«Perché si affermano i partiti populisti? Basta guardare al profilo per età del voto, giovane al Sud e vecchio al Nord. La soluzione passa per politiche europee che sappiano affrontare il problema della disoccupazione giovanile nei paesi più periferici». Lavoce.info
, 27 maggio 2014 (m.p.r.)
Squilibri e spinte migratorie. Se si pensa all’Unione Europea come a un unico paese e si guarda alla diseguaglianza dei redditi, concentrandosi in particolare sui giovani, si comprendono bene le ragioni che stanno dietro alla vittoria dei movimenti populisti alle elezioni europee. L’indice più comune per misurare la diseguaglianza, il coefficiente di Gini, tra i redditi delle famiglie con capofamiglia di meno di 30 anni è cresciuto marcatamente in tutto il periodo della grande recessione e della crisi del debito dell’Eurozona. È passato dal 28,5 per cento nel 2007 al 31,5 per cento nel 2011: un aumento del 10 per cento. E il rapporto “primi dieci-ultimi dieci” è aumentato in maniera simile, da 4 a 5: significa che il reddito medio nel decile più alto nella distribuzione è ora cinque volte maggiore del reddito medio nel decile più basso. L’aumento della disuguaglianza tra i giovani non è dovuto, come per gli altri gruppi d’età, a una concentrazione nella parte più alta della scala dei redditi, con alcune persone molto ricche che aumentano la loro distanza dal resto della popolazione. I giovani, che già all’inizio della crisi erano sottorappresentati nella parte più alta della distribuzione del reddito, sono oggi una percentuale ancora minore rispetto agli altri gruppi di età.
La diseguaglianza dei redditi è aumentata principalmente a causa delle differenze nei livelli di disoccupazione giovanile. In Grecia e Spagna i tassi di disoccupazione in quella fascia sono oltre il 50 per cento, in Italia sopra il 40 per cento, mentre in Austria e Germania sono sotto la doppia cifra. È significativo che sia l’aumento della diseguaglianza dei redditi sia l’aumento delle differenze nei tassi di disoccupazione giovanile tra le diverse aree dell’Unione Europea abbiano una dimensione marcatamente nazionale: la diseguaglianza tra paesi è quasi raddoppiata, mentre all’interno dei paesi la crescita delle diseguaglianze è stata molto più contenuta; nel caso dei tassi di disoccupazione, la variazione inter-regionale all’interno di ogni paese si è dimezzata, mentre la differenza tra paesi è aumentata di due volte e mezzo.
Populismi del nord e populismi del sud. Perché tutto questo è importante per capire la vittoria del populismo alle elezioni europee? I giovani sono la componente più mobile della popolazione e sperimentare la disoccupazione così presto, quasi all’inizio della loro vita lavorativa, lascia cicatrici profonde. Quelli che vivono nei paesi con un’alta disoccupazione (il cosiddetto ClubMed, incluso il Portogallo) hanno solo due opzioni: exit or voice - andarsene via o “farsi sentire”. Londra e Berlino sono state inondate da giovani italiani e spagnoli. E ancora di più da giovani bulgari o rumeni che hanno lasciato l’Italia o la Spagna per cercare lavoro altrove. L’alternativa è farsi sentire e i movimenti populisti del Sud Europa tendono a consentire ai giovani proprio quel tipo diprotesta radicale contro le istituzioni europee e l’euro che più apprezzano. Il profilo di età dei voti di Tsipras in Grecia, del movimento di Grillo in Italia, di Podemos in Spagna e del Front National in Francia è molto ben definito: in molte circoscrizioni, questi movimenti sono il primo partito tra coloro che hanno meno di 30 anni.
L’altro lato della medaglia è il populismo del Nord Europa, che somiglia molto a una collezione di sentimenti anti-immigrazione. L’Ukip ha fatto la sua campagna contro il flusso di cittadini europei, chiedendo lo smantellamento della libera mobilità dei lavoratori, uno dei pilastri dell’Unione Europea fin dal trattato di Roma. E non sorprende che il profilo di età sia, in questo caso, speculare rispetto al populismo del Sud: quasi il 90 per cento dei sostenitori di Nigel Farage ha più di 40 anni, 3 sostenitori del People’s Party danese su 4 hanno più di 50 anni e il FPÖ austriaco ha percentuali doppie tra gli ultra cinquantenni. La concentrazione all’altro capo dello spettro di età nel populismo del Nord è dovuta al fatto che i lavoratori più anziani rappresentano le componenti meno mobili della popolazione ed è quindi probabile che soffrano di più per la competizione dei giovani lavoratori che arrivano da altre parti dell’Unione.
Come spendere meglio le risorse. Se l’analisi è corretta, ne consegue che sarà difficile per i movimenti populisti europei coordinare i loro voti utilizzando la grande fetta di seggi che si sono guadagnati nel Parlamento europeo. Ma ci sono lezioni ancora più importanti da imparare riguardo al futuro dell’Europa. A meno che non si faccia qualcosa per affrontare il problema delle diseguaglianze tra paesi e della disoccupazione giovanile, questa tendenza proseguirà e porterà con sé, al Nord, tensioni per l’immigrazione e, al Sud, fuga di cervelli ed euroscetticismo. Non è una prospettiva positiva per l’integrazione: è poco probabile che così si promuova un’identità europea, qualunque essa sia. I politici tedeschi conoscono molto bene la questione, dal momento che l’hanno dovuta affrontare dopo l’unificazione della Germania, spendendo molto per prevenire la migrazione da Est a Ovest. Fortunatamente, in questo caso, non c’è bisogno dei massicci trasferimenti fiscali registrati dall’Ovest verso l’Est dopo la caduta del Muro di Berlino. Sarebbe sufficiente prestare più attenzione allo sviluppo nelle economie più periferiche quando si prendono decisioni di politica monetaria, partendo col pianificare una svalutazione dell’euro rispetto al dollaro.
Allo stesso tempo, il bilancio europeo dovrebbe essere usato meglio per affrontare i problemi legati alla disoccupazione giovanile. Oltre a essere troppo contenuta (6 miliardi di euro, ovvero, circa 400 euro per giovane disoccupato all’anno), l’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile si dà obiettivi sbagliati e coinvolge attori sbagliati: si propone di avviare al lavoro i giovani nei paesi in cui non ci sono posti disponibili per loro; inoltre, trasferisce denaro dal bilancio europeo direttamente alle regioni povere, saltando le giurisdizioni nazionali, mentre l’aumento della disoccupazione giovanile ha una dimensione marcatamente nazionale. Il risultato sono programmi regionali co-finanziati dall’Ue che, per contrastare la disoccupazione giovanile, si affidano a una grande varietà di progetti di piccola portata e di durata limitata. Vi rientrano molti corsi di formazione più adatti ad arricchire chi tiene il corso (spesso con curricula limitati, come quelli per estetista) che ad aiutare effettivamente coloro che dovrebbero beneficiare della formazione.
Nell’ambito dell’iniziativa non c’è spazio, invece, per le riduzioni fiscali permanenti e i sussidi salariali che promuoverebbero la domanda di lavoro per i più giovani nei paesi con un alto tasso di disoccupazione. Insomma, si ripetono esattamente gli stessi errori compiuti nell’allocazione dei fondi strutturali: spesso i governi locali non sanno che fare di questi soldi e finiscono o per non spenderli (la stessa efficiente amministrazione tedesca utilizza non più del 60 per cento delle allocazioni dei fondi strutturali) o per disperderli in una miriade di piccoli progetti, i cui costi di gestione superano frequentemente il 50 per cento del budget di ciascun singolo progetto.
Con le regole attuali, alle nazioni in crisi converrebbe arrivare a un accordo di “zero a zero”: non contribuire in alcun modo al bilancio Ue e non riceverne nulla in cambio. Ma se chi più ha bisogno di sostegno sotto i colpi di crisi asimmetriche ricava un maggior beneficio chiamandosi fuori dal fondo comune, è evidente che quel fondo comune non ha ragione di esistere sotto il profilo della condivisione del rischio e del mutuo soccorso. L’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile dovrebbe quindi essere riconsiderata, consentendo il finanziamento di programmi nazionali per la creazione di posti di lavoro nei paesi con un’alta disoccupazione giovanile, mentre i fondi strutturali dovrebbero trasformarsi in strumenti per sostenere quelle riforme strutturali che incrementino la convergenza economica all’interno dell’Unione. Dovrebbero essere fondi per compensare gli svantaggi della liberalizzazione economica secondo la filosofia dei Contractual Arrangements, oltre che per assorbire gli shock. Oggi non ci sono le basi per un ampliamento del bilancio dell’Ue, ma possiamo iniziare a spendere meglio il denaro a disposizione.
Europee 2014. Il record elettorale del Pd non è una vittoria sul populismo, Renzi non è meno populista di Grillo. E i voti per Syriza sono una spinta per coltivare il nucleo nascente di un’alternativa».
Il manifesto, 28 maggio 2014
La riduzione della competizione per le elezioni europee a un match frontale tra due icone vuote di contenuti quanto piene di invadente presenzialismo ha premiato Renzi e punito Grillo. Ma a perdere sono stati gli italiani o, meglio, ha perso la democrazia. Perché la riforma elettorale, quella del Senato o l’abolizione delle Province volute da Renzi non fanno che ridurne progressivamente il campo di applicazione.
Ha perso il pluralismo: ora c’è un uomo solo al comando di un partito, del governo, arbitro, anche, dei destini dello Stato; e gli altri partiti, satelliti o comprimari, sono in via di sparizione, né hanno molte ragioni per continuare ad esistere. E ha perso, rendendo sempre meno sindacabili le scelte del “premier”, la prospettiva di un vero cambiamento: il quadro europeo in cui il Pd si inserisce e di cui sarà un garante non consente cambi di rotta. E con tutte queste cose hanno perso i lavoratori, i disoccupati, i giovani, i pensionati; anche, e forse soprattutto, quelli che lo hanno votato.
Ma non si tratta, come sostengono molti commentatori, di una vittoria sul populismo. Renzi non è meno populista di Grillo se per populismo si intende un richiamo identitario (le “riforme”, presentate come intervento salvifico, senza specificarne il contenuto, e la “rottamazione” presentata come programma) che fa aggio sui contenuti specifici delle misure proposte. Il programma di Grillo, se si eccettua la sua ambivalenza di fondo sull’euro, che è ambivalenza sul ruolo che può e deve avere l’Europa nel determinare un cambio di rotta per tutti, era addirittura più concreto di quello con cui Renzi ha affrontato questa scadenza elettorale. Entrambi comunque avevano gli occhi puntati sugli equilibri interni al pollaio italiano; la resa dei conti con le politiche europee l’avevano rimandata a un indeterminato domani: eurobond o uscita dall’euro per uno; ridiscussione dei margini del deficit per l’altro; nessuno dei due sembra rendersi conto che la crisi europea impone una revisione radicale del quadro istituzionale e delle strategie politiche, prima ancora che economiche.
Non è stata nemmeno, quindi, una vittoria dell’europeismo contro l’antieuropeismo: se per Grillo il problema è inesistente — la sua “indipendenza” da tutto e da tutti gli impedisce di avere alleati e prospettive che vadano al di là delle Alpi e dei mari di casa, per Renzi è l’assoluta subalternità al patto tra Schulz e Merkel, ormai ratificato dall’esito elettorale anche in Europa, che gli impedisce di avere, se non a parole — ma di parole la sua politica non manca mai — una visione delle misure, delle strategie e delle conseguenze di una vera rimessa in discussione dell’austerità. Quell’austerità che l’Europa la sta disintegrando (e i primi a pagarne le conseguenze saremo noi).
Meno che mai quella di Renzi è stata una vittoria della speranza contro il rancore. Se nell’ultimo anno il Movimento 5S ha dato prova della sua sostanziale inconcludenza, dovuta al controllo ferreo che i suoi due
leader pretendono di esercitare sui quadri e sui parlamentari, la motivazione di fondo del voto a Renzi è stata un clima da “ultima spiaggia”. Paradigma di questo atteggiamento sono gli editoriali su la Repubblica di
Eugenio Scalfari, che non approva praticamente alcuna delle misure varate da Renzi e meno che mai i suoi progetti, ma che invita a votarlo lo stesso perché “non c’è alternativa”.
Così, se con queste elezioni la parabola del M5S ha imboccato irrevocabilmente una curva discendente, mentre Renzi sembra invece sulla cresta dell’onda — forse raggiunta troppo in fretta per poter consolidare una posizione del genere — è il vuoto di prospettive e la mancanza di una proposta di respiro strategico per riformare l’Europa a condannarlo a sgonfiarsi altrettanto rapidamente. Il che succederà inevitabilmente — pensate alla parabola di Monti! — non appena Renzi dovrà fare i conti con quella governance che forse immagina di riuscire a conquistare con la stessa facilità, superficialità e disinvoltura con cui si è impadronito, gli uni dopo le altre, di primarie, partito, governo ed elettorato. Ma là, invece, c’è la “scorza dura” dell’alta finanza che Renzi non si è mai nemmeno sognato di voler intaccare, ma che non è certo disposta a concedergli qualcosa che vada al di là di un sostegno formale e simbolico (un po’ di spread in meno, forse; e solo per un po’).
Ma come Grillo sta lasciando dietro di sé, in modo forse irreversibile, perché non facile da prosciugare, un mare di macerie (la politica trasformata in pernacchia, come Berlusconi l’aveva, prima di lui, e aprendogli la strada, trasformata in barzelletta e licenza), così anche Renzi lascerà dietro la sua prossima quanto inevitabile parabola, altri danni irreversibili. Danni alla democrazia e alla costituzione; al diritto del lavoro e alle condizioni dei lavoratori, precari e non (se ancora ce ne sono); alla scuola, alla sanità, al welfare, alle autonomie locali (che da sindaco non ha mai difeso dal patto di stabilità); a quel che resta della macchina dello Stato, smantellandone i capisaldi in nome del risparmio e dell’efficienza; al sistema delle imprese e dei servizi pubblici, messi in svendita per fare cassa; e, soprattutto, danni alla tenuta morale della cittadinanza, messa per la terza o la quarta volta alla prova di una politica fondata sulle apparenze.
"L'altra Europa con Tsipras" rappresenta un piccolo ma importante episodio di resistenza. Di fronte a questo panorama, di cui l’elettorato non potrà evitare di prendere atto in tempi stretti, i risultati della lista “L’altra Europa con Tsipras” rappresentano un piccolo ma importante episodio di resistenza; perché in quella lista, e in nessun’altra proposta di livello nazionale ed europeo, è contenuto il nucleo di un’alternativa possibile e praticabile alla perpetrazione di politiche destinate a portare allo sfascio l’intero continente, Germania compresa.
Certamente i nostri numeri non sono esaltanti, anche se lo sono quelli di alcuni dei nostri partner europei. Però sono il frutto di un lavoro di conquista, voto per voto, consenso per consenso, impegno per impegno, che ha coinvolto migliaia di compagni e di sostenitori delle più diverse provenienze, che non avevano certo come obiettivo finale o esclusivo il risultato elettorale. Ma che proprio sperimentando, almeno in parte, e non senza molte contraddizioni, forme nuove, o profondamente rinnovate, di condivisione e di coesione, fondate su nuove pratiche, sono ben determinati ad andare avanti lungo la strada appena intrapresa. E non ciascuno per conto suo, o facendo ricorso alle proprie appartenenze, ma tutti insieme, aprendosi a quel mondo di delusi, di arrabbiati, di abbandonati, di incerti che la crisi del M5S e il mutamento antropologico del Partito Democratico si stanno lasciando, e continueranno a lasciarsi, dietro le spalle.
In questa piccola affermazione i voti di preferenza raccolti da due capolista come Barbara Spinelli e Moni Ovadia, che hanno messo il loro nome, la loro faccia e un mare di fatica a disposizione del progetto per rappresentarne il carattere unitario, sono una importante dimostrazione di quella spinta a un radicale rinnovamento delle proprie identità che fin dall’inizio è stata la cifra della nostra intrapresa.
In pochi anni, sotto la guida di Alexis Tsipras, Syriza, da piccola aggregazione di identità differenti si è fatta partito di governo. Dunque, si può fare. Se abbiamo messo quel nome nel simbolo della nostra lista non è per caso.
Il trionfo renziano è una sfida per la sinistra di Tsipras. Dopo aver vinto la scommessa europea con i parlamentari italiani eletti a Strasburgo, ora le persone che in pochi mesi hanno creato questa esperienza politica «dovranno capire come collocarsi nell’inedito scenario italiano».
Il manifesto, 27 maggio 2014, con postilla
I poveri sondaggisti anche questa volta avevano immaginato un altro mondo (l’astensione a valanga, il testa a testa tra Renzi e Grillo…), ma a parziale discolpa della loro inaffidabilità bisogna dire che sono stati sommersi, più che dal ridicolo, da una vera e propria onda anomala, apparsa a una certa ora della notte accanto alla casella del Pd: 40,8%. Quando un partito in un anno quasi raddoppia c’è molto da capire ma una cosa è chiara: siamo di fronte a un risultato elettorale che cambia i connotati a tutto il sistema politico.
Il primo e unico riferimento storico del nuovo partito pigliatutto è la balena bianca democristiana, capace di salire così in alto da contenere tutto l’arco costituzionale, dalle sinistre dei Bodrato e dei Granelli alle destre dei Forlani e degli Andreotti. Questo Pd ha ingoiato in un solo boccone il 10% dei montiani con annessi cespugli (da Casini in giù) insieme a brandelli berlusconiani, portandoli nella stessa casa dei Fassina e dei Civati. Poi, come nella più collaudata tradizione democristiana, ha messo nelle tasche di dieci milioni di italiani 80 euro, biglietto da visita recapitato il venerdì per la messa elettorale della domenica.
In realtà questa febbre a 40 realizza la famosa vocazione maggioritaria di Veltroni, con ex dc e ex pci nucleo centrale di un trasversalismo destinato a produrre una mutazione genetica. Ha la febbre alta il paese che, dopo Berlusconi, dopo Grillo conferma l’anomalia italiana affidandosi al leader vincente, alla stabilità di governo.
Da oggi abbiamo davanti una sfida per tutti. A cominciare dall’uomo solo al comando che deve governare tenendosi in equilibrio sull’imponente onda anomala che egli stesso ha sollevato, dimostrando di saper gestire un sostanziale monocolore: la cura prevede le riforme costituzionali di stampo presidenzialista, i sindacati al tappeto con l’imposizione del lavoro precario per tutti. Da domani Renzi non potrà più tirarsi fuori dai disastri del paese addebitandoli ai suoi rottamati predecessori.
Il populismo di governo ha pagato più del populismo di opposizione, e dunque è una sfida anche per Grillo. L’ex comico ha lavorato per il nemico provocando la reazione del “voto utile” contro le urla e gli insulti. Molti, a sinistra, preoccupati di disperdere il voto, si sono turati il naso e hanno votato Pd per scampare un pericolo maggiore. Grillo deve scegliere se continuare a invocare improbabili caroselli intorno al Quirinale, se insistere con la politica del “vaffa” o traghettare i sei milioni di voti (un potenziale grandissimo) in una strategia parlamentare capace di trasformare la forza elettorale in alleanze, battaglie e obiettivi concreti. In Italia come in Europa.
Il trionfo renziano è, infine, una sfida per la sinistra di Tsipras. Dopo aver vinto la scommessa europea con i tre parlamentari italiani eletti a Strasburgo, ora le donne e gli uomini che in pochi mesi hanno creato questa esperienza politica dovranno capire come collocarsi nell’inedito scenario italiano.
L’analisi del voto rileva un potenziale molto al di là della sofferta soglia del 4% (il 5 a Palermo, l’8 a Bologna, il 6 a Roma il 9 a Firenze), testimoniato anche dal consenso ai candidati (molti i giovani) e ai capilista. Senza maratone televisive, forti del prestigio personale e delle lotte sul territorio hanno oltrepassato le 30 mila preferenze. Vincere controcorrente è un buon segno.
L'autrice afferma che le donne e gli uomini della lista di Tsipras «dovranno capire come collocarsi nell’inedito scenario italiano». Mi sembra che molti elementi della scelta siano già chiari. Quelle donne e quegli uomini si collocano a sinistra, dalla parte della maggioranza del popolo, quella che paga il prezzo maggiore a causa delle scelte funeste dei governi degli stati europei, e della stessa loro espressione sovranazionale: quelli che non hanno trovato lavoro o l'hanno perduto, quelli cui è stato ridotto l'accesso al welfare o al godimento della pensione. Si collocano dalla parte di quella miriade di associazioni, comitati, gruppi di cittadini che si sono uniti in mille avventure di difesa di beni comuni, a livello locale o associati in reti a livello nazionale o sovranazionale, che hanno imparato a denunciare, protestare e proporre insieme per una città più equa e più bella. Si collocano sulle posizioni di una sinistra radicale, nel senso che vuole andare alla radice delle cose per combattere le cause di fondo che hanno generato la crisi del sistema e la sofferenza dei più: una posizione, quindi, anticapitalista particolarmente contraria alla forma attuale che il sistema capitalistico ha assunto: il "finanzcapitalismo". Sono chiare anche le proposte precise che quelle donne e quegli uomini hanno sostenuto sia quelle per le cose da fare con conseguenza più vicine nel tempo che in quelle in prospettiva. Sarebbero note a tutti se i media avessero fatto il loro lavoro e non si fossero appiattiti sulle esigenze del Palazzo e su quelle della "pronta cassa" e avessero dato spazio alla presentazione e alla discussione dei programmi.
Molte cose, però, bisogna ancora sceglierle, e alcune contraddizioni superate, se si vuole dare un futuro all'esperienza della lista Tsipras.
Intanto, bisognerebbe porsi alcune domande. Come mai il voto ottenuto dalla lista Tsipras è inferiore alla somma dei voti ottenuti in precedenza dai due partiti che erano entrati, insieme ai gruppi di cittadini, a sostegno della lista? Come mai così pochi voti sono venuti dal bacino costituito dai voti espressi in occasione dei referendum in difesa dei beni comuni e delle mille battaglie locali o su singoli temi? Che ruolo ha svolto la presenza di PRC e SEL nella lista, che da una parte ha fatto prevalere in molti potenziali elettori lo spirito dell'"antipolitica", dall'altro lato ha portato alla lista un contributo d'impegno personale e organizzativo senza il quale non si sarebbe raggiunto nemmeno il numero di firme necessario per la presentazione della lista? Che peso ha avuto, sull'altro versante, la difficoltà dei movimenti di superare il carattere meramente locale o settoriale della singola iniziativa per cogliere il nesso tra le diverse questioni, e comprendere che i mille anelli che imprigionano la possibilità di una società migliore sono parte di una sola catena, e quindi possono essere affrontati solo con una visione (e un'organizzazione) politica dei problemi?
Per rispondere a queste domande occorre certamente riferirsi al quadro generale: al perché del trionfo di Matteo Renzi e della sua conchiglia, il PD, e al perché del fallimento della formazione che ha dato voce più matura e ampia alla protesta (nonché dell’aberrazione rappresentata dall’ancora cospicuo numero di italiani che vota per il reo di evasione fiscale plurimiliardaria). E bisogna poi domandarsi in che modo superare quella che è senza dubbio la causa prima dei limiti della vittoria della lista Tsipras: il tradimento dei media, il silenzio gettato sulle proposte, e sulla stessa esistenza della lista Tsipras. Il peso di questo tradimento è testimoniato dal vistosissimo divario tra i voti ottenuti dalla lista nelle città, dove funziona la comunicazione tradizionale, e quelli raccolti nel resto del territorio, dove l’unica voce è la grande stampa e la televisione. Ecco alcuni esempi: nel Veneto, 2,7 %, a Venezia, 5,83%, Padova 5,62%, Vicenza 4,62; Emilia-Romagna 4,07%, Bologna 8,89%; Trentino-AA 6,66%, Bolzano 8,92%; Friuli-VG 3,70%, Trieste 5,95%; Lombardia 4,93%, Milano 6,48%, Toscana 5,12%, Firenze 8,91% Lazio 4,68 %, Roma 6,16%; Campania 3,80%, Napoli 5,67%. Ma sarebbe interessante fare un'analisi seria della distribuzione territoriale dei voti. Da essa risulterebbe comunque con evidenza che la prima domanda nella quale dovrebbe rispondere chi volesse proseguire l'esperienza della lista Tsipras è: come attrezzarsi per superare il deficit d'informazione: dando per scontato il tradimento dei media (salvo recupero quando si sarà sconfitta l'egemonia del neoliberismo). La discussione è aperta. (e.s.)
«». Idominjanni.com
L’Europa esce dalle urne ferita e trasformata. Ferita, perché per quanto non abbiano sfondato le forze antieuropee hanno avuto risultati tutt’altro che trascurabili e in Francia, Gran Bretagna e Ungheria esplosivi. Trasformata, perché l’equilibrio fra stati (l’asse franco-tedesco) e fra partiti (le due grandi famiglie dei socialisti e dei popolari europei) non c’è più. Per quanto Angela Merkel, la custode dell’Europa neoliberale, austera e avara, incassi l’ennesima conferma della sua politica in casa, la soluzione di una grande coalizione che prosegua a livello continentale le dissennate politiche degli ultimi anni che hanno portato molte popolazioni europee alla disperazione è tutt’altro che scontata. Altre maggioranze sono possibili, e in ogni caso le forze portatrici della continuità non potranno non fare i conti non più con gli umori, ma con i numeri che esprimono una rivolta diffusa contro l’Unione che abbiamo sperimentato finora e una forte e allarmante istanza dal basso di ritorno alla sovranità popolare, la bandiera non a caso più fortemente agitata nell’immediatezza dei risultati da Marina Le Pen.
Il vento della trasformazione non spira però solo da destra, o dalle formazioni trasversali cosiddette populiste. Spira da sinistra, anzi nella sinistra, perché i risultati penalizzano ciò che resta della tradizione socialista novecentesca e fanno spazio a due sinistre nuove e diverse se non opposte fra loro, emblematicamente raffigurate dal partito di Renzi in Italia e da Syriza in Grecia, che rappresentano due uscite diverse dalla crisi, due visioni diverse della società, due ipotesi opposte di ricostruzione della sinistra post-novecentesca. Il trionfo di Renzi, che ne fa in primo luogo il leader più forte del fronte ”progressista” in Europa e lo carica di un potere e di una responsabilità insperati nel semestre europeo, va valutato in questo quadro di trasformazione della sinistra continentale.
La domanda cruciale, e qui dal contesto europeo scivoliamo in quello italiano, è se questo trionfo si debba a un sinistra che si risveglia dopo il ventennio berlusconiano o a una sinistra che in tanto finalmente sfonda in quanto ne incorpora gli elementi portanti. Non solo, va sottolineato, l’abilità comunicativa dell’attuale premier, mutuata dal precedente. Bensì molti e cruciali contenuti, dalla torsione populistico-plebiscitaria della democrazia al disegno di riforma costituzionale, dalla concezione del lavoro, dell’autoimprenditorialità e della flessibilità a quella della rottamazione del settore pubblico, secondo la versione lievemente corretta delle politiche neoliberali del ventennio passato sostenuta dal segretario del Pd. E’ la continuità nella discontinuità che l’elettorato italiano – un elettorato evidentemente molto trasversale – ha premiato, sostituendo nel suo immaginario la narrativa dell’ex sindaco di Firenze a quella ormai usurata dell’ex cavaliere di Arcore.
Il trionfo di Renzi tuttavia è di tale entità da mettere in difficoltà i suoi più accesi sostenitori, e non solo perché il risultato fa piazza pulita del ”duello” con Grillo montato dai media e smontato dalle urne. Ma perché il problema vero è quello della configurazione che il sistema politico prenderà. L’avvento di Renzi, e l’accordo del Nazareno fra Renzi e Berlusconi, era stato salutato dai più come garanzia di ricostituzione di un bipolarismo di cui Berlusconi era stato creatore e garante , e di cui col declino di Berlusconi avrebbe dovuto diventare perno e garante il ”conquistatore” del Pd. Una prospettiva tranquillizzante, di sostanziale continuità con la cosiddetta seconda Repubblica, assunta come premessa dai due stessi contraenti del patto del Nazareno sulle riforme e sulla legge elettorale. Non era tuttavia imprevedibile – mi ero permessa di segnalarlo in un seminario Crs sulle riforme - prima che la sondaggistica preelettorale, sbagliando clamorosamente, inchiodasse la gara sul match Renzi-Grillo - che si stesse delineando tutt’altro scenario, con un Pd pigliatutto saldamente piazzato al centro del sistema politico, a vocazione più totalitaria (uso questo termine depurandolo dai suoi connotati tragici novecenteschi) che maggioritaria, un partito-Stato senza nessuna alternanza bipolarista e nessuna necessità coalizionale all’orizzonte. Si parla adesso, per questo, di nuova Dc, ma è bene sapere che il Pd non è la Dc, è un animale nuovo figlio della seconda repubblica e non della prima, della società forgiata dal berlusconismo e non di quella plasmata dal dopoguerra. L’effetto di ritorno segnala al contempo quanto sia stata fragile la costruzione della seconda repubblica sul piano istituzionale, e quanto sia stata forte sul piano della trasformazione antropologica, sociale e delle identità politiche. Sono i miracoli delle rivoluzioni passive, che restanopd come a un partito « la caratteristica più singolare di questo singolare paese.
Postilla
De animalia: coccodrilli e paguri
All'articolo molto equilibrato di Dominijanni vorrei aggiungere due osservazioni. (1) La responsabilità dei media nel ridurre le elezioni per il Parlamento europeo al duello Renzi/Grillo è enorme, e i giornalisti della carta e quelli dell'etere diventano coccodrilli quando, post factum, lagrimano perchè non si è parlato di problemi e di proposte. (2) Ha ragione Dominijanni quando parla del Pd come a un partito «a vocazione più totalitaria che maggioritaria». Una "parte" che pretende di divenire “tutto“ è il contrario della democrazia. Ciò che mi stupisce e addolora è che Renzi (a differenza dei paguri) non s'è impadronito di un guscio vuoto per portarlo nella direzione diversa da quella del suo abitatore, ma d'un corpo vivente, benchè ammaccato. E nessuna porzione di quel corpo se n'è accorto, talché tutti viaggiano felici nel verso opposto a quello della loro storia. Mi dispiace. (e.s.)
L'Espresso, 26 maggio 2014
«Siamo al Parlamento europeo!». L'urlo, soffocato per troppe ore, arriva alle sei e mezza del mattino, quando finalmente i dati del Viminale permettono ai coordinatori, ai candidati e agli attivisti della lista Tsipras di andare a dormire. Quel 4,03 per cento comunicato da ministero degli Interni quando mancano un centinaio di sezioni su oltre 61 mila consente alla sinistra radicale di mettere fine con un sorriso a una lunga notte di speranza e paura trascorsa nel quartier generale scelto per aspettare i risultati, un locale del quartiere San Lorenzo di Roma subito sotto la tangenziale.
Quattro virgola zero tre: al fotofinish, insomma. E il risultato minimo accettabile per una lista che era partita con ambizioni più alte (a febbraio Spinelli aveva indicato come obiettivo il sette per cento) ma che dopo una travagliatissima campagna elettorale gli istituti di ricerca davano tutti, negli ultimi sondaggi, sotto la soglia necessaria per andare a Bruxelles.
Per tutta la notte gli exit polls e le proiezioni vedevano la lista Tsipras ballare attorno al 4. Attorno all'una però nella sala di San Lorenzo ha iniziato a diffondersi un certo ottimismo per le telefonate dei rappresentanti di lista, che fornivano cifre non statisticamente valide ma tutte positive sull'andamenti nelle varie sezioni. Poco dopo le due Barbara Spinelli ha lasciato la sede elettorale con un sorriso («Siamo contenti, ci sentiamo domattina») e così ha fatto anche Moni Ovadia. Ancora alle cinque del mattino però il responsabile della lista Massimo Torelli scriveva su Facebook un cautissimo «Aspettiamo». Un'ora dopo, era con Marco Revelli e Argiris Panagopoulos (l'uomo di Tsipras in Italia) a festeggiare con cappuccio e cornetto al bar lì accanto, che aveva appena aperto.
In termini assoluti, la lista Tsipras ha conquistato poco più di un milione e centomila voti, sesto partito dopo i tre più grossi (Pd, M5s e Fi), Lega e Nuovo Centro Destra. A questo punto dovrebbe portare a Bruxelles tre eurodeputati. Data l'annunciata rinuncia dei “candidati di testimonianza” come Spinelli e Ovadia, al centro potrebbe entrare uno tra Marco Furfaro e Fabio Amato: il primo di Sel, il secondo di Rifondazione. A riprova che anche in una lista della “società civile autonoma dai partiti” (com'era stata battezzata alla nascita) al momento delle preferenze prevalgono le strutture organizzate. Notevole però anche il risultato al sud del giovane Claudio Riccio, espressione dei movimenti studenteschi nati al tempo della riforma Gelmini e animatori del gruppo “Quaderni Corsari”, che avrebbe avuto quasi 17 mila voti personali.
«Senza soldi, senza struttura, senza organizzazione, con molti ostacoli anche di natura interna, abbiamo fatto l'impresa», dice Lorenzo Zamponi, giovane della rete dei movimenti che è stato tra i più attivi nelle settimane precedenti il voto: «Abbiamo sfondato il muro del silenzio mediatico e riportato la sinistra italiana nel Parlamento Europeo. Nelle prossime ore, con calma, discuteremo del resto. Per ora, l'importante è aver compiuto ciò che sembrava impossibile, tenendo aperto lo spazio dell'alternativa. Come riempirlo, poi, lo vedremo. Preferibilmente, almeno secondo me, dal basso, con un processo di reale partecipazione e coinvolgimento delle persone».
Il risultato positivo, seppur per il rotto della cuffia, è insomma considerato un passo indispensabile per la costruzione della 'cosa rossa': un'area unitaria a sinistra del Pd, inseguendo il sogno di Syriza che è passato da pochi punti percentuali a diventare il primo partito della Grecia attraverso un lungo percorso di radicamento sociale. All'interno della lista italiana la forza numericamente più significativa, Sinistra ecologia e Libertà, da tempo è divisa in due anime: una che guarda verso il Pd e l'altra che invece tende appunto al modello greco di Syriza. Il risultato delle europee, seppur risicato, è una vittoria per questa componente.
Alla lista Tsipras, nata da un appello di sei intellettuali di cui la Spinelli era capofila, hanno aderito Sinistra Ecologia e Libertà e Rifondazione. Sostegno alla lista è arrivato tra l'altro dall'ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, dal giurista Stefano Rodotà, dal fondatore di Emergency Gino Strada, dallo scrittore Aldo Nove, dall’ex direttore di Italia1 e di Raidue Carlo Freccero.
L'anno scorso, alle politiche, la sinistra radicale nel suo complesso aveva preso il 5,4 per cento, ma in un contesto completamente diverso: Sel infatti era in coalizione con il Pd e in questa veste aveva ottenuto il 3,3, mentre Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia si era fermata al 2,2. A Rivoluzione Civile tuttavia avevano aderito nel 2013 anche l'Italia dei Valori e i Verdi, che a questo turno si sono invece presentati in liste autonome con il proprio simbolo (restando largamente al di sotto dello sbarramento).
Intervista al sociologo Gallino: Renzi è un grande spot, ma il voto può cambiare l’Europa. La precarietà, il trattato segreto con gli Usa, l’austerity: ecco di cosa non si è parlato in questa campagna elettorale.
Il manifesto, 25 maggio 2014
Una campagna elettorale in cui «è stato fatto il possibile per trasformare il voto europeo in un voto sui partiti. I veri temi in questione? Assenti». Al professore Luciano Gallino, sociologo del lavoro e tra i promotori della lista l’Altra Europa con Tsipras, il modo in cui i grandi partiti e i media hanno affrontato il voto europeo è sbagliato: «Potrebbe essere un’elezione che si svolge in Australia o in Guatemala: i tre principali partiti sgomitano solo in vista del dopo».
Una ragione può essere che per le due grandi famiglie, Pse e Ppe, le larghe intese sono un esito scontato?
Comunque non giustifica l’omissione. Faccio un esempio: la Commissione Europea da un anno conduce trattative segrete con gli Stati Uniti per stabilire un partenariato sugli investimenti nel commercio, il Ttip (il Transatlantic trade and investment partnership, ndr). È un dispositivo che presenta rischi colossali per i diritti dei lavoratori, per la sicurezza alimentare, per la proprietà intellettuale. E i commissari lo sanno bene, tant’è che si chiudono in segrete stanze per discuterne. Da noi non se ne parla, in altri paesi sì. O anche: eleggere un presidente o un altro può fare la differenza, dopo i cinque anni di presidenza ottusamente liberale di Barroso.
Il socialdemocratico Schulz però sarebbe eletto con i voti del partito di Barroso.
Su alcuni temi Schulz potrebbe fare la differenza. Certo è un esponente della Spd tedesca post-Schroeder, dimissionaria da ogni tipo di sinistra. Il Pse si accorderà con il Ppe, in fondo la pensano allo stesso modo sul trattato di Maastricht, che è uno statuto di una corporation, non un documento politico.
L’Italia rispetterà le regole del six pack e del fiscal compact, o non potrà farlo, come ormai ammette anche il Pd?
I dati dicono che il nostro debito pubblico ormai è impagabile. Il Pil è sceso intorno ai 1550 miliardi, il debito è balzato oltre i 2mila. Per fare fronte ai requisiti del fiscal compact servirebbe destinare 40–50 miliardi l’anno dell’avanzo primario. Ma è insensato. Già oggi lo stato incassa circa 500 miliardi di imposte e tasse e ne spende intorno a 420–430. Toglierne altri 40–50 sarebbe un disastro per lo stato sociale e per l’amministrazione pubblica. Le strade sono due: o, appunto, il disastro, ovvero che l’Italia non si adegua e vengono erogate ulteriori misure punitive; oppure che i principali paesi con debito rilevante si accordano per diluire o abolire il fiscal compact; o comunque per procedere a una ristrutturazione pacifica del debito. Molto dipende dal risultato di questo voto.
È la proposta di Tsipras, che lei sostiene. Una conferenza per cancellare parte del debito, sul modello di quella di Londra del ’53 che permise di risolvere il debito della Germania. È fattibile, a suo parere?Sarebbe un primo passo concreto. L’idea di battere i pugni sul tavolo, quella di Renzi, è ridicola: ci vuole un certo numero di paesi, Francia Spagna e altri, per ottenere una la conferenza. Documentando che il debito non si può pagare. Parlarne ad alto livello sarebbe già un passo avanti rispetto alla litania del ’ce lo chiede l’Europa’. La Germania non va demonizzata: ma va ricordato che ha tratto vantaggio dal fatto di non aver mai pagato i suoi debiti. Ha pagato in misura minima le riparazioni della guerra del ’15-’18. E quanto all’enorme debito lasciato dai nazisti, è stato cancellato dagli americani che hanno stampato miliardi di marchi deutsche mark, non più di reichsmark, nel giugno del ’48 li hanno portati in Germania, e il giorno dopo hanno distribuito la nuova moneta. Così si è abbattuto il debito pubblico tedesco. Sono argomenti delicati, ma qualcuno ben preparato che li affronti avrebbe più possibilità di successo che non uno che si faccia male battendo i pugni sul tavolo.
Le politiche di Renzi rispondono a criteri europei?
Agli aspetti peggiori, però. La Troika e il Consiglio europeo da vent’anni lavorano per comprimere le condizioni di lavoro i diritti e i salari, in linea con le misure regressive che hanno visto alla testa i partiti di sinistra, socialdemocratici tedeschi, socialisti francesi e laburisti britannici. C’è un documento del ’99, un proclama di Blair e Schroeder, che sembra scritto da Confindustria. E dice chiaro che bisogna tagliare lo stato sociale.
Renzi segue ancora quelle vecchie linee di direzione, per esempio sul lavoro?
La generalizzazione del lavoro precario è già una realtà. Nessun governo era arrivato a imporre spinte alla precarizzazione del lavoro come è stato fatto oggi.
Ora dovrebbe arrivare il vero cuore del job act, il contratto unico e la costosa riforma degli ammortizzatori sociali.
Prima che costosa è rischiosa. La cassa integrazione ha un vantaggio fondamentale: mantiene il posto di lavoro, quindi mantiene una qualche titolarità di diritti per il lavoratore. Quello che si prospetta, a quanto si capisce, cancellerebbe questa minima difesa di un lavoratore. Le ricette di Renzi sono figlie di quelle di Blair, a loro volta nipoti di quelle di Thatcher, e cugine di quelle di Schroeder, per il quale la socialdemocrazia doveva smettere di pensare che i lavoratori hanno diritto a un posto fisso. Appuntandosi il badge di partiti di sinistra hanno ridotto i salari e moltiplicato la precarietà. Così è l’Italia oggi. La precarietà è elevatissima, lo dice l’Ocse (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ndr). E porta a un impoverimento di tutta la struttura economica. Lavoratori malpagati consumano meno, la domanda aggregata — ricordava Keynes — soffre. E un’azienda che deve retribuire in modo decente e continuativo i lavoratori è incentivata a fare ricerca e sviluppo, gli altri fronti che fanno il successo di un’impresa. Invece poter usare i lavoratori con il criterio on-off, cioè quando mi servi ti uso e quando no ti butto, spinge le imprese a puntare solo sul costo del lavoro e trascurare il resto. I nostri impianti sono i più vecchi d’ Europa, le spese in ricerca sono miserande, sul 34 paesi Ocse siamo intorno al 30esimo.
Renzi dice: ce la faremo, no ai gufi.
È uno spot pubblicitario, ma se non si affrontano i nodi prima o poi, anzi presto, il conto lo pagheranno i lavoratori.
Su questo Grillo pesca voti a piene mani.
La proposta di Grillo sul lavoro è un insieme di cose differenti, alcune generiche e condivisibili, altre no. E tra i lavoratori c’è il malcontento, che ovviamente si sfoga contro i sindacati. È già successo con la Lega, oggi succede con il M5S.
Anche Renzi prova a intercettare il malcontento contro i sindacati, attaccando apertamente la Cgil.
lavoratori sono insofferenti per quello che i sindacati non hanno fatto. Ma va detto che ai sindacati è stata fatta una guerra senza quartiere, dagli anni 80 in poi. La precarietà, appunto: come si fa a organizzare i lavoratori in presenza di venti contratti differenti piccole aziende sparse sul territorio? La globalizzazione ha significato una radicale trasformazione nel modo di produrre: i mille lavoratori che stavano sotto lo stesso padrone con lo stesso contratto sono diventati dipendenti di 15 aziende differenti con contratti differenti. E con un padrone che non si sa più chi sia. Di lì bisogna partire per ricostruire una qualche forma solida di sindacato.
La lista per l'altra Europa punta oggi al risultato elettorale che scaturirà dalle urne, ma le donne e gli uomini che hanno lavorato controcorrente nei mesi scorsi proiettano già il loro impegno al di là delle elezioni.
Il manifesto, 25 maggio 2014
Negli infiniti incontri «di chiusura» di questa campagna elettorale, c’era sempre un momento in cui l’applauso scattava immediato, istintivo, convinto. Ed era quando si diceva che «non termineremo il 25 maggio». Che l’appuntamento è già il 26, per continuare il percorso insieme. Perché sarebbe folle disperdere il «bene comune» accumulato in questi due mesi di fatica e di passione dalla moltitudine di donne e di uomini che ne hanno condiviso l’impegno.
Non so per gli altri. Ma nelle mie esperienze di territorio, da un palco su una piazza o da un banchetto a un angolo di strada, in un teatro o in un sottoscala, l’immagine che mi porto dietro è quella di una sinistra che scopre, quasi con sorpresa, ciò che potrebbe essere, se solo riuscisse ad andare oltre il proprio passato prossimo di frammentazione, chiusure mentali e gergali, sconfitte. Una sorta di respiro ampio, nel senso comune delle persone più che nei riflessi d’organizzazione. Uno stato d’animo più che un progetto consapevole, ma forte: la sensazione di poter tornare a parlare al di fuori di sé, dei propri steccati, e di poter trovare ascolto, se solo la parola riesce a forare il muro di silenzio mediatico, la cintura sanitaria ossessiva e oppressiva che ci è stata stretta intorno. E l’orgoglio di poterlo fare con in testa idee forti, credibili, adeguate all’altezza delle sfide, grazie alle quali ritrovare il rapporto, storico, che lega la sinistra alla schiera non piccola dei democratici conseguenti preoccupati per questa notte della democrazia.
Non sono mancati – sarebbe sciocco negarlo – errori, ingenuità, inefficienze, riserve mentali e ritardi organizzativi. Ma non possiamo nasconderci i tratti di nobiltà che hanno caratterizzato l’impresa nel suo complesso.
In primo luogo il fatto che L’altra Europa con Tsipras è l’unica lista che si è misurata nelle elezioni europee con un discorso sull’Europa e per l’Europa. Non ha proiettato su scala continentale le liti da pollaio del cortile di casa, come hanno fatto le tre forze politiche – anzi i tre istrioni – a cui un sistema mediatico malato e pigro ha riservato la totalità dello spazio informativo, ma ha fatto della trasformazione radicale delle politiche europee l’asse portante della propria proposta. Non perché siamo più colti, o raffinati e sensibili degli altri (anche per questo). Ma soprattutto perché sappiamo che sulla possibilità di rovesciare gli equilibri politici nel cuore d’Europa si gioca la possibilità di sopravvivenza del nostro Paese. Che o si cambia l’Europa o si affonda.
In secondo luogo L’altra Europa con Tsipras è l’unica lista che ha un programma europeo credibile, realistico e radicale insieme, come, appunto, la situazione drammatica richiede. Una Conferenza europea per la socializzazione e la ristrutturazione del debito, come un’Unione degna di questo nome non potrebbe non fare. Un New Deal continentale con al centro un programma per l’occupazione, capace di produrre a livello europeo 6–7 milioni di posti di lavoro (quanti la crisi ha distrutto) investendo 100 miliardi di euro all’anno, per un triennio, finanziati con una fiscalità europea (una tassa sugli inquinatori e una sulla speculazione finanziaria). L’autorizzazione alla Bce a funzionare da prestatore di ultima istanza a sostegno delle economie più deboli. E infine un’intransigente opposizione al Ttip, il Trattato Transatlantico negoziato in segreto che consegnerà le nostre vite e i beni comuni alla fame di profitto delle transnazionali.
Non sono utopie. Non è un programma per un futuro lontano. È un programma per oggi (anche perché domani sarebbe tardi). È, d’altra parte, un programma realisticamente proponibile perché le forze che si riconoscono nella leadership di Alexis Tsipras costituiranno il terzo gruppo nel nuovo Parlamento europeo (dove, per formare un gruppo, e quindi per fare politica, è necessario raccogliere adesioni di rappresentanti di almeno sette paesi). E quanto maggiore sarà la sua forza, tanto più alta sarà la possibilità di spezzare l’asse tra Partito popolare e Partito socialista che, senza un’azione efficace a sinistra, riprodurrebbe inevitabilmente le larghe intese che Schulz e Merkel hanno costituito in Germana e che dominano in Grecia e Italia.
Un forte gruppo parlamentare europeo di sinistra (di sinistra vera), potrebbe fare il miracolo di ricondurre almeno la parte più sensibile della socialdemocrazia europea su una linea di solidarietà continentale. E insieme di catalizzare anche quelle forze (penso naturalmente ai Verdi, ma anche ai parlamentari del Movimento 5 Stelle, che saranno numerosi ma orfani in quel contesto) che si oppongono alle attuali politiche europee e che non hanno i tratti osceni del neonazionalismo xenofobo, intorno a una linea, potenzialmente maggioritaria, di efficace contrasto del dogma dell’Austerità e di radicale alternativa ad essa.
Questo vuol dire fare politica in Europa. Per questo diciamo che il voto per L’altra Europa con Tsipras è l’unico voto utile, oggi. Non vederlo sarebbe miopia politica, pericolosa per sé e soprattutto per gli altri, cioè tutti noi. «La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!». Così si chiudeva, settant’anni fa,
il Manifesto di Ventotene. Le stesse parole possiamo continuare a ripeterci, noi, oggi.
«Il web-party contesta alla radice i corpi intermedi sui quali si fonda la rappresentatività: il partito politico strutturato e il giornalismo professionale»,
La Repubblica, 25 maggio 2014
L’invenzione di Internet e la sua economicità e facilità d’uso cambiano la fisionomia della democrazia rappresentativa, una forma di governo per mezzo del consenso elettorale e dell’opinione organizzata mediante partiti e media. Questa rivoluzione accade in un tempo di altre trasformazioni epocali: quelle relative alle società di mercato e capitalistiche, insofferenti dei lacci imposti dal governo della maggioranza, e sempre meno disposte ad accettare di moderare le diseguaglianze consentendo politiche redistributive e una tassazione progressiva. Assistiamo oggi a un’inasprimento delle diseguaglianze di classe al punto che gli stessi economisti riconoscono come la ricchezza tenda a concentrarsi in pochissimi e a non produrre più sviluppo per i molti.
Le nostre società oscillano tra il rischio di trasformazione oligarchica e autoritaria delle sue leadership e la non volontà di garantire a tutti i cittadini lo stesso diritto di contare e di essere rappresentati e, dall’altro, la convinzione di molti cittadini che Internet offra la possibilità di risolvere questi problemi e combattere il privilegio come ormai i partiti non fanno più. In Islanda, il Paese dal quale la crisi del 2008 è partita, i cittadini hanno cercato di riscrivere la costituzione servendosi della partecipazione via Facebook e Twitter, aggirando i partiti, diventati parte del problema perchè essi stessi oligarchici. Il successo di Matteo Renzi si è consumato e si consolida sui social network. Ma l’esempio più dirompente viene dal Movimento 5 Stelle, un partito-non-partito, o webparty, che ha contestato alla radice i due corpi intermedi sui quali si è costruita la democrazia rappresentativa: il partito politico strutturato e il giornalismo professionale.
Internet sembra dunque consentire una selezione della leadership fuori dalla mediazione dei partiti. Ma ci sono almeno due problemi: la democrazia dei cittadini rischia di essere soppiantata da quella dell’audience, un’entità indistinta e generata da chi la muove, la provoca e la cerca, ovvero da chi ha l’ambizione della leadership; il leader che incontra il pubblico di Internet non deve rendere conto al partito ma al pubblico che egli stesso alimenta fino al punto di essere egli stesso il popolo che crea via Twitter. Inoltre, Internet è aperta a tutti, ma il suo popolo è comunque una minoranza, non meno di quella che formava i partiti.
La democrazia via Internet sembra annullare la distanza tra cittadini e istituzioni e rilanciare la cittadinanza diretta e invece genera nuovi livelli di mediazione e di potere, per ora meno controllabili di quelli in uso nei partiti perché senza statuti, organi dirigenti eletti e regole di partecipazione e decisione. I due problemi sono sintomatici di una trasformazione della democrazia rappresentativa in plebiscito permanente via-rete che non necessariamente premia l’inclusione di tutti né distribuisce il potere della voce più equamente, come promette di fare.
«Il costo della coesione dell’élite,è una distanza sempre maggiore tra chi governa e chi è governato. Serrando i ranghi, l’élite ha garantito che non ci fossero voci moderate di dissenso dall’ortodossia politica. La mancanza di un dissenso moderato ha dato vigore a gruppi come il gruppo lepinista».
La Repubblica, 25 maggio 2014
Un secolo fa l’Europa si lacerò in quella che, per un certo periodo, fu nota come la Grande Guerra - quattro anni di morte e devastazione senza precedenti. In seguito quel conflitto fu rinominato Prima guerra mondiale perché, a distanza di un quarto di secolo, l’Europa ci ricascò e ricominciò tutto daccapo.
Ciò, tuttavia, avvenne molto tempo fa. È difficile pensare alla guerra nell’Europa odierna, che si è unificata attorno ai valori democratici e ha intrapreso i suoi primi passi verso un’unione politica. Mentre sto scrivendo, in tutta Europa si stanno svolgendo elezioni, per scegliere non i governi nazionali, ma i membri del Parlamento europeo. È vero, il Parlamento ha poteri limitati, ma la sua esistenza è già un trionfo dell’idea europea. C’è un problema, però: si prevede che un’allarmante percentuale di voti andrà agli estremisti di destra, ostili a quei valori che hanno reso possibile indire quest’elezione. Mettiamola in questi termini: alcuni dei vincitori delle elezioni europee verosimilmente saranno pronti a schierarsi dalla parte di Vladimir Putin nella crisi dell’Ucraina.
In verità, il progetto europeo — una pace garantita da democrazia e prosperità — è nei guai. Il continente vive in pace, ma la prosperità sta venendo meno e così pure, in modo più impercettibile, la democrazia. Se l’Europa metterà il piede in fallo vi saranno ripercussioni per tutto il mondo.
Perché l’Europa è nei guai? Il problema più immediato è la sua scarsa performance economica. Si supponeva che l’euro, la valuta comune, potesse essere il punto culminante dell’integrazione economica. Invece, si è rivelato una trappola. Ha generato una pericolosa compiacenza, dato che gli investitori hanno versato contanti nell’Europa meridionale, senza prendersi cura dei rischi. Poi, quando il boom ha fatto cilecca, i paesi debitori si sono trovati con le mani legate, incapaci di recuperare la competitività perduta senza anni di disoccupazione a livelli da depressione. I problemi dell’euro sono stati inaspriti da una cattiva politica. I leader europei hanno insistito, e continuano contro ogni evidenza, che la crisi ha a che vedere con l’irresponsabilità fiscale, e hanno imposto un’austerità selvaggia che aggrava la situazione.
La buona notizia — beh, per modo di dire — è che malgrado i passi falsi l’euro tiene, e ciò sorprende molti analisti (compreso il sottoscritto) che pensavano potesse andare a pezzi. Come si spiega questa resilienza? In parte col fatto che la Banca centrale europea ha tranquillizzato i mercati promettendo che avrebbe fatto «tutto ciò che era necessario » per salvare l’euro. Al di là di ciò, tuttavia, l’élite europea resta dedita a questo progetto, e finora nessun governo è stato disposto a uscire dai ranghi.
Il costo della coesione dell’élite, tuttavia, è una distanza sempre maggiore tra chi governa e chi è governato. Serrando i ranghi, l’élite ha garantito che non ci fossero voci moderate di dissenso dall’ortodossia politica. La mancanza di un dissenso moderato ha dato vigore a gruppi come il Front National francese, la cui candidata di punta per il Parlamento europeo denuncia «un’élite tecnocratica al servizio dell’America e dell’oligarchia finanziaria europea».
L’amaro paradosso, però, è che questa élite europea non è affatto tecnocratica. La creazione dell’euro aveva a che vedere con la politica e l’ideologia, non era una risposta a una puntuale analisi economica (che fin dall’inizio indicava che l’Europa non era pronta per una valuta comune). Lo stesso vale per la svolta verso l’austerità: qualsiasi ricerca economica che si presumeva giustificasse quella svolta è stata smentita, ma le politiche non sono cambiate. Oltretutto, l’abitudine di mascherare l’ideologia da competenza, di fingere che quello che vuole fare è quello che deve essere fatto, ha dato luogo a un deficit di legittimazione. L’influenza dell’élite riposa sull’assunto di una competenza superiore. Quando queste presunte dichiarazioni di competenza sono smascherate, non rimane nient’altro.
Finora l’élite è riuscita a tenere tutto assieme, ma non sappiamo quanto a lungo potrà durare, e negli schieramenti ci sono alcuni soggetti che incutono paura. Se saremo fortunati - e se i funzionari della Banca centrale europea agiranno con sufficiente coraggio contro la crescente minaccia di deflazione - nei prossimi anni potremmo assistere a una certa ripresa economica. Ciò, a sua volta, potrebbe concedere un margine di respiro all’intero progetto europeo.
Da sola, però, la ripresa economica non sarà sufficiente. L’élite europea deve tenere a mente di cosa si parla quando si parla di progetto europeo. È tremendo vedere quanti europei stiano ricusando i valori democratici, ma almeno parte della colpa è da addossare ai funzionari che più che alla democrazia sembrano interessati alla stabilità dei prezzi e alla probità fiscale. L’Europa moderna è eretta su una nobile idea, ma quell’idea ha bisogno di più difensori.
«Il manifesto, 24 maggio 2014, con postilla
Peccato che i maestri della sinistra non riescano a cogliere la novità vera dell’operazione Tsipras, che ritengo sarà comunque compresa e largamente premiata dagli elettori domenica. Mi riferisco all’articolo di Asor Rosa (
il manifesto, 21 maggio), il quale parla di “larghe intese” con il M5S lasciando intendere che quella sarebbe una buona ragione per non votare “L’Altra Europa per Tsipras”.
D’altra parte Asor Rosa un paio d’anni fa aveva avuto modo di antipatizzare con il movimento per i beni comuni pasticciando soprattutto con la dottrina politica ed esso sottostante, proclamando la propria convinzione statalista e rifiutando (in compagnia di diversi altri compagni figli della stessa stagione) ogni ipotesi di equidistanza fra il comune, il pubblico ed il privato. Di acqua da allora ne è passata sotto i ponti. Quello Stato, che tanta sinistra ancora considera più “amico” del mercato, mostra quotidianamente la sua faccia autoritaria e brutale, la sua frustrata impotenza, la sua inadeguatezza a farsi carico dei problemi messi sul tappeto dall’attuale condizione del mondo. Lo “Stato amico” (non era così negli anni Settanta quando il debito era interno) è in balia dei suoi creditori, vende disperatamente i gioielli di famiglia mentendo per giunta, come ogni buon tossico o ludopatico, sulla natura di quanto sta facendo. Solo nelle ultime settimane la privatizzazione di beni pubblici sovrani come gli slot aerei (Enav) e le Poste è stata gabellata come azionariato popolare dalla comunicazione di regime. Lo Stato amico perseguita i militanti No-Tav, i compagni che lottano per implementare in concreto e non con le chiacchiere da salotto buono il diritto costituzionale all’ abitazione per tutti.
Oggi l’onda lunga del referendum sui beni comuni si presenta sotto le sembianze della lista Tsipras provando ad andare in Europa per far sentire, grazie al megafono del parlamento di Strasburgo, la voce di chi ha capito che la partita si può vincere soltanto con uno stravolgimento profondo degli assetti istituzionali dominanti, ponendo la questione democratica là dove essa può essere determinante, ossia nei meccanismi istituzionale dell’economia. Da Strasburgo ci renderemo conto una volta per tutte che è proprio la contrapposizione fra privato e pubblico la grande ideologia che ci fa perder tempo discutendo di modalità di votazione del Senato o di altre questioni altrettanto inutili. Abbiamo pagato lo scorso anno quasi 9 miliardi di servizio ad un debito in massima parte giuridicamente odioso; abbiamo privatizzato beni per altri 140 miliardi; abbiamo trasferito 11 punti di Pil dal lavoro al profitto, grazie alle politiche neoliberali, che sono un altro centinaio di miliardi; il Fiscal compact ed il pareggio di bilancio in Costituzione, che sono parte dello stesso deliberato processo di robotizzazione dell’Europa iniziato con l’Atto Unico del 1986, aggiungerà un’altra cinquantina di miliardi al salasso che il nostro paese dovrà pagare ogni anno.
Facendo il conto della serva, noi ogni anno dovremo pagare il valore intero di tutte le privatizzazioni fin qui fatte! Quanta argenteria da vendere avrà ancora il nobile Stato decaduto?
Col Referendum 2011 ci siamo espressi in maggioranza contro privatizzazioni e grandi opere. Quel referendum ha messo lo Stato sul banco degli imputati e ha fatto capire a chi poteva o voleva farlo che lottare contro le privatizzazioni non significa restaurazione del pubblico statalista e burocratico. Poi ci siamo scontrati con la traducibilità del voto referendario in rappresentanza politica (Alba; Cambiare si può). Successivamente abbiamo perso la grande occasione di capire per tempo che la partita per il Quirinale era davvero costituente e che così andava giocata. Non è tuttavia stato un caso che il voto pentastellato e di sinistra fossero confluiti su una figura prestigiosa, rappresentativa e genuinamente garantista come quella di Stefano Rodotà.
Non sono larghe intese politiche quelle fra Tsipras e Grillo. E’ piuttosto la presa d’atto di una natura costituente di questa fase, che è dettata dalla catastrofe ecologica e sociale determinata dal modello di società che ancora il potere costituito si ostina a chiamare crescita.
Tanto l’Altra Europa, quanto M5S hanno capito che non esistono alternative alla ridiscussione radicale dei meccanismi che dall’Atto Unico del 1986 hanno trasformato l’Europa in un robot, un meccanismo infernale che trasforma in capitale ogni bene comune. In questo senso entrambe, ciascuna con la sua assai diversa connotazione politica, portano la discussione sull’Europa a livello costituente. L’Altra Europa e il M5S hanno capito che oggi abbiamo troppo capitale e troppo pochi beni comuni e che invertire la rotta significa inventare nuove istituzioni del comune, partecipate in modo diretto, che abbiano finalmente la forza ed il coraggio di trasformare il primo nei secondi.
Condividere la necessità costituente non significa essere uguali e neppure simili. Sostenere questo ha lo stesso senso di considerare uguali Einaudi e Togliatti, solo perché insieme parteciparono allo stesso sforzo costituente dopo la catastrofe del fascismo. La differenza politica è assai rilevante e sta proprio nel garantismo, nell’accoglienza, nell’orrore per le manette nel desiderio di utilizzare la ragione più della pancia.
Postilla
Pubblico, comune, privato. L'attenzione va posta al contesto nel quale concretamente si pongono le cose cui le parole rinviano o alludono. La lista Tsipras non dice no all'Europa, dice No a questa Europa e si a un'alrea Europa. Analogamente, a me sembra che si debba dire no a questo Stato, ma non a ogni possibile Stato. Come del resto occorre dire no a questa economia, ma no a ogni economia. Allora ha senso, e diventa impegno serio, provare a immaginare e costruire un'altra Europa, un altro Stato e un'altra economia.
Con la prepotenza e la furbizia che ben conosciamo, stasera Matteo Renzi si è preso la piazza del potere. La piazza della Signoria. Ma gli lasciamo di buon grado la Signoria: noi siamo felici di essere nella piazza della solidarietà.
Qui, sei secoli fa, sorse il primo edificio del Rinascimento: ebbene, quell'edificio – lo Spedale degli Innocenti, di Pippo Brunelleschi – non era al servizio della politica intesa come potere. Ma al servizio della politica intesa come accoglienza, solidarietà, cura degli ultimi. Quel palazzo così bello era per i meno potenti di tutti: i bambini che nessuno voleva. Perché il senso vero della bellezza è la giustizia.
Oggi, al contrario, la bellezza di Firenze è una bellezza prostituita, schiava del potere e del denaro. Oggi i monumenti che ci hanno fatto comunità sono diventati la location dove banchettano le grandi banche mondiali. E non è un modo di dire: pochi giorni fa Santa Maria Novella ha chiuso le porte ai cittadini e ai turisti per ospitare un solenne rito di esclusione della Morgan Stanley, banca d'affari di New York.
Ma stasera voglio parlarvi di Shakespeare. Perché Shakespeare parla di noi.
Se dovessi spiegare a un marziano qual è lo stato presente dell'Europa, userei la storia del Mercante di Venezia. Noi siamo come Antonio, che ha chiesto e ottenuto un prestito. Oggi, poiché non possiamo restituire quel prestito, ecco che ci viene chiesta una libbra della nostra carne, tagliata nella parte più vicina al cuore. I macellai sono già all'opera: quella carne è il nostro stato sociale, il sostegno degli ultimi. Quella libbra di carne sono i nostri beni comuni, tagliati e venduti a vil prezzo. L'aria e l'acqua, inzuppate di veleni. Il paesaggio, che ogni governo schiaccia sotto il cemento. L'università, la ricerca e la scuola pubblica condannate a morte.
Quella libbra di carne è il patrimonio artistico: che dovrebbe servire a costruire l'eguaglianza sostanziale e produrre il vero sviluppo della persona umana, e che invece è l'ennesimo strumento di diseguaglianza, segregazione di classe, asservimento al mercato. Nel dramma di Shakespeare, gli amici di Antonio chiedono aiuto al doge di Venezia: cioè alla legge, allo Stato. Non è possibile consentire un simile massacro, gli dicono. Non è umano consentire il cannibalismo verso chi non può pagare un debito.
Qual è la risposta del doge? Ebbene, quella risposta ci suonerà familiare. Lo Stato si deve arrendere di fronte ad un contratto.
La forza del mercato è la vera sovranità: niente la può temperare, fermare, sovvertire. Sono i contratti e gli interessi che fanno la legge: e non il contrario. Non siamo noi nella stessa situazione? Non ci viene forse detto che lo Stato non può nulla; anzi deve esso stesso essere smontato, svenduto, neutralizzato?
La nostra Costituzione è riscritta nei fatti: l'articolo 1 suona ora così «La sovranità appartiene ai mercati che la esercitano senza limiti al di sopra di ogni legge e ogni principio etico». E parla ancora per noi Shakespeare, quando esclama: «Oh, se le proprietà, i gradi, le cariche pubbliche non venissero guadagnati con la corruzione!»
Nel Mercante di Venezia la salvezza arriva attraverso un cavillo. Il contratto parla solo di carne e non di sangue: non una goccia può essere versata, e dunque la libbra di carne non si può tagliare. È quel che proviamo a fare noi: ci viene promesso che saranno riviste le clausole dei trattati, che troveremo una scappatoia, che qualcuno chiuderà un occhio. Ma non siamo a teatro: nella realtà il coltello sta già tagliando la carne dei cittadini e del territorio.
Noi siamo qua stasera per dire che non vogliamo cavilli e scappatoie. Vogliamo un'Europa costruita sui diritti della persona, e non sulla forza selvaggia del mercato. Vogliamo una vera costituzione europea, basata sui principi fondamentali della nostra Costituzione: che sono i principi sui quali è nata l'Europa come progetto politico.
Proprio ora, in Piazza della Signoria Matteo Renzi sta dicendo cose che possono apparire non troppo lontane da queste. Sta parlando anche lui di un'Europa dei diritti. Sta dicendo la verità? Giudichiamolo dai fatti.
La legge elettorale che Renzi ha confezionato insieme a Silvio Berlusconi ha lo scopo dichiarato di ridurre la rappresentatività del Parlamento. Per avere meno intralci, per decidere più velocemente. Per lo stesso motivo Renzi e Berlusconi hanno già annunciato che il passo successivo sarà il presidenzialismo. Lo scopo dichiarato è quello di ridurre la "debolezza dei governi rispetto ai Parlamenti". Ebbene, queste sono le precise parole del documento con cui la banca d'affari JP Morgan, tra i grandi responsabili criminali della crisi, ci ha chiesto di cambiare la forma dello Stato: in un documento reso pubblico il 28 maggio 2013, quella banca sostiene che «le Costituzioni dei Paesi della periferia meridionale dell'Europa mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica delle sinistre dopo la sconfitta del fascismo», e che perciò vanno cambiate. Lo stesso documento addita l’Italia come scenario del «test essenziale di questo cambiamento».
E così, mentre Dario Nardella noleggia Firenze alla Morgan Stanley in cambio di qualche spicciolo di euro, Matteo Renzi vende la Costituzione della Repubblica alla JP Morgan in cambio del potere che possa saziare la sua smisurata ambizione personale.
Il nostro orizzonte è diverso. Il nostro fronte di resistenza è quello in cui si decide se oltre ad avere un'economia di mercato siamo anche rassegnati ad essere una società di mercato: ad essere, letteralmente, mercato. Ad essere, cioè, una società dove tutto – ma proprio tutto, niente escluso – si misura col metro del denaro. Una società in cui tutto ha un prezzo, e si può vendere e comprare. Una società in cui il declino dell'uomo pubblico è giunto all'estremo: e dunque una società formata dalla somma di tanti vissuti privati, ridotti alla mera dimensione economica.
Una società in cui parole come democrazia o politica non hanno più alcun senso.
Noi pensiamo che essere di sinistra voglia dire avere il coraggio di cambiare questa società.
Giuseppe Dossetti avrebbe voluto che nella nostra amata Costituzione un articolo che dicesse che: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino».
Noi siamo qua per dire che resisteremo. Ma anche per dire che resistere non basta. Vogliamo fare una rivoluzione. Una rivoluzione culturale, per cominciare.
Vogliamo cambiare l'Europa cambiando gli europei: rendendoli cittadini, non più sudditi.
Il momento è ora, non c'è più tempo per aspettare il domani.
Non c'è più tempo per aspettare il domani: lo hanno gridato gli studenti di storia dell'arte, tra le macerie dell'Aquila, che ancora aspetta la sua ricostruzione.
Lo gridiamo noi stasera tra le macerie della Repubblica e dell'Europa: non c'è più tempo per aspettare domani. È per questo che è essenziale eleggere donne e uomini capaci di costruire più Europa. Un'Europa giusta e democratica. Donne e uomini come quelli della Lista Tsipras.
Perché volga al suo termine – finalmente – la notte della democrazia.«La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!» Così si chiude il Manifesto di Ventotene. il manifesto per un'Europa libera e unita. Il nostro manifesto.
Lo diciamo stasera, con una voce sola: «La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!»
Viva la Costituzione italiana, viva la Sinistra, viva l'Europa!
Due interventi (di Massimo Torelli e di Edoardo Salzano)a proposito di un articolo di Alberto Asor Rosa sulle elezioni del 25 maggio.
Il manifesto, 24 maggio 2014
Con Machiavelli o con Gramsci?
di Massimo Torelli*,
Alberto Asor Rosa, a proposito delle elezioni europee, ha “simpatizzato” con la “massa” di coloro che non hanno ancora scelto, e forse non sceglieranno, così elevata da sfiorare la maggioranza assoluta, con un articolo che non esitiamo a definire volutamente ostile. Vogliamo provare a rispondere a lui e, soprattutto, ad interloquire con quella massa, a partire da ciò che abbiamo provato a fare con la lista L’Altra Europa con Tsipras. E cioè ricostruire una “connessione sentimentale” la cui mancanza è ciò che determina lo stato attuale delle cose. Questa ricerca di connessione sentimentale l’abbiamo proposta ai lettori della piazza gremita di Bologna, con il testo dell’intervento di Barbara Spinelli, strumentalmente richiamato nell’articolo.
Vorremmo porre, con animo benevolo, ad Alberto Asor Rosa le domande che Alexis Tsipras ha posto alla piazza: «Questa è l’Europa che vogliamo? Questa politica e questi politici noi confermeremo con il nostro voto domenica? Diremo sì all’Europa di Machiavelli? O diremo sì all’Europa dell’Illuminismo e di Gramsci? Diremo sì ad un’Europa già lontana dai Cittadini dai valori dei suoi principi fondanti e dalla partecipazione? O con il nostro voto per “L’altra Europa” diremo sì all’Europa dei suoi Fondatori, all’Europa della Democrazia, della coesione, della solidarietà e della politica di eguaglianza dei suoi Paesi?».
*Responsabile della lista L’Altra Europa con Tsipras
Se sarò eletto collaborerò con i pentastellati
di Edoardo Salzano*
Sono d’accordo con molte delle cose che Alberto Asor Rosa ha scritto per il
manifesto del 21 maggio. Ma non con tutte. Mi sembra che anche lui subisca il clima che la mediocrazia ha creato attorno alle elezioni per il parlamento europeo. Per la grande informazione questo evento politico ha come suo centro l’Italia, non l’Europa; sul palcoscenico ci sono solo due attori: Renzi e Grillo. Anche Asor Rosa mi sembra accettare questa impostazione. E allora - mi sembra che affermi Asor Rosa - se si vuole combattere il comico demagogo non c’è che appoggiare il Pd di Renzi, e se si vuole combattere Renzi e il renzismo non c’è che da allearsi con Grillo.
Se la mia sintesi non è troppo infedele e se questo fosse il succo dell’articolo di Asor Rosa allora bisognerebbe esaminare un po’ più a fondo sia Grillo e il suo movimento sia Renzi e il Pd. Se si approfondisse l’analisi forse si giungerebbe a condividere le parole di Barbara Spinelli, su cui Asor Rosa invece ironizza, deprecandole. Per guardare alle cose così come stanno alcune distinzioni sono essenziali.
Io, ad esempio, penso che occorra distinguere tra la figura di Grillo, che anche a me fa paura, e le persone che oggi lo seguono. Per molte di loro ho personalmente lo stesso rispetto e la stessa condivisioni che ho per molti degli attuali militanti del partito oggi guidato (comandato) dall’asfaltatore Renzi.
Mi considero anch’io, come Asor Rosa, un “rosso-verde”. Ma nel Pd renziano di “rosso” ne vedo solo qualche pallido residuo, e invece del “verde” vedo il grigio-nero del cemento e dell’asfalto. Nel movimento di Grillo, se mi turba l’ombra del nero, non perderei ‚né perdo, l’occasione di collaborare con quanto di “verde” (e non è poco) vi abita.
Poiché poi preferisco discutere di Parlamenti e non di duci e ducetti, non escludo affatto di collaborare (se per caso dovessi essere eletto nel Parlamento europeo) con i grillini che vi fossero eletti, come con i piddini (si dice così?) che vi arriveranno. Come con chiunque altro eletto che dimostrerà di voler difendere l’ambiente, il lavoro e (non dimentichiamolo) la democrazia minacciata, mi sembra, dall’una parte e dall’altra del teatrino.
*candidato della lista L'altra Europa con Tsipras
«Non si può fare tabula rasa e ricominciare senza pregiudizi. È un’illusione infantile». Giovani e vecchi, passato presente e futuro, conservazione innovazione, in una magistrale lezione.
LaRepubblica, 24 maggio 2014
Se la politica è l’arte delle combinazioni che serve a tenere insieme le contraddizioni evitando che scoppino, il nostro sembra essere sempre meno un tempo politico e sempre più un tempo conflittuale. Nutriamo dentro di noi, nel nostro modo di pensare noi stessi rispetto agli altri, fratture che eleviamo a culture, cioè a visioni generali della vita, e che, perciò, diventano difficilmente componibili. Forse, la più profonda perché legata alla biologia, è la frattura generazionale.
A lungo abbiamo osservato e deplorato l’immobile gerontocrazia che ha dominato nel nostro Paese. Ora, i rapporti si stanno rovesciando, se già non sono rovesciati. La gioventù è portatrice d’un carisma che l’autorizza a rivendicare la guida della società. È fresca, spregiudicata, disinibita. Ha occhi ridenti e fuggitivi, soprattutto rapidi. Gli anziani sono conservatori, appesantiti dalle tante cose che hanno visto e vissuto, legati a idee che vengono da lontano, incompatibili con il mondo che cambia. Hanno occhi appannati, intristiti, fissi. Chi troppo ha visto e sperimentato, spesso è privo d’energia verso la realtà: ne conosce tanti o tutti gli aspetti e cade nello scetticismo e nell’abulia ironica. Insomma, gli anziani sono ostacoli. Ciò che una volta si considerava una virtù si è mutato in vizio: l’esperienza è diventata l’intralcio. Il futuro è dei giovani, si lascino gli anziani al loro passato. «Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia ». Forse non siamo a questo ancora, ma insomma...
Nella sua galleria delle immagini che fissano momenti cruciali della vita, qualcuno avrà forse registrato lo sguardo smarrito di Bobbio e Spadolini di fronte al dileggio cui furono esposti al tempo dell’elezione del presidente del Senato della XII legislatura. Lì si poteva già capire che qualcosa di decisivo si era rotto e che nella frattura uomini nuovi vittoriosamente venivano alla ribalta. Da allora, le cose sono andate avanti. I toni, nei confronti degli anziani, possono essere cortesi o sgarbati, compassionevoli o crudeli, rispettosi o arroganti. Dipende dalla buona o cattiva creanza, ma la materia è la stessa ed è dilagante. Chi non ricorda gli insulti alla senatrice Levi Montalcini? Chi non legge ciò che compare sui social forum non sa che l’argomento decisivo contro gli avversari è sempre più spesso l’anagrafe e che di questo argomento bersaglio preferito è il presidente della Repubblica.
In fondo, che ci se ne renda conto o no, appartiene alla stessa visione del mondo la retorica della rottamazione, il trar motivo di vanto dall’abbassamento della “età media” di ministri e sottosegretari, fino alla polemica contro parrucconi o “professoroni”( o presunti tali). Un tempo si diceva: i giovani hanno solo il diritto di crescere studiando, cioè di cessare d’essere giovani. Oggi, le idee retrocedono e avanza la generazione. Chi viene dal passato s’adegui o, almeno, taccia! Se non arriva a capirlo da sé, c’è chi ci pensa al posto suo. Se non lo si mangia o non lo si cosparge di miele per darlo in pasto alle termiti, come in certe tribù delle civiltà precolombiane, lo si mummifica in qualche accademia: destino più civile e meno spiacevole, ma uguale nel risultato.
Dietro l’atteggiamento di chi fa valere la sua gioventù come plusvalore, c’è una visione del mondo cui, consapevolmente o inconsapevolmente, aderisce. Allo stesso modo c’è una visione del mondo in chi rovescia il plusvalore a favore degli anziani: i giovani hanno un solo dovere, smettere d’esserlo. Sono chiamati in causa i rapporti tra le generazioni. Tutti noi sappiamo che sono rapporti conflittuali, a partire da quelli tra genitori e figli. Prima d’essere genitori siamo stati figli e bene sappiamo che la nostra crescita si è svolta attraverso quel conflitto che poi, generalmente, acquisita la maturità e la sicurezza di sé, si ricompone in un equilibrio in cui né gli uni né gli altri sono più quelli che erano prima.
Così va il mondo degli umani, così la vita procede e ha la vittoria sulla stasi mortifera e nichilista dell’immutabile. Benedetti siano, dunque, quelli che agitano le acque immobili, anche se generano temporanea tempesta.
Dalla piccola dimensione, i rapporti intergenerazionali si proiettano sulla scala vasta della vita sociale. Diventano scontro di culture politiche. Alla fine del Settecento, epoca rivoluzionaria, si diffuse nel mondo occidentale l’intolleranza verso tutto ciò che aveva il sapore dell’Antico Regime. «Il mondo appartiene ai viventi » fu il motto di quegli anni: dunque tacciano le generazioni precedenti. Perfino le leggi e le costituzioni dovevano automaticamente cadere al volgere delle generazioni (più o meno ogni trentacinque anni, si sosteneva), per liberare le nuove dal giogo delle antiche e permettere loro di ricominciare ogni volta da capo.
A questa visione a singhiozzo se ne oppose un’altra. Il mondo non appartiene solo ai viventi. È un lascito testamentario che ogni generazione riceve dalla precedente per consegnarlo a quella successiva. La tradizione unifica le generazioni, ognuna delle quali è chiamata a portare il suo contributo a un’opera di umanizzazione che le trascende. «I viventi appartengono al mondo», si potrebbe dire, rovesciando la citata formula diThomas Jefferson.
In realtà, il mondo appartiene ai viventi e al tempo breve della loro generazione, ma è vero anche il contrario: i viventi appartengono al mondo, il cui tempo lungo scavalca le generazioni. Tra innovazione e tradizione c’è e deve esserci tensione, nella quale alla prima spetta tagliare i rami secchi e alla seconda conservare quelli vitali. Ma, oggi s’è diffuso un sentimento d’impazienza e d’insofferenza generale. Il lascito dei padri appare fallimentare ed è rifiutato dai figli. Si voleva una società dove regnasse pace, giustizia e solidarietà e abbiamo violenze, ingiustizie ed egoismi.
Tabula rasa allora, per poter ricominciare senza vincoli e pregiudizi. Per quanto sia dettata dai migliori sentimenti, questa è un’illusione infantile, perché nessuno ricomincia mai davvero da capo. Ogni svolta storica non velleitaria e non catastrofica si radica in energie morali e materiali che sono venute accumulandosi nel tempo e chiedono di farsi spazio: chiedono cioè di diventare anch’esse tradizione a partire da un’altra tradizione che s’è andata formando. Non basta l’energia, la voglia di fare e cambiare, la velocità. Non basta far leva solo sul malessere. Su questo soltanto non si costruisce, ma si distrugge. Al più, sotto le apparenze del cambiamento, si apre la corsa dei nuovi per prendere il posto dei vecchi: semplice lotta per il potere, tra chi se lo vuol tenere e chi glielo vuol togliere.
È giusta la critica nei confronti di chi ha concepito la politica al di fuori o contro le aspettative e le speranze dei molti e giusta sarebbe anche l’autocritica. Ma la validità delle aspettative e delle speranze non è affatto travolta perché qualcuno tra la generazione dei padri le ha tradite. Anzi, il tradimento le rafforza. Valori e fatti sono cose diverse. Il giovanilismo è espressione del dominio dei fatti, dell’effettività. Ma i fatti non hanno alcun valore. Quando si dice che si deve “cambiare l’Italia”, che occorrono “riforme”, che bisogna “cambiare verso”, o si usano altre simili espressioni di per sé prive di contenuto, si indulge per l’appunto all’attivismo, alla cultura del fare per il fare. A questo fine, il giovanilismo è sufficiente. Se, invece, il fare si vuol inserire in un disegno che valga per l’oggi, apra una strada per il futuro e trovi le sue basi in ciò che di valido viene dal passato, il giovanilismo non basta più. Non è più questione di vecchi e giovani.
L'Europa non è nata secondo il progetto disegnato a Ventotene, ma come strumento degli USA nella guerra fredda.Lo testimonia il ruolo svolto dall'UE ieri in Kossovo, oggi in Ucraina Oggi l'affermazionne di un'autonoma identità europea è minacciata a morte dalla volontà dei governi di approvare il Trattato di libero scambio transatlantico, che solo la lista Tsipras denuncia .
Il manifesto, 23 maggio 2014
L’Europa nata nel 1957 non è quella che era stata sognata dagli antifascisti al confino di Ventotene. Nel loro Manifesto l’obiettivo dell’unità fra paesi che allora erano per la seconda volta in pochi decenni impegnati in una guerra sanguinosa, era la pace. E invece il primo embrione della futura Unione, che fu significativamente chiamata Mec, l’Europa la spaccò. Fu infatti pensato soprattutto come strumento della guerra fredda: un avamposto dell’occidente a ridosso della cortina di ferro, strettamente collegato alla Nato. Pochi lo ricordano: il primo atto istituzionale a favore della nuova creatura europea non fu dei nostri parlamenti, bensì di quello americano. Fu votato nel 1947, il 10 marzo al Senato, il 23 al Congresso, auspice il potente segretario di stato John Foster Dulles, fratello dell’altrettanto potente Allen, capo della Cia.
Da questa nascita bastarda l’Europa è rimasta segnata, sicché, anche quando è caduto il muro, non è migliorata. Basti pensare alla sua politica estera che, anziché ricercare un rapporto di cooperazione con il grande vicino euroasiatico che avrebbe potuto conferire al continente la possibilità di garantirsi un ruolo autonomo nel mondo, si è invece appiattita sulla linea di Washington, interessata a mantenere il proprio controllo: accettazione di tutti i possibili missili sul proprio territorio ai tempi di Breznev e Andropov, anche quando sarebbe stato necessario aiutarlo ad uscire dalla fatale spirale del riarmo; e oggi estensione della Nato ai confini della Russia, come se dovessimo rilanciare la guerra fredda, una linea che copre solo i più biechi competitivi interessi petroliferi americani (nell’insieme un bel regalo all’odioso Putin, che per via del comportamento occidentale ha ritrovato popolarità nel suo paese).
L’impronta colonialista, così come l’arroganza occidentale, sono rimasti il tratto dell’orientamento dell’Ue in politica internazionale: ciò che possiamo fare noi europei non è concesso agli altri. Ad esempio, il precipitoso unilaterale riconoscimento dell’indipendenza da Belgrado delle repubbliche slovena e croata nel ’93 in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione e la violenta denuncia di chi in Ucraina sta rivendicando il medesimo diritto (significativo che nessuno ricordi oggi come la Jugoslava sia stata sbranata in nome di quel diritto senza che l’Ue nemmeno tentasse di aprire un tavolo di discussione fra le parti, come previsto dalla Conferenza per la sicurezza europea in cui era stato stabilito che nessun confine possa esser toccato senza un accordo. L’Unione europea plaudì persino al bombardamento di Belgrado in difesa dell’autodeterminazione dei kosovari).
Sull’incongruenza europea si potrebbe continuare, citando i casi del Sahara occidentale, di Timor Est, di Cipro e naturalmente della Palestina. Per non parlare del silenzio sulla bomba atomica posseduta da Israele, con buona pace del Trattato di non proliferazione. Così come delle guerresche punizioni a chi non obbedisce alle decisioni dell’Onu, ma dell’assoluzione delle tante avventure belliche che quella copertura non hanno avuto. Nel caso, ancora una volta, di Israele, e di quelle che hanno avuto l’Europa stessa come protagonista.
E poi, forse più grave di tutte, la politica verso il sud Mediterraneo. Con sonore fanfare si lanciò anni fa l’Accordo di Barcellona, che avrebbe dovuto essere un amichevole partenariato, in grado di lanciare un compromesso per un lungimirante co-sviluppo delle rispettive economie ed è stato invece solo un’apertura al libero scambio che non avrebbe mai potuto colmare – e infatti l’approfondì — l’enorme dislivello storico coloniale fra le economie delle due sponde.
Oggi il dramma gigantesco dell’immigrazione clandestina dovrebbe proporre una seria riflessione sulla politica internazionale dell’Europa, che non si esaurisce certo solo in un po’ di aiuti all’Italia per l’accoglienza degli scampati ai naufragi. Occorrerebbe ripensare il mondo, capire che siamo di fronte ad uno sconvolgimento storico che non si può fronteggiare né con le armi ma nemmeno con una politica miope che pensa l’Europa possa rimanere un giardino chiuso.
Qualche sintomo di ravvedimento? No, il contrario: l’impegno principale degli esecutivi dell’Unione consiste ora nel varo di un Trattato di libero scambio transatlantico che, se andrà in porto, cancellerà tutto quanto è stato conquistato nel ventesimo secolo in Europa dal movimento operaio e democratico. Nessuno, salvo la lista Tsipras, ne ha parlato in questa campagna elettorale. Non è un caso: sarebbe sufficiente questo problema a determinare il voto del 25 maggio ove la gente sapesse di cosa si tratta.
La prospettiva che questo accordo apre è di un’Europa che perde la specificità del suo modello sociale, che nel dopoguerra, e grazie a grandi lotte, ha rappresentato il compromesso sociale più alto. Se così finirà per essere, a che pro un’Unione europea? Diverrebbe solo un pezzetto del mercato globale e avrebbe cessato di avere una sua ragion d’essere, l’espressione di un modello diverso. I più pericolosi antieuropeisti sono senz’altro tutti quelli che vogliono farle perdere ogni identità, omologandola al peggio del mondo.
«Con l’austerity è in corso una "pulizia etnica" di quella parte di popolazione più fragile. E i paesi in crisi sono presentati come casi unici. Così si lacera il tessuto sociale»
. Il manifesto, 22 maggio 2014
Perché l’Europa ha gestito la crisi di questi anni nel modo in cui l’ha fatto? L’obiettivo era salvare la finanza, le multinazionali e la classe politica – a spese dei lavoratori, delle piccole imprese e delle economie locali. In sostanza, la strategia è stata quella di tutelare i proprietari di grandi capitali e di scaricare i costi sul 20–30% più povero della società. La storia degli ultimi vent’anni è fatta di aumento dei profitti, caduta delle tasse sulle imprese e gonfiarsi dei deficit pubblici.
La tesi del mio ultimo libro, Expulsions: brutality and complexity in the global economy, è che siamo entrati in una nuova fase storica, caratterizzata dall’ “espulsione” delle persone dalle condizioni economiche e sociali precedenti, dai loro progetti di vita, dalla loro esclusione dal “contratto sociale” che era al centro delle democrazie liberali. È molto più di un aumento nelle disuguaglianze e nella povertà. Non è un fenomeno ancora pienamente visibile, e non è una condizione che riguardi la maggioranza delle persone. Si tratta però della generalizzazione di condizioni estreme finora presenti solo ai margini del sistema, spostamenti che non sono ancora individuati dalle statistiche tradizionali. Le classi medie impoverite possono vivere ancora nelle stesse belle case di prima, ma dietro la facciata crescono povertà e disperazione, si trovano costrette a vendere i loro beni per pagare il mutuo, i figli adulti non possono andare via di casa.
La Grecia, la Spagna e il Portogallo sono la dimostrazione di quanto un’economia si possa contrarre in poco tempo e mostrano la tendenza generale al ridimensionamento dello spazio dell’economia nei paesi avanzati. Si parla di «bassa crescita e alta disoccupazione», ma questi termini sono troppo vaghi per descrivere il diffondersi di condizioni estreme a cui assistiamo in tutti i paesi.
In realtà, stiamo assistendo a una ridefinizione di quella che è “l’economia”. I disoccupati che perdono tutto si ritrovano al di fuori di quella che è considerata “l’economia”, e vengono esclusi dalle statistiche dei senza lavoro. Lo stesso vale per i piccoli imprenditori che perdono tutto e si suicidano. O per i professionisti e laureati che abbandonano i loro paesi o l’Europa. Questi fenomeni ridimensionano lo spazio dell’economia, escludendo i più fragili. E’ un processo di espulsione analogo alla “pulizia etnica”, in cui gli elementi problematici della popolazione vengono semplicemente eliminati. Quello che rimane dell’economia – perfino in Grecia e Portogallo — può essere presentato come «sulla via della ripresa», ed è questa la narrazione che offrono in Europa Fondo monetario e Banca centrale europea, le uniche voci ascoltate.
Una seconda caratteristica delle politiche europee è stata quella di presentare tutti i paesi in crisi come «casi unici». La Grecia era un paese povero con altissima evasione fiscale e inefficienza burocratica. Il Portogallo e la Spagna erano anch’essi casi estremi, ma per motivi diversi. Non è così. Gli stessi fenomeni che sono estremi in questi paesi sono diffusi in tutta Europa: si tratta delle condizioni strutturali della fase del capitalismo apertasi negli anni ottanta. I pesantissimi tagli alla spesa sociale, il crollo dell’occupazione e l’aumento delle imposte in Grecia e Spagna sono i segni di una profonda ristrutturazione, che in misura minore sta avvenendo in tutta l’eurozona, e anche in paesi come gli Stati Uniti.
Un aspetto chiave di questo processo è il tentativo di tener in piedi l’economia privata eliminando le spese eccessive legate al contratto sociale. Il rimborso del debito e l’austerità sono meccanismi che impongono disciplina e tutelano le imprese, ma non fanno crescere produzione e occupazione. Qualunque sia la logica che divide in Europa vincitori e vinti, essa lacera profondamente il tessuto sociale ed economico di un paese: negli ultimi anni la produzione è crollata in tutto il Sud Europa, smentendo l’idea secondo cui il l’austerità favorisca la crescita. E i dati dimenticano i tanti che sono oggi esclusi dell’economia formale.
Il nuovo libro di Saskia Sassen, Expulsions: brutality and complexity in the global economy sarà pubblicato in Italia da Il Mulino
«». Il manifesto
Finora ho fatto politica con i miei libri, occupandomi di Shoah, razzismo, resistenza ai regimi. Nel mio primo incontro elettorale, mi sono trovata a parlare della tassonomia di Linneo e della costruzione che è all’origine di quella “gerarchia del disprezzo” che costituisce una radice profonda della nostra cultura. Mi sono interrotta per scusarmi: di certo non era il linguaggio della politica che ci è consueto, ma mi è stato chiesto di continuare. È iniziata una meravigliosa discussione, forse eccentrica in una campagna elettorale; tutti ne eravamo un po’ stupiti, ma abbiamo parlato delle categorie che separano l’umano dall’animale, della nascita dello schiavismo, dell’attribuzione alla natura della dicotomia tra uomo e donna. Perché le persone (noi) abbiamo desiderio di scambiarci e riflettere, conoscere, studiare, anche fuori dai luoghi normati, istituzionalizzati, nella consapevolezza del deserto che ci circonda. Mario Lodi, appena uscito di prigione, il 25 aprile 1945, decise che era necessario cominciare a ricostruire una cultura distrutta dal ventennio fascista; lo fece proprio partendo dal desiderio di scambio, di racconto di sé, di conoscenza critica impedita dal regime. Il suo insegnamento passava essenzialmente per il racconto degli uni agli altri, e dalla conoscenza, non sociologica ma umana, della realtà circostante.
Questa splendida e quasi clandestina campagna elettorale è stata — per la parte che ne ho potuto vedere — una grande scuola, prima di tutto per me. Girando per le città, ho incontrato una vita partecipativa sotterranea, non rappresentata dai media eppure capace di costituire un reticolo di scambi, speranze, lotte, invenzioni, pratiche di solidarietà. Dai progetti di microcredito alle cooperative per l’inserimento lavorativo dei carcerati; dalle esperienze di social street ai Gruppi di Acquisto Solidale; dalle cooperative di donne immigrate ai collettivi di studio sull’energia alternativa e la lotta al nucleare. Progetti, intelligenze, competenze che modificano le realtà del territorio.
Ma questa campagna elettorale si è svolta in gran parte anche sul web, in un continuo scambio di informazioni e contatti. Giorno dopo giorno, i candidati si sono visti inoltrare decine di richieste di adesione a piattaforme, impegni, punti programmatici sui quali verranno giudicati e scelti. Dall’Agenda per i diritti umani in Europa, a sostegno di politiche di tutela dei migranti, dei rom e dei detenuti — promossa da Lunaria, Associazione 21 luglio e Antigone — alla campagna di Ilga per i diritti di gay e lesbiche; dal programma per i Diritti Digitali per l’autodeterminazione dell’informazione e la tutela della privacy, a quello per i diritti dei migranti proposto dalla Rete Primo Marzo; dalla campagna di Libera contro le mafie, Miseria ladra, che mette al centro la lotta alla povertà, a NewDeal4Europe, iniziativa europea di cittadinanza per un piano straordinario di sviluppo sostenibile e per l’occupazione; dai punti programmatici delle associazioni animaliste a Riparte il futuro, la campagna trasversale e apartitica contro corruzione e criminalità organizzata.
Una sorta di “mente estesa” formata dalle numerosissime associazioni che da anni si occupano di temi fondamentali per l’agenda politica europea, fuori dalle appartenenze partitiche. Una forza programmatica e progettuale, un reticolo di competenze ed esperienze alle quali chiunque verrà eletto al Parlamento europeo potrà appoggiarsi, e al tempo stesso dovrà render conto.
Così ho deciso che la mia campagna non sarebbe stata costituita solo da comizi, banchetti, volantinaggi, interventi e iniziative elettorali nella circoscrizione, ma che avrei organizzato tre convegni per riflettere su argomenti per me centrali, chiedendo a persone con le quali ho spesso condiviso percorsi di studio e di lavoro di darmi una mano. È nato così un convegno su «Lavoro, precarietà e nuovo schiavismo», che ha avuto tra i relatori Gianni Rinaldini, Mario Agostinelli e Guido Viale. Un convegno su «Razzismo e xenofobia», al quale hanno preso parte, tra gli altri, il genetista Guido Barbujani, la scrittrice Igiaba Scego, lo storico del porrajmos Luca Bravi, il portavoce della comunità senegalese di Firenze Pape Diaw. E infine un convegno sulla comunità del vivente come fondamento della politica, al quale hanno preso parte, oltre ai responsabili di alcune tra le più importanti associazioni animaliste e antispeciste, il filosofo Leonardo Caffo e lo scrittore Milton Fernandez, che ha spiegato, ad esempio, come il presidente ex tupamaro dell’Uruguay, Pepe Mujica, abbia appena promosso una legge per la tutela dei diritti animali, compreso quello alla dignità. Tutte queste voci, intelligenze, progettualità — che andranno a formare un archivio mediatico che resterà oltre il 25 maggio, per riannodare i fili degli argomenti che l’orizzonte europeo ci ha spinto a considerare nella loro ampiezza politica — sono una «folla dentro il cuore» che, come nei versi di Emily Dickinson, «nessuna polizia potrà disperdere».
Naturalmente non tutto è stato radioso in questa difficile costruzione di un soggetto unitario: inevitabilmente sono entrate in gioco logiche di appartenenza, ripetizioni del già visto, rendite di potere, malcelate ambizioni personali — una politica che assomiglia ai carrarmatini del Risiko, nel suo insediarsi su piccolissimi territori vedendo il vicino come un nemico o un pericolo. Forse il viaggio vero è stato l’aver avuto l’opportunità di partecipare fin dalla nascita a un progetto che vuole uscire dalle secche di ragionamenti che hanno portato a troppi anni di sconfitte, divisioni, incapacità del frammentato mondo post-sessantottesco di smettere di credersi il centro del mondo; «di andare oltre il bricolage organizzativo e il balbettio ideologico», come scrive Marco Revelli in Oltre il Novecento, «alla ricerca delle parole, o delle formule, con cui nominare la propria rivoluzione introvabile».
Per la prima volta dopo tanti anni è nato un progetto che può essere vincente, anche oltre l’appuntamento delle elezioni europee, a patto che sappia superare le logiche dell’appartenenza e aprirsi alle pluralità che ha messo in campo.
Domenica si vota per il “Parlamento europeo”. Rigorosamente tra virgolette. Infatti non è un vero parlamento e non è davvero europeo. Vediamo. Nessuno Stato che esibisse come parlamento l’assemblea di Strasburgo, con i suoi limiti di autorità e potestà legislativa, senza un governo da votare, controllare e sfiduciare, potrebbe infatti passare il test preliminare di democrazia. Sicché, una volta insediato, i media di tutto il mondo si disinteressano quasi totalmente di ciò che accade in quell’esoterico emiciclo. Né si tratta di un’elezione europea in cui ognuno di noi sceglie i suoi deputati a prescindere dallo Stato di origine. Semmai, di 28 scrutini nazionali. Su liste composte in base a logiche domestiche nei diversi paesi dell’Ue, cui seguono molto virtuali campagne elettorali, centrate sui temi che interessano le opinioni pubbliche locali. Le quali lo considerano un voto nazionale di serie B, un test in vista del vero voto politico, quello interno.
Di più: non solo non esiste un progetto d’Europa condiviso, manca una discussione su quali debbano essere i fini dell’esercizio comunitario, oltre alla riproduzione di se stesso. Ilvo Diamanti ha misurato lunedì scorso, su queste colonne, il grado di disincanto verso l’Unione Europea e verso l’euro nei principali paesi europei. Incluso il nostro, il cui euroscetticismo tocca quote britanniche (solo il 27% degli elettori italiani ha fiducia nell’Ue e il 12% si considera avvantaggiato dall’euro, secondo un’indagine Demos-Pragma per la Fondazione Unipolis). Conclusione: se non ci fossero gli antieuropei a farlo, di Europa non si parlerebbe proprio.
È moda prendersela con i “populisti”. I quali se ne rallegrano e ne traggono profitto. Certo, va bene deprecare le sguaiatezze di grillini, leghisti o loro simili in altre contrade europee. Costoro vellicano il più odioso particolarismo, se non addirittura il razzismo che corre sotto la pelle di noi civilissimi europei. Ma conviene chiederci da dove derivi tale eurofobia primaria. E come opporvisi. Se vogliamo dare un senso a queste elezioni, anche se queste elezioni un senso non ce l’hanno, è d’obbligo azzardare una risposta.
Il problema dell’Europa sta nell’offerta non nella domanda. Non serve sdegnarsi per il senso di noia o financo di deprecazione di cui la sfera semantica di questo termine si è sovraccaricata. Nessuno pare in grado di determinare in modo univoco che cosa significhi Europa, quale spazio geografico designi, di quali istituzioni debba dotarsi, quali obiettivi debba perseguire per i suoi cittadini e quale funzione possa svolgere nel mondo. Ciascuno ne coltiva idee diverse, più spesso nessuna idea. Perché nessun leader europeo pensa che questo esercizio possa portargli vantaggio. Anzi, a mostrarsi pro-europei i voti si perdono — giurano tutti (in privato).
È davvero così? Lo è senz’altro, se si scambia per pro-europeo il vuoto europeismo retorico, con i suoi discorsi della domenica recitati al modo ottativo intorno agli Stati Uniti d’Europa e ad altri magnifici ideali mai definiti, senza una road map verificabile. Ma non si può solo moralizzare intorno al “dover essere”, magari non credendo nemmeno alle proprie parole. Come si può chiedere a un cittadino elettore di entusiasmarsi per qualcosa che non siamo nemmeno in grado di definire?
In che senso possiamo considerare democratico un insieme in cui le decisioni che contano vengono prese non dal Parlamento o dalla Commissione, ma nelle sedute segrete notturne dei capi di governo che si aprono al tramonto con l’aperitivo, si concludono con il cappuccino dell’alba, alle quali seguono 28 conferenze stampa parallele in cui ogni leader si rivolge al suo elettorato per raccontare la sua verità sugli esiti di un negoziato di cui nemmeno gli storici futuri potranno scandagliare i percorsi, visto che non ne esiste uno straccio di verbale? In questo modo non si costruisce una democrazia europea. In compenso, si delegittimano quelle nazionali — anche di qui il rifiorire dei secessionismi in Spagna, in Gran Bretagna, in Italia e altrove — e si attacca alla radice l’albero della politica.
A Bruxelles e dintorni resta in auge il precetto del grande europeista Jacques Delors, per cui «l’Europa avanza mascherata ». Forse, ai suoi tempi. Ma oggi il velo del pudore europeista contribuisce a farci arretrare verso inconfessabili — o invece agognati? — fortilizi feudali e corporativi, verso sempre disastrosi nazionalismi. Il “populismo” riflette la sfiducia dei leader europei nei loro elettori: perché dovrei fidarmi di chi non si fida di me?
Si può sperare in non troppo future elezioni per il Parlamento europeo, senza virgolette? Si deve. La deriva antipolitica non si ferma da sola. Per invertire la rotta, orientandola verso una democrazia europea, dunque verso uno Stato europeo a tutto tondo, prodotto da chi lo vuole e lo può erigere, occorre che ciò che resta delle democrazie e dei parlamenti nazionali produca un disegno possibile, non per aggirare il consenso, ma per coagularlo. Scopriremmo forse che, coinvolti in un progetto d’Europa, noi europei ne premieremmo gli artefici con il nostro voto. L’alternativa non è lo status quo, che non esiste. Galleggiare a lungo nel mare dell’antipolitica è illusione. E naufragarvi non sarebbe dolce.
«La norma fondamentale dell’Unione contraddice radicalmente valori, principi, fini. È un po’ nascosta, in verità. È scritta nel Trattato sul funzionamento dell’Unione, agli articoli 119 e 120, secondo i quali «l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende …l’adozione di una politica economica …. condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta ed in libera con concorrenza»». Il manifesto, 22 maggio 2014 (m.p.r.)
Martin Schulz ha sintetizzato i mali dell’Unione europea che vorrebbe sradicare. Sono quelli della «politica di austerity a senso unico per stati e cittadini». Quelli che avrebbero trasformato Ue da «un progetto di pace e di prosperità in un insieme di regole». Per cui l’Ue avrebbe perduto «la capacità di raccontarsi, di entusiasmare e di far guardare al futuro con ottimismo». A questa Ue il progetto socialdemocratico, di cui è portatore, oppone non una «unione burocratica ma un’unione politica ed economica». Quanto alla crisi accusa l’Europa «di essersi aggrappata alle regole» di essere stata «senza leadership … e di aver utilizzato i Trattati come «giustificazione dell’inazione» Trattati «ove non è scritto come uscire dalla crisi». (vedi articolo de la Repubblica).
Non va esclusa affatto, e si può anche esser certi della sensibilità sociale del dr. Shulz. Credo però che queste sue dichiarazioni generino non poche e non infondate perplessità. Cominciamo dalla prima. La politica di austerity a senso unico non è stata certo inventata e poi imposta all’Ue da una potenza extra europea. Consegue immediatamente dai Trattati che non hanno affatto provocato inerzie. Hanno prodotto invece un coerente indirizzo di politica economica e finanziaria che ne ha attuato principi, fini e norme, mediante atti esattamente corrispondenti a detti principi. Tutti adottati dalla Commissione e dal Consiglio e, per quanto di competenza, dal Parlamento europeo, riluttante talvolta, ma certamente non svincolato dai compiti che i Trattati gli assegnano.
La perdita della capacità di «entusiasmare» ne è stata la conseguenza ineluttabile. Soprattutto perché il «raccontarsi» come progetto di prosperità era, più che ottimistico, bugiardo. Bugiardo perché l’unione progettata era esattamente quella burocratica disegnata per eseguire le norme dei Trattati secondo lo spirito dei Trattati, con la logica che ne derivava. Univoca, esplicita trasfusa innanzitutto nell’architettura dell’Unione che faceva, e fa, di tutte le sue istituzioni gli esecutivi dei Trattati. Parlamento compreso, la cui attività si traduce, infatti, nel potere deliberare solo quello che gli propone la Commissione il cui compito assorbente e vincolante ogni altro è quello di organo che «vigila sull’applicazione dei Trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei Trattati». (art. 17 del Trattato sull’Unione). Un’architettura quindi che realizza il trionfo degli esecutivi, rendendoli tutti tali, qualsivoglia nome o veste assumessero ed abbiano assunto.
Esecutivi di che cosa, di quale progetto, di quale principio fondamentale? I Trattati non nascondono affatto la norma fondamentale dell’Unione. Non la si trova negli articoli 2 e 3 del Trattato sull’Unione che elencano declamazioni inebrianti di valori, principi, fini che simboleggiano le conquiste della costituzionalismo e della democrazia degli ultimi due secoli. La norma fondamentale dell’Unione contraddice radicalmente questi valori, principi, fini. È un po’ nascosta, in verità, forse anche per quel pudore che accompagna spesso l’ipocrisia. È scritta nel Trattato sul funzionamento dell’Unione, agli articoli 119 e 120, secondo i quali «l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende …. l’adozione di una politica economica …. condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta ed in libera con concorrenza». La norma fondamentale dell’Ue è questa. Ne sancisce la dinamica ed il fine. Ha carattere esclusivo ed escludente.
È questa la norma che non permette che si esca dalla crisi. Non lo permette perché ne è la causa, la ha provocata. È questa la norma fondamentale da abrogare. Shulz non può non saperlo. Ma non dice di volerla espungere.
Con Tsipras si può. È una ragione decisiva per votarlo.
«Verso il voto. Grillo è peggio dei fascisti. Il governo Renzi è il peggiore della storia. E la lista Tsipras sembra guardare alle «larghe intese» con i cinque stelle. Non c’è da stupirsi che il non voto sia di gran lunga il primo partito».
Il manifesto, 21 maggio 2014, con postilla
Si può scrivere un articolo per spiegare che non si sa perché lo si scrive? Me ne sono capitate tante nella vita. Ora mi capita anche questa. Si avvicinano le elezioni europee. Che fare?
Il governo Renzi è il peggiore che ci sia accaduto di giudicare, nell’ambito del centro-sinistra (centro-sinistra?), nel corso degli ultimi decenni. Al confronto, non dico Prodi, ma mi fermo a Letta, se si fa riferimento a una posizione di conservatorismo illuminato (non di più, per carità, non di più!), i confronti appaiono schiaccianti.
Il premier procede a balzelloni, come un improvvisatore non in grado di andare al di là di se stesso, con molti slogan, ma senza idee né programmi né cultura. Le politiche sociali sono ridotte al livello di mance ai poveri e agli indigenti. Il patto politico-riformatore con Berlusconi regge agli scossoni cui da una parte e dall’altra, per finalità squisitamente (si fa per dire) elettorali, viene sottoposto. È assolutamente prevedibile che dopo questo voto, quale che che ne sia l’esito, Berlusconi manifesti l’intenzione di tornare al governo, d’intesa, sia pure concorrenziale, con il nuovo Centro destra.
Del resto, perché non dovrebbe accadere? In fondo, anche la politica sociale dell’ex Cavaliere, in perfetta armonia con quella renziana, consiste nel promettere mille euro al mese alle «povere (testuale, nda) casalinghe». Lo ammetto: il ministro Padoan è un’«altra cosa». Ma, appunto: se è un’«altra cosa», cosa ci sta a fare, come riesce a operare efficacemente lì dentro?
E la lista Tsipras? In un’intervista recentissima su il manifesto (16 maggio), Barbara Spinelli spiega: «Spero che la lista Tsipras abbia la forza e l’indipendenza di giudizio per aprire un dialogo con i 5Stelle e decidere per punti specifici politiche concordate. Ci sono molte cose in comune…». L’intervistatrice, Daniela Preziosi, ha qualcosa da obiettare: «Per la verità Grillo sembra più interessato alla campagna forsennata contro il Pd». Replica Spinelli, ben trincerata dietro le proprie certezze: «Ci sono molte posizioni di Grillo completamente condivisibili e fra l’altro simili se non identiche alle nostre. Il Movimento 5Stelle potrebbe svolgere un ruolo molto importante…». Dunque, secondo Spinelli per sbarrare la strada alle «larghe intese» di Schulz in Europa e di Renzi in Italia, bisogna, è legittimo, è decente imboccare la strada di una «larga intesa» con l’orrido Grillo, il peggior nemico di qualsiasi prospettiva seriamente democratica e riformatrice? Si capisce fino in fondo, ora, perché la lista Tsipras (in Italia, s’intende) ha fin dall’inizio rifiutato di definirsi una componente (sia pure fortemente innovativa) del cosiddetto «campo della sinistra». Se lo avesse fatto, infatti, si sarebbe interdetta il gioco politico post elettorale con Grillo, il quale ora, nelle parole di Spinelli, emerge inequivocabilmente.
E Grillo? E l’ondata «populista», che sale da tutte le crepe della società europea attuale? È davvero, come si dice, il pericolo maggiore? Io penso di sì. Ma se è così, è inevitabile che, allo stato attuale delle cose (ripeto e insisto: «allo stato attuale delle cose»), per fronteggiarlo non verrà in mente a nessuno niente di meglio, che la teoria e la pratica delle «larghe intese», non solo in Italia e in Germania, dove già esistono, ma anche in Francia, in Spagna e, forse, in Inghilterra.
Il «vecchio» mondo politico-istituzionale, — cioè «destra» e «sinistra» classiche, ormai sempre più destituite di fondamenti e contenuti tradizionali, e sempre più simili fra loro, — si alleerà al proprio interno sempre più sistematicamente, allo scopo essenziale di garantirsi una sopravvivenza. Tecnocrazia, finanza e mercati stanno per ora (per ora!) dalla sua parte, poi si vedrà.
Dunque, a quanto sembra, se si vuole sbarrare, in primo e indubitabilissimo luogo, la strada a Grillo e al grillismo (in Italia, anche in questo caso, s’intende), e, in prospettiva, al populismo in Europa, bisogna acconciarsi a votare l’intollerabile Renzi. E se si vuole sbarrare la strada alle «larghe intese» fra Renzi e la cordata, sempre ricomponibile, della Vecchia e Nuova destra, bisogna votare (come con esemplare chiarezza spiega Spinelli) in modo da favorire un’alleanza dei «progressisti» (per giunta radicali) con l’orrido, anzi orridissimo Grillo, in confronto al quale anche i vecchi fascisti sarebbero sembrati dei progressisti e delle persone per bene.
Si capisce perché in Italia la massa di coloro che non hanno ancora scelto, e forse non sceglieranno, è così elevata da sfiorare la maggioranza assoluta. Per la prima volta nella storia, infatti non ci si chiede più di votare per un programma e per gli uomini che lo rappresentano, ma per impedire che prevalga un «altro» programma e «altri» uomini che più o meno lo rappresentano.
Come ho già scritto altre volte, non ci sono più «avversari» che si scontrano per affermare la diversità delle loro rispettive posizioni, ma «concorrenti» che si sfidano più o meno sul medesimo terreno con mezzi analoghi (se non addirittura coincidenti). Oggi, di più: la scelta fra i «concorrenti» avviene soprattutto, se non esclusivamente, per impedire che la merce di un «altro» trovi migliore accoglienza sul mercato. La qualità della «propria» merce passa invece in secondo piano. E giustamente: infatti, è merce residuale, fondi di magazzino, prevalentemente fuori corso, che resiste sul mercato unicamente perché la merce che propongono al loro posto gli homines novi fa semplicemente schifo.
Simpatizzo per questa massa. Penso che le si dovrebbe dedicare un’attenzione meno interessata e farisaica di quella che è emersa nelle ultime settimane: votami, votami per favore se non mi voti vince quell’altro, quell’altro che, lo si vede bene, fa schifo, molto più schifo di me.…
È, dopo tutto, una massa di uomini liberi: ognuno di loro, fra qualche giorno, può astenersi, votare scheda bianca, votare Pd, votare Tsipras, votare, perché no, i Verdi, di cui nessuno parla (anche loro, peraltro incauti e oscillanti oltre misura), insomma può fare una scelta commisurata alle proprie ansie, paure, eredità del passato, aspettative del futuro, bisogni elementari (ma anche culturali) di sopravvivenza, ecc, ecc.
Ma quel che non può fare, e che secondo me non farà (spero che non faccia), è condividere la logica che ci viene imposta con prepotenza sempre maggiore. «Questa» politica non ci appartiene, non è la nostra, non la condividiamo, né da una parte né dall’altra. Siamo troppo vecchi, o troppo giovani, per non sperare d’incontrare qualcosa di diverso. La strada è, sarà lunga: ma di certo è, sarà diversa.
Asor Rosa sembra subire anche lui il clima che la mediocrazia ha creato attorno alle elezioni per il parlamento europeo. Per la grande informazione questo evento politico ha come suo centro l'Italia, non l'Europa; sul palcoscenico ci sono solo due attori: Renzi e Grillo. Allora, - sembra affermare Asor Rosa- se si vuole combattere il comico demagogo non c'è che appoggiare il PD di Renzi, se si vuole combattere il Renzi e il renzismo non c'è che da allearsi con Grillo.
Se la mia sintesi non è troppo infedele e se questo fosse il succo dell'articolo di Asor Rosa allora forse bisognerebbe esaminare un po' più a fondo sia Grillo e il suo movimento sia Renzi e il PD. Se si approfondisse o l'analisi forse si giungerebbe a condividere le parole di Barbara Spinelli, su cui Asor Rosa invece ironizza, deprecandole. Per guardare alle cose così come stanno alcune distinzioni sono essenziali. Io, ad esempio, penso che occorra distinguere tra la figura di Grillo, che anche a me fa paura, e le persone che oggi lo seguono. Per molte di loro ho personalmente lo stesso rispetto e la stessa condivisioni che ho per molti degli attuali militanti del partito oggi guidato (comandato) dall'asfaltatore Renzi.
Mi considero anch'io, come Asor Rosa, un "rosso-verde". Ma nel PD renziano di "rosso" ne vedo solo qualche pallido residuo, e invece del "verde" vedo il grigio-nero del cemento e dell'asfalto. Nel movimento di Grillo, se mi turba l'ombra del nero, non perderei nè perdo l'occasione di collaborare con quanto di "verde" (e non è poco) vi abita. Poichè poi preferisco parlare di parlamenti e non di duci e ducetti, non escludo affatto di collaborare (se per caso dovessi essere eletto nel Parlamento europeo) con i grillini che vi fossero eletti, come con i piddini (si dice così?) che vi arriveranno. Come con chiunque altro eletto che dimostrerà di voler difendere l'ambiente, il lavoro e (non dimentichiamolo) la democrazia minacciata, mi sembra, dall'una parte e dall'altra.(e.s.)
«Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2014
Nel derby entomologico (copyright di Aldo Grasso) della televisione italiana, la maggioranza delle osservazioni e delle paure si addensano intorno a Grillo. Laddove non mi pare vi sia alcun dubbio che ad oggi sia stato Vespa a fare incalcolabilmente più danni alla democrazia italiana. E anche per il futuro, a me fa più paura Vespa di Grillo: se non altro per la sua mostruosa abilità nell'imporre l'ordine del giorno del potere alla (maggioritaria) parte fossile dell'opinione pubblica. Qui rileva l'articolo che Vespa ha dedicato alle soprintendenze sul Quotidiano Nazionale del 3 maggio scorso: eloquente fin dal titolo, “Il mostro burocratico”. Non sazio della lode (“Matteo Renzi ha deciso un ragionevole accorpamento delle soprintendenze in modo da ridurre il numero di referenti con cui discutere”), come una geisha del potere dalla sensitività sovrumana, Vespa precede i più innominabili desideri del giovane premier: “Ma saranno disciplinati anche i loro poteri? E i tempi entro i quali esercitarli? Il problema della burocrazia italiana è infatti il sovraffollamento di uffici”. Con un turnover bloccato da decenni, organici al lumicino e nessun mezzo, il problema delle soprintendenze è proprio l'affollamento. E i temibili poteri sarebbero le pistole ad acqua con cui i soprintendenti arginano le lobbies del cemento, armate di missili terra-aria.
Segue un inno alla mercificazione che fa sembrare Tremonti un francescano: “Il manager dei musei immaginato da Renzi avrà le mani libere nel vendere il prodotto cultura o dovrà scontrarsi ogni giorno con un rispettabile architetto o critico che sa tutto di un’opera d’arte, ma non riesce a cavarne un centesimo?”.
Maniliberismo, ecco il nome del renzismo da grande. E il giovane e vergine Bruno Vespa è proprio il più indicato menestrello di questo stilnovo. Spettacolare l'inizio dell'articolo: “Dopo aver imposto il prestito di alcuni pezzi eccezionali del Rinascimento italiano per una grande mostra a Londra negli anni Trenta, Benito Mussolini disse che avrebbe preferito farsi cavare tutti i denti piuttosto che discutere ancora una volta con i soprintendenti. Ed era Mussolini”. Niente in confronto a Renzi.
Le proposte delle associazioni e delle organizzazioni del volontariato. Campagna promossaa dal Gruppo Abele e da Libera Associazioni nomi e numeri contro le mafie
Dalla fine degli anni ’70 ad oggi la distanza tra ricchi e poveri è tornata a crescere in maniera grave, invertendo il trend di inizio ‘900 quando in Europa la quota della ricchezza nazionale posseduta dall’uno per cento più ricco era diminuita a favore dei ceti popolari.
La ridistribuzione della ricchezza è ferma da oltre 30 anni ed oggi la crisi, iniziata proprio a causa dell’aumento delle diseguaglianze, ha raggiunto nel nostro continente livelli senza precedenti. Secondo Eurostat nel 2012 circa 124,5 milioni di persone, il 24,8% dei 28 Paesi della UE, sono state minacciate dalla povertà e dall’esclusione sociale, definizione che comprende sia la povertà relativa che quella assoluta. Nel 2008 la cifra era del 17%. Di questo passo nei prossimi 10 anni avremo 15/25 milioni di esseri umani in più che nel nostro continente saranno costretti a vivere nell’indigenza. Le ong denunciano come in Europa già oggi siano 30 milioni i bambini in povertà, mentre l’Italia detiene la maglia nera con 1 milione di minori poveri ed un rischio per chi nasce nel nostro paese del 32,3%. L’Italia, dopo la Grecia, occupa nella classifica UE la posizione peggiore per la percentuale di popolazione a rischio povertà ed esclusione sociale, salita purtroppo al 30%.
Dal 2008 al 2012 la povertà assoluta è addirittura raddoppiata, passando da 2,4 a 4,8 milioni. Le differenze economiche hanno accresciuto le differenze sociali e culturali, facendo diventare l’Italia il paese con la più alta percentuale europea di dispersione scolastica: 18,2%, con picchi nelle regioni meridionali anche del 25%. Il 63% delle famiglie ha ridotto i consumi alimentari ed il 40% vive una condizione di deprivazione materiale, considerata “grave” per il 25% dei nuclei familiari italiani. Sono aumentati a 50 mila unità il numero dei senza fissa dimora, mentre cresce il numero dei suicidi. I crimini contro l’ambiente sono saliti a 93,5 ogni giorno, segnando un incremento del 176% negli ultimi tre anni secondo l’ultimo rapporto sulle ecomafie. L’Europa affronta allo stesso tempo una crisi occupazionale senza precedenti. Sono 27 milioni i disoccupati e l’Italia registra una delle situazioni peggiori con il 12,7% di disoccupazione, tra i giovani sopra il 43%. A questi dobbiamo aggiungere 3,2 milioni di lavoratori considerati “working poors”, 2,8 milioni di Neet e 4 milioni di precari. Dal 2008 l’Italia ha perso il 25% di capacità produttiva. In una situazione di crisi così violenta sono le mafie a trarre grandi benefici. Europol ha censito 3600 organizzazioni criminali attive in tutta Europa, mentre la CE ha stimato in 120 miliardi di euro l’impatto della corruzione. Le organizzazioni criminali vedono accrescere il loro potere attraverso usura e riciclaggio, favorite dalla crisi di liquidità, dal credit crunch, dalla frammentazione sociale e dalla perdita di fiducia nelle istituzioni rappresentative. In un contesto così fragile, impoverito, precario ed in cui la cultura ha smesso di essere elemento centrale, soprattutto nel nostro paese, per la crescita complessiva dell’etica pubblica, la corruzione e la mafiosità sono in grande aumento.
L’aggravarsi delle condizioni economico, sociali, ambientali e culturali sono conseguenza di politiche economiche sbagliate. Le politiche scelte non solo non hanno saputo contrastare la crisi prodotta dall’aumento delle diseguaglianze ma si sono mostrate addirittura controproducenti nel fronteggiare la crisi bancaria e finanziaria esplosa nel 2008 a causa di una finanza ipertrofica e speculativa a cui non sono state imposte regole e sanzioni. Le cosiddette politiche di austerity messe in campo hanno fallito e continuano ad avere un costo altissimo in termini sociali, minacciando il futuro dell’unità europea. Queste politiche, dai piani di austerità, al pareggio di bilancio, ai vincoli esterni imposti alle politiche pubbliche, sino al trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance che comprende il fiscal compact, riducono l’intervento pubblico e la possibilità di manovre fiscali per il rilancio dell’economia, pongono limiti alla spesa pubblica ed alla politica della domanda, tagliano la spesa sociale, chiedono minori imposte per le fasce di reddito più alte e premono per ridurre le tutele del lavoro, dei salari e dell’ambiente. I nemici dell’Europa, e di conseguenza del nostro paese, sono oggi l’austerity, la povertà, l’esclusione sociale, la disoccupazione, la corruzione e le mafie. Sono questi fenomeni che stanno consentendo ai germi del razzismo, del nazionalismo e del populismo di prosperare.
Alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2014 l’Europa è colpita da stagnazione economica, da disuguaglianze sempre più gravi, dal crescente divario tra paesi del centro e della periferia, dai germi del razzismo e dall’aumento di ingiustizia sociali ed ambientali di cui sono vittime soprattutto ceti medi e popolari. La democrazia viene sensibilmente ridotta a livello nazionale ma non viene sviluppata a livello europeo. Siamo davanti ad una crisi strutturale e sistemica che non può essere affrontata e gestita da un potere troppo concentrato nelle mani di istituzioni tecnocratiche e non elettive che finiscono per rispondere agli interessi di quelle elite economiche e finanziarie che con la crisi si sono invece arricchite. Questa non è l’Europa immaginata decenni fa come uno spazio di integrazione economica e politica, libera dalla guerra, fondata sul progresso sociale, l’estensione della democrazia, dei diritti e del welfare.
Come cittadini e cittadine europee abbiamo il diritto e la responsabilità di lavorare per un’Europa che riaffermi e rilanci il suo impegno per il rafforzamento ed il rilancio della democrazia, della giustizia sociale ed ambientale, delle politiche sociali, della solidarietà e della cooperazione tra i popoli. Vogliamo un’Europa più forte e coesa per affrontare la crisi, cogliendone le opportunità di trasformazione in positivo. Dopo 9 mesi di lavoro condotto dalla campagna Miseria Ladra in più di 100 città del nostro paese, centinaia di realtà del sociale e del volontariato laico e cattolico hanno deciso di camminare insieme, per offrire al dibattito pubblico ed agli amministratori le nostre proposte per combattere nella nostra Europa la povertà, l’esclusione sociale ed ambientale e la disoccupazione. Proposte frutto di un’elaborazione e di un’esperienza collettiva che fanno della partecipazione e del metodo condiviso valori e pratiche indispensabili per rispondere alla crisi.
1- Stop all’austerity
Le politiche fiscali restrittive dell’Unione europea – in particolare il Fiscal Compact e il Patto di stabilità e crescita – devono essere abbandonate. Le regole di bilancio devono essere cambiate e l’obiettivo di un “pareggio strutturale” per i bilanci pubblici deve essere sostituito da una strategia economica coordinata che permetta agli stati membri di attuare le politiche fiscali che sono necessarie per uscire dalla crisi. Senza un forte stimolo della domanda non ci può essere via d’uscita dall’attuale stagnazione. Un piano di investimenti pubblici europei è necessario per ricostruire attività economiche che siano sostenibili e capaci di offrire buoni posti di lavoro. Queste misure dovrebbero essere al centro di una nuova politica industriale in Europa, orientata verso la trasformazione ecologica e sociale del nostro modello economico, con una drastica riduzione nei consumi di energie non rinnovabili. A tal fine,
Chiediamo:
- un programma di investimenti pubblici per la transizione ecologica, finanziati a livello europeo attraverso la Banca europea per gli investimenti (Bei)
2- Per una finanza pubblica e non speculativa
Di fronte al rischio di deflazione - e al circolo vizioso di politiche restrittive, depressione e concorrenza al ribasso sui salari – la politica monetaria dell’eurozona deve cambiare radicalmente, riportando l’inflazione almeno al livello del 2%. Il problema del debito pubblico deve essere risolto attraverso una responsabilità comune dell’eurozona e con la ristrutturazione del debito. Gli eurobond devono essere introdotti non solo per rifinanziare il debito pubblico degli stati membri, ma anche per finanziare la conversione ecologica dell’economia europea. Allo stesso tempo bisogna mettere davvero un freno allo strapotere della finanza. Le regole previste dall’Unione bancaria non affrontano i difetti strutturali e la fragilità di fondo del sistema finanziario.
Chiediamo:
- la Banca centrale europea (Bce) deve fornire liquidità per realizzare politiche espansive e diventare prestatore di ultima istanza per i titoli pubblici;
- il radicale ridimensionamento del settore finanziario, con una tassa sulle transazioni finanziarie, l’eliminazione della finanza speculativa e il controllo dei movimenti di capitale;
- regole stringenti che vietino le attività finanziarie più speculative e rischiose, introducendo una netta divisione tra banche commerciali e banche d’investimento. I problemi dei centri finanziari offshore e dei paradisi fiscali all’interno dell’Unione europea devono essere risolti attraverso l’armonizzazione fiscale e regole più severe;
3- Welfare: dovere etico e leva per il rilancio dell’economia
Politiche di welfare in Europa
Qualsiasi ragionamento sulla costruzione di politiche sociali omogenee per l’Europa chiama in causa il ripensamento dei trattati europei fin qui sottoscritti. Infatti a tutt’oggi non è prevista una funzione deliberante e vincolante degli indirizzi dell’UE in materia di politiche sociali. Di fronte all’enorme disparità di trattamento e al mancato riconoscimento dei diritti sociali nei diversi stati, la UE dovrebbe intervenire con un nuovo trattato sulle politiche sociali con la definizione di una dotazione di risorse certe in grado di intervenire adeguatamente in questa materia.
Se invece passiamo al confronto degli ultimi dati Eurostat disponibili della spesa sociale a parità di potere d’acquisto, emerge come la spesa sociale per abitante in Italia sia tra le più basse, pari al 91,9% del corrispondente valore medio della UE a 15, all’80,5% di quella tedesca, all’80,3% di quella francese. Il termini monetari il valore italiano era pari a 7.486 euro mentre nella UE a 15 il valore corrispondente medio era 8.150. Se analizziamo la spesa sociale per abitante, era pari nel 2001 a 6.050 euro e nel 2011 si è portata a 6.855 con un incremento del 13,3%. Nella UE a 15 il tasso di incremento è stato invece del 17,8%, nettamente più alto. In Spagna addirittura del 36,5%, in Francia del 21,1%, in Svezia del 15,9%.
Se analizziamo la spesa pubblica procapite per sanità, istruzione, servizi sociali e casa, emerge come l’Italia sia ai livelli più bassi. Sanità: la spesa pubblica pro capite è cresciuta tra il ’90 ed il 2009 del 37% a fronte di un +79% della media UE, rimanendo la spesa pubblica pro capite fra le più basse d’Europa. Istruzione: la spesa pubblica pro capite è cresciuta del 15% fra il 1999 ed il 2008 a fronte di una crescita media UE del 25%. Servizi sociali e Casa: siamo ai minimi europei.
Occorre dunque incrementare e di molto la spesa sociale in senso stretto, spesa per le famiglie, per l’invalidità, per la casa, per contrastare l’esclusione sociale a tutto campo. Questo significa incrementare i servizi, piuttosto che i soli trasferimenti.
Per evitare una riproposizione di interventi a carattere puramente assistenziale, compresa l’erogazione diretta di un risarcimento monetario, riteniamo che tutti gli interventi di politiche sociali debbano rispondere: al superamento degli interventi assistenziali con politiche centrate allo sviluppo di un welfare “generativo”; alla sollecitazione e sostengo a diffusi livelli di partecipazione e protagonismo dei cittadini e degli stessi beneficiari degli interventi sociali; alla centralità della programmazione degli interventi da parte degli enti locali e di prossimità e progettazione partecipata dei servizi e interventi a livello locale con il contributo attivo delle forme organizzate formali e informali della società civile; alla integrazione dei servizi e aree di intervento (sociale sanitario, lavoro, formazione, ambiente); al sostengo e diffusione di un’economia responsabile, sociale e solidaristica.
Chiediamo:
- obbligo di ri-allineamento della spesa per il Welfare alla media dei paesi dell’Unione, colmando lo scarto esistente tra il nostro paese con gli altri paesi europei, considerando che l’Italia risulta agli ultimi posti riguardo la dotazione di spesa per i servizi sociali;
- definizione vincolante dei Livelli Essenziali di Assistenza europei, elemento fondamentale per garantire una discreta omogeneità di interventi e garanzie di diritti sociali in tutta l’area UE;
- approvazione di misure per favorire e sostenere lo sviluppo della cooperazione sociale e le altre forme di iniziativa che sappiano costruire percorsi di inclusione sociale rispettose delle persone e dell’ambiente.
Libera il welfare attraverso i beni confiscati
Le mafie sono oggi in Europa un fenomeno in espansione. Le stime ufficiali del SOCTA e del CRIM denunciano 3600 Clan operativi all'interno dell'Unione Europea, di cui il 70% ha una composizione geograficamente eterogenea e più del 30% ha una vocazione policriminale. Un potere economico enorme che ben più di altri ha saputo approfittare delle crescenti interconnessioni delle economie europee e dell’aumento della povertà e dell’esclusione sociale. Le misure patrimoniali, forse ancor di più delle misure di detenzione, sono lo strumento e insieme la politica antimafia più efficace, quella che colpisce le organizzazioni criminali nel loro obiettivo primario: l'accumulazione di denaro, ricchezza, profitti. Ma sono anche molto di più di questo, rappresentando la finalità sociale un’opportunità per generare nuovo welfare. In Italia in questi anni hanno rappresentato opportunità di lavoro, luoghi relazione e partecipazione civile, centri di accoglienza, di servizi alla persona, luoghi di solidarietà. In questo senso riteniamo la Direttiva sul congelamento e la confisca dei proventi di reato alla criminalità organizzata, approvata lo scorso febbraio 2014 dal PE, un sicuro passo in avanti verso un'armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri.
Riteniamo sia fondamentale uno scatto ulteriore che consenta di segnare il passo con misure all'avanguardia. Sono ancora numerosi i margini di avanzamento e di innovazione che possono essere prodotti in tema di confisca dei beni e riutilizzo sociale.
Chiediamo:
- il riutilizzo sociale dei beni confiscati; il riutilizzo sociale è oggi solo una possibilità prevista dalla Direttiva. Molto può ancora essere fatto nei 30 mesi in cui ogni Stato Membro recepirà nel proprio ordinamento interno le disposizioni della Direttiva. Chiediamo che si agisca immediatamente, rendendo davvero possibile la destinazione sociale dei beni confiscati. In un periodo di grande crisi, i beni confiscati rappresentano uno strumento di coesione sociale da non lasciarsi sfuggire;
- la confisca dei beni ai corrotti; la confisca dei beni per i reati di corruzione e contro la pubblica amministrazione può generare nuove, importanti risorse da investire nell'innovazione sociale. La crisi si combatte non con misure di austerità, ma contrastando innanzitutto la corruzione e la capacità delle mafie, attraverso questa, di generare ulteriori disuguaglianze, povertà, perdita di competitività in ogni settore delle nostre economie, incidendo non solo sull'economia e la ricchezza di un territorio, ma sull'etica pubblica, sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni e sulle prospettive di sviluppo;
- risorse e progetti per il riutilizzo sociale; investire sui beni confiscati significa dedicare risorse all'inclusione sociale, al contrasto alla povertà, alla promozione della legalità, ad opportunità di sviluppo e di lavoro. Significa contrastare la corruzione favorendo partecipazione e protagonismo di cittadini e giovani. E' perciò importante che percorsi di questo genere trovino sempre più spazio attraverso le linee di finanziamento. Tante le esperienze finora realizzate, ad esempio in Italia, attraverso l'utilizzo di fondi FESR per la ristrutturazione o la realizzazione di progettualità sui beni confiscati. Ancora molte altre possono essere le strade da percorrere. Lotta alla disoccupazione, inclusione sociale, uguaglianza di genere ed innovazione sociale sono tra le priorità del FSE per il a partire dal 2014, e possono trovare, proprio nel riutilizzo sociale dei beni confiscati, un importante strumento di azione e partecipazione;
- estensione delle possibilità di confisca: a partire dal mutuo riconoscimento delle decisioni definitive di confisca, rimasto mai pienamente attuato a partire dalla decisione 2006/783/GAI, occorre incrementare le possibilità di azione, pur nel rispetto dei diritti fondamentali, sui patrimoni delle mafie, a partire dalla confisca “estesa” ed alla confisca in assenza di condanna definitiva. La rapidità dell'azione contro la potenza economica della criminalità rimane ancora un aspetto cruciale per garantire efficacia verso il riutilizzo sociale.
4- Un reddito minimo per una vita dignitosa
Dal 1992 in Europa, Parlamento e Consiglio invitano gli Stati membri ad individuare misure concrete che sradichino la povertà. Le Istituzioni europee chiedono con la cosiddetta “Raccomandazione sul reddito minimo” che si “compiano progressi reali nell'ambito dell'adeguatezza dei regimi di reddito minimo, affinché essi siano in grado di sottrarre ogni bambino, adulto e anziano alla povertà e garantire loro il diritto a una vita dignitosa”. Con la Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010, viene riconosciuto il ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva. Noi, aderenti alla Campagna Miseria Ladra chiediamo l’impegno dei candidati italiani a lavorare per una “Direttiva europea per un reddito minimo” che garantisca una vita dignitosa alle persone che vivono sotto la soglia di povertà. Che garantisca il diritto a vivere una vita dignitosa anche per coloro che in un dato momento della loro vita, per circostanze non volute, si trovano ad essere in una situazione di povertà e rischiano di essere esclusi definitivamente dalla società.
Chiediamo:
- un impegno affinché parta dal prossimo Parlamento europeo la spinta verso una misura vincolante per tutti gli Stati membri, con uno standard minimo riconosciuto al 60% del reddito mediano in ciascun paese a livello individuale.
5- Un'istruzione pubblica, gratuita e di qualità a livello europeo
In questi anni mentre Belgio, Lettonia, Romania, Slovacchia, Svezia, Islanda e Austria hanno aumentato la spesa in istruzione dall’1% al 5%, nei paesi ad elevato debito pubblico, i PIIGS (Portagallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), nei paesi dell’est e anche nel Regno Unito, il Patto di stabilità e crescita ha imposto e incentivato tagli lineari ai servizi pubblici, scuole e università in primis. Un’Europa a due velocità dunque. Infatti nei paesi del “sud” ci sono stati ingenti tagli dei finanziamenti che hanno prodotto un decremento delle risorse disponibili per le borse di studio, una restrizione del numero dei beneficiari, un aumento dei costi dei trasporti e più in generale di tutti i servizi e le prestazioni erogati. L’Italia ad oggi investe il 4,2% del PIL in istruzione, la Danimarca il doppio. E' una disparità insostenibile di cui l'Unione Europea dovrebbe farsi carico. Noi pensiamo che investire sia una priorità e che l'UE debba giocare un ruolo centrale per incentivare e incrementare le risorse su scuole, università e ricerca. La società della conoscenza deve essere costruita investendo sulla qualità dei percorsi formativi e garantendone l’accesso a tutti, non rendendoli sempre più elitari.
Chiediamo:
- l'innalzamento degli investimenti in istruzione e ricerca fino all'8% del PIL con forme di controllo e aiuto nei confronti dei paesi svantaggiati indirizzando al megio i FSE e i FESR;
- la gratuità dell'istruzione di ogni ordine e grado per consentirne a tutti e tutte l'accesso e ridurre i tassi di dispersione, aumentare il numero di laureati e incrementare il livello culturale dell'intera Unione Europea;
- estensione a livello continentale delle politiche di Diritto allo Studio che garantiscano il diritto all'abitare, alla salute e alla mobilità anche agli studenti fuori sede e agli studenti stranieri. L'UE deve quindi dotarsi di Livelli Essenziali delle Prestazioni a livello continentale.
6- Patrimonio Bene Comune
Ex aree militari, vecchi cinema e teatri, scuole chiuse, ex depositi, terre incolte, ex fabbriche, fondi rustici e casali sono esempi di patrimonio pubblico e privato abbandonato che, per effetto delle progressive trasformazioni urbane e della speculazione edilizia che in modi, con intensità e tempi diversi ha coinvolto i Paesi Europei, è stato svuotato dalle sue attività, sottraendo alla collettività spazi precedentemente utilizzati. Disperdendo via via la loro funzione originaria e restando vuoti, questi stabili disattendono la funzione sociale della proprietà. Il riprodursi di tale fenomeno di residualità immobiliare, traendo origine dal mutare delle esigenze del ciclo produttivo/riproduttivo, si colloca nel più generale contesto dell’attuale modello economico che governa l’Europa e si esprime nelle politiche di austerità e di privatizzazione. Questo modello propone i processi di alienazione del patrimonio pubblico per ridurre il debito e come strada per liberare l’amministrazione dagli obblighi di gestione del patrimonio, trasferendo la proprietà dei beni pubblici ai grandi interessi privati, assicurando solo a questi ultimi cospicui guadagni. Eppure, mai come in questi anni di recessione economica, in cui esclusione sociale, negazione del diritto allo studio, precarietà e impoverimento sono in rapida ascesa, il recupero degli spazi inutilizzati è un pezzo di risposta - assai concreta - alla crisi che viviamo, un’occasione irripetibile per creare lavoro e cultura, per soddisfare bisogni e diritti. In tali spazi abbandonati potrebbero trovare accoglienza la crescente domanda del disagio abitativo, nonché quell’insieme di soggetti comunitari e associativi che assicurerebbero la fornitura di servizi necessari alla cittadinanza. In questi stabili si potrebbero sperimentare forme nuove di democrazia partecipata che superino la tendenza politica in atto, la cosiddetta valorizzazione economica, ma sarebbe meglio definirla svalutazione, in favore di una valorizzare sociale. Questi edifici da rigenerare potrebbero essere gli Spazi della cittadinanza europea, dell’incontro interculturale e della promozione dei valori europei.
Chiediamo:
- il censimento del patrimonio abbandonato pubblico e privato;
- l’istituzione di una banca dati pubblica europea del patrimonio immobiliare pubblico e privato inutilizzato, in continuo aggiornamento, nella quale confluiscano gli immobili privi di destinazione, per assicurare ai cittadini corrette informazioni, trasparenza, partecipazione e per incoraggiare la sinergia tra partner diversi per la co-progettazione;
- la promozione di forme di riutilizzo proposte dai gruppi di cittadini attivi europei attraverso l’utilizzo di Fondi strutturali europei.
7- Migranti: l’Europa sono anche Io!
L'Europa che immaginiamo è uno spazio culturale aperto, con un'identità plurale e dinamica, capace di fondare le relazioni tra gli stati membri e con i paesi terzi sul reciproco rispetto, sul riconoscimento delle specifiche diversità culturali, sulla promozione delle libertà e dei diritti fondamentali, sul mantenimento della pace tra i popoli, sulla garanzia del principio di eguaglianza, sul rifiuto di ogni forma di discriminazione, sul ripudio della xenofobia e del razzismo. Nell’UE risiedono 32,9 milioni di migranti che rappresentano il 7% della popolazione, pari a 503 milioni. Nell'attuale fase di crisi economica e sociale è importante che l'Unione Europea rafforzi il proprio impegno nella lotta a tutte le forme di xenofobia e di razzismo combattendo ogni forma di discriminazione legata all'origine nazionale, ai tratti somatici, alla lingua, alla religione, alle diversità culturali reali o presunte. La crescita di movimenti nazionalisti, populisti e xenofobi che utilizzano strumentalmente il tema delle migrazioni per accrescere il proprio consenso presso l'opinione pubblica rappresenta un pericolo per la costruzione di un'Europa democratica, solidale, coesa e di pace.
Chiediamo:
- la ratifica della Convenzione dell'ONU del 18/12/1990 "sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie";
- la garanzia del diritto di voto ai migranti residenti per le elezioni amministrative ed europee ed il riconoscimento della cittadinanza europea, armonizzando le leggi nazionali;
- la garanzia del diritto di accesso legale in Europa per ricerca di lavoro e per richiedere la protezione internazionale;
- l’abolizione dei centri di detenzione e la fine del diritto speciale per i migranti;
- di garantire la parità di accesso ai sistemi di welfare e al mondo del lavoro, combattendo con azioni concrete la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento lavorativo;
- la tutela dei diritti dei minori, garantendo la loro inespellibità, senza alcuna limitazione alla libertà personale.
«La tesi di chi sostiene un’uscita dell’Italia dall’euro è che in questo modo le aziende italiane potrebbero esportare di più grazie a una svalutazione della nuova lira. Ma è un’analisi che guarda al mondo di oggi con strumenti analitici del secolo scorso».
Lavoce.info, 20 maggio 2014 (m.p.r.)
Il mondo cambia. Negli ultimi giorni di campagna elettorale per le elezioni europee, continua vivace il dibattito sui costi e i benefici che l’Italia ha avuto dalla moneta unica, con posizioni divise tra chi ritiene che il nostro paese abbia sofferto oltre modo nell’euro a causa delle sue ancora irrisolte debolezze strutturali, e chi invece ritiene che la moneta unica sia la principale causa dei nostri mali. La tesi sostenuta da chi auspica un ritorno alla lira è molto semplice: “se tornassimo padroni della nostra moneta, potremmo monetizzare il nostro debito e compiere svalutazioni competitive per stimolare la domanda dei nostri beni da parte dei mercati esteri”.
Al di là dei costi associati all’uscita dalla moneta unica, su cui molti si sono espressi, quello che non convince di queste argomentazioni è (anche) la parte legata ai benefici. (1) Certo, storicamente svalutazioni competitive sono state associate in diversi paesi a guadagni di crescita, ma il punto è proprio questo: “storicamente”. Negli ultimi anni, e anche tenendo conto della crisi, la produzione si è frammentata internazionalmente, con flussi di commercio di beni intermedi tra paesi, organizzati (prevalentemente) dalle imprese multinazionali nell’ambito di catene globali del valore (o
global value chains, Gvc). Per dare un’idea del fenomeno, l’Unctad stima che l’80 per cento del commercio globale (in termini di esportazioni lorde) sia oggi in qualche modo connesso a transazioni in cui almeno una delle controparti è un’impresa multinazionale che organizza una global value chain. (2)Ne consegue che l’esportazione “diretta” di beni e servizi sul mercato legata a un vantaggio di prezzo, ossia quella modalità di commercio cui le svalutazioni competitive danno beneficio e che viene “storicamente” registrata dalla letteratura economica, è probabilmente molto meno importante di prima.
Esportazioni e tasso di cambio oggi.Per capire come questa modalità di organizzazione della produzione possa attenuare di molto i benefici teorici delle svalutazioni competitive, prendiamo per esempio lo spazzolino da denti prodotto da una nota multinazionale europea e assemblato con componenti che provengono da siti produttivi localizzati in dieci diversi paesi (con dieci valute diverse), in tre continenti. Che ruolo avrebbe il tasso di cambio dell’euro nel determinare, da solo, la competitività del prodotto? Immaginando che sia assemblato fuori dall’Europa, per produrre il più vicino possibile al mercato di riferimento, come accade peraltro per la gran parte della produzione di automobili tedesche vendute in Asia, cosa c’entrerebbe l’euro con il successo di queste aziende?
In generale, la letteratura economica che ha analizzato questi effetti limitandosi all’evidenza degli ultimi anni, ossia da quando le catene globali del valore hanno un impatto significativo sui flussi di commercio, suggerisce che non esiste una relazione statisticamente forte tra profitti delle aziende e livello dei tassi di cambio, né questa relazione sembra differenziarsi, come dovrebbe, tra settori esposti alla concorrenza internazionale (il manifatturiero in generale) e settori che per loro caratteristica (come i servizi alla persona) restano locali. (3)
Effetti per l'italia. Ma come si posiziona l’Italia rispetto a queste dinamiche? Per rispondere, possiamo guardare ai dati recentemente pubblicati dall’Oecd che fanno vedere come l’importanza dei diversi mercati di esportazione del nostro paese cambia se distinguiamo tra esportazioni lorde (ossia dove vanno fisicamente i nostri beni quando escono dai confini nazionali) ed esportazioni in valore aggiunto (ossia quale domanda viene servita dai nostri beni quando escono dai confini nazionali, ma entrano nella produzione di beni di altri paesi prima di essere consumati). Come si può vedere dai grafici sottostanti, quello che emerge è che la Germania è di gran lunga al primo posto come mercato di sbocco delle nostre esportazioni (lorde). Ma se guardiamo al principale mercato dalla cui domanda dipendono le nostre esportazioni, scopriamo che è quello degli Stati Uniti. (4)

Se ne deduce che l’Italia esporta beni “direttamente” alla Germania, ma “indirettamente” esporta componenti che entrano in prodotti che poi la Germania vende agli USA. (5) L’evidenza è peraltro coerente con il dato che, a livello mondiale, vede l’Europa come il mercato in cui maggiormente si è integrata la produzione regionale tra paesi, Italia inclusa.
Cosa succederebbe, allora, se applicassimo questa realtà a un sistema di monete locali e non di moneta comune, ipotizzando una svalutazione della lira, ma non dell’euro tedesco? Innanzitutto, per la parte di esportazione “diretta”, potremmo in teoria vendere di più. Tuttavia, oggi l’80 per cento del commercio internazionale di beni avviene attraverso le catene globali del valore, e mentre uscire da una value chain è facile, entrarci è difficile, perché i costi fissi di chi importa input sono alti, l’efficienza richiesta a chi esporta è elevata e, in generale, prima di modificare la struttura di una catena del valore ci si pensa seriamente. Non basta quindi costare di meno per essere automaticamente ammessi al desco della produzione internazionale di beni, e d’altra parte i ritardi strutturali dell’economia italiana, con un sistema di imprese ancora in parte piccolo, sottocapitalizzato e meno efficiente rispetto ai concorrenti internazionali, resterebbero immutati.
Inoltre, i dati disponibili dimostrano come esista una relazione positiva e statisticamente significativa tra variazione della quota di mercato delle nostre esportazioni in un dato settore e la variazione (ritardata) della quantità di beni esteri che quel settore utilizza per l’esportazione: in sintesi, al giorno d’oggi per esportare di più è necessario importare di più. E dunque svalutare in un sistema di Gvc, oltre a non garantire necessariamente maggiori vendite, si tradurrebbe sicuramente anche in un costo per le nostre imprese.
Per quel che riguarda l’esportazione “indiretta” (che pesa per oltre il 20 per cento dell’export italiano), bisogna chiederci cosa succederebbe alla domanda americana di beni tedeschi, da cui in ultima analisi dipende parte della domanda tedesca di beni italiani. Agli occhi americani tutto quello che conta è il prezzo dei beni tedeschi, che a quel punto dipenderà dalla competitività delle imprese tedesche (che noi non controlliamo) e dal tasso di cambio euro tedesco–dollaro, che oggi in parte controlliamo attraverso la Bce, ma che domani, uscendo dall’euro, non controlleremmo più. Con una svalutazione della nuova lira, se decidessero di non modificare i loro prezzi, le imprese tedesche pagherebbero sicuramente meno la stessa quantità di beni italiani, facendo profitti maggiori, senza che per questo le imprese italiane vendano di più alla Germania, poiché la domanda americana dei prodotti tedeschi non varia. In compenso le aziende italiane, senza vendere di più, pagherebbero comunque di più le importazioni di materie prime comunque necessarie per produrre gli input da vendere alla Germania.
Dunque, un’uscita dell’Italia dall’euro rischia di avere come risultato profitti che salgono in Germania e che scendono in Italia: sono queste le conseguenze se si guarda al mondo di oggi con gli strumenti analitici del secolo scorso.
(1) Si veda in particolare A. Baglioni “Uscire dall’euro? No, grazie”, e C. Altomonte e T. Sonno, “L’Italia alla sfida dell’euro”, www.sfidaeuro.it.
(2)Unctad, “Global Value Chains and Development, Investment and Value Added Trade in the Global Economy”, 2013
(3) M. Amiti, J. Konings e O. Itskhokiin “Importers, Exporters, and Exchange Rate Disconnect” del 2012, dimostrano che le grandi imprese esportatrici (importatrici) sono decisamente poco influenzate dai cambiamenti nei tassi di cambio. Nello specifico, gli autori mostrano come le aziende connesse internazionalmente sono in grado di assorbire in maniera indolore quasi il 50 per cento della eventuale variazione di cambio. Poiché in ogni paese le grandi aziende esportatrici rappresentano circa il 70-80 per cento del valore delle esportazioni, di fatto oggi abbiamo una situazione per cui una gran parte dell’export di uno stato europeo è in realtà parzialmente isolato dall’effetto del tasso di cambio.
(4) Per una distinzione tra esportazioni lorde ed esportazioni in valore aggiunto, e una completa analisi di queste dinamiche sull’export italiano si veda R. Cappariello e A. Felettigh “How does foreign demand activate domestic value added? A dashboard for the Italian economy”, mimeo.
(5) Tutte queste informazioni e i dati sono liberamente scaricabili dal sito dell’Oecd.
Eccezionale! Il giornale fondato da Eugenio Scalfari scopre che alle elezioni europee partecipa anche Alexis Tsipras, e non solo Renzi e Grillo. E si accorge perfino che il leader della lista europea "L'altra Europa" non è trinariciuto. La Repubblica, 20 maggio 2014
Gli studenti della Statale a Milano, gli operai senza lavoro a Torino e il bagno di folla e musica in piazza Maggiore a Bologna. Per un giorno Alexis Tsipras è stato, anche fisicamente, il leader della sinistra italiana. Si è mosso - sempre in treno - come un capo nostrano scortato dalle sue truppe. Foto ricordo, autografi, pugni chiusi. 24 ore per dire che “L’altra Europa”, quella che non strangola i cittadini con le politiche cieche di austerity, è possibile. Ha 39 anni, è greco, parla inglese. E’ moderato nel linguaggio (ma solo i toni), sorridente, anche ironico. Per esempio quando gli chiedono se la buona affermazione in Grecia di Syriza, il suo partito, può far da volano alle sorti meno entusiasmanti della sinistra italiana. Lui risponde: «Una faccia una razza». Se Atene si tira su, può succedere anche a Roma.
Nel corso di tutta la campagna elettorale in tanti hanno pronunciato il suo nome senza conoscerlo. Ieri terza missione in Italia, l’ultima prima del voto. Eccolo il candidato presidente alla commissione europea. Parla a Milano, davanti alla Statale. E spiega che lui non è Grillo, non vuole la distruzione dell’euro: «L’euro è uno strumento per cambiare le nostre vite, una moneta comune in un’Europa in cui non ci devono essere proprietari e inquilini». Dice: «Non ho i capelli e la barba di Grillo». Cioè sono diverso: «Non basta urlare, denunciare, bisogna avere proposte alternative. Per essere credibili i 5 Stelle dovrebbero fare alleanze sociali più vaste». La politica è una cosa seria, insinua Alexis, che qualcuno ha definito Davide contro Golia. Non bisogna interpretare queste elezioni — avverte — come «un derby Renzi/Grillo»: «Qui si tratta di cambiare gli equilibri dell’Europa, di uscire da politiche che hanno distrutto il welfare, creato milioni di senza lavoro, ucciso le speranze dei giovani». Ci vuole un nuovo inizio, «un New Deal europeo». Magari anche una legislazione contro la corruzione: «Da voi l’Expo, da noi le Olimpiadi di Atene nel 2004». Una faccia, una razza.
Si fermano ad ascoltarlo. Scusi chi è quello? «E’ Tsipras, della Lista Tsipras». Ah, ecco. Fa una buona impressione alle signore: «Sembra Banderas». E conquista i vecchi compagni che si mescolano agli studenti quando se ne va dalla piazza alzando il pugno chiuso. Tsipras che non le manda a dire a Renzi: «Il suo Pd ha applicato le politiche proposte dalla destra popolare e dopo le elezioni potrebbe accordarsi con Berlusconi, il che non è buono per il popolo italiano». Tsipras che, però, non è affatto trinariciuto, non chiude la porta a Schulz, visto mai che si allenti l’alleanza «mortale» con i conservatori e il Pse torni ad essere «più di sinistra ». Per raggiungere Torino — seconda tappa — il candidato presidente sceglie l’Alta Velocità, ma niente bar, gli comprano i panini. Stazione Centrale: i fotografi gli chiedono di fare ciao prima di salire a bordo. Esegue perplesso ed è anche la prima volta che concede interviste sul treno.
«Da noi — spiega Danai, la sua addetta stampa — le linee ferroviarie sono pochissime». «La Grecia in miseria, con tre milioni di persone che non hanno più accesso alle cure. Non ve lo dico per suscitare compassione ma per farvi capire che la Grecia è stata una cavia di questa crisi. Se non cambia la politica in Europa, succederà anche in altri Paesi quel che è successo da noi». Arrivano gli ultimi dati delle amministrative da Atene. Tsipras è soddisfatto: «E’ un segno che il cambiamento è possibile anche altrove». Si informa dei sondaggi italiani: «Mi preoccupa l’astensione e certo anche la soglia del 4 per cento... » Sul treno c’è Paolo Ferrero, alla stazione di Torino lo aspetta Marco Revelli.
Via sul palchetto davanti a Palazzo Nuovo, sede dell’università di Torino. Bandiere No Tav, la platea che intona Bella Ciao: «Compagne e compagni, sono molto fiero per voi». Si sforza di parlare italiano: «Andate a votare per “L’altra Europa”, dobbiamo voltare le spalle al populismo di destra e al neoliberismo ». La sinistra «come terza forza», dice Tsipras. E fa sognare gli orfani di vittorie: «C’è un blocco per l’austerità, con i popolari, i socialdemocratici e i liberali; c’è un blocco fascista; e poi ci siamo noi, la sinistra alternativa ».
A Bologna, gran finale. I compagni gli hanno preparato il bagno di folla, le luci di piazza Maggiore, gli ospiti illustri. Via video arriva l’appoggio di Adelmo Cervi, figlio di uno dei sette fratelli uccisi dai fascisti. Il compagno Alexis ringrazia, benedice e torna ad Atene.
Le sfide, in Europa e in Italia: «l'allargamento della democrazia, la fine delle politiche di austerità, la regolamentazione dei mercati finanziari, la promozione di un New Deal sociale ed ecologico».
Sbilanciamoci.info, newsletter n. 330, 19 maggio 2014
Per la prima volta, le elezioni per il Parlamento europeo rappresentano un appuntamento che va oltre la composizione dell'assemblea di Bruxelles, un'istituzione che ha ancora pochi poteri e incide in modo limitato sulle scelte della Commissione e del Consiglio europeo. Si tratta di un voto che definirà l'intero quadro politico per l'Europa e per i paesi membri, la cornice in cui si muoveranno nei prossimi anni istituzioni europee e governi nazionali, tecnostrutture di Bruxelles e Francoforte e soggetti sociali.
Il 25 maggio si vedrà se la sinistra e i movimenti avranno uno spazio significativo per rappresentare le vittime della crisi e gli insubordinati d'Europa, accrescere il proprio peso e condizionare la politica dei prossimi anni. Sappiamo che dal voto emergerà una forte ventata populista e antieuropea, figlia delle politiche di austerità di questi anni. Con queste pulsioni di destra e demagogiche dovremo fare i conti per lungo tempo, senza scorciatoie e tatticismi. Un populismo sbagliato non si combatte – come vorrebbe Matteo Renzi – con un altro dall'alto, che occupa i media e nasconde la gravità dei problemi dietro la velocità delle mosse propagandistiche.
Quattro sono le sfide che la sinistra e i movimenti dovranno affrontare in Europa: l'allargamento della democrazia, la fine delle politiche di austerità, la regolamentazione dei mercati finanziari, la promozione di un New Deal sociale ed ecologico. Si tratta di sfide che riguardano l'insieme dell'Europa, come ci ricorda l'appello della Rete europea degli economisti progressisti. Ma si tratta di questioni vitali per l'Italia: qui il governo Renzi persegue con coerenza le vecchie politiche: prosegue con l'austerità, precarizza ancora di più il lavoro, taglia massicciamente la spesa pubblica e soprattutto quella sociale, vara nuove privatizzazioni, riduce al minimo gli investimenti pubblici e ridimensiona il ruolo dell'intervento pubblico. Basta leggersi l'ultimo Documento di economia e finanza del governo per rendersene conto. I partiti che fanno riferimento al Partito socialista europeo non sanno bene cosa fare, avendo già fatto molti guai in passato. Da una parte si rendono conto di essere stati subalterni alle politiche neoliberiste di Angela Merkel e della Commissione europea, e che questa strada sta portando l'Europa (e la sinistra moderata) al precipizio. Dall'altra, in Germania come in Italia, si sono installati in governi di larghe intese che hanno al centro proprio la filosofia e le politica dell'austerità. Le stesse larghe intese rischiano di traslocare a Bruxelles per l'elezione del Presidente della Commissione europea. Democristiani e socialisti si contenderanno il primato, ma anche nel caso di un relativo successo di Martin Schulz, la sua alleanza con Angela Merkel è più che probabile: dove sarà allora il cambio di rotta per le fallimentari politiche dell'Europa? Lo scenario vede la contrapposizione tra una tecnocrazia neoliberista con il sostegno politico dei governi di larghe intese e un populismo antieuropeo che gioca la carta dell'anti-politica. In questo quadro la sinistra che sostiene la candidatura di Alexis Tsipras può giocare una partita importante: indicare la via di un cambiamento e diventare determinante nel Parlamento europeo. In Italia può ricostruire uno spazio aperto e plurale in cui riaggregare forze, persone e movimenti interessati a ricostruire una politica di sinistra. L'esperienza della lista Un'Altra Europa con Tsipras ha mostrato problemi e difficoltà, ma anche che c'è la possibilità - dandosi il tempo necessario - di far maturare una cultura politica comune e costruire efficaci strumenti d'iniziativa. Comunque andrà, il percorso è segnato. Non si può tornare a logiche superate e minoritarie. A sinistra del Pd - e tra il Pd e Grillo - c'è uno spazio politico che deve essere esplorato e generosamente costruito, oltre le vecchie appartenenze, per dare un senso alla prospettiva delineata in questi mesi, l'unica possibile per disegnare il futuro di una sinistra radicale e pragmatica, capace di scommettere sulla trasformazione dell'Europa e dell'Italia.