All'esame della Corte costituzionale la violazione del principio di parità degli elettori, neppure "giustificata" da esigenze di governabilità, compiuta dall'europorcellum. Possibile che in italia, nell'ultimo trentennio, la democrazia sia difesa solo dalla magistratura?
Il manifesto, 10 maggio 2014
Il ricorso lo avevano presentato in sei città. Il primo a rispondere, in tempo per le elezioni europee, è stato il tribunale di Venezia. Che ha giudicato non manifestamente infondate le questioni di costituzionalità sollevate contro la legge elettorale con la quale il 25 maggio saranno scelti 73 europarlamentari italiani. La soglia del 4% prevista dal sistema di voto italiano «non appare sostenuta da alcuna motivazione razionale», secondo i giudici veneziani. Che hanno investito della questione la Corte Costituzionale, così come richiesto da un gruppo di cittadini organizzati dall’avvocato milanese Felice Besostri. Lo stesso promotore del ricorso contro la legge elettorale nazionale che ha portato la Consulta ad ammazzare il Porcellum. Per questo, ma non solo per questo, si prevedono guai. Dopo che i parlamentari saranno stati eletti, la Corte potrà dichiarare illegittima anche questa legge elettorale. Ribattezzata euro-Porcellum.
Ma a differenza del parlamento italiano, l’europarlamento non è in grado di sanare un’elezione illegittima giudicando al suo interno sui titoli di ammissione dei deputati. Ragione per cui, se la Consulta dovesse accogliere e ritenere fondati gli argomenti evidenziati dal tribunale di Venezia, toccherebbe ai giudici amministrativi italiani intervenire. A elezioni abbondantemente svolte. «La delegazione italiana al prossimo parlamento europeo sarà decisa dal Tar del Lazio, questo è certo», dice l’avvocato Besostri. Che è naturalmente soddisfatto. Ma sarebbe stato più contento, spiega, se i giudici italiani avessero scelto di rivolgersi alla Corte di giustizia dell’Ue, così come era stato loro chiesto nel ricorso contro l’euro-Porcellum. Quella Corte è competente - anche in via urgente - per l’applicazione del diritto comunitario. Con il quale la legge italiana vistosamente contrasta, a seguito della modifica introdotta nel 2009 dal Pd in accordo con Berlusconi. Già all’epoca ci furono proteste, alle quali Fassino rispose spiegando che si voleva evitare «un’armata Brancaleone a Strasburgo» (intendendo Bruxelles). Più recentemente Rifondazione comunista ha scritto una lettera a Napolitano chiedendogli di segnalare al parlamento il dovere di correggere la legge. Il parlamento è invece intervenuto (male) solo sulla questione delle pari opportunità. Ignorando gli appelli, anche dello stesso avvocato Besostri che prima di far partire i ricorsi aveva scritto a Grasso e Boldrini.
Ai giudici è stata sottoposto il risultato delle ultime europee (2009), quando sono rimasti sotto la soglia e dunque senza rappresentanti partiti che insieme avevano raccolto più di 4 milioni di consensi. Voti dunque inutili. Una violazione del principio di parità degli elettori non giustificata da esigenze di governabilità, visto che l’europarlamento non dà la fiducia alla Commissione europea. Proprio nella sentenza dello scorso gennaio contro il Porcellum, i giudici costituzionali hanno ribadito che una certa distorsione della proporzionalità può essere ragionevolmente giustificata solo in nome della governabilità e della stabilità. Altre esigenze, come quella (sollevata nel 2009 dai sostenitori della soglia) di rafforzare la rappresentanza italiana, non trovano spazio. Né giustificazione, visto che gli eurodeputati ovunque eletti rappresentano tutti i cittadini europei, e il numero dei gruppi politici costituiti a Bruxelles è limitato.
Consegnata ai giudici amministrativi, le elezioni del 25 maggio finirebbero nel caos. Anche perché l’esito favorevole ai ricorrenti appare scontato, visto che già un eurodeputato nel 2009, Peppino Gargani (Pdl) si è fatto dare ragione dal Consiglio di stato. Nel nome del fatto che i voti di una circoscrizione non possono contribuire ad eleggere candidati di altre circoscrizioni, solo perché attribuiti a un partito rimasto sotto la soglia. Tutto questo sempre che la Consulta deciderà di accogliere la questione che, come nel caso della legge elettorale italiana, è al limite del ricorso diretto (vietato nell’ordinamento nazionale). Proprio il precedente farebbe deporre per l’accoglimento. Almeno con questo collegio. La Corte Costituzionale ha però i soliti tempi lunghi (per il Porcellum ha impiegato quasi otto mesi) e tra giugno e novembre andranno sostituiti ben quattro giudici. Due di nomina parlamentare e due presidenziale.
Trent'anni la prima speranza di alternativa all'Europa neoliberista. Tsipras: «Concepisco la mia candidatura come un mandato per unire quello che il neoliberalismo ha diviso con violenza. Per costruire la più larga alleanza politica e sociale possibile contro l’austerità». Il
manifesto, 10 maggio 2014
Nasce dieci anni fa a Roma e la sua promessa, spiega il segretario dei comunisti francesi Pierre Laurent, «è ancora di brillante attualità». Compleanno in piena corsa elettorale, quello dalla Sinistra europea, il partito continentale che candida il greco Alexis Tsipras a presidente della Commissione Ue. Che chiede, con un videomessaggio inviato alla festa di piazza Campo de’ fiori, nella capitale, alla sinistra italiana miracolosamente riunita nella lista L’Altra Europa, di spingere sull’acceleratore: «Il 25 maggio saremo la terza forza al Parlamento europeo per cambiare gli equilibri e le politiche dell’Unione». E «decisivo sarà il risultato elettorale della lista italiana». Che però, a differenza di molti altri paesi dell’Unione, qui combatte sul filo dello sbarramento al 4 per cento. Sbarramento già cancellato in Germania e da noi ammesso all’esame della Consulta proprio ieri.
Ventotto formazioni in tutto il continente (dall’Italia c’è il Prc, il Pdci è solo ’osservatore’ ma per il voto ha rotto con la lista Tsipras), una posizione politica difficile: per la rifondazione dell’Europa democratica e sociale contro quella «delle forze del neoliberismo devastante», spiega Paolo Ferrero (Prc), e contro i populismi nazionalisti. I sondaggi, spiega Laurent nella conferenza stampa della mattina, danno la Se in lizza con i liberali dell’Alde per diventare la terza forza del parlamento. «Ma anche fossimo la quarta, siamo indispensabili per la costruzione di un programma di sinistra».
Affermazione da interpretare con precisione. Laurent non pensa a una collaborazione con la famiglia socialdemocratica. «Martin Schulz (il tedesco candidato del Pse, ndr), oggi giura che vuole un’altra Europa. Ma allora la smettano di votare le leggi dell’austerità». È successo in Francia la settimana scorsa, sui tagli del neo-premier Valls. Su cui, va detto, 41 deputati socialisti si sono astenuti. Quanto alla collaborazione con il Pse, nella sinistra italiana non tutti la pensano così, vedasi la Sel di Vendola. Se andrà bene, se ne parlerà a urne chiuse.
La Se illustra il suo programma: stop alle politiche di austerità che «distruggono le basi produttive dei paesi», stop alla risorse per salvare le banche e investimento per politiche ambientaliste, fine del dumping sociale, lotta per il lavoro e contro la precarietà; fronte continentale per l’acqua pubblica, no al TTip, l’accordo commerciale fra Europa e Stati Uniti in corso di negoziato: con buona pace dei proclami trionfali, secondo uno studio dell’istituto viennese Ofse, commissionato dal Gue/Ngl, il gruppo parlamentare della sinistra europea, non aiuterà la crescita, non ridurrà la disoccupazione e finirà a vantaggio solo delle grandi industrie. «Sin dalla nascita, abbiamo parlato della crisi che stava arrivando. Vuol dire che non abbiamo sbagliato analisi», esulta la Maite Mola, della spagnola Izquierda unida. «Di tante scelte sbagliate, una ne abbiamo imbroccata», chiosa con qualche autoironia Ferrero.
Ma in cima al programma c’è il sostegno alla Syriza di Alexis Tsipras contro «la catastrofe dell’esperimento greco imposto dalla Troika e il dramma vissuto nei paesi mediterranei, a iniziare dall’Italia». Tsipras, con la partita europea, gioca quella di casa. Cruciale: il 18 maggio si svolgerà il primo turno delle amministrative, Syriza è favorita nelle città più grandi, Atene in testa. Il secondo turno cadrà proprio il 25, giorno del voto europeo. «Se vinceremo, e vinceremo», spiega Stelios Pappas, «con ogni probabilità in Grecia si tornerà a votare già nel 2015». Con Tsipras candidato presidente. «E sarà un grande terremoto non solo in Grecia, una scossa che aprirà una nuova epoca politica. Se Tsipras sarà premier la Grecia dirà no al TTip. A quel punto il trattato, che ha bisogno del sì di tutti gli stati, salterà. Non siamo contro il libero scambio, ma siamo per lo scambio libero con tutti, Russia compresa, in un ambiente di pace».
A sera, dal palco romano parlano anche la capolista Barbara Spinelli e Walter Pomar, del Pt brasiliano. Da Atene, dove ieri 180 personalità della cultura hanno detto sì al leader di Syriza, Tsipras promette: se verrà eletto ritirerà la commissione europea dalla Troika e rafforzerà la partecipazione democratica tramite referendum: «Concepisco la mia candidatura come un mandato per unire quello che il neoliberalismo ha diviso con violenza. Per costruire la più larga alleanza politica e sociale possibile contro l’austerità».
Il manifesto, 9 maggio 2014, con postilla
Corruzione Expo. Intervista all'ex pubblico ministero del pool di Mani pulite.
«La corruzione in Italia è così diffusa che è praticamente impossibile cercare di porvi rimedio per via giudiziaria». E’ una constatazione amara quella che Gherardo Colombo si trova a dover fare in un pomeriggio in cui il tempo sembra aver fatto un balzo all’indietro fino al 1992, anno in cui Tangentopoli ebbe inizio e lui, insieme al pool di Milano diede avvio a Mani pulite. 22 anni che sembrano passati invano. «Se oggi la situazione è analoga a quella di allora, mi sembra chiaro che la funzione di prevenzione che dovrebbero avere le indagini e i processi non sia stata svolta» commenta Colombo che, smessa la toga da magistrato, oggi è nel cda della Rai.
Dottor Colombo ecco di nuovo i nomi di Primo Greganti e Gianstefano Frigerio. Allora è proprio vero che a volte tornano?
Lasciamo che si concludano le indagini e i processi, perché esiste sempre la presunzione di innocenza. Dopo di che, però, possiamo fare un riflessione che prescinde dalle persone e chiederci se quella di oggi è una situazione analoga a quella di allora o se ci sono delle diversità.
E lei che risposta si dà?
Posso dirle con certezza che allora esisteva un sistema della corruzione e che oggi non mi sembra che le cose siano cambiate poi così tanto. Il sistema è sopravvissuto, anche se forse è una cosa diversa: forse c’è meno finanziamento illecito ai partiti e una destinazione dei proventi della corruzione più verso se stessi, anche se magari con delle eccezioni. Se però riflettiamo sulla quantità di questo fenomeno e sulla sua diffusione, credo che in questo paese la corruzione oggi sia diffusa ancora molto, molto e poi ancora molto. Abbiamo una serie di indizi per poterlo dire, come le analisi della Corte dei conti e gli approfondimenti di Transparency internationalche ogni anno elabora l’indice della corruzione percepita. E poi abbiamo una serie di emergenze segnalate dai media.
Stando alle notizie, una cosa che sembra essere cambiata è la consistenza delle tangenti. Dal 5–10% dei tempi di Tangentopoli all’attuale 0,8%. E’ anche questa una conseguenza della crisi o cosa?
Allora le tangenti erano molto più articolate. Ricordo quelle pagate per la costruzione della metropolitana: il movimento terra valeva il 3%, mentre invece attività che richiedevano maggiori competenze arrivavano fino al 13%. Sullo 0,8% di oggi probabilmente incide il fatto che girano meno soldi.
Perché in tutti questi anni l’azione di risanamento non è riuscita? E’ un problema di leggi insufficienti?
No, secondo me è un problema di cultura. Se si trattasse soltanto di leggi, quelle che puniscono la corruzione ci sono. Non sono perfette, ci mancano una sacco di cose ma ci sono. Credo invece che sia proprio un problema di cultura, di modo di pensare. La corruzione in Italia è così diffusa che è praticamente impossibile cercare di porvi rimedio per via giudiziaria, occorre intervenire attraverso stimoli educativi. Leggi più severe non servono. Vede le leggi c’è il precetto, che dice cosa è vietato, distingue quello che è lecito da quello che è illecito. Ora questa parte certamente è utilissima, però non serve a mio parere perché comporta generalmente solo il carcere, che invece di aiutare a marginalizzare la devianza alla fine la facilita. Se noi usiamo la sanzione per rendere vero il precetto, va a finire che ci mordiamo la coda.
Quindi è tutto inutile?
Non è tutto inutile, l’intervento penale è insufficiente. Dovrebbe tendere davvero, come dice la Costituzione alla rieducazione del condannato usando strumenti che siano in coerenza con il senso di umanità.
Viste le indagini di questi ultimi 22 anni, Mani pulite è stata inutile?
Se oggi la situazione è analoga a quella di allora, se la funzione delle indagini e dei processi è quella tra l’altro di operare come prevenzione generale, beh mi sembra che questa operazione di prevenzione non sia stata svolta. Guardi, io sono entrato in Mani pulite nell’aprile del 1992, nel luglio in un’intervista all’Espresso buttai lì l’idea che chi avesse ricostruito i fatti, restituito quello che aveva incassato illegittimamente e si fosse allontanato per qualche anno dalla vita pubblica non sarebbe andato in prigione. Si capiva già che attraverso lo strumento penale non si sarebbe riusciti a concludere niente.
postilla
Del resto, se per vent'anni ha governato un tale che dichiarava che non bisognava pagare le tasse, non possiamo meravigliarci del fatto che la cattiva politica ha battuto la buona giustizia. E purtroppo, se poi a quel tale, dichiarato criminale in tre gradi di giudizio, l'oggettiva complicità tra cattiva politica e morbida ha concesso l'impunità, non potremo meravigliarci domani se scopriremo che la corruzione è ancora cresciuta. A meno chegli elettori non sappiano trasformare il disgusto in speranza e completare la protesta con la proposta.
«È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre».
Corriere della sera, 9 Maggio 2014 (m.p.r)
«Per quanto distanziati dalle due liste maggiori,Sinistra europea e liberali non sono certo forze residuali: secondo le inchieste di opinione, potrebbero ottenere ciascuno un numero di deputati pari a circa l’8% dell’emiciclo di Strasburgo».
Il manifesto, 9 maggio 2014
Diventare la terza forza politica dell’Ue. Questo è l’obiettivo che il partito della Sinistra europea (Se) vuole raggiungere alle elezioni del 25 maggio. Un traguardo ambizioso, ma che è pienamente alla portata delle liste – come l’italiana L’Altra Europa – che nei diversi Paesi dell’Unione candidano Alexis Tsipras a presidente della Commissione di Bruxelles. I sondaggi prevedono un doppio testa a testa: socialisti e popolari si contendono la maggioranza relativa (sono dati al 28%), mentre Se e liberali dell’Alde (in Italia sono i montiani di Scelta civica) lottano per il primato fra i partiti «minori». Quelli, cioè, che con ogni probabilità avranno un risultato a una cifra.
Per quanto distanziati dalle due liste maggiori, Se e liberali non sono certo forze residuali: secondo le inchieste di opinione, potrebbero ottenere ciascuno un numero di deputati pari a circa l’8% dell’emiciclo di Strasburgo. Per la forza guidata in questa competizione da Tsipras si tratterebbe di un buon passo in avanti rispetto alla legislatura attuale, mentre per i liberali dell’Alde guidati dal belga Guy Verhofstadt e dal finlandese Olli Rehn si tratterebbe di un ridimensionamento. Nel caso in cui la Se sopravanzasse i liberali, il mutamento degli equilibri nell’Europarlamento – e il segnale politico – sarebbe da non sottovalutare.
Ne è consapevole il gruppo dirigente della Sinistra Eruopea che oggi si ritrova a Roma per una giornata di campagna elettorale, ma anche di festa: il 9 maggio di 10 anni fa, proprio nella capitale italiana, nasceva questa forza politica continentale, che ebbe come suo primo presidente l’allora segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti. Al suo posto ora c’è il francese Pierre Laurent, segretario del Pcf, che prenderà la parola nelle iniziative previste oggi: alle 10 una tavola rotonda sulle «sfide per cambiare l’Europa» all’Hotel Nazionale di piazza Montecitorio e dalle 18 una manifestazione (con concerto) a Campo de’ Fiori.
Nel meeting serale interverranno fra gli altri anche Fabio Amato, coordinatore della campagna Se, il segretario del Prc Paolo Ferrero e Barbara Spinelli. Attraverso un videomessaggio si potrà ascoltare anche Tsipras, che della Se è uno dei vicepresidenti.
A fare da traino per il risultato del 25 maggio ci sarà proprio la greca Syriza, la forza guidata dal candidato presidente: i sondaggi le attribuiscono oltre il 20%. Importante sarà anche il contributo della tedesca Linke, del cartello francese Front de Gauche (di cui fa parte il Pcf), e della spagnola Izquierda unida
LE elezioni europee (25 maggio) sono ormai dietro l’angolo, e la campagna elettorale, per altro poco animata, si presta a molte considerazioni. Può avere conseguenze sulla sorte dell’euro, quindi è più importante di quanto non sembri. Ma può essere riassunta in pochi concetti. Alla base di ogni considerazione, quando si parla di Europa, dovrebbe essere una regola tassativa: ogni moneta in circolazione deve avere alle spalle uno Stato, non può fluttuare nel vuoto, o fare capo a più Stati, distinti e indipendenti uno dall’altro. Il dollaro è la moneta degli Stati Uniti d’America: ha alle spalle uno Stato federale, un singolo governo, un singolo parlamento, e i cittadini degli Stati Uniti, anche se si sono affrontati in un passato ormai lontano in una dura guerra civile, parlano la stessa lingua, hanno la stessa storia. Un quadro del tutto diverso presenta l’Europa: ben più profonde sono le differenze fra le popolazioni che abitano nel nostro continente. A cominciare dalla lingua: polacchi e portoghesi, tanto per dire, non si capiranno mai. Per questo gli Stati Uniti d’Europa, sul modello americano, non si faranno, non si potranno mai fare: sono una utopia. Ne consegue che la moneta unica, l’euro, è stata una creazione avventata, e tutto sommato un errore. Bisogna pur dirlo, anche se le intenzioni che l’hanno ispirata erano lodevoli.
Adesso, tuttavia, non si può tornare indietro: tanto gli economisti quanto gli uomini d’affari sono convinti che la marcia indietro sarebbe un nuovo errore, peggiore del primo. Ed è anche vero che l’euro, sebbene sia stato un’operazione avventata, ha portato, con le difficoltà, molti benefici. La soluzione è la creazione di organi comunitari che, pur non essendo il prodromo di un’unione politica europea, aiuteranno a coordinare la politica economica dei vari Stati in Europa e agevoleranno il funzionamento della moneta unica. Mario Draghi, forte del-la sua posizione alla guida della Banca Centrale Europea, è fra coloro che più spingono in questa direzione. Non mancano le proposte di economisti e di personaggi con incarichi ufficiali. Purtroppo, i governi europei non hanno finora compreso l’urgenza degli interventi: hanno dato l’impressione, secondo un’immagine molto efficace, di una banda di allegri ragazzi che corrono ridendo, di buon umore, verso il precipizio.
Ma i vari provvedimenti suggeriti dagli esperti non devono dar luogo a equivoci: non sono la premessa di una federazione europea; bensì sono misure di carattere tecnico che mirano ad agevolare la sintonia della politica finanziaria fra vari Paesi. Ed è interessante l’evoluzione dell’idea di Europa attraverso gli anni. Subito dopo la guerra una federazione continentale, fra le nazioni che ne costituivano l’ossatura, fu il grande ideale. Erano allora europeisti gli uomini di Stato più importanti, da Adenauer a De Gasperi e a De Gaulle, era europeista perfino Churchill; e quella che auspicavano era l’Europa umanitaria, fattore di pace, per reazione alla carneficina che aveva insanguinato il continente. Poi, a poco a poco, il ricordo della strage si è attenuato: oggi si è ancora europeisti, ma con altre aspirazioni, più razionali e meno sentimentali: fondamentalmente, per resistere alla concorrenza del Terzo Mondo nell’economia globale. Bisogna pur riconoscerlo: si sono attenuati gli entusiasmi. Il Primo ministro inglese, cioè di una nazione che europeista lo era con misura anche mezzo secolo fa, ha promesso che si indirà l’anno prossimo nel suo Paese un referendum sull’appartenenza al Mercato comune, se rimanervi o uscirne. È anche vero che quando si è data vita al Mercato comune l’Europa sognava ancora di reggere le sorti del mondo. Oggi sono altri gli ideali: l’Europa, dalla Scandinavia al Mediterraneo, aspira piuttosto a essere una grande Svizzera ordinata e benestante, vivere in pace in un mondo pacifico, non dare fastidio a nessuno.
I sostenitori della lista “L’altra Europa con Tsipras”, se non strillano come gli altri, cercano di ragionare e proporre anche durante l’affannosa campagna elettorale. Dopo una serie di discussioni che si sono intrecciate a proposito del drammatico scontro che si svolge attorno e dentro l’Ucraina propongono due testi redatti da Barbara Spinelli, Eleonora Forenza, Fabio Amato, Guido Viale e da Francesco Gesualdi, Tommaso Fattori, Silvia De Giuli, Lisa Clark, Rocco Altieri, Giorgio Gallo, l'8 maggio 2014
Come in tutte le guerre, la verità e l'informazione sono vittime designate. Il caso ucraino non fa eccezione. Si omette deliberatamente di dare notizia sull'uso di paramilitari nazisti al servizio del governo di Kiev, così come dei tragici eventi accaduti ad Odessa (46 persone disarmate uccise in un vero e proprio pogrom antirusso, imputabile alle milizie filogovernative di Pravyi Sektor, Settore di Destra) . Criminale è l'aver fomentato, soprattutto da parte degli USA, una guerra civile e aver sdoganato in Europa forze naziste, che speravamo di aver cancellato definitivamente dal futuro dell'Europa.
Ed è anche il futuro dell'Europa che si gioca in Ucraina: gli Stati Uniti hanno lavorato e stanno lavorando pesantemente per destabilizzare la situazione ucraina, in primo luogo al fine di favorire una espansione ad Est dei confini della NATO. Non solo: nel contesto della trattativa sul Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip), gli Stati uniti lavorano per impedire qualsivoglia autonomia geopolitica dell'Europa, e per arginare gli scambi Europa-Russia, soprattuto energetici. Insomma, si vuole rinchiudere l'Europa in un più serrato patto atlantico, volto a fare dell'Europa il cortile degli USA sia sul terreno militare che su quello economico.
Occorre che le pacifiste e i pacifisti si mobilitino in Italia e in Europa, contro la violazione dei diritti umani e il governo di Kiev e in favore di una Ucraina libera e federata. Come ha detto Alexis Tsipras al "Guardian": "L'Unione europea dovrebbe far di tutto per ristabilire l'accordo di Ginevra del 17 aprile , e cercare la fine immediata delle violenze. Dovrebbe anche lanciare un ultimo monito al governo provvisorio ucraino, esigendo che gli accordi non siano ancora una volta violati. Il massacro nell'edificio dei sindacati a Odessa mostra che esistono elementi nel governo ucraino, intimamente legati a unità paramilitari criminali e naziste, che vogliono un'Ucraina più piccola e "etnicamente ripulita". È per raggiungere i propri obiettivi che cercano di provocare la Russia. La soluzione praticabile della crisi richiede come prima cosa la rimozione di tutti gli elementi neonazisti e di estrema destra dal governo provvisorio. La pace in Ucraina è difficile se tali elementi restano al potere, perché la loro strategia consiste nel seminare insicurezza in tutte le minoranze etniche e religiose del paese".
Forti dell’articolo 11 della Costituzione italiana che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, invitiamo tutte e tutti a levare la propria voce contro qualsiasi iniziativa, sia essa di parte filo atlantica o di parte filo russa, che può aggravare la situazione di tensione in atto in Ucraina o che possa sfociare in soluzioni di prevaricazione unilaterale.
La situazione ucraina è senz'altro complessa per la molteplicità di fattori storici, linguistici, economici, politici e religiosi, ma siamo altrettanto convinti che non sono le armi a risolvere i problemi.
E' altrettanto certo che a peggiorare il quadro pesano interessi di paesi terzi, perseguiti sulla pelle della popolazione civile, che oltre ad essere colpita dalle conseguenze del conflitto, si vede attraversata da campagne che puntano a creare lacerazioni insanabili.
Il popolo ucraino è un popolo martoriato da oligarchie schierate su fronti contrapposti, uno occidentale e uno russo. Entrambe dedite alla disonestà e alla corruzione, da anni si contendono il potere con la fraudolenza e con la violenza, avvalendosi anche di forze paramilitari sostenute dalle proprie potenze straniere di riferimento. In questo contesto nel marzo 2014 è stato destituito il presidente filorusso Yanuckovich da una piazza che non era composta solo da cittadini inermi, come testimonia l’appellativo di “lupi di piazza Maidan”. Subito dopo, nella parte est, sono iniziate sommosse separatiste con la presenza di gruppi che dispongono di armi. Ed ad ogni violenza perpetrata da una parte o dall’altra, la potenza straniera avversa ne approfitta per giustificare la propria avanzata verso i confini dell’Ucraina e sostenere con armi e consiglieri la propria fazione interna.
In altre parole, l’Ucraina si trova in una spirale di violenza che può essere arrestata solo se tutte le potenze straniere che hanno secondi fini nella vicenda, accettano di fare un passo indietro e soprattutto se accettano di rinunciare all’opzione armata più o meno velata. Il coinvolgimento di organizzazioni internazionali, come l’ONU, deve rivolgersi ad una soluzione diplomatica, che sappia evitare soluzioni unilaterali, che inevitabilmente sfocerebbero in un conflitto armato.
Per cominciare, anche in considerazione dall’approssimarsi del semestre di presidenza del Consiglio Europeo, l’Italia deve attivarsi subito affinché l’Europa imponga al governo di Kiev, filo-occidentale, il cessate il fuoco nei confronti dei propri cittadini e l'avvio di negoziati per trattare un accordo.
In Ucraina la parola deve passare ai cittadini che debbono potersi esprimere senza la paura di ritorsioni violente da parte di questa o quella parte. Debbono potersi esprimere sul tipo di parlamento che vogliono, sul tipo di partenariato internazionale preferito, sulla forma federativa più capace di conciliare quelle differenze che nell’ultimo decennio alcune forze hanno voluto esasperare. Per questo serve l’attivazione di forze multilaterali come l’ONU e l’OSCE affinché inviino forze civili di pace, decine di migliaia di persone disarmate, con il triplice scopo di tutelare le minoranze esistenti nei vari territori, di favorire il dialogo fra le diverse posizioni e di vigilare e denunciare qualsiasi presenza armata e qualsiasi interferenza straniera, al fine di garantire il ritorno al pacifico confronto e svolgimento democratico dei processi decisionali che spettano unicamente al popolo ucraino
La Repubblica, 8 maggio 2014
Oggi, invece, ci stiamo richiudendo nei bunker. Due dei bunker più grandi che abbiamo appena ultimato sono il regime di asilo dettato dal regolamento di Dublino III e il nuovo progetto di unione bancaria. Invece della molto discussa unione bancaria che darebbe vita a meccanismi di ridistribuzione, siamo ricaduti nelle usanze del passato, con le classi politiche e bancarie di ciascun paese fin troppo amichevoli tra loro. Con tutti i suoi limiti e il suo obiettivo comune - un settore bancario forte - l’unione bancaria avrebbe imposto a paesi con tanto credito come la Germania di prendere provvedimenti per aiutare i paesi più poveri e fortemente indebitati. Nel migliore dei casi questo avrebbe richiesto un’Europa che in parte riprendesse la proposta di Keynes per la quale i paesi più ricchi hanno l’obbligo di mettere i paesi più poveri e indebitati nella condizione di poter reagire, così da garantire un sistema globale più sano. Keynes fallì nel suo tentativo, soprattutto perché gli Stati Uniti all’indomani della Seconda guerra mondiale non vollero fermare il tentativo delle banche e delle corporation di prendere il potere. Ma anche l’unione bancaria europea ha deluso, soprattutto perché la Germania non ha voluto rischiare di trovarsi bloccata con le obbligazioni che i paesi dell’Ue più ricchi avrebbero dovuto accollarsi nel nome di un’Unione europea sana.
Il secondo segnale del decadimento europeo riguarda l’asilo. Come nel caso dell’unione bancaria, un regime comune per l’asilo non è una faccenda semplice. L’Europa riuscirà a escogitare qualcosa di più ragionevole e giusto delle regole oggi vigenti? Dublino III crea un conflitto tra i paesi europei meridionali e quelli settentrionali. Rende vittime sia coloro che cercano asilo sia i paesi meridionali europei più poveri, che al momento sono tra quanti accolgono in maggior numero i richiedenti asilo - Spagna, Italia, Grecia. Questo, naturalmente, è il peggiore patto possibile. I paesi dell’Europa del Nord offrono condizioni più vantaggiose rispetto a quelli meridionali e così si è sparsa la voce: i richiedenti asilo vogliono raggiungere la Germania. Tuttavia, la legge prevede che essi si registrino nel primo paese nel quale mettono piede in Europa. Ciò ha significato che molti richiedenti asilo finiscano per essere doppiamente illegali nei paesi settentrionali, vedi in Germania: evitano di registrarsi nei paesi meridionali - come la legge impone loro di fare - per non restare bloccati lì, ma allo stesso tempo non possono registrarsi nei paesi settentrionali perché sono entrati in Europa da quelli meridionali.
Né l’unione bancaria né l’unificazione del diritto di asilo sono progetti facili. A dire il vero, per molti sembrano entrambi irrealizzabili. Eppure, l’Europa ha dimostrato con la sua stessa storia che ciò che sembrava impossibile era fattibile.
Ecco un esempio che mi piace utilizzare per illustrare in che modo ciò che sembra irrealizzabile è in realtà possibile e può diventare uno strumento per trarne ulteriori benefici. Riguarda una delle caratteristiche del Vecchio Continente più ammirate in tutto il mondo, e cioè la “città aperta” tipica dell’Europa. Si tratta di un elemento cruciale della storia d’Europa, spesso trascurato, che dimostra come la sfida per incorporare lo “straniero” diventino strumenti per sviluppare la comunità civile nel senso migliore della parola. Ed è uno strumento che oggi potrebbe assumere forme e contenuti nuovi.
L’ostilità per gli immigrati e gli attacchi contro di loro si sono verificati in ciascuna delle più importanti fasi migratorie dei principali paesi europei. Nessuno Stato che accoglie manodopera ne è immune: né la Svizzera, con la sua lunga e apprezzabile storia di neutralità internazionale, né la Francia, il paese più aperto all’immigrazione, ai profughi e agli esuli. Nel 1800 i lavoratori francesi uccisero quelli italiani, accusandoli di essere cattivi cattolici.
Sono sempre esistiti, tuttavia -— come del resto esistono ancora oggi - , singoli individui, gruppi, associazioni e politici che credono nell’idea di rendere le nostre società maggiormente inclusive nei confronti degli immigrati. La storia ci insegna che coloro che combattono per l’integrazione alla fine ottengono ciò che vogliono, anche solo in parte. Se vogliamo concentrarci sul recente passato, un quarto dei francesi ha un antenato nato all’estero, tre generazioni indietro, e il 32 per cento dei viennesi è nato all’estero o ha genitori stranieri.
Potrebbe essere utile a questo proposito, e tenendo conto della sconfortante situazione sull’immigrazione di oggi, ricordare che l’Europa soffre di una mancanza di prospettiva storica, e questo è assurdo. L’Europa ha una storia secolare, a stento riconosciuta, di migrazione interna dei lavoratori. Un fenomeno rimasto nell’ombra rispetto alla “storia ufficiale”, nella quale predomina l’immagine di Europa come continente di emigrazione, mai di immigrazione. Eppure, quando Amsterdam nel Settecento costruì i suoi polder e drenò i territori paludosi importò lavoratori della Germania del nord; per le loro vigne i francesi sfruttarono gli spagnoli; quando Milano e Torino si svilupparono importarono operai dalle Alpi; quando Londra costruì le sue infrastrutture per l’acqua e per le fogne si servì di irlandesi; quando nell’Ottocento Haussmann rifece Parigi, fece arrivare operai tedeschi e belgi; quando la Svezia decise di aver bisogno di palazzi eleganti, importò gli italiani; quando la Svizzera costruì il tunnel del San Gottardo, utilizzò immigrati italiani; e quando la Germania ricostruì le sue ferrovie e le sue acciaierie si servì di immigrati italiani e polacchi.
Anche se molti di questi lavoratori migranti tornarono nei rispettivi paesi di origine, molti altri sono rimasti, soprattutto nelle grandi città. L’integrazione degli immigrati in Europa nel corso dei secoli ha imposto la fatica di redigere norme nuove, soprattutto perché l’Europa prende molto sul serio le sue città e il senso civico. Lo fa molto più seriamente, per esempio, degli Stati Uniti, per i quali in passato è sempre valso il principio “vieni pure, ma ti arrangi”. Questo atteggiamento scoraggiante negli Usa è cambiato, però non ha seguito l’esempio europeo di una maggiore attenzione nei confronti della comunità: ha promosso la nascita di uno “stato di polizia” all’interno dello stato.
Dal mio punto di vista, questa premura nei confronti della comunità e delle proprie città è una dinamica cruciale nella storia d’Europa, spesso fin troppo ignorata e trascurata, che dobbiamo invece riscoprire. Sarebbe infatti di enorme utilità oggi, anche nel caso in cui assumesse forme e contenuti nuovi.
Questa è la chiave della loro utilità: vista la premura dell’Europa nei confronti della comunità, le sfide per incorporare lo “straniero” sono diventate strumenti per far evolvere il senso civico nell’accezione migliore della parola, aspetto che sviluppo ed esamino in maniera approfondita nel mio libro Territory, Authority, Rights ( che uscirà in Italia per Bruno Mondadori). Un singolo esempio illustra la validità di questo progetto pratico: se una città deve avere un sistema di trasporti pubblici efficiente, deve permetterne l’accesso a tutti, a prescindere dal loro status. Non può controllare i cittadini o lo status di immigrati di coloro che “sembrano stranieri”. Un sistema di trasporti pubblici efficiente deve avere una regola minima condivisa: procurati il biglietto o l’abbonamento e potrai accedervi. Questo è tutto. Se oggi potessimo pensare in termini altrettanto pratici e affrontare questi aspetti critici in maniera semplice e concreta (non nelle aule della politica o dei tribunali), potremmo compiere un notevole passo avanti verso un’integrazione degli stranieri. E ne beneficerebbero anche ai nativi.
(Traduzione di Anna Bissanti) Saskia Sassen, sociologa, insegna alla Columbia University. Il suo nuovo libro si intitola Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy. Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press ( sarà pubblicato in italiano da Il Mulino)
Fra i molti libri che le più prestigiose case editrici italiane si apprestano a stampare, emerge con un valore tutto proprio il lavoro inedito di Guido Liguori, studioso del pensiero politico e di Gramsci, di cui esce in questi giorni per Carocci il suo Berlinguer rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico (pp. 180, euro 13; è anche co-curatore, insieme a Paolo Ciofi, di Enrico Berlinguer. Un’altra idea del mondo. Antologia 1969-1984, Editori Riuniti University Press).
Il rischio del volume è di idealizzare quell’epoca e, con essa, Enrico Berlinguer che ne è stato un protagonista indiscusso. Un rischio che si presenta con tutta evidenza quando Liguori ce lo descrive come il dirigente per il quale la politica è «passione e dovere», un modello di uomo politico impensabile ai giorni nostri, che «sempre immerso nei libri e nei giornali, passava le nottate a leggere, a prepararsi». Un rischio destinato a essere superato grazie al rigore analitico dell’autore e all’esplicitazione , ma anche non appena si chiarisce del contesto in cui Berlinguer si trovava ad operare.
La fine di un'epoca
L’apertura di Berlinguer verso il blocco governato dagli Stati Uniti è nota, con tanto di dichiarazione della «nostra appartenenza» ai paesi Nato (la cosiddetta «via italiana al socialismo» non prevedeva ostacoli o condizionamenti da parte dell’Urss, secondo le parole del segretario), ma evidentemente questo non era stato sufficiente a tranquillizzare i professionisti dell’anticomunismo, memori di un capo del partito comunista italiano che, sempre in quegli anni, si lasciava andare a una dichiarazione tanto forte quanto discutibile: «È un fatto: nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no».
Liguori è opportuno ed efficace nel richiamare un dato centrale: quella, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, era anche l’epoca di un mondo che stava comunque cambiando. È in quella fase che ha inizio il fenomeno politico sociale che oggigiorno si è affermato con forza sovrana, e che insieme all’episodio di Puerto Rico costituisce un elemento nodale di comprensione di quel tempo: la fine del modello keynesiano, caratterizzato da una felice commistione di libero mercato e intervento governativo (welfare state) e il ritorno prepotente dell’ideologia e della politica liberista, basata sull’esaltazione della ricerca del profitto individuale e sulla mortificazione di ogni intervento statale che fosse volto alla tutela della giustizia sociale.
Il peccato originale
Contro questo preponderante ritorno di un’economia a cui veniva affidato il governo incontrastato sulla politica e sulle faccende umane, nell’ambito del mondo che si stava globalizzando, Enrico Berlinguer opponeva una soluzione che ha forti eco con quella portata avanti da Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’economia in virtù di idee diverse da quelle dei liberisti): un «governo mondiale» che, sulle basi politiche della centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, fosse in grado di porre un freno alle spinte mercatiste di un capitalismo che «aveva generato la decadenza della vita economica e della vita sociale, da cui nascevano non solo crescenti disagi materiali per le grandi masse della popolazione lavoratrice, ma anche il malessere, le ansie, le angosce, le frustrazioni, le spinte alla disperazione, le chiusure individualistiche, le illusorie evasioni».
In tale contesto quella di Berlinguer è anche la storia di una grande sconfitta, e questo emerge in maniera timida dalle considerazioni di Liguori. Il suo essere stato anzitutto un uomo dell’apparato, la sua miopia ideologica e politica rispetto alle spinte provenienti dai movimenti meno proni all’ortodossia marxista-leninista, il conservatorismo ideologico misto al deficit di laicità (peccato originale del comunismo italiano) che lo situarono su posizioni scettiche riguardo agli importanti referendum indetti dai radicali negli anni Settanta, rappresentano alcuni degli elementi alla base della sconfitta di Berlinguer (e del Pci), soprattutto di fronte alle spinte postmoderniste provenienti dal Psi del rampante Craxi.
Inopportune mitologie
Allora come oggi, probabilmente, in cui l’apparato più ortodosso del Pd (proveniente dall’ex Pci), col proprio immobilismo ha lasciato campo libero all’emersione esplosiva di figure spregiudicate e senza un fondamento teorico e programmatico di fondo, ci si è trovati a pagare un prezzo salatissimo e drammatico, proprio nel momento in cui maggiormente sarebbe stato necessario avere un forte contraltare alle spinte nuovamente disumanizzanti e totalitarie del neo-liberismo.
Certo, la denuncia berlingueriana della «questione morale» fu quanto mai profetica, come quel suo monito affinché i «partiti cessino di occupare lo Stato», ma è indubbio che troppi ritardi all’interno del Pci contribuirono in maniera sostanziale a che l’ideologia liberista riuscisse nella sua impresa di distruggere proprio lo Stato, rendendo conseguentemente obsoleti e depotenziati quegli stessi partiti (e idee) politici.
Ormai è il tempo in cui la politica si fa nei talk show. Una «piccola politica» (Gramsci) a cui Berlinguer ha poco o nulla da dire. Alla «grande politica», ammesso che essa possa finalmente tornare, potrebbe invece dire molto. A patto che si sia consapevoli anche dei suoi limiti. Tenendosi ben lontani da inopportune mitologie. Ben lontani, a pensarci bene, dalla logica spettacolare dei talk show.
«Una politica che ha dimenticato l’ onore, ritenuto forse un inaccettabile segno del moralismo dei costituenti, quale prospettiva può offrire per una azione concreta di ricostruzione dell’etica civile?».
La Repubblica, 7 maggio 2014
NON possiamo distogliere lo sguardo dai mali profondi dell’Italia, quelli che continuano a corrodere la società. Abbiamo appena assistito all’accettazione strutturale della corruzione, visto che condannati e inquisiti non sono stati non dico almeno biasimati, ma dotati di un paracadute politico con candidature alle elezioni europee e locali. Vi è una morale da trarre da questa vicenda? Ve ne sono almeno tre. La prima riguarda il significato assunto dalle leggi in queste materie; la seconda evoca l’onore perduto della politica; la terza richiama l’impossibile ricostruzione di un’etica civile.
In tutti questi anni sono stati citati infiniti casi di politici in vista, spesso con grandi responsabilità pubbliche, che si sono prontamente dimessi per comportamenti ritenuti riprovevoli, senza che vi fosse alcuna legge che lo prevedesse. Fuori d’Italia, però. Ultima tra le tante, la notizia delle dimissioni del premier sudcoreano in relazione a un drammatico naufragio, dunque a qualcosa di estraneo alle sue dirette responsabilità, ma di fronte al quale la politica non poteva rimanere silenziosa. Dalle nostre parti, perduta da gran tempo la speranza di sane reazioni dettate dalla responsabilità politica e dalla moralità pubblica, si è stati obbligati, tra mille resistenze, a scrivere qualche norma per combattere almeno i casi più scandalosi. Ma questa scelta ha prodotto un effetto paradossale. Invece di considerare le nuove leggi come il segno di un cambiamento del giudizio collettivo sui doveri di chi esercita responsabilità pubbliche, si è cercato in ogni modo di limitarne l’applicazione; e, soprattutto, si è concluso che ormai solo i comportamenti lì previsti possano legittimare reazioni di biasimo. Vengono così derubricate, e collocate nell’area della irrilevanza, le “disattenzioni” nell’esercizio delle proprie funzioni, le ambigue reti di relazioni personali, le convenienze dirette e indirette procurate dal ruolo ricoperto, le dichiarazioni violente e razziste, e via dicendo.
È tornata così, in forme nuove, la consolidata e interessata confusione tra responsabilità penale e responsabilità politica. Quest’ultima è stata praticamente azzerata. Ogni invito a correttezza e senso di responsabilità, ogni richiesta di dimissioni occasionata da azioni socialmente censurabili e sicuramente fonte di discredito per la politica, vengono respinti con protervia: “non è questione penalmente rilevante”. Una formula frutto di miserabile astuzia, che irresistibilmente richiama l’amara ironia di Ennio Flaiano, all’indomani di uno degli scandali del passato, riguardante i terreni sui quali venne poi costruito l’aeroporto di Fiumicino: «scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah” dice “ma non sono in triplice copia!”».
In tempi di dilaganti spinte verso revisioni costituzionali, si deve malinconicamente concludere che una riforma è già stata realizzata con la pratica cancellazione dell’articolo 54 della Costituzione. Nella prima parte di questo articolo si dice qualcosa che può sembrare scontato: “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Costituzione e di osservarne la Costituzione e le leggi”. Ma leggiamo le parole successive. “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Il bel linguaggio della Costituzione non dovrebbe lasciare dubbi. Chi svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono trincerarsi dietro l’affermazione di aver rispettato la legge penale, dunque
di non aver commesso alcun reato. A tutti loro è imposto un “dovere” costituzionale ulteriore, indicato con parole forti, non equivoche — disciplina e onore. Nel momento in cui questo dovere non viene rispettato, i politici perdono l’onore, e con essi perde l’onore la politica. Di questo nessuno si preoccupa più, anzi ogni oligarchia, corporazione, grumo d’interesse fa quadrato intorno ai suoi “disonorati”, alza la voce e così certifica la concreta cancellazione di quella norma della Costituzione. Se così fan tutti, perché meravigliarsi se in una riunione sindacale della polizia si applaudono i condannati e se rimangono senza eco i richiami all’onore provenenti dalla moglie del commissario Raciti assassinato da un ultra calcistico? Ma il riferimento all’onore sembra che abbia diritto di cittadinanza solo in questo ambito. L’Italia, infatti, continua a essere percorsa da condannati illustrissimi continuamente applauditi, che stipulano patti sul futuro del paese.
In tempi di proclamata volontà di “innovazione” proprio di questo si dovrebbe tenere grandissimo conto. Il vuoto della politica, e la sfiducia che così si alimenta, trovano le loro radici profonde proprio nella scomparsa di un’etica pubblica. E invece cadono nell’indifferenza politica quei veri bollettini di guerra che, da anni ormai, sono divenute le cronache di giornali e televisioni, che registrano impietosamente, ma purtroppo anche inutilmente, vicende corruttive grandi, medie e piccole, testimonianza eloquente della devastazione sociale. Il ceto politico distoglie lo sguardo da questa realtà scomoda. E nessun richiamo sembra in grado di scuoterlo. Quando un bel pezzo dell’attuale classe dirigente è convenuta in pompa magna ad una udienza papale, ha dovuto ascoltare una dura reprimenda del Papa proprio sul tema della moralità pubblica. Ma pare che l’unica sua reazione sia stata quella dello sconcerto di fronte alla mancanza di ogni cordialità da parte del Pontefice alla fine di quell’incontro. Così, anche questa vicenda è stata rapidamente archiviata, e tutti sono tornati alle usate abitudini, senza dare il pur minimo segno di qualche intenzione di voler dare un’occhiata al dimenticato
articolo 54.
Ma una politica che ha dimenticato l’ onore, ritenuto forse un inaccettabile segno del moralismo dei costituenti, quale prospettiva può offrire per una azione concreta di ricostruzione dell’etica civile?
«Gli ebook rilanciano i prestiti: più 64 per cento nel 2013. Boom di iscritti al servizio gratuito, tra loro anche manager. In fila per il libro digitale la biblioteca rinasce grazie ai nuovi lettori».
La Repubblica, 6 maggio 2014 (m.p.r.)
Roma. Le biblioteche salvate dall’. Sembra un controsenso: i polverosi scaffali stipati di volumi di carta rilanciati da quei libri impalpabili, compressi in un file e scaricati dal web. Eppure i dati sul prestito elettronico in Italia raccontano una rinascita digitale delle sale di lettura e il ritorno di quegli utenti, istruiti e in carriera, che non ci mettevano piede da anni. Secondo il rapporto della piattaforma MediaLibraryOnline, che sarà presentato giovedì al Salone del Libro di Torino, quelli che oggi leggono sullo schermo titoli presi in prestito sono 320mila e sono cresciuti del 64 per cento rispetto al 2012, diventando quasi uno su dieci di tutti i frequentatori tradizionali delle biblioteche
(4-5 milioni secondo l’Istat).
Il servizio è nato nel 2009: serve 3.900 biblioteche pubbliche, più della metà delle 6.841 legate agli enti locali, e in un paio di anni ha visto moltiplicarsi iscritti e prestiti gratuiti. Nel 2013 i download sono aumentati del 202 per cento, le consultazioni hanno sfiorato i due milioni: 1,8, per la precisione, contro il milione del 2012 e i 400mila scarsi del 2011. Come funziona? Ci si registra in biblioteca, si riceve un account e poi da casa, sull’autobus o in fila dal medico si possono sfogliare giornali e riviste o scaricare ebook, film, dischi da ascoltare. Soprattutto i libri elettronici stanno facendo da traino alla lettura: avvicinano a Marcel Proust o Dan Brown gente che mai prima aveva avuto confidenza con i testi di carta e riportano in biblioteca, almeno virtualmente, quei lettori forti che per mancanza di tempo non ci andavano più. «Se gli utenti tradizionali sono studenti e pensionati, per lo più donne, quelli digitali sono uomini 30-40enni, professionisti che fanno parte della fascia attiva della popolazione» spiega Pieraldo Lietti, coordinatore di Brianza Biblioteche e membro del comitato nazionale dell’Associazione italiana biblioteche. Questi iscritti di ritorno consultano il catalogo la sera tardi, tra le sette e mezzanotte, prendono in prestito in media 24 libri l’anno contro i 17 dei fruitori tradizionali e sempre più spesso leggono in versione “mobile”: aumenta del 17 per cento l’uso dello smartphone.
Più in generale i dati testimoniano una rivoluzione in corso nello stile di lettura. «È più liquida, un’esperienza meno isolata e più sociale: prima di abbandonare definitivamente la carta per l’e-reader gli aspiranti lettori digitali fanno le prove sui tablet, sui cellulari, e ciò indica che c’è una grande curiosità per questo nuovo mondo » continua Lietti. Come c’è una rinata vivacità delle biblioteche: arriva da lì un libro su cinque di tutti quelli letti in Italia. «I numeri crescono in fretta — conferma Giulio Blasi, amministratore delegato di Horizons, la società che gestisce la piattaforma Mlol — gli utenti attivi sono tra il 5 e il 10 per cento di tutti i frequentatori abituali, ma abbiamo stimato che possono crescere fino al 20-30 per cento. Finora tanti potenziali lettori neanche sanno che esiste questo servizio. Si diffonde molto con il passaparola». E, a guardare le zone, anche a macchia di leopardo. Ha una presenza capillare in Lombardia, Piemonte o Emilia Romagna ma èlacunoso al sud e del tutto assente in grandi città come Roma e Napoli, così come in Valle d’Aosta, Liguria, Molise, Basilicata, Calabria. «In Italia c’è una questione meridionale delle biblioteche — continua Blasi — per questo la nostra copertura è molto più radicata al centro-nord».
Nonostante ciò siamo tra i Paesi più avanzati in Europa: «Solo noi abbiamo accordi con tutti i grandi gruppi, l’ultimo l’abbiamo chiuso da poco con Mondadori e ha segnato la presenza sulla piattaforma di tutti i “big five” dell’editoria. Inoltre nel 2012 la percentuale di biblioteche che offrivano era del 44 per cento contro il 4 della Francia e il 16 della Germania ». Il catalogo on line è di 27mila titoli ma entro l’estate dovrebbe raggiungere i 50mila. Una goccia nell’oceano rispetto al milione di titoli offerto negli Stati Uniti: ma là il prestito digitale è arrivato dieci anni prima.
«Tempi presenti. Raccolti da ombre corte i saggi che la filosofa Silvia Federici ha scritto negli ultimi trenta anni di attività. Dalla proposta di un salario al lavoro domestico, all’analisi critica del femminismo della differenza e del rapporto ambivalente tra i processi di riproduzione sociale e sviluppo capitalistico».
Il manifesto, 8 maggio 2014 (m.p.r.)
Il Punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista (ombre corte, pp. 158, euro 15) presenta in un’unica raccolta quasi quarant’anni della riflessione teorica e politica di Silvia Federici, studiosa (ha insegnato presso l’Università di Port Harcourt in Nigeria e la Hofstra University di New York) e soprattutto militante politica femminista. Del 1974 è il saggio che apre il volume, del 2010 quello conclusivo. Tra questi due estremi si collocano processi di trasformazione del capitalismo che rischiano di rendere i testi più datati quasi un souvenir dal passato, a meno di non approfittare di questo scarto temporale per leggere la riflessione di Federici a ritroso, sia per valutare potenzialità e limiti della sua più recente proposta politica, sia per utilizzarla come «grado zero» dei percorsi attuali dei movimenti sociali in modo da vagliare le possibilità reali di resistere alle trasformazioni del capitalismo globale.
Per Federici la messa in comune (commoning) del lavoro riproduttivo, la sua gestione al di fuori delle logiche del mercato, unisce la resistenza opposta dalle donne ai nuovi processi di enclosure nei contesti post-coloniali agli esperimenti di «auto-riproduzione» praticati dai movimenti sociali contemporanei. Orti urbani, cucine di quartiere, movimenti per il free software sono considerati modi – non utopici ma già in atto, benché non integrati in un progetto complessivo condiviso dai movimenti radicali – di sottrarre le condizioni della riproduzione al comando del salario che il capitale impone a quote crescenti della popolazione mondiale attraverso una nuova «accumulazione originaria». In questa resistenza le donne avrebbero un ruolo cruciale non grazie a una loro naturale vocazione, ma in virtù del bagaglio di sapere e dell’esperienza di lotta che hanno storicamente accumulato nel lavoro riproduttivo. Federici opera così un passaggio dal rifiuto alla valorizzazione del lavoro riproduttivo. Il rifiuto segnava la rivendicazione di un salario per il lavoro domestico negli anni Settanta. Il capitale aveva contenuto i costi della riproduzione della forza lavoro trasformando il lavoro domestico in un’attività «naturale» per le donne e perciò non pagata. Pretendere un salario significava «de-sessualizzare» quel lavoro riconoscendolo come tale e non come una componente essenziale di una presunta identità femminile.
Dal rifiuto alla valorizzazione. Politicizzare il lavoro riproduttivo permetteva di considerare le donne come parte della «classe» anche se non erano direttamente coinvolte in un rapporto salariale, in virtù della loro funzione specifica all’interno della divisione del lavoro. Vi è quindi continuità tra rifiuto e valorizzazione del lavoro riproduttivo, perché in entrambi i casi le donne traggono il loro «significato» politico dalla posizione in cui sono collocate dai rapporti capitalistici di (ri)produzione. Per questo, mentre coglie un problema, la critica di Federici al femminismo italiano della differenza risulta essa stessa problematica: pur avendo il merito di aver rifiutato l’assimilazione delle donne agli uomini attraverso l’uguaglianza, il femminismo della differenza ha trasformato quest’ultima in una «natura» femminile da affermare al di fuori di un progetto di trasformazione sociale. Bisogna però domandarsi in che cosa questa trasformazione consista per le donne se la loro «seconda natura capitalistica» – la loro esperienza come «riproduttrici» – è il valore politico da affermare nella prospettiva dei commons. È allora significativo che il «patriarcato» appaia a Federici del tutto assorbito nel rapporto capitalistico.
Violenza sessuale, pornografia, prostituzione e nuove forme di «caccia alle streghe» risultano dunque effetti collaterali della trasformazioni del capitale – benché innescati anche dal rifiuto opposto dalle donne alla divisione sessuale del lavoro – tanto che ogni conflitto sessuale sembra poter essere «risolto» da una consapevolezza del ruolo delle donne nella lotta di classe. Negli anni Settanta la rivendicazione del salario per il lavoro domestico era rivolta non ai mariti ma allo Stato, «l’“Uomo” che trae realmente profitto da questo lavoro»; ora il bagaglio politico delle donne come riproduttrici è una risorsa tanto per le donne quanto per gli uomini, «sia per demolire l’architettura sessuata delle nostre vite, sia per ricostruire le nostre case e le nostre vite come beni comuni».
Nell’indicare la società capitalistica come la causa dell’oppressione delle donne, in ogni caso, Federici fa della loro condizione una chiave specifica per comprendere processi di portata globale. Nei saggi centrali del volume la riorganizzazione delle politiche (ri)produttive nel quadro della globalizzazione è interpretata alla luce della sempre più marcata coincidenza tra divisione sessuale e internazionale del lavoro. La subordinazione delle donne è rovesciata, per dirla con Chandra Talpa de Mohanty, in un «privilegio epistemologico» che sarebbe invece cancellato, secondo Federici, dalle teorie del lavoro «immateriale» che, mentre riconoscono la dimensione «affettiva» di tutto il lavoro, mettono in ombra la specificità di quello riproduttivo.
I commons, infatti, rischiano di cristallizzare un’associazione tra donne e natura in chiave anti-tecnologica che fa il paio con una concezione dei rapporti sociali più rivolta verso il passato che non capace di misurarsi con le contraddizioni del presente. Se è vero – come ammette Federici – che il vantaggio della teoria di Negri e Hardt è quello di considerare la produzione del comune come immanente all’organizzazione capitalistica del lavoro, allora è difficile considerare i commons come un «fuori» dal capitale o dal mercato senza farne enclave la cui possibilità di esistenza dipende dalla loro irrilevanza politica – zone franche perché indifferenti per il capitale – o dalla loro funzione di calmieramento degli effetti della crisi proprio come l’economia di sussistenza delle donne del Terzo mondo aveva «ammortizzato» gli effetti della globalizzazione. Non stupisce, perciò, che per Federici i limiti di Marx siano superati grazie a un riferimento all’anarchismo di Kropotkin o al socialismo utopistico.
Una versione più ampia di questa recensione si può leggere sul sito Internet: www.connessioniprecarie.org
Una critica convincente a una «visione idealistica» di una parola ("comune") fondamentale per costruire un futuro umano. Il libro di Pierre Dardot e Christian Laval su Prudhon è «una vera e propria liquidazione del materialismo storico, della critica marxista dell’economia politica del capitalismo maturo, in nome di un nuovo "principio"».
Il manifesto, 6 maggio 2014
Un preciso quadro ideale viene presentato e discusso a questo scopo – esso parte «dalla priorità del comune come principio di trasformazione del sociale, affermata prima di stabilire l’opposizione di un nuovo diritto d’uso al diritto di proprietà». Di seguito, si stabilisce che «il comune è principio di liberazione del lavoro, poi che l’impresa comune e l’associazione debbono prevalere nella sfera dell’economia». Si afferma inoltre «la necessità di rifondare la democrazia sociale, così come il bisogno di trasformare i servizi pubblici in una vera istituzione del comune. Infine, è stabilita la necessità di formare dei comuni mondiali e a questo fine di inventare una federazione globale dei comuni».
Una visione idealistica
Questa esplicitazione politica del principio del «comune» è preceduta da un lungo lavoro di analisi critica e costruttiva che si sviluppa in due tempi. Un primo — «L’emergenza del comune» — consiste nel ricostruire il contesto storico che ha visto affermarsi il nuovo principio del comune e nel criticare i limiti delle concezioni che ne sono state date in questi ultimi anni, tanto da economisti, filosofi e giuristi, quanto da militanti. Una seconda parte — «Diritto e istituzione del comune» — vuole più direttamente rifondare il concetto del comune situandolo sul terreno del diritto e dell’istituzione. Il libro, che nasce dall’attraversamento di un seminario — «Du public au commun» (sviluppatosi in maniera ampia e contraddittoria nel Collège International de Philosophie dal 2011 al 2013) – approfondisce l’idea di comune riferendosi fondamentalmente a quella corrente del «socialismo associazionista» che da Proudhon risale a Jean Jaurès e a Maxim Leroy, e va poi fino a Mauss e Gurvitch, e infine all’ultimo Castoriadis (quello della «Institution imaginaire du social») — senza mai sottrarsi al tentativo di assorbire qualche tratto del pensiero marxiano dentro questo sviluppo «idealistico» della progettazione di un socialismo prossimo venturo.
Su questa scena idealista tira un gelido vento – un pessimismo forte, quasi una rassegnata constatazione che la produzione di soggettività da parte capitalista sia materialmente implacabile e storicamente irresistibile. Di fronte, stanno la sottomissione dei lavoratori e l’interiorizzazione del comando, sempre più dura nell’epoca del capitale cognitivo – come vorrebbe l’attuale scienza del management e come testimonierebbe la nuova sofferenza provata dai lavoratori stessi (psicologia del lavoro adjuvante). Allora, «comune» che cos’è più? Una comunanza di sofferenza? Oppure un dio che deve salvarci?
A mio parere, per riagganciare il concetto di «comune», occorre indubbiamente cominciare seguendo una via analoga a quella percorsa da Dardot-Laval. La critica che essi conducono della nozione di «comune» nella figura teologica, giuridica, ecologica – insomma in tutte le forme di oggettivazione/reificazione che si ripetono instancabilmente a questo proposito – ed anche di quella filosofica che tende a banalizzare il «comune» nell’«universale» — è una giusta via. Un vero concetto di «comune» può darsi solamente come prodotto di una praxis politica cosciente e quindi comporsi in un processo istituente, in un dispositivo di «istituzioni del comune». Il «comune» trova la sua origine non in oggetti o condizioni metafisiche ma solo in attività.
Oltre la tragedia dei commons
In questo quadro la critica che Dardot-Laval conducono della ecologia dei commons di Elinor Ostrom è indubbiamente magistrale poiché ne chiarisce la natura liberale e individualistica – dove un sistema di norme è posto per far fronte alla «tragedia dei commons», per salvaguardarne cioè l’accessibilità e la preservazione, da parte capitalista, in quanto supposti «beni naturali». Seguendo la via indicata da Dardot-Laval ci si trova tuttavia presto davanti ad un bivio – che si apre quando si avverte che il comune non è semplicemente prodotto di attività generica (antropologica e sociologica) ma prodotto di attività produttiva. Qui il confronto con Marx diviene inevitabile e decisivo. Dardot-Laval sembrano tuttavia essere travolti dalla complessità della questione. Da un lato infatti sono sospinti dalla loro ipotesi radicalmente de-sostanzializzatrice (idealista?) del comune, a sottovalutare la stessa dimensione «sociale» del «comune» — anche di quella proposta da Proudhon; dall’altro ad accusare i marxisti che hanno affrontato il tema del «comune» (tenendo ben presente la nuova figura «sociale» dello sfruttamento) di essere «inconsciamente» proudhoniani. Vediamo come si pone il problema con qualche appunto che vada oltre questa confusione. È a tutti evidente (e senza dubbio anche a Dardot-Laval) che lo sviluppo capitalistico ha attinto un livello di «astrazione» (nel senso marxiano della definizione del valore) e, quindi, una capacità di sfruttamento che si estende sulla società intera. Dentro questa dimensione dello sfruttamento si costruisce una sorta di «comune perverso», quello di uno sfruttamento che si esercita sopra e contro l’intera società. Sulla vita intera. Il capitale è divenuto un biopotere globale. A Dardot-Laval, l’avvertire questa globalità ed invasività del biopotere, ovvero la potenza del «comune perverso», richiama le ragioni della critica della teleologia denunciata nel socialismo marxista, quasi che il dato del biopotere costituisse una nuova deriva teleologica – ma la corretta sottolineatura del limite marxiano nell’analisi dialettica dello sviluppo capitalistico, può forse cancellare o farci dimenticare le dimensioni attuali del biopotere capitalista?
La critica che Dardot-Laval fanno dello «sfruttamento per depossessione» di David Harvey e di tutte le analisi neo-marxiste che hanno intravisto nel modello marxiano del «accumulazione originaria» analogie con quanto sta avvenendo ora a livello globale – cioè uno «sfruttamento estrattivo» — è equivoca perché nega il problema, nel mentre ne critica la soluzione. E lo è tanto più perché ignora totalmente la funzione del capitale finanziario (o addirittura la funzione produttiva di denaro, interesse e rendita) quando accusa altri autori marxisti – attenti alla ricomposizione della rendita come strumento di sfruttamento e nuova figura del profitto – di aver ridotto (proudhonianamente) il profitto a «furto» di un comune sostanzializzato, «cosale».
Un furto di pluslavoro
Qui la posizione di Dardot-Laval sembra dimenticare, nel fuoco della critica, i lineamenti più elementari del pensiero marxiano – ed in particolare che il capitale non è un’essenza indipendente, un Leviatano, ma un rapporto produttivo di sfruttamento. E che, nella condizione attuale, il capitale finanziario investe un mondo produttivo socialmente organizzato, accumulando nelle trafile dell’estrazione di plusvalore sia lo sfruttamento diretto del lavoro operaio, sia la depossessione dei beni naturali, dei territori e delle strutture del Welfare state, sia l’estrazione indiretta di plusvalore sociale, attraverso l’esercizio della dominazione monetaria. Se si vuole chiamare «furto» tutto ciò, non mi scandalizzerei – non si è proudhoniani perché si usa quella parola, quando si dà ad essa il significato che oggi il capitale le dà: cioè un modo di accumulazione direttamente innestato sulle nuove forme del processo lavorativo e della sua socializzazione – sia nella dimensione individuale sia nella sua figura associativa. Quando Marx dice che il capitalista si appropria dell’eccedenza di valore che la cooperazione fra due o più lavoratori determina, non nega di certo che nello stesso tempo il capitale si sia appropriato anche del pluslavoro dei singoli lavoratori. Il «furto» integra lo sfruttamento di pluslavoro e rende il capitale ancor più indecente di quanto sia sempre stato nello sviluppare la produzione.
Nel Marx di Dardot-Laval si sentiva correre una vena foucaultiana (intendo con ciò un approccio storico attraversato dall’attenzione alle soggettività agenti). Ora, questa vena è sfiorita – sfiorendo, essa si è portata via anche il frutto, che era una considerazione vivace e dinamica della storia del capitalismo. Qui c’è – in assenza di una metodologia storicamente riflessiva – un approccio senz’altro durkheimiano (forse addirittura categoriale, kantiano) allo sviluppo capitalista. Il capitale sembra una macchina atemporale e onnipotente. La «sussunzione reale» non è vista come conclusione di un processo storico ma considerata solamente come figura del processo di «riproduzione allargata» del capitale.
Senza la classe e il capitale
Accanto a ciò, tuttavia, una certa storicità è reintrodotta nel considerare – in maniera storicamente distesa – l’efficacia distruttiva (sempre più realizzata) nella produzione capitalista delle/sulle soggettività al lavoro. La lotta di classe non esisterebbe più. Questa sembra essere l’ipotesi conclusiva di una concezione che ha cominciato con l’escludere la lotta di classe – marxianamente intesa – dalla costituzione del concetto di capitale. Sembra che la de-materializzazione del «comune», così pesantemente condotta (e l’esclusiva definizione del «comune» come «azione», come principio di attività), implichi in maniera corrispettiva la de-materializzazione della «lotta di classe» — come se anche l’esasperata insistenza su una produzione capitalista di soggettività lavorative, interiormente assoggettate al comando, implicasse la negazione della soggettività produttiva come tale.
Ma senza soggettività produttiva non c’è neppure concetto di capitale. Così va a finire che davanti al mutamento storico dello sfruttamento (qui incompreso); di fronte al definirsi del capitale sempre più come «potere sociale» (qui negato); di fronte ad una così estesa emergenza del «comune», imposta dal realizzarsi di un nuovo modo di produzione (e si noti che quest’emergenza ha già determinato nuove forme del processo lavorativo) – dinnanzi a tutto ciò si dimentica che solo il «lavoro vivo» è produttivo. Che solo la soggettività è resistente. Che solo la cooperazione è potente. Che il comune non è, dunque, semplicemente «attività», ma attività produttiva di ricchezza e di vita – e trasformatrice del lavoro. Il comune non è un ideale (può anche esserlo) ma è la forma stessa nella quale la lotta di classe oggi si definisce. Chiediamo a Dardot e Laval: se il comune non è oggi un desiderio impiantato nella critica dell’attività produttiva, e se solo brilla davanti alla nostra coscienza rincitrullita dalla violenta penetrazione del biopotere, se è semplicemente un «principio» – che cosa mai ci impone di lottare? Dardot e Laval sembrano rispondere che il principio del comune è una categoria dell’attività, dell’istituzione – esso non si fonda sul reale ma fonda il reale – non lo si conquista ma (essi lungamente argomentano – ed il concetto andrà altrove ripreso) eventualmente lo si amministra. Perché dunque lottare?
Oltre ogni critica, questo libro riapre il dibattito sul comune e nessuno stupirà che così si sia riaperto anche il dibattito sul comunismo
«Si è venuta a determinare una situazione paradossale, costituzionalmente insostenibile. Se il Senato dovesse effettivamente approvare la legge elettorale prima della conclusione dell’incerto percorso di riforma del bicameralismo, ci troveremmo con due complessi normativi per l’elezione dei due rami del Parlamento tra loro totalmente incompatibili».
Il manifesto, 6 maggio 20014
Sembra che l’«autonomia del politico», dopo aver consumato un forte distacco dalla società, stia ora cercando di affrancarsi anche dal diritto. Un’impressione che, da ultimo, trova conferma nel dibattito sulle riforme istituzionali, dove i principali compromessi politici sono stati raggiunti tutti a scapito delle ragioni del diritto, delle sue regole di rigore e logica.
Basta pensare al delicato intreccio che tiene unite la riforma elettorale e quella costituzionale, che rappresenta — a quel che è dato sapere — la base del misterioso “patto del Nazzareno”. Da un lato le forzature ipermaggioritarie e incostituzionali per favorire i due principali competitori (il giorno della sottoscrizione del “patto” Renzi e Berlusconi, oggi non è più così), dall’altro la scelta di non far più eleggere direttamente i senatori. Quest’accordo politico — peraltro assai precario — ha creato un mostro giuridico. Com’è noto, infatti, al fine di manifestare il “sostegno” di tutti al complesso delle riforme proposte, nel corso della discussione alla Camera, è stato deciso (da Pd e FI, ma con il consenso anche di varie minoranze interne) che l’approvazione delle norme elettorali dovesse riguardare esclusivamente la Camera, dacché i membri del Senato, dopo la riforma costituzionale e nel rispetto del “patto”, non saranno più eletti direttamente.
Dal punto di vista politico a me sembra già un’aberrazione: come si può giustificare che prima di ogni discussione parlamentare, prima ancora della presentazione del disegno di legge costituzionale in materia, si imponga una scelta obbligata di non elettività della seconda Camera? I fatti di questi giorni, che hanno rimesso in discussione proprio i criteri di elettività dei futuri senatori, stanno mostrando il fiato corto di questa così ardita e apparentemente radicale scelta politica. Ma è sul piano giuridico che si sono prodotti gli effetti più negativi. Si è venuta, infatti, a determinare una situazione paradossale, costituzionalmente insostenibile. Se il Senato dovesse effettivamente approvare la legge elettorale prima della conclusione dell’incerto percorso di riforma del bicameralismo, ci troveremmo con due complessi normativi per l’elezione dei due rami del Parlamento tra loro totalmente incompatibili che farebbero venir meno le stesse finalità di governabilità così ardentemente perseguite dalla maggioranza di larghe intese. Quest’esito palesemente irragionevole e, dunque, incostituzionale non verrebbe meno neppure se, in seguito, si approvasse una riforma del bicameralismo perfetto, fosse anche la più radicale, ma che non prevedesse specificatamente l’esclusione dell’elettività diretta di tutti i senatori.
Dunque, una blindatura di un patto politico (tra Renzi e Berlusconi) che appare fondato esclusivamente su fragili interessi politici personali, che si sono rivelati immediatamente errati: Forza Italia non è più il secondo partito e non può più sperare di sfruttare a suo vantaggio le distorsioni maggioritarie (non le rimane che sperare nel gioco delle soglie di accesso per attirare alleati recalcitranti) e il Partito democratico non troverà una sintesi se non rinnegando il principio della non elettività dei senatori. Quel che rimane è però il mostriciattolo giuridico — che non sarà facile debellare — che è stato generato da un accordo senza diritto. Non è questa vicenda un’espressione assai significativa del divorzio tra le ragioni della politica e le logiche del diritto?
D’altra parte, le fondamenta stesse su cui si sta costruendo l’autonomia della politica dal diritto sono deboli. Non dovrebbe sfuggire, infatti, che le «decisioni» del potere politico, alla fine, dovranno tornare a fare i conti con la grande regola dello «stato di diritto». Nel nostro ordinamento democratico proprio al diritto costituzionale spetta l’«ultima parola». Nessuno può allora illudersi che un accordo politico – oltretutto contestato — possa rappresentare un salvacondotto in sede di giudizio di costituzionalità. E l’incostituzionalità della legge elettorale che si vuole approvare è palese. Non è difficile prevedere sin da ora la sua sorte ove arrivasse alla Consulta. Ma, ancor prima, c’è da considerare che una legge fonte di gravi irrazionalità di sistema, inidonea persino a raggiungere l’obiettivo perseguito della stabilità delle maggioranze parlamentari, foriera pertanto di una possibile paralisi del sistema politico e parlamentare, che finisce per condizionare molti dei poteri presidenziali, quello di scioglimento in particolare, è ad alto rischio di non vedere mai la luce. Non scommetterei, infatti, sulla sua promulgazione da parte del capo dello Stato.
Viene naturale allora interrogarsi sulla ragione di queste forzature. È lo sguardo corto — sempre più corto, ormai quasi cieco — della politica che spiega le spericolate operazioni cui stiamo assistendo. Esagerazioni motivate della debolezza in cui versa una politica arrogante. Quando non si sa cosa fare e non si hanno chiare strategie politiche da seguire, non si può far altro che alzare la voce per cercare di far valere gli interessi del momento.
Fragilità della politica che è un carattere dei tempi nostri e sembra non salvare nessuno.
Se valutiamo quel che è successo sull’altro fronte delle riforme istituzionali, quello della trasformazione del nostro sistema bicamerale, ritroviamo, purtroppo, conferme drammatiche di come le ragioni della politica ormai non riescano più a conciliarsi con le logiche del diritto.
Se può dirsi che il dibattito sulla legge elettorale è stato pressoché inesistente e in sede parlamentare tutte le richieste di cambiamento sono state frustrate, non altrettanto è avvenuto con riferimento al disegno di legge costituzionale presentato dal governo sulla trasformazione del Senato. Anzi, com’è noto, alla commissione affari costituzionali il progetto del governo era a un passo dal fallimento, non avendo trovato il consenso necessario proprio la richiesta concernente la non elettività diretta dei senatori. Ebbene, nel vuoto del diritto, è stato possibile assistere ad un colpo di teatro, che ha ottenuto un consenso politico pressoché unanime. Matteo Renzi, al quale nessuno può negare capacità spettacolari e velocità di movimento, ha sparigliato, proponendo egli stesso un sistema di elezione diverso. Ha sostenuto di voler lasciare che ogni Regione possa stabilire le modalità d’elezione dei propri senatori, aggiungendo che in fondo non c’era da impiccarsi sulla data di approvazione (ancorché — s’intende — nessuno potesse mettere in discussione la “velocità” come mito fondante l’immaginario del nuovo governo). Un coro di consensi ha accompagnato la brillante operazione politica, ed anche i commentatori più distanti hanno apprezzato l’apertura, mentre solo gli “irriducibili” hanno auspicato ulteriori aperture.
Non ho udito nessuno dire quel che a tutti è chiaro: il sistema suggerito non ha nessun senso giuridico e non potrà mai trovare una sua coerente applicazione. A prendere sul serio il compromesso politico enunciato — ma non chiarito — dal presidente del consiglio bisognerebbe ritenere che l’organo senatoriale potrebbe essere composto, del tutto irrazionalmente, a seguito delle differenti scelte di ogni ente territoriale, magari mettendo caoticamente assieme elettività diretta e indiretta, rappresentanza istituzionale e popolare. Ovviamente nessuno ritiene che questo possa essere l’esito. L’ipotesi che circola in queste ore di non modificare il testo base, ma di affiancargli l’approvazione di un ordine del giorno di segno opposto, oltre ad essere un’innovazione assai spregiudicata dei precedenti parlamentari, segnala l’indeterminatezza della proposta, ovvero la sua impraticabilità costituzionale. Malgrado ciò, si tende ad apprezzare la ragione politica che ha indotto a fare una proposta di apertura alle opposizioni. Poi si vedrà. Forse si riuscirà in seguito a dare un senso alla riforma costituzionale che, per ora, un senso non ne ha.
Sono in molti a sostenere che sia questo un atteggiamento pragmatico, politicamente opportuno in tempi difficili in cui non ci si vuole o può opporre al vento tempestoso e confuso del cambiamento. Non voglio esprimere giudizi di natura propriamente politica, ritengo tuttavia, semplicemente, che se il costo dovesse essere rappresentato dalla negazione della logica del diritto e della costituzione, non credo sia un prezzo che si possa pagare a nessuna ragione politica
La posizione di un gruppo di autorevoli economisti francesi. Un fruttuoso terreno di confronto per le forze europeiste che (come la lista” L’altra Europa con Tsipras”) si battono per il primato della politica sulla finanza. La Repubblica, 6 maggio 2014 .
LA QUESTIONE centrale è semplice: la democrazia e le autorità pubbliche devono essere messe nella condizione di poter riacquistare il controllo del capitalismo finanziario globalizzato del XXI secolo e di regolamentarlo in maniera efficace. Un’unica valuta con 18 debiti pubblici diversi sui quali i mercati possono speculare liberamente, e 18 sistemi fiscali e benefit in competizione incontrollata tra di loro non funziona, e non funzionerà mai. I paesi della zona euro hanno scelto di condividere la loro sovranità monetaria, e quindi di rinunciare all’arma della svalutazione unilaterale, ma senza mettere a punto nuovi strumenti economici, fiscali, e di budget comuni. Questa terra di nessuno è il peggio di tutti i mondi immaginabili. Troppo spesso l’Europa odierna ha dimostrato di essere stupidamente invadente su questioni secondarie (come il tasso dell’Iva dei parrucchieri e dei club ippici) e pateticamente impotente su quelle davvero importanti (come i paradisi fiscali e la regolamentazione finanziaria).
Dobbiamo invertire l’ordine delle priorità: meno Europa per le questioni nelle quali i paesi membri agiscono bene da soli, più Europa quando l’unione è essenziale. In concreto, la nostra prima proposta è che i paesi della zona euro, a cominciare da Francia e Germania, condividano la Corporate Income Tax (Cit, imposta sul reddito d’impresa). Ogni paese, preso a sé, è raggirato dalle multinazionali di tutti i paesi, che giocano sulle scappatoie e le differenze esistenti tra le legislazioni delle varie nazioni per evitare di pagare le tasse. Per combattere questa “ottimizzazione fiscale”, un’autorità sovrana europea necessita di poteri che le consentano di fissare una base fiscale comune quanto più ampia possibile e quanto più strettamente regolata. Oltre a ciò è necessario universalizzare lo scambio automatico delle informazioni bancarie all’interno della zona euro e fissare una politica concertata che renda la tassazione del reddito e della ricchezza più progressiva, e al tempo stesso è indispensabile combattere insieme e uniti una battaglia efficace contro i paradisi fiscali esterni alla zona. L’Europa deve contribuire a portare la giustizia tributaria e la volontà politica nel processo di globalizzazione.
La nostra seconda proposta scaturisce direttamente dalla prima. Per approvare la base fiscale della Cit e più in generale per discutere e adottare le decisioni fiscali, finanziarie e politiche su ciò che si dovrà condividere in futuro in modo democratico e sovrano, dobbiamo dare vita a una camera parlamentare per la zona euro. Potrà essere un parlamento dell’eurozona, formato da membri del parlamento europeo dei paesi interessati (una sotto-formazione del parlamento europeo ridotto ai soli paesi della zona euro), oppure una nuova camera basata sul raggruppamento di una parte dei membri dei parlamenti nazionali (per esempio 30 parlamentari francesi dell’Assemblea Nazionale, 40 parlamentari tedeschi del Bundestag, 30 deputati italiani, e così via, in base alla popolazione di ciascun paese).
Noi crediamo che questa seconda soluzione, la cui idea si ispira alla “camera Europea” proposta da Joschka Fischer nel 2011, sia l’unica alternativa per dirigerci verso l’unione politica. È impossibile esautorare del tutto i parlamenti nazionali dei loro poteri di stabilire le imposte. Ed è precisamente sulla base di una sovranità parlamentare nazionale che si può forgiare una sovranità parlamentare europea condivisa. In base a tale proposta, l’Unione europea avrebbe due camere: il parlamento europeo esistente, direttamente eletto dai cittadini dell’Ue dei 28 paesi, e la camera europea, in rappresentanza degli stati tramite i loro stessi parlamenti nazionali. La camera europea in un primo tempo coinvolgerebbe soltanto i paesi della zona euro che vogliono realmente indirizzarsi verso una maggiore unione politica, fiscale e di budget. Questa camera, tuttavia, dovrebbe essere concepita in modo tale da accogliere tutti i paesi dell’Ue che accetteranno di percorrere insieme questa strada. Un ministro delle finanze dell’eurozona, e in definitiva un governo europeo vero e proprio, risponderebbero del loro operato alla camera europea.
Questa nuova architettura democratica per l’Europa renderebbe finalmente possibile superare il mito secondo cui il concilio dei capi di stato può fungere da seconda camera in rappresentanza degli stati. Questa ingannevole concezione riflette l’impotenza politica del nostro continente: è impossibile per una persona sola rappresentare un intero paese, a meno di rassegnarsi all’impasse permanente imposta dall’unanimità. Per dirigersi una volta per tutte verso la regola della maggioranza per le questioni di ordine fiscale e di budget conta che i paesi della zona euro scelgano di condividere, ed è necessario creare un’autentica camera europea, nella quale ogni paese sia rappresentato non dal suo solo capo di stato, ma dai membri che rappresentano tutte le opinioni politiche.
La nostra terza proposta affronta direttamente la crisi del debito. Noi siamo convinti che l’unico modo di lasciarci tutto ciò definitivamente alle spalle sia di mettere in comune i debiti dei paesi della zona euro. In caso contrario, le speculazioni sui tassi di interesse riprenderanno e continueranno. Questo è anche l’unico modo per la Banca Centrale Europea per attuare una politica monetaria efficace e reattiva, come fa la Federal Reserve degli Stati Uniti. Di fatto l’operazione di messa in comune del debito è già iniziata con il Meccanismo Europeo di Stabilità, l’emergente unione bancaria e il programma di transazioni monetarie della Bce. È necessario adesso andare oltre, continuando a chiarire la legittimità democratica di questi meccanismi.
Oltre a Thomas Pikety, autore del volume “Le capital au XXIe siècle”, direttore della Scuola di alti studi in scienze sociali e professore presso la Scuola di economia di Parigi, hanno firmato il manifesto Florence Autret scrittore e giornalista, Antoine Bozio direttore dell’Istituto di politica pubblica, Julia Cagé economista presso l’università di Harvard e la Scuola di economia di Parigi, Daniel Cohen professore all’École Normale Supérieure e della Scuola di economia di Parigi Anne- Laure Delatte economista Brigitte Dormont professore, Università Paris Dauphine, Guillaume Duval direttore di “Alternatives Economiques” Philippe Frémeaux presidente dell’Istituto Veblen, Bruno Palier direttore della ricerca Istituto di studi politici di Parigi, Thierry Pech direttore generale di Terra Nova, Jean Quatremer giornalista, Pierre Rosanvallon professore, Collège de France, Xavier Timbeau direttore dei dipartimenti di analisi e previsioni, Istituto di studi politici di Parigi, Laurence Tubiana professore, Istituto di studi politici di Parigi, presidente dell’Istituto per lo sviluppo sostenibile e le relazioni internazionali
Il testo è un estratto del manifesto pubblicato dal Guardian; Traduzione di Anna Bissanti
Dubbi sull'euro. «l nuovo libro di Luigi Zingales è una lunga riflessione sul passato e sul futuro dell’euro e dell’economia italiana. Errori di partenza e problemi dovuti a una specializzazione produttiva impermeabile alla rivoluzione delle nuove tecnologie»
Lavoce.info, 6 aprile 2014 (m.p.r.)
L’Italia e l'euro. L’argomento più importante di cui si dibatte in questa campagna elettorale per le elezioni europee del prossimo 25 maggio è senza dubbio l’euro. Alcuni partiti fanno dell’uscita dalla moneta unica il loro principale punto programmatico. Altri promettono di chiamare gli italiani a decidere sulla questione mediante un referendum. Qualche talk show propone addirittura un settimanale scontro gladiatorio, seppure con armi d’impatto limitato come lavagne e pennarelli, tra esponenti pro o contro l’euro. È perfetto allora il tempismo con cui è stato pubblicato il nuovo libro di Luigi Zingales, “Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire”. Non è un vezzo dire che l’autore non ha bisogno d’introduzione. Mi limito a ricordare che è l’attuale presidente della prestigiosissima American Finance Association.
Uscire o no? Un'analisi costi-benefici. Zingales cerca di effettuare un’analisi costi-benefici della scelta di restare o uscire dall’euro. E parte ricordando che i costi del restare non sono trascurabili. L’incapacità di usare il meccanismo della svalutazione della moneta rende più lungo e doloroso il processo di riequilibrio dell’economia italiana, prolungando la recessione e portando la disoccupazione a livelli elevatissimi. Per ridare competitività alle economie dei paesi della periferia europea sarebbe importante che il livello dei prezzi della Germania aumentasse più velocemente di quello italiano e spagnolo. L’alternativa è una dolorosissima deflazione nei paesi periferici, prospettiva ormai concreta. Purtroppo, i governanti tedeschi sembrano del tutto refrattari a queste ipotesi e la Germania condiziona pesantemente anche le azioni della Bce, impedendole di attuare le stesse politiche di quantitative easing usate da Fed, Bank of England e Bank of Japan.
Luigi Zingales, Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire, Rizzoli (2014), pp. 206
A 22 anni Enrico Berlinguer fu ristretto in carcere per 100 giorni, per aver partecipato a una protesta contro il carovita e contro il governo Badoglio (quello che, l'8 settembre 1943, dopo l'armistizio dell'Italia con gli Alleati, aveva proclamato "la guerra continua", a fianco dei nazisti). La Repubblica, 5 maggio 2014
Stralci dalle lettere dal carcere
di Enrico Berlinguer
CARISSIMI , sto sempre bene. Non drammatizzate la mia situazione e non accoratevi troppo. Si capisce bene che il carcere non è il paradiso, ma io sento di poterlo sopportare e superare con fermezza e serenità di spirito.
La maggior parte delle mie giornate trascorre in letture e soprattutto studio («Capitale», inglese, ecc.); talvolta mi prende un certo desiderio per la libertà, ma si tratta di qualcosa di nostalgico e di pacato che non procura dolore morale alcuno: anzi, talvolta, dopo 2, 3, 4 ore di lettura mi dà come un senso di riposo. Sono sempre quindi bene in salute e tranquillissimo d’animo. Ho letto con piacere notizie e giornali di Bari. Discorreremo dei particolari a voce e speriamo che in quel tempo l’eco del congresso non sia ancora spenta.
Per l’interrogatorio va bene; però, per quanto riguarda le riprovazioni da me rivolte agli accusatori, ho qualche dubbio per il fatto che mancherebbero assolutamente le prove; anzi ti confesso che alcuni non li ricordo neppure di vista o quasi. E ora i «bisogni». I pasti che mi state propalando vanno in genere bene, come quantità e qualità. Mandate però meno vino: ricordatevi che il thermos deve essere pieno, se no il the si raffredda. Biancheria per ora nulla. Libri ne ho e non me ne occorrono altri. Se la prigionia si prolungherà, bisognerà che mi mandiate in seguito i libri di studio per gli esami che vi indicherò. Se possibile (ma non credo) vorrei poter finire il mio lavoro sul comunismo. Ma se non si può, non mandate di nascosto perché mi sarebbe impossibile lavorare in tal modo.
Mandate sempre «L’Isola» (quotidiano di Sassari, ndr), anche arretrata (dal 30/1 compreso) e notizie. Baci.
*** Carissimo, la tua linea di condotta trova la mia pie- na approvazione. Non voglio che la libertà mi sia restituita come elemosina, e dopo un mese di prigionia. Spero che anche i miei compagni siano d’accordo. Ti potevi limitare – come hai fatto – a sollecitare l’istruttoria e chiedere che sia giusta. In fondo, star qui ancora una o due settimane (sebbene io creda si tratti di più) non mi dà per niente il sentimento di essere eroico. Coloro che associano il proprio destino a quello di un partito avanzato devono essere pronti a passare in prigione un certo periodo di tempo. È una cosa normalissima e non voglio che si facciano grandi montature. Sarebbe ridicolo. Mi fa piacere che il Partito italiano d’Azione sia d’accordo con noi. [...] *** Carissimi, oggi (21, trentaseiesimo «jour de la lutte pour ma liberation»), ho finalmen- te ricevuto i libri che mi saranno utilissimi. Non capisco quali difficoltà procedurali ci fossero, questa volta. Nonostante il seccante (intenzionale?) ritardo del giudice, godo sempre di buon umore. In certi momenti, non fissabili cronologicamente, sento naturalmente un vivissimo anelito alla libertà; ma, come vi ho già detto altra volta, si tratta di un sentimento sereno, pacato, consolante. Talvolta poi mi sorprendo a pensare che, considerata sotto «certi» aspetti, in «particolari » circostanze, la vita carceraria ha i suoi vantaggi per me. Ma ho deciso che fra 2 o 3 giorni vi (o mi?) scriverò una lunghissima lettera con riflessioni sulle «Mie prigioni». Ho già in serbo 6 o 7 pensieri profondi, e uno profondissimo (modestia a parte). In questi giorni ho imparato a memoria in inglese il celebre monologo di Amleto, non perché la mia situazione psicologica abbia affinità con quella di Hamlet, ma perché il brano è veramente sublime. In 33 versi sta il dramma – perfettamente definito in sé – di ogni uomo. È eterno.
*** Carissimo papà, ho ricevuto lettere tue, di Pintus (Cesare, dirigente della sezione comunista, ndr) e di Giovanni. […] Giovanni poi mi prospetta un dubbio filosofico, in un modo invero assai strano. Infatti, egli crede che alcune parole ben congegnate possano costruire o demolire delle teorie filosofiche. Ad ogni modo gli risponderò, perché mi dà sempre un certo fastidio vedere dei materialisti (il materialismo è la teoria più ingenua che esista) e perché credo di possedere buoni argomenti. Il positivismo di Sergio poi mi sorprende; ma penso che in terza liceo ero anch’io positivista, ma in fondo penso che di tutte queste cose potremo meglio discutere a voce. Forse le lettere di Giovanni, Sergio e le altre semi-filosofiche di altri parenti non sono che un espediente per costringermi a esaurire in brevi lettere le discussioni e far sì che poi non se ne discuta fuori a voce. Riguardo ai libri (senza entrare in una discussione anche su questo: come vedi, sto evitando un gran numero di discussioni), ho ancora da leggere vari libri «cerebrali». Qui ci danno circa 2 libri alla settimana, ma sono in genere molto stupidi e più pesanti quindi degli intelligenti. I libri «cerebrali » non mi stancano, ma la notte dopo cena preferisco leggere qualcos’altro. Quindi accetto praticamente il tuo consiglio. Scegli tu libri da mandare: li desidererei in francese (per esempio Listz, Danton ecc...) e anche qualche bel romanzo. Inoltre, vedi se potete trovare il piccolo dizionario inglese-italiano (credo che si trovi nell’ultimo scaffale della libreria). Se non trovate il piccolo, «non» mandate il grande, almeno fino a che non avrò il permesso di scrivere gli appunti.
E per oggi (cinquantatreesimo giorno) basta. Sto sempre bene.
Baci. Enrico.
*** Cara zia Carmelia, ti ringrazio delle due cartoline, stranamente prive di consigli di prudenza e di «dicono». Non ti meravigliare se Dio non esaudisce i tuoi voti. In generale, non esaudisce neppure quelli del Papa, che pare sia suo intimo. La Provvidenza persegue le sue vie e i suoi mezzi sono a noi inscrutabili.
«L’unica cosa che noi possiamo sapere – diceva un filosofo, uno di quei veri filosofi che avevano la barba lunga – è che noi non sappiamo nulla. E neanche di questo possiamo essere certi». Come vedi, fare il filosofo giova poco, e conviene meglio darsi all’ippica. Eppure, certe cose le possono sapere soltanto i filosofi.
Saluti e baci. Enrico
dal libro: Walter Veltroni, Quando c’era Berlinguer (Rizzoli)
«Siamo sul baratro d’una guerra europea. Vanno in fretta i carri armati del governo di Majdan. Devono sventare il referendum convocato per l’11 maggio nelle città della regione orientale del Donbass sull’indipendenza ».
Il manifesto, 4 maggio 2014
Un massacro che non ferma la repressione. Anche se a praticarla sono gli stessi che si sono legittimati per quattro mesi denunciando, in un coro greco di media, la repressione di piazza Majdan. È voluta dal nuovo potere autoproclamato a Kiev, dove è operativo, ha comunicato Obama, John Brennan il capo della Cia esperto in «guerre coperte» (e sotto inchiesta negli Usa per avere ostacolato il lavoro della Commissione del Senato sulle torture). Ma quando mai i carri armati possono convincere una parte consistente del popolo ad andare a votare per obiettivi che considera ostili? E del resto chi, con la politica, li ha convinti del contrario?
Eppure sembra troppo tardi. Nonostante i rivoltosi filorussi abbiano liberato gli osservatori dell’Osce sequestrati. Fatto che sottolinea due elementi: che la pressione di Putin sui filorussi ha potuto di più dell’offensiva militare ucraina, perché la Russia altrimenti rischia di essere, nolente, coinvolta direttamente più che in Crimea; e che l’Osce ha storiche ambiguità. Basta ricordare la missione Osce in Kosovo, decisa nell’ottobre 1998 dall’Onu per monitorare il conflitto tra la repressione di Milosevic e le milizie dell’Uck: il capo della missione, l’americano William Walker, inventò di sana pianta la strage di Racak attribuendola a Belgrado e dando così il via ai bombardamenti «umanitari» della Nato.
Ora in Ucraina il dado purtroppo sembra tratto. Se appena al di là c’è la Russia messa nell’angolo dei suoi confini, a Kiev in campo c’è tutto l’Occidente reale: vale a dire gli Stati uniti e la Nato; l’Unione europea subalterna parla solo con la voce ambigua — per interessi, geostrategia e storia — della Germania. Qui, nell’est ucraino naturalmente, i «terroristi» non vanno sostenuti e armati dall’Occidente com’è accaduto nel 1999 in Kosovo, e poi in Libia e oggi in Siria. Qui invece vanno sanguinosamente schiacciati. Le immagini parlano chiaro: ad Andrijvka, un paese sulla strada delle truppe ucraine, i contadini sono scesi in piazza per fermare con le mani alzate i carri armati di Kiev, che non si sono arrestati schiacciandoli, nonostante in molti avessero cominciato a parlare con i soldati salendo sui carri armati. Scene proposte da Euronews che, a memoria contrapposta, ci hanno ricordato Praga invasa dai carri armati del Patto di Varsavia nel ’68.
Il fatto è che su quei tank stavolta è salito Obama e gli Stati europei a controllo Nato. Infatti più avanzavano le truppe di Kiev, più è arrivata forte da Washington la sola minaccia che «la Russia deve fermarsi». Insomma, il massacro non si deve fermare e guai al soccorso militare russo. Quel che c’è sotto lo comincia a scrivere qualche commentatore filo-atlantico: l’obiettivo è minacciare la Russia – che, riannessa la Crimea, fino a prova contraria difende la sua sicurezza e vuole una Ucraina neutrale — di fare di Putin un altro Milosevic.
Di sicuro è attivato il meccanismo per una Euromajdan anche nella capitale russa, eterodiretta da John Brennan che ci sta lavorando. Dunque Barack Obama conclude il suo mandato affidandosi all’ideologia del «militarismo umanitario» — tanto cara alla «candidata» Hillary Clinton che pure ancora tace sul disastro americano in Libia (a Bengasi) -, schierando i risultati della strategia dell’allargamento della Nato a est.
Ma la Nato non è la soluzione, è il problema. Glielo ricordano gli ex segretari di Stato Kissinger e Brzezinski e perfino il suo ex capo del Pentagono e della Cia Robert Gates che ha scritto «L’allargamento così rapido della Nato a est è un errore e serve solo ad umiliare la Russia», fino a provocare una guerra. Senza l’ingresso di tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia nell’Alleanza atlantica — con basi militari, intelligence, bilanci militari, truppe, missioni di guerre alleate, sistemi d’arma, ogive nucleari schierate, scudi spaziali — non ci troveremmo infatti sull’orlo di una nuova guerra europea che fa impallidire i Balcani e la Georgia di soli sei anni fa.
Non ci sarebbe stata la tracotanza di una leadership di oligarchi insoddisfatti che ha destabilizzato l’Ucraina con un colpo di mano e la violenza della piazza «buona» perché sedicente filoeuropea, e che ora cavalca la repressione sanguinosa della piazza «cattiva». Esisterebbe una politica estera dell’Unione europea, che invece è surrogata dall’Alleanza atlantica. «Vedete — ammonisce l’attuale capo del Pentagono Chuck Hagel — ce n’è anche per gli europei: imparino a non ridimensionare la spesa militare (v. gli F35)». Proprio come ha fatto il presidente della repubblica Giorgio Napolitano che, in dispregio dell’articolo 11 della Costituzione, ha tuonato recentemente addirittura contro «l’anacronistico antimilitarismo».
Ma visti i tempi che corrono, con l’emergere sincronico della guerra che insanguina i continenti e «non risolve le crisi internazionali», chi è davvero anacronistico
«». Il Corriere della Sera
A diciott’anni appena compiuti Abdullah è l’uomo di famiglia, seduto sulle panchine di marmo a consultarsi con gli adulti per la prossima tappa: «Belgio? Olanda?». Allunga un braccio, accarezza la testa di Ibrahim, controlla che non si allontani: «Ha dieci anni - sorridono entrambi - mia madre è laggiù», accovacciata con altre donne. Il padre è rimasto in Siria, «tutto il resto della famiglia è sparso per l’Europa». Sono gli ultimi arrivati, alla stazione Centrale di Milano, e la notte l’hanno passata qui, guancia a terra e coperte di vestiti, nello slargo del mezzanino, perché le strutture di accoglienza sono al collasso e l’afflusso ha preso un ritmo così intenso che il Comune non ne può più. «Il governo è un colabrodo s’affligge l’assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino -: fino a quando continuerà a ignorare cosa sta succedendo?» .
Il manifesto, 3 maggio 2014
La legge che precarizza definitivamente il lavoro doveva pur passare per le mani dell’Ncd, che ha presentato al Pd la propria cambiale elettorale: otto emendamenti governativi in Commissione Lavoro al Senato – frutto di un accordo nella maggioranza – hanno sostanzialmente peggiorato il testo (tranne che per la formazione pubblica dell’apprendista, come vedremo). Ora il testo passa al voto dell’aula, per poi ritornare alla Camera: dove quasi certamente verrà rimessa di nuovo la fiducia, perché il decreto deve essere convertito entro il 19 maggio (il che fa anche gioco per le elezioni).
Nella confusione della propaganda elettorale si è anche inserito un emendamento Mussolini-Berlusconi, per estendere gli sgravi fiscali e contributivi destinati ai neoassunti anche ai disoccupati di lunga durata: la senatrice di Fi ha firmato a penna la sua proposta con il nome di Berlusconi, pur essendo tecnicamente impossibile visto che il Cavaliere è decaduto. Tra Ncd e Forza Italia è stato un rimpallarsi di accuse: i secondi hanno accusato i primi di aver sostanzialmente accettato un «Cgil Act», cioè di aver varato un testo frutto del “ricatto” proveniente dalla sinistra Pd e dalla Cgil.
Nulla di più falso. Anche perché la Cgil continua a essere contraria all’impianto della riforma, in quanto si azzera la causale per tutti i tre anni del contratto a termine, sostituendolo di fatto alla centralità del rapporto a tempo indeterminato.La sinistra Pd, dal canto suo, è piuttosto divisa, e ha via via accettato correzioni sempre più profonde, come quella a cui più teneva Sacconi: ovvero la sostituzione con una multa dell’obbligo ad assumere a tempo indeterminato, per tutte quei casi in cui l’azienda sfora il tetto del 20% di contratti a termine.
Per Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera, «questa sanzione rappresenta un buon deterrente: aveva già il nostro ok», spiega. Diverso il parere di Stefano Fassina, che invece alza gli scudi e – al contrario del collega Damiano – fa immaginare una riapertura del dossier alla Camera: «La trasformazione della sanzione prevista per lo sforamento del tetto del 20% e il ridimensionamento della quota di apprendisti da stabilizzare sono passi indietro – dice Fassina – Rimettere in discussione l’equilibrio del testo sancito con il voto di fiducia alla Camera implica riaprire la discussione alla Camera prima del varo definitivo del decreto». Il tutto, va detto, mentre lo stesso Ncd annuncia di voler ulteriormente «limare» il testo per modificarlo. La multa equivale al 20% della retribuzione per ogni mese o metà mese lavorato se il tetto si sfora solo di un addetto; sale al 50% per ogni addetto in più per cui si sfora.
Le altre novità introdotte: si restringe la platea di imprese a cui si applica l’obbligo di stabilizzare il 20% degli apprendisti, passando da quelle superiori a 30 dipendenti a quelle oltre i 50. Ancora, ed è l’unica modifica positiva: sparisce la norma per cui, passati i 45 giorni in cui le Regioni devono comunicare il piano formativo, l’impresa veniva assolta dall’obbligo formativo. Quindi l’obbligo non cessa dopo i 45 giorni, ma le imprese guadagnano su un altro fronte: la formazione pubblica potrà essere svolta anche presso di loro, basta che si attengano agli standard regionali.
Tornando ai contratti a termine, un altro emendamento dispone che sono esentati dal tetto gli enti di ricerca (potranno avere un numero infinito di precari). E si inserisce nel preambolo – quindi una pura dichiarazione programmatica – la citazione dell’«adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente».
Insomma, si lega questa legge alla delega che contiene appunto il «mitico» contratto unico a tutele crescenti, ma che è fissata in un imprecisato futuro (al minimo nel 2015). Il relatore Pietro Ichino aveva provato a far passare il suo modello, ma non c’è riuscito per lo stop del Pd e del ministro Poletti.
«Sicuramente ora dobbiamo pensare al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti – dice Damiano – La versione Ichino, con il risarcimento se interrompi il contratto nel periodo di prova, può pure andare bene, ma solo a patto che: 1) alla fine del periodo di prova maturi tutti i diritti, articolo 18 incluso; 2) se le imprese ricevono gli incentivi solo se e quando assumono il lavoratore, e non prima».
Damiano fa capire che, per quanto gli concerne, il Pd non ostacolerà l’iter del dl Poletti: «In Senato non è stato stravolto quanto avevamo già licenziato alla Camera. Unico dato negativo, il restringimento della platea di imprese per la stabilizzazione degli apprendisti: ma numericamente, la platea si restringe in modo marginale». Annunciano battaglia, invece, i Cinquestelle: «Diventeremo tutti “cinesi”, super cocoprò – commentano – Nuovi “Sacconi” di precariato grazie al Pd di Renzi».
«Ridurre la misura alternativa dell’affidamento in prova a una attività volontaria (sic!) «di animazione» è a dir poco offensivo, oltre che per i destinatari dell’animazione per la collettività vittima dell’evasione milionaria, per chi crede nella legalità, la pratica e la insegna ai propri figli o ai propri studenti, per chi è dimenticato in carcere in esecuzione di condanne per fatti assai più modesti».
Il manifesto, 3 maggio 2014
Silvio Berlusconi non è certo il primo uomo politico del Belpaese ad essere stato condannato per gravi reati e neppure il primo a scontare la pena nella forma dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Ricordo a memoria: Mario Tanassi, Pietro Longo, Franco Nicolazzi, Arnaldo Forlani, Francesco De Lorenzo, Cesare Previti e via elencando.
Ci fu addirittura un periodo – a cavallo del nuovo millennio – in cui i Tribunali di sorveglianza di Milano e Torino e la Corte di cassazione arrivarono a ridisegnare i contenuti e i limiti della misura dell’affidamento in prova per i «colletti bianchi»,riscrivendo un istituto originariamente pensato per tutt’altra categoria di condannati. E, sul punto, decine furono i commenti e le precisazioni sulle riviste giuridiche. Ma mai era accaduto che l’esecuzione di una pena si trasformasse in un assistper il rilancio politico del condannato e in una dimostrazione scolastica del ripristino di una giustizia tanto forte (e talora spietata) con i deboli quanto debole con i forti.
Intendiamoci. Non amo il carcere per nessuno. Di più, trovo civile che le pene medio-brevi (e i residui di pena di tale entità) siano scontate con modalità diverse dal carcere. Per tutti. E, a maggior ragione, per chi è segnato dagli anni. Dunque non auspicavo e non auspico il carcere neppure per l’ex cavaliere di Arcore. E ciò, pur non dimenticando che, nel caso specifico, la condanna da scontare riguarda non un fatto contingente e limitato ma una evasione fiscale di ben 13,9 milioni di euro (6,6 nel 2001, 4,9 nel 2002, 2,4 nel 2003) programmata ed organizzata negli anni, effettuata coinvolgendo quasi tutti i più stretti collaboratori. Poco meno di 14 milioni di euro pari al danno provocato alle parti offese dall’insieme di quasi tutti gli attuali detenuti per furto nelle prigioni italiane.
Nonostante questo non auspicavo il carcere. Ma ridurre la misura alternativa dell’affidamento in prova a una attività volontaria (sic!) «di animazione» (come scritto nell’ordinanza di concessione) di quattro ore settimanali in favore degli ospiti di un istituto per anziani è a dir poco offensivo, oltre che per i destinatari dell’animazione sottoposti (essi sì) a una prova di pesantezza inaudita, per la collettività vittima dell’evasione milionaria, per chi crede nella legalità, la pratica e la insegna ai propri figli o ai propri studenti, per chi è dimenticato in carcere in esecuzione di condanne per fatti assai più modesti. Ed è anche lontano le mille miglia da una interpretazione razionale del sistema delle pene e delle misure alternative. Non si trattava di chiedere al condannato eccellente ammissioni esplicite di responsabilità né dichiarazioni di pentimento o pubbliche scuse.
In tutta la mia (lunga) attività giudiziaria non avevo mai visto una cosa del genere. È evidente – anche da molti altri segnali – che si sta chiudendo, per la giustizia, una stagione. E si chiude nel peggiore dei modi, all’insegna del ripristino di due codici diversi: uno per i briganti e uno per i galantuomini (o impropriamente ritenuti tali).
Quanti più diritti si estendono ai non-cittadini tanto più la parola “cittadinanza” perde significato. Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell’umanità.
La Repubblica, 1 maggio 2014
Il testo qui pubblicato, ripreso da la Repubblica, è un estratto al centro di uno dei tre incontri che terrà tra Roma e Milano dal 6 all’8 maggio, promossi da Reset (rivista diretta da Giancarlo Bosetti), Luiss, Fondazione Feltrinelli e Centro Studi Americani. Info su www.reset.it