Il Sole 24Ore, 11gennaio 2015
La portata e il significato dei tragici fatti dì sangue di Parigi, nonostante le divergenti e contraddittorie interpretazioni che provengono da ogni dove, meritano una più meditata riflessione di quanto oggi non sia ancora possibile fare. Nel cuore dell'Europa pare essere ritornato improvvisamente quello "stato di natura" descritto da Thomas Hobbes, una guerra di tutti contro tutti, e comunque una situazione di insicurezza generale. Considerare questo fenomeno alla stregua di un puro atto terroristico è sicuramente riduttivo.
Il contesto politico nel quale questa sanguinosa battaglia ha avuto luogo suggerisce la strisciante esistenza di un conflitto mondiale, reso ancor più dirompente dalla globalizzazione economica, con le sue profonde disuguaglianze. L'ideologia dominante che si è affacciata al nuovo millennio ha via via ridotto il potere e la sovranità degli Stati, scardinando alcuni principi delle democrazie liberali.
Gli Stati stessi, da fonti del diritto sono diventati meri esecutori di una governance tanto generica quanto vaga. Fu già Hegel a rilevare che quando il diritto privato ha il completo sopravvento sul diritto pubblico e lo Stato arretra di fronte agli interessi dei privati, la decadenza dei sistemi politici minaccia le stesse basi della civiltà. La sostituzione della governance alla norma giuridica produce un sistema mondiale privo di ordine e di coerenza. È quel che è avvenuto anche nell'ambito del diritto internazionale. Dove le grandi istituzioni, nate nel secondo dopoguerra, come le Nazioni Unite, atte a garantire un diritto cosmopolitico internazionale di piena effettività diretto ad assicurare la pace nel mondo, sono state sostituite da varie organizzazioni di natura plurilaterale.
Tra queste, quella di maggior rilievo, dominata dagli Stati Uniti, è la Nato, che, come ha sostenuto giustamente John Mearsheimer sull'ultimo numero di
Foreign Affairs, è certamente, a causa del suo allargamento ai vari Stati confinanti con la Russia, motivo di nuovo conflitto, alla base della reazione in Ucraina e dell'annessione della Crimea da parte di Putin, in preventiva difesa dell'imperialismo russo. Fenomeno di guerra generalizzata che, pur completamente diverso dai fatti di Parigi, si inserisce nella medesima disordinata cornice.
Ma il caso più clamoroso è la subalternità degli Stati, soprattutto in Europa, fortemente indebitati, la cui operatività di politica economica, completamente privatizzata, è costretta ad adottare misure di austerità soggette ai voleri dei creditori e dei loro diritti contrattuali, di cui si fanno interpreti l'opacità dei mercati ed i suoi protagonisti, dagli hedge funds; alle società di rating, ai fondi sovrani, nel marasma dei loro conflitti di interessi.
Ed è così che alla certezza del diritto si sostituisce l'incertezza della governance, dove i protagonisti del capitalismo finanziario sono molto spesso occulti o privi di qualunque giuridica legittimazione internazionale, come nel caso della c.d. troika, che detta le regole agli Stati o impone norme costituzionali contrarie ai diritti fondamentali, quale il vincolo al pareggio di bilancio, introdotto nel 2012 nella Costituzione italiana con la sostituzione dell'art. 8I.
Che lo Stato sia pericolosamente diventato il mediatore di interessi privatistici l'aveva già rilevato con straordinaria lucidità Norberto Bobbio. Ma il fenomeno si è via via allargato, tant'è che recentemente, in democrazie avanzate come quella americana, le interpretazioni dei diritti costituzionali sono state manipolate a favore della governance privata del capitalismo finanziario. La sentenza della Corte Suprema del 2010 Citizen United v. FEC, sulla quale mi sono già più volte intrattenuto, ha parificato la sovranità del popolo alle corporations e la libertà di espressione (freedom of speech) al denaro (money), togliendo ogni limite ai finanziamenti alla politica da parte delle grandi società. I più autorevoli commentatori hanno dichiarato che questo è stato un modo per rendere legale la corruzione polìtica.
Non diverso comportamento è stato seguito in molteplici casi dalla Corte di Giustizia europea, nel difficile bilanciamento tra i principi fondamentali dell'Unione e le misure restrittive di natura finanziaria e di risanamento economico, come chiaramente documentato il costituzionalista Gaetano Azzariti. Altre volte abbiamo stigmatizzato la pericolosità delle misure economiche alternative alla sanzione penale. Questa justice by deal, questa sanzione attraverso la contrattazione è un indice che anche il potere giudiziario, come quello politico, può diventare come è stato più volte denunciato dal New York Times, uno strumento dell'ideologia del capitalismo finanziario.
L'arretramento degli Stati e del diritto a favore di interessi particolaristici finisce per conferire una assurda attrattiva ai fatti di Parigi, che si inquadrano invece in una violenta barbarie, alla quale non può riconoscersi alcun valore universale. La brutalità del fanatismo religioso nasconde invece i veri scopi di dominio di territori e di risorse economiche, come si è verificato in Iraq e in Siria. L'attuale erratico andamento del prezzo del petrolio, che sta sconvolgendo tutte le previsioni economiche, riguardanti anche i paesi c.d. emergenti, ne è l'indice più evidente. Attaccare i principi fondamentali della libertà di stampa e di opinione invocando esclusivamente idolatrie religiose con il miraggio di nuovi Stati fondamentalisti cela le finalità di carattere economico che altrimenti non potrebbero certo qualificarsi come valori universali.
Due conclusioni mi paiono a questo punto certe.
La prima è che l'affermazione dei diritti umani -nucleo centrale della civiltà occidentale -deve prevalere sulla governance del capitalismo neoliberista e sul simulato riferimento scorretto al diritto di libertà, con cui è stato giustificato ogni tipo di sopraffazione, e quindi di violazione del diritto alla dignità dell'uomo. Purtroppo l'ideologia di base del neoliberismo ha trascurato un principio fondamentale; già Bentham aveva affermato che compito del diritto e dello Stato era proprio indicare i limiti all'esercizio delle libertà, discorso poi ripreso fino a Isaiah Berlin col concetto di libertà negative. Alla base di ogni programma politico futuro che si ponga come obiettivo l'uscita dalla crisi, soprattutto in Europa, si deve tener conto che senza uguaglianza non c'è libertà, e quindi se i principi dell'economia portano alla creazione continua di diseguaglianze e di smisurate ricchezze, soprattutto a livello globale, i conflitti non potranno mai esser risolti. E i ritorni allo "stato di natura" previsto da Thomas Hobbes saranno ancora più frequenti.
La seconda conclusione che ne deriva è il fallimento delle politiche di "austerità espansiva", che devono porre fine anche all'ideologia del sopravvento della governance economica sul diritto. Il monito a «non sovrastimare l'importanza del problema economico, o sacrificare alle sue presunte necessità altre materie di maggiore o più duraturo significato» era già stato espresso da Keynes nel 1931; ovviamente egli si riferiva ai diritti fondamentali.

Barbara Spinelli al ministro Padoan: le norme antievasione favoriscono Berlusconi
Comunicato stampa, Strasburgo, 12 dicembre 2015
Barbara Spinelli è intervenuta nella riunione straordinaria della Commissione per i problemi economici e monetari, rivolgendosi al ministro Pier Carlo Padoan, ex Presidente ECOFN e ministro italiano dell'Economia e delle Finanze, presente a Strasburgo per un bilancio della presidenza italiana dell’Ue. «Mi soffermo sulle recenti misure di politica economica del suo governo, e più in particolare sull’indulgenza mostrata verso corruzione ed evasione, nonostante le ottime misure europee adottate durante il semestre di presidenza», ha detto la deputata del GUE-NGL. «Non elenco qui tutti gli articoli dell’ultima legge di bilancio che depenalizzano i reati fiscali. Ricordo solo alcuni calcoli che sono stati fatti: ogni anno la corruzione comporta in Italia una riduzione dello 0,14 per cento del PL. E dico che delle norme sull’evasione connesse alla legge di bilancio lei è responsabile. Anche di quella che avvantaggia condannati di frode fiscale come Silvio Berlusconi, e che è stata per il momento rinviata. Lo è in ambedue i casi, per quanto concerne la frode fiscale: sia che lei fosse d’accordo con queste norme, sia che non ne sapesse nulla (ipotesi ancora più grave)».
Il ministro Padoan ha respinto l’accusa che le misure contenute nel pacchetto antievasione intendessero favorire un specifico individuo.
«Se vincerà Syriza, gli ha inoltre domandato Barbara Spinelli, evocando lo scenario del prossimo voto in Grecia, l’Unione si troverà alle prese con una domanda di rivoluzionamento dell’austerità. Verranno chiesti una parziale europeizzazione del debito, una Conferenza europea simile a quella che condonò i debiti di guerra tedeschi nel ‘53, e un New Deal, con massicci investimenti pubblici finanziati dalla Banca europea per gli investimenti e dal Fondo europeo per gli investimenti, tramite emissione di eurobond, e acquisto simultaneo da parte della BCE di titoli pubblici con denaro di nuova emissione».
Anche su questo punto il ministro è stato evasivo: «Lei mi chiede un commento su qualcosa che ancora non c’è, e quindi non mi è possibile darle una risposta»
La Repubblica, 12 gennaio 2015 (m.p.r.)
Fuori, le ambulanze in coda. Dentro, le barelle nei corridoi, i medici e gli infermieri che corrono da una parte all’altra, i pazienti che si lamentano. Non è un fatto di latitudine, per una volta. Torino e Genova, Ancona e Roma, Napoli e Lecce, non fa differenza: i pronto soccorso in questi giorni sono in crisi ovunque. Arrivano tanti anziani con uno stato di salute già precario, indebolito dal freddo e dall’influenza e nei reparti ci sono pochi letti dove metterli. I loro casi si aggiungono al continuo viavai di persone con problemi banali che non hanno voglia di affrontare una lunga lista d’attesa per ottenere una visita e un accertamento radiologico (peraltro pagando il ticket) e chiedono risposte rapide alle strutture di emergenza. I cosiddetti «casi inappropriati»: pazienti che magari in questi giorni si presentano per il virus stagionale anche se non hanno nient’altro che la febbre. Evidentemente non vengono scoraggiati più di tanto dai ticket per i codici meno gravi disposto alcuni anni fa, perché spesso il costo è basso o la tassa non è richiesta. Paradossalmente, sono proprio i pazienti che si lamentano di più quando c’è un po’ da aspettare.
I pronto soccorso in Italia soffrono di vari mali che non si riescono a curare. E così si allargano, diventando una parte sempre più significativa degli ospedali, impegnati anche con i reparti di degenza magari destinati ad attività programmate a dare risposta ai casi urgenti. Ma non basta, perché in certe giornate è il caos. In un policlinico si possono vedere anche 200 - 250 pazienti in ventiquattr’ore. Uno ogni 5 minuti. Chi aspetta si lamenta, ma anche chi lavora è in grave difficoltà. Due giorni fa il caposala del pronto soccorso del Martini di Torino, dopo un turno duro di 12 ore ha avuto un’emorragia celebrale. «Il lavoro è molto stressante per il personale. Ormai i dipartimenti di emergenza sono presi da molti come unico punto dove curarsi - dice Ornella Di Angelo, della Funzione pubblica Cgil - In particolare il territorio non è in grado di seguire le persone, in molte Regioni, come il Lazio, le tanto attese case della salute non sono mai partite. E così arrivano tutti in ospedale. Se ci mettiamo che il turn over è bloccato da tempo, e quindi il personale infermieristico è scarso, oltre ad essere piuttosto in là con l’età, abbiamo una miscela esplosiva. Andrebbero cambiate le regole».
È necessario intervenire anche secondo Alfonso Cibinel, presidente della Simeu, la società scientifica della medicina di emergenza urgenza e primario all’ospedale di Pinerolo. «Va rivisto il rapporto tra ospedale e territorio. Se quest’ultimo funzionasse meglio e ci fosse più coordinamento, troverebbero migliore accoglienza i pazienti in uscita e dalle nostre strutture e magari arriverebbero anche meno casi. Siamo un faro che rimane sempre acceso e per questo attiriamo tutti. Persone con problemi gravi, ma anche banali. Queste ultime sono circa un terzo dei pazienti che vediamo. Dobbiamo trovare il modo di ridurre il loro numero, anche se in questo periodo siamo molto impegnati su chi sta male davvero. Solo loro che dobbiamo curare, è per loro che dobbiamo trovare un letto in un reparto ».

La Repubblica, 12 gennaio 2014 (m.p.r.)
IL mondo è diventato troppo complicato per essere tenuto in ordine. Questa è l’unica considerazione obbiettiva, di fronte non solo alla tragedia di Parigi, ma anche alle tante stragi lontane da noi, da cui allontaniamo l’attenzione appena ne apprendiamo l’esistenza. Il mondo è in subbuglio e non esiste visione, teoria, algoritmo capace di risolvere le incognite. Non siamo sicuri nemmeno di quali le incognite siano. Ancora Parigi: fanatici che credono di difendere l’onore offeso del Profeta; rete terroristica di Al Qaeda che deve farsi sentire per non finire oscurata dall’Is; inizio di strategia generale, per scardinare l’ordine dell’Occidente; mossa intimidatrice contro la politica francese nella complicata e spesso indecifrabile galassia di forze nel mondo arabo. Le contraddizioni scoppiano qua e là, per ora perifericamente ma sempre più numerose, e minacciano scoppi più grandi. Vacilla il pensiero, ancor prima che l’azione.
La teoria politica ha riflettuto sul rapporto tra «forme» e «spazio» del governo. La democrazia, ad esempio, è adatta alle piccole dimensioni; l’autocrazia, alle grandi. Così pensava Montesquieu. Nel mondo odierno in cui tutto circola, non è nemmeno più problema di forme di governo, ma di governo tout court. Il mondo è una grande scorribanda: poteri economico-finanziari e tecnologici mossi da inesausta e cieca volontà di potenza; organizzazioni criminali che controllano interi settori di attività illegali; circolazione illimitata di armi micidiali che alimenta conflitti. Il mondo è una polveriera dove civiltà umiliate nei secoli cercano rivalse; dove storiche rivalità etniche e tribali sono libere di riesplodere; dove fedi politico-religiose che erano confinate nel premoderno riemergono con la loro carica d’intransigenza e d’intolleranza. Il mondo, che la globalizzazione ha reso uno, si sta disgregando in contraddizioni non più tenute sotto il controllo da un qualunque ordine mondiale, fosse anche l’ordine assicurato dall’«equilibrio del terrore». Il terrore s’insinua capillarmente e anarchicamente nelle aggregazioni umane che chiamiamo «nazioni» dove l’insufficienza di politiche e culture integratrici produce vite infelici, sbagliate e senza radici: facili vittime del fascino perverso della violenza riscattatrice.
Massima estensione uguale massima debolezza. La legge del «gradiente della perdita della forza» dice che, mano a mano che ci si allontana dal centro, cresce l’anarchia. Pare unità ed è Babele, il cui mito viene a proposito come monito: l’impresa smisurata rovina su se stessa e coloro che vi lavorano si disperdono nel marasma. Tutti i regni malati di gigantismo si sono dissolti: l’impero persiano, macedone, romano, mongolo, ottomano, giapponese, russo, giapponese, ecc. Questo è accaduto pur quando governi centrali dispotici esistevano. Immaginiamo quando un governo nemmeno esiste: qui la debolezza è massima e il disordine e la violenza si diffondono indifferentemente tra quelli che continuiamo a considerare centri del mondo (New York, Londra, Madrid, Parigi, ecc.) e periferie (Palestina, Sudan, Nigeria, Siria, Egitto, Turchia, paesi del sud-Asia, ecc. ecc.).
Gli ottimisti della globalizzazione credono che le tante forze in campo finirebbero per disporsi in un assetto naturale, determinato dal libero gioco reciproco degli interessi. La nascita spontanea delle istituzioni e dell’ordine sociale è un fenomeno ben noto, con riguardo soprattutto ai fatti economici, dove dovrebbe valere la razionalità degli attori. Non sempre, però, le cose funzionano così. Soprattutto non funzionano quando i soggetti da integrare sono di natura diversa (economica, culturale, etnica, religiosa), sono troppo numerosi e le motivazioni e gli impulsi degli uni sono sconosciuti e imprevedibili per gli altri. Il gioco delle aspettative razionali circa i comportamenti reciproci - gioco da cui nasce l’ordine spontaneo - è impossibile, tanto più quando si contrappongono valori sostanziali, come si usa dire, non negoziabili. C’è poco da stupirsi se la globalizzazione anarchica non ha portato al massimo della razionalità, ma al massimo dell’irrazionalità. Non ha promosso la pace, ma ha diffuso la violenza.
Il mondo, così, è diventato una grande incognita, un grande rischio. Le nostre società sono vulnerabili, anche sul piano psicologico. I nervi sono a fior di pelle. Poiché, però, non possiamo rimettere indietro le lancette della storia e sognare impossibili, romantici ritorni alle «piccole patrie» o agli «stati nazionali chiusi» e alle loro sicurezze, dobbiamo rassegnarci ad affrontare le conseguenze di quello che è il nostro momento storico, preparandoci. È difficile e doloroso ammetterlo: i morti di Parigi e le centinaia e migliaia di morti che li accompagnano in ogni parte del mondo non sono né saranno anomalie. Sono conseguenza del mondo che abbiamo costruito e che ora si rivolta contro di noi modellando, alquanto spaventosamente, le nostre vite.
Prepararci: sì, ma a che cosa? A difenderci, naturalmente. Difendere che cosa di noi? La vita e la sicurezza, innanzitutto, e il nostro mondo di principi e valori di libera convivenza, senza i quali perderemmo noi stessi. Questo dicono tutti. Ma, difenderci con che mezzi? Il tema che già si è imposto nei discorsi politici è la guerra, qualunque cosa questa parola possa significare nella situazione in cui ci troviamo. Siamo solo all’inizio, perché su questa parola si giocano interessi politici ed elettorali che fanno leva su istinti e divisioni primordiali: amico-nemico, scontro di civiltà. Anzi, civiltà contro barbarie. Davvero siamo come a Poitiers nel 732, a Vienna nel 1529, a Lepanto nel 1571? Basta porre la domanda per comprendere che parlare di guerra è un puro nonsenso. Serve solo a mobilitare irrazionalmente l’opinione pubblica interna, per ragioni di lotta politica, come stanno facendo i partiti e i movimenti nazionalisti xenofobi che speculano sulla paura e illudono con la promessa che «la guerra» sia la risposta risolutiva.
Questa generica parola d’ordine - a parte l’orrore della leggerezza con la quale è usata - vale soprattutto come argomento per vincere le elezioni, contro avversari politici interni, accusati d’essere pusillanimi, opportunisti, traditori dei valori occidentali, se non addirittura conniventi con i terroristi. Ma, rispetto al contrasto del terrorismo, è così difficile comprendere quale pericolo essa racchiude? Il primo effetto d’una guerra dichiarata genericamente contro l’Islam sarebbe di compattare in un unico fronte nemico gli islamici che vivono nei nostri Paesi e che, bene o male, vi si sono integrati. Sarebbero questi le prime vittime: atti di violenza nei loro confronti; e sarebbero nuove reclute: atti di violenza come ritorsione. Odio su odio. Se ci si vuole imbarbarire e dare argomenti all’islamismo presso persone che ne sarebbero immuni, questa è la strada sicura.
Quando si chiede, piuttosto provocatoriamente, a un islamico che vive pacificamente nei nostri Paesi di dissociarsi dal terrorismo, questi ha buon gioco nel rifiutare la provocazione rispondendo di non avere nulla di cui scusarsi, da cui prendere le distanze, perché il suo Islam è pacifico e lui, islamico, ha col terrorismo lo stesso rapporto che ha ciascuno di noi, cioè nessun rapporto di vicinanza. Ma, se fossimo proprio noi a equiparare nella stessa categoria del nemico gli islamici come tali, come crederemmo ch’essi si schiererebbero? Con noi, contro l’Islam, o con l’Islam, contro di noi? La campagna per la guerra è una formidabile propaganda per l’arruolamento all’Islam violento, un regalo ai nostri nemici, il cui obiettivo è il compattamento integralista di tutto l’Islam.
Questo è il momento della ragione, e la ragione dice non guerra, ma controlli, indagini e azioni di polizia. Tra azioni di guerra e azioni di polizia c’è la differenza che le prime sono rivolte indifferenziatamente contro «il nemico » e le seconde, selettivamente, contro i delinquenti, le loro organizzazioni, i loro addestratori e finanziatori. S’è già detto della debilitazione del governo nel gigantismo politico. Troppe contraddizioni, troppi interessi particolari impediscono un’azione efficace di polizia mondiale e, a maggior ragione, azioni militari dirette a distruggere le basi di reclutamento e addestramento dei terroristi. C’è sempre qualche governo che ha interessi geopolitici suoi propri, che impediscono azioni comuni. Molte volte si sono visti governi appoggiare e armare opportunisticamente la violenza in altri Paesi, pensando di usarla per i propri fini, salvo pentirsi quando il terrore si è ritorto contro di loro.
Riprendiamo l’osservazione iniziale: lo spazio troppo grande pregiudica l’efficacia del governo; lo spazio giusto è quello che non include interessi contraddittori. Gli Stati europei, almeno sulla loro sicurezza, possono superare le rivalità. Alla globalizzazione del terrorismo l’Europa si contrapponga come regione che cerca sicurezza e pace.
Corriere della Sera, 12 Gennaio, 2015
Ventenni e trentenni ieri si sono resi conto che l’Europa libera non è un gentile omaggio: qualcuno l’ha costruita per loro, ora devono mantenerla. Devono mantenerla con amore e precisione. Senza intolleranza, ma con intransigenza. Questa è la loro guerra. Una guerra lunga, che dovranno combattere con intelligenza, pazienza, fermezza.
Erano molti, ieri nelle strade di Parigi, i nuovi Europei. Nati dopo il 1980, informati e connessi, con una debolezza, forse: pensare che la pace fosse per sempre. Che una volta conquistata, la si potesse amministrare, come un condominio. Non è così: ogni generazione deve meritarsi la sua pace.
Quella contro il totalitarismo religioso, e per la libertà, è la guerra dei nostri figli. Una guerra a puntate, coma ha intuito papa Francesco. La prima l’11 settembre 2001; la più recente a Parigi, nei giorni scorsi. E non sarà l’ultima, purtroppo. Gli americani hanno i Millennials; noi, la generazione Erasmus. Una generazione per cui l’Europa è viaggi, studi, amori, scambi, comunicazioni. Una generazione amareggiata per il lavoro che spesso non c’è; ma fortunata, per quello che ha potuto fare, vedere e condividere. Una generazione cui, forse, mancava una grande prova. È arrivata.
La generazione dei nostri padri ha sofferto le grandi dittature europee, e le ha viste implodere, una dopo l’altra. La nostra generazione ha conosciuto da vicino il comunismo e l’ha osteggiato, quando l’ha capito. La generazione dei nostri figli si trova di fronte a una sfida completamente nuova. Ce la farà, a disinnescare l’attacco del fondamentalismo? Probabilmente sì. E ci insegnerà qualcosa. Le piazze non vanno mai sopravvalutate: il giorno dopo sono ridotte a fotografie e cartacce che volano. Ma quello che si è visto ieri a Parigi era impressionante. Una città - in rappresentanza di un Paese, di un continente e del mondo libero - che diceva: basta così. Queste sono le nostre trincee politiche, giuridiche, morali, mentali. Non si uccide per un’opinione o un disegno, magari sgradevole. Nessuna religione, nessuna convinzione, lo autorizza. Chi sostiene il contrario non è un dissidente: è un assassino.
Affermazioni ovvie? Certo. E allora perché abbiamo aspettato tanto a pronunciarle, tutti insieme? A mettere un po’ di orgoglio nella difesa della società che abbiamo costruito, un’area di libertà senza uguali sul pianeta? Non è ingenuo pensare che la nuova, giovane Europa abbia capito la lezione. L’abbia capita nel modo più duro, e ce la stia già insegnando. Vedere cinquanta capi di Stato e di governo tutti insieme, uniti in nome della libertà e non impegnati a litigare sul deficit al 3%, è consolante. Quelle foto di gruppo le abbiamo viste sulle spiagge della Normandia, davanti alle trincee nelle Ardenne, in visita ai campi di concentramento. Stavolta i nostri leader erano insieme contro i nemici della libertà, attaccata in nome di una religione.
Con loro a Parigi hanno sfilato, in silenzio, due milioni e mezzo di persone. Ognuna, ci auguriamo, ne rappresentava altre duecento: tanti siamo, in Europa, da Lisbona a Tallin. Cinquecento milioni. Siamo diversi, abbiamo governi e tradizioni diverse, ma anche un evidentissimo comun denominatore. Avendo provato - ed esportato - l’orrore delle dittature, da settant’anni crediamo nella democrazia, nella libertà di espressione, nello Stato di diritto. I governi che provano a discutere questi principi vengono tenuti ai margini (Turchia) o guardati con sospetto (Ungheria).
La bellezza della salute si capisce dopo una malattia. La normalità quotidiana si apprezza dopo un brutto incidente. L’Europa, dopo l’eccidio di Parigi, capirà che cos’ha rischiato dividendosi, distraendosi, ingannandosi? Forse sì. E lo capirà - ripetiamo - perché la maggioranza dei nuovi europei inizia a capirlo. In piazza a Parigi, a scuola a Milano, in ufficio a Londra, nei bar di Varsavia e Madrid. Ventenni e trentenni si sono resi conto che l’Europa libera non è un gentile omaggio: qualcuno l’ha costruita per loro, ora devono mantenerla. Come ogni casa. Come ogni cosa.
Devono mantenerla con amore e precisione. Senza intolleranza, ma con intransigenza. Non sono sinonimi, i due vocaboli. L’intransigenza è la qualità dei forti; l’intolleranza la scusa dei deboli. Gruppi e personaggi che, a preoccupazioni giuste, danno risposte sbagliate. Da una parte, gli ortodossi del multiculturalismo, convinti che tradizioni e religioni stiano sopra la legge. Dall’altra, teologi del fine settimana, per cui la fede islamica è incompatibile con la democrazia. Populisti aggressivi che sognano espulsioni di massa. Guerrafondai da scrivania che ripropongono, anni dopo, le ricette fallimentari dei neocon americani.
Stiamo in guardia: non lasciamoci ingannare. Non è dichiarando guerra al mondo che il mondo si conquista. È invece stabilendo buone regole, rispettandole e facendole rispettare. È la scommessa della giovane Europa. La vincerà.
Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2015 (m.p.r.)
Molti sono stati colpiti dalla coincidenza di due fatti di sangue orrendi e lontani: la strage a Parigi nella redazione di un giornale giudicato blasfemo (dodici morti in una stanza, e l’altro evento di sangue francese). E il massacro di almeno duemila persone portato a termine in poche ore, fra villaggi e campagne, al confine con la Nigeria, da due diverse unità militari addestrate e armate di un nuovo fondamentalismo islamico, nel primo caso un commando, nel secondo un esercito. Emergono due capi, Al Baghdadi e Boko Haram, che proclamano due Califfati. Vuol dire dominio assoluto, l’uno dal Medio Oriente verso l'Europa, l’altro dal centro dell'Africa verso il mondo.
Non sappiamo nulla dei rapporti fra i due potentati al momento, ma sappiamo che i due potentati esistono e che la loro minaccia non è di parole. Al Baghdadi domina una parte dell'Iraq e della Siria, con capitale Mosul. Boko Haram (che, ricorderete ha esordito con il reclutamento forzato di bambini per il suo esercito, e poi con il rapimento di duecento giovanissime studentesse da “convertire” all'islamismo) è il padrone di villaggi, città e campagne in tutta la parte nord della Nigeria su cui impone e mantiene un potere di sangue. Se rileggete le righe di riassunto della situazione che precedono, noterete che, a prima vista, niente è nuovo o diverso dalle storie di violenza a cui la storia contemporanea ci ha abituato ai margini dell'impero. Anche la grande minaccia, ormai varie volte realizzata, a partire dall'11 settembre, di colpire dentro l'impero, è causa di una continua paura, ma non è più un fatto nuovo. Ciò che è nuovo è l’emergere in posizioni di comando assoluto di nuovi personaggi che sono totalmente liberi di annunciare e poi di realizzare iniziative di una folle violenza, perché non appartengono ad alcuna classe dirigente del passato, rappresentano in modo arbitrario e autodefinito, valori ambigui che non devono giustificare ma solo proclamare. E così nasce un presunto Islam fondamentalista che è un’ottima trovata per disorientare i credenti di quella fede, e una buona mossa per chiamare alla guerra credenti altrettanto finti di un presunto mondo cristiano.
Ma è avvenuto qualcosa di nuovo persino rispetto ai tempi finiti da poco con una irruzione di “teste di cuoio” e l’uccisione di Osama bin Laden. È avvenuto un cambio di classe dirigente che improvvisamente si è autoassegnata la guida degli insorti di un mondo di autoproclamato fondamentalismo islamico, e che in realtà raccoglie tutte le ribellioni estreme lungo la linea non negoziabile di “rivincita” e “riconquista”, dopo la guerra in Iraq e le sue moltissime vittime, ma anche di “diverstà” inventata e sostenuta come tale dal pregiudizio europeo.
Che cosa intendo per “nuova classe dirigente”? e come mai lo stesso fenomeno si manifesta con la stessa forza distruttiva e apparentemente cieca, dal Medio Oriente al cuore dell'Africa? Forse la spiegazione è questa. Fino a un momento fa occupanti e resistenti, invasori e ribelli, dominatori e dominati, erano guidati, allo stesso modo, dalle classi colte e dall'apparato dirigente, dai gruppi sociali delle parti in causa. Questo fatto non ha mai evitato durezza, crudeltà e violenza anche estrema. Ma disponeva di strumenti di comunicazione e di intesa reciproca, in caso di necessità. E le due parti avverse cercavano, ciascuna in modo diverso, comprensione e sostegno in altre culture e altri Paesi del mondo.
Al Baghdadi e Boko Haram rappresentano un nuovo tipo di dirigente rivoluzionario che, tra le classi dirigenti del proprio ambito, o del mondo, non cercano e non chiedono niente. Non vogliono comprensione e non offrono giustificazione. Le loro radici sono altrove, nel tempo (che è evidentemente un mitico passato); nei luoghi, che sono vissuti come del tutto privi della struttura civile e organizzativa iniziata col colonialismo e poi divenute abituali; nei rapporti umani, che cercano in basso, e nella appartenenza concepita come ubbidienza e sottomissione; nelle regole, che sono libere da ogni codice e dettate solo da opportunismo spettacolare e da efficacia emotiva, dando e ricevendo il senso di un potere che non deve trattare condizioni o sottostare a doveri.
Ma un altro cambiamento drammatico segna questo ultimo periodo di vita politica internazionale. Dal punto cruciale dell’equilibrio mondiale escono gli Stati Uniti, che avevano e hanno pur sempre un potere sproporzionatamente grande. Ed entra la debole e divisa Europa, che non ha una politica e non ha una guida, ma appare come unico guardiano e garante delle regole del gioco.
Il cambio della guardia non è stato pianificato o voluto. Accade perché gli Usa hanno ritirato le loro opzioni di guerra. Accade perché lo sconvolgimento e il cambiamento di classe dirigente del Medio Oriente e dell'Africa ricadono fatalmente sull’Europa e sugli europei, come ha dimostrato la vicenda francese. In ogni caso le ragioni del cambio della guardia contano poco. Conta che sia avvenuta. E colpisce l’inadeguatezza dell'Europa unita e delle sue istituzioni di fronte al compito di reggere l'equilibrio del mondo libero, e di tenere a bada le pulsioni violentemente aggressive. È questa situazione che ha dettato le pagine, controverse e apparentemente solo provocatorie del libro Soumission di Houellebecq: una Francia che si arrende, diventa islamica ed elegge un presidente islamico. Houellebecq non ha tenuto conto di Papa Francesco.
Non è un difensore, è un testimone. Con un compito più difficile del suo predecessore. Infatti la follia, come un incendio pericoloso, sembra venire da una parte e dall'altra, dalla “nuova classe dirigente” islamica disposta a tutto, e dal gruppo Le Pen-Salvini, altrettanto privo di scrupoli pur di esibirsi. Il compito di Francesco è grande e impossibile. Ma in Europa Francesco, al momento, è l’unico leader.
Jorge Maria Bergoglio
Ansa
Lontani dall'occhio, lontani dal cuore. Africa, Nigeria: «Il gruppo terrorista continua ad espandersi. Cresce di numero, come crescono gli ostaggi che cattura nei villaggi e che schiavizza». L'Avvenire, 11 gennaio 2015
Cento, duecento, duemila. Sui numeri dell’ultimo massacro a Baga forse, non si avrà mai certezza. Certo è invece che Boko Haram ha ormai costruito con il sangue il suo Califfato islamico. Con propaggini che si spingono in Niger e Camerun dal Nord della Nigeria. Con decine di migliaia di persone in fuga, villaggi devastati e persecuzioni.
Una situazione che nessuno sembra vedere. O meglio, in pochi vedono il filo di sangue che corre verso Nord. Attraversa il Maghreb, a forte presenza qaedista, e punta dritto verso ciò che chiamiamo Occidente, Europa, Parigi. In estate, a pochi mesi dal sequestro delle oltre duecento studentesse a Chibok, la mobilitazione fu totale. Sul Web divenne virale il motto “bring back our girls”, e nei fatti molti governi offrirono collaborazione di intelligence al presidente Goodluck Jonathan, Stati Uniti in primis.
Mai hanno però potuto operare e uno dopo l’altro hanno dovuto ripiegare. A poco meno di due mesi dalle elezioni presidenziali, il leader nigeriano sembra sempre più chiuso in se stesso. Il suo omologo del Camerun, Paul Biya, invoca un’azione globale, chiede un intervento internazionale davanti alla sfida lanciata dai qaedisti anche al suo Paese. Ma per ora ha raccolto solo silenzio, un silenzio che uccide cristiani e islamici e continuerà a farlo con una crescita esponenziale fino al voto di febbraio.
Di fronte alla paralisi, all’assenza di una risposta concreta da parte dell’esercito nigeriano, il gruppo terrorista continua ad espandersi. Cresce di numero, come crescono gli ostaggi che cattura nei villaggi e che schiavizza. Crescono i kamikaze bambini, le donne che si fanno esplodere. Tutto somiglia terribilmente ai metodi dei jihadisti che comandano in parti della Siria e dell’Iraq: perché è all’Is di Abu Bakr Baghdadi che Boko Haram si ispira, benché sia nato prima. Lì il silenzio è stato rotto da tempo, in Nigeria continua a vincere.
All’Onu la questione resta sempre sotto traccia, le decine di rapporti trovano poco spazio anche sui media, come le notizie (spesso inverificabili) sul numero delle vittime nei vari attacchi. Eppure, si tratta dell’altra faccia dello stesso problema. Una derivazione «tumorale», come l’hanno definita i vertici della Chiesa locale. Che continua, drammaticamente, a non preoccupare.

banlieues si sente abbandonata ed è facile preda del fanatismo. Sono come dei born again, ritrovano un senso e un'identità. La sola soluzione è lavorare per l'integrazione. La radicalizzazione in carcere. Il peso del clima culturale del momento». Il manifesto, 11 gennaio 2015
Malek Chebel è un antropologo delle religioni e filosofo, che ha dedicato la sua opera a far conoscere l’islam all’occidente e a proporre un “islam illuminista” (Manifeste pour un islam des Lumières, Hachette, 2004). Nel 2009 ha pubblicato una nuova traduzione del Corano e lungo la sua lunga carriera di saggista si è occupato anche dell’erotismo e del rapporto tra islam e corpo. Lunedi’ sarà in libreria il suo nuovo libro, L’inconscient de l’islam (ed.Cnrs).
Di fronte alla settimana tragica francese, quale è la sua interpretazione? Ci vuole una lettura più sociale o religiosa?
“C’è un doppio livello di lettura, francese e internazionale. In Francia, parte della gioventù musulmana si sente abbandonata da anni e cosi’ si è messa ad ascoltare ideologici fanatici. A livello internazionale, l’islam in crisi sviluppa un’ideologia della morte integralista. Poiché la caccia all’uomo è finita come è finita, adesso bisognerà riflettere a come ristabilire i legami con la gioventù musulmana”.
La marcia di domenica sarà un momento importante, anche per vedere la mobilitazione dei francesi di religione musulmana? Oppure è assurdo soffermarsi su questo, chiedere di prendere la distanze dalle derive estremiste?
“C’è una debolezza del sistema. C’è un avversario, che non viene nominato, ma che è ben presente: è la comunità musulmana. Tocca quindi ai musulmani dimostrare che non si puo’ dare cauzione a questi avvenimenti. Ma la via d’uscita sarà trovata – oppure no – sul terreno quotidiano: cosa farà che domani i giovani saranno maggiormente integrati? Oppure che lo saranno sempre meno? Solo quando si sentiranno maggiormente francesi si vincerà. In caso contrario, perderemo. Ma per il momento siamo sotto il dominio dell’emozione. E i musulmani ne hanno abbastanza di essere assimilati al terrorismo”.
Come mai sono i giovani di cultura musulmana oppure dei convertiti all’islam che si fanno sedurre dall’estremismo religioso, nel senso che le altre religioni non producono questi effetti?
“C’è una cronologia occidentale fatta di de-ritualizzazione. La chiesa cattolica fa di tutto per conservare i fedeli, mentre l’islam è in fase ascendente. Con una deriva settaria e fondamentalista. I giovani non si riconoscono né nell’ateismo, né nel marxismo, non sono massoni, ma diventano credenti. Con tutta l’opacità di un’ideologia religiosa della morte. L’occidente non capisce, abbiamo difficoltà a comprendere questa scelta”.
I due fratelli Kouachi e Coulibaly erano francesi, avevano frequentato le stesse scuole dei nostri figli. Cosa non ha funzionato?
“Fino a che punto sono andati a scuola? Come sono stati accolti? Hanno soddisfatto le loro ambizioni? Sono passati all’atto, tragicamente. Ma se non facciamo niente, se la sola alternativa che viene proposta loro è o di vivere come dei poveracci in una banlieue, di essere disoccupati o di farsi sedurre dai fanatici, avremo un fenomeno destinato ad accelerarsi con la crisi economica”.
Il sociologo Farhad Khoskohavar li definisce dei born again. E’ una spiegazione che condivide?
“Si, pensano di rinascere dalla desocializzazione di cui si sentono vittime. La resurrezione avviene con i viaggi in Yemen o altrove, si sentono esistere di nuovo, tornano, sono ben nutriti e ben alloggiati. Sarà molto difficile lottare contro questo fanatismo. Il corpo sociale non è un meccanismo ben oliato, è un insieme complesso, con velocità differenti, maturazioni differenti, musiche diverse, atmosfere diverse. Non si puo’ chiedere a tutti i giovani di reagire allo stesso modo”.
C’è poi il ruolo centrale svolto dal carcere nella radicalizzazione di questi individui.
“Della radicalizzazione in carcere si parla da anni. Ma poi non viene fatto nulla. Troppe cose sono contro di noi, il messaggio del magnifico vivere assieme come cittadini responsabili non passa. Dopo le reazioni di oggi, c’è il rischio che tra due-tre settimane tutto venga dimenticato e tra 6 mesi o un anno ci siano altri Kouachi, perché nessuno avrà fatto il necessario per venire incontro a questi disperati. Siamo di fronte a un’inadempienza collettiva. Ma per farvi fronte ci vogliono soldi, delle strutture pubbliche determinate. Invece, gli estremismi gettano olio sul fuoco. L’atmosfera era pesante in questo periodo, con le prese di posizione di Eric Zemmour o il libro di Houellebecq, con un razzismo ormai mostrato alla luce del sole, senza che nessuno reagisca".
Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2015 (m.p.r.)
Eppure non è poi così difficile capirlo che difendere la libertà di espressione non significa condividere tutto quello che pensano, dicono, scrivono e disegnano quelli che se ne avvalgono. Non è poi così difficile capire che difendere la satira senza limiti non vuol dire che chi la fa non possa avere limiti (tutti ne abbiamo, e sono unici al mondo: dipendono dallo stile, dalla cultura, dall’educazione, dalla sensibilità, dall’eventuale fede di ciascun individuo). Vuol dire che quei limiti non possono e non devono essere fissati per legge, con tanto di sanzione a chi li viola: fermo restando il Codice penale per punire chi commette violenze, o istiga a commetterle, ma non chi esprime un pensiero, foss’anche il più bieco e ributtante.
Giovedì a Servizio Pubblico e venerdì sul Fatto ho ricordato come i nostri politici e i loro servi hanno risolto in Italia il secolare dibattito sulla satira: abolendola dalla Rai. Ieri un poveretto con le mèches che scrive su Libero mi ha accusato di aver fatto «senza vergogna» un «odioso paragone tra l’editto islamico e quello bulgaro», cioè di aver messo sullo stesso piano «la vostra industrietta macinasoldi e le vostre barzellette sporche» con «la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi». Poi ha ripetuto la vecchia barzelletta dei programmi di Luttazzi e di Sabina Guzzanti «morti da soli» perché «non facevano ascolti» (uahahahahahah). Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone («quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa», ho detto).
Ho semplicemente sbeffeggiato l’ipocrisia di una classe politica e giornalistica, con e senza mèches (questa sì “macinasoldi”, e pubblici), che ha passato la vita a praticare e giustificare le peggiori censure, salvo poi strillare «Je suis Charlie» e difendere la satira senza limiti, ma solo in Francia e dopo che l’hanno ammazzata. Ieri ho citato un articolo di Pigi Battista sul Corriere nel 2006: diceva – capita persino a lui - cose condivisibili e liberali. E cioè che «non sarà superfluo un supplemento di attenzione per scorgere qualcosa di repellente in quelle vignette di cui pure deve essere libera la circolazione». Cioè criticava delle criticabilissime vignette, ma al contempo metteva in guardia chiunque osasse anche soltanto pensare di vietarle per legge o di chiudere i giornali che le pubblicavano.
È la stessa critica che faceva Vauro, sulla reazione violenta che certe vignette sul Profeta potevano innescare, senza citare
Charlie Hebdo né invocare censure o chiusure: quindi è ridicolo che oggi Battista additi Vauro al pubblico ludibrio. La satira scortica tutto e tutti, ci mancherebbe che pretendesse l’immunità dalle critiche. Perciò è sciacallesca l’operazione del Giornale, che sbatte Vauro in prima pagina accusandolo di versare «lacrime di coccodrillo» sui giornalisti e i vignettisti assassinati. Come se chi ha criticato una vignetta su Maometto bombarolo fosse un complice dei macellai islamisti. Ciascuno è libero di ritenere sbagliata o anche repellente una vignetta, un articolo, un libro, un programma tv, un film. Ciò che nessuno può fare è proibirli o chiuderli (come s’è fatto ripetutamente in Italia, con buona pace dei servi di regime), in nome di un “limite” che nessuno ha il diritto di fissare.
Cantava Lucio Dalla: «È chiaro: il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, anzi è un pesce, e come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare, com’è profondo il mare. Certo, chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche: il pensiero, come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare...». A me, personalmente, non verrebbe mai in mente di pensare o di scrivere che “il Corano è merda”, come dice una delle vignette incriminate di Charlie Hebdo. Perciò, se ci arrivasse una vignetta così gratuita sul Corano, sul Vangelo, sul Talmud o sul libro sacro o sul simbolo di qualsiasi altra religione, anche noi che ospitiamo più satira di tutti gli altri ci penseremmo un bel po’ prima di pubblicarla.
In nome di un limite che è chiaro e dichiarato: la sensibilità dei lettori, fossero anche soltanto uno o due quelli che potrebbero offendersi. Un quotidiano libero di informazione non è la buca delle lettere né Hyde Park Corner, ma un servizio ai propri lettori. Al contempo, è giusto e liberatorio che esistano giornali come
Charlie Hebdo (ne avevamo anche in Italia, pensiamo al
Male e a certe fasi di
Cuore), interamente consacrati alla satira più libertina, che non hanno né debbono avere limiti. E, se qualcuno tenta di zittirli, chiudendoli o addirittura decimandone la redazione a raffiche di
kalashnikov, le pagine di questo giornale libero sono a loro disposizione per ospitarli. A scatola chiusa.
Ronald Reagan, ancora in piena guerra fredda, raccontava questa barzelletta: «Un giornalista americano dice a un collega sovietico: "La differenza fra i nostri paesi è che io posso scrivere che Reagan è uno stronzo e non mi succede niente, perché noi siamo una democrazia". E il sovietico: "Ma pure noi! Infatti anch’io domani posso scrivere che Reagan è uno stronzo"...». È facile per gli integralisti cattolici, protestanti, ebrei solidarizzare con la satira, ora che è stata colpita da tre islamisti sanguinari: bisognerebbe farlo sempre contro ogni censura (non contro ogni critica), anche quando nel mirino c’è la propria religione.
Invece era tutt’altro che scontata la condanna degli stragisti parigini da parte degli ultraradicali di Hamas e di Hezbollah. La satira ha questo di bello: il suo linguaggio immediato e scioccante illumina e spalanca i cervelli. Chissà, forse il sacrificio dei ragazzacci di Charlie non è stato inutile.

il manifesto dell'11 gennaio 2015 ricorda l'autore de "Le mani sulla città", un film che ha riacquistato la sua attualità nell'Italia de Craxi-Berlusconi-Renzi (ma forse non l'aveva mai del tutto persa).
FRANCESCO ROSI,
IL CINEMA COMBATTENTE
di Luciana Castellina
L’ultima volta che l’ho visto era circa un anno fa: ero andata a casa sua assieme ad Agostino Ferrente che voleva vedesse il suo film su Napoli –
Le cose belle. Agostino, almeno due generazioni più giovane, ci teneva molto e ha approfittato della mia vecchia amicizia con il «maestro» per incontrarlo. Un film su Napoli non poteva non esser visto e giudicato da un napoletano così napoletano come Franco Rosi. La visione fu un disastro tecnico: perché il grandissimo regista non possedeva uno schermo degno di questo nome, né un televisore di proporzioni umane. Dovemmo infilare il dvd in un apparecchietto minuscolo e che per di più offriva solo un suono intermittente, inaudibile.
Rosi non si era conciliato con la tecnologia, già vedere un film su una tv gli era inconcepibile. Non perché fosse un uomo dell’altro secolo, per carità: era tutt’ora molto molto contemporaneo, uno sguardo lucidissimo sulla nostra epoca, e sui guai della sua sinistra. La stessa intelligenza della realtà che aveva avuto da giovanissimo, parte di quel gruppo particolarissimo di intellettuali napoletani socialisti di sinistra che hanno contribuito molto a raccontare il tempo della mia generazione e di parecchie successive.
In mezzo a tanta discussione sul rapporto fra storia e fiction, basterebbero i film di Franco Rosi a far capire quanto e come l’artista - se lo è davvero - riesce a dire, più di chi riferisce di documenti e archivi, della realtà, svelandone, attraverso l’invenzione narrativa, anche quanto non è altrimenti visibile. Un elemento essenziale della politica di cui proviamo oggi una struggente nostalgia. I suoi film sono stati un contributo primario insostituibile alle nostre battaglie del dopoguerra. Franco era passionale, nel senso che ci teneva a che i suoi film suscitassero passioni, alimentassero il fare politico.
Ricordo quanto avvenne parecchi anni prima dell’infortunio tecnologico col film di Ferrente in Cina, un altro assurdo incidente. Eravamo a Pechino con una delegazione di Cinecittà - la prima - presidente all’epoca Gillo Pontecovo (io ero lì perché allora ero presidente di Italia Cinema, l’agenzia di promozione dei film italiani). Si doveva proiettare La Tregua e naturalmente non c’era sottotitolazione perché allora né lì né, del resto, in tutta l’Europa dell’est, era abituale. Si procedeva con l’«overvoice»: la voce del traduttore, collocato nella sala, che si sovrapponeva a quella dei protagonisti del film. Franco era sospettoso circa il risultato e per questo assai nervoso. Poco prima di cominciare si informò dal traduttore se aveva capito bene di cosa trattava il film e quello rispose sicuro: «Sì, certo, è un film sulla vita di John Turturro (se ricordate era lui che interpretava Primo Levi).
Alla risposta Franco stava per riprendersi la pellicola e andarsene infuriato. Accettò di restare quando gli fu spiegato che Primo Levi non era mai stato tradotto in Cina, era uno sconosciuto. Ma contravvenendo a tutte le regole della sicurezza in vigore in Cina, dove nessuno avrebbe potuto rivolgersi ad un pubblico grandissimo qual era quello che affollava l’anfiteatro ove il film doveva essere proiettato, saltò sul palco e improvvisò un appassionato riassunto de
La tregua. Ricordo bene le sue ultime parole, in cui descriveva la prima scena del film: «ecco, adesso vedrete una pattuglia dell’Armata rossa a cavallo che arriva in vista del campo di sterminio dove sono rinchiusi gli ebrei superstiti delle camere a gas». «Ecco – aveva aggiunto – spegnete le luci»; e si aspettava apparisse sullo schermo la bellissima, emozionante inquadratura con cui si apre quel film. E invece, a interrompere brutalmente l’emozione che era riuscito a suscitare nel pubblico con le sue parole, e che certo l’«
overvoice»non avrebbe potuto animare, il proiezionista cinese per un errore mandò un documentario sui mondiali di calcio che dovevano tenersi in Italia. Durò 40 minuti. Ci nascondemmo tutti per una giornata intera, non avevamo il coraggio di affrontare il suo furore sacrosanto.
Era il 2000, 15 anni fa, e la nuova Cina stava spiccando il volo, già nel mercato mondiale ma ancora terzo mondo. Alla riunione con il giovanissimo direttore della produzione cinematografica cinese che il rappresentante del Ministero dei beni culturali, membro della nostra delegazione, cercava di convincere ad intraprendere il negoziato per un accordo di coproduzione con l’Italia, per cui era necessario un voto parlamentare e un accordo fra governi come per i Trattati internazionali, il giovanotto ci guardò e disse: «Ma ce li avete i soldi? Perché con gli americani di tutte queste procedure non c’è bisogno, ma loro ci hanno i soldi». Non dimenticherò mai la faccia di Gillo, di Angelo Guglielmi allora direttore del Luce, di tutti i nostri, ma soprattutto quella di Franco Rosi.
Scusate se mi perdo in questi anneddoti, ma sono proprio queste vicende vissute assieme che tornano alla mente quando qualcuno scompare. Almeno in un primo momento, perché subito dopo la ferita penetra nel profondo e si avverte il vuoto che la morte lascia quando colpisce una persona come Franco Rosi che per via del suo cinema ha così tanto segnato la nostra cultura e coscienza. Vorrei ricordare però anche anni più spensierati, le serate con Franco e Giancarla nell’attico di via della Croce, o i bagni sulla spiaggia avanti alla loro casa al Villaggio dei Pescatori a Fregene, il luogo mitico dove si radunava allora il nostro miglior cinema: Ettore Scola, Citto Maselli, Franco Solinas, Felice Laudadio… Erano gli anni ’60, un grande tempo e perciò anche un grande cinema
LA CITTÁ CHE HA DIVORATO L'ITALIA
di Alberto Ziparo
In occasione della morte di Francesco Rosi ripubblichiamo questo articolo di Alberto Ziparo, uscito sul manifesto del 25 agosto 2013 come anteprima dell’omaggio del Festival di Venezia al regista napoletano. (aggiornamento del 10 gennaio 2015
Martedì prossimo, a Venezia, verrà proiettato «Le mani sulla città» di Francesco Rosi, nella versione restaurata dalla Cineteca Nazionale. Si celebra così il cinquantennio del conferimento del Leone d’oro al capolavoro neorealista del regista (sempre quel giorno Rai Movie ne offrirà visione in tv).
Com’è noto, Rosi denunciava lo sfascio urbanistico e politico di Napoli, in grande espansione in quegli anni. Non poteva sapere – ma forse lo intuiva — che la sua opera avrebbe costituito una magistrale, anche se assai inquietante, previsione circa i disastri delle politiche, non solo urbanistiche, che avrebbero segnato l’Italia intera nel cinquantennio successivo. Sfregiandone irrimediabilmente quel volto «illuminato e gentile» colto dai viaggiatori del Gran Tour e che le era valso il soprannome di «Belpaese».
Nel film Rod Steiger (nei panni del costruttore e politico Nottola) che spiega come un terreno agricolo «che vale 500 lire» se diventa edificabile «ne vale 50.000» costituisce una sintesi mirabile del ruolo della rendita speculativa nella crescita urbana, più efficace di molte lezioni di analisi urbanistica. Il film spiega appunto il disfacimento della politica rispetto agli interessi della rendita speculativa (la camorra restava sullo sfondo, allora, o come «utilizzatore finale» di piccolo cabotaggio).
Il film venne premiato con il Leone d’oro nel settembre 1963: un mese dopo si sarebbe registrato il disastro del Vajont, seguito dalla frana di Agrigento e dall’alluvione di Firenze (1966). Eventi che dimostravano già come la crescita urbana, pure ancora relativa –e circoscritta alle città grandi e medio grandi — avveniva a scapito della sicurezza territoriale e della qualità ecopaesaggistica.
Nonostante i disastri, i tentativi di riforma urbanistica e di «nuovo regime dei suoli» portati avanti dal democristiano Fiorentino Sullo con l’appoggio della sinistra socialista e del Pci vennero bloccati, segnando addirittura la fine politica dell’ex ministro. Le emergenze ambientali della crescita territoriale portarono a una serie di provvedimenti normativi parziali, che nell’arco di un decennio, dal 1967 alla fine dei Settanta, avviarono un processo pure timidamente riformista: la legge Ponte-Mancini sulla scissione tra diritto di proprietà e di superficie (1967); i decreti su zoning e standard (’68); la legge sulla casa e gli espropri (1971); l’onerosità della concessione a costruire e degli oneri di urbanizzazione (1977); l’avvio dei piani di recupero (1978).
Questa intenzione – e i modesti tentativi di pianificazione progressista che avevano comportato– venivano frustrati nel decennio successivo da una serie di sentenze della Corte Costituzionale che mettevano in discussione vincoli urbanistici e criteri di esproprio. Annunciavano gli anni Ottanta, con la crisi del welfare state e l’avvio di un ventennio abbondante di iperconsumismo e una sorta di controriforma urbanistica, introdotta dalle sentenze citate e continuata con i tentativi di svuotare le capacità prescrittive dei piani con la cosiddetta «programmazione concertata», in nome di un «Nuovo», che invitava a «Fare», ma in realtà a consumare senza senso né limiti, anche il territorio. E meno male che di lì a poco esplodeva anche in Italia la «questione ambientale».
In realtà, le criticità urbane e le «mani sul territorio» non si erano mai fermate; la rendita speculativa, agraria ed edilizia, diventava prima industriale, poi commerciale e infrastrutturale, infine finanziaria: la semplice operazione di trasformazione diventava un affare, con i relativi lavori più o meno grossi; migliore, se la nuova, anche ipotetica destinazione d’uso, trovava dei potenziali investitori. Neutralizzata la pianificazione efficace, razionalmente basata sulla domanda sociale, la «città diffusa» pervadeva sempre più i vari ambiti del territorio nazionale: una blobbizzazione cementizia industriale che cancellava il paesaggio, seppelliva i beni culturali, degradava l’ambiente, deterritorializzava.
L’ex Belpaese è diventato così il Bengodi delle costruzioni e del consumo di suolo: laddove nel mondo, dal 1945 al 2005, si sono quintuplicati i volumi urbanizzati, e in Europa si è registrata una crescita di quasi otto volte, in Italia tale tasso supera i dieci punti, e nelle tre regioni del Sud ad alta densità mafiosa l’incremento è di oltre 13 volte!
Così, mentre si intensificavano i disastri sismici ed idrogeologici di un territorio fortemente indebolito dalla cementificazione, la quota di suolo nazionale consumato è oggi pari ad oltre il 20% dei 301.000 Kmq di superficie (raddoppio dell’ingombro negli ultimi 15 anni) e si producono costruzioni per una domanda inesistente (oltre 25 milioni di stanze vuote), mentre il bisogno sociale di abitazioni permane inevaso.
Certo, questo è dovuto anche al fallimento della politica: il film di Rosi rappresentava perfettamente il dissolvimento dell’etica e della razionalità sociale che dovrebbe caratterizzare la gestione della cosa pubblica: il sistema decisionale viene prima circuito, poi incorporato dall’offerta di trasformazione urbana e territoriale, dettata da interessi speculativi. Finché –a partire dagli anni Novanta– una governance «ubriacata di pseudoliberismo» se ne fa strumento dichiarato.
Oggi le politiche urbane e territoriali ai diversi livelli sono spesso extraistituzionali, dettate dalle imprese e soprattutto dagli istituti finanziari. Carlo Fermariello, che nel film rappresenta se stesso, è un’icona della buona politica legata alla reale domanda sociale: figura sempre più rara, poi quasi sparita, dalle nostre assemblee elettive.
Per tutto questo – ha ragione Roberto Saviano– il film resta un capolavoro, «una grande rappresentazione non solo di Napoli, ma dell’Italia, anche di oggi». Anche se oggi forse Rosi girerebbe gli esterni in Val di Susa e gli interni tra parlamento e ministeri.
(Articolo originale pubblicato sul manifesto digitale il 24 agosto 2013 alle 18.11, sul manifesto in edicola il 25 agosto 2013
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo. Il Fatto quotidiano
e la Repubblica
, 11 gennaio 2015
Il Fatto Quotidiano
IL CORAGGIO E L'ORGOGLIO
DEL CITTADINO FRANCO ROSI
di Furio Colombo
Muore un grande regista e lascia uno spazio diserbato di dolore e rimpianto, uno strappo senza rimedio, per chi gli è stato accanto negli ultimi giorni, nelle ultime ore, amici stretti e devoti come Tornatore, Giordana, Andò, Scola. Soprattutto la figlia Carolina, bella e forte come la madre Giancarla mancata da poco, due parti essenziali della vita di questo artista. Ma il caso di Rosi, nel giorno della sua morte, è diverso. Ognuno dei suoi film ha sfidato un Paese umiliato dal conformismo, dall’opportunismo, dalla mafia, dal crimine organizzato, dalla corruzione. Ognuno dei suoi film è una ricerca di verità e una denuncia di reato. Ognuno dei suoi film è fatto per dare coraggio e orgoglio perché sempre, nelle sue storie vere, qualcuno resiste e anche se muore, l’autore ci fa sapere che ha lottato ed è esistito.
Un uomo che ci lascia, come traccia della sua vita Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Uomini contro, Cadaveri eccellenti, La tregua, un percorso che continuerà a sostenere chi si batte per il ritorno alla legalità di questo Paese persino in momenti in cui i valori di civiltà, di libertà e di accertamento implacabile della verità sono stati buttati via. Il fatto è questo: la morte di Francesco Rosi strappa dalla vita e dalla memoria dei suoi amici di una vita la radice di un lungo e splendido sodalizio. Ma non spegne le luci di atterraggio lasciate lungo il percorso dal suo lavoro.
Sono in molti a riconoscere, prima di tutto alcuni maestri di Hollywood, che Rosi ha cambiato il modo di fare il cinema, ha abbattuto i confini fra documentario e fiction e fra immaginazione, per quanto realistica, e fatti realmente accaduti. Di questi fatti ciò che attirava l’attenzione di Rosi, ma anche una sorta di istinto indomabile per l’accertamento, erano le evidenze persino ovvie, erano gli eventi ingombranti negati o ignorati o tranquillamente trascurati, come se fosse possibile accantonare la realtà scomoda. Ecco, Rosi ha fatto della realtà scomoda e impraticabile il suo tipico territorio. E anche se nell’elenco del suo lavoro trovate bellissimi film di narrazione e invenzione o trasformazione dal racconto alla musica (Il momento della verità, C’era una volta..., Carmen), resta il senso fondamentale del suo passaggio rivoluzionario nel cinema.
So che una persona irritata da ogni tipo di iperbole, come Rosi, avrebbe giudicato inadatta la parola “rivoluzione” come chiave di interpretazione del suo lavoro di cinema (che lui, come ricorda il bel libro scritto insieme a un altro importante personaggio del cinema mondiale, Giuseppe Tornatore, chiama “cinematografo”). Però, come definire diversamente quel suo arrischiato accostarsi ai fatti fino al punto da svelarli persino se autorevolmente negati, persino se smentiti da protagonisti potenti non del cinema ma della politica, in tempo reale? Prendete Lucky Luciano in cui il rapporto fra mafia e guerra, e una strana alleanza fra liberatori e dominio della Sicilia (al rischio di una sottomissione perenne) viene narrata come se fosse la trama fantasiosa di un buon thriller.
Quel film affronta e racconta una verità tremenda che i libri di storia, e persino buoni e rispettati testi universitari, ignorano o tengono in ombra. Ma quel film (1973) è per forza una parte della straordinaria e inconcepibile audacia con cui è stato pensato, scritto e girato, nel 1962,
Salvatore Giuliano. Contiene il Dna della mafia come originale associazione di crimine organizzato allo stesso tempo locale e mondiale, dramma di famiglia e secessione di un Paese, passando attraverso la prima prova politica della strage (
Portella della Ginestra, che è allo stesso tempo la più bella sequenza d’azione mai girata nel cinema italiano, e un pezzo di storia patria mancante). A Francesco Rosi interessa sapere e mostrare come funziona la macchina del dominio (grande, in questo senso, più grande di tanti film di guerra,
Uomini contro e il rapporto fra il cinismo delle classi dominanti e l’eroismo spontaneo e ribelle di chi dovrebbe soltanto ubbidire) e fin dove arriva la macchina degli interessi di potere che devono prevalere su un mondo equo di diritti rispettati (
Cadaveri eccellenti).
Ma il momento straordinario del lavoro di Rosi, in cui il cinema è allo stesso tempo cronaca, storia, profezia, è Le mani sulla città (1963) in cui la politica è già corruzione, e la frase gridata dai consiglieri comunale di Napoli, mentre stanno votando un altro scempio edilizio (“Mani pulite, noi abbiamo le mani pulite”) diventa il nome di una grande indagine giudiziaria contro quella stessa corruzione moltiplicata in dimensioni immense, nel 1992. Nessuno che rifletta e ripensi alla grande eredità che Francesco Rosi lascia all’Italia e al cinema del mondo nel giorno della sua morte, potrebbe dimenticare Il caso Mattei. Io ho una ragione in più. In quell’anno (1972 ), Francesco Rosi mi ha chiesto di partecipare al film nel ruolo dell’assistente e traduttore di Enrico Mattei (Gian Maria Volonté) e in particolare alla sequenza in cui il petroliere americano respinge ogni possibilità di collaborazione. Era come partecipare, allo stesso tempo, alla realtà e alla finzione. Non solo perché Volonté era una specie di medium che diventava la persona interpretata. Ma perché quel film sulla morte inspiegata e misteriosa di Mattei ha portato alla morte inspiegata e misteriosa del giornalista Mauro De Mauro, incaricato da Rosi, in una telefonata che si vede nel film, di cercare piste e spiegazioni per la storia che intanto si stava filmando.
Come vedete, non abbiamo parlato di una carriera, per quanto straordinaria, ma di una parte importante della storia italiana, dei suoi misteri e delle sue rivelazioni, E capite perché Francesco Rosi, a Venezia, dopo avere ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, ha concluso così il suo breve discorso di accettazione : «Voglio essere ricordato solo con queste parole: Francesco Rosi, cittadino».
La Repubblica
LA CAPRIA: “A PASSEGGIO INSIEME,
COSI' NACQUE LE MANI SULLA CITTA”
di Francesco Erbani
Roma. Li divideva poco più di un mese. L’anno era lo stesso, il 1922. Francesco Rosi è nato a metà novembre, Raffaele La Capria i primi di ottobre. Ma erano ancora bambini quando d’estate si tuffavano dagli scogli di Posillipo, a Napoli, sotto villa Rosebery. Racconta La Capria: «È stato il mio amico più caro, con lui in ottant’anni non ho mai perso i contatti. Ci sentivamo quasi tutti i giorni. Ma con un amico si scambiano i sentimenti, Franco e io abbiamo lavorato insieme, dunque all’affetto abbiamo aggiunto la consuetudine delle idee». Lo stesso mare, lo stesso liceo, l’Umberto, gli stessi amici - Peppino Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Francesco Compagna... - la stessa idea di lasciare Napoli, «forti solo dei nostri sogni» e quindi i film - Rosi regista, La Capria sceneggiatore. Basta ricordarne due, Mani sulla città ( 1963) e Cristo si è fermato a Eboli ( 1979).
Con Rosi avete condiviso la stessa formazione?
«Al liceo Umberto avevamo un preside, D’Alfonso, che s’ispirava a Croce. L’ambiente era naturalmente antifascista e da lì scaturirono due filoni, quello comunista e il nostro, liberaldemocratico. Dopo la guerra demmo vita alla rivista Sud, diretta da Pasquale Prunas. Collaboravano Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Domenico Rea. Io mi occupavo di letteratura angloamericana, Franco scriveva note di cinema. A guardarle ora, quelle pagine emanavano un entusiasmo che fa sorridere, ma si resta sorpresi dalle cose che sapevamo».
Nel ’48, a ventisei anni, Rosi era già assistente di Visconti per La terra trema.
«La naturale precocità di un artista. Fin da ragazzo, più che elaborare intellettualmente, Franco coltivava immagini che immagazzinava. Eravamo in un clima neorealista, ma lui pur ammirando quel cinema, diffidava di certo sentimentalismo patetico. Era un razionalista, tendeva a raffreddare gli umori».
Che cosa ricorda di Mani sulla città?
«Un giorno, a Roma, Franco mi disse che voleva girare un film su Napoli, ma diverso dai soliti modelli. Passeggiavamo e non so chi dei due parlò per primo di un palazzo che crolla come spunto per indagare su che cosa la nostra città era diventata».
La speculazione edilizia patrocinata da Achille Lauro.
«Sì, ma senza impigliarsi in questioni teoriche. Ricorda la scena in cui Rod Steiger traccia con un bastone un quadrato per terra e dice: “Questo quadrato vale tanto, ma se noi ci portiamo la luce, le strade, le fogne, questo stesso quadrato varrà mille volte di più”? Ecco: con quell’immagine e quelle parole raccontammo la speculazione edilizia, che cambiò la morfologia della città e dell’Italia intera, distruggendo valori e rapporti umani».
Nel film Rosi faceva emergere una terribile realtà politica, anche quella non solo napoletana.
«È vero. Ma sempre e solo manovrando la macchina da presa. Franco la metteva a pochi centimetri dai volti dei consiglieri comunali, ne catturava le occhiate, le smorfie e così documentò il passaggio di alcuni di loro da Lauro alla Dc. Una vicenda politicamente dirompente, testimoniata attraverso un artificio, un’invenzione. Direi, uno stile».
Lavoraste insieme per C’era una volta (1967), liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, poi per Uomini contro (1970) ispirato al romanzo di Emilio Lussu. E quindi per Cristo si è fermato a Eboli.
«Il suo film più bello. Franco cercava la verità di quel Mezzogiorno entrando nelle case dei contadini, misurando la distanza fra la civiltà e un’arcaica forma di vita. Quando la domestica Giulia, interpretata da Irene Papas, fa il bagno a Gian Maria Volontè, nei panni di Carlo Levi, Franco fece l’impossibile perché i gesti avessero qualcosa di mitologico».
Quale idea di Napoli vi accomunava?
«Un’idea non convenzionale. Al pari di tutte le città del Mediterraneo, la immaginavamo come una capitale della decadenza, impegnata nella contemplazione del passato. Ma, a differenza di altre città, Napoli conserva una continuità con l’antica Grecia. E per questo, ci dicevamo, mentre altrove domina un’aridità comunicativa, Napoli è un’ansa che custodisce un certo calore. Franco, uomo buono, ne era un esempio ».
Il Fatto Quotidiano
“NEI MIEI FILM AVEVO PREVISTO OGNI COSA”
stralcio dell’intervista concessa da Francesco Rosi a Malcom Pagani e Fabrizio Corallo il 30 giugno 2012.
Il grande misantropo aveva iniziato a chiamarlo spesso: «Ciao Francesco, ci vediamo?». Poi, osservata la voliera dello zoo dalla torretta del suo residence-trincea, Dino Risi aspettava che il collega quasi omonimo, nello scambio casuale di interessi, ricordi e vocali, contaminasse il suo mondo. La tardiva amicizia tra Risi e Rosi: «Lo sai che ti voglio veramente bene?» è uno dei lampi che attraversa i 90 anni (il 15 novembre) di un napoletano di frontiera. Libri sulla mafia, monografie, manifesti, fotografie alla parete. Da una (il set è quello di Carmen, Siviglia, 1984) aspira un sigaro nascosto dagli occhiali e sembra lo stesso che in jeans, seduto a un tavolo colmo di copioni, non soffre il caldo andaluso di una Roma trasfigurata dal caldo. Il Festival di Venezia, il 31 agosto, gli consegnerà il Leone d’oro alla carriera e proietterà Il caso Mattei, l’inchiesta di Rosi sul fu presidente dell’Eni, Palma d’oro a Cannes ’72. Dopo aver messo insieme ventenni in nero, guerre, repubbliche fragili e candidature all’Oscar, l’età non pesa. L’emozione si annacqua in un gesto: «Volete un po’ di minerale?». Rosi è contento. Scrive memorie di vita e di set con la complicità di Tornatore, pensa al teatro (recente digressione da palco con tre opere di De Filippo) e a dirigere, se capita la storia giusta, tornerà. «Nei miei film avevo previsto ogni cosa», dice distrattamente, e ripensando a una poetica in cui l’impegno dava la destra al piano sequenza, di smentire l’affermazione, non c’è modo.
Torna mai alle origini?
L’infanzia ci segna. Sono nato a Napoli, figlio di genitori ossessionati da onestà e rispetto. C’erano le regole. Bisognava averne cura.
Lei osservò il Fascismo con occhi da bambino.
Al principio, non ne vedevo il lato grottesco. Percepivo la sopraffazione, la noia, l’idolatria dell’istituzione paramilitare. Un implicito decalogo per i giovanissimi. Puntava a formarli, a vestirli da Balilla, a comandare sui momenti di libertà, inquadrandoli in una cornice.
Crescendo?
La Liberazione mi colse nei miei 20 anni. L’epoca del Liceo Umberto. Le giornate trascorse con Patroni Griffi, La Capria e Ghirelli. C’era la consapevolezza della vita che si apriva. La scoperta della questione meridionale. Il Fascismo aveva volutamente trascurato molti aspetti, ce ne riappropriammo in ritardo, ma non fuori tempo massimo.
È vero che avrebbe voluto fare il disegnatore?
Mi ero inventato illustratore di pupazzi. Un amico di mio padre, libraio, volle pubblicare un sillabario con i miei schizzi. Non erano adatti, ma qualcosa forse dovevano valere. Lino Miccichè, anni dopo, li volle inserire in un volume su La Terra trema.
Uno dei tanti capolavori a cui collaborò.
Cercavo il cinema. L’arte che ti mette di fronte ai problemi irrisolti e ti sfida a cercare una chiave. Moravia scrisse che i giovani non sarebbero riusciti a trovare nei libri di storia quello che un film sapeva restituire. Aveva ragione.
Visconti era burbero?
Severo, al limite. Ma gli devo tutto. Il suo rigore era necessità morale. All’inizio per Luchino preparavo il bollettino tecnico e segnalavo le incongruenze al suo aiuto, Zeffirelli. La terra trema rivelava una Sicilia di frontiera. Arcaica, brada, verghiana. Quando il dialetto si faceva aspro, Visconti non capiva. Bisognava tradurre. Per assonanza meridionalista, il compito toccava a me.
La terra ha tremato anche nei suoi film.
Non mi sono mai interessate le narrazioni piane. La mafia intenta a proteggere i suoi affiliati e ad ammazzare gli altri come cani era un territorio obbligato per un curioso come me.
Se ne è occupato spesso.
Da Salvatore Giuliano in poi. Ricordate l’incipit di Besozzi sull’Europeo? «Di sicuro c’è solo che è morto». In Le mani sulla città, Lucky Luciano, Cadaveri eccellenti o Dimenticare Palermo emergeva il rapporto di collusione e complicità tra istituzioni e crimine. La criminalità è diventata un enorme potere sfruttando eredità moderne: grande finanza e narcotraffico.
Sarebbe stato un bravo giornalista.
Ho lavorato con molti bravi giornalisti, è diverso.
Per Uomini contro ebbe qualche problema.
Mettevo in scena la follia del conflitto ’15-’18. Con Guerra e La Capria ci ispirammo al Lussu di Un anno sull’altopiano. Attaccavo la retorica della patria. L’Msi si scatenò. «Rosi, il comunista che infanga l’Italia». L’esercito mi denunciò per vilipendio. Le sale mi boicottarono e in tv ne parlò malissimo il generale golpista De Lorenzo. Un onore.
Crede che certi film dovrebbero essere proiettati nelle scuole?
Se c’è l’ora di religione, ci deve essere anche l’ora di storia del cinema. Un po’ di laicità non guasterebbe.
E a Cuba non trovò laicità, all’epoca in cui viaggiò per indagare su Ernesto Guevara.
Quando morì, pensai subito a un film sulla sua figura. Partii per l’isola e rimasi a lungo, ma la pretesa di approvare copione e girato da parte dell’Istituto cubano d’arte cinematografica, mi fece desistere. Era il mio film. Non il loro. Glielo dissi: «Voi siete rivoluzionari, per definizione non potreste imporre niente».
De Le mani sulla città, uno dei più potenti affreschi sul degrado della politica italiana di sempre, cosa rammenta?
Le riunioni dei consigli comunali a cui assistemmo a Napoli io e La Capria per documentarci. Mio padre, fotografo dilettante, che durante le riprese spunta dai calcinacci di un palazzo abbattuto in Via Marittima con la sua Rollerflex in mano. Carlo Fermariello, un dirigente del Pci locale, meraviglioso interprete di se stesso nel film. Persuadere il partito ad autorizzarlo fu un’impresa: «I nostri iscritti non fanno gli attori». Poi cenai con Amendola. Pragmatico, risolse il problema: «Basta con queste manie borghesi, può essere molto utile anche al partito. Fermariello reciti».
Lei è sempre stato di sinistra.
Un riformista consapevole dei propri limiti. Una volta in piazza, durante un comizio, evasi dalla mia natura. Ingenuamente urlai: «Abbasso il Papa». Si girò un operaio: «E che cazzo, ma se cominciamo a dire strunzate pure nuie è la fine». Mi fulminò.
Per Il caso Mattei ebbe contatti con Mauro De Mauro.
Gli chiesi un resoconto delle ultime giornate siciliane di Mattei. Poi sparì. Sulla scomparsa ci sono tante teorie, una di queste poggia sul lavoro che De Mauro aveva svolto sul presidente dell’Eni.
Pasolini affrontò l’argomento scrivendo Petrolio.
Un’opera incompiuta, nella quale non si scorgono cause e nessi in maniera definita. Ipotesi. E le ipotesi non di rado abbracciano la fantasia.
Gassman e Volontè le regalarono prove intense.
Gian Maria, serissimo, copiava sempre a mano la sceneggiatura 4 volte. «Così», diceva, «le battute non le scordo». Io e Gassman avevamo debuttato nella regia dirigendo insieme nel ’56 un trattamento dal suo Kean, poi lui interpretò per me un principe recluso in albergo in Dimenticare Palermo. Aveva poche battute, ma ebbe l’umiltà di chiedere: «Sono andato bene?». Mi manca.
Oggi ha senso parlare di cinema civile?
Diaz e Romanzo di una strage sono ottimi film. Io mi vedo altrove, ho pensato a lungo a un progetto su Cesare e Bruto, ma è improbabile che mi impegni sul conflitto di interessi dopo Le mani sulla città. Ho già dato.
Pensa mai all’addio?
Alla morte penso, ma non ho l’afflato dell’aldilà come spagnoli o siciliani. Mi piace la vita. Però, lo so, bisogna morì.
Una piattaforma chiara per una nuova politica di sinistra, indispensabile per uscire compiutamente dalla crisi strutturale che ci sta affogando, possibile solo se ciascuno riuscirà a uscire dal proprio guscio.
Staffperilpartitonuovo, 10 gennaio 2015
Come un prossimo evento dall’agenda incompleta a Bologna, e uno seguente dal nome poco semplice a Milano, possono comunque sommare le rispettive virtù per una impresa comune determinata, ma di grande e storica portata. Fortunatamente, ci sono premesse perché ciò accada.
Auspicare un grande partito nuovo, come questo blog si dedica a fare già da qualche tempo, può apparire (ed essere) fin troppo facile. Oppure significa pensare innanzitutto le enormi difficoltà che vi sono mentre si segue con attenzione coinvolta ciò che in effetti si sta muovendo per rispondere ad esigenze reali che hanno quel senso (anche senza riconoscerlo esplicitamente): insomma, ciò che in un modo o nell’altro e per forza di cose si va avvicinando a creare quel fatto decisivo ed essenziale (cui questo blog usa dare quel nome). Le difficoltà sono pesanti. Attirano alcune delle forze indispensabili a questo fine a muoversi in modo sparso e in direzioni diverse, con ragioni che devono essere considerate: per esempio, al fine di non compromettere la possibilità di fare ciò che intanto si riesce a fare di buono concorrendo ad amministrare regioni, comuni, circoscrizioni; provvedere alle materiali e ineludibili necessità del lavoro politico e della stessa esistenza politica utilizzando le risorse istituzionali che solo una pratica di collaborazione entro le attuali regole del gioco permette, apparentemente, di ottenere.
Resta l’esigenza, che si può riassumere così: ciò che vuole le stesse cose le dovrebbe fare insieme, perché altrimenti non saranno fatte mai. E si tratta di cose assolutamente necessarie per il nostro tempo, per le nostre vite, per le condizioni e il senso del nostro futuro.
Quali sono le stesse cose volute da molti in Italia oggi? Per riassumere gli intendimenti che sono condivisi in Italia oggi da un campo di soggetti sociali, culturali, individuali e civili, potenzialmente capace di egemonia, capace insomma di produrre la necessaria discontinuità nella presente drammatica crisi del nostro modello di società, si può cominciare da un nocciolo di cose che abbiamo più volte mostrato insieme di non volere, e di cose che vogliamo in loro luogo.
Da una parte, non vogliamo che si vada avanti, in pochi, a cambiare la costituzione italiana; non vogliamo un potere sovranazionale europeo che continui ad operare indipendente dalla popolazione europea e contrariamente ai suoi veri e più generali bisogni; non vogliamo che i ricchi continuino ad arricchirsi e i poveri a impoverirsi e ad essere esclusi come superflui; non vogliamo le guerre che si fanno e si preparano, e rifiutiamo le ingiustizie che le alimentano e le menzogne che le vorrebbero giustificare.
Al contrario vogliamo, punto per punto, altre cose precise. Innanzitutto vogliamo il rispetto della sentenza della Corte costituzionale sulle leggi elettorali; e vogliamo fare di tutto per impedire la cosiddetta riforma del Senato, (riformando piuttosto il funzionamento dei partiti, e sottraendoli alla corruzione e alle lobby). Vogliamo poi aprire una vertenza anche disobbediente sulle regole monetarie, di bilancio, e così via, che sono state imposte dall’alto al nostro come ad altri paesi, cominciando dal referendum sull’attuazione dell’art. 81 “riformato” della nostra costituzione e dalla conferenza europea sulla rinegoziazione dei debiti pubblici proposta da Tsipras. Vogliamo sollevare l’indignazione popolare contro ennesimi regali agli evasori, vogliamo rilanciare e rendere trasparente la grande tradizione del riformismo europeo circa lo strumento fiscale come fattore di equità sociale, e vogliamo attuare l’art. 3 della nostra costituzione dando priorità assoluta all’obiettivo di assicurare la dignità individuale e sociale di ogni persona attraverso il lavoro. Vogliamo rinegoziare e soprattutto verificare i trattati di alleanza esistenti, gli impegni conosciuti e soprattutto quelli meno conosciuti che hanno portato le forze armate di paesi come il nostro ad aggredire paesi del Mediterraneo come la Libia, e governi come il nostro ad essere complici di sanguinose attività di destabilizzazione di paesi come la Siria e l’Ucraina servendosi di inaccettabili e pericolosi alleati fascisti di varia natura (fino a quando non se la prendono con noi).
In Italia, le forze più o meno organizzate che condividono o almeno tentano a condividere questi «no» e questi «sì» sono suddivise in tre tronconi che finora hanno quasi sempre proceduto parallelamente, malgrado alcuni limitati e recenti episodi di convergenza: i piccoli partiti in cui nobilmente sopravvive (cosa comunque preziosa) il nome e l’esplicita identità comunista; “Sinistra ecologia e libertà”, i comitati Tsipras, che giustamente sono fermi nell’intento di proseguire e rafforzare l’esperienza unitaria delle recenti elezioni europee, e che tuttora sono forti di adesioni individuali da parte di membri dei primi due gruppi. A Bologna, il 16 e 17 gennaio prossimi, i Comitati si riuniranno per prendere qualche decisione in più (non è ancora certo se tutte) circa il modo di realizzare questa volontà.
Alcune di queste forze (non certamente la terza) in passato hanno stretto alleanze con lo stesso partito (il PD) che oggi, al governo, fa e promuove tutte le cose che non vogliamo, o in qualche modo vi tendeva anche quando era meno evidente. Adesso anche queste (compresa per ultima, e con qualche residua esitazione, SEL) sembrano orientarsi verso una più decisa e strategica contrapposizione almeno a questo PD. Ma anche recentemente qualcuna (specialmente SEL) ha formato con il PD alleanze elettorali locali che dichiaratamente miravano a dare valore a forze interne al PD considerate ancora (a parte il nome) democratiche. Una parte di queste forze interne al PD sembra oggi tendere ad uscirne. Potranno essere un’ulteriore componente del campo alternativo? Lo vogliono essere? Sono, soprattutto, alternative?
O per chiarirlo, o forse per altre ragioni, il personale politico di SEL e questi dissidenti, insieme con forze anche valide e rappresentative del mondo sindacale, daranno vita prossimamente ad un evento di discussione (o di auto-presentazione) pubblica, dal titolo poco semplice, e non semplice da inserire nel contesto dei movimenti in atto. Ciò che i dissidenti del PD pensano non è sempre chiaro, e nemmeno è chiaro fino a che punto essi abbiano ripensato l’intero progetto strategico da cui il PD è nato (il veltronismo, insomma), di cui il renzismo costituisce piuttosto un’ estrapolazione ardita ma coerente che un vero stravolgimento. I rischi e le ambiguità sono evidenti.
Da parte delle più generose e promettenti energie che stanno per ritrovarsi a Bologna, comunque, drammatizzare l’evento milanese dal nome poco semplice sarebbe altrettanto sconsigliato. E, fortunatamente, non sembra prevalere, in loro, l’intenzione di farlo. È innanzitutto un segno di speranza che tra i due eventi vicini di fine gennaio – l’imminente assemblea di Bologna dei comitati Tsipras e la riunione di più ampio personale politico rappresentativo che avrà luogo a Milano per iniziativa di SEL – non vi sia pregiudiziale distanza ma impegnativa e reciproca attenzione. Dare valore alla parte piena del bicchiere (il PD che scricchiola) piuttosto che a quella vuota (le ambiguità dei dissidenti) dovrebbe essere il primo criterio che una politica egemonica e forte delle sue idee dovrebbe seguire.
Il punto è che ci deve essere una piattaforma forte e potenzialmente egemonica come protagonista di queste azioni. Ed è ciò che dovrebbe nascere a Bologna. Sotto il segno dell’unità e della rappresentatività.
Fare insieme, in modo organizzato, tutto ciò che insieme si vuole, è il criterio che può assicurare fin d’ora il massimo (non il minimo) di unità possibile Perché ciò che si vuole insieme è molto, non poco. Le energie fluide che si aggregano e si disperdono, sovrapponendo troppo spesso le loro azioni anziché coordinarle (chi non ricorda i tavoli separati per la raccolta di firme?) dovrebbero innanzitutto creare comitati di scopo intorno a ciò che insieme si vuole e insieme non si vuole (es. campagne popolari su proposte di legge di iniziativa popolare, ecc.), e prepararsi come un punto di riferimento unico per gli elettori nelle (non lontane) elezioni politiche, unito dalle leggi e dalle riforme (vere) che promuoveranno in parlamento dopo averle promosse nelle piazze. Le diatribe su nuovo soggetto o federazione di soggetti, su unità comunista prima e unità più larga poi oppure no, su scioglimenti o no, possono essere messe da parte, mentre si cammina, senza che alcuno perda. Si può pensare che lo scopo finale sia il socialismo, il comunismo, l’anarchia, la decrescita felice, o altro che si voglia, e aderire a partiti che coltivino ciò. Intanto si dovrebbe unire praticamente ma non episodicamente le forze, con specifici vincoli organizzativi, per obiettivi più ravvicinati e determinati che non pregiudichino nulla di tutto questo. Il soggetto nuovo dovrebbe essere un’impresa precisa con uno scopo preciso e un termine preciso. Poniamo: invertire la tendenza (oggi demenziale e perversa) dei rapporti tra rendite, salari e profitti (e su ciò sarebbe quasi rivoluzionario, oggi, mirare a riportare le relative forbici ai valori indici del 1970); quella dei rapporti tra investimenti e bisogni (con prevalenza di investimenti labor-intensive e non labor-saving e con l’immissione nel mercato di soggetti collettivi forti e rappresentativi come committenti della produzione e dell’innovazione); quella, in generale, dei rapporti tra pubblico ossia generale, e privato ossia particolare. E farlo stabilmente entro dieci anni. Che passano presto, ma durante i quali si può lottare molto e fare molto. E poi si vedrà: nuovi problemi (quasi sicuramente meno gravi di questi), e nuove scelte; ancora insieme, oppure no.
Per assicurare la rappresentatività della gestione del processo unitario, condotto entro questi precisi e insieme amplissimi limiti, abbiamo a disposizione i comitati territoriali spontanei, entusiasti, privi di pregiudizi reciproci, che hanno ridato il gusto o fatto nascere il gusto della politica in anziani delusi e giovani in cerca, che hanno prodotto il risultato del 25 maggio, e costituiscono la novità più feconda e più promettente della politica democratica in Italia oggi. Deve esserci un tesseramento. Devono esserci congressi. Il tema: come realizzare il programma (di lotta e di governo futuro), a chi dare fiducia a questo scopo. Nessun esistente partito si scioglierà, ma ci sarà cessione di sovranità quanto all’area di obiettivi comuni che costituiranno la ragione sociale del soggetto federale. Per il momento, a tempo determinato, poi si vedrà. Il fatto è che quell’area non è fatta, non può essere fatta, di inezie… Appunto, poi si vedrà.
Raffaele D’Agata

Il manifesto, 11 gennaio 2015
Sono stato colpito, - per una volta molto positivamente, - dalle reazioni della grande stampa d’informazione e di una parte di quella televisiva (quella libera, naturalmente) di fronte al caso della norma che depenalizza sotto una certa soglia le frodi fiscali, - passata ormai universalmente alla storia come il comma del 3%, che, una volta approvato, avrebbe restituito a Silvio Berlusconi il pieno esercizio dei suoi diritti politici e civili (valgano, per tutti gli altri, articoli esemplari come quelli di Antonio Polito sul
Corriere della sera del 6 gennaio e di Claudio Tito su l
a Repubblica del 7). Continua invece a sorprendermi, - anzi, a questo punto, dopo tali prese di posizioni libere e severe, mi sorprende ancora di più, - che, una volta individuata la natura clamorosa (e, diciamolo pure, vergognosa) dell’errore (errore?), non si risalga ancora alla fonte dell’errore. Tale fonte ha un nome preciso, e non è molto difficile scovarla e descriverla: si chiama il Patto del Nazareno.
Non è solo sugli aspetti etico-politici di tale scelta che vorrei richiamare l’attenzione: se Silvio Berlusconi, dopo condanne ed espulsioni esemplari dal Parlamento, è stato recuperato ad un pressoché pieno agire politico, e alla sua dimensione di Capo influente e dialogante (non a caso, gli incontri si sono svolti nella sede nazionale del Pd, da cui quel nome pieno di fascino, come dire, ecumenico), lo si deve non alla misura agevolante del 3%, ma, appunto, al Patto del Nazareno (causa persino, a voler essere più realisti del re, di una mortificazione eccessiva per gli alleati di Governo, il Ncd, che almeno se n’erano andati dal Padre Padrone, sbattendo la porta).
E non è neanche perché, a voler essere più precisi di quanto le stesse prese di posizioni critiche, ben positive e ben arrivate, di questi giorni non dimostrino, cosa ci sia davvero nel Patto del Nazareno nessuno di noi lo sa (potrebbero esserci dieci, venti 3%, ed è ipotizzabile che da un certo momento in poi neanche tali e anche più robuste proteste riuscirebbero più a sbarrare la strada al nostro, per tutti i versi anomalo, Presidente del Consiglio).
Ma perché il Patto del Nazareno ha sconvolto e inquinato, e sempre più inquinerà, tutte le modalità (“modalità”, dico, persino indipendentemente dai contenuti concreti delle singole proposte e delle singole leggi) della vita politica e civile italiana: strappando brutalmente al Parlamento le sue prerogative; umiliando, e alla fine persino distruggendo, l’unica forza politica, il Pd, che fino alle ultime elezioni sembrava (sia pure minimamente) in grado, con il consenso degli italiani, di tirare il paese fuori da questa melma; prefigurando (v. la prossima legge elettorale, l’Italicum) un cammino sempre più autoritario e sempre più sbilanciato a destra della nostra vita nazionale; vanificando pubblicamente, dopo gli utili sforzi dell’Autorità giudiziaria e del Parlamento, la barriera, che dovrebbe essere invalicabile, fra vita pubblica e corruzione.
Ora, è chiedere troppo che, dopo essersi pronunciati quanto mai opportunamente sul famoso 3% ci si pronunci sul Patto del Nazareno? Un’occasione più grande per farlo, più grande di qualsiasi altra, ci sta venendo incontro a passi da gigante: l’elezione del Presidente della Repubblica. La domanda è: si può accettare che il nuovo presidente della Repubblica nasca dall’accordo consensuale del (cosiddetto) centro-sinistra con… con… (molti appellativi vengono in mente, ma tanto nomini nullum par elogium) con Silvio Berlusconi? Non è problema di nomi (di cui si fa un dispendio senza limiti, forse per nascondere, per nascondersi, il vero nocciolo del problema). Infatti: chiunque salisse al Quirinale sulla base di tale accordo ne uscirebbe irrimediabilmente infangato per tutto il corso del suo mandato: sarebbe sempre, e in tutte le condizioni, sottoposto al ricatto del 3%, o a uno dei molti altri possibili ricatti del 3%, che allignano nel brodo di coltura del Patto del Nazareno. Non sarebbe dunque il caso di spostare l’attenzione su questa tematica, che, diversamente dall’altra non è episodica ma decisiva
"». Il manifesto,
Nell’ambito delle pubblicazioni legate all’anniversario della morte di Berlinguer, il libro curato da Claudio Sardo (
L’anima della sinistra, Editori riuniti internazionali, pp. 111, euro 11) si segnala per la scelta di assumere quale suo asse un tema cruciale del comunismo italiano. Cioè la questione del rapporto con la tradizione cattolica.
È un crocevia classico che appassionò Togliatti, che in questo si pose in netta discontinuità con l’anticoncordatario e «illuminista» Gramsci, come ricorda Giuseppe Vacca. E che tornò con forza in Berlinguer.
Il libro ripropone un momento significativo del confronto: il carteggio che nel 1977 vide impegnate le penne del vescovo di Ivrea Bettazzi e il segretario del Pci. Accanto alla convergenza individuata attorno ai condivisi «contenuti umanistici» o al riconoscimento del valore della persona, il dibattito mise in luce anche una contraddizione. Quella tra l’autodefinizione del Pci come partito laico e pluralista, con l’articolo 5 dello statuto che invece prevedeva il canone del marxismo-leninismo.
Era la celebre questione del «trattino» che per alcuni mesi vide incrociare le spade alcuni filosofi comunisti e che fu archiviato, precisa Vacca, nella revisione statutaria del 1979. Il nodo più rilevante comunque verteva sulla conciliabilità tra l’identità comunista, protesa alla critica del capitalismo in nome di istanze generali di liberazione umana, e le analoghe tensioni per il trascendimento del presente che si affacciavano nel mondo della fede, dal «laburismo cristiano» di Dossetti, al fermento dei movimenti di base sino alla proposta esplicita delle Acli di una nuova società socialista.
Su questo possibile momento di confluenza, all’interno dei grandi valori costituzionali della solidarietà e della persona come valore, aveva insistito già Togliatti, in assemblea costituente. E ancor prima, nel discorso al teatro Brancaccio di Roma nel 1944, si era spinto a proporre alla Dc «un patto comune di azione, per un programma comune».
A Bergamo nel 1963 il leader del Pci annunciò una critica della società del consumo, fonte della incomunicabilità sostanziale dell’uomo moderno, che anticipava il richiamo di Berlinguer all’austerità quale occasione per ripensare radicalmente il modello di sviluppo, gli stili e i valori di vita.
Domenico Rosati scorge una affinità tra la proposta berlingueriana di austerità come contestazione dei pilastri della società borghese e l’annuncio di Moro della stagione dei doveri. Su questi lidi di censura dell’edonismo, in nome di una emergenza antropologica, c’è il rischio di smarrire il senso anche positivo del consumo ai fini della costruzione della soggettività (il consumo con il suo nichilismo mercantile è ciò che salva il capitalismo, lo intuì già Tocqueville; e non è anche per l’incapacità di garantire il consumo di massa che invece crolla il comunismo?). Ma lo scopo della riflessione sull’austerità come «occasione» non era quello di imporre una povertà generale ma di definire il progetto di un nuovo ordine sociale con altre compatibilità, con altre qualità riconosciute del vivere collettivo.
La specificità del contributo di Sardo è che la riproposizione del tema della fede (la sua domanda iniziale è: perché solo in Italia esiste una robusta componente cattolica che non si riconosce con la destra, come accade in tutti gli altri paesi?) serve per interrogarsi sul senso della eredità del comunismo italiano dopo la fine del Pci.
Perché quello che è scomparso è la traccia di un mondo, i segnali di un pensiero, i luoghi di una comunità, travolti da quello che Sardo chiama «il riformismo subalterno» che sfida identità, memorie, cultura politica, modello di partito, radicamento sociale, idea di società.
«Quando c’era Berlinguer la politica sapeva ragionare», osserva Rosati. Oggi, con il divorzio tra politica e ragione, avanza un nichilismo sorridente che costringe gli avanzi impotenti di una grande tradizione critica ad obbedire a un tweet, a scorgere carisma in una camicia bianca, a riverire gli imprenditori, che si sa sono «gli eroi del nostro tempo», a rompere con il movimento operaio come terra insignificante, che neppure merita rappresentanza.
Riferimenti
Nell'archivio di eddyburg abbiamo un'ampia raccolta di scritti di e su Enrico Berlinguer.

In queste ore, il Senato esamina nuovamente la proposta di nuova legge elettorale che il Presidente del Consiglio e Segretario del PD vuole approvata con la massima velocità, o, come dice Lui, col massimo ‘ritmo’. Volontà che corre il rischio di trovare attuazione, vista la attuale composizione del Parlamento, costituito grazie a una legge dichiarata incostituzionale perché non consente ai cittadini di esercitare la sovranità riconosciuta loro dall’articolo 1 della Costituzione.
La nuova legge manterrebbe sostanzialmente gli stessi caratteri di incostituzionalità della precedente, consentendo la deformazione della volontà espressa dagli elettori fino a rischiare di capovolgerla e potrebbe assegnare la maggioranza della (unica) Camera a un partito che abbia ricevuto una percentuale minima di voti al primo turno, purché sia arrivato secondo e il primo non abbia ottenuto almeno il 45% dei voti, consentendogli di partecipare al ‘ballottaggio’, valido qualunque sia il numero degli elettori partecipanti. Inoltre prevede che molti degli eletti siano sottratti alla valutazione degli elettori grazie alla priorità assegnata ai capilista, scelti dalle segreterie dei partiti, e la possibilità che un’alta percentuale di votanti non sia rappresentata nell’assemblea a causa del meccanismo delle ‘soglie’ e del ‘premio’ che, assegnando al vincitore molti più seggi, li sottrae alle altre forze politiche.
La sostanza della sentenza n.1/2014 della Consulta viene così elusa, in una visione che privilegia una discutibile ‘stabilità’ (tutta la dimostrare, viste le divisioni interne anche agli stessi partiti) al criterio essenziale e irrinunciabile della rappresentanza democratica, sconfinando in una prospettiva presidenziale e autoritaria che contraddice i fondamenti della nostra Costituzione.
Se appare comprensibile, anche se non accettabile, la scarsa attenzione di gran parte della opinione pubblica sottoposta al bombardamento mediatico-propagandistico di quasi tutti i mezzi di informazione, impegnati in una gara accanita a chi dedica più tempo agli annunci, ai proclami, perfino ai tweet e alle vacanze di Renzi, meno giustificabili appaiono le esitazioni di esponenti politici che continuano i loro esercizi di contorsionismo fra la critica verbale e il rifiuto di una indispensabile unità di tutti coloro che nella difesa delle Istituzioni democratiche potrebbero trovare un denominatore comune.
La percentuale ormai altissima degli astenuti ha dimostrato che il degrado morale e l’arroganza dei attuali professionisti della politica rischia di cancellare la credibilità degli stessi meccanismi democratici; dovendo scegliere fra le attuali proposte del quadro politico, sempre di più sono gli elettori che si rifiutano di dare il proprio avallo a quella che è ormai una oligarchia impegnata a ridisegnare ‘regole del giuoco’ per la propria auto-conservazione.
E’ invece indispensabile recuperare una piena coscienza delle conseguenze di questa deriva autoritaria, anche per opporsi efficacemente alla involuzione di una Europa colpevolmente asservita a un modello di sviluppo suicida e alle logiche liberiste della finanza internazionale, per rilanciare, come accaduto nell’ultimo dopoguerra, un grande movimento di civiltà, che rimetta al centro della cultura politica pace, solidarietà, eguaglianza, giustizia come fondamenta di una nuova convivenza e di un impegno comune per la salvezza del pianeta.
Gli effetti della nuova legge elettorale, minando alla base i principi costituzionali e sottraendo ai cittadini il diritto alla autodeterminazione, rischiano di andare ben al di là di una, già grave, esplicita concentrazione del potere, soffocando nel nostro Paese quella ricerca di alternative culturali e civili che si sta diffondendo e acquistando dimensioni significative in molte altre Nazioni. Sarebbe come uscire dalla Storia.

iceberg che sta sotto ad un attentato come questo? Cerchiamo di scoprirlo iniziando col porci un’altra domanda: a chi serve questa guerra?». Comune-info.net, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)
I terroristi entrano nel telefono di Jean Louise mentre mangiamo in un Bar del Marais a Parigi. Le notizie ormai ci raggiungono ovunque. Non è indispensabile comprare un giornale di carta o accendere la televisione. «Hanno ammazzato dodici persone» dice Jean Louise leggendo sullo smartphone. «Giornalisti di un settimanale satirico sono stati ammazzati a colpi di kalashikov» dice “ma sembra che gli assassini siano scappati e non li hanno presi”.
Allora ci facciamo i calcoli sulla strada che faremo per tornare a casa. Jean Louise e Patrick devono prendere il treno per tornare a Liege e a Bruxelles, Paolo va a Belville e io all’aeroporto di Orly. Gli sparatori sono ancora in giro, chi li incontrerà? All’aeroporto mi sequestrano lo sciampo. Niente di tragico, era una bottiglietta presa in albergo tanto per non buttare nel water un goccio di sapone, ma in un giorno come questo i controlli sono più severi. I terroristi (si chiamano così) non riusciamo a capirli, sparecchiano la nostra tavola rovesciando tutto in un solo colpo.
Ma chi ha inventato questa guerra che dalle trincee di cento anni fa arriva fino alla porta di casa nostra? Penso alle trincee perché da un anno si parla della prima guerra mondiale. Si pubblicano e ripubblicano libri. Escono film e si fanno trasmissioni televisive sulla grande guerra. In molti ricordano l’attentato di Sarajevo. Gavrilo Princip uccise l’erede al trono austro-ungarico in una giornata che ebbe un andamento grottesco. A scuola ci dicevano che la guerra scoppiò dopo quel fatto, ma era solo una semplificazione.
L’Europa si preparava già da dieci anni e tutti i paesi avevano interesse a spararsi addosso. L’Austria cercava un pretesto per mettere le mani sui Balcani e presentò un ultimatum alla Serbia senza aspettare la risposta, la Russia voleva uno sbocco sui mari caldi, la Germania pensava all’egemonia continentale ma anche all’espansione coloniale, l’Inghilterra non voleva un paese egemone nel continente europeo, la Francia non poteva non intervenire davanti ad Austria e Germania che si muovevano, l’Italia temporeggiò per un anno poi prese al volo l’invasione del Belgio per cambiare schieramento e mettersi in trincea contro gli austriaci.
E poi tutti avevano paura del socialismo. La guerra avrebbe fermato la rivoluzione. In Russia successe il contrario: fu la rivoluzione a scoppiare grazie alla guerra, ma queste due anime furono comunque legate l’una all’altra anche in quel caso. Queste cose le sappiamo dopo anni di studi e pubblicazioni, ma cento anni fa i nostri nonni avevano a disposizione una versione completamente diversa. La storia ci ricorda che gli avvenimenti sono soltanto la punta visibile di un iceberg che si scopre solo col tempo e con lo studio. Dunque: qual è l’iceberg che sta sotto ad un attentato come questo? Cerchiamo di scoprirlo iniziando col porci un’altra domanda: a chi serve questa guerra?
«L'autore dialoga con l'ultimo libro di Stefano Rodotà, edito da Laterza,
Solidarietà, un'utopia necessaria. L'analisi di una parola apparentata a molte altre (naturalità, moralità, carità, assistenza, beneficenza, fraternità, doverosità, diritto, eguaglianza e gratuità, che la lambiscono, investono, assumono e la interpretano curvandola al loro spirito ed essenza. Il manifesto, 8 gennaio 2015
Col suo ultimo libro (Solidarietà, un’utopia necessaria, Laterza, pp.141, euro 14) Stefano Rodotà allarga il campo dell’impegno scientifico e politico nella lotta per i diritti che, da decenni, ha ingaggiato con tenacia ininterrotta e con successo non solo dottrinale. Lo amplia alle precondizioni, ai connettivi dei diritti e che ne sono forse anche i nuclei primigeni. A denominarli è un nome: principi. E, mai come a questo proposito, il nome è la cosa.
Di questi connettivi Rodotà sceglie la solidarietà, il più complesso (a questo proposito il rinvio è all’intervista rilasciata a Roberto Ciccarelli sulle pagine di questo giornale il 4 dicembre). Complesso perché ha una storia particolarmente intrecciata con quella di altri connettivi. Complessa perché matrici diverse la hanno motivata come propria derivazione, connotandola con le relative impronte, intanto che altri connettivi provavano ad assorbirla. Naturalità, moralità, carità, assistenza, beneficenza, fraternità, doverosità, diritto, eguaglianza e gratuità lambiscono, investono, assumono la solidarietà e la interpretano curvandola al loro spirito ed essenza. Ognuna di esse, in verità, ha svolto un ruolo che va riconosciuto almeno come rivelazione della possibilità e della pratica di un’esigenza umana mai del tutto sradicata.
Rodotà ne fa la storia degli ultimi secoli e ne descrive le movenze e i ruoli collaterali che ha svolto e anche le valenze strumentali che ha saputo esprimere. Ma sa distinguere, separare, sa individuare le impronte che possono come assorbirla ed esaurirne — e anche degradarne — l’essenza. Sa, soprattutto, scegliere il fondamento sicuro su cui costruire la solidarietà come principio. È quello del diritto, della norma giuridica. Prosegue così l’alto e nobile insegnamento di quel padre del costituzionalismo che formulava la prima enunciazione dei diritti sociali attribuendo allo stato gli obblighi di offrire a «tutti i cittadini la sussistenza assicurata, il nutrimento, un abbigliamento decente, e un genere di vita che non sia dannoso alla salute», Montesquieu.
La solidarietà è così che si concretizza. Per poter essere principio giuridico, deve poi dispiegarsi in diritti. È il modo in cui si libera dalle tante impronte che la hanno segnata. Da quelle impresse da una incerta naturalità, dalla inerme moralità, dalla doverosità a irritante garanzia della proprietà, dalla evanescente fraternità, a quelle, inesorabilmente mortificanti, della carità, della assistenza e della beneficenza. È il modo in cui si eleva a fonte rivendicativa della dignità umana.
Ma ha di fronte il mondo della globalizzazione. Che è quello del mercato capitalistico, perciò della proprietà privata e del profitto, del trionfo dell’una e dell’altra da trent’anni celebrato senza pause e senza limiti alla devastazione delle conquiste di civiltà che l’idea e le forze della solidarietà avevano raggiunto. È il mondo della barbarie postmoderna.
Rodotà non lo accetta, invita a riflettere sulla tortuosa storia della solidarietà, sulle politiche sociali che furono imposte dalle forze che ne avevano necessità e che ebbero ascolto nelle dottrine giuridiche e politiche che ne reclamarono forme di riconoscimento. Forme diversificate che andavano dal corporativo, al caritatevole, al compassionevole, al mutualismo contadino ed operaio. E che, pur nei limiti e con le torsioni che le caratterizzavano, testimoniano tuttavia una possibilità di affermazione pluralistica del principio. Consentendo in tal modo che per «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale» dell’articolo 2 della Costituzione, all’insostituibile e prevalente azione istituzionale possano aggiungersi iniziative sociali (volontariato, terzo settore) alla base della forma-stato. A questo proposito, va riconosciuto a Rodotà il merito di proporre un’interpretazione di quest’articolo della Costituzione che, nell’affermare che la Repubblica «richiede» l’adempimento dei doveri della solidarietà, estende al massimo i destinatari della norma, universalizza la sua efficacia.
Affronta la questione del Welfare State, della sua origine e crisi. Ne ricostruisce la molteplicità dei significati, mostra come e perché il Welfare denomina una specifica forma di stato costruendola proprio intorno alla solidarietà. Una forma di stato che, a partire dai principi fondamentali che furono enunciati nei primi articoli della nostra Costituzione e proseguendone il disegno normativo per la forma-stato della contemporaneità, ridefinisce la persona umana come centro di riferimento della solidarietà, sia come titolare del diritto sia come destinatario del dovere di solidarietà. La ridefinisce in termini di cittadinanza tanto comprensiva di diritti integrati l’un l’altro da assicurare il ben-essere, l’autodeterminazione, cioè il potere di crearsi un’esistenza dignitosa, a progettarla come credibile prospettiva, a viverla come effettiva condizione umana.
Ma quando, dove, come? Di cos’altro è indice, in quale contesto la si può concretizzare, con quale altro prodotto storico, per essere stata storicamente determinata, la solidarietà può e deve convivere? Chi può assicurarla nella materialità dei rapporti umani esistenti, chi la può sostenere alla base degli ordinamenti giuridici vigenti, insomma, di quale e quanta forza sociale dispone la solidarietà oggi?
Rodotà non nasconde affatto che il produttore storico della solidarietà, degli istituti che la hanno concretizzata, dei diritti che ha generato, il movimento operaio, insomma, è stato frantumato e che non c’ è più nessuno in grado di contenere e respingere le pretese e l’arbitrio dei costruttori del «nuovo ordinamento normativo governato da un potere sovrano, quello delle grandi società transnazionali che davvero si pongono come il soggetto storico della fase presente». La fase cioè dell’avvento e del consolidamento del dominio globale del capitalismo neoliberista, il nemico storico e strutturale della solidarietà.
Cosa opporgli che sia credibile e perciò consentaneo, collegabile, corrispondente anche nella prospettiva dell’esigenza sempre più pressante dell’universalizzazione della solidarietà? Rodotà non deflette dalla più rigorosa coerenza con le premesse, e le scommesse, da cui parte. Non credendo alla emersione di soggetti storici che possano, nel breve periodo, riprendere con successo la lotta del movimento operaio per la solidarietà, intravede però focolai di resistenza e di contrasto al potere sovrano delle centrali transnazionali del capitalismo neoliberista.
Al sociale frantumato, al politico servente l’economico per aver abdicato a suo favore, il giuridico gli sembra confermarsi come credibile potenziale di produzione della solidarietà. In una sentenza recentissima della Corte di giustizia dell’Ue scorge una sorta di rivendicazione della prevalenza dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta di Nizza sull’interesse economico di una corporation transnazionale della forza di Google. Attribuisce a questa sentenza l’efficacia costitutiva di «una nuova gerarchia fondata sui principi… espressi dai diritti fondamentali». Come se, per incanto, rovesciando la sua giurisprudenza di favore al principio della concorrenza e a danno dei diritti del lavoro, la Corte di Lussemburgo avesse abrogato quella che Rodotà chiama la «contro costituzione» dell’Ue, fondata sul Fiscal Compact e che, invece, io credo che sia la vera «costituzione» europea. Come se, la stessa Corte, avesse anche espunto dal Trattato sul funzionamento dell’Ue le norme che impongono come vincolo assoluto della dinamica e come fine dell’Unione «l’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza». Qui l’amore paterno dell’eccellente ma non solitario legislatore della Carta di Nizza ha fatto aggio sull’acutissimo spirito critico del giurista.
Ma, a riflettere, chissà: questa interpretazione-ricostruzione operata da Rodotà potrebbe anche assumere valore preconizzante di un processo che l’astuzia della storia del diritto futuro, grazie ad una raffinatissima ermeneutica, con tacite abrogazioni e provvide addizioni, consenta che i principi che Rodotà ha ridefinito acquistino effettività giuridica. Sicché da «utopia necessaria» diventi esperienza vivente quella solidarietà che il movimento operaio si inventò e che Rodotà ricorda come rapporto tra eguali e perciò autentica. Affiora così il tema dell’eguaglianza. Quello sul quale chi scrive sta aspettando il maggior defensor dei diritti del nostro tempo.

La Repubblica, 8 gennaio 2015
NON è vero che a Charlie Hebdo niente è sacro. Sacra, in quel vecchio giornale parigino, è la libertà. Danzava, la libertà, allegra e nuda come le donnine di Wolinsky, attorno alla fragile trincea di scrivanie coperte di carta, matite, giornali, pennarelli (l’arsenale delle vittime) sulle quali sono caduti gli impenitenti artisti della satira francese, molti dei quali anziani, freddati dai loro giovani assassini.
Ragazzi bigotti che uccidono vecchi libertini. Autori di lungo corso come Georges Wolinsky, Charb, Cabu, usciti indenni da cento processi per oscenità, scampati a licenziamenti, fallimenti e censure, sopravvissuti perfino alle tante rissose diaspore interne al mondo (litigiosissimo) del giornalismo satirico, per poi morire così, macellati da due imbecilli sanguinari che della libertà niente possono e vogliono sapere: la libertà sta ai fanatici come la bicicletta ai pesci. Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello, così solido in Francia, del radicalismo laico e repubblicano. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, a ritroso lungo Nove e Ottocento. Ispiratore indiscusso della rivista fu François Cavanna (origini piacentine), un vecchio hippy ribelle autore di versi esilaranti e spietati sulla soggezione dei popoli al potere e alle religioni. È morto nel suo letto quasi un anno fa, novantenne, candido e magro come un sacerdote, risparmiandosi questo orrore, e lo strazio di sapere offesa così in profondità la sua ilare tribù.
Il marchio di fabbrica di quel milieu satirico, immutato negli ultimi decenni e attraverso numerose testate, è una sorta di oltranzismo libertario e libertino che irrita anche la sinistra perbenista ed è sempre stato odiato dalla destra tradizionalista: il precedente direttore del giornale Philippe Val, omosessuale, pochi anni fa venne inseguito e picchiato per la strada, dopo un dibattito televisivo, da un gruppo di cristiani omofobi che voleva insegnarli come si sta al mondo. Una umiliante rappresaglia, ma niente in confronto al mostruoso esito del nuovo conflitto nel quale Charlie Hebdo, diciamo così per sua natura, non poteva non immischiarsi: quello tra la libertà di espressione e il fondamentalismo islamista. La lunga guerra iniziata “ufficialmente” nell’ormai lontano 1989 con la fatwa contro Salman Rushdie e i suoi Versi satanici . Guerra intestina all’Europa, va ricordato, fino dal suo primo atto: pare certo che la condanna a morte di Rushdie sia stata ispirata da ambienti islamisti londinesi, come se la refrattarietà di quel pezzo di Islam alla libertà di parola e di immagine fosse acuita, irreparabilmente, dalla promiscuità con i nostri costumi, ivi compresa la nostra (benedetta) scostumatezza.
La satira è, di suo, un linguaggio di confine, estremo e poco conforme alla disciplina. Restando (e purtroppo ci tocca) nella metafora bellica, è come un corpo di guastatori, le cui sortite non possono che scompaginare i ranghi, destabilizzare i ruoli. Sarebbe del tutto immorale, qui e ora, aprire il dibattito sulla liceità della blasfemia, o se volete della insolenza verso i dogmi religiosi. Sarebbe la cosa più blasfema da fare accanto a quei morti innocenti, e certamente morti di libertà (a causa della libertà, in nome della libertà). Sarebbe come se dalle retrovie, e con il culo al caldo, ci permettessimo di discettare sul rischio che si sono presi quei caduti.
Limitiamoci a constatare che, sul fronte della libertà di parola e di immagine, la satira non può che essere in prima linea. E a Charlie Hebdo avevano deciso di non arretrare di un passo. Ben sapendo — tra l’altro — che per una rivista fatta sostanzialmente da disegnatori la collisione con l’iconoclastia islamista è nelle cose. Le vittime di questa carneficina avevano tutte, metaforicamente o nella realtà, la matita in mano. E’ la matita, in questo vero e proprio Ground Zero della libertà di stampa, il minimo eppure potentissimo grattacielo abbattuto. Mettetevi una matita nel taschino, nei prossimi giorni, per sentirvi più vicini a Charlie, anche se non l’avete mai letto, anche se la satira vi piace così così, e la trovate eccessiva o sguaiata o provocatoria.
Salutiamo con un sorriso aperto — loro non vorrebbero di meglio — quella gente appassionata, intelligente e inerme, il direttore Charb (Stéphane Charbonnier), Cabu (Jean Cabus), Tignous (Berdard Verlhac), Georges Wolinsky, ingoiati dal buco nero dell’odio politico-religioso insieme al giornalista Bernard Maris, ad altri cinque compagni di lavoro e a due agenti di polizia. Provate a immaginare, per prendere le misure della strage di rue Nicolas- Appert, se i vignettisti che ogni giorno vi fanno ragionare o ridere sui giornali italiani venissero falciati tutti o quasi da un pogrom di fanatici, lasciando vuoto, sulla pagina, quel quadrato così superfluo e così indispensabile. Non dimentichiamoci mai, neanche per un secondo, come profuma di buono la libertà, e quanto siamo debitori, come europei, alla Francia e a Parigi.
La Repubblica, 8 gennaio 2014
DODICI morti e decine di feriti per «vendicare il Profeta»: così gli assassini che hanno attaccato la sede di Charlie Hebdo giustificano il loro crimine. Ma né il Profeta (il suo spirito), né alcun teologo serio li ha mai incitati a massacrare giornalisti liberi, impegnati nel campo della satira, che mai hanno avuto riguardi per le religioni in genere. Dal 1905 la Francia è un Paese laico, in cui la Chiesa è separata dallo Stato. Ma questo, i terroristi armati e decisi a uccidere non lo riconoscono.
È il caso di ricordare le parole del Profeta Maometto, quando esortò i suoi soldati a recarsi a Mu’ta, in Siria, a combattere contro i Gassanidi protetti dai Romani: «Andate in nome di Dio. Combattete i nemici di Dio che sono vostri nemici. In Siria troverete monaci che vivono nelle loro celle, lontano dalla gente: non li importunate. Troverete guerrieri votati a Satana: combatteteli con la sciabola in mano. Non uccidete né donne, né bambini né vecchi, non sradicate nessun albero o palma, non distruggete nessuna casa».
Non è la prima volta che i fondamentalisti musulmani aggrediscono un organo di stampa. Quando Charlie Hebdo pubblicò le caricature del Profeta Maometto, il giornale e i suoi redattori furono oggetto di minacce. Ma con l’attentato di mercoledì mattina si è passati a un altro livello. I terroristi sono apparsi come guerrieri armati fino ai denti, e hanno ucciso deliberatamente chiunque si trovasse sul posto. Purtroppo quel giorno tutte le maggiori firme erano presenti. Per l’ultimo numero del giornale, Charb (che è tra le vittime) aveva disegnato una vignetta alquanto provocatoria. Si vede un uomo armato di bombe, e Charb gli dice: «Ancora niente attentati?» L’uomo risponde: «Aspetta, c’è tempo fino a fine gennaio per fare gli auguri». Eccoli: li hanno fatti il 7 gennaio, alle 11.30. I miei amici Cabu e Wolinski sono morti insieme ad altri dieci giornalisti. E ancora una volta si parlerà dell’Islam. Sì, gli assassini hanno gridato «Allah Akbar», come per firmare il loro crimine. Ma non è detto da nessuna parte che si debba assassinare chi non la pensa come voi.
Ovviamente il rettore della Moschea di Parigi ha condannato quest’atto barbarico, e molti musulmani francesi hanno espresso tutto il loro orrore. Che altro fare? Una soluzione ci sarebbe, ma per questo la Francia dovrebbe lavorare mano nella mano coi musulmani residenti sul suo territorio, riconoscendoli e considerandoli come cittadini a pieno titolo, integrandoli nei valori repubblicani. Perché di fatto quest’atto criminale è un attacco contro l’Islam, contro i musulmani che vivono pacificamente in Europa.
Ma prima ancora dobbiamo ricordare che i questi ultimi tempi sembrava si fosse aperta una caccia contro l’Islam e i musulmani, stigmatizzati in continuazione, segnati a dito ogni volta che una certa Francia si lasciava andare allo sconforto e alla ricerca di capri espiatori, per spiegare la crisi morale o la paura del futuro. C’era nell’aria qualcosa di funesto, di malsano — umori e toni di razzismo trasudanti dalle pagine di alcuni libri che hanno avuto un’eco notevole.
Si è fatto commercio con l’odio e la paura, le ossessioni e le crisi d’identità. Si sono presi di mira gli immigrati extra-comunitari e l’Islam. Il Front National si fregava le mani vedendo aumentare i propri voti alle elezioni parziali. L’ideologia dominante in questa Francia in crisi, dove il morale della popolazione è basso e non si vedono soluzioni alla disoccupazione e alla precarietà, si riduce a segnare a dito gli stranieri. Dopo il saggio sul Suicidio francese di Éric Zemmour, ora è la volta dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, che pronostica per il 2020 un presidente della Repubblica musulmano.
La paura ha ormai preso piede. I musulmani sono stanchi di essere sospettati, ostaggi di una crisi morale e identitaria. So- no i primi a essere inorriditi dalla barbarie dell’Is e di Al Qaeda. E sono le prime vittime di questo terrorismo. La Francia sta pagando in qualche modo il proprio impegno in Africa, in Siria e in Iraq. I suoi soldati combattono il terrorismo. In Mali sono riusciti a farlo arretrare; l’aviazione francese ha messo a segno ogni settimana diversi attacchi contro l’Is; e la portaerei Charles De Gaulle sarà inviata in prossimità della Siria. La Francia è in guerra contro quest’Islam barbaro e deviato. Non so se l’attentato contro Charlie Hebdo sia una vendetta o una risposta dell’Is alla Francia, che si è alleata con l’America per combatterlo. Sia come sia, oggi sono i musulmani di Francia a essere i più malvisti da una maggioranza della popolazione. Per quanto possano denunciare e condannare questi atti intollerabili, il sospetto su di loro rimane.
La Repubblica, 8 gennaio 2015 (m.p.r.)
Con un’azione militare contro il settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi il terrorismo islamista porta la morte nel cuore dell’Europa e della sua crisi, scagliando il nome di Allah e il fuoco dei
kalashnikov contro un altro simbolo della democrazia: un giornale. Restano uccise 12 persone, poliziotti, giornalisti, un economista, il direttore, i vecchi vignettisti famosi in tutto il mondo come Wolinski, con una vita irriverente trascorsa a celebrare l’amore e a mettere a nudo il potere, i suoi riti e i suoi inganni. Anche il potere del fanatismo, naturalmente, quello che Salman Rushdie chiama oggi su Repubblica il “totalitarismo religioso”. Il pretesto antico, eterno e meccanico come una
fatwa, è quello delle vignette su Maometto pubblicate nel 2006, già bersagliate da bombe molotov contro il giornale quattro anni fa.
Ma il bersaglio, com’è evidente, è la libertà in cui viviamo credendo di essere in pace, senza nemmeno accorgerci che quella libertà è eversiva e colpevole per il fanatismo proprio perché diventa costume civile quotidiano, normale modo di vivere, meccanismo di garanzia reciproca che ci scambiamo l’un l’altro in ciò che chiamiamo società, dove la nostra esistenza si incontra e si combina con le vite degli altri, trovando una regola comune nel rispettare i diritti altrui mentre vogliamo vengano tutelati i nostri. C’è uno scarto evidente, a volte vistoso, tra i principi che affermiamo e la traduzione che ne facciamo nella politica, nelle pratiche di potere grandi o piccole, nell’operato degli Stati democratici, nella nostra condotta personale. E tuttavia c’è un orizzonte collettivo in cui ci riconosciamo che molto semplicemente tende al bene comune, ad uno sviluppo inclusivo che sappia tenere insieme la libertà economica e le libertà individuali che sono nate proprio in questa parte del mondo.
Oggi ciò che noi siamo è ciò di cui moriamo. Perché il terrorismo fanatico sembra esattamente consapevole di una nostra identità trascurata, mal sopportata da noi stessi, considerata stanca come le nostre istituzioni estenuate, la nostra democrazia ingrigita ed esausta. Poi alziamo gli occhi, davanti agli spari nella redazione di un settimanale trasformato in simbolo, e scorriamo l’elenco dei santuari civili della grandiosa banalità democratica scelti come bersaglio: una scuola a Tolosa, un museo ebraico a Bruxelles, un caffè a Sidney, il parlamento a Ottawa e infine oggi un giornale a Parigi. Sono cinque angoli - tra i tanti - della nostra struttura civile in cui si incontrano le credenze democratiche nella libertà e nel progresso. Libertà di studiare, di far politica, di non discriminare tra le creature umane, di confidare nella trascendenza o nell’umano, di scambiare lavorare e consumare, di conoscere e di essere informati, per poter partecipare.
L’assalto a un settimanale ci ricorda quanto i giornali siano insieme simbolo e sostanza di questa civiltà che chiamiamo Occidente e di cui siamo meno consapevoli di coloro che ci hanno trasformati in nemici, anzi in vittime designate. I giornali portano in sé il dovere di informare e il corrispondente diritto di conoscere e sapere. Sono il prodotto e il metro di misura della democrazia di un Paese, la conferma che il potere è obbligato al rendiconto, la garanzia che non esistono zone franche, la testimonianza che in una società aperta ci sono diverse letture della realtà possibili, e il cittadino può confrontarle tra loro, così come può scegliere.
I terroristi ci confermano che non c’è libertà senza i giornali. E che la libertà dei giornali arriva fin dov’è necessario, fino all’irriverenza nella storia di Charlie Hebdo. La dimensione fanatica, il meccanismo totalitario non tollerano un’informazione libera. Addirittura non concepiscono la satira. Sanno perfettamente, nel loro istinto, che informazione, libertà e satira sono elementi fondamentali, naturali di una democrazia. E la democrazia è il loro vero bersaglio. Non tanto la democrazia delle istituzioni, giustamente protetta nei suoi luoghi sacri: piuttosto la democrazia dei diritti che si traduce nella materialità della vita quotidiana, nel nostro costume civile comune, così naturale connaturato da diventare quasi inconsapevole.
Se vogliamo che i morti di Parigi abbiano un significato morale e politico anche per noi, oltre al significato simbolico e militare per i terroristi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza di ciò che noi siamo. Si chiama Occidente, cioè quella parte della cultura e del mondo che afferma di credere appunto nella democrazia come pratica che regge la cosa pubblica e la convivenza civile. Recuperata questa coscienza, dobbiamo prendere atto che proprio a questa identità è stata dichiarata una guerra mortale. Tanto più mortale quanto più i terroristi usano l’asimmetria come l’arma più potente, invincibile: kalashnikov contro la potenza disarmata di carta, inchiostro e idee, per esempio. Noi crediamo di vivere in pace e, fuorusciti con la democrazia vittoriosa da un secolo che ha regalato al mondo due totalitarismi, vorremmo estendere pace e democrazia nel mondo. Il terrorismo ci ricorda che i nostri valori più universali sono in realtà semplicemente occidentali, quindi colpevoli. È la profezia di Huntington che mirano a realizzare, nel rovesciamento del cal- colo razionale tra costi e benefici, nel ribaltamento terroristico del nostro codice che regola il rapporto tra l’ordine e il disordine, il bene e il male.
La religione armata contro la civiltà dei giornali è un doppio choc per la Francia che vuole nude le pareti della République, senza simboli religiosi, ritenendo laicamente che nella convivenza pubblica tra la legge del creatore e la legge delle creature debba prevalere quest’ultima, perché tutela i diritti - tutti - ma di tutti, quindi di chi crede e di chi non crede. Arriva fin qui l’attacco dell’islamismo radicale: fino alla separazione tra Chiesa e Stato. Fino a indurre la paura che l’edificio statale classico stia traballando di incertezze di fronte all’urto dei fondamentalisti. Che le parole con cui siamo cresciuti - laicità, tolleranza, uguaglianza, libertà - non riescano a definire di senso compiuto il nuovo mondo. Che quindi anche la cultura politica sia disarmata.
Nasce a questo punto il dovere di difendere non soltanto noi stessi ma addirittura la democrazia che è il vero bersaglio: il nostro modo di vivere, di amministrare noi stessi, la libertà di portare a scuola i nostri figli, di credere nel loro futuro, di accompagnarli in una chiesa o in un museo, di riunire i nostri parlamenti. È evidente che se tutti diventiamo bersaglio in quanto tutti siamo ogni giorno espressione, per strada e al lavoro, di libere scelte di vita, difenderci con le misure classiche di polizia diventa impossibile.
Occorre prendere atto che il Califfato e ciò che resta di Al Qaeda sono il cuore della minaccia per noi e per la libertà di tutti: anche dell’islam moderato civile, naturalmente, che deve separarsi radicalmente dal totalitarismo fanatico che strumentalizza la religione a fini criminali di potenza. Da questa minaccia dobbiamo difenderci con ogni mezzo, naturalmente con il dovere di rimanere noi stessi cioè fedeli, anche nella difesa, ai principi democratici e alla legalità internazionale. L’altro dovere è un riarmo culturale della democrazia, nei cui principi dobbiamo dimostrare fiducia e non disprezzo come troppo spesso facciamo. Vale in primo luogo per il potere, che ha responsabilità grandissime con le sue pratiche incoerenti, soprattutto la mancata consapevolezza che il lavoro è il fondamento della dignità e della libertà materiale. Ma vale per ognuno di noi: difendere la democrazia oggi per poterla affidare domani ai nostri figli. Così come per ognuno di noi, oggi, suona la campana di Parigi.
Ancora una smentita alle bugie di chi sostiene che Tsipras vuole "uscire dall'euro": «Syriza non è un orco né una minaccia: è solo la voce della ragione, e saprà suonare la sveglia all’Europa, per riscuoterla da torpore e passività. Per questo Syriza non è più considerata un pericolo come nel 2012, ma come una sfida per il cambiamento».
Corriere della Sera, 7 Gennaio 2015
La Grecia è davanti a una svolta storica. non è più una semplice speranza per il popolo greco: incarna l’aspettativa di un mutamento di rotta per l’intera Europa, che non uscirà dalla crisi senza una profonda revisione delle sue scelte politiche. La vittoria di Syriza darà slancio alle forze che spingono per il cambiamento. Perché se la Grecia è finita in una strada senza uscita, l’Europa di oggi è destinata a fare la stessa fine.
Il 25 gennaio, i greci sono chiamati a scrivere la storia con il voto, a tracciare un cammino di rinnovamento e di speranza per tutti gli europei, condannando le politiche fallimentari di austerità e dimostrando che quando il popolo lo vuole, ha il coraggio di osare e sa superare angosce e timori, la situazione può cambiare. Syriza non è un orco né una minaccia: è solo la voce della ragione, e saprà suonare la sveglia all’Europa, per riscuoterla da torpore e passività. Per questo non è più considerata un pericolo come nel 2012, ma come una sfida per il cambiamento.
Ma una piccola minoranza dei Paesi membri, stretta attorno alla leadership conservatrice del governo tedesco e di una parte della stampa populista, continua a far circolare vecchie dicerie a proposito di una GrExit (l’uscita della Grecia dalla zona euro). Proprio come Antonis Samaras in Grecia, tali voci non convincono più nessuno. Dopo aver sperimentato il suo governo, il popolo greco sa distinguere le menzogne dalla verità.
Samaras non ha niente da offrire, tranne la sottomissione ai precetti di un’austerità dannosa e fallimentare, che hanno imposto alla Grecia nuovi aumenti fiscali e tagli a stipendi e pensioni, che vanno a sommarsi a sei anni di sacrifici. Chiede ai greci di votare per lui per proseguire su questa strada. Nasconde però il fatto che la Grecia si è impegnata a raggiungere questi obiettivi, non a farlo seguendo una precisa linea politica.
Syriza si impegna ad applicare sin dai primi giorni del mandato il Programma di Tessalonica, economicamente vantaggioso e fiscalmente equilibrato, a prescindere dai negoziati con i nostri creditori. Il programma prevede azioni per porre fine alla crisi umanitaria; misure di equità fiscale, affinché l’oligarchia finanziaria, che non è stata sfiorata dalla crisi, sia finalmente costretta a pagare; un piano di rilancio dell’economia per contrastare gli altissimi livelli di disoccupazione e tornare a crescere. Sono previste riforme radicali nella gestione dello Stato e della pubblica amministrazione, perché non vogliamo tornare al 2009, ma cambiare ciò che ha portato il Paese sull’orlo della bancarotta non solo economica, ma anche morale. Clientelismo (di uno Stato ostile ai suoi cittadini), evasione ed elusione, operazioni in nero, contrabbando sono solo alcuni aspetti di un sistema di potere che ha governato il Paese per troppi anni, portandolo alla disperazione, e che continua a governare nel nome dell’emergenza e per timore della crisi.
In realtà non si tratta di timore della crisi, bensì di timore del cambiamento. È questa paura, aggravata dall’incapacità di un sistema di governo, ad aver portato il popolo greco a una tragedia senza precedenti. E i responsabili di tutto questo, se conoscono l’antica tragedia greca, hanno buoni motivi per spaventarsi, perché l’hybris è seguita dalla nemesi e dalla catarsi!
Il popolo greco e l’Europa non hanno nulla da temere: non vuole il crollo, ma la salvezza dell’euro. È impossibile salvare l’euro quando il debito pubblico è fuori controllo. Ma il debito è un problema europeo, non solo greco: e l’Europa deve accollarsi il compito di cercare una soluzione sostenibile. Syriza e la sinistra europea sostengono che occorre cancellare la maggior parte del valore nominale del debito pubblico, per poi introdurre una moratoria sul piano di rientro e una clausola di crescita per ripianare il debito restante, in modo da utilizzare le rimanenti risorse per stimolare la ripresa. Esigiamo condizioni che non sprofondino il Paese nella recessione e non spingano il popolo alla miseria e alla disperazione.
Samaras danneggia la Grecia, se si ostina ad affermare che il debito greco è sostenibile. [...] Ci sono due posizioni diametralmente opposte per il futuro dell’Europa. Da una parte, la prospettiva delineata dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble: occorre rispettare gli impegni presi e proseguire su quella strada, a prescindere dai risultati ottenuti. Dall’altra, la volontà di «fare tutto il possibile» - suggerita dal presidente della Banca centrale europea - per salvare l’euro. Le elezioni greche saranno il campo sul quale si sfideranno queste due strategie. Sono convinto che quest’ultima prevarrà per un’altra ragione ancora: perché la Grecia è la patria di Sofocle, il quale ci ha insegnato, con Antigone, che talvolta la suprema legge è la giustizia.
Traduzione di Rita Baldassarre
«Sembra che il decreto faccia proprio un sentimento fortemente radicato in alcuni strati (minoritari, ma influenti) della opinione pubblica in base al quale l’evasione fiscale può anche essere perseguita, ma comunque non può essere considerata un reato, la vittima è lo Stato, che diamine!».
Lavoce.info, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)
Il decreto sul penale tributario
Il decreto legislativo sul diritto penale tributario ha suscitato forti polemiche, tanto che il Consiglio dei ministri sarà chiamato a una nuova deliberazione. Tuttavia, al di là delle polemiche, sembra utile ragionare sulla ratio del provvedimento e sulle sue possibili conseguenze economiche. Secondo la teoria di base sull’evasione fiscale, l’entità e la certezza delle pene rappresentano un importante, anzi irrinunciabile, elemento di deterrenza nei confronti dei potenziali evasori. Se la sanzione, anziché solo pecuniaria, è anche penale e detentiva, l’effetto di deterrenza è ovviamente maggiore.
Nella situazione italiana attuale la percezione del cittadino comune nei confronti della normativa penale tributaria non è certo quella di un eccesso di severità; i detenuti per evasione fiscale (se esistono) non sono certo tanti da contribuire all’affollamento delle carceri. Quindi, l’attesa del cittadino comune non appare certo a favore di una generale depenalizzazione. È vero che in un paese ad alto tasso di illegalità fiscale bisogna evitare il rischio di ingolfare i tribunali con decine di migliaia di processi per evasione fiscale anche di modeste dimensioni, ma a questo fine è sufficiente prevedere limiti di punibilità adeguati e differenziati in base alla gravità del comportamento.
Comunque, è evidente che in questa materia sarebbe auspicabile una certa severità che, a rigor di logica, non dovrebbe essere inferiore a quella che si applica in altri paesi.
Depenalizzazione generalizzata
Il decreto nella formulazione uscita dal Consiglio dei ministri prevede invece una generale depenalizzazione di tutti i reati tributari. La prima questione che viene affrontata è quella del cosiddetto abuso del diritto, cioè dell’elusione fiscale, che viene totalmente depenalizzato (e a furor di popolo!). Se si guarda ai modelli degli economisti, in verità non è possibile riscontrare una differenza analitica tra evasione ed elusione fiscale: in ambedue i casi il contribuente evita di pagare le imposte dovute o violando direttamente la legge o schivandone sapientemente l’applicabilità. La sostanza non cambia; e infatti, non a caso, l’elusione viene definita “l’evasione dei ricchi”.
Naturalmente da un punto di vista giuridico si può sostenere che l’evasione è illegale e l’elusione no, ma questo è proprio l’argomento utilizzato dalle grandi multinazionali di internet nelle audizioni presso il Congresso americano per giustificare il fatto di non pagare praticamente imposte: “noi facciamo quello che le leggi dei diversi paesi ci consentono.”. Vi è quindi una certa contraddizione tra la decisione di depenalizzare tali comportamenti e al tempo stesso sostenere gli sforzi dell’Ocse e del G20 per venire a capo dell’elusione fiscale internazionale.
Le misure discutibili
Ma al di là dell’abuso del diritto che si esprime compiutamente nella eliminazione della “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie” come fattispecie di reato, vi sono numerose altre misure inquietanti nel decreto:
1) Viene introdotto il limite di 1000 euro per la punibilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture false o simili, come se da un punto di vista logico in una ipotesi del genere l’ammontare potesse avere una qualche rilevanza.
2) Si depenalizzano tutte le operazioni di simulazione, interposizione di persona (giuridica) e frodi finanziarie, mediante uso di derivati, strumenti finanziari ibridi, eccetera, richiedendo a questo fine che esse abbiano dato luogo “a flussi finanziari annotati nelle strutture contabili”. Cioè sempre. Si vanificano quindi gli effetti penali di molte operazioni poste in essere dalle banche negli anni passati.
3) Si alzano le soglie di non punibilità da 50 a150mila euro con finalità deflattive dei processi, ma depenalizzando di fatto evasioni fino a 3-400mila euro di base imponibile, il che sembra eccessivo.
4) Si stabilisce la non punibilità della dichiarazione di costi non inerenti alla attività dell’impresa, e cioè della pratica molto diffusa di imputare come costi consumi personali o familiari del contribuente.
5) Ci si dimentica di inserire tra i reati punibili l’ipotesi di omessa dichiarazione da parte dei sostituti di imposta.
6) Si introduce una franchigia del 3 per cento del reddito dichiarato (e analogo limite per l’Iva) per la punibilità di tutti i reati, vanificando l’intero sistema delle soglie di esclusione su cui è costruito il decreto che così diventano inutili e di fatto variabili in base al reddito dei contribuenti (maggior reddito, maggiore possibilità di evasione).
7) Si elimina la possibilità del raddoppio dei termini di accertamento per i casi di frode fiscale, con il rischio di una perdita di gettito immediata (e poi permanente) di molti miliardi in quanto verrebbero vanificati moltissimi accertamenti.
In sostanza, sembra che il decreto faccia proprio un sentimento fortemente radicato in alcuni strati (minoritari, ma influenti) della opinione pubblica in base al quale l’evasione fiscale può anche essere perseguita, ma comunque non può essere considerata un reato, e non può essere equiparata ai comportamenti lesivi della proprietà privata (furto, rapina, eccetera): la vittima è lo Stato, che diamine!
Il rimpallo di responsabilità
Infine, è inquietante il fatto che la responsabilità delle modifiche al testo originario preparato da una Commissione presieduta da Franco Gallo, rimbalzi tra il Tesoro e Palazzo Chigi. Il ministero responsabile della formulazione del provvedimento e della sua presentazione al Consiglio dei ministri è infatti quello dell’Economia e delle finanze (di concerto con la Giustizia). Se il testo uscito dal Consiglio dei ministri è stato modificato, delle due l’una: o il ministro dell’Economia era d’accordo, o (ipotesi più grave) né lui né i suoi collaboratori si sono accorti che il testo era stato cambiato.
In conclusione, speriamo che superato lo sconcerto attuale si possa tornare a una soluzione equilibrata. Infatti non va dimenticato che la reputazione del nostro paese e del nostro sistema economico all’estero non dipende soltanto dalla maggiore o minore flessibilità del mercato del lavoro, ma anche, e soprattutto, dal grado di legalità (o illegalità) prevalente nel sistema: evasione fiscale, corruzione, bilanci falsi, malavita organizzata rappresentano handicap molto gravi per l’Italia. Dare l’impressione di allentare le misure di controllo anziché inasprirle è molto pericoloso.
Tre articoli (di Tommaso Di Francesco, Anna Maria Merlo, Pavlos Nerantzis) sull'evento possibile che fa tremare il mondo della finanza e i suoi servi disseminati nelle istituzioni e nei mass media: la vittoria, in Grecia, di una sinistra che vuole andare alla radice della crisi. Il manifesto, 6 gennaio 2015
GIÚ LE MANI DAL VOTO GRECO
di Tommaso di Francesco
Sorprende e allarma, in una parola preoccupa, il dispositivo di terrorismo psicologico di massa che i governi europei e i rappresentanti della stessa Commissione europea hanno messo in campo.
Quello che accade in questi giorni e in queste ore in Grecia ci riguarda direttamente, la crisi infatti non è greca ma dell’intero sistema finanziario del capitalismo globalizzato. Sono sette anni che il mondo occidentale è in aperta recessione e le sole timide uscite segnalate sono quelle di paesi che hanno la capacità di scaricare su quelli più deboli contraddizioni e costi, come fanno la Germania con i neosatelliti dell’est e gli Stati uniti con l’intera economia europea. Il fatto che la sinistra rappresentata da Syriza sia riuscita a sventare a fine anno la manovra del premier Samaras di eleggere un “suo” presidente della repubblica per negare e rimandare la verifica elettorale è un avvenimento di portata continentale.
Tutta l’Europa in questo momento guarda ad Atene e, certo, non tutti con la stessa aspettativa. I mercati, vale a dire la finanza internazionale occidentale, teme che la rinegoziazione dei termini del debito greco metta in discussione i criteri con cui l’Unione europea ha salvaguardato le banche invece degli investimenti per il lavoro, l’occupazione, le spese sociali; l’establishment dell’Ue ha paura che l’arrivo sulla scena del governo greco di una forza alternativa di sinistra faccia saltare l’impianto dei diktat che hanno portato alla crisi umanitaria non solo la Grecia. Ad Atene invece si apre uno spiraglio di luce, una grande possibilità. Noi che in Italia lavoriamo a ricostruire una sinistra alternativa italiana, mentre siamo alle prese con la scomparsa della sinistra e con le scelte neoliberiste di un governo come quello del leader Pd Matteo Renzi all’attacco dei diritti dei lavoratori e del welfare, vediamo l’occasione straordinaria di una svolta possibile anche in Italia e in tutta Europa. È un’opportunità europeista, perché l’Unione europea invece che nemica, com’è stata finora, diventi il continente dei diritti e della democrazia.
Sorprende e allarma, in una parola preoccupa, il dispositivo — fin qui — di terrorismo psicologico di massa che i governi europei e i rappresentanti della stessa Commissione europea hanno messo in campo. Dal presidente Juncker con le sue dichiarazioni contro Syriza, al governo di ferro di Berlino, a quello di destra di Madrid alle prese con elezioni proprio nel 2015 e con la nuova formazione di sinistra Podemos; con l’eccezione del presidente francese Hollande che almeno invita Merkel e i governi Ue a riconoscere che alla fine «il popolo è sovrano». Questo attacco subdolo e scellerato è contro il popolo greco che vuole decidere il proprio destino. Dopo tante chiacchiere sulla democrazia, scopriamo dunque che i leader e i governi europei la temono anziché difenderla e vorrebbero impedire che chi ha subìto i costi della crisi del capitalismo finanziario possa votare contro la violenza istituzionale che i tagli riformisti hanno rappresentato per la condizione di vita di milioni e milioni di cittadini e lavoratori con l’aumento della miseria e delle diseguaglianze. Così si strappa un velo: il capitalismo globalizzato non ama la democrazia reale ma solo quella rituale e svuotata di senso — vista l’equivalenza dei partiti — che allrga il baratro tra governanti e governati, alimenta qualunquismo e antipolitica, mentre crollano le percentuali di voto e vince ovunque l’astensionismo di massa e il conflitto di tutti contro tutti. Fino a favorire una nuova destra estrema xenofoba, razzista, ipernazionalista che difende nella crisi i più forti e usa i deboli contro i più deboli.
Allora, giù le mani dalle elezioni greche. Solo la democrazia reale salverà la Grecia e l’Europa dal disastro. Una democrazia reale che chiami il 25 gennaio non ad un voto qualsiasi ma ad un impegno di protagonismo milioni di giovani, di donne, di lavoratori e disoccupati. Perché sostengano l’alternativa che Syriza e il suo programma già rappresentano, perché cresca la sua forza e si allarghi il suo sostegno — nessuno a sinistra può restare solo a guardare. E perché il forte consenso che avrà, e che noi auspichiamo, sia il primo passo per coinvolgere il popolo e i lavoratori nel governo della Grecia e nella svolta in Europa
L'EURO NON GREXIT
di Anna Maria Merlo
Europa. La Germania fa tremare i mercati. Ma Hollande frena Merkel: «Sarà la Grecia a decidere cosa fare». La Linke e i Verdi denunciano le «pressioni inappropriate» di Berlino sulle elezioni elleniche
Con la grazia di un elefante in un negozio di cristalleria, la Germania, minacciando Atene di Grexit – uscita dall’euro — in caso di vittoria di Syriza alle legislative anticipate del 25 gennaio, ha squarciato un velo che rischia di avere un effetto boomerang in tutta Europa: la democrazia sarebbe diventata soltanto un’operazione formale nella Ue, ingabbiata dal rispetto del Fiscal Compact e delle regole di austerità? I cittadini non avrebbero quindi più nessuna libertà di scelta, dando cosi’ ragione a tutti gli euroscettici (di estrema destra) che hanno ormai il vento in poppa nella maggior parte dei paesi dell’eurozona? Secondo Der Spiegel, per Angela Merkel e il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble non c’è «nessuna alternativa» all’applicazione del Memorandum, mentre il Grexit sarebbe addirittura «quasi inevitabile» se Syriza al potere rifiuterà di continuare ad imporre le riforme impopolari – e inefficaci — che hanno ridotto gran parte dei cittadini greci alla povertà. Se Syriza chiederà una moratoria sul rimborso del debito, la Grecia potrebbe venire costretta ad abbandonare la moneta unica, dice la Germania dominante. E questo non avrà conseguenze per la zona euro secondo Berlino, non ci sarà l’effetto domino, visto che a differenza del 2011 e del 2012 ormai l’euro è protetto dal parafulmine del Mes (il Meccanismo europeo di stabilità, dotato di 500 miliardi) e le sue banche sono a riparo della recente riforma del settore.
I grossi zoccoli con cui Merkel e Schäuble sono entrati in campagna elettorale ad Atene non hanno nessun riscontro nei Trattati. La cancelleria ha smentito mollemente le rivelazioni di Der Spiegel. In effetti, l’obiettivo era solo di fare paura, di spaventare l’elettore greco: o sceglie Samaras e l’euro, oppure Tsipras e il caos. Già Jean-Claude Juncker ci aveva provato, il 12 dicembre scorso, sperando di influire sul voto parlamentare per il presidente della repubblica: in un’intervista alla tv austriaca, il presidente della Commissione aveva affermato di preferire dei «volti familiari« (cioè Stavros Dimas) perché «non mi piacerebbe che delle forze estremiste prendessero il potere». Il risultato di questo intervento è stato la non elezione del presidente e la conseguente convocazione di elezioni anticipate. Con un comunicato, è intervenuto nel fine settimana anche il commissario agli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, invitando i greci a dare «un ampio sostegno» al «necessario processo di riforme» in corso (cioè votare per Nuova Democrazia e Pasok). Ma Berlino (e Moscovici) hanno esagerato. Ieri una portavoce della Commissione, Annika Breidthardt, ha cercato di spegnere l’incendio affermando che l’appartenenza all’euro è «irrevocabile», stando ai Trattati. Il Trattato di Lisbona prevede la possibilità di un’uscita dalla Ue, su decisione del paese interessato (e non su imposizione di altri), ma formalmente un paese non Ue potrebbe continuare ad utilizzare l’euro (succede con Kosovo e Montenegro, che usano l’euro senza essere nella Ue). François Hollande ha preso ieri mattina le distanze da Angela Merkel: «I greci sono liberi di decidere sovranamente sul loro governo – ha affermato il presidente francese in un’intervista a France Inter – e per quanto riguarda l’appartenenza della Grecia alla zona euro, tocca ad essa decidere». Però il governo, qualunque esso sia, deve «rispettare gli impegni presi».
In Germania c’è imbarazzo per le rivelazioni dello Spiegel. Solo gli euroscettici dell’Afd hanno approvato l’intervento muscolare di Berlino. Die Linke e i Verdi hanno denunciato le pressioni inappropriate sugli elettori greci, il vice-cancelliere Spd, Sigmar Gabriel, ha cercato di correggere il tiro, indicando che «l’obiettivo del governo tedesco, della Ue e anche del governo di Atene è di mantenere la Grecia nella zona euro». Dall’Europarlamento il gruppo S&D avverte: «La destra tedesca deve smettere di comportarsi come uno sceriffo in Grecia» perché «non è solo inaccettabile ma anche sbagliato: atteggiamenti del genere possono solo produrre rabbia e rifiuto della Ue», con il rischio di «erosione democratica» nella Ue.
Syriza vuole rinegoziare con la trojka i termini del rimborso del colossale debito (177 per cento del Pil). E ha ragione, persino stando alle prese di posizione di Bruxelles. L’Eurogruppo, nel novembre 2012, si era impegnato con Atene a rivedere i termini del rimborso quando la Grecia avesse raggiunto l’equilibrio di bilancio primario (esclusi cioè gli interessi sul debito): Atene, al prezzo del rigore assoluto, lo ha fatto già da fine 2013. Ma Merkel non vuole soprattutto che vengano ridiscussi i termini del Memorandum: Syriza propone riforme diverse, concentrate sul funzionamento dello Stato, mentre la troika insiste sui tagli ai salari e al numero di dipendenti pubblici. In Germania, anche la Cdu ha espresso preoccupazione per la manifestazione di arroganza tedesca: in caso di default greco, a pagare sarebbe prima di tutto la banca pubblica tedesca Kfw, che ha in cassa una parte consistente dei 260 miliardi di debito greco, assieme ai principali stati membri della zona euro e alla Bce. La Germania si arroga un potere che non ha: solo la Bce, in linea di principio, potrebbe causare il Grexit, tagliando i crediti alle banche greche. Ma così Draghi metterebbe fine alla difesa dell’euro «a qualunque costo», aprendo il vaso di Pandora di un possibile effetto domino. A cui neppure la Germania potrebbe resistere: Berlino pensa di sopravvivere senza la Grecia, ma l’economia tedesca non ce la farebbe nel caso di uscita dall’euro dell’Italia e della Francia
SPERANZA CONTRO PAURA
di Pavlos Nerantzis
La speranza per un avvenire migliore in Grecia e nel resto dell’Europa, ma anche la volontà politica di applicare il programma economico a favore degli strati sociali maggiormente colpiti dalla crisi. È la risposta di Syriza alla strategia della paura promossa dai conservatori della Nea Dimokratia e i loro sostenitori, terrorizzati dai sondaggi che continuano a dare in testa la sinistra radicale greca, tre settimane prima delle elezioni del 25 gennaio.
Syriza, secondo gli ultimi due sondaggi, si conferma in testa tra il 30,4 e il 29,4 per cento, contro il 22 per cento e il 27,3 di Nea Dimokratia del premier Antonis Samaras. Al terzo posto si trovano i nazisti di Alba Dorata con il 5,7 per cento, secondo uno dei due sondaggi, mentre secondo l’altro la terza forza sarebbe il Partito comunista di Grecia (Kke) con il 4,8 per cento. I socialisti del Pasok, invece, che hanno sostenuto il governo di Samaras, rischiano di non essere eletti al parlamento (3–3,5 per cento). Alla domanda su chi sarebbe il miglior premier al momento per il Paese, il 41 per cento si schiera a favore di Samaras contro il 33,4 per cento che preferisce Tsipras. Il 74,2 per cento poi ha risposto che la Grecia deve a ogni costo rimanere nella zona euro.
La prospettiva della vittoria di Syriza non piace, però, ai mercati come anche a una parte della stampa internazionale, che insiste sull’ eventualità di un Grexit, nonostante Alexis Tsipras non smetta di sottolineare che il suo partito non ha la minima intenzione di uscire dalla zona euro. A questi timori è stato attribuito il calo del 5,6 per cento, ieri, della Borsa di Atene e pure la tensione registrata sullo spread ellenico, che è balzato a 876 punti, 21 in più rispetto al dato di partenza.
Pure la Grande coalizione a Berlino, a leggere il settimanale Der Spiegel, si prepara a una uscita di Atene dall’euro, tenendo conto che «questo fatto non avrebbe ripercussioni gravi al resto dell’ Ue». Ma Berlino per il momento smentisce. Ieri il portavove di Angela Merkel ha detto che il governo tedesco non ha cambiato posizione. Anzi, ha aggiunto, la cancelliera tedesca «insieme ai suoi partner lavorano per rafforzare la zona euro nel suo insieme e per tutti i suoi membri, Grecia inclusa».
L’ipotesi di un Grexit è stata respinta anche da Parigi e da Bruxelles che, oltre a far ricordare ad Atene che ci sono impegni che «vanno ovviamente rispettati», ribadiscono che in base ai trattati dell’Ue non è possibile l’uscita di un paese membro dalla zona euro. In altri termini, come ha precisato un portavoce della Commissione europea, la partecipazione all’euro è irreversibile, secondo l’articolo 140, paragrafo 3 del Trattato Ue. Quindi per un Grexit sarebbe prima necessaria una modifica del trattato, «la cui procedura prevede l’ unanimità dei paesi membri, l’approvazione del parlamento europeo e ovviamente da parte dei parlamenti nazionali».
Per il momento quindi i partner europei, alleati di Antonis Samaras, fanno una manovra: sembrano abbandonare la strategia della paura e le interferenze, come era successo durante le elezioni presidenziali, lasciando Atene libera di decidere il proprio destino. Almeno apparentemente, perché dietro le quinte lavorano per affrontare la questione principale, che il nuovo governo greco se sarà guidato da Alexis Tsipras metterà sul tavolo dei colloqui: il taglio del debito pubblico greco. Una richiesta che, nel caso venisse accettata da Berlino e ovviamente da Bruxelles — perché di fatto questi prestiti ad Atene non saranno mai rimborsati per intero — rischierebbe un contagio politico a Roma e a Madrid. Allora lo scontro tra un governo delle sinistre e la cancelliera tedesca sarebbe inevitabile e solo a quel punto si potrebbe parlare del rischio di un Grexit provocato da Berlino.
Intanto l’arresto ad Atene di Christodoulos Xiros, esponente dell’organizzazione “17 Novembre”, condannato a sei ergastoli e ulteriori 25 anni di prigione ed evaso un anno fa dal carcere di Krydallos, è diventato un altro motivo di scontro tra Nea Dimokratia e Syriza. Il premier Samaras, che pure nel passato aveva accusato Tsipras di «andare a braccettocon i terroristi» e di «rapporti tra Syriza e organizzazioni terroristiche», ieri ha accusato la sinistra radicale di non aver emesso un comunicato stampa a favore degli agenti che hanno arrestato il ricercato numero uno in Grecia. Xiros stava preparando un attacco contro le carceri di Korydallos per far evadere i detenuti dell’organizzazione “Cospirazione dei nuclei di fuoco”

La Repubblica, 5 gennaio 2015
Rabouni (Algeria meridionale). VISTO da lontano più che di un’invalicabile barriera militarizzata il “muro della vergogna” ha l’aspetto di una duna giallognola che si erge di pochi metri chiudendo allo sguardo l’orizzonte esagerato del Sahara. A un paio di chilometri riesci appena a scorgere i cavalli di frisia che lo precedono e le parabole dei radar posti a scandagliare il nulla di un deserto punteggiato da acacie contorte e spinosissime. Per via delle mine anti-uomo con cui sono state lardate queste sabbie è impossibile avvicinarsi ulteriormente. Mohammed, la nostra guida sahrawi, ci indica un sentiero segnato con piccoli massi a uso delle poche delegazioni di politici o di attivisti che si spingono fin qui: «Questa strada è “pulita”, ma non possiamo percorrerla perché i marocchini ci hanno appena individuati ». Infatti, accanto a una garitta, indoviniamo le sagome di tre o quattro soldati.
Assieme a quello di Cipro e a quello israeliano, il valico che separa il Sahara Occidentale “occupato” da quello “liberato” è una delle ultime, spietate barriere che nel pianeta tagliano in due una comunità o un’intera nazione. Lungo 2720 chilometri, il “muro” nel deserto è senz’altro il più armato e il meglio presidiato. Dice Mohammed: «È protetto da 160mila soldati marocchini, 240 batterie di artiglieria pesante, 20mila chilometri di filo spinato e 7 milioni di mine anti-uomo e anti-carro. A Rabat costa 4 milioni di dollari al giorno». Costruita a difesa dell’ultima colonia d’Africa, per i sahrawi questa barriera tiene prigioniero tutto un popolo, impedendogli l’accesso alle ricche miniere di fosfati e alle pescosissime coste dell’Atlantico, entrambe nella porzione di Sahara occidentale “occupata” dai marocchini nel 1975. Per Rabat, invece, si tratta di una “cinta di protezione” eretta per arginare le falangi del Fronte Polisario, movimento in lotta per l’autodeterminazione dei sahrawi in quelle terre. Quel movimento, però, ha rinunciato alla lotta armata quasi un quarto di secolo fa, quando, nel 1991, optò per la via diplomatica nella speranza che grazie all’aiuto della comunità internazionale venisse indetto un referendum sul Sahara Occidentale. Un sogno ancora irrealizzato.
Mohamed Abdelaziz, segretario generale del Fronte Polisario e presidente in esilio della Repubblica araba sahrawi democratica, ci riceve a Rabouni, campo profughi nel Sud. L’ex combattente Abdelaziz, che vanta 13 cicatrici di guerra e una presidenza da primato, cominciata nel 1978, considera il “muro” il simbolo della separazione. «Rabat ha chiuso la porta a ogni soluzione pacifica e calpesta i diritti della nostra comunità. Siamo stanchi dello status quo e nei campi profughi i nostri giovani invocano la ripresa della lotta armata. Siamo noi sahrawi che dobbiamo decidere che cosa fare della nostra terra. Non il Marocco che la occupa illegalmente, come sancì la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ».
Dal presidente Abdelaziz è andata una nostra delegazione parlamentare capeggiata dal senatore Pd Stefano Vaccari. All’Italia, il presidente chiede il riconoscimento della Repubblica araba sahrawi, come hanno già fatto un’ottantina di Paesi, e la condanna della Francia, «che da membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu ha sempre usato del suo diritto di veto per favorire la monarchia marocchina».
Anche per il primo ministro sahrawi, Abdelkader Taleb Omar, senza una risoluzione dell’Onu il suo popolo ricomincerà presto a guerreggiare. «I giovani non hanno lavoro e per loro l’unica soluzione è il ritorno alle armi. Insomma, o patria o morte». Taleb Omar dà tutte le colpe all’intransigenza del Marocco «che da sei mesi non riceve Christopher Ross, inviato del segretario generale dell’Onu Ban Kimoon, che blocca l’ingresso nel Sahara occidentale alle delegazioni straniere, ai giornalisti e alle ong, e che impedisce persino l’arrivo nel capoluogo El Ayun del nuovo capo della Minurso, l’agenzia delle Nazioni Unite per il referendum ».
Il Sahara occidentale ha anche altri problemi, quelli che nascono alle sue frontiere: con la Libia nelle mani delle milizie, diventata un gigantesco mercato di armi, con il Mali, roccaforte di Al Qaeda, con il Marocco da dove i narco-trafficanti sperimentano nuove rotte per il trasporto della droga verso l’Europa. «Se i negoziati non dovessero trovare uno sbocco, i giovani sahrawi che scalpitano per tornare a combattere potrebbero finire nelle fila dei jihadisti, aggiungendo instabilità a una regione di per sé già incandescente», sostiene Abdeslam Omar Lahsem, presidente dell’Associazione delle famiglie dei prigionieri e dei desaparecidos. «Nel 1975 fu un’invasione barbara, con ammazzamenti e deportazioni di massa. Con la repressione marocchina sono già scomparse almeno 500 persone».
L’8 ottobre 2010, a pochi chilometri da El Ayun, nel Sahara occidentale “occupato”, 20mila sahrawi montarono 7000 tende in località Gdein Izik. Fu l’equivalente di una locale piazza Taksim, in anticipo di tre anni sulla rivolta turca. I manifestanti chiedevano case e lavoro al “tiranno” marocchino. Un mese dopo le forze di sicurezza sgomberarono l’accampamento. Secondo il linguista statunitense Chomsky fu quell’episodio, e non un mese dopo l’immolazione del tunisino Mohamed Bouazizi, a segnare l’inizio delle primavere arabe.