loader
menu
© 2024 Eddyburg

Cronache di ordinario razzismo

La “tutela del decoro” viene prima della garanzia dei diritti delle persone. Anche a Natale. Sembra pensarla così il sindaco di Como Mario Landriscina (sostenuto da una coalizione di Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia), che il 15 dicembre ha firmato un’ordinanza per “la tutela della vivibilità e il decoro del centro urbano”.
Si legge nell’ordinanza (il cui testo è disponibile qui):
«Con decorrenza immediata e fino al superamento delle situazioni di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana in premessa richiamate, con termine ultimo di 45 giorni dalla data odierna, all’interno della città murata (zona a traffico limitato) e nelle immediate vicinanze, in particolare nelle aree di mercato attigue alle mura e in viale Varese, è fatto divieto di:
- Mendicare in forma dinamica ponendo in essere forme di accattonaggio molesto ed invasivo, tali da coartare l’autodeterminazione delle persone a compiere atti di liberalità;
- Mendicare in forma statica occupando spazi pubblici anche con l’utilizzo di cartoni, cartelli ed accessori vari che arrecano disagio al passaggio dei pedoni;
E’ altresì fatto divieto di bivaccare sotto i portici dell’ex chiesa di San Francesco in largo Spallino, presso la basilica del “Crocefisso” in viale Varese, nonché in piazza San Fedele e in via Boldoni e più ampiamente sotto tutti i portici della città murata».

Il linguaggio utilizzato nell’ordinanza meriterebbe da solo un commento, ma diamo priorità ai fatti. Perchè gli effetti di tale misura si sono visti immediatamente: domenica 17 dicembre, un gruppo di persone senza fissa dimora non ha potuto ricevere la colazione. E’ la prima volta che accade, dopo “più di sette anni”, come sottolineano i volontari che ogni mattina si recano presso l’ex chiesa di San Francesco a Como a distribuire la colazione “ma soprattutto un’occasione di relazione” alle persone – più di 150 – che dormono li fuori, perchè senza casa. “Questa mattina ci è stato proibito di farlo perché i nostri semplici gesti sarebbero contrari alla nuova ordinanza. Ci è stato detto che fino al 10 gennaio non ci è possibile portare un piccolo simbolo d’amore a queste persone, perché in vista del Natale non è decoroso”.

Certo, sentire associare al periodo natalizio la parola decoro, piuttosto che solidarietà, risulta piuttosto paradossale. Ma questo è quello che è andato in scena nel capoluogo lombardo, suscitando la rabbia dei volontari. “Una rabbia scatenata dall’ipocrisia di chi sputa sui valori più importanti. Così si aggiunge solo odio in animi già troppo feriti dalla vita. Con che scopo?”, scrivono i membri del gruppo, chiedendo “in quale specchio si guardino e cosa vedano le persone che continuano ad insultare così i poveri, non comprendendo che il problema non sono i poveri ma la povertà”. Una povertà che con misure del genere “si amplifica. Se provassimo a guardare in faccia la povertà con il desiderio di sconfiggere lei, e non i poveri, allora forse si potrebbero trovare soluzioni e pensieri che possano essere dalla parte dell’essere umano. Questo ci sembra allora il Natale: la ricerca di una possibilità, di un’umanità più dignitosa. Dignità non decoro ci aspettiamo dal nostro sindaco soprattutto a Natale, altrimenti non chiamiamolo Natale!”.

All’appello lanciato dai volontari si è unito il direttore della Caritas diocesana Roberto Bernasconi, con un duro monito: “La nostra città ha trasformato il Natale in un fatto meramente commerciale. Ha ridotto il capoluogo ad una città dei balocchi, dimenticandosi che dentro di essa esistono drammi enormi. E non mi riferisco soltanto ai profughi, che esprimono solo una parte delle povertà della nostra comunità, ma anche alle famiglie che non riescono ad arrivare ai fine mese; ai nostri anziani, sempre più soli ed emarginati nelle loro case; ai tanti giovani, insicuri e fragili nel progettare la loro vita; ad un carcere che abbiamo quasi dimenticato, che “ospita” più di cinquecento persone che lì sopravvivono, ogni giorno. Ed ecco che dentro questo quadro, ciliegina sulla torta, è arrivata un’ordinanza che, a mio avviso, mette fuori legge anche il Gesù Cristo che deve arrivare, perché è arrivato proprio in queste condizioni”, ha affermato Bernasconi, ricordando che “il Natale si fonda sull’accoglienza di Cristo, che nasce in una condizione di profugo, di emarginato”. Rivolgendosi al sindaco, il direttore della Caritas ha chiesto “un passo indietro”.

Anche Como Senza Frontiere ha chiesto al sindaco la revoca dell’ordinanza, organizzando per sabato 23 dicembre alle 10 una “bivacco solidale” proprio davanti all’ex chiesa San Francesco.

Le polemiche contro l’ordinanza travalicano i confini regionali: “L’ordinanza emanata dal sindaco di Como è deplorevole – dichiarano i membri di Cild -Coalizione Italiana Libertà e Diritti – ma consentita dalla legge. Una legge, il decreto Minniti Orlando, che è stata approvata lo scorso aprile e che abbiamo molto contestato. Una legge che prevede, tra le altre cose, proprio la possibilità di emanare ordinanze sindacali contro ‘grave incuria o degrado del territorio o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana’. Questo a patto che non si ledano diritti costituzionali, quale è il diritto alla solidarietà. Nell’ordinanza non c’è alcun divieto di portare latte caldo e altri beni ai senza fissa dimora, niente che possa fermare chi intenda farlo”. Proprio per questo, la Cild “offre assistenza gratuita ai volontari ai quali sarà impedito di prestare solidarietà in forza di un’ordinanza che nulla dice al riguardo”.

Dal canto suo, il sindaco non sembra avere alcuna intenzione di tornare indietro: “Non ritirerò l’ordinanza. Sono un uomo libero, anche di sbagliare. Se la città me lo chiede, mi dimetto”.

Articolo tratto da "cronache di ordinario razzismo" qui reperibile in originale

la Repubblicaun'uguale libertà d'esercizio per tutti i riti di tutte le culture. E un edificio costruito per un rito può essere adoperato per un altro.

Quanti secoli ci ha messo il cristianesimo a ripudiare la convinzione che si possa uccidere in nome di Dio? Quando aveva l’età che ha ora l’Islam, in Europa scorrevano fiumi di sangue. E sembra che ci siamo dimenticati che, in nome del cristianesimo, solo vent’anni fa furono uccise decine di migliaia di musulmani bosniaci, a poche centinaia di chilometri da Ancona.

Se vogliamo accelerare un simile ripudio nell’Islam italiano, se vogliamo che siano più numerose e più forti le voci di chi dice «not in my name» (come ha subito gridato Igiaba Scego, scrittrice musulmana di origine eritrea, che vive a Roma), abbiamo un’unica strada: accelerare l’integrazione. Ma quella vera.

Per far questo occorre radicalizzare la lacità, e dunque la terzietà religiosa, dello Stato: e contemporaneamente consentire il più pieno esercizio della vita religiosa delle comunità islamiche nel nostro Paese. Esattamente il contrario di ciò che propone la Destra (Lega e Forza Italia): che difende i presepi e i crocifissi nelle scuole (così che i bambini musulmani che ci studiano mai potranno sentirsi pienamente cittadini italiani) e al tempo stesso si oppone vigorosamente alla costruzione di nuove moschee. Ma anche la Sinistra, e l’intera classe dirigente italiana, non sembrano consapevoli che questa è una delle partite cruciali per il futuro del Paese.

Il caso di Firenze è emblematico. Qui la comunità islamica ha presentato un progetto per una grande moschea nel settembre del 2010. L’arcivescovo (cui certo non spettava esprimere un giudizio) sostenne che sarebbe stato meglio non pensare ad un unico tempio, ma a tanti piccoli luoghi di preghiera, possibilmente senza minareto. E il sindaco Matteo Renzi mise subito le mani avanti, dichiarando: «al momento non c’è un progetto, non c’è un’ipotesi di lavoro». Per poi chiudere ogni prospettiva: «Non vedo spazi nel centro storico di Firenze per farla, in questo momento». Oggi, cinque anni dopo questo esorcismo, tutto è ancora fermo: e l’assenza della moschea è assai eloquente sulle vere intenzioni di chi parla di integrazione.

Santa Sofia, Istambul

Ebbene, è da questa miopia che dobbiamo liberarci: quando ci sembrerà finalmente venuto il momento di costruire l’Italia del futuro? Soffocati dagli eterni tatticismi della politica e prigionieri in un discorso pubblico inchiodato alla cronaca di un presente mortificante, sembriamo non sapere che presto anche in Italia si porranno le questioni che oggi agitano la Francia. La sera del massacro di Charlie Hebdo, davanti a una televisione inevitabilmente accesa, mio figlio (che fa la prima elementare in una scuola pubblica fiorentina) mi ha detto che lui non ha paura dei suoi (tanti) compagni di classe musulmani. Mi sono chiesto quanto ci metteremo a rovinare questa naturale armonia: quanto ci vorrà perché cambi idea?

Tutto si deciderà nelle nostre città, così strettamente legate alla storia delle libertà (appunto) civili italiane. Come dimostra ciò che è successo nelle banlieuses francesi, le politiche urbanistiche hanno un peso straordinario nel futuro sociale di un Paese. Per secoli le città italiane hanno creato cittadini: italiani non per stirpe, ma per cultura. Siamo una nazione non per via di sangue, ma – letteralmente – iure soli: per la forza di un territorio che ci ha fatto comunità. Lo riconosce l’articolo 9 della Costituzione, uno dei pochissimi che spenda appunto la parola ‘nazione’: associandola al patrimonio storico e artistico e al paesaggio. Cioè allo spazio pubblico: luogo terzo in cui non siamo divisi né per fede né per censo, ma siamo cittadini ed eguali.

Oggi questo patrimonio può tornare a giocare nella direzione del futuro. Quante chiese abbandonate potrebbero diventare moschee (invece che alberghi di lusso)? Quanti centri storici possono rinascere accogliendo anche un’altra cultura, invece che avviarsi ad un’imbalsamazione turistica? Una moschea nel centro di Firenze sarebbe un segno potente, capace di indicare la direzione del cammino che dobbiamo intraprendere. Un modo per dire che ora, sì, sappiamo come costruire un’integrazione vera. Che passa attraverso città che permettono l’incontro quotidiano, la mescolanza, la conoscenza. E non attraverso quartieri ghetto: periferie chiuse e separate, luoghi fatti apposta per fomentare il risentimento verso quella separazione e nutrire un’identità basata sull’alterità radicale.

È una partita che ci mette di fronte alle nostre antiche carenze: non siamo mai riusciti a formare veri cittadini, a costruire uno Stato impermeabile al pervasivo secolarsimo della Chiesa, a dare un senso attuale e progressivo al patrimonio storico e artistico delle nostre città. Ebbene, è venuto il momento di farlo.


Questo intervento di Tomaso Montanari è uscito sulle pagine dell’edizione fiorentina di Repubblica. (Fonte immagine)

Nigrizia

Non è a Ellen Johnson Sirleaf, prima presidente eletta di un paese africano, la Liberia, che penso, riflettendo sul potere delle donne in Africa. Né a Grace Mugabe, che in Zimbabwe avrebbe voluto succedere al marito Robert alla testa dello Stato. Piuttosto, a tornarmi in mente è una persona incontrata in una township di Pretoria, in Sudafrica. Era anziana, abbastanza perché in tanti la chiamassero gogo, nonna, e si fidassero di lei, al punto da parlarle di qualcosa che, altrimenti, non avrebbero mai ammesso: di avere l’Aids. “Vengono da me - mi spiegò - e non vogliono raccontarlo a nessun altro, ma almeno si lasciano convincere a prendere gli antiretrovirali. Poi sono io che mi siedo a parlare coi loro genitori, che cerco di farli capire”.

A donne come la ‘nonna’ di Pretoria i mezzi d’informazione non dedicano neanche una frazione dello spazio occupato dalle figure femminili più note del continente: in positivo, come Ellen Johnson Sirleaf, o in negativo, come Grace Mugabe. Eppure a volte l’influenza che esercitano nel luogo in cui vivono è capace di portare cambiamenti anche più profondi rispetto al potere comunemente inteso. Lo sa bene Penda Mbow, storica senegalese, impegnata in politica e nella società civile. La incontrai, dopo una serie di attacchi di estremisti in Africa Occidentale, per parlare della crescita del fondamentalismo islamico e delle possibili conseguenze sulla condizione femminile.

Un timore che però, secondo Mbow, non teneva conto della forza sociale delle donne stesse: “Chi ha tentato di confinarle nella sfera privata, di eliminarle, ha fallito”, affermava. E portava ad sempio proprio il Senegal. “Dal punto di vista economico - sosteneva - la donna si è largamente sostituita all’uomo, è il lavoro quotidiano delle donne che permette alle famiglie di sopravvivere di fronte alla crisi economica”. Parole che mi sarebbero tornate in mente qualche giorno più tardi, nel nord del paese, davanti alle socie di una cooperativa femminile che avevano trovato una soluzione alla scarsità di carbone di legna - indispensabile nelle case: ne producevano una nuova varietà, ricavata da piante infestanti comuni nella zona.

Ma il potere di tante donne africane non è solo economico o sociale: il loro contributo dal basso alla politica è altrettanto prezioso. Molte sono, ad esempio, le giovani impegnate nel movimento cittadino per la democrazia Lucha, in prima linea nel rivendicare diritti fondamentali e libertà civili e politiche nella Repubblica democratica del Congo. Micheline Mwendike, non ancora trentenne, ha contribuito a fondarlo: “Lucha (sigla che indica ‘lotta per il cambiamento’, ndr) si fonda sull’uguaglianza di genere. - spiega - Sia uomini che donne fanno tutto, tenendo conto delle competenze di ogni persona, perché pensiamo che ogni congolese abbia qualcosa da offrire”. Certamente, riconosce Mwendike “per ragioni storiche, politiche e culturali, nel movimento oggi ci sono meno donne rispetto agli uomini. Ma una volta diventate attiviste, sono forti, costanti e mobilitano altre persone. Non sono vittime, ma attrici del cambiamento. Sono leader”.

Articolo tratto da "Nigrizia" qui reperibile in originale

Comune-info, 17 dicembre 2017, Intervista di Pierre Thiesset a Serge Latouche il quale espone con chiarezza la sua tesi sui rischi che corre l'umanità se «nuova Megamacchina dalle dimensioni planetarie» continuerà la sua corsa (c.m.c.)

Un giornalista ecologista molto noto ha scritto di recente: “La mondializzazione, quali che siano le condizioni nelle quali si è realizzata, permette ugualmente una espansione dell’immaginario”(1). Voi, al contrario, non cessate di insistere sul livellamento che la mondializzazione comporta, la distruzione di intere culture, la sparizione di lingue, di modi di vivere… Potreste descrivere ancora una volta questa analisi, che svolge un ruolo centrale nella vostra opera, e spiegare ai nostri lettori il carattere fondamentalmente etnocida dello sviluppo?

«Dobbiamo metterci d’accordo su che cosa ognuno di noi mette dietro a ogni parola. Poiché dopo la caduta del muro di Berlino che segna la fine del secondo mondo (e dunque di conseguenza anche del terzo mondo), si è descritta la mondializzazione solo come l’avvento del trionfo planetario della società di mercato, la completa mercificazione del mondo, mentre la mondializzazione dei mercati esiste quantomeno a partire dal 1492, quando gli amerindi pieni di meraviglia hanno scoperto un certo Cristoforo Colombo. Questa “globalizzazione” del mercato segna il momento in cui si passa da una società con un mercato a una società di mercato. Da quel momento l’economia ha completamente fagocitato il sociale, o quasi, e quindi anche la cultura. In questo senso, la mondializzazione è una opportunità soltanto per le imprese multinazionali e per i loro servitori. L’immaginario che l’accompagna non è altro che quello della religione dell’economia (soprattutto di quella ultra-liberista) e della tecnoscienza e non invece il meticciato delle culture. Si tratta quindi piuttosto del compimento della occidentalizzazione del mondo.

«L’etnocidio oggi non tocca più soltanto i paesi del Sud come ai tempi della colonizzazione, dell’imperialismo e dello sviluppo, è diventato planetario. Secondo le parole del filosofo Slavoj Žižek, noi tutti siamo degli indigeni nella evoluzione di un capitalismo planetario. Se diamo uno sguardo all’indietro, questa mondializzazione è una evoluzione che segue l’era dello sviluppo, che a sua volta era il seguito di quella della colonizzazione. È necessario comprendere in modo approfondito che in tutte le civilizzazioni, prima dei contatti con l’Occidente, il concetto di sviluppo era completamente assente. In numerose società africane, lo stesso nome dello sviluppo non ha alcuna traduzione nelle lingue locali. E così, in Wolof, si è cercato di trovare l’equivalente del concetto di sviluppo in una parola che significa “la voce del capo” I camerunesi di lingua Eton sono ancora più espliciti, essi parlano del “sogno del bianco”. E gli esempi si potrebbero moltiplicare(2).

Certo, oggi in Africa, lo sviluppo è diventato qualcosa di familiare, la stessa parola è diventata sacra. È un feticcio dove cadono in trappola tutti i desideri. “Fare lo sviluppo”, significa “guadagnare dei progetti” o “diventare un Bianco”, è il rimedio miracoloso per tutti i mali, ivi compresa la stregoneria. “Ci si procura dei feticci, nota l’antropologo Pierre-Joseph Laurent, per proteggere il proprio capitale: è una specie di “stregoneria di accumulazione”(3). “Lo sviluppo, fa notare inoltre, è un concetto, apparentemente strano, attraverso il quale tutto diventa possibile, tra anziani e giovanissimi, tra chi aiuta e gli aiutati”. L’opportunità dello sviluppo – io direi la sua longevità – risiede nella sua pluralità semantica. Essa conduce, attraverso la modalità del non detto o della sua non esplicitazione, a dei compromessi che talvolta sono sorprendenti. E così, nel suo nome, i mussulmani di Kulkinka hanno allevato dei maiali. Nulla è vietato se ciò porta lo sviluppo(4)!. Come si può vedere, l’occidentalizzazione dello spirito non si realizza senza porre dei problemi.

Questa mancanza delle parole per indicarlo costituiscono un segnale, ma che non sarebbe da solo sufficiente a dimostrare l’assenza di qualunque visione sviluppista. Soltanto, i valori sui quali poggiano lo sviluppo e soprattutto il progresso, non corrispondono minimamente a delle aspirazioni universali profonde. Questi valori sono legati alla storia dell’Occidente, essi non hanno con ogni probabilità alcun senso per le altre società. Per quel che riguarda l’Africa nera, gli antropologi hanno sottolineato che la percezione del tempo è caratterizzata da un netto orientamento verso il passato. Così, i Sra del Ciad ritengono che ciò che si trova dietro ai loro occhi e che essi non possono vedere, è l’avvenire, mentre il passato si trova davanti perché è ben conosciuto. Sembra che tutto ciò sia molto diffuso e non sia vero soltanto in Africa; ma, per non uscire dal tema, questa rappresentazione non facilita la comprensione di una nozione come il progresso che invece svolge un ruolo essenziale per l’immaginario dello sviluppo. A tutto ciò si deve aggiungere la mancanza diffusa della credenza nel controllo sulla natura nelle società animiste. Se il pitone è un mio avo, come credono gli Ashanti, a meno che non lo sia il coccodrillo, come per i Bakongo, è molto difficile fare delle cinture o dei portafogli con le loro pelli. Se le foreste sono sacre come si farà a sfruttarle in modo razionale? In Africa ci si scontra, ancora oggi, con questo tipo di ostacoli allo sviluppo.

Non è privo di interesse notare che si ritrova in queste visioni africane una aspirazione verso il buen vivir, un vivere bene dei popoli amerindi che di recente ha dato luogo a delle rivendicazioni molto vivaci alternative allo sviluppo.“In Bolivia, si utilizza il termine aymara suma quamana, e in Ecuador la parola in lingua kichwa sumak kawsay, e ambedue significano “vivere bene”, “vivere pienamente”, che vogliono dire “vivere in armonia e in equilibrio con i cicli della Madre Terra, del cosmo, della vita e di tutte le forme di esistenza”, secondo F. Huanacuni Mamani. Noi possiamo aggiungere che il termine aymara implica una convivialità necessaria per poter vivere in armonia con tutti, e ciò porta a condividere piuttosto che a entrare in competizione con tutti gli altri. Questi due concetti sono diversi dalla nozione del “vivere meglio” occidentale, che è sinonimo di individualismo, di disinteresse per gli altri, di ricerca di un profitto, da cui deriva la necessità di sfruttare gli esseri umani e la natura(5) . Anche nell’America del Nord si trova ugualmente, presso un certo numero di gruppi amerindi, questa nozione del “ben vivere”, in particolare presso i Cree(6). Sarebbe un controsenso trasformare tutto ciò in un nuovo modello di sviluppo, sia pure di uno “Sviluppo Indigenista” come lo chiamano alcuni, fondato su una concezione biocentrica.

Anche nell’India braminica, secondo l’analisi di Louis Dumont, se i valori che si avvicinano allo sviluppo economico esistono certamente, essi fanno parte dell’Artha, cioè di una sfera di attività inferiore. I comportamenti coinvolti nello sviluppo sono in larga misura contrari alla sfera che più viene ritenuta valida, quella del Dharma (il dovere) (7). Nella visione Brahmanica, il compito dell’uomo secondo Madeleine Biardo “è unicamente quello di mantenere ciò che esiste con una attività in primo luogo rituale”. Tutte le altre attività metterebbero in pericolo l’ordine cosmico(8).

Al di fuori dei miti che costituiscono la base alla pretesa di controllare la natura e alla fede nel progresso, l’idea di sviluppo è completamente priva di senso e le pratiche che ad esso sono legate sono assolutamente impossibili in quanto sono inconcepibili o addirittura vietate. L’universalizzazione dell’Uomo Economico significa la distruzione delle culture e il trionfo della lotta di tutti contro tutti, vale a dire una forma di regressione a una mitica legge della giungla, quella nella quale l’uomo diventa un lupo per l’uomo stesso.»

Nella recente riedizione del vostro lavoro Il pianeta dei naufraghi (uscito inizialmente nel 1991), voi perdete le speranze che avevate espresso trent’anni fa riguardo all’economia informale: voi constatate che la resistenza alla modernizzazione non cessa di rifluire e che la “colonizzazione degli immaginari”, termine che vi è caro, diventa generale. Il mercato della megamacchina è implacabile? Potrebbe ritornare su questa nozione di “megamacchina”, questa organizzazione sociale nella quale l’umano si trova subordinato alla tecnica e all’economia? In quale modo, in questi ultimi anni, il potere del mercato e delle macchine sulle nostre vite si è ulteriormente intensificato, in particolare attraverso le protesi numeriche che si mescolano sempre di più nelle nostre relazioni sociali e riescono perfino a modificare la nostra interiorità?

«Lewis Mumford, ne Il mito della macchina, ci ha insegnato che la macchina più straordinaria inventata e costruita dall’uomo è proprio l’organizzazione sociale. La falange macedone, l’organizzazione dell’Egitto dei faraoni, la burocrazia celeste dell’Impero Ming sono delle “macchine” di cui la storia ha riconosciuto l’incredibile potenza. L’impero di Alessandro ha stravolto in modo duraturo i destini del mondo, le piramidi dell’Egitto meravigliano ancora l’uomo del ventesimo secolo e la Grande Muraglia cinese resta ancora oggi la sola costruzione umana visibile dalla luna. In queste organizzazioni di massa, che combinano la forza militare, l’efficienza economica, l’autorità religiosa, le soluzioni tecnologiche e il potere politico, l’uomo diventa un ingranaggio dentro un meccanismo complesso che consegue un potere quasi assoluto: una Megamacchina. Le macchine semplici o sofisticate partecipano al funzionamento dell’insieme e ne costituiscono il modello.

I Tempi moderni, dei quali Chaplin ci ha dato un’indimenticabile descrizione cinematografica, hanno indubbiamente costituito una tappa in questo processo di aumento di potenza. Walter Rathenau, nella Germania di Weimar, parlava intelligentemente di una “meccanizzazione del mondo”. Ure, nella Filosofia delle manifatture, citato da Marx e da Mumford, parla della fabbrica della grande industria come del “grande automa”. L’essenziale consiste nella “distribuzione delle differenti membra del sistema in un corpo collaborativo, che fa funzionare ciascun organo con la delicatezza e la rapidità desiderate, e all’interno si infiltra nella istruzione degli esseri umani per far loro rinunciare alle loro abitudini sconnesse di lavorare e farli invece identificare nella regolarità invariabile di un automa”(9). Nel periodo tra le due guerre il mondo affascinato o terrorizzato ha così visto nascere l’impresa fordista con la catena di montaggio, la macchina da guerra e da sterminio del regime nazista, il socialismo burocratico che combinava, secondo la formula di Lenin, i soviet e l’elettrificazione. All’interno di queste Megamacchine, l’individuo non è più una persona, e meno ancora un cittadino, è semplicemente un ingranaggio.

Se queste tre Megamacchine sono crollate come dei colossi con i piedi di argilla, i meccanismi più sofisticati del mercato mondiale hanno costruito accuratamente sotto i nostri occhi i differenti ingranaggi di una nuova Megamacchina dalle dimensioni planetarie: la macchina-universo. Sotto il segno della mano invisibile, tecniche sociali e politiche (dalla persuasione clandestina della pubblicità alla violazione delle folle della propaganda, grazie alle autostrade dell’informazione e ai satelliti delle telecomunicazioni…) tecniche economiche e produttive (dal toyotismo alla robotica, dalle biotecnologie all’informatica) si scambiano, si fondono, si integrano, si articolano in una vasta rete mondiale creata da imprese transnazionali gigantesche (gruppi multimediali, trust agroalimentari, conglomerati industriali-finanziari di ogni settore) sottomettono ai loro servizi Stati, partiti, sette, sindacati, organizzazioni non governative, ecc.

L’impero e il controllo della razionalità tecnoscientifica ed economica, della quale il potere e il controllo delle espressioni numeriche informatiche sono oggi l’aspetto più spettacolare, danno alla Megamacchina contemporanea una ampiezza inedita e poco usuale nella storia degli uomini. Stiamo assistendo a una reale mutazione antropologica.

Dobbiamo rilevare che tutti i progetti attuali, per guardare ancora più lontano, della cibernanthropia (mescolanza di uomo e di macchina) o del miglioramento biogenetico, non tendono a “migliorare” la specie, e nemmeno i felici beneficiari di queste tecniche in direzione della giustizia, dell’altruismo e nemmeno della capacità di essere felici (attraverso l’inserimento di geni specifici, o lo scambio di embrioni adeguati) ma soltanto ad accrescere le sue capacità di funzionamento, cioè la sua aggressività. E da questo punto di vista, Ellul è stato veramente “l’uomo che aveva (quasi) tutto previsto”.

“Non c’è alcuna misura comune – scriveva nel 1983 – tra la proclamazione dei valori (giustizia, libertà, ecc.) e l’orientamento dello sviluppo tecnologico. Quelli che sono gli specialisti dei valori (teologi, filosofi, ecc.) non hanno alcuna influenza sugli specialisti delle tecnologie e non possono ad esempio chiedere che si vieti questa ricerca o quel mezzo esistente in nome di un valore. (…) Non ci si chiede quale tipo di uomo si vuole creare. E quando una tale domanda viene formulata sembra evidente che siano gli scienziati o i tecnici a dover decidere che tipo di uomo si vuole creare”.(10)

È ormai l’umanità stessa dell’uomo che è minacciata dai progetti di transumanesimo. E inoltre, non è la società stessa che intende realizzarli che è ancora più minacciata? »

I grandi movimenti migratori attuali sono anch’essi degli indicatori di questa distruzione delle capacità di sussistenza autonoma, dei modi di vita non integrati nella megamacchina? Lo sradicamento e la deculturazione non diventano l’aspetto comune di tutta l’umanità, quando i nostri stessi desideri sono costretti ad assumere la forma imposta dallo sviluppo egemonico?

La risposta si trova nelle spiegazioni date alle altre domande.

Ne L’ Epoca dei limiti, voi scrivete che la decomposizione del tessuto politico comporterebbe per reazione delle risposte identitarie e delle nuove feudalità. Quali osservazioni, dal punto di vista della decrescita, potete fare sui conflitti identitari attuali e sull’aumento delle tentazioni secessioniste? Di che cosa essi sono i sintomi?

«Nell’ultimo messaggio spedito a sua madre l’11 marzo 2015, Foued Mohamed-Aggad che si sarebbe fatto esplodere due giorni più tardi, dopo la carneficina del Bataclan, scriveva: “Questa dounia (questo mondo materiale) è effimero, tutto è effimero, ingannevole”(11). Il tema dell’illusione del mondo, del Faichè Welt,(12) del mondo illusorio, è certamente uno dei temi, dei luoghi comuni, più utilizzati dai religiosi, dai saggi o i poeti che hanno vissuto di più. Ma, che sia un giovane di vent’anni che lo prende alla lettera è rivelatore del “nichilismo della realtà” tanto sottolineato da Jean Baudrillard ai suoi tempi. Stigmatizzare questo giovane francese di debolezza come hanno fatto certi media è un modo abusivo di rifiutare di affrontare la realtà.

Il sacrificio di questi ragazzi deviati che avrebbero potuto dire come Paul Nizan: “Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che è l’età più bella della vita”, dovrebbe suscitare in noi delle domande riguardo all’orrore del massacro dei loro coetanei. Per comprendere l’emergenza del terrorismo e la potenza della seduzione che Daesh ha potuto esercitare su dei giovani frustrati e senza punti di riferimento, non necessariamente di origine magrebina, attraverso i metodi di propaganda dei djihadisti sul modello dei videogiochi e la loro perfetta padronanza di tutti i metodi hollywoodiani, è importante capire che si tratta innanzitutto di una reazione alla perdita di senso generata dalla società della crescita. Il processo di radicalizzazione, come si dice oggi, non ha molto a che vedere con l’islam autentico, ma molto con il fascino del carattere distraente della guerra.

Ciò che noi chiamiamo il terrorismo è, in realtà, un controterrorismo di risposta al totalitarismo del mercato e al terrorismo dell’imperialismo culturale occidentale che Jean Baudrillard definiva anche come “il fondamentalismo terrorista di questa nuova religione sacrificale della prestazione(13)”. Si tratta in realtà di una reazione all’occidentalizzazione del mondo. Questa analisi si contrappone frontalmente alle due analisi statunitensi più diffuse dai media dopo il il 1989, quella de “La fine della storia” di Francis Fukuyama e quella de “La Guerra delle civilizzazioni” di Samuel Huntington.

La mondializzazione che rappresenta il compimento relativo di un’epoca è tutto tranne che felice; si tratta piuttosto di una “immondializzazione”, cioè di una globalizzazione immonda. E se la storia sembra conclusa e che una fase sia terminata, la successione degli avvenimenti che ha fatto seguito alla caduta del muro di Berlino non ha nulla di definitivo e ancor meno di auspicabile. Il “terrorismo islamico” non è da questo punto di vista l’ultimo soprassalto di un mondo che avrebbe trovato il suo giudizio finale con lo sposalizio tra la democrazia e il mercato… È chiaro che ciò che è terminato è un certo regime di storicità, mentre ciò che si apre è una avventura indecifrabile e, per noi, letteralmente insensata.

Quanto alle guerre di civiltà, si tratta di un vecchio fantasma occidentale riciclato che cerca di diventare una profezia autorealizzantesi. È il fantasma liberista, quello della indifferenza verso i suoi stessi valori e proprio per questo di una intolleranza totale verso coloro che sono diversi per una qualunque passione. E non è l’elezione di Donald Trump che lo smentirà… Si deve anche aggiungere che lo sterminio universale non è meno insopportabile quando si manifesta sotto la sua forma “di sinistra” della compassione paternalista o nella sua forma etno-nazionalista neo-conservatrice.

Anche se sarebbe un abuso il vedere nel terrorismo anti-occidentale un nuovo “soggetto della storia”, esso rappresenta in qualche modo “La rivincita del popolo dello specchio”, per riprendere il titolo di un racconto famoso di Jorge Luis Borges. In quel testo, i vinti dell’impero sono condannati a restare dall’altra parte dello specchio e a riflettere i gesti dei loro dominatori. Ma «un giorno forse, dice il testo di Borges, essi ( le genti dello specchio) si scuoteranno da questo letargo magico. Le forme cominceranno a risvegliarsi. Essi diventeranno poco a poco diversi da noi, e ci imiteranno sempre meno. Essi spaccheranno le barriere di vetro e di metallo e questa volta non saranno vinti».

Ciò che si vede meno, è che questa egemonia, questa presa del potere di un ordine mondiale di cui i modelli – non solamente tecnici e militari, ma culturali e ideologici – sembrano irresistibili, si accompagna a una recessione straordinaria attraverso la quale questa potenza è lentamente minata, rosicchiata, cannibalizzata, da coloro che ne sono le vittime».

Voi l’avevate già annunciato, con la crisi dell’occidente suona l’ora della verità: una fuga in avanti che rischia di essere sempre più violenta o la strada verso la decrescita. Ora, malgrado il fatto che la ricerca sfrenata della crescita lascia dei naufraghi e che essa devasta il nostro ambiente (la catastrofe ecologica è abbondantemente documentata, escono continuamente dei rapporti sull’estinzione di massa delle specie, la desertificazione di interi territori, ecc.) la decrescita sembra sempre una eresia, la corsa non si arresta, e la “pedagogia delle catastrofi” non si realizza. Siamo diventati incapaci sia pure soltanto di immaginare una qualunque forma di società diversa, non strutturata intorno all’imperativo della crescita?

«Non si può dire che la pedagogia delle catastrofi non si è realizzata. Le disfunzioni ineluttabili della megamacchina, le contraddizioni, le crisi, i rischi tecnologici principali, i bloccaggi, sono fonti di sofferenze insopportabili e sono delle disgrazie che si possono soltanto deplorare. Tuttavia, sono anche delle occasioni di presa di coscienza, di rifiuto, anche di rivolta. Certamente gli esempi di catastrofi che non determinano alcun cambiamento o peggio che provocano dei ripiegamenti che possono dar luogo a delle reazioni di tipo “fascista” non mancano. L’elezione del presidente Trump ne costituisce un buon esempio… Tuttavia, vi sono anche numerosi esempi in senso contrario. Richiamiamo qui un caso tra gli altri, nel dicembre 1952, lo smog di Londra aveva ucciso 4.000 persone in cinque giorni! Ma ciò provocò una reazione tale che portò ad approvare la legge sull’aria pulita del 1956. La storia della mucca pazza è nello stesso tempo una buona testimonianza della follia degli uomini e un segnale forte che ha determinato dei cambiamenti nelle maniere di alimentarsi. Tutto ciò peraltro non è sufficiente a provocare la grande rottura auspicata dal movimento per la decrescita. Ricordiamoci che malgrado tutto la preoccupante canicola dell’estate 2003 ha fatto molto più di tutti gli argomenti da noi presentati per far comprendere la voce della decrescita e per convincere almeno una minoranza della necessità di orientarsi verso una società dell’abbondanza frugale o della prosperità senza crescita.

Inoltre, non manchiamo di immaginazione per proporre delle alternative alla civilizzazione capitalista occidentale, ma per realizzare a livello delle masse lo scatto sufficiente per rompere con la tossicodipendenza del consumismo e per procedere alla necessaria decolonizzazione dell’immaginario, non si può certo contare solo sulla pedagogia delle catastrofi. Il vero problema, come sottolinea Jean Pierre Dupuy, è che «noi non riusciamo a dare un peso di realtà sufficiente all’avvenire che si prospetta, e, in particolare, all’avvenire catastrofico» (14). La catastrofe, scrive ancora, ha questo di terribile che non si crede solamente che essa si produrrà quando anche si hanno tutti i motivi per sapere che essa si produrrà, ma che una volta che essa si è realizzata essa sembrerà far parte dell’ordine normale delle cose. La sua realtà stessa la rende banale. Essa non era stata giudicata possibile prima che si realizzasse; ma eccola integrata senza alcuna forma di processo nel “mobilio ontologico” del mondo, per usare il gergo dei filosofi. (..) È questa metafisica spontanea dei tempi delle catastrofi che costituisce l’ostacolo maggiore alla definizione di una prudenza adeguata ai tempi attuali.

In altri termini, conclude, ciò che rappresenta qualche possibilità di salvarci è ciò stesso che ci minaccia. Io credo che questa sia l’interpretazione più profonda di ciò che Hans Jonas chiama “l’euristica della paura”(15). “Sarebbe meglio – scrive Jonas – ascoltare la profezia della disgrazia piuttosto che quella della felicità”(16). Tutto ciò, non per un gusto masochista dell’apocalisse, ma proprio per scongiurarla. La politica dello struzzo è in ogni caso una forma di ottimismo suicida. E inoltre, non si ha alcuna certezza che ciò funzionerà nei tempi previsti. Tuttavia, non si ha nulla da perdere a fare il tentativo».

Tutte le saggezze, le filosofie, le religioni insistevano sulla virtù della temperanza e sulla necessità dell’autolimitazione. E tuttavia, la decrescita sembra oggi come una provocazione finale, mentre la trasgressione è proclamata essere la norma. Come spiegare questo immenso sconvolgimento, la perdita del senso della misura? Dobbiamo ritornare nelle biblioteche per riannodare una visione del mondo e una concezione dell’esistenza in contrapposizione alla volontà di potenza distruttrice che divora le nostre società? La decrescita, è prima di tutto una questione di senso, per rimettere in gioco i valori sui quali si basa l’Occidente moderno, “capovolgere i nostri modi di pensare”?

«La decrescita implica certamente di “capovolgere i nostri modi di pensare”, ma comporta certamente delle nostre modalità di fare. Per cambiare i nostri comportamenti e a livello collettivo, cambiare il sistema, cambiare il paradigma e anche la civilizzazione, in breve per uscire dalla società della crescita, è necessario decolonizzare (vale a dire soprattutto de-economicizzare) i nostri immaginari. Per fare questo, si deve dapprima comprendere come tutto ciò è stato colonizzato, e quindi fare una “metanoia”, un percorso inverso di tutto il pensiero. Come le saggezze, le filosofie, le religioni, come voi dite, che insistevano sulla virtù della temperanza e sulla necessità dell’autolimitazione, sono state abbandonate, rifiutate, tradite. È una lunga storia. Ciascuna delle tappe che hanno portato alla società globalizzata del mercato contemporaneo è stata accompagnata da cambiamenti importanti nei differenti ordini: tecnico, culturale, politico. L’invenzione della contabilità a partita doppia e della banca, degli ordini mendicanti e delle spinte eretiche, dell’autogoverno delle piccole repubbliche italiane e fiamminghe, per la prima fase del capitalismo mercantile in una Europa cristiana e feudale.

La riforma, il capovolgimento etico di Bernard de Mandeville e il cambiamento dell’egemonia culturale con il trionfo dei Lumi e della modernità grazie alle rivoluzioni politiche delle borghesie nazionali, quando è emersa la società termo-industriale, caratterizzata dalla scelta del fuoco e l’utilizzazione delle energie fossili. La rivoluzione numerica e l’installazione del virtuale, la controrivoluzione neoliberista, sono tutte cose che hanno fatto sparire le ultime barriere contro l’illimitato e la dismisura, con l’emergere contemporaneo dell’impero mondiale del mercato.

Liberarsi dalla cappa di piombo dell’ideologia così dominante, quando l’enorme macchina mediatica si sforza di decerebrarci, non è certo una cosa da poco. Per fortuna, noi abbiamo due emisferi nel cervello e la parte sinistra resiste sempre… E può risvegliarsi in qualunque momento. Ogni speranza non è quindi perduta ed è opportuno gioire serenamente del miracolo di essere ancora semplicemente vivi.»
Tradotto da Alberto Castagnola per Comune-info.net.

Articolo tratto da comune-info.net qui raggiungibile in originale

Note
(1)Vedi Marcellesi Florent, Cooperacion al postdesarrollo. Bases teoricas para la transformacion ecologica de la coopéracion al desarrollo, Bakeaz, Bilbao 2012
(2)Pierre-Joseph Laurent, Le don comme ruse. Anthropologie de la coopération au développement chez les Mossi du Burkina Faso: la fédération Wend-Yam, avril l996, Louvain. p. 274.
(3)Ibid. p. 226.
(4)Françoise Morin, «Les droits de la Terre-Mère et le bien vivre, ou les apports des peuples autochtones face à la détérioration de la planète» MAUSS revue n° 42. Que donne la nature? L’écologie par le don. Second semestre 2013, La découverte, p. 230.
5) Ibid. p. 232.
(6)Louis Dumont, Homo hiérarchicus, Le système des castes et ses implications, Gallimard, Paris l966.
(7)Madeleine Biardeau, L’hindouisme, Anthropologie d’une civilisation, Flammarion, col. Champs. Paris l981, p. l56.
(8)Cité parJean‑Pierre Séris, La technique, P.U.F, l994, p. 183.
(9)Jacques Ellul, “Recherche pour une éthique dans une société technicienne” in La technique, Cahiers Jacques-Ellul pour une critique de la société technicienne, N° 2, Bordeaux, 2004, p. 139.
(10) Rapporté par Le monde du 29/30 mai 2016.
(11)«Le plus odieux chez les terroristes palestiniens, ironise Baudrillard, c’est qu’ils se font tuer dans leurs attentats. Ils trichent. Ils engagent leur mort comme prix à payer. C’est inacceptable. Ces gens-là n’ont pas le courage de lutter à armes égales ». Cool Memories IV, Galilée, 2000, p. 36.
“I più odiosi tra i terroristi palestinesi , ironizza Baudrillard, sono quelli che si fanno uccidere nei loro attentati. Sono dei truffatori. Essi impegnano la loro morte come se fosse un prezzo da pagare. Non è accettabile. Questa gente non ha il coraggio di lottare ad armi pari“.
(12)L’Illusion de la fin ou la grève des événements, Galilée, 1992., p. 150.
(13Cahier de IUED juin 2003, p.161
(14)Pour un catastrophisme éclairé, Seuil 2003, p. 84-85.
(15 Ibidem, p. 215.
(16)Hans Jonas, Le principe responsabilité, une éthique pour la civilisation technologique, Editions du Cerf, l990, Paris p. 54.

Nell'immagine il quadro realizzato con ciottoli di mare dai bambini e dalle bambine della IV A e della IV B della scuola elementare I.C. Santa Marina ???

Alleanza Popolare Democrazia Uguaglianza, 20 novembre 2017.

Da ogni punto del variegato mondo della sinistra italiana alternativa al PD (una formazione, quella di Renzi, che per conto mio non ho mai giudicato “di sinistra”) si levano appelli e inviti a formare un raggruppamento elettorale in grado di opporsi sia al PD e alle liste a esso collegate, sia al M5S sia, ovviamente, alle destre.

Forti pressioni si esercitano sull’Assemblea Popolare Democrazia e Uguaglianza (Anna Falcone e Tomaso Montanari, appello del Brancaccio) perché aderisca formalmente a questa lista. La grande distanza che divide, nell’analisi e nella proposta politica, la posizione del Brancaccio da quelle delle sinistre italiane mi è sempre sembrata così profonda- a tutto vantaggio di quella del Brancaccio – che ho sempre nutrito forti perplessità per incontri e confusioni per le due aree politiche: condivido pienamente le ragioni dell’area Brancaccio, ho forti perplessità su quelle della “sinistra”.

Riepilogo le ragioni per cui l’analisi e la proposta di Anna e Tom mi sono sembrate le uniche adeguate a comprendere, e quindi a combattere efficacemente, la crisi che travaglia il nostro pianeta e le sue popolazioni nell’ età del capitalismo globalizzato.

* La denuncia del carattere radicale della crisi che il mondo attraversava. Era una crisi che rivelava come alle sue radici vi fosse l’ideologia dello sviluppo: un’ideologia il cui dominio aveva accresciuto a dismisura la frattura tra ricchi e poveri, tra popoli che vivono nei paradisi del benessere e popoli che vivono negli inferni della carestia e delle guerre, entrambi creati dal dominio di quella ideologia.

* La netta rottura con il passato della “politica politicante”, con i suoi riti, le sue struttura organizzative, i suoi piccolo Pantheon. Craxi, Berlusconi e Renzi, certamente, ma non solo questi. In una parola, la rottura con i gusci grandi e piccoli delle sinistre (e ovviamente le destre) del secolo scorso.

*

L’affermazione dell’eguaglianza come essenziale valore e principio da conquistare: un’eguaglianza non solo dei diritti statuiti, ma di quelli sostanziali di ogni essere umano, quale che sia il suo censo, il suo ruolo sociale, il sangue o il suolo dal quale proviene, la lingua che parla, la religione che professa.

* La consapevolezza che la trasformazione da compiere non era l’aggiustamento del sistema economico-sociale nel quale viviamo (il capitalismo), né la moderazione dei suoi effetti più distruttivi, ma il suo superamento radicale (il superamento dell’”economia che uccide”).

Ciò detto, esprimevo la mia perplessità su un punto: non sul piano della strategia ma su quello della tattica. Mi riferivo al difficile equilibrio tra due esigenze: quella della definizione di una identità “di parte”, radicalmente diversa dalle altre identità che si sono affermate nella storia del nostro paese, e quella dell’efficacia politicanell’immediato.

Far prevalere la ricerca dell’efficacia immediata (e quindi proporre una “lista unica della sinistra”) comportava secondo me ad annebbiare il messaggio di rottura col passato che è la forza della proposta. Il percorso che mi sembrava preferibile era: prima affermare, rendere evidente e compiuta, la propria identità/diversità, e solo dopo stabilire le alleanze necessarie per raggiungere gradualmente gli obiettivi nella pratica politica.

La mia perplessità era fondata sul fatto che quella “sinistra” cui il documento si riferiva era stata complice – se non addirittura co-autore – della tragedia che si compiva sotto i nostri occhi. L’ideologia dello sviluppo è stata pienamente condivisa dalla sinistra, e la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, cioè lo sfruttamento delle regioni e dei popoli lontani, era stato lo strumento accettato per accrescere salari e welfare nei paesi “sviluppati”.[ cfr. il mio: La parola Sinistra]

Per concludere, accettare di far parte di una “sinistra” capace di contribuire a tagliare le radici della crisi (una “crisi” non cartacea, ma testimoniata ogni giorno dai corpi mutilati o affogati dei fuggitivi) mi sembrava e mi sembra un’ipocrisia, se non è preceduta da una esplicita presa di coscienza delle responsabilità storiche e attuali della “sinistra” e da una concreta applicazione, nella vita politica di ciascuno di quel convincimento.

Articolo tratto da "Alleanza Popolare Democrazia Uguaglianza" qui reperibile in originale

Avvenire,o, in cambio di un po' di petrolio

«Il piano dell'Italia, svelato dall'agenzia Reuters: 44 milioni per affidare il centro di coordinamento e soccorso a Tripoli. Summit di Bruxelles, Gentiloni: riforma Dublino ancora lontana»

Avanti tutta per fermare i flussi del Mediterraneo. Malgrado le critiche e le denunce, con tanto di filmati, di Amnesty e di diverse Ong sui salvataggi della guardia costiera libica, Roma ha deciso di affidare a Tripoli il coordinamento dei soccorsi in mare. Il piano, secondo quanto rivela l’agenzia Reuters, prevede entro tre anni di affidare alla Guardia costiera libica la responsabilità di intercettare e soccorrere i migranti in un braccio di mare che comprende circa il 10% del Mediterraneo. L’Italia destinerà circa 44 milioni di euro per espandere la capacità libica, equipaggiando la guardia costiera e consentendole di creare in proprio un centro di coordinamento dei salvataggi e una vasta zona marittima di Search and rescue (ricerca e soccorso, ndr.)

A sei anni dalla caduta di Muammar Gheddafi e con oltre 600mila personeche hanno attraversato il Mediterraneo negli ultimi quattro anni, la Libia continua ad essere divisa tra due governi rivali e con territori (incluse spiagge e porti) in mano a gruppi armati. L’intento dell’Italia e dell’Europa è quello di fermare le imbarcazioni dei migranti. Ma le Ong puntano il dito sulla modalità. Le forze libiche, sostengono le organizzazioni non governative, non sono in grado di gestire in sicurezza i salvataggi e citano, al riguardo, quanto avvenuto a inizio novembre con la morte di una cinquantina di migranti, annegati durante un’operazione di soccorso.

Ad oggi, l’Italia ha fornito alla Libia quattro motovedette e addestrato circa 250 uomini. Anche se in mare, sostengono le Ong, sono oltre 2mila gli uomini chiamati a intercettare e a soccorrere le imbarcazioni dei migranti che prendono il largo dalle coste libiche.

Intanto la strategia italiana, in linea con le grandi priorità della cosiddetta "dimensione esterna" della politica migratoria (quella cioè al di fuori dei confini europei) va avanti con il totale appoggio e sostegno dell’Ue. Lo ha confermato anche ieri il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, al termine del summit di Bruxelles. «L’iniziativa italiana di quest’anno è stata apprezzata in modo molto rilevante, ed è importante che lo sia dai leader dei Governi dei più diversi orientamenti e famiglie politiche, c’è un riconoscimento unanime dei passi fatti per la lotta contro i trafficanti di esseri umani».

Ma se da una parte ci sono le imbarcazioni in mare da fermare, dall’altra si guarda anche ai campi di detenzione in Libia. Quei centri di dolore e sofferenza per migliaia di persone intrappolate, finite nell’inferno libico dopo essere fuggite dal proprio paese in cerca di una vita migliore. Centri che tutti vogliono "svuotare". Anche Bruxelles. I numeri dei rimpatri volontari assistiti di migranti dalla Libia sono «oltre dieci volte quelli dell’anno scorso», ha confermato Gentiloni. «Proseguendo questa azione – ha aggiunto – nel corso di alcuni mesi i campi gestiti ufficialmente inLibia potranno essere quasi completamente svuotati».

Rimangono però le criticità sul ricollocamento dei migranti da Italia e Grecia e il Regolamento di Dublino. Lo scoglio, cioè sulla cosiddetta "dimensione interna", nei confini dei Paesi europei. Il nodo resta sempre quello del blocco dei Paesi Visegrad (Polonia-Repubblica Ceca-Slovacchia-Ungheria). «Su questo – ammette Gentiloni – non siamo riusciti a superare le resistenze che restano dei Paesi che rifiutano la decisione di obbligatorietà delle quote». Sulla redistribuzione dei migranti, insomma, le distanze restano. «Non siamo a un’intesa e neppure alla vigilia di un’intesa sulla riforma del regolamento di Dublino» ha concluso il premier italiano. La strada da percorrere resta ancora lunga.

«Sigonella, Niscemi, Napoli, Amendola, Ghedi, Aviano, Domusnovas, Centocelle. La militarizzazione del territorio, la crescita della produzione di armi e il “baratro atomico” ricordano a tutti che siamo in guerra»

Sono indignato davanti a quest’Italia che si militarizza sempre più. Lo vedo proprio a partire dal Sud, il territorio economicamente più disastrato d’Europa, eppure sempre più militarizzato. Nel 2015 è stata inaugurata a Lago Patria (parte della città metropolitana di Napoli) una delle più importanti basi Nato d’Europa , che il 5 settembre scorso è stata trasformata nell’Hub contro il terrorismo (centro di spionaggio per il Mediterraneo e l’Africa). Sempre a Napoli, la nota caserma della Nunziatella è stata venduta dal Comune di Napoli per diventare la Scuola Europea di guerra, così vuole la ministra della Difesa Roberta Pinotti. Ad Amendola (Foggia) è arrivato lo scorso anno il primo cacciabombardiere F-35 armabile con le nuove bombe atomiche B 61-12. In Sicilia, invece, la base militare di Sigonella (Catania) diventerà nel 2018 la capitale mondiale dei droni. E sempre in Sicilia, a Niscemi (Trapani) è stato installato il quarto polo mondiale delle comunicazioni militari, il cosiddetto Muos. Mentre il Sud sprofonda a livello economico, cresce la militarizzazione del territorio. Non è per caso che così tanti giovani del Sud trovino poi rifugio nell’Esercito italiano per poter lavorare.

Ma anche a livello nazionale vedo un’analoga tendenza: sempre più spese in armi e sempre meno per l’istruzione, sanità e welfare. Basta vedere il Fondo di investimenti del governo italiano per i prossimi anni per rendersene conto. Su 46 miliardi previsti, ben 10 miliardi sono destinati al ministero della difesa : 5.3 miliardi per modernizzare le nostre armi e 2.6 per costruire il Pentagono italiano ossia un’unica struttura per i vertici di tutte le nostre forze armate , con sede aCentocelle (Roma).

L’Italia investe sempre più in campo militare a livello nazionale, europeo e internazionale. L’Italia, non dimentichiamolo, continua a spendere una barca di soldi per gli F-35, si tratta di 14 miliardi di euro! Questo, nonostante la Corte dei Conti abbia fatto notare che ogni aereo ci costerà almeno 130 milioni di euro contro i 69 milioni previsti nel 2007. Quest’anno il governo italiano spenderà complessivamente 24 miliardi di euro in Difesa, pari a 64 milioni di euro al giorno. Per il 2018 si prevede un miliardo in più.

Ma è ancora più impressionante l’esponenziale produzione bellica nostrana: Finmeccanica (oggi Leonardo) si piazza oggi all’ottavo posto mondiale. Lo scorso anno abbiamo esportato per 14 miliardi di euro, il doppio del 2015! Grazie alla vendita di 28 Eurofighter al Kuwait per otto miliardi di euro, merito della ministra Pinotti, ottima piazzista d’armi. E abbiamo venduto armi a tanti paesi in guerra, in barba alla legge 185 che ce lo proibisce. Continuiamo a vendere bombe, prodotte dall’azienda RMW Italia a Domusnovas(Sardegna), all’Arabia Saudita che le usa per bombardare lo Yemen, dov’è in atto la più grave crisi umanitaria mondiale secondo l’Onu (tutto questo nonostante le quattro mozioni del Parlamento europeo). L’Italia ha venduto armi anche al Qatar e agli Emirati Arabi con cui quei paesi armano i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Africa (noi che ci gloriamo di fare la guerra al terrorismo!). Siamo diventati talmente competitivi in questo settore che abbiamo vinto una commessa per costruire quattro corvette e due pattugliatori per un valore di 40 miliardi per il Kuwait.

Non meno preoccupante è la nostra produzione di armi leggere: restiamo al secondo posto dopo gli Usa! Per la cronaca sono queste le armi che uccidono di più. E di questo commercio, naturalmente, si sa pochissimo.

ARTICOLI CORRELATI
Fermare l’apocalisse umanitaria Sergio Segio
Lo spirito della guerra Miguel Martinez
Ogni trentacinque secondi A. Ghebreigziabiher

Quest’economia di guerra sospinge il governo italiano ad appoggiare la militarizzazione della Ue. È stato inaugurato a Bruxelles il Centro di pianificazione e comando per tutte le missioni di addestramento, vero e proprio quartier generale unico. Inoltre la Commissione Europea ha lanciato un Fondo per la Difesa che a regime svilupperà 5,5 miliardi di investimento l’anno per la ricerca e lo sviluppo industriale nel settore militare. Questo fondo, lanciato il 22 giugno, rappresenta una massiccia iniezione di denaro pubblico nell’industria bellica europea. Sta per nascere anche la” PESCO-Cooperazione strutturata permanente” della Ue nel settore militare (la Shengen della Difesa). “Rafforzare l’Europa della Difesa – ha detto Federica Mogherini, Alto Rappresentante della Ue, per gli Affari esteri- rafforza anche la Nato”.

La Nato, di cui la Ue è prigioniera, è diventata un mostro che spende mille miliardi di dollari in armi all’anno. Trump chiede ora ai 28 paesi membri della Nato di destinare il 2 per cento del Pil alla Difesa. L’Italia destina oggi 1,2 per cento del Pil per la Difesa. Gentiloni e Pinotti hanno già detto di Sì al diktat di Trump. Così l’Italia arriverà a spendere100 milioni al giorno in armi. La Nato trionfa, mentre è in forse il futuro della Ue. Infatti è la Nato che ha forzato la Ue a creare la nuova frontiera all’Est contro il nuovo nemico, la Russia, con un imponente dispiegamento di forze militari in Ucraina, Polonia, Romania, Bulgaria, in Estonia, Lettonia e con la partecipazione anche dell’Italia. La Nato ha anche stanziato 17 miliardi di dollari per lo “Scudo anti-missili.” E gli Usa hanno l’intenzione di installare in Europa missili nucleari simili ai Pershing 2 e ai Cruise (come quelli di Comiso). La Russia ovviamente risponde con un altrettanto potente arsenale balistico.

Fa parte di questo piano anche l’ammodernamento delle oltre duecento bombe atomiche B-61, piazzate in Europa e sostituite con le nuove B 61-12. Il ministero della Difesa ha pubblicato in questi giorni sulla Gazzetta Ufficiale il bando di costruzione a Ghedi (Brescia) di nuove infrastrutture che ospiteranno una trentina di F-35 capaci di portare cadauno due bombe atomiche B61-12. Quindi solo a Ghedi potremo avere sessantina di B61-12 , il triplo delle attuali! Sarà così anche adAviano? Se fosse così rischiamo di avere in Italia una forza atomica pari a 300 bombe atomiche di Hiroshima. Nel silenzio più totale!

Mai come oggi, ci dicono gli esperti, siamo vicini al “baratro atomico”. Ecco perché è stato provvidenziale il Trattato dell’Onu, votato il 7 luglio, che mette al bando le armi nucleari. Eppure l’Italia non l’ha votato e non ha intenzione di votarlo. È una vergogna nazionale. Occorre essere grati a papa Francesco che ha convocato un incontro, lo scorso novembre, in Vaticano sul nucleare, proprio in questo grave momento in cui il rischio di una guerra nucleare è alto e per il suo invito a mettere al bando le armi nucleari.

Quello resta incomprensibile è l’incapacità del movimento della pace a mettersi insieme e scendere in piazza a gridare contro un’Italia e un’Unione Europea che si stanno armando sempre di più, davanti a guerre senza numero, davanti a un mondo che rischia l’olocausto nucleare. Eppure in Italia c’è una straordinaria ricchezza di gruppi, comitati, associazioni, reti che operano per la pace. Ma purtroppo ognuno fa la sua strada.

E come mai tanto silenzio da parte dei vescovi italiani? E che dire della parrocchie, delle comunità cristiane che si apprestano a celebrare la nascita del “Principe della Pace?”. “Siamo vicini al Natale – ammonisce papa Francesco – ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi… tutto truccato: il mondo continua a fare guerra!”

Oggi più che mai c’è bisogno di un movimento popolare che contesti radicalmente questa economia di guerra.

RAI news,

In un rapporto pubblicato oggi, all’indomani dello scandalo suscitato dalle immagini relative alla compravendita dei migranti in Libia, Amnesty International ha accusato i governi europei di essere consapevolmente complici nelle torture e nelle violenze ai danni di decine di migliaia di rifugiati e migranti, detenuti in condizioni agghiaccianti nel paese nordafricano. Il rapporto, intitolato Libia: un oscuro intreccio di collusione, descrive come i governi europei, per impedire le partenze dal paese, stiano attivamente sostenendo un sofisticato sistema di violenza e sfruttamento dei rifugiati e dei migranti da parte della Guardia costiera libica, delle autorità addette ai detenuti e dei trafficanti. "Centinaia di migliaia di rifugiati e migranti intrappolati in Libia sono in balia delle autorità locali, delle milizie, dei gruppi armati e dei trafficanti spesso in combutta per ottenere vantaggi economici. Decine di migliaia di persone sono imprigionate a tempo indeterminato in centri di detenzione sovraffollati e sottoposte a violenze ed abusi sistematici", ha dichiarato John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l`Europa.

I governi europei non solo sono pienamente a conoscenza di questi abusi, ma sostengono attivamente le autorità libiche nell`impedire le partenze e trattenere le persone in Libia. Dunque, sono complici di tali crimini", ha aggiunto Dalhuisen. Dalla fine del 2016 gli stati membri dell’Unione europea e soprattutto l’Italia hanno attuato una serie di misure destinate a sigillare la rotta migratoria attraverso la Libia e da qui nel Mediterraneo centrale, con scarsa attenzione alle conseguenze per le persone intrappolate all’interno dei confini della Libia, dove regna l’anarchia. -

a cooperazione coi vari attori libici si è sviluppata lungo tre assi:

- la fornitura di supporto e assistenza tecnica al Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale (Dcim), l`autorità libica che gestisce i centri di detenzione al cui interno rifugiati e migranti sono trattenuti arbitrariamente e a tempo indeterminato e regolarmente sottoposti a gravi violazioni dei diritti umani, compresa la tortura;
- la fornitura di addestramento, equipaggiamento (navi incluse) e altre forme di assistenza alla Guardia costiera libica per metterla in grado di intercettare le persone in mare;
- la stipula di accordi con autorità locali, leader tribali e gruppi armati per incoraggiarli a fermare il traffico di esseri umani e a incrementare i controlli alla frontiera meridionale della Libia.
La presenza, nella legislazione libica, del reato d’ingresso irregolare, unita all’assenza di norme o centri per la protezione dei richiedenti asilo e delle vittime del traffico di esseri umani, fa sì che la detenzione di massa, arbitraria e a tempo indeterminato sia il principale mezzo di controllo dell`immigrazione in Libia.
Rifugiati e migranti intervistati da Amnesty International hanno riferito dei trattamenti subiti o di cui sono stati testimoni: detenzione arbitraria, tortura, lavori forzati, estorsione, uccisioni illegali che chiamano in causa autorità, trafficanti, gruppi armati e milizie. Decine di rifugiati e migranti hanno descritto il devastante ciclo di sfruttamento in cui colludono le guardie carcerarie, i trafficanti e la Guardia costiera. Le guardie torturano per estorcere danaro e, quando lo ricevono, lasciano andare le vittime o le passano ai trafficanti. Costoro organizzano la partenza, col consenso della Guardia costiera libica.
Se non è dato sapere quanti funzionari della Guardia costiera libica collaborino coi trafficanti, è evidente che nel corso del 2016 e del 2017 questo organismo ha incrementato la sua operatività grazie al sostegno ricevuto dagli stati dell’Unione europea. Di conseguenza, è aumentato il numero delle operazioni in cui rifugiati e migranti sono stati intercettati in mare e riportati sulla terraferma libica. -

Questo articolo è stato pubblicato sul sito di RAI news, in questa pagina dalla quale lo abbiamo ripreso





















See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/rapporto-amnesty-migranti-torture-abusi-libia-65807273-1c38-40c9-94f1-054d39ef5792.html







































See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/rapporto-amnesty-migranti-torture-abusi-libia-65807273-1c38-40c9-94f1-054d39ef5792.html

Roma, 11 dicembre 2017, Nena News – Non calano le tensioni intorno a Gerusalemme. Ieri i Territori Occupati sono stati teatro di nuove manifestazioni e scontri: almeno 157 i feriti tra Gerusalemme, Gaza e Cisgiordania, secondo la Mezzaluna Rossa. Due giovani palestinesi sono stati colpiti dal fuoco israeliano a Betlemme, sparato dalle torrette militari che costellano il muro di separazione.
Secondo testimoni, i due sono stati soccorsi da alcuni civili mentre cercavano di scappare verso il vicino campo profughi di al-Azza. Sono ricoverati in ospedale. Poco prima a Gerusalemme un palestinese di 24 anni ha accoltellato una guardia privata israeliana alla stazione degli autobus della città: il giovane è stato arrestato, la guardia è in ospedale.

Lontano dalle piazze continuano i bracci di ferro tra i protagonisti dell’attuale crisi. La Casa Bianca ha accusato il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, di abbandonare il negoziato di pace con Israele dopo l’annuncio di non voler incontrare il vice presidente Usa Mike Pence, che sarà in visita nella regione a fine mese. Abu Mazen aveva congelato l’incontro fino a quando gli Stati Uniti non avessero ritirato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. L’ufficio del vice presidente ha invece confermato l’incontro con il premier israeliano Netanyahu e il presidente egiziano al-Sisi, da più parti indicato come il nuovo mediatore della pace. Una conferma che si scontra invece con il rifiuto del grande imam di al-Azhar che ha già fatto sapere di non voler vedere Pence.

(Foto: Ma’an News)

Diversa la posizione europea espressa ieri vis-à-vis dal presidente francese Macron a Netanyahu, in visita a Parigi. All’Eliseo Macron non ha risparmiato dure critiche all’alleato: in due ore di colloquio, Parigi ha chiesto a Tel Aviv “il congelamento della colonizzazione”, ma soprattutto ha espresso “disapprovazione” per la decisione di Trump definendola “contraria al diritto internazionale e pericolosa per la pace”. Netanyahu, consapevole dell’opposizione di quella parte della comunità internazionale che ancora vede nella soluzione a due Stati l’unica via d’uscita al conflitto, pur all’angolo ha ripetuto lo stesso mantra: “Se Parigi è la capitale della Francia, Gerusalemme è la capitale di Israele”. Un discorso che viola alla radice quanto previsto dal diritto internazionale e da quella risoluzione, la partizione della Palestina storica da parte dell’Onu nel 1947, che Israele ha sempre utilizzato per legittimarsi.

Lo ha ribadito, con più debolezza, stamattina anche l’Alto rappresentante della Ue per gli Affari Esteri, Federica Mogherini: a Bruxelles durante la visita di Netanyahu – che da parte sua ha chiesto agli europei di seguire l’esempio statunitense – ha ripetuto la necessità di riaprire il dialogo coinvolgendo i paesi della regione mediorientale e poi, senza nominare la repressione delle proteste palestinesi, si è detta preoccupata per la sicurezza di Israele e per l’aumento dell’estremismo come frutto delle attuali tensioni intorno Gerusalemme.
Dura la Lega Araba che, sabato al Cairo, ha fatto appello a Washington perché ritiri la dichiarazione di Trump, sottolineandone allo stesso tempo il nullo “effetto legale” della decisione che è volta solo ad “aumentare la tensione e alimentare la rabbia”. Ma, come nel caso europeo, alle parole non seguono i fatti: nessun paese arabo ha assunto misure più drastiche al di là delle condanne a parole, ritirato gli ambasciatori o congelato i rapporti diplomatici. Solo il Libano, per bocca del suo ministro degli Esteri, ha chiesto alla Lega Araba di imporre sanzioni a Washington.
Ma quello che appare chiaro è che i palestinesi sono di nuovo soli. Accanto alle loro proteste ci sono quelle della base, dei cittadini di paesi di tutto il mondo scesi in decine di migliaia in piazza per protestare contro gli attacchi alla Gerusalemme araba. Ma le leadership restano distanti: molte parole, zero fatti.

Articolo tratto da "Bocche scucite". La pagina originale può essere raggiunta qui

Al di là delle condanne della Lega Araba e dei singoli paesi, nessuno ha assunto misure concrete. Macron e Mogherini strigliano Netanyahu, mentre Washington prova a spostare su Abu Mazen la responsabilità delle tensioni

Gerusalemme est durante le proteste palestinesi (Foto: Ma’an News)

il manifesto

Professor Focardi, nel nostro paese gli episodi di apologia di fascismo si stanno effettivamente moltiplicando o c’è solo maggiore attenzione da parte della stampa e dei partiti in campagna elettorale?
«Direi l’una e l’altra cosa. Registro una ripresa di attenzione dei media non solo italiani, recentemente sono stato intervistato da quotidiani spagnoli, olandesi e inglesi che sono interessati e preoccupati dalla ripresa del fascismo in Italia. Magari la stampa enfatizza e crea allarmismo, magari c’è un uso strumentale di questi allarmi, ma è innegabile che ci sia un salto di qualità nelle azioni delle formazioni neofasciste italiane».

Quali sono le caratteristiche di questo salto di qualità?

«Innanzitutto va ricordato che l’Italia ha avuto il maggiore partito neofascista dell’Europa occidentale, il Movimento sociale. Negli anni Novanta abbiamo assistito a un ritorno di protagonismo dell’estrema destra, con il primo Berlusconi e il suo anticomunismo vintage. Oggi invece è la paura dell’immigrazione a sostenere i neofascisti. Non a caso prevalgono i richiami al nazismo, più che al fascismo, che pure aveva una componente razzista, ma su questo terreno il neonazismo funziona meglio. Si parla di “sostituzione etnica” e vengono recuperati slogan e simboli hitleriani, compresa la bandiera nella stazione dei Carabinieri qui a Firenze».

Che giudizio dà della legge Fiano?
«Mantengo delle perplessità, come tutti gli storici, sulle leggi che corrono il rischio di colpire la libertà di opinione. D’altra parte non ho dubbi che la democrazia vada difesa dalla minaccia concreta di queste formazioni neofasciste. Il loro obiettivo dichiarato è arrivare in parlamento, il loro recente protagonismo può essere letto come un’azione preventiva di fronte al rischio di scioglimento ed esclusione dalla competizione elettorale».

L’antifascismo da campagna elettorale non è controproducente? Non è rischioso che possa essere rivendicato e identificato come il valore di una sola parte?
«C’è questo rischio e va evitato. Ci dovrebbe essere un’attenzione costante per la minaccia neofascista, non solo in campagna elettorale. Non è sufficiente organizzare un corteo a Come, che pure va benissimo ed è da elogiare. Bisogna lavorare sul piano culturale, ormai è prevalso un paradigma valutativo del fascismo che lo ridimensiona, privandolo delle sue caratteristiche repressive, oppressive e criminali che invece ha storicamente avuto. Gli italiani trascurano completamente la dimensione criminale del fascismo e ne hanno un’immagine banale e riduttiva, come di una dittatura all’acqua di rose».

Per questo può servire un museo storico sul fascismo? A Predappio?
«Io penso sia necessario un museo importante sul fascismo, ma a Roma che è la città dov’è andato al potere o a Milano dove è nato. A Predappio il museo si presta più alla nostalgia che alla memoria. Fare di Predappio il luogo della visione critica del fascismo è una sfida che può essere persa e non possiamo permettercelo».

Questo articolo è raggiungibile liberamente qui, nella pagina originale
postilla
Prima ancora di «un’attenzione costante per la minaccia neofascista» dovrebbe esserci una formazione volta nel suo insieme (dalla famiglia alla scuola alla società) a promuovere valori e principi negati dalle ideologie nazifasciste: il rispetto, il valore e le curiosità per la ricchezza costituita delle diversità, la solidarietà per i deboli e gli oppressi, l'accoglienza per i fuggitivi, e via enumerando i sentimenti e i gesti di civiltà.

AG Altro Giornale.org,

1) La strategia della distrazione.
L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione, che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico da problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazione di continue distrazioni e informazioni insignificanti.
La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico di interessarsi alle conoscenze essenziali nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica.

Mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali imprigionata da temi senza vera importanza.
Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare di ritorno alla fattoria come gli altri animali.

2) Creare problemi e poi offrire le soluzioni.

Questo metodo è anche chiamato: Problema > Reazione > Soluzione.

Si crea un problema, una situazione prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare.
Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi una violenza urbana, organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia che richieda le leggi di sicurezza e le politiche a discapito della libertà.

3) La strategia della gradualità.

Per far accettare una misura inaccettabile basta applicarla gradualmente, al contagocce, per anni consecutivi.

E’ in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove, neo-liberalismo, furono imposte durante il decennio degli anni ’80 e ’90.

4) La strategia del differire.

Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come dolorosa e necessaria, ottenendo l’applicazione pubblica nel momento, per un’applicazione futura.

E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato: primo, perchè lo sforzo non è quello impiegato immediatamente, secondo, perchè il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza di sperare ingenuamente che tutto domani andrà meglio e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato.
Questo da più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.
5) Rivolgersi al pubblico come ai bambini.

La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e un’intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale.

Quando più si cerca di ingannare lo spettatore, più si tenta ad usare un tono infantile.
Perchè?
Se qualcuno si rivolge a una persona come se avesse dodici anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà con una certa probabilità ad una risposta o reazione come quella di una persona di dodici anni o meno.

6) Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione.

Sfruttare l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale.
Inoltre, l’uso del registro emotivo, permette di aprire la porta di accesso all’inconscio, per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori.

7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità.

Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.
La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile.

8) Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità.

Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.

9) Rafforzare l’auto-colpevolezza.

Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia.
Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione.
E senza azione non c’è rivoluzione.

10) Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano.

Negli anni ’50 i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti.
Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il sistema ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia della sua forma fisica che psichica.
Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.

Raggiungi qui il testo originale

, 9 dicembre 2017. L’Occidente, ai palestinesi, elargisce solo elemosine mentre è totalmente succube dei governi israeliani fino al punto di piegarsi alla richiesta del Caudillo Bibi di criminalizzare movimenti,che chiamano pacificamente al boicottaggio contro l’illegalità e le ingiustizie che il popolo palestinese subisce ininterrottamente a miriadi, da settant’anni.

Raggiungi l'articolo nella pagina originale qui

NENA news, 8 dicembre 2017. Esplode la rabbia generata dalla provocazione di Donald Trump, il quale dichiara Gerusalemme capitale di Israele annullando con una sciabolata i diritti del popolo palestinese militarmente occupato un secolo fa dalla prepotenza dell'Europa e dall'esercito di Israele

Raggiungere qui l'articolo Gerusalemme oggi è il giorno della rabbia

Nigrizia,The Guardian e Huffington raccontano del mercato degli organi umani, resi disponibili da chi non può chiedere un prezzo: li offrono gratis i poveracci, compresi i fuggitivi in cerca di rifugio
Vai all'articolo di Nigrizia, raggiungibile da qui

NENA news, 7 dicembre 2017.La decisione di Trump di insediare a Gerusalemme l'ambasciata Usa in Israele aizza i palestinesi a riprendere con maggior forza la loro lotta per i diritti calpestati. È passato un secolo dal l'editto di Balfour che apriva la strada all'invasione israeliana della Palestina

Qui potete raggiungere l'articolo in originale sulla webzine NENA news

Qui, in eddyburg, un articolo sull'editto di Balfour, che avviò l'occupazione della Palestra da israele

Assemblea Popolare Democrazia Uguaglianza

Ci rivolgiamo a tutte e tutti coloro che hanno camminato con noi nel percorso del Brancaccio, verso la “Sinistra che ancora non c’è”. Abbiamo risposto per sincero spirito costruttivo e di responsabilità ai tanti appelli che si sono succeduti in questi giorni e di cui ringraziamo tutti. Lo spirito del Brancaccio ha seminato bene, e di questo siamo felici.

Eravamo e siamo a tutt’oggi convinti che la formazione di una alleanza fra cittadini e forze politiche per la difesa della Costituzione e la riaffermazione dei diritti cancellati dalle politiche neoliberiste degli ultimi governi, la costruzione di un fronte unico e innovativo della Sinistra verso un progetto più grande dei suoi singoli pezzi, il rilancio delle politiche per l’uguaglianza e per una democrazia compiuta, in tutte le sue forme partecipative e sostanziali siano e restino l’obiettivo primario di ogni ragionamento e azione politica della stagione che viviamo.

Ma, ad oggi, la nostra proposta alle forze politiche, perché il percorso verso una lista unica a Sinistra potesse essere ampiamente partecipato, democratico, libero e trasparente, non ha avuto alcuna risposta. Il risultato è che ormai si corre a grandi passi verso due liste: una di MDP, Possibile, SI; l’altra di Rifondazione Comunista e altri soggetti.

Nessuna di queste due proposte corrisponde a quella idea di unità, credibilità, partecipazione, innovazione, radicalità lanciata nel nostro appello del 18 giugno, che prefigurava l’inizio di una nuova stagione per il Paese e per la Sinistra.

Di più, le ragioni e i fini che sembrano muoverle – nel rispetto della piena autonomia dei soggetti politici che le guidano – non richiamano, neanche lontanamente, il metodo e lo spirito del Brancaccio. Nessuno ­ – a cominciare da noi due – può pensare di imporre agli aderenti a quell’appello una linea comune circa le decisioni che tutti ci troveremo a dover prendere nelle prossime elezioni: scegliere tra due liste diverse, guardare altrove o prendere la tristissima e dura decisione di non votare.

In queste ore si moltiplicano gli appelli pubblici e privati a noi stessi e a tante personalità della cosiddetta società civile perché si esprimano a favore di uno dei due processi a sinistra: naturalmente ognuno degli interpellati deciderà in totale libertà.

Ma noi teniamo a sottolineare che il progetto dell’ “alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” era quello di fornire ai cittadini comuni gli strumenti per incidere davvero in un processo politico: una cosa molto, molto diversa dall’invitare cittadini dai volti noti a fare i testimonial di una lista, di fatto, controllata dalle segreterie dei partiti. E molto diversa anche dalla partecipazione personale ad un’aggregazione di centri sociali organizzati e altri partiti.

Sappiamo che in tutta Italia una parte degli iscritti a Mdp, possibile, Sinistra Italiana si sta mobilitando, anche con toni di palese protesta, perché le assemblee dei prossimi giorni abbiano qualche possibilità di scardinare un copione prescritto e avvilente. Siamo con loro: la loro aspirazione di democrazia e di rinnovamento è la nostra.

Ma crediamo che, nelle condizioni date, per chi, come noi, non ha la tessera di nessuno dei tre partiti impegnati in questa alleanza non ci siano le garanzie minime per poter partecipare e portare costruttivamente il nostro contributo.

È per questo che noi non interverremo alle assemblee di questo fine settimana e a quella del 3 dicembre, pur augurando a tutti buon lavoro e il miglior successo.

Ed è ancora per questo che vogliamo andare avanti, nello spirito e per i fini che hanno ispirato il nostro appello del 18 Giugno e che hanno portato tante persone a mobilitarsi nella bellissima esperienza partecipativa delle “100 Piazze per il Programma”.

Vogliamo impegnarci a fondo perché tutto questo lavoro comune abbia un seguito: perché è qui, è legato alle cose, alle idee, ai problemi e alle loro soluzioni il nucleo più autentico del cammino che abbiamo condiviso, un cammino che non vogliamo interrompere.

Abbiamo un grande desiderio di incontrarci, e di recuperare l’occasione dell’assemblea che siamo stati costretti ad annullare. Apriremo a breve un percorso di confronto ampio e partecipato sui risultati del lavoro di sintesi fatto sulle proposte programmatiche emerse dalle 100 piazze e sulle scelte che dovremo compiere per organizzare al meglio il nostro lavoro futuro. A gennaio presenteremo a Roma i risultati di questo percorso, discutendolo con quanti di voi vorranno partecipare.

Anche se il percorso del Brancaccio non porterà ad alcuna lista, crediamo che sia importante per tutti che nella prossima campagna elettorale possa avere spazio la nostra visione del futuro: che potrà essere un metro su cui misurare le proposte e le promesse delle diverse liste. E anche un anticipo della costruzione della Sinistra che ancora non c’è, e che bisognerà pur deciderci a costruire.

Crediamo che proprio dall’incontro di gennaio potremo riprendere insieme il percorso: decidendo quale forma, quale mèta, quale passo vorremo e potremo tenere insieme. A presto, dunque, e grazie,

Anna Falcone, Tomaso Montanari

Vedi anche, di Tomaso Montanari, La lista Grasso, una grande occasione perduta

Ancora meno liberi gli USA. Vietato l’ingresso aimusulmani. La Corte suprema ha dato ragione all’editto di Donald Trump

vai all'articolo

l'Avvenire, la Repubblica, il manifesto

L’Avvenire
UE-AFRICA. LIBIA,

I NUMERI DELL'ORRORE:
NEI CAMPI 700MILA MIGRANTI
di Giovanni Maria Del Re

Abidjan (Costa d'Avorio) venerdì 1 dicembre 2017 Individuati 3.800 profughi da rimpatriare subito. Tusk: «Servono sanzioni Onu contro i trafficanti»

Nei campi libici potrebbero essere rinchiusi tra i 400.000 e i 700.000 migranti. La stima choc – peraltro già avanzata nei mesi scorsi da altre fonti – è stata diffusa ieri dal presidente della Commissione Africana, il ciadiano Mahamat Moussa Faki, al termine del vertice Unione Africana-Ue ad Abidjan, in Costa d’Avorio. Un vertice segnato in massima parte proprio dal dramma libico, e che ha portato a un’accelerazione degli sforzi già in atto per svuotare i campi libici. Moussa Faki ieri ha spiegato che l’Unione Africana ha già individuato un campo in Libia con 3.800 migranti.

«E questo – ha detto il presidente – è solo uno, in Libia ci dicono ce ne sono 42». Occorre fare in fretta, «il mio inviato speciale – ha proseguito il ciadiano – è tornato ieri da Tripoli e ha riferito di aver trovato migranti soprattutto dell’Africa occidentale. Ci sono donne e bambini, e vivono in condizioni disumane vogliono tutti tornare a casa». Simbolicamente, il re del Marocco Mohammad VI – alla prima partecipazione del suo Paese a un vertice dell’Ua – ha annunciato di aver già messo a disposizione aerei per l’evacuazione in vari Stati dell’Africa subsahariana dei 3.800 profughi.

Un segnale, ha detto il presidente dell’Unione Africana, il capo di Stato della Guinea Alpha Condé, che «l’Africa è in grado di intervenire an- ch’essa su questo fronte». Un’accelerazione, grazie a un netto coinvolgimento dell’Unione Africana, delle operazioni già lanciate dall’Organizzazione mondiale dei migranti con il sostegno Ue che ha portato nel 2017 al rimpatrio volontari di 13.000 (10.000 dalla Libia) bloccati nei campi in Nordafrica, l’obiettivo è di arrivare a 17.000 entro fine anno. L’occhio è rivolto ovviamente anche alla lotta ai trafficanti. Il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha parlato di «abuso estremamente cinico di esseri umani», chiedendo di «imporre sanzioni Onu ai trafficanti.

Non saremo efficaci, inoltre, se non faremo in modo che le persone bloccate in Libia e altrove possano tornare in modo sicuro nelle loro case». Anche la Francia ieri ha chiesto «il ricorso alle sanzioni individuali e alla giustizia penale internazionale contro chi si macchia di tratta di esseri umani e passeurs di migranti». Intanto ieri è stato chiarito una volta per tutte che la task force per accelerare lo svuotamento dei campi concordata mercoledì sera tra Ue, Ua e Onu non avrà componenti militari.

In un’intervista rilasciata mercoledì sera (prima della riunione sulla task force) a France24 e Radio France Internationale, il presidente francese Emmanuel Macron aveva parlato di una «iniziativa per lanciare azioni militari e di polizia sul terreno per smantellare queste reti», suscitando qualche perplessità, tanto che qualche diplomatico europeo ha sostenuto che Macron abbia tentato una «fuga in avanti» fermata poi dagli europei.

Fatto sta che in realtà la Francia non ha mai proposto formalmente una componente militare per la “task force”, mentre si parla di una più stretta cooperazione tra servizi di intelligence e polizie. «Per fermare il fenomeno – ha detto ancora Moussa Faki – serve una cooperazione mondiale, per bloccare le fonti finanziarie dei trafficanti e tradurli alla giustizia». E infatti di azione militare non si parla né nella dichiarazione comune sulla situazione dei migranti in Libia, né nell’accordo per la task-force per accelerare lo svuotamento dei campi.

Lo stesso Macron ieri in visita ad Accra, la capitale del Ghana, ha precisato che «in questa fase la Francia non ha piani di inviare soldati o poliziotti in Libia». Forse il malinteso è nato dal fatto che in effetti la Francia è sì in impegnata in una missione militare, non però in Libia, bensì in Mali (qui coadiuvata dalla Germania), Niger e Ciad anzitutto per combattere i nuclei terroristici islamistici attivi nel Sahel. Sullo sfondo resta la questione dei fondi. Ieri ad Abidjan Tusk ha di nuovo chiesto che gli Stati membri Ue «mantengano gli impegni economici alimentando il Fondo fiduciario per l’Africa. Sono sicuro che ce la faremo».

La Repubblica
L’EUROPA SCRIVE IL NUOVO PIANO
PER I CAMPI NASCOSTI IN LIBIA
di Alberto D’Argenio

«Per Bruxelles sono 42, ma non si sa dove siano Sarà la prima spesa del fondo per l’Africa “Servono più soldi”»
Sarà un lavoro titanico svuotare i campi di detenzione in Libia. Sono le cifre a dirlo. Secondo l’Unione africana i migranti detenuti ( « in condizioni disumane » ) sono tra i 400 e i 700mila. A Bruxelles sono consapevoli della sfida e lo staff dell’Alto rappresentante Federica Mogherini lavora a tempo pieno per predisporre il piano che l’Europa ha concordato al vertice di Abidjan con partner africani e Onu. Sono almeno 42 i campi sparsi sul territorio libico, di molti di questi non si sa nulla, nemmeno la posizione precisa. Tanto che l’Organizzazione mondiale dei migranti, insieme agli esperti Ue, si sta attrezzando per andare a cercarli.

Si partirà evacuando 15mila persone entro febbraio. Sono i detenuti dei campi ufficiali nella zona di Tripoli. I soli dei quali c’è conoscenza certa. Per farlo serviranno 60- 80 milioni. Una prima fase del piano di per sé complessa considerando che l’Europa ha rimpatriato dalla Libia 13mila migranti da gennaio a oggi. Ora una cifra superiore andrà rimandata nel proprio paese, reintegrata (anche con un lavoro) entro tre mesi. Certo, dopo il video della Cnn sui lager libici i governi africani hanno deciso di aprire le porte alle persone di ritorno (alcuni come il Ruanda allestiranno anche campi di transito) e grazie all’expertise e ai soldi Ue l’obiettivo è raggiungibile. Il denaro arriverà dal Trust Fund Africa da 2,9 miliardi varato nei mesi scorsi ma ora Bruxelles sprona i governi a mettere più soldi: l’Italia è il primo contributore con 92 milioni, poi la Germania con 33 ma ci sono capitali che pur rifiutando di ospitare i richiedenti asilo e chiedendo che i migranti vengano bloccati in Africa non hanno praticamente messo un centesimo ( l’Ungheria di Orban: 50mila euro). Si spera in nuovi contributi entro il summit Ue di metà dicembre.

Anche perché la seconda parte del piano umanitario sarà ancora più complessa e costosa. Gli europei per ora non confermano i numeri dell’Unione africana (fino a 700mila) sui migranti detenuti in Libia. Si limitano a parlare di decine di migliaia, se non centinaia, di persone da trovare e salvare. I campi andranno cercati — anche in zone poco sicure — e svuotati uno ad uno. I migranti verranno rimpatriati, chi avrà diritto alla protezione internazionale potrà invece contare sul programma di ingresso in Europa già varato da Bruxelles per 50mila persone. Intanto si proverà a chiudere le rotte che portano alla Libia e si andrà in pressing sulle autorità locali perché chiudano i campi cambiando la legge che prevede la detenzione per tutti i migranti illegali, altrimenti si corre il rischio di trovarli di nuovo pieni dopo che sono stati svuotati.

C’è infine il piano Marhall per l’Africa: si parte con i 44 miliardi di investimenti raccolti da Bruxelles per creare un’economia africana capace di trattenere i giovani. Poi si punta, nel bilancio Ue post 2020, a trovare 30- 40 miliardi che grazie ai privati lievitino a 350-400 miliardi per rilanciare il continente nei prossimi decenni e bloccare i flussi. Questa è la scommessa. Vitale per Africa ed Europa.

Il manifesto
«CENTINAIA DI MIGLIAIA I MIGRANTI CHE IN LIBIA
HANNO BISOGNO DI AIUTO»
di Carlo Lania

«Si salvi chi può. Intervista a Federico Scoda (Oim): "Puntiamo a organizzare un volo al giorno per i rimpatri. Ma i libici devono farci entrare in tutti i centri"»

Il vertice di Abidjan si è chiuso con l’impegno preso da Unione europea, Unione africana e Onu di svuotare i centri di detenzione libici rimpatriando i migranti che vi sono tenuti prigionieri. Un compito che dovrà svolgere l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che nel 2016 ha favorito il ritorno dalla Libia nei Paesi di origine di 2.775 migranti. «Quest’anno abbiamo già superato i 13.600 rimpatri e penso che arriveremo a 16-17 mila entro la fine di dicembre» afferma Federico Soda, direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim.

I rimpatri vengono già fatti, quindi quale sarebbe la novità del piano annunciato ad Abidjan?
La novità non è nel piano, ma nella volontà politica sorta in seguito al reportage della Cnn sui migranti venduti come schiavi. Una realtà che noi avevamo già denunciato ad aprile ma l’impatto avuto da quello immagini ha provocato la reazioni di alcuni organismi, inclusa l’Unione africana. Come Oim siamo in grado oggi di trasferire circa 3-4 mila persone al mese. Se avremo altre risorse, sia dal governo libico che dai Paesi africani, riusciremo a togliere molti più migranti da una situazione come quella dei centri che non è solo inaccettabile e pericolosa , ma spesso rappresenta l’unica possibilità che queste persone hanno visto che molte di loro non possono fuggire perché non hanno i documenti né i mezzi per farlo.

Per gli eritrei e i somali cosa è previsto? Per loro, come per chiunque altro abbia un valido motivo per richiedere la protezione internazionale, il mandato è dell’Unhcr che sta cercando di realizzare un centro a Tripoli dove fare una prima valutazione delle domande di asilo per poi spostare le persone in un Paese sicuro prima di trovare un terzo Paese sicuro dove ricollocarle.

Si è parlato di una task force formata da Ue- Unione africana e Onu. Che compiti avrà? Sarà una task force politica che cercherà di aprire maggiori spazi in Libia per poter lavorare. Ma i dettagli devono ancora essere decisi.

Servono più soldi per organizzare i rimpatri? I soldi ci vorranno. Non è un’esigenza immediata ma lo sarà presto. Oggi organizziamo quattro voli a settimana ma potremmo arrivare facilmente a uno al giorno. Ma c’è qualche ostacolo con le autorità libiche che va superato e questo include anche l’accesso a tutti i centri di detenzione. Lo stesso per gli aerei. La ragione per cui oggi abbiamo solo qualche volo alla settimana è strettamente operativa e riguarda l’aeroporto di Tripoli dove avremmo bisogno di far atterrare aerei più grandi.

Di quanti migranti stiamo parlando? Glielo chiedo perché voi avete accesso ai soli centri governativi, che sono una trentina, ma poi ci sono quelli gestiti dalla milizie.
Stimiamo che nei centri gestiti dal ministero dell’Interno libico ci siano tra i 15 mila e i 18 mila migranti. Poi ci sono tutti quelli di cui non sappiamo niente perché si trovano in luoghi non monitorati come case o altri posti privati. Pensiamo che il Libia possano esserci tra 700 e gli 800 mila stranieri, forse anche di più. Va detto però che non tutti sono in situazioni di pericolo o di sofferenza e non tutti hanno intenzione di raggiungere l’Europa. Sicuramente però le persone che hanno bisogno di assistenza sono molte centinaia di migliaia.

Alla luce di questi dati l’annuncio di voler vuotare i centri non rischia di essere solo propaganda?
Non credo. Il programma non è limitato a 20-25 mila persone. Non dimentichiamoci che nel 2011 abbiamo evacuato dalla Libia quasi 250 mila persone, quasi tutte verso il Bangladesh e le Filippine.

Ma non erano prigioniere come invece succede oggi.E’ vero. Ovviamente in uno Stato fallito e senza strutture governative come è oggi la Libia la situazione è completamente diversa. Non la considero un’operazione di propaganda perché stiamo aiutando migliaia di persone migliorando le loro condizioni di vita. Il punto è che quando c’è qualcuno che soffre e ha bisogno di aiuto i numeri diventano in un certo senso irrilevanti. Se ne aiuti dieci o cento ovviamente cento è meglio, ma comunque quei dieci hanno ricevuto un’assistenza indispensabile. I numeri sono la propaganda degli europei, fissati su quanti sbarchi ci sono ogni giorno trascurando le questioni veramente importanti.

L’Unhcr parla di 50 mila rifugiati da ricollocare in Europa. E’ una cifra realistica viste le difficoltà sempre mostrate da molti Stati?In questo momento non ci sono le condizioni in Europa per farlo. I 50 mila di cui parla l’Unhcr rappresentano l’esigenza, purtroppo però nella maggioranza degli Stati prevale una posizione di chiusura e siamo ancora molto, molto lontani da quei numeri.

'Avvenire, 30 novembre 2017. «Ben 28 milioni sono sfollati a causa delle guerre e spesso cadono nella tratta di esseri umani. Sono 200 mila i migranti minori non accompagnati». La tragica contabilità d'una società nella quale guerre e devastazioni non sono un effetto collaterale, ma il motore stesso del sistema

Sono 50 milioni i bambini coinvolti nelle migrazioni a livello mondiale, e 28 milioni sono stati sfollati a causa di conflitti. I bambini rappresentano circa il 28% delle vittime della tratta di esseri umani a livello globale, soprattutto nell'Africa subsahariana e in America centrale. Nel 2015-2016 ben 200.000 bambini non accompagnati hanno presentato domanda di asilo in circa 80 Paesi del mondo, mentre nello stesso periodo 100.000 minorenni non accompagnati sono stati arrestati al confine tra Stati Uniti e Messico.

Un vertice mondiale per proteggerli

In anticipo rispetto all`incontro previsto da 4 al 6 dicembre a Puerto Vallarta, in Messico, sulle migrazioni sicure e regolate, l'Unicef ha presentato oggi "Oltre le frontiere", un rapporto sulle migliori pratiche per la cura e la protezione dei bambini rifugiati e migranti.
Il documento contiene esempi concreti del lavoro di governi e comunità di accoglienza per sostenere e integrare i bambini "sperduti" e le loro famiglie, ma anche i rischi cui sono esposti. I minori rifugiati e migranti infatti sono particolarmente vulnerabili alla xenofobia, agli abusi, allo sfruttamento sessuale e alla mancanza di accesso ai servizi sociali. Per questo Unicef ha attivato un programma d'azione in sei punti, che costituisce la base delle politiche per proteggerli e garantirne il benessere; esso comprende azioni per evitare la detenzione dei bambini richiedenti lo status di rifugiato introducendo una serie di alternative pratiche, per mantenere unite le famiglie come migliore mezzo per proteggere i figli, per consentire ai piccoli rifugiati di studiare e avere accesso a servizi sanitari di qualità, per promuovere misure che combattano xenofobia, discriminazioni e marginalizzazione nei Paesi di transito e di destinazione.

Le "buone pratiche" nel mondo

Non è impossibile. Il rapporto presenta casi riusciti di tutto il mondo, tra cui l'attuazione di norme minime di protezione per i bambini rifugiati in Germania, sistemi transfrontalieri di protezione dell'infanzia nell'Africa occidentale e la ricerca di alternative alla detenzione di bambini migranti in Zambia (altri Paesi citati: Afghanistan, Giordania, Libano, Sud Sudan, Vietnam, Uganda e Stati Uniti). Per quanto riguarda l`Italia, si segnala come buona pratica l`adozione della legge 47/2017 sulle misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati (Legge Zampa), che definisce un sistema nazionale organico di accoglienza.
I diritti, la protezione e il benessere dei bambini sradicati, "sperduti", dovrebbero essere al centro degli impegni delle politiche migratorie globali. "I leader e i responsabili politici che si riuniscono a Puerto Vallarta possono lavorare insieme per rendere la migrazione sicura per i bambini - ha dichiarato Ted Chaiban, direttore dei programmi dell'Unicef -. Il nostro nuovo rapporto mostra che è possibile, anche in Paesi con risorse limitate, attuare politiche, servizi e investimenti che sostengano efficacemente i bambini rifugiati nei loro Paesi d'origine, mentre attraversano le frontiere e quando raggiungono le loro destinazioni".

Le informazioni e i commenti sono ripresi dall'articolo pubblicato da l'Avvenire online. l'originale è raggiungibile cliccando qui: Sono 50 milioni i bambini «in fuga» nel mondo

Ma’an news,

Rappresentanti da 24 Paesi europei, compresi parlamentari, giuristi, giornalisti e attivisti, si sono incontrati a Bruxelles all’inizio della settimana nella prima conferenza europea sull’attività di colonizzazione di Israele, concordando una dichiarazione che accusa Israele di aver costituito un “regime di apartheid” in Cisgiordania. Secondo un comunicato stampa, il testo approvato è stato denominato la “Dichiarazione di Bruxelles” e condivide le seguenti clausole:

1. Israele, il potere occupante dei territori palestinesi dal 1967, continua la sua politica di confisca, ebraicizzazione della terra palestinese e costruzione di colonie su di essa. Queste colonie, con il passare del tempo, sono diventate l’incubatrice di “organizzazioni terroristiche” di coloni come HiiltopYouth, Paying the Price and Revenge [rispettivamente “I giovani delle colline”, “Pagare il prezzo” e “Vendetta”, [gruppi di coloni estremisti e violenti, ndt.].
2. Pertanto, con questa politica predeterminata di espansione delle colonie, è improprio parlare di smantellamento di colonie politiche o per la sicurezza, ma piuttosto occorre inquadrare questo movimento come una politica coloniale strutturale in grado di colonizzare una larga parte della Cisgiordania, non meno del 60% della sua estensione. Questa politica, di fatto, ha costituito un regime di apartheid, che viola la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che nel suo articolo 8 stabilisce che le colonie sono un crimine di guerra, il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia emesso il 9 luglio 2004 riguardo al Muro dell’apartheid, che è stato definito una grave violazione delle leggi internazionali, e le risoluzioni ONU, soprattutto la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza. Questa risoluzione afferma chiaramente che ogni attività israeliana di colonizzazione nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme est, è illegale in base alle leggi internazionali e costituisce un ostacolo alla costituzione di uno Stato palestinese contiguo, sostenibile e pienamente sovrano.
3. La conferenza di Bruxelles, prendendo nota dei fatti summenzionati, considera che la continuazione delle attività di colonizzazione pone fine a ogni possibilità per una soluzione dei due Stati e piuttosto concretizza il sistema di apartheid attuato dalla politica di occupazione. La conferenza chiede la fine immediata di ogni attività di colonizzazione perseguita dallo Stato occupante nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.
4. La conferenza di Bruxelles chiede alla comunità internazionale di assumersi le responsabilità giuridiche opponendosi a queste politiche razziste del potere occupante e imporre una seria pressione su di esso per il rispetto delle fondamentali leggi internazionali. L’Unione Europea, che ha intense relazioni e un accordo di associazione con lo Stato israeliano occupante, dovrebbe fare pressione su Israele in modo che essa [l’UE] si assuma la responsabilità di superare la differenza tra le sue parole e le sue azioni nel contesto della politica israeliana di colonizzazione, attivando l’articolo 2 dell’Accordo di Associazione per esercitare pressioni su Israele affinché rispetti i suoi obblighi in quanto potere occupante.
5. La conferenza di Bruxelles chiede anche ai Paesi dell’UE di far seguire alle parole i fatti, non solo rilasciando dichiarazioni di denuncia e di condanna, ma adottando piuttosto misure concrete per rendere Israele responsabile, imponendo un divieto assoluto su ogni attività finanziaria, economica, commerciale e di investimenti, diretta o indiretta, con le colonie israeliane finché non si atterranno alle leggi internazionali.
6. I partecipanti a questa conferenza, mentre condannano la politica di colonizzazione nei territori palestinesi occupati come una violazione del diritto internazionale, sottolineano al contempo l’importante ruolo che può essere giocato da forze politiche, parlamenti, organizzazioni dei diritti umani e della società civile nei Paesi dell’UE per opporsi ai progetti israeliani di espansione e di costruzione di colonie. Chiedono anche ai governi dell’UE e alle loro istituzioni costituzionali di rispettare le proprie responsabilità in base alla responsabilità collettiva di rifiutare le violazioni da parte di Israele dei diritti dei cittadini palestinesi sotto occupazione, in modo da obbligare Israele almeno a rispettare i suoi obblighi in base all’Accordo di Associazione e da non permettere ai coloni e ai loro dirigenti di entrare nei Paesi dell’UE e da portarli davanti alla giustizia internazionale come criminali di guerra nel caso lo facciano.
7. I partecipanti alla conferenza chiedono ai popoli del mondo e alle loro forze democratiche amanti della pace di partecipare attivamente al movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, noto come BDS, e di fare pressione su Israele perché rispetti il diritto internazionale.
8. La conferenza afferma anche il proprio totale sostegno all’iniziativa palestinese di deferire alla Corte Penale Internazionale come crimini di guerra la costruzione di nuove colonie, l’espansione di quelle esistenti e la violenza dei coloni contro i palestinesi.
9. I partecipanti alla conferenza plaudono alla crescente solidarietà con il popolo palestinese e con la sua giusta causa. Elogiano anche il rifiuto da parte dei popoli del mondo delle politiche israeliane di pulizia etnica e di apartheid perseguite dallo Stato occupante israeliano.
10. I partecipanti alla conferenza chiedono di contrastare questa politica costituendo un comitato europeo di Paesi partecipanti rappresentati in questa conferenza per denunciare le continue violazioni da parte delle forze di occupazione e per rafforzare la pressione per perseguire i criminali di guerra israeliani finché Israele non rispetterà il diritto internazionale.
(traduzione di Amedeo Rossi)

Ripreso da Bocche scucite, la voce dei territori occupati

Associazione Popolare Democrazia Uguaglianza,

Ci rivolgiamo a tutte e tutti coloro che hanno camminato con noi nel percorso del Brancaccio, verso la “Sinistra che ancora non c’è”. Abbiamo risposto per sincero spirito costruttivo e di responsabilità ai tanti appelli che si sono succeduti in questi giorni e di cui ringraziamo tutti. Lo spirito del Brancaccio ha seminato bene, e di questo siamo felici. Eravamo e siamo a tutt’oggi convinti che la formazione di una alleanza fra cittadini e forze politiche per la difesa della Costituzione e la riaffermazione dei diritti cancellati dalle politiche neoliberiste degli ultimi governi, la costruzione di un fronte unico e innovativo della Sinistra verso un progetto più grande dei suoi singoli pezzi, il rilancio delle politiche per l’uguaglianza e per una democrazia compiuta, in tutte le sue forme partecipative e sostanziali siano e restino l’obiettivo primario di ogni ragionamento e azione politica della stagione che viviamo.

Ma, ad oggi, la nostra proposta alle forze politiche, perché il percorso verso una lista unica a Sinistra potesse essere ampiamente partecipato, democratico, libero e trasparente, non ha avuto alcuna risposta. Il risultato è che ormai si corre a grandi passi verso due liste: una di MDP, Possibile, SI; l’altra di Rifondazione Comunista e altri soggetti.

Nessuna di queste due proposte corrisponde a quella idea di unità, credibilità, partecipazione, innovazione, radicalità lanciata nel nostro appello del 18 giugno, che prefigurava l’inizio di una nuova stagione per il Paese e per la Sinistra. Di più, le ragioni e i fini che sembrano muoverle – nel rispetto della piena autonomia dei soggetti politici che le guidano – non richiamano, neanche lontanamente, il metodo e lo spirito del Brancaccio.

Nessuno ­ – a cominciare da noi due – può pensare di imporre agli aderenti a quell’appello una linea comune circa le decisioni che tutti ci troveremo a dover prendere nelle prossime elezioni: scegliere tra due liste diverse, guardare altrove o prendere la tristissima e dura decisione di non votare.

In queste ore si moltiplicano gli appelli pubblici e privati a noi stessi e a tante personalità della cosiddetta società civile perché si esprimano a favore di uno dei due processi a sinistra: naturalmente ognuno degli interpellati deciderà in totale libertà. Ma noi teniamo a sottolineare che il progetto dell’ “alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” era quello di fornire ai cittadini comuni gli strumenti per incidere davvero in un processo politico: una cosa molto, molto diversa dall’invitare cittadini dai volti noti a fare i testimonial di una lista, di fatto, controllata dalle segreterie dei partiti. E molto diversa anche dalla partecipazione personale ad un’aggregazione di centri sociali organizzati e altri partiti.

Sappiamo che in tutta Italia una parte degli iscritti a Mdp, possibile, Sinistra Italiana si sta mobilitando, anche con toni di palese protesta, perché le assemblee dei prossimi giorni abbiano qualche possibilità di scardinare un copione prescritto e avvilente. Siamo con loro: la loro aspirazione di democrazia e di rinnovamento è la nostra. Ma crediamo che, nelle condizioni date, per chi, come noi, non ha la tessera di nessuno dei tre partiti impegnati in questa alleanza non ci siano le garanzie minime per poter partecipare e portare costruttivamente il nostro contributo.

È per questo che noi non interverremo alle assemblee di questo fine settimana e a quella del 3 dicembre, pur augurando a tutti buon lavoro e il miglior successo. Ed è ancora per questo che vogliamo andare avanti, nello spirito e per i fini che hanno ispirato il nostro appello del 18 Giugno e che hanno portato tante persone a mobilitarsi nella bellissima esperienza partecipativa delle “100 Piazze per il Programma”.

Vogliamo impegnarci a fondo perché tutto questo lavoro comune abbia un seguito: perché è qui, è legato alle cose, alle idee, ai problemi e alle loro soluzioni il nucleo più autentico del cammino che abbiamo condiviso, un cammino che non vogliamo interrompere.

Abbiamo un grande desiderio di incontrarci, e di recuperare l’occasione dell’assemblea che siamo stati costretti ad annullare. Apriremo a breve un percorso di confronto ampio e partecipato sui risultati del lavoro di sintesi fatto sulle proposte programmatiche emerse dalle 100 piazze e sulle scelte che dovremo compiere per organizzare al meglio il nostro lavoro futuro. A gennaio presenteremo a Roma i risultati di questo percorso, discutendolo con quanti di voi vorranno partecipare.

Anche se il percorso del Brancaccio non porterà ad alcuna lista, crediamo che sia importante per tutti che nella prossima campagna elettorale possa avere spazio la nostra visione del futuro: che potrà essere un metro su cui misurare le proposte e le promesse delle diverse liste. E anche un anticipo della costruzione della Sinistra che ancora non c’è, e che bisognerà pur deciderci a costruire.

Crediamo che proprio dall’incontro di gennaio potremo riprendere insieme il percorso: decidendo quale forma, quale mèta, quale passo vorremo e potremo tenere insieme. A presto, dunque, e grazie,

Anna Falcone, Tomaso Montanari

il manifesto, la Stampa

L’attenzione sui rapporti perversi tra l’Italia di Minniti, Gentiloni (e Mattarella) e la Libia dei torturatori, stupratori, assassini è un dato costante della stampa italiana di questi giorni. Così, il manifesto (il più sensibile, nella stampa “laica” al tema dei migranti e della loro sorte) segnala un’accentuazione dei rapporti criminogeni tra Roma e l’ex colonia degli anni di Giolitti e quelli di Mussolini.

Adriana Pollice racconta su l’odissea della nave Acquarius della Ong Sos Mediterranèe: «I volontari dell’Aquarius, all’arrivo in porto, hanno messo sotto accusa l’Italia e il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma per come sono state gestite le operazioni in mare. Venerdì all’alba l’Aquarius ha individuato un primo gommone in pericolo in acque internazionali, a 25 miglia dalla costa, a est di Tripoli, e poi un secondo gommone ma ha ricevuto l’ordine da Roma di restare in stand-by, il coordinamento delle operazioni era stato assunto dalla marina libica. «La nostra proposta di assistenza è stata declinata dalla Guardia costiera libica – ha spiegato Nicola Stalla, coordinatore dei soccorsi di Sos Méditerranée -. Durante le quattro ore di stand-by le condizioni meteo sono peggiorate, il gommone poteva rompersi e affondare da un momento all’altro». Sophie Beau, vicepresidente dell’Ong, spiega: «I nostri team sono stati costretti a osservare impotenti operazioni che conducono a rimandare indietro persone che fuggono da campi che i sopravvissuti descrivono come un inferno. Non possiamo accettare di vedere esseri umani morire in mare né di vederli ripartire verso la Libia quando la loro imbarcazione è intercettata dalla Guardia costiera libica».

Il 29 novembre se ne discuterà nel vertice tra Unione europea e Unione africana che si apre a Abidjan, Ne riferiremo i prossimi giorni.

Apocalisse umanitaria

Sempre su il manifesto Nina Valoti ricorda la dimensione del problema «Nel mondo ci sono 65,6 milioni di profughi in fuga da guerre, violenza, soprusi, povertà. Vent’anni fa erano quasi la metà: 33,9 milioni. Ma paradossalmente aumentano le spese in sicurezza per le frontiere: ben 16 miliardi e 700 milioni con un trend di crescita annua stimato nell’8 per cento». Non si tratta di invenzioni giornalistiche: sono dati contenuti nel quindicesimo rapporto “Diritti globali” che spiegano benissimo il titolo scelto quest’anno: «Apocalisse umanitaria».

«Se da anni il dramma globale dei migranti ha infatti come epicentro il Mediterraneo, quest’anno sono state le politiche e gli accordi del nostro governo con la Libia a creare un elemento nuovo e ancor più preoccupante: la criminalizzazione delle organizzazioni non governative e la quasi totale negazione dell’asilo politico, definito giustamente «chimera»: solo il 5 per cento delle domande del 2016 sono state accolte a pieno titolo in Italia.

«Una apocalisse umanitaria incombente anche perché le guerre sono proliferate – spiega Sergio Segio ideatore e curatore del volume con la sua associazione SocietàINformazione – e hanno due caratteristiche inedite: la percentuale delle vittime civili aumenta sempre più fino a toccare il 95 per cento, mentre nella seconda guerra mondiale era del 50 per cento, e i conflitti tendono a non chiudersi mai come dimostrano i casi della Siria, dell’Iraq e dell’Afghanistan per non parlare di Libia e Somalia».

Un quadro che rende ancora più urgente «costruire un mutamento di paradigma che deve partire dal sistema di sviluppo coinvolgendo però il maggior numero di individui – osserva Segio – il tempo per cambiare rotta è adesso, diversamente il futuro rischia di essere un buco nero in cui la governance cieca continuerà a tenere in piedi il castello di carte dominato dalla finanza».

Come da tradizione il Rapporto, sostenuto dalla Cgil e da una galassia di associazioni, si basa «sull’idea di interdipendenza dei diritti nell’epoca della globalizzazione» e mette dunque in rapporto economia, lavoro, diritti umani e ambiente.

I capitoli sui migranti dunque si legano a quelli sulla «crescita economica elusiva» «al tempo degli algoritmi», «il disordine globale», «la dolosa obsolescenza del pianeta» più il nuovo capitolo «In comune» che racconta «reti e pratiche dal basso» per dimostrare che «cambiare è possibile» alternando storie vicine come il Baobab di Roma con altre lontane, come la Coopamare in Brasile, cooperativa di raccoglitori di immondizia.

Il tema dominante però è quello dei migranti e le sue conseguenze, prima fra tutte «l’odio sociale nella società dell’esclusione». «Il tratto caratteristico dell’ultimo periodo è certamente la crisi della cittadinanza – commenta Marco De Ponte, segretario generale di Action Aid Italia – non si discute più, tutto viene deciso in modo opaco e così accade anche per la crisi migratoria. In Italia per gestire questo fenomeno ci sono 12mila microbandi sull’accoglienza senza nemmeno un database nazionale. Noi cerchiamo invece di investire su competenze e dialogo per cambiare le cose».

«Siamo davanti ad un genocidio nell’indifferenza anche da buona parte del mondo progressista perfino davanti alla tortura – sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – . La questione si lega agli spazi di agibilità delle Ong: non è possibile che proprio dall’Italia sia partita l’idea che chi vuole salvare vite umane sia cacciato della legalità, queste visioni securitarie fanno impallidire quanto successe a noi nel 2002: l’allora ministro Castelli ci fece cacciare dalle carceri perché sosteneva avessimo legami con gli anarco-insurrezionalisti, ma a nostra difesa si mobilitò anche la destra. Ora le Ong sono praticamente sole».

«Ormai il diritto penale è usato per ridurre l’agibilità delle Ong – gli fa eco Francesco Martone, portavoce della rete «In difesa di» – per reagire dobbiamo proteggere tutti coloro che fanno sentire la loro voce nel mondo a partire dagli attivisti a rischio, specie in America latina».

«Condividiamo questa avventura che consideriamo di grande importanza anche per il futuro – ha concluso la presentazione del volume di ieri pomeriggio il padrone di casa Fausto Durante, responsabile delle politiche internazionali della Cgil – . Nel mondo del lavoro in tutto il mondo i diritti calano, noi vogliamo invece che siano in capo alle persone e che siano riconosciuti per legge: per questo in Italia abbiamo presentato la Carta universale dei diritti»

La posizione del governo italiano
Per il governo Gentiloni-Minniti la posizione è chiarissima, e ne dà testimonianza il resoconto della questione Acqarius, da cui siamo partiti. Intervenire per ricacciare nei lager libici quanti tentano di fuggirne è la priorità. Ma barriere e campi di contenimento dei fuggiaschi vanno realizzati dovunque.
La Stampa, (29 novembre) informa che «dall’Italia 50 milioni verranno regalati al Niger per rinforzare le sue frontiere in chiave anti migranti, precisando che nell’accordo firmato dal premier Gentiloni a Roma si stabilisce che «il contributo sarà scaglionato in quattro tranche condizionate al raggiungimento di obiettivi per sorvegliare i confini con la Libia»: se non trattenete i fuggiaschi nel vostro inferno non vi paghiamo più. «L’intesa rientra in una cornice più complessa «L’accordo firmato oggi rafforza la frontiera sud della Libia e di conseguenza la frontiera esterna dell’Europa», fa notare Alfano, sempre su . «Il Niger è infatti un Paese di transito della rotta transahariana che parte dall’Africa occidentale e arriva in Libia. «La logica di questi accordi è che i migranti vanno fermati o alla partenza o lungo il percorso, ma non sulle rive del Mediterraneo», spiega una fonte di governo. Ed è anche in quest’ottica che il primo marzo è stata riaperta la nostra ambasciata a Niamey. «Il governo tiene a chiarire però che i versamenti italiani sono condizionati ai risultati conseguiti: «Con questi 50 milioni il Niger potrà istituire unità speciali di controllo delle frontiere, costruire e ristrutturare posti di frontiera e costruire un nuovo centro di accoglienza per i migranti», chiarisce il ministro degli Esteri. Non è chiaro se l’accordo preveda anche che i lavori per la costruzione delle barriere e dei campi di concentramento saranno affidati a ditte italiane.

© 2024 Eddyburg