerà le ele­zioni. Par­tito (Forza Ita­lia o Pd) che a conti fatti avrà un pre­mio di mag­gio­ranza di nuovo poten­zial­mente illi­mi­tato (in linea teo­rica fino al 49,9%, ma è rea­li­stico che si avvi­cini al 30%). Un mec­ca­ni­smo di «scor­poro» dei voti dei par­titi rima­sti sotto la soglia dal con­teg­gio per il pre­mio di mag­gio­ranza era stato pro­po­sto da più parti, ma sul punto né Renzi né Ber­lu­sconi hanno sen­tito ragioni. A loro inte­res­sava espli­ci­ta­mente «met­tere fine al ricatto dei par­titi minori». In par­ti­co­lare a Ber­lu­sconi stava a cuore impe­dire la pos­si­bi­lità che Alfano e Casini ten­tino la strada di una lista o di una coa­li­zione auto­noma. Ed ecco che la soglia, mostruosa, per un par­tito non coa­liz­zato non è stata nem­meno messa in discus­sione: resta all’8% (e al 12% per la coa­li­zione). Un anno fa, pur in pre­senza di un forte asten­sio­ni­smo, l’8% dei voti validi cor­ri­spon­deva a poco meno di tre milioni di elet­tori: con il nuovo sistema saranno com­ple­ta­mente esclusi dalla rap­pre­sen­tanza parlamentare.

Due le con­se­guenze imme­dia­ta­mente pre­ve­di­bili. Nasce­ranno tanti finti par­titi e liste di comodo desti­nati solo a rac­co­gliere voti per il par­tito capo­gruppo, che corre per rag­giun­gere il pre­mio di mag­gio­ranza. E gli elet­tori dei pic­coli par­titi coa­liz­zati, quelli che non hanno spe­ranze di rag­giun­gere il 4,5%, saranno incen­ti­vati a restare a casa se non vogliono rega­lare i loro voti al par­tito ege­mone. L’effetto del riparto nazio­nale dei voti, poi, rega­lerà la sor­presa di eleg­gere con il pro­prio voto non uno dei can­di­dati (da tre a cin­que) che si tro­ve­ranno sulla pro­pria lista cir­co­scri­zio­nale, ma magari uno sco­no­sciuto a cen­ti­naia di chi­lo­me­tri di distanza. Il tutto è stato se pos­si­bile peg­gio­rato ieri, quando Ber­lu­sconi ha dato via libera alle rein­tro­du­zione delle plu­ri­can­di­da­ture chie­ste da Alfano. Alla fine saranno sem­pre i capi­li­sta a sce­gliere chi far entrare in par­la­mento. E infine è rima­sta l’assurda pos­si­bi­lità di can­di­dare alla testa di ogni lista due can­di­dati dello stesso sesso (indo­vi­nate quale), pre­ve­dendo l’alternanza solo a par­tire dalla terza posizione.

Renzi e Ber­lu­sconi si gio­che­ranno così la loro par­tita, nel 2015. Il Cava­liere può ten­tare di vin­cere al primo turno, ma ha biso­gno di tempo per risa­lire nei son­daggi. Il segre­ta­rio del Pd esclude qual­siasi alleanza e dun­que punta da subito al bal­lot­tag­gio. E non ha mai messo in discus­sione la con­ces­sione più grande fatta a Ber­lu­sconi: la rinun­cia alle pre­fe­renze, mal­grado la sen­tenza della Con­sulta dicesse l’opposto, e mal­grado il Pd avrebbe tutto da gua­da­gnarci (non il suo nuovo lea­der che così nomi­nerà i depu­tati). Le terze forze sono tutte sul piede di guerra, dai gril­lini che ieri sera hanno occu­pato anche la prima com­mis­sione ai cen­tri­sti a Sel. Anche il par­tito di Alfano ha qual­che riserva. Ma la mino­ranza Pd ha già fatto sapere che non creerà pro­blemi a Renzi. Il rego­la­mento con­cede però il voto segreto in aula, dove la legge, ancora da emen­dare, arriva oggi pome­rig­gio. Ma è solo una for­ma­lità che serve per accor­ciare i tempi quando si comin­cerà a votare, a feb­braio. «Rapi­dis­si­ma­mente», dice Renzi.

Delocalizzazione Electrolux: «Non ci vogliono dei professori universitari per dire che si risparmia tagliando i salari e riducendo le pause. Questa vertenza può segnare il futuro delle relazioni sindacali nel nostro Paese».

L'Unità, 29 gennaio 2014
«Quando siamo entrate per la prima volta da questi cancelli facevamo 50 pezzi all’ora. Adesso siamo a 94. Il lavoro è aumentato, la paga diminuita. Ora vogliono anche il sangue». Marinella e Sabrina si stringono nei cappotti di pile e sfregano le mani guantate. Fa un bel freddo nel piazzale davanti all’ingresso nord dell’Electrolux di Porcia, in Friuli. Le due operaie, con altri 1.200 colleghi, condividono un paradossale destino: il loro posto di lavoro rischia di sparire perché sono troppo efficienti. La lavatrice che esce da queste linee costa 30 euro di troppo al pezzo. E siccome i ritmi di produzione sono già al massimo, più di 7,5 euro ad elettrodomestico non si riesce a risparmiare. Non rimane altro che mandare a casa le persone.

Nel piano draconiano della multinazionale svedese non sembra esserci posto per quello che, fino a una quindicina di anni fa, era il più grande stabilimento di lavatrici d’Europa. La Fiat del «bianco», che era arrivata a produrre due milioni e mezzo di pezzi all’anno, con marchi come Zanussi, Rex e Zoppas, e che ora, per i dirigenti scandinavi, è schiacciata dai concorrenti asiatici e polacchi. È il vento che soffia dall’Est, quello che fa più male: o vi adeguate ai salari che percepiscono i cugini della Polonia, o andate a casa, è il ragionamento che Electrolux ha presentato ai sindacati. Tagli che possono rendere le buste paga leggere, leggerissime: nell’immediato si tratta di 130-140 euro in meno, ma nel tempo i sindacati calcolano una riduzione fino al 40%. E se su Forlì (800 lavoratori), Susegana (Treviso, 1000 dipendenti), e Solaro (Milano, 900 addetti) si intende ancora investire anche se a condizioni che Fim, Fiom e Uilm bollano come inaccettabili -, alle maestranze di Porcia sembra essere negato anche questo filo di speranza. Fissata anche la deadline: entro fine aprile gli svedesi prenderanno una decisione irrevocabile.

Sciopero, è stata la risposta immediata. E ieri mattina, davanti ai cancelli erano in centinaia. Prima divisi in capannelli, in attesa degli impiegati che entrano più tardi. L’ultima battaglia si combatte tutti uniti. Gente che di sacrifici ne ha sempre fatti, da quando, nel 1984, con la vendita di Zanussi al gruppo scandinavo, «per sei mesi abbiamo dato il nostro stipendio a garanzia dei prestiti delle banche spiega Rodolfo, altro lavoratore di vecchia data -. Alle 10 arrivava il capo a farti firmare il foglio per la banca, e due ore dopo arrivava la busta paga». Adesso, lo spettro del licenziamento, «e poi ci mettono gli opuscoli sull’etica d’impresa», si lamenta un collega. Poi, certo, c’è chi ricorda che, a parte alcune linee, da troppi anni non si facevano investimenti sull’innovazione, nonostante la fabbrica resti fortemente automatizzata. «Come possiamo campare con lo stipendio di un operaio polacco? Tanto vale che ci passino una ciotola di riso per competere coi cinesi», osserva Remo. Considerazione amara, ma che contiene una grande verità: se la competizione è fatta solo sul costo del lavoro, troverai sempre qualcuno più economico di te. Lo dice bene Michela Spera, della Cgil nazionale, aprendo l’assemblea all’aperto: «Non ci vogliono dei professori universitari per dire che si risparmia tagliando i salari e riducendo le pause. Questa vertenza può segnare il futuro delle relazioni sindacali nel nostro Paese». Può rompere un argine che poi non sarebbe facile ricostruire.

“Se l’Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta”.

La Repubblica, 29 gennaio 2014
I trattati di psicologia insegnano: sempre ricadiamo nell’identica perversa letargia, intrappolati e sorpresi dagli eventi, quando non riconosciamo di esserne autori. La passività di fronte alla disperazione ucraina ripete quel che non sappiamo: imparare, fare autocritica, trasformarci.

Eppure gli elementi dell’immane complicazione di Kiev sono visibili. Sempre più, la protesta contro il regime di Yanukovich assume tratti spurî, inevitabili in un paese immerso in guerre civili perché reietto. L’ira esplose il 21 novembre, quando Kiev rinunciò al trattato di associazione con l’Unione per timore di perdere Putin, che sarà un semi- dittatore ma garantiva più aiuti dell’Europa, e contratti promettenti in materie vitali: le forniture d’energia. Dopodiché tutto s’è sbrindellato sfociando nel sangue, proprio come nelle primavere arabe (4 attivisti morti). L’insurrezione è senza leader e programmi stabili.

Nel suo torrente nuotano anche gli ultranazionalisti,raccontano i reporter, ma l’aggettivo è eufemistico. Anche se minoritarie, due destre estreme sono protagoniste: la formazione Svoboda,nata da un partito neonazista che inneggia a Stepan Bandera (collaborazionista di Hitler nella guerra) e che ancora nel 2004 si definiva social-nazionale, avendo come emblema una specie di svastica; e il «Settore di destra» (Pravi Sektor),che rischia di alterare un movimento in principio liberal-democratico. La russofobia, dunque il razzismo, le impregna. Mark Ferretti delSunday Times lo scrive sullaStampa: per tanti, «l’integrazione nell’Unione europea non è la priorità». Non basterà la revoca, ieri, delle leggi liberticide del 16 gennaio.

L’inerzia dell’Unione europea risale ai tempi dell’allargamento. Già allora ci si concentrò su regole finanziarie e giuridiche, e mancò la politica come sintesi: che difendesse la natura federale dell’Unione in modo da frenare i nazionalismi dell’Est, e costruisse un rapporto non sconclusionato con la Russia e le zone di mezzo fra lei e noi (l’«estero vicino», si chiama a Mosca: è «estero vicino» anche per noi). Una Russia influenzata certo dal passato (Putin ritiene una «catastrofe storica» la fine dell’impero sovietico, che sogna di restaurare), ma un paese mutante, col quale nessun discorso serio si apre perché sempre l’Europa aspetta — per comoda abulia, per vizi contratti in guerra fredda — che laprima mossa sia americana.

Quel che colpisce nel no di Kiev a Bruxelles dovrebbe farci pensare: proprio perché nuovo, frastornante. Perché il tumulto non ci dà automaticamente ragione, se l’Europa è un pretesto. Inutile perdersi in descrizioni di un’Ucraina ancora erede dell’ex Urss, e malefico sarebbe tollerare passioni torbide come la russofobia. Utile è riconoscere invece che l’era degli allargamenti è conclusa, che le adesioni o associazioni esterne fanno oggi problema. Perché quel che offre l’Unione, in tempi di recessione e di crisi che non sa sormontare, attrae enormemente ma anche respinge: sono così lontani, i frutti. L’Europa innalza muri di cinta e la Russia no, quali che siano i suoi colonialismi. C’è poco da compiacersi. La disfatta è nostra.

Se l’Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta. Ad esempio: dove finisce l’Europa e dove precisamente comincia l’Est? Cosa vuol dire confine, e l’EsteroVicino?E quali sono i criteri che permettono di affrontare il dramma di un popolo che vuole l’Europa ma in parte anche la respinge, temendo di accentuare la propria crisi infilandosi nella sua orbita?

Qui è il guaio: l’Europa assiste a simili terremoti come se fosse non un attore politico ma un semplice contenitore, una sorta di hotel degli Stati e dei popoli. L’allargamento nel 2004-2007 avvenne inscatolando, non integrando, e l’Unione non ne uscì rafforzata ma svuotata. I nuovi Stati, esclusa la Polonia a partire dal 2010, non hanno capito l’Unione in cui entravano: la scambiarono appunto per un recipiente, che invitava a trasferire sovranità nazionali verso l’ignoto, non verso un’autorità comune, solidale, forte di un’autentica politica estera. L’Ucraina è piena di buchi neri, ma anche noi. Ha vinto la ricetta britannica: mera custode di parametri finanziari, l’Unione è un’area di libero scambio, non una potenza politica.

Ogni giorno ci domandiamo se è peggio essere comandati dal Caimano direttamente o attraverso il suo pupazzo. Il

manifesto, 27 gennaio 2014

Ver­dini e Ber­lu­sconi li ha ascol­tati volen­tieri, ma le osser­va­zioni cri­ti­che dei mag­giori costi­tu­zio­na­li­sti ita­liani no: quelle lo hanno fatto inner­vo­sire. Mat­teo Renzi ha preso male l’appello dei giu­ri­sti con­tro il suo pro­getto di riforma elet­to­rale; lo hanno fir­mato da Azza­riti a Car­las­sare, da Fer­ra­joli a Fer­rara, da Rodotà a Vil­lone e il mani­fe­sto lo ha pub­bli­cato dome­nica. «Un mani­polo di scien­ziati del diritto», li ha defi­niti sprez­zante il segre­ta­rio del Pd, usando il lin­guag­gio che gli serve a inten­dersi con il Cava­liere.
Cava­liere che per le sue «por­cate» elet­to­rali o ad per­so­nam del resto faceva lo stesso. Tirava avanti comun­que, per poi sbat­tere rego­lar­mente con­tro la Corte Costi­tu­zio­nale. A quel punto, però, quelle leggi ave­vano già fatto danni. Per l’Italicum si intra­vede un destino simile. In effetti è ancora una legge fir­mata Berlusconi.

Chi avesse preso sul serio gli infi­niti discorsi di Renzi sull’importanza del «merito», con­trap­po­sto al par­lar vano della poli­tica, avrebbe di che sor­pren­dersi ascol­tan­dolo adesso inso­len­tirsi per le cri­ti­che nel merito dei giu­ri­sti. «Se non si fa que­sta legge elet­to­rale ci tocca il governo con Ber­lu­sconi», spiega spic­cio il segre­ta­rio. A guar­dare sotto la spoc­chia les­si­cale que­sto è il suo unico argo­mento. Cioè, una riforma che ampli­fica i disa­stri della legge Cal­de­roli, ignora le osser­va­zioni della Con­sulta e regala a una mino­ranza un pre­mio spro­po­si­tato è una neces­sità poli­tica? Tac­cia allora chi si pre­oc­cupa dei prin­cipi costi­tu­zio­nali. Ma se al sin­daco di Firenze inte­ressa que­sto e basta, vin­cere il famoso giorno dopo le ele­zioni, o meglio ancora quello prima, se il rispetto della volontà popo­lare è solo una fisima degli «scien­ziati del diritto», allora ha pos­si­bi­lità infi­ni­ta­mente mag­giori. Ver­dini è un buon gio­ca­tore ma Ber­lu­sconi è un po’ appan­nato, per­ché Renzi non se la gioca a poker?

La Corte Costi­tu­zio­nale ha appena scritto che «le assem­blee par­la­men­tari si fon­dano sull’espressione del voto e quindi della sovra­nità popo­lare». Renzi risponde pro­po­nendo un senato di ammi­ni­stra­tori locali non eletti ma coop­tati e una camera dove appli­cando l’Italicum all’ultimo son­dag­gio viene fuori che con il 22% dei voti al primo turno, e tutti i suoi alleati sotto la soglia, Forza Ita­lia può pren­dere il 52% dei seggi.

Un pre­mio del 30% che tra­sforma in cigno anche il Por­cel­lum, che in fondo non è andato oltre un più 25% (comun­que troppo per la Con­sulta). Così almeno era la legge che il segre­ta­rio del Pd ha pre­sen­tato al suo par­tito, accom­pa­gnan­dola con un peren­to­rio «pren­dere o lasciare». Un ulti­ma­tum che ha già dovuto riti­rare. Le soglie assurde che pos­sono lasciar fuori par­titi con due milioni e mezzo di voti si vanno abbas­sando. L’editto che riscrive l’aritmetica tra­sfor­mando per legge il 35% in mag­gio­ranza si può cor­reg­gere. Anche quel Ghino di Tacco tro­vava i suoi osta­coli e Renzi, bul­li­smi a parte, deve ras­se­gnarsi a ridurre almeno un po’ il suo danno.

Ma il danno resta. Soprat­tutto per­ché alla crisi della rap­pre­sen­tanza, al mon­tare dei popu­li­smi e all’esplosione dell’astensionismo, Renzi con­ti­nua a rispon­dere con la droga tutta ita­liana del mag­gio­ri­ta­rio spinto. Non cam­bia verso, torna indie­tro. Ci riporta all’inizio del tun­nel ber­lu­sco­niano. Disprezza le ragioni del diritto e della Costi­tu­zione, que­sto è chiaro. Ma con la poli­tica non va meglio.

Il manifesto, 26 gennaio 2014

Il suo cognome signi­fica già, da solo, un’idea di Europa poli­tica delle ori­gini, molto lon­tana per la verità dall’Unione euro­pea di oggi, quella della troika e delle due o più velo­cità. Signi­fica l’Europa del mani­fe­sto di Ven­to­tene imma­gi­nata dal con­fino fasci­sta ma con un pen­siero lungo, lun­ghis­simo, da suo padre, Altiero. In que­sti anni, e con sem­pre più forza e fre­quenza in que­sti mesi, Bar­bara Spi­nelli, intel­let­tuale ed edi­to­ria­li­sta di Repub­blica, è stata l’ispiratrice di un movi­mento per un’Europa diversa da quella del rigore, che in que­ste set­ti­mane è pre­ci­pi­tata nella pro­po­sta (insieme a Camil­leri, Revelli, Gal­lino, Viale e Flo­res d’Arcais) di una lista uni­ta­ria per Tsi­pras, il lea­der della sini­stra greca che oggi si mette alla testa di que­sto movi­mento. A que­sto appello l’altro ieri Ale­xis Tsi­pras ha rispo­sto sì.

Il vostro appello «una lista per Tsi­pras» con­tiene una decisa richie­sta di euro­pei­smo, ma anti­ri­go­ri­sta. In que­sti mesi invece in tutta Europa, e anche in Ita­lia, nella società civile cre­scono pul­sioni anti-euro, in con­trap­po­si­zione al con­for­mi­smo rigo­ri­sta dei «rifor­mi­sti». Cosa vi fa pen­sare che que­sta vostra lista possa rac­co­gliere un vasto consenso?

Me lo fa pen­sare una cer­tezza, innan­zi­tutto: tra gli arrab­biati anti-euro e i con­for­mi­sti dell’austerity non c’è il nulla; non regnano solo la ras­se­gna­zione e la rinun­cia. È quello che vogliono far pen­sare i due gruppi – quello del no e quello del sì – ma ambe­due men­tono. Non è vero che «in tutta l’Europa» esi­stono solo loro, com­plici nell’immobilismo. E tra i com­plici metto anche il Pd. Tra il no e il sì c’è un’Italia che vuole restare in Europa, ma cam­bian­dola radi­cal­mente. Che sof­fre tre­men­da­mente la crisi, ma sa che solo in Europa la sor­mon­terà. Sono gli «euro­pei­sti insu­bor­di­nati», e in fondo i veri euro­scet­tici sono loro. Lo scet­tico non si accon­tenta dell’apparenza, né dello sta­tus quo. Vuol creare un ordine nuovo. E un ordine nuovo in Europa signi­fica una Fede­ra­zione dove nes­sun Stato sia sacri­fi­cato, minac­ciato di espul­sione se non si piega alle ricette, peral­tro fal­li­men­tari, dei para­me­tri di Maa­stri­cht e del Fiscal Com­pact. Anche se non lo dice chia­ra­mente, l’europeista insu­bor­di­nato intui­sce che l’euro è un fal­li­mento se non si costrui­sce attra­verso una nuova Costi­tu­zione fatta dai rap­pre­sen­tanti dei popoli, un’Europa dove non conti più il rap­porto di forze tra sin­goli Stati. Quando conta solo l’equilibrio fra potenze nazio­nali è ine­vi­ta­bile che sarà il più forte a domi­nare, come avve­niva nel nostro con­ti­nente fino al 1945.

Nel vostro appello indi­cate una col­lo­ca­zione nell’europarlamento, la Gue, il gruppo della sini­stra euro­pea. Ven­dola con­si­dera que­sto un limite di «asfis­sia», una ridu­zione della por­tata poli­tica della can­di­da­tura di Tsi­pras, che può ambire a mobi­li­tare anche forze e per­sone fuori del tra­di­zio­nale recinto della sini­stra radi­cale. Qual è il suo parere?

Come prima cosa, non mi pare ci sia una­ni­mità sulle posi­zioni di Ven­dola: Sel è divisa, molti sono desi­de­rosi di ade­rire alla nostra lista. Nell’appello si parla di col­lo­ca­zione nella Gue per­ché l’iniziativa, aggre­gan­dosi attorno alla figura emble­ma­tica di Tsi­pras, ha tenuto conto del fatto che il lea­der di Syriza è parte della Sini­stra uni­ta­ria euro­pea, ed è stato scelto come can­di­dato da quest’ultima nel con­gresso di dicem­bre a Madrid. Ma invito a leg­gere atten­ta­mente la let­tera in cui Tsi­pras appog­gia l’iniziativa ita­liana. Viene a cadere ogni rife­ri­mento alla col­lo­ca­zione nel gruppo Gue. L’obiettivo è stare con Tsi­pras in Europa, aprire le porte a coa­li­zioni ine­dite a Stra­sburgo, non con­dan­narsi alle lar­ghe intese anche lì. Lo stru­mento per rag­giun­gere quest’obiettivo è chia­ra­mente indi­cato, nella let­tera: «Solo se fac­ciamo tutti insieme un passo indie­tro, com­pi­remo tutti insieme molti passi avanti». La parola chiave, che usa nel mes­sag­gio al Con­gresso Sel, è «umiltà». Que­sto apre nuovi spazi di ade­sione a tutti i movi­menti, cit­ta­dini, par­titi, indi­vi­dui, che non si rico­no­scono neces­sa­ria­mente in Gue. È la mia opi­nione per­so­nale: io, per esem­pio, non mi rico­no­sco in Gue. Al tempo stesso, se scelgo Tsi­pras, non posso usare il suo nome come piace a me, per poi andare in gruppi par­la­men­tari che saranno avver­sari del can­di­dato che ho scelto.

E comun­que per Sel sarebbe impra­ti­ca­bile, visto che ha chie­sto non da oggi di entrare nel Pse e di por­tare li den­tro la bat­ta­glia con­tro il rigore, in coe­renza con la sua - per ora con­ge­lata -

col­lo­ca­zione poli­tica nel cen­tro­si­ni­stra. C’è una pos­si­bi­lità di fare un passo di avvi­ci­na­mento, fra voi e Sel?

Per­ché impra­ti­ca­bile? A mio parere Sel va a sbat­tere con­tro un muro se fa una sua lista sepa­rata dalla nostra, in favore di Schulz e spe­rando di entrare nel gruppo socia­li­sta al Par­la­mento euro­peo. Primo per­ché Schulz ha visioni non inno­va­tive sull’austerità, e punta a una Grosse Koa­li­tion – a Stra­sburgo – simile a quella con­clusa in Ger­ma­nia. Secondo per­ché in Ita­lia esi­ste una soglia di sbar­ra­mento abba­stanza alta (4%), che pur­troppo nes­sun par­tito intende met­tere in que­stione. Que­sto signi­fica che fal­lirà la lista Sel e anche la nostra, visto che su molti punti siamo con­cordi. Bel risul­tato sarebbe. La lista Sel alle euro­pee è una forma di omicidio-suicidio.

All’opposto, lei non vede il rischio che la lista per Tsi­pras, per le per­so­na­lità e le aree poli­ti­che che fin qui coin­volge, ripro­ponga lo schema della Rivo­lu­zione Civile, la lista per Anto­nio Ingroia, che ha rac­colto un risul­tato ben al di sotto delle aspettative?

Non vedo que­sto peri­colo se riu­sciamo a stare attenti, e se restiamo fedeli a quel che chie­dono migliaia di fir­ma­tari. La lista è volu­ta­mente indi­pen­dente dai par­titi, che non sono fra i soci cofon­da­tori né sie­dono nella cabina di regia. Ade­ri­scono al pro­getto e al mani­fe­sto, e la loro diver­sità è garan­zia del fatto che l’esperienza di Rivo­lu­zione Civile non si ripe­terà. Noi ci rivol­giamo a tutti gli euro­pei­sti scon­tenti dello sta­tus quo: agli indi­vi­dui, ai movi­menti e comi­tati di base, alla vasta cul­tura fede­ra­li­sta, agli eco­lo­gi­sti, e anche alla sini­stra radicale.

Ma dovrete anche affron­tare la con­cor­renza sedut­tiva, in Ita­lia, di un movi­mento anti euro­peo ma non di destra come quello dei 5 stelle.
Sono con­vinta che nel M5S ci siano ambe­due le cor­renti: la cor­rente che vuol uscire dall’Europa e col­tiva sogni del tutto illu­sori di ritorno alle sovra­nità nazio­nali asso­lute, e una cor­rente molto più simile alla nostra, fatta di euro­pei­sti insu­bor­di­nati. Non posso pen­sare che 5 Stelle sia un mono­lite: cosa che Grillo sa perfettamente.

Come sce­glie­rete i nomi della lista?

Ter­remo conto, imma­gino, della gran­dis­sima varietà di movi­menti e opi­nioni che ho appena elencato

A proposito della riforma della legge elettorale che Berlusconi e Renzi vogliono imporre al popolo italiano L’appello dei più autorevoli costituzionalisti italiani ai parlamentari. Sotto accusa premio di maggioranza, liste bloccate e sbarramento. il manifesto, 25 gennaio 2014

La pro­po­sta di riforma elet­to­rale depo­si­tata alla Camera a seguito dell’accordo tra il segre­ta­rio del Par­tito Demo­cra­tico Mat­teo Renzi e il lea­der di Forza Ita­lia Sil­vio Ber­lu­sconi con­si­ste sostan­zial­mente, con pochi cor­ret­tivi, in una rifor­mu­la­zione della vec­chia legge elet­to­rale – il cosid­detto “Por­cel­lum” – e pre­senta per­ciò vizi ana­lo­ghi a quelli che di que­sta hanno moti­vato la dichia­ra­zione di inco­sti­tu­zio­na­lità ad opera della recente sen­tenza della Corte costi­tu­zio­nale n.1 del 2014.

Que­sti vizi, afferma la sen­tenza, erano essen­zial­mente due.

Il primo con­si­steva nella lesione dell’uguaglianza del voto e della rap­pre­sen­tanza poli­tica deter­mi­nata, in con­tra­sto con gli arti­coli 1, 3, 48 e 67 della Costi­tu­zione, dall’enorme pre­mio di mag­gio­ranza – il 55% per cento dei seggi della Camera – asse­gnato, pur in assenza di una soglia minima di suf­fragi, alla lista che avesse rag­giunto la mag­gio­ranza rela­tiva. La pro­po­sta di riforma intro­duce una soglia minima, ma sta­bi­len­dola nella misura del 35% dei votanti e attri­buendo alla lista che la rag­giunge il pre­mio del 53% dei seggi rende insop­por­ta­bil­mente vistosa la lesione dell’uguaglianza dei voti e del prin­ci­pio di rap­pre­sen­tanza lamen­tata dalla Corte: il voto del 35% degli elet­tori, tra­du­cen­dosi nel 53% dei seggi, ver­rebbe infatti a valere più del dop­pio del voto del restante 65% degli elet­tori deter­mi­nando, secondo le parole della Corte, “un’alterazione pro­fonda della com­po­si­zione della rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica sulla quale si fonda l’intera archi­tet­tura dell’ordinamento costi­tu­zio­nale vigente” e com­pro­met­tendo la “fun­zione rap­pre­sen­ta­tiva dell’Assemblea”. Senza con­tare che, in pre­senza di tre schie­ra­menti poli­tici cia­scuno dei quali può rag­giun­gere la soglia del 35%, le ele­zioni si tra­sfor­me­reb­bero in una roulette.

Il secondo pro­filo di ille­git­ti­mità della vec­chia legge con­si­steva nella man­cata pre­vi­sione delle pre­fe­renze, la quale, afferma la sen­tenza, ren­deva il voto “sostan­zial­mente indi­retto” e pri­vava i cit­ta­dini del diritto di “inci­dere sull’elezione dei pro­pri rap­pre­sen­tanti”. Que­sto mede­simo vizio è pre­sente anche nell’attuale pro­po­sta di riforma, nella quale pari­menti sono escluse le pre­fe­renze, pur pre­ve­den­dosi liste assai più corte. La desi­gna­zione dei rap­pre­sen­tanti è per­ciò nuo­va­mente ricon­se­gnata alle segre­te­rie dei par­titi. Viene così ripri­sti­nato lo scan­dalo del “Par­la­mento di nomi­nati”; e poi­ché le nomine, ove non avven­gano attra­verso con­sul­ta­zioni pri­ma­rie impo­ste a tutti e tas­sa­ti­va­mente rego­late dalla legge, saranno decise dai ver­tici dei par­titi, le ele­zioni rischie­ranno di tra­sfor­marsi in una com­pe­ti­zione tra capi e infine nell’investitura popo­lare del capo vincente.

C’è poi un altro fat­tore che aggrava i due vizi sud­detti, com­pro­met­tendo ulte­rior­mente l’uguaglianza del voto e la rap­pre­sen­ta­ti­vità del sistema poli­tico, ben più di quanto non fac­cia la stessa legge appena dichia­rata inco­sti­tu­zio­nale. La pro­po­sta di riforma pre­vede un innal­za­mento a più del dop­pio delle soglie di sbar­ra­mento: men­tre la vec­chia legge, per que­sta parte tut­tora in vigore, richiede per l’accesso alla rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare almeno il 2% alle liste coa­liz­zate e almeno il 4% a quelle non coa­liz­zate, l’attuale pro­po­sta richiede il 5% alle liste coa­liz­zate, l’8% alle liste non coa­liz­zate e il 12% alle coa­li­zioni. Tutto que­sto com­por­terà la pro­ba­bile scom­parsa dal Par­la­mento di tutte le forze minori, di cen­tro, di sini­stra e di destra e la rap­pre­sen­tanza delle sole tre forze mag­giori affi­data a gruppi par­la­men­tari com­po­sti inte­ra­mente da per­sone fedeli ai loro capi.

Insomma que­sta pro­po­sta di riforma con­si­ste in una rie­di­zione del por­cel­lum, che da essa è sotto taluni aspetti – la fis­sa­zione di una quota minima per il pre­mio di mag­gio­ranza e le liste corte – miglio­rato, ma sotto altri – le soglie di sbar­ra­mento, enor­me­mente più alte – peg­gio­rato. L’abilità del segre­ta­rio del Par­tito demo­cra­tico è con­si­stita, in breve, nell’essere riu­scito a far accet­tare alla destra più o meno la vec­chia legge elet­to­rale da essa stessa varata nel 2005 e oggi dichia­rata incostituzionale.

Di fronte all’incredibile pervicacia con cui il sistema politico sta tentando di riprodurre con poche varianti lo stesso sistema elettorale che la Corte ha appena annullato perché in contrasto con tutti i principi della democrazia rappresentativa, i sottoscritti esprimono il loro sconcerto e la loro protesta

Con­tro la pre­tesa che l’accordo da cui è nata la pro­po­sta non sia emen­da­bile in Par­la­mento, ricor­dano il divieto del man­dato impe­ra­tivo sta­bi­lito dall’art.67 della Costi­tu­zione e la respon­sa­bi­lità poli­tica che, su una que­stione deci­siva per il futuro della nostra demo­cra­zia, cia­scun par­la­men­tare si assu­merà con il voto. E segna­lano la con­creta pos­si­bi­lità – nella spe­ranza che una simile pro­spet­tiva possa ricon­durre alla ragione le mag­giori forze poli­ti­che – che una simile rie­di­zione pale­se­mente ille­git­tima della vec­chia legge possa pro­vo­care in tempi più o meno lun­ghi una nuova pro­nun­cia di ille­git­ti­mità da parte della Corte costi­tu­zio­nale e, ancor prima, un rin­vio della legge alle Camere da parte del Pre­si­dente della Repub­blica onde sol­le­ci­tare, in base all’art.74 Cost., una nuova deli­be­ra­zione, con un mes­sag­gio moti­vato dai mede­simi vizi con­te­stati al Por­cel­lum dalla sen­tenza della Corte costi­tu­zio­nale. Con con­se­guente, ulte­riore discre­dito del nostro già scre­di­tato ceto politico.

Primi fir­ma­tari:

Gae­tano Azza­riti, Mauro Bar­be­ris, Miche­lan­gelo Bovero, Erne­sto Bet­ti­nelli, Fran­ce­sco Bilan­cia, Lorenza Car­las­sare, Paolo Caretti, Gio­vanni Cocco, Clau­dio De Fio­res, Mario Dogliani, Gianni Fer­rara, Luigi Fer­ra­joli, Angela Musu­meci, Ales­san­dro Pace, Ste­fano Rodotà, Luigi Ven­tura, Mas­simo Vil­lone, Ermanno Vitale.Pie­tro Adami, Anna Fal­cone, Gio­vanni Incor­vati, Raniero La Valle, Roberto La Mac­chia, Dome­nico Gallo, Fabio Mar­celli, Valen­tina Pazè, Paolo Solimeno

Per ade­rire inviare una mail a: perlademocraziacostituzionale@ gmail. com
Vogliono spazzare via tutto quello che tenta di condurre la società verso un futuromigliore. Perchè bisogna arrestare al più presto il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti .

Sbilanciamoci.info, 24 gennaio 2014

Un comune decide che le mense scolastiche acquistino prodotti locali a “chilometri zero”. Un paese – l’Italia - vota in un referendum che l’acqua dev’essere pubblica. Un continente - l’Europa - pone restrizioni all’uso di Organismi geneticamente modificati (Ogm) in agricoltura. Tra poco tutto questo potrebbe diventare illegittimo. Il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP, Transatlantic trade and investment partnership), oggetto di discussioni segrete tra Usa e Commissione europea, prevede che le commesse pubbliche non possano privilegiare produttori locali, che gli investimenti delle multinazionali siano consentiti e tutelati anche nei servizi pubblici (acqua, sanità, etc.), che la regolamentazione non possa limitare i commerci, anche quando ci sono rischi per l’ambiente o la salute. E se un governo tiene duro, sono pronti i meccanismi di “arbitrato” che possono costringere gli stati a pagare alle multinazionali l’equivalente dei mancati superprofitti.

Si tratterebbe di un colpo di stato. L’annullamento della politica di fronte all’assoluta libertà dei capitali, non di commerciare – quella c’è già – ma di entrare in ogni attività, ogni ambito della vita, con la garanzia di fare profitti. L’annullamento della democrazia intesa come possibilità di una comunità di decidere i propri valori, le regole condivise, le politiche da realizzare. L’annullamento dei diritti dei cittadini e delle responsabilità collettive – come quella verso l’ambiente – che si frappongano alla trasformazione in merce del mondo intero.

Il commercio è uno dei temi su cui i paesi membri della Ue hanno già trasferito completamente la sovranità a Bruxelles: è la Commissione a negoziare gli accordi all’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc) o i trattati bilaterali come il Ttip. Ma senza poteri significativi del Parlamento europeo e con il potere delle lobby delle multinazionali che detta le politiche europee, la Ue ha praticato in questi anni la versione più estrema e irresponsabile del liberismo. Come nel caso dell’Unione monetaria, il passaggio di poteri sul commercio è un pessimo esempio di come l’integrazione europa porti a politiche che favoriscono solo i capitali e danneggiano le persone, il lavoro, l’ambiente - dentro e fuori l’Europa, come mostrano gli effetti negativi dei trattati di libero scambio sui paesi in via di sviluppo.

Il Ttip è un “Trattato intrattabile” che va fermato al più presto. Siamo ancora in tempo, un progetto analogo – l’Ami - era già stato sconfitto nel 1998. Ma servirebbe una discussione attenta che ancora non c’è. Servirebbe una protesta di massa contro quest’ultimo, estremo sussulto di quel liberismo che ci ha portato a sei anni di depressione economica. Servirebbero sindacati che non si pieghino a nuove distruzioni di posti di lavoro, consumatori che boicottino le mutinazionali più aggressive, partiti che si ricordino, per una volta, di difendere la democrazia. Discutere di elezioni europee – da oggi al prossimo maggio - significa discutere soprattutto di questo.

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