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Democrack. Come nello scontro sulla «riforma» del Senato, anche sul lavoro la minoranza inghiotte il rospo.

Il manifesto, 12 ottobre 2014

Insomma, è pro­prio il caso di dirlo: molto rumore per nulla.

Dopo lo scon­tro sulla «riforma» del Senato, ora di nuovo, sul lavoro, la mino­ranza Pd inghiotte il rospo. La sini­stra interna (3 ecce­zioni su 26 con­fer­mano la regola) si è pie­gata al ricatto della fidu­cia. Come se un ricatto costi­tuisse un alibi, come se la debo­lezza fosse una ragione. Ma se lo scorso ago­sto si trattò forse di un impre­vi­sto, adesso siamo a un copione spe­ri­men­tato, del resto con­forme alla sor­tita di Ber­sani di qual­che giorno fa. L’avviso sulla lealtà alla «ditta» – peral­tro riba­dito anche da ultimo – non fu dun­que una voce dal sen fug­gita, ma il pre­vi­dente annun­cio di quanto era già intuito, assunto, metabolizzato.

È stata una scelta grave in un pas­sag­gio stra­te­gico. Renzi ha aperto la guerra interna nel Pd su mate­rie cru­ciali. La modi­fica della Camera Alta stra­volge l’architettura costi­tu­zio­nale e mina alle fon­da­menta la rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica, alte­rando la natura dello Stato. L’attacco ai diritti essen­ziali del lavoro subor­di­nato col­pi­sce il car­dine della Repub­blica anti­fa­sci­sta, oltre che la ragion d’essere di una sini­stra che possa legit­ti­ma­mente dirsi tale. Non si tratta di scelte improv­vi­sate, e non è casuale che su que­sti ter­reni il «capo del governo» abbia deciso di gio­carsi la par­tita. Sfon­dando sulla divi­sione dei poteri e sui diritti del lavoro, mor­ti­fi­cando il dis­senso e sfot­tendo le orga­niz­za­zioni sin­da­cali, Renzi intende mostrarsi in grado di gui­dare il «cam­bia­mento»: di svuo­tare la Costi­tu­zione del ’48 e di varare una nuova forma di governo fun­zio­nale alla sovra­nità del capi­tale privato.

Solo chi avesse perso qual­siasi capa­cità di giu­di­zio potrebbe sot­to­va­lu­tare la gra­vità di quanto accade. Nel giro di pochi mesi viene pren­dendo vita un regime auto­ri­ta­rio nel quale il capo della fazione pre­va­lente potrà con­trol­lare tutti gli snodi della deci­sione poli­tica. E si viene regre­dendo verso un’oligarchia neo­feu­dale in cui il lavoro è senza garan­zie, pre­ca­riz­zato nella radice del rap­porto con­trat­tuale, quindi ricat­ta­bile in ogni momento e desti­nato a salari sem­pre più bassi. Nem­meno manca, per i palati più esi­genti, il gra­zioso sar­ca­smo delle «tutele crescenti».

In tale sce­na­rio non incombe sui par­la­men­tari demo­cra­tici alcun vin­colo poli­tico o morale di lealtà verso il par­tito e il gruppo, né, tanto meno, verso l’esecutivo.

Non solo per­ché – anche gra­zie alla com­pro­vata obbe­dienza dei dis­si­denti – il Pd è diven­tato un par­tito per­so­nale, coman­dato col ricatto, il dileg­gio, l’insulto. Non solo per­ché ogni vin­colo viene meno quando sono tra­volti prin­cipi fon­da­men­tali della Carta e per­ché, chie­dendo la fidu­cia su una delega in bianco («inde­fi­nita e sfug­gente nei cri­teri», nota la Cgil), il governo ha vio­lato la Costi­tu­zione (e di ciò il pre­si­dente della Repub­blica dovrebbe tener conto, invece di lasciarsi andare a impro­pri apprez­za­menti del Jobs Act). Cia­scun par­la­men­tare del Pd ha il diritto e il dovere di deci­dere in piena auto­no­mia anche per­ché il governo pro­cede rove­sciando di sana pianta il pro­gramma in base al quale i par­la­men­tari demo­cra­tici sono stati eletti. Un tale governo non va pre­ser­vato. Va con­tra­stato e fatto cadere al più pre­sto, impe­gnan­dosi affin­ché il paese imboc­chi la strada della riscossa democratica.

Dire, com’è stato detto, che negare la fidu­cia sarebbe stato «irre­spon­sa­bile» per­ché la scelta sarebbe tra Renzi e la Troika è sol­tanto un modo per nascon­dere la realtà. Non solo que­sto governo si attiene in toto ai det­tami di Washing­ton, Bru­xel­les e Fran­co­forte (o qual­cuno si mera­vi­glia per la sod­di­sfa­zione di Dra­ghi e della Mer­kel?). Lo fa, per di più, impe­dendo alla gente di capire e di sot­trarsi alla morsa del nuovo regime che sof­foca il paese. Se una poli­tica di destra è fatta da un par­tito che si dichiara, almeno in parte, di sini­stra, che senso hanno ancora que­ste vetu­ste parole, e come si può pen­sare di poter cam­biare rotta?

Ma allora per­ché, ancora una volta, que­sto cedi­mento, che, come ognuno vede, demo­li­sce la cre­di­bi­lità della sini­stra demo­cra­tica? Per­ché que­sta obbe­dienza che rischia di ridurre il dis­senso interno a una farsa; che induce a par­lare di tra­di­mento del man­dato par­la­men­tare (que­sto ha detto in sostanza il sena­tore Tocci inter­ve­nendo in aula); che rende la mino­ranza com­plice del nuovo padrone del Pd, al quale non solo è offerta una pre­ziosa san­zione di onni­po­tenza (delle sue sprez­zanti rispo­ste alle timide richie­ste di modi­fica della delega resterà memo­ria), ma è anche con­cessa gra­tis l’opportunità di esi­bire, quando serve, una patente con­traf­fatta di sini­stra? Si può ter­gi­ver­sare e pre­di­care cau­tela, pur di sot­trarsi al giu­di­zio. Si può tacere, augu­ran­dosi di limi­tare il danno o di pro­pi­ziare svi­luppi posi­tivi. Ci si illude. Da sé le cose non cam­bie­ranno certo in meglio. Noi stiamo piut­to­sto con il segre­ta­rio gene­rale della Fiom che arri­schia un giu­di­zio duris­simo (votare la fidu­cia serve a «difen­dere le pol­trone») e ne trae le dovute con­clu­sioni («di un par­la­mento così non sap­piamo che farci»).

Non­di­meno, siamo tra i testardi che pen­sano che in poli­tica non si è mai all’ultima spiag­gia e che nes­sun fran­gente, per quanto grave, è irre­pa­ra­bile e defi­ni­tivo. Anche in que­sto caso, nono­stante tutto, sta­remo a vedere come andrà avanti que­sta sto­ria e come si con­clu­derà. Sen­tiamo che alcuni dis­si­denti saranno il piazza con la Cgil il 25 otto­bre. E che un espo­nente della mino­ranza del Pd, l’onorevole D’Attorre, annun­cia bat­ta­glia sul Jobs Act alla Camera, defi­nendo «inac­cet­ta­bile» che anche in quella sede il governo ponga la fidu­cia. Ne pren­diamo atto. Osser­vando che, se le parole hanno ancora un valore, que­ste equi­val­gono a pro­met­tere che, in tale non impro­ba­bile eve­nienza, la sini­stra del Pd arri­verà final­mente a quella rot­tura che non ha sin qui nem­meno ven­ti­lato. Vedremo.

Intanto resta che viviamo giorni cupi, gra­vidi di peri­coli, forieri di nuove vio­lenze e di più gravi ingiu­sti­zie. Giorni che get­tano nuove inquie­tanti ombre sul futuro di que­sta Repubblica.

Organizzati, comunicativi e con una nuova leadership. Questo occorre oggi per costruire una nuova sinistra e scongiurare il disastro dell'Italia. Un ragionamento basato sulla valutazione critica dell'esperienza "movimentista".

Il manifesto, 11 ottobre, con postilla

All’indomani del «patto degli Apo­stoli» e dell’invito di Norma Ran­geri a una nuova unità a sini­stra, Tonino Perna invita alla pru­denza e sol­le­cita «una grande tes­si­tura sociale e cul­tu­rale di parole in grado di costruire la visione del futuro desi­de­ra­bile e cre­di­bile». Ha ragione: il disa­stro ren­ziano ha radici anti­che e l’alternativa non può certo stare in una rivin­cita (sep­pur la cer­casse) dell’esta­blish­ment del Pd di ieri, che di quel disa­stro ha posto le pre­messe poli­ti­che e cul­tu­rali (a comin­ciare dall’elevazione a stelle polari «delle leggi di mer­cato e della cre­scita eco­no­mica senza se e senza ma»).

Ma que­sta neces­sa­ria tes­si­tura deve accom­pa­gnarsi a una ini­zia­tiva poli­tica imme­diata: per­ché il rischio di una deser­ti­fi­ca­zione del tes­suto sociale e isti­tu­zio­nale è sem­pre più forte e sul deserto è dif­fi­cile anche rico­struire. Nello stesso tempo, non siamo all’anno zero ché i ten­ta­tivi degli ultimi tempi, sep­pur impro­dut­tivi sul piano elet­to­rale, non sono stati avari di ela­bo­ra­zione cul­tu­rale. Una rin­no­vata ini­zia­tiva poli­tica, che abbia l’ambizione di diven­tare ege­mone (e non solo di supe­rare il quo­rum delle pros­sime ele­zioni, spe­rando che non sia troppo alto…), deve, peral­tro, misu­rarsi con alcune que­stioni, troppo spesso eluse o esor­ciz­zate e che stanno alla base degli insuc­cessi degli ultimi anni. Provo a indi­carne alcune.

Primo. In tutte le recenti espe­rienze alter­na­tive e inno­va­tive ci si è mossi, talora teo­riz­zan­dolo e comun­que nei fatti, sul pre­sup­po­sto che le buone idee sono di per se sole, pro­prio per­ché buone, capaci di pro­durre in modo auto­ma­tico l’organizzazione neces­sa­ria (e suf­fi­ciente). Non è così. Lo dico pur con­sa­pe­vole, da vec­chio movi­men­ti­sta, delle dege­ne­ra­zioni buro­cra­ti­che e auto­ri­ta­rie che spesso si anni­dano negli appa­rati. Con­tro que­ste derive va tenuta alta la guar­dia ma la sot­to­va­lu­ta­zione del momento orga­niz­za­tivo (e della sua legit­ti­ma­zione) è stata una delle cause prin­ci­pali della ris­so­sità e della incon­clu­denza di molte aggre­ga­zioni poli­ti­che ed elet­to­rali dell’ultimo periodo. Posso dirlo per espe­rienza diretta con rife­ri­mento a “Cam­biare si può” (para­liz­zato dalla man­canza di luo­ghi di deci­sione e, per que­sto, facile preda di una nefa­sta e alie­nante occu­pa­zione). Ma lo stesso dimo­strano le dif­fi­coltà in cui si dibatte la lista Tsipras.

Secondo. La bontà delle idee non ne garan­ti­sce, di per se sola, nep­pure la capa­cità di autoaf­fer­marsi e di aggre­gare con­sensi. Il fatto nuovo della società dell’immagine – affer­mato da tutti ma non ancora com­piu­ta­mente meta­bo­liz­zato – è il pri­mato della comu­ni­ca­zione sui valori. Sem­pre più per­sino chi è subal­terno o mar­gi­nale com­batte bat­ta­glie non pro­prie, mobi­li­tan­dosi e votando su parole d’ordine altrui più che a soste­gno dei pro­pri biso­gni e inte­ressi. Si spie­gano così i suc­cessi di Ber­lu­sconi e di Renzi, che – moder­niz­zando un copione antico – hanno attinto con­senso e voti in maniera mas­sic­cia in strati popo­lari. La comu­ni­ca­zione, poi, ha oggi regole e moda­lità sem­pli­fi­ca­to­rie, asser­tive, spesso dema­go­gi­che. Non ci piac­ciono (o non piac­ciono a me). Ma da esse non si può pre­scin­dere, almeno oggi. Meglio, in ogni caso, adot­tarle – con il neces­sa­rio distacco cri­tico – per vei­co­lare buoni pro­getti piut­to­sto che subirle con il loro carico di cat­tivi pro­getti… Nella odierna comu­ni­ca­zione fast food le parole con­tano più della realtà che rap­pre­sen­tano: occorre cam­biare que­sta spi­rale per­versa, ma per farlo biso­gna saper usare le parole.

Terzo. Se que­sto è vero lo sbocco è con­se­guente. Abbiamo buone idee e buoni pro­getti ma con­ti­nue­remo, cio­no­no­stante, ad essere scon­fitti e saremo ridotti all’irrilevanza (non solo alla mino­rità) se non sapremo espri­mere nuovi lin­guaggi, sem­pli­fi­cati e ripe­ti­tivi, ma capaci di dare con­cre­tezza a una pro­spet­tiva di egua­glianza e di eman­ci­pa­zione (la man­canza di una pro­messa atten­di­bile di red­dito decente per tutti ha fatto vin­cere chi ha dato a molti una man­cia di 80 euro, pur sot­tratta con l’altra mano).

E lo stesso acca­drà se non sapremo espri­mere un per­so­nale poli­tico radi­cal­mente diverso da un ceto respon­sa­bile di scon­fitte seriali (non sco­pro l’acqua calda se dico che nella resi­sti­bile ascesa di Renzi è stato deter­mi­nante il con­tri­buto, miope quanto com­pren­si­bile, di chi lo ha votato «per­ché è il solo che può farci vin­cere»). E un nuovo per­so­nale poli­tico dovrà avere un punto di rife­ri­mento rico­no­sci­bile e media­ti­ca­mente forte: non un uomo della prov­vi­denza cir­con­dato da nul­lità che ne esal­tano la fun­zione sal­vi­fica (come è stato ed è da due decenni), ma un uomo, o una donna, in grado di aggiun­gere un per­so­nale cari­sma a un gruppo auto­re­vole e coeso. Anche que­sto pro­voca in noi (o almeno in me) non poca dif­fi­denza. Ma il ter­reno e le moda­lità dello scon­tro non li deci­diamo noi. Dovremo cam­biarli, epperò – qui e ora – non pos­siamo pre­scin­derne.
Arrivo così alla parte più dif­fi­cile. Esi­ste oggi in Ita­lia la pos­si­bi­lità di dar corpo a una pro­spet­tiva sif­fatta (come sta acca­dendo altrove: dalla Gre­cia alla Spa­gna)? Esi­ste, ma per costruirla biso­gna uscire dal gene­rico e avan­zare pro­po­ste con­crete, anche venendo meno al poli­ti­cally cor­rect. Dun­que ci provo.

Il nucleo forte della pro­po­sta poli­tica non può che essere il lavoro, con le sue con­di­zioni e i suoi pre­sup­po­sti, di cui riap­pro­priarsi sot­traen­dolo a chi lo distrugge ma, insieme, lo declama pre­sen­tan­dosi come il suo vero e unico difen­sore. C’è chi può rap­pre­sen­tare que­sta pro­spet­tiva in modo non per­so­na­li­stico e con un rico­no­sci­mento dif­fuso, veri­fi­cato in cen­ti­naia di piazze e – par­ti­co­lare non meno impor­tante, secondo quanto si è detto – in cen­ti­naia di con­fronti tele­vi­sivi. È – non devo certo spie­gare per­ché – Mau­ri­zio Landini.

Lo so. Lan­dini ha detto più volte che il suo posto è il sin­da­cato e non la poli­tica. È un atteg­gia­mento fino a ieri com­pren­si­bile e apprez­za­bile. Ma oggi c’è una ragione aggiun­tiva per chie­der­gli di farle il salto: il lavoro non lo si può più inven­tare, creare e difen­dere solo o soprat­tutto a livello sin­da­cale. E le occa­sioni per ribal­tare il qua­dro non si ripetono

postilla
Certamente il tema del lavoro è centrale per operare da subito un ribaltamento del percorso lungo il quale l'Italia corre verso il baratro. Ma il Lavoro non è difendibile se esso non è collegato, fin dalla sua prima enunciazione, ad altri due grandi temi che, con esso, costituiscono i tre pilastri di un nuovo sviluppo: Ambiente e Democrazia. Per ora ci limitiamo qui ad asserirlo. Proveremo presto ad argomentarlo meglio.

«In assenza dell’apertura di vie legali di ingresso e senza una modifica del Regolamento Dublino III,

Mos Maiorum potrebbe costringere i migranti a rivolgersi ancor più ai trafficanti di terra, rafforzando il ricatto delle reti criminali”. Dal sito L’altra Europa con Tsipras, 09 ottobre 2014

Nello stesso momento in cui i governi europei fingono di piangere i morti di Lampedusa, a un anno dalla strage del 3 ottobre, si sta preparando in tutta l’Unione un’autentica retata di migranti, promossa dal governo italiano nelle vesti di presidente di turno del Consiglio. Sono felice che il nostro gruppo si mobiliti, e un grande grazie a chi, nello staff del Gue-Ngl, sta cercando di costruire iniziative in vista della prossima plenaria assieme al gruppo dei Verdi. (1)

L’operazione, battezzata Mos Maiorum, si svolgerà dal 13 al 26 ottobre, ed è stata decisa dal Consiglio dei ministri dell’Interno e della Giustizia il 10 luglio scorso. Ne siamo venuti a conoscenza tardi: in parte perché come Parlamento non siamo stati avvisati, in parte perché non siamo stati attenti. Sarà condotta dentro lo spazio Schengen e, con la scusa della lotta alla tratta di esseri umani, intende rintracciare il più gran numero possibile di migranti cosiddetti irregolari: il più delle volte richiedenti asilo senza documenti, perché in fuga da zone di guerre cui noi stessi abbiamo contribuito.

Mos maiorum – già il nome inquieta, rimanda a tempi di imperi e schiavi – sarà assistita dall’agenzia Frontex, che in teoria controlla le frontiere dell’Unione, non il suo spazio interno. Avviene inoltre quando l’agenzia Frontex è più contestata, per non rispetto del divieto di respingimento sancito dalla Carta europea dei diritti fondamentali, oltre che dalla convenzione di Ginevra. Sono numerosi i casi di respingimento collettivo dai porti dell’Adriatico, e dagli aeroporti siciliani di Comiso (Ragusa) verso l’Egitto e di Palermo verso la Tunisia.

La mancanza di canali legali di ingresso in Europa ha prodotto una crescita esponenziale di fuggitivi, costretti ad entrare (e poi spostarsi nell’area Schengen) senza documenti. Il Regolamento Dublino III, mal congegnato, prevede tempi lunghi delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale e produce movimenti secondari di richiedenti asilo verso il Nord Europa, attraverso canali irregolari. Queste persone rischiano di essere le prime vittime di un’operazione di polizia che, a parole, vuol contrastare il crimine che fa profitti sui migranti, sia quando entrano nell’Unione sia quando circolano al suo interno.

Si potrebbe verificare il contrario esatto di quel che si dice di voler ottenere: una criminalizzazione non delle mafie ma delle loro prede: cioè di chi sarà trovato senza regolari documenti di ingresso e soggiorno. Si estenderà la loro possibile reclusione nei centri di detenzione. Saranno ancor più svalutati gli istituti della protezione internazionale.

In assenza dell’apertura di vie legali di ingresso e senza una modifica del Regolamento Dublino III, Mos Maiorum potrebbe costringere i migranti a rivolgersi ancor più ai cosiddetti trafficanti di terra, rafforzando il potere di ricatto delle reti criminali. I meccanismi di emarginazione prodotti dalla fuga nella clandestinità, ­ sostiene il docente di diritto d’asilo Fulvio Vassallo Paleologo, sono una manna per le reti che forniscono servizi e beni primari in cambio non solo di denaro, ma dell’affiliazione a correnti politiche e religiose radicali. Le retate non abbattono le mafie. Le tengono in vita e le nutrono.

1) Su Mos Maiorum, il gruppo Gue-Ngl ha successivamente deciso, nel pomeriggio del 9 ottobre, di inviare subito una lettera al Consiglio dei ministri degli Affari interni e della Giustizia, riuniti nella stessa giornata a Lussemburgo, e di preparare una "richiesta di dichiarazione" del Consiglio durante la prossima plenaria del Parlamento europeo. Alla richiesta aderirà il gruppo dei Verdi.

Qualcosa di liberale (e non neoliberista) rispunta ancora, di tanto in tanto, dalle rotative del Corrierone. «Prima o poi doveva succedere: la democrazia parlamentare non sopravvive a periodi lunghi di paralisi».

Il Corriere della Sera, 10 ottobre 2014

Da molti punti di vista, quello di Renzi è un governo extra-parlamentare; forse il primo di una nuova era. Non solo perché il premier non siede in nessuna delle due Camere: c’era già il precedente di Ciampi, anche se gestito con altro stile. Ma per motivi più di merito.

Si moltiplicano infatti i luoghi di decisione politica esterna che il Parlamento non può rimettere in discussione: il Patto del Nazareno, un discorso nella Direzione del Pd, un incontro estivo con Draghi. La stessa ratifica parlamentare si fa al contempo obbligata (con la fiducia) e vaga (con la delega), trasferendo sempre più il potere legislativo all’esecutivo: come è avvenuto sulla riforma dell’articolo 18, di cui nei testi votati non c’è niente, e tutto resta affidato alla tradizione orale e agli impegni verbali.

Il parlamentare è ormai un’anima morta, legata al leader da un ferreo vincolo di mandato; il che, come in ogni servitù, lo induce alla rancorosa vendetta ogni volta che può agire in segreto, ad esempio col triste spettacolo della mancata elezione dei giudici della Consulta. In alternativa, se non è d’accordo, può solo disertare dal suo mandato (assentandosi o dimettendosi).

La stessa definizione di presidente del Consiglio non si addice più a Renzi, il quale pur essendo primus non è certamente più inter pares tra i suoi ministri, come testimoniato dalla performance di Giuliano Poletti sulla riforma del mercato del lavoro. Pur senza nostalgie per il regime parlamentare uscente, davvero impossibili, bisogna riconoscere che qui siamo oltre. È come se avessimo sostituito a vent’anni di mancate riforme istituzionali la biografia e la personalità di un leader di quarant’anni: una riforma costituzionale incarnata, in personam invece che ad personam.

Prima o poi doveva succedere: la democrazia parlamentare non può sopravvivere a periodi troppo lunghi di paralisi. A Bersani e D’Alema che protestano per l’andazzo odierno andrebbe risposto che ne sono in buona parte responsabili. Però non è detto che la nuova costituzione materiale che si sta delineando sia l’unica forma di post-democrazia possibile.

Non è vero che funziona così ovunque. Perfino in un regime presidenziale come quello statunitense i parlamentari hanno un incomparabile potere di condizionare le scelte dell’esecutivo. Perfino a Westminster le ribellioni in Aula sono all’ordine del giorno. Perfino in Germania la Merkel ha dovuto spesso ricorrere ai voti dell’opposizione per resistere alle defezioni interne della sua maggioranza. Istituti come la sfiducia costruttiva, sistemi elettorali basati sul collegio uninominale, o anche un presidenzialismo dotato di check and balances, consentono di avere insieme governi autorevoli e Parlamenti liberi.

Sarebbe il caso di pensarci per tempo. Perché democrazia è certamente decisione, ma è anche e soprattutto potere di controllare il potere. Ogni giorno, e non solo una volta ogni cinque anni.

«Deriva italiana. Il governo Renzi è la troika interiorizzata. Va sfidato sul suo terreno. L’Altra Europa con Tsipras ha messo le basi facendo il primo passo. Oggi, nelle nuove dimensioni, è a sua volta insufficiente a reggere la sfida.Ma è su quella strada che occorra incamminarci, assumendo intanto come prima tappa la piazza del 25 ottobre». Il manifesto, 9 ottobre 2014

L’accelerazione impressa da Matteo Renzi nel suo “semestre europeo” lascia sul terreno cumuli di macerie (a cominciare da quelle del suo partito). E apre almeno tre grandi questioni, clamorosamente evidenti in questi giorni solo a volerle vedere: una questione istituzionale, annunciatasi fin dalla battaglia d’estate sul (e contro il) Senato. Una “nuova” questione sociale: nuova perché si poteva pensare che già col governo Monti si fosse arrivati a mordere sull’osso del mondo del lavoro, e invece ora si affondano i colpi ben sotto la cintura. Infine una grave questione democratica, resa drammatica dall’intrecciarsi delle prime due, e dal ruolo che la crisi gioca nel dettarne modi e tempi di sviluppo.

Renzi – nonostante le retoriche che ne accompagnano e potremmo dire ne costituiscono l’azione – non rappresenta una possibile soluzione della crisi economica e sociale italiana. Non ha né la forza (nei rapporti inter-europei) né le idee per aprire anche solo uno spiraglio. Ma condensa in sé – nella propria stessa persona, nel proprio linguaggio e nei propri comportamenti quotidiani, oltre che nelle misure che impone – il modo con cui la crisi lavora. E’, si potrebbe dire, il lavoro della crisi tradotto in politica: ne converte in pratica di governo tutto il potenziale destabilizzante. Ne accompagna e ne garantisce lo sfondamento dei residui livelli di resistenza e di ostacolo al libero dispiegarsi del potere del denaro da parte di ciò che resta dei corpi sociali e delle loro consolidate tutele. Ne conduce a compimento la liquidazione dei patti che avevano costituito il tessuto connettivo della “vecchia” società industriale, e delle culture che ne avevano accompagnato sviluppo e conflitto.

In questo senso Renzi non è l’alternativa all’intervento “d’ufficio” della Troika, un male minore rispetto a quello toccato alla “povera Grecia” che ha dovuto subire i tre Commissari-guardiani. Renzi è la Troika, interiorizzata. E’ la forma con cui l’Europa dell’Austerità e del Rigore governa il nostro Paese. Nell’unico modo possibile nelle condizioni date: con una formidabile pressione dall’esterno, e con un’altrettanto forte carica di populismo all’interno. Se li si leggono con un po’ d’attenzione si vedrà che i punti del suo programma, imposti con stile gladiatorio e passo di corsa a un mondo politico attonito, ricalcano fedelmente il famigerato Memorandum che ha prodotto la morte sociale della Grecia: privatizzazioni con la motivazione di far cassa, in realtà per metter sul mercato tutto ciò che può costituire un buon affare; abbattimento delle garanzie e del potere contrattuale del lavoro in nome dei “diritti dell’impresa”; ridimensionamento del pubblico impiego in termini di spesa e di occupazione; rimozione degli ostacoli alla rapidità decisionale da parte delle forme tradizionali della rappresentanza politica e sociale.

Se collocati in questo quadro si spiegano, allora, quelli che altrimenti sembrerebbero solo una sequela di strappi, forzature, ostentazioni di arroganza, maleducazione, guasconeria e improvvisazione (che pure non manca). E’ evidente infatti che un simile progetto non può essere messo in atto con mezzi “ordinari”. Richiede un’eccezionalità emergenziale, sia per quanto riguarda lo sfondamento dell’assetto costituzionale: e a questo è servito l’auto da fé in diretta di uno dei simboli della democrazia rappresentativa, la “camera alta”. Sia per quanto attiene al livello simbolico: ed è quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi con l’umiliazione ostentata del movimento sindacale e del mondo del lavoro. Perché se maramaldeggiare con i brandelli residui dell’articolo 18 e con ciò che resta dello Statuto dei lavoratori non porterà un solo posto di lavoro, come è chiaro pressoché a tutti, è pur vero che la celebrazione del sacrificio spettacolare, in piena piazza mediatica, secondo i vecchi riti dell’ordalia, continua ad avere un effetto simbolico straordinario. Tanto più se la vittima sacrificale – l’homo sacer direbbe Agamben -, è uno dei protagonisti centrali del nostro passato prossimo come, appunto, il lavoro nella forma politico-sociale del movimento dei lavoratori.

Imporne la degradazione pubblica. Liquidarlo in otto minuti d’introduzione e un’oretta di udienza. Abbattere anche le residue garanzie perché, come ho sentito dire autorevolmente, occorre liberare gli imprenditori dall’ ”arbitrio di un giudice” (sic!), significa nell’immaginario collettivo rovesciare il mondo. Riscrivere l’articolo uno della Costituzione affermando che “L’Italia è un’oligarchia plebiscitaria fondata sull’impresa” e, al secondo comma, che “la sovranità appartiene ai mercati, i quali l’esercitano in modi e forme discrezionali, senza limiti di legge”. Ha ragione Susanna Camusso nell’affermare che l’unica cosa che interessa al premier è presentarsi all’Europa degli affari con lo scalpo dei lavoratori in mano. Con un’aggiunta: che Renzi quello scalpo lo vuole usare anche nei confronti dei suoi, e di un elettorato frantumato, impoverito, rancoroso per le umiliazioni subìte spesso senza trovare adeguata difesa da parte dei propri rappresentanti politici e sindacali, da catturare con l’immagine forte di una vittoria sacrificale.

Per questo dico – e sono consapevole del peso delle parole – che siamo in presenza di una “emergenza democratica”. Non solo perché il “renzismo” ha già cambiato il DNA del suo partito d’origine, trasformandolo in un ectoplasma risucchiato in alto, tra le mura di Palazzo Chigi, e avviandosi verso quello che a ragione è stato definito il “partito unico del Premier”. Non solo perché, parallelamente, ha ridotto un Parlamento amputato a ufficio di segreteria del Governo, chiamato a firmarne le carte (come si è visto ieri), mentre col patto del Nazareno ha definitivamente omologato l’antropologia politica, rendendo pressoché indistinguibili quelle che un tempo erano state “due Italie” eticamente e culturalmente diverse e ampliando così, d’incanto, il serbatoio di voti a cui attingere. Ma soprattutto perché con Renzi si conclude una vera e propria mutazione genetica del nostro sistema politico e istituzionale, con la verticalizzazione brutale di tutti i processi, concentrati nella figura apicale del Premier; la riconduzione del potere Legislativo non solo “sotto”, ma “dentro” il potere Esecutivo, come sua appendice secondaria; la tendenziale liquidazione dei corpi intermedi – la “società di mezzo”, come la chiama De Rita, comprendente le variegate forme di aggregazione e di rappresentanza sociale -, che potrebbero fare da ostacolo al rapporto diretto del Capo col “suo” Popolo, fascinato (“sciamanizzato”) retoricamente secondo la classica immagine del Demagogo. Con la pessima tecnica di convertire la disperazione in speranza mediante espedienti verbali e l’evocazione del “miracolo”. Una forma di plebiscitarismo dell’illusione, che lascia tutti i problemi irrisolti, ma che premia enormemente in termini di potere personale.

Ora se questo è vero, o anche solo in parte condiviso, quello che s’impone, d’urgenza, è non solo un’opposizione convinta e intransigente sui singoli provvedimenti (che è condizione necessaria, anche se non sufficiente) ma, al di là di ciò, la costruzione di una proposta ampia – politica, sociale, culturale, morale – in grado di contrastare questo processo all’altezza della sfida che lancia. Un fronte articolato, imperniato sui diritti e sul lavoro, capace di radunare tutto ciò che ancora nello spazio rarefatto della politica “resiste” ma soprattutto in grado di mobilitare forze nuove, oggi disperse, con linguaggi, idee, forme organizzative innovative e aperte. Di fare e conquistare opinione e impegno.

Lo dico con molto rispetto per posizioni che so vicine a questo sentire, come quella espressa sul manifesto da Airaudo e Marcon: se ci limitassimo ad assemblare semplici pezzi di classe politica - ciò che resta della sinistra politica “che non si arrende”, i “refrattari” dell’arena parlamentare o delle sue immediate vicinanze -, se pensassimo che il “renzismo” si arresta mobilitando per linee interne la cosiddetta “minoranza” del Pd (alla cui patetica prova abbiamo assistito ieri) saldata a ciò che rimane del tradizionale e ormai cancellato “centro-sinistra” proponendone una nuova piccola casa, temo che non andremmo molti avanti. E anzi, forniremmo a Matteo Renzi un bersaglio perfetto contro cui sparare a palle incatenate, nominandosi campione del nuovo contro tutto ciò che sa di “residuo”.

Serve al contrario, a mio avviso, sfidarlo sul terreno alto dell’alternativa a tutto campo, italiana ma in un quadro a dimensione europea (perché è pur sempre lì che si gioca la partita che conta), dello stile politico e dell’egemonia culturale. Un processo inclusivo di tutti, senza esami del DNA, aperto, innovativo, in grado di riportare dentro quella ampia sinistra diffusa che sta fuori dalla sempre più ristretta sinistra politica. La “chimica” della lista L’altra Europa con Tsipras ha, in qualche modo, anticipato questo approccio (anche nel suo respiro europeo) e costituito un primo passo. Oggi, nelle nuove dimensioni, è a sua volta insufficiente a reggere la sfida: il suo milione e centomila elettori può esserne un nucleo iniziale, non l’intero corpo. Ma credo che sia su quella strada che occorra incamminarci, assumendo intanto come prima tappa la piazza del 25 ottobre. Altre ne verranno.

«Il manifesto, 9 ottobre 201425 ottobre. Le parole di Maurizio Landini chiamano insieme a una grande manifestazione ma anche ad attivare un movimento sul controllo da parte dei lavoratori dei processi della crisi in atto, a partire dalle crisi aziendali

«Que­sto Par­la­mento non serve a niente, siamo pronti ad occu­pare le fab­bri­che»: Mau­ri­zio Lan­dini non poteva essere più espli­cito e «sto­rico», anche nel rife­ri­mento alle occu­pa­zioni di fab­bri­che che hanno con­tras­se­gnato nel secolo breve la sto­ria del movi­mento ope­raio, non solo ita­liano. Qual­cuno ci ha letto una sorta di can­di­da­tura «poli­tica», altri l’hanno vista come «nar­ra­zione» agli iscritti sin­da­cali, la Con­fin­du­stria l’ha giu­di­cata come una minaccia.

Ma le parole del segre­ta­rio della Fiom non sono una sug­ge­stione, cor­ri­spon­dono in pieno alla pre­ci­pi­tosa crisi ita­liana finita nelle mani, impro­prie, dell’apprendista stre­gone Mat­teo Renzi. Siamo infatti con la fidu­cia sul cosid­detto Jobs Act, all’ennesima ridu­zione degli spazi di demo­cra­zia, dopo la can­cel­la­zione dell’elezione diretta del Senato e l’accumulo di decre­ta­zione come mai prima nes­sun governo della Repub­blica. Ma se sui temi del lavoro si can­cel­lano le difese degli stessi lavo­ra­tori, è legit­timo o no che si alzi la loro voce e di chi legit­ti­ma­mente li rappresenta?

Ren­dendo così evi­dente che ormai la que­stione non è più solo sin­da­cale, ma poli­tica per­ché chiama in causa con­te­nuti di rap­pre­sen­tanza e di potere. Nella con­vin­zione che la man­canza di lavoro e di inve­sti­menti, non sia dovuta al peso delle tutele fin qui fati­co­sa­mente con­qui­state dai lavo­ra­tori con straor­di­na­rie sta­gioni di lotta che si vogliono azze­rare, e che non dipende dalla man­cata riforma del mer­cato lavoro tanto cara alla fal­li­men­tare destra neo­li­be­ri­sta. Ma al con­tra­rio pro­prio dalla man­cata riforma del mer­cato dei capi­tali. Vale a dire dal fatto macro­sco­pico, che que­sto governo misco­no­sce, che la crisi finan­zia­ria del capi­ta­li­smo ha deva­stato risorse e uma­nità. E che ora, come assai timi­da­mente avviene negli Stati uniti per effetto della pos­si­bi­lità di soc­cor­rere con la moneta domanda e inve­sti­menti, è neces­sa­rio un ruolo di con­trollo e impren­di­to­ria­lità del governo e dello Stato.

Men­tre in Ita­lia e in Europa, irre­spon­sa­bil­mente, invece si avvia l’itinerario oppo­sto delle pri­va­tiz­za­zioni, sman­tel­lando aziende tutt’altro che in rosso e con capa­cità di guida e indi­rizzo dell’intera eco­no­mia ita­liana e con­ti­nen­tale, pri­vata, pub­blica e cooperativa.

Ora — ed è la rifles­sione che come mani­fe­sto vogliamo rilan­ciare, anche per­ché è parte della nostra cul­tura fon­da­tiva — le parole di Mau­ri­zio Lan­dini chia­mano insieme ad una grande mani­fe­sta­zione il 25 otto­bre ma anche ad atti­vare un movi­mento sul con­trollo da parte dei lavo­ra­tori dei pro­cessi della crisi in atto, a par­tire dalle crisi azien­dali. Con­vinti che dalla crisi si esce con più demo­cra­zia non con meno, come vogliono Mat­teo Renzi e il nuovo Pd. Se tra le pie­ghe del Jobs Act com­pa­riva a gen­naio una spe­cie di fan­ta­sma di coge­stione — tutti uniti tutti insieme, il lavoro subal­terno che subi­sce il disa­stro dell’impresa capi­ta­li­stica e il padrone pro­ta­go­ni­sta del crollo — la crisi in corso pone all’o.d.g. ancora una volta il ruolo cen­trale dei lavoratori.

Si dirà: ma se le fab­bri­che non ci sono più? Non è pro­prio vero, ma quando tra­gi­ca­mente lo è, pro­viamo a capo­vol­gere lo sguardo: non ci tro­viamo forse da anni di fronte a drap­pelli di lavo­ra­tori pro­te­sta­tari che insi­stono a tro­vare un padrone che ripri­stini mer­cato e sfrut­ta­mento? Oppure, all’opposto, a fab­bri­che dismesse, con­si­de­rate ina­de­guate o obso­lete, occu­pate e riat­ti­vate dagli stessi lavo­ra­tori? E ancora ai «nuovi lavori» pre­cari o ai senza lavoro spesso in con­flitto sordo con chi il lavoro ancora ce l’ha, ma sem­pre più incerto? Tra­sfor­miamo que­sta pro­te­sta che rischia di appa­rire come rou­ti­na­ria in un pre­si­dio di fronte al fan­ta­sma del ruolo del «capi­ta­li­sta». «Siamo pronti ad occu­pare le fab­bri­che» chiama a ruolo per­fino la fun­zione del governo Renzi che, con l’austerity Ue, adesso siamo costretti a subire in una con­vi­venza forzosa.

Se come scri­veva Luigi Pin­tor «la sini­stra come l’abbiamo cono­sciuta non esi­ste più», le parole di Lan­dini rino­mi­nano la speranza.

La produzione di cemento è in calo. Un governo responsabile non può lasciare che sia il mercato ad occuparsene «perché il mercato non è mai pienamente libero, come dimostrano i finanziamenti pubblici arrivati a Cementir e Italcementi per “ristrutturare” e trasformare in co-inceneritori di rifiuti gli impianti di Taranto e Rezzato (BS)”».

Altreconomia.it, 9 ottobre 2014

Se le proiezioni saranno confermate, nel 2014 il consumo di cemento nel nostro Paese scenderanno sotto le venti milioni di tonnellate. Secondo i dati presentati dal centro studi dell'AITEC, l'Associazione confindustriale che riunisce le principali aziende che producono cemento in Italia, il nostro Paese non è mai sceso “così in basso” dal 1961, da prima del boom economico. Se misuriamo la variazione rispetto al 2007, che è l'anno principe della “bolla immobiliare” nel nostro Paese, accanto al segno meno c'è scritto 56,13%: oltre la metà della produzione pro capite di cemento è andata perduta. Peggio di noi, dal 2010 ad oggi, ha fatto solo la Spagna, un altro Paese in cui nei primi anni Duemila si è costruito, costruito, costruito, aumentando a dismisura l'offerta di case, senza badare all'effettiva esistenza di una domanda, o alimentandola in modo fittizio garantendo mutui troppo facili, che oggi -complice la disoccupazione- sono diventati un grave problema sociale.

La Spagna, che a lungo ha conteso all'Italia la leadership nella classifica dei produttori Ue di cemento, non è metro di paragone per Il Sole 24 Ore, che nell'articolo che dà conto della crisi del settore evidenzia invece come in Francia e Germania il settore abbia sofferto meno.
Il giornale di Confindustria titola “il cemento torna agli anni 60”, e il significato può essere ambivalente: se da una parte esso rappresenta né più né meno i dati contenuti nella tabella (che tra l'altro evidenzia come dal 1948 al 2014, i consumi di cemento siano comunque quintuplicati, arrivando a coprire in modo permanente oltre 22mila chilometri quadrati di territorio, come ci ha ricordato l'ultima relazione dell'ISPRA sul consumo di suolo), dall'altro sembra indicare una strada. O, meglio, un'autostrada, almeno a leggere tra le righe del decreto Sblocca-Italia, che punta sulle infrastrutture pesanti (quelle viarie e ferroviarie, ma anche i metanodotti) e su una massiccia iniezione di cemento per far ripartire l'economia, come spieghiamo nel libro a più voci “Rottama Italia”, scaricabile in PDF dal sito www.altreconomia.it/rottamaitalia.

Di fronte a questi numeri, però, l'unica scelta possibile per il governo Renzi, che avrebbe dovuto cambiare verso al Paese, è quella di (provare a) governare il settore: secondo le informazioni de Il Sole 24 Ore, dal 2008 ad oggi sono stati chiusi 21 dei 60 impianti a ciclo completo presenti sul territorio nazionale, anche se in molti casi non si tratta di chiusure definitive, e il governo dovrebbe aprire un tavolo di concertazione con i produttori di cemento, per pianificare -insieme- il futuro del settore (e dei suoi 8.600 addetti). Non è pensabile, infatti, che la produzione di cemento ritorni ai livelli del 2006-2007, come ha ben evidenziato la scelta di Italcementi di chiudere nell'arco di un triennio quasi la metà dei propri stabilimenti, ma un governo responsabile non può lasciare che sia il mercato a decidere. Perché il mercato non è mai libero pienamente, come dimostrano -ad esempio- i finanziamenti pubblici che attraverso la Banca europea degli investimenti sono arrivati a Cementir e Italcementi per “ristrutturare” e trasformare in co-inceneritori di rifiuti gli impianti di Taranto e Rezzato (BS).

Anche perché, nel caso dei cementifici, stiamo parlando di un'industria insalubre, di uno dei settori le cui emissioni sono monitorate dall'Unione Europea nell'ambito del programma europea di riduzione legato al Protocollo di Kyoto. Così, non dev'essere solo la magistratura amministrativa a dire che cosa si può e non si può fare nei cementifici e coi cementifici, quando i cittadini -o le amministrazioni comunali- si rivolgono ai giudici del TAR per verificare la legittimità di un singolo atto. C'è bisogno della politica, e anche di un po' di buon senso. Quello che vorrebbe, ad esempio, che l'immagine di alcune delle aree più belle del Paese non venisse “sporcata” dalle ciminiere di un cementificio, né che quest'impianti continuino ad esistere nelle nostre città, a ridosso di zone densamente abitate. Partiamo da qui, dalla chiusura dei cementifici di Pederobba, Fumane in Valpolicella, Monselice ed Este, all'interno del Parco dei Colli Euganei, Taranto, Pescara, Piacenza e Barletta.
Così tanto cemento non serve più, prendiamone atto.

Introduzione al libro Rottama Italia, inventato e curato da Tomaso Montanari e Sergio Staino, edito e distribuito gratuitamente da Altreconomia. Testi di 16 sapienti autori e 13 graffianti artisti.

Perché vogliamo che l’Italia cambi verso. Ma davvero. Vogliamo un Paese moderno. E cioè un Paese che guardi avanti. Un Paese che sappia distinguere tra cemento e futuro. E scelga il futuro. Vogliamo un Paese in cui chiamiamo sviluppo ciò che coincide con il bene di tutti, e non con l’interesse di pochi. Un Paese in cui lo sviluppo sia ciò che innalza -e non ciò che distrugge- la qualità della nostra vita. Un Paese che cresca, e non un Paese che divori se stesso. Un Paese capace di attuare il progetto della sua Costituzione. Una Costituzione che da troppo tempo “è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”, una Costituzione in cui “è scritta a chiare lettere la condanna dell’ordinamento sociale in cui viviamo” (Piero Calamandrei).

Il decreto Sblocca-Italia è, invece, un doppio salto mortale all’indietro. Un terribile ritorno a un passato che speravamo di aver lasciato per sempre. Un passato in cui “sviluppo” era uguale a “cemento”. In cui per “fare” era necessario violare la legge, o aggirarla. In cui i diritti fondamentali delle persone (come la salute) erano considerati ostacoli superabili, e non obiettivi da raggiungere.

Giuseppe Dossetti avrebbe voluto che nella Costituzio- ne ci fosse questo articolo: “La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino”.

La prima, e più importante, resistenza allo Sblocca Italia passa attraverso la conoscenza, l’informazione, la possibilità di farsi un’opinione e di farla valere. Discutendone nelle piazze e nei teatri, nelle televisioni e alla radio. Richiamando al progetto della Costituzione i nostri rappresentanti in Parlamento. E, se necessario, anche ricorrendo al referendum: se -alla fine e nonostante tutto- questo sciagurato decreto “Rottama-Italia” diventerà legge dello Stato.

Perché non siamo contro lo Sblocca Italia. Siamo per l’Italia.

L‘affermazione “la scienza ha sempre ragione” non è scientifica. È ideologica. Lo è tanto quanto il pregiudizio reazionario per il quale ogni mutamento del modo di produrre, consumare, nutrirsi, avviene nel nome di interessi inconfessabili, e a scapito della salute della collettività umana.

L’acceso dibattito sugli ogm (vedi gli interventi su Repubblica di Vandana Shiva, Elena Cattaneo, Carlo Petrini, Umberto Veronesi) fatica a mondarsi di queste opposte rigidità. E fa specie che nel campo “pro”, che annovera valenti ricercatori e scienziati, pesi ancora come un macigno l’idea che il fronte degli oppositori sia un’accolita di mestatori che, in odio al progresso umano e alla libertà di ricerca, alimentano dicerie malevole e speculano sulla paura e l’emotività dell’opinione pubblica. Una volta esposte le ottime ragioni della ricerca scientifica e della sua necessaria libertà d’azione, perché evocare, tra i soggetti “antiscientifici” in qualche modo assimilabili agli oppositori degli ogm, anche i fattucchieri di Stamina? Allo stesso identico modo le frange più eccitabili del fronte anti-ogm possono immaginare che la ricerca genetica sulle piante sia nelle mani di squilibrati megalomani (alla dottor Frankenstein) o di avidi mercenari.
Le forzature polemiche fanno parte del gioco, ma non aiutano a mettere meglio a fuoco gli argomenti. La più autorevole istituzione mondiale in tema di agricoltura e alimentazione, la Fao (www.fao.org), mette a disposizione di competenti e incompetenti (come me) una sintesi esauriente e comprensibile delle potenziali ricadute positive e negative delle coltivazioni ogm, con una breve analisi della loro verificabilità.
Lo spazio di un articolo non permette di elencare tutti i punti (rimando i lettori al sito della Fao). Mi limito a dire che i “capi di accusa” sono divisi in tre gruppi: ricadute sull’ambiente agricolo e l’ecosistema; ricadute sulla salute umana; ricadute sull’assetto economico e sociale. Mi sembra interessante e molto rilevante che la Fao, sulla quasi totalità di questi punti critici, non esprima certezze. Non dice, cioè: questa critica è campata in aria oppure questa critica è corretta. Esprime dubbio. In larga parte dovuto alla tempistica medio-lunga che una verifica attendibile (scientifica!) richiederebbe.
Il principio di cautela — che non vuol dire condanna né assoluzione: vuol dire umiltà di giudizio — dovrebbe e potrebbe dunque essere uno dei punti di partenza di una corretta discussione comune, ammesso che mai ci si arrivi. Certo confligge, questo principio di cautela, con la comprensibile fretta con la quale i finanziatori della ricerca, in grande parte nutrita con fondi privati, vorrebbero mettere a profitto le loro scoperte e i loro prodotti. È esattamente per questo che Vandana Shiva mette in guardia contro la coincidenza di ruolo tra ricerca e commercializzazione. Sono campi di interesse entrambi utili e legittimi: ma la loro ibridazione — per dirla con una battuta transgenica — può generare mostri.
Una volta detto che la questione è molto complicata, coinvolge competenze scientifiche le più varie e non è archiviabile con un “sì” né con un “no”, colpisce assai che di questi “rischi” il più sottaciuto sia quello che, al contrario, è il più nevralgico e coinvolgente: la ricaduta socioeconomica. È anche questo, in fondo, un portato della crisi della politica: la rinuncia ormai quasi pregiudiziale a mettere in discussione, o anche solo a cogliere, le scelte strutturali, quelle che determinano gli assetti futuri.
Quasi inutilmente, in tutti questi anni, Carlo Petrini e il vasto movimento mondiale che si rifà a Slow Food e a Terra Madre hanno rivendicato la natura squisitamente politica del loro lavoro e della loro battaglia. Chi oggi rivendica la “sovranità alimentare” delle comunità produttive (e dei consumatori) compie la stessa operazione politico-culturale dei nostri avi socialisti quando dicevano “la terra a chi la lavora”. Si rivendica, né più né meno, l’autodeterminazione dei produttori, affidando ad essa la difesa delle biodiversità, della varietà delle colture, delle culture, delle identità locali.
Ovviamente è del tutto lecito sostenere che l’agroindustria, con la sua potentissima opera di selezione delle specie (tutte brevettate) e di inevitabile omologazione della produzione agricola mondiale, è perfettamente compatibile con la biodiversità e con le piccole coltivazioni; o addirittura che è giusto e utile rimpiazzare del tutto le produzioni tradizionali con la produzione agroindustriale. Ma non è lecito fare finta che non sia questo (il modo di produzione, la struttura stessa delle società future) il punto nodale. Non sono in ballo solo il potenziale allergenico di un pomodoro, o il chilo di pesticida per ettaro in più o in meno. L’ordine del giorno non è solo “gli ogm fanno bene, gli ogm fanno male”. È in discussione la vita stessa delle società rurali nel mondo (più della metà dei viventi), la ripartizione del potere, del reddito, delle conoscenze tra una rete infinita di piccole comunità e pochi, immensi e quasi sempre anonimi centri decisionali.
Sono in discussione gli 87 milioni di ettari di suolo africano acquistati dal 2007 a oggi dalle multinazionali americane e cinesi e da fondi di investimento opachi e onnipotenti: è una superficie grande quasi come Italia e Francia messe insieme, e a nessuno può sfuggire che coltivare pezzi così ingenti di pianeta a soia ogm per produrre biocarburante oppure incrementare le produzioni locali (più della metà dell’agricoltura africana è vocata all’autosostentamento) è una scelta tanto importante, tanto strutturale quanto lo è, nel bene e nel male, ogni grande rivoluzione tecnologico- scientifica, industriale, sociale.
E se l’Africa vi sembra lontana e comunque fuori portata, come può chi vive in Francia o in Italia non percepire che la straordinaria varietà delle colture, il legame strettissimo tra i luoghi e ciò che si coltiva, si mangia e si beve, insomma l’agricoltura plurale, “calda” e identitaria per la quale si battono i Petrini e si battevano i Veronelli, i Mario Soldati e i Gianni Brera, non è una frontiera del passato, è un caposaldo della nostra trama sociale, economica, culturale? Dunque è futuro allo stato puro? O dobbiamo dire “Italian style” solo parlando di borsette?
La libertà della ricerca scientifica è preziosa e va difesa: specie in campo medico, le biotecnologie possono dare frutti vitali, e Cattaneo e Veronesi fanno benissimo a tenere fermo il punto. Ma non è solo di questo che si parla, quando si parla di ogm. E i critici degli ogm possono ben dire di avere sbagliato qualcosa di sostanziale, in termini di comunicazione, se ancora oggi ci si scanna sul ravanello transgenico (faccio per dire) e non si capisce che non è di lui, è di quasi quattro miliardi di contadini che si sta parlando, del loro e del nostro futuro, e della loro libertà di scelta che è degna e importante quanto quella dei benemeriti ricercatori scientifici. Non è vero che “quando c’è la salute c’è tutto”. Conta la libertà. Conta la dignità. Conta che il potere sia in pochissime mani o nelle mani di molti.

Il Governo negli ultimi mesi ha definito come uno degli obiettivi principali il favorire, o meglio l'imporre processi di fusione e aggregazione tra aziende che gestiscono i servizi pubblici locali. La realizzazione di questo piano in realtà comporterà la definitiva consegna dei beni comuni ai capitali finanziari.

Diversi sono, infatti, gli indizi che vanno esplicitamente in questa direzione: il piano sulla "spending review" che punta alla razionalizzazione delle società partecipate dagli enti locali, seguendo lo slogan "riduzione da 8.000 a 1.000"; il decreto "Sblocca Italia" che, modificando profondamente la disciplina riguardante la gestione dell'acqua, arriva ad imporre un unico gestore in ciascun ambito territoriale e individua, sostanzialmente, nelle grandi aziende e multiutilities, di cui diverse già quotate in borsa, i poli aggregativi; la legge di stabilità in cui probabilmente verranno inserite quelle norme volte a imporre agli Enti Locali la collocazione in borsa delle azioni delle aziende che gestiscono servizi pubblici. Si arriverebbe, addirittura, a costruire un vero e proprio ricatto nei confronti degli Enti Locali i quali, oramai strangolati dai tagli, sarebbero spinti alla cessione delle loro quote al mercato azionario per poter usufruire delle somme derivanti dalla vendita, che il Governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del patto di stabilità.

In questa partita giocherà un ruolo determinante Cassa Depositi e Prestiti che ha annunciato di
mettere a disposizione 500 milioni di €. A riguardo va evidenziato che CDP raccoglie il risparmio postale di oltre 12 milioni di cittadini e lavoratori, che annualmente ammonta a 220 miliardi di euro. Dunque la sua funzione non dovrebbe essere quella di finanziare processi, come fusioni e aggregazioni, che contrastano con l'interesse collettivo bensì utilizzare il denaro raccolto per il finanziamento a tassi agevolati degli investimenti degli Enti Locali, ovvero recuperare la sua funzione pubblica originaria.

Appare sempre più evidente come in queste ultime settimane si stia imprimendo un'accelerazione alla discussione pubblica provando a concentrare l'attenzione esclusivamente su tale tema attraverso la costruzione di una propaganda che prova a disegnare uno scenario di ineluttabilità di questo processo utilizzando argomentazioni come la necessità di superare l'eccessiva frammentazione delle aziende, di ridurre gli sprechi e di realizzare delle aziende di dimensioni tali da essere in grado di competere sul mercato, anche globale, e di effettuare gli investimenti.

Ne emerge così un dibattito pubblico del tutto distorto in quanto si prova a nascondere il reale obiettivo sotteso, ovvero la privatizzazione del servizio idrico e dei servizi pubblici locali, e finanche la finanziarizzazione degli stessi.

A nostro avviso la proposta di creare pochi soggetti gestori, intorno alle grandi multiutilities esistenti, che si spartiscano tutto il territorio nazionale, ripercorre la strada dei fallimenti testimoniati dai bilanci in debito di queste società e ripropone l'idea di vendere servizi essenziali per coprire buchi di bilancio. Si tratta esclusivamente di un’operazione che espropria i consigli comunali dei loro poteri e allontana le decisioni dal controllo democratico. Oggi serve una gestione dell'acqua, dei rifiuti, del TPL, dell'energia, prossima ai cittadini e alle amministrazioni locali, per garantirne la trasparenza e la partecipazione nella gestione dei servizi.

Oggi più che mai una scelta del genere non deve essere perseguita. Al contrario è necessario dare seguito alla volontà popolare espressa con il referendum del 2011 e quindi sottrarre l'acqua e i servizi pubblici dalle logiche di mercato e di profitto. Come Forum dei Movimenti per l'Acqua intendiamo denunciare con forza la gravità di questo progetto e dichiariamo sin da subito che ci mobiliteremo per contrastarlo.

«Il manifesto, 8 ottobre 2014

Non era mai acca­duto prima d’ora che un nutrito gruppo di intel­let­tuali, giu­ri­sti, sto­rici dell’arte, eco­no­mi­sti e ambien­ta­li­sti scri­ves­sero un instant book con­tro un decreto legge del governo. Non sono man­cate cri­ti­che a ogni prov­ve­di­mento legi­sla­tivo, ma arri­vare a pro­durre un orga­nico libro segnala la gra­vità con­te­nuti nel decreto. Esce oggi un agile volume infor­ma­tico Rot­ta­mi­ta­lia edito da Altre­co­no­mia, ideato da Ser­gio Staino e curato da Tomaso Mon­ta­nari. Il libro si può sca­ri­care sul sito www​.altre​co​no​mia​.it/​r​o​t​t​a​m​a​i​t​a​lia e lo potete tro­vare anche sulla edi­zione on line de Il Mani­fe­sto.

Sono due i motivi che hanno reso pos­si­bile il volume. In primo luogo i con­te­nuti che denun­ciano la gra­vità della crisi di pro­spet­tiva delle classi diri­genti del paese. Sba­glie­rebbe infatti chiun­que pen­sasse che siamo di fronte al pen­siero di Renzi, di Lupi o di qual­siasi altro espo­nente di secondo piano del governo. Il decreto è stato scritto diret­ta­mente dalle lobby che nel sonno della poli­tica, domi­nano incon­tra­state il paese.

Gli arti­coli che libe­ra­liz­za­zino le pos­si­bi­lità di tri­vel­la­zioni petro­li­fere in ogni parte del paese sono da anni richie­ste dai petrolieri.

Le norme che annul­lano il potere di con­trollo delle Soprin­ten­denze nella tutela dell’ambiente sono da anni nell’agenda dalla lobby delle grandi opere. Quelle che met­tono le basi per una nuova fase di cemen­ti­fi­ca­zione delle città sono volute dalla lobby dei pro­prie­tari immo­bi­liari. Le norme che faci­li­tano la ven­dita del patri­mo­nio immo­bi­liare dello Stato sono chie­ste a gran voce dal mondo finan­zia­rio inter­na­zio­nale. E, infine, un intero capo del prov­ve­di­mento (il quarto) affida il futuro delle opere pub­bli­che e delle città alla finanza di rapina respon­sa­bile della crisi mon­diale di que­sti anni.

La gra­vità dello «Sblocca Ita­lia» sta dun­que in que­sto qua­dro gene­rale. Una classe diri­gente inca­pace di fare i conti con il fal­li­mento delle ricette neo­li­be­ri­ste vuole con­ti­nuare ancora con le stesse poli­ti­che distrug­gendo ulte­rior­mente la strut­tura dello Stato. Men­tre ad esem­pio la tas­sa­zione sulle imprese e sulle fami­glie cre­sce senza sosta, con alcuni arti­coli si rega­lano milioni di euro alle grandi imprese che si spar­ti­scono da decenni il sistema delle grandi opere. Sono infatti pre­vi­sti gene­rosi sconti fiscali per le società con­ces­sio­na­rie. Milioni di euro che pas­sano dalle fami­glie ita­liane sem­pre più impo­ve­rite ai soliti noti. Il caso ha voluto che negli stessi giorni in cui Renzi pro­po­neva tali scon­cezze, la Corte dei Conti ha accer­tato che solo nel periodo 2006 – 2010 per la costru­zione della linea «C» della metro­po­li­tana di Roma, devono essere resti­tuiti 370 milioni ingiu­sta­mente gua­da­gnati per­ché le regole sono state can­cel­late e non ci sono più stru­menti di con­trollo. Cio­no­no­stante con­ti­nua la rumo­rosa invet­tiva con­tro la «buro­cra­zia» e con lo Sblocca Ita­lia si allen­tano ulte­rior­mente le regole. Lo stesso Raf­faele Can­tone, in sede di audi­zione par­la­men­tare ha dato l’allarme su que­sto punto.

Ma il libro segnala anche una impor­tante novità: la matu­ra­zione di una visione alter­na­tiva del futuro dell’Italia che in que­sti anni si è ali­men­tata nelle tante ver­tenze ter­ri­to­riali e che è oggi arri­vata ad una con­vin­cente sin­tesi. La pre­messa al libro fir­mata da Paolo Mad­da­lena, vice pre­si­dente eme­rito della Corte Costi­tu­zio­nale, si inti­tola «Fuori della Costi­tu­zione» e ragiona sul fatto che il decreto è con­tra­rio alla carta fon­da­men­tale in tutte le norme che affi­dano il futuro dei ter­ri­tori e delle città ai pri­vati invece e che sven­dono il patri­mo­nio pubblico.

Nel libro, insomma, si ritrova il filo del ragio­na­mento sulla piena attua­zione della Costi­tu­zione ela­bo­rato da Sal­va­tore Set­tis nel suo Pae­sag­gio, Costi­tu­zione Cemento(2012) e com­ple­tato sem­pre da Set­tis con Mad­da­lena in Costi­tu­zione incom­piuta(2013, con Leone e Mon­ta­nari) e poi ulte­rior­mente per­fe­zio­nato da Mad­da­lena in Il ter­ri­to­rio bene comune degli ita­liani (2014). Il legame con la Costi­tu­zione for­ni­sce un’inedita forza uni­fi­cante alle tante lotte dei comi­tati che un’accorta pro­pa­ganda ha bol­lato come affette da sin­drome del nimby e che sono invece l’unico stru­mento in mano alla popo­la­zione per opporsi ai Rot­ta­ma­tori d’Italia.

«Rot­tama Ita­lia» nasce da un’idea di Ser­gio Staino, ed è stato curato da Tomaso Mon­ta­nari. Hanno par­te­ci­pato — gra­tui­ta­mente– al pro­getto Elle­kappa, Altan, Tomaso Mon­ta­nari, Pie­tro Rai­tano, Gian­nelli, Mauro Biani, Paolo Mad­da­lena, Gio­vanni Losa­vio, Mas­simo Bray, Mara­motti, Edoardo Sal­zano, Buc­chi, Paolo Ber­dini, Vezio De Lucia, Riverso, Sal­va­tore Set­tis, Bedu­schi, Vin­cino, Luca Mar­ti­nelli, Anna Donati, Fran­za­roli, Maria Pia Guer­mandi, Vauro, Pie­tro Dom­marco, Dome­nico Fini­guerra, Giu­liano, Anna Maria Bian­chi, Anto­nello Capo­rale, Staino, Carlo Petrini.

Un'analisi acuta su un tema sul quale la discussione proseguirà anche su eddyburg. «E' facile capire per­ché oggi, soprat­tutto tra le nuove gene­ra­zioni, destra e sini­stra sono parole vuote, o se volete con­te­ni­tori usa e getta».

Il manifesto, 6 ottobre 2014, con postilla

L’editoriale di Norma Ran­geri (il mani­fe­sto del 5 otto­bre) merita una rifles­sione a par­tire dalle “parole” che defi­ni­scono il campo poli­tico: la destra e la sini­stra nel nuovo secolo. Ran­geri parte dalla con­sta­ta­zione di una sini­stra da troppi anni ter­ri­bil­mente divisa, liti­giosa, auto­di­strut­tiva, e auspica la nascita di una «sini­stra dei diritti». Soprat­tutto, mette il dito sul «furto di parole» che con­tano come «libertà» e «cam­bia­mento», rubate da Ber­lu­sconi, la prima, da Renzi la seconda. Ne aggiun­ge­rei un’altra rubata dal Pd di Renzi, com­plice l’ex-Cavaliere: la sinistra.

Ripar­ti­rei da qui: dal senso delle parole che nel campo della poli­tica, come lo defi­niva Bour­dieu, con­tano come pie­tre, almeno quanto in un cam­pio­nato di cal­cio con­tano i gol. Per que­sto vale lo sforzo di pro­vare a sto­ri­ciz­zare la meta­mor­fosi del lin­guag­gio e delle cate­go­rie poli­ti­che dell’ultimo trentennio.

C’era una volta una netta distin­zione tra i mili­tanti e gli elet­tori della destra e della sini­stra. I primi si pote­vano iden­ti­fi­care facil­mente con i con­ser­va­tori, i secondi con i pro­gres­si­sti. Essere con­ser­va­tori signi­fi­cava difen­dere lo sta­tus quo, l’ordine sociale e gerar­chico esi­stente, cre­dere in deter­mi­nati valori quali religione-patria-famiglia, e quindi bat­tersi per la con­ser­va­zione delle forme sociali, eco­no­mi­che e poli­ti­che ere­di­tate, a par­tire dalla sacra­lità della pro­prietà pri­vata. Essere pro­gres­si­sti signi­fi­cava volere il cam­bia­mento dell’ordine sociale, met­tere in discus­sione i pri­vi­legi, le forme alie­nanti della reli­gione, le super­sti­zioni e le forme arcai­che delle cul­ture locali, pro­muo­vere il pro­gresso e la moder­niz­za­zione della società, della cul­tura, delle istituzioni.

Una visione positivistica

Cambiamento-Progresso-Modernizzazione: que­ste sono state per più di un secolo le parole chiave delle forze poli­ti­che della Sini­stra. Costi­tui­vano i pila­stri di una visione posi­ti­vi­stica della sto­ria umana, che aveva iscritto nel suo codice gene­tico un lieto fine: la libe­ra­zione dello sfrut­ta­mento dell’uomo sull’uomo. L’umanità, gra­zie al pro­gresso tec­no­lo­gico, si sarebbe libe­rata dalla schia­vitù del lavoro legata al biso­gno, così come era avve­nuto per il lavoro dei servi e degli schiavi nelle società pre­mo­derne. Que­sto sce­na­rio, in cui si com­bi­na­vano e mar­cia­vano insieme le con­qui­ste di nuovi diritti per i lavo­ra­tori e per le fasce più deboli della società (wel­fare State), la cre­scita eco­no­mica ed il pro­gresso tec­no­lo­gico si è spez­zato, prima sul piano cul­tu­rale e poi poli­tico, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Si è veri­fi­cata una “cata­strofe”, nell’accezione di René Thom, vale a dire una bifor­ca­zione tra forze che si intrec­cia­vano lungo una linea ascen­dente e che adesso pro­ce­dono per linee divergenti.

Un primo ele­mento forte di rot­tura, all’interno della sini­stra euro­pea, è nato con la que­stione delle cen­trali nucleari: per la sini­stra “sto­rica” rap­pre­sen­ta­vano una rispo­sta pro­gres­si­sta al fab­bi­so­gno di ener­gia per lo svi­luppo eco­no­mico; per la sini­stra “alter­na­tiva” – movi­menti paci­fi­sti, ambien­ta­li­sti, ecc. – le cen­trali nucleari erano solo il biso­gno dro­gato di un modello di svi­luppo ener­gi­voro e peri­co­loso che andava radi­cal­mente cam­biato. Quasi con­tem­po­ra­nea­mente nasceva, nell’area della sini­stra “alter­na­tiva”, una oppo­si­zione all’espansione dell’agricoltura indu­striale (fino alla con­te­sta­zione dei primi espe­ri­menti di Ogm), agli iper­mer­cati e alla cemen­ti­fi­ca­zione indi­scri­mi­nata, per finire con la con­te­sta­zione di alcune Grandi Opere che si anda­vano pro­get­tando. Nasceva un’idea di “locale” come oppo­si­zione ai pro­cessi di glo­ba­liz­za­zione capi­ta­li­stica, di tra­di­zioni e iden­tità da recu­pe­rare (una volta appan­nag­gio della destra sto­rica), di una alter­na­tiva alla stessa cate­go­ria dello “svi­luppo”, come fine dell’agire sociale. In breve: l’equazione progresso/tecnologia/modernizzazione/progresso dell’umanità, era saltata.

Nel corso degli anni ’90 e del primo decen­nio del nuovo secolo que­sta spac­ca­tura all’interno della sini­stra poli­tica è diven­tata sem­pre più pro­fonda, men­tre sul campo avverso nasceva una nuova destra neo­li­be­ri­sta che si appro­priava delle parole “cam­bia­mento”, “pro­gresso”, e per­sino “rivo­lu­zione” (nei con­fronti dello Stato buro­cra­tico e dei lacci e lac­ciuoli pro­dotti dai diritti dei lavo­ra­tori). Scioc­cata dalla ver­go­gnosa e rovi­nosa caduta dei paesi “socia­li­sti”, la sini­stra sto­rica ten­tava di inse­guire i pro­cessi di moder­niz­za­zione capi­ta­li­stica diven­tando più rea­li­sta del re. Le leggi di mer­cato e la cre­scita eco­no­mica, senza se e senza ma, erano diven­tate le nuove stelle polari, il ter­reno su cui sfi­dare la nuova destra.

Que­sti veloci cam­bia­menti nel lin­guag­gio come nelle cate­go­rie poli­ti­che, qui sin­te­ti­ca­mente rias­sunti, hanno por­tato alla for­ma­zione di un Pen­siero Unico da cui è dif­fi­cile uscirne. Allo stesso tempo, il modo di pro­du­zione capi­ta­li­stico si è pro­fon­da­mente tra­sfor­mato, sia attra­verso una tor­sione finan­zia­ria (il Finan­z­ca­pi­ta­li­smo, secondo la felice defi­ni­zione di Luciano Gal­lino), sia attra­verso l’adozione di tec­no­lo­gie sem­pre più inva­sive e distrut­tive rispetto all’ecosistema.

Se tutto que­sto è vero, allora è facile capire per­ché oggi, soprat­tutto tra le nuove gene­ra­zioni, destra e sini­stra sono parole vuote, o se volete con­te­ni­tori usa e getta. Par­lare di “nuovo sog­getto poli­tico della sini­stra” è un’espressione che parla solo agli addetti ai lavori o alla gene­ra­zione che ha vis­suto le lotte degli anni ’60 e ’70. Intanto, que­sta osses­sione del “nuovo”, come valore in sé, fa parte della stessa ideo­lo­gia del sistema in cui viviamo e in cui ogni giorno la pub­bli­cità ci mostra un nuovo pro­dotto. Così come “cam­bia­mento”, la parola più usata da Renzi (e una volta dalle forze della sini­stra) è una parola priva di senso. Il mondo cam­bia comun­que per­ché la vita è dive­nire di per sé. Biso­gne­rebbe eli­mi­narla dal voca­bo­la­rio poli­tico o spe­ci­fi­care quale cam­bia­mento si vuole produrre.

Ridotti a individui

Piut­to­sto ci sarebbe da doman­darsi come è pos­si­bile che un sistema economico-politico fal­li­men­tare, che crea povertà cre­scenti nell’era dell’abbondanza delle merci e delle tec­no­lo­gie, che crea insi­cu­rezza eco­no­mica e sociale nella mag­gio­ranza della popo­la­zione, non venga rove­sciato. Come pos­siamo ricreare un legame sociale e cul­tu­rale tra milioni di per­sone, ridotte a indi­vi­dui, che lot­tano o resi­stono solo rispetto a una spe­ci­fica situa­zione (con­di­zioni di pre­ca­rietà, licen­zia­menti, ecc.), ma sono inca­paci di met­tersi insieme, di essere soli­dali con chi vive nelle stesse condizioni.

Un esem­pio tra i tanti: la chiu­sura della Fiat di Ter­mini Ime­rese, con cin­que­mila fami­glie sul lastrico, non ha susci­tato la soli­da­rietà della società sici­liana, a par­tire dai circa otto­mila pre­cari (Lsu, Lpu) che ogni tanto scen­dono in piazza per i fatti loro. Le parole della That­cher , alla fine del secolo scorso, suo­nano come una fune­sta pro­fe­zia: «La società non esi­ste, esi­stono solo gli individui».

Gram­sci scri­veva dal car­cere che il Mez­zo­giorno appare come una «grande disgre­ga­zione sociale», oggi è tutta l’Italia a tro­varsi in que­sta con­di­zione. Per que­sto penso che non esi­sta una via di uscita solo pen­sando al “sog­getto poli­tico”, che poi dovrà con­fron­tarsi con un mer­cato elet­to­rale dove impera ormai un duo­po­lio, in Ita­lia come negli Usa, dove il con­trollo dei mass media è deter­mi­nante. Abbiamo invece urgente biso­gno di una grande tes­si­tura sociale e cul­tu­rale e di parole in grado di costruire la visione del futuro desi­de­ra­bile e cre­di­bile. A que­sto impe­gno siamo chia­mati in tanti, anche chi si è allon­ta­nato dalla politica.

postilla
Proprio sabato prossimo, l'11 ottobre, se ne discuterà a Firenze, alla Libera univerità Ipazia, al Giardino dei ciliegi, via dell'Agnolo 8. Qui il link alla locandina

«Dà un’impressione di ascoltare, se per ascoltare intendiamo non tanto sviscerare, ma il mero prendere in considerazione. Una dialettica hegeliana fatta di tesi, finta attenzione all’antitesi, sintesi».

Il Post, 2 ottobre 2014

Nelle ultime settimane Matteo Renzi è stato sempre al centro del dibattito pubblico: il viaggio in America, Marchionne, i Clinton, l’inglese strampalato, l’intervista da Fazio, il bailamme sull’articolo 18, lo sberleffo dei sindacati, la direzione PD, la polemica con la minoranza, le critiche da parte di Corriere eRepubblica, etc… Anche chi non fosse interessato alle questioni del Partito Democratico o agli affari del governo quando entrano nell’occhio di bue, non può evitare di incrociare un affondo di Renzi, una sua dichiarazione, un intervento – che sia all’Onu o allo stadio, un tweet o un’interpellanza. È una forma di ubiquità che vuole significare attenzione, presenza; un dinamismo in perenne accelerazione che è il segno di una condizione di permanente attualità. Stare sempre sul pezzo, questo è il diktat.

Davanti a questa pervasività comunicativa, il contenuto di quello che afferma Renzi perde di rilievo. Ci si può irritare per la sciatteria anti-istituzionale con cui liquida i sindacati, la superficialità con cui affronta il tema dell’articolo 18, o anche della cafonaggine dell’usare un inglese fantozziano rivendicandoselo. Ma si perde il senso del discorso di Renzi che è strutturalmente altro, e per questo spiazzante – sempre spiazzante – rispetto a quello che è il resto della comunicazione politica; se pensiamo a quella dei suoi compagni di partito ma anche da quella berlusconiana o grillina.

Ma cos’ha di diverso, di specifico, la retorica renziana?

Partiamo dai dati quantitativi. Guardatevi l’intervento di Bersani o di D’Alema(impresentabile, spocchioso, lamentoso il primo; sarcastico il secondo) alla direzione del Pd, e confrontatelo con l’ intervento iniziale di Renzi. Quale è la differenza sostanziale che non ci mette molto a saltare all’occhio? Perché Bersani sembra imballato, a ralenti, e Renzi un disco da 33 fatto girare a 45?
Si tratta della quantità di parole per unità di tempo: Renzi pronuncia il doppio se non il triplo delle parole di Bersani. Ascoltare Bersani per chi ha meno di quarant’anni dà la sensazione di prendere un ascensore che si ferma trenta secondi ogni piano. Renzi invece fa mai pause. È assolutamente metadiscorsivo, prefigura – attraverso parentesi, prolessi e analessi – il discorso che sta per fare; discorso che spesso non ha niente di sorprendente, ma viene talmente caricato di attesa e di enfasi che pare sempre di essere un punto di approdo definitivo, risolutorio, di un ragionamento. Non lascia mai spazio a una possibile riflessione su quello che sta dicendo. Si potrebbe dire che riempie, o meglio satura, lo spazio sonoro. Senza il martellamento di Berlusconi o di Grillo o dei loro cloni; ma con una fluidità che è soprattutto ritmica, fatta di un andamento dattilico.
L’unico che riesce a competere da un punto di vista della velocità (numero parole per minuto) è Giuseppe Civati – qui il suo intervento. Ma le differenze tra i due stili retorici sono evidenti (Civati è cartesiano, spesso icastico, impone una lucidità e un’analisi di secondo passo dove c’è una confusione comunicativa) e mettono in luce per contrasto un’altra caratteristica di quella che viene definita genericamente “parlantina” del premier: le sue accelerazioni. Qualunque discorso che Renzi fa non è solo veloce, ma è accelerato. Parte piano e si infervora. Alza i toni, si scalda.
Il video dell’ospitata a Che tempo che fa è esemplare: anche quando Fazio pone delle domande molto piane, Renzi comincia quieto, e in pochi secondi è già su di giri, poi non scala mai le marce al contrario. E che cos’è che va a pronunciare nel cuore dell’enfasi? Quando sembra arrivare al clou della sua argomentazione, che in realtà non è mai consequenziale, sintattica, ma sempre associativa, Renzi afferma con tono apodittico una qualche banalità. Una cosa del tipo: «C’è tanta voglia di Italia nel mondo», «Bisogna restituire la fiducia agli italiani», «la scuola è importante», cita un esempio sul quale non si può che essere d’accordo: «Io sono di quella donna che non ha la maternità», «io sto con quell’anziano che guadagna poche centinaia di euro di pensione sociale».
Il suo populismo è sempre identificativo. Sfrutta in modo sistematico questa ideologia del mondo contemporaneo: la cultura feticistica dell’immedesimazione. Come dichiara nell’intervista a Fazio, i problemi di chiunque sono i problemi di Renzi. Il senso della sua politica si basa su una forma di illusione molto efficace: prendersi cura degli altri vuol dire caricarsi addosso i loro problemi, afferma Renzi. E l’espressione con cui la dice vuole mostrare una reale identificazione empatica con qualunque cittadino tirato in ballo. Ma non è solo questo “effetto di vicinanza” che genera un senso di confidenza e di immedesimazione immediata, al di là delle ragioni. È un processo che non ha la perversa polimorficità di uno Zelig, ma quella fenomenologia dell’uomo comune che Umberto Eco attribuiva a Mike Buongiorno. Renzi non sale mai in cattedra, non è mai premier. Persino all’Onu, toppando clamorosamente la pronuncia dell’inglese e non vergognandosene, dichiara implicitamente: Sono come voi. Immaginatevi in una situazione ufficiale, ecco io mi carico le vostre ansie da prestazione e le risolvo così, rovesciando il canone, eliminando il vostro incubo emotivo maggiore: l’ansia da prestazione.
Ma non è solo un’attitudine all’indentificazione che rende convincente l’oratoria di un discorso che, se fosse letto, troveremo trito e ritrito, un cumulo di luoghi comuni (fateci caso a quanto poco Renzi scriva in una forma più lunga di un tweet o un post, e di come invece parli tantissimo; oppure leggete i suoi libri e saggiate la debolezza argomentativa e stilistica e la povertà dell’analisi e dell’invenzione).
Come fa dunque a essere funzionale un discorso così banale? Per il ricorso ad alcuni stilemi.
Primo, le voci. Renzi fa le voci. Mentre parla, imita letteralmente i toni dei suoi eventuali interlocutori: fa la voce di quello che si lamenta, di quello che è stufo di pagare le tasse, di quello che nel suo partito gli è avversario. Usa il fiorentino popolare, l’aulico, il trombonesco… Inscena un dialogo in cui tiene anche il ruolo dell’interlocutore: le sue battute da premier diventano autorevoli per semplice contrasto fonico con queste vocine.
Secondo, reagisce a tutti gli stimoli: mentre tiene il filo di un discorso semplice al limite del triviale abbiamo detto, Renzi crea incisi, anticipa l’interlocutore, fa una smorfia che indica altro rispetto a quello di cui sta parlando, risponde con una chiosa secca a uno stimolo che viene dal pubblico. Si autocommenta, vedi l’uso del tweet. Soprattutto non è mai monodirezionale, ma è sempre multitasking, tiene sempre almeno due o tre livelli del discorso aperti. Ascolta, o meglio simula un’attenzione a ogni aspetto della reazione alle sue parole: non è attento al contenuto (sarebbe impossibile per chiunque riuscire a rispondere a tutto), ma è alla forma sì: crea l’illusione di consapevolezza di ogni reazione, di ogni tipo di stimolo esterno. Dà un’impressione di ascoltare, se per ascoltare intendiamo non tanto sviscerare, ma il mero prendere in considerazione. Una dialettica hegeliana fatta di tesi, finta attenzione all’antitesi, sintesi.
Terzo, quelle che Makkox chiama le “avversative reggae”. Ossia un modo di simulare un’opposizione tra il vecchio rappresentato dal mondo degli avversari politici e il nuovo incarnato dal suo stile, e basato su un semplice spostamento linguistico. Il suo discorso è stracolmo di queste dicotomie, di questi rovesciamenti, di non solo ma anche, che non sono mai dei vel vel veltroniani, ma sempre degli aut aut – rappresentazioni di polarità. E il nemico è ogni volta «la mentalità stantia», qualunque cosa voglia dire quest’espressione.
Quarto, le metafore, e la spiegazione delle metafore. Nell’intervista con Fazio, Renzi ne ha preparate un bel po’. Una in particolare è telefonata, sta più o meno a metà dell’intervista. È quella dell’Italia come una macchina che abbiamo lasciato con le luci accese. Sono arrivati i tecnici con i cavi e hanno provato a rianimarla, non ci sono riusciti, ora si tratta di spingere. Appena dopo averla esposta, Renzi la spiega; ma non basta: racconta anche come gli è venuta in mente, a lui e al suo capo-comunicazione Filippo Sensi. E uno potrebbe domandarsi: perché quest’eccesso di spiegazione, di confessione del dietro le quinte? Raccontare una barzelletta e spiegarla. Questo didascalismo ha funzione: produrre un effetto di sincerità. Renzi deve apparire sempre sincero e ci riesce: fa riferimento a suoi aneddoti personali, e racconta il retropalco della politica come se fosse lui stesso un infiltrato. In questo modo esibisce una possibile confidenza con quelli che sono i suoi lettori prima e i suoi elettori dopo.
Questo tipo di elementi e altri (tutta la gestualità, per dire: esempio, le mani con il pollice e indice ravvicinati, o anche le mani ravvicinate a pugno, che esprimono un feticcio di concretezza) compongono un codice che ha un effetto performativo ben preciso. Innanzitutto, evitare il merito della questione. È interessante, riguardandosi il video di 48 minuti di Che tempo che fa, osservare come Fazio – non certo un intervistatore aggressivo – chieda ben cinque volte a Renzi la ragione effettiva della proposta di cancellazione dell’articolo 18. Renzi per cinque volte parla d’altro, e anche di fronte a Fazio che gli ripete: «Questo è chiaro, ma…», non si scompone e ricomincia: metafore, avversative, accelerazioni, indice e pollice ravvicinati, vocine.
Inoltre, il discorso di Renzi è sempre rivolto a un pubblico, a una platea, non è mai solo per l’interlocutore; glielo fa notare anche D’Alema, che si trova spiazzato rispetto a un codice di riunione di partito che non è il suo. Il luogo espressivo di Renzi è in un certo senso sempre un comizio – in questo è figlio del suo tempo: le discussioni sui social network quando mai sono private o dirette solo ad personam. Per esempio: guardate la sua intervista e confrontatela con il suo intervento alla direzione Pd. Notate delle differenze sostanziali? Pensate a una qualunque situazione informale in cui Renzi risponde alle domande dei giornalisti chessò sulla Fiorentina, e fate il paragone con il suo discorso all’Onu, in quella strana lingua che è il suo globish? Vi sembra agire in contesti differenti?
Che ragione ha tutto questo? Che il fine della retorica renziana non è la convinzione, l’aver ragione, ma sempre e comunque il consenso. Il suo stile è pervicacemente elettorale. Il consenso muove verso una fiducia, 40 e passa per cento, ma anche oltre. La persuasione ragionevole cerca la stima e la convinzione, molto più fragile e molto più ristretta, un compromesso, una convergenza, un’omologia per dirla in senso socratico, tanto più solida quanto più la discussione s’infittisce. Renzi è perennemente macrologico, mai micrologico invece. Non è per il botta e risposta: assumere le idee degli avversari vuol dire sempre annullarle.
In questo senso si capisce allora l’attacco delle settimane scorse tutto strumentale ai sindacati. Un presidente del consiglio di sinistra che attacca in modo violento e indiscriminato i sindacati, per quale motivo lo fa? Per una ragione non complicata: a chi non stanno un po’ sul cazzo i sindacati? Se da sindaco rottamatore del Pd attaccava il Pd, ora che è premier e segretario attacca sindacato e poteri forti. Non nelle forme reali: ma in quanto fantasmi. Quanti si indigneranno? Cosa voglia davvero, cosa intenda suggerire con questi attacchi rimane oscuro. Sicuramente produce consenso. Il risentimento viene tesaurizzato meglio di quanto ormai riesca a Grillo.
Per tutta questa serie di ragioni, risultano spuntate le recenti critiche piccate che gli muove nel suo ciclico editoriale-omelia Scalfari ogni domenica mattina su Repubblica a cui si è aggiunta la chiosa diaconale di De Bortoli qualche giorno fa sul Corriere. Renzi non è semplicemente una macchinetta da slogan, ma ha un ruolo socialmente trasformativo. Creare un partito di massa che si identifica e si compatta non più in un particolare tipo di bisogni materiali o di ideali, ma in una condizione emotiva. La nuova coscienza di classe è quella di un popolo di ansiosi. E in questo senso la crisi della rappresentanza ha una scaturigine interiore: la società post-comunitaria degli individui monadi è composta da persone che desiderano essere ascoltate, viste, riconosciute. La caratteristica precipua dei nuovi adulti è l’ipersensibilità, la fragilità della psiche, una perenne ansia da prestazione. Hanno bisogno di sollievo, hanno bisogno di qualcuno che s’identifichi con loro. O che soprattutto sappia fingere molto molto bene.

«Il discorso assertivo afferma, dichiara, definisce, prevede e prescrive, senza preoccuparsi di spiegare a chi ascolta né il perché, né il come, né il quando, né con quali mezzi e risorse. E’ un tipo di discorso che fa coincidere nome e cosa, affermazione e fatto».

Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2014

Si parla con…, si parla a… Vuol dire che parlare è innanzi tutto comunicare. Ma se la comunicazione non arriva perché chi ascolta non capisce la lingua di chi parla? E viceversa? Be’, smetteranno di parlarsi. E se non possono smettere perché hanno interessi, bisogni, pretese in comune? La situazione che si determina in questi casi è stata descritta per la prima volta nella Bibbia e prende il nome dalla città in cui avvenne: Babilonia. E le conseguenze furono talmente tragiche che tutti, contemporanei e discendenti, furono d’accordo che, dopo il Diluvio, la confusione delle lingue era la punizione più severa che Dio potesse infliggere all’umanità. Non credo che Dio c’entrasse, ma per quanto riguarda la gravità delle conseguenze, non ho dubbi.

Per questo mi preoccupa – e non da oggi – il fatto che il discorso pubblico in Italia si stia svolgendo su due registri diversi, lontani l’uno dall’altro fino al punto di far pensare a due lingue diverse, mentre sono entrambi in italiano.

Nella comunicazione politica italiana si fronteggiano interlocutori che utilizzano il discorso argomentativo e interlocutori che utilizzano il discorso assertivo. E anche i loro ascoltatori (gli italiani) sembra che si dividano tra chi capisce e ama il primo tipo di discorso e chi capisce e ama il secondo. Per discorso argomentativo intendo quel tipo di discorso che, rispettando i principi logici di causa ed effetto e di identità e non contraddizione, si svolge secondo il filo del ragionamento, esplicitando le premesse da cui parte, chiarendo i perché della scelta delle premesse e dei fatti che ne conseguono e concludendo con previsioni di risultati anch’esse razionalmente argomentate. E’ un discorso che non confonde la parte con il tutto, il singolare con il plurale; è un discorso basato su una corretta coniugazione dei verbi, sicché non confonde il presente con il desiderabile futuro; è un discorso che tiene conto del fatto che, quando si vuol cambiare qualcosa, bisogna intervenire anche sulle cause che hanno prodotto quella cosa.

Il discorso assertivo è tutt’altra cosa: afferma, dichiara, definisce, prevede e prescrive, senza preoccuparsi di spiegare a chi ascolta né il perché, né il come, né il quando, né con quali mezzi e risorse. E’ un tipo di discorso che fa coincidere nome e cosa, affermazione e fatto.

Spesso i politici di professione usano il linguaggio assertivo: è semplice da capire, diretto, immaginoso, tocca le corde profonde degli ascoltatori e consente con facilità di camuffare contraddizioni, di evitare rendicontazioni, in una parola di eludere i conti con la realtà. Mussolini era un maestro del linguaggio assertivo, che piaceva molto a molti italiani; fino alla tragica e grottesca conclusione, quel «Li fermeremo sul bagnasciuga» con cui annunciò agli italiani cosa intendeva fare quando gli Alleati fossero sbarcati in Sicilia.

Ma, ripeto, non c’è politico che non faccia ricorso ogni tanto al linguaggio assertivo, agli slogan: “Bandiera rossa trionferà” di contro a “ “I comunisti distruggono la famiglia”. Però ci sono state stagioni della vita politica italiana in cui il discorso assertivo fu utilizzato prevalentemente nei comizi, nei manifesti elettorali, magari nelle feste dell’Unità o nelle adunanze dell’Azione cattolica. Non nelle interviste, nelle conferenze stampa, nelle tribune politiche in tv. E nemmeno per illustrare proposte di legge da discutersi in Parlamento.

Le cose sono cambiate dalla discesa in campo di Berlusconi, altro maestro del linguaggio assertivo. Il milione di posti di lavoro, l’abolizione delle tasse, le grandi opere e il Ponte sullo stretto, la ricostruzione più rapida al mondo della città terremotata, i ristoranti pieni e i voli aerei tutti prenotati, per non ricordare che le asserzioni più celebri. Abilissimo utilizzatore della tv, Berlusconi asseriva anche con le immagini: ricordate l’edificante album di famiglia con cui si presentò in pubblico il patron delle cene eleganti?

Renzi si inserisce bene nella tradizione assertiva. Ha cominciato con l’affermazione dell’esigenza di rottamare (Chi? Perché?) onde realizzare il cambiamento (Quale? Come?) e prosegue con immaginose affermazioni, che raramente rispettano il principio di non contraddizione o chiariscono i rapporti di causa ed effetto.

Come già Berlusconi, anche Renzi ha successo. Il discorso argomentativo annoia, il discorso assertivo eccita, galvanizza. E’ un fatto, il discorso argomentativo è compreso e usato da un numero di persone in costante diminuzione; quello assertivo è sempre più apprezzato e praticato, anche nella sua forma che consiste nel dare sulla voce all’interlocutore (vedi i talk-shows). Questo sì che è un cambiamento, già in atto. E, che piaccia o no, va spiegato e capito. Cosa che tenterò di fare nel prossimo testo.

«Abbiamo cer­cato di dare voce a quella sini­stra che non vuole chiu­dersi nell’autocompiacimento dello scon­fit­ti­smo, o nel ruolo ras­si­cu­rante di quelli desti­nati all’opposizione a vita. Ma adesso come con­ti­nuare il cammino?».

Il manifesto, 5ottobre 2014, con postilla

Quando ci è stato chie­sto di essere pre­senti ad una ini­zia­tiva uni­ta­ria della sini­stra, a una mani­fe­sta­zione dove Sel ha chia­mato a par­te­ci­pare donne e uomini di una sini­stra plu­rale, abbiamo accet­tato molto volen­tieri. Per­ché è la stessa sini­stra che ogni giorno si incon­tra e discute sulle pagine del mani­fe­sto, il gior­nale che da oltre quarant’anni si batte per rin­no­vare la sini­stra italiana.

E’ stata l’occasione per riven­di­care il nostro ruolo, il nostro essere stati l’unico gior­nale impe­gnato a soste­nere in modo aperto, senza auto­cen­sure, una cam­pa­gna elet­to­rale euro­pea a favore della Lista Tsi­pras. Un’impresa più dif­fi­cile del solito, sulla quale in pochi erano dispo­sti a scom­met­tere per­ché prima del voto la lista era asso­lu­ta­mente sco­no­sciuta. Anche a sini­stra. E pro­prio per que­sto è stata un’occasione da non per­dere per chi non voleva ras­se­gnarsi a votare per Renzi, né per Grillo e nem­meno ripie­gare nell’astensionismo.

Non sem­pre le moti­va­zioni che hanno fatto nascere la Lista Tsi­pras sono state rispet­tate. Ci sono stati per­so­na­li­smi esa­ge­rati, dosi ecces­sive di auto­re­fe­ren­zia­lità, insop­por­ta­bili elen­chi di buoni e cat­tivi. Ma, nono­stante tutto, alla fine ha pre­valso l’idea di rom­pere vec­chi stec­cati, l’unica idea capace di mol­ti­pli­care la par­te­ci­pa­zione, spe­cial­mente delle gio­vani gene­ra­zioni. Que­sta idea si è tra­dotta in forza che ha poi assunto il peso del quo­rum elettorale.

Abbiamo cer­cato di dare voce a quella sini­stra che non vuole chiu­dersi nell’autocompiacimento dello scon­fit­ti­smo, o nel ruolo ras­si­cu­rante di quelli desti­nati all’opposizione a vita. Ma adesso come con­ti­nuare il cammino?

Vista la spro­por­zione delle forze in campo sarebbe vel­lei­ta­rio dire che vogliamo diven­tare mag­gio­ranza - in Gre­cia Tsi­pras ha avuto suc­cesso in un paese in mace­rie - tut­ta­via vogliamo che si costrui­sca a sini­stra del Pd una forza - o un insieme di forze - che pos­sano farsi sen­tire con auto­re­vo­lezza sui temi legati al governo del Paese. Se è chiaro quale può essere l’obiettivo (rag­giun­gi­bile attra­verso una lunga mar­cia che coin­volga però asso­cia­zioni, par­titi, liste, movi­menti), dob­biamo comun­que chie­derci per­ché fac­ciamo fatica a farci ascol­tare, per­ché non riu­sciamo a rap­pre­sen­tare una sini­stra larga e popo­lare, una sini­stra del lavoro, dei diritti, del vero cam­bia­mento (non quello sven­to­lato da Renzi) verso una società più demo­cra­tica e meno liberista.

Una prima rispo­sta, che ha radici anti­che, è que­sta: non sap­piamo stare insieme, non sap­piamo unire le forze. Que­sta inca­pa­cità è tutta ideo­lo­gica: l’idea pre­vale sul rap­porto tra le per­sone, per affer­marsi l’idea è dispo­sta a cam­mi­nare sulle mace­rie, poli­ti­che e personali.

Noi a sini­stra abbiamo biso­gno di sin­ce­rità e fran­chezza. Se siamo ancora una esi­gua mino­ranza, più come rap­pre­sen­tanza poli­tica che nella società ita­liana, non è per colpa di Ber­lu­sconi. E come non era lui in pas­sato il pro­blema, oggi non lo è Renzi.

Per­ché il pro­blema siamo noi, sem­pre divisi, sem­pre con­vinti di avere la verità in tasca e guai a chi ce la tocca. Ecco, se vogliamo diven­tare più grandi, più forti, ognuno di noi deve cedere un pezzo della pro­pria sovra­nità. Senza que­sta con­sa­pe­vo­lezza non solo non si fa una sini­stra nuova, ma non si tiene insieme nep­pure un condominio.

Sap­piamo che dob­biamo con­fron­tarci con un appa­rato poli­tico e un peso note­vole, quale quello rap­pre­sen­tato dal Pd di Renzi. Ma il suo suc­cesso potrebbe non reg­gere sui tempi lun­ghi. Anzi, i dati del tes­se­ra­mento del Pd sono drammatici.

Più in gene­rale, stiamo attra­ver­sando una fase molto dif­fi­cile dal punto di vista eco­no­mico. Ma adesso, come ieri, sap­piamo almeno con chi abbiamo a che fare. E come vent’anni fa il ber­lu­sco­ni­smo strappò alla sini­stra la parola “libertà”, oggi Renzi ha seque­strato la parola “cambiamento”.

Ogni giorno vediamo l’uso spre­giu­di­cato che ne fa. Cam­bia la Costi­tu­zione, cam­bia la giu­sti­zia, cam­bia il lavoro. E chi trova al suo fianco? Ber­lu­sconi. E chi canta ogni giorno la sere­nata al pre­si­dente del con­si­glio? Chi è il più acca­nito fan del pre­mier? Il Gior­nale di Arcore che vede nel segre­ta­rio del Pd il gio­vane cava­liere che mas­sa­cra le oppo­si­zioni interne e i sindacati.

Renzi e Ber­lu­sconi fanno fatica a stare in due par­titi diversi, pro­vano a inven­tarsi qual­che motivo di con­tra­sto, ma pro­prio non ci rie­scono. Riforme isti­tu­zio­nali, giu­sti­zia, lavoro: sono d’accordo su tutto. Guar­date le scene di amo­rosi sensi quando si incon­trano in Par­la­mento depu­tati e sena­tori del Pd e di Forza Ita­lia: baci, abbracci, pac­che sulle spalle. Guar­date le ele­zioni delle pro­vin­cie: sono spa­riti i cit­ta­dini e sono com­parsi i listoni con Fi e Pd uniti da un’attrazione fatale.

Dovremmo lasciare che la natura fac­cia il suo corso, dovremmo lasciarli liberi di unirsi in un unico par­tito. Ma non sarà così. E a noi spetta comun­que il com­pito di costruire una sini­stra più forte, più radi­cata nel ter­ri­to­rio, più social­mente utile. Siamo con­vinti che pos­siamo darci que­sto obiet­tivo? Pos­siamo, Pode­mos, come dicono in Spa­gna, ma ad alcune con­di­zioni. Smet­terla di essere solo con­tro il nemico di turno, e met­terci al lavoro per qualcosa.

Come con Ber­lu­sconi, anche con Renzi la comu­ni­ca­zione, la tele­vi­sione, l’informazione è l’arma deci­siva. Oggi è per­sino peg­gio per­ché il con­for­mi­smo, il soste­gno, l’adesione, l’applausometro verso l’alleanza tra Renzi e Ber­lu­sconi è impres­sio­nante. Almeno ai tempi di Ber­lu­sconi c’era qual­che pro­gramma tv, qual­che tg che cri­ti­cava il padrone del vapore.

Oggi tutti i tele­gior­nali can­tano la stessa can­zone. Se nei gior­nali a qual­che diret­tore o a qual­che fon­da­tore, scappa di scri­vere che Renzi è inaf­fi­da­bile, si strilla ai poteri forti. Come se Mar­chionne, la finanza inter­na­zio­nale, le ban­che, Con­fin­du­stria, il pre­si­dente della repub­blica, l’industria di stato (e per­fino la mas­so­ne­ria) fos­sero delle mam­mo­lette, come se non fos­sero schie­rati come un sol uomo con il governo Renzi-Alfano, o se pre­fe­rite Poletti-Sacconi.

In que­sta bat­ta­glia per una sini­stra rin­no­vata, plu­rale, ricca di espe­rienze diverse, chiara in alcuni obiet­tivi comuni (non biso­gna essere d’accordo su tutto), noi del mani­fe­sto ci siamo. E ci saremo.

Il nostro gior­nale ha avuto momenti duris­simi nella sua lunga sto­ria. Ma siamo andati oltre le divi­sioni e siamo riu­sciti a supe­rare le difficoltà. Oggi il manifesto è vivo e vegeto e spera di festeggiare la fine dell’anno con l’impresa più grande di tutte: ricomprarci la testata

Siamo con­vinti che le let­trici e i let­tori ci aiu­te­ranno nell’impresa, come hanno sem­pre fatto per­ché sanno che il mani­fe­sto è un bene col­let­tivo: di quelli che lo fanno e di quelli che lo leg­gono, di quelli che ieri erano in piazza. Per­ché è un sog­getto di que­sta sini­stra, una sini­stra con radici pro­fonde, un po’ ere­ti­che, una sini­stra che non separa diritti sociali e diritti indi­vi­duali, libertà e soli­da­rietà, una sini­stra fie­ra­mente dalla parte del torto soprat­tutto quando la ragione dei più, della mag­gio­ranza, si rico­no­sce la tri­nità Renzi-Marchionne-Berlusconi.

postilla

Una riflessione sensata; domande penetranti, sulle quali bisogna riflettere e, se possibile, decidere. Rangeri scrive: dobbiamo «smet­terla di essere solo con­tro il nemico di turno, e met­terci al lavoro per qualcosa». Dobbiamo insomma metterci al lavoro
per qualcosa, raccontare come noi, la nuova sinistra, vogliamo contribuire a un altro cambiamento, alternativo a quello minacciato dai nostri avversari. E allora aggiungo una domanda ulteriore: perché chi si batte per una nuova sinistra non è riuscito a valorizzare e sviluppare quel cambiamento alternativo, radicale ma non utopistico, che è proposto nei documenti fondativi della lista Altra Europa con Tsipras, e anticipata e ripresa in tanti scritti sul manifesto e su altri giornali, da promotori e protagonisti della lista come Guido Viale, Luciano Gallino, Barbara Spinelli?

Thomas Fazi intervista il politologo Kees van der Pijl: «Siamo passati da una forma di capitalismo ancora interessato ai processi di accumulazione reali ad uno puramente speculativo». Sblanciamoci, newsletter 361 del 4 ottobre 2014

Il conflitto ucraino non è solo il frutto di una crescente tensione tra Occidente e Russia. Esso riflette anche una crescente tensione interna all'Occidente, tra Stati Uniti e «vecchia Europa», in cui il tentativo dei primi di mantenere il continente saldamente assoggettato alla propria strategia economico-militare (un esempio su tutti: il fatto che l'adesione delle ex repubbliche sovietiche all'Ue è di fatto condizionale all'adesione alla Nato) si scontra con un'influenza economica e militare in declino e con la crescente ambizione di paesi come Francia e Germania di esercitare una maggiore autonomia in politica estera (ma non solo). Questo scontro, a sua volta, è l'espressione di una politica che, su entrambe le sponde dell'Atlantico, è sempre più asservita agli interessi del grande capitale, il quale ha bisogno di uno stato di «conflitto e destabilizzazione permanente» per portare a termine i suoi obiettivi: l'accaparramento di risorse e materie prime sempre più rare (all'estero) e il saccheggio della cosa pubblica (in casa). Di questo e altro abbiamo parlato con Kees Van Der Pijl, professore di relazioni internazionali all'Università del Sussex.

Professore, lei sostiene che stiamo attraversando una fase inedita del capitalismo. Quali sono le sue caratteristiche principali?
«Nel corso degli anni novanta abbiamo assistito a una serie di mutazioni molto profonde. In ambito economico siamo passati da una forma di capitalismo interessato ancora ai processi di accumulazione reali ad un capitalismo puramente speculativo ed estremamente finanziarizzato che si nutre di enormi bolle destinate inevitabilmente a scoppiare. Uno dei principali fautori di questa forma di capitalismo speculativo è stato Alan Greenspan, governatore della Federal Reserve tra il 1987 e il 2006, che difatti nel corso degli anni novanta ha inaugurato quella politica di "welfare per i ricchi" a cui abbiamo assistito in seguito alla crisi del 2007-8, in cui lo stato, per mezzo di enormi iniezioni di denaro pubblico, si fa carico di tenere in piedi e di "rimpolpare" il sistema finanziario in seguito allo scoppio di ogni bolla. Uno dei problemi del capitalismo speculativo è che tende ad arricchire solo una piccolissima percentuale della popolazione: allo scoppio di ogni bolla le classi medio-basse si impoveriscono sempre di più, mentre gli ultra-ricchi diventano sempre più ricchi. In questo senso è una forma di capitalismo che tende inevitabilmente all'oligarchia.

«L'altro aspetto della mutazione che è avvenuta ha riguardato invece la sfera geopolitica: il crollo dell'Unione Sovietica ha trasformato gli Usa nell'unica superpotenza al mondo, facendo venire meno la «stabilità" offerta dai due blocchi e inaugurando un'era di «conflitto permanente» che a sua volta beneficia unicamente l'oligarchia del complesso militare-industriale, o quello che potremmo chiamare «il partito della guerra». E ora, di fronte alla crescente incapacità degli Stati Uniti da agire da super-stato ombrello come in passato (anche in Europa), i focolai di conflitto si stanno moltiplicando».

Lei sostiene che in questa fase è il ruolo stesso dello stato, nell'accezione liberal-democratica del termine, a venire meno e a "disintegrarsi" .
«Assolutamente. Storicamente nelle democrazie occidentali il ruolo dello stato è sempre stato quello di mediare, di trovare una coerenza tra i vari interessi economici, di classe, ecc. che attraversano la società. In un contesto sempre più oligarchico come quello in cui ci troviamo oggi, però, in cui una piccolissima minoranza detiene un potere economico spropositato, lo stato non è più in grado di mediare tra le varie "fazioni" e finisce per diventare asservita unicamente agli interessi nudi e crudi della classe dominante, che non è più obbligata a trovare un compromesso all'interno dell'arena politica. In sostanza, lo stato perde la sua coerenza e comincia a "disintegrarsi". Questo è senz'altro vero negli Usa, come dimostra l'incoerenza di Obama in politica estera. Ma è un discorso che vale anche per l'Europa, dove è sempre meno chiaro quali siano le funzioni esercitate a livello europeo e quali quelle esercitate a livello nazionale. Questo è un classico esempio di incoerenza, di cui le élite possono facilmente approfittarsi per imporre la propria visione senza dover passare per il processo democratico. Nel medio termine una politica di questo tipo ha un effetto estremamente destabilizzante per i processi democratici, e nel caso specifico dell'Europa sta portando a una serie di spinte centrifughe (Scozia, Catalogna, ecc.) che rischiano seriamente di far implodere il processo di integrazione europeo».

Lei traccia una legame tra i processi di disgregazione europea in corso e l'involuzione autoritaria dell'Ue, a sua volta - sostiene - una conseguenza inevitabile del modello di capitalismo predatorio dominante.
«Sì, il caso europeo è particolarmente preoccupante, perché assistiamo a un'involuzione autoritaria non solo a livello nazionale - poiché le élite politiche non sono più in grado di mediare tra gli interessi delle varie classi, come dicevo prima - ma anche a livello sovranazionale, in cui l'Ue è sempre più incapace di mediare tra gli interessi dei vari stati e si fa garante unicamente degli interessi degli stati dominanti e del grande capitale finanziario, assumendo dei tratti sempre più autoritari. Molto si è parlato, infatti, dell'apparato di sorveglianza estremamente pervasivo, facente capo all'Nsa statunitense, portato alla luce da Snowden. Ma la realtà è che tutti governi europei erano - e continuano senz'altro ad essere - complici del programma di sorveglianza americano. A questo poi bisogna aggiungere la crescente incapacità degli Stati Uniti di agire da "collante" e da stabilizzatore politico nel continente. Questo sta determinando una situazione in cui i cittadini si sentono sempre meno rappresentati dalle élite politiche nazionale, ma soprattutto dall'establishment politico europeo. L'acuirsi delle tendenze nazionaliste, regionaliste ed anti-europee e l'ascesa di movimenti populisti e neofascisti in tutta Europa si può in buona parte imputare a questa dinamica».

Che ruolo ha giocato la crisi economica e finanziaria in questo processo in Europa?
«La crisi del 2007-8 ha drammaticamente accelerato queste tendenze già in corso. Mascherandosi dietro al mantra delle riforme strutturali, del consolidamento fiscale, ecc., le autorità politiche europee hanno di fatto implementato una serie di politiche finalizzate unicamente a perpetuare e a rafforzare l'attuale modello di capitalismo predatorio, che sta determinando un trasferimento di ricchezza dal basso verso l'alto senza precedenti. Come dicevo prima, è un capitalismo che non punta più a rilanciare il processo di accumulazione. Il tasso di investimento è ai minimi storici. L'infrastruttura energetica di molti paesi europei è vicina al collasso. L'obbiettivo non è rimettere soldi nel sistema ma sottrarli ad esso, per esempio saccheggiando le infrastrutture pubbliche esistenti attraverso i processi di privatizzazione».

Questa forma estrema di capitalismo predatorio non rischia di mettere a rischio la tenuta stessa del sistema?
«Il processo di concentrazione di ricchezza in corso determinerà tensioni sociali e politiche che il sistema politico farà sempre più fatica a gestire. La risposta iniziale sarà un'involuzione autoritaria e repressiva sempre più forte, un fenomeno a cui stiamo assistendo anche in Europa. Ma prima o poi il sistema - e con esso il processo di integrazione europea - è destinato a implodere. Questo potrebbe avvenire per cause endogene - l'elezione di un partito anti-europeo in un grande paese europeo (la Francia è il candidato più ovvio in questo momento), il moltiplicarsi delle spinte centrifughe, ecc. - o per cause esogene, come per esempio un'altra grande crisi finanziaria, che considero inevitabile. Nel breve termine questo darà luogo a una situazione di grande instabilità. Ma nel medio termine credo che assisteremo a una profonda riforma del capitalismo, in cui le autorità politiche si vedranno costrette a riprendere in mano le redini dell'economia per frenare gli eccessi dei mercati. Di fatto assisteremo a una ripubblicizzazione e ri-democratizzazione dell'economia. E forse alla ripresa del processo di integrazione europeo su basi radicalmente diverse».

Di grande attualità il libro

I Signori delle autostrade di Giorgio Ragazzi, edizioni Il Mulino, 2008 di cui avevamo già pubblicato alcuni brani all'esordio. Ora riprendiamo la prefazione di Anna Donati.

Questo libro curato dal prof. Giorgio Ragazzi ricostruisce la storia delle concessionarie autostradali dagli anni ’20 ad oggi in Italia. E’ un libro utile perchè mette in luce con rigore e ricchezza di documentazione una storia mai scritta delle regole, dei sussidi, investimenti, tariffe, durata delle concessioni, che hanno determinato il rapporto tra la Stato e le concessionarie autostradali, pubbliche o private che fossero.

Un rapporto che ha subito molte evoluzioni, partendo dalle prime e limitate concessionarie private degli anni ‘20, alla massiccia estensione della rete con le concessionarie pubbliche degli anni ‘60, fino ad arrivare alle privatizzazioni degli anni ’90, del 78% della rete lunga ormai 6840 km. Una ricostruzione che non tralascia i rilevanti ed irrisolti problemi di regolazione oggi più aperti che mai, oggetto di recenti interventi normativi, che alimentano il dibattito politico e le polemiche tra i diversi soggetti in campo e che proseguiranno di certo nei prossimi anni.

Lo studio dimostra che essendo le concessionarie inizialmente prevalentemente pubbliche, dell’IRI o di enti locali, Ministri ed Anas “sono state sempre molto benevoli nel loro confronti, alle spalle degli utenti” perché in fondo si trattava pur sempre di interesse pubblico.

Ma quando arrivano alla fine degli anni ’90 le privatizzazioni questo atteggiamento non cambia, anzi con la vendita della Società Autostrade si innesta una vera e propria “cuccagna” di cui hanno beneficiato anche gli azionisti privati. Scrive Giorgio Ragazzi che è stato «l’obiettivo di massimizzarne il valore che ha indotto alla proroga generalizzata delle concessioni alla fine degli anni 90 ed all’introduzione di un price cap particolarmente favorevole per le concessionarie, per non parlare delle clausole privilegiate inserite nella convenzione di Autostrade».

E’ andata proprio cosi. Il primo Governo Prodi ha intrapreso la strada della privatizzazione per l’urgenza di fare cassa senza adottare preventivamente norme stringenti di regolazione del settore capaci di tutelare in modo adeguato l’interesse generale, per determinare tariffe e profitti delle concessionarie senza essere “catturato” da interessi privati, da interessi locali e da interessi politici.

Per la verità fin dalle nuove norme del 1992, il Cipe ha emanato diverse direttive per costruire un quadro regolatorio del settore, arrivando alla direttiva interministeriale Ciampi-Costa del 1998, che ha fissato regole innovative e stringenti. Regole che poi, come ben ricostruisce il libro, non sono state applicate se non in modo assai elastico e comunque sempre favorevole alle concessionarie autostradali.

Quando cinque anni dopo, alla prima verifica, sono risultati evidenti l’andamento positivo degli utili e degli extraprofitti, gli aumenti tariffari ed i mancati investimenti, invece di riequilibrare e regolare, il Governo Berlusconi ha nuovamente assecondato le concessionarie. E per evitare le esortazioni a cambiare rotta del Nars, dell’Autorità Antitrust e della Corte dei Conti, è stata approvata con legge in Parlamento la nuova Convenzione di Autostrade per l’Italia, con un emendamento del Governo in un decreto legge in scadenza.

Solo nel 2006, su proposta del secondo Governo Prodi, il Parlamento ha approvato nuove norme di regolazione delle concessionarie autostradali che stabilivano che allo scadere dei piani economico-finanziari e comunque entro un anno tutte le convenzioni dovevano essere riscritte per meglio tutelare l’interesse pubblico. Un autentico e positivo cambio di rotta, che però non ha completamente retto all’offensiva delle concessionarie: contestazioni dalla Commissione Europea e delibere Cipe di attuazione che nel giro di sei mesi hanno limitato drasticamente il campo di applicazione solo a nuovi investimenti.

Ma appena insediato, nel giugno 2008, il nuovo Governo Berlusconi ha già annientato questa riforma delle concessionarie autostradali. Con un semplice emendamento ad un Decreto Legge approvato dal Parlamento, ha modificato le norme ed approvato per “legge” tutte le nuove convenzioni già sottoscritte tra Anas e concessionarie. Un’approvazione “per legge” che elimina il parere del Nars, del Cipe e del Parlamento, che avevano osato avanzare obiezioni e richiesto maggiori garanzie e controlli per l’interesse pubblico nelle nuove convenzioni.

Chi trarrà ì maggiori benefici da questa automatica approvazione è certamente Autostrade per l’Italia, la concessionaria che fa capo al gruppo Benetton, che si vedrà riconoscere aumenti tariffari di almeno il 70% dell’inflazione reale, da sommare a parametri di remunerazione degli investimenti, per tutta la durata della concessione fino al 2038.

Via dunque il price cap, la qualità del servizio, la tutela dei consumatori e la realizzazione degli investimenti correlati alla tariffa: una autentica controriforma a solo vantaggio delle concessionarie e che ridimensiona gli strumenti di controllo e regolazione dello Stato nel settore autostradale, già debolissimi.

Ma proprio questo libro dimostra senza equivoci che nuove regole servono e che devono essere applicate con rigore e senza discrezionalità a tutte le concessionarie, così come devono essere fermate le ulteriori proroghe delle concessionarie, in coerenza con le direttive europee, per evitare il perpetuarsi di limitazioni della concorrenza e del mercato. Del resto i tempi lunghi delle durata di molte concessionarie ( la Società Autostrade per l’Italia scade nel 2038) condizionano evidentemente il futuro del settore.

C’è quindi molta strada da fare per passare dal vecchio sistema di concessioni pubbliche ad un nuovo quadro di regole eque e trasparenti tra Stato ed imprese private. Un capitolo di questo volume contiene riflessioni e proposte per il confronto sul futuro delle concessionarie in Italia.

Prima di tutto, dovrebbe essere istituita una Autorità dei Trasporti, prevista ormai da10 anni, per attuare il sistema di regolazione nelle concessionarie ( e non solo quelle autostradali), così come è avvenuto con successo nel campo dell’Energia e delle Comunicazioni. Strumento di regolazione e di tutela degli utenti indispensabile per evitare che la discrezionalità, le pressioni indebite sulla politica o della politica o peggio ancora quelle clientelari abbiano la meglio. E che attui naturalmente gli indirizzi strategici e le regole adottate dalle scelte politiche.

Secondo, va ridefinito il ruolo dell’Anas come soggetto gestore, oggi invece concedente e regolatore, a volte concessionario, a volte in società miste od in competizione con le stesse concessionarie autostradali.

Terzo, bisogna fare una accurata riflessione sul ruolo odierno delle autostrade nel campo della mobilità e dei trasporti, che non possono essere prolungate e raddoppiate all’infinito come i piani delle Concessionarie chiedono costantemente di fare, in un circolo vizioso di nuovi investimenti per ottenere nuove proroghe. Le autostrade nate per la lunga distanza, per accorciare l’Italia, sono oggi diventate le reti per il trasporto quotidiano di breve e media distanza, ma ugualmente si ripropongono grandi autostrade di transito con sistemi chiusi a casello, indifferenti al territorio da servire. Qui serve una forte innovazione di prodotto, con infrastrutture intelligenti, con sistemi aperti e fortemente connessi con la rete locale, con sistemi di pagamento telematici, oggi possibili con le nuove tecnologie.

Quarto, serve riprendere il suggerimento dal Piano Generale dei Trasporti e della Logistica, riproposto anche nel presente volume, di inserire l’uso del pedaggio come uno strumento di politica dei trasporti e di finanziamento delle infrastrutture sostenibili, che implica quindi la necessità di rescindere il legame stringente ed esclusivo oggi esistente tra pedaggi pagati dagli utenti, ricavi delle concessionarie, ed investimenti sulla stessa rete autostradale. Discorso assai complesso e di non facile attuazione ma in fondo l’accantonamento della società Autobrennero per gli investimenti ferroviari o l’applicazione in Italia della direttiva Eurovignette che dovremo adottare entro un anno per la tassazione del traffico pesante, vanno esattamente in questa direzione.

Per queste ragioni il libro di Giorgio Ragazzi è utile, perché anche in questo campo, solo capendo la nostra storia passata e recente, possiamo guardare responsabilmente al futuro.

12 giugno 2008

Segnalazioni
Qui alcune pagine del libro I Signori delle autostrade.
Sulle questioni inerenti le autostrade del decreto Sblocca Italia si vedano su eddiburg:
di Tito Boeri Autostrade e Fondazioni, i due veri poteri forti, di Ivan Berni Le autostrade verso il nulla non sono il futuro, di Giorgio Ragazzi Per le autostrade la fine della concessione non arriva mai Autostrade dalle concessioni infinite, di Sergio Rizzo La lobby delle società autostradali trova lo svincolo per saltare le gare. Nei nostri archivi altri documenti facilmente raggiungibili con il cerca

Intervista di Daniela Preziosi,a un dirigente politico della sinistra che sta meditando ancora sulle sue scelte.

Il manifesto, 3 ottobre 2014. con postilla

L'appello. Nichi Vendola chiama il Pd e la sinistra diffusa: Renzi svolta a destra, lavoriamo tutti insieme. «Il premier a un giro di boa, la nouvelle vague renziana è più a destra di Sacconi. Chiedo a chi fa la battaglia sull’art.18: questa volta andate fino in fondo. Sel non starà in prima fila ma accanto agli altri. La lista Tsipras? Una semina»

Quello di Renzi è «un governo con­ser­va­tore che spara un colpo alla nuca di ciò che resta della civiltà del lavoro». Nichi Ven­dola pesca a piene mani dal suo cane­stro di parole per­ché, spiega, «siamo arri­vati a un punto di svolta», «il dibat­tito sull’art. 18 è una linea di demar­ca­zione che riguarda iden­tità, orgo­glio e senso stesso della parola sini­stra. Quando la sini­stra diventa aso­ciale è meglio chia­marla destra». Lan­cerà que­sta pro­po­sta alla mani­fe­sta­zione di domani a Roma. In mat­ti­nata la for­ma­liz­zerà alla dire­zione del par­tito: «Met­tiamo Sel a dispo­si­zione, come uno stru­mento, un lie­vito, un ter­reno di incon­tro per una parte del Pd, i movi­menti, le asso­cia­zioni della sini­stra dif­fusa e del sindacato»,per com­bat­tere insieme l’agenda eco­no­mica del governo Renzi. Con il mani­fe­sto Ven­dola è ancora più espli­cito: è «l’inizio di un per­corso con un futuro più lungo» e la richie­sta «a tutti di fare una bat­ta­glia vera, di por­tarla fino in fondo».

Ven­dola, pre­para un nuovo big bang a sinistra?
La mia pro­po­sta è lavo­rare per una coa­li­zione dei diritti e del lavoro, che abbia la capa­cità di ren­dere sem­pre più stretto il legame fra i diritti sociali e i diritti civili.

È un invito alla sini­stra Pd a uscire dal par­tito? Tutti, o quasi, hanno già detto che saranno fedeli ’alla ditta’, per dirla con Bersani.
Ber­sani sta facendo la sua lotta poli­tica nel suo par­tito. Da altre parti si legge anche altro. Non intendo inter­fe­rire nelle que­stioni interne al Pd, ma mi rivolgo a tutti quelli che sanno che siamo a un giro di boa della sto­ria e della cul­tura di que­sto paese. Pro­pongo di costruire qual­cosa di nuovo, non di assem­bleare le schegge scon­fitte della sinistra.

Allora è un invito a Pippo Civati, che sarà sul palco con lei?Tutti coloro che dal Pd muo­vono una cri­tica radi­cale al ren­zi­smo e alla deriva a destra di que­sto governo sono inter­lo­cu­tori pre­ziosi. Pro­pongo loro di lavo­rare insieme, anche da diverse posta­zioni. Non li voglio iscri­vere a Sel, metto a dispo­si­zione Sel per costruire qualcos’altro. Sel non vuole stare in prima fila, ma accanto a tutti coloro che si sen­tono impe­gnati in un pro­cesso indi­spen­sa­bile al paese, non al ceto politico.

Con­cre­ta­mente que­sta ’coa­li­zione’ cosa farà?
Intanto il 4 otto­bre fac­ciamo un’iniziativa insieme, con per­sone diverse, pro­prio per­ché nella sini­stra ci sono tante cose, tante idee, tante testi­mo­nianze. Hanno il difetto di essere spar­pa­gliate, fram­men­tate, a volte in sonno da troppo tempo. Si tratta di riag­gre­garle in un pro­getto che non abbia nes­suna tor­sione mino­ri­ta­ria e testi­mo­niale, lon­tano dalla trap­pola per cui o c’è il gover­ni­smo o c’è il mino­ri­ta­ri­smo. Rimet­tiamo in campo le forze che par­lino il lin­guag­gio di una sini­stra moderna, che non si sente custode di nes­suna orto­dos­sia ma che sia pro­ta­go­ni­sta di un cambiamento.

’Cam­biare’ è un verbo ren­ziano, ormai.
Dob­biamo libe­rare que­sta e altre parole dalla reto­rica misti­fi­cante del ren­zi­smo. Mando una let­tera a Renzi: “Caro Mat­teo, c’era un tempo in cui quando si diceva ’riforma’ si par­lava di qual­cosa che miglio­rava le vite: pensa al diritto di fami­glia, alla riforma sani­ta­ria, a quella psi­chia­trica. Oggi quando si evoca la parola riforma si parla sem­pre e solo di qual­cosa che ti spo­glia di un diritto”.

Renzi pro­mette che il jobs act darà diritti e tutele a chi non li ha.
Renzi dice tutto e il con­tra­rio di tutto, è un calei­do­sco­pio di slo­gan. Sta con Hol­lande ma anche con Came­ron. Dice a Mer­kel ’non trat­tarci come sco­la­retti’ ma poi come uno sco­la­retto dice ’rispet­te­remo il 3 per cento’.

Par­lava delle «schegge scon­fitte della sini­stra». Si rife­ri­sce alla Lista Tsi­pras? Vi sen­tite ancora impe­gnati in quel percorso?
Credo che quell’esperienza sia stata posi­tiva dal punto di vista della mobi­li­ta­zione e delle ener­gie, soprat­tutto quelle gio­va­nili. È stato un segnale di cam­bia­mento. Ha cor­ri­spo­sto a un sen­ti­mento e a un biso­gno che c’era in una parte dell’elettorato. Pur­troppo la sua seconda vicenda, quella dopo il voto, non mi pare che brilli. Nean­che dal punto di vista di come marca la scena del par­la­mento euro­peo. Ma con­ti­nuo a con­si­de­rare quell’esperienza un’importante semina per la sinistra.

Alla riu­nione della dire­zione del Pd D’Alema ha quasi riven­di­cato il refe­ren­dum per allar­gare dell’art.18. Era il 2003, gli allora Ds — come lui — fecero cam­pa­gna con­tro. Che impres­sione le fa?
Io ho par­te­ci­pato a quella cam­pa­gna per esten­dere le tutele a tutti. E ancora oggi penso che nono­stante non si sia supe­rato il quo­rum, il dato dei voti — que­gli 11 milioni per il sì — resta la più grande con­sul­ta­zione di massa, impa­ra­go­na­bile a un son­dag­gio pilo­tato o a un’attività di mar­ke­ting e pro­pa­ganda. Fu un responso straor­di­na­rio, l’espressione di un dif­fuso sen­ti­mento di giu­sti­zia sociale. Forse la odierna deva­stante scena di intere gene­ra­zioni di pre­cari con­sente anche a D’Alema un utile ripen­sa­mento. Quando poi sento gli espo­nenti della nou­velle vague Pd par­lare di art.18 come di un pri­vi­le­gio, rab­bri­vi­di­sco. Licen­zia­mento senza giu­sta causa, quello che Renzi chiama «libertà degli impren­di­tori», vuol dire licen­ziare uno per­ché ha il can­cro, o è gay, una donna per­ché è incinta. Il pri­vi­le­gio sem­mai è l’esercizio arbi­tra­rio di un potere. La nou­velle vague Pd cul­tu­ral­mente sta più a destra di Sac­coni, il peg­gior mini­stro berlusconiano.

Sac­coni lamenta che sull’art.18 il jobs act ora è troppo timido.
I diver­sa­mente ber­lu­sco­niani bat­tono un colpo per ricor­dare che sono un fon­da­mento di que­sta mag­gio­ranza. E lo sono dav­vero. Anche il cro­no­pro­gramma dei mille giorni è scan­dito dalla destra: all’inizio c’è un colpo al cuore dei diritti sociali, in coda forse forse arri­verà una par­venza di diritti civili.

Al senato Sel ha pre­sen­tato oltre 300 emen­da­menti sulla legge delega. Farete ostru­zio­ni­smo?
Lo deci­de­ranno i nostri sena­tori. Io mi auguro di sì.

Fra qual­che mese lascerà la pre­si­denza della Puglia. C’è chi parla di un passo indie­tro, c’è chi dice che ha in testa di tra­sfe­rirsi in Canada, patria del suo Eddy. Cosa farà davvero?
Farò il lea­der di Sel fin­ché i miei com­pa­gni e le mie com­pa­gne me lo faranno fare. Ma non lo intendo come un inca­rico a vita. Quanto al Canada, è nel mio cuore, ma viverci è in con­trad­di­zione con la mia antro­po­lo­gia: sono una crea­tura medi­ter­ra­nea e ho biso­gno del caldo e del mare.

Renzi vuole spia­nare la sini­stra interna al Pd, e quasi quasi ce l’ha fatta. Spia­nerà anche voi?

Il ragazzo si sta impe­gnando molto, ma vedremo. Attra­verso la reto­rica della rot­ta­ma­zione e le altre ope­ra­zioni di tipo pub­bli­ci­ta­rio è riu­scito a sosti­tuire alla dia­let­tica destra-sinistra quella vecchio-nuovo, veloce-lento. Sono cate­go­rie da let­te­ra­tura mari­net­tiana, tutte den­tro un mec­ca­ni­smo di comu­ni­ca­zione veloce, super­fi­ciale e fero­ce­mente gio­va­ni­li­sta. Ma il gio­va­ni­li­smo non è una cul­tura di sini­stra. E ’Gio­vi­nezza’ non è nel nostro reper­to­rio musicale.

postilla
Plagiando Eugenio Montale abbiamo dedicato tre versi ai compagni che restano nel PMR. Li ripetiamo, mutatis mutandis, a Nichi Vendola:
«non so come stremato tu resisti
in questa palude di finanzcapitaliamo

ch'è il partito di cui sei alleato»

Chi comanda l'Italia oggi non è né re né principe, né duca né marchese, e neppure barone: è solo un baro. Ecco perchè Il manifesto, 1 ottobre 2014

Mer­co­ledì 24 set­tem­bre il diret­tore del «gior­nale della bor­ghe­sia ita­liana» ha voluto infor­marci che Renzi quella bor­ghe­sia non la rap­pre­senta. La noti­zia, al di là di quello che non espli­cita e potrebbe pre­an­nun­ciare (vedi Vin­cenzo Comito sul mani­fe­sto del 26 set­tem­bre) sol­leva comun­que una que­stione di sicura rile­vanza. Quella di chi, di cosa rap­pre­senti Renzi. Mi rife­ri­sco, prima ancora che a quella par­la­men­tare, a quella rap­pre­sen­tanza che si acqui­si­sce mediante l’attività di governo e risul­tante come con­senso all’indirizzo e al pro­dotto dell’azione governativa.
La rispo­sta non può essere certo data da Renzi mae­stro indi­scu­ti­bile di comu­ni­ca­zione e mani­po­la­zione poli­tica. Può risul­tare solo da un’analisi obiet­tiva dell’orientamento espresso nei suoi con­fronti delle forze orga­niz­zate ed isti­tu­zio­na­liz­zate. Abbiamo saputo che la bor­ghe­sia ita­liana della finanza e dell’industria non sente che i suoi inte­ressi siano rap­pre­sen­tati nell’azione del governo.
All’edi­to­riale di Fer­ruc­cio de Bor­toli si sono aggiunti i giu­dizi espressi da auto­re­voli espo­nenti dell’imprenditoria ita­liana (De Bene­detti, Della Valle). La Con­fin­du­stria, da parte sua, non sem­bra par­ti­co­lar­mente entu­sia­sta di que­sto governo pur se arruo­la­tasi come por­ta­ban­diera degli abro­ga­tori dell’articolo 18.
Noti­zie di tal tipo dovreb­bero allie­tarci se, per con­verso, ad essere rap­pre­sen­tati nell’azione di governo fos­sero gli inte­ressi dei lavo­ra­tori. Il che pro­prio non è. A dimo­strarlo è l’opposizione dei sin­da­cati, ini­ziata in con­tem­po­ra­nea alla costi­tu­zione del governo Renzi e pro­vo­cata dallo stesso Renzi con le dichia­ra­zioni sprez­zanti e pro­gram­ma­ti­ca­mente anti­sin­da­cali che pro­nun­ziò. Oppo­si­zione dive­nuta via via più acuta e oggi duris­sima con la mobi­li­ta­zione della Cgil e della Fiom, e non solo, a difesa almeno di quel che resta dell’articolo 18 della Legge 300 del 1970, mobi­li­ta­zione che potrebbe con­durre a uno scio­pero generale. Alla cri­tica al governo si è aggiunta anche la Cei che chiede a Renzi di «ridi­se­gnare l’agenda poli­tica» e di non ridursi agli slogan.
Non è poco. Per­ché non è da niente la sot­to­po­si­zione, l’asservimento, il ricatto con­ti­nuato cui una lavo­ra­trice o un lavo­ra­tore sarebbe assog­get­tato dalla deci­sione di Renzi di abro­gare l’art. 18 dello Sta­tuto dei lavoratori. Su quale rap­pre­sen­tanza dun­que può pog­giare Renzi ? Se non gli inte­ressi di quanti dimo­strano di aver­gliela revo­cata, Renzi riven­di­che­rebbe quella del 40,81 per cento dei cit­ta­dini ita­liani. Una rap­pre­sen­tanza che invece non ha. Non ha per almeno tre ragioni.
Per­ché que­sta rap­pre­sen­tanza del 41 per cento è quella otte­nuta per l’elezione del par­la­mento euro­peo in sede, in forma e ai fini che nulla hanno a che fare con l’indirizzo poli­tico di governo, con la mag­gio­ranza par­la­men­tare, con la legi­sla­zione ita­liana e con i diritti dei cit­ta­dini della Repub­blica. Una mag­gio­ranza che non lo legit­tima affatto in sede nazio­nale. L’irrilevanza di quel voto per il governo la aveva affer­mata più volte lui stesso prima dei risul­tati elettorali.
Una mag­gio­ranza che tanto meno potrebbe riven­di­care nel caso spe­ci­fico della modi­fica dell’articolo 18. È del tutto evi­dente che a com­porre quel 41 per cento dei votanti per il Par­la­mento euro­peo abbia con­tri­buito, in misura deter­mi­nante e mag­gio­ri­ta­ria, il 25 per cento degli elet­tori che vota­rono per il Pd nelle ele­zioni poli­ti­che del 2013. Sot­traendo al 41 per cento il 25 dei voti che ottenne il Pd nel 2013, la quota rap­pre­sen­ta­tiva di Renzi si riduce al 16 per cento. Se ne deve dedurre che Renzi dispone per­ciò solo di que­sta quota di con­senso elet­to­rale. È quindi del tutto evi­dente che, con la divi­sione deter­mi­na­tasi nel Pd sulla que­stione dell’articolo 18, a rap­pre­sen­tare gli elet­tori del Pd sia la mino­ranza, non la mag­gio­ranza attuale della Dire­zione di quel par­tito. Quella mino­ranza che, tra l’altro, ottenne pro­prio quei voti che con­sen­tono a Renzi di governare.
C’è una terza ragione, prio­ri­ta­ria, fon­da­men­tale che non andrebbe mai dimen­ti­cata, elusa, disco­no­sciuta. La com­po­si­zione delle due camere del Par­la­mento ita­liano è ille­git­tima. Lo ha rico­no­sciuto e san­cito la Corte costi­tu­zio­nale come tutti sanno. In un paese civile una sen­tenza del genere avrebbe com­por­tato almeno lo scio­gli­mento delle due Camere. In Ita­lia dovrebbe impe­dire o almeno con­di­zio­nare pre­si­dente del con­si­glio, governo, parlamento.
Ma l’Italia è il Paese in cui con 1.895.332 voti su 2.814. 881 alle pri­ma­rie di un par­tito, voti quanto mai occa­sio­nali e media-dipendenti, si ottiene la lea­der­ship di tale par­tito che, con 8.646.343 voti su 35.270.096 votanti, quindi col 25,42 per cento dei con­sensi alle ele­zioni poli­ti­che, con­qui­sta la mag­gio­ranza dei seggi (asso­luta alla Camera, rela­tiva al Senato).

Un sistema quindi delle fal­si­fi­ca­zioni pro­gres­sive. E che, pur dopo la decla­ra­to­ria della inco­sti­tu­zio­na­lità del mec­ca­ni­smo che costi­tui­sce la rap­pre­sen­tanza e la mag­gio­ranza che ne deriva, per­mette che, acqui­sita la lea­der­ship di par­tito, si possa disporre del potere di far strame della Costi­tu­zione, dei prin­cipi della demo­cra­zia, dei diritti dei cittadini.

Anche l'abolizione delle province (anzi, la loro "sdemocratizzazione") si rivela uno strumento utile per l'affermazione del Partito Unico. Rimane un solo dubbio: come si chiamerà quel partito quando da oligopolio collusivo si trasformerà in monopolio?

La Repubblica, 2 ottobre 2014

Che l’episodio più clamoroso si sia consumato proprio in provincia di Taranto, una città messa in ginocchio dai compromessi della politica, è forse emblematico, forse casuale. Ma dice molto su una riforma che doveva condurre all’abolizione delle province in Italia, e che in alcuni casi ha invece portato a listoni pigliatutto all’insegna delle larghe intese.

Il 28 e il 29 settembre si è votato per 4 consigli metropolitani (Genova, Firenze, Bologna e Milano) e 6 province (Taranto, Vibo Valentia, Bergamo, Lodi, Sondrio, Ferrara). Tra il 5 e il 12 ottobre si voterà invece per le città metropolitane di Roma, Napoli, Torino e per altre 58 province. Sono elezioni di secondo livello: a votare ed essere votati sono sindaci e consiglieri comunali. Non ci sono indennità aggiuntive, le poltrone vinte non comportano un doppio stipendio, ma la possibilità di riorganizzare e gestire il territorio dopo il terremoto della legge Delrio. Bisognerà scrivere gli statuti delle neonate città metropolitane, spartire le competenze dei carrozzoni provinciali in via di smantellamento, tenendo conto che ci sono competenze importanti - scuola, strade, inceneritori, problemi ambientali - di cui i comuni dovranno ora, insieme, farsi carico nelle cosiddette “aree vaste”.

Per fare tutto questo, a Taranto, Vibo Valentia, Ferrara, Genova, Torino, i partiti si sono lasciati andare ad intese che da larghe sono diventate larghissime. In realtà - ufficialmente - nella città dell’Ilva il listone non c’è stato. Centrosinistra e centrodestra erano concorrenti, perché l’accordo cui stavano lavorando il deputato democratico pugliese Michele Pelillo e il consigliere regionale Michele Mazzarano (già indagato per aver avuto a che fare con Giampaolo Tarantini) a sostegno del sindaco forzista di Massafra Martino Tamburrano, era saltato in un tormentato congresso straordinario del Pd locale in cui il segretario regionale Michele Emiliano aveva giurato che mai avrebbe appoggiato alcun inciucio. I democratici avevano quindi candidato il sindaco di Laterza Gianfranco Lopane, tradito però nel segreto dell’urna. A vincere alla fine è stato infatti Tamburrano, nonostante sulla carta la maggioranza fosse tutta a sinistra. Perché gran parte del Pd lo ha votato. E perché quella che è in corso è una battaglia durissima, con lo sfidante di Emiliano alle primarie regionali Guglielmo Minervini che accusa il suo avversario di aver fatto «un inciucio di dimensioni massicce e organizzate». Ovvero, di tramare sottobanco per avere più consensi possibili in vista delle regionali.

È andata molto più tranquillamente a Ferrara per quello che è stato definito «il patto dei cappellacci ». A vincere è stata infatti la lista che aveva come candidato presidente il sindaco della città estense Tiziano Tagliani, e che teneva dentro Pd, Forza Italia, Lega e perfino 5 stelle con il sindaco di Comacchio Marco Fabbri. Quest’ultimo non avrebbe dovuto correre (Grillo lo aveva vietato impedendo una lista unitaria anche al sindaco di Parma Pizzarotti), ma non ha obbedito, ed è perfino risultato il secondo degli eletti (i consiglieri 5 stelle che avevano annunciato l’astensione devono aver cambiato idea all’ultimo momento). Per ora non risponde a chi gli chiede se non abbia paura di essere cacciato dal Movimento, si limita sommessamente a far notare che era una regola un po’ strana, quella che impediva di correre in provincia e lo rendeva possibile invece nelle città metropolitane (ci sono un eletto 5 stelle a Bologna e uno a Firenze).

Altrettanto serena la grande intesa di Genova, dove - addirittura - il sindaco Marco Doria (destinato a guidare la città metropolitana) ha fatto correre la sua lista insieme a Forza Italia, Pd e Nuovo centrodestra, dimostrando che anche Sel, in alcuni casi, è pronta a fare strappi alla regola. Mentre è corso più veleno a sud, nella provincia di Vibo Valentia, dove si sono spaccati un po’ tutti con richieste incrociate di dimissioni e accuse reciproche di candidature poco pulite. A vincere è stata la lista “Insieme per la Provincia di Vibo Valentia Adesso” (detta “l’accorduni”), che vedeva i renziani del Pd con esponenti del Nuovo Centrodestra, Forza Italia e Fratelli d’Italia.

Il prossimo 12 ottobre toccherà a Torino, dove il Pd ha fatto un accordo con Forza Italia, Nuovo Centrodestra e Moderati. L’hanno chiamato «patto costituente » in vista della nascita della città metropolitana, lo hanno fatto - spiegano i democratici - per poter rappresentare meglio il territorio, visto che col meccanismo del voto ponderato il capoluogo rischiava di schiacciare realtà come Ivrea o la Valsusa. Il capogruppo di Sel in comune Michele Curto però la racconta diversamente: «I motivi sono solo due. Piero Fassino vuole scegliersi i suoi 18 consiglieri, e l’attrazione delle larghe intese è stata irresistibile».

La Repubblica, 29 settembre 2014

Matteo Renzi ha dichiarato guerra ai “poteri forti”. Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva in cosa consistessero i poteri forti, e cosa intendesse fare, il nostro premier ha preferito glissare. Non sappiamo perciò cosa abbia in mente, oltre forse il sindacato e la battaglia sull’articolo 18. Vorremmo allora suggerirgli due poteri davvero forti che può fortemente ridimensionare senza bisogno di alcun passaggio parlamentare. Gli basterà utilizzare la forza datagli dal voto delle primarie e dal voto europeo.

Il primo è rappresentato dalla lobby delle concessioni autostradali. Oggi costituiscono una barriera importante alla mobilità del lavoro: milioni di italiani pagano i pedaggi autostradali ogni giorno per recarsi dove lavorano. E i pedaggi continuano ad aumentare (4 per cento quest’anno e l’anno scorso a fronte di un’inflazione vicina allo zero), nonostante il traffico sia in forte riduzione, un caso tipico di abuso del potere di monopolio che viene loro concesso dallo Stato. Aumentano i profitti delle concessionarie, che registrano redditi lordi (prima di imposte e interessi) del 60%, mentre calano gli investimenti nella rete, che intervengono comunque sempre in ritardo rispetto ai piani concordati. Come spiega molto bene Giorgio Ragazzi su lavoce. info, nonostante tutto questo le concessionarie continuano ad ottenere proroghe e l’art. 5 dello sblocca-Italia estenderà le concessioni del gruppo Gavio addirittura fino al 2038. Insomma, mentre si decide giustamente di abolire i senatori a vita, si istituiscono le concessionarie autostradali a vita.
Una seconda potente lobby che blocca il nostro Paese è rappresentata dalle fondazioni bancarie, vero e proprio cavallo di Troia della politica nel nostro sistema bancario e finanziario. Continuano a tenere sotto controllo le banche con quote importanti e nominando i consiglieri d’amministrazione: il 50% delle fondazioni ha quote superiori al 5% nelle banche conferitarie, il 31% detiene più di un quinto delle quote, il 15% addirittura più del 50%. Le due banche più grandi — San Paolo e Unicredit — sono dominate dalle fondazioni. Ridurre l’ingerenza della politica nelle banche, impedire che si passi dalla politica alle banche per tornare alla politica come se si stesse salendo su un tram (il caso di Sergio Chiamparino) o che un legislatore di fondazioni entri con disinvoltura in un consiglio (è il caso di Roberto Pinza) è fondamentale per almeno tre motivi. Primo, perché una buona struttura proprietaria rende più efficiente il sistema finanziario facendo sì che i soldi vadano a chi li merita maggiormente perché ha idee migliori anziché a chi è più connesso con i politici. Di riflesso, il sistema bancario è più stabile rendendo il Paese meno vulnerabile alle crisi. È la ragione che ha portato l’Fmi e la Banca d’Italia nell’ultima relazione a riproporre questo tema. Secondo, perché staccandole dalle banche si salvano le fondazioni da morte certa e si proteggono quelle funzioni di utilità sociale che questi enti dovrebbero perseguire (hanno in media calato le loro erogazioni del 30% negli ultimi 3 anni). Terzo, perché si riconducono i partiti alle loro funzioni primarie. Se vogliono occuparsi di credito, lo facciano in Parlamento.
Sia nel primo caso, che nel secondo non c’è bisogno di alcuna legge. Per le autostrade basta semplicemente mettere a gara le concessioni, rimettendo mano allo sblocca-Italia. Anche per le fondazioni nessuna legge è richiesta: la legge c’è già e prevede la separazione tra fondazioni e banche. Viene sistematicamente disattesa come documentano, tra gli altri, i casi macroscopici di Siena, Genova, Ferrara, Teramo, Pesaro, Macerata, Saluzzo e Bra. Manca un atto di volontà di chi oggi gestisce le fondazioni di fare quello che, oltre alla legge, suggerisce anche il buon senso: vendere le partecipazioni nelle banche e investire nel settore del credito tanto quanto investono nell’alimentare.
Basterebbe che Renzi, come segretario del Pd, impegnasse il suo partito a far uscire le fondazioni dalle banche liquidando le partecipazioni nelle banche conferitarie, chiedendo ai membri del suo partito che occupano posizioni di rilievo nelle fondazioni di procedere in tal senso. Gli esempi non mancano: il presidente della Fondazione Banco di Sardegna è un ex senatore del Pd e la fondazione controlla il 49% del Banco di Sardegna; le fondazioni, secondo la ricostruzione del Fondo monetario internazionale, esprimono oltre i due terzi dei boards di Unicredit e Intesa San Paolo; il caso della Fondazione Monte Paschi è sotto gli occhi di tutti.
Il premier Renzi ha giustificato il capitale politico da lui investito nella riforma del senato, paragonando questa riforma al pin che serve per poter fare le telefonate da un cellulare: fatta quella riforma, ha sostenuto il nostro presidente del Consiglio, si potrà iniziare a riformare pezzo per pezzo il Paese dove è necessario. Varare le leggi però è laborioso, soprattutto quando, usando la sua stessa metafora, non si possiede ancora il pin. I due interventi che suggeriamo su autostrade e fondazioni sono molto importanti, molto utili e “scrostanti” e possono essere attuati fin da subito senza approvare leggi, senza decreti e senza bisogno di formare altre maggioranze, ma usando il potere che gli è proprio e quel consenso enorme che ha ottenuto alle primarie del suo partito e poi alle elezioni Europee. Servirà per favorire la mobilità e la miglior allocazione delle persone e dei capitali, due cose di cui il Paese ha immenso bisogno per uscire dalla stagnazione.

L'intervento con il quale l'europarlamentare del gruppo della sinistra europea replica all'intervento del sottosegretario Gozi esprimendo il proprio dissenso in particolare per la fine di Mare Nostrum. Bruxelles,

Listatsipras.eu, 24 settembre 2014

Ringrazio il sottosegretario Gozi per il suo intervento, e mi limito a riassumere in tre punti il mio dissenso.

Primo punto: l’immigrazione, che con l’estendersi delle guerre attorno a noi assumerà aspetti sempre più drammatici. Lei ha parlato di “phasing out” dell’operazione Mare Nostrum, che a parere dei maggiori esperti nell’Unione europea ha salvato un gran numero di profughi a rischio naufragio. Consiglierei di non usare parole inglesi ma italiane, e di dire a chiare lettere che di altro si tratta. Si tratta della “fine” di Mare Nostrum, dal momento che nessun’operazione è prevista che sia veramente sostitutiva, e che si occupi dell’essenziale: cioè di cercare e salvare i migranti in fuga (search and rescue). Frontex Plus ha un’altra missione – ormai è chiaro a tutti – e nemmeno sappiamo se potrà disporre di risorse adeguate e quali saranno gli Stati che contribuiranno.

​​ Secondo punto: a proposito della Conferenza sull’occupazione dell’8 ottobre, confermata dal sottosegretario, vorrei citare le sue stesse parole. La conferenza non si occuperà tanto della disoccupazione dei giovani, quanto dell’”ambiente economico e sociale, in modo tale da garantire le riforme strutturali”. Siccome sappiamo quel che significano ai tempi d’oggi le riforme strutturali – riduzione della spesa e degli investimenti pubblici, restrizione dei diritti nella gestione del mercato del lavoro – ne deduco che la Conferenza di ottobre si occuperà in linea prioritaria del piano sul lavoro del governo Renzi più che di vera crescita e veri investimenti, in continuità sostanziale con la politica del rigore e dell’austerità chiesta dalle attuali autorità europee.

Terzo punto: il sottosegretario Gozi ha sostenuto che “si ritrova pienamente” nella scelta della nuova Commissione di Jean-Claude Juncker. Al tempo stesso, ha ricordato che la “difesa della legalità” è, per la presidenza italiana, un tema “centrale”. Le due affermazioni sono quantomeno contraddittorie. Se davvero il governo Renzi “si ritrova” nella Commissione appena designata, non vedo come possa accettare un esecutivo che annovera due membri con forti conflitti di interesse, come Arias Cañete e Jonathan Hill, un commissario come Alenka Bratušek, autocandidatasi utilizzando il suo ruolo di ex Premier in Slovenia, e – non per ultimo – il commissario Tibor Navracsics, noto in Ungheria per essere l’uomo di fiducia di Viktor Orbán, il premier che nel luglio scorso ha attaccato, senza mai smentirsi, i principi della democrazia liberale su cui l’Unione europea è fondata.

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«La condizione per pensare positivamente al futuro è quella di guardare con occhi diversi al passato». Una recensione del libro Razzismo e noismo. Le declinazioni del noi e l’esclusione dell’altro, di Daniela Padoan e Luca Cavalli Sforza. Left Avvenimenti, n. 45, 16 novembre 2013, con una premessina

Eddyburg non si occupa solo di quello che succede ogni giorno. Però siamo distratti, e il tempo collettivo che possiamo dedicare a eddyburg non è tutto quello che sarebbe necessario. Perciò molte cose dell’oggi ci sfuggono. Ma la serendipity ci aiuta. Così troviamo oggi cose che ci sarebbe piaciuto scoprire e segnalare ieri: lo facciamo oggi, chiedendo scusa ai frequentatori troppo esigenti

IO, TU E L'UMANITA'

In un Paese imbarbarito dalla crisi economica, dalla iniqua ripartizione delle risorse e dall’esclusione di masse giovanili dal mercato del lavoro, si avverte più che mai il bisogno di un investimento nella cultura come strumento di maturazione e di crescita morale e intellettuale: si pensi all’importanza della scuola pubblica, dove i figli degli immigrati si incontrano ormai normalmente coi figli degli italiani di antica data. è specialmente qui che ci sarebbe bisogno di una decisa politica di investimenti perché questo è il luogo proprio della educazione alla conoscenza e al rispetto delle diversità. La cronaca quotidiana ci mette davanti di continuo a episodi di intolleranza e a nuove forme di razzismo. Ci sono le figure tradizionali dell’alterità negativa – l’ebreo, il negro, lo zingaro – ma ce ne sono di nuove. L’Europa intera ne è vittima: è noto il caso dell’Ungheria e adesso allarma la vicenda della Francia dove il movimento di destra xenofobo sta diventando maggioritario. La condizione di povertà oggi stimola gli stessi atteggiamenti di rifiuto e di disprezzo riservati tradizionalmente alle “razze” inferiori. Ma come è nato e che cosa è il razzismo e quali fondamenti ha nella storia naturale della specie umana? Su questo tema è concentrato il dialogo di Daniela Padoan con Luca Cavalli Sforza in un libro appena uscito da Einaudi, Razzismo e noismo. Le declinazioni del noi e l’esclusione dell’altro. Al notissimo studioso che ha indagato la storia dell’origine della specie umana e delle migrazioni di popoli, Daniela Padoan pone domande che lo portano non solo a ripercorrere le acquisizioni della sua ricerca ma anche a riflessioni sugli esiti tragici della storia del dominio europeo. Esiti riassunti in una sola parola: Auschwitz, «l’immenso laboratorio dell’umano», come lo definì Primo Levi. Ripercorrere il passato risalendo alla formazione del primo nucleo umano. è qui che l’umanità nasce nel segno dell’incontro tra l’io e il tu, con la formazione della “coppia generativa”, primo nucleo della creazione di gruppi sociali, cioè del “noi”. Circa 6 milioni di anni fa, in Africa, con la separazione dei primi nostri antenati dallo scimpanzé. E da lì, circa due milioni e mezzo di anni fa, cominciò l’avanzata esplorativa verso il resto del mondo da parte di un essere umano che aveva imparato a camminare eretto e a usare utensili. Questa storia è dominata dall’aspetto positivo di quello che Cavalli Sforza ha chiamato il “noismo”, come capacità di collaborazione tra l’io e gli altri. Ma Padoan gli ricorda che c’è anche un lato negativo del “noismo”, quella volontà di affermazione di un gruppo a esclusione degli altri che ha portato all’emergere dell’uomo bianco europeo. Un percorso che se vede da un lato le affermazioni trionfali del sapere e del potere maschile europeo, dall’altro affonda nella notte dello schiavismo, dell’infanticidio, della trasformazione dello straniero in nemico, fino ad arrivare al discorso di Himmler sulla “penosa necessità” di eliminare non solo gli ebrei maschi ma anche le loro donne e i bambini. Impossibile riassumere la ricchezza del libro: ma ricordiamo la conclusione di Cavalli Sforza. La condizione per pensare positivamente al futuro è quella di guardare con occhi diversi al passato: per esempio alla cultura dei pigmei, prediletti da Cavalli Sforza, che pensa che quel popolo, benché a rischio di sopravvivenza, possegga il segreto del vivere in armonia, dell’assenza di aggressività e sopraffazioni e della capacità di risolvere pacificamente ogni crisi di convivenza.

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