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«Di mafia, insi­stono i magi­strati, si deve par­lare, per­ché nella "Mafia Capi­tale" era stato adot­tato il metodo mafioso, con­si­stente nell’uso "della forza d’intimidazione del vin­colo asso­cia­tivo" e nelle "con­di­zioni di assog­get­ta­mento e di omertà di cui gli asso­ciati si avval­gono».

Il manifesto, 3 dicembre 20014 (m.p.r.)

Gli arre­stati sono 37, gli inda­gati 40, ma il conto potrebbe lie­vi­tare ulte­rior­mente nei pros­simi giorni. Sono nomi pesanti, sia quelli del «mondo di sopra», a par­tire dall’ex sin­daco di Roma Gianni Ale­manno, inda­gato, sia quelli del «mondo di sotto», il sot­to­bo­sco cri­mi­nale della capi­tale, del quale fanno parte Mas­simo Car­mi­nati, arre­stato, e Gen­naro Mok­bel, per il quale la gip Fla­via Costan­tini non ha con­va­li­dato la richie­sta di arresto.

Il copy­right delle defi­ni­zioni di cui sopra, il «mondo di sopra» e quello di «sotto», è dello stesso Carmi­nati. Le aveva usate nel corso di una con­ver­sa­zione inter­cet­tata che ha dato il nome all’inchiesta: «Mondo di Mezzo». Quello in cui si incon­trano i col­letti bian­chi, gli uomini del potere a Roma, e i mala­vi­tosi che si sono fatti le ossa sulla strada, sulla piazza già ai tempi lon­tani della banda della Magliana. Tra i primi ci sono l’ex sin­daco Ale­manno, il suo capo della segre­te­ria Anto­nio Luca­relli, Luca Gra­ma­zio, ex con­si­gliere comu­nale e oggi regio­nale, Luca Ode­vaine, ex capo della segre­te­ria del sin­daco Vel­troni, oggi respon­sa­bile dell’accoglienza per i richie­denti asilo, Franco Pan­zi­roni, ex ad dell’Ama, l’azienda dei rifiuti, Ric­cardo Man­cini, ex ad di Eur spa, i “col­letti bian­chi” dell’era Ale­manno. Tra i secondi lo stesso Car­mi­nati, indi­cato dagli inqui­renti come capo dell’organizzazione, Erne­sto Dio­tal­levi, un pezzo da novanta della cri­mi­na­lità romana da decenni, Gio­vanni De Carlo, suo erede, il già ricor­dato Mokbel.

A tutti è con­te­stata l’associazione mafiosa ex 416bis. Un’imputazione discu­ti­bile, e gli stessi inqui­renti se ne ren­dono pro­ba­bil­mente conto, tanto che nell’ordinanza di arre­sto dis­ser­tano a lungo e dot­ta­mente per giu­sti­fi­care l’addebito. Agli arre­stati e agli inda­gati, ha chia­rito il pro­cu­ra­tore capo di Roma Giu­seppe Pigna­tone, non ven­gono accre­di­tati rap­porti di com­pli­cità con la cri­mi­na­lità orga­niz­zata, con mafia, camorra e ‘ndran­gheta. Nep­pure la strut­tura orga­niz­za­tiva è dav­vero affine a quelle mafiose, impos­si­bile farlo in una città come Roma dove l’organizzazione deve invece essere «reti­co­lare», meno disci­pli­nata e ver­ti­ci­stica, e l’uso della vio­lenza è limitato.

Di mafia, insi­stono tut­ta­via i magi­strati, si deve ugual­mente par­lare, per­ché in quella che viene defi­nita «Mafia Capi­tale» era stato adot­tato il metodo mafioso, con­si­stente nell’uso «della forza d’intimidazione del vin­colo asso­cia­tivo» e nelle «con­di­zioni di assog­get­ta­mento e di omertà di cui gli asso­ciati si avval­gono». Il dna pro­pria­mente mafioso sarebbe poi garan­tito dal fatto che, a dif­fe­renza delle cosid­dette «nuove mafie», l’autorità e la capa­cità di inti­mi­da­zione del gruppo sareb­bero radi­cati nel pas­sato, nella deri­va­zione dei suoi capi dalla Banda della Magliana e dai «fascio­cri­mi­nali». Sin dalla noti­zia degli arre­sti, ieri, si è par­lato di «cri­mi­na­lità nera», in parte per­ché capo della banda sarebbe appunto «il Nero», come Gian­franco De Cataldo aveva ribat­tez­zato nel suo for­tu­na­tis­simo Romanzo cri­mi­nale Mas­simo Car­mi­nati. Ieri tutti i media, ripren­dendo del resto l’ordinanza, lo hanno defi­nito «ex Nar». Per la verità dei Nar Car­mi­nati non ha mai fatto parte, ma neo­fa­sci­sta e amico sia di molti mili­tanti dei Nar, oltre che vici­nis­simo alla Magliana, lo era davvero.

In realtà nell’inchiesta sono coin­volti un po’ tutti: ci sono ex bri­ga­ti­sti come Ema­nuela Bugitti, espo­nenti di spicco di An e poi del Pdl. Ma anche del Pd come Ode­vaine, il pre­si­dente dell’assemblea capi­to­lina Mirko Coratti e l’assessore alla casa Daniele Ozzimo (que­sti ultimi due si sono dimessi dicen­dosi estra­nei ai fatti) e il con­si­gliere regio­nale Euge­nio Patanè.

Lo stesso Buzzi, pre­si­dente della poten­tis­sima coo­pe­ra­tiva «29 giu­gno», l’uomo che dalle inda­gini risul­te­rebbe il prin­ci­pale com­plice di Car­mi­nati, è un ex dete­nuto comune poli­ti­ciz­za­tosi in car­cere, ma sul fronte sini­stro. Una banda più arco­ba­leno che nera, da que­sto punto di vista. Invece l’etichetta nera fun­ziona lo stesso: il momento di snodo, quello che avrebbe per­messo al gruppo di spic­care il volo, sono stati gli anni dell’amministrazione Ale­manno. Che Car­mi­nati e com­plici abbiano approfittato della ghiotta occa­sione offerta dalla col­lo­ca­zione in posi­zione di ver­tice, in que­gli anni, di parec­chi espo­nenti della destra neo­fa­sci­sta anni ’70 e ’80, come gli stessi mana­ger Man­cini e Pan­zi­roni, appare evi­dente. Per que­sto Pigna­tone ha dichia­rato senza peri­frasi che «alcuni uomini vicini all’ex sin­daco Ale­manno sono com­po­nenti a pieno titolo dell’organizzazione mafiosa». Però ha anche aggiunto che «con la nuova ammi­ni­stra­zione il rap­porto è cam­biato, ma Car­mi­nati e Buzzi erano tran­quilli chiun­que vin­cesse le elezioni».

Nello spe­ci­fico, i reati con­te­stati a vario titolo agli inda­gati sono di diverso tipo. Tra gli altri, estor­sione, cor­ru­zione, tur­ba­tiva d’asta, false fat­tu­ra­zioni, tra­sfe­ri­mento frau­do­lento di valori, rici­clag­gio. Ci sono cri­mini tipi­ca­mente «di strada», come l’usura e il recu­pero cre­diti con le cat­tive. Ci sono fac­cende di sapore squi­si­ta­mente tan­gen­taro, come l’indirizzo degli appalti in cam­bio di tan­genti ma anche verso aziende diret­ta­mente con­trol­late dall’organizzazione, anche attra­verso i clas­sici «pre­sta­nome». Le due fasi sem­brano però cro­no­lo­gi­ca­mente distinte. Par­tito dall’usura e dai pestaggi per recu­pe­rare i cre­diti, spesso in conto terzi e solo per con­fer­mare la pro­pria auto­rità, il gruppo sem­bra aver poi aver immen­sa­mente ampliato il suo spet­tro d’azione entrando alla grande nel giro degli appalti di ogni tipo pro­prio in virtù degli anti­chi vin­coli poli­tici con molte figure chiave dell’amministrazione Ale­manno, per poi strin­gere nuovi e reci­pro­ca­mente pro­fi­cui rap­porti con i loro suc­ces­sori ai ver­tici del potere capitolino.

«Cosa sarà veramente EXPO2015? Innanzitutto 1.000 ettari di suolo agricolo già cementificati: padiglioni, piazzette tematiche, raccordi autostradali e rotonde. Nutrire il pianeta… colando calcestruzzo e stendendo asfalto su terre fertili. Tutto cemento che paghiamo noi».

Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2014

Sulle reti Rai sono finalmente partiti gli spot di presentazione di EXPO, l’esposizione universale che si terrà a Milano dal 1° maggio al 31 ottobre 2015. Tema centrale: il cibo. Lo slogan: nutrire il pianeta, energia per la vita.

Le immagini, i suoni, le suggestioni proposte ai telespettatori in pochi secondi sono coinvolgenti. Un ottimo messaggio, degno di una brillante forza politica ecologista. In pochi frame si diffondono impulsi e stimoli sulla necessità di cambiare paradigma: tutelare le risorse naturali, preservarle per le prossime generazioni, garantire a ciascun abitante del pianeta il diritto al cibo pulito e a buon mercato. Questo è quello che milioni di telespettatori guarderanno dai tinelli in formica e dalle sale da pranzo in noce di tutto il Paese. Gli spot saranno sempre di più. Un crescendo rossiniano pervaderà l’immaginario collettivo italiano e convincerà tutti che a Milano andrà in scena un evento straordinario dove l’agricoltura, l’alimentazione sana, il paesaggio e il territorio saranno al centro dei pensieri della politica. Parallelamente sono già diffuse da tempo altre belle favole: quelle che raccontano di benefici sull’economia e di migliaia di posti di lavoro che gemmeranno dal grande evento vetrina.

Ma che cos’è e che cosa sarà veramente EXPO2015? Innanzitutto sono 1.000 ettari di suolo agricolo già cementificati: padiglioni, piazzette tematiche, raccordi autostradali e rotonde. Nutrire il pianeta… colando calcestruzzo e stendendo asfalto su terre fertili. Tutto cemento che paghiamo noi.

Nei padiglioni di EXPO troveranno spazio le multinazionali dell’agroindustria e degli OGM, i soggetti che dominano sulle terre di tutta la terra, che strozzano i piccoli produttori ingabbiati nella filiera della grande distribuzione organizzata, che spesso sottraggono la terra stessa alle popolazioni dei paesi più poveri del mondo.

Lo sponsor ufficiale dell’acqua, altro elemento indispensabile per nutrire il pianeta? Nel paese che ha visto 27 milioni di elettori dire no alla privatizzazione del servizio idrico, tutti si sarebbero aspettati la “Pisapia H2O”. Invece no. Sarà la San Pellegrino SPA, una controllata della multinazionale Nestlè.

Ma si creeranno almeno i posti di lavoro? Certo! Ma a parte quelli nati in Procura della Repubblica per seguire le inchieste su corruzione e infiltrazioni mafiose, i posti di lavori saranno sopratutto precari. Se va bene. Perché è in corso una bella campagna per trovare i “volunteer Expo”. Con buona pace per chi, pur di pagare l’affitto o la retta universitaria, si sarebbe accontentato anche solo di qualche mese da precario, magari da Eataly, che avrà un padiglione da 8 mila metri quadrati. Insomma, cemento, debito e precarietà. Ma questo spot non lo vedrete in tv.

www.noexpo.org

«». Il manifesto

I risul­tati delle ele­zioni par­lano chiaro: la “nar­ra­zione” ren­ziana è in crisi, ma le forze a sini­stra del Pd non appa­iono una alter­na­tiva credibile.

I sin­tomi di crisi del ren­zi­smo sono nel bru­sco calo dei votanti in realtà tanto diverse come Emi­lia e Cala­bria. Il feno­meno indica non solo l’incrinarsi del potere di attra­zione del pre­mier, ma anche con­si­stenti segnali di ribel­lione dell’elettorato di sini­stra verso il Pd. Inol­tre, per la prima volta i gril­lini non inter­cet­tano il malcontento. Sem­bre­rebbe una situa­zione eccel­lente per chi voglia pro­porre una alter­na­tiva di sini­stra. Invece così non è. L’Altra Emilia-Romagna ha rac­colto il 4% e Sel, nell’ambito del centro-sinistra, il 3,23%. In Cala­bria “La Sini­stra” (Sel, Pdci, Idv), pur in una coa­li­zione scre­di­tata, il 4,36%, e L’Altra Cala­bria (Prc e Alba, altre com­po­nenti della ex Lista Tsi­pras erano per il non voto) si ferma all’1,32%.

Tutto que­sto ci dice due cose. In primo luogo, non vi è oggi spa­zio a sini­stra del Pd per più di una pro­po­sta poli­tica. In secondo luogo, se le forze a sini­stra del Pd si unis­sero in un Fronte arti­co­lato e plu­rale, lasciando da parte in nome del bene comune le reci­pro­che avver­sioni, con una lea­der­ship col­let­tiva e rico­no­sci­bile, que­sto sog­getto politico-elettorale avrebbe di fronte a sé poten­zia­lità rilevanti. Esso potrebbe pun­tare a con­qui­stare mili­tanti e voti tra i lavo­ra­tori sin­da­ca­liz­zati e tra i gio­vani disoc­cu­pati, tra i vec­chi iscritti al Pci e tra coloro che sono cre­sciuti nei movi­menti anti­si­stema: insomma, tra i delusi degli ultimi vent’anni di sto­ria poli­tica e sociale del nostro paese.

Parlo di un Fronte della Sini­stra (o Fronte del Popolo, o come lo si voglia chia­mare) per­ché l’obiettivo di un unico par­tito non è rea­li­stico. Anzi, i can­tieri oggi aperti (Lista Tsi­pras, Human Fac­tor, nuovo par­tito comu­ni­sta) avranno un ruolo posi­tivo solo se non cre­dono di essere auto­suf­fi­cienti, se dia­lo­gano fra loro, guar­dando con rispetto alle forze poli­ti­che esi­stenti, che restano deci­sive, come al grande mare dei non orga­niz­zati o di coloro che lo sono in asso­cia­zioni e gruppi non partitici.

Biso­gna finirla con i veti incro­ciati e coi risentimenti.

Que­sto Fronte della Sini­stra dovrebbe par­tire dalle lotte sin­da­cali, dei pre­cari, dei disoc­cu­pati: senza radici nel mondo del lavoro non si è sini­stra. Ma anche pre­sen­tare un pro­getto di rin­no­va­mento e di cre­scita rivolto a tutta la società. E una ela­bo­ra­zione che pro­spetti un tipo nuovo di con­vi­venza, alter­na­tiva a quella attuale. Credo sia impor­tante avere un duplice pro­gramma: uno di misure imme­diate, per fron­teg­giare l’emergenza; e un Pro­gramma fon­da­men­tale, per dire verso quale società si vuole andare.

Da subito poche pro­po­ste e chiare: per il lavoro, il Mez­zo­giorno, i gio­vani, la scuola e la cul­tura, la casa, il wel­fare. Si deve essere in grado di dire dove si tro­ve­ranno le risorse, col­pendo quali inte­ressi: è neces­sa­rio avere dei nemici. Per­ché que­sto nuovo sog­getto deve essere di parte, anche se non mino­ri­ta­rio. Dovrebbe pro­nun­ciarsi, ad esem­pio, sul ruolo del pub­blico, pro­po­nendo una eco­no­mia mista secondo quanto pre­vi­sto dalla stessa Costi­tu­zione. Dovrebbe avviare una Riforma antiliberista.

E, soprat­tutto, que­sto Fronte della Sini­stra non deve pen­sare che il suo com­pito si esau­ri­sca dopo una prima prova elet­to­rale, comun­que vada. È un lavoro di lunga lena quello che ci attende, nella società prima che nelle isti­tu­zioni. Deve fon­darsi sulla pro­messa reci­proca di stare insieme per un lungo tratto di strada, senza cedere a tat­ti­ci­smi e inte­ressi di corto respiro. Non si fa “grande poli­tica” né con una nuova pro­po­sta ogni sei mesi né facendo la stam­pella alla gamba sini­stra del Pd. Si metta in can­tiere un pro­getto uni­ta­rio e par­te­ci­pato, di alter­na­tiva reale. Si lanci una vera sfida ege­mo­nica in nome delle classi subal­terne, del mondo del lavoro e di chi non ha lavoro, della demo­cra­zia e della Costi­tu­zione. Oggi si può, la situa­zione lo richiede.

«Le idee del rapporto di S

bilanciamoci! sono il frutto dei calcoli di esperti ed economisti incrociati con le idee delle associazioni che lavorano su alcune grandi questioni aperte sulle quali la politica potrebbe intervenire più e meglio, dall'ambiente, al disagio sociale, all'immigrazione, passando per la cultura». Pagina99.it, 27 novembre 2014

Conti pubblici

La rete di 64 associazioni presenta il suo rapporto 2015. Mantenendo il parametro del pareggio di bilancio e lavorando su fiscalità e tagli alla spesa pubblica sbagliata si troverebbero le risorse per un reddito minimo, la tutela del territorio e risorse per il welfare

Ci risiamo: la discussione sulla legge di stabilità si avvicina – un tempo la chiamavano Finanziaria – e puntuale, come dal 2000 in poi, arriva il rapporto di Sbilanciamoci!, la rete di associazioni, Ong e altre organizzazioni della società civile che ogni anno guarda ai conti dello Stato e cerca di farsi un'idea su come e dove trovare soldi per dare risposte a bisogni diversi dal pareggio di bilancio. Come ogni anno il rapporto è dettagliato, ricco di numeri e attento a individuare la copertura necessaria alle misure proposte.

Le idee del rapporto sono il frutto dei calcoli di esperti ed economisti incrociati con le idee delle associazioni che lavorano su alcune grandi questioni aperte sulle quali la politica potrebbe intervenire più e meglio, dall'ambiente, al disagio sociale, all'immigrazione, passando per la cultura. Il rapporto 2015 contiene 84 proposte e rispetta l'idea del pareggio di bilancio “dimostrando che la quantità delle risorse pubbliche disponibili non è l’unica variabile che condiziona l’impianto della legge di stabilità. Il punto dirimente resta quale modello di economia, di società e di democrazia si ha in mente”, si legge nell'introduzione al rapporto.

Il quadro sociale ed ambientale dell'Italia è quel che è, sostengono le decine di realtà della società civile che danno vita alla campagna e per cercare di invertire la rotta occorre affrontare “i buchi neri del declino del nostro paese: l’economia in declino, un’occupazione in calo e sempre più precaria, un sistema di istruzione e di ricerca pubblico indebolito dai progressivi tagli, un disagio sociale crescente che consegna alla povertà assoluta sei milioni di persone, politiche sociali fragili e sempre più delegate alla famiglia, un patrimonio naturale e culturale in abbandono”. Le associazioni criticano l'austerità imposta dall'Europa alla quale, sostengono, i governi che si sono succeduti negli ultimi anni non hanno saputo opporre nessuna alternativa.

La contromanovra di Sbilanciamoci prevede due assi portanti sul piano delle entrate: una redistribuzione del prelievo fiscale che sposti risorse disponibili dalla ricchezza alla povertà e dai grandi patrimoni e rendite al reddito da lavoro e di impresa; tagli alla spesa pubblica che la campagna chiama “tossica”: meno soldi per Difesa e grandi opere, a sanità e istruzione private per reperire risoprse da impegnare in recupero del territorio, ricerca, istruzione, servizi di welfare.

Di seguito una sintesi delle proposte delle 46 organizzazioni

Riduzione di un punto delle aliquote sui primi due scaglioni, l’aumento di tre punti delle aliquote sul IV e sul V scaglione e la creazione di un VI scaglione, oltre 100mila euro, con aliquota al 50%. Si propone l’aumento di 100 euro delle detrazioni Irpef su redditi da lavoro e pensioni, l’abolizione del regime di tassazione separata per le rendite finanziarie (attualmente al 26%) e della cedolare secca sugli affitti a canone libero (oggi al 21%), con assoggettamento di questi redditi all’Irpef.

Iva: si inverte la tendenza all’aumento, riportando l’aliquota base dal 22% al 21%.

Tassazione del patrimonio: si prevede l’introduzione di un’imposta patrimoniale con aliquote progressive, che nella componente immobiliare operi una redistribuzione a parità di gettito (sostanzialmente esentando i ceti bassi), mentre nella componente finanziaria generi entrate aggiuntive per 4 miliardi (2 dalle famiglie e 2 dalle imprese). La franchigia sulla tassa di successione verrebbe ridotta a 100mila euro con, anche in questo caso, aliquote di tassazione crescenti con la ricchezza. Gli interventi su Irpef e Iva proposti costerebbero rispettivamente 0,9 e 4 miliardi, mentre la tassazione di patrimoni e successioni genererebbe equivalenti entrate aggiuntive.

Altre specifiche misure settoriali genererebbero risorse aggiuntive da impiegare per finanziare la spesa pubblica utile. Tra queste: la tassazione aggiuntiva sui capitali già scudati (5 miliardi), la revoca del condono sui concessionari di videogiochi (2,1 miliardi), il rafforzamento della tassa sulle transazioni finanziarie (0,8 miliardi), la tassazione degli immobili tenuti vuoti (400 milioni), misure di contrasto al canone nero e irregolare (250 milioni), la tassazione dei profitti del settore del lusso (200 milioni) e nocivi, come l’emissione di Co2 delle auto (500 milioni), l’adeguamento dei canoni di concessione per le attività estrattive (205 milioni) e delle acque minerali (250 milioni), le misure fiscali penalizzanti per il rilascio del porto di armi (170 milioni).

Tagli alla spesa

Cancellare gli stanziamenti previsti dalla legge di stabilità 2015 per le scuole private (471,9 milioni) e di sostituire con insegnamenti alternativi l’ora di religione nelle scuole il cui costo è stimato in 1,5 miliardi di euro. La revisione dei criteri di valutazione dei falsi invalidi potrebbe generare un risparmio di 250 milioni.

Si chiedono una riduzione degli stanziamenti per le Grandi infrastrutture strategiche dannose per l’ambiente (1,5 miliardi), l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta che esamini lo stato delle convenzioni con le strutture sanitarie private, che generano molti sprechi e abusi (1 miliardo) e l’eliminazione del bonus bebè (202 milioni) a vantaggio della riduzione delle rette per gli asili pubblici.

Si propongono la chiusura dei Cie e dei CARA (191,9 milioni) e la riduzione delle spese militari portando entro il 2016 il livello degli effettivi delle Forze armate a 150.000 unità (400 milioni), eliminando l’ausiliaria per una fascia di ufficiali superiori (440 milioni), azzerando la parte di fondi iscritti al bilancio del ministero per lo Sviluppo Economico a disposizione del Ministero della Difesa per sostenere le industrie a produzione militare per specifici programmi d’armamento (2,2 miliardi). Restano naturalmente le richieste storiche di Sbilanciamoci!: la rinuncia al programma di acquisto degli F-35 (500 milioni) e della seconda serie di sommergibili U-212 (210 milioni) e il ritiro da tutte le missioni a chiara valenza aggressiva (600 milioni).

4 miliardi sono destinati ad un Piano di investimenti pubblici per creare occupazione nel settore dei trasporti ferroviari locali, stabilizzare il personale paramedico precario, assumere figure professionali stabili per combattere gli abbandoni scolastici e mettere in sicurezza il nostro territorio. 900 milioni sono invece destinati a finanziare la ricerca di base e applicata con l’istituzione di un Fondo venture capital “Industrial Compact 2020: industrializzazione della R&S”. Si propone inoltre di attribuire le risorse messe a bilancio per il credito di imposta a favore delle imprese che investono in ricerca ai bilanci degli enti di ricerca pubblici nazionali (costo zero).

Sperimentazione di una misura di reddito minimo garantito

Con 4 miliardi sarebbe possibile garantire 500 euro al mese individuali a circa 764 mila persone che si trovano in condizioni di povertà assoluta, ovvero con una capacità di spesa mensile inferiore a un paniere di beni di “sussistenza” e che sono in cerca di occupazione. Siamo consapevoli che il finanziamento di un vero e proprio reddito di cittadinanza richiederebbe la rivisitazione dell’intero sistema delle politiche del lavoro, sociali e fiscali e un investimento ingente, improbabile nell’attuale contesto economico e politico, ma riteniamo fondamentale l'inizio di una sperimentazione di questo tipo, mancante in Europa, soltanto in Italia e Grecia.

Cultura e conoscenza

Cultura, scuola e università sono state duramente colpite dalla miopia dei tagli lineari degli ultimi anni. Per rafforzare le politiche culturali Sbilanciamoci! propone la costituzione di un fondo rotativo per la ristrutturazione degli spazi di proprietà pubblica da destinare allo svolgimento di attività culturali (20 milioni), misure di sostegno all’accesso alla cultura per studentesse e studenti (20 milioni), l’introduzione di un credito di imposta per le produzioni musicali di artisti emergenti (10 milioni), un’integrazione del Fondo Unico per lo Spettacolo (95 milioni) e del Fondo per le associazioni di promozione cinematografica (300mila euro).

Per migliorare il sistema di istruzione pubblico si propone di varare una piano ventennale per l’edilizia scolastica (1 miliardo per il 2015), di finanziare la legge 440/97 (300 milioni) e garantire il diritto allo studio (300 milioni), di promuovere progetti che favoriscano l’alternanza scuola-lavoro (200 milioni), di costituire un fondo per l’innalzamento dell’obbligo scolastico e per l’integrazione (200 milioni), di finanziare la promozione di progetti studenteschi (10 milioni) e la formazione di docenti curricolari per l’inclusione degli alunni con disabilità (20 milioni). 800 milioni sono destinati a incrementare il Fondo di finanziamento ordinario dell’università e 400 milioni a garantire la copertura totale delle borse di studio.

Case senza persone e persone senza case

Nella legge di stabilità non ci sono risorse per la politica sociale sulla casa. Ma sono circa 700.000 le domande di alloggi popolari non soddisfatte e 70.000 le sentenze di sfratto ogni anno, aumentate a seguito degli effetti della crisi. 30 mila sono gli alloggi di edilizia residenziale pubblica non assegnati perché bisognosi di ristrutturazione. Si propone di investire di più nel recupero di immobili di proprietà pubblica per uso abitativo (1 miliardo) e nel sostegno sociale all'affitto (300 milioni) e di integrare il Fondo per la morosità incolpevole (300 milioni).

Lo sviluppo è verde

Non c’è futuro senza salvaguardia dell’ambiente. Per attuare una strategia per l’adattamento ai cambiamenti climatici e alla manutenzione del territorio servirebbero investimenti per 2 miliardi di euro per i prossimi 20 anni. Recuperando le risorse dal taglio delle grandi opere e dalla tassazione delle attività che danneggiano l’ambiente, Sbilanciamoci! chiede che nella Legge di Stabilità 2015 siano stanziati a questo scopo almeno 500 milioni di euro. Si propone inoltre di integrare il Bilancio del Ministero per l’ambiente di 100 milioni, di costituire un fondo di rotazione per le demolizioni delle opere abusive (150 milioni), di varare un piano nazionale per la mobilità sostenibile (1 miliardo), di promuovere l’installazione di impianti fotovoltaici con accumulo (200 milioni), di tutelare le aree protette (30 milioni).

Spendere di più e meglio per proteggere le persone

I diritti sociali non sono un lusso né una merce. Per contrastare le scelte di privatizzazione in corso da tempo, Sbilanciamoci! propone di integrare il Fondo Nazionale Politiche Sociali (1,164 miliardi) per riportarlo ai livelli del 2008, impiegare le risorse stanziate per il bonus bebè per ridurre le rette degli asili nido pubblici (costo zero), integrare il Fondo per la non autosufficienza (350 milioni) e quello per l’infanzia (15,2 milioni), varare misure per l’invecchiamento attivo (1 milione) e per l’inclusione attiva delle persone con disabilità (50 milioni). L’inserimento sociale dei detenuti potrebbe avvenire a costo zero.

Ridurre i ticket sanitari e rafforzare la medicina territoriale servirebbe 1 miliardo recuperabile rivedendo le convenzioni con le strutture sanitarie private. Per promuovere le politiche di genere sono fondamentali provvedimenti come l’assegno di maternità universale (900 milioni), incentivi nei settori della formazione tecnico-scientifica delle donne (275,1 milioni) e, visto il pericoloso aumento della violenza sulle donne, un finanziamento per nuovi centri anti-violenza (50 milioni).

L’ampliamento degli interventi di inclusione sociale e lavorativa dei cittadini stranieri (60,9 milioni), l’abolizione della tassa di soggiorno (26 milioni), il rafforzamento del sistema nazionale di lotta contro le discriminazioni e il razzismo (30 milioni) e il varo di un piano nazionale di smantellamento dei “campi nomadi” potrebbero arginare, se accompagnati da un rafforzamento delle politiche di welfare generali, l’ondata di razzismo che sta travolgendo di nuovo il nostro paese.

«Fiducia al Senato sul Jobs Act: 166 favorevoli, 112 contrari, un astenuto. Mineo (Pd) non ha votato, Ricchiuti e Casson assenti. La manifestazione dello sciopero sociale è stata caricata in via delle Botteghe Oscure a Roma dopo essere stata accerchiata per più di un'ora.

Il manifesto 4 dicembre 2014 (m.p.r.)

Il Senato ha dato il via libera defi­ni­tivo al con 166 si, 112 no e un aste­nuto ieri alle 19,43 . Cin­que ore prima a pochi metri di distanza, oltre le linee di un eser­cito di cen­ti­naia di poli­ziotti, cara­bi­nieri e finan­zieri, in via delle Bot­te­ghe Oscure, la vio­lenza dei man­ga­nelli. Uno spet­ta­colo gra­tuito e inspie­ga­bile quello visto ieri nelle strade di Roma. Il volto più edu­cato, ma ugual­mente pre­gno di con­te­nuti, il governo l’ha mostrato in aula quando il mini­stro del Lavoro Giu­liano Poletti ha annun­ciato la fidu­cia per tagliare le gambe alla sini­stra Dem e zit­tirla sulla riforma del lavoro. Dopo le 14 tra piazza Sant’Andrea della Valle e i binari del tram 8, davanti al tea­tro Argen­tina, ha mostrato quello più arbitrario.

Le forze dell’ordine schie­rate con decine di camio­nette e un cen­ti­naio di uomini hanno negato a tre­cento per­sone di tor­nare a Sant’Andrea della Valle, la piazza con­cor­data con la Que­stura di Roma fino alle 18. Dopo averli tenuti in ostag­gio per più di un’ora, davanti all’insistenza dei mani­fe­stanti di uscire dall’accerchiamento, è par­tita una carica. Due per­sone sono state fer­mate, poi rila­sciate. Altre pic­chiate. Erano inermi. La testi­mo­nianza di nume­rosi video da ore in rete mostra la durezza delle scene. «Con­te­ni­mento per impe­dire di tor­nare al Senato» lo defi­ni­sce una nota della Que­stura capi­to­lina che sostiene di avere seque­strato 30 petardi e 26 fumo­geni. Oggetti evi­den­te­mente peri­co­losi al punto da can­cel­lare la cla­mo­rosa spro­por­zione delle forze in campo. Lasciando defluire un cor­teo paci­fico si sareb­bero evi­tati anche i lanci di petardi e inu­tili ten­sioni. Al vaglio ci sono le imma­gini riprese dalle tele­ca­mere mon­tate sulle uni­formi degli agenti. Il cor­teo era par­tito verso mez­zo­giorno dal Colos­seo con più di cin­que­cento persone.

«In tutta Europa si mani­fe­sta con­tro leggi che sono ipo­te­che sul futuro di milioni di per­sone - ha com­men­tato Fran­ce­sco Rapa­relli del labo­ra­to­rio romano per lo scio­pero sociale, uno dei fer­mati - A Roma no. è vie­tato mani­fe­stare libe­ra­mente». «Il nuovo que­store di Roma ha esor­dito in maniera igno­bile - ha detto il por­ta­voce Cobas Piero Ber­noc­chi - Non vor­rei che quanto acca­duto risulti sulla stampa come dipeso da un poli­ziotto ner­voso. Chi ha deciso que­ste cari­che? Renzi è come il padre del Bud­dha che nascon­deva i fiori morti al figlio, non vuole vedere con­te­sta­zioni e su que­sto ha messo il carico da undici anche Alfano». «Si è sve­lata la natura auto­ri­ta­ria del governo, che pre­fe­ri­sce far man­ga­nel­lare stu­denti mino­renni che stanno occu­pando le scuole con­tro La Buona Scuola e il Jobs Act invece di rispon­dere ai loro reali biso­gni» sostiene Danilo Lam­pis (Uds). «Que­sta vicenda non fini­sce qui - la bat­ta­glia pro­se­guirà con­tro i decreti attua­tivi della legge delega, per impe­dire che ven­gano can­cel­lati diritti e tutele - sostiene il sin­da­cato Usb - la bat­ta­glia pro­se­guirà con­tro i decreti attua­tivi della legge delega, per impe­dire che ven­gano can­cel­lati diritti e tutele».

Decreti che ver­ranno appro­vati entro giu­gno. «Le opi­nioni espresse in par­la­mento saranno tenute in con­si­de­ra­zione nella loro ste­sura» ha detto Poletti. Saranno cin­que e riguar­dano gli ammor­tiz­za­tori sociali, i ser­vizi per il lavoro, la sem­pli­fi­ca­zione, il rior­dino delle forme con­trat­tuali e la con­ci­lia­zione. Si can­cel­lerà l’articolo 18 sul licen­zia­mento per i neo-assunti che ver­ranno sot­to­po­sti alla disci­plina del «con­tratto a tutele cre­scenti». Le loro tutele saranno vin­co­late al periodo di lavoro svolto. Meno si lavora, meno soldi si rice­vono. Una svolta nella recente, e tri­bo­lata, sto­ria del diritto del lavoro sem­pre più rical­cato sulle esi­genze delle imprese. In aula, durante la discus­sione, i sena­tori di Sel hanno pro­te­stato mostrando car­telli con la scritta: «Jobs Act: ritorno all’800». Per Poletti, invece, «non sono le regole a pro­durre posti di lavoro, ma siamo con­vinti che un buon con­te­sto aumenti l’opportunità». Il con­te­sto è quello dove la disoc­cu­pa­zione è arri­vata al 13,2%, +286 mila in un anno, e quella gio­va­nile è fuori con­trollo: 43,3%. Il pre­mier Renzi si è invece com­pli­men­tato su twit­ter: «Que­sta è #lavol­ta­buona. E noi andiamo avanti». Nella dire­zione vista ieri a Roma. Il sena­tore Pd Cor­ra­dino Mineo non ha votato la fidu­cia. Lorenza Ric­chiuti e Felice Cas­son (Pd) erano assenti.

«La fotografia che Enrico Rossi ha postato su Facebook ha fatto politica più di quanta ne abbiano fatto le ultime dieci riunioni della direzione del Pd. Rossi ha compiuto "un significativo gesto di socialità da parte di un uomo delle istituzioni nei confronti di persone tra le meno frequentate e sopportate"».

Articolo9, 3 dicembre 2014

Ha scritto Leonardo: «Poni scritto il nome di Dio in un loco, e ponvi la sua figura a riscontro: vedrai quale fia più riverita». Lo straordinario potere delle immagini: da millenni strumento di elezione della politica.

Sarà per questo potere che la fotografia che Enrico Rossi ha postato su Facebook ha fatto politica più di quanta ne abbiano fatto le ultime dieci riunioni della direzione del Pd. Pubblicando una sua foto sorridente con una famiglia Rom, e intitolandola «i miei vicini di casa», Rossi ha compiuto – come ha scritto Michele Serra – «un significativo gesto di socialità da parte di un uomo delle istituzioni nei confronti di persone tra le meno frequentate e sopportate».

Una cosa normale, addiritura banale, in un paese civile. Uno scandalo in un'Italia incattivita e sempre più consegnata agli istinti più bassi e ai bisogni più elementari.

E a colpire non sono (solo) i post razzisti, gli insulti, le incitazioni al pogrom berciati dal branco rabbioso e anonimo che si muove sulla rete, né gli scontati attacchi frontali della Lega o di Fratelli d'Italia. No, a colpire sono i silenzi della Chiesa gerarchica fiorentina (qualcuno li ha avvertiti che il papa si chiama Francesco?). O i toni dei giornali di Firenze: ieri un quotidiano che ci si aspetterebbe civile ha scritto, nell'editoriale di apertura, che il gesto di Rossi «voleva dare voce alla seconda curva ultrà, quella dei "tutti onesti e lavoratori", senza tenere conto delle differenze che ci sono in ogni gruppo sociale». Parole davvero sconcertanti. Rossi non ha postato la foto di un rom che chiede l'elemosina, scrivendoci sotto «avanti così»: no, si è fatto ritrarre con una famiglia normale che vive in una casa vicina alla sua. E questo sarebbe un gesto da ultra? Dire che l'integrazione è possibile, pensare che le responsabilità siano individuali, e non del 'gruppo': tutto questo sarebbe da ultra?

Va peggio con i politici: a parte qualche eccezione, il Pd si è defilato come non avrebbe fatto neanche Forza Italia. Il ministro della Repubblica Maria Elena Boschi ha detto che Salvini deve tacere perché la sua foto a torso nudo sarebbe «più imbarazzante» di quella di Rossi. E perché mai quella di Rossi dovrebbe essere «imbarazzante»? Ma l'apice dell'antipolitica l'ha toccato il segretario del Pd toscano Dario Parrini, che prima ha detto «no comment», e poi si è limitato a sillabare che «la parola doveri è di sinistra quanto la parola diritti».

E uno, davvero, si chiede cosa sia successo al Partito Democratico. Non mi risulta che Parrini si sia mai sentito in dovere di commentare le due foto qua sotto.

È forse di sinistra che la Fiat vada a pagare le tasse altrove? E come stanno ripartiti, qua, i diritti e i doveri? E ancora: è forse di sinistra che la Costituzione venga cambiata in base ad un patto segreto contratto tra questi due signori? E qua, con la faccenda dei doveri come la mettiamo?

Dario Parrini è di Vinci, proprio come Leonardo. Il quale Leonardo scrisse che «il pesante ferro si reduce in tanta sottilità mediante la lima, che picciolo vento poi lo porta via». Ecco, la furbesca retorica antipolitica sta limando giorno dopo giorno il progetto di Paese che un giorno apparteneva alla Sinistra. Un progetto fondato sull'uguaglianza: quella possibile, quella che sta a noi realizzare. E tra poco basterà il vento forte dell'astensione e il piccolo vento della Lega di Salvini a portarsi via quel futuro possibile.

Come ha scritto ieri Elle Kappa, «il sonno della politica genera destra».



«Per quanto sia impor­tante avere un’occupazione, essa non è tut­ta­via suf­fi­ciente per la rea­liz­za­zione delle per­sone; il loro benes­sere non è favo­rito se le esi­genze pro­dut­tive impon­gono con­di­zioni squi­librate di sovraoc­cu­pa­zione che costrin­gono a una «rin­corsa per­ma­nente» a mag­giori con­sumi o a con­di­zioni di sot­toc­cu­pa­zione che depri­mono la qua­lità della vita».

Il manifesto, 28 novembre 2014 (m.p.r.)

Il rap­porto tra oppor­tu­nità di vita e qua­lità della stessa si pre­senta con­trad­dit­to­rio fin dagli anni Settanta quando, come rico­strui­sce Ste­fano Fas­sina nella pre­fa­zione al libro di Aldo Carra Più ugua­glianza, più benes­sere. Per­corsi pos­si­bili in tempi di crisi (Ediesse, pp. 156, euro 12), emer­gono i limiti di uno svi­luppo che, pur in forte cre­scita pro­dut­tiva, è inca­pace a rispon­dere alla domanda di mag­giore qua­lità del lavoro e di esten­sione del wel­fare. Il volume sarà pre­sen­tato oggi a Roma da chi scrive, Ste­fano Fas­sina e Norma Ran­geri in un incon­tro con l’autore (appun­ta­mento alle ore 18 alla chiesa val­dese, Via Marianna Dio­nigi 59). Il «ben-essere» (well-being) al quale si rife­ri­sce Carra non è la sod­di­sfa­zione dei soli biso­gni per­so­nali con beni di mer­cato, e ser­vizi pub­blici, ma anche delle esi­genze che atten­gono alla rea­liz­za­zione per­so­nale e sociale degli indi­vi­dui e, in que­sto senso, si con­trap­pone al Pil quale misura dei risul­tati eco­no­mici di un paese.

Il well-being incon­tra un limite nel modello pro­dut­tivo esi­stente per la subor­di­na­zione che impone al lavoro e per le disu­gua­glianze che genera nella società. Key­nes aveva visto giu­sto nel pre­ve­dere l’enorme cre­scita della pro­dut­ti­vità del XX secolo, ma non aveva visto giu­sto nel rite­nere che, appa­gati i biso­gni pri­mari, ci sarebbe stato tutto lo spa­zio per sod­di­sfare le neces­sità di più alto livello. Le cose non sono andate così; il sistema capi­ta­li­stico, per non intac­care il suo assetto sociale, ha accom­pa­gnato la sua cre­scita con la tra­sfor­ma­zione dei modelli di con­sumo indu­cendo i biso­gni neces­sari all’assorbimento dei «suoi» pro­dotti in un cir­cuito «infer­nale tra svi­luppo che genera biso­gni e ricerca di sod­di­sfa­zione dei biso­gni che genera sviluppo».

Il grande inganno
Per quanto sia impor­tante avere un’occupazione, essa non è tut­ta­via suf­fi­ciente per la rea­liz­za­zione delle per­sone; il loro benes­sere non è favo­rito se le esi­genze pro­dut­tive impon­gono con­di­zioni squi­librate di sovraoc­cu­pa­zione che costrin­gono a una «rin­corsa per­ma­nente» a mag­giori con­sumi o a con­di­zioni di sot­toc­cu­pa­zione che depri­mono la qua­lità della vita. Entrambi i casi pena­liz­zano le attività rela­zio­nali che pos­sono met­tere in discus­sione «i ruoli sociali, la sepa­ra­zione tra lavoro pro­dut­tivo e lavori dome­stici e di cura, la rela­zione tra tempi di vita e di lavoro». Per con­tra­stare la per­dita di valore del lavoro è neces­sa­rio pen­sare (sono citati Pierre Car­niti e Bruno Tren­tin) alla ridu­zione degli orari e alla redi­stri­bu­zione del lavoro in un’ottica «di lavo­rare meno per vivere meglio». Ste­fano Fas­sina ricorda oppor­tu­na­mente nella sua pre­fa­zione le parole di Pie­tro Mar­ce­naro che soste­neva una redi­stri­bu­zione del tempo di lavoro capace di tener conto della «dispo­ni­bi­lità dif­fe­ren­ziata verso il lavoro e dei diversi biso­gni di red­dito» in modo da com­pren­dere «l’organizzazione dell’insieme delle scelte di vita di una per­sona». Pro­spet­tiva che, intrec­ciata a quel red­dito minimo garan­tito auspi­cato dall’Unione Euro­pea, darebbe sostanza a pro­getti di «lavoro di cit­ta­di­nanza attiva».

Una realtà di «minori occu­pati che lavo­rano di più» genera una siste­ma­tica disu­gua­glianza che, come espli­cita il titolo (Più ugua­glianza, più benes­sere), costi­tui­sce un vin­colo all’opportunità di scelta della pro­pria vita. Carra parla giu­sta­mente, a que­sto pro­po­sito, di «grande inganno» per­pe­trato da que­gli eco­no­mi­sti che teo­riz­zano che la disu­gua­glianza fac­cia bene; che il mer­cato pre­mia il merito; che pri­vi­le­giare l’utilizzo dei pochi che dispon­gono di mag­giori risorse fa «sgoc­cio­lare» red­dito e oppor­tu­nità su coloro che non ne sono dotati; che l’esclusione dei molti è giu­sti­fi­cata, anzi auspi­cata per la mag­giore «effi­cienza» dell’economia, dato che i costi sociali e per­so­nali dell’esclusione (disoc­cu­pa­zione e pre­ca­riz­za­zione) non sono costi eco­no­mici (da inclu­dere nel Pil).

La classe diri­gente non rie­sce solo a creare regole fun­zio­nali ai suoi inte­ressi, ma anche a con­vin­cere che i rap­porti da lei impo­sti rispon­dono alle esi­genze dei loro subor­di­nati; accet­tare la «pre­di­ca­zione della disu­gua­glianza come valore posi­tivo» signi­fica rati­fi­care di fatto la vit­to­ria cul­tu­rale dell’individualismo, con­su­mi­smo, libe­ri­smo. Si può uscire da que­sta trap­pola solo pro­po­nendo una poli­tica alter­na­tiva che abbia nel lavoro il segno tan­gi­bile dell’uguaglianza e della libertà. In que­sta ten­sione etico-religiosa – i rife­ri­menti a papa Fran­ce­sco e al pen­siero cat­to­lico e socia­li­sta sono fre­quenti – si col­loca la pro­po­sta «mini­ma­li­sta» di Carra per «con­vin­cerci e con­vin­cere» che l’uguaglianza è oggi pos­si­bile e neces­sa­ria e che per rag­giun­gerla non vi è biso­gno di obiet­tivi radi­cali di rivol­gi­mento, ma per­corsi che la rico­strui­scano «a par­tire da tutti gli aspetti della vita quo­ti­diana delle persone».

La ricerca di Carra si appog­gia sulle ana­lisi, e sugli indi­ca­tori di Benes­sere Equo e Soste­ni­bile (Bes), ela­bo­rate dalla Com­mis­sione Istat-Cnel alla quale ha par­te­ci­pato come mem­bro. Sulla base dell’architettura del Bes, egli indi­vi­dua gli obiet­tivi volti a con­tra­stare le mol­te­plici situa­zioni di disu­gua­glianze che si pre­sen­tano nei micro­con­te­sti sociali, fami­liari e cul­tu­rali della vita quo­ti­diana. I set­tori del lavoro, del benes­sere eco­no­mico, della salute e dell’istruzione sono quelli nei quali più forte è l’incidenza delle disu­gua­glianze e sono quindi i campi sui quali si con­cen­tra la sua atten­zione e la sua pro­po­sta di micro­pro­getti che viene svi­lup­pata adot­tando tre chiavi di let­tura delle disu­gua­glianze (di genere, di gene­ra­zione, territoriali).

Un problema di governo
Carra assume che disu­gua­glianza e benes­sere sono una rile­vante que­stione nazio­nale, così come rile­vante è l’idea di una sua gestione set­to­riale. È una pro­po­sta che, richie­dendo una testa cen­trale e gambe locali, fa emer­gere il nodo poli­tico di una poli­tica eco­no­mica progressiva.

Nel libro l’azione pub­blica fa rife­ri­mento a una testa, a un governo nazio­nale, che non sem­bra avere tra i suoi obiet­tivi quelli auspi­cati e a gambe, gli enti locali, non sem­pre dotati di ade­guate competenze e volontà (Fabri­zio Barca potrebbe meglio qua­li­fi­care que­sto aspetto) e tanto meno auto­no­mia finan­zia­ria; non meno secon­da­rio è il con­te­sto cul­tu­rale che fal­ci­dia tutte le pro­po­ste non con­formi all’esistente visione di poli­tica eco­no­mica. Ma, se non si accetta l’egemonia poli­tica e cul­tu­rale domi­nante, come non l’accetta Carra, l’ambizioso pro­getto del libro richiede di tro­vare teste e gambe in grado di dare una rispo­sta posi­tiva all’aspirazione di più ugua­glianza e più benes­sere; in sostanza, il nodo è come e dove sono i poteri, le forze (sociali, poli­ti­che, di movi­mento) capaci di mobi­li­tarsi, all’interno di una visione glo­bale, in uno sforzo comune per più ugua­glianza e più benessere?

«Fare sin­da­cato e costruire coa­li­zione per una nuova sini­stra sarà dif­fi­cile, ma più neces­sa­rio e urgente. Il popolo orfano di una sini­stra popo­lare, in piazza il 25 otto­bre e nelle occa­sioni suc­ces­sive, in moto per uno scio­pero gene­rale, dopo anni. Que­sta sarà la risposta».

Il manifesto, 26 novembre 2014 (m.p.r.)

Il Jobs Act è pas­sato anche alla Camera. Tor­nerà per l’approvazione defi­ni­tiva al Senato, ma non si atten­dono sor­prese. Renzi può por­tare a Bru­xel­les lo scalpo dell’articolo 18, anzi di tutto l’impianto dello Sta­tuto dei diritti dei lavo­ra­tori, per­ché senza tutela reale ogni altro diritto è di per sé inde­bo­lito se non annul­lato. Hanno votato in 316 a favore del dise­gno di legge del governo. La mag­gio­ranza asso­luta, per un voto, di una camera di nomi­nati già poli­ti­ca­mente dele­git­ti­mata dalla boc­cia­tura del por­cel­lum da parte della Corte Costi­tu­zio­nale. Mal­grado ciò quella mag­gio­ranza si è assunta la respon­sa­bi­lità di can­cel­lare con un pul­sante decenni di sto­ria del con­flitto sociale che ave­vano creato il “caso ita­liano” durante i “trenta anni glo­riosi” del capi­ta­li­smo occidentale.

Eppure que­sta volta per Renzi non è stato un trionfo. E’ forse esa­ge­rato dire che si è trat­tato di una vit­to­ria di Pirro, ma per la prima volta Renzi ha dovuto incas­sare il dis­senso aperto della mino­ranza del suo par­tito. Civati ha votato no, men­tre Fas­sina e Cuperlo hanno tra­sci­nato fuori dall’Aula una tren­tina di depu­tati, assieme a quelli di Sel, dei Pen­ta­stel­lati e delle oppo­si­zioni di destra. A sua volta Ber­sani ha votato un sì per pura disci­plina e palese nulla con­vin­zione. E così sarà stato pro­ba­bil­mente per diversi altri. La pre­sunta media­zione sul testo non ha tenuto né nel merito né poli­ti­ca­mente. Il dis­senso non è rien­trato, è esploso.

Del resto è dav­vero dif­fi­cile con­si­de­rare un miglio­ra­mento quanto è stato pre­ci­sato alla Camera rispetto al Senato. Per i licen­zia­menti per motivi eco­no­mici non c’è alcun rein­te­gro, solo l’indennizzo rap­por­tato alla anzia­nità di ser­vi­zio. Il rein­te­gro com­pare solo per i licen­zia­menti chia­ra­mente discri­mi­na­tori e per quelli disci­pli­nari risul­tati privi di fon­da­mento alcuno, secondo tipi­ciz­za­zioni ulte­riori riman­date ai decreti dele­gati. Chi mai volendo licen­ziare potrebbe impe­go­larsi in que­ste tipo­lo­gie potendo ada­giarsi sull’andamento eco­no­mico dell’impresa? Qui si col­pi­sce non solo il diritto al lavoro del licen­ziato, ma anche il ruolo della magi­stra­tura nell’ inter­vento per rein­te­grare tale diritto. Due pic­cioni con una fava. Nean­che il nemico per eccel­lenza dei giu­dici, Ber­lu­sconi, avrebbe potuto tanto.

Nel frat­tempo Squinzi può sognare, si stro­pic­cia gli occhi, ottiene più di quanto pre­ten­deva e spe­rava. Non ha nep­pure avuto biso­gno di chie­derlo. Anzi, Squinzi aveva com­bat­tuto per la pre­si­denza della Con­fin­du­stria con­tro Bom­bas­sei, dichia­rando pro­prio che l’articolo 18 non era una priorità.

Intanto Pier Carlo Padoan aveva già scritto la sua let­tera alla Com­mis­sione affin­ché fosse indul­gente nel valu­tare i conti della legge di sta­bi­lità. Il giu­di­zio defi­ni­tivo sarà a marzo, ma intanto il governo si salva, anche gra­zie alla appro­va­zione del Jobs Act che, secondo il nostro mini­stro dell’economia, garan­tirà una ripresa dell’economia e il soste­gno al sistema pen­sio­ni­stico. Come ciò possa avve­nire a colpi di pre­ca­riato, che il decreto Poletti e il Jobs Act stesso ampliano a dismi­sura, è un mistero da riman­dare al mittente.

La novità tanto sban­die­rata è il famoso con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti. Le moda­lità della arti­co­la­zione di que­ste tutele sono ancora ignote, per­ché riman­date al testo di decreti dele­gati che even­tual­mente pas­se­ranno solo dalle com­mis­sioni par­la­men­tari — ma non dall’aula — per un parere non vin­co­lante. Tut­ta­via è fin d’ora scar­sa­mente cre­di­bile che un padrone assuma con que­sta forma, quando può uti­liz­zare, gra­zie al decreto Poletti, con­tratti a ter­mine uno in fila all’altro senza doverne moti­vare la ragione. Para­dos­sal­mente, ma non troppo, pro­prio il con­tratto inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti spin­gerà ancora di più l’acceleratore sulla totale pre­ca­riz­za­zione dei rap­porti di lavoro per i nuovi assunti.

Fare sin­da­cato e costruire una nuova coa­li­zione sociale per una nuova sini­stra sarà più dif­fi­cile, ma ancora più neces­sa­rio ed urgente. Una dimen­sione euro­pea è indi­spen­sa­bile poi­ché il sistema non sop­porta legi­sla­zioni nazio­nali pro­tet­tive dei diritti e forme con­trat­tuali che vadano al di là del sin­golo gruppo o azienda. Jobs, più che voler dire lavori, è un acro­nimo: Jump­start Our Busi­nes­ses (come l’omonimo ame­ri­cano del 2012) cioè «met­tiamo in moto le nostre imprese». Di con­tro, quel popolo di sini­stra orfano di una vera sini­stra popo­lare ritro­va­tosi in piazza il 25 otto­bre e nelle occa­sioni suc­ces­sive, si rimette in moto per uno scio­pero gene­rale, dopo tanti anni. Que­sta sarà la risposta.

« Il manifesto, 26 ottobre 2014 (m.p.r.)

Un’alternativa dal basso alla «glo­ba­liz­za­zione dell’indifferenza». Que­sto il senso dell’Incontro mon­diale delle orga­niz­za­zioni popo­lari che si svolge a Roma da domani al 29 e che acco­glie dele­gati pro­ve­nienti dai cin­que con­ti­nenti. La con­fe­renza di pre­sen­ta­zione, che si è tenuta nella sala stampa del Vati­cano, ha messo in luce la par­ti­co­la­rità dell’evento, signi­fi­cata dalla pre­senza al tavolo di due car­di­nali – Peter Kodwo Appiah Turk­son, pre­si­dente del Pon­ti­fi­cio Con­si­glio della Giu­sti­zia e della Pace, e Mar­celo San­chez Sorondo, Can­cel­liere della Pon­ti­fi­cia Acca­de­mia delle Scienze sociali – e di un atti­vi­sta argen­tino, Juan Gra­bois, della Con­fe­de­ra­cion de Tra­ba­ja­do­res de la Eco­no­mia Popu­lar (Ctep), una delle strut­ture che ha orga­niz­zato l’incontro internazionale.

Un con­sesso degli esclusi for­te­mente appog­giato da papa Ber­go­glio – ha spie­gato padre Fede­rico Lom­bardi, gesuita come il pon­te­fice argen­tino. E così, a fianco del Movi­miento mun­dial de Tra­ba­ja­do­res Cri­stia­nos tro­viamo i Movi­menti delle fab­bri­che recu­pe­rate in Argen­tina (ci sono anche l’italiana Rima­flow, Com­mu­nia Net­work e Genuino clan­de­stino), cen­tri sociali come il Leon­ca­vallo, la Banca etica, e orga­niz­za­zioni popo­lari mar­xi­ste e lai­che, dall’Asia all’Africa, agli Stati uniti e all’America latina: a par­tire dal Movi­mento dei Sem Terra, uno dei prin­ci­pali organizzatori.

L’egemonia? Se ne è discusso per qual­che mese, non senza defe­zioni e malu­mori, ma alla fine ha pre­valso la parola «incon­tro», nel «cam­mino aperto da papa Fran­ce­sco, che sostiene di avere molti amici tro­tski­sti e che ci ha aiu­tato a situare il tema dell’ingiustizia e dell’esclusione», ha detto Mon­si­gnor Sorondo, e ha pre­ci­sato: «D’altronde, Gesù è arri­vato prima del mar­xi­smo, e poi dopo la caduta del socia­li­smo i mar­xi­sti non sono più un pericolo».

E comun­que, la chiesa di Ber­go­glio è tor­nata a «vedere» quei preti che incro­ciano il con­flitto sociale, e a misu­rarsi per­sino coi momenti e coi luo­ghi in cui è neces­sa­rio disob­be­dire. Per l’Incontro mon­diale arri­verà anche il pre­si­dente della Boli­via, Evo Mora­les, appena rie­letto a grande mag­gio­ranza: però non come capo di stato, ma come ex sin­da­ca­li­sta indi­geno e «cocalero».

Dopo la con­fe­renza stampa, Juan Gra­bois ha spie­gato al mani­fe­sto che «per supe­rare osta­coli e dif­fe­renze e affron­tare insieme un capi­ta­li­smo sel­vag­gio che distrugge la natura e con­danna i gio­vani a non avere futuro», si è pre­fe­rito rac­chiu­dere il senso dell’Incontro intorno alle «», terra, casa, e lavoro, «diritti ele­men­tari che tutti desi­de­riamo, ma che neces­si­tano di una forte e tenace orga­niz­za­zione popo­lare: per spin­gere i governi pro­gres­si­sti ad appro­fon­dirli e com­bat­tere quelli che pro­gres­si­sti non sono».

Obiet­tivi prio­ri­tari per i set­tori sociali mag­gior­mente esclusi: «i lavo­ra­tori pre­cari, i migranti, i disoc­cu­pati e chi par­te­cipa al set­tore dell’economia infor­male e auto­ge­stito, senza pro­te­zione legale, rico­no­sci­mento sin­da­cale o coper­ture sociali. E poi i con­ta­dini, i senza terra, i popoli ori­gi­nari e le per­sone che rischiano di essere espulse dalle cam­pa­gne a causa della spe­cu­la­zione agri­cola e della violenza; le per­sone che vivono ai mar­gini delle metro­poli, dimen­ti­cati da una strut­tura urbana ina­de­guata». Tra gli obiet­tivi, c’è dun­que «la riforma agra­ria, quella del lavoro e la costi­tu­zione di Con­si­glio dei movi­menti popo­lari, arti­co­lato a livello globale».

In Argen­tina, il Ctep rac­chiude oltre 500 orga­niz­za­zioni, come il Movi­mento delle fab­bri­che recu­pe­rate, e quello dei Car­to­ne­ros, «com­po­sto da oltre 5.000 lavo­ra­tori che gesti­scono il rici­clag­gio a Bue­nos Aires e che ten­gono alle pro­prie con­qui­ste aperte dalle lotte dei pique­te­ros nel 2001. Da noi, gli infor­mali sono il 30% della classe lavo­ra­trice, un set­tore che dev’essere rico­no­sciuto in un nuovo sindacato».

Nes­sun dub­bio, per Gra­bois, che i movi­menti argen­tini deb­bano lot­tare per la sovra­nità del paese e con­tro i fondi avvol­toi per riba­dire ai poteri forti inter­na­zio­nali «che c’è un limite da non vali­care». L’attivista ha al collo un faz­zo­letto kurdo, e il movi­mento fede­ra­li­sta è pre­sente all’incontro «Lo porto appo­sta — dice — per appog­giare la loro resi­stenza con­tro una banda di mer­ce­nari che mas­sa­cra la popo­la­zione con le armi della Nato. Nella fede­ra­zione kurda si pra­tica la demo­cra­zia diretta e la parità di genere, un esem­pio che disturba».

E i movi­menti in Europa?«Qui la situa­zione dei migranti è ben peg­giore che da noi, dove almeno pos­sono orga­niz­zarsi e lot­tare. Ne ho visti lavo­rare in ogni strada di Roma, e come me li vedono tutti, ma restano invi­si­bili e senza diritti. Il cuore di chi ha tutto è chiuso, ma noi dovremmo costruire un’alleanza glo­bale tra gio­vani pre­cari e migranti e farne la linea prin­ci­pale della bat­ta­glia con­tro l’ingiustizia».

La crisi di consenso di molti primi cittadini eletti nella
"stagione dei sindaci" non è causata tanto dai loro errori, ma soprattutto dalle scelte politiche dei governi dell'austerity e della demagogia, delle quali Renzi è indubbiamente il maggior responsabile .

Il manifesto, 25 novembre 2014

Se Italo Cal­vino avesse scritto oggi il suo insu­pe­ra­bile «Le città invi­si­bili» avrebbe incluso pro­ba­bil­mente un capi­tolo dedi­cato alla «città ingo­ver­na­bile». Que­sta è infatti la con­di­zione della gran parte delle città ita­liane negli ultimi cin­que anni, da quando la crisi eco­no­mica ha pro­dotto cre­scente disoc­cu­pa­zione, pre­ca­rietà, disa­gio e paura crescenti. Da Pisa­pia a De Magi­stris, da Doria a Marino, da Orlando a Piz­za­rotti, non c’è più un sin­daco eletto sull’onda ed il biso­gno di una svolta radi­cale che oggi non sia in crisi di consensi. Per­sino Renato Acco­rinti, eletto a Mes­sina a furor di popolo un anno e mezzo fa, il sin­daco con la maglietta «No Ponte», icona della pace e della difesa dell’ambiente, è oggi a corto di con­sensi nella sua città mal­grado i risul­tati conseguiti.

Esat­ta­mente venti anni fa si inau­gu­rava la cosid­detta «sta­gione dei sin­daci», par­tendo dalla rina­scita della Napoli di Bas­so­lino, pas­sando per la pri­ma­vera della Palermo del primo Orlando, e poi ancora Bianco a Cata­nia e Fal­co­matà a Reg­gio Cala­bria, per citare i casi più famosi. Coin­ci­deva anche con una sta­gione di risve­glio delle popo­la­zioni meri­dio­nali a soste­gno dei pro­pri sin­daci che ave­vano dato segni con­creti di buon governo dopo la fal­li­men­tare gestione demo­cri­stiana. Non a caso tutti rie­letti al secondo mandato. Oggi sarebbe impossibile.

Da una parte, i tagli dei tra­sfe­ri­menti sta­tali ai Comuni, inau­gu­rati dal governo Monti e por­tati alle estreme con­se­guenze da Renzi, dall’altra un debito inso­ste­ni­bile ere­di­tato dalle ammi­ni­stra­zioni pas­sate, ren­dono impos­si­bile rispon­dere ai biso­gni cre­scenti della cittadinanza.

Crisi eco­no­mica e tagli ai bilanci comu­nali si tra­du­cono in una morsa che impe­di­sce di rispon­dere a un disa­gio sociale cre­scente e, soprat­tutto, all’insofferenza. Gli abi­tanti delle peri­fe­rie sono diven­tati ansiosi e intol­le­ranti dopo aver sop­por­tato decenni di abban­dono e degrado. Infatti, biso­gna ricordarlo, anche durante la cosid­detta «sta­gione dei sin­daci» le peri­fe­rie urbane, di Roma, Napoli o Cata­nia erano rima­ste sostan­zial­mente esterne alla riqua­li­fi­ca­zione urbana diretta soprat­tutto ai cen­tri sto­rici. Ma, non c’era la pesan­tezza di que­sta crisi e le popo­la­zioni delle peri­fe­rie si aspet­ta­vano ancora di essere incluse nel pro­cesso di rina­scita cit­ta­dino. C’era ancora la spe­ranza. In que­sti anni è stata seppellita.

Oggi non si dice più «piove governo ladro», ma per ogni gua­sto sociale e ambien­tale il «pun­ching ball» è il sin­daco. Doria a Genova e Marino a Roma, solo per citare gli ultimi casi, avranno pure le loro man­canze ma sono stati messi alla gogna come gli unici respon­sa­bili del disa­stro dell’alluvione o del degrado/razzismo dei quar­tieri peri­fe­rici. E non sono feno­meni iso­lati, ma desti­nati ad allar­garsi per­ché il governo Renzi ha una stra­te­gia poli­tica chiara: sca­ri­care sugli enti locali il costo della crisi e del debito pub­blico inso­ste­ni­bile. Ed è una stra­te­gia che funziona.

I tagli alla sanità pesano sulle Regioni che si tro­vano di fronte una forte oppo­si­zione sociale alla cosid­detta «razio­na­liz­za­zione dell’offerta ospe­da­liera» che com­porta la chiu­sura di decine di ospe­dali per ogni regione. I tagli ai comuni si abbat­tono sui ser­vizi sociali, i mezzi di tra­sporto locale e, soprat­tutto, aumen­tano le impo­ste locali. Quasi tutte le ammi­ni­stra­zioni comu­nali sono diven­tate le più odiate dai com­mer­cianti, dai pro­prie­tari di case, dai sog­getti deboli pri­vati dell’assistenza neces­sa­ria. Risul­tato finale: lo scollamento/scontro tra popo­la­zioni ed ammi­ni­stra­zioni comu­nali porta al col­lasso della demo­cra­zia reale, per­ché è pro­prio a livello locale che è pos­si­bile pra­ti­care forme di demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva, di gestione dei Beni Comuni , di autogoverno.

Vice­versa tutte le cose posi­tive le fa Renzi. E non solo gli 80 euro. Vor­rei citare un fatto recen­te­mente accaduto. In pro­vin­cia di Cosenza una orga­niz­za­zione cat­to­lica, il Banco delle Opere di Carità, in col­la­bo­ra­zione con diversi comuni col­li­nari e mon­tani, sta distri­buendo gra­tui­ta­mente la frutta alle popo­la­zioni di que­sti comuni peri­fe­rici (mele, prugne,ecc.) come soste­gno eco­no­mico alle fasce ter­ri­to­riali più povere. Si è sparsa la voce che que­sto inso­lito prov­ve­di­mento (di solito la frutta che non si ven­deva finiva sotto il trat­tore) sia opera del governo, e così la gente dice : «È arri­vata la frutta di Renzi».

Natu­ral­mente c’è sem­pre il rove­scio della meda­glia. L’attacco al sin­da­cato e ai lavo­ra­tori che scio­pe­rano toglie con­sensi al pre­mier, ma non va sot­to­va­lu­tato il fatto che la stra­te­gia prin­cipe di Palazzo Chigi è tipica di un’azienda capi­ta­li­stica: ester­na­liz­zare i costi, sociali ed ambien­tali, e inter­na­liz­zare i pro­fitti (con­sensi in que­sto caso). Per que­sto gli ammi­ni­stra­tori locali che rischiano in prima per­sona dovreb­bero unirsi con­tro que­sto governo con più forza e deter­mi­na­zione di quello che finora hanno fatto, a par­tire dalla richie­sta di ristrut­tu­ra­zione dei debiti ere­di­tati e non più sostenibili.

«Il nuovo pro­dotto è pronto. La poli­tica in crisi di con­senso deve pro­durre lea­der, ven­derli e pro­durne di nuovi, per ali­men­tare lo spet­ta­colo dello scon­tro bipo­la­ri­sta e il flusso illusione-disillusione su cui si basa». I giornali amici di Renzi gli stanno preparando l'avversario senza il quale non può vincere.

Il manifesto, 23 novembre 2014

Il nuovo pro­dotto è pronto. La poli­tica in crisi di con­senso deve pro­durre lea­der, ven­derli e pro­durne di nuovi, per ali­men­tare lo spet­ta­colo dello scon­tro bipo­la­ri­sta e il flusso illusione-disillusione su cui si basa. Il nuovo pro­dotto è natu­ral­mente Mat­teo Sal­vini. I nuovi pro­dotti poli­tici ven­gono sem­pre lan­ciati da mas­sicce cam­pa­gne pub­bli­ci­ta­rie, ma forse la cam­pa­gna per la pro­du­zione e per la pro­mo­zione di Sal­vini non ha pre­ce­denti. D’altra parte si par­tiva da con­di­zioni dif­fi­cili: una Lega al 3 per cento. L’avventura era par­ti­co­lar­mente affascinante.

Il segre­ta­rio della Lega è inin­ter­rot­ta­mente in tele­vi­sione, spesso due volte al giorno, dalla cam­pa­gna elet­to­rale per le euro­pee. Non può essere solo per­ché «fa audience» (fa audience?). Dopo, ci si pro­duce in con­ti­nue ana­lisi sul per­ché la Lega cre­sca nei son­daggi, cele­brando le doti del lea­der, le sue abi­lità comu­ni­ca­tive, la sua bra­vura ad inter­cet­tare gli umori popo­lari. La Lega cre­sce per­ché Sal­vini è in tele­vi­sione due volte al giorno. Una parte secon­da­ria del merito va anche alla sua capa­cità di indi­vi­duare poche chiare que­stioni per posi­zio­narsi sul mer­cato (No all’Euro e all’immigrazione). Ma nes­suno se ne accor­ge­rebbe se non ci fosse la prima condizione.

Si può imma­gi­nare quali siano gli effetti spe­rati di que­sta cam­pa­gna di suc­cesso. Par­tiamo dal set­tore di mer­cato che deve con­qui­stare: il suo prin­ci­pale desti­na­ta­rio sono i ceti popo­lari, cioè il prin­ci­pale tar­get di tutte le più recenti cam­pa­gne per il lan­cio dei lea­der, che infatti sono cre­sciuti elet­to­ral­mente innan­zi­tutto in quell’area.

Primo effetto: la Lega, nel suo nuovo vestito lepe­ni­sta, è in grado di spo­stare il discorso sulla crisi dal piano sociale a quello della sicu­rezza. Una fun­zione fon­da­men­tale, men­tre rie­merge in Ita­lia una dia­let­tica sociale che riguarda il lavoro e le con­di­zioni di vita dei set­tori popo­lari. A que­sto si aggiunga la cam­pa­gna, lan­ciata dal Cor­riere e ripresa dai talk show, sulle case occu­pate. Primo risul­tato: la rap­pre­sen­ta­zione è quella di un mondo popo­lare infil­trato dalla cri­mi­na­lità e il cui pro­blema prin­ci­pale sono gli immi­grati. Il suo secondo e terzo pro­blema sono i poli­tici e i sindacati.

Secondo effetto: Renzi è stato in que­sti mesi il mono­po­li­sta del mer­cato poli­tico. Ma la rap­pre­sen­ta­zione spet­ta­co­lare dello sport poli­tico non regge se non c’è un nemico, l’antagonista, lo sfi­dante, il cat­tivo. A che cosa appas­sio­narsi altri­menti? Il mer­cato è com­pe­ti­zione, il pro­dotto vin­cente deve essere sfi­dato dal pro­dotto che lo sosti­tuirà. In più: nella pros­sima cam­pa­gna elet­to­rale l’ex mono­po­li­sta potrà dire che biso­gna votare Pd per evi­tare il pericolo-Lega. Così, men­tre l’elettorato di sini­stra sarà ten­tato di votare un nuovo pos­si­bile sog­getto poli­tico, si potrà ancora ricor­rere alla magia del voto utile.

Il tema cen­trale è dun­que lo spo­sta­mento del con­flitto sociale su altri piani. Il prodotto-Grillo e il prodotto-Renzi l’hanno spo­stato sul piano delle oppo­si­zioni tra vec­chio e nuovo, tra sistema (poli­tico) e anti-sistema, tra Casta e anti-Casta. Adesso biso­gna tro­vare qual­che nuovo ter­reno di gioco, non si può fare sem­pre la stessa gara (il pub­blico si anno­ie­rebbe e guar­de­rebbe altrove). Ed ecco rie­mer­gere la questione-sicurezza, eterna Fenice che risorge nei momenti di pos­si­bile muta­mento poli­tico. Il Cor­riere della Sera a que­sti rea­lity par­te­cipa sem­pre con entu­sia­smo e da pro­ta­go­ni­sta: il brand della Casta, come la cam­pa­gna sulla lega­lità nelle peri­fe­rie, è nato sulle sue colonne.

Con­tem­po­ra­nea­mente, tutti i media cele­brano dalla mat­tina alla sera la messa can­tata delle virtù dell’impresa. Gli impren­di­tori licen­ziano, chiu­dono, delo­ca­liz­zano, non pagano i dipen­denti, li for­zano a dimet­tersi, ren­dono le aziende luo­ghi invi­vi­bili (si trovi qual­cuno che è con­tento del suo lavoro) e privi di libertà, non inve­stono in ricerca, cor­rom­pono i poli­tici, cer­cano uni­ca­mente posi­zioni di mer­cato pro­tette (la meri­to­cra­zia è per qual­cun altro, è com­pe­ti­zione tra i desti­na­tari di que­ste cam­pa­gne pub­bli­ci­ta­rie). Ma la rap­pre­sen­ta­zione una­nime degli impren­di­tori è quella degli eroi (in prima fila, nella messa can­tata, c’è Sal­vini). Nei talk show cir­cola costan­te­mente anche una nuova figura: il gio­vane star­tup­per, magari emi­grato in Ame­rica per aprire un’impresa inno­va­tiva che dà tanti posti di lavoro a gio­vani di talento (agli altri no, se non hai talento puoi stare a casa). Lo stur­tup­per, vestito a metà tra il vir­tuoso dello ska­te­board e il pro­prie­ta­rio di un Fondo inve­sti­menti, occupa più o meno la posi­zione del Mes­sia: lo si mette al cen­tro dello stu­dio, lo si cele­bra, gli si chiede a bocca aperta «Cosa dob­biamo fare?», si punta il dito verso la tele­ca­mera e, soprat­tutto se si è un gior­na­li­sta del Cor­riere della Sera, si dice: gio­vani, avete capito? Dovete fare così.

In que­sti anni si è esa­ge­rato a cele­brare la fine della cen­tra­lità del con­flitto di classe in società che erano e restano capi­ta­li­sti­che. Que­sto con­flitto si pre­senta sem­pre in forme spu­rie, cam­bia nel tempo, a volte è dif­fi­cile da leg­gere, ma incide sem­pre in modo deter­mi­nante sulla poli­tica. Molte cose rile­vanti pos­sono essere lette a par­tire da que­sta chiave, che ovvia­mente non è mai esau­stiva. Per esem­pio, può essere letta così tutta la tra­iet­to­ria che va dal Pci al Pd: il suo spo­sta­mento dalla cen­tra­lità del lavoro alla cen­tra­lità dell’impresa è il nucleo fon­da­men­tale di ogni suo cam­bia­mento. Oppure le vicende poli­ti­che che vanno dal 2006 a oggi: la cam­pa­gna per la lotta alla Casta e per la dif­fu­sione dell’antipolitica, lan­ciata men­tre in Par­la­mento c’erano 150 rap­pre­sen­tanti della sini­stra radi­cale; la crea­zione, nello stesso periodo, del Pd, con la pro­mo­zione del Vel­troni inno­va­tore che cor­reva da solo; la grande coa­li­zione Pd-Forza Ita­lia; Renzi; Sal­vini. Non si pos­sono leg­gere que­sti eventi senza con­si­de­rarli anche un momento del con­flitto di classe dei ric­chi con­tro i poveri (e con­tro i loro rap­pre­sen­tanti), con­tem­po­ra­neo all’esplodere di una crisi finan­zia­ria, eco­no­mica e sociale quasi-permanente.

Un nuovo sog­getto poli­tico della sini­stra può solo ripar­tire da que­sto luogo, da que­sto tema e da que­sti sog­getti. Dagli alleati e dagli avver­sari che può avere in que­sto con­te­sto. Biso­gna farlo in modo inno­va­tivo, certo, ma senza più indu­giare su alibi come «la società è cam­biata», «non ci sono più le grandi fab­bri­che», «ormai gli ope­rai votano a destra»

«Se ci si azzarda a dire “approvare una moratoria immediata del consumo di suolo”, o “spostiamo i soldi dalle grandi opere alla cura del territorio” scatta l’allarme rosso. Emerge d’un colpo l’ipocrisia di gran parte della politica e di tanti commentatori».

Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2014

Nelle ultime settimane, dopo le frane e le esondazioni che hanno provocato morti e che hanno messo in ginocchio la Liguria, la Toscana, il Piemonte e la Lombardia, si susseguono le trasmissioni e gli editoriali che cercano di individuare responsabilità e di immaginare le cure possibili al dissesto idrogeologico del nostro paese, per risollevare lo stivale dal fango in cui sprofonda.

Di fronte alle immagini apocalittiche del Polcevera, del Bisagno, del Seveso, tutti si indignano e si costernano. E l’elenco delle proposte per porre rimedio è lungo. Bisogna rifare gli argini dei fiumi! Bisogna fare manutenzione a tutta le rete idrica! Bisogna smetterla con i condoni! Bisogna curare i boschi e le montagne! Bisogna trovare i soldi per realizzare le opere necessarie alla messa in sicurezza! Bisogna fare prevenzione e riorganizzare la protezione civile! Bisogna cancellare il patto di stabilità che impedisce ai comuni di intervenire!

Fin qui tutti d’accordo (o quasi, perché sui condoni edilizi, una manina furbetta che scriva l’emendamento nascosto da inserire in qualche provvedimento, si trova sempre…).

Ma se qualcuno si azzarda a dire “bisogna approvare una moratoria immediata del consumo di suolo”, oppure “spostiamo i soldi dalle grandi opere alla cura del territorio” scatta l’allarme rosso. Ed emerge tutta d’un colpo l’ipocrisia di gran parte della politica e di tanti commentatori.

Perché finché si tratta di restare sulle enunciazioni di principio, dicendo cose come “curiamo l’ambiente e sistemiamo gli argini dei fiumi", tutto ok. Applausi bipartisan.

Ma se si esclama “Stop al Consumo di Territorio subito, con decreto legge!”, si riceve come risposta immediata: “Impossibile! Va bene essere ambientalisti ma fino a un certo punto!” Se si propone “usiamo i soldi del TAV in val di Susa, del Terzo Valico o della Orte-Mestre! per sistemare il Polcevera, il Bisagno, il Seveso”, arriva puntuale la controrisposta: “Basta con queste provocazioni! Quelle grandi opere servono per creare posti di lavoro ed essere competitivi! Basta demagogia!”

Certo, perché va bene essere dalla parte del diritto dei cittadini a vivere sicuri di non essere travolti da un’alluvione o da una frana (circa 5,8 milioni di italiani), ma non vorremo mica davvero mettere in discussione il potere «degli energumeni del cemento armato», come li chiamava Antonio Cederna?

La narrativa controversa come il decennio. «Periodo così cupo e con­tro­verso nell’immaginario collettivo, anche il momento di mas­sima appli­ca­zione dei prin­cipi costi­tu­zio­nali» (Gabriele Vitello, L’album di fami­glia. Gli anni di piombo nella nar­ra­tiva ita­liana). Il manifesto, 23 novembre 2014

Il rap­porto fra i cosid­detti «anni di piombo» e la nar­ra­tiva ita­liana è al cen­tro del bel sag­gio di Gabriele Vitello, stu­dioso for­ma­tosi alla scuola di Romano Lupe­rini e dot­tore di ricerca all’Università di Trento (L’album di fami­glia. Gli anni di piombo nella nar­ra­tiva ita­liana, Tran­seu­ropa, euro 14,90). L’autore si chiede per­ché non esi­sta un grande romanzo sul ter­ro­ri­smo ita­liano, nono­stante quasi tutti i nostri mag­giori scrit­tori si siano acco­stati al tema: da Leo­nardo Scia­scia a Nata­lia Ginz­burg, da Pier­paolo Paso­lini ad Alberto Mora­via. Vitello affronta la que­stione con gli stru­menti della cri­tica e della sto­ria let­te­ra­ria, aprendo all’occorrenza anche la cas­setta degli attrezzi dei cul­tu­ral stu­dies.

Vitello esa­mina un nucleo con­si­stente di testi let­te­rari sugli «anni di piombo» apparsi fra gli anni 70 e oggi, sce­glien­doli fra quelli che hanno posto al cen­tro della nar­ra­zione le dina­mi­che fami­liari. Un topos che risulta cen­trale nella pro­du­zione let­te­ra­ria sul ter­ro­ri­smo, spe­cie quello di sini­stra. Si spiega così il titolo pre­scelto, L’album di fami­glia, il quale riprende la cele­bre for­mula uti­liz­zata da Ros­sana Ros­sanda nel 1978, su que­sto gior­nale, per descri­vere i legami fra la cul­tura dei ter­ro­ri­sti e quella della tra­di­zione comu­ni­sta. La scon­tata let­tura edi­pica del ribel­li­smo gio­va­nile e della stessa lotta armata – come lotta dei figli con­tro i padri – non con­vince l’autore. Muo­vendo dalla rifles­sione del laca­niano Mas­simo Recal­cati sulla «eva­po­ra­zione del padre», Vitello evi­den­zia piut­to­sto la fra­gi­lità della figura paterna e l’esaurimento del suo ruolo tradizionale.

I romanzi stu­diati dall’autore attra­ver­sano due fasi distinte della nar­ra­tiva ita­liana: quella post­mo­derna, segnata da una sorta di «divor­zio» con la sto­ria, e quella più vicina ai canoni rea­li­sti, affer­ma­tasi a par­tire dalla metà degli anni 90. Se i romanzi della prima fase pre­fe­ri­scono evo­care le paure e gli spet­tri della sta­gione ter­ro­ri­stica, quelli più recenti cer­cano di ricu­cire un rap­porto con i fatti reali, rita­glian­dosi uno spa­zio fra altri stru­menti di comu­ni­ca­zione, come il cinema o la tele­vi­sione, forse più capaci di influen­zare il discorso pub­blico sul ter­ro­ri­smo. La pro­du­zione let­te­ra­ria esa­mi­nata, tut­ta­via, nel com­plesso non sem­bra essere stata all’altezza delle cir­co­stanze rie­vo­cate.

Per­ché? Forse, seguendo l’analisi di Vitello, si potrebbe indi­vi­duare come causa una certa dif­fi­coltà da parte degli intel­let­tuali di cogliere le reali poste in gioco e la por­tata delle tra­sfor­ma­zioni in atto negli anni 70. Si è trat­tato tal­volta di una con­sa­pe­vole sfi­du­cia nella pos­si­bi­lità di giun­gere a una rico­stru­zione razio­nale della sto­ria di que­gli anni, talal­tra di una rimo­zione delle cir­co­stanze reali e delle respon­sa­bi­lità dei sog­getti sociali coin­volti nel terrorismo.

Gli anni 70 sono, d’altra parte, fra i più com­plessi della sto­ria dell’Italia repub­bli­cana. Come ricorda l’autore, la cate­go­ria di «anni di piombo» non rende ragione delle tante sfac­cet­ta­ture di quel decen­nio. Quel periodo, così cupo e con­tro­verso nell’immaginario col­let­tivo, è anche il momento di mas­sima appli­ca­zione dei prin­cipi costi­tu­zio­nali. Lo Stato sociale (sep­pure mal­con­cio e sbi­lenco) che ormai da anni è sotto attacco ha cono­sciuto pro­prio allora i momenti fon­da­men­tali della sua costru­zione. Tutto que­sto è avve­nuto in un con­te­sto in cui la vio­lenza poli­tica sem­brava con­no­tare molte delle espres­sioni di rin­no­va­mento sociale, innal­zando il livello di tol­le­ranza della società e degli stessi intel­let­tuali nei con­fronti delle armi

Come media amici di Renzi hanno trasformato in arma politica l’infelice battuta strappata a Landini durante un corteo dei metalmeccanici». Ecco ciò che Landini ha detto, e come la stampa ha distorto e strumentalizzato. Il regime c'è, bisogna combatterlo. Il manifesto, 23 novembre 2014

Non vede­vano l’ora. Le tele­vi­sioni e i gior­nali in ami­ci­zia con Renzi hanno tra­sfor­mato in un’arma poli­tica l’infelice bat­tuta «strap­pata» a Lan­dini durante un cor­teo dei metalmeccanici.
Un boc­con­cino pre­li­bato per col­pire una delle voci più rap­pre­sen­ta­tive della sini­stra, per­fino troppo ghiotto per per­dere tempo a inse­rirlo nel con­te­sto in cui veniva pro­nun­ciato. Poco male se biso­gnava stru­men­ta­liz­zarne il senso per farla diven­tare «Renzi non ha il soste­gno degli one­sti», men­tre Lan­dini diceva «Il pre­mier dovrebbe ren­dersi conto che oggi il con­senso di chi lavora, dei gio­vani che stan cer­cando lavoro, delle per­sone one­ste, in que­sto Paese lui non ce l’ha». Il Paese in quel momento rap­pre­sen­tato da decine di migliaia di lavo­ra­tori, stu­denti, pre­cari che mani­fe­sta­vano per le strade di Napoli sotto le ban­diere della Fiom. Per­sone one­ste che pagano lo scio­pero sul magro sala­rio, per­ché com­bat­tono la poli­tica del governo che can­cella tutele e diritti, ridu­cendo donne e uomini a forza lavoro e il lavoro a sem­plice merce.
«Togliti il mega­fono» intima il Cor­riere della Sera. «Lan­dini è un mora­li­sta» sen­ten­zia La Stampa, pro­prio come se al solo pro­nun­ciarla la parola «one­stà» pro­vo­casse l’orticaria. Tito­loni e com­menti in prima pagina sugli stessi quo­ti­diani che il giorno prima, quando Renzi aveva dura­mente stig­ma­tiz­zato la pro­cla­ma­zione dello scio­pero del 12 dicem­bre, soste­nendo che «i sin­da­cati pas­sano il tempo a inven­tarsi ragioni per fare scio­pero», si erano invece distratti, deru­bri­cando il pro­vo­ca­to­rio e medi­tato attacco come fatto secon­da­rio. Titoli pic­coli, quasi invi­si­bili, e zero commenti.
Eppure quello di Renzi era un affondo inse­rito in una stra­te­gia di con­trap­po­si­zione fron­tale con le rap­pre­sen­tanze sin­da­cali, escluse da ogni spa­zio di con­fronto sulla poli­tica eco­no­mica del governo. Era dun­que un inter­vento a gamba tesa meri­te­vole almeno di altret­tanta atten­zione. Ma tant’è.
Quanto stampa e tv siano schie­rate a soste­gno del governo è evidente.

Ora, dopo il pol­ve­rone alzato intorno a Lan­dini e al sin­da­cato che si oppone, lo vedono tutti.
«La grande que­stione che ha di fronte a sé la sini­stra poli­tica è quella di isti­tu­zio­na­liz­zare il con­flitto, dar­gli cioè una rap­pre­sen­tanza sta­bile. Ormai la crisi pro­cede per accu­mu­la­zioni suc­ces­sive, da quan­ti­ta­tiva si è fatta qua­li­ta­tiva; si è tra­sfor­mata in crisi orga­nica, che scon­volge ogni aspetto della Repub­blica».

Il manifesto, 22 novembre 2014

«Coloro che dan­nono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che bia­si­mino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…». Già il Machia­velli dei “Discorsi” aveva isti­tuito un saldo legame tra con­flitto e raf­for­za­mento delle isti­tu­zioni democratiche.

E Giu­seppe Di Vit­to­rio, nel pre­sen­tare all’inizio degli anni Cin­quanta del secolo scorso un primo pro­getto di Sta­tuto dei Lavo­ra­tori, avvertì che «la demo­cra­zia se c’è nella fab­brica c’è anche nel Paese» e, al con­tra­rio, «se la demo­cra­zia è uccisa nella fab­brica essa non può soprav­vi­vere nel Paese».

La grande que­stione che ha di fronte a sé la sini­stra poli­tica è quella di isti­tu­zio­na­liz­zare il con­flitto, dar­gli cioè una rap­pre­sen­tanza sta­bile. Non da oggi, certo.

Ma ormai la crisi pro­cede per accu­mu­la­zioni suc­ces­sive, da quan­ti­ta­tiva si è fatta qua­li­ta­tiva; si è tra­sfor­mata cioè da crisi con­giun­tu­rale in crisi orga­nica, che scon­volge ogni aspetto della Repub­blica: eco­no­mico, sociale, isti­tu­zio­nale. Già si intra­ve­dono, minac­ciosi, dise­gni per una sua solu­zione sco­per­ta­mente rea­zio­na­ria. Di qui l’urgenza della rico­stru­zione di un rap­porto vir­tuoso tra con­flitto e rap­pre­sen­tanza poli­tica. Per ripren­dere i ter­mini di Erne­sto Laclau, sul momento oriz­zon­tale del movi­mento si deve sal­dare il momento ver­ti­cale della lotta per l’egemonia.

I motivi per cui que­sto intrec­cio vir­tuoso non si è fino ad ora pro­dotto sono mol­te­plici, for­te­mente radi­cati in errori sog­get­tivi, primo tra tutti la man­canza di unità tra le varie forze poli­ti­che della sini­stra. Ma ci sono cause ulte­riori da inda­gare. Prima tra tutte: può essere ancora il par­tito nove­cen­te­sco la sin­tesi tra con­flitto sociale e lotta ege­mo­nica? Allo stato dei fatti, i par­titi tra­di­zio­nali attra­ver­sano una crisi della pro­pria ragione sociale tutt’altro che epi­so­dica. Ridotti a comi­tati elet­to­rali al ser­vi­zio del lea­der di turno, risol­vono spesso la pro­pria fun­zione in quella di “uffici di col­lo­ca­mento” per un ceto medio iper­tro­fico e in crisi di iden­tità sociale, spe­ran­zoso di tro­vare nel “mestiere poli­tico” un’àncora di sal­va­tag­gio con­tro l’inesorabile degra­dare della pro­pria posi­zione sociale.

Schiere di can­di­dati si aggrap­pano a quest’àncora ad ogni tor­nata elet­to­rale, fino a supe­rare tal­volta in numero, per sommo para­dosso, gli affluenti al voto. Il tra­sfor­mi­smo più estremo è all’ordine del giorno, per cui si trama nei cor­ri­doi del Palazzo per allun­gare legi­sla­ture ingiu­sti­fi­ca­ta­mente soprav­vis­sute alla fine della spinta pro­pul­siva dei risul­tati elet­to­rali che le ave­vano pro­dotte. Leggi elet­to­rali liber­ti­cide sono pro­mul­gate nell’assenso acri­tico della Camere. Gli enti locali, da ele­menti di demo­cra­zia diretta e popo­lare, sono ridotti a pas­sa­carte delle diret­tive fiscali dei governi cen­trali, in nome delle ragioni della “ditta” da far pre­va­lere su quelli della cittadinanza.

La destra cavalca que­sta crisi della fun­zione sociale dei par­titi, men­tre la sini­stra stenta, per antico abito men­tale (com­pren­si­bil­mente) duro ad estin­guersi, a coglierne i motivi di lungo periodo. Eppure essi dovreb­bero essere oggetto di attenta analisi.

Il par­tito di massa delle classi subal­terne si con­fi­gura, nei sui albori deci­mo­no­nici, come anti-Stato. Il par­tito è lo stru­mento di cui le classi subal­terne si dotano per agire all’interno dello Stato libe­rale, e al tempo stesso tra­sfor­marlo. Esso nasce per uni­fi­care le lotte e dare loro con­ti­nuità. Se il par­tito ope­raio con­tiene in sé i germi del plu­ra­li­smo fin dalla sua for­ma­zione, la forza trai­nante è indi­vi­duata nel pro­le­ta­riato di fab­brica, inteso come classe gene­rale. Que­sto schema entra in crisi con la rivo­lu­zione del “lungo ‘68″. In que­sto periodo il con­flitto tra classi subal­terne ed élite tra­di­zio­nali da un lato assume la sua mas­sima inten­sità; dall’altro, per così dire, esplode; si fran­tuma. Accanto alle lotte del pro­le­ta­riato di fab­brica, rico­no­scen­done solo in una prima fase la guida, fanno la pro­pria com­parsa, e poi via vi acqui­stano rispetto ad esse un grado cre­scente di auto­no­mia, quelle degli stu­denti, per l’emancipazione fem­mi­nile, per la pace, per la sal­va­guar­dia dell’ambiente, tutte ege­mo­niz­zate da una nuova classe media in ascesa.

L’inizio della restau­ra­zione con­ser­va­trice si porta die­tro la rot­tura dell’unità tra il movi­mento ope­raio e que­ste nuove classi medie. Si regi­stra, in que­sti movi­menti, un alto tasso di “inte­gra­bi­lità” nel sistema capi­ta­li­stico, che ne adotta le istanze di avan­guar­dia per rin­no­varsi e rin­vi­go­rirsi. Il par­tito ope­raio di massa, in que­sto con­te­sto, entra in crisi. Entra in crisi la sua capa­cità di uni­fi­ca­zione ed orga­niz­za­zione del con­flitto. All’interno dei par­titi, il rap­porto tra intel­let­tuali e mili­tanza ope­raia si inverte, con i primi che ascen­dono facil­mente e fret­to­lo­sa­mente ai posti diri­genti e la seconda che è vis­suta quasi come un resi­duo fasti­dioso. Si giunge per que­sta via all’espulsione dei ceti subal­terni dalla rap­pre­sen­tanza poli­tica diretta. Ceti subal­terni i quali, a loro volta, in parte subi­scono que­sto allon­ta­na­mento, in parte lo pro­muo­vono attra­verso l’affermazione, tra di essi, di un nuovo senso comune che rimette in discus­sione l’utilità e la neces­sità dell’azione col­let­tiva, e di nuovi modelli di con­sumo del tempo libero.

In que­sta fase di scom­po­sta riti­rata siamo ancora immersi, pro­prio nel momento in cui il con­flitto sociale riprende vigore. Invece di attar­darsi in ten­ta­tivi di rie­su­ma­zione di una espe­rienza sto­rica forse irri­pe­ti­bile, serve tro­vare rispo­ste inno­va­tive. È urgente la crea­zione di un fronte plu­ra­li­stico della istanze popo­lari che sor­gono dalla società civile in lotta, cer­cando di ridurle ad unità in base ad una ela­bo­ra­zione col­let­tiva e ad una rico­stru­zione di un senso comune che san­ci­sca la loro non-contraddizione; e model­lando, su que­ste nuove moda­lità di isti­tu­zio­na­liz­za­zione del con­flitto, ade­guate pro­po­ste di rin­no­va­mento demo­cra­tico delle isti­tu­zioni repub­bli­cane. Dalla rico­stru­zione di que­sto intrec­cio vir­tuoso tra con­flitto sociale e rispo­sta poli­tica dipende il futuro della nostra democrazia.

«E' l’opinione di Hanif Kureishi, lo scrittore anglo-pachistano: “Sono giovani che vivono ghettizzati nella miseria Cercano un modello alternativo al consumismo occidentale”».

La Repubblica, 21 novembre 2014 (m.p.r.)

Londra. «I giovani occidentali che si arruolano nella jihad fanno una scelta mostruosa, ma siamo noi che abbiamo generato quei mostri». È l’opinione di Hanif Kureishi, il grande scrittore anglo-pachistano autore di tanti romanzi, da Il budda delle periferie a L’ultima parola ( tutti pubblicati in Italia da Bompiani), che trattano il tema dell’identità, del conflitto inter-etnico, dell’integrazione delle minoranze nella società occidentale al tempo dellaglobalizzazione.
Come è possibile, signor Kureishi, che ragazzi cresciuti a Londra, in Inghilterra, in altri Paesi occidentali, diventino dei jihadisti pronti a sgozzare ostaggi inglesi e americani?
«È possibile per due ragioni. La prima è che l’Islam radicale è nato come forma di liberazione, contro il colonialismo e contro le dittature sostenute dall’Occidente, come abbiamo visto con la rivoluzione khomeinista in Iran e con le rivolte della Primavera Araba, non tutte fondamentaliste queste ultime, ma almeno in parte sì. E la seconda ragione è che i giovani sono spesso idealisti. Molti dei miei amici, quando ero ragazzo a Londra, erano maoisti, trotzkisti, leninisti. Ma poi sappiamo come finiscono tante volte le rivoluzione e l’idealismo: con la violenza, il terrore, la tirannia».
Intende dire che in un certo senso la scelta di quei giovani è comprensibile?
«Non è giustificabile, perlomeno da me, io ho altri idee e altri ideali. Ma se vogliamo comprendere le loro ragioni dobbiamo chiederci da dove nascono. Questi giovani credono in qualcosa, qualcosa che a essi sembra un ideale nobile e puro. Ebbene, i giovani hanno di questi bisogni, il desiderio di avere puri ideali e di combattere per realizzarsi. Il Ventesimo Secolo è pieno di giovani così».
Ma perché odiano tanto l’Occidente, pur essendo nati e cresciuti in mezzo a noi? Cosa gli abbiamo fatto che li disgusta così tanto?
«Forse bisognerebbe chiedersi che cosa “non” gli abbiamo fatto e che cosa non siamo stati capaci di dirgli, di insegnarli. Certo, sono cresciuti in mezzo a noi. O più precisamente, di fianco a noi: in genere in quartieri, famiglie, ambienti più poveri rispetto all’establishment nazionale. Quali modelli e quali ideali offre loro la società occidentale? Il consumismo, la commercializzazione, la ricchezza come valore in sé, la fama da conquistare a colpi di reality show. È così sorprendente se un giovane povero trova nella religione islamica un modello alternativo a questi valori e a questi ideali?».
Non ci sono tuttavia solo il consumismo e la fama da reality nei valori occidentali. Perché non riusciamo a insegnare loro l’importanza anzi la bellezza della libertà di pensiero, della democrazia, della tolleranza?
«Mi chiedo quanti sforzi facciamo veramente per spiegare la bellezza degli ideali democratici. La verità è che vengono dati spesso per scontati. E che il più delle volte vengono coperti da altre presunte “bellezze”, che sono invece valori deteriori, quali il consumismo esasperato. E poi: dovremmo dire ai giovani musulmani britannici, francesi, italiani, che la nostra democrazia è bella e va difesa. Prendiamo il caso del vostro paese, l’Italia: avete avuto per vent’anni un leader come Berlusconi, un uomo vergognoso, la cui immagine ha infangato i principi democratici. È più difficile esaltare la politica, quando quella politica esibisce un fallimento ».
Ha mai incontrato, personalmente, giovani di questo genere?
«Ho scritto saggi e romanzi su questo tema, e molti di quei personaggi li ho conosciuti davvero. I giovani che crescendo sono diventati seguaci di Al Qaeda, del fanatismo distruttivo dell’11 settembre, e che sono poi i fratelli maggiori dei jihadisti odierni. Vivono in mezzo a noi, poi un giorno fanno una scelta radicale e mostruosa nel nome dell’Islam. Ma siamo noi che abbiamo partorito quei mostri».
In nome dell’Islam, dice: ma l’Islam non dovrebbe fare di più per condannare chi lo invoca per uccidere?
«Le grandi religioni impiegano tempo a redimersi. Pensiamo alla Chiesa cattolica, a quanto ci è voluto prima che denunciasse la pedofilia al proprio interno. Certo, l’Islam dovrebbe fare di più per condannare chi infanga il suo nome. Ma non è semplice. Auguri a chi cercherà di trasformare un fanatico in un liberale».
L’altra faccia dei giovani occidentali arruolati nella jihad è che ora ogni occidentale dalla pelle scura viene visto come un potenziale jihadista?
«Il rischio è quello e talvolta lo sento anche sulla mia pelle. Ma non darei la colpa soltanto alla guerra santa islamica. L’Europa oggi è attraversata da un’ondata di razzismo, di odio verso gli immigrati e i diversi, che si può chiamare soltanto con un nome: fascismo. E dire che pensavamo di averlo estirpato per sempre, invece ritorna».
L’ennesima testimonianza del degrade di una politica, ben rappresentata dal solito noto, che, pretendendo di rottamare la storia ha cancellato qualunque ragionevolezza nell’agire. Un buona domanda di Massimo Veltri e una ottima risposta, come al solito, di Corrado Augias.

La Repubblica, 21 novembre 2014

Lettera di Massimo Veltri

Caro Augias, anni fa sono stato capogruppo Pds in Commissione Ambiente e Territorio del Senato. Credo d’aver svolto una buona attività per la difesa del suolo. Mi chiedo oggi con inquietudine perché, fra gli argomenti toccati in relazione alle frane e alluvioni che ci flagellano, è sempre come se dovessimo partire da capo.

Dimentichiamo per esempio la Commissione De Marchi dopo l’alluvione di Firenze del 1966, la legge n. 183 del 1989 sulla difesa del suolo, le direttive europee (non ancora recepite).
Abbiamo derubricato la materia affidandola alla Protezione Civile, cioè vedendola solo in chiave post emergenziale. C’è stata una resa a mani basse di fronte alla miriade di soggetti che hanno titolo in materia, alla molteplicità di permessi e visti contemplati per eseguire un’opera, all’abbandono della pratica della pianificazione.
Si parla solo di risorse finanziarie, che sono certo necessarie, al pari però della semplificazione, del coordinamento con la comunità scientifica che ha dato interessante risultato in termini di previsione di eventi estremi, del lancio di un “nuovo patto” che chiami a raccolta per questa vera e propria emergenza.

Risposta di Corrado Augias

C’è in questa lettera una domanda chiave: perché ci comportiamo sempre come se fosse la prima volta che succede? Ho sentito in tv esponenti di spicco dei vari partiti, a partire dal Pd, fare dichiarazioni piene di lodevoli propositi: vedremo, faremo, bisognerà, è necessario, si dovrà. Aria fritta.

Si parla di nuove leggi dimenticando che le leggi ci sono già. Sono andato a leggere che dice la legge 183 del 1989. Il lodevole e inutile testo comincia così:
«1. La presente legge ha per scopo di assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale, la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi.
2. Per il conseguimento delle finalità perseguite dalla presente legge, la pubblica amministrazione svolge ogni opportuna azione di carattere conoscitivo, di programmazione e pianificazione degli interventi, di loro esecuzione, in conformità alle disposizioni che seguono.
3. Ai fini della presente legge si intende: a) per suolo: il territorio, il suolo, il sottosuolo, gli abitati e le opere infrastrutturali; b) per acque: quelle meteoriche, fluviali, sotterranee e marine; c) per corso d’acqua: i corsi d’acqua, i fiumi, i torrenti, i canali, i laghi, le lagune, gli altri corpi idrici».
Tutto previsto, tutto regolato.
Sono passati venticinque anni, non è successo niente, risultati zero, anzi le cose sono peggiorate. Del resto non chiedeva già Dante (Purg. XVI,97): “Le leggi sono ma chi pon mano ad esse?”. Eterna Italia sempre uguale a se stessa.
Osservando le gesta del Renzi stupiscono due cose: (1) che ci sia ancora nel mondo qualcuno che lo ritiene un uomo di sinistra: (2) che continuino a stare nel suo stesso partito persone che ancora sostengono di nutrire sentimenti e convincimenti di sinistra.

Il manifesto, 20 novembre 2014

Al pre­si­dente del con­si­glio piace pro­vo­care. E i sin­da­cati sono tra i suoi obiet­tivi pre­fe­riti. Forte del «40 per cento e 80 euro», come sati­reg­gia Crozza nel «Paese delle mera­vi­glie», il capo del governo crede di poter dire e fare tutto quello che gli passa per la testa. Ma Renzi usa i toni arro­ganti, irri­denti, a volte sprez­zanti (e rubati ai luo­ghi comuni del più becero qua­lun­qui­smo), per­ché sa che il carro del vin­ci­tore ha ormai solo posti in piedi e non trova osta­coli nella corsa verso il par­tito unico del centro-sinistra-destra.

Affer­mare che «i sin­da­cati cer­cano scuse per scio­pe­rare» è una pro­vo­ca­zione voluta, però è anche musica per le orec­chie di chi osserva dall’alto con sguardo com­mi­se­re­vole tutti quelli che la crisi col­pi­sce più dura­mente, quelli che vivono e soprav­vi­vono di sti­pen­dio, di pen­sione, di precarietà.

Dire che lui i posti di lavoro «li crea», che in fondo «Camusso e Sal­vini sono due facce della stessa meda­glia» rivela un for­cing che dalla rot­ta­ma­zione della «vec­chia poli­tica» (che in realtà era soprat­tutto emar­gi­na­zione del gruppo diri­gente del Pd), ora pro­cede spe­dito per impau­rire e con­vin­cere i per­denti che se non stanno con lui avranno da per­dere assai di più, in un gioco al rim­balzo del più pre­ca­rio, del più povero. Così si per­mette, sulla scia del lepe­ni­smo in salsa leghi­sta, di sfot­tere i lavo­ra­tori che lo scio­pero lo pagano diret­ta­mente sul magro salario. Chi dimen­tica que­sto aspetto è un reazionario.

Ma il pre­si­dente del con­si­glio, che intende il governo come eser­ci­zio di un potere senza oppo­si­zione, per­ché chi osa cri­ti­care è solo un gufo, è anche il segre­ta­rio del Pd, cioè di una forza che in teo­ria dovrebbe con­si­de­rare il mondo del lavoro come casa sua. Abbiamo capito, invece, che Renzi si sente a casa quando incon­tra la Con­fin­du­stria di Squinzi.

Non risulta che di fronte a que­sto attacco siste­ma­tico verso il mondo del lavoro si sia alzata una voce di rispo­sta. O che un Ber­sani, mas­simo rap­pre­sen­tante fino a ieri del Pd, si sia sen­tito in dovere di repli­care altret­tanto dura­mente. Que­sto imba­raz­zante silen­zio non deve stu­pire più di tanto, segna una linea di con­ti­nuità con l’acquiescenza con cui il Pd ha accolto e sot­to­scritto, da Monti in poi, tutte le poli­ti­che di sman­tel­la­mento dello stato sociale. Come del tutto con­gruente è la parte in com­me­dia reci­tata da alcuni par­la­men­tari della mino­ranza interna, pro­ta­go­ni­sti di una simil-trattativa sul Jobs Act il cui esito era già scritto nel testo votato dalla stra­grande mag­gio­ranza della direzione.

L’unica con­creta pro­te­sta con­tro le poli­ti­che di sman­tel­la­mento delle tutele e dei diritti resi­dui del lavoro viene oggi dal sin­da­cato di Susanna Camusso e dalla Fiom. Con la mani­fe­sta­zione del 25 otto­bre e ora con lo scio­pero gene­rale, la Cgil ha messo in campo la pos­si­bi­lità di un’opposizione sociale nel paese. E la scelta della Uil di unirsi al 12 dicem­bre, è un altro passo importante.

Anzi­ché sfot­tere, il segretario-presidente farebbe bene ad ascol­tare le cam­pane di una pro­te­sta che suo­nano soprat­tutto per lui.

«Un sindaco scelto con le primarie e poi eletto dai cittadini viene sbugiardato da una segreteria di partito che vorrebbe imporgli i nomi degli assessori. Dettano legge ras e capetti di corrente che non sono stati votati da nessuno (anzi, molti di loro hanno perso le primarie per cui hanno gareggiato) o hanno conquistato un posto con la riffa delle preferenze».

L'Espresso, 20 settembre 2014

Il sindaco di Roma Ignazio Marino è indifendibile, per tanti motivi. Il puntare tutto sui Fori Imperiali pedonalizzati che in giornate di pioggia come oggi sono ridotti a una risaia asiatica. La Panda rossa e le multe fantasma, più da ridere che da indignarsi. La vanità personale che gli fa dire cose tipo «la linea C della metro è su tutti i giornali del mondo» (sì, ma per la lentezza dei lavori). Il senso di spaesamento che lo accompagna ovunque va, in bicicletta nel centro storico o di fronte alla folla inferocita di Tor Sapienza.

Oggi difendere Marino significa fare come il Marco Antonio nel Julius Caesar di Shakespeare, il capo pugnalato dai suoi dalle parti del Campidoglio: «Vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo… Il nobile Bruto v’ha detto che Cesare era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e Bruto è uomo d’onore». Ecco, Marino sarà indifendibile, ma chi accusa oggi Marino può vantare più o meno lo stesso onore di Bruto. E minore coerenza, trasparenza. Coraggio politico.

Quello che sta succedendo a Roma è una storia istruttiva per la politica nazionale, per capire cosa è o che cosa potrebbe diventare il Partito della Nazione di Renzi. Venerdì scorso, mentre il sindaco si avventurava con il terrore negli occhi nello sconosciuto viale Giorgio Morandi teatro dei tumulti di Tor Sapienza, dove stanno arrivando gli inviati di guerra e le migliori firme del giornalismo italiano, il Pd, il suo partito, era riunito in largo del Nazareno. Un processo in piena regola con un solo imputato: il dottor Ignazio. La più scatenata era Michela Di Biase, moglie del ministro Dario Franceschini: «Basta essere proni al sindaco, Marino è il più grande gaffeur d’Italia, sta ridicolizzando il Pd». La direzione si è conclusa con una richiesta: il sindaco azzeri la giunta, altrimenti va a casa. Intanto Marino continuava il suo tour in periferia: accanto a lui non un segretario di sezione, un dirigente del partito, un consigliere del municipio (governato dal Pd). Nessuno, a proteggerlo c’era solo un certo Manlio, abitante del quartiere. Serviva coraggio fisico a stare lì, quella sera e tutti gli altri giorni dell’anno.

Nessuno difende Marino. Perché indifendibile, o anche perché il più debole? Davvero sono le gaffe o la Panda rossa il problema? O forse il sindaco gaffeur è semplicemente una persona perbene con molti problemi di comunicazione con la città che però ha detto qualche no di troppo nella giungla della politica romana? Dove l’ex sindaco Gianni Alemanno, impunito, si è organizzato un bel corteo di protesta a nome delle periferie (e contro chi? Contro se stesso?). E il principale partito lascia solo il suo sindaco a prendere gli insulti e approfitta del caos per chiedere l’azzeramento della giunta, ovvero posti negli assessorati.

Ma il Pd romano, lo stesso che per un anno si è spaccato sul nuovo stadio della Roma, tifando per la cordata dell’uno o dell’altro costruttore, non si è limitato a questo. Per sbrogliare la situazione ha chiesto l’intervento della segreteria nazionale, di Matteo Renzi o del vicesegretario Lorenzo Guerini. Marino è stato convocato in largo del Nazareno e oggi con un’intervista il capigruppo del Pd al Senato Luigi Zanda chiede al sindaco di «obbedire» al partito e di cambiare gli assessori, come gli è stato ordinato. E a questo punto la vicenda da romana diventa nazionale.

Era da anni che non si vedeva uno spettacolo del genere. Un sindaco scelto con le primarie e poi eletto dai cittadini viene sbugiardato da una segreteria di partito che vorrebbe imporgli i nomi degli assessori. Dettano legge ras e capetti di corrente che non sono stati votati da nessuno (anzi, molti di loro hanno perso le primarie per cui hanno gareggiato) o hanno conquistato un posto con la riffa delle preferenze. Non per cambiare la città, sia chiaro, o per rovesciare il sindaco ma ammettendo le loro responsabilità. No, si chiede il commissariamento, togliere potere al sindaco incontrollabile e restituirli al partito, anzi, al Partito, cone se esistesse ancora quello con la maiuscola. Dimenticando che Marino fu scelto da Goffredo Bettini e poi eletto sindaco in un momento in cui l’intera segreteria cittadina era dimissionaria, la dirigenza si era volatilizzata e nessuno voleva metterci la faccia. Era la primavera del 2013, Grillo era ancora fortissimo e faceva paura, Alfio Marchini stava macinando voti, all’epoca i coraggiosissimi dirigenti del Pd romano che oggi reclamano le dimissioni si nascosero dietro la figura del chirurgo. Quello che oggi gli viene imputato, di essere un alieno estraneo alla città, un anno e mezzo fa sembrò essere il suo punto di forza. Se Marino avesse vinto, avrebbe trascinato anche il Pd. Se avesse perso, sarebbe stata unicamente colpa sua.

Roma non è l’unico caso nazionale. C’è l’Emilia che sta per andare al voto nell’assoluta disaffezione dell’elettorato. Ma in quel caso dalla segreteria nazionale è arrivata l’indicazione opposta, non disturbare il candidato Stefano Bonaccini, in nome dell’autonomia del partito regionale. Il Pd, il Partito della Nazione, dopo pochi mesi all’ombra della leadership dello Statista internazionale Renzi, sembra già un partito della Prima Repubblica allo stato terminale. Divisa in correnti individuali (i micro-notabili del politologo Mauro Calise vivono, anzi prosperano) e con l’arroganza che deriva dalla certezza dell’impunità (politica). Se c’è un solo partito di governo in campo, quello di Renzi, se non esiste nessuna alternativa, lo scontro si sposterà tutto all’interno, come avveniva nella vecchia Dc. Calcoli miopi, perché poi un’alternativa si trova sempre, a Roma e in Italia, magari dalla parte sbagliata. E infine: come avrebbe reagito il sindaco di Firenze Matteo Renzi se da Roma il Pd lo avesse convocato per consegnargli la lista degli assessori?

Per questo Marino sarà indifendibile. Ma peggio di lui un partito che lo scarica così. Con quale coraggio.

«L'obiettivo esplicito e perseguito (e purtroppo raggiunto) dal neoliberismo era (è) quello di voler essere non solo una teoria economica ma una autentica antropologia, per la edificazione di un uomo nuovo neoliberista la cui vita fosse (sia) solo economica». Una recensione dell'ultimo libro di Marco Revelli.

Sbilanciamoci.info, 11 novembre 2014

La curva di Laffer e la curva di Kuznets. Sono questi gli obiettivi centrali dell’analisi di Marco Revelli nel suo ultimo saggio breve sul tema della disuguaglianza, uscito tra gli Idòla di Laterza e che riprende e sviluppa un tema al centro dell’attenzione (Luciano Gallino, Mario Pianta, Joseph Stiglitz e ora anche Thomas Piketty) con un titolo ad effetto ma sempre replicato dalla realtà: La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi. Vero! La curva di Laffer e quella di Kuznets: due favole economiche nate in epoche diverse (la prima, nel 1974 e – secondo una leggenda metropolitana probabilmente falsa ma capace di colpire l’immaginario collettivo - disegnata da Laffer su un tovagliolo di un noto ristorante di Washington; la seconda, risalente invece al 1955), ma usate come armi pesanti nella costruzione e nella propagazione dell’ideologia neoliberista. Ideologia.

Oppure e forse meglio (e oltre Revelli, ma con Foucault) come biopolitica/bioeconomia neoliberale (concetto che preferiamo), posto che l’obiettivo esplicito e perseguito (e purtroppo raggiunto) dal neoliberismo era (è) quello di voler essere non solo una teoria economica ma una autentica antropologia, per la edificazione di un uomo nuovo neoliberista la cui vita fosse solo economica e a mobilitazione incessante e a flessibilità crescente (lavoratore, consumatore, poi imprenditore di se stesso, precario, nodo della rete), uccidendo il vecchio soggetto illuministico titolare di diritti e trasformandolo in oggetto economico, in merce di se stesso, in capitale umano, in nodo di un apparato. Una biopolitica neoliberista che ovviamente si è subito trasformata in tanatopolitica, perché doveva produrre, per raggiungere il proprio scopo la distruzione (appunto la morte) della società e della socialità, della democrazia politica ed economica, facendo della disuguaglianza il suo target da perseguire e dell’impoverimento la sua disciplina (ancora Foucault) capillare. Qualcosa di paradossale e di assolutamente irrazionale (oltre che di anti-moderno) – appunto: la produzione deliberata di disuguaglianza – ma che tuttavia ha conquistato il cuore di troppi economisti e l’opportunismo di troppi politici diventando spirito del tempo ottuso e ostinato ma capace di volare sull’intero globo.

Questa opzione disegualitaria, se non (scrive Revelli) “apertamente anti-egualitaria”, questa ideologia della disuguaglianza necessaria continua infatti ad essere parte integrante o base strutturante di quella “dogmatica neoclassica che ha offerto il proprio hardware all’ideologia neoliberista fin dall’origine della sua lotta per l’egemonia, alla fine degli anni Settanta e per tutto il corso degli anni Ottanta del secolo scorso”. Disuguaglianze crescenti e quindi e conseguentemente lotta di classe vinta dai ricchi contro il resto del mondo. Attraverso i piani diaggiustamento strutturale del Fondo monetario e della Banca mondiale, le politiche di deregolamentazione dei mercati finanziari e del lavoro, la riduzione dei diritti sociali, oggi l’austerità europea e le riforme strutturali di Draghi, di Angela Merkel e di Matteo Renzi (strutturale: una parola magica per una pedagogia finalizzata alla strutturazione e alla costruzione - è una biopolitica e insieme una forma di costruttivismo - della società come mercato).

Quella uguaglianza che era “l’idea regolativa” o la meta da raggiungere nei trenta gloriosi o nell’età dell’oro del secolo breve secondo Hobsbawm, è stata così rovesciata nel perseguimento dell’obiettivo opposto e contrario, quello appunto della disuguaglianza. Una svolta copernicana, scrive Revelli, che ha avuto “come naturale complemento della supply-side economy – e sua copertura morale – la cosiddetta teoria del trickle-down (letteralmente, ‘gocciolamento)”, per cui se si favoriscono i soggetti che trainano lo sviluppo economico - i capitalisti, i grandi investitori, il potere finanziario – si genera spontaneamente un meccanismo virtuoso “il quale crea ricchezza aggiuntiva e in parte la ridistribuisce per una sorta di ‘forza di gravità’ naturale, senza che l’intervento dello Stato giunga a turbare o inceppare il meccanismo”.

Dunque, la curva di Laffer, favola di uno sconosciuto professore di una periferica business school e diventata poi icona della Reaganomics, sulla base di un ipotetico trade-off tra aliquote ed entrate fiscali. E la curva di Kuznets, secondo la quale un accelerato sviluppo economico produce sì, in una prima fase, disuguaglianze crescenti ma solo fino a un punto di svolta, superato il quale il sistema comincia invece a generare uguaglianza. Nata senza pretendere di avere un valore predittivo né prescrittivo, negli anni Settanta ne venne fatto invece un uso ideologico “al fine di neutralizzare le critiche nei confronti degli effetti disegualitari del modello di sviluppo patrocinato dai fautori della supply-side economy e di propagandare le spregiudicate politiche di imposizione del modello neoliberista ai paesi in via di sviluppo, nonostante gli effetti negativi sui loro equilibri sociali”. Una sua variante venne applicata anche ai temi ambientali, dove era l’inquinamento a scendere, dopo una iniziale fase di sua necessaria crescita.

Due curve-icona, due feticci neoliberisti che Revelli smonta – con una lunga sequenza di statistiche e di analisi empiriche e legando il tema dei redditi calanti ai debiti crescenti (soprattutto privati, come modo per disinnescare politicamente e socialmente l’impoverimento prodotto) – dimostrandone l’assoluta falsità. Le disuguaglianze sono cresciute. La crisi prodotta dal neoliberismo resta crisi e anche l’ambiente è messo sempre peggio, come dimostrato dall’ultimo Rapporto dell’Ipcc dell’Onu. Come falsa era la congettura del gocciolamento.

Citando Keynes e la sua metafora delle giraffe dal collo lungo, Revelli conclude che tale teoria ha semmai “giustificato e incentivato la tendenza bulimica dei colli lunghi”. Favorendo appunto l’avidità delle giraffe dai colli lungi, anzi lunghissimi: gli gnomi di Wall Street e i “velieri corsari dei mercati finanziari”, gli uomini di banca, gli hedge-fund, i conti off-shore (e ora potremmo aggiungere Juncker e il suo Lussemburgo-paradiso fiscale). Mentre le giraffe dal collo corto – che deve restare corto o farsi sempre più corto – continuano a generare una ricchezza “che viene sistematicamente risucchiata in alto, nel circuito da loro inattingibile di una finanza onnipervasiva, diventata principio di organizzazione principale dello stesso assetto produttivo globale e, insieme, proprietaria degli ambiti decisionali strategici, a cominciare da quello politico”.

Revelli, da par suo e con il suo stile, smonta dunque il paradigma (l’ideologia o la biopolitica/tanatopolitica) neoliberista. Ma questo paradigma resta saldamente al potere. Smontare il suo hardware è dunque necessario come necessario è non smettere mai di farlo, altrimenti la sua egemonia e il suo dominio resteranno tali per sempre. Senza dimenticare tuttavia di smontare anche il software (il pensiero unico, il senso comune dominante, l’accettazione del principio per cui non ci sarebbero alternative al capitalismo, la falsa individualizzazione offerta dal consumo, la condivisione in rete, i social network) che incessantemente e contro ogni evidenza, lo giustifica e lo legittima.

«Alla mobilitazione in strada si uniscono i consigli comunali che continuano a pronunciarsi contro lo Sblocca Italia e chiedono al governatore della Basilicata,e al capogruppo dei socialdemocratici all’Europarlamento, di impugnare l’articolo 38 e salvare Regione e cittadini dai rischi ambientali e sanitari che comporterebbero le trivellazioni».

Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2019 (m.p.r.)

La pioggia non ferma la protesta in Basilicata contro lo Sblocca Italia. Anche ieri circa un migliaio tra studenti e cittadini, secondo i dati diffusi dagli organizzatori, hanno manifestato a Potenza, arrivando in corteo fino al palazzo della Regione, per continuare a dire no alle ricerche petrolifere e alle trivellazioni autorizzate dallo Sblocca Italia e che minacciano la regione. Al corteo del capoluogo ieri si è unita anche la protesta di circa un paio di migliaia di cittadini e studenti a Venosa. Il consiglio comunale del centro lucano ha chiesto alla Regione di impugnare anche gli articoli 35, 36 e 37 del decreto Sblocca Italia, per non favorire lobby dei rifiuti oltre a quella del petrolio. È proseguita così anche ieri la protesta, arrivata al sesto giorno consecutivo, che vede gli studenti protagonisti e motore propulsivo. Intanto alla mobilitazione in strada si uniscono i consigli comunali che continuano a pronunciarsi contro lo Sblocca Italia e chiedono al governatore della Basilicata, Marcello Pittella del Pd, fratello di Gianni, capogruppo dei socialdemocratici all’Europarlamento, di impugnare l’articolo 38 e salvare Regione e cittadini dai rischi ambientali e sanitari che comporterebbero le trivellazioni. Il presidente avrebbe rassicurato i cittadini dicendo di non avere intenzione di impugnare l’articolo 38. Ricerche e perforazioni, ha detto Pittella, avverranno nel pieno rispetto della salute dei cittadini e dell’ambiente.

Renzi vuole rottamare la politica ambientale degli ultimi vent’anni. Ma dovrebbe rottamare i governi dei condoni edilizi, ambientali, fiscali: cioè i governi Berlusconi.

Articolo21.org, 17 novembre 2014

Il governo Renzi, fin qui, ha voluto fortemente quel decreto Sblocca Italia col quale si cerca di far ripartire edilizia e lavori pubblici riducendo o cancellando tutele, vincoli e controlli sull’uso del territorio. L’esatto contrario di quel Salva Italia di cui abbiamo urgente bisogno, cioè del ripristino di strumenti di verifica, della elaborazione di piani nazionali e regionali idrogeologici, della loro pianificata attuazione in un quindicennio. Invece Matteo Renzi vuol “rottamare gli ultimi vent’anni di politica ambientale” con ciò individuando il “nemico” nelle Regioni. Alcune, a cominciare dalla sua Toscana, gli rispondono che una colpa fondamentale ce l’hanno i condoni edilizi e ambientali decisi dal governo. Già, da quale governo negli ultimi vent’anni? Dai governi Berlusconi, dell’ “amico” e alleato Silvio, a partire dal 1994 per chiudere col 2009, a volte edilizio e ambientale, altre edilizio e fiscale. Congedo col Piano Casa che le Regioni stanno ancora riproponendo col “gonfiamento”, fra l’altro, di cubature per l’edilizia esistente. Quindi Renzi dovrebbe anzitutto “rottamare” Berlusconi e i suoi governi. Cerchiamo di fare discorsi un po’ più seri risalendo alle cause, alle origini di questa vicenda pluriennale, dalla quale escono sfasciati sia il territorio che lo Stato italiano.

Novembre 1966: alluvioni tragiche di Firenze e Venezia. 1970: la commissione De Marchi propone un piano pluriennale di “ricostruzione” del Paese per 10.000 miliardi di lire. Maggio 1989: finalmente il Parlamento vara la legge n. 183 che istituisce le Autorità di bacino, nazionali (dal Po al Volturno) e regionali. Subito Regioni e Comuni ricorrono contro di essa sentendosi spogliati della loro “autorità”. A Londra la Themes Authority ha riunito ben 11.000 enti operando con grande efficacia. Da noi le maggiori Autorità studiano e redigono piani di bacino, localmente contestati e parzialmente finanziati. La Lega propone di dividere in quattro segmenti regionali (Piemonte, Lombardia, Emilia, Veneto) la gestione del Po. Il Titolo V della Costituzione pone allo stesso livello Stato, Regioni, Enti locali…Nel 2000 l’Unione Europea istituisce con direttiva le Autorità di Distretto per la pianificazione e la gestione dei bacini fluviali. I piani devono essere completati per il 2009. L’Ungheria ha già presentato il piano per il bacino del Danubio, l’Italia, sei anni dopo, non ha ancora ottemperato alla direttiva, in generale.

Il rimpianto per la buona legge n. 183 dell’89 (i cui punti essenziali possono essere recuperati) è tale che numerosi e qualificati idro-geologi, amministrativisti, ecc. hanno costituito il Gruppo 183 che periodicamente si riunisce per studi, ricerche, convegni. Le loro proposte si articolano così: 1) facilitazione e incentivazione degli interventi e delle azioni preventive di difesa del suolo; 2) restituzione di centralità al tema della manutenzione programmata del territorio; 3) semplificazione delle procedure amministrative, l’accorpamento dei soggetti istituzionali chiamati in causa, la costituzione di coordinamenti efficaci che presidino l’intero percorso che va dalla programmazione all’attuazione, alla manutenzione e al controllo degli interventi di prevenzione; 4) recupero di istituzioni e meccanismi storicamente affidabili e ingiustamente abbandonati; 5) eliminazione degli sprechi nell’utilizzazione delle risorse economiche e umane disponibili.

Un bilancio: l’Istituto Idrografico Nazionale è stato a suo tempo smembrato. Così confusamente che per alcuni anni la Regione Lazio ha sospeso i rilievi dei regimi di piena e di magra del Tevere, un fiume “pazzo”. L’Istituto Geologico Nazionale è riuscito a completare soltanto al 40 % la carta del Paese. L’Istituto Sismico Nazionale è stato inglobato, ai tempi di Bertolaso, nella Protezione Civile, anche per far fuori il suo direttore, Roberto De Marco, notoriamente di sinistra. L’Istituto Meteorologico Civile ancora non esiste. Vogliamo partire da qui per una visione unitaria, nazionale dei problemi? Gli esperti riuniti nel 2012 ai Lincei hanno constatato un “vuoto di competenze”. La stessa Protezione Civile soffre oggi – dopo anni di assurdo espansionismo (fino a gestire il centenario dei Santi) – di notevoli carenze di fondi. Il Corpo dei Vigili del Fuoco, uno dei più efficienti e generosamente disponibili, rischia di essere anch’esso accorpato. Come il Corpo Forestale. Assurdità della spending review all’italiana.

Poi ci sono i punti critici, ormai cronici. Genova è precipitata dagli oltre 800.000 residenti del 1971 agli attuali 582.000 (-31%). Eppure si continua a costruire, a consumare suoli liberi, magari da rimboschire. Persino nel decennio 2001-2011 le costruzioni, pur di poco (+ 0,6%), sono cresciute, mentre i genovesi continuavano a calare (- 3,2 %). Ma chi a vedere “a monte”? Tutti, o quasi, si fermano “a valle”. A Milano l’acqua straripa da tutte le parti. Da sotto e da sopra. La falda è risalita da quando le industrie siderurgiche e tessili, grandi consumatrici d’acqua, hanno chiuso. Essa minaccia costantemente i piani bassi degli ultimi quartieri e la Linea 3 della metro. Era proprio impossibile prevederlo? No. Fra 2001 e 2011 le costruzioni non sono cresciute in città, ma la popolazione comunale è calata di un altro 1,11 % e, rispetto al picco del 1971, segna un – 28,3 %.

Milano poi è seconda nella impressionante classifica delle città più “impermeabilizzate”, appena dopo Napoli, con un pazzesco 61,47 % fra cemento e asfalto e la contigua Monza è quinta col 48,6%. Questa coltre impermeabile ha impedito a tanta acqua piovana di filtrare: in tre anni è successo a 270 milioni di tonn. di piogge in tutta Italia. Ci fermiamo nel consumo di suoli? Macché. Secondo l’Ispra, nel 2009-2012 è stata “impermeabilizzata” una superficie pari a Milano più Firenze, Bologna, Napoli e Palermo. Un record, malgrado la crisi edilizia. Il 7,3 % del Belpaese è ormai perduto, più del 10 % in Lombardia e nel Veneto (anch’esso in allarme continuo per i fiumi). Piani paesaggistici? Soltanto la Regione Toscana l’ha approvato, con la nuova legge urbanistica, fra polemiche furibonde di cavatori, costruttori, speculatori vari.

Quante sono le costruzioni abusive – ecco l’altro nemico spesso sottaciuto da giornali e tv – alzate nelle golene, negli alvei dei corsi d’acqua o su terreni collinari coperti da vincoli idrogeologici? Una quantità enorme, sempre più colossale man mano che si procede verso sud (ma anche nel Po e affluenti non si scherza) . Se questi abusi – che rendono più micidiali le piene – vengono “sanati” , i disastri non potranno che ripetersi. A Olbia, a Ischia o nella costa del Gargano (Parco Nazionale) la maggior parte delle costruzioni, se non la totalità, sono abusive.

Punti fondamentali per ripartire: attuare finalmente la legislazione UE sui Distretti idrografici, redigere progetti seri, inseriti in piani seri, finanziati non a singhiozzo. La Cassa Depositi e Prestiti si dice disposta a finanziarli se l’UE allenterà eccezionalmente i controllo sul bilancio statale. Sarebbe uno Salva Italia, con l’obiettivo, in 15-20 anni, di “ricostruire” il Paese che alla prima pioggia battente vien giù o va sott’acqua, con morti, dispersi, infortunati, sfollati, traumatizzati. A migliaia. Oltre tutto questi sono posti di lavoro, a migliaia, subito pronti, subito utili.

.Sbilanciamoci.info, 14 novembre 2014

I poteri forti sono, secondo alcuni, quelli che superano le leggi finora valide a favore di altre ancora più forti e assolutamente obbligatorie anche se non sempre conosciute. Spesso si tratta di un potere esterno fortissimo che viene riconosciuto e accettato o sopportato per causa maggiore; sovrapposto alla normale dinamica degli affari e degli affetti per evitare maggiori sofferenze, maggiori guai. In economia e in politica c'è il caso proverbiale del «quarto partito» richiamato da Alcide De Gasperi sul finire degli anni quaranta del secolo scorso, come molto più forte degli altri tre: socialisti, comunisti, democristiani. Ma correva allora la piccola Italia della Ricostruzione e della Guerra Fredda. In un mondo ben più vasto e terribile di quello meschino di economia e politica, di democrazia e guerra, vale sempre il famoso comando di Virgilio al traghettatore che protestava: «Caron non ti crucciare: / vuolsi così cola dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare». È il canto III dell'Inferno dantesco: già allora la nostra cultura sapeva dell'esistenza di poteri superiori e inconoscibili, e aspettava tempi migliori.

Oggi i poteri forti, economici e culturali, poteri di classe, sono travestiti da Europa. La povera Europa è descritta attentamente nei testi che pubblichiamo in questo speciale: c'è una burocrazia bruxellese senza sentimenti, una finanza crudele, un apparato industriale che, multinazionale e remoto come è, forse risponde a regole ancor più sconosciute. Sono gli articoli di Azzolini, Baranes, Pullano a consentire un rapido sguardo. Poi si parla di poteri più lontani (Diletti), o anche più interni (Martiny), ma pur sempre inarrivabili. Tutti insieme essi descrivono leggi, disposizioni, regolamenti, procedure, abitudini che limitano le nostre scelte nazionali - da dentro oltre che da fuori - ma applicano poteri che valgono anche per noi, a scanso di guai peggiori.

O almeno così crediamo, visto che una minoranza sempre più consistente di nostri connazionali è molto insoddisfatta della situazione attuale e del futuro prossimo venturo che si delinea. Così non teme il cambiamento e sarebbe pronta a rischiare tutto. Decisa, insomma, a scambiare un po' del tranquillo benessere di oggi con una pericolosa e malsicura democrazia, che è l'aspirazione di domani. Il mondo dei poteri forti e sconosciuti da una parte, quello del futuro indecifrabile e molto incerto dall'altra. I poteri sconosciuti cui inchinarsi di qua; e di là altri poteri, difficili da decifrare ma portatori di una magnifica futura democrazia. O rassegnarsi ai poteri forti e sconosciuti o affidarsi agli incerti profitti di un futuro attraente, democratico, ma imprecisato. Tertium non datur.

Ma siamo sicuri che sia così? Se ci dessimo tutti da fare per sostenere e difendere i poteri deboli? Difficile immaginare eresia più invereconda. Gli autori di solito scrivono di poteri deboli per irriderli, per farne un rimprovero alla comunità imbelle che non riesce a esprimere i poteri forti che essi ritengono necessari e che in realtà bramano. I poteri deboli sono invece la capacità di resistere alle oppressioni dei poteri forti, di decidere per sé e per i figli di pochi anni, di andare e di venire. Di imparare e divertirsi, di scegliere e di lavorare, di non essere infastiditi dagli altri, con l'impegno, d'altro canto di non infastidire alcuno.

L'Europa allora sarebbe un paese magnifico, un Erasmus generalizzato, accogliente, nel quale ciascuno può «coltivare il proprio giardino», come suggeriva di fare, con un bel po' di ottimismo, il nostro amato tedesco di Westfalia, francese, concittadino europeo, Candide.

Ecco il documento che Marco Revelli ha scritto come proposta di manifesto per la formazione politica italiana che prosegua il lavoro iniziato con la campagna elettorale per il Parlamento europeo per incarico del coordinamento italiano della lista "L'altra Europa con Tsipras". Ora è in corso la discussione nella vasta area di riferimento di quella lista. Avremmo voluto pubblicare ben prima, ma altre vicende (e l'età del direttore di questo sito) ci hanno distratti. Il suddetto direttore ha scritto a Revelli che, se si costituirà un soggetto politico basato su questo documento, aderirà senza se e senza ma.

Cari tutti,

perché non si coltivino eccessive aspettative su questo testo che, lo ricordo, è solo una bozza finalizzata alla nostra discussione attuale, voglio precisare che:

1. Non sono le “tesi” del nuovo partito. Non si occupa di tutto ciò che dovrà costituire la nostra identità. Nemmeno del nostro programma (massimo o minimo che dir si voglia) Ha il compito più modesto di mettere a fuoco alcuni aspetti del quadro politico maturati successivamente al 25 maggio (fino ad allora quello che ci univa lo sappiamo) per quanto riguarda la situazione europea creatasi dopo il voto, e la situazione italiana, in particolare segnata dall’accelerazione di Renzi e dalla mutazione genetica del PD.

2. Serve a tentare di definire le coordinate della nostra discussione sul “che fare” nei prossimi mesi (non in tutta la nostra vita), in particolare per quanto riguarda alcune questioni dirimenti: il rapporto tra azione in Italia e azione in Europa; il giudizio sul “renzismo”, che considero la vera discriminante tra chi “è dentro” e chi “sta fuori” dal progetto e, connesso a questo, il giudizio sul PD e sulla sua irrecuperabilità come partito a un discorso di sinistra; le tappe del nostro “processo costituente” e il rapporto tra obbiettivi qualificanti (la presentazione di una lista capace di sfidare Renzi alle prossime elezioni politiche nazionali) e passaggi sottoposti a valutazioni tattiche...

3. Non è dunque un punto di arrivo. E’ il punto di partenza della discussione. Certamente qualcuno lo troverà troppo aperto (include troppi) e altri troppo chiuso (esclude troppi), troppo ampio (tutto il tormentone sul renzismo) o troppo sbrigativo (manca un programma articolato, c’è poco la complessità delle questioni economiche, c’è poco l’ambiente, c’è poco la politica estera e la guerra). Soprattutto resta qui sullo sfondo – ma è il presupposto di tutto il discorso – il contesto della crisi economica e finanziaria globale: la più grave crisi mai attraversata, crisi strutturale, “di sistema”, di cui nessuno oggi intravvede la soluzione e da cui tutti gli assetti sono destinati ad essere trasformati radicalmente. Sono i temi su cui si dovrà lavorate a fondo tutti insieme, una volta accordatici su come e perché stare insieme.

4. Se da questo lavoro scaturisse quanto meno l’uso di un linguaggio comune e l’individuazione delle questioni importanti su cui discutere, allora non sarebbe stato inutile.

Detto questo, buon lavoro a tutti.
Marco Revelli

CAMBIAREL’EUROPA PER SALVARE L’ITALIA

“Cambiare l’Europa per salvare l’Italia”. Si potrebbe sintetizzare così la proposta che L’altra Europa con Tsipras aveva posto al centro della scorsa campagna elettorale. Significava che la partita vera, quella per la quale un paese sopravvive o va giù, si giocava a quel livello: sulla possibilità di rovesciare l’intero impianto delle politiche europee sostenute dai paesi forti dell’Unione e incentrate sull’Austerità. Che senza una modificazione sostanziale e radicale di quelle politiche comunitarie, l’Italia sarebbe stata condannata o a un brusco default (in caso di fuoriuscita dall’Euro). O a una lunga agonia (nel caso di una permanenza nella sua area).

Ora bisogna aggiungere un secondo passo: “Cambiare l’Italia per cambiare l’Europa”. Perché l’Europa non ha “cambiato verso”. Nonostante che le elezioni europee abbiano sancito una sostanziale delegittimazione della politica delle “larghe intese” (Ppe e Pse, i due partiti contraenti di quel patto, hanno entrambi perso elettori in presenza di un’astensione che supera di molto il 50% mentre cresce minacciosa l’ondata dei populismi di destra). E nonostante che un’opposizione ferma e intransigente di sinistra sia cresciuta soprattutto nei paesi più colpiti dalla crisi, l’asse tedesco Merkel-Schulz è stato riproposto e imposto all’intero continente.

La nuova Commissione non solo replica le linee della precedente, ma le peggiora, come è stato puntualmente e autorevolmente denunciato dai nostri parlamentari Eleonora Forenza, Curzio Maltese e Barbara Spinelli, che vi si sono opposti strenuamente insieme a tutto il gruppo del GUE. Composta da 13 popolari, 7 socialisti, 5 liberali e un conservatore, voluta dalla Merkel e posta sotto il controllo dei falchi, non farà che aggravare una situazione già drammaticamente compromessa. L’Europa continuerà a funzionare come una grande “macchina imperiale” destinata a prelevare risorse in basso, nel mondo del lavoro, e nelle periferie, in particolare nell’area mediterranea, per trasferirle in alto (ai canali finanziari) e al centro (ai “Paesi forti”).

E’ il modo con cui la crisi viene usata da parte dei poteri - prevalentemente finanziari - che controllano la politica europea incarnata dalle “larghe intese”: dal lavoro al capitale. Dal salario al profitto. Dai paesi fragili a quelli forti. Dall’economia reale al circuito finanziario, secondo un meccanismo che continua ad aumentare le diseguaglianze già scandalose e l’iniquità. E’ questa la sostanza delle cosiddette “riforme” che ossessivamente vengono richieste: attacco al reddito e al potere d’acquisto della variegata area del lavoro, privatizzazione di ciò che resta del patrimonio pubblico e che possa essere oggetto di business, riduzione della spesa pubblica e dell’occupazione nelle pubblica amministrazione, eliminazione dei vincoli alla spogliazione del patrimonio paesaggistico, artistico e territoriale e liquidazione del concetto stesso di “bene comune” in nome dell’utilizzo economico privato. Il memorandum imposto alla Grecia e ora generalizzato su scala continentale.

Non solo. Quest’Europa chiusa nei propri egoismi e nelle proprie diseguaglianze all’interno, mostra un volto indecente, sul piano politico e su quello morale, anche all’esterno: nell’assenza assoluta dalla sua agenda – ma anche dall’orizzonte mentale delle scialbe figure che ne occupano i vertici – dei grandi temi che decidono del destino dell’umanità intera, come la questione epocale del crescente degrado ambientale e climatico, la sfida energetica e l’insostenibilità di un modello fondato su un’impossibile crescita illimitata, la mercatizzazione integrale delle risorse e delle fonti della vita contro le esigenze della vita stessa. Per non parlare delle politiche migratorie, scandaloso esempio di chiusura della Fortress Europe, sorda, cieca e muta di fronte alla strage permanente che si consuma lungo i propri confini, testimone-complice di un crimine contro l’umanità reiterato all’infinito; e di una politica estera che non solo non è riuscita a prevenire ed evitare la guerra – secondo il mandato implicito ricevuto nel 1945 di bandire la guerra dalla storia del mondo – ma l’ha disseminata ovunque intorno a sé con decisioni ottuse e colpevoli, dallUkraina (delicatissimo Paese-ponte tra Est ed Ovest, il cui equilibrio avrebbe dovuto essere preservato come un bene prezioso e che invece è stato terremotato da una serie sconclusionata di interventi destabilizzanti) alla Libia, alla Siria e allo sresso Irak… Quella che avrebbe dovuto essere, secondo una felice definizione, una “grande potenza culturale” si è trasformata in un gretto agglomerato di interessi, chiuso nel cerchio opaco del business e della potenza finanziaria come unico criterio di orientamento delle proprie politiche.

Quel cerchio va spezzato. Con una mobilitazione dal basso, forte, transnazionale, di dimensione continentale, che unisca al di là dei confini nazionali (e dei nazionalismi) gli europei che non accettano questo destino, a cominciare dalle vittime di questo uso della crisi e di queste politiche. Ma anche con un’iniziativa che veda protagonisti gli Stati più colpiti, attraverso una politica di alleanze che crei un fronte alternativo alla congregazione dei fondamentalisti dell’Austerità e dei custodi di un Rigore che premia solo i privilegiati, creditori esosi di una massa d’indebitati che non potrà che crescere su se stessa alimentando all’infinito il meccanismo della crisi e della diseguaglianza che ne sta all’origine. Un fronte che abbia al centro i 10 punti che già affermammo in campagna elettorale. E che sono in frontale antitesi alle linee su cui muove la politica e l’ideologia delle “larghe intese”, a cui invece, sciaguratamente, è del tutto interno e subalterno l’attuale governo, nonostante le promesse elettorali di Matteo Renzi e le retoriche che avevano accompagnato la kermesse del “semestre italiano”.

Tra le ragioni del fatidico 40,8% che ne ha certificato la santità come lo scioglimento del sangue di san Gennaro certifica il miracolo, oltre a una buona dose di demagogia comunicativa e all’appoggio monopolistico dei media, c’è anche questa millantata promessa di “farsi sentire” in Europa. La sceneggiata dei “pugni battuti” sul tavolo a Berlino. Gli sfracelli dei sei mesi “alla guida” a Bruxelles. La fine della subalternità montiana, dell’acquiescenza lettiana… Un grande, consapevole imbroglio. Non solo perché al momento buono Matteo Renzi ha approvato senza colpo ferire la Commissione Juncker, col suo pieno di rigoristi e di fustigatori tedeschi e finlandesi, legandosi una macina al collo. E ha scambiato la primogenitura di un Commissario economico con il piatto di lenticchie di una propria fedele a capo di una politica estera che non c’è. Non solo perché si è accucciato buono buono davanti ai diktat della Banca centrale europea, promettendo e consegnando ai banchieri centrali lo scalpo del sindacato italiano appena macellato. Ma anche e soprattutto perché il suo programma è scritto, punto per punto, sul palinsesto della peggiore Europa. Dal primo decreto Poletti, che formalizzava la precarietà del lavoro decretandone la svalorizzazione come destino, al cosiddetto “Sblocca Italia”, giustamente rinominato “Rottama Italia” dai più prestigiosi esperti del patrimonio territoriale, fino alla interpretazione della spending review come prevalente piano di privatizzazioni e al Jobs act come liquidazione della residua civiltà gius-lavoristica moderna. O, in ultimo, alla Legge di stabilità che simula politiche espansive “in libera uscita” rispetto ai “controllori” europei ma scarica in realtà i costi dei “doni” offerti alle imprese sulle amministrazioni locali e quindi sui servizi ai cittadini più bisognosi, in ossequio all’intoccabilità di quel 3% che costituisce (quello sì) il vero totem dell’ideologia tedesca (ed europea) oggi.

Per questo noi diciamo che Matteo Renzi non è l’alternativa alla Troika, al suo minacciato commissariamento, secondo il mantra che ha recitato e che gli ha fruttato la legittimazione. Non è il “male minore”, ultima spiaggia per scacciare il rischio della totale cessione di sovranità. Matteo Renzi è la Troika interiorizzata. E’ la forma personalizzata che assume la cessione di sovranità quando viene camuffata con la retorica del demagogo. Il suo “miracolo” – più simile al gioco di un prestigiatore che al prodigio di un santo – è di far apparire Uno ciò che è Trino (o plurimo), presentando come atto liberatorio ciò che è in realtà una sottomissione servile. Il suo è un Trasformismo di tipo nuovo, non più quello di Agostino Depretis ancor tutto sommato interno alla società politica, ma quello, più adatto alla società dello spettacolo, del “transformer”: dell’illusionista che trucca le carte e se stesso deviando l’ attenzione del proprio pubblico con la tecnica del diversivo.

Allo stesso modo aggiungiamo che Renzi non è la (possibile) soluzione alla crisi economica e sociale. Non ne ha la forza, nei rapporti internazionali, privo com’è di una politica delle alleanze. Non ne ha la cultura e le competenze (la sua squadra di governo, zeppa di figuranti, sembra pensata più per non far ombra al Capo che per trovare soluzioni a una situazione drammatica). Non ha una sola idea adeguata, come dimostra la trovata dell’anticipo in busta del Tfr, sintomo della disperazione di chi per sopravvivere nel presente si mangia il futuro. Lungi dal rappresentarne una qualche, sia pur difficile, via di uscita Renzi è, al contrario, la crisi stessa messa al lavoro in politica. E’ la forma che la crisi assume quando il suo potenziale distruttivo viene trasferito sul piano politico e applicato alla forma di governo. L’”energia” di cui appare dotato il “renzismo” nella sua opera di rottamazione di tutto ciò che si oppone e rallenta il dispiegarsi del suo potere è la stessa energia con cui la crisi distrugge e liquida consolidati equilibri sociali, soggetti collettivi, sistemi di garanzia e di tutela: le forme di mediazione e gli stessi “patti fondamentali” con cui la società industriale aveva mediato i propri conflitti e costruito la propria coesione. Senza la crisi il renzismo non sarebbe neppure concepibile. Senza il renzismo la crisi non potrebbe essere utilizzata dai poteri che reggono l’Europa per realizzare il progetto di trasformazione che gli hanno assegnato come compito, e che costituisce l’effettiva (e occulta) legittimazione del suo potere. E quando diciamo “senza il renzismo” intendiamo senza la sua carica torbida di “populismo dall’alto” (o di “populismo di governo”, che è tra le forme peggiori), senza la sua capacità (polimorfa e perversa) di mutare la disperazione di massa in speranza tramite l’espediente dell’illusione, senza la sua tecnica di mutuare linguaggi ribellistici dentro un progetto reazionario.

Il renzismo non è dunque un punto di caduta temporaneo di una democrazia malata ma ancora vitale. Non è un incidente di percorso, un’occasionale irruzione di Iksos fiorentini che attende di essere riassorbita in una qualche normalità istituzionale romana. Il renzismo porta a compimento la crisi terminale della democrazia rappresentativa. Non la produce, certo (perché essa è il risultato di un processo lungo di deterioramento, svuotamento e degrado), ma la “mette in sicurezza”, per così dire: la certifica e la dichiara normale e definitiva. Anzi, utilizza spregiudicatamente il discredito e la sfiducia di massa – il rancore e il risentimento - nei confronti della classe politica e dei propri “rappresentanti” come leva del proprio consenso personale e del ruolo demiurgico di esecutore fallimentare del parlamento e del sistema parlamentare, considerandosene ormai “oltre”. Irreversibilmente “oltre”, in una post-democrazia plebiscitaria in cui le consolidate istituzioni costituzionali sono poste in disuso (come, appunto, le auto in attesa di rottamazione), e ciò che ancora ne resta viene sistematicamente manomesso.

Così è stato per il principio stesso di rappresentanza, in occasione dell’indecente battaglia di agosto per la liquidazione del Senato come istituzione elettiva. Così è per il rapporto tra Potere Legislativo e Potere Esecutivo – tra Parlamento e Governo -, con l’umiliazione sistematica del primo e l’assolutizzazione del secondo, umiliato a sua volta nella sua collegialità e monocratizzato nella figura del Premier (vera e propria rivoluzione copernicana rispetto a quanto detta la Costituzione). Così è, d’altra parte, per la natura e il ruolo dei partiti politici, a cominciare dal suo, il Pd, il quale ha subìto, sotto l’effetto dell’ elettrochoc renziano, una vera e propria mutazione genetica trasformandosi, alla velocità della luce, da aggregato eterogeneo di gruppi d’interesse e di amministratori (“partito di massa” aveva cessato da tempo di esserlo) in “partito del capo” e, tendenzialmente, “partito unico della nazione”. Struttura amorfa, risucchiata d’autorità in alto, fuori dalla società ma anche dal Parlamento. Appendice del Governo e soprattutto del suo Premier, in attesa di essere sciolto nel serbatoio bipartisan che già emerge dall’omologazione antropologica degli elettorati che furono, fino a ieri, di centro-destra e di centro-sinistra. E che tendono ormai, nei fatti, a diventare un’unica platea plebiscitaria (e pubblicitaria), dopo la stipulazione di quel Patto del Nazareno che riconsegna a un leader squalificato e pregiudicato, in evidente decadenza, il ruolo di partner costituente. E che ipoteca pesantemente il futuro per quanto attiene alle più alte cariche dello Stato.

Sotto questa luce, la vicenda parlamentare della mozione di fiducia sul Jobs Act costituisce un punto di osservazione e di verità straordinario. Una residua istituzione rappresentativa – uno dei due rami del Legislativo – costretta ad approvare a forza (con la minaccia mortale della caduta del Governo e della possibile fine della legislatura) una delega in bianco (destinata ad essere concretizzata unilateralmente dal Governo) relativa alla liquidazione (pratica e, cosa ancor più grave, simbolica) di storiche tutele del lavoro, resa nota la notte precedente il voto, con un pronunciamento pressoché unanime del partito che dovrebbe avere nel proprio dna, se non altro per via degli antenati, il riferimento al movimento dei lavoratori, e con la cooperazione “attivamente passiva” dei senatori berlusconiani assenti al momento del voto. Se si voleva una prova lampante del processo di assorbimento del Parlamento dentro (e sotto) il Governo, e dello “sfondamento” di ogni residuo di autonomia all’interno dell’ex Partito democratico (dell’impotenza della sua cosiddetta “sinistra”), qui la si è avuta. Nel giro di un solo giorno si è potuto assistere pressoché in diretta, alla rappresentazione del processo di verticalizzazione del potere (e della sua personalizzazione in chiave plebiscitaria) che sta nel progetto e soprattutto nella pratica del renzismo e delle forze che senza comparire ne scrivono il copione. Contemporaneamente, dai brandelli di un dibattito sgangherato e frettoloso, si è potuto intravvedere, inquietante, il profilo del nuovo immaginario sociale che avanza, rovesciamento di tutti i valori, modificazione della costituzione materiale prima che di quella formale, con il Profitto, il Business, l’Impresa a fondamento di una Repubblica ormai post-democratica, e il Lavoro, le donne e gli uomini che lo eseguono, ridotti non solo a variabile dipendente, ma a possibile minaccia, con i loro diritti considerati blasfemamente “privilegi”, alla “libertà d’impresa” e all’attrattività degli investimenti. Rovesciamento simbolico, appunto, e proprio per questo tanto più devastante del nostro stato di civiltà.

Le conseguenze politiche di tutto questo – se si condivide il quadro analitico – sono evidenti, e terribilmente impegnative: siamo in presenza di una grave “emergenza democratica” di fronte a un processo che tende a produrre una vera e propria mutazione genetica dell’assetto politico-istituzionale del Paese e del sistema del partiti. Esso sconvolge il tradizionale panorama politico incentrato sulla contrapposizione bipolare centro-destra/centro-sinistra, categorie travolte ora dalla trasversalità del progetto e della pratica renziana. Modifica radicalmente il quadro delle identità politiche, svuotando di significato e rendendo anzi ambigua e deviante l’attribuzione della qualifica di “sinistra” (per quello che ancora può significare), al Partito democratico. E crea un’inedita necessità di mobilitazione capace di porsi all’altezza della sfida che viene lanciata.

Quando diciamo “inedita capacità di mobilitazione” intendiamo dire che non si tratta di un progetto “testimoniale”. Della costruzione di una “piccola casa” per esuli dalle tante vicende politiche della sinistra. O di un’asta a cui appendere stinte bandiere. Intendiamo dire ciò che un’emergenza richiede: il massimo possibile di forza da mettere in campo per invertire una tendenza, per fermare un’azione di devastazione istituzionale e culturale, per scongiurare un pericolo che si avverte potenzialmente irreparabile, per arginare la devastazione di un patrimonio culturale condiviso, e per contrapporre a tutto ciò un sistema di valori e un modello di pratica all’altezza dei tempi. Un fronte più ampio possibile da costruire nella chiarezza su ciò che si vuole contrastare e nella apertura su ciò che si intende unire.

In quest’opera è importante la capacità di opposizione ai singoli passaggi, nelle diverse sedi, dal Parlamento alla piazza, ai luoghi di lavoro e alle aule scolastiche. Per questo siamo e saremo sempre solidali con chiunque, in ogni sede, metta pietre d’inciampo al progetto renziano-berlusconiano che nel pactum sceleris del Nazareno ha trovato la propria sanzione. Ma ancor più importante, perché da essa dipende la possibilità di farcela davvero, è l’elaborazione di un’ effettiva alternativa al renzismo. Di una risposta credibile, adeguata nelle forme e nei contenuti alla sfida che esso apre, capace di coglierne i punti di forza e di rovesciarli, non solo svelando l’inganno (che c’è sempre) ma offendo soluzioni praticabili qui ed ora, e soprattutto offrendo un’immagine di noi diversa da quella che ci accompagna da tempo e che ciclicamente ritorna.

Il principale punto di forza di Renzi è la crisi, come si è detto. La sua stessa gravità. Di più: la sua apparente insuperabilità senza l’ intervento straordinario di una figura salvifica in cui “credere” (e poi magari anche obbedire se non combattere). Il mito, appunto, dell’”ultima spiaggia”, del “dopo di lui il diluvio”, che blocca ogni smottamento, sutura ogni linea di frattura, sana ogni dissenso interno e ogni ribellione esterna. Dobbiamo contrapporgli una linea di uscita, se non dalla crisi – che è endemica di questo capitalismo globale e in particolare nel modello europeo – almeno dall’emergenza. Un programma radicalmente altro rispetto a quello dettato da Bruxelles e da Berlino e fatto proprio dal “bisbetico domato” Matteo Renzi. Pochi punti, chiari come facemmo con i 10 punti della Lista, a cominciare dalla questione del debito e del suo necessario “consolidamento”, dalla rottura dei patti capestro europei e dal superamento del vincoli del fiscal compact, da un programma eccezionale per l’occupazione, per la messa in sicurezza del territorio, per la ristrutturazione energetica, per la rappresentanza dei lavoratori in fabbrica e il superamento vero, non retorico, della jungla contrattuale tra gli “atipici”… Da portare e discutere tra la gente, non tanto o comunque non solo nelle nostre solite assemblee che radunano troppo spesso i già convinti.

Il secondo punto di forza di Renzi è l’evocazione sistematica, ossessiva, della rottura – del “nuovo inizio”, del “cambiar verso”, della “rottamazione” appunto – inserita nel quadro del peggior continuismo (cosa, se non la sintesi del peggio dell’ultimo quarto di secolo è il Patto del Nazareno?). L’assunzione dei codici linguistici propri del “populismo di opposizione” – dei suoi luoghi comuni, dei suoi j’accuse, delle sue domande di tabula rasa – per far da propellente al suo “populismo di governo”. Il lessico del ribelle come scrittura del libro del potere. Evocazione retorica, naturalmente, illusoria, manipolante, ma che affonda le radici in un cratere di disperazione, nell’impossibilità di vedere un futuro, nella consapevolezza che “così non si può andare avanti”, che “ci vuole uno scossone” che se non può più venire dal basso, che almeno venga dall’alto, nell’affidamento superstizioso all’intervento salvifico di chi “può”. Quel cratere, che Renzi non può prosciugare, può soltanto “usare” al proprio fine personale, dovremmo riempirlo noi, almeno in parte. A quella domanda di rottura giustificatissima dovremmo riuscire a rispondere noi.

Ma qui intervengono i nostri punti di debolezza. Il primo del quali siamo noi stessi. La nostra storia deragliata. La nostra antropologia lesionata. I vizi acquisiti e forse anche quelli originari. La principale ragione della nostra difficoltà ad attirare tutti quelli che potenzialmente ci sarebbero, e di trattenere tutti quelli che si avvicinano, è l’immagine che proiettiamo. Quello che fa fuggire la gente normale lontano da noi è la nostra endemica litigiosità, il bisogno costante di identificarci per contrapposizione nei confronti di chi ci sta più vicino, l’incapacità di ascolto degli altri e di interlocuzione con essi, l’intolleranza, la mania di piantar bandierine, la frammentazione spinta fino alla scissione dell’atomo, l’assenza di una visione pragmatica dei processi e la difficoltà a separare l’essenziale dal secondario, lo strategico dal contingente. Questo ci rende incerti e insicuri, come l’Amleto della tragedia, in questi “tempi bolsi e tronfi” in cui ricostruire una prospettiva credibile richiederebbe in primo luogo un taglio netto con pratiche consuete, stili di lavoro e di comportamento improponibili, come in qualche modo, e almeno parzialmente, si era provato a fare nel lancio della Lista la primavera scorsa. E poi una straordinaria mobilitazione di intelligenza, creatività, spregiudicatezza, conoscenza perché il nostro pensiero è oggi insufficiente di fronte alle travolgenti trasformazione della società che vorremmo intercettare: “unire ciò che la crisi e il neoliberismo hanno diviso” è un buon proposito, ma come questo possa essere fatto in presenza di una scomposizione feroce di tutti i soggetti e di tutte le aggregazioni – alla frantumazione del “diamante del lavoro”, come è stato felicemente detto – spinta fino al punto di contrapporne le parti fra loro in una nuova “guerra di tutti contro tutti”, di fronte alla smaterializzazione dei processi produttivi e dei sistemi di relazioni, al primato della dimensione finanziaria su quella produttiva, allo spossessamento dei luoghi tradizionali del conflitto, dobbiamo cercarlo ancora. Allo stesso modo la difesa intransigente della democrazia non solo come principio ma anche come assetto istituzionale, così come è scolpita nella nostra Costituzione, è opera nobile e necessaria, ma non ci possiamo nascondere il grado e la misura in cui il principio stesso di rappresentanza è stato lesionato da processi reali, per certi versi devastanti e purtroppo irreversibili: dalla globalizzazione dei processi non solo economici e comunicativi, ma di comando o come si dice di governance, e dalla totalizzazione di un sistema mediatico pervasivo, multiforme e integrato, a cui occorre dare risposte in avanti, non certo nello scioglimento di quella crisi nel plebiscitarismo del leader più o meno carismatico ma in un di più di partecipazione, sviluppata nei luoghi della vita, al livello territoriale, in forme già in parte sperimentate là dove si sono aperte linee di frattura, conflitti radicati nelle “coscienza di luogo” (si pensi alla Val di Susa) ma che attendono una sistemazione e una riflessione. Per non dire della crisi delle forme organizzative, a cominciare dalla “forma partito”, delle cui dinamiche dissolutive la mutazione genetica del Partito democratico è l’esempio più spettacolare perché lì si rappresenta, in tutta la sua drammaticità. Sarebbe una catastrofe se noi pensassimo di ricostruire una casa (un “piccola casa”) per gli esuli di quel crollo, sulle stesse fondamenta e sullo stesso progetto, senza porci il problema, quello vero, di cosa si sostituisce al modello organizzativo del “partito di massa” che ha dominato l’orizzonte politico novecentesco e che con quel secolo si è inabissato: quale forma di organizzazione della soggettività politica si può immaginare nell’epoca della scomposizione delle soggettività, dell’inoperosità della politica al livello della dimensione nazionale, della crescente difficoltà di ricondurre la disseminazione degli “Io” autoreferenziali e impotenti all’operatività di un “Noi” attivo e consapevole.

Per questo noi non proponiamo oggi un “soggetto politico” già bell’e fatto (o pensato), da “prendere o lasciare”. Proponiamo al contrario un processo – possiamo chiamarlo un “processo costituente” – di lunga durata in grado di proiettare l’esperienza de L’Altra Europa oltre la vicenda, felicemente conclusa, di quella Lista elettorale. Un processo da iniziare subito, questo sì, ma in cui nessuno può pensare di aver già in mano la Costituzione scritta da imporre agli altri, e nemmeno i “lavori preparatori” già compiuti: un processo nel quale davvero si avanzi domandando, forse anche per prove ed errori, e in cui sia ben chiaro il rapporto tra le tappe intermedie e la meta finale che resta, certamente, la volontà di creare quello che potremmo definire, per ora, un “SOGGETTO POLITICO EUROPEO DELLA SINISTRA E DEI DEMOCRATICI ITALIANI”, per sottolinearne la doppia vocazione: la dimensione europea dell’azione strategica e l’apertura a un’ampia area democratica e di sinistra italiana.

Per questo la prima tappa intermedia, da dichiarare subito, senza indugi, è a sua volta l’obbiettivo di giungere alle prossime elezioni politiche – quale che sia il momento in cui si terranno – con una lista in grado di unire tutte le componenti di una sinistra non arresa alla austerità europea e alla sua versione autoritaria italiana incarnata dal renzismo, determinata a sfidarlo in modo credibile sul doppio terreno dell’egemonia e della capacità d’innovazione nel senso migliore di questo termine, cioè facendo proprio il bisogno radicale di mutamento dei tanti sacrificati dalla crisi e dall’austerità. La sfida elettorale sul livello nazionale è senza dubbio la competizione giusta per lanciare il processo qui descritto con tutta la forza e l’estensione rese necessarie dall’importanza della sfida. Alla sua piena riuscita è necessario commisurare ogni altra nostra mossa. D’altra parte per il successo dell’iniziativa è fondamentale lo sviluppo di una proposta programmatica articolata e precisa, con un ventaglio di punti programmatici completo (dal lavoro e dai diritti, naturalmente, all’ ambiente, alla sanità, ai trasporti, all’ istruzione e ricerca, dalla politica estera alla questione dei migranti…) per cui abbiamo ottime basi in quello che abbiamo presentato alle europee ma che deve essere sviluppato e precisato, senza perdere chiarezza e comprensibilità, in una discussione collettiva che richiederà per lo meno qualche mese di lavoro intenso e partecipato per cui è bene che tutti si attrezzino.

In quest’ottica di percorso (di ampliamento della nostra base e di approfondimento dei nostri contenuti) il risultato della Lista L'altra Europa con Tsipras il 25 maggio, può essere considerato, sia pur moderatamente, un buon punto di partenza, date le condizioni in cui era la sinistra italiana, e un incoraggiamento per il futuro: si è evitato il rischio - il "paradosso" come l' aveva definito Tsipras - che per la seconda volta la sinistra italiana non fosse rappresentata in Europa (sono stati portati al PE tre rappresentanti di alto livello); si è dimostrato che anche la soglia incostituzionale del 4% poteva essere superata; si è data a 1.103.000 elettori la possibilità di esprimersi con una scelta limpidamente di sinistra; si è aperta una strada per un percorso che altrimenti, in caso di fallimento, sarebbe stata irrimediabilmente chiusa. Né va sottovalutato il ruolo di Alexis Tsipras, che ci ha permesso di dare con chiarezza al nostro progetto – unico tra tutti - un respiro di esperienza, di pratica e di organizzazione politica trans-nazionale con respiro europeo.

Quel (ancora parziale) successo si è ottenuto con il concorso di diverse forze e realtà: la rete delle associazioni in lotta per un’alternativa e parti dei movimenti critici dell’esistente, a cominciare da quello per l'acqua e i beni comuni; un'area di opinione democratica, impegnata nella difesa della Costituzione e dei diritti e preoccupata della deriva autoritaria dei governo Renzi; le diverse realtà organizzate in forma di partito, fino ad allora divise e talvolta contrapposte; e infine, ma non meno importante, anzi, un robusto gruppo di intellettuali e di esponenti del mondo della cultura che hanno "fatto la differenza" per quanto riguarda l'immagine della lista, oltre al gran numero di persone, cittadini, attivisti, simpatizzanti che si sono impegnati nei comitati (e anche fuori di essi, spontaneamente). E' convinzione condivisa – ed è d’altra parte un dato di fatti evidente - che nessuna di tali componenti sia stata prevalente, perché tutte sono state INDISPENSABILI per garantire il superamento della soglia.

Per questa ragione il percorso oltre l'esperienza elettorale europea per la nascita di una sinistra italiana deve proporsi di mantenere entro i limiti del possibile il coinvolgimento di tutti i soggetti e le realtà che hanno contribuito a quel successo, con l'obbiettivo dichiarato non solo di consolidarlo ma di ampliarlo. Non ci si nasconde infatti che quel 1.103.000 elettori è solo una parte, sottile, di elettorato potenziale: rappresenta un voto ancora prevalentemente d'opinione, concentrato negli strati più colti e informati di popolazione. Occorrerà lavorare molto per radicarci nei territori e tra gli strati di popolazione più sofferenti per la crisi, in parte rifugiatisi nell' astensione, in parte convinti dal populismo grillino, in parte sedotti dalle elemosine di Renzi. Un lavoro inevitabilmente lungo, perché ogni realtà locale ha la propria storia e attori politici eterogenei e richiede attenzione alle specificità”di luogo”, rispetto delle differenti dinamiche di territorio (sfuggendo allo schema da “partito novecentesco” che imponeva la presentazione automatica delle proprie liste a ogni livello elettorale e in ogni sede territoriale), capacità di “governare” il rapporto tra progetto generale e domanda locale secondo logiche non schematiche e soprattutto con attenzione intelligente al rapporto “mezzi-fini”.

Siamo consapevoli che non sarà facile: le condizioni della campagna europea erano in qualche modo eccezionali e ci favorivano, sia per il riferimento a Tsipras, sia perché era senso comune che o si faceva come si è fatto, con una certa forzatura anche verso le forze più organizzate in forma di partito, o non si sarebbe concluso nulla. Quelle condizioni non ci sono più: ora bisogna condurre un percorso condiviso, che porti ad una definizione di forme di rappresentanza pienamente legittimate, e procedere a un complesso lavoro diplomatico di cucitura e convergenza, rispettoso di tutte le storie e di tutte le identità ma anche consapevole della necessita di superare distinzioni e sopravvivenze sempre più parziali e meno riconosciute, consapevoli dell’insufficienza, sempre più palese, di un approccio affidato alla vecchia pratica degli accordi tra apparati di partito o frazioni di ceto politico tanto più dopo che l’attesa di una rottura significativa nei gruppi dirigenti del PD si è rivelata clamorosamente vana (altro discorso, naturalmente, riguarda l’elettorato di quel partito e quanto resta del suo corpo militante).

Per far questo in condizioni adeguate noi riteniamo che sia necessario, preliminarmente, iniziare a tracciare il campo dei partecipanti al processo o, come si è detto, "definire il nostro corpo", attraverso l’adesione individuale ai punti qualificanti di questo Documento. Per far questo in condizioni adeguate noi riteniamo che sia necessario, preliminarmente, tracciare il campo dei partecipanti al processo o, come si è detto, "definire il nostro corpo", attraverso l’adesione individuale ai punti qualificanti di questo Documento. E, in connessione con ciò, la proposta che chiediamo di discutere è di aprire l’Associazione L’Altra Europa con Tsipras, a tutt’oggi rappresentante legale della Lista, all’adesione individuale di massa, scrivendone lo Statuto (entro mesi 9 dall’avvio dalla campagna di adesione) in una chiave partecipativa e democratica e rivolgendoci a tutti coloro che hanno partecipato alla campagna per le europee, che appartengano o meno a partiti o a movimenti o ad altre formazioni. Ai soggetti collettivi, d’altra parte, (partiti, movimenti, associazione) non è richiesto di sciogliersi come condizione di partecipazione al percorso (ogni soggettività è titolare delle proprie scelte), ma ne auspichiamo l’impegno convinto e l’assunzione dell’obbiettivo finale (la necessità e l’urgenza di dar vita a una forma di rappresentanza unitaria nella scena politica nazionale), così come è stato per le elezioni europee.

D’altra parte, intorno a noi, c’è un mondo di donne e di uomini che ogni giorno si sbatte per resistere e per cambiare, o comunque che “non ci sta”: c’è una “sinistra fuori dalla sinistra”, che non trova sponda in ciò che c’è (o che si vede) e che meriterebbe una rappresentanza politica degna di questo nome. E’ con loro che dobbiamo camminare.

Ci saranno senza dubbio tensioni e difficoltà, lungo questo cammino, ma siamo convinti che la forza del progetto generale, come nel modello tracciato da Syriza, sarà più forte.

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