Se i tribunali affermano che non è colpevole nessuno di quanti hanno torturato il ragazzo che aveva droga in tasca, e nessuno di quelli che non l'hanno curato, allora sono colpevoli quanti dovevano decretare la condanna della tortura e non l'hanno fatto. La cronaca di Eleonora Martini e un commento di Patrizio Gonnella.
Il manifesto, 1 novembre 2014
di Eleonora Martini
Uno per tutti, il commento laconico di Amnesty international Italia: «Verità e giustizia ancora più lontane
di Patrizio Gonnella
Lo spirito di corpo e la tortura. In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione
I giudici della Corte d’Appello di Roma probabilmente motiveranno l’assoluzione di poliziotti e medici sostenendo che le prove non erano sufficienti. Supponiamo che sia così. Una motivazione di questo tipo vuol dire che le prove non sono state cercate, o sono state tenute nascoste.
Nei casi di tortura vi sono poliziotti che devono indagare su colleghi. Lo spirito di corpo ha vinto. Tutti assolti e dunque tutti colpevoli. I primo colpevoli sono coloro che in questi lunghi anni hanno remato contro la criminalizzazione della tortura. Ne abbiamo sentite e viste di tutti i colori. Da chi sosteneva la tesi che bisogna torturare almeno due volte per commettere il delitto a chi ha impedito la previsione del reato pur di difendere i pm che indagano. Tutte volgarità per l’appunto.
Proprio ieri il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite nelle quasi 200 raccomandazioni fatte all’Italia ha ribadito la necessità di punire i torturatori. Da qualche giorno è ripresa la discussione alla Camera di un testo di legge approvato la scorsa primavera in Senato. Un testo per molti versi inadeguato e insoddisfacente. È stato di recente audito anche il capo della Polizia, Alessandro Pansa il quale ha detto testualmente che «siamo favorevoli, ma il legislatore valuti il rischio che la fase applicativa, se non tipizza meglio la fattispecie, provochi denunce strumentali contro le forze dell’ordine che potrebbero demotivarle. Nessuna difesa corporativa da parte mia».
Ha fatto bene la presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti a sentire il Capo della Polizia in modo che tutti dicano in modo trasparente quali sono le proprie idee. Alessandro Pansa ha richiamato la parola corporazione, parola che rimanda direttamente allo spirito di corpo.Va rotta la catena corporativa. Spetta alle forze politiche farlo, con nettezza. Va introdotto il principio della responsabilità individuale. In mancanza del crimine di tortura si perpetua l’impunità che riporta a responsabilità collettive gravi incompatibili con una democrazia compiuta.
Sono trascorsi poco più di cinque anni dalla morte di Stefano Cucchi. In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione. Detto questo noi tutti sappiamo che non è alla giustizia che dobbiamo affidare la ricostruzione della verità storica. La giustizia è per sua natura fallace. In questo caso però la verità processuale ha deciso di voltarsi in modo tragico dall’altra parte rispetto alla verità storica.
Molte volte abbiamo chiesto al Parlamento un sussulto di dignità. Lo chiediamo ancora. Chiediamo che sia approvata subito una legge contro la tortura in piena coerenza con la definizione delle Nazioni Unite. Chiediamo che ciò avvenga nel nome di Ilaria e dei genitori di Stefano, combattenti per la libertà e la giustizia.
In primo luogo, l’unico dei tre indicatori che è diminuito riguarda la deprivazione grave, perché è calata la percentuale di persone che non può avere un pasto adeguato almeno ogni due giorni, che non ha mezzi per riscaldare a sufficienza l’abitazione e non avrebbe neppure 800 euro di risparmi per fronteggiare un’emergenza. Si tratta di situazioni al limite della sopravvivenza. Non vi è stato, invece, nessun miglioramento per quanto riguarda la percentuale di coloro che si trovano in condizione di povertà relativa e di coloro che vivono in una famiglia in cui nessun adulto (esclusi gli studenti e i pensionati) è occupato.
In secondo luogo, il miglioramento è distribuito in modo molto diseguale tra le varie aree del Paese e tra i diversi gruppi sociali. È stato molto più sostanziale nel Centro- Nord, dove il fenomeno della povertà e dell’esclusione sociale è relativamente contenuto, che nelle regioni meridionali, dove è tradizionalmente molto più diffuso ed era maggiormente aumentato negli anni della crisi. Come ha documentato anche il recente rapporto Svimez, il gap tra le condizioni di vita nel Mezzogiorno e il resto del Paese si sta ampliando, senza che ciò riesca ad entrare nel dibattito politico. Allo stesso tempo, il Mezzogiorno si conferma anche l’area del Paese in cui le disuguaglianze economiche sono maggiori, segnalando l’inefficienza e l’insostenibilità di un sistema economico e sociale locale e dei suoi rapporti con il sistema nazionale complessivo.
Il gap si sta ampliando anche tra vecchi e giovani e tra famiglie senza figli o con un solo figlio e famiglie con tre figli e più. Il miglioramento è concentrato tra gli anziani e le famiglie senza figli (conviventi) o con un figlio solo. Viceversa, la situazione è peggiorata per le famiglie con tre o più figli. Ciò è vero in tutte le aree geografiche, ma nel Mezzogiorno il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda ormai più del 40 per cento delle famiglie.
Il peggioramento dei nuclei famigliari numerosi significa che siamo di fronte ad un peggioramento della povertà minorile, un fenomeno che costituisce una caratteristica distintiva del nostro Paese, e che tuttavia raccoglie ancora meno attenzione nel dibattito pubblico e da parte dei policy maker rispetto alla questione meridionale e certamente non trova neppure l’inizio di una risposta nel bonus triennale per i nuovi nati introdotto con la legge di stabilità. Qualcuno potrebbero persino dire che è irresponsabile incentivare le nascite con misure di breve periodo se non si affronta prima in modo sistematico e coerente la questione della povertà minorile, che dipende in larga misura dalla combinazione di insufficiente reddito da lavoro e insufficienti, o assenti, trasferimenti che tengano conto del costo dei figli lungo tutto il percorso di crescita.
In ogni caso, forse non è comunicativamente attraente e pagante nell’immediato a livello politico, ma se c’è un tema che richiede un orientamento al futuro e non al passato, è proprio quello della povertà minorile: se non sul piano dell’equità, certo per i suoi effetti negativi di lungo periodo.
«Le parole del papa sono un distillato di saperi, esperienze e riflessioni sedimentato in anni di lotte sociali, soprattutto dell’America Latina. Ma se a ispirarlo fosse stato invece dio, e se dio la pensasse così, ben venga anche lui tra di noi».
Il Manifesto, 31 ottobre 2014 (m.p.r.)
Dal discorso del papa nel suo incontro del 28 ottobre con i movimenti popolari possiamo ricavare un programma politico e sociale di respiro planetario dal quale non potremo più prescindere, perché raccoglie in larga parte le istanze che orientano il nostro operato, proiettandole su uno scenario che ingloba l’intero pianeta. Certo, le parole del papa sono un distillato di saperi, esperienze e riflessioni sedimentato in anni di lotte sociali, soprattutto dell’America Latina (ma non mancano riferimenti a contesti a noi più familiari come quello europeo). Ma se a ispirarlo fosse stato invece dio, e se dio la pensasse così, ben venga anche lui tra di noi: a verificare la traduzione delle sue parole in iniziative e in mobilitazioni sarà la verifica dei fatti. La piattaforma delineata inell’incontro con il papa ha tre nomi:lavoro, terra e casa: «diritti sacri», li definisce il pontefice.
Sul lavoro il papa dice: «Non esiste peggiore povertà materiale di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro». Occorre rivendicare e ottenere «una remunerazione degna, la sicurezza sociale, una copertura pensionistica, la possibilità di avere un sindacato». «La disoccupazione giovanile, l’informalità e la mancanza di diritti» sono il frutto «di un sistema economico che mette i benefici (il profitto) al di sopra dell’uomo». E qui il papa accenna un tema a lungo trattato da Zigmunt Bauman (in Vite di scarto); d’altronde tra i suoi interlocutori ci sono i cartoneros, che vivono recuperando rifiuti. Quel sistema iniquo è il prodotto «di una cultura dello scarto che considera l’essere umano come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare».
Alle forme tradizionali di sfruttamento e di oppressione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di rendere gli esseri umani superflui: «quelli che non si possono integrare, gli esclusi, sono scarti, eccedenze… Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non la persona umana». Così «si scartano i bambini e si scartano gli anziani perché non servono, non producono». E «lo scarto dei giovani» ha portato ad «annullare un’intera generazione… per poter mantenere e riequilibrare un sistema nel quale al centro c’è il dio denaro». E in chi, come i cartoneros, vive proprio recuperando scarti, il papa vede un’allusione a un modo completamente alternativo di concepire il lavoro: «Nonostante questa cultura dello scarto, delle eccedenze, molti di voi, lavoratori esclusi, eccedenze per questo sistema, avete inventato il vostro lavoro con tutto ciò che sembrava non poter essere più utilizzato, ma voi con la vostra abilità artigianale, con la vostra ricerca, con la vostra solidarietà, con il vostro lavoro comunitario, con la vostra economia popolare, ci siete riusciti… Questo, oltre che lavoro, è poesia!»
Parlando della terra — intesa nel duplice significato di ambiente (il pianeta Terra) e di suolo, oggetto del lavoro dei contadini — largamente presenti all’incontro, con la loro associazione planetaria Via campesina — il papa si appella innanzitutto al senso profondo del lavoro contadino, che non è quello di sfruttare e devastare la terra con l’agrobusiness, ma quello di custodirla: coltivandola e facendolo «in comunità». Per questo occorre combattere «lo sradicamento di tanti fratelli contadini» provocato dall’accaparramento delle terre, dalla deforestazione, dall’appropriazione dell’acqua, da pesticidi inadeguati». Quella separazione «non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale» e rischia di portare all’estinzione le comunità rurali. Il nemico di questa cultura contadina, come dei diritti del lavoro, è la speculazione finanziaria, che «condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi» provocando quell’altra «dimensione del processo globale» che è la fame, proprio mentre si scartano e si buttano via tonnellate di alimenti.
Sulla casa (che vuol dire abitare in un contesto sociale di prossimità), il papa vuole «che tutte le famiglie abbiano una casa e che tutti i quartieri abbiano un’infrastruttura adeguata: fognature, luce, gas, asfalto, scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono». E aggiunge, «un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere, ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato». È proprio grazie a questi rapporti, dove ancora esistono, che «nei quartieri popolari sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti», perché «lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito, ma un’estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato».
«Quanto sono belle – aggiunge — le città che superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo». Siamo talmente assuefatti a vedere situazioni di deprivazione da chiamare chi è senza casa, compresi i bambini, «persone senza fissa dimora»: un eufemismo che è il colmo dell’ipocrisia. Ma «dietro ogni eufemismo – ricorda — c’è un delitto». È il delitto degli sgomberi forzati, che interessano milioni di abitanti vittime del grabbing della terra, ma anche degli slums urbani e di tante situazioni di casa nostra.
In tutti e tre questi ambiti – lavoro, terra e casa — l’ostacolo che si frappone alla realizzazione degli obiettivi per cui si battono i poveri della Terra è «l’impero del denaro»; il capitalismo finanziario, diremmo noi. Ma «i poveri non solo subiscono l’ingiustizia, ma lottano anche contro di essa». E «non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi… non stanno ad aspettare a braccia conserte piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai» o che vanno «nella direzione di anestetizzare o di addomesticare». «Vogliono essere protagonisti, si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà che esiste fra quanti soffrono… e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato». Quella solidarietà «è molto di più di alcuni atti di generosità». È partecipazione: «pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni».
Quell’uragano è la conversione ecologica. Perché accanto al dio denaro, causa prima della miseria in cui si dibattono i poveri, gli altri suoi bersagli sono la guerra e la devastazione dell’ambiente: «Non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distruggiamo il pianeta» (e qui il papa annuncia una prossima enciclica sull’ecologia). «Ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro vengono sanati». E «un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura…per sostenere il ritmo frenetico del consumo». Ma «il creato non è una proprietà di cui possiamo disporre a nostro piacere; e ancor meno è una proprietà solo di alcuni, di pochi. È un dono di cui dobbiamo prenderci cura» utilizzandolo a beneficio di tutti.
«Dobbiamo cambiare – dice il papa — dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno». Ed ecco allora un elenco delle virtù che cambiano il mondo: «Va fatto con coraggio, ma anche con intelligenza. Con tenacia, ma senza fanatismo. Con passione, ma senza violenza. E tutti insieme, affrontando i conflitti senza rimanervi intrappolati»; e praticando «una cultura dell’incontro, così diversa dalla xenofobia, dalla discriminazione e dall’intolleranza». Si tratta di una lotta al tempo stesso globale e locale: nasce dai rapporti di prossimità, ma abbraccia tutto il pianeta: «So che lavorate ogni giorno in cose vicine, concrete, nel vostro territorio, nel vostro quartiere, nel vostro posto di lavoro: ma vi invito anche a continuare a cercare questa prospettiva più ampia, che i vostri sogni volino alto e abbraccino il tutto!».
Seguono alcune raccomandazioni relative all’organizzazione e alla riconfigurazione della democrazia: «Non è mai un bene racchiudere il movimento in strutture rigide… e lo è ancor meno cercare di assorbirlo, di dirigerlo o di dominarlo; i movimenti liberi hanno una propria dinamica, dobbiamo cercare di camminare insieme». E «i movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature… esige che noi creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi… con animo costruttivo, senza risentimento, con amore».
Mi sono limitato a pochi commenti. E ho ben poco da aggiungere.
Critiche sensate ai padri di Renzi, ma significativa elusione di un nodo centrale: qual'è il giudizio sul sistema capitalistico, e quale la conseguente strategia? e quali i principi e valori da assumere a fondamento della societa'? Il manifesto, 30 ottobre 2014, con postilla
postilla
Il tema proposto da Della Seta è indubbiamente centrale. La questione del lavoro è certamente decisiva per chi voglia affrontare una lotta seria contro il renzismo e la “emergenza democratica” che esso ha provocato. Così come lo è la questione dell'ambiente. La connessione tra queste due questioni è anzi la chiave di volta per riconnettere quelle che per semplicità chiamero’ la vecchia e la nuova sinistra: quella che abbiamo conosciuto e quella che vogliamo costruire. Ma porre quelle due questioni volendo effettivamente risolvere ( e non mitigare, addolcire, depeggiorare) significa recuperare la tensione che è la ragione stessa del “comunismo”: la tensione, e la prospettiva, del superamento del capitalismo. In particolare del capitalismo di oggi: quello che ha ormai esaurito ogni sua “forza propulsiva” ed è diventato meramente distruttivo. Hic Rhodus, hic salta, caro Roberto Della Seta.
Per chi si pone in questa prospettiva il declino e la definitive sconfitta della sinistra ex PCI inizia forse ben prima della rottura di Occhetto: nasce quando all’interno stesso del PCI la visione di Enrico Berlinguer fu sconfitta, e la grande proposta strategica del “compromesso storico” fu immiserita riducendola al rango di una intesa di potere tra
quel PCI, ormai disideologizzato, e quella DC, opportunamente privata della leadership di Aldo Moro. E forse è anche utile sottolineare - visto che, seguendo Della Seta, abbiamo ricordato la “cosa” di Occhetto - che il primo successore del PCI, il PDS, aveva tra i suoi obiettivi strategici la “riconversione ecologica dell’economia”, che evocava una trasformazione radicale del sistema economico sociale, rapidamente degenerate in “green economy”.
Sinistra Pd. Se Renzi vince la sinistra interna farà testimonianza, se Renzi perde verrà travolta dalle macerie. E’ preferibile un disegno esplicito di rottura, con una guerriglia aperta sulle riforme.
Il manifesto, 30 ottobre 2014
Ormai di tempo per prendere le misure del fenomeno Renzi, la sinistra Pd ne ha avuto abbastanza. E, a meno di una consapevole volontà di rassicurazione che poggia però sul niente, dovrebbe aver percepito che uno spazio per la mediazione è impossibile. Renzi peraltro non lo cerca, si vanta di aver “spianato” i reduci, schiaffeggiato le loro bandiere, umiliato la loro piazza. L’offerta di una tregua è una sterile invocazione, quella di non infierire troppo, rivolta dagli sconfitti allo spietato castigatore.
Renzi non è interessato alla costruzione di un partito strutturato, retto cioè da una logica unitaria e da una leadership rispettosa delle differenze interne. Rivendica solo una fedeltà personale, con scene ordinarie di una obbedienza conformistica al capo. Egli non mostra alcuna preoccupazione per i compiti di coesione propri di una direzione politica autorevole. Renzi vuole solo comandare con collaboratori dalla schiena curva, non dirigere una organizzazione complessa. Chi non si adegua alla sua inesorabile strategia di edificare una variante del partito personale, non più a matrice aziendale ma non per questo sprovvisto di fonti ingenti di approvvigionamento mediatico-finanziario che lo rinsaldano al potere, è destinato ad essere schiacciato, senza pietà.
E’ per lui inutile ogni visibile segno di autonomia, qualsiasi voce critica farebbe solo ombra alla sacralità del capo che in solitudine interpreta gli umori profondi del popolo ostile all’élite. La pretesa di dominio è così assoluta che non esita a spezzare ogni stabile radicamento del Pd nella componente, quella del lavoro, peraltro maggioritaria della sua antica coalizione sociale. Identità, radici sociali, forma partito, cultura delle istituzioni: davvero tutto separa la sinistra del Pd da Renzi e proprio nulla la unisce a un capo che persegue un disegno, sempre più esplicito, di edificare un potere personale a forte traino populista e ben protetto dal quasi totale conformismo dei media.
Questo esplicito piano di semplificazione a sfondo cesaristico-mediatico è fortemente regressivo, incompatibile con la cultura della sinistra e andrebbe perciò ostacolato, in ogni modo efficace. La vittoria di Renzi non coincide con il successo della sinistra. Certo, la situazione è per la minoranza assai paradossale, perché la obbliga a districarsi tra un male maggiore e un male minore.
E’ preferibile perciò un lavoro politico consapevole, un disegno esplicito di rottura che accompagni Renzi alla resa. Nello svuotamento delle residuali divisioni politiche tutte ospitate in un indistinto partito della nazione (in effetti Renzi potrebbe essere, con pari credibilità, leader di uno qualsiasi dei tre non-partiti oggi esistenti), si consoliderebbe altrimenti un sistema informe e retto da un profilo pseudo carismatico difficile da scalfire una volta consolidato al potere.
Machiavelli notava che in politica «si cava una regola generale, la quale mai o raro falla, che chi è cagione che uno diventi potente, ruina». E nella rapida, quanto sinora incontrastata, ascesa di Renzi alla condizione di «potente», anche i suoi avversari interni sono la «cagione» del tanto dominio in fretta accumulato. Prima sollecitando in direzione un cambio di passo rispetto a Letta, e poi votando in aula una fiducia “critica” alla delega all’esecutivo per la soppressione dell’articolo 18, la minoranza del Pd ha consentito al renzismo di incassare dei grandi attestati di potenza e con tali incaute mosse rischia forse di aver sancito la propria «ruina».
Il timore di una crisi di governo ha paralizzato qualsiasi disponibilità alla prova di forza su una grande questione identitaria (diritto di licenziare come arma della modernizzazione e della riduzione di ogni dignità al lavoro). Sinora la minoranza del Pd ha evitato di portare lo scontro nella sola zona di criticità esistente per Renzi, cioè nei gruppi parlamentari, non ancora del tutto omologati ma anch’essi prossimi alla resa nel miraggio di una ricandidatura. E così ha spianato la strada al disegno di un potere a conduzione personale senza mai lanciare dei sassi, colpire di sorpresa, tendere agguati. Machiavelli avvertiva che in politica «è meglio fare et pentirsi che non fare et pentirsi».
? Non è detto che essa accada. La tattica prevale sulla strategia in queste scelte. Escluderla in linea di principio è però di sicuro una castrazione preventiva della possibilità di ostacolare un tragitto regressivo che conduce verso il dominio di una persona priva di opposizioni, limiti, controlli e alla sicura archiviazione a tappe successive della forma di governo parlamentare. Ogni pratica scissionista deve valutare, con distacco, la presenza di una condizione indispensabile. Machiavelli chiarisce bene la questione, che vale per ogni costruttore di una cosa nuova: «esaminare se questi innovatori stanno per loro medesimi, o se dipendano da altri: ciò è se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, o vero possono forzare».
Insomma, su cosa, su quali forze reali, potrebbe poggiare l’iniziativa per imporre, nella lotta aperta contro la degenerazione del politico, una autonoma forza della sinistra? La frattura sociale sui temi del lavoro, il possibile sciopero generale come radicalizzazione della contesa, offrono una occasione propizia ovvero aprono la giuntura critica per rompere. Il rapporto organico del nuovo soggetto politico con il sindacato evoca uno scenario quasi rovesciato rispetto al rapporto tra soggetto politico e organizzazione sociale dominate nella storia repubblicana. E però anche una tale formazione ad ibridismo politico-sindacale (sulla scorta più della vicenda inglese che di quella continentale) non farà strada senza una grande cultura politica, non minoritaria e di mera protesta.
Nella assai frantumata minoranza Pd forse prevarrà una linea più attendista (la guerriglia sulle riforme elettorali e istituzionali è però meno dirompente e mobilitante come reazione allo sfregio simbolico perpetrato da Renzi sull’esplosivo tema identitario del lavoro). Se comunque questa via della imboscata parlamentare prevarrà, almeno con essa si punti a bloccare l’unica condizione per il successo dello statista di Rignano, cioè l’Italicum comunque ritoccato (con il rialzo delle soglie e il voto di preferenza). Senza il premio di maggioranza in mano, Renzi ha le ali spuntate e la sua pistola del ricatto diventa scarica.
Guerriglia aperta sulle riforme, dunque, e in più un ristretto ma coeso gruppo di contatto al senato (che mostri che senza di esso il governo non ha i numeri a Palazzo Madama), possono creare degli ostacoli, scavare trappole affinché “pié veloce” inciampi. Le tattiche possono variare. Quello che non muta è però l’obiettivo. Renzi va sconfitto. E da sinistra
Tutti i nomi (per ora) della rete del potere occulto che avvolge quanto resta della democrazia italiana.
L'Espresso online, 23 ottobre 2014Luca Lotti è “lampadina”, il sottosegretario dal carattere fumantino, considerato del terzetto quello più difficile da avvicinare. Marco Carrai è l’imprenditore immerso nei suoi affari, ma più disponibile ad ascoltare lamentele e richieste. L’avvocato Alberto Bianchi è lo “zio saggio”, il mediatore per eccellenza, colui che sa ammorbidire i dissidi e trovare la quadra. Insieme Luca, Marco e Alberto formano quella che deputati e brasseur d’affari chiamano “la trinità”, il gruppo scelto a cui Matteo Renzi ha affidato la creazione di un nuovo sistema di potere che, all’ombra di Palazzo Chigi, deve gestire nomine pubbliche, dossier delicatissimi e interessi economici del Paese.
Negli ultimi mesi la rete di relazioni della trimurti si sta espandendo come una supernova, tanto che la supremazia della vecchia “ditta” (così veniva chiamato il sodalizio tra Gianni Letta e Luigi Bisignani, che ha patteggiato un anno e sette mesi per associazione a delinquere nell’ambito dell’inchiesta sulla P4) è ormai un lontano ricordo: la rottamazione della coppia che ha amministrato la cosa pubblica durante il regno di Silvio Berlusconi è (quasi) terminata. Così da febbraio lobbisti, consulenti d’azienda e battitori liberi si affannano per salire sul carro giusto. Telefonate, appuntamenti nei bar del centro storico di Roma, pressioni sui parlamentari di riferimento: entrare fin d’ora nelle grazie dei decisori è fondamentale, visto che chi resta fuori dai giochi mette a rischio non solo gli interessi della sua azienda, ma anche potere personale e lo stipendio.
Gli uomini neri
Nella vulgata comune il lobbista è ancora sinonimo di intrallazzo. L’iconografia lo dipinge come un maneggione in blazer, come l’uomo nero che smista mazzette per velocizzare una pratica o spingere un emendamento. La cronaca giudiziaria non ha migliorato la loro “reputation”: la seconda Tangentopoli, la P4, gli scandali che stanno martoriando l’Eni e la Finmeccanica, i traffichini alla Valter Lavitola, le tangenti del Mose, tutto ha contribuito a rilanciare l’assioma “lobbista uguale faccendiere”. Un luogo comune che danneggia i professionisti degli affari istituzionali, che spesso e volentieri non solo difendono interessi legittimi (come fanno associazioni di categoria e sindacati), ma servirebbero al legislatore per avere dati e informazioni corrette su business cruciali. Non è un caso che la categoria, a Washington come a Bruxelles, sia da lustri rispettata e regolamentata.
L’Italia, anche in questo campo, è molto indietro. Sia per colpa del Parlamento, che da trent’anni annuncia una legge sulla trasparenza delle lobby che non ha mai visto la luce, sia perché i protagonisti della persuasione si comportano spesso come trent’anni fa, quando il costruttore Gaetano Caltagirone rivolgeva all’andreottiano Franco Evangelisti l’immortale «A Frà, che te serve?». Non è un caso che il dossieraggio per fregare i colleghi resta pratica assai diffusa, così come l’opacità nei rapporti con la politica e la “black propaganda” attraverso cui si tenta di distruggere l’immagine di un concorrente grazie a giornalisti ingenui o compiacenti.
La Trinità
Piccoli Letta crescono
L'epurazione
L’epurazione parte a maggio. Cadono come birilli Stefano Lucchini, ras all’Eni da sempre fedele a Bisignani, e Leonardo Bellodi, l’uomo ombra di Paolo Scaroni, esperto di missioni a cavallo tra business e intelligence. Oggi Lucchini ha già trovato un nuovo ufficio a Banca Intesa, mentre sembra che Bellodi voglia aprire - insieme a Scaroni e l’ex ad di Siram Giuseppe Gotti - una sede italiana di un importante fondo di investimento Usa. Anche Gianluca Comin, ex capo delle relazioni istituzionali dell’Enel e ganglio cruciale del vecchio sistema, dopo aver perso la poltrona si è buttato nel privato: oggi ha una scrivania nella sede dello studio legale Orrick, e collabora per la multinazionale dei farmaci Novartis, finita nella bufera per una multa da 92 milioni comminata dall’Antitrust e bisognosa di lobbisti in grado di ridare smalto alla reputazione dell’azienda. Dei vecchi leoni solo Fabio Corsico e Giuliano Frosini possono vantare eccellenti rapporti con il nuovo establishment: il primo, da 10 anni factotum di Francesco Gaetano Caltagirone e manager di punta della Fondazione Crt, è stato messo nel board di Terna dalla Cassa depositi e prestiti; Frosini, un passato da bassoliniano, amico di Enrico Letta e Maurizio Lupi nonché foundraiser per Comunione e Liberazione, ha lasciato Terna per tornare a seguire gli interessi di Lottomatica, ma è stato piazzato dal governo Renzi nel nuovo cda di Trenitalia.
I lobbisti in cerca d’autore, invece, non si contano: se Franco Brescia della Telecom per ora è saldo al suo posto, Marco Forlani (figlio del democristiano Arnaldo) è uscito da Finmeccanica a luglio, mentre Paolo Messa (ex consigliere del ministro Corrado Clini, indagato per una vicenda di corruzione) sta tentando la fortuna bisbigliando suggerimenti al potente Gianni De Gennaro, presidente Finmeccanica ed ex capo della polizia. Costanza Esclapon, contrattualizzata dalla Rai e amica di Lucchini, sta invece difendendo con le unghie il suo capo Luigi Gubitosi dagli attacchi della stampa. Renzi sembra però aver già deciso le sorti del direttore generale di Viale Mazzini, che dovrà cambiare azienda alla scadenza della nomina, prevista per marzo. In pole per il suo posto il “giglio magico” si sta dividendo tra l’ex Mtv Antonio Campo Dall’Orto e il numero uno della compagnia telefonica H3G Vincenzo Novari, per cui tifano Luca Lotti ed Ernesto Carbone.
Chi sale e chi scende
Così la trasparenza è un optional, e il rischio di caos e approssimazione è elevatissimo», racconta il numero due degli affari istituzionali di un’importante impresa di Stato. «Ai tempi di Enrico Letta potevamo coordinarci con l’ambasciatore Armando Varricchio e con il suo consigliere Fabrizio Pagani. Ora, invece c’è un vuoto assoluto»Per la cronaca, Varricchio è stato depotenziato a semplice burocrate, mentre Pagani è stato spedito a via XX Settembre, come capo della segreteria del ministro Pier Carlo Padoan. Era proprio Pagani uno dei commis di Stato più influenti: se ai consiglieri di Stato è stata messa la museruola, nei palazzi contano ancora molto Salvatore Nastasi, ex enfant prodige di Gianni Letta e potentissimo direttore del ministero della Cultura, e Antonio Agostini, un passato nei servizi segreti, ex direttore dei ministri Gelmini e Clini, diventato qualche settimana fa numero uno dell’Isin, l’authority per la sicurezza nucleare.
Il vecchio e il giovane
Ma dei tre campioni di Renzi quello che i lobbisti sognano di agganciare per primi è Luca Lotti. Nato nel 1982, sottosegretario all’editoria a Palazzo Chigi, è delegato a tutti i rapporti informali del premier. Maestro nell’anticipare i desiderata del “principale” di cui esegue gli ordini senza discutere, ha messo il suo zampino in tutte le partite più delicate. Prima le nomine delle società pubbliche (il nuovo capo delle relazioni istituzionali di Poste, Giuseppe Coccon, a Lotti deve moltissimo), poi ha sfilato le deleghe del Cipe al ministero dell’Economia. Se prima i vescovi e i cardinali parlavano con Gianni Letta, ora devono incontrare lui. Dagli uomini d’affari che vogliono avere buone entrature con il governo, invece, Lotti manda due imprenditori di fede renziana come Andrea Conticini e Andrea Bacci. Tra una partita di calcetto alla Cecchignola e un appuntamento sotto la galleria “Alberto Sordi”, c’è solo un obiettivo che “lampadina” non è riuscito ancora a raggiungere: le deleghe ai servizi segreti. Per le barbe finte l’ex consigliere di Montelupo ha un chiod o fisso, e per strappare l’incarico al sottosegretario Marco Minniti farebbe follie. Per ora Renzi gli ha detto di no. Così, con gli 007 dell’Aisi e dell’Aise, Lotti si incontra nei bar dietro Piazza di Pietra.
«». La Repubblica
Q «Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri»venire, 28 ottobre 2014
Buongiorno di nuovo,
sono contento di stare tra voi, inoltre vi faccio una confidenza: è la prima volta che scendo qui, non c’ero mai venuto. Come vi dicevo, provo grande gioia e vi do un caloroso benvenuto.
Grazie per aver accettato questo invito per dibattere i tanti gravi problemi sociali che affliggono il mondo di oggi, voi che vivete sulla vostra pelle la disuguaglianza e l’esclusione. Grazie al Cardinale Turkson per la sua accoglienza, grazie, Eminenza, per il suo lavoro e le sue parole.
Questo incontro dei Movimenti Popolari è un segno, un grande segno: siete venuti a porre alla presenza di Dio, della Chiesa, dei popoli, una realtà molte volte passata sotto silenzio. I poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa!
Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare.
Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ed è questo che fanno i movimenti popolari.
Questo nostro incontro non risponde a un’ideologia. Voi non lavorate con idee, lavorate con realtà come quelle che ho menzionato e molte altre che mi avete raccontato. Avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta! Vogliamo che si ascolti la vostra voce che, in generale, si ascolta poco. Forse perché disturba, forse perché il vostro grido infastidisce, forse perché si ha paura del cambiamento che voi esigete, ma senza la vostra presenza, senza andare realmente nelle periferie, le buone proposte e i progetti che spesso ascoltiamo nelle conferenze internazionali restano nel regno dell’idea, è un mio progetto.
Non si può affrontare lo scandalo della povertà promuovendo strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi. Che triste vedere che, dietro a presunte opere altruistiche, si riduce l’altro alla passività, lo si nega o, peggio ancora, si nascondono affari e ambizioni personali: Gesù le definirebbe ipocrite. Che bello invece quando vediamo in movimento popoli e soprattutto i loro membri più poveri e i giovani. Allora sì, si sente il vento di promessa che ravviva la speranza di un mondo migliore. Che questo vento si trasformi in uragano di speranza. Questo è il mio desiderio.
Questo nostro incontro risponde a un anelito molto concreto, qualcosa che qualsiasi padre, qualsiasi madre, vuole per i propri figli; un anelito che dovrebbe essere alla portata di tutti, ma che oggi vediamo con tristezza sempre più lontano dalla maggioranza della gente: terra, casa e lavoro. È strano, ma se parlo di questo per alcuni il Papa è comunista. Non si comprende che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri. Esigere ciò non è affatto strano, è la dottrina sociale della Chiesa. Mi soffermo un po’ su ognuno di essi perché li avete scelti come parola d’ordine per questo incontro.
Terra. All’inizio della creazione, Dio creò l’uomo custode della sua opera, affidandogli l’incarico di coltivarla e di proteggerla. Vedo che qui ci sono decine di contadini e di contadine e voglio felicitarmi con loro perché custodiscono la terra, la coltivano e lo fanno in comunità. Mi preoccupa lo sradicamento di tanti fratelli contadini che soffrono per questo motivo e non per guerre o disastri naturali. L’accaparramento di terre, la deforestazione, l’appropriazione dell’acqua, i pesticidi inadeguati, sono alcuni dei mali che strappano l’uomo dalla sua terra natale. Questa dolorosa separazione non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale, perché esiste una relazione con la terra che sta mettendo la comunità rurale e il suo peculiare stile di vita in palese decadenza e addirittura a rischio di estinzione.
L’altra dimensione del processo già globale è la fame. Quando la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è criminale, l’alimentazione è un diritto inalienabile. So che alcuni di voi chiedono una riforma agraria per risolvere alcuni di questi problemi e, lasciatemi dire che in certi paesi, e qui cito il compendio della Dottrina sociale della Chiesa, “la riforma agraria diventa pertanto, oltre che una necessità politica, un obbligo morale” (CDSC, 300).
Non lo dico solo io, ma sta scritto nel compendio della Dottrina sociale della Chiesa. Per favore, continuate a lottare per la dignità della famiglia rurale, per l’acqua, per la vita e affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra.
Secondo, Casa. L’ho già detto e lo ripeto: una casa per ogni famiglia. Non bisogna mai dimenticare che Gesù nacque in una stalla perché negli alloggi non c’era posto, che la sua famiglia dovette abbandonare la propria casa e fuggire in Egitto, perseguitata da Erode. Oggi ci sono tante famiglie senza casa, o perché non l’hanno mai avuta o perché l’hanno persa per diversi motivi. Famiglia e casa vanno di pari passo! Ma un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato. Oggi viviamo in immense città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli, persino bambini, e li si chiama, elegantemente, “persone senza fissa dimora”. È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi. Non si dicono le parole con precisione, e la realtà si cerca nell’eufemismo. Una persona, una persona segregata, una persona accantonata, una persona che sta soffrendo per la miseria, per la fame, è una persona senza fissa dimora; espressione elegante, no? Voi cercate sempre; potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto.
Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi.
Sapete che nei quartieri popolari dove molti di voi vivono sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti. Questi insediamenti sono benedetti da una ricca cultura popolare, lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito ma un’estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato. Quanto sono belle le città che superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Quanto sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che uniscono, relazionano, favoriscono il riconoscimento dell’altro! Perciò né sradicamento né emarginazione: bisogna seguire la linea dell’integrazione urbana! Questa parola deve sostituire completamente la parola sradicamento, ora, ma anche quei progetti che intendono riverniciare i quartieri poveri, abbellire le periferie e “truccare” le ferite sociali invece di curarle promuovendo un’integrazione autentica e rispettosa. È una sorta di architettura di facciata, no? E va in questa direzione. Continuiamo a lavorare affinché tutte le famiglie abbiano una casa e affinché tutti i quartieri abbiano un’infrastruttura adeguata (fognature, luce, gas, asfalto, e continuo: scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono, accesso alla salute — l’ho già detto — all’educazione e alla sicurezza della proprietà.
Terzo, Lavoro. Non esiste peggiore povertà materiale — mi preme sottolinearlo — di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro. La disoccupazione giovanile, l’informalità e la mancanza di diritti lavorativi non sono inevitabili, sono il risultato di una previa opzione sociale, di un sistema economico che mette i benefici al di sopra dell’uomo, se il beneficio è economico, al di sopra dell’umanità o al di sopra dell’uomo, sono effetti di una cultura dello scarto che considera l’essere umano di per sé come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare.
Oggi al fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione si somma una nuova dimensione, una sfumatura grafica e dura dell’ingiustizia sociale; quelli che non si possono integrare, gli esclusi sono scarti, “eccedenze”. Questa è la cultura dello scarto, e su questo punto vorrei aggiungere qualcosa che non ho qui scritto, ma che mi è venuta in mente ora. Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché fosse il denominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori.
E per illustrarlo ricordo qui un insegnamento dell’anno 1200 circa. Un rabbino ebreo spiegava ai suoi fedeli la storia della torre di Babele e allora raccontava come, per costruire quella torre di Babele, bisognava fare un grande sforzo, bisognava fabbricare i mattoni, e per fabbricare i mattoni bisognava fare il fango e portare la paglia, e mescolare il fango con la paglia, poi tagliarlo in quadrati, poi farlo seccare, poi cuocerlo, e quando i mattoni erano cotti e freddi, portarli su per costruire la torre.
Se cadeva un mattone — era costato tanto con tutto quel lavoro —, era quasi una tragedia nazionale. Colui che l’aveva lasciato cadere veniva punito o cacciato, o non so che cosa gli facevano, ma se cadeva un operaio non succedeva nulla. Questo accade quando la persona è al servizio del dio denaro; e lo raccontava un rabbino ebreo nell’anno 1200, spiegando queste cose orribili.
Per quanto riguarda lo scarto dobbiamo anche essere un po’ attenti a quanto accade nella nostra società. Sto ripetendo cose che ho detto e che stanno nella Evangelii gaudium. Oggi si scartano i bambini perché il tasso di natalità in molti paesi della terra è diminuito o si scartano i bambini per mancanza di cibo o perché vengono uccisi prima di nascere; scarto di bambini.
Si scartano gli anziani perché non servono, non producono; né bambini né anziani producono, allora con sistemi più o meno sofisticati li si abbandona lentamente, e ora, poiché in questa crisi occorre recuperare un certo equilibrio, stiamo assistendo a un terzo scarto molto doloroso: lo scarto dei giovani. Milioni di giovani — non dico la cifra perché non la conosco esattamente e quella che ho letto mi sembra un po’ esagerata — milioni di giovani sono scartati dal lavoro, disoccupati.
Nei paesi europei, e queste sì sono statistiche molto chiare, qui in Italia, i giovani disoccupati sono un po’ più del quaranta per cento; sapete cosa significa quaranta per cento di giovani, un’intera generazione, annullare un’intera generazione per mantenere l’equilibrio. In un altro paese europeo sta superando il cinquanta per cento, e in quello stesso paese del cinquanta per cento, nel sud è il sessanta per cento. Sono cifre chiare, ossia dello scarto. Scarto di bambini, scarto di anziani, che non producono, e dobbiamo sacrificare una generazione di giovani, scarto di giovani, per poter mantenere e riequilibrare un sistema nel quale al centro c’è il dio denaro e non la persona umana.
Nonostante questa cultura dello scarto, questa cultura delle eccedenze, molti di voi, lavoratori esclusi, eccedenze per questo sistema, avete inventato il vostro lavoro con tutto ciò che sembrava non poter essere più utilizzato ma voi con la vostra abilità artigianale, che vi ha dato Dio, con la vostra ricerca, con la vostra solidarietà, con il vostro lavoro comunitario, con la vostra economia popolare, ci siete riusciti e ci state riuscendo... E, lasciatemelo dire, questo, oltre che lavoro, è poesia! Grazie.
Già ora, ogni lavoratore, faccia parte o meno del sistema formale del lavoro stipendiato, ha diritto a una remunerazione degna, alla sicurezza sociale e a una copertura pensionistica. Qui ci sono cartoneros, riciclatori, venditori ambulanti, sarti, artigiani, pescatori, contadini, muratori, minatori, operai di imprese recuperate, membri di cooperative di ogni tipo e persone che svolgono mestieri più comuni, che sono esclusi dai diritti dei lavoratori, ai quali viene negata la possibilità di avere un sindacato, che non hanno un’entrata adeguata e stabile. Oggi voglio unire la mia voce alla loro e accompagnarli nella lotta.
In questo incontro avete parlato anche di Pace ed Ecologia. È logico: non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distruggiamo il pianeta. Sono temi così importanti che i popoli e le loro organizzazioni di base non possono non affrontare. Non possono restare solo nelle mani dei dirigenti politici. Tutti i popoli della terra, tutti gli uomini e le donne di buona volontà, tutti dobbiamo alzare la voce in difesa di questi due preziosi doni: la pace e la natura. La sorella madre terra, come la chiamava san Francesco d’Assisi.
Poco fa ho detto, e lo ripeto, che stiamo vivendo la terza guerra mondiale, ma a pezzi. Ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ovviamente vengono sanati. E non si pensa ai bambini affamati nei campi profughi, non si pensa ai dislocamenti forzati, non si pensa alle case distrutte, non si pensa neppure a tante vite spezzate. Quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, care sorelle e cari fratelli, si leva in ogni parte della terra, in ogni popolo, in ogni cuore e nei movimenti popolari, il grido della pace: Mai più la guerra!
Un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura, saccheggiare la natura per sostenere il ritmo frenetico di consumo che gli è proprio. Il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la deforestazione stanno già mostrando i loro effetti devastanti nelle grandi catastrofi a cui assistiamo, e a soffrire di più siete voi, gli umili, voi che vivete vicino alle coste in abitazioni precarie o che siete tanto vulnerabili economicamente da perdere tutto di fronte a un disastro naturale. Fratelli e sorelle: il creato non è una proprietà di cui possiamo disporre a nostro piacere; e ancor meno è una proprietà solo di alcuni, di pochi. Il creato è un dono, è un regalo, un dono meraviglioso che Dio ci ha dato perché ce ne prendiamo cura e lo utilizziamo a beneficio di tutti, sempre con rispetto e gratitudine. Forse sapete che sto preparando un’enciclica sull’Ecologia: siate certi che le vostre preoccupazioni saranno presenti in essa. Ringrazio, approfitto per ringraziare per la lettera che mi hanno fatto pervenire i membri della Vía Campesina, la Federazione dei Cartoneros e tanti altri fratelli a riguardo.
Parliamo di terra, di lavoro, di casa. Parliamo di lavorare per la pace e di prendersi cura della natura. Ma perché allora ci abituiamo a vedere come si distrugge il lavoro dignitoso, si sfrattano tante famiglie, si cacciano i contadini, si fa la guerra e si abusa della natura? Perché in questo sistema l’uomo, la persona umana è stata tolta dal centro ed è stata sostituita da un’altra cosa. Perché si rende un culto idolatrico al denaro. Perché si è globalizzata l’indifferenza! Si è globalizzata l’indifferenza: cosa importa a me di quello che succede agli altri finché difendo ciò che è mio? Perché il mondo si è dimenticato di Dio, che è Padre; è diventato orfano perché ha accantonato Dio.
Alcuni di voi hanno detto: questo sistema non si sopporta più. Dobbiamo cambiarlo, dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno. Va fatto con coraggio, ma anche con intelligenza. Con tenacia, ma senza fanatismo. Con passione, ma senza violenza. E tutti insieme, affrontando i conflitti senza rimanervi intrappolati, cercando sempre di risolvere le tensioni per raggiungere un livello superiore di unità, di pace e di giustizia. Noi cristiani abbiamo qualcosa di molto bello, una linea di azione, un programma, potremmo dire, rivoluzionario. Vi raccomando vivamente di leggerlo, di leggere le beatitudini che sono contenute nel capitolo 5 di san Matteo e 6 di san Luca (cfr. Matteo, 5, 3 e Luca, 6, 20), e di leggere il passo di Matteo 25. L’ho detto ai giovani a Rio de Janeiro, in queste due cose hanno il programma di azione.
So che tra di voi ci sono persone di diverse religioni, mestieri, idee, culture, paesi e continenti. Oggi state praticando qui la cultura dell’incontro, così diversa dalla xenofobia, dalla discriminazione e dall’intolleranza che tanto spesso vediamo. Tra gli esclusi si produce questo incontro di culture dove l’insieme non annulla la particolarità, l’insieme non annulla la particolarità. Perciò a me piace l’immagine del poliedro, una figura geometrica con molte facce diverse. Il poliedro riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso conservano l’originalità. Nulla si dissolve, nulla si distrugge, nulla si domina, tutto si integra, tutto si integra. Oggi state anche cercando la sintesi tra il locale e il globale. So che lavorate ogni giorno in cose vicine, concrete, nel vostro territorio, nel vostro quartiere, nel vostro posto di lavoro: vi invito anche a continuare a cercare questa prospettiva più ampia; che i vostri sogni volino alto e abbraccino il tutto!
Perciò mi sembra importante la proposta, di cui alcuni di voi mi hanno parlato, che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino, come avete fatto voi in questi giorni. Attenzione, non è mai un bene racchiudere il movimento in strutture rigide, perciò ho detto incontrarsi, e lo è ancor meno cercare di assorbirlo, di dirigerlo o di dominarlo; i movimenti liberi hanno una propria dinamica, ma sì, dobbiamo cercare di camminare insieme. Siamo in questa sala, che è l’aula del Sinodo vecchio, ora ce n’è una nuova, e sinodo vuol dire proprio “camminare insieme”: che questo sia un simbolo del processo che avete iniziato e che state portando avanti!
I movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte dirottate da innumerevoli fattori. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature ci chiede di superare l’assistenzialismo paternalista, esige da noi che creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune. E ciò con animo costruttivo, senza risentimento, con amore.
Vi accompagno di cuore in questo cammino. Diciamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessuna persona senza la dignità che dà il lavoro.
Cari fratelli e sorelle: continuate con la vostra lotta, fate bene a tutti noi. È come una benedizione di umanità. Vi lascio come ricordo, come regalo e con la mia benedizione, alcuni rosari che hanno fabbricato artigiani, cartoneros e lavoratori dell’economia popolare dell’America Latina.
E accompagnandovi prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio Padre di accompagnarvi e di benedirvi, di colmarvi del suo amore e di accompagnarvi nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci mantiene in piedi: questa forza è la speranza, la speranza che non delude. Grazie.
«Sblocca Italia. Tra decreti e legge di stabilità l’uno-due che può disintegrare i servizi pubblici locali. Si chiede ai sindaci di mettere in vendita i beni comuni, per consentire loro di mantenere uno straccio di funzionamento ordinario dell’ente locale».
Il manifesto, 29 ottobre 2014 (m.p.r.)
Il disegno sotteso è quello di un processo di aggregazione/fusione che veda i quattro colossi multiutility attuali – A2A, Iren, Hera e Acea– già collocati in Borsa, fare man bassa di tutte le società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici, divenendo gli unici campioni nazionali, finalmente in grado di «competere» sui mercati internazionali.
Dietro la propaganda della riduzione del carrozzone delle società partecipate e dei costi della «casta» — problema reale, le cui soluzioni, se affidate ai cittadini e ai lavoratori dei servizi, andrebbero in direzione ostinata e contraria agli interessi delle lobby politico/finanziarie che dominano il paese– si cerca di mettere una pietra tombale sull’esito della straordinaria vittoria referendaria del giugno 2011 e sul suo profondo significato di pronunciamento di massa contro le politiche liberiste e di affermazione del nuovo paradigma dei beni comuni.
Con lo «sblocca Italia» — piano di cementificazione devastante del paese, alla faccia delle lacrime di coccodrillo sul suo dissesto idrogeologico — si è imposto il concetto dell’unicità della gestione del servizio idrico dentro ogni ambito territoriale ottimale (Ato) in cui è diviso il territorio, buttando a mare il pre-esistente concetto di unitarietà della gestione, che permetteva di mantenere, integrandola, la pluralità delle gestioni esistenti in ogni territorio.
Se a questo si aggiunge il fatto che ogni regione sta ridisegnando gli ambiti, tendendo sempre più spesso a farli coincidere con l’intero territorio regionale, il risultato appare chiaro: al termine di questo processo, vi sarà un unico soggetto gestore per regione, e sarà giocoforza il pesce più grosso che annetterà tutti i pesci più piccoli. Rompendo definitivamente ogni legame con la territorialità dei servizi pubblici locali e la possibilità, se non di una gestione partecipativa, almeno di un controllo democratico affidato alle istituzioni locali.
In realtà, il disegno di fusione progressiva ha un preciso obiettivo: la valorizzazione finanziaria di società che, basandosi sulla redditività garantita dall’erogare servizi essenziali — e quindi a domanda rigida — e sull’enorme liquidità periodica garantita dalle tariffe, se dimensionate su un numero significativo di utenti-cittadini, possono produrre, una volta collocate dentro la rete delle grandi multiutility, un importante valore aggiunto sui mercati finanziari.
Ciò che prevede lo «sblocca Italia» è tuttavia solo la premessa di quanto disposto dalla legge di stabilità, che si prefigge il colpo finale per ogni idea di riappropriazione sociale dei beni comuni e di gestione partecipativa e priva di profitti da parte delle comunità locali.
Infatti, approfittando del progressivo strangolamento degli enti locali, scientificamente portato avanti negli anni attraverso i tagli dei trasferimenti e l’applicazione di un patto di stabilità interno che ha reso praticamente impossibile il mantenimento di ogni funzione pubblica e sociale (gli osannati «angeli del fango» della recente alluvione a Genova, altro non sono che ragazzi sanamente arrabbiati, i quali, avendo chiaro il totale stato di abbandono in cui sono lasciati dalle istituzioni, decidono di fare da sé), il governo Renzi regala ai Sindaci il definitivo ricatto, togliendo dai parametri del patto di stabilità, quindi permettendo loro di spendere, una parte delle cifre ricavate dalla cessione di quote pubbliche delle società partecipate di servizi pubblici locali e rendendo nel contempo, ancor più onerosa, la scelta di una gestione pubblica degli stessi.
Si chiede ai sindaci, dunque, di mettere in vendita i beni comuni primari delle proprie comunità di riferimento, per consentire loro di mantenere uno straccio di funzionamento ordinario dell’ente locale. L’obiettivo delle élite politico-tecnocratiche dell’Ue è lo stesso di quando, dopo neppure un mese dalla proclamazione della vittoria referendaria, scrissero all’allora governo Berlusconi la famosa lettera di diktat, in cui il punto n. 26 chiedeva «cosa intende fare il suo governo per la privatizzazione dei servizi idrici nel Paese, malgrado l’esito del recente risultato referendario?».
L’obiettivo di Renzi è quello di dimostrare di essere l’unico capace di portare a termine un compito che nessun altro governo era sinora riuscito a fare.
Il compito del movimento per l’acqua e dei movimenti per i beni comuni è ancora una volta quello di dimostrare che indietro non si torna, riaprendo una forte mobilitazione territoriale e nazionale che sappia parlare a quella maggioranza di persone, intimorita dalla crisi ma non annichilita nella speranza, che votando «sì» al referendum ha suggerito la possibilità di un altro modello sociale, basato sulla riappropriazione dei beni comuni e sulla loro gestione partecipativa, democratica, territoriale.
E di far schierare i sindaci, costretti, oggi più che mai, a scegliere se essere l’ultimo terminale delle politiche rigoriste che dall’Ue ai governi nazionali precipitano sui beni comuni della popolazioni locali o se finalmente essere i primi rappresentanti del territorio e delle persone che lo abitano.
Renzi non è che il presente fine a se stesso, feroce e cinico come chi non conserva memoria e non immagina futuro. Alle donne e agli uomini dell’acqua, che un futuro non solo l’hanno chiaro ma lo pretendono per tutte e tutti, l’obiettivo di fermarlo.
Marco Bersani è componente del Forum italiano dei movimenti per l’acqua
Una parola «adoperata per indicare dottrine e attività diametralmente opposte» (Gaetano Salvemini
) esaminata in fruttuoso dialogo tra una visione liberale ( Norberto Bobbio) e una visione marxista (Pietro Ingrao). la Repubblica, 29 ottobre 2014
TUTTI i concetti generali della politica - libertà, uguaglianza, giustizia, nazione, stato, per esempio - sono usati in significati diversi, con la conseguenza di confusioni inconsapevoli e di inganni consapevoli. Gaetano Salvemini, lo storico antifascista che Bobbio include nel pantheon dei suoi “maestri nell’impegno”, ha scritto:
«I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della “reale”, “vera”, “piena”, “sostanziale”, “più onesta” democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali [siamo nel 1940], perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il “governo dei popoli”».
Invito al colloquio è il titolo del primo saggio di Politica e cultura ( Einaudi), un’espressione che riassume l’intera attività politico-intellettuale di Bobbio. Ma, il colloquio, affinché non si svolga in acque torbide, deve sapere qual è l’oggetto e che cosa, per non intorbidirle, ne deve stare fuori. Per questo, una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Tutto qui.
In uno scambio epistolare con Pietro Ingrao sul tema della democrazia e delle riforme costituzionali che ebbe luogo tra il novembre 1985 e il gennaio 1986 (P. Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento, Ediesse), troviamo una dimostrazione di ciò a cui serve il “concetto minimo”. Serve, da una parte, a includere, e dall’altra, a escludere e, così facendo, a chiarire. I punti del contrasto riguardano quello che allora era il progetto d’Ingrao, descritto in un libro dal titolo significativo: Masse e potere (Editori Riuniti, 1977) che allora ebbe grande successo e che ora - mi pare - è dimenticato: la democrazia di massa o di base, unitaria e capace di egemonia. Ma gli argomenti chiamati in causa possono riguardare, in generale, tutte quelle che Bobbio avrebbe considerato degenerazioni della democrazia, alla stregua della sua definizione minima, come ad esempio, la “democrazia dell’applauso” di cui egli parla nel 1984, a proposito della conquista del Partito socialista da parte del suo segretario di allora), o la democrazia dell’investitura plebiscitaria e populista dei tempi più recenti.
Si prenda la “massa”. Bobbio chiede «che cosa si possa intendere mai per democrazia di massa di diverso da quel che s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale»; che cosa si dica di più e di meglio «rispetto a quel che s’intende quando si parla di un sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto di voto »? Se non s’intende nulla di diverso, la democrazia di massa è perfettamente compatibile, anzi è la definizione formale della democrazia nella quale i cittadini possono riunirsi e associarsi per svolgere attività politica.
E l’unità? Che senso ha l’appello all’unità che il Partito comunista di quegli anni insistentemente faceva proprio: compromesso storico, alternativa democratica, oggi Pd o, addirittura, Partito della Nazione? La democrazia è un regime d’insieme e «non può essere chiamato democratico [si può aggiungere: nazionale] in una delle sue parti se non costo di creare una notevole confusione. Se una di queste parti viene chiamata “democratica” [o nazionale] è segno che la si considera una parte che tende a identificarsi col tutto». L’unità sconfina nella unicità. La democrazia richiede “distinzioni”, cioè pluralismo. «Senza pluralismo non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario». La sintesi è espressa da Bobbio in termini assai forti, perfino scandalosi: «La discordia è il sale della democrazia, o più precisamente della dottrina liberale che sta alla base della democrazia moderna (per distinguerla dalla democrazia degli antichi). Resta sempre a fondamento del pensiero liberale e democratico moderno il famoso detto di Kant: “L’uomo vuole la concordia, ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia”».
E l’egemonia? Qui Bobbio confessa che si tratta d’un concetto che gli è “meno familiare”, ma ciò non gli impedisce di porre una domanda analoga a quella posta a proposito della “massa”: «Mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse in che cosa consista l’egemonia in un sistema democratico se non nella capacità di ottenere il maggior numero di voti […] Se qualcuno mi sa dire che cosa significhi in democrazia, entro il sistema di certe regole del gioco, conquistare l’egemonia, oltre al conquistare il consenso degli elettori, lo prego di farsi avanti».
Insomma: egemonia, massa, unità non appartengono al sistema concettuale del pensiero liberal-democratico e appartengono invece alla tradizione del pensiero marxista. Tutto si tiene in una concezione della democrazia che contraddice l’universo politico che, in fin dei conti, era anche quello di Ingrao del Partito comunista.
Possiamo sbagliarci, ma vedendo il corteo ci siamo convinti che una sinistra di popolo, consapevole, fortificata dalla capacità di resistere alla durissima prova della crisi, ha ripreso pienamente il suo diritto di cittadinanza». Il manifesto, 26 ottobre 2014
Tutta mia la città. Forse è questa la bella sensazione che hanno provato le centinaia di migliaia di persone arrivate ieri nella capitale da ogni dove d’Italia. Perché c’erano loro, con i canti, gli slogan, i sorrisi, i balli, le parole d’ordine, i “cordoni”, i megafoni. E intorno il silenzio di una città serena, anche “complice”. Non diremo che è stata una bellissima giornata di sole, né che Roma ha ricevuto come se niente fosse un popolo immenso. Questo lo sanno già tutti perché persino le tv più filo-renziane hanno dovuto arrendersi di fronte all’evidenza dei fatti: una manifestazione sindacale, di ragazze e di nonni, di studenti e di precari, di lavoratori e di militanti, di immigrati e partite Iva che ha invaso gioiosamente, pacificamente le strade romane.
Vediamo invece che cosa la piazza della Cgil ha messo davanti agli occhi di tutti gli italiani.
In primo luogo la ricchezza della rappresentanza. Mille realtà e infiniti volti del lavoro raccontati dai cartelli delle categorie, a indicare la presenza del sindacato anche dove non te lo saresti aspettato (guardie gialle, penitenziarie…). Una conferma, confortante, del radicamento sociale del sindacato contro il luogo comune che lo dipinge come la casta dei burocrati.
Perché si è mobilitato il lavoro vivo. Vero. E se doveva essere una prova di forza, l’esito di questo 25 ottobre ci dice che è pienamente riuscita. Nonostante le critiche, talvolta giustificate, di vetero sindacalismo, di incapacità di includere i più giovani e i meno garantiti, di non avere gli strumenti per coagulare intorno a se un’opinione forte e in grado di oltrepassare gli steccati sindacali, ebbene ieri la Cgil ha dimostrato che questi limiti non hanno modificato i sentimenti più profondi e più forti del sindacato italiano.
Ma quella breve distanza che divide Roma da Firenze, ieri è diventata abissale. Perché mentre Renzi rivendicava a sé e alla Leopolda la forza di creare lavoro (e stendiamo un velo su chi ha fatto da contorno alla corte del giovane premier che ama gli yesman), ieri a piazza San Giovanni c’era la gente che lavora sul serio, e tanta altra gente che il lavoro lo vorrebbe concretamente, non solo nei programmi e nelle promesse. Perché mentre a Firenze lo sponsor (e finanziatore) di Renzi, il finanziere Serra, sosteneva che andrebbe vietato lo sciopero nel pubblico impiego (ma non si vergogna un po’ il segretario del partito democratico — ripeto: partito democratico — ad avere simili supporter?), qui a Roma sfilavano donne e uomini che reclamavano la tutela di un diritto costituzionale.
E’ possibile che tra i sostenitori (compresi parlamentari e ministri) molti non condividano i valori rappresentati ieri da quella massa enorme di cittadini italiani. Ed è altrettanto probabile che il distacco tra i due mondi (assai poco virtuale) non venga colmato, se non in parte, da quei politici della sinistra Pd che a fatica cercano di tamponare la deriva liberista della più grande forza di centrosinistra.
Ora si va verso lo sciopero generale. Invocato dalla piazza che ha alzato il volume dell’applausometro quando la segretaria Camusso lo ha evocato, insieme alla richiesta di una patrimoniale per gli investimenti pubblici.
E di fronte all’abbraccio tra Camusso e Landini, di fronte al “partito di lotta” che unisce tutta la sinistra del lavoro, Renzi commetterebbe un grave errore se pensasse di cavarsela con un twitter o una battuta. Farebbe meglio a prendere atto che ieri, improvvisamente — ma non troppo — la parola sinistra, irrisa e desueta, ha ripreso vita e si è fatta largo in modo prorompente riconquistando lo spazio sociale, politico, culturale che qualcuno vorrebbe negarle.
Possiamo sbagliarci, ma vedendo il corteo ci siamo convinti che una sinistra di popolo, consapevole, fortificata dalla capacità di resistere alla durissima prova della crisi, ha ripreso pienamente il suo diritto di cittadinanza
«Mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato».
La Repubblica, 27 ottobre 2014
Matteo Renzi, nella vecchia stazione della Leopolda, è ri-partito. Anche se non si è mai fermato, fino ad oggi. Non è nel suo stile, nel suo temperamento. Ma ha chiarito meglio a quale "partito" guardi. Il PdR, il Partito di Renzi, è, appunto, un "ri-partito". Un partito in continua ri-definizione, riguardo a obiettivi, parole d'ordine, riferimenti sociali. In continua ri-partenza, verso nuove stazioni. È questo il principale messaggio, il messaggio dei messaggi, lanciato a Firenze. Il "suo" partito guarda avanti. E, per questo, non ha un "popolo" specifico di riferimento. Ma sa "contro" chi muovere. Anche perché i suoi "nemici", per primi, hanno scelto Renzi, il suo governo e la convention di Firenze come "nemici" contro cui mobilitarsi.
Il PdR, per questo, si definisce "in opposizione all'opposizione". Ai "nemici", che Renzi continua a scegliere con cura, per precisare la sua differenza. Dagli "altri". Per intercettare gli elettorati che hanno sempre guardato la sinistra con sospetto. Sul piano politico: i moderati di centro, già assorbiti. Quelli di centrodestra e di destra, in gran parte collaterali. Dal punto di vista sociale: gli imprenditori, grandi e piccoli, i lavoratori autonomi del Nord. Componenti tradizionalmente ostili e anticomuniste. Renzi li ha "convocati" alla convention di Firenze. Raccolti intorno al premier e "contro" coloro che manifestavano a Roma. Un popolo di operai, certamente non giovani, insieme ai pensionati (oltre a molti lavoratori immigrati). Secondo il premier: il passato. E "contro" la Cgil, in quanto sindacato, con cui, come ha già detto altre volte, non intende «concertare». Si tratta di argomenti e discorsi già sentiti. Renzi li ha espressi, apertamente, altre volte. Ma questa volta li ha raccolti e presentati insieme, alla sua convention, nella sua capitale: Firenze. Ne ha fatto una sorta di manifesto del PdR. Che, tuttavia, solleva alcuni dubbi. Principalmente due.
Il primo riguarda l'identità del partito. Il PdR, o il PdN, il Partito della Nazione, come l'ha battezzato Renzi. Tutto proiettato verso il futuro. Alla novità, all'innovazione. In contrasto con ogni nostalgia e con ogni richiamo al passato. Ebbene, a rischio di condividere i vizi e i vezzi di "un certo ceto intellettuale" (anche se mi offenderei: intellettuale a chi?), mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato.
In secondo luogo, liquidare la manifestazione della Cgil come una mobilitazione della Sinistra arcobaleno mi pare, a maggior ragione, riduttivo. Fra coloro che hanno sfilato contro il governo e contro Renzi vi sono molti elettori del Pd. E molti elettori del Pd, comunque, ne condividono la protesta. Possiamo tentare, con qualche approssimazione, di stimarne il peso elettorale (base: Oss. Elettorale Demos, ottobre 2014) concentrandoci su coloro che esprimono molta-moltissima fiducia nella Cgil. Fra gli elettori del Pd sono circa il 25%. Cioè, se facciamo riferimento alle elezioni europee di maggio, intorno al 10% del voto. Appare, quindi, azzardato trattare questa componente come fosse esterna ed estranea. E se è vero che gli iscritti al sindacato sono, per la maggior parte, pensionati e lavoratori anziani, è altrettanto vero che proprio questi settori, alle ultime elezioni (politiche ed europee), hanno costituito lo zoccolo duro del voto al Pd.
Per questo conviene rammentare che, se, effettivamente, il Pd, prima di Renzi, si era fermato al 25%, il Pd di Renzi ha superato la soglia del 40% non perché abbia "abolito" il passato, ma perché, al contrario, lo ha incanalato nel suo progetto. Come ho già scritto, Renzi ha sommato i voti del PdR a quelli del vecchio Pd. Il suo post-partito e la "ditta". In altri termini, ha intercettato i consensi di coloro che hanno votato per Renzi "nonostante" il Pd. Ma anche gli elettori che hanno votato per il Pd "nonostante" Renzi.
Per queste ragioni penso che Renzi debba guardarsi dalla prospettiva segnalata da Mauro Calise: presentarsi come un "anti-partito", raccolto intorno al suo leader. Che stigmatizza il passato e la memoria, in nome del "nuovo" ad ogni costo. Ma rischia, in questo modo, di perdersi nel presente.
La Repubblica, 23 ottobre 2014
Il modello "Macy's" ha i suoi rischi se applicato alla politica È illusorio Leopolda il nuovo Partito democratico si appresta a diventare il Partito della nazione. Un partito sulla cui forma si stanno sbizzarendo in tanti, sia al suo interno si a all'esterno. Per i suoi promotori e sostenitori, il nuovo Partito democratico dovrà avere un look americano come Big Tent, una grande tenda sotto la cui ombra sostano diverse anime e diversi movimenti, non sempre congruenti tra loro negli interessi e nelle idee, benché desiderosi di stare sotto a quell'ombrello e non a un altro ( almeno temporaneamente) .
Basta essere democratici per aderirvi, come era nelle intenzioni del fondatore del Partito democratico, Walter Veltroni, che scelse non a caso un nome "costituzionale", se così si pub dire. L'aggettivo 'democratico" prefigura un'ampia inclusione giocando proprio sulla connotazione poco strutturata pensare di superare la competizione inglobando i potenziali alleati del termine democrazia che, come sappiamo, a parte alcune basilari procedure e il suffragio elettorale, lascia ciascuno libero di interpretarlo a modo suo. La natura del partito sarà altrettanto inclusiva e vaga dell'aggettivo che lo designa.
Sembra di capire che il modello post-partitico e da department store sia il segno che il nuovo Pd voglia essere a tutti gli effetti simile a un partito americano. Ma le differenze non mancano e non sono di poco conto. Almeno una differenza deve essere messa in evidenza: la Big Tent del partito americano è tenuta in piedi e insieme da una colla ideologica antagonistica molto forte. Vera o creata ad arte, la polarizzazione è la pratica permanente nell'arena americana ( in questi anni in particolare) la quale, nonostante tutto, resta strutturata per contrapposizione ideologica. Anche se l'elettore medio è poco o nulla di parte, e i partiti cercano leader poco di parte per attirarne il voto, i due partiti americani restano nemici, antagonisti, opposti su molte posizioni (con lealtà tramandate di padre in figlio).
In piazza San Giovanni a Roma, alla Leopolda a Firenze, due Italie. Da una parte i governo e dall'altra l'opposizione; da una parte la destra e dall'altra la sinistra.La linea che le divide e' la difesa del lavoro.
Il manifesto, 25 ottobre 2013
Eppure, per segnare la differenza e la distanza tra chi oggi sarà in piazza San Giovanni a Roma e chi andrà ad applaudire Renzi alle ex stazione Leopolda di Firenze si potrebbe più semplicemente dire che da una parte sfilerà l’opposizione dall’altra il governo o, se preferite, da una parte la sinistra e dall’altra la destra. Parole che stavolta si possono declinare sulla linea Maginot della difesa dei lavoratori.
E’ sinistra chi per uguale lavoro chiede uguale retribuzione, è destra chi con il Jobs act prevede il demansionamento. E’ sinistra chi al contratto a termine pone il vincolo di una causale, è destra chi toglie anche quella. E’ sinistra chi per il licenziamento prevede una giusta causa, è destra chi la cancella. E’ sinistra chi misura con il salario operaio la diseguaglianza sociale, è destra chi sceglie l’impresa come riferimento. Per una volta siamo pienamente d’accordo con la sempre sorridente ministra Elena Boschi, madrina della kermesse renziana, quando sottolinea orgogliosamente «noi siamo un’altra Italia rispetto alla Cgil».
Ma il Pd di governo che si riunisce a Firenze per celebrare il suo 40 per cento farebbe bene a riflettere su un piccolo problema. Molti, moltissimi di quelli che oggi sfileranno in corteo per le strade della capitale sono elettori dello stesso partito di Boschi e compagni. Anche se è vero, come ci dicono gli esperti di sondaggi, che il fenomenale consenso di Renzi sfonda grazie a un elettorato di centrodestra con abbandoni nel mondo di sinistra. In ogni caso siamo in presenza di una plateale spaccatura — fisica, politica, culturale — tra il raduno fiorentino e la manifestazione sindacale. Una divisione a lungo costruita con un netto spostamento del partito democratico verso i sogni della Confindustria, contro le lotte del sindacato.
Naturalmente non sarà solo tutto potere e finanza ad animare l’incontro fiorentino, né solo oro quello che brillerà in piazza San Giovanni. L’imprenditore non è sinonimo di Marchionne, e i lavoratori non sono tutti iscritti alla Cgil o alla Fiom. D’altra parte la Cgil non è stata in questi anni un sindacato capace di interpretare lo sconvolgimento del mercato del lavoro, né di rappresentare l’immenso esercito di riserva del precariato. Come del resto ha ammesso la stessa segretaria Camusso («è stato un grave errore di valutazione, non pensavamo che il precariato sarebbe dilatato in questo modo»). E un sindacato che non capisce l’arrivo della tempesta, fatalmente non riesce poi nemmeno a farsi argine e a rilanciare la battaglia del lavoro sulla nuova frontiera della micidiale globalizzazione.
Tuttavia c’è un milione di ragioni per essere oggi in piazza. Ragioni contingenti (la manovra economica e le pessime leggi sul mercato del lavoro), ragioni ideali (una memoria da custodire e un futuro da costruire), ragioni politiche (una sinistra da rifondare).
Noi del manifesto saremo tra i manifestanti con il nostro giornale in edizione speciale. Saremo in edicola come sempre, ma anche in piazza con decine di “strilloni” per diffondere insieme al manifesto anche un inserto di otto pagine (che distribuiremo gratuitamente) dedicato all’articolo 18, con interviste, analisi, testimonianze: un diritto di chi lo ha usato per difendere il posto di lavoro, di chi, precario, non ce l’ha ma lo vorrebbe e oggi è in piazza per difenderlo. Un contributo alla battaglia comune, un gesto concreto di solidarietà e di vicinanza, frutto dell’impegno del nostro gruppo di lavoro. Un piccolo contributo per una grande, decisiva battaglia di democrazia.
E un contributo anche contro la disinformazione. Perché sui quotidiani amici di Renzi (tanti, troppi), sui telegiornali proni (tanti, troppi) nei confronti del premier si è voluto far passare l’idea che l’articolo 18 è un affare di pochi, mentre il governo vuole estendere i diritti ai più. Questa è una falsità, una bugia, una presa in giro. Siamo anche pronti a scommettere che la Leopolda verrà raccontata dai media nazionali e locali per filo e per segno, con articoli di gossip, retroscena, curiosità. Sapremo tutto sui sorrisi e sugli abbracci, sui twitter del premier, sui parvenu filo renziani in cerca di uno strapuntino, sui «mi si nota di più se ci vado o se non ci vado», ma che poi preferiscono esserci perché lì, a Firenze, c’è il nuovo potere e non si sa mai.
Noi del manifesto, più modestamente, riporteremo le voci di chi solitamente è senza voce. Delle donne e degli uomini, dei giovani e degli anziani che si battono per la loro dignità. E per quella di tutti. Compresi i leopoldini.
Ora che il momento della deposizione del presidente Napolitano al processo sulla “trattativa Stato-mafia” è arrivato, è giusto chiarire ai lettori del Fatto Quotidiano, italiani fortunati a essere stati costantemente informati di questo processo oscurato dai media, cosa è lecito attendersi da questa udienza che si svolgerà in pompa magna nientedimeno che al Quirinale, sede della più alta carica dello Stato. E credo di poter rivendicare, per la mia storia e il ruolo che in quel processo ho svolto, il diritto di poter dire la mia in virtù di un doppio vantaggio.
Io non sarò in quella sala del Quirinale trasformata in aula di udienza perché non sono più pm della Procura di Palermo, e non lo sono più anche perché ho ritenuto non vi fossero più le condizioni per un pieno accertamento della verità. E credo che la sorte di questa udienza ne sarà una riprova, così come la distanza fra le domande che avrei voluto fare io e quelle che i pm potranno fare al Presidente Napolitano.
La prima domanda che farei al Presidente Napolitano sarebbe: perché quando il senatore Nicola Mancino la cercò al telefono direttamente, e anche indirettamente tramite Loris D’Ambrosio, Lei non ritenne di astenersi dal mantenere rapporti e contatti con il senatore Mancino, che si sapeva essere in quel momento coinvolto nell’indagine sulla trattativa? Perché, anzi, assicurò il suo interessamento, facendo intendere a Mancino che avrebbe assecondato il suo disegno di sottrarre alla Procura di Palermo la direzione dell’indagine sulla trattativa? Lo fece solo per non dispiacere un vecchio amico e collega, o piuttosto lo fece per una superiore ragion di Stato? E quale, di grazia, era questa ragion di Stato? Peccato che questa domanda oggi sarebbe inammissibile, grazie alla politica, le ragioni della politica che l’hanno indotta, signor Presidente, a sollevare un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo. Le stesse ragioni della politica che poi hanno “indotto” la Corte costituzionale a darLe ragione, così coprendo di una malintesa immunità presidenziale tutte le Sue attività intorno a quella vicenda. Domanda respinta perché non consentita.
La seconda domanda, collegata, sarebbe di chiederLe perché non ritenne di contattare i pm palermitani per informarli dei contatti impropri attraverso i quali Mancino cercava di interferire sulle indagini in corso. Ma immagino che anche questa domanda mi sarebbe inibita dal presidente della Corte d’Assise in virtù di quella stessa sentenza politica della Corte costituzionale. Domanda respinta perché non consentita.
E ancora peggior sorte avrebbero le mie domande sulle telefonate “indicibili”, essendomi sempre chiesto perché Napolitano, se fosse stato davvero convinto che le telefonate intercettate con Mancino non contenessero nulla di inquietante e indicibile, non ha fatto nulla per sgombrare il campo da malignità e dietrologie, facendo in modo che quelle telefonate diventassero pubbliche, anziché addirittura imporne la distruzione. Domanda respinta perché non consentita.
E ancora: è certo, signor Presidente, che il conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte costituzionale contro la Procura di Palermo abbia aiutato la ricerca della verità e non l’abbia invece ostacolata? Domanda respinta perché non consentita. E infine: è certo che il tentativo di sottrarsi alla testimonianza dichiarandola preventivamente inutile sia stato un modo per aiutare la ricerca della verità? Domanda respinta perché non consentita.
Ma avrei insistito. Del resto, mi è già accaduto a Palazzo Chigi, quando andai a interrogare Silvio Berlusconi nel corso del processo Dell’Utri, di provare a insistere con le domande nonostante Berlusconi, come oggi Napolitano, avesse fatto sapere alla Corte di non avere notizie utili da riferire, e alla fine venne costretto ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Facoltà invece non consentita al Presidente Napolitano. E perciò, insistendo, avrei chiesto al Presidente quali fossero i segreti su certi “indicibili accordi” che Loris D’Ambrosio aveva rivelato solo a lui e mai ai magistrati, come lo stesso D’Ambrosio scrisse nella lettera del 18 giugno 2012 indirizzata a Napolitano. Quel segreto che aveva così tanto tormentato un uomo di Stato come D’Ambrosio da farlo morire di crepacuore (se solocrepacuore fu, visto che non è mai stato disposto alcun accertamento medico-autoptico). Un segreto che solo Lei, sig. Presidente, può rivelare alla Corte.
Le mie domande sarebbero impertinenti? Forse. Ma sono le domande di chi ha giurato sulla bara di Paolo Borsellino che avrebbe fatto di tutto per scoprire tutta la verità sulla morte sua e di tante altre vittime innocenti, e oggi sappiamo anche della trattativa. Di tutto. Anche a costo di uscire dalla magistratura, e quindi a costo della propria carriera. A qualsiasi costo. Provando a emulare l’irriducibilità e l’intransigenza di un vero uomo come Paolo Borsellino.
Il cittadino italiano mediamente informato può farsi un'idea di quale sia lo stato dei partiti e della vita politica in Calabria grazie >>>
Il cittadino italiano mediamente informato può farsi un'idea di quale sia lo stato dei partiti e della vita politica in Calabria grazie alle notizie apparse di recente su quasi tutta la stampa nazionale. In questa regione si è resa necessaria una sentenza del TAR per costringere i partiti ad andare alle urne. Loro intenzione era traccheggiare sino al compimento della legislatura, nonostante il governo regionale fosse in crisi da mesi, dopo la condanna in primo grado a 6 anni di carcere, nel marzo di quest'anno, del suo presidente. La fertile fantasia affaristica di questo ceto, che si applica con tanta fervida cura alle sorti delle popolazioni, ha addirittura partorito una revisione della legge elettorale palesemente incostituzionale (una soglia del 15% per i partiti non coalizzati) allo scopo di creare la paralisi istituzionale e continuare a fare nomine, a percepire circa 10 mila euro al mese tra indennità di carica e “spese di esercizio”.
Oggi, alla vigilia delle elezioni che si svolgeranno a novembre, c'è una possibilità di svolta, che potrebbe lanciare un messaggio a tutto il Paese. Il sindaco di Lamezia, Gianni Speranza, che ha governato bene, subendo attacchi ripetuti dalla 'ndrngheta' locale, osteggiato in mille modi dal PD, ha denunciato sul Manifesto del 10/9 l'esistenza del “partito trasversale” che inchioda la Calabria nella regnatela dei suoi piccoli e sordidi traffici. Di questo partito trasversale - non è una novità - è parte costituiva il PD regionale. Nonostante la presenza in esso di cittadini onesti e giovani intraprendenti, il PD non è che un insieme di gruppi notabilari. Solo una forza esterna, libera dalle storiche e sotterranee connivenze, può liberare la Calabria da un ceto politico che letteralmente la opprime e mette ai margini della vita nazionale.
Legge di stabilità. La manovra avrà conseguenze distributive inique e ulteriormente depressive sulla crescita. Renzi fa scelte economiche e sociali omogenee agli interessi dei settori del Paese funzionali ai suoi obiettivi di sfondamento nel centrodestra.
Il manifesto, 23 ottobre 2014
La politica economica dell’illusionismo praticata dal governo Renzi fin dal suo insediamento viene confermata e accentuata dalla legge di stabilità. L’evoluzione della crisi globale — e specificamente di quella europea — dà conto di un contesto niente affatto favorevole a tentativi approssimati come quelli messi in opera dal nostro per curare la grave situazione italiana.
L’errore di fondo della manovra sta nel reiterare un approccio inadeguato alla natura della crisi. Che tende a migliorare solo alcune condizioni d’offerta del settore produttivo (ridurre il costo del lavoro e aumentarne la flessibilità).
Senza curarsi della decrescente capacità innovativa alla base del nostro declino; ma non affronta in modo efficace il problema più urgente, le carenze della domanda.
Renzi ha detto agli industriali «vi tolgo l’art. 18 e i contributi, vi abbasso l’Irap, ora assumete»; ma la manovra riduce i costi (e aumenta i profitti) per le imprese che già dispongono di una domanda che, tuttavia, è insufficiente a impegnare le risorse produttive esistenti e non aumenterà significativamente con la riduzione di imposte e contributi. Anzi, i dati confermano che, pur riducendo il cuneo fiscale e aggiungendo 80 euro in busta paga — ma aumentando la precarietà dei posti di lavoro — i consumi e gli investimenti non crescono.
Dal punto di vista dello stimolo alla crescita, tagliare (spending review) di 15 miliardi la spesa pubblica e pensare di compensarne gli effetti riducendo di 9,5 miliardi i contributi a carico dei lavoratori (per tramutarli negli 80 euro in busta paga), di 5 miliardi l’Irap e di 1,9 miliardi i contributi a carico delle imprese per incentivare i contratti a tempo indeterminato, è un’operazione con effetto complessivo negativo perché riduce la domanda effettiva. I tagli di spesa si traducono in calo della domanda, che è accresciuta solo in piccola parte dalla riduzione dei contributi. In più con i tagli ai beni e servizi primari, una loro conservazione almeno parziale richiederà un aumento della tassazione locale.
Dal punto di vista distributivo, la manovra beneficia le imprese, soprattutto dei settori meno dinamici (su 36 miliardi, solo 300 milioni a ricerca e sviluppo); in via diretta (riducendo imposte e contributi e concedendo nuovi incentivi) e indiretta per gli effetti di traslazione sia degli sgravi contributivi sia dell’eventuale trasferimento in busta paga del Tfr. L’aspetto determinante è la debolezza contrattuale dei lavoratori. Queste «riforme» hanno accorciato i tempi di rinnovo dei contratti a tempo determinato; ora eliminano l’art. 18 nei contratti a tempo indeterminato; questi ultimi paradossalmente garantiranno minori certezze temporali dei primi. In questo contesto tutti gli interventi di riduzione del cuneo fiscale, anche quelli immaginati per aumentare la busta paga (80 euro e Tfr), saranno riassorbiti a vantaggio delle aziende. Succede sempre di più che i lavoratori siano costretti a firmare buste paga superiori a quelle effettive. E questo fa capire quanto le imprese, specie quelle piccole, possano utilizzare la normale contrattazione per dirottare a loro vantaggio le misure che dovrebbero aumentare le buste paga. E tutto ciò è accompagnato dalla truffa ideologica secondo cui il «nuovo verso» renziano aumenterebbe la libertà di scelta dei lavoratori, ad esempio sul Tfr; tralasciando che certi bisogni, come quelli di tipo previdenziale, sono meglio percepiti e corrisposti se organizzati in modo collettivo e con obbligo assicurativo.
Presto la «modernità» liberista (e renziana) vorrà convincerci ad eliminare il sistema pensionistico pubblico, quello sanitario, le norme per la sicurezza nei luoghi di lavoro e tutte le norme che hanno segnato l’avanzamento civile.
La legge di stabilità, nonostante i suoi scarsi effetti espansivi e le negative conseguenze distributive (inique e ulteriormente depressive sulla crescita), crea anche motivi di contrasto con Bruxelles che potrebbero risolversi in misure penalizzanti.
Quando, nel luglio 2012, Mario Draghi, disse in un famoso intervento rivolto ai mercati finanziari, che la Bce avrebbe difeso l’Euro con tutte le sue forze, la speculazione internazionale si fermò, comprendendo che era troppo rischioso andare oltre se la Bce si comportava come una banca centrale normalmente deve fare, cioè difendere l’intera economia di cui è uno strumento di politica economica. I tedeschi e i loro solidali del rigore «stupido» non ne furono lieti, ma dovettero constatare che questo ridava fiato all’intera Ue. Per oltre due anni l’avvertimento di Draghi ha retto.
Nel frattempo è aumentata l’offerta di moneta sia della Fed statunitense sia della Bce; l‘economia reale non ne ha beneficiato (in assenza di mutamenti strutturali della politica economica), ma sono aumentate le munizioni della speculazione finanziaria. Se questa si convincerà che l’opposizione tedesca alla linea della Bce arriverà a bloccarne l’attuazione, l’attacco alle economie più deboli ripartirebbe alla grande. Quella italiana sarebbe tra le prime a farne le spese. Dunque, anche per questa evenienza, l‘Italia dovrebbe massimizzare l’effetto espansivo delle politiche: solo una maggiore crescita del Pil può migliorare i nostri indicatori finanziari. Ma Renzi fa scelte economicamente e socialmente omogenee agli interessi dei settori del Paese meno dinamici (le imprese non innovative), politicamente funzionali ai suoi obiettivi di sfondamento nel centrodestra e di emarginazione dei suoi oppositori di sinistra. I quali, peraltro, anche criticando queste politiche, non hanno la capacità di unire le loro forze per difendere gli interessi e le prospettive che pure riguardano l’intero Paese.
La distrazione di massa dai problemi effettivi praticata dalle politiche di Renzi, il suo illusionismo, si accomoda alla politica tedesca che frena l’economia e il processo unitario dell’Ue. È indispensabile un’inversione di rotta; questo è l’appuntamento storico che la sinistra sta mancando
«E' più urgente costruire un’autostrada o mettere in sicurezza una regione e la vita di quasi due milioni di persone? Questo è il grande compito della politica: decidere, scegliere le priorità, guardare al futuro».
Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2014
L’acqua si ritira da Genova. Per fortuna. Anche l’indignazione. Purtroppo. Finiremo ancora una volta per affidarci alla sorte e alle preghiere, che sono più utili delle previsioni meteo. Eppure è proprio questo il momento per cominciare a lavorare perché non accada più. Chissà se il premier Renzi ci leggerà. Probabilmente no, e forse è giusto così. Magari, verrebbe da dire, è troppo impegnato a scrivere tweet ed sms, ma lasciamo da parte le polemiche. Ha davvero compiti e responsabilità da far tremare i polsi. Però proviamo a far arrivare qualche dubbio fino a chi ci governa e quindi ha in mano letteralmente la nostra vita.
Il Governo ha recentemente annunciato il lancio di nuove grandi opere come occasione di modernizzazione e motore dell’economia. Facciamo un esempio: l’autostrada Mestre-Orte, che costerà oltre dieci miliardi. Un’opera voluta da tutti: dal presidente Giorgio Napolitano a Pierluigi Bersani, passando per Vito Bonsignore, politico Pdl con amici a destra e a sinistra, nonché imprenditore impegnato nel progetto. Ecco, prima di realizzare un’opera tanto discussa non sarebbe il caso di investire un ventesimo delle risorse per salvare l’intera Liguria intrisa di acqua e di cemento?
La domanda è secca: è più urgente costruire un’autostrada o mettere in sicurezza una regione e la vita di quasi due milioni di persone? Questo è il grande compito della politica: decidere, scegliere le priorità, guardare al futuro.
Ancora: il decreto Sblocca Italia (come ha spiegato Tomaso Montanari anche nel libro Rottama Italia scaricabile dal sito altraeconomia.it) introduce novità insidiosissime per il nostro ambiente. Non vogliamo negare - anche se abbiamo molti dubbi - che lo spirito sia quello di dare un impulso all’economia. Non ci interessa affermare che si vogliano favorire le lobbies del cemento e dell’asfalto. Ma di fatto il risultato rischia di essere devastante: in nome di un malinteso criterio di speditezza nella sostanza si eliminano i controlli, si riduce a semplice simulacro il ruolo di amministrazioni locali e Soprintendenze. Così, al di là di tante belle e facili parole, si preparano le alluvioni di domani.
Non basta: se non vogliamo recuperare il territorio per salvare delle persone e vivere meglio, facciamolo perché ci conviene. Bonificare e recuperare le zone a rischio sarebbe occasione di lavoro per migliaia di imprese. Di più. Il paesaggio è la materia prima della nostra più grande industria: il turismo, che vale l’11% del pil e tre milioni di posti di lavoro (e potrebbero essere molti di più, perché oggi siamo quinti nella classifica del turismo, con trenta milioni di presenze meno della Francia).
Evitare le alluvioni, vivere meglio e dare insieme impulso all' economia si può.
«Quando si restringono i diritti di lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile a un insieme di procedure. Non sono i diritti a essere insaziabili, ma la pretesa dell'economia di stabilire i diritti compatibili».
La Repubblica, 20 ottobre 2014
Nel 1872, a Vienna, comparve un piccolo classico del liberalismo giuridico, La lotta per il diritto di Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato quasi come un anticorpo negli anni del fascismo. Oggi è più giusto parlare di lotta per i diritti, che si dirama dalla difesa dei diritti sociali fino alle proteste dei giovani di Hong Kong, e che può essere sintetizzata con le parole di Hannah Arendt, «il diritto di avere diritti», ricordate su questo giornale con diverso spirito da Alain Touraine e Giancarlo Bosetti (e che ho adoperato come titolo di un mio libro due anni fa).
Quella del riconoscimento dei diritti è un'antica promessa. La ritroviamo all'origine della civiltà giuridica quando nel 1215, nella Magna Carta, Giovanni Senza Terra dice: «Non metteremo la mano su di te». È l'habeas corpus, il riconoscimento della libertà personale inviolabile, con la rinuncia del sovrano a esercitare un potere arbitrario sul corpo delle persone. Da quel lontano inizio si avvia un faticoso cammino, fitto di negazioni e contraddizioni, che approderà a quella che Norberto Bobbio ha chiamato «l'età dei diritti», alle dichiarazioni dei diritti che alla fine del Settecento si avranno sulle due sponde del "lago Atlantico", negli Stati Uniti e in Francia. È davvero una nuova stagione, che sarà scandita dal succedersi di diverse "generazioni" di diritti: civili, politici, sociali, legati all'innovazione scientifica e tecnologica. Saranno le costituzioni del Novecento ad attribuire ai diritti una rilevanza sempre maggiore. Ed è opportuno ricordare che le più significative innovazioni costituzionali del secondo dopoguerra si colgono nelle costituzioni dei "vinti", l'italiana del 1948 e la tedesca del 1949, che non si aprono con i riferimenti alla libertà e all'eguaglianza. Nella prima il riferimento iniziale è il lavoro, nella seconda la dignità. Si incontrano così le condizioni materiali del vivere e la sottrazione dell'umano a qualsiasi potere esterno.
Cambia così la natura stesso dello Stato, caratterizzato proprio dall'innovazione rappresentata dal ruolo centrale assunto dai diritti fondamentali. E si fa più stretto il legame tra democrazia e diritti. Con una domanda sempre più stringente: che cosa accade quando i diritti vengono ridotti, addirittura cancellati? Molte sono state in questi anni le risposte. Proprio la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale ha fatto parlare di diritti "insaziabili", che si impadroniscono di spazi propri della politica e che, considerati come elemento fondativo dello Stato, espropriano la stessa sovranità popolare. Più nettamente, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati come un lusso incompatibile con la crisi economica, con la diminuzione delle risorse finanziarie.
Ma, nel momento in cui la promessa dei diritti non viene adempiuta, o è rimossa, da che cosa stiamo prendendo congedo? Quando si restringono i diritti riguardanti lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile ad un insieme di procedure. Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell'economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa. Quando si ritiene che i diritti sono un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Non si ripete forse che i mercati "decidono", annettendo alla sfera dell'economico le prerogative proprie della politica e dell'organizzazione democratica della società?
La riflessione sui diritti ci porta nel cuore di una discussione culturale che va al di là delle contingenze e rivela come i riferimenti alla crisi economica abbiano soltanto reso più evidente una trasformazione e un conflitto assai più profondi, che riguardano il modo stesso in cui si deve guardare alla fondazione delle nostre società. A Touraine sembra che le spinte provenienti dal sociale abbiano esaurito la loro capacità trasformativa e propone non soltanto di rimettere i diritti fondamentali al centro dell'attenzione, ma di operare uno spostamento radicale verso movimenti «etico-democratici», i soli in grado di porre in discussione il potere nella sua totalità e di «difendere l'essere umano nella sua realtà più individuale e singolare».
Tutti questi interrogativi confermano la necessità di analisi approfondite, che dovrebbero però tener conto di come il mondo si sia dilatato, spingendo lo sguardo verso culture e politiche che proprio ai diritti fondamentali hanno affidato un profondo rinnovamento sociale e istituzionale. È nel "sud del mondo" che ritroviamo novità significative, nella legislazione e nelle sentenze delle corti supreme di Brasile, Sudafrica, India. Basterebbe questa constatazione per mostrare quanto siano infondate o datate le tesi che chiudono la vicenda dei diritti fondamentali solo in una pretesa egemonica dell'Occidente. Al tempo stesso, però, l'attenzione per le costituzioni "degli altri" deve spingerci ad avere uno sguardo nuovo anche sul modo in cui i diritti fondamentali si stanno configurando nelle loro terre d'origine, a cominciare dai nessi ineliminabili e inediti tra diritti individuali e sociali, tra iniziativa dei singoli e azione pubblica.
I diritti non invadono la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica: proprio in tempi di risorse scarse, i criteri per la loro distribuzione debbono essere fondati sull'obbligo di renderne possibile l'attuazione. E, se è giusto rimettere al centro i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione della società, è altrettanto vero che questi diritti possono dispiegarsi solo in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Qui trovano posto le riflessioni su un tempo in cui il problema concreto non è la dismisura dei diritti, ma la loro negazione quotidiana determinata dalle diseguaglianze, dalla povertà, dalle discriminazioni, dal rifiuto dell'altro che, negando la dignità stessa della persona, contraddicono quella "politica dell'umanità" alla quale è legata la vicenda dei diritti.
«Nella colonna sociale che non marcia più in avanti, si guarda al vicino con invidia. E se non si riesce più a vedere in chi sta avanti il soggetto al quale togliere per dare a chi sta soffrendo, viene naturale guardare chi sta accanto. Dalla lotta di classe si scade nell’invidia».
Il manifesto, 18 ottobre 2014
C’è un mondo del non lavoro che comprende oggi otto milioni di persone. Ex-occupati che hanno perso il lavoro, giovani che lo cercano per la prima volta e non lo trovano, donne che, per ristrettezze familiari, lo cercano anche se non più giovanissime.
Lo compongono altrettante persone che non sanno a chi rivolgersi e, quindi, non lo cercano “intensamente” e, perciò, non rientrano tra i disoccupati, ma tra gli “scoraggiati”, categoria di persone prima psicologica ed adesso, finalmente, anche statistica. Lo compongono anche tanti cassintegrati, statisticamente occupati e psicologicamente esclusi, ed i “lavoratori in mobilità”, che popolano quel purgatorio tra un lavoro perduto ed uno che difficilmente troveranno.
Considerando anche loro, quindi, il bacino elettorale si allarga oltre i 15 milioni. Un “mercato elettorale potenziale” di queste dimensioni fa gola a molti ed è terreno di conquista. Una volta si pensava che questo fosse un bacino elettorale “naturalmente” orientato a sinistra e le lotte “per il lavoro e per il sud”, promosse dalla Cgil di Di Vittorio e protrattesi fino agli anni settanta, costituivano il nesso sociale tra disoccupazione, lavoro e sinistra. Ma erano veramente altri tempi. Negli ultimi decenni giovani e disoccupati hanno votato più Forza Italia che sinistra ed adesso, col declino di Berlusconi, questo “mondo del non lavoro allargato” di cui stiamo parlando è elettoralmente “contendibile” da tutti.
Questo lo aveva capito per primo Grillo, diventando la maggiore forza tra i disoccupati, e subito dopo lo ha capito Renzi che, parlando invece che di “piano del lavoro” di jobs act, usando inglese, tweet ed hashtag e martellando sulla fiducia nel futuro, cerca di fare di questo mondo la sua base di massa. In questo tragitto comunicativo, sindacati, sinistra e lavoratori a tempo indeterminato vengono additati come responsabili, difensori di privilegi acquisiti, capri espiatori. Da qui a dire che se i giovani non trovano lavoro è per colpa dell’art.18, il passo è stato breve e scambiare qualche diritto in meno, con la speranza di qualche posto di lavoro in più una conseguenza logica e naturale.
A me sembra che, in questo campo, Renzi abbia una precisa strategia che non è solo comunicativa, ma politica. Renzi ha una sua idea di redistribuzione ed una sua filosofia politica: la globalizzazione e le politiche monetarie dominanti lasciano pochi margini per riforme economiche in grado di ridurre le disuguaglianze; la redistribuzione, perciò, non può essere quella teorizzata dalla sinistra, tra lavoro e capitale, dai ceti ricchi a quelli poveri; essa non può che essere “interna” al mondo del lavoro ed agli strati medio — bassi della società; quindi, niente vecchi arnesi dell’armamentario di sinistra come tassazione dei grandi patrimoni o progressività, ma idee “nuove”.
Redistribuzione dei diritti. Togliere diritti ad alcuni, promettere lavoro ad altri. Che quello che si toglie sia certo e quello che si promette incerto, conta poco perché ci si rivolge a due soggetti ai quali non si toglie niente: agli imprenditori, italiani e soprattutto stranieri, invitati ad investire, ai giovani, invitati a sperare. Ci saranno questi effetti? Molto probabilmente no, ma l’importante è dimostrare che Renzi ci crede e mantenere questo feeling fino alle prossime elezioni, quando questi voti saranno necessari per prendere in mano il paese per cinque-anni-cinque e ridimensionare ogni opposizione interna ed esterna.
Redistribuzione dei redditi. Rientra in questa tipologia, innanzitutto la scelta degli 80 euro che sul piano macroeconomico non ha pagato perché non ha rilanciato la domanda, ma su quello elettorale sì. Che poi essa venga coperta con minori servizi e maggiori tasse locali conta poco. I “beneficiari” sono identificabili e sono stati in buona parte grati. I “sacrificati” sono molti di più, ma sono sparpagliati. Tra loro ci sono anche i beneficiari, ma essi non hanno potuto cogliere la relazione tra soldi che entravano e soldi che uscivano ed anzi sono stati indotti a pensare che quelli che entravano sono merito di Renzi, quelli che uscivano, dopo, a rate e per tasse dai nomi mutevoli, sono colpa degli amministratori locali, spreconi ed inefficienti. Colpa della politica. Quindi bene ha fatto il nostro ad eliminare gli eletti al senato ed alle province.
In questa stessa tipologia di redistribuzione “interna”, di una sorta di partita di giro, rientra l’idea di colpire i redditi alti, ma fermandosi ai redditi da lavoro o da pensione e non spingendosi certo a quelli da profitto o da rendita. Questa idea è stata affacciata e poi ritirata, è scritta nel libro sacro di Gutgeld (pensato con Renzi), potrà essere riproposta, ma intanto ha lasciato il segno: Renzi vuole colpire in alto (naturalmente non tanto in alto da colpire grandi redditi e grandi patrimoni), ma incontra resistenze.
Può rientrare qui anche l’idea, più recente, di anticipare l’utilizzo del Tfr. Qui siamo in una nuova categoria di redistribuzione: quella tra presente e futuro. Al primo no degli industriali, questa idea, è stata ridimensionata, ma poco importa: Renzi ha comunque segnato un altro punto a suo favore dimostrando che pur di fare aumentare la domanda se ne inventa una al giorno, perlomeno è in buona fede, ci crede, quindi, facciamolo lavorare. Fermiamoci qui.
L’operazione è risultata finora vincente perché al disagio sociale di cui abbiamo parlato si offrono due messaggi efficaci: ce la sto mettendo tutta e ci credo, stiamo pagando gli abusi di ieri, quindi, i “privilegiati” debbono pagare. Ma chi sono i privilegiati? In una società in crisi, individualizzata e frantumata, terribilmente impoverita sul piano culturale, diventano quelli più vicini a noi. Chi ha un lavoro è privilegiato per chi non lo ha, chi lo ha fisso è privilegiato per chi è precario, chi guadagna duemila euro lo è per chi ne guadagna mille. E gli altri? I ricchi veri?
Quelli sono lontani e non si vedono. Nella colonna sociale che non marcia più in avanti, si guarda al vicino con invidia. E se non si riesce più a vedere in chi sta molto più avanti il soggetto al quale togliere qualcosa per darlo a chi sta soffrendo, viene naturale guardare a chi ci sta accanto. E così dalla lotta di classe si scade nell’invidiadentro la classe.
Il manifesto, 28 marzo 2014
Se per Aristotele la rappresentazione teatrale produce la purificazione liberatrice delle passioni umane più irrazionali e quindi deleterie, tanto che il più grande dei suoi discepoli, Teofrasto, si spinge a definire la tragedia come la messa in scena della «catastrofe di un destino eroico», allora comprendiamo il motivo di fondo che ha spinto Luciano Canfora a riassumere la questione dell’utopia in questi termini: Aristofane contro Platone. Il teatro del primo, insomma, nella fattispecie della commedia «Ecclesiazuse» («Le donne all’assemblea»), come cura catartica rispetto alle passioni utopistiche, e foriere di regimi liberticidi, contenute nell’opera filosofica e politica del secondo.
Esce in questi giorni l’ennesima fatica del noto filologo barese, con il titolo . Aristofane contro Platone (Laterza, pp. 448, euro 18). L’incontro è stata l’occasione per discuterne gli snodi fondamentali.
La «crisi dell’utopia», come già emergeva nelle pieghe del suo libro precedente («Intervista sul potere», Laterza 2013), sembra più una crisi dello studioso Canfora che, da uomo della sinistra radicale, sente ora di dover evidenziare, pur senza il manicheismo di Popper, eccessi e drammi del pensiero utopistico da Platone a Marx. È così?
Ho sempre avversato l’espressione «sinistra radicale»: a) perché radicale è aggettivo comunque connesso alla figura deteriore di Marco Pannella e dei suoi seguaci; b) perché la autocompiaciuta definizione di «sinistra radicale» è appannaggio di esponenti dannunziani come Bertinotti e Vendola; c) sin dal 1976 ho scritto e cercato invano di far pubblicare su «Rinascita» che i comunisti dopo la seconda guerra mondiale sono diventati, con grande merito, i protagonisti principali della lotta per una democrazia progressiva; non potevano, se non riducendosi a macchiette patetiche, pretendere di rimanere le stesse persone che nel 1917–1920 sognarono l’attualità della rivoluzione e furono sconfitti. Il movimento comunista dopo la seconda guerra mondiale è stato la migliore incarnazione della socialdemocrazia: movimento politico fondato da Carlo Marx e Federico Engels. Per chiarezza: il movimento comunista è agli antipodi della nevrosi radicale. Solo nella confusione mentale sessantottesca i due concetti rischiarono di confondersi.
Veniamo al libro, e alla sua riproposizione della vexata quaestio che vede in Aristofane l’aggressore del nucleo concettuale della «Repubblica» platonica.
Nel 220° anniversario della dissertazione del grande, e dimenticatissimo, studioso tedesco Morgenstern, mi è parso giusto riprendere dalle basi una discussione che si trascinava tra alterne vicende. Ho preferito enucleare i due punti cruciali: 1) tutti ammettono coincidenze, anche verbali, tra la commedia aristofanea «Ecclesiazuse» e il quinto libro della «Repubblica»; 2) l’obiezione che rendeva i moderni esitanti o protesi a ricercare spiegazioni assurde consisteva nella cronologia (Aristofane verrebbe prima). In realtà la data dell’«Ecclesiazuse» è più tardiva di quel che si crede e Platone, per parte sua, aveva già diffuso il nucleo del suo pensiero sulla «kallipolis» prima del viaggio in Sicilia (389 a.C.).
Lei parla di uno «scandalo Platone». Il filosofo greco rivoluzionario al punto di proporre quell’emancipazione egualitaria della donna a cui non pervennero neppure Marx ed Engels. Eppure il pensiero femminista non l’ha amato. Ci spiega il suo punto di vista?
Conviene distinguere due piani: da un lato l’effetto di rottura costituito dalla proposta platonica della parità uomo-donna (libro IV della Repubblica), dall’altro il presupposto intrinsecamente «maschile» della formula «comunanza delle donne» (libro V). Questa formula implica chiaramente una visione distorta che finisce con l’equiparare donne e beni materiali come proprietà. Ed è proprio su questo punto debole, contrastante col presupposto della parità, che fa leva efficacemente Aristofane nella commedia «Le donne all’assemblea», soprattutto nel finale. Come mi è accaduto di scrivere, Aristofane fa saltare la Kallipolis platonica, assumendo come punto di forza proprio questa contraddizione. Resta il fatto che l’intuizione della parità è un enorme passo in avanti nei confronti della mentalità greca di età arcaica e classica: la controprova di ciò è nella ostilità dispiegata dai Padri della chiesa cristiana contro Platone, per l’appunto a causa della propugnata idea della parità uomo-donna.
In più punti del suo libro emerge una rivalutazione del cosiddetto socialismo utopistico, a tratti persino dileggiato da Marx ed Engels. Può spiegarci il senso della sua «riscoperta?»
L’espressione socialismo utopistico spetta soprattutto ad Engels, nel troppo celebre opuscolo «Il passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza» (consistente nei primi capitoli dell’anti-Dühring). Nel III capitolo del «Manifesto del partito comunista» – nel quale vengono passati in rassegna i socialismi precedenti – vengono collocati sotto una luce negativa sia i passatisti che auspicano un ritorno alle società arcaiche, bollati come «socialismo medievale», sia i socialisti francesi contemporanei protesi alla attuazione di riforme sociali radicali. Come è chiaro si tratta di cose molto diverse, messe tutte insieme e sommariamente definite tutte utopistiche. Oggi constatiamo che il progetto di trasformazione totale dei rapporti di produzione in senso collettivistico è finito su un binario morto e che invece il gradualismo riformistico della socialdemocrazia appare come la sola forma concreta di rinnovamento della società. Di conseguenza i cosiddetti «utopisti» sono diventati i «realisti» e i loro critici «scientifici» sono rifluiti nel grande mare dell’utopia.
Uno dei tratti più storiograficamente azzardati del suo libro consiste nell’istituzione di un nesso fra la coppia Socrate/Platone e Hegel/Marx. Quali i punti di contatto e di difformità da lei evidenziati?
L’analogia tra le due coppie filosofiche è di immediata evidenza. Marx stesso considera il proprio pensiero un capovolgimento materialistico del nucleo originale del pensiero hegeliano. Inoltre, al di là degli elementi biografici, ricordo il tragitto che un tempo veniva sintetizzato nella formula «da Socrate a Platone, dal concetto all’idea» (capovolgimento in senso idealistico del pensiero di Socrate). La difficoltà, semmai, consiste nel fatto che di Socrate, diversamente che di Hegel, non abbiamo l’opera scritta, bensì le molte parafrasi dovute ai suoi allievi. Il più geniale dei quali, cioè Platone, ha escogitato la trovata di mescolare il suo proprio pensiero con quello del maestro (Socrate è persona loquens di tutti i dialoghi, tranne i Nomoi).
Platone rappresenta la ragione utopistica, costantemente alla ricerca del «sogno di una cosa». Aristofane la ragione beffarda, pronta a colpire la prima con le armi del realismo e dell’ironia. Quali, secondo lei, gli esiti di questa dialettica storica?
La vittoria del realismo beffardo nei confronti di ogni genere di proposta innovativa, bollata come utopistica, è fin troppo facile e abbiamo visto nel corso del tempo ripetersi sistematicamente tale scenario. Il realismo beffardo fa capo al senso comune, che talvolta vien voglia di definire «il sesto senso degli idioti».
«E' forse un caso che questa polemica viene innescata durante le consultazioni segrete per l’approvazione del Ttip, il trattato commerciale fra Usa e Ue che, guarda caso, ha fra i suoi obiettivi proprio quello di sbarazzarsi del principio di precauzione europeo?».
Il manifesto, 14 ottobre 2014 (m.p.r.)
Anche in Italia si sta svolgendo un serrato e avvincente dibattito intorno al tema degli ogm a cui stanno partecipando personalità di spicco del mondo accademico, della politica e del settore principale di riferimento che è quello agricolo. È importante riconoscere l’utilità del dibattito e il valore delle posizioni di tutti gli attori coinvolti. In molti casi, come ha sostenuto giustamente Carlo Petrini, le posizioni dei cosiddetti stakeholders, i portatori di interessi, rimangono nella penombra come è il caso delle stesse multinazionali che molto volentieri si sottraggono al dibattito pubblico, interessate come sono maggiormente ad occuparsi di influenzare direttamente la politica attraverso le loro lobby piuttosto che informare i cittadini. In molti altri casi, come quello del New Yorker, il dibattito scade a livello di attacchi personali, sospetti, illazioni, velate e non, nei confronti di uno dei rappresentanti più significativi del movimento ambientalista globale: Vandana Shiva. Un dibattito, in cui ognuno mette a disposizione dell’opinione pubblica la propria diretta esperienza e conoscenza, è invece utile alla vita democratica dei paesi.
Navdanya significa nove semi e la fondazione, diretta da Vandana Shiva, si occupa prevalentemente di riconoscere, tutelare e valorizzare il patrimonio sementiero tanto importante per l’umanità quanto la disponibilità di acqua. La questione degli ogm è dunque una questione che potremmo definire come “aggregata” alla mission principale dell’associazione ed è trattata proprio dal punto di vista della difesa della biodiversità.
Gli ogm non sono i soli nemici della nostra biodiversità, che negli ultimi anni è stata erosa in maniera quasi irreparabile, ma, in questa sede, è utile discutere proprio del loro impatto sulle nostre vite e su quella del pianeta. La prima cosa da sottolineare è questo interessante riferimento al paradigma scientifico. Chi è a favore degli ogm è in linea con l’evoluzione scientifica, un progressista; chi non lo è, diventa invece un retrogrado, un conservatore. Questa visione manichea presenta aspetti paradossali.
Gli ogm sono stati dapprima introdotti negli Usa secondo il cosiddetto principio della “sostanziale equivalenza”. In altre parole, se un’invenzione è sostanzialmente equivalente a qualcosa di già esistente non ha bisogno di particolari sperimentazioni e può essere lanciata sul mercato. A pensarci bene è la stessa tesi espressa dal professor Veronesi. Il dna ha una struttura estremamente semplice che può essere facilmente manipolata senza necessità di preoccuparsi più di tanto. Ora, questo approccio all’americana all’esistente, e soprattutto al commerciabile, non è accettato dall’Unione Europea dove vige il principio di precauzione. In altre parole, se un’azienda inventa un nuovo prodotto deve essere dimostrato che non è nocivo prima di essere immesso sul mercato. La posizione dell’Ue è chiara: non esistendo un consenso scientifico, gli ogm non possono essere dichiarati sicuri. Nel dubbio, vige il principio di precauzione che dovremmo difendere perché protegge le nostre vite da invenzioni che sono spesso più indirizzate a fare profitti sul mercato piuttosto che perseguire il bene comune.
Ogni parte porta, d’altro canto, le sue argomentazioni a riguardo. Anche Navdanya ha pubblicato un rapporto sull’argomento raccogliendo gli studi di moltissimi ricercatori che dimostrano la nocività degli ogm. Vi sono nel mondo studi similari che dimostrano l’esatto contrario. L’Ue ha concluso che non esiste possibilità di dichiarare gli ogm sicuri fuori da ogni ragionevole dubbio. Ed ha applicato il principio di precauzione per salvaguardare i suoi cittadini. La polemica sugli ogm comprende anche questo sacrosanto principio. Allora viene da pensare: è forse un caso che questa polemica viene innescata durante le consultazioni segrete per l’approvazione del Ttip, il trattato commerciale fra Usa e Ue che, guarda caso, ha fra i suoi obiettivi proprio quello di sbarazzarsi del principio di precauzione europeo? È forse un caso che le multinazionali dell’agribusiness siano i maggiori lobbisti per l’approvazione dell’accordo? Come possiamo allora costruire un’opinione razionale e condivisa su questo argomento? Soprattutto quando i promotori degli ogm ci dicono che la nuova tecnologia potrebbe rappresentare la panacea di ogni male al mondo?
Uno degli aspetti che sembra mancare nell’analisi di Veronesi è quello della contestualizzazione, quasi che il mondo finisse sulla soglia dei laboratori. Gli ogm non vengono fuori dal nulla, o per nessun motivo. Non sono liberamente a disposizione di tutti e la loro applicazione, al di là della diatriba scientifica, comporta contraccolpi ambientali, economici e sociali notevoli. Possiamo allora dire con sicurezza che i semi e i prodotti ogm nel campo dell’agricoltura hanno un impatto devastante sul settore. Gli ogm sono infatti proprietà delle multinazionali che, attraverso la loro immissione sul mercato, rimodellano i sistemi agricoli di tutto il mondo. A farne le spese sono i piccoli produttori che con le loro colture tradizionali non possono tenere il passo delle produzioni industriali sovvenzionate. Con i metodi di coltivazione intensiva la necessità di manodopera viene inoltre ridotta. Non i profitti però. Cosa succede agli agricoltori nel frattempo?
Quello che è accaduto in Sud America e in India è, per esempio, emblematico. Centinaia di migliaia di persone si muovono dalle campagne alla città andando ad ingolfare fetide baraccopoli. In altre parole, il rischio è quello di alimentare il sistema dei grandi latifondi e inondare le città con una massa di disperati. Un danno economico, sociale e anche culturale considerando la perdita delle antiche conoscenze di cui le popolazioni rurali sono depositarie. La favola che gli ogm possano rispondere al problema della fame nel mondo e del sovrappopolamento è, per l’appunto, una favola. Quello che importa sono i contraccolpi di un sistema industriale basato sugli ogm sulle economie, sulle popolazioni e sulle culture locali. E questo impatto risulta essere, secondo gli studi effettuati da Navdanya e da molte altre organizzazioni che lavorano fuori dai laboratori e direttamente sul campo, non equo, non ecologico, non sostenibile. A guadagnarci sono ancora una volta i pochi, a perderci i molti.
Questa schematica analisi vuole solo dimostrare quanto i fenomeni siano interconnessi e come leggere un articolo sulla valenza della ricerca scientifica transgenica può essere interessante in se stesso ma non esaustivo. La ricerca scientifica deve essere al servizio dell’umanità e non viceversa. Quando ciò accadrà anche nel settore agricolo, a beneficio di contadini e consumatori e non delle multinazionali, Vandana Shiva sarà, con tutta probabilità, la prima persona ad esultarne.
Dobbiamo a un valente demografo, Massimo Livi Bacci, una circostanziata analisi della questione giovanile in Italia alla vigilia della Grande Recessione (Avanti giovani alla riscossa, Il Mulino, 2008). Lo studioso mostrava come la fascia di popolazione tra i 15 e 30 anni viveva una condizione di emarginazione sociale che la distingueva tra i Paesi dell'Europa a 15. I giovani italiani, ad esempio, dipendevano per il 50% dal reddito della famiglie, contro il 30% della media europea. Gli adulti in Italia guadagnavano in media 2,8 volte il reddito dei giovani, contro 2,5 volte in Francia, 1,9 volte in Germania. Ma in generale i nostri ragazzi risultavano più indietro nel completamento degli studi, nel trovare occupazione, metter su casa, formare una propria famiglia. In sintesi, il grado di autonomia, la capacità di emancipazione e di libertà individuale della gioventù italiana apparivano inferiori a quella di gran parte dei coetanei europei per quasi tutti gli indici presi in esame. E quell'analisi non scendeva alla più basse fasce d'età. A metà anni '90 i bambini italiani sotto la linea mediana ufficiale della povertà rappresentavano il 21,3% del totale, terzi dopo USA (26,3%) e Russia(21,3) (The Dynamics of Child poverty in industrialised Countries, Cambridge 2001). Un piazzamento davvero onerevole.
Ricordo questi dati – cui sono seguite e continuano a seguire altre importanti ricerche come il Rapporto dell'Istituto G.Toniolo, La condizione giovanile in Italia, il Mulino 2013 – per sventare in anticipo una manipolazione consueta della realtà: quella di rappresentare un grave problema strutturale come esito transitorio della “crisi”degli ultimi anni. E' evidente invece che la condizione di emarginazione della nostra gioventù precede la crisi, è l'esito aggravato di un corso politico che dura da decenni, alla cui base c'è la sempre più dispiegata disoccupazione e la precarizzazione del lavoro. Alla falange dei giovani che negli ultimi decenni accedevano alle prime occupazioni si è parato dinanzi una crescente mancanza di sbocchi e la strada stretta di una legislazione sempre più svantaggiosa ed emarginante. Sicchè non stupisce se la disoccupazione giovanile tocca oggi il picco del 44%, mentre il numero di giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano, non studiano, non seguono corsi formazione (Neet) hanno raggiunto il primato europeo del 22,25%. Con la crisi la divaricazione generazionale è solo aumentata: gli over 65 sono diventati più ricchi, quelli sotto i 40 ancora più poveri.
Forse però questi dati non dicono ancora la grande novità storica: la classe dirigente anziana che detiene il potere da anni sta muovendo una vera e propria lotta di classe contro la gioventù del nostro Paese. Padri e nonni ricchi contro figli e nipoti poveri. Essa surroga sempre più il welfare con la famiglia, i diritti universali con il familismo. Ovviamente quando la famiglia non si trova in condizioni di povertà. Lo fa con gli strumenti del governo, attraverso il ceto politico, e direttamente nelle istituzioni pubbliche e nei luoghi di lavoro privati. Pochi dati da aggiungere a quelli più noti, inflitti dalla “legislazione di guerra” messa in atto dall'ultimo governo Berlusconi-Tremonti (allungamento dell'età pensionabile, tagli lineari alla scuola e all'Università) e poi proseguita dal dicastero Monti, dal governo Letta e ora estesa con furia novatrice dall'esecutivo di Renzi.
Dovrebbe dunque essere chiara l'enormità economica, politica, umana della questione giovanile in Italia, articolazione generazionale della disuguaglianza strutturale creata dalle pratiche neoliberistiche in tutto il mondo. Almeno due generazioni stanno letteralmente andando perdute, consumeranno la loro gioventù tra lavori intermittenti, disoccupazione, attese, frustrazioni, scarso reddito, impossibilità di progettare alcunché. Il declino dell'Italia si identifica esattamente con la condizione dei suoi giovani. Il nostro Paese sta rinunciando, per balorda miopia, grettezza, illimitata mediocrità delle sue classi dirigenti, all'energia vitale, alla creatività, capacità di lavoro e di progetto della sua scarsa riserva demografica. Scarsa, perché i giovani sono una minoranza: poco più di 10 milioni tra i 20 e i 34 anni al censimento del 2011, a fronte di quasi 49 milioni e mezzo del totale. Tutto questo mentre ci assorda la retorica sulla necessità della competizione, della valorizzazione del “capitale umano”, sulla crescita, e le altre fuffe che la miserabile cultura capitalistica dei nostri anni riesce a elaborare.
Ora, io credo che la questione giovanile costituisca una straordinaria occasione politica per la sinistra. Alle retoriche del governo e sue adiacenze si può contrapporre un vero e proprio programma per la gioventù, quale parte di un progetto per l'intero paese. La prospettazione di una serie di obiettivi che possano mobilitare il consenso e anche l'entusiasmo giovanile, oggi sommerso sotto una montagna di delusioni e rancore. Non si tratta solo di rivendicare il reddito minimo di base, che comporta rilevanti impegni di spesa, ma anche di puntare a iniziative legislative “minori”, che possano ricreare un clima di fiducia tra la politica – che è cosa diversa dalla propaganda elettorale – e le nuove generazioni.
«Perché gli attuali ragazzi e ragazze del Pd rifiutano perfino che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice? Se non difende il rapporto di lavoro un partito come il Pd, il quale si richiama alle riforme ogni mezz'ora, a che serve?
Sbilanciamoci.info, 7 ottobre 2014
Neppure un'incorreggibile gufa come me avrebbe immaginato che Matteo Renzi avrebbe cercato di portare velocemente il Pd verso una mutazione genetica, anche se covava da tempo, forse da quando Achille Occhetto, in qualità di segretario, aveva chiesto il beneficio di inventario nel richiamarsi non alla presa del palazzo d'inverno del 1917, ma alla rivoluzione francese del 1789. La Costituente sì, la Convenzione no. Viva l'abate Sieyès, abbasso Robespierre. Ma sulla Dichiarazione dei diritti erano stati d'accordo tutti, ed è quella che i socialisti Giacomo Brodolini e Gino Giugni hanno portato dentro la fabbrica con lo Statuto dei lavoratori.
Già era stato stupefacente per me che di tutta la direzione del Pd soltanto D'Alema e Bersani hanno dichiarato di non essere d'accordo con l'abolizione dell'articolo 18 e il contratto unico, cosiddetto a tutele crescenti, che costringerebbe ogni nuovo occupato a tre anni di precariato prima di essere regolarmente assunto (e va a vedere se la creatività degli imprenditori italiani non troverà qualche marchingegno per far apparire "nuovo e primo” ogni tipo di contratto), in modo da far transitare tutta la manodopera da un apprendistato a un altro.
Perché gli attuali ragazzi e ragazze del Pd rifiutano perfino che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice, nel caso della risoluzione di un punto delicato come un conflitto di lavoro, piuttosto che a un arbitrato consegnato alla parte sociale dominante? Se non difende il rapporto di lavoro un partito come il Pd, il quale si richiama alle riforme ogni mezz'ora, a che serve?
La verità è che forse il Jobs Act va letto, suggeriva maliziosamente ieri Melania Mazzucco, come l'acronimo di "jump our business", avanti subito con i nostri affari, ora che l'intralcio di un diritto dei dipendenti è stato gentilmente tolto di mezzo da quel che restava del Pci. Forse Renzi coglierà l'occasione per dichiarare, come già Veltroni, "Non sono stato comunista mai". Eppure lo zoccolo duro del Pci, la base confluita nelle sue successive trasformazioni, è stata sempre costituita da gente che lavorava sotto padrone. Passata al Pd come i suoi dirigenti, aveva ragionevolmente creduto che colui che spediva a Palazzo Chigi l'avrebbe difesa. Quando ha cominciato a dubitarne, il partito si è andato liquefacendo. Oggi lo vediamo, il famoso 40 per cento degli elettori per l'Europa sono un milione in meno di coloro che votarono Veltroni nel 2008, per non parlare di Berlinguer.