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Se i tribunali affermano che non è colpevole nessuno di quanti hanno torturato il ragazzo che aveva droga in tasca, e nessuno di quelli che non l'hanno curato, allora sono colpevoli quanti dovevano decretare la condanna della tortura e non l'hanno fatto. La cronaca di Eleonora Martini e un commento di Patrizio Gonnella.

Il manifesto, 1 novembre 2014


TUTTI ASSOLTI
«ALLORA STEFANO È VIVO?»

di Eleonora Martini

Corte d'Assise d'Appello. Cinque anni dopo, sentenza choc per la morte del giovane detenuto. Cancellata la sentenza di primo grado che condannò sei medici del Pertini di Roma. Non accolta la richiesta di rinviare gli atti in procura. Anselmo: «Andremo in Cassazione»

«Cosa vuol dire? Che Ste­fano è vivo, è a casa e ci sta aspet­tando?». Sono le prime parole che rie­scono a dire, la madre e il padre di Ste­fano Cuc­chi, il geo­me­tra tren­tu­nenne morto una set­ti­mana dopo il suo arre­sto (avve­nuto, per pos­sesso di stu­pe­fa­centi, il 15 otto­bre del 2009) nel reparto dete­nuti dell’ospedale San­dro Per­tini di Roma. Dopo nem­meno tre ore di camera di con­si­glio, il giu­dice Mario Lucio D’Andria, a capo del col­le­gio giu­di­cante della prima Corte di Assise d’Appello, legge la sen­tenza che nes­suno si aspet­tava, nem­meno nelle peg­giore — o migliore, a seconda del punto di vista — delle ipo­tesi. Tutti assolti, i dodici impu­tati, in alcuni casi per­ché il fatto non sus­si­ste, in altri per insuf­fi­cienza di prove. I reati con­te­stati, a seconda delle sin­gole posi­zioni, erano abban­dono di inca­pace, abuso d’ufficio, favo­reg­gia­mento, fal­sità ideo­lo­gica, lesioni ed abuso di autorita'.
Can­cel­lata dun­que la sen­tenza di primo grado che aveva con­dan­nato solo i sei medici per omi­ci­dio col­poso (tranne una, rite­nuta col­pe­vole di falso), e con­fer­mata per i tre infer­mieri e i tre agenti di poli­zia peni­ten­zia­ria la pre­ce­dente asso­lu­zione. Rifiu­tata la richie­sta del pro­cu­ra­tore gene­rale di una con­danna per tutti gli impu­tati, sia pure con diverse respon­sa­bi­lità e per reati diversi, e riget­tata per­fino la richie­sta dell’avvocato di parte civile, Fabio Anselmo, di rin­viare gli atti alla pro­cura per ria­prire le inda­gini e appu­rare chi, se non gli attuali impu­tati, causò le lesioni riscon­trate — e accer­tate — sul corpo della vittima. Appena letta la sen­tenza, a dispetto di quanto teme­vano i cara­bi­nieri in ser­vi­zio d’ordine nell’aula al secondo piano di via Romeo Romei, dai ban­chi dove erano seduti i fami­liari e gli amici di Ste­fano Cuc­chi non si è levata nem­meno una voce. Com­pren­si­bil­mente in festa, invece, gli impu­tati, con i loro legali e con­giunti.
Ila­ria, la sorella di Ste­fano che in tutti que­sti anni ha com­bat­tuto stre­nua­mente per appu­rare la verità, non può trat­te­nere lacrime. «Ste­fano è morto di giu­sti­zia, cin­que anni fa, in que­sto stesso tri­bu­nale dove, in una udienza diret­tis­sima, dei magi­strati non hanno notato le sue con­di­zioni — dice — Le con­di­zioni di un ragazzo che sei giorni dopo si è spento tra dolori atroci, solo come un cane». «È stato ucciso tre volte, e lo Stato si è autoas­solto – aggiun­gono i geni­tori, Gio­vanni e Rita Cuc­chi – andremo avanti, non ci fer­me­remo mai, lo dob­biamo a lui e agli altri ragazzi morti men­tre erano nelle mani di chi avrebbe dovuto tute­lare la loro inco­lu­mità». Dopo un attimo di sco­ra­mento, l’avvocato Anselmo riac­cende la spe­ranza: «Aspet­tiamo le moti­va­zioni della sen­tenza e poi faremo ricorso in Cassazione».
Ieri mat­tina, prima che i giu­dici si riti­ras­sero in camera di con­si­glio, il pena­li­sta aveva chie­sto che la sen­tenza di primo grado venisse annul­lata e che venis­sero «resti­tuiti gli atti alla pro­cura per­ché la sen­tenza è nulla alla radice, visto che si è fatto un pro­cesso per lesioni senza aver prima con­te­stato il reato di omi­ci­dio pre­te­rin­ten­zio­nale». Fabio Anselmo, mostrando alla giu­ria alcune gigan­to­gra­fie del corpo di Cuc­chi, ha fatto notare che il rico­vero del gio­vane non era «avve­nuto per magrezza come qual­cuno vor­rebbe sup­porre, ma per poli­trau­ma­ti­smo. Cuc­chi — ha pro­se­guito Anselmo — non era tos­si­co­di­pen­dente. Lo era nel 2003, ma in quei giorni aveva una vita del tutto nor­male, come ci hanno rife­rito alcuni testi. Agli esami cli­nici il fun­zio­na­mento degli organi era nor­male». Ed è pro­prio que­sto pen­siero che addo­lora mag­gior­mente la fami­glia Cuc­chi: «Era un ragazzo che tra mille dif­fi­coltà stava cer­cando di ripren­dere in mano la pro­pria vita», mor­mora la signora Rita. Una sen­tenza «dis­so­nante con le con­clu­sioni della com­mis­sione d’inchieta del Senato», com­menta Igna­zio Marino che l’ha pre­sie­duta. «Molto sod­di­sfatti», invece i difen­sori dei medici e del pri­ma­rio dell’ospedale Per­tini secondo i quali «il punto nodale era ed è che esi­stono dubbi sulla causa di morte di Cuc­chi, e que­sto esclude la respon­sa­bi­lità del medici».Ma chi pro­vocò a Cuc­chi le lesioni ver­te­brali accer­tate dagli esami autop­tici e dalle peri­zie di parte? Per i pm del pro­cesso di primo grado, il gio­vane fu “pestato” nelle camere di sicu­rezza del tri­bu­nale prima dell’udienza di con­va­lida del suo arre­sto. Una ver­sione rifiu­tata dai giu­dici della Terza Corte d’Assise secondo i quali Stefano morì in ospe­dale per mal­nu­tri­zione, tra­scu­rato e abban­do­nato dai sei medici che ieri, invece, sono stati assolti. Il pestag­gio ci fu, scris­sero i giu­dici nelle moti­va­zioni della sen­tenza di primo grado, ma «plau­si­bil­mente» fu opera dei cara­bi­nieri che lo ave­vano in custo­dia, non degli agenti penitenziari.

Di altra opi­nione, il pro­cu­ra­tore gene­rale della Corte d’Appello, Mario Remus, secondo il quale Cuc­chi fu pic­chiato dopo l’udienza di con­va­lida. Anche se ieri Remus, in fase di replica, ha tenuto conto del fatto che qual­che set­ti­mana fa, nelle ultime bat­tute del cor­poso iter pro­ces­suale che ha visto deporre davanti ai giu­dici quasi 150 testi­moni, la parte civile chiese l’acquisizione della testi­mo­nianza ine­dita dell’avvocato Maria Tiso che, in una mail inviata al col­lega Anselmo, ha rac­con­tato di essersi tro­vata quella mat­tina nel cor­ri­doio che con­duce all’aula 17 del palazzo di Giu­sti­zia e di aver visto Ste­fano scor­tato dai cara­bi­nieri «in con­di­zioni tali da far pen­sare a un pestag­gio subito». Prove evi­den­te­mente non suf­fi­cienti per la corte d’Appello che però non ha rite­nuto nem­meno di dover chie­dere un sup­ple­mento d’indagine.

Uno per tutti, il com­mento laco­nico di Amne­sty inter­na­tio­nal Ita­lia: «Verità e giu­sti­zia ancora più lontane


CUCCHI,INGIUSTIZIA È FATTA

di Patrizio Gonnella

Lo spirito di corpo e la tortura. In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione

Nes­sun col­pe­vole, dun­que tutti inno­centi. Nes­sun col­pe­vole dun­que tutti col­pe­voli. Nel pro­cesso per la morte di Ste­fano Cuc­chi ha vinto lo spi­rito di corpo, quello stesso spi­rito di corpo che da 25 anni impe­di­sce al nostro Paese di intro­durre il cri­mine di tor­tura nel codice penale. Uno spi­rito di corpo che si estende ver­ti­cal­mente dal basso verso l’alto, che si muove oriz­zon­tal­mente tra divise e camici, che col­pi­sce mor­tal­mente le per­sone e le istituzioni.
Così accade che per quasi tre decenni il Par­la­mento si è sot­tratto a un obbligo inter­na­zio­nale, in quanto con­di­zio­nato dai ver­tici della sicu­rezza. In que­sto modo hanno tutti insieme aval­lato l’idea che la vio­lenza isti­tu­zio­nale non è una que­stione di mele marce bensì una scelta di sistema.

I giu­dici della Corte d’Appello di Roma pro­ba­bil­mente moti­ve­ranno l’assoluzione di poli­ziotti e medici soste­nendo che le prove non erano suf­fi­cienti. Sup­po­niamo che sia così. Una moti­va­zione di que­sto tipo vuol dire che le prove non sono state cer­cate, o sono state tenute nascoste.

Nei casi di tor­tura vi sono poli­ziotti che devono inda­gare su col­le­ghi. Lo spi­rito di corpo ha vinto. Tutti assolti e dun­que tutti col­pe­voli. I primo col­pe­voli sono coloro che in que­sti lun­ghi anni hanno remato con­tro la cri­mi­na­liz­za­zione della tor­tura. Ne abbiamo sen­tite e viste di tutti i colori. Da chi soste­neva la tesi che biso­gna tor­tu­rare almeno due volte per com­met­tere il delitto a chi ha impe­dito la pre­vi­sione del reato pur di difen­dere i pm che inda­gano. Tutte vol­ga­rità per l’appunto.

Pro­prio ieri il Con­si­glio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite nelle quasi 200 rac­co­man­da­zioni fatte all’Italia ha riba­dito la neces­sità di punire i tor­tu­ra­tori. Da qual­che giorno è ripresa la discus­sione alla Camera di un testo di legge appro­vato la scorsa pri­ma­vera in Senato. Un testo per molti versi ina­de­guato e insod­di­sfa­cente. È stato di recente audito anche il capo della Poli­zia, Ales­san­dro Pansa il quale ha detto testual­mente che «siamo favo­re­voli, ma il legi­sla­tore valuti il rischio che la fase appli­ca­tiva, se non tipizza meglio la fat­ti­spe­cie, pro­vo­chi denunce stru­men­tali con­tro le forze dell’ordine che potreb­bero demo­ti­varle. Nes­suna difesa cor­po­ra­tiva da parte mia».

Ha fatto bene la pre­si­dente della Com­mis­sione Giu­sti­zia della Camera Dona­tella Fer­ranti a sen­tire il Capo della Poli­zia in modo che tutti dicano in modo tra­spa­rente quali sono le pro­prie idee. Ales­san­dro Pansa ha richia­mato la parola cor­po­ra­zione, parola che rimanda diret­ta­mente allo spi­rito di corpo.Va rotta la catena cor­po­ra­tiva. Spetta alle forze poli­ti­che farlo, con net­tezza. Va intro­dotto il prin­ci­pio della respon­sa­bi­lità indi­vi­duale. In man­canza del cri­mine di tor­tura si per­pe­tua l’impunità che riporta a respon­sa­bi­lità col­let­tive gravi incom­pa­ti­bili con una demo­cra­zia compiuta.

Sono tra­scorsi poco più di cin­que anni dalla morte di Ste­fano Cucchi. In man­canza del delitto di tor­tura le impu­ta­zioni nei con­fronti di poli­ziotti e medici non pos­sono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di pre­scri­zione sono molto più brevi. Ora il pro­cesso rischia la man­naia dell’estinzione. Detto que­sto noi tutti sap­piamo che non è alla giu­sti­zia che dob­biamo affi­dare la rico­stru­zione della verità sto­rica. La giu­sti­zia è per sua natura fal­lace. In que­sto caso però la verità pro­ces­suale ha deciso di vol­tarsi in modo tra­gico dall’altra parte rispetto alla verità storica.

Molte volte abbiamo chie­sto al Par­la­mento un sus­sulto di dignità. Lo chie­diamo ancora. Chie­diamo che sia appro­vata subito una legge con­tro la tor­tura in piena coe­renza con la defi­ni­zione delle Nazioni Unite. Chie­diamo che ciò avvenga nel nome di Ila­ria e dei geni­tori di Ste­fano, com­bat­tenti per la libertà e la giustizia.

«Se c’è un tema che richiede un orientamento al futuro e non al passato, è proprio quello della povertà minorile: se non sul piano dell’equità, certo per i suoi effetti negativi di lungo periodo». La Repubblica, 31 ottobre 2014
Il dato della, piccola, riduzione del numero di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale avvenuta tra il 2012 e il 2013 va accolto con molta cautela, non solo per la sua esiguità e perché si riferisce alla situazione di un anno fa, ma perché nasconde fenomeni divergenti, che nel loro insieme segnalano un rafforzamento delle disuguaglianze.

In primo luogo, l’unico dei tre indicatori che è diminuito riguarda la deprivazione grave, perché è calata la percentuale di persone che non può avere un pasto adeguato almeno ogni due giorni, che non ha mezzi per riscaldare a sufficienza l’abitazione e non avrebbe neppure 800 euro di risparmi per fronteggiare un’emergenza. Si tratta di situazioni al limite della sopravvivenza. Non vi è stato, invece, nessun miglioramento per quanto riguarda la percentuale di coloro che si trovano in condizione di povertà relativa e di coloro che vivono in una famiglia in cui nessun adulto (esclusi gli studenti e i pensionati) è occupato.

In secondo luogo, il miglioramento è distribuito in modo molto diseguale tra le varie aree del Paese e tra i diversi gruppi sociali. È stato molto più sostanziale nel Centro- Nord, dove il fenomeno della povertà e dell’esclusione sociale è relativamente contenuto, che nelle regioni meridionali, dove è tradizionalmente molto più diffuso ed era maggiormente aumentato negli anni della crisi. Come ha documentato anche il recente rapporto Svimez, il gap tra le condizioni di vita nel Mezzogiorno e il resto del Paese si sta ampliando, senza che ciò riesca ad entrare nel dibattito politico. Allo stesso tempo, il Mezzogiorno si conferma anche l’area del Paese in cui le disuguaglianze economiche sono maggiori, segnalando l’inefficienza e l’insostenibilità di un sistema economico e sociale locale e dei suoi rapporti con il sistema nazionale complessivo.

Il gap si sta ampliando anche tra vecchi e giovani e tra famiglie senza figli o con un solo figlio e famiglie con tre figli e più. Il miglioramento è concentrato tra gli anziani e le famiglie senza figli (conviventi) o con un figlio solo. Viceversa, la situazione è peggiorata per le famiglie con tre o più figli. Ciò è vero in tutte le aree geografiche, ma nel Mezzogiorno il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda ormai più del 40 per cento delle famiglie.

Il peggioramento dei nuclei famigliari numerosi significa che siamo di fronte ad un peggioramento della povertà minorile, un fenomeno che costituisce una caratteristica distintiva del nostro Paese, e che tuttavia raccoglie ancora meno attenzione nel dibattito pubblico e da parte dei policy maker rispetto alla questione meridionale e certamente non trova neppure l’inizio di una risposta nel bonus triennale per i nuovi nati introdotto con la legge di stabilità. Qualcuno potrebbero persino dire che è irresponsabile incentivare le nascite con misure di breve periodo se non si affronta prima in modo sistematico e coerente la questione della povertà minorile, che dipende in larga misura dalla combinazione di insufficiente reddito da lavoro e insufficienti, o assenti, trasferimenti che tengano conto del costo dei figli lungo tutto il percorso di crescita.

In ogni caso, forse non è comunicativamente attraente e pagante nell’immediato a livello politico, ma se c’è un tema che richiede un orientamento al futuro e non al passato, è proprio quello della povertà minorile: se non sul piano dell’equità, certo per i suoi effetti negativi di lungo periodo.

«Le parole del papa sono un distil­lato di saperi, espe­rienze e rifles­sioni sedi­men­tato in anni di lotte sociali, soprat­tutto dell’America Latina. Ma se a ispi­rarlo fosse stato invece dio, e se dio la pen­sasse così, ben venga anche lui tra di noi».

Il Manifesto, 31 ottobre 2014 (m.p.r.)

Dal discorso del papa nel suo incon­tro del 28 otto­bre con i movi­menti popo­lari pos­siamo rica­vare un pro­gramma poli­tico e sociale di respiro pla­ne­ta­rio dal quale non potremo più pre­scin­dere, per­ché rac­co­glie in larga parte le istanze che orien­tano il nostro ope­rato, pro­iet­tan­dole su uno sce­na­rio che ingloba l’intero pia­neta. Certo, le parole del papa sono un distil­lato di saperi, espe­rienze e rifles­sioni sedi­men­tato in anni di lotte sociali, soprat­tutto dell’America Latina (ma non man­cano rife­ri­menti a con­te­sti a noi più fami­liari come quello euro­peo). Ma se a ispi­rarlo fosse stato invece dio, e se dio la pen­sasse così, ben venga anche lui tra di noi: a veri­fi­care la tra­du­zione delle sue parole in ini­zia­tive e in mobi­li­ta­zioni sarà la veri­fica dei fatti. La piat­ta­forma deli­neata inell’incontro con il papa ha tre nomi:lavoro, terra e casa: «diritti sacri», li defi­ni­sce il pontefice.

Sul lavoro il papa dice: «Non esi­ste peg­giore povertà mate­riale di quella che non per­mette di gua­da­gnarsi il pane e priva della dignità del lavoro». Occorre riven­di­care e otte­nere «una remu­ne­ra­zione degna, la sicu­rezza sociale, una coper­tura pen­sio­ni­stica, la pos­si­bi­lità di avere un sin­da­cato». «La disoc­cu­pa­zione gio­va­nile, l’informalità e la man­canza di diritti» sono il frutto «di un sistema eco­no­mico che mette i bene­fici (il pro­fitto) al di sopra dell’uomo». E qui il papa accenna un tema a lungo trat­tato da Zig­munt Bau­man (in Vite di scarto); d’altronde tra i suoi inter­lo­cu­tori ci sono i car­to­ne­ros, che vivono recu­pe­rando rifiuti. Quel sistema ini­quo è il pro­dotto «di una cul­tura dello scarto che con­si­dera l’essere umano come un bene di con­sumo, che si può usare e poi buttare».

Generazioni al macero

Alle forme tra­di­zio­nali di sfrut­ta­mento e di oppres­sione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di ren­dere gli esseri umani super­flui: «quelli che non si pos­sono inte­grare, gli esclusi, sono scarti, ecce­denze… Que­sto suc­cede quando al cen­tro di un sistema eco­no­mico c’è il dio denaro e non la per­sona umana». Così «si scar­tano i bam­bini e si scar­tano gli anziani per­ché non ser­vono, non pro­du­cono». E «lo scarto dei gio­vani» ha por­tato ad «annul­lare un’intera gene­ra­zione… per poter man­te­nere e rie­qui­li­brare un sistema nel quale al cen­tro c’è il dio denaro». E in chi, come i car­to­ne­ros, vive pro­prio recu­pe­rando scarti, il papa vede un’allusione a un modo com­ple­ta­mente alter­na­tivo di con­ce­pire il lavoro: «Nono­stante que­sta cul­tura dello scarto, delle ecce­denze, molti di voi, lavo­ra­tori esclusi, ecce­denze per que­sto sistema, avete inven­tato il vostro lavoro con tutto ciò che sem­brava non poter essere più uti­liz­zato, ma voi con la vostra abi­lità arti­gia­nale, con la vostra ricerca, con la vostra soli­da­rietà, con il vostro lavoro comu­ni­ta­rio, con la vostra eco­no­mia popo­lare, ci siete riu­sciti… Que­sto, oltre che lavoro, è poesia!»

Par­lando della terra — intesa nel duplice signi­fi­cato di ambiente (il pia­neta Terra) e di suolo, oggetto del lavoro dei con­ta­dini — lar­ga­mente pre­senti all’incontro, con la loro asso­cia­zione pla­ne­ta­ria Via cam­pe­sina — il papa si appella innan­zi­tutto al senso pro­fondo del lavoro con­ta­dino, che non è quello di sfrut­tare e deva­stare la terra con l’agrobusiness, ma quello di custo­dirla: col­ti­van­dola e facen­dolo «in comu­nità». Per que­sto occorre com­bat­tere «lo sra­di­ca­mento di tanti fra­telli con­ta­dini» pro­vo­cato dall’accaparramento delle terre, dalla defo­re­sta­zione, dall’appropriazione dell’acqua, da pesti­cidi ina­de­guati». Quella sepa­ra­zione «non è solo fisica ma anche esi­sten­ziale e spi­ri­tuale» e rischia di por­tare all’estinzione le comu­nità rurali. Il nemico di que­sta cul­tura con­ta­dina, come dei diritti del lavoro, è la spe­cu­la­zione finan­zia­ria, che «con­di­ziona il prezzo degli ali­menti trat­tan­doli come una merce qual­siasi» pro­vo­cando quell’altra «dimen­sione del pro­cesso glo­bale» che è la fame, pro­prio men­tre si scar­tano e si but­tano via ton­nel­late di alimenti.

Sulla casa (che vuol dire abi­tare in un con­te­sto sociale di pros­si­mità), il papa vuole «che tutte le fami­glie abbiano una casa e che tutti i quar­tieri abbiano un’infrastruttura ade­guata: fogna­ture, luce, gas, asfalto, scuole, ospe­dali, pronto soc­corso, cir­coli spor­tivi e tutte le cose che creano vin­coli e uni­scono». E aggiunge, «un tetto, per­ché sia una casa, deve anche avere una dimen­sione comu­ni­ta­ria: il quar­tiere, ed è pro­prio nel quar­tiere che s’inizia a costruire que­sta grande fami­glia dell’umanità, a par­tire da ciò che è più imme­diato, dalla con­vi­venza col vici­nato». È pro­prio gra­zie a que­sti rap­porti, dove ancora esi­stono, che «nei quar­tieri popo­lari sus­si­stono valori ormai dimen­ti­cati nei cen­tri arric­chiti», per­ché «lì lo spa­zio pub­blico non è un mero luogo di tran­sito, ma un’estensione della pro­pria casa, un luogo dove gene­rare vin­coli con il vicinato».

Il furto della terra

«Quanto sono belle – aggiunge — le città che supe­rano la sfi­du­cia mal­sana e che inte­grano i diversi e fanno di que­sta inte­gra­zione un nuovo fat­tore di svi­luppo». Siamo tal­mente assue­fatti a vedere situa­zioni di depri­va­zione da chia­mare chi è senza casa, com­presi i bam­bini, «per­sone senza fissa dimora»: un eufe­mi­smo che è il colmo dell’ipocrisia. Ma «die­tro ogni eufe­mi­smo – ricorda — c’è un delitto». È il delitto degli sgom­beri for­zati, che inte­res­sano milioni di abi­tanti vit­time del grab­bing della terra, ma anche degli slums urbani e di tante situa­zioni di casa nostra.

In tutti e tre que­sti ambiti – lavoro, terra e casa — l’ostacolo che si frap­pone alla rea­liz­za­zione degli obiet­tivi per cui si bat­tono i poveri della Terra è «l’impero del denaro»; il capi­ta­li­smo finan­zia­rio, diremmo noi. Ma «i poveri non solo subi­scono l’ingiustizia, ma lot­tano anche con­tro di essa». E «non si accon­ten­tano di pro­messe illu­so­rie, scuse o alibi… non stanno ad aspet­tare a brac­cia con­serte piani assi­sten­ziali o solu­zioni che non arri­vano mai» o che vanno «nella dire­zione di ane­ste­tiz­zare o di addo­me­sti­care». «Vogliono essere pro­ta­go­ni­sti, si orga­niz­zano, stu­diano, lavo­rano, esi­gono e soprat­tutto pra­ti­cano quella soli­da­rietà che esi­ste fra quanti sof­frono… e che la nostra civiltà sem­bra aver dimen­ti­cato». Quella soli­da­rietà «è molto di più di alcuni atti di gene­ro­sità». È par­te­ci­pa­zione: «pen­sare e agire in ter­mini di comu­nità, di prio­rità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni».

Parole con cui viene messo in discus­sione tutto l’universo della pro­prietà pri­vata, che è sem­pre appro­pria­zione: un atto, un agire con­tro altri, e non uno stato, una realtà immu­ta­bile. Per que­sto «la soli­da­rietà intesa nel suo senso più pro­fondo è un modo di fare la sto­ria ed è que­sto che fanno i movi­menti popo­lari». E ancora: «Che bello quando vediamo in movi­mento popoli e soprat­tutto i loro mem­bri più poveri e i gio­vani. Allora sì, si sente il vento di pro­messa che rav­viva la spe­ranza di un mondo migliore» (parole che non riman­dano a un aldilà, ma a que­sto mondo e a que­sta vita). Dun­que, che que­sto vento si tra­sformi in ura­gano di spe­ranza. «Que­sto è il mio desi­de­rio». Ed è anche il nostro.
Conversione ecologica

Quell’uragano è la con­ver­sione eco­lo­gica. Per­ché accanto al dio denaro, causa prima della mise­ria in cui si dibat­tono i poveri, gli altri suoi ber­sa­gli sono la guerra e la deva­sta­zione dell’ambiente: «Non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distrug­giamo il pia­neta» (e qui il papa annun­cia una pros­sima enci­clica sull’ecologia). «Ci sono sistemi eco­no­mici che per soprav­vi­vere devono fare la guerra. Allora si fab­bri­cano e si ven­dono armi e così i bilanci delle eco­no­mie che sacri­fi­cano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ven­gono sanati». E «un sistema eco­no­mico incen­trato sul dio denaro ha anche biso­gno di sac­cheg­giare la natura…per soste­nere il ritmo fre­ne­tico del con­sumo». Ma «il creato non è una pro­prietà di cui pos­siamo disporre a nostro pia­cere; e ancor meno è una pro­prietà solo di alcuni, di pochi. È un dono di cui dob­biamo pren­derci cura» uti­liz­zan­dolo a bene­fi­cio di tutti.

«Dob­biamo cam­biare – dice il papa — dob­biamo rimet­tere la dignità umana al cen­tro e su quel pila­stro vanno costruite le strut­ture sociali alter­na­tive di cui abbiamo biso­gno». Ed ecco allora un elenco delle virtù che cam­biano il mondo: «Va fatto con corag­gio, ma anche con intel­li­genza. Con tena­cia, ma senza fana­ti­smo. Con pas­sione, ma senza vio­lenza. E tutti insieme, affron­tando i con­flitti senza rima­nervi intrap­po­lati»; e pra­ti­cando «una cul­tura dell’incontro, così diversa dalla xeno­fo­bia, dalla discri­mi­na­zione e dall’intolleranza». Si tratta di una lotta al tempo stesso glo­bale e locale: nasce dai rap­porti di pros­si­mità, ma abbrac­cia tutto il pia­neta: «So che lavo­rate ogni giorno in cose vicine, con­crete, nel vostro ter­ri­to­rio, nel vostro quar­tiere, nel vostro posto di lavoro: ma vi invito anche a con­ti­nuare a cer­care que­sta pro­spet­tiva più ampia, che i vostri sogni volino alto e abbrac­cino il tutto!».

L’autonomia dei movimenti

Seguono alcune rac­co­man­da­zioni rela­tive all’organizzazione e alla ricon­fi­gu­ra­zione della demo­cra­zia: «Non è mai un bene rac­chiu­dere il movi­mento in strut­ture rigide… e lo è ancor meno cer­care di assor­birlo, di diri­gerlo o di domi­narlo; i movi­menti liberi hanno una pro­pria dina­mica, dob­biamo cer­care di cam­mi­nare insieme». E «i movi­menti popo­lari espri­mono la neces­sità urgente di rivi­ta­liz­zare le nostre demo­cra­zie. È impos­si­bile imma­gi­nare un futuro per la società senza la par­te­ci­pa­zione come pro­ta­go­ni­ste delle grandi mag­gio­ranze e que­sto pro­ta­go­ni­smo tra­scende i pro­ce­di­menti logici della demo­cra­zia for­male. La pro­spet­tiva di un mondo di pace e di giu­sti­zia dura­ture… esige che noi creiamo nuove forme di par­te­ci­pa­zione che inclu­dano i movi­menti popo­lari e ani­mino le strut­ture di governo locali, nazio­nali e inter­na­zio­nali con quel tor­rente di ener­gia morale che nasce dal coin­vol­gi­mento degli esclusi… con animo costrut­tivo, senza risen­ti­mento, con amore».

Mi sono limi­tato a pochi com­menti. E ho ben poco da aggiun­gere.

Critiche sensate ai padri di Renzi, ma significativa elusione di un nodo centrale: qual'è il giudizio sul sistema capitalistico, e quale la conseguente strategia? e quali i principi e valori da assumere a fondamento della societa'? Il manifesto, 30 ottobre 2014, con postilla

Renzi pensa, parla, agi­sce come un poli­tico di destra? Può darsi, in molti casi è evi­dente, ma le domande a que­sto punto diven­tano altre e sono più impe­gna­tive: com’è pos­si­bile che un poli­tico così abbia “espu­gnato” senza grande dif­fi­coltà il Pd e oggi goda di un con­senso lar­ga­mente mag­gio­ri­ta­rio nell’elettorato che si sente di sini­stra e che ha sem­pre votato a sini­stra? Dipende solo dalle sue doti obiet­ti­va­mente straor­di­na­rie di istrione e dema­gogo? Io non credo, penso che se il Pd si sta tra­sfor­mando nel par­tito per­so­nale di Renzi per­dendo molti con­no­tati tra­di­zio­nali di un par­tito “di sini­stra”, que­sto dipende da com’è stata la sini­stra prima di lui.
Renzi, insomma, è figlio di D’Alema e di Ber­sani, nel senso che il suo avvento è la con­se­guenza di una sini­stra, della sini­stra ita­liana erede del Pci, che non ha mai fatto i conti con i pro­pri ritardi, i vizi, le ano­ma­lie rispetto a buona parte delle sini­stre euro­pee. Una sini­stra che da tempo non è più “con­tem­po­ra­nea”: per que­sto si è pro­gres­si­va­mente allon­ta­nata dagli ita­liani, com­presi tanti che hanno con­ti­nuato a votarla per abi­tu­dine o per man­canza di alter­na­tive, e anche per que­sto Renzi l’ha “spianata”.
Non ha fatto i conti, la sini­stra ex-Pci, con tre que­stioni su cui si sono costruiti prima il suo declino e poi la sua defi­ni­tiva sconfitta.
Una que­stione è squi­si­ta­mente ideo­lo­gica. Gli ex-Pci cam­bia­rono il nome subito dopo l’Ottantanove, quando peral­tro la “cosa” già aveva già pochis­simo di comu­ni­sta. Ma di quella sto­ria hanno con­ser­vato un abito men­tale che è stato di grave osta­colo per la com­pren­sione dei cam­bia­menti del mondo e dell’Italia. Così, hanno con­ti­nuato a misu­rare il pro­gresso secondo cate­go­rie anti­di­lu­viane che sepa­rano strut­tura – il lavoro, la con­di­zione mate­riale delle per­sone — e sovra­strut­tura – la lega­lità, la cul­tura, l’ambiente, la dimen­sione imma­te­riale del benes­sere -, e a con­ce­pire l’economia e lo svi­luppo come un secolo fa: certo non più “soviet e elet­tri­fi­ca­zione” ma comun­que car­bone (Ilva e din­torni), asfalto, cemento.
Così, sono rima­sti pri­gio­nieri dell’idea del pri­mato della poli­tica sulla società, e della con­vin­zione di essere – loro élite poli­tica — migliori del popolo rozzo e igno­rante che si fa infi­noc­chiare da Ber­lu­sconi o da Grillo; così, ancora, pro­prio in quanto ex-comunisti hanno ten­tato di tutto per dimo­strare di non esserlo più: dando prova di una com­pia­cenza siste­ma­tica verso inte­ressi costi­tuiti e poteri forti, pra­ti­cando una rigo­rosa asti­nenza da qua­lun­que radi­ca­lità si chiami patri­mo­niale o stop al con­sumo di suolo o diritti degli omo­ses­suali…
Una seconda que­stione è cul­tu­rale. Oggi l’alfabeto poli­tico della sini­stra nove­cen­te­sca è del tutto insuf­fi­ciente a rap­pre­sen­tare i valori, i biso­gni, gli inte­ressi di chi si con­si­dera “di sini­stra”. Fatica a inte­grare pie­na­mente nel pro­prio discorso temi come l’ambiente che set­tori cre­scenti della società con­si­de­rano cen­trali, non rie­sce a vedere che mal­grado i drammi incom­benti legati a disoc­cu­pa­zione e povertà sem­pre di meno le per­sone basano il pro­prio “essere sociale” pre­va­len­te­mente sul lavoro.

In nes­suno dei movi­menti sociali e di opi­nione degli ultimi decenni ascri­vi­bili a idea­lità di sini­stra, il lavoro è stato l’elemento cen­trale: dall’ambientalismo al fem­mi­ni­smo, dai no-global ai movi­menti gio­va­nili, dalle mobi­li­ta­zioni per i diritti civili a quelle per i beni comuni. Il lavoro natu­ral­mente conta tut­tora mol­tis­simo, conta tanto più in una sta­gione di dram­ma­tica crisi eco­no­mica.

postilla

Il tema proposto da Della Seta è indubbiamente centrale. La questione del lavoro è certamente decisiva per chi voglia affrontare una lotta seria contro il renzismo e la “emergenza democratica” che esso ha provocato. Così come lo è la questione dell'ambiente. La connessione tra queste due questioni è anzi la chiave di volta per riconnettere quelle che per semplicità chiamero’ la vecchia e la nuova sinistra: quella che abbiamo conosciuto e quella che vogliamo costruire. Ma porre quelle due questioni volendo effettivamente risolvere ( e non mitigare, addolcire, depeggiorare) significa recuperare la tensione che è la ragione stessa del “comunismo”: la tensione, e la prospettiva, del superamento del capitalismo. In particolare del capitalismo di oggi: quello che ha ormai esaurito ogni sua “forza propulsiva” ed è diventato meramente distruttivo.
Hic Rhodus, hic salta, caro Roberto Della Seta.

Per chi si pone in questa prospettiva il declino e la definitive sconfitta della sinistra ex PCI inizia forse ben prima della rottura di Occhetto: nasce quando all’interno stesso del PCI la visione di Enrico Berlinguer fu sconfitta, e la grande proposta strategica del “compromesso storico” fu immiserita riducendola al rango di una intesa di potere tra

quel PCI, ormai disideologizzato, e quella DC, opportunamente privata della leadership di Aldo Moro. E forse è anche utile sottolineare - visto che, seguendo Della Seta, abbiamo ricordato la “cosa” di Occhetto - che il primo successore del PCI, il PDS, aveva tra i suoi obiettivi strategici la “riconversione ecologica dell’economia”, che evocava una trasformazione radicale del sistema economico sociale, rapidamente degenerate in “green economy”.

Sinistra Pd. Se Renzi vince la sinistra interna farà testimonianza, se Renzi perde verrà travolta dalle macerie. E’ preferibile un disegno esplicito di rottura, con una guerriglia aperta sulle riforme.

Il manifesto, 30 ottobre 2014
Ormai di tempo per pren­dere le misure del feno­meno Renzi, la sini­stra Pd ne ha avuto abba­stanza. E, a meno di una con­sa­pe­vole volontà di ras­si­cu­ra­zione che pog­gia però sul niente, dovrebbe aver per­ce­pito che uno spa­zio per la media­zione è impos­si­bile. Renzi peral­tro non lo cerca, si vanta di aver “spia­nato” i reduci, schiaf­feg­giato le loro ban­diere, umi­liato la loro piazza. L’offerta di una tre­gua è una ste­rile invo­ca­zione, quella di non infie­rire troppo, rivolta dagli scon­fitti allo spie­tato castigatore.

Renzi non è inte­res­sato alla costru­zione di un par­tito strut­tu­rato, retto cioè da una logica uni­ta­ria e da una lea­der­ship rispet­tosa delle dif­fe­renze interne. Riven­dica solo una fedeltà per­so­nale, con scene ordi­na­rie di una obbe­dienza con­for­mi­stica al capo. Egli non mostra alcuna pre­oc­cu­pa­zione per i com­piti di coe­sione pro­pri di una dire­zione poli­tica auto­re­vole. Renzi vuole solo coman­dare con col­la­bo­ra­tori dalla schiena curva, non diri­gere una orga­niz­za­zione com­plessa. Chi non si ade­gua alla sua ine­so­ra­bile stra­te­gia di edi­fi­care una variante del par­tito per­so­nale, non più a matrice azien­dale ma non per que­sto sprov­vi­sto di fonti ingenti di approv­vi­gio­na­mento mediatico-finanziario che lo rin­sal­dano al potere, è desti­nato ad essere schiac­ciato, senza pietà.

E’ per lui inu­tile ogni visi­bile segno di auto­no­mia, qual­siasi voce cri­tica farebbe solo ombra alla sacra­lità del capo che in soli­tu­dine inter­preta gli umori pro­fondi del popolo ostile all’élite. La pre­tesa di domi­nio è così asso­luta che non esita a spez­zare ogni sta­bile radi­ca­mento del Pd nella com­po­nente, quella del lavoro, peral­tro mag­gio­ri­ta­ria della sua antica coa­li­zione sociale. Iden­tità, radici sociali, forma par­tito, cul­tura delle isti­tu­zioni: dav­vero tutto separa la sini­stra del Pd da Renzi e pro­prio nulla la uni­sce a un capo che per­se­gue un dise­gno, sem­pre più espli­cito, di edi­fi­care un potere per­so­nale a forte traino popu­li­sta e ben pro­tetto dal quasi totale con­for­mi­smo dei media.

Que­sto espli­cito piano di sem­pli­fi­ca­zione a sfondo cesaristico-mediatico è for­te­mente regres­sivo, incom­pa­ti­bile con la cul­tura della sini­stra e andrebbe per­ciò osta­co­lato, in ogni modo effi­cace. La vit­to­ria di Renzi non coin­cide con il suc­cesso della sini­stra. Certo, la situa­zione è per la mino­ranza assai para­dos­sale, per­ché la obbliga a distri­carsi tra un male mag­giore e un male minore.

Se vince Renzi, fini­sce la poli­tica e viene san­cita l’eutanasia di ogni aspi­ra­zione alla rina­scita di una qual­che demo­cra­zia dei par­titi. Se perde, non dopo una bat­ta­glia tra­spa­rente ma per­ché tra­mor­tito dalla forza delle cose, dalle sue mace­rie verrà tra­volta anche la sini­stra interna, rovi­nata dal suo vano atten­di­smo. E’ infatti un’illusione aspet­tare obbe­dienti, e solo con qual­che riserva, dalle retro­vie che il folle piano vada a sbat­tere e imma­gi­nare di ripren­dere a cam­mi­nare a testa alta subito dopo il fra­gore rovi­noso da tutti avvertito.

E’ pre­fe­ri­bile per­ciò un lavoro poli­tico con­sa­pe­vole, un dise­gno espli­cito di rot­tura che accom­pa­gni Renzi alla resa. Nello svuo­ta­mento delle resi­duali divi­sioni poli­ti­che tutte ospi­tate in un indi­stinto par­tito della nazione (in effetti Renzi potrebbe essere, con pari cre­di­bi­lità, lea­der di uno qual­siasi dei tre non-partiti oggi esi­stenti), si con­so­li­de­rebbe altri­menti un sistema informe e retto da un pro­filo pseudo cari­sma­tico dif­fi­cile da scal­fire una volta con­so­li­dato al potere.

Machia­velli notava che in poli­tica «si cava una regola gene­rale, la quale mai o raro falla, che chi è cagione che uno diventi potente, ruina». E nella rapida, quanto sinora incon­tra­stata, ascesa di Renzi alla con­di­zione di «potente», anche i suoi avver­sari interni sono la «cagione» del tanto domi­nio in fretta accu­mu­lato. Prima sol­le­ci­tando in dire­zione un cam­bio di passo rispetto a Letta, e poi votando in aula una fidu­cia “cri­tica” alla delega all’esecutivo per la sop­pres­sione dell’articolo 18, la mino­ranza del Pd ha con­sen­tito al ren­zi­smo di incas­sare dei grandi atte­stati di potenza e con tali incaute mosse rischia forse di aver san­cito la pro­pria «ruina».

Il timore di una crisi di governo ha para­liz­zato qual­siasi dispo­ni­bi­lità alla prova di forza su una grande que­stione iden­ti­ta­ria (diritto di licen­ziare come arma della moder­niz­za­zione e della ridu­zione di ogni dignità al lavoro). Sinora la mino­ranza del Pd ha evi­tato di por­tare lo scon­tro nella sola zona di cri­ti­cità esi­stente per Renzi, cioè nei gruppi par­la­men­tari, non ancora del tutto omo­lo­gati ma anch’essi pros­simi alla resa nel mirag­gio di una rican­di­da­tura. E così ha spia­nato la strada al dise­gno di un potere a con­du­zione per­so­nale senza mai lan­ciare dei sassi, col­pire di sor­presa, ten­dere agguati. Machia­velli avver­tiva che in poli­tica «è meglio fare et pen­tirsi che non fare et pentirsi».

La scis­sione allora

? Non è detto che essa accada. La tat­tica pre­vale sulla stra­te­gia in que­ste scelte. Esclu­derla in linea di prin­ci­pio è però di sicuro una castra­zione pre­ven­tiva della pos­si­bi­lità di osta­co­lare un tra­gitto regres­sivo che con­duce verso il domi­nio di una per­sona priva di oppo­si­zioni, limiti, con­trolli e alla sicura archi­via­zione a tappe suc­ces­sive della forma di governo par­la­men­tare. Ogni pra­tica scis­sio­ni­sta deve valu­tare, con distacco, la pre­senza di una con­di­zione indi­spen­sa­bile. Machia­velli chia­ri­sce bene la que­stione, che vale per ogni costrut­tore di una cosa nuova: «esa­mi­nare se que­sti inno­va­tori stanno per loro mede­simi, o se dipen­dano da altri: ciò è se per con­durre l’opera loro biso­gna che pre­ghino, o vero pos­sono forzare».

Insomma, su cosa, su quali forze reali, potrebbe pog­giare l’iniziativa per imporre, nella lotta aperta con­tro la dege­ne­ra­zione del poli­tico, una auto­noma forza della sini­stra? La frat­tura sociale sui temi del lavoro, il pos­si­bile scio­pero gene­rale come radi­ca­liz­za­zione della con­tesa, offrono una occa­sione pro­pi­zia ovvero aprono la giun­tura cri­tica per rom­pere. Il rap­porto orga­nico del nuovo sog­getto poli­tico con il sin­da­cato evoca uno sce­na­rio quasi rove­sciato rispetto al rap­porto tra sog­getto poli­tico e orga­niz­za­zione sociale domi­nate nella sto­ria repub­bli­cana. E però anche una tale for­ma­zione ad ibri­di­smo politico-sindacale (sulla scorta più della vicenda inglese che di quella con­ti­nen­tale) non farà strada senza una grande cul­tura poli­tica, non mino­ri­ta­ria e di mera protesta.

Nella assai fran­tu­mata mino­ranza Pd forse pre­varrà una linea più atten­di­sta (la guer­ri­glia sulle riforme elet­to­rali e isti­tu­zio­nali è però meno dirom­pente e mobi­li­tante come rea­zione allo sfre­gio sim­bo­lico per­pe­trato da Renzi sull’esplosivo tema iden­ti­ta­rio del lavoro). Se comun­que que­sta via della imbo­scata par­la­men­tare pre­varrà, almeno con essa si punti a bloc­care l’unica con­di­zione per il suc­cesso dello sta­ti­sta di Rignano, cioè l’Italicum comun­que ritoc­cato (con il rialzo delle soglie e il voto di pre­fe­renza). Senza il pre­mio di mag­gio­ranza in mano, Renzi ha le ali spun­tate e la sua pistola del ricatto diventa scarica.

Guer­ri­glia aperta sulle riforme, dun­que, e in più un ristretto ma coeso gruppo di con­tatto al senato (che mostri che senza di esso il governo non ha i numeri a Palazzo Madama), pos­sono creare degli osta­coli, sca­vare trap­pole affin­ché “pié veloce” inciampi. Le tat­ti­che pos­sono variare. Quello che non muta è però l’obiettivo. Renzi va scon­fitto. E da sinistra

Tutti i nomi (per ora) della rete del potere occulto che avvolge quanto resta della democrazia italiana.

L'Espresso online, 23 ottobre 2014Luca Lotti è “lampadina”, il sottosegretario dal carattere fumantino, considerato del terzetto quello più difficile da avvicinare. Marco Carrai è l’imprenditore immerso nei suoi affari, ma più disponibile ad ascoltare lamentele e richieste. L’avvocato Alberto Bianchi è lo “zio saggio”, il mediatore per eccellenza, colui che sa ammorbidire i dissidi e trovare la quadra. Insieme Luca, Marco e Alberto formano quella che deputati e brasseur d’affari chiamano “la trinità”, il gruppo scelto a cui Matteo Renzi ha affidato la creazione di un nuovo sistema di potere che, all’ombra di Palazzo Chigi, deve gestire nomine pubbliche, dossier delicatissimi e interessi economici del Paese.

Negli ultimi mesi la rete di relazioni della trimurti si sta espandendo come una supernova, tanto che la supremazia della vecchia “ditta” (così veniva chiamato il sodalizio tra Gianni Letta e Luigi Bisignani, che ha patteggiato un anno e sette mesi per associazione a delinquere nell’ambito dell’inchiesta sulla P4) è ormai un lontano ricordo: la rottamazione della coppia che ha amministrato la cosa pubblica durante il regno di Silvio Berlusconi è (quasi) terminata. Così da febbraio lobbisti, consulenti d’azienda e battitori liberi si affannano per salire sul carro giusto. Telefonate, appuntamenti nei bar del centro storico di Roma, pressioni sui parlamentari di riferimento: entrare fin d’ora nelle grazie dei decisori è fondamentale, visto che chi resta fuori dai giochi mette a rischio non solo gli interessi della sua azienda, ma anche potere personale e lo stipendio.

Gli uomini neri

Nella vulgata comune il lobbista è ancora sinonimo di intrallazzo. L’iconografia lo dipinge come un maneggione in blazer, come l’uomo nero che smista mazzette per velocizzare una pratica o spingere un emendamento. La cronaca giudiziaria non ha migliorato la loro “reputation”: la seconda Tangentopoli, la P4, gli scandali che stanno martoriando l’Eni e la Finmeccanica, i traffichini alla Valter Lavitola, le tangenti del Mose, tutto ha contribuito a rilanciare l’assioma “lobbista uguale faccendiere”. Un luogo comune che danneggia i professionisti degli affari istituzionali, che spesso e volentieri non solo difendono interessi legittimi (come fanno associazioni di categoria e sindacati), ma servirebbero al legislatore per avere dati e informazioni corrette su business cruciali. Non è un caso che la categoria, a Washington come a Bruxelles, sia da lustri rispettata e regolamentata.

L’Italia, anche in questo campo, è molto indietro. Sia per colpa del Parlamento, che da trent’anni annuncia una legge sulla trasparenza delle lobby che non ha mai visto la luce, sia perché i protagonisti della persuasione si comportano spesso come trent’anni fa, quando il costruttore Gaetano Caltagirone rivolgeva all’andreottiano Franco Evangelisti l’immortale «A Frà, che te serve?». Non è un caso che il dossieraggio per fregare i colleghi resta pratica assai diffusa, così come l’opacità nei rapporti con la politica e la “black propaganda” attraverso cui si tenta di distruggere l’immagine di un concorrente grazie a giornalisti ingenui o compiacenti.

La Trinità


I protagonisti della nuova leva renziana non sono stati coinvolti in indagini giudiziarie. Almeno nel penale.
Partiamo da Carrai. Che insieme a Lotti, Bianchi e al ministro Maria Elena Boschi è nel ristretto board della Fondazione Open, cuore e cassa del meeting della Leopolda. Nonostante le voci lo diano in uscita dal “giglio magico”, per il premier resta un punto di riferimento imprescindibile. Più riflessivo di Lotti, timido e mingherlino, rampollo di una famiglia di costruttori molto cattolica, nel 2009 ha deciso di lasciare la politica attiva diventando imprenditore L’apparenza inganna, perché Carrai nel tempo libero continua a raccoglie fondi per le campagne elettorali del premier e tesse relazioni a tutto campo.
Non solo con ambasciatori e politici americani e israeliani, come è noto, ma con tutti i banchieri del Paese: da Fabrizio Palenzona a Lorenzo Bini Smaghi, è a lui che i finanzieri devono fare riferimento.Molti lobbisti della rete che sta mettendo in piedi il giovane Marco li ha invitati al suo matrimonio: a festeggiare lui e la consorte Francesca Campana Comparini c’erano anche alcuni emergenti, come Filippo Maria Grasso, Pasquale Salzano e la “lobbista del papa” Francesca Chaouqui.
Tutti in carriera, e determinati a farne ancora di più: se Grasso, 35 anni, è da tempo nel cerchio magico di Tronchetti Provera in Pirelli, legatissimo a Pippo Corigliano dell’Opus Dei e pizzicato nelle intercettazioni della P4 per aver messo in contatto l’ex ministro Stefania Prestigiacomo e Luigi Bisignani (Grasso vanta relazioni internazionali di alto livello in paesi cruciali come Russia, Brasile e Turchia, nonché stretti rapporti con le forze di polizia), Pasquale Salzano, classe 1973, è il napoletano che ha preso da poco la guida delle relazioni istituzionali all’Eni, al posto di Leonardo Bellodi.
Scelto direttamente dal nuovo numero uno del colosso petrolifero Claudio Descalzi, Salzano è un diplomatico, ha lavorato con Romano Prodi e ha già capito che il suo sarà un compito difficile: a poche settimane dalla promozione il suo capo è stato subito indagato per corruzione internazionale dalla procura di Milano. Con il governo, però, per ora Salzano parla poco: Renzi e Descalzi si scrivono sms ogni due giorni, scavalcando ogni possibile intermediazione.

Piccoli Letta crescono

Al matrimonio di Carrai anche una delle facilitatrici più ambiziose del momento, la Chaouqui. Figlia di un egiziano che se n’è andato di casa quando era ancora bambina e di una insegnante calabrese di San Sosti, s’è trasferita qualche anno fa nella Capitale in una topaia di 15 metri quadri sopra un garage. Ha fatto la babysitter per pagarsi l’affitto e le tasse della Sapienza, poi ha scalato tutte le gerarchie della città in pochi anni. Grazie alle entrature della contessa Marisa Pinto Olori del Poggio (ambasciatrice di San Marino che l’ha praticamente adottata e presentata a decine di vescovi e cardinali), e a un rapporto personale con il cardinale George Pell, il segretario di Stato Pietro Parolin e Bergoglio in persona. Tra un pranzo per vip organizzato su una terrazza in San Pietro (tra gli invitati anche Carrai) e un appuntamento a Santa Marta, Chaouqui sta pure curando gli investimenti italiani di due multinazionali asiatiche.

L'epurazione

Scaltri e rapidi ad apprendere l’arte di Richelieu, Carrai Bianchi e Lotti non conoscono ancora le logiche e i riti dei vecchi potentati. Cresciuti tra le colline toscane, diffidano dei salotti alla Jep Gambardella dove «prima si magna e poi si intrallazza». Qualcuno, inoltre, ha loro segnalato che sarebbero state proprio quelle élite ad aver pompato a dismisura sui media il caso della casa fiorentina di Carrai in cui ha vissuto Renzi per qualche mese. Arrivati sotto il Colosseo i tre decidono dunque di guardarsi le spalle, di non frequentare i bar di via Veneto dove i lobbisti chiacchierano tra crodini e gin-tonic, e di annientare prima possibile la ragnatela costruita dai venerabili maestri della Seconda Repubblica.

L’epurazione parte a maggio. Cadono come birilli Stefano Lucchini, ras all’Eni da sempre fedele a Bisignani, e Leonardo Bellodi, l’uomo ombra di Paolo Scaroni, esperto di missioni a cavallo tra business e intelligence. Oggi Lucchini ha già trovato un nuovo ufficio a Banca Intesa, mentre sembra che Bellodi voglia aprire - insieme a Scaroni e l’ex ad di Siram Giuseppe Gotti - una sede italiana di un importante fondo di investimento Usa. Anche Gianluca Comin, ex capo delle relazioni istituzionali dell’Enel e ganglio cruciale del vecchio sistema, dopo aver perso la poltrona si è buttato nel privato: oggi ha una scrivania nella sede dello studio legale Orrick, e collabora per la multinazionale dei farmaci Novartis, finita nella bufera per una multa da 92 milioni comminata dall’Antitrust e bisognosa di lobbisti in grado di ridare smalto alla reputazione dell’azienda. Dei vecchi leoni solo Fabio Corsico e Giuliano Frosini possono vantare eccellenti rapporti con il nuovo establishment: il primo, da 10 anni factotum di Francesco Gaetano Caltagirone e manager di punta della Fondazione Crt, è stato messo nel board di Terna dalla Cassa depositi e prestiti; Frosini, un passato da bassoliniano, amico di Enrico Letta e Maurizio Lupi nonché foundraiser per Comunione e Liberazione, ha lasciato Terna per tornare a seguire gli interessi di Lottomatica, ma è stato piazzato dal governo Renzi nel nuovo cda di Trenitalia.

I lobbisti in cerca d’autore, invece, non si contano: se Franco Brescia della Telecom per ora è saldo al suo posto, Marco Forlani (figlio del democristiano Arnaldo) è uscito da Finmeccanica a luglio, mentre Paolo Messa (ex consigliere del ministro Corrado Clini, indagato per una vicenda di corruzione) sta tentando la fortuna bisbigliando suggerimenti al potente Gianni De Gennaro, presidente Finmeccanica ed ex capo della polizia. Costanza Esclapon, contrattualizzata dalla Rai e amica di Lucchini, sta invece difendendo con le unghie il suo capo Luigi Gubitosi dagli attacchi della stampa. Renzi sembra però aver già deciso le sorti del direttore generale di Viale Mazzini, che dovrà cambiare azienda alla scadenza della nomina, prevista per marzo. In pole per il suo posto il “giglio magico” si sta dividendo tra l’ex Mtv Antonio Campo Dall’Orto e il numero uno della compagnia telefonica H3G Vincenzo Novari, per cui tifano Luca Lotti ed Ernesto Carbone.

Chi sale e chi scende

«Lobby» è una parola d’origine medioevale. Viene da “laubia”, cioè “loggia”, “portico”. Ma nell’immaginario significa clan, camarilla, combriccola che persegue i suoi interessi a scapito di quelli della collettività. L’azione dei gruppi di pressione in Parlamento, l’assenza di qualsiasi regola di condotta, i rapporti amicali e di scambio con i politici e i partiti, però, non sono un luogo comune. Perché definiscono il tipo di lobbismo che in Italia va da sempre per la maggiore. Se Bisignani (che ha cambiato ufficio, ora è in via Po, e tenta di dire la sua attraverso il buon rapporto con Denis Verdini e la famiglia Angelucci) è metafora negativa, i nuovi ciambellani di Renzi non hanno ancora del tutto cambiato verso, soprattutto nel modo di agire. «Nei ministeri non si fidano di nessuno, e gestiscono da soli tutti i dossier.

Così la trasparenza è un optional, e il rischio di caos e approssimazione è elevatissimo», racconta il numero due degli affari istituzionali di un’importante impresa di Stato. «Ai tempi di Enrico Letta potevamo coordinarci con l’ambasciatore Armando Varricchio e con il suo consigliere Fabrizio Pagani. Ora, invece c’è un vuoto assoluto»Per la cronaca, Varricchio è stato depotenziato a semplice burocrate, mentre Pagani è stato spedito a via XX Settembre, come capo della segreteria del ministro Pier Carlo Padoan. Era proprio Pagani uno dei commis di Stato più influenti: se ai consiglieri di Stato è stata messa la museruola, nei palazzi contano ancora molto Salvatore Nastasi, ex enfant prodige di Gianni Letta e potentissimo direttore del ministero della Cultura, e Antonio Agostini, un passato nei servizi segreti, ex direttore dei ministri Gelmini e Clini, diventato qualche settimana fa numero uno dell’Isin, l’authority per la sicurezza nucleare.

Il vecchio e il giovane


Quando Carrai ha qualche dubbio sul da farsi, telefona ad Alberto Bianchi. Sessant’anni, pistoiese, Bianchi è un riservato avvocato, esperto in diritto commerciale e fallimentare, con un grande studio a Firenze. Ma, soprattutto, è l’uomo che da 15 anni sussurra buoni consigli ai tre ragazzini di belle speranze, Renzi, Lotti e Carrai, che ha allevato intuendone ambizioni e capacità. Liberale convinto e anticomunista, un fratello (Francesco) stimato da Giovanni Bazoli e da poco piazzato alla Fondazione Maggio Fiorentino, lo “zio saggio” siede nel cda dell’Enel e ha un peso specifico notevole. Non solo nella fondazione Open di cui è presidente e di cui ha scritto lo statuto, ma su ogni nomina che conta: pare sia lui ad aver imposto Francesco Starace all’Enel. Dei tre tenori è l’unico che ha beccato una condanna (seppure in primo grado): secondo la Corte dei Conti Bianchi - quando era commissario straordinario dell’Efim spa (una delle holding delle vecchie Partecipazioni statali finita in bancarotta) - avrebbe causato un danno erariale di 4,7 milioni di euro.

Ma dei tre campioni di Renzi quello che i lobbisti sognano di agganciare per primi è Luca Lotti. Nato nel 1982, sottosegretario all’editoria a Palazzo Chigi, è delegato a tutti i rapporti informali del premier. Maestro nell’anticipare i desiderata del “principale” di cui esegue gli ordini senza discutere, ha messo il suo zampino in tutte le partite più delicate. Prima le nomine delle società pubbliche (il nuovo capo delle relazioni istituzionali di Poste, Giuseppe Coccon, a Lotti deve moltissimo), poi ha sfilato le deleghe del Cipe al ministero dell’Economia. Se prima i vescovi e i cardinali parlavano con Gianni Letta, ora devono incontrare lui. Dagli uomini d’affari che vogliono avere buone entrature con il governo, invece, Lotti manda due imprenditori di fede renziana come Andrea Conticini e Andrea Bacci. Tra una partita di calcetto alla Cecchignola e un appuntamento sotto la galleria “Alberto Sordi”, c’è solo un obiettivo che “lampadina” non è riuscito ancora a raggiungere: le deleghe ai servizi segreti. Per le barbe finte l’ex consigliere di Montelupo ha un chiod o fisso, e per strappare l’incarico al sottosegretario Marco Minniti farebbe follie. Per ora Renzi gli ha detto di no. Così, con gli 007 dell’Aisi e dell’Aise, Lotti si incontra nei bar dietro Piazza di Pietra.

«». La Repubblica

Non si sa chi sia, il regista delle due manifestazioni contemporanee della scorsa settimana, piazza San Giovanni e Leopolda. Di certo è un grande talento. Il contrasto tra lo scenario dei due eventi non poteva venire realizzato in modo più efficace. Da un lato un gran sole, il cielo azzurro, uno spazio amplissimo, una folla sterminata, brevi discorsi su temi concreti. Dall’altra un garage semibuio dove non si riusciva a vedere al di là di una decina di metri, un centinaio di tavoli dove si parlava di tutto, un lungo discorso del presidente del Consiglio in cui spiccavano acute considerazioni sull’iPhone e la fotografia digitale, e non più di sei-settemila persone — giusto 140 volte meno che a San Giovanni.
Il duplice scenario e la composizione dei partecipanti sono stati quanto mai efficaci per chiarire che a Roma sfilava un variegato popolo rappresentante fisicamente e culturalmente la sinistra, sebbene del tutto privo di un partito che interpreti e difenda le sue ragioni. Mentre a Firenze sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo della borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a cominciare dal Principe stesso.
Vi sono due condizioni che fanno, oggi come ieri, la differenza tra destra e sinistra. Una è la scelta della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura. Il che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso nei rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso che moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle. L’altra condizione è la capacità di capire in che direzione si sta evolvendo la situazione economica e sociale del momento. Perché se non lo capisce uno sta uscendo, senza rendersene conto, dal corso della storia.
Nel caso della prima condizione la differenza tra Roma e Firenze era evidente. Alla manifestazione di Roma non c’erano (o erano poche) le persone che dovevano scegliere se stare o no dalla parte dei deboli, degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di quelli il cui destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la massa dei partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri, perennemente in balia del parere e della volontà di qualcun altro. Collocati, in altre parole, al fondo delle classifiche delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere politico ed economico; disuguaglianze il cui scandaloso aumento negli ultimi vent’anni, nel nostro paese come in altri, accompagnato dalla scomparsa del tema stesso nel discorso delle socialdemocrazie, ha fatto parlare più di uno studioso di nuovo feudalesimo.
Invece nel garage semibuio di Firenze c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo appariva semplicemente repellente, o quanto meno fastidiosa, non meno che mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di lotta alle disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a soffrire di meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino nella scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea demolita a Firenze dall’idea di un partito-nazione (ma l’ha detto qualcuno a Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo addietro nel nome di un paio di partiti che molti guai procurarono all’Italia e all’Europa?).
Anche per l’altra condizione non c’era confronto tra i partecipanti di piazza San Giovanni e quelli della Leopolda. Per i primi era evidente che quello che sta succedendo da parecchi anni è una “guerra dell’austerità”, per usare la dizione di un noto economista americano. Una guerra di classe in cui la destra si prefigge di distruggere le conquiste sociali degli anni 60 e 70, che furono un tentativo riuscito di sottoporre il capitalismo a una ragionevole dose di controllo democratico. Le misure imposte da Bruxelles, di cui il governo Renzi, a parte qualche battuta, è fedele esecutore, sono precisamente espressione di tale guerra o conflitto di classe, nella quale le classi dominanti hanno negli ultimi decenni conseguito una grande vittoria. Equivalente a una dolorosa sconfitta per i manifestanti romani.
A Firenze l’interpretazione predominante della crisi è stata quella canonica delle destre europee: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto all’eccesso di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; i dettati di Bruxelles sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di questi slogan è falso quanto dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai dozzine di economisti, compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine neoliberali. A parte l’interpretazione ortodossa della crisi, che non sta in piedi, chi vi aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un momento in cui o si modificano i trattati europei e si adottano politiche economiche opposte a quelle del governo Renzi (che sono poi quelle degli ultimi tre o quattro governi, prescritte dalla Troika e da noi passivamente messe in atto), o ci si avvia ad un lungo periodo di grave recessione e di rapporti intereuropei sempre più difficili, nonché dagli esiti imprevedibili.

Un’ultima nota: a saperlo interpretare (non che ci voglia molto), la massa dei partecipanti di Roma ha lanciato un messaggio chiaro. Ha detto in sostanza “siamo tanti, non contiamo niente, vogliamo essere qualcosa”. Tempo fa, un messaggio analogo ebbe effetti rilevanti. Ignorarlo, o parlarne con disprezzo, potrebbe rivelarsi un serio errore, a destra come a sinistra.

Q «Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri»venire, 28 ottobre 2014

Buongiorno di nuovo,
sono contento di stare tra voi, inoltre vi faccio una confidenza: è la prima volta che scendo qui, non c’ero mai venuto. Come vi dicevo, provo grande gioia e vi do un caloroso benvenuto.
Grazie per aver accettato questo invito per dibattere i tanti gravi problemi sociali che affliggono il mondo di oggi, voi che vivete sulla vostra pelle la disuguaglianza e l’esclusione. Grazie al Cardinale Turkson per la sua accoglienza, grazie, Eminenza, per il suo lavoro e le sue parole.

Questo incontro dei Movimenti Popolari è un segno, un grande segno: siete venuti a porre alla presenza di Dio, della Chiesa, dei popoli, una realtà molte volte passata sotto silenzio. I poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa!

Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare.

Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ed è questo che fanno i movimenti popolari.

Questo nostro incontro non risponde a un’ideologia. Voi non lavorate con idee, lavorate con realtà come quelle che ho menzionato e molte altre che mi avete raccontato. Avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta! Vogliamo che si ascolti la vostra voce che, in generale, si ascolta poco. Forse perché disturba, forse perché il vostro grido infastidisce, forse perché si ha paura del cambiamento che voi esigete, ma senza la vostra presenza, senza andare realmente nelle periferie, le buone proposte e i progetti che spesso ascoltiamo nelle conferenze internazionali restano nel regno dell’idea, è un mio progetto.

Non si può affrontare lo scandalo della povertà promuovendo strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi. Che triste vedere che, dietro a presunte opere altruistiche, si riduce l’altro alla passività, lo si nega o, peggio ancora, si nascondono affari e ambizioni personali: Gesù le definirebbe ipocrite. Che bello invece quando vediamo in movimento popoli e soprattutto i loro membri più poveri e i giovani. Allora sì, si sente il vento di promessa che ravviva la speranza di un mondo migliore. Che questo vento si trasformi in uragano di speranza. Questo è il mio desiderio.

Questo nostro incontro risponde a un anelito molto concreto, qualcosa che qualsiasi padre, qualsiasi madre, vuole per i propri figli; un anelito che dovrebbe essere alla portata di tutti, ma che oggi vediamo con tristezza sempre più lontano dalla maggioranza della gente: terra, casa e lavoro. È strano, ma se parlo di questo per alcuni il Papa è comunista. Non si comprende che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri. Esigere ciò non è affatto strano, è la dottrina sociale della Chiesa. Mi soffermo un po’ su ognuno di essi perché li avete scelti come parola d’ordine per questo incontro.

Terra. All’inizio della creazione, Dio creò l’uomo custode della sua opera, affidandogli l’incarico di coltivarla e di proteggerla. Vedo che qui ci sono decine di contadini e di contadine e voglio felicitarmi con loro perché custodiscono la terra, la coltivano e lo fanno in comunità. Mi preoccupa lo sradicamento di tanti fratelli contadini che soffrono per questo motivo e non per guerre o disastri naturali. L’accaparramento di terre, la deforestazione, l’appropriazione dell’acqua, i pesticidi inadeguati, sono alcuni dei mali che strappano l’uomo dalla sua terra natale. Questa dolorosa separazione non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale, perché esiste una relazione con la terra che sta mettendo la comunità rurale e il suo peculiare stile di vita in palese decadenza e addirittura a rischio di estinzione.

L’altra dimensione del processo già globale è la fame. Quando la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è criminale, l’alimentazione è un diritto inalienabile. So che alcuni di voi chiedono una riforma agraria per risolvere alcuni di questi problemi e, lasciatemi dire che in certi paesi, e qui cito il compendio della Dottrina sociale della Chiesa, “la riforma agraria diventa pertanto, oltre che una necessità politica, un obbligo morale” (CDSC, 300).

Non lo dico solo io, ma sta scritto nel compendio della Dottrina sociale della Chiesa. Per favore, continuate a lottare per la dignità della famiglia rurale, per l’acqua, per la vita e affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra.

Secondo, Casa. L’ho già detto e lo ripeto: una casa per ogni famiglia. Non bisogna mai dimenticare che Gesù nacque in una stalla perché negli alloggi non c’era posto, che la sua famiglia dovette abbandonare la propria casa e fuggire in Egitto, perseguitata da Erode. Oggi ci sono tante famiglie senza casa, o perché non l’hanno mai avuta o perché l’hanno persa per diversi motivi. Famiglia e casa vanno di pari passo! Ma un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato. Oggi viviamo in immense città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli, persino bambini, e li si chiama, elegantemente, “persone senza fissa dimora”. È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi. Non si dicono le parole con precisione, e la realtà si cerca nell’eufemismo. Una persona, una persona segregata, una persona accantonata, una persona che sta soffrendo per la miseria, per la fame, è una persona senza fissa dimora; espressione elegante, no? Voi cercate sempre; potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto.

Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi.

Sapete che nei quartieri popolari dove molti di voi vivono sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti. Questi insediamenti sono benedetti da una ricca cultura popolare, lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito ma un’estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato. Quanto sono belle le città che superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Quanto sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che uniscono, relazionano, favoriscono il riconoscimento dell’altro! Perciò né sradicamento né emarginazione: bisogna seguire la linea dell’integrazione urbana! Questa parola deve sostituire completamente la parola sradicamento, ora, ma anche quei progetti che intendono riverniciare i quartieri poveri, abbellire le periferie e “truccare” le ferite sociali invece di curarle promuovendo un’integrazione autentica e rispettosa. È una sorta di architettura di facciata, no? E va in questa direzione. Continuiamo a lavorare affinché tutte le famiglie abbiano una casa e affinché tutti i quartieri abbiano un’infrastruttura adeguata (fognature, luce, gas, asfalto, e continuo: scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono, accesso alla salute — l’ho già detto — all’educazione e alla sicurezza della proprietà.

Terzo, Lavoro. Non esiste peggiore povertà materiale — mi preme sottolinearlo — di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro. La disoccupazione giovanile, l’informalità e la mancanza di diritti lavorativi non sono inevitabili, sono il risultato di una previa opzione sociale, di un sistema economico che mette i benefici al di sopra dell’uomo, se il beneficio è economico, al di sopra dell’umanità o al di sopra dell’uomo, sono effetti di una cultura dello scarto che considera l’essere umano di per sé come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare.

Oggi al fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione si somma una nuova dimensione, una sfumatura grafica e dura dell’ingiustizia sociale; quelli che non si possono integrare, gli esclusi sono scarti, “eccedenze”. Questa è la cultura dello scarto, e su questo punto vorrei aggiungere qualcosa che non ho qui scritto, ma che mi è venuta in mente ora. Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché fosse il denominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori.

E per illustrarlo ricordo qui un insegnamento dell’anno 1200 circa. Un rabbino ebreo spiegava ai suoi fedeli la storia della torre di Babele e allora raccontava come, per costruire quella torre di Babele, bisognava fare un grande sforzo, bisognava fabbricare i mattoni, e per fabbricare i mattoni bisognava fare il fango e portare la paglia, e mescolare il fango con la paglia, poi tagliarlo in quadrati, poi farlo seccare, poi cuocerlo, e quando i mattoni erano cotti e freddi, portarli su per costruire la torre.
Se cadeva un mattone — era costato tanto con tutto quel lavoro —, era quasi una tragedia nazionale. Colui che l’aveva lasciato cadere veniva punito o cacciato, o non so che cosa gli facevano, ma se cadeva un operaio non succedeva nulla. Questo accade quando la persona è al servizio del dio denaro; e lo raccontava un rabbino ebreo nell’anno 1200, spiegando queste cose orribili.

Per quanto riguarda lo scarto dobbiamo anche essere un po’ attenti a quanto accade nella nostra società. Sto ripetendo cose che ho detto e che stanno nella Evangelii gaudium. Oggi si scartano i bambini perché il tasso di natalità in molti paesi della terra è diminuito o si scartano i bambini per mancanza di cibo o perché vengono uccisi prima di nascere; scarto di bambini.

Si scartano gli anziani perché non servono, non producono; né bambini né anziani producono, allora con sistemi più o meno sofisticati li si abbandona lentamente, e ora, poiché in questa crisi occorre recuperare un certo equilibrio, stiamo assistendo a un terzo scarto molto doloroso: lo scarto dei giovani. Milioni di giovani — non dico la cifra perché non la conosco esattamente e quella che ho letto mi sembra un po’ esagerata — milioni di giovani sono scartati dal lavoro, disoccupati.

Nei paesi europei, e queste sì sono statistiche molto chiare, qui in Italia, i giovani disoccupati sono un po’ più del quaranta per cento; sapete cosa significa quaranta per cento di giovani, un’intera generazione, annullare un’intera generazione per mantenere l’equilibrio. In un altro paese europeo sta superando il cinquanta per cento, e in quello stesso paese del cinquanta per cento, nel sud è il sessanta per cento. Sono cifre chiare, ossia dello scarto. Scarto di bambini, scarto di anziani, che non producono, e dobbiamo sacrificare una generazione di giovani, scarto di giovani, per poter mantenere e riequilibrare un sistema nel quale al centro c’è il dio denaro e non la persona umana.

Nonostante questa cultura dello scarto, questa cultura delle eccedenze, molti di voi, lavoratori esclusi, eccedenze per questo sistema, avete inventato il vostro lavoro con tutto ciò che sembrava non poter essere più utilizzato ma voi con la vostra abilità artigianale, che vi ha dato Dio, con la vostra ricerca, con la vostra solidarietà, con il vostro lavoro comunitario, con la vostra economia popolare, ci siete riusciti e ci state riuscendo... E, lasciatemelo dire, questo, oltre che lavoro, è poesia! Grazie.

Già ora, ogni lavoratore, faccia parte o meno del sistema formale del lavoro stipendiato, ha diritto a una remunerazione degna, alla sicurezza sociale e a una copertura pensionistica. Qui ci sono cartoneros, riciclatori, venditori ambulanti, sarti, artigiani, pescatori, contadini, muratori, minatori, operai di imprese recuperate, membri di cooperative di ogni tipo e persone che svolgono mestieri più comuni, che sono esclusi dai diritti dei lavoratori, ai quali viene negata la possibilità di avere un sindacato, che non hanno un’entrata adeguata e stabile. Oggi voglio unire la mia voce alla loro e accompagnarli nella lotta.
In questo incontro avete parlato anche di Pace ed Ecologia. È logico: non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distruggiamo il pianeta. Sono temi così importanti che i popoli e le loro organizzazioni di base non possono non affrontare. Non possono restare solo nelle mani dei dirigenti politici. Tutti i popoli della terra, tutti gli uomini e le donne di buona volontà, tutti dobbiamo alzare la voce in difesa di questi due preziosi doni: la pace e la natura. La sorella madre terra, come la chiamava san Francesco d’Assisi.

Poco fa ho detto, e lo ripeto, che stiamo vivendo la terza guerra mondiale, ma a pezzi. Ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ovviamente vengono sanati. E non si pensa ai bambini affamati nei campi profughi, non si pensa ai dislocamenti forzati, non si pensa alle case distrutte, non si pensa neppure a tante vite spezzate. Quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, care sorelle e cari fratelli, si leva in ogni parte della terra, in ogni popolo, in ogni cuore e nei movimenti popolari, il grido della pace: Mai più la guerra!
Un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura, saccheggiare la natura per sostenere il ritmo frenetico di consumo che gli è proprio. Il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la deforestazione stanno già mostrando i loro effetti devastanti nelle grandi catastrofi a cui assistiamo, e a soffrire di più siete voi, gli umili, voi che vivete vicino alle coste in abitazioni precarie o che siete tanto vulnerabili economicamente da perdere tutto di fronte a un disastro naturale. Fratelli e sorelle: il creato non è una proprietà di cui possiamo disporre a nostro piacere; e ancor meno è una proprietà solo di alcuni, di pochi. Il creato è un dono, è un regalo, un dono meraviglioso che Dio ci ha dato perché ce ne prendiamo cura e lo utilizziamo a beneficio di tutti, sempre con rispetto e gratitudine. Forse sapete che sto preparando un’enciclica sull’Ecologia: siate certi che le vostre preoccupazioni saranno presenti in essa. Ringrazio, approfitto per ringraziare per la lettera che mi hanno fatto pervenire i membri della Vía Campesina, la Federazione dei Cartoneros e tanti altri fratelli a riguardo.

Parliamo di terra, di lavoro, di casa. Parliamo di lavorare per la pace e di prendersi cura della natura. Ma perché allora ci abituiamo a vedere come si distrugge il lavoro dignitoso, si sfrattano tante famiglie, si cacciano i contadini, si fa la guerra e si abusa della natura? Perché in questo sistema l’uomo, la persona umana è stata tolta dal centro ed è stata sostituita da un’altra cosa. Perché si rende un culto idolatrico al denaro. Perché si è globalizzata l’indifferenza! Si è globalizzata l’indifferenza: cosa importa a me di quello che succede agli altri finché difendo ciò che è mio? Perché il mondo si è dimenticato di Dio, che è Padre; è diventato orfano perché ha accantonato Dio.
Alcuni di voi hanno detto: questo sistema non si sopporta più. Dobbiamo cambiarlo, dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno. Va fatto con coraggio, ma anche con intelligenza. Con tenacia, ma senza fanatismo. Con passione, ma senza violenza. E tutti insieme, affrontando i conflitti senza rimanervi intrappolati, cercando sempre di risolvere le tensioni per raggiungere un livello superiore di unità, di pace e di giustizia. Noi cristiani abbiamo qualcosa di molto bello, una linea di azione, un programma, potremmo dire, rivoluzionario. Vi raccomando vivamente di leggerlo, di leggere le beatitudini che sono contenute nel capitolo 5 di san Matteo e 6 di san Luca (cfr. Matteo, 5, 3 e Luca, 6, 20), e di leggere il passo di Matteo 25. L’ho detto ai giovani a Rio de Janeiro, in queste due cose hanno il programma di azione.

So che tra di voi ci sono persone di diverse religioni, mestieri, idee, culture, paesi e continenti. Oggi state praticando qui la cultura dell’incontro, così diversa dalla xenofobia, dalla discriminazione e dall’intolleranza che tanto spesso vediamo. Tra gli esclusi si produce questo incontro di culture dove l’insieme non annulla la particolarità, l’insieme non annulla la particolarità. Perciò a me piace l’immagine del poliedro, una figura geometrica con molte facce diverse. Il poliedro riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso conservano l’originalità. Nulla si dissolve, nulla si distrugge, nulla si domina, tutto si integra, tutto si integra. Oggi state anche cercando la sintesi tra il locale e il globale. So che lavorate ogni giorno in cose vicine, concrete, nel vostro territorio, nel vostro quartiere, nel vostro posto di lavoro: vi invito anche a continuare a cercare questa prospettiva più ampia; che i vostri sogni volino alto e abbraccino il tutto!

Perciò mi sembra importante la proposta, di cui alcuni di voi mi hanno parlato, che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino, come avete fatto voi in questi giorni. Attenzione, non è mai un bene racchiudere il movimento in strutture rigide, perciò ho detto incontrarsi, e lo è ancor meno cercare di assorbirlo, di dirigerlo o di dominarlo; i movimenti liberi hanno una propria dinamica, ma sì, dobbiamo cercare di camminare insieme. Siamo in questa sala, che è l’aula del Sinodo vecchio, ora ce n’è una nuova, e sinodo vuol dire proprio “camminare insieme”: che questo sia un simbolo del processo che avete iniziato e che state portando avanti!
I movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte dirottate da innumerevoli fattori. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature ci chiede di superare l’assistenzialismo paternalista, esige da noi che creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune. E ciò con animo costruttivo, senza risentimento, con amore.

Vi accompagno di cuore in questo cammino. Diciamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessuna persona senza la dignità che dà il lavoro.

Cari fratelli e sorelle: continuate con la vostra lotta, fate bene a tutti noi. È come una benedizione di umanità. Vi lascio come ricordo, come regalo e con la mia benedizione, alcuni rosari che hanno fabbricato artigiani, cartoneros e lavoratori dell’economia popolare dell’America Latina.

E accompagnandovi prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio Padre di accompagnarvi e di benedirvi, di colmarvi del suo amore e di accompagnarvi nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci mantiene in piedi: questa forza è la speranza, la speranza che non delude. Grazie.

«Sblocca Italia. Tra decreti e legge di stabilità l’uno-due che può disintegrare i servizi pubblici locali. Si chiede ai sin­daci di met­tere in ven­dita i beni comuni, per con­sen­tire loro di man­te­nere uno strac­cio di fun­zio­na­mento ordi­na­rio dell’ente locale».

Il manifesto, 29 ottobre 2014 (m.p.r.)

Attra­verso la fami­ge­rata cop­pia nor­ma­tiva, for­mata dal decreto «sblocca Ita­lia» e dalla legge di sta­bi­lità, il governo Renzi sta ten­tando di por­tare un secondo scalpo al tavolo dei rigo­ri­sti euro­pei e al ban­chetto dei grandi inte­ressi finan­ziari: i ser­vizi pub­blici locali, a par­tire dall’acqua.

Il dise­gno sot­teso è quello di un pro­cesso di aggregazione/fusione che veda i quat­tro colossi mul­tiu­ti­lity attuali – A2A, Iren, Hera e Acea– già col­lo­cati in Borsa, fare man bassa di tutte le società di gestione dei ser­vizi idrici, ambien­tali ed ener­ge­tici, dive­nendo gli unici cam­pioni nazio­nali, final­mente in grado di «com­pe­tere» sui mer­cati internazionali.

Die­tro la pro­pa­ganda della ridu­zione del car­roz­zone delle società par­te­ci­pate e dei costi della «casta» — pro­blema reale, le cui solu­zioni, se affi­date ai cit­ta­dini e ai lavo­ra­tori dei ser­vizi, andreb­bero in dire­zione osti­nata e con­tra­ria agli inte­ressi delle lobby politico/finanziarie che domi­nano il paese– si cerca di met­tere una pie­tra tom­bale sull’esito della straor­di­na­ria vit­to­ria refe­ren­da­ria del giu­gno 2011 e sul suo pro­fondo signi­fi­cato di pro­nun­cia­mento di massa con­tro le poli­ti­che libe­ri­ste e di affer­ma­zione del nuovo para­digma dei beni comuni.

Con lo «sblocca Ita­lia» — piano di cemen­ti­fi­ca­zione deva­stante del paese, alla fac­cia delle lacrime di coc­co­drillo sul suo dis­se­sto idro­geo­lo­gico — si è impo­sto il con­cetto dell’unicità della gestione del ser­vi­zio idrico den­tro ogni ambito ter­ri­to­riale otti­male (Ato) in cui è diviso il ter­ri­to­rio, but­tando a mare il pre-esistente con­cetto di uni­ta­rietà della gestione, che per­met­teva di man­te­nere, inte­gran­dola, la plu­ra­lità delle gestioni esi­stenti in ogni territorio.

Se a que­sto si aggiunge il fatto che ogni regione sta ridi­se­gnando gli ambiti, ten­dendo sem­pre più spesso a farli coin­ci­dere con l’intero ter­ri­to­rio regio­nale, il risul­tato appare chiaro: al ter­mine di que­sto pro­cesso, vi sarà un unico sog­getto gestore per regione, e sarà gio­co­forza il pesce più grosso che annet­terà tutti i pesci più pic­coli. Rom­pendo defi­ni­ti­va­mente ogni legame con la ter­ri­to­ria­lità dei ser­vizi pub­blici locali e la pos­si­bi­lità, se non di una gestione par­te­ci­pa­tiva, almeno di un con­trollo demo­cra­tico affi­dato alle isti­tu­zioni locali.

In realtà, il dise­gno di fusione pro­gres­siva ha un pre­ciso obiet­tivo: la valo­riz­za­zione finan­zia­ria di società che, basan­dosi sulla red­di­ti­vità garan­tita dall’erogare ser­vizi essen­ziali — e quindi a domanda rigida — e sull’enorme liqui­dità perio­dica garan­tita dalle tariffe, se dimen­sio­nate su un numero signi­fi­ca­tivo di utenti-cittadini, pos­sono pro­durre, una volta col­lo­cate den­tro la rete delle grandi multiutility, un impor­tante valore aggiunto sui mer­cati finanziari.

Ciò che pre­vede lo «sblocca Ita­lia» è tut­ta­via solo la pre­messa di quanto dispo­sto dalla legge di sta­bi­lità, che si pre­figge il colpo finale per ogni idea di riap­pro­pria­zione sociale dei beni comuni e di gestione par­te­ci­pa­tiva e priva di pro­fitti da parte delle comu­nità locali.

Infatti, appro­fit­tando del pro­gres­sivo stran­go­la­mento degli enti locali, scien­ti­fi­ca­mente por­tato avanti negli anni attra­verso i tagli dei tra­sfe­ri­menti e l’applicazione di un patto di sta­bi­lità interno che ha reso pra­ti­ca­mente impos­si­bile il man­te­ni­mento di ogni fun­zione pub­blica e sociale (gli osan­nati «angeli del fango» della recente allu­vione a Genova, altro non sono che ragazzi sana­mente arrab­biati, i quali, avendo chiaro il totale stato di abban­dono in cui sono lasciati dalle isti­tu­zioni, deci­dono di fare da sé), il governo Renzi regala ai Sin­daci il defi­ni­tivo ricatto, togliendo dai para­me­tri del patto di sta­bi­lità, quindi per­met­tendo loro di spen­dere, una parte delle cifre rica­vate dalla ces­sione di quote pub­bli­che delle società par­te­ci­pate di ser­vizi pub­blici locali e ren­dendo nel con­tempo, ancor più onerosa, la scelta di una gestione pub­blica degli stessi.

Si chiede ai sin­daci, dun­que, di met­tere in ven­dita i beni comuni pri­mari delle pro­prie comu­nità di rife­ri­mento, per con­sen­tire loro di man­te­nere uno strac­cio di fun­zio­na­mento ordi­na­rio dell’ente locale. L’obiettivo delle élite politico-tecnocratiche dell’Ue è lo stesso di quando, dopo nep­pure un mese dalla pro­cla­ma­zione della vit­to­ria refe­ren­da­ria, scris­sero all’allora governo Ber­lu­sconi la famosa let­tera di dik­tat, in cui il punto n. 26 chie­deva «cosa intende fare il suo governo per la pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi idrici nel Paese, mal­grado l’esito del recente risul­tato referendario?».

L’obiettivo di Renzi è quello di dimo­strare di essere l’unico capace di por­tare a ter­mine un com­pito che nes­sun altro governo era sinora riu­scito a fare.

Il com­pito del movi­mento per l’acqua e dei movi­menti per i beni comuni è ancora una volta quello di dimo­strare che indie­tro non si torna, ria­prendo una forte mobi­li­ta­zione ter­ri­to­riale e nazio­nale che sap­pia par­lare a quella mag­gio­ranza di per­sone, inti­mo­rita dalla crisi ma non anni­chi­lita nella spe­ranza, che votando «sì» al refe­ren­dum ha sug­ge­rito la pos­si­bi­lità di un altro modello sociale, basato sulla riap­pro­pria­zione dei beni comuni e sulla loro gestione par­te­ci­pa­tiva, demo­cra­tica, territoriale.

E di far schie­rare i sin­daci, costretti, oggi più che mai, a sce­gliere se essere l’ultimo ter­mi­nale delle poli­ti­che rigo­ri­ste che dall’Ue ai governi nazio­nali pre­ci­pi­tano sui beni comuni della popo­la­zioni locali o se final­mente essere i primi rap­pre­sen­tanti del ter­ri­to­rio e delle per­sone che lo abitano.

Renzi non è che il pre­sente fine a se stesso, feroce e cinico come chi non con­serva memo­ria e non imma­gina futuro. Alle donne e agli uomini dell’acqua, che un futuro non solo l’hanno chiaro ma lo pre­ten­dono per tutte e tutti, l’obiettivo di fermarlo.

Marco Bersani è componente del Forum ita­liano dei movi­menti per l’acqua

Una parola «adoperata per indicare dottrine e attività diametralmente opposte» (Gaetano Salvemini

) esaminata in fruttuoso dialogo tra una visione liberale ( Norberto Bobbio) e una visione marxista (Pietro Ingrao). la Repubblica, 29 ottobre 2014

TUTTI i concetti generali della politica - libertà, uguaglianza, giustizia, nazione, stato, per esempio - sono usati in significati diversi, con la conseguenza di confusioni inconsapevoli e di inganni consapevoli. Gaetano Salvemini, lo storico antifascista che Bobbio include nel pantheon dei suoi “maestri nell’impegno”, ha scritto:

«La parola democrazia è adoperata per indicare dottrine e attività diametralmente opposte a una delle istituzioni essenziali di un regime democratico, vale a dire l’autogoverno. Così noi sentiamo [parlare] di una cosiddetta “democrazia cristiana” che, secondo la Catholic Enciclopedia, ha lo scopo di “confortare ed elevare le classi inferiori escludendo espressamente ogni apparenza o implicazione di significato politico”; questa democrazia esisteva già al tempo di Costantino, quando il clero “dette inizio all’attività pratica della democrazia cristiana”, istituendo ospizi per orfani, anziani, infermi e viandanti.

«I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della “reale”, “vera”, “piena”, “sostanziale”, “più onesta” democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali [siamo nel 1940], perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il “governo dei popoli”».

Invito al colloquio è il titolo del primo saggio di Politica e cultura ( Einaudi), un’espressione che riassume l’intera attività politico-intellettuale di Bobbio. Ma, il colloquio, affinché non si svolga in acque torbide, deve sapere qual è l’oggetto e che cosa, per non intorbidirle, ne deve stare fuori. Per questo, una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Tutto qui.

Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto - come si usa dire per analogia -' le “regole del gioco”.

In uno scambio epistolare con Pietro Ingrao sul tema della democrazia e delle riforme costituzionali che ebbe luogo tra il novembre 1985 e il gennaio 1986 (P. Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento, Ediesse), troviamo una dimostrazione di ciò a cui serve il “concetto minimo”. Serve, da una parte, a includere, e dall’altra, a escludere e, così facendo, a chiarire. I punti del contrasto riguardano quello che allora era il progetto d’Ingrao, descritto in un libro dal titolo significativo: Masse e potere (Editori Riuniti, 1977) che allora ebbe grande successo e che ora - mi pare - è dimenticato: la democrazia di massa o di base, unitaria e capace di egemonia. Ma gli argomenti chiamati in causa possono riguardare, in generale, tutte quelle che Bobbio avrebbe considerato degenerazioni della democrazia, alla stregua della sua definizione minima, come ad esempio, la “democrazia dell’applauso” di cui egli parla nel 1984, a proposito della conquista del Partito socialista da parte del suo segretario di allora), o la democrazia dell’investitura plebiscitaria e populista dei tempi più recenti.

Si prenda la “massa”. Bobbio chiede «che cosa si possa intendere mai per democrazia di massa di diverso da quel che s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale»; che cosa si dica di più e di meglio «rispetto a quel che s’intende quando si parla di un sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto di voto »? Se non s’intende nulla di diverso, la democrazia di massa è perfettamente compatibile, anzi è la definizione formale della democrazia nella quale i cittadini possono riunirsi e associarsi per svolgere attività politica.

Ma non è tutto. Introdurre le masse al posto dei cittadini non lascia capire esattamente di che cosa si stia parlando e nella zona grigia dell’incertezza entrano atteggiamenti emotivi che difficilmente diremmo democratici. Ingrao usa espressioni come «irruzione delle masse nello Stato», «un fiume tumultuoso che rompe gli argini e spazza e travolge ciò che trova nel suo corso», all’azione diretta della folla. Massa può alludere a un corpo collettivo amorfo e indifferenziato, mentre il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo. «In democrazia non ci possono essere masse: ci sono o individui, oppure associazioni volontarie di individui, come i sindacati e i partiti». In ogni caso, in democrazia gli individui pensano e vogliono a partire dalla propria autonomia morale. Sanno affrancarsi dalla “psicologia della massa” sulla quale si appoggiano e si sono appoggiati tutti i demagoghi d’ogni tempo e luogo.

E l’unità? Che senso ha l’appello all’unità che il Partito comunista di quegli anni insistentemente faceva proprio: compromesso storico, alternativa democratica, oggi Pd o, addirittura, Partito della Nazione? La democrazia è un regime d’insieme e «non può essere chiamato democratico [si può aggiungere: nazionale] in una delle sue parti se non costo di creare una notevole confusione. Se una di queste parti viene chiamata “democratica” [o nazionale] è segno che la si considera una parte che tende a identificarsi col tutto». L’unità sconfina nella unicità. La democrazia richiede “distinzioni”, cioè pluralismo. «Senza pluralismo non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario». La sintesi è espressa da Bobbio in termini assai forti, perfino scandalosi: «La discordia è il sale della democrazia, o più precisamente della dottrina liberale che sta alla base della democrazia moderna (per distinguerla dalla democrazia degli antichi). Resta sempre a fondamento del pensiero liberale e democratico moderno il famoso detto di Kant: “L’uomo vuole la concordia, ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia”».

E l’egemonia? Qui Bobbio confessa che si tratta d’un concetto che gli è “meno familiare”, ma ciò non gli impedisce di porre una domanda analoga a quella posta a proposito della “massa”: «Mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse in che cosa consista l’egemonia in un sistema democratico se non nella capacità di ottenere il maggior numero di voti […] Se qualcuno mi sa dire che cosa significhi in democrazia, entro il sistema di certe regole del gioco, conquistare l’egemonia, oltre al conquistare il consenso degli elettori, lo prego di farsi avanti».

Insomma: egemonia, massa, unità non appartengono al sistema concettuale del pensiero liberal-democratico e appartengono invece alla tradizione del pensiero marxista. Tutto si tiene in una concezione della democrazia che contraddice l’universo politico che, in fin dei conti, era anche quello di Ingrao del Partito comunista.

La forza elementare delle argomentazioni di Bobbio porta, alla fine, a una certa convergenza. Dice Ingrao e certo Bobbio avrebbe concordato (cito dalla lettera che conclude lo scambio): «”Democrazia minima”: dici tu. Ma anche quel livello minimo (eguaglianza formale nella libertà di voto) può realizzarsi senza chiamare in causa tutta una serie di condizioni, che riguardano libertà di voto, modalità di voto, contenuti del voto, conseguenze del voto, attuazione del voto? L’atto è quello. Ma il quadro - sociale, politico, statuale - entro cui esso si svolge è decisivo, perché esso possa essere non dico esaustivo (?), ma significante. Per “minima” che sia la democrazia, quel voto ha bisogno di un prima e di un poi che gli diano verità. Altrimenti la forma dell’uguaglianza rivela il suo limite, la sua debolezza di contenuto».
Questo dice Ingrao. Ma, chi potrebbe dissentire? Chiunque s’ispiri a una concezione liberale della democrazia — Bobbio in primis — non potrebbe non essere d’accordo.
Non è questa la sede per distribuire le ragioni e torti, anche se a me pare, sommessamente, che sia stato Bobbio a condurre Ingrao sulla sua strada, e non viceversa. In ogni caso, la definizione minima del primo si è dimostrata feconda di dialogo con il secondo.
Pos­siamo sba­gliarci, ma vedendo il cor­teo ci siamo con­vinti che una sini­stra di popolo, con­sa­pe­vole, for­ti­fi­cata dalla capa­cità di resi­stere alla duris­sima prova della crisi, ha ripreso pie­na­mente il suo diritto di cittadinanza». Il manifesto, 26 ottobre 2014

Tutta mia la città. Forse è que­sta la bella sen­sa­zione che hanno pro­vato le cen­ti­naia di migliaia di per­sone arri­vate ieri nella capi­tale da ogni dove d’Italia. Per­ché c’erano loro, con i canti, gli slo­gan, i sor­risi, i balli, le parole d’ordine, i “cor­doni”, i mega­foni. E intorno il silen­zio di una città serena, anche “com­plice”. Non diremo che è stata una bel­lis­sima gior­nata di sole, né che Roma ha rice­vuto come se niente fosse un popolo immenso. Que­sto lo sanno già tutti per­ché per­sino le tv più filo-renziane hanno dovuto arren­dersi di fronte all’evidenza dei fatti: una mani­fe­sta­zione sin­da­cale, di ragazze e di nonni, di stu­denti e di pre­cari, di lavo­ra­tori e di mili­tanti, di immi­grati e par­tite Iva che ha invaso gio­io­sa­mente, paci­fi­ca­mente le strade romane.

Vediamo invece che cosa la piazza della Cgil ha messo davanti agli occhi di tutti gli italiani.

In primo luogo la ric­chezza della rap­pre­sen­tanza. Mille realtà e infi­niti volti del lavoro rac­con­tati dai car­telli delle cate­go­rie, a indi­care la pre­senza del sin­da­cato anche dove non te lo sare­sti aspet­tato (guar­die gialle, peni­ten­zia­rie…). Una con­ferma, con­for­tante, del radi­ca­mento sociale del sin­da­cato con­tro il luogo comune che lo dipinge come la casta dei burocrati.

Per­ché si è mobi­li­tato il lavoro vivo. Vero. E se doveva essere una prova di forza, l’esito di que­sto 25 otto­bre ci dice che è pie­na­mente riu­scita. Nono­stante le cri­ti­che, tal­volta giu­sti­fi­cate, di vetero sin­da­ca­li­smo, di inca­pa­cità di inclu­dere i più gio­vani e i meno garan­titi, di non avere gli stru­menti per coa­gu­lare intorno a se un’opinione forte e in grado di oltre­pas­sare gli stec­cati sin­da­cali, ebbene ieri la Cgil ha dimo­strato che que­sti limiti non hanno modi­fi­cato i sen­ti­menti più pro­fondi e più forti del sin­da­cato italiano.

Ma quella breve distanza che divide Roma da Firenze, ieri è diven­tata abis­sale. Per­ché men­tre Renzi riven­di­cava a sé e alla Leo­polda la forza di creare lavoro (e sten­diamo un velo su chi ha fatto da con­torno alla corte del gio­vane pre­mier che ama gli yesman), ieri a piazza San Gio­vanni c’era la gente che lavora sul serio, e tanta altra gente che il lavoro lo vor­rebbe con­cre­ta­mente, non solo nei pro­grammi e nelle pro­messe. Per­ché men­tre a Firenze lo spon­sor (e finan­zia­tore) di Renzi, il finan­ziere Serra, soste­neva che andrebbe vie­tato lo scio­pero nel pub­blico impiego (ma non si ver­go­gna un po’ il segre­ta­rio del par­tito demo­cra­tico — ripeto: par­tito demo­cra­tico — ad avere simili sup­por­ter?), qui a Roma sfi­la­vano donne e uomini che recla­ma­vano la tutela di un diritto costituzionale.

E’ pos­si­bile che tra i soste­ni­tori (com­presi par­la­men­tari e mini­stri) molti non con­di­vi­dano i valori rap­pre­sen­tati ieri da quella massa enorme di cit­ta­dini ita­liani. Ed è altret­tanto pro­ba­bile che il distacco tra i due mondi (assai poco vir­tuale) non venga col­mato, se non in parte, da quei poli­tici della sini­stra Pd che a fatica cer­cano di tam­po­nare la deriva libe­ri­sta della più grande forza di centrosinistra.

Ora si va verso lo scio­pero gene­rale. Invo­cato dalla piazza che ha alzato il volume dell’applausometro quando la segre­ta­ria Camusso lo ha evo­cato, insieme alla richie­sta di una patri­mo­niale per gli inve­sti­menti pubblici.

E di fronte all’abbraccio tra Camusso e Lan­dini, di fronte al “par­tito di lotta” che uni­sce tutta la sini­stra del lavoro, Renzi com­met­te­rebbe un grave errore se pen­sasse di cavar­sela con un twit­ter o una bat­tuta. Farebbe meglio a pren­dere atto che ieri, improv­vi­sa­mente — ma non troppo — la parola sini­stra, irrisa e desueta, ha ripreso vita e si è fatta largo in modo pro­rom­pente ricon­qui­stando lo spa­zio sociale, poli­tico, cul­tu­rale che qual­cuno vor­rebbe negarle.

Pos­siamo sba­gliarci, ma vedendo il cor­teo ci siamo con­vinti che una sini­stra di popolo, con­sa­pe­vole, for­ti­fi­cata dalla capa­cità di resi­stere alla duris­sima prova della crisi, ha ripreso pie­na­mente il suo diritto di cittadinanza

«Mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato».

La Repubblica, 27 ottobre 2014

Matteo Renzi, nella vecchia stazione della Leopolda, è ri-partito. Anche se non si è mai fermato, fino ad oggi. Non è nel suo stile, nel suo temperamento. Ma ha chiarito meglio a quale "partito" guardi. Il PdR, il Partito di Renzi, è, appunto, un "ri-partito". Un partito in continua ri-definizione, riguardo a obiettivi, parole d'ordine, riferimenti sociali. In continua ri-partenza, verso nuove stazioni. È questo il principale messaggio, il messaggio dei messaggi, lanciato a Firenze. Il "suo" partito guarda avanti. E, per questo, non ha un "popolo" specifico di riferimento. Ma sa "contro" chi muovere. Anche perché i suoi "nemici", per primi, hanno scelto Renzi, il suo governo e la convention di Firenze come "nemici" contro cui mobilitarsi.

I "nemici" di Renzi sono quelli che hanno sfilato a Roma, contro il Jobs act, contro le politiche sul lavoro del governo. "Convocati" dalla Cgil. E, non a caso, "contro" di loro e ciò che rappresentano si è rivolto Matteo Renzi, nel suo intervento conclusivo alla Leopolda. Li ha "etichettati", politicamente, come nostalgici di un passato che è passato. E ha accostato - per molti versi, assimilato - la manifestazione della Cgil all'iniziativa delle sinistre arcobaleno. Il PdR, invece, guarda altrove. E, per questo, insiste sull'articolo 18. Simbolo del passato. Bandiera del Pd e della sinistra con la quale Renzi intende tagliare i ponti. Perché «è una regola degli anni Settanta che la sinistra allora non aveva nemmeno votato, siamo nel 2014». Così la questione, sollevata da Renzi, è «capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare il futuro». Un'alternativa, ovviamente, retorica. Perché, come scandisce Renzi «non permetteremo a nessuno di far tornare il Pd al 25%».

Il PdR, per questo, si definisce "in opposizione all'opposizione". Ai "nemici", che Renzi continua a scegliere con cura, per precisare la sua differenza. Dagli "altri". Per intercettare gli elettorati che hanno sempre guardato la sinistra con sospetto. Sul piano politico: i moderati di centro, già assorbiti. Quelli di centrodestra e di destra, in gran parte collaterali. Dal punto di vista sociale: gli imprenditori, grandi e piccoli, i lavoratori autonomi del Nord. Componenti tradizionalmente ostili e anticomuniste. Renzi li ha "convocati" alla convention di Firenze. Raccolti intorno al premier e "contro" coloro che manifestavano a Roma. Un popolo di operai, certamente non giovani, insieme ai pensionati (oltre a molti lavoratori immigrati). Secondo il premier: il passato. E "contro" la Cgil, in quanto sindacato, con cui, come ha già detto altre volte, non intende «concertare». Si tratta di argomenti e discorsi già sentiti. Renzi li ha espressi, apertamente, altre volte. Ma questa volta li ha raccolti e presentati insieme, alla sua convention, nella sua capitale: Firenze. Ne ha fatto una sorta di manifesto del PdR. Che, tuttavia, solleva alcuni dubbi. Principalmente due.

Il primo riguarda l'identità del partito. Il PdR, o il PdN, il Partito della Nazione, come l'ha battezzato Renzi. Tutto proiettato verso il futuro. Alla novità, all'innovazione. In contrasto con ogni nostalgia e con ogni richiamo al passato. Ebbene, a rischio di condividere i vizi e i vezzi di "un certo ceto intellettuale" (anche se mi offenderei: intellettuale a chi?), mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato.

In secondo luogo, liquidare la manifestazione della Cgil come una mobilitazione della Sinistra arcobaleno mi pare, a maggior ragione, riduttivo. Fra coloro che hanno sfilato contro il governo e contro Renzi vi sono molti elettori del Pd. E molti elettori del Pd, comunque, ne condividono la protesta. Possiamo tentare, con qualche approssimazione, di stimarne il peso elettorale (base: Oss. Elettorale Demos, ottobre 2014) concentrandoci su coloro che esprimono molta-moltissima fiducia nella Cgil. Fra gli elettori del Pd sono circa il 25%. Cioè, se facciamo riferimento alle elezioni europee di maggio, intorno al 10% del voto. Appare, quindi, azzardato trattare questa componente come fosse esterna ed estranea. E se è vero che gli iscritti al sindacato sono, per la maggior parte, pensionati e lavoratori anziani, è altrettanto vero che proprio questi settori, alle ultime elezioni (politiche ed europee), hanno costituito lo zoccolo duro del voto al Pd.

Per questo conviene rammentare che, se, effettivamente, il Pd, prima di Renzi, si era fermato al 25%, il Pd di Renzi ha superato la soglia del 40% non perché abbia "abolito" il passato, ma perché, al contrario, lo ha incanalato nel suo progetto. Come ho già scritto, Renzi ha sommato i voti del PdR a quelli del vecchio Pd. Il suo post-partito e la "ditta". In altri termini, ha intercettato i consensi di coloro che hanno votato per Renzi "nonostante" il Pd. Ma anche gli elettori che hanno votato per il Pd "nonostante" Renzi.

Per queste ragioni penso che Renzi debba guardarsi dalla prospettiva segnalata da Mauro Calise: presentarsi come un "anti-partito", raccolto intorno al suo leader. Che stigmatizza il passato e la memoria, in nome del "nuovo" ad ogni costo. Ma rischia, in questo modo, di perdersi nel presente.

Nasce alla Leopolda il "Partito della Nazione. I più vecchi, e quelli che conoscono la storia del secolo scorso, ricordano il Partito Nazionale Fascista di Mussolini e il Nazionalsocialismo di Hitler.

La Repubblica, 23 ottobre 2014

Il modello "Macy's" ha i suoi rischi se applicato alla politica È illusorio Leopolda il nuovo Partito democratico si appresta a diventare il Partito della nazione. Un partito sulla cui forma si stanno sbizzarendo in tanti, sia al suo interno si a all'esterno. Per i suoi promotori e sostenitori, il nuovo Partito democratico dovrà avere un look americano come Big Tent, una grande tenda sotto la cui ombra sostano diverse anime e diversi movimenti, non sempre congruenti tra loro negli interessi e nelle idee, benché desiderosi di stare sotto a quell'ombrello e non a un altro ( almeno temporaneamente) .

Il segretario Matteo Renzi ha confermato il senso di questa volontà rifondatrice quando ha prospettato un nuovo Italicum, con un premio di maggioranza dato non più alla coalizione ma al partito. Una riforma che calza il modello di partito unico, è stato scritto. Nel senso che se il partito è una "grande tenda", allora la coalizione viene inglobata dentro il partito stesso e quindi il premio alla colazione non ha più molto senso. Big Tent sta per "catch-all party, partito piglia-tutti e non tutto", spiegano i leopoldini. Rassicurando che la parte non vuole diventare il tutto, ma vuole vincere e per farlo deve inglobare al suo interno tutto il possibile.
Ma c'è bisogno di inglobare i diversi nel tutto per incamerarne i voti? La risposta che viene data a questa domanda si appella all'analogia con il partito americano. Analogia non equivale peri a identità. Il Partito della Leopolda (PdL) nelle intenzioni fatte circolare dai suoi organizzatori e sostenitori sembra avere due caratteristiche. In primo luogo, ha una natura (non solo una vocazione) maggioritaria. La parte ha in realtà aspirazione a essere il tutto inglobando tutti coloro che vogliono stare all'ombra della grande tenda. Con pochissimi distinguo ideologici. Si tratta di una forma di partito che vuole essere programmaticamente anti-partigiana. Il Partito della Leopolda sarà un post-partito. L'esito della lungà marcia verso il superamento del partito riconoscibile da una comprovata carta di identità ideologica. Bassa soglia di ammissione perché poca caratterizzazione ideologica, dunque.

Basta essere democratici per aderirvi, come era nelle intenzioni del fondatore del Partito democratico, Walter Veltroni, che scelse non a caso un nome "costituzionale", se così si pub dire. L'aggettivo 'democratico" prefigura un'ampia inclusione giocando proprio sulla connotazione poco strutturata pensare di superare la competizione inglobando i potenziali alleati del termine democrazia che, come sappiamo, a parte alcune basilari procedure e il suffragio elettorale, lascia ciascuno libero di interpretarlo a modo suo. La natura del partito sarà altrettanto inclusiva e vaga dell'aggettivo che lo designa.

La seconda caratteristica del Partito della Leopolda è di imitare il modello "Macy's". Dal nome dei grandi magazzini americani, primi nel mondo, che rivoluzionarono il mercato quando misero in uno stesso spazio merci non solo di diverso genere ma anche prodotte da diverse case, tradizionalmente competitive tra di loro. Invece dei negozietti mono-brand o dei molti banchi che vediamo ancora nei mercati italiani, dove avviene la contrattazione diretta da parte del compratore, il modello grande magazzino abolisce quella contrattazione e impone il prezzo fisso (la competizione avviene altrove, per esempio sul mercato finanziario o sull'abbattimento dei costi di produzione). L'omogeneità dello spazio e l'impersonalità del venditore rendono possibile questa compresenza di diversi senza tensione competitiva. Invece del vociare tra una bancarella e l'altra, una grande e silenziosa corsa agli acquisti, con i clienti che diventano compartecipi del clima di rilassato consumo.
Ma il modello Macy's ha i suoi rischi se applicato al partito politico. Probabilmente la Big Tent è una strategia per sostituire la compartecipazione al conflittualismo portando dentro il partito i protagonisti (i piccoli partiti) di ipotetiche coalizioni. Ne guadagnerebbe la stabilità perché i piccoli non avrebbero più il potere di veto sulla coalizione. Ma è illusorio pensare che verrà superata la competizione inglobando i potenziali alleati. Poiché quella lotta che tradizionalmenteavviene fra partiti alleati pub travasarsi all'interno del partito, rendendo la Bid Tent un luogo che, invece di un amabile conglomerato di parti, ospita un ring per incontri di box. La trattativa tra i potenziali alleati verrà spostata all'interno, non eliminata. I gruppi inclusi avranno un potere di trattativa non meno piccolo, un po' come le correnti nei vecchi partiti. Tutto dipenderà dalla forza degli interessi che rappresentano.

Sembra di capire che il modello post-partitico e da department store sia il segno che il nuovo Pd voglia essere a tutti gli effetti simile a un partito americano. Ma le differenze non mancano e non sono di poco conto. Almeno una differenza deve essere messa in evidenza: la Big Tent del partito americano è tenuta in piedi e insieme da una colla ideologica antagonistica molto forte. Vera o creata ad arte, la polarizzazione è la pratica permanente nell'arena americana ( in questi anni in particolare) la quale, nonostante tutto, resta strutturata per contrapposizione ideologica. Anche se l'elettore medio è poco o nulla di parte, e i partiti cercano leader poco di parte per attirarne il voto, i due partiti americani restano nemici, antagonisti, opposti su molte posizioni (con lealtà tramandate di padre in figlio).

Invece, il superamento ideologico predicato dal nuovo Pd sembra essere più radicalmente anti-partigiano e per questo propenso ad andare in un'altra direzione: verso il depotenziamento dell'antagonismo e con una forte propensione che potremmo dire cattolica, nel senso di essere inclusiva al massimo e totali77ante, anche a costo di diventare meticcia. È questo aspetto che fa temere che il Partito della Leopolda coltivi il sogno di diventare il tutto, di non essere solo un partito piglia-tutto.

In piazza San Giovanni a Roma, alla Leopolda a Firenze, due Italie. Da una parte i governo e dall'altra l'opposizione; da una parte la destra e dall'altra la sinistra.La linea che le divide e' la difesa del lavoro.

Il manifesto, 25 ottobre 2013

Il pas­sato e il futuro, i sin­da­ca­li­sti e gli impren­di­tori, le tute blu e le cami­cie bian­che, i pezzi da museo e la moder­nità, gli spin doc­tor e i comi­tati cen­trali, lo sto­ry­tel­ling e il comu­ni­cato stampa. Sarà più o meno rac­con­tata così que­sta gior­nata particolare.

Eppure, per segnare la dif­fe­renza e la distanza tra chi oggi sarà in piazza San Gio­vanni a Roma e chi andrà ad applau­dire Renzi alle ex sta­zione Leo­polda di Firenze si potrebbe più sem­pli­ce­mente dire che da una parte sfi­lerà l’opposizione dall’altra il governo o, se pre­fe­rite, da una parte la sini­stra e dall’altra la destra. Parole che sta­volta si pos­sono decli­nare sulla linea Magi­not della difesa dei lavoratori.

E’ sini­stra chi per uguale lavoro chiede uguale retri­bu­zione, è destra chi con il Jobs act pre­vede il deman­sio­na­mento. E’ sini­stra chi al con­tratto a ter­mine pone il vin­colo di una cau­sale, è destra chi toglie anche quella. E’ sini­stra chi per il licen­zia­mento pre­vede una giu­sta causa, è destra chi la can­cella. E’ sini­stra chi misura con il sala­rio ope­raio la dise­gua­glianza sociale, è destra chi sce­glie l’impresa come rife­ri­mento. Per una volta siamo pie­na­mente d’accordo con la sem­pre sor­ri­dente mini­stra Elena Boschi, madrina della ker­messe ren­ziana, quando sot­to­li­nea orgo­glio­sa­mente «noi siamo un’altra Ita­lia rispetto alla Cgil».

Ma il Pd di governo che si riu­ni­sce a Firenze per cele­brare il suo 40 per cento farebbe bene a riflet­tere su un pic­colo pro­blema. Molti, mol­tis­simi di quelli che oggi sfi­le­ranno in cor­teo per le strade della capi­tale sono elet­tori dello stesso par­tito di Boschi e com­pa­gni. Anche se è vero, come ci dicono gli esperti di son­daggi, che il feno­me­nale con­senso di Renzi sfonda gra­zie a un elet­to­rato di cen­tro­de­stra con abban­doni nel mondo di sini­stra. In ogni caso siamo in pre­senza di una pla­teale spac­ca­tura — fisica, poli­tica, cul­tu­rale — tra il raduno fio­ren­tino e la mani­fe­sta­zione sin­da­cale. Una divi­sione a lungo costruita con un netto spo­sta­mento del par­tito demo­cra­tico verso i sogni della Con­fin­du­stria, con­tro le lotte del sindacato.

Natu­ral­mente non sarà solo tutto potere e finanza ad ani­mare l’incontro fio­ren­tino, né solo oro quello che bril­lerà in piazza San Gio­vanni. L’imprenditore non è sino­nimo di Mar­chionne, e i lavo­ra­tori non sono tutti iscritti alla Cgil o alla Fiom. D’altra parte la Cgil non è stata in que­sti anni un sin­da­cato capace di inter­pre­tare lo scon­vol­gi­mento del mer­cato del lavoro, né di rap­pre­sen­tare l’immenso eser­cito di riserva del pre­ca­riato. Come del resto ha ammesso la stessa segre­ta­ria Camusso («è stato un grave errore di valu­ta­zione, non pen­sa­vamo che il pre­ca­riato sarebbe dila­tato in que­sto modo»). E un sin­da­cato che non capi­sce l’arrivo della tem­pe­sta, fatal­mente non rie­sce poi nem­meno a farsi argine e a rilan­ciare la bat­ta­glia del lavoro sulla nuova fron­tiera della mici­diale globalizzazione.

Tut­ta­via c’è un milione di ragioni per essere oggi in piazza. Ragioni con­tin­genti (la mano­vra eco­no­mica e le pes­sime leggi sul mer­cato del lavoro), ragioni ideali (una memo­ria da custo­dire e un futuro da costruire), ragioni poli­ti­che (una sini­stra da rifondare).

Noi del mani­fe­sto saremo tra i mani­fe­stanti con il nostro gior­nale in edi­zione spe­ciale. Saremo in edi­cola come sem­pre, ma anche in piazza con decine di “stril­loni” per dif­fon­dere insieme al mani­fe­sto anche un inserto di otto pagine (che distri­bui­remo gra­tui­ta­mente) dedi­cato all’articolo 18, con inter­vi­ste, ana­lisi, testi­mo­nianze: un diritto di chi lo ha usato per difen­dere il posto di lavoro, di chi, pre­ca­rio, non ce l’ha ma lo vor­rebbe e oggi è in piazza per difen­derlo. Un con­tri­buto alla bat­ta­glia comune, un gesto con­creto di soli­da­rietà e di vici­nanza, frutto dell’impegno del nostro gruppo di lavoro. Un pic­colo con­tri­buto per una grande, deci­siva bat­ta­glia di democrazia.

E un con­tri­buto anche con­tro la disin­for­ma­zione. Per­ché sui quo­ti­diani amici di Renzi (tanti, troppi), sui tele­gior­nali proni (tanti, troppi) nei con­fronti del pre­mier si è voluto far pas­sare l’idea che l’articolo 18 è un affare di pochi, men­tre il governo vuole esten­dere i diritti ai più. Que­sta è una fal­sità, una bugia, una presa in giro. Siamo anche pronti a scom­met­tere che la Leo­polda verrà rac­con­tata dai media nazio­nali e locali per filo e per segno, con arti­coli di gos­sip, retro­scena, curio­sità. Sapremo tutto sui sor­risi e sugli abbracci, sui twit­ter del pre­mier, sui par­venu filo ren­ziani in cerca di uno stra­pun­tino, sui «mi si nota di più se ci vado o se non ci vado», ma che poi pre­fe­ri­scono esserci per­ché lì, a Firenze, c’è il nuovo potere e non si sa mai.

Noi del mani­fe­sto, più mode­sta­mente, ripor­te­remo le voci di chi soli­ta­mente è senza voce. Delle donne e degli uomini, dei gio­vani e degli anziani che si bat­tono per la loro dignità. E per quella di tutti. Com­presi i leopoldini.

«Un’udienza che poteva e doveva essere indispensabile, ragion per cui la Corte d’Assise l’ha disposta quasi sfidando l’evidente riottosità del capo dello Stato, rischia di essere un’udienza inutile, perfino dannosa per l’accertamento della verità». Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2014 (m.p.r.)

Ora che il momento della deposizione del presidente Napolitano al processo sulla “trattativa Stato-mafia” è arrivato, è giusto chiarire ai lettori del Fatto Quotidiano, italiani fortunati a essere stati costantemente informati di questo processo oscurato dai media, cosa è lecito attendersi da questa udienza che si svolgerà in pompa magna nientedimeno che al Quirinale, sede della più alta carica dello Stato. E credo di poter rivendicare, per la mia storia e il ruolo che in quel processo ho svolto, il diritto di poter dire la mia in virtù di un doppio vantaggio.

Il primo è quello di conoscere bene quell’indagine dall’inizio, avendola io avviata nell’ormai lontano 2000, fino alla sua impostazione costruita con i pm che oggi se ne occupano a dibattimento. Il secondo vantaggio è quello di essere un ex-magistrato, e quindi poter dire ciò che oggi a un magistrato non è consentito, visto che a colpi di procedimenti disciplinari, reprimende quirinalizie e adeguamenti obbedienti di un Csm trasformato da presidio dell’autonomia e indipendenza della magistratura a sede naturale dell’omologazione di giudici e pm, i magistrati sono stati ormai ridotti a cittadini di serie B, spogliati della libertà di espressione e del diritto di critica, se la critica investe la politica.
In virtù di questo doppio vantaggio, vi dico perché un’udienza che poteva e doveva essere indispensabile, se non decisiva, per l’accertamento della verità, ragion per cui la Corte d’Assise l’ha disposta quasi sfidando l’evidente riottosità del capo dello Stato, rischia di essere un’udienza inutile, perfino dannosa per l’accertamento della verità. Messa a rischio non certo dalla magistratura, ma – ancora una volta – dalla politica, una politica irredimibile, espressione di una classe dirigente troppo allergica al principio di responsabilità.

Io non sarò in quella sala del Quirinale trasformata in aula di udienza perché non sono più pm della Procura di Palermo, e non lo sono più anche perché ho ritenuto non vi fossero più le condizioni per un pieno accertamento della verità. E credo che la sorte di questa udienza ne sarà una riprova, così come la distanza fra le domande che avrei voluto fare io e quelle che i pm potranno fare al Presidente Napolitano.

La prima domanda che farei al Presidente Napolitano sarebbe: perché quando il senatore Nicola Mancino la cercò al telefono direttamente, e anche indirettamente tramite Loris D’Ambrosio, Lei non ritenne di astenersi dal mantenere rapporti e contatti con il senatore Mancino, che si sapeva essere in quel momento coinvolto nell’indagine sulla trattativa? Perché, anzi, assicurò il suo interessamento, facendo intendere a Mancino che avrebbe assecondato il suo disegno di sottrarre alla Procura di Palermo la direzione dell’indagine sulla trattativa? Lo fece solo per non dispiacere un vecchio amico e collega, o piuttosto lo fece per una superiore ragion di Stato? E quale, di grazia, era questa ragion di Stato? Peccato che questa domanda oggi sarebbe inammissibile, grazie alla politica, le ragioni della politica che l’hanno indotta, signor Presidente, a sollevare un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo. Le stesse ragioni della politica che poi hanno “indotto” la Corte costituzionale a darLe ragione, così coprendo di una malintesa immunità presidenziale tutte le Sue attività intorno a quella vicenda. Domanda respinta perché non consentita.

La seconda domanda, collegata, sarebbe di chiederLe perché non ritenne di contattare i pm palermitani per informarli dei contatti impropri attraverso i quali Mancino cercava di interferire sulle indagini in corso. Ma immagino che anche questa domanda mi sarebbe inibita dal presidente della Corte d’Assise in virtù di quella stessa sentenza politica della Corte costituzionale. Domanda respinta perché non consentita.

E ancora peggior sorte avrebbero le mie domande sulle telefonate “indicibili”, essendomi sempre chiesto perché Napolitano, se fosse stato davvero convinto che le telefonate intercettate con Mancino non contenessero nulla di inquietante e indicibile, non ha fatto nulla per sgombrare il campo da malignità e dietrologie, facendo in modo che quelle telefonate diventassero pubbliche, anziché addirittura imporne la distruzione. Domanda respinta perché non consentita.

E ancora: è certo, signor Presidente, che il conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte costituzionale contro la Procura di Palermo abbia aiutato la ricerca della verità e non l’abbia invece ostacolata? Domanda respinta perché non consentita. E infine: è certo che il tentativo di sottrarsi alla testimonianza dichiarandola preventivamente inutile sia stato un modo per aiutare la ricerca della verità? Domanda respinta perché non consentita.

In ultimo, con impertinenza: perché non ha mai espresso solidarietà ai magistrati del “pool trattativa” minacciati dalla mafia, da ultimo il pm Antonino Di Matteo, destinatario di messaggi di morte da parte di Totò Riina? Domanda respinta perché non consentita e provocatoria.

Ma avrei insistito. Del resto, mi è già accaduto a Palazzo Chigi, quando andai a interrogare Silvio Berlusconi nel corso del processo Dell’Utri, di provare a insistere con le domande nonostante Berlusconi, come oggi Napolitano, avesse fatto sapere alla Corte di non avere notizie utili da riferire, e alla fine venne costretto ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Facoltà invece non consentita al Presidente Napolitano. E perciò, insistendo, avrei chiesto al Presidente quali fossero i segreti su certi “indicibili accordi” che Loris D’Ambrosio aveva rivelato solo a lui e mai ai magistrati, come lo stesso D’Ambrosio scrisse nella lettera del 18 giugno 2012 indirizzata a Napolitano. Quel segreto che aveva così tanto tormentato un uomo di Stato come D’Ambrosio da farlo morire di crepacuore (se solocrepacuore fu, visto che non è mai stato disposto alcun accertamento medico-autoptico). Un segreto che solo Lei, sig. Presidente, può rivelare alla Corte.

Se il Presidente avesse risposto di non sapere nulla di questi “segreti di Stato”, allora la domanda conseguente sarebbe stata: signor Presidente, pensa che Loris D’Ambrosio abbia scritto il falso rievocando un colloquio riservato con Lei in cui l’aveva messo a conoscenza di quei segreti? E perché avrebbe dovuto scrivere il falso in una lettera riservata a lei indirizzata?
Ma so che anche queste domande rischierebbero di non essere ammesse. Qualche autorevole opinionista, investito di quirinalizie preoccupazioni, sostiene che domande del genere sarebbero impedite dalle supreme prerogative presidenziali. Io credo, invece, che sono domande che attendono
risposta già da troppo tempo. Il presidente Napolitano ha la possibilità di fare chiarezza, sgombrando finalmente il campo da opacità e sospetti, dando un contributo decisivo nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità in una vicenda ancora avvolta da troppi misteri, ancora ostaggio di troppi depistaggi di Stato, di troppi “non so” e “non ricordo” di fonte istituzionale.
Dopo più di 20 anni di silenzi, depistaggi, connivenze, omertà di Stato deve arrivare il momento della verità. Lo si deve a tutte le vittime delle stragi di mafia, lo si deve ai loro familiari. Solo con la verità l’Italia potrà dire di essersi meritata il sacrificio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e dei tanti altri italiani caduti fra guerre e trattative con Cosa Nostra.

Le mie domande sarebbero impertinenti? Forse. Ma sono le domande di chi ha giurato sulla bara di Paolo Borsellino che avrebbe fatto di tutto per scoprire tutta la verità sulla morte sua e di tante altre vittime innocenti, e oggi sappiamo anche della trattativa. Di tutto. Anche a costo di uscire dalla magistratura, e quindi a costo della propria carriera. A qualsiasi costo. Provando a emulare l’irriducibilità e l’intransigenza di un vero uomo come Paolo Borsellino.

Ma siamo in Italia. Le cose vanno diversamente. Quelle domande sarebbero ormai dichiarate inammissibili. Il Presidente non risponderà a nulla di tutto questo. E, oltre il danno la beffa, l’intero processo rischia pure di essere dichiarato nullo perché, con un’ordinanza assai dubbia sul piano del diritto e della Costituzione, la Corte di Palermo, pur di non aprire un altro conflitto col capo dello Stato, ha estromesso gli imputati dalla partecipazione all’udienza che Napolitano ha preteso avvenisse in Quirinale. E la verità si allontana. In Italia c’è chi regna sovrano e chi ha scarsa memoria, cantava Rino Gaetano, ma il cielo è sempre più blu. E – aggiungo io – l’Italia va sempre giù. Tanto per fare la rima.

Il cittadino italiano mediamente informato può farsi un'idea di quale sia lo stato dei partiti e della vita politica in Calabria grazie >>>

Il cittadino italiano mediamente informato può farsi un'idea di quale sia lo stato dei partiti e della vita politica in Calabria grazie alle notizie apparse di recente su quasi tutta la stampa nazionale. In questa regione si è resa necessaria una sentenza del TAR per costringere i partiti ad andare alle urne. Loro intenzione era traccheggiare sino al compimento della legislatura, nonostante il governo regionale fosse in crisi da mesi, dopo la condanna in primo grado a 6 anni di carcere, nel marzo di quest'anno, del suo presidente. La fertile fantasia affaristica di questo ceto, che si applica con tanta fervida cura alle sorti delle popolazioni, ha addirittura partorito una revisione della legge elettorale palesemente incostituzionale (una soglia del 15% per i partiti non coalizzati) allo scopo di creare la paralisi istituzionale e continuare a fare nomine, a percepire circa 10 mila euro al mese tra indennità di carica e “spese di esercizio”.

Com'è noto, la Calabria è la regione più povera d'Italia. I dati Istat di luglio danno la disoccupazione ufficiale al 25%, quella giovanile è quasi il doppio, ma è difficilmente calcolabile, mentre ricade nella soglia della povertà relativa, insieme alla Sicilia, il 6,4% delle famiglie. Questa sventurata regione ha in compenso la più vasta criminalità organizzata del mondo, una multinazionale del crimine e, in gara con la Sicilia, il ceto politico più inetto e corrotto della Penisola. Ma la realtà sociale e quella politica si tengono insieme e si condizionano vicendevolmente. In molte realtà periferiche, anche in zone delle città maggiori, il voto, soprattutto quello amministrativo, non è più libero. Migliaia di cittadini votano per candidati da cui ricevono piccole somme, promesse aleatorie di posti di lavoro, raccomandazioni, ecc. D'altra parte, il ruolo legale dei rappresentanti politici appare così ininfluente sulle condizioni della loro vita, che essi sono propensi a valorizzare il loro voto anche al livello più misero.
Ma questa scadente domanda politica di tanta parte dei cittadini premia poi le figure peggiori degli uomini di partito, quelle che continuano una lunga e nefasta tradizione clientelare, spesso non esente da collusioni con i gruppi criminali. E' un circolo vizioso che induce passività e rassegnazione. Ho sempre considerato sorprendente il fatto che in Calabria – dove centinaia di miliardi di lire e poi milioni di euro dell'UE sono rimasti inutilizzati – mai sia stata organizzata una manifestazione di protesta dei cittadini, dei partiti o dei sindacati contro l'inettitudine dei vari governi regionali. Una passiva rassegnazione che impedisce l'emersione e l'affermazione di tante forze civilmente avanzate, soprattutto di giovani, che ambirebbero di essere governati da uomini e donne attenti ai drammatici bisogni collettivi .

Oggi, alla vigilia delle elezioni che si svolgeranno a novembre, c'è una possibilità di svolta, che potrebbe lanciare un messaggio a tutto il Paese. Il sindaco di Lamezia, Gianni Speranza, che ha governato bene, subendo attacchi ripetuti dalla 'ndrngheta' locale, osteggiato in mille modi dal PD, ha denunciato sul Manifesto del 10/9 l'esistenza del “partito trasversale” che inchioda la Calabria nella regnatela dei suoi piccoli e sordidi traffici. Di questo partito trasversale - non è una novità - è parte costituiva il PD regionale. Nonostante la presenza in esso di cittadini onesti e giovani intraprendenti, il PD non è che un insieme di gruppi notabilari. Solo una forza esterna, libera dalle storiche e sotterranee connivenze, può liberare la Calabria da un ceto politico che letteralmente la opprime e mette ai margini della vita nazionale.

Senso della responsabilità vorrebbe che tutte le forze democratiche minori mettessero da parte settarismi e piccoli orgogli di partito e cercassero una intesa unitaria contro l'avversario comune. Un avversario che oggi è il vero problema dell'Italia intera. Se si è in grado di offrire una reale speranza di svolta, i cittadini calabresi potrebbero premiare quella che appare indubbiamente una difficile sfida. Ma occorre anche che chi fa opinione in Italia faccia sentire il suo autorevole peso.

Legge di stabilità. La manovra avrà conseguenze distributive inique e ulteriormente depressive sulla crescita. Renzi fa scelte economiche e sociali omogenee agli interessi dei settori del Paese funzionali ai suoi obiettivi di sfondamento nel centrodestra.

Il manifesto, 23 ottobre 2014

La poli­tica eco­no­mica dell’illusionismo pra­ti­cata dal governo Renzi fin dal suo inse­dia­mento viene con­fer­mata e accen­tuata dalla legge di sta­bi­lità. L’evoluzione della crisi glo­bale — e spe­ci­fi­ca­mente di quella euro­pea — dà conto di un con­te­sto niente affatto favo­re­vole a ten­ta­tivi appros­si­mati come quelli messi in opera dal nostro per curare la grave situa­zione italiana.

L’errore di fondo della mano­vra sta nel rei­te­rare un approc­cio ina­de­guato alla natura della crisi. Che tende a miglio­rare solo alcune con­di­zioni d’offerta del set­tore pro­dut­tivo (ridurre il costo del lavoro e aumen­tarne la flessibilità).

Senza curarsi della decre­scente capa­cità inno­va­tiva alla base del nostro declino; ma non affronta in modo effi­cace il pro­blema più urgente, le carenze della domanda.

Renzi ha detto agli indu­striali «vi tolgo l’art. 18 e i con­tri­buti, vi abbasso l’Irap, ora assu­mete»; ma la mano­vra riduce i costi (e aumenta i pro­fitti) per le imprese che già dispon­gono di una domanda che, tut­ta­via, è insuf­fi­ciente a impe­gnare le risorse pro­dut­tive esi­stenti e non aumen­terà signi­fi­ca­ti­va­mente con la ridu­zione di impo­ste e con­tri­buti. Anzi, i dati con­fer­mano che, pur ridu­cendo il cuneo fiscale e aggiun­gendo 80 euro in busta paga — ma aumen­tando la pre­ca­rietà dei posti di lavoro — i con­sumi e gli inve­sti­menti non crescono.

Dal punto di vista dello sti­molo alla cre­scita, tagliare (spen­ding review) di 15 miliardi la spesa pub­blica e pen­sare di com­pen­sarne gli effetti ridu­cendo di 9,5 miliardi i con­tri­buti a carico dei lavo­ra­tori (per tra­mu­tarli negli 80 euro in busta paga), di 5 miliardi l’Irap e di 1,9 miliardi i con­tri­buti a carico delle imprese per incen­ti­vare i con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato, è un’operazione con effetto com­ples­sivo nega­tivo per­ché riduce la domanda effet­tiva. I tagli di spesa si tra­du­cono in calo della domanda, che è accre­sciuta solo in pic­cola parte dalla ridu­zione dei con­tri­buti. In più con i tagli ai beni e ser­vizi pri­mari, una loro con­ser­va­zione almeno par­ziale richie­derà un aumento della tas­sa­zione locale.

Dal punto di vista distri­bu­tivo, la mano­vra bene­fi­cia le imprese, soprat­tutto dei set­tori meno dina­mici (su 36 miliardi, solo 300 milioni a ricerca e svi­luppo); in via diretta (ridu­cendo impo­ste e con­tri­buti e con­ce­dendo nuovi incen­tivi) e indi­retta per gli effetti di tra­sla­zione sia degli sgravi con­tri­bu­tivi sia dell’eventuale tra­sfe­ri­mento in busta paga del Tfr. L’aspetto deter­mi­nante è la debo­lezza con­trat­tuale dei lavo­ra­tori. Que­ste «riforme» hanno accor­ciato i tempi di rin­novo dei con­tratti a tempo deter­mi­nato; ora eli­mi­nano l’art. 18 nei con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato; que­sti ultimi para­dos­sal­mente garan­ti­ranno minori cer­tezze tem­po­rali dei primi. In que­sto con­te­sto tutti gli inter­venti di ridu­zione del cuneo fiscale, anche quelli imma­gi­nati per aumen­tare la busta paga (80 euro e Tfr), saranno rias­sor­biti a van­tag­gio delle aziende. Suc­cede sem­pre di più che i lavo­ra­tori siano costretti a fir­mare buste paga supe­riori a quelle effet­tive. E que­sto fa capire quanto le imprese, spe­cie quelle pic­cole, pos­sano uti­liz­zare la nor­male con­trat­ta­zione per dirot­tare a loro van­tag­gio le misure che dovreb­bero aumen­tare le buste paga. E tutto ciò è accom­pa­gnato dalla truffa ideo­lo­gica secondo cui il «nuovo verso» ren­ziano aumen­te­rebbe la libertà di scelta dei lavo­ra­tori, ad esem­pio sul Tfr; tra­la­sciando che certi biso­gni, come quelli di tipo pre­vi­den­ziale, sono meglio per­ce­piti e cor­ri­spo­sti se orga­niz­zati in modo col­let­tivo e con obbligo assicurativo.

Pre­sto la «moder­nità» libe­ri­sta (e ren­ziana) vorrà con­vin­cerci ad eli­mi­nare il sistema pen­sio­ni­stico pub­blico, quello sani­ta­rio, le norme per la sicu­rezza nei luo­ghi di lavoro e tutte le norme che hanno segnato l’avanzamento civile.

La legge di sta­bi­lità, nono­stante i suoi scarsi effetti espan­sivi e le nega­tive con­se­guenze distri­bu­tive (ini­que e ulte­rior­mente depres­sive sulla cre­scita), crea anche motivi di con­tra­sto con Bru­xel­les che potreb­bero risol­versi in misure penalizzanti.

Quando, nel luglio 2012, Mario Dra­ghi, disse in un famoso inter­vento rivolto ai mer­cati finan­ziari, che la Bce avrebbe difeso l’Euro con tutte le sue forze, la spe­cu­la­zione inter­na­zio­nale si fermò, com­pren­dendo che era troppo rischioso andare oltre se la Bce si com­por­tava come una banca cen­trale nor­mal­mente deve fare, cioè difen­dere l’intera eco­no­mia di cui è uno stru­mento di poli­tica eco­no­mica. I tede­schi e i loro soli­dali del rigore «stu­pido» non ne furono lieti, ma dovet­tero con­sta­tare che que­sto ridava fiato all’intera Ue. Per oltre due anni l’avvertimento di Dra­ghi ha retto.

Nel frat­tempo è aumen­tata l’offerta di moneta sia della Fed sta­tu­ni­tense sia della Bce; l‘economia reale non ne ha bene­fi­ciato (in assenza di muta­menti strut­tu­rali della poli­tica eco­no­mica), ma sono aumen­tate le muni­zioni della spe­cu­la­zione finan­zia­ria. Se que­sta si con­vin­cerà che l’opposizione tede­sca alla linea della Bce arri­verà a bloc­carne l’attuazione, l’attacco alle eco­no­mie più deboli ripar­ti­rebbe alla grande. Quella ita­liana sarebbe tra le prime a farne le spese. Dun­que, anche per que­sta eve­nienza, l‘Italia dovrebbe mas­si­miz­zare l’effetto espan­sivo delle poli­ti­che: solo una mag­giore cre­scita del Pil può miglio­rare i nostri indi­ca­tori finan­ziari. Ma Renzi fa scelte eco­no­mi­ca­mente e social­mente omo­ge­nee agli inte­ressi dei set­tori del Paese meno dina­mici (le imprese non inno­va­tive), poli­ti­ca­mente fun­zio­nali ai suoi obiet­tivi di sfon­da­mento nel cen­tro­de­stra e di emar­gi­na­zione dei suoi oppo­si­tori di sini­stra. I quali, peral­tro, anche cri­ti­cando que­ste poli­ti­che, non hanno la capa­cità di unire le loro forze per difen­dere gli inte­ressi e le pro­spet­tive che pure riguar­dano l’intero Paese.

La distra­zione di massa dai pro­blemi effet­tivi pra­ti­cata dalle poli­ti­che di Renzi, il suo illu­sio­ni­smo, si acco­moda alla poli­tica tede­sca che frena l’economia e il pro­cesso uni­ta­rio dell’Ue. È indi­spen­sa­bile un’inversione di rotta; que­sto è l’appuntamento sto­rico che la sini­stra sta mancando

«E' più urgente costruire un’autostrada o mettere in sicurezza una regione e la vita di quasi due milioni di persone? Questo è il grande compito della politica: decidere, scegliere le priorità, guardare al futuro».

Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2014

L’acqua si ritira da Genova. Per fortuna. Anche l’indignazione. Purtroppo. Finiremo ancora una volta per affidarci alla sorte e alle preghiere, che sono più utili delle previsioni meteo. Eppure è proprio questo il momento per cominciare a lavorare perché non accada più. Chissà se il premier Renzi ci leggerà. Probabilmente no, e forse è giusto così. Magari, verrebbe da dire, è troppo impegnato a scrivere tweet ed sms, ma lasciamo da parte le polemiche. Ha davvero compiti e responsabilità da far tremare i polsi. Però proviamo a far arrivare qualche dubbio fino a chi ci governa e quindi ha in mano letteralmente la nostra vita.

Il Governo ha recentemente annunciato il lancio di nuove grandi opere come occasione di modernizzazione e motore dell’economia. Facciamo un esempio: l’autostrada Mestre-Orte, che costerà oltre dieci miliardi. Un’opera voluta da tutti: dal presidente Giorgio Napolitano a Pierluigi Bersani, passando per Vito Bonsignore, politico Pdl con amici a destra e a sinistra, nonché imprenditore impegnato nel progetto. Ecco, prima di realizzare un’opera tanto discussa non sarebbe il caso di investire un ventesimo delle risorse per salvare l’intera Liguria intrisa di acqua e di cemento?

La domanda è secca: è più urgente costruire un’autostrada o mettere in sicurezza una regione e la vita di quasi due milioni di persone? Questo è il grande compito della politica: decidere, scegliere le priorità, guardare al futuro.

Ancora: il decreto Sblocca Italia (come ha spiegato Tomaso Montanari anche nel libro Rottama Italia scaricabile dal sito altraeconomia.it) introduce novità insidiosissime per il nostro ambiente. Non vogliamo negare - anche se abbiamo molti dubbi - che lo spirito sia quello di dare un impulso all’economia. Non ci interessa affermare che si vogliano favorire le lobbies del cemento e dell’asfalto. Ma di fatto il risultato rischia di essere devastante: in nome di un malinteso criterio di speditezza nella sostanza si eliminano i controlli, si riduce a semplice simulacro il ruolo di amministrazioni locali e Soprintendenze. Così, al di là di tante belle e facili parole, si preparano le alluvioni di domani.

Non basta: se non vogliamo recuperare il territorio per salvare delle persone e vivere meglio, facciamolo perché ci conviene. Bonificare e recuperare le zone a rischio sarebbe occasione di lavoro per migliaia di imprese. Di più. Il paesaggio è la materia prima della nostra più grande industria: il turismo, che vale l’11% del pil e tre milioni di posti di lavoro (e potrebbero essere molti di più, perché oggi siamo quinti nella classifica del turismo, con trenta milioni di presenze meno della Francia).

Evitare le alluvioni, vivere meglio e dare insieme impulso all' economia si può.

«Quando si restringono i diritti di lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile a un insieme di procedure. Non sono i diritti a essere insaziabili, ma la pretesa dell'economia di stabilire i diritti compatibili».

La Repubblica, 20 ottobre 2014

Nel 1872, a Vienna, comparve un piccolo classico del liberalismo giuridico, La lotta per il diritto di Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato quasi come un anticorpo negli anni del fascismo. Oggi è più giusto parlare di lotta per i diritti, che si dirama dalla difesa dei diritti sociali fino alle proteste dei giovani di Hong Kong, e che può essere sintetizzata con le parole di Hannah Arendt, «il diritto di avere diritti», ricordate su questo giornale con diverso spirito da Alain Touraine e Giancarlo Bosetti (e che ho adoperato come titolo di un mio libro due anni fa).

Ma, per evitare che quella citazione divenga poco più che uno slogan, bisogna ricordarla nella sua interezza: «Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all'umanità, dovrebbe essere garantito dall'umanità stessa». Così la fondazione dei diritti si fa assai impegnativa, esige una vera «politica dell'umanità», l'opposto di quella «politica del disgusto» di cui ci ha parlato Martha Nussbaum a proposito delle discriminazioni degli omosessuali, ma che ritroviamo in troppi casi di rifiuto dell'altro.

Quella del riconoscimento dei diritti è un'antica promessa. La ritroviamo all'origine della civiltà giuridica quando nel 1215, nella Magna Carta, Giovanni Senza Terra dice: «Non metteremo la mano su di te». È l'habeas corpus, il riconoscimento della libertà personale inviolabile, con la rinuncia del sovrano a esercitare un potere arbitrario sul corpo delle persone. Da quel lontano inizio si avvia un faticoso cammino, fitto di negazioni e contraddizioni, che approderà a quella che Norberto Bobbio ha chiamato «l'età dei diritti», alle dichiarazioni dei diritti che alla fine del Settecento si avranno sulle due sponde del "lago Atlantico", negli Stati Uniti e in Francia. È davvero una nuova stagione, che sarà scandita dal succedersi di diverse "generazioni" di diritti: civili, politici, sociali, legati all'innovazione scientifica e tecnologica. Saranno le costituzioni del Novecento ad attribuire ai diritti una rilevanza sempre maggiore. Ed è opportuno ricordare che le più significative innovazioni costituzionali del secondo dopoguerra si colgono nelle costituzioni dei "vinti", l'italiana del 1948 e la tedesca del 1949, che non si aprono con i riferimenti alla libertà e all'eguaglianza. Nella prima il riferimento iniziale è il lavoro, nella seconda la dignità. Si incontrano così le condizioni materiali del vivere e la sottrazione dell'umano a qualsiasi potere esterno.

Cambia così la natura stesso dello Stato, caratterizzato proprio dall'innovazione rappresentata dal ruolo centrale assunto dai diritti fondamentali. E si fa più stretto il legame tra democrazia e diritti. Con una domanda sempre più stringente: che cosa accade quando i diritti vengono ridotti, addirittura cancellati? Molte sono state in questi anni le risposte. Proprio la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale ha fatto parlare di diritti "insaziabili", che si impadroniscono di spazi propri della politica e che, considerati come elemento fondativo dello Stato, espropriano la stessa sovranità popolare. Più nettamente, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati come un lusso incompatibile con la crisi economica, con la diminuzione delle risorse finanziarie.

Ma, nel momento in cui la promessa dei diritti non viene adempiuta, o è rimossa, da che cosa stiamo prendendo congedo? Quando si restringono i diritti riguardanti lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile ad un insieme di procedure. Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell'economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa. Quando si ritiene che i diritti sono un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Non si ripete forse che i mercati "decidono", annettendo alla sfera dell'economico le prerogative proprie della politica e dell'organizzazione democratica della società?

La riflessione sui diritti ci porta nel cuore di una discussione culturale che va al di là delle contingenze e rivela come i riferimenti alla crisi economica abbiano soltanto reso più evidente una trasformazione e un conflitto assai più profondi, che riguardano il modo stesso in cui si deve guardare alla fondazione delle nostre società. A Touraine sembra che le spinte provenienti dal sociale abbiano esaurito la loro capacità trasformativa e propone non soltanto di rimettere i diritti fondamentali al centro dell'attenzione, ma di operare uno spostamento radicale verso movimenti «etico-democratici», i soli in grado di porre in discussione il potere nella sua totalità e di «difendere l'essere umano nella sua realtà più individuale e singolare».

I diritti fondamentali «ultima utopia», come ha scritto Samuel Moyn, o pericoloso espediente retorico, che trascura la loro inattuazione anche quando sono formalmente proclamati e se ne serve per imporre con un tratto "imperialistico" la cultura occidentale, oggi il neoliberismo? Si può andare oltre queste contrapposizioni o dobbiamo piuttosto considerare la dismisura assunta dalla dimensione dei diritti che, secondo Dominique Schnapper, mette a rischio i fondamenti stessi della democrazia, vissuta troppo spesso come "ultrademocrazia", e a riflettere sulla forza delle cose che ha interrotto quella che Giuliano Amato ha definito "la marcia trionfale dei diritti"?

Tutti questi interrogativi confermano la necessità di analisi approfondite, che dovrebbero però tener conto di come il mondo si sia dilatato, spingendo lo sguardo verso culture e politiche che proprio ai diritti fondamentali hanno affidato un profondo rinnovamento sociale e istituzionale. È nel "sud del mondo" che ritroviamo novità significative, nella legislazione e nelle sentenze delle corti supreme di Brasile, Sudafrica, India. Basterebbe questa constatazione per mostrare quanto siano infondate o datate le tesi che chiudono la vicenda dei diritti fondamentali solo in una pretesa egemonica dell'Occidente. Al tempo stesso, però, l'attenzione per le costituzioni "degli altri" deve spingerci ad avere uno sguardo nuovo anche sul modo in cui i diritti fondamentali si stanno configurando nelle loro terre d'origine, a cominciare dai nessi ineliminabili e inediti tra diritti individuali e sociali, tra iniziativa dei singoli e azione pubblica.

I diritti non invadono la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica: proprio in tempi di risorse scarse, i criteri per la loro distribuzione debbono essere fondati sull'obbligo di renderne possibile l'attuazione. E, se è giusto rimettere al centro i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione della società, è altrettanto vero che questi diritti possono dispiegarsi solo in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Qui trovano posto le riflessioni su un tempo in cui il problema concreto non è la dismisura dei diritti, ma la loro negazione quotidiana determinata dalle diseguaglianze, dalla povertà, dalle discriminazioni, dal rifiuto dell'altro che, negando la dignità stessa della persona, contraddicono quella "politica dell'umanità" alla quale è legata la vicenda dei diritti.

Seguendo questi itinerari, ci avvediamo di quanto sia improprio ragionare contrapponendo diritti e politica. Senza una robusta e consapevole politica, fondata anche sull'iniziativa delle persone, i diritti corrono continuamente il rischio di perdersi. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi?
«Nella colonna sociale che non mar­cia più in avanti, si guarda al vicino con invi­dia. E se non si rie­sce più a vedere in chi sta avanti il sog­getto al quale togliere per dare a chi sta sof­frendo, viene natu­rale guar­dare chi sta accanto. Dalla lotta di classe si scade nell’invidia».

Il manifesto, 18 ottobre 2014

C’è un mondo del non lavoro che com­prende oggi otto milioni di per­sone. Ex-occupati che hanno perso il lavoro, gio­vani che lo cer­cano per la prima volta e non lo tro­vano, donne che, per ristret­tezze fami­liari, lo cer­cano anche se non più giovanissime.

Lo com­pon­gono altret­tante per­sone che non sanno a chi rivol­gersi e, quindi, non lo cer­cano “inten­sa­mente” e, per­ciò, non rien­trano tra i disoc­cu­pati, ma tra gli “sco­rag­giati”, cate­go­ria di per­sone prima psi­co­lo­gica ed adesso, final­mente, anche sta­ti­stica. Lo com­pon­gono anche tanti cas­sin­te­grati, sta­ti­sti­ca­mente occu­pati e psi­co­lo­gi­ca­mente esclusi, ed i “lavo­ra­tori in mobi­lità”, che popo­lano quel pur­ga­to­rio tra un lavoro per­duto ed uno che dif­fi­cil­mente tro­ve­ranno.

Otto milioni di per­sone sono un bel “bacino elet­to­rale”. Ma essi non sono soli. Nella società ita­liana, più che in altri paesi, esi­ste un tes­suto, una rete fami­liare ed ami­cale, che offre un tetto fino ai 35–40 anni, che tra­vasa la bassa pen­sione o lo scarso red­dito, che atte­nua ed ammor­tizza, quando può e come può, il disa­gio sociale che ne sca­tu­ri­sce (a quando una bella mani­fe­sta­zione delle mamme di Piazza del Popolo Precario?).

Con­si­de­rando anche loro, quindi, il bacino elet­to­rale si allarga oltre i 15 milioni. Un “mer­cato elet­to­rale poten­ziale” di que­ste dimen­sioni fa gola a molti ed è ter­reno di con­qui­sta. Una volta si pen­sava che que­sto fosse un bacino elet­to­rale “natu­ral­mente” orien­tato a sini­stra e le lotte “per il lavoro e per il sud”, pro­mosse dalla Cgil di Di Vit­to­rio e pro­trat­tesi fino agli anni set­tanta, costi­tui­vano il nesso sociale tra disoc­cu­pa­zione, lavoro e sini­stra. Ma erano vera­mente altri tempi. Negli ultimi decenni gio­vani e disoc­cu­pati hanno votato più Forza Ita­lia che sini­stra ed adesso, col declino di Ber­lu­sconi, que­sto “mondo del non lavoro allar­gato” di cui stiamo par­lando è elet­to­ral­mente “con­ten­di­bile” da tutti.

Que­sto lo aveva capito per primo Grillo, diven­tando la mag­giore forza tra i disoc­cu­pati, e subito dopo lo ha capito Renzi che, par­lando invece che di “piano del lavoro” di jobs act, usando inglese, tweet ed hash­tag e mar­tel­lando sulla fidu­cia nel futuro, cerca di fare di que­sto mondo la sua base di massa. In que­sto tra­gitto comu­ni­ca­tivo, sin­da­cati, sini­stra e lavo­ra­tori a tempo inde­ter­mi­nato ven­gono addi­tati come respon­sa­bili, difen­sori di pri­vi­legi acqui­siti, capri espia­tori. Da qui a dire che se i gio­vani non tro­vano lavoro è per colpa dell’art.18, il passo è stato breve e scam­biare qual­che diritto in meno, con la spe­ranza di qual­che posto di lavoro in più una con­se­guenza logica e natu­rale.

Sap­piamo bene che nes­suna ana­lisi eco­no­mica seria può aval­lare que­ste affer­ma­zioni ed è evi­dente che esse sono stru­men­tali: hanno il solo scopo di per­se­guire e pro­se­guire lo sfon­da­mento poli­tico al cen­tro ed a destra, com­ple­tare la muta­zione gene­tica del Pd e costruire un neo-centrismo che superi il bipo­la­ri­smo incor­po­ran­dolo al suo interno. Il vero patto del Naza­reno si sta pian piano disve­lando come un’intesa stra­te­gica volta a ridi­se­gnare il pano­rama poli­tico con un Par­tito Cen­trale che per essere tale deve andare oltre la tra­di­zio­nale divi­sione tra cen­tro destra e cen­tro sinistra.

A me sem­bra che, in que­sto campo, Renzi abbia una pre­cisa stra­te­gia che non è solo comu­ni­ca­tiva, ma poli­tica. Renzi ha una sua idea di redi­stri­bu­zione ed una sua filo­so­fia poli­tica: la glo­ba­liz­za­zione e le poli­ti­che mone­ta­rie domi­nanti lasciano pochi mar­gini per riforme eco­no­mi­che in grado di ridurre le disu­gua­glianze; la redi­stri­bu­zione, per­ciò, non può essere quella teo­riz­zata dalla sini­stra, tra lavoro e capi­tale, dai ceti ric­chi a quelli poveri; essa non può che essere “interna” al mondo del lavoro ed agli strati medio — bassi della società; quindi, niente vec­chi arnesi dell’armamentario di sini­stra come tas­sa­zione dei grandi patri­moni o pro­gres­si­vità, ma idee “nuove”.

Redi­stri­bu­zione dei diritti. Togliere diritti ad alcuni, pro­met­tere lavoro ad altri. Che quello che si toglie sia certo e quello che si pro­mette incerto, conta poco per­ché ci si rivolge a due sog­getti ai quali non si toglie niente: agli impren­di­tori, ita­liani e soprat­tutto stra­nieri, invi­tati ad inve­stire, ai gio­vani, invi­tati a spe­rare. Ci saranno que­sti effetti? Molto pro­ba­bil­mente no, ma l’importante è dimo­strare che Renzi ci crede e man­te­nere que­sto feeling fino alle pros­sime ele­zioni, quando que­sti voti saranno neces­sari per pren­dere in mano il paese per cinque-anni-cinque e ridi­men­sio­nare ogni oppo­si­zione interna ed esterna.

Redi­stri­bu­zione dei red­diti. Rien­tra in que­sta tipo­lo­gia, innan­zi­tutto la scelta degli 80 euro che sul piano macroe­co­no­mico non ha pagato per­ché non ha rilan­ciato la domanda, ma su quello elet­to­rale sì. Che poi essa venga coperta con minori ser­vizi e mag­giori tasse locali conta poco. I “bene­fi­ciari” sono iden­ti­fi­ca­bili e sono stati in buona parte grati. I “sacri­fi­cati” sono molti di più, ma sono spar­pa­gliati. Tra loro ci sono anche i bene­fi­ciari, ma essi non hanno potuto cogliere la rela­zione tra soldi che entra­vano e soldi che usci­vano ed anzi sono stati indotti a pen­sare che quelli che entra­vano sono merito di Renzi, quelli che usci­vano, dopo, a rate e per tasse dai nomi mute­voli, sono colpa degli ammi­ni­stra­tori locali, spre­coni ed inef­fi­cienti. Colpa della poli­tica. Quindi bene ha fatto il nostro ad eli­mi­nare gli eletti al senato ed alle province.

In que­sta stessa tipo­lo­gia di redi­stri­bu­zione “interna”, di una sorta di par­tita di giro, rien­tra l’idea di col­pire i red­diti alti, ma fer­man­dosi ai red­diti da lavoro o da pen­sione e non spin­gen­dosi certo a quelli da pro­fitto o da ren­dita. Que­sta idea è stata affac­ciata e poi riti­rata, è scritta nel libro sacro di Gut­geld (pen­sato con Renzi), potrà essere ripro­po­sta, ma intanto ha lasciato il segno: Renzi vuole col­pire in alto (natu­ral­mente non tanto in alto da col­pire grandi red­diti e grandi patri­moni), ma incon­tra resistenze.

Può rien­trare qui anche l’idea, più recente, di anti­ci­pare l’utilizzo del Tfr. Qui siamo in una nuova cate­go­ria di redi­stri­bu­zione: quella tra pre­sente e futuro. Al primo no degli indu­striali, que­sta idea, è stata ridi­men­sio­nata, ma poco importa: Renzi ha comun­que segnato un altro punto a suo favore dimo­strando che pur di fare aumen­tare la domanda se ne inventa una al giorno, per­lo­meno è in buona fede, ci crede, quindi, fac­cia­molo lavo­rare. Fer­mia­moci qui.

Pos­siamo anche dire che Renzi ha inven­tato “le par­tite di giro sociali”: dare ad alcuni togliendo ad altri che appar­ten­gono allo stesso mondo, senza toc­care “gli altri” veri cioè grandi red­diti, grandi ren­dite, grandi ric­chezze. Pos­siamo anche dire che Renzi ha pen­sato ad una redi­stri­bu­zione interna alla stessa per­sona tra l’oggi e il domani e che ha arric­chito la madre lin­gua toscana con il napo­le­tano “facimm’ammuina”, ma resta un fatto incon­fu­ta­bile: ha risuc­chiato voti a destra e al cen­tro e que­sto era scon­tato, ma anche a sini­stra e que­sto non lo era affatto.

L’operazione è risul­tata finora vin­cente per­ché al disa­gio sociale di cui abbiamo par­lato si offrono due mes­saggi effi­caci: ce la sto met­tendo tutta e ci credo, stiamo pagando gli abusi di ieri, quindi, i “pri­vi­le­giati” deb­bono pagare. Ma chi sono i pri­vi­le­giati? In una società in crisi, indi­vi­dua­liz­zata e fran­tu­mata, ter­ri­bil­mente impo­ve­rita sul piano cul­tu­rale, diven­tano quelli più vicini a noi. Chi ha un lavoro è pri­vi­le­giato per chi non lo ha, chi lo ha fisso è pri­vi­le­giato per chi è pre­ca­rio, chi gua­da­gna due­mila euro lo è per chi ne gua­da­gna mille. E gli altri? I ric­chi veri?
Quelli sono lon­tani e non si vedono. Nella colonna sociale che non mar­cia più in avanti, si guarda al vicino con invi­dia. E se non si rie­sce più a vedere in chi sta molto più avanti il sog­getto al quale togliere qual­cosa per darlo a chi sta sof­frendo, viene natu­rale guar­dare a chi ci sta accanto. E così dalla lotta di classe si scade nell’invidiaden­tro la classe.

Il manifesto, 28 marzo 2014

Se per Ari­sto­tele la rap­pre­sen­ta­zione tea­trale pro­duce la puri­fi­ca­zione libe­ra­trice delle pas­sioni umane più irra­zio­nali e quindi dele­te­rie, tanto che il più grande dei suoi disce­poli, Teo­fra­sto, si spinge a defi­nire la tra­ge­dia come la messa in scena della «cata­strofe di un destino eroico», allora com­pren­diamo il motivo di fondo che ha spinto Luciano Can­fora a rias­su­mere la que­stione dell’utopia in que­sti ter­mini: Ari­sto­fane con­tro Pla­tone. Il tea­tro del primo, insomma, nella fat­ti­spe­cie della com­me­dia «Eccle­sia­zuse» («Le donne all’assemblea»), come cura catar­tica rispetto alle pas­sioni uto­pi­sti­che, e foriere di regimi liber­ti­cidi, con­te­nute nell’opera filo­so­fica e poli­tica del secondo.

Esce in que­sti giorni l’ennesima fatica del noto filo­logo barese, con il titolo . Ari­sto­fane con­tro Pla­tone (Laterza, pp. 448, euro 18). L’incontro è stata l’occasione per discu­terne gli snodi fondamentali.

La «crisi dell’utopia», come già emer­geva nelle pie­ghe del suo libro pre­ce­dente («Inter­vi­sta sul potere», Laterza 2013), sem­bra più una crisi dello stu­dioso Can­fora che, da uomo della sini­stra radi­cale, sente ora di dover evi­den­ziare, pur senza il mani­chei­smo di Pop­per, eccessi e drammi del pen­siero uto­pi­stico da Pla­tone a Marx. È così?
Ho sem­pre avver­sato l’espressione «sini­stra radi­cale»: a) per­ché radi­cale è agget­tivo comun­que con­nesso alla figura dete­riore di Marco Pan­nella e dei suoi seguaci; b) per­ché la auto­com­pia­ciuta defi­ni­zione di «sini­stra radi­cale» è appan­nag­gio di espo­nenti dan­nun­ziani come Ber­ti­notti e Ven­dola; c) sin dal 1976 ho scritto e cer­cato invano di far pub­bli­care su «Rina­scita» che i comu­ni­sti dopo la seconda guerra mon­diale sono diven­tati, con grande merito, i pro­ta­go­ni­sti prin­ci­pali della lotta per una demo­cra­zia pro­gres­siva; non pote­vano, se non ridu­cen­dosi a mac­chiette pate­ti­che, pre­ten­dere di rima­nere le stesse per­sone che nel 1917–1920 sogna­rono l’attualità della rivo­lu­zione e furono scon­fitti. Il movi­mento comu­ni­sta dopo la seconda guerra mon­diale è stato la migliore incar­na­zione della social­de­mo­cra­zia: movi­mento poli­tico fon­dato da Carlo Marx e Fede­rico Engels. Per chia­rezza: il movi­mento comu­ni­sta è agli anti­podi della nevrosi radi­cale. Solo nella con­fu­sione men­tale ses­san­tot­te­sca i due con­cetti rischia­rono di confondersi.

Veniamo al libro, e alla sua ripro­po­si­zione della vexata quae­stio che vede in Ari­sto­fane l’aggressore del nucleo con­cet­tuale della «Repub­blica» platonica.
Nel 220° anni­ver­sa­rio della dis­ser­ta­zione del grande, e dimen­ti­ca­tis­simo, stu­dioso tede­sco Mor­gen­stern, mi è parso giu­sto ripren­dere dalle basi una discus­sione che si tra­sci­nava tra alterne vicende. Ho pre­fe­rito enu­cleare i due punti cru­ciali: 1) tutti ammet­tono coin­ci­denze, anche ver­bali, tra la com­me­dia ari­sto­fa­nea «Eccle­sia­zuse» e il quinto libro della «Repub­blica»; 2) l’obiezione che ren­deva i moderni esi­tanti o pro­tesi a ricer­care spie­ga­zioni assurde con­si­steva nella cro­no­lo­gia (Ari­sto­fane ver­rebbe prima). In realtà la data dell’«Ecclesiazuse» è più tar­diva di quel che si crede e Pla­tone, per parte sua, aveva già dif­fuso il nucleo del suo pen­siero sulla «kal­li­po­lis» prima del viag­gio in Sici­lia (389 a.C.).

Lei parla di uno «scan­dalo Pla­tone». Il filo­sofo greco rivo­lu­zio­na­rio al punto di pro­porre quell’emancipazione egua­li­ta­ria della donna a cui non per­ven­nero nep­pure Marx ed Engels. Eppure il pen­siero fem­mi­ni­sta non l’ha amato. Ci spiega il suo punto di vista?
Con­viene distin­guere due piani: da un lato l’effetto di rot­tura costi­tuito dalla pro­po­sta pla­to­nica della parità uomo-donna (libro IV della Repub­blica), dall’altro il pre­sup­po­sto intrin­se­ca­mente «maschile» della for­mula «comu­nanza delle donne» (libro V). Que­sta for­mula implica chia­ra­mente una visione distorta che fini­sce con l’equiparare donne e beni mate­riali come pro­prietà. Ed è pro­prio su que­sto punto debole, con­tra­stante col pre­sup­po­sto della parità, che fa leva effi­ca­ce­mente Ari­sto­fane nella com­me­dia «Le donne all’assemblea», soprat­tutto nel finale. Come mi è acca­duto di scri­vere, Ari­sto­fane fa sal­tare la Kal­li­po­lis pla­to­nica, assu­mendo come punto di forza pro­prio que­sta contraddizione. Resta il fatto che l’intuizione della parità è un enorme passo in avanti nei con­fronti della men­ta­lità greca di età arcaica e clas­sica: la con­tro­prova di ciò è nella osti­lità dispie­gata dai Padri della chiesa cri­stiana con­tro Pla­tone, per l’appunto a causa della pro­pu­gnata idea della parità uomo-donna.

In più punti del suo libro emerge una riva­lu­ta­zione del cosid­detto socia­li­smo uto­pi­stico, a tratti per­sino dileg­giato da Marx ed Engels. Può spie­garci il senso della sua «riscoperta?»
L’espressione socia­li­smo uto­pi­stico spetta soprat­tutto ad Engels, nel troppo cele­bre opu­scolo «Il pas­sag­gio del socia­li­smo dall’utopia alla scienza» (con­si­stente nei primi capi­toli dell’anti-Dühring). Nel III capi­tolo del «Mani­fe­sto del par­tito comu­ni­sta» – nel quale ven­gono pas­sati in ras­se­gna i socia­li­smi pre­ce­denti – ven­gono col­lo­cati sotto una luce nega­tiva sia i pas­sa­ti­sti che auspi­cano un ritorno alle società arcai­che, bol­lati come «socia­li­smo medie­vale», sia i socia­li­sti fran­cesi con­tem­po­ra­nei pro­tesi alla attua­zione di riforme sociali radi­cali. Come è chiaro si tratta di cose molto diverse, messe tutte insieme e som­ma­ria­mente defi­nite tutte uto­pi­sti­che. Oggi con­sta­tiamo che il pro­getto di tra­sfor­ma­zione totale dei rap­porti di pro­du­zione in senso col­let­ti­vi­stico è finito su un bina­rio morto e che invece il gra­dua­li­smo rifor­mi­stico della social­de­mo­cra­zia appare come la sola forma con­creta di rin­no­va­mento della società. Di con­se­guenza i cosid­detti «uto­pi­sti» sono diven­tati i «rea­li­sti» e i loro cri­tici «scien­ti­fici» sono rifluiti nel grande mare dell’utopia.

Uno dei tratti più sto­rio­gra­fi­ca­mente azzar­dati del suo libro con­si­ste nell’istituzione di un nesso fra la cop­pia Socrate/Platone e Hegel/Marx. Quali i punti di con­tatto e di dif­for­mità da lei evidenziati?
L’analogia tra le due cop­pie filo­so­fi­che è di imme­diata evi­denza. Marx stesso con­si­dera il pro­prio pen­siero un capo­vol­gi­mento mate­ria­li­stico del nucleo ori­gi­nale del pen­siero hege­liano. Inol­tre, al di là degli ele­menti bio­gra­fici, ricordo il tra­gitto che un tempo veniva sin­te­tiz­zato nella for­mula «da Socrate a Pla­tone, dal con­cetto all’idea» (capo­vol­gi­mento in senso idea­li­stico del pen­siero di Socrate). La dif­fi­coltà, sem­mai, con­si­ste nel fatto che di Socrate, diver­sa­mente che di Hegel, non abbiamo l’opera scritta, bensì le molte para­frasi dovute ai suoi allievi. Il più geniale dei quali, cioè Pla­tone, ha esco­gi­tato la tro­vata di mesco­lare il suo pro­prio pen­siero con quello del mae­stro (Socrate è per­sona loquens di tutti i dia­lo­ghi, tranne i Nomoi).

Pla­tone rap­pre­senta la ragione uto­pi­stica, costan­te­mente alla ricerca del «sogno di una cosa». Ari­sto­fane la ragione bef­farda, pronta a col­pire la prima con le armi del rea­li­smo e dell’ironia. Quali, secondo lei, gli esiti di que­sta dia­let­tica storica?
La vit­to­ria del rea­li­smo bef­fardo nei con­fronti di ogni genere di pro­po­sta inno­va­tiva, bol­lata come uto­pi­stica, è fin troppo facile e abbiamo visto nel corso del tempo ripe­tersi siste­ma­ti­ca­mente tale sce­na­rio. Il rea­li­smo bef­fardo fa capo al senso comune, che tal­volta vien voglia di defi­nire «il sesto senso degli idioti».

«E' forse un caso che que­sta pole­mica viene inne­scata durante le con­sul­ta­zioni segrete per l’approvazione del Ttip, il trat­tato com­mer­ciale fra Usa e Ue che, guarda caso, ha fra i suoi obiet­tivi pro­prio quello di sba­raz­zarsi del prin­ci­pio di pre­cau­zione euro­peo?».

Il manifesto, 14 ottobre 2014 (m.p.r.)

Anche in Ita­lia si sta svol­gendo un ser­rato e avvin­cente dibat­tito intorno al tema degli ogm a cui stanno par­te­ci­pando per­so­na­lità di spicco del mondo acca­de­mico, della poli­tica e del set­tore prin­ci­pale di rife­ri­mento che è quello agri­colo. È impor­tante rico­no­scere l’utilità del dibat­tito e il valore delle posi­zioni di tutti gli attori coin­volti. In molti casi, come ha soste­nuto giu­sta­mente Carlo Petrini, le posi­zioni dei cosid­detti sta­ke­hol­ders, i por­ta­tori di inte­ressi, riman­gono nella penom­bra come è il caso delle stesse mul­ti­na­zio­nali che molto volen­tieri si sot­trag­gono al dibat­tito pub­blico, inte­res­sate come sono mag­gior­mente ad occu­parsi di influen­zare diret­ta­mente la poli­tica attra­verso le loro lobby piut­to­sto che infor­mare i cit­ta­dini. In molti altri casi, come quello del New Yor­ker, il dibat­tito scade a livello di attac­chi per­so­nali, sospetti, illa­zioni, velate e non, nei con­fronti di uno dei rap­pre­sen­tanti più signi­fi­ca­tivi del movi­mento ambien­ta­li­sta glo­bale: Van­dana Shiva. Un dibat­tito, in cui ognuno mette a dispo­si­zione dell’opinione pub­blica la pro­pria diretta espe­rienza e cono­scenza, è invece utile alla vita demo­cra­tica dei paesi.

Nav­da­nya signi­fica nove semi e la fon­da­zione, diretta da Van­dana Shiva, si occupa pre­va­len­te­mente di rico­no­scere, tute­lare e valo­riz­zare il patri­mo­nio semen­tiero tanto impor­tante per l’umanità quanto la dispo­ni­bi­lità di acqua. La que­stione degli ogm è dun­que una que­stione che potremmo defi­nire come “aggre­gata” alla mis­sion prin­ci­pale dell’associazione ed è trat­tata pro­prio dal punto di vista della difesa della biodiversità.

Gli ogm non sono i soli nemici della nostra bio­di­ver­sità, che negli ultimi anni è stata erosa in maniera quasi irre­pa­ra­bile, ma, in que­sta sede, è utile discu­tere pro­prio del loro impatto sulle nostre vite e su quella del pia­neta. La prima cosa da sot­to­li­neare è que­sto inte­res­sante rife­ri­mento al para­digma scien­ti­fico. Chi è a favore degli ogm è in linea con l’evoluzione scien­ti­fica, un pro­gres­si­sta; chi non lo è, diventa invece un retro­grado, un con­ser­va­tore. Que­sta visione mani­chea pre­senta aspetti paradossali.

Gli ogm sono stati dap­prima intro­dotti negli Usa secondo il cosid­detto prin­ci­pio della “sostan­ziale equi­va­lenza”. In altre parole, se un’invenzione è sostan­zial­mente equi­va­lente a qual­cosa di già esi­stente non ha biso­gno di par­ti­co­lari spe­ri­men­ta­zioni e può essere lan­ciata sul mer­cato. A pen­sarci bene è la stessa tesi espressa dal pro­fes­sor Vero­nesi. Il dna ha una strut­tura estre­ma­mente sem­plice che può essere facil­mente mani­po­lata senza neces­sità di pre­oc­cu­parsi più di tanto. Ora, que­sto approc­cio all’americana all’esistente, e soprat­tutto al com­mer­cia­bile, non è accet­tato dall’Unione Euro­pea dove vige il prin­ci­pio di pre­cau­zione. In altre parole, se un’azienda inventa un nuovo pro­dotto deve essere dimo­strato che non è nocivo prima di essere immesso sul mer­cato. La posi­zione dell’Ue è chiara: non esi­stendo un con­senso scien­ti­fico, gli ogm non pos­sono essere dichia­rati sicuri. Nel dub­bio, vige il prin­ci­pio di pre­cau­zione che dovremmo difen­dere per­ché pro­tegge le nostre vite da inven­zioni che sono spesso più indi­riz­zate a fare pro­fitti sul mer­cato piut­to­sto che per­se­guire il bene comune.

Ogni parte porta, d’altro canto, le sue argo­men­ta­zioni a riguardo. Anche Nav­da­nya ha pub­bli­cato un rap­porto sull’argomento rac­co­gliendo gli studi di mol­tis­simi ricer­ca­tori che dimo­strano la noci­vità degli ogm. Vi sono nel mondo studi simi­lari che dimo­strano l’esatto con­tra­rio. L’Ue ha con­cluso che non esi­ste pos­si­bi­lità di dichia­rare gli ogm sicuri fuori da ogni ragio­ne­vole dub­bio. Ed ha appli­cato il prin­ci­pio di pre­cau­zione per sal­va­guar­dare i suoi cit­ta­dini. La pole­mica sugli ogm com­prende anche que­sto sacro­santo prin­ci­pio. Allora viene da pen­sare: è forse un caso che que­sta pole­mica viene inne­scata durante le con­sul­ta­zioni segrete per l’approvazione del Ttip, il trat­tato com­mer­ciale fra Usa e Ue che, guarda caso, ha fra i suoi obiet­tivi pro­prio quello di sba­raz­zarsi del prin­ci­pio di pre­cau­zione euro­peo? È forse un caso che le mul­ti­na­zio­nali dell’agribusiness siano i mag­giori lob­bi­sti per l’approvazione dell’accordo? Come pos­siamo allora costruire un’opinione razio­nale e con­di­visa su que­sto argo­mento? Soprat­tutto quando i pro­mo­tori degli ogm ci dicono che la nuova tec­no­lo­gia potrebbe rap­pre­sen­tare la pana­cea di ogni male al mondo?

Uno degli aspetti che sem­bra man­care nell’analisi di Vero­nesi è quello della con­te­stua­liz­za­zione, quasi che il mondo finisse sulla soglia dei labo­ra­tori. Gli ogm non ven­gono fuori dal nulla, o per nes­sun motivo. Non sono libe­ra­mente a dispo­si­zione di tutti e la loro appli­ca­zione, al di là della dia­triba scien­ti­fica, com­porta con­trac­colpi ambien­tali, eco­no­mici e sociali note­voli. Pos­siamo allora dire con sicu­rezza che i semi e i pro­dotti ogm nel campo dell’agricoltura hanno un impatto deva­stante sul set­tore. Gli ogm sono infatti pro­prietà delle mul­ti­na­zio­nali che, attra­verso la loro immis­sione sul mer­cato, rimo­del­lano i sistemi agri­coli di tutto il mondo. A farne le spese sono i pic­coli pro­dut­tori che con le loro col­ture tra­di­zio­nali non pos­sono tenere il passo delle pro­du­zioni indu­striali sov­ven­zio­nate. Con i metodi di col­ti­va­zione inten­siva la neces­sità di mano­do­pera viene inol­tre ridotta. Non i pro­fitti però. Cosa suc­cede agli agri­col­tori nel frattempo?

Quello che è acca­duto in Sud Ame­rica e in India è, per esem­pio, emble­ma­tico. Cen­ti­naia di migliaia di per­sone si muo­vono dalle cam­pa­gne alla città andando ad ingol­fare fetide barac­co­poli. In altre parole, il rischio è quello di ali­men­tare il sistema dei grandi lati­fondi e inon­dare le città con una massa di dispe­rati. Un danno eco­no­mico, sociale e anche cul­tu­rale con­si­de­rando la per­dita delle anti­che cono­scenze di cui le popo­la­zioni rurali sono depo­si­ta­rie. La favola che gli ogm pos­sano rispon­dere al pro­blema della fame nel mondo e del sovrap­po­po­la­mento è, per l’appunto, una favola. Quello che importa sono i con­trac­colpi di un sistema indu­striale basato sugli ogm sulle eco­no­mie, sulle popo­la­zioni e sulle cul­ture locali. E que­sto impatto risulta essere, secondo gli studi effet­tuati da Nav­da­nya e da molte altre orga­niz­za­zioni che lavo­rano fuori dai labo­ra­tori e diret­ta­mente sul campo, non equo, non eco­lo­gico, non soste­ni­bile. A gua­da­gnarci sono ancora una volta i pochi, a per­derci i molti.

Que­sta sche­ma­tica ana­lisi vuole solo dimo­strare quanto i feno­meni siano inter­con­nessi e come leg­gere un arti­colo sulla valenza della ricerca scien­ti­fica tran­sge­nica può essere inte­res­sante in se stesso ma non esau­stivo. La ricerca scien­ti­fica deve essere al ser­vi­zio dell’umanità e non vice­versa. Quando ciò acca­drà anche nel set­tore agri­colo, a bene­fi­cio di con­ta­dini e con­su­ma­tori e non delle mul­ti­na­zio­nali, Van­dana Shiva sarà, con tutta pro­ba­bi­lità, la prima per­sona ad esultarne.

Dobbiamo a un valente demografo, Massimo Livi Bacci, una circostanziata analisi della questione giovanile in Italia alla vigilia della Grande Recessione (Avanti giovani alla riscossa, Il Mulino, 2008). Lo studioso mostrava come la fascia di popolazione tra i 15 e 30 anni viveva una condizione di emarginazione sociale che la distingueva tra i Paesi dell'Europa a 15. I giovani italiani, ad esempio, dipendevano per il 50% dal reddito della famiglie, contro il 30% della media europea. Gli adulti in Italia guadagnavano in media 2,8 volte il reddito dei giovani, contro 2,5 volte in Francia, 1,9 volte in Germania. Ma in generale i nostri ragazzi risultavano più indietro nel completamento degli studi, nel trovare occupazione, metter su casa, formare una propria famiglia. In sintesi, il grado di autonomia, la capacità di emancipazione e di libertà individuale della gioventù italiana apparivano inferiori a quella di gran parte dei coetanei europei per quasi tutti gli indici presi in esame. E quell'analisi non scendeva alla più basse fasce d'età. A metà anni '90 i bambini italiani sotto la linea mediana ufficiale della povertà rappresentavano il 21,3% del totale, terzi dopo USA (26,3%) e Russia(21,3) (The Dynamics of Child poverty in industrialised Countries, Cambridge 2001). Un piazzamento davvero onerevole.

Ricordo questi dati – cui sono seguite e continuano a seguire altre importanti ricerche come il Rapporto dell'Istituto G.Toniolo, La condizione giovanile in Italia, il Mulino 2013 – per sventare in anticipo una manipolazione consueta della realtà: quella di rappresentare un grave problema strutturale come esito transitorio della “crisi”degli ultimi anni. E' evidente invece che la condizione di emarginazione della nostra gioventù precede la crisi, è l'esito aggravato di un corso politico che dura da decenni, alla cui base c'è la sempre più dispiegata disoccupazione e la precarizzazione del lavoro. Alla falange dei giovani che negli ultimi decenni accedevano alle prime occupazioni si è parato dinanzi una crescente mancanza di sbocchi e la strada stretta di una legislazione sempre più svantaggiosa ed emarginante. Sicchè non stupisce se la disoccupazione giovanile tocca oggi il picco del 44%, mentre il numero di giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano, non studiano, non seguono corsi formazione (Neet) hanno raggiunto il primato europeo del 22,25%. Con la crisi la divaricazione generazionale è solo aumentata: gli over 65 sono diventati più ricchi, quelli sotto i 40 ancora più poveri.

Forse però questi dati non dicono ancora la grande novità storica: la classe dirigente anziana che detiene il potere da anni sta muovendo una vera e propria lotta di classe contro la gioventù del nostro Paese. Padri e nonni ricchi contro figli e nipoti poveri. Essa surroga sempre più il welfare con la famiglia, i diritti universali con il familismo. Ovviamente quando la famiglia non si trova in condizioni di povertà. Lo fa con gli strumenti del governo, attraverso il ceto politico, e direttamente nelle istituzioni pubbliche e nei luoghi di lavoro privati. Pochi dati da aggiungere a quelli più noti, inflitti dalla “legislazione di guerra” messa in atto dall'ultimo governo Berlusconi-Tremonti (allungamento dell'età pensionabile, tagli lineari alla scuola e all'Università) e poi proseguita dal dicastero Monti, dal governo Letta e ora estesa con furia novatrice dall'esecutivo di Renzi.

Negli ultimi 10 anni le tasse universitarie sono cresciute del 63%, mentre in Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Germania ci si laurea gratis. In compenso le borse di studio sono crollate al 7,5 % degli studenti, a fronte di uno studente su tre della Francia. Anche i posti di dottorato, già scarsi, sono diminuiti del 19%. Nel frattempo si rende sempre più estesa la pratica del numero chiuso per gli accessi alle facoltà universitarie, si sbarra la strada all'istruzione con una giungla di norme e di vessazioni di ogni genere, allo scopo di ricostituire una Università di élite, gettando negli occhi di un'opinione pubblica ignara il fumo del merito e dell'eccellenza. Ma ciò che sfugge a ogni statistica è il dilagare del lavoro non pagato: nelle fabbriche si diffondono gli “stages gratuiti”, nelle scuole i supplenti giovani spesso non ricevono gli stipendi o li ricevono con enormi ritardi, ma stanno al gioco con il fine di “fare punteggio”. Nell'Università non si conta più il lavoro volontario degli aspiranti ricercatori che sperano in un assegno di ricerca o in un concorso a venire. Negli studi degli avvocati e in tante altre attività professionali i giovani lavorano per anni senza reddito, per “imparare il mestiere”. E la pratica dei master a pagamento, che promettono carriera e posti di lavoro, rasenta in tanti casi la truffa. Nelle società dominate dal “libero mercato” chi è già incluso e organizzato tende a chiudere le porte a chi arriva.

Dovrebbe dunque essere chiara l'enormità economica, politica, umana della questione giovanile in Italia, articolazione generazionale della disuguaglianza strutturale creata dalle pratiche neoliberistiche in tutto il mondo. Almeno due generazioni stanno letteralmente andando perdute, consumeranno la loro gioventù tra lavori intermittenti, disoccupazione, attese, frustrazioni, scarso reddito, impossibilità di progettare alcunché. Il declino dell'Italia si identifica esattamente con la condizione dei suoi giovani. Il nostro Paese sta rinunciando, per balorda miopia, grettezza, illimitata mediocrità delle sue classi dirigenti, all'energia vitale, alla creatività, capacità di lavoro e di progetto della sua scarsa riserva demografica. Scarsa, perché i giovani sono una minoranza: poco più di 10 milioni tra i 20 e i 34 anni al censimento del 2011, a fronte di quasi 49 milioni e mezzo del totale. Tutto questo mentre ci assorda la retorica sulla necessità della competizione, della valorizzazione del “capitale umano”, sulla crescita, e le altre fuffe che la miserabile cultura capitalistica dei nostri anni riesce a elaborare.

Ora, io credo che la questione giovanile costituisca una straordinaria occasione politica per la sinistra. Alle retoriche del governo e sue adiacenze si può contrapporre un vero e proprio programma per la gioventù, quale parte di un progetto per l'intero paese. La prospettazione di una serie di obiettivi che possano mobilitare il consenso e anche l'entusiasmo giovanile, oggi sommerso sotto una montagna di delusioni e rancore. Non si tratta solo di rivendicare il reddito minimo di base, che comporta rilevanti impegni di spesa, ma anche di puntare a iniziative legislative “minori”, che possano ricreare un clima di fiducia tra la politica – che è cosa diversa dalla propaganda elettorale – e le nuove generazioni.

Perché, ad esempio, non consentire ai nostri ragazzi, entro una determinata fascia di età, sconti importanti per l'ingresso ai teatri, ai musei, per l'acquisto di libri, per la mobilità, locale e nazionale? Perché non creare un fondo di garanzia che consenta l'apertura di mutui da parte delle banche alle giovani coppie che vogliono metter su casa e non possono contare su un reddito continuativo e sicuro? Perché non aprire un campagna per la costituzione di nuove case per gli studenti (utilizzando caserme o altri stabili dismessi), la diffusione sul territorio di asili nido che aiuterebbero tanto le giovani coppie a cercare e mantenere un lavoro? Sono solo esempi di quel che si può proporre, di quel che si può fare per attivare la fantasia dei diretti interessati, che devono uscire dalla loro rassegnata segregazione e frantumazione e porsi come soggetto consapevole di una ripresa della lotta di classe in quanto generazione e aggregato sociale.
Ma per intestarsi questa battaglia la sinistra radicale e popolare, deve riprendere il passo che ha perduto in questi ultimi tempi: deve “andare” dai giovani, davanti alle fabbriche, alle scuole, alle università, ovunque si trovino. Deve andare adesso, non alla vigilia delle elezioni, per fare eleggere qualche pur bravo candidato. Deve riacquistare il gusto di organizzare persone e lotte, oltre alla conduzione di campagne elettorali. E' questo il terreno su cui movimenti e figure politiche, oggi variamente collocate, possono trovare il punto sperimentale di aggregazione che tutti attendiamo. E' una strada drammaticamente obbligata. Renzi e i suoi non sposteranno di un centimetro il piano inclinato in cui l'Italia va precipitando. Preparano solo gli strumenti politici per controllare la disgregazione sociale che sta dilagando nel paese.

«Perché gli attuali ragazzi e ragazze del Pd rifiutano perfino che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice? Se non difende il rapporto di lavoro un partito come il Pd, il quale si richiama alle riforme ogni mezz'ora, a che serve?

Sbilanciamoci.info, 7 ottobre 2014

Neppure un'incorreggibile gufa come me avrebbe immaginato che Matteo Renzi avrebbe cercato di portare velocemente il Pd verso una mutazione genetica, anche se covava da tempo, forse da quando Achille Occhetto, in qualità di segretario, aveva chiesto il beneficio di inventario nel richiamarsi non alla presa del palazzo d'inverno del 1917, ma alla rivoluzione francese del 1789. La Costituente sì, la Convenzione no. Viva l'abate Sieyès, abbasso Robespierre. Ma sulla Dichiarazione dei diritti erano stati d'accordo tutti, ed è quella che i socialisti Giacomo Brodolini e Gino Giugni hanno portato dentro la fabbrica con lo Statuto dei lavoratori.

Già era stato stupefacente per me che di tutta la direzione del Pd soltanto D'Alema e Bersani hanno dichiarato di non essere d'accordo con l'abolizione dell'articolo 18 e il contratto unico, cosiddetto a tutele crescenti, che costringerebbe ogni nuovo occupato a tre anni di precariato prima di essere regolarmente assunto (e va a vedere se la creatività degli imprenditori italiani non troverà qualche marchingegno per far apparire "nuovo e primo” ogni tipo di contratto), in modo da far transitare tutta la manodopera da un apprendistato a un altro.

Perché gli attuali ragazzi e ragazze del Pd rifiutano perfino che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice, nel caso della risoluzione di un punto delicato come un conflitto di lavoro, piuttosto che a un arbitrato consegnato alla parte sociale dominante? Se non difende il rapporto di lavoro un partito come il Pd, il quale si richiama alle riforme ogni mezz'ora, a che serve?

La verità è che forse il Jobs Act va letto, suggeriva maliziosamente ieri Melania Mazzucco, come l'acronimo di "jump our business", avanti subito con i nostri affari, ora che l'intralcio di un diritto dei dipendenti è stato gentilmente tolto di mezzo da quel che restava del Pci. Forse Renzi coglierà l'occasione per dichiarare, come già Veltroni, "Non sono stato comunista mai". Eppure lo zoccolo duro del Pci, la base confluita nelle sue successive trasformazioni, è stata sempre costituita da gente che lavorava sotto padrone. Passata al Pd come i suoi dirigenti, aveva ragionevolmente creduto che colui che spediva a Palazzo Chigi l'avrebbe difesa. Quando ha cominciato a dubitarne, il partito si è andato liquefacendo. Oggi lo vediamo, il famoso 40 per cento degli elettori per l'Europa sono un milione in meno di coloro che votarono Veltroni nel 2008, per non parlare di Berlinguer.

Il numero sempre più imponente degli astenuti modifica evidentemente le proporzioni fra una forza e l'altra, ma resta che i voti effettivamente avuti dai singoli partiti siano pochi, molti meno di quella che era la consuetudine italiana. Renzi farebbe bene a guardare in faccia il partito di cui è segretario e disprezzare un po' meno i suoi iscritti, che sono stati e restano la parte più attiva dell'elettorato d'Italia.
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