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Il Sole 24Ore, 11gennaio 2015

La portata e il significato dei tragici fatti dì sangue di Parigi, nonostante le divergenti e contraddittorie interpretazioni che provengono da ogni dove, meritano una più meditata riflessione di quanto oggi non sia ancora possibile fare. Nel cuore dell'Europa pare essere ritornato improvvisamente quello "stato di natura" descritto da Thomas Hobbes, una guerra di tutti contro tutti, e comunque una situazione di insicurezza generale. Considerare questo fenomeno alla stregua di un puro atto terroristico è sicuramente riduttivo.

Il contesto politico nel quale questa sanguinosa battaglia ha avuto luogo suggerisce la strisciante esistenza di un conflitto mondiale, reso ancor più dirompente dalla globalizzazione economica, con le sue profonde disuguaglianze. L'ideologia dominante che si è affacciata al nuovo millennio ha via via ridotto il potere e la sovranità degli Stati, scardinando alcuni principi delle democrazie liberali.

Gli Stati stessi, da fonti del diritto sono diventati meri esecutori di una governance tanto generica quanto vaga. Fu già Hegel a rilevare che quando il diritto privato ha il completo sopravvento sul diritto pubblico e lo Stato arretra di fronte agli interessi dei privati, la decadenza dei sistemi politici minaccia le stesse basi della civiltà. La sostituzione della governance alla norma giuridica produce un sistema mondiale privo di ordine e di coerenza. È quel che è avvenuto anche nell'ambito del diritto internazionale. Dove le grandi istituzioni, nate nel secondo dopoguerra, come le Nazioni Unite, atte a garantire un diritto cosmopolitico internazionale di piena effettività diretto ad assicurare la pace nel mondo, sono state sostituite da varie organizzazioni di natura plurilaterale.
Tra queste, quella di maggior rilievo, dominata dagli Stati Uniti, è la Nato, che, come ha sostenuto giustamente John Mearsheimer sull'ultimo numero di Foreign Affairs, è certamente, a causa del suo allargamento ai vari Stati confinanti con la Russia, motivo di nuovo conflitto, alla base della reazione in Ucraina e dell'annessione della Crimea da parte di Putin, in preventiva difesa dell'imperialismo russo. Fenomeno di guerra generalizzata che, pur completamente diverso dai fatti di Parigi, si inserisce nella medesima disordinata cornice.

Ma il caso più clamoroso è la subalternità degli Stati, soprattutto in Europa, fortemente indebitati, la cui operatività di politica economica, completamente privatizzata, è costretta ad adottare misure di austerità soggette ai voleri dei creditori e dei loro diritti contrattuali, di cui si fanno interpreti l'opacità dei mercati ed i suoi protagonisti, dagli hedge funds; alle società di rating, ai fondi sovrani, nel marasma dei loro conflitti di interessi.

Ed è così che alla certezza del diritto si sostituisce l'incertezza della governance, dove i protagonisti del capitalismo finanziario sono molto spesso occulti o privi di qualunque giuridica legittimazione internazionale, come nel caso della c.d. troika, che detta le regole agli Stati o impone norme costituzionali contrarie ai diritti fondamentali, quale il vincolo al pareggio di bilancio, introdotto nel 2012 nella Costituzione italiana con la sostituzione dell'art. 8I.

Che lo Stato sia pericolosamente diventato il mediatore di interessi privatistici l'aveva già rilevato con straordinaria lucidità Norberto Bobbio. Ma il fenomeno si è via via allargato, tant'è che recentemente, in democrazie avanzate come quella americana, le interpretazioni dei diritti costituzionali sono state manipolate a favore della governance privata del capitalismo finanziario. La sentenza della Corte Suprema del 2010 Citizen United v. FEC, sulla quale mi sono già più volte intrattenuto, ha parificato la sovranità del popolo alle corporations e la libertà di espressione (freedom of speech) al denaro (money), togliendo ogni limite ai finanziamenti alla politica da parte delle grandi società. I più autorevoli commentatori hanno dichiarato che questo è stato un modo per rendere legale la corruzione polìtica.

Non diverso comportamento è stato seguito in molteplici casi dalla Corte di Giustizia europea, nel difficile bilanciamento tra i principi fondamentali dell'Unione e le misure restrittive di natura finanziaria e di risanamento economico, come chiaramente documentato il costituzionalista Gaetano Azzariti. Altre volte abbiamo stigmatizzato la pericolosità delle misure economiche alternative alla sanzione penale. Questa justice by deal, questa sanzione attraverso la contrattazione è un indice che anche il potere giudiziario, come quello politico, può diventare come è stato più volte denunciato dal New York Times, uno strumento dell'ideologia del capitalismo finanziario.

L'arretramento degli Stati e del diritto a favore di interessi particolaristici finisce per conferire una assurda attrattiva ai fatti di Parigi, che si inquadrano invece in una violenta barbarie, alla quale non può riconoscersi alcun valore universale. La brutalità del fanatismo religioso nasconde invece i veri scopi di dominio di territori e di risorse economiche, come si è verificato in Iraq e in Siria. L'attuale erratico andamento del prezzo del petrolio, che sta sconvolgendo tutte le previsioni economiche, riguardanti anche i paesi c.d. emergenti, ne è l'indice più evidente. Attaccare i principi fondamentali della libertà di stampa e di opinione invocando esclusivamente idolatrie religiose con il miraggio di nuovi Stati fondamentalisti cela le finalità di carattere economico che altrimenti non potrebbero certo qualificarsi come valori universali.

Due conclusioni mi paiono a questo punto certe.

La prima è che l'affermazione dei diritti umani -nucleo centrale della civiltà occidentale -deve prevalere sulla governance del capitalismo neoliberista e sul simulato riferimento scorretto al diritto di libertà, con cui è stato giustificato ogni tipo di sopraffazione, e quindi di violazione del diritto alla dignità dell'uomo. Purtroppo l'ideologia di base del neoliberismo ha trascurato un principio fondamentale; già Bentham aveva affermato che compito del diritto e dello Stato era proprio indicare i limiti all'esercizio delle libertà, discorso poi ripreso fino a Isaiah Berlin col concetto di libertà negative. Alla base di ogni programma politico futuro che si ponga come obiettivo l'uscita dalla crisi, soprattutto in Europa, si deve tener conto che senza uguaglianza non c'è libertà, e quindi se i principi dell'economia portano alla creazione continua di diseguaglianze e di smisurate ricchezze, soprattutto a livello globale, i conflitti non potranno mai esser risolti. E i ritorni allo "stato di natura" previsto da Thomas Hobbes saranno ancora più frequenti.

La seconda conclusione che ne deriva è il fallimento delle politiche di "austerità espansiva", che devono porre fine anche all'ideologia del sopravvento della governance economica sul diritto. Il monito a «non sovrastimare l'importanza del problema economico, o sacrificare alle sue presunte necessità altre materie di maggiore o più duraturo significato» era già stato espresso da Keynes nel 1931; ovviamente egli si riferiva ai diritti fondamentali.

Barbara Spinelli al ministro Padoan: le norme antievasione favoriscono Berlusconi
Comunicato stampa, Strasburgo, 12 dicembre 2015
Barbara Spinelli è intervenuta nella riunione straordinaria della Commissione per i problemi economici e monetari, rivolgendosi al ministro Pier Carlo Padoan, ex Presidente ECOFN e ministro italiano dell'Economia e delle Finanze, presente a Strasburgo per un bilancio della presidenza italiana dell’Ue. «Mi soffermo sulle recenti misure di politica economica del suo governo, e più in particolare sull’indulgenza mostrata verso corruzione ed evasione, nonostante le ottime misure europee adottate durante il semestre di presidenza», ha detto la deputata del GUE-NGL. «Non elenco qui tutti gli articoli dell’ultima legge di bilancio che depenalizzano i reati fiscali. Ricordo solo alcuni calcoli che sono stati fatti: ogni anno la corruzione comporta in Italia una riduzione dello 0,14 per cento del PL. E dico che delle norme sull’evasione connesse alla legge di bilancio lei è responsabile. Anche di quella che avvantaggia condannati di frode fiscale come Silvio Berlusconi, e che è stata per il momento rinviata. Lo è in ambedue i casi, per quanto concerne la frode fiscale: sia che lei fosse d’accordo con queste norme, sia che non ne sapesse nulla (ipotesi ancora più grave)».

Il ministro Padoan ha respinto l’accusa che le misure contenute nel pacchetto antievasione intendessero favorire un specifico individuo.

«Se vincerà Syriza, gli ha inoltre domandato Barbara Spinelli, evocando lo scenario del prossimo voto in Grecia, l’Unione si troverà alle prese con una domanda di rivoluzionamento dell’austerità. Verranno chiesti una parziale europeizzazione del debito, una Conferenza europea simile a quella che condonò i debiti di guerra tedeschi nel ‘53, e un New Deal, con massicci investimenti pubblici finanziati dalla Banca europea per gli investimenti e dal Fondo europeo per gli investimenti, tramite emissione di eurobond, e acquisto simultaneo da parte della BCE di titoli pubblici con denaro di nuova emissione».

Anche su questo punto il ministro è stato evasivo: «Lei mi chiede un commento su qualcosa che ancora non c’è, e quindi non mi è possibile darle una risposta»

La Repubblica, 12 gennaio 2015 (m.p.r.)

Fuori, le ambulanze in coda. Dentro, le barelle nei corridoi, i medici e gli infermieri che corrono da una parte all’altra, i pazienti che si lamentano. Non è un fatto di latitudine, per una volta. Torino e Genova, Ancona e Roma, Napoli e Lecce, non fa differenza: i pronto soccorso in questi giorni sono in crisi ovunque. Arrivano tanti anziani con uno stato di salute già precario, indebolito dal freddo e dall’influenza e nei reparti ci sono pochi letti dove metterli. I loro casi si aggiungono al continuo viavai di persone con problemi banali che non hanno voglia di affrontare una lunga lista d’attesa per ottenere una visita e un accertamento radiologico (peraltro pagando il ticket) e chiedono risposte rapide alle strutture di emergenza. I cosiddetti «casi inappropriati»: pazienti che magari in questi giorni si presentano per il virus stagionale anche se non hanno nient’altro che la febbre. Evidentemente non vengono scoraggiati più di tanto dai ticket per i codici meno gravi disposto alcuni anni fa, perché spesso il costo è basso o la tassa non è richiesta. Paradossalmente, sono proprio i pazienti che si lamentano di più quando c’è un po’ da aspettare.

I pronto soccorso in Italia soffrono di vari mali che non si riescono a curare. E così si allargano, diventando una parte sempre più significativa degli ospedali, impegnati anche con i reparti di degenza magari destinati ad attività programmate a dare risposta ai casi urgenti. Ma non basta, perché in certe giornate è il caos. In un policlinico si possono vedere anche 200 - 250 pazienti in ventiquattr’ore. Uno ogni 5 minuti. Chi aspetta si lamenta, ma anche chi lavora è in grave difficoltà. Due giorni fa il caposala del pronto soccorso del Martini di Torino, dopo un turno duro di 12 ore ha avuto un’emorragia celebrale. «Il lavoro è molto stressante per il personale. Ormai i dipartimenti di emergenza sono presi da molti come unico punto dove curarsi - dice Ornella Di Angelo, della Funzione pubblica Cgil - In particolare il territorio non è in grado di seguire le persone, in molte Regioni, come il Lazio, le tanto attese case della salute non sono mai partite. E così arrivano tutti in ospedale. Se ci mettiamo che il turn over è bloccato da tempo, e quindi il personale infermieristico è scarso, oltre ad essere piuttosto in là con l’età, abbiamo una miscela esplosiva. Andrebbero cambiate le regole».
È necessario intervenire anche secondo Alfonso Cibinel, presidente della Simeu, la società scientifica della medicina di emergenza urgenza e primario all’ospedale di Pinerolo. «Va rivisto il rapporto tra ospedale e territorio. Se quest’ultimo funzionasse meglio e ci fosse più coordinamento, troverebbero migliore accoglienza i pazienti in uscita e dalle nostre strutture e magari arriverebbero anche meno casi. Siamo un faro che rimane sempre acceso e per questo attiriamo tutti. Persone con problemi gravi, ma anche banali. Queste ultime sono circa un terzo dei pazienti che vediamo. Dobbiamo trovare il modo di ridurre il loro numero, anche se in questo periodo siamo molto impegnati su chi sta male davvero. Solo loro che dobbiamo curare, è per loro che dobbiamo trovare un letto in un reparto ».

La Repubblica, 12 gennaio 2014 (m.p.r.)

IL mondo è diventato troppo complicato per essere tenuto in ordine. Questa è l’unica considerazione obbiettiva, di fronte non solo alla tragedia di Parigi, ma anche alle tante stragi lontane da noi, da cui allontaniamo l’attenzione appena ne apprendiamo l’esistenza. Il mondo è in subbuglio e non esiste visione, teoria, algoritmo capace di risolvere le incognite. Non siamo sicuri nemmeno di quali le incognite siano. Ancora Parigi: fanatici che credono di difendere l’onore offeso del Profeta; rete terroristica di Al Qaeda che deve farsi sentire per non finire oscurata dall’Is; inizio di strategia generale, per scardinare l’ordine dell’Occidente; mossa intimidatrice contro la politica francese nella complicata e spesso indecifrabile galassia di forze nel mondo arabo. Le contraddizioni scoppiano qua e là, per ora perifericamente ma sempre più numerose, e minacciano scoppi più grandi. Vacilla il pensiero, ancor prima che l’azione.

La teoria politica ha riflettuto sul rapporto tra «forme» e «spazio» del governo. La democrazia, ad esempio, è adatta alle piccole dimensioni; l’autocrazia, alle grandi. Così pensava Montesquieu. Nel mondo odierno in cui tutto circola, non è nemmeno più problema di forme di governo, ma di governo tout court. Il mondo è una grande scorribanda: poteri economico-finanziari e tecnologici mossi da inesausta e cieca volontà di potenza; organizzazioni criminali che controllano interi settori di attività illegali; circolazione illimitata di armi micidiali che alimenta conflitti. Il mondo è una polveriera dove civiltà umiliate nei secoli cercano rivalse; dove storiche rivalità etniche e tribali sono libere di riesplodere; dove fedi politico-religiose che erano confinate nel premoderno riemergono con la loro carica d’intransigenza e d’intolleranza. Il mondo, che la globalizzazione ha reso uno, si sta disgregando in contraddizioni non più tenute sotto il controllo da un qualunque ordine mondiale, fosse anche l’ordine assicurato dall’«equilibrio del terrore». Il terrore s’insinua capillarmente e anarchicamente nelle aggregazioni umane che chiamiamo «nazioni» dove l’insufficienza di politiche e culture integratrici produce vite infelici, sbagliate e senza radici: facili vittime del fascino perverso della violenza riscattatrice.
Massima estensione uguale massima debolezza. La legge del «gradiente della perdita della forza» dice che, mano a mano che ci si allontana dal centro, cresce l’anarchia. Pare unità ed è Babele, il cui mito viene a proposito come monito: l’impresa smisurata rovina su se stessa e coloro che vi lavorano si disperdono nel marasma. Tutti i regni malati di gigantismo si sono dissolti: l’impero persiano, macedone, romano, mongolo, ottomano, giapponese, russo, giapponese, ecc. Questo è accaduto pur quando governi centrali dispotici esistevano. Immaginiamo quando un governo nemmeno esiste: qui la debolezza è massima e il disordine e la violenza si diffondono indifferentemente tra quelli che continuiamo a considerare centri del mondo (New York, Londra, Madrid, Parigi, ecc.) e periferie (Palestina, Sudan, Nigeria, Siria, Egitto, Turchia, paesi del sud-Asia, ecc. ecc.).
Gli ottimisti della globalizzazione credono che le tante forze in campo finirebbero per disporsi in un assetto naturale, determinato dal libero gioco reciproco degli interessi. La nascita spontanea delle istituzioni e dell’ordine sociale è un fenomeno ben noto, con riguardo soprattutto ai fatti economici, dove dovrebbe valere la razionalità degli attori. Non sempre, però, le cose funzionano così. Soprattutto non funzionano quando i soggetti da integrare sono di natura diversa (economica, culturale, etnica, religiosa), sono troppo numerosi e le motivazioni e gli impulsi degli uni sono sconosciuti e imprevedibili per gli altri. Il gioco delle aspettative razionali circa i comportamenti reciproci - gioco da cui nasce l’ordine spontaneo - è impossibile, tanto più quando si contrappongono valori sostanziali, come si usa dire, non negoziabili. C’è poco da stupirsi se la globalizzazione anarchica non ha portato al massimo della razionalità, ma al massimo dell’irrazionalità. Non ha promosso la pace, ma ha diffuso la violenza.
Il mondo, così, è diventato una grande incognita, un grande rischio. Le nostre società sono vulnerabili, anche sul piano psicologico. I nervi sono a fior di pelle. Poiché, però, non possiamo rimettere indietro le lancette della storia e sognare impossibili, romantici ritorni alle «piccole patrie» o agli «stati nazionali chiusi» e alle loro sicurezze, dobbiamo rassegnarci ad affrontare le conseguenze di quello che è il nostro momento storico, preparandoci. È difficile e doloroso ammetterlo: i morti di Parigi e le centinaia e migliaia di morti che li accompagnano in ogni parte del mondo non sono né saranno anomalie. Sono conseguenza del mondo che abbiamo costruito e che ora si rivolta contro di noi modellando, alquanto spaventosamente, le nostre vite.
Prepararci: sì, ma a che cosa? A difenderci, naturalmente. Difendere che cosa di noi? La vita e la sicurezza, innanzitutto, e il nostro mondo di principi e valori di libera convivenza, senza i quali perderemmo noi stessi. Questo dicono tutti. Ma, difenderci con che mezzi? Il tema che già si è imposto nei discorsi politici è la guerra, qualunque cosa questa parola possa significare nella situazione in cui ci troviamo. Siamo solo all’inizio, perché su questa parola si giocano interessi politici ed elettorali che fanno leva su istinti e divisioni primordiali: amico-nemico, scontro di civiltà. Anzi, civiltà contro barbarie. Davvero siamo come a Poitiers nel 732, a Vienna nel 1529, a Lepanto nel 1571? Basta porre la domanda per comprendere che parlare di guerra è un puro nonsenso. Serve solo a mobilitare irrazionalmente l’opinione pubblica interna, per ragioni di lotta politica, come stanno facendo i partiti e i movimenti nazionalisti xenofobi che speculano sulla paura e illudono con la promessa che «la guerra» sia la risposta risolutiva.
Questa generica parola d’ordine - a parte l’orrore della leggerezza con la quale è usata - vale soprattutto come argomento per vincere le elezioni, contro avversari politici interni, accusati d’essere pusillanimi, opportunisti, traditori dei valori occidentali, se non addirittura conniventi con i terroristi. Ma, rispetto al contrasto del terrorismo, è così difficile comprendere quale pericolo essa racchiude? Il primo effetto d’una guerra dichiarata genericamente contro l’Islam sarebbe di compattare in un unico fronte nemico gli islamici che vivono nei nostri Paesi e che, bene o male, vi si sono integrati. Sarebbero questi le prime vittime: atti di violenza nei loro confronti; e sarebbero nuove reclute: atti di violenza come ritorsione. Odio su odio. Se ci si vuole imbarbarire e dare argomenti all’islamismo presso persone che ne sarebbero immuni, questa è la strada sicura.
Quando si chiede, piuttosto provocatoriamente, a un islamico che vive pacificamente nei nostri Paesi di dissociarsi dal terrorismo, questi ha buon gioco nel rifiutare la provocazione rispondendo di non avere nulla di cui scusarsi, da cui prendere le distanze, perché il suo Islam è pacifico e lui, islamico, ha col terrorismo lo stesso rapporto che ha ciascuno di noi, cioè nessun rapporto di vicinanza. Ma, se fossimo proprio noi a equiparare nella stessa categoria del nemico gli islamici come tali, come crederemmo ch’essi si schiererebbero? Con noi, contro l’Islam, o con l’Islam, contro di noi? La campagna per la guerra è una formidabile propaganda per l’arruolamento all’Islam violento, un regalo ai nostri nemici, il cui obiettivo è il compattamento integralista di tutto l’Islam.
Questo è il momento della ragione, e la ragione dice non guerra, ma controlli, indagini e azioni di polizia. Tra azioni di guerra e azioni di polizia c’è la differenza che le prime sono rivolte indifferenziatamente contro «il nemico » e le seconde, selettivamente, contro i delinquenti, le loro organizzazioni, i loro addestratori e finanziatori. S’è già detto della debilitazione del governo nel gigantismo politico. Troppe contraddizioni, troppi interessi particolari impediscono un’azione efficace di polizia mondiale e, a maggior ragione, azioni militari dirette a distruggere le basi di reclutamento e addestramento dei terroristi. C’è sempre qualche governo che ha interessi geopolitici suoi propri, che impediscono azioni comuni. Molte volte si sono visti governi appoggiare e armare opportunisticamente la violenza in altri Paesi, pensando di usarla per i propri fini, salvo pentirsi quando il terrore si è ritorto contro di loro.
Riprendiamo l’osservazione iniziale: lo spazio troppo grande pregiudica l’efficacia del governo; lo spazio giusto è quello che non include interessi contraddittori. Gli Stati europei, almeno sulla loro sicurezza, possono superare le rivalità. Alla globalizzazione del terrorismo l’Europa si contrapponga come regione che cerca sicurezza e pace.

Corriere della Sera, 12 Gennaio, 2015

Ventenni e trentenni ieri si sono resi conto che l’Europa libera non è un gentile omaggio: qualcuno l’ha costruita per loro, ora devono mantenerla. Devono mantenerla con amore e precisione. Senza intolleranza, ma con intransigenza. Questa è la loro guerra. Una guerra lunga, che dovranno combattere con intelligenza, pazienza, fermezza.

Erano molti, ieri nelle strade di Parigi, i nuovi Europei. Nati dopo il 1980, informati e connessi, con una debolezza, forse: pensare che la pace fosse per sempre. Che una volta conquistata, la si potesse amministrare, come un condominio. Non è così: ogni generazione deve meritarsi la sua pace.
Quella contro il totalitarismo religioso, e per la libertà, è la guerra dei nostri figli. Una guerra a puntate, coma ha intuito papa Francesco. La prima l’11 settembre 2001; la più recente a Parigi, nei giorni scorsi. E non sarà l’ultima, purtroppo. Gli americani hanno i Millennials; noi, la generazione Erasmus. Una generazione per cui l’Europa è viaggi, studi, amori, scambi, comunicazioni. Una generazione amareggiata per il lavoro che spesso non c’è; ma fortunata, per quello che ha potuto fare, vedere e condividere. Una generazione cui, forse, mancava una grande prova. È arrivata.
La generazione dei nostri padri ha sofferto le grandi dittature europee, e le ha viste implodere, una dopo l’altra. La nostra generazione ha conosciuto da vicino il comunismo e l’ha osteggiato, quando l’ha capito. La generazione dei nostri figli si trova di fronte a una sfida completamente nuova. Ce la farà, a disinnescare l’attacco del fondamentalismo? Probabilmente sì. E ci insegnerà qualcosa. Le piazze non vanno mai sopravvalutate: il giorno dopo sono ridotte a fotografie e cartacce che volano. Ma quello che si è visto ieri a Parigi era impressionante. Una città - in rappresentanza di un Paese, di un continente e del mondo libero - che diceva: basta così. Queste sono le nostre trincee politiche, giuridiche, morali, mentali. Non si uccide per un’opinione o un disegno, magari sgradevole. Nessuna religione, nessuna convinzione, lo autorizza. Chi sostiene il contrario non è un dissidente: è un assassino.
Affermazioni ovvie? Certo. E allora perché abbiamo aspettato tanto a pronunciarle, tutti insieme? A mettere un po’ di orgoglio nella difesa della società che abbiamo costruito, un’area di libertà senza uguali sul pianeta? Non è ingenuo pensare che la nuova, giovane Europa abbia capito la lezione. L’abbia capita nel modo più duro, e ce la stia già insegnando. Vedere cinquanta capi di Stato e di governo tutti insieme, uniti in nome della libertà e non impegnati a litigare sul deficit al 3%, è consolante. Quelle foto di gruppo le abbiamo viste sulle spiagge della Normandia, davanti alle trincee nelle Ardenne, in visita ai campi di concentramento. Stavolta i nostri leader erano insieme contro i nemici della libertà, attaccata in nome di una religione.
Con loro a Parigi hanno sfilato, in silenzio, due milioni e mezzo di persone. Ognuna, ci auguriamo, ne rappresentava altre duecento: tanti siamo, in Europa, da Lisbona a Tallin. Cinquecento milioni. Siamo diversi, abbiamo governi e tradizioni diverse, ma anche un evidentissimo comun denominatore. Avendo provato - ed esportato - l’orrore delle dittature, da settant’anni crediamo nella democrazia, nella libertà di espressione, nello Stato di diritto. I governi che provano a discutere questi principi vengono tenuti ai margini (Turchia) o guardati con sospetto (Ungheria).
La bellezza della salute si capisce dopo una malattia. La normalità quotidiana si apprezza dopo un brutto incidente. L’Europa, dopo l’eccidio di Parigi, capirà che cos’ha rischiato dividendosi, distraendosi, ingannandosi? Forse sì. E lo capirà - ripetiamo - perché la maggioranza dei nuovi europei inizia a capirlo. In piazza a Parigi, a scuola a Milano, in ufficio a Londra, nei bar di Varsavia e Madrid. Ventenni e trentenni si sono resi conto che l’Europa libera non è un gentile omaggio: qualcuno l’ha costruita per loro, ora devono mantenerla. Come ogni casa. Come ogni cosa.
Devono mantenerla con amore e precisione. Senza intolleranza, ma con intransigenza. Non sono sinonimi, i due vocaboli. L’intransigenza è la qualità dei forti; l’intolleranza la scusa dei deboli. Gruppi e personaggi che, a preoccupazioni giuste, danno risposte sbagliate. Da una parte, gli ortodossi del multiculturalismo, convinti che tradizioni e religioni stiano sopra la legge. Dall’altra, teologi del fine settimana, per cui la fede islamica è incompatibile con la democrazia. Populisti aggressivi che sognano espulsioni di massa. Guerrafondai da scrivania che ripropongono, anni dopo, le ricette fallimentari dei neocon americani.
Stiamo in guardia: non lasciamoci ingannare. Non è dichiarando guerra al mondo che il mondo si conquista. È invece stabilendo buone regole, rispettandole e facendole rispettare. È la scommessa della giovane Europa. La vincerà.

Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2015 (m.p.r.)

Molti sono stati colpiti dalla coincidenza di due fatti di sangue orrendi e lontani: la strage a Parigi nella redazione di un giornale giudicato blasfemo (dodici morti in una stanza, e l’altro evento di sangue francese). E il massacro di almeno duemila persone portato a termine in poche ore, fra villaggi e campagne, al confine con la Nigeria, da due diverse unità militari addestrate e armate di un nuovo fondamentalismo islamico, nel primo caso un commando, nel secondo un esercito. Emergono due capi, Al Baghdadi e Boko Haram, che proclamano due Califfati. Vuol dire dominio assoluto, l’uno dal Medio Oriente verso l'Europa, l’altro dal centro dell'Africa verso il mondo.

Non sappiamo nulla dei rapporti fra i due potentati al momento, ma sappiamo che i due potentati esistono e che la loro minaccia non è di parole. Al Baghdadi domina una parte dell'Iraq e della Siria, con capitale Mosul. Boko Haram (che, ricorderete ha esordito con il reclutamento forzato di bambini per il suo esercito, e poi con il rapimento di duecento giovanissime studentesse da “convertire” all'islamismo) è il padrone di villaggi, città e campagne in tutta la parte nord della Nigeria su cui impone e mantiene un potere di sangue. Se rileggete le righe di riassunto della situazione che precedono, noterete che, a prima vista, niente è nuovo o diverso dalle storie di violenza a cui la storia contemporanea ci ha abituato ai margini dell'impero. Anche la grande minaccia, ormai varie volte realizzata, a partire dall'11 settembre, di colpire dentro l'impero, è causa di una continua paura, ma non è più un fatto nuovo. Ciò che è nuovo è l’emergere in posizioni di comando assoluto di nuovi personaggi che sono totalmente liberi di annunciare e poi di realizzare iniziative di una folle violenza, perché non appartengono ad alcuna classe dirigente del passato, rappresentano in modo arbitrario e autodefinito, valori ambigui che non devono giustificare ma solo proclamare. E così nasce un presunto Islam fondamentalista che è un’ottima trovata per disorientare i credenti di quella fede, e una buona mossa per chiamare alla guerra credenti altrettanto finti di un presunto mondo cristiano.

Ma è avvenuto qualcosa di nuovo persino rispetto ai tempi finiti da poco con una irruzione di “teste di cuoio” e l’uccisione di Osama bin Laden. È avvenuto un cambio di classe dirigente che improvvisamente si è autoassegnata la guida degli insorti di un mondo di autoproclamato fondamentalismo islamico, e che in realtà raccoglie tutte le ribellioni estreme lungo la linea non negoziabile di “rivincita” e “riconquista”, dopo la guerra in Iraq e le sue moltissime vittime, ma anche di “diverstà” inventata e sostenuta come tale dal pregiudizio europeo.

Che cosa intendo per “nuova classe dirigente”? e come mai lo stesso fenomeno si manifesta con la stessa forza distruttiva e apparentemente cieca, dal Medio Oriente al cuore dell'Africa? Forse la spiegazione è questa. Fino a un momento fa occupanti e resistenti, invasori e ribelli, dominatori e dominati, erano guidati, allo stesso modo, dalle classi colte e dall'apparato dirigente, dai gruppi sociali delle parti in causa. Questo fatto non ha mai evitato durezza, crudeltà e violenza anche estrema. Ma disponeva di strumenti di comunicazione e di intesa reciproca, in caso di necessità. E le due parti avverse cercavano, ciascuna in modo diverso, comprensione e sostegno in altre culture e altri Paesi del mondo.

Al Baghdadi e Boko Haram rappresentano un nuovo tipo di dirigente rivoluzionario che, tra le classi dirigenti del proprio ambito, o del mondo, non cercano e non chiedono niente. Non vogliono comprensione e non offrono giustificazione. Le loro radici sono altrove, nel tempo (che è evidentemente un mitico passato); nei luoghi, che sono vissuti come del tutto privi della struttura civile e organizzativa iniziata col colonialismo e poi divenute abituali; nei rapporti umani, che cercano in basso, e nella appartenenza concepita come ubbidienza e sottomissione; nelle regole, che sono libere da ogni codice e dettate solo da opportunismo spettacolare e da efficacia emotiva, dando e ricevendo il senso di un potere che non deve trattare condizioni o sottostare a doveri.

Ma un altro cambiamento drammatico segna questo ultimo periodo di vita politica internazionale. Dal punto cruciale dell’equilibrio mondiale escono gli Stati Uniti, che avevano e hanno pur sempre un potere sproporzionatamente grande. Ed entra la debole e divisa Europa, che non ha una politica e non ha una guida, ma appare come unico guardiano e garante delle regole del gioco.

Il cambio della guardia non è stato pianificato o voluto. Accade perché gli Usa hanno ritirato le loro opzioni di guerra. Accade perché lo sconvolgimento e il cambiamento di classe dirigente del Medio Oriente e dell'Africa ricadono fatalmente sull’Europa e sugli europei, come ha dimostrato la vicenda francese. In ogni caso le ragioni del cambio della guardia contano poco. Conta che sia avvenuta. E colpisce l’inadeguatezza dell'Europa unita e delle sue istituzioni di fronte al compito di reggere l'equilibrio del mondo libero, e di tenere a bada le pulsioni violentemente aggressive. È questa situazione che ha dettato le pagine, controverse e apparentemente solo provocatorie del libro Soumission di Houellebecq: una Francia che si arrende, diventa islamica ed elegge un presidente islamico. Houellebecq non ha tenuto conto di Papa Francesco.

Non è un difensore, è un testimone. Con un compito più difficile del suo predecessore. Infatti la follia, come un incendio pericoloso, sembra venire da una parte e dall'altra, dalla “nuova classe dirigente” islamica disposta a tutto, e dal gruppo Le Pen-Salvini, altrettanto privo di scrupoli pur di esibirsi. Il compito di Francesco è grande e impossibile. Ma in Europa Francesco, al momento, è l’unico leader.

Jorge Maria Bergoglio

Ansa

Lontani dall'occhio, lontani dal cuore. Africa, Nigeria: «Il gruppo terrorista continua ad espandersi. Cresce di numero, come crescono gli ostaggi che cattura nei villaggi e che schiavizza». L'Avvenire, 11 gennaio 2015

Cento, duecento, duemila. Sui numeri dell’ultimo massacro a Baga forse, non si avrà mai certezza. Certo è invece che Boko Haram ha ormai costruito con il sangue il suo Califfato islamico. Con propaggini che si spingono in Niger e Camerun dal Nord della Nigeria. Con decine di migliaia di persone in fuga, villaggi devastati e persecuzioni.

Una situazione che nessuno sembra vedere. O meglio, in pochi vedono il filo di sangue che corre verso Nord. Attraversa il Maghreb, a forte presenza qaedista, e punta dritto verso ciò che chiamiamo Occidente, Europa, Parigi. In estate, a pochi mesi dal sequestro delle oltre duecento studentesse a Chibok, la mobilitazione fu totale. Sul Web divenne virale il motto “bring back our girls”, e nei fatti molti governi offrirono collaborazione di intelligence al presidente Goodluck Jonathan, Stati Uniti in primis.

Mai hanno però potuto operare e uno dopo l’altro hanno dovuto ripiegare. A poco meno di due mesi dalle elezioni presidenziali, il leader nigeriano sembra sempre più chiuso in se stesso. Il suo omologo del Camerun, Paul Biya, invoca un’azione globale, chiede un intervento internazionale davanti alla sfida lanciata dai qaedisti anche al suo Paese. Ma per ora ha raccolto solo silenzio, un silenzio che uccide cristiani e islamici e continuerà a farlo con una crescita esponenziale fino al voto di febbraio.

Di fronte alla paralisi, all’assenza di una risposta concreta da parte dell’esercito nigeriano, il gruppo terrorista continua ad espandersi. Cresce di numero, come crescono gli ostaggi che cattura nei villaggi e che schiavizza. Crescono i kamikaze bambini, le donne che si fanno esplodere. Tutto somiglia terribilmente ai metodi dei jihadisti che comandano in parti della Siria e dell’Iraq: perché è all’Is di Abu Bakr Baghdadi che Boko Haram si ispira, benché sia nato prima. Lì il silenzio è stato rotto da tempo, in Nigeria continua a vincere.
All’Onu la questione resta sempre sotto traccia, le decine di rapporti trovano poco spazio anche sui media, come le notizie (spesso inverificabili) sul numero delle vittime nei vari attacchi. Eppure, si tratta dell’altra faccia dello stesso problema. Una derivazione «tumorale», come l’hanno definita i vertici della Chiesa locale. Che continua, drammaticamente, a non preoccupare.

banlieues si sente abbandonata ed è facile preda del fanatismo. Sono come dei born again, ritrovano un senso e un'identità. La sola soluzione è lavorare per l'integrazione. La radicalizzazione in carcere. Il peso del clima culturale del momento». Il manifesto, 11 gennaio 2015

Malek Che­bel è un antro­po­logo delle reli­gioni e filo­sofo, che ha dedi­cato la sua opera a far cono­scere l’islam all’occidente e a pro­porre un “islam illu­mi­ni­sta” (Mani­fe­ste pour un islam des Lumiè­res, Hachette, 2004). Nel 2009 ha pub­bli­cato una nuova tra­du­zione del Corano e lungo la sua lunga car­riera di sag­gi­sta si è occu­pato anche dell’erotismo e del rap­porto tra islam e corpo. Lunedi’ sarà in libre­ria il suo nuovo libro, L’inconscient de l’islam (ed.Cnrs).

Di fronte alla set­ti­mana tra­gica fran­cese, quale è la sua inter­pre­ta­zione? Ci vuole una let­tura più sociale o religiosa?
“C’è un dop­pio livello di let­tura, fran­cese e inter­na­zio­nale. In Fran­cia, parte della gio­ventù musul­mana si sente abban­do­nata da anni e cosi’ si è messa ad ascol­tare ideo­lo­gici fana­tici. A livello inter­na­zio­nale, l’islam in crisi svi­luppa un’ideologia della morte inte­gra­li­sta. Poi­ché la cac­cia all’uomo è finita come è finita, adesso biso­gnerà riflet­tere a come rista­bi­lire i legami con la gio­ventù musulmana”.

La mar­cia di dome­nica sarà un momento impor­tante, anche per vedere la mobi­li­ta­zione dei fran­cesi di reli­gione musul­mana? Oppure è assurdo sof­fer­marsi su que­sto, chie­dere di pren­dere la distanze dalle derive estremiste?
“C’è una debo­lezza del sistema. C’è un avver­sa­rio, che non viene nomi­nato, ma che è ben pre­sente: è la comu­nità musul­mana. Tocca quindi ai musul­mani dimo­strare che non si puo’ dare cau­zione a que­sti avve­ni­menti. Ma la via d’uscita sarà tro­vata – oppure no – sul ter­reno quo­ti­diano: cosa farà che domani i gio­vani saranno mag­gior­mente inte­grati? Oppure che lo saranno sem­pre meno? Solo quando si sen­ti­ranno mag­gior­mente fran­cesi si vin­cerà. In caso con­tra­rio, per­de­remo. Ma per il momento siamo sotto il domi­nio dell’emozione. E i musul­mani ne hanno abba­stanza di essere assi­mi­lati al terrorismo”.

Come mai sono i gio­vani di cul­tura musul­mana oppure dei con­ver­titi all’islam che si fanno sedurre dall’estremismo reli­gioso, nel senso che le altre reli­gioni non pro­du­cono que­sti effetti?
“C’è una cro­no­lo­gia occi­den­tale fatta di de-ritualizzazione. La chiesa cat­to­lica fa di tutto per con­ser­vare i fedeli, men­tre l’islam è in fase ascen­dente. Con una deriva set­ta­ria e fon­da­men­ta­li­sta. I gio­vani non si rico­no­scono né nell’ateismo, né nel mar­xi­smo, non sono mas­soni, ma diven­tano cre­denti. Con tutta l’opacità di un’ideologia reli­giosa della morte. L’occidente non capi­sce, abbiamo dif­fi­coltà a com­pren­dere que­sta scelta”.

I due fra­telli Koua­chi e Cou­li­baly erano fran­cesi, ave­vano fre­quen­tato le stesse scuole dei nostri figli. Cosa non ha funzionato?
“Fino a che punto sono andati a scuola? Come sono stati accolti? Hanno sod­di­sfatto le loro ambi­zioni? Sono pas­sati all’atto, tra­gi­ca­mente. Ma se non fac­ciamo niente, se la sola alter­na­tiva che viene pro­po­sta loro è o di vivere come dei pove­racci in una ban­lieue, di essere disoc­cu­pati o di farsi sedurre dai fana­tici, avremo un feno­meno desti­nato ad acce­le­rarsi con la crisi economica”.

Il socio­logo Farhad Kho­sko­ha­var li defi­ni­sce dei born again. E’ una spie­ga­zione che condivide?
“Si, pen­sano di rina­scere dalla deso­cia­liz­za­zione di cui si sen­tono vit­time. La resur­re­zione avviene con i viaggi in Yemen o altrove, si sen­tono esi­stere di nuovo, tor­nano, sono ben nutriti e ben allog­giati. Sarà molto dif­fi­cile lot­tare con­tro que­sto fana­ti­smo. Il corpo sociale non è un mec­ca­ni­smo ben oliato, è un insieme com­plesso, con velo­cità dif­fe­renti, matu­ra­zioni dif­fe­renti, musi­che diverse, atmo­sfere diverse. Non si puo’ chie­dere a tutti i gio­vani di rea­gire allo stesso modo”.

C’è poi il ruolo cen­trale svolto dal car­cere nella radi­ca­liz­za­zione di que­sti individui.
“Della radi­ca­liz­za­zione in car­cere si parla da anni. Ma poi non viene fatto nulla. Troppe cose sono con­tro di noi, il mes­sag­gio del magni­fico vivere assieme come cit­ta­dini respon­sa­bili non passa. Dopo le rea­zioni di oggi, c’è il rischio che tra due-tre set­ti­mane tutto venga dimen­ti­cato e tra 6 mesi o un anno ci siano altri Koua­chi, per­ché nes­suno avrà fatto il neces­sa­rio per venire incon­tro a que­sti dispe­rati. Siamo di fronte a un’inadempienza col­let­tiva. Ma per farvi fronte ci vogliono soldi, delle strut­ture pub­bli­che deter­mi­nate. Invece, gli estre­mi­smi get­tano olio sul fuoco. L’atmosfera era pesante in que­sto periodo, con le prese di posi­zione di Eric Zem­mour o il libro di Houel­le­becq, con un raz­zi­smo ormai mostrato alla luce del sole, senza che nes­suno reagisca".

Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2015 (m.p.r.)

Eppure non è poi così difficile capirlo che difendere la libertà di espressione non significa condividere tutto quello che pensano, dicono, scrivono e disegnano quelli che se ne avvalgono. Non è poi così difficile capire che difendere la satira senza limiti non vuol dire che chi la fa non possa avere limiti (tutti ne abbiamo, e sono unici al mondo: dipendono dallo stile, dalla cultura, dall’educazione, dalla sensibilità, dall’eventuale fede di ciascun individuo). Vuol dire che quei limiti non possono e non devono essere fissati per legge, con tanto di sanzione a chi li viola: fermo restando il Codice penale per punire chi commette violenze, o istiga a commetterle, ma non chi esprime un pensiero, foss’anche il più bieco e ributtante.

Giovedì a Servizio Pubblico e venerdì sul Fatto ho ricordato come i nostri politici e i loro servi hanno risolto in Italia il secolare dibattito sulla satira: abolendola dalla Rai. Ieri un poveretto con le mèches che scrive su Libero mi ha accusato di aver fatto «senza vergogna» un «odioso paragone tra l’editto islamico e quello bulgaro», cioè di aver messo sullo stesso piano «la vostra industrietta macinasoldi e le vostre barzellette sporche» con «la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi». Poi ha ripetuto la vecchia barzelletta dei programmi di Luttazzi e di Sabina Guzzanti «morti da soli» perché «non facevano ascolti» (uahahahahahah). Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone («quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa», ho detto).
Ho semplicemente sbeffeggiato l’ipocrisia di una classe politica e giornalistica, con e senza mèches (questa sì “macinasoldi”, e pubblici), che ha passato la vita a praticare e giustificare le peggiori censure, salvo poi strillare «Je suis Charlie» e difendere la satira senza limiti, ma solo in Francia e dopo che l’hanno ammazzata. Ieri ho citato un articolo di Pigi Battista sul Corriere nel 2006: diceva – capita persino a lui - cose condivisibili e liberali. E cioè che «non sarà superfluo un supplemento di attenzione per scorgere qualcosa di repellente in quelle vignette di cui pure deve essere libera la circolazione». Cioè criticava delle criticabilissime vignette, ma al contempo metteva in guardia chiunque osasse anche soltanto pensare di vietarle per legge o di chiudere i giornali che le pubblicavano.
È la stessa critica che faceva Vauro, sulla reazione violenta che certe vignette sul Profeta potevano innescare, senza citare Charlie Hebdo né invocare censure o chiusure: quindi è ridicolo che oggi Battista additi Vauro al pubblico ludibrio. La satira scortica tutto e tutti, ci mancherebbe che pretendesse l’immunità dalle critiche. Perciò è sciacallesca l’operazione del Giornale, che sbatte Vauro in prima pagina accusandolo di versare «lacrime di coccodrillo» sui giornalisti e i vignettisti assassinati. Come se chi ha criticato una vignetta su Maometto bombarolo fosse un complice dei macellai islamisti. Ciascuno è libero di ritenere sbagliata o anche repellente una vignetta, un articolo, un libro, un programma tv, un film. Ciò che nessuno può fare è proibirli o chiuderli (come s’è fatto ripetutamente in Italia, con buona pace dei servi di regime), in nome di un “limite” che nessuno ha il diritto di fissare.

Cantava Lucio Dalla: «È chiaro: il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, anzi è un pesce, e come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare, com’è profondo il mare. Certo, chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche: il pensiero, come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare...». A me, personalmente, non verrebbe mai in mente di pensare o di scrivere che “il Corano è merda”, come dice una delle vignette incriminate di Charlie Hebdo. Perciò, se ci arrivasse una vignetta così gratuita sul Corano, sul Vangelo, sul Talmud o sul libro sacro o sul simbolo di qualsiasi altra religione, anche noi che ospitiamo più satira di tutti gli altri ci penseremmo un bel po’ prima di pubblicarla.

In nome di un limite che è chiaro e dichiarato: la sensibilità dei lettori, fossero anche soltanto uno o due quelli che potrebbero offendersi. Un quotidiano libero di informazione non è la buca delle lettere né Hyde Park Corner, ma un servizio ai propri lettori. Al contempo, è giusto e liberatorio che esistano giornali come Charlie Hebdo (ne avevamo anche in Italia, pensiamo al Male e a certe fasi di Cuore), interamente consacrati alla satira più libertina, che non hanno né debbono avere limiti. E, se qualcuno tenta di zittirli, chiudendoli o addirittura decimandone la redazione a raffiche di kalashnikov, le pagine di questo giornale libero sono a loro disposizione per ospitarli. A scatola chiusa.

Ronald Reagan, ancora in piena guerra fredda, raccontava questa barzelletta: «Un giornalista americano dice a un collega sovietico: "La differenza fra i nostri paesi è che io posso scrivere che Reagan è uno stronzo e non mi succede niente, perché noi siamo una democrazia". E il sovietico: "Ma pure noi! Infatti anch’io domani posso scrivere che Reagan è uno stronzo"...». È facile per gli integralisti cattolici, protestanti, ebrei solidarizzare con la satira, ora che è stata colpita da tre islamisti sanguinari: bisognerebbe farlo sempre contro ogni censura (non contro ogni critica), anche quando nel mirino c’è la propria religione.

Invece era tutt’altro che scontata la condanna degli stragisti parigini da parte degli ultraradicali di Hamas e di Hezbollah. La satira ha questo di bello: il suo linguaggio immediato e scioccante illumina e spalanca i cervelli. Chissà, forse il sacrificio dei ragazzacci di Charlie non è stato inutile.

il manifesto dell'11 gennaio 2015 ricorda l'autore de "Le mani sulla città", un film che ha riacquistato la sua attualità nell'Italia de Craxi-Berlusconi-Renzi (ma forse non l'aveva mai del tutto persa).

FRANCESCO ROSI,
IL CINEMA COMBATTENTE
di Luciana Ca
stellina

L’ultima volta che l’ho visto era circa un anno fa: ero andata a casa sua assieme ad Ago­stino Fer­rente che voleva vedesse il suo film su Napoli – Le cose belle. Ago­stino, almeno due gene­ra­zioni più gio­vane, ci teneva molto e ha appro­fit­tato della mia vec­chia ami­ci­zia con il «mae­stro» per incon­trarlo. Un film su Napoli non poteva non esser visto e giu­di­cato da un napo­le­tano così napo­le­tano come Franco Rosi. La visione fu un disa­stro tec­nico: per­ché il gran­dis­simo regi­sta non pos­se­deva uno schermo degno di que­sto nome, né un tele­vi­sore di pro­por­zioni umane. Dovemmo infi­lare il dvd in un appa­rec­chietto minu­scolo e che per di più offriva solo un suono inter­mit­tente, inau­di­bile.

Rosi non si era con­ci­liato con la tec­no­lo­gia, già vedere un film su una tv gli era incon­ce­pi­bile. Non per­ché fosse un uomo dell’altro secolo, per carità: era tutt’ora molto molto con­tem­po­ra­neo, uno sguardo luci­dis­simo sulla nostra epoca, e sui guai della sua sini­stra. La stessa intel­li­genza della realtà che aveva avuto da gio­va­nis­simo, parte di quel gruppo par­ti­co­la­ris­simo di intel­let­tuali napo­le­tani socia­li­sti di sini­stra che hanno con­tri­buito molto a rac­con­tare il tempo della mia gene­ra­zione e di parec­chie successive.

In mezzo a tanta discus­sione sul rap­porto fra sto­ria e fic­tion, baste­reb­bero i film di Franco Rosi a far capire quanto e come l’artista - se lo è dav­vero - rie­sce a dire, più di chi rife­ri­sce di docu­menti e archivi, della realtà, sve­lan­done, attra­verso l’invenzione nar­ra­tiva, anche quanto non è altri­menti visi­bile. Un ele­mento essen­ziale della poli­tica di cui pro­viamo oggi una strug­gente nostal­gia. I suoi film sono stati un con­tri­buto pri­ma­rio inso­sti­tui­bile alle nostre bat­ta­glie del dopo­guerra. Franco era pas­sio­nale, nel senso che ci teneva a che i suoi film susci­tas­sero pas­sioni, ali­men­tas­sero il fare poli­tico.

Ricordo quanto avvenne parec­chi anni prima dell’infortunio tec­no­lo­gico col film di Fer­rente in Cina, un altro assurdo inci­dente. Era­vamo a Pechino con una dele­ga­zione di Cine­città - la prima - pre­si­dente all’epoca Gillo Pon­te­covo (io ero lì per­ché allora ero pre­si­dente di Ita­lia Cinema, l’agenzia di pro­mo­zione dei film ita­liani). Si doveva pro­iet­tare La Tre­gua e natu­ral­mente non c’era sot­to­ti­to­la­zione per­ché allora né lì né, del resto, in tutta l’Europa dell’est, era abi­tuale. Si pro­ce­deva con l’«overvoice»: la voce del tra­dut­tore, col­lo­cato nella sala, che si sovrap­po­neva a quella dei pro­ta­go­ni­sti del film. Franco era sospet­toso circa il risul­tato e per que­sto assai ner­voso. Poco prima di comin­ciare si informò dal tra­dut­tore se aveva capito bene di cosa trat­tava il film e quello rispose sicuro: «Sì, certo, è un film sulla vita di John Tur­turro (se ricor­date era lui che inter­pre­tava Primo Levi).
Alla rispo­sta Franco stava per ripren­dersi la pel­li­cola e andar­sene infu­riato. Accettò di restare quando gli fu spie­gato che Primo Levi non era mai stato tra­dotto in Cina, era uno sco­no­sciuto. Ma con­trav­ve­nendo a tutte le regole della sicu­rezza in vigore in Cina, dove nes­suno avrebbe potuto rivol­gersi ad un pub­blico gran­dis­simo qual era quello che affol­lava l’anfiteatro ove il film doveva essere pro­iet­tato, saltò sul palco e improv­visò un appas­sio­nato rias­sunto de La tre­gua. Ricordo bene le sue ultime parole, in cui descri­veva la prima scena del film: «ecco, adesso vedrete una pat­tu­glia dell’Armata rossa a cavallo che arriva in vista del campo di ster­mi­nio dove sono rin­chiusi gli ebrei super­stiti delle camere a gas». «Ecco – aveva aggiunto – spe­gnete le luci»; e si aspet­tava appa­risse sullo schermo la bel­lis­sima, emo­zio­nante inqua­dra­tura con cui si apre quel film. E invece, a inter­rom­pere bru­tal­mente l’emozione che era riu­scito a susci­tare nel pub­blico con le sue parole, e che certo l’«overvoice»non avrebbe potuto ani­mare, il pro­ie­zio­ni­sta cinese per un errore mandò un docu­men­ta­rio sui mon­diali di cal­cio che dove­vano tenersi in Ita­lia. Durò 40 minuti. Ci nascon­demmo tutti per una gior­nata intera, non ave­vamo il corag­gio di affron­tare il suo furore sacrosanto.

Era il 2000, 15 anni fa, e la nuova Cina stava spic­cando il volo, già nel mer­cato mon­diale ma ancora terzo mondo. Alla riu­nione con il gio­va­nis­simo diret­tore della pro­du­zione cine­ma­to­gra­fica cinese che il rap­pre­sen­tante del Mini­stero dei beni cul­tu­rali, mem­bro della nostra dele­ga­zione, cer­cava di con­vin­cere ad intra­pren­dere il nego­ziato per un accordo di copro­du­zione con l’Italia, per cui era neces­sa­rio un voto par­la­men­tare e un accordo fra governi come per i Trat­tati inter­na­zio­nali, il gio­va­notto ci guardò e disse: «Ma ce li avete i soldi? Per­ché con gli ame­ri­cani di tutte que­ste pro­ce­dure non c’è biso­gno, ma loro ci hanno i soldi». Non dimen­ti­cherò mai la fac­cia di Gillo, di Angelo Guglielmi allora diret­tore del Luce, di tutti i nostri, ma soprat­tutto quella di Franco Rosi.

Scu­sate se mi perdo in que­sti anned­doti, ma sono pro­prio que­ste vicende vis­sute assieme che tor­nano alla mente quando qual­cuno scom­pare. Almeno in un primo momento, per­ché subito dopo la ferita pene­tra nel pro­fondo e si avverte il vuoto che la morte lascia quando col­pi­sce una per­sona come Franco Rosi che per via del suo cinema ha così tanto segnato la nostra cul­tura e coscienza. Vor­rei ricor­dare però anche anni più spen­sie­rati, le serate con Franco e Gian­carla nell’attico di via della Croce, o i bagni sulla spiag­gia avanti alla loro casa al Vil­lag­gio dei Pesca­tori a Fre­gene, il luogo mitico dove si radu­nava allora il nostro miglior cinema: Ettore Scola, Citto Maselli, Franco Soli­nas, Felice Lau­da­dio… Erano gli anni ’60, un grande tempo e per­ciò anche un grande cinema

LA CITTÁ CHE HA DIVORATO L'ITALIA
di Alberto Ziparo
In occa­sione della morte di Fran­ce­sco Rosi ripub­bli­chiamo que­sto arti­colo di Alberto Ziparo, uscito sul mani­fe­sto del 25 ago­sto 2013 come ante­prima dell’omaggio del Festi­val di Vene­zia al regi­sta napo­le­tano. (aggior­na­mento del 10 gen­naio 2015

Mar­tedì pros­simo, a Vene­zia, verrà pro­iet­tato «Le mani sulla città» di Fran­ce­sco Rosi, nella ver­sione restau­rata dalla Cine­teca Nazio­nale. Si cele­bra così il cin­quan­ten­nio del con­fe­ri­mento del Leone d’oro al capo­la­voro neo­rea­li­sta del regi­sta (sem­pre quel giorno Rai Movie ne offrirà visione in tv).

Com’è noto, Rosi denun­ciava lo sfa­scio urba­ni­stico e poli­tico di Napoli, in grande espan­sione in que­gli anni. Non poteva sapere – ma forse lo intuiva — che la sua opera avrebbe costi­tuito una magi­strale, anche se assai inquie­tante, pre­vi­sione circa i disa­stri delle poli­ti­che, non solo urba­ni­sti­che, che avreb­bero segnato l’Italia intera nel cin­quan­ten­nio suc­ces­sivo. Sfre­gian­done irri­me­dia­bil­mente quel volto «illu­mi­nato e gen­tile» colto dai viag­gia­tori del Gran Tour e che le era valso il sopran­nome di «Belpaese».

Nel film Rod Stei­ger (nei panni del costrut­tore e poli­tico Not­tola) che spiega come un ter­reno agri­colo «che vale 500 lire» se diventa edi­fi­ca­bile «ne vale 50.000» costi­tui­sce una sin­tesi mira­bile del ruolo della ren­dita spe­cu­la­tiva nella cre­scita urbana, più effi­cace di molte lezioni di ana­lisi urba­ni­stica. Il film spiega appunto il disfa­ci­mento della poli­tica rispetto agli inte­ressi della ren­dita spe­cu­la­tiva (la camorra restava sullo sfondo, allora, o come «uti­liz­za­tore finale» di pic­colo cabotaggio).

Il film venne pre­miato con il Leone d’oro nel set­tem­bre 1963: un mese dopo si sarebbe regi­strato il disa­stro del Vajont, seguito dalla frana di Agri­gento e dall’alluvione di Firenze (1966). Eventi che dimo­stra­vano già come la cre­scita urbana, pure ancora rela­tiva –e cir­co­scritta alle città grandi e medio grandi — avve­niva a sca­pito della sicu­rezza ter­ri­to­riale e della qua­lità ecopaesaggistica.

Nono­stante i disa­stri, i ten­ta­tivi di riforma urba­ni­stica e di «nuovo regime dei suoli» por­tati avanti dal demo­cri­stiano Fio­ren­tino Sullo con l’appoggio della sini­stra socia­li­sta e del Pci ven­nero bloc­cati, segnando addi­rit­tura la fine poli­tica dell’ex mini­stro. Le emer­genze ambien­tali della cre­scita ter­ri­to­riale por­ta­rono a una serie di prov­ve­di­menti nor­ma­tivi par­ziali, che nell’arco di un decen­nio, dal 1967 alla fine dei Set­tanta, avvia­rono un pro­cesso pure timi­da­mente rifor­mi­sta: la legge Ponte-Mancini sulla scis­sione tra diritto di pro­prietà e di super­fi­cie (1967); i decreti su zoning e stan­dard (’68); la legge sulla casa e gli espro­pri (1971); l’onerosità della con­ces­sione a costruire e degli oneri di urba­niz­za­zione (1977); l’avvio dei piani di recu­pero (1978).

Que­sta inten­zione – e i mode­sti ten­ta­tivi di pia­ni­fi­ca­zione pro­gres­si­sta che ave­vano com­por­tato– veni­vano fru­strati nel decen­nio suc­ces­sivo da una serie di sen­tenze della Corte Costi­tu­zio­nale che met­te­vano in discus­sione vin­coli urba­ni­stici e cri­teri di espro­prio. Annun­cia­vano gli anni Ottanta, con la crisi del wel­fare state e l’avvio di un ven­ten­nio abbon­dante di iper­con­su­mi­smo e una sorta di con­tro­ri­forma urba­ni­stica, intro­dotta dalle sen­tenze citate e con­ti­nuata con i ten­ta­tivi di svuo­tare le capa­cità pre­scrit­tive dei piani con la cosid­detta «pro­gram­ma­zione con­cer­tata», in nome di un «Nuovo», che invi­tava a «Fare», ma in realtà a con­su­mare senza senso né limiti, anche il ter­ri­to­rio. E meno male che di lì a poco esplo­deva anche in Ita­lia la «que­stione ambientale».

In realtà, le cri­ti­cità urbane e le «mani sul ter­ri­to­rio» non si erano mai fer­mate; la ren­dita spe­cu­la­tiva, agra­ria ed edi­li­zia, diven­tava prima indu­striale, poi com­mer­ciale e infra­strut­tu­rale, infine finan­zia­ria: la sem­plice ope­ra­zione di tra­sfor­ma­zione diven­tava un affare, con i rela­tivi lavori più o meno grossi; migliore, se la nuova, anche ipo­te­tica desti­na­zione d’uso, tro­vava dei poten­ziali inve­sti­tori. Neu­tra­liz­zata la pia­ni­fi­ca­zione effi­cace, razio­nal­mente basata sulla domanda sociale, la «città dif­fusa» per­va­deva sem­pre più i vari ambiti del ter­ri­to­rio nazio­nale: una blob­biz­za­zione cemen­ti­zia indu­striale che can­cel­lava il pae­sag­gio, sep­pel­liva i beni cul­tu­rali, degra­dava l’ambiente, deterritorializzava.

L’ex Bel­paese è diven­tato così il Ben­godi delle costru­zioni e del con­sumo di suolo: lad­dove nel mondo, dal 1945 al 2005, si sono quin­tu­pli­cati i volumi urba­niz­zati, e in Europa si è regi­strata una cre­scita di quasi otto volte, in Ita­lia tale tasso supera i dieci punti, e nelle tre regioni del Sud ad alta den­sità mafiosa l’incremento è di oltre 13 volte!

Così, men­tre si inten­si­fi­ca­vano i disa­stri sismici ed idro­geo­lo­gici di un ter­ri­to­rio for­te­mente inde­bo­lito dalla cemen­ti­fi­ca­zione, la quota di suolo nazio­nale con­su­mato è oggi pari ad oltre il 20% dei 301.000 Kmq di super­fi­cie (rad­dop­pio dell’ingombro negli ultimi 15 anni) e si pro­du­cono costru­zioni per una domanda ine­si­stente (oltre 25 milioni di stanze vuote), men­tre il biso­gno sociale di abi­ta­zioni per­mane inevaso.

Certo, que­sto è dovuto anche al fal­li­mento della poli­tica: il film di Rosi rap­pre­sen­tava per­fet­ta­mente il dis­sol­vi­mento dell’etica e della razio­na­lità sociale che dovrebbe carat­te­riz­zare la gestione della cosa pub­blica: il sistema deci­sio­nale viene prima cir­cuito, poi incor­po­rato dall’offerta di tra­sfor­ma­zione urbana e ter­ri­to­riale, det­tata da inte­ressi spe­cu­la­tivi. Fin­ché –a par­tire dagli anni Novanta– una gover­nance «ubria­cata di pseu­do­li­be­ri­smo» se ne fa stru­mento dichiarato.

Oggi le poli­ti­che urbane e ter­ri­to­riali ai diversi livelli sono spesso extrai­sti­tu­zio­nali, det­tate dalle imprese e soprat­tutto dagli isti­tuti finan­ziari. Carlo Fer­ma­riello, che nel film rap­pre­senta se stesso, è un’icona della buona poli­tica legata alla reale domanda sociale: figura sem­pre più rara, poi quasi spa­rita, dalle nostre assem­blee elettive.

Per tutto que­sto – ha ragione Roberto Saviano– il film resta un capo­la­voro, «una grande rap­pre­sen­ta­zione non solo di Napoli, ma dell’Italia, anche di oggi». Anche se oggi forse Rosi gire­rebbe gli esterni in Val di Susa e gli interni tra par­la­mento e ministeri.

(Arti­colo ori­gi­nale pub­bli­cato sul mani­fe­sto digi­tale il 24 ago­sto 2013 alle 18.11, sul mani­fe­sto in edi­cola il 25 ago­sto 2013
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo. Il Fatto quotidiano e la Repubblica, 11 gennaio 2015

Il Fatto Quotidiano
IL CORAGGIO E L'ORGOGLIO
DEL CITTADINO FRANCO ROSI
di Furio Colombo

Muore un grande regista e lascia uno spazio diserbato di dolore e rimpianto, uno strappo senza rimedio, per chi gli è stato accanto negli ultimi giorni, nelle ultime ore, amici stretti e devoti come Tornatore, Giordana, Andò, Scola. Soprattutto la figlia Carolina, bella e forte come la madre Giancarla mancata da poco, due parti essenziali della vita di questo artista. Ma il caso di Rosi, nel giorno della sua morte, è diverso. Ognuno dei suoi film ha sfidato un Paese umiliato dal conformismo, dall’opportunismo, dalla mafia, dal crimine organizzato, dalla corruzione. Ognuno dei suoi film è una ricerca di verità e una denuncia di reato. Ognuno dei suoi film è fatto per dare coraggio e orgoglio perché sempre, nelle sue storie vere, qualcuno resiste e anche se muore, l’autore ci fa sapere che ha lottato ed è esistito.

Un uomo che ci lascia, come traccia della sua vita Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Uomini contro, Cadaveri eccellenti, La tregua, un percorso che continuerà a sostenere chi si batte per il ritorno alla legalità di questo Paese persino in momenti in cui i valori di civiltà, di libertà e di accertamento implacabile della verità sono stati buttati via. Il fatto è questo: la morte di Francesco Rosi strappa dalla vita e dalla memoria dei suoi amici di una vita la radice di un lungo e splendido sodalizio. Ma non spegne le luci di atterraggio lasciate lungo il percorso dal suo lavoro.

Sono in molti a riconoscere, prima di tutto alcuni maestri di Hollywood, che Rosi ha cambiato il modo di fare il cinema, ha abbattuto i confini fra documentario e fiction e fra immaginazione, per quanto realistica, e fatti realmente accaduti. Di questi fatti ciò che attirava l’attenzione di Rosi, ma anche una sorta di istinto indomabile per l’accertamento, erano le evidenze persino ovvie, erano gli eventi ingombranti negati o ignorati o tranquillamente trascurati, come se fosse possibile accantonare la realtà scomoda. Ecco, Rosi ha fatto della realtà scomoda e impraticabile il suo tipico territorio. E anche se nell’elenco del suo lavoro trovate bellissimi film di narrazione e invenzione o trasformazione dal racconto alla musica (Il momento della verità, C’era una volta..., Carmen), resta il senso fondamentale del suo passaggio rivoluzionario nel cinema.
So che una persona irritata da ogni tipo di iperbole, come Rosi, avrebbe giudicato inadatta la parola “rivoluzione” come chiave di interpretazione del suo lavoro di cinema (che lui, come ricorda il bel libro scritto insieme a un altro importante personaggio del cinema mondiale, Giuseppe Tornatore, chiama “cinematografo”). Però, come definire diversamente quel suo arrischiato accostarsi ai fatti fino al punto da svelarli persino se autorevolmente negati, persino se smentiti da protagonisti potenti non del cinema ma della politica, in tempo reale? Prendete Lucky Luciano in cui il rapporto fra mafia e guerra, e una strana alleanza fra liberatori e dominio della Sicilia (al rischio di una sottomissione perenne) viene narrata come se fosse la trama fantasiosa di un buon thriller.
Quel film affronta e racconta una verità tremenda che i libri di storia, e persino buoni e rispettati testi universitari, ignorano o tengono in ombra. Ma quel film (1973) è per forza una parte della straordinaria e inconcepibile audacia con cui è stato pensato, scritto e girato, nel 1962, Salvatore Giuliano. Contiene il Dna della mafia come originale associazione di crimine organizzato allo stesso tempo locale e mondiale, dramma di famiglia e secessione di un Paese, passando attraverso la prima prova politica della strage (Portella della Ginestra, che è allo stesso tempo la più bella sequenza d’azione mai girata nel cinema italiano, e un pezzo di storia patria mancante). A Francesco Rosi interessa sapere e mostrare come funziona la macchina del dominio (grande, in questo senso, più grande di tanti film di guerra, Uomini contro e il rapporto fra il cinismo delle classi dominanti e l’eroismo spontaneo e ribelle di chi dovrebbe soltanto ubbidire) e fin dove arriva la macchina degli interessi di potere che devono prevalere su un mondo equo di diritti rispettati (Cadaveri eccellenti).

Ma il momento straordinario del lavoro di Rosi, in cui il cinema è allo stesso tempo cronaca, storia, profezia, è Le mani sulla città (1963) in cui la politica è già corruzione, e la frase gridata dai consiglieri comunale di Napoli, mentre stanno votando un altro scempio edilizio (“Mani pulite, noi abbiamo le mani pulite”) diventa il nome di una grande indagine giudiziaria contro quella stessa corruzione moltiplicata in dimensioni immense, nel 1992. Nessuno che rifletta e ripensi alla grande eredità che Francesco Rosi lascia all’Italia e al cinema del mondo nel giorno della sua morte, potrebbe dimenticare Il caso Mattei. Io ho una ragione in più. In quell’anno (1972 ), Francesco Rosi mi ha chiesto di partecipare al film nel ruolo dell’assistente e traduttore di Enrico Mattei (Gian Maria Volonté) e in particolare alla sequenza in cui il petroliere americano respinge ogni possibilità di collaborazione. Era come partecipare, allo stesso tempo, alla realtà e alla finzione. Non solo perché Volonté era una specie di medium che diventava la persona interpretata. Ma perché quel film sulla morte inspiegata e misteriosa di Mattei ha portato alla morte inspiegata e misteriosa del giornalista Mauro De Mauro, incaricato da Rosi, in una telefonata che si vede nel film, di cercare piste e spiegazioni per la storia che intanto si stava filmando.

Come vedete, non abbiamo parlato di una carriera, per quanto straordinaria, ma di una parte importante della storia italiana, dei suoi misteri e delle sue rivelazioni, E capite perché Francesco Rosi, a Venezia, dopo avere ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, ha concluso così il suo breve discorso di accettazione : «Voglio essere ricordato solo con queste parole: Francesco Rosi, cittadino».

La Repubblica

LA CAPRIA: “A PASSEGGIO INSIEME,
COSI' NACQUE LE MANI SULLA CITTA”
di Francesco Erbani

Roma. Li divideva poco più di un mese. L’anno era lo stesso, il 1922. Francesco Rosi è nato a metà novembre, Raffaele La Capria i primi di ottobre. Ma erano ancora bambini quando d’estate si tuffavano dagli scogli di Posillipo, a Napoli, sotto villa Rosebery. Racconta La Capria: «È stato il mio amico più caro, con lui in ottant’anni non ho mai perso i contatti. Ci sentivamo quasi tutti i giorni. Ma con un amico si scambiano i sentimenti, Franco e io abbiamo lavorato insieme, dunque all’affetto abbiamo aggiunto la consuetudine delle idee». Lo stesso mare, lo stesso liceo, l’Umberto, gli stessi amici - Peppino Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Francesco Compagna... - la stessa idea di lasciare Napoli, «forti solo dei nostri sogni» e quindi i film - Rosi regista, La Capria sceneggiatore. Basta ricordarne due, Mani sulla città ( 1963) e Cristo si è fermato a Eboli ( 1979).

Con Rosi avete condiviso la stessa formazione?
«Al liceo Umberto avevamo un preside, D’Alfonso, che s’ispirava a Croce. L’ambiente era naturalmente antifascista e da lì scaturirono due filoni, quello comunista e il nostro, liberaldemocratico. Dopo la guerra demmo vita alla rivista Sud, diretta da Pasquale Prunas. Collaboravano Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Domenico Rea. Io mi occupavo di letteratura angloamericana, Franco scriveva note di cinema. A guardarle ora, quelle pagine emanavano un entusiasmo che fa sorridere, ma si resta sorpresi dalle cose che sapevamo».
Nel ’48, a ventisei anni, Rosi era già assistente di Visconti per La terra trema.
«La naturale precocità di un artista. Fin da ragazzo, più che elaborare intellettualmente, Franco coltivava immagini che immagazzinava. Eravamo in un clima neorealista, ma lui pur ammirando quel cinema, diffidava di certo sentimentalismo patetico. Era un razionalista, tendeva a raffreddare gli umori».
Che cosa ricorda di Mani sulla città?
«Un giorno, a Roma, Franco mi disse che voleva girare un film su Napoli, ma diverso dai soliti modelli. Passeggiavamo e non so chi dei due parlò per primo di un palazzo che crolla come spunto per indagare su che cosa la nostra città era diventata».

La speculazione edilizia patrocinata da Achille Lauro.
«Sì, ma senza impigliarsi in questioni teoriche. Ricorda la scena in cui Rod Steiger traccia con un bastone un quadrato per terra e dice: “Questo quadrato vale tanto, ma se noi ci portiamo la luce, le strade, le fogne, questo stesso quadrato varrà mille volte di più”? Ecco: con quell’immagine e quelle parole raccontammo la speculazione edilizia, che cambiò la morfologia della città e dell’Italia intera, distruggendo valori e rapporti umani».
Nel film Rosi faceva emergere una terribile realtà politica, anche quella non solo napoletana.
«È vero. Ma sempre e solo manovrando la macchina da presa. Franco la metteva a pochi centimetri dai volti dei consiglieri comunali, ne catturava le occhiate, le smorfie e così documentò il passaggio di alcuni di loro da Lauro alla Dc. Una vicenda politicamente dirompente, testimoniata attraverso un artificio, un’invenzione. Direi, uno stile».
Lavoraste insieme per C’era una volta (1967), liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, poi per Uomini contro (1970) ispirato al romanzo di Emilio Lussu. E quindi per Cristo si è fermato a Eboli.
«Il suo film più bello. Franco cercava la verità di quel Mezzogiorno entrando nelle case dei contadini, misurando la distanza fra la civiltà e un’arcaica forma di vita. Quando la domestica Giulia, interpretata da Irene Papas, fa il bagno a Gian Maria Volontè, nei panni di Carlo Levi, Franco fece l’impossibile perché i gesti avessero qualcosa di mitologico».
Quale idea di Napoli vi accomunava?
«Un’idea non convenzionale. Al pari di tutte le città del Mediterraneo, la immaginavamo come una capitale della decadenza, impegnata nella contemplazione del passato. Ma, a differenza di altre città, Napoli conserva una continuità con l’antica Grecia. E per questo, ci dicevamo, mentre altrove domina un’aridità comunicativa, Napoli è un’ansa che custodisce un certo calore. Franco, uomo buono, ne era un esempio ».

Il Fatto Quotidiano
“NEI MIEI FILM AVEVO PREVISTO OGNI COSA”
stralcio dell’intervista concessa da Francesco Rosi a Malcom Pagani e Fabrizio Corallo il 30 giugno 2012.

Il grande misantropo aveva iniziato a chiamarlo spesso: «Ciao Francesco, ci vediamo?». Poi, osservata la voliera dello zoo dalla torretta del suo residence-trincea, Dino Risi aspettava che il collega quasi omonimo, nello scambio casuale di interessi, ricordi e vocali, contaminasse il suo mondo. La tardiva amicizia tra Risi e Rosi: «Lo sai che ti voglio veramente bene?» è uno dei lampi che attraversa i 90 anni (il 15 novembre) di un napoletano di frontiera. Libri sulla mafia, monografie, manifesti, fotografie alla parete. Da una (il set è quello di Carmen, Siviglia, 1984) aspira un sigaro nascosto dagli occhiali e sembra lo stesso che in jeans, seduto a un tavolo colmo di copioni, non soffre il caldo andaluso di una Roma trasfigurata dal caldo. Il Festival di Venezia, il 31 agosto, gli consegnerà il Leone d’oro alla carriera e proietterà Il caso Mattei, l’inchiesta di Rosi sul fu presidente dell’Eni, Palma d’oro a Cannes ’72. Dopo aver messo insieme ventenni in nero, guerre, repubbliche fragili e candidature all’Oscar, l’età non pesa. L’emozione si annacqua in un gesto: «Volete un po’ di minerale?». Rosi è contento. Scrive memorie di vita e di set con la complicità di Tornatore, pensa al teatro (recente digressione da palco con tre opere di De Filippo) e a dirigere, se capita la storia giusta, tornerà. «Nei miei film avevo previsto ogni cosa», dice distrattamente, e ripensando a una poetica in cui l’impegno dava la destra al piano sequenza, di smentire l’affermazione, non c’è modo.

Torna mai alle origini?
L’infanzia ci segna. Sono nato a Napoli, figlio di genitori ossessionati da onestà e rispetto. C’erano le regole. Bisognava averne cura.

Lei osservò il Fascismo con occhi da bambino.
Al principio, non ne vedevo il lato grottesco. Percepivo la sopraffazione, la noia, l’idolatria dell’istituzione paramilitare. Un implicito decalogo per i giovanissimi. Puntava a formarli, a vestirli da Balilla, a comandare sui momenti di libertà, inquadrandoli in una cornice.

Crescendo?
La Liberazione mi colse nei miei 20 anni. L’epoca del Liceo Umberto. Le giornate trascorse con Patroni Griffi, La Capria e Ghirelli. C’era la consapevolezza della vita che si apriva. La scoperta della questione meridionale. Il Fascismo aveva volutamente trascurato molti aspetti, ce ne riappropriammo in ritardo, ma non fuori tempo massimo.

È vero che avrebbe voluto fare il disegnatore?
Mi ero inventato illustratore di pupazzi. Un amico di mio padre, libraio, volle pubblicare un sillabario con i miei schizzi. Non erano adatti, ma qualcosa forse dovevano valere. Lino Miccichè, anni dopo, li volle inserire in un volume su La Terra trema.

Uno dei tanti capolavori a cui collaborò.
Cercavo il cinema. L’arte che ti mette di fronte ai problemi irrisolti e ti sfida a cercare una chiave. Moravia scrisse che i giovani non sarebbero riusciti a trovare nei libri di storia quello che un film sapeva restituire. Aveva ragione.

Visconti era burbero?
Severo, al limite. Ma gli devo tutto. Il suo rigore era necessità morale. All’inizio per Luchino preparavo il bollettino tecnico e segnalavo le incongruenze al suo aiuto, Zeffirelli. La terra trema rivelava una Sicilia di frontiera. Arcaica, brada, verghiana. Quando il dialetto si faceva aspro, Visconti non capiva. Bisognava tradurre. Per assonanza meridionalista, il compito toccava a me.

La terra ha tremato anche nei suoi film.
Non mi sono mai interessate le narrazioni piane. La mafia intenta a proteggere i suoi affiliati e ad ammazzare gli altri come cani era un territorio obbligato per un curioso come me.

Se ne è occupato spesso.
Da Salvatore Giuliano in poi. Ricordate l’incipit di Besozzi sull’Europeo? «Di sicuro c’è solo che è morto». In Le mani sulla città, Lucky Luciano, Cadaveri eccellenti o Dimenticare Palermo emergeva il rapporto di collusione e complicità tra istituzioni e crimine. La criminalità è diventata un enorme potere sfruttando eredità moderne: grande finanza e narcotraffico.

Sarebbe stato un bravo giornalista.
Ho lavorato con molti bravi giornalisti, è diverso.

Per Uomini contro ebbe qualche problema.
Mettevo in scena la follia del conflitto ’15-’18. Con Guerra e La Capria ci ispirammo al Lussu di Un anno sull’altopiano. Attaccavo la retorica della patria. L’Msi si scatenò. «Rosi, il comunista che infanga l’Italia». L’esercito mi denunciò per vilipendio. Le sale mi boicottarono e in tv ne parlò malissimo il generale golpista De Lorenzo. Un onore.

Crede che certi film dovrebbero essere proiettati nelle scuole?
Se c’è l’ora di religione, ci deve essere anche l’ora di storia del cinema. Un po’ di laicità non guasterebbe.

E a Cuba non trovò laicità, all’epoca in cui viaggiò per indagare su Ernesto Guevara.
Quando morì, pensai subito a un film sulla sua figura. Partii per l’isola e rimasi a lungo, ma la pretesa di approvare copione e girato da parte dell’Istituto cubano d’arte cinematografica, mi fece desistere. Era il mio film. Non il loro. Glielo dissi: «Voi siete rivoluzionari, per definizione non potreste imporre niente».

De Le mani sulla città, uno dei più potenti affreschi sul degrado della politica italiana di sempre, cosa rammenta?
Le riunioni dei consigli comunali a cui assistemmo a Napoli io e La Capria per documentarci. Mio padre, fotografo dilettante, che durante le riprese spunta dai calcinacci di un palazzo abbattuto in Via Marittima con la sua Rollerflex in mano. Carlo Fermariello, un dirigente del Pci locale, meraviglioso interprete di se stesso nel film. Persuadere il partito ad autorizzarlo fu un’impresa: «I nostri iscritti non fanno gli attori». Poi cenai con Amendola. Pragmatico, risolse il problema: «Basta con queste manie borghesi, può essere molto utile anche al partito. Fermariello reciti».

Lei è sempre stato di sinistra.
Un riformista consapevole dei propri limiti. Una volta in piazza, durante un comizio, evasi dalla mia natura. Ingenuamente urlai: «Abbasso il Papa». Si girò un operaio: «E che cazzo, ma se cominciamo a dire strunzate pure nuie è la fine». Mi fulminò.

Per Il caso Mattei ebbe contatti con Mauro De Mauro.
Gli chiesi un resoconto delle ultime giornate siciliane di Mattei. Poi sparì. Sulla scomparsa ci sono tante teorie, una di queste poggia sul lavoro che De Mauro aveva svolto sul presidente dell’Eni.

Pasolini affrontò l’argomento scrivendo Petrolio.
Un’opera incompiuta, nella quale non si scorgono cause e nessi in maniera definita. Ipotesi. E le ipotesi non di rado abbracciano la fantasia.

Gassman e Volontè le regalarono prove intense.
Gian Maria, serissimo, copiava sempre a mano la sceneggiatura 4 volte. «Così», diceva, «le battute non le scordo». Io e Gassman avevamo debuttato nella regia dirigendo insieme nel ’56 un trattamento dal suo Kean, poi lui interpretò per me un principe recluso in albergo in Dimenticare Palermo. Aveva poche battute, ma ebbe l’umiltà di chiedere: «Sono andato bene?». Mi manca.

Oggi ha senso parlare di cinema civile?
Diaz e Romanzo di una strage sono ottimi film. Io mi vedo altrove, ho pensato a lungo a un progetto su Cesare e Bruto, ma è improbabile che mi impegni sul conflitto di interessi dopo Le mani sulla città. Ho già dato.

Pensa mai all’addio?
Alla morte penso, ma non ho l’afflato dell’aldilà come spagnoli o siciliani. Mi piace la vita. Però, lo so, bisogna morì.


Una piattaforma chiara per una nuova politica di sinistra, indispensabile per uscire compiutamente dalla crisi strutturale che ci sta affogando, possibile solo se ciascuno riuscirà a uscire dal proprio guscio.

Staffperilpartitonuovo, 10 gennaio 2015

Come un prossimo evento dall’agenda incompleta a Bologna, e uno seguente dal nome poco semplice a Milano, possono comunque sommare le rispettive virtù per una impresa comune determinata, ma di grande e storica portata. Fortunatamente, ci sono premesse perché ciò accada.

Auspicare un grande partito nuovo, come questo blog si dedica a fare già da qualche tempo, può apparire (ed essere) fin troppo facile. Oppure significa pensare innanzitutto le enormi difficoltà che vi sono mentre si segue con attenzione coinvolta ciò che in effetti si sta muovendo per rispondere ad esigenze reali che hanno quel senso (anche senza riconoscerlo esplicitamente): insomma, ciò che in un modo o nell’altro e per forza di cose si va avvicinando a creare quel fatto decisivo ed essenziale (cui questo blog usa dare quel nome). Le difficoltà sono pesanti. Attirano alcune delle forze indispensabili a questo fine a muoversi in modo sparso e in direzioni diverse, con ragioni che devono essere considerate: per esempio, al fine di non compromettere la possibilità di fare ciò che intanto si riesce a fare di buono concorrendo ad amministrare regioni, comuni, circoscrizioni; provvedere alle materiali e ineludibili necessità del lavoro politico e della stessa esistenza politica utilizzando le risorse istituzionali che solo una pratica di collaborazione entro le attuali regole del gioco permette, apparentemente, di ottenere.

Resta l’esigenza, che si può riassumere così: ciò che vuole le stesse cose le dovrebbe fare insieme, perché altrimenti non saranno fatte mai. E si tratta di cose assolutamente necessarie per il nostro tempo, per le nostre vite, per le condizioni e il senso del nostro futuro.

Quali sono le stesse cose volute da molti in Italia oggi? Per riassumere gli intendimenti che sono condivisi in Italia oggi da un campo di soggetti sociali, culturali, individuali e civili, potenzialmente capace di egemonia, capace insomma di produrre la necessaria discontinuità nella presente drammatica crisi del nostro modello di società, si può cominciare da un nocciolo di cose che abbiamo più volte mostrato insieme di non volere, e di cose che vogliamo in loro luogo.

Da una parte, non vogliamo che si vada avanti, in pochi, a cambiare la costituzione italiana; non vogliamo un potere sovranazionale europeo che continui ad operare indipendente dalla popolazione europea e contrariamente ai suoi veri e più generali bisogni; non vogliamo che i ricchi continuino ad arricchirsi e i poveri a impoverirsi e ad essere esclusi come superflui; non vogliamo le guerre che si fanno e si preparano, e rifiutiamo le ingiustizie che le alimentano e le menzogne che le vorrebbero giustificare.

Al contrario vogliamo, punto per punto, altre cose precise. Innanzitutto vogliamo il rispetto della sentenza della Corte costituzionale sulle leggi elettorali; e vogliamo fare di tutto per impedire la cosiddetta riforma del Senato, (riformando piuttosto il funzionamento dei partiti, e sottraendoli alla corruzione e alle lobby). Vogliamo poi aprire una vertenza anche disobbediente sulle regole monetarie, di bilancio, e così via, che sono state imposte dall’alto al nostro come ad altri paesi, cominciando dal referendum sull’attuazione dell’art. 81 “riformato” della nostra costituzione e dalla conferenza europea sulla rinegoziazione dei debiti pubblici proposta da Tsipras. Vogliamo sollevare l’indignazione popolare contro ennesimi regali agli evasori, vogliamo rilanciare e rendere trasparente la grande tradizione del riformismo europeo circa lo strumento fiscale come fattore di equità sociale, e vogliamo attuare l’art. 3 della nostra costituzione dando priorità assoluta all’obiettivo di assicurare la dignità individuale e sociale di ogni persona attraverso il lavoro. Vogliamo rinegoziare e soprattutto verificare i trattati di alleanza esistenti, gli impegni conosciuti e soprattutto quelli meno conosciuti che hanno portato le forze armate di paesi come il nostro ad aggredire paesi del Mediterraneo come la Libia, e governi come il nostro ad essere complici di sanguinose attività di destabilizzazione di paesi come la Siria e l’Ucraina servendosi di inaccettabili e pericolosi alleati fascisti di varia natura (fino a quando non se la prendono con noi).

In Italia, le forze più o meno organizzate che condividono o almeno tentano a condividere questi «no» e questi «sì» sono suddivise in tre tronconi che finora hanno quasi sempre proceduto parallelamente, malgrado alcuni limitati e recenti episodi di convergenza: i piccoli partiti in cui nobilmente sopravvive (cosa comunque preziosa) il nome e l’esplicita identità comunista; “Sinistra ecologia e libertà”, i comitati Tsipras, che giustamente sono fermi nell’intento di proseguire e rafforzare l’esperienza unitaria delle recenti elezioni europee, e che tuttora sono forti di adesioni individuali da parte di membri dei primi due gruppi. A Bologna, il 16 e 17 gennaio prossimi, i Comitati si riuniranno per prendere qualche decisione in più (non è ancora certo se tutte) circa il modo di realizzare questa volontà.

Alcune di queste forze (non certamente la terza) in passato hanno stretto alleanze con lo stesso partito (il PD) che oggi, al governo, fa e promuove tutte le cose che non vogliamo, o in qualche modo vi tendeva anche quando era meno evidente. Adesso anche queste (compresa per ultima, e con qualche residua esitazione, SEL) sembrano orientarsi verso una più decisa e strategica contrapposizione almeno a questo PD. Ma anche recentemente qualcuna (specialmente SEL) ha formato con il PD alleanze elettorali locali che dichiaratamente miravano a dare valore a forze interne al PD considerate ancora (a parte il nome) democratiche. Una parte di queste forze interne al PD sembra oggi tendere ad uscirne. Potranno essere un’ulteriore componente del campo alternativo? Lo vogliono essere? Sono, soprattutto, alternative?

O per chiarirlo, o forse per altre ragioni, il personale politico di SEL e questi dissidenti, insieme con forze anche valide e rappresentative del mondo sindacale, daranno vita prossimamente ad un evento di discussione (o di auto-presentazione) pubblica, dal titolo poco semplice, e non semplice da inserire nel contesto dei movimenti in atto. Ciò che i dissidenti del PD pensano non è sempre chiaro, e nemmeno è chiaro fino a che punto essi abbiano ripensato l’intero progetto strategico da cui il PD è nato (il veltronismo, insomma), di cui il renzismo costituisce piuttosto un’ estrapolazione ardita ma coerente che un vero stravolgimento. I rischi e le ambiguità sono evidenti.

Da parte delle più generose e promettenti energie che stanno per ritrovarsi a Bologna, comunque, drammatizzare l’evento milanese dal nome poco semplice sarebbe altrettanto sconsigliato. E, fortunatamente, non sembra prevalere, in loro, l’intenzione di farlo. È innanzitutto un segno di speranza che tra i due eventi vicini di fine gennaio – l’imminente assemblea di Bologna dei comitati Tsipras e la riunione di più ampio personale politico rappresentativo che avrà luogo a Milano per iniziativa di SEL – non vi sia pregiudiziale distanza ma impegnativa e reciproca attenzione. Dare valore alla parte piena del bicchiere (il PD che scricchiola) piuttosto che a quella vuota (le ambiguità dei dissidenti) dovrebbe essere il primo criterio che una politica egemonica e forte delle sue idee dovrebbe seguire.

Il punto è che ci deve essere una piattaforma forte e potenzialmente egemonica come protagonista di queste azioni. Ed è ciò che dovrebbe nascere a Bologna. Sotto il segno dell’unità e della rappresentatività.

Fare insieme, in modo organizzato, tutto ciò che insieme si vuole, è il criterio che può assicurare fin d’ora il massimo (non il minimo) di unità possibile Perché ciò che si vuole insieme è molto, non poco. Le energie fluide che si aggregano e si disperdono, sovrapponendo troppo spesso le loro azioni anziché coordinarle (chi non ricorda i tavoli separati per la raccolta di firme?) dovrebbero innanzitutto creare comitati di scopo intorno a ciò che insieme si vuole e insieme non si vuole (es. campagne popolari su proposte di legge di iniziativa popolare, ecc.), e prepararsi come un punto di riferimento unico per gli elettori nelle (non lontane) elezioni politiche, unito dalle leggi e dalle riforme (vere) che promuoveranno in parlamento dopo averle promosse nelle piazze. Le diatribe su nuovo soggetto o federazione di soggetti, su unità comunista prima e unità più larga poi oppure no, su scioglimenti o no, possono essere messe da parte, mentre si cammina, senza che alcuno perda. Si può pensare che lo scopo finale sia il socialismo, il comunismo, l’anarchia, la decrescita felice, o altro che si voglia, e aderire a partiti che coltivino ciò. Intanto si dovrebbe unire praticamente ma non episodicamente le forze, con specifici vincoli organizzativi, per obiettivi più ravvicinati e determinati che non pregiudichino nulla di tutto questo. Il soggetto nuovo dovrebbe essere un’impresa precisa con uno scopo preciso e un termine preciso. Poniamo: invertire la tendenza (oggi demenziale e perversa) dei rapporti tra rendite, salari e profitti (e su ciò sarebbe quasi rivoluzionario, oggi, mirare a riportare le relative forbici ai valori indici del 1970); quella dei rapporti tra investimenti e bisogni (con prevalenza di investimenti labor-intensive e non labor-saving e con l’immissione nel mercato di soggetti collettivi forti e rappresentativi come committenti della produzione e dell’innovazione); quella, in generale, dei rapporti tra pubblico ossia generale, e privato ossia particolare. E farlo stabilmente entro dieci anni. Che passano presto, ma durante i quali si può lottare molto e fare molto. E poi si vedrà: nuovi problemi (quasi sicuramente meno gravi di questi), e nuove scelte; ancora insieme, oppure no.

Per assicurare la rappresentatività della gestione del processo unitario, condotto entro questi precisi e insieme amplissimi limiti, abbiamo a disposizione i comitati territoriali spontanei, entusiasti, privi di pregiudizi reciproci, che hanno ridato il gusto o fatto nascere il gusto della politica in anziani delusi e giovani in cerca, che hanno prodotto il risultato del 25 maggio, e costituiscono la novità più feconda e più promettente della politica democratica in Italia oggi. Deve esserci un tesseramento. Devono esserci congressi. Il tema: come realizzare il programma (di lotta e di governo futuro), a chi dare fiducia a questo scopo. Nessun esistente partito si scioglierà, ma ci sarà cessione di sovranità quanto all’area di obiettivi comuni che costituiranno la ragione sociale del soggetto federale. Per il momento, a tempo determinato, poi si vedrà. Il fatto è che quell’area non è fatta, non può essere fatta, di inezie… Appunto, poi si vedrà.

Raffaele D’Agata

Il manifesto, 11 gennaio 2015

Sono stato col­pito, - per una volta molto posi­ti­va­mente, - dalle rea­zioni della grande stampa d’informazione e di una parte di quella tele­vi­siva (quella libera, natu­ral­mente) di fronte al caso della norma che depe­na­lizza sotto una certa soglia le frodi fiscali, - pas­sata ormai uni­ver­sal­mente alla sto­ria come il comma del 3%, che, una volta appro­vato, avrebbe resti­tuito a Sil­vio Ber­lu­sconi il pieno eser­ci­zio dei suoi diritti poli­tici e civili (val­gano, per tutti gli altri, arti­coli esem­plari come quelli di Anto­nio Polito sul Cor­riere della sera del 6 gen­naio e di Clau­dio Tito su la Repub­blica del 7). Con­ti­nua invece a sor­pren­dermi, - anzi, a que­sto punto, dopo tali prese di posi­zioni libere e severe, mi sor­prende ancora di più, - che, una volta indi­vi­duata la natura cla­mo­rosa (e, dicia­molo pure, ver­go­gnosa) dell’errore (errore?), non si risalga ancora alla fonte dell’errore. Tale fonte ha un nome pre­ciso, e non è molto dif­fi­cile sco­varla e descri­verla: si chiama il Patto del Nazareno.

Non è solo sugli aspetti etico-politici di tale scelta che vor­rei richia­mare l’attenzione: se Sil­vio Ber­lu­sconi, dopo con­danne ed espul­sioni esem­plari dal Par­la­mento, è stato recu­pe­rato ad un pres­so­ché pieno agire poli­tico, e alla sua dimen­sione di Capo influente e dia­lo­gante (non a caso, gli incon­tri si sono svolti nella sede nazio­nale del Pd, da cui quel nome pieno di fascino, come dire, ecu­me­nico), lo si deve non alla misura age­vo­lante del 3%, ma, appunto, al Patto del Naza­reno (causa per­sino, a voler essere più rea­li­sti del re, di una mor­ti­fi­ca­zione ecces­siva per gli alleati di Governo, il Ncd, che almeno se n’erano andati dal Padre Padrone, sbat­tendo la porta).

E non è nean­che per­ché, a voler essere più pre­cisi di quanto le stesse prese di posi­zioni cri­ti­che, ben posi­tive e ben arri­vate, di que­sti giorni non dimo­strino, cosa ci sia dav­vero nel Patto del Naza­reno nes­suno di noi lo sa (potreb­bero esserci dieci, venti 3%, ed è ipo­tiz­za­bile che da un certo momento in poi nean­che tali e anche più robu­ste pro­te­ste riu­sci­reb­bero più a sbar­rare la strada al nostro, per tutti i versi ano­malo, Pre­si­dente del Consiglio).

Ma per­ché il Patto del Naza­reno ha scon­volto e inqui­nato, e sem­pre più inqui­nerà, tutte le moda­lità (“moda­lità”, dico, per­sino indi­pen­den­te­mente dai con­te­nuti con­creti delle sin­gole pro­po­ste e delle sin­gole leggi) della vita poli­tica e civile ita­liana: strap­pando bru­tal­mente al Par­la­mento le sue pre­ro­ga­tive; umi­liando, e alla fine per­sino distrug­gendo, l’unica forza poli­tica, il Pd, che fino alle ultime ele­zioni sem­brava (sia pure mini­ma­mente) in grado, con il con­senso degli ita­liani, di tirare il paese fuori da que­sta melma; pre­fi­gu­rando (v. la pros­sima legge elet­to­rale, l’Italicum) un cam­mino sem­pre più auto­ri­ta­rio e sem­pre più sbi­lan­ciato a destra della nostra vita nazio­nale; vani­fi­cando pub­bli­ca­mente, dopo gli utili sforzi dell’Autorità giu­di­zia­ria e del Par­la­mento, la bar­riera, che dovrebbe essere inva­li­ca­bile, fra vita pub­blica e corruzione.

Ora, è chie­dere troppo che, dopo essersi pro­nun­ciati quanto mai oppor­tu­na­mente sul famoso 3% ci si pro­nunci sul Patto del Naza­reno? Un’occasione più grande per farlo, più grande di qual­siasi altra, ci sta venendo incon­tro a passi da gigante: l’elezione del Pre­si­dente della Repub­blica. La domanda è: si può accet­tare che il nuovo pre­si­dente della Repub­blica nasca dall’accordo con­sen­suale del (cosid­detto) centro-sinistra con… con… (molti appel­la­tivi ven­gono in mente, ma tanto nomini nul­lum par elo­gium) con Sil­vio Ber­lu­sconi? Non è pro­blema di nomi (di cui si fa un dispen­dio senza limiti, forse per nascon­dere, per nascon­dersi, il vero noc­ciolo del pro­blema). Infatti: chiun­que salisse al Qui­ri­nale sulla base di tale accordo ne usci­rebbe irri­me­dia­bil­mente infan­gato per tutto il corso del suo man­dato: sarebbe sem­pre, e in tutte le con­di­zioni, sot­to­po­sto al ricatto del 3%, o a uno dei molti altri pos­si­bili ricatti del 3%, che alli­gnano nel brodo di col­tura del Patto del Naza­reno. Non sarebbe dun­que il caso di spo­stare l’attenzione su que­sta tema­tica, che, diver­sa­mente dall’altra non è epi­so­dica ma decisiva

. Il manifesto,

Nell’ambito delle pub­bli­ca­zioni legate all’anniversario della morte di Ber­lin­guer, il libro curato da Clau­dio Sardo (L’anima della sini­stra, Edi­tori riu­niti inter­na­zio­nali, pp. 111, euro 11) si segnala per la scelta di assu­mere quale suo asse un tema cru­ciale del comu­ni­smo ita­liano. Cioè la que­stione del rap­porto con la tra­di­zione cattolica.

È un cro­ce­via clas­sico che appas­sionò Togliatti, che in que­sto si pose in netta discon­ti­nuità con l’anticoncordatario e «illu­mi­ni­sta» Gram­sci, come ricorda Giu­seppe Vacca. E che tornò con forza in Ber­lin­guer.

Il libro ripro­pone un momento signi­fi­ca­tivo del con­fronto: il car­teg­gio che nel 1977 vide impe­gnate le penne del vescovo di Ivrea Bet­tazzi e il segre­ta­rio del Pci. Accanto alla con­ver­genza indi­vi­duata attorno ai con­di­visi «con­te­nuti uma­ni­stici» o al rico­no­sci­mento del valore della per­sona, il dibat­tito mise in luce anche una con­trad­di­zione. Quella tra l’autodefinizione del Pci come par­tito laico e plu­ra­li­sta, con l’articolo 5 dello sta­tuto che invece pre­ve­deva il canone del marxismo-leninismo.

Era la cele­bre que­stione del «trat­tino» che per alcuni mesi vide incro­ciare le spade alcuni filo­sofi comu­ni­sti e che fu archi­viato, pre­cisa Vacca, nella revi­sione sta­tu­ta­ria del 1979. Il nodo più rile­vante comun­que ver­teva sulla con­ci­lia­bi­lità tra l’identità comu­ni­sta, pro­tesa alla cri­tica del capi­ta­li­smo in nome di istanze gene­rali di libe­ra­zione umana, e le ana­lo­ghe ten­sioni per il tra­scen­di­mento del pre­sente che si affac­cia­vano nel mondo della fede, dal «labu­ri­smo cri­stiano» di Dos­setti, al fer­mento dei movi­menti di base sino alla pro­po­sta espli­cita delle Acli di una nuova società socia­li­sta.

Su que­sto pos­si­bile momento di con­fluenza, all’interno dei grandi valori costi­tu­zio­nali della soli­da­rietà e della per­sona come valore, aveva insi­stito già Togliatti, in assem­blea costi­tuente. E ancor prima, nel discorso al tea­tro Bran­cac­cio di Roma nel 1944, si era spinto a pro­porre alla Dc «un patto comune di azione, per un pro­gramma comune».

A Ber­gamo nel 1963 il lea­der del Pci annun­ciò una cri­tica della società del con­sumo, fonte della inco­mu­ni­ca­bi­lità sostan­ziale dell’uomo moderno, che anti­ci­pava il richiamo di Ber­lin­guer all’austerità quale occa­sione per ripen­sare radi­cal­mente il modello di svi­luppo, gli stili e i valori di vita.

Dome­nico Rosati scorge una affi­nità tra la pro­po­sta ber­lin­gue­riana di auste­rità come con­te­sta­zione dei pila­stri della società bor­ghese e l’annuncio di Moro della sta­gione dei doveri. Su que­sti lidi di cen­sura dell’edonismo, in nome di una emer­genza antro­po­lo­gica, c’è il rischio di smar­rire il senso anche posi­tivo del con­sumo ai fini della costru­zione della sog­get­ti­vità (il con­sumo con il suo nichi­li­smo mer­can­tile è ciò che salva il capi­ta­li­smo, lo intuì già Toc­que­ville; e non è anche per l’incapacità di garan­tire il con­sumo di massa che invece crolla il comu­ni­smo?). Ma lo scopo della rifles­sione sull’austerità come «occa­sione» non era quello di imporre una povertà gene­rale ma di defi­nire il pro­getto di un nuovo ordine sociale con altre com­pa­ti­bi­lità, con altre qua­lità rico­no­sciute del vivere collettivo.

La spe­ci­fi­cità del con­tri­buto di Sardo è che la ripro­po­si­zione del tema della fede (la sua domanda ini­ziale è: per­ché solo in Ita­lia esi­ste una robu­sta com­po­nente cat­to­lica che non si rico­no­sce con la destra, come accade in tutti gli altri paesi?) serve per inter­ro­garsi sul senso della ere­dità del comu­ni­smo ita­liano dopo la fine del Pci.

Per­ché quello che è scom­parso è la trac­cia di un mondo, i segnali di un pen­siero, i luo­ghi di una comu­nità, tra­volti da quello che Sardo chiama «il rifor­mi­smo subal­terno» che sfida iden­tità, memo­rie, cul­tura poli­tica, modello di par­tito, radi­ca­mento sociale, idea di società.

«Quando c’era Ber­lin­guer la poli­tica sapeva ragio­nare», osserva Rosati. Oggi, con il divor­zio tra poli­tica e ragione, avanza un nichi­li­smo sor­ri­dente che costringe gli avanzi impo­tenti di una grande tra­di­zione cri­tica ad obbe­dire a un tweet, a scor­gere cari­sma in una cami­cia bianca, a rive­rire gli impren­di­tori, che si sa sono «gli eroi del nostro tempo», a rom­pere con il movi­mento ope­raio come terra insi­gni­fi­cante, che nep­pure merita rappresentanza.
Riferimenti
Nell'archivio di eddyburg abbiamo un'ampia raccolta di scritti di e su Enrico Berlinguer.

In queste ore, il Senato esamina nuovamente la proposta di nuova legge elettorale che il Presidente del Consiglio e Segretario del PD vuole approvata con la massima velocità, o, come dice Lui, col massimo ‘ritmo’. Volontà che corre il rischio di trovare attuazione, vista la attuale composizione del Parlamento, costituito grazie a una legge dichiarata incostituzionale perché non consente ai cittadini di esercitare la sovranità riconosciuta loro dall’articolo 1 della Costituzione.

La nuova legge manterrebbe sostanzialmente gli stessi caratteri di incostituzionalità della precedente, consentendo la deformazione della volontà espressa dagli elettori fino a rischiare di capovolgerla e potrebbe assegnare la maggioranza della (unica) Camera a un partito che abbia ricevuto una percentuale minima di voti al primo turno, purché sia arrivato secondo e il primo non abbia ottenuto almeno il 45% dei voti, consentendogli di partecipare al ‘ballottaggio’, valido qualunque sia il numero degli elettori partecipanti. Inoltre prevede che molti degli eletti siano sottratti alla valutazione degli elettori grazie alla priorità assegnata ai capilista, scelti dalle segreterie dei partiti, e la possibilità che un’alta percentuale di votanti non sia rappresentata nell’assemblea a causa del meccanismo delle ‘soglie’ e del ‘premio’ che, assegnando al vincitore molti più seggi, li sottrae alle altre forze politiche.

La sostanza della sentenza n.1/2014 della Consulta viene così elusa, in una visione che privilegia una discutibile ‘stabilità’ (tutta la dimostrare, viste le divisioni interne anche agli stessi partiti) al criterio essenziale e irrinunciabile della rappresentanza democratica, sconfinando in una prospettiva presidenziale e autoritaria che contraddice i fondamenti della nostra Costituzione.

Se appare comprensibile, anche se non accettabile, la scarsa attenzione di gran parte della opinione pubblica sottoposta al bombardamento mediatico-propagandistico di quasi tutti i mezzi di informazione, impegnati in una gara accanita a chi dedica più tempo agli annunci, ai proclami, perfino ai tweet e alle vacanze di Renzi, meno giustificabili appaiono le esitazioni di esponenti politici che continuano i loro esercizi di contorsionismo fra la critica verbale e il rifiuto di una indispensabile unità di tutti coloro che nella difesa delle Istituzioni democratiche potrebbero trovare un denominatore comune.

La percentuale ormai altissima degli astenuti ha dimostrato che il degrado morale e l’arroganza dei attuali professionisti della politica rischia di cancellare la credibilità degli stessi meccanismi democratici; dovendo scegliere fra le attuali proposte del quadro politico, sempre di più sono gli elettori che si rifiutano di dare il proprio avallo a quella che è ormai una oligarchia impegnata a ridisegnare ‘regole del giuoco’ per la propria auto-conservazione.

E’ invece indispensabile recuperare una piena coscienza delle conseguenze di questa deriva autoritaria, anche per opporsi efficacemente alla involuzione di una Europa colpevolmente asservita a un modello di sviluppo suicida e alle logiche liberiste della finanza internazionale, per rilanciare, come accaduto nell’ultimo dopoguerra, un grande movimento di civiltà, che rimetta al centro della cultura politica pace, solidarietà, eguaglianza, giustizia come fondamenta di una nuova convivenza e di un impegno comune per la salvezza del pianeta.

Gli effetti della nuova legge elettorale, minando alla base i principi costituzionali e sottraendo ai cittadini il diritto alla autodeterminazione, rischiano di andare ben al di là di una, già grave, esplicita concentrazione del potere, soffocando nel nostro Paese quella ricerca di alternative culturali e civili che si sta diffondendo e acquistando dimensioni significative in molte altre Nazioni. Sarebbe come uscire dalla Storia.

iceberg che sta sotto ad un attentato come questo? Cerchiamo di scoprirlo iniziando col porci un’altra domanda: a chi serve questa guerra?». Comune-info.net, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)

I terroristi entrano nel telefono di Jean Louise mentre mangiamo in un Bar del Marais a Parigi. Le notizie ormai ci raggiungono ovunque. Non è indispensabile comprare un giornale di carta o accendere la televisione. «Hanno ammazzato dodici persone» dice Jean Louise leggendo sullo smartphone. «Giornalisti di un settimanale satirico sono stati ammazzati a colpi di kalashikov» dice “ma sembra che gli assassini siano scappati e non li hanno presi”.

Allora ci facciamo i calcoli sulla strada che faremo per tornare a casa. Jean Louise e Patrick devono prendere il treno per tornare a Liege e a Bruxelles, Paolo va a Belville e io all’aeroporto di Orly. Gli sparatori sono ancora in giro, chi li incontrerà? All’aeroporto mi sequestrano lo sciampo. Niente di tragico, era una bottiglietta presa in albergo tanto per non buttare nel water un goccio di sapone, ma in un giorno come questo i controlli sono più severi. I terroristi (si chiamano così) non riusciamo a capirli, sparecchiano la nostra tavola rovesciando tutto in un solo colpo.

Ma chi ha inventato questa guerra che dalle trincee di cento anni fa arriva fino alla porta di casa nostra? Penso alle trincee perché da un anno si parla della prima guerra mondiale. Si pubblicano e ripubblicano libri. Escono film e si fanno trasmissioni televisive sulla grande guerra. In molti ricordano l’attentato di Sarajevo. Gavrilo Princip uccise l’erede al trono austro-ungarico in una giornata che ebbe un andamento grottesco. A scuola ci dicevano che la guerra scoppiò dopo quel fatto, ma era solo una semplificazione.

L’Europa si preparava già da dieci anni e tutti i paesi avevano interesse a spararsi addosso. L’Austria cercava un pretesto per mettere le mani sui Balcani e presentò un ultimatum alla Serbia senza aspettare la risposta, la Russia voleva uno sbocco sui mari caldi, la Germania pensava all’egemonia continentale ma anche all’espansione coloniale, l’Inghilterra non voleva un paese egemone nel continente europeo, la Francia non poteva non intervenire davanti ad Austria e Germania che si muovevano, l’Italia temporeggiò per un anno poi prese al volo l’invasione del Belgio per cambiare schieramento e mettersi in trincea contro gli austriaci.

E poi tutti avevano paura del socialismo. La guerra avrebbe fermato la rivoluzione. In Russia successe il contrario: fu la rivoluzione a scoppiare grazie alla guerra, ma queste due anime furono comunque legate l’una all’altra anche in quel caso. Queste cose le sappiamo dopo anni di studi e pubblicazioni, ma cento anni fa i nostri nonni avevano a disposizione una versione completamente diversa. La storia ci ricorda che gli avvenimenti sono soltanto la punta visibile di un iceberg che si scopre solo col tempo e con lo studio. Dunque: qual è l’iceberg che sta sotto ad un attentato come questo? Cerchiamo di scoprirlo iniziando col porci un’altra domanda: a chi serve questa guerra?

«L'autore dialoga con l'ultimo libro di Stefano Rodotà, edito da Laterza,

Solidarietà, un'utopia necessaria. L'analisi di una parola apparentata a molte altre (natu­ra­lità, mora­lità, carità, assi­stenza, bene­fi­cenza, fra­ter­nità, dove­ro­sità, diritto, egua­glianza e gra­tuità, che la lam­bi­scono, inve­stono, assu­mono e la inter­pre­tano cur­van­dola al loro spi­rito ed essenza. Il manifesto, 8 gennaio 2015

Col suo ultimo libro (Soli­da­rietà, un’utopia neces­sa­ria, Laterza, pp.141, euro 14) Ste­fano Rodotà allarga il campo dell’impegno scien­ti­fico e poli­tico nella lotta per i diritti che, da decenni, ha ingag­giato con tena­cia inin­ter­rotta e con suc­cesso non solo dot­tri­nale. Lo amplia alle pre­con­di­zioni, ai con­net­tivi dei diritti e che ne sono forse anche i nuclei pri­mi­geni. A deno­mi­narli è un nome: prin­cipi. E, mai come a que­sto pro­po­sito, il nome è la cosa.

Di que­sti con­net­tivi Rodotà sce­glie la soli­da­rietà, il più com­plesso (a que­sto pro­po­sito il rin­vio è all’intervista rila­sciata a Roberto Cic­ca­relli sulle pagine di que­sto gior­nale il 4 dicem­bre). Com­plesso per­ché ha una sto­ria par­ti­co­lar­mente intrec­ciata con quella di altri con­net­tivi. Com­plessa per­ché matrici diverse la hanno moti­vata come pro­pria deri­va­zione, con­no­tan­dola con le rela­tive impronte, intanto che altri con­net­tivi pro­va­vano ad assor­birla. Natu­ra­lità, mora­lità, carità, assi­stenza, bene­fi­cenza, fra­ter­nità, dove­ro­sità, diritto, egua­glianza e gra­tuità lam­bi­scono, inve­stono, assu­mono la soli­da­rietà e la inter­pre­tano cur­van­dola al loro spi­rito ed essenza. Ognuna di esse, in verità, ha svolto un ruolo che va rico­no­sciuto almeno come rive­la­zione della pos­si­bi­lità e della pra­tica di un’esigenza umana mai del tutto sradicata.

Rodotà ne fa la sto­ria degli ultimi secoli e ne descrive le movenze e i ruoli col­la­te­rali che ha svolto e anche le valenze stru­men­tali che ha saputo espri­mere. Ma sa distin­guere, sepa­rare, sa indi­vi­duare le impronte che pos­sono come assor­birla ed esau­rirne — e anche degra­darne — l’essenza. Sa, soprat­tutto, sce­gliere il fon­da­mento sicuro su cui costruire la soli­da­rietà come prin­ci­pio. È quello del diritto, della norma giu­ri­dica. Pro­se­gue così l’alto e nobile inse­gna­mento di quel padre del costi­tu­zio­na­li­smo che for­mu­lava la prima enun­cia­zione dei diritti sociali attri­buendo allo stato gli obbli­ghi di offrire a «tutti i cit­ta­dini la sus­si­stenza assi­cu­rata, il nutri­mento, un abbi­glia­mento decente, e un genere di vita che non sia dan­noso alla salute», Montesquieu.

La soli­da­rietà è così che si con­cre­tizza. Per poter essere prin­ci­pio giu­ri­dico, deve poi dispie­garsi in diritti. È il modo in cui si libera dalle tante impronte che la hanno segnata. Da quelle impresse da una incerta natu­ra­lità, dalla inerme mora­lità, dalla dove­ro­sità a irri­tante garan­zia della pro­prietà, dalla eva­ne­scente fra­ter­nità, a quelle, ine­so­ra­bil­mente mor­ti­fi­canti, della carità, della assi­stenza e della bene­fi­cenza. È il modo in cui si eleva a fonte riven­di­ca­tiva della dignità umana.

Ma ha di fronte il mondo della glo­ba­liz­za­zione. Che è quello del mer­cato capi­ta­li­stico, per­ciò della pro­prietà pri­vata e del pro­fitto, del trionfo dell’una e dell’altra da trent’anni cele­brato senza pause e senza limiti alla deva­sta­zione delle con­qui­ste di civiltà che l’idea e le forze della soli­da­rietà ave­vano rag­giunto. È il mondo della bar­ba­rie postmoderna.

Rodotà non lo accetta, invita a riflet­tere sulla tor­tuosa sto­ria della soli­da­rietà, sulle poli­ti­che sociali che furono impo­ste dalle forze che ne ave­vano neces­sità e che ebbero ascolto nelle dot­trine giu­ri­di­che e poli­ti­che che ne recla­ma­rono forme di rico­no­sci­mento. Forme diver­si­fi­cate che anda­vano dal cor­po­ra­tivo, al cari­ta­te­vole, al com­pas­sio­ne­vole, al mutua­li­smo con­ta­dino ed ope­raio. E che, pur nei limiti e con le tor­sioni che le carat­te­riz­za­vano, testi­mo­niano tut­ta­via una pos­si­bi­lità di affer­ma­zione plu­ra­li­stica del prin­ci­pio. Con­sen­tendo in tal modo che per «l’adempimento dei doveri inde­ro­ga­bili di soli­da­rietà poli­tica eco­no­mica e sociale» dell’articolo 2 della Costi­tu­zione, all’insostituibile e pre­va­lente azione isti­tu­zio­nale pos­sano aggiun­gersi ini­zia­tive sociali (volon­ta­riato, terzo set­tore) alla base della forma-stato. A que­sto pro­po­sito, va rico­no­sciuto a Rodotà il merito di pro­porre un’interpretazione di quest’articolo della Costi­tu­zione che, nell’affermare che la Repub­blica «richiede» l’adempimento dei doveri della soli­da­rietà, estende al mas­simo i desti­na­tari della norma, uni­ver­sa­lizza la sua effi­ca­cia.

Affronta la que­stione del Wel­fare State, della sua ori­gine e crisi. Ne rico­strui­sce la mol­te­pli­cità dei signi­fi­cati, mostra come e per­ché il Wel­fare deno­mina una spe­ci­fica forma di stato costruen­dola pro­prio intorno alla soli­da­rietà. Una forma di stato che, a par­tire dai prin­cipi fon­da­men­tali che furono enun­ciati nei primi arti­coli della nostra Costi­tu­zione e pro­se­guen­done il dise­gno nor­ma­tivo per la forma-stato della con­tem­po­ra­neità, ride­fi­ni­sce la per­sona umana come cen­tro di rife­ri­mento della soli­da­rietà, sia come tito­lare del diritto sia come desti­na­ta­rio del dovere di soli­da­rietà. La ride­fi­ni­sce in ter­mini di cit­ta­di­nanza tanto com­pren­siva di diritti inte­grati l’un l’altro da assi­cu­rare il ben-essere, l’autodeterminazione, cioè il potere di crearsi un’esistenza digni­tosa, a pro­get­tarla come cre­di­bile pro­spet­tiva, a viverla come effet­tiva con­di­zione umana.

Ma quando, dove, come? Di cos’altro è indice, in quale con­te­sto la si può con­cre­tiz­zare, con quale altro pro­dotto sto­rico, per essere stata sto­ri­ca­mente deter­mi­nata, la soli­da­rietà può e deve con­vi­vere? Chi può assi­cu­rarla nella mate­ria­lità dei rap­porti umani esi­stenti, chi la può soste­nere alla base degli ordi­na­menti giu­ri­dici vigenti, insomma, di quale e quanta forza sociale dispone la soli­da­rietà oggi?

Rodotà non nasconde affatto che il pro­dut­tore sto­rico della soli­da­rietà, degli isti­tuti che la hanno con­cre­tiz­zata, dei diritti che ha gene­rato, il movi­mento ope­raio, insomma, è stato fran­tu­mato e che non c’ è più nes­suno in grado di con­te­nere e respin­gere le pre­tese e l’arbitrio dei costrut­tori del «nuovo ordi­na­mento nor­ma­tivo gover­nato da un potere sovrano, quello delle grandi società trans­na­zio­nali che dav­vero si pon­gono come il sog­getto sto­rico della fase pre­sente». La fase cioè dell’avvento e del con­so­li­da­mento del domi­nio glo­bale del capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta, il nemico sto­rico e strut­tu­rale della solidarietà.

Cosa oppor­gli che sia cre­di­bile e per­ciò con­sen­ta­neo, col­le­ga­bile, cor­ri­spon­dente anche nella pro­spet­tiva dell’esigenza sem­pre più pres­sante dell’universalizzazione della soli­da­rietà? Rodotà non deflette dalla più rigo­rosa coe­renza con le pre­messe, e le scom­messe, da cui parte. Non cre­dendo alla emer­sione di sog­getti sto­rici che pos­sano, nel breve periodo, ripren­dere con suc­cesso la lotta del movi­mento ope­raio per la soli­da­rietà, intra­vede però foco­lai di resi­stenza e di con­tra­sto al potere sovrano delle cen­trali trans­na­zio­nali del capi­ta­li­smo neoliberista.

Al sociale fran­tu­mato, al poli­tico ser­vente l’economico per aver abdi­cato a suo favore, il giu­ri­dico gli sem­bra con­fer­marsi come cre­di­bile poten­ziale di pro­du­zione della soli­da­rietà. In una sen­tenza recen­tis­sima della Corte di giu­sti­zia dell’Ue scorge una sorta di riven­di­ca­zione della pre­va­lenza dei diritti fon­da­men­tali rico­no­sciuti dalla Carta di Nizza sull’interesse eco­no­mico di una cor­po­ra­tion trans­na­zio­nale della forza di Goo­gle. Attri­bui­sce a que­sta sen­tenza l’efficacia costi­tu­tiva di «una nuova gerar­chia fon­data sui prin­cipi… espressi dai diritti fon­da­men­tali». Come se, per incanto, rove­sciando la sua giu­ri­spru­denza di favore al prin­ci­pio della con­cor­renza e a danno dei diritti del lavoro, la Corte di Lus­sem­burgo avesse abro­gato quella che Rodotà chiama la «con­tro costi­tu­zione» dell’Ue, fon­data sul Fiscal Com­pact e che, invece, io credo che sia la vera «costi­tu­zione» euro­pea. Come se, la stessa Corte, avesse anche espunto dal Trat­tato sul fun­zio­na­mento dell’Ue le norme che impon­gono come vin­colo asso­luto della dina­mica e come fine dell’Unione «l’economia di mer­cato aperta ed in libera con­cor­renza». Qui l’amore paterno dell’eccellente ma non soli­ta­rio legi­sla­tore della Carta di Nizza ha fatto aggio sull’acutissimo spi­rito cri­tico del giurista.

Ma, a riflet­tere, chissà: que­sta interpretazione-ricostruzione ope­rata da Rodotà potrebbe anche assu­mere valore pre­co­niz­zante di un pro­cesso che l’astuzia della sto­ria del diritto futuro, gra­zie ad una raf­fi­na­tis­sima erme­neu­tica, con tacite abro­ga­zioni e prov­vide addi­zioni, con­senta che i prin­cipi che Rodotà ha ride­fi­nito acqui­stino effet­ti­vità giu­ri­dica. Sic­ché da «uto­pia neces­sa­ria» diventi espe­rienza vivente quella soli­da­rietà che il movi­mento ope­raio si inventò e che Rodotà ricorda come rap­porto tra eguali e per­ciò auten­tica. Affiora così il tema dell’eguaglianza. Quello sul quale chi scrive sta aspet­tando il mag­gior defen­sor dei diritti del nostro tempo.

La Repubblica, 8 gennaio 2015

NON è vero che a Charlie Hebdo niente è sacro. Sacra, in quel vecchio giornale parigino, è la libertà. Danzava, la libertà, allegra e nuda come le donnine di Wolinsky, attorno alla fragile trincea di scrivanie coperte di carta, matite, giornali, pennarelli (l’arsenale delle vittime) sulle quali sono caduti gli impenitenti artisti della satira francese, molti dei quali anziani, freddati dai loro giovani assassini.

Ragazzi bigotti che uccidono vecchi libertini. Autori di lungo corso come Georges Wolinsky, Charb, Cabu, usciti indenni da cento processi per oscenità, scampati a licenziamenti, fallimenti e censure, sopravvissuti perfino alle tante rissose diaspore interne al mondo (litigiosissimo) del giornalismo satirico, per poi morire così, macellati da due imbecilli sanguinari che della libertà niente possono e vogliono sapere: la libertà sta ai fanatici come la bicicletta ai pesci. Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello, così solido in Francia, del radicalismo laico e repubblicano. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, a ritroso lungo Nove e Ottocento. Ispiratore indiscusso della rivista fu François Cavanna (origini piacentine), un vecchio hippy ribelle autore di versi esilaranti e spietati sulla soggezione dei popoli al potere e alle religioni. È morto nel suo letto quasi un anno fa, novantenne, candido e magro come un sacerdote, risparmiandosi questo orrore, e lo strazio di sapere offesa così in profondità la sua ilare tribù.

Il marchio di fabbrica di quel milieu satirico, immutato negli ultimi decenni e attraverso numerose testate, è una sorta di oltranzismo libertario e libertino che irrita anche la sinistra perbenista ed è sempre stato odiato dalla destra tradizionalista: il precedente direttore del giornale Philippe Val, omosessuale, pochi anni fa venne inseguito e picchiato per la strada, dopo un dibattito televisivo, da un gruppo di cristiani omofobi che voleva insegnarli come si sta al mondo. Una umiliante rappresaglia, ma niente in confronto al mostruoso esito del nuovo conflitto nel quale Charlie Hebdo, diciamo così per sua natura, non poteva non immischiarsi: quello tra la libertà di espressione e il fondamentalismo islamista. La lunga guerra iniziata “ufficialmente” nell’ormai lontano 1989 con la fatwa contro Salman Rushdie e i suoi Versi satanici . Guerra intestina all’Europa, va ricordato, fino dal suo primo atto: pare certo che la condanna a morte di Rushdie sia stata ispirata da ambienti islamisti londinesi, come se la refrattarietà di quel pezzo di Islam alla libertà di parola e di immagine fosse acuita, irreparabilmente, dalla promiscuità con i nostri costumi, ivi compresa la nostra (benedetta) scostumatezza.

La satira è, di suo, un linguaggio di confine, estremo e poco conforme alla disciplina. Restando (e purtroppo ci tocca) nella metafora bellica, è come un corpo di guastatori, le cui sortite non possono che scompaginare i ranghi, destabilizzare i ruoli. Sarebbe del tutto immorale, qui e ora, aprire il dibattito sulla liceità della blasfemia, o se volete della insolenza verso i dogmi religiosi. Sarebbe la cosa più blasfema da fare accanto a quei morti innocenti, e certamente morti di libertà (a causa della libertà, in nome della libertà). Sarebbe come se dalle retrovie, e con il culo al caldo, ci permettessimo di discettare sul rischio che si sono presi quei caduti.

Limitiamoci a constatare che, sul fronte della libertà di parola e di immagine, la satira non può che essere in prima linea. E a Charlie Hebdo avevano deciso di non arretrare di un passo. Ben sapendo — tra l’altro — che per una rivista fatta sostanzialmente da disegnatori la collisione con l’iconoclastia islamista è nelle cose. Le vittime di questa carneficina avevano tutte, metaforicamente o nella realtà, la matita in mano. E’ la matita, in questo vero e proprio Ground Zero della libertà di stampa, il minimo eppure potentissimo grattacielo abbattuto. Mettetevi una matita nel taschino, nei prossimi giorni, per sentirvi più vicini a Charlie, anche se non l’avete mai letto, anche se la satira vi piace così così, e la trovate eccessiva o sguaiata o provocatoria.

Salutiamo con un sorriso aperto — loro non vorrebbero di meglio — quella gente appassionata, intelligente e inerme, il direttore Charb (Stéphane Charbonnier), Cabu (Jean Cabus), Tignous (Berdard Verlhac), Georges Wolinsky, ingoiati dal buco nero dell’odio politico-religioso insieme al giornalista Bernard Maris, ad altri cinque compagni di lavoro e a due agenti di polizia. Provate a immaginare, per prendere le misure della strage di rue Nicolas- Appert, se i vignettisti che ogni giorno vi fanno ragionare o ridere sui giornali italiani venissero falciati tutti o quasi da un pogrom di fanatici, lasciando vuoto, sulla pagina, quel quadrato così superfluo e così indispensabile. Non dimentichiamoci mai, neanche per un secondo, come profuma di buono la libertà, e quanto siamo debitori, come europei, alla Francia e a Parigi.

La Repubblica, 8 gennaio 2014

DODICI morti e decine di feriti per «vendicare il Profeta»: così gli assassini che hanno attaccato la sede di Charlie Hebdo giustificano il loro crimine. Ma né il Profeta (il suo spirito), né alcun teologo serio li ha mai incitati a massacrare giornalisti liberi, impegnati nel campo della satira, che mai hanno avuto riguardi per le religioni in genere. Dal 1905 la Francia è un Paese laico, in cui la Chiesa è separata dallo Stato. Ma questo, i terroristi armati e decisi a uccidere non lo riconoscono.
È il caso di ricordare le parole del Profeta Maometto, quando esortò i suoi soldati a recarsi a Mu’ta, in Siria, a combattere contro i Gassanidi protetti dai Romani: «Andate in nome di Dio. Combattete i nemici di Dio che sono vostri nemici. In Siria troverete monaci che vivono nelle loro celle, lontano dalla gente: non li importunate. Troverete guerrieri votati a Satana: combatteteli con la sciabola in mano. Non uccidete né donne, né bambini né vecchi, non sradicate nessun albero o palma, non distruggete nessuna casa».

Non è la prima volta che i fondamentalisti musulmani aggrediscono un organo di stampa. Quando Charlie Hebdo pubblicò le caricature del Profeta Maometto, il giornale e i suoi redattori furono oggetto di minacce. Ma con l’attentato di mercoledì mattina si è passati a un altro livello. I terroristi sono apparsi come guerrieri armati fino ai denti, e hanno ucciso deliberatamente chiunque si trovasse sul posto. Purtroppo quel giorno tutte le maggiori firme erano presenti. Per l’ultimo numero del giornale, Charb (che è tra le vittime) aveva disegnato una vignetta alquanto provocatoria. Si vede un uomo armato di bombe, e Charb gli dice: «Ancora niente attentati?» L’uomo risponde: «Aspetta, c’è tempo fino a fine gennaio per fare gli auguri». Eccoli: li hanno fatti il 7 gennaio, alle 11.30. I miei amici Cabu e Wolinski sono morti insieme ad altri dieci giornalisti. E ancora una volta si parlerà dell’Islam. Sì, gli assassini hanno gridato «Allah Akbar», come per firmare il loro crimine. Ma non è detto da nessuna parte che si debba assassinare chi non la pensa come voi.

Ovviamente il rettore della Moschea di Parigi ha condannato quest’atto barbarico, e molti musulmani francesi hanno espresso tutto il loro orrore. Che altro fare? Una soluzione ci sarebbe, ma per questo la Francia dovrebbe lavorare mano nella mano coi musulmani residenti sul suo territorio, riconoscendoli e considerandoli come cittadini a pieno titolo, integrandoli nei valori repubblicani. Perché di fatto quest’atto criminale è un attacco contro l’Islam, contro i musulmani che vivono pacificamente in Europa.
Ma prima ancora dobbiamo ricordare che i questi ultimi tempi sembrava si fosse aperta una caccia contro l’Islam e i musulmani, stigmatizzati in continuazione, segnati a dito ogni volta che una certa Francia si lasciava andare allo sconforto e alla ricerca di capri espiatori, per spiegare la crisi morale o la paura del futuro. C’era nell’aria qualcosa di funesto, di malsano — umori e toni di razzismo trasudanti dalle pagine di alcuni libri che hanno avuto un’eco notevole.

Si è fatto commercio con l’odio e la paura, le ossessioni e le crisi d’identità. Si sono presi di mira gli immigrati extra-comunitari e l’Islam. Il Front National si fregava le mani vedendo aumentare i propri voti alle elezioni parziali. L’ideologia dominante in questa Francia in crisi, dove il morale della popolazione è basso e non si vedono soluzioni alla disoccupazione e alla precarietà, si riduce a segnare a dito gli stranieri. Dopo il saggio sul Suicidio francese di Éric Zemmour, ora è la volta dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, che pronostica per il 2020 un presidente della Repubblica musulmano.

La paura ha ormai preso piede. I musulmani sono stanchi di essere sospettati, ostaggi di una crisi morale e identitaria. So- no i primi a essere inorriditi dalla barbarie dell’Is e di Al Qaeda. E sono le prime vittime di questo terrorismo. La Francia sta pagando in qualche modo il proprio impegno in Africa, in Siria e in Iraq. I suoi soldati combattono il terrorismo. In Mali sono riusciti a farlo arretrare; l’aviazione francese ha messo a segno ogni settimana diversi attacchi contro l’Is; e la portaerei Charles De Gaulle sarà inviata in prossimità della Siria. La Francia è in guerra contro quest’Islam barbaro e deviato. Non so se l’attentato contro Charlie Hebdo sia una vendetta o una risposta dell’Is alla Francia, che si è alleata con l’America per combatterlo. Sia come sia, oggi sono i musulmani di Francia a essere i più malvisti da una maggioranza della popolazione. Per quanto possano denunciare e condannare questi atti intollerabili, il sospetto su di loro rimane.

La Repubblica, 8 gennaio 2015 (m.p.r.)
Con un’azione militare contro il settimanale satirico Charlie Hebdo a Parigi il terrorismo islamista porta la morte nel cuore dell’Europa e della sua crisi, scagliando il nome di Allah e il fuoco dei kalashnikov contro un altro simbolo della democrazia: un giornale. Restano uccise 12 persone, poliziotti, giornalisti, un economista, il direttore, i vecchi vignettisti famosi in tutto il mondo come Wolinski, con una vita irriverente trascorsa a celebrare l’amore e a mettere a nudo il potere, i suoi riti e i suoi inganni. Anche il potere del fanatismo, naturalmente, quello che Salman Rushdie chiama oggi su Repubblica il “totalitarismo religioso”. Il pretesto antico, eterno e meccanico come una fatwa, è quello delle vignette su Maometto pubblicate nel 2006, già bersagliate da bombe molotov contro il giornale quattro anni fa.

Ma il bersaglio, com’è evidente, è la libertà in cui viviamo credendo di essere in pace, senza nemmeno accorgerci che quella libertà è eversiva e colpevole per il fanatismo proprio perché diventa costume civile quotidiano, normale modo di vivere, meccanismo di garanzia reciproca che ci scambiamo l’un l’altro in ciò che chiamiamo società, dove la nostra esistenza si incontra e si combina con le vite degli altri, trovando una regola comune nel rispettare i diritti altrui mentre vogliamo vengano tutelati i nostri. C’è uno scarto evidente, a volte vistoso, tra i principi che affermiamo e la traduzione che ne facciamo nella politica, nelle pratiche di potere grandi o piccole, nell’operato degli Stati democratici, nella nostra condotta personale. E tuttavia c’è un orizzonte collettivo in cui ci riconosciamo che molto semplicemente tende al bene comune, ad uno sviluppo inclusivo che sappia tenere insieme la libertà economica e le libertà individuali che sono nate proprio in questa parte del mondo.

Oggi ciò che noi siamo è ciò di cui moriamo. Perché il terrorismo fanatico sembra esattamente consapevole di una nostra identità trascurata, mal sopportata da noi stessi, considerata stanca come le nostre istituzioni estenuate, la nostra democrazia ingrigita ed esausta. Poi alziamo gli occhi, davanti agli spari nella redazione di un settimanale trasformato in simbolo, e scorriamo l’elenco dei santuari civili della grandiosa banalità democratica scelti come bersaglio: una scuola a Tolosa, un museo ebraico a Bruxelles, un caffè a Sidney, il parlamento a Ottawa e infine oggi un giornale a Parigi. Sono cinque angoli - tra i tanti - della nostra struttura civile in cui si incontrano le credenze democratiche nella libertà e nel progresso. Libertà di studiare, di far politica, di non discriminare tra le creature umane, di confidare nella trascendenza o nell’umano, di scambiare lavorare e consumare, di conoscere e di essere informati, per poter partecipare.
L’assalto a un settimanale ci ricorda quanto i giornali siano insieme simbolo e sostanza di questa civiltà che chiamiamo Occidente e di cui siamo meno consapevoli di coloro che ci hanno trasformati in nemici, anzi in vittime designate. I giornali portano in sé il dovere di informare e il corrispondente diritto di conoscere e sapere. Sono il prodotto e il metro di misura della democrazia di un Paese, la conferma che il potere è obbligato al rendiconto, la garanzia che non esistono zone franche, la testimonianza che in una società aperta ci sono diverse letture della realtà possibili, e il cittadino può confrontarle tra loro, così come può scegliere.
I terroristi ci confermano che non c’è libertà senza i giornali. E che la libertà dei giornali arriva fin dov’è necessario, fino all’irriverenza nella storia di Charlie Hebdo. La dimensione fanatica, il meccanismo totalitario non tollerano un’informazione libera. Addirittura non concepiscono la satira. Sanno perfettamente, nel loro istinto, che informazione, libertà e satira sono elementi fondamentali, naturali di una democrazia. E la democrazia è il loro vero bersaglio. Non tanto la democrazia delle istituzioni, giustamente protetta nei suoi luoghi sacri: piuttosto la democrazia dei diritti che si traduce nella materialità della vita quotidiana, nel nostro costume civile comune, così naturale connaturato da diventare quasi inconsapevole.
Se vogliamo che i morti di Parigi abbiano un significato morale e politico anche per noi, oltre al significato simbolico e militare per i terroristi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza di ciò che noi siamo. Si chiama Occidente, cioè quella parte della cultura e del mondo che afferma di credere appunto nella democrazia come pratica che regge la cosa pubblica e la convivenza civile. Recuperata questa coscienza, dobbiamo prendere atto che proprio a questa identità è stata dichiarata una guerra mortale. Tanto più mortale quanto più i terroristi usano l’asimmetria come l’arma più potente, invincibile: kalashnikov contro la potenza disarmata di carta, inchiostro e idee, per esempio. Noi crediamo di vivere in pace e, fuorusciti con la democrazia vittoriosa da un secolo che ha regalato al mondo due totalitarismi, vorremmo estendere pace e democrazia nel mondo. Il terrorismo ci ricorda che i nostri valori più universali sono in realtà semplicemente occidentali, quindi colpevoli. È la profezia di Huntington che mirano a realizzare, nel rovesciamento del cal- colo razionale tra costi e benefici, nel ribaltamento terroristico del nostro codice che regola il rapporto tra l’ordine e il disordine, il bene e il male.
La religione armata contro la civiltà dei giornali è un doppio choc per la Francia che vuole nude le pareti della République, senza simboli religiosi, ritenendo laicamente che nella convivenza pubblica tra la legge del creatore e la legge delle creature debba prevalere quest’ultima, perché tutela i diritti - tutti - ma di tutti, quindi di chi crede e di chi non crede. Arriva fin qui l’attacco dell’islamismo radicale: fino alla separazione tra Chiesa e Stato. Fino a indurre la paura che l’edificio statale classico stia traballando di incertezze di fronte all’urto dei fondamentalisti. Che le parole con cui siamo cresciuti - laicità, tolleranza, uguaglianza, libertà - non riescano a definire di senso compiuto il nuovo mondo. Che quindi anche la cultura politica sia disarmata.
Nasce a questo punto il dovere di difendere non soltanto noi stessi ma addirittura la democrazia che è il vero bersaglio: il nostro modo di vivere, di amministrare noi stessi, la libertà di portare a scuola i nostri figli, di credere nel loro futuro, di accompagnarli in una chiesa o in un museo, di riunire i nostri parlamenti. È evidente che se tutti diventiamo bersaglio in quanto tutti siamo ogni giorno espressione, per strada e al lavoro, di libere scelte di vita, difenderci con le misure classiche di polizia diventa impossibile.
Occorre prendere atto che il Califfato e ciò che resta di Al Qaeda sono il cuore della minaccia per noi e per la libertà di tutti: anche dell’islam moderato civile, naturalmente, che deve separarsi radicalmente dal totalitarismo fanatico che strumentalizza la religione a fini criminali di potenza. Da questa minaccia dobbiamo difenderci con ogni mezzo, naturalmente con il dovere di rimanere noi stessi cioè fedeli, anche nella difesa, ai principi democratici e alla legalità internazionale. L’altro dovere è un riarmo culturale della democrazia, nei cui principi dobbiamo dimostrare fiducia e non disprezzo come troppo spesso facciamo. Vale in primo luogo per il potere, che ha responsabilità grandissime con le sue pratiche incoerenti, soprattutto la mancata consapevolezza che il lavoro è il fondamento della dignità e della libertà materiale. Ma vale per ognuno di noi: difendere la democrazia oggi per poterla affidare domani ai nostri figli. Così come per ognuno di noi, oggi, suona la campana di Parigi.

Ancora una smentita alle bugie di chi sostiene che Tsipras vuole "uscire dall'euro": «Syriza non è un orco né una minaccia: è solo la voce della ragione, e saprà suonare la sveglia all’Europa, per riscuoterla da torpore e passività. Per questo Syriza non è più considerata un pericolo come nel 2012, ma come una sfida per il cambiamento».

Corriere della Sera, 7 Gennaio 2015

La Grecia è davanti a una svolta storica. non è più una semplice speranza per il popolo greco: incarna l’aspettativa di un mutamento di rotta per l’intera Europa, che non uscirà dalla crisi senza una profonda revisione delle sue scelte politiche. La vittoria di Syriza darà slancio alle forze che spingono per il cambiamento. Perché se la Grecia è finita in una strada senza uscita, l’Europa di oggi è destinata a fare la stessa fine.

Il 25 gennaio, i greci sono chiamati a scrivere la storia con il voto, a tracciare un cammino di rinnovamento e di speranza per tutti gli europei, condannando le politiche fallimentari di austerità e dimostrando che quando il popolo lo vuole, ha il coraggio di osare e sa superare angosce e timori, la situazione può cambiare. Syriza non è un orco né una minaccia: è solo la voce della ragione, e saprà suonare la sveglia all’Europa, per riscuoterla da torpore e passività. Per questo non è più considerata un pericolo come nel 2012, ma come una sfida per il cambiamento.
Ma una piccola minoranza dei Paesi membri, stretta attorno alla leadership conservatrice del governo tedesco e di una parte della stampa populista, continua a far circolare vecchie dicerie a proposito di una GrExit (l’uscita della Grecia dalla zona euro). Proprio come Antonis Samaras in Grecia, tali voci non convincono più nessuno. Dopo aver sperimentato il suo governo, il popolo greco sa distinguere le menzogne dalla verità.
Samaras non ha niente da offrire, tranne la sottomissione ai precetti di un’austerità dannosa e fallimentare, che hanno imposto alla Grecia nuovi aumenti fiscali e tagli a stipendi e pensioni, che vanno a sommarsi a sei anni di sacrifici. Chiede ai greci di votare per lui per proseguire su questa strada. Nasconde però il fatto che la Grecia si è impegnata a raggiungere questi obiettivi, non a farlo seguendo una precisa linea politica.
Syriza si impegna ad applicare sin dai primi giorni del mandato il Programma di Tessalonica, economicamente vantaggioso e fiscalmente equilibrato, a prescindere dai negoziati con i nostri creditori. Il programma prevede azioni per porre fine alla crisi umanitaria; misure di equità fiscale, affinché l’oligarchia finanziaria, che non è stata sfiorata dalla crisi, sia finalmente costretta a pagare; un piano di rilancio dell’economia per contrastare gli altissimi livelli di disoccupazione e tornare a crescere. Sono previste riforme radicali nella gestione dello Stato e della pubblica amministrazione, perché non vogliamo tornare al 2009, ma cambiare ciò che ha portato il Paese sull’orlo della bancarotta non solo economica, ma anche morale. Clientelismo (di uno Stato ostile ai suoi cittadini), evasione ed elusione, operazioni in nero, contrabbando sono solo alcuni aspetti di un sistema di potere che ha governato il Paese per troppi anni, portandolo alla disperazione, e che continua a governare nel nome dell’emergenza e per timore della crisi.
In realtà non si tratta di timore della crisi, bensì di timore del cambiamento. È questa paura, aggravata dall’incapacità di un sistema di governo, ad aver portato il popolo greco a una tragedia senza precedenti. E i responsabili di tutto questo, se conoscono l’antica tragedia greca, hanno buoni motivi per spaventarsi, perché l’hybris è seguita dalla nemesi e dalla catarsi!
Il popolo greco e l’Europa non hanno nulla da temere: non vuole il crollo, ma la salvezza dell’euro. È impossibile salvare l’euro quando il debito pubblico è fuori controllo. Ma il debito è un problema europeo, non solo greco: e l’Europa deve accollarsi il compito di cercare una soluzione sostenibile. Syriza e la sinistra europea sostengono che occorre cancellare la maggior parte del valore nominale del debito pubblico, per poi introdurre una moratoria sul piano di rientro e una clausola di crescita per ripianare il debito restante, in modo da utilizzare le rimanenti risorse per stimolare la ripresa. Esigiamo condizioni che non sprofondino il Paese nella recessione e non spingano il popolo alla miseria e alla disperazione.
Samaras danneggia la Grecia, se si ostina ad affermare che il debito greco è sostenibile. [...] Ci sono due posizioni diametralmente opposte per il futuro dell’Europa. Da una parte, la prospettiva delineata dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble: occorre rispettare gli impegni presi e proseguire su quella strada, a prescindere dai risultati ottenuti. Dall’altra, la volontà di «fare tutto il possibile» - suggerita dal presidente della Banca centrale europea - per salvare l’euro. Le elezioni greche saranno il campo sul quale si sfideranno queste due strategie. Sono convinto che quest’ultima prevarrà per un’altra ragione ancora: perché la Grecia è la patria di Sofocle, il quale ci ha insegnato, con Antigone, che talvolta la suprema legge è la giustizia.
Traduzione di Rita Baldassarre
«Sembra che il decreto faccia proprio un sentimento fortemente radicato in alcuni strati (minoritari, ma influenti) della opinione pubblica in base al quale l’evasione fiscale può anche essere perseguita, ma comunque non può essere considerata un reato, la vittima è lo Stato, che diamine!».

Lavoce.info, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)

Il decreto sul penale tributario

Il decreto legislativo sul diritto penale tributario ha suscitato forti polemiche, tanto che il Consiglio dei ministri sarà chiamato a una nuova deliberazione. Tuttavia, al di là delle polemiche, sembra utile ragionare sulla ratio del provvedimento e sulle sue possibili conseguenze economiche. Secondo la teoria di base sull’evasione fiscale, l’entità e la certezza delle pene rappresentano un importante, anzi irrinunciabile, elemento di deterrenza nei confronti dei potenziali evasori. Se la sanzione, anziché solo pecuniaria, è anche penale e detentiva, l’effetto di deterrenza è ovviamente maggiore.

Nella situazione italiana attuale la percezione del cittadino comune nei confronti della normativa penale tributaria non è certo quella di un eccesso di severità; i detenuti per evasione fiscale (se esistono) non sono certo tanti da contribuire all’affollamento delle carceri. Quindi, l’attesa del cittadino comune non appare certo a favore di una generale depenalizzazione. È vero che in un paese ad alto tasso di illegalità fiscale bisogna evitare il rischio di ingolfare i tribunali con decine di migliaia di processi per evasione fiscale anche di modeste dimensioni, ma a questo fine è sufficiente prevedere limiti di punibilità adeguati e differenziati in base alla gravità del comportamento.

Comunque, è evidente che in questa materia sarebbe auspicabile una certa severità che, a rigor di logica, non dovrebbe essere inferiore a quella che si applica in altri paesi.

Depenalizzazione generalizzata

Il decreto nella formulazione uscita dal Consiglio dei ministri prevede invece una generale depenalizzazione di tutti i reati tributari. La prima questione che viene affrontata è quella del cosiddetto abuso del diritto, cioè dell’elusione fiscale, che viene totalmente depenalizzato (e a furor di popolo!). Se si guarda ai modelli degli economisti, in verità non è possibile riscontrare una differenza analitica tra evasione ed elusione fiscale: in ambedue i casi il contribuente evita di pagare le imposte dovute o violando direttamente la legge o schivandone sapientemente l’applicabilità. La sostanza non cambia; e infatti, non a caso, l’elusione viene definita “l’evasione dei ricchi”.

Naturalmente da un punto di vista giuridico si può sostenere che l’evasione è illegale e l’elusione no, ma questo è proprio l’argomento utilizzato dalle grandi multinazionali di internet nelle audizioni presso il Congresso americano per giustificare il fatto di non pagare praticamente imposte: “noi facciamo quello che le leggi dei diversi paesi ci consentono.”. Vi è quindi una certa contraddizione tra la decisione di depenalizzare tali comportamenti e al tempo stesso sostenere gli sforzi dell’Ocse e del G20 per venire a capo dell’elusione fiscale internazionale.

Le misure discutibili

Ma al di là dell’abuso del diritto che si esprime compiutamente nella eliminazione della “falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie” come fattispecie di reato, vi sono numerose altre misure inquietanti nel decreto:

1) Viene introdotto il limite di 1000 euro per la punibilità del reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture false o simili, come se da un punto di vista logico in una ipotesi del genere l’ammontare potesse avere una qualche rilevanza.

2) Si depenalizzano tutte le operazioni di simulazione, interposizione di persona (giuridica) e frodi finanziarie, mediante uso di derivati, strumenti finanziari ibridi, eccetera, richiedendo a questo fine che esse abbiano dato luogo “a flussi finanziari annotati nelle strutture contabili”. Cioè sempre. Si vanificano quindi gli effetti penali di molte operazioni poste in essere dalle banche negli anni passati.

3) Si alzano le soglie di non punibilità da 50 a150mila euro con finalità deflattive dei processi, ma depenalizzando di fatto evasioni fino a 3-400mila euro di base imponibile, il che sembra eccessivo.

4) Si stabilisce la non punibilità della dichiarazione di costi non inerenti alla attività dell’impresa, e cioè della pratica molto diffusa di imputare come costi consumi personali o familiari del contribuente.

5) Ci si dimentica di inserire tra i reati punibili l’ipotesi di omessa dichiarazione da parte dei sostituti di imposta.

6) Si introduce una franchigia del 3 per cento del reddito dichiarato (e analogo limite per l’Iva) per la punibilità di tutti i reati, vanificando l’intero sistema delle soglie di esclusione su cui è costruito il decreto che così diventano inutili e di fatto variabili in base al reddito dei contribuenti (maggior reddito, maggiore possibilità di evasione).

7) Si elimina la possibilità del raddoppio dei termini di accertamento per i casi di frode fiscale, con il rischio di una perdita di gettito immediata (e poi permanente) di molti miliardi in quanto verrebbero vanificati moltissimi accertamenti.

In sostanza, sembra che il decreto faccia proprio un sentimento fortemente radicato in alcuni strati (minoritari, ma influenti) della opinione pubblica in base al quale l’evasione fiscale può anche essere perseguita, ma comunque non può essere considerata un reato, e non può essere equiparata ai comportamenti lesivi della proprietà privata (furto, rapina, eccetera): la vittima è lo Stato, che diamine!

Il rimpallo di responsabilità

Infine, è inquietante il fatto che la responsabilità delle modifiche al testo originario preparato da una Commissione presieduta da Franco Gallo, rimbalzi tra il Tesoro e Palazzo Chigi. Il ministero responsabile della formulazione del provvedimento e della sua presentazione al Consiglio dei ministri è infatti quello dell’Economia e delle finanze (di concerto con la Giustizia). Se il testo uscito dal Consiglio dei ministri è stato modificato, delle due l’una: o il ministro dell’Economia era d’accordo, o (ipotesi più grave) né lui né i suoi collaboratori si sono accorti che il testo era stato cambiato.

In conclusione, speriamo che superato lo sconcerto attuale si possa tornare a una soluzione equilibrata. Infatti non va dimenticato che la reputazione del nostro paese e del nostro sistema economico all’estero non dipende soltanto dalla maggiore o minore flessibilità del mercato del lavoro, ma anche, e soprattutto, dal grado di legalità (o illegalità) prevalente nel sistema: evasione fiscale, corruzione, bilanci falsi, malavita organizzata rappresentano handicap molto gravi per l’Italia. Dare l’impressione di allentare le misure di controllo anziché inasprirle è molto pericoloso.

Tre articoli (di Tommaso Di Francesco, Anna Maria Merlo, Pavlos Nerantzis) sull'evento possibile che fa tremare il mondo della finanza e i suoi servi disseminati nelle istituzioni e nei mass media: la vittoria, in Grecia, di una sinistra che vuole andare alla radice della crisi. Il manifesto, 6 gennaio 2015

GIÚ LE MANI DAL VOTO GRECO
di Tommaso di Francesco


Sor­prende e allarma, in una parola pre­oc­cupa, il dispo­si­tivo di ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico di massa che i governi euro­pei e i rap­pre­sen­tanti della stessa Com­mis­sione euro­pea hanno messo in campo.

Quello che accade in que­sti giorni e in que­ste ore in Gre­cia ci riguarda diret­ta­mente, la crisi infatti non è greca ma dell’intero sistema finan­zia­rio del capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato. Sono sette anni che il mondo occi­den­tale è in aperta reces­sione e le sole timide uscite segna­late sono quelle di paesi che hanno la capa­cità di sca­ri­care su quelli più deboli con­trad­di­zioni e costi, come fanno la Ger­ma­nia con i neo­sa­tel­liti dell’est e gli Stati uniti con l’intera eco­no­mia euro­pea. Il fatto che la sini­stra rap­pre­sen­tata da Syriza sia riu­scita a sven­tare a fine anno la mano­vra del pre­mier Sama­ras di eleg­gere un “suo” pre­si­dente della repub­blica per negare e riman­dare la veri­fica elet­to­rale è un avve­ni­mento di por­tata continentale.

Tutta l’Europa in que­sto momento guarda ad Atene e, certo, non tutti con la stessa aspet­ta­tiva. I mer­cati, vale a dire la finanza inter­na­zio­nale occi­den­tale, teme che la rine­go­zia­zione dei ter­mini del debito greco metta in discus­sione i cri­teri con cui l’Unione euro­pea ha sal­va­guar­dato le ban­che invece degli inve­sti­menti per il lavoro, l’occupazione, le spese sociali; l’establishment dell’Ue ha paura che l’arrivo sulla scena del governo greco di una forza alter­na­tiva di sini­stra fac­cia sal­tare l’impianto dei dik­tat che hanno por­tato alla crisi uma­ni­ta­ria non solo la Gre­cia. Ad Atene invece si apre uno spi­ra­glio di luce, una grande pos­si­bi­lità. Noi che in Ita­lia lavo­riamo a rico­struire una sini­stra alter­na­tiva ita­liana, men­tre siamo alle prese con la scom­parsa della sini­stra e con le scelte neo­li­be­ri­ste di un governo come quello del lea­der Pd Mat­teo Renzi all’attacco dei diritti dei lavo­ra­tori e del wel­fare, vediamo l’occasione straor­di­na­ria di una svolta pos­si­bile anche in Ita­lia e in tutta Europa. È un’opportunità euro­pei­sta, per­ché l’Unione euro­pea invece che nemica, com’è stata finora, diventi il con­ti­nente dei diritti e della democrazia.

Sor­prende e allarma, in una parola pre­oc­cupa, il dispo­si­tivo — fin qui — di ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico di massa che i governi euro­pei e i rap­pre­sen­tanti della stessa Com­mis­sione euro­pea hanno messo in campo. Dal pre­si­dente Junc­ker con le sue dichia­ra­zioni con­tro Syriza, al governo di ferro di Ber­lino, a quello di destra di Madrid alle prese con ele­zioni pro­prio nel 2015 e con la nuova for­ma­zione di sini­stra Pode­mos; con l’eccezione del pre­si­dente fran­cese Hol­lande che almeno invita Mer­kel e i governi Ue a rico­no­scere che alla fine «il popolo è sovrano». Que­sto attacco sub­dolo e scel­le­rato è con­tro il popolo greco che vuole deci­dere il pro­prio destino. Dopo tante chiac­chiere sulla demo­cra­zia, sco­priamo dun­que che i lea­der e i governi euro­pei la temono anzi­ché difen­derla e vor­reb­bero impe­dire che chi ha subìto i costi della crisi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio possa votare con­tro la vio­lenza isti­tu­zio­nale che i tagli rifor­mi­sti hanno rap­pre­sen­tato per la con­di­zione di vita di milioni e milioni di cit­ta­dini e lavo­ra­tori con l’aumento della mise­ria e delle dise­gua­glianze. Così si strappa un velo: il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato non ama la demo­cra­zia reale ma solo quella rituale e svuo­tata di senso — vista l’equivalenza dei par­titi — che allrga il bara­tro tra gover­nanti e gover­nati, ali­menta qua­lun­qui­smo e anti­po­li­tica, men­tre crol­lano le per­cen­tuali di voto e vince ovun­que l’astensionismo di massa e il con­flitto di tutti con­tro tutti. Fino a favo­rire una nuova destra estrema xeno­foba, raz­zi­sta, iper­na­zio­na­li­sta che difende nella crisi i più forti e usa i deboli con­tro i più deboli.

Allora, giù le mani dalle ele­zioni gre­che. Solo la demo­cra­zia reale sal­verà la Gre­cia e l’Europa dal disa­stro. Una demo­cra­zia reale che chiami il 25 gen­naio non ad un voto qual­siasi ma ad un impe­gno di pro­ta­go­ni­smo milioni di gio­vani, di donne, di lavo­ra­tori e disoc­cu­pati. Per­ché sosten­gano l’alternativa che Syriza e il suo pro­gramma già rap­pre­sen­tano, per­ché cre­sca la sua forza e si allar­ghi il suo soste­gno — nes­suno a sini­stra può restare solo a guar­dare. E per­ché il forte con­senso che avrà, e che noi auspi­chiamo, sia il primo passo per coin­vol­gere il popolo e i lavo­ra­tori nel governo della Gre­cia e nella svolta in Europa

L'EURO NON GREXIT
di Anna Maria Merlo

Europa. La Germania fa tremare i mercati. Ma Hollande frena Merkel: «Sarà la Grecia a decidere cosa fare». La Linke e i Verdi denunciano le «pressioni inappropriate» di Berlino sulle elezioni elleniche

Con la gra­zia di un ele­fante in un nego­zio di cri­stal­le­ria, la Ger­ma­nia, minac­ciando Atene di Gre­xit – uscita dall’euro — in caso di vit­to­ria di Syriza alle legi­sla­tive anti­ci­pate del 25 gen­naio, ha squar­ciato un velo che rischia di avere un effetto boo­me­rang in tutta Europa: la demo­cra­zia sarebbe diven­tata sol­tanto un’operazione for­male nella Ue, ingab­biata dal rispetto del Fiscal Com­pact e delle regole di auste­rità? I cit­ta­dini non avreb­bero quindi più nes­suna libertà di scelta, dando cosi’ ragione a tutti gli euro­scet­tici (di estrema destra) che hanno ormai il vento in poppa nella mag­gior parte dei paesi dell’eurozona? Secondo Der Spie­gel, per Angela Mer­kel e il mini­stro delle finanze Wol­fgang Schäu­ble non c’è «nes­suna alter­na­tiva» all’applicazione del Memo­ran­dum, men­tre il Gre­xit sarebbe addi­rit­tura «quasi ine­vi­ta­bile» se Syriza al potere rifiu­terà di con­ti­nuare ad imporre le riforme impo­po­lari – e inef­fi­caci — che hanno ridotto gran parte dei cit­ta­dini greci alla povertà. Se Syriza chie­derà una mora­to­ria sul rim­borso del debito, la Gre­cia potrebbe venire costretta ad abban­do­nare la moneta unica, dice la Ger­ma­nia domi­nante. E que­sto non avrà con­se­guenze per la zona euro secondo Ber­lino, non ci sarà l’effetto domino, visto che a dif­fe­renza del 2011 e del 2012 ormai l’euro è pro­tetto dal para­ful­mine del Mes (il Mec­ca­ni­smo euro­peo di sta­bi­lità, dotato di 500 miliardi) e le sue ban­che sono a riparo della recente riforma del settore.

I grossi zoc­coli con cui Mer­kel e Schäu­ble sono entrati in cam­pa­gna elet­to­rale ad Atene non hanno nes­sun riscon­tro nei Trat­tati. La can­cel­le­ria ha smen­tito mol­le­mente le rive­la­zioni di Der Spie­gel. In effetti, l’obiettivo era solo di fare paura, di spa­ven­tare l’elettore greco: o sce­glie Sama­ras e l’euro, oppure Tsi­pras e il caos. Già Jean-Claude Junc­ker ci aveva pro­vato, il 12 dicem­bre scorso, spe­rando di influire sul voto par­la­men­tare per il pre­si­dente della repub­blica: in un’intervista alla tv austriaca, il pre­si­dente della Com­mis­sione aveva affer­mato di pre­fe­rire dei «volti fami­liari« (cioè Sta­vros Dimas) per­ché «non mi pia­ce­rebbe che delle forze estre­mi­ste pren­des­sero il potere». Il risul­tato di que­sto inter­vento è stato la non ele­zione del pre­si­dente e la con­se­guente con­vo­ca­zione di ele­zioni anti­ci­pate. Con un comu­ni­cato, è inter­ve­nuto nel fine set­ti­mana anche il com­mis­sa­rio agli Affari eco­no­mici e mone­tari, Pierre Mosco­vici, invi­tando i greci a dare «un ampio soste­gno» al «neces­sa­rio pro­cesso di riforme» in corso (cioè votare per Nuova Demo­cra­zia e Pasok). Ma Ber­lino (e Mosco­vici) hanno esa­ge­rato. Ieri una por­ta­voce della Com­mis­sione, Annika Breid­thardt, ha cer­cato di spe­gnere l’incendio affer­mando che l’appartenenza all’euro è «irre­vo­ca­bile», stando ai Trat­tati. Il Trat­tato di Lisbona pre­vede la pos­si­bi­lità di un’uscita dalla Ue, su deci­sione del paese inte­res­sato (e non su impo­si­zione di altri), ma for­mal­mente un paese non Ue potrebbe con­ti­nuare ad uti­liz­zare l’euro (suc­cede con Kosovo e Mon­te­ne­gro, che usano l’euro senza essere nella Ue). Fra­nçois Hol­lande ha preso ieri mat­tina le distanze da Angela Mer­kel: «I greci sono liberi di deci­dere sovra­na­mente sul loro governo – ha affer­mato il pre­si­dente fran­cese in un’intervista a France Inter – e per quanto riguarda l’appartenenza della Gre­cia alla zona euro, tocca ad essa deci­dere». Però il governo, qua­lun­que esso sia, deve «rispet­tare gli impe­gni presi».

In Ger­ma­nia c’è imba­razzo per le rive­la­zioni dello Spie­gel. Solo gli euro­scet­tici dell’Afd hanno appro­vato l’intervento musco­lare di Ber­lino. Die Linke e i Verdi hanno denun­ciato le pres­sioni inap­pro­priate sugli elet­tori greci, il vice-cancelliere Spd, Sig­mar Gabriel, ha cer­cato di cor­reg­gere il tiro, indi­cando che «l’obiettivo del governo tede­sco, della Ue e anche del governo di Atene è di man­te­nere la Gre­cia nella zona euro». Dall’Europarlamento il gruppo S&D avverte: «La destra tede­sca deve smet­tere di com­por­tarsi come uno sce­riffo in Gre­cia» per­ché «non è solo inac­cet­ta­bile ma anche sba­gliato: atteg­gia­menti del genere pos­sono solo pro­durre rab­bia e rifiuto della Ue», con il rischio di «ero­sione demo­cra­tica» nella Ue.

Syriza vuole rine­go­ziare con la tro­jka i ter­mini del rim­borso del colos­sale debito (177 per cento del Pil). E ha ragione, per­sino stando alle prese di posi­zione di Bru­xel­les. L’Eurogruppo, nel novem­bre 2012, si era impe­gnato con Atene a rive­dere i ter­mini del rim­borso quando la Gre­cia avesse rag­giunto l’equilibrio di bilan­cio pri­ma­rio (esclusi cioè gli inte­ressi sul debito): Atene, al prezzo del rigore asso­luto, lo ha fatto già da fine 2013. Ma Mer­kel non vuole soprat­tutto che ven­gano ridi­scussi i ter­mini del Memo­ran­dum: Syriza pro­pone riforme diverse, con­cen­trate sul fun­zio­na­mento dello Stato, men­tre la troika insi­ste sui tagli ai salari e al numero di dipen­denti pub­blici. In Ger­ma­nia, anche la Cdu ha espresso pre­oc­cu­pa­zione per la mani­fe­sta­zione di arro­ganza tede­sca: in caso di default greco, a pagare sarebbe prima di tutto la banca pub­blica tede­sca Kfw, che ha in cassa una parte con­si­stente dei 260 miliardi di debito greco, assieme ai prin­ci­pali stati mem­bri della zona euro e alla Bce. La Ger­ma­nia si arroga un potere che non ha: solo la Bce, in linea di prin­ci­pio, potrebbe cau­sare il Gre­xit, tagliando i cre­diti alle ban­che gre­che. Ma così Dra­ghi met­te­rebbe fine alla difesa dell’euro «a qua­lun­que costo», aprendo il vaso di Pan­dora di un pos­si­bile effetto domino. A cui nep­pure la Ger­ma­nia potrebbe resi­stere: Ber­lino pensa di soprav­vi­vere senza la Gre­cia, ma l’economia tede­sca non ce la farebbe nel caso di uscita dall’euro dell’Italia e della Francia

SPERANZA CONTRO PAURA
di Pavlos Nerantzis

La spe­ranza per un avve­nire migliore in Gre­cia e nel resto dell’Europa, ma anche la volontà poli­tica di appli­care il pro­gramma eco­no­mico a favore degli strati sociali mag­gior­mente col­piti dalla crisi. È la rispo­sta di Syriza alla stra­te­gia della paura pro­mossa dai con­ser­va­tori della Nea Dimo­kra­tia e i loro soste­ni­tori, ter­ro­riz­zati dai son­daggi che con­ti­nuano a dare in testa la sini­stra radi­cale greca, tre set­ti­mane prima delle ele­zioni del 25 gennaio.

Syriza, secondo gli ultimi due son­daggi, si con­ferma in testa tra il 30,4 e il 29,4 per cento, con­tro il 22 per cento e il 27,3 di Nea Dimo­kra­tia del pre­mier Anto­nis Sama­ras. Al terzo posto si tro­vano i nazi­sti di Alba Dorata con il 5,7 per cento, secondo uno dei due son­daggi, men­tre secondo l’altro la terza forza sarebbe il Par­tito comu­ni­sta di Gre­cia (Kke) con il 4,8 per cento. I socia­li­sti del Pasok, invece, che hanno soste­nuto il governo di Sama­ras, rischiano di non essere eletti al par­la­mento (3–3,5 per cento). Alla domanda su chi sarebbe il miglior pre­mier al momento per il Paese, il 41 per cento si schiera a favore di Sama­ras con­tro il 33,4 per cento che pre­fe­ri­sce Tsi­pras. Il 74,2 per cento poi ha rispo­sto che la Gre­cia deve a ogni costo rima­nere nella zona euro.

La pro­spet­tiva della vit­to­ria di Syriza non piace, però, ai mer­cati come anche a una parte della stampa inter­na­zio­nale, che insi­ste sull’ even­tua­lità di un Gre­xit, nono­stante Ale­xis Tsi­pras non smetta di sot­to­li­neare che il suo par­tito non ha la minima inten­zione di uscire dalla zona euro. A que­sti timori è stato attri­buito il calo del 5,6 per cento, ieri, della Borsa di Atene e pure la ten­sione regi­strata sullo spread elle­nico, che è bal­zato a 876 punti, 21 in più rispetto al dato di partenza.

Pure la Grande coa­li­zione a Ber­lino, a leg­gere il set­ti­ma­nale Der Spie­gel, si pre­para a una uscita di Atene dall’euro, tenendo conto che «que­sto fatto non avrebbe riper­cus­sioni gravi al resto dell’ Ue». Ma Ber­lino per il momento smen­ti­sce. Ieri il por­ta­vove di Angela Mer­kel ha detto che il governo tede­sco non ha cam­biato posi­zione. Anzi, ha aggiunto, la can­cel­liera tede­sca «insieme ai suoi part­ner lavo­rano per raf­for­zare la zona euro nel suo insieme e per tutti i suoi mem­bri, Gre­cia inclusa».

L’ipotesi di un Gre­xit è stata respinta anche da Parigi e da Bru­xel­les che, oltre a far ricor­dare ad Atene che ci sono impe­gni che «vanno ovvia­mente rispet­tati», riba­di­scono che in base ai trat­tati dell’Ue non è pos­si­bile l’uscita di un paese mem­bro dalla zona euro. In altri ter­mini, come ha pre­ci­sato un por­ta­voce della Com­mis­sione euro­pea, la par­te­ci­pa­zione all’euro è irre­ver­si­bile, secondo l’articolo 140, para­grafo 3 del Trat­tato Ue. Quindi per un Gre­xit sarebbe prima neces­sa­ria una modi­fica del trat­tato, «la cui pro­ce­dura pre­vede l’ una­ni­mità dei paesi mem­bri, l’approvazione del par­la­mento euro­peo e ovvia­mente da parte dei par­la­menti nazionali».

Per il momento quindi i part­ner euro­pei, alleati di Anto­nis Sama­ras, fanno una mano­vra: sem­brano abban­do­nare la stra­te­gia della paura e le inter­fe­renze, come era suc­cesso durante le ele­zioni pre­si­den­ziali, lasciando Atene libera di deci­dere il pro­prio destino. Almeno appa­ren­te­mente, per­ché die­tro le quinte lavo­rano per affron­tare la que­stione prin­ci­pale, che il nuovo governo greco se sarà gui­dato da Ale­xis Tsi­pras met­terà sul tavolo dei col­lo­qui: il taglio del debito pub­blico greco. Una richie­sta che, nel caso venisse accet­tata da Ber­lino e ovvia­mente da Bru­xel­les — per­ché di fatto que­sti pre­stiti ad Atene non saranno mai rim­bor­sati per intero — rischie­rebbe un con­ta­gio poli­tico a Roma e a Madrid. Allora lo scon­tro tra un governo delle sini­stre e la can­cel­liera tede­sca sarebbe ine­vi­ta­bile e solo a quel punto si potrebbe par­lare del rischio di un Gre­xit pro­vo­cato da Berlino.

Intanto l’arresto ad Atene di Chri­sto­dou­los Xiros, espo­nente dell’organizzazione “17 Novem­bre”, con­dan­nato a sei erga­stoli e ulte­riori 25 anni di pri­gione ed evaso un anno fa dal car­cere di Kry­dal­los, è diven­tato un altro motivo di scon­tro tra Nea Dimo­kra­tia e Syriza. Il pre­mier Sama­ras, che pure nel pas­sato aveva accu­sato Tsi­pras di «andare a brac­cet­to­con i ter­ro­ri­sti» e di «rap­porti tra Syriza e orga­niz­za­zioni ter­ro­ri­sti­che», ieri ha accu­sato la sini­stra radi­cale di non aver emesso un comu­ni­cato stampa a favore degli agenti che hanno arre­stato il ricer­cato numero uno in Gre­cia. Xiros stava pre­pa­rando un attacco con­tro le car­ceri di Kory­dal­los per far eva­dere i dete­nuti dell’organizzazione “Cospi­ra­zione dei nuclei di fuoco”

La Repubblica, 5 gennaio 2015

Rabouni (Algeria meridionale). VISTO da lontano più che di un’invalicabile barriera militarizzata il “muro della vergogna” ha l’aspetto di una duna giallognola che si erge di pochi metri chiudendo allo sguardo l’orizzonte esagerato del Sahara. A un paio di chilometri riesci appena a scorgere i cavalli di frisia che lo precedono e le parabole dei radar posti a scandagliare il nulla di un deserto punteggiato da acacie contorte e spinosissime. Per via delle mine anti-uomo con cui sono state lardate queste sabbie è impossibile avvicinarsi ulteriormente. Mohammed, la nostra guida sahrawi, ci indica un sentiero segnato con piccoli massi a uso delle poche delegazioni di politici o di attivisti che si spingono fin qui: «Questa strada è “pulita”, ma non possiamo percorrerla perché i marocchini ci hanno appena individuati ». Infatti, accanto a una garitta, indoviniamo le sagome di tre o quattro soldati.

Assieme a quello di Cipro e a quello israeliano, il valico che separa il Sahara Occidentale “occupato” da quello “liberato” è una delle ultime, spietate barriere che nel pianeta tagliano in due una comunità o un’intera nazione. Lungo 2720 chilometri, il “muro” nel deserto è senz’altro il più armato e il meglio presidiato. Dice Mohammed: «È protetto da 160mila soldati marocchini, 240 batterie di artiglieria pesante, 20mila chilometri di filo spinato e 7 milioni di mine anti-uomo e anti-carro. A Rabat costa 4 milioni di dollari al giorno». Costruita a difesa dell’ultima colonia d’Africa, per i sahrawi questa barriera tiene prigioniero tutto un popolo, impedendogli l’accesso alle ricche miniere di fosfati e alle pescosissime coste dell’Atlantico, entrambe nella porzione di Sahara occidentale “occupata” dai marocchini nel 1975. Per Rabat, invece, si tratta di una “cinta di protezione” eretta per arginare le falangi del Fronte Polisario, movimento in lotta per l’autodeterminazione dei sahrawi in quelle terre. Quel movimento, però, ha rinunciato alla lotta armata quasi un quarto di secolo fa, quando, nel 1991, optò per la via diplomatica nella speranza che grazie all’aiuto della comunità internazionale venisse indetto un referendum sul Sahara Occidentale. Un sogno ancora irrealizzato.

Mohamed Abdelaziz, segretario generale del Fronte Polisario e presidente in esilio della Repubblica araba sahrawi democratica, ci riceve a Rabouni, campo profughi nel Sud. L’ex combattente Abdelaziz, che vanta 13 cicatrici di guerra e una presidenza da primato, cominciata nel 1978, considera il “muro” il simbolo della separazione. «Rabat ha chiuso la porta a ogni soluzione pacifica e calpesta i diritti della nostra comunità. Siamo stanchi dello status quo e nei campi profughi i nostri giovani invocano la ripresa della lotta armata. Siamo noi sahrawi che dobbiamo decidere che cosa fare della nostra terra. Non il Marocco che la occupa illegalmente, come sancì la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ».

Dal presidente Abdelaziz è andata una nostra delegazione parlamentare capeggiata dal senatore Pd Stefano Vaccari. All’Italia, il presidente chiede il riconoscimento della Repubblica araba sahrawi, come hanno già fatto un’ottantina di Paesi, e la condanna della Francia, «che da membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu ha sempre usato del suo diritto di veto per favorire la monarchia marocchina».

Anche per il primo ministro sahrawi, Abdelkader Taleb Omar, senza una risoluzione dell’Onu il suo popolo ricomincerà presto a guerreggiare. «I giovani non hanno lavoro e per loro l’unica soluzione è il ritorno alle armi. Insomma, o patria o morte». Taleb Omar dà tutte le colpe all’intransigenza del Marocco «che da sei mesi non riceve Christopher Ross, inviato del segretario generale dell’Onu Ban Kimoon, che blocca l’ingresso nel Sahara occidentale alle delegazioni straniere, ai giornalisti e alle ong, e che impedisce persino l’arrivo nel capoluogo El Ayun del nuovo capo della Minurso, l’agenzia delle Nazioni Unite per il referendum ».

Il Sahara occidentale ha anche altri problemi, quelli che nascono alle sue frontiere: con la Libia nelle mani delle milizie, diventata un gigantesco mercato di armi, con il Mali, roccaforte di Al Qaeda, con il Marocco da dove i narco-trafficanti sperimentano nuove rotte per il trasporto della droga verso l’Europa. «Se i negoziati non dovessero trovare uno sbocco, i giovani sahrawi che scalpitano per tornare a combattere potrebbero finire nelle fila dei jihadisti, aggiungendo instabilità a una regione di per sé già incandescente», sostiene Abdeslam Omar Lahsem, presidente dell’Associazione delle famiglie dei prigionieri e dei desaparecidos. «Nel 1975 fu un’invasione barbara, con ammazzamenti e deportazioni di massa. Con la repressione marocchina sono già scomparse almeno 500 persone».

L’8 ottobre 2010, a pochi chilometri da El Ayun, nel Sahara occidentale “occupato”, 20mila sahrawi montarono 7000 tende in località Gdein Izik. Fu l’equivalente di una locale piazza Taksim, in anticipo di tre anni sulla rivolta turca. I manifestanti chiedevano case e lavoro al “tiranno” marocchino. Un mese dopo le forze di sicurezza sgomberarono l’accampamento. Secondo il linguista statunitense Chomsky fu quell’episodio, e non un mese dopo l’immolazione del tunisino Mohamed Bouazizi, a segnare l’inizio delle primavere arabe.

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