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Fornire armi all'avversario, quando non è tradimento della ragione per cui si lotta, è una stupidaggine sesquipedale.

Il manifesto, 24 dicembre 2014

Opporsi alla grande, inu­tile e dan­nosa Tav che buca le mon­ta­gne della Val Susa è ormai, e per for­tuna, diven­tato per­sino senso comune. Decenni di lotte duris­sime e soli­ta­rie prima di arri­vare final­mente al con­vin­ci­mento di una larga mag­gio­ranza di cit­ta­dini. Anche gra­zie alla “grande opera” di infor­ma­zione capil­lare e autorevole.

Pro­prio per que­sto le recenti e con­ti­nuate azioni di sabo­tag­gio delle linee fer­ro­via­rie usate nor­mal­mente dagli ita­liani (e spe­cial­mente in que­sti giorni di feste nata­li­zie) sono il modo migliore per togliere con­senso a tutto quello che il movi­mento NoTav ha saputo costruire negli anni.

Bru­ciare i cavi nei poz­zetti che ali­men­tano la cir­co­la­zione dei treni sono sì un “atto dimo­stra­tivo”, ma di cre­ti­ni­smo poli­tico di rara natura. Che ben s’accoppia con gli allar­mi­smi del nostro mini­stro delle Infra­strut­ture che grida al “ter­ro­ri­smo”. Senza che (finora) ci sia stata riven­di­ca­zione, e con quella scritta NoTav che non si capi­sce da quanto tempo fosse lì. Più accorto si è dimo­strato il pre­si­dente Renzi par­lando di “sabotaggio”.

Oltre­tutto met­tendo stracci imbe­vuti di ben­zina lungo la fer­ro­via non si bru­ciano solo i cavi dell’alta ten­sione elet­trica, ma si toc­cano anche quei nervi sco­perti della memo­ria col­let­tiva messa a dura prova nei momenti più tra­gici e bui della nostra sto­ria. Come avvenne nei giorni di Natale con il treno 904 una tren­tina d’anni fa.

Certo la ribalta media­tica è assi­cu­rata, ma lo sono anche le male­di­zioni delle migliaia di per­sone che in que­ste ore si met­tono in viag­gio con già abba­stanza pro­blemi da risol­vere e con nes­suna voglia di doverne sop­por­tare un carico aggiuntivo. Da parte di chi, magari, pensa di pra­ti­care scor­cia­toie che come sem­pre nella sto­ria fini­scono su un bina­rio morto

«Jobs act. Niente articolo 18, allargamento alle procedure collettive e alle aziende che passano sopra i 15 addetti. Ecco il nuovo contratto. Il consiglio dei ministri vara il primo decreto: licenziare sarà più facile e costerà meno alle imprese. Damiano: "Norme da cancellare"».

Il manifesto, 24 dicembre 2014

Il pacco di natale lo stanno infioc­chet­tando diret­ta­mente a palazzo Chigi. Que­sta mat­tina sarà il con­si­glio dei mini­stri a scar­tarlo, seb­bene il con­te­nuto dif­fi­cil­mente sarà noto subito ai lavo­ra­tori ita­liani in tutte le sue parti: come al solito ci si limi­terà agli annunci. Renzi ven­derà il con­tratto a tutele cre­scenti come un modo per dare lavoro ai gio­vani e com­bat­tere la precarietà.

In realtà sosti­tui­sce in toto il con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato: c’è già la fila di aziende pronte a licen­ziare i pro­pri lavo­ra­tori e a rias­su­merli col nuovo con­tratto. Il primo decreto delega del Jobs act san­cirà comun­que la can­cel­la­zione dell’articolo 18 dalla legi­sla­zione italiana.

Dopo 44 anni di vita, il rein­te­gro in caso di licen­zia­mento senza giu­sta causa rimarrà solo per i licen­zia­menti di tipo discri­mi­na­to­rio, tute­lati dalla Costi­tu­zione, che per for­tuna non era oggetto della delega in bianco votata dal par­la­mento al governo.

Per il resto la libertà di licen­zia­mento pro­pa­gan­data dai con­si­glieri eco­no­mici di Mat­teo Renzi - il boc­co­niano Tom­maso Nan­ni­cini, Yoram Gut­geld e il respon­sa­bile eco­no­mia Pd ed ex civa­tiano Filippo Tad­dei - sarà sostan­zial­mente totale. Con il mini­stro del lavoro Giu­liano Poletti nel ruolo di media­tore rispetto alle richie­ste spon­so­riz­zate da Mau­ri­zio Sac­coni e Pie­tro Ichino.

Anche l’unica pic­cola vit­to­ria della mino­ranza Pd - il ripri­stino del rein­te­gro in alcuni casi di licen­zia­menti disci­pli­nari - sarà supe­rato dalla cosid­detta opting out: la pos­si­bi­lità per l’azienda di sce­gliere di pagare un inden­nizzo al posto del rein­te­gro. Con il con­ten­tino per i lavo­ra­tori di rice­vere la cifra a tas­sa­zione agevolata.

La quan­ti­fi­ca­zione degli inden­nizzi è già stata fis­sata e riduce di molto i livelli pre­vi­sti dalla riforma For­nero: per le aziende fino a 15 dipen­denti si pre­vede una mezza men­si­lità per ogni anno di anzia­nità, per quelle da 16 a 200 dipen­denti si sali­rebbe a 1,5 men­si­lità per anno, sopra i 200 dipen­denti si andrebbe a due men­si­lità per anno. Il tetto mas­simo per i dipen­denti con più anzia­nità sarebbe inva­riato a 24 men­si­lità. Per ovviare al rischio che ai datori di lavoro con­venga assu­mere e poi licen­ziare dopo un anno, sfrut­tando gli incen­tivi sui nuovi assunti pre­vi­sti in legge di sta­bi­lità, il governo sem­bra orien­tato ad aumen­tare a 3 men­si­lità l’indennizzo per il licen­zia­mento dopo un solo anno.

Ma la novità di gior­nata peg­giore per i lavo­ra­tori ita­liani riguarda la ven­ti­lata pos­si­bi­lità di allar­gare tutta la par­tita in modo spro­po­si­tato: la nuova nor­ma­tiva sul con­tratto a tutele cre­scenti riguar­de­rebbe infatti non solo i licen­zia­menti indi­vi­duali ma anche i licen­zia­menti col­let­tivi. Andando quindi ad inter­ve­nire su tutte le gestioni delle crisi azien­dali rego­late dalla legge 223 del 1991, ora usata in caso di esu­beri. In que­sto modo c’è il rischio reale che le imprese scel­gano chi licen­ziare sca­val­cando i cri­teri che oggi impo­gono un ten­ta­tivo di con­ci­lia­zione di 75 giorni con i sin­da­cati e - soprat­tutto - cri­teri pre­cisi per l’individuazione del per­so­nale in esu­bero, tute­lando chi ha cari­chi fami­liari. Insomma, un colpo di mano che per­met­te­rebbe agli impren­di­tori di disfarsi come e quando vogliono di chi scio­pera, di chi con­te­sta, di chi non gli aggrada.

In più nella bozza di palazzo Chigi è pre­vi­sta una norma che con­sen­tirà alle aziende ora sotto i 15 dipen­denti che aumen­tino la loro forza lavoro di appli­care a tutti i loro lavo­ra­tori il nuovo con­tratto a tutele cre­scenti, eli­mi­nando quindi per tutti la tutela dell’articolo 18 che deri­vava dall’aver appunto supe­rato quota 15 addetti. Ver­rebbe così supe­rato l’ostacolo sem­pre strom­baz­zato dalla destra libe­rale: «In Ita­lia le pic­cole aziende non assu­mono per­ché sopra i 15 dipen­denti c’è l’articolo 18».

L’ultima beffa per i lavo­ra­tori - ieri data per meno pro­ba­bile - riguarda la pos­si­bi­lità di licen­zia­mento per scarso ren­di­mento. Anche in que­sto caso a sta­bi­lire se il lavo­ra­tore sia poco pro­dut­tivo sarebbe esclu­si­va­mente l’imprenditore, men­tre al lavo­ra­tore non rimar­rebbe che dimo­strare di essere stato licen­ziato per discriminazione.

Pos­si­bile poi che il con­si­glio dei mini­stri vari il secondo decreto delega, quello sugli ammor­tiz­za­tori sociali. L’Aspi della For­nero dovrebbe essere esteso anche ai co .co .pro - con­tratto che Renzi ha pro­messo di can­cel­lare - allun­gan­done la coper­tura. Ma senza risorse pare una mano­vra assai com­pli­cata per­fino uti­liz­zando i fondi - 500 milioni - per la cassa in deroga: anche que­sti lavo­ra­tori dovreb­bero esserne coperti e quindi non si capi­sce come aumenterebbero.

Una situa­zione che porta Cesare Damiano - pre­si­dente della com­mis­sione Lavoro, una delle due che deve dare un parere vin­co­lante su ogni decreto entro 30 giorni, per poi far tor­nare il testo in con­si­glio dei mini­stri - a fare la voce grossa: «Opting out, allar­ga­mento delle norme ai licen­zia­menti col­let­tivi e licen­zia­mento per scarso ren­di­mento sono prov­ve­di­menti gravi che vanno al di fuori del testo della delega. Vanno tutti e tre eli­mi­nati. Diver­sa­mente avrebbe ragione il mini­stro Alfano: il sarebbe scritto con la mano destra»
«Ieri il Papa si è rivolto alla Curia romana, ma le sue parole colpiscono praticamente tutti gli organi di potere dell’odierna società, dalla politica all’economia, dalle università ai tribunali, in Italia e ovunque nel mondo. Al primo posto la "malattia di sentirsi immortale e indispensabile"».

La Repubblica, 23 dicembre 2014

VIVA il Papa e abbasso la Curia!, verrebbe spontaneo gridare dopo il magnifico e severo discorso che papa Francesco ha rivolto ieri ai responsabili della Curia romana. Il discorso con un’analisi ammirevole e coraggiosa elenca ben quindici malattie che secondo il Papa aggrediscono l’organismo di potere vaticano, ma in realtà si tratta di un’analisi perfettamente estendibile a tutte le altre nomenclature, a tutte le corti che nel mondo si formano inevitabilmente attorno a chi detiene il potere. Ieri il Papa si è rivolto alla Curia romana, ma le sue parole colpiscono praticamente tutti gli organi di potere dell’odierna società, dalla politica all’economia, dalle università ai tribunali, in Italia e ovunque nel mondo. Tra le malattie della mente e del cuore dei burocrati vaticani e non, il Papa pone al primo posto ciò che definisce (1) la «malattia del sentirsi immortale o indispensabile», vale a dire l’identificazione del proprio sé con il potere.

SEGUONO (2) «la malattia dell’eccessiva operosità» e (3) «l’impietrimento mentale e spirituale», intendendo con ciò l’atteggiamento di coloro che «perdono la vivacità e l’audacia e si nascondono sotto le carte diventando macchine di pratiche». Le altre malattie del potere, elencate dal Papa spesso con termini colorati, sono: (4) l’eccessiva pianificazione, (5) il cattivo coordinamento che trasforma una squadra in «un’orchestra che produce chiasso», (6) «l’Alzheimer spirituale» che fa perdere la memoria dell’incontro con il Signore e consegna in balìa delle passioni, (7) la rivalità e la vanagloria, (8) la schizofrenia esistenziale che porta a vivere una doppia vita, di cui la seconda è all’insegna della dissolutezza, (9) le chiacchiere e i pettegolezzi che arrivano a un vero e proprio «terrorismo» delle parole, (10) la divinizzazione dei capi in funzione del carrierismo, (11) l’indifferenza verso i colleghi che priva della solidarietà e del calore umano e che anzi fa gioire delle difficoltà altrui, (12) la faccia funerea di chi è duro e arrogante e non sa che cosa siano l’umorismo e l’autoironia, (13) il desiderio di accumulare ricchezze, (14) i circoli chiusi e infine (15) l’esibizionismo.
Queste sono le numerose malattie che secondo il Papa aggrediscono la Curia romana e i suoi responsabili. Ma una domanda s’impone: è davvero così semplice separare il Pontefice dalla sua amministrazione? La Curia romana è una creatura dei Papi, è l’espressione di ciò che per secoli è stato il Papato, governata dagli infallibili successori di Pietro dei quali tra l’altro quasi tutti coloro che hanno regnato nel ‘900 sono stati proclamati santi o beati. Com’è quindi possibile il paradosso di papi così vicini a Dio e tuttavia incapaci di mettere ordine tra i più stretti collaboratori, scelti da loro stessi? Come si concilia lo splendore dei pontefici canonizzati con una curia che dipende da loro direttamente e che è così tanto malata?
La Curia romana non è piovuta in Vaticano dal cielo, né è stata messa lì da qualche potentato straniero, ma è sorta quale logica emanazione della politica ecclesiastica papale che ha fatto del Vaticano un centro di potere assoluto, e non un organo di servizio come vorrebbe oggi papa Francesco. Se si vuole la coerenza del ragionamento, indispensabile alla coerenza della vita giustamente tanto cara a papa Francesco, occorre concludere che i mali della Curia romana non possono non essere esattamente i mali dello stesso potere pontificio.
Il papato per secoli ha concepito se stesso come potere assoluto senza spazio per una minima forma di critica e meno che mai di opposizione, traducendo fisicamente questa impostazione in precisi segni di spettacolare effetto quali il bacio della pantofola, la sedia gestatoria, e la tiara pontificia detta anche triregno tempestata di pietre preziose. Chi lavorava in Curia respirava quotidianamente quest’aria e non c’è nulla da meravigliarsi se poi, nella sua vita privata, tendesse a riprodurne la logica circondandosi a sua volta di lusso e di potere. È stato così per secoli e, come fa intendere il discorso di papa Francesco, è così ancora oggi. Emblematico è il caso del cardinal Bertone, per anni a capo della Curia romana e ora autopremiatosi con un lussuoso superattico nel quale probabilmente si aggira fiero contemplando i frutti di un fedele servizio alla logica del potere.
L’impietrimento mentale e spirituale denunciato da papa Francesco come malattia n. 3 non è altro che la conseguenza di come nei secoli è stata interpretata la figura del successore di Pietro. Quindi la riforma della curia non può che condurre a una riforma del papato. Avrà la forza papa Francesco per intraprendere questa strada? La volontà, di sicuro, sì.
«Il pro­blema è che chi già detiene posi­zioni di potere è molto restio a cederle e ha molte armi per difen­dersi. Tanto più in poli­tica, dove da tempo è giunta al ver­tice una classe diri­gente «pura», priva d’ogni con­tatto con la società».

Il manifesto, 19 dicembre 2014 (m.p.r.)

Molto oppor­tu­na­mente il Capo dello Stato ha pun­tato il dito, nel suo discorso del 10 dicem­bre all’Accademia dei Lin­cei, con­tro alcune forme, sgan­ghe­rate e scia­gu­rate, di con­durre la lotta poli­tica nelle aule par­la­men­tari, nelle piazze e sui gior­nali di que­sto paese. Se non che le sue parole a un certo punto si fer­mano. Per il Capo dello Stato la pru­denza è d’obbligo. In una sta­gione infuo­cata, non è il caso di ecci­tare i già dif­fi­cili rap­porti tra le forze poli­ti­che. Ma se lui ha da esser pru­dente, è un segno di con­si­de­ra­zione nei suoi riguardi pren­dere spunto dalle sue parole per appro­fon­dire l’argomento. Che non è affatto semplice.

Il Pre­si­dente, se è per­messo sem­pli­fi­care, è risa­lito alla crisi del ’92–94 impu­tan­dola ad «abusi di potere, catene di cor­ru­zione, inqui­na­menti nella sele­zione dei can­di­dati a inca­ri­chi pub­blici e in gene­rale nei mec­ca­ni­smi elet­to­rali». Dopo quella crisi, tut­ta­via, una salu­tare opera di risa­na­mento sarebbe stata a suo dire intra­presa, con­se­guendo «risul­tati non certo irri­le­vanti». Qual­cosa, il Pre­si­dente Napo­li­tano rico­no­sce, «allora mancò». Ma la cri­tica anti­po­li­tica si è osti­na­ta­mente rifiu­tata di rico­no­scere sia i risul­tati allora con­se­guiti, sia gli «impe­gni con­creti e ulte­riori passi sulla via del rinnovamento».

Ma pro­prio su que­sta affer­ma­zione è legit­timo avan­zare dubbi. Per­ché se Mani Pulite san­zionò un vistoso e pro­tratto deca­di­mento della vita pub­blica, il ven­ten­nio suc­ces­sivo è stato molto peg­gio. Anzi: c’è motivo di rite­nere che le rispo­ste allora alle­stite, ovvero, nelle parole del Pre­si­dente, il «rime­sco­la­mento assai vasto dei gruppi diri­genti dei par­titi, addi­rit­tura con la scom­parsa o disper­sione di alcuni di essi» e «la riforma delle leggi elet­to­rali per il Par­la­mento e per i Comuni», anzi­ché miglio­rare la situa­zione l’abbiano aggra­vata. Il Pre­si­dente non può forse dirlo, ma l’Italia sta uscendo con le ossa rotte — eco­no­mi­ca­mente e moral­mente — da un ven­ten­nio «ber­lu­sco­niano» di cui gli scan­dali romani sono solo la più recente, ma forse non l’ultima, manifestazione.

Ci sarebbe cioè da stu­pirsi se, dopo vent’anni di così disa­stroso mal­go­verno, non fos­sero com­parse «rap­pre­sen­ta­zioni distrut­tive del mondo della poli­tica». Ha ragione il Pre­si­dente a ricor­dare che non tutto è andato storto. Nel Mez­zo­giorno, ad esem­pio, si sono regi­strati apprez­za­bili pro­gressi nella lotta al cri­mine orga­niz­zato. Ma non si può negare che gli ita­liani media­mente stiano peg­gio e che la vita pub­blica sia afflitta da inef­fi­cenze e fal­li­menti d’ogni sorta. Il costo del ven­ten­nio che il paese sta pagando è altis­simo. Sap­piamo bene che tutto si regge: il mal­go­verno ha impe­dito di affron­tare ade­gua­ta­mente il declino indu­striale, il debito pub­blico è cre­sciuto a dismi­sura per­ché il paese non cre­sceva e spre­cava per ragioni di con­senso e in malaf­fare. Adesso le spie­tate misure di risa­na­mento impo­ste dall’Europa stanno stran­go­lando l’economia e l’intera società. E gli unici rimedi pare siano l’abolizione del Senato, un’ inde­cente legge elet­to­rale, la rimo­zione manu mili­tari dell’art. 18 e le Olim­piadi a Roma nel 2024.

Pre­si­dente, come si fa a non essere anti­po­li­tici in que­ste con­di­zioni? Eppure, Napo­li­tano una parte di ragione ce l’ha. L’antipolitica si nutre dei fal­li­menti della poli­tica, ma pure dei discorsi irre­spon­sa­bili pro­nun­ciati con­tro di essa. Discorsi che oggidì pos­siamo attri­buire a Grillo e a Sal­vini, ma che sono stati pro­nun­ciati anche da molti altri. Chi è senza pec­cato, sca­gli la prima pietra.

L’antipolitica risale a molto indie­tro nel tempo. Era anti­po­li­tica già il movi­mento refe­ren­da­rio dei primi anni 90. È stato anti­po­li­tica il leghi­smo, ma anche il ber­lu­sco­ni­smo, che l’ha anzi por­tata al governo. E, per venire a casi più recenti, Renzi non scherza affatto in mate­ria. Non lesina espres­sioni offen­sive nei con­fronti degli avver­sari poli­tici e non rispar­mia dema­go­gici appelli al popolo sovrano. A ben vedere, un po’ di anti­po­li­tica l’ha fatta anche Lei, Signor Pre­si­dente, quando, col­las­sato il ber­lu­sco­ni­smo, anzi­ché seguire la via mae­stra delle urne, com­mis­sa­riò la poli­tica chia­mando a Palazzo Chigi un Sommo Tec­nico, che aggiunse disa­stro a disastro.

Come se ne esce? La ricetta è tanto sem­plice quanto irrea­liz­za­bile. Rimet­tendo in moto eco­no­mia, società e poli­tica. Una delle ragioni della cor­ru­zione dila­gante è lo stallo dell’economia, le cui classi diri­genti cer­cano di rifarsi cor­rom­pendo la poli­tica dei loro insuc­cessi sul mer­cato, esat­ta­mente come invece che fare impresa fanno finanza. Non solo gran parte della classe poli­tica, ma anche una buona parte della classe diri­gente eco­no­mica sarebbe da cam­biare. Il pro­blema è che chi già detiene posi­zioni di potere è molto restio a cederle e ha molte armi per difen­dersi. Tanto più in poli­tica, dove da tempo è giunta al ver­tice una classe diri­gente «pura», priva d’ogni con­tatto con la società, cre­sciuta den­tro le atti­vità rap­pre­sen­ta­tive e di governo e mai ado­pe­ra­tasi nella cura della mili­tanza e dell’elettorato. Renzi incarna que­sto modello come nes­sun altro. Solo che il modello del poli­tico «puro» è in giro da un pezzo. Dagli anni 70 in poi, allor­ché pure nel Pci il par­tito degli ammi­ni­stra­tori tra­volse quello dei mili­tanti. Le ragioni dell’antipolitica comin­cia­rono a mon­tare in quel momento. Gli ammi­ni­stra­tori, era suc­cesso già nella Dc e nel Psi, ave­vano meno remore morali dei mili­tanti. La que­stione morale ber­lin­gue­riana fu archi­viata. Gli scan­dali si acce­le­ra­rono, crebbe il malu­more e qual­cuno comin­ciò a caval­carlo semi­nando anti­po­li­tica. Lo caval­ca­rono anche ammi­ni­stra­tori e aspi­ranti ammi­ni­stra­tori di tutti i par­titi - spe­cie i poli­tici «puri» - con un pre­ciso obiet­tivo: deci­dere e non mediare, ossia libe­rarsi di tutti gli oneri che com­porta una poli­tica social­mente radi­cata. Prag­ma­ti­smo anzi­ché ideologia.

Accan­to­nata quella che Rita Di Leo ha defi­nito la politica-progetto, la cre­scita dell’antipolitica diventò incon­te­ni­bile. Anzi, è dive­nuta un flo­rido busi­ness. Le riforme isti­tu­zio­nali dei prima anni 90, le sug­ge­stioni lea­de­ri­sti­che che hanno ali­men­tato, l’abbattimento degli obso­leti e buro­cra­tici con­trolli di lega­lità, figlie dell’antipolitica, non hanno curato il malaf­fare, ma l’hanno aggra­vato. E Grillo e Sal­vini, signor Pre­si­dente, non sono i soli che ci spe­cu­lano sopra.

«Un partito-ombra, totalmente sconosciuto agli elettori, in grado di gestire i traffici di appalti e tangenti. E perfino di cambiare le leggi e condizionare le decisioni del parlamento per garantire l'impunita».

LEspresso, 25 dicembre 2014

Nell'unica riforma anti-corruzione varata in Italia dal 2000 ad oggi si nasconde una sorpresa tinta di rosso: la norma più criticata, quella che ha diviso in due il reato di concussione, è servita prima di tutto a salvare le grandi cooperative edilizie emiliane da un processo potenzialmente rovinoso. Favorendo anche un imputato politico di primo piano, l'ex numero uno del Pd lombardo Filippo Penati. Quando la tagliola della prescrizione ha annientato le accuse più gravi, però, i magistrati di Monza hanno trasmesso ad almeno due procure emiliane le notizie di reato più compromettenti. Ricavate da intercettazioni e da altri elementi d'accusa che hanno fatto sospettare l'esistenza di un alivello nazionale» di rapporti tra affari e politica. Una specie di partito-azienda in versione di sinistra. O meglio, un partito-ombra, totalmente sconosciuto agli elettori, in grado di gestire i traffici di appalti e tangenti. E perfino di cambiare le leggi e condizionare le decisioni del parlamento per garantire l'impunita.
L'inchiesta di Monza non ha potuto essere confermata né smentita dai processi, azzerati sul nascere proprio dalla riscrittura del reato di concussione, ma certamente non è liquidabile come un'accusa isolata. Altri indizi di un possibile 'sistema nazionale», che potrebbe collegare alcune tra le maggiori cooperative rosse con una parte del Pd, sono stati raccolti dai pm milanesi che continuano a indagare sull'Expo, dopo aver ottenuto la prima raffica di patteggiamenti. Anche i magistrati veneziani che hanno scoperchiato lo scandalo del Mose, spingendo decine di imprenditori a confessare, hanno raccolto testimonianze su presunti accordi segreti tra le cooperative venete e i colossi emiliani per spartirsi, con la benedizione delle rispettive correnti locali e nazionali del Pd, gli appalti miliardari di Venezia.
Oggi gli interrogativi sul grado di coinvolgimento della sinistra nel malaffare politico-affaristico sono tornati di drammatica attualità con le retate di "Mafia Capitale". L'inchiesta della Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone ha rivelato un'alleanza trasversale tra il cooperatore rosso Salvatore Buzzi e l'ex terrorista di destra Massimo Carminari, ora in cella come capo di un'organizzazione mafiosa cresciuta con la corruzione. Lo scandalo ha travolto l'amministrazione nera di Gianni Alemanno, ma ha colpito anche importanti esponenti del Pd laziale, riaprendo una polemica che viene da lontano: i compagni che rubano sono solo "mele marce" o frutti avvelenati di un "sistema"?
Le Procure più attive nella lotta alla corruzione inseguono da più di vent'anni il fantasma di un possibile livello «nazionale» delle tangenti rosse. Nel 1992-94 i magistrati del pool Mani Pulite eran riusciti a provare che l'allora Pci, a Milano, era dentro nel «sistema»: le tangenti sugli appalti venivano divise tra i partiti di maggioranza e opposizione con percentuali prefissate. A beneficiare del malaffare milanese però era solo la corrente migliorista, alleata con il Psi di Craxi. In un unico caso, con le corruzioni per gli appalti dell'Enel, i magistrati dimostrarono il coinvolgimento del Pci a livello centrale. Di qui la condanna definitiva di Primo Greganti come tesoriere nazionale delle tangenti rosse. II suo silenzio, nonostante una lunghissima carcerazione preventiva, ha però impedito di smascherare i suoi complici nella sinistra, anche perché il "compagno G" aveva approfittato della crisi del Pci per tenersi le ultime mazzette e comprarsi una casa a Roma. Vent'anni dopo, nonostante o forse a causa di quella condanna, Greganti ha potuto rimettere le mani sui grandi appalti dell'Expo.
Nel 2013-2014 il suo ruolo è cambiato: non porta più le tangenti al partito, ma le intasca per sé, insieme all'altro pregiudicato berlusconiano Gianstefano Frigerio e a nuovi faccendieri di centrodestra. Le microspie della Procura registrano che nella Tangentopoli di oggi sono proprio i faccendieri a «formare le squadre» di imprese che vincono gli appalti dell'Expo. E quando confessa le sue corruzioni, anche l'industriale Enrico Maltauro conferma di essersi associato alle cooperative rosse, come la Manutencoop o la Cefla di Imola, «per avere una copertura politica a sinistra. Maltauro è il primo a parlare ai magistrati di «un sistema illecito nazionale» e a fare i nomi dei presunti protettori politici dei faccendieri: «Greganti mi parlava di Bersani, Fassino, Burlando e Sposetti; Frigerio aveva come riferimenti Berlusconi, Letta, Lupi e Maroni.. Nessuno di loro è indagato: le inchieste non hanno accertato alcun versamento ai partiti. Piuttosto, sono le imprese che sembrano diventate correnti: il Manuale Centelli applicato agli appalti.
L'odore di «sistema» torna fortissimo se, accanto alle indagini, si tiene d'occhio il parlamento. 14 ottobre 2013 l'imprenditore Maltauro, che ignora di essere intercettato, spiega a Frigerio perché dovrà rinunciare a un alleato come la cooperativa rossa Cmc di Ravenna: «Abbiamo un problema molto pesante, molto serio, con i nostri amici di Cmc... C'è stata una richiesta del pm di bloccare l'operatività dell'azienda... Quindi, se vedi Primo (Greganti) gli dici: scusa, adesso vediamo come fare...». II «problema» che spinge Maltauro a rinunciare alla Cmc per puntare sulla Manutencoop è l'inchiesta sul porto di Molfetta: oltre 150 milioni di euro sprecati in un tratto di costa minato da migliaia di ordigni inesplosi. Principale indagato è l'ex sindaco Antonio Azzolini, ora senatore del Nuovo Centrodestra.
II 4 dicembre scorso il Senato ha negato alla procura di Trani l'autorizzazione a usare come prove le intercettazioni del politico. Gli atti parlamentari registrano un voltafaccia del Pd: l'ex pm Felice Casson era favorevole alle intercettazioni, ma la maggioranza del partito lo ha sconfessato. Forse è solo un caso. O forse Maltauro conosce davvero il «sistema»: se il partito di Alfano e Lupi pensava al suo senatore, magari «il problema» del Pd era proprio la Cmc. A Monza la Procura è salita ancora più in alto, mettendo sotto inchiesta il Consorzio Cooperative Costruzioni (Ccc) di Bologna, un colosso con 240 imprese associate e 20 mila dipendenti, guidato da Omer Degli Esposti. L'accusa più grave, rivolta in primis al democratico Penati, riguardava la maxi-area dell'ex Falck: per renderla edificabile il politico avrebbe preteso dieci milioni di euro, incassandone almeno due tra il 2000 e il 2003, versati da due imprenditori che poi hanno confessato. In aggiunta, i proprietari dei terreni, Luca e Giuseppe Pasini, si sarebbero sentiti imporre un ricatto economico: affidare i lavori residenziali alla Ccc; e pagare altri 2,4 milioni, mascherati da false consulenze, a due professionisti, indicati come presunti tesorieri di Degli Esposti.
Importanti conferme a queste accuse sono arrivate da altri due grandi imprenditori: sia Edoardo Caltagirone che l'allora amministratore delegato della Falck hanno testimoniato che, per fare affari edilizi in una città rossa come Sesto San Giovanni, bisognava per forza trattare con la Ccc. E pagare i due presunti consulenti-tesorieri di Degli Esposti. La Ccc, per inciso,è ricomparsa nell'affare immobiliare dell'ex Falck anche con la nuova proprietà (non indagata). Convinti di avere «prove plateali» sul sistema Penati-Pd-Ccc, i pm di Monza chiedono i) rinvio a giudizio il 24 settembre 2012. La legge Severino viene approvata il 6 novembre ed entra in vigore il 14: l'effetto è la prescrizione immediata della «concussione per induzione» contestata alla Ccc. Anche Penati, dopo aver dichiarato di voler sfidare in aula i suoi accusatori (rimarcando che Pasini padre si candidò con Forza Italia), alla fine approfitta del colpo di spugna e ora resta imputato solo delle corruzioni meno gravi. Mentre Degli Esposti e la sua Ccc non sono stati neppure processati. Di tutta l'istruttoria monzese, a questo punto restano aperti solo i tronconi inviati ad altre procure: i magistrati di Monza hanno intercettato, tra l'altro, colloqui riservati tra Omer Degli Esposti e alcuni parlamentari della vecchia guardia del Pd tra cui lo storico tesoriere nazionale Ugo Sposetti. E nel mirino c'è sempre il «sistema» cooperative-partito.
Anche a Venezia spuntano nuove piste investigative sul malaffare di sinistra. Piergiorgio Baita, l'ex manager della Mantovani spa, ne ha parlato per primo negli interrogatori-fiume in cui si giocava la scarcerazione e il futuro dell'azienda di cui era anche azionista. Il punto da chiarire era molto delicato: nel Consorzio Venezia Nuova (Cvn), la cabina di regia del Mose, hanno trovato posto le cooperative rosse venete, riunite nel Coveco, ma anche il colosso emiliano Ccc, rappresenrato dal solito Omer Degli Esposti. Eppure a gestire tutti i traffici di fondi neri e tangenti, con soci del calibro di Mantovani, Condotte, Mazzi-Fincosit e altri signori degli appalti, sembrano essere solo i cooperatori veneti. Baita risponde ai pm rivelando che sul Mose sarebbe esistito «un accordo. ovviamente riservato, «tra le cooperative venete e quelle emiliane». Il verbale integrale sembra una lezione: «I consorzi di cooperative sono entità che dovrebbero coordinare tutte le cooperative associate», spiega Baita. «La prima finalità è di squisita matrice imprenditoriale: consentire a una cooperativa di utilizzare i requisiti di un'altra associata per partecipare a bandi di gara... Per questo ci sono consorzi di tipo nazionale o locale: il più grosso dei nazionali è il Ccc di Bologna, quelli locali sono il Coveco nel Veneto, l'Etruria in Toscana...».
Ed eccoci a Venezia: «Chi dovesse rappresentare le cooperative nel Cvn è stato oggetto di un aspro scontro tra il consorzio nazionale di Bologna e i locali del Coveco., dichiara Baita. Che precisa: «I1 Coveco è storicamente un associato di Venezia Nuova, mentre il Ccc è entrato più recentemente. Quando? «Quando c'era Bargone ministro dei Lavori pubblici, che ne chiese l'inserimento nella compagine del Mose». Per l'esattezza Antonio Bargone è stato sottosegretario ai Lavori Pubblici nei governi Prodi, D'Alema e Amato dal 1996 al 2001; poi è diventato presidente di una società autostradale. Dopo il suo intervento, sempre secondo Baita, «all'interno del Cvn non si capiva più chi dovesse rappresentare le cooperative: se il rappresentante del Ccc di Bologna, Degli Esposti, o quello del Coveco: la mediazione fu favorita da Giovanni Mazzacurati». Il presidente-padrone del Cvn, conclude Baita, decise di lasciare un veneto, Pio Savioli, in grado di «fare da equilibrio tra i due consorzi e le varie parti politiche che rappresentano, perchè il Coveco faceva riferimento a una certa sfera di sinistra e il Ccc a un'altra». Un gran bel patto tra affari e politica: per una sinistra serenissima.

«I 500 marchi riconducibili ai dieci signori della tavola sono spesso vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri».

La Repubblica, 19 dicembre 2014 (m.p.r.)

Stanno seduti intorno alla tavola del mondo e controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta. Sono i 10 signori dell’industria alimentare: 450 miliardi di dollari di fatturato annuo e 7.000 miliardi di capitalizzazione, l’equivalente della somma del pil dei paesi più poveri della Terra. Non sempre sono nomi noti in Italia. Da un secolo la Coca Cola è il sinonimo della multinazionale ma solo gli addetti ai lavori conoscono la Mondelez. Un po’ più numerosi sono gli italiani che ricordano la Kraft, vecchio nome proprio della Mondelez. Quasi tutti invece hanno incontrato al supermercato marchi come Toblerone, Milka e Philadelphia. «I 500 marchi riconducibili ai dieci signori della tavola — spiega Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia — sono spesso vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri».

A rendere chiaro il quadro c’è il paradosso del ricco Epulone, il protagonista della parabola evangelica. Mentre sono 900 milioni le persone che soffrono la fame (dati Onu settembre 2014) e che vivono sotto la tavola del banchetto sperando nelle briciole, sono 1,4 miliardi gli uomini e le donne che nel mondo hanno il problema del sovrappeso. «Sono due prodotti dello stesso sistema — osserva Barbieri — perché l’80 per cento di coloro che non riescono a sfamarsi vivono nelle campagne e lavorano per produrre cibo». Oxfam è un’organizzazione che si propone di aiutare le popolazioni povere del mondo cercando di redere virtuosi, con campagne e raccolte di firme, i comportamenti delle multinazionali del cibo. Il sistema è quello di fare pressione sull’immagine dei gruppi alimentari in Occidente per spingerli a migliorare le politiche sociali nei paesi produttori. È accaduto con Nestlé, Mondelez e Mars per quel che riguarda i diritti delle donne che lavorano nelle piantagioni di cacao. Si chiede che accada con Coca Cola e Pepsi per evitare il fenomeno del land grabbing, l’esproprio forzoso delle terre dove si coltiva la canna da zucchero. «Già oggi - spiega Oxfam - sono coltivati a zucchero 31 milioni di ettari di terra, l’equivalente della superficie dell’Italia».

La tendenza alla concentrazione dei marchi è in atto da tempo e riguarda praticamente tutti i settori alimentari. Ci sono eccezioni quasi inevitabili come il latte e il vino. Stiamo naturalmente parlando di grandi multinazionali. Ma se nel settore vinicolo il blocco alla creazione di grandi gruppi è dovuto a un legame strettissimo con il territorio (ogni collina è una diversa cantina sociale), nella birra non è più così da tempo: i tre principali marchi mondiali, i belgi in In Bev (Artois, Beck’s e la brasiliana Anctartica), i sudafricani di SAB Miller e gli olandesi di Heineken controllano da soli il 60 per cento del fatturato mondiale e raccolgono l’80 per cento degli utili. Analoga concentrazione sta per avvenire nel settore del caffè. «L’esempio della birra — spiega Antonio Baravalle, ad di Lavazza — dimostra che nei settori dell’alimentare la concentrazione delle proprietà fa aumentare i profitti». Dunque c’è da immaginare che nei prossimi anni i dieci signori che governano le tavole del mondo si ridurranno ancora? «Penso che ci sia un limite. Fondersi ancora di più non sarà facile. Mi sembra più probabile che ciascuno di quei dieci gruppi assorba nel tempo altri gruppi minori».

Anche se, a ben guardare la composizione della tavolata, non tutti i signori del cibo hanno la stessa consistenza. Provando a metterli in fila per fatturato, la Nestlé è di gran lunga più grande (90,3 miliardi) della seconda classificata, la Pepsicola (66,5 miliardi). Nonostante il suo valore iconico, come si dice oggi, la Coca Cola è ben distaccata dalla storica rivale ed è ferma a 44 miliardi di fatturato, scavalcata da Unilever (60) e Mondelez (55). A fondo classifica la Kellogg’s con 13 miliardi di dollari di ricavi annui. Con queste marcate differenze tra i dieci primi in classifica c’è, in teoria, ancora spazio, per i matrimoni. «Ma può anche accadere - spiega Baravalle - che uno dei grandi gruppi decida di liberarsi di un marchio perché non lo considera abbastanza globale». È quel che è successo, ad esempio, con la scelta di Mondelez di cedere i suoi marchi del caffè. Ed è quel che è accaduto negli anni scorsi a Findus, un tempo di Nestlé e Unilever e oggi in maggioranza detenuta da un fondo di investimento. Findus continua ad essere un ottimo marchio ma il suo difetto, secondo le valutazioni delle multinazionali, è quello di essere forte solo su alcuni mercati. Un’altra tendenza è quella di rilevare un marchio alimentare locale perché faccia da veicolo alla penetrazione di un grande gruppo in un mercato. Se Unilever, per esempio, deciderà un giorno di acquistare un marchio locale in un paese asiatico, lo farà soprattutto per mettere piede in quel mercato e poterlo affiancare dopo poco tempo con uno dei suoi brand globali.

Dopo altri decenni di fusioni e concentrazioni, ci troveremo un giorno a consegnare ad un unico grande fratello le chiavi della dispensa del mondo? Quello di un pianeta in cui una sola grande multinazionale controllerà tutti i marchi alimentari è certamente uno scenario da incubo. Ma come tutti i processi di concentrazione, anche quello del cibo crea inevitabilmente i suoi anticorpi. Succede in politica, dove contemporaneamente alle unioni tra stati nascono i movimenti separatisti e territoriali; accade, in modo assai più virtuoso, nell’alimentare con il sorgere dei prodotti chilometro zero, i presidi territoriali, i sistemi di produzione artigianale. Chi decide di resistere alla tentazione di vendere l’azienda alle multinazionali è inevitabilmente portato a valorizzare il suo brand mettendo in evidenza il legame con il territorio.

L’Italia è certamente uno dei Paesi del mondo dove il rischio della concentrazione dei produttori di alimenti è meno forte. Un po’ per il particolarismo che caratterizza la nostra economia asfittica. Un paese dominato dal modello per molti aspetti negativo della piccola e media impresa, che nel settore del cibo potrebbe trasformare il difetto in virtù. Lo dimostra uno studio condotto dall’agenzia Next con un questionario rivolto alle aziende alimentari italiane. L’elenco di quelle principali dice che siamo ben al di sotto del livello dei colossi mondiali. L’unica che si avvicina per fatturato è la Ferrero, con 8,1 miliardi di euro di ricavi annui, circa 10 miliardi di dollari, poco meno dei 13 miliardi della Kellogg’s. Le altre sono molto più indietro. La Barilla fattura 3,5 miliardi di euro ed è limitata dal fatto di avere come business un prodotto molto connotato localmente come la pasta. Si contano sulle dita di una mano le altre italiane sopra il miliardo di fatturato: il gruppo Cremonini (3,5) Parmalat (1,4), Amadori (1,3) Lavazza (1), Conserve Italia (1). Immediatamente sotto il livello del miliardo ci sono Acqua San Benedetto, Galbani e Granarolo.

È evidente che gli 11 signori del cibo italiano sono molto meno potenti dei commensali della tavolata mondiale. Ci si chiede se i re dell’alimentare, in Italia e nel mondo, hanno politiche comuni, accordi segreti, si mettono d’accordo per decidere che cosa mangeremo nei prossimi trent’anni. L’idea di una Trilateral del cibo, di un supergoverno occulto delle nostre cucine, è forse fantasiosa: «Credo anch’io che messa così possa essere un esercizio di fantasia premette Baravalle - ma sarei un ingenuo ad escludere che sulle grandi questioni di politica alimentare i grandi gruppi non esercitino, com’è legittimo, le loro pressioni sui politici». Certo, la discussione delle normative comunitarie sulla etichettatura risente ed ha inevitabilmente risentito dei desiderata dei signori del cibo. Ogni particolare in più o in meno da aggiungere sul foglio informativo per i consumatori si porta dietro miliardi di investimenti. Il caso più clamoroso è scoppiato di recente e riguarda gli oli utilizzati: finora è sufficiente scrivere che si tratta genericamente di “oli vegetali”. Ma se domani i produttori fossero costretti a specificare quali sono quegli oli, quanti avrebbero il coraggio di scrivere che utilizzano l’olio di palma, decisamente più scadente di quello di oliva? Ogni tanto sedersi intorno a un tavolo e decidere strategie comuni può essere utile. Anche per i signori del cibo.

«La miopia delle privatizzazioni: privarsi di beni e servizi per realizzare un’entrata una tantum, perdendo asset strategici. La filosofia? Trasformare i servizi pubblici a partire dall’acqua, da garanti di diritti universali in un mercato al servizio dei grandi capitali finanziari».

Il granello di sabbia n.16, novembre dicembre 2014 (m.p.r.)

Poste, ferrovie, interi comparti industriali, servizi pubblici locali, patrimonio pubblico: l’Italia del governo Renzi è in vendita e, dietro l’alibi del debito pubblico (peraltro, grazie a Monti, Letta e Renzi, in ascesa verso nuovi record) prepara la definitiva consegna dei beni comuni e dei servizi pubblici agli interessi dei grandi capitali finanzia. Che tutto questo avvenga dietro lo slogan “Cambia verso” ci dice solo delle straordinarie capacità comunicative del premier: cosa c’è di nuovo infatti nell’affrontare la crisi a colpi di privatizzazioni?

Negli anni ’90 l’Italia è già stata investita da un colossale piano di privatizzazioni, al punto che, nonostante il simbolo di quei decenni sia stata Margaret Thatcher, pochi sanno come quantitativamente, l’Italia abbia privatizzato più della Gran Bretagna, risultando seconda solo al Giappone. Abbiamo privatizzato più dell’Inghilterra e senza bisogno di alcuna Thatcher. E mentre la “lady di ferro” dichiarava la propria guerra affermando «La società non esiste. Esistono solo gli individui e le famiglie», in Italia è bastato dire che occorreva modernizzare il paese per poter dare il via al gigantesco processo di espropriazione sociale.

Nulla di nuovo sotto il sole di Renzi, dunque, se non il definitivo affondo che, non solo determina un
drammatico impoverimento di massa, ma rischia di precipitare il paese in un baratro, privandolo degli
stessi mezzi di una possibile ripresa. La miopia delle privatizzazioni è difatti evidente: privarsi di beni e servizi per realizzare un’entrata , perdendo nel contempo asset strategici che diventa quasi impossibile recuperare in una seconda fase. Ciò diviene ancor più grave se si pone attenzione al fatto che, nella grande ondata di privatizzazioni degli anni ‘90, il nostro paese sia riuscito a raggiungere un’ineguagliabile record: la privatizzazione dell’intero sistema bancario e finanziario. Se dal 1990 ad oggi il controllo pubblico sulle banche in Francia è passato dal 36% al 31% e in Germania dal 62% al 51%, in Italia è precipitato dal 74,5% allo 0 assoluto.

Al punto che perfino la Cassa Depositi e Prestiti, l’ente finanziario che sino ad allora aveva il compito di gestire il risparmio degli italiani e consentire il finanziamento a tassi agevolati degli investimenti degli enti locali, oggi è privatizzata e ha nel tempo assunto il ruolo di player preponderante dentro la politica economica del Paese. E oggi tutte le privatizzazioni in corso vedono Cassa Depositi e Prestiti non solo come leva finanziaria, bensì come soggetto ispiratore. Si intitola «Una nuova politica industriale dei servizi pubblici locali: aggregare e semplificare» la relazione svolta dal presidente di Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini al convegno di Federutility del 14 ottobre scorso a Roma. Si tratta di 24 pagine in cui Bassanini enuclea le linee guida sui servizi pubblici locali, non a caso divenute poi normative concrete con il decreto “Sblocca Italia” e con la Legge di stabilità.

Qual è la filosofia di fondo? Trasformare i servizi pubblici locali, a partire dall’acqua, da garanti di diritti universali in un mercato redditizio e competitivo al servizio dei grandi capitali finanziari. «L’obiettivo da perseguire è quello di porre le condizioni perché nascano operatori di grandi dimensioni, capaci di competere con i grandi players europei anche nei mercati emergenti» dice Bassanini, rilevando come nei comparti energetico, idrico e rifiuti operino attualmente 1.115 società territoriali che, nel disegno suo e del governo, dovranno divenire non più di 4-5 colossi multiutility.

Tutto questo considerato necessario per garantire 5 miliardi di investimenti/anno nei servizi idrici, altri 5 nell’igiene urbana e 1 nella distribuzione del gas. Impossibile ricordare al “nostro” come gli investimenti, in questi anni di società per azioni e di collocamento in Borsa, siano crollati a meno di un terzo rispetto a quelli che facevano le vituperate municipalizzate, perché Bassanini è troppo concentrato su un altro obiettivo: il taglio drastico dei posti di lavoro: «(..) rispetto agli attuali 1.100 operatori complessivi dei tre comparti, occorre prevedere una loro riduzione a 60-190, ed è auspicabile che si arrivi ad un numero vicino all’estremo inferiore dell’intervallo».

Obbligo alla fusione tra società di servizi pubblici locali, gestore unico per ogni ambito territoriale
ottimale (che vanno ridefiniti su scala almeno regionale), ruolo di “controllo” esterno o con quote
di assoluta minoranza degli enti pubblici e aumento delle tariffe: ecco il puzzle per consegnare tutti i beni comuni territoriali ai quattro colossi collocati in Borsa che già fremono ai binari di partenza: A2A, Iren, Hera e Acea (con la chicca di prevedere per il comparto rifiuti la costruzione di 97 inceneritori!). E per farlo, il governo Renzi ha inserito nella Legge di stabilità la possibilità per gli enti locali di spendere fuori dal patto di stabilità le cifre ricavate dalla vendita delle loro quote nei servizi pubblici locali.

Ma chi investirà nei servizi pubblici locali finalmente consegnati ai capitali finanziari? Cassa Depositi e Prestiti, attraverso finanziamenti diretti (3 miliardi di euro già investiti nel triennio 2011-2013) o con i propri fondi equity FSI (500 milioni a disposizione per favorire le fusioni territoriali) e F21 (già attivo nei servizi idrici, nella distribuzione del gas, energie rinnovabili, rifiuti, in autostrade, aeroporti e telecomunicazioni).

Naturalmente con interessanti joint venture con capitali stranieri, a partire dal colosso cinese State Grid Corporation of China, che, con la benedizione estiva di Renzi, ha acquisito il 35% di Cdp Reti, la società di Cassa Depositi e Prestiti, che tiene in pancia il 30% di Snam (gas) e il 29,85% di Terna (energia elettrica). Come si può intuire, siamo di fronte al più pesante attacco sinora tentato ai beni comuni e alla loro gestione territoriale e partecipativa. Vogliono chiudere definitivamente la straordinaria stagione referendaria. Vogliono consegnare le nostre vite alla finanza.

Occorre reagire in ogni luogo. Il tempo è ora.

Diceva Key­nes: «gli uomini al potere sono schiavi di qual­che eco­no­mi­sta defunto. Pazzi al potere i quali odono voci nell’aria, distil­lano fre­ne­sie da scri­bac­chini acca­de­mici di pochi anni addietro».Il

manifesto, 17 dicembre 2014

Dopo decenni di esor­ta­zioni osses­sive sull’austerità espan­siva e le cosid­dette riforme strut­tu­rali, il tema della lotta alle cre­scenti disu­gua­glianze sem­bra tor­nato cen­trale per affron­tare i pro­blemi non solo di giu­sti­zia sociale e di benes­sere in senso lato, ma anche della cre­scita eco­no­mica. Stu­diosi e acca­de­mici (il grande suc­cesso del Capi­tale del XXI secolo di Tho­mas Piketty), isti­tu­zioni inter­na­zio­nali come il Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale o l’Ocse pro­pon­gono studi dif­fi­cil­mente con­fu­ta­bili sulla cre­scita delle dise­gua­glianze sfa­tando alcuni miti del neo (ma anche vetero) liberismo.

Pur­troppo que­sta con­sa­pe­vo­lezza non ha ancora sfio­rato i governi, in par­ti­co­lare quelli euro­pei. La com­mis­sione euro­pea insi­ste con per­se­ve­ranza del tutto dia­bo­lica sul rigore e il rispetto di regole prive di fon­da­mento, men­tre qual­che governo medi­ter­ra­neo si agita per met­tere l’accento sulla cre­scita, ma essen­dosi pre­clusa per igna­via, per oppor­tu­ni­smo o per acquie­scenza verso inte­ressi “forti” qual­siasi via effi­cace, si riduce ad insi­stere sulle riforme strut­tu­rali, che per quanto riguarda la poli­tica eco­no­mica sono un modo ele­gante di affer­mare la volontà di ridurre sem­pre più il lavoro a stru­mento, a merce che serve a pro­durre altre merci.

Come diceva Key­nes, gli uomini al potere «sono spesso gli schiavi di qual­che eco­no­mi­sta defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distil­lano le loro fre­ne­sie da qual­che scri­bac­chino acca­de­mico di pochi anni addietro».

Il nostro capo del governo afferma spesso di essere a favore dell’uguaglianza ma con­tro l’egualitarismo. Che que­sta frase sia più adatta all’epoca del tele­fono a get­tone non sem­bra tur­barlo affatto. Come ricorda Paul Krug­man, l’alternativa è tra chi pre­fe­ri­sce l’eguale ma estre­ma­mente impro­ba­bile pos­si­bi­lità per cia­scuno di vivere secondo lo stile di vita dei ric­chi e dei famosi (una egua­glianza da lot­te­ria) e chi ritiene che tutti deb­bano avere la pos­si­bi­lità di vivere una vita digni­tosa. Renzi da che parte sta?

A dif­fe­renza del suo ispi­ra­tore Tony Blair, non sem­bra nem­meno che il governo ita­liano sia par­ti­co­lar­mente sen­si­bile al pro­blema della povertà. Per lo meno Blair si pro­po­neva di eli­mi­nare la povertà infan­tile. Non che ci sia riu­scito, ma qual­che risul­tato lo ha pur rag­giunto, almeno a giu­di­care dai dati Ocse secondo i quali in Inghil­terra il tasso di povertà rela­tiva della popo­la­zione sotto i diciotto anni era nel 2011 del 9,5%. La media Ocse era del 13,9% e il dato dell’Italia il 17,3%.

Ma come giu­sta­mente sot­to­li­nea l’Ocse, che cer­ta­mente non può essere sospet­tata di vetero-egualitarismo, ma che sul tema negli ultimi mesi e ancora pochi giorni fa è inter­ve­nuta più volte con focus, rap­porti e studi, il pro­blema non è solo la povertà, ma la cre­scente dise­gua­glianza nella distri­bu­zione del reddito.

Non solo da diversi decenni il 10% della popo­la­zione che ha il red­dito più basso resta sem­pre più indie­tro, ma l’effetto nega­tivo affligge il 40% meno ricco della popo­la­zione. Anche da que­sto punto di vista l’Italia non brilla tra i paesi europei.

Infatti, secondo dati Euro­stat, al 40% più povero della popo­la­zione va il 19,8% del red­dito com­ples­sivo, una quota più bassa della media euro­pea (21,2%). L’Italia poi, come è noto, tra i paesi euro­pei ha un alto indice di Gini, che misura la dise­gua­glianza nella distri­bu­zione del red­dito, più basso solo di Gre­cia, Esto­nia, Por­to­gallo, Spa­gna e Regno Unito. Inol­tre, per citare un altro dato tra i tanti che mostrano la nostra arre­tra­tezza, il rap­porto tra la quota di red­dito otte­nuta dal 10% più ricco della popo­la­zione e quella del 10% più povero è in Ita­lia molto alto (11,18), infe­riore, in Europa, solo a Spa­gna, Gre­cia, Bul­ga­ria, Roma­nia e Lituania.

Se a que­sti dati aggiun­giamo che secondo un rap­porto del Social Insti­tute Moni­tor Europe, che si pro­pone di cal­co­lare un indice rela­tivo alla giu­sti­zia sociale nei diversi paesi euro­pei, l’Italia si col­loca al 23° posto, insieme alla Litua­nia, nella clas­si­fica dei 28 paesi dell’Unione euro­pea, si capi­sce che ci sarebbe molto lavoro per un governo nel quale la forza prin­ci­pale è un par­tito che si dichiara di centro-sinistra, ma non sem­brano que­ste le priorità.

La novità delle ultime ana­lisi è che esse pro­vano, attra­verso stime eco­no­me­tri­che, che la mag­giore dise­gua­glianza causa un ral­len­ta­mento della cre­scita eco­no­mica, soprat­tutto restrin­gendo le oppor­tu­nità di otte­nere alti livelli di istru­zione, per una parte signi­fi­ca­tiva della popo­la­zione, sco­rag­giando la for­ma­zione del cosid­detto capi­tale umano (ma il ter­mine non mi piace, riman­dando ad una uma­niz­za­zione del capi­tale e ad una rei­fi­ca­zione delle qua­lità umane) e osta­co­lando la mobi­lità sociale.

Per l’Italia si stima che la man­cata cre­scita del Pil reale per abi­tante cau­sata dalla cre­scita delle dise­gua­glianze sia del 6,6% dal 1990 al 2010. Con­si­de­rando che la cre­scita effet­tiva in que­sto periodo è stata dell’8%, non è certo poca cosa. Altro che arti­colo 18!

L’Ocse pro­pone di affron­tare il pro­blema della dise­gua­glianza con misure che fino a poco tempo fa sareb­bero state con­si­de­rate poco meno che bestem­mie dalla sag­gezza convenzionale.

In primo luogo pro­pone di accre­scere la redi­stri­bu­zione del red­dito e rifor­mare in que­sto senso la strut­tura della tas­sa­zione, aumen­tando la ali­quota mar­gi­nale delle impo­ste sui red­diti più alti, cioè esat­ta­mente il con­tra­rio di quanto è stato fatto negli ultimi decenni. In Ita­lia, ad esem­pio, la ali­quota mar­gi­nale era del 72% ancora nel 1982.

Come nota il rap­porto dell’Ocse la dimi­nu­zione delle ali­quote fiscali sui red­diti alti non solo deprime l’effetto redi­stri­bu­tivo sui red­diti dispo­ni­bili, ma tende a far aumen­tare la quota di red­dito otte­nuta dai più ric­chi, per i quali diviene più facile, in un cir­colo vir­tuoso per loro ma vizioso per tutti gli altri, accu­mu­lare capi­tale e accre­scere ulte­rior­mente i pro­pri red­diti. Infatti in Ita­lia la quota di red­dito di mer­cato (cioè sti­mata prima della tas­sa­zione) otte­nuta dall’1% più ricco della popo­la­zione è pas­sata dal 6,4% del 1982 al 9,38% del 2009.

Ma il rap­porto dell’Ocse sug­ge­ri­sce anche di eli­mi­nare o ridurre le dedu­zioni fiscali che ten­dono a bene­fi­ciare i più ric­chi e rior­ga­niz­zare il sistema di tas­sa­zione su tutte le forme di pro­prietà e di ric­chezza. In par­ti­co­lare si sot­to­li­nea l’importanza di ripen­sare il ruolo della tas­sa­zione sui red­diti da capi­tale. Quest’ultimo punto appare molto signi­fi­ca­tivo per Ita­lia in cui la quota di red­dito pro­ve­niente dal capi­tale del 10% più ricco della popo­la­zione è signi­fi­ca­ti­va­mente più alta in con­fronto agli altri paesi di cui l’Ocse for­ni­sce i dati.

L’altra rac­co­man­da­zione dell’Ocse, dopo anni di auste­rity e di attac­chi al wel­fare state, è di incre­men­tare i tra­sfe­ri­menti pub­blici a favore non solo dei poveri, ma del 40%, e pro­muo­vere e favo­rire l’accesso ai pub­blici ser­vizi di alta qua­lità, in par­ti­co­lare l’istruzione e la sanità.

Non è il caso di atten­dere per vedere se que­ste idee saranno vera­mente assi­mi­late nel pros­simo futuro e ancor meno aspet­tare che Renzi si accorga che la moder­nità ha cam­biato segno. Anche lui, al di là della reto­rica, è imman­ca­bil­mente schiavo di qual­che eco­no­mi­sta defunto. Ma le sparse forze della sini­stra poli­tica, nel momento in cui la sini­stra sociale e sin­da­cale mostra final­mente vita­lità, fareb­bero bene da subito a orga­niz­zarsi attorno ad un pro­gramma che abbia al suo cen­tro l’eguaglianza

«Per avviare queste nuove produzioni occorre garantire loro un mercato e questo può essere fatto solo coinvolgendo una comunità e i relativi governi locali: Comuni, Province, Comunità montane, Regioni. Oggi la stragrande maggioranza di questi enti non ci sente da questo orecchio: “non ci sono i soldi”, dicono».

Il granello di sabbia n.16, novembre dicembre 2014 (m.p.r.)

Il termine “conversione ecologica” è stato introdotto quasi trent’anni fa da Alex Langer per sintetizzare il percorso necessario per ricondurre l’attività e la convivenza umana entro i limiti della sostenibilità sociale e ambientale. Il termine allude alla duplice dimensione di questo passaggio: da un lato, la riconversione strutturale dell’apparato produttivo per ridurre l’aggressione alle risorse della natura (produrre meno e meglio; utilizzare meno materiali; usare più a lungo quello che si è prodotto e scartarlo meno; recuperare tutto quello che si è scartato) e, soprattutto, per ridurre lo sfruttamento degli uomini e delle donne che vivono e lavorano su questa Terra da parte di altri membri del genere umano; dall’altro lato, quel passaggio comporta la conversione personale del nostro stile di vita, attraverso una riduzione e una qualificazione ecologica dei nostri consumi e un miglioramento dei nostri rapporti con il prossimo, gettando un ponte (Alex amava molto questa metafora) verso chi ci è estraneo, in competizione con noi o nemico.

Associarsi per effettuare insieme degli acquisti, per promuovere insieme dei servizi o per risparmiare, è già oggi possibile; o è comunque possibile inserire questo obiettivo in una piattaforma rivendicativa, che molte organizzazioni, anche di natura molto diversa tra loro, comprese quelle sindacali, potrebbero appoggiare. L’esempio più chiaro di questa condivisione sono per ora i GAS (gruppi di acquisto solidale): un certo numero di famiglie si associa per eseguire insieme gli acquisti, soprattutto, ma non solo, in campo alimentare. Ciascuno continua a comprare e a mangiare quello che vuole (non c’è alcun “collettivismo”), ma gli acquisti si programmano e si effettuano insieme, direttamente dal produttore. In questo modo si salta l’intermediazione commerciale e i relativi ricarichi (insieme ad un sacco di imballaggi inutili, inquinanti e di pubblicità); si rompe l’isolamento proprio della società in cui viviamo. Inoltre ci si può così accordare per condividere molte altre cose, per esempio: la cura di bambini, anziani e malati, la riparazione di apparecchiature e impianti guasti, lo scambio di abiti e beni dismessi, la condivisione di attrezzi e knowhow per il “fai da te”, lezioni, ecc..

Si può dire che ci si informa e ci si forma insieme, perché per comprare cose sane e beni utili bisogna intendersi sia su come sono fatti che di come vengono prodotti. Infine, si dà una mano ai produttori che vogliono rendere sostenibile la loro azienda, favorendo la creazione di mercati alternativi: per esempio, gli agricoltori che vogliono passare all’agricoltura biologica e a chilometri zero o le imprese alimentari che adottano metodi di lavorazione che non avvelenano il cibo.

Ovviamente tutto ciò non basta. Per perseguire e raggiungere la sostenibilità ambientale occorre imporre un cambio di rotta generale. Occorre imporre ai governi, sia a livello locale che nazionale, una vera politica industriale: cioè dei piani che orientino l’attività economica verso prodotti, tecnologie, sistemi di produzione e un’organizzazione del lavoro sostenibili. Politiche, dunque, che entrino nel merito del “che cosa” produrre (e che cosa non produrre), di come produrlo, con che cosa, per chi e anche dove. Mettere al centro della politica industriale la conversione ecologica di tutto il sistema economico, o per lo meno delle sue strutture portanti, oggi si può proporre e realizzare solo promuovendo la più larga partecipazione dal basso della popolazione coinvolta: sia di quella che vive del lavoro nelle o delle imprese da convertire, sia di quella che subisce l’impatto, cioè i danni ambientali e le trasformazioni sociali provocati da quelle aziende. Ciò vuol dire che una politica industriale sostenibile può nascere solo nel quadro di una democrazia partecipata, che abbia al suo centro il lavoro e l’organizzazione dei lavoratori interessati.

Insieme al lavoro, però, essa deve promuovere anche l’impegno e la presenza organizzata di una comunità più larga, delle sue amministrazioni locali, di altre imprese che operano sullo stesso territorio, dei saperi diffusi tra i membri di tutta la comunità; per poi allargare il coinvolgimento ad altre aziende e ad altre comunità, e con esse preparare e sostenere programmi e rivendicazioni di valenza nazionale o europea.

Nelle aziende colpite dalla crisi economica e occupazionale la conversione ecologica è l’unica alternativa praticabile, poiché esse non torneranno mai più ad aprire e a riassumere per produrre le cose di un tempo. Non hanno più mercato. Per salvare l’occupazione, riaprire le assunzioni, rendere accettabile l’ambiente di lavoro, valorizzare l’esperienza e le conoscenze del personale tecnico e operaio, ma anche una parte consistente degli impianti e delle attrezzature esistenti, occorre passare a nuove produzioni. Tra queste bisogna scegliere quelle che hanno un futuro e, quindi, anche un mercato sicuro; che sono quelle che si renderanno sempre più indispensabili mano a mano che gli effetti della crisi ambientale si faranno sentire su tutto il pianeta: impianti per lo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili; soluzioni per promuovere l’efficienza energetica; veicoli da usare in forma condivisa e sistemi di governo della mobilità e del trasporto sostenibili; sistemi di riciclo totale di scarti e rifiuti; progetti, know-how e strumenti per la salvaguardia e la rinaturalizzazione del territorio; sistemi di coltivazione ecologici a elevata intensità di lavoro qualificato e di tecnologia; progetti per il recupero e l’efficienza degli edifici obsoleti o dismessi; laboratori e capacità tecniche per prolungare la vita dei prodotti con la manutenzione e la riparazione; ecc..

Per avviare queste nuove produzioni occorre garantire loro un mercato e questo può essere fatto solo coinvolgendo una comunità, o un insieme più ampio possibile di comunità, e i relativi governi locali: Comuni, Province, Comunità montane, Regioni. Oggi la stragrande maggioranza di questi enti non ci sente da questo orecchio: “non ci sono i soldi”, dicono. Ma molte cose si possono cominciare a fare, o per lo meno a discutere e definire, a costo zero. Mentre su altre si può avviare la ricerca o avanzare la richiesta, o una vera e propria rivendicazione, di un finanziamento; ma solo a condizione che siano chiare e definite le cose che si vogliono fare. A quel punto si può aprire una vertenza: sia nei confronti dei governi locali, che, eventualmente, e con il loro appoggio, nei confronti dei governi regionali, di quello nazionale e dell’Unione europea, a seconda della portata della rivendicazione.

Senza un progetto definito, però, nessuna di queste cose può andare avanti. Per esempio, le energie rinnovabili o l’efficienza energetica sul lungo periodo si ripagano da sé, perché fanno risparmiare denaro e combustibili fossili, ma per diffonderle in forme produttive e sensate ci vogliono programmi a livello territoriale, ricognizioni sul territorio e sugli edifici, progetti, tecnici, imprese di installazione e manutenzione; e poi, anche imprese per la produzione degli impianti, di materiali e attrezzature per l’efficienza energetica.

Così, con il coinvolgimento di un certo numero di enti locali, si può cercare di mettere in contatto i potenziali produttori (cioè le aziende che hanno bisogno di riconvertire le loro produzioni) con i potenziali utenti di questo intervento (enti pubblici come Comuni, ospedali, Asl, imprese, ma anche singoli privati, soprattutto se associati. Qui l’esempio dei GAS – il rapporto diretto tra produttore e consumatore – calza a pennello: si tratta di riproporlo su una scala più allargata in campo energetico, nel campo dell’edilizia e della manutenzione del territorio, nel settore agroalimentare o nel campo della mobilità. Se poi a guidare le nuove aziende sarà un imprenditore disposto a farlo sotto il controllo della comunità oppure se ne dovrà promuovere una gestione in forme associative o cooperative, è cosa da decidere in corso d’opera.

Certo, per promuovere una conversione ecologica su larga scala ci vogliono “forze fresche” anche in campo imprenditoriale, perché molti degli attuali manager e imprenditori sono indissolubilmente legati a un modo di fare impresa che non accetta interferenze esterne. Queste forze, però, ci sono e bisogna farle emergere: all’interno delle aziende, nell’associazionismo e nell’imprenditoria sociale, nel movimento cooperativo. L’importante è mantenere, o ricondurre a un ambito territoriale più ristretto rispetto a quello creato dalla globalizzazione, i rapporti tra le diverse fasi di un ciclo produttivo e tra i diversi stadi di una filiera, accrescendo così le possibilità di un controllo dal basso sulle scelte economiche. In una parola, la democratizzazione dell’economia. La conversione ecologica è dunque innanzitutto un processo di “riterritorializzazione” dei rapporti economici attraverso relazioni quanto più dirette possibili tra produttori e consumatori, in un regime di totale trasparenza, per consentire un controllo pubblico delle transazioni in corso.

La “riterritorializzazione” è comunque un obiettivo sempre relativo e mai assoluto, la cui realizzazione può essere concepita solo in progress, come processo. Inoltre, essa riguarda esclusivamente il ciclo di vita dei beni materiali e non quello dell’informazione e dei saperi, la cui circolazione deve invece essere sempre più libera e intensa su tutto il pianeta; riguarda cioè “gli atomi” e non i “bit”. La “riterritorializzazione” rappresenta l’unica risposta adeguata al problema centrale posto dalla globalizzazione liberista che è la competizione sempre più serrata che si svolge a livello planetario e che tende ad allineare ai livelli più bassi i livelli salariali e quelli di protezione sociale e di protezione ambientale.

L'indagine "Mafia Capitale" dimostra come il meccanismo mafioso e l'operatività delle cosche si sia imposta nella vita della Capitale. Il governo non ha compreso che se non interrompe questo meccanismo, in Italia l'economia più forte, quella vincente, quella che verrà imitata e che diffonderà i propri modelli, continuerà a essere l'economia mafiosa.

La Repubblica, 14 dicembre 2014

IN QUESTI GIORNI, dopo l'inchiesta "Mafia Capitale", sono diventati tutti conoscitori di mafia. Non ho mai temuto i professionisti dell'antimafia, ma i dilettanti sì e ho sentito affermazioni talmente assurde che mi viene da pensare che chi le ha pronunciate non solo non conosce il fenomeno criminale, ma non conosce forse nemmeno il Paese. D'improvviso sembra stupirsi che le organizzazioni mafiose agiscano con alleanze imprenditoriali e politiche. Ma in quale Paese ha vissuto sino ad ora? Non solo Mafia Capitale ma anche la più recente inchiesta "Quarto Passo" in Umbria mostra come le organizzazioni siano in tempo di crisi la nuova e unica linea di credito all'impresa italiana. Chi sottovaluta il problema non riesce a capire quello che sta accadendo nel Paese, e allora decide che è meglio prendere in giro e sottovalutare. Il Pd sembra accorgersi solo ora del meccanismo di corruzione di cui molti suoi uomini erano protagonisti da molto tempo. Agisce costretto dalle inchieste giudiziarie quando avrebbe dovuto al contrario ispirare le inchieste.

Beppe Grillo ha detto, a proposito di Mafia Capitale: «La parola mafia ci depista. Ci ricorda qualcosa che non c'è più. Oggi un'associazione mafiosa è fatta da professionisti, politici, magistrati, poliziotti; il mafioso non c'è neanche». Sono anni che si lotta per ribadire culturalmente che mafia significa invece proprio questo: impresa, borghesia imprenditoriale, rapporti con i media. Mi domando: ma secondo Grillo cosa sono state le organizzazioni criminali italiane sino a questo momento? Dei cafoni armati di fucile? Quindi secondo l'interpretazione di alcuni adesso, e solo adesso, la mafia sarebbe "diventata tridimensionale perché ci sono dentro politici, imprenditori, massoni, spacciatori", e perché ha smesso di parlare calabrese, napoletano, lucano, casertano, siciliano? Queste sono semplificazioni inaccettabili.

Ciò che mi viene da dire a chi condivide queste tesi è: ma sapete che le cose sono sempre andate così? Quando si riduce tutto al contadino dalla parlata incomprensibile, del cafone con il kalashnikov, si sta facendo il gioco delle mafie più o meno consapevolmente. Il boss che sappia uccidere e allo stesso tempo gestire il segmento economico dell'organizzazione è la base di una struttura vincente. Mafia Capitale è in realtà il primo e compiuto tentativo di dimostrare, da parte dei pm, che il modello delle mafie storiche è stato mutuato su Roma. La novità scientifica di questa indagine non è limitata alla sola corruzione: ma dimostra come il meccanismo mafioso e l'operatività delle cosche si sia imposta nella vita della Capitale.

Per questa ragione il legame tra Carminati e le organizzazioni non è episodico e momentaneo. Riuscite davvero a immaginare Pasquale Condello o Michele Zagaria che parlano con il sindaco di Sacrofano in merito al catering per la chiusura della campagna elettorale e si fanno commissionare una grigliata? È inimmaginabile che un capo mafia del Sud si occupi di grigliate. Ma attenzione: i clan si occupano di ogni singolo affare dal più piccolo al più grande. I Mazzarella di Napoli hanno raccolto estorsioni "straccione" persino dai lavavetri eppure investivano nei duty free in diversi aeroporti mondiali. Provenzano stesso con i suoi pizzini interviene sulle strade interpoderali da affidare a imprese amiche. Il ruolo mafioso di Carminati è un ruolo diverso rispetto a quello dei boss storici delle mafie tradizionali: è però l'anello che congiunge le mafie storiche e Roma: un multiservice con un certo grado di autonomia. Da Reggio Calabria a Palermo le organizzazioni criminali sono in guerra aperta tra loro e sanno come essere parte dello Stato con strategie differenti. Carminati e Buzzi sono diversi: hanno usato telefonini, hanno avuto incontri contrassegnati dall'imprudenza tipica di chi si sente tutto sommato fuori pericolo, di chi sente che l'attenzione è altrove, perché è convinto che gli altri pensino che la mafia sia un'altra cosa, e che questo pensiero li proteggerà.

Chi parla di nuova mafia tridimensionale a Roma sembra aver rimosso l'influenza di Cosa Nostra sulla politica romana raccontata da Buscetta e della camorra raccontata da Galasso e parliamo di dati accertati da decenni, è storia condivisa insomma. Ci si dimentica del braccio destro di Cutolo, Vincenzo Casillo 'o Nirone' munito di tesserino dei servizi, ucciso nell'83 a Roma proprio fuori la sede del Sismi in Via Clemente VII e l'elenco di connivenze sarebbe infinito. Le mafie sono organizzazioni che da sempre hanno più sponde in politica, ed è esattamente ciò che differenzia il reato stesso di associazione mafiosa dalla semplice associazione criminale.

Se oggi si afferma che esiste un nuovo percorso, significa che non si è data abbastanza attenzione alla dinamica mafiosa fino a questo momento. Significa non aver mai ascoltato chi da anni denuncia la presenza della mafia al Nord, la presenza della mafia a Roma. Ci hanno considerati matti, esagerati, sbruffoni, speculatori, diffamatori eppure la verità è solo questa: il tema mafia fuori dai luoghi in cui si ritiene che le mafie nascano, ovvero il tema mafia fuori dalla Campania, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Puglia è sempre stato sottovalutato, marginalizzato, mai approfondito, trattato solo nelle aule dei tribunali, solo in superficie.

Il primo ministro Renzi delega ai probiviri come se fosse una questione personale e di uomini. Eppure il sistema fiscale e la burocrazia sono i grandi alleati delle organizzazioni criminali, il loro strumento d'accesso per divorare le imprese sane ancora rimaste in piedi. È ovviamente già partita da soliti siti di retroscena e parte della stampa berlusconiana la sottovalutazione del problema per far credere che sia tutto un giro di poveracci e rubapolli. Non ce ne stupiamo. Il motivo è semplice: sono complici spesso della stessa cultura che ispira questi mondi criminali romani pensando che mafioso sia solo lo sfregio di Al Capone o l'occhio pigro di Lucky Luciano. Iperbole e sfottò sono uguali modalità per non comprendere. Ora l'inchiesta dimostra che le grandi organizzazioni criminali storiche sono su Roma da sempre e che Carminati e Buzzi sono solo una rubrica dei loro affari.

Ciò che è cambiato non è la mafia, non è la sua tridimensionalità, non è il coinvolgimento di politici, imprenditori o massoni deviati ma il fatto che ora la presenza a Roma è diventata innegabile. La mafia non si esporta, ma come ogni modello vincente si diffonde in nome della sua capacità di successo e di intimidazione. Il fenomeno va contrastato, ma prima va capito. Il Paese si è accorto che le mafie si sostituiscono alle banche quando non sono (ma su questo c'è da lavorarci molto) direttamente partner delle banche italiane? Il governo deve affrontare il problema dal lato della sua rilevanza economica. O si interrompe questo meccanismo, o in Italia l'economia più forte, quella vincente, quella che verrà imitata e che diffonderà i propri modelli, continuerà a essere l'economia mafiosa.

E' il solito modo per ribadire il dominio sugli italiani: trasformare la politica in tifoseria e costruirsi un avversario più debole. Sei della Roma o della Lazio, del Milan o dell'Inter, di Salvini o di Renzi? il resto non esiste.

Il manifesto, 14 dicembre 2014

Se si vuole capire come i media costrui­scano in labo­ra­to­rio una lea­der­ship, biso­gna seguire la sca­lata di Mat­teo Sal­vini. In un sistema sem­pre più disar­ti­co­lato, il gra­di­mento dei media basta da solo per inven­tare un lea­der dal nulla. Chi pensa alla Lega come a un sog­getto quasi nove­cen­te­sco, dal denso radi­ca­mento ter­ri­to­riale e dai riti para-ideologici di massa, si inganna.

La corsa di Sal­vini non si svolge affatto nel ter­ri­to­rio. Non ha nulla di solido su cui cam­mi­nare il lea­der dal maglione inter­cam­bia­bile, a seconda del suolo che calpesta.

Il legame con la terra è sfu­mato anche per la Lega, come per gli altri pseudo-partiti esi­stenti, del resto. La pene­tra­zione in Emi­lia, e il soste­gno che sem­bra rice­vere anche in aree del cen­tro e del sud, non rin­via ad alcuna pre­senza orga­niz­zata nel territorio.

Que­sta mito­lo­gia delle radici nel rude pae­sag­gio locale, con un ceto poli­tico a por­tata di mano e sem­pre pre­sente, non vale più per la Lega, che sfonda oltre la Pada­nia solo per­ché è ospi­tata come non mai nei vec­chi media. È con l’occupazione dello spa­zio tele­vi­sivo che Sal­vini pene­tra anche nello spa­zio reale, dove manca con una vera strut­tura orga­niz­zata, come tutti gli altri attori.

Media e popu­li­smo con toni da destra radi­cale, que­sta è la miscela che con­sente alla Lega una impen­nata nei son­daggi. La fine della destra di un tempo, affida pro­prio alla Lega uno spa­zio poli­tico che nes­suno coltiva.

Il richiamo dei miti secu­ri­tari, e gli echi della rivolta con­tro l’euro, tro­vano un’onda lunga già in movi­mento. E i leghi­sti la caval­cano, nella spe­ranza di aggre­gare il cosid­detto «capi­ta­li­smo della mar­gi­na­lità» e i ceti popo­lari spaesati.

I media vanno pazzi per Sal­vini. Per varie ragioni. Un po’ per­ché fa comodo pro­get­tare un duello tra i due Mat­tei. E c’è chi cal­cola che, con il Mat­teo lepe­ni­sta come prin­ci­pale anta­go­ni­sta, è assai più age­vole trionfare.

Da una parte la rab­bia, la marea nero-verde che dovrebbe spa­ven­tare i mode­rati e lesio­nare la capa­cità coa­li­zio­nale del lea­der leghi­sta. Dall’altra la spe­ranza, la bel­lezza e ricami ana­lo­ghi che con­di­scono la reto­rica del gio­vin rottamatore.

A bocce ferme, que­sto dise­gno, di aiu­tare la cre­scita di un nemico dal pro­filo esa­ge­rato, per poi infil­zarlo con più como­dità, pre­senta una qual­che razio­na­lità. È già capi­tato con le euro­pee, quando pro­prio la paura di Grillo e del ritorno alla liretta, ha fun­zio­nato come la iden­ti­fi­ca­zione di un nemico utile solo per tirare la volata a Renzi.

Ma in con­di­zioni cri­ti­che, cioè di ulte­riore dele­git­ti­ma­zione della poli­tica, per via degli scan­dali e per l’aggravamento della crisi sociale, que­sto cal­colo di costruire per con­ve­nienza un nemico di comodo è grot­te­sco. In casi estremi, il popu­li­smo forte, che asso­cia la dispe­ra­zione e l’offerta di capri espia­tori facil­mente indi­vi­dua­bili, pre­vale sul popu­li­smo mite, con le sue nar­ra­zioni edi­fi­canti a coper­tura di ricette eco­no­mi­che sem­pre in con­ti­nuità con quelle di Monti.

I poteri forti, ovvero quel poco che rimane di un capi­ta­li­smo in via di espro­pria­zione da parte del vorace capi­tale mon­diale inte­res­sato all’acquisizione di aziende di qua­lità, quando offrono muni­zioni illi­mi­tate a Sal­vini, onni­pre­sente nelle loro tv pri­vate e pub­bli­che, lavo­rano per una radi­cale solu­zione popu­li­sta all’emergenza. Hanno prima appog­giato Grillo, poi soste­nuto Renzi e ora guar­dano a Sal­vini. Spe­rano che fun­zioni la sal­da­tura tra la crisi, che spri­giona un sen­ti­mento di ango­scia dinanzi alla pro­spet­tiva di una per­dita di sta­tus, e la mito­lo­gia della tas­sa­zione unica al 15 per cento lan­ciata come magica rispo­sta al declino.

Anche se nella sua agenda sfuma sem­pre più il tema della dif­fe­ren­zia­zione ter­ri­to­riale interna e l’aggancio al nano­ca­pi­ta­li­smo del nord, la figura di Sal­vini con­serva però dei limiti espansivi.

Non può com­pe­tere come attore prin­ci­pale capace di sfon­dare nelle varie realtà del paese. Deve con­tare su una coa­li­zione ete­ro­ge­nea tanto nell’offerta poli­tica quanto nella coper­tura territoriale.

E qui affio­rano per lui i pro­blemi di con­vi­venza tra una radi­ca­lità anti­si­stema e la neces­sità di nego­zia­zioni con spez­zoni di ceto poli­tico in riti­rata. Il «cen­tra­vanti» ha biso­gno del «regi­sta» ma Ber­lu­sconi, che si è offerto per svol­gere que­sta deli­cata fun­zione, non sem­bra più avere la visione stra­te­gica richiesta

LEFT, 13 dicembre 2014

Succede anni fa: una delegazione dei comitati del centro storico di Roma espone al prefetto un “dossier” fitto di abusi, irregolarità, palesi illegalità, con una mappa di catene di ristoranti e pizzerie che sono qui solo napoletane, là solo calabresi o siciliane. Il prefetto prende atto e tutto continua come e peggio di prima. Fino al solito magistrato che pazientemente individua la matrice malavitosa di quelle reti di locali di ristorazione, le sottrae alle varie mafie ponendole sotto amministrazione controllata. Erano legali quelle licenze? Quante attività illegali ci sono? Chi le controlla? Il Comune di Roma? La Camera di commercio? La Prefettura? Nei mesi scorsi la giunta Marino e il I° Municipio, incalzati da campagne molto pressanti dei Comitati e di Nathalie Naim, consigliere del Municipio (Lista civica per Marino) hanno riportato ordine nella invasione selvaggia dei tavolini, ridando un volto accettabile a piazza Navona e dintorni. Pochi giorni dopo, in qualche strada, tavolino “selvaggio” è ricomparso. Non c’è un vigile urbano che, a piedi o in bicicletta, passi a controllare ogni giorno e faccia rispettare leggi e regolamenti. La stragrande maggioranza dei vigili romani sta negli uffici, come la stragrande maggioranza dei dipendenti dell’Ama pur aumentati di migliaia di unità con la Parentopoli targata Alemanno-Panzironi e C.

Piccoli esempi? Mica tanto, e poi proprio questa illegalità diffusa e incontrollata è il brodo di coltura più fertili per il “pizzo” di massa (di cui molto si parla molto anche a Roma), per i lavori abusivi tutti in “nero”, per lo spaccio di droga, per tanti favori reciproci dei più pericolosi fra criminali e politici. Di fronte alla marea maleodorante che rischia di sommergere il Campidoglio provenendo dall’era Alemanno, dalle alleanze sistematiche fra “neri” e malavitosi organizzati, con qualche esponente del Pd però che figurerebbe “a libro paga”, possiamo soltanto alzare l’indice accusatore chiedendo ogni sorta di azzeramenti? O non dobbiamo anche analizzare le cause di simili percorsi perversi, le elusioni palesi delle regole e porvi al più presto rimedio?

Ha sostenuto di recente il presidente della commissione nazionale anti-corruzione, Raffaele Cantone - già paragonato da Maurizio Gasparri uno dei “vecchi” ormai delle centurie neofasciste - al dittatore cambogiano Pol Pot: «Dopo Tangentopoli si è smantellato completamente il sistema dei controlli amministrativi, in alcuni casi sono stati privatizzati, si è sventrato il sistema dei controlli sugli enti locali». Ma chi gli fa eco? Cantone accusa la depenalizzazione del falso in bilancio, le prescrizioni troppo brevi, l‘autoriciclaggio che rendono impuniti e impunibili tanti reati di corruzione, peculato, concussione. E conclude: «La lotta alla corruzione non può essere lasciata soltanto al giudice penale». Oggi è così. Quindi, fa bene Renzi a proclamare «Via tutti i corrotti». Ma farebbe ancor meglio ad approvare la riforma della giustizia col falso in bilancio, l’autoriciclaggio e prescrizioni meno brevi. Da domani. E non invocare o attuare - come con lo Sblocca Italia - una “semplificazione” che elimina controlli tecnici invece fondamentali. Più che mai.

Difatti, se anche si riesce in questo “repulisti” generale e profondo, come prevenire in futuro che si riformi la marea nera di una corruzione che, nonostante Tangentopoli, si insinua quasi ovunque inquinando la vita democratica e inceppando la macchina già ansimante dell’economia e dei servizi? Nessuno o quasi si è posto il problema dei controlli preventivi sulle amministrazioni, sugli eletti, sulle delibere (sempre più di giunta e sempre meno di consiglio). Proviamoci. Nel dopoguerra, fino alle Regioni, cioè al 1970, esistevano le Giunte Provinciali Amministrative (Gpa), esecrate dagli amministratori comunali e provinciali, soprattutto da quelli di sinistra perché i prefetti risultavano, specie negli anni ’40 e ’50 fortemente legati alla Dc. Eravamo ancora allo Stato “verticale”, all’Italia dei prefetti, fortemente restrittiva anche se la corruzione politico-amministrativa era assai più limitata. Se c’erano grandi scandali, erano nazionali, come quello della Federconsorzi, dei mille miliardi del suo debito sanato, di fatto, dallo Stato. Quelli locali erano collegati alla speculazione, già forsennata, sulle aree fabbricabili.

Con le Regioni, nel 1971, sono stati istituiti i Coreco, organismi di controllo decentrati, che dovevano rendere virtuose le Regioni e gli enti provinciali e locali. Illusione. Ben presto sono stati trasformati da organismi tecnici in organismi politici e addio controlli penetranti. E’ successo di tutto. Poi sono spariti. La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 (sciagurata come poche) ha messo sullo stesso piano “orizzontale” Comuni, Province, Regioni e Stato. Tutte le istituzioni dovevano “autocorreggersi”, magari chiedendo pareri preventivi alle Corti dei conti regionali. Questa “autocorrezione” si è rivelata una utopia. In conclusione, esiste un problema di efficienza, rigore e tempestività nei controlli tecnici. Pochi ma strategici e penetranti. Ma esiste anche un problema di controlli politici, interni agli organismi di governo. Una volta il controllo lo esercitavano le opposizioni nelle assemblee elettive. Ma, con le elezioni dirette di sindaci e “governatori”, come sono ridotte? Lascio la parola a Manin Carabba presidente emerito della Corte dei conti: «Restano le esigenze di rafforzare le assemblee elettive, la democrazia ha bisogno di esse, e noi ne abbiamo visto il totale svuotamento, nei Comuni e nelle Regioni». E poi: «I Consigli regionali sono in condizioni terribili di vacuità e di perdita di peso». Il governo Renzi tende a rendere impossibili i controlli delle Soprintendenze su edilizia e territorio e si appresta a nominare i segretari comunali quali fiduciari dei sindaci e delle giunte senza più selezionarli per concorso. Via altri controlli “neutrali”. Perché o per chi? Non credo per i cittadini.

Uno sciopero generale che contribuisca ad arrestare la politica distruttiva del "capitalismo scatenato", necessaria premessa per la faticosa costruzione di un sistema economico sociale alternativo.

Il manifesto, 12 dicembre 2014

Lo scio­pero gene­rale con­tro il Jobs Act e più in gene­rale con­tro la legge di sta­bi­lità, mette in luce la fal­li­men­tare poli­tica eco­no­mica del governo che asse­conda la deriva libe­ri­sta del “capi­ta­li­smo sca­te­nato”, come, una die­cina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn defi­niva la nuova fase del capi­ta­li­smo. Una rispo­sta allo spo­sta­mento nella distri­bu­zione dei red­diti a favore del lavoro regi­strato negli anni sessanta-settanta.

Da allora ripri­stino della disci­plina macroe­co­no­mica, pri­va­tiz­za­zioni, inco­rag­gia­mento delle forze di mer­cato, foca­liz­za­zione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pila­stri di una feroce con­trof­fen­siva: il con­flitto distri­bu­tivo ha cam­biato segno, e, per l’effetto con­giunto di minore e peg­giore occu­pa­zione e di più bassi salari reali, la quota di red­dito che va al lavoro è costan­te­mente diminuita.

Quell’offensiva del capi­tale, che oggi tocca livelli prima impen­sa­bili in Ita­lia, non si limita a ripor­tare indie­tro le lan­cette della sto­ria per tor­nare alla situa­zione pre­e­si­stente. Se così pro­ce­des­sero i pro­cessi sto­rici tro­ve­rebbe legit­ti­mità la teo­ria del pen­dolo: uno spo­sta­mento dei rap­porti di potere ecces­sivo ad un certo punto si ferma e si met­tono in moto le forze che spin­gono in dire­zione con­tra­ria. Così si potreb­bero leg­gere, in que­sto caso, la rispo­sta del capi­tale di cui abbiamo par­lato e quella che oggi cerca di dare il sin­da­cato anche con lo scio­pero. Ma la situa­zione reale è molto più com­plessa per­ché negli ultimi decenni è cam­biato il mondo ed è cam­biato lo stesso capitalismo.

La glo­ba­liz­za­zione, la con­nessa Ascesa della finanza — titolo que­sto di un bel­lis­simo e pre­veg­gente libro del caro Sil­vano Andriani recen­te­mente scom­parso — e, più di recente, la rivo­lu­zione digi­tale hanno deli­neato un capi­ta­li­smo che ha fatto un enorme salto di qua­lità. In que­sta nuova fase di un capi­ta­li­smo per il quale non tro­viamo ancora una deno­mi­na­zione con­di­visa – oscil­lando dal finan­z­ca­pi­ta­li­smo di Gal­lino al capi­ta­li­smo patri­mo­niale di Piketty – gli ele­menti che emer­gono sono due.

Il primo è costi­tuito dalla glo­ba­liz­za­zione del mer­cato del lavoro che mette in com­pe­ti­zione, in ter­mini di costo, il lavoro delle eco­no­mie svi­lup­pate con quello delle eco­no­mie emer­genti. Gli effetti di que­sta nuova com­pe­ti­zione sono bidi­re­zio­nali: da un lato si spo­sta la pro­du­zione dai paesi ad ele­vato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavo­ra­tori delle aree più arre­trate emi­grano nelle aree svi­lup­pate per fare i lavori più pesanti ed a con­di­zioni rifiu­tate dai resi­denti. L’effetto di que­sti pro­cessi sul con­flitto distri­bu­tivo è, per i paesi svi­lup­pati, quello di un abbas­sa­mento dei salari e di una ridu­zione dei diritti. Il secondo ele­mento che carat­te­rizza que­sta fase è la rivo­lu­zione digi­tale che ha già inve­stito pesan­te­mente la pro­du­zione mani­fat­tu­riera e che inve­stirà sem­pre di più i set­tori del com­mer­cio e dei ser­vizi, pub­blici e pri­vati, ridu­cendo la quan­tità di lavoro neces­sa­ria e modi­fi­cando pro­fon­da­mente, con­te­nuti e moda­lità della pre­sta­zione lavorativa.

I due ele­menti segna­lati si intrec­ciano tra di loro, e con­tri­bui­scono allo stesso pro­cesso: una sva­lu­ta­zione del lavoro impen­sa­bile fino a pochi anni fa che si mani­fe­sta a livello sovra­na­zio­nale ed agi­sce su un ter­reno senza regole come quello finan­zia­rio nel quale il capi­ta­li­smo sca­te­nato è diven­tato sfug­gente ed inaf­fer­ra­bile. I pro­cessi di cui stiamo par­lando non sono ancora com­piuti, ma in pieno svol­gi­mento e, quindi, le situa­zioni che si vivono nei vari paesi sono dif­fe­ren­ziate secondo le loro sto­rie e secondo le moda­lità con le quali si stanno affron­tando i pro­cessi stessi.

Non è un caso che l’area dei paesi svi­lup­pati si arti­coli in tre gruppi: eco­no­mie che si affac­ciano verso una pos­si­bile nuova fase di cre­scita come gli Usa, eco­no­mie che hanno supe­rato la crisi anche se non hanno ritro­vato il sen­tiero della cre­scita come Ger­ma­nia e Nord Europa, eco­no­mie che rista­gnano ed indie­treg­giano. Que­sto signi­fica che, pur di fronte ad una comune con­trof­fen­siva del capi­tale, non è ine­lut­ta­bile che i paesi più svi­lup­pati subi­scano con­tem­po­ra­nea­mente ridu­zioni del lavoro, ridu­zioni dei diritti ed inde­bo­li­mento e declino delle strut­ture pro­dut­tive. Un mix que­sto che può essere vera­mente esplo­sivo. L’Italia si col­loca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.

Lo scon­tro che la agita oggi, pro­ta­go­ni­sti Cgil, Uil e governo si col­loca in que­sto con­te­sto e la par­tita appare deci­siva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una muta­zione che supera i con­fini nazio­nali è anche vero che le moda­lità scelte dal nostro governo sono di ras­se­gna­zione, al di la delle chiac­chiere su spe­ranze e futuro, ad un ridi­men­sio­na­mento di lavoro, diritti e futuro produttivo.

Aver fatto della subor­di­na­zione alle logi­che con­fin­du­striali e dello scon­tro col sin­da­cato il perno delle poli­ti­che del governo ci sta cac­ciando in un vicolo cieco. In Ita­lia non dob­biamo dimen­ti­care che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo inve­stire, inno­vare ed espor­tare, le ricette del pas­sato (con­te­ni­mento del costo del lavoro e sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive), non hanno aiu­tato il capi­ta­li­smo ita­liano a cre­scere pun­tando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimen­sione di impresa. Anche per que­sto, quello che abbiamo oggi di fronte è un capi­ta­li­smo indu­striale che sa solo chie­dere più libertà di licen­ziare, meno tasse, pri­va­tiz­za­zioni per fare inve­sti­menti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capi­ta­li­smo inca­pace di pro­get­tare una pos­si­bile poli­tica indu­striale di inve­sti­menti, di ricerca, di nuovi rap­porti pro­du­zione – uni­ver­sità — ricerca…

Que­sto capi­ta­li­smo non andrebbe coc­co­lato con un po’ di spic­cioli elar­giti a piog­gia accon­ten­tan­dolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma sti­mo­lato e sfi­dato a fare un salto di qua­lità. Certo que­sto richie­de­rebbe un governo con una capa­cità pro­get­tuale, con un piano dei tra­sporti e della mobi­lità, con un piano di risa­na­mento ambien­tale e del ter­ri­to­rio, con un piano indu­striale ed una visione dei set­tori del futuro.

Ed invece noi abbiamo di fronte una classe indu­striale ed un governo asso­lu­ta­mente ina­de­guati alle sfide del nostro tempo. E’ in que­sto qua­dro che si col­loca lo scio­pero del 12. Per la com­ples­sità dei pro­blemi di cui abbiamo par­lato, non pos­siamo e non dob­biamo illu­derci che con esso si possa fare il mira­colo di capo­vol­gere que­sta situa­zione. Ma la “poli­tica” di que­sto governo e la sua “non poli­tica” vanno con­tra­state e fer­mate. Fare que­sto sarebbe già tanto ed una buona riu­scita delle mobi­li­ta­zioni di oggi è per que­sto essen­ziale. Impor­tante sarà, però, soprat­tutto il dopo.

Sarà quello che acca­drà nel Pd e quello che acca­drà a sini­stra. Un futuro vicino, ad oggi impre­ve­di­bile, la cui dire­zione più o meno a sini­stra dipen­derà sì dall’esito dello scio­pero, ma soprat­tutto da come sapremo rico­struire un pen­siero di sini­stra volto al futuro più che al pas­sato. Ma que­sto, in tempi di cor­ru­zioni – dege­ne­ra­zione — eva­po­ra­zione dei par­titi — asten­sio­ni­smo dila­gante, è pro­prio un altro capitolo

Oggi tutti in piazza. Per dare forza alle battaglie dei lavoratori e ricostruire solidarietà, contro il pareggio di bilancio, per un New Deal, per nuovi diritti da conquistare.

Il manifesto, 12 dicembre 2014

Lo scio­pero gene­rale di Cgil e Uil è final­mente arri­vato a rom­pere la soli­tu­dine delle molte lotte che den­tro que­sta lunga crisi sono state «l’urlo nel silen­zio» della poli­tica di un lavoro che non accetta la sem­plice ridu­zione a merce tra le merci del lavoro umano. La sva­lu­ta­zione del lavoro come neces­sità ine­lut­ta­bile, come con­di­zione per­ma­nente dell’economia. Que­sto, nella crisi, è il tratto ideo­lo­gico che si è affermato.

Fino ad imma­gi­nare che i governi nazio­nali, den­tro la cor­nice delle poli­ti­che d’austerità e dei vin­coli di bilan­cio euro­pei — con­tro cui fino ad oggi è man­cato un vero movi­mento di massa per modi­fi­care trat­tati e accordi verso il lavoro-, non pos­sano che diven­tare ese­cu­tori disu­ma­niz­zati. In assenza di qua­lun­que veri­fica con­creta sugli effetti di fran­tu­ma­zione sociale e per­so­nale che que­ste poli­ti­che gene­rano sulle comu­nità e sulle per­sone, espro­prian­dole, sem­pre più spesso, anche del senso di una vita, quando le si sra­dica nel lavoro e dal lavoro.

In que­sti ultimi giorni assi­stiamo al dispie­garsi nel nostro Paese di que­ste poli­ti­che «con­tro il lavoro», il Jobs Act ne esprime a par­tire dalla forma, con il suo «abuso» di delega al governo, un con­cen­trato signi­fi­ca­tivo. Oggi, anche dopo il decreto Poletti sui con­tratti a ter­mine, 8 ingressi al lavoro ogni 10 restano tem­po­ra­nei, i nuovi con­tratti, se para­go­nati al tri­me­stre pre­ce­dente, si con­trag­gono di 190 mila unità, un calo che riguarda tutte le tipo­lo­gie di assun­zione, men­tre pro­se­gue il trend nega­tivo dei licen­zia­menti: 217.000 in tre mesi e in pre­senza dell’articolo 18 light ver­sione Monti/Fornero.

L’ ultimo stu­dio della Uil denun­cia che, per il com­bi­nato dispo­sto tra lo sconto Irap, per­ma­nente, e la ridu­zione dei con­tri­buti pre­vi­den­ziali per i neoas­sunti, in vigore fino al 2017, l’effetto del licen­zia­mento post art. 18 a inden­nizzi cre­scenti (non a tutele cre­scenti) sarebbe quello di ren­dere con­ve­niente per le imprese licen­ziare gli even­tuali neoas­sunti più che sta­bi­liz­zarli, que­sto per­ché si tratta in ogni caso sem­pre di con­tri­buti senza vin­coli, senza riserve né a sta­bi­liz­zare o ad assu­mere, né per pre­miare aziende che investono.

Se il lavo­ra­tore venisse licen­ziato a fine anno l’indennizzo, e per­ciò il costo per l’azienda, si aggi­re­rebbe intorno ai 2.538 euro lordi: il ’saldo’ per l’impresa dun­que sarebbe posi­tivo per 4.390 euro. Un van­tag­gio che aumen­te­rebbe, se il lavo­ra­tore, sem­pre assunto il 1 gen­naio 2015, venisse invece licen­ziato nel terzo anno: i bene­fici fiscali per l’azienda, su un red­dito di 22 mila euro, ammon­te­reb­bero a circa 20.790 euro men­tre il costo dell’indennizzo sarebbe di 7.600 euro lordi, con un ’van­tag­gio’ per l’impresa di 13.190 euro. Esat­ta­mente il con­tra­rio di quello ’sti­molo’ all’occupazione sta­bile sban­die­rata con il Jobs Act.

Tanta deter­mi­na­zione con­tro il lavoro grida «ven­detta» di fronte all’impotenza nell’aggredire i 60 miliardi all’anno di cor­ru­zione delle tante «terre di mezzo» di cui i fatti di Roma rap­pre­sen­tano sola­mente l’ultimo epi­so­dio. È que­sta inca­pa­cità e il livello rag­giunto dalla cor­ru­zione che bloc­cano il paese, impe­di­scono gli inve­sti­menti e minano la con­vi­venza sociale e la cre­di­bi­lità di poli­tica e isti­tu­zioni. Non i diritti dei lavo­ra­tori.

Il governo con la scelta di non «ascol­tare» le parti sociali, cioè i lavo­ra­tori subi­sce la pres­sione della «parte più forte», quella delle asso­cia­zioni d’impresa, si sosti­tui­sce nel ruolo di con­tro­parte e perde la sua fun­zione di media­zione tra inte­ressi diversi.

Anche per que­sto lo scio­pero gene­rale di oggi è neces­sa­rio per­ché rico­strui­sce par­te­ci­pa­zione e rap­pre­sen­tanza sociale, andando oltre gli inse­dia­menti tra­di­zio­nali del lavoro sin­da­ca­liz­zato, ridando voce e visi­bi­lità al precariato.

Pre­ca­riato che è sem­pre più una con­di­zione uni­ver­sale, che ride­fi­ni­sce rap­porti di forza in un con­flitto desti­nato a cre­scere anche per­ché ciò che si muove e si mobi­lita è ancora privo di una rap­pre­sen­tanza poli­tica ade­guata, ciò che è acca­duto in par­la­mento al di là delle giu­ste e gene­rose bat­ta­glie o è troppo poco in ter­mini di forza o è troppo mano­vriero e timido e ragiona su tempi che potreb­bero essere troppo lun­ghi e fuori sin­to­nia con le mobi­li­ta­zioni in campo.

Lo scio­pero gene­rale dà forza alle nostre bat­ta­glie e chie­derà con­ti­nuità, con­tro il pareg­gio di bilan­cio, per un piano del lavoro (New Deal), rico­strui­sce soli­da­rietà per nuovi diritti da con­qui­stare oltre le soli­tu­dini. Imma­gi­nando un altro mondo pos­si­bile che metta al cen­tro le per­sone, rico­no­sca i limiti ener­ge­tici e ambien­tali del pia­neta, e il lavoro per il bene comune oltre le dise­gua­glianze. Buon scio­pero generale!

Settis presenta il suo libro a Venezia e spiega come «interventi sbagliati abbiano provocato l'esodo degli abitanti, l'invasione del turismo, la marea distruttiva di progetti assurdi: l'autostrada più inutile del mondo, il ponte che poteva essere costruito pure in Nuova Zelanda, il Mose». La Nuova Venezia, 10 e 11 dicembre 2014 (m.p.r.)

La Nuova Venezia, 10 dicembre 2014
LA VERSIONE DI SETTIS «VENEZIA UN MODELLO CHE NON FUNZIONA»
di Alberto Vitucci

La storia e la memoria. Per non essere omologati a una qualsiasi periferia urbana, alle «neocittà» identiche in tutto il mondo. Venezia è la cartina al tornasole della forma urbis che va scomparendo, travolta da progetti legati al guadagno immediato e allo stravolgimento dell'esistente. E politiche che non hanno la conoscenza del presente né lo sguardo lungo del futuro. Riscuote applausi a scena aperta il professor Salvatore Settis, archeologo e storico dell'arte, noto per le sue battaglie a tutela delle città d'arte. L'aula dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, a palazzo Franchetti, non è abbastanza grande per contenere il pubblico venuto a sentire la presentazione del suo ultimo libro edito da Einaudi Se Venezia muore.

Venezia è un paradigma, un esempio, dice Settis. Un esempio di come gli interventi sbagliati abbiano provocato l'esodo degli abitanti, l'invasione del turismo, la marea distruttiva di progetti assurdi, per fortuna spesso bloccati dall'opinione pubblica. «Cambiare il modello di città, offrire il meglio della storia di Venezia», dice Settis. Che si è battuto contro la vendita del patrimonio ai privati, contro l'idea di realizzare in gronda lagunare il grattacielo più alto di Europa. Settis cita Italo Calvino e le sue Città invisibili, la necessità di tutelare le città storiche malate. E Venezia lo è più di ogni altra.

Settis si spende anche sulla difesa dei palazzi e dei beni culturali che il Comune sta mettendo sul mercato per salvare il bilancio. «Quello che abbiamo detto vale anche per villa Heriott», dice tra gli applausi. «Non è un dibattito elettorale ma un contributo», precisa il professore in apertura. Ma sono in tanti a chiedergli «un aiuto» per salvare una città distrutta dagli scandali e dalle opere sbagliate. «Quello che è successo a Roma è nulla rispetto al malaffare legato al Mose», dice Andreina Zitelli, «il governo venga qui a vedere di cosa la città ha veramente bisogno».

Gherardo Ortalli, professore di Storia medievale a Ca' Foscari e membro dell'Istituto veneto, ricorda che di recente l'Istituto ha rimesso in vita la Commissione di studio sulla laguna. «C'era sempre stata», dice, «cancellata nel 1995 perché in quegli anni non esisteva a Venezia un centro di studio laico e indipendente, ma era tutto in mano al Consorzio Venezia Nuova». Il libro di Settis, dice Ortalli, è una sorta di «anamnesi della malattia. Bisogna prima capire quello che siamo prima di inventare soluzioni distruttive».

Gian Antonio Stella, giornalista, ricorda i tanti progetti assurdi proposti negli ultimi decenni per «rilanciare» la città d'acqua e renderla moderna. Le autostrade in mezzo alla laguna, le monorotaie, fino alla torre Cardin. E al progetto esposto alla Biennale del 2010 in cui si proponeva tra il compiacimento delle istituzioni la difesa della città d'acqua affidata a una serie di grattacieli che avrebbero protetto Venezia dall'acqua. «Ma Venezia deve difendersi anche da molti veneziani», dice Stella, «i veneziani che difendono Venezia sono pochi». «Come nel Ghetto da comunità di esclusi diventiamo comunità che vince», risponde Settis.

Lidia Fersuoch, presidente della sezione veneziana di Italia Nostra, parla di Arsenale e di restauri privati su palazzi come il Fontego dei Benetton e Prada a Ca' Corner della Regina.

La Nuova Venezia, 11 dicembre 2014
IL NO DI SETTIS ALLE GRANDI OPERE

A Mestre per discutere di paesaggio e territorio: lo storico dell'arte e archeologo Salvatore Settis, già direttore della Normale di Pisa e del Getty Research Institute di Los Angeles, è stato accolto ieri nell'aula magna del liceo Giordano Bruno per una lezione che ha preso spunto dal suo ultimo libro, Se Venezia muore, una disamina sui problemi delle città storiche partendo dall'analisi della situazione lagunare.

In due ore, il professore ha risposto ai quesiti degli insegnanti, alle timide domande dei ragazzi e persino a qualche polemica nata non appena si è toccato lo spinoso argomento Mose. Settis, infatti, ha ribadito che preservare l'ambiente è un dovere nei confronti di chi abiterà l'Italia in futuro e non ha potuto evitare di tirare quindi in ballo anche le grandi opere veneziane, dalla Orte-Mestre alla torre di Pierre Cardin, passando per il ponte di Calatrava e, appunto, per il sistema di dighe mobili.
L'ex direttore della Normale, che considera i grattacieli residuati di un tempo passato, ha riservato parole dure per tutti questi progetti: tanto per «l'autostrada più inutile del mondo» quanto per il «ponte che poteva essere costruito pure in Nuova Zelanda, visto che con Venezia non c'entra nulla»; la critica più feroce è stata però proprio quella al Mose, «costato tre volte la cifra stimata e a cui si sono aggiunti due miliardi di tangenti e bustarelle». «Attraverso un sistema tipicamente italiano», ha spiegato Settis, «ci si è inventati un metodo inefficace per risolvere un problema reale, finendo per mangiarci sopra».
Per trovare risposta alle difficoltà del Paese, secondo Settis, basterebbe guardarsi in tasca: con 154 miliardi di tasse non pagate ogni anno la Penisola è terza al mondo per evasione fiscale (prima di noi solo Turchia e Messico), «con quei soldi nelle casse dello Stato, la crisi non ci impedirebbe di salvare il nostro suolo».

«Sarà davvero Giuseppe Pecoraro l'uomo giusto per l'impresa? Il nocchiere senza macchia a cui affidare il timone in così perigliosa tempesta? In effetti il suo nome torna alla mente non tanto per la gestione della Prefettura romana ma per l'inchiesta napoletana sulla P4.

L'Espresso, 11 dicembre 2015

Con questo post nasce il mio blog "Senza zucchero". Scriverò inchieste, notizie, commenti e analisi sul potere. Senza fronzoli, senza sconti. Per nessuno.

Ordunque è lui, il prefetto di Roma, il mr. Wolf che deve salvarci dai cattivi di Mafia Capitale. È "Peppino", come lo chiama l'ex dg Rai Mauro Masi, l'uomo che deve ripulire i sette colli dalla lordura dei fascio-ladroni e dei politici corrotti. È lui che in questi giorni dichiara e tranquillizza («non scioglierò il comune, sarebbe una vergogna») e che vuole dare la scorta a Marino. È sempre lui, uomo di Stato, che il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha mandato a spulciare le carte degli appalti del Campidoglio.

Epperò sarà davvero Giuseppe Pecoraro l'uomo giusto per l'impresa? Il nocchiere senza macchia che a cui affidare il timone in così perigliosa tempesta? In effetti il suo nome torna alla mente non tanto per la gestione della Prefettura romana, finita in polemiche continue (dai funerali di Priebke all'annullamento dei matrimoni gay), ma per l'inchiesta napoletana sulla P4. Ossia l'organizzazione capeggiata dal faccendiere Luigi Bisignani che manovrava nell'ombra il potere politico, gli affari milionari e le nomine pubbliche di società di Stato e servizi segreti.

Oggi sembra che se lo siano dimenticati tutti. Ma il nome di Pecoraro fa capolino spesso e volentieri tra le carte dell'inchiesta. E non poche sono le telefonate tra il prefetto e Bisignani, condannato a 1,7 anni i reclusione per una sfilza di reati, tra cui associazione per delinquere, favoreggiamento, rivelazione di segreto e corruzione.

Tre anni fa i colloqui tra i due sodali hanno incuriosito non poco il pm Henry John Woodcok, che cercò di capire come mai il prefetto chiamava il faccendiere discutendo di questioni assi sensibilil, come riunioni del Copasir e affari di imprenditori prodiani come Angelo Rovati. Così il magistrato, il 23 febbraio di quell'anno, convocò il prefetto nei suoi uffici (Pecoraro non è mai stato indagato per la vicenda) in modo da avere delucidazioni. Lì il poliziotto, nominato prefetto su proposta dei sottosegretari berlusconiani Nitto Palma e Mantovano, ammise che sì, Bisignani lui lo conosceva bene. «Dal 2004, da quando ero capo della segretaria del capo della Polizia De Gennaro. Io parlo con Bisignani come si parla ad un amico. Siamo amici di famiglia, conosco anche la moglie», spiegò.

Pecoraro, rappresentante dello Stato, frequenta Bisignani anche se sa che il lobbista anni prima è stato arrestato e condannato in via definitiva per il riciclaggio della maxitangente Enimont allo Ior. Incredibilmente, il prefetto nega a Woodcock di sapere che l'amico è stato anche iscritto alla loggia segreta P2. «Mi risulta, però, che sia legato al sottosegretario Gianni Letta...Escludo che il Bisignani si sia speso per farmi ottenere la nomina di Prefetto di Roma: la mia carriera e il mio curriculum sono ineccepibili».

Meno ineccepibile, secondo i pm, è il tenore delle loro conversazioni. I due al telefono parlano di tutto. Se Gigi chiede all'amico di intervenire nella scuola della figlia dell'ex ministro Stefania Prestigiacomo perchè infestata «da cinghiali», Pecoraro cerca di sapere dal lobbista informazioni su un progetto per un Parco Giochi a Val Montone. «Bisignani mi disse che c'era dietro anche Angelo Rovati, che chiamai facendo presente che c'erano problemi di viabilità legati all'apertura del predetto parco. Perchè chiamai Bisignani? È un imprenditore che conosce tutti. Ho richiamato poi direttamente Rovati perchè avevo già parlato con la presidenza del Consiglio senza successo. Rovati lo conosco da tanti anni, non volevo danneggiare l'iniziativa». In realtà è lo stesso Bisignani a spiegare ai magistrati che Pecoraro lo aveva chiamato «per mettere in guardia Rovati, consigliandogli di dirgli di uscire dall'affare». Per i pm napoletani il colloquio telefonico è perfetta metafora del potere della ragnatela del lobbista: «Che un prefetto ritenga normale rivolgersi a un privato cittadino per contattare un imprenditore coinvolto in un procedimento amministrativo di sua competenza la dice lunga sull'anomalia Bisignani».

In altre telefonate Pecoraro spiega al pidduista di aver parlato con il segretario di Letta (ora ai servizi segreti), in un'altra chiede a Bisi di trovare lavoro a un suo amico, «l'ex collega Mario Esposito, prefetto in pensione, che voleva lavorare come consulente in materia di sicurezza». In un'altra telefonata tra i due si parla addirittura di una riunione del Copasir, il comitato di controllo dei nostri 007, che avrebbe dovuto discutere di alcune accuse lanciate da Massimo Ciancimino a De Gennaro. «Appare inquietante» chiosano i magistrati napoletani che indagano sulla P4 «il fatto che il Bisignani e il prefetto Pecoraro parlino dell'ordine del giorno del Copasir, se si pensa che il Bisignani è soggetto assolutamente estraneo alle istituzioni dello Stato».

Pecoraro, però, non è d'accordo: l'amico Gigi lo ha sempre tenuto in gran conto: «Le accuse contro di lui? È un aspetto che non conosco, mi stupisce e mi auguro che non sia vero» disse a "Repubblica" quando Bisi venne arrestato «Detto ciò non voglio esprimere alcun giudizio. Io in questa vicenda ci sono entrato come i cavoli a merenda».

Ma l'uomo che qualcuno vorrebbe commissario di Roma al posto del sindaco Marino s'è fatto notare anche per altre vicende. Se recentemente ha difeso i poliziotti che hanno manganellato gli operai dell'Ast di Terni, lo scorso aprile ha giustificato l'agente immortalato a "camminare" sul costato di una ragazza inerme finita in terra durante una manifestazione. «Il poliziotto non doveva essere lì, è vero, ma forse voleva dare una mano ai suoi colleghi: per la frenesia e la frustrazione di chi, improvvisamente, si sente bersaglio alla mercé di chi, i manifestanti, è chiamato a tutelare», disse.

Ma Pecoraro è stato protagonista anche della scandalosa espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, Alma e Alua Shalabayeva, un'azione definita «illegale» sia dall'Onu che da Amnesty International e gravata, secondo la Cassazione, da «manifesta illeggittimità originaria». Un abuso, da stato di polizia: la donna aveva i documenti in regola, ma le autorità italiane non vollero vedere. Piegate da motivazioni ancora oscure. Ebbene quel provvedimento, deciso dal ministero dell'Interno, portava la firma del prefetto Pecoraro.

Già. L'intoccabile Peppino, promosso in questi giorni a salvatore della Patria.

«"Corruzione e antipolitica sono il risultato della mancanza di etica all’interno della politica", ha spiegato a Radio Vaticana monsignor Giancarlo Maria Bregantini: una risposta al capo dello Stato che mercoledì si era schierato contro la "antipolitica che è patologia eversiva"».

Il Fatto Quotidiano.it, 11 dicembre 2014 (m.p.r.)

Si guardano dalle due rive opposte del Tevere, la Conferenza Episcopale Italiana e il Quirinale. E da oggi a dividerli, oltre al fiume, c’è anche la valutazione delle conseguenze che la corruzione comporta per la vita politica nel Paese. Un «politico corrotto» è «più eversivo» di chi fa antipolitica in maniera onesta, ha scandito alla Radio Vaticana Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso Bojano e presidente della Commissione Cei per gli affari sociali e il lavoro. Una precisa risposta a Giorgio Napolitano che con l’opinione pubblica ancora attonita di fonte all’inchiesta “Mondo di mezzo”, l’inchiesta che ha svelato gli indicibili accordi tra la criminalità e la politica romana, ha ritenuto opportuno scagliarsi contro la «antipolitica» che è «patologia eversiva». A poche ore di distanza, la Conferenza dei vescovi è l’unica istituzione a prendere una posizione critica sulle parole dell’inquilino del Colle.

Con la tempesta di Mafia Capitale che soffia furiosa sulle istituzioni e sui palazzi del potere romano, uno dei pochi spiragli di luce sembra arrivare da oltretevere. «Corruzione e antipolitica, alla fine, sono il medesimo risultato triste di un fenomeno di mancanza di etica all’interno della politica – ha spiegato monsignor Bregantini – dobbiamo creare un’economia dove le decisioni non siano prese da pochi in stanze oscure, ma che siano trasparenti. Ci devono essere organi di controllo, la partecipazione della base. E’ il buio che crea la corruzione o l’antipolitica». Le parole dell’arcivescovo suonano come una chiara risposta a Giorgio Napolitano: «La critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obiettività, senso della misura e capacità di distinguere è degenerata in anti-politica, cioè in patologia eversiva», aveva detto il capo dello Stato mercoledì all’Accademia dei Lincei, scatenando la reazione del Movimento 5 Stelle e della rete Internet.

Alla domanda se sia più eversivo un politico corrotto o un antipolitico onesto, il capo-commissione Cei risponde senza titubanze: «Un politico corrotto». «E’ la corruzione che crea entrambi i guai: l’allontanamento dalla politica e poi, di conseguenza, il disservizio – è il punto di partenza del ragionamento di Bregantini – però, non stiamo lì tutti, con l’indice puntato contro pochi; dobbiamo tutti insieme dire: creiamo delle istituzioni partecipative che ci permettano di tenere sotto controllo i politici, non solo additandoli ma condividendo, imparando però anche da noi stessi che il denaro, se non lo sai usare, ti schiavizza». Bregantini si dice preoccupato per la situazione politico-sociale ed economica dell’Italia, «però – aggiunge – c’è anche una fortissima reazione morale che c’è stata, ad esempio, dopo la questione di Roma: ha dimostrato che c’è una società sana, che non si rassegna».

Un intervento che si iscrive nel solco della linea dettata da Papa Francesco fin dai primi mesi di pontificato. Era il 25 luglio 2013 quando da una favela di Rio il pontefice esortava i giovani a «non scoraggiarsi mai» nonostante la «corruzione da persone che, invece di cercare il bene comune, cercano il proprio interesse», e si ripeteva l’8 novembre scagliandosi contro la «dea tangente». Le «forme di corruzione, oggi così capillarmente diffuse offendono gravemente Dio», avvertiva il 12 dicembre mentre i richiami più forti sono arrivati nel 2014, il secondo anno di pontificato, a cominciare dalla messa tenuta in Vaticano per i politici durante la quale il 24 marzo Francesco disse: «No alla corruzione, agli interessi di partito e ai dottori del dovere e ai sepolcri imbiancati». I danni causati dai «corrotti economici, corrotti politici o corrotti ecclesiastici li pagano i poveri», avvertiva Bergoglio il 6 giugno per poi tornare sull’argomento poco più di un mese fa, il 23 ottobre: «Le forme di corruzione che bisogna perseguire con maggiore severità sono quelle che causano gravi danni sociali come le frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione o qualsiasi sorta di ostacolo alla giustizia».

Ha scelto una personalità di alto profilo, la Conferenza Episcopale Italiana, per commentare le parole del presidente della Repubblica. Presidente della Commissione vescovile per gli affari sociali e il lavoro, prima di arrivare a Campobasso nel 2007, Giancarlo Maria Bregantini è stato un vescovo di frontiera: per 13 anni ha guidato la diocesi di Locri, dove scelse per sé un ruolo di forte opposizione alla criminalità organizzata.

Quando nell’ottobre del 2005 venne ucciso Francesco Fortugno, vicepresidente della Regione Calabria, Bregantini aveva incoraggiato i giovani ascendere in piazza e far sentire la loro voce contro la mafia. La sua azione contro la ndrangheta ha guadagnato la ribalta dopo la strage di Duisburg, quando aveva ottenuto che per le vittime ci fossero i funerali pubblici, era riuscito a incidere sulle donne nel tentativo di riportare la pace tra le famiglie della faida di San Luca e si era recato in Germania per incontrare gli emigrati calabresi. Ma sono in molti ancora quelli che lo rimpiangono nella Locride anche per il suo ruolo di organizzatore ed ideatore di tante cooperative sociali che hanno dato lavoro ai giovani dell’area, una delle più povere e violente della regione.
Quest’anno Papa Bergoglio gli ha affidato la redazione delle meditazioni della via crucis al Colosseo e secondo voci che circolano Oltretevere ha le carte in regola per approdare alla guida di una grande diocesi come Roma e Napoli o per un incarico di rilievo all’interno della curia romana.

Susanna Camusso «il segretario generale della Cgil ospite di Repubblica Tv alla vigilia dello sciopero generale. "Renzi ha avuto il merito di accendere una grande speranza in questo Paese. Adesso non la trasformi in paura evocando la

Troika. Traduca quella speranza in lavoro"». Repubblica.it, 11 dicembre 2014

ROMA - «Non credo che la decisione sia stata presa in solitudine, perché è un atto grave. La nostra risposta è in atto, con forme di protesta e di denuncia di questo intervento a gamba tesa. Chiediamo la revoca della precettazione. Se il governo la dovesse mantenere, la rispetteremo, ma è un atto grave». Susanna Camusso, ospite del videoforum di Repubblica Tv, reagisce così alla decisione del ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, di richiamare al lavoro i ferrovieri che venerdì avrebbero aderito allo sciopero generale indetto da Cgil e Uil contro Jobs act, legge di stabilità, politiche economiche e industriali, mancato rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici.

«Stiamo valutando, non finisce lì perché secondo noi si viola la legge e c'è un uso strumentale della legge - osserva la leader Cgil -. Noi abbiamo proclamato lo sciopero più di un mese fa. Non abbiamo ancora avuto il testo dell'ordinanza, che valuteremo. Abbiamo appreso della precettazione dai giornali. Poi si chiede a noi di non alimentare la conflittualità». «Vorrei sottolineare - aggiunge Camusso - come le procedure non siano rispettate, con atti unilaterali che alzano i toni del conflitto». Il segretario generale della Cgil venerdì mattina parlerà a Torino, ma la manifestazione, connotata dallo slogan "Così non va", si estenderà a oltre 50 piazze italiane.

In 20 anni di Berlusconi mai tanti scioperi come contro Renzi. (domanda dai lettori Rosario Giosa e Fulvio Castellani)
Non è vero, la lunga stagione dei governi di centrodestra è coincisa col maggior numero di scioperi. Li abbiamo sempre contrastati. Poi capisco, la domanda è legittima da chi ha sperato che Renzi fosse il grande cambiamento. Ma in nome della speranza ci prendiamo i licenziamenti senza giusta causa? Sono sentimenti che attraversano tutto il popolo della Cgil e dei lavoratori. Il mondo del lavoro non può rinunciare a lavoro e diritti.

"Cara Camusso, sei riuscita a convincermi a dare la disdetta all'Inps relativamente alla trattenuta pro Cgil. Mi sembra che niente sia cambiato dal 1984 quando la Cgil era in piazza contro l'abrogazione della scala mobile". La domanda riassume quanto molti pensano: Cgil oggi è retroguardia, meglio togliere le tutele purché ci sia lavoro. (domanda dal lettore Enzo Reali)
E' un Paese che ha scelto di competere solo sulla riduzione dei costi, con un lavoro che costi meno e non abbia diritti. E' un'illusione, che va rispettata nelle singole persone, la povertà induce a certi comportamenti. Ma la responsabilità deve essere che per quella via il nostro Paese è diventato fragile. La vera retroguardia e grande sconfitta sarebbe ridurre i diritti sul lavoro. Concentrare tutto sulla diminuzione dei diritti rende il paese fragile e senza sviluppo. Ci sono tutti gli elementi per dire che per quella strada si arriva a forme di schiavitù e guerra tra poveri.

Anche i precari meritano di essere rappresentati.
Noi abbiamo detto al governo, ricevendo disprezzo: abbiamo bisogno di ricostruire il lavoro in Italia. C'è poco lavoro rispetto alla domanda, lo dicono le cifre. La scelta dovrebbe essere di investire, partendo dagli investimenti pubblici. E tutte le risorse andrebbero indirizzate lì. Se si riduce il lavoro si riducono i diritti. In Italia c'è anche un fenomeno nuovo: un milione di persone che con un lavoro, anche a tempo pieno, è comunque sulla soglia della povertà. Non vediamo nelle politiche del governo come si distribuisca la ricchezza per generare il lavoro. Si può reagire contrastando l'austerità, non solo dicendolo in Europa, ma facendolo anche in Italia. Mentre c'è questa strana dicotomia.

Dipendenti pubblici che scioperano "solo" per il contratto. E attacchi al "senso di responsabilità" di chi nel Pd ha votato il Jobs Act, in riferimento soprattutto alla minoranza dem. Un elenco di "tradimenti".(domanda dai lettori Nicola Verdicchio, Claudio De Biase e Maria Genova)
E' l'effetto di una situazione, un mondo del lavoro che ha una sua proposta, che va in conflitto con chi faceva del lavoro il suo riferimento centrale. Questa frammentazione non fa bene a nessuno, il governo fa male ad alimentarla. Ma è questo il grande tema: il lavoro non ha rappresentanza politica, quindi cambia anche il rapporto tra le organizzazioni sindacali e i partiti. Mi ricordavano una preoccupante assonanza: il Codice del lavoro del 1927 diceva che per il licenziamento ingiusto c'è l'indennizzo, si torna a quella logica col Jobs Act. Ma non tutto è monetizzabile, la dignità delle persone ad esempio.

Uno studio della Uil dimostra che le misure del Jobs Act incentiveranno a licenziare piuttosto che ad assumere.
C'è una strana e poco trasparente discussione sui decreti attuativi del Jobs Act. I ministri competenti sono desaparecidos e questo dopo che Renzi aveva detto che dovevano parlare con i sindacati. Dopo aver deciso che la strada è la monetizzazione, si discute su come risparmiare. E se tutto si gioca sulle risorse, si dà un vantaggio alle imprese che licenziano, che hanno sgravi e pagano poco chi sarà assunto dopo. Ma con le tutele crescenti, cresce nel tempo anche l'indennizzo da corrispondere ai nuovi assunti in caso di licenziamento. Il che incentiva a interrompere quel rapporto il prima possibile. Vedo che una parte del Parlamento si è accorto di questo. E, in un Paese normale, dovrebbe essere obbligato a cambiare quello schema.

Assieme allo sciopero generale, non ci vorrebbe anche altro tipo di sciopero, quello dei consumi? (domanda dalla lettrice Angela Castellero)

La domanda della lettrice arriva da una parte del Paese che ci comunica il senso di abbandono che si prova oggi. Anche noi ci interroghiamo su forme diverse. Ma nello specifico, lo sciopero dei consumi è già in atto a causa della crisi. Forme alternative di mobilitazione, un ottimo suggerimento. Ma, vista la situazione, credo si debba sperimentare in altre direzioni.

Lo sciopero si poggia su un pacchetto vasto di temi. Su quale vorrebbe ottenere una risposta positiva?
Sul lavoro, un cambiamento di impostazione che metta tutte le risorse e le energie a disposizione del lavoro, per il futuro. Dando concretezza a quel senso di speranza che il governo intende dare.

Ma anche sulla qualità del lavoro, per dare speranza a tutti quei giovani costretti a fuggire dall'Italia se vogliono essere apprezzati per preparazione e talento.
Lavoro e qualità vanno insieme. Nel contrasto all'idea del lavoro senza diritti, è implicita l'idea della qualità. Si può costruire un percorso. Si potrebbe utilizzare la flessibilità nell'uscita pensionistica. Ma è fondamentale creare lavoro.

Colpisce che due donne alla testa dei sindacati, Camusso e Furlan, nuova segretaria della Cisl, non siano riuscite a creare un'intesa. Furlan non ha escluso che su alcuni temi si possa parlare con la Cgil. Strano, considerando che la Cisl non è affatto morbida con Renzi.
Infatti, credo che da parte della Cisl ci sia una pregiudiziale, non sui contenuti ma sul "non ci si può mobilitare". Ma io dico che non ci si può nemmeno rassegnare. Se si crede che con un'intervista arrivino risposte positive non andiamo da nessuna parte. Ci siamo sentiti rimproverare che quando al governo c'era Monti abbiamo fatto poco. Di fronte a un simile attacco, non si può restare fermi. La Cisl non capisce che i nostri iscritti non comprenderebbero una mancata risposta, lo interpreterebbero come rassegnazione.

Forse sarebbe stato necessario un approccio diverso. Ovvero, la Cisl che va allo sciopero "insieme" alla Cgil, non "aderisce" allo sciopero Cgil.
In realtà, noi abbiamo discusso molto. La nostra idea è stata proposta, ma c'è un tempo per fare le cose. E quel tempo è adesso. Se non ci sono risposte bisogna trarre le conseguenze. Se i lavoratori hanno diritto, bisogna scegliere se esercitare le proprie capacità di pressione per cambiare le politiche o stare un passo indietro. Noi abbiamo scelto di fare il passo avanti. Il governo Renzi non può non sapere che si sono cumulati degli effetti che provocano la reazione delle persone.

Il suo giudizio su Renzi.
Penso che abbia il merito di avere acceso una grande speranza in questo Paese. Adesso non la trasformi in paura evocando la Troika. Evocare quella speranza è stata anche la sua fortuna. Ora la traduca in lavoro.

«In Francia e Germania si festeggia per il riconoscimento di un sito d'interesse comunitario che accresce il prestigio di una regione. Dalle nostre parti la presenza di un Sic incupisce, come la diagnosi di una malattia, un'area ben protetta come il colesterolo alto». La Nuova Sardegna, 9 novembre 2014

Si dice da tempo, con cicliche conferme, del divorzio dei cittadini dalla politica. Colpisce però che siano spesso i sindaci – non estranei alla politica – a manifestare sfiducia verso le decisioni prese nei palazzi lontani. Questo giornale ha dato conto della rivolta di amministratori sardi contro “Sblocca-Italia”. Sorpresi che dietro il programma di semplificare i processi per ammodernare il Paese ci sia l'idea di favorire lo sfruttamento intenso del territorio, e quindi l'impoverimento di luoghi, pure dove si vive dalla conservazione della natura. La prima insidia dall'arrembaggio di trivelle per ricavare inezie di gas o petrolio, nulla a che vedere con le pratiche di efficienza energetica a tutela della salute, come vorrebbe il buonsenso prima che la l'Europa.

Il profilo aggressivo di “Sblocca-Italia” è spiegato nel libro online scaricabile da «Altraeconomia» : Rottama Italia, sedici opinioni autorevoli (Settis, Montanari, De Lucia, Salzano, Petrini, ecc.) contro il “doppio salto mortale all’indietro”, la retorica del “fare” oltre le leggi.

Da più parti si pensa di ricorrere alla Consulta contro vari articoli del provvedimento, un insopportabile disegno di spoliazione di beni comuni, di «accumulazione capitalistica per espropriazione», direbbe il geografo-politologo David Harvey. Ma attenzione: all'orizzonte c'è anche una bozza di legge in materia urbanistica presentata dal ministro Maurizio Lupi: del tutto indifferente ai caratteri del territorio italiano che affonda nel fango e nell'incuria (compromessi, nell'ultimo mezzo secolo, 5 milioni di ettari di suolo agricolo). La legge garantisce la distribuzione di crediti edilizi per favorire la speculazione dei suoli (la consustanzialità tra proprietà privata e diritto a costruire – è stato scritto), la dissolvenza della pianificazione comunale con l'istituzione di indennizzi alle trasformazioni negate, la disapplicazione delle disposizioni sugli standard urbanistici; tutta roba sconsigliabile mentre le bolle immobiliari minano l'economia. Così l' accanimento della crisi disorienta e spiana la strada ad iniziative che violano misure di tutela ambientale e paesaggistica convenute in Europa.

Peccato, a proposito di disorientamento, che le manifestazioni siano normalmente contro le manomissioni più immediate e sotto casa, e raramente per difendere le ragioni che presiedono alla conservazione di habitat preziosi. Penso all'insofferenza verso la norme per custodire le biodiversità. In Francia e Germania si festeggia per il riconoscimento di un sito d'interesse comunitario che accresce il prestigio di una regione. Dalle nostre parti la presenza di un Sic incupisce, come la diagnosi di una malattia, un'area ben protetta come il colesterolo alto.

Colpiscono i toni astiosi per le cautele chieste nella realizzazione della Sassari-Olbia nei pressi di un Sic. Non so se le prescrizioni siano eccessive (peraltro a cura di uffici molto competenti). So che sono spropositate le invettive, il sarcasmo a uffa sulla fauna selvatica ai bordi del percorso, che saprebbe dove migrare – ci spiegano i soliti nemici delle regole per lo sviluppo buono.

Ripenso, per dire del disorientamento, allo slogan antipatico “l'uomo prima del muflone” che non ha aiutato le comunità del Gennargentu. Accompagnato dagli auspici estivi per improbabili apparizioni della foca monaca.

Il governo regionale ha coerentemente protestato contro “Sblocca-Italia”, segno di ostilità all'idea di affrancare gli investimenti dalle valutazioni da vicino, pur di realizzare briciole di Pil. E su questa traccia, nello sfondo il principio di sussidiarietà, ha aperto il confronto sul disegno di legge già deliberato dalla giunta, quel piano-casa forever che non persuade. Appunto perché attribuisce direttamente ai proprietari di immobili la facoltà di trasformarli in contrasto con i piani comunali e con impatto casuale su una miriade di situazioni delle quali il legislatore non può ovviamente sapere granché; come lo Stato non sa nulla dell'effetto delle trivellazioni ad Arborea o chissà dove nell'isola.

Intervistato da Daniela Preziosi, il mitico sindaco comunista di Torino che nell'83 denunciò la corruzione nella giunta, persino il suo vicesindaco fu arrestato. Qualcuno dirà: "altri tempi, non siate nostalgici". Noi diciamo:"certi princìpi devono tornare".

Il manifesto, 9 dicembre 2014

«In con­fronto a quello che leggo oggi la nostra era una cor­ru­zione da goliardi. Io sco­prii che un impren­di­tore pagava ad alcuni asses­sori le pro­sti­tute ceco­slo­vac­che. Li por­tava a Praga in albergo all inclu­sive. Offriva week end. Un lunedì mi arrivò un asses­sore tutto abbron­zato in pieno inverno. ‘Sei andato a sciare?’. ‘No’, mi disse, ‘ho fatto un viag­getto in Kenya’». Diego Novelli, classe ’31, pre­si­dente ono­ra­rio dell’Anpi tori­nese, una lunga car­riera da gior­na­li­sta dall’Unità degli anni 50 alla al set­ti­ma­nale Avve­ni­menti negli anni 80, oggi dirige il quo­ti­diano online Nuo­va­so­cietà. Ma Novelli è soprat­tutto il mitico sin­daco comu­ni­sta di Torino nel decen­nio 75–85. Quello che nel 1983, dieci anni prima dell’esplosione di Tan­gen­to­poli, di fronte a un sospetto di cor­ru­zione nella sua giunta mette tutto in mano alla pro­cura. Finì con le con­danne. Ma da lì per Novelli la vita poli­tica non fu facile.

Come hai sco­perto che alcuni tuoi asses­sori erano corrotti?
Era venuto da me un impren­di­tore che mi denun­ciava dei fatti ille­citi sugli appalti però senza fare i nomi. La terza volta che viene gli dico: inge­gnere’, era un inge­gnere, si chia­mava Di Leo, ‘o lei fa i nomi o io la denun­cio per calun­nia’. Lui risponde: ‘non mi rovini, ho fami­glia’. ‘Lei è venuto a dirmi che io sono quello del rigore ma non si fida di me. Si fida dei magi­strati?’. Mi fac­cio chia­mare il pro­cu­ra­tore della Repub­blica e gli dico: ‘Le mando que­sto signore, non me lo spa­venti e fac­cia quello che crede’. Poi però, per paura che l’ingegnere uscito dal muni­ci­pio cam­biasse idea, gli metto appresso un vigile della mia scorta, si chia­mava Bar­bero, che lo accom­pa­gni in pro­cura. Dopo tre mesi sono arri­vati gli arresti.

Cosa era successo?
Sco­pri­rono un giro di cor­ru­zione mise­ra­bile. Ave­vamo un appalto da cen­ti­naia di milioni di lire, allora una cifra da capo­giro, per l’informatizzazione di tutto il comune, ana­grafe, bilan­cio, ser­vizi sociali. A pagare tan­genti e viaggi di pia­cere era una ditta di infor­ma­tica ame­ri­cana. Fu arre­stato il mio vice­sin­daco socia­li­sta. Alla fede­ra­zione del Psi fecero let­te­ral­mente piazza pulita: teso­riere, il segre­ta­rio, alcuni asses­sori. Bec­ca­rono anche due dei nostri, due comu­ni­sti che si erano limi­tati a farsi pagare viaggi di pia­cere. Sco­prii che nella lista degli alle­gri viag­gia­tori c’era anche il mio nome, ma con me non ci ave­vano nean­che pro­vato, al mio posto ave­vano offerto il week end a un democristiano.

Ma qui ini­ziano i tuoi pro­blemi politici.
Craxi venne a Torino e chiese in piazza la mia testa. Disse: ‘Novelli non può più fare il sin­daco, non gode più della fidu­cia del Psi’.

Il Pci, il tuo par­tito, come reagì?
Qual­cuno si è schie­rato subito con me, come l’allora segre­ta­rio di fede­ra­zione Piero Fas­sino. Craxi mandò alla fede­ra­zione tori­nese del Psi un com­mis­sa­rio straor­di­na­rio (fu scelto Giu­liano Amato, ndr), fui accu­sato di non aver «risolto poli­ti­ca­mente la que­stione». I socia­li­sti usci­rono dalla giunta, io mi dimisi e for­mammo una giunta mono­co­lore comu­ni­sta con qual­che indi­pen­dente. I socia­li­sti in teo­ria ci davano l’appoggio esterno, ma mi fecero venire l’esaurimento: ogni giorno non sapevo nean­che se in con­si­glio avevo il numero legale. Siamo andati avanti fino a novem­bre ‘84 quando hanno con­vinto, diciamo così, due com­pa­gni comu­ni­sti di pas­sare al gruppo socia­li­sta. Il 25 gen­naio dell’85, a tre mesi dalle ele­zioni, ci fu un ribal­tone. E venne eletto un sin­daco socia­li­sta soste­nuto da una giunta pen­ta­par­tito. Così quello che aveva chie­sto Craxi in piazza nel marzo dell’83, e cioè la mia testa, si era avverato.

Poi però il Pci tori­nese alle ele­zioni dell’85 ti ricandidò.
Ma il Pci era rima­sto iso­lato, fummo bat­tuti dal pentapartito.

E dal Pci nazio­nale quali segnali arrivarono?
Al con­gresso d Milano, che si svol­geva pro­prio in quei giorni, inter­venni e spie­gai che l’iniziativa era par­tita dal sin­daco quindi non dove­vamo temere nulla: noi ci siamo sem­pre com­por­tati con rigore. Quando la com­mis­sione ristretta del comi­tato cen­trale discusse i nomi della dire­zione del par­tito, nell’elenco c’era il mio nome. Ma quel nome fu tolto.

Chi lo tolse?
E’ pas­sato molto tempo, lasciamo stare. I pro­ta­go­ni­sti si saranno emen­dati. Partì lan­cia in resta il segre­ta­rio regio­nale dell’Emilia che diceva: atten­zione, noi abbiamo tutte le giunte con i socia­li­sti, se ora met­tiamo Novelli in dire­zione sem­bra che lo abbiamo pre­miato per­ché ha fatto que­sta cosa con­tro il Psi. Ricordo che Nilde Jotti dalla tri­buna del comi­tato cen­trale si rivolse a me con que­ste parole: com­pa­gno Novelli, quando si hanno inca­ri­chi così deli­cati biso­gna saper can­tare e por­tare la croce. Molti anni dopo, leg­gendo il libro di Luciano Barca, Cro­na­che dall’interno del ver­tice del Pci (Rubet­tino, 2005, ndr) ho sco­perto com’è andata. Barca scrive così, rac­con­tando del con­gresso: «La rive­la­zione di Novelli mette subito allo sco­perto che nella Dire­zione del Pci con­vi­vono ormai due posi­zioni oppo­ste: c’è chi con­si­dera il sin­daco un giu­sto che ha fatto il suo dovere e chi, come Maca­luso, un “povero cre­tino mora­li­sta”». Barca rac­conta anche che poi in com­mis­sione elet­to­rale sulla pro­po­sta di por­tare me in dire­zione, soste­nuta da Minucci, Pec­chioli e Pajetta e con il favore di Ber­lin­guer, «la pro­po­sta è respinta sotto l’attacco della destra» (si tratta ovvia­mente della destra del Pci, ndr).

Ma come può suc­ce­dere che in un par­tito non ci si renda conto che il pro­prio com­pa­gno è un mascalzone?
Non so spie­gar­melo. Un par­tito deve sem­pre tenere alta l’attenzione. Io avver­tii i primi sin­tomi di inqui­na­mento all’inizio degli anni 80. A Torino furono le prime avvi­sa­glie di Tan­gen­to­poli, che però arrivò molto dopo. Ma nes­suno poteva cadere dal pero: il primo segnale cla­mo­roso lo dette pro­prio Ber­lin­guer, nel luglio dell’81, nella famosa inter­vi­sta a Euge­nio Scal­fari sulla que­stione morale. Dove dice: «I par­titi hanno dege­ne­rato».

Dice ‘i par­titi’, non ‘gli altri par­titi’. Era chiaro il segnale di allarme che stava lan­ciando era anche verso il suo Pci.
Ormai è chiaro a tutti. Introdurre nella Costituzione l'obbligo del pareggio del bilancio (cosa che neppure l'Europa ci chiedeva) è stato un gravissimo errore. Ma se si vuole si può correggerlo. Ecco perchè e come.

Il manifesto, 7 dicembre 2014

Nei suoi pen­sieri sparsi, Lud­wig Witt­gen­stein, annotò che: «Niente è così dif­fi­cile come non ingan­nare se stessi». Quale migliore spie­ga­zione del per­ché il legi­sla­tore ita­liano ha inse­rito due anni fa nella nostra Costi­tu­zione il prin­ci­pio del pareg­gio di bilan­cio, modi­fi­can­done l’articolo 81? Ma l’inganno non può durare all’infinito. Sotto i colpi della crisi e di qual­che ripen­sa­mento anche nel campo main­stream, la spa­valda sicu­rezza con cui una mag­gio­ranza – un tempo si sarebbe detto bul­gara – di par­la­men­tari votò nel 2012 la nuova norma costi­tu­zio­nale, pare vacil­lare non poco.

Eppure le avver­tenze alla pru­denza ven­nero fatte anche allora, ma non furono ascol­tate. Nel luglio del 2011 sei premi Nobel per l’economia (Ken­net Arrow, Peter Dia­mond, Char­les Schul­tze, Wil­liam Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow) rivol­sero un appello al Pre­si­dente Obama a non pie­garsi alla regola del rag­giun­gi­mento del pareg­gio di bilan­cio annuale, con­si­de­ran­dola del tutto disa­strosa per una cor­retta poli­tica economica.

Più mode­sta­mente, un’assemblea indetta da giu­ri­sti demo­cra­tici a Roma, in pros­si­mità del voto finale in quarta let­tura al Senato, avve­nuto nell’aprile 2012, invi­tava i par­la­men­tari del Pd, facenti parte della mag­gio­ranza che soste­neva il governo Monti, ben­ché favo­re­voli al pareg­gio di bilan­cio, ad abban­do­nare l’aula al momento del voto in modo da non fare scat­tare la mag­gio­ranza dei due terzi che avrebbe impe­dito la con­vo­ca­zione del refe­ren­dum cosid­detto con­fer­ma­tivo. Un refe­ren­dum che si applica alle norme di revi­sione costi­tu­zio­nale che non sono appro­vate in entrambe le camere con la mag­gio­ranza dei due terzi e che – stra­nezza della nostra legi­sla­zione – non pre­vede, a dif­fe­renza dei refe­ren­dum abro­ga­tivi di leggi ordi­na­rie, alcun quo­rum. D’altro canto non era l’Europa a chie­der­celo. Infatti quest’ultima si mostrava indif­fe­rente al tipo di norma che i paesi mem­bri avreb­bero adot­tato al riguardo, se di livello costi­tu­zio­nale o meno. La Fran­cia ad esem­pio non seguì la prima strada.

Se il con­si­glio fosse stato seguito si sarebbe avuta almeno una larga discus­sione di poli­tica eco­no­mica nel nostro paese e ogni forza poli­tica sarebbe stata costretta a pro­nun­ciarsi aper­ta­mente, non potendo ricor­rere all’astensione nel voto referendario.

Rispose Anna Finoc­chiaro, pre­sente all’assemblea nella sua qua­lità di Pre­si­dente del gruppo sena­to­riale Pd, con un cor­tese ma fermo discorso, nel quale pre­ci­sava la diver­sità dei punti di vista e soprat­tutto la sua appar­te­nenza ad un par­tito che non tol­le­rava che, una volta presa una deci­sione, i suoi par­la­men­tari si com­por­tas­sero in modo discorde. Moti­va­zione dav­vero incauta se messa a con­fronto con quanto sarebbe avve­nuto di lì a non molto, quando oltre cento depu­tati nel segreto dell’urna disob­be­di­rono alla indi­ca­zione di voto del loro par­tito sulla ele­zione del Pre­si­dente della Repubblica.

Da allora di acqua sotto i ponti ne è pas­sata parec­chia. La appli­ca­zione della norma tanto invo­cata prima da Ber­lu­sconi, poi da Monti e san­ti­fi­cata da mag­gio­ranze senza pre­ce­denti, ini­zial­mente anti­ci­pata addi­rit­tura al 2013, è stata poi posti­ci­pata da Renzi al 2017. Né sono state da aiuto le elu­cu­bra­zioni sus­se­guenti alla pre­sen­ta­zione del Def 2015 sulla misu­ra­zione del Pil poten­ziale da cui si deri­ve­rebbe il c.d output-gap in base a cui si valu­te­rebbe la distanza dal rag­giun­gi­mento del pareg­gio strut­tu­rale. I con­tor­ci­menti sulle dif­fe­renze fra Pil reale e Pil poten­ziale, fra pareg­gio di bilan­cio con­ta­bile e quello strut­tu­rale nascon­dono solo la cat­tiva coscienza di chi ha com­preso che la norma non sta in piedi ma non si ras­se­gna alla brutta figura di fare mar­cia indietro.

Ma anche que­sto gioco a nascon­dino ha il fiato corto. Venerdì un arti­colo molto pun­tuale del Sole24Ore get­tava la maschera ed affer­mava chia­ra­mente che “è tempo di ripen­sare l’utilità del pareg­gio di bilan­cio”, fino a defi­nire che l’idea di dimi­nuire il nume­ra­tore del rap­porto Debito/Pil, su cui si basa tutta la poli­tica di auste­rità e il fami­ge­rato fiscal com­pact, è “una con­ce­zione priva delle più ele­men­tari basi logico-razionali”.

Quindi quella norma va abo­lita. A que­sto scopo è par­tita la cam­pa­gna «col pareg­gio ci perdi» per la rac­colta di firme in calce ad una legge di ini­zia­tiva popo­lare che mette i biso­gni delle per­sone prima della con­ta­bi­lità. Si stanno for­mando comi­tati in tutte le città. Se ne tor­nerà a par­lare il 18 dicem­bre a Roma, alle 17.30 presso l’Auditorium di via Rieti con Ste­fano Rodotà, Susanna Camusso, Mau­ri­zio Lan­dini coor­di­nati da Norma Rangeri

Una puntuale risposta ai critici di un articolo della politologa. Il dibattito sulle forme e sulla sostanza della democrazia nell'età del dominio del danaro e della mascheratura populistica.

Micromega, 2 dicembre 2014
La democrazia ha dei fondamenti individualistici e procedurali che il populismo non riesce a rispettare e anzi manomette nel profondo. Ma l’errore dei critici del proceduralismo democratico è soprattutto di renderlo corresponsabile di quelle ingiustizie sociali ed economiche che invece sono generate nelle nostre società contemporanee dal dominio incontrastato del capitalismo finanziario.

Rispondo brevemente alla replica dei miei critici ringraziandoli di aver discusso le mie idee con la stessa sincera radicalità con la quale ho discusso e discuto le loro. Non entrerò nel merito delle varie critiche per non scrivere un trattato. Mi limiterò ad avanzare alcune risposte circa il metodo o l’approccio che ci divide. Per esempio, ci sarebbe da discutere molto puntualmente la lettura proposta da Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli della democrazia, delle procedure, del rapporto costituzione/politica, e società/stato. Ci sarebbe anche da discutere – e fortemente dissentire – sulla concezione davvero problematica di rappresentanza che i miei due interlocutori propongono, una visione arcaica e anche, se mi è consentito, poco attenta e con evidenti imprecisioni. Ma, appunto, preferisco rispettare le condizioni che mi sono data: ovvero discussione sul metodo.

Comincerò dalle osservazioni di John McCormick, che questa volta pertengono direttamente al mio libro sulla Democrazia sfigurata, con l’accusa di essere un lavoro polemico nello stile e nelle argomentazioni, e perfino poco magnanimo con gli autori che discute e critica. Devo confessare che non capisco questa critica, per due ragioni almeno. Prima di tutto poiché la critica di essere polemica mi è rivolta da un maestro di polemica: ricordo a questo proposito l’articolo di McCormick “Machiavelli and Republicanism” uscito sulla rivista Political Theory nel 2003, costruito interamente intorno e a partire dalla polemica contro la Cambridge School (sulla cui raffigurazione i membri di quella scuola non si sono probabilmente riconosciuti). In sintonia con quell’approccio contro-argomentativo (che egli chiama polemico) McCormick ha costruito la sua visione del repubblicanesimo di Machiavelli e di quello romano. Dunque, il maestro dovrebbe essere più comprensivo con l’allieva!

In secondo luogo, non mi è chiaro perché egli identifica la critica delle idee con la polemica. Nei mei capitoli critici non inveisco contro alcuno, né offendo nessuno. Isolo invece alcune idee e poi cerco di mostrare perché sono in tensione o in contraddizione con i principi democratici; mostro che esiste una pluralità di interpretazioni della democrazia che rendono le classiche definizioni, per esempio quella solo deliberativa o quella solo schumpeteriana, non soddisfacenti. Mettere in evidenza la pluralità delle interpretazioni e mostrare come le proposte epistemiche, o quelle populiste o quelle plebiscitarie non siano malattie, ma forme della democrazia, sue possibili espressioni facciali, se così si può dire: questo è quel che cerco di fare.

Ovviamente restringere in un capitolo la critica di una corrente di pensiero porta con se il rischio di semplificazione; ma è un rischio che si può e a mio parere si deve correre. Per esempio, per sviluppare l’analisi critica delle teorie epistemiche (che non sono qui un oggetto di discussione ma vorrei menzionare) mi concentro su uno o al massimo due autori distillando dai loro scritti principali il nucleo della teoria stessa che è il seguente: le teorie procedurali puramente politiche falliscono nel giustificare il dovere morale di obbedire alle decisioni collettive perché questo dovere può derivare solo dall’assunto che i risultati politici corrispondono a uno standard oggettivo di “verità”. Se la procedura non è orientata a produrre risultati veri non riesce a essere legittimata, anche se la decisione che genera è formalmente legittima. La parola “verità” è al centro della mia obiezione, che intende sostenere la specificità della deliberazione politica (che al massimo genera verosimiglianza, ma non verità) e la ragione per la quale la democrazia ha bisogno di un’arena pubblica nella quale ciascun cittadino si senta libero di partecipare e tratti gli altri come eguali, e nella quale la sorgente delle opinioni e delle informazioni può portare i partecipanti tutti a cambiare idea e a farlo senza interruzione. La libertà è allora il motore di questo meccanismo, non la ricerca della verità. Questa critica non mi pare oltraggiosa o ingenerosa.

La politica, come la discussione pubblica, presume un modello di razionalità che è endogeneamente discorsivo e per questo bisognoso di essere aperto alla diversità non solo come punto di partenza (come pensano gli epistemici) ma anche come punto di arrivo: ci sono differenze di visioni o interessi o di valori che non verranno mai risolti in una unica soluzione. La libertà e il pluralismo sono endogeni, fondamentali. Lo stesso argomento che vale per la democrazia vale per la rappresentanza politica la quale, come anche ha dimostrato Bernard Manin, non può esistere senza una comunicazione aperta e pubblica tra cittadini e istituzioni.

Questa è la figura della democrazia come diarchia alla quale mi riferisco cercando di integrare la concezione procedurale e la concezione deliberativa. Quindi, la valutazione delle procedure democratiche deve essere fatta badando a considerare che cosa esse promettono: non promettono soluzioni vere o corrette ma soluzioni che tengono aperta sempre la possibilità di cambiare, e quindi di rinnovare il dibattito e le maggioranze. Democrazia include il dissenso come sua condizione (il principio di maggioranza presuppone l’opposizione), e questo contraddice la visione epistemica e anche, a mio modo di vedere, la visione populista.

Se il populismo al potere è capace di tener fede a questi criteri di pluralismo e dissenso, allora esso accetta i fondamenti della democrazia rappresentativa, e quindi non è niente altro che una forma più intensa di maggioranza (una larga maggioranza tanto da essere a volte quasi consensuale). Ma allora, come isoliamo il populismo da altre visioni di democrazia? Che cosa esso ha di specifico che ce lo fa riconoscere rispetto a una maggioranza più intensa (un aspetto del libro che non viene discusso per nulla dai miei critici e che a mio modo di vedere è invece un tema molto importante)? Che cos’altro esso è, se non magari un’uscita dai fondamenti individualistici della democrazia costituzionale? E questo mi sembra che i suoi sostenitori vogliono che sia. Ma se così è, allora il populismo ha l’ambizione di creare il governo della maggioranza – questa è la sua vocazione. E qui può essere situata, come a me sembra, l’origine dei suoi problemi rispetto ai diritti e al pluralismo.

McCormick, come Del Savio e Mameli, mi accusa di non riconoscere che il populismo ha avuto diverse coniugazioni. E questo è davvero ingeneroso! Poiché dedico diverse pagine a distinguere tra forme d’essere dei movimenti (popolare e populista non sono la stessa cosa) e poi a riconoscere come il populismo abbia avuto diverse storie in diversi contesti (il caso degli Stati Uniti, per esempio). Più attenzione alla lettura e meno animosità sarebbe stata auspicabile. Di fatto, i miei critici trasformano le mie idee in polemica per poterle controbattere meglio.

Comunque, del populismo m’interessa vedere i problemi, non le cose che sono andate bene (come mi invita a fare invece McCormick). Perché è dalle cose andate male che possiamo meglio vedere gli attriti del populismo con la democrazia costituzionale. Scrive McCormick: “Urbinati è preoccupata dall’inesistenza di meccanismi di accountability iscritti nella logica del populismo, e dunque dalla possibilità che i molti – o più verosimilmente i loro demagoghi – possano usare appelli alla legittimità esistenziale del ‘popolo’ in modo da giustificare l’abrogazione delle norme democratiche e costituzionali. Ma questa preoccupazione è eccessivamente allarmista”. E perché sarebbe “eccessivamente allarmista”? E poi, che cosa vuol dire “eccessivamente”? Quale è il limite dell’allarme affinché di essi ci si debba preoccupare? Ci sono esperienze storiche effettive che devono far pensare alle contraddizioni messe in moto dai movimenti populisti quando diventano forze di governo. Non si tratta dunque di allarmismo (eccessivo o blando) ma di contraddizioni rispetto alla democrazia nella sua complessità, che non è solo regola di maggioranza, ma principio che regola, accetta e rispetta l’opposizione perché il suo fondamento è il rispetto della volontà e dell’opinione del cittadino singolo, non della massa.

Un esempio? La Lega Nord di Salvini: questo è un movimento populista che ha tutti i tratti della democrazia antiliberale. E che dire del movimento che in Ungheria ha conquistato la maggioranza e cambiato la costituzione per darle un carattere maggioritarista (ha McCormick mai letto la nuova costituzione ungherese?). Questi movimenti dimostrano l’esistenza di una interpretazione anti-individualista dei diritti e delle garanzie nel senso che essi interpretano diritti e garanzie come possessi della grande maggioranza, non degli individui (e quindi di chi non ha il potere del numero) perché interpretano la democrazia come il volere del popolo maggioritario, senza possibilmente intralci di diritti e contrappesi. In questa interpretazione, la massa è l’attore, non le sue componenti individuali, non i cittadini appunto (è questa la ragione della mia insistenza sulla dimensione isonomica della democrazia, che la forma rappresentativa non cambia o sovverte).

Ora: è vero che molto spesso, e soprattutto oggi, i movimenti populisti sono il segno di un malessere sociale ed economico. I sistemi liberali sono stati sepolti dai fascismi anche a causa di radicali crisi economiche che hanno impoverito larghe fasce di popolazione. Oggi siamo di nuovo in una situazione di grande sofferenza di molti. È di questa enorme diseguaglianza economica che le democrazie devono preoccuparsi. La politica populista è un segno di questa debolezza, ma dubito fortemente che possa essere la soluzione. Non lo è in Ungheria, non lo è stata in Venezuela. E non credo che la Lega Nord o il partito di Le Pen siano la soluzione che può salvarci dall’ingiustizia economica e sociale. Certo, ci sono anche populismi ‘buoni’ – vi prego di dirmi quali sono e ne discutiamo. In Europa, una democrazia che mette la massa o la nazione o il popolo tutto prima delle sue componenti è un problema, non ci ha mai dato soluzioni buone.

Se ci interessa, come interessa a miei interlocutori e a me, parlare della mutazione antiegualitaria delle società democratiche, dobbiamo portare il discorso oltre la politica e le sue procedure. Dobbiamo evitare di dare alla democrazia responsabilità che sono del sistema economico di capitalismo globale. Il populismo di oggi è il riflesso della debolezza degli stati nazionali, che non hanno più il potere di ordinare, di contrattare, di costruire piani industriali o piani energetici, che non riescono a fare politiche di redistribuzione e di giustizia sociale perché i loro esecutivi e i loro parlamenti sono stretti sotto il ricatto degli interessi bancari. Potremmo dire che le tensioni sociali che crescono ogni giorno sono il segno del compromesso che si è rotto tra lavoro e capitale, un compromesso che, dopo la Seconda guerra mondiale, ha accompagnato la nascita delle democrazie europee. All’interno di quel contesto, quello degli stati nazionali, capitale e lavoro erano due attori sociali ben organizzati e protagonisti di una trattativa non a perdere, non a somma zero.

La fine della Guerra Fredda, che comunque imponeva dei confini al mondo, ha cambiato il volto alle nostre società. Finché sulla mappa c’erano quei confini, all’interno del nostro mondo era possibile da parte di chi lavorava fare richieste e riuscire a ottenere risposte. Non essendo un mondo globalmente aperto, non era possibile accedere alle forze lavoro a costo zero del quarto o del quinto mondo per accumulare più profitti. Quei confini – per coloro che stavano dentro il primo mondo, dove era rinata la democrazia – hanno creato benessere, hanno reso possibile il controllo e l’esercizio del potere democratico, e l’equilibrio tra le classi. Il mondo aperto è un mondo maledetto per chi non ha potere. Un mondo senza confini ha serie difficoltà ad essere governato con l’arma del diritto e a coltivate l’eguaglianza su cui riposa la democrazia. Un mondo senza confini è una buona cosa per chi ha potere economico. È pessima per chi quel potere non ce l’ha. Ad esempio, per quella fascia di popolazione che si trova a competere con altri lavoratori, come quelli cinesi o del sud-est asiatico o africani, i quali potere non ne hanno, e nemmeno diritti sociali e sindacali, e che fanno concorrenza al lavoro occidentale protetto da diritti.

Qui sta il nocciolo del problema che i movimenti populisti mettono in luce, ma risolvono nel modo peggiore possibile quando puntano il dito accusatore contro gli immigrati, e propongono di togliere i diritti a chi non è parte della comunità di identici. Quando ridefiniscono gli spazi della politica in un modo tutto identitario: il pianerottolo davanti casa loro, la vita nel quartiere, nella regione, nella nazione. E allora, il diverso (chi parla un’altra lingua, chi ha una religione di minoranza, chi parla un dialetto non identico) diventa il nemico. E intanto chi ha il potere di manovrare le decisioni resta nell’ombra, lontano e invisibile.

Per molti populisti nostrani, il nemico è il vicino di casa, l’immigrato, il musulmano, il rom. Il populismo diventa quindi l’uso dell’ideologia del popolo da parte di una leadership determinata, che nel nome di quell’ideologia giustifica politiche di esclusione e autoritarie. Un’oligarchia di pochi, insomma, che cerca l’appoggio di una larga maggioranza, e spesso lo trova, quando questa maggioranza è fatta di cittadini di una nazione che soffrono una decurtazione dei diritti e del benessere. Certo, è un appoggio che si guadagna anche facendo cose lodevoli: Peron ha creato la classe media argentina, ha costruito una forte classe di dipendenti statali, ha creato per loro condizioni materiali di vita dignitose, ha dato loro le scuole … il tutto, a spese di tante altre cose, a partire dalla libertà politica, dalla divisione dei poteri, dal governo della legge … Insomma, il populismo può certamente essere un “grido di dolore”, come scrive McCormick, ma raramente può essere una cura buona a quel dolore.

Se si pensa che la diseguaglianza economica sia il problema, allora occorre andare oltre le proposte procedurali. Torniamo a parlare di lotta di classe: questo mi sembra più pertinente delle proposte molto problematiche come la costruzione per legge di due classi, quella dei pochi e quella dei molti (e quanti gradini sono ammessi tra i molti? E perché la soglia del reddito proposta da McCormick per discriminare pochi e molti dovrebbe essere accettata per buona?). Queste politiche “romane” o massificanti sono problematiche, non meno discrezionali di quelle esistenti e classiste perché introducono altri piani di discrezionalità che forse sono peggiori dei rimedi.

È quindi forviante portare sul terreno delle procedure un problema che è economico e di classe. Si pensa davvero che togliendo il libero mandato si porti giustizia nella società come pensano Del Savio e Mameli? Si pensa davvero che sostituendo il referendum e il plebiscito alle elezioni dei rappresentanti si risolva il problema del dominio del capitalismo finanziario sugli stati? La storia ci dà esempi contrari: alla democrazia plebiscitaria si sono rivolti proprio coloro che nel nome degli interessi del popolo o della nazione hanno tratto profitto per sostituirsi alla vecchia classe dirigente. La posizione di Del Savio e Mameli è oltre che lacunosa, ingenua. Ed è un’aporia. Infatti, da un lato mi accusano di voler usare le procedure per difendere lo status quo capitalistico (!!) e di proporre una democrazia non sostanziale ma formale e procedurale, dall’altro propongono di risolvere la diseguaglianza di classe con soluzioni che sono solo procedurali (Marx li criticherebbe di riformismo ingenuo). Insomma accusano me di difendere il capitalismo, perché difendo il mandato libero e poi, invece di andare con coraggio dove le loro premesse li potrebbero portare (cioè a Stato e rivoluzione di Lenin), propongono semplicemente di riscrivere l’Articolo 3 della Costituzione italiana!

Ma se davvero le procedure sono così di poco conto, se mi si accusa di difendere lo status quo perché sostengo che la democrazia vive nelle procedure, allora non si capisce perché i miei critici finiscano per proporre di riformare le procedure (appunto mandato imperativo e plebiscito). Ma, con buona pace della loro volontà riformatrice, io penso che dobbiamo preferire l’attuale dicitura dell’Articolo 3 della nostra Costituzione. La nuova dicitura è infatti cosi aperta all’interpretazione discrezionale da lasciare ai magistrati o alla maggioranza o alla forza un potere interpretativo esorbitante. Ecco il testo modificato del secondo comma dell’Articolo 3: “E’ dunque compito della Repubblica rimuovere quelle diseguaglianze economiche e sociali che interferiscono con l’eguale partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese…”. L’espressione “quelle diseguaglianze che interferiscono” è una porta spalancata alla discrezione – infatti chi lo decide quali sono “quelle” diseguaglianze che “interferiscono” con l’eguale partecipazione? Una costituzione dovrebbe consentire di risolvere i dissensi non di scatenarli: questa riscrittura sarebbe una iattura e la porta aperta alle ostilità, poiché in una democrazia nessuno ha in mano la bilancia politica per decidere senza ombra di dubbio “quali siano” quelle diseguaglianze che “interferiscono” sulla decisione volontaria di partecipare (o di non partecipare?). Alla riforma dell’Articolo 3 proposta dai nuovi populisti dovremmo preferire la dicitura di Lelio Basso, che non era un populista ma un proceduralista politico, per tanto molto attento alle condizioni della partecipazioni politica. Tra le quali, il denaro.

Secondo i miei lettori, quello del denaro privato in politica sarebbe solo un piccolo problema, anzi un non problema. Eppure, noi stiamo assistendo ad una trasformazione oligarchica della politica che si fa strada immettendo soldi privati: questo si ricava dalla privatizzazione dei partiti, dalla privatizzazione dei deputati eletti, dalla privatizzazione dei mezzi di informazione. Di fronte a questi scempio del pubblico e della politica democratica, i populisti non si scompongono: a loro interessa che si facciano più plebisciti e più referendum!

«La sini­stra ita­liana ha tar­dato molto a rico­no­scere la natura della crisi: in par­ti­co­lare il suo carat­tere strut­tu­rale e la sua dimen­sione mon­diale. Un ritardo che le ha impe­dito di pre­di­sporre gli stru­menti neces­sari per affron­tarla in modo ade­guato; e che spiega le dif­fi­coltà e lo smar­ri­mento in cui essa è venuta tro­van­dosi, mal­grado i suoi per­si­stenti suc­cessi, rispetto ai pro­blemi reali del paese e del mondo».

A leg­gere sem­bra un inter­vento di que­sti giorni. Si tratta invece dell’inizio della rela­zione di Lucio Magri (il secondo rela­tore era Vit­to­rio Foa) al semi­na­rio “Uscire dalla crisi o dal capi­ta­li­smo in crisi” tenuto ad Aric­cia l’8 e il 9 feb­braio 1975: quasi quarant’anni fa. Lucio Magri non era un pro­feta, ma ana­liz­zava e giu­di­cava lo stato pre­sente della crisi, nel 1975. L’attuale crisi sto­rica si era aperta già allora, ma fu assunta come una con­giun­tura, anche se seria, ma mai seria­mente ana­liz­zata e tan­to­meno affron­tata. Manca soprat­tutto l’analisi: anche oggi si ten­tano cure, ma senza un’accurata dia­gnosi del male. Un ten­ta­tivo è nel volu­metto “Una crisi mai vista”, pub­bli­cato a fine novem­bre dalla Mani­fe­sto­li­bri (si trova in edi­cola e in libre­ria) con con­tri­buti di Alberto Bur­gio, Pier­luigi Ciocca, Luigi Fer­ra­joli, Fran­ce­sco Indo­vina, Gior­gios Katrou­ga­los, Gior­gio Lun­ghini, Gio­vanni Maz­zetti, Enrico Pugliese, Guglielmo Ragoz­zino, José Maria Ridao. Dal quel 1975 si sono suc­ce­duti più di una decina di governi (fac­cio un po’ di nomi: Moro, Andreotti, Cos­siga, Spa­do­lini, Fan­fani, Craxi, De Mita, Amato, Ciampi, Prodi, Ber­lu­sconi e anche Monti).

Non tutti que­sti governi si sono com­por­tati allo stesso modo, ma nes­suno ha messo la crisi al primo posto della sua agenda e sta di fatto che stiamo affo­gando nel capi­ta­li­smo in crisi. La sini­stra è ridotta ai minimi ter­mini, par­titi dis­solti, sin­da­cati in crisi per la cre­scita della disoc­cu­pa­zione, le inno­va­zioni tec­no­lo­gi­che, le poli­ti­che dei vari governi, fon­da­men­tal­mente anti­o­pe­raie. L’attuale governo di Mat­teo Renzi pro­cede con misure rea­zio­na­rie, oltre che pro­vin­ciali. Anche la mon­dia­liz­za­zione viene affron­tata senza mini­ma­mente avere coscienza di come pro­gresso pro­dut­tivo e tec­no­lo­gie della comu­ni­ca­zione ci met­tono di fronte a una situa­zione del tutto nuova.

Crisi eco­no­mica, crisi finan­zia­ria, man­canza di una vera unità euro­pea – la Ger­ma­nia va per i fatti suoi — inde­bo­li­mento delle ban­che cen­trali, com­presa la Banca d’Italia, disat­trez­zate e impo­tenti di fronte alle novità della crisi. Su que­sto vor­rei citare il pre­zioso volu­metto di Pier­luigi Ciocca con un titolo di mas­sima ele­quenza: “La Banca che ci manca. Le ban­che cen­trali, l’euro, l’instabilità del capi­ta­li­smo”, pub­bli­cato da Donzelli.

In que­sto qua­dro dif­fi­cile, e anche peri­co­loso, non sono affatto da sot­to­va­lu­tare le ten­sioni inter­na­zio­nali (Ucraina) e il cre­scere dei flussi migra­tori verso paesi che non sono più in grado – come nel pas­sato – di uti­liz­zare que­sti aumenti di popo­la­zione, con la minac­cia di con­flitti pericolosi.

E la nostra Ita­lia di oggi? Che sta affon­dando nelle paludi acide di que­sta lunga e pro­fonda crisi? Mat­teo Renzi non durerà a lungo, ma a cosa aprirà le porte? Tempi peri­co­losi ci aspet­tano. Biso­gna resi­stere, e per resi­stere lavo­rare anche in pic­coli gruppi per un’analisi seria della crisi attuale, e su que­sto impe­gno for­mare mino­ranze attive che por­tino a ini­zia­tive poli­ti­che e cul­tu­rali, soprat­tutto per ten­tare di ripren­dere il cam­mino verso una società libera dalle catene di un capi­ta­li­smo in mas­sima crisi. Speriamo

«Questione morale . Un ruolo-chiave lo ha svolto l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie». Come dimentica presto Berlinguer chi ancora abita sotto le tende del PMR, trascinando tutti noi nella vergogna! Il

manifesto, 5 dicembre 2014

«I par­titi di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gesti­scono tal­volta inte­ressi loschi, senza per­se­guire il bene comune. La loro stessa strut­tura orga­niz­za­tiva si è ormai con­for­mata su que­sto modello. Non sono più orga­niz­za­tori del popolo, for­ma­zioni che ne pro­muo­vono la matu­ra­zione civile: sono piut­to­sto fede­ra­zioni di cama­rille, cia­scuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco per­ché dico che la que­stione morale è il cen­tro del pro­blema ita­liano. Se si con­ti­nua in que­sto modo, in Ita­lia la demo­cra­zia rischia di restrin­gersi e di sof­fo­care in una palude». A quanti sono tor­nate in mente in que­ste ore le parole di Enrico Ber­lin­guer nella famosa inter­vi­sta alla Repub­blica del feb­braio 1981? Sono tra­scorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge.

Nel ven­ti­cin­que­simo della morte ci si ricorda final­mente di Leo­nardo Scia­scia. Anche Scia­scia lan­ciò l’allarme. «La palma va a nord», scrisse: mar­cia alla con­qui­sta del paese. Allu­deva al modello sici­liano d’impasto tra poli­tica e mafia.

Un impa­sto nel quale dap­prin­ci­pio la mafia inti­mi­di­sce e cor­rompe, poi pene­tra le isti­tu­zioni e si fa Stato. Ripe­tu­ta­mente Scia­scia mise in guar­dia dal rischio che que­sto modello si gene­ra­liz­zasse. Oggi fin­giamo di sco­prire che mafia e ‘ndran­gheta si sono sta­bi­lite a Milano e con­trol­lano vasti set­tori dell’economia nazio­nale. E guar­diamo atter­riti al nuovo romanzo cri­mi­nale della mafia romana, edi­zione aggior­nata di quell’universo orrendo che ruo­tava intorno alla banda della Magliana, coin­vol­gendo anche allora mafia, poli­tica e ter­ro­ri­smo neofascista.

In que­sti trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine con­tro il malaf­fare. Lo si è asse­con­dato, lo si è favo­rito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di cra­xiana memo­ria. Della Milano da bere e del patto scel­le­rato tra Stato e capi­tale pri­vato che aprì le vora­gini del debito pub­blico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la poli­tica usata (con la com­pli­cità di gran parte della «sini­stra») per sal­vare le aziende di fami­glia; la lega­liz­za­zione dei reati finan­ziari; l’esplosione delle ine­gua­glianze. E ven­nero le «riforme isti­tu­zio­nali» che, pro­prio per ini­zia­tiva della sini­stra post-comunista, die­dero avvio allo stra­vol­gi­mento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo dise­gnata in Costituzione.

Il pre­si­den­zia­li­smo negli enti locali ha reso le isti­tu­zioni più fra­gili e per­mea­bili ai clan anche per effetto di un appa­rente para­dosso. L’accentramento mono­cra­tico del comando è andato di pari passo con la disar­ti­co­la­zione dei par­titi poli­tici, cul­mi­nata nella farsa delle pri­ma­rie aperte. Que­sto pro­cesso ha da un lato azze­rato la dimen­sione par­te­ci­pa­tiva e la fun­zione di orien­ta­mento cul­tu­rale svolta in pre­ce­denza dai par­titi di massa; dall’altro ha pro­mosso una sele­zione per­versa del ceto politico-amministrativo, pre­miando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i par­titi – soprat­tutto i mag­giori – si sono ritro­vati sem­pre più spesso alla mercé delle con­sor­te­rie e delle cupole, secondo un mec­ca­ni­smo ana­logo a quello che in altri tempi per­mise a Cosa nostra di coman­dare nella Palermo di Lima, Cian­ci­mino e Gioia.

Ma un ruolo-chiave, in que­sto disa­stro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedi­cente liqui­da­zione delle ideo­lo­gie: l’avvento di una poli­tica che si pre­tende post-ideologica, che ha signi­fi­cato in realtà il con­gedo di gran parte della sini­stra ita­liana dalle lotte del lavoro e da una pro­spet­tiva cri­tica nei con­fronti degli spi­riti ani­mali del capi­ta­li­smo. Non è neces­sa­rio, certo, essere comu­ni­sti per com­pren­dere che mora­lità e buona poli­tica sono stret­ta­mente con­nesse tra loro nel segno del pri­mato della giu­sti­zia e del bene comune. Né in linea di prin­ci­pio ade­rire senza riserve alle ragioni del capi­ta­li­smo impe­di­sce di rico­no­scere l’importanza della que­stione morale e di essere «one­sti», per ripren­dere un lemma sul quale si è ancora di recente dibat­tuto. Ma se della mora­lità e dell’onestà non si ha una con­ce­zione povera e astratta, allora si com­prende facil­mente che entrambe coin­vol­gono diret­ta­mente il modo in cui si giu­di­cano l’ingiustizia sociale e il per­si­stere dei pri­vi­legi.

Non è un caso che, riflet­tendo sulla que­stione morale, Ber­lin­guer in quella stessa inter­vi­sta parli pro­prio di que­sto. Della neces­sità di difen­dere «i poveri, gli emar­gi­nati, gli svan­tag­giati» e di met­terli dav­vero in con­di­zione di riscat­tarsi. Non è un caso che riven­di­chi le lotte del movi­mento ope­raio e dei comu­ni­sti, non sol­tanto con­tro il fasci­smo e con gli ope­rai, ma anche al fianco dei disoc­cu­pati e dei sot­to­pro­le­tari, delle donne e dei gio­vani. Né è casuale che insi­sta sulle gravi distor­sioni, gli immensi costi sociali, le dispa­rità e gli enormi spre­chi gene­rati dal «tipo di svi­luppo eco­no­mico e sociale capi­ta­li­stico». Per con­clu­derne che esso – «causa non solo dell’attuale crisi eco­no­mica, ma di feno­meni di bar­ba­rie» – deve essere supe­rato, pena il veri­fi­carsi di una cata­strofe sociale «di pro­por­zioni impensabili».

Oggi come allora la que­stione morale inve­ste fron­tal­mente la poli­tica anche per que­sta via: è una fac­cia della sua com­ples­siva dege­ne­ra­zione. Non si tratta sol­tanto di ille­ga­lità, ma anche di irre­spon­sa­bi­lità di fronte alla deva­sta­zione sociale pro­vo­cata da trenta e passa anni di domi­nio del mer­cato, del capi­tale pri­vato, dell’interesse par­ti­co­lare. Que­stione morale e irre­spon­sa­bi­lità sociale della poli­tica non sono, qui e ora, feno­meni indi­pen­denti tra loro, bensì mani­fe­sta­zioni della stessa patologia

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