Fornire armi all'avversario, quando non è tradimento della ragione per cui si lotta, è una stupidaggine sesquipedale.
Il manifesto, 24 dicembre 2014
Opporsi alla grande, inutile e dannosa Tav che buca le montagne della Val Susa è ormai, e per fortuna, diventato persino senso comune. Decenni di lotte durissime e solitarie prima di arrivare finalmente al convincimento di una larga maggioranza di cittadini. Anche grazie alla “grande opera” di informazione capillare e autorevole.
Proprio per questo le recenti e continuate azioni di sabotaggio delle linee ferroviarie usate normalmente dagli italiani (e specialmente in questi giorni di feste natalizie) sono il modo migliore per togliere consenso a tutto quello che il movimento NoTav ha saputo costruire negli anni.
Bruciare i cavi nei pozzetti che alimentano la circolazione dei treni sono sì un “atto dimostrativo”, ma di cretinismo politico di rara natura. Che ben s’accoppia con gli allarmismi del nostro ministro delle Infrastrutture che grida al “terrorismo”. Senza che (finora) ci sia stata rivendicazione, e con quella scritta NoTav che non si capisce da quanto tempo fosse lì. Più accorto si è dimostrato il presidente Renzi parlando di “sabotaggio”.
Certo la ribalta mediatica è assicurata, ma lo sono anche le maledizioni delle migliaia di persone che in queste ore si mettono in viaggio con già abbastanza problemi da risolvere e con nessuna voglia di doverne sopportare un carico aggiuntivo. Da parte di chi, magari, pensa di praticare scorciatoie che come sempre nella storia finiscono su un binario morto
«Jobs act. Niente articolo 18, allargamento alle procedure collettive e alle aziende che passano sopra i 15 addetti. Ecco il nuovo contratto. Il consiglio dei ministri vara il primo decreto: licenziare sarà più facile e costerà meno alle imprese. Damiano: "Norme da cancellare"».
Il manifesto, 24 dicembre 2014
Il pacco di natale lo stanno infiocchettando direttamente a palazzo Chigi. Questa mattina sarà il consiglio dei ministri a scartarlo, sebbene il contenuto difficilmente sarà noto subito ai lavoratori italiani in tutte le sue parti: come al solito ci si limiterà agli annunci. Renzi venderà il contratto a tutele crescenti come un modo per dare lavoro ai giovani e combattere la precarietà.
In realtà sostituisce in toto il contratto a tempo indeterminato: c’è già la fila di aziende pronte a licenziare i propri lavoratori e a riassumerli col nuovo contratto. Il primo decreto delega del Jobs act sancirà comunque la cancellazione dell’articolo 18 dalla legislazione italiana.
Dopo 44 anni di vita, il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa rimarrà solo per i licenziamenti di tipo discriminatorio, tutelati dalla Costituzione, che per fortuna non era oggetto della delega in bianco votata dal parlamento al governo.
Per il resto la libertà di licenziamento propagandata dai consiglieri economici di Matteo Renzi - il bocconiano Tommaso Nannicini, Yoram Gutgeld e il responsabile economia Pd ed ex civatiano Filippo Taddei - sarà sostanzialmente totale. Con il ministro del lavoro Giuliano Poletti nel ruolo di mediatore rispetto alle richieste sponsorizzate da Maurizio Sacconi e Pietro Ichino.
Anche l’unica piccola vittoria della minoranza Pd - il ripristino del reintegro in alcuni casi di licenziamenti disciplinari - sarà superato dalla cosiddetta opting out: la possibilità per l’azienda di scegliere di pagare un indennizzo al posto del reintegro. Con il contentino per i lavoratori di ricevere la cifra a tassazione agevolata.
La quantificazione degli indennizzi è già stata fissata e riduce di molto i livelli previsti dalla riforma Fornero: per le aziende fino a 15 dipendenti si prevede una mezza mensilità per ogni anno di anzianità, per quelle da 16 a 200 dipendenti si salirebbe a 1,5 mensilità per anno, sopra i 200 dipendenti si andrebbe a due mensilità per anno. Il tetto massimo per i dipendenti con più anzianità sarebbe invariato a 24 mensilità. Per ovviare al rischio che ai datori di lavoro convenga assumere e poi licenziare dopo un anno, sfruttando gli incentivi sui nuovi assunti previsti in legge di stabilità, il governo sembra orientato ad aumentare a 3 mensilità l’indennizzo per il licenziamento dopo un solo anno.
Ma la novità di giornata peggiore per i lavoratori italiani riguarda la ventilata possibilità di allargare tutta la partita in modo spropositato: la nuova normativa sul contratto a tutele crescenti riguarderebbe infatti non solo i licenziamenti individuali ma anche i licenziamenti collettivi. Andando quindi ad intervenire su tutte le gestioni delle crisi aziendali regolate dalla legge 223 del 1991, ora usata in caso di esuberi. In questo modo c’è il rischio reale che le imprese scelgano chi licenziare scavalcando i criteri che oggi impogono un tentativo di conciliazione di 75 giorni con i sindacati e - soprattutto - criteri precisi per l’individuazione del personale in esubero, tutelando chi ha carichi familiari. Insomma, un colpo di mano che permetterebbe agli imprenditori di disfarsi come e quando vogliono di chi sciopera, di chi contesta, di chi non gli aggrada.
In più nella bozza di palazzo Chigi è prevista una norma che consentirà alle aziende ora sotto i 15 dipendenti che aumentino la loro forza lavoro di applicare a tutti i loro lavoratori il nuovo contratto a tutele crescenti, eliminando quindi per tutti la tutela dell’articolo 18 che derivava dall’aver appunto superato quota 15 addetti. Verrebbe così superato l’ostacolo sempre strombazzato dalla destra liberale: «In Italia le piccole aziende non assumono perché sopra i 15 dipendenti c’è l’articolo 18».
L’ultima beffa per i lavoratori - ieri data per meno probabile - riguarda la possibilità di licenziamento per scarso rendimento. Anche in questo caso a stabilire se il lavoratore sia poco produttivo sarebbe esclusivamente l’imprenditore, mentre al lavoratore non rimarrebbe che dimostrare di essere stato licenziato per discriminazione.
Possibile poi che il consiglio dei ministri vari il secondo decreto delega, quello sugli ammortizzatori sociali. L’Aspi della Fornero dovrebbe essere esteso anche ai co .co .pro - contratto che Renzi ha promesso di cancellare - allungandone la copertura. Ma senza risorse pare una manovra assai complicata perfino utilizzando i fondi - 500 milioni - per la cassa in deroga: anche questi lavoratori dovrebbero esserne coperti e quindi non si capisce come aumenterebbero.
«Ieri il Papa si è rivolto alla Curia romana, ma le sue parole colpiscono praticamente tutti gli organi di potere dell’odierna società, dalla politica all’economia, dalle università ai tribunali, in Italia e ovunque nel mondo. Al primo posto la "malattia di sentirsi immortale e indispensabile"».
La Repubblica, 23 dicembre 2014
VIVA il Papa e abbasso la Curia!, verrebbe spontaneo gridare dopo il magnifico e severo discorso che papa Francesco ha rivolto ieri ai responsabili della Curia romana. Il discorso con un’analisi ammirevole e coraggiosa elenca ben quindici malattie che secondo il Papa aggrediscono l’organismo di potere vaticano, ma in realtà si tratta di un’analisi perfettamente estendibile a tutte le altre nomenclature, a tutte le corti che nel mondo si formano inevitabilmente attorno a chi detiene il potere. Ieri il Papa si è rivolto alla Curia romana, ma le sue parole colpiscono praticamente tutti gli organi di potere dell’odierna società, dalla politica all’economia, dalle università ai tribunali, in Italia e ovunque nel mondo. Tra le malattie della mente e del cuore dei burocrati vaticani e non, il Papa pone al primo posto ciò che definisce (1) la «malattia del sentirsi immortale o indispensabile», vale a dire l’identificazione del proprio sé con il potere.
«Il problema è che chi già detiene posizioni di potere è molto restio a cederle e ha molte armi per difendersi. Tanto più in politica, dove da tempo è giunta al vertice una classe dirigente «pura», priva d’ogni contatto con la società».
Il manifesto, 19 dicembre 2014 (m.p.r.)
Il Presidente, se è permesso semplificare, è risalito alla crisi del ’92–94 imputandola ad «abusi di potere, catene di corruzione, inquinamenti nella selezione dei candidati a incarichi pubblici e in generale nei meccanismi elettorali». Dopo quella crisi, tuttavia, una salutare opera di risanamento sarebbe stata a suo dire intrapresa, conseguendo «risultati non certo irrilevanti». Qualcosa, il Presidente Napolitano riconosce, «allora mancò». Ma la critica antipolitica si è ostinatamente rifiutata di riconoscere sia i risultati allora conseguiti, sia gli «impegni concreti e ulteriori passi sulla via del rinnovamento».
Ma proprio su questa affermazione è legittimo avanzare dubbi. Perché se Mani Pulite sanzionò un vistoso e protratto decadimento della vita pubblica, il ventennio successivo è stato molto peggio. Anzi: c’è motivo di ritenere che le risposte allora allestite, ovvero, nelle parole del Presidente, il «rimescolamento assai vasto dei gruppi dirigenti dei partiti, addirittura con la scomparsa o dispersione di alcuni di essi» e «la riforma delle leggi elettorali per il Parlamento e per i Comuni», anziché migliorare la situazione l’abbiano aggravata. Il Presidente non può forse dirlo, ma l’Italia sta uscendo con le ossa rotte — economicamente e moralmente — da un ventennio «berlusconiano» di cui gli scandali romani sono solo la più recente, ma forse non l’ultima, manifestazione.
Ci sarebbe cioè da stupirsi se, dopo vent’anni di così disastroso malgoverno, non fossero comparse «rappresentazioni distruttive del mondo della politica». Ha ragione il Presidente a ricordare che non tutto è andato storto. Nel Mezzogiorno, ad esempio, si sono registrati apprezzabili progressi nella lotta al crimine organizzato. Ma non si può negare che gli italiani mediamente stiano peggio e che la vita pubblica sia afflitta da inefficenze e fallimenti d’ogni sorta. Il costo del ventennio che il paese sta pagando è altissimo. Sappiamo bene che tutto si regge: il malgoverno ha impedito di affrontare adeguatamente il declino industriale, il debito pubblico è cresciuto a dismisura perché il paese non cresceva e sprecava per ragioni di consenso e in malaffare. Adesso le spietate misure di risanamento imposte dall’Europa stanno strangolando l’economia e l’intera società. E gli unici rimedi pare siano l’abolizione del Senato, un’ indecente legge elettorale, la rimozione manu militari dell’art. 18 e le Olimpiadi a Roma nel 2024.
Presidente, come si fa a non essere antipolitici in queste condizioni? Eppure, Napolitano una parte di ragione ce l’ha. L’antipolitica si nutre dei fallimenti della politica, ma pure dei discorsi irresponsabili pronunciati contro di essa. Discorsi che oggidì possiamo attribuire a Grillo e a Salvini, ma che sono stati pronunciati anche da molti altri. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.
L’antipolitica risale a molto indietro nel tempo. Era antipolitica già il movimento referendario dei primi anni 90. È stato antipolitica il leghismo, ma anche il berlusconismo, che l’ha anzi portata al governo. E, per venire a casi più recenti, Renzi non scherza affatto in materia. Non lesina espressioni offensive nei confronti degli avversari politici e non risparmia demagogici appelli al popolo sovrano. A ben vedere, un po’ di antipolitica l’ha fatta anche Lei, Signor Presidente, quando, collassato il berlusconismo, anziché seguire la via maestra delle urne, commissariò la politica chiamando a Palazzo Chigi un Sommo Tecnico, che aggiunse disastro a disastro.
Come se ne esce? La ricetta è tanto semplice quanto irrealizzabile. Rimettendo in moto economia, società e politica. Una delle ragioni della corruzione dilagante è lo stallo dell’economia, le cui classi dirigenti cercano di rifarsi corrompendo la politica dei loro insuccessi sul mercato, esattamente come invece che fare impresa fanno finanza. Non solo gran parte della classe politica, ma anche una buona parte della classe dirigente economica sarebbe da cambiare. Il problema è che chi già detiene posizioni di potere è molto restio a cederle e ha molte armi per difendersi. Tanto più in politica, dove da tempo è giunta al vertice una classe dirigente «pura», priva d’ogni contatto con la società, cresciuta dentro le attività rappresentative e di governo e mai adoperatasi nella cura della militanza e dell’elettorato. Renzi incarna questo modello come nessun altro. Solo che il modello del politico «puro» è in giro da un pezzo. Dagli anni 70 in poi, allorché pure nel Pci il partito degli amministratori travolse quello dei militanti. Le ragioni dell’antipolitica cominciarono a montare in quel momento. Gli amministratori, era successo già nella Dc e nel Psi, avevano meno remore morali dei militanti. La questione morale berlingueriana fu archiviata. Gli scandali si accelerarono, crebbe il malumore e qualcuno cominciò a cavalcarlo seminando antipolitica. Lo cavalcarono anche amministratori e aspiranti amministratori di tutti i partiti - specie i politici «puri» - con un preciso obiettivo: decidere e non mediare, ossia liberarsi di tutti gli oneri che comporta una politica socialmente radicata. Pragmatismo anziché ideologia.
Accantonata quella che Rita Di Leo ha definito la politica-progetto, la crescita dell’antipolitica diventò incontenibile. Anzi, è divenuta un florido business. Le riforme istituzionali dei prima anni 90, le suggestioni leaderistiche che hanno alimentato, l’abbattimento degli obsoleti e burocratici controlli di legalità, figlie dell’antipolitica, non hanno curato il malaffare, ma l’hanno aggravato. E Grillo e Salvini, signor Presidente, non sono i soli che ci speculano sopra.
«Un partito-ombra, totalmente sconosciuto agli elettori, in grado di gestire i traffici di appalti e tangenti. E perfino di cambiare le leggi e condizionare le decisioni del parlamento per garantire l'impunita».
LEspresso, 25 dicembre 2014
«I 500 marchi riconducibili ai dieci signori della tavola sono spesso vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri».
La Repubblica, 19 dicembre 2014 (m.p.r.)
Stanno seduti intorno alla tavola del mondo e controllano da soli più del 70 per cento dei piatti del pianeta. Sono i 10 signori dell’industria alimentare: 450 miliardi di dollari di fatturato annuo e 7.000 miliardi di capitalizzazione, l’equivalente della somma del pil dei paesi più poveri della Terra. Non sempre sono nomi noti in Italia. Da un secolo la Coca Cola è il sinonimo della multinazionale ma solo gli addetti ai lavori conoscono la Mondelez. Un po’ più numerosi sono gli italiani che ricordano la Kraft, vecchio nome proprio della Mondelez. Quasi tutti invece hanno incontrato al supermercato marchi come Toblerone, Milka e Philadelphia. «I 500 marchi riconducibili ai dieci signori della tavola — spiega Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia — sono spesso vissuti dai consumatori come aziende a sé stanti. In realtà fanno parte di multinazionali in grado di condizionare non solo le politiche alimentari dell’Occidente ma anche le politiche sociali dei paesi più poveri».
A rendere chiaro il quadro c’è il paradosso del ricco Epulone, il protagonista della parabola evangelica. Mentre sono 900 milioni le persone che soffrono la fame (dati Onu settembre 2014) e che vivono sotto la tavola del banchetto sperando nelle briciole, sono 1,4 miliardi gli uomini e le donne che nel mondo hanno il problema del sovrappeso. «Sono due prodotti dello stesso sistema — osserva Barbieri — perché l’80 per cento di coloro che non riescono a sfamarsi vivono nelle campagne e lavorano per produrre cibo». Oxfam è un’organizzazione che si propone di aiutare le popolazioni povere del mondo cercando di redere virtuosi, con campagne e raccolte di firme, i comportamenti delle multinazionali del cibo. Il sistema è quello di fare pressione sull’immagine dei gruppi alimentari in Occidente per spingerli a migliorare le politiche sociali nei paesi produttori. È accaduto con Nestlé, Mondelez e Mars per quel che riguarda i diritti delle donne che lavorano nelle piantagioni di cacao. Si chiede che accada con Coca Cola e Pepsi per evitare il fenomeno del land grabbing, l’esproprio forzoso delle terre dove si coltiva la canna da zucchero. «Già oggi - spiega Oxfam - sono coltivati a zucchero 31 milioni di ettari di terra, l’equivalente della superficie dell’Italia».
La tendenza alla concentrazione dei marchi è in atto da tempo e riguarda praticamente tutti i settori alimentari. Ci sono eccezioni quasi inevitabili come il latte e il vino. Stiamo naturalmente parlando di grandi multinazionali. Ma se nel settore vinicolo il blocco alla creazione di grandi gruppi è dovuto a un legame strettissimo con il territorio (ogni collina è una diversa cantina sociale), nella birra non è più così da tempo: i tre principali marchi mondiali, i belgi in In Bev (Artois, Beck’s e la brasiliana Anctartica), i sudafricani di SAB Miller e gli olandesi di Heineken controllano da soli il 60 per cento del fatturato mondiale e raccolgono l’80 per cento degli utili. Analoga concentrazione sta per avvenire nel settore del caffè. «L’esempio della birra — spiega Antonio Baravalle, ad di Lavazza — dimostra che nei settori dell’alimentare la concentrazione delle proprietà fa aumentare i profitti». Dunque c’è da immaginare che nei prossimi anni i dieci signori che governano le tavole del mondo si ridurranno ancora? «Penso che ci sia un limite. Fondersi ancora di più non sarà facile. Mi sembra più probabile che ciascuno di quei dieci gruppi assorba nel tempo altri gruppi minori».
Anche se, a ben guardare la composizione della tavolata, non tutti i signori del cibo hanno la stessa consistenza. Provando a metterli in fila per fatturato, la Nestlé è di gran lunga più grande (90,3 miliardi) della seconda classificata, la Pepsicola (66,5 miliardi). Nonostante il suo valore iconico, come si dice oggi, la Coca Cola è ben distaccata dalla storica rivale ed è ferma a 44 miliardi di fatturato, scavalcata da Unilever (60) e Mondelez (55). A fondo classifica la Kellogg’s con 13 miliardi di dollari di ricavi annui. Con queste marcate differenze tra i dieci primi in classifica c’è, in teoria, ancora spazio, per i matrimoni. «Ma può anche accadere - spiega Baravalle - che uno dei grandi gruppi decida di liberarsi di un marchio perché non lo considera abbastanza globale». È quel che è successo, ad esempio, con la scelta di Mondelez di cedere i suoi marchi del caffè. Ed è quel che è accaduto negli anni scorsi a Findus, un tempo di Nestlé e Unilever e oggi in maggioranza detenuta da un fondo di investimento. Findus continua ad essere un ottimo marchio ma il suo difetto, secondo le valutazioni delle multinazionali, è quello di essere forte solo su alcuni mercati. Un’altra tendenza è quella di rilevare un marchio alimentare locale perché faccia da veicolo alla penetrazione di un grande gruppo in un mercato. Se Unilever, per esempio, deciderà un giorno di acquistare un marchio locale in un paese asiatico, lo farà soprattutto per mettere piede in quel mercato e poterlo affiancare dopo poco tempo con uno dei suoi brand globali.
Dopo altri decenni di fusioni e concentrazioni, ci troveremo un giorno a consegnare ad un unico grande fratello le chiavi della dispensa del mondo? Quello di un pianeta in cui una sola grande multinazionale controllerà tutti i marchi alimentari è certamente uno scenario da incubo. Ma come tutti i processi di concentrazione, anche quello del cibo crea inevitabilmente i suoi anticorpi. Succede in politica, dove contemporaneamente alle unioni tra stati nascono i movimenti separatisti e territoriali; accade, in modo assai più virtuoso, nell’alimentare con il sorgere dei prodotti chilometro zero, i presidi territoriali, i sistemi di produzione artigianale. Chi decide di resistere alla tentazione di vendere l’azienda alle multinazionali è inevitabilmente portato a valorizzare il suo brand mettendo in evidenza il legame con il territorio.
L’Italia è certamente uno dei Paesi del mondo dove il rischio della concentrazione dei produttori di alimenti è meno forte. Un po’ per il particolarismo che caratterizza la nostra economia asfittica. Un paese dominato dal modello per molti aspetti negativo della piccola e media impresa, che nel settore del cibo potrebbe trasformare il difetto in virtù. Lo dimostra uno studio condotto dall’agenzia Next con un questionario rivolto alle aziende alimentari italiane. L’elenco di quelle principali dice che siamo ben al di sotto del livello dei colossi mondiali. L’unica che si avvicina per fatturato è la Ferrero, con 8,1 miliardi di euro di ricavi annui, circa 10 miliardi di dollari, poco meno dei 13 miliardi della Kellogg’s. Le altre sono molto più indietro. La Barilla fattura 3,5 miliardi di euro ed è limitata dal fatto di avere come business un prodotto molto connotato localmente come la pasta. Si contano sulle dita di una mano le altre italiane sopra il miliardo di fatturato: il gruppo Cremonini (3,5) Parmalat (1,4), Amadori (1,3) Lavazza (1), Conserve Italia (1). Immediatamente sotto il livello del miliardo ci sono Acqua San Benedetto, Galbani e Granarolo.
È evidente che gli 11 signori del cibo italiano sono molto meno potenti dei commensali della tavolata mondiale. Ci si chiede se i re dell’alimentare, in Italia e nel mondo, hanno politiche comuni, accordi segreti, si mettono d’accordo per decidere che cosa mangeremo nei prossimi trent’anni. L’idea di una Trilateral del cibo, di un supergoverno occulto delle nostre cucine, è forse fantasiosa: «Credo anch’io che messa così possa essere un esercizio di fantasia premette Baravalle - ma sarei un ingenuo ad escludere che sulle grandi questioni di politica alimentare i grandi gruppi non esercitino, com’è legittimo, le loro pressioni sui politici». Certo, la discussione delle normative comunitarie sulla etichettatura risente ed ha inevitabilmente risentito dei desiderata dei signori del cibo. Ogni particolare in più o in meno da aggiungere sul foglio informativo per i consumatori si porta dietro miliardi di investimenti. Il caso più clamoroso è scoppiato di recente e riguarda gli oli utilizzati: finora è sufficiente scrivere che si tratta genericamente di “oli vegetali”. Ma se domani i produttori fossero costretti a specificare quali sono quegli oli, quanti avrebbero il coraggio di scrivere che utilizzano l’olio di palma, decisamente più scadente di quello di oliva? Ogni tanto sedersi intorno a un tavolo e decidere strategie comuni può essere utile. Anche per i signori del cibo.
«La miopia delle privatizzazioni: privarsi di beni e servizi per realizzare un’entrata una tantum, perdendo asset strategici. La filosofia? Trasformare i servizi pubblici a partire dall’acqua, da garanti di diritti universali in un mercato al servizio dei grandi capitali finanziari».
Il granello di sabbia n.16, novembre dicembre 2014 (m.p.r.)
Poste, ferrovie, interi comparti industriali, servizi pubblici locali, patrimonio pubblico: l’Italia del governo Renzi è in vendita e, dietro l’alibi del debito pubblico (peraltro, grazie a Monti, Letta e Renzi, in ascesa verso nuovi record) prepara la definitiva consegna dei beni comuni e dei servizi pubblici agli interessi dei grandi capitali finanzia. Che tutto questo avvenga dietro lo slogan “Cambia verso” ci dice solo delle straordinarie capacità comunicative del premier: cosa c’è di nuovo infatti nell’affrontare la crisi a colpi di privatizzazioni?
Negli anni ’90 l’Italia è già stata investita da un colossale piano di privatizzazioni, al punto che, nonostante il simbolo di quei decenni sia stata Margaret Thatcher, pochi sanno come quantitativamente, l’Italia abbia privatizzato più della Gran Bretagna, risultando seconda solo al Giappone. Abbiamo privatizzato più dell’Inghilterra e senza bisogno di alcuna Thatcher. E mentre la “lady di ferro” dichiarava la propria guerra affermando «La società non esiste. Esistono solo gli individui e le famiglie», in Italia è bastato dire che occorreva modernizzare il paese per poter dare il via al gigantesco processo di espropriazione sociale.
Nulla di nuovo sotto il sole di Renzi, dunque, se non il definitivo affondo che, non solo determina un
drammatico impoverimento di massa, ma rischia di precipitare il paese in un baratro, privandolo degli
stessi mezzi di una possibile ripresa. La miopia delle privatizzazioni è difatti evidente: privarsi di beni e servizi per realizzare un’entrata , perdendo nel contempo asset strategici che diventa quasi impossibile recuperare in una seconda fase. Ciò diviene ancor più grave se si pone attenzione al fatto che, nella grande ondata di privatizzazioni degli anni ‘90, il nostro paese sia riuscito a raggiungere un’ineguagliabile record: la privatizzazione dell’intero sistema bancario e finanziario. Se dal 1990 ad oggi il controllo pubblico sulle banche in Francia è passato dal 36% al 31% e in Germania dal 62% al 51%, in Italia è precipitato dal 74,5% allo 0 assoluto.
Al punto che perfino la Cassa Depositi e Prestiti, l’ente finanziario che sino ad allora aveva il compito di gestire il risparmio degli italiani e consentire il finanziamento a tassi agevolati degli investimenti degli enti locali, oggi è privatizzata e ha nel tempo assunto il ruolo di player preponderante dentro la politica economica del Paese. E oggi tutte le privatizzazioni in corso vedono Cassa Depositi e Prestiti non solo come leva finanziaria, bensì come soggetto ispiratore. Si intitola «Una nuova politica industriale dei servizi pubblici locali: aggregare e semplificare» la relazione svolta dal presidente di Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini al convegno di Federutility del 14 ottobre scorso a Roma. Si tratta di 24 pagine in cui Bassanini enuclea le linee guida sui servizi pubblici locali, non a caso divenute poi normative concrete con il decreto “Sblocca Italia” e con la Legge di stabilità.
Qual è la filosofia di fondo? Trasformare i servizi pubblici locali, a partire dall’acqua, da garanti di diritti universali in un mercato redditizio e competitivo al servizio dei grandi capitali finanziari. «L’obiettivo da perseguire è quello di porre le condizioni perché nascano operatori di grandi dimensioni, capaci di competere con i grandi players europei anche nei mercati emergenti» dice Bassanini, rilevando come nei comparti energetico, idrico e rifiuti operino attualmente 1.115 società territoriali che, nel disegno suo e del governo, dovranno divenire non più di 4-5 colossi multiutility.
Tutto questo considerato necessario per garantire 5 miliardi di investimenti/anno nei servizi idrici, altri 5 nell’igiene urbana e 1 nella distribuzione del gas. Impossibile ricordare al “nostro” come gli investimenti, in questi anni di società per azioni e di collocamento in Borsa, siano crollati a meno di un terzo rispetto a quelli che facevano le vituperate municipalizzate, perché Bassanini è troppo concentrato su un altro obiettivo: il taglio drastico dei posti di lavoro: «(..) rispetto agli attuali 1.100 operatori complessivi dei tre comparti, occorre prevedere una loro riduzione a 60-190, ed è auspicabile che si arrivi ad un numero vicino all’estremo inferiore dell’intervallo».
Obbligo alla fusione tra società di servizi pubblici locali, gestore unico per ogni ambito territoriale
ottimale (che vanno ridefiniti su scala almeno regionale), ruolo di “controllo” esterno o con quote
di assoluta minoranza degli enti pubblici e aumento delle tariffe: ecco il puzzle per consegnare tutti i beni comuni territoriali ai quattro colossi collocati in Borsa che già fremono ai binari di partenza: A2A, Iren, Hera e Acea (con la chicca di prevedere per il comparto rifiuti la costruzione di 97 inceneritori!). E per farlo, il governo Renzi ha inserito nella Legge di stabilità la possibilità per gli enti locali di spendere fuori dal patto di stabilità le cifre ricavate dalla vendita delle loro quote nei servizi pubblici locali.
Ma chi investirà nei servizi pubblici locali finalmente consegnati ai capitali finanziari? Cassa Depositi e Prestiti, attraverso finanziamenti diretti (3 miliardi di euro già investiti nel triennio 2011-2013) o con i propri fondi equity FSI (500 milioni a disposizione per favorire le fusioni territoriali) e F21 (già attivo nei servizi idrici, nella distribuzione del gas, energie rinnovabili, rifiuti, in autostrade, aeroporti e telecomunicazioni).
Naturalmente con interessanti joint venture con capitali stranieri, a partire dal colosso cinese State Grid Corporation of China, che, con la benedizione estiva di Renzi, ha acquisito il 35% di Cdp Reti, la società di Cassa Depositi e Prestiti, che tiene in pancia il 30% di Snam (gas) e il 29,85% di Terna (energia elettrica). Come si può intuire, siamo di fronte al più pesante attacco sinora tentato ai beni comuni e alla loro gestione territoriale e partecipativa. Vogliono chiudere definitivamente la straordinaria stagione referendaria. Vogliono consegnare le nostre vite alla finanza.
Occorre reagire in ogni luogo. Il tempo è ora.
Diceva Keynes: «gli uomini al potere sono schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere i quali odono voci nell’aria, distillano frenesie da scribacchini accademici di pochi anni addietro».Il
manifesto, 17 dicembre 2014
Dopo decenni di esortazioni ossessive sull’austerità espansiva e le cosiddette riforme strutturali, il tema della lotta alle crescenti disuguaglianze sembra tornato centrale per affrontare i problemi non solo di giustizia sociale e di benessere in senso lato, ma anche della crescita economica. Studiosi e accademici (il grande successo del Capitale del XXI secolo di Thomas Piketty), istituzioni internazionali come il Fondo monetario internazionale o l’Ocse propongono studi difficilmente confutabili sulla crescita delle diseguaglianze sfatando alcuni miti del neo (ma anche vetero) liberismo.
Purtroppo questa consapevolezza non ha ancora sfiorato i governi, in particolare quelli europei. La commissione europea insiste con perseveranza del tutto diabolica sul rigore e il rispetto di regole prive di fondamento, mentre qualche governo mediterraneo si agita per mettere l’accento sulla crescita, ma essendosi preclusa per ignavia, per opportunismo o per acquiescenza verso interessi “forti” qualsiasi via efficace, si riduce ad insistere sulle riforme strutturali, che per quanto riguarda la politica economica sono un modo elegante di affermare la volontà di ridurre sempre più il lavoro a strumento, a merce che serve a produrre altre merci.
Come diceva Keynes, gli uomini al potere «sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro».
Il nostro capo del governo afferma spesso di essere a favore dell’uguaglianza ma contro l’egualitarismo. Che questa frase sia più adatta all’epoca del telefono a gettone non sembra turbarlo affatto. Come ricorda Paul Krugman, l’alternativa è tra chi preferisce l’eguale ma estremamente improbabile possibilità per ciascuno di vivere secondo lo stile di vita dei ricchi e dei famosi (una eguaglianza da lotteria) e chi ritiene che tutti debbano avere la possibilità di vivere una vita dignitosa. Renzi da che parte sta?
A differenza del suo ispiratore Tony Blair, non sembra nemmeno che il governo italiano sia particolarmente sensibile al problema della povertà. Per lo meno Blair si proponeva di eliminare la povertà infantile. Non che ci sia riuscito, ma qualche risultato lo ha pur raggiunto, almeno a giudicare dai dati Ocse secondo i quali in Inghilterra il tasso di povertà relativa della popolazione sotto i diciotto anni era nel 2011 del 9,5%. La media Ocse era del 13,9% e il dato dell’Italia il 17,3%.
Ma come giustamente sottolinea l’Ocse, che certamente non può essere sospettata di vetero-egualitarismo, ma che sul tema negli ultimi mesi e ancora pochi giorni fa è intervenuta più volte con focus, rapporti e studi, il problema non è solo la povertà, ma la crescente diseguaglianza nella distribuzione del reddito.
Non solo da diversi decenni il 10% della popolazione che ha il reddito più basso resta sempre più indietro, ma l’effetto negativo affligge il 40% meno ricco della popolazione. Anche da questo punto di vista l’Italia non brilla tra i paesi europei.
Infatti, secondo dati Eurostat, al 40% più povero della popolazione va il 19,8% del reddito complessivo, una quota più bassa della media europea (21,2%). L’Italia poi, come è noto, tra i paesi europei ha un alto indice di Gini, che misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, più basso solo di Grecia, Estonia, Portogallo, Spagna e Regno Unito. Inoltre, per citare un altro dato tra i tanti che mostrano la nostra arretratezza, il rapporto tra la quota di reddito ottenuta dal 10% più ricco della popolazione e quella del 10% più povero è in Italia molto alto (11,18), inferiore, in Europa, solo a Spagna, Grecia, Bulgaria, Romania e Lituania.
Se a questi dati aggiungiamo che secondo un rapporto del Social Institute Monitor Europe, che si propone di calcolare un indice relativo alla giustizia sociale nei diversi paesi europei, l’Italia si colloca al 23° posto, insieme alla Lituania, nella classifica dei 28 paesi dell’Unione europea, si capisce che ci sarebbe molto lavoro per un governo nel quale la forza principale è un partito che si dichiara di centro-sinistra, ma non sembrano queste le priorità.
La novità delle ultime analisi è che esse provano, attraverso stime econometriche, che la maggiore diseguaglianza causa un rallentamento della crescita economica, soprattutto restringendo le opportunità di ottenere alti livelli di istruzione, per una parte significativa della popolazione, scoraggiando la formazione del cosiddetto capitale umano (ma il termine non mi piace, rimandando ad una umanizzazione del capitale e ad una reificazione delle qualità umane) e ostacolando la mobilità sociale.
Per l’Italia si stima che la mancata crescita del Pil reale per abitante causata dalla crescita delle diseguaglianze sia del 6,6% dal 1990 al 2010. Considerando che la crescita effettiva in questo periodo è stata dell’8%, non è certo poca cosa. Altro che articolo 18!
L’Ocse propone di affrontare il problema della diseguaglianza con misure che fino a poco tempo fa sarebbero state considerate poco meno che bestemmie dalla saggezza convenzionale.
In primo luogo propone di accrescere la redistribuzione del reddito e riformare in questo senso la struttura della tassazione, aumentando la aliquota marginale delle imposte sui redditi più alti, cioè esattamente il contrario di quanto è stato fatto negli ultimi decenni. In Italia, ad esempio, la aliquota marginale era del 72% ancora nel 1982.
Come nota il rapporto dell’Ocse la diminuzione delle aliquote fiscali sui redditi alti non solo deprime l’effetto redistributivo sui redditi disponibili, ma tende a far aumentare la quota di reddito ottenuta dai più ricchi, per i quali diviene più facile, in un circolo virtuoso per loro ma vizioso per tutti gli altri, accumulare capitale e accrescere ulteriormente i propri redditi. Infatti in Italia la quota di reddito di mercato (cioè stimata prima della tassazione) ottenuta dall’1% più ricco della popolazione è passata dal 6,4% del 1982 al 9,38% del 2009.
Ma il rapporto dell’Ocse suggerisce anche di eliminare o ridurre le deduzioni fiscali che tendono a beneficiare i più ricchi e riorganizzare il sistema di tassazione su tutte le forme di proprietà e di ricchezza. In particolare si sottolinea l’importanza di ripensare il ruolo della tassazione sui redditi da capitale. Quest’ultimo punto appare molto significativo per Italia in cui la quota di reddito proveniente dal capitale del 10% più ricco della popolazione è significativamente più alta in confronto agli altri paesi di cui l’Ocse fornisce i dati.
L’altra raccomandazione dell’Ocse, dopo anni di austerity e di attacchi al welfare state, è di incrementare i trasferimenti pubblici a favore non solo dei poveri, ma del 40%, e promuovere e favorire l’accesso ai pubblici servizi di alta qualità, in particolare l’istruzione e la sanità.
Non è il caso di attendere per vedere se queste idee saranno veramente assimilate nel prossimo futuro e ancor meno aspettare che Renzi si accorga che la modernità ha cambiato segno. Anche lui, al di là della retorica, è immancabilmente schiavo di qualche economista defunto. Ma le sparse forze della sinistra politica, nel momento in cui la sinistra sociale e sindacale mostra finalmente vitalità, farebbero bene da subito a organizzarsi attorno ad un programma che abbia al suo centro l’eguaglianza
«Per avviare queste nuove produzioni occorre garantire loro un mercato e questo può essere fatto solo coinvolgendo una comunità e i relativi governi locali: Comuni, Province, Comunità montane, Regioni. Oggi la stragrande maggioranza di questi enti non ci sente da questo orecchio: “non ci sono i soldi”, dicono».
Il granello di sabbia n.16, novembre dicembre 2014 (m.p.r.)
Il termine “conversione ecologica” è stato introdotto quasi trent’anni fa da Alex Langer per sintetizzare il percorso necessario per ricondurre l’attività e la convivenza umana entro i limiti della sostenibilità sociale e ambientale. Il termine allude alla duplice dimensione di questo passaggio: da un lato, la riconversione strutturale dell’apparato produttivo per ridurre l’aggressione alle risorse della natura (produrre meno e meglio; utilizzare meno materiali; usare più a lungo quello che si è prodotto e scartarlo meno; recuperare tutto quello che si è scartato) e, soprattutto, per ridurre lo sfruttamento degli uomini e delle donne che vivono e lavorano su questa Terra da parte di altri membri del genere umano; dall’altro lato, quel passaggio comporta la conversione personale del nostro stile di vita, attraverso una riduzione e una qualificazione ecologica dei nostri consumi e un miglioramento dei nostri rapporti con il prossimo, gettando un ponte (Alex amava molto questa metafora) verso chi ci è estraneo, in competizione con noi o nemico.
Associarsi per effettuare insieme degli acquisti, per promuovere insieme dei servizi o per risparmiare, è già oggi possibile; o è comunque possibile inserire questo obiettivo in una piattaforma rivendicativa, che molte organizzazioni, anche di natura molto diversa tra loro, comprese quelle sindacali, potrebbero appoggiare. L’esempio più chiaro di questa condivisione sono per ora i GAS (gruppi di acquisto solidale): un certo numero di famiglie si associa per eseguire insieme gli acquisti, soprattutto, ma non solo, in campo alimentare. Ciascuno continua a comprare e a mangiare quello che vuole (non c’è alcun “collettivismo”), ma gli acquisti si programmano e si effettuano insieme, direttamente dal produttore. In questo modo si salta l’intermediazione commerciale e i relativi ricarichi (insieme ad un sacco di imballaggi inutili, inquinanti e di pubblicità); si rompe l’isolamento proprio della società in cui viviamo. Inoltre ci si può così accordare per condividere molte altre cose, per esempio: la cura di bambini, anziani e malati, la riparazione di apparecchiature e impianti guasti, lo scambio di abiti e beni dismessi, la condivisione di attrezzi e knowhow per il “fai da te”, lezioni, ecc..
Insieme al lavoro, però, essa deve promuovere anche l’impegno e la presenza organizzata di una comunità più larga, delle sue amministrazioni locali, di altre imprese che operano sullo stesso territorio, dei saperi diffusi tra i membri di tutta la comunità; per poi allargare il coinvolgimento ad altre aziende e ad altre comunità, e con esse preparare e sostenere programmi e rivendicazioni di valenza nazionale o europea.
Nelle aziende colpite dalla crisi economica e occupazionale la conversione ecologica è l’unica alternativa praticabile, poiché esse non torneranno mai più ad aprire e a riassumere per produrre le cose di un tempo. Non hanno più mercato. Per salvare l’occupazione, riaprire le assunzioni, rendere accettabile l’ambiente di lavoro, valorizzare l’esperienza e le conoscenze del personale tecnico e operaio, ma anche una parte consistente degli impianti e delle attrezzature esistenti, occorre passare a nuove produzioni. Tra queste bisogna scegliere quelle che hanno un futuro e, quindi, anche un mercato sicuro; che sono quelle che si renderanno sempre più indispensabili mano a mano che gli effetti della crisi ambientale si faranno sentire su tutto il pianeta: impianti per lo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili; soluzioni per promuovere l’efficienza energetica; veicoli da usare in forma condivisa e sistemi di governo della mobilità e del trasporto sostenibili; sistemi di riciclo totale di scarti e rifiuti; progetti, know-how e strumenti per la salvaguardia e la rinaturalizzazione del territorio; sistemi di coltivazione ecologici a elevata intensità di lavoro qualificato e di tecnologia; progetti per il recupero e l’efficienza degli edifici obsoleti o dismessi; laboratori e capacità tecniche per prolungare la vita dei prodotti con la manutenzione e la riparazione; ecc..
Per avviare queste nuove produzioni occorre garantire loro un mercato e questo può essere fatto solo coinvolgendo una comunità, o un insieme più ampio possibile di comunità, e i relativi governi locali: Comuni, Province, Comunità montane, Regioni. Oggi la stragrande maggioranza di questi enti non ci sente da questo orecchio: “non ci sono i soldi”, dicono. Ma molte cose si possono cominciare a fare, o per lo meno a discutere e definire, a costo zero. Mentre su altre si può avviare la ricerca o avanzare la richiesta, o una vera e propria rivendicazione, di un finanziamento; ma solo a condizione che siano chiare e definite le cose che si vogliono fare. A quel punto si può aprire una vertenza: sia nei confronti dei governi locali, che, eventualmente, e con il loro appoggio, nei confronti dei governi regionali, di quello nazionale e dell’Unione europea, a seconda della portata della rivendicazione.
Senza un progetto definito, però, nessuna di queste cose può andare avanti. Per esempio, le energie rinnovabili o l’efficienza energetica sul lungo periodo si ripagano da sé, perché fanno risparmiare denaro e combustibili fossili, ma per diffonderle in forme produttive e sensate ci vogliono programmi a livello territoriale, ricognizioni sul territorio e sugli edifici, progetti, tecnici, imprese di installazione e manutenzione; e poi, anche imprese per la produzione degli impianti, di materiali e attrezzature per l’efficienza energetica.
Così, con il coinvolgimento di un certo numero di enti locali, si può cercare di mettere in contatto i potenziali produttori (cioè le aziende che hanno bisogno di riconvertire le loro produzioni) con i potenziali utenti di questo intervento (enti pubblici come Comuni, ospedali, Asl, imprese, ma anche singoli privati, soprattutto se associati. Qui l’esempio dei GAS – il rapporto diretto tra produttore e consumatore – calza a pennello: si tratta di riproporlo su una scala più allargata in campo energetico, nel campo dell’edilizia e della manutenzione del territorio, nel settore agroalimentare o nel campo della mobilità. Se poi a guidare le nuove aziende sarà un imprenditore disposto a farlo sotto il controllo della comunità oppure se ne dovrà promuovere una gestione in forme associative o cooperative, è cosa da decidere in corso d’opera.
Certo, per promuovere una conversione ecologica su larga scala ci vogliono “forze fresche” anche in campo imprenditoriale, perché molti degli attuali manager e imprenditori sono indissolubilmente legati a un modo di fare impresa che non accetta interferenze esterne. Queste forze, però, ci sono e bisogna farle emergere: all’interno delle aziende, nell’associazionismo e nell’imprenditoria sociale, nel movimento cooperativo. L’importante è mantenere, o ricondurre a un ambito territoriale più ristretto rispetto a quello creato dalla globalizzazione, i rapporti tra le diverse fasi di un ciclo produttivo e tra i diversi stadi di una filiera, accrescendo così le possibilità di un controllo dal basso sulle scelte economiche. In una parola, la democratizzazione dell’economia. La conversione ecologica è dunque innanzitutto un processo di “riterritorializzazione” dei rapporti economici attraverso relazioni quanto più dirette possibili tra produttori e consumatori, in un regime di totale trasparenza, per consentire un controllo pubblico delle transazioni in corso.
La “riterritorializzazione” è comunque un obiettivo sempre relativo e mai assoluto, la cui realizzazione può essere concepita solo in progress, come processo. Inoltre, essa riguarda esclusivamente il ciclo di vita dei beni materiali e non quello dell’informazione e dei saperi, la cui circolazione deve invece essere sempre più libera e intensa su tutto il pianeta; riguarda cioè “gli atomi” e non i “bit”. La “riterritorializzazione” rappresenta l’unica risposta adeguata al problema centrale posto dalla globalizzazione liberista che è la competizione sempre più serrata che si svolge a livello planetario e che tende ad allineare ai livelli più bassi i livelli salariali e quelli di protezione sociale e di protezione ambientale.
L'indagine "Mafia Capitale" dimostra come il meccanismo mafioso e l'operatività delle cosche si sia imposta nella vita della Capitale. Il governo non ha compreso che se non interrompe questo meccanismo, in Italia l'economia più forte, quella vincente, quella che verrà imitata e che diffonderà i propri modelli, continuerà a essere l'economia mafiosa.
La Repubblica, 14 dicembre 2014
Beppe Grillo ha detto, a proposito di Mafia Capitale: «La parola mafia ci depista. Ci ricorda qualcosa che non c'è più. Oggi un'associazione mafiosa è fatta da professionisti, politici, magistrati, poliziotti; il mafioso non c'è neanche». Sono anni che si lotta per ribadire culturalmente che mafia significa invece proprio questo: impresa, borghesia imprenditoriale, rapporti con i media. Mi domando: ma secondo Grillo cosa sono state le organizzazioni criminali italiane sino a questo momento? Dei cafoni armati di fucile? Quindi secondo l'interpretazione di alcuni adesso, e solo adesso, la mafia sarebbe "diventata tridimensionale perché ci sono dentro politici, imprenditori, massoni, spacciatori", e perché ha smesso di parlare calabrese, napoletano, lucano, casertano, siciliano? Queste sono semplificazioni inaccettabili.
Ciò che mi viene da dire a chi condivide queste tesi è: ma sapete che le cose sono sempre andate così? Quando si riduce tutto al contadino dalla parlata incomprensibile, del cafone con il kalashnikov, si sta facendo il gioco delle mafie più o meno consapevolmente. Il boss che sappia uccidere e allo stesso tempo gestire il segmento economico dell'organizzazione è la base di una struttura vincente. Mafia Capitale è in realtà il primo e compiuto tentativo di dimostrare, da parte dei pm, che il modello delle mafie storiche è stato mutuato su Roma. La novità scientifica di questa indagine non è limitata alla sola corruzione: ma dimostra come il meccanismo mafioso e l'operatività delle cosche si sia imposta nella vita della Capitale.
Per questa ragione il legame tra Carminati e le organizzazioni non è episodico e momentaneo. Riuscite davvero a immaginare Pasquale Condello o Michele Zagaria che parlano con il sindaco di Sacrofano in merito al catering per la chiusura della campagna elettorale e si fanno commissionare una grigliata? È inimmaginabile che un capo mafia del Sud si occupi di grigliate. Ma attenzione: i clan si occupano di ogni singolo affare dal più piccolo al più grande. I Mazzarella di Napoli hanno raccolto estorsioni "straccione" persino dai lavavetri eppure investivano nei duty free in diversi aeroporti mondiali. Provenzano stesso con i suoi pizzini interviene sulle strade interpoderali da affidare a imprese amiche. Il ruolo mafioso di Carminati è un ruolo diverso rispetto a quello dei boss storici delle mafie tradizionali: è però l'anello che congiunge le mafie storiche e Roma: un multiservice con un certo grado di autonomia. Da Reggio Calabria a Palermo le organizzazioni criminali sono in guerra aperta tra loro e sanno come essere parte dello Stato con strategie differenti. Carminati e Buzzi sono diversi: hanno usato telefonini, hanno avuto incontri contrassegnati dall'imprudenza tipica di chi si sente tutto sommato fuori pericolo, di chi sente che l'attenzione è altrove, perché è convinto che gli altri pensino che la mafia sia un'altra cosa, e che questo pensiero li proteggerà.
Chi parla di nuova mafia tridimensionale a Roma sembra aver rimosso l'influenza di Cosa Nostra sulla politica romana raccontata da Buscetta e della camorra raccontata da Galasso e parliamo di dati accertati da decenni, è storia condivisa insomma. Ci si dimentica del braccio destro di Cutolo, Vincenzo Casillo 'o Nirone' munito di tesserino dei servizi, ucciso nell'83 a Roma proprio fuori la sede del Sismi in Via Clemente VII e l'elenco di connivenze sarebbe infinito. Le mafie sono organizzazioni che da sempre hanno più sponde in politica, ed è esattamente ciò che differenzia il reato stesso di associazione mafiosa dalla semplice associazione criminale.
Se oggi si afferma che esiste un nuovo percorso, significa che non si è data abbastanza attenzione alla dinamica mafiosa fino a questo momento. Significa non aver mai ascoltato chi da anni denuncia la presenza della mafia al Nord, la presenza della mafia a Roma. Ci hanno considerati matti, esagerati, sbruffoni, speculatori, diffamatori eppure la verità è solo questa: il tema mafia fuori dai luoghi in cui si ritiene che le mafie nascano, ovvero il tema mafia fuori dalla Campania, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Puglia è sempre stato sottovalutato, marginalizzato, mai approfondito, trattato solo nelle aule dei tribunali, solo in superficie.
Il primo ministro Renzi delega ai probiviri come se fosse una questione personale e di uomini. Eppure il sistema fiscale e la burocrazia sono i grandi alleati delle organizzazioni criminali, il loro strumento d'accesso per divorare le imprese sane ancora rimaste in piedi. È ovviamente già partita da soliti siti di retroscena e parte della stampa berlusconiana la sottovalutazione del problema per far credere che sia tutto un giro di poveracci e rubapolli. Non ce ne stupiamo. Il motivo è semplice: sono complici spesso della stessa cultura che ispira questi mondi criminali romani pensando che mafioso sia solo lo sfregio di Al Capone o l'occhio pigro di Lucky Luciano. Iperbole e sfottò sono uguali modalità per non comprendere. Ora l'inchiesta dimostra che le grandi organizzazioni criminali storiche sono su Roma da sempre e che Carminati e Buzzi sono solo una rubrica dei loro affari.
Ciò che è cambiato non è la mafia, non è la sua tridimensionalità, non è il coinvolgimento di politici, imprenditori o massoni deviati ma il fatto che ora la presenza a Roma è diventata innegabile. La mafia non si esporta, ma come ogni modello vincente si diffonde in nome della sua capacità di successo e di intimidazione. Il fenomeno va contrastato, ma prima va capito. Il Paese si è accorto che le mafie si sostituiscono alle banche quando non sono (ma su questo c'è da lavorarci molto) direttamente partner delle banche italiane? Il governo deve affrontare il problema dal lato della sua rilevanza economica. O si interrompe questo meccanismo, o in Italia l'economia più forte, quella vincente, quella che verrà imitata e che diffonderà i propri modelli, continuerà a essere l'economia mafiosa.
E' il solito modo per ribadire il dominio sugli italiani: trasformare la politica in tifoseria e costruirsi un avversario più debole. Sei della Roma o della Lazio, del Milan o dell'Inter, di Salvini o di Renzi? il resto non esiste.
Il manifesto, 14 dicembre 2014
La corsa di Salvini non si svolge affatto nel territorio. Non ha nulla di solido su cui camminare il leader dal maglione intercambiabile, a seconda del suolo che calpesta.
Il legame con la terra è sfumato anche per la Lega, come per gli altri pseudo-partiti esistenti, del resto. La penetrazione in Emilia, e il sostegno che sembra ricevere anche in aree del centro e del sud, non rinvia ad alcuna presenza organizzata nel territorio.
Questa mitologia delle radici nel rude paesaggio locale, con un ceto politico a portata di mano e sempre presente, non vale più per la Lega, che sfonda oltre la Padania solo perché è ospitata come non mai nei vecchi media. È con l’occupazione dello spazio televisivo che Salvini penetra anche nello spazio reale, dove manca con una vera struttura organizzata, come tutti gli altri attori.
Media e populismo con toni da destra radicale, questa è la miscela che consente alla Lega una impennata nei sondaggi. La fine della destra di un tempo, affida proprio alla Lega uno spazio politico che nessuno coltiva.
Il richiamo dei miti securitari, e gli echi della rivolta contro l’euro, trovano un’onda lunga già in movimento. E i leghisti la cavalcano, nella speranza di aggregare il cosiddetto «capitalismo della marginalità» e i ceti popolari spaesati.
I media vanno pazzi per Salvini. Per varie ragioni. Un po’ perché fa comodo progettare un duello tra i due Mattei. E c’è chi calcola che, con il Matteo lepenista come principale antagonista, è assai più agevole trionfare.
Da una parte la rabbia, la marea nero-verde che dovrebbe spaventare i moderati e lesionare la capacità coalizionale del leader leghista. Dall’altra la speranza, la bellezza e ricami analoghi che condiscono la retorica del giovin rottamatore.
A bocce ferme, questo disegno, di aiutare la crescita di un nemico dal profilo esagerato, per poi infilzarlo con più comodità, presenta una qualche razionalità. È già capitato con le europee, quando proprio la paura di Grillo e del ritorno alla liretta, ha funzionato come la identificazione di un nemico utile solo per tirare la volata a Renzi.
Ma in condizioni critiche, cioè di ulteriore delegittimazione della politica, per via degli scandali e per l’aggravamento della crisi sociale, questo calcolo di costruire per convenienza un nemico di comodo è grottesco. In casi estremi, il populismo forte, che associa la disperazione e l’offerta di capri espiatori facilmente individuabili, prevale sul populismo mite, con le sue narrazioni edificanti a copertura di ricette economiche sempre in continuità con quelle di Monti.
I poteri forti, ovvero quel poco che rimane di un capitalismo in via di espropriazione da parte del vorace capitale mondiale interessato all’acquisizione di aziende di qualità, quando offrono munizioni illimitate a Salvini, onnipresente nelle loro tv private e pubbliche, lavorano per una radicale soluzione populista all’emergenza. Hanno prima appoggiato Grillo, poi sostenuto Renzi e ora guardano a Salvini. Sperano che funzioni la saldatura tra la crisi, che sprigiona un sentimento di angoscia dinanzi alla prospettiva di una perdita di status, e la mitologia della tassazione unica al 15 per cento lanciata come magica risposta al declino.
Anche se nella sua agenda sfuma sempre più il tema della differenziazione territoriale interna e l’aggancio al nanocapitalismo del nord, la figura di Salvini conserva però dei limiti espansivi.
Non può competere come attore principale capace di sfondare nelle varie realtà del paese. Deve contare su una coalizione eterogenea tanto nell’offerta politica quanto nella copertura territoriale.
E qui affiorano per lui i problemi di convivenza tra una radicalità antisistema e la necessità di negoziazioni con spezzoni di ceto politico in ritirata. Il «centravanti» ha bisogno del «regista» ma Berlusconi, che si è offerto per svolgere questa delicata funzione, non sembra più avere la visione strategica richiesta
LEFT, 13 dicembre 2014
Succede anni fa: una delegazione dei comitati del centro storico di Roma espone al prefetto un “dossier” fitto di abusi, irregolarità, palesi illegalità, con una mappa di catene di ristoranti e pizzerie che sono qui solo napoletane, là solo calabresi o siciliane. Il prefetto prende atto e tutto continua come e peggio di prima. Fino al solito magistrato che pazientemente individua la matrice malavitosa di quelle reti di locali di ristorazione, le sottrae alle varie mafie ponendole sotto amministrazione controllata. Erano legali quelle licenze? Quante attività illegali ci sono? Chi le controlla? Il Comune di Roma? La Camera di commercio? La Prefettura? Nei mesi scorsi la giunta Marino e il I° Municipio, incalzati da campagne molto pressanti dei Comitati e di Nathalie Naim, consigliere del Municipio (Lista civica per Marino) hanno riportato ordine nella invasione selvaggia dei tavolini, ridando un volto accettabile a piazza Navona e dintorni. Pochi giorni dopo, in qualche strada, tavolino “selvaggio” è ricomparso. Non c’è un vigile urbano che, a piedi o in bicicletta, passi a controllare ogni giorno e faccia rispettare leggi e regolamenti. La stragrande maggioranza dei vigili romani sta negli uffici, come la stragrande maggioranza dei dipendenti dell’Ama pur aumentati di migliaia di unità con la Parentopoli targata Alemanno-Panzironi e C.
Piccoli esempi? Mica tanto, e poi proprio questa illegalità diffusa e incontrollata è il brodo di coltura più fertili per il “pizzo” di massa (di cui molto si parla molto anche a Roma), per i lavori abusivi tutti in “nero”, per lo spaccio di droga, per tanti favori reciproci dei più pericolosi fra criminali e politici. Di fronte alla marea maleodorante che rischia di sommergere il Campidoglio provenendo dall’era Alemanno, dalle alleanze sistematiche fra “neri” e malavitosi organizzati, con qualche esponente del Pd però che figurerebbe “a libro paga”, possiamo soltanto alzare l’indice accusatore chiedendo ogni sorta di azzeramenti? O non dobbiamo anche analizzare le cause di simili percorsi perversi, le elusioni palesi delle regole e porvi al più presto rimedio?
Ha sostenuto di recente il presidente della commissione nazionale anti-corruzione, Raffaele Cantone - già paragonato da Maurizio Gasparri uno dei “vecchi” ormai delle centurie neofasciste - al dittatore cambogiano Pol Pot: «Dopo Tangentopoli si è smantellato completamente il sistema dei controlli amministrativi, in alcuni casi sono stati privatizzati, si è sventrato il sistema dei controlli sugli enti locali». Ma chi gli fa eco? Cantone accusa la depenalizzazione del falso in bilancio, le prescrizioni troppo brevi, l‘autoriciclaggio che rendono impuniti e impunibili tanti reati di corruzione, peculato, concussione. E conclude: «La lotta alla corruzione non può essere lasciata soltanto al giudice penale». Oggi è così. Quindi, fa bene Renzi a proclamare «Via tutti i corrotti». Ma farebbe ancor meglio ad approvare la riforma della giustizia col falso in bilancio, l’autoriciclaggio e prescrizioni meno brevi. Da domani. E non invocare o attuare - come con lo Sblocca Italia - una “semplificazione” che elimina controlli tecnici invece fondamentali. Più che mai.
Difatti, se anche si riesce in questo “repulisti” generale e profondo, come prevenire in futuro che si riformi la marea nera di una corruzione che, nonostante Tangentopoli, si insinua quasi ovunque inquinando la vita democratica e inceppando la macchina già ansimante dell’economia e dei servizi? Nessuno o quasi si è posto il problema dei controlli preventivi sulle amministrazioni, sugli eletti, sulle delibere (sempre più di giunta e sempre meno di consiglio). Proviamoci. Nel dopoguerra, fino alle Regioni, cioè al 1970, esistevano le Giunte Provinciali Amministrative (Gpa), esecrate dagli amministratori comunali e provinciali, soprattutto da quelli di sinistra perché i prefetti risultavano, specie negli anni ’40 e ’50 fortemente legati alla Dc. Eravamo ancora allo Stato “verticale”, all’Italia dei prefetti, fortemente restrittiva anche se la corruzione politico-amministrativa era assai più limitata. Se c’erano grandi scandali, erano nazionali, come quello della Federconsorzi, dei mille miliardi del suo debito sanato, di fatto, dallo Stato. Quelli locali erano collegati alla speculazione, già forsennata, sulle aree fabbricabili.
Con le Regioni, nel 1971, sono stati istituiti i Coreco, organismi di controllo decentrati, che dovevano rendere virtuose le Regioni e gli enti provinciali e locali. Illusione. Ben presto sono stati trasformati da organismi tecnici in organismi politici e addio controlli penetranti. E’ successo di tutto. Poi sono spariti. La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 (sciagurata come poche) ha messo sullo stesso piano “orizzontale” Comuni, Province, Regioni e Stato. Tutte le istituzioni dovevano “autocorreggersi”, magari chiedendo pareri preventivi alle Corti dei conti regionali. Questa “autocorrezione” si è rivelata una utopia. In conclusione, esiste un problema di efficienza, rigore e tempestività nei controlli tecnici. Pochi ma strategici e penetranti. Ma esiste anche un problema di controlli politici, interni agli organismi di governo. Una volta il controllo lo esercitavano le opposizioni nelle assemblee elettive. Ma, con le elezioni dirette di sindaci e “governatori”, come sono ridotte? Lascio la parola a Manin Carabba presidente emerito della Corte dei conti: «Restano le esigenze di rafforzare le assemblee elettive, la democrazia ha bisogno di esse, e noi ne abbiamo visto il totale svuotamento, nei Comuni e nelle Regioni». E poi: «I Consigli regionali sono in condizioni terribili di vacuità e di perdita di peso». Il governo Renzi tende a rendere impossibili i controlli delle Soprintendenze su edilizia e territorio e si appresta a nominare i segretari comunali quali fiduciari dei sindaci e delle giunte senza più selezionarli per concorso. Via altri controlli “neutrali”. Perché o per chi? Non credo per i cittadini.
Uno sciopero generale che contribuisca ad arrestare la politica distruttiva del "capitalismo scatenato", necessaria premessa per la faticosa costruzione di un sistema economico sociale alternativo.
Il manifesto, 12 dicembre 2014
Lo sciopero generale contro il Jobs Act e più in generale contro la legge di stabilità, mette in luce la fallimentare politica economica del governo che asseconda la deriva liberista del “capitalismo scatenato”, come, una diecina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn definiva la nuova fase del capitalismo. Una risposta allo spostamento nella distribuzione dei redditi a favore del lavoro registrato negli anni sessanta-settanta.
Da allora ripristino della disciplina macroeconomica, privatizzazioni, incoraggiamento delle forze di mercato, focalizzazione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pilastri di una feroce controffensiva: il conflitto distributivo ha cambiato segno, e, per l’effetto congiunto di minore e peggiore occupazione e di più bassi salari reali, la quota di reddito che va al lavoro è costantemente diminuita.
Quell’offensiva del capitale, che oggi tocca livelli prima impensabili in Italia, non si limita a riportare indietro le lancette della storia per tornare alla situazione preesistente. Se così procedessero i processi storici troverebbe legittimità la teoria del pendolo: uno spostamento dei rapporti di potere eccessivo ad un certo punto si ferma e si mettono in moto le forze che spingono in direzione contraria. Così si potrebbero leggere, in questo caso, la risposta del capitale di cui abbiamo parlato e quella che oggi cerca di dare il sindacato anche con lo sciopero. Ma la situazione reale è molto più complessa perché negli ultimi decenni è cambiato il mondo ed è cambiato lo stesso capitalismo.
La globalizzazione, la connessa Ascesa della finanza — titolo questo di un bellissimo e preveggente libro del caro Silvano Andriani recentemente scomparso — e, più di recente, la rivoluzione digitale hanno delineato un capitalismo che ha fatto un enorme salto di qualità. In questa nuova fase di un capitalismo per il quale non troviamo ancora una denominazione condivisa – oscillando dal finanzcapitalismo di Gallino al capitalismo patrimoniale di Piketty – gli elementi che emergono sono due.
Il primo è costituito dalla globalizzazione del mercato del lavoro che mette in competizione, in termini di costo, il lavoro delle economie sviluppate con quello delle economie emergenti. Gli effetti di questa nuova competizione sono bidirezionali: da un lato si sposta la produzione dai paesi ad elevato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavoratori delle aree più arretrate emigrano nelle aree sviluppate per fare i lavori più pesanti ed a condizioni rifiutate dai residenti. L’effetto di questi processi sul conflitto distributivo è, per i paesi sviluppati, quello di un abbassamento dei salari e di una riduzione dei diritti. Il secondo elemento che caratterizza questa fase è la rivoluzione digitale che ha già investito pesantemente la produzione manifatturiera e che investirà sempre di più i settori del commercio e dei servizi, pubblici e privati, riducendo la quantità di lavoro necessaria e modificando profondamente, contenuti e modalità della prestazione lavorativa.
I due elementi segnalati si intrecciano tra di loro, e contribuiscono allo stesso processo: una svalutazione del lavoro impensabile fino a pochi anni fa che si manifesta a livello sovranazionale ed agisce su un terreno senza regole come quello finanziario nel quale il capitalismo scatenato è diventato sfuggente ed inafferrabile. I processi di cui stiamo parlando non sono ancora compiuti, ma in pieno svolgimento e, quindi, le situazioni che si vivono nei vari paesi sono differenziate secondo le loro storie e secondo le modalità con le quali si stanno affrontando i processi stessi.
Non è un caso che l’area dei paesi sviluppati si articoli in tre gruppi: economie che si affacciano verso una possibile nuova fase di crescita come gli Usa, economie che hanno superato la crisi anche se non hanno ritrovato il sentiero della crescita come Germania e Nord Europa, economie che ristagnano ed indietreggiano. Questo significa che, pur di fronte ad una comune controffensiva del capitale, non è ineluttabile che i paesi più sviluppati subiscano contemporaneamente riduzioni del lavoro, riduzioni dei diritti ed indebolimento e declino delle strutture produttive. Un mix questo che può essere veramente esplosivo. L’Italia si colloca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.
Lo scontro che la agita oggi, protagonisti Cgil, Uil e governo si colloca in questo contesto e la partita appare decisiva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una mutazione che supera i confini nazionali è anche vero che le modalità scelte dal nostro governo sono di rassegnazione, al di la delle chiacchiere su speranze e futuro, ad un ridimensionamento di lavoro, diritti e futuro produttivo.
Aver fatto della subordinazione alle logiche confindustriali e dello scontro col sindacato il perno delle politiche del governo ci sta cacciando in un vicolo cieco. In Italia non dobbiamo dimenticare che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo investire, innovare ed esportare, le ricette del passato (contenimento del costo del lavoro e svalutazioni competitive), non hanno aiutato il capitalismo italiano a crescere puntando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimensione di impresa. Anche per questo, quello che abbiamo oggi di fronte è un capitalismo industriale che sa solo chiedere più libertà di licenziare, meno tasse, privatizzazioni per fare investimenti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capitalismo incapace di progettare una possibile politica industriale di investimenti, di ricerca, di nuovi rapporti produzione – università — ricerca…
Questo capitalismo non andrebbe coccolato con un po’ di spiccioli elargiti a pioggia accontentandolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma stimolato e sfidato a fare un salto di qualità. Certo questo richiederebbe un governo con una capacità progettuale, con un piano dei trasporti e della mobilità, con un piano di risanamento ambientale e del territorio, con un piano industriale ed una visione dei settori del futuro.
Ed invece noi abbiamo di fronte una classe industriale ed un governo assolutamente inadeguati alle sfide del nostro tempo. E’ in questo quadro che si colloca lo sciopero del 12. Per la complessità dei problemi di cui abbiamo parlato, non possiamo e non dobbiamo illuderci che con esso si possa fare il miracolo di capovolgere questa situazione. Ma la “politica” di questo governo e la sua “non politica” vanno contrastate e fermate. Fare questo sarebbe già tanto ed una buona riuscita delle mobilitazioni di oggi è per questo essenziale. Importante sarà, però, soprattutto il dopo.
Sarà quello che accadrà nel Pd e quello che accadrà a sinistra. Un futuro vicino, ad oggi imprevedibile, la cui direzione più o meno a sinistra dipenderà sì dall’esito dello sciopero, ma soprattutto da come sapremo ricostruire un pensiero di sinistra volto al futuro più che al passato. Ma questo, in tempi di corruzioni – degenerazione — evaporazione dei partiti — astensionismo dilagante, è proprio un altro capitolo
Oggi tutti in piazza. Per dare forza alle battaglie dei lavoratori e ricostruire solidarietà, contro il pareggio di bilancio, per un New Deal, per nuovi diritti da conquistare.
Il manifesto, 12 dicembre 2014
Lo sciopero generale di Cgil e Uil è finalmente arrivato a rompere la solitudine delle molte lotte che dentro questa lunga crisi sono state «l’urlo nel silenzio» della politica di un lavoro che non accetta la semplice riduzione a merce tra le merci del lavoro umano. La svalutazione del lavoro come necessità ineluttabile, come condizione permanente dell’economia. Questo, nella crisi, è il tratto ideologico che si è affermato.
Fino ad immaginare che i governi nazionali, dentro la cornice delle politiche d’austerità e dei vincoli di bilancio europei — contro cui fino ad oggi è mancato un vero movimento di massa per modificare trattati e accordi verso il lavoro-, non possano che diventare esecutori disumanizzati. In assenza di qualunque verifica concreta sugli effetti di frantumazione sociale e personale che queste politiche generano sulle comunità e sulle persone, espropriandole, sempre più spesso, anche del senso di una vita, quando le si sradica nel lavoro e dal lavoro.
In questi ultimi giorni assistiamo al dispiegarsi nel nostro Paese di queste politiche «contro il lavoro», il Jobs Act ne esprime a partire dalla forma, con il suo «abuso» di delega al governo, un concentrato significativo. Oggi, anche dopo il decreto Poletti sui contratti a termine, 8 ingressi al lavoro ogni 10 restano temporanei, i nuovi contratti, se paragonati al trimestre precedente, si contraggono di 190 mila unità, un calo che riguarda tutte le tipologie di assunzione, mentre prosegue il trend negativo dei licenziamenti: 217.000 in tre mesi e in presenza dell’articolo 18 light versione Monti/Fornero.
L’ ultimo studio della Uil denuncia che, per il combinato disposto tra lo sconto Irap, permanente, e la riduzione dei contributi previdenziali per i neoassunti, in vigore fino al 2017, l’effetto del licenziamento post art. 18 a indennizzi crescenti (non a tutele crescenti) sarebbe quello di rendere conveniente per le imprese licenziare gli eventuali neoassunti più che stabilizzarli, questo perché si tratta in ogni caso sempre di contributi senza vincoli, senza riserve né a stabilizzare o ad assumere, né per premiare aziende che investono.
Se il lavoratore venisse licenziato a fine anno l’indennizzo, e perciò il costo per l’azienda, si aggirerebbe intorno ai 2.538 euro lordi: il ’saldo’ per l’impresa dunque sarebbe positivo per 4.390 euro. Un vantaggio che aumenterebbe, se il lavoratore, sempre assunto il 1 gennaio 2015, venisse invece licenziato nel terzo anno: i benefici fiscali per l’azienda, su un reddito di 22 mila euro, ammonterebbero a circa 20.790 euro mentre il costo dell’indennizzo sarebbe di 7.600 euro lordi, con un ’vantaggio’ per l’impresa di 13.190 euro. Esattamente il contrario di quello ’stimolo’ all’occupazione stabile sbandierata con il Jobs Act.
Tanta determinazione contro il lavoro grida «vendetta» di fronte all’impotenza nell’aggredire i 60 miliardi all’anno di corruzione delle tante «terre di mezzo» di cui i fatti di Roma rappresentano solamente l’ultimo episodio. È questa incapacità e il livello raggiunto dalla corruzione che bloccano il paese, impediscono gli investimenti e minano la convivenza sociale e la credibilità di politica e istituzioni. Non i diritti dei lavoratori.
Il governo con la scelta di non «ascoltare» le parti sociali, cioè i lavoratori subisce la pressione della «parte più forte», quella delle associazioni d’impresa, si sostituisce nel ruolo di controparte e perde la sua funzione di mediazione tra interessi diversi.
Anche per questo lo sciopero generale di oggi è necessario perché ricostruisce partecipazione e rappresentanza sociale, andando oltre gli insediamenti tradizionali del lavoro sindacalizzato, ridando voce e visibilità al precariato.
Precariato che è sempre più una condizione universale, che ridefinisce rapporti di forza in un conflitto destinato a crescere anche perché ciò che si muove e si mobilita è ancora privo di una rappresentanza politica adeguata, ciò che è accaduto in parlamento al di là delle giuste e generose battaglie o è troppo poco in termini di forza o è troppo manovriero e timido e ragiona su tempi che potrebbero essere troppo lunghi e fuori sintonia con le mobilitazioni in campo.
Lo sciopero generale dà forza alle nostre battaglie e chiederà continuità, contro il pareggio di bilancio, per un piano del lavoro (New Deal), ricostruisce solidarietà per nuovi diritti da conquistare oltre le solitudini. Immaginando un altro mondo possibile che metta al centro le persone, riconosca i limiti energetici e ambientali del pianeta, e il lavoro per il bene comune oltre le diseguaglianze. Buon sciopero generale!
Settis presenta il suo libro a Venezia e spiega come «interventi sbagliati abbiano provocato l'esodo degli abitanti, l'invasione del turismo, la marea distruttiva di progetti assurdi: l'autostrada più inutile del mondo, il ponte che poteva essere costruito pure in Nuova Zelanda, il Mose». La Nuova Venezia, 10 e 11 dicembre 2014 (m.p.r.)
La storia e la memoria. Per non essere omologati a una qualsiasi periferia urbana, alle «neocittà» identiche in tutto il mondo. Venezia è la cartina al tornasole della forma urbis che va scomparendo, travolta da progetti legati al guadagno immediato e allo stravolgimento dell'esistente. E politiche che non hanno la conoscenza del presente né lo sguardo lungo del futuro. Riscuote applausi a scena aperta il professor Salvatore Settis, archeologo e storico dell'arte, noto per le sue battaglie a tutela delle città d'arte. L'aula dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, a palazzo Franchetti, non è abbastanza grande per contenere il pubblico venuto a sentire la presentazione del suo ultimo libro edito da Einaudi Se Venezia muore.
Venezia è un paradigma, un esempio, dice Settis. Un esempio di come gli interventi sbagliati abbiano provocato l'esodo degli abitanti, l'invasione del turismo, la marea distruttiva di progetti assurdi, per fortuna spesso bloccati dall'opinione pubblica. «Cambiare il modello di città, offrire il meglio della storia di Venezia», dice Settis. Che si è battuto contro la vendita del patrimonio ai privati, contro l'idea di realizzare in gronda lagunare il grattacielo più alto di Europa. Settis cita Italo Calvino e le sue Città invisibili, la necessità di tutelare le città storiche malate. E Venezia lo è più di ogni altra.
Settis si spende anche sulla difesa dei palazzi e dei beni culturali che il Comune sta mettendo sul mercato per salvare il bilancio. «Quello che abbiamo detto vale anche per villa Heriott», dice tra gli applausi. «Non è un dibattito elettorale ma un contributo», precisa il professore in apertura. Ma sono in tanti a chiedergli «un aiuto» per salvare una città distrutta dagli scandali e dalle opere sbagliate. «Quello che è successo a Roma è nulla rispetto al malaffare legato al Mose», dice Andreina Zitelli, «il governo venga qui a vedere di cosa la città ha veramente bisogno».
Gherardo Ortalli, professore di Storia medievale a Ca' Foscari e membro dell'Istituto veneto, ricorda che di recente l'Istituto ha rimesso in vita la Commissione di studio sulla laguna. «C'era sempre stata», dice, «cancellata nel 1995 perché in quegli anni non esisteva a Venezia un centro di studio laico e indipendente, ma era tutto in mano al Consorzio Venezia Nuova». Il libro di Settis, dice Ortalli, è una sorta di «anamnesi della malattia. Bisogna prima capire quello che siamo prima di inventare soluzioni distruttive».
Gian Antonio Stella, giornalista, ricorda i tanti progetti assurdi proposti negli ultimi decenni per «rilanciare» la città d'acqua e renderla moderna. Le autostrade in mezzo alla laguna, le monorotaie, fino alla torre Cardin. E al progetto esposto alla Biennale del 2010 in cui si proponeva tra il compiacimento delle istituzioni la difesa della città d'acqua affidata a una serie di grattacieli che avrebbero protetto Venezia dall'acqua. «Ma Venezia deve difendersi anche da molti veneziani», dice Stella, «i veneziani che difendono Venezia sono pochi». «Come nel Ghetto da comunità di esclusi diventiamo comunità che vince», risponde Settis.
Lidia Fersuoch, presidente della sezione veneziana di Italia Nostra, parla di Arsenale e di restauri privati su palazzi come il Fontego dei Benetton e Prada a Ca' Corner della Regina.
La Nuova Venezia, 11 dicembre 2014
IL NO DI SETTIS ALLE GRANDI OPERE
A Mestre per discutere di paesaggio e territorio: lo storico dell'arte e archeologo Salvatore Settis, già direttore della Normale di Pisa e del Getty Research Institute di Los Angeles, è stato accolto ieri nell'aula magna del liceo Giordano Bruno per una lezione che ha preso spunto dal suo ultimo libro, Se Venezia muore, una disamina sui problemi delle città storiche partendo dall'analisi della situazione lagunare.
«Sarà davvero Giuseppe Pecoraro l'uomo giusto per l'impresa? Il nocchiere senza macchia a cui affidare il timone in così perigliosa tempesta? In effetti il suo nome torna alla mente non tanto per la gestione della Prefettura romana ma per l'inchiesta napoletana sulla P4.
L'Espresso, 11 dicembre 2015
Con questo post nasce il mio blog "Senza zucchero". Scriverò inchieste, notizie, commenti e analisi sul potere. Senza fronzoli, senza sconti. Per nessuno.
Ordunque è lui, il prefetto di Roma, il mr. Wolf che deve salvarci dai cattivi di Mafia Capitale. È "Peppino", come lo chiama l'ex dg Rai Mauro Masi, l'uomo che deve ripulire i sette colli dalla lordura dei fascio-ladroni e dei politici corrotti. È lui che in questi giorni dichiara e tranquillizza («non scioglierò il comune, sarebbe una vergogna») e che vuole dare la scorta a Marino. È sempre lui, uomo di Stato, che il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha mandato a spulciare le carte degli appalti del Campidoglio.
Epperò sarà davvero Giuseppe Pecoraro l'uomo giusto per l'impresa? Il nocchiere senza macchia che a cui affidare il timone in così perigliosa tempesta? In effetti il suo nome torna alla mente non tanto per la gestione della Prefettura romana, finita in polemiche continue (dai funerali di Priebke all'annullamento dei matrimoni gay), ma per l'inchiesta napoletana sulla P4. Ossia l'organizzazione capeggiata dal faccendiere Luigi Bisignani che manovrava nell'ombra il potere politico, gli affari milionari e le nomine pubbliche di società di Stato e servizi segreti.
Oggi sembra che se lo siano dimenticati tutti. Ma il nome di Pecoraro fa capolino spesso e volentieri tra le carte dell'inchiesta. E non poche sono le telefonate tra il prefetto e Bisignani, condannato a 1,7 anni i reclusione per una sfilza di reati, tra cui associazione per delinquere, favoreggiamento, rivelazione di segreto e corruzione.
Tre anni fa i colloqui tra i due sodali hanno incuriosito non poco il pm Henry John Woodcok, che cercò di capire come mai il prefetto chiamava il faccendiere discutendo di questioni assi sensibilil, come riunioni del Copasir e affari di imprenditori prodiani come Angelo Rovati. Così il magistrato, il 23 febbraio di quell'anno, convocò il prefetto nei suoi uffici (Pecoraro non è mai stato indagato per la vicenda) in modo da avere delucidazioni. Lì il poliziotto, nominato prefetto su proposta dei sottosegretari berlusconiani Nitto Palma e Mantovano, ammise che sì, Bisignani lui lo conosceva bene. «Dal 2004, da quando ero capo della segretaria del capo della Polizia De Gennaro. Io parlo con Bisignani come si parla ad un amico. Siamo amici di famiglia, conosco anche la moglie», spiegò.
Pecoraro, rappresentante dello Stato, frequenta Bisignani anche se sa che il lobbista anni prima è stato arrestato e condannato in via definitiva per il riciclaggio della maxitangente Enimont allo Ior. Incredibilmente, il prefetto nega a Woodcock di sapere che l'amico è stato anche iscritto alla loggia segreta P2. «Mi risulta, però, che sia legato al sottosegretario Gianni Letta...Escludo che il Bisignani si sia speso per farmi ottenere la nomina di Prefetto di Roma: la mia carriera e il mio curriculum sono ineccepibili».
Meno ineccepibile, secondo i pm, è il tenore delle loro conversazioni. I due al telefono parlano di tutto. Se Gigi chiede all'amico di intervenire nella scuola della figlia dell'ex ministro Stefania Prestigiacomo perchè infestata «da cinghiali», Pecoraro cerca di sapere dal lobbista informazioni su un progetto per un Parco Giochi a Val Montone. «Bisignani mi disse che c'era dietro anche Angelo Rovati, che chiamai facendo presente che c'erano problemi di viabilità legati all'apertura del predetto parco. Perchè chiamai Bisignani? È un imprenditore che conosce tutti. Ho richiamato poi direttamente Rovati perchè avevo già parlato con la presidenza del Consiglio senza successo. Rovati lo conosco da tanti anni, non volevo danneggiare l'iniziativa». In realtà è lo stesso Bisignani a spiegare ai magistrati che Pecoraro lo aveva chiamato «per mettere in guardia Rovati, consigliandogli di dirgli di uscire dall'affare». Per i pm napoletani il colloquio telefonico è perfetta metafora del potere della ragnatela del lobbista: «Che un prefetto ritenga normale rivolgersi a un privato cittadino per contattare un imprenditore coinvolto in un procedimento amministrativo di sua competenza la dice lunga sull'anomalia Bisignani».
In altre telefonate Pecoraro spiega al pidduista di aver parlato con il segretario di Letta (ora ai servizi segreti), in un'altra chiede a Bisi di trovare lavoro a un suo amico, «l'ex collega Mario Esposito, prefetto in pensione, che voleva lavorare come consulente in materia di sicurezza». In un'altra telefonata tra i due si parla addirittura di una riunione del Copasir, il comitato di controllo dei nostri 007, che avrebbe dovuto discutere di alcune accuse lanciate da Massimo Ciancimino a De Gennaro. «Appare inquietante» chiosano i magistrati napoletani che indagano sulla P4 «il fatto che il Bisignani e il prefetto Pecoraro parlino dell'ordine del giorno del Copasir, se si pensa che il Bisignani è soggetto assolutamente estraneo alle istituzioni dello Stato».
Pecoraro, però, non è d'accordo: l'amico Gigi lo ha sempre tenuto in gran conto: «Le accuse contro di lui? È un aspetto che non conosco, mi stupisce e mi auguro che non sia vero» disse a "Repubblica" quando Bisi venne arrestato «Detto ciò non voglio esprimere alcun giudizio. Io in questa vicenda ci sono entrato come i cavoli a merenda».
Ma l'uomo che qualcuno vorrebbe commissario di Roma al posto del sindaco Marino s'è fatto notare anche per altre vicende. Se recentemente ha difeso i poliziotti che hanno manganellato gli operai dell'Ast di Terni, lo scorso aprile ha giustificato l'agente immortalato a "camminare" sul costato di una ragazza inerme finita in terra durante una manifestazione. «Il poliziotto non doveva essere lì, è vero, ma forse voleva dare una mano ai suoi colleghi: per la frenesia e la frustrazione di chi, improvvisamente, si sente bersaglio alla mercé di chi, i manifestanti, è chiamato a tutelare», disse.
Ma Pecoraro è stato protagonista anche della scandalosa espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, Alma e Alua Shalabayeva, un'azione definita «illegale» sia dall'Onu che da Amnesty International e gravata, secondo la Cassazione, da «manifesta illeggittimità originaria». Un abuso, da stato di polizia: la donna aveva i documenti in regola, ma le autorità italiane non vollero vedere. Piegate da motivazioni ancora oscure. Ebbene quel provvedimento, deciso dal ministero dell'Interno, portava la firma del prefetto Pecoraro.
Già. L'intoccabile Peppino, promosso in questi giorni a salvatore della Patria.
«"Corruzione e antipolitica sono il risultato della mancanza di etica all’interno della politica", ha spiegato a Radio Vaticana monsignor Giancarlo Maria Bregantini: una risposta al capo dello Stato che mercoledì si era schierato contro la "antipolitica che è patologia eversiva"».
Il Fatto Quotidiano.it, 11 dicembre 2014 (m.p.r.)
Si guardano dalle due rive opposte del Tevere, la Conferenza Episcopale Italiana e il Quirinale. E da oggi a dividerli, oltre al fiume, c’è anche la valutazione delle conseguenze che la corruzione comporta per la vita politica nel Paese. Un «politico corrotto» è «più eversivo» di chi fa antipolitica in maniera onesta, ha scandito alla Radio Vaticana Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso Bojano e presidente della Commissione Cei per gli affari sociali e il lavoro. Una precisa risposta a Giorgio Napolitano che con l’opinione pubblica ancora attonita di fonte all’inchiesta “Mondo di mezzo”, l’inchiesta che ha svelato gli indicibili accordi tra la criminalità e la politica romana, ha ritenuto opportuno scagliarsi contro la «antipolitica» che è «patologia eversiva». A poche ore di distanza, la Conferenza dei vescovi è l’unica istituzione a prendere una posizione critica sulle parole dell’inquilino del Colle.
Con la tempesta di Mafia Capitale che soffia furiosa sulle istituzioni e sui palazzi del potere romano, uno dei pochi spiragli di luce sembra arrivare da oltretevere. «Corruzione e antipolitica, alla fine, sono il medesimo risultato triste di un fenomeno di mancanza di etica all’interno della politica – ha spiegato monsignor Bregantini – dobbiamo creare un’economia dove le decisioni non siano prese da pochi in stanze oscure, ma che siano trasparenti. Ci devono essere organi di controllo, la partecipazione della base. E’ il buio che crea la corruzione o l’antipolitica». Le parole dell’arcivescovo suonano come una chiara risposta a Giorgio Napolitano: «La critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obiettività, senso della misura e capacità di distinguere è degenerata in anti-politica, cioè in patologia eversiva», aveva detto il capo dello Stato mercoledì all’Accademia dei Lincei, scatenando la reazione del Movimento 5 Stelle e della rete Internet.
Alla domanda se sia più eversivo un politico corrotto o un antipolitico onesto, il capo-commissione Cei risponde senza titubanze: «Un politico corrotto». «E’ la corruzione che crea entrambi i guai: l’allontanamento dalla politica e poi, di conseguenza, il disservizio – è il punto di partenza del ragionamento di Bregantini – però, non stiamo lì tutti, con l’indice puntato contro pochi; dobbiamo tutti insieme dire: creiamo delle istituzioni partecipative che ci permettano di tenere sotto controllo i politici, non solo additandoli ma condividendo, imparando però anche da noi stessi che il denaro, se non lo sai usare, ti schiavizza». Bregantini si dice preoccupato per la situazione politico-sociale ed economica dell’Italia, «però – aggiunge – c’è anche una fortissima reazione morale che c’è stata, ad esempio, dopo la questione di Roma: ha dimostrato che c’è una società sana, che non si rassegna».
Un intervento che si iscrive nel solco della linea dettata da Papa Francesco fin dai primi mesi di pontificato. Era il 25 luglio 2013 quando da una favela di Rio il pontefice esortava i giovani a «non scoraggiarsi mai» nonostante la «corruzione da persone che, invece di cercare il bene comune, cercano il proprio interesse», e si ripeteva l’8 novembre scagliandosi contro la «dea tangente». Le «forme di corruzione, oggi così capillarmente diffuse offendono gravemente Dio», avvertiva il 12 dicembre mentre i richiami più forti sono arrivati nel 2014, il secondo anno di pontificato, a cominciare dalla messa tenuta in Vaticano per i politici durante la quale il 24 marzo Francesco disse: «No alla corruzione, agli interessi di partito e ai dottori del dovere e ai sepolcri imbiancati». I danni causati dai «corrotti economici, corrotti politici o corrotti ecclesiastici li pagano i poveri», avvertiva Bergoglio il 6 giugno per poi tornare sull’argomento poco più di un mese fa, il 23 ottobre: «Le forme di corruzione che bisogna perseguire con maggiore severità sono quelle che causano gravi danni sociali come le frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione o qualsiasi sorta di ostacolo alla giustizia».
Ha scelto una personalità di alto profilo, la Conferenza Episcopale Italiana, per commentare le parole del presidente della Repubblica. Presidente della Commissione vescovile per gli affari sociali e il lavoro, prima di arrivare a Campobasso nel 2007, Giancarlo Maria Bregantini è stato un vescovo di frontiera: per 13 anni ha guidato la diocesi di Locri, dove scelse per sé un ruolo di forte opposizione alla criminalità organizzata.
Quando nell’ottobre del 2005 venne ucciso Francesco Fortugno, vicepresidente della Regione Calabria, Bregantini aveva incoraggiato i giovani ascendere in piazza e far sentire la loro voce contro la mafia. La sua azione contro la ndrangheta ha guadagnato la ribalta dopo la strage di Duisburg, quando aveva ottenuto che per le vittime ci fossero i funerali pubblici, era riuscito a incidere sulle donne nel tentativo di riportare la pace tra le famiglie della faida di San Luca e si era recato in Germania per incontrare gli emigrati calabresi. Ma sono in molti ancora quelli che lo rimpiangono nella Locride anche per il suo ruolo di organizzatore ed ideatore di tante cooperative sociali che hanno dato lavoro ai giovani dell’area, una delle più povere e violente della regione.
Quest’anno Papa Bergoglio gli ha affidato la redazione delle meditazioni della via crucis al Colosseo e secondo voci che circolano Oltretevere ha le carte in regola per approdare alla guida di una grande diocesi come Roma e Napoli o per un incarico di rilievo all’interno della curia romana.
Susanna Camusso «il segretario generale della Cgil ospite di Repubblica Tv alla vigilia dello sciopero generale. "Renzi ha avuto il merito di accendere una grande speranza in questo Paese. Adesso non la trasformi in paura evocando la
Troika. Traduca quella speranza in lavoro"». Repubblica.it, 11 dicembre 2014
ROMA - «Non credo che la decisione sia stata presa in solitudine, perché è un atto grave. La nostra risposta è in atto, con forme di protesta e di denuncia di questo intervento a gamba tesa. Chiediamo la revoca della precettazione. Se il governo la dovesse mantenere, la rispetteremo, ma è un atto grave». Susanna Camusso, ospite del videoforum di Repubblica Tv, reagisce così alla decisione del ministro dei Trasporti Maurizio Lupi, di richiamare al lavoro i ferrovieri che venerdì avrebbero aderito allo sciopero generale indetto da Cgil e Uil contro Jobs act, legge di stabilità, politiche economiche e industriali, mancato rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici.
«Stiamo valutando, non finisce lì perché secondo noi si viola la legge e c'è un uso strumentale della legge - osserva la leader Cgil -. Noi abbiamo proclamato lo sciopero più di un mese fa. Non abbiamo ancora avuto il testo dell'ordinanza, che valuteremo. Abbiamo appreso della precettazione dai giornali. Poi si chiede a noi di non alimentare la conflittualità». «Vorrei sottolineare - aggiunge Camusso - come le procedure non siano rispettate, con atti unilaterali che alzano i toni del conflitto». Il segretario generale della Cgil venerdì mattina parlerà a Torino, ma la manifestazione, connotata dallo slogan "Così non va", si estenderà a oltre 50 piazze italiane.
In 20 anni di Berlusconi mai tanti scioperi come contro Renzi. (domanda dai lettori Rosario Giosa e Fulvio Castellani)
Non è vero, la lunga stagione dei governi di centrodestra è coincisa col maggior numero di scioperi. Li abbiamo sempre contrastati. Poi capisco, la domanda è legittima da chi ha sperato che Renzi fosse il grande cambiamento. Ma in nome della speranza ci prendiamo i licenziamenti senza giusta causa? Sono sentimenti che attraversano tutto il popolo della Cgil e dei lavoratori. Il mondo del lavoro non può rinunciare a lavoro e diritti.
"Cara Camusso, sei riuscita a convincermi a dare la disdetta all'Inps relativamente alla trattenuta pro Cgil. Mi sembra che niente sia cambiato dal 1984 quando la Cgil era in piazza contro l'abrogazione della scala mobile". La domanda riassume quanto molti pensano: Cgil oggi è retroguardia, meglio togliere le tutele purché ci sia lavoro. (domanda dal lettore Enzo Reali)
E' un Paese che ha scelto di competere solo sulla riduzione dei costi, con un lavoro che costi meno e non abbia diritti. E' un'illusione, che va rispettata nelle singole persone, la povertà induce a certi comportamenti. Ma la responsabilità deve essere che per quella via il nostro Paese è diventato fragile. La vera retroguardia e grande sconfitta sarebbe ridurre i diritti sul lavoro. Concentrare tutto sulla diminuzione dei diritti rende il paese fragile e senza sviluppo. Ci sono tutti gli elementi per dire che per quella strada si arriva a forme di schiavitù e guerra tra poveri.
Anche i precari meritano di essere rappresentati.
Noi abbiamo detto al governo, ricevendo disprezzo: abbiamo bisogno di ricostruire il lavoro in Italia. C'è poco lavoro rispetto alla domanda, lo dicono le cifre. La scelta dovrebbe essere di investire, partendo dagli investimenti pubblici. E tutte le risorse andrebbero indirizzate lì. Se si riduce il lavoro si riducono i diritti. In Italia c'è anche un fenomeno nuovo: un milione di persone che con un lavoro, anche a tempo pieno, è comunque sulla soglia della povertà. Non vediamo nelle politiche del governo come si distribuisca la ricchezza per generare il lavoro. Si può reagire contrastando l'austerità, non solo dicendolo in Europa, ma facendolo anche in Italia. Mentre c'è questa strana dicotomia.
Dipendenti pubblici che scioperano "solo" per il contratto. E attacchi al "senso di responsabilità" di chi nel Pd ha votato il Jobs Act, in riferimento soprattutto alla minoranza dem. Un elenco di "tradimenti".(domanda dai lettori Nicola Verdicchio, Claudio De Biase e Maria Genova)
E' l'effetto di una situazione, un mondo del lavoro che ha una sua proposta, che va in conflitto con chi faceva del lavoro il suo riferimento centrale. Questa frammentazione non fa bene a nessuno, il governo fa male ad alimentarla. Ma è questo il grande tema: il lavoro non ha rappresentanza politica, quindi cambia anche il rapporto tra le organizzazioni sindacali e i partiti. Mi ricordavano una preoccupante assonanza: il Codice del lavoro del 1927 diceva che per il licenziamento ingiusto c'è l'indennizzo, si torna a quella logica col Jobs Act. Ma non tutto è monetizzabile, la dignità delle persone ad esempio.
Uno studio della Uil dimostra che le misure del Jobs Act incentiveranno a licenziare piuttosto che ad assumere.
C'è una strana e poco trasparente discussione sui decreti attuativi del Jobs Act. I ministri competenti sono desaparecidos e questo dopo che Renzi aveva detto che dovevano parlare con i sindacati. Dopo aver deciso che la strada è la monetizzazione, si discute su come risparmiare. E se tutto si gioca sulle risorse, si dà un vantaggio alle imprese che licenziano, che hanno sgravi e pagano poco chi sarà assunto dopo. Ma con le tutele crescenti, cresce nel tempo anche l'indennizzo da corrispondere ai nuovi assunti in caso di licenziamento. Il che incentiva a interrompere quel rapporto il prima possibile. Vedo che una parte del Parlamento si è accorto di questo. E, in un Paese normale, dovrebbe essere obbligato a cambiare quello schema.
Assieme allo sciopero generale, non ci vorrebbe anche altro tipo di sciopero, quello dei consumi? (domanda dalla lettrice Angela Castellero)
La domanda della lettrice arriva da una parte del Paese che ci comunica il senso di abbandono che si prova oggi. Anche noi ci interroghiamo su forme diverse. Ma nello specifico, lo sciopero dei consumi è già in atto a causa della crisi. Forme alternative di mobilitazione, un ottimo suggerimento. Ma, vista la situazione, credo si debba sperimentare in altre direzioni.
Lo sciopero si poggia su un pacchetto vasto di temi. Su quale vorrebbe ottenere una risposta positiva?
Sul lavoro, un cambiamento di impostazione che metta tutte le risorse e le energie a disposizione del lavoro, per il futuro. Dando concretezza a quel senso di speranza che il governo intende dare.
Colpisce che due donne alla testa dei sindacati, Camusso e Furlan, nuova segretaria della Cisl, non siano riuscite a creare un'intesa. Furlan non ha escluso che su alcuni temi si possa parlare con la Cgil. Strano, considerando che la Cisl non è affatto morbida con Renzi.
Infatti, credo che da parte della Cisl ci sia una pregiudiziale, non sui contenuti ma sul "non ci si può mobilitare". Ma io dico che non ci si può nemmeno rassegnare. Se si crede che con un'intervista arrivino risposte positive non andiamo da nessuna parte. Ci siamo sentiti rimproverare che quando al governo c'era Monti abbiamo fatto poco. Di fronte a un simile attacco, non si può restare fermi. La Cisl non capisce che i nostri iscritti non comprenderebbero una mancata risposta, lo interpreterebbero come rassegnazione.
Forse sarebbe stato necessario un approccio diverso. Ovvero, la Cisl che va allo sciopero "insieme" alla Cgil, non "aderisce" allo sciopero Cgil.
In realtà, noi abbiamo discusso molto. La nostra idea è stata proposta, ma c'è un tempo per fare le cose. E quel tempo è adesso. Se non ci sono risposte bisogna trarre le conseguenze. Se i lavoratori hanno diritto, bisogna scegliere se esercitare le proprie capacità di pressione per cambiare le politiche o stare un passo indietro. Noi abbiamo scelto di fare il passo avanti. Il governo Renzi non può non sapere che si sono cumulati degli effetti che provocano la reazione delle persone.
Il suo giudizio su Renzi.
Penso che abbia il merito di avere acceso una grande speranza in questo Paese. Adesso non la trasformi in paura evocando la Troika. Evocare quella speranza è stata anche la sua fortuna. Ora la traduca in lavoro.
Si dice da tempo, con cicliche conferme, del divorzio dei cittadini dalla politica. Colpisce però che siano spesso i sindaci – non estranei alla politica – a manifestare sfiducia verso le decisioni prese nei palazzi lontani. Questo giornale ha dato conto della rivolta di amministratori sardi contro “Sblocca-Italia”. Sorpresi che dietro il programma di semplificare i processi per ammodernare il Paese ci sia l'idea di favorire lo sfruttamento intenso del territorio, e quindi l'impoverimento di luoghi, pure dove si vive dalla conservazione della natura. La prima insidia dall'arrembaggio di trivelle per ricavare inezie di gas o petrolio, nulla a che vedere con le pratiche di efficienza energetica a tutela della salute, come vorrebbe il buonsenso prima che la l'Europa.
Il profilo aggressivo di “Sblocca-Italia” è spiegato nel libro online scaricabile da «Altraeconomia» : Rottama Italia, sedici opinioni autorevoli (Settis, Montanari, De Lucia, Salzano, Petrini, ecc.) contro il “doppio salto mortale all’indietro”, la retorica del “fare” oltre le leggi.
Da più parti si pensa di ricorrere alla Consulta contro vari articoli del provvedimento, un insopportabile disegno di spoliazione di beni comuni, di «accumulazione capitalistica per espropriazione», direbbe il geografo-politologo David Harvey. Ma attenzione: all'orizzonte c'è anche una bozza di legge in materia urbanistica presentata dal ministro Maurizio Lupi: del tutto indifferente ai caratteri del territorio italiano che affonda nel fango e nell'incuria (compromessi, nell'ultimo mezzo secolo, 5 milioni di ettari di suolo agricolo). La legge garantisce la distribuzione di crediti edilizi per favorire la speculazione dei suoli (la consustanzialità tra proprietà privata e diritto a costruire – è stato scritto), la dissolvenza della pianificazione comunale con l'istituzione di indennizzi alle trasformazioni negate, la disapplicazione delle disposizioni sugli standard urbanistici; tutta roba sconsigliabile mentre le bolle immobiliari minano l'economia. Così l' accanimento della crisi disorienta e spiana la strada ad iniziative che violano misure di tutela ambientale e paesaggistica convenute in Europa.
Peccato, a proposito di disorientamento, che le manifestazioni siano normalmente contro le manomissioni più immediate e sotto casa, e raramente per difendere le ragioni che presiedono alla conservazione di habitat preziosi. Penso all'insofferenza verso la norme per custodire le biodiversità. In Francia e Germania si festeggia per il riconoscimento di un sito d'interesse comunitario che accresce il prestigio di una regione. Dalle nostre parti la presenza di un Sic incupisce, come la diagnosi di una malattia, un'area ben protetta come il colesterolo alto.
Colpiscono i toni astiosi per le cautele chieste nella realizzazione della Sassari-Olbia nei pressi di un Sic. Non so se le prescrizioni siano eccessive (peraltro a cura di uffici molto competenti). So che sono spropositate le invettive, il sarcasmo a uffa sulla fauna selvatica ai bordi del percorso, che saprebbe dove migrare – ci spiegano i soliti nemici delle regole per lo sviluppo buono.
Ripenso, per dire del disorientamento, allo slogan antipatico “l'uomo prima del muflone” che non ha aiutato le comunità del Gennargentu. Accompagnato dagli auspici estivi per improbabili apparizioni della foca monaca.
Il governo regionale ha coerentemente protestato contro “Sblocca-Italia”, segno di ostilità all'idea di affrancare gli investimenti dalle valutazioni da vicino, pur di realizzare briciole di Pil. E su questa traccia, nello sfondo il principio di sussidiarietà, ha aperto il confronto sul disegno di legge già deliberato dalla giunta, quel piano-casa forever che non persuade. Appunto perché attribuisce direttamente ai proprietari di immobili la facoltà di trasformarli in contrasto con i piani comunali e con impatto casuale su una miriade di situazioni delle quali il legislatore non può ovviamente sapere granché; come lo Stato non sa nulla dell'effetto delle trivellazioni ad Arborea o chissà dove nell'isola.
Intervistato da Daniela Preziosi, il mitico sindaco comunista di Torino che nell'83 denunciò la corruzione nella giunta, persino il suo vicesindaco fu arrestato. Qualcuno dirà: "altri tempi, non siate nostalgici". Noi diciamo:"certi princìpi devono tornare".
Il manifesto, 9 dicembre 2014
Come hai scoperto che alcuni tuoi assessori erano corrotti?
Era venuto da me un imprenditore che mi denunciava dei fatti illeciti sugli appalti però senza fare i nomi. La terza volta che viene gli dico: ingegnere’, era un ingegnere, si chiamava Di Leo, ‘o lei fa i nomi o io la denuncio per calunnia’. Lui risponde: ‘non mi rovini, ho famiglia’. ‘Lei è venuto a dirmi che io sono quello del rigore ma non si fida di me. Si fida dei magistrati?’. Mi faccio chiamare il procuratore della Repubblica e gli dico: ‘Le mando questo signore, non me lo spaventi e faccia quello che crede’. Poi però, per paura che l’ingegnere uscito dal municipio cambiasse idea, gli metto appresso un vigile della mia scorta, si chiamava Barbero, che lo accompagni in procura. Dopo tre mesi sono arrivati gli arresti.
Cosa era successo?
Scoprirono un giro di corruzione miserabile. Avevamo un appalto da centinaia di milioni di lire, allora una cifra da capogiro, per l’informatizzazione di tutto il comune, anagrafe, bilancio, servizi sociali. A pagare tangenti e viaggi di piacere era una ditta di informatica americana. Fu arrestato il mio vicesindaco socialista. Alla federazione del Psi fecero letteralmente piazza pulita: tesoriere, il segretario, alcuni assessori. Beccarono anche due dei nostri, due comunisti che si erano limitati a farsi pagare viaggi di piacere. Scoprii che nella lista degli allegri viaggiatori c’era anche il mio nome, ma con me non ci avevano neanche provato, al mio posto avevano offerto il week end a un democristiano.
Ma qui iniziano i tuoi problemi politici.
Craxi venne a Torino e chiese in piazza la mia testa. Disse: ‘Novelli non può più fare il sindaco, non gode più della fiducia del Psi’.
Il Pci, il tuo partito, come reagì?
Qualcuno si è schierato subito con me, come l’allora segretario di federazione Piero Fassino. Craxi mandò alla federazione torinese del Psi un commissario straordinario (fu scelto Giuliano Amato, ndr), fui accusato di non aver «risolto politicamente la questione». I socialisti uscirono dalla giunta, io mi dimisi e formammo una giunta monocolore comunista con qualche indipendente. I socialisti in teoria ci davano l’appoggio esterno, ma mi fecero venire l’esaurimento: ogni giorno non sapevo neanche se in consiglio avevo il numero legale. Siamo andati avanti fino a novembre ‘84 quando hanno convinto, diciamo così, due compagni comunisti di passare al gruppo socialista. Il 25 gennaio dell’85, a tre mesi dalle elezioni, ci fu un ribaltone. E venne eletto un sindaco socialista sostenuto da una giunta pentapartito. Così quello che aveva chiesto Craxi in piazza nel marzo dell’83, e cioè la mia testa, si era avverato.
Poi però il Pci torinese alle elezioni dell’85 ti ricandidò.
Ma il Pci era rimasto isolato, fummo battuti dal pentapartito.
E dal Pci nazionale quali segnali arrivarono?
Al congresso d Milano, che si svolgeva proprio in quei giorni, intervenni e spiegai che l’iniziativa era partita dal sindaco quindi non dovevamo temere nulla: noi ci siamo sempre comportati con rigore. Quando la commissione ristretta del comitato centrale discusse i nomi della direzione del partito, nell’elenco c’era il mio nome. Ma quel nome fu tolto.
Chi lo tolse?
E’ passato molto tempo, lasciamo stare. I protagonisti si saranno emendati. Partì lancia in resta il segretario regionale dell’Emilia che diceva: attenzione, noi abbiamo tutte le giunte con i socialisti, se ora mettiamo Novelli in direzione sembra che lo abbiamo premiato perché ha fatto questa cosa contro il Psi. Ricordo che Nilde Jotti dalla tribuna del comitato centrale si rivolse a me con queste parole: compagno Novelli, quando si hanno incarichi così delicati bisogna saper cantare e portare la croce. Molti anni dopo, leggendo il libro di Luciano Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci (Rubettino, 2005, ndr) ho scoperto com’è andata. Barca scrive così, raccontando del congresso: «La rivelazione di Novelli mette subito allo scoperto che nella Direzione del Pci convivono ormai due posizioni opposte: c’è chi considera il sindaco un giusto che ha fatto il suo dovere e chi, come Macaluso, un “povero cretino moralista”». Barca racconta anche che poi in commissione elettorale sulla proposta di portare me in direzione, sostenuta da Minucci, Pecchioli e Pajetta e con il favore di Berlinguer, «la proposta è respinta sotto l’attacco della destra» (si tratta ovviamente della destra del Pci, ndr).
Ma come può succedere che in un partito non ci si renda conto che il proprio compagno è un mascalzone?
Non so spiegarmelo. Un partito deve sempre tenere alta l’attenzione. Io avvertii i primi sintomi di inquinamento all’inizio degli anni 80. A Torino furono le prime avvisaglie di Tangentopoli, che però arrivò molto dopo. Ma nessuno poteva cadere dal pero: il primo segnale clamoroso lo dette proprio Berlinguer, nel luglio dell’81, nella famosa intervista a Eugenio Scalfari sulla questione morale. Dove dice: «I partiti hanno degenerato».
Ormai è chiaro a tutti. Introdurre nella Costituzione l'obbligo del pareggio del bilancio (cosa che neppure l'Europa ci chiedeva) è stato un gravissimo errore. Ma se si vuole si può correggerlo. Ecco perchè e come.
Il manifesto, 7 dicembre 2014
Eppure le avvertenze alla prudenza vennero fatte anche allora, ma non furono ascoltate. Nel luglio del 2011 sei premi Nobel per l’economia (Kennet Arrow, Peter Diamond, Charles Schultze, William Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow) rivolsero un appello al Presidente Obama a non piegarsi alla regola del raggiungimento del pareggio di bilancio annuale, considerandola del tutto disastrosa per una corretta politica economica.
Più modestamente, un’assemblea indetta da giuristi democratici a Roma, in prossimità del voto finale in quarta lettura al Senato, avvenuto nell’aprile 2012, invitava i parlamentari del Pd, facenti parte della maggioranza che sosteneva il governo Monti, benché favorevoli al pareggio di bilancio, ad abbandonare l’aula al momento del voto in modo da non fare scattare la maggioranza dei due terzi che avrebbe impedito la convocazione del referendum cosiddetto confermativo. Un referendum che si applica alle norme di revisione costituzionale che non sono approvate in entrambe le camere con la maggioranza dei due terzi e che – stranezza della nostra legislazione – non prevede, a differenza dei referendum abrogativi di leggi ordinarie, alcun quorum. D’altro canto non era l’Europa a chiedercelo. Infatti quest’ultima si mostrava indifferente al tipo di norma che i paesi membri avrebbero adottato al riguardo, se di livello costituzionale o meno. La Francia ad esempio non seguì la prima strada.
Se il consiglio fosse stato seguito si sarebbe avuta almeno una larga discussione di politica economica nel nostro paese e ogni forza politica sarebbe stata costretta a pronunciarsi apertamente, non potendo ricorrere all’astensione nel voto referendario.
Rispose Anna Finocchiaro, presente all’assemblea nella sua qualità di Presidente del gruppo senatoriale Pd, con un cortese ma fermo discorso, nel quale precisava la diversità dei punti di vista e soprattutto la sua appartenenza ad un partito che non tollerava che, una volta presa una decisione, i suoi parlamentari si comportassero in modo discorde. Motivazione davvero incauta se messa a confronto con quanto sarebbe avvenuto di lì a non molto, quando oltre cento deputati nel segreto dell’urna disobbedirono alla indicazione di voto del loro partito sulla elezione del Presidente della Repubblica.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. La applicazione della norma tanto invocata prima da Berlusconi, poi da Monti e santificata da maggioranze senza precedenti, inizialmente anticipata addirittura al 2013, è stata poi posticipata da Renzi al 2017. Né sono state da aiuto le elucubrazioni susseguenti alla presentazione del Def 2015 sulla misurazione del Pil potenziale da cui si deriverebbe il c.d output-gap in base a cui si valuterebbe la distanza dal raggiungimento del pareggio strutturale. I contorcimenti sulle differenze fra Pil reale e Pil potenziale, fra pareggio di bilancio contabile e quello strutturale nascondono solo la cattiva coscienza di chi ha compreso che la norma non sta in piedi ma non si rassegna alla brutta figura di fare marcia indietro.
Ma anche questo gioco a nascondino ha il fiato corto. Venerdì un articolo molto puntuale del Sole24Ore gettava la maschera ed affermava chiaramente che “è tempo di ripensare l’utilità del pareggio di bilancio”, fino a definire che l’idea di diminuire il numeratore del rapporto Debito/Pil, su cui si basa tutta la politica di austerità e il famigerato fiscal compact, è “una concezione priva delle più elementari basi logico-razionali”.
Quindi quella norma va abolita. A questo scopo è partita la campagna «col pareggio ci perdi» per la raccolta di firme in calce ad una legge di iniziativa popolare che mette i bisogni delle persone prima della contabilità. Si stanno formando comitati in tutte le città. Se ne tornerà a parlare il 18 dicembre a Roma, alle 17.30 presso l’Auditorium di via Rieti con Stefano Rodotà, Susanna Camusso, Maurizio Landini coordinati da Norma Rangeri
Una puntuale risposta ai critici di un articolo della politologa. Il dibattito sulle forme e sulla sostanza della democrazia nell'età del dominio del danaro e della mascheratura populistica.
Micromega, 2 dicembre 2014
La democrazia ha dei fondamenti individualistici e procedurali che il populismo non riesce a rispettare e anzi manomette nel profondo. Ma l’errore dei critici del proceduralismo democratico è soprattutto di renderlo corresponsabile di quelle ingiustizie sociali ed economiche che invece sono generate nelle nostre società contemporanee dal dominio incontrastato del capitalismo finanziario.
Rispondo brevemente alla replica dei miei critici ringraziandoli di aver discusso le mie idee con la stessa sincera radicalità con la quale ho discusso e discuto le loro. Non entrerò nel merito delle varie critiche per non scrivere un trattato. Mi limiterò ad avanzare alcune risposte circa il metodo o l’approccio che ci divide. Per esempio, ci sarebbe da discutere molto puntualmente la lettura proposta da Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli della democrazia, delle procedure, del rapporto costituzione/politica, e società/stato. Ci sarebbe anche da discutere – e fortemente dissentire – sulla concezione davvero problematica di rappresentanza che i miei due interlocutori propongono, una visione arcaica e anche, se mi è consentito, poco attenta e con evidenti imprecisioni. Ma, appunto, preferisco rispettare le condizioni che mi sono data: ovvero discussione sul metodo.
Comincerò dalle osservazioni di John McCormick, che questa volta pertengono direttamente al mio libro sulla Democrazia sfigurata, con l’accusa di essere un lavoro polemico nello stile e nelle argomentazioni, e perfino poco magnanimo con gli autori che discute e critica. Devo confessare che non capisco questa critica, per due ragioni almeno. Prima di tutto poiché la critica di essere polemica mi è rivolta da un maestro di polemica: ricordo a questo proposito l’articolo di McCormick “Machiavelli and Republicanism” uscito sulla rivista Political Theory nel 2003, costruito interamente intorno e a partire dalla polemica contro la Cambridge School (sulla cui raffigurazione i membri di quella scuola non si sono probabilmente riconosciuti). In sintonia con quell’approccio contro-argomentativo (che egli chiama polemico) McCormick ha costruito la sua visione del repubblicanesimo di Machiavelli e di quello romano. Dunque, il maestro dovrebbe essere più comprensivo con l’allieva!
In secondo luogo, non mi è chiaro perché egli identifica la critica delle idee con la polemica. Nei mei capitoli critici non inveisco contro alcuno, né offendo nessuno. Isolo invece alcune idee e poi cerco di mostrare perché sono in tensione o in contraddizione con i principi democratici; mostro che esiste una pluralità di interpretazioni della democrazia che rendono le classiche definizioni, per esempio quella solo deliberativa o quella solo schumpeteriana, non soddisfacenti. Mettere in evidenza la pluralità delle interpretazioni e mostrare come le proposte epistemiche, o quelle populiste o quelle plebiscitarie non siano malattie, ma forme della democrazia, sue possibili espressioni facciali, se così si può dire: questo è quel che cerco di fare.
Ovviamente restringere in un capitolo la critica di una corrente di pensiero porta con se il rischio di semplificazione; ma è un rischio che si può e a mio parere si deve correre. Per esempio, per sviluppare l’analisi critica delle teorie epistemiche (che non sono qui un oggetto di discussione ma vorrei menzionare) mi concentro su uno o al massimo due autori distillando dai loro scritti principali il nucleo della teoria stessa che è il seguente: le teorie procedurali puramente politiche falliscono nel giustificare il dovere morale di obbedire alle decisioni collettive perché questo dovere può derivare solo dall’assunto che i risultati politici corrispondono a uno standard oggettivo di “verità”. Se la procedura non è orientata a produrre risultati veri non riesce a essere legittimata, anche se la decisione che genera è formalmente legittima. La parola “verità” è al centro della mia obiezione, che intende sostenere la specificità della deliberazione politica (che al massimo genera verosimiglianza, ma non verità) e la ragione per la quale la democrazia ha bisogno di un’arena pubblica nella quale ciascun cittadino si senta libero di partecipare e tratti gli altri come eguali, e nella quale la sorgente delle opinioni e delle informazioni può portare i partecipanti tutti a cambiare idea e a farlo senza interruzione. La libertà è allora il motore di questo meccanismo, non la ricerca della verità. Questa critica non mi pare oltraggiosa o ingenerosa.
La politica, come la discussione pubblica, presume un modello di razionalità che è endogeneamente discorsivo e per questo bisognoso di essere aperto alla diversità non solo come punto di partenza (come pensano gli epistemici) ma anche come punto di arrivo: ci sono differenze di visioni o interessi o di valori che non verranno mai risolti in una unica soluzione. La libertà e il pluralismo sono endogeni, fondamentali. Lo stesso argomento che vale per la democrazia vale per la rappresentanza politica la quale, come anche ha dimostrato Bernard Manin, non può esistere senza una comunicazione aperta e pubblica tra cittadini e istituzioni.
Questa è la figura della democrazia come diarchia alla quale mi riferisco cercando di integrare la concezione procedurale e la concezione deliberativa. Quindi, la valutazione delle procedure democratiche deve essere fatta badando a considerare che cosa esse promettono: non promettono soluzioni vere o corrette ma soluzioni che tengono aperta sempre la possibilità di cambiare, e quindi di rinnovare il dibattito e le maggioranze. Democrazia include il dissenso come sua condizione (il principio di maggioranza presuppone l’opposizione), e questo contraddice la visione epistemica e anche, a mio modo di vedere, la visione populista.
Se il populismo al potere è capace di tener fede a questi criteri di pluralismo e dissenso, allora esso accetta i fondamenti della democrazia rappresentativa, e quindi non è niente altro che una forma più intensa di maggioranza (una larga maggioranza tanto da essere a volte quasi consensuale). Ma allora, come isoliamo il populismo da altre visioni di democrazia? Che cosa esso ha di specifico che ce lo fa riconoscere rispetto a una maggioranza più intensa (un aspetto del libro che non viene discusso per nulla dai miei critici e che a mio modo di vedere è invece un tema molto importante)? Che cos’altro esso è, se non magari un’uscita dai fondamenti individualistici della democrazia costituzionale? E questo mi sembra che i suoi sostenitori vogliono che sia. Ma se così è, allora il populismo ha l’ambizione di creare il governo della maggioranza – questa è la sua vocazione. E qui può essere situata, come a me sembra, l’origine dei suoi problemi rispetto ai diritti e al pluralismo.
McCormick, come Del Savio e Mameli, mi accusa di non riconoscere che il populismo ha avuto diverse coniugazioni. E questo è davvero ingeneroso! Poiché dedico diverse pagine a distinguere tra forme d’essere dei movimenti (popolare e populista non sono la stessa cosa) e poi a riconoscere come il populismo abbia avuto diverse storie in diversi contesti (il caso degli Stati Uniti, per esempio). Più attenzione alla lettura e meno animosità sarebbe stata auspicabile. Di fatto, i miei critici trasformano le mie idee in polemica per poterle controbattere meglio.
Comunque, del populismo m’interessa vedere i problemi, non le cose che sono andate bene (come mi invita a fare invece McCormick). Perché è dalle cose andate male che possiamo meglio vedere gli attriti del populismo con la democrazia costituzionale. Scrive McCormick: “Urbinati è preoccupata dall’inesistenza di meccanismi di accountability iscritti nella logica del populismo, e dunque dalla possibilità che i molti – o più verosimilmente i loro demagoghi – possano usare appelli alla legittimità esistenziale del ‘popolo’ in modo da giustificare l’abrogazione delle norme democratiche e costituzionali. Ma questa preoccupazione è eccessivamente allarmista”. E perché sarebbe “eccessivamente allarmista”? E poi, che cosa vuol dire “eccessivamente”? Quale è il limite dell’allarme affinché di essi ci si debba preoccupare? Ci sono esperienze storiche effettive che devono far pensare alle contraddizioni messe in moto dai movimenti populisti quando diventano forze di governo. Non si tratta dunque di allarmismo (eccessivo o blando) ma di contraddizioni rispetto alla democrazia nella sua complessità, che non è solo regola di maggioranza, ma principio che regola, accetta e rispetta l’opposizione perché il suo fondamento è il rispetto della volontà e dell’opinione del cittadino singolo, non della massa.
Un esempio? La Lega Nord di Salvini: questo è un movimento populista che ha tutti i tratti della democrazia antiliberale. E che dire del movimento che in Ungheria ha conquistato la maggioranza e cambiato la costituzione per darle un carattere maggioritarista (ha McCormick mai letto la nuova costituzione ungherese?). Questi movimenti dimostrano l’esistenza di una interpretazione anti-individualista dei diritti e delle garanzie nel senso che essi interpretano diritti e garanzie come possessi della grande maggioranza, non degli individui (e quindi di chi non ha il potere del numero) perché interpretano la democrazia come il volere del popolo maggioritario, senza possibilmente intralci di diritti e contrappesi. In questa interpretazione, la massa è l’attore, non le sue componenti individuali, non i cittadini appunto (è questa la ragione della mia insistenza sulla dimensione isonomica della democrazia, che la forma rappresentativa non cambia o sovverte).
Ora: è vero che molto spesso, e soprattutto oggi, i movimenti populisti sono il segno di un malessere sociale ed economico. I sistemi liberali sono stati sepolti dai fascismi anche a causa di radicali crisi economiche che hanno impoverito larghe fasce di popolazione. Oggi siamo di nuovo in una situazione di grande sofferenza di molti. È di questa enorme diseguaglianza economica che le democrazie devono preoccuparsi. La politica populista è un segno di questa debolezza, ma dubito fortemente che possa essere la soluzione. Non lo è in Ungheria, non lo è stata in Venezuela. E non credo che la Lega Nord o il partito di Le Pen siano la soluzione che può salvarci dall’ingiustizia economica e sociale. Certo, ci sono anche populismi ‘buoni’ – vi prego di dirmi quali sono e ne discutiamo. In Europa, una democrazia che mette la massa o la nazione o il popolo tutto prima delle sue componenti è un problema, non ci ha mai dato soluzioni buone.
Se ci interessa, come interessa a miei interlocutori e a me, parlare della mutazione antiegualitaria delle società democratiche, dobbiamo portare il discorso oltre la politica e le sue procedure. Dobbiamo evitare di dare alla democrazia responsabilità che sono del sistema economico di capitalismo globale. Il populismo di oggi è il riflesso della debolezza degli stati nazionali, che non hanno più il potere di ordinare, di contrattare, di costruire piani industriali o piani energetici, che non riescono a fare politiche di redistribuzione e di giustizia sociale perché i loro esecutivi e i loro parlamenti sono stretti sotto il ricatto degli interessi bancari. Potremmo dire che le tensioni sociali che crescono ogni giorno sono il segno del compromesso che si è rotto tra lavoro e capitale, un compromesso che, dopo la Seconda guerra mondiale, ha accompagnato la nascita delle democrazie europee. All’interno di quel contesto, quello degli stati nazionali, capitale e lavoro erano due attori sociali ben organizzati e protagonisti di una trattativa non a perdere, non a somma zero.
La fine della Guerra Fredda, che comunque imponeva dei confini al mondo, ha cambiato il volto alle nostre società. Finché sulla mappa c’erano quei confini, all’interno del nostro mondo era possibile da parte di chi lavorava fare richieste e riuscire a ottenere risposte. Non essendo un mondo globalmente aperto, non era possibile accedere alle forze lavoro a costo zero del quarto o del quinto mondo per accumulare più profitti. Quei confini – per coloro che stavano dentro il primo mondo, dove era rinata la democrazia – hanno creato benessere, hanno reso possibile il controllo e l’esercizio del potere democratico, e l’equilibrio tra le classi. Il mondo aperto è un mondo maledetto per chi non ha potere. Un mondo senza confini ha serie difficoltà ad essere governato con l’arma del diritto e a coltivate l’eguaglianza su cui riposa la democrazia. Un mondo senza confini è una buona cosa per chi ha potere economico. È pessima per chi quel potere non ce l’ha. Ad esempio, per quella fascia di popolazione che si trova a competere con altri lavoratori, come quelli cinesi o del sud-est asiatico o africani, i quali potere non ne hanno, e nemmeno diritti sociali e sindacali, e che fanno concorrenza al lavoro occidentale protetto da diritti.
Qui sta il nocciolo del problema che i movimenti populisti mettono in luce, ma risolvono nel modo peggiore possibile quando puntano il dito accusatore contro gli immigrati, e propongono di togliere i diritti a chi non è parte della comunità di identici. Quando ridefiniscono gli spazi della politica in un modo tutto identitario: il pianerottolo davanti casa loro, la vita nel quartiere, nella regione, nella nazione. E allora, il diverso (chi parla un’altra lingua, chi ha una religione di minoranza, chi parla un dialetto non identico) diventa il nemico. E intanto chi ha il potere di manovrare le decisioni resta nell’ombra, lontano e invisibile.
Per molti populisti nostrani, il nemico è il vicino di casa, l’immigrato, il musulmano, il rom. Il populismo diventa quindi l’uso dell’ideologia del popolo da parte di una leadership determinata, che nel nome di quell’ideologia giustifica politiche di esclusione e autoritarie. Un’oligarchia di pochi, insomma, che cerca l’appoggio di una larga maggioranza, e spesso lo trova, quando questa maggioranza è fatta di cittadini di una nazione che soffrono una decurtazione dei diritti e del benessere. Certo, è un appoggio che si guadagna anche facendo cose lodevoli: Peron ha creato la classe media argentina, ha costruito una forte classe di dipendenti statali, ha creato per loro condizioni materiali di vita dignitose, ha dato loro le scuole … il tutto, a spese di tante altre cose, a partire dalla libertà politica, dalla divisione dei poteri, dal governo della legge … Insomma, il populismo può certamente essere un “grido di dolore”, come scrive McCormick, ma raramente può essere una cura buona a quel dolore.
Se si pensa che la diseguaglianza economica sia il problema, allora occorre andare oltre le proposte procedurali. Torniamo a parlare di lotta di classe: questo mi sembra più pertinente delle proposte molto problematiche come la costruzione per legge di due classi, quella dei pochi e quella dei molti (e quanti gradini sono ammessi tra i molti? E perché la soglia del reddito proposta da McCormick per discriminare pochi e molti dovrebbe essere accettata per buona?). Queste politiche “romane” o massificanti sono problematiche, non meno discrezionali di quelle esistenti e classiste perché introducono altri piani di discrezionalità che forse sono peggiori dei rimedi.
È quindi forviante portare sul terreno delle procedure un problema che è economico e di classe. Si pensa davvero che togliendo il libero mandato si porti giustizia nella società come pensano Del Savio e Mameli? Si pensa davvero che sostituendo il referendum e il plebiscito alle elezioni dei rappresentanti si risolva il problema del dominio del capitalismo finanziario sugli stati? La storia ci dà esempi contrari: alla democrazia plebiscitaria si sono rivolti proprio coloro che nel nome degli interessi del popolo o della nazione hanno tratto profitto per sostituirsi alla vecchia classe dirigente. La posizione di Del Savio e Mameli è oltre che lacunosa, ingenua. Ed è un’aporia. Infatti, da un lato mi accusano di voler usare le procedure per difendere lo status quo capitalistico (!!) e di proporre una democrazia non sostanziale ma formale e procedurale, dall’altro propongono di risolvere la diseguaglianza di classe con soluzioni che sono solo procedurali (Marx li criticherebbe di riformismo ingenuo). Insomma accusano me di difendere il capitalismo, perché difendo il mandato libero e poi, invece di andare con coraggio dove le loro premesse li potrebbero portare (cioè a Stato e rivoluzione di Lenin), propongono semplicemente di riscrivere l’Articolo 3 della Costituzione italiana!
Ma se davvero le procedure sono così di poco conto, se mi si accusa di difendere lo status quo perché sostengo che la democrazia vive nelle procedure, allora non si capisce perché i miei critici finiscano per proporre di riformare le procedure (appunto mandato imperativo e plebiscito). Ma, con buona pace della loro volontà riformatrice, io penso che dobbiamo preferire l’attuale dicitura dell’Articolo 3 della nostra Costituzione. La nuova dicitura è infatti cosi aperta all’interpretazione discrezionale da lasciare ai magistrati o alla maggioranza o alla forza un potere interpretativo esorbitante. Ecco il testo modificato del secondo comma dell’Articolo 3: “E’ dunque compito della Repubblica rimuovere quelle diseguaglianze economiche e sociali che interferiscono con l’eguale partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese…”. L’espressione “quelle diseguaglianze che interferiscono” è una porta spalancata alla discrezione – infatti chi lo decide quali sono “quelle” diseguaglianze che “interferiscono” con l’eguale partecipazione? Una costituzione dovrebbe consentire di risolvere i dissensi non di scatenarli: questa riscrittura sarebbe una iattura e la porta aperta alle ostilità, poiché in una democrazia nessuno ha in mano la bilancia politica per decidere senza ombra di dubbio “quali siano” quelle diseguaglianze che “interferiscono” sulla decisione volontaria di partecipare (o di non partecipare?). Alla riforma dell’Articolo 3 proposta dai nuovi populisti dovremmo preferire la dicitura di Lelio Basso, che non era un populista ma un proceduralista politico, per tanto molto attento alle condizioni della partecipazioni politica. Tra le quali, il denaro.
Secondo i miei lettori, quello del denaro privato in politica sarebbe solo un piccolo problema, anzi un non problema. Eppure, noi stiamo assistendo ad una trasformazione oligarchica della politica che si fa strada immettendo soldi privati: questo si ricava dalla privatizzazione dei partiti, dalla privatizzazione dei deputati eletti, dalla privatizzazione dei mezzi di informazione. Di fronte a questi scempio del pubblico e della politica democratica, i populisti non si scompongono: a loro interessa che si facciano più plebisciti e più referendum!
Non tutti questi governi si sono comportati allo stesso modo, ma nessuno ha messo la crisi al primo posto della sua agenda e sta di fatto che stiamo affogando nel capitalismo in crisi. La sinistra è ridotta ai minimi termini, partiti dissolti, sindacati in crisi per la crescita della disoccupazione, le innovazioni tecnologiche, le politiche dei vari governi, fondamentalmente antioperaie. L’attuale governo di Matteo Renzi procede con misure reazionarie, oltre che provinciali. Anche la mondializzazione viene affrontata senza minimamente avere coscienza di come progresso produttivo e tecnologie della comunicazione ci mettono di fronte a una situazione del tutto nuova.
Crisi economica, crisi finanziaria, mancanza di una vera unità europea – la Germania va per i fatti suoi — indebolimento delle banche centrali, compresa la Banca d’Italia, disattrezzate e impotenti di fronte alle novità della crisi. Su questo vorrei citare il prezioso volumetto di Pierluigi Ciocca con un titolo di massima elequenza: “La Banca che ci manca. Le banche centrali, l’euro, l’instabilità del capitalismo”, pubblicato da Donzelli.
In questo quadro difficile, e anche pericoloso, non sono affatto da sottovalutare le tensioni internazionali (Ucraina) e il crescere dei flussi migratori verso paesi che non sono più in grado – come nel passato – di utilizzare questi aumenti di popolazione, con la minaccia di conflitti pericolosi.
E la nostra Italia di oggi? Che sta affondando nelle paludi acide di questa lunga e profonda crisi? Matteo Renzi non durerà a lungo, ma a cosa aprirà le porte? Tempi pericolosi ci aspettano. Bisogna resistere, e per resistere lavorare anche in piccoli gruppi per un’analisi seria della crisi attuale, e su questo impegno formare minoranze attive che portino a iniziative politiche e culturali, soprattutto per tentare di riprendere il cammino verso una società libera dalle catene di un capitalismo in massima crisi. Speriamo
«Questione morale . Un ruolo-chiave lo ha svolto l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie». Come dimentica presto Berlinguer chi ancora abita sotto le tende del PMR, trascinando tutti noi nella vergogna! Il
manifesto, 5 dicembre 2014
«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono talvolta interessi loschi, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello. Non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile: sono piuttosto federazioni di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi e di soffocare in una palude». A quanti sono tornate in mente in queste ore le parole di Enrico Berlinguer nella famosa intervista alla Repubblica del febbraio 1981? Sono trascorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge.
Nel venticinquesimo della morte ci si ricorda finalmente di Leonardo Sciascia. Anche Sciascia lanciò l’allarme. «La palma va a nord», scrisse: marcia alla conquista del paese. Alludeva al modello siciliano d’impasto tra politica e mafia.
Un impasto nel quale dapprincipio la mafia intimidisce e corrompe, poi penetra le istituzioni e si fa Stato. Ripetutamente Sciascia mise in guardia dal rischio che questo modello si generalizzasse. Oggi fingiamo di scoprire che mafia e ‘ndrangheta si sono stabilite a Milano e controllano vasti settori dell’economia nazionale. E guardiamo atterriti al nuovo romanzo criminale della mafia romana, edizione aggiornata di quell’universo orrendo che ruotava intorno alla banda della Magliana, coinvolgendo anche allora mafia, politica e terrorismo neofascista.
In questi trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine contro il malaffare. Lo si è assecondato, lo si è favorito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di craxiana memoria. Della Milano da bere e del patto scellerato tra Stato e capitale privato che aprì le voragini del debito pubblico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la politica usata (con la complicità di gran parte della «sinistra») per salvare le aziende di famiglia; la legalizzazione dei reati finanziari; l’esplosione delle ineguaglianze. E vennero le «riforme istituzionali» che, proprio per iniziativa della sinistra post-comunista, diedero avvio allo stravolgimento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo disegnata in Costituzione.
Il presidenzialismo negli enti locali ha reso le istituzioni più fragili e permeabili ai clan anche per effetto di un apparente paradosso. L’accentramento monocratico del comando è andato di pari passo con la disarticolazione dei partiti politici, culminata nella farsa delle primarie aperte. Questo processo ha da un lato azzerato la dimensione partecipativa e la funzione di orientamento culturale svolta in precedenza dai partiti di massa; dall’altro ha promosso una selezione perversa del ceto politico-amministrativo, premiando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i partiti – soprattutto i maggiori – si sono ritrovati sempre più spesso alla mercé delle consorterie e delle cupole, secondo un meccanismo analogo a quello che in altri tempi permise a Cosa nostra di comandare nella Palermo di Lima, Ciancimino e Gioia.
Ma un ruolo-chiave, in questo disastro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie: l’avvento di una politica che si pretende post-ideologica, che ha significato in realtà il congedo di gran parte della sinistra italiana dalle lotte del lavoro e da una prospettiva critica nei confronti degli spiriti animali del capitalismo. Non è necessario, certo, essere comunisti per comprendere che moralità e buona politica sono strettamente connesse tra loro nel segno del primato della giustizia e del bene comune. Né in linea di principio aderire senza riserve alle ragioni del capitalismo impedisce di riconoscere l’importanza della questione morale e di essere «onesti», per riprendere un lemma sul quale si è ancora di recente dibattuto. Ma se della moralità e dell’onestà non si ha una concezione povera e astratta, allora si comprende facilmente che entrambe coinvolgono direttamente il modo in cui si giudicano l’ingiustizia sociale e il persistere dei privilegi.
Oggi come allora la questione morale investe frontalmente la politica anche per questa via: è una faccia della sua complessiva degenerazione. Non si tratta soltanto di illegalità, ma anche di irresponsabilità di fronte alla devastazione sociale provocata da trenta e passa anni di dominio del mercato, del capitale privato, dell’interesse particolare. Questione morale e irresponsabilità sociale della politica non sono, qui e ora, fenomeni indipendenti tra loro, bensì manifestazioni della stessa patologia