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«Europee. Raccolta firme a pieno ritmo, ma è impar condicio in Valle. Barbara Spinelli scrive alla presidente Boldrini. Appello anche a Roberto Fico, il presidente a 5 stelle della commissione vigilanza Rai: la tv pubblica non informa». Il

manifesto, 21 marzo 2014

La rac­colta delle firme per pre­sen­tare la lista Tsi­pras alle euro­pee va bene; secondo gli orga­niz­za­tori per­sino molto bene. Un migliaio di ban­chetti in giro per l’Italia, solo per la prima set­ti­mana un ’teso­retto’ di 44mila firme, che signi­fi­cano vento in poppa per arri­vare alle neces­sa­rie 150mila entro la prima set­ti­mana aprile, ter­mine utile per la pre­sen­ta­zione. Un «for­mi­da­bile rap­porto con le per­sone, una prima strada per farci cono­scere, una rispo­sta piena di spe­ranza per il futuro», spiega Cor­rado Oddi, respon­sa­bile della raccolta.

Oddi ha un know how di tutto rispetto: ha coor­di­nato la trion­fale cam­pa­gna sui refe­ren­dum dell’acqua (2011, un milione e mezzo di firme, poi 27milioni di voti). Però c’è un però, anzi una trap­pola: «La legge elet­to­rale, di dub­bia legit­ti­mità demo­cra­tica, lo dico con un eufe­mi­smo, chiede 30mila firme per cia­scuna delle 5 cir­co­scri­zioni, 3mila firme in ogni regione. In Valle d’Aosta come in Lom­bar­dia. E cioè su un bacino di 90mila abi­tanti come in uno da 10milioni». Stessa cosa nelle isole. Secondo il plan­ning del respon­sa­bile, dalla Sici­lia, 5 milioni di anime, devono arri­vare almeno 25mila firme; dalla Lom­bar­dia ’solo’ 20mila.

C’è di meglio, si fa per dire. Ad Aosta la rac­colta di firme, già di per sé proi­bi­tiva data la pro­por­zione con gli abi­tanti, è una corsa ad osta­coli: gli uffici del sin­daco Bruno Gior­dano (Union Val­dô­taine) hanno depen­nato gran parte delle richie­ste di suolo pub­blico per i ban­chetti avan­zate dai comi­tati L’Altra europa con Tsi­pras. Motivo? «Un malin­teso signi­fi­cato della parola ’mono­po­li­stico’», spiega Rosa Rinaldi, della segre­te­ria Prc, volata in Valle per dare una mano. «Per l’amministrazione avremmo il ’mono­po­lio’ dei ban­chetti. Per que­sto ce ne ha negati molti. Pec­cato che l’unico ’mono­po­lio’ di cui godiamo, nostro mal­grado, è quello della rac­colta firme: siamo solo noi a doverla fare». Gli altri par­titi, che sie­dono in par­la­mento, non ne hanno biso­gno. «È una let­tura buro­cra­tica e non demo­cra­tica delle regole. E sia chiaro: tor­ne­remo alla carica, ma se non ci con­ce­de­ranno il suolo ce lo pren­de­remo lo stesso».

In città cir­cola un sospetto. Gli auto­no­mi­sti pun­tano a un can­di­dato unico con il Pd, che si gio­ve­rebbe parec­chio di non avere con­cor­renti a sini­stra. E così la sfida di Aosta è un rischia­tutto. Se non rag­giun­gesse quota 3mila ver­rebbe inva­li­data la lista nell’intera cir­co­scri­zione Nord-Ovest. E la strada per sca­val­care lo sbar­ra­mento nazio­nale (4%) diven­te­rebbe tutta salita. Sabato mat­tina in città arri­verà il socio­logo Marco Revelli. Men­tre a Palermo, a fine marzo, per il rush finale delle firme sbar­cherà il can­di­dato Ale­xis Tsipras.

Intanto oggi la pre­si­dente della camera Laura Bol­drini si vedrà reca­pi­tare una let­tera fir­mata Bar­bara Spi­nelli, ispi­ra­trice e capo­li­sta degli «euroin­su­bor­di­nati». Con la richie­sta di un incon­tro urgente per affron­tare il caso di trat­ta­mento uguale di situa­zioni dise­guali. «Chie­diamo alla pre­si­dente di farsi carico di que­sta dispa­rità demo­cra­tica. Alle poli­ti­che del 2013 la fine anti­ci­pata della legi­sla­tura ha abbat­tuto le firme neces­sa­rie fino al 25%, sotto la pres­sione di Grillo», ricorda Mas­simo Torelli, coor­di­na­tore della lista.

Anche per­ché, come se non bastasse, c’è l’eterno pro­blema dell’informazione pub­blica. I pro­mo­tori hanno scritto al pre­si­dente della Vigi­lanza Rai Roberto Fico (M5S) segna­lando — ve ne fosse biso­gno — che per la prima volta il 25 mag­gio «i cit­ta­dini con­cor­re­ranno diret­ta­mente all’elezione del pre­si­dente della Com­mis­sione». Gli ita­liani si tro­ve­ranno a votare nomi stra­nieri. Serve un appo­sito spot infor­ma­tivo. Fico ha fatto sapere che deve ancora appro­fon­dire il caso. Al voto man­cano meno di due mesi

Compagne e compagni del PD, ricordando Voltaire aiutate la sinistra alternativa a far sentire la sua voce, aiutando la lista “con Tsipras” a raccogliere le firme necessarie per partecipare alle elezioni.

L’Unità, 20 marzo 2014
Povera austerità. Fino a qualche tempo fa era sovrana incontrastata d’Europa, e i governati facevano a gara a inchinarsi ai suoi piedi, nascondendo accuratamente sotto il tappeto i costi sociali dei loro inchini: povertà, disoccupazione, disastro sociale. Oggi la polvere è troppa, non c’è tappeto che tenga; si mischia al polverone di chi vuole sfasciare tutto, per riconsegnare il continente ai nazionalismi. Madame Austerity ha perso lo smalto, la sua compagnia non è più gradita a nessuno: neppure a chi l’ha votata e osannata, come il Pd italiano e la Spd tedesca, il cui leader Martin Schulz è candidato del Pse alla presidenza della Commissione europea. Significa forse che il vincolo del 3% non verrà rispettato, che questi partiti si batteranno per la fine del Fiscal Compact, che in Italia verrà cancellato dalla Costituzione l’obbligo capestro del pareggio di bilancio?

Niente di tutto questo: «L’Italia non vuole cambiare le regole», ha dichiarato Renzi alla Merkel. Neppure, dunque, quella che dal 2015 aggiungerà ai quasi cento miliardi annui che già paghiamo per gli interessi sul debito, altri 45 miliardi l’anno da versare alle banche per cominciare a ridurlo. E dove li prenderemo?


Una Conferenza europea sul debito pubblico, come quella che nel 1953 ne condonò gran parte alla Germania, per consentire la ricostruzione dopo la guerra: questo propone un altro candidato alla presidenza della Commissione, Alexis Tsipras. In Grecia, Tsipras ha costruito il suo consenso proprio sul rifiuto dei vincoli che hanno sprofondato il paese nella povertà, aumentando il debito invece di diminuirlo; in Europa, propone fondi europei per la creazione di posti di lavoro e la riconversione ecologica, la sospensione del Fiscal Compact, una riforma della banca europea e delle politiche sull’immigrazione, e molto altro.

Sarebbe interessante, se si aprisse in Italia un dibattito vero, sulle differenze fra le scelte del Pse e queste proposte, sostenute in Italia dalla lista «L’Altra Europa con Tsipras». «Europeisti insubordinati», li ha definiti la loro capolista Barbara Spinelli. Nei sondaggi, il sostegno a questa insubordinazione è dato attorno al 6 per cento: è o non è il segno di una domanda politica? Una domanda di piattaforme concrete, per dare finalmente una voce unitaria a ciò che si muove a sinistra delle larghe intese, siano esse italiane o tedesche. E la domanda di un’Altra Politica, alternativa a quella dominante ma anche all’anti-politica dell’Uomo Qualunque, totalmente ignorante di cosa pubblica e fiero di esserlo.

I candidati e candidate dell’Altra Europa sono persone che fanno politica da anni: perfino i più giovani, passati dalle lotte nelle scuole e nell’Università al movimento contro la precarietà e per il reddito minimo. Sono delegate e delegati metalmeccanici, compagne di strada di don Gallo e di Zanotelli, giornalisti, intellettuali, voci autorevoli del pacifismo e del femminismo, dell’Arci e dei Forum sociali.

Il cemento che li tiene insieme è molto più forte, di un cartello elettorale. È una pratica unitaria difficile, ma consolidata nei movimenti, fra soggetti diversi che condividono uno stesso obiettivo: dall’acqua pubblica ai beni comuni, dall’antimafia alla difesa della Costituzione e dei diritti di tutti e tutte. Sarebbe davvero interessante, se nei prossimi mesi crescesse a sinistra un confronto paritario e sereno anche su questo: su cosa accomuna e differenzia queste pratiche di «partecipazione nella lotta» e una partecipazione centrata tutta sulle primarie per la scelta del leader. Sarebbe, ma il confronto paritario non è.
A differenza dei partiti già presenti in Parlamento, per partecipare alle elezioni la lista «L’Altra Europa con Tsipras» deve raccogliere in un mese 150.000 firme, di cui almeno 3000 in ogni regione, anche le più piccole. Se l’obiettivo dovesse essere mancato, chi oggi ha riposto nell’Altra Europa le proprie speranze si ritroverebbe escluso, consegnato all’astensionismo e alla rabbia. È un esito auspicabile, per la nostra democrazia?

Pensateci su, care compagne e compagni del Pd e scusatemi se uso questa vecchia parola a me cara. Diceva il filosofo: «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo». Noi, più modestamente, non vi chiediamo di dare la vita: solo una firma. Un gesto d’amore per la democrazia, e di fiducia in voi stessi: per il gusto di provare a sconfiggerci dopo, in campagna elettorale, con gli argomenti e non con gli sbarramenti.

Il manifesto, 20 marzo 2014

Il docu­mento era pronto da set­ti­mane sulla scri­va­nia del capo­gruppo del Pd alla camera, Roberto Spe­ranza. Che solo mar­tedì sera ha deciso di farlo cono­scere a tutti i depu­tati demo­cra­tici: ne dovranno discu­tere in assem­blea entro fine mese. Per il momento le «con­si­de­ra­zioni con­clu­sive» fir­mate dai depu­tati Pd della com­mis­sione difesa sono dirom­penti. C’è la richie­sta di «rin­viare ogni atti­vità con­trat­tuale» rela­tiva ai cac­cia F35, in vista di «un signi­fi­ca­tivo ridi­men­sio­na­mento» del pro­gramma di acqui­sto. E c’è soprat­tutto, come anti­ci­pato dal mani­fe­sto, la sco­perta di oltre un miliardo di spese per arma­menti «nasco­ste» al bilan­cio della difesa, e finite nei capi­toli di altri mini­steri. In pra­tica, rive­lano i depu­tati Pd, la spesa per i sistemi d’arma sta già sfo­rando la per­cen­tuale del bilan­cio della difesa con­si­de­rata otti­male dagli stessi Stati mag­giori. Tagliare si può, vedremo se Mat­teo Renzi saprà farlo.

Ad aprile la com­mis­sione difesa scri­verà l’ultima parola di que­sta «inda­gine cono­sci­tiva sui sistemi d’arma», decisa otto mesi fa come com­pro­messo tra le allora lar­ghe intese per evi­tare che il Pd seguisse Sel e Cin­que stelle nella richie­sta di can­cel­la­zione del pro­gramma F35. Prima l’assemblea dei depu­tati demo­cra­tici si espri­merà sul docu­mento. Nel gruppo Pd non man­cano i soste­ni­tori dell’accordo con la Loc­kheed Mar­tin per il cac­cia ame­ri­cano. Ma c’è anche una com­po­nente, spe­cial­mente cat­to­lica, che spin­gerà per con­fer­mare le indi­ca­zioni che adesso sono diven­tate pub­bli­che. Alla fine deci­de­ranno le ragioni di bilan­cio più che quelle del paci­fi­smo e della Costi­tu­zione (l’F35 è un aereo esclu­si­va­mente d’attacco) o tec­ni­che (nei test l’aereo sta accu­mu­lando insuc­cessi). Tra quest’anno e il pros­simo si può recu­pe­rare circa un miliardo non dando seguito ai pro­grammi di acqui­sto con la Loc­kheed. Soldi pre­ziosi, tenendo conto che gli altri che dovreb­bero arri­vare dalla difesa sono assai alea­tori, come i pro­venti della sem­pre annun­ciata sven­dita delle caserme.

Con il Pd su que­ste posi­zioni, assieme a Sel e M5S, non ci sareb­bero pro­blemi per bloc­care gli F35 in com­mis­sione difesa. L’obiettivo però è arri­vare a una mozione in aula che impe­gni il governo allo stop. E potrebbe per­sino non bastare, visto il brac­cio di ferro che gli Stati mag­giori e diret­ta­mente il pre­si­dente della Repub­blica hanno ingag­giato da tempo con il par­la­mento sulla tito­la­rità a deci­dere sugli inve­sti­menti nei sistemi d’arma. La legge del 244 del 2012 ha resti­tuito alle camere l’ultima parola. Ieri il Con­si­glio supremo della difesa dal Qui­ri­nale ha preso sì atto della neces­sità di rispar­miare, ma ha riman­dato le scelte con­crete alla reda­zione di un «Libro bianco» della difesa, la cui cura è affi­data al mini­stero. E mar­tedì la mini­stra Pinotti ha raf­fred­dato gli entu­sia­smi: non è detto, ha spie­gato, che i risparmi arri­ve­ranno dagli F35.

Nel docu­mento del Pd, però, non ci sono solo ragioni eco­no­mi­che con­tro il pro­gramma ame­ri­cano. Ma almeno altri otto buoni motivi per can­cel­lare le com­messe. Si va dal fatto che «non sono garan­titi signi­fi­ca­tivi ritorni indu­striali» alle con­si­de­ra­zioni sull’embargo impo­sto dagli Usa sulla tec­no­lo­gia sen­si­bile. Inol­tre, quanto al sito ita­liano di mon­tag­gio, «l’occupazione che si gene­rerà non può con­si­de­rarsi aggiun­tiva a quella già attual­mente impie­gata nel set­tore aero­nau­tico, ma solo par­zial­mente sosti­tu­tiva». Con­si­de­ra­zioni di buon senso, con­tro le quali si è già alzato il fuoco di sbar­ra­mento: pro­prio ieri uno stu­dio della Pri­cewa­te­rhouse garan­tiva che l’assemblaggio degli F35 in Ita­lia, a Cameri, può creare tra i 5 e i 6mila posti di lavoro. Si tratta di uno stu­dio com­mis­sio­nato dalla Lockheed.

Oltre ai cac­cia, i depu­tati della com­mis­sione difesa del Pd invi­tano a ripen­sare il pro­gramma dell’esercito Forza Nec, altri­menti noto come «sol­dato digi­tale». Il fante ita­liano del futuro risulta essere pro­get­tato (appalto Selex) senza alcuna pre­oc­cu­pa­zione di inter­con­net­ti­vità con le forze armate dei paesi alleati, Nato e Ue. Meglio fer­mare que­sto inve­sti­mento (20 miliardi) fino a quando «i diversi sistemi nazio­nali saranno in grado di dia­lo­gare tra loro». Quanto alle spese per gli arma­menti nel loro com­plesso, come detto, guar­dando nei capi­toli del mini­stero dello svi­luppo econ­mico, si sco­pre che sono ben oltre il 25% dei 14 miliardi desti­nati alla fun­zione difesa. Ci sono mar­gini per recu­pe­rare più di un miliardo. E più di tutto si dovrebbe poter ispar­miare in futuro. Se, come pro­pone il docu­mento, si costi­tuirà anche in Ita­lia un’Autorità di con­trollo sulla spesa per gli arma­menti. Posto che i depu­tati Pd denun­ciano il «feno­meno ricor­rente della pre­senza di figure api­cali del mondo mili­tare che vanno ad assu­mere posi­zioni di rilievo al ver­tice delle indu­strie della difesa». Su tutte Fin­mec­ca­nica, pre­sie­duta oggi dall’ex capo del Sismi De Gen­naro e dall’ex capo di stato mag­giore della difesa Venturoni

Riflessioni su un “docufilm” (“Quando c’era Berlinguer”) che certamente farà sognare, rimpiangere, discutere, e forse anche sperare quanti credono che, se un altro futuro è possibile, le sue radici sono nella nostra storia.

La Repubblica, 19 marzo 2014

Diffidate di questo articolo. Fate la tara a quanto scriverò del film di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer, che uscirà nei cinema il 27 marzo e andrà in onda sulle reti Sky (che ha prodotto il film) a partire da giugno. Il coinvolgimento emotivo è inevitabile; e non facile da maneggiare. La materia del film vale, per quelli come me (qualche milione di italiani, ormai tutti sopra i cinquanta), quanto la Marcia di Radetzky per il soldato Trotta nell’omonimo romanzo, risplendente e malinconico, di Joseph Roth. Il solo nome - Enrico Berlinguer - evoca al tempo stesso un’epoca e la sua fine. Una grande illusione e la sua morte. Un ordine, un’etica e un’estetica che si sfarinano - come tutto - lasciando nell’aria solamente l’eco di una remota potenza e di una fragile memoria.

Il film comincia con una sorta di anteprima insieme spietata e sorridente. Decine di giovani, intervistati su chi fosse Berlinguer, rispondono spaesati e ignari di non averne la più pallida idea. Sono studenti universitari, passanti, italiani comunque nati dopo che il Pci era morto e il suo uomo più simbolico accompagnato alla tomba da un infinito popolo in lacrime. E’ un’ignoranza portata senza arroganza, un’ignoranza gentile, come se a noi ci avessero interrogati, a scuola, su chi era Quintino Sella, e ci fossimo scusati con il professore di averlo saltato, quel capitolo del manuale.

Anche per merito del regista, che nel suo sguardo non ficca mai rimprovero, quell’ignoranza non indigna. Rammarica, ma non indigna. La storia è fatta anche di buchi. Di vuoti e di finali inesorabili. Lo storicismo nel quale generazioni di italiani di sinistra si sono formati pensava a quella trama come a un percorso tormentato, ma senza vere cesure. Un divenire capace di assorbire anche le lacerazioni più cruente. Non è così. Il film è certamente un film “storico”, per il notevole valore documentale (immagini inedite, interviste ai protagonisti) e per lo sguardo prospettico. Ma non è un film “storicista”, perché di questa particolare storia, e della Storia in generale per contagio, il racconto di Veltroni restituisce un’immagine fragile, interrotta, soggetta alle manipolazioni e all’oblio, perfino al caso: quell’attentato subito da Berlinguer in Bulgaria negli anni dello strappo dall’Urss, al quale il segretario del Pci scampò per un soffio. Cosa sarebbe accaduto, nelle sliding doors della storia, se Berlinguer, il padre dell’eurocomunismo, fosse morto per mano dei servizi dell’Est?

Sì, il caso. Anche nell’assortimento - appunto casuale - dei caratteri umani in palcoscenico; ai quali tocca recitare il complicato copione della storia. Difficile dire quanto abbia pesato, nell’inconciliabile dissidio tra Berlinguer e Craxi, il plateale contrasto tra il carattere schivo del primo, il suo tratto signorile (quasi uno snobismo difensivo) e la corpulenta sicurezza del secondo, l’uomo che per primo interpreta e incarna l’esuberanza sociale dei nuovi ceti emergenti, post borghesi e post operai, le loro legittime ambizioni e i loro allarmanti appetiti, e insomma apre la strada, come autorevole starter, agli ultimi trent’anni della nostra storia, quelli di Berlusconi. Sono tra le scene più intense del film - quasi quanto quelle, di altissima forza emotiva, delle ultime ore del segretario - i brevi frammenti che ritraggono i due “nemici” insieme. Brevissime sequenze nelle quali Berlinguer e Craxi sfuggono al rispettivo sguardo, incarnano una frattura che non è solo ideologica: è lo scontro mortale tra un “prima” e un “dopo”, tra due antropologie, tra l’Italia austera dei padri costituenti, dell’antifascismo come atto fondante, e l’Italia nuova che mal sopporta quei vincoli rigidi, quell’etica così condizionante.

Nella lettura della parabola di Berlinguer Veltroni è piuttosto esplicito, e intensamente politico. Anche grazie alle testimonianze raccolte da protagonisti diretti e autorevoli (Napolitano, Gorbaciov, Scalfari, Macaluso, Ingrao, Tortorella, Signorile, Forlani, Segre, monsignor Bettazzi, il brigatista Franceschini, l’ambasciatore americano Gardner, il meraviglioso caposcorta Menichelli, il meraviglioso operaio Finesso, Lorenzo Jovanotti unico giovane, la figlia Bianca unica donna), i dieci anni di Berlinguer, dalla vittoria nel referendum sul divorzio nel ‘74 alla sua morte nel giugno ‘84, vengono raccontati come “l’estate della sinistra italiana”, della massima espansione elettorale del partito comunista, della sua trasformazione più profonda (l’eurocomunismo, lo strappo con Mosca, la scelta della Nato) e al tempo stesso della sua liquidazione.

Sulle ragioni e i torti di questa liquidazione si può discutere all’infinito. Colpisce molto che Veltroni, certo non sospettabile di ortodossia ideologica e anzi spesso accusato di disinvoltura “modernista”, nel suo film dia una lettura profondamente “berlingueriana” di quegli anni. La crescita impressionante del Pci, la sua prossimità al potere per vie elettorali provocarono una reazione durissima e composita, visibile e invisibile, condotta a viso aperto (Craxi, la Dc non morotea, la destra) e a volto coperto (la P2, le Brigate Rosse, i servizi segreti, l’esecuzione di Moro).

La testimonianza di Alberto Franceschini, fondatore delle Br, è una esplicita rivendicazione del rapimento Moro come attacco diretto, e vincente, al “compromesso storico”, cioè al tentativo di Berlinguer di accedere al governo “guardandosi alle spalle”, proteggendo se stesso e la democrazia da un esito cileno. L’idea di un’alleanza strategica con la Dc (e con il Psi, che si chiamò fuori, per voce di Craxi, da subito) attirò sul segretario del Pci le critiche e spesso lo spregio dell’estremismo “rivoluzionario”. Ma con il senno di poi va detto che nessun’altra proposta politica, nel-l’Italia del dopoguerra, riuscì a sparigliare le carte con energia paragonabile; e la reazione - l’assassinio di Moro, la paurosa presenza della P2 in punti nevralgici delle istituzioni e dei Servizi - fu altrettanto intensa, anche se non altrettanto leale.

La cruenza di quegli anni e la successiva, relativa cessazione delle ostilità sul fronte della violenza politica (l’assassinio di strada e di Palazzo furono, nell’Italia tra i Settanta e gli Ottanta, armi ordinarie) lasciano intendere come la fine del Pci, e la riduzione della sinistra a variante non più strutturale della società italiana, rappresentarono anche la fine di una guerra politica a tutto campo, che si concluse con dei vinti (Berlinguer il loro capo) e dei vincitori.

Grande merito del film di Veltroni è resistere alla tentazione di un puro omaggio sentimentale a un leader di straordinario fascino, e a quel popolo straziato che, piangendo il suo capo, piange se stesso e il proprio congedo dalla storia italiana. No, non bastano, a raccontare Berlinguer, le immagini struggenti di piazza San Giovanni prima e dopo, piena di italiani a testa china e poi svuotata di popolo, con le pagine dell’Unità che svolazzano nel nulla. Per raccontare Berlinguer serve la politica, con tutto il suo ingombro. La politica di cui è vissuto e la politica che lo ha ucciso, la politica che muove le passioni, travolge le vite, abbatte i muri, cambia i connotati del mondo.

Più ancora della figura di Enrico Berlinguer è forse questo il vero “vuoto”, il vero lutto che questo film evoca. Come, quando, in quali forme quei ragazzi intervistati potranno mai cogliere la potenza della politica, la sua nobiltà, il suo integro nucleo di speranza, il suo essere motore del mondo, e non zavorra come appare troppo spesso, oggi, a troppi? Vedere le immagini della vita e della morte di quel signore così bello - bello come un attore - e di così elegante timidezza, artefice e insieme preda di un destino travolgente e luttuoso, farà balenare in qualcuno di quei ragazzi il sospetto che la politica possa essere il sale della Terra?

Poche ore dopo avere visto il film mi è arrivata la lettera di Beatrice. A lei, di diritto, il finale. «Sono una figlia venticinquenne di un padre quasi sessantenne, che da oltre trent’anni fa il muratore. Vedo lo sguardo di un uomo profondamente di sinistra, vissuto negli anni in cui Enrico Berlinguer era una speranza e al tempo stesso la materializzazione di un’idea (bella, immensa) che oggi non esiste più. Quello sguardo, che si perde nel vuoto tutte le volte che in tv passano i frammenti del funerale di “Enrico” (rivolto a chissà quali ricordi), si posa inevitabilmente su di me: mi dice, quasi scusandosi, che ormai tutto è finito. Ovviamente lui lo sa già da tempo, ma io no. Io, che mi considero con fermezza e fierezza una persona, una donna di sinistra, non so di che morte morirò ».

L'Unità, blog "Città e Città", 18 marzo 2014

Aspetto una smentita. Lo so, il collega di Repubblica che ha scritto la notizia è serissimo, e affidabile. Ma aspetto lo stesso una smentita. La questione è questa: tre sindaci di sinistra del Veneto (Venezia, Padova, Treviso) si sono coalizzati contro i medicanti. Sono molesti, dicono: una signora infatti – assicura il sindaco di Treviso – si è sentita minacciata. Una.
Così si combatte per la legalità, ci si scaglia contro un racket di cui nessuno ha mai prodotto prove, si evocano maldigerite letture dickensiane che raccontavano la Londra di due secoli fa. Qui siamo nel Veneto felix, quello che non sopporta chi chiede l’elemosina. Sono tre città, per inciso, che della cultura e delle istituzioni culturali si fanno gran vanto.
Le multe non bastano, non bastano i fogli di via. I sindaci della trimurti Pa-Tre-Ve vogliono un allontanamento di tre anni. Ammesso che non siano cittadini indigeni, chè allora vanno vessati in un’altra maniera, chissà che non rispolverino il confino.
I poveri, invece, sono sempre di più, anche in quelle città. Magari non stendono la mano e frugano negli scarti dei mercati, frequentano i retrobottega di associazioni di buon cuore. Certo per loro non si mobilita nessuna nessuna task-force: sopravviveranno solo se invisibili. I monatti invece – molti sono rom, alcuni stranieri – sono 30 a Treviso, 60 a Padova, “qualcuno di più a Venezia”. Per perseguitare centocinquanta persone si sono mobilitati i tre sindaci e le tre polizie municipali. E se anche il pesce puzza dalla testa, non è che la coda vada proprio bene: l’insofferenza degli indigeni verso i mendicanti è alta, l’infezione è partita.
Che c’è di meglio per esorcizzare l’immagine della povertà del cancellarla ? Aboliti per decreto il bisogno, la necessità, la penuria. Blanda la reazione della Caritas, a cui del resto verranno devoluti i pochi soldi sequestrati agli accattoni, nel tentativo di rendere accettabile l’inaccettabile.

Ripeto: aspetto una smentita. Depurato dal folklore, questo è quel che avrebbe voluto fare Gentilini, l’osso è questo. Cuori chiusi, guai alla solidarietà, chi è povero è colpevole se non altro dello spettacolo di sé. Insopportabile.
Intervista. Il professore del Massachusetts Institute of Technology sui nuovi venti di guerra oriente-occidente, accusa i giornalisti di asservimento al pensiero comune e gli Usa di doppiopesismo.

Il manifesto, 189 marzo 2014

Di «pas­sag­gio» a Tokyo per una serie di affol­la­tis­sime con­fe­renze, abbiamo chie­sto a Noam Chom­sky, pro­fes­sore eme­rito di lin­gui­stica al Mas­sa­chu­setts Insti­tute of Tech­no­logy, il suo parere sui nuovi «venti di guerra» tra Occi­dente e Oriente, che agi­tano il pia­neta. E non solo per quel che riguarda la crisi ucraina e ora la Crimea.

L’Occidente sem­bra essere pre­oc­cu­pato da quello che qual­cuno ha defi­nito il «fasci­smo» di Putin. E men­tre tor­nano i toni da guerra fredda, la situa­zione, in Cri­mea, rischia di precipitare…

«Non solo in Cri­mea, direi che anche qui, in Asia orien­tale, la ten­sione è altis­sima, tira una brut­tis­sima aria. Il recente rife­ri­mento del pre­mier Shinzo Abe — per il quale non nutro par­ti­co­lare stima — alla situa­zione dell’Europa prima del primo con­flitto mon­diale è più che giu­sti­fi­cato. Per­ché le guerre pos­sono anche scop­piare per caso, o a seguito di un inci­dente, più o meno pro­vo­cato. Quanto alla Cri­mea, fac­cio dav­vero fatica ad asso­ciarmi all’indignazione dell’occidente. Leggo in que­sti giorni edi­to­riali assurdi, a livello di guerra fredda, che accu­sano i russi di essere tor­nati sovie­tici, par­lano di Ceco­slo­vac­chia, Afgha­ni­stan. Ma dico, scher­ziamo? Per un gior­na­li­sta, un com­men­ta­tore poli­tico, scri­vere una cosa del genere, oggi, signi­fica avere svi­lup­pato una capa­cità di asser­vi­mento e subor­di­na­zione al "pen­siero comune" che nem­meno Orwell avrebbe potuto imma­gi­nare. Ma come si fa? Mi sem­bra di essere tor­nato ai tempi della Geor­gia, quando i russi, entrando in Osse­zia e occu­pando tem­po­ra­nea­mente parte della Geor­gia, fer­ma­rono quel pazzo di Sha­kaa­sh­vili, a sua volta (mal) "con­si­gliato" dagli Usa. I russi, all’epoca, evi­ta­rono l’estensione del con­flitto, altro che "feroce invasione".

«Per carità, tutto sono tranne che un filo russo o un fan di Putin: ma come si per­met­tono gli Stati uniti, dopo quello che hanno fatto in Iraq – dove dopo aver men­tito spu­do­ra­ta­mente al mondo intero sulla sto­ria delle pre­sunte armi di distru­zioone di massa, sono inter­ve­nuti senza un man­dato Onu a migliaia di chi­lo­me­tri di distanza per sov­ver­tire un regime – a pro­te­stare, oggi, con­tro la Rus­sia? Voglio dire, non mi sem­bra che ci siano state stragi, puli­zie etni­che, vio­lenze dif­fuse. Io mi chiedo: ma per­ché con­ti­nuamo a con­si­de­rare il mondo intero come nostro ter­ri­to­rio, che abbiamo il diritto, quasi il dovere di «con­trol­lare» e, nel caso, modi­fi­care a seconda dei nostri inte­ressi? Non è cam­biato nulla, alla Casa Bianca e al Pen­ta­gono, sono ancora con­vinti che l’America sia e debba essere la guida – e il gen­darme – del mondo».

A pro­po­sito di minacce, oltre alla Rus­sia, anche la Cina e il Giap­pone fanno paura? Chi dob­biamo temere di più?

«Dob­biamo temere di più gli Stati uniti. Non ho alcun dub­bio, e del resto è quanto riten­gono il 70% degli inter­vi­stati di un recente son­dag­gio inter­na­zio­nale svolto in Europa e citato anche dalla Bbc. Subito dopo ci sono Paki­stan e India, la Cina è solo quarta. E il Giap­pone non c’è pro­prio. Que­sto non signi­fica che quello che stanno facendo, anzi per ora, per for­tuna, solo dicendo i nuovi lea­der giap­po­nesi non siano peri­co­lose e inac­cet­ta­bili pro­vo­ca­zioni. Il Giap­pone ha un pas­sato recente che non è ancora riu­scito a supe­rare e di cui i paesi vicini, soprat­tutto Corea e Cina non con­si­de­rano chiuso, in assenza di serie scuse e soprat­tutto atti di con­creto rav­ve­di­mento dal parte del Giappone.

«Pro­prio in que­sti giorni leggo sui gior­nali che il governo, su pro­po­sta di alcuni par­la­men­tari, ha inten­zione di rive­dere la cosid­detta «dichia­ra­zione Kono», una delle poche dichia­ra­zioni che ammet­teva, espri­mendo con­tri­zione e rav­ve­di­mento, il ruolo dell’esercito e dello stato nel rastrel­lare decine di migliaia di donne coreane, cinesi e di altre nazio­na­lità e costri­gen­dole a pro­stu­tirsi per «risto­rare» le truppe al fronte».

Già, le famose «donne di ristoro», tut­ta­via ogni paese ha i suoi sche­le­tri. In Ita­lia pochi sanno che siamo stati i primi a gasare i «nemici» e anche inglesi e ame­ri­cani non scher­zano, quanto a cri­mini di guerra nasco­sti e/o ignorati

«Asso­lu­ta­mente d’accordo. Solo che un conto è l’ignoranza, l’omissione sui testi sco­la­stici, un conto è il nega­zio­ni­smo: insomma, in Ger­ma­nia se neghi l’olocausto rischi la galera, in Giap­pone se neghi il mas­sa­cro di Nan­chino rischi di diven­tare premier»

A proposito di Renzi, Hollande, Merkel &C.«Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza. I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati».

La Repubblica, 19 marzo 2014

È inutile accusare la tecnocrazia europea per le azioni mancate o sbagliate dell’Unione, come hanno fatto Renzi e Hollande a Parigi, quando sono i governi a fare e disfare l’Europa secondo le loro convenienze. Ed è inadeguato presentarsi a Berlino come buon allievo, quando le mutazioni hanno da essere radicali. Il rischio è un inganno dei cittadini: dilaterà le loro malavoglie, i loro disorientamenti e repulsioni.

Come non sentirsi sbalestrati, se non beffati, da discorsi così contraddittori? A Parigi Renzi ha accusato gli eurocrati, poi a Berlino ha riconosciuto il primato tedesco, ricordando alla Merkel che non siamo «somari da mettere dietro la lavagna, ma un Paese fondatore che contribuisce a dare la linea». Chi detta legge, in ultima analisi: il tutore tedesco o l’eurocrazia? Chi ha l’ultima parola? Non dirlo a lettere chiare: questo è aggirare i popoli.

L’inganno è più che mai palese alla vigilia delle elezioni europee, che almeno sulla carta dovrebbero essere diverse dalle precedenti. Il trattato di Lisbona infatti è esplicito, e i deputati di Strasburgo l’hanno ribadito: il Presidente della Commissione sarà designato dal Consiglio europeo, ma «tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo» (art. 17). Quel che ci si accinge a fare è altra cosa. Ancora una volta, la decisione sarà presa a porte chiuse, senza dibattito pubblico preliminare, dai capi di Stato o di governo. Lo stesso Parlamento europeo è complice dell’inganno, col suo regolamento interno: la scelta delle nomine è a scrutinio segreto; non è prevista discussione pubblica. Condotte simili non si limitano a ignorare i trattati: sono anche del tutto incompatibili con la trasparenza da essi ripetutamente evocata. Riavremo dunque lo stesso occulto mercanteggiamento tra Stati che ha ammorbato l’Unione per decenni. Il Parlamento può certo accampare diritti — può sfiduciare il presidente dell’esecutivo e l’intero collegio — ma il rifiuto avviene dopo la nomina. È più complicato. Non a caso l’assemblea non s’è mai azzardata a sfiduciare la Commissione.

Se davvero credessero in quel che professano, Renzi, Hollande e la Merkel manderebbero in questi giorni ben altro messaggio ai cittadini refrattari che apparentemente li angustiano tanto. Direbbero: «Ci atterremo alle nuove regole, vi ascolteremo sempre più. Quindi rispetteremo il verdetto delle urne». Nessuno di loro osa dirlo. Il dominio che esercitano, nella qualità di sovrani che nominano eurocrati al loro servizio, non vogliono né dismetterlo né spartirlo. Vogliono usarla, la tecnocrazia, come alibi: se le cose vanno male la colpa è sua. Gli Stati hanno potere, non responsabilità.

La mistificazione è massima perché la colpa è interamente loro, se l’Unione è oggi un campo di discordie, di ingiustizie sociali asimmetriche. Sono gli Stati e i governi che hanno fatto propria la teoria, predicata ad alunni somari e non, dell’«ordine» o dei «compiti in casa». È la teoria tedesca dell’ordoliberalismo, nata nella Scuola di Friburgo tra le due guerre, che fissa quali debbano essere le priorità, perché i mercati operino senza ostacoli: prima va rassettata la «casa nazionale», e solo dopo verranno la cooperazione, la solidarietà, e comuni regole di uguaglianza sociale. Nelle sedi internazionali, e anche in quella sovranazionale europea, basta insomma «coordinare» le singole linee, esortarsi a vicenda. Il motivo: l’esperienza totalitaria legata a interventi eccessivi dello Stato (memorabile l’accusa rivolta dall’ordoliberista Wilhelm Röpke, negli anni ‘50, all’ideatore dello Stato sociale: «Quello che voi inglesi state preparando, con il piano Beveridge, è una forma di nazismo». Non meno antiliberale fu giudicato il New Deal di Roosevelt).

L’illusione ordoliberista, tuttora diffusa ai vertici degli Stati, è che se ognuno lasciasse fare i mercati, mettendo magari la briglia alla democrazia e a leggi elettorali troppo rappresentative, l’ordine finirebbe col regnare nel mondo. La crisi ha mostrato che solo invertendo le priorità una soluzione è possibile. È dalla solidarietà che urge ripartire, dalla messa in comune di risorse, dopodiché ogni Stato avrà più forze per aggiustare i conti, spalleggiato da istituzioni e bilanci federali. Così gli Usa risolsero la crisi del debito dopo la guerra di indipendenza: mettendo in comune i debiti, passando dalla Confederazione alla Federazione, dandosi una Costituzione.

L’esatto contrario avviene nell’Unione. Sono ancora gli Stati che hanno deliberato, nel febbraio 2013, di congelare il comune bilancio e di impedire l’aumento delle risorse che permetterebbe piani comunitari di ripresa, e soprattutto la conversione della vecchia industrializzazione in sviluppo verde, sostenibile. Una delibera che il Parlamento s’è rifiutato di ratificare, un mese dopo. Ma alla fine la decisione è stata accettata, pur rinviando il dibattito al 2016.

Sono gli Stati che hanno inventato la trojka, organismo che comprende la Banca Centrale europea, la Commissione, e non si sa per quale complesso di inferiorità il Fondo Monetario, e che oggi controlla 4 Paesi (Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro). Una trojka la cui sola bussola è la «casa in ordine». Sono infine gli Stati che hanno concordato il fiscal compact, che alcuni Paesi - tra cui l’Italia di Monti - hanno inopinatamente messo nella Costituzione nonostante nessuno l’avesse imposto.

Questo significa che viviamo nella menzogna, sull’Europa esistente e su quella da rifondare. Che chi ha in mano le scelte sono in realtà i mercati: non l’eurocrazia usata come alibi e non i finti Stati sovrani. Lo spiega bene Luciano Gallino, su La Repubblica del 15 marzo: non esiste stato di eccezione che consenta un’indifferenza così totale verso le sofferenze inflitte ai cittadini (Grecia in primis, e Italia, Spagna, Portogallo). Quanto al fiscal compact, si tratta, secondo Gallino, di eliminare dalla Costituzione le norme attuative, come proposto da Rodotà: «L’Italia non è in grado di trovare 50 miliardi di euro all’anno da tagliare (per 20 anni, ndr). Accadrà quello che è già accaduto altrove: tagli sanitari, bambini affamati, povertà» (intervista al Manifesto, 13-3).

Sono anni che Roma cerca di ingraziarsi Parigi, e forse qui è l’inganno più grande. I governi francesi, di destra o sinistra, hanno una responsabilità speciale: sin da quando, caduto il Muro, risposero sistematicamente no - in nome del mito sovrano gollista - all’unità politica e militare che Kohl chiese con insistenza per puntellare l’euro. Si denunciano le colpe tedesche, nella crisi, ma l’immobile insipienza francese è ancora più nefasta.

L’Europa, non dimentichiamolo, fu fatta grazie ai francesi Jean Monnet, Robert Schuman. Quel che fu creato lo si deve a Parigi. Ma anche quel che non fu fatto, e non si fa. A cominciare dall’unità militare, che consentirebbe all’Europa risparmi enormi: circa il 40%. Insieme si potrebbe valutare se sia sensato dotarsi degli F-35, e che tipo di pax europea vogliamo, autonoma da quella americana.

Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza. I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati. Che la Francia è un ostacolo non meno grande di Berlino, anche se governata dai socialisti (Sarkozy almeno ci provò: Hollande sull’Europa è muto). Che l’Unione ha bisogno di una Costituzione vera, che inizi come negli Usa con le parole: «We, the people...»: non con l’elenco dei governi firmatari. Altrimenti non avremo solo il predominio degli Stati più forti. Avremo quella che Gallino chiama la Costituzione di Davos:una costituzione non scritta, i cui governi, vittime di una sindrome da “corteggiamento del capitale”, l’assecondano con strategie economiche incentrate sul taglio del Welfare e sui salvataggi bancari a carico dei contribuenti.

Oggi la politica appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica. Il recupero della sua autonomia, deve essere affidato alla sua capacità di tornare ad essere espressione visibile di principi democraticamente definiti, espressione di un progetto che ingloba il futuro, né volubile, né arbitrario».

La Repubblica, 18 marzo 2014
È ancora possibile una politica costituzionale? La questione non riguarda soltanto l’Italia, né si esaurisce nel controllo di conformità delle leggi a singole norme della Costituzione. Ma, quando si segnala questo tema, accade spesso di ricevere risposte infastidite, quasi che si volesse mettere la politica sotto una incombente e inammissibile tutela del diritto.

La realtà è del tutto diversa. Oggi la politica appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica. Il recupero della sua autonomia, non dirò del suo primato, non può che essere affidato alla sua capacità di tornare ad essere espressione visibile di principi democraticamente definiti, appunto quelli che si rinvengono nei documenti costituzionali, dunque espressione di un progetto che ingloba il futuro, né volubile, né arbitrario. È una questione che ha un rilevante significato generale. E che, nell’attuale situazione italiana, va seriamente discussa, perché è destinata ad incidere fortemente sul modo in cui vengono affrontate la riforma elettorale e quella costituzionale.

Nell’ultima fase storica si è determinato un passaggio dallo Stato di diritto allo Stato costituzionale di diritto, connotato dal controllo di costituzionalità sulle leggi e dalla istituzione di uno spazio dei diritti fondamentali. Proprio questo modello appare oggi in discussione, scosso dalla globalizzazione del mondo e dalla sua riduzione alla dimensione finanziaria. Costituzioni e diritti appaiono un impaccio, lo si proclama talvolta apertamente, sempre più spesso si agisce come se non esistessero. Lo vediamo in Italia, ne abbiamo conferma in Europa, dove la Carta dei diritti fondamentali è stata cancellata, malgrado abbia lo steso valore giuridico dei trattati. Lo Stato costituzionale di diritto sarebbe dunque alla fine, viviamo in una fase in cui la mancanza di un quadro istituzionale riconosciuto favorisce l’espandersi di poteri incontrollati?

Rivolgendo lo sguardo alle cose di casa nostra, vi è un grave rischio di cui è bene avere piena consapevolezza. La corsa ormai senza freni verso soluzioni maggioritarie, con seri rischi di incostituzionalità, può determinare un appannarsi di importanti garanzie costituzionali. Se vi è ancora memoria della nostra storia, si dovrebbe sapere che quelle garanzie erano state affidate dai costituenti a maggioranze calcolate con riferimento ad un sistema elettorale proporzionale, che consentiva un ampio pluralismo delle forze presenti in Parlamento. Di conseguenza, non v’era una concentrazione di potere in un partito o in una coalizione tale da consentire interventi in materia costituzionale affidati ad un solo soggetto, magari costruito artificialmente grazie a premi di maggioranza. Nel 1953, contro la “legge truffa” si adoperò proprio l’argomento di una concentrazione di potere nelle mani dei vincitori che poteva alterare gli equilibri costituzionali. E si deve aggiungere che il rischio oggi è maggiore, visto che quella legge tanto esecrata prevedeva che il premio di maggioranza scattasse solo se la coalizione superava il 50% dei voti.

È indispensabile, allora, una politica costituzionale che ridisegni il quadro delle garanzie, prevedendo maggioranze più larghe per la revisione costituzionale, l’elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali, mettendo in sicurezza proprio le istituzioni di garanzia e i diritti fondamentali. Non è un compito da affidare al futuro, ma un processo da avviare in parallelo con l’incombente forzatura maggioritaria. Altrimenti, eletta la “governabilità” a feticcio indiscutibile, sarebbe travolto il sistema delle tutele, alterando in un punto nevralgico gli equilibri democratici.

Serve una “ricostituzionalizza-zione”, analoga a quella necessaria in Europa ridando il suo ruolo alla Carta dei diritti fondamentali. Bisogna ricostruire il nesso tra le varie parti della Costituzione, cancellato da una sottocultura che vede la “macchina” dello Stato come dotata di una logica che può essere manipolata secondo gli interessi di una maggioranza transitoria, e non come lo strumento per realizzare i principi e i diritti sui quali la Costituzione si fonda.

Ma la politica costituzionale è indispensabile anche per uscire da una schizofrenia che da anni affligge il nostro sistema. I diritti fondamentali sono scomparsi dall’orizzonte parlamentare, dove le poche leggi approvate sono state ideologiche e repressive. La loro tutela è stata tutta affidata alla giurisdizione, Corte costituzionale e Corte di Cassazione, dove per fortuna è rimasta vigile una cultura delle garanzie. Ora il Parlamento deve riassumere le proprie responsabilità, affrontando grandi questioni individuali e sociali, di cui non v’è traccia nell’agenda del Governo. O la necessità di salvaguardare i precari equilibri di maggioranza ci condannano ad una minorità civile? Qualche esempio. Il riconoscimento effettivo delle unioni anche tra persone dello stesso sesso, non come una mancia data a malincuore e al ribasso, ma come tutela di diritti fondamentali, secondo la linea tracciata dai giudici costituzionali e della Cassazione.

Una normativa coerente al posto delle macerie lasciate dalla superideologica e incostituzionale legge sulla procreazione assistita. Una nuova disciplina sugli stupefacenti senza concessioni a furbizie e colpi di mano come quello tentato dalla ministra per la Salute. Regole minime per eliminare ogni dubbio sul diritto di morire con dignità. Altrettanto urgente, dopo il monito del Consiglio d’Europa, è un intervento che cancelli lo scandalo del dilagare delle obiezioni di coscienza dei medici all’aborto, che negano un diritto delle donne che la legge vuole pienamente garantito dalle istituzioni pubbliche. Tutte questioni che toccano “valori non negoziabili” e che mettono a rischio la tenuta dell’attuale maggioranza? Ma qui non v’è nulla da negoziare. Vi è soltanto il dovere di dare attuazione a diritti costituzionalmente garantiti, che non possono essere assoggettati a ricatti e convenienze. Ineludibili politiche costituzionali, appunto.

Nello spazio tra i silenzi parlamentari e i provvidi, ma insufficienti, interventi dei giudici si è manifestata negli ultimi tempi una importante attenzione delle istituzioni locali. Una legge della Regione Abruzzo ha aperto la strada all’uso terapeutico della cannabis. Molte delibere comunali saffrontano temi importanti, dai testamenti biologici alle unioni civili, dalla cittadinanza “civica” dei figli degli immigrati alle garanzie per i detenuti (segnalo per la sua ampiezza il “pacchetto” del comune di Parma). A Bologna è stato approvato un regolamento per la collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura dei beni comuni. Iniziative simboliche in alcuni casi, ma sempre politicamente significative, perché volte a ricostruire, attraverso l’attenzione per i diritti e la partecipazione. i rapporti tra istituzioni e cittadini. La politica costituzionale si sta insediando nei luoghi della democrazia di prossimità?

Questa lezione può essere messa a frutto dal Parlamento in molti modi. Rafforzando il suo rapporto con i cittadini con semplici modifiche regolamentari che diano forza alle iniziative legislative popolari (e invece arrivano segnali timidi e inadeguati). Cogliendo tutte le occasioni per mettere in evidenza l’irriducibilità dei diritti fondamentali alla pura logica di mercato (un segnale eloquente è venuto dallo scandalo dei prezzi di farmaci prodotti da Roche e Novartis). Ricostituzionalizzando il diritto del lavoro con la cancellazione dell’articolo che consente negoziati in azienda anche in deroga alla legge, che azzera storiche garanzie, e approvando una legge sulla rappresentanza sulla linea indicata dalla Corte costituzionale. Solo così il Parlamento potrà recuperare un po’ della legittimazione perduta per il fatto d’essere stato eletto con una legge incostituzionale e per l’ormai radicata sfiducia dei cittadini.

«La crisi lavora a divi­dere. Ma un pen­siero di sini­stra dovrebbe essere in grado di acco­gliere le mille sfu­ma­ture cul­tu­rali, poli­ti­che e sociali che fanno della sini­stra l’unica voce cri­tica con­tro la deriva di un modello fal­li­men­tare che ormai si affida al mar­ke­ting poli­tico».

Il manifesto, 18 marzo 2014
La noti­zia è inso­lita e cla­mo­rosa. L’Arci, il gigante dell’associazionismo ita­liano, l’organizzazione ricrea­tiva e cul­tu­rale nata nel ’57, con 116 comi­tati pro­vin­ciali e un milione e cen­to­mila soci, dopo quat­tro giorni di con­fronto non è riu­scita a con­clu­dere i lavori del suo sedi­ce­simo con­gresso. Al momento di com­porre le diver­sità, tra un’anima legata alle case del popolo e ai cir­coli emi­liani e toscani e una sen­si­bi­lità più movi­men­ti­sta cre­sciuta nelle lotte sociali, molto al sud con­tro la cri­mi­na­lità, si è pre­fe­rito alzare ban­diera bianca e rin­viare tutto a un con­gresso bis. Nel frat­tempo l’associazione sarà gover­nata da un comi­tato di reg­genza diretto dal pre­si­dente uscente, Paolo Beni.

Nono­stante ci fos­sero tutti le avvi­sa­glie di un con­flitto, testi­mo­niato dalla sfida di due can­di­dati alla suc­ces­sione, tut­ta­via l’esito di una rot­tura ha colto di sor­presa chi fino all’ultimo aveva spe­rato in una pos­si­bile con­vi­venza delle dif­fe­renze. Per­ché così dovrebbe essere in una asso­cia­zione ricca di sto­ria, di espe­rienze sociali, di bat­ta­glie civili. Per­ché l’Arci non è un par­tito dove que­stioni di potere spesso fanno pre­mio sui con­te­nuti. Per­ché siamo in un momento di sban­da­mento forte della sini­stra, e la presa del potere di Renzi è lì a ricordarcelo.

Non essere riu­sciti nell’impresa di valo­riz­zare i diversi orien­ta­menti per farne la forza dell’associazione, per ren­derla più capace di coniu­gare la tra­di­zione, la soli­dità con i mili­tanti più vicini alle mobi­li­ta­zioni e ai momenti di lotta di que­sti anni di crisi (appunto l’obiettivo dif­fi­cile ma ambi­zioso del con­gresso), è un brutto segnale. Pur­troppo non l’unico a col­pire l’arcipelago della sini­stra in que­sto momento.

Abbiamo appena visto un esor­dio dif­fi­cile della Lista per Tsi­pras, alla quale pro­prio dall’Arci viene un soste­gno forte e capil­lare già nella rac­colta delle firme e nelle can­di­da­ture. E le cro­na­che di que­sto fine set­ti­mana rac­con­tano di scon­tri (anche fisici) per i pac­chetti di voti nelle urne delle pri­ma­rie degli orga­ni­smi peri­fe­rici del Pd (e in pro­spet­tiva per le can­di­da­ture alle pros­sime ele­zioni europee).

Nascon­dere o addol­cire la pil­lola non serve. Meglio guar­dare in fac­cia i nostri limiti e cer­care di trarne qual­che inse­gna­mento. Come fa, egre­gia­mente, uno spot che pub­bli­cizza la Lista per Tsi­pras. Un gruppo di ragazzi attorno al tavolo di un bar che ini­ziano bal­dan­zosi a rife­rire sulla buona rac­colta di firme ma che poi si ritro­vano a liti­gare per­ché cia­scuno pensa che il suo par­ti­cu­lare sia il solo, il vero, l’unico degno di essere rappresentato.

La crisi evi­den­te­mente lavora a divi­dere, social­mente innan­zi­tutto e quindi poli­ti­ca­mente. Ma un pen­siero di sini­stra dovrebbe esserne così con­sa­pe­vole da essere in grado di met­tere in campo tutti gli anti­corpi per neu­tra­liz­zare divi­sioni ideo­lo­gi­che che hanno perso da gran tempo la loro forza, per acco­gliere invece le mille sfu­ma­ture cul­tu­rali, poli­ti­che e sociali che fanno della sini­stra l’unica voce cri­tica con­tro la deriva di un modello fal­li­men­tare che ormai si affida al mar­ke­ting poli­tico come l’ultima ancora di con­senso. La crisi dovrebbe essere un’occasione di rin­no­va­mento, lo spec­chio in cui leg­gere gli errori, non l’alibi per raschiare il barile

Renzi e il lavoro: torniamo al bracciantato. Una chiara descrizione del

jobs act del presidente del Consiglio. La rottamazione dei valori fondanti della costituzione, di un secolo di lotte dei lavoratori, prosegue indisturbata, tra qualche mugugno e molte complicità. Dal "diario n. 252" dell'autore

Il governo Renzi, viene rappresentato come l’ultima spiaggia, lui stesso ne è convinto. Si tratta di un punto di vista che lo rafforza, non crede di potere trovare ostacoli e quindi osa.

Ha un’opinione pubblica favorevole, i critici di Renzi, non molti per la verità, si attaccano al suo stile, alle modalità comunicative, all’arroganza, perché non pare concreto (dove troverà le risorse?). Ma sono battuti dalla capacità di trovare slogan accattivanti, quello dei “dieci miliardi in tasca a dieci milioni di italiani” è un capolavoro comunicativo.

Ma se tralasciassimo quello che è un annunzio e ci si soffermasse su gli atti concreti mi sembra che sul quel poco ci sia tanto da dire. L‘unico atto concreto è quello sul lavoro, che mi pare non solo sbagliato in se stesso ma che disegni una società da rigettare. Dopo la riforma Fornero/Monti, non si pensava si potesse andare oltre, ma quella proposta da Renzi/Poletti ha fatto il miracolo.

Vediamo: i contratti a tempo determinato passano dalla durata di un anno a quella di tre anni; prima era possibile solo una proroga con dichiarazione della causale, ora si passa ad otto proroghe senza bisogna di dare spiegazioni sulle cause; prima tra un contratto e un altro dovevano passare 10-20 giorni, ora possono essere continuativi; in precedenza il numero dei contratti a tempo determinato doveva essere stabilito dai contratti collettivi, ora se il contratto collettivo non prevede il limite ci si assesta al 20% dell’organico.

Mi pare di poter dire che il mercato del lavoro viene disegnato sulle spalle dei contratti a termine, il contratto a tempo indeterminato riguarderà solamente l’organico di cui l’azienda non potrà fare a meno sul piano organizzativo e qualitativo, mentre il lavoro di routine, quello pesante, a bassa professionalità verrà assegnata a contratti a tempo determinato, lunghi tre anni nella migliore delle ipotesi, ma sempre insicuri, infatti possono essere interrotti a discrezione dell’azienda. Si può sottolineare che con questi contratti non è possibile che il lavoratore riesca a contrarre un mutuo per la casa, grave ma c’è di peggio. Sembra più grave la civiltà del lavoro che questi contratti delineano: precaria, marginale, sottomesso, ricattato. Non è questa la civiltà del lavoro che la sinistra, per quanto moderna, può accettare.

Se poi a questo capolavoro si aggiunge la parte dell’apprendistato siamo all’improntitudine: non c’è nessun impegno di assumere gli apprendisti, non è previsto un contratto (impegno) scritto, non c’è obbligo di una formazione teorica. L’apprendista è solamente carne da lavoro.

Insomma, non eravamo mai arrivati a fissare le regole secondo le quali l’impiego del lavoratore ricade sotto l’arbitrio del datore di lavoro. Su questa strada si può arrivare al contratto giornaliero, come quello dei braccianti meridionali sotto il caporalato.

I partiti e i populismi si dividono tra quanti non vogliono l'Europa e quantiu predicano l'austerity o l'hanno praticata. Gli italiani vogliono invece una Europa diversa. Solo la lista con Tsipras sembra esprimerli. Il manifesto, 16 marzo 2014

L’entusiasmo per l’Unione euro­pea è com­pren­si­bil­mente in calo per il modo ini­quo e con­tro­pro­du­cente in cui la si sta costruendo. Tut­ta­via, l’europeismo e la con­sa­pe­vo­lezza dei van­taggi dell’unificazione man­ten­gono radici più dif­fuse nei cit­ta­dini di quanto i poli­tici per­ce­pi­scono. Si è creato un ulte­riore carenza di rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica che la lista L’altra Europa con Tsi­pras potrebbe riempire.

Un recente son­dag­gio rea­liz­zato per la Com­mis­sione euro­pea (Euro­ba­ro­me­tro stan­dard 80) rivela che per il 74% degli ita­liani, i 28 stati dell’Unione dovreb­bero coo­pe­rare di più per risol­vere i pro­blemi che l’affliggono; il 65% ritiene che l’Italia non possa affron­tare da sola le sfide della glo­ba­liz­za­zione; il 53% è favo­re­vole all’Unione eco­no­mica e mone­ta­ria e il 50% crede che per il nostro paese non ci sia un futuro migliore fuori dall’Ue (con­tro il 30% che lo ritiene possibile).

Tut­ta­via una quota cre­scente di ita­liani, pas­sata dal 46% al 55%, pensa che l’Ue non stia andando nella giu­sta dire­zione ed è pes­si­mi­sta sul suo futuro; in par­ti­co­lare, essi riten­gono che la disoc­cu­pa­zione sia il prin­ci­pale pro­blema e (il 64%) che l’Ue, fau­trice delle poli­ti­che di rigore, non stia creando i pre­sup­po­sti per ridurla. In defi­ni­tiva, la mag­gio­ranza degli ita­liani è molto pre­oc­cu­pata per le poli­ti­che comu­ni­ta­rie e i loro effetti nega­tivi; tut­ta­via, riba­di­sce la sua con­vin­zione di fondo euro­pei­sta, la con­ve­nienza del nostro paese a pun­tare sull’Ue e la neces­sità di acce­le­rane la costru­zione, ma cam­biando il modo di realizzarla.

La que­stione su cui riflet­tere è che que­ste valu­ta­zioni lar­ga­mente dif­fuse tra gli ita­liani tro­vano una scar­sis­sima rap­pre­sen­tanza nelle forze poli­ti­che pre­senti nel nostro Par­la­mento.
Come è noto, Forza Ita­lia – che esprime circa il 25% dell’elettorato - ha posi­zioni tra­di­zio­nal­mente euro­scet­ti­che e il governo Ber­lu­sconi, non solo ha con­di­viso le poli­ti­che di rigore della Com­mis­sione euro­pea (che a parole cri­tica), ma è andato oltre, inse­rendo nella Costi­tu­zione il vin­colo del bilan­cio pub­blico in pareg­gio.
Nel Par­tito Demo­cra­tico — quasi il 30% degli elet­tori — le posi­zioni euro­pei­ste sono gene­ra­liz­zate, ma pur con inte­res­santi ecce­zioni pre­vale l’adesione con­for­mi­stica alla visione rigo­ri­sta comu­ni­ta­ria che giu­sta­mente pre­oc­cupa la mag­gio­ranza degli ita­liani. D’altra parte, le deci­sioni iper­rea­li­ste dei governi Ber­lu­sconi e Monti sono pas­sate in Par­la­mento con i voti deter­mi­nanti del Pd.
Grillo – le cui posi­zioni fanno testo per il Movi­mento 5 Stelle, che esprime il 20–25% dell’elettorato — vuole non solo uscire dall’Euro e dall’Ue, ma anche rom­pere l’unità d’Italia. I pic­coli par­titi di destra e di cen­tro — che arri­vano a circa il 15% — o sono con­trari all’Unione euro­pea (come Lega e Fra­telli d’Italia) o con­di­vi­dono le poli­ti­che di rigore (come Ncd e Udc).
E’ in que­sto qua­dro con­trad­dit­to­rio tra le posi­zioni dei cit­ta­dini e quelle delle forze poli­ti­che che stiamo andando alle ele­zioni euro­pee; è in esso che s’inserisce la nuova lista L’altra Europa con Tsi­pras. Essa si è costi­tuita per soste­nere nel Par­la­mento euro­peo un pro­gramma che rigetta la con­tro­pro­du­cente logica eco­no­mica del rigore; vuole cam­biare i trat­tati intrisi della logica che ha por­tato alla crisi e ne impe­di­sce la solu­zione; intende rilan­ciare la cre­scita e l’occupazione su basi social­mente ed eco­lo­gi­ca­mente accet­ta­bili; chiede per l’Ue isti­tu­zioni (anche eco­no­mi­che) demo­cra­ti­ca­mente rap­pre­sen­ta­tive, in grado d’interagire più effi­ca­ce­mente con i mer­cati e con­tra­starne le spe­cu­la­zioni che arric­chi­scono pochis­sime per­sone a danno dello svi­luppo com­ples­sivo.
La distanza tra le posi­zioni mag­gio­ri­ta­rie tra gli ita­liani (gli euro­pei) sull’Unione euro­pea e quelle euro­scet­ti­che o euro­con­for­mi­ste che pre­val­gono tra le forze poli­ti­che allarga il vuoto di rap­pre­sen­tanza democratica. L’altra Europa con Tsi­pras - che nasce rifiu­tando non la poli­tica, ma il suo distacco dalla società cau­sato da molti suoi «pro­fes­sio­ni­sti» - se non rica­drà in quelle pato­lo­gie, in nuove forme di auto­re­fe­ren­zia­lità, nella ripro­po­si­zione di logi­che mino­ri­ta­rie e per­so­na­li­smi, potrà col­mare quel vuoto.

Ricordando il passato, e un grande uomo che aveva conosciuto bene, il fondatore di Enrico Scalfari ridiviene leggibile.

La Repubblica, 16 marzo 2014. Riferimenti in calce

Comincio quest’articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.

Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest’anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.

La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco — l’ho già detto — è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati.

Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.

La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del ’77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel ’78, nell’80, nell’81, nell’83. Morì nel giugno dell’84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.

Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all’uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M’è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d’essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d’un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l’ideologia politica. (Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia.Oltre alle interviste su Repubblicaaccettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l’idea dell’“arco costituzionale” dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.

In quel dibattito, trasmesso su Rete4 che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull’altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d’allora erano altri tempi e altre persone.

Nel corso degli anni, dal 1977 all’84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l’Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l’Italia; il problema da lui sollevato della questione morale.

Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l’evoluzione fu comunque coerente.

Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all’Urss, al Pcus e al Cominform. «Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta».

Gli risposi che aveva ragione ma che l’uscita dal ghetto non sarebbe stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall’ideologia leninistastalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. «Hai ragione — rispose Ugo — ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo». Gli chiesi chi fosse il “miserabile” che avrebbe cercato di bloccare l’evoluzione democratica del Pci. «Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni». Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome.

Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s’innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.

***

Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l’evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall’intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell’occasione (l’avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare. Rispose così: «Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista». Mi pare - dissi io in quel punto - che voi rifiutate tutto di Lenin. «No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d’accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d’accordo».

Questo, gli dissi io, l’ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. «Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva “alla virtù individuale di un Principe” mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società».

Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell’intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La

questione morale era invece l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l’aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall’81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell’83. «Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell’articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l’esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l’infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev’essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge».

Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983). «Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l’indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d’una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo».

Ve l’aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent’anni fa, parlando d’un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medioalti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell’attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent’anni. Berlinguer, proprio trent’anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto “sovversivo”.

Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l’austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l’interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.

Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all’aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: «Se n’è andato l’ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà».

Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.

C’era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l’ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s’impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affatto un bel vedere.

Riferimenti

Numerosi scritti di Berlinguer e su Berlinguer sono inqueste cartelle del vecchio archivio di eddyburg
«A venticinque anni dalla nascita il web necessita di garanzie che lo mettano al riparo dalle violazioni alla sua libertà». Estratti dal saggio

Il mondo nella rete. Quali i diritti, quali i vincoli (Laterza) . La Repubblica, 15 marzo 2014

Internet, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, la rete che avvolge l’intero pianeta, non ha sovrano. Nel 1996, John Perry Barlow apriva così la sua Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio. Questa affermazione orgogliosa riflette il sentire di un mondo, di una sterminata platea in continua crescita fino agli attuali oltre due miliardi di persone, che si identifica con una invincibile natura di Internet, libertaria fino all’anarchia, coerente con il progetto di dar vita a una rete di comunicazione che nessuno potesse bloccare o controllare. Ma è pure un’affermazione che ha dovuto subire le dure repliche da una realtà nella quale non solo Internet è variamente oggetto di regolazione, ma soprattutto conosce violazioni continue di quello statuto di libertà che si riteneva poter essere affidato alla propria, esclusiva virtù salvifica.

Perciò è venuto il tempo non di regole costrittive, ma dell’opposto, di garanzie costituzionali per i diritti della rete e in rete. Ma il rafforzamento istituzionale della libertà in questa sua nuova dimensione non può valere solo contro l’invadenza degli Stati. Deve proiettarsi anche verso i nuovi «signori dell’informazione » che, attraverso le gigantesche raccolte di dati, governano le nostre vite. Proprio il modo d’essere di questi soggetti – si chiamino Amazon o Apple, Google o Microsoft, Facebook o Yahoo! – ci racconta una compresenza di opportunità per la libertà e la democrazia e di potere sovrano esercitato senza controllo sulle vite di tutti. Non un Giano bifronte, però, ma un intreccio che può essere sciolto solo da una iniziativa «costituzionale » anch’essa nuova, che trovi proprio nella rete le sue modalità di costruzione.

Un esempio può essere ritrovato nella vicenda dell’Internet Bill of Rights, una proposta maturata all’interno delle iniziative dell’Onu sulla società dell’informazione e che si è venuta consolidando attraverso il lavoro di diversi gruppi, dynamic coalitions spontanee e informali che hanno poi trovato forme di unificazione e metodi comuni, che si sono manifestati negli Internet Governance Forum promossi in questi anni proprio dall’Onu. La scelta dell’antica formula del Bill of Rights ha forza simbolica, mette in evidenza che non si vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire. Per questo servono garanzie «costituzionali».

Ma, conformemente alla natura della rete, il riconoscimento di principi e diritti non può essere calato dall’alto. Deve essere il risultato di un processo, di una partecipazione larga di una molteplicità di soggetti che possono intervenire in modo attivo, grazie soprattutto a una tecnologia che mette tutti e ciascuno in grado di formulare progetti, di metterli a confronto, di modificarli, in definitiva di sottoporli a un controllo e a una elaborazione comuni, di trasferire nel settore della regolazione giuridica forme e procedure tipiche del «metodo wiki», dunque con progressivi aggiustamenti e messe a punto dei testi proposti.

Siamo così al di là di un altro schema tradizionale, che contrappone percorsi bottom- up a quelli top- down. Si instaurano relazioni tra pari, la costruzione diviene orizzontale. Nel corso di questo processo si potrà approdare a risultati parziali, all’integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina; a normative comuni per singole aree del mondo, come dimostra l’Unione europea, la regione del pianeta dove più intensa è la tutela di questi diritti; e come potrebbe avvenire per materie dove già è stata raggiunta una maturità culturale e istituzionale, come quella della protezione dei dati personali.

Le obiezioni tradizionali – chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? – appartengono al passato, non si rendono conto che «la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale», come ha scritto Antonio Cassese. Tutto questo accade in un contesto in cui le istituzioni tradizionali non vengono tagliate fuori, ma contribuiscono a una impresa di rinnovamento che, al tempo stesso, può mutare e rafforzare il loro ruolo. L’Onu si presenta come punto di riferimento per un mondo che si struttura proprio per cogliere una occasione da essa offerta. Il Parlamento europeo prende atto di una iniziativa non istituzionalizzata, e fa esplicito riferimento all’Internet Bill of Rights in una risoluzione del 2011. Stiamo entrando in una dimensione difficilmente descrivibile con i tradizionali concetti della modernità politica, a cominciare appunto da quelli di Stato e di democrazia rappresentativa. Ma questa transizione non ci assicura che il suo esito sia quello dell’entrata nella postdemocrazia.

Entriamo nella dimensione dell’inedito, e proprio perché si tratta di un processo inedito, non si può valutarlo con i criteri del passato, né attribuire una sorta di autoevidenza a qualsiasi vicenda che ci accada di registrare. Cimentarsi con il problema del modo complessivo in cui la tecnologia incontra il tema delle libertà e istituisce lo spazio politico, significa proprio fare i conti con processi reali. E proprio riflettendo su Internet possono essere individuate le vie di un costituzionalismo globale possibile, non affidato a norme sovrastatuali incorporate nei diritti statuali. Vale a dire, una costruzione del diritto per espansione, orizzontale, un insieme di ordini giuridici correlati, non punto d’arrivo, ma strutturati in modo da sostenere la sfida di un tempo sempre mutevole, quasi una costituzione infinita. ©

Ecco da dove si potrebbero attingere i soldi necessari per finanziare un poderoso "piano del lavoro, rispettando la Costituzione, riducendo gli armamenti e rendendo progressive le tasse.

Il manifesto, 14 luglio 2014

Sull’home page di un impor­tante quo­ti­diano nazio­nale, per tutta la gior­nata di mer­co­ledì, si ripor­tava la noti­zia che i prov­ve­di­menti di Renzi sareb­bero stati signi­fi­ca­ti­va­mente coperti in que­sto modo: ridu­zione di 1,5 miliardi (per 10 anni per un totale di 15 miliardi) della spesa mili­tare, dimez­za­mento degli F35 (da 90 a 45), ces­sione di una por­tae­rei. Altri gior­nali e agen­zie ripor­ta­vano anti­ci­pa­zioni simili. Alla Camera, depu­tati e espo­nenti del governo avva­lo­ra­vano que­sta ipo­tesi. Qual­cuno aveva per­sino par­lato di una tele­fo­nata tra Renzi e Obama durante la quale il nostro pre­si­dente del con­si­glio avrebbe spie­gato i motivi della ridu­zione dell’acquisto degli F35.

È evi­dente che que­ste noti­zie non sono state inven­tate e non sono il frutto di una «leg­genda metro­po­li­tana»: se sono cir­co­late il tema era evi­den­te­mente all’ordine del giorno. Più che una resi­stenza del Dipar­ti­mento di Stato ame­ri­cano, sem­bra che il vero osta­colo sia stato posto dai ver­tici delle forze armate, dalla mini­stra della Difesa e dal pre­si­dente della Repub­blica. Non sem­bra certo casuale che nel momento in cui si discu­teva di tagliare le spese mili­tari per finan­ziare il taglio dell’Irpef, pro­prio nello stesso giorno, il pre­si­dente Napo­li­tano con­vo­cava il Con­si­glio Supremo di Difesa (per il pros­simo 19 marzo) con all’ordine del giorno, tra gli altri punti, la «cri­ti­cità rela­tive all’attuazione della legge 244 di riforma ed impatto sulla difesa del pro­cesso di revi­sione della spesa pub­blica in corso».

La legge 244 (una legge delega appro­vata alla fine della scorsa legi­sla­tura con i decreti di attua­zione da poco emessi) è la riforma dello stru­mento mili­tare in cui, tra l’altro, si pre­vede un par­ziale con­trollo perio­dico del par­la­mento sulle scelte rela­tive ai sistemi d’arma, anche gli F35. E tra l’altro la Com­mis­sione Difesa ha uti­liz­zato il dispo­si­tivo della legge 244 per valu­tare l’efficacia e la vali­dità di que­sto sistema d’arma: tra pochi giorni la Com­mis­sione con­clu­derà i suoi lavo­ra­tori e ci farà sapere a quali con­clu­sioni è giunta. Il mes­sag­gio della con­vo­ca­zione — allar­mata — del Con­si­glio Supremo di Difesa è chiaro: uno stop a ogni ipo­tesi di ridu­zione delle spese mili­tari (e a Renzi) e la richie­sta di supe­rare le «cri­ti­cità della legge 244» che impone risparmi alle Forze Armate.

Quindi, i cac­cia­bom­bar­dieri riman­gono quelli — 90 — e sem­pre 14 miliardi dovremo spen­dere nei pros­simi anni per acqui­starli e pro­durli. In più, ieri il Par­la­mento ha votato la pro­roga delle mis­sioni mili­tari all’estero: 600 milioni di costi, altro che ridu­zione delle spese militari.

Come ha più volte ricor­dato la cam­pa­gna Sbi­lan­cia­moci ccArri­viamo a circa 20 miliardi con i quali finan­ziare — oltre che il taglio delle tasse sul lavoro — anche un vero piano del lavoro o misure di red­dito di cit­ta­di­nanza. Tutto que­sto avrebbe un signi­fi­cato sostan­ziale vera­mente impor­tante: per la prima volta si taglie­reb­bero in modo sostan­ziale le spese mili­tari e non la sanità e le pen­sioni. Sarebbe stata la «svolta buona», ma sarà per un’altra volta.

«Rivoltare come un calzino la legge elettorale è necessario ma non basta. È la prospettiva politica del renzismo che va combattuta ritrovando un’autonomia di deputati e senatori per contrastare una presa del potere che prepara un altro ventennio».

Il manifesto, 15 marzo 2014

Si gioca in Ita­lia in que­sti giorni una dop­pia par­tita. La prima riguarda il con­so­li­da­mento poli­tico e di governo dell’operazione Renzi; la seconda il destino di una pro­spet­tiva rifor­ma­trice seria nel nostro paese, affi­data finora, con alti e bassi di varia natura, e tal­volta peri­co­losi cedi­menti ed equi­voci, — ma affi­data comun­que, — alle buone sorti del Pd. Se Renzi vince la prima, la seconda verrà scon­fitta, per un periodo pre­su­mi­bil­mente incalcolabile.

Quel che è uscito finora dal cap­pello di pre­sti­gia­tore dell’attuale segre­ta­rio Pd-presidente del con­si­glio è poco, con­fuso, con­trad­dit­to­rio, tal­volta incon­si­stente, spesso ine­si­stente, ma ine­qui­vo­ca­bil­mente decla­ma­to­rio e incon­fon­di­bil­mente pubblicitario.

Alcuni punti fermi. L’Italicum fonda le sue for­tune sull’asse con Sil­vio Ber­lu­sconi. Il che di per sé farebbe rab­bri­vi­dire, ma non c’è solo que­sto. Ha attra­ver­sato per un pelo i voti della Camera dei depu­tati. Lo scon­tro sulle “quote rosa” ha rima­ni­fe­stato di colpo l’esistenza sot­ter­ra­nea di un par­tito dei 101, più fedele a Renzi che al pro­prio par­tito e ai pro­grammi elet­to­rali sui quali que­sto si era con­qui­stato bene o male una mag­gio­ranza nell’ultimo voto. Restano, con le “quote rosa”, que­stioni tutt’altro che irri­le­vanti come quelle delle pre­fe­renze, delle soglie di sbar­ra­mento, delle alleanze e del pre­mio fuori misura allo sti­rac­chiato vin­ci­tore. Allo stato attuale delle cose è lecito pre­ve­dere, in caso di appro­va­zione, il rapido tran­sito alla Corte costi­tu­zio­nale per un sospetto, appunto, d’incostituzionalità (Azza­riti, Vil­lone, ripe­tu­ta­mente su que­ste colonne; ma anche su altri gior­nali il discorso cri­tico ha comin­ciato ad affacciarsi).

Dal punto di vista eco­no­mico, abbiamo tutto e il con­tra­rio di tutto: i dieci milioni di sgravi fiscali per i lavo­ra­tori dipen­denti più col­piti dalla crisi; e la pre­ca­riz­za­zione illi­mi­tata e defi­ni­tiva del mer­cato del lavoro (Alleva, il mani­fe­sto, 14 marzo). Ma soprat­tutto pende sulla mano­vra l’incertezza sulle sue fonti. Nes­suno sa, né il pre­si­dente del con­si­glio finora lo ha detto, a quali voci attin­gere per ren­dere reale la sua mira­bo­lante pro­spet­tiva (Fubini, la Repub­blica 13 marzo; Pen­nac­chi, l’Unità, 14 marzo).

Quel che Renzi offre al paese è un com­po­sto ibrido di posi­zioni, affer­ma­zioni, sug­ge­stioni e sol­le­ci­ta­zioni, di cui non è più suf­fi­ciente dire che non è più né di destra né di sini­stra, e nean­che di cen­tro, almeno nel senso tra­di­zio­nale del ter­mine, ma una nuova posi­zione politico-ideologica in cui può entrare di volta in volta tutto, pur­ché con­flui­sca a bene­fi­ciare il più pos­si­bile il pre­sti­gio e la for­tuna del Capo (o Capetto che dir si voglia).

Ade­rire alla pro­spet­tiva di Renzi non signi­fica dun­que sol­tanto rinun­ciare a una pro­spet­tiva e a una poli­tica di sini­stra; signi­fica rinun­ciare a una pro­spet­tiva “poli­tica”, se per poli­tica s’intende, e con­ti­nua a inten­dersi, come si è sem­pre inteso nella tra­di­zione poli­tica occi­den­tale (mica i Soviet, per inten­derci) un cor­retto, lim­pido e dichia­rato rap­porto tra valori, prassi e obbiet­tivi da rag­giun­gere (e, cir­co­lar­mente, viceversa).

Così facendo, Renzi si affianca, con la mag­gior verve che la gio­vane età e una natura esu­be­rante gli con­sen­tono, a quelli che, come ho avuto occa­sione di dire in un pre­ce­dente arti­colo, non sono più i suoi avver­sari ma i suoi con­cor­renti. Il popu­li­smo gli è, per­sino più che negli altri due, impresso nella sua stessa matrice gene­tica. Renzi vola, dal comune di Firenze alla segre­te­ria del Pd e di qui alla pre­si­denza del con­si­glio, in virtù di un’investitura (le pri­ma­rie dell’8 dicem­bre 2013) che non ha, mi ver­rebbe voglia di dire, nes­suna legit­ti­mità costi­tu­zio­nale. Non è dif­fi­cile ora arri­vare alla pre­vi­sione che, se fosse neces­sa­rio, non solo nel campo delle riforme ma nel campo di tutto, sarebbe dispo­ni­bile a fare, come ha già fatto, alleanze, espli­cite o sot­ter­ra­nee, con tutti.

Se le cose stanno così, - mi rendo conto, natu­ral­mente, che si potrebbe discu­tere a lungo di que­ste estre­mi­sti­che pre­messe, - biso­gna fer­mare Renzi prima che sia troppo tardi.

Non tanto per con­sen­tire la ripresa, anzi, la revi­vi­scenza, di una pro­spet­tiva poli­tica di sini­stra nel nostro paese, la quale, se cova ancora fra noi, come io penso, verrà fuori a suo tempo; quanto per con­sen­tire la ripresa di un libero, effet­tivo gioco poli­tico tra forze diverse, anche oppo­ste, tal­volta per­sino dia­lo­ganti e reci­pro­ca­mente inter­con­net­ten­tisi, ma dotate cia­scuna di un pro­prio regi­stro iden­ti­ta­rio, con il quale, orga­niz­za­ti­va­mente ed elet­to­ral­mente, iden­ti­fi­carsi o distin­guersi. Tutto ciò, mi rendo conto, non è facile. Soprat­tutto c’è poco, anzi quasi nes­sun tempo per farlo.

La prima sca­denza pos­si­bile è il dibat­tito in Senato sulla legge elet­to­rale. Biso­gna rivol­tare come un cal­zino il testo che arriva dalla Camera e, come dire, costi­tu­zio­na­liz­zarlo fino in fondo. Sui punti pre­ce­den­te­mente elen­cati sono stati assunti impe­gni pre­cisi (Ber­sani e altri). Vedremo cosa ne verrà fuori.

Ma non basta. Ha col­pito, nei mesi che ci sepa­rano dall’insediamento di Renzi alla segre­te­ria del Pd, e dalla sua pres­so­ché totale con­qui­sta della dire­zione di quel par­tito, come frutto anch’esso auto­ma­tico, delle pri­ma­rie del dicem­bre 2013, la subal­ter­nità, anzi, in nume­rose occa­sioni, la supi­nità della cosid­detta mino­ranza interna del Pd, la quale rap­pre­sen­tava tut­ta­via ancora a quella data quasi la metà degli iscritti al Partito.

Tor­niamo alle pre­messe del mio discorso. Se que­sta subal­ter­nità, o supi­nità, con­ti­nuano anche durante que­sta fase nella mar­cia di avvi­ci­na­mento di Renzi ad una gestione ormai non più discu­ti­bile del potere, non ci saranno altre occa­sioni nel corso, appros­si­ma­ti­va­mente, dei pros­simi dieci anni. Biso­gne­rebbe dun­que agire subito, e costi­tuire, tutti gli eletti Pd che intrav­ve­dono il rischio mor­tale con­te­nuto in tale pro­spet­tiva, gruppi par­la­men­tari auto­nomi, distinti da quelli ren­ziani, — e poten­zial­mente più con­si­stenti di que­sti, — per rove­sciare, nella chia­rezza della nuova situa­zione, lo svol­gi­mento nega­tivo, anzi cata­stro­fico, delle pre­messe poste alla base del mio discorso. Per impe­dire a Renzi di con­qui­stare una gestione illi­mi­tata del potere, si dovreb­bero recu­pe­rare ora, subito e soli­da­mente, e cioè con un pre­ciso e indi­scu­ti­bile atto for­male, le con­di­zioni di una pro­spet­tiva rifor­ma­trice seria nel nostro paese.

Non si tratta di una seces­sione. Anzi. Si tratta di rista­bi­lire un giu­sto equi­li­brio fra l’espressione che c’è stata del voto elet­to­rale e l’uso che ora ne vien fatto. Depu­tati e sena­tori del Pd sono stati eletti sulla base di un diverso pro­gramma poli­tico, con obiet­tivi diversi, una diversa lea­der­ship, una diversa dina­mica delle scelte da assu­mere. Devono sem­pli­ce­mente far rie­mer­gere quel che le pri­ma­rie di par­tito del dicem­bre 2013 sem­bre­reb­bero aver inna­tu­ral­mente sep­pel­lito. Se mai saranno gli altri a pro­te­stare e a ten­tare di farsi valere. Ma non dovrebbe pre­va­lere l’opinione di un gruppo su quella di milioni di elettori.

Con­se­guenze pos­si­bili (pos­si­bili, ripeto, solo se l’andamento del pro­cesso viene rove­sciato, e rove­sciato ora): ricon­qui­stare - e rifare - que­sto par­tito. E cam­biare la com­po­si­zione par­ti­tica che sta attual­mente alla base della mag­gio­ranza par­la­men­tare che regge que­sto governo. Se que­sta com­po­si­zione cam­bia, pos­sono aprirsi sce­nari per ulte­riori cam­bia­menti. Se que­ste pos­si­bi­lità ven­gono espe­rite fino in fondo, non è per niente detto che il governo, cioè l’Italia - iden­ti­fi­ca­zione que­sta che viene con­ti­nua­mente ed enfa­ti­ca­mente ripe­tuta, ma che andrebbe quanto meno discussa - vadano a carte qua­ran­totto. Magari ne viene fuori lo stesso governo, ma diverso. Oppure un governo tutto diverso. E magari più forte. E più cre­di­bile, anche a livello euro­peo. Quel che è asso­lu­ta­mente certo è che restare immo­bili e indi­fesi den­tro la mano­vra ren­ziana, rap­pre­senta la morte, non solo per il governo, non solo per il Pd, non solo per i gruppi par­la­men­tari del Pd, ma anche e soprat­tutto, que­sta volta sì, per l’Italia

Sotto accusa gli attuali dirigenti dell’Unione europea per crimini contro l’umanità e contro l’economia: distruggere il welfare mediante

l'austerity aumenta la miseria e la morte e non risana l'economia. La Repubblica, 15 marzo 2014
A fine 2012 un gruppo di giornalisti e politici greci presentava alla corte penale internazionale dell’aja una denuncia per sospetti crimini contro l’umanità a carico del presidente della commissione europea (Barroso), della direttrice del fmi (Lagarde), del presidente del consiglio europeo (Van Rompuy), nonché della cancelliera Merkel e del suo ministro delle finanze Schäuble. A sua volta un’attivista tedesca nel campo dei diritti umani, Sarah Luzia Hassel, appoggiava la denuncia con una documentatissima relazione circa le azioni compiute dalle citate istituzioni a danno sia della Grecia che di altri paesi, europei e no. Tutte azioni suscettibili di venir configurate addirittura come crimini contro l’umanità ai sensi dell’articolo 7 dello statuto di Roma della Corte penale dell’Aja. Si va dalla liquidazione della sanità pubblica alle politiche agricole che hanno affamato milioni di persone; dalla salvaguardia del sistema finanziario a danno dei cittadini ordinari alle ristrette élite che influenzano le decisioni delle istituzioni stesse, sino agli interventi nel campo del lavoro e della previdenza atti a ledere basilari diritti umani. Un altro documento ancora che accusa i vertici UE di gravi forme d’illegalità, simili a quelle testé indicate ma senza etichettarle come crimini contro l’umanità, è stato pubblicato a fine 2013 dal Centro studi di politiche del diritto europeo di Brema, su richiesta della Camera del lavoro di Vienna.

Per quanto è dato sapere i documenti citati sopra giacciono tuttora nei cassetti dei destinatari. Di recente sono però intervenuti fatti nuovi che potrebbero indurre qualche ong o formazione politica a rilanciare le citate denunce. Si veda il rapporto uscito a fine febbraio su Lancet, numero uno delle riviste mediche, circa i danni che sta infliggendo alla popolazione la crisi della sanità in grecia per via delle misure di austerità imposte dalle istituzioni ue. Chi soffre di cancro non riesce più a procurarsi le medicine necessarie, divenute troppo costose. La quota di bambini a rischio povertà supera il 30 per cento. Sono ricomparse, dopo quarant’anni, malaria e tubercolosi. I suicidi sono aumentati del 45 per cento. Chi fa uso di droga non dispone più di siringhe sterili distribuite dal sistema sanitario, per cui utilizza più volte la stessa siringa. Risultato: i casi di infezione HIV rilevati sono passati da 15 nel 2009 a 484 nel 2012.

Un secondo fatto nuovo è che l’Italia, insieme con Spagna, Portogallo e Irlanda, appare avviata sulla stessa strada della Grecia. Anche da noi i tempi di attesa per le visite specialistiche si sono allungati sovente di molti mesi perché i medici che vanno in pensione non sono rimpiazzati. Molti rinviano o rinunciano a visite mediche o esami clinici perché i ticket hanno subito forti aumenti e non riescono più a pagarli. Coloro che vanno in un laboratorio convenzionato si sentono dire che se scelgono la tariffa privata spendono meno del ticket. Molte famiglie non riescono più a mandare i bimbi all’asilo o alla scuola materna perché i posti sono stati ridotti, o la retta è aumentata al punto che non possono farvi fronte.

L’intera questione si può quindi riassumere in questo modo: le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli stati membri dai vertici ue, ovvero dalla cosiddetta troika (bce, fmi e commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. Come si legge nel rapporto di Lancet, “se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute potrebbero essere un prezzo che val la pena di pagare. Per contro, i profondi tagli hanno avuto in realtà effetti economici negativi, come ha riconosciuto [perfino] il FMI”. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna, Portogallo, la disoccupazione e l’occupazione precaria hanno toccato livelli altissimi. Il PIL ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori, quali la deflazione, ossia una forte caduta del livello dei prezzi in molti settori, la domanda aggregata stagnante, più una crescita del PIL che nei prossimi anni continuerà a registrare tassi dell’1 per cento o meno, sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro.

In altre parole, non soltanto i vertici UE hanno dato prova, con le politiche economiche e sociali che hanno imposto, di una scandalosa indifferenza per le persone che vi erano soggette: dette politiche si sono pure dimostrate clamorosamente sbagliate. La questione presenta alcuni punti di contatto con la crisi finanziaria esplosa nel 2008. Allora diversi giuristi americani ed europei parlarono di “crimini economici contro l’umanità”, commessi dai dirigenti dei maggiori gruppi finanziari. Ma il caso odierno della ue presenta una differenza abissale. Nel caso della crisi finanziaria gli attori erano soggetti privati. Nel caso della crisi europea si tratta dei massimi esponenti della dirigenza pubblica della UE, cui è stato affidato l’oneroso impegno di presiedere ai destini di 450 milioni di persone ai tempi della crisi. Nello svolgere detto impegno essi hanno mostrato anzitutto una clamorosa incompetenza della gestione della crisi; hanno scelto di favorire gli interessi dei grandi gruppi finanziari andando contro agli interessi vitali delle popolazioni ue; hanno dato largo ascolto alle maggiori élite europee, e in più di un caso ne fanno parte; hanno mostrato di non tenere in alcun conto le sorti delle persone cui si dirigevano le loro politiche. È mai possibile che non siano chiamate a rispondere per nulla delle illegalità non meno che degli errori che hanno commesso, e delle sofferenze che hanno causato con l’indifferenza se non addirittura il disprezzo dimostrato verso le popolazioni colpite?

Stando al documento di Brema, le violazioni dei diritti umani compiute dai vertici UE, in spregio agli stessi trattati dell’Unione, potrebbero essere portate davanti a varie corti e istituzioni europee, nonché davanti a organizzazioni internazionali quali l’ONU e l’Organizzazione internazionale del lavoro. Senza dimenticare che di crimini e illegalità della UE parlano anche in modo sbrigativo i partiti nazionalisti, ma con una radicale differenza rispetto alle iniziative sopra citate: mediante tali accuse essi vogliono distruggere la UE, mentre lo scopo dovrebbe essere quello di cacciare gli attuali dirigenti della troika e sostituirli con altri, dopo aver proceduto a una approfondita revisione del trattati europei. Mediante la quale si ribadisca sin dall’inizio che nel loro stesso interesse costitutivo, come scrivono i giuristi di Brema, le istituzioni europee debbono prendere sul serio le questioni sociali esistenziali delle cittadine e dei cittadini dell’unione. Non esiste stato di eccezione che possa esentarle da tale dovere, come invece esse stanno facendo con le politiche di austerità.

Nessun taglio, diversamente da quanto annunciato, ai cacciabombardieri F35 americani. Il governo italiano è intenzionato ad andare avanti, nonostante i costi e nonostante le denunce, da parte degli Usa, di numerosi problemi tecnici. Con la spesa in bilancio nel 2014 si potevano mettere in sicurezza 1500 scuole.

wwwSbilancialoci.info, newsletter, 14 marzo 2014

Matteo Renzi si è accorto che tra i tagli possibili ci sono i cacciabombardieri F35 americani. Ma l'annuncio, come nel suo stile, è durato lo spazio di una dichiarazione. Nessun pericolo per la Lockheed Martin e per i generali italiani. Eppure gli F35 sono la sintesi di tutti gli errori possibili, d'Italia e d'Europa. Con la spesa in bilancio nel 2014 si potevano mettere in sicurezza 1500 scuole. Hanno costi enormi e gli stessi vertici Usa ne denunciano i problemi tecnici non risolti. Sono già stati cancellati o ridimensionati da vari paesi, ma l'Italia è determinata ad andare avanti. Riflettono il monopolio militare americano e il fallimento dell'integrazione europea nella difesa. Mettono l'integrazione delle armi in ambito Nato davanti a quella europea.

L'Europa è sempre più "nano politico", ma le sue armi continuano a crescere, al servizio del potere americano, degli interessi geopolitici dei paesi più ambiziosi – Francia e Gran Bretagna innanzi tutto, le due potenze nucleari del continente – e degli apparati militari-industriali di ciascun paese.

Il "nano politico" si è visto all'opera in Ucraina: subalterno alle ambizioni della Nato, con una politica estera ridotta agli accordi commerciali, ma trascinato poi – era già avvenuto nell'ex-Jugoslavia – nei conflitti innescati da frammentazione politica, declino economico e nazionalismi. Ancora peggio è andata in Siria o in Libia: divisioni europee, pressioni sbagliate per interventi militari, nessuna soluzione politica capace di costruire stabilità e democrazia.

Manca – in Europa come in Italia – la politica: l'idea che la sicurezza possa essere assicurata non dalle armi ma dalle relazioni politiche, economiche e sociali tra diversi – tra stati e all'interno degli stati.

Incapace di accrescere la sua statura politica, il "nano" si arma: l'industria militare ha risentito meno di altre della crisi, le esportazioni verso i conflitti del sud del mondo continuano a crescere, nel suo momento più drammatico la Grecia, che stava tagliando tutto, ha confermato l'acquisto dalla Germania di inutili sottomarini militari. Così vediamo una spesa militare che quasi ovunque non è stata fermata dall'austerità: in Italia si stabilizza mentre cadono le spese sociali, le missioni militari all'estero – nuova vocazione nazionale – si moltiplicano, alla ricerca di ruolo internazionale e nuovi affari. Intanto, nei paesi emergenti la tentazione delle armi si diffonde, il sistema militare si rafforza e con esso instabilità e conflitti.

Un'alternativa all'impotenza della politica e al potere del complesso militare-indistriale c'è: una politica più disarmata e più capace di affrontare i conflitti. Al posto degli F35 ci vogliono corpi di pace e servizio civile europeo. Al posto della liberalizzazione commerciale, accordi per sostenere uno sviluppo sostenibile nei paesi vicini all'Europa, all'est come nel Mediterraneo e in Africa. Al posto del cortocircuito mediatico tra poteri autoritari e conflitti violenti, la pratica di più democrazia.

Il manifesto, 14 marzo
Piano casa. Mutare in «alloggi sociali» ogni edificio esistente o in corso di realizzazione, non risolverà la crisi abitativa perché chi versa in grave disagio non potrà mai accedere a questo segmento di mercato. Si consente soltanto alla speculazione immobiliare di liberarsi di un immenso patrimonio invenduto
Si chiama «Misure urgenti per l’emergenza abi­ta­tiva» il decreto legge sulla casa appro­vato dal governo Renzi. Nella rela­zione di accom­pa­gna­mento si parla a più riprese della grave crisi della casa: fami­glie che non rie­scono a pagare l’affitto e gio­vani senza pro­spet­tive di futuro, e cioè le vit­time prin­ci­pali delle poli­ti­che abi­ta­tive che da venti anni ven­gono appli­care come un dogma. Poli­ti­che soste­nute da un forte tasso di reto­rica: solo l’iniziativa pri­vata, si disse, è in grado di risol­vere il pro­blema della casa. A venti anni di distanza devono inter­ve­nire sull’emergenza a dimo­stra­zione del fal­li­mento delle ricette libe­ri­ste. Ma qui come in altri set­tori, l’ideologia ancora domi­nante non cerca con one­stà intel­let­tuale di fare i conti con il fal­li­mento. Pre­tende di risol­verlo aumen­tando la dose della cura: ad esem­pio si incre­menta la ven­dita del patri­mo­nio immo­bi­liare pub­blico (art. 3), ma il cuore del decreto sta nel quinto comma dell’articolo 11, elo­quente esem­pio di come si tenti di sfrut­tare le sof­fe­renze sociali per mise­ra­bili tornaconti.

In quell’articolo si parla della volontà di incre­men­tare gli «alloggi sociali» che in una delle tante leggi di pri­va­tiz­za­zione (Dm 2.4.2008) ven­gono defi­niti quelli «rea­liz­zati o recu­pe­rati da ope­ra­tori pub­blici e pri­vati, con il ricorso a con­tri­buti o age­vo­la­zioni pub­bli­che quali esen­zioni fiscali, asse­gna­zione di aree od immo­bili, fondi di garan­zia, age­vo­la­zioni di tipo urba­ni­stico». Abi­ta­zioni pri­vate a canone con­cor­dato, dun­que, che si col­lo­cano pur sem­pre all’interno del «mer­cato». Il decreto Renzi afferma che si pos­sono rea­liz­zare «case sociali» sul patri­mo­nio esi­stente attra­verso demo­li­zione e rico­stru­zione e cam­bio di desti­na­zione d’uso, men­tre al comma quat­tro dice che que­ste poli­ti­che si appli­cano anche agli alloggi in costru­zione o «AC150» addi­rit­tura — alle con­ven­zioni urba­ni­sti­che in itinere.

Vediamo di orien­tarci. Oggi il mer­cato abi­ta­tivo è pres­so­chè fermo per eccesso di offerta e il mer­cato degli uffici lan­gue per man­canza di domanda. Con quell’articolo si per­mette di mutare in «alloggi sociali» ogni edi­fi­cio esi­stente o in corso di rea­liz­za­zione, otte­nendo per­fino age­vo­la­zioni pro­ce­du­rali, finan­zia­menti pub­blici e age­vo­la­zioni fiscali (art. 6 e 9). In que­sto modo non si risol­verà l’emergenza abi­ta­tiva per­ché chi versa in grave disa­gio eco­no­mico e sociale non potrà mai acce­dere a que­sto seg­mento di mer­cato: si con­sente sol­tanto alla spe­cu­la­zione immo­bi­liare di libe­rarsi di un immenso patri­mo­nio invenduto.

I sapienti esten­sori del decreto si acca­ni­scono poi in modo inde­gno pro­prio con­tro i teo­rici desti­na­tari della legge. In que­sti anni non sono state costruite case pub­bli­che e l’unico stru­mento a dispo­si­zione delle fami­glie povere e dei gio­vani è stato l’occupazione di edi­fici abban­do­nati. Gesti dolo­rosi per chi le pra­tica con­dan­nato a una pre­ca­rietà senza pro­spet­tive. Ebbene, all’articolo 5 si dice che gli occu­panti non pos­sono avere la resi­denza l’allaccio dell’acqua o della luce. Chi non ha red­dito non ha diritto di lavarsi o di far stu­diare i pro­pri bam­bini con una lam­pa­dina accesa. Que­sto atteg­gia­mento cul­tu­rale che in altri tempi sarebbe stato bol­lato di odio sociale viene giu­sti­fi­cato nella rela­zione con «l’esigenza del ripri­stino della lega­lità». Ottimo sen­ti­mento che sarebbe forse oppor­tuno indi­riz­zare nel ripri­stino delle san­zioni sul falso in bilan­cio, reato ben più grave delle occu­pa­zioni di necessità.

Nel 1903 l’approvazione dello straor­di­na­rio prin­ci­pio delle case popo­lari fu merito di Luigi Luz­zatti, espo­nente di spicco della destra sto­rica ita­liana. Pur essendo eco­no­mi­sta e fon­da­tore di ban­che, scri­veva che solo la mano pub­blica era in grado di risol­vere il pro­blema delle abi­ta­zioni per i ceti poveri. Ma era appunto un eco­no­mi­sta libe­rale non un fame­lico spe­cu­la­tore neo­li­be­ri­sta come coloro che hanno ispi­rato e scritto la legge. Sul Pre­si­dente del con­si­glio è infine meglio tacere: temiamo che non rie­sca nep­pure a com­pren­dere l’urgenza di met­tere mano ad un orga­nico prov­ve­di­mento legi­sla­tivo che inverta il fal­li­men­tare ven­ten­nio libe­ri­sta ad ini­ziare dalle poste di bilan­cio ferme a pochi spic­cioli. Renzi con­ti­nua con «non ci sono i soldi» e «tanto ci pensa il privato».

Se vuoi la guerra prepara la guerra. Il capo dello Stato ha inserito tra i punti all'ordine del giorno del prossimo Consiglio supremo di difesa le "criticità relative all'attuazione della Legge 244", che assicura ai parlamentari il potere di controllo sulle spese militari.

Il Fatto quotidiano, 14 marzo 2014

Giorgio Napolitano prepara un nuovo colpo di mano a difesa degli F35, rischiando di scatenare un grave scontro istituzionale con il Parlamento. Dopo le insistenti voci circolate nei giorni scorsi sul possibile taglio all’acquisito dei cacciabombardieri americani per recuperare risorse finanziarie da destinare al “Piano Renzi” (voci che hanno fatto molto innervosire i nostri generali e gli americani), il presidente della Repubblica ha convocato per mercoledì prossimo il Consiglio supremo di difesa mettendo all’ordine del giorno le “criticità relative all’attuazione della Legge 244″. Tradotto: non è il caso che il Parlamento, come previsto da quella legge approvata nel 2012, abbia potere di controllo sulle spese della Difesa.

Questo diktat presidenziale era già calato lo scorso luglio, all’indomani dell’approvazione delle mozioni parlamentari che, proprio in virtù dell’articolo 4 della legge 244, istituivano un’indagine conoscitiva sulle spese militari in generale e sugli F35 in particolare. Allora i parlamentari reagirono con fermezza, in particolare il capogruppo Pd in commissione Difesa, Giampiero Scanu, che parlò di un intervento fuori luogo, non essendo competenza del Consiglio supremo di difesa sollevare obiezioni su una legge del Parlamento, controfirmata tra l’altro dal presidente della Repubblica.

Stavolta si profila un vero e proprio scontro istituzionale, poiché l’indagine conoscitiva della commissione parlamentare è in fase conclusiva e sulla scrivania di Matteo Renzi c’è già la relazione finale targata Pd che chiede il dimezzamento del programma F35 a vantaggio del programma alternativo Eurofighter. Proprio ieri, mentre Napolitano preparava la sua mossa, il ministro della Difesa Roberta Pinotti, pur non citando gli F35, dichiarava alla stampa che “il governo è pronto a rivedere, ridurre o ripensare anche grandi progetti avviati o ipotizzati, qualora mutati scenari internazionali o economici lo indicheranno come opportuno, nel rispetto del ruolo del Parlamento e delle sue prerogative, così come previsto anche nella stessa legge delega 244″. Tra pochi giorni si capirà se sarà così.

Se Napolitano e Renzi sceglieranno di cedere al pressing di Washington e dei nostri generali decidendo di confermare l’intero programma F35, la loro scelta rischia tra l’altro di costarci ancor più cara del previsto poiché la conseguente cancellazione definitiva della Tranche 3B di Eurofighter (25 aerei per circa due miliardi) comporterebbe il pagamento di una salatissima penale, come dimostra il caso tedesco (richiesto quasi un miliardo di penale su un ordine annullato di tre miliardi) e come confermano fonti industriali.

Se invece l’Italia scegliesse di puntare ancora sugli Eurofighter, che tutti gli esperti considerano nettamente superiori agli F35 (e con ricadute tecnologiche e occupazionali nemmeno paragonabili), il numero di questi nuovi aerei multi-ruolo in dotazione all’Aeronautica salirebbe a 93: con i sei F35 che la Difesa ha ormai già acquistato in modo irreversibile, si avrebbe una flotta aerea più che sufficiente a rimpiazzare il centinaio di Tornado e Amx che andranno in pensione a metà del prossimo decennio, senza dover spendere altre decine di miliardi in F35. Rimarrebbe aperta solo la questione dei quindici F35 a decollo verticale destinati alla Marina in sostituzione degli Harrier imbarcati sulla portaerei Cavour: quella che in cinque anni di servizio è stata usata solo per due missioni “commercial-umanitarie” sponsorizzate da privati perché la Difesa non ha i soldi per pagare il gasolio. Il primo capitolo del Libro Bianco della Difesa di cui tanto si parla dovrebbe intitolarsi “Spese inutili che non ci possiamo permettere”.

il Fattoquotidiano, 9 marzo 2014

Può succedere che, nella pausa di una lunga intervista, ti ritrovi in unacucina affacciata su un terrazzo precocemente fiorito, a far merenda con tè algelsomino. E capita pure che l'intervistato t'interroghi all'improvviso suiromanzi dostoevskijani, l’Idiota in particolare. “A un certo punto, ricorderà,Ippolít dice a Myskin: ‘Principe, lei un giorno ha detto che il mondo saràsalvato dalla bellezza’. In russo la parola mir vuol dire mondo e, allo stessotempo, pace”. Per fortuna partecipa anche la figlia del professor Zagrebelsky,Giulia, studentessa di Lettere. “Abbiamo presente, per esempio, l'orrore in cuivivevano gl'immigrati di Rosarno? È pensabile che fossero in pace con i proprisimili? Chi a Taranto è costretto tra le polveri dell'Ilva, non è nellecondizioni di spirito di chi respira aria di montagna. Chiediamoci se viviamoin un mondo bello o sempre più brutto, in ambienti disumani, dominati dallaviolenza, dalla sopraffazione, dallo sfruttamento. Altro che bellezza! Chesalvi il mondo, questo nostro mondo, è una frase da cioccolatino. Infatti,l'hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in occasione dell'Oscar a Lagrande bellezza, come se fosse quella di Myskin. Oggi si parla per non direnulla. E si è ascoltati proprio per questo. Il vuoto non disturba e, se è dettoin certo modo, è anche seducente. In un “Miss Italia” di qualche anno fa, unaragazza, per presentarsi, ha pronunciato una frase memorabile: ‘Credo neivalori e mi sento vincente’. Una sintesi perfetta del grottesco che c'è nel tempopresente”.

Professore, che impressione le hanno fatto i discorsi del neo premier?
Mah! Non tutto piace a tutti allo stesso modo. In attesa di smentite, mi par divedere, dietro una girandola di parole, il blocco d'una politica che gira avuoto, funzionale al mantenimento dello status quo. Una volta Eugenio Scalfarie Giuseppe Turani definirono ‘razza padrona’ un certo equilibrio oligarchicodel potere. Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo ‘casta’.Un'interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulladifensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaroche occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno.Vorrei dire agli uomini (e alle donne) nuovi del governo: attenzione, voistessi, a non prendere troppo sul serio la vostra novità.


Il filo rosso di queste conversazioni è come sta l'Italia. Le risposte nonsono quasi mai state incoraggianti: ci siamo chiesti quali responsabilità abbiala classe dirigente.
La classe dirigente – intendo coloro che stanno nelle istituzioni, a tutti ilivelli – è decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione èsemplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non habisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile,contraddittoria. Potremmo usare un'immagine: c'è una lastra di ghiaccio, sopracui accadono le cose che contano, sulle quali però s'è persa la presa; coserispetto a cui siamo variabili dipendenti: la concentrazione del potere economicoe gli andamenti della finanza mondiale, l'impoverimento e il degrado delpianeta, le migrazioni di popolazioni, per esempio. Ne subiamo le conseguenze,senza poter agire sulle cause. Tutto ciò, sopra la lastra. Sotto sta la nostra‘classe dirigente’ che dirige un bel niente. Non tenta di mettere la testafuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare dimetterle in pratica. Che cosa resta sotto la crosta? Resta il formicolio dellalotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici,un formicolio che interessa i pochi che sono in quella rete, che si rinnova percooptazione, che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori. La politicasi riduce alla gestione dei problemi del giorno per giorno, a fini diautoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri. Pensiamo a chierano gli uomini che hanno guidato la ricostruzione dell'Italia dopo la guerra:Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti, per esempio. Se li mettiamoinsieme, non è perché avessero le stesse idee ma perché ne avevano, e le ideedavano un senso politico alla loro azione. Le cose che, oggi, vengono dette efatte sono pezze, sono rattoppi d'emergenza, necessari per resistere, non peresistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro ‘potereper il potere’, è gestione tecnica. La tecnica guarda indietro; la politicadovrebbe guardare avanti.

Il governo Monti qualche disastro tecnico l'ha fatto.
La tecnica come surrogato della politica è un'illusione. Se lei chiama unidraulico perché ha il lavandino otturato, si aspetta che, a lavoro ultimato,lo scarico del lavandino funzioni. Non chiede all'idraulico di cambiarle lacucina. Così, anche i tecnici in politica. Gestiscono i guasti nei dettagli. Igoverni tecnici per loro natura sono conservatori, devono mantenere l'esistentefacendolo funzionare . Dovrebbe essere la politica a immaginare la cucinanuova. E, fuor di metafora, dovrebbe avere di fronte a sé idee di società,programmi, proposte di vita collettiva e, soprattutto nei momenti di crisi comequello che attraversiamo, perfino modelli di società.

Giovani parlamentari e governanti dovrebbero avere un'idea del mondo.
Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei potericui si fa riferimento e di cui si è espressione. Una volta si parlava di bloccosociale, pensando alle ‘masse’ organizzate in partiti di appartenenza, insindacati d'interessi consolidati. Si pensava alle classi sociali. Oggi, siamolontani da tutto questo, in attesa della ricomposizione di qualche strutturasociale che possa esprimere esigenze, richieste e forze propriamente politiche.In questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degliinteressi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraversocooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se lasi volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazionepolitica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sonodiventati per l'appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche diclan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario esbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi. Ecco laparola: il rinnovamento sembra molto spesso un ‘allevamento’. Il resto èapparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo,creativismo ecc. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto inrapporto con l'arteriosclerosi politica che dominava. Ma, la novità di sostanzadov'è? La ‘rottamazione’ a che cosa si riduce? Tanto più che nelleposizioni-chiave del ‘nuovo’ troviamo continuità anche personali che provengonodal ‘vecchio’ e la soluzione di nodi che ci trasciniamo dal passato ècontinuamente accantonata, come il cosiddetto conflitto d'interessi.

L'impellente necessità di modificare l'assetto costituzionale è un refrainche abbiamo ascoltato da più parti, negli ultimi anni.Sì. Le istituzioni possono sempre essere migliorate, rese più efficienti,eccetera. Ma, a me pare che esse siano diventate il capro espiatorio di colpeche stanno altrove, precisamente nelle difficoltà che incontra un aggregato dipotere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme ilquadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuiresempre più scarse, e in presenza per di più d'una contestazione diffusa. Anchein passato, al tempo di Berlusconi al governo, è accaduto qualcosa di simile,ma non di uguale. L'insofferenza nei confronti della Costituzione a me parederivasse allora dalle esigenze di un potere aggressivo. Oggi, l'atteggiamentoè piuttosto difensivo. I fautori delle ‘ineludibili’ modifiche costituzionalidicono: c'è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Malo scopo dominante sembra l'autodifesa. Si tratta di ‘blindarsi’, per usare unaparola odiosa molto in voga. Il terrore delle elezioni, la vanificazione deirisultati elettorali, i ‘congelamenti’ istituzionali in funzione disalvaguardia vanno nella stessa direzione.

“Vanificazione dei risultati elettorali”: una cosuccia non da poco in unademocrazia.
La grande maggioranza degli elettori si è espressa a favore della fine delberlusconismo. Invece è stato ricreato un assetto governativo-parlamentare nelquale un cemento tiene insieme tutto quel che avrebbe dovuto essere separato.Il Parlamento attuale, sebbene non possa considerarsi decaduto per effettodella legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta, dovrebbeconsiderarsi gravemente privato di legittimazione democratica . Ma si fa ormaifinta di niente. Non bisognerebbe far di tutto per rimettere le cose a posto?

Larghe intese versus Grillo.
Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica. Sono il regimedella paralisi, della stasi. Platone paragona il buon politico al buontessitore, al buon nocchiero, al buon medico. Nei suoi dialoghi, non è maidetto che il politico è colui che s'immagina come debba essere la convivenzanella polis: non si aveva nell'antichità l'idea che la politica fosse fatta dicontrapposizione di modelli. L'idea della politica come scelta è una novitàmoderna. Oggi sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta dinatura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c'è politica, e se nonc'è politica non c'è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o diclan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d'immunità.

Quindi siamo senza futuro.
Finché la palude non viene smossa. Perché i cittadini vanno sempre meno avotare? Una volta si diceva ‘son tutti uguali’, intendendo ‘sono tutticorrotti’. Ma oggi è peggio, si pensa: ‘tanto non cambia nulla’. È un effettodella stasi politica. Il Movimento 5 Stelle è nato col dichiarato intento dismuovere la palude, addirittura di investirla con una burrasca che rovescitutto. Una negazione, dunque. Ma, la politica deve contenere anche un intentocostruttivo. Questo, finora, non è visibile o, almeno, non è percepito. Non chesia molto diverso, presso gli altri partiti, solo che questi sono già radicatie godono perciò del plusvalore che viene dall'insediamento istituzionale. Perchi si affaccia, un'idea chiara e forte del ‘chi siamo’ e ‘per cosa ci siamo’ èindispensabile. La tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno lalotta alla corruzione che, di per sé, rischia d'essere solo una competizioneper la sostituzione d'una oligarchia nuova a una vecchia. Oltretutto, la storiae la stessa ‘materia del potere’ mostrano che nella politica la lotta contro lacorruzione è senza prospettiva. Contro la corruzione devono valere leistituzioni di controllo e l'intransigenza dei cittadini. La politica èintrinsecamente debole. La ragione sta in quella che, all'inizio del secoloscorso, è stata definita la ‘ferrea legge delle oligarchie’, il che significache i grandi numeri, per essere governati, hanno bisogno dei piccoli. I piccoli– e l'osservazione vale per tutti, anche per i 5 Stelle – prima o poi sichiudono in se stessi e si alimentano con la corruzione, alimentandola a propriavolta. In difetto di politica, alla corruzione non c'è limite perché essa, neiregimi autoreferenziali, non è la patologia, ma la fisiologia del potere. Se sivuole: è la fisiologia dentro una patologia.

Senza speranza, dunque?
Siamo di fronte a un bivio. Da una parte c'è il progressivo arroccamento che,prima di implodere, passerebbe attraverso misure, dirette o indirette, controla democrazia e la Costituzione. Dall'altra, la rianimazione della politica ela riapertura dei canali della partecipazione, che dovrebbe portare alrafforzamento della democrazia e della Costituzione. La prima strada èpericolosa anche per chi volesse percorrerla, perché l'inquietudine sociale,prima o poi, esploderebbe con esiti che non vorremmo nemmeno immaginare. Laseconda è difficile perché la politica non s'inventa a tavolino scrivendodocumenti, ma si costruisce quotidianamente nel rapporto con i bisogni, leaspirazioni, le difficoltà e i dolori dei cittadini.

Cosa pensa della decisione di non chiedere un passo indietro aisottosegretari indagati?
La giovane ministra per i rapporti col Parlamento ha detto che non si chiede aqualcuno di dimettersi solo perché inquisito. Giusto. Altrimenti, la politicasarebbe in balia non solo, o non tanto, della discrezionalità dei giudici, masoprattutto di denunce pretestuose o calunniose, alle quali il magistrato devedare corso. La questione però sta in quel “solo”. Politica e giustizia hannologiche diverse. Nulla vieta al governo di difendere – fino a un certo punto –i suoi inquisiti con le ragioni che gli sono proprie, cioè con ragionipolitiche. Ma deve spiegare perché lo fa, pur in presenza di motivi disospetto; deve assumersene la responsabilità; deve giustificare perchéabbandona uno e protegge un altro. Non basta dire che si tratta ‘solo’ diprocedimenti penali avviati e non conclusi (con una condanna). La presunzioned'innocenza non c'entra nulla con la dignità della politica.

Lei è mai stato tentato dalla politica?Ciò cui mi sento più adatto è l'insegnamento. Per la politica, soprattutto perla politica, occorrerebbe una vera vocazione. Ricorda la conferenza di MaxWeber intitolata, per l'appunto, la politica come professione-vocazione? Ecco:non sento la vocazione. C'è poi una considerazione che riguarda un potenziale conflittod'interesse. Chi si occupa di attività intellettuali deve essere disinteressatopersonalmente. Ancora citando Weber: non deve cedere alla tentazione di metterese stesso, e i suoi interessi, davanti all'oggetto dei suoi studi. Potrebbeesserci la tentazione di dire cose e sostenere tesi non per amore della verità(la piccola verità che si può andar cercando), ma per ingraziarsi questo o quelpotente che ti può offrire, arruolandoti, una carriera politica.

Perché la politica non attrae più i migliori?Una volta avere in famiglia un deputato o un senatore era come avere uncardinale. Oggi, talora, ci si vergogna perfino. Ha visto quanti ‘rifiutieccellenti’, opposti alla seduzione di un posto al governo? Se la politica nonha prospettive ma è semplicemente un girone d'affari, non servono politici,servono affaristi.

Vota?
Ho sempre votato, malgrado tutto. C'è una pagina di Non c'è futuro senzaperdono del premio Nobel per la Pace e arcivescovo di Città del Capo,Desmond Tutu, in cui si descrive la coda al seggio dei neri del suo Paese che,acquistati i diritti politici dopo l'apartheid, per la prima volta vanno avotare, piangendo. Attenzione a dire che il voto è un orpello.

Cosa pensa dell'Italicum nato dall'accordo tra il Pd e Forza Italia?
Non so che cosa ne verrà fuori. Mi colpisce, comunque, che la legge elettoralesia decisa dagli accordi d'interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi,Alfano), invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tuttii cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamentodelegittimato come l'attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutralepossibile. Mi colpisce che si pensi a una legge che, contro un'indicazioneprecisa della Corte costituzionale, creerebbe una profonda disomogeneitàpolitica tra le due Camere. Mi colpisce che si dica con tanta leggerezza chenon importa, perché il Senato sarà abolito. Mi colpisce che nel frattempo,comunque, si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione trale due Camere impedirà di scioglierle. Mi colpisce che non ci siano reazioniadeguate a questa passeggiata sulle istituzioni.

E l'idea di “diminuire” il Senato?
Vedremo la proposta. Fin da ora, vorrei dire che piuttosto che un pasticcio –interessi frammentati di politici locali con una spruzzata di cultura –,piuttosto che una cosa indefinita, senza una funzione, una propria ragiond'essere stabile e continuativa, meglio l'abolizione radicale. Meglio il nulla,piuttosto che l'umiliazione. Esistono già commissioni paritetiche, per labisogna. Si cerchi di non trattare le istituzioni come merce vile che si vendeal qualunquismo antiparlamentare al prezzo di qualche piccolo risparmio sul‘costo della politica’. I Senati, o ‘seconde Camere’, o ‘Camere alte’ hannoprofonde ragioni d'esistenza. Le loro funzioni, quali che esse specificamentesiano, si giustificano con l'esigenza di introdurre nei tempi brevi dellademocrazia rappresentativa la considerazione d'interessi di più lunga durata,che riguardano – come si dice – le generazioni future. Sono assembleemoderatrici rispetto all'incalzare del consenso elettorale che deve essereincassato a intervalli brevi dall'altra assemblea. La prima Camera ènecessariamente miope; la seconda Camera deve essere presbite. Deve far valerele ragioni della durata su quelle dell'immediatezza. La sua composizione e lesue funzioni dovrebbero tener conto di questa vocazione, essenziale affinché lademocrazia rappresentativa non dilapidi in tempo breve le risorse di tutti,nell'interesse elettorale di qualcuno. Mi pare che i discorsi dei nostririformatori restino molto in superficie, rispetto alla profondità dellaquestione.

Non è un bel momento, anche per le istituzioni di garanzia.
Le istituzioni di garanzia sono la magistratura, dunque anche la cortecostituzionale, e il presidente della Repubblica. Poi c'è la libera stampa, chedovrebbe vigilare nell'esercizio della sua funzione al servizio della pubblicaopinione. Siccome nelle oligarchie, come si è detto, le segrete cose –trattative, patti non dichiarati e dichiarabili, corruzione delle funzionipubbliche – sono fisiologiche, le istituzioni di garanzia e libera stampadovrebbero fare da contraltare quando occorre. In ogni caso, non mescolarsi enon omologarsi.

Il sistema italiano è perfettamente riassunto dal rapporto tra Rai epolitica: è una commissione parlamentare che vigila sul servizio pubblico – esull'informazione che produce – e non il contrario. Ben più che un paradosso.
È uno dei grandi rovesciamenti che ci tocca osservare in questi tempi. Nonl'unico. Pensiamo ad esempio al sistema elettorale. Dovrebbe garantire che labase della vita politica stia presso i cittadini elettori. La logica dellalegge che abbiamo avuto fino a ora e, con ogni probabilità, di quella che avremose la riforma andrà in porto, è invece quella della nomina dall'alto (dellesegreterie dei partiti), con ratifica degli elettori. Uno dei principi delFascismo era: ‘il potere procede dall'alto ed è acconsentito dal basso’.

Torniamo a Weber: cosa può indurre uno studioso a rinunciare a un bene sommoquale l'autonomia?Le risposte più banali sono la seduzione del potere, la carriera. C'è però,credo, la tentazione dell'apprendista stregone o della ‘mosca cocchiera’:pensare di guidare la politica. Quando Carl Schmitt è stato processato aNorimberga, ha osato dire: ‘Non sono io a essere stato nazista, era il nazismoa essere schmittiano’.

Il pericolo non è essere costretti a sostenere certe tesi a tutti i costi?
Se si riferisce all'atteggiamento di molti costituzionalisti nei confrontidell'ultima fase della presidenza di Giorgio Napolitano, direi che è prevalsal'idea che il presidente della Repubblica fosse l'ultimo baluardo, al di là delquale il caos, il disastro, il fallimento. Ciò ha portato a giustificarel'assunzione di compiti e il compimento di atti che nella storia costituzionalerepubblicana, non si erano mai incontrati. Al punto che si parla ormai comecosa ovvia, non problematica, d'una repubblica presidenziale che ha preso ilposto del sistema parlamentare. Tutto ciò si è manifestato in un attivismofinora sconosciuto. Ma è stato un attivismo orientato a quella che si diceessere la stabilità e la continuità, e che si traduce in conservazione. Mi pareche si possa dire che è prevalsa la paura del nuovo, il pessimismo politico.Solo apparentemente per paradosso, l'attivismo costituzionale è coinciso con ilconservatorismo politico. La Costituzione, prevedendo un ruolo neutrale e superpartes, del presidente della Repubblica, dà, mi pare, un'indicazione opposta:l'imparzialità costituzionale per consentire le innovazioni politiche, ilrinnovamento della vita politica. Ottimismo politico.

Il manifesto, 12 marzo 2014
Quello che più si sarebbe dovuto scon­giu­rare sta invece pur­troppo acca­dendo. Ancora una volta è il rove­scia­mento secco di un abu­sato detto latino a domi­nare la scena poli­tica ita­liana: ubi minor maior ces­sat. Certo, lo sap­piamo, quando ci si avven­tura sul ter­reno elet­to­rale sono le liste, le can­di­da­ture, l’equilibrio tra cor­renti e com­po­nenti, le ban­diere e i distin­tivi, la visi­bi­lità degli uni e degli altri, a det­tare legge. Quando la par­te­ci­pa­zione è una firma e l’azione un voto può acca­dere que­sto, e anche di peggio.

E quando a com­pe­tere non sono solo e soprat­tutto i par­titi, ma anche gli espo­nenti della cosìd­detta società civile le cose non sem­brano poi cam­biare di molto. Si poteva spe­rare però che la lista Tsi­pras, sce­gliendo di par­lare d’Europa in greco, riu­scisse almeno a intro­durre un diverso ordine del discorso. Riu­scisse cioè a sacri­fi­care le ten­sioni, le riva­lità, le con­tro­ver­sie, che da sem­pre attra­ver­sano la nostra pro­vin­cia, a una sorta di “unità anti­na­zio­nale”. Ma gli ultimi eventi, il ritiro delle can­di­da­ture, per diverse ragioni, di Vale­ria Grasso e Anto­nia Bat­ta­glia, non­ché le con­se­guenti dimis­sioni di Paolo Flo­res d’Arcais e Andrea Camil­leri dal comi­tato dei garanti, sem­brano muo­vere in tutt’altra dire­zione. Quella che risponde ai diversi desi­de­rata di chi si illude di stare lavo­rando, per que­sta via tra­versa, alla rifon­da­zione di una sini­stra che più ita­liana non si può.

Su una scala euro­pea sarebbe, infatti, un chiaro indi­zio di fol­lia pen­sare di pas­sare al vaglio i curr­cula e i quarti di nobiltà poli­tica di tutti i can­di­dati delle liste che appog­giano Ale­xis Tsi­pras. Ma non è forse que­sto lo spa­zio dell’azione a cui aspi­riamo? Lo riba­di­sce lo stesso Ale­xis Tsi­pras in una cor­tese let­tera di rispo­sta a Flo­res e Camil­leri nella quale insi­ste sull’unità neces­sa­ria a pro­iet­tarsi nella dimen­sione con­ti­nen­tale, «supe­rando con­ti­nue ten­sioni e pole­mi­che» e dichia­ran­dosi fino in fondo al fianco di Bar­bara Spi­nelli, non a caso la figura più lon­tana ed estra­nea agli equi­li­bri­smi poli­tici nazionali.

Pos­siamo capire che Paolo Flo­res e Andrea Camil­leri ten­gano a quella purezza di imma­gine cara agli intel­let­tuali demo­cra­tici. Ma è già meno com­pren­si­bile che una mili­tante impe­gnata sul ter­ri­to­rio come Anto­nia Bat­ta­glia non fac­cia distin­zione tra il piano mate­riale delle lotte, nella fat­ti­spe­cie l’Ilva di Taranto, sul quale è bene non fare sconti a chi ha gover­nato quella regione e quella que­stione, e il piano delle ele­zioni euro­pee, dove la pre­senza di can­di­dati pro­ve­nienti da Sel è del tutto irri­le­vante rispetto ai con­te­nuti euro­pei­sti e anti­li­be­ri­sti che dovreb­bero ispi­rare la lista Tsi­pras. La per­dita di que­sta distin­zione di piani risulta nefa­sta per entrambi. Spin­gendo da una parte i movi­menti a farsi carico di una qual­che eco elet­to­rale delle pro­prie azioni e, dall’altra, le liste a rispec­chiare equi­li­bri e idio­sin­cra­sie delle diverse com­po­nenti di movi­mento, pre­ten­dendo, poi, di rap­pre­sen­tarle e rac­co­glierne le “istanze”.

E’ uno sce­na­rio cupo a cui già abbiamo assi­stito tra il 2001 e il 2003. Lo scopo della cam­pa­gna elet­to­rale sotto le inse­gne di Tsi­pras è, in primo luogo, quello di favo­rire la dif­fu­sione di una cul­tura euro­pea anti­li­be­ri­sta restia a tro­vare rifu­gio nel ritorno alle sovra­nità nazio­nali, cer­cando di attrarre in quest’orbita il più ampio ven­ta­glio di forze pos­si­bili. Non certo quello di sosti­tuire le diverse espres­sioni del con­flitto sociale nei ter­ri­tori d’Europa. E’ bene chia­rirlo per tempo, prima che voli qual­che pie­tra ad Atene, Lon­dra, Ber­lino o Roma, met­tendo in sub­bu­glio e in allarme gli “euro­pei­sti insu­bor­di­nati”, ma non troppo. Siamo ancora in tempo a ragio­nare e a cor­reg­gere il tiro.

La Rete euro­pea degli eco­no­mi­sti pro­gres­si­sti ha con­vo­cato un forum su «Un’altra strada per l’Europa» il 19 marzo a Bru­xel­les. Tra gli ita­liani è annun­ciata la pre­senza di Andrea Bara­nes, Mario Pianta, Luciana Castel­lina, Ste­fano Fas­sina, Monica Fras­soni, Gior­gio Airaudo, Guido Mar­con. La base di discus­sione è l’uscita dalle poli­ti­che reces­sive, la prio­rità all’occupazione, l’abbandono delle teo­rie eco­no­mi­che libe­ri­ste in un qua­dro di demo­cra­ti­ciz­za­zione delle isti­tu­zioni euro­pee. Obiet­tivi sacro­santi. Vor­rei però che il Forum avesse la pazienza di rispon­dere a una domanda sem­plice che in molti ci poniamo: è rea­li­stico, oltre che sen­sato, pen­sare di uscire da que­sta crisi affi­dan­dosi alla «cre­scita» (del Pil, è sem­pre sot­ti­neso) e a «poli­ti­che espansive»?

Di recente un attento sto­rico dell’economia, Tho­mas Piketty (autore di Capi­tal in the Twenty-First Cen­tury, Cam­bridg, MA, Bel­k­nap Press, 2014), ha affer­mato: «Sul lungo periodo la cre­scita della pro­du­zione non supera mai l’1– 1,5% all’anno (…) Dob­biamo far­cene una ragione e smet­terla di sognare un’illusoria cre­scita dell’economia». Dello stesso tenore le affer­ma­zioni di Larry Sum­mers, che hanno fatto scal­pore essendo stato ret­tore di Har­vard e segre­ta­rio al Tesoro di Clin­ton (vale a dire uno dei mag­giori respon­sa­bili della dere­go­la­men­ta­zione del set­tore finan­zia­rio che ha por­tato al crack finan­zia­rio del 2008). Par­lando alla con­fe­renza del Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale nel novem­bre del 2013 a New York, Sum­mers ha dia­gno­sti­cato una fase di sta­gna­zione di lungo periodo: Secu­lar Sta­gna­tion. In verità lo aveva già detto Paul Krug­man: «Sap­piamo che l’espansione eco­no­mica del 2003–2007 è stata gui­data da una bolla — si può dire lo stesso dell’ultima parte dell’espansione degli anni ’90, e in effetti si può dire lo stesso degli ultimi anni dell’espansione Rea­gan» (Paul Krug­man, Secu­lar Sta­gna­tion, Coalm­ners, Bub­bles, and Larry Sum­mers, ’New York Times’, 16 novem­bre 2013). Ha com­men­tato un gior­na­li­sta di Repub­blica (Mau­ri­zio Ricci, L’era della cre­scita Zero, ’la Repub­blica’, 10 dicem­bre 2013): «Il lungo boom che ha accom­pa­gnato due secoli e mezzo di rivo­lu­zione indu­striale si è esau­rito» e dob­biamo ras­se­gnarci a una «nuova nor­ma­lità». Cioè, a uno «svi­luppo sta­zio­na­rio». Un bella inchie­sta di un gior­na­li­sta nor­da­me­ri­cano pub­bli­cato sull’ultimo numero di Inter­na­zio­nale (Harold Meyer­son, La fine della classe media, 7 marzo 2014) si chiede se «L’età dell’oro non tor­nerà più». E risponde affer­mando che i trenta anni suc­ces­sivi alla seconda guerra mon­diale sono stati un «feno­meno irri­pe­ti­bile». Almeno per noi, per l’ex Primo mondo.

Potrei citare molti altri eco­no­mi­sti della New Eco­no­mics Foun­da­tion di Lon­dra (Tim Jack­son, Pro­spe­rità senza cre­scita. Eco­no­mia per il pia­neta reale, Edi­zioni Ambiente 2011; Ema­nuele Cam­pi­glio, L’economia buona, Bruno Mon­da­dori 2012) e della Bio­e­co­no­mia (Mauro Bona­iuti, La grande tran­si­zione, Bol­lati Borin­ghieri, 2013), per non tor­nare alle pre­veg­genti, luci­dis­sime ana­lisi di André Gorz, che ci invi­tano a tro­vare delle vie di uscita non fon­date sulla cre­scita e sulla espansione.

Con molta mode­stia e, pro­ba­bil­mente, con grande inge­nuità mi sono fatto que­ste due domande a cui vor­rei che il con­ve­gno di Bru­xel­les rispon­desse. Si dice: per aumen­tare l’occupazione biso­gna far cre­sce la domanda interna e le espor­ta­zioni. Ma se le merci di largo con­sumo (spe­cie quelle più a basso costo) sono tutte d’importazione, una aumento della domanda interna quale occu­pa­zione accre­sce­rebbe? Prima, evi­den­te­mente, ser­vi­rebbe inter­ve­nire sulla bilan­cia com­mer­ciale. Ma per farlo ser­vi­rebbe rego­lare in modo del tutto diverso i mer­cati (vedi i Trat­tati di libero scam­bio) e la inter­na­zio­na­liz­za­zione delle imprese trans­na­zio­nali (delo­ca­liz­za­zioni pro­dut­tive). Non credo che vi siano più (né, d’altronde, sarebbe giu­sto) le con­di­zioni per otte­nere ragioni di scam­bio pena­liz­zanti i «paesi in via di svi­luppo» che ora si chia­mano, non a caso, «emergenti».

Seconda domanda. Viene sem­pre auspi­cata come leva anti­crisi l’aumento degli inve­sti­menti («sti­moli», sgravi fiscali, opere pub­bli­che, ecc.) per far ripar­tire le imprese. Ma se i denari con cui si fanno que­ste ope­ra­zioni li si prende a debito (emis­sioni di titoli pub­blici, bond, pro­ject finan­cing, ecc.) e se sul debito biso­gna pagare gli inte­ressi e se gli inte­ressi sono più alti della cre­scita dell’economia «reale»… alla fine a gua­da­gnarci non saranno mai i salari, ma le ren­dite finan­zia­rie! Esat­ta­mente quello che è suc­cesso negli ultimi trent’anni: la quota dei salari sul red­dito nazio­nale (negli SU come in tutta Europa) è dimi­nuita a favore di quella andata ad appan­nag­gio dei pro­fitti e delle ren­dite. Se le cose stanno così, allora, con­di­zione pre­li­mi­nare non è l’investimento (pub­blico o pri­vato) in sé, ma la ristrut­tu­ra­zione in radice del fun­zio­na­mento della finanza.

Sono que­ste le domande che le donne e gli uomini della strada si fanno tra i ban­chi del mer­cato che ven­dono ormai quasi solo merci cinesi, sotto i can­tieri delle «grandi opere» finan­ziati dalla finanza di pro­getto, in coda per otte­nere un pre­stito con inte­ressi da stroz­zini, alla ricerca dispe­rata di un lavoro che non c’è quando invece di cose utili da fare ce ne sareb­bero anche troppe. Domande a cui un numero sem­pre più grande di per­sone comin­ciano a darsi delle rispo­ste da soli orga­niz­zan­dosi in gruppi di acqui­sto e ban­che del tempo soli­dali, in coo­pe­ra­tive di comu­nità, in gruppi di auto-mutuo-aiuto per un wel­fare di pros­si­mità, in gestioni con­di­vise dei beni comuni, in scambi non mone­tari o con monete locali… Da cui l’ultima domanda agli eco­no­mi­sti pro­gres­si­sti: che posto c’è nelle nuove teo­rie eco­no­mi­che non con­ven­zio­nali per l’economia soli­dale o sociale o civile o morale, a dir si voglia? È pos­si­bile — almeno sul piano teo­rico e di visione stra­te­gica — avere que­ste come punto di approdo per una con­ver­sione strut­tu­rale dei rap­porti sociali di pro­du­zione e di con­sumo? Sarà mai pos­si­bile ipo­tiz­zare almeno una via di uscita dalla crisi che non sia solo anti-neoliberista, ma anche oltre-capitalista?


Porrei un'ulteriore domanda. Quali beni ( merci o servizi) dobbiamo produrre? Più precisamente, per ottenere che cosa dobbiamo impiegare il lavoro (l'applicazioni delle energie psicofisiche degli uomini e delle donne)? Per produrre merci che non servono e sembrano indispensabili solo perchè i "persuasori occulti", al servizio della produzione capitalistica ci convincono ogni giorno che così è, oppure per rendere più umano, vivibile, bello, amichevole, equo il pianeta in cui viviamo? A chi lasciamo la scelta? al "mercato", cioè a chi trae vantaggio della mortifera economia data, o alla politica non lasciata nelle mani dei partiti asserviti al pensiero unico?

Il film di Sorrentino esprime il vuoto d'una certa Roma che difficilmente si immagina dall'esterno: una società sfatta. Ma lo sfacelo di quella Roma (di quella' Italia) è sottolineato dai commenti elogiastici raccolti da Travaglio: per una volta con troppo garbo.

Il Fatto quotidiano, 6 marzo 2014

Dopo gli Oscar per i migliori film, ci vorrebbe un Oscaretto per i migliori commenti italiani agli Oscar. Provinciali, retorici, cialtroni, pizzaemandolineschi. Un po’ come dopo le partite dei Mondiali quando vince l’Italia: il patriottismo ritrovato, l’orgoglio tricolore, il riscatto nazionale, l’ottimismo della volontà, la metafora del Paese che rinasce, il sole sui colli fatali di Roma. Questa volta però, con l’Oscar a La grande bellezza, c’è un di più: l’esultanza di chi s’è fermato al titolo, senza capire che è paradossale come tutto il film. Ecco: quello di Sorrentino è il miglior film straniero anche e soprattutto in Italia. Il Corriere fa dire al regista che “con me vince l’Italia”, ma è altamente improbabile che l’abbia solo pensato: infatti ha dedicato l’Oscar alla famiglia reale e artistica, al Cinema e agli idoli adolescenziali (compreso – che Dio lo perdoni – Maradona, inteso però come il fantasista del calcio, non del fisco).

Eppure Johnny Riotta, sulla Stampa, vede nel film addirittura “un monito” e spera “che la vittoria riporti un po’ di ottimismo in giro da noi”. E perché mai? Pier Silvio B., poveretto, compra pagine di giornali per salutare l’’”avventura meravigliosa” sotto il marchio Mediaset. Sallusti vede nell’Oscar a un film coprodotto e distribuito da Medusa la rivincita giudiziaria del padrone pregiudicato (per una storia di creste su film stranieri): “Ci son voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è l’associazione a delinquere immaginata dai magistrati”. Ora magari Ghedini e Coppi allegheranno l’Oscar all’istanza di revisione del processo al Cainano.

“Oggi – scrive su Repubblica Daniela D’Antonio, moglie giornalista di Sorrentino – ho scoperto di avere tantissimi amici”. Infatti Renzi invita “Paolo per una chiacchierata a tutto campo”. Napolitano sente “l’orgoglio di un certo patriottismo” per un “film che intriga per la rappresentazione dell’oggi”. Contento lui. Alemanno, erede diretto dei Vandali, Visigoti e Lanzichenecchi, vaneggia di “investire nella bellezza di Roma e nel suo immenso patrimonio artistico”. Franceschini, ex ministro del governo Letta che diede un’altra sforbiciata al tax credit del cinema, sproloquia di un “Paese che vince quando crede nei suoi talenti” e di “iniezione di fiducia nell’Italia”. Fazio, reduce da un Sanremo di rara bruttezza dedicato alla bellezza, con raccapricciante scenografia color caco marcio, vuole “restituire” e “riparare la grande bellezza”. Il sindaco Marino rende noto di aver “detto a Paolo che lo aspetto a Roma a braccia aperte per festeggiare lui e il film, per il prestigio che ha donato alla nostra città e al nostro Paese”. Ma che film ha visto? È così difficile distinguere un film da una guida turistica della proloco?

In realtà, come scrive Stenio Solinas sul Giornale, quello di Sorrentino “è il film più malinconico, decadente e reazionario degli ultimi anni, epitaffio a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale in forma artistica di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe dirigente di scrittori che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne di professione “ricche”, cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano brave persone, politici inesistenti (infatti non si vedono proprio). Una fauna umanoide disperata e disperante che non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo mestiere, tutti parlano da soli anche in compagnia e passano da una festa all’altra per nascondersi il proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge in campagna. È un mondo pieno di vuoto che non può permettersi neppure il registro del tragico: infatti rimane nel grottesco. Scambiare il film per un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana.

«Per eli­mi­nare ogni equi­voco dico subito che sosterrò la lista Tsi­pras e la voterò». Ste­fano Rodotà chia­ri­sce la natura delle osser­va­zioni pub­bli­cate in un recente arti­colo da «La Repub­blica» che hanno sca­te­nato una ridda di inter­pre­ta­zioni «in base ad un titolo che non era mio – afferma – In realtà ho cer­cato di fare un ten­ta­tivo di ana­lisi poli­tica. Ci viene detto che siamo in emer­genza, che i numeri non ci sono e che Renzi è l’ultima spiag­gia. Que­sto è un modo per blin­dare il suo governo. Una cosa inam­mis­si­bile. Io ritengo invece che il ruolo della poli­tica stia pro­prio nel pro­get­tare vie d’uscita dalle situa­zioni pre­sen­tate come emer­gen­ziali. E non credo, come invece fanno alcune inter­pre­ta­zioni die­tro­lo­gi­che, che la lista Tsi­pras, i tran­sfu­ghi del Movi­mento 5 Stelle, i depu­tati di Civati o Sel pos­sano dive­nire una stam­pella per il Pd. È un ragio­na­mento poli­ti­ci­stico che fran­ca­mente non mi interessa».

Ha comun­que espresso alcune per­ples­sità sulla lista Tsipras…
Con­si­de­rata l’importanza della situa­zione, non voglio dare rile­vanza a quelli che pos­sono essere sbri­ga­ti­va­mente con­si­de­rati i rischi che corre que­sta lista, ma ai pro­blemi veri che stanno emer­gendo. Non mi sono affatto ignote le dif­fi­coltà legate alla com­po­si­zione delle liste elet­to­rali, in que­sti casi ci sono sem­pre con­flitti e con­tra­sti. Non si può tut­ta­via tra­scu­rare la dif­fe­renza che c’è tra una valu­ta­zione e la scelta delle per­sone. Que­sto pro­blema si può riflet­tere sulla cam­pa­gna elet­to­rale. I pro­blemi ci sono e biso­gna affron­tarli adesso. Anche per evi­tare che ven­gano stru­men­ta­liz­zati in seguito.

Qual è il primo pro­blema che vede?
Que­sta lista di cit­ta­di­nanza sarà un taxi che por­terà, come mi auguro, dei par­la­men­tari a Bru­xel­les, ma che in seguito si ripar­ti­ranno in gruppi diversi? È un’ipotesi, certo, che secondo me non dovrebbe essere con­fusa con il neces­sa­rio plu­ra­li­smo che una lista simile deve espri­mere. Ma se que­sta ope­ra­zione, che è impor­tan­tis­sima per l’Italia, dovesse dis­sol­versi subito dopo il voto, sarebbe cer­ta­mente un problema.

Si rife­ri­sce al rap­porto tra il gruppo dei socia­li­sti di Schultz e quello della sini­stra euro­pea che ha can­di­dato Tsi­pras alla pre­si­denza della Com­mis­sione Ue?
Mi pare che si vada mate­ria­liz­zando que­sto pro­blema, anche se i pro­mo­tori della lista riten­gono che sia pos­si­bile risol­verlo. Biso­gna averne con­sa­pe­vo­lezza evi­tando di pen­sare che ogni pro­ble­ma­tiz­za­zione leda la mae­sta della lista Tsi­pras. Per me que­sto è un pas­sag­gio dif­fi­cile, ma essen­ziale, da affrontare.
La sug­ge­stione dell’esperienza di Siryza è molto forte, ma sem­bra fuori dalla por­tata delle sini­stre ita­liane. Un per­corso simile potrebbe nascere da que­sta lista?
L’Altra Europa con Tsi­pras non esprime un sog­getto sociale già costruito e sta­bi­liz­zato. Il rife­ri­mento a Syriza potrebbe essere d’aiuto per evi­tare di rin­chiu­derla in un con­te­sto auto­re­fe­ren­ziale. Ma il lavoro da fare è tan­tis­simo. Siryza si è for­mata dopo un’operazione poli­tica e di inse­dia­mento sociale impor­tante. Que­sta cam­pa­gna elet­to­rale euro­pea non può costruire un sog­getto sociale, ma dovrebbe essere capace di tro­vare un modo per fare espri­mere que­ste esi­genze in maniera com­pren­si­bile e coerente.

Sono state sol­le­vate per­ples­sità sulla scelta di per­sone note come Bar­bara Spi­nelli, Adriano Pro­speri o Moni Ova­dia di dimet­tersi dopo l’eventuale ele­zione. Non crede che biso­gne­rebbe evi­tare i «can­di­dati civetta»?
Hanno giu­sti­fi­cato que­sta deci­sione per un fatto di one­stà e di tra­spa­renza per gli elet­tori. Così facendo vogliono dare il mas­simo soste­gno e respon­sa­bi­lità a chi par­te­cipa alla lista. Ho apprez­zato molto le loro ragioni. Altri, a comin­ciare da Ber­lu­sconi, si sono fatti eleg­gere per trai­nare una lista e poi non sono mai andati a Bru­xel­les. La mia non è un obie­zione, e non intendo cal­va­care chi la sta facendo. Si tratta però di un tema già sol­le­vato nei mondi a cui fa rife­ri­mento la lista Tsi­pras e rischia di essere ripro­po­sto. Non voglio fare l’elogio dell’importanza della comu­ni­ca­zione, ma biso­gna usare il lin­guag­gio più adeguato.

È stato dato rilievo alla con­trap­po­si­zione tra le can­di­da­ture di Sonia Alfano e Luca Casa­rini, un con­flitto impro­prio con­si­de­rate le regole poste dagli stessi «garanti» della lista per i quali Alfano era già in par­tenza incan­di­da­bile per avere rico­perto inca­ri­chi poli­tici pre­ce­denti. Un epi­so­dio che sem­bra tra­durre due idee di sini­stra: la prima incen­trata sulla lega­lità e la società civile, la seconda sui diritti sociali e i movi­menti. Potranno mai coesistere?
Di certo non sono incom­pa­ti­bili. Tra l’altro, que­sto sta già avve­nendo da tempo, ad esem­pio con «Libera» di Don Luigi Ciotti. Ma il discorso è senz’altro più ampio e riguarda la grande que­stione dell’unione tra diritti civili e sociali, tra i diritti delle per­sone e quelli del lavoro. Il pro­blema riguarda il modo in cui è pos­si­bile sal­dare diritti costi­tu­zio­nali e diritti sociali. È la pro­spet­tiva sol­le­vata da Gustavo Zagre­bel­sky in una recente inter­vi­sta su Il Mani­fe­sto, una per­sona che non mi sem­bra affatto insen­si­bile al rispetto della logica della lega­lità. Su que­sto punto nem­meno io sono reti­cente. La lega­lità richiede un’idea forte di mora­lità pub­blica, non c’è alcun dubbio.

In cosa si distin­gue que­sto approc­cio dai discorsi pre­va­lenti sulla «cul­tura» della legalità?
Risponde ad una pro­spet­tiva poli­tica che ha solide basi cul­tu­rali. Io ci credo molto e vedo cre­scere la con­sa­pe­vo­lezza dal refe­ren­dum sull’acqua bene comune dal 2011 in poi. Per que­sto vado a Parma da Piz­za­rotti (5 Stelle) che ha pre­sen­tato un pac­chetto di sette deli­bere dalle unione civili al garante dei dete­nuti alla cit­ta­di­nanza civica ai bam­bini degli immi­grati. Per la stessa ragione appog­gio la Fiom di Lan­dini e gli auto­con­vo­cati che hanno il merito di non essersi accon­ten­tati degli stru­menti sto­rici dell’azione sin­da­cale, come lo scio­pero, e hanno con­dotto una bat­ta­glia costi­tu­zio­nale sulla riam­mis­sione dei rap­pre­sen­tanti sin­da­cali nelle fab­bri­che. Per affron­tare l’asimmetria con il potere oggi biso­gna costruire una cul­tura poli­tica e giu­ri­dica alta, non limi­tan­dosi a solu­zioni emer­gen­ziali o fram­men­tate. La lista Tsi­pras, alla quale par­te­cipa anche il movi­mento per l’acqua, potrebbe avere un ruolo impor­tante pro­muo­vendo una coa­li­zione sociale, esat­ta­mente quello che cerco di fare a par­tire dalla mani­fe­sta­zione del 12 otto­bre. Con Spi­nelli, Pro­speri o Ova­dia, la lista esprime que­sta aspi­ra­zione e una grande aper­tura cul­tu­rale. Esat­ta­mente il con­tra­rio di chiu­sure iden­ti­ta­rie o il ripie­ga­mento sulle ideo­lo­gie del Novecento.

Par­lare di coa­li­zioni sociali signi­fica anche inter­lo­quire con i movi­menti della casa e per il red­dito. In occa­sione della mani­fe­sta­zione sulla «Via mae­stra» del 12 otto­bre e di quella del 19 otto­bre è emersa una certa con­trap­po­si­zione che sem­bra tor­nare oggi nella cri­tica dell’elitarismo dei pro­mo­tori della lista e i loro rife­ri­menti alla «società civile». Si riu­scirà mai ad impo­stare un lavoro comune?
Me lo auguro, anche per­ché in que­sti casi il rife­ri­mento ai diritti fon­da­men­tali, la casa o il red­dito, è for­tis­simo, come altrove. Se que­sta lista andrà oltre la soglia del 4% si apri­ranno oppor­tu­nità per tutti. Chia­marsi fuori va benis­simo, ma vor­rei rove­sciare l’accusa.

In quali termini?
Chi oggi si chiama fuori lo fa in modo eli­ta­rio per sal­va­guar­dare la legit­ti­ma­zione di movi­menti legati a bat­ta­glie con­crete. Ma que­sto nes­suno lo mette in discus­sione. Dico solo che in un momento come que­sto si potrebbe otte­nere anche il soste­gno di chi va nella tua stessa dire­zione. È una vec­chia sto­ria dei movi­menti. Il con­tatto con le isti­tu­zioni sem­bra minac­ciare la capa­cità di azione sociale e impone com­pro­messi. Ma in poli­tica biso­gna anche pren­dersi il rischio dell’innovazione quando que­sta è neces­sa­ria. Secondo me que­ste cri­ti­che non sono giustificate.

La mani­fe­sta­zione a difesa della Costi­tu­zione del 12 otto­bre non ha pro­dotto un seguito. In che modo pen­sate di riav­viarne il per­corso, visto che Pd, Forza Ita­lia e Ncd con­ti­nuano a pro­pore nuove e rischiose riforme?

Ci stiamo rior­ga­niz­zando e pen­siamo di insi­stere su una serie di pro­po­ste di leggi popo­lari sulla par­te­ci­pa­zione, sull’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare, sul red­dito di cit­ta­di­nanza anche se decli­nato oggi nella forma più sem­plice del red­dito minimo. Stiamo stu­diando le pos­si­bi­lità di un refe­ren­dum che riguardi il pareg­gio di bilan­cio intro­dotto nell’articolo 81 della Costi­tu­zione in maniera fret­to­losa e senza alcuna discus­sione. Non era obbli­ga­to­rio, altri paesi come la Fran­cia non l’hanno fatto. Ma è una misura ter­ri­bile che schiac­cerà que­sto paese sotto il peso dell’austerità. Visto che oggi esi­ste la lista Tsi­pras non ho dubbi che que­sta pro­spet­tiva possa essere inte­res­sante poli­ti­ca­mente anche per loro

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