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All'esame della Corte costituzionale la vio­la­zione del prin­ci­pio di parità degli elet­tori, neppure "giu­sti­fi­cata" da esi­genze di gover­na­bi­lità, compiuta dall'europorcellum. Possibile che in italia, nell'ultimo trentennio, la democrazia sia difesa solo dalla magistratura?

Il manifesto, 10 maggio 2014

Il ricorso lo ave­vano pre­sen­tato in sei città. Il primo a rispon­dere, in tempo per le ele­zioni euro­pee, è stato il tri­bu­nale di Vene­zia. Che ha giu­di­cato non mani­fe­sta­mente infon­date le que­stioni di costi­tu­zio­na­lità sol­le­vate con­tro la legge elet­to­rale con la quale il 25 mag­gio saranno scelti 73 euro­par­la­men­tari ita­liani. La soglia del 4% pre­vi­sta dal sistema di voto ita­liano «non appare soste­nuta da alcuna moti­va­zione razio­nale», secondo i giu­dici vene­ziani. Che hanno inve­stito della que­stione la Corte Costi­tu­zio­nale, così come richie­sto da un gruppo di cit­ta­dini orga­niz­zati dall’avvocato mila­nese Felice Beso­stri. Lo stesso pro­mo­tore del ricorso con­tro la legge elet­to­rale nazio­nale che ha por­tato la Con­sulta ad ammaz­zare il Por­cel­lum. Per que­sto, ma non solo per que­sto, si pre­ve­dono guai. Dopo che i par­la­men­tari saranno stati eletti, la Corte potrà dichia­rare ille­git­tima anche que­sta legge elet­to­rale. Ribat­tez­zata euro-Porcellum.

Ma a dif­fe­renza del par­la­mento ita­liano, l’europarlamento non è in grado di sanare un’elezione ille­git­tima giu­di­cando al suo interno sui titoli di ammis­sione dei depu­tati. Ragione per cui, se la Con­sulta dovesse acco­gliere e rite­nere fon­dati gli argo­menti evi­den­ziati dal tri­bu­nale di Vene­zia, toc­che­rebbe ai giu­dici ammi­ni­stra­tivi ita­liani inter­ve­nire. A ele­zioni abbon­dan­te­mente svolte. «La dele­ga­zione ita­liana al pros­simo par­la­mento euro­peo sarà decisa dal Tar del Lazio, que­sto è certo», dice l’avvocato Beso­stri. Che è natu­ral­mente sod­di­sfatto. Ma sarebbe stato più con­tento, spiega, se i giu­dici ita­liani aves­sero scelto di rivol­gersi alla Corte di giu­sti­zia dell’Ue, così come era stato loro chie­sto nel ricorso con­tro l’euro-Porcellum. Quella Corte è com­pe­tente - anche in via urgente - per l’applicazione del diritto comu­ni­ta­rio. Con il quale la legge ita­liana visto­sa­mente con­tra­sta, a seguito della modi­fica intro­dotta nel 2009 dal Pd in accordo con Ber­lu­sconi. Già all’epoca ci furono pro­te­ste, alle quali Fas­sino rispose spie­gando che si voleva evi­tare «un’armata Bran­ca­leone a Stra­sburgo» (inten­dendo Bru­xel­les). Più recen­te­mente Rifon­da­zione comu­ni­sta ha scritto una let­tera a Napo­li­tano chie­den­do­gli di segna­lare al par­la­mento il dovere di cor­reg­gere la legge. Il par­la­mento è invece inter­ve­nuto (male) solo sulla que­stione delle pari oppor­tu­nità. Igno­rando gli appelli, anche dello stesso avvo­cato Beso­stri che prima di far par­tire i ricorsi aveva scritto a Grasso e Boldrini.

Ai giu­dici è stata sot­to­po­sto il risul­tato delle ultime euro­pee (2009), quando sono rima­sti sotto la soglia e dun­que senza rap­pre­sen­tanti par­titi che insieme ave­vano rac­colto più di 4 milioni di con­sensi. Voti dun­que inu­tili. Una vio­la­zione del prin­ci­pio di parità degli elet­tori non giu­sti­fi­cata da esi­genze di gover­na­bi­lità, visto che l’europarlamento non dà la fidu­cia alla Com­mis­sione euro­pea. Pro­prio nella sen­tenza dello scorso gen­naio con­tro il Por­cel­lum, i giu­dici costi­tu­zio­nali hanno riba­dito che una certa distor­sione della pro­por­zio­na­lità può essere ragio­ne­vol­mente giu­sti­fi­cata solo in nome della gover­na­bi­lità e della sta­bi­lità. Altre esi­genze, come quella (sol­le­vata nel 2009 dai soste­ni­tori della soglia) di raf­for­zare la rap­pre­sen­tanza ita­liana, non tro­vano spa­zio. Né giu­sti­fi­ca­zione, visto che gli euro­de­pu­tati ovun­que eletti rap­pre­sen­tano tutti i cit­ta­dini euro­pei, e il numero dei gruppi poli­tici costi­tuiti a Bru­xel­les è limitato.

Con­se­gnata ai giu­dici ammi­ni­stra­tivi, le ele­zioni del 25 mag­gio fini­reb­bero nel caos. Anche per­ché l’esito favo­re­vole ai ricor­renti appare scon­tato, visto che già un euro­de­pu­tato nel 2009, Pep­pino Gar­gani (Pdl) si è fatto dare ragione dal Con­si­glio di stato. Nel nome del fatto che i voti di una cir­co­scri­zione non pos­sono con­tri­buire ad eleg­gere can­di­dati di altre cir­co­scri­zioni, solo per­ché attri­buiti a un par­tito rima­sto sotto la soglia. Tutto que­sto sem­pre che la Con­sulta deci­derà di acco­gliere la que­stione che, come nel caso della legge elet­to­rale ita­liana, è al limite del ricorso diretto (vie­tato nell’ordinamento nazio­nale). Pro­prio il pre­ce­dente farebbe deporre per l’accoglimento. Almeno con que­sto col­le­gio. La Corte Costi­tu­zio­nale ha però i soliti tempi lun­ghi (per il Por­cel­lum ha impie­gato quasi otto mesi) e tra giu­gno e novem­bre andranno sosti­tuiti ben quat­tro giu­dici. Due di nomina par­la­men­tare e due presidenziale.

Trent'anni la prima speranza di alternativa all'Europa neoliberista. Tsipras: «Con­ce­pi­sco la mia can­di­da­tura come un man­dato per unire quello che il neo­li­be­ra­li­smo ha diviso con vio­lenza. Per costruire la più larga alleanza poli­tica e sociale pos­si­bile con­tro l’austerità». Il

manifesto, 10 maggio 2014

Nasce dieci anni fa a Roma e la sua pro­messa, spiega il segre­ta­rio dei comu­ni­sti fran­cesi Pierre Lau­rent, «è ancora di bril­lante attua­lità». Com­pleanno in piena corsa elet­to­rale, quello dalla Sini­stra euro­pea, il par­tito con­ti­nen­tale che can­dida il greco Ale­xis Tsi­pras a pre­si­dente della Com­mis­sione Ue. Che chiede, con un video­mes­sag­gio inviato alla festa di piazza Campo de’ fiori, nella capi­tale, alla sini­stra ita­liana mira­co­lo­sa­mente riu­nita nella lista L’Altra Europa, di spin­gere sull’acceleratore: «Il 25 mag­gio saremo la terza forza al Par­la­mento euro­peo per cam­biare gli equi­li­bri e le poli­ti­che dell’Unione». E «deci­sivo sarà il risul­tato elet­to­rale della lista ita­liana». Che però, a dif­fe­renza di molti altri paesi dell’Unione, qui com­batte sul filo dello sbar­ra­mento al 4 per cento. Sbar­ra­mento già can­cel­lato in Ger­ma­nia e da noi ammesso all’esame della Con­sulta pro­prio ieri.

Ven­totto for­ma­zioni in tutto il con­ti­nente (dall’Italia c’è il Prc, il Pdci è solo ’osser­va­tore’ ma per il voto ha rotto con la lista Tsi­pras), una posi­zione poli­tica dif­fi­cile: per la rifon­da­zione dell’Europa demo­cra­tica e sociale con­tro quella «delle forze del neo­li­be­ri­smo deva­stante», spiega Paolo Fer­rero (Prc), e con­tro i popu­li­smi nazio­na­li­sti. I son­daggi, spiega Lau­rent nella con­fe­renza stampa della mat­tina, danno la Se in lizza con i libe­rali dell’Alde per diven­tare la terza forza del par­la­mento. «Ma anche fos­simo la quarta, siamo indi­spen­sa­bili per la costru­zione di un pro­gramma di sinistra».

Affer­ma­zione da inter­pre­tare con pre­ci­sione. Lau­rent non pensa a una col­la­bo­ra­zione con la fami­glia social­de­mo­cra­tica. «Mar­tin Schulz (il tede­sco can­di­dato del Pse, ndr), oggi giura che vuole un’altra Europa. Ma allora la smet­tano di votare le leggi dell’austerità». È suc­cesso in Fran­cia la set­ti­mana scorsa, sui tagli del neo-premier Valls. Su cui, va detto, 41 depu­tati socia­li­sti si sono aste­nuti. Quanto alla col­la­bo­ra­zione con il Pse, nella sini­stra ita­liana non tutti la pen­sano così, vedasi la Sel di Ven­dola. Se andrà bene, se ne par­lerà a urne chiuse.

La Se illu­stra il suo pro­gramma: stop alle poli­ti­che di auste­rità che «distrug­gono le basi pro­dut­tive dei paesi», stop alla risorse per sal­vare le ban­che e inve­sti­mento per poli­ti­che ambien­ta­li­ste, fine del dum­ping sociale, lotta per il lavoro e con­tro la pre­ca­rietà; fronte con­ti­nen­tale per l’acqua pub­blica, no al TTip, l’accordo com­mer­ciale fra Europa e Stati Uniti in corso di nego­ziato: con buona pace dei pro­clami trion­fali, secondo uno stu­dio dell’istituto vien­nese Ofse, com­mis­sio­nato dal Gue/Ngl, il gruppo par­la­men­tare della sini­stra euro­pea, non aiu­terà la cre­scita, non ridurrà la disoc­cu­pa­zione e finirà a van­tag­gio solo delle grandi indu­strie. «Sin dalla nascita, abbiamo par­lato della crisi che stava arri­vando. Vuol dire che non abbiamo sba­gliato ana­lisi», esulta la Maite Mola, della spa­gnola Izquierda unida. «Di tante scelte sba­gliate, una ne abbiamo imbroc­cata», chiosa con qual­che autoi­ro­nia Ferrero.

Ma in cima al pro­gramma c’è il soste­gno alla Syriza di Ale­xis Tsi­pras con­tro «la cata­strofe dell’esperimento greco impo­sto dalla Troika e il dramma vis­suto nei paesi medi­ter­ra­nei, a ini­ziare dall’Italia». Tsi­pras, con la par­tita euro­pea, gioca quella di casa. Cru­ciale: il 18 mag­gio si svol­gerà il primo turno delle ammi­ni­stra­tive, Syriza è favo­rita nelle città più grandi, Atene in testa. Il secondo turno cadrà pro­prio il 25, giorno del voto euro­peo. «Se vin­ce­remo, e vin­ce­remo», spiega Ste­lios Pap­pas, «con ogni pro­ba­bi­lità in Gre­cia si tor­nerà a votare già nel 2015». Con Tsi­pras can­di­dato pre­si­dente. «E sarà un grande ter­re­moto non solo in Gre­cia, una scossa che aprirà una nuova epoca poli­tica. Se Tsi­pras sarà pre­mier la Gre­cia dirà no al TTip. A quel punto il trat­tato, che ha biso­gno del sì di tutti gli stati, sal­terà. Non siamo con­tro il libero scam­bio, ma siamo per lo scam­bio libero con tutti, Rus­sia com­presa, in un ambiente di pace».

A sera, dal palco romano par­lano anche la capo­li­sta Bar­bara Spi­nelli e Wal­ter Pomar, del Pt bra­si­liano. Da Atene, dove ieri 180 per­so­na­lità della cul­tura hanno detto sì al lea­der di Syriza, Tsi­pras pro­mette: se verrà eletto riti­rerà la com­mis­sione euro­pea dalla Troika e raf­for­zerà la par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica tra­mite refe­ren­dum: «Con­ce­pi­sco la mia can­di­da­tura come un man­dato per unire quello che il neo­li­be­ra­li­smo ha diviso con vio­lenza. Per costruire la più larga alleanza poli­tica e sociale pos­si­bile con­tro l’austerità».

«Se si trat­tasse sol­tanto di leggi, quelle che puni­scono la cor­ru­zione ci sono. Non sono per­fette, ci man­cano una sacco di cose ma ci sono. Credo invece che sia pro­prio un pro­blema di cul­tura, di modo di pen­sare».

Il manifesto, 9 maggio 2014, con postilla

Corruzione Expo. Intervista all'ex pubblico ministero del pool di Mani pulite.
«La cor­ru­zione in Ita­lia è così dif­fusa che è pra­ti­ca­mente impos­si­bile cer­care di porvi rime­dio per via giu­di­zia­ria». E’ una con­sta­ta­zione amara quella che Ghe­rardo Colombo si trova a dover fare in un pome­rig­gio in cui il tempo sem­bra aver fatto un balzo all’indietro fino al 1992, anno in cui Tan­gen­to­poli ebbe ini­zio e lui, insieme al pool di Milano diede avvio a Mani pulite. 22 anni che sem­brano pas­sati invano. «Se oggi la situa­zione è ana­loga a quella di allora, mi sem­bra chiaro che la fun­zione di pre­ven­zione che dovreb­bero avere le inda­gini e i pro­cessi non sia stata svolta» com­menta Colombo che, smessa la toga da magi­strato, oggi è nel cda della Rai.

Dot­tor Colombo ecco di nuovo i nomi di Primo Gre­ganti e Gian­ste­fano Fri­ge­rio. Allora è pro­prio vero che a volte tornano?
Lasciamo che si con­clu­dano le inda­gini e i pro­cessi, per­ché esi­ste sem­pre la pre­sun­zione di inno­cenza. Dopo di che, però, pos­siamo fare un rifles­sione che pre­scinde dalle per­sone e chie­derci se quella di oggi è una situa­zione ana­loga a quella di allora o se ci sono delle diversità.

E lei che rispo­sta si dà?
Posso dirle con cer­tezza che allora esi­steva un sistema della cor­ru­zione e che oggi non mi sem­bra che le cose siano cam­biate poi così tanto. Il sistema è soprav­vis­suto, anche se forse è una cosa diversa: forse c’è meno finan­zia­mento ille­cito ai par­titi e una desti­na­zione dei pro­venti della cor­ru­zione più verso se stessi, anche se magari con delle ecce­zioni. Se però riflet­tiamo sulla quan­tità di que­sto feno­meno e sulla sua dif­fu­sione, credo che in que­sto paese la cor­ru­zione oggi sia dif­fusa ancora molto, molto e poi ancora molto. Abbiamo una serie di indizi per poterlo dire, come le ana­lisi della Corte dei conti e gli appro­fon­di­menti di Trans­pa­rency inter­na­tio­nalche ogni anno ela­bora l’indice della cor­ru­zione per­ce­pita. E poi abbiamo una serie di emer­genze segna­late dai media.

Stando alle noti­zie, una cosa che sem­bra essere cam­biata è la con­si­stenza delle tan­genti. Dal 5–10% dei tempi di Tan­gen­to­poli all’attuale 0,8%. E’ anche que­sta una con­se­guenza della crisi o cosa?
Allora le tan­genti erano molto più arti­co­late. Ricordo quelle pagate per la costru­zione della metro­po­li­tana: il movi­mento terra valeva il 3%, men­tre invece atti­vità che richie­de­vano mag­giori com­pe­tenze arri­va­vano fino al 13%. Sullo 0,8% di oggi pro­ba­bil­mente incide il fatto che girano meno soldi.

Per­ché in tutti que­sti anni l’azione di risa­na­mento non è riu­scita? E’ un pro­blema di leggi insufficienti?
No, secondo me è un pro­blema di cul­tura. Se si trat­tasse sol­tanto di leggi, quelle che puni­scono la cor­ru­zione ci sono. Non sono per­fette, ci man­cano una sacco di cose ma ci sono. Credo invece che sia pro­prio un pro­blema di cul­tura, di modo di pen­sare. La cor­ru­zione in Ita­lia è così dif­fusa che è pra­ti­ca­mente impos­si­bile cer­care di porvi rime­dio per via giu­di­zia­ria, occorre inter­ve­nire attra­verso sti­moli edu­ca­tivi. Leggi più severe non ser­vono. Vede le leggi c’è il pre­cetto, che dice cosa è vie­tato, distin­gue quello che è lecito da quello che è ille­cito. Ora que­sta parte cer­ta­mente è uti­lis­sima, però non serve a mio parere per­ché com­porta gene­ral­mente solo il car­cere, che invece di aiu­tare a mar­gi­na­liz­zare la devianza alla fine la faci­lita. Se noi usiamo la san­zione per ren­dere vero il pre­cetto, va a finire che ci mor­diamo la coda.

Quindi è tutto inutile?
Non è tutto inu­tile, l’intervento penale è insuf­fi­ciente. Dovrebbe ten­dere dav­vero, come dice la Costi­tu­zione alla rie­du­ca­zione del con­dan­nato usando stru­menti che siano in coe­renza con il senso di umanità.

Viste le inda­gini di que­sti ultimi 22 anni, Mani pulite è stata inutile?
Se oggi la situa­zione è ana­loga a quella di allora, se la fun­zione delle inda­gini e dei pro­cessi è quella tra l’altro di ope­rare come pre­ven­zione gene­rale, beh mi sem­bra che que­sta ope­ra­zione di pre­ven­zione non sia stata svolta. Guardi, io sono entrato in Mani pulite nell’aprile del 1992, nel luglio in un’intervista all’Espresso but­tai lì l’idea che chi avesse rico­struito i fatti, resti­tuito quello che aveva incas­sato ille­git­ti­ma­mente e si fosse allon­ta­nato per qual­che anno dalla vita pub­blica non sarebbe andato in pri­gione. Si capiva già che attra­verso lo stru­mento penale non si sarebbe riu­sciti a con­clu­dere niente.

postilla
Del resto, se per vent'anni ha governato un tale che dichiarava che non bisognava pagare le tasse, non possiamo meravigliarci del fatto che la cattiva politica ha battuto la buona giustizia. E purtroppo, se poi a quel tale, dichiarato criminale in tre gradi di giudizio, l'oggettiva complicità tra cattiva politica e morbida ha concesso l'impunità, non potremo meravigliarci domani se scopriremo che la corruzione è ancora cresciuta. A meno chegli elettori non sappiano trasformare il disgusto in speranza e completare la protesta con la proposta.

«È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre».

Corriere della sera, 9 Maggio 2014 (m.p.r)

Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto…». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop.

Sono sei anni, dal 31 marzo 2008, che sappiamo di dovere organizzare l’Expo 2015. E anni che sappiamo, dopo i trionfi di Shanghai 2010 dove il nostro padiglione fece un figurone, che l’impresa è difficile se non temeraria. Eppure solo Napolitano, all’ultimo istante, si precipitò alla grandiosa esposizione cinese per ricevere il passaggio del testimone e mettere una toppa sulle vistose assenze del nostro governo. Dopo di allora, tanti proclami, annunci, rassicurazioni… Mentre cresceva, nonostante l’impegno generoso di tanti, la paura di non farcela.
È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre. O forse è peggio ancora: c’è anche chi scommette sui ritardi e sulla accelerazione febbrile col cuore in gola. Quando il rischio che salti tutto fa saltare le regole che erano state fissate e i prezzi schizzano sempre più su, più su, più su. Proprio come previde nel 2010 la presidente degli architetti milanesi denunciando «perplessità in merito al rispetto delle scadenze per il completamento dei lavori, alla trasparenza delle procedure e alle modalità che saranno utilizzate per affidare gli appalti». Già la prima di quelle gare, del resto, fu un’avvisaglia: vinse un’impresa con un ribasso enorme da 90 a 58 milioni ma l’anno dopo già batteva cassa per averne 88. Per non dire delle infiltrazioni nei subappalti di imprese in odore di mafia: il capo della polizia Pansa, mesi fa, comunicò che 23 aziende erano state escluse. Lo stesso sindaco Pisapia, però, spiegò d’essere sulle spine: troppi, sei mesi di analisi burocratiche, per verificare la serietà di una ditta. Tanto più se la fretta si fa angosciosa.
L’unica sorpresa, nella retata di ieri che segue il fermo un mese fa del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Giulio Rognoni, sono i nomi di alcuni degli arrestati. Già tirati in ballo vent’anni fa, nella stagione di Mani pulite, come se non fosse cambiato niente. Dal costruttore Enrico Maltauro all’ex pci Primo Greganti fino all’ex dicì Gianstefano Frigerio, poi candidato da Forza Italia (lifting anagrafico…) col nome d’arte di Carlo. Ma come, direte: ancora? Ancora, accusano i magistrati. E parlano d’«una cupola» che «condizionava gli appalti» in favore di «imprese riconducibili a tutti i partiti». Cosa significa «tutti»? Mancano solo un paio di settimane alle elezioni europee. E un anno all’apertura dell’Expo: i dubbi su quello che è oggi il più grande investimento nazionale e rischia di trasformarsi da vetrina della speranza e del rilancio in una vetrina infangata devono essere spazzati via in fretta.

«Per quanto distan­ziati dalle due liste mag­giori,Sinistra europea e libe­rali non sono certo forze resi­duali: secondo le inchie­ste di opi­nione, potreb­bero otte­nere cia­scuno un numero di depu­tati pari a circa l’8% dell’emiciclo di Stra­sburgo».

Il manifesto, 9 maggio 2014

Diven­tare la terza forza poli­tica dell’Ue. Que­sto è l’obiettivo che il par­tito della Sini­stra euro­pea (Se) vuole rag­giun­gere alle ele­zioni del 25 mag­gio. Un tra­guardo ambi­zioso, ma che è pie­na­mente alla por­tata delle liste – come l’italiana L’Altra Europa – che nei diversi Paesi dell’Unione can­di­dano Ale­xis Tsi­pras a pre­si­dente della Com­mis­sione di Bru­xel­les. I son­daggi pre­ve­dono un dop­pio testa a testa: socia­li­sti e popo­lari si con­ten­dono la mag­gio­ranza rela­tiva (sono dati al 28%), men­tre Se e libe­rali dell’Alde (in Ita­lia sono i mon­tiani di Scelta civica) lot­tano per il pri­mato fra i par­titi «minori». Quelli, cioè, che con ogni pro­ba­bi­lità avranno un risul­tato a una cifra.

Per quanto distan­ziati dalle due liste mag­giori, Se e libe­rali non sono certo forze resi­duali: secondo le inchie­ste di opi­nione, potreb­bero otte­nere cia­scuno un numero di depu­tati pari a circa l’8% dell’emiciclo di Stra­sburgo. Per la forza gui­data in que­sta com­pe­ti­zione da Tsi­pras si trat­te­rebbe di un buon passo in avanti rispetto alla legi­sla­tura attuale, men­tre per i libe­rali dell’Alde gui­dati dal belga Guy Verhof­stadt e dal fin­lan­dese Olli Rehn si trat­te­rebbe di un ridi­men­sio­na­mento. Nel caso in cui la Se sopra­van­zasse i libe­rali, il muta­mento degli equi­li­bri nell’Europarlamento – e il segnale poli­tico – sarebbe da non sottovalutare.

Ne è con­sa­pe­vole il gruppo diri­gente della Sini­stra Eruo­pea che oggi si ritrova a Roma per una gior­nata di cam­pa­gna elet­to­rale, ma anche di festa: il 9 mag­gio di 10 anni fa, pro­prio nella capi­tale ita­liana, nasceva que­sta forza poli­tica con­ti­nen­tale, che ebbe come suo primo pre­si­dente l’allora segre­ta­rio di Rifon­da­zione comu­ni­sta Fau­sto Ber­ti­notti. Al suo posto ora c’è il fran­cese Pierre Lau­rent, segre­ta­rio del Pcf, che pren­derà la parola nelle ini­zia­tive pre­vi­ste oggi: alle 10 una tavola rotonda sulle «sfide per cam­biare l’Europa» all’Hotel Nazio­nale di piazza Mon­te­ci­to­rio e dalle 18 una mani­fe­sta­zione (con con­certo) a Campo de’ Fiori.

Nel mee­ting serale inter­ver­ranno fra gli altri anche Fabio Amato, coor­di­na­tore della cam­pa­gna Se, il segre­ta­rio del Prc Paolo Fer­rero e Bar­bara Spi­nelli. Attra­verso un video­mes­sag­gio si potrà ascol­tare anche Tsi­pras, che della Se è uno dei vicepresidenti.

A fare da traino per il risul­tato del 25 mag­gio ci sarà pro­prio la greca Syriza, la forza gui­data dal can­di­dato pre­si­dente: i son­daggi le attri­bui­scono oltre il 20%. Impor­tante sarà anche il con­tri­buto della tede­sca Linke, del car­tello fran­cese Front de Gau­che (di cui fa parte il Pcf), e della spa­gnola Izquierda unida

La stanchezza di un uomo che ha visto molte stagioni, cadere molte illusioni, svanire molte speranze. Ma, forse, "c'è qualcosa di nuovo sotto il sole...". La Repubblica, 8 maggio 2014

LE elezioni europee (25 maggio) sono ormai dietro l’angolo, e la campagna elettorale, per altro poco animata, si presta a molte considerazioni. Può avere conseguenze sulla sorte dell’euro, quindi è più importante di quanto non sembri. Ma può essere riassunta in pochi concetti. Alla base di ogni considerazione, quando si parla di Europa, dovrebbe essere una regola tassativa: ogni moneta in circolazione deve avere alle spalle uno Stato, non può fluttuare nel vuoto, o fare capo a più Stati, distinti e indipendenti uno dall’altro. Il dollaro è la moneta degli Stati Uniti d’America: ha alle spalle uno Stato federale, un singolo governo, un singolo parlamento, e i cittadini degli Stati Uniti, anche se si sono affrontati in un passato ormai lontano in una dura guerra civile, parlano la stessa lingua, hanno la stessa storia. Un quadro del tutto diverso presenta l’Europa: ben più profonde sono le differenze fra le popolazioni che abitano nel nostro continente. A cominciare dalla lingua: polacchi e portoghesi, tanto per dire, non si capiranno mai. Per questo gli Stati Uniti d’Europa, sul modello americano, non si faranno, non si potranno mai fare: sono una utopia. Ne consegue che la moneta unica, l’euro, è stata una creazione avventata, e tutto sommato un errore. Bisogna pur dirlo, anche se le intenzioni che l’hanno ispirata erano lodevoli.

Adesso, tuttavia, non si può tornare indietro: tanto gli economisti quanto gli uomini d’affari sono convinti che la marcia indietro sarebbe un nuovo errore, peggiore del primo. Ed è anche vero che l’euro, sebbene sia stato un’operazione avventata, ha portato, con le difficoltà, molti benefici. La soluzione è la creazione di organi comunitari che, pur non essendo il prodromo di un’unione politica europea, aiuteranno a coordinare la politica economica dei vari Stati in Europa e agevoleranno il funzionamento della moneta unica. Mario Draghi, forte del-la sua posizione alla guida della Banca Centrale Europea, è fra coloro che più spingono in questa direzione. Non mancano le proposte di economisti e di personaggi con incarichi ufficiali. Purtroppo, i governi europei non hanno finora compreso l’urgenza degli interventi: hanno dato l’impressione, secondo un’immagine molto efficace, di una banda di allegri ragazzi che corrono ridendo, di buon umore, verso il precipizio.

Ma i vari provvedimenti suggeriti dagli esperti non devono dar luogo a equivoci: non sono la premessa di una federazione europea; bensì sono misure di carattere tecnico che mirano ad agevolare la sintonia della politica finanziaria fra vari Paesi. Ed è interessante l’evoluzione dell’idea di Europa attraverso gli anni. Subito dopo la guerra una federazione continentale, fra le nazioni che ne costituivano l’ossatura, fu il grande ideale. Erano allora europeisti gli uomini di Stato più importanti, da Adenauer a De Gasperi e a De Gaulle, era europeista perfino Churchill; e quella che auspicavano era l’Europa umanitaria, fattore di pace, per reazione alla carneficina che aveva insanguinato il continente. Poi, a poco a poco, il ricordo della strage si è attenuato: oggi si è ancora europeisti, ma con altre aspirazioni, più razionali e meno sentimentali: fondamentalmente, per resistere alla concorrenza del Terzo Mondo nell’economia globale. Bisogna pur riconoscerlo: si sono attenuati gli entusiasmi. Il Primo ministro inglese, cioè di una nazione che europeista lo era con misura anche mezzo secolo fa, ha promesso che si indirà l’anno prossimo nel suo Paese un referendum sull’appartenenza al Mercato comune, se rimanervi o uscirne. È anche vero che quando si è data vita al Mercato comune l’Europa sognava ancora di reggere le sorti del mondo. Oggi sono altri gli ideali: l’Europa, dalla Scandinavia al Mediterraneo, aspira piuttosto a essere una grande Svizzera ordinata e benestante, vivere in pace in un mondo pacifico, non dare fastidio a nessuno.

Il Terzo Mondo, intanto, cresce e si moltiplica, a un ritmo vertiginoso. Ma questo è un altro discorso.
I sostenitori della lista “L’altra Europa con Tsipras”, se non strillano come gli altri, cercano di ragionare e proporre anche durante l’affannosa campagna elettorale. Dopo una serie di discussioni che si sono intrecciate a proposito del drammatico scontro che si svolge attorno e dentro l’Ucraina propongono due testi redatti da Barbara Spinelli, Eleonora Forenza, Fabio Amato, Guido Viale e da Francesco Gesualdi, Tommaso Fattori, Silvia De Giuli, Lisa Clark, Rocco Altieri, Giorgio Gallo, l'8 maggio 2014


LA VERITà VITTIMA DELLA GUERRA
L'EUROPA HA QUALCOSA DA DIRE?
di Barbara Spinelli, Eleonora Forenza, Fabio Amato, Guido Viale

Come in tutte le guerre, la verità e l'informazione sono vittime designate. Il caso ucraino non fa eccezione. Si omette deliberatamente di dare notizia sull'uso di paramilitari nazisti al servizio del governo di Kiev, così come dei tragici eventi accaduti ad Odessa (46 persone disarmate uccise in un vero e proprio pogrom antirusso, imputabile alle milizie filogovernative di Pravyi Sektor, Settore di Destra) . Criminale è l'aver fomentato, soprattutto da parte degli USA, una guerra civile e aver sdoganato in Europa forze naziste, che speravamo di aver cancellato definitivamente dal futuro dell'Europa.

Ed è anche il futuro dell'Europa che si gioca in Ucraina: gli Stati Uniti hanno lavorato e stanno lavorando pesantemente per destabilizzare la situazione ucraina, in primo luogo al fine di favorire una espansione ad Est dei confini della NATO. Non solo: nel contesto della trattativa sul Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip), gli Stati uniti lavorano per impedire qualsivoglia autonomia geopolitica dell'Europa, e per arginare gli scambi Europa-Russia, soprattuto energetici. Insomma, si vuole rinchiudere l'Europa in un più serrato patto atlantico, volto a fare dell'Europa il cortile degli USA sia sul terreno militare che su quello economico.

Occorre che le pacifiste e i pacifisti si mobilitino in Italia e in Europa, contro la violazione dei diritti umani e il governo di Kiev e in favore di una Ucraina libera e federata. Come ha detto Alexis Tsipras al "Guardian": "L'Unione europea dovrebbe far di tutto per ristabilire l'accordo di Ginevra del 17 aprile , e cercare la fine immediata delle violenze. Dovrebbe anche lanciare un ultimo monito al governo provvisorio ucraino, esigendo che gli accordi non siano ancora una volta violati. Il massacro nell'edificio dei sindacati a Odessa mostra che esistono elementi nel governo ucraino, intimamente legati a unità paramilitari criminali e naziste, che vogliono un'Ucraina più piccola e "etnicamente ripulita". È per raggiungere i propri obiettivi che cercano di provocare la Russia. La soluzione praticabile della crisi richiede come prima cosa la rimozione di tutti gli elementi neonazisti e di estrema destra dal governo provvisorio. La pace in Ucraina è difficile se tali elementi restano al potere, perché la loro strategia consiste nel seminare insicurezza in tutte le minoranze etniche e religiose del paese".


NO A GUERRA, SI A NEGOZIATI
PER UNA SOLUZIONE DEMOCRATICA E NON VIOLENTA
di Francesco Gesualdi, Tommaso Fattori, Silvia De Giuli, Lisa Clark, Rocco Altieri, Giorgio Gallo

Forti dell’articolo 11 della Costituzione italiana che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, invitiamo tutte e tutti a levare la propria voce contro qualsiasi iniziativa, sia essa di parte filo atlantica o di parte filo russa, che può aggravare la situazione di tensione in atto in Ucraina o che possa sfociare in soluzioni di prevaricazione unilaterale.

La situazione ucraina è senz'altro complessa per la molteplicità di fattori storici, linguistici, economici, politici e religiosi, ma siamo altrettanto convinti che non sono le armi a risolvere i problemi.

E' altrettanto certo che a peggiorare il quadro pesano interessi di paesi terzi, perseguiti sulla pelle della popolazione civile, che oltre ad essere colpita dalle conseguenze del conflitto, si vede attraversata da campagne che puntano a creare lacerazioni insanabili.

Il popolo ucraino è un popolo martoriato da oligarchie schierate su fronti contrapposti, uno occidentale e uno russo. Entrambe dedite alla disonestà e alla corruzione, da anni si contendono il potere con la fraudolenza e con la violenza, avvalendosi anche di forze paramilitari sostenute dalle proprie potenze straniere di riferimento. In questo contesto nel marzo 2014 è stato destituito il presidente filorusso Yanuckovich da una piazza che non era composta solo da cittadini inermi, come testimonia l’appellativo di “lupi di piazza Maidan”. Subito dopo, nella parte est, sono iniziate sommosse separatiste con la presenza di gruppi che dispongono di armi. Ed ad ogni violenza perpetrata da una parte o dall’altra, la potenza straniera avversa ne approfitta per giustificare la propria avanzata verso i confini dell’Ucraina e sostenere con armi e consiglieri la propria fazione interna.

In altre parole, l’Ucraina si trova in una spirale di violenza che può essere arrestata solo se tutte le potenze straniere che hanno secondi fini nella vicenda, accettano di fare un passo indietro e soprattutto se accettano di rinunciare all’opzione armata più o meno velata. Il coinvolgimento di organizzazioni internazionali, come l’ONU, deve rivolgersi ad una soluzione diplomatica, che sappia evitare soluzioni unilaterali, che inevitabilmente sfocerebbero in un conflitto armato.

Per cominciare, anche in considerazione dall’approssimarsi del semestre di presidenza del Consiglio Europeo, l’Italia deve attivarsi subito affinché l’Europa imponga al governo di Kiev, filo-occidentale, il cessate il fuoco nei confronti dei propri cittadini e l'avvio di negoziati per trattare un accordo.

In Ucraina la parola deve passare ai cittadini che debbono potersi esprimere senza la paura di ritorsioni violente da parte di questa o quella parte. Debbono potersi esprimere sul tipo di parlamento che vogliono, sul tipo di partenariato internazionale preferito, sulla forma federativa più capace di conciliare quelle differenze che nell’ultimo decennio alcune forze hanno voluto esasperare. Per questo serve l’attivazione di forze multilaterali come l’ONU e l’OSCE affinché inviino forze civili di pace, decine di migliaia di persone disarmate, con il triplice scopo di tutelare le minoranze esistenti nei vari territori, di favorire il dialogo fra le diverse posizioni e di vigilare e denunciare qualsiasi presenza armata e qualsiasi interferenza straniera, al fine di garantire il ritorno al pacifico confronto e svolgimento democratico dei processi decisionali che spettano unicamente al popolo ucraino

La Repubblica, 8 maggio 2014

Il nostro mondo, preda di ingiustizie e conflitti, ha bisogno dell’Europa. Ma dell’Europa come era stata pensata, e cioè basata su un forte contratto sociale che ambisce alla giustizia collettiva e a proteggere gli svantaggiati; dell’Europa che per gestire i conflitti internazionali ricorre alla diplomazia e alla legalità, e non alla forza degli eserciti; dell’Europa che lavora con l’ambiente, e non contro l’ambiente, dimostrando così di essere più avanzata di buona parte del pianeta. Questa Europa ideale, però, è venuta meno e nel corso degli ultimi anni ha preso alcune decisioni che l’hanno allontanata da ciò che doveva essere. Il regresso è evidente in molti ambiti, perfino in quei settori economici che quasi per definizione sono un po’ “predatori” e che dunque negli anni potrebbero aver tratto vantaggio, come le grandi banche europee.

Oggi, invece, ci stiamo richiudendo nei bunker. Due dei bunker più grandi che abbiamo appena ultimato sono il regime di asilo dettato dal regolamento di Dublino III e il nuovo progetto di unione bancaria. Invece della molto discussa unione bancaria che darebbe vita a meccanismi di ridistribuzione, siamo ricaduti nelle usanze del passato, con le classi politiche e bancarie di ciascun paese fin troppo amichevoli tra loro. Con tutti i suoi limiti e il suo obiettivo comune - un settore bancario forte - l’unione bancaria avrebbe imposto a paesi con tanto credito come la Germania di prendere provvedimenti per aiutare i paesi più poveri e fortemente indebitati. Nel migliore dei casi questo avrebbe richiesto un’Europa che in parte riprendesse la proposta di Keynes per la quale i paesi più ricchi hanno l’obbligo di mettere i paesi più poveri e indebitati nella condizione di poter reagire, così da garantire un sistema globale più sano. Keynes fallì nel suo tentativo, soprattutto perché gli Stati Uniti all’indomani della Seconda guerra mondiale non vollero fermare il tentativo delle banche e delle corporation di prendere il potere. Ma anche l’unione bancaria europea ha deluso, soprattutto perché la Germania non ha voluto rischiare di trovarsi bloccata con le obbligazioni che i paesi dell’Ue più ricchi avrebbero dovuto accollarsi nel nome di un’Unione europea sana.

Il secondo segnale del decadimento europeo riguarda l’asilo. Come nel caso dell’unione bancaria, un regime comune per l’asilo non è una faccenda semplice. L’Europa riuscirà a escogitare qualcosa di più ragionevole e giusto delle regole oggi vigenti? Dublino III crea un conflitto tra i paesi europei meridionali e quelli settentrionali. Rende vittime sia coloro che cercano asilo sia i paesi meridionali europei più poveri, che al momento sono tra quanti accolgono in maggior numero i richiedenti asilo - Spagna, Italia, Grecia. Questo, naturalmente, è il peggiore patto possibile. I paesi dell’Europa del Nord offrono condizioni più vantaggiose rispetto a quelli meridionali e così si è sparsa la voce: i richiedenti asilo vogliono raggiungere la Germania. Tuttavia, la legge prevede che essi si registrino nel primo paese nel quale mettono piede in Europa. Ciò ha significato che molti richiedenti asilo finiscano per essere doppiamente illegali nei paesi settentrionali, vedi in Germania: evitano di registrarsi nei paesi meridionali - come la legge impone loro di fare - per non restare bloccati lì, ma allo stesso tempo non possono registrarsi nei paesi settentrionali perché sono entrati in Europa da quelli meridionali.

Né l’unione bancaria né l’unificazione del diritto di asilo sono progetti facili. A dire il vero, per molti sembrano entrambi irrealizzabili. Eppure, l’Europa ha dimostrato con la sua stessa storia che ciò che sembrava impossibile era fattibile.

Ecco un esempio che mi piace utilizzare per illustrare in che modo ciò che sembra irrealizzabile è in realtà possibile e può diventare uno strumento per trarne ulteriori benefici. Riguarda una delle caratteristiche del Vecchio Continente più ammirate in tutto il mondo, e cioè la “città aperta” tipica dell’Europa. Si tratta di un elemento cruciale della storia d’Europa, spesso trascurato, che dimostra come la sfida per incorporare lo “straniero” diventino strumenti per sviluppare la comunità civile nel senso migliore della parola. Ed è uno strumento che oggi potrebbe assumere forme e contenuti nuovi.

L’ostilità per gli immigrati e gli attacchi contro di loro si sono verificati in ciascuna delle più importanti fasi migratorie dei principali paesi europei. Nessuno Stato che accoglie manodopera ne è immune: né la Svizzera, con la sua lunga e apprezzabile storia di neutralità internazionale, né la Francia, il paese più aperto all’immigrazione, ai profughi e agli esuli. Nel 1800 i lavoratori francesi uccisero quelli italiani, accusandoli di essere cattivi cattolici.

Sono sempre esistiti, tuttavia -— come del resto esistono ancora oggi - , singoli individui, gruppi, associazioni e politici che credono nell’idea di rendere le nostre società maggiormente inclusive nei confronti degli immigrati. La storia ci insegna che coloro che combattono per l’integrazione alla fine ottengono ciò che vogliono, anche solo in parte. Se vogliamo concentrarci sul recente passato, un quarto dei francesi ha un antenato nato all’estero, tre generazioni indietro, e il 32 per cento dei viennesi è nato all’estero o ha genitori stranieri.

Potrebbe essere utile a questo proposito, e tenendo conto della sconfortante situazione sull’immigrazione di oggi, ricordare che l’Europa soffre di una mancanza di prospettiva storica, e questo è assurdo. L’Europa ha una storia secolare, a stento riconosciuta, di migrazione interna dei lavoratori. Un fenomeno rimasto nell’ombra rispetto alla “storia ufficiale”, nella quale predomina l’immagine di Europa come continente di emigrazione, mai di immigrazione. Eppure, quando Amsterdam nel Settecento costruì i suoi polder e drenò i territori paludosi importò lavoratori della Germania del nord; per le loro vigne i francesi sfruttarono gli spagnoli; quando Milano e Torino si svilupparono importarono operai dalle Alpi; quando Londra costruì le sue infrastrutture per l’acqua e per le fogne si servì di irlandesi; quando nell’Ottocento Haussmann rifece Parigi, fece arrivare operai tedeschi e belgi; quando la Svezia decise di aver bisogno di palazzi eleganti, importò gli italiani; quando la Svizzera costruì il tunnel del San Gottardo, utilizzò immigrati italiani; e quando la Germania ricostruì le sue ferrovie e le sue acciaierie si servì di immigrati italiani e polacchi.

Anche se molti di questi lavoratori migranti tornarono nei rispettivi paesi di origine, molti altri sono rimasti, soprattutto nelle grandi città. L’integrazione degli immigrati in Europa nel corso dei secoli ha imposto la fatica di redigere norme nuove, soprattutto perché l’Europa prende molto sul serio le sue città e il senso civico. Lo fa molto più seriamente, per esempio, degli Stati Uniti, per i quali in passato è sempre valso il principio “vieni pure, ma ti arrangi”. Questo atteggiamento scoraggiante negli Usa è cambiato, però non ha seguito l’esempio europeo di una maggiore attenzione nei confronti della comunità: ha promosso la nascita di uno “stato di polizia” all’interno dello stato.

Dal mio punto di vista, questa premura nei confronti della comunità e delle proprie città è una dinamica cruciale nella storia d’Europa, spesso fin troppo ignorata e trascurata, che dobbiamo invece riscoprire. Sarebbe infatti di enorme utilità oggi, anche nel caso in cui assumesse forme e contenuti nuovi.

Questa è la chiave della loro utilità: vista la premura dell’Europa nei confronti della comunità, le sfide per incorporare lo “straniero” sono diventate strumenti per far evolvere il senso civico nell’accezione migliore della parola, aspetto che sviluppo ed esamino in maniera approfondita nel mio libro Territory, Authority, Rights ( che uscirà in Italia per Bruno Mondadori). Un singolo esempio illustra la validità di questo progetto pratico: se una città deve avere un sistema di trasporti pubblici efficiente, deve permetterne l’accesso a tutti, a prescindere dal loro status. Non può controllare i cittadini o lo status di immigrati di coloro che “sembrano stranieri”. Un sistema di trasporti pubblici efficiente deve avere una regola minima condivisa: procurati il biglietto o l’abbonamento e potrai accedervi. Questo è tutto. Se oggi potessimo pensare in termini altrettanto pratici e affrontare questi aspetti critici in maniera semplice e concreta (non nelle aule della politica o dei tribunali), potremmo compiere un notevole passo avanti verso un’integrazione degli stranieri. E ne beneficerebbero anche ai nativi.

(Traduzione di Anna Bissanti) Saskia Sassen, sociologa, insegna alla Columbia University. Il suo nuovo libro si intitola Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy. Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press ( sarà pubblicato in italiano da Il Mulino)

C’è stato un tempo in cui la poli­tica non si faceva nei talk show. I pro­ta­go­ni­sti di quella sta­gione non erano miliar­dari (né si appre­sta­vano a diven­tarlo) che incen­tra­vano la pro­pria azione sul cari­sma per­so­nale e su misu­ra­zioni del con­senso che ricor­dano i mec­ca­ni­smi dell’audience mediatico. Di que­sta epoca che si sta­glia alle nostre spalle, pro­ta­go­ni­sta indi­scusso è stato Enrico Ber­lin­guer, per quasi quin­dici anni lea­der indi­scusso del par­tito comu­ni­sta ita­liano, di cui il pros­simo sette giu­gno si cele­bra il tren­ten­nale della morte, avve­nuta a Padova durante un comi­zio in vista delle immi­nenti ele­zioni europee.

Fra i molti libri che le più pre­sti­giose case edi­trici ita­liane si appre­stano a stam­pare, emerge con un valore tutto pro­prio il lavoro ine­dito di Guido Liguori, stu­dioso del pen­siero poli­tico e di Gram­sci, di cui esce in que­sti giorni per Carocci il suo Ber­lin­guer rivo­lu­zio­na­rio. Il pen­siero poli­tico di un comu­ni­sta demo­cra­tico (pp. 180, euro 13; è anche co-curatore, insieme a Paolo Ciofi, di Enrico Ber­lin­guer. Un’altra idea del mondo. Anto­lo­gia 1969-1984, Edi­tori Riu­niti Uni­ver­sity Press).

Il rischio del volume è di idea­liz­zare quell’epoca e, con essa, Enrico Ber­lin­guer che ne è stato un pro­ta­go­ni­sta indi­scusso. Un rischio che si pre­senta con tutta evi­denza quando Liguori ce lo descrive come il diri­gente per il quale la poli­tica è «pas­sione e dovere», un modello di uomo poli­tico impen­sa­bile ai giorni nostri, che «sem­pre immerso nei libri e nei gior­nali, pas­sava le not­tate a leg­gere, a pre­pa­rarsi». Un rischio desti­nato a essere supe­rato gra­zie al rigore ana­li­tico dell’autore e all’esplicitazione , ma anche non appena si chia­ri­sce del con­te­sto in cui Ber­lin­guer si tro­vava ad operare.

La fine di un'epoca

In que­sto senso è cen­trale un epi­so­dio ripor­tato nel volume: il 27 giu­gno del 1976, al sum­mit di Puerto Rico dei paesi più indu­stria­liz­zati, i pre­si­denti di Stati Uniti e Fran­cia, con­giun­ta­mente ai primi mini­stri di Regno Unito e Ger­ma­nia Ovest, si riu­ni­rono in tutta segre­tezza e all’insaputa di Aldo Moro (allora capo del Governo ita­liano e anche lui pre­sente al sum­mit in rap­pre­sen­tanza del pro­prio paese), per con­ve­nire sulle misure puni­tive che sareb­bero state prese nei con­fronti dell’Italia se il Pci fosse andato al governo. A nulla erano ser­vite le dichia­ra­zioni con­ci­lianti di Ber­lin­guer sulla Nato: il par­tito comu­ni­sta ita­liano, il più grande e forte dei paesi occi­den­tali, con­ser­vava il ruolo di nemico da com­bat­tere, Un epi­so­dio elo­quente sve­lato al pub­blico dal lea­der social­de­mo­cra­tico tede­sco Hel­mut Sch­midt, il quale parlò di un vero e pro­prio «avver­ti­mento», vei­colo di un «ter­ro­ri­smo economico».

L’apertura di Ber­lin­guer verso il blocco gover­nato dagli Stati Uniti è nota, con tanto di dichia­ra­zione della «nostra appar­te­nenza» ai paesi Nato (la cosid­detta «via ita­liana al socia­li­smo» non pre­ve­deva osta­coli o con­di­zio­na­menti da parte dell’Urss, secondo le parole del segre­ta­rio), ma evi­den­te­mente que­sto non era stato suf­fi­ciente a tran­quil­liz­zare i pro­fes­sio­ni­sti dell’anticomunismo, memori di un capo del par­tito comu­ni­sta ita­liano che, sem­pre in que­gli anni, si lasciava andare a una dichia­ra­zione tanto forte quanto discu­ti­bile: «È un fatto: nel mondo capi­ta­li­stico c’è la crisi, nel mondo socia­li­sta no».

Liguori è oppor­tuno ed effi­cace nel richia­mare un dato cen­trale: quella, a cavallo fra gli anni Set­tanta e Ottanta del secolo scorso, era anche l’epoca di un mondo che stava comun­que cam­biando. È in quella fase che ha ini­zio il feno­meno poli­tico sociale che oggi­giorno si è affer­mato con forza sovrana, e che insieme all’episodio di Puerto Rico costi­tui­sce un ele­mento nodale di com­pren­sione di quel tempo: la fine del modello key­ne­siano, carat­te­riz­zato da una felice com­mi­stione di libero mer­cato e inter­vento gover­na­tivo (wel­fare state) e il ritorno pre­po­tente dell’ideologia e della poli­tica libe­ri­sta, basata sull’esaltazione della ricerca del pro­fitto indi­vi­duale e sulla mor­ti­fi­ca­zione di ogni inter­vento sta­tale che fosse volto alla tutela della giu­sti­zia sociale.

Il peccato originale

Con­tro que­sto pre­pon­de­rante ritorno di un’economia a cui veniva affi­dato il governo incon­tra­stato sulla poli­tica e sulle fac­cende umane, nell’ambito del mondo che si stava glo­ba­liz­zando, Enrico Ber­lin­guer oppo­neva una solu­zione che ha forti eco con quella por­tata avanti da Joseph Sti­glitz (pre­mio Nobel per l’economia in virtù di idee diverse da quelle dei libe­ri­sti): un «governo mon­diale» che, sulle basi poli­ti­che della cen­tra­lità dell’uomo e dei suoi biso­gni, fosse in grado di porre un freno alle spinte mer­ca­ti­ste di un capi­ta­li­smo che «aveva gene­rato la deca­denza della vita eco­no­mica e della vita sociale, da cui nasce­vano non solo cre­scenti disagi mate­riali per le grandi masse della popo­la­zione lavo­ra­trice, ma anche il males­sere, le ansie, le ango­sce, le fru­stra­zioni, le spinte alla dispe­ra­zione, le chiu­sure indi­vi­dua­li­sti­che, le illu­so­rie evasioni».

In tale con­te­sto quella di Ber­lin­guer è anche la sto­ria di una grande scon­fitta, e que­sto emerge in maniera timida dalle con­si­de­ra­zioni di Liguori. Il suo essere stato anzi­tutto un uomo dell’apparato, la sua mio­pia ideo­lo­gica e poli­tica rispetto alle spinte pro­ve­nienti dai movi­menti meno proni all’ortodossia marxista-leninista, il con­ser­va­to­ri­smo ideo­lo­gico misto al defi­cit di lai­cità (pec­cato ori­gi­nale del comu­ni­smo ita­liano) che lo situa­rono su posi­zioni scet­ti­che riguardo agli impor­tanti refe­ren­dum indetti dai radi­cali negli anni Set­tanta, rap­pre­sen­tano alcuni degli ele­menti alla base della scon­fitta di Ber­lin­guer (e del Pci), soprat­tutto di fronte alle spinte post­mo­der­ni­ste pro­ve­nienti dal Psi del ram­pante Craxi.

Inopportune mitologie

Allora come oggi, pro­ba­bil­mente, in cui l’apparato più orto­dosso del Pd (pro­ve­niente dall’ex Pci), col pro­prio immo­bi­li­smo ha lasciato campo libero all’emersione esplo­siva di figure spre­giu­di­cate e senza un fon­da­mento teo­rico e pro­gram­ma­tico di fondo, ci si è tro­vati a pagare un prezzo sala­tis­simo e dram­ma­tico, pro­prio nel momento in cui mag­gior­mente sarebbe stato neces­sa­rio avere un forte con­tral­tare alle spinte nuo­va­mente disu­ma­niz­zanti e tota­li­ta­rie del neo-liberismo.

Certo, la denun­cia ber­lin­gue­riana della «que­stione morale» fu quanto mai pro­fe­tica, come quel suo monito affin­ché i «par­titi ces­sino di occu­pare lo Stato», ma è indub­bio che troppi ritardi all’interno del Pci con­tri­bui­rono in maniera sostan­ziale a che l’ideologia libe­ri­sta riu­scisse nella sua impresa di distrug­gere pro­prio lo Stato, ren­dendo con­se­guen­te­mente obso­leti e depo­ten­ziati que­gli stessi par­titi (e idee) politici.

Ormai è il tempo in cui la poli­tica si fa nei talk show. Una «pic­cola poli­tica» (Gram­sci) a cui Ber­lin­guer ha poco o nulla da dire. Alla «grande poli­tica», ammesso che essa possa final­mente tor­nare, potrebbe invece dire molto. A patto che si sia con­sa­pe­voli anche dei suoi limiti. Tenen­dosi ben lon­tani da inop­por­tune mito­lo­gie. Ben lon­tani, a pen­sarci bene, dalla logica spet­ta­co­lare dei talk show.

«Una politica che ha dimenticato l’ onore, ritenuto forse un inaccettabile segno del moralismo dei costituenti, quale prospettiva può offrire per una azione concreta di ricostruzione dell’etica civile?».

La Repubblica, 7 maggio 2014

NON possiamo distogliere lo sguardo dai mali profondi dell’Italia, quelli che continuano a corrodere la società. Abbiamo appena assistito all’accettazione strutturale della corruzione, visto che condannati e inquisiti non sono stati non dico almeno biasimati, ma dotati di un paracadute politico con candidature alle elezioni europee e locali. Vi è una morale da trarre da questa vicenda? Ve ne sono almeno tre. La prima riguarda il significato assunto dalle leggi in queste materie; la seconda evoca l’onore perduto della politica; la terza richiama l’impossibile ricostruzione di un’etica civile.

In tutti questi anni sono stati citati infiniti casi di politici in vista, spesso con grandi responsabilità pubbliche, che si sono prontamente dimessi per comportamenti ritenuti riprovevoli, senza che vi fosse alcuna legge che lo prevedesse. Fuori d’Italia, però. Ultima tra le tante, la notizia delle dimissioni del premier sudcoreano in relazione a un drammatico naufragio, dunque a qualcosa di estraneo alle sue dirette responsabilità, ma di fronte al quale la politica non poteva rimanere silenziosa. Dalle nostre parti, perduta da gran tempo la speranza di sane reazioni dettate dalla responsabilità politica e dalla moralità pubblica, si è stati obbligati, tra mille resistenze, a scrivere qualche norma per combattere almeno i casi più scandalosi. Ma questa scelta ha prodotto un effetto paradossale. Invece di considerare le nuove leggi come il segno di un cambiamento del giudizio collettivo sui doveri di chi esercita responsabilità pubbliche, si è cercato in ogni modo di limitarne l’applicazione; e, soprattutto, si è concluso che ormai solo i comportamenti lì previsti possano legittimare reazioni di biasimo. Vengono così derubricate, e collocate nell’area della irrilevanza, le “disattenzioni” nell’esercizio delle proprie funzioni, le ambigue reti di relazioni personali, le convenienze dirette e indirette procurate dal ruolo ricoperto, le dichiarazioni violente e razziste, e via dicendo.

È tornata così, in forme nuove, la consolidata e interessata confusione tra responsabilità penale e responsabilità politica. Quest’ultima è stata praticamente azzerata. Ogni invito a correttezza e senso di responsabilità, ogni richiesta di dimissioni occasionata da azioni socialmente censurabili e sicuramente fonte di discredito per la politica, vengono respinti con protervia: “non è questione penalmente rilevante”. Una formula frutto di miserabile astuzia, che irresistibilmente richiama l’amara ironia di Ennio Flaiano, all’indomani di uno degli scandali del passato, riguardante i terreni sui quali venne poi costruito l’aeroporto di Fiumicino: «scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah” dice “ma non sono in triplice copia!”».

In tempi di dilaganti spinte verso revisioni costituzionali, si deve malinconicamente concludere che una riforma è già stata realizzata con la pratica cancellazione dell’articolo 54 della Costituzione. Nella prima parte di questo articolo si dice qualcosa che può sembrare scontato: “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Costituzione e di osservarne la Costituzione e le leggi”. Ma leggiamo le parole successive. “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Il bel linguaggio della Costituzione non dovrebbe lasciare dubbi. Chi svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono trincerarsi dietro l’affermazione di aver rispettato la legge penale, dunque

di non aver commesso alcun reato. A tutti loro è imposto un “dovere” costituzionale ulteriore, indicato con parole forti, non equivoche — disciplina e onore. Nel momento in cui questo dovere non viene rispettato, i politici perdono l’onore, e con essi perde l’onore la politica. Di questo nessuno si preoccupa più, anzi ogni oligarchia, corporazione, grumo d’interesse fa quadrato intorno ai suoi “disonorati”, alza la voce e così certifica la concreta cancellazione di quella norma della Costituzione. Se così fan tutti, perché meravigliarsi se in una riunione sindacale della polizia si applaudono i condannati e se rimangono senza eco i richiami all’onore provenenti dalla moglie del commissario Raciti assassinato da un ultra calcistico? Ma il riferimento all’onore sembra che abbia diritto di cittadinanza solo in questo ambito. L’Italia, infatti, continua a essere percorsa da condannati illustrissimi continuamente applauditi, che stipulano patti sul futuro del paese.

In tempi di proclamata volontà di “innovazione” proprio di questo si dovrebbe tenere grandissimo conto. Il vuoto della politica, e la sfiducia che così si alimenta, trovano le loro radici profonde proprio nella scomparsa di un’etica pubblica. E invece cadono nell’indifferenza politica quei veri bollettini di guerra che, da anni ormai, sono divenute le cronache di giornali e televisioni, che registrano impietosamente, ma purtroppo anche inutilmente, vicende corruttive grandi, medie e piccole, testimonianza eloquente della devastazione sociale. Il ceto politico distoglie lo sguardo da questa realtà scomoda. E nessun richiamo sembra in grado di scuoterlo. Quando un bel pezzo dell’attuale classe dirigente è convenuta in pompa magna ad una udienza papale, ha dovuto ascoltare una dura reprimenda del Papa proprio sul tema della moralità pubblica. Ma pare che l’unica sua reazione sia stata quella dello sconcerto di fronte alla mancanza di ogni cordialità da parte del Pontefice alla fine di quell’incontro. Così, anche questa vicenda è stata rapidamente archiviata, e tutti sono tornati alle usate abitudini, senza dare il pur minimo segno di qualche intenzione di voler dare un’occhiata al dimenticato

articolo 54.

Ma una politica che ha dimenticato l’ onore, ritenuto forse un inaccettabile segno del moralismo dei costituenti, quale prospettiva può offrire per una azione concreta di ricostruzione dell’etica civile?

«Gli ebook rilanciano i prestiti: più 64 per cento nel 2013. Boom di iscritti al servizio gratuito, tra loro anche manager. In fila per il libro digitale la biblioteca rinasce grazie ai nuovi lettori».

La Repubblica, 6 maggio 2014 (m.p.r.)

Roma. Le biblioteche salvate dall’. Sembra un controsenso: i polverosi scaffali stipati di volumi di carta rilanciati da quei libri impalpabili, compressi in un file e scaricati dal web. Eppure i dati sul prestito elettronico in Italia raccontano una rinascita digitale delle sale di lettura e il ritorno di quegli utenti, istruiti e in carriera, che non ci mettevano piede da anni. Secondo il rapporto della piattaforma MediaLibraryOnline, che sarà presentato giovedì al Salone del Libro di Torino, quelli che oggi leggono sullo schermo titoli presi in prestito sono 320mila e sono cresciuti del 64 per cento rispetto al 2012, diventando quasi uno su dieci di tutti i frequentatori tradizionali delle biblioteche
(4-5 milioni secondo l’Istat).

Il servizio è nato nel 2009: serve 3.900 biblioteche pubbliche, più della metà delle 6.841 legate agli enti locali, e in un paio di anni ha visto moltiplicarsi iscritti e prestiti gratuiti. Nel 2013 i download sono aumentati del 202 per cento, le consultazioni hanno sfiorato i due milioni: 1,8, per la precisione, contro il milione del 2012 e i 400mila scarsi del 2011. Come funziona? Ci si registra in biblioteca, si riceve un account e poi da casa, sull’autobus o in fila dal medico si possono sfogliare giornali e riviste o scaricare ebook, film, dischi da ascoltare. Soprattutto i libri elettronici stanno facendo da traino alla lettura: avvicinano a Marcel Proust o Dan Brown gente che mai prima aveva avuto confidenza con i testi di carta e riportano in biblioteca, almeno virtualmente, quei lettori forti che per mancanza di tempo non ci andavano più. «Se gli utenti tradizionali sono studenti e pensionati, per lo più donne, quelli digitali sono uomini 30-40enni, professionisti che fanno parte della fascia attiva della popolazione» spiega Pieraldo Lietti, coordinatore di Brianza Biblioteche e membro del comitato nazionale dell’Associazione italiana biblioteche. Questi iscritti di ritorno consultano il catalogo la sera tardi, tra le sette e mezzanotte, prendono in prestito in media 24 libri l’anno contro i 17 dei fruitori tradizionali e sempre più spesso leggono in versione “mobile”: aumenta del 17 per cento l’uso dello smartphone.

Più in generale i dati testimoniano una rivoluzione in corso nello stile di lettura. «È più liquida, un’esperienza meno isolata e più sociale: prima di abbandonare definitivamente la carta per l’e-reader gli aspiranti lettori digitali fanno le prove sui tablet, sui cellulari, e ciò indica che c’è una grande curiosità per questo nuovo mondo » continua Lietti. Come c’è una rinata vivacità delle biblioteche: arriva da lì un libro su cinque di tutti quelli letti in Italia. «I numeri crescono in fretta — conferma Giulio Blasi, amministratore delegato di Horizons, la società che gestisce la piattaforma Mlol — gli utenti attivi sono tra il 5 e il 10 per cento di tutti i frequentatori abituali, ma abbiamo stimato che possono crescere fino al 20-30 per cento. Finora tanti potenziali lettori neanche sanno che esiste questo servizio. Si diffonde molto con il passaparola». E, a guardare le zone, anche a macchia di leopardo. Ha una presenza capillare in Lombardia, Piemonte o Emilia Romagna ma èlacunoso al sud e del tutto assente in grandi città come Roma e Napoli, così come in Valle d’Aosta, Liguria, Molise, Basilicata, Calabria. «In Italia c’è una questione meridionale delle biblioteche — continua Blasi — per questo la nostra copertura è molto più radicata al centro-nord».

Nonostante ciò siamo tra i Paesi più avanzati in Europa: «Solo noi abbiamo accordi con tutti i grandi gruppi, l’ultimo l’abbiamo chiuso da poco con Mondadori e ha segnato la presenza sulla piattaforma di tutti i “big five” dell’editoria. Inoltre nel 2012 la percentuale di biblioteche che offrivano era del 44 per cento contro il 4 della Francia e il 16 della Germania ». Il catalogo on line è di 27mila titoli ma entro l’estate dovrebbe raggiungere i 50mila. Una goccia nell’oceano rispetto al milione di titoli offerto negli Stati Uniti: ma là il prestito digitale è arrivato dieci anni prima.

«Tempi presenti. Raccolti da ombre corte i saggi che la filosofa Silvia Federici ha scritto negli ultimi trenta anni di attività. Dalla proposta di un salario al lavoro domestico, all’analisi critica del femminismo della differenza e del rapporto ambivalente tra i processi di riproduzione sociale e sviluppo capitalistico».

Il manifesto, 8 maggio 2014 (m.p.r.)

Il Punto zero della rivo­lu­zione. Lavoro dome­stico, ripro­du­zione e lotta fem­mi­ni­sta (ombre corte, pp. 158, euro 15) pre­senta in un’unica rac­colta quasi quarant’anni della rifles­sione teo­rica e poli­tica di Sil­via Fede­rici, stu­diosa (ha inse­gnato presso l’Università di Port Har­court in Nige­ria e la Hof­stra Uni­ver­sity di New York) e soprat­tutto mili­tante poli­tica fem­mi­ni­sta. Del 1974 è il sag­gio che apre il volume, del 2010 quello con­clu­sivo. Tra que­sti due estremi si col­lo­cano pro­cessi di tra­sfor­ma­zione del capi­ta­li­smo che rischiano di ren­dere i testi più datati quasi un sou­ve­nir dal pas­sato, a meno di non appro­fit­tare di que­sto scarto tem­po­rale per leg­gere la rifles­sione di Fede­rici a ritroso, sia per valu­tare poten­zia­lità e limiti della sua più recente pro­po­sta poli­tica, sia per uti­liz­zarla come «grado zero» dei per­corsi attuali dei movi­menti sociali in modo da vagliare le pos­si­bi­lità reali di resi­stere alle tra­sfor­ma­zioni del capi­ta­li­smo globale.

Per Fede­rici la messa in comune (com­mo­ning) del lavoro ripro­dut­tivo, la sua gestione al di fuori delle logi­che del mer­cato, uni­sce la resi­stenza oppo­sta dalle donne ai nuovi pro­cessi di enclo­sure nei con­te­sti post-coloniali agli espe­ri­menti di «auto-riproduzione» pra­ti­cati dai movi­menti sociali con­tem­po­ra­nei. Orti urbani, cucine di quar­tiere, movi­menti per il free soft­ware sono con­si­de­rati modi – non uto­pici ma già in atto, ben­ché non inte­grati in un pro­getto com­ples­sivo con­di­viso dai movi­menti radi­cali – di sot­trarre le con­di­zioni della ripro­du­zione al comando del sala­rio che il capi­tale impone a quote cre­scenti della popo­la­zione mon­diale attra­verso una nuova «accu­mu­la­zione ori­gi­na­ria». In que­sta resi­stenza le donne avreb­bero un ruolo cru­ciale non gra­zie a una loro natu­rale voca­zione, ma in virtù del baga­glio di sapere e dell’esperienza di lotta che hanno sto­ri­ca­mente accu­mu­lato nel lavoro ripro­dut­tivo. Fede­rici opera così un pas­sag­gio dal rifiuto alla valo­riz­za­zione del lavoro ripro­dut­tivo. Il rifiuto segnava la riven­di­ca­zione di un sala­rio per il lavoro dome­stico negli anni Set­tanta. Il capi­tale aveva con­te­nuto i costi della ripro­du­zione della forza lavoro tra­sfor­mando il lavoro dome­stico in un’attività «natu­rale» per le donne e per­ciò non pagata. Pre­ten­dere un sala­rio signi­fi­cava «de-sessualizzare» quel lavoro rico­no­scen­dolo come tale e non come una com­po­nente essen­ziale di una pre­sunta iden­tità femminile.

Dal rifiuto alla valorizzazione. Poli­ti­ciz­zare il lavoro ripro­dut­tivo per­met­teva di con­si­de­rare le donne come parte della «classe» anche se non erano diret­ta­mente coin­volte in un rap­porto sala­riale, in virtù della loro fun­zione spe­ci­fica all’interno della divi­sione del lavoro. Vi è quindi con­ti­nuità tra rifiuto e valo­riz­za­zione del lavoro ripro­dut­tivo, per­ché in entrambi i casi le donne trag­gono il loro «signi­fi­cato» poli­tico dalla posi­zione in cui sono col­lo­cate dai rap­porti capi­ta­li­stici di (ri)produzione. Per que­sto, men­tre coglie un pro­blema, la cri­tica di Fede­rici al fem­mi­ni­smo ita­liano della dif­fe­renza risulta essa stessa pro­ble­ma­tica: pur avendo il merito di aver rifiu­tato l’assimilazione delle donne agli uomini attra­verso l’uguaglianza, il fem­mi­ni­smo della dif­fe­renza ha tra­sfor­mato quest’ultima in una «natura» fem­mi­nile da affer­mare al di fuori di un pro­getto di tra­sfor­ma­zione sociale. Biso­gna però doman­darsi in che cosa que­sta tra­sfor­ma­zione con­si­sta per le donne se la loro «seconda natura capi­ta­li­stica» – la loro espe­rienza come «ripro­dut­trici» – è il valore poli­tico da affer­mare nella pro­spet­tiva dei com­mons. È allora signi­fi­ca­tivo che il «patriar­cato» appaia a Fede­rici del tutto assor­bito nel rap­porto capitalistico.

Vio­lenza ses­suale, por­no­gra­fia, pro­sti­tu­zione e nuove forme di «cac­cia alle stre­ghe» risul­tano dun­que effetti col­la­te­rali della tra­sfor­ma­zioni del capi­tale – ben­ché inne­scati anche dal rifiuto oppo­sto dalle donne alla divi­sione ses­suale del lavoro – tanto che ogni con­flitto ses­suale sem­bra poter essere «risolto» da una con­sa­pe­vo­lezza del ruolo delle donne nella lotta di classe. Negli anni Set­tanta la riven­di­ca­zione del sala­rio per il lavoro dome­stico era rivolta non ai mariti ma allo Stato, «l’“Uomo” che trae real­mente pro­fitto da que­sto lavoro»; ora il baga­glio poli­tico delle donne come ripro­dut­trici è una risorsa tanto per le donne quanto per gli uomini, «sia per demo­lire l’architettura ses­suata delle nostre vite, sia per rico­struire le nostre case e le nostre vite come beni comuni».

Nell’indicare la società capi­ta­li­stica come la causa dell’oppressione delle donne, in ogni caso, Fede­rici fa della loro con­di­zione una chiave spe­ci­fica per com­pren­dere pro­cessi di por­tata glo­bale. Nei saggi cen­trali del volume la rior­ga­niz­za­zione delle poli­ti­che (ri)produttive nel qua­dro della glo­ba­liz­za­zione è inter­pre­tata alla luce della sem­pre più mar­cata coin­ci­denza tra divi­sione ses­suale e inter­na­zio­nale del lavoro. La subor­di­na­zione delle donne è rove­sciata, per dirla con Chan­dra Talpa de Mohanty, in un «pri­vi­le­gio epi­ste­mo­lo­gico» che sarebbe invece can­cel­lato, secondo Fede­rici, dalle teo­rie del lavoro «imma­te­riale» che, men­tre rico­no­scono la dimen­sione «affet­tiva» di tutto il lavoro, met­tono in ombra la spe­ci­fi­cità di quello riproduttivo.

Le enclave di libertà. Que­ste let­ture – e in par­ti­co­lare quella di Toni Negri e Micheal Hardt, con cui Fede­rici si con­fronta diret­ta­mente – espri­me­reb­bero una visione «tec­ni­ci­sta» della rivo­lu­zione che avrebbe già impe­dito a Marx di rico­no­scere la fun­zione e il signi­fi­cato del lavoro ripro­dut­tivo delle donne per la lotta di classe. Non solo le mac­chine non potranno mai sosti­tuire il lavoro ripro­dut­tivo umano, ma la tec­no­lo­gia è anche il segno più evi­dente del rap­porto distrut­tivo del capi­tale con la natura. Indi­cando l’irriducibile spe­ci­fi­cità del lavoro ripro­dut­tivo, Fede­rici mette in guar­dia con­tro i modelli inter­pre­ta­tivi «svi­lup­pi­sti» che foca­liz­zano il cen­tro dell’iniziativa poli­tica nelle pre­sunte figure più avan­zate del lavoro pro­dut­tivo (il cosid­detto «cogni­ta­riato») e rele­gano a forme ana­cro­ni­sti­che moda­lità di ero­ga­zione del lavoro, come quello a domi­ci­lio, che sono in realtà parte di un pro­getto di lungo periodo del capi­tale. Tut­ta­via, è in que­sto pas­sa­gio che la sua pro­po­sta poli­tica rivela forse i punti più problematici.

I com­mons, infatti, rischiano di cri­stal­liz­zare un’associazione tra donne e natura in chiave anti-tecnologica che fa il paio con una con­ce­zione dei rap­porti sociali più rivolta verso il pas­sato che non capace di misu­rarsi con le con­trad­di­zioni del pre­sente. Se è vero – come ammette Fede­rici – che il van­tag­gio della teo­ria di Negri e Hardt è quello di con­si­de­rare la pro­du­zione del comune come imma­nente all’organizzazione capi­ta­li­stica del lavoro, allora è dif­fi­cile con­si­de­rare i com­mons come un «fuori» dal capi­tale o dal mer­cato senza farne enclave la cui pos­si­bi­lità di esi­stenza dipende dalla loro irri­le­vanza poli­tica – zone fran­che per­ché indif­fe­renti per il capi­tale – o dalla loro fun­zione di cal­mie­ra­mento degli effetti della crisi pro­prio come l’economia di sus­si­stenza delle donne del Terzo mondo aveva «ammor­tiz­zato» gli effetti della glo­ba­liz­za­zione. Non stu­pi­sce, per­ciò, che per Fede­rici i limiti di Marx siano supe­rati gra­zie a un rife­ri­mento all’anarchismo di Kro­po­t­kin o al socia­li­smo utopistico.

Il miraggio del reddito. Il pro­blema sol­le­vato negli anni Set­tanta, in altre parole, resta aperto: «se assu­miamo che ogni lotta debba con­clu­dersi con una redi­stri­bu­zione della povertà, assu­miamo l’inevitabilità della nostra scon­fitta». Per que­sto, le domande che Fede­rici pone nel corso del suo lungo lavoro di defi­ni­zione del punto zero della rivo­lu­zione – l’imprescindibile fon­da­mento fem­mi­ni­sta della lotta di classe – restano ine­lu­di­bili. Pen­sare la dimen­sione sociale della ripro­du­zione signi­fica, ad esem­pio, porre la que­stione dell’aborto (sem­pre più attuale nei pro­cessi di rior­ga­niz­za­zione capi­ta­li­stica oltre la crisi) non solo nei ter­mini di una libera scelta indi­vi­duale delle donne sul pro­prio corpo, ma alla luce delle con­di­zioni mate­riali nelle quali si dà quella scelta. Essa impone di doman­darsi che cosa signi­fica pre­ten­dere un rico­no­sci­mento della vita messa al lavoro in ter­mini di «red­dito» senza fare di quel red­dito il mirag­gio di una per­fetta equi­va­lenza sala­riale e dello Stato un media­tore neu­trale. Essa obbliga a doman­darsi se la comu­nità – senza la quale non si danno com­mons – possa essere la rispo­sta al pro­blema di una società glo­bale sem­pre più orga­niz­zata attra­verso l’esclusiva media­zione del denaro. Essa spinge a inter­ro­garsi, come fem­mi­ni­ste, sul pro­blema del potere, quello che Fede­rici «per­ce­piva» nelle grandi assem­blee di donne di quarant’anni fa, in una dimen­sione di massa dif­fi­cil­mente con­se­gui­bile nelle comu­nità della ripro­du­zione. Ma pro­prio la ripro­du­zione, come sostiene Fede­rici, è il punto zero della rivo­lu­zione per­sino in un pre­sente glo­bale nel quale la libe­ra­zione di molte donne dal lavoro ripro­dut­tivo – magari gra­zie al lavoro di una donna migrante – ha spinto alcune a dichia­rare la fine del patriar­cato. Ben­ché del tempo sia tra­scorso, forse è ancora neces­sa­rio ammet­tere che «pos­siamo anche non ser­vire un uomo in par­ti­co­lare, ma siamo tutte in un rap­porto subor­di­nato nei con­fronti dell’intero mondo maschile».

Una ver­sione più ampia di que­sta recen­sione si può leg­gere sul sito Inter­net: www​.con​nes​sio​ni​pre​ca​rie​.org

Una critica convincente a una «visione idealistica» di una parola ("comune") fondamentale per costruire un futuro umano. Il libro di Pierre Dar­dot e Chri­stian Laval su Prudhon è «una vera e pro­pria liqui­da­zione del mate­ria­li­smo sto­rico, della cri­tica mar­xi­sta dell’economia poli­tica del capi­ta­li­smo maturo, in nome di un nuovo "prin­ci­pio"».

Il manifesto, 6 maggio 2014

Dopo Marx. Pré­nom : Karl, Pierre Dar­dot e Chri­stian Laval ci offrono un Prou­d­hon. Pré­nom : Pierre-Joseph. In Ita­lia, que­sto finto titolo baste­rebbe a liqui­dare il libro, ricor­de­rebbe l’operazione rea­zio­na­ria con­dotta, fra gli altri da Pel­li­cani e Coen su Mondo Ope­raio negli anni Set­tanta, su ispi­ra­zione di Craxi. Ma que­sto libro non sta certo da quella parte, esso intro­duce in Fran­cia, e ria­pre – spe­riamo – in Europa, il dibat­tito sul «comune». Tor­niamo dun­que al libro.

Men­tre il Marx era carat­te­riz­zato da una riso­luta «de-teleologizzazione» del socia­li­smo (vale a dire da una ragio­nata cri­tica di ogni teo­ria socia­li­sta che volesse incap­su­lare nello svi­luppo capi­ta­li­sta il pro­getto finale e la forza della libe­ra­zione comu­ni­sta), que­sto secondo libro (Com­mun. Essai sur la révo­lu­tion au XXIe siè­cle, La Décou­verte, pp. 593, euro 25) è carat­te­riz­zato da una riso­luta «de-materializzazione» del con­cetto di socia­li­smo — tale è l’operazione svi­lup­pata in que­sto «Sag­gio sulla rivo­lu­zione»: una vera e pro­pria liqui­da­zione del mate­ria­li­smo sto­rico, della cri­tica mar­xi­sta dell’economia poli­tica del capi­ta­li­smo maturo, in nome di un nuovo «prin­ci­pio». «Comune»: non com­mons, non «il» comune, ma «comune» come prin­ci­pio che anima sia l’attività col­let­tiva degli indi­vi­dui nella costru­zione di ric­chezza e della vita, sia l’autogoverno di que­ste attività.

Un pre­ciso qua­dro ideale viene pre­sen­tato e discusso a que­sto scopo – esso parte «dalla prio­rità del comune come prin­ci­pio di tra­sfor­ma­zione del sociale, affer­mata prima di sta­bi­lire l’opposizione di un nuovo diritto d’uso al diritto di pro­prietà». Di seguito, si sta­bi­li­sce che «il comune è prin­ci­pio di libe­ra­zione del lavoro, poi che l’impresa comune e l’associazione deb­bono pre­va­lere nella sfera dell’economia». Si afferma inol­tre «la neces­sità di rifon­dare la demo­cra­zia sociale, così come il biso­gno di tra­sfor­mare i ser­vizi pub­blici in una vera isti­tu­zione del comune. Infine, è sta­bi­lita la neces­sità di for­mare dei comuni mon­diali e a que­sto fine di inven­tare una fede­ra­zione glo­bale dei comuni».

Una visione idealistica

Que­sta espli­ci­ta­zione poli­tica del prin­ci­pio del «comune» è pre­ce­duta da un lungo lavoro di ana­lisi cri­tica e costrut­tiva che si svi­luppa in due tempi. Un primo — «L’emergenza del comune» — con­si­ste nel rico­struire il con­te­sto sto­rico che ha visto affer­marsi il nuovo prin­ci­pio del comune e nel cri­ti­care i limiti delle con­ce­zioni che ne sono state date in que­sti ultimi anni, tanto da eco­no­mi­sti, filo­sofi e giu­ri­sti, quanto da mili­tanti. Una seconda parte — «Diritto e isti­tu­zione del comune» — vuole più diret­ta­mente rifon­dare il con­cetto del comune situan­dolo sul ter­reno del diritto e dell’istituzione. Il libro, che nasce dall’attraversamento di un semi­na­rio — «Du public au com­mun» (svi­lup­pa­tosi in maniera ampia e con­trad­dit­to­ria nel Col­lège Inter­na­tio­nal de Phi­lo­so­phie dal 2011 al 2013) – appro­fon­di­sce l’idea di comune rife­ren­dosi fon­da­men­tal­mente a quella cor­rente del «socia­li­smo asso­cia­zio­ni­sta» che da Prou­d­hon risale a Jean Jau­rès e a Maxim Leroy, e va poi fino a Mauss e Gur­vitch, e infine all’ultimo Casto­ria­dis (quello della «Insti­tu­tion ima­gi­naire du social») — senza mai sot­trarsi al ten­ta­tivo di assor­bire qual­che tratto del pen­siero mar­xiano den­tro que­sto svi­luppo «idea­li­stico» della pro­get­ta­zione di un socia­li­smo pros­simo ven­turo.

Svi­luppo idea­li­stico: non può esser diverso l’effetto pro­dotto dalla cri­tica e dalla rico­stru­zione del con­cetto di comune, ela­bo­rata in que­sto libro, per­ché, ripren­dendo Prou­d­hon con­tro Marx, alla cor­retta e sem­pre più effet­tiva rot­tura con ogni e qual­siasi telos del socia­li­smo, segue una non meno osses­siva sma­te­ria­liz­za­zione del con­cetto di capi­tale e del con­te­sto della lotta di classe – sic­ché, alla fine di que­sto libro, non si capi­sce più come il comune sia riven­di­cato, dove stiano i sog­getti che lo costrui­scono, quali siano le figure dello svi­luppo del capi­tale che ne costi­tui­scono lo sfondo.

Su que­sta scena idea­li­sta tira un gelido vento – un pes­si­mi­smo forte, quasi una ras­se­gnata con­sta­ta­zione che la pro­du­zione di sog­get­ti­vità da parte capi­ta­li­sta sia mate­rial­mente impla­ca­bile e sto­ri­ca­mente irre­si­sti­bile. Di fronte, stanno la sot­to­mis­sione dei lavo­ra­tori e l’interiorizzazione del comando, sem­pre più dura nell’epoca del capi­tale cogni­tivo – come vor­rebbe l’attuale scienza del mana­ge­ment e come testi­mo­nie­rebbe la nuova sof­fe­renza pro­vata dai lavo­ra­tori stessi (psi­co­lo­gia del lavoro adju­vante). Allora, «comune» che cos’è più? Una comu­nanza di sof­fe­renza? Oppure un dio che deve salvarci?

A mio parere, per riag­gan­ciare il con­cetto di «comune», occorre indub­bia­mente comin­ciare seguendo una via ana­loga a quella per­corsa da Dardot-Laval. La cri­tica che essi con­du­cono della nozione di «comune» nella figura teo­lo­gica, giu­ri­dica, eco­lo­gica – insomma in tutte le forme di oggettivazione/reificazione che si ripe­tono instan­ca­bil­mente a que­sto pro­po­sito – ed anche di quella filo­so­fica che tende a bana­liz­zare il «comune» nell’«universale» — è una giu­sta via. Un vero con­cetto di «comune» può darsi sola­mente come pro­dotto di una pra­xis poli­tica cosciente e quindi com­porsi in un pro­cesso isti­tuente, in un dispo­si­tivo di «isti­tu­zioni del comune». Il «comune» trova la sua ori­gine non in oggetti o con­di­zioni meta­fi­si­che ma solo in attività.

Oltre la tragedia dei commons
In que­sto qua­dro la cri­tica che Dardot-Laval con­du­cono della eco­lo­gia dei com­mons di Eli­nor Ostrom è indub­bia­mente magi­strale poi­ché ne chia­ri­sce la natura libe­rale e indi­vi­dua­li­stica – dove un sistema di norme è posto per far fronte alla «tra­ge­dia dei com­mons», per sal­va­guar­darne cioè l’accessibilità e la pre­ser­va­zione, da parte capi­ta­li­sta, in quanto sup­po­sti «beni natu­rali». Seguendo la via indi­cata da Dardot-Laval ci si trova tut­ta­via pre­sto davanti ad un bivio – che si apre quando si avverte che il comune non è sem­pli­ce­mente pro­dotto di atti­vità gene­rica (antro­po­lo­gica e socio­lo­gica) ma pro­dotto di atti­vità pro­dut­tiva. Qui il con­fronto con Marx diviene ine­vi­ta­bile e deci­sivo. Dardot-Laval sem­brano tut­ta­via essere tra­volti dalla com­ples­sità della que­stione. Da un lato infatti sono sospinti dalla loro ipo­tesi radi­cal­mente de-sostanzializzatrice (idea­li­sta?) del comune, a sot­to­va­lu­tare la stessa dimen­sione «sociale» del «comune» — anche di quella pro­po­sta da Prou­d­hon; dall’altro ad accu­sare i mar­xi­sti che hanno affron­tato il tema del «comune» (tenendo ben pre­sente la nuova figura «sociale» dello sfrut­ta­mento) di essere «incon­scia­mente» prou­d­ho­niani. Vediamo come si pone il pro­blema con qual­che appunto che vada oltre que­sta con­fu­sione. È a tutti evi­dente (e senza dub­bio anche a Dardot-Laval) che lo svi­luppo capi­ta­li­stico ha attinto un livello di «astra­zione» (nel senso mar­xiano della defi­ni­zione del valore) e, quindi, una capa­cità di sfrut­ta­mento che si estende sulla società intera. Den­tro que­sta dimen­sione dello sfrut­ta­mento si costrui­sce una sorta di «comune per­verso», quello di uno sfrut­ta­mento che si eser­cita sopra e con­tro l’intera società. Sulla vita intera. Il capi­tale è dive­nuto un bio­po­tere glo­bale. A Dardot-Laval, l’avvertire que­sta glo­ba­lità ed inva­si­vità del bio­po­tere, ovvero la potenza del «comune per­verso», richiama le ragioni della cri­tica della teleo­lo­gia denun­ciata nel socia­li­smo mar­xi­sta, quasi che il dato del bio­po­tere costi­tuisse una nuova deriva teleo­lo­gica – ma la cor­retta sot­to­li­nea­tura del limite mar­xiano nell’analisi dia­let­tica dello svi­luppo capi­ta­li­stico, può forse can­cel­lare o farci dimen­ti­care le dimen­sioni attuali del bio­po­tere capi­ta­li­sta?

La cri­tica che Dardot-Laval fanno dello «sfrut­ta­mento per depos­ses­sione» di David Har­vey e di tutte le ana­lisi neo-marxiste che hanno intra­vi­sto nel modello mar­xiano del «accu­mu­la­zione ori­gi­na­ria» ana­lo­gie con quanto sta avve­nendo ora a livello glo­bale – cioè uno «sfrut­ta­mento estrat­tivo» — è equi­voca per­ché nega il pro­blema, nel men­tre ne cri­tica la solu­zione. E lo è tanto più per­ché ignora total­mente la fun­zione del capi­tale finan­zia­rio (o addi­rit­tura la fun­zione pro­dut­tiva di denaro, inte­resse e ren­dita) quando accusa altri autori mar­xi­sti – attenti alla ricom­po­si­zione della ren­dita come stru­mento di sfrut­ta­mento e nuova figura del pro­fitto – di aver ridotto (prou­d­ho­nia­na­mente) il pro­fitto a «furto» di un comune sostan­zia­liz­zato, «cosale».

Un furto di pluslavoro

Qui la posi­zione di Dardot-Laval sem­bra dimen­ti­care, nel fuoco della cri­tica, i linea­menti più ele­men­tari del pen­siero mar­xiano – ed in par­ti­co­lare che il capi­tale non è un’essenza indi­pen­dente, un Levia­tano, ma un rap­porto pro­dut­tivo di sfrut­ta­mento. E che, nella con­di­zione attuale, il capi­tale finan­zia­rio inve­ste un mondo pro­dut­tivo social­mente orga­niz­zato, accu­mu­lando nelle tra­file dell’estrazione di plu­sva­lore sia lo sfrut­ta­mento diretto del lavoro ope­raio, sia la depos­ses­sione dei beni natu­rali, dei ter­ri­tori e delle strut­ture del Wel­fare state, sia l’estrazione indi­retta di plu­sva­lore sociale, attra­verso l’esercizio della domi­na­zione mone­ta­ria. Se si vuole chia­mare «furto» tutto ciò, non mi scan­da­liz­ze­rei – non si è prou­d­ho­niani per­ché si usa quella parola, quando si dà ad essa il signi­fi­cato che oggi il capi­tale le dà: cioè un modo di accu­mu­la­zione diret­ta­mente inne­stato sulle nuove forme del pro­cesso lavo­ra­tivo e della sua socia­liz­za­zione – sia nella dimen­sione indi­vi­duale sia nella sua figura asso­cia­tiva. Quando Marx dice che il capi­ta­li­sta si appro­pria dell’eccedenza di valore che la coo­pe­ra­zione fra due o più lavo­ra­tori deter­mina, non nega di certo che nello stesso tempo il capi­tale si sia appro­priato anche del plu­sla­voro dei sin­goli lavo­ra­tori. Il «furto» inte­gra lo sfrut­ta­mento di plu­sla­voro e rende il capi­tale ancor più inde­cente di quanto sia sem­pre stato nello svi­lup­pare la produzione.

Nel Marx di Dardot-Laval si sen­tiva cor­rere una vena fou­caul­tiana (intendo con ciò un approc­cio sto­rico attra­ver­sato dall’attenzione alle sog­get­ti­vità agenti). Ora, que­sta vena è sfio­rita – sfio­rendo, essa si è por­tata via anche il frutto, che era una con­si­de­ra­zione vivace e dina­mica della sto­ria del capi­ta­li­smo. Qui c’è – in assenza di una meto­do­lo­gia sto­ri­ca­mente rifles­siva – un approc­cio senz’altro dur­khei­miano (forse addi­rit­tura cate­go­riale, kan­tiano) allo svi­luppo capi­ta­li­sta. Il capi­tale sem­bra una mac­china atem­po­rale e onni­po­tente. La «sus­sun­zione reale» non è vista come con­clu­sione di un pro­cesso sto­rico ma con­si­de­rata sola­mente come figura del pro­cesso di «ripro­du­zione allar­gata» del capitale.

Senza la classe e il capitale

Accanto a ciò, tut­ta­via, una certa sto­ri­cità è rein­tro­dotta nel con­si­de­rare – in maniera sto­ri­ca­mente distesa – l’efficacia distrut­tiva (sem­pre più rea­liz­zata) nella pro­du­zione capi­ta­li­sta delle/sulle sog­get­ti­vità al lavoro. La lotta di classe non esi­ste­rebbe più. Que­sta sem­bra essere l’ipotesi con­clu­siva di una con­ce­zione che ha comin­ciato con l’escludere la lotta di classe – mar­xia­na­mente intesa – dalla costi­tu­zione del con­cetto di capi­tale. Sem­bra che la de-materializzazione del «comune», così pesan­te­mente con­dotta (e l’esclusiva defi­ni­zione del «comune» come «azione», come prin­ci­pio di atti­vità), impli­chi in maniera cor­ri­spet­tiva la de-materializzazione della «lotta di classe» — come se anche l’esasperata insi­stenza su una pro­du­zione capi­ta­li­sta di sog­get­ti­vità lavo­ra­tive, inte­rior­mente assog­get­tate al comando, impli­casse la nega­zione della sog­get­ti­vità pro­dut­tiva come tale.

Ma senza sog­get­ti­vità pro­dut­tiva non c’è nep­pure con­cetto di capi­tale. Così va a finire che davanti al muta­mento sto­rico dello sfrut­ta­mento (qui incom­preso); di fronte al defi­nirsi del capi­tale sem­pre più come «potere sociale» (qui negato); di fronte ad una così estesa emer­genza del «comune», impo­sta dal rea­liz­zarsi di un nuovo modo di pro­du­zione (e si noti che quest’emergenza ha già deter­mi­nato nuove forme del pro­cesso lavo­ra­tivo) – din­nanzi a tutto ciò si dimen­tica che solo il «lavoro vivo» è pro­dut­tivo. Che solo la sog­get­ti­vità è resi­stente. Che solo la coo­pe­ra­zione è potente. Che il comune non è, dun­que, sem­pli­ce­mente «atti­vità», ma atti­vità pro­dut­tiva di ric­chezza e di vita – e tra­sfor­ma­trice del lavoro. Il comune non è un ideale (può anche esserlo) ma è la forma stessa nella quale la lotta di classe oggi si defi­ni­sce. Chie­diamo a Dar­dot e Laval: se il comune non è oggi un desi­de­rio impian­tato nella cri­tica dell’attività pro­dut­tiva, e se solo brilla davanti alla nostra coscienza rin­ci­trul­lita dalla vio­lenta pene­tra­zione del bio­po­tere, se è sem­pli­ce­mente un «prin­ci­pio» – che cosa mai ci impone di lot­tare? Dar­dot e Laval sem­brano rispon­dere che il prin­ci­pio del comune è una cate­go­ria dell’attività, dell’istituzione – esso non si fonda sul reale ma fonda il reale – non lo si con­qui­sta ma (essi lun­ga­mente argo­men­tano – ed il con­cetto andrà altrove ripreso) even­tual­mente lo si ammi­ni­stra. Per­ché dun­que lottare?

Oltre ogni cri­tica, que­sto libro ria­pre il dibat­tito sul comune e nes­suno stu­pirà che così si sia ria­perto anche il dibat­tito sul comunismo

«Si è venuta a determinare una situazione paradossale, costituzionalmente insostenibile. Se il Senato dovesse effettivamente approvare la legge elettorale prima della conclusione dell’incerto percorso di riforma del bicameralismo, ci troveremmo con due complessi normativi per l’elezione dei due rami del Parlamento tra loro totalmente incompatibili».

Il manifesto, 6 maggio 20014
Sem­bra che l’«autonomia del poli­tico», dopo aver con­su­mato un forte distacco dalla società, stia ora cer­cando di affran­carsi anche dal diritto. Un’impressione che, da ultimo, trova con­ferma nel dibat­tito sulle riforme isti­tu­zio­nali, dove i prin­ci­pali com­pro­messi poli­tici sono stati rag­giunti tutti a sca­pito delle ragioni del diritto, delle sue regole di rigore e logica.

Basta pen­sare al deli­cato intrec­cio che tiene unite la riforma elet­to­rale e quella costi­tu­zio­nale, che rap­pre­senta — a quel che è dato sapere — la base del miste­rioso “patto del Naz­za­reno”. Da un lato le for­za­ture iper­mag­gio­ri­ta­rie e inco­sti­tu­zio­nali per favo­rire i due prin­ci­pali com­pe­ti­tori (il giorno della sot­to­scri­zione del “patto” Renzi e Ber­lu­sconi, oggi non è più così), dall’altro la scelta di non far più eleg­gere diret­ta­mente i sena­tori. Quest’accordo poli­tico — peral­tro assai pre­ca­rio — ha creato un mostro giu­ri­dico. Com’è noto, infatti, al fine di mani­fe­stare il “soste­gno” di tutti al com­plesso delle riforme pro­po­ste, nel corso della discus­sione alla Camera, è stato deciso (da Pd e FI, ma con il con­senso anche di varie mino­ranze interne) che l’approvazione delle norme elet­to­rali dovesse riguar­dare esclu­si­va­mente la Camera, dac­ché i mem­bri del Senato, dopo la riforma costi­tu­zio­nale e nel rispetto del “patto”, non saranno più eletti direttamente.

Dal punto di vista poli­tico a me sem­bra già un’aberrazione: come si può giu­sti­fi­care che prima di ogni discus­sione par­la­men­tare, prima ancora della pre­sen­ta­zione del dise­gno di legge costi­tu­zio­nale in mate­ria, si imponga una scelta obbli­gata di non elet­ti­vità della seconda Camera? I fatti di que­sti giorni, che hanno rimesso in discus­sione pro­prio i cri­teri di elet­ti­vità dei futuri sena­tori, stanno mostrando il fiato corto di que­sta così ardita e appa­ren­te­mente radi­cale scelta poli­tica. Ma è sul piano giu­ri­dico che si sono pro­dotti gli effetti più nega­tivi. Si è venuta, infatti, a deter­mi­nare una situa­zione para­dos­sale, costi­tu­zio­nal­mente inso­ste­ni­bile. Se il Senato dovesse effet­ti­va­mente appro­vare la legge elet­to­rale prima della con­clu­sione dell’incerto per­corso di riforma del bica­me­ra­li­smo, ci tro­ve­remmo con due com­plessi nor­ma­tivi per l’elezione dei due rami del Par­la­mento tra loro total­mente incom­pa­ti­bili che fareb­bero venir meno le stesse fina­lità di gover­na­bi­lità così arden­te­mente per­se­guite dalla mag­gio­ranza di lar­ghe intese. Quest’esito pale­se­mente irra­gio­ne­vole e, dun­que, inco­sti­tu­zio­nale non ver­rebbe meno nep­pure se, in seguito, si appro­vasse una riforma del bica­me­ra­li­smo per­fetto, fosse anche la più radi­cale, ma che non pre­ve­desse spe­ci­fi­ca­ta­mente l’esclusione dell’elettività diretta di tutti i senatori.

Dun­que, una blin­da­tura di un patto poli­tico (tra Renzi e Ber­lu­sconi) che appare fon­dato esclu­si­va­mente su fra­gili inte­ressi poli­tici per­so­nali, che si sono rive­lati imme­dia­ta­mente errati: Forza Ita­lia non è più il secondo par­tito e non può più spe­rare di sfrut­tare a suo van­tag­gio le distor­sioni mag­gio­ri­ta­rie (non le rimane che spe­rare nel gioco delle soglie di accesso per atti­rare alleati recal­ci­tranti) e il Par­tito demo­cra­tico non tro­verà una sin­tesi se non rin­ne­gando il prin­ci­pio della non elet­ti­vità dei sena­tori. Quel che rimane è però il mostri­ciat­tolo giu­ri­dico — che non sarà facile debel­lare — che è stato gene­rato da un accordo senza diritto. Non è que­sta vicenda un’espressione assai signi­fi­ca­tiva del divor­zio tra le ragioni della poli­tica e le logi­che del diritto?

D’altra parte, le fon­da­menta stesse su cui si sta costruendo l’autonomia della poli­tica dal diritto sono deboli. Non dovrebbe sfug­gire, infatti, che le «deci­sioni» del potere poli­tico, alla fine, dovranno tor­nare a fare i conti con la grande regola dello «stato di diritto». Nel nostro ordi­na­mento demo­cra­tico pro­prio al diritto costi­tu­zio­nale spetta l’«ultima parola». Nes­suno può allora illu­dersi che un accordo poli­tico – oltre­tutto con­te­stato — possa rap­pre­sen­tare un sal­va­con­dotto in sede di giu­di­zio di costi­tu­zio­na­lità. E l’incostituzionalità della legge elet­to­rale che si vuole appro­vare è palese. Non è dif­fi­cile pre­ve­dere sin da ora la sua sorte ove arri­vasse alla Con­sulta. Ma, ancor prima, c’è da con­si­de­rare che una legge fonte di gravi irra­zio­na­lità di sistema, ini­do­nea per­sino a rag­giun­gere l’obiettivo per­se­guito della sta­bi­lità delle mag­gio­ranze par­la­men­tari, foriera per­tanto di una pos­si­bile para­lisi del sistema poli­tico e par­la­men­tare, che fini­sce per con­di­zio­nare molti dei poteri pre­si­den­ziali, quello di scio­gli­mento in par­ti­co­lare, è ad alto rischio di non vedere mai la luce. Non scom­met­te­rei, infatti, sulla sua pro­mul­ga­zione da parte del capo dello Stato.

Viene natu­rale allora inter­ro­garsi sulla ragione di que­ste for­za­ture. È lo sguardo corto — sem­pre più corto, ormai quasi cieco — della poli­tica che spiega le spe­ri­co­late ope­ra­zioni cui stiamo assi­stendo. Esa­ge­ra­zioni moti­vate della debo­lezza in cui versa una poli­tica arro­gante. Quando non si sa cosa fare e non si hanno chiare stra­te­gie poli­ti­che da seguire, non si può far altro che alzare la voce per cer­care di far valere gli inte­ressi del momento.

Fra­gi­lità della poli­tica che è un carat­tere dei tempi nostri e sem­bra non sal­vare nessuno.

Se valu­tiamo quel che è suc­cesso sull’altro fronte delle riforme isti­tu­zio­nali, quello della tra­sfor­ma­zione del nostro sistema bica­me­rale, ritro­viamo, pur­troppo, con­ferme dram­ma­ti­che di come le ragioni della poli­tica ormai non rie­scano più a con­ci­liarsi con le logi­che del diritto.

Se può dirsi che il dibat­tito sulla legge elet­to­rale è stato pres­so­ché ine­si­stente e in sede par­la­men­tare tutte le richie­ste di cam­bia­mento sono state fru­strate, non altret­tanto è avve­nuto con rife­ri­mento al dise­gno di legge costi­tu­zio­nale pre­sen­tato dal governo sulla tra­sfor­ma­zione del Senato. Anzi, com’è noto, alla com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali il pro­getto del governo era a un passo dal fal­li­mento, non avendo tro­vato il con­senso neces­sa­rio pro­prio la richie­sta con­cer­nente la non elet­ti­vità diretta dei sena­tori. Ebbene, nel vuoto del diritto, è stato pos­si­bile assi­stere ad un colpo di tea­tro, che ha otte­nuto un con­senso poli­tico pres­so­ché una­nime. Mat­teo Renzi, al quale nes­suno può negare capa­cità spet­ta­co­lari e velo­cità di movi­mento, ha spa­ri­gliato, pro­po­nendo egli stesso un sistema di ele­zione diverso. Ha soste­nuto di voler lasciare che ogni Regione possa sta­bi­lire le moda­lità d’elezione dei pro­pri sena­tori, aggiun­gendo che in fondo non c’era da impic­carsi sulla data di appro­va­zione (ancor­ché — s’intende — nes­suno potesse met­tere in discus­sione la “velo­cità” come mito fon­dante l’immaginario del nuovo governo). Un coro di con­sensi ha accom­pa­gnato la bril­lante ope­ra­zione poli­tica, ed anche i com­men­ta­tori più distanti hanno apprez­zato l’apertura, men­tre solo gli “irri­du­ci­bili” hanno auspi­cato ulte­riori aperture.

Non ho udito nes­suno dire quel che a tutti è chiaro: il sistema sug­ge­rito non ha nes­sun senso giu­ri­dico e non potrà mai tro­vare una sua coe­rente appli­ca­zione. A pren­dere sul serio il com­pro­messo poli­tico enun­ciato — ma non chia­rito — dal pre­si­dente del con­si­glio biso­gne­rebbe rite­nere che l’organo sena­to­riale potrebbe essere com­po­sto, del tutto irra­zio­nal­mente, a seguito delle dif­fe­renti scelte di ogni ente ter­ri­to­riale, magari met­tendo cao­ti­ca­mente assieme elet­ti­vità diretta e indi­retta, rap­pre­sen­tanza isti­tu­zio­nale e popo­lare. Ovvia­mente nes­suno ritiene che que­sto possa essere l’esito. L’ipotesi che cir­cola in que­ste ore di non modi­fi­care il testo base, ma di affian­car­gli l’approvazione di un ordine del giorno di segno oppo­sto, oltre ad essere un’innovazione assai spre­giu­di­cata dei pre­ce­denti par­la­men­tari, segnala l’indeterminatezza della pro­po­sta, ovvero la sua impra­ti­ca­bi­lità costi­tu­zio­nale. Mal­grado ciò, si tende ad apprez­zare la ragione poli­tica che ha indotto a fare una pro­po­sta di aper­tura alle oppo­si­zioni. Poi si vedrà. Forse si riu­scirà in seguito a dare un senso alla riforma costi­tu­zio­nale che, per ora, un senso non ne ha.

Sono in molti a soste­nere che sia que­sto un atteg­gia­mento prag­ma­tico, poli­ti­ca­mente oppor­tuno in tempi dif­fi­cili in cui non ci si vuole o può opporre al vento tem­pe­stoso e con­fuso del cam­bia­mento. Non voglio espri­mere giu­dizi di natura pro­pria­mente poli­tica, ritengo tut­ta­via, sem­pli­ce­mente, che se il costo dovesse essere rap­pre­sen­tato dalla nega­zione della logica del diritto e della costi­tu­zione, non credo sia un prezzo che si possa pagare a nes­suna ragione politica

La posizione di un gruppo di autorevoli economisti francesi. Un fruttuoso terreno di confronto per le forze europeiste che (come la lista” L’altra Europa con Tsipras”) si battono per il primato della politica sulla finanza. La Repubblica, 6 maggio 2014 .

LA QUESTIONE centrale è semplice: la democrazia e le autorità pubbliche devono essere messe nella condizione di poter riacquistare il controllo del capitalismo finanziario globalizzato del XXI secolo e di regolamentarlo in maniera efficace. Un’unica valuta con 18 debiti pubblici diversi sui quali i mercati possono speculare liberamente, e 18 sistemi fiscali e benefit in competizione incontrollata tra di loro non funziona, e non funzionerà mai. I paesi della zona euro hanno scelto di condividere la loro sovranità monetaria, e quindi di rinunciare all’arma della svalutazione unilaterale, ma senza mettere a punto nuovi strumenti economici, fiscali, e di budget comuni. Questa terra di nessuno è il peggio di tutti i mondi immaginabili. Troppo spesso l’Europa odierna ha dimostrato di essere stupidamente invadente su questioni secondarie (come il tasso dell’Iva dei parrucchieri e dei club ippici) e pateticamente impotente su quelle davvero importanti (come i paradisi fiscali e la regolamentazione finanziaria).

Dobbiamo invertire l’ordine delle priorità: meno Europa per le questioni nelle quali i paesi membri agiscono bene da soli, più Europa quando l’unione è essenziale. In concreto, la nostra prima proposta è che i paesi della zona euro, a cominciare da Francia e Germania, condividano la Corporate Income Tax (Cit, imposta sul reddito d’impresa). Ogni paese, preso a sé, è raggirato dalle multinazionali di tutti i paesi, che giocano sulle scappatoie e le differenze esistenti tra le legislazioni delle varie nazioni per evitare di pagare le tasse. Per combattere questa “ottimizzazione fiscale”, un’autorità sovrana europea necessita di poteri che le consentano di fissare una base fiscale comune quanto più ampia possibile e quanto più strettamente regolata. Oltre a ciò è necessario universalizzare lo scambio automatico delle informazioni bancarie all’interno della zona euro e fissare una politica concertata che renda la tassazione del reddito e della ricchezza più progressiva, e al tempo stesso è indispensabile combattere insieme e uniti una battaglia efficace contro i paradisi fiscali esterni alla zona. L’Europa deve contribuire a portare la giustizia tributaria e la volontà politica nel processo di globalizzazione.

La nostra seconda proposta scaturisce direttamente dalla prima. Per approvare la base fiscale della Cit e più in generale per discutere e adottare le decisioni fiscali, finanziarie e politiche su ciò che si dovrà condividere in futuro in modo democratico e sovrano, dobbiamo dare vita a una camera parlamentare per la zona euro. Potrà essere un parlamento dell’eurozona, formato da membri del parlamento europeo dei paesi interessati (una sotto-formazione del parlamento europeo ridotto ai soli paesi della zona euro), oppure una nuova camera basata sul raggruppamento di una parte dei membri dei parlamenti nazionali (per esempio 30 parlamentari francesi dell’Assemblea Nazionale, 40 parlamentari tedeschi del Bundestag, 30 deputati italiani, e così via, in base alla popolazione di ciascun paese).

Noi crediamo che questa seconda soluzione, la cui idea si ispira alla “camera Europea” proposta da Joschka Fischer nel 2011, sia l’unica alternativa per dirigerci verso l’unione politica. È impossibile esautorare del tutto i parlamenti nazionali dei loro poteri di stabilire le imposte. Ed è precisamente sulla base di una sovranità parlamentare nazionale che si può forgiare una sovranità parlamentare europea condivisa. In base a tale proposta, l’Unione europea avrebbe due camere: il parlamento europeo esistente, direttamente eletto dai cittadini dell’Ue dei 28 paesi, e la camera europea, in rappresentanza degli stati tramite i loro stessi parlamenti nazionali. La camera europea in un primo tempo coinvolgerebbe soltanto i paesi della zona euro che vogliono realmente indirizzarsi verso una maggiore unione politica, fiscale e di budget. Questa camera, tuttavia, dovrebbe essere concepita in modo tale da accogliere tutti i paesi dell’Ue che accetteranno di percorrere insieme questa strada. Un ministro delle finanze dell’eurozona, e in definitiva un governo europeo vero e proprio, risponderebbero del loro operato alla camera europea.

Questa nuova architettura democratica per l’Europa renderebbe finalmente possibile superare il mito secondo cui il concilio dei capi di stato può fungere da seconda camera in rappresentanza degli stati. Questa ingannevole concezione riflette l’impotenza politica del nostro continente: è impossibile per una persona sola rappresentare un intero paese, a meno di rassegnarsi all’impasse permanente imposta dall’unanimità. Per dirigersi una volta per tutte verso la regola della maggioranza per le questioni di ordine fiscale e di budget conta che i paesi della zona euro scelgano di condividere, ed è necessario creare un’autentica camera europea, nella quale ogni paese sia rappresentato non dal suo solo capo di stato, ma dai membri che rappresentano tutte le opinioni politiche.

La nostra terza proposta affronta direttamente la crisi del debito. Noi siamo convinti che l’unico modo di lasciarci tutto ciò definitivamente alle spalle sia di mettere in comune i debiti dei paesi della zona euro. In caso contrario, le speculazioni sui tassi di interesse riprenderanno e continueranno. Questo è anche l’unico modo per la Banca Centrale Europea per attuare una politica monetaria efficace e reattiva, come fa la Federal Reserve degli Stati Uniti. Di fatto l’operazione di messa in comune del debito è già iniziata con il Meccanismo Europeo di Stabilità, l’emergente unione bancaria e il programma di transazioni monetarie della Bce. È necessario adesso andare oltre, continuando a chiarire la legittimità democratica di questi meccanismi.

Oltre a Thomas Pikety, autore del volume “Le capital au XXIe siècle”, direttore della Scuola di alti studi in scienze sociali e professore presso la Scuola di economia di Parigi, hanno firmato il manifesto Florence Autret scrittore e giornalista, Antoine Bozio direttore dell’Istituto di politica pubblica, Julia Cagé economista presso l’università di Harvard e la Scuola di economia di Parigi, Daniel Cohen professore all’École Normale Supérieure e della Scuola di economia di Parigi Anne- Laure Delatte economista Brigitte Dormont professore, Università Paris Dauphine, Guillaume Duval direttore di “Alternatives Economiques” Philippe Frémeaux presidente dell’Istituto Veblen, Bruno Palier direttore della ricerca Istituto di studi politici di Parigi, Thierry Pech direttore generale di Terra Nova, Jean Quatremer giornalista, Pierre Rosanvallon professore, Collège de France, Xavier Timbeau direttore dei dipartimenti di analisi e previsioni, Istituto di studi politici di Parigi, Laurence Tubiana professore, Istituto di studi politici di Parigi, presidente dell’Istituto per lo sviluppo sostenibile e le relazioni internazionali

Il testo è un estratto del manifesto pubblicato dal Guardian; Traduzione di Anna Bissanti

Dubbi sull'euro. «l nuovo libro di Luigi Zingales è una lunga riflessione sul passato e sul futuro dell’euro e dell’economia italiana. Errori di partenza e problemi dovuti a una specializzazione produttiva impermeabile alla rivoluzione delle nuove tecnologie»

Lavoce.info, 6 aprile 2014 (m.p.r.)

L’Italia e l'euro. L’argomento più importante di cui si dibatte in questa campagna elettorale per le elezioni europee del prossimo 25 maggio è senza dubbio l’euro. Alcuni partiti fanno dell’uscita dalla moneta unica il loro principale punto programmatico. Altri promettono di chiamare gli italiani a decidere sulla questione mediante un referendum. Qualche talk show propone addirittura un settimanale scontro gladiatorio, seppure con armi d’impatto limitato come lavagne e pennarelli, tra esponenti pro o contro l’euro. È perfetto allora il tempismo con cui è stato pubblicato il nuovo libro di Luigi Zingales, “Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire”. Non è un vezzo dire che l’autore non ha bisogno d’introduzione. Mi limito a ricordare che è l’attuale presidente della prestigiosissima American Finance Association.

Nel libro, Zingales si chiede in primo luogo perché l’Italia sia entrata nell’euro con tanto entusiasmo e senza quasi valutarne le conseguenze. La sua risposta viene dalla storia economica italiana. Il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981 che aveva contribuito (assieme alla politica monetaria restrittiva della Fed di Volcker) a sconfiggere l’inflazione, non aveva però dato i risultati sperati in termini di capacità di tenere sotto controllo i conti pubblici. Il debito pubblico italiano passò dall’essere il 56 per cento del Pil nel 1980 al 121 per cento nel 1994. La maggiore responsabilizzazione della classe politica, che avrebbe dovuto discendere dal dover finanziare il debito sul mercato dei capitali, semplicemente non ci fu. Al contempo, con la liberalizzazione dei capitali del 1987 e con l’adesione allo Sme, l’autonomia della politica monetaria italiana si era in ogni caso ridotta. Legarsi le mani all’albero della moneta unica, beneficiare della credibilità tedesca, che avrebbe indubbiamente permeato le azioni della Bce, sembrava alla classe politica italiana degli anni Novanta la quadratura del cerchio. Una strategia che parve dare i suoi frutti per alcuni anni, con tassi di interesse molto bassi (quello che alcuni chiamano il dividendo dell’euro).
Ma, ricorda Zingales, quel processo di adesione acritico portò ad almeno due errori. Il primo fu quello di non rinegoziare il debito pubblico e quello pensionistico. L’inflazione riduce l’onere reale che grava sul debitore che può pagare in una valuta che nel tempo diventa più “leggera”. Passare dalla lira all’euro aveva l’effetto opposto: rendere molto più pesante il debito pubblico e quello pensionistico, zavorrando l’economia italiana per decenni. Il secondo errore fu commesso a livello europeo, nella regolamentazione bancaria. Imponendo di considerare i titoli di Stato come privi di rischio, si incoraggiò un perverso legame tra bilanci del settore bancario e del settore pubblico, i cui effetti deleteri si sarebbero manifestati in pieno nella recente crisi. Ma, ci ricorda lo stesso autore, un conto è chiedersi se era opportuno entrare allora nell’euro e un conto è chiedersi se è opportuno uscirne oggi.

Uscire o no? Un'analisi costi-benefici. Zingales cerca di effettuare un’analisi costi-benefici della scelta di restare o uscire dall’euro. E parte ricordando che i costi del restare non sono trascurabili. L’incapacità di usare il meccanismo della svalutazione della moneta rende più lungo e doloroso il processo di riequilibrio dell’economia italiana, prolungando la recessione e portando la disoccupazione a livelli elevatissimi. Per ridare competitività alle economie dei paesi della periferia europea sarebbe importante che il livello dei prezzi della Germania aumentasse più velocemente di quello italiano e spagnolo. L’alternativa è una dolorosissima deflazione nei paesi periferici, prospettiva ormai concreta. Purtroppo, i governanti tedeschi sembrano del tutto refrattari a queste ipotesi e la Germania condiziona pesantemente anche le azioni della Bce, impedendole di attuare le stesse politiche di quantitative easing usate da Fed, Bank of England e Bank of Japan.

In queste pagine, Zingales rende bene l’idea dell’euro come camicia di forza, come qualcosa che ci lega all’albero di una barca che pare stia per affondare, fino a sembrare iscriversi al partito degli euroscettici. Poi si chiede anche quali sarebbero le conseguenze dell’uscita dall’euro e conclude che anche queste comporterebbero costi significativi. Un capitolo del libro ripercorre le vicende dell’Argentina dopo la rottura della parità con il dollaro, ricordando le banche chiuse per giorni, la perdita di valore dei risparmi, la ripresa dell’economia dopo la svalutazione, ma anche la ripresa dell’inflazione e il permanere di tutti i mali cronici dell’economia argentina. Zingales teme che il settore bancario uscirebbe a pezzi dall’abbandono dell’euro, inducendo il salvataggio dello Stato, rafforzando in tal modo l’intreccio tra banche e governi.
Sull’entità di costi e benefici di breve periodo dall’uscita dall’euro, vista l’imprecisione delle stime, è lecito essere in disaccordo, concede l’autore, che allora allunga l’orizzonte della sua analisi e si chiede quale sia il problema di lungo periodo dell’economia italiana. La risposta non è originale e, anzi, assai condivisa: dalla metà degli anni Novanta, l’Italia ha visto arrestarsi la crescita della sua produttività. È questa la vera origine degli attuali squilibri. Ma cosa ha causato il rallentamento della produttività? Vista la simultaneità con il processo di avvicinamento alla moneta unica e con la progressiva perdita di flessibilità del tasso di cambio, una possibilità è che i due fenomeni siano legati.
Nel libro Il tramonto dell’euro, volume che contiene l’analisi più puntuale e rigorosa delle argomentazioni euroscettiche, Alberto Bagnai sostiene che sia stato lo shock negativo di domanda causato da un cambio sopravvalutato ad aver compromesso la produttività. Zingales, tuttavia, citando un suo lavoro (al momento purtroppo non disponibile sulla sua pagina web), scarta questa ipotesi e ne propone un’altra. La specializzazione produttiva italiana (sia in termini di settori che di dimensione delle imprese italiana) è stata tale da rendere impossibile o comunque inefficace l’adozione dell’Information and Communication Technology (Ict), che è invece alla base del boom di produttività osservato in altri paesi. Troppe imprese in settori obsoleti oppure esposti alla concorrenza di produttori di paesi emergenti, che godono di incolmabili vantaggi di costo. Troppe piccole imprese, desiderose di restare piccole per rimanere opache al fisco, e quindi incapaci di beneficiare dalle nuove tecnologie. Se questa è la causa della bassa produttività, uscire dall’euro servirebbe a ben poco nel lungo periodo.
Il verdetto di Zingales è che al momento convenga restare nell’euro, cercando di adottare misure come un sussidio di disoccupazione europeo che agisca come meccanismo di trasferimento dai paesi che sono in una fase positiva del ciclo economico verso quelli che invece sono in difficoltà e avere una banca centrale meno ossessionata dai dogmi tedeschi sull’inflazione. Zingales non vedrebbe male uno scenario in cui sia la Germania a uscire dalla moneta unica, ma consiglia di essere pronti a considerare seriamente l’opzione di uscita italiana dall’euro.
Un libro lontano dalla retorica europeista che ha dominato l’informazione negli anni passati, ma che al contempo cerca di mantenere lo sguardo oltre l’orizzonte della campagna elettorale. Come sempre, ho letto con interesse le riflessioni di Zingales, anche se confesso qualche perplessità verso le digressioni storiche e filosofiche di cui il libro è ricco, non sempre utili a sviluppare la tesi principale. Ci sono punti in cui avrei invece preferito maggiore dettaglio. Ad esempio, i tassi d’interesse scesero in tutti i paesi negli anni Novanta e non solo quelli nell’area euro, considerazione che rende complicata la valutazione del cosiddetto dividendo dell’euro. Anche qualche ulteriore riflessione sul ruolo e sugli strumenti che dovrebbe avere la BCE guidata da Draghi sarebbe stata importante.
Nel suo libro Zingales considera in modo assolutamente positivo la libertà di movimento di capitali. Eppure alcuni economisti di livello internazionale iniziano a considerare l’opportunità di restringere tale mobilità per rendere meno acute le fasi di crisi. Sul ruolo della struttura produttiva italiana e l’impatto dell’Ict avrei preferito che l’autore andasse con l’analisi a un maggiore livello di profondità, vista la centralità della tesi. Se la causa della bassa produttività italiana è la sua struttura produttiva, quali sono gli strumenti di politica economica che possono essere usati? E quanto lunga sarà la transizione verso un nuovo equilibrio? Cosa può essere fatto nel frattempo per i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro?
Il libro ha certamente molti pregi, tra cui il principale è, per me, quello di avere cercato di mettere in luce costi e benefici delle scelte che riguardano l’euro con uno sguardo distaccato e con alcuni spunti di analisi originali. Un libro ben scritto e bene argomentato, che si legge velocemente e che è senza dubbio un’utile lettura per chi voglia formarsi un’opinione sull’euro e sul suo futuro.

Luigi Zingales, Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire, Rizzoli (2014), pp. 206

A 22 anni Enrico Berlinguer fu ristretto in carcere per 100 giorni, per aver partecipato a una protesta contro il carovita e contro il governo Badoglio (quello che, l'8 settembre 1943, dopo l'armistizio dell'Italia con gli Alleati, aveva proclamato "la guerra continua", a fianco dei nazisti). La Repubblica, 5 maggio 2014

Lettere dal carcere del prigioniero Enrico Berlinguer
di Simonetta Fiori

A VENTIDUE anni Enrico Berlinguer viene arrestato a Sassari per aver partecipato a una protesta contro il carovita e contro Badoglio. È il 17 gennaio del 1944, un inverno di fame nera.
Nell’Italia divisa in due – il centro Nord occupato dai tedeschi e il Mezzogiorno liberato dagli angloamericani – la Sardegna resta come separata, priva di alcun approvvigionamento. A pagarne il prezzo sono le classi più povere, guidate nella sommossa dal segretario della sezione giovanile comunista. Prossimo alla laurea in Legge, Enrico proviene da una famiglia di solida borghesia professionale, con una radice di piccola nobiltà agraria: il padre Mario era stato deputato antifascista nel 1924 e ora è uno dei leader del partito d’azione. Il più moderato genitore non approva la “rivolta del pane”, liquidata come manifestazione di “estremismo infantile”. Ma questo non gli impedisce di stare al fianco di quel suo figlio molto amato, affannandosi perché il caso venga chiuso al più presto.

Enrico trascorrerà nel carcere di San Sebastiano cento giorni, per ciascun giorno un piccolo segno sul muro della cella. Cento giorni di letture intense, documentati da un corpus di 32 lettere che Walter Veltroni ha avuto dalla famiglia e che rende pubbliche per la prima volta nel suo nuovo libro Quando c’era Berlinguer . Le missive, che qui in parte riproduciamo, lumeggiano una formazione intellettuale molto varia – non solo Marx ed Engels ma anche Tocqueville, Croce, Voltaire, Locke, Liszt, Poe tradotto da Baudelaire – e un carattere naturalmente sobrio. «Non mandate troppo da mangiare», «non drammatizzate la mia situazione»: l’intento, con i famigliari, è sempre quello di spegnere ogni enfasi. Se c’è freddo, Enrico non lo sente. Patisce le privazioni ma è «sereno d’animo». Soprattutto vuole ottenere la libertà «senza umiliazioni e conservando la dignità», «né ridicolo né vile» («non voglio farmi passare per vittima»). Su tutte le passioni prevale la vocazione politica, per la quale ricorre alla inusuale formula di “comunista-anarchico”. Nella primavera del 1944, in un modificato clima politico, arriva il proscioglimento in istruttoria per non aver commesso il fatto. Dopo cento giorni, finalmente la libertà. E il definitivo passaggio alla vita adulta.

Stralci dalle lettere dal carcere
di Enrico Berlinguer

CARISSIMI , sto sempre bene. Non drammatizzate la mia situazione e non accoratevi troppo. Si capisce bene che il carcere non è il paradiso, ma io sento di poterlo sopportare e superare con fermezza e serenità di spirito.
La maggior parte delle mie giornate trascorre in letture e soprattutto studio («Capitale», inglese, ecc.); talvolta mi prende un certo desiderio per la libertà, ma si tratta di qualcosa di nostalgico e di pacato che non procura dolore morale alcuno: anzi, talvolta, dopo 2, 3, 4 ore di lettura mi dà come un senso di riposo. Sono sempre quindi bene in salute e tranquillissimo d’animo. Ho letto con piacere notizie e giornali di Bari. Discorreremo dei particolari a voce e speriamo che in quel tempo l’eco del congresso non sia ancora spenta.
Per l’interrogatorio va bene; però, per quanto riguarda le riprovazioni da me rivolte agli accusatori, ho qualche dubbio per il fatto che mancherebbero assolutamente le prove; anzi ti confesso che alcuni non li ricordo neppure di vista o quasi. E ora i «bisogni». I pasti che mi state propalando vanno in genere bene, come quantità e qualità. Mandate però meno vino: ricordatevi che il thermos deve essere pieno, se no il the si raffredda. Biancheria per ora nulla. Libri ne ho e non me ne occorrono altri. Se la prigionia si prolungherà, bisognerà che mi mandiate in seguito i libri di studio per gli esami che vi indicherò. Se possibile (ma non credo) vorrei poter finire il mio lavoro sul comunismo. Ma se non si può, non mandate di nascosto perché mi sarebbe impossibile lavorare in tal modo.
Mandate sempre «L’Isola» (quotidiano di Sassari, ndr), anche arretrata (dal 30/1 compreso) e notizie. Baci.

*** Carissimo, la tua linea di condotta trova la mia pie- na approvazione. Non voglio che la libertà mi sia restituita come elemosina, e dopo un mese di prigionia. Spero che anche i miei compagni siano d’accordo. Ti potevi limitare – come hai fatto – a sollecitare l’istruttoria e chiedere che sia giusta. In fondo, star qui ancora una o due settimane (sebbene io creda si tratti di più) non mi dà per niente il sentimento di essere eroico. Coloro che associano il proprio destino a quello di un partito avanzato devono essere pronti a passare in prigione un certo periodo di tempo. È una cosa normalissima e non voglio che si facciano grandi montature. Sarebbe ridicolo. Mi fa piacere che il Partito italiano d’Azione sia d’accordo con noi. [...] *** Carissimi, oggi (21, trentaseiesimo «jour de la lutte pour ma liberation»), ho finalmen- te ricevuto i libri che mi saranno utilissimi. Non capisco quali difficoltà procedurali ci fossero, questa volta. Nonostante il seccante (intenzionale?) ritardo del giudice, godo sempre di buon umore. In certi momenti, non fissabili cronologicamente, sento naturalmente un vivissimo anelito alla libertà; ma, come vi ho già detto altra volta, si tratta di un sentimento sereno, pacato, consolante. Talvolta poi mi sorprendo a pensare che, considerata sotto «certi» aspetti, in «particolari » circostanze, la vita carceraria ha i suoi vantaggi per me. Ma ho deciso che fra 2 o 3 giorni vi (o mi?) scriverò una lunghissima lettera con riflessioni sulle «Mie prigioni». Ho già in serbo 6 o 7 pensieri profondi, e uno profondissimo (modestia a parte). In questi giorni ho imparato a memoria in inglese il celebre monologo di Amleto, non perché la mia situazione psicologica abbia affinità con quella di Hamlet, ma perché il brano è veramente sublime. In 33 versi sta il dramma – perfettamente definito in sé – di ogni uomo. È eterno.

*** Carissimo papà, ho ricevuto lettere tue, di Pintus (Cesare, dirigente della sezione comunista, ndr) e di Giovanni. […] Giovanni poi mi prospetta un dubbio filosofico, in un modo invero assai strano. Infatti, egli crede che alcune parole ben congegnate possano costruire o demolire delle teorie filosofiche. Ad ogni modo gli risponderò, perché mi dà sempre un certo fastidio vedere dei materialisti (il materialismo è la teoria più ingenua che esista) e perché credo di possedere buoni argomenti. Il positivismo di Sergio poi mi sorprende; ma penso che in terza liceo ero anch’io positivista, ma in fondo penso che di tutte queste cose potremo meglio discutere a voce. Forse le lettere di Giovanni, Sergio e le altre semi-filosofiche di altri parenti non sono che un espediente per costringermi a esaurire in brevi lettere le discussioni e far sì che poi non se ne discuta fuori a voce. Riguardo ai libri (senza entrare in una discussione anche su questo: come vedi, sto evitando un gran numero di discussioni), ho ancora da leggere vari libri «cerebrali». Qui ci danno circa 2 libri alla settimana, ma sono in genere molto stupidi e più pesanti quindi degli intelligenti. I libri «cerebrali » non mi stancano, ma la notte dopo cena preferisco leggere qualcos’altro. Quindi accetto praticamente il tuo consiglio. Scegli tu libri da mandare: li desidererei in francese (per esempio Listz, Danton ecc...) e anche qualche bel romanzo. Inoltre, vedi se potete trovare il piccolo dizionario inglese-italiano (credo che si trovi nell’ultimo scaffale della libreria). Se non trovate il piccolo, «non» mandate il grande, almeno fino a che non avrò il permesso di scrivere gli appunti.
E per oggi (cinquantatreesimo giorno) basta. Sto sempre bene.
Baci. Enrico.

*** Cara zia Carmelia, ti ringrazio delle due cartoline, stranamente prive di consigli di prudenza e di «dicono». Non ti meravigliare se Dio non esaudisce i tuoi voti. In generale, non esaudisce neppure quelli del Papa, che pare sia suo intimo. La Provvidenza persegue le sue vie e i suoi mezzi sono a noi inscrutabili.
«L’unica cosa che noi possiamo sapere – diceva un filosofo, uno di quei veri filosofi che avevano la barba lunga – è che noi non sappiamo nulla. E neanche di questo possiamo essere certi». Come vedi, fare il filosofo giova poco, e conviene meglio darsi all’ippica. Eppure, certe cose le possono sapere soltanto i filosofi.
Saluti e baci. Enrico

dal libro: Walter Veltroni, Quando c’era Berlinguer (Rizzoli)

Intervista di Giorgio Salvetti alla sociologa Chiara Saraceno: «Una cosa è certa, non è la rigi­dità o il costo del lavoro che creano disoc­cu­pa­zione, ormai lo dice anche l’Ocse che ha sem­pre soste­nuto la fles­si­bi­lità. Il pro­blema vero è che non c’è domanda e le aziende ita­liane non hanno inve­stito in ricerca e hanno perso competitività. Questo non fa che generare e perpetuare la crisi». il manifesto, 3 maggio 2014, con postille

L’Italia è un paese molto disu­guale a più livelli. E’ que­sto il qua­dro trac­ciato dalla socio­loga Chiara Sara­ceno dopo l’ennesima con­ferma arri­vata dai dati del Censis.
E’ sem­pre più chiaro: la crisi non col­pi­sce tutti allo stesso modo ma si abbatte con mag­giore forza sui più deboli.
I dati del Cen­sis sono simili a quelli della Banca d’Italia sul bilan­cio delle fami­glie. Per la Banca d’Italia il 10% delle fami­glie più abbienti pos­siede il 46% della ric­chezza netta del totale delle fami­glie ita­liane. Nei primi anni delle crisi c’era stata l’impressione che a pagare di più fosse chi aveva ren­dita inve­stita dato che si trat­tava di una crisi finan­zia­ria. Ma que­ste per­sone in realtà hanno pre­sto recu­pe­rato men­tre sono crol­lati i red­diti da lavoro.
L’Ocse con­ferma che nel 1981 l’1% dei red­diti più alti rag­giun­geva il 6,9% del totale dei red­diti degli ita­liani men­tre nel 2012 la per­cen­tuale è salita al 9,4%. E la ric­chezza dell’1% più abbiente sarebbe addi­rit­tura salita al 16% del totale, si tratta di una ten­denza che si è regi­strata in tutto il mondo. A che punto è l’Italia?
In Fran­cia e in Spa­gna ad esem­pio è andata diver­sa­mente, la crisi non ha accen­tuato le dif­fe­renze come è avve­nuto in Ita­lia. Il nostro è un paese molto disu­guale. Oltre alle dif­fe­renze di ric­chezza e red­dito c’è una grande dif­fe­renza ter­ri­to­riale. E a sua volte nelle zone più povere del sud il diva­rio tra ric­chi e disa­giati è ancora mag­giore. Si tratta quasi di un indi­ca­tore di sot­to­svi­luppo. Per non par­lare di tutte le altre dif­fe­renze: tra donne e uomini, tra gio­vani e meno gio­vani, tra chi ha figli e chi non ne ha, tra garan­titi e non garan­titi. E in ognuna di que­ste cate­go­rie sche­ma­ti­che a loro volta si intrec­ciano tutte le pos­si­bili dispa­rità. I gio­vani senza lavoro non sono tutti uguali, c’è chi ha alle spalle una fami­glia di un tipo chi di un altro, chi è al sud e chi è al nord e così via.
Come si può uscire da que­sto com­bi­nato dispo­sto di ingiu­sti­zie che si intrecciano?
Il pro­blema dell’Italia è la scarsa mobi­lità sociale. Da noi l’origine fami­liare è ancora molto pre­dit­tiva del futuro sia edu­ca­tivo che lavo­ra­tivo di un ragazzo. Tutto è fermo, bloc­cato, piove sem­pre sul bagnato. Nes­suno rie­sce a fare la pro­pria parte per cor­reg­gere que­sta situa­zione. Non ci rie­sce la scuola col­pita dai tagli, non ci rie­sce il wel­fare e non ci rie­scono le imprese troppo spesso sedute sulla rin­corsa a salari sem­pre più bassi.

Ma le disu­gua­glianze sono causa o effetto della crisi?

La tesi che siano all’origine della crisi è sem­pre più con­di­vi­si­bile, spe­cie dove que­ste dif­fe­renze sono, appunto, bloc­cate e per­ma­nenti. In Ita­lia non solo i ric­chi sono sem­pre più ric­chi, ma sono sem­pre le stesse persone.

I mitici 80 euro di Renzi pos­sono cam­biare le cose?
Non sono certo riso­lu­tivi anche se io non ci sputo sopra. Fac­cio solo notare che sosten­gono il red­dito dei lavo­ra­tori poveri, non dei poveri, e che non ten­gono conto del fatto che magari in una fami­glia dove tre per­sone lavo­rano e gua­da­gnano meno di 1.500 euro arri­vano 240 euro in più, e in una mono­red­dito con un solo sti­pen­dio poco sopra i 1.500 euro non arriva nulla. In que­sto senso anche que­sta mano­vra non è cen­trata sulla vera povertà e pro­duce ini­quità.

Por­terà almeno una cre­scita dei con­sumi come dice il Cen­sis?

Mi sem­brano dati otti­mi­stici, fac­cio notare che ulti­ma­mente è leg­ger­mente cre­sciuto il rispar­mio. Signi­fica che chi ha un minimo di mar­gine, anche a costo di tagli, rispar­mia per­ché non crede più nella famosa luce alla fine del tunnel.

Il dl Poletti peg­gio­rerà le cose?

Dicia­moci la verità, pur­troppo regola una situa­zione di fatto del mer­cato del lavoro ita­liano. L’imprenditore che non vuole assu­mere rie­sce sem­pre a non farlo. Ma una cosa è certa, non è la rigi­dità o il costo del lavoro che creano disoc­cu­pa­zione, ormai lo dice anche l’Ocse che ha sem­pre soste­nuto la fles­si­bi­lità. Il pro­blema vero è che non c’è domanda e le aziende ita­liane non hanno inve­stito in ricerca e hanno perso competitività.
Postilla
Chi sa qualcosa della storia d'Italia sa che il "disinteresse" per la ricerca e l'innovazione da parte della grande industria "moderna e avanzata", e la conseguente perdita di compretitività nacque quando i grandi gruppi capitalistici italiani, a partire dalla Fiat della famiglia Agnelli, diventarono particolarmente interessati al lucro che si poteva ottenere investendo nelle attività finanziarie e immobiliare anziché in quelle industriali. Quando cioè legislatori e anministratori pubblici consentirono loro di sfruttare i pascoli della rendita anziché gli impervi sentieri del profitto.

Le minacce militari della Nato, degli USA e dell'Unione europea alla Russia prolungano un secolo di conflitti cruenti, che all'interno del Primo mondo ci si illudeva fossero stati superati. il manifesto, 4 maggio 2014
La guerra fredda ha avuto anche pas­saggi caldi, per lo più fuori dell’Europa. In Europa, dove cor­reva la cor­tina di ferro, il «con­fine» per eccel­lenza, mai var­cato dal 1945 in poi, la guerra fu com­bat­tuta e vinta dall’Occidente con i mezzi vir­tuali del soft power.
Il teo­rema di Fukuyama sulla «fine della sto­ria» è stato oggetto di cri­ti­che e scherni ma stando allo sce­na­rio euro­peo – lo stesso in cui Hob­sbawm col­loca il suo «secolo breve» – allora si con­cluse effet­ti­va­mente l’epopea del con­flitto di classe, fra capi­tale e lavoro, legata alla rot­tura del 1917 e alle vicende dell’Urss come espres­sione delle forze anti-sistema.
La sto­ria come dia­let­tica fra una tesi e un’antitesi sarebbe ovvia­mente con­ti­nuata, ma nel più vasto tea­tro dell’extra-Europa, all’insegna dello scon­tro nazio­nale fra l’egemonismo del Cen­tro e l’autodeterminazione dei popoli della Peri­fe­ria pas­sati attra­verso la sog­ge­zione al colo­nia­li­smo e all’universalismo euro­cen­trico. Non per niente, appena chiusa la par­tita con l’Urss in corso dalla Con­fe­renza di Jalta, il vec­chio Bush spo­stò l’apparato mili­tare e reto­rico degli Stati Uniti da Est a Sud. Il destino ha voluto che la Cri­mea sia ritor­nata d’attualità. È così che il «secolo breve» ha tro­vato un secondo o terzo tempo. È stato per­sino rispol­ve­rato il distico Est-Ovest seb­bene, ammesso di saper dare una fisio­no­mia all’Ovest, l’Est o non esi­ste più o si riduce alla Rus­sia. Tanto vale dun­que chia­mare l’Est con il suo nome e cognome e aggior­nare l’analisi e la stra­te­gia a una com­pe­ti­zione che non ha nulla a che vedere con l’ideologia, la libertà del mer­cato, il bene o il male, ma pro­ble­ma­ti­che pret­ta­mente geopolitiche.
Diventa così ancora meno com­pren­si­bile – la geo­po­li­tica per defi­ni­zione ha come moventi più gli inte­ressi che i valori – l’accanimento pre­con­cetto con­tro l’«imperialismo» russo. Il pur blando, argo­men­ta­tis­simo «anti-americanismo» di Ser­gio Romano, che ha osato para­go­nare i mis­sili russi a Cuba con i mis­sili ame­ri­cani in Esto­nia e chissà in Ucraina, è apparso insop­por­ta­bile al recen­sore e cen­sore sul suo stesso Cor­riere.
L’Ucraina appar­tiene da quando esi­ste alla sfera di influenza e civi­liz­za­zione russa (esclu­dendo al più la regione cat­to­lica al con­fine con la Polo­nia). L’espansione verso est della Nato, e con effetti meno desta­bi­liz­zanti dell’Unione euro­pea, ha supe­rato ogni limite di pru­denza e ragio­ne­vo­lezza, met­tendo in peri­colo la «sicu­rezza» della Rus­sia man mano che i toni del con­tra­sto hanno preso il posto della semi-concordia dell’immediato post-1989. I sistemi anti-missili messi in can­tiere da Bush jr e ripresi da Obama con sede nell’Europa orien­tale, for­mal­mente orien­tati con­tro l’Iran e il ter­ro­ri­smo, hanno ripro­po­sto la stessa fat­ti­spe­cie che ai tempi di Rea­gan si mate­ria­lizzò nello «scudo stel­lare». Il para­dosso della deter­renza, si sa, rende più minac­ciose le armi difen­sive di quelle offensive.
Messa di fronte al peri­colo di per­dere il con­trollo del suo «estero vicino», la Rus­sia, che per debo­lezza aveva detto addio al vallo costruito nell’Europa centro-orientale e aveva subito il ridi­men­sio­na­mento della Ser­bia, ha com­messo una serie di vio­la­zioni dell’ordine inter­na­zio­nale. Prima in Geor­gia e ora in Ucraina. Se Mosca ha tra­dito l’impegno a non toc­care l’integrità dell’Ucraina, a Ovest ci si è dimen­ti­cati di qual­che parola data al momento della riu­ni­fi­ca­zione della Germania.
Sarebbe troppo facile e comun­que ste­rile rin­fac­ciarsi i pro­pri Iraq e Afgha­ni­stan. Al di là e al di qua di cosa del resto se i muri sono caduti fra canti e suoni? Non basta opporre che «chi di rivolta feri­sce di rivolta peri­sce», anche se è vero che i movi­menti «aran­cione» sono stati uti­liz­zati come Rea­gan impiegò i con­tras. Il merito dei Brics e della stessa Rus­sia era la difesa della lega­lità, almeno a livello mon­diale, ed è stato molto più di un errore disco­starsi da quella pre­messa, che non era solo una clau­sola di stile. Già la seces­sione della Cri­mea ha messo in imba­razzo i com­pa­gni di cor­data di Mosca. Molti paesi, a comin­ciare dai Brics, hanno qual­che regione che potrebbe essere oggetto di mano­vre volte a fomen­tare irre­den­ti­smi o separatismi.
Se l’India o la Cina non si sono oppo­ste diret­ta­mente a Putin è stato solo per i ran­cori accu­mu­la­tisi in que­sti anni nei con­fronti dell’«interventismo» degli occi­den­tali qua e là per il mondo con effetti cata­stro­fici per la sta­bi­lità e l’equilibrio gene­rale. Comun­que giu­sti­fi­cate, quat­tro guerre in Africa nello spa­zio di tre anni fra il 2011 e il 2014 isti­gare dalla Fran­cia – prima Sar­kozy e poi Hol­lande, senza appa­renti dif­fe­renze fra con­ser­va­tori e socia­li­sti – danno come pro­dotto una media da espan­sione colo­niale più che neo-coloniale.
Il rispetto per la lega­lità pre­miò Mosca in occa­sione del minac­ciato raid di Obama con­tro Assad nell’estate del 2013. Fu il più grande suc­cesso del cri­ti­ca­tis­simo Putin, che aveva in mente e nel cuore i sen­ti­menti nazio­nali o nazio­na­li­sti della Grande Rus­sia ai fini del con­senso interno ma che intanto invo­cava il diritto e rimet­teva in gioco l’Onu al di là della solita pochezza del pal­lido Ban Ki-moon. Per la prima volta la Rus­sia toccò le corde dell’opinione pub­blica mon­diale in senso posi­tivo facendo vera­mente con­cor­renza agli Usa sul loro terreno.
Un arti­colo dello stesso Putin fu pub­bli­cato sul New York Times. Il papa indisse una gior­nata di pre­ghiera multi-confessionale per la pace. Per Obama, già messo sulla gra­ti­cola dal Con­gresso, fu una disfatta e un’umiliazione. Non mera­vi­glia se da allora in poi il pre­si­dente ame­ri­cano è andato alla ricerca – o alla costru­zione – di un inci­dente che rin­chiu­desse di nuovo la Rus­sia nel recinto dei «cat­tivi». Non è nean­che il caso di far notare – per­ché troppo evi­dente a chi ha occhi per vedere o leg­gere – l’anomalia delle san­zioni con­tro la Rus­sia o l’esclusione dal G8 per l’Ucraina a con­fronto dell’impunità garan­tita a Usa e alleati per l’invasione o il bom­bar­da­mento di una mezza doz­zina di paesi sparsi fra i Bal­cani e il Grande Medio Oriente ma anche fra Medi­ter­ra­neo, Corno d’Africa e peni­sola arabica.
Solo Israele può invo­care come Putin una con­di­zione di «con­ti­guità» per ten­tare di giu­sti­fi­care le pre­va­ri­ca­zioni con la geo­po­li­tica. Ci deve essere un motivo se le leggi omo­fo­bi­che in Rus­sia susci­tano più scan­dalo del Patriot Act o di Guan­ta­namo. Un punto di forza dell’Occidente è sicu­ra­mente la capa­cità di rico­no­scere – col tempo o nella con­te­stua­lità delle voci cri­ti­che – i mas­sa­cri che com­mette o ha com­messo senza venir meno alla nor­ma­lità costi­tu­zio­nale. Non è solo colpa degli Usa se l’Onu è impo­tente. Il fronte di chi si oppone allo stra­po­tere ame­ri­cano è diviso e non pos­siede la cre­di­bi­lità neces­sa­ria a rom­pere l’omertà di chi in qual­che modo ne beneficia.
Il pre­giu­di­zio occi­den­tale secondo cui solo l’intervento di una potenza «civi­liz­zata» può risol­vere le crisi, come in Africa, deve essere smen­tito con i fatti sul campo. Può essere penoso ripren­dere il gergo della moder­niz­za­zione occi­den­ta­li­sta, ma soste­nere e pro­muo­vere la demo­cra­zia e i diritti umani, senza legarli alla sorte dell’Occidente, aiu­te­rebbe a supe­rare le gerar­chie e alla fine può sve­lare le ipo­cri­sie e i lati oscuri del potere dominante

«Siamo sul bara­tro d’una guerra euro­pea. Vanno in fretta i carri armati del governo di Majdan. Devono sven­tare il refe­ren­dum con­vo­cato per l’11 mag­gio nelle città della regione orien­tale del Don­bass sull’indipendenza ».

Il manifesto, 4 maggio 2014

L’offensiva san­gui­nosa dell’esercito di Kiev non si ferma. Corre sul bordo sot­tile non solo della guerra civile, per­ché la por­tata dell’azione mili­tare rischia l’intervento mili­tare russo. Siamo sul bara­tro d’una guerra euro­pea. Vanno in fretta i carri armati del governo di Majdan. Devono sven­tare il refe­ren­dum con­vo­cato per l’11 mag­gio nelle città della regione orien­tale del Don­bass sull’indipendenza dall’Ucraina, per riaf­fer­mare l’autorità di Kiev con la forza dei tank e con­fer­mare a ogni costo, con­tro i «ter­ro­ri­sti», la data delle ele­zioni cen­trali ucraine del 25 mag­gio. Fatto sin­go­lare, la seconda data richiama quella delle ele­zioni euro­pee nelle quali, ahimé, l’argomento della pace non ha il ben­ché minimo ascolto. Così la repres­sione non s’arresta. È più orga­niz­zata e per­fino peg­giore di quella del cor­rotto Yanu­ko­vitch con­tro i rivol­tosi di Maj­dan, ma è soste­nuta da tutto l’Occidente e con­ti­nua ad essere pra­ti­cata con il con­corso dell’estrema destra che, a Odessa, ha assal­tato il pre­si­dio dei filo­russi, bru­ciando poi l’edificio dei Sin­da­cati dov’erano ripa­rati in fuga e dove hanno tro­vato la morte almeno 40 persone.

Un mas­sa­cro che non ferma la repres­sione. Anche se a pra­ti­carla sono gli stessi che si sono legit­ti­mati per quat­tro mesi denun­ciando, in un coro greco di media, la repres­sione di piazza Majdan. È voluta dal nuovo potere auto­pro­cla­mato a Kiev, dove è ope­ra­tivo, ha comu­ni­cato Obama, John Bren­nan il capo della Cia esperto in «guerre coperte» (e sotto inchie­sta negli Usa per avere osta­co­lato il lavoro della Com­mis­sione del Senato sulle tor­ture). Ma quando mai i carri armati pos­sono con­vin­cere una parte con­si­stente del popolo ad andare a votare per obiet­tivi che con­si­dera ostili? E del resto chi, con la poli­tica, li ha con­vinti del contrario?

Eppure sem­bra troppo tardi. Nono­stante i rivol­tosi filo­russi abbiano libe­rato gli osser­va­tori dell’Osce seque­strati. Fatto che sot­to­li­nea due ele­menti: che la pres­sione di Putin sui filo­russi ha potuto di più dell’offensiva mili­tare ucraina, per­ché la Rus­sia altri­menti rischia di essere, nolente, coin­volta diret­ta­mente più che in Cri­mea; e che l’Osce ha sto­ri­che ambi­guità. Basta ricor­dare la mis­sione Osce in Kosovo, decisa nell’ottobre 1998 dall’Onu per moni­to­rare il con­flitto tra la repres­sione di Milo­se­vic e le mili­zie dell’Uck: il capo della mis­sione, l’americano Wil­liam Wal­ker, inventò di sana pianta la strage di Racak attri­buen­dola a Bel­grado e dando così il via ai bom­bar­da­menti «uma­ni­tari» della Nato.

Ora in Ucraina il dado pur­troppo sem­bra tratto. Se appena al di là c’è la Rus­sia messa nell’angolo dei suoi con­fini, a Kiev in campo c’è tutto l’Occidente reale: vale a dire gli Stati uniti e la Nato; l’Unione euro­pea subal­terna parla solo con la voce ambi­gua — per inte­ressi, geo­stra­te­gia e sto­ria — della Ger­ma­nia. Qui, nell’est ucraino natu­ral­mente, i «ter­ro­ri­sti» non vanno soste­nuti e armati dall’Occidente com’è acca­duto nel 1999 in Kosovo, e poi in Libia e oggi in Siria. Qui invece vanno san­gui­no­sa­mente schiac­ciati. Le imma­gini par­lano chiaro: ad Andri­j­vka, un paese sulla strada delle truppe ucraine, i con­ta­dini sono scesi in piazza per fer­mare con le mani alzate i carri armati di Kiev, che non si sono arre­stati schiac­cian­doli, nono­stante in molti aves­sero comin­ciato a par­lare con i sol­dati salendo sui carri armati. Scene pro­po­ste da Euro­news che, a memo­ria con­trap­po­sta, ci hanno ricor­dato Praga invasa dai carri armati del Patto di Var­sa­via nel ’68.

Il fatto è che su quei tank sta­volta è salito Obama e gli Stati euro­pei a con­trollo Nato. Infatti più avan­za­vano le truppe di Kiev, più è arri­vata forte da Washing­ton la sola minac­cia che «la Rus­sia deve fer­marsi». Insomma, il mas­sa­cro non si deve fer­mare e guai al soc­corso mili­tare russo. Quel che c’è sotto lo comin­cia a scri­vere qual­che com­men­ta­tore filo-atlantico: l’obiettivo è minac­ciare la Rus­sia – che, rian­nessa la Cri­mea, fino a prova con­tra­ria difende la sua sicu­rezza e vuole una Ucraina neu­trale — di fare di Putin un altro Milosevic.

Di sicuro è atti­vato il mec­ca­ni­smo per una Euro­ma­j­dan anche nella capi­tale russa, ete­ro­di­retta da John Bren­nan che ci sta lavo­rando. Dun­que Barack Obama con­clude il suo man­dato affi­dan­dosi all’ideologia del «mili­ta­ri­smo uma­ni­ta­rio» — tanto cara alla «can­di­data» Hil­lary Clin­ton che pure ancora tace sul disa­stro ame­ri­cano in Libia (a Ben­gasi) -, schie­rando i risul­tati della stra­te­gia dell’allargamento della Nato a est.

Ma la Nato non è la solu­zione, è il pro­blema. Glielo ricor­dano gli ex segre­tari di Stato Kis­sin­ger e Brze­zin­ski e per­fino il suo ex capo del Pen­ta­gono e della Cia Robert Gates che ha scritto «L’allargamento così rapido della Nato a est è un errore e serve solo ad umi­liare la Rus­sia», fino a pro­vo­care una guerra. Senza l’ingresso di tutti i paesi dell’ex Patto di Var­sa­via nell’Alleanza atlan­tica — con basi mili­tari, intel­li­gence, bilanci mili­tari, truppe, mis­sioni di guerre alleate, sistemi d’arma, ogive nucleari schie­rate, scudi spa­ziali — non ci tro­ve­remmo infatti sull’orlo di una nuova guerra euro­pea che fa impal­li­dire i Bal­cani e la Geor­gia di soli sei anni fa.

Non ci sarebbe stata la tra­co­tanza di una lea­der­ship di oli­gar­chi insod­di­sfatti che ha desta­bi­liz­zato l’Ucraina con un colpo di mano e la vio­lenza della piazza «buona» per­ché sedi­cente filoeu­ro­pea, e che ora cavalca la repres­sione san­gui­nosa della piazza «cat­tiva». Esi­ste­rebbe una poli­tica estera dell’Unione euro­pea, che invece è sur­ro­gata dall’Alleanza atlan­tica. «Vedete — ammo­ni­sce l’attuale capo del Pen­ta­gono Chuck Hagel — ce n’è anche per gli euro­pei: impa­rino a non ridi­men­sio­nare la spesa mili­tare (v. gli F35)». Pro­prio come ha fatto il pre­si­dente della repub­blica Gior­gio Napo­li­tano che, in dispre­gio dell’articolo 11 della Costi­tu­zione, ha tuo­nato recen­te­mente addi­rit­tura con­tro «l’anacronistico antimilitarismo».

Ma visti i tempi che cor­rono, con l’emergere sin­cro­nico della guerra che insan­guina i con­ti­nenti e «non risolve le crisi inter­na­zio­nali», chi è dav­vero anacronistico

«». Il Corriere della Sera

A diciott’anni appena compiuti Abdullah è l’uomo di famiglia, seduto sulle panchine di marmo a consultarsi con gli adulti per la prossima tappa: «Belgio? Olanda?». Allunga un braccio, accarezza la testa di Ibrahim, controlla che non si allontani: «Ha dieci anni - sorridono entrambi - mia madre è laggiù», accovacciata con altre donne. Il padre è rimasto in Siria, «tutto il resto della famiglia è sparso per l’Europa». Sono gli ultimi arrivati, alla stazione Centrale di Milano, e la notte l’hanno passata qui, guancia a terra e coperte di vestiti, nello slargo del mezzanino, perché le strutture di accoglienza sono al collasso e l’afflusso ha preso un ritmo così intenso che il Comune non ne può più. «Il governo è un colabrodo s’affligge l’assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino -: fino a quando continuerà a ignorare cosa sta succedendo?» .

A Roma qualcosa sanno. E’ stato il Viminale a lanciare «l’allarme sbarchi»: in Siria il conflitto non s’arresta, i profughi arrivati in Egitto sono incoraggiati a prendere il largo, nel caos della Libia è diventato sempre più facile contattare un trafficante e partire. «Eravamo in 500 su una sola nave — racconta un ragazzo col pullover fucsia e la catena d’oro —, così stretti da non poter respirare. In otto sono morti, c’era anche un bambino». I sopravvissuti sono arrivati nel Sud della Sicilia, tre giorni fa, hanno ricevuto un biglietto con un numero e una data: il ragazzo con la collana ha il 103. Hanno raggiunto Catania, che è diventata il principale snodo a Mezzogiorno: un gruppo di volontari, Giovani musulmani soprattutto, cibo e vestiti, una rete di assistenza ormai oliata che permette ai rifugiati in transito di salire su un treno per Milano.

«Grazie a Dio non ci hanno preso le impronte», sottolinea il giovane 103: per il regolamento di Dublino, bisogna fare domanda di asilo nel Paese europeo d’approdo. Ma se non ci sono registri a documentarlo, è più facile varcare la frontiera. «Vorrei andare in Svezia». In tanti l’hanno fatto, Stoccolma riceve 1.500 richieste al mese, «tante quante l’Italia in un anno», ha marcato critico al Corriere il ministro dell’Immigrazione Tobias Billström : anche lì, gli alloggi finiscono, il sistema s’inceppa. Tra i profughi accampati in stazione, circola la voce di un’apertura dell’Austria, al tempo stesso si racconta di qualcuno che si è messo in viaggio il primo maggio ed è già sulla via del ritorno, respinto al Brennero. «Ventimiglia è più sicura?» chiede un ragazzo. Forse, ma pare che la Francia intenda intensificare i controlli sui treni. Restare, partire, riuscire, ancora una volta è una puntata alla roulette, che coinvolge nell’azzardo famiglie intere, e mai come questa volta, tanti bambini. Spiegano che genitori coi figli non s’arrischiavano nei mesi scorsi, per il cattivo tempo. Ma ora che nel Mediterraneo fa bello, ha preso il mare questa donna al quinto mese di gravidanza con due bambini, quest’altra con le lentiggini che è già al settimo, nonne che tengono in braccio neonati, un bimbetto di tre anni e il volto sfigurato che non si stacca dalla gonna della madre.

Era evidente già al principio, al primo passaggio di profughi attraverso l’Italia, la scorsa estate. Adesso è impossibile ignorarlo: la questione non è milanese, né italiana, forse neanche solo europea. Ma certamente va affrontata, a Roma come a Bruxelles.

Il manifesto, 3 maggio 2014

La legge che pre­ca­rizza defi­ni­ti­va­mente il lavoro doveva pur pas­sare per le mani dell’Ncd, che ha pre­sen­tato al Pd la pro­pria cam­biale elet­to­rale: otto emen­da­menti gover­na­tivi in Com­mis­sione Lavoro al Senato – frutto di un accordo nella mag­gio­ranza – hanno sostan­zial­mente peg­gio­rato il testo (tranne che per la for­ma­zione pub­blica dell’apprendista, come vedremo). Ora il testo passa al voto dell’aula, per poi ritor­nare alla Camera: dove quasi cer­ta­mente verrà rimessa di nuovo la fidu­cia, per­ché il decreto deve essere con­ver­tito entro il 19 mag­gio (il che fa anche gioco per le elezioni).

Nella con­fu­sione della pro­pa­ganda elet­to­rale si è anche inse­rito un emen­da­mento Mussolini-Berlusconi, per esten­dere gli sgravi fiscali e con­tri­bu­tivi desti­nati ai neoas­sunti anche ai disoc­cu­pati di lunga durata: la sena­trice di Fi ha fir­mato a penna la sua pro­po­sta con il nome di Ber­lu­sconi, pur essendo tec­ni­ca­mente impos­si­bile visto che il Cava­liere è decaduto. Tra Ncd e Forza Ita­lia è stato un rim­pal­larsi di accuse: i secondi hanno accu­sato i primi di aver sostan­zial­mente accet­tato un «Cgil Act», cioè di aver varato un testo frutto del “ricatto” pro­ve­niente dalla sini­stra Pd e dalla Cgil.

Nulla di più falso. Anche per­ché la Cgil con­ti­nua a essere con­tra­ria all’impianto della riforma, in quanto si azzera la cau­sale per tutti i tre anni del con­tratto a ter­mine, sosti­tuen­dolo di fatto alla cen­tra­lità del rap­porto a tempo indeterminato.La sini­stra Pd, dal canto suo, è piut­to­sto divisa, e ha via via accet­tato cor­re­zioni sem­pre più pro­fonde, come quella a cui più teneva Sac­coni: ovvero la sosti­tu­zione con una multa dell’obbligo ad assu­mere a tempo inde­ter­mi­nato, per tutte quei casi in cui l’azienda sfora il tetto del 20% di con­tratti a termine.

Per Cesare Damiano, pre­si­dente della Com­mis­sione Lavoro della Camera, «que­sta san­zione rap­pre­senta un buon deter­rente: aveva già il nostro ok», spiega. Diverso il parere di Ste­fano Fas­sina, che invece alza gli scudi e – al con­tra­rio del col­lega Damiano – fa imma­gi­nare una ria­per­tura del dos­sier alla Camera: «La tra­sfor­ma­zione della san­zione pre­vi­sta per lo sfo­ra­mento del tetto del 20% e il ridi­men­sio­na­mento della quota di appren­di­sti da sta­bi­liz­zare sono passi indie­tro – dice Fas­sina – Rimet­tere in discus­sione l’equilibrio del testo san­cito con il voto di fidu­cia alla Camera implica ria­prire la discus­sione alla Camera prima del varo defi­ni­tivo del decreto». Il tutto, va detto, men­tre lo stesso Ncd annun­cia di voler ulte­rior­mente «limare» il testo per modificarlo. La multa equi­vale al 20% della retri­bu­zione per ogni mese o metà mese lavo­rato se il tetto si sfora solo di un addetto; sale al 50% per ogni addetto in più per cui si sfora.

Le altre novità intro­dotte: si restringe la pla­tea di imprese a cui si applica l’obbligo di sta­bi­liz­zare il 20% degli appren­di­sti, pas­sando da quelle supe­riori a 30 dipen­denti a quelle oltre i 50. Ancora, ed è l’unica modi­fica posi­tiva: spa­ri­sce la norma per cui, pas­sati i 45 giorni in cui le Regioni devono comu­ni­care il piano for­ma­tivo, l’impresa veniva assolta dall’obbligo for­ma­tivo. Quindi l’obbligo non cessa dopo i 45 giorni, ma le imprese gua­da­gnano su un altro fronte: la for­ma­zione pub­blica potrà essere svolta anche presso di loro, basta che si atten­gano agli stan­dard regionali.

Tor­nando ai con­tratti a ter­mine, un altro emen­da­mento dispone che sono esen­tati dal tetto gli enti di ricerca (potranno avere un numero infi­nito di pre­cari). E si inse­ri­sce nel pre­am­bolo – quindi una pura dichia­ra­zione pro­gram­ma­tica – la cita­zione dell’«adozione di un testo unico sem­pli­fi­cato della disci­plina dei rap­porti di lavoro con la pre­vi­sione in via spe­ri­men­tale del con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato a pro­te­zione crescente».

Insomma, si lega que­sta legge alla delega che con­tiene appunto il «mitico» con­tratto unico a tutele cre­scenti, ma che è fis­sata in un impre­ci­sato futuro (al minimo nel 2015). Il rela­tore Pie­tro Ichino aveva pro­vato a far pas­sare il suo modello, ma non c’è riu­scito per lo stop del Pd e del mini­stro Poletti.
«Sicu­ra­mente ora dob­biamo pen­sare al con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti – dice Damiano – La ver­sione Ichino, con il risar­ci­mento se inter­rompi il con­tratto nel periodo di prova, può pure andare bene, ma solo a patto che: 1) alla fine del periodo di prova maturi tutti i diritti, arti­colo 18 incluso; 2) se le imprese rice­vono gli incen­tivi solo se e quando assu­mono il lavo­ra­tore, e non prima».

Damiano fa capire che, per quanto gli con­cerne, il Pd non osta­co­lerà l’iter del dl Poletti: «In Senato non è stato stra­volto quanto ave­vamo già licen­ziato alla Camera. Unico dato nega­tivo, il restrin­gi­mento della pla­tea di imprese per la sta­bi­liz­za­zione degli appren­di­sti: ma nume­ri­ca­mente, la pla­tea si restringe in modo marginale». Annun­ciano bat­ta­glia, invece, i Cin­que­stelle: «Diven­te­remo tutti “cinesi”, super coco­prò – com­men­tano – Nuovi “Sac­coni” di pre­ca­riato gra­zie al Pd di Renzi».

«Ridurre la misura alter­na­tiva dell’affidamento in prova a una atti­vità volon­ta­ria (sic!) «di ani­ma­zione» è a dir poco offen­sivo, oltre che per i desti­na­tari dell’animazione per la col­let­ti­vità vit­tima dell’evasione milio­na­ria, per chi crede nella lega­lità, la pra­tica e la inse­gna ai pro­pri figli o ai pro­pri stu­denti, per chi è dimen­ti­cato in car­cere in ese­cu­zione di con­danne per fatti assai più mode­sti».

Il manifesto, 3 maggio 2014

Sil­vio Ber­lu­sconi non è certo il primo uomo poli­tico del Bel­paese ad essere stato con­dan­nato per gravi reati e nep­pure il primo a scon­tare la pena nella forma dell’affidamento in prova ai ser­vizi sociali. Ricordo a memo­ria: Mario Tanassi, Pie­tro Longo, Franco Nico­lazzi, Arnaldo For­lani, Fran­ce­sco De Lorenzo, Cesare Pre­viti e via elencando.

Ci fu addi­rit­tura un periodo – a cavallo del nuovo mil­len­nio – in cui i Tri­bu­nali di sor­ve­glianza di Milano e Torino e la Corte di cas­sa­zione arri­va­rono a ridi­se­gnare i con­te­nuti e i limiti della misura dell’affidamento in prova per i «col­letti bian­chi»,riscri­vendo un isti­tuto ori­gi­na­ria­mente pen­sato per tutt’altra cate­go­ria di con­dan­nati. E, sul punto, decine furono i com­menti e le pre­ci­sa­zioni sulle rivi­ste giu­ri­di­che. Ma mai era acca­duto che l’esecuzione di una pena si tra­sfor­masse in un assistper il rilan­cio poli­tico del con­dan­nato e in una dimo­stra­zione sco­la­stica del ripri­stino di una giu­sti­zia tanto forte (e talora spie­tata) con i deboli quanto debole con i forti.

Inten­dia­moci. Non amo il car­cere per nes­suno. Di più, trovo civile che le pene medio-brevi (e i resi­dui di pena di tale entità) siano scon­tate con moda­lità diverse dal car­cere. Per tutti. E, a mag­gior ragione, per chi è segnato dagli anni. Dun­que non auspi­cavo e non auspico il car­cere nep­pure per l’ex cava­liere di Arcore. E ciò, pur non dimen­ti­cando che, nel caso spe­ci­fico, la con­danna da scon­tare riguarda non un fatto con­tin­gente e limi­tato ma una eva­sione fiscale di ben 13,9 milioni di euro (6,6 nel 2001, 4,9 nel 2002, 2,4 nel 2003) pro­gram­mata ed orga­niz­zata negli anni, effet­tuata coin­vol­gendo quasi tutti i più stretti col­la­bo­ra­tori. Poco meno di 14 milioni di euro pari al danno pro­vo­cato alle parti offese dall’insieme di quasi tutti gli attuali dete­nuti per furto nelle pri­gioni italiane.

Nono­stante que­sto non auspi­cavo il car­cere. Ma ridurre la misura alter­na­tiva dell’affidamento in prova a una atti­vità volon­ta­ria (sic!) «di ani­ma­zione» (come scritto nell’ordinanza di con­ces­sione) di quat­tro ore set­ti­ma­nali in favore degli ospiti di un isti­tuto per anziani è a dir poco offen­sivo, oltre che per i desti­na­tari dell’animazione sot­to­po­sti (essi sì) a una prova di pesan­tezza inau­dita, per la col­let­ti­vità vit­tima dell’evasione milio­na­ria, per chi crede nella lega­lità, la pra­tica e la inse­gna ai pro­pri figli o ai pro­pri stu­denti, per chi è dimen­ti­cato in car­cere in ese­cu­zione di con­danne per fatti assai più mode­sti. Ed è anche lon­tano le mille miglia da una inter­pre­ta­zione razio­nale del sistema delle pene e delle misure alter­na­tive. Non si trat­tava di chie­dere al con­dan­nato eccel­lente ammis­sioni espli­cite di respon­sa­bi­lità né dichia­ra­zioni di pen­ti­mento o pub­bli­che scuse.

Più sem­pli­ce­mente si trat­tava di tra­durre in pre­scri­zioni con­crete e coe­renti l’affermazione – riba­dita in sen­tenze del 1987, 1988 e 1998 della Corte costi­tu­zio­nale e della Corte di cas­sa­zione – che le misure alter­na­tive alla deten­zione (e, tra esse, l’affidamento in prova) «hanno la natura di vere e pro­prie san­zioni penali» e richie­dono, dun­que, pre­scri­zioni carat­te­riz­zate da un signi­fi­ca­tivo tasso di afflit­ti­vità tale da costi­tuire con­tro­spinta a ulte­riori con­dotte delit­tuose (unico inter­vento rie­du­ca­tivopos­si­bile nei con­fronti di per­sone nor­moin­se­rite nella società). Né sarebbe stato dif­fi­cile indi­vi­duarle, quelle pre­scri­zioni: basti pen­sare a pre­sta­zioni quo­ti­diane e a titolo gra­tuito dirette a con­tri­buire, con un lavoro negli uffici com­pe­tenti, al recu­pero di impo­ste evase, di spese di giu­sti­zia o quant’altro. Nulla, invece, di tutto que­sto né altre signi­fi­ca­tive pre­scri­zioni (al di fuori di quelle di rou­tine) sino al punto di con­sen­tire al con­dan­nato eccel­lente movi­menti ed ester­na­zioni ini­biti a tutti gli altri affi­dati in prova, costretti a chie­dere l’autorizzazione finan­che per recarsi a una visita medica fuori dal comune di resi­denza e talora addi­rit­tura a seguire iti­ne­rari pre­sta­bi­liti per recarsi al lavoro.

In tutta la mia (lunga) atti­vità giu­di­zia­ria non avevo mai visto una cosa del genere. È evi­dente – anche da molti altri segnali – che si sta chiu­dendo, per la giu­sti­zia, una sta­gione. E si chiude nel peg­giore dei modi, all’insegna del ripri­stino di due codici diversi: uno per i bri­ganti e uno per i galan­tuo­mini (o impro­pria­mente rite­nuti tali).

Quanti più diritti si estendono ai non-cittadini tanto più la parola “cittadinanza” perde significato. Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell’umanità.

La Repubblica, 1 maggio 2014

Che cosa accade quando le nazioni diventano eterogenee? Che cosa accade quando la migrazione su vasta scala di profughi disperati e di uomini e donne alla ricerca di una vita migliore, immigrati legali e illegali — che cosa accade quando queste persone danno vita a popolazioni multi-culturali? Una risposta alla migrazione e alla diversità è un nuovo fermento a favore dell’inclusione e dei diritti umani, diritti che non dipendono da un’appartenenza politica di lunga data e da ricordi condivisi — il trionfo, potremmo dire, dei “diritti dell’uomo” della Rivoluzione francese sui “diritti del cittadino”. Vediamo il trionfo quanto mai chiaramente nell’estensione di molti diritti del cittadino ai residenti stranieri e altri non-cittadini, inclusi gli immigrati illegali. Questa è opera della sinistra liberale (che io appoggio), ma è strana, perché quanti più diritti si estendono ai non-cittadini tanto più la parola “cittadinanza” perde significato. Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell’umanità. Questa potrebbe anche essere la cosa giusta da fare, ma lascia la sinistra priva del modello di cittadino virtuoso, attivista, che decide per sé. E diventa sempre più difficile sostenere una cultura civica comune.
I paesi rivestiranno un significato minore per i loro abitanti, perché molti di loro non vi risiederanno da lungo tempo; le tombe dei loro antenati saranno altrove; il terreno sul quale vivranno non sarà per loro suolo sacro, e i loro visti non evocheranno ricordi storici e personali. In queste condizioni di eterogeneità, pluralismo culturale e individualismo radicale, che cosa accadrà, che cosa è accaduto alla solidarietà che sta sotto e che sostiene il welfare state? Se non ci sentiamo intimamente connessi agli altri abitanti del nostro paese, se non abbiamo in comune storia, religione e così via, se pensiamo a noi stessi come a una “serie” sartriana di individui scollegati tra loro — se tutto ciò è vero, chi mai sosterrà politicamente il welfare state o sarà disposto a pagare le tasse di cui esso necessita? Chi investirà tempo ed energie in discussioni politiche o in un’azione politica?

Al contempo, intrinsecamente collegato con ciò che ho appena descritto, c’è un nuovo globalismo; non è proprio la stessa cosa dell’internazionalismo della vecchia sinistra, ma dovremmo considerarlo la versione del XXI secolo dell’internazionalismo, evidente in organizzazioni come Medici senza Frontiere, Human Rights Watch, e Amnesty International. Gli aiuti umanitari per le persone in difficoltà in tutto il pianeta sono molto popolari oggi. Se ci sono meno cittadini impegnati nel nostro paese, abbiamo però molti più cittadini impegnati nel mondo; attivisti all’estero. Questi impegni globali non sembrano poter rendere possibile una vibrante politica liberale/di sinistra in patria, e non penso che questa sia una mera coincidenza. Di fatto, è più facile, tenuto conto delle condizioni che ho descritto, difendere i diritti umani nei paesi di altri popoli che unirsi alla lotta contro l’ineguaglianza negli Stati Uniti (o l’Italia, o la Germania, o il Regno Unito).

Anzi, la nuova battaglia per i diritti umani è stata accompagnata da una smobilitazione politica in patria. Ogni società umana produce gerarchie di ricchezze e potere e oggi questa produzione si attua non all’interno delle società, ma in modo trasversale a esse, nella società globale, dove le banche internazionali e le multinazionali operano con modalità tali da assicurare grandi ricchezze a pochi e determinare periodiche crisi per molti. Ai vecchi tempi, nello stato di cittadini attivi o potenzialmente attivi, questa tendenza persistente verso un ordinamento gerarchico era talvolta interrotta dalle ribellioni delle classi subordinate — agitazioni di cittadini precedentemente passivi che confluivano in movimenti sociali potenti e che davano vita a regimi socialdemocratici, welfare state, e disordini o perturbazioni nelle vecchie gerarchie.

L’idea dell’uno per cento e del novantanove per cento, lo slogan del movimento Occupy, non è un esempio di analisi di classe. È un appello populista, e potrebbe essere politicamente utile. Ma dovremmo usare prudenza nei confronti del populismo (proprio come dovremmo essere cauti nei confronti dell’anarchismo), perché non è una politica sostenibile, non cambia il mondo, ed è accessibile tanto alla destra quanto alla sinistra. Il lavoro di creazione di un movimento deve essere molto più concentrato. Deve essere opera di persone che sono per lo più in difficoltà, e deve derivare dal riconoscimento da parte loro delle proprie esigenze. Se deve esserci un movimento di classe di persone colpite o minacciate dal capitalismo neo-liberale, deve essere un movimento con obiettivi concreti e un programma specifico. Non so come dar vita a un movimento concentrato di questo tipo, ma è possibile prepararsi per la sua comparsa a livello intellettuale e di organizzazione.

Dobbiamo anche essere pronti a far fronte al pericolo che si nasconde lungo il nostro cammino, il pericolo che nelle nostre società diverse ed eterogenee il movimento che auspichiamo sia preceduto da una politica nazionalista e xenofoba nei confronti delle minoranze, degli immigrati, dei rifugiati. Questo è un altro motivo per il quale la gente di sinistra non dovrebbe mai prendere alla leggera il populismo. Ci occorre una democrazia sociale rinvigorita e militante, che parli la lingua di classe, i cui leader siano preparati, quando verrà il momento della ribellione, a unirsi, a organizzare, a esercitare pressioni sui ribelli verso una politica di solidarietà, di aiuto reciproco e di cooperazione transfrontaliera.
Jürgen Habermas ha scritto in modo ispirato dell’«abietto spettacolo della società capitalistica mondiale frammentata lungo le linee nazionali». Ma è nei nostri stessi frammenti, nei nostri stessi stati-nazione, che dobbiamo iniziare. Questo, a ogni modo, è ciò che credo: che se recupereremo la cittadinanza a casa nostra, scopriremo che il mondo non è tanto distante.
( Traduzione di Anna Bissanti)

Il testo qui pubblicato, ripreso da la Repubblica, è un estratto al centro di uno dei tre incontri che terrà tra Roma e Milano dal 6 all’8 maggio, promossi da Reset (rivista diretta da Giancarlo Bosetti), Luiss, Fondazione Feltrinelli e Centro Studi Americani. Info su www.reset.it

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