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Corriere della Sera e la Repubblica, 5 gennaio 2015, con postilla

Corriere della Sera
FURBIZIA O SOLO IGNORANZA?
di Luigi Ferrarella

Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.

È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm. Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.

Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.
Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.


La Repubblica

IL TRUCCHETTO DEL TRE PER CENTO
di Gianluigi Pellegrino

Il ripensamento ha senz’altro il sapore giusto dell’atto dovuto. Il riconoscimento di un errore inaccettabile che il governo stava compiendo. E che si deve stare in guardia non si ripresenti nei prossimi passaggi del provvedimento in Consiglio dei ministri. Ciò detto, non pochi interrogativi restano appesi, e aspettano risposte ugualmente doverose.

La norma inserita nel decreto fiscale era infatti, prima ancora di ogni finalità sospetta, del tutto indifendibile nel merito. Un autentico sgorbio grave quanto odioso. Stabiliva espressamente che un ricco che froda al fisco milioni di euro se ne esce con una semplice sanzione amministrativa, solo per la sua alta dichiarazione dei redditi. Mentre per uguale o minore evasione un cittadino comune deve essere punito severamente con la galera.

Una norma che non c’entrava nulla con i meritori contenuti del decreto delegato e che contraddiceva gli obiettivi indicati più volte da Renzi: punire i grandi evasori senza per questo mostrare ai cittadini un fisco nemico, arrabbiato e aguzzino. Qui invece si faceva l’esatto contrario. E allora la domanda è come sia potuto avvenire. Come abbia potuto lo stesso governo approvare quel testo. Nessuno si era accorto delle conseguenze? O qualcuno sperava che il provvedimento sarebbe passato inosservato? Non si sa quale sia l’ipotesi peggiore.

E nel mistero della manina autrice del codicillo non può sorprendere che si sottolinei come quella normetta traduceva alla lettera il ritornello berlusconiano: come fate a condannare per frode fiscale me, che pago milioni di tasse? Che è un po’ come pretendere di giustificare l’omicidio di un medico se per il resto ha curato molti malati. O la pedofilia di un prete o di un insegnante se per il resto hanno educato tanti bambini.

In realtà il furto del ricco dovrebbe al più essere un’aggravante. Eppure esattamente quel principio declamato dal Cavaliere risultava tradotto in legge, perché si rendeva non più punibile la orchestrata frode milionaria, in ragione della complessiva dichiarazione di redditi del colpevole. Utilizzando il giochetto del 3 per cento che cadeva a pennello per cancellare con un colpo di spugna le frodi del leader di Forza Italia, aprendo la voragine di unsalvacondotto per tutti i grandi evasori.

Ora, dopo il clamore suscitato, il governo fa giustamente macchina indietro. Ma delle due l’una. O era una norma approvata consapevolmente e doveva allora dichiararsene la suo esplicita finalità all’interno di una più o meno malintesa pacificazione con Berlusconi. Oppure, se è stata inserita da altri è grave che il premier l’abbia firmata. Adesso non può certo covare in seno a Palazzo Chigi serpi che giocano proprie indicibili partite. E nemmeno può accettare che chi doveva non lo abbia avvertito né messo in campana. Altrimenti è lui, il premier, a non dirci tutto.

Passa a ben vedere da qui, alla vigilia di una fase decisiva, una prova non secondaria per la credibilità della complessiva azione del governo, anche al di là di un codicillo abusivo quanto grossolano. Anche per fugare il terribile dubbio che fosse vile moneta di scambio per il voto sul Quirinale.

Corriere della Sera
RIMPALLO TRA PALAZZO CHIGI E TESORO.
POI RENZI SI ASSUME LA RESPONSABILITA'

di Antonella Baccaro e Marco Galluzzo

Roma. La tesi della «manina», del fantasma di Palazzo Chigi, del giallo del rimpallo di responsabilità fra ministero dell’Economia e staff del premier, si rincorre per tutto il giorno. Ma alla fine è lo stesso Renzi a metterla a tacere. A chi lo chiama, a chi chiede spiegazioni, nel pomeriggio, il capo del governo dice che non c’è alcun mistero, che la norma incriminata l’ha voluta lui, è stata condivisa con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, discussa con gli altri ministri, che fa parte dello spirito del provvedimento.

Nel governo, più o meno nelle stesse ore, c’è chi dice che si è trattato di «una leggerezza spaziale». C’è chi aggiunge, con una punta di imbarazzo, anche a Palazzo Chigi, che semplicemente, la norma, «ci è sfuggita». Ovviamente nessun ci fa una grande figura: un Consiglio dei ministri composto da politici e tecnici ha discusso di una norma su un reato delicato, sensibile, controverso, su cui il Cavaliere ha ricevuto una condanna appena nel 2013 e nessuno si è accorto di nulla. Nessuno ha avuto nulla da obiettare. Una versione per certi tratti verosimile, visto che in quella stessa riunione fu dedicato molto più tempo al Jobs act. Ma resta «la leggerezza», tanto macroscopica da infuocare il clima politico, e alla fine l’ammissione della stessa.
Questione chiusa? Mica tanto. La tensione provocata dalle polemiche sorte intorno alla norma che, secondo alcune interpretazioni, regalerebbe a Berlusconi l’agognato rientro a pieno titolo nella gara elettorale, ha alimentato per tutto il giorno veleni e sospetti che emergono, qua e là, nelle versioni alcune concordanti, altre meno, sulla genesi della norma e sul suo obiettivo. Basta riavvolgere il nastro. La prima scena si svolge al ministero dell’Economia, dove il lavoro preparatorio sul decreto si è concluso il giorno prima del Consiglio dei ministri della vigilia di Natale. Sui giornali c’erano già state polemiche su alcune bozze circolate del decreto fiscale, ma avevano riguardato l’innalzamento della soglia di punibilità della dichiarazione infedele da 50 mila a 150 mila euro. Della famigerata soglia del 3%, quella al di sotto del quale si guadagnerebbe l’impunità, nessuno aveva mai sentito parlare.
«Fino al 23 dicembre mattina quella norma non c’era — conferma il sottosegretario Enrico Zanetti —. Il 24 io non c’ero, il 25 e 26 mi sono dedicato alla famiglia, ma poi il giorno dopo sono andato a leggermi il testo del decreto direttamente sul sito web del governo». E lì si è accorto della novità, sollevando l problema. Il viceministro Luigi Casero concorda: «Neanche io ho sentito mai parlare di una soglia del 3% prima di vedere il testo uscito dal Consiglio dei ministri, quando ormai ero tornato a Milano. Del resto non è stata l’unica novità: ce ne sono almeno 3 o 4 rispetto alla versione che avevamo licenziato».
Padoan ieri non ha parlato, né il suo portavoce ha fornito spiegazioni sulla dinamica della vicenda. Alla domanda se il ministro difenda o meno la norma incriminata, si è limitato a rispondere che «non c’è una posizione nel merito della norma ma una disponibilità a valutare gli effetti della sua applicazione». Cioè? «Il principio discusso in Consiglio dei ministri va salvato: è opinione diffusa che così come sono oggi le norme consentono a quelli “bravi a evadere” di sfuggire, mentre vengono colpiti comportamenti di rilevanza minore». Proprio di questo si sarebbe parlato in un Consiglio dei ministri che i presenti, a dire il vero, ricordano più per l’animata discussione sul Jobs act. Un ministro, che in Consiglio c’era, rammenta che Padoan presentò il testo del decreto ma che Renzi aprì una discussione su alcuni punti per aumentare, in alcuni casi, e diminuire, in altri, le sanzioni. Si parlò delle ricadute della norma del 3% su Berlusconi? Il ministro giura di no.
Alla fine il testo rimaneggiato ottenne l’approvazione «salvo intese» per consentire agli uffici di verificare le compatibilità normative della nuova versione. Cosa che si sarebbe fatta al termine del Consiglio, finito alle 15.45, nel pomeriggio del 24, a Palazzo Chigi, dove l’ufficio legislativo guidato da Antonella Manzione stese la versione definitiva insieme a esponenti del ministero della Giustizia e dell’Economia e non si sa se c’era anche qualcuno del gabinetto di Renzi. Il testo del decreto appare sul sito del governo già il 24 sera. L’attenzione si sposta dunque sul gabinetto che ha steso il testo finale: qualcuno dei tecnici era più consapevole degli altri delle possibili ricadute della norma? Sul punto resta il mistero. Certo, il rimpallo delle prime ore viene in qualche modo depotenziato dall’assunzione di responsabilità del premier. Il testo del Mef è stato cambiato, Palazzo Chigi vi ha apportato almeno quattro o cinque modifiche, «ma Padoan le ha condivise tutte», e poi «è del tutto normale che in sede di approvazione un testo venga in qualche modo modificato per essere migliorato».
Se ai suoi uffici dice di respingere qualsiasi insinuazione «strampalata» di scambi con l’ex premier, se in tv va a spiegare che il provvedimento sarà fermato, rivisto e inviato alle Camere solo dopo l’elezione del capo dello Stato, per fugare ogni dubbio di «inciucio», a chi gli parla nella giornata, in sostanza il capo del governo ammette che è stato fatto un errore, che ci si trova di fronte a una svista, per quanto macroscopica. Basterà a fugare tutte le ombre?

La Repubblica
“MATTEO TROPPO DISINVOLTO E PADOAN HA SBAGLIATO"
Intervista a Stefano Fassina

«Quella norma è agghiacciante ». Più chiaro di così, Stefano Fassina non può essere. Lui che a via XX settembre ha trascorso quasi un anno da viceministro, stavolta non ha dubbi: «Sono colpito e preoccupato. Per il deficit di autonomia e la marginalità che il ministero dell’Economia ha dimostrato in questo passaggio, visto che si trattava di un tema di stretta competenza del ministro. E per la disinvoltura di Renzi».

Perché dice che il premier è stato disinvolto?
«Perché prima ha forzato la mano sull’Economia, introducendo una norma che il ministro non condivideva. E poi, di fronte alla reazione della stampa e dell’opinione pubblica, ha fatto una retromarcia imbarazzante. Su un tema, fra l’altro, molto delicato come la depenalizzazione della frode fiscale».

Con una norma che potrebbe favorire anche Berlusconi.
«L’attenzione mediatica adesso si è concentrata sul leader di Forza Italia, ma non è quello l’unico elemento preoccupante della norma. Se si depenalizza la frode fiscale in un Paese che ha il record mondiale di eversione, non va bene. Il governo dovrebbe rimuovere le condizioni che determinano l’evasione di sopravvivenza, colpendo allo stesso tempo i grandi evasori. Qui invece si fa l’opposto».

Lei pensa che c’entri il patto del Nazareno?
«Non voglio credere che sia un elemento del patto del Nazareno, anche perché è evidente che un intervento di questo tipo non sarebbe passato inosservato. Credo invece che sia stato un errore grave».

Può accadere che una sanatoria del genere entri nel decreto senza che il ministero dell’Economia comprenda gli effetti?
«Non esiste che il ministro e il ministero si facciano infilare una norma del genere durante il consiglio dei Ministri. Non è un dettaglio, quindi ci sono due possibilità: il ministro era d’accordo, oppure non se n’è accorto. E non so se questa seconda ipotesi sia migliore. L’unico modo per cui si può inserire una norma del genere senza che se ne accorga il ministro è che il Dipartimento degli affari giuridici di Palazzo Chigi lo inserisca nel testo a consiglio dei ministri concluso».

Tutto accade a pochi giorni dalla sfida per il Colle. Questo incidente può pesare?
«La disinvoltura con cui il premier ha portato avanti questa vicenda non crea il clima migliore in vista dell’elezione per il Quirinale. Credo che il nuovo Presidente vada scelto con la più ampia convergenza possibile, Forza Italia compresa. Dopodiché questa situazione complica il quadro».

Corriere della Sera 5 Gennaio, 2015
«ALL'ECONOMIA HANNO COMUNQUE SBAGLIATO»
Intervista a Vincenzo Visco
Professor Visco, da ex ministro del Tesoro, che idea si è fatto del decreto «incriminato»?
«Si tratta di un provvedimento attuativo di una legge delega che ha l’obiettivo, tra l’altro, di riordinare il penale tributario secondo una logica di attenuazione. Ma di certo l’aspettativa generale non era quella di arrivare a depenalizzare i reati tributari. Non credo che la gente pensi che chi commette tali reati contribuisca all’affollamento delle carceri... ».
Quindi non c’è solo una norma considerata favorevole a Berlusconi. Secondo lei il nuovo decreto introduce una generale depenalizzazione dei reati tributari?
«Sì, una depenalizzazione di tutto, cominciando dall’elusione, in contrasto logico col fatto che in sede Ocse e G20 ci battiamo contro le multinazionali che operano in questo modo».

Ci faccia un altro esempio.
«Chi fa fatture false per mille euro non è punibile. Ma se una fattura è falsa è falsa, non c’è da mettere limiti. Uno può fare una cartiera che produce fatture false per cento, mille contribuenti e non viene punito? È inquietante».

C’è altro?
«Sì, tutte le frodi colpite negli ultimi anni nelle quali sono stati usati strumenti derivati dalle banche d’affari vengono depenalizzate».
Poi c’è la soglia di punibilità che passa da 50 mila a 150 mila euro.
«Esatto, questo vuol dire che l’evasore fino a 3-400 mila euro di materia imponibile non è punibile penalmente: forse è troppo. E poi non è più reato l’imputazione di costi non inerenti all’attività d’impresa, cioè ad esempio quando si portano in deduzione costi di consumi che sono del contribuente o dei suoi familiari. Non è più reato neanche l’omessa dichiarazione del sostituto d’impresa, questa deve essere stata una dimenticanza, ma ci sono altre norme che possono comportare una perdita di gettito importante».

Quali?
«Ad esempio quella che elimina una norma, che avevo introdotto io, che raddoppiava i termini ordinari di accertamento nel caso in cui, durante l’attività di verifica, gli uffici avessero riscontrato la rilevanza penale di determinati comportamenti. Con la modifica gli anni da otto passano a quattro. Impossibile agire».
Sì, ma sul comma che esclude la punibilità se l’importo delle imposte sui redditi evase non è superiore al 3% dell’imponibile che pensa?
«Che è in contrasto con l’intero impianto della riforma che si basa sulle soglie: non ha senso».

postilla


Questa vicenda rivela la profondità dell'abisso nel quale Mattei Renzi, e l'ideologia di cui è portatore, ci hanno gettato. Un governo che adopera il linguaggio del twitter perché non conosce la sintassi, la grammatica e l'ortografia della lingua italiana; che alla fretta sacrifica la ponderazione; che preferisce lo strillo all'argomentazione e lo slogan al ragionamento; che assegna ai "burocrati" il ruolo dei servi del Capo invece di quello di servitori del popolo (civil servant) é nefasto per il paese sul quale esercita il suo dominio. Che poi il beneficiario (il consumatore finale) di questo degrado sia Silvio Berlusconi è scritto nelle cose. E' lui il padre ideale (e il padrino) della compagine che attornia il premier. Non è poi difficile stilare l'elenco dei complici, passati e presenti, dell'uno e dell'altro, di Matteo e di Silvio.


Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2014 (m.p.r.)

Per dire quanto poco siamo prevenuti, ieri avevamo deciso di pubblicare per oggi su questa colonna un articolo intitolato: “Renzi ha ragione”, o “Bravo Renzi”, o ancora “Forza Matteo”. Non per i suoi virtuosismi sciistici sulle nevi di Courmayeur, già magnificati a dovere dall’agenzia Ansa-Stefani, ma per la battaglia contro l’assenteismo nel pubblico impiego, annunciata su twitter con i toni giusti, senza la petulanza offensiva di Brunetta, che provò a far qualcosa ma rovinò tutto con le solite scalmane demagogiche.

Poi ci ha chiamati un amico e ci ha messo una pulce nell’orecchio, a proposito del nostro titolone di ieri sulla denuncia del sottosegretario Zanetti riguardo al codicillo salva-evasori infilato da una manina di Palazzo Chigi (all’insaputa del ministero dell’Economia) nel decreto fiscale varato alla vigilia di Natale: “Ma lo sai perché e per chi lo fanno?”. Ma per il solito, per Berlusconi. Tenetevi forte, perché questa è strepitosa. Il Caimano è stato condannato il 1° agosto 2013 a 4 anni per frode fiscale. Una sentenza che gli è costata pochissimo sul piano penale (mezza giornata a settimana a Cesano Boscone per nove mesi e 10 milioni di euro da rifondere all’Agenzia delle Entrate), ma moltissimo da quello politico: 2 anni di interdizione dai pubblici uffici, 6 anni di ineleggibilità e decadenza immediata da senatore in base alla legge Severino.
Che cosa prevede la nuova legge penale tributaria, in base al codicillo-colpo di spugna (art. 19-bis)? Che i reati fiscali di evasione e frode sono depenalizzati se l’Iva o l’imposta sul reddito evasa non supera “il 3% rispettivamente dell’imposta sul valore aggiunto o dell’imponibile dichiarato”. Una vastissima area di franchigia regalata a evasori e frodatori al riparo da procure e tribunali. Ora, B. è stato condannato per aver frodato il fisco per 7,3 milioni: 4,9 sul bilancio Mediaset del 2002 e 2,4 su quello del 2003. Tutto il resto della monumentale frode fiscale (368 milioni di dollari) con film comprati dalle major americane a prezzi gonfiati e rimbalzati su una serie di società offshore occultamente controllate da lui o da prestanome fra il 1995 e il ’98, si è prescritto. Ma, alla mannaia del fattore-tempo, accelerata da varie leggi ad suam personam (falso in bilancio, condoni fiscali ed ex-Cirielli), sono scampati gli effetti fiscali “spalmati” sugli ammortamenti delle due annualità contabili.

Ora che Renzi, o chi per lui (a proposito: di chi è la manina?), ha inventato il salvacondotto del 3%, la domanda è semplice: quella frode residua è sopra o sotto il nuovo tetto? La risposta, nell’era del Patto del Nazareno, è scontata: sotto, e di parecchio. Il calcolo è presto fatto. Negli anni 2002 e 2003 Mediaset dichiara un imponibile di 397 e di 312 milioni e B. ne froda 4,9 e 2,4. Che corrispondono all’1,2 e allo 0,7%, ben al di sotto della soglia del 3% di non punibilità. Ergo, in base alla retroattività delle norme penali più favorevoli (favor rei, art.2 Codice penale), “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. Grazie a una legge fascista, la n. 4/1929, il favor rei in materia fiscale e finanziaria non valeva: ma il centrosinistra, con la norma fiscale n.507/1999, la cancellò 15 anni fa.

È già accaduto a Romiti, De Benedetti e Passera, condannati definitivamente per falso in bilancio: nel 2003, dopo la controriforma berlusconiana che lo depenalizzava, chiesero un “incidente di esecuzione” alla Corte d’appello, che non potè che revocare le loro condanne. Anche B. dunque potrà ottenere la cancellazione della sua, per una frode che non è più reato. E, se evapora la condanna, spariscono anche decadenza, ineleggibilità e interdizione. Così alle prossime elezioni potrà ricandidarsi, lindo come giglio di campo. Quando ce l’hanno raccontato, stentavamo a credere che Renzi potesse arrivare a tanto. Ma, come diceva Montanelli, di certi politici non si riesce mai a pensare abbastanza male.

Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2015 (m.p.r.)

Formica, che succede?
Confesso: sono disorientato. Sembra un’elezione degli anni Sessanta o Settanta, quando tutto era normale e la scadenza istituzionale imponeva al Paese di risolvere un’incombenza de plano, senza alcuna difficoltà.

Invece come siamo messi?
Nessuno nota la straordinarietà della situazione politica del Paese, siamo di fronte a un momento di scelte profonde: o si marcia spediti verso l’unità politica dell’Unione Europea o si torna alla disgregazione in staterelli rissosi e ribelli, pieni di divisioni e difficoltà.

Servirebbe un capo dello Stato all’altezza.
C’è un deficit terribile nell’informazione. Nessuno si domanda: a che serve questo Presidente della Repubblica? Sembriamo quasi rassegnati all’idea che sarà un inutile fantoccio.

Eppure Napolitano ha ribadito anche nel discorso di fine anno la grande sfida che ha davanti l’Italia. La sua è una disperazione fiduciosa, userei questo ossimoro. Ma io lo giudico eccessivamente ottimista nelle capacità di riscossa delle coscienze individuali. Mentre lui pronunciava quel discorso accorato, i due che dispongono del pacchetto di voti per l’elezione erano lì che trafficavano....

Ce l’ha con Renzi e Berlusconi.Uno cerca un presidente della Repubblica che lo aiuti ad asfaltare, come dice lui, l’opposizione interna. L’altro si preoccupa della sua agibilità politica, ovvero della chiusura delle code giudiziarie e del salvataggio delle sue aziende. Mi spiega cosa c’entra tutto questo col Paese?

Nessuno sembra animato da alti principi.
E infatti l’intesa tra i due si troverà al livello più basso: finirà che chiederanno al primo cameriere di turno, magari a un vigile urbano di Roma...

Il Parlamento troverà il modo per dire la sua?
Macché. Tutto questo avverrà in un seggio fatto di mille persone che sono impedite: sia per l’incostituzionalità della loro elezione (la Consulta ha bocciato la legge elettorale che li ha portati in Parlamento, ndr) sia perché sono terrorizzati da nuove elezioni: sono tutti senza partito.

Non prendono la situazione abbastanza sul serio?
È la prima volta in cui siamo di fronte a un’elezione del Quirinale che non tiene conto del futuro del Paese. Ma la scelta del Presidente della Repubblica non è un atto di devozione alla Carta, non è una cerimonia di folclore.

Qui si gioca con le figurine: il tecnico, il cattolico, …
È impressionante questo ragionare da vecchi. Sembra di stare negli anni Sessanta... Ma ora, da garante dell’unità nazionale, il presidente dovrà accompagnare il Paese nel salto nel buio di cui dicevamo sopra: o verso gli Stati Uniti d’Europa o verso il ritorno agli staterelli. Lo ha detto anche Mario Draghi, dalla Bce: se non vi muovete politicamente, io non posso fare nulla.

C’è chi pensa allo stesso Draghi come uomo giusto per il Colle.
Non basta nemmeno lui. Servono forze politiche in grado di sostenerlo, se no ci ritroviamo un predicatore e basta.

Come va a finire?
Se in queste ultime ore non si apre un grande dibattito - e lo potete aprire solo sui giornali - finisce che l’elezione sarà l’occasione per lo spettacolo di mille vendette individuali. I partiti non ci sono più. Gli ultimi tre presidenti della Repubblica si sono illusi della capacità di autoriforma del sistema politico. Non hanno voluto cogliere l’avvertimento di Cossiga, che li aveva messi in guardia sulla fine della democrazia parlamentare. Si sono cullati nella grande illusione. E ci siamo ritrovati con Renzi e Berlusconi.

La Repubblica, 4 gennaio 2015 (m.p.r.)

In cantina c ’erano il vino, l’olio, la conserva di pomodoro, lo strutto. In solaio, grano o farina e poi salami, coppe, pancette… Se le scorte erano buone, nelle case contadine l’inverno sembrava meno freddo e la primavera non troppo lontana. C’erano ovviamente le dispense ricche e quelle povere. Ma nell’anno appena arrivato a essere in crisi è l’intera “Dispensa Italia”, perché i raccolti non sono stati buoni e - 70 anni dopo la guerra - si torna a parlare di “razionamento”. L’allarme è lanciato dalla Coldiretti. «L’olio di oliva extravergine e made in Italy - dice Lorenzo Bazzana, responsabile economia di questa organizzazione di coltivatori - è razionato e con le scorte si arriverà soltanto a metà 2015. Stessa sorte per il grano duro, quello che serve all’industria per fare la pasta. Sei mesi in tutto anche per il miele. E ci sono problemi per il vino, per gli agrumi e per le castagne».

Ha un nome che spiega tutto, il virus che attacca le arance: «Citrus Tristeza», ovvero la «tristezza degli agrumi». La pianta sembra depressa, poi si secca e muore. Per combattere il virus, bisogna tagliarla e bruciarla. «Quest’anno la “tristezza degli agrumi” ha provocato un calo di produzione del 25%. Il virus è in espansione ormai da anni e non siamo riusciti a fermarlo». Ma a mancare sulle tavole italiane sarà soprattutto l’olio extravergine. «In Puglia, prima regione d’Italia per la produzione, il calo è stato del 40%. A provocarlo è stato un batterio, la Xjlella fastidiosa. Nel resto del Paese, a fare danni, è arrivata la mosca olearia. Se la produzione quasi si dimezza i prezzi salgono. Alla borsa di Bari l’olio in questi giorni si vende a 7 euro al chilo, il doppio rispetto all’anno scorso».
Navi cisterna e autobotti sono già viaggio verso l’Italia da Turchia, Grecia, Tunisia… «Bisognerà stare attenti alle frodi. Sui mercati internazionali girano oli che non hanno mai visto un ulivo e che diventano verdi perché vengono colorati con la clorofilla. C’è il rischio che olio straniero sia venduto come made in Italy e che addirittura cerchi di spacciarsi come Dop o Igp». Epicentro della crisi a tavola, il piatto clou della dieta mediterranea: la pasta. Scarso l’olio per condirla, scarsa anche la materia prima, il grano duro. «In Italia - dice Lorenzo Bazzana - il calo è stato del 4% ma noi importiamo il 40% del grano che ci serve. In Canada, che è il nostro fornitore principale, la produzione è diminuita del 27% e non ci sono eccedenze in altri Paesi, perché nel mondo c’è stato un calo complessivo del 15%. Dovremo imparare a produrlo noi, il grano che ci serve».
Sarà difficile trovare miele (che anche in annate normali per il 50% arriva dall’estero). Dopo il Varroa destructor, acaro parassita che si attacca al corpo dell’ape, è arrivato anche il coleottero Aetina tumida, che mangia il miele prima della raccolta. Le larve rovinano i favi. Unico rimedio, il fuoco. «Ma è difficile bloccare famiglie di coleotteri in grado di spostarsi per più di 10 chilometri in un giorno». In crisi il bicchiere di vino. La vendemmia 2014 è stata la più scarsa dopo quella del 1950 e per gli italiani abituati a bersi 38 litri all’anno (a testa) non sarà semplice trovare un prodotto di qualità a un prezzo giusto. Le castagne sono quasi scomparse, con una produzione di appena 18 milioni di chili, appena un terzo rispetto a 10 anni fa.
«Se non c’è farina bianca, prepara la polenta», si diceva nelle cucine di campagna. Ma anche il mais ha i suoi problemi. «Quest’anno - racconta Daniele Sfulcini, direttore di Confagricoltura a Mantova - non ci sono state le aflatossine provocate dalla siccità ma abbiamo problemi con le “vomitossine”, o “don” che creano danni alla salute degli animali». La vacca rigetta il mais malato, il maiale viene colpito al fegato e non cresce più bene. «E così, per evitare problemi agli animali, siano costretti a importare sempre più mais dall’estero e a prezzi sempre più alti. Al contrario, per il mais italiano che ha avuto una buona produzione, i prezzi sono crollati».
I bollettini della borsa merci di Mantova confermano. Il mais nazionale che nel primo trimestre 2014 era pagato 182 euro la tonnellata ora costa 149 euro. Rispetto alla media dell’anno scorso è crollato del 40%. Il mais estero, anche quello Ogm, viene pagato invece 158 euro. Buona pure la produzione di soia ma copre appena il 10 - 15% del fabbisogno nazionale. Tutto il resto arriva da lontano. «Dal 2007 fino al terzo trimestre del 2011 - dice il direttore di Confagricoltura - nei bollettini della borsa merci si specificava che la soia importata era Ogm. Adesso si scrive soltanto che si tratta di “soia estera”. Meglio non fare sapere che questa soia, quasi tutta Ogm, viene pagata al quintale 5 euro in più della nostra soia, non Ogm».
Non sarà dunque un anno facile, il 2015, nelle campagne e a tavola. «Con il crollo dei raccolti nazionali - dice Roberto Moncalvo, presidente della Coldiretti - rischiamo di metterci in casa prodotti di bassa qualità spacciati per made in Italy. Meglio leggere bene le etichette, soprattutto per olio, miele, agrumi freschi, dove è in vigore l’obbligo di indicare la provenienza ». Ma navi, Tir e autobotti stanno già arrivando. Tutti alla conquista della “Dispensa Italia”.
All'indomani della scomparsa del grande intellettuale, noto ai nostri lettori, un articolo di Giuseppe Allegri e un ricordo di Zygmunt Bauman, dalle pagine rispettivamente del

manifesto e della Repubblica del 4 gennaio 2015

Il manifesto
Ulrich Beck, visionario europeo
di Giuseppe Allegri


Con Ulrich Beck se ne va uno dei mag­giori stu­diosi dei pro­cessi di glo­ba­liz­za­zione, oltre che un visio­na­rio mili­tante dell’Europa poli­tica e sociale. Il socio­logo tede­sco verrà ricor­dato anche per aver coniato e stu­diato defi­ni­zioni dive­nute di moda nella socio­lo­gia con­tem­po­ra­nea, come nel dibat­tito pub­blico euro­peo e glo­bale: «seconda moder­nità», «moder­niz­za­zione rifles­siva», «società cosmo­po­li­tica» e soprat­tutto «società del rischio» (Risi­ko­ge­sell­schaft – Risk Society).

For­mule, con­cetti, meta­fore di chi ha libe­ra­mente scelto di affron­tare senza timori reve­ren­ziali il tra­monto delle cate­go­rie della prima moder­nità, sfi­dando la son­nac­chiosa e dog­ma­tica acca­de­mica delle scienze poli­ti­che e sociali sul ter­reno più deli­cato: quello del «nazio­na­li­smo meto­do­lo­gico». Altra espres­sione «inven­tata» da Ulrich Beck per com­bat­tere quell’erronea sem­pli­fi­ca­zione che costringe nelle oppri­menti dimen­sioni dello Stato-nazione tanto l’analisi dei feno­meni sociali e giu­ri­dici, quanto i pos­si­bili spazi di azione civica e poli­tica.

Il làscito mag­giore del suo inse­gna­mento sta nel radi­cale rifiuto di ogni pre­giu­di­zio nazio­na­li­sta. Que­sto è il pri­sma attra­verso il quale Beck ha spie­gato la con­nes­sione tra le dina­mi­che della glo­ba­liz­za­zione e i loro esplo­sivi effetti sulla divi­sione del lavoro, sulle forme di vita indi­vi­duali e col­let­tive, sul pre­sente e sul futuro del vec­chio Con­ti­nente. Que­sto approc­cio è inol­tre utile per con­tra­stare la recru­de­scenza dei movi­menti intol­le­ranti e xeno­fobi dei par­titi tra­di­zio­na­li­sti, auto­ri­tari e nazio­na­li­sti (Tan Par­ties) in un’Europa che diventa sem­pre più «tede­sca», stri­to­lata dai dik­tat delle poli­ti­che di auste­rità volute dalla Bun­de­sbank. Lo ha denun­ciato lo stesso Beck in uno dei suoi ultimi saggi (L’Europa tede­sca, Laterza, 2013).

La mili­tanza intel­let­tuale, poli­tica e civile di Ulrich Beck è sem­pre stata dalla parte di un’Europa poli­tica e sociale. Un sog­getto che, a suo parere, doveva supe­rare le nefa­ste ere­dità «sovra­ni­ste» degli Stati-nazione, spesso ridotti a algidi gen­darmi dell’ordine pub­blico locale, e gli incubi mone­ta­ri­sti di un’Eurozona sino­nimo di insi­cu­rezza e povertà per le per­sone. Per que­sta ragione, dal set­tem­bre del 2010, ha ade­rito alle ini­zia­tive dello Spi­nelli Group nel Par­la­mento euro­peo, rilan­ciando lo spi­rito fede­ra­li­sta con­ti­nen­tale che dall’antifascismo di Spi­nelli, Colorni e Rossi oggi può spin­gersi sino al punto da ripen­sare l’Europa poli­tica oltre una dimen­sione mera­mente mone­ta­ria.

Que­sta visione sociale dello spa­zio poli­tico con­ti­nen­tale ha per­messo a Beck di spie­gare l’urgenza di un «red­dito di cit­ta­di­nanza con­ti­nen­tale» utile per affran­care le per­sone dai ricatti del lavoro, o della sua man­canza. La crea­zione di un simile stru­mento è inol­tre essen­ziale per garan­tire l’indipendenza dei cit­ta­dini da un Wel­fare State che sta regre­dendo a Work­fare, cioè ad un sistema di costri­zione al lavoro, con scarsa tutela della dignità della per­sona, né garan­zia della sua con­di­zione lavo­ra­tiva. Per Beck il modello sociale euro­peo è il frutto di un uni­ver­sa­li­smo con­creto, fon­dato sulla tutela dei diritti sociali intesi come diritti fon­da­men­tali di una nuova soli­da­rietà pan-europea. Altri­menti non potrà mai esserci alcuna inte­gra­zione poli­tica con­ti­nen­tale.

«Dob­biamo final­mente porre all’ordine del giorno que­ste que­stioni: come si può con­durre una vita sen­sata anche se non si trova un lavoro? Come saranno pos­si­bili la demo­cra­zia e la libertà al di là della piena occu­pa­zione? Come potranno le per­sone diven­tare cit­ta­dini con­sa­pe­voli, senza un lavoro retri­buito? Abbiamo biso­gno di un red­dito di cit­ta­di­nanza pari a circa 700 euro. Non è una pro­vo­ca­zione, ma un’esigenza poli­tica rea­li­stica».

Que­sto scri­veva Beck sulle colonne de La Repub­blica in due suc­ces­sivi inter­venti del 3 gen­naio 2006 e del 22 marzo 2007. Con­si­de­ra­zioni scritte a ridosso degli scon­tri tra gio­vani e poli­zia nelle ban­lieues fran­cesi in fiamme, men­tre comin­ciava la crisi sta­tu­ni­tense dei mutui sub­prime. Sono pas­sati diversi anni e l’«esigenza poli­tica rea­li­stica» di un red­dito di base sgan­ciato da una pre­sta­zione lavo­ra­tiva, inteso come stru­mento di soli­da­rietà, resta let­tera morta nell’agenda dei movi­menti e delle cit­ta­di­nanze sem­pre più impau­rite ed è com­ple­ta­mente assente in quella delle ina­de­guate classi poli­ti­che e sin­da­cali, nazio­nali e con­ti­nen­tali. Tutto que­sto men­tre milioni di per­sone rischiano di diven­tare ostaggi della mala­vita, nei bas­si­fondi delle metro­poli euro­pee, o schiavi inde­bi­tati del capi­ta­li­smo finan­zia­rio eletto a unico para­me­tro della «società glo­bale del rischio».

Beck è stato il testi­mone del lungo qua­ran­ten­nio neo-liberista euro­peo in cui hanno domi­nato l’individualismo sociale e il «nazio­na­li­smo meto­do­lo­gico». «Spesso la reto­rica domi­nante afferma che non “c’è alter­na­tiva” agli impe­ra­tivi dell’austerità» disse in un’intervista a Bene­detto Vec­chi su Il mani­fe­sto del 29 ago­sto 2013.

In que­sto atroce immo­bi­li­smo pro­spe­ra il Mer­kia­velli, effi­cace neo­lo­gi­smo da lui stesso coniato per descri­vere una poli­tica capace di det­tare in Europa l’agenda dell’austerità (anche in una impos­si­bile fun­zione espan­siva) fun­zio­nale alla difesa del patto social­de­mo­cra­tico in Ger­ma­nia. In que­sta cor­nice gli Stati-nazione, e gli indi­vi­dui, si ripie­gano in se stessi. «L’individualizzazione della dise­gua­glianza sociale», ana­liz­zata quasi trent’anni fa da Beck, oggi fa il paio con le mise­rie nazio­na­li­ste di classi poli­ti­che ina­de­guate e dei nuovi popu­li­smi pre­senti anche nel Par­la­mento euro­peo.

Torna quindi di attua­lità il «biso­gno di una cri­tica dell’Unione Euro­pea da un punto di vista euro­peo e non nazio­nale», per dirla sem­pre con Beck. In un inter­vento sul Guar­dian del 28 novem­bre 2011 sostenne che la crisi euro­pea può essere «un’opportunità per la demo­cra­zia». A patto di avere la forza, intel­let­tuale e poli­tica, per «abban­do­nare l’euro-nazionalismo tede­sco» e far «emer­gere una comu­nità euro­pea di demo­cra­zie» dove la «con­di­vi­sione della sovra­nità divenga un mol­ti­pli­ca­tore di potenza e demo­cra­zia».

Que­ste sono le basi di un fede­ra­li­smo radi­cale che mette in rela­zione i biso­gni delle per­sone con gli spazi poli­tici nei quali vivono. Rileg­gere que­sti inse­gna­menti alla luce di una visione soli­dale della società e dell’Europa atte­nua il senso di vuoto che lascia la sua morte tra chi con­ti­nua a non ras­se­gnarsi all’ordine esi­stente delle cose.

La Repubblica
Ci mancherà il suo contributo alla nostra coscienza
di Zygmunt Bauman

Ulrich Beck, scomparso il 1° gennaio scorso all’età di 70 anni, è stato uno dei maggiori sociologi del nostro tempo. E certamente la sua statura era destinata a crescere ancora, come l’inarrestabile impatto della sua influenza intellettuale. Una figura unica per la sua straordinaria profondità, l’acuta capacità percettiva, l’eccezionale sensibilità ai mutamenti sociali e culturali, l’ineguagliabile originalità del suo pensiero. Per gli studiosi del suo campo è stato una fonte di ispirazione e un fervido richiamo all’azione. Ma il suo impatto intellettuale ha trasceso i limiti del suo ambito professionale. La voce di Ulrich Beck – le sue diagnosi, valutazioni, previsioni e avvertimenti, sono stati ampiamente ascoltati, con viva attenzione.

Assai più che uno studioso ligio ai doveri ristretti di un’attività accademica, per vocazione Beck era la personificazione dell’intellettuale pubblico, in ragione del ruolo e delle posizioni che ha assunto: un modello cui gli studiosi di scienze sociali aspirano ardentemente, anche se a pochi è dato raggiungerlo con tanto vigore, efficacia e dedizione.

È difficile, forse impossibile, immaginare la temperie, il tenore dell’attuale dibattito politico, l’ampiezza e la profondità della nostra consapevolezza collettiva senza i molteplici e vari contributi di Ulrich Beck, la sua insaziabile curiosità nell’esplorare i meandri della vita moderna, la sua capacità di individuare prontamente e mettere a fuoco le sue realtà con osservazioni precise e pregnanti, e la sua predisposizione a quella che gli antichi chiamavano “parresia”: a rendere conto dei risultati delle sue ricerche senza cercare giustificazioni né scendere a compromessi, con libertà, fierezza e candore, attenendosi alla coscienza, giudice supremo dei comportamenti umani e guida sicura nella ricerca di verità dello studioso.

Questa morte prematura ci lascia tutti più poveri.

Traduzione di Elisabetta Horvat
Riferimenti
Su eddyburg, vecchia e nuova edizione, abbiamo inserito moltissimi scritti di e su Ukrich Beck. Potete trovarli tutti digitando il suo nome e cognome nella finestrella a destra della testata del nostro sito

Il manifesto, 3 gennaio 2015

La rine­go­zia­zione radi­cale dei debiti pub­blici dei paesi dell’eurozona in dif­fi­coltà, inclusa da tempo nel pro­gramma di Syriza e con­di­visa dall’Altra Europa, pre­senta risvolti com­plessi e deli­cati che vanno affron­tati anche in sede tec­nica: per pre­ve­derne le con­se­guenze macroe­co­no­mi­che più dirom­penti e cer­care di pre­ve­nirle; ma soprat­tutto per pro­teg­gere i pic­coli risparmiatori.

Nell’affrontare que­sti pro­blemi occorre met­tere però al primo posto la «poli­tica» e non l’«economia», le scelte che pos­sono orien­tare il con­flitto sociale e non l’idea che il sistema possa con­ti­nuare o addi­rit­tura ripren­dere a fun­zio­nare come sempre. Siamo di fronte o alla vigi­lia di una grande rot­tura: «L’Europa è a un bivio», come recita l’incipit dell’appello da cui è nata la lista L’Altra Europa con Tsi­pras. Per que­sto, prima di entrare negli ine­lu­di­bili aspetti tec­nici è oppor­tuno fis­sare alcuni punti di carat­tere generale.

1. I debiti pub­blici di alcuni paesi dell’eurozona, tra cui Gre­cia e Ita­lia, ma non solo, sono inso­ste­ni­bili. Quale che sia lo spread, gli inte­ressi da pagare sono tali che divo­rano le risorse senza con­sen­tire, non solo una «cre­scita» dura­tura, ma nem­meno il livello di atti­vità eco­no­mica rag­giunto in pas­sato. Per non par­lare della resti­tu­zione di una parte con­si­stente del debito, come pre­vi­sto dal fiscal com­pact, di cui non a caso nes­suno parla più - in realtà gli eco­no­mi­sti ne hanno sem­pre par­lato il meno pos­si­bile e nes­suno ha ancora esi­bito un cal­colo atten­di­bile sul tasso (astro­no­mico) di cre­scita neces­sa­rio per rispet­tarlo: cioè per ripor­tare in 20 anni il debito al 60 % del Pil.

2. La crisi greca non fa che por­tare alla luce que­sto dato. L’intervento della Tro­jka (Bce, Fmi e Com­mis­sione euro­pea) ha già com­por­tato - biso­gna ricor­darlo a chi si lascia spa­ven­tare dalle parole - ben due default, per quanto «pilo­tati»; ma giunto al suo ter­mine pro­gram­mato, era chiaro, sia al governo greco che alla Tro­jka, che nes­sun pro­blema era stato risolto; e nem­meno affron­tato seria­mente. Il pre­sunto ritorno della Gre­cia a una cre­scita, peral­tro irri­so­ria, è solo — come ha dimo­strato l’economista greco Jan­nis Milios sul mani­fe­sto del 30.12 - l’effetto di un’illusione contabile.
Il pre­mier greco Sama­ras ha così cer­cato di aggi­rare la resa dei conti con una mossa poli­tica, anti­ci pando le ele­zioni e spe­rando di pren­dere in con­tro­piede Syriza, soprat­tutto per non rispon­dere - e per per­met­tere alla Tro­jka di non rispon­dere - di que­sto fallimento.

3. A livello macroe­co­no­mico i pro­blemi che si tro­verà di fronte Syriza, se andrà al governo, sono gli stessi che si sarebbe tro­vato di fronte Sama­ras a feb­braio. L’insostenibilità del debito greco sarebbe comun­que emersa, con gli stessi effetti dirom­penti che tutti si aspet­tano da un governo Tsi­pras; effetti che non deri­vano tanto dalle dimen­sioni del debito greco, com­ples­si­va­mente ridotte rispetto al Pil dell’eurozona, ma dal fatto di met­tere in evi­denza l’insostenibilità di tanti altri debiti, a par­tire da quello ita­liano, assai più consistenti. Ora la pro­ba­bile vit­to­ria di Syriza obbliga tutti i gio­ca­tori di que­sta par­tita a sco­prire le loro carte.

4. Carte che però non ci sono. Debiti e poli­ti­che di auste­rity sono gestiti da un per­so­nale che, in tutte le sue arti­co­la­zioni - finan­zia­rie, ammi­ni­stra­tive e poli­ti­che (par­titi, sin­da­cati e asso­cia­zioni impren­di­to­riali) - non ha la cul­tura per ela­bo­rare delle alter­na­tive (un «piano B») al disa­stro pro­vo­cato dalla strada imboc­cata: «Non c’è alter­na­tiva», diceva la That­cher. Junc­ker e il suo piano da 300 miliardi fan­ta­sma ne sono la mani­fe­sta­zione più evidente. Le misure di soste­gno atti­vate, com­prese quelle pre­an­nun­ciate da Dra­ghi, non fanno che libe­rare le ban­che fran­cesi, tede­sche e inglesi dai cre­diti inca­gliati, tra­sfe­ren­done l’onere sia sulle ban­che dei paesi più a rischio (che hanno usato i fondi della Bce per rile­vare una parte del debito dete­nuto all’estero), sia diret­ta­mente, su Bce e fondo salvastati. Manca qual­siasi idea seria su come soste­nere occu­pa­zione (che non dipende certo dalle cosid­dette «riforme», cioè dalla pre­ca­riz­za­zione del lavoro) e inve­sti­menti (soste­ni­bili solo se desti­nati alla con­ver­sione eco­lo­gica - cosa che richiede una forte ini­zia­tiva a livello locale - e non, come si pensa di fare, a Grandi Opere, che disper­dono risorse, deva­stano ter­ri­tori, oppri­mono le popo­la­zioni e pro­du­cono mafia e corruzione).

5. In que­ste con­di­zioni la defla­gra­zione dell’euro - anche a pre­scin­dere dalle que­stioni più gravi che pre­mono ai con­fini della «for­tezza Europa» - bel­li­ge­ranze senza più fron­tiere, crisi ambien­tale, ritorno alla guerra fredda e milioni di pro­fu­ghi - è solo que­stione di tempo. Ma le sue con­se­guenze sareb­bero cer­ta­mente più gravi di alcuni default pilo­tati, come quelli che potreb­bero venir decisi nella con­fe­renza sul debito pro­po­sta da Syriza. È poi inu­tile ripe­tere che l’«uscita dall’euro» pre­di­cata da Grillo, Sal­vini, Marine Le Pen e Alter­na­tive für Deu­tschland non è una solu­zione: pro­vo­che­rebbe, a catena, altret­tanto scon­quasso nei sin­goli stati e una corsa gene­ra­liz­zata alle sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive da cui lavo­ra­tori e fami­glie rica­ve­reb­bero solo bastonate. Diverso è il caso dell’eventuale intro­du­zione di monete alter­na­tive locali non con­ver­ti­bili, o dei cer­ti­fi­cati di cre­dito fiscale pro­po­sti da Ruf­folo e Sylos Labini, per soste­nere la domanda: potreb­bero far fronte alle esi­genze più impellenti.

6. La pro­po­sta di Syriza ha comun­que il duplice merito di met­tere all’ordine del giorno il pro­blema della soste­ni­bi­lità dell’euro nei suoi ter­mini reali e di pro­spet­tare una via per affron­tarlo. Natu­ral­mente, per andare a buon fine, dovrà tro­vare ade­guato soste­gno sia dalle forze poli­ti­che - innan­zi­tutto da quelle della Gue che ne hanno con­di­viso il pro­gramma, a par­tire dalla tede­sca Die Linke, il cui ruolo è per que­sto stra­te­gico - sia dalle forze sociali che si stanno mobi­li­tando con­tro l’austerità.

7. L’obiettivo di una ristrut­tu­ra­zione del debito pub­blico ita­liano va inse­rito e soste­nuto in que­sto con­te­sto. È com­pito delle forze che lo con­di­vi­dono tra­durlo in misure pra­ti­ca­bili e ren­derlo com­pren­si­bile e accet­ta­bile distin­guendo la difesa del pic­colo rispar­mio dal disarmo delle isti­tu­zioni finan­zia­rie nazio­nali ed estere respon­sa­bili delle atti­vità spe­cu­la­tive che hanno messo alle corde molti Stati.
Non è cosa facile: anche se il valore dei titoli di stato in mano ai rispar­mia­tori ita­liani è ridotto (non supera i 200 miliardi), molte altre forme di rispar­mio - fondi, assi­cu­ra­zioni e pre­vi­denza inte­gra­tiva - dipen­dono da inve­sti­menti in que­sti titoli. Per que­sto occorre esi­gere la sepa­ra­zione delle fun­zioni, non solo tra ban­che com­mer­ciali e ban­che di inve­sti­mento, ma anche tra l’allocazione del debito pub­blico su varie forme di rispar­mio minuto e le ope­ra­zioni spe­cu­la­tive fatte in pro­prio da fondi e ban­che d’affari.

8. Tutto ciò rende urgente un con­fronto sulle solu­zioni per ridurre e ren­dere accat­ta­bile il ridi­men­sio­na­mento for­zoso dei debiti pubblici. La più sem­plice, più volte pro­spet­tata, è la mutua­liz­za­zione della parte dei debiti degli Stati mem­bri che eccede il 60 per cento dei rispet­tivi Pil, finan­zian­dola con un piano plu­rien­nale di crea­zione di nuova moneta (quan­ti­ta­tive easing) o con l’emissione di euro­bond da parte della Bce. Ciò ripor­te­rebbe gli inte­ressi a un livello soste­ni­bile, anche se con la seconda solu­zione si lasce­rebbe comun­que tutto il debito pub­blico in mano alla finanza pri­vata, per­pe­tuando la scelta di fondo - il «divor­zio» tra banca cen­trale e auto­rità poli­tica - che ci ha por­tato in que­sto caos. Ma con­tro quelle solu­zioni è stato già eretto un muro di no. Se la prova di forza di un governo greco gui­dato da Syriza non riu­scirà ad abbat­terlo, si dovranno cer­care altre solu­zioni; che vanno comun­que tutte in dire­zione di una rifon­da­zione dell’Unione Euro­pea su basi mutua­li­sti­che e solidali.

9. Per aprire la discus­sione sulla rine­go­zia­zione dei debiti e su que­sti temi ser­vi­rebbe un gruppo di lavoro che sca­val­chi le divi­sioni tra le diverse com­po­nenti delle forze che si oppon­gono alle poli­ti­che di auste­rità. Sarebbe un primo esem­pio di una ini­zia­tiva uni­ta­ria, costruita su temi con­creti, ma di por­tata strategica.

Il manifesto, 3 dicembre 2015 (m.p.r.)


«Voglio sgon­fiare il mito della meri­to­cra­zia come la via da seguire per tutti. E credo che in una certa misura si stia già sgon­fiando da sé: le per­sone sanno che non esi­ste più la mobi­lità sociale di un tempo. Come disse Ray­mond Wil­liams anni fa, la meri­to­cra­zia ino­cula l’idea vele­nosa della legit­ti­mità delle gerar­chie. Che sulla ’scala’ sociale pos­sano salire solo alcuni». Così Jo Lit­tler, senior lec­tu­rer in cul­tu­ral stu­dies alla City Uni­ver­sity di Lon­dra, incon­trata a Soho nei giorni scorsi. Lit­tler sta lavo­rando a un libro, titolo prov­vi­so­rio Against Meri­to­cracy, che Rou­tledge pub­bli­cherà verso la fine del 2015. Quell’against, lascia poco spa­zio alle inter­pre­ta­zioni: è un libro con­tro una meri­to­cra­zia vista come volano di dar­wi­ni­smo sociale. Basti pen­sare a certe scelte les­si­cali di Mat­teo Renzi per capire quanto la meta­fora sub spe­cie finan­zia­ria della «sca­lata» sia ormai iscritta nella dia­let­tica poli­tica delle post-sinistre euro­pee. Per que­sto è urgente esplo­rarne l’ambiguità e sma­sche­rarne l’uso ideologico.

Nel dibat­tito poli­tico con­tem­po­ra­neo la meri­to­cra­zia, infatti, imper­versa. Sban­die­ran­dola enfa­ti­ca­mente come pana­cea della disu­gua­glianza - quando in realtà può esserne altret­tanto tran­quil­la­mente anno­ve­rata tra le cause - la cul­tura d’impresa si fa spa­zio nel corpo sociale, sosti­tuendo le pro­prie logi­che di pro­fitto a quelle su cui si è retto l’assetto wel­fa­ri­sta euro­peo del secondo dopo­guerra. E poi, come si fa a sca­gliarsi con­tro il merito? Nel les­sico poli­tico da ricrea­zione sco­la­stica ora vigente, una pun­tuale accusa di «gufi» è pres­so­ché assi­cu­rata. Peg­gio che met­tere l’iPhone den­tro a un gettone.

Elite sem­pre in testa
Sì, per­ché il merito è il cavallo di Troia con il quale il neo­li­be­ri­smo ha fatto un’etica irru­zione nella cit­ta­della post-socialdemocratica della sini­stra euro­pea. In que­sto cavallo Mat­teo Renzi - un tar­divo epi­gono blai­ri­sta quando Blair in patria è ormai ple­bi­sci­ta­ria­mente un paria - non ha certo biso­gno di nascon­dersi: anzi, lo cavalca come Tex Wil­ler, strap­pando ova­zioni al gio­vane eser­cito di riserva, plu­ri­ti­to­lato e sot­toc­cu­pato, che di Renzi è entu­sia­sta soste­ni­tore. Ma il conio del ter­mine è natu­ral­mente avve­nuto nella sfera anglo­li­be­rale, ed è qui che si è avviata una discus­sione inte­res­sante sull’uso ideo­lo­gico a tap­peto che ne fanno i media anglosassoni.

«Comin­cia a dif­fon­dersi un sano scet­ti­ci­smo sulla meri­to­cra­zia, nono­stante la piog­gia media­tica che ci pro­pi­nano i talent shows - spiega ancora Lit­tler - Sto inda­gando sulle moda­lità con le quali le élite dram­ma­tiz­zano e sen­sa­zio­na­liz­zano le pro­prie vicende bio­gra­fi­che per pro­pa­gan­darle. Come cer­cano di pre­sen­tarsi in qua­lità di indi­vi­dui ordi­nari per dis­si­mu­lare il pro­prio pri­vi­le­gio e dif­fon­dere l’idea che si tro­vano lì per­ché se lo sono meri­tato. La fami­glia reale, in que­sto senso, è molto inte­res­sante: è riu­scita a ria­bi­li­tarsi come appunto ’nor­male’. Oppure basti pen­sare al suc­cesso di serie tele­vi­sive come Dawn­ton Abbey, dove le dif­fe­renze sociali sono rese gla­mour e legit­ti­mate attra­verso l’espediente nar­ra­tivo».

È ovvio che il merito abbia anche molti aspetti posi­tivi, come ad esem­pio la crea­ti­vità, che vanno senz’altro sot­to­li­neati. Per que­sto Lit­tler intende ricrearne la tra­iet­to­ria sto­rica e ideo­lo­gica. «M’interessa rico­struirne lo svi­luppo nella teo­ria sociale, nel dibat­tito poli­tico, nella cul­tura. Que­sti tre fili sono molto intrec­ciati e troppe volte uti­liz­zati in modo da sot­trarre ter­reno morale all’indignazione nei con­fronti della disu­gua­glianza». Il libro è un ten­ta­tivo di rico­struire la nascita e la cir­co­la­zione del ter­mine nei suoi rivoli seman­tici, «giac­ché tal­volta è usato in modo addi­rit­tura sprez­zante, cosa secondo me peri­co­losa. Natu­ral­mente il rischio è che mi si possa scam­biare per autocratica».

Vista ini­zial­mente con sospetto dalla socio­lo­gia d’ispirazione Labour, la meri­to­cra­zia è stata poi sdo­ga­nata dai think tank con­ser­va­tori bri­tan­nici che, dagli anni Ottanta in poi, sono diven­tati i labo­ra­tori - ege­mo­nici e paneu­ro­pei loro mal­grado - di poli­ti­che bipar­ti­san di riforma del wel­fare e ten­denti a una sem­pre mag­giore inva­denza del pri­vato nel pub­blico. Il ter­mine meri­to­cracy viene con­ven­zio­nal­mente fatto risa­lire al socio­logo di area Labour Michael Young (1915–2002), che nel 1958 scrisse il sag­gio sati­rico The Rise of the Meri­to­cracy, anche se era stato usato due anni prima da un altro socio­logo, Alan Fox, per poi pas­sare nel reper­to­rio «anti-ideologico» di Daniel Bell. In Young il ter­mine ha una con­no­ta­zione nega­tiva. È una visione disto­pica, che paven­tava ciò che sostan­zial­mente sta acca­dendo oggi: una cre­scente distanza e imper­mea­bi­lità tra l’élite dei meri­te­voli e la stra­grande mag­gio­ranza dei «non meri­te­voli», ai quali si tol­gono gli ammor­tiz­za­tori sociali pro­prio in quanto tali.

È uno di quei casi iro­nici della sto­ria che il figlio di Young, l’assai più noto Toby, sia un gior­na­li­sta pati­nato in forza al Daily Tele­graph. «È stato il padre di Toby a scri­vere il libro, è vero, un’ironia che viene spesso evi­den­ziata - afferma Lit­tler - Ma lo stesso Young padre pre­sen­tava delle ambi­guità. Michael era più inte­res­sato alle poli­ti­che dell’istruzione e alla stra­ti­fi­ca­zione sociale, ed è lì che il ter­mine assume una con­no­ta­zione più sfo­cata. Anche se lo usa in modo sati­rico o come per rife­rirsi sfron­ta­ta­mente alle divi­sioni sociali, in ultima ana­lisi la sua cri­tica del capi­ta­li­smo è a dire poco ambi­gua. A rileg­gere i suoi scritti, Young emerge come figura dav­vero inte­res­sante. Era uno stu­dioso inno­va­tivo, ma non privo di una certa ambi­guità: come per esem­pio quando disse di non essere del tutto a favore delle com­pre­hen­sive schools, una strana dichia­ra­zione. Se poi si con­si­de­rano gli ambienti sociali che fre­quen­tava, era vicino all’assai più libe­rale Daniel Bell».

Indi­vi­duo pri­gio­niero
Pro­prio l’autore del topico La fine dell’ideologia, un libro-chiave nell’allineamento della sini­stra mode­rata in difesa del capi­ta­li­smo in cui sono rav­vi­sa­bili i pro­dromi dell’uso del con­cetto da parte del neo­li­be­ri­smo nella sua decli­na­zione that­che­riana. «That­cher è stata senz’altro una figura chiave nella dif­fu­sione delle idee neo­li­be­ri­ste, ma pen­sando a lei va ricor­data soprat­tutto la part­ner­ship fon­da­men­tale con Ronald Rea­gan: tanto per ricor­dare che non era sol­tanto ’una mal­va­gia donna, una strega’, come spesso l’apostrofavano i suoi detrat­tori, l’unica respon­sa­bile di un pro­cesso sto­rico com­plesso. È utile pen­sare anche a cosa abbia rap­pre­sen­tato, al modo in cui ha imma­gi­nato la poli­tica».

Eppure, dai media main­stream, That­cher è costan­te­mente addi­tata a sim­bolo di pos­si­bili con­qui­ste fem­mi­nili, quasi una forza eman­ci­pa­trice. «È inte­res­sante l’aspetto ’fem­mi­ni­sta’ attri­buito alla sua figura. Era tutt’altro che fem­mi­ni­sta ovvia­mente, e cercò di distan­ziarsi il più pos­si­bile da qual­siasi acco­sta­mento a obiet­tivi fem­mi­ni­sti: ne è riprova la demo­niz­za­zione sociale e cul­tu­rale delle madri sin­gle ope­rata dal suo governo, la cui stra­te­gia sem­bra tut­tora quella di incol­pare le vit­time di pri­va­tiz­za­zioni e disoc­cu­pa­zione per il pro­prio males­sere sociale».

È con That­cher che si sostan­zia per la prima volta il con­cetto nel senso della con­trap­po­si­zione fra l’individuo e le sue chance di rispon­dere alle sfide del mer­cato. Nel suo pre­sen­tarsi come matrona della nazione, That­cher ha fatto uso di par­ti­co­lari ele­menti del fem­mi­ni­smo e deli­be­ra­ta­mente a meno di altri. «La sua è una fem­mi­ni­lità quasi astratta, deses­sua­liz­zata: per esem­pio, non faceva mai rife­ri­menti alla pro­pria fami­glia. Ci sono molti studi che al momento affron­tano il ripo­si­zio­na­mento della fem­mi­ni­lità in una vera e pro­pria cul­tura d’impresa, dove la donna è inco­rag­giata a pen­sare a sé in quanto pro­getto indi­vi­duale, a miglio­rare il pro­prio sta­tus e mobi­lità sociale attra­verso l’autopromozione. L’individuo è inco­rag­giato a pen­sarsi come pro­getto: una sorta di ’impren­di­to­ria­liz­za­zione’ del sé».

Il manifesto, 2 gennaio 2015

Il discorso di Napo­li­tano è tutto quello che ci si poteva aspet­tare in un com­miato dopo nove anni dif­fi­cili. Va dal ricordo al monito, all’auspicio. Non man­cano i toni crepuscolari.

Non stu­pi­sce cogliere una ferma difesa delle pro­prie scelte, soprat­tutto quelle fatte nel pas­sag­gio alla XVII legi­sla­tura nel 2013. In sostanza, riba­di­sce l’appoggio al governo Renzi, quasi a cer­ti­fi­carne con­clu­si­va­mente e senza pos­si­bi­lità di prova con­tra­ria la natura di «governo del Pre­si­dente». Gli argo­menti sono noti.

L’esigenza pre­mi­nente di sta­bi­lità, l’immagine inter­na­zio­nale dell’Italia, l’impellente neces­sità di un con­tra­sto effi­cace alla crisi. Si pote­vano per­se­guire i mede­simi obiet­tivi con scelte diverse? Ad esem­pio man­dando Ber­sani in Par­la­mento a cer­care una mag­gio­ranza per la fidu­cia, tor­nando alle urne in caso avesse fal­lito? Forse. È stata una let­tura della situa­zione poli­tica e isti­tu­zio­nale sostan­zial­mente non dis­si­mile da quella che, con il sup­porto di Napo­li­tano, aveva sug­ge­rito di ritar­dare il voto sulla mozione di sfi­du­cia con­tro Ber­lu­sconi, quel tanto che bastò al cava­liere per rigua­da­gnare con nobili argo­menti la man­ciata di voti neces­sa­ria a resi­stere (Camera dei depu­tati, 14 dicem­bre 2010, 314 no e 311 sì). Fu giu­sto, o sba­gliato? Scelte opi­na­bili, e tut­ta­via non incom­pa­ti­bili con la let­tura — fami­liare ai costi­tu­zio­na­li­sti — del ruolo del pre­si­dente come motore isti­tu­zio­nale nei momenti di crisi.

Quel che invece può far discu­tere dav­vero è la difesa nel merito, e per­sino nel det­ta­glio, delle scelte poli­ti­che poi fatte dal governo. Un apprez­za­mento non indi­spen­sa­bile. Volendo farlo, si dovrebbe guar­dare a tutti i risvolti, posi­tivi e nega­tivi. Così — dice Napo­li­tano — l’Italia ha colto l’opportunità del seme­stre di pre­si­denza del Con­si­glio per sol­le­ci­tare un cam­bia­mento nelle poli­ti­che dell’Unione. Ma vogliamo anche dire che i risul­tati sono scarsi o nulli? Apprezza il supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio. Ma non è forse vero che l’opposizione è stata ed è volta non al supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo per­fetto, ma alla sosti­tu­zione del senato con un’assemblea non elet­tiva imbot­tita del peg­gior ceto poli­tico del paese?

Una nuova legge elet­to­rale è un pas­sag­gio ine­lu­di­bile. Ma conta o no che in punti mol­te­plici la pro­po­sta in campo sia chia­ra­mente elu­siva dei prin­cipi sta­bi­liti dalla Corte costi­tu­zio­nale nella sen­tenza n. 1/2014? E il neces­sa­rio più vasto pro­gramma di riforme isti­tu­zio­nali e socio-economiche messo in can­tiere dal governo com­prende senza alter­na­tive il Jobs Act nella for­mu­la­zione con­clu­si­va­mente appro­vata e rea­liz­zata nei decreti dele­gati, o potrebbe avere avuto o avere una diversa decli­na­zione? E infine, il dub­bio prin­ci­pale: si può affi­dare un carico così pesante — e in spe­cie una radi­cale riforma della Costi­tu­zione — a isti­tu­zioni gene­ti­ca­mente distorte da una legge elet­to­rale inco­sti­tu­zio­nale, a una mag­gio­ranza che è tale pro­prio per norme incom­pa­ti­bili con la Carta fon­da­men­tale? E dun­que a una mag­gio­ranza che sod­di­sfa forse cri­teri di legit­ti­mità for­male, ma non di legit­ti­ma­zione sostanziale?

Tutto que­sto non com­pare nel discorso del Capo dello Stato. Dovrebbe? Sì, quanto meno per cenni. Soprat­tutto con­si­de­rando che per lo stesso Napo­li­tano il «senso della Costi­tu­zione» è una stella polare che va seguita per risa­nare e rilan­ciare il paese.

Ma cosa è il «senso della Costi­tu­zione»? Forse qual­che costi­tu­zio­na­li­sta stor­cerà il naso, per­ché non è giu­sti­zia­bile, e dun­que tam­quam non esset. Ma noi con­cor­diamo con Napo­li­tano. Il «senso della Costi­tu­zione» esi­ste, e dovrebbe anzi­tutto orien­tare la poli­tica e le isti­tu­zioni. Non è dato dal det­ta­glio del det­tato nor­ma­tivo, ma dal mes­sag­gio che la Costi­tu­zione com­ples­si­va­mente dà. Che è un mes­sag­gio non legato al tempo in cui è stata scritta, ma ha ad oggetto piut­to­sto il futuro, il modo di essere del paese e delle donne e uomini che in esso vivono. Ed è — a nostro avviso — un mes­sag­gio di soli­da­rietà, di diritti, di egua­glianza, di con­di­vi­sione, di par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica, di aper­tura e di rap­pre­sen­ta­ti­vità della poli­tica e delle isti­tu­zioni. Un mes­sag­gio che non è fatto di arti­coli e commi, ma di un animo per­so­nale e col­let­tivo. E che ci orienta nella let­tura di quel che accade intorno a noi e nei nostri com­por­ta­menti pub­blici e pri­vati, indi­vi­duali e collettivi.

Non è dub­bio che nel «senso della Costi­tu­zione» ci sia tutto il neces­sa­rio per dare rispo­sta ai pro­blemi di oggi, per quanto pres­santi: dalla crisi eco­no­mica alla cor­ru­zione, alla riqua­li­fi­ca­zione della poli­tica, all’orgoglio di essere nazione. Ma altret­tanto non è dub­bio che il senso della Costi­tu­zione non sem­bra affatto ispi­rare l’azione del governo, e le scelte della mag­gio­ranza in par­la­mento. Al con­tra­rio, come abbiamo ripe­tu­ta­mente argo­men­tato. Del resto, non è un caso che la Costi­tu­zione non com­paia nel fio­rito elo­quio del pre­mier, che pure del par­lare s’intende, e molto. E che sia piut­to­sto parola d’ordine di quanti gufano.

Di tutto que­sto avremmo voluto sen­tire nel discorso di Napo­li­tano. Non avrebbe — a nostro avviso — inde­bo­lito la difesa delle sue scelte fon­da­men­tali e della sua pre­si­denza. L’avrebbe invece raf­for­zata. Per­ché la Costi­tu­zione è l’anima di un paese. E un paese che non crede nella sua Costi­tu­zione è un paese senz’anima

Il manifesto, 2 gennaio 2015 (m.p.r.)

Delle due con­di­zioni che aveva indi­cato all’inizio del secondo man­dato - «resterò pre­si­dente fino a quando la situa­zione del paese e delle isti­tu­zioni me lo farà rite­nere neces­sa­rio e fino a quando le forze me lo con­sen­ti­ranno» - se n’è dun­que veri­fi­cata almeno una. Gior­gio Napo­li­tano lascia, e nel farlo insi­ste sul peso degli anni. Un dato di fatto: «Ho il dovere di non sot­to­va­lu­tare i segni dell’affaticamento». Ma si è anche creata quella con­di­zione di «sicu­rezza» del paese che il pre­si­dente cer­cava? Aveva preso l’incarico di orien­tare, e per un tratto ha diret­ta­mente gui­dato, una fati­cosa tran­si­zione; se ne vede l’approdo? Que­sto nean­che Napo­li­tano rie­sce a dirlo. Nell’ultimo mes­sag­gio di capo­danno cerca di indi­care una spe­ranza - ma l’ha sem­pre fatto e sem­pre è andata delusa. Il vec­chio pre­si­dente fa un pic­colo elenco di suc­cessi, tutti par­ziali, incerti e discu­ti­bili. La scom­messa del dop­pio man­dato «ecce­zio­nale» non è vinta. Lascia e non siamo lon­tani dal punto in cui aveva raddoppiato.

Il lascito è già un trauma. Napo­li­tano ne è con­sa­pe­vole e insi­ste che le dimis­sioni sono pre­vi­ste dalla Costi­tu­zione, che sarà un bene tor­nare alla nor­ma­lità di un unico man­dato com­pleto al Qui­ri­nale, e - c’è l’eco delle discus­sioni con Renzi e delle pre­oc­cu­pa­zioni di palazzo Chigi - che le dimis­sioni non devono con­di­zio­nare la vita del governo e del par­la­mento (ma anche che le esi­genze degli altri organi costi­tu­zio­nali non pos­sono impe­dire una scelta «per­so­nale» del pre­si­dente). Eppure Napo­li­tano sa bene che andando via lan­cia Renzi di fronte all’ostacolo più alto. Il par­la­mento è lo stesso che due anni fa mandò a vuoto cin­que scru­tini per il pre­si­dente, una situa­zione niente affatto ine­dita ma che si è voluta dram­ma­tiz­zare — anche da Napo­li­tano che ha visto il bara­tro, il «vuoto».

Il capo dello stato ha fatto un ultimo regalo al gio­vane pre­mier, del quale approva espli­ci­ta­mente ogni scelta poli­tica. Aspet­terà almeno altre due set­ti­mane prima di far avere le sue dimis­sioni alla pre­si­dente della camera; lo avesse fatto già a capo­danno la con­vo­ca­zione delle camere in seduta comune con i dele­gati regio­nali avrebbe sbar­rato troppo pre­sto la strada par­la­men­tare delle «riforme». Che invece così (almeno quella elet­to­rale) pos­sono fare un altro passo, che non è ancora quello defi­ni­tivo. Il pre­si­dente le approva entrambe, anche la revi­sione costi­tu­zio­nale scritta dal governo e fatta ingo­iare al par­la­mento con costante minac­cia di voto anti­ci­pato. Non è la riforma che aveva applau­dito ai tempi di Letta, né quella che aveva inco­rag­giato quando si pre­oc­cu­pava di met­tere al cen­tro sem­pre la sepa­ra­zione dei poteri. Ma è qual­cosa per riem­pire il bilan­cio del noven­nato.
La scelta del suo suc­ces­sore «sarà una prova di matu­rità e respon­sa­bi­lità nell’interesse del paese», dice agli ita­liani il capo dello stato uscente. Ed è appena un auspi­cio. I gio­chi sono tutti da farsi e lo stesso Napo­li­tano qual­che pedina muove, quando dice che le sue «rifles­sioni» sul paese hanno «per desti­na­ta­rio anche chi pre­sto mi suc­ce­derà»: l’identikit che ha in mente non è quello di un uomo (o di una donna, visto ne cita tre su quat­tro «ita­liani esem­plari») desti­nato a vivere nell’ombra del capo del governo.

Come nel mes­sag­gio dell’anno scorso, il pre­si­dente deve tor­nare a difen­dere la scelta di aver accet­tato un secondo man­dato. «È risul­tata — dice — un pas­sag­gio deter­mi­nante per dare un governo all’Italia, ren­dere pos­si­bile l’avvio della nuova legi­sla­tura e favo­rire un con­fronto più costrut­tivo tra oppo­sti schie­ra­menti». «L’aver tenuto in piedi la legi­sla­tura è stato di per sé un risul­tato impor­tante (…) si è evi­tato di con­fer­mare quell’immagine di un’Italia insta­bile che tanto ci pena­lizza». Eppure: il governo delle «lar­ghe intese», costruito al Qui­ri­nale a fine aprile 2013, ha retto nove mesi appena. Le lar­ghe intese anche meno. A palazzo Chigi c’è il terzo pre­si­dente del Con­si­glio con­se­cu­ti­va­mente scelto dal Colle senza man­dato elet­to­rale. Anche que­sta è sta­bi­lità. Un appello all’altruismo e alla respon­sa­bi­lità chiude l’ultimo mes­sag­gio di Napo­li­tano, il pre­si­dente indica nell’impegno pub­blico l’antidoto all’antipolitica che da tempo lo pre­oc­cupa. E che pro­prio le lar­ghe intese, il rigore «tec­nico» e le ele­zioni negate hanno alimentato.

Sulla crisi eco­no­mica il bilan­cio di una scon­fitta: «Tutti gli inter­venti pub­blici messi in atto dall’Italia negli ultimi anni sten­tano a pro­durre effetti deci­sivi». Scon­fitta per chi tutte quelle misure di auste­rità ha appro­vato e spinto ad appro­vare, fino a chie­dere alle mino­ranze e ai sin­da­cati di non met­tersi di tra­verso. Quanto al fati­dico seme­stre di pre­si­denza ita­liana in Europa, «l’Italia ha colto l’opportunità per sol­le­ci­tare un cam­bia­mento nelle poli­ti­che», dice Napo­li­tano. C’è stato que­sto cam­bia­mento? Nem­meno lui può affer­marlo, lo fac­ciano altri: «Renzi tirerà le somme dell’azione cri­tica e pro­po­si­tiva svolta a Bru­xel­les». E ancora le riforme. Non c’è più un’ombra di quello spi­rito di «con­di­vi­sione» che pro­prio il capo dello stato ha sem­pre rac­co­man­dato. Il rap­porto con una parte della non mag­gio­ranza passa per un patto segreto che ha assai poco dello «spi­rito costi­tu­zio­nale». Eppure devono andare avanti «senza bat­tute d’arresto» insi­ste Napo­li­tano. Che ha ormai supe­rato anche il dop­pio bina­rio che teo­riz­zava con Monti e Letta — al governo l’economia, al par­la­mento le riforme. Fac­cia tutto Renzi.
Infine le parole dure con­tro la cor­ru­zione, a tutti pia­ciute. Eppure anche in que­ste c’è la trac­cia di un equi­voco, quando Napo­li­tano riprende il gergo dell’inchiesta romana sui rap­porti «tra mondo di sotto e mondo di sopra». «Sì — dice — dob­biamo boni­fi­care il sot­to­suolo mar­cio e cor­ro­sivo della nostra società». E invece no, pre­si­dente. Quello mar­cio era il soprassuolo.

La Repubblica, 2 gennaio 2015

Molti leggono la crisi attuale come crisi di fiducia in campo finanziario, economico e politico ma, più in profondità, a livello culturale ed etico. È la diagnosi che emerge anche dall’indagine “Gli italiani e lo Stato” condotta da Demos per Repubblica e commentata da Ilvo Diamanti su queste pagine.
Ritengo perciò che, all’apertura di un nuovo anno, valga la pena riflettere ancora sulla fiducia: sentimento, atteggiamento ed esperienza che appare decisiva nell’esistenza di ogni persona così come nella vita sociale della polis.

Non possiamo vivere senza porre la fiducia in qualcuno né senza ricevere fiducia da qualcuno, dagli altri. Ognuno di noi è nato perché sentiva questa spinta ad avere fiducia nella vita, in chi lo portava in grembo, in chi lo poteva accogliere. E ciascuno è venuto al mondo proprio grazie alla fiducia originaria posta nei genitori o in chi ci ha accompagnato nella nascita. Parimenti le nostre storie d’amore sono possibili solo quando uno sa mettere la fiducia in un altro, in un’altra e da questi riceverla. La fiducia è la realtà che rende possibile il vivere e il vivere in relazione: nell’amicizia, nell’amore, nel rapporto maestro-discepolo, nella relazione medico-paziente... Se una persona non riesce a fidarsi di nessuno, è condannata all’isolamento, imprigionata in una situazione mortifera.

È proprio la fiducia che può creare il legame sociale e generare la comunità: a livello politico la mancanza di fiducia genera una stanchezza nella democrazia e quindi ne mina la credibilità, aprendo lo spazio alla barbarie. Se la fiducia oggi difetta lo si deve in particolare a un triplice disincanto, sul piano economico, politico e identitario. Il senso del vivere insieme è compromesso dalla logica del mercato che privilegia l’interesse particolare e nega l’istanza di solidarietà; la vita politica offre il triste spettacolo di uno scollamento rispetto ai cittadini e di una autoreferenzialità elettiva che genera diffidenza e inaffidabilità; l’identità collettiva è smarrita e regredisce in un appiattimento su comunanze di tipo tribale.

Dobbiamo allora porci una domanda: come mai siamo precipitati in questa situazione in cui si afferma che è meglio diffidare, diffidare sempre, diffidare di chiunque? Quali sono i fattori che hanno minato la fiducia che si era creata sulle macerie della Seconda guerra mondiale? Quella fiducia sociale che ci aveva dato la possibilità di una convivenza capace di assumere un progetto comune e di condividere una speranza?

Tra i fattori decisivi va annoverata l’illegalità crescente che si è espansa come un’epidemia, dalla quale nessun potere e gruppo sociale è restato immune. L’illegalità macroscopica, quasi sempre impunita, ha autorizzato un’illegalità quotidiana e minuta, che sembra rispondere al “così fan tutti”. Questa illegalità ha minato il senso di sicurezza e il bisogno di protezione dei cittadini, immettendo in loro una sfiducia e tentandoli, seducendoli fino a condurli a non darsi pena della collettività, a scambiare l’etica con il “fare i moralisti”, a lasciar correre... Insieme ai fattori ricordati di autoreferenzialità e di mancanza di senso del bene comune e del servizio alla polis, l’illegalità ha reso inaffidabili molti soggetti politici e le stesse istituzioni di rappresentanza democratica. I cittadini si sentono sempre più lontani dalla politica e finiscono per non partecipare più all’edificazione della polis che sembra invece sequestrata dai partiti, da forze o gruppi di potere sovente nascosti e dunque viene valutata come non possibile, ormai preda dei corrotti.

Qualcuno sostiene che viviamo già nell’epoca della post-democrazia e, a causa di questa debolezza della politica, si affermano il populismo, il sorgere del “salvatore” di turno, la smobilitazione dei corpi sociali, il conformismo e la degradazione dell’etica incapace di competere con illusioni che catturano le masse. La consapevolezza di essere cittadini di una polis comune ha ceduto il passo alla rassegnazione di essere consumatori in un mercato dopato, in cui la libera concorrenza è divenuta corsa alla sopraffazione, al dominio del più forte o del più furbo. E in questo precipitare della qualità della convivenza politica, vanno in frantumi e sono calpestate la solidarietà, l’attenzione ai deboli e alle vittime della storia.

Così i cittadini-consumatori continuano a credere ad annunci e promesse dei soggetti politici, nonostante non se ne vedano le condizioni e tanto meno i segnali di attuazione. Paure e illusioni sono fabbricate un giorno, esasperate quello successivo e dimenticate o mutate il giorno dopo ancora. Le persone sono sempre meno capaci di critica, il dibattito ragionato viene considerato una perdita di tempo e sostituito da urla tra sordi, l’incalzare di sondaggi di ogni tipo e qualità ha rimpiazzato il faticoso delinearsi di una “opinione pubblica”: così si passa d’inganno in inganno, perdendo sempre più il contatto con la realtà. Fino a quando? Sì, perché, come ci insegna la storia, a un certo momento sopraggiunge un punto di rottura in cui all’incapacità di indignarsi e di impegnarsi segue la reazione irrazionale di chi si nutre di violenza.

Allora, che fare? Si tratta ora più che mai di rischiare la fiducia a partire dalle nostre relazioni personali, di ribadire la necessità della fiducia come fondamento della vita sociale. “Camminando si apre cammino”, così avendo fiducia si fa crescere la fiducia. I dati dell’inchiesta commentata da Diamanti dovrebbero suonare per tutti come un allarme: l’assuefazione alla sfiducia nelle istituzioni, negli altri, nel futuro non fa che asfaltare la strada alla barbarie e alla violenza. Sta a noi aprire un percorso diverso, resistendo, mettendo fiducia in noi stessi, esercitandoci con convinzione ad avere fiducia negli altri e a non tradire la loro, a partire da chi ci sta accanto. Il primo passo per amare gli altri come se stessi consiste proprio nell’avere fiducia negli altri almeno come in se stessi. La fiducia va cercata alla sorgente: nelle modalità dei nostri rapporti con noi stessi, con gli altri, con il futuro, con la storia, con il fatto stesso di vivere. Sì, la fiducia nella vita è ancora possibile, è un dovere e una promessa di cui siamo debitori verso gli altri e verso noi stessi.

La Repubblica, 31 gennaio2015

Fra letteratura e vita si colloca a volte la politica, con la sua sorellina non di rado un po’ ingombrante, la retorica. Le odierne tecnologie della comunicazione l’hanno aggiornata riportandola in auge, e mezzora di monologo televisivo prima del cenone, o si è Roberto Benigni oppure non si reggono proprio. Servono quindi, e anche, delle accorte variazioni, dei salti emotivi, delle risorse sentimentali, insomma delle scorciatoie. Ed ecco che in prima serata sono tornati gli exempla: vicende e soprattutto figure autentiche, tratte nel vivo dell’attualità come avveniva nella trattatistica medioevale, da indicare a modello secondo uno schema morale predeterminato e con un’unica possibilità d’interpretazione. Italiani e italiane da imitare.

Il presidente Napolitano, che pure dell’antica scuola politica repubblicana è senz’altro la figura più autorevole, e che conserva un linguaggio tanto nobile quanto a volte non immediato (vedi la parola “cimento”) si è tuttavia bene adattato ai moduli che prevedono di “tirare al cuore a tradimento”, come diceva Benedetto Croce di De Amicis, invece che alla testa. E in pratica come cominciò a fare Walter Veltroni una decina d’anni orsono, e come poi Renzi ha portato a compimento e un po’ anche a sfinimento, anche lui ha fatto Storytelling.

La scienziata, l’astronauta, il medico e le altre figure che riscattano la cattiva immagine del paese. Presentati per brevissimi accenni, se si vuole anche di maniera e in pasta di zucchero umanitario. Non si discutono qui, com’è ovvio, i singoli personaggi evocati e la qualità degli esempi, che anzi paiono molto ben scelti e che infatti si sono imposti nei video, nei siti e nei social network con una certa efficacia. Ma come nel caso del libro Cuore, anche senza arrivare all’”Elogio di Franti” di Umberto Eco, nell’omaggio agli italiani esemplari si può anche — non è obbligatorio — avvertire “un non so che di dolciastro e levigato, per una certa apparenza di fiacca e monotona luminosità, come di una chiara d’uovo pazientemente battuta e montata a meraviglia, senza bolle né rughe” (G. A. Borgese). O magari è un riflesso automatico e come tale incontrollabile di scetticismo, di sfiducia, di stanchezza, di estraneità, di paura della crisi economica che non finisce, dell’imminente affanno istituzionale; qualcosa che genera preventivo pessimismo rispetto a una classe di governo e di opposizione sempre più vanitosa e inconcludente e ora destinata a impoverirsi dopo che Napolitano se ne sarà andato via.

Il guaio, semmai, è che un piccolo Pantheon di eroi non basta purtroppo a riequilibrare i tanti e continui esempi di indegnità, il grottesco Barnum di scemenze, le carognate e le avidità di chi doveva dare il buon esempio. E per quanto nel costume nazionale l’auto-denigrazione è da sempre una specialità sublime, è pur vero che forse se ne sono viste e sentite troppe.

Quelli che ridono durante il terremoto, quelli che si fanno gli auguri invocando catastrofi via sms, quelli dell’Expo che erano già stati beccati da Mani Pulite e hanno ricominciato tranquilli e beati, quelli del Mose con i generali della Guardia di Finanza che nascondevano le banconote sotto terra, quelli delle spese pazze delle regioni che mettono in conto ai cittadini sex-toys e adozioni a distanza, quelli che hanno svuotato la Carige e quegli altri che a Siena sono riusciti a mandare all’aria, pure con un morto, il Monte dei Paschi che bene o male esisteva dal 1472.

La sinistra radicale greca ha come suo leader un politico serio e capace di convincere e vincere. La scommessa della Grecia è una speranza per l'Europa e per l'Italia, e un augurio per l'anno che inizia domani.

Il manifesto, 31 dicembre 2014
Atene. Apertura al dialogo con Syriza, per i vertici europei la Grecia non è più una fonte di contagio. Ma pesa il pessimismo premeditato dei mercati. Verso le elezioni anticipate del 25 gennaio, Alexis Tsipras lavora da premier. Haircut del debito e cancellazione del memorandum, ma anche rassicurazioni ai creditori

Anto­nis Sama­ras e alcuni part­ner euro­pei alleati del pre­mier greco, in pri­mis la can­cel­liera tede­sca Angela Mer­kel, con­ti­nuano a pro­muo­vere la stra­te­gia della paura. La poli­tica della sini­stra greca, secondo loro, porta il paese nel caos. Die­tro le quinte, però, a sen­tire fonti diplo­ma­ti­che a Bru­xel­les, «si pre­pa­rano a un governo di Syriza, per­ché Ale­xis Tsi­pras sta lasciando la reto­rica rivo­lu­zio­na­ria di due anni fa».

Per i part­ner euro­pei, Atene non è più una fonte di con­ta­gio, come soste­ne­vano in pas­sato, ma sem­pli­ce­mente «un’anomalia in seno all’Ue, e quindi si può dia­lo­gare anche con un governo delle sini­stre». Secondo il Finan­cial Times, la pro­spet­tiva di un tale governo «non è un vero e pro­prio tabù per Bru­xel­les» e «una crisi poli­tica greca, che tre anni fa ha rischiato di affos­sare la moneta unica, potrebbe non costi­tuire più una minac­cia per l’esistenza della zona euro».
C’è, invece, chi con­ti­nua a soste­nere che «l’establishment euro­peo farà tutto quello che potrà fino all’ultimo, in modo che Syriza non governi il paese» e che «il mec­ca­ni­smo del fondo salva-stati non garan­ti­sca al 100% l’Eurozona, nel caso Syriza e la troika (Fmi, Ue, Bce) non tro­vino un accordo». Intanto ad Atene la mag­gio­ranza dei greci non crede che un governo delle sini­stre potrebbe dan­neg­giare il Paese, anzi, c’è la con­sa­pe­vo­lezza che i gio­chi spe­cu­la­tivi ven­gono fatti dai mer­cati e dagli inve­sti­tori stranieri.

Il taglio del debito pubblico

L’agenzia Bloom­berg e alcuni mass-media con­ser­va­tori euro­pei stanno adot­tando l’idea di un taglio del debito pub­blico greco, pro­po­sta avan­zata da tempo da Ale­xis Tsi­pras, ma di cui, per il momento, non si è par­lato a Ber­lino o a Bruxelles.

L’haircut del debito — il rap­porto tra debito e Pil rimane a livelli altis­simi, attorno al 170% -, come pre­sup­po­sto per la cre­scita del Paese, è infatti uno dei due pila­stri del pro­gramma eco­no­mico della sini­stra radi­cale, l’altro riguarda la can­cel­la­zione del memo­ran­dum. E su que­sto «il governo di Syriza chie­derà una con­fe­renza inter­na­zio­nale» afferma Tsi­pras, secondo il quale «il taglio non andrebbe a pena­liz­zare i cre­diti dete­nuti dai pri­vati, ma dovrebbe essere con­cesso dalla troika, che ha in mano una grossa fetta di que­sto debito pub­blico greco».

Tant è vero che, a sen­tire gli eco­no­mi­sti, que­sti pre­stiti ad Atene non saranno mai ero­gati per intero, quindi è meglio per i cre­di­tori un taglio del debito oppure un pro­lun­ga­mento degli acconti, visto che «un fatto simile (il taglio del debito) è avve­nuto in Ger­ma­nia nel 1953», come fa notare l’eurodeputato Mano­lis Glezos.

Tsi­pras, inol­tre, ha pro­messo di far aumen­tare ai livelli pre­ce­denti alla crisi, il sala­rio minimo men­sile (abo­li­zione di alcuni tagli con­cor­dati con la troika), la lotta all’evasione fiscale, che arriva al 25% del Pil (la media euro­pea è attorno al 10%) e alla cor­ru­zione, la crea­zione di 300 mila nuovi posti di lavoro pun­tando su un piano di inve­sti­menti per sti­mo­lare la cre­scita e l’alleggerimento fiscale degli strati sociali più col­piti dalla crisi; il lea­der di Syriza è con­tra­rio, invece, a qual­siasi misura aggiun­tiva, cioè a una nuova auste­rity che pre­veda ancora tagli a sti­pendi, pen­sioni e inden­nità oltre a licen­zia­menti, come pre­sup­po­sto per l’incasso di nuovi aiuti finan­ziari dai cre­di­tori internazionali.

I mer­cati sul Grexit

All’atteggiamento ambi­guo dei part­ner euro­pei si sovrap­pone il pes­si­mi­smo pre­me­di­tato dei mer­cati che temono «il ritorno del default in Gre­cia» e di «una tem­pe­sta nella zona euro», se Syriza «annu­lerà tutti gli accordi con la troika». «Il 2014 non è il 2012 e quindi non pas­serà il ter­ro­ri­smo dei mer­cati», sot­to­li­nea Tsi­pras, ma lo scon­tro tra un governo delle sini­stre e i mer­cati sem­bra ine­vi­ta­bile anche nel caso che i part­ner euro­pei voles­sero evi­tarlo. Indi­ca­tivo è il crollo cla­mo­roso della borsa di Atene pro­prio nel giorno in cui uffi­cial­mente si anti­ci­pa­vano le ele­zioni pre­si­den­ziali, ma anche quello di lunedì scorso, crolli inter­pre­tati come un avver­ti­mento nei con­fronti di chi, leggi Syriza, cerca di deviare da ciò che gli stessi mer­cati con­si­de­rano «sta­bi­lità politica».

L’incubo del Gre­xit, dell’uscita della Gre­cia dalla zona euro viene ripro­dotto senza scru­poli dai mer­cati, i quali, a pre­scin­dere dalla situa­zione reale, dai «pro­gressi» sul fronte macroe­co­no­mico di Atene, comun­que si schie­rano con­tro Syriza.

Gold­man Sachs e l’agenzia di rating Moody’s valu­tano nega­ti­va­mente sia la pro­spet­tiva di ele­zioni anti­ci­pate, per­ché dimi­nui­rebbe la cre­di­bi­lità del paese, sia l’eventualità di un governo delle sini­stre, per­ché «potrebbe tagliare i ponti con i cre­di­tori internazionali».

Secondo ana­lisi pes­si­mi­ste, ripro­dotte da alcuni quo­ti­diani, «la con­se­guenza dell’interruzione dei finan­zia­menti dalla Bce alle ban­che gre­che (nel caso che un governo del Syriza con­ti­nui a opporsi alle misure aggiun­tive) sarebbe la chiu­sura improv­visa degli spor­telli e dei ban­co­mat in Gre­cia, impe­dendo così ai cor­ren­ti­sti di acce­dere ai loro soldi» come acca­duto nel marzo del 2013 a Cipro. Allora nell’ isola le ban­che cipriote rima­sero senza con­tanti per parec­chi giorni, pro­vo­cando la rea­zione dei cit­ta­dini e un memo­ran­dum pesante per tutti i ciprioti.

Corsa con­tro il tempo

Il tempo nella capi­tale greca in effetti stringe. Tra un mese, a pre­scin­dere dalle ele­zioni anti­ci­pate e dal governo che si for­merà, Atene deve incas­sare 7 miliardi di euro (sui 230 già con­cessi) per coprire i pro­pri biso­gni. L’Eurogruppo durante la sua riu­nione a metà dicem­bre ha deciso di pro­lun­gare la vali­dità del pro­gramma di risa­na­mento dell’economia greca sino alla fine del pros­simo feb­braio — la deci­sione è stata respinta da Syriza — ma sta alla troika e al governo greco tro­vare un accordo sulle misure aggiun­tive (altri 2,5 miliardi di tagli), fina­liz­zate alla con­clu­sione del con­trollo sull’attuazione del pro­gramma stesso. Que­sta è infatti la con­di­zione indi­spen­sa­bile per l’uscita del Paese dal memo­ran­dum e per l’attuazione della linea di soste­gno pre­cau­zio­nale (Eccl) fin­ché la Gre­cia non sarà in grado di tor­nare sui mer­cati inter­na­zio­nali.

In altri ter­mini, Bru­xel­les e Ber­lino sot­to­li­neano che né il denaro, né la linea di cre­dito pre­cau­zio­nale saranno con­cessi ad Atene fino a quando la Gre­cia non avrà con­cluso il piano di risa­na­mento eco­no­mico nel suo insieme, che vuol dire accet­ta­zione da parte del governo greco della nuova austerity.

La domanda che si pone già è come si potranno incas­sare quei soldi dai cre­di­tori inter­na­zio­nali neces­sari ad Atene per pagare gli sti­pendi, le pen­sioni e per rifi­nan­ziare il debito (i bond in sca­denza), nel momento in cui pro­prio in quel periodo, in feb­braio, ci sarà il ricorso anti­ci­pato alle urne e le trat­tat­tive per la for­ma­zione di un governo? Come si com­por­terà Ale­xis Tsi­pras, tra i cri­tici più severi delle poli­ti­che di auste­rità del Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale, dell’Unione euro­pea e della Banca cen­trale euro­pea? Se come nuovo pre­mier respin­gerà ogni trat­tat­tiva con la troika, lo stato greco rischia di tro­varsi senza soldi nelle casse; se accetta avrà fatto una mano­vra di 180 gradi.

La tat­tica di Tsipras

Per il momento il lea­der della sini­stra radi­cale greca ras­si­cura i suoi inter­lo­cu­tori inter­na­zio­nali e soprat­tutto gli euro­pei che non ha la minima inten­zione di uscire dall’euro, sapendo benis­simo che l’Ue non può per­met­tersi di far uscire la Gre­cia dall’Eurozona, non sol­tanto per­ché non è pre­vi­sto nei trat­tati dell’Ue, ma anche per le riper­cus­sione che avrebbe in tutto il vec­chio continente.

Quello che conta per Syriza è gua­da­gnare tempo e non ali­men­tare, senza volerlo a causa della pres­sione dei mer­cati, la crisi uma­ni­ta­ria nel Paese. A un passo dal potere Tsi­pras sta cam­biando tat­tica — altri dicono oltre la reto­rica, anche stra­te­gia poli­tica — per quanto riguarda il memo­ran­dum, gli accordi già fir­mati tra Atene e la troika.

La pro­messa del lea­der di Syriza, un anno fa al par­la­mento, che «l’unica pro­po­sta alter­na­tiva è l’annullamento di tutte le misure di auste­rità con una legge che avrà sol­tanto un arti­colo» è stata sosti­tuita dall’ even­tua­lità di trat­tare con i cre­di­tori inter­na­zio­nali e comun­que di non deci­dere prima di con­sul­tarsi con loro. Anche per­ché noti espo­nenti della sini­stra radi­cale, come il pro­fes­sore di Diritto del lavoro Ale­xis Mitro­pou­los, par­la­men­tare di Syriza e pro­ve­niente dal Pasok, fanno notare che «chi crede che il memo­ran­dum potrebbe essere annul­lato sem­pli­ce­mente con una legge non cono­sce affatto gli impe­gni deri­vanti dagli accordi».

Tsi­pras con i ver­tici di Syriza sono già al lavoro per met­tere a punto il pro­gramma dei primi cento giorni di governo e soprat­tutto per non tro­varsi impre­pa­rati a ridosso delle sca­denze di feb­braio. A que­sto pro­po­sito si è incon­trato con l’ex gover­na­tore della Banca di Gre­cia, Jor­gos Pro­vo­pou­los, defi­nito un anno fa «l’ambulante delle banche».

Rea­zioni interne

Che Tsi­pras abbia lasciato la reto­rica, dando spa­zio al rea­li­smo poli­tico, è evi­dente anche dalla sua visita al Pen­ta­gono, il quar­tier gene­rale del mini­stero della difesa greco, tra­di­zio­nal­mente roc­ca­forte della destra (la memo­ria del colpo di stato dei colo­nelli nel 1967 è ancora viva), dove ha ras­si­cu­rato la lea­der­ship mili­tare, «Ci sarà una con­ti­nua­zione nello stato», ha pro­messo se Syriza andrà al potere. Il tour del lea­der della sini­stra radi­cale ha com­por­tato anche la visita ai mona­steri di Monte Athos, al Vati­cano, dove si è incon­trato con il Pon­te­fice, e all’archivescovo della potente Chiesa Orto­dossa Greca per accre­di­tarsi fra le gerar­chie in vista delle urne.

In que­sto ambito di aper­ture poli­ti­che Tsi­pras si è incon­trato al Forum di Como con José Manuel Bar­roso, Jean Claude Tri­chet, Joa­quin Almu­nia, Mario Monti, Enrico Letta, men­tre i respon­sa­bili della poli­tica eco­no­mica di Syriza, Jor­gos Sta­tha­kis e Jan­nis Milios, entrambi pro­fes­sori uni­ver­si­tari, sono andati alla City di Lon­dra a par­lare per illu­strare e discu­tere con inve­sti­tori e rap­pre­sen­tanti di hedge fund il pro­gramma eco­no­mico del partito.

Que­ste mosse di rea­li­smo poli­tico di uno Tsi­pras in pole posi­tion per la pre­mier­ship, non ven­gono viste di buon occhio dai suoi avver­sari interni, come per esem­pio Pana­jo­tis Lafa­za­nis, capo­gruppo par­la­men­tare e lea­der dell’Aristero Revma (Cor­rente di sini­stra), com­po­nente comu­ni­sta di vec­chio stampo in seno a Syriza, che «non vorebbe alcun con­tatto con i rap­pre­sen­tanti del neo­li­be­ra­li­smo euro­peo». «Di poli­glot­ti­smo degli espo­nenti di Syriza per quanto riguarda le pro­po­ste per uscire dalla crisi» parla anche una parte del elet­to­rato, nono­stante si dichiari a favore della sini­stra radicale

Per la prima volta da quando l’uomo è sulla Terra, la sua presenza si è rivelata talmente invadente -e capace di modificare la Natura- che è stato coniato un termine per indicare l’era geologica attuale: Antropocene. Prima che sia troppo tardi, dobbiamo reagire con rigore: la nostra generazione ha il dovere -e il diritto- di cambiare le cose.

Altreconomia.it, 22 dicembre 2014 (m.p.r.)

Da quando l’uomo ha messo piede sulla Terra -tra i 100 e 200mila anni fa: la nostra presenza è solo una fugace apparizione, rispetto all’età del Pianeta- ogni generazione ha forse avuto la percezione che la propria fosse un’epoca straordinaria. Un’epoca diversa dalle altre: più importante, o drammatica, o felice. Oggi studiamo sui libri di storia le civiltà e il susseguirsi delle società umane, e leggiamo un’altalenarsi di periodi più o meno intensi. Sorridiamo all’idea che, 10mila, mille o anche solo 100 anni fa, qualcuno abbia pensato che quel momento storico fosse più significativo di quelli precedenti. A proseguire in questo solco, sarebbe ragionevole pensare che anche l’epoca che stiamo vivendo si inserisca in questo flusso, e di noi resteranno solo poche righe in un libro (o chissà che altro dispositivo) del futuro.
Eppure, qualche elemento per dire che gli anni che viviamo oggi, qui, su questa Terra, sono davvero straordinari, c’è. Per la prima volta nella storia dell’uomo siamo oltre 7 miliardi di individui, e il traguardo dei 10 miliardi non è lontano. Una popolazione così vasta è un inedito. Altro inedito: la maggior parte della popolazione mondiale vive in città, e non più in campagna, dove si produce il cibo. Incidentalmente, un abitante su quattro delle città non vive in comode case con acqua corrente ed elettricità, ma in una baraccopoli.

Per la prima volta da quando l’uomo è sulla Terra, la sua presenza si è rivelata talmente invadente -e capace di modificare la Natura- che è stato coniato un termine per indicare l’era geologica attuale: Antropocene (la definizione si deve al biologo Eugene Stoermer, anche se è stata resa famosa dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, che per primo studiò il fenomeno del buco nell’ozono). Non riguarda solo il consumo, smodato, di risorse come acqua, petrolio, minerali, foreste. L’invadenza dell’uomo è tale che la perdita di biodiversità causata dalle sue attività secondo molti ci sta ponendo di fronte alla sesta estinzione di massa della storia (la quinta, per intenderci, fu nel Cretaceo: 65 milioni di anni fa). Infine, il cambiamento climatico -sempre causato dall’uomo- sta avvenendo secondo modalità ancora una volta inedite, e dalle conseguenze devastanti.

È la fine del mondo? Forse no, ma certamente siamo consapevoli di appartenere a una generazione che ha il dovere -e il diritto- di cambiare le cose. Per questo, quando qualcuno dice che per uscire dalla crisi si deve puntare alla crescita e attrarre investimenti dovremmo non solo storcere il naso, ma reagire con decisione. E perlomeno chiedere: la crescita di che cosa?, gli investimenti per fare che?
Il termine “decrescita” ispira sentimenti contrastanti. A molti evoca difficoltà, perdita di benessere, ritorno al passato. Chi, da anni, ne parla, non intende nulla di tutto ciò. Intende ragionevolmente porre l’accento sul fatto che i consumi dell’uomo devono diminuire, se vogliamo un futuro. E tra l’altro, questo potrebbe portare anche maggior benessere e giustizia. Il termine decrescita è una provocazione: finché andrà avanti il vuoto mantra della crescita, ci sarà qualcuno che proporrà il destabilizzante tema della decrescita.

Noi la chiamiamo “altra economia”, e nel cuore di questa non c’è solo l’ambiente. C’è anche il rispetto dell’uomo in un impegno comune, condiviso, quotidiano. In occasione della giornata mondiale della pace, il primo gennaio, papa Francesco ha scritto un messaggio intitolato “Non più schiavi, ma fratelli”. «Ancora oggi milioni di persone vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù. Penso a tanti lavoratori, anche minori, asserviti nei diversi settori […]. Chiediamoci come noi, in quanto comunità o singoli, ci sentiamo interpellati quando, nella quotidianità, incontriamo o abbiamo a che fare con persone che potrebbero essere vittime del traffico umano, o quando dobbiamo scegliere se acquistare prodotti che potrebbero ragionevolmente essere stati realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone».
L’appello a un commercio equo e giusto, non poteva arrivare che da un papa giunto “dalla fine del mondo”.

«C’è l’imbecille consapevole di essere distratto nella comunicazione dei contenuti, e chi ribadisce l’orgoglio di casta e di gergo. C’è anche chi le accetta, queste cose, convinto che “non si capisce nulla quando parla, deve essere una persona intelligentissima“».

Cittaconquistatrice.it, 30 dicembre 2014 (m.p.r.)

Esistono due forme di imbecille: chi se ne accorge, e chi sta attaccato alla propria imbecillità scambiandola per identità. Ma anche l’imbecillità, al pari di tante cose, può funzionare da motore del mondo, di carriere personali, se adeguatamente sfruttata, gestita, promossa. La questione riguarda tutti i campi dello scibile, ma si fa seria quando coinvolge le sorti degli interlocutori. Per intenderci, se un dottore mi deve tagliar via un pezzo di corpo, farà meglio a spiegare tutto nel dettaglio, no? E quando scuoto il capo, a ripetere con altre parole l’intero ragionamento, se vuole avere il via libera, e altrimenti cercarsi un altro cliente. Ma le cose non funzionano affatto in questo modo, come sappiamo, perché esiste la mistica dello specialista, così addentro nei misteri dello scibile da aver perso in tutto o in parte la capacità di comunicarli. Balle.

Nelle trasformazioni dell’ambiente e del territorio, almeno dalla metà del ‘900 in poi, da un lato le possibilità tecniche e le potenzialità sociali si dilatavano enormemente, dall’altro cresceva esplicita e implicita la domanda di partecipazione diretta alle scelte. Spiegava nel 1948 il nostro Giancarlo De Carlo all’attentissima platea londinese della Architectural Association: «The housing problem cannot be solved from above. It is a problem of the people, and it will not be solved, or even boldly faced, except by the concrete will and action of the people themselves» (1). Dove il termine housing, abitazione, era ovviamente estendibile all’idea di città, che nel contesto britannico significa new town, e altrove quartieri integrati e unità di vicinato col cosiddetto “centro sociale” come fulcro di partecipazione.

Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, lasciando però più o meno le cose come stavano prima: c’è l’imbecille consapevole di essersi un po’ distratto riguardo alla comunicazione dei contenuti, e chi invece ribadisce l’orgoglio di casta e di gergo. Naturalmente c’è anche chi le accetta, queste cose, convinto chissà perché che “non si capisce nulla quando parla, deve essere una persona intelligentissima”. Però è innegabile che cresca anche il fastidio per la difficoltà a capire, e quindi a scegliere ed esprimere consenso. Fastidio letteralmente esploso quando l’accessibilità dei documenti grazie alla rete ha reso molto più evidente la divaricazione fra gerghi iniziatici e linguaggio corrente. Si capisce sempre di più, che non basta riprodurre tecnicamente gli allegati di un processo decisionale di trasformazione, e caricarli in chiaro su un sito istituzionale, per garantire trasparenza delle scelte. Occorre che l’istituzione non sia imbecille di secondo grado, ovvero accetti un’interlocuzione attiva.

Non è detto che ci si riesca al 100%, o al primo colpo, ma l’importante è provare: a non perdere per strada contenuti, e a renderli criticamente accessibili. La trasparenza si potrebbe articolare in quattro punti: sempre un sintetico executive summary (pochissimo usato da noi in Italia), che orienta alla lettura della documentazione vera e propria; poi un buon uso di trasversalità e ipertestualità con links interni a partire da un indice molto articolato proprio a questo scopo; poi un generale approccio amichevole sia di linguaggio che di forme anche grafiche; ultima ma non in ordine di importanza, la coscienza che se di partecipazione si deve trattare, questa deve stare alla base della lettura, dei contenuti, non rappresentare un ripensamento successivo.

Se siamo arrivati a porci il problema delle nuove tecnologie nelle scuole dell’obbligo, o della storia patria spiegata a fumetti, a maggior ragione la multimedialità nella documentazione di piano e programma ci sta proprio su misura: senza nulla togliere alla correttezza dei contenuti ovviamente. E quando comunque non si capisce, non fatevi problemi a dare dell’imbecille a chi ha prodotto quella comunicazione lacunosa, anche se si tratta dell’istituzione. La stessa cosa a maggior ragione vale per chi vi parla ora, va da sé.

(1) «La questione delle abitazioni non è un problema che possa essere risolto dall'alto. Si tratta di un problema che coinvolge direttamente le persone, e non lo si potrà mai risolvere, e neppure affrontare seriamente, salvo farlo attraverso la volontà e l'azione diretta dei cittadini»; la citazione di Giancarlo De Carlo riportata, che marca secondo la critica internazionale l’esordio ufficiale della partecipazione democratica in urbanistica, e implicitamente la domanda di un linguaggio accessibile a tutti, è tratta da Peter Hall, Cities of Tomorrow, Blackwell, Oxford, p. 271

austerity che soffoca l’Unione con meno risorse per pagare i debiti pubblici e più sviluppo”. La Repubblica, 31 dicembre 2014

Non capisco perché le cosiddette cancellerie europee siano così terrorizzate dalla probabile vittoria di Syriza in Grecia. O meglio, lo capisco, però è ora di smontare le loro ipocrisie ». Thomas Piketty, docente all’Ecole d’économie parigina, “l’economista più autorevole del 2014” come lo ha definito il Financial Times, è sceso in campo con tutta la sua grinta con un editoriale pubblicato ieri da Liberation . «Serve in Europa una rivoluzione democratica», ha scritto e ce lo ripete chiaro e forte al telefono dall’aeroporto di Parigi mentre sta per imbarcarsi per New York, la città che ha lanciato il suo Capitale nel XXI secolo come libro dell’anno grazie all’endorsement del premio Nobel Paul Krugman.
Professore, però Tsipras si è fatto strada sventolando la bandiera dell’uscita dall’euro… «Sì, ma ora ha molto ammorbidito le sue posizioni. Si è rivelato, all’opposto, un leader fortemente europeista, una posizione che si assesterà ulteriormente se com’è probabile dovrà formare un governo di coalizione, visto che secondo i sondaggi non avrà più del 28% e quindi 138 seggi, 12 in meno della maggioranza. I più probabili alleati come sapete sono il neocostituito partito di centrosinistra Potami e l’altra forza di sinistra democratica Dimar, che gli garantirebbero un altro 8-10%. Certo, Syriza farà valere le sue posizioni in Europa, ma non sarà un male, anzi». Qualcosa accadrà, insomma.

Ma è sicuro che non sarà qualcosa di dirompente?
«Senta, guardiamo la situazione con realismo. La tensione in Europa è arrivata a un punto tale che in un modo o nell’altro scoppierà, entro il 2015. E tre sono le alternative: una nuova crisi finanziaria sconvolgente, l’affermazione delle forze di destra che realizzano la coalizione di cui stanno mettendo le basi incentrata sul Fronte Nazionale in Francia e comprendente la vostra Lega e forse i 5 Stelle, oppure uno choc politico proveniente da sinistra: Syriza, gli spagnoli di Podemos, il Partito democratico italiano, quel che resta dei socialisti francesi. Finalmente alleati e operativi. Lei quale soluzione sceglie? Io la terza».

La famosa “rivoluzione democratica”, insomma. Quali dovrebbero essere i primi atti?
«Due punti. Primo, la revisione totale dell’attuale politica basata sull’austerity che sta soffocando qualsiasi possibilità di recupero in Europa, a partire dal Sud dell’eurozona. E questa revisione deve per primissima cosa prevedere una rinegoziazione dei debiti pubblici, un allungamento delle scadenze, eventualmente dei condoni veri e propri di alcune parti. È possibile, glielo assicuro. Vi siete chiesti perché l’America marcia alla grande, così come l’Europa fuori dall’euro come la Gran Bretagna? Ma perché l’Italia deve destinare il 6% del proprio Pil al pagamento degli interessi e solo l’1% al miglioramento delle sue scuole e università? Una politica incentrata solamente sulla riduzione del debito è distruttiva per l’eurozona. Secondo punto: un accentramento presso le istituzioni europee di politiche di base per lo sviluppo comune a partire da quella fiscale, e magari riorientare quest’ultima tassando di più le maggiori rendite personali e industriali. Su queste materie fondamentali si deve votare a maggioranza e non più all’unanimità, e poi vigilare perché tutti si adeguino. Più centralità serve anche su altri fronti a somiglianza di quanto si sta cominciando a fare per le banche. Solo così si potrà omogeneizzare l’economia e sbloccare la frammentazione di 18 politiche monetarie con 18 tassi d’interesse, 19 da inizio gennaio con la Lituania, esposta al flagello della speculazione. Non rendersene conto è miope e, quel che è peggio, profondamente ipocrita».

Le “ipocrisie europee” di cui parlava all’inizio: a cosa si riferisce più precisamente?
«Andiamo con ordine. Il più ipocrita è Jean-Claude Juncker, l’uomo al quale incoscientemente si è data in mano la commissione europea dopo che per vent’anni ha condotto il Lussemburgo a una sistematica depredazione dei profitti industriali del resto d’Europa. Ora pretende di fare il duro e di prendere un giro tutti con un piano da 300 miliardi che però è finanziato solo per 21, e all’interno di questi 21 la maggior parte sono fondi europei già in via di erogazione. Parla di “effetto leva” senza neanche rendersi conto di cosa sta parlando.

«Al secondo posto c’è la Germania, che fa finta di aver dimenticato il maxi-condono dopo la seconda guerra mondiale dei suoi debiti, scesi di colpo dal 200 al 30% del Pil, che le ha permesso di finanziare la ricostruzione e la prepotente crescita degli anni successivi. Dove sarebbe andata se fosse stata obbligata a ridurre faticosamente il debito a colpi dell’uno o due per cento all’anno come sta costringendo a fare il sud Europa? La terza piazza nell’imbarazzante classifica delle ipocrisie spetta alla Francia, che ora si ribella alla rigidità tedesca ma è stata in prima fila nell’affiancare la Germania quando è stata impostata la politica dell’austerity, e altrettanto decisa sembrava quando con il Fiscal Compact del 2012 si sono condannate le economie più deboli a ripagare i debiti fino all’ultimo euro malgrado la devastante crisi del 2010-2011. Ecco, se saranno smascherate e isolate queste ipocrisie si potrà ripartire per lo sviluppo europeo nell’anno che sta per iniziare. E Syriza farà meno paura».
«Per l’istituto nazionale di ricerca aumentano i disoccupati di lunga durata, vero freno del Sud. La «nota mensile» sbugiarda Renzi e Padoan. Il ministro dell’Economia aveva stimato un più 0,5 per cento di Pil per il petrolio a 60 dollari. Invece a causa della stessa crisi "l’effetto per l’Italia sarà nullo"».

Il manifesto, 31 dicembre 2014

Nella cate­go­ria dei gufi — se non dei diser­tori — in que­sto 2014 che si chiude va cer­ta­mente inse­rita l’Istat. Che anche nel penul­timo giorno dell’anno è tutt’altro che otti­mi­sta sullo stato dell’economia ita­liana e — ancor di più — del mer­cato del lavoro. Nella sua «Nota men­sile» di dicem­bre, l’istituto nazio­nale di sta­ti­stica «neu­tra­lizza» il calo del costo del petro­lio — uti­liz­zato invece dal mini­stro Padoan per pre­ve­dere un aumento del Pil dello 0,5 per cento nel 2015 — par­lando di «impatto nullo per Ita­lia e Ger­ma­nia», men­tre «i segnali posi­tivi per la domanda interna» por­te­reb­bero ad «una sostan­ziale sta­zio­na­rietà della cre­scita nel tri­me­stre finale dell’anno»: insomma, il Pil nel quarto tri­me­stre potrebbe far dimi­nuire di un deci­male il meno 0,4 per cento ora pre­vi­sto per il 2014.

Molto peg­gio va l’occupazione. L’Istat parla di «con­di­zioni del mer­cato del lavoro» che «riman­gono dif­fi­cili con livelli di occu­pa­zione sta­gnanti e tasso di disoc­cu­pa­zione in cre­scita». I numeri più neri in campo occu­pa­zio­nale ven­gono dai disoc­cu­pati di lunga durata. Al record del tasso di disoc­cu­pa­zione, che ad otto­bre ha toc­cato quota 13,2 per cento — il governo lo ha moti­vato con il ritorno sul mer­cato del lavoro dei molti gio­vani prima “inat­tivi” o “sco­rag­giati”: in realtà il loro numero, sot­to­li­nea l’Istat, è aumen­tato del 6,5 per cento nel 2014 — si uni­sce infatti «un allun­ga­mento dei periodi di disoc­cu­pa­zione: l’incidenza dei disoc­cu­pati di lunga durata (quota di per­sone che cer­cano lavoro da più di un anno) è salita nell’anno in corso dal 56,9 per cento al 62,3». Per l’istituto nazio­nale di sta­ti­stica «que­sto gruppo di indi­vi­dui, gene­ral­mente con­si­de­rati poco appe­ti­bili dalle imprese, costi­tui­sce un fat­tore di freno alla discesa della disoc­cu­pa­zione soprat­tutto nel Mez­zo­giorno». È quindi il Sud il tal­lone d’Achille del paese. Ma il governo Renzi pare non esser­sene accorto. Così come sem­bra non voler far niente per aiu­tare coloro che per­dono il lavoro dopo i 50 anni, i più col­piti dalla crisi e quelli con meno pos­si­bi­lità di tro­vare nuova occupazione.

Nel frat­tempo si allon­tana sem­pre di più la pro­spet­tiva per loro della pen­sione. Il governo ha infatti appro­vato il decreto sull’adeguamento dell’età pen­sio­na­bile dovuto all’aumento dell’aspettativa di vita che scat­terà però dal primo gen­naio 2016. Si tratta di un mec­ca­ni­smo pre­vi­sto già dalla riforma Monti che il governo Ber­lu­sconi nel 2010 fissò a cadenza trien­nale. La riforma For­nero lo ha acce­le­rato: lo scatto ora arriva ogni due anni. E per la prima volta dal primo gen­naio sarà di quat­tro mesi — rispetto ai 3 decisi dal 2013. Un salto di quat­tro mesi che si applica a quasi tutte le “quote” maschili, facendo pas­sare il requi­sito ana­gra­fico per la pen­sione di vec­chiaia dei dipen­den­denti del set­tore pri­vato a 66 anni e 7 mesi — era a 66 anni e 3 mesi, sem­pre a con­di­zione di avere almeno 20 anni di con­tri­buti ver­sati. Allo stesso modo aumenta il requi­sito per la pen­sione anti­ci­pata a pre­scin­dere dall’età ma con una decur­ta­zione gra­duale ana­gra­fica sull’assegno: da 42 anni e sei mesi a 42 anni e dieci mesi. Più pena­liz­zate le donne, a causa del pro­cesso di armo­niz­za­zione con gli uomini: dal primo gen­naio 2016 nel set­tore pri­vato il requi­sito ana­gra­fico aumen­terà di ben un anno e 10 mesi: da 63 anni e 9 mesi a 65 anni e 7 mesi. Uno schema che por­terà nel 2050 a pre­ve­dere un’età di pen­sione a 70 anni uguale per donne e uomini, senza che il governo abbia men che meno preso in con­si­de­ra­zione ope­ra­zioni di fles­si­bi­lità in uscita — men­tre pre­ca­rizza ancor di più quella in entrata con il Jobs act — nè di aumen­tare i coe­fi­centi per i pre­cari a lavoro discon­ti­nuo che quest’anno si tro­ve­ranno reca­pi­tare dalla nuova Inps tar­gata Tito Boeri la stima di pen­sione da poche cen­ti­naia di euro.

Ieri sul fronte pen­sioni è arri­vata anche la denun­cia da parte dello Spi Cgil. A gen­naio gli asse­gni pen­sio­ni­stici saranno più leg­geri per resti­tuire allo Stato una parte della riva­lu­ta­zione rice­vuta nel 2014, cal­co­lata ini­zial­mente con un tasso prov­vi­so­rio dell’1,2% e poi asse­sta­tosi in via defi­ni­tiva all’1,1%: una pen­sione minima per­derà 5,40 euro rispetto a dicem­bre 2014 men­tre una pen­sione da 1.500 euro per­derà 16,30 euro. Tut­ta­via «lievi aumenti sono pre­vi­sti per feb­braio: la riva­lu­ta­zione del 2015 por­terà 1,50 euro in più sul 2014 per la «minima»», 3 euro per una da 1.500.
Se nel 2015 il Parlamento non sarà diverso e non avrà introdotto la tortura tra i reati penali i tor­tu­ra­tori di tutto il mondo potranno scegliere di venire in Ita­lia come se fosse un para­diso criminale.

Il manifesto, 30 dicembre 2014

Tor­tura in Ita­lia: anche il 2014 è tra­scorso nel segno della impu­nità. «L’inadempienza dell’Italia nell’adeguarsi agli obbli­ghi della Con­ven­zione Onu crea una situa­zione para­dos­sale in cui un reato come la tor­tura che a deter­mi­nate con­di­zioni può con­fi­gu­rare anche un cri­mine con­tro l’umanità, per l’ordinamento ita­liano non è un reato spe­ci­fico… È quindi neces­sa­ria una legge che tra­duca il divieto inter­na­zio­nale di tor­tura in una fat­ti­spe­cie di reato, defi­nen­done i con­te­nuti e sta­bi­lendo la pena, che potrà deter­mi­nare anche il regime tem­po­rale della pre­scri­zione. Per­tanto, nella attuale situa­zione nor­ma­tiva non può invo­carsi, così come fa parte ricor­rente, l’imprescrittibilità della tor­tura, cioè di un reato che non c’è». Così ha scritto nero su bianco la Corte di Cas­sa­zione in una sen­tenza del 17 luglio del 2014 resa pub­blica poche set­ti­mane fa. Nella sen­tenza si cer­ti­fica l’impossibilità di estra­dare in Argen­tina il sacer­dote Franco Rever­beri, accu­sato dai magi­strati suda­me­ri­cani di avere par­te­ci­pato nella sua veste di cap­pel­lano mili­tare ai ‘tor­menti’ dei tor­tu­rati ai tempi di Videla. In assenza del delitto di tor­tura nei con­fronti del sacer­dote pos­sono essere pre­vi­ste ipo­tesi di reato che hanno tempi di pre­scri­zione ben più brevi. Invece la tor­tura, cri­mine con­tro l’umanità al pari del geno­ci­dio, dovrebbe essere impre­scrit­ti­bile o quanto meno avere tempi molto lun­ghi di prescrizione.

Il 17 luglio del 1998, ovvero sedici anni prima rispetto alla sen­tenza della Cas­sa­zione nel caso Rever­beri, l’Italia aveva orga­niz­zato solen­ne­mente a Roma in Cam­pi­do­glio la con­fe­renza isti­tu­tiva della Corte Penale Inter­na­zio­nale com­pe­tente in mate­ria di cri­mini con­tro l’umanità. La Corte è nata, sep­pur sten­ta­ta­mente. L’Italia non si è mai ade­guata fino in fondo allo Sta­tuto della Corte voluta dall’Onu. Tra i cri­mini che la Corte è depu­tata a giu­di­care vi è la tor­tura. Non essen­dovi il delitto nel nostro codice penale sarà ben dif­fi­cile arre­stare quel mili­tare o dit­ta­tore che si è mac­chiato di que­sto cri­mine all’estero e viene a tro­vare rifu­gio in Ita­lia. I tor­tu­ra­tori di tutto il mondo pos­sono sce­gliere di venire in Ita­lia come se fosse un para­diso criminale.

Tre anni dopo la con­fe­renza di Cam­pi­do­glio, nel luglio del 2001, ovvero tre­dici anni prima della sen­tenza della Cas­sa­zione, c’è stata la tra­ge­dia geno­vese. Un pezzo dell’apparato di Stato orga­nizza e com­mette vio­lenze bru­tali con­tro chi mani­fe­stava con­tro il G8. Par­tono i pro­cessi. Un certo numero tra poli­ziotti e fun­zio­nari viene messo sotto inchie­sta. La con­danna inter­viene ma per reati lievi. Manca infatti il delitto di tor­tura. A uno dei tor­tu­rati di Bol­za­neto gli agenti della poli­zia peni­ten­zia­ria, dopo essersi van­tati di essere nazi­sti e di pro­vare pia­cere a pic­chiare un «omo­ses­suale, comu­ni­sta, mer­doso», dopo averlo offeso dicen­do­gli «fro­cio ed ebreo», lo hanno por­tato fuori dall’infermeria e gli hanno striz­zato i testi­coli, come nella tra­di­zione tra­gica della tor­tura a Villa Tri­ste o a Villa Gri­maldi. «Entro sta­sera vi sco­pe­remo tutte». Machi­smo e fasci­smo, come sem­pre insieme appas­sio­na­ta­mente. Tra il 2001 e il 2014 ci sono stati casi che hanno scosso le coscienze di que­sto paese. Un giu­dice ad Asti nel gen­naio del 2012 ha cer­ti­fi­cato che la tor­tura com­messa da alcuni poli­ziotti peni­ten­ziari non era da lui puni­bile in assenza del delitto nel codice. Siamo alla fine del 2014 e il Par­la­mento resta ancora in silen­zio. Anti­gone, insieme ad Amne­sty Inter­na­tio­nal, Arci, Cit­ta­di­nanza Attiva, Cild e decine di altre orga­niz­za­zioni ha orga­niz­zato un minuto di silen­zio in Par­la­mento lo scorso 10 dicem­bre 2014 spe­rando di met­tere i depu­tati davanti alle loro respon­sa­bi­lità e volendo stig­ma­tiz­zare il silen­zio col­pe­vole delle isti­tu­zioni. L’esito della discus­sione par­la­men­tare è quanto meno mor­ti­fi­cante: è stata rin­viata a dopo le vacanze. L’Italia, va ricor­dato, aveva preso for­mal­mente que­sto impe­gno inter­na­zio­nale nel 1988. Nella scorsa pri­ma­vera il Senato ha appro­vato un testo non con­forme a quanto pre­vi­sto nella Con­ven­zione delle Nazioni Unite con­tro la tor­tura: si usa il plu­rale per le vio­lenze (un’unica vio­lenza non deter­mi­ne­rebbe tor­tura) e si con­fi­gura il delitto come delitto gene­rico ovvero non tipico di chi ha obbli­ghi legali di custo­dia. La Camera sta ragio­nando — len­ta­mente, molto len­ta­mente, troppo len­ta­mente — intorno a pos­si­bili miglio­ra­menti. Que­sta è buona cosa ma lo fa senza veri­fi­care cosa potrebbe acca­dere in Senato nel caso di un nuovo cam­bio di testo. Infatti, fino a quando resi­ste il bica­me­ra­li­smo, ad ogni cam­bia­mento il testo torna all’altra Camera.

In Senato non vi sono garan­zie che ci siano i numeri per far pas­sare la legge. Ci sono gruppi dello stesso par­tito che hanno votato o preso posi­zioni molto diverse, se non oppo­ste, alla Camera e in Senato. A Palazzo Madama il Ncd ha dato il peg­gio di sé. Gli emen­da­menti peg­gio­ra­tivi del testo sono tutti suoi. «Acco­gliamo con grande favore l’introduzione del nuovo reato, che è uno stru­mento in più per per­se­guire le vio­la­zioni alla tutela dei diritti dell’uomo. L’unica per­ples­sità è nella fase appli­ca­tiva, non certo in ter­mini di prin­ci­pio. Ci sono alcune cri­ti­cità nel testo». Così il capo della Poli­zia Ales­san­dro Pansa audito in Com­mis­sione Giu­sti­zia alla Camera. Le sue dichia­ra­zioni costi­tui­scono un passo in avanti impor­tante. Dun­que ci rivol­giamo a tutti i par­la­men­tari del campo demo­cra­tico, libe­rale, cat­to­lico, pro­gres­si­sta: se siete con­tro la codi­fi­ca­zione del delitto di tor­tura abbiate il corag­gio di dirlo pub­bli­ca­mente (alle Nazioni Unite, ai nostri let­tori e alle nostre asso­cia­zioni); se invece siete favo­re­voli scri­vete la migliore legge pos­si­bile a appro­va­tela defi­ni­ti­va­mente nel giro di un mese.

* pre­si­dente Antigone

Interviste a Yanis Varou­fa­kis, eco­no­mi­sta molto vicino a Syriza, e a Dimi­tris Papa­dimoulis, vicepresidente del Parlamento europeo, capogruppo degli europarlamentari di Syriza, di Thomas Fazi e Argiris Panagopoulos.

Il manifesto, 30 dicembre 2014 (m.p.r.)


VAROUFAKIS:
«SOLO TANTE MENZOGNE SULLA RIPRESA GRECA»
di Thomas Fazi

Dopo l’annuncio che il 25 gen­naio la Gre­cia tor­nerà alle urne (fal­lito il terzo e deci­sivo voto per il nuovo pre­si­dente della Repub­blica), la pro­spet­tiva di una vit­to­ria di Syriza, la forza della sini­stra radi­cale gui­data da Ale­xis Tsi­pras e data per favo­rita dai son­daggi, si fa sem­pre più con­creta. Facendo tre­mare sia i mer­cati che l’establishment euro­peo, che ave­vano già mani­fe­stato il loro disap­punto dopo la deci­sione del primo mini­stro Anto­nis Sama­ras di anti­ci­pare a que­sto mese l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica. I primi man­dando a picco la borsa di Atene e facendo schiz­zare in alto i tassi sui titoli di stato a dieci anni; il secondo augu­ran­dosi, per bocca del pre­si­dente della Com­mis­sione Junc­ker, che i greci non votino «in modo sba­gliato». Tsi­pras, però, non ha nes­suna inten­zione di por­tare la Gre­cia fuori dall’euro, e per quel che riguarda il suo piano di ristrut­tu­ra­zione del debito greco, egli non intende col­pire i cre­di­tori pri­vati ma piut­to­sto i cre­di­tori uffi­ciali: l’Unione euro­pea e in par­ti­co­lare la Ger­ma­nia. Di que­sto e altro abbiamo par­lato con Yanis Varou­fa­kis, eco­no­mi­sta molto vicino a Syriza.

La Gre­cia, che oggi mostra un tasso di cre­scita eco­no­mica tra i più alti di tutta l’Unione, viene pre­sen­tata dai fau­tori dell’austerità come una dimo­stra­zione dell’efficacia del con­so­li­da­mento fiscale e della sva­lu­ta­zione interna, che avreb­bero reso l’economia greca più effi­ciente e com­pe­ti­tiva. Cosa ne pensa?
Penso che sia una per­versa distor­sione della realtà. La Gre­cia è in piena Grande Depres­sione. Sono sette anni che i red­diti e gli inve­sti­menti nel paese sono in caduta libera; que­sto ha deter­mi­nato una vera e pro­pria crisi uma­ni­ta­ria. E adesso, sulla base di un tri­me­stre di cre­scita del Pil reale, sono tutti lì a festeg­giare la «fine» della reces­sione! Ma se si guar­dano atten­ta­mente i numeri, ci si rende conto che siamo ancora in reces­sione, anche in base ai dati uffi­ciali. La spie­ga­zione è piut­to­sto sem­plice: nello stesso periodo in cui il Pil reale è cre­sciuto dello 0.7%, i prezzi sono caduti in media dell’1.9%. Per chi non lo sapesse, il Pil reale equi­vale al Pil nomi­nale (ossia cal­co­lato in euro) diviso per l’indice dei prezzi (il cosid­detto defla­tore del Pil). Con­si­de­rando che que­sto indice è sceso dell’1.9%, e che il Pil reale è aumen­tato solo dello 0.7%, que­sto vuol dire che il Pil misu­rato in ter­mini nomi­nali, ossia in euro, è sceso! Dun­que la cre­scita del Pil reale non dipende dal fatto che il red­dito nazio­nale, in euro, è cre­sciuto; dipende dal fatto che esso è caduto più len­ta­mente dei prezzi. E ora l’establishment poli­tico, sia euro­peo che nazio­nale, vor­rebbe ven­dere ai greci que­sto pic­colo trucco con­ta­bile come la “fine della reces­sione”. Ma non funzionerà.

Pil al –25%, disoc­cu­pa­zione ai mas­simi livelli dai tempi della seconda guerra mon­diale: pensa che que­sti siano sem­pli­ce­mente gli effetti inde­si­de­rati di poli­ti­che «sba­gliate», o pos­sono essere con­si­de­rati il frutto di un dise­gno preciso?
Nes­suna delle due, credo. Que­ste poli­ti­che erano le uni­che che non com­por­ta­vano un’ammissione del fatto che l’architettura dell’eurozona è fon­da­men­tal­mente disfun­zio­nale, e che la crisi era siste­mica e non «greca». Ma soprat­tutto, erano le uni­che ad essere com­pa­ti­bili con quello che era l’obiettivo prin­ci­pale dell’establishment: sal­va­guar­dare i ban­chieri da qua­lun­que ten­ta­tivo di espro­pria­zione da parte dell’Unione euro­pea o degli stati mem­bri. Ed è così che una nazione pic­cola ma fiera è stata costretta a imple­men­tare una feroce poli­tica di sva­lu­ta­zione interna che ha cau­sato e sta cau­sando enormi sof­fe­renze alla popo­la­zione, oltre ad aver fatto lie­vi­tare il debito pri­vato e pub­blico del paese a livelli inso­ste­ni­bili, e tutto que­sto per man­te­nere l’illusione che l’architettura dell’eurozona fosse soste­ni­bile, e per sca­ri­care le per­dite colos­sali delle ban­che pri­vate sulle spalle dei cit­ta­dini comuni, dei lavo­ra­tori e dei con­tri­buenti. Una volta decisa la stra­te­gia, l’hanno poi amman­tata di pro­pa­ganda neo­li­be­ri­sta per ren­derla più appetibile…

Per­ché i mer­cati hanno così paura di Syriza secondo lei?
Quello che temono è lo scop­pio delle due bolle eco­no­mi­che gon­fiate ad arte da Ber­lino, Fran­co­forte e Bru­xel­les negli ultimi anni, quella dei titoli sovrani e quella dei titoli di borsa, che ave­vano lo scopo di ali­men­tare l’illusione della «ripresa greca». Ma que­sto è il destino di tutte le bolle: alla fine scop­piano. E prima lo faranno meglio sarà, per­ché ci costrin­gerà a guar­dare final­mente in fac­cia la realtà e a darci da fare per miglio­rare le con­di­zioni di vita di tutti, sia in Gre­cia che nel resto dell’eurozona.

Pensa che la vit­to­ria di Syriza sia un’ipotesi rea­li­sti­ca­mente pos­si­bile? O ritiene che le forze con­ser­va­trici dell’establishment greco - ed euro­peo - siano dispo­ste a tutto pur di sbar­rar­gli la strada?
Entrambe le cose. Non c’è alcun dub­bio che le forze dell’establishment faranno di tutto per fer­mare Syriza, ricor­rendo alle più bie­che forme di ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico nei con­fronti dell’elettorato greco. Ma sem­bra che que­sta volta tale stra­te­gia, già impie­gata con suc­cesso in pas­sato, sia desti­nata a fal­lire. Una vit­to­ria di Syriza al momento sem­bra sem­pre più probabile.

Come giu­dica l’augurio di Junc­ker affin­ché i greci non votino «in modo sbagliato»?
Direi che dimo­stra un pro­fondo disprezzo per la demo­cra­zia, e un atteg­gia­mento neo­co­lo­niale che si fa beffa dell’idea secondo cui l’Unione rispetta la sovra­nità dei suoi stati mem­bri. In teo­ria, è la Com­mis­sione euro­pea che è tenuta a rispon­dere delle sue scelte di fronte ai cit­ta­dini degli stati mem­bri, e non i cit­ta­dini che sono tenuti a rispon­dere delle loro scelte di fronte alla Com­mis­sione. E per defi­ni­zione la Com­mis­sione non può espri­mere alcun giu­di­zio di merito sull’esito di un’elezione. E non può di certo dire quale sia il can­di­dato «giu­sto» e quello «sba­gliato». Con que­sta affer­ma­zione, Junc­ker ha fatto cadere ancora più in basso la repu­ta­zione della Com­mis­sione, già ai minimi sto­rici, e ha allar­gato ancora di più il defi­cit demo­cra­tico dell’Ue. Il suo inter­vento è stata una delle mosse più anti-europee che si potes­sero imma­gi­nare, in quanto è riu­scito a dele­git­ti­mare in un colpo solo sia la Com­mis­sione che l’Unione stessa.

Ci può descri­vere in breve i punti prin­ci­pali del pro­gramma di Syriza?
In primo luogo, un governo gui­dato da Syriza farà di tutto per far sì che l’Europa affronti i nodi che finora si è rifiu­tata di affron­tare: la disfun­zio­na­lità dell’architettura dell’eurozona, e il fatto che i cosid­detti “sal­va­taggi” della troika - che erano tutto fuor­ché dei sal­va­taggi - sono stati molto dele­teri sia per i paesi della peri­fe­ria che per quelli del cen­tro, inclusa la Ger­ma­nia. In secondo luogo, si sfor­zerà di rico­struire e di rimet­tere in moto l’economia sociale della Gre­cia per mezzo di un «New Deal per l’Europa» fina­liz­zato a tirare tutta la peri­fe­ria, e non solo la Gre­cia, fuori dalla depres­sione. Infine, si ado­pe­rerà per rifor­mare sia il set­tore pri­vato che quello pub­blico al fine di incre­men­tarne la crea­ti­vità e la pro­dut­ti­vità, e per costruire una società migliore.

Il ritorno alla nor­ma­lità passa neces­sa­ria­mente per un default su una parte del debito pubblico?
Sì, e que­sto non vale solo per la Gre­cia. La Gre­cia farà senz’altro default a un certo punto, ma pro­ba­bil­mente non lo farà in maniera for­male, ma con un taglio del debito greco nei con­fronti del resto dell’Europa. E a quel punto, poco dopo, segui­ranno l’Italia e poi la Spa­gna e il Por­to­gallo. Di fatto rap­pre­sen­terà il primo passo verso una spe­cie di unione fiscale: quando uno stato ha avuto in pre­stito dagli altri e non è in grado di ripa­gare al tasso con­cor­dato, è una spe­cie di unione fiscale, ma una spe­cie ter­ri­bile, la peg­gior spe­cie, un’unione fiscale per default.

PAPADIMOULIS: «UN VOTO PER CAMBIARE TUTTA L'EUROPA»
di Argiris Panagopoulos

Syriza vin­cerà le ele­zioni per cam­biare la Gre­cia e l’Europa, sostiene con­vinto il vice­pre­si­dente del Par­la­mento Euro­peo Dimi­tris Papa­di­mou­lis, che si pre­para per dare bat­ta­glia elet­to­rale e rom­pere il cer­chio dell’austerità in Europa. Papa­di­mou­lis crede che la vit­to­ria di Syriza offrirà una grande pos­si­bi­lità alla Gre­cia e ai paesi della Ue col­piti dalla crisi per cam­biare gli equi­li­bri in Europa. Dimi­tris Papa­di­mou­lis, è vice­pre­si­dente del Par­la­mento euro­peo, capo­gruppo degli euro­par­la­men­tari di Syriza, con una lunga espe­rienza anche nel par­la­mento greco, dove è stato por­ta­voce di Syriza. Pro­viene dai gio­vani dei comu­ni­sti demo­cra­tici del Par­tito Comu­ni­sta Greco e ha rap­pre­sen­tato per anni Syna­spi­smos nel par­la­mento greco e nel Par­la­mento Euro­peo fino alla nascita di Syriza, di cui è diven­tato uno dei suoi più noti esponenti.

Come valu­tate il risul­tato della terza votazione?
Era quanto ave­vamo pre­vi­sto. La sfida ora è di andare alle ele­zioni con una vera con­trap­po­si­zione poli­tica tra i pro­grammi e i pro­getti per il futuro del paese. Senza il mer­ca­tino della paura e l’allarmismo, senza un clima poli­tico da guerra civile, per­ché tutto que­sta pro­voca danni al paese e la sua eco­no­mia. Noi abbiamo lavo­rato sem­pre per unire le forze demo­cra­ti­che e il nostro popolo. Non vogliamo divi­sioni. Il governo è stato costretto ad acce­le­rare per l’elezione del pre­si­dente della repub­blica per­ché altri­menti doveva far votare un altro pac­chetto di misure di auste­rità. Sape­vano molto bene che dopo le tre vota­zioni in par­la­mento dove­vamo andare alle urne. E loro sanno bene che per­de­ranno le ele­zioni. Per Syriza si pre­senta una vera sfida per cam­biare il nostro Paese e non solo. Per que­sto serve una grande alleanza elet­to­rale con un pro­gramma rea­li­stico, effi­ciente e prag­ma­tico. Syriza è coe­rente con tutto quanto ha detto e fatto. Non fa alleanze occa­sio­nali. Gli ultimi anni abbiamo visto di tutto, Nuova Demo­cra­zia e Pasok gover­nare insieme, un primo mini­stro venuto dalle ban­che senza nes­suna legit­ti­mità e una piog­gia di Memo­ran­dum e decreti fuori da ogni legit­ti­mità demo­cra­tica e parlamentare.

Syriza rap­pre­senta un peri­colo per l’Europa?
L’obiettivo prin­ci­pale del nostro pro­gramma è far diven­tare la Gre­cia uno stato mem­bro pari­ta­rio con pieni diritti den­tro l’Unione Euro­pea e den­tro l’eurozona. Un paese dove ci sarà in vigore lo stato di diritto e la giu­sti­zia sociale, con una cre­scita eco­no­mica senza que­sta atroce disoc­cu­pa­zione e la galop­pante reces­sione. Il pro­gramma di Syriza è pieno di pro­po­ste per cam­biare la situa­zione, pieno di pro­po­ste per vere riforme. Il governo uscente ricorre ad un allar­mi­smo peri­co­loso. È ine­vi­ta­bile che per­de­ranno le ele­zioni. Le pote­vano per­dere con dignità e senza cer­care di fare ulte­riore danno al nostro paese. Le nostre pro­po­ste potranno aiu­tare l’Europa a rial­zarsi in piedi, per­ché dob­biamo risol­vere la que­stione del debito. Ora in tanti ammet­tono che la sola pro­po­sta pos­si­bile è la Con­fe­renza Euro­pea per il debito. Quando l’avevamo pre­sen­tata sem­brava che ave­vamo pro­po­sto la fine del mondo. L’unica pro­po­sta cre­di­bile per sal­vare l’Europa dal bara­tro è la nostra. Il voto dei greci sarà anche un voto per sal­vare l’Europa e risol­verà parte dei pro­blemi di tutti i paesi del Sud Europa com­presa l’Italia.

I son­daggi dicono che Syriza vin­cerà le ele­zioni. Che dirà il giorno dopo all’Unione Europea?
Il governo che avrà come asse prin­ci­pale Syriza si muo­verà per cer­care rispo­ste effi­cienti e rea­li­sti­che a livello euro­peo, lato debito e poli­tica fiscale. Vogliamo met­tere ordine nelle nostre finanze e vedere la nostra eco­no­mia tor­nare a cre­scere. Obbiet­tivi impos­si­bili da rag­giun­gere quando il debito pub­blico vola al 180% del Pil. In tutti i paesi euro­pei che si sono appli­cate le misure di auste­rità sono aumen­tati i debiti e si è distrutta l’economia. Abbiamo biso­gno di far ripar­tire la nostra eco­no­mia e per que­sto ser­vono inve­sti­menti pub­blici. Per que­sto il patto di sta­bi­lità rap­pre­senta un cap­pio al collo dei popolo euro­pei. Il pre­ce­dente governo era impe­gnato ad avere un sur­plus che doveva arri­vare al 4,5% in media per i pros­simi anni. Ma per avere un sur­plus di que­ste dimen­sioni in que­sta dram­ma­tica situa­zione signi­fi­che­rebbe di distrug­gere com­ple­ta­mente la nostra società. Dob­biamo libe­rarci da que­ste impo­si­zioni e tro­vare il modo di creare lavoro vero e ben remu­ne­rato, ridi­stri­buire la ric­chezza e lavo­rare per la coe­sione sociale della nostra società. Anche que­sti non sono solo pro­blemi della Gre­cia ma di tanti altri paesi europei.

Lei è anche vice­pre­si­dente del Par­la­mento euro­peo. Crede che una vit­to­ria di Syriza può avviare un cam­bia­mento in Europa tanto nei sin­goli paesi quando nelle isti­tu­zioni euro­pee? Durante la cam­pa­gna per le ele­zioni euro­pee abbiamo visto un gran­dis­simo inte­resse da parte dell’opinione pro­gres­si­sta euro­pea per la situa­zione in Gre­cia e la vit­to­ria di Syriza nelle ele­zioni euro­pee. Con Syriza è nata una grande spe­ranza e noi abbiamo il com­pito di far diven­tare que­sta spe­ranza una con­creta realtà per cam­biare le con­di­zioni di vita dei nostri cit­ta­dini. Come valu­tate la mobi­li­ta­zione di tanti ita­liani a favore di Syriza o per­lo­meno del diritto del popolo greco di sce­gliere libe­ra­mente il suo governo senza le pres­sioni e i ricatti?
Hanno visto giu­sto tutti quelli che hanno fir­mato l’appello «Cam­biar la Gre­cia - Cam­biare l’Europa», per­ché hanno una con­ce­zione glo­bale per la dina­mica della crisi e una visione soli­dale per risol­vere i pro­blemi den­tro l’Unione Euro­pea. Rap­pre­sen­tano tra l’altro una gran parte delle forze migliori dell’Italia. A molti di noi ha ono­rato il soste­gno dei cit­ta­dini ita­liani, di scrit­tori come Andrea Cami­leri o medici come Gino Strada. Que­sto ha molto signi­fi­cato per un paese in piena crisi uma­ni­ta­ria e con una parte della sua popo­la­zione senza nes­suna assi­stenza sani­ta­ria gra­zie alle poli­ti­che di auste­rità. Siamo con­tenti che tante per­sone che lavo­rano al mani­fe­sto, come la sua diret­trice, Norma Ran­geri, abbiano fir­mato l’appello. In Syriza, dall’inizio, abbiamo detto che non lasce­remo nes­suno solo nella crisi. Noi abbiamo il com­pito di unire tutto quanto viene diviso da que­ste dram­ma­ti­che poli­ti­che di auste­rità. E cer­chiamo di farlo nel modo migliore, con la soli­da­rietà a livello nazio­nale e a livello inter­na­zio­nale. Solo così potremo rico­struire l’Europa con i suoi popoli. ll lea­der di Pode­mos Pablo Igle­sias ha detto recen­te­mente, e ha ragione, che le ele­zioni in Spa­gna alla fine dell’anno par­ti­ranno dalla Grecia.

Cinque anni fa Alexis Tsipras militava in un partito che raccattava a stento il 4,9% dei consensi. Oggi la sinistra di Syriza è in testa a tutti i sondaggi. E la sinistra (che in Grecia c'è) fa paura al partito dei padroni. Domani anche in Italia?

La Repubblica, 30 dicembre 2014

«Oggi è una giornata storica. Il futuro è iniziato e grazie al voto dei greci presto manderemo in archivio la parola austerità». Cinque anni fa Alexis Tsipras militava in un partito che raccattava a stento il 4,9% dei consensi. Oggi la sinistra di Syriza è in testa a tutti i sondaggi con 3-6 punti di vantaggio su Nea Demokratia il centrodestra del premier Antonis Samaras. E il 40enne che vuole rivoltare l’Europa come un calzino ha lanciato ieri sera in un bagno di folla al teatro Keramikos il programma elettorale e le parole d’ordine che potrebbero cambiare davvero la storia della Grecia e del Vecchio continente.

«L’Europa deve mettersi in testa una cosa. Quello che conta in democrazia è il voto. E il futuro del mio paese lo decideranno i miei concittadini e non i falchi dell’euro », ha esordito. Compito dei greci è scegliere «tra nuovi tagli e la Troika o la speranza». Il 25 gennaio, visto da questa sala che trabocca di passione, è già diventato una sorta di catarsi. «Oggi è l’inizio della fine di chi ha portato la Grecia nel baratro - assicura l’enfant prodige della sinistra europea ai militanti del partito - . Il bello è che il premier e i politici che hanno causato la crisi si presentano come i salvatori della patria dandoci lezioni di europeismo. Ridicolo, visto che arrivano da chi (leggi Samaras, ndr .) è passato in una notte da paladino del fronte anti-Troika a miglior amico di Ue, Bce e Fmi». Applausi.

La strada, lo ammette anche Tsipras in camicia bianca quasi renziana, «non è facile». Prima c’è da vincere le elezioni («ribalteremo i pronostici, la gente non vuol buttare alle ortiche cinque anni di sacrifici», ha detto ieri il presidente del Consiglio). Poi, soprattutto, c’è da cercare alleati per formare un governo e raggiungere in tempi brevissimi - entro fine febbraio - un’intesa con la Troika per sbloccare nuovi aiuti ed evitare il default. «C’è una sola cosa non negoziabile - è il mantra del leader di Syriza - . Noi vogliamo uscire dal memorandum senza nuovi tagli lacrime e sangue». Washington, Bruxelles e Francoforte devono mettersi il cuore in pace. I due miliardi di austerity pretesi in cambio dell’ultima tranche da sette miliardi di prestito resteranno secondo i piani di Tsipras un sogno. Anzi: «Syriza implementerà da subito il programma di Salonicco ». Tradotto: un ritocco all’insù delle pensioni più basse e dello stipendio minimo, elettricità gratis alle famiglie meno abbienti e nuovi investimenti pubblici. In soldoni, una sconfessione degli accordi già presi con la Troika che per il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble «vanno rispettati ».

Il braccio di ferro si preannuncia durissimo. Anche perché Syriza chiederà alla Ue un taglio sostanzioso del debito greco, fumo negli occhi per i rigoristi del Nord. Tsipras però ha teso loro ieri anche qualche piccolo ramoscello d’ulivo: «Teniamo alla stabilità del sistema bancario in Grecia e in Europa- ha spiegato-. Non usciremo dall’euro, non prenderemo decisioni unilaterali sul debito e non toccheremo i risparmi dei privati». Lotta senza quartiere invece agli evasori. «E’ un assurdo che Samaras chieda il voto a un ceto medio che ha spinto nella povertà massacrandolo di tasse e di tagli agli stipendi mentre non ha torto un capello ai ricchi che non pagano le tasse».

Clima molto pre-elettorale. Aperitivo di una campagna che si preannuncia virulenta e polarizzata e dove «il concetto di Grexit, l’uscita di Atene dall’euro in caso di vittoria di Syriza, sarà utilizzato da Nea Demokratia come arma impropria di terrorismo mediatico».

Gli ambienti europei sono convinti che al momento di sedersi al tavolo delle trattative i toni saranno meno accesi. E che Tsipras, imbrigliato anche dalla necessità di trovare alleati per varare un governo, abbasserà dopo il 25 gennaio l’asticella delle sue pretese. Il leader carismatico della sinistra ellenica promette invece battaglia: «Il vento in Europa è cambiato. Podemos è in testa ai sondaggi in Spagna. Ho ricevuto messaggi di solidarietà da Italia, Francia, Bolivia e persino dalla Germania». E nessuno, è la sua speranza, avrà il cuore di buttare la Grecia fuori dall’euro. Il finale, nello stile dell’oratore, è pirotecnico. «Samaras e Venizelos saranno buttati fuori dalle stanze del potere - ha concluso Tsipras -. Ma li diffido dal far sparire documenti ed e-mail firmati in questi anni. Specie quelli con la Troika. Li vogliamo vedere tutti uno a uno». Ovazione. Dalla sala e dalle strade intorno al Keramikos, intasate di gente che non ha trovato posto nel teatro. La campagna elettorale è iniziata.

«La lingua disonesta è di chi non sa bene che fare, non ha le idee chiare, non vuole assumersi le responsabilità che gli competono, e lascia a chi deve leggere il compito di decifrare, di leggere fra le righe, di stiracchiare le parole e i concetti dalla parte che vuole». E se ne fa largo uso: le professioni, la politica.

Internazionale.it, 23 dicembre 2014 (m.p.r.)

Il governo, il ministro dell’istruzione, i collaboratori del ministro, i funzionari del ministero decidono che serve qualcuno che insegni agli insegnanti a insegnare meglio, perciò stanziano una certa quantità di denaro per formare questi formatori: il denaro verrà dato alle scuole (una per regione) che organizzeranno dei corsi ad hoc, e da questi corsi verranno fuori dei “docenti esperti” che poi dissemineranno la loro esperienza e le cognizioni acquisite nelle scuole del territorio.

A mio parere non è una buona idea, anzi è un’idea pessima, ma non è di questo che parliamo adesso.

Presa la decisione, stanziato il denaro, restano da curare i dettagli: informare i mezzi d’informazione, mettere la notizia sul sito del ministero, scrivere la circolare che verrà mandata ai dirigenti scolastici. C’è un ufficio per tutto.

L’ufficio che s’incarica di scrivere la circolare deve intanto dare un titolo, un oggetto, al documento che sta per produrre. Potrebbe essere qualcosa come "Formazione degli insegnanti-tutor", oppure "Piano per la formazione di insegnanti che aiutino i colleghi ad insegnare meglio", o persino "Piano per la formazione di personale docente che migliori la qualità dell’insegnamento nelle scuole". È probabile che all’estensore del documento vengano subito in mente formule del genere; ma con la stessa tempestività capisce che queste formule non vanno bene. Ci pensa su un attimo, quindi scrive:

«Piano di formazione del personale docente volto ad acquisire competenze per l’attuazione di interventi di miglioramento e adeguamento alle nuove esigenze dell’offerta formativa».

Risolto il problema dell’oggetto, l’estensore del documento non può passare subito all’informazione, alla cosa che vuole comunicare, non può dire qualcosa come “il ministero ha deciso che bisogna formare dei – diciamo – super-insegnanti che aiutino i colleghi meno esperti (o più demotivati) a far bene il loro lavoro, perciò ha stanziato la somma X, somma che verrà assegnata a scuole che presentino dei buoni progetti di formazione e aggiornamento”. Così è troppo veloce, ci vuole il preambolo. Il preambolo dura circa una pagina, e comincia così:

«I mutamenti verificatisi nell’ambito della società e nella scuola implicano che i docenti acquisiscano e sviluppino con continuità nuove conoscenze e competenze. Occorre perciò avviare e sostenere con apposite attività formative processi di crescita dei livelli ed ambiti di competenza coerenti con un profilo dinamico ed evolutivo della funzione professionale».

Si chiama coazione al dicolon, ed è tipica dei temi in classe. Lo scolaro vorrebbe scrivere “Ci vuole molta cura”, ma è irresistibilmente portato a scrivere “Ci vuole molta cura e molta attenzione”; vorrebbe limitarsi a dire che “Restano vari problemi aperti”, ma la coazione al dicolon lo trascina ad aggiungere “e varie questioni irrisolte”. Nelle cinque righe che ho citato, queste zeppe si presentano con la frequenza di un tic nervoso: «nell’ambito della società e nella scuola», «acquisiscano e sviluppino», «conoscenze e competenze», «avviare e sostenere», «processi ed ambiti», «dinamico ed evolutivo». L’aggiunta di senso è minima, impercettibile, a volte nulla («dinamico ed evolutivo»); e a volte in realtà ad essere aggiunta è una dose di nonsenso: il secondo periodo, da processi di crescita in poi, è quasi incomprensibile, perché la sintassi è slabbrata e i sostantivi astratti formano una nebulosa quasi impenetrabile: cosa sono i «processi di crescita dei livelli»?

I preamboli sono sempre difficili. Il documento migliora andando avanti, le cento righe successive sono meglio di queste prime cinque? Veramente no. Ciò che si potrebbe dire chiaramente in una parola continua a essere detto confusamente in due o in tre. Il dicolon regna sempre sovrano; spuntano qua e là aggettivi puramente decorativi («attivare a livello nazionale percorsi articolati di formazione in servizio…»), o pletorici («predisporre una trama di reciproca cooperazione»); la nebulosa dei termini astratti si fa ancora più fitta, la realtà arretra, gli studenti i banchi le lavagne svaniscono in una calda luce crepuscolare («una base comune di competenza sulla progettazione e sulla organizzazione degli interventi con l’acquisizione di tecniche avanzate e metodi didattici che siano al tempo stesso rigorosi, innovativi e coinvolgenti ed includa l’uso di strumenti pratici indispensabili per gestire aule efficaci»), gli elenchi si fanno onnicomprensivi e scriteriati: «[competenze] di grande importanza per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, l’arricchimento dell’offerta formativa, l’efficienza di tutta una serie di servizi decisivi per la scuola, gli studenti e le famiglie, la comunità di riferimento». Quando salta fuori l’espressione tutta una serie, la patacca non è lontana. E quando dallo sfondo indistinto dei possibili beneficiari si stacca «la comunità di riferimento», potrebbe anche scorrere del sangue.

Che cos’è questo? Non è esattamente quello che si chiama burocratese. Non è esattamente, come recita la definizione del vocabolario, «lingua pressoché incomprensibile perché infarcita di termini giuridici e inutili neologismi, tipica dell’amministrazione pubblica». Nel documento ministeriale c’è anche il burocratese – per esempio:

«Supportare i processi di valutazione e farsi carico del monitoraggio della loro corretta applicazione in base ai criteri definiti dal C.d.D». Anziché, parlando più chiaro: Aiutare nella valutazione e controllare che essa sia in linea con i criteri stabiliti dal collegio dei docenti.

Queste – i «processi di valutazione» al posto delle “valutazioni”, i “«farsi carico del monitoraggio» invece di “verificare”, le problematiche e le tematiche al posto dei problemi e dei temi – queste sono bruttezze abituali, sciocchezze abituali, che ormai non chiamano più l’attenzione: uno potrebbe persino dire che sono i ferri del mestiere, un idioletto non più dissonante e arbitrario degli idioletti di tanti altri ambiti professionali.

Non è neppure esattamente l’antilingua di cui ha parlato una volta Calvino. L’antilingua, secondo Calvino, era «l’italiano di chi non sa dire ho fatto ma deve dire ho effettuato», l’italiano del brigadiere dei carabinieri che, anziché scrivere così la deposizione di un teste: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone”, la scrive così: “Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile”.

La lingua della circolare ministeriale non è esattamente questo. Certo, anche qui c’è quella che Calvino definiva «la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se fiasco stufa carbone fossero parole oscene, come se andare trovare sapere indicassero azioni turpi». Ma la sostituzione di fiasco con prodotti vinicoli, di stufa con impianto termico, di carbone con combustibile, per quanto idiota, non impediva di venire a capo, alla fine, di un senso: ritradotto in un italiano “reale”, il messaggio passava.

Il messaggio della circolare ministeriale, invece, non passa. Non tanto perché la scuola viene chiamata servizio scolastico e la regione diventa l’ambito territoriale, quanto perché, nel suo insieme, la circolare ministeriale non sembra scritta in italiano, o meglio perché le parole che contiene sono certamente italiane, ma i rapporti tra le parole non sembrano produrre un senso compiuto: è come se la pressione delle parole – che sono troppe, e troppo pesanti – avesse fatto evaporare i nessi sintattici (che sono anche nessi logici). Il risultato sono locuzioni senza senso come «processi di crescita dei livelli» (”tentativi di migliorare la qualità degli insegnanti”?), o interi periodi che sembrano scritti estraendo a caso dal sacchetto delle parole astratte, come:

«Reti di istituzioni scolastiche ben organizzate, facendo ricorso ove possibile alle risorse interne, favoriscono la valorizzazione delle specificità professionali presenti nel territorio in funzione di supporto alle esigenze di rinnovamento e arricchimento dei curricoli, di iniziative progettuali, di miglioramento dell’azione educativa e dell’efficienza organizzativa del servizio scolastico».

O come:

«La formazione degli insegnanti contribuisce ad esempio, ad attuare significativi interventi nel campo di un orientamento che guardi alle connotazioni delle professioni, che possono trovare spazio con l’utilizzo delle quote di flessibilità praticabili dalle scuole autonome».

Qui c’è tutto: la punteggiatura messa a caso (la virgola dopo esempio, ma non prima), gli aggettivi esornativi («significativi interventi»), le perifrasi astruse (cosa sono mai le «connotazioni delle professioni»?), i tecnicismi inutili («quote di flessibilità praticabili»); quelli che mancano sono i nessi sintattici: a cosa si riferisce il che di «che possono trovare spazio», agli interventi, alle connotazioni o alle professioni? E cosa vuol dire che gli interventi (o le connotazioni, o le professioni) «possono trovare spazio con l’utilizzo»? Sarà “attraverso l’utilizzo” (vulgo: “adoperando”)? Ma cosa vuol dire, comunque? E una «quota di flessibilità», qualsiasi cosa sia, si «pratica»?

Pare che una volta, mentre era negli Stati Uniti, abbiano detto a Salvemini che stavano traducendo Vico in inglese. E pare che Salvemini abbia risposto: «L’inglese è una lingua onesta: di Vico non resterà niente». Intendendo – non importa se a ragione o a torto – che Vico aveva idee fumose, e che l’inglese è invece una lingua chiara e distinta, che le idee fumose le smaschera, le dissolve.

Chissà se è vero. Chissà se esiste davvero uno spirito delle lingue, che ne rende alcune oneste e altre disoneste, o se invece le lingue non c’entrano, e l’onestà e la disonestà stanno nella coscienza di chi le adopera. Ma l’etichetta è trovata. Né burocratese né antilingua: quella della circolare del Miur del 27/11/2014 (prot. 0017436) è la lingua disonesta di chi non sa bene che fare, non ha le idee chiare, non vuole assumersi le responsabilità che gli competono (e che il discorso chiaro impone a chi lo pronuncia), e lascia a chi deve leggere (e soprattutto: a chi deve obbedire) il compito di decifrare, di leggere fra le righe, di stiracchiare le parole e i concetti dalla parte che vuole, anzi di interpretare le parole e i concetti come s’interpreta il Talmud, cercando d’indovinare le intenzioni di un padrone invisibile e capriccioso, che dice e non dice, che lascia agli altri il compito di riempire con qualcosa lo spazio che lui ha lasciato vuoto non per liberalità ma per inabilità a parlar chiaro, ossia a decidere, e cioè per codardia.

La lingua disonesta. In un suo saggio sull’educazione, Neil Postman sosteneva che la cosa davvero importante era insegnare non tanto a essere intelligenti, quanto a non essere stupidi, e che quindi una buona didattica avrebbe dovuto mirare, più che a riempire la testa degli studenti di buone idee e buone abitudini, a togliere dalla testa degli studenti le idee e le abitudini dimostrabilmente sbagliate o sciocche. Se questo è vero, un’ora di lettura in classe della circolare Miur del 27/11/2014, un’ora di lingua disonesta, potrebbe giovare più di un’ora di Manzoni, e certamente più di tante regole astratte su come si scrive e non si scrive. (Nel frattempo, suggerirei alla ministra Giannini, che prima di essere ministra è una glottologa, di convocare la direttrice generale del ministero, dottoressa Maria Maddalena Novelli, e di rileggere insieme a lei piano piano, parola per parola, solecismo per solecismo, la circolare suddetta, che la dottoressa Novelli ha firmato, così come l’hanno dovuta leggere tutti i dirigenti scolastici d’Italia, una mattina di qualche settimana fa).

«L’economia è la volpe libera nel pollaio che priva della libertà le galline. La disuguaglianza è aumentata e un individuo povero è un individuo debole».

La Repubblica, 27 dicembre 2014

NEL 2003, Tzvetan Todorov stilò un inventario dei valori, una lista di buone intenzioni che l’Europa ha tentato di esportare nel mondo con la stessa risolutezza con cui ha esportato automobili, ortaggi o tecnologia dell’alta velocità. Non è che inventasse nulla, era tutto già più o meno scritto nelle nostre carte dei diritti, nelle nostre costituzioni: la libertà individuale, la razionalità, la laicità, la giustizia. Sembrava ovvio. Oggi, tuttavia, Todorov vede allontanarsi quei valori come quel punto all’orizzonte che sembrava raggiungibile e invece riappare di nuovo lontano. «Quando diciamo valore, non significa che tutti lo rispettino, è più un ideale che una realtà, un orizzonte verso il quale siamo diretti», dice. «In questo momento, tuttavia, questi valori sono minacciati».

Il filosofo bulgaro naturalizzato francese, Premio Principe delle Asturie per le Scienze Sociali nel 2008 e una delle voci più influenti del continente, colloca il punto di svolta, la curva in cui tutto è svanito, non nella crisi scoppiata nel 2008, ma nella caduta del Muro di Berlino e nella rottura, a partire da quel momento, dell’equilibrio tra le due forze che devono convivere in una democrazia: l’individuo e la comunità.

Vale ancora il suo inventario dei valori? La libertà dell’individuo, per esempio?
«La nostra democrazia liberale ha lasciato che l’economia non dipenda da alcun potere, che sia diretta solo dalle leggi del mercato, senza alcuna restrizione delle azioni degli individui e per questo la comunità soffre. L’economia è diventata indipendente e ribelle a qualsiasi potere politico, e la libertà che acquisiscono i più potenti è diventata la mancanza di libertà dei meno potenti. Il bene comune non è più difeso né tutelato, né se ne pretende il livello minimo indispensabile per la comunità. E la volpe libera nel pollaio priva della libertà le galline».

Oggi, quindi, l’individuo è più debole. Quale libertà gli rimane, allora?
«Paradossalmente è più debole, sì, perché i più potenti hanno di più, ma sono un piccolo gruppo, mentre la popolazione si impoverisce e la disuguaglianza è aumentata vertiginosamente. E gli individui poveri non sono liberi. Quando non è possibile trovare il modo di curare la tua malattia, quando non puoi vivere nella casa che avevi, perché non la puoi pagare, non sei più libero. Non puoi esercitare la libertà se non hai potere, e allora diventa solo una parola scritta sulla carta ».

Eppure, l’uguaglianza è un valore fondativo delle nostre democrazie. Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale?
«Se non si può rispettare, un contratto sociale non è una gran cosa. L’idea di uguaglianza è ancora presente alla base delle nostre leggi, ma non sempre viene rispettata. Il tuo voto conta quanto il mio ma l’obiettivo della democrazia non è il livellamento, quanto piuttosto offrire lo stesso punto di partenza a tutti in quanto uguali davanti alla legge, perché i soldi non comprano la legge. Ma questo principio non si rispetta. Guardate quello che hanno appena approvato i legislatori degli Stati Uniti: hanno moltiplicato per dieci i soldi che possono spendere per una campagna elettorale. Chi non ha soldi non potrà godere della libertà supplementare di spendere riservata a quelli che ce li hanno. È questo pericolo di una libertà eccessiva di pochi che impedisce l’uguaglianza di tutti».

Quando i diritti diventano una realtà formale, che cosa ci rimane?
«Ci rimane la possibilità di protestare, di rivolgerci alla giustizia. Non bisogna cambiare i principi, perché sono già scritti, ma abbiamo visto che ci sono molti modi per schivarli ed è necessario che il potere politico non capitoli di fronte alla potenza di quegli individui che infrangono il contratto sociale a loro favore. L’idea di resistenza mi sembra fondamentale nella vita democratica. Bisogna essere vigilanti, la stampa deve svolgere un ruolo sempre più importante nel denunciare le violazioni dei partiti, bisogna che la gente possa intervenire, ma so che questo richiede di essere sufficientemente vigilanti, coraggiosi e attivi ».

Lei parla della gente, ma il potere non deve cambiare? Che cosa possiamo aspettarci da poteri molto locali di fronte a una realtà globalizzata?
«Dobbiamo rafforzare le istanze europee, perché l’economia è globalizzata. L’Unione Europea è il più grande mercato del mondo, con 500 milioni di cittadini attivi e di consumatori con una grande tradizione nell’equilibrio tra difesa del bene comune e libertà individuale. Se facciamo vivere questa tradizione europea, se permettiamo che esistano organi più efficaci e attivi nell’Unione, potremo affrontare l’evasione fiscale, i paradisi fiscali e anche decisioni fondamentali come quelle sull’approvvigionamento energetico».

Ha fiducia nella sua leadership? In leader capaci di offrire l’impunità fiscale per attirare gli evasori nel loro territorio, come ha fatto Juncker in Lussemburgo?
«Se non ci fidiamo di loro devono prendersi le loro responsabilità. Il Parlamento, così come li ha eletti, dovrebbe poterli destituire ».

Nel 2008, definì i paesi occidentali come i «paesi della paura» rispetto ai paesi dell’appetito, del risentimento o dell’indecisione. Non siamo vittime di tutto questo?
«Le devastazioni causate dalla paura sono state immense, come abbiamo visto nel rapporto del Senato degli Stati Uniti sulle torture della Cia o nel caso Snowden, che ha rivelato che l’America controllava il telefono di Angela Merkel, come se lei potesse rappresentare una minaccia. L’idea che si possa legalizzare la tortura è uno shock per chi crede nel valore della democrazia e gli europei l’hanno accettata docilmente. Le rivelazioni di Snowden sono molto inquietanti per il principio che c’è dietro, il principio di uno Stato quasi totalitario che raccoglie tutte le informazioni possibili sui suoi cittadini, come facevano il Kgb o la Stasi in paesi totalitari come l’Urss o la Germania dell’Est. Allora si usava un sistema di delazioni anonime oggi divenuto arcaico, perché la tecnologia rende più facile raccogliere informazioni, ma in tutto questo le libertà individuali si riducono a una chimera ».

Quale sarà l’Europa dopo la crisi?
«Non so se la crisi finirà, sappiamo che le economie non obbediscono a spinte razionali, ci sono spinte di passione o di follia, spinte che sfidano tutti i pronostici, forse scomparirà nel 2015, o forse mai, o potremmo restarci dentro per altri dieci anni».

Traduzione di Luis E. Moriones © 2-014 Berna González Harbour ( Ediciones El País, Sl)

«Il presidente del Consiglio ha varato la sua «rivoluzione copernicana». In realtà il nuovo contratto "a tutele crescenti" cancella l’articolo 18 e, allargando la normativa ai licenziamenti collettivi, apre la strada alle discriminazioni. Le imprese potranno disfarsi dei lavoratori - sotto ricatto continuo - in ogni momeno» Ma non è detta l'ultima parola.

Il manifesto, 27 dicembre 2014

L’emanazione del decreto attua­tivo del Jobs act, che eli­mina, in sostanza, la tutela dell’articolo 18 dello Sta­tuto per i futuri con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato non chiude affatto la par­tita, ma è solo la pre­messa del con­fronto vero che avrà per pro­ta­go­ni­sti i lavo­ra­tori, nelle piazze e, se neces­sa­rio, alle urne in un refe­ren­dum abrogativo.

Non è inu­tile, comun­que, ma anzi assai istrut­tivo, riper­corre alcuni momenti salienti della vicenda e le con­sa­pe­vo­lezze che ha con­sen­tito di acqui­sire. In primo luogo, infatti, nes­suno si azzarda più a defi­nire «di sini­stra» il governo Renzi-Poletti che si è dimo­strato tanto vio­lento e pre­va­ri­ca­tore nella sua azione con­tro i diritti fon­da­men­tali dei lavo­ra­tori, quanto falso e misti­fi­cante nell’uso del suo stra­po­tere media­tico.

In cosa con­si­ste, infatti, la «rivo­lu­zione coper­ni­cana» di cui stra­parla Mat­teo Renzi a pro­po­sito dei con­te­nuti del decreto attua­tivo? Pura­mente e sem­pli­ce­mente nel con­sen­tire al datore di lavoro che voglia per qual­siasi motivo (anche il più igno­bile) sba­raz­zarsi di un lavo­ra­tore di «inven­tarsi» una ine­si­stente ragione eco­no­mico pro­dut­tiva per pro­ce­dere al licen­zia­mento, e di farlo senza timore che il suo carat­tere pre­te­stuoso venga sma­sche­rato in giu­di­zio per­ché anche in tal caso gli baste­rebbe pagare la clas­sica «mul­ta­rella» (per ogni anno di ser­vi­zio due men­si­lità con il mas­simo di 24) per lasciare comun­que il lavo­ra­tore sulla strada nella con­di­zione dispe­rata discen­dente dalla disoc­cu­pa­zione di massa.

Tutto il resto del decreto attua­tivo, com­presa la dibat­tuta que­stione della par­ziale della rein­te­gra nel caso di licen­zia­menti disci­pli­nari ille­git­timi, è sol­tanto fumo negli occhi, per­ché tutti i datori imboc­che­ranno, invece, la como­dis­sima strada del «falso» motivo eco­no­mico pro­dut­tivo. Il «pro­gres­si­sta» Renzi e il «comu­ni­sta» Poletti e tutti i loro acco­liti dovranno spie­gare un giorno che cosa vi sia di moderno, di social­mente utile, di pro­gres­sivo, di «coper­ni­cano» in que­sta sfac­ciata e disgu­stosa ingiu­sti­zia che ripu­gna prima ancora che al diritto al comune senso etico.

Il secondo inse­gna­mento della vicenda ha riguar­dato il pre­sen­tarsi, ancora una volta del clas­sico «tra­di­mento dei chie­rici» per tale inten­dendo i tec­nici, i tec­nici poli­tici e i poli­tici puri che avreb­bero dovuto garan­tire i diritti fon­da­men­tali dei lavo­ra­tori assi­cu­rati dall’articolo 18 con la sua potente valenza anti ricat­ta­to­ria. Da una parte, dun­que, vi sono stati i tec­nici poli­tici che hanno lavo­rato inten­sa­mente alla for­mu­la­zione della legge delega e dei decreti attua­tivi ma di essi non mette conto dire più di tanto: si tratta di un grup­petto di anti­chi tran­sfu­ghi del movi­mento sin­da­cale che con l’accanimento tipico di chi «è pas­sato dall’altra parte» opera ormai da decenni — certo non gra­tui­ta­mente — per la siste­ma­tica demo­li­zione di ogni tutela dei lavo­ra­tori. Ma dall’altra parte pur­troppo vi sono stati poli­tici ossia i par­la­men­tari della cosid­detta «sini­stra del Pd», a parole del tutto con­trari al Jobs act, ma che nel con­creto hanno col­la­bo­rato in modo asso­lu­ta­mente deci­sivo alla sua ema­na­zione, e lo hanno fatto con piena con­sa­pe­vo­lezza. Prima vi è stato il «sal­va­gente» offerto al governo dal pre­si­dente della Com­mis­sione lavoro della Camera e con­si­stito nell’apparente miglio­ra­mento, con alcune pre­ci­sa­zioni, del pro­getto di delega che era «in bianco»: il vero scopo è stato quindi quello di sal­vare il pro­getto di delega cer­cando di ren­derlo com­pa­ti­bile con l’articolo 76 Cost. e di que­sto abbiamo detto sulle colonne del mani­fe­sto. Poi vi è stato, in data 3 dicem­bre 2014, l’episodio depri­mente e squal­lido che mai potrà essere dimen­ti­cato. Sem­brava che il destino avesse voluto pre­pa­rare un momento della verità: il testo del Jobs Act modi­fi­cato alla Camera per sal­varlo dall’incostituzionalità era con­se­guen­te­mente tor­nato al Senato, dove però la mag­gio­ranza del governo era assai più sot­tile. E al Senato vi erano 27 sena­tori del Pd che si erano dichia­rati con­trari all’eliminazione dell’articolo 18 ma che poi, al momento di deci­dere, hanno invece appro­vato il testo legi­sla­tivo giu­sti­fi­can­dosi con il clas­sico docu­mento «salva-anima» sulla neces­sità di non pro­vo­care crisi di governo. Ebbene, il risul­tato della vota­zione li inchioda per sem­pre alla loro respon­sa­bi­lità: vi sono stati 166 voti favo­re­voli, 112 con­trati e un aste­nuto. Se i 27 «amici» dei lavo­ra­tori e dei loro diritti aves­sero coe­ren­te­mente votato con­tro il pro­getto il risul­tato sarebbe stato di 139 favo­re­voli, 139 con­trari e un aste­nuto e poi­ché l’astensione al Senato conta voto nega­tivo il Jobs Act sarebbe andato in sof­fitta una volta per tutte! Il colmo dell’ipocrisia i 27 sena­tori lo hanno poi rag­giunto nella chiu­sura di quel docu­mento di giu­sti­fi­ca­zione pro­met­tendo mas­sima vigi­lanza in sede di for­mu­la­zione dei decreti attua­tivi: enun­cia­zione ridi­cola, visto che come tutti sanno, i decreti attua­tivi il legi­sla­tore dele­gato «se li fa da solo» senza il con­corso del Parlamento.

Accanto a que­ste brut­ture, che è tri­ste ma giu­sto ricor­dare, vi sono stati, però, impor­tanti fatti posi­tivi: l’ottima riu­scita della mani­fe­sta­zioni del 25 otto­bre e del 12 dicem­bre e l’affiancamento quanto mai impor­tante, in occa­sione di quest’ultimo evento, della Uil alla Cgil. Ci sono, allora, tutte le pre­messe per un lieto fine: infatti per i con­tratti di lavoro già in essere non cam­bia ancora nulla e l’articolo 18 intanto rimane, rein­te­gra com­presa, e occor­rerà un bel po’ di tempo per­ché i nuovi con­tratti, detti «a tutele cre­scenti» ma in realtà privi di tutela pren­dano piede. Nel frat­tempo sarà allora pos­si­bile sot­to­porre tem­pe­sti­va­mente il decreto attua­tivo ad un refe­ren­dum abro­ga­tivo, e cioè al giu­di­zio popo­lare e di quei lavo­ra­tori che di con­ti­nuo Mat­teo Renzi cerca di ledere e insieme di ingan­nare. La via del refe­ren­dum abro­ga­tivo appare quanto mai sem­plice e frut­tuosa per­ché in sostanza il decreto attua­tivo intro­duce per i nuovi con­tratti un tipo di san­zione dei licen­zia­menti ingiu­sti­fi­cati diverso e se stante rispetto a quello degli altri rap­porti: per­tanto una volta abro­gato per refe­ren­dum il decreto la san­zione dell’articolo 18 torna ad essere gene­rale per rap­porti vec­chi e nuovi secondo il prin­ci­pio di «autoim­ple­men­ta­zione» dell’ordinamento. Chi scrive si per­mette di riven­di­care l’onore di poter per­so­nal­mente redi­gere i que­siti referendari

“Molti poliziotti temono i neri e allo stesso tempo li vedono come un facile bersaglio”scrive la scrittrice afro-americana premio Nobel per la letteratura nel ’93. “Le nuove generazioni però sono diverse. Le proteste diffuse lo dimostrano”.

La Repubblica, 27 dicembre 2014

VIVIAMO tempi non facili. Quindi cercherò di darvi semplicemente il mio punto di vista su quello che è lo stato delle cose, oggi, qui negli Stati Uniti. E voglio partire da questo: l’America è un paese inondato di armi. Dove bambini di appena 9 anni vengono portati nei parchi giochi a sparare con armi vere per divertimento; dove le cosiddette leggi “ stand your ground for selfdefense ” (che consentono a una persona armata di sparare a un presunto aggressore in base alla mera percezione di pericolo per la sua incolumità) permettono a chiunque di uccidere chi si trovi nella sua proprietà; dove le leggi dette “ open carry” permettono ai cittadini in molti Stati di portare armi nei locali pubblici: ristoranti, teatri, perfino campus universitari. Senza dimenticare poi che la National Rifle Association e i produttori di armi sostengono economicamente molti politici. In una cultura delle armi e del grilletto facile come questa, quindi, il razzismo violento è un’ovvia conseguenza.

Al razzismo si associa la paura: molti poliziotti (non la maggioranza, ma molti) hanno paura. Temono i neri e allo stesso tempo li vedono quindi come un facile bersaglio, sia per mancanza di formazione professionale sia perché sono profondamente razzisti.

La situazione è aggravata dalle scelte di certi media che qui in America amano le storie di violenza, soprattutto quando si tratta di persone di colore. A riprova di questo voglio fare un esempio, ricordando che non vi fu alcuna levata di scudi quando qualche mese fa alcuni bianchi minacciarono di uccidere la polizia al Bundy Ranch. Cliven Bundy, il proprietario del ranch, era un bianco che rifiutava di pagare le tasse e aveva sollevato una protesta armata, minacciando la secessione e la rivolta contro gli Stati Uniti. Fino a quando il governo, che in questa occasione non sparò neanche un lacrimogeno, si ritirò dal terreno conteso. In quell’occasione chi aveva sparato contro la polizia non è stato nemmeno arrestato. E potrei fare un numero impressionante di esempi discriminatori di questo tipo.

Il vero nodo di tutta la questione rimane sempre lo stesso: il facile profitto che si trae dal razzismo. È stato una fonte di guadagno fin dalle sue origini: con lo sfruttamento gratuito e permanente degli schiavi; con le leggi sul “vagabondaggio”, che permettevano la cattura di qualsiasi persona di colore fuori dalla sua casa per costringerla ai lavori forzati; riempiendo a proprio vantaggio le prigioni a gestione privata incarcerando giovani neri per reati per i quali nessun bianco andrebbe mai in galera; con la repressione degli elettori nelle comunità dove i neri sono in maggioranza. Senza dimenticare il deliberato incitamento al razzismo da parte dei ricchi, così che i bianchi poveri si possano sentire superiori agli altri e non pensino a rivolgere la loro rabbia contro la classe che li sfrutta e li inganna.

In questi tempi cattivi, alcuni vorrebbero che il presidente Obama facesse di più. Ma io non credo che il presidente avrebbe dovuto “fare di più”. Che cosa poi? Barack Obama è il presidente di tutti, non il presidente dei neri. Non dimentichiamo che sua madre e chi lo ha cresciuto erano bianchi. Spesso i giudizi e le reazioni politiche, sono il frutto della piaggeria e del desiderio di apparire in tv, per mostrare quanto “si conta”: è il caso dell’ex sindaco Giuliani, che ora si mostra come il protettore dei poliziotti, ma che a suo tempo è stato odiato da loro come tutti i sindaci di New York, compreso l’attuale sindaco de Blasio, che oggi i sindacati di polizia accusano, a torto, di avere «le mani sporche di sangue ».

Nonostante tutto, comunque, la mia speranza è più forte che mai, grazie alle nuove generazioni. Ho assistito a grandi cambiamenti negli anni in cui ho insegnato a Princeton: ho visto adolescenti e ventenni, sconvolti e disgustati dal razzismo sfacciato. Vedo che nelle manifestazioni che si svolgono spontaneamente in tutto il paese ci sono tantissimi giovani: neri, bianchi, ispanici. Non bisogna credere ai media che mostrano proteste violente; la maggior parte di esse non lo è; i manifestanti sono pacifici, sono le loro richieste a essere forti e decise. Naturalmente, ci sono gli outsider che si insinuano nelle manifestazioni e accendono focolai di violenza; ma questo è sempre successo. Dall’altra parte vediamo proteste diverse: come quella di medici, infermieri e tirocinanti che in diversi ospedali d’America si sono sdraiati in massa per terra nei loro camici bianchi per quello che viene chiamato un “die-in”, una protesta pacifica dove ci si finge morti per denunciare il fatto che la polizia non viene mai chiamata a prendersi la responsabilità delle proprie azioni. È questo il tenore della maggior parte delle manifestazioni: ma la stampa tende a ignorarlo.

Davanti a tanta partecipazione, quella di migliaia di americani ovunque e senza distinzioni di classe, sono fiduciosa e ottimista. E nutro l’incrollabile speranza che le cose cambieranno in meglio, con il tempo e con le generazioni che verranno. Ne sono sicura.

(Testo raccolto da Anna Lombardi. Traduzione di Anna Pastore)

In Italia i poveri sono più poveri della media europea: al 40% della popolazione va il 19,8% del reddito complessivo contro una media del 21,2%» Ma in compenso i ricchi diventano sempre più ricchi. Il manifesto, 24 dicembre 2014

Dai recenti dati dell’Ocse e del Social Insti­tute Moni­tor Europe in tema di dise­guale distri­bu­zione del red­dito (il mani­fe­sto del 17 dicem­bre), risulta con­fu­tato il prin­ci­pale mito ideo­lo­gico dei libe­ri­smi vec­chi e nuovi, l’idea secondo cui una mag­giore dise­gua­glianza offri­rebbe ai più ric­chi cospi­cue oppor­tu­nità d’investimento e quindi ali­men­te­rebbe la cre­scita, con bene­fi­cio di tutti.

Il ragio­na­mento (sul quale fanno leva da sem­pre le cam­pa­gne della destra neo­li­be­rale e della stessa sini­stra social-liberista) pro­spetta uno sce­na­rio nel quale, favo­rendo la cre­scita, la tem­po­ra­nea rinun­cia alla giu­sti­zia sociale garan­ti­rebbe, poi, giu­sti­zia e benes­sere, poi­ché ben pre­sto il mag­gior benes­sere «sgoc­cio­le­rebbe» anche sui più poveri. Pec­cato che ogni evi­denza – e la dram­ma­tica crisi nella quale ci dibat­tiamo – mostra il con­tra­rio.

Non solo la dise­gua­glianza tende ad autoa­li­men­tarsi radi­ca­liz­zando le spe­re­qua­zioni, ma mar­cia altresì di pari passo con la sta­gna­zione. L’ingiustizia, insomma, avvan­tag­gia sol­tanto i più ric­chi, men­tre rovina la stra­grande mag­gio­ranza della popo­la­zione. E il libe­ri­smo si con­ferma per quel che è: un’arma letale, oltre che sul piano etico e della coe­sione sociale, anche sul ter­reno economico.
Ma i dati Ocse e Sime offrono anche l’opportunità di riflet­tere su talune spe­ci­fi­cità del caso ita­liano, per rica­varne una rap­pre­sen­ta­zione sin­te­tica degna di atten­zione. La società ita­liana è sem­pre più dise­guale. Que­sto è un trend euro­peo e glo­bale, ma in Ita­lia le spe­re­qua­zioni appa­iono par­ti­co­lar­mente forti. Per citare il dato più signi­fi­ca­tivo, al 40% più povero della popo­la­zione ita­liana va il 19,8% del red­dito com­ples­sivo, con­tro una media euro­pea del 21,2. I poveri in Ita­lia sono dun­que più poveri rispetto alla media. Non bastasse, ciò che a que­sto punto si evita accu­ra­ta­mente di aggiun­gere è che anche que­sta meda­glia ha, come tutte, il suo rovescio.

Se i poveri sono più poveri, i ric­chi sono sem­pre più ric­chi, e molto pro­ba­bil­mente tra i due feno­meni sus­si­ste qual­che con­nes­sione. Basti anche qui il dato più rile­vante: la ric­chezza netta delle fami­glie ita­liane aveva nel 2012 un valore pari a 8 volte il valore del red­dito dispo­ni­bile, men­tre nel 2001 il rap­porto era di “appena” il 6,7. Men­tre il pub­blico si impo­ve­ri­sce e si inde­bita, il pri­vato regi­stra dun­que un signi­fi­ca­tivo aumento delle pro­prie sostanze.

Il dato sul quale si pone sem­pre l’accento per avva­lo­rare l’impellente neces­sità delle cosid­dette riforme strut­tu­rali è l’ingente debito pub­blico, supe­riore ai 2.200 miliardi. Nes­suno mai ricorda invece che la ric­chezza netta delle fami­glie ita­liane (le meno inde­bi­tate d’Europa) supera (dati del 2013) gli 8.700 miliardi di euro.

Il che sarebbe un bene, inten­dia­moci. Se que­sta enorme ric­chezza pri­vata non fosse distri­buita in modo disa­stro­sa­mente ini­quo (lo è in modo molto più spe­re­quato del red­dito: l’indice che misura la dise­gua­glianza della sua distri­bu­zione è pari a 62,3%, con­tro il 33,3% dell’indice di con­cen­tra­zione dei red­diti, onde il 10% delle fami­glie più ric­che pos­siede oltre il 45% della ric­chezza). Se non con­vi­vesse con una povertà dif­fusa e dram­ma­tica. Se, pro­prio in forza della sua col­lo­ca­zione, non con­cor­resse al tempo stesso al declino del paese e al suo cre­scente indebitamento.

Anche a pro­po­sito del debito pub­blico – a causa del quale l’Italia è un sor­ve­gliato spe­ciale sui mer­cati finan­ziari e in Europa, ed è costretta a una con­ti­nua ridu­zione di piani di spesa ormai incom­pa­ti­bili con la manu­ten­zione del wel­fare – si impone un chia­ri­mento, prima di trarre qual­che rapida con­clu­sione.

Si sa – anche se si suole sor­vo­lare – che il debito schizza in alto, irre­ver­si­bil­mente, quando, a par­tire dai primi anni Ottanta, governi e Banca d’Italia deci­dono di tra­sfor­mare il grande capi­tale pri­vato in pre­sta­tore, esen­tan­dolo di fatto dall’obbligo fiscale di con­tri­buire in misura ade­guata alla spesa pub­blica, anche attra­verso il cosid­detto divor­zio tra Banca d’Italia e Tesoro. Il fatto che il debito ita­liano si rad­doppi tra il 1981 e il ’95 (pas­sando dal 58 al 121% del pil) non è la con­se­guenza di una spesa pub­blica abnorme e meri­te­vole di tagli dra­co­niani, ma della scelta tutta poli­tica di remu­ne­rare il capi­tale pri­vato sol­le­van­dolo dalla gran parte degli oneri fiscali da una parte e limi­tando la cre­scita dei salari reali dall’altra.

Anche que­sto intrec­cio per­verso tra debito pub­blico ed eva­sione fiscale ha molto a che fare con la dise­gua­glianza, in quanto il mec­ca­ni­smo di remu­ne­ra­zione del debito opera nel senso di un con­ti­nuo e cre­scente spo­sta­mento di red­dito dal pub­blico al pri­vato, e in par­ti­co­lare alla quota più ricca della popo­la­zione, attra­verso il paga­mento degli interessi.

Il risul­tato del pro­cesso è pla­stico, nella sua para­dos­sa­lità. Da debi­tore insol­vente (da anni in l’Italia l’economia som­mersa è sti­mata rap­pre­sen­tare in modo sta­bile più del 15% del Pil), il capi­tale si tra­sforma magi­ca­mente in cre­di­tore, e costringe lo Stato a una spesa per inte­ressi che dal 1992 è l’unica causa della cre­scita dell’indebitamento pub­blico (e che, nel giro di trent’anni, ha com­por­tato un esborso di oltre 2.100 miliardi, pari quasi all’intero ammon­tare del debito). Anche così si spiega il fatto che la pro­prietà del debito sia oggi per il 50% in mano ai pri­vati ita­liani (fami­glie, ban­che e altre isti­tu­zioni finan­zia­rie). Il che, se da una parte riduce la dipen­denza del paese dagli attac­chi spe­cu­la­tivi, dall’altra con­corre ad accre­scere la dise­gua­glianza tra chi prende gli inte­ressi e chi paga le tasse.
In que­sto qua­dro l’evasione fiscale (circa 140 miliardi annui) ali­menta un ulte­riore dia­bo­lico cir­colo vizioso poi­ché, oltre a essere una delle prin­ci­pali cause dell’alto debito pub­blico, rende anch’essa sem­pre più dise­guale la distri­bu­zione del red­dito, facendo sì che il pre­lievo fiscale col­pi­sca soprat­tutto il lavoro dipen­dente (sul quale in Ita­lia grava la più alta ali­quota impli­cita di tas­sa­zione di tutta la Ue).

Ora pro­viamo a rileg­gere que­ste risul­tanze den­tro un qua­dro uni­ta­rio e sin­te­tico. Che cosa ne sor­ti­sce? Della cre­scente dise­gua­glianza e ini­quità del sistema si è detto: la pola­riz­za­zione vede con­trap­po­sti set­tori sociali poveri (sem­pre più vasti e più poveri) a set­tori ric­chi (pro­por­zio­nal­mente sem­pre più ric­chi). Se a ciò si aggiunge che tale mec­ca­ni­smo di ripartizione/riproduzione della ric­chezza nazio­nale fun­ziona in pre­senza di una per­cen­tuale pato­lo­gica di evasione/elusione fiscale e di un volume di cor­ru­zione sti­mato in circa 60 miliardi annui, ci pare se ne possa sin­te­ti­ca­mente con­clu­dere che, nella sua odierna con­fi­gu­ra­zione, l’economia ita­liana – il cosid­detto sistema-paese – non è sol­tanto un mec­ca­ni­smo fon­dato su ingiu­sti­zie eco­no­mi­ca­mente rovi­nose, ma anche un sistema di domi­nio lar­ga­mente basato sull’illegalità.

Lascian­dosi andare per l’ennesima volta, in que­sti giorni, a ester­na­zioni poli­ti­ca­mente impe­gna­tive a soste­gno del governo in carica, il pre­si­dente della Repub­blica ha pero­rato la causa della sta­bi­lità, rite­nendo di potere così moti­vare, alla vigi­lia delle dimis­sioni, le pro­prie scelte e il pro­prio inter­ven­ti­smo, a tanti auto­re­voli osser­va­tori apparso spesso costi­tu­zio­nal­mente discu­ti­bile. Sem­bra un po’ il Sordi della “Grande guerra”, che esor­tava a «fare i buoni» i sol­dati che, in fila, atten­de­vano di essere spe­diti al fronte. Qua­lora potes­simo per­met­terci di rivol­ger­gli una domanda, gli chie­de­remmo se la sta­bi­lità alla quale si è rife­rito riguardi per caso anche que­sto stato di cose

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