Alcune delle ragioni per cui è necessario votare per il Consiglio d'Europa, per mandarci qualcuno il quale non solo sappia che cosa è un Parlamento, ma anche «non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno».
La Repubblica, 13 febbraio 2014
Un trattato che potrebbe venire subito bloccato da Strasburgo è quello sull’Unione bancaria. L’idea alla base era valida: impedire che in futuro l’eventuale dissesto di grandi banche private sia di nuovo caricato sul bilancio pubblico dello Stato in cui hanno sede, com’è avvenuto dal 2008 in poi. Ma la bozza varata nel dicembre scorso contiene gravi difetti. L’autorità per accertare se una banca è in difficoltà e avviare al caso una procedura di fallimento o amministrazione controllata (resolution) sarebbe affidata alla sola Bce. Il che da un lato attribuisce alla Bce un potere enorme, dall’altro lascia fuori dall’Unione bancaria il Regno unito, poiché non fa parte dell’Eurozona; il quale non solo è la maggior area finanziaria del continente, con tre banche sulle prime venti (Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland) che totalizzano 7 mila miliardi di dollari di attivi; è pure il Paese in cui nella primavera 2008, quindi prima ancora che in Usa, si verificarono i maggiori disastri bancari. Inoltre il meccanismo di risoluzione è complicatissimo, e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire. Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare - con calma, entro il 2026 - per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi.
Ma il difetto peggiore della bozza dell’Unione bancaria consiste nell’avallare l’idea che la crisi apertasi nel 2008 fosse dovuta a difetti di regolazionedel sistema bancario, piuttosto che a un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito. Sulla strada di questo trattato si profila al momento un grosso ostacolo. Infatti il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz, ha già dichiarato che lo considera un pessimo errore, per cui il Parlamento voterà no. Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni.
Un’altra minaccia pendente sulla testa degli europei è il Ttip (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti). La Ce ha tenuto centinaia di riunioni riservate con gli americani per varare un accordo che offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa, e a quelle europee di fare altrettanto in Usa. Basti pensare che gli Usa non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernentila libertà di associazione sindacale; il diritto a contratti collettivi in tema di salari; la parità di retribuzione uomodonna; il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica.
Se il Ttip fosse approvato, le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni. Le medesime società potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro; una legislazione che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana. Pertanto il Ttip è stato accusato da numerose Ong di essere un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario, e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire.
Contro la minaccia del Ttip si ergono fortunatamente degli oppositori di peso. Uno potrebbe essere di nuovo il Parlamento europeo, visto che questo ha già bocciato nel 2012 un progetto analogo che si chiamava Acta (Accordo commerciale contro la contraffazione). Esso avrebbe esteso grandemente la sorveglianza elettronica non solo sui siti web, ma perfino sui pc dei privati. Un altro oppositore è nientemeno che il Senato Usa, dove il leader della maggioranza demo-cratica, Harry Reid, pochi giorni fa ha respinto la richiesta del presidente Obama di aprire all’esame del Ttip (e di un trattato gemello con l’Asia) una “pista veloce”(fast track).
Ciò comporterà un cospicuo allungamento dei tempi per la discussione del Ttip, piaccia o no a Bruxelles.Poi c’è il Patto fiscale, che da quest’anno obbliga gli stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60 per cento del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1560 miliardi. Il debito si aggira sui 2060 miliardi, pari al 132 per cento del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario (la differenza tra le tasse che lo stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi). Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu? Naturalmente, ecco levarsi il ditino ammonitore degli esperti neoliberali: ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito/Pil. Certo, se il Pil crescesse in termini reali del 4 per cento l’anno, pari a oltre 62 miliardi nel 2014 e poi via a crescere, il Patto fiscale farebbe meno paura. Accade però che le previsioni più ottimistiche non vadano al di là dell’1 per cento o meno per molti anni a venire. Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto.
Le soluzioni potrebbero essere diverse, tra le quali chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito/Pil la colossale spesa per interessi. Ma in fondo il problema non è il suddetto rapporto. È l’idea che a forza di contrarre la spesa pubblica si arrivi a ripagare il debito. Grazie a tale idea perversa, lo stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il Paese in una spirale inarrestabile di deflazione. In altre parole, l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna. Sarebbe un grande tema da sottoporre al più presto a una discussione pubblica, insieme agli altri indicati sopra, e adattissimo per l’agenda del Parlamento europeo; a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno.
E’ inutile offendersi per le parolacce degli altri se ogni volta che mettiamo piede nella politica La Repubblica, 12 febbraio 2014 La Repubblica, 12 febbraio 2014
SIAMO scesi proprio in basso, se un vicesegretario di Stato americano, Victoria Nuland, programma la caduta del governo ucraino con il proprio ambasciatore a Kiev e parlando dell’Unione dice, con l’arroganza d’un capo-mandamento a caccia di zone d’influenza: «Che l’Europa si fotta! » («...and you know, fuck the EU»). Già c’era stata, in ottobre, la storia avvilente di Angela Merkel spiata da Washington, tramite controllo del cellulare. Non un incidente di percorso, se pochi mesi dopo l’Europa è declassata così radicalmente dal lessico della Nuland, perché sospettata di troppa prudenza sul regime change ai propri confini.
Simile degenerazione è tuttavia un utile momento di verità. La risposta meno feconda è quella di chi, sgomento, s’offende per le male parole. Lo scontro come momento di verità, di svolta, obbliga invece gli Europei a guardare se stessi, l’occhio non fisso sull’America ma sulle proprie azioni e omissioni che spiegano tanto precipizio. Li costringe a scoprire l’inconsistenza, la vista corta, il grande inganno d’una presenza il più delle volte fittizia nel mondo, ignara delle sue mutazioni, fatta spesso solo di retorica, al rimorchio di un’America sempre più nazionalista, che non riconosce leggi sopra le proprie.
Il dopo-guerra fredda ci lascia in perenne stato d’impotenza, stupore e dipendenza. In questo mondo che cambia non siamo entrati, né come Stati e ancor meno come Unione che agisce in proprio. Non abbiamo una politica estera nemmeno per quanto riguarda la nostra area di frontiera - l’«estero vicino», come viene chiamato in Russia - né a Est della Polonia né a Sud nel Mediterraneo. E quando vogliamo esser presenti, come in Ucraina, applichiamo senza molto pensarci gli schemi neocoloniali adottati nel dopo guerra fredda. Crediamo di pesare se sappiamo imporre cambi di regime: un’esercitazione quasi fine a se stessa, completamente disinteressata alla storia dei paesi di cui pretendiamo occuparci. Appoggiamo questa o quella forza a noi vicina, e sistematicamente sbagliamo alleati. È già avvenuto in Iraq, Libia, Siria. Alberto Negri ha spiegato bene quest’incapacità congenita ad assumersi il rischio che consiste nel fare politica, dunque nell’imparare dai propri errori: «Un po’ di esercizio di memoria, magari tornando agli sviluppi tragici dei Balcani negli anni ’90, dovrebbe suggerire anche la situazione in Ucraina: l’Europa troppo spesso applaude incondizionatamente le rivolte popolari che hanno un sapore democratico e libertario per poi fare da spettatrice muta e inefficace davanti a sanguinosi sviluppi. Non è forse andata in questo modo anche in Siria?» ( Sole 24 ore, 25-1-14).
L’Ucraina è emblematica perché il modello sembra ripetersi. È lo schema del mondo diviso in mandamenti, appunto: in quartieri da accaparrare, e spartire fra capi-picciotti. Se la Nuland usa il linguaggio del padrino è perché in Ucraina va in cerca di clienti, affiliati. Con l’Europa entra in un rapporto di rivalità mimetica, imitativa: di competizione e dominio. La rivolta in sé degli ucraini l’incuriosisce poco, e per questo viene occultata la presenza nei tumulti di destre estreme e neonaziste (il partito Svoboda e il gruppo Pravi Sektor, «Settore di destra»). Importante è mettere proprie bandierine sul tecnocrate ed ex banchiere centrale Arseniy Yatsenyuk, nel caso americano. Su Vitali Klitschko, ex campione di pugilato e capo di Alleanza Democratica per la Riforma nel caso dell’Unione. Fottiti Europa vuol dire che c’è lotta per la conquista di clientes.
Che un intero paese è visto, dagli uni e dagli altri, come cosa nostra. Questa politica neocoloniale, l’Europa la conduce senza metterci né soldi, né intelligenza politica. Ci mette la propria superiorità morale: cioè parole soltanto, anche se belle. Se la prende con la Russia ignorando due cose. Primo: la russofobia di parte del movimento proeuropeo non è diretta contro Mosca o Putin, ma contro gli ucraini di origine russa (22% della popolazione, soprattutto a Est e in Crimea). Secondo: se il paese è lacerato tra Mosca e Bruxelles è perché l’Unione s’è fatta meno attraente. Per gli ucraini — autoctoni e russi — ridotti alla miseria, non è indifferente il prestito annunciato da Putin (15 miliardi di dollari) né la promessa di forniture di energia a costi bassi.
Siamo di fronte a due colonialismi, con la differenza che quello europeo offre poca sostanza e molta ideologia. In realtà non è l’Unione a entrare nel rapporto di rivalità mimetica con Washington. Chi si è attivata è innanzitutto la Merkel, che ha interessi sia partitici sia geopolitici nel proprio retroterra. Accade così che ogni staterello dell’Unione ha il proprio particulare da difendere, e questo rafforza ancor più la convinzione Usa che l’Europa sia un pupazzo, da «fregare» senza farsi scrupoli.
Sorie di Palazzo che, ove non si conoscevano, si intuivano. Le domande che si aprono sono numerose. la più inquietante è la seguente: se non fossero stati la magistratura o i "complotti", chi avrebbe detronizzato il Caimano?
Il manifesto, 11 febbraio 2014
Sarà anche «fumo, soltanto fumo», come scrive, con toni di fredda irritazione, il presidente Napolitano nella lettera di risposta inviata ieri al Corriere della Sera. Ma è un fumo denso con un effetto forte e diretto sul braccio di ferro in corso per il cambio della guardia a palazzo Chigi. Un fumo che accresce il senso di soffocamento per la condizione di estrema opacità che avvolge i palazzi romani alla vigilia dell’iter parlamentare di una riforma istituzionale e di una nuova legge elettorale.
Nonostante a monte del botta e risposta tra via Solferino e il Quirinale ci sia solo un lungo articolo del giornalista Alan Friedman che ripercorre i passaggi cruciali del 2011, quando Berlusconi fu dimissionato e Monti promosso da professore della Bocconi a senatore a vita e presidente del consiglio, tuttavia aver rievocato quel momento di estrema fibrillazione politica è bastato a far soffiare sul debole fuoco dell’impeachment, acceso dal Movimento5Stelle, anche gli uomini di Forza Italia. In fin dei conti, i berlusconiani sono gli unici a poter rivendicare di aver sostenuto la strumentalità del passaggio di consegne tra il Berlusconi decadente (anche se all’epoca non ancora decaduto) e il Monti astro nascente di un rinascimento italiano evaporato nello spazio di qualche mese. Gli unici anche se poi si acconciarono a votare il governo Monti.
Tutti gli altri attori di quell’eccezionale momento politico-istituzionale, compreso il Corriere che oggi ne rievoca i momenti salienti come si trattasse di un clamoroso scoop, accolsero quella scelta del Capo dello Stato, sul filo della Costituzione e della democrazia parlamentare, come una salutare iniziativa. Additando chi ne stigmatizzava la rottura con la prassi democratica di un passaggio elettorale, come irriducibile guastatore, come incurabile oppositore di un traghettamento indolore al post-berlusconismo.
Solo che adesso, quando siamo a un altro snodo politico-istituzionale, a un’altra manovra di palazzo nel passaggio di consegne tra un Letta uscente e un Renzi entrante, quando assistiamo a un massiccio spostamento di poteri (da Confindustria in giù) contro l’attuale presidente del consiglio, il Quirinale si ritrova arbitro della partita, di nuovo chiamato a evitare la consultazione elettorale per manovrare una virtuale crisi di governo. Con l’aggravante di aver già stressato l’assetto istituzionale con un raddoppio del settennato, e di essere dentro una mischia politica con una procedura di impeachment che comunque potrebbe arrivare a un voto parlamentare. E non si vede quale diavolo potrebbe fornirgli il coperchio giusto per chiudere il vaso di pandora della politica italiana.
Riprendiamo dal nostro archivio e ripubblichiamo uno scritto sulla strumentale deformazione storica delle "foibe", stoltamente ripresa quest'anno dal presidente Mattarella. È un'intervista di Tommaso di Francesco, fuori dal coro dei nazionalisti nostrani dalla memoria dimezzata.
Il manifesto, 9 febbraio 2014
«Certo che bisogna tornare sulle foibe, ogni volta, ogni anno». A dieci anni esatti dall’istituzione del Giorno del Ricordo (il 10 febbraio), il bilancio di Predrag Matvejevic è ancora una volta critico e insiste a «ricordare tutti i ricordi». Nel 2004 un’iniziativa revisionista storica della destra post-fascista, riciclata e diventata di governo ed elettoralmente candidabile grazie a Silvio Berlusconi, portò a buon fine la sua battaglia negazionista del passato di crimini italiani nell’ex Jugoslavia. Centrando l’obiettivo di ridurre la prospettiva all’ultimo, infausto periodo, delle responsabilità slave. A questo punto di vista tutto l’arco costituzionale s’inchinò. Favorendo negli anni processi cosiddetti culturali — fiction, cerimonie, opere teatrali — di rimozione della verità storica. Su questo abbiamo voluto ancora una volta ascoltare per i lettori del manifesto il grande scrittore dell’asilo e dell’esilio, l’autore di Breviario mediterraneo — per citare solo una delle sue opere — che ama ancora definirsi jugoslavo. «A proposito di storia, che vergogna che qui, in Croazia, la Chiesa che ha così gravi responsabilità nella connivenza con il nazifascismo e con l’ideologia ustascia, abbia praticamente disertato due settimane fa le celebrazioni del Giorno della Memoria» ci dichiara subito Predrag Marvejevic.
Sono passati dieci anni dall’istituzione di questa Giornata da parte delle istituzioni italiane, che ha sempre visto la protesta dei nostri storici democratici. Che bilancio va fatto?
Intanto che non bisogna smettere di raccontare la verità. André Gide diceva: «Bisogna ripetere…nessuno ascolta». Ognuno, soprattutto in questa epoca sembra chiuso nella propria sordità. Il bilancio non è positivo, se a celebrare il Giorno della memoria alla Risiera di San Sabba, il lager nazista al confine tra due popoli, accorrono anche post-fascisti abili a cancellare i crimini del fascismo italiano nelle terre slave. E ogni anno abbondano fiction e rappresentazioni che invece di raccontare il pathos collettivo che riguarda almeno due popoli, riducono tutto, nella forma e nei contenuti, alla sola tragedia delle vittime italiane. Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho avuto modo di sostenere gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia (detti “esodati”). L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via “fra asilo ed esilio”. Continuo anche ora che sono ritornato a Zagabria. Condivido il cordoglio italiano, nazionale e umano, per le vittime innocenti. Credevo comunque che le polemiche su questa tragedia, spesso unilaterali e tendenziose, fossero finite. Invece si ripetono ogni anno, sempre più strumentalizzate.
C’è qualche episodio particolare di strumentalizzazione che ricorda?
Voglio ricordare il caso del 2008 dello scrittore di confine, il grande Boris Pahor. Ecco uno scrittore che ha fatto della coralità del dolore la sua materia, e infatti ha raccontato la tragedia dei crimini commessi dai fascisti in terra slava e il lascito di odio rimasto. Di fronte all’onorificenza che gli offriva il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, insorse dichiarando che avrebbe detto no, l’avrebbe rifiutata, se dalla presidenza italiana non arrivava una chiara presa di posizione contro i silenzi sugli eccidi perpetrati da Mussolini.
Che cosa fu in realtà il crimine delle Foibe?
Sì, le foibe sono un crimine grave. Sì, la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell’ “infoibamento”. La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (non certo casuale la scelta della località). E dichiara: «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla “pulizia etnica”. Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, si emigra… Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della “foiba”. È il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di “Giulio Italico”, a scrivere già nel 1927: «La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria» (da “Gerarchia”, IX, 1927). Affermazione alla quale lo stesso ministro aggiungerà anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: «A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin», che ha fatto bene a ricordare su il manifesto nei giorni scorsi Giacomo Scotti nel suo saggio. Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai “lavori coatti” in questa zona durante la seconda guerra mondiale ha testimoniato nel giornale triestino Il Piccolo (5. XI. 2001): «Sono stati i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari». La vicenda «con esito letale per tutti» che racconta questo testimone, cittadino italiano, fa venire brividi.
Come è vissuto il Giorno del Ricordo nell’ex Jugoslavia, quali “ricordi” reali va a risvegliare?
La storia (con la S maiuscola) potrebbe aggiungere alcuni altri dati poco conosciuti in Italia. Uno dei peggiori criminali dei Balcani è certamente il duce (poglavnik) degli ustascia croati Ante Pavelic. E il campo di Jasenovac è stato una Auschwitz in formato ridotto, con la differenza che lì il lavoro micidiale veniva fatto “a mano”, mentre i nazisti lo facevano in modo “industriale”. Aggiungiamo che quello stesso criminale Pavelic con la scorta dei suoi più abietti seguaci, poté godere negli anni trenta dell’ospitalità mussoliniana a Lipari, dove ricevevano aiuto e corsi di addestramento dai più rodati squadristi. Le “camicie nere” hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e di singoli individui. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. A ciò bisogna aggiungere una catena di campi di concentramento, di varia dimensione, dall’isoletta di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. Spesso si transitava in questi luoghi per raggiungere la risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva anche ad Auschwitz e soprattutto a Dachau. I partigiani non erano protetti in nessun paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano immediatamente sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine delle guerra accaniti: “infoibarono” gli innocenti, non solo d’origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto. La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Abbiamo comunque cercato di parlarne. Purtroppo, oggi ne parlano a loro modo soprattutto i nostri ultra-nazionalisti, una specie di “neo-missini” slavi. Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su altre esperienze. Ad esempio culturali… Per questo auspico la proclamazione congiunta de “Il giorno dei ricordi”. E questo mi sembra il nuovo intendimento che emerge e per i quale dobbiamo batterci.
Riferimenti
Rinviamo all'ampia documentazione raccolta in eddyburg nella cartella Italiani brava gente, e in particolare agli articoli degli storici Enzo Collotti (11 febbraio 2007), Giacomo Scotti (13 febbraio 2007), Claudia Cernigol (27 febbraio 2005) e dai giornalisti Simonetta Fiori (3 maggio 2005) e Corrado Staiano (4 febbraio 2005). Nell'immagine bambini jugoslavi internati dai fascisti italiani nel campo di Arbe
Il valore è prodotto dal lavoro del lavoratore, scriveva Adam Smith ne "La ricchezza delle nazioni". Una rilettura più che utile oggi. S
bilanciamoci.info, 7 febbraio 2014
«Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o salario, del lavoro. Nella situazione originaria che precede sia l'appropriazione della terra sia l'accumulazione dei capitali, tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, che non ha né proprietario fondiario né padrone con cui spartirlo. Se questa situazione fosse durata, i salari del lavoro sarebbero aumentati insieme ai progressi delle capacità cui dà luogo la divisione del lavoro» .
«Di quale caduta Grillo è sintomo? Di un immane dislocamento tellurico nelle democrazie odierne, che sposta i poteri dagli Stati verso entità incontrollate. Non solo verso l’Europa ancora flebile, ma verso la finanza-mondo e mercati senza regole».
La Repubblica, 5 febbraio 2014
SON molti a turbarsi, e con ragione, per le offese del Movimento 5 Stelle ai rappresentanti dello Stato. Per la misoginia che colpisce il Presidente della Camera, per il «boia» gridato al Capo dello Stato. Per i libri bruciati in immagine di Corrado Augias, accusato di troppa e incongrua violenza critica. Ma forse è venuto il momento di analizzare quel che sta sotto la pentola di tanto caos. Di capire la fiamma che la surriscalda. Grillo infatti non è la causa del caos. Ne è il prodromo, il sintomo. Se non esaminiamo questi sottosuoli resteremo coi nostri sentimenti: di tristezza, di nudità politica. Alla ferita non sapremo dare un nome, continueremo a pescare solo nel passato. Sintomo, ricordiamolo, significa anche caduta, e comunque la segnala.
Di che cosa, di quale caduta Grillo è sintomo? Di un immane dislocamento tellurico nelle democrazie odierne, che sposta i poteri dagli Stati verso entità incontrollate. Non solo verso l’Europa ancora flebile, ma verso la finanza-mondo e mercati senza regole. La crisi scoppiata nel 2007 ha acuito questo sisma enormemente. Le democrazie ne sono travolte: specie quelle guastate da corruzione, cleptocrazia, mafie con cui occultamente si patteggia. Proprio in questi giorni un rapporto della Commissione Ue ci accusa. Il costo della nostra corruzione è di 60 miliardi l’anno: 4% del pil, metà del costo della corruzione in Europa. Ma ovunque le democrazie degenerano, come spiega Guido Rossi sul Sole 24 Ore: l’effetto inevitabile delle disuguaglianze legate alla crisi «è la svalutazione del potere legislativo e la riduzione degli Stati a semplici mediatori.(...) La più evidente conclusione rivela l’impotenza di ogni singolo Stato di risolvere una crisi sregolata da un disordine di globalizzazione a mosaico, che porta le singole imprese o gli individui a operare un Jurisdiction Shopping ». È un fenomeno accertabile a occhio nudo. In alcuni paesi - Grecia, Portogallo, Cipro, Irlanda - chi oggi guida le scelte economiche è la trojka (Banca centrale europea, Commissione, Fondo monetario).
Princìpi costituzionali decisivi sono ovunque scavalcati. La Germania riesce a custodirli, ma isolandosi senza splendore. Altri paesi, colpevolizzati, sacrificano costituzioni e parlamenti in omaggio diretto o indiretto alle trojke. Nell’aprile 2013 la Corte costituzionale portoghese respinse quattro misure di austerità che violavano il principio di uguaglianza, e Bruxelles la tacitò. Le stesse elezioni son considerate un irritante. Scandalosa fu giudicata, nell’ottobre 2011, la volontà dell’ex premier greco Papandreou di indire un referendum sulle discipline della trojka. Così in Italia. Scopo primario della nuova legge elettorale è la governabilità, ripetono Pd, Berlusconi, Letta. Ma la governabilità «mortifica gravemente la rappresentanza», ha ricordato domenica Eugenio Scalfari.
In questo quadro si colloca la rivolta di 5 Stelle contro la ghigliottina cui è ricorsa Laura Boldrini. Anche se biecamente insultata, è lecito criticarla per aver decapitato il dibattito sul decreto Imu-Bankitalia. Il taglio operato dalla lama è un ennesimo segno del sisma: i parlamenti sono d’ingombro, e negati. Memorabili le parole di Mario Mauro (ministro della Difesa, destra di Alfano) giorni fa a Porta a Porta: «Questa legge elettorale non è contro i piccoli, ma contro un grande partito che oggi rappresenta l’impostazione tripolare del paese. È nata per far fuori Grillo », dunque l’opposizione.
«Il cortocircuito tra tv e rete è il campo di battaglia in cui si svolge questa guerra tra lobby in lotta per la conquista del consenso. Da una parte la strategia di Grillo e Casaleggio che pianificano la loro macchina da guerra mettendo in rete la provocazione sessista . Dall’altra la televisione che risponde mettendo a disposizione delle “istituzioni” i programmi di prima serata».
Il manifesto, 4 febbraio 2014
In un paese abituato a tradurre il dramma in farsa, la violenta bagarre parlamentare dei 5Stelle, trasformata da Grillo in un linciaggio sessista contro la presidente della Camera, è diventata una ridicola rissa domenicale da talk-show. Tanto più grottesca perché arricchita da una tempestiva dichiarazione del presidente del consiglio, che pure sapevamo occupatissimo negli Emirati per trovare un adeguato acquirente della nostra compagnia di bandiera.
Nonostante i pressanti impegni internazionali, le dure critiche di Confindustria, il disastro del paese sott’acqua, la botta dell’Unione europea contro la devastante corruzione, Enrico Letta non ha voluto farci mancare la sua opinione sullo scontro tra Daria Bignardi, la conduttrice del programma “Le invasioni barbariche” (titolo perfetto), e un ex concorrente del “Grande Fratello” (all’epoca animato proprio da Bignardi) oggi diventato un dipendente dell’ufficio stampa dei gruppi parlamentari pentastellati. «E’ scandaloso - attacca il presidente del consiglio mentre ha accanto l’ignaro Sheikh Mohamed bin Zayed Al Nahyan - e non posso non commentare le frasi folli di Grillo verso Daria Bignardi e suo marito».
In sintesi è accaduto che la conduttrice abbia iniziato l’intervista al parlamentare grillino, Di Battista, chiedendogli dei trascorsi fascisti del padre. Per tutta risposta, l’ex concorrente del “Grande Fratello” le ha scritto una lettera aperta sul Blog di Grillo chiedendole come si sentirebbe lei se un intervistatore le chiedesse che effetto fa aver sposato il figlio di un assassino (il marito di Bignardi è Luca Sofri, figlio di Adriano). Come si vede siamo finiti nel sottoscala del dibattito politico, dentro quel tafferuglio mediatico che ha avvelenato da gran tempo l’habitat culturale nella disastrosa era berlusconiana. E chi, tra i protagonisti della telenovela, è senza peccato scagli pure la prima pietra.
Il cortocircuito tra tv e rete è il campo di battaglia in cui si svolge questa guerra tra lobby in lotta per la conquista del consenso. Da una parte la strategia di Grillo e Casaleggio che pianificano la loro macchina da guerra mettendo in rete la provocazione sessista per testarne l’effetto, propagarlo in televisione e ritirarlo quando ha avvelenato l’aria. Dall’altra la televisione che risponde mettendo a disposizione delle “istituzioni” i programmi di prima serata (Laura Boldrini a Raitre da Fazio, a La7 prima Di Battista e subito dopo, a mo’ di controcanto, il giornalista-scrittore Corrado Augias, ieri sera chiamato anche a “Ottoemezzo”), per stigmatizzare i grillini come fascisti-eversori. Da una parte un nichilismo parlamentare fatto apposta per non ottenere alcun risultato concreto che smentirebbe l’inaffidabilità del parlamento. Dall’altra i rappresentanti delle ammaccate e traballanti istituzioni che hanno buon gioco a mescolare insieme il vero fascismo (l’incitamento allo stupro), con le forme criticabili, estreme di un’opposizione fasulla.
Lo spettacolo è assicurato, il telecittadino è intrappolato, pronto per il prossimo sondaggio elettorale.
«L’economia non riesce a stare al passo con la promessa della democrazia. Il problema è che, ora, anche la politica sembra voler seguire le orme dell’economia e cessare di preoccuparsi di quella promessa».
La Repubblica, 4 febbraio 2014
Una democrazia dei due terzi: è questa la rappresentazione della società che proviene dai dati resi noti da Bankitalia. Si tratta di una conferma dello stato della diseguaglianza socio-economica, che non solo non tende a correggersi, ma si riafferma come caratteristica endogena, un male cronico. L’economia non riesce a stare al passo con la promessa della democrazia. Il problema è che, ora, anche la politica sembra voler seguire le orme dell’economia e cessare di preoccuparsi di quella promessa; anch’essa è sempre meno inclusiva e sempre più preoccupata a rappresentare i molti, non tutti o quanti più è possibile. Avere voce forte è un prerequisito per contare ed essere contati, e le procedure sono sempre più disposte a riflettere questo fatto invece di correggerlo.
È ragionevole tentare un parallelo tra lo squilibrio economico e la fisionomia della democrazia? La domanda è retorica, poiché l’opinione pubblica ha la percezione di questo parallelo, anche se lo stato della ricerca che valga a confermarlo è ancora in fieri. Ci sono tuttavia buoni indizi per tentare una triangolazione tra la crescita della diseguaglianza e della povertà, il restringimento della partecipazione elettorale, e l’inclusività delle regole del gioco. Il massiccio parlare di democrazia, l’ideologia che la vuole come la migliore forma di governo, e la sua solitudine planetaria si accompagnano paradossalmente a una crescita di indifferenza verso la politica e di sfiducia nelle sue attuali procedure di decisione. Rivedere le regole è a un tempo un riflesso e un esito di questa società più diseguale e divisa.
I dati di Bankitalia confermano del resto un trend ventennale che parla di un progressivo peggioramento del reddito familiare medio e di un allargamento della forbice tra chi può (poco o molto) e chi non può (poveri relativi, impoveriti e a rischio di povertà). Il trend è questo: crescita della concentrazione dei redditi e della povertà. I poveri o coloro che non riescono a far fronte ai bisogni minimi sono circa il 14 percento (con punte del 25 percento nel Mezzogiorno); i bilanci delle famiglie sono distribuiti in maniera corrispondente: il 10 percento delle famiglie più ricche possiede quasi la metà della ricchezza netta totale mentre è raddoppiata in quattro anni la fascia di coloro che sono caduti in povertà. Dati che confermano il dubbio: la ricchezza è concentrata nel 64 percento della popolazione; ovvero, per semplificare al rialzo, poco più di due terzi dentro, gli altri fuori.
Benché la correlazione tra diseguaglianza economica e stato della democrazia sia costruita su ipotesi (ma scienziati sociali stanno dovunque lavorando per comprovarla con dati certi), viene spontaneo il dubbio che l’andamento della forbice sociale abbia ricadute più o meno dirette sulla politica. Non è un caso del resto che la partecipazione elettorale abbia subito un declino progressivo negli ultimi due decenni, quasi a seguire la traiettoria dell’eguaglianza economica: alle recenti consultazioni politiche hanno votato circa il 75 percento alla Camera e 70 percento al Senato, cifre che rispecchiano quelle relative al numero delle persone nelle mani delle quali sta la ricchezza. Difficile stabilire una corrispondenza diretta; sufficiente avere squadernata davanti agli occhi la similitudine tra questi due dati.
Dati empirici di alcuni decenni provano che il sistema politico è “usato” o praticato più da chi si posiziona meglio nella società. Ciò non significa, ovviamente, che la democrazia sia “posseduta” da chi la pratica, dagli inclusi o dai meglio rappresentati. Starsene a casa, restare indifferenti alla politica o non avere la propria voce rappresentata non comporta perdere nulla in termini di diritti e uguaglianza legale. Tuttavia si dovrebbe essere allarmati per il deprezzamento della democrazia da parte di una fetta sempre più larga di cittadini, tra l’altro confermato da dati recenti, che parlano di delusi del funzionamento delle istituzioni e di desiderio di governi forti, con pochi esperti e poche sigle partitiche. Forbice tra le classi, forbice tra gli elettori, forbice tra cittadini e politici: una società divisa, con pesi sociali sempre meno proporzionati, e una tendenza alla registrazione ineguale della voce dei cittadini. Una fisionomia sfigurata che mostra il paradosso del trionfo della forma democratica di governo proprio mentre si assiste a un effettivo restringimento del valore inclusivo delle sue istituzioni.
Razzismo, grillismo, populismo, In Italia e altrove. «Nel corso del XX secolo l’idea e la prassi della democrazia hanno fatto passi avanti, ma restano fragili, e dovrebbero essere costantemente ripensate, rinnovate, reinventate. Questa è oggi la posta in gioco decisiva».
La Repubblica, 4 febbraio 2014
In parallelo, indipendentemente da Beppe Grillo e dai suoi, si moltiplicano le manifestazioni e gli attacchi razzisti contro la ministra Cécile Kyenge. Molti commentatori guardano con preoccupazione a questi fatti, e c’è chi vi scorge un segnale premonitore della rinascita del fascismo. Va detto però che l’Italia non detiene il triste privilegio di questa sindrome inquietante.
Al di là delle Alpi assistiamo a una radicalizzazione delle proteste di piazza. Il 2 febbraio, gli oppositori della legge che autorizza il matrimonio di coppie dello stesso sesso hanno sfilato pacificamente in difesa della famiglia tradizionale; ma già una settimana prima, domenica 26 gennaio, le vie di Parigi avevano assistito a un evento senza precedenti: una manifestazione antigovernativa intitolata “Giorno della collera”, che ha radunato una folla eterogenea di cattolici integralisti, reazionari dichiarati, militanti di estrema destra, amici del comico antisemita Dieudonné, ma anche simpatizzanti dell’ultrasinistra. I manifestanti, non paghi di attaccare il presidente della Repubblica, hanno contestato la sua legittimità, e nella capitale francese, per la prima volta in modo così massiccio dalla fine della seconda guerra mondiale, sono risuonati slogan esplicitamente antisemiti. Di fatto, gli atti e gli insulti razzisti si stanno moltiplicando in ogni direzione: nei confronti di ebrei e musulmani, o contro la ministra della Giustizia Christiane Taubira, francese della Guyana.
Si tratta di eventi diversi che certo non possono essere assimilati tra loro. Lo stesso Movimento 5 Stelle ad esempio presenta una forte ambivalenza ideologica e politica, con un misto di temi della sinistra classica sul piano sociale e di quella postindustriale sulle questioni dell’ambiente e dell’acqua, mentre rivendica una forma diversa di democrazia, benché guidato da un leader quasi onnipotente. E al tempo stesso è combattuto - fenomeno classico per questo tipo di movimenti - tra una funzione di canalizzazione della protesta, legata alla sua stessa accettazione del principio elettorale, e la volontà di rimanere un outsider che infrange le regole, sopprime i tabù e ostenta permanentemente la propria diversità, rifiutando di essere considerato un partito come gli altri.
In Francia, i movimenti di piazza sfuggono per il momento a ogni rappresentanza politica. Il partito dell’ex presidente Sarkozy, l’Ump (Union pour un Mouvement Populaire) ha condannato la manifestazione del 26 gennaio, ma è diviso sull’atteggiamento da adottare nei confronti dei difensori intransigenti della famiglia tradizionale. Martine Le Pen, che in vista di conquistare il potere si è impegnata in una strategia di responsabilizzazione, dà prova di grande prudenza a fronte di queste mobilitazioni.
Ma al di là delle differenze, indubbiamente il clima che si è instaurato, in Italia come in Francia, è pesante. Ormai non si tratta più del sempiterno allarme per l’ascesa dei populismi in Europa. Quello che vediamo potrebbe essere l’inizio di una disgregazione generalizzata dei fondamenti stessi delle nostre società democratiche.
Davanti a questo quadro cupo, è il caso di parlare di un ritorno agli anni Venti e Trenta del secolo scorso? A mente fredda, dobbiamo ricordare che la Storia non si ripete, anche se balbetta. Nel corso del XX secolo l’idea e la prassi della democrazia hanno fatto passi avanti, ma restano fragili, e dovrebbero essere costantemente ripensate, rinnovate, reinventate. Questa è oggi la posta in gioco decisiva. La soluzione non verrà soltanto dalla “società civile”, ritenuta per sua natura buona e virtuosa, benché percorsa da orientamenti contraddittori; dipenderà anche dai responsabili politici, economici, sociali e culturali. Spetta a loro adottare comportamenti esemplari, promulgare riforme di vasta portata nei rispettivi Paesi e in Europa, elaborare un progetto, ricostruire una narrativa mobilitante. Nella speranza che non sia troppo tardi.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
Si può dire che la stampa di destra ha strumentalizzato il caso (magari per strizzare l’occhiolino a un determinato elettorato)? (…)Si può dire che la legge voluta tanto dal ministro La Russa è stata promulgata incompleta, come spesso capita, senza linee di guida di ingaggio specifiche e soprattutto chiare? I due marò non pagano ora questa approssimazione per non parlare di presappochismo?
Ci voleva una grande mente per immaginare che un incidente privato con personale militare a bordo avrebbe potuto trasformarsi in una crisi tra governi? Si può dire che non ho sentito parlare di procedure acustiche o manovre elusive o dissuasive prima di passare alle armi? Si può far notare che in quelle acque non sono mai avvenuti attacchi di pirateria? Il capitano della Enrica Lexie è un civile, risponde al suo armatore ed infatti è tornato in porto assecondando le autorità indiane. Un corto circuito inevitabile.
E la procedura non prevede di fare immediatamente rapporto alle autorità in caso di attacco pirata, cosa che mi pare non sia avvenuta? Perché i due marò appena scesi a terra hanno prima sostenuto di non essere stati loro e poi di essere stati loro ma in acque internazionali? Si può sommessamente far notare che le vittime sono i due poveri pescatori indiani che per un pugno di rupie erano usciti in mare mai immaginando di non tornare vivi?
Si può dire che un’obbiettivo di assoldare «personale specializzato» non è solo ridurre al minimo il rischio d’assalto alle navi ma anche tagliare i costi assicurativi sempre più esosi? Si può dire che per la Marina militare per ogni giorno di imbarco per marò incassa 500 euro ed è un’entrata difficile da rifiutare? Si può dire che l’Italia è l’unico Paese ad aver regolato un uso così esteso di forze armate su mercantili privati (grazie Silvio)? Si può sottolineare che i due marò non hanno mai passato un solo giorno nelle spaventose carceri indiane? Si può dire che i due marò non godono di immunità funzionale in quanto militari perché non lavoravano per conto dello Stato ma di una compagnia privata? E che tutto sarebbe stato facilmente chiarito se i nostri due militari avessero ripreso tutto con un filmato? ultimo ma non minore… in questo pasticcio internazionale quanto costa la nostra povera rilevanza nazionale e scarsa credibilità politica
Una notizia (dalla stampa locale) e un commento non veneziano scritto per
eddyburg, 3 febbraio 2014. con postilla veneziana
La notizia
ROMA - «Abbiamo preso l'impegno di esplorare l'opportunità di costruire un museo islamico a Venezia nel Canale grande». Lo ha detto il presidente del consiglio Enrico Letta in conferenza stampa da Doha, aggiungendo di aver «discusso di questa opportunità, dobbiamo vedere e fare una valutazione profonda di questo progetto». (la Nuova Venezia, 3 febbraio 2014)
Il commento
Una lettura giornalistica (e come al solito ricca di punti fermi) delle trasformazioni avvenute nell' Italia degli ultimi decenni: appena al di là della superficie ma non priva di elementi d'interesse.
La Repubblica, 3 febbraio 2014, con postilla
Non gliela potevano, certamente, dare i partiti di massa della Prima Repubblica, DC e PCI. Integrati nello Stato e nel sistema pubblico. Nelle reti comunitarie del territorio. Nel sistema assistenziale. La “cetomedizzazione” ha, invece, trovato risposta dapprima nella Lega Nord. Nata e cresciuta, appunto, lungo la linea pedemontana, dove, fin dagli anni Ottanta, si è affermato lo sviluppo di piccola impresa. Sul solco della Lega e nel vuoto di rappresentanza lasciato dai partiti della Prima Repubblica si è proiettato, Silvio Berlusconi. Che ha offerto ai ceti-medi: volto, linguaggio. Identità. Berlusconi: l’Imprenditore in politica. Che fa politica. Al posto dei politici di professione. Contro di loro. Trasforma la politica in marketing. Il partito in impresa. La propria impresa in partito. Berlusconi: ha dato rappresentanza alla neo-borghesia, con basi e radici nel Lombardo-Veneto. Condividendo la “missione” della Lega. Anche se, alla fine, ha garantito soprattutto se stesso e i propri interessi. Berlusconi: ha trasformato il ceto medio nella “società media”, il “pubblico” con cui comunicare e a cui fornire identità attraverso i media. Mentre gran parte degli italiani confluiva nell’ampio e indistinto bacino dei “ceti medi”. Ancora nel 2006 quasi il 60% della popolazione (indagine Demos-Coop) si auto-collocava tra i ceti medi. Il 28% nelle classi popolari (i ceti medio-bassi). Il 12% nelle classi più elevate. L’Italia media aveva radici profonde impiantate nel Nord e basi solide tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti (questi ultimi, però, posizionati più in alto). Anche il 60% degli operai, allora, si sentiva “ceto medio”.
Poi è arrivata la crisi. Economica e politica. Ha scosso, con violenza, le basi del ceto medio. Ne ha indebolito la condizione e, al tempo stesso, il sentimento, l’auto-considerazione. Ne ha accentuato il senso di vulnerabilità. Lo stesso, d’altronde, è avvenuto altrove. Anche negli USA, come mostrano le indagini di PEW Research Center, la quota di coloro che si identificano fra i ceti medi dal 53% nel 2008 cala al 44% nel 2014. Poco più di quanti si (auto) posizionano nei ceti più bassi: 40%. Quasi il doppio rispetto al 2008. Anche e forse soprattutto per questo motivo Obama ha promosso il suo piano di incentivi all’occupazione e all’economia. Tra cui l’innalzamento delle retribuzioni minime di alcune categorie di dipendenti federali. Per alimentare i consumi, ma anche per contrastare il senso di deprivazione relativa che spinge verso il basso le aspettative di mobilità sociale. In Italia, però, questo processo è avvenuto in modo molto più rapido e sostanziale. L’ascensore sociale, in pochi anni, si è inceppato. E oggi la maggioranza assoluta degli italiani ritiene di essere discesa ai piani più bassi della gerarchia sociale (Sondaggio Demos- Fond. Unipolis). Coloro che si sentono “ceti medi” sono, infatti, una minoranza, per quanto ampia. Poco più del 40%. Così, l’Italia non è più cetomedizzata. È un Paese dove le distanze sociali appaiono in rapida crescita. Tanto che l’85% della popolazione (sondaggio Demos-Fond. Unipolis) oggi ritiene che “le differenze fra chi ha poco e molto siano aumentate”.
Non è un caso che questa dinamica abbia coinvolto, in modo particolarmente intenso, le basi e il terreno originario della neoborghesia. I lavoratori autonomi: meno del 40% di essi si considera “ceto medio”. Oltre il 50%, invece, si percepisce di classe medio-bassa. La stesse misure si osservano nel Nord. La cui distanza sociale, rispetto al Mezzogiorno, sotto questo profilo, appare molto ridotta. Anzi, il peso di coloro che si auto-posizionano in fondo alla scala sociale, nel Nordest (55%) — “patria” della neo-borghesia autonoma — è superiore rispetto al Sud (53%). Gli operai, infine, sono tornati al loro posto. In fondo alla scala sociale (63%). È il declino dell’Italia media e cetomedizzata. Segna il brusco risveglio dal “sogno italiano” interpretato dal berlusconismo. Poter diventare tutti padroni (almeno, di se stessi). Ciascuno nel proprio piccolo (o nel proprio grande). Mentre le questioni territoriali sembrano svanire. E si sente parlare sempre meno della Questione Settentrionale, ma anche di quella Meridionale. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, si afferma una forza politica, i cui consensi sono distribuiti in modo omogeneo in tutto il territorio italiano. Alimentati e unificati dalla sfiducia verso lo Stato e verso la politica. E dalla delusione sociale. Non è un caso che, tra le principali forze politiche, il M5s sia quella dove si osserva la maggiore quota di elettori che si identificano con i ceti più bassi (quasi il 60%) e, per contro, la minore quota di chi si sente ceto medio (39%).
Il declino del ceto medio lascia un Paese senza sogni, incapace di sognare. Dove le distanze sociali hanno ripreso a crescere, mentre il territorio affonda nelle nebbie. Soprattutto il Nordest, capitale della neoborghesia autonoma. Il declino del ceto medio, in Italia, definisce — e impone — una questione “nazionale” che nessuna riforma elettorale potrà risolvere.
Postilla.
Pur nella superficialità giornalistica dell’analisi emergono due dati interessanti a proposito di quel coacervo di ceti sociali che si collocano tra i proprietari e gestori del capitale e quelli della loro forza lavoro: il mitico “ceto medio”. Il primo: mentre nei paesi del Terzo mondo il ceto medio aumenta, la società diventa più complessa, cresce la popolazione che si avvicina al benessere, in Italia accade il contrario. Il secondo. Nel nostro paese (e forse nell’insieme del Primo mondo) la previsione marxiana della crescente pauperizzazione dei gruppi sociali intermedi tra le classi dei capitalisi e dei proletari tende ad avverarsi.
Centinaia di attivisti da tutta Europa riscrivono la nuova Carta dei diritti del migrante, fondata sull'uomo non sulle cose. Dal cuore caldo della società un'iniziativa per affrontare un tema - quella delle nuove forme dello sfruttamento dei popoli - oggi cruciale nella guerra mondiale per il destino di noi tutti.
Il manifesto, 2 febbraio 2014
Sull’isola butta vento di libeccio. Le onde schiumano alte e i traghetti sono rimasti al sicuro, attraccati alle banchine di Porto Empedocle. Molti han dovuto abbandonare le speranza di raggiungere l’isola. Eppure sono in tanti, qui, gli attivisti venuti a scrivere la Carta di Lampedusa, per disegnare dal basso una nuova geografia dei diritti. Tanti che, in tutta l’isola, non hanno trovato una sala sufficientemente capiente per contenere tutti i presenti, e hanno dovuto così chiedere lo spazio della sala conferenze interna allao scalo aeroportuale.
Solo venerdì, durante la riunione introduttiva dei lavori, i partecipanti registrati erano oltre trecento. Questo primo incontro ha fornito una importante occasione di confronto con gli abitanti desiderosi di raccontare la vita di chi è costretto a vivere una vita in cui tutto si trasforma in emergenza. L’intervento della sindaca, Giusi Nicolini, di cui raccontiamo a lato, è stato seguito da quelli dei rappresentanti degli imprenditori e di alcune associazioni locali.
«La gente di Lampedusa non ne può più di tutti quei politici che vengono qui a far passerella: promette mari e monti e poi se ne va, abbandonandoci in un mare di problemi — confessa Angelo Mandracchia, portavoce degli imprenditori -. Il vostro approccio però è diverso. Non pretendete di insegnarci come fare accoglienza. Non promettete niente. Criticate queste politiche migratorie che scaricano tutto il problema sulle piccole comunità di frontiera. E noi di Lampedusa siamo i primi a poter dire, come dite voi e proprio perché lo abbiamo constatato sulla nostra pelle, che queste sciagurate politiche migratorie sono inutili, costose e sconfitte in partenza. Non possiamo fare a meno di domandarci ogni giorno, cosa potremmo realizzare con tutti i milioni di euro che spendono per militarizzare l’isola, se fossero invece investiti per una vera accoglienza e per migliorare le condizioni di vita degli abitanti. Lo sa lei che basta qualche settimana di maltempo per lasciarci tutti senza frutta, senza verdura e anche senza gas?».
La straordinaria partecipazione con la quale i lampedusani hanno accolto gli attivisti sbarcati nella loro isola da tutta Italia oltre che da tanti altri Paesi d’Europa e del Nordafrica, è proprio la prima nota da sottolineare. Le iniziali diffidenze sono state superate in tanti incontri nelle scuole, nella sede del Comune e, non da ultimo, ai tavolini dei bar e delle pasticcerie. Un confronto utile per capire come Lampedusa stia vivendo questa sua altalenante e schizofrenica condizione di isola caserma e di isola dell’accoglienza allo stesso tempo. Perché la bella Lampedusa è prima di tutto una caserma a cielo aperto e la presenza militare in città è a dir poco asfissiante. Le strada principale che attraversa il paese, la pedonale via Roma, è continuamente attraversata in senso perpendicolare da camionette e da blindati dei carabinieri. Sui muri, si contano a decine e decine i cartelloni con la scritta «Zona militare. Vietato l’accesso». E poi elicotteri, militari in assetto da guerra, guardie di finanza, polizia di frontiera. Impossibile anche fotografare il «cimitero» dei relitti, quanto resta cioè dei barconi che trasportavano i profughi, che ha subito qualche giorno fa un tentativo di incendio da parte di ignoti. L’area è presidiata da militari che allontanano i curiosi. E se spieghi che sei un giornalista ti rispondono: «Proprio per questo».
Ieri invece è stato il giorno della scrittura della Carta, iniziata in una sala sempre più stretta che non ha smesso di riempirsi per tutta la mattinata e che faticava a contenere tutti. Punto su punto, sono stati discussi e redatti nella loro forma definitiva tutti i capitoli che costituiranno la Carta di Lampedusa e sui quali, vale la pena ricordarlo, è stato svolto nei mesi precedenti un grande lavoro di scrittura collettiva sul web. Una lunga e faticosa giornata di discussioni e di aggiustamenti, tanto per chi forniva il suo contributo alla stesura del documento che dei tanti attivisti impegnati sul fronte della comunicazione per aggiornare blog, siti e social network. Anche perché, le realtà presenti erano davvero tante. Ed è proprio questo il secondo punto da evidenziare. La grande mobilitazione creatasi attorno all’appello lanciato dal Progetto Melting Pot Europa. Associazioni, italiane ma anche europee e nordafricane, laiche e cattoliche, movimenti, sindacati, media indipendenti, singoli cittadini ma anche inviati di amministrazioni comunali , praticamente l’arcipelago antirazzista che ruota intorno ad un Euromediterraneo disegnato sulle «frontiere» della libera circolazione.
«La stesura della Carta è stata un lavoro collettivo eccezionale — ha concluso Nicola Grigion di Melting Pot -. Il testo che è un vero e proprio patto tra tanti e diversi, ma allo stesso tempo una dichiarazione programmatica, frutto di uno forzo di condivisione che è già di per sé un fatto politico importantissimo. Ora ci aspettano mesi di lotte e campagne da condurre, a partire da quelle per la chiusura dei centri di detenzione. Ma anche un periodo in cui affrontare le politiche che l’Europa ha costruito nel Mediterrano. Per rovesciarle. Una sfida che non possiamo permetterci di perdere
Ecco come andare avanti per costituire, almeno per le elezioni europee, una lista di sinistra anche in Italia. Lo propongono Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Luciano Gallino, Paolo Flores d’Arcais, Marco Revelli, Guido Viale.
Eddyburg aderisce. Il manifesto, 1 febbraio 2014
Vogliamo ringraziare tutte e tutti coloro che hanno firmato l’appello per una lista di cittadinanza unitaria e apartitica che promuova la candidatura di Alexis Tsipras a Presidente della Commissione europea alle prossime elezioni europee. Grazie al vostro impegno abbiamo superato le 14.000 firme in meno di nove giorni, nonostante il silenzio della stampa e dei media. Tuttavia le adesioni raccolte (tra cui nomi della cultura, della scienza, dell’arte, del giornalismo e dello spettacolo) sono una goccia nel mare delle elettrici e degli elettori che vogliamo e dobbiamo raggiungere. Non intendiamo infatti rivolgerci solo all’elettorato della sinistra cosiddetta radicale, ma molto al di là. A quanti non votano più perché delusi o disgustati dalla politica ufficiale o, non vedendo più l’utilità dell’Europa, consegnano il proprio destino agli attuali «equilibri».
A chiha votato Pd controvoglia, perché in assoluto disaccordo con l’accettazione supina dei trattati europei che ci condannano all’austerità e alla rovina. A chi ha votato Cinque Stelle, malgrado una leadership potenzialmente autoritaria e ondivaga, in assenza di una alternativa credibile.
Riconoscersi nella figura di Alexis Tsipras, che ha costruito una forza elettorale maggioritaria non su tematiche e appelli demagogici antieuropeisti, ma su un impegno concreto a rinegoziare i trattati e il funzionamento dell’Unione europea, rende evidente la posta in gioco di queste elezioni: un disegno autenticamente europeista, contro l’ipotesi della cancelliera Merkel e di Shulz di piegare l’Europa alla stessa logica della Grosse Koalition tedesca.
Per tutti noi che abbiamo aderito e per quelli che aderiranno a questo progetto le cose cominciano dunque ora. È assolutamente necessario organizzarci al più presto, perché il tempo stringe e le cose da fare sono tantissime.
Dobbiamo dare un nome alla lista, definirne ulteriormente il programma, scegliere i candidati, creare strutture operative e comitati di sostegno nazionali e locali, raccogliere entro il 14 aprile le firme necessarie alla presentazione della lista (oltre 150.000; 30.000 per ciascuna delle cinque circoscrizioni e almeno 3.000 in ogni Regione, comprese le più piccole, su moduli ufficiali che includano già il nome dei candidati!), nominare uno o più tesorieri e raccogliere i fondi per finanziare la campagna elettorale in maniera autonoma e indipendente.
Abbiamo deciso la via della raccolta delle firme, anzichè tentare di appoggiarci a qualche forza presente in Parlamento, per sottolineare l’autonomia della lista che con voi costruiremo, e perché lo sforzo per la raccolta delle firme rappresenta un buon inizio della campagna elettorale.
I sei promotori saranno i garanti dei principi apartitici, democratici, inclusivi e orientati a un federalismo che promuova il rinnovamento radicale delle istituzioni dell’Unione europea, scongiurando così interferenze o tentativi di appropriazione del progetto che già in passato hanno fatto fallire analoghe iniziative, nate con intenti altrettanto unitari.
Entro pochi giorni lanceremo una consultazione on-line per decidere il nome della lista, allegando un invito al suo finanziamento, e attiveremo un comitato operativo, che potrà ampliarsi in seguito, secondo le esigenze che emergeranno. Invieremo una mail per fornire a tutti le modalità per entrare in contatto con i firmatari della stessa zona e con loro avviare la costituzione di comitati promotori locali, indicando al contempo referenti che facciano da collegamento con i garanti.
Alle associazioni, comitati di lotta, club, organizzazioni politiche, culturali, civiche e ambientaliste, nonché ai partiti che intendono sostenere il progetto mantenendo una loro autonomia operativa, proponiamo di associarsi a livello nazionale e a livello locale in uno o più comitati di sostegno alla lista, secondo il modello adottato per il referendum per l’acqua.
Nella lista, in coerenza con il programma, potranno venir candidate persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo in un partito nell’ultimo decennio; le proposte relative alle candidature dovranno essere presentate entro e non oltre il 16 febbraio, poiché il 22 dello stesso mese inizierà la raccolta delle firme e per quella data i candidati dovranno essere noti e in regola con le pratiche di accettazione; saranno fissate regole rigide sulla conduzione della campagna elettorale, stabilendo che i fondi che ogni candidato avesse eventualmente a propria personale disposizione vengano divisi con il comitato operativo, in modo che le spese personali non superino una percentuale fissa della spesa complessiva.
Il 24 di febbraio inizierà la raccolta delle 150.000 firme che rappresenta il maggiore sforzo a cui sarà sottoposta l’organizzazione che tutti insieme saremo riusciti a mettere in piedi per quella data.
Quello che stiamo attivando tutti insieme è un progetto nuovo: nei soggetti promotori, nel percorso, nelle modalità. Per questo richiede a ciascuno la capacità di pensarsi dentro un percorso collettivo e non in quanto interprete di istanze di parte. Questa è la difficoltà maggiore e bisogna esserne consapevoli.
Chi ha chiesto il voto ai cittadini italiani per farsi eleggere in parlamento e in quel contesto rappresentare l’opposizione deve sì rispettare il mandato che ha ricevuto, ma deve poi assumersi la responsabilità di osservare le regole di quella sede istituzionale e condurre la propria battaglia nelle forme consentite dalla democrazia rappresentativa (compreso naturalmente un duro ostruzionismo). Tanto più che proprio il grillismo obbedisce a una maniacale attenzione ai riti e alle forme (internettiane) con cui scegliere gli obiettivi dell’azione parlamentare. Ma a che scopo se poi anziché usare la forza dei numeri e la qualità degli argomenti per creare alleanze e farsi motore di un’opposizione vincente, tutto si riduce (e si svilisce) nella messa in scena di un po’ di gazzarra?
Forzare il gioco fino a trasformare le aule parlamentari in un surrogato della piazza significa impiccarsi alle proprie difficoltà, rivelando tutta l’ambiguità e le contraddizioni di un Movimento che poi, alla resa dei conti, obbedisce alla linea proclamata da Grillo nei comizi: l’unica via è prendere la maggioranza assoluta dei voti e poi governare da soli. Niente di diverso dal ritornello che abbiamo sentito ripetere in tutti questi anni da Berlusconi: datemi i voti e lasciatemi fare. L’eterna pulsione dell’uomo solo al comando. La stessa logica che oggi assume le sembianze del sindaco di Firenze, osannato da giornali e televisioni per il rassicurante piglio decisionista.
Saltare sui banchi del governo, costringere la presidente della camera a chiudere i propri uffici per evitarne l’occupazione, lanciare insulti sessisti contro le deputate del Pd, fino a usare l’arma estrema dell’impeachment verso il Presidente della Repubblica, come si trattasse di scrivere un volantino, tutto questo serve solo a conquistare i cinque minuti di celebrità, offuscando però la sostanza, il merito delle questioni politiche sollevate. Che pure il M5Stelle ha portato nelle aule parlamentari in molte occasioni. Per esempio sul caso Shalabayeva, sull’acquisto degli F35, sulla truffa delle slot-machine, sul salva-Roma, sui casi Cancellieri e De Girolamo, sull’articolo 138 della Costituzione.
Intendiamoci, nessun sacrario è stato violato e chi parla di squadrismo fascistoide gioca allo stesso gioco dei grillini. Senza nemmeno avere tutte le carte in regola per dare lezioni di democrazia, visto che solo l’uscita dal governo delle larghe intese dei falchi berlusconiani ha tolto di mezzo la programmata manomissione della Costituzione.
Così quel che alla fine il ricco spettacolo mediatico mette in evidenza è la difficile agibilità di una battaglia di opposizione sia nelle istituzioni rappresentative che nella società. Anche perché nelle aule del parlamento dei nominati, i partiti, sempre più comitati elettorali, non rappresentano più da molti anni la voce del paese. Non vanno nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei quartieri. E le lotte generose delle associazioni, che invece animano la democrazia di base, incontrano solo il grande muro di gomma delle nomenclature che respingono il conflitto o trattandolo duramente come un affare di ordine pubblico, o facendolo galleggiare in un perenne surplace, in un eterno moto inerziale.
E questa sorda campana suona per tutti, grillini compresi
L’odio degli straricchi e strapotenti è un buon segnale per i governanti che svolgono il loro compito nell’interesse del loro popolo, come diceva ieri Roosvelt e potrebbe dire oggi Obama. Ma nessun plutocrate odierà Enrico Letta o Matteo Renzi.
La Repubblica, 30 gennaio 2014
La crescente ineguaglianza ha costi economici evidenti: salari stagnanti malgrado produttività in aumento, debito che cresce e ci rende più esposti alla crisi finanziaria. Essa comporta però anche notevoli costi in termini sociali e umani: per esempio, è dimostrato che una grande ineguaglianza conduce a un peggioramento della sanità e a una mortalità più alta.
Ma c’è dell’altro. Si è scoperto che l’ineguaglianza estrema crea una categoria di persone distaccate in maniera inquietante dalla realtà, e al tempo stesso conferisce loro grande potere. L’esempio per il quale in questo periodo molti sono in subbuglio è quello dell’investitore miliardario Tom Perkins, socio fondatore di Kleiner Perkins Caufield & Byers, una società di investimento in capitali di rischio. In una lettera che ha indirizzato al direttore del Wall Street Journal, Perkins biasima le critiche ufficiali mosse nei confronti “dell’uno per cento” - i più abbienti della popolazione - , e le paragona alle aggressioni naziste contro gli ebrei, lasciando intendere che saremmo in dirittura d’arrivo per un’altra Notte dei Cristalli.
Si potrebbe affermare che si tratta soltanto di un altro pazzo tra tanti, e potremmo chiederci anche perché il Wall Street Journal pubblichi contenuti di questo genere. In realtà, Perkins non è un caso anomalo. Non è nemmeno il primo titano della finanza a mettere sullo stesso piano dei nazisti i sostenitori dell’imposizione fiscale progressiva. Già nel 2010 Stephen Schwarzman, presidente e direttore esecutivo del Blackstone Group, aveva dichiarato che le proposte volte a eliminare le scappatoie fiscali per i manager di hedge fund e private equity andavano equiparate «all’invasione da parte di Hitler della Polonia nel 1939».
Ci sono anche numerosi ricchi e potenti che sono riusciti a tener fuori Hitler dalle proprie considerazioni e nondimeno hanno ed esprimono con veemenza opinioni politiche ed economiche nelle quali paranoia e megalomania si mescolano in egual misura. So che quanto dico può sembrare esagerato, ma ascoltate tutti i discorsi e leggete gli articoli di opinione di chi si schiera con Wall Street e accusa il presidente Barack Obama - che non ha fatto nient’altro che dire cose scontate e ovvie, cioè che alcuni banchieri hanno agito male - di demonizzare i più abbienti e di accanirsi contro di loro. E guardate anche quanti di coloro che lanciano queste accuse hanno la pretesa, ridicola ed egocentrica, di affermare che proprio i loro sentimenti feriti (e non altre cose, come l’indebitamento delle famiglie e una precipitosa austerità fiscale) sono il principale fattore che frena l’economia.
Ogni gruppo, tuttavia, si trova prima o poi a dover far fronte alle critiche e nelle battaglie politiche finisce sul versante dei perdenti. Questa è la democrazia. La vera domanda da porsi è che cosa accadrà dopo. La gente normale affronta tutto ciò senza battere ciglio e, pur essendo arrabbiata o scontenta dai contrattempi della politica, non va sbraitando di essere perseguitata, non paragona chi la critica ai nazisti, non afferma con insistenza che il mondo ruota attorno ai suoi sentimenti feriti. I ricchi, però, sono diversi da voi e da me.
È vero, in parte sono diversi perché hanno più soldi e il potere che ai soldi sempre si accompagna. Possono circondarsi, e lo fanno fin troppo spesso, di cortigiani che dicono loro quello che vogliono sentirsi dire e che mai e poi mai direbbero loro che sono fatui. Sono abituati a essere trattati con deferenza non soltanto dai sottoposti che assumono, ma anche dai politici che desiderano ardentemente i loro contributi elettorali. Di conseguenza, quando scoprono che con i soldi non si compra tutto né ci si può tutelare da ogni avversità, restano sconvolti. Sospetto anche che gli odierni Padroni dell’Universo a questo punto nutrano perplessità perfino sulla natura del loro successo. Qui non stiamo parlando di capitani d’industria o di persone che fabbricano cose, ma di faccendieri, di persone che comandano a bacchetta e si arricchiscono occultando una parte del loro denaro al fisco. Possono anche vantarsi di creare posti di lavoro, di far girare l’economia, ma creano davvero valore aggiunto? Molti di noi ne dubitano, e così pure, presumo, alcuni dei ricconi stessi, con quella forma di insicurezza che porta a scatenarsi con furia ancora maggiore contro chi muove critiche nei loro confronti.
In ogni caso, queste sono cose che abbiamo già visto. È impossibile leggere sproloqui come quelli di Perkins o di Schwarzman senza che torni in mente il famoso discorso di Franklin D. Roosevelt del 1936 al Madison Square Garden quando, parlando dell’odio di cui era fatto oggetto da parte delle forze del «capitale organizzato», dichiarò: «E io do il benvenuto al loro odio».
Obama, purtroppo, non ha fatto niente di simile a quanto fece Roosevelt per guadagnarsi l’odio di ricchi immeritevoli. Nondimeno, ha fatto molto più di quanto molti progressisti sono disposti a riconoscergli e, come Roosevelt, sia lui sia i progressisti in generale dovrebbero dare il benvenuto a quell’odio, in quanto segno evidente che stanno facendo qualcosa di giusto.
Traduzione di Anna Bissanti © 2014 New York Times News Service
«Un premio pari quasi alla metà dei voti ottenuti viola il principio d’eguaglianza già censurato dalla Corte». Bocceranno anche il Renzuschellum. Giustamente.
La Repubblica, 30 gennaio 2014
La principale anomalia?
«La soglia prevista per beneficiare del premio di maggioranza è troppo lontana dal 50,1% per potersi chiamare così».
Un consiglio ai parlamentari?
La Consulta ha fissato paletti su premio e preferenze. Può scattare un nuovo ricorso?
«Il tetto al 37% è sicuramente in contrasto con la Corte, e mi meraviglia che il segretario del Pd non se ne sia reso conto. Un premio pari a quasi la metà dei voti ottenuti in sede elettorale non fa che reiterare la violazione del principio d’eguaglianza già censurata dalla Corte nel Porcellum. Anche la mancanza delle preferenze solleva gravi problemi di costituzionalità ».
È positivo che un partito non possa superare il 55%?
«Posto che la Carta prevede 630 deputati, il premio di 31 seggi alla coalizione di maggioranza è francamente eccessivo: garantirebbe la governabilità a troppo caro prezzo “per la rappresentatività dell’assemblea parlamentare”. E cito la Corte».
Le preferenze restano un punto chiave. Averle escluse viola il diritto di voto dei cittadini?
«Certamente sì. La Corte ha bocciato il Porcellum per questo e per l’eccessivo premio di maggioranza. Però, nel referendum del ‘91, gli italiani hanno votato per la preferenza unica, essendo note le irregolarità sottese alle preferenze multiple. Ma tuttora non è assicurata la segretezza del voto nelle circoscrizioni estere, come risultò nel caso Di Girolamo. Né le cose sono cambiate. Quindi, sia in Italia che all’estero, preferenza unica è garanzia della libertà del voto e della sua assoluta segretezza».
Le liste corte non bastano?
«Certo che no».
Le primarie possono sostituire le preferenze?
«Sì. Non si può dimenticare però che i partiti sono associazioni private. Bisognerebbe prima dettare regole sulla democrazia interna. Pertanto, campa cavallo…».
Piccoli partiti. È accettabile lo sbarramento al 4,5%?
«È eccessivo, soprattutto senza il finanziamento pubblico. Che dovrebbe essere legislativamente previsto, ma la cui spettanza va condizionata all’effettiva esistenza di un’organizzazione interna democratica ».
Ecco la legge con cui si preparano a farci votare.Un abito cucito addosso ai partiti della prima e delle seconda repubblica, una camicia di forza per il Parlamento della terza. Passa anche la norma Salva-Lega, altro omaggio a Forza Italia. Ma nel Pd l’opposizione si restringe alla "minoranza della minoranza".Il
manifesto, 30 gennaio 2014
Tre sole modifiche, la legge elettorale rimane sostanzialmente quella sottoscritta da Renzi e Berlusconi nello storico incontro in casa Pd. La prima modifica è quella sulla quale il Cavaliere ha resistito di più, dando il via libera finale solo ieri, a ridosso del pranzo. Sale di due punti percentuali la soglia da raggiungere per chiudere le elezioni al primo turno: con il 37% e oltre (era il 35%) la prima coalizione si aggiudica un 15% omaggio (era il 18%). Altrimenti ballottaggio. La seconda modifica è solo un ritocchino: scende di 0,5 punti percentuali la soglia di sbarramento per i partiti coalizzati. Prima erano esclusi tutti quelli sotto il 5%, adesso «solo» quelli sotto il 4,5%. Anche secondo l’ultimo sondaggio diffuso dalle televisioni Mediaset, ieri sera, è una modifica inutile. Non c’è nessun partito che sta sotto il 5% che riesce però a raggiungere il 4,5%. Sarebbero comunque esclusi Scelta civica, Sel, Udc, Fratelli d’Italia e Lega. Per la Lega però si farà un’eccezione. Grazie alla terza modifica. Battezzata appunto «salva Lega» perché apre le porte della camera a quei partiti che, pur restando sotto la soglia del 5% prevista per i partiti coalizzati, si presentano in non più di sette regioni (ad esempio quelle del Nord) raggiungendo il 9% in almeno tre.
La doppia manovra sul premio di maggioranza, ispirata dal Quirinale, è il risultato che porta a casa Renzi dopo una settimana di trattative. Adesso c’è una soglia, il 37% appunto, e anche un limite al premio, il 15%. Sono due risposte a due dei problemi individuati dalla Corte Costituzionale nel Porcellum. Peccato però che si tratti di limiti solo formali. Perché nella legge Renzi-Berlusconi è rimasto il «baco» dei partiti fantasma. Cioè tutti quelli che con i loro voti permetteranno alla coalizione di aggiudicarsi il premio, ma non avranno diritto a neanche un deputato perché resteranno sotto lo sbarramento del 5%. Più di 150 deputati saranno così eletti con i voti dei piccoli partiti, ma nelle liste del partito più grande che vincerà le elezioni. Partito (Forza Italia o Pd) che a conti fatti avrà un premio di maggioranza di nuovo potenzialmente illimitato (in linea teorica fino al 49,9%, ma è realistico che si avvicini al 30%). Un meccanismo di «scorporo» dei voti dei partiti rimasti sotto la soglia dal conteggio per il premio di maggioranza era stato proposto da più parti, ma sul punto né Renzi né Berlusconi hanno sentito ragioni. A loro interessava esplicitamente «mettere fine al ricatto dei partiti minori». In particolare a Berlusconi stava a cuore impedire la possibilità che Alfano e Casini tentino la strada di una lista o di una coalizione autonoma. Ed ecco che la soglia, mostruosa, per un partito non coalizzato non è stata nemmeno messa in discussione: resta all’8% (e al 12% per la coalizione). Un anno fa, pur in presenza di un forte astensionismo, l’8% dei voti validi corrispondeva a poco meno di tre milioni di elettori: con il nuovo sistema saranno completamente esclusi dalla rappresentanza parlamentare.
Due le conseguenze immediatamente prevedibili. Nasceranno tanti finti partiti e liste di comodo destinati solo a raccogliere voti per il partito capogruppo, che corre per raggiungere il premio di maggioranza. E gli elettori dei piccoli partiti coalizzati, quelli che non hanno speranze di raggiungere il 4,5%, saranno incentivati a restare a casa se non vogliono regalare i loro voti al partito egemone. L’effetto del riparto nazionale dei voti, poi, regalerà la sorpresa di eleggere con il proprio voto non uno dei candidati (da tre a cinque) che si troveranno sulla propria lista circoscrizionale, ma magari uno sconosciuto a centinaia di chilometri di distanza. Il tutto è stato se possibile peggiorato ieri, quando Berlusconi ha dato via libera alle reintroduzione delle pluricandidature chieste da Alfano. Alla fine saranno sempre i capilista a scegliere chi far entrare in parlamento. E infine è rimasta l’assurda possibilità di candidare alla testa di ogni lista due candidati dello stesso sesso (indovinate quale), prevedendo l’alternanza solo a partire dalla terza posizione.
Renzi e Berlusconi si giocheranno così la loro partita, nel 2015. Il Cavaliere può tentare di vincere al primo turno, ma ha bisogno di tempo per risalire nei sondaggi. Il segretario del Pd esclude qualsiasi alleanza e dunque punta da subito al ballottaggio. E non ha mai messo in discussione la concessione più grande fatta a Berlusconi: la rinuncia alle preferenze, malgrado la sentenza della Consulta dicesse l’opposto, e malgrado il Pd avrebbe tutto da guadagnarci (non il suo nuovo leader che così nominerà i deputati). Le terze forze sono tutte sul piede di guerra, dai grillini che ieri sera hanno occupato anche la prima commissione ai centristi a Sel. Anche il partito di Alfano ha qualche riserva. Ma la minoranza Pd ha già fatto sapere che non creerà problemi a Renzi. Il regolamento concede però il voto segreto in aula, dove la legge, ancora da emendare, arriva oggi pomeriggio. Ma è solo una formalità che serve per accorciare i tempi quando si comincerà a votare, a febbraio. «Rapidissimamente», dice Renzi.
Delocalizzazione Electrolux: «Non ci vogliono dei professori universitari per dire che si risparmia tagliando i salari e riducendo le pause. Questa vertenza può segnare il futuro delle relazioni sindacali nel nostro Paese».
L'Unità, 29 gennaio 2014
«Quando siamo entrate per la prima volta da questi cancelli facevamo 50 pezzi all’ora. Adesso siamo a 94. Il lavoro è aumentato, la paga diminuita. Ora vogliono anche il sangue». Marinella e Sabrina si stringono nei cappotti di pile e sfregano le mani guantate. Fa un bel freddo nel piazzale davanti all’ingresso nord dell’Electrolux di Porcia, in Friuli. Le due operaie, con altri 1.200 colleghi, condividono un paradossale destino: il loro posto di lavoro rischia di sparire perché sono troppo efficienti. La lavatrice che esce da queste linee costa 30 euro di troppo al pezzo. E siccome i ritmi di produzione sono già al massimo, più di 7,5 euro ad elettrodomestico non si riesce a risparmiare. Non rimane altro che mandare a casa le persone.
Nel piano draconiano della multinazionale svedese non sembra esserci posto per quello che, fino a una quindicina di anni fa, era il più grande stabilimento di lavatrici d’Europa. La Fiat del «bianco», che era arrivata a produrre due milioni e mezzo di pezzi all’anno, con marchi come Zanussi, Rex e Zoppas, e che ora, per i dirigenti scandinavi, è schiacciata dai concorrenti asiatici e polacchi. È il vento che soffia dall’Est, quello che fa più male: o vi adeguate ai salari che percepiscono i cugini della Polonia, o andate a casa, è il ragionamento che Electrolux ha presentato ai sindacati. Tagli che possono rendere le buste paga leggere, leggerissime: nell’immediato si tratta di 130-140 euro in meno, ma nel tempo i sindacati calcolano una riduzione fino al 40%. E se su Forlì (800 lavoratori), Susegana (Treviso, 1000 dipendenti), e Solaro (Milano, 900 addetti) si intende ancora investire anche se a condizioni che Fim, Fiom e Uilm bollano come inaccettabili -, alle maestranze di Porcia sembra essere negato anche questo filo di speranza. Fissata anche la deadline: entro fine aprile gli svedesi prenderanno una decisione irrevocabile.
Sciopero, è stata la risposta immediata. E ieri mattina, davanti ai cancelli erano in centinaia. Prima divisi in capannelli, in attesa degli impiegati che entrano più tardi. L’ultima battaglia si combatte tutti uniti. Gente che di sacrifici ne ha sempre fatti, da quando, nel 1984, con la vendita di Zanussi al gruppo scandinavo, «per sei mesi abbiamo dato il nostro stipendio a garanzia dei prestiti delle banche spiega Rodolfo, altro lavoratore di vecchia data -. Alle 10 arrivava il capo a farti firmare il foglio per la banca, e due ore dopo arrivava la busta paga». Adesso, lo spettro del licenziamento, «e poi ci mettono gli opuscoli sull’etica d’impresa», si lamenta un collega. Poi, certo, c’è chi ricorda che, a parte alcune linee, da troppi anni non si facevano investimenti sull’innovazione, nonostante la fabbrica resti fortemente automatizzata. «Come possiamo campare con lo stipendio di un operaio polacco? Tanto vale che ci passino una ciotola di riso per competere coi cinesi», osserva Remo. Considerazione amara, ma che contiene una grande verità: se la competizione è fatta solo sul costo del lavoro, troverai sempre qualcuno più economico di te. Lo dice bene Michela Spera, della Cgil nazionale, aprendo l’assemblea all’aperto: «Non ci vogliono dei professori universitari per dire che si risparmia tagliando i salari e riducendo le pause. Questa vertenza può segnare il futuro delle relazioni sindacali nel nostro Paese». Può rompere un argine che poi non sarebbe facile ricostruire.
“Se l’Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta”.
La Repubblica, 29 gennaio 2014
I trattati di psicologia insegnano: sempre ricadiamo nell’identica perversa letargia, intrappolati e sorpresi dagli eventi, quando non riconosciamo di esserne autori. La passività di fronte alla disperazione ucraina ripete quel che non sappiamo: imparare, fare autocritica, trasformarci.
Eppure gli elementi dell’immane complicazione di Kiev sono visibili. Sempre più, la protesta contro il regime di Yanukovich assume tratti spurî, inevitabili in un paese immerso in guerre civili perché reietto. L’ira esplose il 21 novembre, quando Kiev rinunciò al trattato di associazione con l’Unione per timore di perdere Putin, che sarà un semi- dittatore ma garantiva più aiuti dell’Europa, e contratti promettenti in materie vitali: le forniture d’energia. Dopodiché tutto s’è sbrindellato sfociando nel sangue, proprio come nelle primavere arabe (4 attivisti morti). L’insurrezione è senza leader e programmi stabili.
Nel suo torrente nuotano anche gli ultranazionalisti,raccontano i reporter, ma l’aggettivo è eufemistico. Anche se minoritarie, due destre estreme sono protagoniste: la formazione Svoboda,nata da un partito neonazista che inneggia a Stepan Bandera (collaborazionista di Hitler nella guerra) e che ancora nel 2004 si definiva social-nazionale, avendo come emblema una specie di svastica; e il «Settore di destra» (Pravi Sektor),che rischia di alterare un movimento in principio liberal-democratico. La russofobia, dunque il razzismo, le impregna. Mark Ferretti delSunday Times lo scrive sullaStampa: per tanti, «l’integrazione nell’Unione europea non è la priorità». Non basterà la revoca, ieri, delle leggi liberticide del 16 gennaio.
L’inerzia dell’Unione europea risale ai tempi dell’allargamento. Già allora ci si concentrò su regole finanziarie e giuridiche, e mancò la politica come sintesi: che difendesse la natura federale dell’Unione in modo da frenare i nazionalismi dell’Est, e costruisse un rapporto non sconclusionato con la Russia e le zone di mezzo fra lei e noi (l’«estero vicino», si chiama a Mosca: è «estero vicino» anche per noi). Una Russia influenzata certo dal passato (Putin ritiene una «catastrofe storica» la fine dell’impero sovietico, che sogna di restaurare), ma un paese mutante, col quale nessun discorso serio si apre perché sempre l’Europa aspetta — per comoda abulia, per vizi contratti in guerra fredda — che laprima mossa sia americana.
Quel che colpisce nel no di Kiev a Bruxelles dovrebbe farci pensare: proprio perché nuovo, frastornante. Perché il tumulto non ci dà automaticamente ragione, se l’Europa è un pretesto. Inutile perdersi in descrizioni di un’Ucraina ancora erede dell’ex Urss, e malefico sarebbe tollerare passioni torbide come la russofobia. Utile è riconoscere invece che l’era degli allargamenti è conclusa, che le adesioni o associazioni esterne fanno oggi problema. Perché quel che offre l’Unione, in tempi di recessione e di crisi che non sa sormontare, attrae enormemente ma anche respinge: sono così lontani, i frutti. L’Europa innalza muri di cinta e la Russia no, quali che siano i suoi colonialismi. C’è poco da compiacersi. La disfatta è nostra.
Se l’Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta. Ad esempio: dove finisce l’Europa e dove precisamente comincia l’Est? Cosa vuol dire confine, e l’EsteroVicino?E quali sono i criteri che permettono di affrontare il dramma di un popolo che vuole l’Europa ma in parte anche la respinge, temendo di accentuare la propria crisi infilandosi nella sua orbita?
Qui è il guaio: l’Europa assiste a simili terremoti come se fosse non un attore politico ma un semplice contenitore, una sorta di hotel degli Stati e dei popoli. L’allargamento nel 2004-2007 avvenne inscatolando, non integrando, e l’Unione non ne uscì rafforzata ma svuotata. I nuovi Stati, esclusa la Polonia a partire dal 2010, non hanno capito l’Unione in cui entravano: la scambiarono appunto per un recipiente, che invitava a trasferire sovranità nazionali verso l’ignoto, non verso un’autorità comune, solidale, forte di un’autentica politica estera. L’Ucraina è piena di buchi neri, ma anche noi. Ha vinto la ricetta britannica: mera custode di parametri finanziari, l’Unione è un’area di libero scambio, non una potenza politica.
Ogni giorno ci domandiamo se è peggio essere comandati dal Caimano direttamente o attraverso il suo pupazzo. Il
manifesto, 27 gennaio 2014
Verdini e Berlusconi li ha ascoltati volentieri, ma le osservazioni critiche dei maggiori costituzionalisti italiani no: quelle lo hanno fatto innervosire. Matteo Renzi ha preso male l’appello dei giuristi contro il suo progetto di riforma elettorale; lo hanno firmato da Azzariti a Carlassare, da Ferrajoli a Ferrara, da Rodotà a Villone e il manifesto lo ha pubblicato domenica. «Un manipolo di scienziati del diritto», li ha definiti sprezzante il segretario del Pd, usando il linguaggio che gli serve a intendersi con il Cavaliere.
Cavaliere che per le sue «porcate» elettorali o ad personam del resto faceva lo stesso. Tirava avanti comunque, per poi sbattere regolarmente contro la Corte Costituzionale. A quel punto, però, quelle leggi avevano già fatto danni. Per l’Italicum si intravede un destino simile. In effetti è ancora una legge firmata Berlusconi.
Chi avesse preso sul serio gli infiniti discorsi di Renzi sull’importanza del «merito», contrapposto al parlar vano della politica, avrebbe di che sorprendersi ascoltandolo adesso insolentirsi per le critiche nel merito dei giuristi. «Se non si fa questa legge elettorale ci tocca il governo con Berlusconi», spiega spiccio il segretario. A guardare sotto la spocchia lessicale questo è il suo unico argomento. Cioè, una riforma che amplifica i disastri della legge Calderoli, ignora le osservazioni della Consulta e regala a una minoranza un premio spropositato è una necessità politica? Taccia allora chi si preoccupa dei principi costituzionali. Ma se al sindaco di Firenze interessa questo e basta, vincere il famoso giorno dopo le elezioni, o meglio ancora quello prima, se il rispetto della volontà popolare è solo una fisima degli «scienziati del diritto», allora ha possibilità infinitamente maggiori. Verdini è un buon giocatore ma Berlusconi è un po’ appannato, perché Renzi non se la gioca a poker?
La Corte Costituzionale ha appena scritto che «le assemblee parlamentari si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare». Renzi risponde proponendo un senato di amministratori locali non eletti ma cooptati e una camera dove applicando l’Italicum all’ultimo sondaggio viene fuori che con il 22% dei voti al primo turno, e tutti i suoi alleati sotto la soglia, Forza Italia può prendere il 52% dei seggi.
Un premio del 30% che trasforma in cigno anche il Porcellum, che in fondo non è andato oltre un più 25% (comunque troppo per la Consulta). Così almeno era la legge che il segretario del Pd ha presentato al suo partito, accompagnandola con un perentorio «prendere o lasciare». Un ultimatum che ha già dovuto ritirare. Le soglie assurde che possono lasciar fuori partiti con due milioni e mezzo di voti si vanno abbassando. L’editto che riscrive l’aritmetica trasformando per legge il 35% in maggioranza si può correggere. Anche quel Ghino di Tacco trovava i suoi ostacoli e Renzi, bullismi a parte, deve rassegnarsi a ridurre almeno un po’ il suo danno.
Ma il danno resta. Soprattutto perché alla crisi della rappresentanza, al montare dei populismi e all’esplosione dell’astensionismo, Renzi continua a rispondere con la droga tutta italiana del maggioritario spinto. Non cambia verso, torna indietro. Ci riporta all’inizio del tunnel berlusconiano. Disprezza le ragioni del diritto e della Costituzione, questo è chiaro. Ma con la politica non va meglio.
Il manifesto, 26 gennaio 2014
Il vostro appello «una lista per Tsipras» contiene una decisa richiesta di europeismo, ma antirigorista. In questi mesi invece in tutta Europa, e anche in Italia, nella società civile crescono pulsioni anti-euro, in contrapposizione al conformismo rigorista dei «riformisti». Cosa vi fa pensare che questa vostra lista possa raccogliere un vasto consenso?
Me lo fa pensare una certezza, innanzitutto: tra gli arrabbiati anti-euro e i conformisti dell’austerity non c’è il nulla; non regnano solo la rassegnazione e la rinuncia. È quello che vogliono far pensare i due gruppi – quello del no e quello del sì – ma ambedue mentono. Non è vero che «in tutta l’Europa» esistono solo loro, complici nell’immobilismo. E tra i complici metto anche il Pd. Tra il no e il sì c’è un’Italia che vuole restare in Europa, ma cambiandola radicalmente. Che soffre tremendamente la crisi, ma sa che solo in Europa la sormonterà. Sono gli «europeisti insubordinati», e in fondo i veri euroscettici sono loro. Lo scettico non si accontenta dell’apparenza, né dello status quo. Vuol creare un ordine nuovo. E un ordine nuovo in Europa significa una Federazione dove nessun Stato sia sacrificato, minacciato di espulsione se non si piega alle ricette, peraltro fallimentari, dei parametri di Maastricht e del Fiscal Compact. Anche se non lo dice chiaramente, l’europeista insubordinato intuisce che l’euro è un fallimento se non si costruisce attraverso una nuova Costituzione fatta dai rappresentanti dei popoli, un’Europa dove non conti più il rapporto di forze tra singoli Stati. Quando conta solo l’equilibrio fra potenze nazionali è inevitabile che sarà il più forte a dominare, come avveniva nel nostro continente fino al 1945.
Nel vostro appello indicate una collocazione nell’europarlamento, la Gue, il gruppo della sinistra europea. Vendola considera questo un limite di «asfissia», una riduzione della portata politica della candidatura di Tsipras, che può ambire a mobilitare anche forze e persone fuori del tradizionale recinto della sinistra radicale. Qual è il suo parere?
Come prima cosa, non mi pare ci sia unanimità sulle posizioni di Vendola: Sel è divisa, molti sono desiderosi di aderire alla nostra lista. Nell’appello si parla di collocazione nella Gue perché l’iniziativa, aggregandosi attorno alla figura emblematica di Tsipras, ha tenuto conto del fatto che il leader di Syriza è parte della Sinistra unitaria europea, ed è stato scelto come candidato da quest’ultima nel congresso di dicembre a Madrid. Ma invito a leggere attentamente la lettera in cui Tsipras appoggia l’iniziativa italiana. Viene a cadere ogni riferimento alla collocazione nel gruppo Gue. L’obiettivo è stare con Tsipras in Europa, aprire le porte a coalizioni inedite a Strasburgo, non condannarsi alle larghe intese anche lì. Lo strumento per raggiungere quest’obiettivo è chiaramente indicato, nella lettera: «Solo se facciamo tutti insieme un passo indietro, compiremo tutti insieme molti passi avanti». La parola chiave, che usa nel messaggio al Congresso Sel, è «umiltà». Questo apre nuovi spazi di adesione a tutti i movimenti, cittadini, partiti, individui, che non si riconoscono necessariamente in Gue. È la mia opinione personale: io, per esempio, non mi riconosco in Gue. Al tempo stesso, se scelgo Tsipras, non posso usare il suo nome come piace a me, per poi andare in gruppi parlamentari che saranno avversari del candidato che ho scelto.
E comunque per Sel sarebbe impraticabile, visto che ha chiesto non da oggi di entrare nel Pse e di portare li dentro la battaglia contro il rigore, in coerenza con la sua - per ora congelata -
Perché impraticabile? A mio parere Sel va a sbattere contro un muro se fa una sua lista separata dalla nostra, in favore di Schulz e sperando di entrare nel gruppo socialista al Parlamento europeo. Primo perché Schulz ha visioni non innovative sull’austerità, e punta a una Grosse Koalition – a Strasburgo – simile a quella conclusa in Germania. Secondo perché in Italia esiste una soglia di sbarramento abbastanza alta (4%), che purtroppo nessun partito intende mettere in questione. Questo significa che fallirà la lista Sel e anche la nostra, visto che su molti punti siamo concordi. Bel risultato sarebbe. La lista Sel alle europee è una forma di omicidio-suicidio.
All’opposto, lei non vede il rischio che la lista per Tsipras, per le personalità e le aree politiche che fin qui coinvolge, riproponga lo schema della Rivoluzione Civile, la lista per Antonio Ingroia, che ha raccolto un risultato ben al di sotto delle aspettative?
Non vedo questo pericolo se riusciamo a stare attenti, e se restiamo fedeli a quel che chiedono migliaia di firmatari. La lista è volutamente indipendente dai partiti, che non sono fra i soci cofondatori né siedono nella cabina di regia. Aderiscono al progetto e al manifesto, e la loro diversità è garanzia del fatto che l’esperienza di Rivoluzione Civile non si ripeterà. Noi ci rivolgiamo a tutti gli europeisti scontenti dello status quo: agli individui, ai movimenti e comitati di base, alla vasta cultura federalista, agli ecologisti, e anche alla sinistra radicale.
Ma dovrete anche affrontare la concorrenza seduttiva, in Italia, di un movimento anti europeo ma non di destra come quello dei 5 stelle.
Sono convinta che nel M5S ci siano ambedue le correnti: la corrente che vuol uscire dall’Europa e coltiva sogni del tutto illusori di ritorno alle sovranità nazionali assolute, e una corrente molto più simile alla nostra, fatta di europeisti insubordinati. Non posso pensare che 5 Stelle sia un monolite: cosa che Grillo sa perfettamente.
Come sceglierete i nomi della lista?
Terremo conto, immagino, della grandissima varietà di movimenti e opinioni che ho appena elencato
A proposito della riforma della legge elettorale che Berlusconi e Renzi vogliono imporre al popolo italiano L’appello dei più autorevoli costituzionalisti italiani ai parlamentari. Sotto accusa premio di maggioranza, liste bloccate e sbarramento. il manifesto, 25 gennaio 2014
La proposta di riforma elettorale depositata alla Camera a seguito dell’accordo tra il segretario del Partito Democratico Matteo Renzi e il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi consiste sostanzialmente, con pochi correttivi, in una riformulazione della vecchia legge elettorale – il cosiddetto “Porcellum” – e presenta perciò vizi analoghi a quelli che di questa hanno motivato la dichiarazione di incostituzionalità ad opera della recente sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014.
Questi vizi, afferma la sentenza, erano essenzialmente due.
Il primo consisteva nella lesione dell’uguaglianza del voto e della rappresentanza politica determinata, in contrasto con gli articoli 1, 3, 48 e 67 della Costituzione, dall’enorme premio di maggioranza – il 55% per cento dei seggi della Camera – assegnato, pur in assenza di una soglia minima di suffragi, alla lista che avesse raggiunto la maggioranza relativa. La proposta di riforma introduce una soglia minima, ma stabilendola nella misura del 35% dei votanti e attribuendo alla lista che la raggiunge il premio del 53% dei seggi rende insopportabilmente vistosa la lesione dell’uguaglianza dei voti e del principio di rappresentanza lamentata dalla Corte: il voto del 35% degli elettori, traducendosi nel 53% dei seggi, verrebbe infatti a valere più del doppio del voto del restante 65% degli elettori determinando, secondo le parole della Corte, “un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente” e compromettendo la “funzione rappresentativa dell’Assemblea”. Senza contare che, in presenza di tre schieramenti politici ciascuno dei quali può raggiungere la soglia del 35%, le elezioni si trasformerebbero in una roulette.
Il secondo profilo di illegittimità della vecchia legge consisteva nella mancata previsione delle preferenze, la quale, afferma la sentenza, rendeva il voto “sostanzialmente indiretto” e privava i cittadini del diritto di “incidere sull’elezione dei propri rappresentanti”. Questo medesimo vizio è presente anche nell’attuale proposta di riforma, nella quale parimenti sono escluse le preferenze, pur prevedendosi liste assai più corte. La designazione dei rappresentanti è perciò nuovamente riconsegnata alle segreterie dei partiti. Viene così ripristinato lo scandalo del “Parlamento di nominati”; e poiché le nomine, ove non avvengano attraverso consultazioni primarie imposte a tutti e tassativamente regolate dalla legge, saranno decise dai vertici dei partiti, le elezioni rischieranno di trasformarsi in una competizione tra capi e infine nell’investitura popolare del capo vincente.
C’è poi un altro fattore che aggrava i due vizi suddetti, compromettendo ulteriormente l’uguaglianza del voto e la rappresentatività del sistema politico, ben più di quanto non faccia la stessa legge appena dichiarata incostituzionale. La proposta di riforma prevede un innalzamento a più del doppio delle soglie di sbarramento: mentre la vecchia legge, per questa parte tuttora in vigore, richiede per l’accesso alla rappresentanza parlamentare almeno il 2% alle liste coalizzate e almeno il 4% a quelle non coalizzate, l’attuale proposta richiede il 5% alle liste coalizzate, l’8% alle liste non coalizzate e il 12% alle coalizioni. Tutto questo comporterà la probabile scomparsa dal Parlamento di tutte le forze minori, di centro, di sinistra e di destra e la rappresentanza delle sole tre forze maggiori affidata a gruppi parlamentari composti interamente da persone fedeli ai loro capi.
Insomma questa proposta di riforma consiste in una riedizione del porcellum, che da essa è sotto taluni aspetti – la fissazione di una quota minima per il premio di maggioranza e le liste corte – migliorato, ma sotto altri – le soglie di sbarramento, enormemente più alte – peggiorato. L’abilità del segretario del Partito democratico è consistita, in breve, nell’essere riuscito a far accettare alla destra più o meno la vecchia legge elettorale da essa stessa varata nel 2005 e oggi dichiarata incostituzionale.
Di fronte all’incredibile pervicacia con cui il sistema politico sta tentando di riprodurre con poche varianti lo stesso sistema elettorale che la Corte ha appena annullato perché in contrasto con tutti i principi della democrazia rappresentativa, i sottoscritti esprimono il loro sconcerto e la loro protesta
Contro la pretesa che l’accordo da cui è nata la proposta non sia emendabile in Parlamento, ricordano il divieto del mandato imperativo stabilito dall’art.67 della Costituzione e la responsabilità politica che, su una questione decisiva per il futuro della nostra democrazia, ciascun parlamentare si assumerà con il voto. E segnalano la concreta possibilità – nella speranza che una simile prospettiva possa ricondurre alla ragione le maggiori forze politiche – che una simile riedizione palesemente illegittima della vecchia legge possa provocare in tempi più o meno lunghi una nuova pronuncia di illegittimità da parte della Corte costituzionale e, ancor prima, un rinvio della legge alle Camere da parte del Presidente della Repubblica onde sollecitare, in base all’art.74 Cost., una nuova deliberazione, con un messaggio motivato dai medesimi vizi contestati al Porcellum dalla sentenza della Corte costituzionale. Con conseguente, ulteriore discredito del nostro già screditato ceto politico.
Primi firmatari:
Gaetano Azzariti, Mauro Barberis, Michelangelo Bovero, Ernesto Bettinelli, Francesco Bilancia, Lorenza Carlassare, Paolo Caretti, Giovanni Cocco, Claudio De Fiores, Mario Dogliani, Gianni Ferrara, Luigi Ferrajoli, Angela Musumeci, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Luigi Ventura, Massimo Villone, Ermanno Vitale.Pietro Adami, Anna Falcone, Giovanni Incorvati, Raniero La Valle, Roberto La Macchia, Domenico Gallo, Fabio Marcelli, Valentina Pazè, Paolo Solimeno
Vogliono spazzare via tutto quello che tenta di condurre la società verso un futuromigliore. Perchè bisogna arrestare al più presto il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti .
Sbilanciamoci.info, 24 gennaio 2014
Un comune decide che le mense scolastiche acquistino prodotti locali a “chilometri zero”. Un paese – l’Italia - vota in un referendum che l’acqua dev’essere pubblica. Un continente - l’Europa - pone restrizioni all’uso di Organismi geneticamente modificati (Ogm) in agricoltura. Tra poco tutto questo potrebbe diventare illegittimo. Il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP, Transatlantic trade and investment partnership), oggetto di discussioni segrete tra Usa e Commissione europea, prevede che le commesse pubbliche non possano privilegiare produttori locali, che gli investimenti delle multinazionali siano consentiti e tutelati anche nei servizi pubblici (acqua, sanità, etc.), che la regolamentazione non possa limitare i commerci, anche quando ci sono rischi per l’ambiente o la salute. E se un governo tiene duro, sono pronti i meccanismi di “arbitrato” che possono costringere gli stati a pagare alle multinazionali l’equivalente dei mancati superprofitti.
Si tratterebbe di un colpo di stato. L’annullamento della politica di fronte all’assoluta libertà dei capitali, non di commerciare – quella c’è già – ma di entrare in ogni attività, ogni ambito della vita, con la garanzia di fare profitti. L’annullamento della democrazia intesa come possibilità di una comunità di decidere i propri valori, le regole condivise, le politiche da realizzare. L’annullamento dei diritti dei cittadini e delle responsabilità collettive – come quella verso l’ambiente – che si frappongano alla trasformazione in merce del mondo intero.
Il commercio è uno dei temi su cui i paesi membri della Ue hanno già trasferito completamente la sovranità a Bruxelles: è la Commissione a negoziare gli accordi all’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc) o i trattati bilaterali come il Ttip. Ma senza poteri significativi del Parlamento europeo e con il potere delle lobby delle multinazionali che detta le politiche europee, la Ue ha praticato in questi anni la versione più estrema e irresponsabile del liberismo. Come nel caso dell’Unione monetaria, il passaggio di poteri sul commercio è un pessimo esempio di come l’integrazione europa porti a politiche che favoriscono solo i capitali e danneggiano le persone, il lavoro, l’ambiente - dentro e fuori l’Europa, come mostrano gli effetti negativi dei trattati di libero scambio sui paesi in via di sviluppo.
Il Ttip è un “Trattato intrattabile” che va fermato al più presto. Siamo ancora in tempo, un progetto analogo – l’Ami - era già stato sconfitto nel 1998. Ma servirebbe una discussione attenta che ancora non c’è. Servirebbe una protesta di massa contro quest’ultimo, estremo sussulto di quel liberismo che ci ha portato a sei anni di depressione economica. Servirebbero sindacati che non si pieghino a nuove distruzioni di posti di lavoro, consumatori che boicottino le mutinazionali più aggressive, partiti che si ricordino, per una volta, di difendere la democrazia. Discutere di elezioni europee – da oggi al prossimo maggio - significa discutere soprattutto di questo.