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«Non un’opinione europea, ma somma di opinioni nazionali non comunicanti. Solo sulla carta partiti, sindacati, media europei (meglio i movimenti). Ogni parlamentare o commissario risponde al suo frammento, non all’Europa».

Il manifesto, “Sbilanciamo l’Europa”, 7 marzo 2014.

Che adesso, attraverso il voto, sia possibile indicare chi dovrà essere presidente della Commissione europea è un passo in avanti nella democratizzazione dell’Unione. Che tale elezione sia ora il frutto di una maggioranza parlamentare politicizza la scelta, finalmente sottratta al rito falsamente neutrale secondo cui fino ad oggi i governi, pur diversi fra loro, si accordavano sul nome più adatto. Un meccanismo che esasperava ulteriormente la presunzione su cui si basa la costruzione comunitaria, secondo cui quanto muove ogni decisione sarebbe procedimento puramente tecnico. E tuttavia che sia sufficiente accrescere i poteri del Parlamento per democratizzare la Ue è ipotesi francamente un po’ semplicista. Ci vuole ben altro.

Innanzitutto per la buona ragione che sin dalla sua nascita, nel ’57, ma in modo più evidente con l’introduzione dell’art. 102 del Trattato di Maastricht del ’93 (nella sua sostanza pienamente recepito dagli atti fondamentali successivi), si è tolto alla politica il potere di regolare gran parte della vita della Comunità (e dunque valore a ogni decisione parlamentare). Quell’articolo costituzionalizza infatti il primato della competitività nel mercato su ogni altra considerazione, e taglia così fuori l’economia dalla sfera delle decisioni politiche. La sovranità su questo decisivo settore, che determina ogni altra scelta, è stata così trasferita direttamente alle mani (invisibili) del mercato, non alle istituzioni europee. Il compito affidato agli esecutivi, e sottoposto al controllo del parlamento, è dunque solo quello di montare la guardia, attraverso una quantità di regole e sorveglianze, affinché il mercato venga liberato da ogni intrusione intesa a garantire alla politica - e cioè agli umani - il governo della società. Fin quando il principio ispiratore dell’Unione resterà la competitività costi quel che costi, possiamo dotare il Parlamento di tutti i poteri che vogliamo ma la politica, dunque la democrazia, non sarà reintrodotta.

Sarebbe bene riflettere sul fatto che a ingoiare quell’articolo 102 e la filosofia che lo accompagna sono stati parlamenti nazionali pur dotati di ogni potere e che pure non l’hanno esercitato per cancellare l’ispirazione di un Trattato che pure comportava la scelta suicida di non poter più legiferare se non al servizio della massima competitività e dunque solo su dettagli marginali, la scelta di fondo essendo stata fatta una volta per tutte con la costituzionalizzazione dell’obbligo di adottare una linea iperliberista. Ci si dovrebbe interrogare su come poté accadere che a questo siano addivenuti parlamenti di paesi dove pur forte era la tradizione di politiche fondate su un incisivo intervento pubblico in funzione regolamentatrice dell’economia. È accaduto anche in Italia, dove quel Trattato è stato votato da una schiacciante maggioranza contro solo gli antieuropeisti del Msi e gli europeisti di Rifondazione comunista che pure, tuttavia, ha accettato che tutto si risolvesse in una sbrigativa seduta e senza che l’opinione pubblica fosse minimamente allertata. E informata.

Tutto questo naturalmente si può cambiare ed è quello che in molti cerchiamo di fare. Ma avendo chiaro cosa serve per democratizzare l’Europa. E per cominciare qualcosa che dipende direttamente da noi. Se fino ad ora l’opinione pubblica italiana così come degli altri paese è stata così disattenta (e dunque inefficace) rispetto alle pur gravi scelte adottate a livello europeo (liberalizzazione del movimento dei capitali senza contemporanea creazione di uno spazio unico sociale e fiscale, tanto per fare l’esempio più macroscopico) è perché non esiste un’opinione pubblica europea, ma una somma di opinioni nazionali che non comunicano, perché solo sulla carta esistono partiti, sindacati, media realmente europei (un po’ meglio i movimenti). Ogni parlamentare e ogni commissario risponde al suo frammento, non a tutta l’Europa. E perciò a nessuno. Né, di conseguenza, una decisione assunta a Bruxelles acquista la stessa legittimazione di una legge nazionale. Senza questi corpi intermedi fra società civile e istituzioni - aveva acutamente notato la sentenza della Corte Costituzionale tedesca all’epoca del varo del Trattato di Maastricht - la democrazia (per non parlare di solidarietà) non esiste. Costruirli dipende anche da noi.

Una replica a Rodotà: «L’obiettivo della lista è quello di por­tare nelle isti­tu­zioni euro­pee, e non solo, una posi­zione aspra­mente cri­tica nei con­fronti della Ue, per modi­fi­care radi­cal­mente i trat­tati e cam­biare il segno delle poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali, senza essere anti­eu­ro­pea».

Il manifesto7 marzo 2014

Appena decol­lata la lista Tsi­pras è già oggetto di nume­rose atten­zioni. Non sem­pre bene­voli, come è ovvio. Tra que­ste si può tra­la­sciare quella di Pier­luigi Bat­ti­sta sul Cor­rie­rone, per asso­luta incon­si­stenza argo­men­ta­tiva. È invece utile riflet­tere sulle con­si­de­ra­zioni avan­zate da Ste­fano Rodotà ieri su Repub­blica, che da alcuni social net­work sono state volu­ta­mente ridotte ad una sem­plice scon­fes­sione della lista Tsi­pras, dopo che lo stesso Rodotà ne aveva invece segnato la posi­ti­vità, pur con diversi distin­guo, solo qual­che giorno fa.

In effetti il ragio­na­mento di Rodotà è ben più ampio. Egli prende atto dei signi­fi­ca­tivi cam­bia­menti inter­ve­nuti nelle dina­mi­che del qua­dro poli­tico ita­liano e vuole «get­tare lo sguardo sull’intera fase che abbiamo alle spalle». Per que­sto smonta pun­tual­mente la costru­zione ren­ziana, evi­den­ziando come il ten­ta­tivo di ritorno ad un sistema bipo­lare – che passa anche attra­verso l’Italicum e il più recente mostruoso com­pro­messo della riforma elet­to­rale in una camera sola — si riduca sem­pli­ce­mente alla rile­git­ti­ma­zione di Ber­lu­sconi, pie­na­mente rien­trato in campo come deu­te­ra­go­ni­sta, se non addi­rit­tura come deus ex machina. Que­sto com­porta una insen­si­bi­lità, quando non aperta osti­lità, da parte di Renzi verso ciò che si muove alla sua sini­stra, mal­grado le spe­ranze da più d’uno col­ti­vate da quelle parti. Ecco dun­que, secondo Rodotà, aprirsi una pra­te­ria per le forze di una poten­ziale sini­stra che egli defi­ni­sce, restrin­gen­dola, come for­mata da «Sel, il gruppo di Pippo Civati, la lista Tsi­pras e i par­la­men­tari (e non solo) che si allon­ta­nano dal Movi­mento 5Stelle».

Tale restri­zione è del tutto inde­bita. Non tanto per­ché lascia fuori qual­che pezzo della nomen­cla­tura della tra­di­zio­nale sini­stra radi­cale, ma soprat­tutto per­ché non tiene conto della sini­stra dif­fusa e del pro­ta­go­ni­smo dei movi­menti. Di quelle stesse forze, insomma, che hanno ani­mato le tante lotte sociali, locali e nazio­nali, svi­lup­pa­tesi in que­sti anni, che hanno dato vita alle mani­fe­sta­zioni del 12 e del 19 otto­bre 2013 — scel­le­ra­ta­mente ma non obbli­ga­to­ria­mente con­trap­po­ste tra loro – e alle ultime vit­to­riose bat­ta­glie refe­ren­da­rie. Tutti que­sti movi­menti e que­ste coscienze dif­fuse non entrano in un pro­cesso di rico­stru­zione di uno spa­zio poli­tico di sini­stra in modo pas­sivo, ma o ne sono pro­ta­go­ni­sti da subito o que­sto spa­zio e que­sto pro­cesso non si aprono né si realizzano.

Rodotà afferma espli­ci­ta­mente che tale pro­cesso dovrebbe e potrebbe essere fina­liz­zato alla costru­zione di un Nuovo Cen­tro Sini­stra, basato sulla libe­ra­zione del Pd dall’abbraccio con il Nuovo Cen­tro Destra (le maiu­scole sono sue). Qui le distanze sono ancora mag­giori. Legare il pro­cesso di rico­stru­zione di una sini­stra alla ricon­qui­sta del Pd, inchio­darlo nel letto di Pro­cu­ste di un eterno cen­tro­si­ni­stra, cui l’aggettivo nuovo sta come il prez­ze­molo, è esat­ta­mente il motivo per il quale tale pro­cesso non è mai potuto sor­gere. Anche quando ve ne sareb­bero state le pos­si­bi­lità, sia ogget­tive che sog­get­tive — come all’inizio della for­ma­zione di Sel — è stata pre­ci­sa­mente quella man­canza di auto­no­mia ideale e pro­get­tuale a sof­fo­care il bimbo nella culla. La verità è che con­ti­nua ad essere assente una sin­cera e appro­fon­dita discus­sione sulla natura del Pd (spunti ve ne sono, manca l’affondo), che vada al di là dell’esame delle vola­tili dichia­ra­zioni dei suoi diri­genti e che invece si ponga in rela­zione ai nuovi assetti interni e inter­na­zio­nali del capi­ta­li­smo e di un sistema isti­tu­zio­nale depri­vato di una vera democrazia.

La lista Tsi­pras da un lato pog­gia pro­prio su quella sini­stra dif­fusa e sulle migliori espe­rienze di quei movi­menti (le can­di­da­ture scelte vanno lette e giu­di­cate in que­sta luce, fermo restando che la per­fe­zione in que­sto campo non esi­ste e stra­sci­chi pole­mici sono ine­vi­ta­bili) e dall’altro dichia­ra­ta­mente non ha la pre­sun­zione di gui­dare un pro­cesso di rico­stru­zione di un nuovo sog­getto di sini­stra. Bene lo ha com­preso Marco Bascetta, rispon­dendo su que­sto gior­nale a un’antipatizzante let­tera di Carlo For­menti. L’obiettivo della lista, que­sto sì alla sua por­tata, è quello di por­tare nelle isti­tu­zioni euro­pee, e non solo, una posi­zione aspra­mente cri­tica nei con­fronti della Ue, per modi­fi­care radi­cal­mente i trat­tati e cam­biare il segno delle poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali, senza essere anti­eu­ro­pea. Se avrà suc­cesso potrà anche avere un effetto col­la­te­rale, ovvia­mente desi­de­ra­bile e desi­de­rato, ma che non può essere scam­biato per il suo tar­get: quello di inver­tire la ten­denza alla fran­tu­ma­zione della sini­stra, di spo­stare l’elaborazione e l’azione della mede­sima in una dimen­sione inter­na­zio­nale, di bat­tersi per la rico­stru­zione dell’Europa avviando una cam­pa­gna costi­tuente tra i cit­ta­dini euro­pei e non come somma di vit­to­rie in ambito nazio­nale. Scu­sate se è poco.

«In campo. Presentate a Roma le candidature dell’Altra Europa con Tsipras: 37 uomini, 36 donne; 59 candidati espressi da movimenti, associazioni e «società civile», 14 dai partiti. Nel programma: riscrivere lo statuto della Bce, investimenti pubblici e tutele sociali, un’Europa che non cede al neoliberismo e ai nazionalismi».

Il manifesto, 6 marzo 2014

La lista «L’Altra Europa con Tsi­pras» ha pre­sen­tato 73 can­di­da­ture per le ele­zioni euro­pee di mag­gio. Ci sono 37 uomini, 36 sono le donne; 59 can­di­dati sono stati espressi da movi­menti, asso­cia­zioni e «società civile», 14 dai par­titi che sosten­gono la lista: Sel e Rifon­da­zione comu­ni­sta. Sono state rac­colte oltre 200 pro­po­ste, cia­scuna delle quali sot­to­scritta da asso­cia­zioni, comi­tati, gruppi o par­titi che hanno ade­rito alla lista. Oltre 7 mila sono state le firme a soste­gno delle can­di­da­ture, un dato che con­ferma l’interesse per un espe­ri­mento in con­tro­ten­denza con i recenti e disa­strosi fal­li­menti della «sini­stra radi­cale». L’obiettivo è rag­giun­gere un risul­tato a due cifre, anche se il 6–7% dei voti che i primi son­daggi attri­bui­scono alla lista «ci ren­dono molto contenti».

Lo ha detto ieri Bar­bara Spi­nelli, capo­li­sta in tre cir­co­scri­zioni su 5. «Io di mestiere scrivo – ha detto – Ho pen­sato che que­ste capa­cità dovevo comu­ni­carle diver­sa­mente per met­terle a dispo­si­zione degli invi­si­bili, testi­mo­niando per chi non ha voce, per farli diven­tare com­bat­tenti per un’Europa radi­cal­mente diversa da quella che ci hanno con­se­gnato i con­ser­va­tori e da quella che vuole ritor­nare alle sovra­nità nazio­nali. Que­ste forze oggi sono com­plici e vogliono garan­tire lo sta­tus quo». Per Spi­nelli que­sto ragio­na­mento trac­cia la linea degli «euroin­su­bor­di­nati». Un tra­iet­to­ria che parte da sini­stra con la can­di­da­tura di Tsi­pras, desi­gnato alla pre­si­denza della Com­mis­sione euro­pea dalla sini­stra euro­pea nel con­gresso tenuto a Madrid e riven­di­cato da Rifon­da­zione Comu­ni­sta, e che ambi­sce a con­qui­starsi una posi­zione auto­noma rispetto ai socia­li­sti e demo­cra­tici euro­pei (dove si trova il Pd di Mat­teo Renzi), ai con­ser­va­tori e ai libe­rali. Con Verho­stadt, can­di­dato dell’Alde, come con lo stesso Schultz can­di­dato dei socia­li­sti, Spi­nelli non ha tut­ta­via escluso contatti.

I primi due mesi di vita dell’«Altra Europa» sono stati intensi. 30 mila firme rac­colte da un appello dei «garanti» della lista: Andrea Camil­leri, Paolo Flo­res d’Arcais, Luciano Gal­lino, Marco Revelli, Guido Viale, Spi­nelli oltre allo stesso Tsi­pras. Poi ci sono state le pole­mi­che prima sull’esclusione dal logo della lista (il resty­ling ora è com­pleto) tra i «garanti» e Rifon­da­zione Comu­ni­sta; poi quelle tra i garanti stessi a pro­po­sito dell’esclusione della can­di­da­tura dell’eurodeputata Idv Sonia Alfano (incan­di­da­bile secondo una delle regole pro­po­ste: non avere avuto inca­ri­chi poli­tici negli ultimi 10 anni) e Luca Casa­rini, la cui can­di­da­tura è stata invece con­fer­mata con voto a mag­gio­ranza nella cir­co­scri­zione del Centro-Italia.

Sul ritiro della can­di­da­tura di Camil­leri, le spie­ga­zioni sono state forse poco con­vin­centi. Averla comu­ni­cata il 2 marzo, per poi smen­tirla subito dopo, è attri­buito alla «gioia che si can­di­dava». Men­tre in realtà quella deci­sione non era stata ancora presa. Spi­nelli si è scu­sata per l’«intempestività» e assi­cura che Camil­leri con­ti­nuerà a soste­nere la lista. Spi­nelli ha infine spie­gato la sua deci­sione di riti­rarsi dopo l’eventuale ele­zione. Di solito que­sto avviene a urne chiuse quando i poli­tici nazio­nali cedono il posto alle seconde file. Averlo annun­ciato prima, ha detto Spi­nelli, «per­mette di eleg­gere i più votati e com­pe­tenti. Lo per­mette il metodo delle preferenze».

Agli «euroin­su­bor­di­nati» la gior­na­li­sta e scrit­trice, figlia di Altiero Spi­nelli, pro­pone un ragio­na­mento poli­tico com­plesso, ma che rien­tra nelle corde della sini­stra euro­pea. Dimo­strare che esi­ste, oggi, la pos­si­bi­lità di essere con­tro l’austerità senza cedere ai popu­li­smi che con ogni pro­ba­bi­lità mie­te­ranno suc­cessi alle pros­sime ele­zioni. Il movi­mento 5 Stelle di Grillo e Casa­leg­gio, con­si­de­rato ad oggi il depo­si­ta­rio delle posi­zioni anti-austerità, viene dato in una for­bice tra il 20–25%. Su que­sta base sono rie­merse ieri parole che non ascol­ta­vamo da almeno un decen­nio in una sede poli­tica ita­liana: l’idea dell’Europa non pri­gio­niera del neo­li­be­ri­smo e del suo deter­mi­ni­smo eco­no­mi­ci­sta. Un’Europa dove la per­dita della sovra­nità degli Stati-nazione non è pre­li­mi­nare all’esproprio della deci­sione poli­tica dei popoli, come degli indi­vi­dui, bensì ad una redi­stri­bu­zione della ric­chezza e dei poteri a livello sovra­na­zio­nale e in maniera democratica.

Un’Europa, infine, poli­tica, che sap­pia cioè rive­dere di sana pianta i suoi trat­tati; rove­sciare i man­dati costi­tu­tivi della Bce di Mario Dra­ghi; avviare un piano neo-keynesiano di inve­sti­menti pub­blici; appli­care le tutele sociali minime a par­tire da un sala­rio e da un red­dito minimo per 19 milioni di disoc­cu­pati e per­lo­meno il dop­pio di pre­cari e lavo­ra­tori auto­nomi. Tsi­pras ha pro­po­sto una con­fe­renza euro­pea sul debito per i paesi dell’Europa del Sud, simile a quella che nel 1953 alle­viò il peso che gra­vava sulla Ger­ma­nia del Dopo­guerra. Una pro­po­sta ripresa dalla lista ita­liana, poten­zial­mente capace di rom­pere ogni schema di poli­tica eco­no­mica adot­tata in Italia.

Un altro mondo, incon­ce­pi­bile. Sapendo che il vero banco di prova sarà il dopo-elezioni. Nascerà una pro­spet­tiva costi­tuente, e uno spa­zio poli­tico, tra le com­pa­gini che stanno dando vita a que­sta espe­rienza, ma soprat­tutto oltre

Un titolo strumentalmente forzato per un’analisi a tutto campo del sistema politico italiano, da Renzi Berlusconi e Letta, a Civati e alla lista Tsipras. I timori, e le speranze e le scommesse.

La Repubblica, 6 marzo 2014

DINAMICHE forti attraversano il sistema politico italiano, e lo stanno cambiando profondamente. Ma, se pure questo processo è stato accelerato dalle iniziative di Renzi, per comprenderlo bisogna andare oltre la stretta attualità, gettare lo sguardo sull’intera fase che abbiamo allespalle.

Altrimenti si rimane prigionieri di formule ingannevoli — «Aspettiamo Renzi alla prova dei fatti», «Se fallisce, è la fine» — che rivelano non tanto una deriva personalistica, quanto piuttosto una sfiducia nella possibilità stessa di condurre analisi politiche. E invece proprio dalla politica bisogna ripartire, registrando che siamo alla fine di un ciclo che si è dipanato attraverso l’emergenza montiana, le larghe intese e le piccole intese, senza offrire né soluzioni a breve né prospettive, sì che Renzi finisce con l’apparire come una sorta di curatore fallimentare. Il suo obiettivo è visibilmente quello di strutturare il sistema politico intorno a due poli, non due partiti, e proprio qui scatta l’impossibilità di liberarsi con una mossa tutta volontaristica dell’eredità del passato. “Padrone”, almeno nelle apparenze, di un partito che aveva conquistato senza combattere, Renzi ha poi rivolto lo sguardo dall’altra parte e, muovendo da una sottovalutazione del suo partner di governo, il Nuovo Centro Destra, si è lanciato verso la rilegittimazione di Berlusconi, impigliandosi però nei prevedibili conflitti determinati dall’affidarsi all’astuzia della “doppia maggioranza”.

Ora la nuova “intesa” intorno alla legge elettorale mostra come egli non debba solo fare i conti con i fallimenti del passato, ma pure con l’esito infelice del suo stesso azzardo. Indicata come un passaggio necessario per un chiarimento del quadro politico, la nuova fase della riforma elettorale produce, al contrario, una inquietante confusione istituzionale, destinata a sfociare in conflitti (ricatti?) incrociati, rendendo più soggetta a condizionamenti l’azione di governo e più esposta la nuova soluzione a chiari vizi di incostituzionalità. Frutto evidente di pure strumentalità partitiche, dissolve la logica, già precaria, della doppia maggioranza, spinge tanto Berlusconi quanto Alfano a perseguire le proprie convenienze, a rafforzare la propria identità, aprendo la via a conflitti inevitabilmente destinati ad influire su tempi e scelte del governo. L’apertura a Berlusconi era stata, nei fatti, una evidente sfida ad Alfano, così come la precedente apertura su lavoro e diritti civili lo era stata nei confronti di Letta. Cambiati i ruoli, mutato Renzi da sostanziale sfidante ad alleato obbligato di Alfano, quale sarà in concreto la linea della maggioranza ora rinsaldata?

Bisogna tornare, a questo punto, alla questione dei due poli, in vista dei quali è stata confezionata la nuova legge elettorale, con chiusure conservatrici a favore di chi già è insediato all’interno del sistema, introducendo così una ulteriore rigidità di cui, prigionieri di una poco riflessiva furia “riformatrice”, non sembra siano stati adeguatamente valutati tutti gli effetti. Sul versante berlusconiano, è evidente l’intenzione di costruire una coalizione nella quale sarà obbligato ad entrare tutto il pulviscolo dei gruppi e gruppetti che si agitano a destra in questo momento per dare l’impressione di una autonomia del tutto finta, poiché sanno benissimo che la nuova legge elettorale, quali che siano le soglie fissate, precluderà loro ogni possibilità di accesso al Parlamento. Si creano così le premesse per negoziati opachi, per contropartite d’ogni genere, mantenendo le condizioni che hanno in passato inquinato il nostro sistema politico e anticipando alla fase preelettorale il potere dei gruppi marginali, ma indispensabili per assicurare il successo della coalizione. Inoltre, l’alta soglia dell’8%, imposta alle liste autonome, diventa un potente disincentivo per avventure solitarie del Nuovo Centro Destra.

Diversa si presenta la situazione nel centrosinistra, dove Renzi sembra aver ripreso la logica della “vocazione maggioritaria” e, fidando sul proprio appeal, non manifesta aperture verso le diverse realtà esistenti, mostrandosi piuttosto interessato al recupero di una parte dell’elettorato del Movimento 5Stelle (strategia peraltro analoga a quella di Silvio Berlusconi). Peraltro, la sua sbrigativa rilettura di quel che oggi sarebbe la sinistra, unita ai quotidiani slittamenti ai quali lo obbliga la convivenza con gli alfaniani, ha creato condizioni propizie all’apertura di un processo che oggi, sia pure in forme ancora da chiarire, vede coinvolti Sel e il gruppo di Pippo Civati, la lista Tsipras e i parlamentari (e non solo) che si allontanano dal Movimento 5Stelle.

Sono realtà diverse, ciascuna delle quali meriterebbe una analisi specifica, ma di cui qui può essere indicato quello che appare un possibile terreno comune. Civati, con quella che non è soltanto una battuta, ha parlato di Nuovo Centro Sinistra, ponendo così un problema: è possibile un processo, tutt’altro che semplice e breve, che abbia come primo obiettivo quello di liberare il Pd dal legame pericoloso con il Nuovo Centro Destra e, in prospettiva, consenta di lavorare intorno ad una ipotesi di sinistra nuova e non velleitaria? Di questo si dovrebbe tener conto, senza rifugiarsi nelle troppo comode obiezioni “realistiche” che, negli ultimi tempi, hanno privato il centrosinistra di ogni capacità di creare le condizioni pur minime per non essere sempre succube di stati di necessità, veri o costruiti. La politica è anche, talora soprattutto, capacità di assumersi rischi, senza la quale nessuna vera innovazione è possibile. Forse è qui che il proclamato “coraggio” di Renzi dovrebbe esercitarsi pure in questa direzione. E si potrebbe anche cominciare a ragionare fuori da un’altra pesante ambiguità, l’indicazione della durata del governo fino al 2018, che sembra un artificio per tener buono Alfano. Qualora al Senato si creassero le condizioni per liberarsi da questa ingombrante tutela, si potrebbe ragionevolmente discutere di un programma limitato e di un ritorno alle urne secondo una logica politica, e non puramente strumentale, anche se ora contro questa possibilità si leva il pasticcio dell’eventuale elezione differenziata di Camera e Senato.

Ripeto. È un processo non facile, che tuttavia può permettere di avviare un cammino che faccia uscire dal deserto politico nel quale continuiamo ad aggirarci. In questa prospettiva si presenta come assai impegnativa l’iniziativa della lista Tsipras perché, in particolare, la partecipazione alle elezioni europee significherà sottoporsi ad un vero confronto pubblico. È una impresa rischiosa e, proprio per questo, vorrebbe dai suoi promotori un rigore estremo. Dal passato vengono esempi che ammoniscono sul rischio legato a logiche autoreferenziali (il fallimento nelle ultime due elezioni politiche dalla Sinistra arcobaleno e della lista Ingroia). Dal presente viene l’obbligo a riflettere su che cosa significhi, al di là del fatto simbolico, il riferimento a Tsipras e al suo partito, Syriza. Si tratta di una esperienza maturata attraverso un lavoro politico non breve e che si è consolidato grazie ad una intensa presenza sociale. Condizioni, queste, che non trovano corrispondenza nella lista italiana e nella variegata coalizione che la sostiene, che peraltro non ha dato una esaltante prova di sé proprio nella scelta delle candidature, come attestano le cronache di ieri. Per tutti quelli che vogliano andare oltre la semplice critica al governo Renzi, si apre una stagione assai impegnativa. Ma proprio con queste difficoltà bisognerà misurarsi.

Finalmente parole chiare sull’Ucraina, la Russia, i Rapporti con gli Usa e l’Europa. E sui numerosi errori compiuti nel vecchio Continente che si dibatte nelle sue incertezze.

La Repubblica, 5 marzo 2014

IN PARTE per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante.Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni.

È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina — quella insorta in piazza a Kiev - vuole «entrare in Europa». Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale - non denunciato a Occidente - forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice Premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ’39 collaborò con Hitler.

È sbagliato chiamare l’Est ucraino regioni secessioniste perché «abitate da filorussi». Non sono filo- russi ma russi, semplicemente. In Crimea il 60% della popolazione è russa, e il 77% usa il russo come lingua madre (solo il 10% parla ucraino).

È mistificante accomunare Nato e Europa: se tanti sognano l’Unione, solo una minoranza aspira alla Nato (una minaccia, per il 40%).

Sbagliato è infine il lessico della guerra fredda applicato ai rapporti euro-americani con Mosca, accompagnato dal refrain: è «nostra» vittoria, se Mosca è sconfitta. Dal presente dramma bellicoso si uscirà con altri linguaggi, altre dicotomie. Con una politica - non ancora tentata - che cessi di identificare i successi democratici con la disfatta della Russia. Che integri quest’ultima senza trattarla come immutabile Stato ostile: con una diplomazia intransigente su punti nodali ma che «rispetti l’onore e la dignità dei singoli Stati, Mosca compresa», come scrive lo studioso russo-americano Andrej Tsygankov.

L’Ucraina è una regione più vitale per Mosca che per l’Occidente, e i suoi abitanti russi vanno rassicurati a ogni costo. È il solo modo per esser severi con Mosca e insieme rispettarla, coinvolgerla. Siamo lontani dunque dalla guerra fredda. Che era complicata, ma aveva due elementi oggi assenti: una certa prevedibilità, garantita dalla dissuasione atomica; e la natura ideologica (oggi si usa l’orrendo aggettivo valoriale) di un conflitto tra Est sovietizzato e liberal-democrazie. Grazie allo spauracchio dell’Urss, Europa e Usa formavano un «occidente » senza pecche, qualsiasi cosa facesse. L’Urss era nemico esistenziale: letteralmente, ci faceva esistere come blocco di idee oltre che di armi.

Questo schema è saltato, finita l’Urss, e l’Est è entrato nell’Unione. Mentre l’Urss crollava un alto dirigente sovietico, Georgij Arbatov, disse: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico». Non aveva torto, se ancora viviamo quel lutto come orfani riottosi. Ma non è più l’antagonismo ideologico a spingerci. La Russia aspira a Riconquiste come la Nato e Washington. Fa guerre espansive in Cecenia mentre gli Usa, passivamente seguiti dall’Europa, fanno guerre illegali cominciando dall’Iraq e proseguendo con le uccisioni mirate tramite i droni.

«Oggi la Russia di Putin e “l’Occidente” condividono un’identica visione basata sulla ricerca di profitto e di potere: in tutto tranne su un punto, e cioè a chi debbano andare profitto e potere», scrive Marco D’Eramo su Pagina 99 (25-2-14). Questo significa che non la guerra fredda torna, ma il vecchio equilibrio tra potenze ( balance of power) che regnava in Europa fino al ’45: i Grandi Giochi dell’800, in Asia centrale o Balcani. Qui è la perversione odierna, obnubilata. Washington ha giocato per anni con l’idea di spostare la Nato a Est, fino ai confini russi. Più per mantenere in piedi l’ostilità del Cremlino che per aiutare davvero nazioni divenute indipendenti.

L’Europa avrebbe potuto essere primo attore, perso il «nemico esistenziale». Non lo è diventata. È un corpo con tante piccole teste, alcune delle quali (Germania per prima) curano propri interessi economico-strategici da soli. Lo scandalo è che nel continente c’è ancora una pax americana opposta alla russa. Una pax europea neppure è pensata. Eppure una pax simile potrebbe esistere. L’unità europea fu inventata proprio in risposta all’equilibrio delle potenze, per una pace che non fosse una tregua ma un ordine nuovo.

L’ombrello Usa ha protetto un pezzo del continente, consentendogli di edificare l’Unione, ma ha viziato gli europei, abituandoli all’indolenza passiva, all’inattività irresponsabile, al mutismo. Finite le guerre fratricide, l’Europa occidentale s’è occupata di economia, pensando che pace-guerra non fosse più di attualità. Lo è invece, atrocemente. Priva di visioni su una pace attiva, l’Europa cade in errori successivi fin dai tempi dell’allargamento. Allargamento che non definì la pax europea: i paesi dell’Est si liberarono, senza apprendere la libertà.

Il poeta russo Brodsky lo disse subito: «La verità è che un uomo liberato non diventa per questo un uomo libero. La liberazione è solo un mezzo per raggiungere la libertà, non è un sinonimo della libertà (...) Se vogliamo svolgere il ruolo di uomini liberi, dobbiamo esser capaci di accettare o almeno imitare il comportamento di una persona libera che conosce lo scacco: una persona libera che fallisce non getta la pietra su nessuno». L’Est si liberò dalle alleanze con Mosca, ma quel che ritrovò, troppo spesso, fu il nazionalismo di prima. Non a caso molti a Est si misero a difendere la sovranità degli Stati, senza esser contestati. E la «liberazione» criticata da Brodsky risvegliò ataviche passioni mono-etniche, intolleranti del diverso. Si aggravò lo status dei Rom: ridivenuti apolidi. Si riaccesero nazionalismi irredentisti, come nell’Ungheria di Orbán. Nata contro le degenerazioni nazionaliste, L’Europa ammutolì. Kiev corre gli stessi rischi, proprio perché manca una pax europeache superi le sovranità statali assolute, e la loro fatale propensione bellicosa. Se tanti sono euro- fili ignorando la filosofia dell’Unione, è perché anche l’Unione l’ignora. Bussola resta l’America: lo Stato che meno d’ogni altro riconosce autorità sopra la propria. Oppure il nazionalismo russo.

Tra Russia e Usa il rapporto è antagonistico, ma a parole. Nei fatti è un rapporto di rivalità mimetica, di somiglianza inconfessata. L’Ucraina è una nazione dalle molte etnie, con una storia terribile. Storia di russificazioni forzate, che in Crimea risalgono al ’700: ma oggi i russi che sono lì vanno protetti. Storia di deportazioni in massa di tatari dalla Crimea, che pagarono la collaborazione col nazismo e tornarono negli anni ’90. Storia di una carestia orchestrata da Stalin, e di patti con Hitler su cui non è iniziata alcuna autocritica (il collaborazionista Bandera è un mito, per le destre estreme che hanno pesato nei recenti tumulti).

Uno dei più nefasti fallimenti della rivoluzione a Kiev è stata la decisione di abolire la tutela della lingua russa a Est: cosa che ha attizzato paure e risentimenti antichissimi dei cittadini russi, timorosi di trasformarsi in paria inascoltati dal mondo. Tutte queste etnie convivevano, quando in Europa c’erano gli imperi. Pogrom e Shoah son figli dei nazionalismi.

Oggi regnano due potenze dal comportamento imperialista (Usa, Russia), che però non sono imperi multietnici ma nazioni-Stato distruttivi come in passato. Se l’Europa non trova in sé la vocazione di essere impero senza imperialismo, via d’uscita non c’è. Se non trova il coraggio di dire che mai considererà «filo-europei» neonazisti che si gloriano di un passato russofobo che combatté i liberatori dell’Urss, le guerre nel continente son destinate a ripetersi. Le tante chiese ucraine lo hanno capito meglio degli Stati.

«L’insieme di draconiane misure nei confronti degli enti locali ha un unico scopo: metterli con le spalle al muro dal punto di vista economico per persuaderli/obbligarli ad un gigantesco percorso di espropriazione e di privatizzazione, consegnandone beni e patrimonio alle lobby bancarie e finanziarie». I

l manifesto, 5 marzo 2014

1. La querelle nata in questi mesi – e divenuta drammatica in questi giorni- intorno al decreto cosiddetto “Salva Roma”, dimostra come uno dei nodi cruciali della guerra alla società, dichiarata dalle lobby finanziarie con la trappola della crisi del debito pubblico, veda da subito al centro gli enti locali, i loro beni e servizi, il loro ruolo. Infatti, poiché l’enorme massa di ricchezza privata prodotta dalle speculazioni finanziarie, che ha portato alla crisi globale di questi anni, ha stringente necessità di trovare nuovi asset sui quali investire, è intorno ai beni degli enti locali che le mire sono ogni giorno più che manifeste.

2. Già nel rapporto “Guadagni, concorrenza e crescita”, presentato da Deutsche Bank nel dicembre 2011 alla Commissione Europea, si scriveva a proposito del nostro Paese : “ (..) I Comuni offrono il maggior potenziale di privatizzazione. In una relazione presentata alla fine di settembre 2011 dal Ministero dell’ Economia e delle Finanze si stima che le rimanenti imprese a capitale pubblico abbiano un valore complessivo di 80 miliardi di euro (pari a circa il 5,2% del PIL). Inoltre, il piano di concessioni potrebbe generare circa 70 miliardi di entrate. E questa operazione potrebbe rafforzare la concorrenza. (..) Particolare attenzione deve essere prestata agli edifici pubblici. La Cassa Depositi e Prestiti dice che il loro valore totale corrente arriva a 421 miliardi e che una parte corrispondente a 42 miliardi non è attualmente in uso. Per questa ragione potrebbe probabilmente essere messa in vendita con relativamente poco sforzo o spesa. Dal momento che il settore immobiliare appartiene in gran parte ai Comuni, il governo dovrebbe impostare un processo ben strutturato in anticipo. (..) Quindi, secondo le informazioni ufficiali, il patrimonio pubblico potrebbe raggiungere in valore complessivo di 571 miliardi, vicino al 37% del PIL. Naturalmente, il potenziale può anche essere ampliato.”

3. La spoliazione degli enti locali è naturalmente avviata da almeno un quindicennio e vi hanno concorso diversi fattori. Il primo è stato il Patto di Stabilità e Crescita interno, ovvero le diverse misure, annualmente stabilite, per far concorrere gli enti locali agli obiettivi di stabilità finanziaria decisi dallo Stato in accordo con l’Unione Europea. Quel patto ha visto in una prima fase una durissima contrazione delle possibilità di assunzione del personale da parte degli enti locali, riducendone drasticamente la qualità del servizio e contribuendo in questo modo a costruire una campagna ideologica sull’inefficienza del “pubblico”; in un secondo momento è finita sotto attacco la possibilità e la capacità di investimento da parte degli enti locali che, con l’alibi di non doversi indebitare, sono stati costretti e ridurre al lumicino le opere da realizzare; infine, nell’attualità, perfino la capacità di spesa corrente trova draconiane limitazioni, mettendo definitivamente a rischio il funzionamento stesso degli enti locali. Classificati da ora in avanti in “virtuosi” e “non virtuosi”, gli enti locali saranno costretti, per entrare nella prima categoria, ad aumentare le tasse locali e le tariffe, a ridurre ulteriormente l’occupazione, a dismettere il patrimonio pubblico e a privatizzare i servizi pubblici locali.

4. Il secondo fattore è dovuto alla spending review, ovvero i drastici tagli lineari che, anziché riorganizzare la spesa eliminando gli sprechi e le corruttele, comportano un’automatica riduzione di tutti i servizi erogabili senza alcuna scala di priorità e senza la benché minima programmazione. Il terzo fattore è stata l’approvazione del Fiscal Compact, ovvero l’obiettivo sottoscritto in sede europea di portare entro venti anni al 60% il rapporto debito/pil che oggi è pari al 133% . Ciò significa annualmente una riduzione secca di tale rapporto del 3,3% , con un costo di oltre 50 miliardi/anno. Se a questo si aggiunge l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione –di fatto, la costituzionalizzazione della dottrina liberista- il quadro è decisamente chiaro.

5. La tesi qui sostenuta è che l’attacco agli enti locali sia sistemico e abbia come ultimo obiettivo la scomparsa della funzione pubblica e sociale dell’ente locale, come sin qui lo abbiamo conosciuto, trasformandone il ruolo da erogatore di servizi per la collettività a facilitatore dell’espansione della sfera di influenza dei capitali finanziari e da garante dell’interesse collettivo a sentinella del controllo sociale delle comunità. Una trasformazione autoritaria necessaria per permettere, attraverso la drastica riduzione della democrazia di prossimità, la totale spoliazione dei beni comuni delle comunità locali. Per queste ragioni, l’ente locale è destinato a diventare uno dei luoghi fondamentali dello scontro sociale nei prossimi mesi.

6. L’insieme di draconiane misure nei confronti degli enti locali ha un unico scopo: metterli con le spalle al muro dal punto di vista economico per persuaderli/obbligarli ad un gigantesco percorso di espropriazione e di privatizzazione, consegnandone beni e patrimonio alle lobby bancarie e finanziarie Un processo che avviene attraverso diversi ma convergenti percorsi. Cosa posseggono infatti gli enti locali? Territorio, patrimonio e servizi, ed è su questi che si sta giocando, e sempre più lo si farà nel prossimo periodo, la guerra contro la società.

7. Il territorio è da tempo strumento di valorizzazione finanziaria, in due diverse modalità di scala. La prima attraverso la continua cementificazione del suolo, favorita da una norma, da anni reiterata in Parlamento, che consente di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni : in pratica, anche solo per garantire l’ordinario funzionamento dell’ente locale, gli amministratori sono invogliati a consegnare porzioni di territorio alla speculazione immobiliare, arrivando al paradosso che, mentre fino a qualche anno fa erano i costruttori a fare la questua negli uffici comunali per ottenere cambi di destinazione d’uso di terreni, oggi sono i sindaci a inseguire i costruttori per poter firmare convenzioni che consentano di mettere in cassa i relativi oneri. La seconda è quella dei grandi eventi e delle grandi opere : che siano basi militari (Muos di Catania, Dal Molin di Vicenza), che siano mega-progetti infrastrutturali (Tav, Ponte sullo stretto, 35 nuovi progetti autostradali) o “eventi” (Giubileo di Roma, Expo di Milano), l’unico obiettivo è la consegna del territorio alla valorizzazione finanziaria e alla speculazione immobiliare.

8. Il patrimonio pubblico in mano agli enti locali ha, come abbiamo visto, dimensioni enormi (421 miliardi). La sua svendita, cominciata da tempo, è oggi considerata da Governo e Sindaci un vero e proprio piano strategico e, attraverso l’alibi della crisi del debito pubblico, sono ormai in adozione in tutti i Comuni piani di dismissione all’unico scopo di fare cassa. Anche i servizi pubblici locali sono da molto tempo sotto attacco e a rischio privatizzazione. Su questo terreno, come anche Deutsche Bank nel suo rapporto citato all’inizio ha dovuto riconoscere, la straordinaria vittoria referendaria del movimento per l’acqua nel giugno 2011 ha complicato molto i piani, senza tuttavia far desistere le grandi lobby finanziarie.

9. Cassa Depositi e Prestiti, ovvero l’ente (ora SpA, con all’interno le fondazioni bancarie) che raccoglie il risparmio postale (240 miliardi) di quasi 24 milioni di persone, è il vero e proprio braccio operativo di questo processo. Cassa Depositi e Prestiti interviene infatti sulla valorizzazione finanziaria del territorio, finanziando direttamente, o attraverso F2i (Fondo per le infrastrutture, partecipato al 16% da Cdp), molte delle grandi opere, in particolare autostradali, in corso o in progetto nel nostro Paese; così come, attraverso FIV(Fondo Investimenti per le Valorizzazioni) di CDPI sgr si propone agli enti locali come partner ideale per la valorizzazione degli immobili da immettere sul mercato, fissandone un prezzo ed impegnandosi ad acquisirli, qualora dopo bando l’ente locale non riesca a venderli (FIV comparto Plus) o acquisendoli direttamente (FIV comparto Extra); altrettanto determinante è il ruolo assunto da Cdp nei processi di privatizzazione dei servizi pubblici locali, essendo da tempo impegnata attraverso F2i (Fondo per le infrastrutture) da una parte e FSI (Fondo strategico Italiano, interamente controllato da Cdp), in operazioni di ingresso nel capitale sociale delle aziende di gestione del servizio idrico e dei servizi pubblici locali per favorirne fusioni societarie e il rilancio in Borsa.

10. Se il luogo dello scontro sociale del prossimo periodo sarà dunque l’ente locale, il nodo intorno al quale si dipanerà sarà quello del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti. Se sotto attacco è la stessa funzione sociale degli enti locali come luoghi di prossimità degli abitanti di un territorio, altrettanto sotto scacco è l’utilizzo della ricchezza sociale prodotta nel Paese, in particolare quella del risparmio postale dei cittadini, che invece di essere utilizzata per gli investimenti volti al soddisfacimento dei bisogni sociali e ambientali delle comunità locali, viene interamente indirizzata come leva per l’espansione dei mercati finanziari e finalizzata all’espropriazione dei beni comuni. Si comprende meglio, a questo punto, anche il senso profondo della progressiva riduzione degli spazi di democrazia, che vede nell’accentramento istituzionale da una parte e in una furbesca campagna contro la “casta” e relativa riduzione della rappresentanza dall’altra, il progressivo distanziamento dei luoghi della decisionalità collettiva dalla vita concreta delle persone. L’obiettivo è chiaro : se ciò che è in atto è un mastodontico processo di spoliazione delle comunità locali, diviene necessario rendere loro sempre più ardua qualsiasi forma di organizzazione e di protesta, trasformando in rassegnata solitudine quella che potrebbe altrimenti divenire lotta per la riappropriazione sociale.

11. Oggi sindaci e amministratori sono posti di fronte ad un bivio senza zone d’ombra : devono decidere se essere gli esecutori ultimi di un processo di privatizzazione che dalla Troika discende verso i governi e scivola giù fino agli enti locali o se riconoscersi come i primi rappresentanti degli abitanti di un determinato territorio e porsi in diretto contrasto con quei processi. Ma, indipendentemente dalla consapevolezza dei propri sindaci e amministratori, le donne e gli uomini di ogni comunità locale di questo Paese devono sapere che la lotta collettiva e generalizzata contro la trappola del debito, per una nuova finanza pubblica e sociale, per la riappropriazione sociale dei beni comuni, è interamente nelle loro mani. E che da essa dipende il destino della democrazia reale.

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Una valutazione sintetica ma esauriente del gioco delle tre carte con la quale stanno per concludere la dissoluzione della democrazia nella triste penisola. E gli eredi della sinistra, quando non guidano la truffa, tacendo acconsentono.

Il Fatto quotidiano, 5 marzo 2014L’accordo truffaldino tra un premier diventato tale con una manovra di Palazzo (privo com’è di consenso elettorale) con un partitino di scissionisti nominati dal precedente padrone realizza l’abusivismo perfetto in una democrazia ormai per modo di dire: ci prendiamo il governo e vi sequestriamo il voto, tiè. Non lo chiameremo golpe perché non c’è dramma, trattandosi di un misero gioco delle tre carte. Si strombazza l’Italicum per la Camera, ma da usare solo quando il Senato sarà abolito, forse tra 18 mesi o forse mai. Un obbrobrio mai visto, incostituzionale col botto.

Del resto, è il sogno a lungo cullato lassù sul Colle che pur di non far esprimere gli italiani ha preferito affidarsi a maggioranze artificiali (Monti, Letta) che infatti si sono autodissolte con imperdonabile spreco di tempo e di energie. Adesso tocca al fenomeno Renzi inventarsi un sistema elettorale ad personam che scandalizza perfino uno specialista come Berlusconi. Il turbo fiorentino ha la mania dei record. Cinque riforme in cinque mesi (se sono tutte così…). Due maggioranze, una per le riforme e una per i giorni feriali.

E a ben guardare, nel suo governo di governi ce ne sono tre, uno dentro l’altro come le matrioske. Il primo è quello della bella presenza: il più giovane, il più snello, il più rosa, buono per i titoli sui giornali. Il secondo è quello che conta e fa di conto. Guidato dal ministro dell’Economia Padoan, presidia via XX Settembre con un blocco di tecnici che dovranno piacere a Bruxelles e a Berlino. Il terzo è il sottogoverno degli affari e degli inciuci, quello dei sottosegretari così impresentabili che perfino Alfano è costretto a cacciarne uno (il prode Gentile). A Renzi avevamo creduto quando aveva letto il successo alle primarie del Pd come l’ultima spiaggia di un Paese giunto allo stremo. In molti abbiamo pensato: questo fa sul serio. Ora si sta giocando tutto il capitale tra pasticci e imbrogli vari. Non si dura nascondendo le elezioni in un cassetto. E per governare non basta qualche tweet.

La follia istituzionale di un parlamento eletto con una legge incostituzionale che cambia la Costituzione accogliendo l'iniziativa di «due per­so­naggi ambe­due sprov­vi­sti di potere pro­po­si­tivo legale, uno per­ché con­dan­nato per truffa a danno dello stato e inter­detto dai pub­blici uffici, l’altro per­ché era tito­lare di una carica che lo ren­deva incom­pa­ti­bile col man­dato par­la­men­tare».

Il manifesto, 4 marzo 2014

In un Paese civile, un evento senza pre­ce­denti nella sto­ria degli stati, come la decla­ra­to­ria di inco­sti­tu­zio­na­lità del sistema di ele­zione del Par­la­mento – cioè della legge che san­ci­sce la forma di stato e ine­ri­sce alla forma di governo — avrebbe deter­mi­nato, imme­dia­ta­mente e senza alcuna esi­ta­zione, lo scio­gli­mento imme­diato delle assem­blee elette con quel sistema. Con l’assoluta sicu­rezza della legit­ti­mità del sistema elet­to­rale col quale sareb­bero state elette le nuove Camere, stante la for­tuna di disporre di un mec­ca­ni­smo elet­to­rale di risulta costi­tu­zio­nal­mente cor­retto e imme­dia­ta­mente uti­liz­za­bile, depu­rato com’è delle dispo­si­zioni illegittime.

Siamo, invece, in Ita­lia. Ci tocca quindi con­sta­tare che le due Camere del Par­la­mento restano, spa­val­da­mente, in carica. Per giunta si appre­stano a rifor­mare addi­rit­tura la Costi­tu­zione e intanto a prov­ve­dersi di un altro sistema elet­to­rale. A pro­porlo sono stati due per­so­naggi ambe­due sprov­vi­sti di potere pro­po­si­tivo legale. Uno per­ché con­dan­nato per truffa a danno dello stato e inter­detto dai pub­blici uffici, l’altro per­ché era tito­lare di una carica che lo ren­deva incom­pa­ti­bile col man­dato par­la­men­tare. Ambe­due in preda all’ossessione di acqui­sire, eser­ci­tare e incre­men­tare potere per­so­nale, anche cal­pe­stando norme e prin­cipi. Ma non basta. Ad inte­grare la deva­sta­zione giu­ri­dica, poli­tica e morale che sta attra­ver­sando la nostra Repub­blica, si aggiunge il tipo di sistema elet­to­rale che pro­pu­gnano i due usur­pa­tori dei diritti dei com­po­nenti delle due Camere. Sistema che ripro­duce sfac­cia­ta­mente le inco­sti­tu­zio­na­lità già accer­tate dalla Corte, le rive­ste e le imbel­letta con sgua­iata volgarità.

Chi scrive, tut­ta­via, resta imper­ter­rito difen­sore del par­la­men­ta­ri­smo. Al punto da sognare un’estrema impro­ba­bi­lità. Pur se nomi­nati e non eletti, è dal voto alle liste che con­te­ne­vano i loro nome che i depu­tati e i sena­tori in carica deri­vano i poteri che spet­tano ai mem­bri del Par­la­mento. È dal voto delle elet­trici e degli elet­tori, pur se con sistema truf­fal­dino, è dal corpo elet­to­rale, pur se com­presso e rese­cato, è in nome di quel poco che forse resta ancora della sovra­nità popo­lare che i depu­tati e i sena­tori seg­gono sugli scanni delle Aule delle due Camere. Potreb­bero per­ciò riscat­tarsi dall’essere stati nomi­nati e non eletti, potreb­bero, per una volta, libe­rarsi dal dovere di ubbi­dire a chi li ha inclusi nelle liste e sen­tirsi obbli­gati invece a rap­pre­sen­tare «la Nazione senza vin­colo di man­dato» rifiu­tando di appro­vare una legge elet­to­rale pro­get­tata da chi ha usur­pato il loro potere fon­da­men­tale di pro­po­sta oltre che di appro­va­zione delle leggi.

Una legge elet­to­rale che si basa su due nega­zioni, due vio­la­zioni dei prin­cipi ele­men­tari dello stato rap­pre­sen­ta­tivo e della demo­cra­zia. Uno è il prin­ci­pio della libertà di voto, quindi di sce­gliersi chi votare come pro­prio rap­pre­sen­tante. È men­zo­gna vol­gare asse­rire che si è liberi di sce­gliere in caso di lista bloc­cata. Lo si sarebbe sol­tanto… votando per una lista avver­sa­ria a quella pre­fe­rita con il can­di­dato pre­fe­rito col­lo­cato però in una posi­zione di asso­luta impro­ba­bi­lità di elezione.

L’altra nega­zione è quella occul­tata dalla ido­la­tria della gover­na­bi­lità, della sta­bi­lità, della per­so­na­liz­za­zione del potere, tutto a un uomo solo, e di altre misti­fi­ca­zioni della poli­to­lo­gia domi­nante e distrut­tiva del prin­ci­pio di egua­glianza. Si deno­mina «pre­mio di mag­gio­ranza». Ne va sma­sche­rata la verità con forza e con­ti­nuità per com­bat­tere il capo­vol­gi­mento indotto nel senso comune di una verità ele­men­tare. È falso nel nome, nella sostanza e nell’effetto. Non pre­mia affatto una mag­gio­ranza, vani­fica quella vera. Il prin­ci­pio di mag­gio­ranza, come tutti sanno, pre­sup­pone il rag­giun­gi­mento della metà più uno dei voti espressi. Il «pre­mio di mag­gio­ranza» non lo si con­fe­ri­sce a chi que­sti voti li ha acqui­siti (che oltre­tutto non avrebbe biso­gno) ma a chi non li ha acqui­siti. Lo si con­fe­ri­sce , quindi, a una mino­ranza, quella che ottiene un solo voto in più di cia­scuna altra mino­ranza. Il «pre­mio» si tra­duce quindi in un pri­vi­le­gio per una delle mino­ranze rispetto a tutte le altre. Pri­vi­le­gio che com­porta com­pres­sione di voti e sot­tra­zione di seggi a quella che risul­terà essere la mag­gio­ranza reale, vera, per­ché com­po­sta dalla somma delle liste votate, esclusa la mino­ranza pri­vi­le­giata. Col ren­zu­sco­num una lista che ottiene il 37% dei voti, rag­giunto magari con altre liste della coa­li­zione che non hanno rag­giunto la soglia del 5% dei voti, un<CW-26>a lista quindi che potrebbe aver con­se­guito solo il 30% dei voti o anche meno, otter­rebbe il 53% dei seggi sot­traen­doli alla rap­pre­sen­tanza dei due terzi degli elet­tori. Non è l’unica vio­la­zione di ogni logica ele­men­tare del ren­zu­sco­num. Ce ne sono altre come le «soglie» di entità esor­bi­tante che per­ciò vani­fi­cano i voti di milioni di elet­tori che non si rico­no­scono in nes­suna delle due aggre­ga­zioni sup­po­ste come mag­giori. Soglie che ope­rano selet­ti­va­mente al primo scru­ti­nio, ma scom­pa­iono nel bal­lot­tag­gio per riser­varlo all’esclusivo domi­nio di tali aggregazioni.

Si sostiene che que­ste illo­gi­cità pla­teali, que­ste stor­ture aber­ranti, si ren­dono neces­sa­rie per assi­cu­rare la gover­na­bi­lità anche se sacri­fi­cano l’eguaglianza. Un prin­ci­pio fon­dante (il mas­simo secondo Costi­tu­zione) dovrebbe rece­dere a fronte di un obiet­tivo che, al di là del costo altis­simo in ter­mini della stessa tol­le­ra­bi­lità demo­cra­tica, è tutt’altro che certo e comun­que non sicu­ra­mente vir­tuoso. Lo dimo­stra l’esperienza disa­strosa del governo Ber­lu­sconi, che dal 2008 al 2011 dispo­neva di una mag­gio­ranza enorme e ha por­tato l’Italia sull’orlo del default. Si sostiene anche che la sera dell’elezione gli elet­tori e le elet­trici devono «sapere chi li governa». Mai idio­zia così truf­fal­dina fu con­ge­gnata. Averla prima inven­tata e poi dif­fusa ha deter­mi­nato il rove­scia­mento tra­gico del senso dell’elezione tra­smu­tan­dola in scelta di colui dal quale si sarà gover­nati, come dire, se … da Fran­cia o da Spa­gna si otterrà il «magnare». L’elezione non sarà più diretta alla scelta del rap­pre­sen­tante delle domande, dei biso­gni, dei pro­getti di chi com­pone il corpo elet­to­rale cui spet­te­rebbe la sovra­nità. La sovra­nità sarà capo­volta, diverrà sud­di­tanza a un capo asso­luto. La tra­ge­dia della demo­cra­zia si rap­pre­sen­terà con la farsa dell’elezione.

Prima di appro­vare que­sta legge ci pen­sino i par­la­men­tari della Repub­blica. Chissà. Potreb­bero cogliere l’occasione per rive­larsi tali.

Sapide annotazioni e suggestive rimembranze storiche suscitate dalla mimica del figlio del Cavaliere.

La Repubblica, 4 marzo 2014

Nell’eloquio del premier esordiente ricorrono i gesti esclamativi, abilmente usati. Definiamolo in greco: anziché dal nóos, organo intellettivo, sale dal thumós, sede degli spiriti vitali; volano parole esca cariche d’effetto; e talvolta catturano l’uditorio. Ad esempio, «rottame», da cui il verbo «rottamare»; o «mettere la faccia»; «se questo governo fallisce, la colpa è mia»; annunciava «una riforma al mese». Manca ancora la trama razionale: come stiano effettivamente le cose; quid agendum ossia la scelta del fine e i motivi; fin dove sia conseguibile; con quali risorse; come spenderle ecc.

Perdurando lacune sintattiche, siamo nella sfera del grido o segno mimico: N. batte pugni sul tavolo; solleva un sopracciglio; sta mani in tasca; dà manate sul palmo della mano altrui anziché stringerla. La politica, materia ibrida, ha testa e viscere: gestire l’interesse pubblico richiede mente fredda, acume percettivo, fantasia intellettuale, calcoli esatti; è una scienza ma chi comanda dura finché i sudditi non se lo scrollino, essendosi spenti i carismi che irradiava; e lì siamo sul terreno sensitivo.

La caduta dell’ex premier è caso classico: poco carismatico, teneva banco da 10 mesi, covato dal Quirinale; i punti deboli erano visibili da quando è emerso, sotto pesante parentela, ma pareva inamovibile, così protetto, avendo dalla sua l’inerzia d’una legislatura i cui reddituari, nominati dai partiti, mirano al quinquennio; e d’un colpo risulta fuori gioco.

Quanto influiscano gli sfondi emotivi, spesso determinanti, lo dicono quattro esempi. Nicola nasce nella Roma ancora semigotica, primavera 1313, tra i mulini del Tevere, sotto la Sinagoga, figlio dell’oste Lorenzo (Cola di Rienzo) e impara benissimo l’arte notarile. L’anonimo autore d’una Cronica romanesca lo descrive ferrato latinista: «deh, como e quanto era veloce lettore»; «tutta die» studia epigrafi delle quali pullula l’Urbe; decifra «li antiqui pataffii», interpreta figure, evoca tempi gloriosi. Le lapidi gli servono da scala: ha estro politicante; non ancora trentenne, sale ad Avignone, speaker del governo popolare; e torna con un buono stipendio, notaio del Tesoro comunale. Era posto strategico: in tale veste sferra «luculente » arringhe» contro i magnati, talmente stupidi da subire inerti un colpo di Stato (20 maggio 1347); nominatosi tribuno, governa a mano dura, col favore popolare, ma ha l’Io gonfio. L’inflazione megalomaniaca culmina nella fantasmagoria 31 luglio-1 agosto: cita Sua Santità, l’Imperatore, gli Elettori, i pretendenti; declina titoli immaginari («Candidatus Spiriti Sancti miles, Nicolaus Severus et Clemens, liberator Urbis, zelator Italiae, amator Orbis, Tribunus Augustus »). Ha dei soprassalti. Venerdì 14 settembre convoca i baroni, li imprigiona e condanna a morte ma l’indomani mattina cambia idea, convitandoli in Campidoglio. S’è candidato all’Impero. Chiama il popolo a parlamento e racconta dei sogni. Se ne stava sgomento quando i baroni vengono alla Porta Tiberina, 29 novembre, avendo complici tra le mura, ma il tentativo fallisce, allora. canta vittoria, sfila, arringa, nega la sepoltura ai tre Colonna morti. In fondo labile, dopo 15 giorni abdica rifugiandosi nel Castello, indi s’imbosca tra Napoli e Roma, ospite dei francescani spirituali sulla Maiella, poi in blanda prigionia boema dall’estate 1350, finché emissari papali lo riconducono ad Avignone (estate 1352). Morto Clemente VI, offre servizi nei domini italiani al successore Innocenzo (stesso numerale) e torna al seguito del cardinale legato. Era capolavoro d’arte ipnotica il modo in cui affascina i due fratelli del terribile e ricchissimo condottiero fra’ Moriale, con i soldi dei quali affitta una compagnia, accolto trionfalmente, ma ormai lo vedono deforme, malfermo, beone. La guerra contro i baroni ristagna. A tradimento cattura fra’ Moriale, decapitato sotto il Campidoglio, sulle cui scale mercoledì mattina 8 ottobre 1354 cade miserabilmente (tentava la fuga, travestito da rivoltoso).

L’impetuoso Francesco Crispi (1818-1901), due volte presidente del Consiglio, va soggetto a lampi allucinatori: teme attacchi dalla flotta francese; crede d’avere acquisito l’Impero etiopico con un imbroglio diplomatico, fallito il quale, manda al macello quattro brigate italiane nella giornata d’Adua, domenica 1 marzo 1896; e trova un culto postumo, quale precursore del Duce.

Il quale rifonda l’Impero e ne sogna uno mediterraneo-atlantico, guadagnato con mille o duemila morti nella scia delle vittorie hitleriane, a spese d’Inghilterra e Francia, paesi capitalisti. Dopo vent’anni d’una sbornia epica all’Italia «proletaria» (già Pascoli la chiamava così) restano gli occhi per piangere, ma gl’irriducibili rimpiangono l’uomo forte, taumaturgo, mago delle vie brevi, finito orribilmente appeso come Cola di Rienzo, perché dove gl’impulsi viscerali prevalgano sulle idee, ci vuol poco a convertirli nel contrario, dall’entusiasmo adorante al ludibrio del cadavere. Rimane costante un’acuta idiosincrasia: non piace chi parli poco, attento ai nessi, contando sul raziocinio; il difetto d’enfasi è piuttosto raro e chi vi cade lo paga.

Vedi Giolitti, aborrito in chiavi multiple: emette prosa secca, mentre gli antagonisti declamano (l’unica volta che cita Dante, molto a proposito, Montecitorio scoppia in una risata); tiene d’occhio i fatti, anziché cantare meraviglie; disegnando un socialismo riformista nell’area governativa, offende oligarchi e piccoli borghesi rampanti, consumatori d’erba retorica dannunziana; e colpa imperdonabile, non vede perché l’Italia debba giocarsi la testa saltando gratuitamente addosso a due potenti paesi dei quali è alleata da trent’anni.

Eravamo partiti dalla lingua politica italiana. Il premier in carica gioca d’effetto innestandovi locuzioni estranee alla parlata ufficiale. L’idem storico non esiste, irripetibile essendo ogni contesto, ma l’analogia aiuta a capire quel che avviene. Il punto interessante è cosa sia pronosticabile sul governo misteriosamente nato dai patti tra mercoledì 12 febbraio e l’indomani.

Lo strumento essenziale della democrazia rappresentativa continua a essere trattato come se il Palazzo si fosse trasformato in un mercato delle vacche (pardon, delle cacche) Il manifesto, 4 marzo 2014

La legge con la quale è stato eletto que­sto par­la­mento è in vigore da otto anni ed è gene­ral­mente cri­ti­cata da almeno sette. Molti pro­getti di riforma si sono suc­ce­duti ma nes­suno era arri­vato ad essere discusso da un’aula par­la­men­tare. Oggi que­sta discus­sione comin­cia a Mon­te­ci­to­rio. Nel frat­tempo la Corte Costi­tu­zio­nale ha fatto a pezzi la legge, dise­gnan­done una nuova: pro­por­zio­nale con soglie di sbar­ra­mento, una pre­fe­renza e niente pre­mio di mag­gio­ranza. È una legge appli­ca­bile, tut­ta­via una mag­gio­ranza più ampia di quella di governo vuole scri­vere un sistema nuovo. Solo che, a dispetto della lunga attesa, non c’è accordo su quando que­sta riforma possa essere uti­liz­za­bile. Subito, o tra 12–18 mesi? Le trat­ta­tive vanno avanti, ma ancora ieri sera Renzi doveva rico­no­scere che restano «varie difficoltà».

L’intreccio è appa­ren­te­mente senza solu­zione, salvo che una solu­zione c’è sem­pre: pren­dere un po’ di tempo. La corsa di Renzi sulla legge elet­to­rale — quando era solo il segre­ta­rio del Pd voleva appro­varla in prima let­tura entro feb­braio, sca­denza poi spo­stata di un mese causa più alto inca­rico — sbatte con­tro l’equivoco fon­da­tivo del suo governo. I garanti del patto sulle riforme, Ber­lu­sconi e Renzi mede­simo, hanno inte­ressi oppo­sti a quello del par­tito che con i suoi 32 sena­tori tiene in piedi l’esecutivo, il Nuovo cen­tro­de­stra di Alfano. Al pre­si­dente del Con­si­glio e al Cava­liere inte­ressa tenere sulla corda i par­titi con la minac­cia di ele­zioni nel 2015, al mini­stro dell’interno sta a cuore pro­lun­gare la legi­sla­tura fino a quando Ber­lu­sconi sarà poli­ti­ca­mente tra­mon­tato (per rac­co­gliere la lea­der­ship che non può con­ten­dere). I primi hanno fretta, il secondo ral­lenta. Con Alfano sta la mino­ranza Pd che vuole met­tere in crisi l’asse tra Firenze ed Arcore, oltre che una straor­di­na­ria ragione di buon­senso: l’Italicum appli­cato al bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio peg­giora i suoi già nume­rosi difetti. Ecco spie­gati gli emen­da­menti dei ber­sa­niani Lau­ri­cella e D’Attorre, che rin­viano l’operatività della nuova legge elet­to­rale all’entrata in vigore della riforma del senato. Altra pro­messa, o minac­cia, renziana.

L’aula della camera affron­terà l’argomento oggi pome­rig­gio, par­tendo dal voto degli emen­da­menti al testo del rela­tore Sisto (Fi) che rispec­chia il vec­chio accordo Pd-Fi-Ncd. Ci sono i tempi con­tin­gen­tati e Renzi spera ancora di chiu­dere il discorso entro fine set­ti­mana. Sta­mat­tina il comi­tato dei nove della com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali deci­derà sull’ammissibilità dei nuovi emen­da­menti che andranno ad aggiun­gerci agli oltre due­cento da votare. Tra que­sti nuovi quello D’Attorre che tra­sforma l’Italicum in una legge elet­to­rale valida solo per la camera dei depu­tati. Dal punto di vista costi­tu­zio­nale nulla impe­di­sce, ne ha impe­dito, di avere due sistemi diversi per le due camere — anche se la Con­sulta nella recente sen­tenza ha sot­to­li­neato i rischi per la gover­na­bi­lità. In teo­ria (ma non si è mai fatto) la Costi­tu­zione con­sen­ti­rebbe di scio­gliere in anti­cipo anche una sola camera.

Con l’emendamento D’Attorre in caso di ele­zioni anti­ci­pate a prima della riforma del senato, per palazzo Madama si vote­rebbe con il sistema uscito dalla sen­tenza della Con­sulta, con soglia di sbar­ra­mento per le coa­li­zioni per­sino più alta dell’Italicum (20%) ma più bassa per i par­titi coa­liz­zati (3%). E senza pre­mio di mag­gio­ranza, quindi il vin­ci­tore della camera non avrebbe la garan­zia di poter gover­nare senza alleanze suc­ces­sive al voto. Per Renzi que­sta even­tua­lità appare comun­que pre­fe­ri­bile rispetto alla pro­po­sta Lau­ri­cella, che rin­via l’entrata in vigore dell’Italicum alla riforma del senato, per la quale è deci­sivo ogni sin­golo voto del Ncd. In ogni caso potrebbe minac­ciare le ele­zioni anti­ci­pate, accada quel che accada. Il pre­si­dente del Con­si­glio non è però riu­scito ancora a con­vin­cere il ber­lu­sco­niano Ver­dini. Ha ancora qual­che ora, per­ché gli emen­da­menti in que­stione, sui quali è pos­si­bile un peri­co­loso voto segreto, sono all’articolo due della legge e dun­que non sareb­bero stati in ogni caso votati oggi.

Nel frat­tempo è com­ple­ta­mente uscita dai radar la pro­po­sta di riforma del senato, che il segre­ta­rio Pd aveva pro­messo per metà feb­braio. Si sa che per­sino il pre­si­dente della Repub­blica ha fatto cono­scere i suoi dubbi per la pro­get­tata «camera dei sin­daci», e che Renzi sta imma­gi­nando cor­re­zioni. Ha fretta ma non rie­sce a correre.

Tre incantatori di serpenti raccolgono il 75% dei voti: come mai «folle sterminate di esseri umani pre­fe­riscono essere schiavi di un tiranno piuttosto che uomini liberi? Forse la libertà non è altret­tanto con­ve­niente quanto la schiavitù». Il manifesto, 4 marzo 2014

Ormai è farsa con­ti­nua. Abbiamo pra­ti­ca­mente rag­giunto l’incerta linea di con­fine che separa, e per­ciò intrec­cia e con­fonde, com­me­dia e tra­ge­dia, riso e pianto, buo­nu­more e dispe­ra­zione. Tutta colpa di Renzi, Ber­lu­sconi, Grillo e di non so quanti altri attori del tea­trino politico-istituzionale nostrano? Pur­troppo no. Come viene detto nell’Amleto, c’è del mar­cio in Dani­marca, cioè in Ita­lia. Renzi, Ber­lu­sconi e Grillo fanno il loro mestiere di incan­ta­tori di ser­penti, ma che ne sarebbe di loro se noi non li votas­simo, se non ci rico­no­sces­simo nelle loro facce, se non li amas­simo appas­sio­na­ta­mente, soprat­tutto se li con­tra­stas­simo senza ambi­guità? La domanda non è sol­tanto legit­tima, è vec­chia di almeno cin­que secoli, quanti ne sono tra­scorsi dal giorno in cui Etienne de La Boé­tie scrisse il suo Discorso sulla ser­vitù volon­ta­ria nel quale si chie­deva come mai – in nome di che cosa — folle ster­mi­nate di esseri umani pre­fe­ris­sero essere schiavi di un tiranno piut­to­sto che uomini liberi. E con­clu­deva affer­mando che forse la libertà non è altret­tanto con­ve­niente quanto la schia­vitù.
È una con­clu­sione oggi meno vera di ieri? Sap­piamo tutti che no, che le cose non sono affatto cam­biate. Soprat­tutto chez nous, dove l’attrazione per il cosid­detto «uomo forte», a furia di essere un’abitudine, è diven­tata una vocazione.
Secondo cal­coli gros­so­lani, i tre incan­ta­tori di ser­penti sopra citati rie­scono a rac­co­gliere il set­tan­ta­cinque per cento dei voti espressi dagli ita­liani: così, senza che da parte loro venga offerto alcun serio pro­getto di futuro, venga pro­spet­tato un solo tra­guardo di rilievo vero­si­mile, uni­ca­mente in nome del loro pre­sunto appeal.
Chiedo a un amico: ma per­ché ti piace Renzi? Risponde: per­ché è sim­pa­tico e ruspante, sa quel che vuole. Obietto: lui forse sa quel che vuole, ma per­ché non lo rac­conta anche a noi? Fac­cio la stessa domanda a una mili­tante di Forza Ita­lia: ma che ci trova, signora, di così coin­vol­gente in Sil­vio Ber­lusconi? Rispo­sta: tutto! È un grande sta­ti­sta, non ruba per­ché è ricco ed è anche un bell’uomo! A un mio gio­vane con­giunto, che vota per il Movi­mento 5 Stelle, rim­pro­vero siste­ma­ti­ca­mente (quanto inu­tilmente) la sua pas­sione per Grillo: pos­si­bile che non abbia in testa altra stra­te­gia che quella di trion­fare, lui da solo, su tutto e su tutti? Ma chi si crede d’essere il tuo comico con quella sua fac­cia spi­ri­tata e quei ric­cio­loni di nar­ciso sca­te­nato? Replica: faremo a tutti un culo così.
Siamo al trionfo del deli­rio auto-celebrativo. Al disco­no­sci­mento di ogni alte­rità. Addio, logos. Altro che Etienne de La Boé­tie: oggi le cose vanno di gran lunga peg­gio di un tempo. Dap­per­tutto, temo. Ma in spe­cial modo qui da noi dove santa romana Chiesa ci ha espro­priato di ogni senso di respon­sa­bi­lità, degra­dan­doci a sud­diti da cit­ta­dini che era­vamo (mi è capi­tato di scri­vere un libro al riguardo, inti­to­lato La fab­brica dell’obbedienza, il lato oscuro e com­plice degli ita­liani).

La sini­stra è scom­parsa. A met­terla defi­ni­ti­va­mente fuori com­bat­ti­mento è stata la crisi eco­no­mica che ha fatto emer­gere in maniera ancora più cla­mo­rosa che in pas­sato la sua vacuità e ina­de­gua­tezza a rap­pre­sen­tare gli inte­ressi dei ceti col­piti, la sua voca­zione alla sud­di­tanza e al com­pro­messo. Lo spet­ta­colo stringe il cuore. Tanto più che, men­tre nelle piazze tele­vi­sive trionfa una ple­tora di unti dal Signore (se Renzi è il figlio, Grillo è lo spi­rito santo), la sini­stra non rie­sce a into­nare nep­pure un mea culpa, a ela­bo­rare nean­che uno strac­cio di rifles­sione auto­cri­tica. Come se nes­suno fosse respon­sa­bile di niente, tutto fosse avve­nuto per sen­tenza cele­ste e ormai non ci restasse che piangere.

A guar­darsi intorno, si direbbe che il fascino per­verso del cata­stro­fi­smo ci abbia presi tutti al lac­cio: la pio­vra finan­zia­ria, l’Europa dei forti, i nuovi schia­vi­sti della mon­dia­liz­za­zione pro­dut­tiva sem­brano aver eretto, tutti assieme, un muro impos­si­bile da oltrepassare.

Ho par­te­ci­pato alcune sere fa a una riu­nione di per­sone aventi alle spalle un ono­re­vole pas­sato di lotte demo­cra­ti­che, insomma di forte impe­gno poli­tico. Non ho sen­tito echeg­giare una sola parola di tipo pro­po­si­tivo, e ancor meno rela­tiva agli errori com­messi, ai com­por­ta­menti sba­gliati, alle debo­lezze anche di tipo etico mostrate, si badi, non sol­tanto da que­sta o da quella orga­niz­za­zione poli­tica ma dai sin­goli, da tutti noi. Avrei voluto pren­dere la parola ma non ho osato, inti­mi­dito a mia volta dalla cupa atmo­sfera gene­rale deter­mi­na­tasi, credo, in forza del pre­va­lente sen­tire pes­si­mi­stico dei pre­senti.

Siamo tutti vera­mente pri­gio­nieri di una situa­zione irri­me­dia­bile? Que­sto avrei voluto dire. Ma non sol­tanto que­sto. Avrei voluto par­lare dei nostri errori, del fatto che la sini­stra, come un pugile suo­nato, ormai non è più in grado di tute­lare nep­pure il pro­prio patri­mo­nio lin­gui­stico, come sta a dimo­strare la spre­giu­di­cata appro­pria­zione della parola «auste­rità» da parte di una destra euro­pea tanto cana­glia quanto truf­fal­dina, che se ne è ser­vita per con­fe­rire una par­venza di ono­ra­bi­lità ai pro­pri dik­tat eco­no­mici. E tutto que­sto senza che da parte degli eco­no­mi­sti demo­cra­tici si levasse un solo grido di pro­te­sta, una sola accusa di «furto ideologico».

Le parole, lo sap­piamo tutti, sono impor­tanti, scal­fi­scono le nostre coscienze. Soprat­tutto quando ven­gono osses­si­va­mente rei­te­rate come fanno i gior­nali ogni mat­tina con que­sto lemma abu­sivo, come fa la tele­vi­sione, come fanno i poli­tici, i cit­ta­dini e come fac­ciamo incon­sa­pe­vol­mente noi stessi attri­buendo in tal modo, senza rite­gno, quarti di nobiltà a poli­ti­che che meri­te­reb­bero ben altre defi­ni­zioni.
Le parole devono cor­ri­spon­dere esat­ta­mente alle cose: guai se ciò non accade. Mi ven­gono a mente alcuni straor­di­nari versi di Juan Ramon Jime­nez: Intel­li­genza, dammi/ il nome esatto delle cose!/ … che la mia parola sia/ la cosa stessa…

Per noi infatti era «la cosa stessa», soprat­tutto se ci si rife­ri­sce al con­te­nuto etico della parola «auste­rità», che da sem­pre si con­trap­pone a «dis­so­lu­tezza» e «cor­ru­zione» ed è meta­fora di costumi irre­pren­si­bili. Appar­te­neva insomma al nostro voca­bo­la­rio (chi più di noi può amare e pra­ti­care l’austerità?): abbiamo lasciato senza colpo ferire che diven­tasse l’altrui foglia di fico. Anzi peg­gio: che diven­tasse la nostra parola «nemica», la ban­diera da abbat­tere.

Sve­glia, sini­stra, apri gli occhi!
Diceva Andreotti: a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. Ecco perchè B. preferisce governare così.

Il Fatto quotidiano, 2 marzo 2014
A gennaio, quando Renzi incontrò il pregiudicato interdetto decaduto Berlusconi nella sede Pd per discutere la nuova legge elettorale e le riforme collegate (Senato e Regioni), scrivemmo pur fra mille dubbi che non era proprio uno scandalo. Le leggi elettorali appartengono agli elettori, non agli eletti, dunque era impensabile tagliar fuori il maggior partito di centrodestra.

Inoltre, stante lindisponibilità dei 5Stelle persi nella Rete, per sbloccare l'impasse non restava che rivolgersi al terzo partito, Forza Italia: l'unico che poteva assicurare una maggioranza in Parlamento. Renzi, appena plebiscitato segretario del Pd, giurava che l'accordo con B. era per una legge che ci mettesse al riparo da altri governi con B.

Intanto, mentre lui e B. si occu-pavano delle riforme, Letta poteva governare sereno. Non restava che prenderne atto e aspettarlo al varco, cioè alla prova dei fatti: per quanto inedita, lipotesi che un politico italiano dicesse la verità non andava scartata a priori. Ora, meno di due mesi dopo e alla luce dei fatti, possiamo tranquillamente affermare che Renzi mentiva.

L'accordo con B., quasi sempre intermediato dal comune amico Denis Verdini, è ben più vasto e stringente di unintesa tecnica per quelle tre riforme. È un patto d'acciaio le cui clausole restano occulte, anche se i risultati si manifestano ogni giorno più chiari.

Il Caimano sa che il 10 aprile si riunisce il Tribunale di sorveglianza per decidere dove sconterà i 7 mesi di pena (quel che resta della condanna a 4 anni, detratti i 3 anni di indulto e i 5 mesi di liberazione anticipata extralarge sancita dallo svuotacarceri Cancellieri): in galera, o ai domiciliari, o ai servizi sociali. Forse, per non alimentare il suo vittimismo durante la campagna elettorale per le Europee, il verdetto slitterà di un paio di mesi. In ogni caso il pregiudicato sarà politicamente fuori gioco sino a fine anno: guiderà il partito per interposto Toti. Intanto tenterà il colpaccio: candidarsi ugualmente alle Europee in barba alla legge Severino e sfidare gli uffici elettorali della Corte dappello a depennarlo, con una prova muscolare che mira a resuscitare il vecchio nemico, le toghe rosse; a incendiare una spenta campagna elettorale; e a mettere in difficoltà l’amico Matteo.

Per portare a termine il piano, B. ha bisogno di un governo che regga almeno un anno, dandogli modo di tornare come nuovo a Natale e di organizzare l’unica campagna che gli sta a cuore: quella delle politiche, che non fa mistero di auspicare per il 2015. Il governo Letta questa garanzia non gliel’assicurava: stava insieme con lo sputo, passava di gaffe in scandalo, non aveva più l’appoggio del Pd, poteva sfasciarsi da un momento all'altro. E, se anche fosse durato fino al 2015, avrebbe costretto il quasi ottantenne Caimano a sfidare un giovane come Renzi, che ha la metà dei suoi anni, per giunta intonso da esperienze governative e dunque molto più fresco e popolare di lui. Una partita persa in partenza.

L'ideale era che Renzi subentrasse a Letta sputtanandosi con un colpo di palazzo senza passare dal voto, risputtanandosi con estenuanti trattative con i partiti e i partitini di una maggioranza Brancaleone, arcisputtanandosi con un governicchio impresentabile e ultrasputtanandosi con grandi promesse e pochi fatti. Lamico Matteo,con ammirevole abnegazione, lha puntualmen-te accontentato. Missione compiuta. Già che ce-ra, gli ha pure regalato il controllo militare sui ministeri della Giustizia (con i berlusconiani Costa & Ferri), delle Infrastrutture (con i diversamente berlusconiani Lupi & Gentile) e delle Attività produttive (con la berlusconiana Guidi che veglia anche sulle Comunicazioni).

Così B. potrà seguitare a governare sui propri interessi e “gratis”, senza nemmeno il fastidio di entrare nella maggioranza, metterci la faccia e sporcarsi le mani.

Resta da capire che cosa ci guadagni Renzi da questa catastrofe, e magari un giorno lo capiremo. Ma è una vecchia storia. Lo scienziato capace di isolare il virus che porta al suicidio tutti i leader del centrosinistra vince il Nobel.
Finalmente una proposta sensata e concreta per uscire dalla crisi, ispirata da Luciano Gallino e proposta dai parlamentari di SEL. Non solo le cose da fare ma anche le risorse da impiegare. Sarebbe l'inizio di un'inversione di tendenza, possibile se il PD fosse diverso.

Greenreport, 27 febbraio 2014, con postilla

Dall’opposizione Sinistra ecologia libertà prova a inserirsi in grande stile nel dibattito sulle prime misure economiche annunciate dal nuovo presidente del consiglio Matteo Renzi. Ieri Giorgio Airaudo ha presentato la proposta di legge per la «istituzione di un programma nazionale sperimentale di interventi pubblici denominato «Green New Deal italiano» contro la recessione e la disoccupazione», da attuare tramite l’istituzione di una Agenzia nazionale per gli anni 2014-2016.

Airaudo, presentando la proposta, ha ricordato i dati sconvolgenti pubblicati dall’Istat nell’ottobre 2013, quando i disoccupati erano arrivati a 3.189.000 e ha evidenziato che con queste cifre, anche «se il quadro economico mutasse e vi fosse un boom, occorrerebbero non meno di 15 anni per riportare l’occupazione a livelli che si possano considerare fisiologici e non si riuscirebbe comunque a tornare ai livelli precedenti (ad esempio al dato del 2005, che ha costituito l’anno migliore del nuovo secolo per l’occupazione nei Paesi Ue), tenendo presente che la maggior parte delle imprese stanno provvedendo a sostituire in misura e rapidità crescente il lavoro umano con varie forme di automazione».

Sel parte da una convinzione che è l’esatto contrario della ricetta neoliberista: «È l’occupazione che genera sviluppo, non il contrario. I dati relativi al tasso di disoccupazione nel nostro Paese mostrano un quadro di assoluta gravità che continua a peggiorare. Si tratta di una vera e propria emorragia di posti di lavoro, che colpisce gli under 30, ma non di meno tutte le altre fasce di età. Quello che più turba è l’enorme crescita di quanti si dicono “scoraggiati”, che hanno smesso di cercare lavoro perché ritengono di non trovarlo. La disoccupazione continua a crescere anche nell’ambito del lavoro precario, a riprova del fatto che la scelta di favorire contratti non a tempo indeterminato ha poco o scarso impatto sul problema occupazionale, mentre priva i lavoratori di molti diritti fondamentali».

Airaudo, in una conferenza stampa con Luciano Gallino, vero ispiratore del Green New Deal, ha detto che l’obiettivo della proposta di legge è quello di «creare 1 milione e mezzo di posti di lavoro in tre anni, impegnando circa 17 miliardi, con lo Stato che diventa datore di lavoro di ultima istanza». Si tratta della trasposizione in proposta legislativa di quell’Agenzia per l’occupazione ipotizzata da tempo dal sociologo torinese, che ha descritto più di un anno fa anche sulle pagine di greenreport.it.

Gallino ha dunque sottolineato che «la priorità di questo Paese è il lavoro, che è una cosa molto concreta che richiede risposte precise. Se ci si affida al mercato e agli incentivi è impossibile risolvere il problema della disoccupazione». Per Gennaro Migliore, capogruppo di Sel alla Camera, il Green New Deal italiano sarebbe «uno choc positivo per l’economia che però dovrà avere effetti benefici anche sull’ambiente e non devastarlo. Anche la competitività delle imprese italiane non verrebbe intaccata dall’impegno pubblico. Non si può affidare al mercato quello che il mercato non vuole e non può fare».

Ma dove prendere i soldi? 17 miliardi di euro non sono così pochi, di questi tempi. Airaudo ha però puntualizzato subito che «la copertura dell’investimento triennale dovrebbe venire dall’uso dei fondi della Cassa depositi e prestiti, anche attraverso l’emissione di obbligazioni, e dai Fondi strutturali europei. Con una responsabilizzazione degli enti locali, attraverso l’allentamento del patto di stabilità interno. Ma attenzione, con una clausola sull’occupazione netta: chi vincesse a livello locale questi appalti dovrebbe non aver licenziato nei 24 mesi precedenti e impegnarsi a non licenziare nei 24 mesi successivi». Un punto controverso, questo. Se da una parte si tratta di una strategia per evitare escamotage da parte dei soliti furbi, dall’altra rischia di penalizzare anche quelle imprese che negli ultimi due anni hanno giocoforza dovuto affrontare licenziamenti per poter sopravvivere.

Il piano straordinario per il lavoro di Sel è in ogni caso una potente sfida politica al Pd, visto che dovrà essere discusso nel percorso parlamentare del Jobs Act di Matteo Renzi. «Serve un New Deal ispirato a quello rooseveltiano, e noi pensiamo che lo Stato possa diventare datore di lavoro di ultima istanza»: per far questo, secondo Gallino, «gli interventi vanno concentrati nei settori ad alta intensità di lavoro», che per Sel sono «il risanamento delle scuole, la ristrutturazione degli ospedali e la manutenzione del territorio per contrastare il dissesto idrogeologico». Si tratta di un tipo di occupazione in gran parte immune ai rischi da quell’informatizzazione e automatizzazione che attualmente spingono verso la disoccupazione tecnologica e, cosa non meno importante, si tratta di posti di lavoro che per loro natura non possono essere delocalizzati, come ha sottolineato proprio Gallino.

Gallino ha spiegato le differenze tra questo Green New Deal dal Jobs Act di Renzi: «La proposta di Sel è una proposta concreta, precisa, si potrebbe approvarla in una settimana e farla partire in 15 giorni. Si tratta di una proposta argomentata in 40 pagine di dati e statistiche.
Da Renzi, sul lavoro, vorrei vedere qualcosa di più sostanzioso perché finora siamo sul piano dei discorsi. Il Jobs Act che ho scaricato dal sito di Renzi è soltanto un dossier di poche pagine che contiene alcune idee interessanti e altre a dire il vero mirabolanti. Ad esempio è mirabolante l’idea di cambiare per intero la legislazione sul lavoro in 8 mesi. In Italia, la legislazione sul lavoro ha cominciato a evolversi il 1 gennaio 1948, quando è nata la Costituzione. Otto mesi sono pochi date queste premesse di contenuto. Quelle del Jobs Act sono poche paginette che volano per aria. Aspetto che le paginette di Renzi diventino qualcosa di più concreto».

A Gallino – che nel suo ultimo libro parla, fin dal titolo de “Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa” – gli è stato chiesto come questo ragionamento faccia da premessa alla necessità di un Green New Deal e lui ha risposto: «Tra il novembre 2011 e il febbraio 2012 la Bce ha prestato alle banche europee più di un trilione di euro, ovvero più di 1000 miliardi. Le banche italiane ne hanno approfittato per 300 miliardi. Una frazione minima di questi miliardi sono finiti alle imprese e per creare occupazione; gli altri sono stati depositati come collaterali alla Bce per impieghi prevalentemente bancari e finanziari privi di impatto sull’economia reale».

Postilla

La proposta di SEL è scaricabile qui.
Invitiamo e esaminare in particolare la tabellina sulle risorse che si propone di impiegare per uscire dal baratro: tra le altre, la riduzione delle spese impegnate dai governi social-liberisti per gli F35. per le fregate di classe Fremm, per la TAV Torino Lione. Ukteriori riduzioni delle spese per la guerra e per opere inutili e dannose sarebbero senz'altroi poissibili.
Nel libro del sapiente costituzionalista Paolo Maddalena riemerge il tema nodale dell’urbanistica – l’appartenenza pubblica della facoltà di edificare - colpevolmente trascurato per troppi decenni dagli addetti ai lavori e dai decisori nazionali, regionali e comunali

Paolo Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli, pp. 210, € 18

La partita del territorio italiano, del paesaggio e della loro tutela, si gioca tutta intorno a un’espressione latina, ius aedificandi.

Secondo Paolo Maddalena, professore di Diritto romano, poi giudice della Corte dei Conti e, per un decennio, della Corte Costituzionale, se si chiarisse per bene, senza ambiguità, che una cosa è essere proprietari di un suolo altra cosa è aver diritto a farci quel che si vuole, forse per territorio e paesaggio italiano si può immaginare un futuro più sereno. Ma che cosa c’entra lo ius aedificandi?

C’entra, spiega Maddalena in questo saggio di lettura agile (con introduzione di Salvatore Settis), nonostante la mole di sapienza giuridica che vi è riversata, perché un presunto diritto a costruire si ritiene sia connaturato al diritto di proprietà. È una convinzione molto diffusa in Italia: ne è prova il successo di uno degli slogan simbolicamente più efficaci del berlusconismo, “padroni in casa propria”, che ha fatto proseliti sia fra i grandi che fra i piccoli possessori di aree, a dimostrazione che esiste nel nostro paese un nutrito, multiforme “blocco edilizio” tenuto insieme da una smodata intolleranza verso le regole. Ma uno ius aedificandi così inteso, baluardo di un oltranzismo privatistico, è uno sgorbio giuridico, insiste Maddalena, senza riscontri nelle fonti del diritto romano, anzi ampiamente smentito da questo, e soprattutto in patente contrasto con la nostra Costituzione. Ciò nonostante sul diritto a costruire vige una specie di consuetudine, avallata da alcune norme del codice civile e da qualche sentenza della Corte Costituzionale (risalente a prima che Maddalena vi facesse parte) e poi da un sentire diffuso che autorizza sia abusi edilizi sia piani casa.

E invece possedere un suolo non è come possedere un tavolo. Non lo si può trasformare o manipolare a piacimento. L’edificazione, scrive Maddalena, «produce effetti non solo sui beni in proprietà del privato, ma anche sui beni che sono in proprietà collettiva di tutti, come il paesaggio, che, essendo un aspetto del territorio, è in proprietà collettiva del popolo, a titolo di sovranità».

Stendere un velo di cemento anche solo su duecento metri quadrati di suolo sottrae irreversibilmente a questo alcune funzioni che sono di interesse della collettività. Quella porzione di suolo sarà impermeabilizzata, con un acquazzone la pioggia vi scivolerà e non sarà assorbita ricaricando le falde. Il suolo non potrà più essere coltivato. Non immagazzinerà più carbonio. Se sopra il velo si innalzerà un edificio, questo altererà la prospettiva esistente, attirerà più persone, produrrà più scarichi. Se invece che uno, gli edifici sono tanti, tutti questi effetti si moltiplicheranno. Non può essere solo il proprietario a decidere che cosa fare del suo suolo.

La proprietà privata non dà diritti illimitati. Diritti che, per fare un esempio, un costruttore ritiene di poter esercitare quando va a contrattare la trasformazione di un area con un’autorità pubblica troppo spesso soggiogata politicamente. Ma – ed è qui uno dei punti cruciali del saggio di Maddalena – non è la proprietà privata limitata dagli interessi pubblici. La prospettiva va ribaltata. È il territorio nel suo complesso un bene appartenente alla collettività (come sostenevano già i romani), essendo il territorio il luogo nel quale si esercita la sovranità popolare. E ciò determina, scrive Maddalena, una prevalenza giuridica dell’interesse pubblico su quello privato. Detto in altri termini (sperabilmente non troppo elementari): se in qualunque modo si tocca il territorio sono gli interessi pubblici che vanno considerati più di quelli privati.

Il libro di Maddalena ripercorre in modo assai coinvolgente la storia di come il territorio sia stato considerato un bene collettivo ed enumera le norme giuridiche che hanno supportato questa concezione. Dall’età classica alla nostra Costituzione. Inoltre il libro è percorso dall’idea di quanto sia necessario riferirsi a questi principi nella pratica legislativa, in quella politica e in quella amministrativa. Qui non è possibile neanche sintetizzare tale ricchezza di documentazione, salvo sottolineare come il saggio di Maddalena segni un punto fermo nella saggistica dedicata al territorio e al paesaggio. E nelle battaglie per la loro tutela.

Riferimenti
Di Paolo Maddalena vedi su eddyburg "Il territorio, il lavoro, la crisi finanziaria". Sull'argomento vedi anche E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza 2007, pp. 141 e segg.


Qualche differenza ancora c'è tra le socialdemocrazie europee e il liberalsocialismo forzitaliota di Matteo Renzi e del

suo partito. Ma la sinistra è un'altra cosa. Il manifesto, 2 marzo 2014

Chissà se al com­pa­gno Renzi sarà andato di tra­verso il pop-corn quando Mar­tin Schulz, a con­clu­sione del congresso-convenscion del Pse, ha esor­dito con «Cari com­pa­gni…», rivol­gen­dosi natu­ral­mente anche alla folta dele­ga­zione di un par­tito, che ha can­cel­lato la parola sini­stra dal suo nome. Il libraio di Wur­se­len è da ieri il can­di­dato alla pre­si­denza della Com­mis­sione euro­pea. Lo ha desi­gnato l’assise di Roma, alla fine delle tre gior­nate con­vo­cate per accen­dere i motori di una cam­pa­gna elet­to­rale dif­fi­cile, deci­siva, con una posta altis­sima per la sini­stra e per le sorti stesse dell’Europa.

Nella sala del palazzo dei con­gressi quello di Schulz è risuo­nato come un discorso d’altri tempi, più vicino alle corde di un socia­li­smo lom­bar­diano d’altri tempi che a quelle di un libe­ri­smo blai­riano, ispi­ra­tore del nuovo corso ren­ziano. Con­tro una crisi che ha fatto «i ric­chi sem­pre più ric­chi», che ha pro­dotto «120 milioni di poveri, 27 milioni di disoc­cu­pati», Schulz ha chie­sto ai rap­pre­sen­tanti del socia­li­smo euro­peo se erano «ancora in grado di sen­tire il dolore di chi con la crisi ha perso il lavoro, la casa, la cer­tezza di poter sfa­mare i pro­pri figli», per­ché «solo se saremo in grado di con­di­vi­dere que­sto dolore — ha avver­tito il lea­der social­de­mo­cra­tico — potremo meri­tare di vin­cere le elezioni».

Que­sto socia­li­sta che milita nell’Spd dall’età di dician­nove anni, ha par­lato del biso­gno di rico­struire un’Europa sociale e demo­cra­tica, aperta nelle sue fron­tiere, dove «nes­sun paese dovrà imporsi agli altri», dove «al cen­tro dovrà esserci la parola ugua­glianza», con­tro la “mano invi­si­bile” del mer­cato che tutto regola, con­tro una poli­tica che «pensa solo a sal­vare le ban­che», con­tro «i cinici sem­pre in agguato, e sem­pre pronti a dire che il voto non conta per­ché sono gli accordi nasco­sti», a det­tare legge. Dun­que il pros­simo 25 mag­gio la sini­stra «che si è persa deve ritor­nare a casa».

Ma Schulz è anche un bravo equi­li­bri­sta, molto attento a non nomi­nare la revi­sione dei Trat­tati, a non citare mai la Bce, a glis­sare sulle lar­ghe intese che in Ger­ma­nia e in Ita­lia con­ti­nuano a par­lare la lin­gua del fiscal com­pact. Una lacuna tem­pe­sti­va­mente col­mata da Renzi quando, nel suo breve inter­vento, ha assi­cu­rato che prima di tutto l’Italia «deve adem­piere ai pro­pri obbli­ghi tenendo i conti in ordine». Tutto il con­tra­rio di quel che ispira il can­di­dato della sini­stra Ale­xis Tsi­pras, sim­bolo di una bat­ta­glia e di una coa­li­zione che mette al cen­tro la cri­tica alla poli­tica eco­no­mica delle isti­tu­zioni mone­ta­rie e dei governi che se ne sono arci­gni guar­diani. E che, dalla Gre­cia, indica la rotta per un’altra Europa.

Bisogna finanziare la scuola privata perché la scuola pubblica è migliore: le paradossali argomentazioni della nuova ministra del governo Renzi, “giovane” e “rosa” nell’apparenza ma vecchio e nero nella sostanza. L

a Repubblica, 2 marzo 2014

Cambiano i governi non la politica scolastica, che promette di andare verso la graduale eguaglianza delle scuole private a quelle pubbliche. Alcuni governi sono più energici di altri; questo parte con una straordinaria determinazione. Le prime dichiarazioni della nuova ministra della Pubblica istruzione, Stefania Giannini, sono improntate al merito e al bisogno, per usare una fortunata coppia di valori, molto frequentati negli anni ’80. Il merito dovrebbe guidare la diversificazione remunerativa degli insegnati delle scuole pubbliche: coloro che producono di più dovrebbero essere meglio retribuiti, come i dipendenti di una qualunque azienda.

Il criterio per stabilire il merito nell’insegnamento medio e superiore non sarà facile da individuare, a meno che non si adottino criteri discutibili come il numero dei promossi, le ore di servizio alla scuola, o il buon gradimento da parte dei genitori o del dirigente scolastico. Ma è doveroso attendere le proposte prima di giudicare, riservandoci un angolino di scetticismo per le pratiche che vogliono applicare la logica degli incentivi economici a tutte le funzioni indifferentemente, non tenendo conto che ci sono beni di cittadinanza (come la scuola) che non possono essere giudicati con gli stessi criteri della produzione di beni destinati al mercato.

Le dichiarazioni di Stefania Giannini sono invece più esplicite nella parte relativa ai rapporti dello Stato con le scuole private paritarie. Qui la ministra invoca il bisogno. E le posizioni che emergono sono molto preoccupanti benché non nuove. Nuovo è l’armamentario argomentativo, perché pensato non per convincere che le scuole private parificate meritino più finanziamenti, ma per sostenere che esse hanno bisogno dei soldi pubblici e, infine, che il sollievo dal bisogno sarà garantito dal percorso del governo che va verso l’affermazione dell’eguaglianza piena, non più della parità, delle scuole private con quelle pubbliche. Il fine è far cadere ogni barriera che distingue i due ordini di scuola allo scopo di non dover più giustificare i finanziamenti pubblici, che a quel punto sarebbero dovuti. In questa cornice si iscrive la proposta della ministra di rilanciare le scuole private paritarie.

Veniamo alla giustificazione di questa marcia accelerata verso la scuola privata, che come si è detto è basata sul bisogno: in pochi anni le scuole private hanno perso studenti (in cinque anni uno su cinque), e per fermare questa emorragia lo Stato dovrebbe intervenire. E così è. I soldi pubblici sono infatti già stati accreditati alle Regioni, come ha comunicato la Compagnia delle opere (ben rappresentata nel governo): 223 milioni di euro stanziati per l’anno scolastico 2013/2014, in aggiunta a 260 milioni già previsti per lo stesso anno. In tutto, 483 milioni che tengono in piedi un settore in estrema difficoltà. Il pubblico, dunque, “tiene in piedi” la scuola privata in difficoltà. I vescovi e la ministra Giannini all’unisono chiamano questa una politica di «libertà effettiva di scelta educativa dei genitori».

Ma se c’è emorragia di studenti dalle private alle pubbliche, logica vorrebbe che si diano più risorse alle pubbliche, sia perché ne hanno presumibilmente più bisogno sia perché se lo meritano, avendo attratto più studenti, nonostante le “classi pollaio” esito della riforma Gelmini. Se è solo per bisogno che le scuole private devono ricevere i soldi pubblici, ciò significa che lo Stato fa dell’assistenza vera e propria. Non è dunque chiaro con quale logica la ministra applica la coppia merito/ bisogno, perché qui sembra di capire che le pubbliche siano punite proprio per ricevere gli studenti che abbandonano le private, le quali per non saper trattenere gli studenti ricevono invece i finanziamenti. È chiaro che i soldi pubblici servono a tenere queste scuole in vita, non a premiare il merito o il buon rendimento.

Tenerle in vita, si sostiene, perché sono il luogo dove si concretizza la «libertà educativa dei genitori». Ma perché i genitori scelgono di iscrivere i figli alla scuola pubblica? Presumibilmente questa loro scelta libera è dettata da ragioni di merito: la scuola pubblica è, nonostante tutto, migliore e vince sul mercato della libertà educativa. Ma a seguire le parole del ministro sembra di capire che lo Stato interverrebbe quando la scelta è già stata fatta, ovvero per finanziarne il residuo (cioè il risultato di quella scelta) non per garantirla. Qui vediamo in azione l’opposto del criterio del merito e del bisogno legato al merito, e inoltre una stridente contraddizione con il principio della libera scelta.

Un argomento insidioso per giustificare il tampone di emorragia con i soldi pubblici è che un alunno delle scuole private costa meno di un alunno delle scuole pubbliche. Nel contesto di razionalizzazione mercatista della spesa pubblica nella quale ci troviamo, non si fatica a intuire quale sarà il passo successivo: meglio finanziare le scuole private che quelle pubbliche perché costano meno all’erario. Questo sarebbe un epilogo fatale per la scuola pubblica. A giudicare da queste prime dichiarazioni della ministra Giannini, nel settore dell’istruzione il governo promette di essere un governo della restaurazione, ovvero di voler chiudere la disputa tenuta aperta dalla nostra Costituzione, decretando che tutte le scuole sono pubbliche, quelle dello Stato e quelle private parificate, che tutte devono essere “eguali”. La maggioranza parlamentare ha il potere di farlo. Ma l’opinione pubblica e politica ha il dovere di criticare questa scelta e di operare per fermarla o cambiarla.


Un po' di vernice rosa non basta affatto per qualificare un governo. Anzi. Se le donne sono tante certi silenzi sono ancora più gravi.

giuliarodano.eu, 24 febbraio 2014

Nel governo la metà dei ministri sono donne. Ma io non sto serena. Rimane qualcosa che non mi convince, anzi, per dirla tutta, che mi irrita, un sassolino nella scarpa o una briciola tra le lenzuola.
Non sto serena perché solo qualche settimana fa una giovane donna in gamba è rimasta fuori dal Consiglio regionale della Sardegna, nonostante avesse raccolto oltre il 10% dei consensi. E non ho sentito una sola parola di condanna su una legge elettorale così infame, Anzi la Tavola della parità ha ribadito la richiesta di modifiche corporative all’ Italicum, che tanto somiglia alla legge sarda.
Non sto serena perché delle donne ministro una è portatrice di clamorosi conflitti di interesse, un’altra intende governare la scuola applicando invece che rovesciando le ricette devastanti dei suoi predecessori e perché della terza non ho sentito una sola parola conto gli F35. E siamo solo alle prime battute. Mi si dirà, ma potrebbero fare altrettanto gli uomini. E vero. E quindi non basta che ci siano le donne per farmi essere serena. Non è questa presenza che fa la novità del governo. Possibile che in un governo con otto ministre non ci sia una parola nel programma per la lotta alle dimissioni in bianco, non vengano pronunciata dal presidente del Consiglio le parole giustizia sociale, o il temine evasione fiscale o la parola precariato o al a disoccupazione intellettuale. Che non ci sia una parola per le ragazze che devono rinunciare alla maternità perché la partita Iva o il contratto a termine non le garantiscono più. Non sto serena.

A me avevano insegnato, le tante che mi hanno preceduto e che hanno aperto la strada, che le donne, lottando per la loro liberta, avrebbero contribuito alla liberta di tutte e di tutti. Avrebbero cambiato la politica, le sue forme e i suoi contenuti, avrebbero rovesciato il punto di vista sulle cose, affermando quello di genere. Avrebbe preteso un mondo in cui dove ogni volta che si pensa o di dice uno non può che dirsi e intendersi due.

Invece sembra bastarci che ci sia un numero di ministre pari a quello dei ministri, chiunque siano, qualunque cosa facciano e dicano.

Sembra bastarci – esattamente come agli uomini - che ci vengano assicurati dei posticini sicuri in una brutta legge elettorale. Non ci interessa che più della metà delle donne sarde siano fuori della rappresentanza. Non ci viene in mente che una legge che esclude i cittadini, escluderà le donne e le escluderà di più. Ma quello che sembra interessarci è essere il 50% dei non esclusi.

Le donne non devono salvare il mondo, mi si dice. Ma milioni di donne non sono libere, in Italia. A che pro il 50/50 se loro sempre non libere rimangono?

«Il Pd non sarà più un par­tito di cen­tro­si­ni­stra, tanto meno di sini­stra, quale mai è stato. Sarà sem­pre più quello che in parte è già oggi: un par­tito per­so­nale, anzi una agen­zia di mar­ke­ting elet­to­rale, nuova fiam­mante come una Fer­rari». Che fare allora? una risposta c'è.

Il manifesto, 1 marzo 2014

Ammet­tiamo pure che Renzi rie­sca, come ormai si dice, quasi fosse un biscaz­ziere che tenta la for­tuna. Un lin­guag­gio, appli­cato a un pre­si­dente del Con­si­glio e rela­tivo alle sorti di un grande paese, che segnala il punto ultimo di bana­liz­za­zione e sca­di­mento cui è giunta la vita poli­tica nazio­nale. Ammet­tia­molo, ipo­tiz­zando che il suc­cesso possa venire da qual­che riforma isti­tu­zio­nale riu­scita, da qual­che rat­toppo legi­sla­tivo e da altri risul­tati par­ziali sfrut­ta­bili sul piano della pro­pa­ganda media­tica. Que­sto è il mas­simo che un osser­va­tore otti­mi­stico può con­ce­dere alla pro­pria imma­gi­na­zione fidu­ciosa. Assai più pro­ba­bile è che il governo Renzi costi­tui­sca una replica, certo più vivace sotto il pro­filo comu­ni­ca­tivo, del governo Letta. Ci sono infatti tutte le con­di­zioni per­ché la situa­zione eco­no­mica di una parte cre­scente della popo­la­zione tendi a peg­gio­rare, la disoc­cu­pa­zione rimanga inscal­fita almeno per tutto il 2014 (pre­vi­sioni della Banca d’Italia) e le poli­ti­che di rigore dell’Ue riman­gano entro i vin­coli dog­ma­tici che hanno gene­rato la bufera della defla­zione euro­pea. Quelle poli­ti­che che Renzi non si sogna nep­pure di con­te­stare. Come già con i pre­ce­denti governi, di cen­tro­de­stra e di lar­ghe intese, in que­sti anni di tra­collo dell’economia, il volto della poli­tica con­ti­nua a mostrarsi feroce nei con­fronti delle popo­la­zioni e mite nei riguardi delle imprese e del potere finan­zia­rio. Forte con i deboli e debole con i forti come qual­cuno ebbe a dire in un tempo ormai remoto.

Ma, qua­lun­que sia lo sce­na­rio del Paese nei pros­simi due-tre anni, una cosa appare ormai certa e pre­ve­di­bile nel sue pros­sime evo­lu­zioni. Il Pd non sarà più un par­tito di cen­tro­si­ni­stra, tanto meno di sini­stra, quale mai è stato. Sarà sem­pre più quello che in parte è già oggi, come osser­vato da tanti com­men­ta­tori: un par­tito per­so­nale, anzi nep­pure un par­tito (la liqui­da­zione di que­sto ter­mine infa­mante è stata annun­ciata), ma una agen­zia di mar­ke­ting elet­to­rale, nuova fiam­mante come una Fer­rari uscita di fab­brica. E che que­sto stia acca­dendo e acca­drà a pre­scin­dere dalle dichia­rate inten­zioni di Renzi e del suo gruppo lo dicono i fatti osser­vati. Non c’è solo da pren­dere atto che Renzi, for­mando un nuovo governo senza pas­sare per le urne, replica e ampli­fica il tra­di­mento nei con­fronti degli elet­tori del Pd, già con­su­mato da Letta. Non rea­lizza sol­tanto le lar­ghe intese, per limi­tati e tran­si­tori atti di governo, ma mette in piedi un ese­cu­tivo di legi­sla­tura, esten­dendo a Ber­lu­sconi la pre­senza sostan­ziale in un dise­gno di riforma costi­tu­zio­nale. Gli elet­tori del Pd ne saranno edi­fi­cati. Ma, si ricor­derà, den­tro quel par­tito, prima dell’avvento di Renzi, 101 par­la­men­tari hanno tra­dito il loro impe­gno, non votando Prodi alla pre­si­denza della Repub­blica, inflig­gendo un vul­nus incac­cel­la­bile all’ onore di quel orga­ni­smo. Ora Renzi, che aveva ras­si­cu­rato sino a pochi giorni prima il suo com­pa­gno Letta, lo cac­cia via senza una qual­che plau­si­bile ragione che non sia di pura forza.
Dun­que, che mes­sag­gio lan­cia a tutti i suoi com­pa­gni? Che cosa resta, den­tro il Pd di quella spe­ciale stoffa che tesse i rap­porti umani, un tempo defi­nita morale? Se il par­tito non è di sini­stra, per­ché non per­se­gue ideali di ugua­glianza, non si schiera dalla parte dei lavo­ra­tori – gli uomini e le donne che fati­cano dalla mat­tina alla sera per miseri salari, gene­rando la ric­chezza di que­sto Paese — quale col­lante lo tiene insieme? Che cosa se non l’interesse dei sin­goli per fina­lità di car­riera per­so­nale ani­merà il col­let­tivo? Ed è facile imma­gi­nare, anche per­ché è già in atto, quale logica dar­wi­niana ispi­rerà la sele­zione dei gruppi diri­genti nella peri­fe­ria del par­tito, che evi­den­te­mente pre­mierà i carat­teri gene­ti­ca­mente domi­nanti della spre­giu­di­ca­tezza, della capa­cità di mano­vra e di con­qui­sta. Ricordo som­mes­sa­mente che cono­sciamo già i tratti tra­gici di que­sta vicenda. Essa ha già per­corso la sto­ria nazio­nale, lascian­doci in ere­dità magni­fi­che rovine. Bet­tino Craxi fece qual­cosa di simile con il Psi. E la distru­zione di quel par­tito — dive­nuto ben pre­sto il bastone del Capo – così come il danno incal­co­la­bile alla sini­stra e al Paese, fu tanto più facile e pos­si­bile quanto il ten­ta­tivo venne pre­miato dal suc­cesso per­so­nale e dai risul­tati poli­tici ini­ziali. Tanto la riu­scita che l’insuccesso di Renzi apre ugual­mente sce­nari inquie­tanti e inde­si­de­ra­bili, quanto meno per la sini­stra ita­liana. Schie­ra­mento poli­tico la cui sorte a me non appare sepa­ra­bile da quella del Paese.
Ma tanto l’uno che l’altro esito non inter­ro­gano anche noi? Noi sini­stra radi­cale, costel­la­zione divisa e dispersa di movi­menti, gruppi, pic­coli par­titi, per­so­na­lità? Noi che da almeno un decen­nio con­du­ciamo lotte, vin­ciamo refe­ren­dum di por­tata sto­rica, eleg­giamo qual­che sin­daco signi­fi­ca­tivo, pro­du­ciamo idee e cul­tura poli­tica nuova, espri­miamo figure intel­let­tuali di pri­mis­simo piano, diamo un con­tri­buto di prim’ordine all’analisi del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo, ma non riu­sciamo a orga­niz­zare que­sta fram­men­tata ric­chezza in un orga­ni­smo poli­tico comun­que deno­mi­nato?
In que­sto momento que­sta vasta area sta com­piendo un pic­colo mira­colo. Sta por­tando in porto la can­di­da­tura di Ale­xis Tsi­pras alla Com­mis­sione euro­pea e sele­zio­nando la lista dei can­di­dati che dovranno accom­pa­gnarlo nella com­pe­ti­zione del pros­simo mag­gio. L’idea di un comi­tato pro­mo­tore che diventa comi­tato di garanti, per la felice ini­zia­tiva di Bar­bara Spi­nelli, sta fun­zio­nando, anche se biso­gnerà met­tere nel conto qual­che errore e qual­che sba­va­tura per i tempi stret­tis­simi entro cui esso è costretto a ope­rare. Ma que­sta breve espe­rienza ci dice alcune cose su cui occor­rerà riflet­tere, da cui par­tire per ten­tare il grande mare di un pos­si­bile pro­getto poli­tico. Intanto occorre com­pia­cersi di un dato non scon­tato in par­tenza: il fatto che l’autorevolezza dei mem­bri che com­pon­gono il comi­tato non sia stata messo in discus­sione. Nes­suno ne ha con­te­stato la legit­ti­mità. È un suc­cesso impor­tante, un prin­ci­pio d’autorità neces­sa­rio. È la con­ferma di un fatto noto: esi­ste nell’area della sini­stra un folto gruppo di per­so­na­lità di larga popo­la­rità e spesso di indi­scussa auto­re­vo­lezza. È un patri­mo­nio pre­zioso, un punto di par­tenza rile­vante. Ebbene, lo usiamo solo per rispon­dere all’iniziativa dell’avversario, per difen­dere la Costi­tu­zione – come è acca­duto, certo con suc­cesso – per l’esperienza della Via mae­stra di Rodotà e Lan­dini? E poi ripo­niamo la spada nel fodero e tutti a casa? Lo met­tiamo in campo solo per sele­zio­nare e fre­nare la rissa dei can­di­dati in occa­sione delle com­pe­ti­zioni elet­to­rali? E sta­remo nei pros­simi mesi, una volta con­clu­sasi la cam­pa­gna elet­to­rale euro­pea, a osser­vare i segni di cedi­mento den­tro il Pd, ad atten­dere qual­che pro­ba­bile scis­sione den­tro quell’organismo? Non dob­biamo cam­biare pro­spet­tiva?
Io credo che oggi dovremmo pun­tare a una più grande e urgente ambi­zione: creare un grande tavolo di discus­sione, di con­fronto, di ricerca tra tutte le forze in campo. Una sorta di Costi­tuente della sini­stra dove si con­fron­tino idee, posi­zioni, pro­po­ste, senza avere sul capo l’urgenza defor­mante di una cam­pa­gna elet­to­rale alle porte. So bene quanto sia dif­fi­cile la riu­scita di un simile labo­ra­to­rio, che dovrebbe pun­tare alla crea­zione di una forma poli­tica nuova, una fede­ra­zione di forze tenuta insieme da vin­coli e regole severe e ben defi­nite. So bene quanta ris­so­sità, set­ta­ri­smo, super­fi­cia­lità, alberga tra le nostre file. Ma se non si tenta adesso una tale strada, in pre­senza di una delle più grandi crisi della nostra sto­ria, con fon­da­menti della nazione in pezzi (la scuola, l’Università, la pic­cola indu­stria, la giu­sti­zia ammi­ni­stra­tiva, la lega­lità repub­bli­cana, il ter­ri­to­rio), quando mai si ten­terà la prov­vida avven­tura? Lasce­remo a Grillo, oppo­si­zione urlante e poli­ti­ca­mente inetta il com­pito di rac­co­gliere il grido di dolore di milioni di ita­liani? E non dob­biamo pen­sare che quando giun­gerà il momento delle ele­zioni nazio­nali – se que­sto governo dovesse durare – c’è il rischio che il Paese sia ricon­se­gnato alle destre o sia reso ingovernabile?

«Il tunnel in cui siamo rinchiusi è cementato dal potere lasciato alla finanza e dall’ideologia del mercato, traccia il trentennio liberista che ci ha portato alla depressione. Se ne può uscire soltanto con un cambiamento profondo del modello economico e dell’orizzonte politico».

Sbilanciamoci.info, 28 febbraio 2014
Una moneta senza Stato, la Bce che protegge la finanza dall'inflazione, salva le banche fallite e non protegge dalla recessione. Ma cosa accadrebbe se si tornasse alle valute nazionali?

Se guardiamo indietro, abbiamo venticinque anni di politiche monetarie sbagliate, che hanno fondato su mercato e moneta unica l’intera costruzione europea, abbandonando via via occupazione, modello sociale, diritti, democrazia. Appena dietro di noi abbiamo la più grave crisi del capitalismo dal 1929, da cui nasce la depressione attuale. I paesi che hanno provato a uscirne – Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone – l’hanno fatto creando nuove bolle speculative per la finanza, alimentate dall’introduzione di un’enorme liquidità nell’economia mondiale. Se guardiamo avanti, il buio è fitto. Le promesse di ripresa dell’economia sono state finora illusorie e riguardano soprattutto pochi paesi del nord Europa. A Bruxelles, Berlino e Francoforte la politica resta immutabile: per la periferia d’Europa austerità fiscale, un debito insostenibile anche se gli spread calano, politica monetaria rigida, mano libera per la finanza. Ci muoviamo in un lunghissimo tunnel da cui sembra impossibile uscire.

È il tunnel dell’euro, di una moneta senza stato, di una Banca centrale che protegge la finanza dall’inflazione ma non sa affrontare la recessione, che salva le banche fallite ma rifiuta di sostenere il debito degli stati. È il tunnel di un’Europa asimmetrica nelle forze produttive e nel potere politico, che produce squilibri e ne scarica i costi sulle periferie, costrette a imitare l’impossibile modello d’esportazione della Germania. Il tunnel di una politica – anche quella del nuovo governo di Matteo Renzi, al centro dello speciale della settimana scorsa – che ripete annunci illusori sulla fine della crisi e sui tagli alle tasse, ossessionata dall’austerità quando la disoccupazione giovanile arriva al 40%, una politica che di fronte alle reazioni anti-europee sceglie di cavalcare anch’essa le pulsioni populiste.

Guardando fuori d’Europa il buio è ancora più vasto. L’inizio della restrizione monetaria negli Usa ha già provocato in molti paesi emergenti fughe di capitali, recessione, svalutazioni. Nei confronti del dollaro, nell’ultimo anno la valuta del Brasile si è svalutata del 17%, quelle di India, Indonesia, Russia e Sudafrica di circa il 20%, la lira turca del 22%, il peso argentino del 60%. Sono tutti paesi inondati di capitali dai paesi ricchi che ora si trovano indebitati con l’estero, debiti da rimborsare in valute più costose e a tassi d’interesse crescenti: si direbbe che si prepara una nuova versione della crisi del debito del Terzo mondo degli anni ’80. Facile immaginare che se in Italia avessimo nuovamente la lira, anch’essa sarebbe in balìa della speculazione, con i prezzi delle importazioni gonfiati dalla svalutazione, l’export depresso dalla crisi internazionale, i capitali in fuga da un paese che non cresce da vent’anni.

Non ci sono scorciatoie – come la nostalgia per la lira per uscire dal tunnel. Al di là degli errori commessi sull’euro – che Sbilanciamoci! denunciava già nel suo Rapporto 2002 – il tunnel in cui siamo rinchiusi è cementato dal potere lasciato alla finanza e dall’ideologia del mercato, traccia il trentennio liberista che ci ha portato alla depressione. Se ne può uscire soltanto con un cambiamento profondo del modello economico e dell’orizzonte politico.

È nel mezzo di questo tunnel che andremo al voto alle elezioni europee. Un tentativo di procedere a piccoli passi è quello che propone nell’intervista a pagina due di questo speciale Martin Schultz, candidato socialdemocratico alla presidenza della Commissione europea. Troppo poco e troppo tardi, a sei anni dall’inizio della crisi. L’alternativa di Sbilanciamoci! e della Rete europea degli economisti progressisti (Euro-pen) è presentata a pagina tre: un’unione monetaria da ricostruire con nuove regole per la Banca centrale europea, una garanzia comune sul debito pubblico con l’emissione di eurobond e forme di controllo sui movimenti di capitali, limitando la libertà d’azione della finanza. E, naturalmente, meno poteri ai banchieri e a Berlino, e più democrazia nelle scelte economiche, aprendo la strada alla fine dell’austerità e a politiche industriali e del lavoro disegnate per uno sviluppo sostenibile sul piano sociale e ambientale.

Sono le proposte di cambio di rotta che saranno discusse il 19 marzo al Forum "Un’altra strada per l’Europa" al Parlamento europeo, che qui presentiamo. A discuterne – con esperti, movimenti e sindacati – ci saranno europarlamentari e politici della sinistra – Syriza compresa – verdi e socialdemocratici. Un’occasione per risvegliare la politica, a Bruxelles come a Roma, dare contenuti al dibattito sul voto europeo, e cercare davvero l’uscita dall’euro-tunnel.

«Un libro assai utile quello di Ales­san­dro Arienzo su

La gover­nance (Ediesse, pp. 205, euro 12). Nell’ultimo decen­nio è uscita scon­fitta l’ipotesi di una «gover­nance poli­tica dell’economia». Questo studio per­mette di inda­gare una for­mula con­fusa ed abu­sata, nell’oramai qua­ran­ten­nale domi­nio neo-liberista del capi­ta­li­smo finanziario». Il manifesto, 28 febbraio 2014

Il volume fa parte di una col­lana di recente crea­zione. È quella dei «fondamenti», che un gruppo di gio­vani cura­tori pro­muove, con l’editore Ediesse, «per un vasto pub­blico di let­tori curiosi e appas­sio­nati», incro­ciando il «taglio mono­gra­fico» con «l’alta divul­ga­zione». Una sfida note­vole, di que­sti tempi, quella di unire appro­fon­di­mento della ricerca e dif­fu­sione del sapere. Sem­bra sco­mo­dare i cele­bri Libri di base diretti da Tul­lio De Mauro, che Edi­tori Riu­niti pensò in tutt’altra fase cul­tu­rale. Ad ogni modo l’impostazione gra­fica di que­sti volumi è carat­te­riz­zata dalla pre­senza di schemi esem­pli­fi­ca­tivi, glos­sari, biblio­gra­fie com­men­tate e sunti chia­ri­fi­ca­tori posti alla fine di cia­scun capi­tolo, «per rias­su­mere» il con­te­nuto di quanto detto in pre­ce­denza. Il tutto senza per­dere il taglio ana­li­tico cri­tico che vor­rebbe con­trad­di­stin­guere la col­lana. Sicu­ra­mente così suc­cede con il volume di Ales­san­dro Arienzo, ricer­ca­tore appar­te­nente alla scuola filo­so­fica napo­le­tana e attento stu­dioso di gover­na­men­ta­lità e bio­po­li­tica che dagli studi sulla ragion di Stato è da tempo appro­dato a scan­da­gliare i mean­dri delle tec­ni­che di gover­nance con­tem­po­ra­nea.

Un gene­rico termine

Ma che cos’è la gover­nance? Que­sto l’interrogativo che apre il libro. Seguono tre capi­toli riguar­danti la gover­nance euro­pea, quella inter­na­zio­nale, tra sicu­rezza e svi­luppo, per finire con una rifles­sione sulla por­tata della gover­nance tra Stato e mercato.

Arienzo chia­ri­sce subito che il lemma gover­nance può essere inteso come «espres­sione gene­rica del gover­nare»: «qual­siasi forma di orga­niz­za­zione dell’azione col­let­tiva». Qui la memo­ria risale alle for­mule uti­liz­zate nella Fran­cia medie­vale, piut­to­sto che nell’Inghilterra del Sei­cento. Ma l’opposizione tra gover­nance e govern­ment si afferma nel les­sico pub­bli­ci­stico e scien­ti­fico con le riforme delle isti­tu­zioni di governo locale e metro­po­li­tano negli Stati Uniti degli anni Ses­santa e Set­tanta del Nove­cento. Poi arriva la cor­po­rate gover­nance delle imprese finan­zia­rie, che diviene para­me­tro di com­por­ta­mento delle isti­tu­zioni della glo­ba­liz­za­zione: dal Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale alla Banca mon­diale. Da una parte quindi il governo gerarchico-piramidale che si fonda sull’autorità sovrana dello Stato. Dall’altra la gover­nance dei mec­ca­ni­smi infor­mali, di pro­cessi aperti e dif­fusi, ten­den­zial­mente oriz­zon­tali e non-gerarchici, che inclu­dono reti deci­sio­nali miste, pub­bli­che e private.

Ecco che qui Arienzo si con­cen­tra giu­sta­mente sulla ten­denza ora­mai qua­ran­ten­nale dell’attuale con­cetto e pra­tica di gover­nance: «un per­corso di messa in discus­sione delle pro­ce­dure del governo rap­pre­sen­ta­tivo negli Stati demo­cra­tici e par­la­men­tari», non per aprire spazi di oriz­zon­ta­lità par­te­ci­pa­tiva, ma per obbe­dire al dogma della «gover­na­bi­lità». È un man­tra che giunge fino agli epi­goni del com­pro­messo sto­rico, tut­tora ai ver­tici isti­tu­zio­nali, ma che prende le mosse dal cele­bre Rap­porto alla Com­mis­sione Tri­la­te­rale, tra­dotto in Ita­lia nel 1977 con pre­fa­zione di Gio­vanni Agnelli: non è certo una strana com­bi­na­zione. Piut­to­sto un manuale che impone il verbo della gover­na­bi­lità per argi­nare som­mo­vi­menti sociali che riven­di­cano giu­sti­zia sociale, demo­cra­zia, diritti, redi­stri­bu­zione del red­dito. È l’inizio di un pro­cesso di spo­li­ti­ciz­za­zione dell’orizzonte demo­cra­tico e di incu­ba­zione di una reto­rica sulla gover­nance, intesa esclu­si­va­mente come pro­cesso di «forme orga­niz­za­tive e poli­ti­che di diretta espres­sione del con­tem­po­ra­neo neo­li­be­ra­li­smo», piut­to­sto che come occa­sione di redi­stri­bu­zione dei pro­cessi deci­sio­nali verso il basso, in favore di sog­getti non appar­te­nenti alla strut­tura gerar­chica dei poteri economico-politici esi­stenti. Sono Mar­ga­ret That­cher e Ronald Rea­gan che si affac­ciano, in com­pa­gnia dei Chi­cago boys, fino all’ortodossa auste­rità tedesca.

Così Arienzo sin­te­tizza per­fet­ta­mente lo stato dell’arte. Nell’ultimo decen­nio è uscita scon­fitta l’ipotesi di una «gover­nance poli­tica dell’economia» che la Com­mis­sione euro­pea aveva descritto nel Libro bianco del 2001, insi­stendo par­ti­co­lar­mente sui prin­cìpi di «aper­tura, par­te­ci­pa­zione, respon­sa­bi­lità, effi­ca­cia e coe­renza». Nella biblio­gra­fia com­men­tata è ricor­dato un volume col­let­tivo che provò a con­fron­tarsi a viso aperto con quell’opzione, insi­stendo sugli spazi di azione dei movi­menti sociali euro­pei e glo­bali: Gover­nance, società civile e movi­menti sociali. Riven­di­care il comune (Ediesse, 2009). Nello stesso decen­nio ha preso sem­pre più corpo una «gover­nance eco­no­mica della poli­tica e della società», fau­trice di uno Stato rego­la­tore minimo, imbe­vuta di neo­cor­po­ra­ti­vi­smo, capace di con­ser­vare i rap­porti di potere esi­stenti e al con­tempo di colo­niz­zare l’immaginario collettivo.

Una par­tita ancora aperta

È la nuova ragione dell’ordine neo-liberale (per dirla con Dardot-Laval, da poco tra­dotti per Deri­veAp­prodi) che diventa «gover­nance com­mis­sa­ria di mer­cato», in grado di «com­mis­sa­riare le poli­ti­che eco­no­mi­che degli Stati» e gover­nare le forme di vita degli indi­vi­dui, nel «gestire e ammi­ni­strare il loro capi­tale umano», così come gli spazi dei «pro­cessi aggre­ga­tivi», tanto reali, quanto vir­tuali. Eppure Ales­san­dro Arienzo ci invita a non con­si­de­rare con­clusa la par­tita. Tra i «vuoti e gli scarti della demo­cra­zia» (ripren­dendo un lavoro curato dallo stesso Arienzo e da Diego Laz­za­rich, Esi, 2012) si apre l’urgenza di rico­no­scere il carat­tere poli­tico e con­flit­tuale che la gover­nance inscrive nei rap­porti di potere. È quello il ter­reno dove sfi­dare le derive neo-oligarchiche e tec­no­cra­ti­che. Magari con il pro­ta­go­ni­smo di sog­getti col­let­tivi con­sa­pe­voli del fatto che gli spazi poli­tici di azione sono quelli locali – per un nuovo diritto alla città – insieme con quello con­ti­nen­tale – per un’Europa poli­tica e sociale.

Misera e morte per i popoli d’Europa, cominciando dai bambini, le donne, gli anziani, se non cambia la politica che comanda le scelte., Se l’Europa non cambia, in fondo all’abisso andiamo tutti.

La Repubblica, 26 febbraio 2014

IL DOLORE sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità - e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva - ma l’ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».

Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo. «Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica», constata la rivista, «ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista».

Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano «efficaci», e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate. Né è solo «questione di comunicazione » sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati impoveriti: la «fatica delle riforme » ( reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi «sono alle prese con resistenze sociali molto forti». Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche. Difficile dar torto alle «forti resistenze sociali», se solo guardiamo le cifre fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20. Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette). La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta. Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Euroto. pa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali «di strada» son passati dal 3-4% al 30%.

S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne. Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma. La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: «L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali » — «l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale ». Nessuno sa quale contributo dia. Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi «interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale». Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani.

Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ‘14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà ». La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene

L’ideologia del nuovo nècentro-nèsinistra. Da inserire nello stupidario, se l’autore non avesse un peso smisurato nel presente. Lo scritto rivela che non certo dalle sue idee nasce il peso che si è conquistato. Grazie alle debolezze altrui, o anche da più forti e oscuri poteri?

La Repubblica, 23 febbraio 2014

Vent'anni dopo l'uscita di "Destra e sinistra", il bestseller di Norberto Bobbio, l'editore Donzelli ripubblica una nuova edizione con una introduzione di Massimo L. Salvadori e due commenti di Daniel Cohn-Bendit e Matteo Renzi. Pubblichiamo l'intervento del presidente del Consiglio. Un vero e proprio manifesto del capo del nuovo governo

la parola "sinistra" era una parolaccia. Sacrificata al galateo della coalizione di centrosinistra, tanto da giustificare dibattiti estenuanti e buffi sul trattino, ricordate?

"Centro-sinistra" o "centrosinistra" era la nuova disputa guelfi-ghibellini, tra chi pensava il campo progressista come un litigioso condominio, caseggiato rumoroso di partiti gelosi delle proprie convenienze e confini e chi, invece, vagheggiava il Partito-Coalizione, area politica aperta, il cui orizzonte schiudeva l'universo del campo progressista.

In questo incrocio, che ha opposto due linee in parte intente a far baruffa ancora adesso, c'è il Partito democratico, la parola "sinistra" come un laboratorio, sempre in trasformazione, sempre ineludibile.
Una frontiera, non un museo. Curiosità, non nostalgia. Coraggio, non paura. Erano quelli gli anni dell'Ulivo, il progetto di Romano Prodi di abbattere gli steccati che separavano gli eredi del Partito comunista da quelli della Democrazia cristiana, di una forza che raccogliesse istanze liberal-democratiche, ambientaliste, in una nuova unità, una nuova cultura politica semplicemente, finalmente potremmo dire, "democratica".

Erano, nel mondo, gli anni della "terza via", di Bill Clinton e Tony Blair, una rotta per evitare Scilla e Cariddi, tra gli estremismi della sinistra irriducibile e la destra diventata, dopo Reagan e Thatcher, una maschera di durezze. Qualcuno pensò allora perfino che la sinistra fosse ormai uno strumento inservibile, non più adeguato a un mondo nuovo, sulla spinta di quella che si chiamava globalizzazione, dove finiva il XX secolo della guerra fredda e cominciava il XXI, tutto individuale e personal, dalla tecnologia alla politica.

A fare da sentinella, non per custodire e conservare, ma per richiamare alla sostanza delle cose, alla loro forza, il filosofo Norberto Bobbio - or sono venti anni esatti - pensò di tirare una linea, per segnalare dove la divisione tra destra e sinistra ancora teneva e tiene. Suggerendo che la scelta cruciale resti sempre la stessa, storica, radicale, un referendum tra eguaglianza e diseguaglianza, come dal XVIII secolo in avanti. Mi chiedo se oggi che la seduzione della "terza via" - che pure nel socialismo liberale, nell'utopia azionista di Bobbio, ha trovato più che un riflesso - si è sublimata perdendo slancio, la coppia eguaglianza/diseguaglianza non riesca a riassorbire integralmente la distinzione destra/sinistra. Basti pensare, a livello europeo, all'insorgere dei populismi e dei movimenti xenofobi contro i quali è chiamato a ridefinirsi il progetto dell'Unione europea, così in crisi. Un magma impossibile da ridurre alla vecchia contraddizione eguali/diseguali a lungo così nitida.[sic]

Dal punto di vista del sistema politico, infatti, sono e rimango un convinto bipolarista. Credo che un modello bipartitico, all'americana per intenderci, sia un orizzonte auspicabile, sia pur nel rispetto della storia, delle culture, delle sensibilità e della pluralità che da sempre contraddistinguono il panorama italiano. Ma riflettendo sulla teoria, sui principi fondamentali, non so se, invece, non sia più utile oggi declinare quella diade nei termini temporali di conservazione/ innovazione.

Tiene ancora, dunque, lo schema basato sull'eguaglianza come stella polare a sinistra? In una società sempre più individualizzata, sotto la spinta anche delle nuove tecnologie, dei social network, delle reti che connettono ma anche atomizzano, creando e distruggendo comunità e identità? Come recuperare, dopo anni di diffidenza, anche tra i progressisti, idee come "merito" o "ambizione"? Come evitare che, in un paesaggio sociale tanto mutato, la sinistra perda contatto con gli "ultimi", legata alle fruste teorie anni sessanta e settanta, mentre papa Francesco con calore riesce a parlare la lingua della solidarietà? Certo, l'eguaglianza - non l'egualitarismo - resta la frontiera per i democratici, in un mondo interdipendente, dilaniato da disparità di diritti, reddito, cittadinanza. Eppure era stato lo stesso Bobbio, proprio mentre scandiva quella sua storica dicotomia, a rendersi conto che forse la sua argomentazione aveva bisogno di un'ulteriore dimensione, un diverso respiro temporale, un'altra profondità. "Nel linguaggio politico - scrive Bobbio - occupa un posto molto rilevante, oltre alla metafora spaziale, quella temporale, che permette di distinguere gli innovatori dai conservatori, i progressisti dai tradizionalisti, coloro che guardano al sole dell'avvenire da coloro che procedono guidati dalla inestinguibile luce che vien dal passato. Non è detto che la metafora spaziale, che ha dato origine alla coppia destra-sinistra non possa coincidere, in uno dei significati più frequenti, con quella temporale".

Ecco perché, venti anni dopo il monito di Bobbio, è maturo il tempo per superare i suoi confini, modificati e resi frastagliati dal mondo globale, come insegnano Ulrich Beck e Amartya Sen. Serve una narrazione temporale, dinamica, più ricca. Che non dimentichi radici e origini, sempre da mettere in questione, da problematizzare, ma che, soprattutto, faccia i conti con i tempi nuovi che ci troviamo a vivere, ad attraversare. Aperto/chiuso, dice oggi Blair. Avanti/indietro, chissà, innovazione/conservazione.

E, perché no, movimento/stagnazione. Se la sinistra deve ancora interessarsi degli ultimi, perché è questo interesse specifico che la definisce idealmente come tale, oggi essa deve avere lo sguardo più lungo. Le sicurezze ideologiche del Novecento, elaborate sull'analisi di un mondo organizzato in maniera assai meno complessa di quello contemporaneo, rendevano più semplice il compito della rappresentanza delle istanze degli ultimi e degli esclusi, e del governo del loro desiderio di riscatto. A blocchi sociali definiti e compatti bisognava dare cittadinanza, affinché condizionassero le decisioni sul futuro delle comunità nazionali di cui erano parte. Per la sinistra che, dopo Bad Godesberg, si organizzava in Europa in partiti socialdemocratici postmarxisti (e anticomunisti) era un compito certo faticoso, ma lineare nel suo meccanismo di funzione politica.

Oggi quei blocchi sociali non esistono più ed è un bene che sia così! In fondo tutta la fatica quotidiana del lavoro della sinistra socialdemocratica, cara a Bobbio, era stato quello di scardinare quei blocchi. Allo scopo di offrire agli uomini e alle donne, che erano in quei blocchi costretti, l'opportunità di una vita materiale meno disagevole e di un'esistenza più ricca di esperienze. Con l'invenzione del welfare quella sinistra aveva provveduto a sfamare le bocche e gli animi degli ultimi e degli esclusi, liberandoli dal bisogno materiale - libertà fondamentale anche per la sinistra liberaldemocratica americana di Franklin D. Roosevelt - e fornendo loro l'occasione di realizzare se stessi. L'invenzione socialdemocratica del welfare aveva così conseguito due obiettivi storici. Da un lato, difatti, il welfare aveva soddisfatto la sacrosanta richiesta di maggiore giustizia sociale. Dall'altro, tuttavia, il miglioramento delle condizioni oggettive di vita degli ultimi aveva determinato un beneficio generale per tutte quelle comunità democratiche che non avevano avuto timore di rispondere "Sì!" alla loro domanda di cambiamento.

La sinistra cara a Bobbio, quella socialdemocratica e anticomunista, ha insomma vinto la sua partita. Ma oggi ne stiamo giocando un'altra. Quei blocchi sociali che prima rendevano tutto più semplice non ci sono più. Gli stessi confini nazionali che erano il perimetro entro cui si giocava la partita dell'innovazione del welfare sono ormai messi in discussione. Più che con blocchi sociologicamente definiti entro Stati nazionali storicamente determinati, oggi la nuova partita si svolge con attori e campi da gioco inediti. Quei blocchi sono stati sostituiti da dinamiche sociali irrequiete. I confini nazionali non delimitano più gli spazi entro i quali le nuove dinamiche giocano la loro partita.

Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario, irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza. E invece spesso, in Italia e in Europa, la sinistra ne ha paura. Sembra non rendersi conto che il nuovo mondo in cui tutti viviamo è anche il frutto del successo delle proprie politiche, dei cambiamenti occorsi nel Novecento grazie alla sua iniziativa. Perché l'innovazione, quando ha successo, produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso. Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l'incarico più gravoso di tutti. Eppure non cambiare se stessi, in una realtà che si è contribuito a cambiare, condanna all'incapacità di distinguere i nuovi ultimi e i nuovi esclusi, e all'ignavia di non mettersi subito al loro servizio. Che è proprio quanto successo alla sinistra di tradizione socialdemocratica al cospetto delle sfide del secolo nuovo.

La sinistra è oggi chiamata a riconoscere e a conoscere il movimento continuo delle nuove dinamiche sociali, contro chi vorrebbe vanamente fare appello a blocchi che non esistono più e che è un bene non esistano più! In Italia, più che altrove, la capacità della politica di saper distinguere le dinamiche sociali che interessano gli ultimi e gli esclusi, di saperle intrecciare per dare loro rappresentanza e, infine, di saperne governare il costante movimento per costruire per loro, e per tutti, un paese migliore, è il compito del Partito democratico. È la missione storica della sinistra.

Affermare – come ha fatto Matteo Renzi nell'introduzione alla nuova edizione di "Destra e sinistra" di Norberto Bobbio – che il Pd non intende più collocarsi a sinistra conclude l'ultimo giro di boa del partito democratico. Simbolico, ma fa impressione che questo arrivi proprio quando in Italia si superano i 4 milioni di senza lavoro

Si conclude, con il nuovo governo e la sua carta di identità allegata su Repubblica da Matteo Renzi, l’ultimo giro di boa simbolico del Pd. Simbolico, perché nelle scelte concrete era già consumato da un pezzo, ma dare il vero nome ai fatti non è cosa da poco (non è passatempo da giorni festivi, come verseggia Eliot a proposito del nome da dare al proprio gatto). Che il Pd precisi come la sua immagine non debba più essere a sinistra, o di sinistra, riconoscendo come sola discriminante culturale e sociale “il nuovo e il vecchio” non è una gran novità, il concetto ci svolazza attorno da un bel pezzo, ma affermare che il Pd non intende più collocarsi a sinistra resta uno scatto simbolico rilevante. Non solo infatti, come taluni vagheggiavano, non è più in grado di compiere scelte di sinistra, poniamo, da Monti, ma neppure mira più a farle e a questo scopo ha scelto come proprio leader “Matteo” per chiarirlo una volta per tutte. Non in parlamento – nessuno, a cominciare da Giorgio Napolitano ha tempo da perdere – ma su un giornale amico e a governo varato.

Lo fa prendendosi qualche licenza culturale, come citare Norberto Bobbio contro Bobbio esempio di chi, se aveva ragione in passato, non l’avrebbe più oggi, quando la distinzione tra destra e sinistra non avrebbe più senso. Pazienza, oggi ne vediamo di ben altre. Fra le innovazioni trionfanti c’è che ciascuno riveste o spoglia dei panni che più gli aggrada il defunto scelto come ispiratore. Più significativo è che il concetto archiviato indicava il peso assegnato da ogni partito alla questione sociale e dichiararla superata proprio mentre si sfiorano e forse si superano i quattro milioni di senza lavoro, fa impressione. Forse per questo l’ex sindaco di Firenze si era scordato di informarci su quel job act che doveva presentare entro gennaio; ma in primo luogo non risulta che durante le consultazioni qualcuno glielo abbia ricordato, in secondo luogo nel governo se ne occuperà la ministra Guidi, donna imprenditrice esperta in quanto allevata dal padre confindustriale.

Sappiamo dunque che dobbiamo attenderci con il nuovo esecutivo e dobbiamo al Pd tutto il peso, visto che né la sua presidenza né la sua minoranza gli hanno opposto il proprio corpo, al contrario hanno sgombrato il campo sussurrando come il melvilliano Bartleby “preferirei di no”. Della stessa pasta la stampa, affaccendata dal sottolineare lo storico approdo delle donne a metà del governo sottolineando il colore delle giacche e il livello dei tacchi, cosa che dovrebbe far riflettere le leader di “Se non ora quando”. Eccola qui l’Ora, ragazze, non si vede dove stia la differenza.

Il nuovo che avanza ha rilanciato anche Berlusconi, primo interpellato da Renzi per incardinare tutta l’operazione. Condannato da mesi per squallidi reati contro la cosa pubblica ad astenersi dalla politica è stato ricevuto non già dai giudici di sorveglianza, bensì dal capo dello stato per illustrargli quello che pensa e intende fare sul futuro del paese. Per ora appoggia Renzi, rassicurando i suoi che non è un comunista.

La postfazione alla riedizione di un libro sul quale è utile ricominciare a riflettere, prima che il “pensiero unico” del neoliberalismo si sia impadronito di tutte le teste.

La Repubblica, 24 febbraio 2014

Sono passati vent’anni dalla pubblicazione di Destra e sinistra. Due decenni segnati da sommovimenti profondi. L’Unione europea si dibatte in una crisi pluridimensionale di portata eccezionale. «Per la prima volta nella loro storia, gli europei sperimentano la finitezza dell’Europa». Così si esprime il sociologo Ulrich Beck nel suo ultimo libro, Europa tedesca.

Cambiamenti di eguale portata si sono prodotti sulla scena internazionale. Tra questi ultimi, le rivoluzioni inauguratesi nel 2010 contro l’autoritarismo e la corruzione delle classi dirigenti del mondo arabo. Insieme con esse, sono letteralmente andate in pezzi le strategie opportunistiche dell’Occidente a sostegno di regimi non-democratici – strategie promosse dalla sinistra come dalla destra, in nome della stabilità. Questa messa in scacco del cinismo politico dei partiti al potere – in Occidente, in Africa e in Medio Oriente – ha contemporaneamente messo in rilievo un altro fenomeno. Quello di un “progresso civile” irreversibile, anche se “non necessitato”, per riprendere i termini di Bobbio. Se la transizione resta altamente problematica per i paesi della “primavera araba”, ciò non impedisce che queste rivolte abbiano per orizzonte comune la democrazia. È in nome della dignità umana che la resistenza è continuata nonostante la violenza della repressione. È in ragione dei valori democratici che la spartizione diseguale delle ricchezze è diventata sempre più intollerabile per queste società oppresse.

Detto in altro modo, le rivolte emancipatrici che scoppiano nelle più diverse parti del mondo mostrano tutte le volte che la democrazia non è un’avventura qualsiasi. Il suo manifestarsi, e i valori su cui si fonda, anche se storicamente e geograficamente definiti, hanno una portata universale. I diritti dell’uomo e lo Stato di diritto democratico fanno ormai parte del “patrimonio comune dell’umanità”. La logica democratica è una “logica di libertà”.

Detto altrimenti, anche se non risponde a una logica di causa- effetto – caratterizzata com’è dalla sua fragilità intrinseca e dalla possibilità di regressione – la sua messa in moto introduce una coerenza nella storia umana tale per cui le sue sequenze non sono intercambiabili. Il nostro patrimonio democratico trae la sua forza dalla possibilità di essere riattivato in ogni istante, in qualunque parte del mondo, da un qualunque individuo appartenente alla comunità umana.

Questa idea di progresso e di una crescente consapevolezza di una eguale dignità umana si ritrova a più riprese, sotto la penna di Bobbio. La si trova, in particolare, in un passaggio come questo: «La spinta verso una sempre maggiore eguaglianza tra gli uomini è irresistibile. Ogni superamento di questa o quella discriminazione rappresenta una tappa, certo non necessaria, ma almeno possibile, del processo di incivilimento. Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali di diseguaglianza: la classe, la razza e il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini è uno dei segni più certi dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza». (...) Di fatto, la battaglia democratica è lungi dall’essere conclusa. Non soltanto perché la democrazia non è il solo tipo di regime che esista al mondo, ma anche perché i nostri Stati di diritto democratici sono lontani dal garantire l’effettivo rispetto dei diritti dell’uomo, persino all’interno dell’Unione europea. Alcuni pretendono che il progetto democratico europeo si sarebbe esaurito. Le aspirazioni degli uni e le disillusioni degli altri ci dicono il contrario. E se si è insediata la stanchezza europea, ciò dipende forse innanzitutto dal fatto che la classe politica europea – di destra e di sinistra – non è stata all’altezza dell’esigenza democratica che caratterizza il progetto politico dell’Unione europea. Invece di assumere come indispensabile la mutazione del loro patrimonio politico, i leader delle nazioni europee si sono votati all’impotenza, in un mondo in cui l’economia, la finanza, i media… funzionano ormai a scala planetaria.

Un’impotenza che certe nazioni, nei loro sogni più folli, immaginano di poter combattere da sole. A forza di rifiutare di impegnarsi insieme nella democratizzazione della globalizzazione, e nella realizzazione della democrazia europea, i leader degli Stati si sono assuefatti a una tolleranza di fronte all’ingiustizia, all’interno dell’Unione europea e ancor più al di fuori delle sue frontiere. I malfunzionamenti democratici, non solo al livello istituzionale, ma soprattutto nella realtà quotidiana, costituiscono senza alcun dubbio un ingrediente fondamentale della crisi simbolica acuta che incancrenisce il nostro continente. Questa crisi attiene al registro specificamente identitario e deve essere presa molto sul serio. Io sono convinto che la sua risoluzione passa tra le altre cose attraverso la spiegazione del significato del “politico”. E ciò impone di esporsi pubblicamente attraverso un progetto impegnativo per le società e per gli individui che le compongono. Il progetto politico si determina senza alcun dubbio a partire da una visione del mondo. Ma esso è anche un qualche cosa in cui ciascuno deve potersi riconoscere per appropriarsene veramente. In questo senso, esso funziona come uno “stabilizzatore identitario” che non necessariamente è sinonimo di particolarismo o di regresso. Quella che si suole chiamare la «crisi di legittimità» che investe l’ordine politico delle nostre democrazie liberali ha dei legami evidenti con la crisi identitaria europea.

Ed è assai spiacevole che i partiti politici, quale che sia il loro orientamento, abbiano preso l’abitudine di puntare il dito sulla crisi di legittimità europea, quando quest’ultima è in qualche modo null’altro che un’amplificazione della crisi di legittimità che già da tempo ha eroso l’ordine politico nazionale. Si tratta di una rottura socio-politica che concerne i sistemi politici moderni in generale. Detto in altro modo, la sfida si situa su un terreno più grande: quello del valore della politica e della fiducia nei confronti delle istituzioni democratiche rappresentative, vale a dire della classe politica tout court. Ora, questa fiducia si basa sulla qualità della performance del processo di identificazione in generale. È così che le chiusure identitarie – le quali possono raggiungere proporzioni deliranti – si possono interpretare come altrettante lacune nel processo di identificazione, considerato nel suo insieme.

Se questo libro di Bobbio rimane attuale, non è tanto in ragione degli argomenti che sviluppa, ma soprattutto per ciò che esprime: un bisogno di ritrovare il senso della politica.

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