Corriere della Sera e la Repubblica, 5 gennaio 2015, con postilla
Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.
IL TRUCCHETTO DEL TRE PER CENTO
di Gianluigi Pellegrino
Il ripensamento ha senz’altro il sapore giusto dell’atto dovuto. Il riconoscimento di un errore inaccettabile che il governo stava compiendo. E che si deve stare in guardia non si ripresenti nei prossimi passaggi del provvedimento in Consiglio dei ministri. Ciò detto, non pochi interrogativi restano appesi, e aspettano risposte ugualmente doverose.
La norma inserita nel decreto fiscale era infatti, prima ancora di ogni finalità sospetta, del tutto indifendibile nel merito. Un autentico sgorbio grave quanto odioso. Stabiliva espressamente che un ricco che froda al fisco milioni di euro se ne esce con una semplice sanzione amministrativa, solo per la sua alta dichiarazione dei redditi. Mentre per uguale o minore evasione un cittadino comune deve essere punito severamente con la galera.
Una norma che non c’entrava nulla con i meritori contenuti del decreto delegato e che contraddiceva gli obiettivi indicati più volte da Renzi: punire i grandi evasori senza per questo mostrare ai cittadini un fisco nemico, arrabbiato e aguzzino. Qui invece si faceva l’esatto contrario. E allora la domanda è come sia potuto avvenire. Come abbia potuto lo stesso governo approvare quel testo. Nessuno si era accorto delle conseguenze? O qualcuno sperava che il provvedimento sarebbe passato inosservato? Non si sa quale sia l’ipotesi peggiore.
E nel mistero della manina autrice del codicillo non può sorprendere che si sottolinei come quella normetta traduceva alla lettera il ritornello berlusconiano: come fate a condannare per frode fiscale me, che pago milioni di tasse? Che è un po’ come pretendere di giustificare l’omicidio di un medico se per il resto ha curato molti malati. O la pedofilia di un prete o di un insegnante se per il resto hanno educato tanti bambini.
In realtà il furto del ricco dovrebbe al più essere un’aggravante. Eppure esattamente quel principio declamato dal Cavaliere risultava tradotto in legge, perché si rendeva non più punibile la orchestrata frode milionaria, in ragione della complessiva dichiarazione di redditi del colpevole. Utilizzando il giochetto del 3 per cento che cadeva a pennello per cancellare con un colpo di spugna le frodi del leader di Forza Italia, aprendo la voragine di unsalvacondotto per tutti i grandi evasori.
Ora, dopo il clamore suscitato, il governo fa giustamente macchina indietro. Ma delle due l’una. O era una norma approvata consapevolmente e doveva allora dichiararsene la suo esplicita finalità all’interno di una più o meno malintesa pacificazione con Berlusconi. Oppure, se è stata inserita da altri è grave che il premier l’abbia firmata. Adesso non può certo covare in seno a Palazzo Chigi serpi che giocano proprie indicibili partite. E nemmeno può accettare che chi doveva non lo abbia avvertito né messo in campana. Altrimenti è lui, il premier, a non dirci tutto.
Passa a ben vedere da qui, alla vigilia di una fase decisiva, una prova non secondaria per la credibilità della complessiva azione del governo, anche al di là di un codicillo abusivo quanto grossolano. Anche per fugare il terribile dubbio che fosse vile moneta di scambio per il voto sul Quirinale.
Corriere della Sera
RIMPALLO TRA PALAZZO CHIGI E TESORO.
POI RENZI SI ASSUME LA RESPONSABILITA'
Roma. La tesi della «manina», del fantasma di Palazzo Chigi, del giallo del rimpallo di responsabilità fra ministero dell’Economia e staff del premier, si rincorre per tutto il giorno. Ma alla fine è lo stesso Renzi a metterla a tacere. A chi lo chiama, a chi chiede spiegazioni, nel pomeriggio, il capo del governo dice che non c’è alcun mistero, che la norma incriminata l’ha voluta lui, è stata condivisa con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, discussa con gli altri ministri, che fa parte dello spirito del provvedimento.
La Repubblica
“MATTEO TROPPO DISINVOLTO E PADOAN HA SBAGLIATO"
Intervista a Stefano Fassina
«Quella norma è agghiacciante ». Più chiaro di così, Stefano Fassina non può essere. Lui che a via XX settembre ha trascorso quasi un anno da viceministro, stavolta non ha dubbi: «Sono colpito e preoccupato. Per il deficit di autonomia e la marginalità che il ministero dell’Economia ha dimostrato in questo passaggio, visto che si trattava di un tema di stretta competenza del ministro. E per la disinvoltura di Renzi».
Perché dice che il premier è stato disinvolto?
«Perché prima ha forzato la mano sull’Economia, introducendo una norma che il ministro non condivideva. E poi, di fronte alla reazione della stampa e dell’opinione pubblica, ha fatto una retromarcia imbarazzante. Su un tema, fra l’altro, molto delicato come la depenalizzazione della frode fiscale».
Con una norma che potrebbe favorire anche Berlusconi.
«L’attenzione mediatica adesso si è concentrata sul leader di Forza Italia, ma non è quello l’unico elemento preoccupante della norma. Se si depenalizza la frode fiscale in un Paese che ha il record mondiale di eversione, non va bene. Il governo dovrebbe rimuovere le condizioni che determinano l’evasione di sopravvivenza, colpendo allo stesso tempo i grandi evasori. Qui invece si fa l’opposto».
Lei pensa che c’entri il patto del Nazareno?
«Non voglio credere che sia un elemento del patto del Nazareno, anche perché è evidente che un intervento di questo tipo non sarebbe passato inosservato. Credo invece che sia stato un errore grave».
Può accadere che una sanatoria del genere entri nel decreto senza che il ministero dell’Economia comprenda gli effetti?
«Non esiste che il ministro e il ministero si facciano infilare una norma del genere durante il consiglio dei Ministri. Non è un dettaglio, quindi ci sono due possibilità: il ministro era d’accordo, oppure non se n’è accorto. E non so se questa seconda ipotesi sia migliore. L’unico modo per cui si può inserire una norma del genere senza che se ne accorga il ministro è che il Dipartimento degli affari giuridici di Palazzo Chigi lo inserisca nel testo a consiglio dei ministri concluso».
Tutto accade a pochi giorni dalla sfida per il Colle. Questo incidente può pesare?
«La disinvoltura con cui il premier ha portato avanti questa vicenda non crea il clima migliore in vista dell’elezione per il Quirinale. Credo che il nuovo Presidente vada scelto con la più ampia convergenza possibile, Forza Italia compresa. Dopodiché questa situazione complica il quadro».
postilla
Questa vicenda rivela la profondità dell'abisso nel quale Mattei Renzi, e l'ideologia di cui è portatore, ci hanno gettato. Un governo che adopera il linguaggio del twitter perché non conosce la sintassi, la grammatica e l'ortografia della lingua italiana; che alla fretta sacrifica la ponderazione; che preferisce lo strillo all'argomentazione e lo slogan al ragionamento; che assegna ai "burocrati" il ruolo dei servi del Capo invece di quello di servitori del popolo (civil servant) é nefasto per il paese sul quale esercita il suo dominio. Che poi il beneficiario (il consumatore finale) di questo degrado sia Silvio Berlusconi è scritto nelle cose. E' lui il padre ideale (e il padrino) della compagine che attornia il premier. Non è poi difficile stilare l'elenco dei complici, passati e presenti, dell'uno e dell'altro, di Matteo e di Silvio.
Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2014 (m.p.r.)
Per dire quanto poco siamo prevenuti, ieri avevamo deciso di pubblicare per oggi su questa colonna un articolo intitolato: “Renzi ha ragione”, o “Bravo Renzi”, o ancora “Forza Matteo”. Non per i suoi virtuosismi sciistici sulle nevi di Courmayeur, già magnificati a dovere dall’agenzia Ansa-Stefani, ma per la battaglia contro l’assenteismo nel pubblico impiego, annunciata su twitter con i toni giusti, senza la petulanza offensiva di Brunetta, che provò a far qualcosa ma rovinò tutto con le solite scalmane demagogiche.
Ora che Renzi, o chi per lui (a proposito: di chi è la manina?), ha inventato il salvacondotto del 3%, la domanda è semplice: quella frode residua è sopra o sotto il nuovo tetto? La risposta, nell’era del Patto del Nazareno, è scontata: sotto, e di parecchio. Il calcolo è presto fatto. Negli anni 2002 e 2003 Mediaset dichiara un imponibile di 397 e di 312 milioni e B. ne froda 4,9 e 2,4. Che corrispondono all’1,2 e allo 0,7%, ben al di sotto della soglia del 3% di non punibilità. Ergo, in base alla retroattività delle norme penali più favorevoli (favor rei, art.2 Codice penale), “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Grazie a una legge fascista, la n. 4/1929, il favor rei in materia fiscale e finanziaria non valeva: ma il centrosinistra, con la norma fiscale n.507/1999, la cancellò 15 anni fa.
Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2015 (m.p.r.)
Formica, che succede?
Confesso: sono disorientato. Sembra un’elezione degli anni Sessanta o Settanta, quando tutto era normale e la scadenza istituzionale imponeva al Paese di risolvere un’incombenza de plano, senza alcuna difficoltà.
Invece come siamo messi?
Nessuno nota la straordinarietà della situazione politica del Paese, siamo di fronte a un momento di scelte profonde: o si marcia spediti verso l’unità politica dell’Unione Europea o si torna alla disgregazione in staterelli rissosi e ribelli, pieni di divisioni e difficoltà.
Servirebbe un capo dello Stato all’altezza.
C’è un deficit terribile nell’informazione. Nessuno si domanda: a che serve questo Presidente della Repubblica? Sembriamo quasi rassegnati all’idea che sarà un inutile fantoccio.
Eppure Napolitano ha ribadito anche nel discorso di fine anno la grande sfida che ha davanti l’Italia. La sua è una disperazione fiduciosa, userei questo ossimoro. Ma io lo giudico eccessivamente ottimista nelle capacità di riscossa delle coscienze individuali. Mentre lui pronunciava quel discorso accorato, i due che dispongono del pacchetto di voti per l’elezione erano lì che trafficavano....
Ce l’ha con Renzi e Berlusconi.Uno cerca un presidente della Repubblica che lo aiuti ad asfaltare, come dice lui, l’opposizione interna. L’altro si preoccupa della sua agibilità politica, ovvero della chiusura delle code giudiziarie e del salvataggio delle sue aziende. Mi spiega cosa c’entra tutto questo col Paese?
Nessuno sembra animato da alti principi.
E infatti l’intesa tra i due si troverà al livello più basso: finirà che chiederanno al primo cameriere di turno, magari a un vigile urbano di Roma...
Il Parlamento troverà il modo per dire la sua?
Macché. Tutto questo avverrà in un seggio fatto di mille persone che sono impedite: sia per l’incostituzionalità della loro elezione (la Consulta ha bocciato la legge elettorale che li ha portati in Parlamento, ndr) sia perché sono terrorizzati da nuove elezioni: sono tutti senza partito.
Non prendono la situazione abbastanza sul serio?
È la prima volta in cui siamo di fronte a un’elezione del Quirinale che non tiene conto del futuro del Paese. Ma la scelta del Presidente della Repubblica non è un atto di devozione alla Carta, non è una cerimonia di folclore.
Qui si gioca con le figurine: il tecnico, il cattolico, …
È impressionante questo ragionare da vecchi. Sembra di stare negli anni Sessanta... Ma ora, da garante dell’unità nazionale, il presidente dovrà accompagnare il Paese nel salto nel buio di cui dicevamo sopra: o verso gli Stati Uniti d’Europa o verso il ritorno agli staterelli. Lo ha detto anche Mario Draghi, dalla Bce: se non vi muovete politicamente, io non posso fare nulla.
C’è chi pensa allo stesso Draghi come uomo giusto per il Colle.
Non basta nemmeno lui. Servono forze politiche in grado di sostenerlo, se no ci ritroviamo un predicatore e basta.
Come va a finire?
Se in queste ultime ore non si apre un grande dibattito - e lo potete aprire solo sui giornali - finisce che l’elezione sarà l’occasione per lo spettacolo di mille vendette individuali. I partiti non ci sono più. Gli ultimi tre presidenti della Repubblica si sono illusi della capacità di autoriforma del sistema politico. Non hanno voluto cogliere l’avvertimento di Cossiga, che li aveva messi in guardia sulla fine della democrazia parlamentare. Si sono cullati nella grande illusione. E ci siamo ritrovati con Renzi e Berlusconi.
In cantina c ’erano il vino, l’olio, la conserva di pomodoro, lo strutto. In solaio, grano o farina e poi salami, coppe, pancette… Se le scorte erano buone, nelle case contadine l’inverno sembrava meno freddo e la primavera non troppo lontana. C’erano ovviamente le dispense ricche e quelle povere. Ma nell’anno appena arrivato a essere in crisi è l’intera “Dispensa Italia”, perché i raccolti non sono stati buoni e - 70 anni dopo la guerra - si torna a parlare di “razionamento”. L’allarme è lanciato dalla Coldiretti. «L’olio di oliva extravergine e made in Italy - dice Lorenzo Bazzana, responsabile economia di questa organizzazione di coltivatori - è razionato e con le scorte si arriverà soltanto a metà 2015. Stessa sorte per il grano duro, quello che serve all’industria per fare la pasta. Sei mesi in tutto anche per il miele. E ci sono problemi per il vino, per gli agrumi e per le castagne».
All'indomani della scomparsa del grande intellettuale, noto ai nostri lettori, un articolo di Giuseppe Allegri e un ricordo di Zygmunt Bauman, dalle pagine rispettivamente del
manifesto e della Repubblica del 4 gennaio 2015
Formule, concetti, metafore di chi ha liberamente scelto di affrontare senza timori reverenziali il tramonto delle categorie della prima modernità, sfidando la sonnacchiosa e dogmatica accademica delle scienze politiche e sociali sul terreno più delicato: quello del «nazionalismo metodologico». Altra espressione «inventata» da Ulrich Beck per combattere quell’erronea semplificazione che costringe nelle opprimenti dimensioni dello Stato-nazione tanto l’analisi dei fenomeni sociali e giuridici, quanto i possibili spazi di azione civica e politica.
Il làscito maggiore del suo insegnamento sta nel radicale rifiuto di ogni pregiudizio nazionalista. Questo è il prisma attraverso il quale Beck ha spiegato la connessione tra le dinamiche della globalizzazione e i loro esplosivi effetti sulla divisione del lavoro, sulle forme di vita individuali e collettive, sul presente e sul futuro del vecchio Continente. Questo approccio è inoltre utile per contrastare la recrudescenza dei movimenti intolleranti e xenofobi dei partiti tradizionalisti, autoritari e nazionalisti (Tan Parties) in un’Europa che diventa sempre più «tedesca», stritolata dai diktat delle politiche di austerità volute dalla Bundesbank. Lo ha denunciato lo stesso Beck in uno dei suoi ultimi saggi (L’Europa tedesca, Laterza, 2013).
La militanza intellettuale, politica e civile di Ulrich Beck è sempre stata dalla parte di un’Europa politica e sociale. Un soggetto che, a suo parere, doveva superare le nefaste eredità «sovraniste» degli Stati-nazione, spesso ridotti a algidi gendarmi dell’ordine pubblico locale, e gli incubi monetaristi di un’Eurozona sinonimo di insicurezza e povertà per le persone. Per questa ragione, dal settembre del 2010, ha aderito alle iniziative dello Spinelli Group nel Parlamento europeo, rilanciando lo spirito federalista continentale che dall’antifascismo di Spinelli, Colorni e Rossi oggi può spingersi sino al punto da ripensare l’Europa politica oltre una dimensione meramente monetaria.
Questa visione sociale dello spazio politico continentale ha permesso a Beck di spiegare l’urgenza di un «reddito di cittadinanza continentale» utile per affrancare le persone dai ricatti del lavoro, o della sua mancanza. La creazione di un simile strumento è inoltre essenziale per garantire l’indipendenza dei cittadini da un Welfare State che sta regredendo a Workfare, cioè ad un sistema di costrizione al lavoro, con scarsa tutela della dignità della persona, né garanzia della sua condizione lavorativa. Per Beck il modello sociale europeo è il frutto di un universalismo concreto, fondato sulla tutela dei diritti sociali intesi come diritti fondamentali di una nuova solidarietà pan-europea. Altrimenti non potrà mai esserci alcuna integrazione politica continentale.
«Dobbiamo finalmente porre all’ordine del giorno queste questioni: come si può condurre una vita sensata anche se non si trova un lavoro? Come saranno possibili la democrazia e la libertà al di là della piena occupazione? Come potranno le persone diventare cittadini consapevoli, senza un lavoro retribuito? Abbiamo bisogno di un reddito di cittadinanza pari a circa 700 euro. Non è una provocazione, ma un’esigenza politica realistica».
Questo scriveva Beck sulle colonne de La Repubblica in due successivi interventi del 3 gennaio 2006 e del 22 marzo 2007. Considerazioni scritte a ridosso degli scontri tra giovani e polizia nelle banlieues francesi in fiamme, mentre cominciava la crisi statunitense dei mutui subprime. Sono passati diversi anni e l’«esigenza politica realistica» di un reddito di base sganciato da una prestazione lavorativa, inteso come strumento di solidarietà, resta lettera morta nell’agenda dei movimenti e delle cittadinanze sempre più impaurite ed è completamente assente in quella delle inadeguate classi politiche e sindacali, nazionali e continentali. Tutto questo mentre milioni di persone rischiano di diventare ostaggi della malavita, nei bassifondi delle metropoli europee, o schiavi indebitati del capitalismo finanziario eletto a unico parametro della «società globale del rischio».
Beck è stato il testimone del lungo quarantennio neo-liberista europeo in cui hanno dominato l’individualismo sociale e il «nazionalismo metodologico». «Spesso la retorica dominante afferma che non “c’è alternativa” agli imperativi dell’austerità» disse in un’intervista a Benedetto Vecchi su Il manifesto del 29 agosto 2013.
In questo atroce immobilismo prospera il Merkiavelli, efficace neologismo da lui stesso coniato per descrivere una politica capace di dettare in Europa l’agenda dell’austerità (anche in una impossibile funzione espansiva) funzionale alla difesa del patto socialdemocratico in Germania. In questa cornice gli Stati-nazione, e gli individui, si ripiegano in se stessi. «L’individualizzazione della diseguaglianza sociale», analizzata quasi trent’anni fa da Beck, oggi fa il paio con le miserie nazionaliste di classi politiche inadeguate e dei nuovi populismi presenti anche nel Parlamento europeo.
Torna quindi di attualità il «bisogno di una critica dell’Unione Europea da un punto di vista europeo e non nazionale», per dirla sempre con Beck. In un intervento sul Guardian del 28 novembre 2011 sostenne che la crisi europea può essere «un’opportunità per la democrazia». A patto di avere la forza, intellettuale e politica, per «abbandonare l’euro-nazionalismo tedesco» e far «emergere una comunità europea di democrazie» dove la «condivisione della sovranità divenga un moltiplicatore di potenza e democrazia».
Queste sono le basi di un federalismo radicale che mette in relazione i bisogni delle persone con gli spazi politici nei quali vivono. Rileggere questi insegnamenti alla luce di una visione solidale della società e dell’Europa attenua il senso di vuoto che lascia la sua morte tra chi continua a non rassegnarsi all’ordine esistente delle cose.
Ulrich Beck, scomparso il 1° gennaio scorso all’età di 70 anni, è stato uno dei maggiori sociologi del nostro tempo. E certamente la sua statura era destinata a crescere ancora, come l’inarrestabile impatto della sua influenza intellettuale. Una figura unica per la sua straordinaria profondità, l’acuta capacità percettiva, l’eccezionale sensibilità ai mutamenti sociali e culturali, l’ineguagliabile originalità del suo pensiero. Per gli studiosi del suo campo è stato una fonte di ispirazione e un fervido richiamo all’azione. Ma il suo impatto intellettuale ha trasceso i limiti del suo ambito professionale. La voce di Ulrich Beck – le sue diagnosi, valutazioni, previsioni e avvertimenti, sono stati ampiamente ascoltati, con viva attenzione.
Assai più che uno studioso ligio ai doveri ristretti di un’attività accademica, per vocazione Beck era la personificazione dell’intellettuale pubblico, in ragione del ruolo e delle posizioni che ha assunto: un modello cui gli studiosi di scienze sociali aspirano ardentemente, anche se a pochi è dato raggiungerlo con tanto vigore, efficacia e dedizione.
È difficile, forse impossibile, immaginare la temperie, il tenore dell’attuale dibattito politico, l’ampiezza e la profondità della nostra consapevolezza collettiva senza i molteplici e vari contributi di Ulrich Beck, la sua insaziabile curiosità nell’esplorare i meandri della vita moderna, la sua capacità di individuare prontamente e mettere a fuoco le sue realtà con osservazioni precise e pregnanti, e la sua predisposizione a quella che gli antichi chiamavano “parresia”: a rendere conto dei risultati delle sue ricerche senza cercare giustificazioni né scendere a compromessi, con libertà, fierezza e candore, attenendosi alla coscienza, giudice supremo dei comportamenti umani e guida sicura nella ricerca di verità dello studioso.
Questa morte prematura ci lascia tutti più poveri.
Il manifesto, 3 gennaio 2015
La rinegoziazione radicale dei debiti pubblici dei paesi dell’eurozona in difficoltà, inclusa da tempo nel programma di Syriza e condivisa dall’Altra Europa, presenta risvolti complessi e delicati che vanno affrontati anche in sede tecnica: per prevederne le conseguenze macroeconomiche più dirompenti e cercare di prevenirle; ma soprattutto per proteggere i piccoli risparmiatori.
Nell’affrontare questi problemi occorre mettere però al primo posto la «politica» e non l’«economia», le scelte che possono orientare il conflitto sociale e non l’idea che il sistema possa continuare o addirittura riprendere a funzionare come sempre. Siamo di fronte o alla vigilia di una grande rottura: «L’Europa è a un bivio», come recita l’incipit dell’appello da cui è nata la lista L’Altra Europa con Tsipras. Per questo, prima di entrare negli ineludibili aspetti tecnici è opportuno fissare alcuni punti di carattere generale.
1. I debiti pubblici di alcuni paesi dell’eurozona, tra cui Grecia e Italia, ma non solo, sono insostenibili. Quale che sia lo spread, gli interessi da pagare sono tali che divorano le risorse senza consentire, non solo una «crescita» duratura, ma nemmeno il livello di attività economica raggiunto in passato. Per non parlare della restituzione di una parte consistente del debito, come previsto dal fiscal compact, di cui non a caso nessuno parla più - in realtà gli economisti ne hanno sempre parlato il meno possibile e nessuno ha ancora esibito un calcolo attendibile sul tasso (astronomico) di crescita necessario per rispettarlo: cioè per riportare in 20 anni il debito al 60 % del Pil.
2. La crisi greca non fa che portare alla luce questo dato. L’intervento della Trojka (Bce, Fmi e Commissione europea) ha già comportato - bisogna ricordarlo a chi si lascia spaventare dalle parole - ben due default, per quanto «pilotati»; ma giunto al suo termine programmato, era chiaro, sia al governo greco che alla Trojka, che nessun problema era stato risolto; e nemmeno affrontato seriamente. Il presunto ritorno della Grecia a una crescita, peraltro irrisoria, è solo — come ha dimostrato l’economista greco Jannis Milios sul manifesto del 30.12 - l’effetto di un’illusione contabile.
Il premier greco Samaras ha così cercato di aggirare la resa dei conti con una mossa politica, antici pando le elezioni e sperando di prendere in contropiede Syriza, soprattutto per non rispondere - e per permettere alla Trojka di non rispondere - di questo fallimento.
3. A livello macroeconomico i problemi che si troverà di fronte Syriza, se andrà al governo, sono gli stessi che si sarebbe trovato di fronte Samaras a febbraio. L’insostenibilità del debito greco sarebbe comunque emersa, con gli stessi effetti dirompenti che tutti si aspettano da un governo Tsipras; effetti che non derivano tanto dalle dimensioni del debito greco, complessivamente ridotte rispetto al Pil dell’eurozona, ma dal fatto di mettere in evidenza l’insostenibilità di tanti altri debiti, a partire da quello italiano, assai più consistenti. Ora la probabile vittoria di Syriza obbliga tutti i giocatori di questa partita a scoprire le loro carte.
4. Carte che però non ci sono. Debiti e politiche di austerity sono gestiti da un personale che, in tutte le sue articolazioni - finanziarie, amministrative e politiche (partiti, sindacati e associazioni imprenditoriali) - non ha la cultura per elaborare delle alternative (un «piano B») al disastro provocato dalla strada imboccata: «Non c’è alternativa», diceva la Thatcher. Juncker e il suo piano da 300 miliardi fantasma ne sono la manifestazione più evidente. Le misure di sostegno attivate, comprese quelle preannunciate da Draghi, non fanno che liberare le banche francesi, tedesche e inglesi dai crediti incagliati, trasferendone l’onere sia sulle banche dei paesi più a rischio (che hanno usato i fondi della Bce per rilevare una parte del debito detenuto all’estero), sia direttamente, su Bce e fondo salvastati. Manca qualsiasi idea seria su come sostenere occupazione (che non dipende certo dalle cosiddette «riforme», cioè dalla precarizzazione del lavoro) e investimenti (sostenibili solo se destinati alla conversione ecologica - cosa che richiede una forte iniziativa a livello locale - e non, come si pensa di fare, a Grandi Opere, che disperdono risorse, devastano territori, opprimono le popolazioni e producono mafia e corruzione).
5. In queste condizioni la deflagrazione dell’euro - anche a prescindere dalle questioni più gravi che premono ai confini della «fortezza Europa» - belligeranze senza più frontiere, crisi ambientale, ritorno alla guerra fredda e milioni di profughi - è solo questione di tempo. Ma le sue conseguenze sarebbero certamente più gravi di alcuni default pilotati, come quelli che potrebbero venir decisi nella conferenza sul debito proposta da Syriza. È poi inutile ripetere che l’«uscita dall’euro» predicata da Grillo, Salvini, Marine Le Pen e Alternative für Deutschland non è una soluzione: provocherebbe, a catena, altrettanto sconquasso nei singoli stati e una corsa generalizzata alle svalutazioni competitive da cui lavoratori e famiglie ricaverebbero solo bastonate. Diverso è il caso dell’eventuale introduzione di monete alternative locali non convertibili, o dei certificati di credito fiscale proposti da Ruffolo e Sylos Labini, per sostenere la domanda: potrebbero far fronte alle esigenze più impellenti.
6. La proposta di Syriza ha comunque il duplice merito di mettere all’ordine del giorno il problema della sostenibilità dell’euro nei suoi termini reali e di prospettare una via per affrontarlo. Naturalmente, per andare a buon fine, dovrà trovare adeguato sostegno sia dalle forze politiche - innanzitutto da quelle della Gue che ne hanno condiviso il programma, a partire dalla tedesca Die Linke, il cui ruolo è per questo strategico - sia dalle forze sociali che si stanno mobilitando contro l’austerità.
7. L’obiettivo di una ristrutturazione del debito pubblico italiano va inserito e sostenuto in questo contesto. È compito delle forze che lo condividono tradurlo in misure praticabili e renderlo comprensibile e accettabile distinguendo la difesa del piccolo risparmio dal disarmo delle istituzioni finanziarie nazionali ed estere responsabili delle attività speculative che hanno messo alle corde molti Stati.
Non è cosa facile: anche se il valore dei titoli di stato in mano ai risparmiatori italiani è ridotto (non supera i 200 miliardi), molte altre forme di risparmio - fondi, assicurazioni e previdenza integrativa - dipendono da investimenti in questi titoli. Per questo occorre esigere la separazione delle funzioni, non solo tra banche commerciali e banche di investimento, ma anche tra l’allocazione del debito pubblico su varie forme di risparmio minuto e le operazioni speculative fatte in proprio da fondi e banche d’affari.
8. Tutto ciò rende urgente un confronto sulle soluzioni per ridurre e rendere accattabile il ridimensionamento forzoso dei debiti pubblici. La più semplice, più volte prospettata, è la mutualizzazione della parte dei debiti degli Stati membri che eccede il 60 per cento dei rispettivi Pil, finanziandola con un piano pluriennale di creazione di nuova moneta (quantitative easing) o con l’emissione di eurobond da parte della Bce. Ciò riporterebbe gli interessi a un livello sostenibile, anche se con la seconda soluzione si lascerebbe comunque tutto il debito pubblico in mano alla finanza privata, perpetuando la scelta di fondo - il «divorzio» tra banca centrale e autorità politica - che ci ha portato in questo caos. Ma contro quelle soluzioni è stato già eretto un muro di no. Se la prova di forza di un governo greco guidato da Syriza non riuscirà ad abbatterlo, si dovranno cercare altre soluzioni; che vanno comunque tutte in direzione di una rifondazione dell’Unione Europea su basi mutualistiche e solidali.
9. Per aprire la discussione sulla rinegoziazione dei debiti e su questi temi servirebbe un gruppo di lavoro che scavalchi le divisioni tra le diverse componenti delle forze che si oppongono alle politiche di austerità. Sarebbe un primo esempio di una iniziativa unitaria, costruita su temi concreti, ma di portata strategica.
Il manifesto, 3 dicembre 2015 (m.p.r.)
Nel dibattito politico contemporaneo la meritocrazia, infatti, imperversa. Sbandierandola enfaticamente come panacea della disuguaglianza - quando in realtà può esserne altrettanto tranquillamente annoverata tra le cause - la cultura d’impresa si fa spazio nel corpo sociale, sostituendo le proprie logiche di profitto a quelle su cui si è retto l’assetto welfarista europeo del secondo dopoguerra. E poi, come si fa a scagliarsi contro il merito? Nel lessico politico da ricreazione scolastica ora vigente, una puntuale accusa di «gufi» è pressoché assicurata. Peggio che mettere l’iPhone dentro a un gettone.
Elite sempre in testa
Sì, perché il merito è il cavallo di Troia con il quale il neoliberismo ha fatto un’etica irruzione nella cittadella post-socialdemocratica della sinistra europea. In questo cavallo Matteo Renzi - un tardivo epigono blairista quando Blair in patria è ormai plebiscitariamente un paria - non ha certo bisogno di nascondersi: anzi, lo cavalca come Tex Willer, strappando ovazioni al giovane esercito di riserva, plurititolato e sottoccupato, che di Renzi è entusiasta sostenitore. Ma il conio del termine è naturalmente avvenuto nella sfera angloliberale, ed è qui che si è avviata una discussione interessante sull’uso ideologico a tappeto che ne fanno i media anglosassoni.
«Comincia a diffondersi un sano scetticismo sulla meritocrazia, nonostante la pioggia mediatica che ci propinano i talent shows - spiega ancora Littler - Sto indagando sulle modalità con le quali le élite drammatizzano e sensazionalizzano le proprie vicende biografiche per propagandarle. Come cercano di presentarsi in qualità di individui ordinari per dissimulare il proprio privilegio e diffondere l’idea che si trovano lì perché se lo sono meritato. La famiglia reale, in questo senso, è molto interessante: è riuscita a riabilitarsi come appunto ’normale’. Oppure basti pensare al successo di serie televisive come Dawnton Abbey, dove le differenze sociali sono rese glamour e legittimate attraverso l’espediente narrativo».
Vista inizialmente con sospetto dalla sociologia d’ispirazione Labour, la meritocrazia è stata poi sdoganata dai think tank conservatori britannici che, dagli anni Ottanta in poi, sono diventati i laboratori - egemonici e paneuropei loro malgrado - di politiche bipartisan di riforma del welfare e tendenti a una sempre maggiore invadenza del privato nel pubblico. Il termine meritocracy viene convenzionalmente fatto risalire al sociologo di area Labour Michael Young (1915–2002), che nel 1958 scrisse il saggio satirico The Rise of the Meritocracy, anche se era stato usato due anni prima da un altro sociologo, Alan Fox, per poi passare nel repertorio «anti-ideologico» di Daniel Bell. In Young il termine ha una connotazione negativa. È una visione distopica, che paventava ciò che sostanzialmente sta accadendo oggi: una crescente distanza e impermeabilità tra l’élite dei meritevoli e la stragrande maggioranza dei «non meritevoli», ai quali si tolgono gli ammortizzatori sociali proprio in quanto tali.
È uno di quei casi ironici della storia che il figlio di Young, l’assai più noto Toby, sia un giornalista patinato in forza al Daily Telegraph. «È stato il padre di Toby a scrivere il libro, è vero, un’ironia che viene spesso evidenziata - afferma Littler - Ma lo stesso Young padre presentava delle ambiguità. Michael era più interessato alle politiche dell’istruzione e alla stratificazione sociale, ed è lì che il termine assume una connotazione più sfocata. Anche se lo usa in modo satirico o come per riferirsi sfrontatamente alle divisioni sociali, in ultima analisi la sua critica del capitalismo è a dire poco ambigua. A rileggere i suoi scritti, Young emerge come figura davvero interessante. Era uno studioso innovativo, ma non privo di una certa ambiguità: come per esempio quando disse di non essere del tutto a favore delle comprehensive schools, una strana dichiarazione. Se poi si considerano gli ambienti sociali che frequentava, era vicino all’assai più liberale Daniel Bell».
Individuo prigioniero
Proprio l’autore del topico La fine dell’ideologia, un libro-chiave nell’allineamento della sinistra moderata in difesa del capitalismo in cui sono ravvisabili i prodromi dell’uso del concetto da parte del neoliberismo nella sua declinazione thatcheriana. «Thatcher è stata senz’altro una figura chiave nella diffusione delle idee neoliberiste, ma pensando a lei va ricordata soprattutto la partnership fondamentale con Ronald Reagan: tanto per ricordare che non era soltanto ’una malvagia donna, una strega’, come spesso l’apostrofavano i suoi detrattori, l’unica responsabile di un processo storico complesso. È utile pensare anche a cosa abbia rappresentato, al modo in cui ha immaginato la politica».
È con Thatcher che si sostanzia per la prima volta il concetto nel senso della contrapposizione fra l’individuo e le sue chance di rispondere alle sfide del mercato. Nel suo presentarsi come matrona della nazione, Thatcher ha fatto uso di particolari elementi del femminismo e deliberatamente a meno di altri. «La sua è una femminilità quasi astratta, desessualizzata: per esempio, non faceva mai riferimenti alla propria famiglia. Ci sono molti studi che al momento affrontano il riposizionamento della femminilità in una vera e propria cultura d’impresa, dove la donna è incoraggiata a pensare a sé in quanto progetto individuale, a migliorare il proprio status e mobilità sociale attraverso l’autopromozione. L’individuo è incoraggiato a pensarsi come progetto: una sorta di ’imprenditorializzazione’ del sé».
Il manifesto, 2 gennaio 2015
Non stupisce cogliere una ferma difesa delle proprie scelte, soprattutto quelle fatte nel passaggio alla XVII legislatura nel 2013. In sostanza, ribadisce l’appoggio al governo Renzi, quasi a certificarne conclusivamente e senza possibilità di prova contraria la natura di «governo del Presidente». Gli argomenti sono noti.
L’esigenza preminente di stabilità, l’immagine internazionale dell’Italia, l’impellente necessità di un contrasto efficace alla crisi. Si potevano perseguire i medesimi obiettivi con scelte diverse? Ad esempio mandando Bersani in Parlamento a cercare una maggioranza per la fiducia, tornando alle urne in caso avesse fallito? Forse. È stata una lettura della situazione politica e istituzionale sostanzialmente non dissimile da quella che, con il supporto di Napolitano, aveva suggerito di ritardare il voto sulla mozione di sfiducia contro Berlusconi, quel tanto che bastò al cavaliere per riguadagnare con nobili argomenti la manciata di voti necessaria a resistere (Camera dei deputati, 14 dicembre 2010, 314 no e 311 sì). Fu giusto, o sbagliato? Scelte opinabili, e tuttavia non incompatibili con la lettura — familiare ai costituzionalisti — del ruolo del presidente come motore istituzionale nei momenti di crisi.
Quel che invece può far discutere davvero è la difesa nel merito, e persino nel dettaglio, delle scelte politiche poi fatte dal governo. Un apprezzamento non indispensabile. Volendo farlo, si dovrebbe guardare a tutti i risvolti, positivi e negativi. Così — dice Napolitano — l’Italia ha colto l’opportunità del semestre di presidenza del Consiglio per sollecitare un cambiamento nelle politiche dell’Unione. Ma vogliamo anche dire che i risultati sono scarsi o nulli? Apprezza il superamento del bicameralismo paritario. Ma non è forse vero che l’opposizione è stata ed è volta non al superamento del bicameralismo perfetto, ma alla sostituzione del senato con un’assemblea non elettiva imbottita del peggior ceto politico del paese?
Tutto questo non compare nel discorso del Capo dello Stato. Dovrebbe? Sì, quanto meno per cenni. Soprattutto considerando che per lo stesso Napolitano il «senso della Costituzione» è una stella polare che va seguita per risanare e rilanciare il paese.
Ma cosa è il «senso della Costituzione»? Forse qualche costituzionalista storcerà il naso, perché non è giustiziabile, e dunque tamquam non esset. Ma noi concordiamo con Napolitano. Il «senso della Costituzione» esiste, e dovrebbe anzitutto orientare la politica e le istituzioni. Non è dato dal dettaglio del dettato normativo, ma dal messaggio che la Costituzione complessivamente dà. Che è un messaggio non legato al tempo in cui è stata scritta, ma ha ad oggetto piuttosto il futuro, il modo di essere del paese e delle donne e uomini che in esso vivono. Ed è — a nostro avviso — un messaggio di solidarietà, di diritti, di eguaglianza, di condivisione, di partecipazione democratica, di apertura e di rappresentatività della politica e delle istituzioni. Un messaggio che non è fatto di articoli e commi, ma di un animo personale e collettivo. E che ci orienta nella lettura di quel che accade intorno a noi e nei nostri comportamenti pubblici e privati, individuali e collettivi.
Non è dubbio che nel «senso della Costituzione» ci sia tutto il necessario per dare risposta ai problemi di oggi, per quanto pressanti: dalla crisi economica alla corruzione, alla riqualificazione della politica, all’orgoglio di essere nazione. Ma altrettanto non è dubbio che il senso della Costituzione non sembra affatto ispirare l’azione del governo, e le scelte della maggioranza in parlamento. Al contrario, come abbiamo ripetutamente argomentato. Del resto, non è un caso che la Costituzione non compaia nel fiorito eloquio del premier, che pure del parlare s’intende, e molto. E che sia piuttosto parola d’ordine di quanti gufano.
Di tutto questo avremmo voluto sentire nel discorso di Napolitano. Non avrebbe — a nostro avviso — indebolito la difesa delle sue scelte fondamentali e della sua presidenza. L’avrebbe invece rafforzata. Perché la Costituzione è l’anima di un paese. E un paese che non crede nella sua Costituzione è un paese senz’anima
Il manifesto, 2 gennaio 2015 (m.p.r.)
Il lascito è già un trauma. Napolitano ne è consapevole e insiste che le dimissioni sono previste dalla Costituzione, che sarà un bene tornare alla normalità di un unico mandato completo al Quirinale, e - c’è l’eco delle discussioni con Renzi e delle preoccupazioni di palazzo Chigi - che le dimissioni non devono condizionare la vita del governo e del parlamento (ma anche che le esigenze degli altri organi costituzionali non possono impedire una scelta «personale» del presidente). Eppure Napolitano sa bene che andando via lancia Renzi di fronte all’ostacolo più alto. Il parlamento è lo stesso che due anni fa mandò a vuoto cinque scrutini per il presidente, una situazione niente affatto inedita ma che si è voluta drammatizzare — anche da Napolitano che ha visto il baratro, il «vuoto».
Come nel messaggio dell’anno scorso, il presidente deve tornare a difendere la scelta di aver accettato un secondo mandato. «È risultata — dice — un passaggio determinante per dare un governo all’Italia, rendere possibile l’avvio della nuova legislatura e favorire un confronto più costruttivo tra opposti schieramenti». «L’aver tenuto in piedi la legislatura è stato di per sé un risultato importante (…) si è evitato di confermare quell’immagine di un’Italia instabile che tanto ci penalizza». Eppure: il governo delle «larghe intese», costruito al Quirinale a fine aprile 2013, ha retto nove mesi appena. Le larghe intese anche meno. A palazzo Chigi c’è il terzo presidente del Consiglio consecutivamente scelto dal Colle senza mandato elettorale. Anche questa è stabilità. Un appello all’altruismo e alla responsabilità chiude l’ultimo messaggio di Napolitano, il presidente indica nell’impegno pubblico l’antidoto all’antipolitica che da tempo lo preoccupa. E che proprio le larghe intese, il rigore «tecnico» e le elezioni negate hanno alimentato.
La Repubblica, 2 gennaio 2015
Non possiamo vivere senza porre la fiducia in qualcuno né senza ricevere fiducia da qualcuno, dagli altri. Ognuno di noi è nato perché sentiva questa spinta ad avere fiducia nella vita, in chi lo portava in grembo, in chi lo poteva accogliere. E ciascuno è venuto al mondo proprio grazie alla fiducia originaria posta nei genitori o in chi ci ha accompagnato nella nascita. Parimenti le nostre storie d’amore sono possibili solo quando uno sa mettere la fiducia in un altro, in un’altra e da questi riceverla. La fiducia è la realtà che rende possibile il vivere e il vivere in relazione: nell’amicizia, nell’amore, nel rapporto maestro-discepolo, nella relazione medico-paziente... Se una persona non riesce a fidarsi di nessuno, è condannata all’isolamento, imprigionata in una situazione mortifera.
È proprio la fiducia che può creare il legame sociale e generare la comunità: a livello politico la mancanza di fiducia genera una stanchezza nella democrazia e quindi ne mina la credibilità, aprendo lo spazio alla barbarie. Se la fiducia oggi difetta lo si deve in particolare a un triplice disincanto, sul piano economico, politico e identitario. Il senso del vivere insieme è compromesso dalla logica del mercato che privilegia l’interesse particolare e nega l’istanza di solidarietà; la vita politica offre il triste spettacolo di uno scollamento rispetto ai cittadini e di una autoreferenzialità elettiva che genera diffidenza e inaffidabilità; l’identità collettiva è smarrita e regredisce in un appiattimento su comunanze di tipo tribale.
Dobbiamo allora porci una domanda: come mai siamo precipitati in questa situazione in cui si afferma che è meglio diffidare, diffidare sempre, diffidare di chiunque? Quali sono i fattori che hanno minato la fiducia che si era creata sulle macerie della Seconda guerra mondiale? Quella fiducia sociale che ci aveva dato la possibilità di una convivenza capace di assumere un progetto comune e di condividere una speranza?
Tra i fattori decisivi va annoverata l’illegalità crescente che si è espansa come un’epidemia, dalla quale nessun potere e gruppo sociale è restato immune. L’illegalità macroscopica, quasi sempre impunita, ha autorizzato un’illegalità quotidiana e minuta, che sembra rispondere al “così fan tutti”. Questa illegalità ha minato il senso di sicurezza e il bisogno di protezione dei cittadini, immettendo in loro una sfiducia e tentandoli, seducendoli fino a condurli a non darsi pena della collettività, a scambiare l’etica con il “fare i moralisti”, a lasciar correre... Insieme ai fattori ricordati di autoreferenzialità e di mancanza di senso del bene comune e del servizio alla polis, l’illegalità ha reso inaffidabili molti soggetti politici e le stesse istituzioni di rappresentanza democratica. I cittadini si sentono sempre più lontani dalla politica e finiscono per non partecipare più all’edificazione della polis che sembra invece sequestrata dai partiti, da forze o gruppi di potere sovente nascosti e dunque viene valutata come non possibile, ormai preda dei corrotti.
Qualcuno sostiene che viviamo già nell’epoca della post-democrazia e, a causa di questa debolezza della politica, si affermano il populismo, il sorgere del “salvatore” di turno, la smobilitazione dei corpi sociali, il conformismo e la degradazione dell’etica incapace di competere con illusioni che catturano le masse. La consapevolezza di essere cittadini di una polis comune ha ceduto il passo alla rassegnazione di essere consumatori in un mercato dopato, in cui la libera concorrenza è divenuta corsa alla sopraffazione, al dominio del più forte o del più furbo. E in questo precipitare della qualità della convivenza politica, vanno in frantumi e sono calpestate la solidarietà, l’attenzione ai deboli e alle vittime della storia.
Così i cittadini-consumatori continuano a credere ad annunci e promesse dei soggetti politici, nonostante non se ne vedano le condizioni e tanto meno i segnali di attuazione. Paure e illusioni sono fabbricate un giorno, esasperate quello successivo e dimenticate o mutate il giorno dopo ancora. Le persone sono sempre meno capaci di critica, il dibattito ragionato viene considerato una perdita di tempo e sostituito da urla tra sordi, l’incalzare di sondaggi di ogni tipo e qualità ha rimpiazzato il faticoso delinearsi di una “opinione pubblica”: così si passa d’inganno in inganno, perdendo sempre più il contatto con la realtà. Fino a quando? Sì, perché, come ci insegna la storia, a un certo momento sopraggiunge un punto di rottura in cui all’incapacità di indignarsi e di impegnarsi segue la reazione irrazionale di chi si nutre di violenza.
Allora, che fare? Si tratta ora più che mai di rischiare la fiducia a partire dalle nostre relazioni personali, di ribadire la necessità della fiducia come fondamento della vita sociale. “Camminando si apre cammino”, così avendo fiducia si fa crescere la fiducia. I dati dell’inchiesta commentata da Diamanti dovrebbero suonare per tutti come un allarme: l’assuefazione alla sfiducia nelle istituzioni, negli altri, nel futuro non fa che asfaltare la strada alla barbarie e alla violenza. Sta a noi aprire un percorso diverso, resistendo, mettendo fiducia in noi stessi, esercitandoci con convinzione ad avere fiducia negli altri e a non tradire la loro, a partire da chi ci sta accanto. Il primo passo per amare gli altri come se stessi consiste proprio nell’avere fiducia negli altri almeno come in se stessi. La fiducia va cercata alla sorgente: nelle modalità dei nostri rapporti con noi stessi, con gli altri, con il futuro, con la storia, con il fatto stesso di vivere. Sì, la fiducia nella vita è ancora possibile, è un dovere e una promessa di cui siamo debitori verso gli altri e verso noi stessi.
La Repubblica, 31 gennaio2015
Il presidente Napolitano, che pure dell’antica scuola politica repubblicana è senz’altro la figura più autorevole, e che conserva un linguaggio tanto nobile quanto a volte non immediato (vedi la parola “cimento”) si è tuttavia bene adattato ai moduli che prevedono di “tirare al cuore a tradimento”, come diceva Benedetto Croce di De Amicis, invece che alla testa. E in pratica come cominciò a fare Walter Veltroni una decina d’anni orsono, e come poi Renzi ha portato a compimento e un po’ anche a sfinimento, anche lui ha fatto Storytelling.
La scienziata, l’astronauta, il medico e le altre figure che riscattano la cattiva immagine del paese. Presentati per brevissimi accenni, se si vuole anche di maniera e in pasta di zucchero umanitario. Non si discutono qui, com’è ovvio, i singoli personaggi evocati e la qualità degli esempi, che anzi paiono molto ben scelti e che infatti si sono imposti nei video, nei siti e nei social network con una certa efficacia. Ma come nel caso del libro Cuore, anche senza arrivare all’”Elogio di Franti” di Umberto Eco, nell’omaggio agli italiani esemplari si può anche — non è obbligatorio — avvertire “un non so che di dolciastro e levigato, per una certa apparenza di fiacca e monotona luminosità, come di una chiara d’uovo pazientemente battuta e montata a meraviglia, senza bolle né rughe” (G. A. Borgese). O magari è un riflesso automatico e come tale incontrollabile di scetticismo, di sfiducia, di stanchezza, di estraneità, di paura della crisi economica che non finisce, dell’imminente affanno istituzionale; qualcosa che genera preventivo pessimismo rispetto a una classe di governo e di opposizione sempre più vanitosa e inconcludente e ora destinata a impoverirsi dopo che Napolitano se ne sarà andato via.
Il guaio, semmai, è che un piccolo Pantheon di eroi non basta purtroppo a riequilibrare i tanti e continui esempi di indegnità, il grottesco Barnum di scemenze, le carognate e le avidità di chi doveva dare il buon esempio. E per quanto nel costume nazionale l’auto-denigrazione è da sempre una specialità sublime, è pur vero che forse se ne sono viste e sentite troppe.
Quelli che ridono durante il terremoto, quelli che si fanno gli auguri invocando catastrofi via sms, quelli dell’Expo che erano già stati beccati da Mani Pulite e hanno ricominciato tranquilli e beati, quelli del Mose con i generali della Guardia di Finanza che nascondevano le banconote sotto terra, quelli delle spese pazze delle regioni che mettono in conto ai cittadini sex-toys e adozioni a distanza, quelli che hanno svuotato la Carige e quegli altri che a Siena sono riusciti a mandare all’aria, pure con un morto, il Monte dei Paschi che bene o male esisteva dal 1472.
La sinistra radicale greca ha come suo leader un politico serio e capace di convincere e vincere. La scommessa della Grecia è una speranza per l'Europa e per l'Italia, e un augurio per l'anno che inizia domani.
Il manifesto, 31 dicembre 2014
Atene. Apertura al dialogo con Syriza, per i vertici europei la Grecia non è più una fonte di contagio. Ma pesa il pessimismo premeditato dei mercati. Verso le elezioni anticipate del 25 gennaio, Alexis Tsipras lavora da premier. Haircut del debito e cancellazione del memorandum, ma anche rassicurazioni ai creditori
Antonis Samaras e alcuni partner europei alleati del premier greco, in primis la cancelliera tedesca Angela Merkel, continuano a promuovere la strategia della paura. La politica della sinistra greca, secondo loro, porta il paese nel caos. Dietro le quinte, però, a sentire fonti diplomatiche a Bruxelles, «si preparano a un governo di Syriza, perché Alexis Tsipras sta lasciando la retorica rivoluzionaria di due anni fa».
Il taglio del debito pubblico
L’agenzia Bloomberg e alcuni mass-media conservatori europei stanno adottando l’idea di un taglio del debito pubblico greco, proposta avanzata da tempo da Alexis Tsipras, ma di cui, per il momento, non si è parlato a Berlino o a Bruxelles.
L’haircut del debito — il rapporto tra debito e Pil rimane a livelli altissimi, attorno al 170% -, come presupposto per la crescita del Paese, è infatti uno dei due pilastri del programma economico della sinistra radicale, l’altro riguarda la cancellazione del memorandum. E su questo «il governo di Syriza chiederà una conferenza internazionale» afferma Tsipras, secondo il quale «il taglio non andrebbe a penalizzare i crediti detenuti dai privati, ma dovrebbe essere concesso dalla troika, che ha in mano una grossa fetta di questo debito pubblico greco».
Tant è vero che, a sentire gli economisti, questi prestiti ad Atene non saranno mai erogati per intero, quindi è meglio per i creditori un taglio del debito oppure un prolungamento degli acconti, visto che «un fatto simile (il taglio del debito) è avvenuto in Germania nel 1953», come fa notare l’eurodeputato Manolis Glezos.
Tsipras, inoltre, ha promesso di far aumentare ai livelli precedenti alla crisi, il salario minimo mensile (abolizione di alcuni tagli concordati con la troika), la lotta all’evasione fiscale, che arriva al 25% del Pil (la media europea è attorno al 10%) e alla corruzione, la creazione di 300 mila nuovi posti di lavoro puntando su un piano di investimenti per stimolare la crescita e l’alleggerimento fiscale degli strati sociali più colpiti dalla crisi; il leader di Syriza è contrario, invece, a qualsiasi misura aggiuntiva, cioè a una nuova austerity che preveda ancora tagli a stipendi, pensioni e indennità oltre a licenziamenti, come presupposto per l’incasso di nuovi aiuti finanziari dai creditori internazionali.
I mercati sul Grexit
All’atteggiamento ambiguo dei partner europei si sovrappone il pessimismo premeditato dei mercati che temono «il ritorno del default in Grecia» e di «una tempesta nella zona euro», se Syriza «annulerà tutti gli accordi con la troika». «Il 2014 non è il 2012 e quindi non passerà il terrorismo dei mercati», sottolinea Tsipras, ma lo scontro tra un governo delle sinistre e i mercati sembra inevitabile anche nel caso che i partner europei volessero evitarlo. Indicativo è il crollo clamoroso della borsa di Atene proprio nel giorno in cui ufficialmente si anticipavano le elezioni presidenziali, ma anche quello di lunedì scorso, crolli interpretati come un avvertimento nei confronti di chi, leggi Syriza, cerca di deviare da ciò che gli stessi mercati considerano «stabilità politica».
L’incubo del Grexit, dell’uscita della Grecia dalla zona euro viene riprodotto senza scrupoli dai mercati, i quali, a prescindere dalla situazione reale, dai «progressi» sul fronte macroeconomico di Atene, comunque si schierano contro Syriza.
Goldman Sachs e l’agenzia di rating Moody’s valutano negativamente sia la prospettiva di elezioni anticipate, perché diminuirebbe la credibilità del paese, sia l’eventualità di un governo delle sinistre, perché «potrebbe tagliare i ponti con i creditori internazionali».
Secondo analisi pessimiste, riprodotte da alcuni quotidiani, «la conseguenza dell’interruzione dei finanziamenti dalla Bce alle banche greche (nel caso che un governo del Syriza continui a opporsi alle misure aggiuntive) sarebbe la chiusura improvvisa degli sportelli e dei bancomat in Grecia, impedendo così ai correntisti di accedere ai loro soldi» come accaduto nel marzo del 2013 a Cipro. Allora nell’ isola le banche cipriote rimasero senza contanti per parecchi giorni, provocando la reazione dei cittadini e un memorandum pesante per tutti i ciprioti.
Corsa contro il tempo
Il tempo nella capitale greca in effetti stringe. Tra un mese, a prescindere dalle elezioni anticipate e dal governo che si formerà, Atene deve incassare 7 miliardi di euro (sui 230 già concessi) per coprire i propri bisogni. L’Eurogruppo durante la sua riunione a metà dicembre ha deciso di prolungare la validità del programma di risanamento dell’economia greca sino alla fine del prossimo febbraio — la decisione è stata respinta da Syriza — ma sta alla troika e al governo greco trovare un accordo sulle misure aggiuntive (altri 2,5 miliardi di tagli), finalizzate alla conclusione del controllo sull’attuazione del programma stesso. Questa è infatti la condizione indispensabile per l’uscita del Paese dal memorandum e per l’attuazione della linea di sostegno precauzionale (Eccl) finché la Grecia non sarà in grado di tornare sui mercati internazionali.
In altri termini, Bruxelles e Berlino sottolineano che né il denaro, né la linea di credito precauzionale saranno concessi ad Atene fino a quando la Grecia non avrà concluso il piano di risanamento economico nel suo insieme, che vuol dire accettazione da parte del governo greco della nuova austerity.
La domanda che si pone già è come si potranno incassare quei soldi dai creditori internazionali necessari ad Atene per pagare gli stipendi, le pensioni e per rifinanziare il debito (i bond in scadenza), nel momento in cui proprio in quel periodo, in febbraio, ci sarà il ricorso anticipato alle urne e le trattattive per la formazione di un governo? Come si comporterà Alexis Tsipras, tra i critici più severi delle politiche di austerità del Fondo monetario internazionale, dell’Unione europea e della Banca centrale europea? Se come nuovo premier respingerà ogni trattattiva con la troika, lo stato greco rischia di trovarsi senza soldi nelle casse; se accetta avrà fatto una manovra di 180 gradi.
La tattica di Tsipras
Per il momento il leader della sinistra radicale greca rassicura i suoi interlocutori internazionali e soprattutto gli europei che non ha la minima intenzione di uscire dall’euro, sapendo benissimo che l’Ue non può permettersi di far uscire la Grecia dall’Eurozona, non soltanto perché non è previsto nei trattati dell’Ue, ma anche per le ripercussione che avrebbe in tutto il vecchio continente.
Quello che conta per Syriza è guadagnare tempo e non alimentare, senza volerlo a causa della pressione dei mercati, la crisi umanitaria nel Paese. A un passo dal potere Tsipras sta cambiando tattica — altri dicono oltre la retorica, anche strategia politica — per quanto riguarda il memorandum, gli accordi già firmati tra Atene e la troika.
La promessa del leader di Syriza, un anno fa al parlamento, che «l’unica proposta alternativa è l’annullamento di tutte le misure di austerità con una legge che avrà soltanto un articolo» è stata sostituita dall’ eventualità di trattare con i creditori internazionali e comunque di non decidere prima di consultarsi con loro. Anche perché noti esponenti della sinistra radicale, come il professore di Diritto del lavoro Alexis Mitropoulos, parlamentare di Syriza e proveniente dal Pasok, fanno notare che «chi crede che il memorandum potrebbe essere annullato semplicemente con una legge non conosce affatto gli impegni derivanti dagli accordi».
Tsipras con i vertici di Syriza sono già al lavoro per mettere a punto il programma dei primi cento giorni di governo e soprattutto per non trovarsi impreparati a ridosso delle scadenze di febbraio. A questo proposito si è incontrato con l’ex governatore della Banca di Grecia, Jorgos Provopoulos, definito un anno fa «l’ambulante delle banche».
Reazioni interne
Che Tsipras abbia lasciato la retorica, dando spazio al realismo politico, è evidente anche dalla sua visita al Pentagono, il quartier generale del ministero della difesa greco, tradizionalmente roccaforte della destra (la memoria del colpo di stato dei colonelli nel 1967 è ancora viva), dove ha rassicurato la leadership militare, «Ci sarà una continuazione nello stato», ha promesso se Syriza andrà al potere. Il tour del leader della sinistra radicale ha comportato anche la visita ai monasteri di Monte Athos, al Vaticano, dove si è incontrato con il Pontefice, e all’archivescovo della potente Chiesa Ortodossa Greca per accreditarsi fra le gerarchie in vista delle urne.
In questo ambito di aperture politiche Tsipras si è incontrato al Forum di Como con José Manuel Barroso, Jean Claude Trichet, Joaquin Almunia, Mario Monti, Enrico Letta, mentre i responsabili della politica economica di Syriza, Jorgos Stathakis e Jannis Milios, entrambi professori universitari, sono andati alla City di Londra a parlare per illustrare e discutere con investitori e rappresentanti di hedge fund il programma economico del partito.
Queste mosse di realismo politico di uno Tsipras in pole position per la premiership, non vengono viste di buon occhio dai suoi avversari interni, come per esempio Panajotis Lafazanis, capogruppo parlamentare e leader dell’Aristero Revma (Corrente di sinistra), componente comunista di vecchio stampo in seno a Syriza, che «non vorebbe alcun contatto con i rappresentanti del neoliberalismo europeo». «Di poliglottismo degli esponenti di Syriza per quanto riguarda le proposte per uscire dalla crisi» parla anche una parte del elettorato, nonostante si dichiari a favore della sinistra radicale
Per la prima volta da quando l’uomo è sulla Terra, la sua presenza si è rivelata talmente invadente -e capace di modificare la Natura- che è stato coniato un termine per indicare l’era geologica attuale: Antropocene. Prima che sia troppo tardi, dobbiamo reagire con rigore: la nostra generazione ha il dovere -e il diritto- di cambiare le cose.
Altreconomia.it, 22 dicembre 2014 (m.p.r.)
È la fine del mondo? Forse no, ma certamente siamo consapevoli di appartenere a una generazione che ha il dovere -e il diritto- di cambiare le cose. Per questo, quando qualcuno dice che per uscire dalla crisi si deve puntare alla crescita e attrarre investimenti dovremmo non solo storcere il naso, ma reagire con decisione. E perlomeno chiedere: la crescita di che cosa?, gli investimenti per fare che?
Il termine “decrescita” ispira sentimenti contrastanti. A molti evoca difficoltà, perdita di benessere, ritorno al passato. Chi, da anni, ne parla, non intende nulla di tutto ciò. Intende ragionevolmente porre l’accento sul fatto che i consumi dell’uomo devono diminuire, se vogliamo un futuro. E tra l’altro, questo potrebbe portare anche maggior benessere e giustizia. Il termine decrescita è una provocazione: finché andrà avanti il vuoto mantra della crescita, ci sarà qualcuno che proporrà il destabilizzante tema della decrescita.
«C’è l’imbecille consapevole di essere distratto nella comunicazione dei contenuti, e chi ribadisce l’orgoglio di casta e di gergo. C’è anche chi le accetta, queste cose, convinto che “non si capisce nulla quando parla, deve essere una persona intelligentissima“».
Cittaconquistatrice.it, 30 dicembre 2014 (m.p.r.)
Nelle trasformazioni dell’ambiente e del territorio, almeno dalla metà del ‘900 in poi, da un lato le possibilità tecniche e le potenzialità sociali si dilatavano enormemente, dall’altro cresceva esplicita e implicita la domanda di partecipazione diretta alle scelte. Spiegava nel 1948 il nostro Giancarlo De Carlo all’attentissima platea londinese della Architectural Association: «The housing problem cannot be solved from above. It is a problem of the people, and it will not be solved, or even boldly faced, except by the concrete will and action of the people themselves» (1). Dove il termine housing, abitazione, era ovviamente estendibile all’idea di città, che nel contesto britannico significa new town, e altrove quartieri integrati e unità di vicinato col cosiddetto “centro sociale” come fulcro di partecipazione.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, lasciando però più o meno le cose come stavano prima: c’è l’imbecille consapevole di essersi un po’ distratto riguardo alla comunicazione dei contenuti, e chi invece ribadisce l’orgoglio di casta e di gergo. Naturalmente c’è anche chi le accetta, queste cose, convinto chissà perché che “non si capisce nulla quando parla, deve essere una persona intelligentissima”. Però è innegabile che cresca anche il fastidio per la difficoltà a capire, e quindi a scegliere ed esprimere consenso. Fastidio letteralmente esploso quando l’accessibilità dei documenti grazie alla rete ha reso molto più evidente la divaricazione fra gerghi iniziatici e linguaggio corrente. Si capisce sempre di più, che non basta riprodurre tecnicamente gli allegati di un processo decisionale di trasformazione, e caricarli in chiaro su un sito istituzionale, per garantire trasparenza delle scelte. Occorre che l’istituzione non sia imbecille di secondo grado, ovvero accetti un’interlocuzione attiva.
Non è detto che ci si riesca al 100%, o al primo colpo, ma l’importante è provare: a non perdere per strada contenuti, e a renderli criticamente accessibili. La trasparenza si potrebbe articolare in quattro punti: sempre un sintetico executive summary (pochissimo usato da noi in Italia), che orienta alla lettura della documentazione vera e propria; poi un buon uso di trasversalità e ipertestualità con links interni a partire da un indice molto articolato proprio a questo scopo; poi un generale approccio amichevole sia di linguaggio che di forme anche grafiche; ultima ma non in ordine di importanza, la coscienza che se di partecipazione si deve trattare, questa deve stare alla base della lettura, dei contenuti, non rappresentare un ripensamento successivo.
Se siamo arrivati a porci il problema delle nuove tecnologie nelle scuole dell’obbligo, o della storia patria spiegata a fumetti, a maggior ragione la multimedialità nella documentazione di piano e programma ci sta proprio su misura: senza nulla togliere alla correttezza dei contenuti ovviamente. E quando comunque non si capisce, non fatevi problemi a dare dell’imbecille a chi ha prodotto quella comunicazione lacunosa, anche se si tratta dell’istituzione. La stessa cosa a maggior ragione vale per chi vi parla ora, va da sé.
(1) «La questione delle abitazioni non è un problema che possa essere risolto dall'alto. Si tratta di un problema che coinvolge direttamente le persone, e non lo si potrà mai risolvere, e neppure affrontare seriamente, salvo farlo attraverso la volontà e l'azione diretta dei cittadini»; la citazione di Giancarlo De Carlo riportata, che marca secondo la critica internazionale l’esordio ufficiale della partecipazione democratica in urbanistica, e implicitamente la domanda di un linguaggio accessibile a tutti, è tratta da Peter Hall, Cities of Tomorrow, Blackwell, Oxford, p. 271
austerity che soffoca l’Unione con meno risorse per pagare i debiti pubblici e più sviluppo”. La Repubblica, 31 dicembre 2014
Ma è sicuro che non sarà qualcosa di dirompente?
«Senta, guardiamo la situazione con realismo. La tensione in Europa è arrivata a un punto tale che in un modo o nell’altro scoppierà, entro il 2015. E tre sono le alternative: una nuova crisi finanziaria sconvolgente, l’affermazione delle forze di destra che realizzano la coalizione di cui stanno mettendo le basi incentrata sul Fronte Nazionale in Francia e comprendente la vostra Lega e forse i 5 Stelle, oppure uno choc politico proveniente da sinistra: Syriza, gli spagnoli di Podemos, il Partito democratico italiano, quel che resta dei socialisti francesi. Finalmente alleati e operativi. Lei quale soluzione sceglie? Io la terza».
La famosa “rivoluzione democratica”, insomma. Quali dovrebbero essere i primi atti?
«Due punti. Primo, la revisione totale dell’attuale politica basata sull’austerity che sta soffocando qualsiasi possibilità di recupero in Europa, a partire dal Sud dell’eurozona. E questa revisione deve per primissima cosa prevedere una rinegoziazione dei debiti pubblici, un allungamento delle scadenze, eventualmente dei condoni veri e propri di alcune parti. È possibile, glielo assicuro. Vi siete chiesti perché l’America marcia alla grande, così come l’Europa fuori dall’euro come la Gran Bretagna? Ma perché l’Italia deve destinare il 6% del proprio Pil al pagamento degli interessi e solo l’1% al miglioramento delle sue scuole e università? Una politica incentrata solamente sulla riduzione del debito è distruttiva per l’eurozona. Secondo punto: un accentramento presso le istituzioni europee di politiche di base per lo sviluppo comune a partire da quella fiscale, e magari riorientare quest’ultima tassando di più le maggiori rendite personali e industriali. Su queste materie fondamentali si deve votare a maggioranza e non più all’unanimità, e poi vigilare perché tutti si adeguino. Più centralità serve anche su altri fronti a somiglianza di quanto si sta cominciando a fare per le banche. Solo così si potrà omogeneizzare l’economia e sbloccare la frammentazione di 18 politiche monetarie con 18 tassi d’interesse, 19 da inizio gennaio con la Lituania, esposta al flagello della speculazione. Non rendersene conto è miope e, quel che è peggio, profondamente ipocrita».
Le “ipocrisie europee” di cui parlava all’inizio: a cosa si riferisce più precisamente?
«Andiamo con ordine. Il più ipocrita è Jean-Claude Juncker, l’uomo al quale incoscientemente si è data in mano la commissione europea dopo che per vent’anni ha condotto il Lussemburgo a una sistematica depredazione dei profitti industriali del resto d’Europa. Ora pretende di fare il duro e di prendere un giro tutti con un piano da 300 miliardi che però è finanziato solo per 21, e all’interno di questi 21 la maggior parte sono fondi europei già in via di erogazione. Parla di “effetto leva” senza neanche rendersi conto di cosa sta parlando.
«Per l’istituto nazionale di ricerca aumentano i disoccupati di lunga durata, vero freno del Sud. La «nota mensile» sbugiarda Renzi e Padoan. Il ministro dell’Economia aveva stimato un più 0,5 per cento di Pil per il petrolio a 60 dollari. Invece a causa della stessa crisi "l’effetto per l’Italia sarà nullo"».
Il manifesto, 31 dicembre 2014
Molto peggio va l’occupazione. L’Istat parla di «condizioni del mercato del lavoro» che «rimangono difficili con livelli di occupazione stagnanti e tasso di disoccupazione in crescita». I numeri più neri in campo occupazionale vengono dai disoccupati di lunga durata. Al record del tasso di disoccupazione, che ad ottobre ha toccato quota 13,2 per cento — il governo lo ha motivato con il ritorno sul mercato del lavoro dei molti giovani prima “inattivi” o “scoraggiati”: in realtà il loro numero, sottolinea l’Istat, è aumentato del 6,5 per cento nel 2014 — si unisce infatti «un allungamento dei periodi di disoccupazione: l’incidenza dei disoccupati di lunga durata (quota di persone che cercano lavoro da più di un anno) è salita nell’anno in corso dal 56,9 per cento al 62,3». Per l’istituto nazionale di statistica «questo gruppo di individui, generalmente considerati poco appetibili dalle imprese, costituisce un fattore di freno alla discesa della disoccupazione soprattutto nel Mezzogiorno». È quindi il Sud il tallone d’Achille del paese. Ma il governo Renzi pare non essersene accorto. Così come sembra non voler far niente per aiutare coloro che perdono il lavoro dopo i 50 anni, i più colpiti dalla crisi e quelli con meno possibilità di trovare nuova occupazione.
Nel frattempo si allontana sempre di più la prospettiva per loro della pensione. Il governo ha infatti approvato il decreto sull’adeguamento dell’età pensionabile dovuto all’aumento dell’aspettativa di vita che scatterà però dal primo gennaio 2016. Si tratta di un meccanismo previsto già dalla riforma Monti che il governo Berlusconi nel 2010 fissò a cadenza triennale. La riforma Fornero lo ha accelerato: lo scatto ora arriva ogni due anni. E per la prima volta dal primo gennaio sarà di quattro mesi — rispetto ai 3 decisi dal 2013. Un salto di quattro mesi che si applica a quasi tutte le “quote” maschili, facendo passare il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia dei dipendendenti del settore privato a 66 anni e 7 mesi — era a 66 anni e 3 mesi, sempre a condizione di avere almeno 20 anni di contributi versati. Allo stesso modo aumenta il requisito per la pensione anticipata a prescindere dall’età ma con una decurtazione graduale anagrafica sull’assegno: da 42 anni e sei mesi a 42 anni e dieci mesi. Più penalizzate le donne, a causa del processo di armonizzazione con gli uomini: dal primo gennaio 2016 nel settore privato il requisito anagrafico aumenterà di ben un anno e 10 mesi: da 63 anni e 9 mesi a 65 anni e 7 mesi. Uno schema che porterà nel 2050 a prevedere un’età di pensione a 70 anni uguale per donne e uomini, senza che il governo abbia men che meno preso in considerazione operazioni di flessibilità in uscita — mentre precarizza ancor di più quella in entrata con il Jobs act — nè di aumentare i coeficenti per i precari a lavoro discontinuo che quest’anno si troveranno recapitare dalla nuova Inps targata Tito Boeri la stima di pensione da poche centinaia di euro.
Se nel 2015 il Parlamento non sarà diverso e non avrà introdotto la tortura tra i reati penali i torturatori di tutto il mondo potranno scegliere di venire in Italia come se fosse un paradiso criminale.
Il manifesto, 30 dicembre 2014
Il 17 luglio del 1998, ovvero sedici anni prima rispetto alla sentenza della Cassazione nel caso Reverberi, l’Italia aveva organizzato solennemente a Roma in Campidoglio la conferenza istitutiva della Corte Penale Internazionale competente in materia di crimini contro l’umanità. La Corte è nata, seppur stentatamente. L’Italia non si è mai adeguata fino in fondo allo Statuto della Corte voluta dall’Onu. Tra i crimini che la Corte è deputata a giudicare vi è la tortura. Non essendovi il delitto nel nostro codice penale sarà ben difficile arrestare quel militare o dittatore che si è macchiato di questo crimine all’estero e viene a trovare rifugio in Italia. I torturatori di tutto il mondo possono scegliere di venire in Italia come se fosse un paradiso criminale.
Tre anni dopo la conferenza di Campidoglio, nel luglio del 2001, ovvero tredici anni prima della sentenza della Cassazione, c’è stata la tragedia genovese. Un pezzo dell’apparato di Stato organizza e commette violenze brutali contro chi manifestava contro il G8. Partono i processi. Un certo numero tra poliziotti e funzionari viene messo sotto inchiesta. La condanna interviene ma per reati lievi. Manca infatti il delitto di tortura. A uno dei torturati di Bolzaneto gli agenti della polizia penitenziaria, dopo essersi vantati di essere nazisti e di provare piacere a picchiare un «omosessuale, comunista, merdoso», dopo averlo offeso dicendogli «frocio ed ebreo», lo hanno portato fuori dall’infermeria e gli hanno strizzato i testicoli, come nella tradizione tragica della tortura a Villa Triste o a Villa Grimaldi. «Entro stasera vi scoperemo tutte». Machismo e fascismo, come sempre insieme appassionatamente. Tra il 2001 e il 2014 ci sono stati casi che hanno scosso le coscienze di questo paese. Un giudice ad Asti nel gennaio del 2012 ha certificato che la tortura commessa da alcuni poliziotti penitenziari non era da lui punibile in assenza del delitto nel codice. Siamo alla fine del 2014 e il Parlamento resta ancora in silenzio. Antigone, insieme ad Amnesty International, Arci, Cittadinanza Attiva, Cild e decine di altre organizzazioni ha organizzato un minuto di silenzio in Parlamento lo scorso 10 dicembre 2014 sperando di mettere i deputati davanti alle loro responsabilità e volendo stigmatizzare il silenzio colpevole delle istituzioni. L’esito della discussione parlamentare è quanto meno mortificante: è stata rinviata a dopo le vacanze. L’Italia, va ricordato, aveva preso formalmente questo impegno internazionale nel 1988. Nella scorsa primavera il Senato ha approvato un testo non conforme a quanto previsto nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura: si usa il plurale per le violenze (un’unica violenza non determinerebbe tortura) e si configura il delitto come delitto generico ovvero non tipico di chi ha obblighi legali di custodia. La Camera sta ragionando — lentamente, molto lentamente, troppo lentamente — intorno a possibili miglioramenti. Questa è buona cosa ma lo fa senza verificare cosa potrebbe accadere in Senato nel caso di un nuovo cambio di testo. Infatti, fino a quando resiste il bicameralismo, ad ogni cambiamento il testo torna all’altra Camera.
In Senato non vi sono garanzie che ci siano i numeri per far passare la legge. Ci sono gruppi dello stesso partito che hanno votato o preso posizioni molto diverse, se non opposte, alla Camera e in Senato. A Palazzo Madama il Ncd ha dato il peggio di sé. Gli emendamenti peggiorativi del testo sono tutti suoi. «Accogliamo con grande favore l’introduzione del nuovo reato, che è uno strumento in più per perseguire le violazioni alla tutela dei diritti dell’uomo. L’unica perplessità è nella fase applicativa, non certo in termini di principio. Ci sono alcune criticità nel testo». Così il capo della Polizia Alessandro Pansa audito in Commissione Giustizia alla Camera. Le sue dichiarazioni costituiscono un passo in avanti importante. Dunque ci rivolgiamo a tutti i parlamentari del campo democratico, liberale, cattolico, progressista: se siete contro la codificazione del delitto di tortura abbiate il coraggio di dirlo pubblicamente (alle Nazioni Unite, ai nostri lettori e alle nostre associazioni); se invece siete favorevoli scrivete la migliore legge possibile a approvatela definitivamente nel giro di un mese.
* presidente Antigone
Interviste a Yanis Varoufakis, economista molto vicino a Syriza, e a Dimitris Papadimoulis, vicepresidente del Parlamento europeo, capogruppo degli europarlamentari di Syriza, di Thomas Fazi e Argiris Panagopoulos.
Il manifesto, 30 dicembre 2014 (m.p.r.)
VAROUFAKIS:
«SOLO TANTE MENZOGNE SULLA RIPRESA GRECA»
di Thomas Fazi
La Grecia, che oggi mostra un tasso di crescita economica tra i più alti di tutta l’Unione, viene presentata dai fautori dell’austerità come una dimostrazione dell’efficacia del consolidamento fiscale e della svalutazione interna, che avrebbero reso l’economia greca più efficiente e competitiva. Cosa ne pensa?
Penso che sia una perversa distorsione della realtà. La Grecia è in piena Grande Depressione. Sono sette anni che i redditi e gli investimenti nel paese sono in caduta libera; questo ha determinato una vera e propria crisi umanitaria. E adesso, sulla base di un trimestre di crescita del Pil reale, sono tutti lì a festeggiare la «fine» della recessione! Ma se si guardano attentamente i numeri, ci si rende conto che siamo ancora in recessione, anche in base ai dati ufficiali. La spiegazione è piuttosto semplice: nello stesso periodo in cui il Pil reale è cresciuto dello 0.7%, i prezzi sono caduti in media dell’1.9%. Per chi non lo sapesse, il Pil reale equivale al Pil nominale (ossia calcolato in euro) diviso per l’indice dei prezzi (il cosiddetto deflatore del Pil). Considerando che questo indice è sceso dell’1.9%, e che il Pil reale è aumentato solo dello 0.7%, questo vuol dire che il Pil misurato in termini nominali, ossia in euro, è sceso! Dunque la crescita del Pil reale non dipende dal fatto che il reddito nazionale, in euro, è cresciuto; dipende dal fatto che esso è caduto più lentamente dei prezzi. E ora l’establishment politico, sia europeo che nazionale, vorrebbe vendere ai greci questo piccolo trucco contabile come la “fine della recessione”. Ma non funzionerà.
Pil al –25%, disoccupazione ai massimi livelli dai tempi della seconda guerra mondiale: pensa che questi siano semplicemente gli effetti indesiderati di politiche «sbagliate», o possono essere considerati il frutto di un disegno preciso?
Nessuna delle due, credo. Queste politiche erano le uniche che non comportavano un’ammissione del fatto che l’architettura dell’eurozona è fondamentalmente disfunzionale, e che la crisi era sistemica e non «greca». Ma soprattutto, erano le uniche ad essere compatibili con quello che era l’obiettivo principale dell’establishment: salvaguardare i banchieri da qualunque tentativo di espropriazione da parte dell’Unione europea o degli stati membri. Ed è così che una nazione piccola ma fiera è stata costretta a implementare una feroce politica di svalutazione interna che ha causato e sta causando enormi sofferenze alla popolazione, oltre ad aver fatto lievitare il debito privato e pubblico del paese a livelli insostenibili, e tutto questo per mantenere l’illusione che l’architettura dell’eurozona fosse sostenibile, e per scaricare le perdite colossali delle banche private sulle spalle dei cittadini comuni, dei lavoratori e dei contribuenti. Una volta decisa la strategia, l’hanno poi ammantata di propaganda neoliberista per renderla più appetibile…
Perché i mercati hanno così paura di Syriza secondo lei?
Quello che temono è lo scoppio delle due bolle economiche gonfiate ad arte da Berlino, Francoforte e Bruxelles negli ultimi anni, quella dei titoli sovrani e quella dei titoli di borsa, che avevano lo scopo di alimentare l’illusione della «ripresa greca». Ma questo è il destino di tutte le bolle: alla fine scoppiano. E prima lo faranno meglio sarà, perché ci costringerà a guardare finalmente in faccia la realtà e a darci da fare per migliorare le condizioni di vita di tutti, sia in Grecia che nel resto dell’eurozona.
Pensa che la vittoria di Syriza sia un’ipotesi realisticamente possibile? O ritiene che le forze conservatrici dell’establishment greco - ed europeo - siano disposte a tutto pur di sbarrargli la strada?
Entrambe le cose. Non c’è alcun dubbio che le forze dell’establishment faranno di tutto per fermare Syriza, ricorrendo alle più bieche forme di terrorismo psicologico nei confronti dell’elettorato greco. Ma sembra che questa volta tale strategia, già impiegata con successo in passato, sia destinata a fallire. Una vittoria di Syriza al momento sembra sempre più probabile.
Come giudica l’augurio di Juncker affinché i greci non votino «in modo sbagliato»?
Direi che dimostra un profondo disprezzo per la democrazia, e un atteggiamento neocoloniale che si fa beffa dell’idea secondo cui l’Unione rispetta la sovranità dei suoi stati membri. In teoria, è la Commissione europea che è tenuta a rispondere delle sue scelte di fronte ai cittadini degli stati membri, e non i cittadini che sono tenuti a rispondere delle loro scelte di fronte alla Commissione. E per definizione la Commissione non può esprimere alcun giudizio di merito sull’esito di un’elezione. E non può di certo dire quale sia il candidato «giusto» e quello «sbagliato». Con questa affermazione, Juncker ha fatto cadere ancora più in basso la reputazione della Commissione, già ai minimi storici, e ha allargato ancora di più il deficit democratico dell’Ue. Il suo intervento è stata una delle mosse più anti-europee che si potessero immaginare, in quanto è riuscito a delegittimare in un colpo solo sia la Commissione che l’Unione stessa.
Ci può descrivere in breve i punti principali del programma di Syriza?
In primo luogo, un governo guidato da Syriza farà di tutto per far sì che l’Europa affronti i nodi che finora si è rifiutata di affrontare: la disfunzionalità dell’architettura dell’eurozona, e il fatto che i cosiddetti “salvataggi” della troika - che erano tutto fuorché dei salvataggi - sono stati molto deleteri sia per i paesi della periferia che per quelli del centro, inclusa la Germania. In secondo luogo, si sforzerà di ricostruire e di rimettere in moto l’economia sociale della Grecia per mezzo di un «New Deal per l’Europa» finalizzato a tirare tutta la periferia, e non solo la Grecia, fuori dalla depressione. Infine, si adopererà per riformare sia il settore privato che quello pubblico al fine di incrementarne la creatività e la produttività, e per costruire una società migliore.
Il ritorno alla normalità passa necessariamente per un default su una parte del debito pubblico?
Sì, e questo non vale solo per la Grecia. La Grecia farà senz’altro default a un certo punto, ma probabilmente non lo farà in maniera formale, ma con un taglio del debito greco nei confronti del resto dell’Europa. E a quel punto, poco dopo, seguiranno l’Italia e poi la Spagna e il Portogallo. Di fatto rappresenterà il primo passo verso una specie di unione fiscale: quando uno stato ha avuto in prestito dagli altri e non è in grado di ripagare al tasso concordato, è una specie di unione fiscale, ma una specie terribile, la peggior specie, un’unione fiscale per default.
PAPADIMOULIS: «UN VOTO PER CAMBIARE TUTTA L'EUROPA»
di Argiris Panagopoulos
Syriza vincerà le elezioni per cambiare la Grecia e l’Europa, sostiene convinto il vicepresidente del Parlamento Europeo Dimitris Papadimoulis, che si prepara per dare battaglia elettorale e rompere il cerchio dell’austerità in Europa. Papadimoulis crede che la vittoria di Syriza offrirà una grande possibilità alla Grecia e ai paesi della Ue colpiti dalla crisi per cambiare gli equilibri in Europa. Dimitris Papadimoulis, è vicepresidente del Parlamento europeo, capogruppo degli europarlamentari di Syriza, con una lunga esperienza anche nel parlamento greco, dove è stato portavoce di Syriza. Proviene dai giovani dei comunisti democratici del Partito Comunista Greco e ha rappresentato per anni Synaspismos nel parlamento greco e nel Parlamento Europeo fino alla nascita di Syriza, di cui è diventato uno dei suoi più noti esponenti.
Come valutate il risultato della terza votazione?
Era quanto avevamo previsto. La sfida ora è di andare alle elezioni con una vera contrapposizione politica tra i programmi e i progetti per il futuro del paese. Senza il mercatino della paura e l’allarmismo, senza un clima politico da guerra civile, perché tutto questa provoca danni al paese e la sua economia. Noi abbiamo lavorato sempre per unire le forze democratiche e il nostro popolo. Non vogliamo divisioni. Il governo è stato costretto ad accelerare per l’elezione del presidente della repubblica perché altrimenti doveva far votare un altro pacchetto di misure di austerità. Sapevano molto bene che dopo le tre votazioni in parlamento dovevamo andare alle urne. E loro sanno bene che perderanno le elezioni. Per Syriza si presenta una vera sfida per cambiare il nostro Paese e non solo. Per questo serve una grande alleanza elettorale con un programma realistico, efficiente e pragmatico. Syriza è coerente con tutto quanto ha detto e fatto. Non fa alleanze occasionali. Gli ultimi anni abbiamo visto di tutto, Nuova Democrazia e Pasok governare insieme, un primo ministro venuto dalle banche senza nessuna legittimità e una pioggia di Memorandum e decreti fuori da ogni legittimità democratica e parlamentare.
Syriza rappresenta un pericolo per l’Europa?
L’obiettivo principale del nostro programma è far diventare la Grecia uno stato membro paritario con pieni diritti dentro l’Unione Europea e dentro l’eurozona. Un paese dove ci sarà in vigore lo stato di diritto e la giustizia sociale, con una crescita economica senza questa atroce disoccupazione e la galoppante recessione. Il programma di Syriza è pieno di proposte per cambiare la situazione, pieno di proposte per vere riforme. Il governo uscente ricorre ad un allarmismo pericoloso. È inevitabile che perderanno le elezioni. Le potevano perdere con dignità e senza cercare di fare ulteriore danno al nostro paese. Le nostre proposte potranno aiutare l’Europa a rialzarsi in piedi, perché dobbiamo risolvere la questione del debito. Ora in tanti ammettono che la sola proposta possibile è la Conferenza Europea per il debito. Quando l’avevamo presentata sembrava che avevamo proposto la fine del mondo. L’unica proposta credibile per salvare l’Europa dal baratro è la nostra. Il voto dei greci sarà anche un voto per salvare l’Europa e risolverà parte dei problemi di tutti i paesi del Sud Europa compresa l’Italia.
I sondaggi dicono che Syriza vincerà le elezioni. Che dirà il giorno dopo all’Unione Europea?
Il governo che avrà come asse principale Syriza si muoverà per cercare risposte efficienti e realistiche a livello europeo, lato debito e politica fiscale. Vogliamo mettere ordine nelle nostre finanze e vedere la nostra economia tornare a crescere. Obbiettivi impossibili da raggiungere quando il debito pubblico vola al 180% del Pil. In tutti i paesi europei che si sono applicate le misure di austerità sono aumentati i debiti e si è distrutta l’economia. Abbiamo bisogno di far ripartire la nostra economia e per questo servono investimenti pubblici. Per questo il patto di stabilità rappresenta un cappio al collo dei popolo europei. Il precedente governo era impegnato ad avere un surplus che doveva arrivare al 4,5% in media per i prossimi anni. Ma per avere un surplus di queste dimensioni in questa drammatica situazione significherebbe di distruggere completamente la nostra società. Dobbiamo liberarci da queste imposizioni e trovare il modo di creare lavoro vero e ben remunerato, ridistribuire la ricchezza e lavorare per la coesione sociale della nostra società. Anche questi non sono solo problemi della Grecia ma di tanti altri paesi europei.
Lei è anche vicepresidente del Parlamento europeo. Crede che una vittoria di Syriza può avviare un cambiamento in Europa tanto nei singoli paesi quando nelle istituzioni europee? Durante la campagna per le elezioni europee abbiamo visto un grandissimo interesse da parte dell’opinione progressista europea per la situazione in Grecia e la vittoria di Syriza nelle elezioni europee. Con Syriza è nata una grande speranza e noi abbiamo il compito di far diventare questa speranza una concreta realtà per cambiare le condizioni di vita dei nostri cittadini. Come valutate la mobilitazione di tanti italiani a favore di Syriza o perlomeno del diritto del popolo greco di scegliere liberamente il suo governo senza le pressioni e i ricatti?
Hanno visto giusto tutti quelli che hanno firmato l’appello «Cambiar la Grecia - Cambiare l’Europa», perché hanno una concezione globale per la dinamica della crisi e una visione solidale per risolvere i problemi dentro l’Unione Europea. Rappresentano tra l’altro una gran parte delle forze migliori dell’Italia. A molti di noi ha onorato il sostegno dei cittadini italiani, di scrittori come Andrea Camileri o medici come Gino Strada. Questo ha molto significato per un paese in piena crisi umanitaria e con una parte della sua popolazione senza nessuna assistenza sanitaria grazie alle politiche di austerità. Siamo contenti che tante persone che lavorano al manifesto, come la sua direttrice, Norma Rangeri, abbiano firmato l’appello. In Syriza, dall’inizio, abbiamo detto che non lasceremo nessuno solo nella crisi. Noi abbiamo il compito di unire tutto quanto viene diviso da queste drammatiche politiche di austerità. E cerchiamo di farlo nel modo migliore, con la solidarietà a livello nazionale e a livello internazionale. Solo così potremo ricostruire l’Europa con i suoi popoli. ll leader di Podemos Pablo Iglesias ha detto recentemente, e ha ragione, che le elezioni in Spagna alla fine dell’anno partiranno dalla Grecia.
Cinque anni fa Alexis Tsipras militava in un partito che raccattava a stento il 4,9% dei consensi. Oggi la sinistra di Syriza è in testa a tutti i sondaggi. E la sinistra (che in Grecia c'è) fa paura al partito dei padroni. Domani anche in Italia?
La Repubblica, 30 dicembre 2014
«L’Europa deve mettersi in testa una cosa. Quello che conta in democrazia è il voto. E il futuro del mio paese lo decideranno i miei concittadini e non i falchi dell’euro », ha esordito. Compito dei greci è scegliere «tra nuovi tagli e la Troika o la speranza». Il 25 gennaio, visto da questa sala che trabocca di passione, è già diventato una sorta di catarsi. «Oggi è l’inizio della fine di chi ha portato la Grecia nel baratro - assicura l’enfant prodige della sinistra europea ai militanti del partito - . Il bello è che il premier e i politici che hanno causato la crisi si presentano come i salvatori della patria dandoci lezioni di europeismo. Ridicolo, visto che arrivano da chi (leggi Samaras, ndr .) è passato in una notte da paladino del fronte anti-Troika a miglior amico di Ue, Bce e Fmi». Applausi.
La strada, lo ammette anche Tsipras in camicia bianca quasi renziana, «non è facile». Prima c’è da vincere le elezioni («ribalteremo i pronostici, la gente non vuol buttare alle ortiche cinque anni di sacrifici», ha detto ieri il presidente del Consiglio). Poi, soprattutto, c’è da cercare alleati per formare un governo e raggiungere in tempi brevissimi - entro fine febbraio - un’intesa con la Troika per sbloccare nuovi aiuti ed evitare il default. «C’è una sola cosa non negoziabile - è il mantra del leader di Syriza - . Noi vogliamo uscire dal memorandum senza nuovi tagli lacrime e sangue». Washington, Bruxelles e Francoforte devono mettersi il cuore in pace. I due miliardi di austerity pretesi in cambio dell’ultima tranche da sette miliardi di prestito resteranno secondo i piani di Tsipras un sogno. Anzi: «Syriza implementerà da subito il programma di Salonicco ». Tradotto: un ritocco all’insù delle pensioni più basse e dello stipendio minimo, elettricità gratis alle famiglie meno abbienti e nuovi investimenti pubblici. In soldoni, una sconfessione degli accordi già presi con la Troika che per il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble «vanno rispettati ».
Il braccio di ferro si preannuncia durissimo. Anche perché Syriza chiederà alla Ue un taglio sostanzioso del debito greco, fumo negli occhi per i rigoristi del Nord. Tsipras però ha teso loro ieri anche qualche piccolo ramoscello d’ulivo: «Teniamo alla stabilità del sistema bancario in Grecia e in Europa- ha spiegato-. Non usciremo dall’euro, non prenderemo decisioni unilaterali sul debito e non toccheremo i risparmi dei privati». Lotta senza quartiere invece agli evasori. «E’ un assurdo che Samaras chieda il voto a un ceto medio che ha spinto nella povertà massacrandolo di tasse e di tagli agli stipendi mentre non ha torto un capello ai ricchi che non pagano le tasse».
Clima molto pre-elettorale. Aperitivo di una campagna che si preannuncia virulenta e polarizzata e dove «il concetto di Grexit, l’uscita di Atene dall’euro in caso di vittoria di Syriza, sarà utilizzato da Nea Demokratia come arma impropria di terrorismo mediatico».
Gli ambienti europei sono convinti che al momento di sedersi al tavolo delle trattative i toni saranno meno accesi. E che Tsipras, imbrigliato anche dalla necessità di trovare alleati per varare un governo, abbasserà dopo il 25 gennaio l’asticella delle sue pretese. Il leader carismatico della sinistra ellenica promette invece battaglia: «Il vento in Europa è cambiato. Podemos è in testa ai sondaggi in Spagna. Ho ricevuto messaggi di solidarietà da Italia, Francia, Bolivia e persino dalla Germania». E nessuno, è la sua speranza, avrà il cuore di buttare la Grecia fuori dall’euro. Il finale, nello stile dell’oratore, è pirotecnico. «Samaras e Venizelos saranno buttati fuori dalle stanze del potere - ha concluso Tsipras -. Ma li diffido dal far sparire documenti ed e-mail firmati in questi anni. Specie quelli con la Troika. Li vogliamo vedere tutti uno a uno». Ovazione. Dalla sala e dalle strade intorno al Keramikos, intasate di gente che non ha trovato posto nel teatro. La campagna elettorale è iniziata.
«La lingua disonesta è di chi non sa bene che fare, non ha le idee chiare, non vuole assumersi le responsabilità che gli competono, e lascia a chi deve leggere il compito di decifrare, di leggere fra le righe, di stiracchiare le parole e i concetti dalla parte che vuole». E se ne fa largo uso: le professioni, la politica.
Internazionale.it, 23 dicembre 2014 (m.p.r.)
Il governo, il ministro dell’istruzione, i collaboratori del ministro, i funzionari del ministero decidono che serve qualcuno che insegni agli insegnanti a insegnare meglio, perciò stanziano una certa quantità di denaro per formare questi formatori: il denaro verrà dato alle scuole (una per regione) che organizzeranno dei corsi ad hoc, e da questi corsi verranno fuori dei “docenti esperti” che poi dissemineranno la loro esperienza e le cognizioni acquisite nelle scuole del territorio.
A mio parere non è una buona idea, anzi è un’idea pessima, ma non è di questo che parliamo adesso.
Presa la decisione, stanziato il denaro, restano da curare i dettagli: informare i mezzi d’informazione, mettere la notizia sul sito del ministero, scrivere la circolare che verrà mandata ai dirigenti scolastici. C’è un ufficio per tutto.
L’ufficio che s’incarica di scrivere la circolare deve intanto dare un titolo, un oggetto, al documento che sta per produrre. Potrebbe essere qualcosa come "Formazione degli insegnanti-tutor", oppure "Piano per la formazione di insegnanti che aiutino i colleghi ad insegnare meglio", o persino "Piano per la formazione di personale docente che migliori la qualità dell’insegnamento nelle scuole". È probabile che all’estensore del documento vengano subito in mente formule del genere; ma con la stessa tempestività capisce che queste formule non vanno bene. Ci pensa su un attimo, quindi scrive:
«Piano di formazione del personale docente volto ad acquisire competenze per l’attuazione di interventi di miglioramento e adeguamento alle nuove esigenze dell’offerta formativa».
Risolto il problema dell’oggetto, l’estensore del documento non può passare subito all’informazione, alla cosa che vuole comunicare, non può dire qualcosa come “il ministero ha deciso che bisogna formare dei – diciamo – super-insegnanti che aiutino i colleghi meno esperti (o più demotivati) a far bene il loro lavoro, perciò ha stanziato la somma X, somma che verrà assegnata a scuole che presentino dei buoni progetti di formazione e aggiornamento”. Così è troppo veloce, ci vuole il preambolo. Il preambolo dura circa una pagina, e comincia così:
«I mutamenti verificatisi nell’ambito della società e nella scuola implicano che i docenti acquisiscano e sviluppino con continuità nuove conoscenze e competenze. Occorre perciò avviare e sostenere con apposite attività formative processi di crescita dei livelli ed ambiti di competenza coerenti con un profilo dinamico ed evolutivo della funzione professionale».
Si chiama coazione al dicolon, ed è tipica dei temi in classe. Lo scolaro vorrebbe scrivere “Ci vuole molta cura”, ma è irresistibilmente portato a scrivere “Ci vuole molta cura e molta attenzione”; vorrebbe limitarsi a dire che “Restano vari problemi aperti”, ma la coazione al dicolon lo trascina ad aggiungere “e varie questioni irrisolte”. Nelle cinque righe che ho citato, queste zeppe si presentano con la frequenza di un tic nervoso: «nell’ambito della società e nella scuola», «acquisiscano e sviluppino», «conoscenze e competenze», «avviare e sostenere», «processi ed ambiti», «dinamico ed evolutivo». L’aggiunta di senso è minima, impercettibile, a volte nulla («dinamico ed evolutivo»); e a volte in realtà ad essere aggiunta è una dose di nonsenso: il secondo periodo, da processi di crescita in poi, è quasi incomprensibile, perché la sintassi è slabbrata e i sostantivi astratti formano una nebulosa quasi impenetrabile: cosa sono i «processi di crescita dei livelli»?
I preamboli sono sempre difficili. Il documento migliora andando avanti, le cento righe successive sono meglio di queste prime cinque? Veramente no. Ciò che si potrebbe dire chiaramente in una parola continua a essere detto confusamente in due o in tre. Il dicolon regna sempre sovrano; spuntano qua e là aggettivi puramente decorativi («attivare a livello nazionale percorsi articolati di formazione in servizio…»), o pletorici («predisporre una trama di reciproca cooperazione»); la nebulosa dei termini astratti si fa ancora più fitta, la realtà arretra, gli studenti i banchi le lavagne svaniscono in una calda luce crepuscolare («una base comune di competenza sulla progettazione e sulla organizzazione degli interventi con l’acquisizione di tecniche avanzate e metodi didattici che siano al tempo stesso rigorosi, innovativi e coinvolgenti ed includa l’uso di strumenti pratici indispensabili per gestire aule efficaci»), gli elenchi si fanno onnicomprensivi e scriteriati: «[competenze] di grande importanza per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, l’arricchimento dell’offerta formativa, l’efficienza di tutta una serie di servizi decisivi per la scuola, gli studenti e le famiglie, la comunità di riferimento». Quando salta fuori l’espressione tutta una serie, la patacca non è lontana. E quando dallo sfondo indistinto dei possibili beneficiari si stacca «la comunità di riferimento», potrebbe anche scorrere del sangue.
Che cos’è questo? Non è esattamente quello che si chiama burocratese. Non è esattamente, come recita la definizione del vocabolario, «lingua pressoché incomprensibile perché infarcita di termini giuridici e inutili neologismi, tipica dell’amministrazione pubblica». Nel documento ministeriale c’è anche il burocratese – per esempio:
«Supportare i processi di valutazione e farsi carico del monitoraggio della loro corretta applicazione in base ai criteri definiti dal C.d.D». Anziché, parlando più chiaro: Aiutare nella valutazione e controllare che essa sia in linea con i criteri stabiliti dal collegio dei docenti.
Queste – i «processi di valutazione» al posto delle “valutazioni”, i “«farsi carico del monitoraggio» invece di “verificare”, le problematiche e le tematiche al posto dei problemi e dei temi – queste sono bruttezze abituali, sciocchezze abituali, che ormai non chiamano più l’attenzione: uno potrebbe persino dire che sono i ferri del mestiere, un idioletto non più dissonante e arbitrario degli idioletti di tanti altri ambiti professionali.
Non è neppure esattamente l’antilingua di cui ha parlato una volta Calvino. L’antilingua, secondo Calvino, era «l’italiano di chi non sa dire ho fatto ma deve dire ho effettuato», l’italiano del brigadiere dei carabinieri che, anziché scrivere così la deposizione di un teste: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone”, la scrive così: “Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile”.
La lingua della circolare ministeriale non è esattamente questo. Certo, anche qui c’è quella che Calvino definiva «la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se fiasco stufa carbone fossero parole oscene, come se andare trovare sapere indicassero azioni turpi». Ma la sostituzione di fiasco con prodotti vinicoli, di stufa con impianto termico, di carbone con combustibile, per quanto idiota, non impediva di venire a capo, alla fine, di un senso: ritradotto in un italiano “reale”, il messaggio passava.
Il messaggio della circolare ministeriale, invece, non passa. Non tanto perché la scuola viene chiamata servizio scolastico e la regione diventa l’ambito territoriale, quanto perché, nel suo insieme, la circolare ministeriale non sembra scritta in italiano, o meglio perché le parole che contiene sono certamente italiane, ma i rapporti tra le parole non sembrano produrre un senso compiuto: è come se la pressione delle parole – che sono troppe, e troppo pesanti – avesse fatto evaporare i nessi sintattici (che sono anche nessi logici). Il risultato sono locuzioni senza senso come «processi di crescita dei livelli» (”tentativi di migliorare la qualità degli insegnanti”?), o interi periodi che sembrano scritti estraendo a caso dal sacchetto delle parole astratte, come:
«Reti di istituzioni scolastiche ben organizzate, facendo ricorso ove possibile alle risorse interne, favoriscono la valorizzazione delle specificità professionali presenti nel territorio in funzione di supporto alle esigenze di rinnovamento e arricchimento dei curricoli, di iniziative progettuali, di miglioramento dell’azione educativa e dell’efficienza organizzativa del servizio scolastico».
O come:
«La formazione degli insegnanti contribuisce ad esempio, ad attuare significativi interventi nel campo di un orientamento che guardi alle connotazioni delle professioni, che possono trovare spazio con l’utilizzo delle quote di flessibilità praticabili dalle scuole autonome».
Qui c’è tutto: la punteggiatura messa a caso (la virgola dopo esempio, ma non prima), gli aggettivi esornativi («significativi interventi»), le perifrasi astruse (cosa sono mai le «connotazioni delle professioni»?), i tecnicismi inutili («quote di flessibilità praticabili»); quelli che mancano sono i nessi sintattici: a cosa si riferisce il che di «che possono trovare spazio», agli interventi, alle connotazioni o alle professioni? E cosa vuol dire che gli interventi (o le connotazioni, o le professioni) «possono trovare spazio con l’utilizzo»? Sarà “attraverso l’utilizzo” (vulgo: “adoperando”)? Ma cosa vuol dire, comunque? E una «quota di flessibilità», qualsiasi cosa sia, si «pratica»?
Pare che una volta, mentre era negli Stati Uniti, abbiano detto a Salvemini che stavano traducendo Vico in inglese. E pare che Salvemini abbia risposto: «L’inglese è una lingua onesta: di Vico non resterà niente». Intendendo – non importa se a ragione o a torto – che Vico aveva idee fumose, e che l’inglese è invece una lingua chiara e distinta, che le idee fumose le smaschera, le dissolve.
Chissà se è vero. Chissà se esiste davvero uno spirito delle lingue, che ne rende alcune oneste e altre disoneste, o se invece le lingue non c’entrano, e l’onestà e la disonestà stanno nella coscienza di chi le adopera. Ma l’etichetta è trovata. Né burocratese né antilingua: quella della circolare del Miur del 27/11/2014 (prot. 0017436) è la lingua disonesta di chi non sa bene che fare, non ha le idee chiare, non vuole assumersi le responsabilità che gli competono (e che il discorso chiaro impone a chi lo pronuncia), e lascia a chi deve leggere (e soprattutto: a chi deve obbedire) il compito di decifrare, di leggere fra le righe, di stiracchiare le parole e i concetti dalla parte che vuole, anzi di interpretare le parole e i concetti come s’interpreta il Talmud, cercando d’indovinare le intenzioni di un padrone invisibile e capriccioso, che dice e non dice, che lascia agli altri il compito di riempire con qualcosa lo spazio che lui ha lasciato vuoto non per liberalità ma per inabilità a parlar chiaro, ossia a decidere, e cioè per codardia.
La lingua disonesta. In un suo saggio sull’educazione, Neil Postman sosteneva che la cosa davvero importante era insegnare non tanto a essere intelligenti, quanto a non essere stupidi, e che quindi una buona didattica avrebbe dovuto mirare, più che a riempire la testa degli studenti di buone idee e buone abitudini, a togliere dalla testa degli studenti le idee e le abitudini dimostrabilmente sbagliate o sciocche. Se questo è vero, un’ora di lettura in classe della circolare Miur del 27/11/2014, un’ora di lingua disonesta, potrebbe giovare più di un’ora di Manzoni, e certamente più di tante regole astratte su come si scrive e non si scrive. (Nel frattempo, suggerirei alla ministra Giannini, che prima di essere ministra è una glottologa, di convocare la direttrice generale del ministero, dottoressa Maria Maddalena Novelli, e di rileggere insieme a lei piano piano, parola per parola, solecismo per solecismo, la circolare suddetta, che la dottoressa Novelli ha firmato, così come l’hanno dovuta leggere tutti i dirigenti scolastici d’Italia, una mattina di qualche settimana fa).
«L’economia è la volpe libera nel pollaio che priva della libertà le galline. La disuguaglianza è aumentata e un individuo povero è un individuo debole».
La Repubblica, 27 dicembre 2014
Il filosofo bulgaro naturalizzato francese, Premio Principe delle Asturie per le Scienze Sociali nel 2008 e una delle voci più influenti del continente, colloca il punto di svolta, la curva in cui tutto è svanito, non nella crisi scoppiata nel 2008, ma nella caduta del Muro di Berlino e nella rottura, a partire da quel momento, dell’equilibrio tra le due forze che devono convivere in una democrazia: l’individuo e la comunità.
Vale ancora il suo inventario dei valori? La libertà dell’individuo, per esempio?
«La nostra democrazia liberale ha lasciato che l’economia non dipenda da alcun potere, che sia diretta solo dalle leggi del mercato, senza alcuna restrizione delle azioni degli individui e per questo la comunità soffre. L’economia è diventata indipendente e ribelle a qualsiasi potere politico, e la libertà che acquisiscono i più potenti è diventata la mancanza di libertà dei meno potenti. Il bene comune non è più difeso né tutelato, né se ne pretende il livello minimo indispensabile per la comunità. E la volpe libera nel pollaio priva della libertà le galline».
Oggi, quindi, l’individuo è più debole. Quale libertà gli rimane, allora?
«Paradossalmente è più debole, sì, perché i più potenti hanno di più, ma sono un piccolo gruppo, mentre la popolazione si impoverisce e la disuguaglianza è aumentata vertiginosamente. E gli individui poveri non sono liberi. Quando non è possibile trovare il modo di curare la tua malattia, quando non puoi vivere nella casa che avevi, perché non la puoi pagare, non sei più libero. Non puoi esercitare la libertà se non hai potere, e allora diventa solo una parola scritta sulla carta ».
Eppure, l’uguaglianza è un valore fondativo delle nostre democrazie. Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale?
«Se non si può rispettare, un contratto sociale non è una gran cosa. L’idea di uguaglianza è ancora presente alla base delle nostre leggi, ma non sempre viene rispettata. Il tuo voto conta quanto il mio ma l’obiettivo della democrazia non è il livellamento, quanto piuttosto offrire lo stesso punto di partenza a tutti in quanto uguali davanti alla legge, perché i soldi non comprano la legge. Ma questo principio non si rispetta. Guardate quello che hanno appena approvato i legislatori degli Stati Uniti: hanno moltiplicato per dieci i soldi che possono spendere per una campagna elettorale. Chi non ha soldi non potrà godere della libertà supplementare di spendere riservata a quelli che ce li hanno. È questo pericolo di una libertà eccessiva di pochi che impedisce l’uguaglianza di tutti».
Quando i diritti diventano una realtà formale, che cosa ci rimane?
«Ci rimane la possibilità di protestare, di rivolgerci alla giustizia. Non bisogna cambiare i principi, perché sono già scritti, ma abbiamo visto che ci sono molti modi per schivarli ed è necessario che il potere politico non capitoli di fronte alla potenza di quegli individui che infrangono il contratto sociale a loro favore. L’idea di resistenza mi sembra fondamentale nella vita democratica. Bisogna essere vigilanti, la stampa deve svolgere un ruolo sempre più importante nel denunciare le violazioni dei partiti, bisogna che la gente possa intervenire, ma so che questo richiede di essere sufficientemente vigilanti, coraggiosi e attivi ».
Lei parla della gente, ma il potere non deve cambiare? Che cosa possiamo aspettarci da poteri molto locali di fronte a una realtà globalizzata?
«Dobbiamo rafforzare le istanze europee, perché l’economia è globalizzata. L’Unione Europea è il più grande mercato del mondo, con 500 milioni di cittadini attivi e di consumatori con una grande tradizione nell’equilibrio tra difesa del bene comune e libertà individuale. Se facciamo vivere questa tradizione europea, se permettiamo che esistano organi più efficaci e attivi nell’Unione, potremo affrontare l’evasione fiscale, i paradisi fiscali e anche decisioni fondamentali come quelle sull’approvvigionamento energetico».
Ha fiducia nella sua leadership? In leader capaci di offrire l’impunità fiscale per attirare gli evasori nel loro territorio, come ha fatto Juncker in Lussemburgo?
«Se non ci fidiamo di loro devono prendersi le loro responsabilità. Il Parlamento, così come li ha eletti, dovrebbe poterli destituire ».
Nel 2008, definì i paesi occidentali come i «paesi della paura» rispetto ai paesi dell’appetito, del risentimento o dell’indecisione. Non siamo vittime di tutto questo?
«Le devastazioni causate dalla paura sono state immense, come abbiamo visto nel rapporto del Senato degli Stati Uniti sulle torture della Cia o nel caso Snowden, che ha rivelato che l’America controllava il telefono di Angela Merkel, come se lei potesse rappresentare una minaccia. L’idea che si possa legalizzare la tortura è uno shock per chi crede nel valore della democrazia e gli europei l’hanno accettata docilmente. Le rivelazioni di Snowden sono molto inquietanti per il principio che c’è dietro, il principio di uno Stato quasi totalitario che raccoglie tutte le informazioni possibili sui suoi cittadini, come facevano il Kgb o la Stasi in paesi totalitari come l’Urss o la Germania dell’Est. Allora si usava un sistema di delazioni anonime oggi divenuto arcaico, perché la tecnologia rende più facile raccogliere informazioni, ma in tutto questo le libertà individuali si riducono a una chimera ».
Quale sarà l’Europa dopo la crisi?
«Non so se la crisi finirà, sappiamo che le economie non obbediscono a spinte razionali, ci sono spinte di passione o di follia, spinte che sfidano tutti i pronostici, forse scomparirà nel 2015, o forse mai, o potremmo restarci dentro per altri dieci anni».
Traduzione di Luis E. Moriones © 2-014 Berna González Harbour ( Ediciones El País, Sl)
«Il presidente del Consiglio ha varato la sua «rivoluzione copernicana». In realtà il nuovo contratto "a tutele crescenti" cancella l’articolo 18 e, allargando la normativa ai licenziamenti collettivi, apre la strada alle discriminazioni. Le imprese potranno disfarsi dei lavoratori - sotto ricatto continuo - in ogni momeno» Ma non è detta l'ultima parola.
Il manifesto, 27 dicembre 2014
Non è inutile, comunque, ma anzi assai istruttivo, ripercorre alcuni momenti salienti della vicenda e le consapevolezze che ha consentito di acquisire. In primo luogo, infatti, nessuno si azzarda più a definire «di sinistra» il governo Renzi-Poletti che si è dimostrato tanto violento e prevaricatore nella sua azione contro i diritti fondamentali dei lavoratori, quanto falso e mistificante nell’uso del suo strapotere mediatico.
In cosa consiste, infatti, la «rivoluzione copernicana» di cui straparla Matteo Renzi a proposito dei contenuti del decreto attuativo? Puramente e semplicemente nel consentire al datore di lavoro che voglia per qualsiasi motivo (anche il più ignobile) sbarazzarsi di un lavoratore di «inventarsi» una inesistente ragione economico produttiva per procedere al licenziamento, e di farlo senza timore che il suo carattere pretestuoso venga smascherato in giudizio perché anche in tal caso gli basterebbe pagare la classica «multarella» (per ogni anno di servizio due mensilità con il massimo di 24) per lasciare comunque il lavoratore sulla strada nella condizione disperata discendente dalla disoccupazione di massa.
Tutto il resto del decreto attuativo, compresa la dibattuta questione della parziale della reintegra nel caso di licenziamenti disciplinari illegittimi, è soltanto fumo negli occhi, perché tutti i datori imboccheranno, invece, la comodissima strada del «falso» motivo economico produttivo. Il «progressista» Renzi e il «comunista» Poletti e tutti i loro accoliti dovranno spiegare un giorno che cosa vi sia di moderno, di socialmente utile, di progressivo, di «copernicano» in questa sfacciata e disgustosa ingiustizia che ripugna prima ancora che al diritto al comune senso etico.
Il secondo insegnamento della vicenda ha riguardato il presentarsi, ancora una volta del classico «tradimento dei chierici» per tale intendendo i tecnici, i tecnici politici e i politici puri che avrebbero dovuto garantire i diritti fondamentali dei lavoratori assicurati dall’articolo 18 con la sua potente valenza anti ricattatoria. Da una parte, dunque, vi sono stati i tecnici politici che hanno lavorato intensamente alla formulazione della legge delega e dei decreti attuativi ma di essi non mette conto dire più di tanto: si tratta di un gruppetto di antichi transfughi del movimento sindacale che con l’accanimento tipico di chi «è passato dall’altra parte» opera ormai da decenni — certo non gratuitamente — per la sistematica demolizione di ogni tutela dei lavoratori. Ma dall’altra parte purtroppo vi sono stati politici ossia i parlamentari della cosiddetta «sinistra del Pd», a parole del tutto contrari al Jobs act, ma che nel concreto hanno collaborato in modo assolutamente decisivo alla sua emanazione, e lo hanno fatto con piena consapevolezza. Prima vi è stato il «salvagente» offerto al governo dal presidente della Commissione lavoro della Camera e consistito nell’apparente miglioramento, con alcune precisazioni, del progetto di delega che era «in bianco»: il vero scopo è stato quindi quello di salvare il progetto di delega cercando di renderlo compatibile con l’articolo 76 Cost. e di questo abbiamo detto sulle colonne del manifesto. Poi vi è stato, in data 3 dicembre 2014, l’episodio deprimente e squallido che mai potrà essere dimenticato. Sembrava che il destino avesse voluto preparare un momento della verità: il testo del Jobs Act modificato alla Camera per salvarlo dall’incostituzionalità era conseguentemente tornato al Senato, dove però la maggioranza del governo era assai più sottile. E al Senato vi erano 27 senatori del Pd che si erano dichiarati contrari all’eliminazione dell’articolo 18 ma che poi, al momento di decidere, hanno invece approvato il testo legislativo giustificandosi con il classico documento «salva-anima» sulla necessità di non provocare crisi di governo. Ebbene, il risultato della votazione li inchioda per sempre alla loro responsabilità: vi sono stati 166 voti favorevoli, 112 contrati e un astenuto. Se i 27 «amici» dei lavoratori e dei loro diritti avessero coerentemente votato contro il progetto il risultato sarebbe stato di 139 favorevoli, 139 contrari e un astenuto e poiché l’astensione al Senato conta voto negativo il Jobs Act sarebbe andato in soffitta una volta per tutte! Il colmo dell’ipocrisia i 27 senatori lo hanno poi raggiunto nella chiusura di quel documento di giustificazione promettendo massima vigilanza in sede di formulazione dei decreti attuativi: enunciazione ridicola, visto che come tutti sanno, i decreti attuativi il legislatore delegato «se li fa da solo» senza il concorso del Parlamento.
Accanto a queste brutture, che è triste ma giusto ricordare, vi sono stati, però, importanti fatti positivi: l’ottima riuscita della manifestazioni del 25 ottobre e del 12 dicembre e l’affiancamento quanto mai importante, in occasione di quest’ultimo evento, della Uil alla Cgil. Ci sono, allora, tutte le premesse per un lieto fine: infatti per i contratti di lavoro già in essere non cambia ancora nulla e l’articolo 18 intanto rimane, reintegra compresa, e occorrerà un bel po’ di tempo perché i nuovi contratti, detti «a tutele crescenti» ma in realtà privi di tutela prendano piede. Nel frattempo sarà allora possibile sottoporre tempestivamente il decreto attuativo ad un referendum abrogativo, e cioè al giudizio popolare e di quei lavoratori che di continuo Matteo Renzi cerca di ledere e insieme di ingannare. La via del referendum abrogativo appare quanto mai semplice e fruttuosa perché in sostanza il decreto attuativo introduce per i nuovi contratti un tipo di sanzione dei licenziamenti ingiustificati diverso e se stante rispetto a quello degli altri rapporti: pertanto una volta abrogato per referendum il decreto la sanzione dell’articolo 18 torna ad essere generale per rapporti vecchi e nuovi secondo il principio di «autoimplementazione» dell’ordinamento. Chi scrive si permette di rivendicare l’onore di poter personalmente redigere i quesiti referendari
“Molti poliziotti temono i neri e allo stesso tempo li vedono come un facile bersaglio”scrive la scrittrice afro-americana premio Nobel per la letteratura nel ’93. “Le nuove generazioni però sono diverse. Le proteste diffuse lo dimostrano”.
La Repubblica, 27 dicembre 2014
VIVIAMO tempi non facili. Quindi cercherò di darvi semplicemente il mio punto di vista su quello che è lo stato delle cose, oggi, qui negli Stati Uniti. E voglio partire da questo: l’America è un paese inondato di armi. Dove bambini di appena 9 anni vengono portati nei parchi giochi a sparare con armi vere per divertimento; dove le cosiddette leggi “ stand your ground for selfdefense ” (che consentono a una persona armata di sparare a un presunto aggressore in base alla mera percezione di pericolo per la sua incolumità) permettono a chiunque di uccidere chi si trovi nella sua proprietà; dove le leggi dette “ open carry” permettono ai cittadini in molti Stati di portare armi nei locali pubblici: ristoranti, teatri, perfino campus universitari. Senza dimenticare poi che la National Rifle Association e i produttori di armi sostengono economicamente molti politici. In una cultura delle armi e del grilletto facile come questa, quindi, il razzismo violento è un’ovvia conseguenza.
Al razzismo si associa la paura: molti poliziotti (non la maggioranza, ma molti) hanno paura. Temono i neri e allo stesso tempo li vedono quindi come un facile bersaglio, sia per mancanza di formazione professionale sia perché sono profondamente razzisti.
La situazione è aggravata dalle scelte di certi media che qui in America amano le storie di violenza, soprattutto quando si tratta di persone di colore. A riprova di questo voglio fare un esempio, ricordando che non vi fu alcuna levata di scudi quando qualche mese fa alcuni bianchi minacciarono di uccidere la polizia al Bundy Ranch. Cliven Bundy, il proprietario del ranch, era un bianco che rifiutava di pagare le tasse e aveva sollevato una protesta armata, minacciando la secessione e la rivolta contro gli Stati Uniti. Fino a quando il governo, che in questa occasione non sparò neanche un lacrimogeno, si ritirò dal terreno conteso. In quell’occasione chi aveva sparato contro la polizia non è stato nemmeno arrestato. E potrei fare un numero impressionante di esempi discriminatori di questo tipo.
Il vero nodo di tutta la questione rimane sempre lo stesso: il facile profitto che si trae dal razzismo. È stato una fonte di guadagno fin dalle sue origini: con lo sfruttamento gratuito e permanente degli schiavi; con le leggi sul “vagabondaggio”, che permettevano la cattura di qualsiasi persona di colore fuori dalla sua casa per costringerla ai lavori forzati; riempiendo a proprio vantaggio le prigioni a gestione privata incarcerando giovani neri per reati per i quali nessun bianco andrebbe mai in galera; con la repressione degli elettori nelle comunità dove i neri sono in maggioranza. Senza dimenticare il deliberato incitamento al razzismo da parte dei ricchi, così che i bianchi poveri si possano sentire superiori agli altri e non pensino a rivolgere la loro rabbia contro la classe che li sfrutta e li inganna.
In questi tempi cattivi, alcuni vorrebbero che il presidente Obama facesse di più. Ma io non credo che il presidente avrebbe dovuto “fare di più”. Che cosa poi? Barack Obama è il presidente di tutti, non il presidente dei neri. Non dimentichiamo che sua madre e chi lo ha cresciuto erano bianchi. Spesso i giudizi e le reazioni politiche, sono il frutto della piaggeria e del desiderio di apparire in tv, per mostrare quanto “si conta”: è il caso dell’ex sindaco Giuliani, che ora si mostra come il protettore dei poliziotti, ma che a suo tempo è stato odiato da loro come tutti i sindaci di New York, compreso l’attuale sindaco de Blasio, che oggi i sindacati di polizia accusano, a torto, di avere «le mani sporche di sangue ».
Nonostante tutto, comunque, la mia speranza è più forte che mai, grazie alle nuove generazioni. Ho assistito a grandi cambiamenti negli anni in cui ho insegnato a Princeton: ho visto adolescenti e ventenni, sconvolti e disgustati dal razzismo sfacciato. Vedo che nelle manifestazioni che si svolgono spontaneamente in tutto il paese ci sono tantissimi giovani: neri, bianchi, ispanici. Non bisogna credere ai media che mostrano proteste violente; la maggior parte di esse non lo è; i manifestanti sono pacifici, sono le loro richieste a essere forti e decise. Naturalmente, ci sono gli outsider che si insinuano nelle manifestazioni e accendono focolai di violenza; ma questo è sempre successo. Dall’altra parte vediamo proteste diverse: come quella di medici, infermieri e tirocinanti che in diversi ospedali d’America si sono sdraiati in massa per terra nei loro camici bianchi per quello che viene chiamato un “die-in”, una protesta pacifica dove ci si finge morti per denunciare il fatto che la polizia non viene mai chiamata a prendersi la responsabilità delle proprie azioni. È questo il tenore della maggior parte delle manifestazioni: ma la stampa tende a ignorarlo.
Davanti a tanta partecipazione, quella di migliaia di americani ovunque e senza distinzioni di classe, sono fiduciosa e ottimista. E nutro l’incrollabile speranza che le cose cambieranno in meglio, con il tempo e con le generazioni che verranno. Ne sono sicura.
(Testo raccolto da Anna Lombardi. Traduzione di Anna Pastore)
In Italia i poveri sono più poveri della media europea: al 40% della popolazione va il 19,8% del reddito complessivo contro una media del 21,2%» Ma in compenso i ricchi diventano sempre più ricchi. Il manifesto, 24 dicembre 2014
Lasciandosi andare per l’ennesima volta, in questi giorni, a esternazioni politicamente impegnative a sostegno del governo in carica, il presidente della Repubblica ha perorato la causa della stabilità, ritenendo di potere così motivare, alla vigilia delle dimissioni, le proprie scelte e il proprio interventismo, a tanti autorevoli osservatori apparso spesso costituzionalmente discutibile. Sembra un po’ il Sordi della “Grande guerra”, che esortava a «fare i buoni» i soldati che, in fila, attendevano di essere spediti al fronte. Qualora potessimo permetterci di rivolgergli una domanda, gli chiederemmo se la stabilità alla quale si è riferito riguardi per caso anche questo stato di cose