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«Perché si affermano i partiti populisti? Basta guardare al profilo per età del voto, giovane al Sud e vecchio al Nord. La soluzione passa per politiche europee che sappiano affrontare il problema della disoccupazione giovanile nei paesi più periferici». Lavoce.info, 27 maggio 2014 (m.p.r.)
Squilibri e spinte migratorie. Se si pensa all’Unione Europea come a un unico paese e si guarda alla diseguaglianza dei redditi, concentrandosi in particolare sui giovani, si comprendono bene le ragioni che stanno dietro alla vittoria dei movimenti populisti alle elezioni europee. L’indice più comune per misurare la diseguaglianza, il coefficiente di Gini, tra i redditi delle famiglie con capofamiglia di meno di 30 anni è cresciuto marcatamente in tutto il periodo della grande recessione e della crisi del debito dell’Eurozona. È passato dal 28,5 per cento nel 2007 al 31,5 per cento nel 2011: un aumento del 10 per cento. E il rapporto “primi dieci-ultimi dieci” è aumentato in maniera simile, da 4 a 5: significa che il reddito medio nel decile più alto nella distribuzione è ora cinque volte maggiore del reddito medio nel decile più basso. L’aumento della disuguaglianza tra i giovani non è dovuto, come per gli altri gruppi d’età, a una concentrazione nella parte più alta della scala dei redditi, con alcune persone molto ricche che aumentano la loro distanza dal resto della popolazione. I giovani, che già all’inizio della crisi erano sottorappresentati nella parte più alta della distribuzione del reddito, sono oggi una percentuale ancora minore rispetto agli altri gruppi di età.
La diseguaglianza dei redditi è aumentata principalmente a causa delle differenze nei livelli di disoccupazione giovanile. In Grecia e Spagna i tassi di disoccupazione in quella fascia sono oltre il 50 per cento, in Italia sopra il 40 per cento, mentre in Austria e Germania sono sotto la doppia cifra. È significativo che sia l’aumento della diseguaglianza dei redditi sia l’aumento delle differenze nei tassi di disoccupazione giovanile tra le diverse aree dell’Unione Europea abbiano una dimensione marcatamente nazionale: la diseguaglianza tra paesi è quasi raddoppiata, mentre all’interno dei paesi la crescita delle diseguaglianze è stata molto più contenuta; nel caso dei tassi di disoccupazione, la variazione inter-regionale all’interno di ogni paese si è dimezzata, mentre la differenza tra paesi è aumentata di due volte e mezzo.

Populismi del nord e populismi del sud. Perché tutto questo è importante per capire la vittoria del populismo alle elezioni europee? I giovani sono la componente più mobile della popolazione e sperimentare la disoccupazione così presto, quasi all’inizio della loro vita lavorativa, lascia cicatrici profonde. Quelli che vivono nei paesi con un’alta disoccupazione (il cosiddetto ClubMed, incluso il Portogallo) hanno solo due opzioni: exit or voice - andarsene via o “farsi sentire”. Londra e Berlino sono state inondate da giovani italiani e spagnoli. E ancora di più da giovani bulgari o rumeni che hanno lasciato l’Italia o la Spagna per cercare lavoro altrove. L’alternativa è farsi sentire e i movimenti populisti del Sud Europa tendono a consentire ai giovani proprio quel tipo diprotesta radicale contro le istituzioni europee e l’euro che più apprezzano. Il profilo di età dei voti di Tsipras in Grecia, del movimento di Grillo in Italia, di Podemos in Spagna e del Front National in Francia è molto ben definito: in molte circoscrizioni, questi movimenti sono il primo partito tra coloro che hanno meno di 30 anni.

L’altro lato della medaglia è il populismo del Nord Europa, che somiglia molto a una collezione di sentimenti anti-immigrazione. L’Ukip ha fatto la sua campagna contro il flusso di cittadini europei, chiedendo lo smantellamento della libera mobilità dei lavoratori, uno dei pilastri dell’Unione Europea fin dal trattato di Roma. E non sorprende che il profilo di età sia, in questo caso, speculare rispetto al populismo del Sud: quasi il 90 per cento dei sostenitori di Nigel Farage ha più di 40 anni, 3 sostenitori del People’s Party danese su 4 hanno più di 50 anni e il FPÖ austriaco ha percentuali doppie tra gli ultra cinquantenni. La concentrazione all’altro capo dello spettro di età nel populismo del Nord è dovuta al fatto che i lavoratori più anziani rappresentano le componenti meno mobili della popolazione ed è quindi probabile che soffrano di più per la competizione dei giovani lavoratori che arrivano da altre parti dell’Unione.
Come spendere meglio le risorse. Se l’analisi è corretta, ne consegue che sarà difficile per i movimenti populisti europei coordinare i loro voti utilizzando la grande fetta di seggi che si sono guadagnati nel Parlamento europeo. Ma ci sono lezioni ancora più importanti da imparare riguardo al futuro dell’Europa. A meno che non si faccia qualcosa per affrontare il problema delle diseguaglianze tra paesi e della disoccupazione giovanile, questa tendenza proseguirà e porterà con sé, al Nord, tensioni per l’immigrazione e, al Sud, fuga di cervelli ed euroscetticismo. Non è una prospettiva positiva per l’integrazione: è poco probabile che così si promuova un’identità europea, qualunque essa sia. I politici tedeschi conoscono molto bene la questione, dal momento che l’hanno dovuta affrontare dopo l’unificazione della Germania, spendendo molto per prevenire la migrazione da Est a Ovest. Fortunatamente, in questo caso, non c’è bisogno dei massicci trasferimenti fiscali registrati dall’Ovest verso l’Est dopo la caduta del Muro di Berlino. Sarebbe sufficiente prestare più attenzione allo sviluppo nelle economie più periferiche quando si prendono decisioni di politica monetaria, partendo col pianificare una svalutazione dell’euro rispetto al dollaro.
Allo stesso tempo, il bilancio europeo dovrebbe essere usato meglio per affrontare i problemi legati alla disoccupazione giovanile. Oltre a essere troppo contenuta (6 miliardi di euro, ovvero, circa 400 euro per giovane disoccupato all’anno), l’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile si dà obiettivi sbagliati e coinvolge attori sbagliati: si propone di avviare al lavoro i giovani nei paesi in cui non ci sono posti disponibili per loro; inoltre, trasferisce denaro dal bilancio europeo direttamente alle regioni povere, saltando le giurisdizioni nazionali, mentre l’aumento della disoccupazione giovanile ha una dimensione marcatamente nazionale. Il risultato sono programmi regionali co-finanziati dall’Ue che, per contrastare la disoccupazione giovanile, si affidano a una grande varietà di progetti di piccola portata e di durata limitata. Vi rientrano molti corsi di formazione più adatti ad arricchire chi tiene il corso (spesso con curricula limitati, come quelli per estetista) che ad aiutare effettivamente coloro che dovrebbero beneficiare della formazione.
Nell’ambito dell’iniziativa non c’è spazio, invece, per le riduzioni fiscali permanenti e i sussidi salariali che promuoverebbero la domanda di lavoro per i più giovani nei paesi con un alto tasso di disoccupazione. Insomma, si ripetono esattamente gli stessi errori compiuti nell’allocazione dei fondi strutturali: spesso i governi locali non sanno che fare di questi soldi e finiscono o per non spenderli (la stessa efficiente amministrazione tedesca utilizza non più del 60 per cento delle allocazioni dei fondi strutturali) o per disperderli in una miriade di piccoli progetti, i cui costi di gestione superano frequentemente il 50 per cento del budget di ciascun singolo progetto.
Con le regole attuali, alle nazioni in crisi converrebbe arrivare a un accordo di “zero a zero”: non contribuire in alcun modo al bilancio Ue e non riceverne nulla in cambio. Ma se chi più ha bisogno di sostegno sotto i colpi di crisi asimmetriche ricava un maggior beneficio chiamandosi fuori dal fondo comune, è evidente che quel fondo comune non ha ragione di esistere sotto il profilo della condivisione del rischio e del mutuo soccorso. L’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile dovrebbe quindi essere riconsiderata, consentendo il finanziamento di programmi nazionali per la creazione di posti di lavoro nei paesi con un’alta disoccupazione giovanile, mentre i fondi strutturali dovrebbero trasformarsi in strumenti per sostenere quelle riforme strutturali che incrementino la convergenza economica all’interno dell’Unione. Dovrebbero essere fondi per compensare gli svantaggi della liberalizzazione economica secondo la filosofia dei Contractual Arrangements, oltre che per assorbire gli shock. Oggi non ci sono le basi per un ampliamento del bilancio dell’Ue, ma possiamo iniziare a spendere meglio il denaro a disposizione.

Europee 2014. Il record elettorale del Pd non è una vittoria sul populismo, Renzi non è meno populista di Grillo. E i voti per Syriza sono una spinta per coltivare il nucleo nascente di un’alternativa».

Il manifesto, 28 maggio 2014

La ridu­zione della com­pe­ti­zione per le ele­zioni euro­pee a un match fron­tale tra due icone vuote di con­te­nuti quanto piene di inva­dente pre­sen­zia­li­smo ha pre­miato Renzi e punito Grillo. Ma a per­dere sono stati gli ita­liani o, meglio, ha perso la demo­cra­zia. Per­ché la riforma elet­to­rale, quella del Senato o l’abolizione delle Pro­vince volute da Renzi non fanno che ridurne pro­gres­si­va­mente il campo di applicazione.

Ha perso il plu­ra­li­smo: ora c’è un uomo solo al comando di un par­tito, del governo, arbi­tro, anche, dei destini dello Stato; e gli altri par­titi, satel­liti o com­pri­mari, sono in via di spa­ri­zione, né hanno molte ragioni per con­ti­nuare ad esi­stere. E ha perso, ren­dendo sem­pre meno sin­da­ca­bili le scelte del “pre­mier”, la pro­spet­tiva di un vero cam­bia­mento: il qua­dro euro­peo in cui il Pd si inse­ri­sce e di cui sarà un garante non con­sente cambi di rotta. E con tutte que­ste cose hanno perso i lavo­ra­tori, i disoc­cu­pati, i gio­vani, i pen­sio­nati; anche, e forse soprat­tutto, quelli che lo hanno votato.

Ma non si tratta, come sosten­gono molti com­men­ta­tori, di una vit­to­ria sul populismo. Renzi non è meno popu­li­sta di Grillo se per popu­li­smo si intende un richiamo iden­ti­ta­rio (le “riforme”, pre­sen­tate come inter­vento sal­vi­fico, senza spe­ci­fi­carne il con­te­nuto, e la “rot­ta­ma­zione” pre­sen­tata come pro­gramma) che fa aggio sui con­te­nuti spe­ci­fici delle misure pro­po­ste. Il pro­gramma di Grillo, se si eccet­tua la sua ambi­va­lenza di fondo sull’euro, che è ambi­va­lenza sul ruolo che può e deve avere l’Europa nel deter­mi­nare un cam­bio di rotta per tutti, era addi­rit­tura più con­creto di quello con cui Renzi ha affron­tato que­sta sca­denza elet­to­rale. Entrambi comun­que ave­vano gli occhi pun­tati sugli equi­li­bri interni al pol­laio ita­liano; la resa dei conti con le poli­ti­che euro­pee l’avevano riman­data a un inde­ter­mi­nato domani: euro­bond o uscita dall’euro per uno; ridi­scus­sione dei mar­gini del defi­cit per l’altro; nes­suno dei due sem­bra ren­dersi conto che la crisi euro­pea impone una revi­sione radi­cale del qua­dro isti­tu­zio­nale e delle stra­te­gie poli­ti­che, prima ancora che economiche.

Non è stata nem­meno, quindi, una vit­to­ria dell’europeismo con­tro l’antieuropeismo: se per Grillo il pro­blema è ine­si­stente — la sua “indi­pen­denza” da tutto e da tutti gli impe­di­sce di avere alleati e pro­spet­tive che vadano al di là delle Alpi e dei mari di casa, per Renzi è l’assoluta subal­ter­nità al patto tra Schulz e Mer­kel, ormai rati­fi­cato dall’esito elet­to­rale anche in Europa, che gli impe­di­sce di avere, se non a parole — ma di parole la sua poli­tica non manca mai — una visione delle misure, delle stra­te­gie e delle con­se­guenze di una vera rimessa in discus­sione dell’austerità. Quell’austerità che l’Europa la sta disin­te­grando (e i primi a pagarne le con­se­guenze saremo noi).

Meno che mai quella di Renzi è stata una vit­to­ria della spe­ranza con­tro il ran­core. Se nell’ultimo anno il Movi­mento 5S ha dato prova della sua sostan­ziale incon­clu­denza, dovuta al con­trollo fer­reo che i suoi due lea­der pre­ten­dono di eser­ci­tare sui qua­dri e sui par­la­men­tari, la moti­va­zione di fondo del voto a Renzi è stata un clima da “ultima spiag­gia”. Para­digma di que­sto atteg­gia­mento sono gli edi­to­riali su la Repub­blica di Euge­nio Scal­fari, che non approva pra­ti­ca­mente alcuna delle misure varate da Renzi e meno che mai i suoi pro­getti, ma che invita a votarlo lo stesso per­ché “non c’è alternativa”.

Così, se con que­ste ele­zioni la para­bola del M5S ha imboc­cato irre­vo­ca­bil­mente una curva discen­dente, men­tre Renzi sem­bra invece sulla cre­sta dell’onda — forse rag­giunta troppo in fretta per poter con­so­li­dare una posi­zione del genere — è il vuoto di pro­spet­tive e la man­canza di una pro­po­sta di respiro stra­te­gico per rifor­mare l’Europa a con­dan­narlo a sgon­fiarsi altret­tanto rapi­da­mente. Il che suc­ce­derà ine­vi­ta­bil­mente — pen­sate alla para­bola di Monti! — non appena Renzi dovrà fare i conti con quella gover­nance che forse imma­gina di riu­scire a con­qui­stare con la stessa faci­lità, super­fi­cia­lità e disin­vol­tura con cui si è impa­dro­nito, gli uni dopo le altre, di pri­ma­rie, par­tito, governo ed elet­to­rato. Ma là, invece, c’è la “scorza dura” dell’alta finanza che Renzi non si è mai nem­meno sognato di voler intac­care, ma che non è certo dispo­sta a con­ce­der­gli qual­cosa che vada al di là di un soste­gno for­male e sim­bo­lico (un po’ di spread in meno, forse; e solo per un po’).

Ma come Grillo sta lasciando die­tro di sé, in modo forse irre­ver­si­bile, per­ché non facile da pro­sciu­gare, un mare di mace­rie (la poli­tica tra­sfor­mata in per­nac­chia, come Ber­lu­sconi l’aveva, prima di lui, e apren­do­gli la strada, tra­sfor­mata in bar­zel­letta e licenza), così anche Renzi lascerà die­tro la sua pros­sima quanto ine­vi­ta­bile para­bola, altri danni irre­ver­si­bili. Danni alla demo­cra­zia e alla costi­tu­zione; al diritto del lavoro e alle con­di­zioni dei lavo­ra­tori, pre­cari e non (se ancora ce ne sono); alla scuola, alla sanità, al wel­fare, alle auto­no­mie locali (che da sin­daco non ha mai difeso dal patto di sta­bi­lità); a quel che resta della mac­china dello Stato, sman­tel­lan­done i capi­saldi in nome del rispar­mio e dell’efficienza; al sistema delle imprese e dei ser­vizi pub­blici, messi in sven­dita per fare cassa; e, soprat­tutto, danni alla tenuta morale della cit­ta­di­nanza, messa per la terza o la quarta volta alla prova di una poli­tica fon­data sulle apparenze.

"L'altra Europa con Tsipras" rappresenta un piccolo ma importante episodio di resistenza. Di fronte a que­sto pano­rama, di cui l’elettorato non potrà evi­tare di pren­dere atto in tempi stretti, i risul­tati della lista “L’altra Europa con Tsi­pras” rap­pre­sen­tano un pic­colo ma impor­tante epi­so­dio di resi­stenza; per­ché in quella lista, e in nessun’altra pro­po­sta di livello nazio­nale ed euro­peo, è con­te­nuto il nucleo di un’alternativa pos­si­bile e pra­ti­ca­bile alla per­pe­tra­zione di poli­ti­che desti­nate a por­tare allo sfa­scio l’intero con­ti­nente, Ger­ma­nia com­presa.
Cer­ta­mente i nostri numeri non sono esal­tanti, anche se lo sono quelli di alcuni dei nostri part­ner euro­pei. Però sono il frutto di un lavoro di con­qui­sta, voto per voto, con­senso per con­senso, impe­gno per impe­gno, che ha coin­volto migliaia di com­pa­gni e di soste­ni­tori delle più diverse pro­ve­nienze, che non ave­vano certo come obiet­tivo finale o esclu­sivo il risul­tato elet­to­rale. Ma che pro­prio spe­ri­men­tando, almeno in parte, e non senza molte con­trad­di­zioni, forme nuove, o pro­fon­da­mente rin­no­vate, di con­di­vi­sione e di coe­sione, fon­date su nuove pra­ti­che, sono ben deter­mi­nati ad andare avanti lungo la strada appena intra­presa. E non cia­scuno per conto suo, o facendo ricorso alle pro­prie appar­te­nenze, ma tutti insieme, apren­dosi a quel mondo di delusi, di arrab­biati, di abban­do­nati, di incerti che la crisi del M5S e il muta­mento antro­po­lo­gico del Par­tito Demo­cra­tico si stanno lasciando, e con­ti­nue­ranno a lasciarsi, die­tro le spalle.

In que­sta pic­cola affer­ma­zione i voti di pre­fe­renza rac­colti da due capo­li­sta come Bar­bara Spi­nelli e Moni Ova­dia, che hanno messo il loro nome, la loro fac­cia e un mare di fatica a dispo­si­zione del pro­getto per rap­pre­sen­tarne il carat­tere uni­ta­rio, sono una impor­tante dimo­stra­zione di quella spinta a un radi­cale rin­no­va­mento delle pro­prie iden­tità che fin dall’inizio è stata la cifra della nostra intrapresa.

In pochi anni, sotto la guida di Ale­xis Tsi­pras, Syriza, da pic­cola aggre­ga­zione di iden­tità dif­fe­renti si è fatta par­tito di governo. Dun­que, si può fare. Se abbiamo messo quel nome nel sim­bolo della nostra lista non è per caso.

Il trionfo ren­ziano è una sfida per la sini­stra di Tsi­pras. Dopo aver vinto la scom­messa euro­pea con i par­la­men­tari ita­liani eletti a Stra­sburgo, ora le persone che in pochi mesi hanno creato que­sta espe­rienza poli­tica «dovranno capire come col­lo­carsi nell’inedito sce­na­rio ita­liano».

Il manifesto, 27 maggio 2014, con postilla

I poveri son­dag­gi­sti anche que­sta volta ave­vano imma­gi­nato un altro mondo (l’astensione a valanga, il testa a testa tra Renzi e Grillo…), ma a par­ziale discolpa della loro inaf­fi­da­bi­lità biso­gna dire che sono stati som­mersi, più che dal ridi­colo, da una vera e pro­pria onda ano­mala, apparsa a una certa ora della notte accanto alla casella del Pd: 40,8%. Quando un par­tito in un anno quasi rad­dop­pia c’è molto da capire ma una cosa è chiara: siamo di fronte a un risul­tato elet­to­rale che cam­bia i con­no­tati a tutto il sistema politico.

Il primo e unico rife­ri­mento sto­rico del nuovo par­tito piglia­tutto è la balena bianca demo­cri­stiana, capace di salire così in alto da con­te­nere tutto l’arco costi­tu­zio­nale, dalle sini­stre dei Bodrato e dei Gra­nelli alle destre dei For­lani e degli Andreotti. Que­sto Pd ha ingo­iato in un solo boc­cone il 10% dei mon­tiani con annessi cespu­gli (da Casini in giù) insieme a bran­delli ber­lu­sco­niani, por­tan­doli nella stessa casa dei Fas­sina e dei Civati. Poi, come nella più col­lau­data tra­di­zione demo­cri­stiana, ha messo nelle tasche di dieci milioni di ita­liani 80 euro, biglietto da visita reca­pi­tato il venerdì per la messa elet­to­rale della domenica.

In realtà que­sta feb­bre a 40 rea­lizza la famosa voca­zione mag­gio­ri­ta­ria di Vel­troni, con ex dc e ex pci nucleo cen­trale di un tra­sver­sa­li­smo desti­nato a pro­durre una muta­zione gene­tica. Ha la feb­bre alta il paese che, dopo Ber­lu­sconi, dopo Grillo con­ferma l’anomalia ita­liana affi­dan­dosi al lea­der vin­cente, alla sta­bi­lità di governo.

Da oggi abbiamo davanti una sfida per tutti. A comin­ciare dall’uomo solo al comando che deve gover­nare tenen­dosi in equi­li­brio sull’imponente onda ano­mala che egli stesso ha sol­le­vato, dimo­strando di saper gestire un sostan­ziale mono­co­lore: la cura pre­vede le riforme costi­tu­zio­nali di stampo pre­si­den­zia­li­sta, i sin­da­cati al tap­peto con l’imposizione del lavoro pre­ca­rio per tutti. Da domani Renzi non potrà più tirarsi fuori dai disa­stri del paese adde­bi­tan­doli ai suoi rot­ta­mati pre­de­ces­sori.

Il popu­li­smo di governo ha pagato più del popu­li­smo di oppo­si­zione, e dun­que è una sfida anche per Grillo. L’ex comico ha lavo­rato per il nemico pro­vo­cando la rea­zione del “voto utile” con­tro le urla e gli insulti. Molti, a sini­stra, pre­oc­cu­pati di disper­dere il voto, si sono turati il naso e hanno votato Pd per scam­pare un peri­colo mag­giore. Grillo deve sce­gliere se con­ti­nuare a invo­care impro­ba­bili caro­selli intorno al Qui­ri­nale, se insi­stere con la poli­tica del “vaffa” o tra­ghet­tare i sei milioni di voti (un poten­ziale gran­dis­simo) in una stra­te­gia par­la­men­tare capace di tra­sfor­mare la forza elet­to­rale in alleanze, bat­ta­glie e obiet­tivi con­creti. In Ita­lia come in Europa.

Il trionfo ren­ziano è, infine, una sfida per la sini­stra di Tsi­pras. Dopo aver vinto la scom­messa euro­pea con i tre par­la­men­tari ita­liani eletti a Stra­sburgo, ora le donne e gli uomini che in pochi mesi hanno creato que­sta espe­rienza poli­tica dovranno capire come col­lo­carsi nell’inedito sce­na­rio ita­liano.
L’analisi del voto rileva un poten­ziale molto al di là della sof­ferta soglia del 4% (il 5 a Palermo, l’8 a Bolo­gna, il 6 a Roma il 9 a Firenze), testi­mo­niato anche dal con­senso ai can­di­dati (molti i gio­vani) e ai capi­li­sta. Senza mara­tone tele­vi­sive, forti del pre­sti­gio per­so­nale e delle lotte sul ter­ri­to­rio hanno oltre­pas­sato le 30 mila pre­fe­renze. Vin­cere con­tro­cor­rente è un buon segno.

postilla

L'autrice afferma che le donne e gli uomini della lista di Tsipras «dovranno capire come collocarsi nell’inedito scenario italiano». Mi sembra che molti elementi della scelta siano già chiari. Quelle donne e quegli uomini si collocano a sinistra, dalla parte della maggioranza del popolo, quella che paga il prezzo maggiore a causa delle scelte funeste dei governi degli stati europei, e della stessa loro espressione sovranazionale: quelli che non hanno trovato lavoro o l'hanno perduto, quelli cui è stato ridotto l'accesso al welfare o al godimento della pensione. Si collocano dalla parte di quella miriade di associazioni, comitati, gruppi di cittadini che si sono uniti in mille avventure di difesa di beni comuni, a livello locale o associati in reti a livello nazionale o sovranazionale, che hanno imparato a denunciare, protestare e proporre insieme per una città più equa e più bella. Si collocano sulle posizioni di una sinistra radicale, nel senso che vuole andare alla radice delle cose per combattere le cause di fondo che hanno generato la crisi del sistema e la sofferenza dei più: una posizione, quindi, anticapitalista particolarmente contraria alla forma attuale che il sistema capitalistico ha assunto: il "finanzcapitalismo". Sono chiare anche le proposte precise che quelle donne e quegli uomini hanno sostenuto sia quelle per le cose da fare con conseguenza più vicine nel tempo che in quelle in prospettiva. Sarebbero note a tutti se i media avessero fatto il loro lavoro e non si fossero appiattiti sulle esigenze del Palazzo e su quelle della "pronta cassa" e avessero dato spazio alla presentazione e alla discussione dei programmi.
Molte cose, però, bisogna ancora sceglierle, e alcune contraddizioni superate, se si vuole dare un futuro all'esperienza della lista Tsipras.
Intanto, bisognerebbe porsi alcune domande. Come mai il voto ottenuto dalla lista Tsipras è inferiore alla somma dei voti ottenuti in precedenza dai due partiti che erano entrati, insieme ai gruppi di cittadini, a sostegno della lista? Come mai così pochi voti sono venuti dal bacino costituito dai voti espressi in occasione dei referendum in difesa dei beni comuni e delle mille battaglie locali o su singoli temi? Che ruolo ha svolto la presenza di PRC e SEL nella lista, che da una parte ha fatto prevalere in molti potenziali elettori lo spirito dell'"antipolitica", dall'altro lato ha portato alla lista un contributo d'impegno personale e organizzativo senza il quale non si sarebbe raggiunto nemmeno il numero di firme necessario per la presentazione della lista? Che peso ha avuto, sull'altro versante, la difficoltà dei movimenti di superare il carattere meramente locale o settoriale della singola iniziativa per cogliere il nesso tra le diverse questioni, e comprendere che i mille anelli che imprigionano la possibilità di una società migliore sono parte di una sola catena, e quindi possono essere affrontati solo con una visione (e un'organizzazione) politica dei problemi?
Per rispondere a queste domande occorre certamente riferirsi al quadro generale: al perché del trionfo di Matteo Renzi e della sua conchiglia, il PD, e al perché del fallimento della formazione che ha dato voce più matura e ampia alla protesta (nonché dell’aberrazione rappresentata dall’ancora cospicuo numero di italiani che vota per il reo di evasione fiscale plurimiliardaria). E bisogna poi domandarsi in che modo superare quella che è senza dubbio la causa prima dei limiti della vittoria della lista Tsipras: il tradimento dei media, il silenzio gettato sulle proposte, e sulla stessa esistenza della lista Tsipras. Il peso di questo tradimento è testimoniato dal vistosissimo divario tra i voti ottenuti dalla lista nelle città, dove funziona la comunicazione tradizionale, e quelli raccolti nel resto del territorio, dove l’unica voce è la grande stampa e la televisione. Ecco alcuni esempi: nel Veneto, 2,7 %, a Venezia, 5,83%, Padova 5,62%, Vicenza 4,62; Emilia-Romagna 4,07%, Bologna 8,89%; Trentino-AA 6,66%, Bolzano 8,92%; Friuli-VG 3,70%, Trieste 5,95%; Lombardia 4,93%, Milano 6,48%, Toscana 5,12%, Firenze 8,91% Lazio 4,68 %, Roma 6,16%; Campania 3,80%, Napoli 5,67%. Ma sarebbe interessante fare un'analisi seria della distribuzione territoriale dei voti. Da essa risulterebbe comunque con evidenza che la prima domanda nella quale dovrebbe rispondere chi volesse proseguire l'esperienza della lista Tsipras è: come attrezzarsi per superare il deficit d'informazione: dando per scontato il tradimento dei media (salvo recupero quando si sarà sconfitta l'egemonia del neoliberismo). La discussione è aperta. (e.s.)

«». Idominjanni.com

L’Europa esce dalle urne ferita e trasformata. Ferita, perché per quanto non abbiano sfondato le forze antieuropee hanno avuto risultati tutt’altro che trascurabili e in Francia, Gran Bretagna e Ungheria esplosivi. Trasformata, perché l’equilibrio fra stati (l’asse franco-tedesco) e fra partiti (le due grandi famiglie dei socialisti e dei popolari europei) non c’è più. Per quanto Angela Merkel, la custode dell’Europa neoliberale, austera e avara, incassi l’ennesima conferma della sua politica in casa, la soluzione di una grande coalizione che prosegua a livello continentale le dissennate politiche degli ultimi anni che hanno portato molte popolazioni europee alla disperazione è tutt’altro che scontata. Altre maggioranze sono possibili, e in ogni caso le forze portatrici della continuità non potranno non fare i conti non più con gli umori, ma con i numeri che esprimono una rivolta diffusa contro l’Unione che abbiamo sperimentato finora e una forte e allarmante istanza dal basso di ritorno alla sovranità popolare, la bandiera non a caso più fortemente agitata nell’immediatezza dei risultati da Marina Le Pen.

Il vento della trasformazione non spira però solo da destra, o dalle formazioni trasversali cosiddette populiste. Spira da sinistra, anzi nella sinistra, perché i risultati penalizzano ciò che resta della tradizione socialista novecentesca e fanno spazio a due sinistre nuove e diverse se non opposte fra loro, emblematicamente raffigurate dal partito di Renzi in Italia e da Syriza in Grecia, che rappresentano due uscite diverse dalla crisi, due visioni diverse della società, due ipotesi opposte di ricostruzione della sinistra post-novecentesca. Il trionfo di Renzi, che ne fa in primo luogo il leader più forte del fronte ”progressista” in Europa e lo carica di un potere e di una responsabilità insperati nel semestre europeo, va valutato in questo quadro di trasformazione della sinistra continentale.

La domanda cruciale, e qui dal contesto europeo scivoliamo in quello italiano, è se questo trionfo si debba a un sinistra che si risveglia dopo il ventennio berlusconiano o a una sinistra che in tanto finalmente sfonda in quanto ne incorpora gli elementi portanti. Non solo, va sottolineato, l’abilità comunicativa dell’attuale premier, mutuata dal precedente. Bensì molti e cruciali contenuti, dalla torsione populistico-plebiscitaria della democrazia al disegno di riforma costituzionale, dalla concezione del lavoro, dell’autoimprenditorialità e della flessibilità a quella della rottamazione del settore pubblico, secondo la versione lievemente corretta delle politiche neoliberali del ventennio passato sostenuta dal segretario del Pd. E’ la continuità nella discontinuità che l’elettorato italiano – un elettorato evidentemente molto trasversale – ha premiato, sostituendo nel suo immaginario la narrativa dell’ex sindaco di Firenze a quella ormai usurata dell’ex cavaliere di Arcore.

Il trionfo di Renzi tuttavia è di tale entità da mettere in difficoltà i suoi più accesi sostenitori, e non solo perché il risultato fa piazza pulita del ”duello” con Grillo montato dai media e smontato dalle urne. Ma perché il problema vero è quello della configurazione che il sistema politico prenderà. L’avvento di Renzi, e l’accordo del Nazareno fra Renzi e Berlusconi, era stato salutato dai più come garanzia di ricostituzione di un bipolarismo di cui Berlusconi era stato creatore e garante , e di cui col declino di Berlusconi avrebbe dovuto diventare perno e garante il ”conquistatore” del Pd. Una prospettiva tranquillizzante, di sostanziale continuità con la cosiddetta seconda Repubblica, assunta come premessa dai due stessi contraenti del patto del Nazareno sulle riforme e sulla legge elettorale. Non era tuttavia imprevedibile – mi ero permessa di segnalarlo in un seminario Crs sulle riforme - prima che la sondaggistica preelettorale, sbagliando clamorosamente, inchiodasse la gara sul match Renzi-Grillo - che si stesse delineando tutt’altro scenario, con un Pd pigliatutto saldamente piazzato al centro del sistema politico, a vocazione più totalitaria (uso questo termine depurandolo dai suoi connotati tragici novecenteschi) che maggioritaria, un partito-Stato senza nessuna alternanza bipolarista e nessuna necessità coalizionale all’orizzonte. Si parla adesso, per questo, di nuova Dc, ma è bene sapere che il Pd non è la Dc, è un animale nuovo figlio della seconda repubblica e non della prima, della società forgiata dal berlusconismo e non di quella plasmata dal dopoguerra. L’effetto di ritorno segnala al contempo quanto sia stata fragile la costruzione della seconda repubblica sul piano istituzionale, e quanto sia stata forte sul piano della trasformazione antropologica, sociale e delle identità politiche. Sono i miracoli delle rivoluzioni passive, che restanopd come a un partito « la caratteristica più singolare di questo singolare paese.

Postilla
De animalia: coccodrilli e paguri

All'articolo molto equilibrato di Dominijanni vorrei aggiungere due osservazioni. (1) La responsabilità dei media nel ridurre le elezioni per il Parlamento europeo al duello Renzi/Grillo è enorme, e i giornalisti della carta e quelli dell'etere diventano coccodrilli quando, post factum, lagrimano perchè non si è parlato di problemi e di proposte. (2) Ha ragione Dominijanni quando parla del Pd come a un partito «a vocazione più totalitaria che maggioritaria». Una "parte" che pretende di divenire “tutto“ è il contrario della democrazia. Ciò che mi stupisce e addolora è che Renzi (a differenza dei paguri) non s'è impadronito di un guscio vuoto per portarlo nella direzione diversa da quella del suo abitatore, ma d'un corpo vivente, benchè ammaccato. E nessuna porzione di quel corpo se n'è accorto, talché tutti viaggiano felici nel verso opposto a quello della loro storia. Mi dispiace. (e.s.)

L'Espresso, 26 maggio 2014
«Siamo al Parlamento europeo!». L'urlo, soffocato per troppe ore, arriva alle sei e mezza del mattino, quando finalmente i dati del Viminale permettono ai coordinatori, ai candidati e agli attivisti della lista Tsipras di andare a dormire. Quel 4,03 per cento comunicato da ministero degli Interni quando mancano un centinaio di sezioni su oltre 61 mila consente alla sinistra radicale di mettere fine con un sorriso a una lunga notte di speranza e paura trascorsa nel quartier generale scelto per aspettare i risultati, un locale del quartiere San Lorenzo di Roma subito sotto la tangenziale.

Quattro virgola zero tre: al fotofinish, insomma. E il risultato minimo accettabile per una lista che era partita con ambizioni più alte (a febbraio Spinelli aveva indicato come obiettivo il sette per cento) ma che dopo una travagliatissima campagna elettorale gli istituti di ricerca davano tutti, negli ultimi sondaggi, sotto la soglia necessaria per andare a Bruxelles.

Per tutta la notte gli exit polls e le proiezioni vedevano la lista Tsipras ballare attorno al 4. Attorno all'una però nella sala di San Lorenzo ha iniziato a diffondersi un certo ottimismo per le telefonate dei rappresentanti di lista, che fornivano cifre non statisticamente valide ma tutte positive sull'andamenti nelle varie sezioni. Poco dopo le due Barbara Spinelli ha lasciato la sede elettorale con un sorriso («Siamo contenti, ci sentiamo domattina») e così ha fatto anche Moni Ovadia. Ancora alle cinque del mattino però il responsabile della lista Massimo Torelli scriveva su Facebook un cautissimo «Aspettiamo». Un'ora dopo, era con Marco Revelli e Argiris Panagopoulos (l'uomo di Tsipras in Italia) a festeggiare con cappuccio e cornetto al bar lì accanto, che aveva appena aperto.

In termini assoluti, la lista Tsipras ha conquistato poco più di un milione e centomila voti, sesto partito dopo i tre più grossi (Pd, M5s e Fi), Lega e Nuovo Centro Destra. A questo punto dovrebbe portare a Bruxelles tre eurodeputati. Data l'annunciata rinuncia dei “candidati di testimonianza” come Spinelli e Ovadia, al centro potrebbe entrare uno tra Marco Furfaro e Fabio Amato: il primo di Sel, il secondo di Rifondazione. A riprova che anche in una lista della “società civile autonoma dai partiti” (com'era stata battezzata alla nascita) al momento delle preferenze prevalgono le strutture organizzate. Notevole però anche il risultato al sud del giovane Claudio Riccio, espressione dei movimenti studenteschi nati al tempo della riforma Gelmini e animatori del gruppo “Quaderni Corsari”, che avrebbe avuto quasi 17 mila voti personali.

«Senza soldi, senza struttura, senza organizzazione, con molti ostacoli anche di natura interna, abbiamo fatto l'impresa», dice Lorenzo Zamponi, giovane della rete dei movimenti che è stato tra i più attivi nelle settimane precedenti il voto: «Abbiamo sfondato il muro del silenzio mediatico e riportato la sinistra italiana nel Parlamento Europeo. Nelle prossime ore, con calma, discuteremo del resto. Per ora, l'importante è aver compiuto ciò che sembrava impossibile, tenendo aperto lo spazio dell'alternativa. Come riempirlo, poi, lo vedremo. Preferibilmente, almeno secondo me, dal basso, con un processo di reale partecipazione e coinvolgimento delle persone».

Il risultato positivo, seppur per il rotto della cuffia, è insomma considerato un passo indispensabile per la costruzione della 'cosa rossa': un'area unitaria a sinistra del Pd, inseguendo il sogno di Syriza che è passato da pochi punti percentuali a diventare il primo partito della Grecia attraverso un lungo percorso di radicamento sociale. All'interno della lista italiana la forza numericamente più significativa, Sinistra ecologia e Libertà, da tempo è divisa in due anime: una che guarda verso il Pd e l'altra che invece tende appunto al modello greco di Syriza. Il risultato delle europee, seppur risicato, è una vittoria per questa componente.

Alla lista Tsipras, nata da un appello di sei intellettuali di cui la Spinelli era capofila, hanno aderito Sinistra Ecologia e Libertà e Rifondazione. Sostegno alla lista è arrivato tra l'altro dall'ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, dal giurista Stefano Rodotà, dal fondatore di Emergency Gino Strada, dallo scrittore Aldo Nove, dall’ex direttore di Italia1 e di Raidue Carlo Freccero.

L'anno scorso, alle politiche, la sinistra radicale nel suo complesso aveva preso il 5,4 per cento, ma in un contesto completamente diverso: Sel infatti era in coalizione con il Pd e in questa veste aveva ottenuto il 3,3, mentre Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia si era fermata al 2,2. A Rivoluzione Civile tuttavia avevano aderito nel 2013 anche l'Italia dei Valori e i Verdi, che a questo turno si sono invece presentati in liste autonome con il proprio simbolo (restando largamente al di sotto dello sbarramento).

Intervista al sociologo Gallino: Renzi è un grande spot, ma il voto può cambiare l’Europa. La precarietà, il trattato segreto con gli Usa, l’austerity: ecco di cosa non si è parlato in questa campagna elettorale.

Il manifesto, 25 maggio 2014
Una cam­pa­gna elet­to­rale in cui «è stato fatto il pos­si­bile per tra­sfor­mare il voto euro­peo in un voto sui par­titi. I veri temi in que­stione? Assenti». Al pro­fes­sore Luciano Gal­lino, socio­logo del lavoro e tra i pro­mo­tori della lista l’Altra Europa con Tsi­pras, il modo in cui i grandi par­titi e i media hanno affron­tato il voto euro­peo è sba­gliato: «Potrebbe essere un’elezione che si svolge in Austra­lia o in Gua­te­mala: i tre prin­ci­pali par­titi sgo­mi­tano solo in vista del dopo».

Una ragione può essere che per le due grandi fami­glie, Pse e Ppe, le lar­ghe intese sono un esito scontato?
Comun­que non giu­sti­fica l’omissione. Fac­cio un esem­pio: la Com­mis­sione Euro­pea da un anno con­duce trat­ta­tive segrete con gli Stati Uniti per sta­bi­lire un par­te­na­riato sugli inve­sti­menti nel com­mer­cio, il Ttip (il Tran­sa­tlan­tic trade and invest­ment part­ner­ship, ndr). È un dispo­si­tivo che pre­senta rischi colos­sali per i diritti dei lavo­ra­tori, per la sicu­rezza ali­men­tare, per la pro­prietà intel­let­tuale. E i com­mis­sari lo sanno bene, tant’è che si chiu­dono in segrete stanze per discu­terne. Da noi non se ne parla, in altri paesi sì. O anche: eleg­gere un pre­si­dente o un altro può fare la dif­fe­renza, dopo i cin­que anni di pre­si­denza ottu­sa­mente libe­rale di Barroso.

Il social­de­mo­cra­tico Schulz però sarebbe eletto con i voti del par­tito di Barroso.
Su alcuni temi Schulz potrebbe fare la dif­fe­renza. Certo è un espo­nente della Spd tede­sca post-Schroeder, dimis­sio­na­ria da ogni tipo di sini­stra. Il Pse si accor­derà con il Ppe, in fondo la pen­sano allo stesso modo sul trat­tato di Maa­stri­cht, che è uno sta­tuto di una cor­po­ra­tion, non un docu­mento politico.

L’Italia rispet­terà le regole del six pack e del fiscal com­pact, o non potrà farlo, come ormai ammette anche il Pd?
I dati dicono che il nostro debito pub­blico ormai è impa­ga­bile. Il Pil è sceso intorno ai 1550 miliardi, il debito è bal­zato oltre i 2mila. Per fare fronte ai requi­siti del fiscal com­pact ser­vi­rebbe desti­nare 40–50 miliardi l’anno dell’avanzo pri­ma­rio. Ma è insen­sato. Già oggi lo stato incassa circa 500 miliardi di impo­ste e tasse e ne spende intorno a 420–430. Toglierne altri 40–50 sarebbe un disa­stro per lo stato sociale e per l’amministrazione pub­blica. Le strade sono due: o, appunto, il disa­stro, ovvero che l’Italia non si ade­gua e ven­gono ero­gate ulte­riori misure puni­tive; oppure che i prin­ci­pali paesi con debito rile­vante si accor­dano per diluire o abo­lire il fiscal com­pact; o comun­que per pro­ce­dere a una ristrut­tu­ra­zione paci­fica del debito. Molto dipende dal risul­tato di que­sto voto.

È la pro­po­sta di Tsi­pras, che lei sostiene. Una con­fe­renza per can­cel­lare parte del debito, sul modello di quella di Lon­dra del ’53 che per­mise di risol­vere il debito della Ger­ma­nia. È fat­ti­bile, a suo parere?Sarebbe un primo passo con­creto. L’idea di bat­tere i pugni sul tavolo, quella di Renzi, è ridi­cola: ci vuole un certo numero di paesi, Fran­cia Spa­gna e altri, per otte­nere una la con­fe­renza. Docu­men­tando che il debito non si può pagare. Par­larne ad alto livello sarebbe già un passo avanti rispetto alla lita­nia del ’ce lo chiede l’Europa’. La Ger­ma­nia non va demo­niz­zata: ma va ricor­dato che ha tratto van­tag­gio dal fatto di non aver mai pagato i suoi debiti. Ha pagato in misura minima le ripa­ra­zioni della guerra del ’15-’18. E quanto all’enorme debito lasciato dai nazi­sti, è stato can­cel­lato dagli ame­ri­cani che hanno stam­pato miliardi di mar­chi deu­tsche mark, non più di rei­ch­smark, nel giu­gno del ’48 li hanno por­tati in Ger­ma­nia, e il giorno dopo hanno distri­buito la nuova moneta. Così si è abbat­tuto il debito pub­blico tede­sco. Sono argo­menti deli­cati, ma qual­cuno ben pre­pa­rato che li affronti avrebbe più pos­si­bi­lità di suc­cesso che non uno che si fac­cia male bat­tendo i pugni sul tavolo.

Le poli­ti­che di Renzi rispon­dono a cri­teri europei?
Agli aspetti peg­giori, però. La Troika e il Con­si­glio euro­peo da vent’anni lavo­rano per com­pri­mere le con­di­zioni di lavoro i diritti e i salari, in linea con le misure regres­sive che hanno visto alla testa i par­titi di sini­stra, social­de­mo­cra­tici tede­schi, socia­li­sti fran­cesi e labu­ri­sti bri­tan­nici. C’è un docu­mento del ’99, un pro­clama di Blair e Schroe­der, che sem­bra scritto da Con­fin­du­stria. E dice chiaro che biso­gna tagliare lo stato sociale.

Renzi segue ancora quelle vec­chie linee di dire­zione, per esem­pio sul lavoro?
La gene­ra­liz­za­zione del lavoro pre­ca­rio è già una realtà. Nes­sun governo era arri­vato a imporre spinte alla pre­ca­riz­za­zione del lavoro come è stato fatto oggi.

Ora dovrebbe arri­vare il vero cuore del job act, il con­tratto unico e la costosa riforma degli ammor­tiz­za­tori sociali.

Prima che costosa è rischiosa. La cassa inte­gra­zione ha un van­tag­gio fon­da­men­tale: man­tiene il posto di lavoro, quindi man­tiene una qual­che tito­la­rità di diritti per il lavo­ra­tore. Quello che si pro­spetta, a quanto si capi­sce, can­cel­le­rebbe que­sta minima difesa di un lavo­ra­tore. Le ricette di Renzi sono figlie di quelle di Blair, a loro volta nipoti di quelle di That­cher, e cugine di quelle di Schroe­der, per il quale la social­de­mo­cra­zia doveva smet­tere di pen­sare che i lavo­ra­tori hanno diritto a un posto fisso. Appun­tan­dosi il badge di par­titi di sini­stra hanno ridotto i salari e mol­ti­pli­cato la pre­ca­rietà. Così è l’Italia oggi. La pre­ca­rietà è ele­va­tis­sima, lo dice l’Ocse (l’organizzazione per la coo­pe­ra­zione e lo svi­luppo eco­no­mico, ndr). E porta a un impo­ve­ri­mento di tutta la strut­tura eco­no­mica. Lavo­ra­tori mal­pa­gati con­su­mano meno, la domanda aggre­gata — ricor­dava Key­nes — sof­fre. E un’azienda che deve retri­buire in modo decente e con­ti­nua­tivo i lavo­ra­tori è incen­ti­vata a fare ricerca e svi­luppo, gli altri fronti che fanno il suc­cesso di un’impresa. Invece poter usare i lavo­ra­tori con il cri­te­rio on-off, cioè quando mi servi ti uso e quando no ti butto, spinge le imprese a pun­tare solo sul costo del lavoro e tra­scu­rare il resto. I nostri impianti sono i più vec­chi d’ Europa, le spese in ricerca sono mise­rande, sul 34 paesi Ocse siamo intorno al 30esimo.

Renzi dice: ce la faremo, no ai gufi.
È uno spot pub­bli­ci­ta­rio, ma se non si affron­tano i nodi prima o poi, anzi pre­sto, il conto lo paghe­ranno i lavoratori.

Su que­sto Grillo pesca voti a piene mani.
La pro­po­sta di Grillo sul lavoro è un insieme di cose dif­fe­renti, alcune gene­ri­che e con­di­vi­si­bili, altre no. E tra i lavo­ra­tori c’è il mal­con­tento, che ovvia­mente si sfoga con­tro i sin­da­cati. È già suc­cesso con la Lega, oggi suc­cede con il M5S.

Anche Renzi prova a inter­cet­tare il mal­con­tento con­tro i sin­da­cati, attac­cando aper­ta­mente la Cgil.


lavo­ra­tori sono insof­fe­renti per quello che i sin­da­cati non hanno fatto. Ma va detto che ai sin­da­cati è stata fatta una guerra senza quar­tiere, dagli anni 80 in poi. La pre­ca­rietà, appunto: come si fa a orga­niz­zare i lavo­ra­tori in pre­senza di venti con­tratti dif­fe­renti pic­cole aziende sparse sul ter­ri­to­rio? La glo­ba­liz­za­zione ha signi­fi­cato una radi­cale tra­sfor­ma­zione nel modo di pro­durre: i mille lavo­ra­tori che sta­vano sotto lo stesso padrone con lo stesso con­tratto sono diven­tati dipen­denti di 15 aziende dif­fe­renti con con­tratti dif­fe­renti. E con un padrone che non si sa più chi sia. Di lì biso­gna par­tire per rico­struire una qual­che forma solida di sindacato.

La lista per l'altra Europa punta oggi al risultato elettorale che scaturirà dalle urne, ma le donne e gli uomini che hanno lavorato controcorrente nei mesi scorsi proiettano già il loro impegno al di là delle elezioni.

Il manifesto, 25 maggio 2014
Negli infi­niti incon­tri «di chiu­sura» di que­sta cam­pa­gna elet­to­rale, c’era sem­pre un momento in cui l’applauso scat­tava imme­diato, istin­tivo, con­vinto. Ed era quando si diceva che «non ter­mi­ne­remo il 25 mag­gio». Che l’appuntamento è già il 26, per con­ti­nuare il per­corso insieme. Per­ché sarebbe folle disper­dere il «bene comune» accu­mu­lato in que­sti due mesi di fatica e di pas­sione dalla mol­ti­tu­dine di donne e di uomini che ne hanno con­di­viso l’impegno.

Non so per gli altri. Ma nelle mie espe­rienze di ter­ri­to­rio, da un palco su una piazza o da un ban­chetto a un angolo di strada, in un tea­tro o in un sot­to­scala, l’immagine che mi porto die­tro è quella di una sini­stra che sco­pre, quasi con sor­presa, ciò che potrebbe essere, se solo riu­scisse ad andare oltre il pro­prio pas­sato pros­simo di fram­men­ta­zione, chiu­sure men­tali e ger­gali, scon­fitte. Una sorta di respiro ampio, nel senso comune delle per­sone più che nei riflessi d’organizzazione. Uno stato d’animo più che un pro­getto con­sa­pe­vole, ma forte: la sen­sa­zione di poter tor­nare a par­lare al di fuori di sé, dei pro­pri stec­cati, e di poter tro­vare ascolto, se solo la parola rie­sce a forare il muro di silen­zio media­tico, la cin­tura sani­ta­ria osses­siva e oppres­siva che ci è stata stretta intorno. E l’orgoglio di poterlo fare con in testa idee forti, cre­di­bili, ade­guate all’altezza delle sfide, gra­zie alle quali ritro­vare il rap­porto, sto­rico, che lega la sini­stra alla schiera non pic­cola dei demo­cra­tici con­se­guenti pre­oc­cu­pati per que­sta notte della democrazia.

Non sono man­cati – sarebbe sciocco negarlo – errori, inge­nuità, inef­fi­cienze, riserve men­tali e ritardi orga­niz­za­tivi. Ma non pos­siamo nascon­derci i tratti di nobiltà che hanno carat­te­riz­zato l’impresa nel suo complesso.

In primo luogo il fatto che L’altra Europa con Tsi­pras è l’unica lista che si è misu­rata nelle ele­zioni euro­pee con un discorso sull’Europa e per l’Europa. Non ha pro­iet­tato su scala con­ti­nen­tale le liti da pol­laio del cor­tile di casa, come hanno fatto le tre forze poli­ti­che – anzi i tre istrioni – a cui un sistema media­tico malato e pigro ha riser­vato la tota­lità dello spa­zio infor­ma­tivo, ma ha fatto della tra­sfor­ma­zione radi­cale delle poli­ti­che euro­pee l’asse por­tante della pro­pria pro­po­sta. Non per­ché siamo più colti, o raf­fi­nati e sen­si­bili degli altri (anche per que­sto). Ma soprat­tutto per­ché sap­piamo che sulla pos­si­bi­lità di rove­sciare gli equi­li­bri poli­tici nel cuore d’Europa si gioca la pos­si­bi­lità di soprav­vi­venza del nostro Paese. Che o si cam­bia l’Europa o si affonda.

In secondo luogo L’altra Europa con Tsi­pras è l’unica lista che ha un pro­gramma euro­peo cre­di­bile, rea­li­stico e radi­cale insieme, come, appunto, la situa­zione dram­ma­tica richiede. Una Con­fe­renza euro­pea per la socia­liz­za­zione e la ristrut­tu­ra­zione del debito, come un’Unione degna di que­sto nome non potrebbe non fare. Un New Deal con­ti­nen­tale con al cen­tro un pro­gramma per l’occupazione, capace di pro­durre a livello euro­peo 6–7 milioni di posti di lavoro (quanti la crisi ha distrutto) inve­stendo 100 miliardi di euro all’anno, per un trien­nio, finan­ziati con una fisca­lità euro­pea (una tassa sugli inqui­na­tori e una sulla spe­cu­la­zione finan­zia­ria). L’autorizzazione alla Bce a fun­zio­nare da pre­sta­tore di ultima istanza a soste­gno delle eco­no­mie più deboli. E infine un’intransigente oppo­si­zione al Ttip, il Trat­tato Tran­sa­tlan­tico nego­ziato in segreto che con­se­gnerà le nostre vite e i beni comuni alla fame di pro­fitto delle transnazionali.

Non sono uto­pie. Non è un pro­gramma per un futuro lon­tano. È un pro­gramma per oggi (anche per­ché domani sarebbe tardi). È, d’altra parte, un pro­gramma rea­li­sti­ca­mente pro­po­ni­bile per­ché le forze che si rico­no­scono nella lea­der­ship di Ale­xis Tsi­pras costi­tui­ranno il terzo gruppo nel nuovo Par­la­mento euro­peo (dove, per for­mare un gruppo, e quindi per fare poli­tica, è neces­sa­rio rac­co­gliere ade­sioni di rap­pre­sen­tanti di almeno sette paesi). E quanto mag­giore sarà la sua forza, tanto più alta sarà la pos­si­bi­lità di spez­zare l’asse tra Par­tito popo­lare e Par­tito socia­li­sta che, senza un’azione effi­cace a sini­stra, ripro­dur­rebbe ine­vi­ta­bil­mente le lar­ghe intese che Schulz e Mer­kel hanno costi­tuito in Ger­mana e che domi­nano in Gre­cia e Italia.

Un forte gruppo par­la­men­tare euro­peo di sini­stra (di sini­stra vera), potrebbe fare il mira­colo di ricon­durre almeno la parte più sen­si­bile della social­de­mo­cra­zia euro­pea su una linea di soli­da­rietà con­ti­nen­tale. E insieme di cata­liz­zare anche quelle forze (penso natu­ral­mente ai Verdi, ma anche ai par­la­men­tari del Movi­mento 5 Stelle, che saranno nume­rosi ma orfani in quel con­te­sto) che si oppon­gono alle attuali poli­ti­che euro­pee e che non hanno i tratti osceni del neo­na­zio­na­li­smo xeno­fobo, intorno a una linea, poten­zial­mente mag­gio­ri­ta­ria, di effi­cace con­tra­sto del dogma dell’Austerità e di radi­cale alter­na­tiva ad essa.

Que­sto vuol dire fare poli­tica in Europa. Per que­sto diciamo che il voto per L’altra Europa con Tsi­pras è l’unico voto utile, oggi. Non vederlo sarebbe mio­pia poli­tica, peri­co­losa per sé e soprat­tutto per gli altri, cioè tutti noi. «La via da per­cor­rere non è facile, né sicura. Ma deve essere per­corsa, e lo sarà!». Così si chiu­deva, settant’anni fa, il Mani­fe­sto di Ven­to­tene. Le stesse parole pos­siamo con­ti­nuare a ripe­terci, noi, oggi.

«Il web-party contesta alla radice i corpi intermedi sui quali si fonda la rappresentatività: il partito politico strutturato e il giornalismo professionale»,

La Repubblica, 25 maggio 2014

L’invenzione di Internet e la sua economicità e facilità d’uso cambiano la fisionomia della democrazia rappresentativa, una forma di governo per mezzo del consenso elettorale e dell’opinione organizzata mediante partiti e media. Questa rivoluzione accade in un tempo di altre trasformazioni epocali: quelle relative alle società di mercato e capitalistiche, insofferenti dei lacci imposti dal governo della maggioranza, e sempre meno disposte ad accettare di moderare le diseguaglianze consentendo politiche redistributive e una tassazione progressiva. Assistiamo oggi a un’inasprimento delle diseguaglianze di classe al punto che gli stessi economisti riconoscono come la ricchezza tenda a concentrarsi in pochissimi e a non produrre più sviluppo per i molti.

Le nostre società oscillano tra il rischio di trasformazione oligarchica e autoritaria delle sue leadership e la non volontà di garantire a tutti i cittadini lo stesso diritto di contare e di essere rappresentati e, dall’altro, la convinzione di molti cittadini che Internet offra la possibilità di risolvere questi problemi e combattere il privilegio come ormai i partiti non fanno più. In Islanda, il Paese dal quale la crisi del 2008 è partita, i cittadini hanno cercato di riscrivere la costituzione servendosi della partecipazione via Facebook e Twitter, aggirando i partiti, diventati parte del problema perchè essi stessi oligarchici. Il successo di Matteo Renzi si è consumato e si consolida sui social network. Ma l’esempio più dirompente viene dal Movimento 5 Stelle, un partito-non-partito, o webparty, che ha contestato alla radice i due corpi intermedi sui quali si è costruita la democrazia rappresentativa: il partito politico strutturato e il giornalismo professionale.

Internet sembra dunque consentire una selezione della leadership fuori dalla mediazione dei partiti. Ma ci sono almeno due problemi: la democrazia dei cittadini rischia di essere soppiantata da quella dell’audience, un’entità indistinta e generata da chi la muove, la provoca e la cerca, ovvero da chi ha l’ambizione della leadership; il leader che incontra il pubblico di Internet non deve rendere conto al partito ma al pubblico che egli stesso alimenta fino al punto di essere egli stesso il popolo che crea via Twitter. Inoltre, Internet è aperta a tutti, ma il suo popolo è comunque una minoranza, non meno di quella che formava i partiti.

La democrazia via Internet sembra annullare la distanza tra cittadini e istituzioni e rilanciare la cittadinanza diretta e invece genera nuovi livelli di mediazione e di potere, per ora meno controllabili di quelli in uso nei partiti perché senza statuti, organi dirigenti eletti e regole di partecipazione e decisione. I due problemi sono sintomatici di una trasformazione della democrazia rappresentativa in plebiscito permanente via-rete che non necessariamente premia l’inclusione di tutti né distribuisce il potere della voce più equamente, come promette di fare.

«Il costo della coesione dell’élite,è una distanza sempre maggiore tra chi governa e chi è governato. Serrando i ranghi, l’élite ha garantito che non ci fossero voci moderate di dissenso dall’ortodossia politica. La mancanza di un dissenso moderato ha dato vigore a gruppi come il gruppo lepinista».

La Repubblica, 25 maggio 2014
Un secolo fa l’Europa si lacerò in quella che, per un certo periodo, fu nota come la Grande Guerra - quattro anni di morte e devastazione senza precedenti. In seguito quel conflitto fu rinominato Prima guerra mondiale perché, a distanza di un quarto di secolo, l’Europa ci ricascò e ricominciò tutto daccapo.

Ciò, tuttavia, avvenne molto tempo fa. È difficile pensare alla guerra nell’Europa odierna, che si è unificata attorno ai valori democratici e ha intrapreso i suoi primi passi verso un’unione politica. Mentre sto scrivendo, in tutta Europa si stanno svolgendo elezioni, per scegliere non i governi nazionali, ma i membri del Parlamento europeo. È vero, il Parlamento ha poteri limitati, ma la sua esistenza è già un trionfo dell’idea europea. C’è un problema, però: si prevede che un’allarmante percentuale di voti andrà agli estremisti di destra, ostili a quei valori che hanno reso possibile indire quest’elezione. Mettiamola in questi termini: alcuni dei vincitori delle elezioni europee verosimilmente saranno pronti a schierarsi dalla parte di Vladimir Putin nella crisi dell’Ucraina.

In verità, il progetto europeo — una pace garantita da democrazia e prosperità — è nei guai. Il continente vive in pace, ma la prosperità sta venendo meno e così pure, in modo più impercettibile, la democrazia. Se l’Europa metterà il piede in fallo vi saranno ripercussioni per tutto il mondo.

Perché l’Europa è nei guai? Il problema più immediato è la sua scarsa performance economica. Si supponeva che l’euro, la valuta comune, potesse essere il punto culminante dell’integrazione economica. Invece, si è rivelato una trappola. Ha generato una pericolosa compiacenza, dato che gli investitori hanno versato contanti nell’Europa meridionale, senza prendersi cura dei rischi. Poi, quando il boom ha fatto cilecca, i paesi debitori si sono trovati con le mani legate, incapaci di recuperare la competitività perduta senza anni di disoccupazione a livelli da depressione. I problemi dell’euro sono stati inaspriti da una cattiva politica. I leader europei hanno insistito, e continuano contro ogni evidenza, che la crisi ha a che vedere con l’irresponsabilità fiscale, e hanno imposto un’austerità selvaggia che aggrava la situazione.

La buona notizia — beh, per modo di dire — è che malgrado i passi falsi l’euro tiene, e ciò sorprende molti analisti (compreso il sottoscritto) che pensavano potesse andare a pezzi. Come si spiega questa resilienza? In parte col fatto che la Banca centrale europea ha tranquillizzato i mercati promettendo che avrebbe fatto «tutto ciò che era necessario » per salvare l’euro. Al di là di ciò, tuttavia, l’élite europea resta dedita a questo progetto, e finora nessun governo è stato disposto a uscire dai ranghi.

Il costo della coesione dell’élite, tuttavia, è una distanza sempre maggiore tra chi governa e chi è governato. Serrando i ranghi, l’élite ha garantito che non ci fossero voci moderate di dissenso dall’ortodossia politica. La mancanza di un dissenso moderato ha dato vigore a gruppi come il Front National francese, la cui candidata di punta per il Parlamento europeo denuncia «un’élite tecnocratica al servizio dell’America e dell’oligarchia finanziaria europea».

L’amaro paradosso, però, è che questa élite europea non è affatto tecnocratica. La creazione dell’euro aveva a che vedere con la politica e l’ideologia, non era una risposta a una puntuale analisi economica (che fin dall’inizio indicava che l’Europa non era pronta per una valuta comune). Lo stesso vale per la svolta verso l’austerità: qualsiasi ricerca economica che si presumeva giustificasse quella svolta è stata smentita, ma le politiche non sono cambiate. Oltretutto, l’abitudine di mascherare l’ideologia da competenza, di fingere che quello che vuole fare è quello che deve essere fatto, ha dato luogo a un deficit di legittimazione. L’influenza dell’élite riposa sull’assunto di una competenza superiore. Quando queste presunte dichiarazioni di competenza sono smascherate, non rimane nient’altro.

Finora l’élite è riuscita a tenere tutto assieme, ma non sappiamo quanto a lungo potrà durare, e negli schieramenti ci sono alcuni soggetti che incutono paura. Se saremo fortunati - e se i funzionari della Banca centrale europea agiranno con sufficiente coraggio contro la crescente minaccia di deflazione - nei prossimi anni potremmo assistere a una certa ripresa economica. Ciò, a sua volta, potrebbe concedere un margine di respiro all’intero progetto europeo.

Da sola, però, la ripresa economica non sarà sufficiente. L’élite europea deve tenere a mente di cosa si parla quando si parla di progetto europeo. È tremendo vedere quanti europei stiano ricusando i valori democratici, ma almeno parte della colpa è da addossare ai funzionari che più che alla democrazia sembrano interessati alla stabilità dei prezzi e alla probità fiscale. L’Europa moderna è eretta su una nobile idea, ma quell’idea ha bisogno di più difensori.

«Il manifesto, 24 maggio 2014, con postilla

Pec­cato che i mae­stri della sini­stra non rie­scano a cogliere la novità vera dell’operazione Tsi­pras, che ritengo sarà comun­que com­presa e lar­ga­mente pre­miata dagli elet­tori dome­nica. Mi rife­ri­sco all’articolo di Asor Rosa (il mani­fe­sto, 21 mag­gio), il quale parla di “lar­ghe intese” con il M5S lasciando inten­dere che quella sarebbe una buona ragione per non votare “L’Altra Europa per Tsipras”.

D’altra parte Asor Rosa un paio d’anni fa aveva avuto modo di anti­pa­tiz­zare con il movi­mento per i beni comuni pastic­ciando soprat­tutto con la dot­trina poli­tica ed esso sot­to­stante, pro­cla­mando la pro­pria con­vin­zione sta­ta­li­sta e rifiu­tando (in com­pa­gnia di diversi altri com­pa­gni figli della stessa sta­gione) ogni ipo­tesi di equi­di­stanza fra il comune, il pub­blico ed il pri­vato. Di acqua da allora ne è pas­sata sotto i ponti. Quello Stato, che tanta sini­stra ancora con­si­dera più “amico” del mer­cato, mostra quo­ti­dia­na­mente la sua fac­cia auto­ri­ta­ria e bru­tale, la sua fru­strata impo­tenza, la sua ina­de­gua­tezza a farsi carico dei pro­blemi messi sul tap­peto dall’attuale con­di­zione del mondo. Lo “Stato amico” (non era così negli anni Set­tanta quando il debito era interno) è in balia dei suoi cre­di­tori, vende dispe­ra­ta­mente i gio­ielli di fami­glia men­tendo per giunta, come ogni buon tos­sico o ludo­pa­tico, sulla natura di quanto sta facendo. Solo nelle ultime set­ti­mane la pri­va­tiz­za­zione di beni pub­blici sovrani come gli slot aerei (Enav) e le Poste è stata gabel­lata come azio­na­riato popo­lare dalla comu­ni­ca­zione di regime. Lo Stato amico per­se­guita i mili­tanti No-Tav, i com­pa­gni che lot­tano per imple­men­tare in con­creto e non con le chiac­chiere da salotto buono il diritto costi­tu­zio­nale all’ abi­ta­zione per tutti.

Oggi l’onda lunga del refe­ren­dum sui beni comuni si pre­senta sotto le sem­bianze della lista Tsi­pras pro­vando ad andare in Europa per far sen­tire, gra­zie al mega­fono del par­la­mento di Stra­sburgo, la voce di chi ha capito che la par­tita si può vin­cere sol­tanto con uno stra­vol­gi­mento pro­fondo degli assetti isti­tu­zio­nali domi­nanti, ponendo la que­stione demo­cra­tica là dove essa può essere deter­mi­nante, ossia nei mec­ca­ni­smi isti­tu­zio­nale dell’economia. Da Stra­sburgo ci ren­de­remo conto una volta per tutte che è pro­prio la con­trap­po­si­zione fra pri­vato e pub­blico la grande ideo­lo­gia che ci fa per­der tempo discu­tendo di moda­lità di vota­zione del Senato o di altre que­stioni altret­tanto inu­tili. Abbiamo pagato lo scorso anno quasi 9 miliardi di ser­vi­zio ad un debito in mas­sima parte giu­ri­di­ca­mente odioso; abbiamo pri­va­tiz­zato beni per altri 140 miliardi; abbiamo tra­sfe­rito 11 punti di Pil dal lavoro al pro­fitto, gra­zie alle poli­ti­che neo­li­be­rali, che sono un altro cen­ti­naio di miliardi; il Fiscal com­pact ed il pareg­gio di bilan­cio in Costi­tu­zione, che sono parte dello stesso deli­be­rato pro­cesso di robo­tiz­za­zione dell’Europa ini­ziato con l’Atto Unico del 1986, aggiun­gerà un’altra cin­quan­tina di miliardi al salasso che il nostro paese dovrà pagare ogni anno.

Facendo il conto della serva, noi ogni anno dovremo pagare il valore intero di tutte le pri­va­tiz­za­zioni fin qui fatte! Quanta argen­te­ria da ven­dere avrà ancora il nobile Stato decaduto?

Col Refe­ren­dum 2011 ci siamo espressi in mag­gio­ranza con­tro pri­va­tiz­za­zioni e grandi opere. Quel refe­ren­dum ha messo lo Stato sul banco degli impu­tati e ha fatto capire a chi poteva o voleva farlo che lot­tare con­tro le pri­va­tiz­za­zioni non signi­fica restau­ra­zione del pub­blico sta­ta­li­sta e burocratico. Poi ci siamo scon­trati con la tra­du­ci­bi­lità del voto refe­ren­da­rio in rap­pre­sen­tanza poli­tica (Alba; Cam­biare si può). Suc­ces­si­va­mente abbiamo perso la grande occa­sione di capire per tempo che la par­tita per il Qui­ri­nale era dav­vero costi­tuente e che così andava gio­cata. Non è tut­ta­via stato un caso che il voto pen­ta­stel­lato e di sini­stra fos­sero con­fluiti su una figura pre­sti­giosa, rap­pre­sen­ta­tiva e genui­na­mente garan­ti­sta come quella di Ste­fano Rodotà.

Non sono lar­ghe intese poli­ti­che quelle fra Tsi­pras e Grillo. E’ piut­to­sto la presa d’atto di una natura costi­tuente di que­sta fase, che è det­tata dalla cata­strofe eco­lo­gica e sociale deter­mi­nata dal modello di società che ancora il potere costi­tuito si ostina a chia­mare crescita.

Tanto l’Altra Europa, quanto M5S hanno capito che non esi­stono alter­na­tive alla ridi­scus­sione radi­cale dei mec­ca­ni­smi che dall’Atto Unico del 1986 hanno tra­sfor­mato l’Europa in un robot, un mec­ca­ni­smo infer­nale che tra­sforma in capi­tale ogni bene comune. In que­sto senso entrambe, cia­scuna con la sua assai diversa con­no­ta­zione poli­tica, por­tano la discus­sione sull’Europa a livello costi­tuente. L’Altra Europa e il M5S hanno capito che oggi abbiamo troppo capi­tale e troppo pochi beni comuni e che inver­tire la rotta signi­fica inven­tare nuove isti­tu­zioni del comune, par­te­ci­pate in modo diretto, che abbiano final­mente la forza ed il corag­gio di tra­sfor­mare il primo nei secondi.

Con­di­vi­dere la neces­sità costi­tuente non signi­fica essere uguali e nep­pure simili. Soste­nere que­sto ha lo stesso senso di con­si­de­rare uguali Einaudi e Togliatti, solo per­ché insieme par­te­ci­pa­rono allo stesso sforzo costi­tuente dopo la cata­strofe del fasci­smo. La dif­fe­renza poli­tica è assai rile­vante e sta pro­prio nel garan­ti­smo, nell’accoglienza, nell’orrore per le manette nel desi­de­rio di uti­liz­zare la ragione più della pancia.

Postilla
Pubblico, comune, privato. L'attenzione va posta al contesto nel quale concretamente si pongono le cose cui le parole rinviano o alludono. La lista Tsipras non dice no all'Europa, dice No a questa Europa e si a un'alrea Europa. Analogamente, a me sembra che si debba dire no a questo Stato, ma non a ogni possibile Stato. Come del resto occorre dire no a questa economia, ma no a ogni economia. Allora ha senso, e diventa impegno serio, provare a immaginare e costruire un'altra Europa, un altro Stato e un'altra economia.


Con la prepotenza e la furbizia che ben conosciamo, stasera Matteo Renzi si è preso la piazza del potere. La piazza della Signoria. Ma gli lasciamo di buon grado la Signoria: noi siamo felici di essere nella piazza della solidarietà.

Qui, sei secoli fa, sorse il primo edificio del Rinascimento: ebbene, quell'edificio – lo Spedale degli Innocenti, di Pippo Brunelleschi – non era al servizio della politica intesa come potere. Ma al servizio della politica intesa come accoglienza, solidarietà, cura degli ultimi. Quel palazzo così bello era per i meno potenti di tutti: i bambini che nessuno voleva. Perché il senso vero della bellezza è la giustizia.
Oggi, al contrario, la bellezza di Firenze è una bellezza prostituita, schiava del potere e del denaro. Oggi i monumenti che ci hanno fatto comunità sono diventati la location dove banchettano le grandi banche mondiali. E non è un modo di dire: pochi giorni fa Santa Maria Novella ha chiuso le porte ai cittadini e ai turisti per ospitare un solenne rito di esclusione della Morgan Stanley, banca d'affari di New York.

Ma stasera voglio parlarvi di Shakespeare. Perché Shakespeare parla di noi.
Se dovessi spiegare a un marziano qual è lo stato presente dell'Europa, userei la storia del Mercante di Venezia. Noi siamo come Antonio, che ha chiesto e ottenuto un prestito. Oggi, poiché non possiamo restituire quel prestito, ecco che ci viene chiesta una libbra della nostra carne, tagliata nella parte più vicina al cuore. I macellai sono già all'opera: quella carne è il nostro stato sociale, il sostegno degli ultimi. Quella libbra di carne sono i nostri beni comuni, tagliati e venduti a vil prezzo. L'aria e l'acqua, inzuppate di veleni. Il paesaggio, che ogni governo schiaccia sotto il cemento. L'università, la ricerca e la scuola pubblica condannate a morte.

Quella libbra di carne è il patrimonio artistico: che dovrebbe servire a costruire l'eguaglianza sostanziale e produrre il vero sviluppo della persona umana, e che invece è l'ennesimo strumento di diseguaglianza, segregazione di classe, asservimento al mercato. Nel dramma di Shakespeare, gli amici di Antonio chiedono aiuto al doge di Venezia: cioè alla legge, allo Stato. Non è possibile consentire un simile massacro, gli dicono. Non è umano consentire il cannibalismo verso chi non può pagare un debito.
Qual è la risposta del doge? Ebbene, quella risposta ci suonerà familiare. Lo Stato si deve arrendere di fronte ad un contratto.

La forza del mercato è la vera sovranità: niente la può temperare, fermare, sovvertire. Sono i contratti e gli interessi che fanno la legge: e non il contrario. Non siamo noi nella stessa situazione? Non ci viene forse detto che lo Stato non può nulla; anzi deve esso stesso essere smontato, svenduto, neutralizzato?
La nostra Costituzione è riscritta nei fatti: l'articolo 1 suona ora così «La sovranità appartiene ai mercati che la esercitano senza limiti al di sopra di ogni legge e ogni principio etico». E parla ancora per noi Shakespeare, quando esclama: «Oh, se le proprietà, i gradi, le cariche pubbliche non venissero guadagnati con la corruzione!»

Nel Mercante di Venezia la salvezza arriva attraverso un cavillo. Il contratto parla solo di carne e non di sangue: non una goccia può essere versata, e dunque la libbra di carne non si può tagliare. È quel che proviamo a fare noi: ci viene promesso che saranno riviste le clausole dei trattati, che troveremo una scappatoia, che qualcuno chiuderà un occhio. Ma non siamo a teatro: nella realtà il coltello sta già tagliando la carne dei cittadini e del territorio.

Noi siamo qua stasera per dire che non vogliamo cavilli e scappatoie. Vogliamo un'Europa costruita sui diritti della persona, e non sulla forza selvaggia del mercato. Vogliamo una vera costituzione europea, basata sui principi fondamentali della nostra Costituzione: che sono i principi sui quali è nata l'Europa come progetto politico.
Proprio ora, in Piazza della Signoria Matteo Renzi sta dicendo cose che possono apparire non troppo lontane da queste. Sta parlando anche lui di un'Europa dei diritti. Sta dicendo la verità? Giudichiamolo dai fatti.

La legge elettorale che Renzi ha confezionato insieme a Silvio Berlusconi ha lo scopo dichiarato di ridurre la rappresentatività del Parlamento. Per avere meno intralci, per decidere più velocemente. Per lo stesso motivo Renzi e Berlusconi hanno già annunciato che il passo successivo sarà il presidenzialismo. Lo scopo dichiarato è quello di ridurre la "debolezza dei governi rispetto ai Parlamenti". Ebbene, queste sono le precise parole del documento con cui la banca d'affari JP Morgan, tra i grandi responsabili criminali della crisi, ci ha chiesto di cambiare la forma dello Stato: in un documento reso pubblico il 28 maggio 2013, quella banca sostiene che «le Costituzioni dei Paesi della periferia meridionale dell'Europa mostrano una forte influenza socialista, riflesso della forza politica delle sinistre dopo la sconfitta del fascismo», e che perciò vanno cambiate. Lo stesso documento addita l’Italia come scenario del «test essenziale di questo cambiamento».
E così, mentre Dario Nardella noleggia Firenze alla Morgan Stanley in cambio di qualche spicciolo di euro, Matteo Renzi vende la Costituzione della Repubblica alla JP Morgan in cambio del potere che possa saziare la sua smisurata ambizione personale.

Il nostro orizzonte è diverso. Il nostro fronte di resistenza è quello in cui si decide se oltre ad avere un'economia di mercato siamo anche rassegnati ad essere una società di mercato: ad essere, letteralmente, mercato. Ad essere, cioè, una società dove tutto – ma proprio tutto, niente escluso – si misura col metro del denaro. Una società in cui tutto ha un prezzo, e si può vendere e comprare. Una società in cui il declino dell'uomo pubblico è giunto all'estremo: e dunque una società formata dalla somma di tanti vissuti privati, ridotti alla mera dimensione economica.
Una società in cui parole come democrazia o politica non hanno più alcun senso.
Noi pensiamo che essere di sinistra voglia dire avere il coraggio di cambiare questa società.

Giuseppe Dossetti avrebbe voluto che nella nostra amata Costituzione un articolo che dicesse che: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino».
Noi siamo qua per dire che resisteremo. Ma anche per dire che resistere non basta. Vogliamo fare una rivoluzione. Una rivoluzione culturale, per cominciare.
Vogliamo cambiare l'Europa cambiando gli europei: rendendoli cittadini, non più sudditi.
Il momento è ora, non c'è più tempo per aspettare il domani.
Non c'è più tempo per aspettare il domani: lo hanno gridato gli studenti di storia dell'arte, tra le macerie dell'Aquila, che ancora aspetta la sua ricostruzione.

Lo gridiamo noi stasera tra le macerie della Repubblica e dell'Europa: non c'è più tempo per aspettare domani. È per questo che è essenziale eleggere donne e uomini capaci di costruire più Europa. Un'Europa giusta e democratica. Donne e uomini come quelli della Lista Tsipras.
Perché volga al suo termine – finalmente – la notte della democrazia.«La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!» Così si chiude il Manifesto di Ventotene. il manifesto per un'Europa libera e unita. Il nostro manifesto.
Lo diciamo stasera, con una voce sola: «La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!»

Viva la Costituzione italiana, viva la Sinistra, viva l'Europa!

Due interventi (di Massimo Torelli e di Edoardo Salzano)a proposito di un articolo di Alberto Asor Rosa sulle elezioni del 25 maggio.

Il manifesto, 24 maggio 2014

Con Machiavelli o con Gramsci?
di Massimo Torelli*,

Alberto Asor Rosa, a pro­po­sito delle ele­zioni euro­pee, ha “sim­pa­tiz­zato” con la “massa” di coloro che non hanno ancora scelto, e forse non sce­glie­ranno, così ele­vata da sfio­rare la mag­gio­ranza asso­luta, con un arti­colo che non esi­tiamo a defi­nire volu­ta­mente ostile. Vogliamo pro­vare a rispon­dere a lui e, soprat­tutto, ad inter­lo­quire con quella massa, a partire da ciò che abbiamo pro­vato a fare con la lista L’Altra Europa con Tsi­pras. E cioè rico­struire una “con­nes­sione sen­ti­men­tale” la cui man­canza è ciò che deter­mina lo stato attuale delle cose. Que­sta ricerca di con­nes­sione sen­ti­men­tale l’abbiamo pro­po­sta ai let­tori della piazza gre­mita di Bolo­gna, con il testo dell’intervento di Bar­bara Spi­nelli, stru­men­tal­mente richia­mato nell’articolo.

Vor­remmo porre, con animo bene­volo, ad Alberto Asor Rosa le domande che Ale­xis Tsi­pras ha posto alla piazza: «Que­sta è l’Europa che vogliamo? Que­sta poli­tica e que­sti poli­tici noi con­fer­me­remo con il nostro voto dome­nica? Diremo sì all’Europa di Machia­velli? O diremo sì all’Europa dell’Illuminismo e di Gram­sci? Diremo sì ad un’Europa già lon­tana dai Cit­ta­dini dai valori dei suoi prin­cipi fon­danti e dalla par­te­ci­pa­zione? O con il nostro voto per “L’altra Europa” diremo sì all’Europa dei suoi Fon­da­tori, all’Europa della Demo­cra­zia, della coe­sione, della soli­da­rietà e della poli­tica di egua­glianza dei suoi Paesi?».

*Respon­sa­bile della lista L’Altra Europa con Tsipras

Se sarò eletto collaborerò con i pentastellati
di Edoardo Salzano*


Sono d’accordo con molte delle cose che Alberto Asor Rosa ha scritto per il mani­fe­sto del 21 mag­gio. Ma non con tutte. Mi sem­bra che anche lui subi­sca il clima che la medio­cra­zia ha creato attorno alle ele­zioni per il par­la­mento euro­peo. Per la grande infor­ma­zione que­sto evento poli­tico ha come suo cen­tro l’Italia, non l’Europa; sul pal­co­sce­nico ci sono solo due attori: Renzi e Grillo. Anche Asor Rosa mi sem­bra accet­tare que­sta impo­sta­zione. E allora - mi sem­bra che affermi Asor Rosa - se si vuole com­bat­tere il comico dema­gogo non c’è che appog­giare il Pd di Renzi, e se si vuole com­bat­tere Renzi e il ren­zi­smo non c’è che da allearsi con Grillo.

Se la mia sin­tesi non è troppo infe­dele e se que­sto fosse il succo dell’articolo di Asor Rosa allora biso­gne­rebbe esa­mi­nare un po’ più a fondo sia Grillo e il suo movi­mento sia Renzi e il Pd. Se si appro­fon­disse l’analisi forse si giun­ge­rebbe a con­di­vi­dere le parole di Bar­bara Spi­nelli, su cui Asor Rosa invece iro­nizza, depre­can­dole. Per guar­dare alle cose così come stanno alcune distin­zioni sono essen­ziali.

Io, ad esem­pio, penso che occorra distin­guere tra la figura di Grillo, che anche a me fa paura, e le per­sone che oggi lo seguono. Per molte di loro ho per­so­nal­mente lo stesso rispetto e la stessa con­di­vi­sioni che ho per molti degli attuali mili­tanti del par­tito oggi gui­dato (coman­dato) dall’asfaltatore Renzi.

Mi con­si­dero anch’io, come Asor Rosa, un “rosso-verde”. Ma nel Pd ren­ziano di “rosso” ne vedo solo qual­che pal­lido resi­duo, e invece del “verde” vedo il grigio-nero del cemento e dell’asfalto. Nel movi­mento di Grillo, se mi turba l’ombra del nero, non per­de­rei ‚né perdo, l’occasione di col­la­bo­rare con quanto di “verde” (e non è poco) vi abita.

Poi­ché poi pre­fe­ri­sco discu­tere di Par­la­menti e non di duci e ducetti, non escludo affatto di col­la­bo­rare (se per caso dovessi essere eletto nel Par­la­mento euro­peo) con i gril­lini che vi fos­sero eletti, come con i pid­dini (si dice così?) che vi arri­ve­ranno. Come con chiun­que altro eletto che dimo­strerà di voler difen­dere l’ambiente, il lavoro e (non dimen­ti­chia­molo) la demo­cra­zia minac­ciata, mi sem­bra, dall’una parte e dall’altra del teatrino.

*can­di­dato della lista L'altra Europa con Tsipras

«Non si può fare tabula rasa e ricominciare senza pregiudizi. È un’illusione infantile». Giovani e vecchi, passato presente e futuro, conservazione innovazione, in una magistrale lezione.

LaRepubblica, 24 maggio 2014

Se la politica è l’arte delle combinazioni che serve a tenere insieme le contraddizioni evitando che scoppino, il nostro sembra essere sempre meno un tempo politico e sempre più un tempo conflittuale. Nutriamo dentro di noi, nel nostro modo di pensare noi stessi rispetto agli altri, fratture che eleviamo a culture, cioè a visioni generali della vita, e che, perciò, diventano difficilmente componibili. Forse, la più profonda perché legata alla biologia, è la frattura generazionale.

A lungo abbiamo osservato e deplorato l’immobile gerontocrazia che ha dominato nel nostro Paese. Ora, i rapporti si stanno rovesciando, se già non sono rovesciati. La gioventù è portatrice d’un carisma che l’autorizza a rivendicare la guida della società. È fresca, spregiudicata, disinibita. Ha occhi ridenti e fuggitivi, soprattutto rapidi. Gli anziani sono conservatori, appesantiti dalle tante cose che hanno visto e vissuto, legati a idee che vengono da lontano, incompatibili con il mondo che cambia. Hanno occhi appannati, intristiti, fissi. Chi troppo ha visto e sperimentato, spesso è privo d’energia verso la realtà: ne conosce tanti o tutti gli aspetti e cade nello scetticismo e nell’abulia ironica. Insomma, gli anziani sono ostacoli. Ciò che una volta si considerava una virtù si è mutato in vizio: l’esperienza è diventata l’intralcio. Il futuro è dei giovani, si lascino gli anziani al loro passato. «Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia ». Forse non siamo a questo ancora, ma insomma...

Nella sua galleria delle immagini che fissano momenti cruciali della vita, qualcuno avrà forse registrato lo sguardo smarrito di Bobbio e Spadolini di fronte al dileggio cui furono esposti al tempo dell’elezione del presidente del Senato della XII legislatura. Lì si poteva già capire che qualcosa di decisivo si era rotto e che nella frattura uomini nuovi vittoriosamente venivano alla ribalta. Da allora, le cose sono andate avanti. I toni, nei confronti degli anziani, possono essere cortesi o sgarbati, compassionevoli o crudeli, rispettosi o arroganti. Dipende dalla buona o cattiva creanza, ma la materia è la stessa ed è dilagante. Chi non ricorda gli insulti alla senatrice Levi Montalcini? Chi non legge ciò che compare sui social forum non sa che l’argomento decisivo contro gli avversari è sempre più spesso l’anagrafe e che di questo argomento bersaglio preferito è il presidente della Repubblica.

In fondo, che ci se ne renda conto o no, appartiene alla stessa visione del mondo la retorica della rottamazione, il trar motivo di vanto dall’abbassamento della “età media” di ministri e sottosegretari, fino alla polemica contro parrucconi o “professoroni”( o presunti tali). Un tempo si diceva: i giovani hanno solo il diritto di crescere studiando, cioè di cessare d’essere giovani. Oggi, le idee retrocedono e avanza la generazione. Chi viene dal passato s’adegui o, almeno, taccia! Se non arriva a capirlo da sé, c’è chi ci pensa al posto suo. Se non lo si mangia o non lo si cosparge di miele per darlo in pasto alle termiti, come in certe tribù delle civiltà precolombiane, lo si mummifica in qualche accademia: destino più civile e meno spiacevole, ma uguale nel risultato.

Dietro l’atteggiamento di chi fa valere la sua gioventù come plusvalore, c’è una visione del mondo cui, consapevolmente o inconsapevolmente, aderisce. Allo stesso modo c’è una visione del mondo in chi rovescia il plusvalore a favore degli anziani: i giovani hanno un solo dovere, smettere d’esserlo. Sono chiamati in causa i rapporti tra le generazioni. Tutti noi sappiamo che sono rapporti conflittuali, a partire da quelli tra genitori e figli. Prima d’essere genitori siamo stati figli e bene sappiamo che la nostra crescita si è svolta attraverso quel conflitto che poi, generalmente, acquisita la maturità e la sicurezza di sé, si ricompone in un equilibrio in cui né gli uni né gli altri sono più quelli che erano prima.

Così va il mondo degli umani, così la vita procede e ha la vittoria sulla stasi mortifera e nichilista dell’immutabile. Benedetti siano, dunque, quelli che agitano le acque immobili, anche se generano temporanea tempesta.

Dalla piccola dimensione, i rapporti intergenerazionali si proiettano sulla scala vasta della vita sociale. Diventano scontro di culture politiche. Alla fine del Settecento, epoca rivoluzionaria, si diffuse nel mondo occidentale l’intolleranza verso tutto ciò che aveva il sapore dell’Antico Regime. «Il mondo appartiene ai viventi » fu il motto di quegli anni: dunque tacciano le generazioni precedenti. Perfino le leggi e le costituzioni dovevano automaticamente cadere al volgere delle generazioni (più o meno ogni trentacinque anni, si sosteneva), per liberare le nuove dal giogo delle antiche e permettere loro di ricominciare ogni volta da capo.

A questa visione a singhiozzo se ne oppose un’altra. Il mondo non appartiene solo ai viventi. È un lascito testamentario che ogni generazione riceve dalla precedente per consegnarlo a quella successiva. La tradizione unifica le generazioni, ognuna delle quali è chiamata a portare il suo contributo a un’opera di umanizzazione che le trascende. «I viventi appartengono al mondo», si potrebbe dire, rovesciando la citata formula diThomas Jefferson.

In realtà, il mondo appartiene ai viventi e al tempo breve della loro generazione, ma è vero anche il contrario: i viventi appartengono al mondo, il cui tempo lungo scavalca le generazioni. Tra innovazione e tradizione c’è e deve esserci tensione, nella quale alla prima spetta tagliare i rami secchi e alla seconda conservare quelli vitali. Ma, oggi s’è diffuso un sentimento d’impazienza e d’insofferenza generale. Il lascito dei padri appare fallimentare ed è rifiutato dai figli. Si voleva una società dove regnasse pace, giustizia e solidarietà e abbiamo violenze, ingiustizie ed egoismi.

Tabula rasa allora, per poter ricominciare senza vincoli e pregiudizi. Per quanto sia dettata dai migliori sentimenti, questa è un’illusione infantile, perché nessuno ricomincia mai davvero da capo. Ogni svolta storica non velleitaria e non catastrofica si radica in energie morali e materiali che sono venute accumulandosi nel tempo e chiedono di farsi spazio: chiedono cioè di diventare anch’esse tradizione a partire da un’altra tradizione che s’è andata formando. Non basta l’energia, la voglia di fare e cambiare, la velocità. Non basta far leva solo sul malessere. Su questo soltanto non si costruisce, ma si distrugge. Al più, sotto le apparenze del cambiamento, si apre la corsa dei nuovi per prendere il posto dei vecchi: semplice lotta per il potere, tra chi se lo vuol tenere e chi glielo vuol togliere.

È giusta la critica nei confronti di chi ha concepito la politica al di fuori o contro le aspettative e le speranze dei molti e giusta sarebbe anche l’autocritica. Ma la validità delle aspettative e delle speranze non è affatto travolta perché qualcuno tra la generazione dei padri le ha tradite. Anzi, il tradimento le rafforza. Valori e fatti sono cose diverse. Il giovanilismo è espressione del dominio dei fatti, dell’effettività. Ma i fatti non hanno alcun valore. Quando si dice che si deve “cambiare l’Italia”, che occorrono “riforme”, che bisogna “cambiare verso”, o si usano altre simili espressioni di per sé prive di contenuto, si indulge per l’appunto all’attivismo, alla cultura del fare per il fare. A questo fine, il giovanilismo è sufficiente. Se, invece, il fare si vuol inserire in un disegno che valga per l’oggi, apra una strada per il futuro e trovi le sue basi in ciò che di valido viene dal passato, il giovanilismo non basta più. Non è più questione di vecchi e giovani.

L'Europa non è nata secondo il progetto disegnato a Ventotene, ma come strumento degli USA nella guerra fredda.Lo testimonia il ruolo svolto dall'UE ieri in Kossovo, oggi in Ucraina Oggi l'affermazionne di un'autonoma identità europea è minacciata a morte dalla volontà dei governi di approvare il Trat­tato di libero scam­bio tran­sa­tlan­tico, che solo la lista Tsipras denuncia .

Il manifesto, 23 maggio 2014

L’Europa nata nel 1957 non è quella che era stata sognata dagli anti­fa­sci­sti al con­fino di Ven­to­tene. Nel loro Mani­fe­sto l’obiettivo dell’unità fra paesi che allora erano per la seconda volta in pochi decenni impe­gnati in una guerra san­gui­nosa, era la pace. E invece il primo embrione della futura Unione, che fu signi­fi­ca­ti­va­mente chia­mata Mec, l’Europa la spaccò. Fu infatti pen­sato soprat­tutto come stru­mento della guerra fredda: un avam­po­sto dell’occidente a ridosso della cor­tina di ferro, stret­ta­mente col­le­gato alla Nato. Pochi lo ricor­dano: il primo atto isti­tu­zio­nale a favore della nuova crea­tura euro­pea non fu dei nostri par­la­menti, bensì di quello ame­ri­cano. Fu votato nel 1947, il 10 marzo al Senato, il 23 al Con­gresso, auspice il potente segre­ta­rio di stato John Foster Dul­les, fra­tello dell’altrettanto potente Allen, capo della Cia.

Da que­sta nascita bastarda l’Europa è rima­sta segnata, sic­ché, anche quando è caduto il muro, non è miglio­rata. Basti pen­sare alla sua poli­tica estera che, anzi­ché ricer­care un rap­porto di coo­pe­ra­zione con il grande vicino euroa­sia­tico che avrebbe potuto con­fe­rire al con­ti­nente la pos­si­bi­lità di garan­tirsi un ruolo auto­nomo nel mondo, si è invece appiat­tita sulla linea di Washing­ton, inte­res­sata a man­te­nere il pro­prio con­trollo: accet­ta­zione di tutti i pos­si­bili mis­sili sul pro­prio ter­ri­to­rio ai tempi di Brez­nev e Andro­pov, anche quando sarebbe stato neces­sa­rio aiu­tarlo ad uscire dalla fatale spi­rale del riarmo; e oggi esten­sione della Nato ai con­fini della Rus­sia, come se doves­simo rilan­ciare la guerra fredda, una linea che copre solo i più bie­chi com­pe­ti­tivi inte­ressi petro­li­feri ame­ri­cani (nell’insieme un bel regalo all’odioso Putin, che per via del com­por­ta­mento occi­den­tale ha ritro­vato popo­la­rità nel suo paese).

L’impronta colo­nia­li­sta, così come l’arroganza occi­den­tale, sono rima­sti il tratto dell’orientamento dell’Ue in poli­tica inter­na­zio­nale: ciò che pos­siamo fare noi euro­pei non è con­cesso agli altri. Ad esem­pio, il pre­ci­pi­toso uni­la­te­rale rico­no­sci­mento dell’indipendenza da Bel­grado delle repub­bli­che slo­vena e croata nel ’93 in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione e la vio­lenta denun­cia di chi in Ucraina sta riven­di­cando il mede­simo diritto (signi­fi­ca­tivo che nes­suno ricordi oggi come la Jugo­slava sia stata sbra­nata in nome di quel diritto senza che l’Ue nem­meno ten­tasse di aprire un tavolo di discus­sione fra le parti, come pre­vi­sto dalla Con­fe­renza per la sicu­rezza euro­pea in cui era stato sta­bi­lito che nes­sun con­fine possa esser toc­cato senza un accordo. L’Unione euro­pea plaudì per­sino al bom­bar­da­mento di Bel­grado in difesa dell’autodeterminazione dei koso­vari).

Sull’incongruenza euro­pea si potrebbe con­ti­nuare, citando i casi del Sahara occi­den­tale, di Timor Est, di Cipro e natu­ral­mente della Pale­stina. Per non par­lare del silen­zio sulla bomba ato­mica pos­se­duta da Israele, con buona pace del Trat­tato di non pro­li­fe­ra­zione. Così come delle guer­re­sche puni­zioni a chi non obbe­di­sce alle deci­sioni dell’Onu, ma dell’assoluzione delle tante avven­ture bel­li­che che quella coper­tura non hanno avuto. Nel caso, ancora una volta, di Israele, e di quelle che hanno avuto l’Europa stessa come pro­ta­go­ni­sta.

E poi, forse più grave di tutte, la poli­tica verso il sud Medi­ter­ra­neo. Con sonore fan­fare si lan­ciò anni fa l’Accordo di Bar­cel­lona, che avrebbe dovuto essere un ami­che­vole par­te­na­riato, in grado di lan­ciare un com­pro­messo per un lun­gi­mi­rante co-sviluppo delle rispet­tive eco­no­mie ed è stato invece solo un’apertura al libero scam­bio che non avrebbe mai potuto col­mare – e infatti l’approfondì — l’enorme disli­vello sto­rico colo­niale fra le eco­no­mie delle due sponde.

Oggi il dramma gigan­te­sco dell’immigrazione clan­de­stina dovrebbe pro­porre una seria rifles­sione sulla poli­tica inter­na­zio­nale dell’Europa, che non si esau­ri­sce certo solo in un po’ di aiuti all’Italia per l’accoglienza degli scam­pati ai nau­fragi. Occor­re­rebbe ripen­sare il mondo, capire che siamo di fronte ad uno scon­vol­gi­mento sto­rico che non si può fron­teg­giare né con le armi ma nem­meno con una poli­tica miope che pensa l’Europa possa rima­nere un giar­dino chiuso.
Qual­che sin­tomo di rav­ve­di­mento? No, il con­tra­rio: l’impegno prin­ci­pale degli ese­cu­tivi dell’Unione con­si­ste ora nel varo di un Trat­tato di libero scam­bio tran­sa­tlan­tico che, se andrà in porto, can­cel­lerà tutto quanto è stato con­qui­stato nel ven­te­simo secolo in Europa dal movi­mento ope­raio e demo­cra­tico. Nes­suno, salvo la lista Tsi­pras, ne ha par­lato in que­sta cam­pa­gna elet­to­rale. Non è un caso: sarebbe suf­fi­ciente que­sto pro­blema a deter­mi­nare il voto del 25 mag­gio ove la gente sapesse di cosa si tratta.
La pro­spet­tiva che que­sto accordo apre è di un’Europa che perde la spe­ci­fi­cità del suo modello sociale, che nel dopo­guerra, e gra­zie a grandi lotte, ha rap­pre­sen­tato il com­pro­messo sociale più alto. Se così finirà per essere, a che pro un’Unione euro­pea? Diver­rebbe solo un pez­zetto del mer­cato glo­bale e avrebbe ces­sato di avere una sua ragion d’essere, l’espressione di un modello diverso. I più peri­co­losi anti­eu­ro­pei­sti sono senz’altro tutti quelli che vogliono farle per­dere ogni iden­tità, omo­lo­gan­dola al peg­gio del mondo.

«Con l’austerity è in corso una "pulizia etnica" di quella parte di popolazione più fragile. E i paesi in crisi sono presentati come casi unici. Così si lacera il tessuto sociale»

. Il manifesto, 22 maggio 2014

Per­ché l’Europa ha gestito la crisi di que­sti anni nel modo in cui l’ha fatto? L’obiettivo era sal­vare la finanza, le mul­ti­na­zio­nali e la classe poli­tica – a spese dei lavo­ra­tori, delle pic­cole imprese e delle eco­no­mie locali. In sostanza, la stra­te­gia è stata quella di tute­lare i pro­prie­tari di grandi capi­tali e di sca­ri­care i costi sul 20–30% più povero della società. La sto­ria degli ultimi vent’anni è fatta di aumento dei pro­fitti, caduta delle tasse sulle imprese e gon­fiarsi dei defi­cit pub­blici.

La tesi del mio ultimo libro, Expul­sions: bru­ta­lity and com­ple­xity in the glo­bal eco­nomy, è che siamo entrati in una nuova fase sto­rica, carat­te­riz­zata dall’ “espul­sione” delle per­sone dalle con­di­zioni eco­no­mi­che e sociali pre­ce­denti, dai loro pro­getti di vita, dalla loro esclu­sione dal “con­tratto sociale” che era al cen­tro delle demo­cra­zie libe­rali. È molto più di un aumento nelle disu­gua­glianze e nella povertà. Non è un feno­meno ancora pie­na­mente visi­bile, e non è una con­di­zione che riguardi la mag­gio­ranza delle per­sone. Si tratta però della gene­ra­liz­za­zione di con­di­zioni estreme finora pre­senti solo ai mar­gini del sistema, spo­sta­menti che non sono ancora indi­vi­duati dalle sta­ti­sti­che tra­di­zio­nali. Le classi medie impo­ve­rite pos­sono vivere ancora nelle stesse belle case di prima, ma die­tro la fac­ciata cre­scono povertà e dispe­ra­zione, si tro­vano costrette a ven­dere i loro beni per pagare il mutuo, i figli adulti non pos­sono andare via di casa.

La Gre­cia, la Spa­gna e il Por­to­gallo sono la dimo­stra­zione di quanto un’economia si possa con­trarre in poco tempo e mostrano la ten­denza gene­rale al ridi­men­sio­na­mento dello spa­zio dell’economia nei paesi avan­zati. Si parla di «bassa cre­scita e alta disoc­cu­pa­zione», ma que­sti ter­mini sono troppo vaghi per descri­vere il dif­fon­dersi di con­di­zioni estreme a cui assi­stiamo in tutti i paesi.

In realtà, stiamo assi­stendo a una ride­fi­ni­zione di quella che è “l’economia”. I disoc­cu­pati che per­dono tutto si ritro­vano al di fuori di quella che è con­si­de­rata “l’economia”, e ven­gono esclusi dalle sta­ti­sti­che dei senza lavoro. Lo stesso vale per i pic­coli impren­di­tori che per­dono tutto e si sui­ci­dano. O per i pro­fes­sio­ni­sti e lau­reati che abban­do­nano i loro paesi o l’Europa. Que­sti feno­meni ridi­men­sio­nano lo spa­zio dell’economia, esclu­dendo i più fra­gili. E’ un pro­cesso di espul­sione ana­logo alla “puli­zia etnica”, in cui gli ele­menti pro­ble­ma­tici della popo­la­zione ven­gono sem­pli­ce­mente eli­mi­nati. Quello che rimane dell’economia – per­fino in Gre­cia e Por­to­gallo — può essere pre­sen­tato come «sulla via della ripresa», ed è que­sta la nar­ra­zione che offrono in Europa Fondo mone­ta­rio e Banca cen­trale euro­pea, le uni­che voci ascol­tate.

Una seconda carat­te­ri­stica delle poli­ti­che euro­pee è stata quella di pre­sen­tare tutti i paesi in crisi come «casi unici». La Gre­cia era un paese povero con altis­sima eva­sione fiscale e inef­fi­cienza buro­cra­tica. Il Por­to­gallo e la Spa­gna erano anch’essi casi estremi, ma per motivi diversi. Non è così. Gli stessi feno­meni che sono estremi in que­sti paesi sono dif­fusi in tutta Europa: si tratta delle con­di­zioni strut­tu­rali della fase del capi­ta­li­smo aper­tasi negli anni ottanta. I pesan­tis­simi tagli alla spesa sociale, il crollo dell’occupazione e l’aumento delle impo­ste in Gre­cia e Spa­gna sono i segni di una pro­fonda ristrut­tu­ra­zione, che in misura minore sta avve­nendo in tutta l’eurozona, e anche in paesi come gli Stati Uniti.
Un aspetto chiave di que­sto pro­cesso è il ten­ta­tivo di tener in piedi l’economia pri­vata eli­mi­nando le spese ecces­sive legate al con­tratto sociale. Il rim­borso del debito e l’austerità sono mec­ca­ni­smi che impon­gono disci­plina e tute­lano le imprese, ma non fanno cre­scere pro­du­zione e occu­pa­zione. Qua­lun­que sia la logica che divide in Europa vin­ci­tori e vinti, essa lacera pro­fon­da­mente il tes­suto sociale ed eco­no­mico di un paese: negli ultimi anni la pro­du­zione è crol­lata in tutto il Sud Europa, smen­tendo l’idea secondo cui il l’austerità favo­ri­sca la cre­scita. E i dati dimen­ti­cano i tanti che sono oggi esclusi dell’economia for­male.

Il nuovo libro di Saskia Sas­sen, Expul­sions: bru­ta­lity and com­ple­xity in the glo­bal eco­nomy sarà pub­bli­cato in Ita­lia da Il Mulino

«». Il manifesto

Finora ho fatto poli­tica con i miei libri, occu­pan­domi di Shoah, raz­zi­smo, resi­stenza ai regimi. Nel mio primo incon­tro elet­to­rale, mi sono tro­vata a par­lare della tas­so­no­mia di Lin­neo e della costru­zione che è all’origine di quella “gerar­chia del disprezzo” che costi­tui­sce una radice pro­fonda della nostra cul­tura. Mi sono inter­rotta per scu­sarmi: di certo non era il lin­guag­gio della poli­tica che ci è con­sueto, ma mi è stato chie­sto di con­ti­nuare. È ini­ziata una mera­vi­gliosa discus­sione, forse eccen­trica in una cam­pa­gna elet­to­rale; tutti ne era­vamo un po’ stu­piti, ma abbiamo par­lato delle cate­go­rie che sepa­rano l’umano dall’animale, della nascita dello schia­vi­smo, dell’attribuzione alla natura della dico­to­mia tra uomo e donna. Per­ché le per­sone (noi) abbiamo desi­de­rio di scam­biarci e riflet­tere, cono­scere, stu­diare, anche fuori dai luo­ghi nor­mati, isti­tu­zio­na­liz­zati, nella con­sa­pe­vo­lezza del deserto che ci cir­conda. Mario Lodi, appena uscito di pri­gione, il 25 aprile 1945, decise che era neces­sa­rio comin­ciare a rico­struire una cul­tura distrutta dal ven­ten­nio fasci­sta; lo fece pro­prio par­tendo dal desi­de­rio di scam­bio, di rac­conto di sé, di cono­scenza cri­tica impe­dita dal regime. Il suo inse­gna­mento pas­sava essen­zial­mente per il rac­conto degli uni agli altri, e dalla cono­scenza, non socio­lo­gica ma umana, della realtà circostante.

Que­sta splen­dida e quasi clan­de­stina cam­pa­gna elet­to­rale è stata — per la parte che ne ho potuto vedere — una grande scuola, prima di tutto per me. Girando per le città, ho incon­trato una vita par­te­ci­pa­tiva sot­ter­ra­nea, non rap­pre­sen­tata dai media eppure capace di costi­tuire un reti­colo di scambi, spe­ranze, lotte, inven­zioni, pra­ti­che di soli­da­rietà. Dai pro­getti di micro­cre­dito alle coo­pe­ra­tive per l’inserimento lavo­ra­tivo dei car­ce­rati; dalle espe­rienze di social street ai Gruppi di Acqui­sto Soli­dale; dalle coo­pe­ra­tive di donne immi­grate ai col­let­tivi di stu­dio sull’energia alter­na­tiva e la lotta al nucleare. Pro­getti, intel­li­genze, com­pe­tenze che modi­fi­cano le realtà del ter­ri­to­rio.

Ma que­sta cam­pa­gna elet­to­rale si è svolta in gran parte anche sul web, in un con­ti­nuo scam­bio di infor­ma­zioni e con­tatti. Giorno dopo giorno, i can­di­dati si sono visti inol­trare decine di richie­ste di ade­sione a piat­ta­forme, impe­gni, punti pro­gram­ma­tici sui quali ver­ranno giu­di­cati e scelti. Dall’Agenda per i diritti umani in Europa, a soste­gno di poli­ti­che di tutela dei migranti, dei rom e dei dete­nuti — pro­mossa da Luna­ria, Asso­cia­zione 21 luglio e Anti­gone — alla cam­pa­gna di Ilga per i diritti di gay e lesbi­che; dal pro­gramma per i Diritti Digi­tali per l’autodeterminazione dell’informazione e la tutela della pri­vacy, a quello per i diritti dei migranti pro­po­sto dalla Rete Primo Marzo; dalla cam­pa­gna di Libera con­tro le mafie, Mise­ria ladra, che mette al cen­tro la lotta alla povertà, a NewDeal4Europe, ini­zia­tiva euro­pea di cit­ta­di­nanza per un piano straor­di­na­rio di svi­luppo soste­ni­bile e per l’occupazione; dai punti pro­gram­ma­tici delle asso­cia­zioni ani­ma­li­ste a Riparte il futuro, la cam­pa­gna tra­sver­sale e apar­ti­tica con­tro cor­ru­zione e cri­mi­na­lità organizzata.

Una sorta di “mente estesa” for­mata dalle nume­ro­sis­sime asso­cia­zioni che da anni si occu­pano di temi fon­da­men­tali per l’agenda poli­tica euro­pea, fuori dalle appar­te­nenze par­ti­ti­che. Una forza pro­gram­ma­tica e pro­get­tuale, un reti­colo di com­pe­tenze ed espe­rienze alle quali chiun­que verrà eletto al Par­la­mento euro­peo potrà appog­giarsi, e al tempo stesso dovrà ren­der conto.

Così ho deciso che la mia cam­pa­gna non sarebbe stata costi­tuita solo da comizi, ban­chetti, volan­ti­naggi, inter­venti e ini­zia­tive elet­to­rali nella cir­co­scri­zione, ma che avrei orga­niz­zato tre con­ve­gni per riflet­tere su argo­menti per me cen­trali, chie­dendo a per­sone con le quali ho spesso con­di­viso per­corsi di stu­dio e di lavoro di darmi una mano. È nato così un con­ve­gno su «Lavoro, pre­ca­rietà e nuovo schia­vi­smo», che ha avuto tra i rela­tori Gianni Rinal­dini, Mario Ago­sti­nelli e Guido Viale. Un con­ve­gno su «Raz­zi­smo e xeno­fo­bia», al quale hanno preso parte, tra gli altri, il gene­ti­sta Guido Bar­bu­jani, la scrit­trice Igiaba Scego, lo sto­rico del por­ra­j­mos Luca Bravi, il por­ta­voce della comu­nità sene­ga­lese di Firenze Pape Diaw. E infine un con­ve­gno sulla comu­nità del vivente come fon­da­mento della poli­tica, al quale hanno preso parte, oltre ai respon­sa­bili di alcune tra le più impor­tanti asso­cia­zioni ani­ma­li­ste e anti­spe­ci­ste, il filo­sofo Leo­nardo Caffo e lo scrit­tore Mil­ton Fer­nan­dez, che ha spie­gato, ad esem­pio, come il pre­si­dente ex tupa­maro dell’Uruguay, Pepe Mujica, abbia appena pro­mosso una legge per la tutela dei diritti ani­mali, com­preso quello alla dignità. Tutte que­ste voci, intel­li­genze, pro­get­tua­lità — che andranno a for­mare un archi­vio media­tico che resterà oltre il 25 mag­gio, per rian­no­dare i fili degli argo­menti che l’orizzonte euro­peo ci ha spinto a con­si­de­rare nella loro ampiezza poli­tica — sono una «folla den­tro il cuore» che, come nei versi di Emily Dic­kin­son, «nes­suna poli­zia potrà disperdere».

Natu­ral­mente non tutto è stato radioso in que­sta dif­fi­cile costru­zione di un sog­getto uni­ta­rio: ine­vi­ta­bil­mente sono entrate in gioco logi­che di appar­te­nenza, ripe­ti­zioni del già visto, ren­dite di potere, mal­ce­late ambi­zioni per­so­nali — una poli­tica che asso­mi­glia ai car­rar­ma­tini del Risiko, nel suo inse­diarsi su pic­co­lis­simi ter­ri­tori vedendo il vicino come un nemico o un peri­colo. Forse il viag­gio vero è stato l’aver avuto l’opportunità di par­te­ci­pare fin dalla nascita a un pro­getto che vuole uscire dalle sec­che di ragio­na­menti che hanno por­tato a troppi anni di scon­fitte, divi­sioni, inca­pa­cità del fram­men­tato mondo post-sessantottesco di smet­tere di cre­dersi il cen­tro del mondo; «di andare oltre il bri­co­lage orga­niz­za­tivo e il bal­bet­tio ideo­lo­gico», come scrive Marco Revelli in Oltre il Nove­cento, «alla ricerca delle parole, o delle for­mule, con cui nomi­nare la pro­pria rivo­lu­zione introvabile».

Per la prima volta dopo tanti anni è nato un pro­getto che può essere vin­cente, anche oltre l’appuntamento delle ele­zioni euro­pee, a patto che sap­pia supe­rare le logi­che dell’appartenenza e aprirsi alle plu­ra­lità che ha messo in campo.

Domenica si vota per il “Parlamento europeo”. Rigorosamente tra virgolette. Infatti non è un vero parlamento e non è davvero europeo. Vediamo. Nessuno Stato che esibisse come parlamento l’assemblea di Strasburgo, con i suoi limiti di autorità e potestà legislativa, senza un governo da votare, controllare e sfiduciare, potrebbe infatti passare il test preliminare di democrazia. Sicché, una volta insediato, i media di tutto il mondo si disinteressano quasi totalmente di ciò che accade in quell’esoterico emiciclo. Né si tratta di un’elezione europea in cui ognuno di noi sceglie i suoi deputati a prescindere dallo Stato di origine. Semmai, di 28 scrutini nazionali. Su liste composte in base a logiche domestiche nei diversi paesi dell’Ue, cui seguono molto virtuali campagne elettorali, centrate sui temi che interessano le opinioni pubbliche locali. Le quali lo considerano un voto nazionale di serie B, un test in vista del vero voto politico, quello interno.

Di più: non solo non esiste un progetto d’Europa condiviso, manca una discussione su quali debbano essere i fini dell’esercizio comunitario, oltre alla riproduzione di se stesso. Ilvo Diamanti ha misurato lunedì scorso, su queste colonne, il grado di disincanto verso l’Unione Europea e verso l’euro nei principali paesi europei. Incluso il nostro, il cui euroscetticismo tocca quote britanniche (solo il 27% degli elettori italiani ha fiducia nell’Ue e il 12% si considera avvantaggiato dall’euro, secondo un’indagine Demos-Pragma per la Fondazione Unipolis). Conclusione: se non ci fossero gli antieuropei a farlo, di Europa non si parlerebbe proprio.
È moda prendersela con i “populisti”. I quali se ne rallegrano e ne traggono profitto. Certo, va bene deprecare le sguaiatezze di grillini, leghisti o loro simili in altre contrade europee. Costoro vellicano il più odioso particolarismo, se non addirittura il razzismo che corre sotto la pelle di noi civilissimi europei. Ma conviene chiederci da dove derivi tale eurofobia primaria. E come opporvisi. Se vogliamo dare un senso a queste elezioni, anche se queste elezioni un senso non ce l’hanno, è d’obbligo azzardare una risposta.
Il problema dell’Europa sta nell’offerta non nella domanda. Non serve sdegnarsi per il senso di noia o financo di deprecazione di cui la sfera semantica di questo termine si è sovraccaricata. Nessuno pare in grado di determinare in modo univoco che cosa significhi Europa, quale spazio geografico designi, di quali istituzioni debba dotarsi, quali obiettivi debba perseguire per i suoi cittadini e quale funzione possa svolgere nel mondo. Ciascuno ne coltiva idee diverse, più spesso nessuna idea. Perché nessun leader europeo pensa che questo esercizio possa portargli vantaggio. Anzi, a mostrarsi pro-europei i voti si perdono — giurano tutti (in privato).
È davvero così? Lo è senz’altro, se si scambia per pro-europeo il vuoto europeismo retorico, con i suoi discorsi della domenica recitati al modo ottativo intorno agli Stati Uniti d’Europa e ad altri magnifici ideali mai definiti, senza una road map verificabile. Ma non si può solo moralizzare intorno al “dover essere”, magari non credendo nemmeno alle proprie parole. Come si può chiedere a un cittadino elettore di entusiasmarsi per qualcosa che non siamo nemmeno in grado di definire?
In che senso possiamo considerare democratico un insieme in cui le decisioni che contano vengono prese non dal Parlamento o dalla Commissione, ma nelle sedute segrete notturne dei capi di governo che si aprono al tramonto con l’aperitivo, si concludono con il cappuccino dell’alba, alle quali seguono 28 conferenze stampa parallele in cui ogni leader si rivolge al suo elettorato per raccontare la sua verità sugli esiti di un negoziato di cui nemmeno gli storici futuri potranno scandagliare i percorsi, visto che non ne esiste uno straccio di verbale? In questo modo non si costruisce una democrazia europea. In compenso, si delegittimano quelle nazionali — anche di qui il rifiorire dei secessionismi in Spagna, in Gran Bretagna, in Italia e altrove — e si attacca alla radice l’albero della politica.
A Bruxelles e dintorni resta in auge il precetto del grande europeista Jacques Delors, per cui «l’Europa avanza mascherata ». Forse, ai suoi tempi. Ma oggi il velo del pudore europeista contribuisce a farci arretrare verso inconfessabili — o invece agognati? — fortilizi feudali e corporativi, verso sempre disastrosi nazionalismi. Il “populismo” riflette la sfiducia dei leader europei nei loro elettori: perché dovrei fidarmi di chi non si fida di me?
Si può sperare in non troppo future elezioni per il Parlamento europeo, senza virgolette? Si deve. La deriva antipolitica non si ferma da sola. Per invertire la rotta, orientandola verso una democrazia europea, dunque verso uno Stato europeo a tutto tondo, prodotto da chi lo vuole e lo può erigere, occorre che ciò che resta delle democrazie e dei parlamenti nazionali produca un disegno possibile, non per aggirare il consenso, ma per coagularlo. Scopriremmo forse che, coinvolti in un progetto d’Europa, noi europei ne premieremmo gli artefici con il nostro voto. L’alternativa non è lo status quo, che non esiste. Galleggiare a lungo nel mare dell’antipolitica è illusione. E naufragarvi non sarebbe dolce.
«La norma fon­da­men­tale dell’Unione con­trad­dice radi­cal­mente valori, prin­cipi, fini. È un po’ nasco­sta, in verità. È scritta nel Trat­tato sul fun­zio­na­mento dell’Unione, agli arti­coli 119 e 120, secondo i quali «l’azione degli Stati mem­bri e dell’Unione com­prende …l’adozione di una poli­tica eco­no­mica …. con­dotta con­for­me­mente al prin­ci­pio di un’economia di mer­cato aperta ed in libera con con­cor­renza»». Il manifesto, 22 maggio 2014 (m.p.r.)

Mar­tin Schulz ha sin­te­tiz­zato i mali dell’Unione euro­pea che vor­rebbe sra­di­care. Sono quelli della «poli­tica di auste­rity a senso unico per stati e cit­ta­dini». Quelli che avreb­bero tra­sfor­mato Ue da «un pro­getto di pace e di pro­spe­rità in un insieme di regole». Per cui l’Ue avrebbe per­duto «la capa­cità di rac­con­tarsi, di entu­sia­smare e di far guar­dare al futuro con otti­mi­smo». A que­sta Ue il pro­getto social­de­mo­cra­tico, di cui è por­ta­tore, oppone non una «unione buro­cra­tica ma un’unione poli­tica ed eco­no­mica». Quanto alla crisi accusa l’Europa «di essersi aggrap­pata alle regole» di essere stata «senza lea­der­ship … e di aver uti­liz­zato i Trat­tati come «giu­sti­fi­ca­zione dell’inazione» Trat­tati «ove non è scritto come uscire dalla crisi». (vedi arti­colo de la Repub­blica).

Non va esclusa affatto, e si può anche esser certi della sen­si­bi­lità sociale del dr. Shulz. Credo però che que­ste sue dichia­ra­zioni gene­rino non poche e non infon­date per­ples­sità. Comin­ciamo dalla prima. La poli­tica di auste­rity a senso unico non è stata certo inven­tata e poi impo­sta all’Ue da una potenza extra euro­pea. Con­se­gue imme­dia­ta­mente dai Trat­tati che non hanno affatto pro­vo­cato iner­zie. Hanno pro­dotto invece un coe­rente indi­rizzo di poli­tica eco­no­mica e finan­zia­ria che ne ha attuato prin­cipi, fini e norme, mediante atti esat­ta­mente cor­ri­spon­denti a detti prin­cipi. Tutti adot­tati dalla Com­mis­sione e dal Con­si­glio e, per quanto di com­pe­tenza, dal Par­la­mento euro­peo, rilut­tante tal­volta, ma cer­ta­mente non svin­co­lato dai com­piti che i Trat­tati gli assegnano.

La per­dita della capa­cità di «entu­sia­smare» ne è stata la con­se­guenza ine­lut­ta­bile. Soprat­tutto per­ché il «rac­con­tarsi» come pro­getto di pro­spe­rità era, più che otti­mi­stico, bugiardo. Bugiardo per­ché l’unione pro­get­tata era esat­ta­mente quella buro­cra­tica dise­gnata per ese­guire le norme dei Trat­tati secondo lo spi­rito dei Trat­tati, con la logica che ne deri­vava. Uni­voca, espli­cita tra­sfusa innan­zi­tutto nell’architettura dell’Unione che faceva, e fa, di tutte le sue isti­tu­zioni gli ese­cu­tivi dei Trat­tati. Par­la­mento com­preso, la cui atti­vità si tra­duce, infatti, nel potere deli­be­rare solo quello che gli pro­pone la Com­mis­sione il cui com­pito assor­bente e vin­co­lante ogni altro è quello di organo che «vigila sull’applicazione dei Trat­tati e delle misure adot­tate dalle isti­tu­zioni in virtù dei Trat­tati». (art. 17 del Trat­tato sull’Unione). Un’architettura quindi che rea­lizza il trionfo degli ese­cu­tivi, ren­den­doli tutti tali, qual­si­vo­glia nome o veste assu­mes­sero ed abbiano assunto.

Ese­cu­tivi di che cosa, di quale pro­getto, di quale prin­ci­pio fon­da­men­tale? I Trat­tati non nascon­dono affatto la norma fon­da­men­tale dell’Unione. Non la si trova negli arti­coli 2 e 3 del Trat­tato sull’Unione che elen­cano decla­ma­zioni ine­brianti di valori, prin­cipi, fini che sim­bo­leg­giano le con­qui­ste della costi­tu­zio­na­li­smo e della demo­cra­zia degli ultimi due secoli. La norma fon­da­men­tale dell’Unione con­trad­dice radi­cal­mente que­sti valori, prin­cipi, fini. È un po’ nasco­sta, in verità, forse anche per quel pudore che accom­pa­gna spesso l’ipocrisia. È scritta nel Trat­tato sul fun­zio­na­mento dell’Unione, agli arti­coli 119 e 120, secondo i quali «l’azione degli Stati mem­bri e dell’Unione com­prende …. l’adozione di una poli­tica eco­no­mica …. con­dotta con­for­me­mente al prin­ci­pio di un’economia di mer­cato aperta ed in libera con con­cor­renza». La norma fon­da­men­tale dell’Ue è que­sta. Ne san­ci­sce la dina­mica ed il fine. Ha carat­tere esclu­sivo ed escludente.

È que­sta la norma che non per­mette che si esca dalla crisi. Non lo per­mette per­ché ne è la causa, la ha pro­vo­cata. È que­sta la norma fon­da­men­tale da abro­gare. Shulz non può non saperlo. Ma non dice di volerla espungere.

Con Tsi­pras si può. È una ragione deci­siva per votarlo.

«Verso il voto. Grillo è peggio dei fascisti. Il governo Renzi è il peggiore della storia. E la lista Tsipras sembra guardare alle «larghe intese» con i cinque stelle. Non c’è da stupirsi che il non voto sia di gran lunga il primo partito».

Il manifesto, 21 maggio 2014, con postilla

Si può scri­vere un arti­colo per spie­gare che non si sa per­ché lo si scrive? Me ne sono capi­tate tante nella vita. Ora mi capita anche que­sta. Si avvi­ci­nano le ele­zioni euro­pee. Che fare?

Il governo Renzi è il peg­giore che ci sia acca­duto di giu­di­care, nell’ambito del centro-sinistra (centro-sinistra?), nel corso degli ultimi decenni. Al con­fronto, non dico Prodi, ma mi fermo a Letta, se si fa rife­ri­mento a una posi­zione di con­ser­va­to­ri­smo illu­mi­nato (non di più, per carità, non di più!), i con­fronti appa­iono schiaccianti.

Il pre­mier pro­cede a bal­zel­loni, come un improv­vi­sa­tore non in grado di andare al di là di se stesso, con molti slo­gan, ma senza idee né pro­grammi né cul­tura. Le poli­ti­che sociali sono ridotte al livello di mance ai poveri e agli indi­genti. Il patto politico-riformatore con Ber­lu­sconi regge agli scos­soni cui da una parte e dall’altra, per fina­lità squi­si­ta­mente (si fa per dire) elet­to­rali, viene sot­to­po­sto. È asso­lu­ta­mente pre­ve­di­bile che dopo que­sto voto, quale che che ne sia l’esito, Ber­lu­sconi mani­fe­sti l’intenzione di tor­nare al governo, d’intesa, sia pure con­cor­ren­ziale, con il nuovo Cen­tro destra.

Del resto, per­ché non dovrebbe acca­dere? In fondo, anche la poli­tica sociale dell’ex Cava­liere, in per­fetta armo­nia con quella ren­ziana, con­si­ste nel pro­met­tere mille euro al mese alle «povere (testuale, nda) casa­lin­ghe». Lo ammetto: il mini­stro Padoan è un’«altra cosa». Ma, appunto: se è un’«altra cosa», cosa ci sta a fare, come rie­sce a ope­rare effi­ca­ce­mente lì dentro?

E la lista Tsi­pras? In un’intervista recen­tis­sima su il mani­fe­sto (16 mag­gio), Bar­bara Spi­nelli spiega: «Spero che la lista Tsi­pras abbia la forza e l’indipendenza di giu­di­zio per aprire un dia­logo con i 5Stelle e deci­dere per punti spe­ci­fici poli­ti­che con­cor­date. Ci sono molte cose in comune…». L’intervistatrice, Daniela Pre­ziosi, ha qual­cosa da obiet­tare: «Per la verità Grillo sem­bra più inte­res­sato alla cam­pa­gna for­sen­nata con­tro il Pd». Replica Spi­nelli, ben trin­ce­rata die­tro le pro­prie cer­tezze: «Ci sono molte posi­zioni di Grillo com­ple­ta­mente con­di­vi­si­bili e fra l’altro simili se non iden­ti­che alle nostre. Il Movi­mento 5Stelle potrebbe svol­gere un ruolo molto impor­tante…». Dun­que, secondo Spi­nelli per sbar­rare la strada alle «lar­ghe intese» di Schulz in Europa e di Renzi in Ita­lia, biso­gna, è legit­timo, è decente imboc­care la strada di una «larga intesa» con l’orrido Grillo, il peg­gior nemico di qual­siasi pro­spet­tiva seria­mente demo­cra­tica e rifor­ma­trice? Si capi­sce fino in fondo, ora, per­ché la lista Tsi­pras (in Ita­lia, s’intende) ha fin dall’inizio rifiu­tato di defi­nirsi una com­po­nente (sia pure for­te­mente inno­va­tiva) del cosid­detto «campo della sini­stra». Se lo avesse fatto, infatti, si sarebbe inter­detta il gioco poli­tico post elet­to­rale con Grillo, il quale ora, nelle parole di Spi­nelli, emerge inequivocabilmente.

E Grillo? E l’ondata «popu­li­sta», che sale da tutte le crepe della società euro­pea attuale? È dav­vero, come si dice, il peri­colo mag­giore? Io penso di sì. Ma se è così, è ine­vi­ta­bile che, allo stato attuale delle cose (ripeto e insi­sto: «allo stato attuale delle cose»), per fron­teg­giarlo non verrà in mente a nes­suno niente di meglio, che la teo­ria e la pra­tica delle «lar­ghe intese», non solo in Ita­lia e in Ger­ma­nia, dove già esi­stono, ma anche in Fran­cia, in Spa­gna e, forse, in Inghilterra.

Il «vec­chio» mondo politico-istituzionale, — cioè «destra» e «sini­stra» clas­si­che, ormai sem­pre più desti­tuite di fon­da­menti e con­te­nuti tra­di­zio­nali, e sem­pre più simili fra loro, — si alleerà al pro­prio interno sem­pre più siste­ma­ti­ca­mente, allo scopo essen­ziale di garan­tirsi una soprav­vi­venza. Tec­no­cra­zia, finanza e mer­cati stanno per ora (per ora!) dalla sua parte, poi si vedrà.

Dun­que, a quanto sem­bra, se si vuole sbar­rare, in primo e indu­bi­ta­bi­lis­simo luogo, la strada a Grillo e al gril­li­smo (in Ita­lia, anche in que­sto caso, s’intende), e, in pro­spet­tiva, al popu­li­smo in Europa, biso­gna accon­ciarsi a votare l’intollerabile Renzi. E se si vuole sbar­rare la strada alle «lar­ghe intese» fra Renzi e la cor­data, sem­pre ricom­po­ni­bile, della Vec­chia e Nuova destra, biso­gna votare (come con esem­plare chia­rezza spiega Spi­nelli) in modo da favo­rire un’alleanza dei «pro­gres­si­sti» (per giunta radi­cali) con l’orrido, anzi orri­dis­simo Grillo, in con­fronto al quale anche i vec­chi fasci­sti sareb­bero sem­brati dei pro­gres­si­sti e delle per­sone per bene.

Si capi­sce per­ché in Ita­lia la massa di coloro che non hanno ancora scelto, e forse non sce­glie­ranno, è così ele­vata da sfio­rare la mag­gio­ranza asso­luta. Per la prima volta nella sto­ria, infatti non ci si chiede più di votare per un pro­gramma e per gli uomini che lo rap­pre­sen­tano, ma per impe­dire che pre­valga un «altro» pro­gramma e «altri» uomini che più o meno lo rappresentano.

Come ho già scritto altre volte, non ci sono più «avver­sari» che si scon­trano per affer­mare la diver­sità delle loro rispet­tive posi­zioni, ma «con­cor­renti» che si sfi­dano più o meno sul mede­simo ter­reno con mezzi ana­lo­ghi (se non addi­rit­tura coin­ci­denti). Oggi, di più: la scelta fra i «con­cor­renti» avviene soprat­tutto, se non esclu­si­va­mente, per impe­dire che la merce di un «altro» trovi migliore acco­glienza sul mer­cato. La qua­lità della «pro­pria» merce passa invece in secondo piano. E giu­sta­mente: infatti, è merce resi­duale, fondi di magaz­zino, pre­va­len­te­mente fuori corso, che resi­ste sul mer­cato uni­ca­mente per­ché la merce che pro­pon­gono al loro posto gli homi­nes novi fa sem­pli­ce­mente schifo.

Sim­pa­tizzo per que­sta massa. Penso che le si dovrebbe dedi­care un’attenzione meno inte­res­sata e fari­saica di quella che è emersa nelle ultime set­ti­mane: votami, votami per favore se non mi voti vince quell’altro, quell’altro che, lo si vede bene, fa schifo, molto più schifo di me.…

È, dopo tutto, una massa di uomini liberi: ognuno di loro, fra qual­che giorno, può aste­nersi, votare scheda bianca, votare Pd, votare Tsi­pras, votare, per­ché no, i Verdi, di cui nes­suno parla (anche loro, peral­tro incauti e oscil­lanti oltre misura), insomma può fare una scelta com­mi­su­rata alle pro­prie ansie, paure, ere­dità del pas­sato, aspet­ta­tive del futuro, biso­gni ele­men­tari (ma anche cul­tu­rali) di soprav­vi­venza, ecc, ecc.

Ma quel che non può fare, e che secondo me non farà (spero che non fac­cia), è con­di­vi­dere la logica che ci viene impo­sta con pre­po­tenza sem­pre mag­giore. «Que­sta» poli­tica non ci appar­tiene, non è la nostra, non la con­di­vi­diamo, né da una parte né dall’altra. Siamo troppo vec­chi, o troppo gio­vani, per non spe­rare d’incontrare qual­cosa di diverso. La strada è, sarà lunga: ma di certo è, sarà diversa.

postilla
Asor Rosa sembra subire anche lui il clima che la mediocrazia ha creato attorno alle elezioni per il parlamento europeo. Per la grande informazione questo evento politico ha come suo centro l'Italia, non l'Europa; sul palcoscenico ci sono solo due attori: Renzi e Grillo. Allora, - sembra affermare Asor Rosa- se si vuole combattere il comico demagogo non c'è che appoggiare il PD di Renzi, se si vuole combattere il Renzi e il renzismo non c'è che da allearsi con Grillo.
Se la mia sintesi non è troppo infedele e se questo fosse il succo dell'articolo di Asor Rosa allora forse bisognerebbe esaminare un po' più a fondo sia Grillo e il suo movimento sia Renzi e il PD. Se si approfondisse o l'analisi forse si giungerebbe a condividere le parole di Barbara Spinelli, su cui Asor Rosa invece ironizza, deprecandole. Per guardare alle cose così come stanno alcune distinzioni sono essenziali. Io, ad esempio, penso che occorra distinguere tra la figura di Grillo, che anche a me fa paura, e le persone che oggi lo seguono. Per molte di loro ho personalmente lo stesso rispetto e la stessa condivisioni che ho per molti degli attuali militanti del partito oggi guidato (comandato) dall'asfaltatore Renzi.
Mi considero anch'io, come Asor Rosa, un "rosso-verde". Ma nel PD renziano di "rosso" ne vedo solo qualche pallido residuo, e invece del "verde" vedo il grigio-nero del cemento e dell'asfalto. Nel movimento di Grillo, se mi turba l'ombra del nero, non perderei nè perdo l'occasione di collaborare con quanto di "verde" (e non è poco) vi abita. Poichè poi preferisco parlare di parlamenti e non di duci e ducetti, non escludo affatto di collaborare (se per caso dovessi essere eletto nel Parlamento europeo) con i grillini che vi fossero eletti, come con i piddini (si dice così?) che vi arriveranno. Come con chiunque altro eletto che dimostrerà di voler difendere l'ambiente, il lavoro e (non dimentichiamolo) la democrazia minacciata, mi sembra, dall'una parte e dall'altra.(e.s.)

«Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2014

Nel derby entomologico (copyright di Aldo Grasso) della televisione italiana, la maggioranza delle osservazioni e delle paure si addensano intorno a Grillo. Laddove non mi pare vi sia alcun dubbio che ad oggi sia stato Vespa a fare incalcolabilmente più danni alla democrazia italiana. E anche per il futuro, a me fa più paura Vespa di Grillo: se non altro per la sua mostruosa abilità nell'imporre l'ordine del giorno del potere alla (maggioritaria) parte fossile dell'opinione pubblica. Qui rileva l'articolo che Vespa ha dedicato alle soprintendenze sul Quotidiano Nazionale del 3 maggio scorso: eloquente fin dal titolo, “Il mostro burocratico”. Non sazio della lode (“Matteo Renzi ha deciso un ragionevole accorpamento delle soprintendenze in modo da ridurre il numero di referenti con cui discutere”), come una geisha del potere dalla sensitività sovrumana, Vespa precede i più innominabili desideri del giovane premier: “Ma saranno disciplinati anche i loro poteri? E i tempi entro i quali esercitarli? Il problema della burocrazia italiana è infatti il sovraffollamento di uffici”. Con un turnover bloccato da decenni, organici al lumicino e nessun mezzo, il problema delle soprintendenze è proprio l'affollamento. E i temibili poteri sarebbero le pistole ad acqua con cui i soprintendenti arginano le lobbies del cemento, armate di missili terra-aria.

Segue un inno alla mercificazione che fa sembrare Tremonti un francescano: “Il manager dei musei immaginato da Renzi avrà le mani libere nel vendere il prodotto cultura o dovrà scontrarsi ogni giorno con un rispettabile architetto o critico che sa tutto di un’opera d’arte, ma non riesce a cavarne un centesimo?”.

Maniliberismo, ecco il nome del renzismo da grande. E il giovane e vergine Bruno Vespa è proprio il più indicato menestrello di questo stilnovo. Spettacolare l'inizio dell'articolo: “Dopo aver imposto il prestito di alcuni pezzi eccezionali del Rinascimento italiano per una grande mostra a Londra negli anni Trenta, Benito Mussolini disse che avrebbe preferito farsi cavare tutti i denti piuttosto che discutere ancora una volta con i soprintendenti. Ed era Mussolini”. Niente in confronto a Renzi.

Le proposte delle associazioni e delle organizzazioni del volontariato. Campagna promossaa dal Gruppo Abele e da Libera Associazioni nomi e numeri contro le mafie

Dalla fine degli anni ’70 ad oggi la distanza tra ricchi e poveri è tornata a crescere in maniera grave, invertendo il trend di inizio ‘900 quando in Europa la quota della ricchezza nazionale posseduta dall’uno per cento più ricco era diminuita a favore dei ceti popolari.

La ridistribuzione della ricchezza è ferma da oltre 30 anni ed oggi la crisi, iniziata proprio a causa dell’aumento delle diseguaglianze, ha raggiunto nel nostro continente livelli senza precedenti. Secondo Eurostat nel 2012 circa 124,5 milioni di persone, il 24,8% dei 28 Paesi della UE, sono state minacciate dalla povertà e dall’esclusione sociale, definizione che comprende sia la povertà relativa che quella assoluta. Nel 2008 la cifra era del 17%. Di questo passo nei prossimi 10 anni avremo 15/25 milioni di esseri umani in più che nel nostro continente saranno costretti a vivere nell’indigenza. Le ong denunciano come in Europa già oggi siano 30 milioni i bambini in povertà, mentre l’Italia detiene la maglia nera con 1 milione di minori poveri ed un rischio per chi nasce nel nostro paese del 32,3%. L’Italia, dopo la Grecia, occupa nella classifica UE la posizione peggiore per la percentuale di popolazione a rischio povertà ed esclusione sociale, salita purtroppo al 30%.
Dal 2008 al 2012 la povertà assoluta è addirittura raddoppiata, passando da 2,4 a 4,8 milioni. Le differenze economiche hanno accresciuto le differenze sociali e culturali, facendo diventare l’Italia il paese con la più alta percentuale europea di dispersione scolastica: 18,2%, con picchi nelle regioni meridionali anche del 25%. Il 63% delle famiglie ha ridotto i consumi alimentari ed il 40% vive una condizione di deprivazione materiale, considerata “grave” per il 25% dei nuclei familiari italiani. Sono aumentati a 50 mila unità il numero dei senza fissa dimora, mentre cresce il numero dei suicidi. I crimini contro l’ambiente sono saliti a 93,5 ogni giorno, segnando un incremento del 176% negli ultimi tre anni secondo l’ultimo rapporto sulle ecomafie. L’Europa affronta allo stesso tempo una crisi occupazionale senza precedenti. Sono 27 milioni i disoccupati e l’Italia registra una delle situazioni peggiori con il 12,7% di disoccupazione, tra i giovani sopra il 43%. A questi dobbiamo aggiungere 3,2 milioni di lavoratori considerati “working poors”, 2,8 milioni di Neet e 4 milioni di precari. Dal 2008 l’Italia ha perso il 25% di capacità produttiva. In una situazione di crisi così violenta sono le mafie a trarre grandi benefici. Europol ha censito 3600 organizzazioni criminali attive in tutta Europa, mentre la CE ha stimato in 120 miliardi di euro l’impatto della corruzione. Le organizzazioni criminali vedono accrescere il loro potere attraverso usura e riciclaggio, favorite dalla crisi di liquidità, dal credit crunch, dalla frammentazione sociale e dalla perdita di fiducia nelle istituzioni rappresentative. In un contesto così fragile, impoverito, precario ed in cui la cultura ha smesso di essere elemento centrale, soprattutto nel nostro paese, per la crescita complessiva dell’etica pubblica, la corruzione e la mafiosità sono in grande aumento.

L’aggravarsi delle condizioni economico, sociali, ambientali e culturali sono conseguenza di politiche economiche sbagliate. Le politiche scelte non solo non hanno saputo contrastare la crisi prodotta dall’aumento delle diseguaglianze ma si sono mostrate addirittura controproducenti nel fronteggiare la crisi bancaria e finanziaria esplosa nel 2008 a causa di una finanza ipertrofica e speculativa a cui non sono state imposte regole e sanzioni. Le cosiddette politiche di austerity messe in campo hanno fallito e continuano ad avere un costo altissimo in termini sociali, minacciando il futuro dell’unità europea. Queste politiche, dai piani di austerità, al pareggio di bilancio, ai vincoli esterni imposti alle politiche pubbliche, sino al trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance che comprende il fiscal compact, riducono l’intervento pubblico e la possibilità di manovre fiscali per il rilancio dell’economia, pongono limiti alla spesa pubblica ed alla politica della domanda, tagliano la spesa sociale, chiedono minori imposte per le fasce di reddito più alte e premono per ridurre le tutele del lavoro, dei salari e dell’ambiente. I nemici dell’Europa, e di conseguenza del nostro paese, sono oggi l’austerity, la povertà, l’esclusione sociale, la disoccupazione, la corruzione e le mafie. Sono questi fenomeni che stanno consentendo ai germi del razzismo, del nazionalismo e del populismo di prosperare.

Alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2014 l’Europa è colpita da stagnazione economica, da disuguaglianze sempre più gravi, dal crescente divario tra paesi del centro e della periferia, dai germi del razzismo e dall’aumento di ingiustizia sociali ed ambientali di cui sono vittime soprattutto ceti medi e popolari. La democrazia viene sensibilmente ridotta a livello nazionale ma non viene sviluppata a livello europeo. Siamo davanti ad una crisi strutturale e sistemica che non può essere affrontata e gestita da un potere troppo concentrato nelle mani di istituzioni tecnocratiche e non elettive che finiscono per rispondere agli interessi di quelle elite economiche e finanziarie che con la crisi si sono invece arricchite. Questa non è l’Europa immaginata decenni fa come uno spazio di integrazione economica e politica, libera dalla guerra, fondata sul progresso sociale, l’estensione della democrazia, dei diritti e del welfare.

Come cittadini e cittadine europee abbiamo il diritto e la responsabilità di lavorare per un’Europa che riaffermi e rilanci il suo impegno per il rafforzamento ed il rilancio della democrazia, della giustizia sociale ed ambientale, delle politiche sociali, della solidarietà e della cooperazione tra i popoli. Vogliamo un’Europa più forte e coesa per affrontare la crisi, cogliendone le opportunità di trasformazione in positivo. Dopo 9 mesi di lavoro condotto dalla campagna Miseria Ladra in più di 100 città del nostro paese, centinaia di realtà del sociale e del volontariato laico e cattolico hanno deciso di camminare insieme, per offrire al dibattito pubblico ed agli amministratori le nostre proposte per combattere nella nostra Europa la povertà, l’esclusione sociale ed ambientale e la disoccupazione. Proposte frutto di un’elaborazione e di un’esperienza collettiva che fanno della partecipazione e del metodo condiviso valori e pratiche indispensabili per rispondere alla crisi.

1- Stop all’austerity

Le politiche fiscali restrittive dell’Unione europea – in particolare il Fiscal Compact e il Patto di stabilità e crescita – devono essere abbandonate. Le regole di bilancio devono essere cambiate e l’obiettivo di un “pareggio strutturale” per i bilanci pubblici deve essere sostituito da una strategia economica coordinata che permetta agli stati membri di attuare le politiche fiscali che sono necessarie per uscire dalla crisi. Senza un forte stimolo della domanda non ci può essere via d’uscita dall’attuale stagnazione. Un piano di investimenti pubblici europei è necessario per ricostruire attività economiche che siano sostenibili e capaci di offrire buoni posti di lavoro. Queste misure dovrebbero essere al centro di una nuova politica industriale in Europa, orientata verso la trasformazione ecologica e sociale del nostro modello economico, con una drastica riduzione nei consumi di energie non rinnovabili. A tal fine,

Chiediamo:
- un programma di investimenti pubblici per la transizione ecologica, finanziati a livello europeo attraverso la Banca europea per gli investimenti (Bei)

2- Per una finanza pubblica e non speculativa

Di fronte al rischio di deflazione - e al circolo vizioso di politiche restrittive, depressione e concorrenza al ribasso sui salari – la politica monetaria dell’eurozona deve cambiare radicalmente, riportando l’inflazione almeno al livello del 2%. Il problema del debito pubblico deve essere risolto attraverso una responsabilità comune dell’eurozona e con la ristrutturazione del debito. Gli eurobond devono essere introdotti non solo per rifinanziare il debito pubblico degli stati membri, ma anche per finanziare la conversione ecologica dell’economia europea. Allo stesso tempo bisogna mettere davvero un freno allo strapotere della finanza. Le regole previste dall’Unione bancaria non affrontano i difetti strutturali e la fragilità di fondo del sistema finanziario.

Chiediamo:
- la Banca centrale europea (Bce) deve fornire liquidità per realizzare politiche espansive e diventare prestatore di ultima istanza per i titoli pubblici;
- il radicale ridimensionamento del settore finanziario, con una tassa sulle transazioni finanziarie, l’eliminazione della finanza speculativa e il controllo dei movimenti di capitale;
- regole stringenti che vietino le attività finanziarie più speculative e rischiose, introducendo una netta divisione tra banche commerciali e banche d’investimento. I problemi dei centri finanziari offshore e dei paradisi fiscali all’interno dell’Unione europea devono essere risolti attraverso l’armonizzazione fiscale e regole più severe;

3- Welfare: dovere etico e leva per il rilancio dell’economia

Politiche di welfare in Europa

Qualsiasi ragionamento sulla costruzione di politiche sociali omogenee per l’Europa chiama in causa il ripensamento dei trattati europei fin qui sottoscritti. Infatti a tutt’oggi non è prevista una funzione deliberante e vincolante degli indirizzi dell’UE in materia di politiche sociali. Di fronte all’enorme disparità di trattamento e al mancato riconoscimento dei diritti sociali nei diversi stati, la UE dovrebbe intervenire con un nuovo trattato sulle politiche sociali con la definizione di una dotazione di risorse certe in grado di intervenire adeguatamente in questa materia.

Se invece passiamo al confronto degli ultimi dati Eurostat disponibili della spesa sociale a parità di potere d’acquisto, emerge come la spesa sociale per abitante in Italia sia tra le più basse, pari al 91,9% del corrispondente valore medio della UE a 15, all’80,5% di quella tedesca, all’80,3% di quella francese. Il termini monetari il valore italiano era pari a 7.486 euro mentre nella UE a 15 il valore corrispondente medio era 8.150. Se analizziamo la spesa sociale per abitante, era pari nel 2001 a 6.050 euro e nel 2011 si è portata a 6.855 con un incremento del 13,3%. Nella UE a 15 il tasso di incremento è stato invece del 17,8%, nettamente più alto. In Spagna addirittura del 36,5%, in Francia del 21,1%, in Svezia del 15,9%.

Se analizziamo la spesa pubblica procapite per sanità, istruzione, servizi sociali e casa, emerge come l’Italia sia ai livelli più bassi. Sanità: la spesa pubblica pro capite è cresciuta tra il ’90 ed il 2009 del 37% a fronte di un +79% della media UE, rimanendo la spesa pubblica pro capite fra le più basse d’Europa. Istruzione: la spesa pubblica pro capite è cresciuta del 15% fra il 1999 ed il 2008 a fronte di una crescita media UE del 25%. Servizi sociali e Casa: siamo ai minimi europei.

Occorre dunque incrementare e di molto la spesa sociale in senso stretto, spesa per le famiglie, per l’invalidità, per la casa, per contrastare l’esclusione sociale a tutto campo. Questo significa incrementare i servizi, piuttosto che i soli trasferimenti.

Per evitare una riproposizione di interventi a carattere puramente assistenziale, compresa l’erogazione diretta di un risarcimento monetario, riteniamo che tutti gli interventi di politiche sociali debbano rispondere: al superamento degli interventi assistenziali con politiche centrate allo sviluppo di un welfare “generativo”; alla sollecitazione e sostengo a diffusi livelli di partecipazione e protagonismo dei cittadini e degli stessi beneficiari degli interventi sociali; alla centralità della programmazione degli interventi da parte degli enti locali e di prossimità e progettazione partecipata dei servizi e interventi a livello locale con il contributo attivo delle forme organizzate formali e informali della società civile; alla integrazione dei servizi e aree di intervento (sociale sanitario, lavoro, formazione, ambiente); al sostengo e diffusione di un’economia responsabile, sociale e solidaristica.

Chiediamo:
- obbligo di ri-allineamento della spesa per il Welfare alla media dei paesi dell’Unione, colmando lo scarto esistente tra il nostro paese con gli altri paesi europei, considerando che l’Italia risulta agli ultimi posti riguardo la dotazione di spesa per i servizi sociali;
- definizione vincolante dei Livelli Essenziali di Assistenza europei, elemento fondamentale per garantire una discreta omogeneità di interventi e garanzie di diritti sociali in tutta l’area UE;
- approvazione di misure per favorire e sostenere lo sviluppo della cooperazione sociale e le altre forme di iniziativa che sappiano costruire percorsi di inclusione sociale rispettose delle persone e dell’ambiente.

Libera il welfare attraverso i beni confiscati

Le mafie sono oggi in Europa un fenomeno in espansione. Le stime ufficiali del SOCTA e del CRIM denunciano 3600 Clan operativi all'interno dell'Unione Europea, di cui il 70% ha una composizione geograficamente eterogenea e più del 30% ha una vocazione policriminale. Un potere economico enorme che ben più di altri ha saputo approfittare delle crescenti interconnessioni delle economie europee e dell’aumento della povertà e dell’esclusione sociale. Le misure patrimoniali, forse ancor di più delle misure di detenzione, sono lo strumento e insieme la politica antimafia più efficace, quella che colpisce le organizzazioni criminali nel loro obiettivo primario: l'accumulazione di denaro, ricchezza, profitti. Ma sono anche molto di più di questo, rappresentando la finalità sociale un’opportunità per generare nuovo welfare. In Italia in questi anni hanno rappresentato opportunità di lavoro, luoghi relazione e partecipazione civile, centri di accoglienza, di servizi alla persona, luoghi di solidarietà. In questo senso riteniamo la Direttiva sul congelamento e la confisca dei proventi di reato alla criminalità organizzata, approvata lo scorso febbraio 2014 dal PE, un sicuro passo in avanti verso un'armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri.

Riteniamo sia fondamentale uno scatto ulteriore che consenta di segnare il passo con misure all'avanguardia. Sono ancora numerosi i margini di avanzamento e di innovazione che possono essere prodotti in tema di confisca dei beni e riutilizzo sociale.

Chiediamo:

- il riutilizzo sociale dei beni confiscati; il riutilizzo sociale è oggi solo una possibilità prevista dalla Direttiva. Molto può ancora essere fatto nei 30 mesi in cui ogni Stato Membro recepirà nel proprio ordinamento interno le disposizioni della Direttiva. Chiediamo che si agisca immediatamente, rendendo davvero possibile la destinazione sociale dei beni confiscati. In un periodo di grande crisi, i beni confiscati rappresentano uno strumento di coesione sociale da non lasciarsi sfuggire;
- la confisca dei beni ai corrotti; la confisca dei beni per i reati di corruzione e contro la pubblica amministrazione può generare nuove, importanti risorse da investire nell'innovazione sociale. La crisi si combatte non con misure di austerità, ma contrastando innanzitutto la corruzione e la capacità delle mafie, attraverso questa, di generare ulteriori disuguaglianze, povertà, perdita di competitività in ogni settore delle nostre economie, incidendo non solo sull'economia e la ricchezza di un territorio, ma sull'etica pubblica, sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni e sulle prospettive di sviluppo;
- risorse e progetti per il riutilizzo sociale; investire sui beni confiscati significa dedicare risorse all'inclusione sociale, al contrasto alla povertà, alla promozione della legalità, ad opportunità di sviluppo e di lavoro. Significa contrastare la corruzione favorendo partecipazione e protagonismo di cittadini e giovani. E' perciò importante che percorsi di questo genere trovino sempre più spazio attraverso le linee di finanziamento. Tante le esperienze finora realizzate, ad esempio in Italia, attraverso l'utilizzo di fondi FESR per la ristrutturazione o la realizzazione di progettualità sui beni confiscati. Ancora molte altre possono essere le strade da percorrere. Lotta alla disoccupazione, inclusione sociale, uguaglianza di genere ed innovazione sociale sono tra le priorità del FSE per il a partire dal 2014, e possono trovare, proprio nel riutilizzo sociale dei beni confiscati, un importante strumento di azione e partecipazione;
- estensione delle possibilità di confisca: a partire dal mutuo riconoscimento delle decisioni definitive di confisca, rimasto mai pienamente attuato a partire dalla decisione 2006/783/GAI, occorre incrementare le possibilità di azione, pur nel rispetto dei diritti fondamentali, sui patrimoni delle mafie, a partire dalla confisca “estesa” ed alla confisca in assenza di condanna definitiva. La rapidità dell'azione contro la potenza economica della criminalità rimane ancora un aspetto cruciale per garantire efficacia verso il riutilizzo sociale.

4- Un reddito minimo per una vita dignitosa

Dal 1992 in Europa, Parlamento e Consiglio invitano gli Stati membri ad individuare misure concrete che sradichino la povertà. Le Istituzioni europee chiedono con la cosiddetta “Raccomandazione sul reddito minimo” che si “compiano progressi reali nell'ambito dell'adeguatezza dei regimi di reddito minimo, affinché essi siano in grado di sottrarre ogni bambino, adulto e anziano alla povertà e garantire loro il diritto a una vita dignitosa”. Con la Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010, viene riconosciuto il ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva. Noi, aderenti alla Campagna Miseria Ladra chiediamo l’impegno dei candidati italiani a lavorare per una “Direttiva europea per un reddito minimo” che garantisca una vita dignitosa alle persone che vivono sotto la soglia di povertà. Che garantisca il diritto a vivere una vita dignitosa anche per coloro che in un dato momento della loro vita, per circostanze non volute, si trovano ad essere in una situazione di povertà e rischiano di essere esclusi definitivamente dalla società.

Chiediamo:
- un impegno affinché parta dal prossimo Parlamento europeo la spinta verso una misura vincolante per tutti gli Stati membri, con uno standard minimo riconosciuto al 60% del reddito mediano in ciascun paese a livello individuale.

5- Un'istruzione pubblica, gratuita e di qualità a livello europeo


In questi anni mentre Belgio, Lettonia, Romania, Slovacchia, Svezia, Islanda e Austria hanno aumentato la spesa in istruzione dall’1% al 5%, nei paesi ad elevato debito pubblico, i PIIGS (Portagallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), nei paesi dell’est e anche nel Regno Unito, il Patto di stabilità e crescita ha imposto e incentivato tagli lineari ai servizi pubblici, scuole e università in primis. Un’Europa a due velocità dunque. Infatti nei paesi del “sud” ci sono stati ingenti tagli dei finanziamenti che hanno prodotto un decremento delle risorse disponibili per le borse di studio, una restrizione del numero dei beneficiari, un aumento dei costi dei trasporti e più in generale di tutti i servizi e le prestazioni erogati. L’Italia ad oggi investe il 4,2% del PIL in istruzione, la Danimarca il doppio. E' una disparità insostenibile di cui l'Unione Europea dovrebbe farsi carico. Noi pensiamo che investire sia una priorità e che l'UE debba giocare un ruolo centrale per incentivare e incrementare le risorse su scuole, università e ricerca. La società della conoscenza deve essere costruita investendo sulla qualità dei percorsi formativi e garantendone l’accesso a tutti, non rendendoli sempre più elitari.

Chiediamo:
- l'innalzamento degli investimenti in istruzione e ricerca fino all'8% del PIL con forme di controllo e aiuto nei confronti dei paesi svantaggiati indirizzando al megio i FSE e i FESR;
- la gratuità dell'istruzione di ogni ordine e grado per consentirne a tutti e tutte l'accesso e ridurre i tassi di dispersione, aumentare il numero di laureati e incrementare il livello culturale dell'intera Unione Europea;
- estensione a livello continentale delle politiche di Diritto allo Studio che garantiscano il diritto all'abitare, alla salute e alla mobilità anche agli studenti fuori sede e agli studenti stranieri. L'UE deve quindi dotarsi di Livelli Essenziali delle Prestazioni a livello continentale.

6- Patrimonio Bene Comune

Ex aree militari, vecchi cinema e teatri, scuole chiuse, ex depositi, terre incolte, ex fabbriche, fondi rustici e casali sono esempi di patrimonio pubblico e privato abbandonato che, per effetto delle progressive trasformazioni urbane e della speculazione edilizia che in modi, con intensità e tempi diversi ha coinvolto i Paesi Europei, è stato svuotato dalle sue attività, sottraendo alla collettività spazi precedentemente utilizzati. Disperdendo via via la loro funzione originaria e restando vuoti, questi stabili disattendono la funzione sociale della proprietà. Il riprodursi di tale fenomeno di residualità immobiliare, traendo origine dal mutare delle esigenze del ciclo produttivo/riproduttivo, si colloca nel più generale contesto dell’attuale modello economico che governa l’Europa e si esprime nelle politiche di austerità e di privatizzazione. Questo modello propone i processi di alienazione del patrimonio pubblico per ridurre il debito e come strada per liberare l’amministrazione dagli obblighi di gestione del patrimonio, trasferendo la proprietà dei beni pubblici ai grandi interessi privati, assicurando solo a questi ultimi cospicui guadagni. Eppure, mai come in questi anni di recessione economica, in cui esclusione sociale, negazione del diritto allo studio, precarietà e impoverimento sono in rapida ascesa, il recupero degli spazi inutilizzati è un pezzo di risposta - assai concreta - alla crisi che viviamo, un’occasione irripetibile per creare lavoro e cultura, per soddisfare bisogni e diritti. In tali spazi abbandonati potrebbero trovare accoglienza la crescente domanda del disagio abitativo, nonché quell’insieme di soggetti comunitari e associativi che assicurerebbero la fornitura di servizi necessari alla cittadinanza. In questi stabili si potrebbero sperimentare forme nuove di democrazia partecipata che superino la tendenza politica in atto, la cosiddetta valorizzazione economica, ma sarebbe meglio definirla svalutazione, in favore di una valorizzare sociale. Questi edifici da rigenerare potrebbero essere gli Spazi della cittadinanza europea, dell’incontro interculturale e della promozione dei valori europei.

Chiediamo:
- il censimento del patrimonio abbandonato pubblico e privato;
- l’istituzione di una banca dati pubblica europea del patrimonio immobiliare pubblico e privato inutilizzato, in continuo aggiornamento, nella quale confluiscano gli immobili privi di destinazione, per assicurare ai cittadini corrette informazioni, trasparenza, partecipazione e per incoraggiare la sinergia tra partner diversi per la co-progettazione;
- la promozione di forme di riutilizzo proposte dai gruppi di cittadini attivi europei attraverso l’utilizzo di Fondi strutturali europei.

7- Migranti: l’Europa sono anche Io!

L'Europa che immaginiamo è uno spazio culturale aperto, con un'identità plurale e dinamica, capace di fondare le relazioni tra gli stati membri e con i paesi terzi sul reciproco rispetto, sul riconoscimento delle specifiche diversità culturali, sulla promozione delle libertà e dei diritti fondamentali, sul mantenimento della pace tra i popoli, sulla garanzia del principio di eguaglianza, sul rifiuto di ogni forma di discriminazione, sul ripudio della xenofobia e del razzismo. Nell’UE risiedono 32,9 milioni di migranti che rappresentano il 7% della popolazione, pari a 503 milioni. Nell'attuale fase di crisi economica e sociale è importante che l'Unione Europea rafforzi il proprio impegno nella lotta a tutte le forme di xenofobia e di razzismo combattendo ogni forma di discriminazione legata all'origine nazionale, ai tratti somatici, alla lingua, alla religione, alle diversità culturali reali o presunte. La crescita di movimenti nazionalisti, populisti e xenofobi che utilizzano strumentalmente il tema delle migrazioni per accrescere il proprio consenso presso l'opinione pubblica rappresenta un pericolo per la costruzione di un'Europa democratica, solidale, coesa e di pace.

Chiediamo:
- la ratifica della Convenzione dell'ONU del 18/12/1990 "sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie";
- la garanzia del diritto di voto ai migranti residenti per le elezioni amministrative ed europee ed il riconoscimento della cittadinanza europea, armonizzando le leggi nazionali;
- la garanzia del diritto di accesso legale in Europa per ricerca di lavoro e per richiedere la protezione internazionale;
- l’abolizione dei centri di detenzione e la fine del diritto speciale per i migranti;
- di garantire la parità di accesso ai sistemi di welfare e al mondo del lavoro, combattendo con azioni concrete la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento lavorativo;
- la tutela dei diritti dei minori, garantendo la loro inespellibità, senza alcuna limitazione alla libertà personale.

«La tesi di chi sostiene un’uscita dell’Italia dall’euro è che in questo modo le aziende italiane potrebbero esportare di più grazie a una svalutazione della nuova lira. Ma è un’analisi che guarda al mondo di oggi con strumenti analitici del secolo scorso».

Lavoce.info, 20 maggio 2014 (m.p.r.)

Il mondo cambia. Negli ultimi giorni di campagna elettorale per le elezioni europee, continua vivace il dibattito sui costi e i benefici che l’Italia ha avuto dalla moneta unica, con posizioni divise tra chi ritiene che il nostro paese abbia sofferto oltre modo nell’euro a causa delle sue ancora irrisolte debolezze strutturali, e chi invece ritiene che la moneta unica sia la principale causa dei nostri mali. La tesi sostenuta da chi auspica un ritorno alla lira è molto semplice: “se tornassimo padroni della nostra moneta, potremmo monetizzare il nostro debito e compiere svalutazioni competitive per stimolare la domanda dei nostri beni da parte dei mercati esteri”.

Al di là dei costi associati all’uscita dalla moneta unica, su cui molti si sono espressi, quello che non convince di queste argomentazioni è (anche) la parte legata ai benefici. (1) Certo, storicamente svalutazioni competitive sono state associate in diversi paesi a guadagni di crescita, ma il punto è proprio questo: “storicamente”. Negli ultimi anni, e anche tenendo conto della crisi, la produzione si è frammentata internazionalmente, con flussi di commercio di beni intermedi tra paesi, organizzati (prevalentemente) dalle imprese multinazionali nell’ambito di catene globali del valore (o global value chains, Gvc). Per dare un’idea del fenomeno, l’Unctad stima che l’80 per cento del commercio globale (in termini di esportazioni lorde) sia oggi in qualche modo connesso a transazioni in cui almeno una delle controparti è un’impresa multinazionale che organizza una global value chain. (2)Ne consegue che l’esportazione “diretta” di beni e servizi sul mercato legata a un vantaggio di prezzo, ossia quella modalità di commercio cui le svalutazioni competitive danno beneficio e che viene “storicamente” registrata dalla letteratura economica, è probabilmente molto meno importante di prima.

Esportazioni e tasso di cambio oggi.Per capire come questa modalità di organizzazione della produzione possa attenuare di molto i benefici teorici delle svalutazioni competitive, prendiamo per esempio lo spazzolino da denti prodotto da una nota multinazionale europea e assemblato con componenti che provengono da siti produttivi localizzati in dieci diversi paesi (con dieci valute diverse), in tre continenti. Che ruolo avrebbe il tasso di cambio dell’euro nel determinare, da solo, la competitività del prodotto? Immaginando che sia assemblato fuori dall’Europa, per produrre il più vicino possibile al mercato di riferimento, come accade peraltro per la gran parte della produzione di automobili tedesche vendute in Asia, cosa c’entrerebbe l’euro con il successo di queste aziende?

In generale, la letteratura economica che ha analizzato questi effetti limitandosi all’evidenza degli ultimi anni, ossia da quando le catene globali del valore hanno un impatto significativo sui flussi di commercio, suggerisce che non esiste una relazione statisticamente forte tra profitti delle aziende e livello dei tassi di cambio, né questa relazione sembra differenziarsi, come dovrebbe, tra settori esposti alla concorrenza internazionale (il manifatturiero in generale) e settori che per loro caratteristica (come i servizi alla persona) restano locali. (3)

Effetti per l'italia. Ma come si posiziona l’Italia rispetto a queste dinamiche? Per rispondere, possiamo guardare ai dati recentemente pubblicati dall’Oecd che fanno vedere come l’importanza dei diversi mercati di esportazione del nostro paese cambia se distinguiamo tra esportazioni lorde (ossia dove vanno fisicamente i nostri beni quando escono dai confini nazionali) ed esportazioni in valore aggiunto (ossia quale domanda viene servita dai nostri beni quando escono dai confini nazionali, ma entrano nella produzione di beni di altri paesi prima di essere consumati). Come si può vedere dai grafici sottostanti, quello che emerge è che la Germania è di gran lunga al primo posto come mercato di sbocco delle nostre esportazioni (lorde). Ma se guardiamo al principale mercato dalla cui domanda dipendono le nostre esportazioni, scopriamo che è quello degli Stati Uniti. (4)

Se ne deduce che l’Italia esporta beni “direttamente” alla Germania, ma “indirettamente” esporta componenti che entrano in prodotti che poi la Germania vende agli USA. (5) L’evidenza è peraltro coerente con il dato che, a livello mondiale, vede l’Europa come il mercato in cui maggiormente si è integrata la produzione regionale tra paesi, Italia inclusa.

Cosa succederebbe, allora, se applicassimo questa realtà a un sistema di monete locali e non di moneta comune, ipotizzando una svalutazione della lira, ma non dell’euro tedesco? Innanzitutto, per la parte di esportazione “diretta”, potremmo in teoria vendere di più. Tuttavia, oggi l’80 per cento del commercio internazionale di beni avviene attraverso le catene globali del valore, e mentre uscire da una value chain è facile, entrarci è difficile, perché i costi fissi di chi importa input sono alti, l’efficienza richiesta a chi esporta è elevata e, in generale, prima di modificare la struttura di una catena del valore ci si pensa seriamente. Non basta quindi costare di meno per essere automaticamente ammessi al desco della produzione internazionale di beni, e d’altra parte i ritardi strutturali dell’economia italiana, con un sistema di imprese ancora in parte piccolo, sottocapitalizzato e meno efficiente rispetto ai concorrenti internazionali, resterebbero immutati.

Inoltre, i dati disponibili dimostrano come esista una relazione positiva e statisticamente significativa tra variazione della quota di mercato delle nostre esportazioni in un dato settore e la variazione (ritardata) della quantità di beni esteri che quel settore utilizza per l’esportazione: in sintesi, al giorno d’oggi per esportare di più è necessario importare di più. E dunque svalutare in un sistema di Gvc, oltre a non garantire necessariamente maggiori vendite, si tradurrebbe sicuramente anche in un costo per le nostre imprese.

Per quel che riguarda l’esportazione “indiretta” (che pesa per oltre il 20 per cento dell’export italiano), bisogna chiederci cosa succederebbe alla domanda americana di beni tedeschi, da cui in ultima analisi dipende parte della domanda tedesca di beni italiani. Agli occhi americani tutto quello che conta è il prezzo dei beni tedeschi, che a quel punto dipenderà dalla competitività delle imprese tedesche (che noi non controlliamo) e dal tasso di cambio euro tedesco–dollaro, che oggi in parte controlliamo attraverso la Bce, ma che domani, uscendo dall’euro, non controlleremmo più. Con una svalutazione della nuova lira, se decidessero di non modificare i loro prezzi, le imprese tedesche pagherebbero sicuramente meno la stessa quantità di beni italiani, facendo profitti maggiori, senza che per questo le imprese italiane vendano di più alla Germania, poiché la domanda americana dei prodotti tedeschi non varia. In compenso le aziende italiane, senza vendere di più, pagherebbero comunque di più le importazioni di materie prime comunque necessarie per produrre gli input da vendere alla Germania.

Dunque, un’uscita dell’Italia dall’euro rischia di avere come risultato profitti che salgono in Germania e che scendono in Italia: sono queste le conseguenze se si guarda al mondo di oggi con gli strumenti analitici del secolo scorso.

(1) Si veda in particolare A. Baglioni “Uscire dall’euro? No, grazie”, e C. Altomonte e T. Sonno, “L’Italia alla sfida dell’euro”, www.sfidaeuro.it.
(2)Unctad, “Global Value Chains and Development, Investment and Value Added Trade in the Global Economy”, 2013
(3) M. Amiti, J. Konings e O. Itskhokiin “Importers, Exporters, and Exchange Rate Disconnect” del 2012, dimostrano che le grandi imprese esportatrici (importatrici) sono decisamente poco influenzate dai cambiamenti nei tassi di cambio. Nello specifico, gli autori mostrano come le aziende connesse internazionalmente sono in grado di assorbire in maniera indolore quasi il 50 per cento della eventuale variazione di cambio. Poiché in ogni paese le grandi aziende esportatrici rappresentano circa il 70-80 per cento del valore delle esportazioni, di fatto oggi abbiamo una situazione per cui una gran parte dell’export di uno stato europeo è in realtà parzialmente isolato dall’effetto del tasso di cambio.
(4) Per una distinzione tra esportazioni lorde ed esportazioni in valore aggiunto, e una completa analisi di queste dinamiche sull’export italiano si veda R. Cappariello e A. Felettigh “How does foreign demand activate domestic value added? A dashboard for the Italian economy”, mimeo.
(5) Tutte queste informazioni e i dati sono liberamente scaricabili dal sito dell’Oecd.

Eccezionale! Il giornale fondato da Eugenio Scalfari scopre che alle elezioni europee partecipa anche Alexis Tsipras, e non solo Renzi e Grillo. E si accorge perfino che il leader della lista europea "L'altra Europa" non è trinariciuto. La Repubblica, 20 maggio 2014

Gli studenti della Statale a Milano, gli operai senza lavoro a Torino e il bagno di folla e musica in piazza Maggiore a Bologna. Per un giorno Alexis Tsipras è stato, anche fisicamente, il leader della sinistra italiana. Si è mosso - sempre in treno - come un capo nostrano scortato dalle sue truppe. Foto ricordo, autografi, pugni chiusi. 24 ore per dire che “L’altra Europa”, quella che non strangola i cittadini con le politiche cieche di austerity, è possibile. Ha 39 anni, è greco, parla inglese. E’ moderato nel linguaggio (ma solo i toni), sorridente, anche ironico. Per esempio quando gli chiedono se la buona affermazione in Grecia di Syriza, il suo partito, può far da volano alle sorti meno entusiasmanti della sinistra italiana. Lui risponde: «Una faccia una razza». Se Atene si tira su, può succedere anche a Roma.
Nel corso di tutta la campagna elettorale in tanti hanno pronunciato il suo nome senza conoscerlo. Ieri terza missione in Italia, l’ultima prima del voto. Eccolo il candidato presidente alla commissione europea. Parla a Milano, davanti alla Statale. E spiega che lui non è Grillo, non vuole la distruzione dell’euro: «L’euro è uno strumento per cambiare le nostre vite, una moneta comune in un’Europa in cui non ci devono essere proprietari e inquilini». Dice: «Non ho i capelli e la barba di Grillo». Cioè sono diverso: «Non basta urlare, denunciare, bisogna avere proposte alternative. Per essere credibili i 5 Stelle dovrebbero fare alleanze sociali più vaste». La politica è una cosa seria, insinua Alexis, che qualcuno ha definito Davide contro Golia. Non bisogna interpretare queste elezioni — avverte — come «un derby Renzi/Grillo»: «Qui si tratta di cambiare gli equilibri dell’Europa, di uscire da politiche che hanno distrutto il welfare, creato milioni di senza lavoro, ucciso le speranze dei giovani». Ci vuole un nuovo inizio, «un New Deal europeo». Magari anche una legislazione contro la corruzione: «Da voi l’Expo, da noi le Olimpiadi di Atene nel 2004». Una faccia, una razza.

Si fermano ad ascoltarlo. Scusi chi è quello? «E’ Tsipras, della Lista Tsipras». Ah, ecco. Fa una buona impressione alle signore: «Sembra Banderas». E conquista i vecchi compagni che si mescolano agli studenti quando se ne va dalla piazza alzando il pugno chiuso. Tsipras che non le manda a dire a Renzi: «Il suo Pd ha applicato le politiche proposte dalla destra popolare e dopo le elezioni potrebbe accordarsi con Berlusconi, il che non è buono per il popolo italiano». Tsipras che, però, non è affatto trinariciuto, non chiude la porta a Schulz, visto mai che si allenti l’alleanza «mortale» con i conservatori e il Pse torni ad essere «più di sinistra ». Per raggiungere Torino — seconda tappa — il candidato presidente sceglie l’Alta Velocità, ma niente bar, gli comprano i panini. Stazione Centrale: i fotografi gli chiedono di fare ciao prima di salire a bordo. Esegue perplesso ed è anche la prima volta che concede interviste sul treno.

«Da noi — spiega Danai, la sua addetta stampa — le linee ferroviarie sono pochissime». «La Grecia in miseria, con tre milioni di persone che non hanno più accesso alle cure. Non ve lo dico per suscitare compassione ma per farvi capire che la Grecia è stata una cavia di questa crisi. Se non cambia la politica in Europa, succederà anche in altri Paesi quel che è successo da noi». Arrivano gli ultimi dati delle amministrative da Atene. Tsipras è soddisfatto: «E’ un segno che il cambiamento è possibile anche altrove». Si informa dei sondaggi italiani: «Mi preoccupa l’astensione e certo anche la soglia del 4 per cento... » Sul treno c’è Paolo Ferrero, alla stazione di Torino lo aspetta Marco Revelli.
Via sul palchetto davanti a Palazzo Nuovo, sede dell’università di Torino. Bandiere No Tav, la platea che intona Bella Ciao: «Compagne e compagni, sono molto fiero per voi». Si sforza di parlare italiano: «Andate a votare per “L’altra Europa”, dobbiamo voltare le spalle al populismo di destra e al neoliberismo ». La sinistra «come terza forza», dice Tsipras. E fa sognare gli orfani di vittorie: «C’è un blocco per l’austerità, con i popolari, i socialdemocratici e i liberali; c’è un blocco fascista; e poi ci siamo noi, la sinistra alternativa ».
A Bologna, gran finale. I compagni gli hanno preparato il bagno di folla, le luci di piazza Maggiore, gli ospiti illustri. Via video arriva l’appoggio di Adelmo Cervi, figlio di uno dei sette fratelli uccisi dai fascisti. Il compagno Alexis ringrazia, benedice e torna ad Atene.

Le sfide, in Europa e in Italia: «l'allargamento della democrazia, la fine delle politiche di austerità, la regolamentazione dei mercati finanziari, la promozione di un New Deal sociale ed ecologico».

Sbilanciamoci.info, newsletter n. 330, 19 maggio 2014

Per la prima volta, le elezioni per il Parlamento europeo rappresentano un appuntamento che va oltre la composizione dell'assemblea di Bruxelles, un'istituzione che ha ancora pochi poteri e incide in modo limitato sulle scelte della Commissione e del Consiglio europeo. Si tratta di un voto che definirà l'intero quadro politico per l'Europa e per i paesi membri, la cornice in cui si muoveranno nei prossimi anni istituzioni europee e governi nazionali, tecnostrutture di Bruxelles e Francoforte e soggetti sociali.

Il 25 maggio si vedrà se la sinistra e i movimenti avranno uno spazio significativo per rappresentare le vittime della crisi e gli insubordinati d'Europa, accrescere il proprio peso e condizionare la politica dei prossimi anni. Sappiamo che dal voto emergerà una forte ventata populista e antieuropea, figlia delle politiche di austerità di questi anni. Con queste pulsioni di destra e demagogiche dovremo fare i conti per lungo tempo, senza scorciatoie e tatticismi. Un populismo sbagliato non si combatte – come vorrebbe Matteo Renzi – con un altro dall'alto, che occupa i media e nasconde la gravità dei problemi dietro la velocità delle mosse propagandistiche.

Quattro sono le sfide che la sinistra e i movimenti dovranno affrontare in Europa: l'allargamento della democrazia, la fine delle politiche di austerità, la regolamentazione dei mercati finanziari, la promozione di un New Deal sociale ed ecologico. Si tratta di sfide che riguardano l'insieme dell'Europa, come ci ricorda l'appello della Rete europea degli economisti progressisti. Ma si tratta di questioni vitali per l'Italia: qui il governo Renzi persegue con coerenza le vecchie politiche: prosegue con l'austerità, precarizza ancora di più il lavoro, taglia massicciamente la spesa pubblica e soprattutto quella sociale, vara nuove privatizzazioni, riduce al minimo gli investimenti pubblici e ridimensiona il ruolo dell'intervento pubblico. Basta leggersi l'ultimo Documento di economia e finanza del governo per rendersene conto. I partiti che fanno riferimento al Partito socialista europeo non sanno bene cosa fare, avendo già fatto molti guai in passato. Da una parte si rendono conto di essere stati subalterni alle politiche neoliberiste di Angela Merkel e della Commissione europea, e che questa strada sta portando l'Europa (e la sinistra moderata) al precipizio. Dall'altra, in Germania come in Italia, si sono installati in governi di larghe intese che hanno al centro proprio la filosofia e le politica dell'austerità. Le stesse larghe intese rischiano di traslocare a Bruxelles per l'elezione del Presidente della Commissione europea. Democristiani e socialisti si contenderanno il primato, ma anche nel caso di un relativo successo di Martin Schulz, la sua alleanza con Angela Merkel è più che probabile: dove sarà allora il cambio di rotta per le fallimentari politiche dell'Europa? Lo scenario vede la contrapposizione tra una tecnocrazia neoliberista con il sostegno politico dei governi di larghe intese e un populismo antieuropeo che gioca la carta dell'anti-politica. In questo quadro la sinistra che sostiene la candidatura di Alexis Tsipras può giocare una partita importante: indicare la via di un cambiamento e diventare determinante nel Parlamento europeo. In Italia può ricostruire uno spazio aperto e plurale in cui riaggregare forze, persone e movimenti interessati a ricostruire una politica di sinistra. L'esperienza della lista Un'Altra Europa con Tsipras ha mostrato problemi e difficoltà, ma anche che c'è la possibilità - dandosi il tempo necessario - di far maturare una cultura politica comune e costruire efficaci strumenti d'iniziativa. Comunque andrà, il percorso è segnato. Non si può tornare a logiche superate e minoritarie. A sinistra del Pd - e tra il Pd e Grillo - c'è uno spazio politico che deve essere esplorato e generosamente costruito, oltre le vecchie appartenenze, per dare un senso alla prospettiva delineata in questi mesi, l'unica possibile per disegnare il futuro di una sinistra radicale e pragmatica, capace di scommettere sulla trasformazione dell'Europa e dell'Italia.

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