«Europee. Raccolta firme a pieno ritmo, ma è impar condicio in Valle. Barbara Spinelli scrive alla presidente Boldrini. Appello anche a Roberto Fico, il presidente a 5 stelle della commissione vigilanza Rai: la tv pubblica non informa». Il
manifesto, 21 marzo 2014
Oddi ha un know how di tutto rispetto: ha coordinato la trionfale campagna sui referendum dell’acqua (2011, un milione e mezzo di firme, poi 27milioni di voti). Però c’è un però, anzi una trappola: «La legge elettorale, di dubbia legittimità democratica, lo dico con un eufemismo, chiede 30mila firme per ciascuna delle 5 circoscrizioni, 3mila firme in ogni regione. In Valle d’Aosta come in Lombardia. E cioè su un bacino di 90mila abitanti come in uno da 10milioni». Stessa cosa nelle isole. Secondo il planning del responsabile, dalla Sicilia, 5 milioni di anime, devono arrivare almeno 25mila firme; dalla Lombardia ’solo’ 20mila.
C’è di meglio, si fa per dire. Ad Aosta la raccolta di firme, già di per sé proibitiva data la proporzione con gli abitanti, è una corsa ad ostacoli: gli uffici del sindaco Bruno Giordano (Union Valdôtaine) hanno depennato gran parte delle richieste di suolo pubblico per i banchetti avanzate dai comitati L’Altra europa con Tsipras. Motivo? «Un malinteso significato della parola ’monopolistico’», spiega Rosa Rinaldi, della segreteria Prc, volata in Valle per dare una mano. «Per l’amministrazione avremmo il ’monopolio’ dei banchetti. Per questo ce ne ha negati molti. Peccato che l’unico ’monopolio’ di cui godiamo, nostro malgrado, è quello della raccolta firme: siamo solo noi a doverla fare». Gli altri partiti, che siedono in parlamento, non ne hanno bisogno. «È una lettura burocratica e non democratica delle regole. E sia chiaro: torneremo alla carica, ma se non ci concederanno il suolo ce lo prenderemo lo stesso».
In città circola un sospetto. Gli autonomisti puntano a un candidato unico con il Pd, che si gioverebbe parecchio di non avere concorrenti a sinistra. E così la sfida di Aosta è un rischiatutto. Se non raggiungesse quota 3mila verrebbe invalidata la lista nell’intera circoscrizione Nord-Ovest. E la strada per scavalcare lo sbarramento nazionale (4%) diventerebbe tutta salita. Sabato mattina in città arriverà il sociologo Marco Revelli. Mentre a Palermo, a fine marzo, per il rush finale delle firme sbarcherà il candidato Alexis Tsipras.
Intanto oggi la presidente della camera Laura Boldrini si vedrà recapitare una lettera firmata Barbara Spinelli, ispiratrice e capolista degli «euroinsubordinati». Con la richiesta di un incontro urgente per affrontare il caso di trattamento uguale di situazioni diseguali. «Chiediamo alla presidente di farsi carico di questa disparità democratica. Alle politiche del 2013 la fine anticipata della legislatura ha abbattuto le firme necessarie fino al 25%, sotto la pressione di Grillo», ricorda Massimo Torelli, coordinatore della lista.
Anche perché, come se non bastasse, c’è l’eterno problema dell’informazione pubblica. I promotori hanno scritto al presidente della Vigilanza Rai Roberto Fico (M5S) segnalando — ve ne fosse bisogno — che per la prima volta il 25 maggio «i cittadini concorreranno direttamente all’elezione del presidente della Commissione». Gli italiani si troveranno a votare nomi stranieri. Serve un apposito spot informativo. Fico ha fatto sapere che deve ancora approfondire il caso. Al voto mancano meno di due mesi
Compagne e compagni del PD, ricordando Voltaire aiutate la sinistra alternativa a far sentire la sua voce, aiutando la lista “con Tsipras” a raccogliere le firme necessarie per partecipare alle elezioni.
L’Unità, 20 marzo 2014
Povera austerità. Fino a qualche tempo fa era sovrana incontrastata d’Europa, e i governati facevano a gara a inchinarsi ai suoi piedi, nascondendo accuratamente sotto il tappeto i costi sociali dei loro inchini: povertà, disoccupazione, disastro sociale. Oggi la polvere è troppa, non c’è tappeto che tenga; si mischia al polverone di chi vuole sfasciare tutto, per riconsegnare il continente ai nazionalismi. Madame Austerity ha perso lo smalto, la sua compagnia non è più gradita a nessuno: neppure a chi l’ha votata e osannata, come il Pd italiano e la Spd tedesca, il cui leader Martin Schulz è candidato del Pse alla presidenza della Commissione europea. Significa forse che il vincolo del 3% non verrà rispettato, che questi partiti si batteranno per la fine del Fiscal Compact, che in Italia verrà cancellato dalla Costituzione l’obbligo capestro del pareggio di bilancio?
Niente di tutto questo: «L’Italia non vuole cambiare le regole», ha dichiarato Renzi alla Merkel. Neppure, dunque, quella che dal 2015 aggiungerà ai quasi cento miliardi annui che già paghiamo per gli interessi sul debito, altri 45 miliardi l’anno da versare alle banche per cominciare a ridurlo. E dove li prenderemo?
Una Conferenza europea sul debito pubblico, come quella che nel 1953 ne condonò gran parte alla Germania, per consentire la ricostruzione dopo la guerra: questo propone un altro candidato alla presidenza della Commissione, Alexis Tsipras. In Grecia, Tsipras ha costruito il suo consenso proprio sul rifiuto dei vincoli che hanno sprofondato il paese nella povertà, aumentando il debito invece di diminuirlo; in Europa, propone fondi europei per la creazione di posti di lavoro e la riconversione ecologica, la sospensione del Fiscal Compact, una riforma della banca europea e delle politiche sull’immigrazione, e molto altro.
I candidati e candidate dell’Altra Europa sono persone che fanno politica da anni: perfino i più giovani, passati dalle lotte nelle scuole e nell’Università al movimento contro la precarietà e per il reddito minimo. Sono delegate e delegati metalmeccanici, compagne di strada di don Gallo e di Zanotelli, giornalisti, intellettuali, voci autorevoli del pacifismo e del femminismo, dell’Arci e dei Forum sociali.
Pensateci su, care compagne e compagni del Pd e scusatemi se uso questa vecchia parola a me cara. Diceva il filosofo: «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo». Noi, più modestamente, non vi chiediamo di dare la vita: solo una firma. Un gesto d’amore per la democrazia, e di fiducia in voi stessi: per il gusto di provare a sconfiggerci dopo, in campagna elettorale, con gli argomenti e non con gli sbarramenti.
Il documento era pronto da settimane sulla scrivania del capogruppo del Pd alla camera, Roberto Speranza. Che solo martedì sera ha deciso di farlo conoscere a tutti i deputati democratici: ne dovranno discutere in assemblea entro fine mese. Per il momento le «considerazioni conclusive» firmate dai deputati Pd della commissione difesa sono dirompenti. C’è la richiesta di «rinviare ogni attività contrattuale» relativa ai caccia F35, in vista di «un significativo ridimensionamento» del programma di acquisto. E c’è soprattutto, come anticipato dal manifesto, la scoperta di oltre un miliardo di spese per armamenti «nascoste» al bilancio della difesa, e finite nei capitoli di altri ministeri. In pratica, rivelano i deputati Pd, la spesa per i sistemi d’arma sta già sforando la percentuale del bilancio della difesa considerata ottimale dagli stessi Stati maggiori. Tagliare si può, vedremo se Matteo Renzi saprà farlo.
Ad aprile la commissione difesa scriverà l’ultima parola di questa «indagine conoscitiva sui sistemi d’arma», decisa otto mesi fa come compromesso tra le allora larghe intese per evitare che il Pd seguisse Sel e Cinque stelle nella richiesta di cancellazione del programma F35. Prima l’assemblea dei deputati democratici si esprimerà sul documento. Nel gruppo Pd non mancano i sostenitori dell’accordo con la Lockheed Martin per il caccia americano. Ma c’è anche una componente, specialmente cattolica, che spingerà per confermare le indicazioni che adesso sono diventate pubbliche. Alla fine decideranno le ragioni di bilancio più che quelle del pacifismo e della Costituzione (l’F35 è un aereo esclusivamente d’attacco) o tecniche (nei test l’aereo sta accumulando insuccessi). Tra quest’anno e il prossimo si può recuperare circa un miliardo non dando seguito ai programmi di acquisto con la Lockheed. Soldi preziosi, tenendo conto che gli altri che dovrebbero arrivare dalla difesa sono assai aleatori, come i proventi della sempre annunciata svendita delle caserme.
Con il Pd su queste posizioni, assieme a Sel e M5S, non ci sarebbero problemi per bloccare gli F35 in commissione difesa. L’obiettivo però è arrivare a una mozione in aula che impegni il governo allo stop. E potrebbe persino non bastare, visto il braccio di ferro che gli Stati maggiori e direttamente il presidente della Repubblica hanno ingaggiato da tempo con il parlamento sulla titolarità a decidere sugli investimenti nei sistemi d’arma. La legge del 244 del 2012 ha restituito alle camere l’ultima parola. Ieri il Consiglio supremo della difesa dal Quirinale ha preso sì atto della necessità di risparmiare, ma ha rimandato le scelte concrete alla redazione di un «Libro bianco» della difesa, la cui cura è affidata al ministero. E martedì la ministra Pinotti ha raffreddato gli entusiasmi: non è detto, ha spiegato, che i risparmi arriveranno dagli F35.
Nel documento del Pd, però, non ci sono solo ragioni economiche contro il programma americano. Ma almeno altri otto buoni motivi per cancellare le commesse. Si va dal fatto che «non sono garantiti significativi ritorni industriali» alle considerazioni sull’embargo imposto dagli Usa sulla tecnologia sensibile. Inoltre, quanto al sito italiano di montaggio, «l’occupazione che si genererà non può considerarsi aggiuntiva a quella già attualmente impiegata nel settore aeronautico, ma solo parzialmente sostitutiva». Considerazioni di buon senso, contro le quali si è già alzato il fuoco di sbarramento: proprio ieri uno studio della Pricewaterhouse garantiva che l’assemblaggio degli F35 in Italia, a Cameri, può creare tra i 5 e i 6mila posti di lavoro. Si tratta di uno studio commissionato dalla Lockheed.
Oltre ai caccia, i deputati della commissione difesa del Pd invitano a ripensare il programma dell’esercito Forza Nec, altrimenti noto come «soldato digitale». Il fante italiano del futuro risulta essere progettato (appalto Selex) senza alcuna preoccupazione di interconnettività con le forze armate dei paesi alleati, Nato e Ue. Meglio fermare questo investimento (20 miliardi) fino a quando «i diversi sistemi nazionali saranno in grado di dialogare tra loro». Quanto alle spese per gli armamenti nel loro complesso, come detto, guardando nei capitoli del ministero dello sviluppo econmico, si scopre che sono ben oltre il 25% dei 14 miliardi destinati alla funzione difesa. Ci sono margini per recuperare più di un miliardo. E più di tutto si dovrebbe poter isparmiare in futuro. Se, come propone il documento, si costituirà anche in Italia un’Autorità di controllo sulla spesa per gli armamenti. Posto che i deputati Pd denunciano il «fenomeno ricorrente della presenza di figure apicali del mondo militare che vanno ad assumere posizioni di rilievo al vertice delle industrie della difesa». Su tutte Finmeccanica, presieduta oggi dall’ex capo del Sismi De Gennaro e dall’ex capo di stato maggiore della difesa Venturoni
Riflessioni su un “docufilm” (“Quando c’era Berlinguer”) che certamente farà sognare, rimpiangere, discutere, e forse anche sperare quanti credono che, se un altro futuro è possibile, le sue radici sono nella nostra storia.
La Repubblica, 19 marzo 2014
Diffidate di questo articolo. Fate la tara a quanto scriverò del film di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer, che uscirà nei cinema il 27 marzo e andrà in onda sulle reti Sky (che ha prodotto il film) a partire da giugno. Il coinvolgimento emotivo è inevitabile; e non facile da maneggiare. La materia del film vale, per quelli come me (qualche milione di italiani, ormai tutti sopra i cinquanta), quanto la Marcia di Radetzky per il soldato Trotta nell’omonimo romanzo, risplendente e malinconico, di Joseph Roth. Il solo nome - Enrico Berlinguer - evoca al tempo stesso un’epoca e la sua fine. Una grande illusione e la sua morte. Un ordine, un’etica e un’estetica che si sfarinano - come tutto - lasciando nell’aria solamente l’eco di una remota potenza e di una fragile memoria.
Il film comincia con una sorta di anteprima insieme spietata e sorridente. Decine di giovani, intervistati su chi fosse Berlinguer, rispondono spaesati e ignari di non averne la più pallida idea. Sono studenti universitari, passanti, italiani comunque nati dopo che il Pci era morto e il suo uomo più simbolico accompagnato alla tomba da un infinito popolo in lacrime. E’ un’ignoranza portata senza arroganza, un’ignoranza gentile, come se a noi ci avessero interrogati, a scuola, su chi era Quintino Sella, e ci fossimo scusati con il professore di averlo saltato, quel capitolo del manuale.
Anche per merito del regista, che nel suo sguardo non ficca mai rimprovero, quell’ignoranza non indigna. Rammarica, ma non indigna. La storia è fatta anche di buchi. Di vuoti e di finali inesorabili. Lo storicismo nel quale generazioni di italiani di sinistra si sono formati pensava a quella trama come a un percorso tormentato, ma senza vere cesure. Un divenire capace di assorbire anche le lacerazioni più cruente. Non è così. Il film è certamente un film “storico”, per il notevole valore documentale (immagini inedite, interviste ai protagonisti) e per lo sguardo prospettico. Ma non è un film “storicista”, perché di questa particolare storia, e della Storia in generale per contagio, il racconto di Veltroni restituisce un’immagine fragile, interrotta, soggetta alle manipolazioni e all’oblio, perfino al caso: quell’attentato subito da Berlinguer in Bulgaria negli anni dello strappo dall’Urss, al quale il segretario del Pci scampò per un soffio. Cosa sarebbe accaduto, nelle sliding doors della storia, se Berlinguer, il padre dell’eurocomunismo, fosse morto per mano dei servizi dell’Est?
Sì, il caso. Anche nell’assortimento - appunto casuale - dei caratteri umani in palcoscenico; ai quali tocca recitare il complicato copione della storia. Difficile dire quanto abbia pesato, nell’inconciliabile dissidio tra Berlinguer e Craxi, il plateale contrasto tra il carattere schivo del primo, il suo tratto signorile (quasi uno snobismo difensivo) e la corpulenta sicurezza del secondo, l’uomo che per primo interpreta e incarna l’esuberanza sociale dei nuovi ceti emergenti, post borghesi e post operai, le loro legittime ambizioni e i loro allarmanti appetiti, e insomma apre la strada, come autorevole starter, agli ultimi trent’anni della nostra storia, quelli di Berlusconi. Sono tra le scene più intense del film - quasi quanto quelle, di altissima forza emotiva, delle ultime ore del segretario - i brevi frammenti che ritraggono i due “nemici” insieme. Brevissime sequenze nelle quali Berlinguer e Craxi sfuggono al rispettivo sguardo, incarnano una frattura che non è solo ideologica: è lo scontro mortale tra un “prima” e un “dopo”, tra due antropologie, tra l’Italia austera dei padri costituenti, dell’antifascismo come atto fondante, e l’Italia nuova che mal sopporta quei vincoli rigidi, quell’etica così condizionante.
Nella lettura della parabola di Berlinguer Veltroni è piuttosto esplicito, e intensamente politico. Anche grazie alle testimonianze raccolte da protagonisti diretti e autorevoli (Napolitano, Gorbaciov, Scalfari, Macaluso, Ingrao, Tortorella, Signorile, Forlani, Segre, monsignor Bettazzi, il brigatista Franceschini, l’ambasciatore americano Gardner, il meraviglioso caposcorta Menichelli, il meraviglioso operaio Finesso, Lorenzo Jovanotti unico giovane, la figlia Bianca unica donna), i dieci anni di Berlinguer, dalla vittoria nel referendum sul divorzio nel ‘74 alla sua morte nel giugno ‘84, vengono raccontati come “l’estate della sinistra italiana”, della massima espansione elettorale del partito comunista, della sua trasformazione più profonda (l’eurocomunismo, lo strappo con Mosca, la scelta della Nato) e al tempo stesso della sua liquidazione.
Sulle ragioni e i torti di questa liquidazione si può discutere all’infinito. Colpisce molto che Veltroni, certo non sospettabile di ortodossia ideologica e anzi spesso accusato di disinvoltura “modernista”, nel suo film dia una lettura profondamente “berlingueriana” di quegli anni. La crescita impressionante del Pci, la sua prossimità al potere per vie elettorali provocarono una reazione durissima e composita, visibile e invisibile, condotta a viso aperto (Craxi, la Dc non morotea, la destra) e a volto coperto (la P2, le Brigate Rosse, i servizi segreti, l’esecuzione di Moro).
La testimonianza di Alberto Franceschini, fondatore delle Br, è una esplicita rivendicazione del rapimento Moro come attacco diretto, e vincente, al “compromesso storico”, cioè al tentativo di Berlinguer di accedere al governo “guardandosi alle spalle”, proteggendo se stesso e la democrazia da un esito cileno. L’idea di un’alleanza strategica con la Dc (e con il Psi, che si chiamò fuori, per voce di Craxi, da subito) attirò sul segretario del Pci le critiche e spesso lo spregio dell’estremismo “rivoluzionario”. Ma con il senno di poi va detto che nessun’altra proposta politica, nel-l’Italia del dopoguerra, riuscì a sparigliare le carte con energia paragonabile; e la reazione - l’assassinio di Moro, la paurosa presenza della P2 in punti nevralgici delle istituzioni e dei Servizi - fu altrettanto intensa, anche se non altrettanto leale.
La cruenza di quegli anni e la successiva, relativa cessazione delle ostilità sul fronte della violenza politica (l’assassinio di strada e di Palazzo furono, nell’Italia tra i Settanta e gli Ottanta, armi ordinarie) lasciano intendere come la fine del Pci, e la riduzione della sinistra a variante non più strutturale della società italiana, rappresentarono anche la fine di una guerra politica a tutto campo, che si concluse con dei vinti (Berlinguer il loro capo) e dei vincitori.
Grande merito del film di Veltroni è resistere alla tentazione di un puro omaggio sentimentale a un leader di straordinario fascino, e a quel popolo straziato che, piangendo il suo capo, piange se stesso e il proprio congedo dalla storia italiana. No, non bastano, a raccontare Berlinguer, le immagini struggenti di piazza San Giovanni prima e dopo, piena di italiani a testa china e poi svuotata di popolo, con le pagine dell’Unità che svolazzano nel nulla. Per raccontare Berlinguer serve la politica, con tutto il suo ingombro. La politica di cui è vissuto e la politica che lo ha ucciso, la politica che muove le passioni, travolge le vite, abbatte i muri, cambia i connotati del mondo.
Più ancora della figura di Enrico Berlinguer è forse questo il vero “vuoto”, il vero lutto che questo film evoca. Come, quando, in quali forme quei ragazzi intervistati potranno mai cogliere la potenza della politica, la sua nobiltà, il suo integro nucleo di speranza, il suo essere motore del mondo, e non zavorra come appare troppo spesso, oggi, a troppi? Vedere le immagini della vita e della morte di quel signore così bello - bello come un attore - e di così elegante timidezza, artefice e insieme preda di un destino travolgente e luttuoso, farà balenare in qualcuno di quei ragazzi il sospetto che la politica possa essere il sale della Terra?
Poche ore dopo avere visto il film mi è arrivata la lettera di Beatrice. A lei, di diritto, il finale. «Sono una figlia venticinquenne di un padre quasi sessantenne, che da oltre trent’anni fa il muratore. Vedo lo sguardo di un uomo profondamente di sinistra, vissuto negli anni in cui Enrico Berlinguer era una speranza e al tempo stesso la materializzazione di un’idea (bella, immensa) che oggi non esiste più. Quello sguardo, che si perde nel vuoto tutte le volte che in tv passano i frammenti del funerale di “Enrico” (rivolto a chissà quali ricordi), si posa inevitabilmente su di me: mi dice, quasi scusandosi, che ormai tutto è finito. Ovviamente lui lo sa già da tempo, ma io no. Io, che mi considero con fermezza e fierezza una persona, una donna di sinistra, non so di che morte morirò ».
Intervista. Il professore del Massachusetts Institute of Technology sui nuovi venti di guerra oriente-occidente, accusa i giornalisti di asservimento al pensiero comune e gli Usa di doppiopesismo.
Il manifesto, 189 marzo 2014
Di «passaggio» a Tokyo per una serie di affollatissime conferenze, abbiamo chiesto a Noam Chomsky, professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, il suo parere sui nuovi «venti di guerra» tra Occidente e Oriente, che agitano il pianeta. E non solo per quel che riguarda la crisi ucraina e ora la Crimea.
L’Occidente sembra essere preoccupato da quello che qualcuno ha definito il «fascismo» di Putin. E mentre tornano i toni da guerra fredda, la situazione, in Crimea, rischia di precipitare…
«Non solo in Crimea, direi che anche qui, in Asia orientale, la tensione è altissima, tira una bruttissima aria. Il recente riferimento del premier Shinzo Abe — per il quale non nutro particolare stima — alla situazione dell’Europa prima del primo conflitto mondiale è più che giustificato. Perché le guerre possono anche scoppiare per caso, o a seguito di un incidente, più o meno provocato. Quanto alla Crimea, faccio davvero fatica ad associarmi all’indignazione dell’occidente. Leggo in questi giorni editoriali assurdi, a livello di guerra fredda, che accusano i russi di essere tornati sovietici, parlano di Cecoslovacchia, Afghanistan. Ma dico, scherziamo? Per un giornalista, un commentatore politico, scrivere una cosa del genere, oggi, significa avere sviluppato una capacità di asservimento e subordinazione al "pensiero comune" che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare. Ma come si fa? Mi sembra di essere tornato ai tempi della Georgia, quando i russi, entrando in Ossezia e occupando temporaneamente parte della Georgia, fermarono quel pazzo di Shakaashvili, a sua volta (mal) "consigliato" dagli Usa. I russi, all’epoca, evitarono l’estensione del conflitto, altro che "feroce invasione".
«Per carità, tutto sono tranne che un filo russo o un fan di Putin: ma come si permettono gli Stati uniti, dopo quello che hanno fatto in Iraq – dove dopo aver mentito spudoratamente al mondo intero sulla storia delle presunte armi di distruzioone di massa, sono intervenuti senza un mandato Onu a migliaia di chilometri di distanza per sovvertire un regime – a protestare, oggi, contro la Russia? Voglio dire, non mi sembra che ci siano state stragi, pulizie etniche, violenze diffuse. Io mi chiedo: ma perché continuamo a considerare il mondo intero come nostro territorio, che abbiamo il diritto, quasi il dovere di «controllare» e, nel caso, modificare a seconda dei nostri interessi? Non è cambiato nulla, alla Casa Bianca e al Pentagono, sono ancora convinti che l’America sia e debba essere la guida – e il gendarme – del mondo».
A proposito di minacce, oltre alla Russia, anche la Cina e il Giappone fanno paura? Chi dobbiamo temere di più?
«Dobbiamo temere di più gli Stati uniti. Non ho alcun dubbio, e del resto è quanto ritengono il 70% degli intervistati di un recente sondaggio internazionale svolto in Europa e citato anche dalla Bbc. Subito dopo ci sono Pakistan e India, la Cina è solo quarta. E il Giappone non c’è proprio. Questo non significa che quello che stanno facendo, anzi per ora, per fortuna, solo dicendo i nuovi leader giapponesi non siano pericolose e inaccettabili provocazioni. Il Giappone ha un passato recente che non è ancora riuscito a superare e di cui i paesi vicini, soprattutto Corea e Cina non considerano chiuso, in assenza di serie scuse e soprattutto atti di concreto ravvedimento dal parte del Giappone.
«Proprio in questi giorni leggo sui giornali che il governo, su proposta di alcuni parlamentari, ha intenzione di rivedere la cosiddetta «dichiarazione Kono», una delle poche dichiarazioni che ammetteva, esprimendo contrizione e ravvedimento, il ruolo dell’esercito e dello stato nel rastrellare decine di migliaia di donne coreane, cinesi e di altre nazionalità e costrigendole a prostutirsi per «ristorare» le truppe al fronte».
Già, le famose «donne di ristoro», tuttavia ogni paese ha i suoi scheletri. In Italia pochi sanno che siamo stati i primi a gasare i «nemici» e anche inglesi e americani non scherzano, quanto a crimini di guerra nascosti e/o ignorati
«Assolutamente d’accordo. Solo che un conto è l’ignoranza, l’omissione sui testi scolastici, un conto è il negazionismo: insomma, in Germania se neghi l’olocausto rischi la galera, in Giappone se neghi il massacro di Nanchino rischi di diventare premier»
A proposito di Renzi, Hollande, Merkel &C.«Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza. I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati».
La Repubblica, 19 marzo 2014
È inutile accusare la tecnocrazia europea per le azioni mancate o sbagliate dell’Unione, come hanno fatto Renzi e Hollande a Parigi, quando sono i governi a fare e disfare l’Europa secondo le loro convenienze. Ed è inadeguato presentarsi a Berlino come buon allievo, quando le mutazioni hanno da essere radicali. Il rischio è un inganno dei cittadini: dilaterà le loro malavoglie, i loro disorientamenti e repulsioni.
Come non sentirsi sbalestrati, se non beffati, da discorsi così contraddittori? A Parigi Renzi ha accusato gli eurocrati, poi a Berlino ha riconosciuto il primato tedesco, ricordando alla Merkel che non siamo «somari da mettere dietro la lavagna, ma un Paese fondatore che contribuisce a dare la linea». Chi detta legge, in ultima analisi: il tutore tedesco o l’eurocrazia? Chi ha l’ultima parola? Non dirlo a lettere chiare: questo è aggirare i popoli.
L’inganno è più che mai palese alla vigilia delle elezioni europee, che almeno sulla carta dovrebbero essere diverse dalle precedenti. Il trattato di Lisbona infatti è esplicito, e i deputati di Strasburgo l’hanno ribadito: il Presidente della Commissione sarà designato dal Consiglio europeo, ma «tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo» (art. 17). Quel che ci si accinge a fare è altra cosa. Ancora una volta, la decisione sarà presa a porte chiuse, senza dibattito pubblico preliminare, dai capi di Stato o di governo. Lo stesso Parlamento europeo è complice dell’inganno, col suo regolamento interno: la scelta delle nomine è a scrutinio segreto; non è prevista discussione pubblica. Condotte simili non si limitano a ignorare i trattati: sono anche del tutto incompatibili con la trasparenza da essi ripetutamente evocata. Riavremo dunque lo stesso occulto mercanteggiamento tra Stati che ha ammorbato l’Unione per decenni. Il Parlamento può certo accampare diritti — può sfiduciare il presidente dell’esecutivo e l’intero collegio — ma il rifiuto avviene dopo la nomina. È più complicato. Non a caso l’assemblea non s’è mai azzardata a sfiduciare la Commissione.
Se davvero credessero in quel che professano, Renzi, Hollande e la Merkel manderebbero in questi giorni ben altro messaggio ai cittadini refrattari che apparentemente li angustiano tanto. Direbbero: «Ci atterremo alle nuove regole, vi ascolteremo sempre più. Quindi rispetteremo il verdetto delle urne». Nessuno di loro osa dirlo. Il dominio che esercitano, nella qualità di sovrani che nominano eurocrati al loro servizio, non vogliono né dismetterlo né spartirlo. Vogliono usarla, la tecnocrazia, come alibi: se le cose vanno male la colpa è sua. Gli Stati hanno potere, non responsabilità.
La mistificazione è massima perché la colpa è interamente loro, se l’Unione è oggi un campo di discordie, di ingiustizie sociali asimmetriche. Sono gli Stati e i governi che hanno fatto propria la teoria, predicata ad alunni somari e non, dell’«ordine» o dei «compiti in casa». È la teoria tedesca dell’ordoliberalismo, nata nella Scuola di Friburgo tra le due guerre, che fissa quali debbano essere le priorità, perché i mercati operino senza ostacoli: prima va rassettata la «casa nazionale», e solo dopo verranno la cooperazione, la solidarietà, e comuni regole di uguaglianza sociale. Nelle sedi internazionali, e anche in quella sovranazionale europea, basta insomma «coordinare» le singole linee, esortarsi a vicenda. Il motivo: l’esperienza totalitaria legata a interventi eccessivi dello Stato (memorabile l’accusa rivolta dall’ordoliberista Wilhelm Röpke, negli anni ‘50, all’ideatore dello Stato sociale: «Quello che voi inglesi state preparando, con il piano Beveridge, è una forma di nazismo». Non meno antiliberale fu giudicato il New Deal di Roosevelt).
L’illusione ordoliberista, tuttora diffusa ai vertici degli Stati, è che se ognuno lasciasse fare i mercati, mettendo magari la briglia alla democrazia e a leggi elettorali troppo rappresentative, l’ordine finirebbe col regnare nel mondo. La crisi ha mostrato che solo invertendo le priorità una soluzione è possibile. È dalla solidarietà che urge ripartire, dalla messa in comune di risorse, dopodiché ogni Stato avrà più forze per aggiustare i conti, spalleggiato da istituzioni e bilanci federali. Così gli Usa risolsero la crisi del debito dopo la guerra di indipendenza: mettendo in comune i debiti, passando dalla Confederazione alla Federazione, dandosi una Costituzione.
L’esatto contrario avviene nell’Unione. Sono ancora gli Stati che hanno deliberato, nel febbraio 2013, di congelare il comune bilancio e di impedire l’aumento delle risorse che permetterebbe piani comunitari di ripresa, e soprattutto la conversione della vecchia industrializzazione in sviluppo verde, sostenibile. Una delibera che il Parlamento s’è rifiutato di ratificare, un mese dopo. Ma alla fine la decisione è stata accettata, pur rinviando il dibattito al 2016.
Sono gli Stati che hanno inventato la trojka, organismo che comprende la Banca Centrale europea, la Commissione, e non si sa per quale complesso di inferiorità il Fondo Monetario, e che oggi controlla 4 Paesi (Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro). Una trojka la cui sola bussola è la «casa in ordine». Sono infine gli Stati che hanno concordato il fiscal compact, che alcuni Paesi - tra cui l’Italia di Monti - hanno inopinatamente messo nella Costituzione nonostante nessuno l’avesse imposto.
Questo significa che viviamo nella menzogna, sull’Europa esistente e su quella da rifondare. Che chi ha in mano le scelte sono in realtà i mercati: non l’eurocrazia usata come alibi e non i finti Stati sovrani. Lo spiega bene Luciano Gallino, su La Repubblica del 15 marzo: non esiste stato di eccezione che consenta un’indifferenza così totale verso le sofferenze inflitte ai cittadini (Grecia in primis, e Italia, Spagna, Portogallo). Quanto al fiscal compact, si tratta, secondo Gallino, di eliminare dalla Costituzione le norme attuative, come proposto da Rodotà: «L’Italia non è in grado di trovare 50 miliardi di euro all’anno da tagliare (per 20 anni, ndr). Accadrà quello che è già accaduto altrove: tagli sanitari, bambini affamati, povertà» (intervista al Manifesto, 13-3).
Sono anni che Roma cerca di ingraziarsi Parigi, e forse qui è l’inganno più grande. I governi francesi, di destra o sinistra, hanno una responsabilità speciale: sin da quando, caduto il Muro, risposero sistematicamente no - in nome del mito sovrano gollista - all’unità politica e militare che Kohl chiese con insistenza per puntellare l’euro. Si denunciano le colpe tedesche, nella crisi, ma l’immobile insipienza francese è ancora più nefasta.
L’Europa, non dimentichiamolo, fu fatta grazie ai francesi Jean Monnet, Robert Schuman. Quel che fu creato lo si deve a Parigi. Ma anche quel che non fu fatto, e non si fa. A cominciare dall’unità militare, che consentirebbe all’Europa risparmi enormi: circa il 40%. Insieme si potrebbe valutare se sia sensato dotarsi degli F-35, e che tipo di pax europea vogliamo, autonoma da quella americana.
Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza. I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati. Che la Francia è un ostacolo non meno grande di Berlino, anche se governata dai socialisti (Sarkozy almeno ci provò: Hollande sull’Europa è muto). Che l’Unione ha bisogno di una Costituzione vera, che inizi come negli Usa con le parole: «We, the people...»: non con l’elenco dei governi firmatari. Altrimenti non avremo solo il predominio degli Stati più forti. Avremo quella che Gallino chiama la Costituzione di Davos:una costituzione non scritta, i cui governi, vittime di una sindrome da “corteggiamento del capitale”, l’assecondano con strategie economiche incentrate sul taglio del Welfare e sui salvataggi bancari a carico dei contribuenti.
Oggi la politica appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica. Il recupero della sua autonomia, deve essere affidato alla sua capacità di tornare ad essere espressione visibile di principi democraticamente definiti, espressione di un progetto che ingloba il futuro, né volubile, né arbitrario».
La Repubblica, 18 marzo 2014
È ancora possibile una politica costituzionale? La questione non riguarda soltanto l’Italia, né si esaurisce nel controllo di conformità delle leggi a singole norme della Costituzione. Ma, quando si segnala questo tema, accade spesso di ricevere risposte infastidite, quasi che si volesse mettere la politica sotto una incombente e inammissibile tutela del diritto.
La realtà è del tutto diversa. Oggi la politica appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica. Il recupero della sua autonomia, non dirò del suo primato, non può che essere affidato alla sua capacità di tornare ad essere espressione visibile di principi democraticamente definiti, appunto quelli che si rinvengono nei documenti costituzionali, dunque espressione di un progetto che ingloba il futuro, né volubile, né arbitrario. È una questione che ha un rilevante significato generale. E che, nell’attuale situazione italiana, va seriamente discussa, perché è destinata ad incidere fortemente sul modo in cui vengono affrontate la riforma elettorale e quella costituzionale.
Nell’ultima fase storica si è determinato un passaggio dallo Stato di diritto allo Stato costituzionale di diritto, connotato dal controllo di costituzionalità sulle leggi e dalla istituzione di uno spazio dei diritti fondamentali. Proprio questo modello appare oggi in discussione, scosso dalla globalizzazione del mondo e dalla sua riduzione alla dimensione finanziaria. Costituzioni e diritti appaiono un impaccio, lo si proclama talvolta apertamente, sempre più spesso si agisce come se non esistessero. Lo vediamo in Italia, ne abbiamo conferma in Europa, dove la Carta dei diritti fondamentali è stata cancellata, malgrado abbia lo steso valore giuridico dei trattati. Lo Stato costituzionale di diritto sarebbe dunque alla fine, viviamo in una fase in cui la mancanza di un quadro istituzionale riconosciuto favorisce l’espandersi di poteri incontrollati?
Rivolgendo lo sguardo alle cose di casa nostra, vi è un grave rischio di cui è bene avere piena consapevolezza. La corsa ormai senza freni verso soluzioni maggioritarie, con seri rischi di incostituzionalità, può determinare un appannarsi di importanti garanzie costituzionali. Se vi è ancora memoria della nostra storia, si dovrebbe sapere che quelle garanzie erano state affidate dai costituenti a maggioranze calcolate con riferimento ad un sistema elettorale proporzionale, che consentiva un ampio pluralismo delle forze presenti in Parlamento. Di conseguenza, non v’era una concentrazione di potere in un partito o in una coalizione tale da consentire interventi in materia costituzionale affidati ad un solo soggetto, magari costruito artificialmente grazie a premi di maggioranza. Nel 1953, contro la “legge truffa” si adoperò proprio l’argomento di una concentrazione di potere nelle mani dei vincitori che poteva alterare gli equilibri costituzionali. E si deve aggiungere che il rischio oggi è maggiore, visto che quella legge tanto esecrata prevedeva che il premio di maggioranza scattasse solo se la coalizione superava il 50% dei voti.
È indispensabile, allora, una politica costituzionale che ridisegni il quadro delle garanzie, prevedendo maggioranze più larghe per la revisione costituzionale, l’elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali, mettendo in sicurezza proprio le istituzioni di garanzia e i diritti fondamentali. Non è un compito da affidare al futuro, ma un processo da avviare in parallelo con l’incombente forzatura maggioritaria. Altrimenti, eletta la “governabilità” a feticcio indiscutibile, sarebbe travolto il sistema delle tutele, alterando in un punto nevralgico gli equilibri democratici.
Ma la politica costituzionale è indispensabile anche per uscire da una schizofrenia che da anni affligge il nostro sistema. I diritti fondamentali sono scomparsi dall’orizzonte parlamentare, dove le poche leggi approvate sono state ideologiche e repressive. La loro tutela è stata tutta affidata alla giurisdizione, Corte costituzionale e Corte di Cassazione, dove per fortuna è rimasta vigile una cultura delle garanzie. Ora il Parlamento deve riassumere le proprie responsabilità, affrontando grandi questioni individuali e sociali, di cui non v’è traccia nell’agenda del Governo. O la necessità di salvaguardare i precari equilibri di maggioranza ci condannano ad una minorità civile? Qualche esempio. Il riconoscimento effettivo delle unioni anche tra persone dello stesso sesso, non come una mancia data a malincuore e al ribasso, ma come tutela di diritti fondamentali, secondo la linea tracciata dai giudici costituzionali e della Cassazione.
Una normativa coerente al posto delle macerie lasciate dalla superideologica e incostituzionale legge sulla procreazione assistita. Una nuova disciplina sugli stupefacenti senza concessioni a furbizie e colpi di mano come quello tentato dalla ministra per la Salute. Regole minime per eliminare ogni dubbio sul diritto di morire con dignità. Altrettanto urgente, dopo il monito del Consiglio d’Europa, è un intervento che cancelli lo scandalo del dilagare delle obiezioni di coscienza dei medici all’aborto, che negano un diritto delle donne che la legge vuole pienamente garantito dalle istituzioni pubbliche. Tutte questioni che toccano “valori non negoziabili” e che mettono a rischio la tenuta dell’attuale maggioranza? Ma qui non v’è nulla da negoziare. Vi è soltanto il dovere di dare attuazione a diritti costituzionalmente garantiti, che non possono essere assoggettati a ricatti e convenienze. Ineludibili politiche costituzionali, appunto.
Nello spazio tra i silenzi parlamentari e i provvidi, ma insufficienti, interventi dei giudici si è manifestata negli ultimi tempi una importante attenzione delle istituzioni locali. Una legge della Regione Abruzzo ha aperto la strada all’uso terapeutico della cannabis. Molte delibere comunali saffrontano temi importanti, dai testamenti biologici alle unioni civili, dalla cittadinanza “civica” dei figli degli immigrati alle garanzie per i detenuti (segnalo per la sua ampiezza il “pacchetto” del comune di Parma). A Bologna è stato approvato un regolamento per la collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura dei beni comuni. Iniziative simboliche in alcuni casi, ma sempre politicamente significative, perché volte a ricostruire, attraverso l’attenzione per i diritti e la partecipazione. i rapporti tra istituzioni e cittadini. La politica costituzionale si sta insediando nei luoghi della democrazia di prossimità?
Questa lezione può essere messa a frutto dal Parlamento in molti modi. Rafforzando il suo rapporto con i cittadini con semplici modifiche regolamentari che diano forza alle iniziative legislative popolari (e invece arrivano segnali timidi e inadeguati). Cogliendo tutte le occasioni per mettere in evidenza l’irriducibilità dei diritti fondamentali alla pura logica di mercato (un segnale eloquente è venuto dallo scandalo dei prezzi di farmaci prodotti da Roche e Novartis). Ricostituzionalizzando il diritto del lavoro con la cancellazione dell’articolo che consente negoziati in azienda anche in deroga alla legge, che azzera storiche garanzie, e approvando una legge sulla rappresentanza sulla linea indicata dalla Corte costituzionale. Solo così il Parlamento potrà recuperare un po’ della legittimazione perduta per il fatto d’essere stato eletto con una legge incostituzionale e per l’ormai radicata sfiducia dei cittadini.
«La crisi lavora a dividere. Ma un pensiero di sinistra dovrebbe essere in grado di accogliere le mille sfumature culturali, politiche e sociali che fanno della sinistra l’unica voce critica contro la deriva di un modello fallimentare che ormai si affida al marketing politico».
Il manifesto, 18 marzo 2014
La notizia è insolita e clamorosa. L’Arci, il gigante dell’associazionismo italiano, l’organizzazione ricreativa e culturale nata nel ’57, con 116 comitati provinciali e un milione e centomila soci, dopo quattro giorni di confronto non è riuscita a concludere i lavori del suo sedicesimo congresso. Al momento di comporre le diversità, tra un’anima legata alle case del popolo e ai circoli emiliani e toscani e una sensibilità più movimentista cresciuta nelle lotte sociali, molto al sud contro la criminalità, si è preferito alzare bandiera bianca e rinviare tutto a un congresso bis. Nel frattempo l’associazione sarà governata da un comitato di reggenza diretto dal presidente uscente, Paolo Beni.
Nonostante ci fossero tutti le avvisaglie di un conflitto, testimoniato dalla sfida di due candidati alla successione, tuttavia l’esito di una rottura ha colto di sorpresa chi fino all’ultimo aveva sperato in una possibile convivenza delle differenze. Perché così dovrebbe essere in una associazione ricca di storia, di esperienze sociali, di battaglie civili. Perché l’Arci non è un partito dove questioni di potere spesso fanno premio sui contenuti. Perché siamo in un momento di sbandamento forte della sinistra, e la presa del potere di Renzi è lì a ricordarcelo.
Non essere riusciti nell’impresa di valorizzare i diversi orientamenti per farne la forza dell’associazione, per renderla più capace di coniugare la tradizione, la solidità con i militanti più vicini alle mobilitazioni e ai momenti di lotta di questi anni di crisi (appunto l’obiettivo difficile ma ambizioso del congresso), è un brutto segnale. Purtroppo non l’unico a colpire l’arcipelago della sinistra in questo momento.
Abbiamo appena visto un esordio difficile della Lista per Tsipras, alla quale proprio dall’Arci viene un sostegno forte e capillare già nella raccolta delle firme e nelle candidature. E le cronache di questo fine settimana raccontano di scontri (anche fisici) per i pacchetti di voti nelle urne delle primarie degli organismi periferici del Pd (e in prospettiva per le candidature alle prossime elezioni europee).
Nascondere o addolcire la pillola non serve. Meglio guardare in faccia i nostri limiti e cercare di trarne qualche insegnamento. Come fa, egregiamente, uno spot che pubblicizza la Lista per Tsipras. Un gruppo di ragazzi attorno al tavolo di un bar che iniziano baldanzosi a riferire sulla buona raccolta di firme ma che poi si ritrovano a litigare perché ciascuno pensa che il suo particulare sia il solo, il vero, l’unico degno di essere rappresentato.
La crisi evidentemente lavora a dividere, socialmente innanzitutto e quindi politicamente. Ma un pensiero di sinistra dovrebbe esserne così consapevole da essere in grado di mettere in campo tutti gli anticorpi per neutralizzare divisioni ideologiche che hanno perso da gran tempo la loro forza, per accogliere invece le mille sfumature culturali, politiche e sociali che fanno della sinistra l’unica voce critica contro la deriva di un modello fallimentare che ormai si affida al marketing politico come l’ultima ancora di consenso. La crisi dovrebbe essere un’occasione di rinnovamento, lo specchio in cui leggere gli errori, non l’alibi per raschiare il barile
Renzi e il lavoro: torniamo al bracciantato. Una chiara descrizione del
jobs act del presidente del Consiglio. La rottamazione dei valori fondanti della costituzione, di un secolo di lotte dei lavoratori, prosegue indisturbata, tra qualche mugugno e molte complicità. Dal "diario n. 252" dell'autore
Il governo Renzi, viene rappresentato come l’ultima spiaggia, lui stesso ne è convinto. Si tratta di un punto di vista che lo rafforza, non crede di potere trovare ostacoli e quindi osa.
Ha un’opinione pubblica favorevole, i critici di Renzi, non molti per la verità, si attaccano al suo stile, alle modalità comunicative, all’arroganza, perché non pare concreto (dove troverà le risorse?). Ma sono battuti dalla capacità di trovare slogan accattivanti, quello dei “dieci miliardi in tasca a dieci milioni di italiani” è un capolavoro comunicativo.
Ma se tralasciassimo quello che è un annunzio e ci si soffermasse su gli atti concreti mi sembra che sul quel poco ci sia tanto da dire. L‘unico atto concreto è quello sul lavoro, che mi pare non solo sbagliato in se stesso ma che disegni una società da rigettare. Dopo la riforma Fornero/Monti, non si pensava si potesse andare oltre, ma quella proposta da Renzi/Poletti ha fatto il miracolo.
Vediamo: i contratti a tempo determinato passano dalla durata di un anno a quella di tre anni; prima era possibile solo una proroga con dichiarazione della causale, ora si passa ad otto proroghe senza bisogna di dare spiegazioni sulle cause; prima tra un contratto e un altro dovevano passare 10-20 giorni, ora possono essere continuativi; in precedenza il numero dei contratti a tempo determinato doveva essere stabilito dai contratti collettivi, ora se il contratto collettivo non prevede il limite ci si assesta al 20% dell’organico.
Mi pare di poter dire che il mercato del lavoro viene disegnato sulle spalle dei contratti a termine, il contratto a tempo indeterminato riguarderà solamente l’organico di cui l’azienda non potrà fare a meno sul piano organizzativo e qualitativo, mentre il lavoro di routine, quello pesante, a bassa professionalità verrà assegnata a contratti a tempo determinato, lunghi tre anni nella migliore delle ipotesi, ma sempre insicuri, infatti possono essere interrotti a discrezione dell’azienda. Si può sottolineare che con questi contratti non è possibile che il lavoratore riesca a contrarre un mutuo per la casa, grave ma c’è di peggio. Sembra più grave la civiltà del lavoro che questi contratti delineano: precaria, marginale, sottomesso, ricattato. Non è questa la civiltà del lavoro che la sinistra, per quanto moderna, può accettare.
Se poi a questo capolavoro si aggiunge la parte dell’apprendistato siamo all’improntitudine: non c’è nessun impegno di assumere gli apprendisti, non è previsto un contratto (impegno) scritto, non c’è obbligo di una formazione teorica. L’apprendista è solamente carne da lavoro.
Insomma, non eravamo mai arrivati a fissare le regole secondo le quali l’impiego del lavoratore ricade sotto l’arbitrio del datore di lavoro. Su questa strada si può arrivare al contratto giornaliero, come quello dei braccianti meridionali sotto il caporalato.
I partiti e i populismi si dividono tra quanti non vogliono l'Europa e quantiu predicano l'austerity o l'hanno praticata. Gli italiani vogliono invece una Europa diversa. Solo la lista con Tsipras sembra esprimerli. Il manifesto, 16 marzo 2014
Un recente sondaggio realizzato per la Commissione europea (Eurobarometro standard 80) rivela che per il 74% degli italiani, i 28 stati dell’Unione dovrebbero cooperare di più per risolvere i problemi che l’affliggono; il 65% ritiene che l’Italia non possa affrontare da sola le sfide della globalizzazione; il 53% è favorevole all’Unione economica e monetaria e il 50% crede che per il nostro paese non ci sia un futuro migliore fuori dall’Ue (contro il 30% che lo ritiene possibile).
Tuttavia una quota crescente di italiani, passata dal 46% al 55%, pensa che l’Ue non stia andando nella giusta direzione ed è pessimista sul suo futuro; in particolare, essi ritengono che la disoccupazione sia il principale problema e (il 64%) che l’Ue, fautrice delle politiche di rigore, non stia creando i presupposti per ridurla. In definitiva, la maggioranza degli italiani è molto preoccupata per le politiche comunitarie e i loro effetti negativi; tuttavia, ribadisce la sua convinzione di fondo europeista, la convenienza del nostro paese a puntare sull’Ue e la necessità di accelerane la costruzione, ma cambiando il modo di realizzarla.
Ricordando il passato, e un grande uomo che aveva conosciuto bene, il fondatore di Enrico Scalfari ridiviene leggibile.
La Repubblica, 16 marzo 2014. Riferimenti in calce
Comincio quest’articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.
Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest’anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.
La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco — l’ho già detto — è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati.
Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.
La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del ’77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel ’78, nell’80, nell’81, nell’83. Morì nel giugno dell’84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.
Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all’uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M’è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d’essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d’un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l’ideologia politica. (Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia.Oltre alle interviste su Repubblicaaccettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l’idea dell’“arco costituzionale” dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.
In quel dibattito, trasmesso su Rete4 che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull’altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d’allora erano altri tempi e altre persone.
Nel corso degli anni, dal 1977 all’84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l’Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l’Italia; il problema da lui sollevato della questione morale.
Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l’evoluzione fu comunque coerente.
Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all’Urss, al Pcus e al Cominform. «Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta».
Gli risposi che aveva ragione ma che l’uscita dal ghetto non sarebbe stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall’ideologia leninistastalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. «Hai ragione — rispose Ugo — ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo». Gli chiesi chi fosse il “miserabile” che avrebbe cercato di bloccare l’evoluzione democratica del Pci. «Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni». Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome.
Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s’innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.
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Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l’evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall’intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell’occasione (l’avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare. Rispose così: «Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista». Mi pare - dissi io in quel punto - che voi rifiutate tutto di Lenin. «No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d’accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d’accordo».
Questo, gli dissi io, l’ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. «Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva “alla virtù individuale di un Principe” mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società».
Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell’intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La
questione morale era invece l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l’aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall’81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell’83. «Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell’articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l’esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l’infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev’essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge».
Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983). «Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l’indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d’una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo».
Ve l’aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent’anni fa, parlando d’un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medioalti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell’attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent’anni. Berlinguer, proprio trent’anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto “sovversivo”.
Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l’austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l’interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.
Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all’aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: «Se n’è andato l’ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà».
Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.
C’era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l’ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s’impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affatto un bel vedere.
«A venticinque anni dalla nascita il web necessita di garanzie che lo mettano al riparo dalle violazioni alla sua libertà». Estratti dal saggio
Il mondo nella rete. Quali i diritti, quali i vincoli (Laterza) . La Repubblica, 15 marzo 2014
Internet, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, la rete che avvolge l’intero pianeta, non ha sovrano. Nel 1996, John Perry Barlow apriva così la sua Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio. Questa affermazione orgogliosa riflette il sentire di un mondo, di una sterminata platea in continua crescita fino agli attuali oltre due miliardi di persone, che si identifica con una invincibile natura di Internet, libertaria fino all’anarchia, coerente con il progetto di dar vita a una rete di comunicazione che nessuno potesse bloccare o controllare. Ma è pure un’affermazione che ha dovuto subire le dure repliche da una realtà nella quale non solo Internet è variamente oggetto di regolazione, ma soprattutto conosce violazioni continue di quello statuto di libertà che si riteneva poter essere affidato alla propria, esclusiva virtù salvifica.
Perciò è venuto il tempo non di regole costrittive, ma dell’opposto, di garanzie costituzionali per i diritti della rete e in rete. Ma il rafforzamento istituzionale della libertà in questa sua nuova dimensione non può valere solo contro l’invadenza degli Stati. Deve proiettarsi anche verso i nuovi «signori dell’informazione » che, attraverso le gigantesche raccolte di dati, governano le nostre vite. Proprio il modo d’essere di questi soggetti – si chiamino Amazon o Apple, Google o Microsoft, Facebook o Yahoo! – ci racconta una compresenza di opportunità per la libertà e la democrazia e di potere sovrano esercitato senza controllo sulle vite di tutti. Non un Giano bifronte, però, ma un intreccio che può essere sciolto solo da una iniziativa «costituzionale » anch’essa nuova, che trovi proprio nella rete le sue modalità di costruzione.
Un esempio può essere ritrovato nella vicenda dell’Internet Bill of Rights, una proposta maturata all’interno delle iniziative dell’Onu sulla società dell’informazione e che si è venuta consolidando attraverso il lavoro di diversi gruppi, dynamic coalitions spontanee e informali che hanno poi trovato forme di unificazione e metodi comuni, che si sono manifestati negli Internet Governance Forum promossi in questi anni proprio dall’Onu. La scelta dell’antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie «costituzionali».
Ma, conformemente alla natura della rete, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall’alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che possono intervenire in modo attivo, grazie soprattutto a una tecnologia che mette tutti e ciascuno in grado di formulare progetti, di metterli a confronto, di modificarli, in definitiva di sottoporli a un controllo e a una elaborazione comuni, di trasferire nel settore della regolazione giuridica forme e procedure tipiche del «metodo wiki», dunque con progressivi aggiustamenti e messe a punto dei testi proposti.
Le obiezioni tradizionali – chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? – appartengono al passato, non si rendono conto che «la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale», come ha scritto Antonio Cassese. Tutto questo accade in un contesto in cui le istituzioni tradizionali non vengono tagliate fuori, ma contribuiscono a una impresa di rinnovamento che, al tempo stesso, può mutare e rafforzare il loro ruolo. L’Onu si presenta come punto di riferimento per un mondo che si struttura proprio per cogliere una occasione da essa offerta. Il Parlamento europeo prende atto di una iniziativa non istituzionalizzata, e fa esplicito riferimento all’Internet Bill of Rights in una risoluzione del 2011. Stiamo entrando in una dimensione difficilmente descrivibile con i tradizionali concetti della modernità politica, a cominciare appunto da quelli di Stato e di democrazia rappresentativa. Ma questa transizione non ci assicura che il suo esito sia quello dell’entrata nella postdemocrazia.
Entriamo nella dimensione dell’inedito, e proprio perché si tratta di un processo inedito, non si può valutarlo con i criteri del passato, né attribuire una sorta di autoevidenza a qualsiasi vicenda che ci accada di registrare. Cimentarsi con il problema del modo complessivo in cui la tecnologia incontra il tema delle libertà e istituisce lo spazio politico, significa proprio fare i conti con processi reali. E proprio riflettendo su Internet possono essere individuate le vie di un costituzionalismo globale possibile, non affidato a norme sovrastatuali incorporate nei diritti statuali. Vale a dire, una costruzione del diritto per espansione, orizzontale, un insieme di ordini giuridici correlati, non punto d’arrivo, ma strutturati in modo da sostenere la sfida di un tempo sempre mutevole, quasi una costituzione infinita. ©
Ecco da dove si potrebbero attingere i soldi necessari per finanziare un poderoso "piano del lavoro, rispettando la Costituzione, riducendo gli armamenti e rendendo progressive le tasse.
Il manifesto, 14 luglio 2014
È evidente che queste notizie non sono state inventate e non sono il frutto di una «leggenda metropolitana»: se sono circolate il tema era evidentemente all’ordine del giorno. Più che una resistenza del Dipartimento di Stato americano, sembra che il vero ostacolo sia stato posto dai vertici delle forze armate, dalla ministra della Difesa e dal presidente della Repubblica. Non sembra certo casuale che nel momento in cui si discuteva di tagliare le spese militari per finanziare il taglio dell’Irpef, proprio nello stesso giorno, il presidente Napolitano convocava il Consiglio Supremo di Difesa (per il prossimo 19 marzo) con all’ordine del giorno, tra gli altri punti, la «criticità relative all’attuazione della legge 244 di riforma ed impatto sulla difesa del processo di revisione della spesa pubblica in corso».
La legge 244 (una legge delega approvata alla fine della scorsa legislatura con i decreti di attuazione da poco emessi) è la riforma dello strumento militare in cui, tra l’altro, si prevede un parziale controllo periodico del parlamento sulle scelte relative ai sistemi d’arma, anche gli F35. E tra l’altro la Commissione Difesa ha utilizzato il dispositivo della legge 244 per valutare l’efficacia e la validità di questo sistema d’arma: tra pochi giorni la Commissione concluderà i suoi lavoratori e ci farà sapere a quali conclusioni è giunta. Il messaggio della convocazione — allarmata — del Consiglio Supremo di Difesa è chiaro: uno stop a ogni ipotesi di riduzione delle spese militari (e a Renzi) e la richiesta di superare le «criticità della legge 244» che impone risparmi alle Forze Armate.
Quindi, i cacciabombardieri rimangono quelli — 90 — e sempre 14 miliardi dovremo spendere nei prossimi anni per acquistarli e produrli. In più, ieri il Parlamento ha votato la proroga delle missioni militari all’estero: 600 milioni di costi, altro che riduzione delle spese militari.
Come ha più volte ricordato la campagna Sbilanciamoci ccArriviamo a circa 20 miliardi con i quali finanziare — oltre che il taglio delle tasse sul lavoro — anche un vero piano del lavoro o misure di reddito di cittadinanza. Tutto questo avrebbe un significato sostanziale veramente importante: per la prima volta si taglierebbero in modo sostanziale le spese militari e non la sanità e le pensioni. Sarebbe stata la «svolta buona», ma sarà per un’altra volta.
«Rivoltare come un calzino la legge elettorale è necessario ma non basta. È la prospettiva politica del renzismo che va combattuta ritrovando un’autonomia di deputati e senatori per contrastare una presa del potere che prepara un altro ventennio».
Il manifesto, 15 marzo 2014
Si gioca in Italia in questi giorni una doppia partita. La prima riguarda il consolidamento politico e di governo dell’operazione Renzi; la seconda il destino di una prospettiva riformatrice seria nel nostro paese, affidata finora, con alti e bassi di varia natura, e talvolta pericolosi cedimenti ed equivoci, — ma affidata comunque, — alle buone sorti del Pd. Se Renzi vince la prima, la seconda verrà sconfitta, per un periodo presumibilmente incalcolabile.
Quel che è uscito finora dal cappello di prestigiatore dell’attuale segretario Pd-presidente del consiglio è poco, confuso, contraddittorio, talvolta inconsistente, spesso inesistente, ma inequivocabilmente declamatorio e inconfondibilmente pubblicitario.
Alcuni punti fermi. L’Italicum fonda le sue fortune sull’asse con Silvio Berlusconi. Il che di per sé farebbe rabbrividire, ma non c’è solo questo. Ha attraversato per un pelo i voti della Camera dei deputati. Lo scontro sulle “quote rosa” ha rimanifestato di colpo l’esistenza sotterranea di un partito dei 101, più fedele a Renzi che al proprio partito e ai programmi elettorali sui quali questo si era conquistato bene o male una maggioranza nell’ultimo voto. Restano, con le “quote rosa”, questioni tutt’altro che irrilevanti come quelle delle preferenze, delle soglie di sbarramento, delle alleanze e del premio fuori misura allo stiracchiato vincitore. Allo stato attuale delle cose è lecito prevedere, in caso di approvazione, il rapido transito alla Corte costituzionale per un sospetto, appunto, d’incostituzionalità (Azzariti, Villone, ripetutamente su queste colonne; ma anche su altri giornali il discorso critico ha cominciato ad affacciarsi).
Dal punto di vista economico, abbiamo tutto e il contrario di tutto: i dieci milioni di sgravi fiscali per i lavoratori dipendenti più colpiti dalla crisi; e la precarizzazione illimitata e definitiva del mercato del lavoro (Alleva, il manifesto, 14 marzo). Ma soprattutto pende sulla manovra l’incertezza sulle sue fonti. Nessuno sa, né il presidente del consiglio finora lo ha detto, a quali voci attingere per rendere reale la sua mirabolante prospettiva (Fubini, la Repubblica 13 marzo; Pennacchi, l’Unità, 14 marzo).
Quel che Renzi offre al paese è un composto ibrido di posizioni, affermazioni, suggestioni e sollecitazioni, di cui non è più sufficiente dire che non è più né di destra né di sinistra, e neanche di centro, almeno nel senso tradizionale del termine, ma una nuova posizione politico-ideologica in cui può entrare di volta in volta tutto, purché confluisca a beneficiare il più possibile il prestigio e la fortuna del Capo (o Capetto che dir si voglia).
Aderire alla prospettiva di Renzi non significa dunque soltanto rinunciare a una prospettiva e a una politica di sinistra; significa rinunciare a una prospettiva “politica”, se per politica s’intende, e continua a intendersi, come si è sempre inteso nella tradizione politica occidentale (mica i Soviet, per intenderci) un corretto, limpido e dichiarato rapporto tra valori, prassi e obbiettivi da raggiungere (e, circolarmente, viceversa).
Così facendo, Renzi si affianca, con la maggior verve che la giovane età e una natura esuberante gli consentono, a quelli che, come ho avuto occasione di dire in un precedente articolo, non sono più i suoi avversari ma i suoi concorrenti. Il populismo gli è, persino più che negli altri due, impresso nella sua stessa matrice genetica. Renzi vola, dal comune di Firenze alla segreteria del Pd e di qui alla presidenza del consiglio, in virtù di un’investitura (le primarie dell’8 dicembre 2013) che non ha, mi verrebbe voglia di dire, nessuna legittimità costituzionale. Non è difficile ora arrivare alla previsione che, se fosse necessario, non solo nel campo delle riforme ma nel campo di tutto, sarebbe disponibile a fare, come ha già fatto, alleanze, esplicite o sotterranee, con tutti.
Se le cose stanno così, - mi rendo conto, naturalmente, che si potrebbe discutere a lungo di queste estremistiche premesse, - bisogna fermare Renzi prima che sia troppo tardi.
Non tanto per consentire la ripresa, anzi, la reviviscenza, di una prospettiva politica di sinistra nel nostro paese, la quale, se cova ancora fra noi, come io penso, verrà fuori a suo tempo; quanto per consentire la ripresa di un libero, effettivo gioco politico tra forze diverse, anche opposte, talvolta persino dialoganti e reciprocamente interconnettentisi, ma dotate ciascuna di un proprio registro identitario, con il quale, organizzativamente ed elettoralmente, identificarsi o distinguersi. Tutto ciò, mi rendo conto, non è facile. Soprattutto c’è poco, anzi quasi nessun tempo per farlo.
La prima scadenza possibile è il dibattito in Senato sulla legge elettorale. Bisogna rivoltare come un calzino il testo che arriva dalla Camera e, come dire, costituzionalizzarlo fino in fondo. Sui punti precedentemente elencati sono stati assunti impegni precisi (Bersani e altri). Vedremo cosa ne verrà fuori.
Ma non basta. Ha colpito, nei mesi che ci separano dall’insediamento di Renzi alla segreteria del Pd, e dalla sua pressoché totale conquista della direzione di quel partito, come frutto anch’esso automatico, delle primarie del dicembre 2013, la subalternità, anzi, in numerose occasioni, la supinità della cosiddetta minoranza interna del Pd, la quale rappresentava tuttavia ancora a quella data quasi la metà degli iscritti al Partito.
Torniamo alle premesse del mio discorso. Se questa subalternità, o supinità, continuano anche durante questa fase nella marcia di avvicinamento di Renzi ad una gestione ormai non più discutibile del potere, non ci saranno altre occasioni nel corso, approssimativamente, dei prossimi dieci anni. Bisognerebbe dunque agire subito, e costituire, tutti gli eletti Pd che intravvedono il rischio mortale contenuto in tale prospettiva, gruppi parlamentari autonomi, distinti da quelli renziani, — e potenzialmente più consistenti di questi, — per rovesciare, nella chiarezza della nuova situazione, lo svolgimento negativo, anzi catastrofico, delle premesse poste alla base del mio discorso. Per impedire a Renzi di conquistare una gestione illimitata del potere, si dovrebbero recuperare ora, subito e solidamente, e cioè con un preciso e indiscutibile atto formale, le condizioni di una prospettiva riformatrice seria nel nostro paese.
Non si tratta di una secessione. Anzi. Si tratta di ristabilire un giusto equilibrio fra l’espressione che c’è stata del voto elettorale e l’uso che ora ne vien fatto. Deputati e senatori del Pd sono stati eletti sulla base di un diverso programma politico, con obiettivi diversi, una diversa leadership, una diversa dinamica delle scelte da assumere. Devono semplicemente far riemergere quel che le primarie di partito del dicembre 2013 sembrerebbero aver innaturalmente seppellito. Se mai saranno gli altri a protestare e a tentare di farsi valere. Ma non dovrebbe prevalere l’opinione di un gruppo su quella di milioni di elettori.
Conseguenze possibili (possibili, ripeto, solo se l’andamento del processo viene rovesciato, e rovesciato ora): riconquistare - e rifare - questo partito. E cambiare la composizione partitica che sta attualmente alla base della maggioranza parlamentare che regge questo governo. Se questa composizione cambia, possono aprirsi scenari per ulteriori cambiamenti. Se queste possibilità vengono esperite fino in fondo, non è per niente detto che il governo, cioè l’Italia - identificazione questa che viene continuamente ed enfaticamente ripetuta, ma che andrebbe quanto meno discussa - vadano a carte quarantotto. Magari ne viene fuori lo stesso governo, ma diverso. Oppure un governo tutto diverso. E magari più forte. E più credibile, anche a livello europeo. Quel che è assolutamente certo è che restare immobili e indifesi dentro la manovra renziana, rappresenta la morte, non solo per il governo, non solo per il Pd, non solo per i gruppi parlamentari del Pd, ma anche e soprattutto, questa volta sì, per l’Italia
Sotto accusa gli attuali dirigenti dell’Unione europea per crimini contro l’umanità e contro l’economia: distruggere il welfare mediante
l'austerity aumenta la miseria e la morte e non risana l'economia. La Repubblica, 15 marzo 2014
A fine 2012 un gruppo di giornalisti e politici greci presentava alla corte penale internazionale dell’aja una denuncia per sospetti crimini contro l’umanità a carico del presidente della commissione europea (Barroso), della direttrice del fmi (Lagarde), del presidente del consiglio europeo (Van Rompuy), nonché della cancelliera Merkel e del suo ministro delle finanze Schäuble. A sua volta un’attivista tedesca nel campo dei diritti umani, Sarah Luzia Hassel, appoggiava la denuncia con una documentatissima relazione circa le azioni compiute dalle citate istituzioni a danno sia della Grecia che di altri paesi, europei e no. Tutte azioni suscettibili di venir configurate addirittura come crimini contro l’umanità ai sensi dell’articolo 7 dello statuto di Roma della Corte penale dell’Aja. Si va dalla liquidazione della sanità pubblica alle politiche agricole che hanno affamato milioni di persone; dalla salvaguardia del sistema finanziario a danno dei cittadini ordinari alle ristrette élite che influenzano le decisioni delle istituzioni stesse, sino agli interventi nel campo del lavoro e della previdenza atti a ledere basilari diritti umani. Un altro documento ancora che accusa i vertici UE di gravi forme d’illegalità, simili a quelle testé indicate ma senza etichettarle come crimini contro l’umanità, è stato pubblicato a fine 2013 dal Centro studi di politiche del diritto europeo di Brema, su richiesta della Camera del lavoro di Vienna.
Per quanto è dato sapere i documenti citati sopra giacciono tuttora nei cassetti dei destinatari. Di recente sono però intervenuti fatti nuovi che potrebbero indurre qualche ong o formazione politica a rilanciare le citate denunce. Si veda il rapporto uscito a fine febbraio su Lancet, numero uno delle riviste mediche, circa i danni che sta infliggendo alla popolazione la crisi della sanità in grecia per via delle misure di austerità imposte dalle istituzioni ue. Chi soffre di cancro non riesce più a procurarsi le medicine necessarie, divenute troppo costose. La quota di bambini a rischio povertà supera il 30 per cento. Sono ricomparse, dopo quarant’anni, malaria e tubercolosi. I suicidi sono aumentati del 45 per cento. Chi fa uso di droga non dispone più di siringhe sterili distribuite dal sistema sanitario, per cui utilizza più volte la stessa siringa. Risultato: i casi di infezione HIV rilevati sono passati da 15 nel 2009 a 484 nel 2012.
Un secondo fatto nuovo è che l’Italia, insieme con Spagna, Portogallo e Irlanda, appare avviata sulla stessa strada della Grecia. Anche da noi i tempi di attesa per le visite specialistiche si sono allungati sovente di molti mesi perché i medici che vanno in pensione non sono rimpiazzati. Molti rinviano o rinunciano a visite mediche o esami clinici perché i ticket hanno subito forti aumenti e non riescono più a pagarli. Coloro che vanno in un laboratorio convenzionato si sentono dire che se scelgono la tariffa privata spendono meno del ticket. Molte famiglie non riescono più a mandare i bimbi all’asilo o alla scuola materna perché i posti sono stati ridotti, o la retta è aumentata al punto che non possono farvi fronte.
L’intera questione si può quindi riassumere in questo modo: le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli stati membri dai vertici ue, ovvero dalla cosiddetta troika (bce, fmi e commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. Come si legge nel rapporto di Lancet, “se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute potrebbero essere un prezzo che val la pena di pagare. Per contro, i profondi tagli hanno avuto in realtà effetti economici negativi, come ha riconosciuto [perfino] il FMI”. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna, Portogallo, la disoccupazione e l’occupazione precaria hanno toccato livelli altissimi. Il PIL ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori, quali la deflazione, ossia una forte caduta del livello dei prezzi in molti settori, la domanda aggregata stagnante, più una crescita del PIL che nei prossimi anni continuerà a registrare tassi dell’1 per cento o meno, sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro.
In altre parole, non soltanto i vertici UE hanno dato prova, con le politiche economiche e sociali che hanno imposto, di una scandalosa indifferenza per le persone che vi erano soggette: dette politiche si sono pure dimostrate clamorosamente sbagliate. La questione presenta alcuni punti di contatto con la crisi finanziaria esplosa nel 2008. Allora diversi giuristi americani ed europei parlarono di “crimini economici contro l’umanità”, commessi dai dirigenti dei maggiori gruppi finanziari. Ma il caso odierno della ue presenta una differenza abissale. Nel caso della crisi finanziaria gli attori erano soggetti privati. Nel caso della crisi europea si tratta dei massimi esponenti della dirigenza pubblica della UE, cui è stato affidato l’oneroso impegno di presiedere ai destini di 450 milioni di persone ai tempi della crisi. Nello svolgere detto impegno essi hanno mostrato anzitutto una clamorosa incompetenza della gestione della crisi; hanno scelto di favorire gli interessi dei grandi gruppi finanziari andando contro agli interessi vitali delle popolazioni ue; hanno dato largo ascolto alle maggiori élite europee, e in più di un caso ne fanno parte; hanno mostrato di non tenere in alcun conto le sorti delle persone cui si dirigevano le loro politiche. È mai possibile che non siano chiamate a rispondere per nulla delle illegalità non meno che degli errori che hanno commesso, e delle sofferenze che hanno causato con l’indifferenza se non addirittura il disprezzo dimostrato verso le popolazioni colpite?
Stando al documento di Brema, le violazioni dei diritti umani compiute dai vertici UE, in spregio agli stessi trattati dell’Unione, potrebbero essere portate davanti a varie corti e istituzioni europee, nonché davanti a organizzazioni internazionali quali l’ONU e l’Organizzazione internazionale del lavoro. Senza dimenticare che di crimini e illegalità della UE parlano anche in modo sbrigativo i partiti nazionalisti, ma con una radicale differenza rispetto alle iniziative sopra citate: mediante tali accuse essi vogliono distruggere la UE, mentre lo scopo dovrebbe essere quello di cacciare gli attuali dirigenti della troika e sostituirli con altri, dopo aver proceduto a una approfondita revisione del trattati europei. Mediante la quale si ribadisca sin dall’inizio che nel loro stesso interesse costitutivo, come scrivono i giuristi di Brema, le istituzioni europee debbono prendere sul serio le questioni sociali esistenziali delle cittadine e dei cittadini dell’unione. Non esiste stato di eccezione che possa esentarle da tale dovere, come invece esse stanno facendo con le politiche di austerità.
Nessun taglio, diversamente da quanto annunciato, ai cacciabombardieri F35 americani. Il governo italiano è intenzionato ad andare avanti, nonostante i costi e nonostante le denunce, da parte degli Usa, di numerosi problemi tecnici. Con la spesa in bilancio nel 2014 si potevano mettere in sicurezza 1500 scuole.
wwwSbilancialoci.info, newsletter, 14 marzo 2014
Matteo Renzi si è accorto che tra i tagli possibili ci sono i cacciabombardieri F35 americani. Ma l'annuncio, come nel suo stile, è durato lo spazio di una dichiarazione. Nessun pericolo per la Lockheed Martin e per i generali italiani. Eppure gli F35 sono la sintesi di tutti gli errori possibili, d'Italia e d'Europa. Con la spesa in bilancio nel 2014 si potevano mettere in sicurezza 1500 scuole. Hanno costi enormi e gli stessi vertici Usa ne denunciano i problemi tecnici non risolti. Sono già stati cancellati o ridimensionati da vari paesi, ma l'Italia è determinata ad andare avanti. Riflettono il monopolio militare americano e il fallimento dell'integrazione europea nella difesa. Mettono l'integrazione delle armi in ambito Nato davanti a quella europea.
L'Europa è sempre più "nano politico", ma le sue armi continuano a crescere, al servizio del potere americano, degli interessi geopolitici dei paesi più ambiziosi – Francia e Gran Bretagna innanzi tutto, le due potenze nucleari del continente – e degli apparati militari-industriali di ciascun paese.
Il "nano politico" si è visto all'opera in Ucraina: subalterno alle ambizioni della Nato, con una politica estera ridotta agli accordi commerciali, ma trascinato poi – era già avvenuto nell'ex-Jugoslavia – nei conflitti innescati da frammentazione politica, declino economico e nazionalismi. Ancora peggio è andata in Siria o in Libia: divisioni europee, pressioni sbagliate per interventi militari, nessuna soluzione politica capace di costruire stabilità e democrazia.
Manca – in Europa come in Italia – la politica: l'idea che la sicurezza possa essere assicurata non dalle armi ma dalle relazioni politiche, economiche e sociali tra diversi – tra stati e all'interno degli stati.
Incapace di accrescere la sua statura politica, il "nano" si arma: l'industria militare ha risentito meno di altre della crisi, le esportazioni verso i conflitti del sud del mondo continuano a crescere, nel suo momento più drammatico la Grecia, che stava tagliando tutto, ha confermato l'acquisto dalla Germania di inutili sottomarini militari. Così vediamo una spesa militare che quasi ovunque non è stata fermata dall'austerità: in Italia si stabilizza mentre cadono le spese sociali, le missioni militari all'estero – nuova vocazione nazionale – si moltiplicano, alla ricerca di ruolo internazionale e nuovi affari. Intanto, nei paesi emergenti la tentazione delle armi si diffonde, il sistema militare si rafforza e con esso instabilità e conflitti.
Un'alternativa all'impotenza della politica e al potere del complesso militare-indistriale c'è: una politica più disarmata e più capace di affrontare i conflitti. Al posto degli F35 ci vogliono corpi di pace e servizio civile europeo. Al posto della liberalizzazione commerciale, accordi per sostenere uno sviluppo sostenibile nei paesi vicini all'Europa, all'est come nel Mediterraneo e in Africa. Al posto del cortocircuito mediatico tra poteri autoritari e conflitti violenti, la pratica di più democrazia.
Il manifesto, 14 marzo
Piano casa. Mutare in «alloggi sociali» ogni edificio esistente o in corso di realizzazione, non risolverà la crisi abitativa perché chi versa in grave disagio non potrà mai accedere a questo segmento di mercato. Si consente soltanto alla speculazione immobiliare di liberarsi di un immenso patrimonio invenduto
Si chiama «Misure urgenti per l’emergenza abitativa» il decreto legge sulla casa approvato dal governo Renzi. Nella relazione di accompagnamento si parla a più riprese della grave crisi della casa: famiglie che non riescono a pagare l’affitto e giovani senza prospettive di futuro, e cioè le vittime principali delle politiche abitative che da venti anni vengono applicare come un dogma. Politiche sostenute da un forte tasso di retorica: solo l’iniziativa privata, si disse, è in grado di risolvere il problema della casa. A venti anni di distanza devono intervenire sull’emergenza a dimostrazione del fallimento delle ricette liberiste. Ma qui come in altri settori, l’ideologia ancora dominante non cerca con onestà intellettuale di fare i conti con il fallimento. Pretende di risolverlo aumentando la dose della cura: ad esempio si incrementa la vendita del patrimonio immobiliare pubblico (art. 3), ma il cuore del decreto sta nel quinto comma dell’articolo 11, eloquente esempio di come si tenti di sfruttare le sofferenze sociali per miserabili tornaconti.
In quell’articolo si parla della volontà di incrementare gli «alloggi sociali» che in una delle tante leggi di privatizzazione (Dm 2.4.2008) vengono definiti quelli «realizzati o recuperati da operatori pubblici e privati, con il ricorso a contributi o agevolazioni pubbliche quali esenzioni fiscali, assegnazione di aree od immobili, fondi di garanzia, agevolazioni di tipo urbanistico». Abitazioni private a canone concordato, dunque, che si collocano pur sempre all’interno del «mercato». Il decreto Renzi afferma che si possono realizzare «case sociali» sul patrimonio esistente attraverso demolizione e ricostruzione e cambio di destinazione d’uso, mentre al comma quattro dice che queste politiche si applicano anche agli alloggi in costruzione o «AC150» addirittura — alle convenzioni urbanistiche in itinere.
Vediamo di orientarci. Oggi il mercato abitativo è pressochè fermo per eccesso di offerta e il mercato degli uffici langue per mancanza di domanda. Con quell’articolo si permette di mutare in «alloggi sociali» ogni edificio esistente o in corso di realizzazione, ottenendo perfino agevolazioni procedurali, finanziamenti pubblici e agevolazioni fiscali (art. 6 e 9). In questo modo non si risolverà l’emergenza abitativa perché chi versa in grave disagio economico e sociale non potrà mai accedere a questo segmento di mercato: si consente soltanto alla speculazione immobiliare di liberarsi di un immenso patrimonio invenduto.
I sapienti estensori del decreto si accaniscono poi in modo indegno proprio contro i teorici destinatari della legge. In questi anni non sono state costruite case pubbliche e l’unico strumento a disposizione delle famiglie povere e dei giovani è stato l’occupazione di edifici abbandonati. Gesti dolorosi per chi le pratica condannato a una precarietà senza prospettive. Ebbene, all’articolo 5 si dice che gli occupanti non possono avere la residenza l’allaccio dell’acqua o della luce. Chi non ha reddito non ha diritto di lavarsi o di far studiare i propri bambini con una lampadina accesa. Questo atteggiamento culturale che in altri tempi sarebbe stato bollato di odio sociale viene giustificato nella relazione con «l’esigenza del ripristino della legalità». Ottimo sentimento che sarebbe forse opportuno indirizzare nel ripristino delle sanzioni sul falso in bilancio, reato ben più grave delle occupazioni di necessità.
Nel 1903 l’approvazione dello straordinario principio delle case popolari fu merito di Luigi Luzzatti, esponente di spicco della destra storica italiana. Pur essendo economista e fondatore di banche, scriveva che solo la mano pubblica era in grado di risolvere il problema delle abitazioni per i ceti poveri. Ma era appunto un economista liberale non un famelico speculatore neoliberista come coloro che hanno ispirato e scritto la legge. Sul Presidente del consiglio è infine meglio tacere: temiamo che non riesca neppure a comprendere l’urgenza di mettere mano ad un organico provvedimento legislativo che inverta il fallimentare ventennio liberista ad iniziare dalle poste di bilancio ferme a pochi spiccioli. Renzi continua con «non ci sono i soldi» e «tanto ci pensa il privato».
Se vuoi la guerra prepara la guerra. Il capo dello Stato ha inserito tra i punti all'ordine del giorno del prossimo Consiglio supremo di difesa le "criticità relative all'attuazione della Legge 244", che assicura ai parlamentari il potere di controllo sulle spese militari.
Il Fatto quotidiano, 14 marzo 2014
Giorgio Napolitano prepara un nuovo colpo di mano a difesa degli F35, rischiando di scatenare un grave scontro istituzionale con il Parlamento. Dopo le insistenti voci circolate nei giorni scorsi sul possibile taglio all’acquisito dei cacciabombardieri americani per recuperare risorse finanziarie da destinare al “Piano Renzi” (voci che hanno fatto molto innervosire i nostri generali e gli americani), il presidente della Repubblica ha convocato per mercoledì prossimo il Consiglio supremo di difesa mettendo all’ordine del giorno le “criticità relative all’attuazione della Legge 244″. Tradotto: non è il caso che il Parlamento, come previsto da quella legge approvata nel 2012, abbia potere di controllo sulle spese della Difesa.
Questo diktat presidenziale era già calato lo scorso luglio, all’indomani dell’approvazione delle mozioni parlamentari che, proprio in virtù dell’articolo 4 della legge 244, istituivano un’indagine conoscitiva sulle spese militari in generale e sugli F35 in particolare. Allora i parlamentari reagirono con fermezza, in particolare il capogruppo Pd in commissione Difesa, Giampiero Scanu, che parlò di un intervento fuori luogo, non essendo competenza del Consiglio supremo di difesa sollevare obiezioni su una legge del Parlamento, controfirmata tra l’altro dal presidente della Repubblica.
Stavolta si profila un vero e proprio scontro istituzionale, poiché l’indagine conoscitiva della commissione parlamentare è in fase conclusiva e sulla scrivania di Matteo Renzi c’è già la relazione finale targata Pd che chiede il dimezzamento del programma F35 a vantaggio del programma alternativo Eurofighter. Proprio ieri, mentre Napolitano preparava la sua mossa, il ministro della Difesa Roberta Pinotti, pur non citando gli F35, dichiarava alla stampa che “il governo è pronto a rivedere, ridurre o ripensare anche grandi progetti avviati o ipotizzati, qualora mutati scenari internazionali o economici lo indicheranno come opportuno, nel rispetto del ruolo del Parlamento e delle sue prerogative, così come previsto anche nella stessa legge delega 244″. Tra pochi giorni si capirà se sarà così.
Se Napolitano e Renzi sceglieranno di cedere al pressing di Washington e dei nostri generali decidendo di confermare l’intero programma F35, la loro scelta rischia tra l’altro di costarci ancor più cara del previsto poiché la conseguente cancellazione definitiva della Tranche 3B di Eurofighter (25 aerei per circa due miliardi) comporterebbe il pagamento di una salatissima penale, come dimostra il caso tedesco (richiesto quasi un miliardo di penale su un ordine annullato di tre miliardi) e come confermano fonti industriali.
Se invece l’Italia scegliesse di puntare ancora sugli Eurofighter, che tutti gli esperti considerano nettamente superiori agli F35 (e con ricadute tecnologiche e occupazionali nemmeno paragonabili), il numero di questi nuovi aerei multi-ruolo in dotazione all’Aeronautica salirebbe a 93: con i sei F35 che la Difesa ha ormai già acquistato in modo irreversibile, si avrebbe una flotta aerea più che sufficiente a rimpiazzare il centinaio di Tornado e Amx che andranno in pensione a metà del prossimo decennio, senza dover spendere altre decine di miliardi in F35. Rimarrebbe aperta solo la questione dei quindici F35 a decollo verticale destinati alla Marina in sostituzione degli Harrier imbarcati sulla portaerei Cavour: quella che in cinque anni di servizio è stata usata solo per due missioni “commercial-umanitarie” sponsorizzate da privati perché la Difesa non ha i soldi per pagare il gasolio. Il primo capitolo del Libro Bianco della Difesa di cui tanto si parla dovrebbe intitolarsi “Spese inutili che non ci possiamo permettere”.
il Fattoquotidiano, 9 marzo 2014
Può succedere che, nella pausa di una lunga intervista, ti ritrovi in unacucina affacciata su un terrazzo precocemente fiorito, a far merenda con tè algelsomino. E capita pure che l'intervistato t'interroghi all'improvviso suiromanzi dostoevskijani, l’Idiota in particolare. “A un certo punto, ricorderà,Ippolít dice a Myskin: ‘Principe, lei un giorno ha detto che il mondo saràsalvato dalla bellezza’. In russo la parola mir vuol dire mondo e, allo stessotempo, pace”. Per fortuna partecipa anche la figlia del professor Zagrebelsky,Giulia, studentessa di Lettere. “Abbiamo presente, per esempio, l'orrore in cuivivevano gl'immigrati di Rosarno? È pensabile che fossero in pace con i proprisimili? Chi a Taranto è costretto tra le polveri dell'Ilva, non è nellecondizioni di spirito di chi respira aria di montagna. Chiediamoci se viviamoin un mondo bello o sempre più brutto, in ambienti disumani, dominati dallaviolenza, dalla sopraffazione, dallo sfruttamento. Altro che bellezza! Chesalvi il mondo, questo nostro mondo, è una frase da cioccolatino. Infatti,l'hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in occasione dell'Oscar a Lagrande bellezza, come se fosse quella di Myskin. Oggi si parla per non direnulla. E si è ascoltati proprio per questo. Il vuoto non disturba e, se è dettoin certo modo, è anche seducente. In un “Miss Italia” di qualche anno fa, unaragazza, per presentarsi, ha pronunciato una frase memorabile: ‘Credo neivalori e mi sento vincente’. Una sintesi perfetta del grottesco che c'è nel tempopresente”.
Professore, che impressione le hanno fatto i discorsi del neo premier?
Mah! Non tutto piace a tutti allo stesso modo. In attesa di smentite, mi par divedere, dietro una girandola di parole, il blocco d'una politica che gira avuoto, funzionale al mantenimento dello status quo. Una volta Eugenio Scalfarie Giuseppe Turani definirono ‘razza padrona’ un certo equilibrio oligarchicodel potere. Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo ‘casta’.Un'interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulladifensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaroche occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno.Vorrei dire agli uomini (e alle donne) nuovi del governo: attenzione, voistessi, a non prendere troppo sul serio la vostra novità.
Il governo Monti qualche disastro tecnico l'ha fatto.
La tecnica come surrogato della politica è un'illusione. Se lei chiama unidraulico perché ha il lavandino otturato, si aspetta che, a lavoro ultimato,lo scarico del lavandino funzioni. Non chiede all'idraulico di cambiarle lacucina. Così, anche i tecnici in politica. Gestiscono i guasti nei dettagli. Igoverni tecnici per loro natura sono conservatori, devono mantenere l'esistentefacendolo funzionare . Dovrebbe essere la politica a immaginare la cucinanuova. E, fuor di metafora, dovrebbe avere di fronte a sé idee di società,programmi, proposte di vita collettiva e, soprattutto nei momenti di crisi comequello che attraversiamo, perfino modelli di società.
Giovani parlamentari e governanti dovrebbero avere un'idea del mondo
.“Vanificazione dei risultati elettorali”: una cosuccia non da poco in unademocrazia.
Larghe intese versus Grillo.
Quindi siamo senza futuro.
Senza speranza, dunque?
Cosa pensa della decisione di non chiedere un passo indietro aisottosegretari indagati?
Lei è mai stato tentato dalla politica?Ciò cui mi sento più adatto è l'insegnamento. Per la politica, soprattutto perla politica, occorrerebbe una vera vocazione. Ricorda la conferenza di MaxWeber intitolata, per l'appunto, la politica come professione-vocazione? Ecco:non sento la vocazione. C'è poi una considerazione che riguarda un potenziale conflittod'interesse. Chi si occupa di attività intellettuali deve essere disinteressatopersonalmente. Ancora citando Weber: non deve cedere alla tentazione di metterese stesso, e i suoi interessi, davanti all'oggetto dei suoi studi. Potrebbeesserci la tentazione di dire cose e sostenere tesi non per amore della verità(la piccola verità che si può andar cercando), ma per ingraziarsi questo o quelpotente che ti può offrire, arruolandoti, una carriera politica.
Perché la politica non attrae più i migliori?Una volta avere in famiglia un deputato o un senatore era come avere uncardinale. Oggi, talora, ci si vergogna perfino. Ha visto quanti ‘rifiutieccellenti’, opposti alla seduzione di un posto al governo? Se la politica nonha prospettive ma è semplicemente un girone d'affari, non servono politici,servono affaristi.
Vota?
Ho sempre votato, malgrado tutto. C'è una pagina di Non c'è futuro senzaperdono del premio Nobel per la Pace e arcivescovo di Città del Capo,Desmond Tutu, in cui si descrive la coda al seggio dei neri del suo Paese che,acquistati i diritti politici dopo l'apartheid, per la prima volta vanno avotare, piangendo. Attenzione a dire che il voto è un orpello.
Cosa pensa dell'Italicum nato dall'accordo tra il Pd e Forza Italia?
E l'idea di “diminuire” il Senato?
Non è un bel momento, anche per le istituzioni di garanzia.
Il sistema italiano è perfettamente riassunto dal rapporto tra Rai epolitica: è una commissione parlamentare che vigila sul servizio pubblico – esull'informazione che produce – e non il contrario. Ben più che un paradosso.
Torniamo a Weber: cosa può indurre uno studioso a rinunciare a un bene sommoquale l'autonomia?Le risposte più banali sono la seduzione del potere, la carriera. C'è però,credo, la tentazione dell'apprendista stregone o della ‘mosca cocchiera’:pensare di guidare la politica. Quando Carl Schmitt è stato processato aNorimberga, ha osato dire: ‘Non sono io a essere stato nazista, era il nazismoa essere schmittiano’.
Il pericolo non è essere costretti a sostenere certe tesi a tutti i costi?
Il manifesto, 12 marzo 2014
Quello che più si sarebbe dovuto scongiurare sta invece purtroppo accadendo. Ancora una volta è il rovesciamento secco di un abusato detto latino a dominare la scena politica italiana: ubi minor maior cessat. Certo, lo sappiamo, quando ci si avventura sul terreno elettorale sono le liste, le candidature, l’equilibrio tra correnti e componenti, le bandiere e i distintivi, la visibilità degli uni e degli altri, a dettare legge. Quando la partecipazione è una firma e l’azione un voto può accadere questo, e anche di peggio.
E quando a competere non sono solo e soprattutto i partiti, ma anche gli esponenti della cosìddetta società civile le cose non sembrano poi cambiare di molto. Si poteva sperare però che la lista Tsipras, scegliendo di parlare d’Europa in greco, riuscisse almeno a introdurre un diverso ordine del discorso. Riuscisse cioè a sacrificare le tensioni, le rivalità, le controversie, che da sempre attraversano la nostra provincia, a una sorta di “unità antinazionale”. Ma gli ultimi eventi, il ritiro delle candidature, per diverse ragioni, di Valeria Grasso e Antonia Battaglia, nonché le conseguenti dimissioni di Paolo Flores d’Arcais e Andrea Camilleri dal comitato dei garanti, sembrano muovere in tutt’altra direzione. Quella che risponde ai diversi desiderata di chi si illude di stare lavorando, per questa via traversa, alla rifondazione di una sinistra che più italiana non si può.
Su una scala europea sarebbe, infatti, un chiaro indizio di follia pensare di passare al vaglio i currcula e i quarti di nobiltà politica di tutti i candidati delle liste che appoggiano Alexis Tsipras. Ma non è forse questo lo spazio dell’azione a cui aspiriamo? Lo ribadisce lo stesso Alexis Tsipras in una cortese lettera di risposta a Flores e Camilleri nella quale insiste sull’unità necessaria a proiettarsi nella dimensione continentale, «superando continue tensioni e polemiche» e dichiarandosi fino in fondo al fianco di Barbara Spinelli, non a caso la figura più lontana ed estranea agli equilibrismi politici nazionali.
Possiamo capire che Paolo Flores e Andrea Camilleri tengano a quella purezza di immagine cara agli intellettuali democratici. Ma è già meno comprensibile che una militante impegnata sul territorio come Antonia Battaglia non faccia distinzione tra il piano materiale delle lotte, nella fattispecie l’Ilva di Taranto, sul quale è bene non fare sconti a chi ha governato quella regione e quella questione, e il piano delle elezioni europee, dove la presenza di candidati provenienti da Sel è del tutto irrilevante rispetto ai contenuti europeisti e antiliberisti che dovrebbero ispirare la lista Tsipras. La perdita di questa distinzione di piani risulta nefasta per entrambi. Spingendo da una parte i movimenti a farsi carico di una qualche eco elettorale delle proprie azioni e, dall’altra, le liste a rispecchiare equilibri e idiosincrasie delle diverse componenti di movimento, pretendendo, poi, di rappresentarle e raccoglierne le “istanze”.
E’ uno scenario cupo a cui già abbiamo assistito tra il 2001 e il 2003. Lo scopo della campagna elettorale sotto le insegne di Tsipras è, in primo luogo, quello di favorire la diffusione di una cultura europea antiliberista restia a trovare rifugio nel ritorno alle sovranità nazionali, cercando di attrarre in quest’orbita il più ampio ventaglio di forze possibili. Non certo quello di sostituire le diverse espressioni del conflitto sociale nei territori d’Europa. E’ bene chiarirlo per tempo, prima che voli qualche pietra ad Atene, Londra, Berlino o Roma, mettendo in subbuglio e in allarme gli “europeisti insubordinati”, ma non troppo. Siamo ancora in tempo a ragionare e a correggere il tiro.
Di recente un attento storico dell’economia, Thomas Piketty (autore di Capital in the Twenty-First Century, Cambridg, MA, Belknap Press, 2014), ha affermato: «Sul lungo periodo la crescita della produzione non supera mai l’1– 1,5% all’anno (…) Dobbiamo farcene una ragione e smetterla di sognare un’illusoria crescita dell’economia». Dello stesso tenore le affermazioni di Larry Summers, che hanno fatto scalpore essendo stato rettore di Harvard e segretario al Tesoro di Clinton (vale a dire uno dei maggiori responsabili della deregolamentazione del settore finanziario che ha portato al crack finanziario del 2008). Parlando alla conferenza del Fondo Monetario Internazionale nel novembre del 2013 a New York, Summers ha diagnosticato una fase di stagnazione di lungo periodo: Secular Stagnation. In verità lo aveva già detto Paul Krugman: «Sappiamo che l’espansione economica del 2003–2007 è stata guidata da una bolla — si può dire lo stesso dell’ultima parte dell’espansione degli anni ’90, e in effetti si può dire lo stesso degli ultimi anni dell’espansione Reagan» (Paul Krugman, Secular Stagnation, Coalmners, Bubbles, and Larry Summers, ’New York Times’, 16 novembre 2013). Ha commentato un giornalista di Repubblica (Maurizio Ricci, L’era della crescita Zero, ’la Repubblica’, 10 dicembre 2013): «Il lungo boom che ha accompagnato due secoli e mezzo di rivoluzione industriale si è esaurito» e dobbiamo rassegnarci a una «nuova normalità». Cioè, a uno «sviluppo stazionario». Un bella inchiesta di un giornalista nordamericano pubblicato sull’ultimo numero di Internazionale (Harold Meyerson, La fine della classe media, 7 marzo 2014) si chiede se «L’età dell’oro non tornerà più». E risponde affermando che i trenta anni successivi alla seconda guerra mondiale sono stati un «fenomeno irripetibile». Almeno per noi, per l’ex Primo mondo.
Potrei citare molti altri economisti della New Economics Foundation di Londra (Tim Jackson, Prosperità senza crescita. Economia per il pianeta reale, Edizioni Ambiente 2011; Emanuele Campiglio, L’economia buona, Bruno Mondadori 2012) e della Bioeconomia (Mauro Bonaiuti, La grande transizione, Bollati Boringhieri, 2013), per non tornare alle preveggenti, lucidissime analisi di André Gorz, che ci invitano a trovare delle vie di uscita non fondate sulla crescita e sulla espansione.
Con molta modestia e, probabilmente, con grande ingenuità mi sono fatto queste due domande a cui vorrei che il convegno di Bruxelles rispondesse. Si dice: per aumentare l’occupazione bisogna far cresce la domanda interna e le esportazioni. Ma se le merci di largo consumo (specie quelle più a basso costo) sono tutte d’importazione, una aumento della domanda interna quale occupazione accrescerebbe? Prima, evidentemente, servirebbe intervenire sulla bilancia commerciale. Ma per farlo servirebbe regolare in modo del tutto diverso i mercati (vedi i Trattati di libero scambio) e la internazionalizzazione delle imprese transnazionali (delocalizzazioni produttive). Non credo che vi siano più (né, d’altronde, sarebbe giusto) le condizioni per ottenere ragioni di scambio penalizzanti i «paesi in via di sviluppo» che ora si chiamano, non a caso, «emergenti».
Seconda domanda. Viene sempre auspicata come leva anticrisi l’aumento degli investimenti («stimoli», sgravi fiscali, opere pubbliche, ecc.) per far ripartire le imprese. Ma se i denari con cui si fanno queste operazioni li si prende a debito (emissioni di titoli pubblici, bond, project financing, ecc.) e se sul debito bisogna pagare gli interessi e se gli interessi sono più alti della crescita dell’economia «reale»… alla fine a guadagnarci non saranno mai i salari, ma le rendite finanziarie! Esattamente quello che è successo negli ultimi trent’anni: la quota dei salari sul reddito nazionale (negli SU come in tutta Europa) è diminuita a favore di quella andata ad appannaggio dei profitti e delle rendite. Se le cose stanno così, allora, condizione preliminare non è l’investimento (pubblico o privato) in sé, ma la ristrutturazione in radice del funzionamento della finanza.
Sono queste le domande che le donne e gli uomini della strada si fanno tra i banchi del mercato che vendono ormai quasi solo merci cinesi, sotto i cantieri delle «grandi opere» finanziati dalla finanza di progetto, in coda per ottenere un prestito con interessi da strozzini, alla ricerca disperata di un lavoro che non c’è quando invece di cose utili da fare ce ne sarebbero anche troppe. Domande a cui un numero sempre più grande di persone cominciano a darsi delle risposte da soli organizzandosi in gruppi di acquisto e banche del tempo solidali, in cooperative di comunità, in gruppi di auto-mutuo-aiuto per un welfare di prossimità, in gestioni condivise dei beni comuni, in scambi non monetari o con monete locali… Da cui l’ultima domanda agli economisti progressisti: che posto c’è nelle nuove teorie economiche non convenzionali per l’economia solidale o sociale o civile o morale, a dir si voglia? È possibile — almeno sul piano teorico e di visione strategica — avere queste come punto di approdo per una conversione strutturale dei rapporti sociali di produzione e di consumo? Sarà mai possibile ipotizzare almeno una via di uscita dalla crisi che non sia solo anti-neoliberista, ma anche oltre-capitalista?
Porrei un'ulteriore domanda. Quali beni ( merci o servizi) dobbiamo produrre? Più precisamente, per ottenere che cosa dobbiamo impiegare il lavoro (l'applicazioni delle energie psicofisiche degli uomini e delle donne)? Per produrre merci che non servono e sembrano indispensabili solo perchè i "persuasori occulti", al servizio della produzione capitalistica ci convincono ogni giorno che così è, oppure per rendere più umano, vivibile, bello, amichevole, equo il pianeta in cui viviamo? A chi lasciamo la scelta? al "mercato", cioè a chi trae vantaggio della mortifera economia data, o alla politica non lasciata nelle mani dei partiti asserviti al pensiero unico?
Il film di Sorrentino esprime il vuoto d'una certa Roma che difficilmente si immagina dall'esterno: una società sfatta. Ma lo sfacelo di quella Roma (di quella' Italia) è sottolineato dai commenti elogiastici raccolti da Travaglio: per una volta con troppo garbo.
Il Fatto quotidiano, 6 marzo 2014
Eppure Johnny Riotta, sulla Stampa, vede nel film addirittura “un monito” e spera “che la vittoria riporti un po’ di ottimismo in giro da noi”. E perché mai? Pier Silvio B., poveretto, compra pagine di giornali per salutare l’’”avventura meravigliosa” sotto il marchio Mediaset. Sallusti vede nell’Oscar a un film coprodotto e distribuito da Medusa la rivincita giudiziaria del padrone pregiudicato (per una storia di creste su film stranieri): “Ci son voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è l’associazione a delinquere immaginata dai magistrati”. Ora magari Ghedini e Coppi allegheranno l’Oscar all’istanza di revisione del processo al Cainano.
“Oggi – scrive su Repubblica Daniela D’Antonio, moglie giornalista di Sorrentino – ho scoperto di avere tantissimi amici”. Infatti Renzi invita “Paolo per una chiacchierata a tutto campo”. Napolitano sente “l’orgoglio di un certo patriottismo” per un “film che intriga per la rappresentazione dell’oggi”. Contento lui. Alemanno, erede diretto dei Vandali, Visigoti e Lanzichenecchi, vaneggia di “investire nella bellezza di Roma e nel suo immenso patrimonio artistico”. Franceschini, ex ministro del governo Letta che diede un’altra sforbiciata al tax credit del cinema, sproloquia di un “Paese che vince quando crede nei suoi talenti” e di “iniezione di fiducia nell’Italia”. Fazio, reduce da un Sanremo di rara bruttezza dedicato alla bellezza, con raccapricciante scenografia color caco marcio, vuole “restituire” e “riparare la grande bellezza”. Il sindaco Marino rende noto di aver “detto a Paolo che lo aspetto a Roma a braccia aperte per festeggiare lui e il film, per il prestigio che ha donato alla nostra città e al nostro Paese”. Ma che film ha visto? È così difficile distinguere un film da una guida turistica della proloco?
In realtà, come scrive Stenio Solinas sul Giornale, quello di Sorrentino “è il film più malinconico, decadente e reazionario degli ultimi anni, epitaffio a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale in forma artistica di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe dirigente di scrittori che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne di professione “ricche”, cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano brave persone, politici inesistenti (infatti non si vedono proprio). Una fauna umanoide disperata e disperante che non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo mestiere, tutti parlano da soli anche in compagnia e passano da una festa all’altra per nascondersi il proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge in campagna. È un mondo pieno di vuoto che non può permettersi neppure il registro del tragico: infatti rimane nel grottesco. Scambiare il film per un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana.
«Per eliminare ogni equivoco dico subito che sosterrò la lista Tsipras e la voterò». Stefano Rodotà chiarisce la natura delle osservazioni pubblicate in un recente articolo da «La Repubblica» che hanno scatenato una ridda di interpretazioni «in base ad un titolo che non era mio – afferma – In realtà ho cercato di fare un tentativo di analisi politica. Ci viene detto che siamo in emergenza, che i numeri non ci sono e che Renzi è l’ultima spiaggia. Questo è un modo per blindare il suo governo. Una cosa inammissibile. Io ritengo invece che il ruolo della politica stia proprio nel progettare vie d’uscita dalle situazioni presentate come emergenziali. E non credo, come invece fanno alcune interpretazioni dietrologiche, che la lista Tsipras, i transfughi del Movimento 5 Stelle, i deputati di Civati o Sel possano divenire una stampella per il Pd. È un ragionamento politicistico che francamente non mi interessa».
Qual è il primo problema che vede?
Questa lista di cittadinanza sarà un taxi che porterà, come mi auguro, dei parlamentari a Bruxelles, ma che in seguito si ripartiranno in gruppi diversi? È un’ipotesi, certo, che secondo me non dovrebbe essere confusa con il necessario pluralismo che una lista simile deve esprimere. Ma se questa operazione, che è importantissima per l’Italia, dovesse dissolversi subito dopo il voto, sarebbe certamente un problema.
Sono state sollevate perplessità sulla scelta di persone note come Barbara Spinelli, Adriano Prosperi o Moni Ovadia di dimettersi dopo l’eventuale elezione. Non crede che bisognerebbe evitare i «candidati civetta»?
Hanno giustificato questa decisione per un fatto di onestà e di trasparenza per gli elettori. Così facendo vogliono dare il massimo sostegno e responsabilità a chi partecipa alla lista. Ho apprezzato molto le loro ragioni. Altri, a cominciare da Berlusconi, si sono fatti eleggere per trainare una lista e poi non sono mai andati a Bruxelles. La mia non è un obiezione, e non intendo calvacare chi la sta facendo. Si tratta però di un tema già sollevato nei mondi a cui fa riferimento la lista Tsipras e rischia di essere riproposto. Non voglio fare l’elogio dell’importanza della comunicazione, ma bisogna usare il linguaggio più adeguato.
È stato dato rilievo alla contrapposizione tra le candidature di Sonia Alfano e Luca Casarini, un conflitto improprio considerate le regole poste dagli stessi «garanti» della lista per i quali Alfano era già in partenza incandidabile per avere ricoperto incarichi politici precedenti. Un episodio che sembra tradurre due idee di sinistra: la prima incentrata sulla legalità e la società civile, la seconda sui diritti sociali e i movimenti. Potranno mai coesistere?
Di certo non sono incompatibili. Tra l’altro, questo sta già avvenendo da tempo, ad esempio con «Libera» di Don Luigi Ciotti. Ma il discorso è senz’altro più ampio e riguarda la grande questione dell’unione tra diritti civili e sociali, tra i diritti delle persone e quelli del lavoro. Il problema riguarda il modo in cui è possibile saldare diritti costituzionali e diritti sociali. È la prospettiva sollevata da Gustavo Zagrebelsky in una recente intervista su Il Manifesto, una persona che non mi sembra affatto insensibile al rispetto della logica della legalità. Su questo punto nemmeno io sono reticente. La legalità richiede un’idea forte di moralità pubblica, non c’è alcun dubbio.
Parlare di coalizioni sociali significa anche interloquire con i movimenti della casa e per il reddito. In occasione della manifestazione sulla «Via maestra» del 12 ottobre e di quella del 19 ottobre è emersa una certa contrapposizione che sembra tornare oggi nella critica dell’elitarismo dei promotori della lista e i loro riferimenti alla «società civile». Si riuscirà mai ad impostare un lavoro comune?
Me lo auguro, anche perché in questi casi il riferimento ai diritti fondamentali, la casa o il reddito, è fortissimo, come altrove. Se questa lista andrà oltre la soglia del 4% si apriranno opportunità per tutti. Chiamarsi fuori va benissimo, ma vorrei rovesciare l’accusa.
La manifestazione a difesa della Costituzione del 12 ottobre non ha prodotto un seguito. In che modo pensate di riavviarne il percorso, visto che Pd, Forza Italia e Ncd continuano a propore nuove e rischiose riforme?
Ci stiamo riorganizzando e pensiamo di insistere su una serie di proposte di leggi popolari sulla partecipazione, sull’iniziativa legislativa popolare, sul reddito di cittadinanza anche se declinato oggi nella forma più semplice del reddito minimo. Stiamo studiando le possibilità di un referendum che riguardi il pareggio di bilancio introdotto nell’articolo 81 della Costituzione in maniera frettolosa e senza alcuna discussione. Non era obbligatorio, altri paesi come la Francia non l’hanno fatto. Ma è una misura terribile che schiaccerà questo paese sotto il peso dell’austerità. Visto che oggi esiste la lista Tsipras non ho dubbi che questa prospettiva possa essere interessante politicamente anche per loro