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Sbilanciamoci.info, 21 gennaio 2015

L'introduzione dell’immunità per gli evasori fino al 3% dell’imponibile, misura che abbatterebbe la pena a Berlusconi, è passata senza troppi scandali, mentre forte è stato il clamore contro i vigili accordatisi per allungare illecitamente le festività di capodanno. Siamo il paese dei due pesi e due misure. E con un’idea bizzarra dell’etica pubblica e privata

Chi ha introdotto nell’ennesima legge dello stato l’immunità per gli evasori fino al 3 per cento dell’imponibile, misura assai discutibile che abbatterebbe la pena assegnata a Berlusconi? Nessuno, chissà come si è infilata nel testo di un distratto Padoan e nella lettura di un distratto Renzi; quanto agli uffici tecnici che lo hanno passato, devono aver pensato che era una misura da attendersi nella filosofia delle larghe intese.

Più accorti sono stati i giornalisti che hanno scritto peste e corna contro i dipendenti pubblici (e i medici) che si sono accordati per allungare illecitamente le festività di capodanno. I giornalisti si sono indignati ma moderatamente, volete mettere lo scandalo di quella massa di sfruttatori dello Stato di fronte a qualche centinaio di ricchi che hanno evaso in varie forme per decine di migliaia di euro le imposte, o si sono avvantaggiati in vario modo, incluse corruzione e concussione, sulla pubblica finanza?

Colpisce in questo sfoggio di moralità la duplice misura usata verso i poco abbienti e verso l’ex presidente del consiglio e profittatore numero uno d’Italia, Berlusconi Silvio. È l’abitudine nazionale di risparmiare i ricchi e i potenti e usare la frusta con chi non lo è. Siamo un paese con un’idea bizzarra dell’etica pubblica e privata.

Alla quale ha dato un vasto contributo Giorgio Napolitano che ho sotto gli occhi dal 1945 come dirigente del mio stesso partito, il Pci. Lo sapevo antifascista a Napoli e autore di scritti interessanti sulla questione meridionale. Non l’ho apprezzato nella sua sorda (ma non tanto) opposizione all’ultimo Berlinguer e neanche come Presidente della Camera, quando avrebbe avuto occasione di far qualcosa contro la crisi della politica, se l’avesse vista venire dall’osservatorio privilegiato che aveva.

Ugualmente non ho apprezzato che nulla abbia fatto per risanare qualche ferita inferta dal suo partito a innocenti del suo partito nell’emergenza, ma nel merito la pensavamo in modo opposto. Quel che mi ha sorpreso è che, appena il Cavaliere è stato condannato a una pena assai mite ma almeno a stare fuori dalla porta del potere pubblico, si sia affrettato a proporre la formula delle “larghe intese” che significava allargare la maggioranza di fatto a Forza Italia, ogni qualvolta il dissenso da sinistra del Pd potesse minacciare la linea Renzi. Non solo, ma tale operazione è nata negli incontri clandestini presso la sede del Pd in via del Nazareno, dei quali non conosciamo né il numero dei partecipanti, né gli accordi intervenuti. Sappiamo solo ormai che essi hanno regolarmente preceduto le riunioni del Pd, del quale Renzi sarebbe il segretario. Non vedo quale insegnamento sia venuto da questa prassi alla coscienza scombussolata del paese, e perché ne sia derivata al nostro Presidente della Repubblica la fama di “grande italiano”.

Si può chiedersi se anche la norma del condono sia un frutto di questo guasto. Vedremo se Renzi la corregge. Intanto il governo ha dichiarato che non se ne era accorto: “Peso el tacon del buso”, come si dice dalle mie parti. Il governo intero lo ha avuto sotto gli occhi per un’intera seduta, ma non ha protestato. È vero che era stato convocato dal frettoloso premier la vigilia di Natale, ma non è da grandi figure l’avere condotto il paese in questo modo e tantomeno favorire gli evasori fiscali, soprattutto uno di essi condannato per aver fatto diverse porcherie in materia fiscale, corruzione e concussione. Già la giustizia è stata particolarmente indulgente sul resto delle sue imputazioni; per non parlare di un parlamento che ha considerato normale le sue menzogne telefoniche alla Questura di Roma per tirar fuori di guardina la denominata Ruby rubacuori.

Sono enormità imperdonabili. Non ho mai apprezzato le galere, quindi pace al vecchio e ormai ridicolo profittatore, ma se si vuole essere decenti bisogna tenerlo fuori dalla politica.

Penso di rientrare nella categoria dei gufi e rosiconi, anche se ignoro quali animali siano questi ultimi nell’italiano approssimativo del nostro presidente del Consiglio; ma preferisco essere un rispettabile uccello notturno, o anche forse un meno rispettabile topo, che un suddito silenzioso e ipocrita.

La Repubblica, 23 gennaio 2014 (m.p.r.)

Una metropoli come Parigi, Londra o New York ospita dieci milioni di persone in un’area non più estesa di un tipico ranch americano. Se la cittadinanza fosse tutta di un’unica razza, religione e mentalità, il problema della libertà di parola potrebbe anche non presentarsi mai. Nella realtà moderna però un città può ospitare in qualche ettaro tutte le razze del pianeta, qualunque concezione politica, religiosa e esistenziale. Si può essere convinti che i propri testi sacri corrispondano esattamente alla parola di Dio abitando a un tiro di schioppo da chi non si professa neppure ateo: la questione dell’autorità soprannaturale non si pone proprio, interessa quanto l’esistenza di religioni estinte come il culto di Thoth, Frigg o Apollo. Dai loro diversi templi le religioni fanno quotidiano esercizio di blasfemia l’una contro l’altra. Gesù è il figlio di Dio? Non per i musulmani. Maometto è l’ultimo messaggero di Dio sulla terra? Non per i cristiani. L’universo si può spiegare o esplorare meglio secondo la cosmologia basata sulla fisica, lasciando Dio da parte? Non per i musulmani o i cristiani.
Chi si farà garante della pace? Non la religione. La storia europea ci rammenta che all’epoca in cui il cristianesimo viveva il suo massimo splendore totalitario pre illuministico e poi il suo massimo scisma, l’intolleranza nei confronti di piccole diversità fu causa, come nel caso della Guerra dei trent’anni, di barbarie e carneficine di dimensioni terrificanti. E di persecuzione, tortura e terrore, dalla condanna al rogo di William Tyndale per aver tradotto la Bibbia in inglese, allo scandalo dell’inquisizione spagnola e, in reazione, a sconvolgenti barbarie a spese dei cattolici. L’Islam, dal Pakistan all’Arabia Saudita e altri paesi del Golfo, dall’Indonesia alla Turchia e all’Egitto, sta vivendo in questa fase una propria versione di totalitarismo.
Leggiamo quotidianamente di torture, carcerazioni e condanne a morte ai danni di musulmani che vogliono abbandonare l’Islam o quanto meno metterlo in discussione. Vengono puniti per aver violato i codici islamici di apostasia e blasfemia, passibili di ampie interpretazioni. In Pakistan, i politici usano le leggi contro la blasfemia come armi letali. In Egitto un insegnante è stato in carcere per tre anni per aver parlato a lezione di altre fedi religiose. In tutto il Medio Oriente il cristianesimo e il zoroastrismo sono scacciati dalle loro terre d’origine. In Turchia la libertà di stampa è oggetto di continui attacchi da parte dei conservatori religiosi. I regimi autoritari arabi fanno un uso cinico e strumentale della legge della Sharia per bloccare l’opposizione politica. Boko Haram e l’Is, con la loro intolleranza assurda e terribile, portano all’esasperazione le prassi di alcuni stati dando vita a un incubo. In Arabia Saudita, sede dei più venerati santuari dell’Islam, l’apostasia comporta la pena capitale. Il più recente, brutale, atto di repressione saudita contro la libertà di parola - la condanna a mille frustrate e dieci anni di prigione - mostra lo spregio delle autorità per l’Islam come religione di pace, ed ha provocato in tutto il mondo un’ondata di disgusto, in alcuni casi espresso esplicitamente da parte musulmana.
Nelle città dell’Occidente, ampiamente stratificate di razze e religioni, il solo garante della libertà di culto e della tolleranza universale è lo stato laico. Esso rispetta tutte le religioni in seno alla legalità e crede a tutte - o a nessuna. La differenza è trascurabile, perché non tutte le religioni possono corrispondere a verità. Il principio di libertà di parola è fondamentale. Il prezzo da pagare è l’offesa occasionale. È lecito pretendere che l’offesa non conduca alla violenza o a minacce di violenza. La ricompensa è la libertà per tutti di badare ai propri affari nella pratica lecita del proprio credo.
La libertà che consente ai redattori di Charlie Hebdo di fare satira è la stessa libertà che consente ai musulmani di Francia di praticare il loro culto e di esprimere apertamente le loro opinioni. Il credente non accetta questa doppia faccia della libertà. La libertà di parola è dura, fa rumore, a volte ferisce, ma quando è necessario far convivere una simile pluralità di opinioni non lascia alternative, se non l’intimidazione, la violenza e l’aspro conflitto tra comunità. La libertà di parola non è mai esagerata. Non è un lusso che si permettono i giornalisti e i romanzieri. E non è assoluta. Le limitazioni che le si impongono (ad esempio per circoscrivere il campo d’azione online dei pedofili) devono essere frutto di leggi approvate in seno a istituzioni democratiche.
Ma senza libertà di parola la democrazia è una finzione. Tutte le libertà che possediamo o vorremmo possedere (inclusa la parità dei sessi, la libertà di orientamento sessuale, l’habeas corpus e il giusto processo, il suffragio universale, la libertà di associazione - e così via) sono frutto di pensieri, parole e scritti liberi. La libertà di parola, di dare e ricevere informazioni, porre domande scomode, di ricerca accademica, di critica, di fantasia, di satira - l’interscambio dell’intera gamma delle nostre capacità intellettuali, è la libertà che fa esistere tutte le altre. La libertà di parola non è il nemico della religione, è il suo nume tutelare. È grazie alla sua presenza che Parigi Londra e New York sono piene di moschee. A Riyadh, dove è assente, le chiese sono vietate. Oggi come oggi chi importa una Bibbia lì rischia la pena di morte.
Traduzione di Emilia Benghi

Il manifesto, 23 gennaio 2014

Con l’approvazione dell’emen­da­mento di un sena­tore gio­vin ita­lico (non più turco) la par­tita delle riforme sem­bra pro­ce­dere per il governo con la pre­ve­di­bile speditezza. La cosa più stra­va­gante, sulla nuova legge elet­to­rale, l’ha pro­nun­ciata pro­prio il pre­si­dente del con­si­glio. Davanti ai suoi depu­tati in sub­bu­glio, ha detto che l’Italicum è così geniale, nella solu­zione dell’enigma della gover­na­bi­lità, che il crea­tivo con­ge­gno sarà pre­sto imi­tato in tutta Europa.

I mal­de­stri gover­nanti inglesi, che non sem­pre rie­scono a garan­tire il valore costi­tu­zio­nale della gover­na­bi­lità, cioè ad ulti­mare gli scru­tini con un vin­ci­tore sicuro rico­no­sci­bile la sera stessa dello spo­glio, faranno subito la fila al Naza­reno per com­prare la ricetta mira­co­losa e archi­viare il loro seco­lare, e piut­to­sto stu­pido al cospetto della sin­go­lare tro­vata toscana, for­mato mag­gio­ri­ta­rio uni­no­mi­nale, che non sem­pre dà il volto del gran trionfatore.

E così si appre­sta a fare anche la can­cel­liera Mer­kel. Depo­sta la teu­to­nica pre­sun­zione di suf­fi­cienza, per via di una decen­nale sta­bi­lità e gover­na­bi­lità supe­riori a quella di ogni altro sistema poli­tico euro­peo, la poli­tica tede­sca freme per appren­dere dalla pre­miata ditta Boschi-Verdini come si fa a vin­cere con cer­tezza e a dor­mire tran­quilli la sera stessa del voto, senza essere più appesi alle mano­vre per varare la grande coa­li­zione e quindi indotti al fasti­dioso rito delle migliaia di iscritti della Spd che devono dare la loro appro­va­zione al con­tratto di governo siglato.

Per non dire degli spa­gnoli o dei greci, che devono fati­care sovente per rac­ca­pez­zare sin­goli voti di sigle minori per garan­tire la fidu­cia a un governo malconcio. O dei vir­tuosi sta­ti­sti dei paesi nor­dici, che spesso dal con­teg­gio dei voti non sanno a chi toc­chi lo scet­tro e si affi­dano abi­tual­mente a lun­ghi governi di minoranza. E anche i fran­cesi tro­ve­ranno pre­sto il modo per sep­pel­lire il loro incerto mag­gio­ri­ta­rio uni­no­mi­nale a dop­pio turno e sosti­tuirlo con il sen­sa­zio­nale mag­gio­ri­ta­rio di lista esco­gi­tato al Nazareno.

Ora che l’Italicum ha sve­lato i sacri misteri della vit­to­ria certa, l’Europa può vol­tare pagina nella sto­ria delle isti­tu­zioni e acqui­stare a buon mer­cato il pre­zioso bre­vetto della governabilità. La vit­to­ria certa, da con­se­gnare al calar della sera, nel timore che i depu­tati siano chia­mati per espri­mere una mag­gio­ranza tra­mite le dina­mi­che seco­lari che sor­gono in aula, è però del tutto estra­nea alla logica del parlamentarismo.

Il vincitore è una possibilità, non un obbligo

La costru­zione mec­ca­nica di un vin­ci­tore, altera a tal punto la strut­tura del par­la­men­ta­ri­smo, che pre­fe­ri­bile sarebbe pas­sare, con il rigore neces­sa­rio e soprat­tutto i con­tro­po­teri richie­sti, all’incognita di una forma di governo pre­si­den­ziale piut­to­sto che for­zare in maniera così irra­zio­nale e costosa le com­pa­ti­bi­lità del regime par­la­men­tare sino a sfigurarlo.

L’obbligo della vit­to­ria fa incli­nare tutto il con­ge­gno com­pe­ti­tivo nella dire­zione della gover­na­bi­lità come arti­fi­cio e la rap­pre­sen­tanza perde qual­siasi rilievo fon­da­tivo del rap­porto poli­tico, è un mero con­torno inessenziale. Non è dalla rap­pre­sen­tanza che si esprime la fun­zione di governo ma è dalla posta­zione del governo, aggiu­di­cata da un capo di coa­li­zione, che si pro­cede alla riem­pi­tura della rap­pre­sen­tanza con nomi­nati ben retri­buiti ma desti­nati a un ruolo pas­sivo nella legislazione.

E’ evi­dente che una logica pre­miale, già di dif­fi­cile com­pren­sione nella sua con­fi­gu­ra­zione siste­mica, è comun­que ammis­si­bile come un ecce­zio­nale sup­porto for­zoso ad una ricerca di gover­na­bi­lità (in paesi fran­tu­mati e bloc­cati, senza ricam­bio), altri­menti non garan­tita, solo se com­pare come una pos­si­bi­lità. Cioè, fis­sata al 40 per cento l’opportunità di otte­nere un pre­mio in seggi, se il bonus non scatta, per­ché nes­suna lista ha var­cato la soglia pre­vi­sta, diventa una palese for­za­tura costrin­gere l’elettorato ad una seconda tor­nata, dove l’entità della par­te­ci­pa­zione peral­tro sfuma.

Se la pre­vi­sione di un dop­pio turno è effi­cace nei sin­goli col­legi per ampliare il radi­ca­mento ter­ri­to­riale del depu­tato che in astratto si separa dalla disputa nazio­nale per il governo, del tutto insen­sato diventa come cor­nice di una com­pe­ti­zione tra liste. La volontà del corpo elet­to­rale, in merito al pre­mio, può mani­fe­starsi nel primo pas­sag­gio elet­to­rale. Se gli elet­tori non hanno offerto un soste­gno espli­cito al par­tito mag­giore, è una cami­cia di forza alquanto impro­pria pre­ve­dere la costri­zione a dare comun­que il pre­mio attra­verso un bal­lot­tag­gio di lista.

Il premio può essere eventuale, non obbligatorio

Se poi il pre­mio otti­male dal punto di vista nume­rico è sti­mato dal legi­sla­tore al 15 per cento dei seggi (per­ché non si può gover­nare con il 50,1 per cento? Kohl aveva nel Bun­de­stag un solo voto di scarto), salta ogni rife­ri­mento a un incen­tivo ragio­ne­vole se viene rap­por­tato alla quan­tità di con­senso riscossa nel primo turno. Alla luce dei son­daggi odierni, il Pd avrebbe, in caso di suc­cesso al bal­lot­tag­gio, un pre­mio di oltre il 20 per cento, il M5S del 35 per cento e Forza Ita­lia del 40 per cento.

Le distor­sioni del prin­ci­pio di rap­pre­sen­ta­ti­vità, e la can­cel­la­zione della pari influenza delle sin­gole espres­sioni di voto, restano evi­denti. Nell’Italicum, le liste con ripar­ti­zione dei seggi sta­bi­lita a livello nazio­nale sono evo­cate per tra­scen­dere i col­legi, e il capo di coa­li­zione, inve­stito del supremo comando, è intro­dotto per ren­dere irri­le­vanti le liste.

Nel modello per­si­stente di una inve­sti­tura del lea­der o sin­daco d’Italia, il par­la­mento non deve in alcun modo esal­tare la sua auto­no­mia fun­zio­nale di organo di con­trollo e di indi­rizzo. Con­nessa a tale voca­zione all’opacità del ruolo del par­la­mento, è la stroz­za­tura di ogni nesso tra depu­tato ed elet­tori, tra col­legi e territori. Il capo vin­ci­tore crea la rap­pre­sen­tanza, e una schiera di nomi­nati fa da scudo alla sua volontà di potenza. L’anomalia di un governo costi­tuente, che si crea la legge elet­to­rale per vin­cere, e la con­fe­ziona secondo un cal­colo di imme­diata con­ve­nienza, è dav­vero un uni­cum in demo­cra­zie di un qual­che pregio.

La gran fretta di appro­vare la legge elet­to­rale prima dell’elezione del capo dello Stato (e quindi anche dell’opportunità di un suo pre­li­mi­nare vaglio di costi­tu­zio­na­lità) svela una pre­oc­cu­pante caduta del ren­di­mento demo­cra­tico di isti­tu­zioni sfre­giate a colpi di canguro.

«Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società» .intervista a Stefano Rodotà di Giacomo Russo Spena, Micromeg onlinea, 22 gennaio 2015

Solidarietà è il titolo del suo ultimo libro. Qual è, professor Rodotà, l’importanza di riaffermare tale concetto nel 2015?

«E’ un antidoto per contrastare la crisi economica che, dati alla mano, ha aumentato la diseguaglianza sociale e diffuso la povertà. Una parola tutt’altro che logorata e storicamente legata al nobile concetto di fraternità e allo sviluppo in Europa dei “30 anni gloriosi” e del Welfare State. Poi il termine è stato accantonato e abbandonato. La solidarietà serve a individuare i fondamenti di un ordine giuridico: incarna, insieme ad altri principi del “costituzionalismo arricchito”, un’opportunità per porre le questioni sociali come temi non più ineludibili. La crisi del Welfare non può sancire la fine del bisogno di diritti sociali. Sono legato anche al sottotitolo del libro, “un’utopia necessaria”, la solidarietà va proiettata nel presente ed utilizzata come strumento di lavoro per il futuro: l’utopia necessaria è la visione».

Lei ha parlato di “costituzionalismo arricchito”. Quali sono le pratiche da cui ripartire per riaffermare i diritti sociali in tempo di crisi economica, privatizzazioni e smantellamento dello Stato Sociale?

«Mutualismo, beni comuni, reddito di cittadinanza sono gli elementi innovativi e costitutivi di un nuovo Stato Sociale, almeno rispetto a quello che abbiamo conosciuto e costruito nel Novecento. Durante la Guerra Fredda, i sistemi di Welfare sono stati una vetrina dell’Occidente di fronte al mondo comunista, una funzione benefica volta ad umanizzare il capitalismo in risposta al blocco sovietico. Ragionare sulla solidarietà come principio significa riconoscerne la storicità ed oggi è necessario arricchire le prospettive del Welfare. Ad esempio il reddito, inteso in tutte le sue fasi legate alle condizioni materiali, significa investimenti ed è possibile solo grazie ad un patto generazionale e ad una logica solidaristica dell’impiego delle risorse».

Nel libro cita gli studi della sociologa Chiara Saraceno la quale si interroga sull’idea di Stato Sociale come bene comune. Qual è il suo giudizio?

«Il discorso esamina la capacità ricostruttiva della solidarietà che è frutto di una logica di de-mercificazione di ciò che conduce al di là della natura di mercato: ristabilire la supremazia della politica sull’economia. Qual è stata la logica in questi anni? Avendo un tesoretto ridotto, sacrifichiamo i diritti sociali. Tale ragionamento va respinto al mittente. Quali sono i criteri per allocare tali fondi? Come li distribuiamo? Finanziamo la guerra e gli F35 o utilizziamo quei soldi contro lo smantellamento dello Stato Sociale? La scuola pubblica, come dice la nostra Carta, non va resa funzionale al diritto costituzionale all’istruzione? Invece si finanziano le scuole private…»

E i famosi 80 euro del governo Renzi possono essere considerati come forma solidaristica e di Welfare?

«No, manca l’intervento strutturale. La Cgil ha reso pubblici alcuni dati: con quei soldi si sarebbero potuti creare 400mila posti di lavoro. Appena si è parlato del bonus per le neomamme, ho pensato fosse più utile stanziare quelle risorse per la costruzione degli asili nido. Solo un vero discorso sulla solidarietà ci consente di stilare una gerarchia che pone al primo posto i diritti fondamentali. E per questo la modifica dell’articolo 81 della Costituzione, nel quale è stato introdotto il pareggio di bilancio, è un duro colpo per la democrazia. Abbiamo posto fuori legge Keynes».

Altro punto dirimente: la prospettiva europeista. Sappiamo bene quanto le politiche di austerity siano dettate dalla Troika e le nostre democrazie siano ostaggio della finanza; come pensare la solidarietà fuori dai confini nazionali?

«Dobbiamo guardare all’Europa, il discorso sulla solidarietà ha un senso esclusivamente se usciamo dalla logica nazionalista, altrimenti si impiglia. Solidarietà implica un’Europa solidale tra Stati con una politica comune e coi diritti sociali come fari. Con Jürgen Habermas dico che è un principio che può attenuare l’odio tra i Paesi debitori e quelli creditori. Persino Lucrezia Reichlin ha parlato di Syriza con benevolenza perché sta avendo il merito di riaprire una riflessione in Europa su alcuni temi non più rimandabili. L’austerity ha fallito ed aumentato le diseguaglianze. Fino a qualche mese fa, i difensori del rigore giustificavano l’enorme forbice tra redditi alti e minimi affermando di aver tolto migliaia di persone dalla soglia di povertà. La diseguaglianza come conseguenza del contrasto allo sfruttamento. Una tesi smentita dagli stessi eventi».

Spesso le viene rivolta la critica di pensare esclusivamente ai diritti dei cittadini ma mai ai doveri. Come replica all’accusa?

«E’ una vecchissima discussione che si svolse già a Parigi nel 1789. E la Costituzione italiana ha legato diritti e doveri: l’art. 2 si apre col riconoscimento dei diritti delle persone ma poi afferma che tutti devono adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il tema dei doveri viene sbandierato per chiedere sacrifici alle fasce più deboli mentre rimangono al riparo i soggetti privati forti e le istituzioni pubbliche. Vogliamo discutere dei doveri? Facciamolo senza ipocrisie. Ad esempio, si dovrebbe riaffermare l’obbligo di non esercitare l’iniziativa economica e la libera impresa in contrasto con sicurezza e dignità dei lavoratori. Tale strategia ha fallito e politicamente ha generato un’enorme crisi della rappresentanza: il rifiuto della Casta non sarebbe così forte se non ci fosse stato un ceto politico dipendente dal denaro pubblico».

Le elezioni in Grecia hanno assunto una valenza europea. La vittoria di Syriza e del suo leader Alexis Tsipras incutono paura alla finanza e ai poteri forti. Siamo davvero davanti ad un passaggio storico per invertire la rotta in Europa?

«Il voto di domenica ha un’importanza enorme soprattutto dopo il deludente semestre italiano a guida Matteo Renzi. Il suo arrivo a Bruxelles aveva generato aspettative per le sue promesse di mettere in discussione gli assetti costituzionali europei. Nulla di tutto ciò, nessun negoziato, eppure non era così costoso intraprendere il discorso dell’“utopia necessaria” della riforma dei trattati. Tsipras può rappresentare la riapertura della fase costituente europea. È la mia speranza. Riapertura perché nel 1999 il Consiglio europeo di Colonia stabilisce la centralità della Carta dei diritti ma poi il processo si è chiuso nel ciclo dell’economia. Una vera e propria controriforma costituzionale. L’Unione europea oltre ad avere un deficit di democrazia ha un deficit di legittimità. Il deficit può essere recuperato attraverso i diritti fondamentali, ispirati alla dignità e alla solidarietà, e non al mercato. Altrimenti i rischi sono gravi, e non si parla di uscita dall’euro ma di deflagrazione dell’eurozona e di sviluppo di movimenti xenofobi ed antieuropei come quelli di Marine Le Pen e Matteo Salvin»i.

Se il semestre italiano non ha dato nessun segnale di discontinuità in Europa, quel che resta della sinistra nostrana guarda con ammirazione e speranza alla Grecia di Tsipras. È mai possibile la nascita di una “Syriza italiana” che unisca tutte le forze a sinistra del Pd?

«In Italia siamo indietro e rischiamo di rifare alcuni errori. Mentre capisco la scelta del “papa straniero” Tsipras, non condivido l’idea di una “Syriza italiana”. È una forzatura. In Grecia Syriza ha raggiunto l’attuale consenso perché durante la crisi economica ha svolto un lavoro effettivo nel sociale dove ha garantito ai cittadini diritti e servizi grazie a pratiche di mutualismo: penso alle mense e alle cliniche popolari, alle farmacie e alle cooperative di disoccupati. In Italia la situazione è differente».

Oltre a Syriza, la Troika guarda con preoccupazione al repentino sviluppo di Podemos, il partito spagnolo che sta scuotendo la Spagna. Syriza e Podemos, seppur differenti sotto alcuni aspetti, sembrano le due forze capaci di trasformare gli assetti in Europa. Podemos rompe con tutti gli schemi classici della sinistra novecentesca e fa della Casta e dei banchieri un bersaglio politico. La sinistra italiana, per rinascere, non dovrebbe affrontare anche il tema della crisi della rappresentanza?

«In questi anni c’è stata una drammatica deriva oligarchica e proprietaria dei partiti e la capacità rappresentativa è venuta meno anche per la consapevolezza che il potere decisionale fosse esterno alle sedi legittime e in mano a poche persone. La Corte Costituzionale ha emesso due importanti sentenze: una contro il Porcellum, decretando illegittima la legge elettorale in vigore, l’altra contro i soprusi del marchionnismo, stabilendo che non potesse essere esclusa la Fiom dagli stabilimenti. Lego queste due fondamentali sentenze perché entrambe pongono il problema della rappresentanza. E lo pongono nell’impresa e nella società cioè nel lavoro e nella politica, nei diritti sociali e in quelli civili. E’ un punto importante sul quale non abbiamo riflettuto abbastanza ed è la via per far recuperare legittimità alle istituzioni e alla politica».

Per sopperire alla crisi economica e politica nel Paese, il direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais ha più volte insistito sulla necessità di dar vita a una forza “Giustizia e libertà”, un soggetto della società civile. Che ne pensa?

«La sinistra italiana ha alle spalle due fallimenti: la lista Arcobaleno e Rivoluzione Civile di Ingroia. Due esperienze inopportune nate per mettere insieme i cespugli esistenti ed offrire una scialuppa a frammenti e a gruppi perdenti della sinistra. Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre. Rifondazione è un residuo di una storia, Sel ha avuto mille vicissitudini, la Lista Tsipras mi pare si sia dilaniata subito dopo il voto alle Europee. Ripeto: cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente. Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency – che ha creato ambulatori dal basso – movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza».

Il suo giudizio sui partiti esistenti è molto duro. Ma per una coalizione sociale non ci vuole tempo, addirittura anni?

«Ci vuole pazienza e occorre ricostituire nel Paese un pensiero di sinistra. A livello istituzionale abbiamo assistito alla chiusura dei canali comunicativi tra politica e mondo della cultura, ciò si è palesato durante la riforma costituzionale. Come negli anni '60-'70, per il cambiamento istituzionale, deve tornare la rielaborazione culturale. Il lavoro che ha svolto MicroMega in questi anni è prezioso e va continuato in tal senso. Insieme a Il Fatto sono le due testate che hanno tenuto dritta la barra. Ora vanno moltiplicate le iniziative, vanno connessi i soggetti sociali (anche attraverso la Rete) e va recuperato quel che c’è di produzione culturale operativa. Infine, tassello fondamentale: organizzazione. Tali processi non possono essere affidati semplicemente alla buona volontà delle persone».

In tutto questo, qual è il suo giudizio sul M5S? Il grillismo è in una crisi irreversibile?

«Non so se i 5 stelle siano definitivamente perduti, di certo stanno perdendo molteplici chance. Il movimento ha deluso le aspettative: non ha ampliato spazi di democrazia, non ha inciso in Parlamento e in qualche modo ha accettato le logiche interne. Serpeggia una profonda delusione tra gli stessi elettori grillini. Mentre la vera novità è lo sviluppo di un'opposizione sociale al renzismo, l’embrione della coalizione sociale di cui parlavo prima».

Si riferisce alla mobilitazione autunnale contro il Jobs Act?

»Renzi ha vinto senza combattere, non c’era nessuno sulla sua strada. Nessuno in grado di contrastarlo, nemmeno Giorgio Napolitano che secondo le mie valutazioni politiche aveva investito sul governo Letta. Ora si sta muovendo qualcosa: Susanna Camusso e Maurizio Landini si sono ritrovati per uno sciopero unitario. Persino la Uil è stata costretta a schierarsi. Si è rivitalizzato il sindacato. Il governo Renzi ha cancellato tutti i corpi intermedi e la Camusso, rendendosi conto dell’attacco subito, deve riconquistare il suo ruolo. Individuare soggetti sia rappresentativi che di opposizione sociale è un dato istituzionalmente interessante. Oltre ad essere un dato politico rilevante. Si è manifestata un’opposizione sociale».

Però siamo ben distanti dai 3 milioni portati in piazza da Sergio Cofferati in difesa dell’articolo 18, e la Cgil viene comunque da anni di politiche concertative…

«Sono confronti impensabili, il tessuto del nostro Paese è stato logorato da mille fattori nell’ultimo decennio. Anche dalla crisi economica. Con l’impoverimento drammatico le frizioni e le condizioni di convivenza obbligata diventato più difficili. Una situazione conflittuale che va oltre alla “guerra tra poveri”. Le condizioni materiali della solidarietà sembrano distrutte».


Coalizione sociale, primato della solidarietà e nuovo rapporto tra cultura e politica. Sono questi gli ingredienti necessari per ripartire?

«Prima mettiamo in relazione i soggetti sociali, in primis il sindacato, con le reti civiche e strutturiamo un minimo di organizzazione, rilanciando l’attivismo dei cittadini. Da tempo propongo alcune riforme e modifiche dei regolamenti parlamentari per dare maggiore potere alle leggi di iniziativa popolare. Ad inizio legislatura, in concerto con il gruppo del Teatro Valle, abbiamo inviato ai parlamentari una serie di proposte su fine vita e reddito minimo garantito… non sono nemmeno arrivate in Aula. In questo momento nella democrazia di prossimità, quella dei Comuni, si diffondono pratiche virtuose, penso ai registri per le coppie di fatto, per il testamento biologico, ai riconoscimenti nei limiti possibili di diritti fondamentali delle persone. A Bologna si è proposto di cogestire alcuni beni e il nuovo statuto di Parma è pieno di esperienze simili. C’è una democrazia di prossimità che va presa in considerazione. Così come il ruolo della magistratura».

Come collegare la figura dei magistrati alle questioni sociali?

«I partiti di massa erano i referenti delle domande sociali, le selezionavano e le portavano in Parlamento. Io c’ero, me lo ricordo. Questo non esiste più. Regna un modo autoritario di individuare le domande sociali e il vuoto politico è stato colmato dalla magistratura. La Consulta è intervenuta in questi anni su diritti civili, dal caso Englaro alla Fini Giovanardi sulle droghe o alla legge più ideologica, quella sulla fecondazione assistita. Poi le già citate sentenze su legge elettorale e conflitto Fiom-Fiat. Qui non c’è giustizialismo, ma il ruolo di una magistratura – attaccata e in trincea per difendersi dagli attacchi di Berlusconi e salvaguardare autonomia e indipendenza – che ha maturato una propria elaborazione culturale per fronteggiare emergenza politica e garantire la legalità costituzionale. L’aver individuato nella figura di Raffaele Cantone un soggetto politico ha un’importanza storica visto che in Italia la corruzione è ormai strutturale».

Lo dimostrano gli ultimi casi di cronaca, la criminalità organizzata si è fatta istituzione come abbiamo visto con lo scandalo di Mafia Capitale…
«Prima si parlava solo di tre regioni in mano ai poteri criminali: Calabria, Sicilia, Campania. Quando qualcuno osò parlare, giustamente, di infiltrazioni mafiose al Nord, l’ex ministro Roberto Maroni pretese le scuse. Ora invece grazie ad una serie di inchieste (Ilda Boccassini, Giuseppe Pignatone) sappiamo che questo è un dato strutturale: i poteri criminali occupano il territorio non solo fisico ma ormai anche istituzionale. E la corruzione non passa solo per il denaro pubblico rubato ma come un meccanismo endemico dello Stato. Il giustizialismo assume un fattore centrale e qualsiasi tentativo di silenziare i magistrati va contrastato».
Un’ultima domanda, la questione della leadership. Chi vede a capo della coalizione sociale?

«Bah, spesso si cita il nome di Landini ma mi astengo dal rispondere. Non è prioritaria la questione. È palese che oggi la coalizione sociale ha una sua maggiore evidenza perché la presenza del sindacato è il dato nuovo e accresce le responsabilità di Landini e della Fiom. L’importante è uscire dagli schemi classici e visti finora: non dobbiamo pensare al recupero dei perdenti dell’ultima fase o ai pezzetti ancora incerti (minoranza del Pd). Così non possiamo basare l’iniziativa sul M5S. Sarebbe un errore. I 5 stelle hanno una loro storia, vediamo che faranno in futuro e semmai una coalizione sociale riuscisse a rafforzarsi, capire come reagiranno. Questo è il punto».

come stanno distruggendo i pilastri della democrazia rappresentativa e i fondamenti delle istituzioni repubblicane. Il perchè lo fanno lo sappiamo già: rafforzare il potere dei già potenti senza l'ingombro degli altri. Articoli di Gaetano Azzariti e di Gianpasquale Santomassimo. Il manifesto, 22 aprile 2015


IL CANGURO ILLEGITTIMO
di Gaetano Azzariti

Lo stra­ta­gemma archi­tet­tato que­sta volta per scon­fig­gere “fre­na­tori e gufi” potrà essere ripe­tuto in futuro, altri espe­dienti potranno essere esco­gi­tati per silen­ziare il par­la­mento, le voci di oppo­si­zione, la dia­let­tica poli­tica. Ma alla fine che rimarrà del sistema parlamentare?

L’approvazione dell’emendamento Espo­sito rap­pre­senta un colpo al cuore del sistema par­la­men­tare. Frutto di un esca­mo­tage pro­ce­du­rale, esprime esem­plar­mente la cul­tura machia­vel­lica di una classe poli­tica dispo­sta ad adot­tare ogni mezzo pur di con­se­guire il fine, senza pre­oc­cu­parsi delle con­se­guenze di più lungo periodo. Se si guarda alla sostanza della vicenda appare chiaro l’uso stru­men­tale delle regole par­la­men­tari. L’emendamento pro­po­sto, infatti, ha avuto come unico scopo quello di impe­dire la discus­sione e la vota­zione sulle pro­po­ste dei parlamentari.

«Blin­dando» l’accordo poli­tico defi­nito in sede extra­par­la­men­tare. È l’ultimo tas­sello di un più ampio mosaico costruito per sot­trarre ogni auto­no­mia al par­la­mento. Già erano state for­zate le ordi­na­rie pro­ce­dure di for­ma­zione della legge quando si è impo­sto alla com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali di inter­rom­pere i pro­pri lavori prima di aver ulti­mato l’esame e prima di poter votare sul dise­gno di legge tra­smesso dalla Camera. Si è così pas­sati all’esame dell’Aula senza che fosse con­sen­tito ai sena­tori in com­mis­sione di pro­nun­ciarsi nel merito della riforma. E ciò è avve­nuto nono­stante una pre­vi­sione costi­tu­zio­nale — l’art. 72 — imponga l’adozione della pro­ce­dura “nor­male” di esame e di appro­va­zione in mate­ria elet­to­rale. In modo disin­volto, si è giu­sti­fi­cato lo strappo con­fi­dando sull’esame dell’Aula. In fondo — qual­che inge­nuo poteva rite­nere — in que­sta seconda sede non si poteva di certo sfug­gire a quanto scrive la nostra costi­tu­zione che sta­bi­li­sce che ogni dise­gno di legge deve essere appro­vato arti­colo per arti­colo e con vota­zione finale. E invece la fan­ta­sia ha supe­rato ogni osta­colo, riu­scendo a libe­rare la mag­gio­ranza di governo da ogni fasti­dioso limite d’ordine costituzionale.

L’emendamento Espo­sito ribalta la ratio della dispo­si­zione costi­tu­zio­nale e impone anzi­tutto una sorta di “vota­zione finale” per poi obbli­gare i nostri par­la­men­tari ad ade­guarsi nelle suc­ces­sive vota­zioni arti­colo per arti­colo. Con­tro ogni tec­nica di buona legi­sla­zione fa pre­met­tere alla legge una dispo­si­zione (signi­fi­ca­ti­va­mente indi­cata come art. 01) che non ha nes­sun con­te­nuto pre­cet­tivo, bensì si limita a rias­su­mere per intero i prin­cipi che devono essere con­te­nuti nelle suc­ces­sive dispo­si­zioni. Un inu­suale e inu­tile pre­am­bolo d’intenti. Si pensa così di aver tro­vato il modo per impe­dire ogni ulte­riore pos­si­bile discus­sione, vota­zione ed even­tuale appro­va­zione di arti­coli non con­formi (secondo il rego­la­mento del Senato, infatti, non sono ammessi emen­da­menti in con­tra­sto con deli­be­ra­zioni già adot­tate sull’argomento nel corso della discus­sione). Lo stra­vol­gi­mento di ogni logica par­la­men­tare appare evi­dente, l’uso stru­men­tale del rego­la­mento palese. Eppure tutto ciò sta avve­nendo sotto i nostri occhi senza scan­dalo, in nome del cam­bia­mento, sotto la pres­sione di una poli­tica con­cen­trata sul risul­tato da con­se­guire ad ogni costo. Una poli­tica miope e pericolosa.

Miope per­ché, ridotto il par­la­mento ad una sala da poker, dove vince il più abile e più spre­giu­di­cato tra i con­ten­denti, non sarà facile garan­tire la sta­bi­lità del governo. Di volta in volta il pre­si­dente del con­si­glio dovrà ricer­care una sua mag­gio­ranza, varia­bile se non pro­pria­mente occa­sio­nale: ora con la mino­ranza interna ora con frange delle oppo­si­zioni. Con ben poche garan­zie di tenuta e coe­renza dell’indirizzo poli­tico com­ples­sivo. Inol­tre, i governi a mag­gio­ranze varia­bili sono ine­so­ra­bil­mente espo­sti al potere di “ricatto” ovvero di veto degli alleati occa­sio­nali, i quali, non essendo legati alla stra­te­gia com­ples­siva dell’esecutivo, potranno legit­ti­ma­mente porre le pro­prie con­di­zioni e far valere i pro­pri inte­ressi poli­tici e per­so­nali del momento. Con­fi­dare sul fatto che tanto qual­cuno alla fine si trova per far pas­sare le pro­prie pro­po­ste, vista anche l’attuale fran­tu­ma­zione di tutte le for­ma­zioni poli­ti­che orga­niz­zate, sia di mag­gio­ranza che di oppo­si­zione, fran­ca­mente non appare una stra­te­gia lun­gi­mi­rante. Ma i gio­ca­tori di poker — si sa — con­fi­dano più sulla pro­pria abi­lità e sulla for­tuna che non sul rispetto delle regole del gioco.

Ed è qui che si nasconde il peri­colo mag­giore di una simile poli­tica. Fino a quando e fino a dove può arri­vare l’interpretazione disin­volta e cinica dei rego­la­menti, delle prassi, delle leggi, della Costi­tu­zione? Lo stra­ta­gemma archi­tet­tato que­sta volta per scon­fig­gere “fre­na­tori e gufi” potrà essere ripe­tuto in futuro, altri espe­dienti potranno essere esco­gi­tati per silen­ziare il par­la­mento, le voci di oppo­si­zione, la dia­let­tica poli­tica. Ma alla fine che rimarrà del sistema parlamentare?

UNO SCEMPIO COSTITUZIONALE
di Gianpasquale Santomassimo


Si pro­cede verso la nega­zione di ogni forma di lim­pida rap­pre­sen­tanza, verso l’instaurazione di un rigi­dis­simo prin­ci­pio oli­gar­chico, che nega alla radice qua­lun­que inter­lo­cu­zione con la società.

Stiamo uscendo dalla demo­cra­zia par­la­men­tare, ma la cosa sem­bra non inte­res­sare a nes­suno. Anche le oppo­si­zioni, interne ed esterne al par­tito di mag­gio­ranza rela­tiva, agi­tano emen­da­menti su que­stioni abba­stanza secon­da­rie, come le pre­fe­renze, ma sem­brano accet­tare il prin­ci­pio di fondo, lo stra­vol­gi­mento della rap­pre­sen­tanza, il con­si­de­rare le ele­zioni come pura e sem­plice inve­sti­tura di un potere asso­luto e senza controllo.

Mi pare che l’opposizione all’Italicum, in Par­la­mento come nel discorso pub­blico, guardi all’albero senza vedere la fore­sta, come si usava dire. L’evidenza è quella di una legge-truffa che dà a un solo par­tito, che rap­pre­sen­terà in ogni caso una mino­ranza rela­tiva sem­pre più esi­gua di fronte al crollo della par­te­ci­pa­zione popo­lare, una con­si­stenza par­la­men­tare spro­po­si­tata, che può con­sen­tire di fare il bello e il cat­tivo tempo, di nomi­nare tutte le cari­che isti­tu­zio­nali, di cor­reg­gere e stra­vol­gere la Costi­tu­zione a colpi di maggioranza.

Distrug­gere insomma la divi­sione e l’equilibrio dei poteri che nell’esperienza repub­bli­cana furono comun­que salvaguardati.

La demo­cra­zia par­la­men­tare è stata rico­no­sciuta, da tutte le cul­ture demo­cra­ti­che, come il qua­dro isti­tu­zio­nale in cui le lotte sociali pote­vano svol­gersi libe­ra­mente e pote­vano otte­nere con­qui­ste dura­ture, in un clima che pur nell’asprezza dello scon­tro poteva garan­tire con­di­vi­sione di prin­cìpi e ascolto di istanze. A mag­gior ragione ciò è stato com­preso dopo le espe­rienze del Nove­cento, e la Costi­tu­zione repub­bli­cana rece­piva il lascito di quella consapevolezza.

Ma in Ita­lia sem­bra essersi smar­rita, nell’ultimo quarto di secolo, la nozione di cosa sia e a cosa debba ser­vire il Par­la­mento: rap­pre­sen­tare fedel­mente il paese, dibat­tere libe­ra­mente, ela­bo­rare e scri­vere le leggi, non votare a comando i decreti del governo.

Si sta per abo­lire il Senato, tra­sfor­mato in un “dopo­la­voro” di con­si­glieri regio­nali. Per­ché non abo­lire anche il Par­la­mento, a que­sto punto? Il con­traente più anziano del Patto del Naza­reno pro­po­neva di far votare sol­tanto i capi­gruppo, col loro pac­chetto di voti, e il ducetto di con­tado che domina que­sta fase ter­mi­nale della demo­cra­zia ita­liana non sem­bra avere idee molto diverse quanto ad auto­no­mia e libertà dell’istituzione parlamentare.

Il par­tito di nota­bili che si appre­sta a que­sto scem­pio del prin­ci­pio costi­tu­zio­nale sem­bra aver rin­ne­gato tutta la sua espe­rienza repub­bli­cana, e sem­bra oscu­ra­mente far rie­mer­gere dal suo lon­ta­nis­simo pas­sato solo l’antica pro­pen­sione alle dit­ta­ture di mino­ranza, dove il segre­ta­rio di par­tito coman­dava su tutto (ma almeno si aveva il buon gusto di dif­fe­ren­ziare la carica di primo ministro).

Andiamo verso tempi duris­simi, ancor più oscuri di quelli che abbiamo vis­suto recen­te­mente, nei quali sarebbe fon­da­men­tale avere isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive che rispec­chino real­mente e fedel­mente la società, pur nella sua fram­men­ta­zione a volte cao­tica. Si pro­cede invece verso la nega­zione di ogni forma di lim­pida rap­pre­sen­tanza, verso l’instaurazione di un rigi­dis­simo prin­ci­pio oli­gar­chico, che nega alla radice qua­lun­que inter­lo­cu­zione con la società.

Tutto que­sto è dram­ma­ti­ca­mente peri­co­loso, è una china che andrebbe arre­stata in qua­lun­que modo, prima che sia troppo tardi. Biso­gna che qual­cuno, anche tra i “corpi inter­medi” così vili­pesi e umi­liati, cominci a met­tere in dub­bio la stessa legit­ti­mità di un potere mino­ri­ta­rio che vuole spa­dro­neg­giare col sopruso, a con­te­stare il deli­rio di onni­po­tenza di un’accozzaglia di par­la­men­tari eletti con una legge inco­sti­tu­zio­nale e che pre­tende di riscri­vere a suo pia­ci­mento la Costituzione


Il manifesto, 21 gennaio2015, con postilla

Le cri­ti­che da sini­stra alla pro­po­sta di legge elet­to­rale del governo sono con­cen­trate, soprat­tutto den­tro il Pd, sulle pre­fe­renze. E ieri il dis­senso si è mani­fe­stato con la spac­ca­tura del gruppo nell’assemblea del senato. La scelta dei capi­li­sta affi­data ai par­titi e quindi alle loro segre­te­rie, si sostiene, toglie moti­va­zione e potere agli elet­tori e ne riduce la rappresentanza.

La cri­tica è cer­ta­mente fondata. Se, però, ricor­diamo quanto nel pas­sato avve­niva e non solo al sud con pre­fe­renze e voto di scam­bio, l’alternativa migliore non sem­bra essere tanto la rein­tro­du­zione delle pre­fe­renze, quanto l’introduzione di col­legi uni­no­mi­nali pic­coli attra­verso i quali avvi­ci­nare can­di­dati ed elet­tori e, quindi, eletti ed elettori.

Ma la que­stione pre­fe­renze che oggi domina il dibat­tito, e rin­salda l’alleanza Renzi-Berlusconi non è, a mio parere, la prin­ci­pale cri­ti­cità dell’Italicum. Essa è solo una fac­cia della meda­glia che in nome della gover­na­bi­lità e dell’efficienza di governo tende a sacri­fi­care la rap­pre­sen­tanza degli elet­tori. Sen­tirsi rap­pre­sen­tati nelle isti­tu­zioni, dipende da due fat­tori: la pre­senza negli orga­ni­smi eletti delle diverse istanze pre­senti nel paese nelle quali i sin­goli cit­ta­dini pos­sono ritro­varsi anche se mino­ranze e la par­te­ci­pa­zione attiva dei cit­ta­dini, attra­verso l’espressione del voto, alla com­pe­ti­zione elettorale.

L’altra fac­cia della legge elet­to­rale è costi­tuita dalla pro­po­sta di dare un forte pre­mio di mag­gio­ranza alla “lista” che rag­giunge il 40% dei voti espressi fino ad attri­buirle il 55% dei seggi. Di fronte a que­sta pro­po­sta la “legge truffa” di Scelba appa­ri­rebbe oggi iper-democratica ed iper-rappresentativa e se essa fosse stata pre­sen­tata ai tempi di Craxi, cer­ta­mente l’avremmo eti­chet­tata come segno di una ten­denza accen­tra­trice e neo auto­ri­ta­ria. Eppure allora la par­te­ci­pa­zione al voto si aggi­rava intorno all’80%, il che avrebbe signi­fi­cato attri­buire il 55% dei seggi ad una lista che col 40% dei voti avrebbe rac­colto il con­senso del 32% degli elettori.

Oggi, con una par­te­ci­pa­zione al voto ten­dente al 50% la pro­po­sta con­te­nuta nell’Italicum signi­fica attri­buire la mag­gio­ranza asso­luta della Camera, adesso unico orga­ni­smo abi­li­tato a sce­gliere governo, com­po­nenti di organi isti­tu­zio­nali ed a deci­dere leggi e poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali, ad una lista scelta dal 20% del corpo elet­to­rale. Un quinto degli elet­tori, quindi, deci­de­rebbe il futuro di tutto il paese.

Que­sta seconda fac­cia dell’Italicum è, a mio parere, peri­co­lo­sis­sima e mera­vi­glia che pochi finora abbiano par­lato di una legge non tanto ad per­so­nam, ma “su misura” per­ché essa nasce dalla par­ti­co­lare situa­zione che il nostro paese sta vivendo e che, per la crisi del sistema poli­tico ita­liano, vede un unico par­tito al comando, anche per le indub­bie capa­cità di Renzi di muo­versi nel nuovo pano­rama poli­tico e di dominarlo.

Ma si può fare una legge elet­to­rale che dovrebbe durare molti anni (negli altri paesi euro­pei le leggi elet­to­rali durano decenni) in base alla con­tin­genza poli­tica ed alla cer­tezza che il pos­si­bile vin­ci­tore di oggi è un demo­cra­tico e, quindi, non cor­re­remmo peri­coli? E si può fare una legge elet­to­rale che si basa su un assetto poli­tico in tran­si­zione che non sap­piamo in quale dire­zione evol­verà visto che le forze poli­ti­che che seguono al secondo e terzo posto sono forze nuove ed impre­gnate di populismo.

postilla

L'autore segnala un aspetto certamente molto rilevante del "Renzosconicum". Tuttavia stupisce un'affermazione che egli formula: la sua «cer­tezza che il pos­si­bile vin­ci­tore di oggi è un demo­cra­tico». A noi sempra che il distruttore della democraza italiana oggi si chiamo proprio Matteo Renzi.

La Repubblica, 20 gennaio 2015 (m.p.r.)

Dopo il pugno, ora arriva il «calcio dove non batte mai il sole»: decisamente gagliardo il Papa! L’intervista rilasciata nel viaggio di ritorno dalle Filippine tocca temi interessanti. Ma soprattutto mostra un Papa dal linguaggio forse ancora più colorito del solito: segno, a mio avviso, di particolare rilassatezza. Papa Francesco appare proprio contento del grande affetto e dell’enorme simpatia che il mondo intero gli manifesta e si lascia andare al cospetto della stampa mondiale come fosse tra amici. Il che sembra proprio la maniera migliore di interpretare il ruolo di per sé così pesante che l’essere Papa comporta, una spontaneità che l’aveva portato il giorno prima, durante la messa più seguita della storia, a tenere a braccio l’omelia davanti ai sette milioni di partecipanti. Quanta differenza rispetto al rigoroso plurale maiestatis che regnava fino a Paolo VI o anche rispetto ai lunghi discorsi letti su fogli accuratamente preparati prima (e spesso da altri) di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i quali anche nelle conferenze stampa mai e poi mai avrebbero potuto usare le popolaresche espressioni di Francesco.

Ma il punto è esattamente questo: il popolo. Ovvero la vicinanza totale che questo pastore straordinario intende mostrargli in continuazione. Se Francesco con il suo linguaggio sta introducendo davvero qualcosa di inedito nella storia pontificia, e direi persino di scandaloso per il sussiegoso protocollo pontificio e per le orecchie dei cattolici tradizionalisti, non è certo per gioco: la scelta di questo linguaggio è diretta espressione del contenuto che Francesco intende dare e sta dando al suo pontificato. Come può parlare del resto un Papa che non vuole macchine di lusso ma utilitarie, che non sta nell’appartamento papale ma nel convitto di Santa Marta, che non indossa croci e anelli d’oro ma semplicemente di ferro, che rinuncia insomma con sistematicità a tutti i segni del potere? Esattamente come parla questo Papa, che fa della vicinanza al popolo la stella polare del suo essere pontefice, e quindi si rallegra di poter riferire che quel giorno a Buenos Aires a quel tipo che tentava di corromperlo lui avrebbe dato più che volentieri «un calcio dove non batte mai il sole».
Possono piacere, o lasciare perplessi, o dispiacere del tutto, questi esempi così fisici e anche un po’ violenti che parlano di pugni e di calci. Personalmente, in un mondo già così intriso di violenza, non posso dire di amarli particolarmente né di ritenerli proprio del tutto opportuni, perché un domani a uno scatto di violenza incontrollata si potrà sempre trovare un appiglio nelle parole papali: «Se persino il papa può dare un pugno o un calcio, figuriamoci io». Né è certo un caso che all’imam radicale Anjem Choudary, lo stesso che assicura che un giorno Roti ma vivrà sotto la legge islamica, l’esempio del pugno sia particolarmente piaciuto. Questo però attiene ai singoli esempi scelti dal Pontefice e alla sensibilità di ciascuno, il punto decisivo consiste invece nel comprendere l’efficacissima denuncia papale contro la mancanza di rispetto della religione altrui e contro la corruzione.
Venendo ai temi dell’intervista di ieri, la questione più scottante è certamente quella della procreazione responsabile. Anche qui il linguaggio papale si segnala per l’espressione colorita quando, a proposito di una donna incinta dell’ottavo figlio averne avuti sette mediante cesareo che lui ebbe a incontrare in una parrocchia, dice: «Alcuni credono, scusatemi la parola, che per essere buoni cattolici dobbiamo essere come i conigli». Forse qualcuno aveva mostrato quella donna al Papa come esempio di maternità generosa e devota, ma la reazione del Papa, come riferisce egli stesso, è stata di ben altro tipo perché l’ha rimproverata così: «Ma lei ne vuole lasciare orfani sette? Ma questo è tentare Dio». Come siamo distanti dall’immagine di madre che si sacrifica totalmente per i figli, arrivando persino a morire per metterli al mondo, tanto cara al cattolicesimo tradizionale! Il Papa dice al contrario che una maternità non controllata e non responsabile equivale a tentare Dio.
Occorre però aggiungere che sul tema specifico della contraccezione, proprio come un abile pugile che oltre a saper dare i pugni li sa anche evitare, il Papa ha schivato abilmente la domanda. Il punto caldo della questione infatti non è il numero dei figli, che il Papa stabilisce canonicamente in tre (probabilmente memore dell’adagio medievale omne trinum est perfectum ), ma come evitare altre procreazioni dopo che il numero tre, o qualunque altro numero una coppia voglia o possa permettersi, sia stato conseguito. Paolo VI aveva stabilito nell’enciclica Humanae vitae del 1968 l’esistenza di un nesso inscindibile ( nexus indissolubilis ) tra unione sessuale e procreazione, dichiarando che ogni singola unione sessuale deve necessariamente essere sempre aperta alla procreazione. Anche l’unione con il legittimo marito di una donna che ha avuto già sette figli?, potremmo chiedere. Anche quella, risponde la dottrina cattolica ufficiale (si legga l’articolo 2366 dell’attuale Catechismo).
Per evitare la procreazione indiscriminata come i conigli, secondo l’esempio scelto dal Papa, o come tante nostre donne delle generazioni precedenti, secondo la memoria di molti, la Chiesa propone i cosiddetdopo “metodi naturali”, ma si tratta di un procedimento che solo poche coppie riescono ad attuare, le statistiche dicono che tra i cattolici praticanti coloro che l’osservano variano dall’8 all’1 per cento. Consapevole di queste cose il cardinal Martini nella sua ultima intervista aveva dichiarato: «Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale: la Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura dei media?» ( Corriere, 1 settembre 2012). E l’anno scorso il cardinal Kasper: «Dobbiamo essere onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso».
Il Papa sa benissimo che questa è la situazione, come lasciano trapelare le sue parole quando dice che nella Chiesa «si cerca »; aggiungendo poi: «E io conosco tante vie di uscita, lecite ». Di che cosa si tratterà? Dei soliti metodi naturali? Di qualche particolare escamotage di cui i gesuiti sono sempre provvisti? Sarà uno degli argomenti scottanti del Sinodo del prossimo ottobre, la seconda puntata della grande riflessione sulla famiglia voluta da Francesco. Qui nessuno ovviamente se la potrà cavare con le battute, ma forse un calcio papale a qualche porporato particolarmente testardo potrebbe aiutare.

«Il ten­ta­tivo di sal­vare l’evasore Ber­lu­sconi con la legge sulla delega fiscale, e i bro­gli elet­to­rali nelle ele­zioni pri­ma­rie in Liguria sono due facce della stessa meda­glia, visto che il fami­ge­rato “patto del Naza­reno” è fon­da­tivo di que­sta nuova sta­gione poli­tica». Il manifesto, 20 gennaio 2015 (m.p.r.)

Più la spin­gono sotto il tap­peto, più la que­stione immo­rale si mostra nella sua scon­ve­niente veste di pro­ta­go­ni­sta della scena poli­tica. Pro­prio ieri, di fronte a un’aula par­la­men­tare pate­ti­ca­mente vuota, il mini­stro della giu­sti­zia, denun­ciava «la dimen­sione intol­le­ra­bile della cor­ru­zione in Ita­lia». Intol­le­ra­bile spe­cial­mente quando mette radici nel par­tito di cui il mini­stro fa parte, ma così pur­troppo non è. Lo dimo­strano alcune recenti vicende, due su tutte: il ten­ta­tivo, solo rin­viato, di sal­vare l’evasore Ber­lu­sconi con la legge sulla delega fiscale, e, di que­ste ore, i bro­gli elet­to­rali (con il sospetto di una compra-vendita di voti) nelle ele­zioni pri­ma­rie in Liguria.

Due facce della stessa meda­glia, visto che il fami­ge­rato “patto del Naza­reno” è fon­da­tivo di que­sta nuova sta­gione poli­tica. In piena coe­renza con quel con­flitto di inte­ressi che il Pd non ha mai risolto nel corso degli ultimi vent’anni. Per que­sto le dimis­sioni di Ser­gio Cof­fe­rati sono un fatto poli­tico di prima gran­dezza, rile­vante e rive­la­tore nello stesso tempo. Per­ché rile­vante è evi­dente: l’ex segre­ta­rio della Cgil è stato il sim­bolo dell’antiberlusconismo di sini­stra, capace di orga­niz­zare la più grande mani­fe­sta­zione del dopo­guerra in difesa dell’articolo 18, a fianco del mondo del lavoro e in rap­pre­sen­tanza di quelle radici che oggi la lea­der­ship del Pd ha deciso di reci­dere, net­ta­mente e orgo­glio­sa­mente, in pro­fonda sin­to­nia con l’ideologia anti­sin­da­cale del centrodestra.

Insieme a Camusso e Lan­dini, Cof­fe­rati è una ban­diera con­tro il jobs act e la defi­ni­tiva meta­mor­fosi neo­li­be­ri­sta del par­tito ren­ziano (non “di Renzi”, per­ché non gli appartiene). Ma il “caso Cof­fe­rati” è forse ancor di più rive­la­tore, cioè spec­chio lim­pido, della fisio­no­mia etica del nuovo gruppo diri­gente del Naza­reno. Lui è il primo poli­tico che in modo cla­mo­roso e dram­ma­tico se ne va dal par­tito — del quale è stato uno dei 45 fon­da­tori — denun­ciando la pre­senza di una que­stione morale: «Me ne vado per­ché sono stati can­cel­lati i valori stessi su cui è nato il Pd».

Altro che delu­sione per la scon­fitta subita alle pri­ma­rie (peral­tro da dimo­strare): è un duris­simo attacco al voto di scam­bio («com­prano il voto»), è un j’accuse per la palese offerta e l’altrettanto dichia­rata accet­ta­zione dei voti por­tati alla can­di­data vin­cente, la ren­ziana Raf­faella Paita, da parte dei capi­cor­rente del cen­tro­de­stra ligure e di per­so­naggi fasci­stoidi, è la penosa presa d’atto dell’acquisto dei voti dei poveri immigrati.

Così si svende una sto­ria, si svende un partito.

Eppure è ancor più penosa la rea­zione dei ver­tici ren­ziani del Pd, a comin­ciare dai due vice­se­gre­tari del par­tito. Invano Cof­fe­rati li aveva, già da alcune set­ti­mane, avver­titi di quanto stava acca­dendo senza rice­vere nep­pure lo strac­cio di una risposta. Ora, dopo le dimis­sioni, i due colon­nelli, Ser­rac­chiani e Gue­rini, sono diven­tati par­ti­co­lar­mente pro­di­ghi di dichia­ra­zioni con­tro l’ingrato Cof­fe­rati, accu­sato di «inspie­ga­bili» e «ingiu­sti­fi­cate» dimissioni. Nem­meno un piz­zico di senso del pudore. Avan­zano cam­mi­nando sulle mace­rie del par­tito - forse per­ché con­vinti delle magni­fi­che e pro­gres­sive sorti elet­to­rali in caso di voto anticipato.

E Renzi?

L’immagine più nitida dello spec­chio che l’addio del diri­gente poli­tico riflette è quella del segre­ta­rio. All’ultima dire­zione del par­tito Renzi ha chiuso il “caso” in modo bru­tal­mente pro­vo­ca­to­rio, facendo i com­pli­menti alla vin­ci­trice per la vit­to­ria e rove­sciando sul per­dente la defi­ni­tiva sen­tenza: «Basta, vogliamo vin­cere, la discus­sione è chiusa». Una dimo­stra­zione di arro­ganza, come è ormai con­sue­tu­dine di que­sta nuova lea­der­ship, ma par­ti­co­lar­mente sot­to­li­neata e insi­stita, per­ché sia d’esempio a chi in futuro volesse por­tare all’attenzione del par­tito fasti­diosi pro­blemi etici.

Discu­tere su come si rac­col­gono i con­sensi, su come si finan­zia un par­tito, su quale blocco sociale di rife­ri­mento si sce­glie sono que­stioni poli­ti­che fon­da­men­tali, anche se il per­so­na­li­smo, il lea­de­ri­smo hanno inqui­nato il comune sen­tire della gente di sinistra. Tut­ta­via è impor­tante discu­terne oggi come è stato cru­ciale per l’allora Pci quando a porre la que­stione nei ter­mini gene­rali che cono­sciamo fu Enrico Ber­lin­guer. E vale qui la pena solo accen­nare alla fred­dezza, e per­sino alla deri­sione, con cui la cor­rente miglio­ri­sta di allora, gui­data dall’ex capo dello stato, Gior­gio Napo­li­tano, accolse la duris­sima cri­tica ber­lin­gue­riana alla dege­ne­ra­zione del sistema dei par­titi, Pci incluso.

Era­vamo negli anni’80 e non a caso la vicenda ope­raia della Fiat, la bat­ta­glia sulla scala mobile e l’esplodere della que­stione morale tene­vano insieme i ragio­na­menti di Ber­lin­guer verso quell’alternativa di sini­stra che, nel momento del cra­xi­smo trion­fante, la pre­ma­tura fine non gli con­sentì di met­tere in atto. La que­stione immo­rale come “que­stione demo­cra­tica” torna, nel Pd di Renzi, a essere deru­bri­cata come l’espressione del “tafaz­zi­smo” delle mino­ranze che non si ras­se­gnano a spin­gere il carro del vin­ci­tore. Che, tut­ta­via, non sem­bra più tanto trion­fante se si dà retta ai son­daggi che, set­ti­mana dopo set­ti­mana, sgon­fiano la bolla elet­to­rale delle ultime ele­zioni euro­pee di maggio.

In ogni caso se le dimis­sioni di Cof­fe­rati sono rile­vanti e rive­la­trici del muta­mento pro­fondo e irre­ver­si­bile della natura sociale del Pd, la domanda è: fino a quando le oppo­si­zioni interne si accon­ce­ranno al ruolo di inno­cue cas­san­dre, di fiore all’occhiello del segretario?

E, a seguire, adesso può nascere in Ita­lia una forza poli­tica a sini­stra che rac­colga un con­senso signi­fi­ca­tivo, come quello di Syriza?

«Chi in par­tenza pen­sava che si trat­tasse di un appun­ta­mento più sim­bo­lico che di con­creta azione poli­tica, non aveva cal­co­lato una sedi­men­tata costante: la capa­cità della sini­stra ita­liana di essere al tempo stesso con­flit­tuale, un po’ bizan­tina, senza un

lea­der ma con tanti aspi­ranti al ruolo». Il manifesto, 18 gennaio 2015

Negli ampi spazi del Nuovo cinema Nosa­della, esau­rito in ogni ordine di posti per l’assemblea dell’Altra Europa con Tsi­pras, può suc­ce­dere anche di tro­vare nel retro­bot­tega il poster di un film uscito la scorsa estate. Dimen­ti­ca­bile (a par­tire dalla cop­pia di pro­ta­go­ni­sti Barrymore/Sandler) ma con un titolo piut­to­sto ade­rente agli svi­luppi della gior­nata: «Insieme per forza». Anche per amore. «Per tutti noi - ricorda fra gli applausi Panos Lam­prou di Syriza - il movi­mento con­tro la glo­ba­liz­za­zione è stato un inse­gna­mento. E siamo con­vinti che la sini­stra ita­liana possa sor­pren­dere ancora il mondo».

Chi in par­tenza pen­sava che si trat­tasse di un appun­ta­mento più sim­bo­lico che di con­creta azione poli­tica, fis­sato nell’imminenza delle ele­zioni gre­che spe­cial­mente per rin­sal­dare il legame con il nuovo pos­si­bile primo mini­stro Ale­xis Tsi­pras, non aveva cal­co­lato una sedi­men­tata costante: la capa­cità della sini­stra ita­liana di essere al tempo stesso con­flit­tuale (soprat­tutto al suo interno), un po’ bizan­tina, senza un lea­der ma con tanti aspi­ranti al ruolo. Sin­goli o col­let­tivi. Al tempo stesso, nelle pie­ghe di una discus­sione molto intensa, e nella diver­sità di posi­zioni rap­pre­sen­tata ad esem­pio dall’intervento «basi­sta» di Bar­bara Spi­nelli («non c’è più tempo da per­dere, dob­biamo par­tire subito»), e dalla rea­li­stica rispo­sta di Luciana Castel­lina («non rico­strui­remo la sini­stra se non rico­struiamo un ter­reno comune della sini­stra»), è pos­si­bile capire quali poten­zia­lità avrebbe una forza uni­ta­ria. Poi, per i tanti appas­sio­nati di modelli orga­niz­za­tivi - meglio Syriza o Pode­mos? - vale la rispo­sta di Paolo Fer­rero: «Io penso che l’Altra Europa sia la cosa migliore fatta negli ultimi dieci anni. Ma una sog­get­ti­vità poli­tica non si costrui­sce in ter­mini buro­cra­tici. Né può essere il frutto di una dina­mica ’pat­ti­zia’ fra i ver­tici. Va costruita nel paese».

Sarà un’impresa, nell’Italia del patto del Naza­reno. Però ci sono fatti grandi e pic­coli che con­tri­bui­scono a tenere accesa la fiamma della spe­ranza. Non solo le ele­zioni gre­che e i son­daggi spa­gnoli. C’è ad esem­pio la pre­senza qui a Bolo­gna del sena­tore ex pen­ta­stel­lato Fran­ce­sco Cam­pa­nella. E c’è l’addio di Ser­gio Cof­fe­rati al Pd. Il segre­ta­rio con­fe­de­rale del Circo Mas­simo, dei tre milioni in piazza con le ban­diere della Cgil per difen­dere l’articolo 18, agli occhi dell’assemblea cer­ti­fica con la sua deci­sione la rot­tura finale fra il mondo del lavoro e il suo par­tito di rife­ri­mento. «C’è grande emo­zione in sala - sin­te­tizza il bolo­gnese Ser­gio Caserta - certo l’avesse fatto dieci anni fa…». E Nanni Alleva, neo con­si­gliere regio­nale dell’Altra Emi­lia Roma­gna, ampli­fica il con­cetto: «E’ l’ultima dimo­stra­zione del fatto che il Pd è un posto infre­quen­ta­bile. Anche un poli­tico navi­gato come Cof­fe­rati alla fine si è tro­vato di fronte a una situa­zione impos­si­bile. Ora l’importante è che molti ita­liani che si sono ’messi in scio­pero’, non votando, capi­scano che c’è un’alternativa: la sini­stra. Unita».

«Cof­fe­rati – osserva sul punto Cur­zio Mal­tese – è l’unico che ha tratto le con­se­guenze del fatto che nel Pd esi­ste una que­stione morale e, subito dopo, una que­stione poli­tica. Ber­lin­guer avrebbe detto che ’esi­ste una que­stione morale nel par­tito demo­cra­tico’: basti pen­sare alla Ligu­ria, all’Expò, alla Tav, allo scan­dalo del 3%». Quanto alla que­stione poli­tica, è l’intervento intro­dut­tivo della gior­nata di Marco Revelli a segna­larla pun­tual­mente: «In Ita­lia si è ria­perto il con­flitto sociale: nel milione di piazza San Gio­vanni, nello scio­pero gene­rale, nello scio­pero sociale. E in que­sti mesi si è anche con­su­mata una frat­tura sto­rica, fra il mondo del lavoro e il par­tito che sto­ri­ca­mente ne rac­co­glieva le istanze. Un par­tito che oggi invece par­te­cipa alla mano­mis­sione della Costi­tu­zione demo­cra­tica, e all’attacco al lavoro».

Revelli rias­sume anche il com­pito dell’Altra Europa: «Costruire una casa comune, acco­gliente, della sini­stra. E un nuovo lin­guag­gio. Per­ché da decenni la sini­stra ha smar­rito il suo, anzi ha assunto quello del neo­li­be­ri­smo». Il socio­logo tori­nese è fra i primi fir­ma­tari del mani­fe­sto «Siamo a un bivio» pre­sen­tato ai 700 par­te­ci­panti all’assemblea, fra i quali si notano Franco Turi­gliatto e Anto­nio Ingroia. A fir­mare anche Paolo Cento: «L’abbiamo sot­to­scritto dopo una discus­sione nel par­tito — spiega il pre­si­dente dell’assemblea di Sel - per­ché vanno valo­riz­zati gli sforzi di lavo­rare in un pro­cesso poli­tico, aperto e inno­va­tivo, ’della sini­stra e dei demo­cra­tici ita­liani’. Tanti che sono qui oggi saranno anche a Human Fac­tor. E noi pen­siamo di poter dare il nostro con­tri­buto, rite­nen­doci impor­tanti ma non certo esclu­sivi, per allar­gare lo sguardo e gli spazi a sini­stra».

Molti ma non tutti fir­mano il «mani­fe­sto Revelli», che pone la sca­denza di una nuova assem­blea a marzo per avviare il futuro per­corso della forza poli­tica, con chi ade­rirà, sul duplice bina­rio locale e nazio­nale. Non firma Bar­bara Spi­nelli che dà voce a un gruppo di comi­tati locali, cri­tici verso quelle che giu­di­cano len­tezze ecces­sive nel pro­cesso costi­tuente di un nuovo par­tito. I gio­vani under 35 di Act bat­tono invece il tasto del com­pleto rin­no­va­mento del comi­tato ope­ra­tivo dell’Altra Europa. Sul punto la discus­sione va avanti per l’intera gior­nata, e pro­se­guirà anche oggi.

"Questione abitativa e trasformazioni urbane": questo il sottotitolo del libro di Gaetano Lamanna, di cui pubblichiamo la prefazione: un libro che ragiona «sulla difficoltà di vivere e di abitare oggi, sviluppando con padronanza e con chiarezza (e con lingua asciutta, frasi brevi ed essenziali) i temi generali e quelli specifici».

L’area sempre più vasta del disagio abitativo in Italia è il tema che Gaetano Lamanna affronta con passione e competenza. La passione del sindacalista militante, la competenza di chi ha studiato e frequentato la materia. Non posso non ricordare che proprio sul tema della casa, e più in generale sulla condizione urbana, il sindacato diventò protagonista della vita pubblica alla fine degli anni Sessanta, contribuendo ad avviare «la più grande stagione di azione collettiva nella storia della Repubblica» (Paul Ginsborg). Tutto cominciò con lo sciopero generale del 3 luglio 1969, a Torino, dove il problema delle abitazioni era stato esasperato dalla decisione della Fiat di assumere quindicimila nuovi addetti da reclutare nel Mezzogiorno, il che avrebbe determinato un pesante aggravamento delle condizioni di vita. La Fiat propose addirittura di costruire baracche nei comuni di cintura e nelle fabbriche dismesse (tolto il letto e le suppellettili, restava uno spazio libero di un metro e sessantacinque centimetri quadrati per persona).

A mano a mano, il movimento si estese da Torino a tutta l’Italia. Per la prima volta, non solo le condizioni di lavoro, ma anche quelle di vita nella città, divennero il terreno di un forte scontro sociale che investì l’intero paese e culminò con il grande sciopero generale del 19 novembre 1969, per la casa e l’urbanistica. Nonostante la violenta reazione degli interessi colpiti (le bombe del 12 dicembre a Milano, le stragi e la strategia della tensione) si raggiunsero risultati importanti, a cominciare dalla nuova legge per la casa del 1971 che riorganizzò le forme, gli strumenti e le modalità dell’intervento pubblico in edilizia. A essa seguirono nel 1977 la legge sul regime dei suoli, l’anno successivo l’equo canone e il piano decennale per l’edilizia.

Parafrasando Giorgio Ruffolo, fu l’età dell’oro del compromesso socialdemocratico. Ma durò poco. Con gli anni Ottanta è cominciata la controriforma, e nel giro di pochi anni sono state cancellate una dopo l’altra le conquiste del ventennio precedente. Sono cadute la legge Bucalossi, le norme sugli espropri e quelle per il contenimento degli affitti, fino alla sostanziale dissoluzione dell’edilizia pubblica.

Ancora peggio con la crisi che dal 2008 continua a tormentare in primo luogo le classi sociali più sfavorite. Di questo soprattutto tratta il libro, della difficoltà di vivere e di abitare oggi, sviluppando con padronanza e con chiarezza (e con lingua asciutta, frasi brevi ed essenziali) i temi generali e quelli specifici, la fiscalità, la tassazione immobiliare, la sempre più pressante domanda inevasa, l’esclusione abitativa, il nodo mai risolto del contenimento della rendita. Lamanna ci spiega come nella politica della casa il valore d’uso (l’abitazione come tetto, spazio domestico) ha finito con l’essere sostituito dal valore di scambio (la casa come funzione finanziaria, come veicolo di risparmio). Non cade nella trappola del social housing all’italiana, “un bluff, o meglio un imbroglio”, business allo stato puro, i cui unici beneficiari sono i costruttori. E al riguardo non salva nessuno, denunciando «il ruolo primario, ma inefficace, delle Regioni».

Approfondisce in particolare l’analisi di una della più drammatiche condizioni abitative, quella degli anziani. Gli anziani soli, anzi le anziane, le vedove, più numerose per il minor tasso di mortalità delle donne. Analizza lucidamente le alternative di cui si discute: il ricovero, la soluzione residenziale, quella domiciliare, il cohousing (già oggetto di interesse di fondi immobiliari e di manovratori della rendita). Ma scrive che se togli un anziano dal suo spazio «lo vedrai deperire in pochi mesi, perdere la voglia di vivere». Sradicarli dal loro ambiente è una violenza. La via maestra è mantenere gli anziani nelle proprie case, senza cedere al fascino o al ricatto del nuovo che avanza.

Alla completezza dell’analisi settoriale fa da contrappeso l’attenzione con la quale Lamanna inquadra la politica della casa negli scenari più complessi ma non meno deprimenti delle politiche finanziarie e territoriali. “Rendita crescente, reddito calante” è il titolo di un capitolo che racconta della stretta correlazione fra declino dell’industria e sviluppo immobiliare. Una delle conseguenze del perverso intreccio fra mattone e finanza è stata l’immane valorizzazione delle aree urbane centrali, con l’espulsione dei residenti costretti a trasferirsi in periferie sempre più lontane, stressati dal traffico e dall’alienazione. Alla fine, l’urbanistica è stata obliterata, e anche da questo punto di vista destra e sinistra non sono riconoscibili. «Le amministrazioni locali – scrive Lamanna – hanno dovuto rincorrere i processi anziché programmarli. E i condoni edilizi a livello nazionale, le continue sanatorie a livello locale, tramite varianti, deroghe, cambi di destinazione d’uso degli immobili, sono stati rimedi peggiori del male». Ma di che meravigliarsi, nel 2005 non fu Piero Fassino, allora segretario dei democratici di sinistra, in un’intervista al Sole 24 ore, a riconoscere agli speculatori immobiliari il rango e la dignità di imprenditori?

Nel libro comanda il pessimismo, non si colgono orizzonti di cambiamento a portata di mano. Inutile illudersi e illudere che si possano facilmente riprendere linee di riforma, svolte e ripensamenti rispetto ai disastri dell’ultimo trentennio. Lamanna fa capire che per ricominciare la strada sarà lunga, faticosa, disseminata di insidie. Ma non viene meno al dovere di proporre istruzioni per il futuro. E ho specialmente apprezzato il suo schierarsi a favore di impostazioni alternative in materia di urbanistica, per il recupero e la fine delle espansioni, consapevole che il buongoverno urbanistico è la prima condizione per ridurre il disagio abitativo.

Il manifesto, 17 gennaio 2015

Riu­nione di fami­glia della sini­stra anti-renzista ieri a Mon­te­ci­to­rio. Ci sono tutti, nuovi amici ex com­pa­gni, vec­chi com­pa­gni ex amici: da Nichi Ven­dola a Pippo Civati a Ste­fano Fas­sina, ma c’è anche Paolo Fer­rero, Anto­nio Ingroia, Luca Casa­rini, l’attore Ivano Mare­scotti, il costi­tu­zio­na­li­sta Gianni FerraraChi non poteva, ha inviato un mes­sag­gio, come il socio­logo Marco Revelli.

A pochi passi, nel Tran­sa­tlan­tico, infu­ria la bat­ta­glia sul pros­simo pre­si­dente della repubblica. Qui, nell’auletta delle con­fe­renze stampa, le cin­quanta sfu­ma­ture della sini­stra sono d’accordo su un nome. Però è Ale­xis Tsi­pras, e non stiamo par­lando dell’Italia ma della repub­blica greca che il pros­simo 25 gen­naio andrà al voto. Tsi­pras e la sua Syriza, la coa­li­zione della sini­stra radi­cale, sono favo­riti e da ieri pun­tano per­sino a un governo monocolore.

L’occasione della rim­pa­triata è la pre­sen­ta­zione ai media della cam­pa­gna di soli­da­rietà “Cam­bia la Gre­cia, cam­bia l’Europa”. C’è un appello fir­mato da mille e cin­que­cento per­sone e c’è una spe­di­zione della auto­no­mi­nata (e autoi­ro­nica) “Bri­gata Kali­mera”, due­cento ita­liani che andranno ad Atene, spiega Raf­faella Bolini (dell’Altra Europa, già dell’Arci), «a por­tare a Syriza la nostra vici­nanza e ammi­ra­zione, a chie­dere a loro di vin­cere anche per noi».

La cam­pa­gna di soli­da­rietà infatti «va rove­sciata», spiega Luciana Castel­lina, gior­na­li­sta e fon­da­trice del mani­fe­sto ma anche poli­tica di lungo corso, «in realtà non è Syriza a rice­vere la nostra soli­da­rietà, ma noi la loro». Non è una bat­tuta: in Gre­cia la sini­stra sta per vin­cere le ele­zioni, in Ita­lia fin qui ha mira­co­lo­sa­mente messo insieme un 4 per cento alle euro­pee, un milione di voti. Ma la spe­ranza c’è: «Non avrei mai pen­sato - dice Castel­lina - che la sini­stra greca, liti­giosa come e più di quella ita­liana, sarebbe riu­scita a stare unita».

Ma il punto non è (per ora) l’Italia, o solo l’Italia, ma il cata­cli­sma poli­tico che può por­tare su tutta Europa l’eventuale vit­to­ria di Ale­xis Tsipras.

«Tsi­pras è l’alternativa alla povertà e alla paura», attacca Ven­dola, al con­tra­rio di Renzi che ha vis­suto il «fal­li­men­tare» seme­stre di pre­si­denza della Ue «come una cri­tica di costume alle poli­ti­che dell’austerità, non come una cri­tica poli­tica all’impianto libe­ri­sta dell’Europa». Per Pippo Civati le ele­zioni in Gre­cia «rap­pre­sen­tano una sfida che inve­ste anche il Pd. C’è una con­ti­nuità che dob­biamo ritro­vare», dice, all’indirizzo degli ex alleati di Sel, quelli della ‘sini­stra di governo’.

Sta­volta con Civati è d’accordo anche Paolo Fer­rero, segre­ta­rio di Rifon­da­zione comu­ni­sta, che riven­dica la pri­ma­zia dei rap­porti con la sini­stra radi­cale greca, quando da noi Tsi­pras era un nome sco­no­sciuto. Oggi in Gre­cia si può pun­tare, dice, a «un’alternativa che non sia solo pra­tica di oppo­si­zione e di con­flitto ma anche di governo. E’ il segnale che dovremmo dare anche noi in Italia». Insomma, la morale è che per vin­cere le scom­messe ita­liane serve innan­zi­tutto che i greci vin­cano le loro.

Per Ste­fano Fas­sina, Pd, sono «inac­cet­ta­bili le inge­renze che tanti governi e isti­tu­zioni euro­pee hanno fatto pesare sulla Gre­cia» (Più tardi, alla dire­zione del suo par­tito pro­pone una mozione che dice esat­ta­mente così: e sarà appro­vata, anche Renzi dirà sì). Quelle di Tsi­pras, con­clude Fas­sina, non sono ricette estre­mi­sti­che: «E’ pro­prio il con­tra­rio: la pro­po­sta di Syriza è rea­li­stica e mette in evi­denza che un’alternativa è pos­si­bile e neces­sa­ria. La sini­stra rie­sce a unirsi e a vin­cere, quando costrui­sce un pro­gramma auto­nomo rispetto al para­digma dominante». E anche qui si parla di Gre­cia, ma il discorso sem­bra per­fetto anche per l’Italia.

Linkiesta.it, 18 gennaio 2015

L’Italia è uno dei Paesi con la popolazione più anziana del mondo. E anche le nostre case lo dimostrano. I palazzi sparsi lungo la nostra penisola sono vecchi, divorano energia in eccesso e hanno bisogno di continui interventi di manutenzione. Lo aveva detto il rapporto Cresme 2013 sull’edilizia italiana. Ora lo conferma l’ultima indagine dell’Ufficio studi di Immobiliare.it, il portale degli annunci immobiliari online: il 36,6% delle abitazioni italiane, ossia 11,6 milioni di unità immobiliari, ha più di 40 anni di vita, con picchi di oltre il 40% in alcune città come Potenza, Palermo, Napoli e Catanzaro. Solo a Palermo, il Comune di recente ha censito 1.300 edifici instabili, di cui 228 a rischio crollo.

Se si considera come anno di riferimento il 1977, momento cruciale per l’edilizia per via dell’entrata in vigore delle prime norme sull’efficienza energetica degli edifici, la percentuale di abitazioni costruite prima di questa data arriva al 58,4%: 18,5 milioni di immobili su tutto il territorio nazionale non sono stati progettati quindi in un’ottica di risparmio energetico. L’età avanzata dell’Italia del mattone la rende quindi, oltre che anziana, anche particolarmente energivora: un immobile che supera i 30 anni di età consuma in un anno, mediamente, dai 180 ai 200 chilowattora ogni metro quadro. Un fabbisogno enorme se si considera che un’abitazione in classe B, standard minimo per le nuove costruzioni, arriva a consumare in media tra i 30 e i 40 chilowattora al metro quadro all’anno.

«È ora di riqualificare il nostro patrimonio immobiliare», dice Carlo Giordano, amministratore delegato di Immobiliare.it, «e per farlo bisogna limitare la costruzione di nuove abitazioni, puntando alla manutenzione di quelle già esistenti e invecchiate. In questo modo, si ridurranno il consumo del suolo, il fabbisogno energetico globale e la necessità di infrastrutture per la mobilità. Reinvestire sui quartieri obsoleti delle nostre città, infine, può rivelarsi la risposta migliore alla nuova domanda abitativa».

Le case più vecchie si trovano nel Mezzogiorno. Tra le regioni, quella che conta il maggior numero di abitazioni costruite prima del 1970 è la Basilicata, dove gli edifici obsoleti sono il 39,3% del totale. In Sicilia, Campania e Abruzzo la percentuale di abitazioni con oltre 40 anni di età rappresenta il 38,3%; nelle Marche e in Calabria il 38,2 per cento. In Friuli Venezia Giulia e in Trentino Alto Adige si registra invece la percentuale più bassa di edifici precedenti al 1970, con percentuali rispettivamente del 31,2% e del 31,3% sul totale, che restano comunque molto alte.

Tra le città, la più traballante è Potenza, con il 42% del totale delle abitazioni che hanno più di 40 anni. La segue Palermo, dove l’incidenza degli immobili vecchi è a quota 41,3 per cento. A contare il dato più basso è Rimini, dove ci si ferma al 32,2 per cento. A Roma il livello è elevato, toccando quota 38,3%; più bassa l’età del patrimonio immobiliare di Milano, dove il 33,5% degli edifici risale a prima del 1970.

Secondo i calcoli dell’ufficio studi di Immobiliare.it, gli appartamenti over 40 non ristrutturati hanno un prezzo al metro quadro mediamente inferiore del 25% rispetto ad abitazioni realizzate a partire dal 2000. Effettuare lavori di ristrutturazione permetterebbe quindi di evitare la svalutazione degli immobili. Le differenze di prezzo più alte tra immobili ultraquarantenni allo stato originale e immobili nuovi si riscontrano a Trieste e Torino, dove le abitazioni più vecchie costano in media circa il 30% in meno. In base ai calcoli dell’ultimo rapporto Cresme, fra soli dieci anni nelle 14 città metropolitano gli appartamenti con oltre 40 anni di vita saranno l’85 per cento. Se non si interviene, gran parte del nostro patrimonio immobiliare continuerà a divorare energia e a svalutarsi di anno in anno.

Le case più vecchie si trovano nel Mezzogiorno. Tra le regioni, quella che conta il maggior numero di abitazioni costruite prima del 1970 è la Basilicata, dove gli edifici obsoleti sono il 39,3% del totale. In Sicilia, Campania e Abruzzo la percentuale di abitazioni con oltre 40 anni di età rappresenta il 38,3%; nelle Marche e in Calabria il 38,2 per cento. In Friuli Venezia Giulia e in Trentino Alto Adige si registra invece la percentuale più bassa di edifici precedenti al 1970, con percentuali rispettivamente del 31,2% e del 31,3% sul totale, che restano comunque molto alte.

Tra le città, la più traballante è Potenza, con il 42% del totale delle abitazioni che hanno più di 40 anni. La segue Palermo, dove l’incidenza degli immobili vecchi è a quota 41,3 per cento. A contare il dato più basso è Rimini, dove ci si ferma al 32,2 per cento. A Roma il livello è elevato, toccando quota 38,3%; più bassa l’età del patrimonio immobiliare di Milano, dove il 33,5% degli edifici risale a prima del 1970.

Secondo i calcoli dell’ufficio studi di Immobiliare.it, gli appartamenti over 40 non ristrutturati hanno un prezzo al metro quadro mediamente inferiore del 25% rispetto ad abitazioni realizzate a partire dal 2000. Effettuare lavori di ristrutturazione permetterebbe quindi di evitare la svalutazione degli immobili. Le differenze di prezzo più alte tra immobili ultraquarantenni allo stato originale e immobili nuovi si riscontrano a Trieste e Torino, dove le abitazioni più vecchie costano in media circa il 30% in meno. In base ai calcoli dell’ultimo rapporto Cresme, fra soli dieci anni nelle 14 città metropolitano gli appartamenti con oltre 40 anni di vita saranno l’85 per cento. Se non si interviene, gran parte del nostro patrimonio immobiliare continuerà a divorare energia e a svalutarsi di anno in anno.

La Repubblica, 17 gennaio 2015

Succede che due ragazze, due ventenni, decidano di andare in Siria a portare aiuti umanitari. Succede che queste due giovani donne vengano rapite e tenute prigioniere per più di cinque mesi. Succede che al loro ritorno in patria si trovino sommerse da una valanga di insulti. Succede in Italia: anche questo è il nostro Paese. È incredibile leggere sui social e su certi giornali i commenti che riguardano Greta Ramelli e Vanessa Marzullo: una quantità infinita di insulti che vengono, ovviamente, dalla parte più rancorosa dell’Italia. «Ragazzine viziate», «se la sono cercata», «perché sono andate in Siria? », «spendiamo 12 milioni di tasca nostra!».

Eppure Greta e Vanessa non erano alla loro prima missione umanitaria, non erano ragazzine sprovvedute, ma giovani donne con degli interessi e degli ideali. Qualche decennio fa alla loro età si era già madri: cerchiamo di uscire quindi dal luogo comune della gioventù irresponsabile che va criticata se perde tempo a laccarsi le unghie, a farsi canne o a bere birre ai bar, ma che diventa bersaglio anche quando occupa la propria vita in maniera diversa. Greta e Vanessa, due giovani donne, non due ragazzine viziate, non due amanti dell’uomo con il kalashnikov, fondano, insieme a Roberto Andervill, Horryaty, un progetto di assistenza con l’obiettivo di portare medicine e generi di prima necessità alla popolazione siriana. Ecco perché partono, per portare aiuti alla popolazione che sta subendo gli attacchi di Assad. Ma al commentatore medio che ci siano centinaia di migliaia di persone a cui manca tutto non interessa: gli elementi su cui si basano le critiche a Greta e Vanessa sono la loro giovane età, l’essere donne e le foto che vengono diffuse dai media, che le ritraggono insieme, abbracciate e sorridenti. Foto ingenue di ragazze abbracciate, foto allegre, che sono in ogni album di famiglia. Come se chi critica non avesse foto come quelle, come se non le avessero i loro figli.

Come è possibile — c’è addirittura chi si domanda in un ignobile e falso paragone — prodigarsi, lavorare, pagare per loro e non per i marò?

Che sia stato pagato o no un riscatto, la canea è scattata sulla cifra dei 12 milioni che sarebbero stati pagati. La notizia è stata diffusa tramite un account Twitter (@ekhateb88) ritenuto vicino alle milizie jihadiste. Qualsiasi altra affermazione avesse diffuso non sarebbe stato creduto: ma in questo caso la frase è diventata oro colato.

Tutto serve a sporcare la vicenda di Vanessa e Greta. Come le balle diffuse da alcuni media, che le accusano di essere sostenitrici dei terroristi, per una foto scattata in Italia durante una manifestazione che si è tenuta a Roma il 15 marzo scorso. In quell’immagine Greta e Vanessa, coperte da bandiere della Siria libera, mostrano un cartello in arabo con su scritto “Agli eroi di Liwa Shuhada grazie per l’ospitalità e se Dio vuole vediamo la città di Idlib libera quando ritorneremo”. Uno slogan di chiaro sostegno alla dissidenza laica in Siria, proprio quella abbandonata, proprio quella schiacciata da Assad e da chi lo sostiene.

Greta e Vanessa non erano e non sono dalla parte dei terroristi, ma dalla parte del pane. Erano in Siria per portare impegno. E qui arrivano gli insulti che più di tutti mi colpiscono perché, se non puoi dir loro che sono contigue ad Al Qaeda e all’Is, se non puoi dir loro che sono bambine viziate, se non puoi dir loro che sono due incoscienti, allora hai sempre a disposizione l’accusa più inutile, quella però che fa subito presa perché è banale e in fondo non sembra offensiva: «Ma se volevano fare del bene, non potevano farlo in Italia?». Come è accaduto a Fabrizio Pulvirenti, il medico di Emergency colpito da Ebola in Sierra Leone: quando rientrò in Italia ci fu una parte del Paese che senza vergogna disse che se l’era cercata. Il pensiero principale sembra essere che siano responsabili delle loro sciagure e che per questo motivo non solo non devono essere aiutate, ma magari anche punite.

E qui dobbiamo fare uno sforzo, dobbiamo andare oltre le parole e capire il fallimento del Paese insito in questi giudizi. Parole che sono una scarica incontenibile di frustrazione, la frustrazione di chi non è in grado di muovere un passo, di chi è fermo al palo, di chi non riesce a immaginare una vita diversa e se la prende con chi decide di mettere la propria a disposizione di un ideale.

L’Italia è un Paese che esporta soprattutto solidarietà ed è molto triste pensare che gli stessi che insultano Greta e Vanessa ritengano invece che sia fondamentale imbracciare fucili e organizzare missioni militari. «Dobbiamo difendere, dobbiamo attaccare, dobbiamo prevenire con la forza, ma gli aiuti umanitari, quelli sono materia per ragazzine viziate ». Tutti Charlie Hebdo, ma a casa propria ché se poi vi capita qualcosa ve la siete cercata.

Un Paese che non riesce a mostrare solidarietà verso due ragazze sequestrate rischia di essere un Paese fallito, che fa vincere il livore, la rabbia, l’idiozia. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno deciso di non pagare riscatti e questo è il motivo per cui i loro giornalisti vengono uccisi così barbaramente: lì il dibattito è esattamente l’opposto di quello che sta animando la nostra peggiore stampa. Ma in quei Paesi non passa per la mente a nessuno di dire che in luoghi come la Siria le missioni umanitarie non vadano fatte, che meglio sarebbe fare beneficenza a casa propria per non correre rischi. Non passa per la mente a nessuno di dire che chi viene rapito e poi magari ucciso da giornalista in trincea, poteva restare in patria e accontentarsi di rimasticare agenzie.

Se incoscienza c’è stata, c’è stata dalla parte del pane, delle bende, del mercurocromo, delle tende da montare, dell’acqua e il nostro Paese sta dando uno spettacolo indegno, sta mostrando la sua incapacità di sognare, di lottare, di impegnarsi, di prendere parte alla trasformazione della realtà. La cooperazione internazionale è la migliore esportazione possibile. Il nostro Paese sta dando prova di non capire che esistono diversità, che c’è chi resta in Italia e lavora per rendere il Paese migliore dall’interno e chi va fuori e si occupa di cose apparentemente lontane, ma che hanno un’ovvia connessione con ciò che ci circonda. L’Italia sta dando prova di non capire che il mondo non è diviso per compartimenti stagni, che ciò che accade in Siria interessa anche noi, che a essere contagiosa non è la presenza di democrazia, ma la sua assenza. Il mondo non è sotto casa, quel che accade in Siria ci riguarda da molto vicino. È al cospetto di queste situazioni che si tempra l’unità del Paese e la sua capacità di vedere oltre il proprio recinto. Mi vergogno delle reazioni di molti miei connazionali, delle loro parole, del loro livore, del loro odio. Se un Paese non è capace di stare accanto a due giovani donne volontarie, che hanno passato in condizioni di sequestro quasi sei mesi della loro vita, allora merita il buio in cui sta vivendo.

Il manifesto, 16 gennaio 2015

Un week end di discus­sione, il pros­simo, a Bolo­gna orga­niz­zato dall’Altra Europa; quello suc­ces­sivo a Milano con­vo­cato da Sel. Poi il voto per le pre­si­den­ziali gre­che, che cadrà il 25 gen­naio, dove è molto pro­ba­bile la vit­to­ria di Ale­xis Tsi­pras, lea­der della coa­li­zione Syriza. Un voto, quello greco, che cade prima di quello per il capo dello stato ita­liano e rischia di avere un impatto anche più forte sulla poli­tica del nostro paese. Nella varie­gata galas­sia delle sini­stre nostrane parte una mobi­li­ta­zione che punta su Atene per arri­vare a Stra­sburgo, pas­sando per Roma.

Sta­mat­tina infatti alla camera un gruppo di per­so­na­lità diver­sa­mente col­lo­cate a sini­stra (fra gli altri Luciana Castel­lina, Nichi Ven­dola, Paolo Fer­rero, Marco Revelli, Anto­nio Ingroia ma anche Pippo Civati e Ste­fano Fas­sina) pre­sen­te­ranno le ini­zia­tive di una cam­pa­gna di mobi­li­ta­zione inter­na­zio­nale nata dall’appello ’Cam­bia la Gre­cia, cam­bia l’Europa’ fir­mato ormai da migliaia di cit­ta­dini per «soste­nere la libera scelta del popolo greco con­tro le pres­sioni dei mer­cati finan­ziari e la disin­for­ma­zione di molte testate gior­na­li­sti­che sul pro­gramma di Syriza». Fra le ini­zia­tive, quella della ’Bri­gata Kali­mera G25’, che dall’Italia si pre­para ad andare ad Atene a soste­nere Tsi­pras e Syriza nei giorni del voto. Ini­zia­tive ana­lo­ghe sono par­tite nelle capi­tali di tutta Europa. Occhi pun­tati sulla Gre­cia, ma anche sull’Italia che dal voto greco potrebbe rice­vere una scossa se non uno scrollone.

A que­sto sarà dedi­cato gran parte del dibat­tito che si terrà a Bolo­gna (al cinema Nosa­della) sabato e dome­nica pros­simi. Lì l’Altra Europa con Tsi­pras, la lista che si è pre­sen­tata alle scorse euro­pee, discu­terà di Gre­cia ma anche del mas­sa­cro della reda­zione del Char­lie Ebdo pari­gino. Nel pome­rig­gio di sabato affron­terà invece il ’mani­fe­sto siamo a un bivio’ (testo inte­grale su lista tsi pras .eu). Il ’bivio’ fa rife­ri­mento alla strada euro­pea del dopo-voto greco, ma anche alla strada ita­liana che potrebbe tra­sfor­marsi, dal viot­tolo di un’ennesima nuova sigla a sini­stra, nella via più larga di una ’cosa’ comune a sini­stra, invo­cata ago­gnata e data per immi­nente per­sino da chi non se la augura — come il pre­si­dente del con­si­glio Mat­teo Renzi — ma ancora impe­la­gata in una lun­ghis­sima fase di gesta­zione. Il docu­mento che arriva alla discus­sione dell’assemblea nazio­nale, con­di­viso dalla stra­grande mag­gio­ranza del gruppo pre­pa­ra­to­rio ma non da tutti, parla chiaro: «Inten­diamo met­terci al ser­vi­zio di un pro­cesso che porti alla costi­tu­zione di una sola “casa comune della sini­stra e dei demo­cra­tici ita­liani in un qua­dro euro­peo”» che dovrebbe sfo­ciare alle poli­ti­che in «un’unica lista», come suc­cede già in Gre­cia e in Spa­gna, «in grado di unire tutte le com­po­nenti sia orga­niz­zate che disperse di una sini­stra non arresa alla auste­rità euro­pea e alla sua ver­sione auto­ri­ta­ria ita­liana incar­nata dal ren­zi­smo». «Il 2015 può essere dav­vero l’anno del cam­bia­mento», è la con­clu­sione «fac­ciamo cia­scuno un passo indie­tro, per fare insieme due passi avanti».

Il week end suc­ces­sivo, quello che va dal 23 al 25 gen­naio, gli atti­vi­sti dell’Altra Europa, ma sta­volta insieme a molti altri pro­ve­nienti da mondi diversi e anche dalla sini­stra Pd, si ritro­ve­ranno a Human Fac­tor, la ’Leo­polda rossa’ di Sel, a Milano. Incon­tri rav­vi­ci­nati che dovreb­bero supe­rare le incom­pren­sioni e le divi­sioni del dopo-europee. Almeno nelle inten­zioni di tutti, o quasi. E che potreb­bero por­tare a can­di­dati uni­tari anche alle pros­sime regio­nali, in calen­da­rio per mag­gio. Così è già nelle Mar­che, dove ieri un ampio car­tello delle sini­stre ha annun­ciato la corsa con­tro il can­di­dato del Pd qua­lun­que sarà (in regione i dem si stanno dila­niando nella scelta se fare o no le pri­ma­rie). Così potrebbe essere anche in Ligu­ria, dove Ser­gio Cof­fe­rati è stato scon­fitto alle pri­ma­rie del cen­tro­si­ni­stra ed ora molte voci, alcune anche del Pd, chie­dono un nome alter­na­tivo alla bur­lan­diana Lella Paita.

Nell’album delle figu­rine di fami­glia manca ancora anche la casella di Pippo Civati. Che da tempo guarda a sini­stra fuori dal suo par­tito ed ha già spie­gato che «se si andasse al voto ora» non si rican­di­de­rebbe su un pro­gramma «che non con­di­vido», quello di Renzi. Sulla sua scelta peserà il nome del pre­si­dente della repub­blica che Renzi pro­porrà al Pd. Se sarà evi­den­te­mente frutto del Patto del Naza­reno, o un nome con­cor­dato con la sini­stra del suo partito.

«Vi sono nelle nostre culture utopie positive alle quali fare appello perché il futuro sia sottratto all’orizzonte pessimistico? Oggi la libertà è minacciata ma in questo momento la parola più difficile da pronunciare è fraternità o solidarietà. Ma solidali con chi?». La Repubblica, 16 gennaio 2015

IN TUTTO il mondo, in questi giorni, milioni di persone hanno proclamato “Je suis Charlie”. E questo non può essere l’esercizio retorico o strumentale di un momento. La rivendicazione della libertà d’espressione contro ogni forma di violenza è sacrosanta, ma terribilmente impegnativa. Fino a che punto siamo disposti a riconoscerla anche a chi manifesterà opinioni estreme o fondamentaliste? Ieri il Papa ha indicato quello che gli sembra essere un limite insuperabile: le parole aggressive contro la religione altrui, contro qualsiasi fede religiosa. Posizione ben comprensibile da parte del capo supremo della Chiesa cattolica. Ma essa non appartiene a quella laicità delle istituzioni che ha fondato, insieme alle altre libertà, anche quella di esprimere liberamente il proprio pensiero. Proprio qui la stessa libertà religiosa ha trovato il suo fondamento. Non è vero, quindi, che la laicità abbia guardato alla religione e alle espressioni religiose come “sottoculture tollerate”, considerate invece come parte di un contesto culturale nel quale tutte le opinioni, anche quelle sgradite, meritano rispetto. Un punto fermo, che non può essere travolto dalla concitazione che accompagna il nostro tempo difficile.

Riprendendo un discorso di Benedetto XVI, Papa Bergoglio è tornato sulle presunte colpe dell’Illuminismo. È bene ricordare, allora, che proprio lì ha le sue radici la frase attribuita a Voltaire (ma in realtà costruita da Evelyn Hall) infinite volte citata in questi giorni: «Non sono d’accordo con quel che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu abbia il diritto di farlo». Una indicazione forte, che ci ha accompagnato tutte le volte che si era di fronte a regimi totalitari e autoritari e che non possiamo perdere di vista, perché libertà e diritti esigono una continua e intransigente difesa. La letteratura da sempre ci racconta il futuro, e talvolta ci ammonisce sui suoi pericoli. Il secolo passato è stato segnato da due grandi distopie, da due utopie negative sui rischi dell’uso della biologia e della società della sorveglianza, consegnata a due libri - Il mondo nuovo di Aldous Huxley e 1984 di George Orwell. Oggi altri due libri sono davanti a noi. Il cerchio di Dave Eggers ci parla di una società della trasparenza totale, resa possibile dalla costruzione di una grande impresa planetaria che si impadronisce della vita di tutti, nella quale si può riconoscere la proiezione nel futuro di una combinazione di Google, Facebook, Twitter. Ma le drammatiche vicende francesi hanno conferito una inquietante attualità a Sottomissione di Michel Houellebecq, che colloca in un futuro non lontano, nel 2020, la trasformazione della Francia in uno Stato islamico.

Vi sono nelle nostre culture utopie positive alle quali fare appello perché il futuro comune sia sottratto a questo orizzonte pessimistico? Qui deve innestarsi la riflessione storica, che ci fa scoprire radici profonde e le connette con il presente. È stato commovente cogliere nelle parole prive di retorica del fratello del poliziotto musulmano assassinato il richiamo a libertà, eguaglianza, fraternità. Oggi la libertà è minacciata, le diseguaglianze ci sommergono, ma in questo momento la parola più difficile da pronunciare è “fraternità” o, come più spesso si dice, “solidarietà”. Ma solidali con chi, verso chi? Soltanto verso chi ci è vicino, costruendo così una solidarietà “escludente” ogni altro, che ci spinge verso identità oppositive, destinate ad alimentare conflitti sempre più acuti? Riflettendo sulla condizione europea, Jurgen Habermas aveva affermato che solo la solidarietà può liberarci dall’odio tra paesi creditori e paesi debitori. Mentre diverse forme di odio montano in maniera che a qualcuno pare irresistibile, la pratica difficile e impegnativa della solidarietà non è forse una via che sarebbe cieco abbandonare?

Questi casi, insieme ad altri altrettanto eloquenti che potrebbero essere richiamati, mostrano come le stesse concrete difficoltà presenti possano essere affrontate solo con una adeguata riflessione culturale. Voltaire e la triade rivoluzionaria - libertà, eguaglianza, fraternità - evocano direttamente l’Illuminismo, la sua lunga storia, i riconoscimenti e le trasformazioni di libertà e diritti che da lì hanno avuto origine. E proprio su questa eredità non da oggi ci stiamo interrogando, con un riflesso che cogliamo proprio in due tra i libri ricordati all’inizio. Houellebecq vede nell’abbandono delle premesse illuministiche, o nella impossibilità di restare ad esse fedeli, l’origine della sottomissione all’islamismo, della nuova servitù volontaria che ci attende nel futuro prossimo. All’opposto Eggers, in un libro di grana assai meno fine, vede nella società della trasparenza totale proprio un compimento dell’Illuminismo. E così, discussioni più analitiche a parte, entrambi indicano in quella radice culturale un nodo non ancora sciolto, e che davvero sembra che possa essere affrontato solo con un colpo di spada.

Il modo in cui Alessandro Magno recise l’inestricabile nodo di Gordio, come vuole la leggenda, ben può apparire oggi come metafora di un tempo in cui si contempla quasi esclusivamente il bene della decisione. Decisione subitanea, immediata, magari non meditata, ma rapida e definitiva. E invece proprio i fatti di ieri e di oggi ci dicono che non può essere questo il modo per uscire da una situazione divenuta sempre più aggrovigliata e difficile, anche per l’assenza di adeguate politiche in Europa e negli Stati Uniti, e che non può essere affrontata richiamando in servizio logore parole d’ordine, con il solito crescendo va dallo sbaraccamento della tutela della privacy fino alla pena di morte. Ha fatto bene il nostro ministro degli Esteri a dire di no alla proposta di rivedere il trattato di Schengen, negando il diritto di libera circolazione proprio nel momento in cui l’Europa ha massimo bisogno di tenere uniti tutti i suoi cittadini. E questa è la risposta giusta anche per evitare che, con l’argomento della lotta al terrorismo, si introducano non accettabili misure repressive. In modo assai sbrigativo si è detto che il 10 dicembre parigino rappresenta l’11 settembre dell’Europa. Ma, se così fosse, qualche lezione dovrebbe allora essere appresa dalle politiche americane successive a quella data, con i molti errori politici ormai comunemente riconosciuti: incauti interventi militari, difficoltà di liberarsi di eredità pesanti (i prigionieri di Guantanamo), trasformazione di iniziative antiterrorismo in strumenti di puro controllo politico (il cosiddetto Datagate).

Al tempo stesso, si sono fatte più nette le alternative concrete. Leggi speciali o radicali misure organizzative anche a livello europeo? Raccolte mirate e legittime di informazioni o pesca con lo strascico di masse di dati che si rivelano poi illeggibili? Ingannevoli rassicurazioni dell’opinione pubblica con restrizioni di diritti, alla prova dei fatti inutili e pericolose, o forme di collaborazione (oggi si parla di coordinamento tra i servizi di sicurezza dei diversi paesi)?

Siamo di fronte ad una situazione che non può essere affrontata come se si trattasse solo di una questione di ordine pubblico. E, come hanno opportunamente sottolineato Gustavo Zagrebelsky e Massimo Cacciari, non cediamo alla tentazione di parlare irresponsabilmente di guerra. La democrazia sfidata deve piuttosto recuperare quel pieno riconoscimento e quella legittimazione da parte dei cittadini che sono sempre stati la sua forza nelle situazioni estreme. So bene quanto sia difficile, soprattutto quando la violenza si manifesta nell’estrema sua forma di assassini e massacri, ricordare l’ammonimento che T. B. Smith rivolgeva ai suoi concittadini americani dicendo che «i mali della democrazia si curano con più democrazia». Ma è comunque ineludibile la domanda che in queste situazioni dobbiamo sempre rivolgerci: può, per difendersi, la democrazia perdere se stessa?
Dovremmo sapere che la risposta è obbligata, ed è negativa.

L’altra risposta, esplicita o implicita che sia, viene dalle menti deboli ed è terribilmente pericolosa soprattutto perché distoglie dalla ricerca dei mezzi legittimi e dalla riflessione politica e culturale che deve accompagnare ogni cambiamento d’epoca. Oggi serve un inventario intelligente e difficile di una storia che, con il trascorrere del tempo, si è fatta sempre meno europea, che si è liberata dello stigma di un colonialismo al seguito dell’affermazione dei diritti, e sta approdando ad un costituzionalismo globale che mette al centro il rispetto integrale della persona, della sua vita e della sua dignità, dunque radicalmente ostile ad ogni forma di fondamentalismo. Questa è la mobilitazione culturale di cui abbiamo bisogno, né regressiva né difensiva, per delineare i tratti di una politica democratica alla quale possa appartenere il futuro.

mass media tentano di cancellare: la proposta politica della sinistra europea, presentata in Grecia dalla lista Syriza, è ragionevole e realistica la vittoria di Tsipras il 25 gennaio: aiuterebbe davvero l'Europa a uscire dalla crisi. Il manifesto, 16 gennaio 2015

«Il rischio per l’Europa non è Tsi­pras ma la Mer­kel». Que­sta verità espressa qual­che set­ti­mana fa da Piketty mi ha dato una botta di otti­mi­smo. Per­ché Piketty, pur non avendo alcun potere deli­be­ra­tivo, si è accre­di­tato come voce ascol­tata e rispet­tata (basti pen­sare alle astro­no­mi­che cifre rag­giunte dalla ven­dita del suo ultimo libro); e, sia pure sem­pre meno, l’opinione pub­blica ancora conta un po’.

Piketty non è del resto il solo eco­no­mi­sta impor­tante ad essersi espresso in que­sto senso su Syriza: sui più impor­tanti quo­ti­diani euro­pei e per­sino ame­ri­cani sono state non poche le voci auto­re­voli che hanno ana­liz­zato con serietà il pro­gramma del par­tito che nei son­daggi appare vin­cente nelle pros­sime ele­zioni gre­che, e ne hanno tratto la con­se­guenza che non si tratta di grida di un insen­sato estre­mi­smo, ma di pro­po­ste lar­ga­mente condivisibili.

Se que­sto è acca­duto è per­ché Tsi­pras non ha solo otte­nuto l’appoggio di così larga parte del popolo greco che chiede giu­sti­zia, ma anche di un bel nucleo di eco­no­mi­sti del paese che sono diven­tati suoi con­si­glieri (e alcuni can­di­dati a mini­stro nell’ipotesi di con­qui­stare la dire­zione del governo di Atene). Si tratta di ex stu­denti greci che, come tan­tis­simi, sono emi­grati nel mondo per fre­quen­tare le uni­ver­sità eccel­lenti del Regno Unito, della Fran­cia, della Ger­ma­nia; e anche di quelle ame­ri­cane. Per que­sto sono cono­sciuti e ascol­tati anche fuori dal loro paese.

Il potere deli­be­ra­tivo ce l’ha per ora que­sto ese­cu­tivo dell’Unione euro­pea che pro­prio nel suo ultimo ver­tice - sordo e cieco rispetto alla realtà greca - ha riba­dito le solite posi­zioni: no a ogni ristrut­tu­ra­zione del debito, ma solo un breve pro­lun­ga­mento dei tempi di resti­tu­zione. Del tutto insuf­fi­ciente a impo­stare una poli­tica di lungo periodo per garan­tire una ripresa eco­no­mica quale sarebbe necessaria.

Né le annun­ciate pro­messe di aumento della liqui­dità annun­ciate dalla Bce (il Qe, quan­ti­ta­tive easing) sem­bra pos­sano dav­vero aiu­tare: l’esperienza di que­sti anni sta lì a dimo­strare come ogni volta che le ban­che otten­gono soldi si affret­tano a darli ai big più sicuri e non ai pro­ta­go­ni­sti di una dif­fusa e minuta eco­no­mia autoctona.

Quanto la Gre­cia chiede non è l’elemosina, ma i mezzi per impo­stare un nuovo modello di svi­luppo, che non sia la ripro­po­si­zione di quello ete­ro­di­retto adot­tato negli anni pas­sati dagli spe­cu­la­tori stra­nieri in com­butta con quelli locali, respon­sa­bile di aver por­tato il paese alla catastrofe.

Senza nep­pure porsi qual­che inter­ro­ga­tivo auto­cri­tico l’esecutivo euro­peo, e i governi che ne sosten­gono le posi­zioni, non inten­dono capire che non si uscirà dalla crisi se non con un muta­mento radi­cale, non limi­tan­dosi a con­sen­tire ai cit­ta­dini un po’ più di inu­tile con­sumo nelle catene dei super­mar­ket inter­na­zio­nali (il modello degli 80 euro di Renzi). Una vit­to­ria di Syriza il pros­simo 25 gen­naio può aiu­tare tutti a ripro­porsi que­sto ordine di pro­blemi. Speriamo.

«L'anticipazione. "Governare non significa avere il potere. Siamo all’inizio di un processo di lotta. Come in Brasile col Pt, dobbiamo cercare di mantenere la coesione sociale". Tsipras tratteggia le caratteristiche di un potenziale governo di sinistra: "Ci saranno grandi trasformazioni e la priorità, in questo momento, è la fine dell’austerità».

Il manifesto, 14 gennaio 2015

Teo­doro Andrea­dis Syn­ghel­la­kis, greco ma quasi dalla nascita resi­dente in Ita­lia dove i suoi geni­tori si erano rifu­giati durante la dit­ta­tura, ha scritto un libro – Ale­xis Tsi­pras. La mia sini­stra – che con­tiene una assai inte­res­sante inter­vi­sta con il lea­der di Siryza che qui si sof­ferma soprat­tutto sulla natura del nuovo par­tito che la sini­stra greca ha saputo darsi.

La pre­fa­zione al volume - che sarà nelle libre­rie da gio­vedì 15 - è di Ste­fano Rodotà e con­tiene anche i giu­dizi di un certo numero di pro­ta­go­ni­sti della poli­tica ita­liana. Ve ne diamo, in ante­prima, alcuni stralci.

Il raf­for­za­mento della sini­stra è ancora un pro­cesso in divenire?
Dovremo sem­pre tenere a mente che abbiamo l’obbligo di susci­tare tra i nostri soste­ni­tori una presa di coscienza sem­pre più demo­cra­tica, radi­cale, pro­gres­si­sta. Non pos­siamo per­met­terci il lusso di igno­rare il fatto che gran parte della società greca, e anche una per­cen­tuale di nostri soste­ni­tori, abbiano assor­bito idee con­ser­va­trici; che c’è stato un tipo di pro­gresso il quale aveva come punto di rife­ri­mento la conservazione.

Dob­biamo, inol­tre, sepa­rare il signi­fi­cato che ha un governo della Sini­stra, da un rischio di abuso di potere da parte della Sini­stra. Il potere è una cosa più com­plessa, che non viene eser­ci­tata solo da chi governa. È qual­cosa che ha a che fare anche con le strut­ture sociali, con chi con­trolla i mezzi di pro­du­zione. Noi riven­di­che­remo il governo del paese, così da poter dare avvio – da una posi­zione di forza – a quella grande bat­ta­glia ideo­lo­gica e anche sociale che por­terà a cam­bia­menti e tra­sfor­ma­zioni i quali daranno il potere alla mag­gio­ranza dei cit­ta­dini, sot­traen­dolo alla minoranza.

Ma la gente deve com­pren­dere bene che il fatto che Syriza andrà al governo non signi­fica auto­ma­ti­ca­mente che il potere pas­serà al popolo. Signi­fica, invece, che ini­zierà un pro­cesso di lotta, un lungo cam­mino che por­terà anche a delle con­trap­po­si­zioni - un cam­mino non sem­pre lineare - ma che verrà sicu­ra­mente carat­te­riz­zato dal con­ti­nuo sforzo di Syriza per riu­scire a con­vin­cere delle forze ancora più vaste, per accre­scere la sua dina­mica mag­gio­ri­ta­ria ed il con­senso verso il suo pro­gramma, con l’appoggio di forze sociali sem­pre più ampie.

Tutto que­sto, per riu­scire a com­piere passi in avanti asso­lu­ta­mente neces­sari. Sto descri­vendo un cam­mino che in que­sto periodo, seguono molti par­titi e governi di sini­stra in Ame­rica Latina, anche se mi rendo conto che, in parte, si tratta di una realtà che può risul­tare estra­nea alla quo­ti­dia­nità europea. So bene che la grande domanda che pro­voca un inte­resse cosi forte nei nostri con­fronti, è come tutto ciò potrà diven­tare realtà nel con­te­sto della glo­ba­liz­za­zione e all’interno dell’Unione Euro­pea, visto che la Gre­cia non è un gio­ca­tore solitario.

Si tratta di una realtà che negli ultimi anni pone anche delle forti limi­ta­zioni, dal punto di vista economico…
Asso­lu­ta­mente. Ed è per que­sto, tut­ta­via, che io credo che la con­di­tio sine qua non per­ché Syriza possa con­ti­nuare a seguire un cam­mino frut­tuoso, è che rie­sca a con­qui­stare, da una parte il con­senso della mag­gio­ranza della società greca e dall’altra, a garan­tirsi un appog­gio mag­gio­ri­ta­rio anche in tutta Europa. È chiaro che la prio­rità, in que­sto momento, non è il socia­li­smo, ma è pro­prio la fine dell’austerità (…)
Il fatto che gli elet­tori di Syriza pro­ven­gano sia dall’area comu­ni­sta che da quella del cen­tro pro­gres­si­sta è una risorsa o un problema?
Credo che Syriza sia riu­scito ad arri­vare dal 4% al 27% per­ché abbiamo avuto la capa­cità poli­tica di indi­vi­duare in modo molto veloce i cam­bia­menti poli­tici e sociali che hanno pro­vo­cato la crisi.
Intendo lo sbri­cio­la­mento, la distru­zione dei sog­getti sociali cau­sata dalla poli­tica dei memorandum. Allo stesso tempo, abbiamo offerto una via di uscita poli­tica a tutti i cit­ta­dini che ave­vano l’esigenza di potersi espri­mere per fer­mare que­sto pro­cesso di distru­zione. Ci siamo tro­vati, quindi, in modo quasi “vio­lento”, repen­tino, dal 4% al 27%, e que­sta “vio­lenza” ci mette ancora alla prova, per­ché ci costringe, comun­que, a cam­biare orien­ta­mento. Abbiamo avuto l’istinto di com­pren­dere, espri­mere e rap­pre­sen­tare gli inte­ressi dei gruppi sociali che erano rima­sti senza alcuna rap­pre­sen­tanza poli­tica, senza una casa, ma devo con­fes­sare che non ave­vamo la cul­tura pro­pria di un par­tito che riven­dica il potere.

C’eravamo schie­rati, ritro­vati tutti a Sini­stra - anche io, ovvia­mente - ave­vamo accet­tato e soste­nuto un modo di vita, che aveva a che fare, prin­ci­pal­mente, con la resi­stenza, con la denun­cia ed un approc­cio teo­rico ten­dente ad una società “altra”. Non c’eravamo con­fron­tati, però, con il biso­gno pra­tico di aggiun­gere ogni giorno un pic­colo mat­tone per poter costruire que­sta società di cui par­la­vamo, spe­cie in un momento dif­fi­cile come quello che stiamo vivendo. Se domani Syriza sarà chia­mata a gover­nare, sarà obbli­gata ad affron­tare una situa­zione sociale, una realtà dram­ma­tica: la disoc­cu­pa­zione reale al 30%, una povertà dif­fusa, una base pro­dut­tiva pra­ti­ca­mente distrutta. E si trat­terà – fuor di dub­bio – di una scom­messa enorme, anche que­sta di por­tata storica.

Si potrebbe dire che sarà una scom­messa simile a quella del Bra­sile di Lula, quando venne eletto presidente. Noi, intendo la Sini­stra nel suo com­plesso, dob­biamo cer­care (senza tro­varci nella dif­fi­ci­lis­sima posi­zione e nel ruolo del capro espia­to­rio), di riu­scire a man­te­nere la coe­sione dei gruppi sociali, all’interno di un pro­getto di rico­stru­zione pro­dut­tiva, di demo­cra­tiz­za­zione e di uscita dalla crisi. Ed è un’impresa molto difficile.

Guar­dando tutto ciò anche da fuori, si può guar­dare in que­sto momento a Syriza quasi come ad un caso unico, dal momento che non appar­tiene alla fami­glia della social­de­mo­cra­zia, non si iden­ti­fica nelle posi­zioni dei par­titi tra­di­zio­nal­mente comu­ni­sti e sta cer­cando di trac­ciare una strada nuova, creando un spa­zio nuovo tra que­ste due grandi fami­glie. Si potrebbe par­lare di un espe­ri­mento che cerca di rifor­mare le posi­zioni della Sini­stra, tenendo insieme, appunto, i suoi “punti forti” e il biso­gno di modernità?
Pos­siamo dire che è cosi, ma si tratta di un pro­cesso che è ini­ziato da metà degli anni Novanta, quando in Gre­cia è stata creata la Coa­li­zione della Sini­stra e del Pro­gresso, Syna­spi­smòs. Par­liamo del periodo in cui, in Europa, una serie di par­titi post comu­ni­sti - dopo la caduta del Muro di Ber­lino - cer­ca­vano di apporre il loro tratto ideo­lo­gico e poli­tico, andando oltre i con­fini della social­de­mo­cra­zia e della strada seguita sino ad allora dai par­titi di area comu­ni­sta. È in quel periodo che si è for­mato anche il Par­tito della Sini­stra Euro­pea che com­pren­deva e con­ti­nua a com­pren­dere anche alcuni par­titi comu­ni­sti. Sono dei par­titi, tut­ta­via, che hanno com­piuto una seria auto­cri­tica riguardo al periodo sta­li­ni­sta ed hanno rin­no­vato il loro modo di inter­pre­tare ed ela­bo­rare la realtà. Tra i mem­bri del Par­tito della Sini­stra Euro­pea, ovvia­mente, ci sono anche forze come Syriza, la coa­li­zione in cui si è tra­sfor­mato Synaspismòs.

Ana­liz­zando la cosa, qual­cuno potrebbe dire che que­sto tratto ideo­lo­gico è riu­scito a rag­grup­pare delle forze appar­te­nenti a una Sini­stra inde­bo­lita ed in disfa­ci­mento, che non riu­sciva a supe­rare il 6 o 7%. Ora, però, Syriza sta riven­di­cando la guida della Gre­cia, il governo del paese. Io vedo come una cosa estre­ma­mente posi­tiva il fatto che il nostro sia un par­tito gio­vane ma con alle spalle, tut­ta­via, una lunga tra­di­zione. Le sue radici affon­dano nel secolo pas­sato, ma quello che abbiamo, appunto, è un par­tito giovane. Altret­tanto posi­tivo è il fatto che non appar­tenga al blocco di forze le quali con­ti­nuano a seguire l’ortodossia comu­ni­sta, e che non fac­cia parte della fami­glia socialdemocratica.

Stiamo par­lando, ovvia­mente, di una social­de­mo­cra­zia che oggi è parte inte­grante della crisi in atto e che ha una grande respon­sa­bi­lità per lo stato in cui si è venuta a tro­vare l’Europa. È una social­de­mo­cra­zia “gene­ti­ca­mente modi­fi­cata”, che ha adot­tato quasi tutti i credo neo­li­be­ri­sti. In que­sto senso, quindi, potremmo dire che tanto Syriza quanto gli altri par­titi della nuova Sini­stra dell’Europa non por­tano sulle spalle il peso dei “pec­cati ori­gi­nali” di alcune forze che appar­ten­gono alla nostra tra­di­zione. Con­tem­po­ra­nea­mente, non sono nean­che respon­sa­bili dei grandi delitti per­pe­trati dalla social­de­mo­cra­zia nel periodo che stiamo vivendo.

Siamo in grado, cioè, di offrire una pro­spet­tiva più ampia, di cata­liz­zare ed unire forze ancora mag­giori, rispetto a quelle rag­grup­pate, tra­di­zio­nal­mente, dalle forze del blocco socialista.

A chi è solito sot­to­li­neare che siamo un par­tito filoeu­ro­peo - il quale com­prende la situa­zione che si è venuta a creare con la realtà data della glo­ba­liz­za­zione - ma non appar­te­niamo a nes­suna grande fami­glia poli­tica dell’Europa, vor­rei ricor­dare que­sto: nel 1981, anche il Par­tito Socia­li­sta del Pasok, di Andreas Papan­dreou, si tro­vava esat­ta­mente nella nostra stessa situa­zione: non appar­te­neva, in realtà, né all’Internazionale Socia­li­sta, né ai par­titi social­de­mo­cra­tici e nean­che alla sini­stra socialista.

il manifesto 14 gennaio 2014 (m.p.r.)

VANDANA SHIVA: «GLI EUROPEI ANTI OGM
ADESSO SONO PIU' LIBERI »
di Luca Fazio

Il bic­chiere è mezzo pieno, ma non per que­sto biso­gna ber­selo tutto d’un fiato. Con­si­de­rando la posta in gioco, le asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste non inten­dono accon­ten­tarsi della nor­ma­tiva appro­vata dal Par­la­mento euro­peo che lascia ai paesi mem­bri la facoltà di deci­dere se col­ti­vare o meno Ogm. La palla adesso passa al governo Renzi, anche per­ché a feb­braio sca­drà il bando prov­vi­so­rio che vieta gli Ogm in Italia.

Per l’attivista indiana Van­dana Shiva le norme appro­vate ieri sono anche un suc­cesso dei movi­menti: «Gli euro­pei sono da oggi un po’ più liberi e il resto del mondo ha un modello da seguire». Tut­ta­via c’è qual­cosa che non va, in par­ti­co­lare “alcuni regali” fatti alle «Gli stati hanno il diritto di non per­met­tere la col­ti­va­zione di Ogm per que­stioni socio-economiche, men­tre non pos­sono ricor­rere a moti­va­zioni essen­ziali come quelle ambien­tali, che riman­gono di com­pe­tenza euro­pea. Il timore è che il paese che dice no al bio­tech diventi giu­ri­di­ca­mente fra­gile e possa essere aggre­dito dalle mul­ti­na­zio­nali». Anche per­ché pre­sto in Europa arri­ve­ranno nuovi bre­vetti da valu­tare. Van­dana Shiva rivolge poi un appello all’Italia: «Approvi leggi per raf­for­zare le basi giu­ri­di­che della scelta anti-Ogm. Fac­cia­molo subito».

Sono le mede­sime pre­oc­cu­pa­zioni di Green­peace. «E’ una norma lacu­nosa - spiega Fede­rica Fer­ra­rio - che avrà biso­gno di mesi prima di essere rece­pita in Ita­lia: dob­biamo invece difen­derci subito dal mais della Mon­santo”. Fer­ra­rio si sof­ferma sulla lacuna più insi­diosa: «I governi non pos­sono basare i divieti su spe­ci­fici impatti ambien­tali o evi­denze di pos­si­bili danni da parte delle col­ti­va­zioni Ogm a livello nazio­nale, anche nel caso in cui que­sti rischi non siano stati presi in con­si­de­ra­zione da parte della valu­ta­zione dell’Efsa» (agen­zia euro­pea, ndr).

Anche Legam­biente, pur espri­mendo sod­di­sfa­zione, chiede al governo una prova di “fedeltà” alla nuova «Adesso per sal­va­guar­dare l’agricoltura ita­liana va subito pro­ro­gato il decreto di divieto di col­ti­va­zione degli Ogm attual­mente in vigore nel nostro paese», dice il pre­si­dente Vit­to­rio Cogliati Dezza. Vin­cenzo Vizioli, pre­si­dente di Aiab, punta il dito con­tro la “vaghezza” di alcune norme ed è pre­oc­cu­pato anche per i pos­si­bili gio­chi si sponda che si potranno aprire tra la nuova nor­ma­tiva sugli Ogm e il Ttip (trat­tato di libero scam­bio tra Usa e Ue), poi­ché non gli sem­bra cre­di­bile che gli Usa rinun­cino ad imporre le sementi modi­fi­cate. Ecco per­ché chiede «l’approvazione di una norma che estenda l’obbligo di eti­chet­ta­tura anche ai pro­dotti deri­vati da ani­mali ali­men­tati con Ogm».

Chi invece non esprime alcuna riserva è Roberto Mon­calvo, pre­si­dente di Col­di­retti: «Siamo di fronte ad un impor­tante e atteso rico­no­sci­mento della sovra­nità degli stati di fronte al pres­sing e alle ripe­tute pro­vo­ca­zioni delle mul­ti­na­zio­nali del bio­tech. L’Europa da un lato, le Alpi e il mare dall’altro, ren­de­ranno l’Italia final­mente sicura da ogni con­ta­mi­na­zione Ogm a tutela della straor­di­na­ria bio­di­ver­sità e del patri­mo­nio di distin­ti­vità del made in Italy”.

NO ALLE COLTIVAZIONI OGM. ORA SI PUO'
di Luca Fazio

Dopo quat­tro anni di trat­ta­tive ser­rate poco tra­spa­renti e molto com­pli­cate, ieri a Stra­sburgo il Par­la­mento euro­peo ha appro­vato la nuova diret­tiva Ue che per­met­terà agli stati mem­bri di vie­tare sul pro­prio ter­ri­to­rio la col­ti­va­zione di orga­ni­smi gene­ti­ca­mente modi­fi­cati (Ogm); pos­si­bi­lità che viene garan­tita anche per que­gli Ogm che sono già stati auto­riz­zati a livello comunitario.

Si tratta dun­que di una norma che raf­forza quella sovra­nità nazio­nale che le mul­ti­na­zio­nali del bio­tech hanno cer­cato di met­tere in discus­sione in nome di una libertà di com­mer­cio che avrebbe potuto (e potrebbe) con­di­zio­nare il sistema agroa­li­men­tare del pia­neta. La par­tita non è ancora finita e con­si­de­rando la posta in gioco a pen­sar male non si fa pec­cato. Si spiega così la pru­denza con cui alcune asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste hanno accolto la (sostan­zial­mente) buona noti­zia che in fondo era attesa da anni. Il timore è che alcune parti piut­to­sto deboli e con­fuse della diret­tiva sem­brano scritte dagli azzec­ca­gar­bu­gli per lasciare spazi di agi­bi­lità alle aziende che com­mer­ciano sementi modificate.

Il mini­stro delle Poli­ti­che agri­cole Mau­ri­zio Mar­tina non nutre dubbi in pro­po­sito e passa all’incasso. «In mate­ria Ogm - spiega - il punto di novità euro­peo è molto impor­tante e si iscrive nei suc­cessi della pre­si­denza ita­liana. Non era scon­tato che finisse così». Il mini­stro ha anche con­fer­mato la voca­zione Ogm-free del governo. Altro fatto tutt’altro che scon­tato, anche se nes­sun governo euro­peo (Spa­gna e Por­to­gallo a parte) oggi potrebbe per­met­tersi di sfi­dare l’opinione pub­blica lasciando campo libero agli Ogm: 8 ita­liani su 10 da un decen­nio dicono di non volerne sapere. «Con­ti­nuo a rima­nere dell’idea che l’Italia - riba­di­sce il mini­stro - fac­cia bene a lavo­rare oltre il tema Ogm sì Ogm no, con­fer­mando la non col­ti­va­zione per­ché il modello agroa­li­men­tare ita­liano ha biso­gno di posi­zio­narsi sem­pre di più su fat­tori distin­tivi che stanno tutti den­tro il lavoro sulle qua­lità agroa­li­men­tari ita­liane. Per que­sto una col­ti­va­zione Ogm mi sem­bre­rebbe incoe­rente con que­sto lavoro che dob­biamo fare”.

La nuova diret­tiva è stata appro­vata con 480 voti favo­re­voli, 159 con­trari e 58 aste­nuti (tra due anni si cer­cherà di rag­giun­gere un nuovo accordo una­nime). Le nuove norme entre­ranno in vigore in aprile. Si può dire che il brac­cio di ferro tra paesi pro e con­tro gli Ogm alla fine si sia risolto in favore di que­sti ultimi, anche se non va tra­scu­rato il fatto che la libertà di dire “no” agli Ogm viene com­pen­sata dall’introduzione di pro­ce­dure più snelle per la loro auto­riz­za­zione a livello comu­ni­ta­rio. Signi­fica che uno stato d’ora in poi potrà più facil­mente deci­dere anche di “aprirsi” agli Ogm, creando non pochi pro­blemi ai paesi con­fi­nanti (per­ché mai uno stato dovrebbe con­ver­tirsi agli Ogm, per fare un esem­pio, lo spiega il caso dell’Ucraina che ha appena fatto gli onori di casa a Mon­santo, men­tre prima della “svolta” filo occi­den­tale quei semi erano vietati).

Le norme appro­vate ieri dicono che gli stati mem­bri con­trari agli Ogm pos­sono espri­mere il pro­prio diniego durante la fase di appro­va­zione comu­ni­ta­ria, inol­tre potranno vie­tare la col­ti­va­zione con un divieto valido entro dieci anni dall’approvazione comu­ni­ta­ria (il testo pre­ce­dente ne indi­cava due). In più, potranno vie­tare la col­ti­va­zione non solo di un sin­golo tipo di Ogm ma anche di un gruppo di Ogm che pre­sen­tano carat­te­ri­sti­che simili. Un altro miglio­ra­mento deci­sivo, rispetto al testo pre­ce­dente, can­cella la norma secondo cui uno stato per vie­tare gli Ogm avrebbe dovuto con­fron­tarsi diret­ta­mente con la società bio­tech: sarà invece la Com­mis­sione euro­pea a fare da cusci­netto per la trattativa.

L’aspetto più sci­vo­loso della nor­ma­tiva, quello che lascia per­plesse alcune asso­cia­zioni, si rife­ri­sce invece alla moti­va­zioni con cui uno stato sarà chia­mato a spie­gare il divieto di col­ti­va­zione. I divieti potranno essere moti­vati per ragioni socio-economiche, di poli­ti­che agri­cole, di inte­resse pub­blico, di pia­ni­fi­ca­zione urbana e - natu­ral­mente - anche per “ragioni di poli­tica ambien­tale”. Tut­ta­via in quest’ultimo caso la valu­ta­zioni non potranno for­nire valu­ta­zioni oppo­ste rispetto a quelle for­nite dall’Autorità euro­pea di sicu­rezza ali­men­tare (Efsa), soli­ta­mente piut­to­sto tenera nel valu­tare l’impatto degli Ogm.

Il pro­blema rela­tivo al poten­ziale inqui­na­mento dei campi Ogm nei pressi delle fron­tiere è stato risolto impo­nendo alcuni vin­coli: misure obbli­ga­to­rie di “coe­si­stenza” (la distanza di sicu­rezza tra un campo e l’altro, poi­ché i pol­lini volano per chi­lo­me­tri) e la costru­zione di bar­riere fisi­che, a meno che i paesi non siano sepa­rati da mon­ta­gne o mare. Stando così le cose - e forse sot­to­sti­mando la capa­cità di per­sua­sione delle mul­ti­na­zio­nali del bio­tech - l’Europa può dirsi quasi salva dall’invasione. Oggi, infatti, solo la Spa­gna col­tiva una super­fi­cie con­si­de­re­vole di Ogm (116 mila ettari di mais Mon­santo 810, l’unico fino ad ora auto­riz­zato dalla Ue). Men­tre altri paesi col­ti­vano pic­coli appez­za­menti (Por­to­gallo 9 mila ettari, Roma­nia 217 e Slo­vac­chia 189).

La Repubblica, ed. Firenze, 14 gennaio 2015 (m.p.g.)

Quanti secoli ci ha messo il cristianesimo a ripudiare la convinzione che si possa uccidere in nome di Dio? Quando aveva l'età che ha ora l'Islam, in Europa scorrevano fiumi di sangue. E sembra che ci siamo dimenticati che, in nome del cristianesimo, solo vent'anni fa furono uccise decine di migliaia di musulmani bosniaci, a poche centinaia di chilometri da Ancona.Se vogliamo accelerare un simile ripudio nell'Islam italiano, se vogliamo che siano più numerose e più forti le voci di chi dice «not in my name» (come ha subito gridato Igiaba Scego, scrittrice musulmana di origine eritrea, che vive a Roma), abbiamo un'unica strada: accelerare l'integrazione. Ma quella vera.

Per far questo occorre radicalizzare la laicità, e dunque la terzietà religiosa, dello Stato: e contemporaneamente consentire il più pieno esercizio della vita religiosa delle comunità islamiche nel nostro Paese. Esattamente il contrario di ciò che propone la Destra (Lega e Forza Italia): che difende i presepi e i crocifissi nelle scuole (così che i bambini musulmani che ci studiano mai potranno sentirsi pienamente cittadini italiani) e al tempo stesso si oppone vigorosamente alla costruzione di nuove moschee. Ma anche la Sinistra, e l'intera classe dirigente italiana, non sembrano consapevoli che questa è una delle partite cruciali per il futuro del Paese.

Il caso di Firenze è emblematico. Qui la comunità islamica ha presentato un progetto per una grande moschea nel settembre del 2010. L’arcivescovo (cui certo non spettava esprimere un giudizio) sostenne che sarebbe stato meglio non pensare ad un unico tempio, ma a tanti piccoli luoghi di preghiera, possibilmente senza minareto. E il sindaco Matteo Renzi mise subito le mani avanti, dichiarando: «al momento non c’è un progetto, non c’è un’ipotesi di lavoro». Per poi chiudere ogni prospettiva: «Non vedo spazi nel centro storico di Firenze per farla, in questo momento». Oggi, cinque anni dopo questo esorcismo, tutto è ancora fermo: e l'assenza della moschea è assai eloquente sulle vere intenzioni di chi parla di integrazione.

Ebbene, è da questa miopia che dobbiamo liberarci: quando ci sembrerà finalmente venuto il momento di costruire l'Italia del futuro? Soffocati dagli eterni tatticismi della politica e prigionieri in un discorso pubblico inchiodato alla cronaca di un presente mortificante, sembriamo non sapere che presto anche in Italia si porranno le questioni che oggi agitano la Francia.

La sera del massacro di Charlie Hebdo, davanti a una televisione inevitabilmente accesa, mio figlio (che fa la prima elementare in una scuola pubblica fiorentina) mi ha detto che lui non ha paura dei suoi (tanti) compagni di classe musulmani. Mi sono chiesto quanto ci metteremo a rovinare questa naturale armonia: quanto ci vorrà perché cambi idea?

Tutto si deciderà nelle nostre città, così strettamente legate alla storia delle libertà (appunto) civili italiane. Come dimostra ciò che è successo nelle banlieuses francesi, le politiche urbanistiche hanno un peso straordinario nel futuro sociale di un Paese. Per secoli le città italiane hanno creato cittadini: italiani non per stirpe, ma per cultura. Siamo una nazione non per via di sangue, ma – letteralmente – iure soli: per la forza di un territorio che ci ha fatto comunità. Lo riconosce l'articolo 9 della Costituzione, uno dei pochissimi che spenda appunto la parola 'nazione': associandola al patrimonio storico e artistico e al paesaggio. Cioè allo spazio pubblico: luogo terzo in cui non siamo divisi né per fede né per censo, ma siamo cittadini ed eguali.

Oggi questo patrimonio può tornare a giocare nella direzione del futuro. Quante chiese abbandonate potrebbero diventare moschee (invece che alberghi di lusso)? Quanti centri storici possono rinascere accogliendo anche un'altra cultura, invece che avviarsi ad un'imbalsamazione turistica? Una moschea nel centro di Firenze sarebbe un segno potente, capace di indicare la direzione del cammino che dobbiamo intraprendere. Un modo per dire che ora, sì, sappiamo come costruire un'integrazione vera. Che passa attraverso città che permettono l'incontro quotidiano, la mescolanza, la conoscenza. E non attraverso quartieri ghetto: periferie chiuse e separate, luoghi fatti apposta per fomentare il risentimento verso quella separazione e nutrire un'identità basata sull'alterità radicale.

È una partita che ci mette di fronte alle nostre antiche carenze: non siamo mai riusciti a formare veri cittadini, a costruire uno Stato impermeabile al pervasivo secolarismo della Chiesa, a dare un senso attuale e progressivo al patrimonio storico e artistico delle nostre città. Ebbene, è venuto il momento di farlo.

Corriere della Sera, con chi invoca la guerra contro l'Islam come risposta ai terroristi . Il manifesto, 13 gennaio 2015

Come l’11 set­tem­bre 2001 new­yor­chese, così il 7 gen­naio 2015 pari­gino ha susci­tato, accanto e quasi in con­tem­po­ra­nea al rac­ca­pric­cio e all’orrore, le per­ples­sità, i dubbi. E gli inter­ro­ga­tivi sono così affio­rati, col tra­scor­rere delle ore. Ma il fatto è acca­duto, e l’esecrazione è d’obbligo, e giusta.

E, come si poteva pre­ve­dere, la rispo­sta c’è stata, anche se ha non solo com­pli­cato le cose, ma non è escluso che abbia aggra­vato il bilan­cio delle vit­time; men­tre non v’è dub­bio che ha acuito la paura e l’odio, a dispetto dei car­telli innal­zati nella prima mani­fe­sta­zione spon­ta­nea già della sera del 7 genaio scorso, della quale sono stato testi­mone diretto, a Place de la Répu­bli­que, che pro­po­ne­vano matite piut­to­sto che mitra, amore invece di odio, tol­le­ranza invece di discri­mi­na­zione, acco­glienza in luogo di rifiuto.

Ma que­ste erano le belle e se si vuole inge­nue richie­ste dal basso: ancora una volta le classi diri­genti – poli­tici e intel­let­tuali – si sono rive­late al di sotto del sen­ti­mento delle popo­la­zioni. E in Ita­lia, mi pare, in modo più pesante che in Fran­cia, che pure è la prima vit­tima degli eventi di que­sti giorni da cane.

Era ovvio che la destra si sarebbe sca­te­nata, e in un paese dove il lepe­ni­smo è diven­tato la prima forza poli­tica, era il minimo sen­tire l’appello della lea­der alla rei­sti­tu­zione della pena capi­tale, ma con un certo bon ton la signora si è limi­tata a pro­porre un refe­ren­dum con­sul­tivo. Men­tre il suo amico e sodale ita­liano, il Sal­vini, che ormai ha la lea­der­ship della destra nostrana, ha rag­giunto nuovi ver­tici par­lando del nemico in mezzo a noi, che abita sul nostro stesso pia­ne­rot­tolo ed è «pronto a sgoz­zarci». La pre­messa teo­lo­gica è che non vi sono distin­zioni né dif­fe­ren­zia­zioni pos­si­bili: l’Islam «non è una reli­gione come le altre». E ad essa si deve rispon­dere, dun­que, con mezzi ade­guati: la forza. Magari bru­ciando il Corano?

Non si pensi che l’estremismo becero di que­sto rozzo bestione (uso la nobile espres­sione di Giam­bat­ti­sta Vico, non si offenda il Mat­teo «lum­bard»), sia mero fol­clore leghi­stico. Si sfo­gli la stampa nazio­nale: lascio stare fogli come Il Gior­nale, Libero, e anche gior­nali locali come Il Tempo e la galas­sia del Quo­ti­diano Nazio­nale, per­ché vi si trova ciò che ci si attende.

Mi sof­fermo invece niente meno sul Cor­riere della Sera, il «più auto­re­vole» gior­nale italiano.

Da tempo que­sta impo­nente mac­china volta alla costru­zione del senso comune sta indi­riz­zando la pub­blica opi­nione verso l’idea di una ine­vi­ta­bi­lità ma anche di una neces­sità della guerra «con­tro il Ter­rore», con i suoi Pane­bianco e Galli della Log­gia, ed altri minori, fino ad Anto­nio Polito, il cui edi­to­riale del 10 gen­naio a dir poco fa cascare le braccia.

Se la prende con il Par­la­mento che era a ran­ghi ridotti quando il mini­stro Alfano pro­fe­riva le solite vuote parole. E Polito accusa: «È lo stesso Par­la­mento che, rinun­ciando agli F35, sarebbe pronto a disfarsi dell’arma aero­na­vale nel Paese che è geo­gra­fi­ca­mente una por­tae­rei nel Medi­ter­ra­neo» . Ma di che anno è que­sto gior­nale, si chie­de­rebbe un let­tore distratto? 1935? Ma l’editorialista con­ti­nua, e il ber­sa­glio diventa — come non aspet­tar­selo? — «un’intellettualità dif­fusa», «colta», deve ammet­tere, ma «faziosa», nella quale «pul­lu­lano»… chi? «Anti­a­me­ri­cani» e «filo­russi». Di nuovo, l’effetto di spiaz­za­mento: siamo negli anni Cinquanta?

Ma arriva al top, quando lamenta che non abbiamo da noi un Houel­le­becq, sin­cero nemico dell’Islam, e nes­suno abbia perso il posto della Oriana Fal­laci, che sulla mede­sima prima pagina del quo­ti­diano mila­nese, viene evo­cata con la ri-pubblicazione di una inter­vi­sta del 1970. Quali colpe, dun­que, hanno gli intel­let­tuali «faziosi» (ossia di sini­stra), secondo Polito? Ecco: «sono molto più a loro agio con l’appeasement che con la guerra, se la cavano meglio con la reto­rica del dia­logo che con quella dello scon­tro di civiltà. Sanno apprez­zare un ‘ritiro’ e depre­care una battaglia».

Non c’è che dire: con il richiamo all’inevitabile Hun­ting­ton, il qua­dro è com­pleto. Siamo alla chia­mata alle armi. Una vec­chia sto­ria per il gior­nale di Via Sol­fe­rino. Nel 1911 con la Libia, nel 1915 con la Grande guerra, nel 1935 con l’Etiopia, nel 1936 con la Spa­gna, nel 1940 con il Secondo con­flitto mon­diale, è sem­pre il dan­nun­ziano mag­gio radioso. Una bella cro­ciata, come ai vec­chi tempi, insomma: la croce che diventa spada. Ma pos­si­bile che Afgha­ni­stan, Iraq, Libia, Siria, e via enu­me­rando, non inse­gnino nulla

La consueta analisi fuori dal coro del filosofo sloveno che ci invita ad uno sforzo di riflessione, oltre l'emozione e la molta ipocrisia circolante. New Statesman, 10 gennaio 2015 (m.p.g.)
Superando le banalizzazioni relativistiche ("anche noi Occidentali abbiamo le nostre colpe") e il senso di colpa di una "falsa" sinistra che predica la tolleranza a prescindere, come pure, all'opposto, la demonizzazione dei terroristi, Zizek smonta anche la contrapposizione filosofico-psicologica fra un Occidente esausto e ormai incapace di vivere profondamente i propri valori e i fondamentalisti, come uomini di intense passioni e convinzioni.
Al contrario, secondo Zizek, la furiosa reazione del fondamentalismo islamico si spiega solo come derivata dall'accettazione ormai ineluttabile dello stile di vita e dei valori occidentali: sintomo di debolezza estremo, quindi, ma non solo. Per il filosofo sloveno la contrapposizione fra liberalismo e fondamentalismo è una falsa contrapposizione che si spiega - risalendo a Benjamin e Horkheimer - con le contraddizioni interne al liberalismo stesso.
Come negli anni '30, il fascismo islamico è quindi il risultato di una sconfitta rivoluzionaria e si nutre delle contraddizioni del capitalismo. Solo con una profonda riflessione sulla società capitalistica, potremo sconfiggere l'islamofascismo dei terroristi. Anche in questo frangente storico, quindi, per eradicare il terrore, occorre una nuova sinistra.

SLAVOJŽIŽEK ON THE CHARLIE HEBDO MASSACRE: ARE THE WORST REALLY FULL OF PASSIONATE INTENSITY?

Now, when we are all in a state of shock after the killing spree in the Charlie Hebdo offices, it is the right moment to gather the courage to think. We should, of course, unambiguously condemn the killings as an attack on the very substance our freedoms, and condemn them without any hidden caveats (in the style of "Charlie Hebdo was nonetheless provoking and humiliating the Muslims too much"). But such pathos of universal solidarity is not enough – we should think further.

Such thinking has nothing whatsoever to do with the cheap relativisation of the crime (the mantra of "who are we in the West, perpetrators of terrible massacres in the Third World, to condemn such acts"). It has even less to do with the pathological fear of many Western liberal Leftists to be guilty of Islamophobia. For these false Leftists, any critique of Islam is denounced as an expression of Western Islamophobia; Salman Rushdie was denounced for unnecessarily provoking Muslims and thus (partially, at least) responsible for the fatwa condemning him to death, etc. The result of such stance is what one can expect in such cases: the more the Western liberal Leftists probe into their guilt, the more they are accused by Muslim fundamentalists of being hypocrites who try to conceal their hatred of Islam. This constellation perfectly reproduces the paradox of the superego: the more you obey what the Other demands of you, the guiltier you are. It is as if the more you tolerate Islam, the stronger its pressure on you will be . . .

This is why I also find insufficient calls for moderation along the lines of Simon Jenkins's claim (in The Guardian on January 7) that our task is “not to overreact, not to over-publicise the aftermath. It is to treat each event as a passing accident of horror” – the attack on Charlie Hebdo was not a mere “passing accident of horror”. it followed a precise religious and political agenda and was as such clearly part of a much larger pattern. Of course we should not overreact, if by this is meant succumbing to blind Islamophobia – but we should ruthlessly analyse this pattern.

What is much more needed than the demonisation of the terrorists into heroic suicidal fanatics is a debunking of this demonic myth. Long ago Friedrich Nietzsche perceived how Western civilisation was moving in the direction of the Last Man, an apathetic creature with no great passion or commitment. Unable to dream, tired of life, he takes no risks, seeking only comfort and security, an expression of tolerance with one another: “A little poison now and then: that makes for pleasant dreams. And much poison at the end, for a pleasant death. They have their little pleasures for the day, and their little pleasures for the night, but they have a regard for health. ‘We have discovered happiness,’ - say the Last Men, and they blink.”

It effectively may appear that the split between the permissive First World and the fundamentalist reaction to it runs more and more along the lines of the opposition between leading a long satisfying life full of material and cultural wealth, and dedicating one's life to some transcendent Cause. Is this antagonism not the one between what Nietzsche called "passive" and "active" nihilism? We in the West are the Nietzschean Last Men, immersed in stupid daily pleasures, while the Muslim radicals are ready to risk everything, engaged in the struggle up to their self-destruction. William Butler Yeats’ “Second Coming” seems perfectly to render our present predicament: “The best lack all conviction, while the worst are full of passionate intensity.” This is an excellent description of the current split between anemic liberals and impassioned fundamentalists. “The best” are no longer able fully to engage, while “the worst” engage in racist, religious, sexist fanaticism.

However, do the terrorist fundamentalists really fit this description? What they obviously lack is a feature that is easy to discern in all authentic fundamentalists, from Tibetan Buddhists to the Amish in the US: the absence of resentment and envy, the deep indifference towards the non-believers’ way of life. If today’s so-called fundamentalists really believe they have found their way to Truth, why should they feel threatened by non-believers, why should they envy them? When a Buddhist encounters a Western hedonist, he hardly condemns. He just benevolently notes that the hedonist’s search for happiness is self-defeating. In contrast to true fundamentalists, the terrorist pseudo-fundamentalists are deeply bothered, intrigued, fascinated, by the sinful life of the non-believers. One can feel that, in fighting the sinful other, they are fighting their own temptation.

It is here that Yeats’ diagnosis falls short of the present predicament: the passionate intensity of the terrorists bears witness to a lack of true conviction. How fragile the belief of a Muslim must be if he feels threatened by a stupid caricature in a weekly satirical newspaper? The fundamentalist Islamic terror is not grounded in the terrorists’ conviction of their superiority and in their desire to safeguard their cultural-religious identity from the onslaught of global consumerist civilization. The problem with fundamentalists is not that we consider them inferior to us, but, rather, that they themselves secretly consider themselves inferior. This is why our condescending politically correct assurances that we feel no superiority towards them only makes them more furious and feeds their resentment. The problem is not cultural difference (their effort to preserve their identity), but the opposite fact that the fundamentalists are already like us, that, secretly, they have already internalized our standards and measure themselves by them. Paradoxically, what the fundamentalists really lack is precisely a dose of that true ‘racist’ conviction of their own superiority.

The recent vicissitudes of Muslim fundamentalism confirm Walter Benjamin's old insight that “every rise of Fascism bears witness to a failed revolution”: the rise of Fascism is the Left’s failure, but simultaneously a proof that there was a revolutionary potential, dissatisfaction, which the Left was not able to mobilize. And does the same not hold for today’s so-called “Islamo-Fascism”? Is the rise of radical Islamism not exactly correlative to the disappearance of the secular Left in Muslim countries? When, back in the Spring of 2009, Taliban took over the Swat valley in Pakistan, New York Times reported that they engineered "a class revolt that exploits profound fissures between a small group of wealthy landlords and their landless tenants". If, however, by “taking advantage” of the farmers’ plight, The Taliban are “raising alarm about the risks to Pakistan, which remains largely feudal,” what prevents liberal democrats in Pakistan as well as the US to similarly “take advantage” of this plight and try to help the landless farmers? The sad implication of this fact is that the feudal forces in Pakistan are the “natural ally” of the liberal democracy…

So what about the core values of liberalism: freedom, equality, etc.? The paradox is that liberalism itself is not strong enough to save them against the fundamentalist onslaught. Fundamentalism is a reaction – a false, mystifying, reaction, of course - against a real flaw of liberalism, and this is why it is again and again generated by liberalism. Left to itself, liberalism will slowly undermine itself – the only thing that can save its core values is a renewed Left. In order for this key legacy to survive, liberalism needs the brotherly help of the radical Left. THIS is the only way to defeat fundamentalism, to sweep the ground under its feet.

To think in response to the Paris killings means to drop the smug self-satisfaction of a permissive liberal and to accept that the conflict between liberal permissiveness and fundamentalism is ultimately a false conflict – a vicious cycle of two poles generating and presupposing each other. What Max Horkheimer had said about Fascism and capitalism already back in 1930s - those who do not want to talk critically about capitalism should also keep quiet about Fascism - should also be applied to today’s fundamentalism: those who do not want to talk critically about liberal democracy should also keep quiet about religious fundamentalism.


Libération (9 gennaio) e ripreso da il manifesto (13 gennaio 2015), riflette su tre parole chiave: comunità, imprudenza, jihad
Un vec­chio amico giap­po­nese, Haru­hisa Kato, già pro­fes­sore all’Università Tôdai, mi ha scritto: «Ho visto le imma­gini della Fran­cia intera in lutto. Ne sono rima­sto scon­volto. A suo tempo ho molto amato gli album di Wolin­ski. Sono abbo­nato da sem­pre al Canard Enchaîné. Ogni set­ti­mana ho apprez­zato le vignette del Beauf di Cabu. Ho sem­pre a fianco del mio tavolo di lavoro il suo album “Cabu et Paris”, che com­prende schizzi ammi­re­voli di ragazze giap­po­nesi, turi­ste rag­gianti sugli Champs-Elysées». Ma subito dopo, una riserva: «L’editoriale di Le Monde del primo gen­naio comin­ciava così: “Un mondo migliore? Que­sto sup­pone, in primo luogo, l’intensificazione della lotta con­tro lo ‘Stato isla­mico’ e la sua cieca bar­ba­rie”. Sono rima­sto molto col­pito dall’affermazione, abba­stanza con­trad­dit­to­ria mi sem­bra, che per avere la pace biso­gna pas­sare per la guerra!».

Altri mi scri­vono da vari luo­ghi: Tur­chia, Argen­tina, Stati Uniti…Tutti espri­mono com­pas­sione e soli­da­rietà, ma anche inquie­tu­dine: per la nostra sicu­rezza, demo­cra­zia, civiltà, direi quasi per la nostra anima. È a loro che voglio rispon­dere, cogliendo l’occasione dell’invito di Libé­ra­tion.
È giu­sto che gli intel­let­tuali si espri­mano, senza pri­vi­legi, soprat­tutto senza pre­ten­dere una par­ti­co­lare luci­dità, ma senza reti­cenze e senza cal­coli. È un dovere fun­zio­nale, affin­ché la parola cir­coli nell’ora del pericolo. Oggi, nell’urgenza, non voglio enun­ciare che tre o quat­tro parole.

Comu­nità

Sì, noi abbiamo biso­gno di comu­nità: per il lutto, per la soli­da­rietà, per la pro­te­zione, per la rifles­sione. Que­sta comu­nità non è esclu­siva, in par­ti­co­lare non lo è rispetto a coloro fra i cit­ta­dini fran­cesi o immi­grati che una pro­pa­ganda sem­pre più viru­lenta, che ricorda i più sini­stri epi­sodi della nostra sto­ria, assi­mila all’invasione e al ter­ro­ri­smo per farne i capri espia­tori delle nostre paure del nostro impo­ve­ri­mento o dei nostri fantasmi.

Ma non lo è nep­pure rispetto a coloro che cre­dono alle tesi del Fronte nazio­nale o che si lasciano sedurre dalla prosa di Houel­le­becq. Essa deve dun­que spie­garsi con se stessa. Non si arre­sta alle fron­tiere, dal momento che è chiaro che la con­di­vi­sione dei sen­ti­menti, delle respon­sa­bi­lità e delle ini­zia­tive evo­cate dalla “guerra civile mon­diale” in corso deve farsi in comune, su scala inter­na­zio­nale, e, se pos­si­bile (Edgar Morin ha per­fet­ta­mente ragione su que­sto punto), in un qua­dro cosmopolitico.

Per que­sto motivo la comu­nità non si con­fonde con l’unione nazio­nale. Que­sto con­cetto non è in pra­tica ser­vito ad altro che a scopi incon­fes­sa­bili: imporre silen­zio alle domande sca­brose e far cre­dere all’inevitabilità delle misure d’eccezione. La stessa Resi­stenza (per buone ragioni) non ha invo­cato que­sto ter­mine. E abbiamo già visto come, pro­cla­mando il lutto nazio­nale in base alle sue pre­ro­ga­tive, il Pre­si­dente della Repub­blica ne abbia appro­fit­tato per giu­sti­fi­care di sop­piatto i nostri inter­venti mili­tari, che pro­ba­bil­mente hanno con­tri­buito a far sci­vo­lare il mondo sulla china attuale. Dopo di che ven­gono tutte le discussioni-trappola sui par­titi che sono “nazio­nali” o meno, anche se ne por­tano il nome. Si vuol far con­cor­renza alla signora Le Pen?

Impru­denza

I vignet­ti­sti di Char­lie Hebdo sono stati impru­denti? Sì, ma la parola ha due sensi, più o meno age­vol­mente distri­ca­bili (e qui c’entrano certo valu­ta­zioni sog­get­tive). Sprezzo del peri­colo, gusto del rischio, eroi­smo se vogliamo. Ma anche indif­fe­renza per le con­se­guenze even­tual­mente disa­strose di una pro­vo­ca­zione: magari il sen­ti­mento di umi­lia­zione di milioni di uomini già stig­ma­tiz­zati, abban­do­nati alle mani­po­la­zioni di fana­tici organizzati.

Credo che Charb e i suoi col­le­ghi siano stati impru­denti nei due sensi del ter­mine. Oggi che que­sta impru­denza è costata loro la vita, rive­lando allo stesso tempo il peri­colo mor­tale che corre la libertà di espres­sione, non voglio pen­sare che al primo aspetto. Ma domani e dopo­do­mani (que­sta sto­ria non si esau­rirà in un giorno) pre­fe­ri­rei che si riflet­tesse sul modo più intel­li­gente di gestire il secondo e la sua con­trad­di­zione con il primo. E non si trat­terà neces­sa­ria­mente di viltà.

Jihad

Di pro­po­sito pro­nun­cio solo alla fine la parola che fa paura, per­ché è tempo di esa­mi­narne tutte le impli­ca­zioni. Ho appena uno spunto di idea in mate­ria, ma ci tengo: la nostra sorte sta nelle mani dei Musul­mani, per impre­cisa che sia tale denominazione.

Per­ché? Per­ché è giu­sto, certo, met­tere in guar­dia con­tro gli amal­gami e con­tra­stare l’islamofobia che pre­tende di ritro­vare l’appello all’omicidio nel Corano o nella tra­di­zione orale. Ma que­sto non basterà. Allo sfrut­ta­mento dell’Islam ope­rato dalle reti jiha­di­ste –di cui, non dimen­ti­chia­molo, i Musul­mani ovun­que nel mondo e anche in Europa sono le vit­time prin­ci­pali– non può rispon­dere se non una cri­tica teo­lo­gica e, da ultimo, una riforma del “senso comune” della reli­gione, che fac­cia dello jiha­di­smo una con­tro­ve­rità agli occhi dei cre­denti. Altri­menti saremo tutti presi nella morsa letale del ter­ro­ri­smo, capace di atti­rare a sé tutti gli umi­liati e offesi della nostra società in crisi, e delle poli­ti­che sicu­ri­ta­rie, liber­ti­cide messe in opera da Stati sem­pre più militarizzati.

C’è dun­que una respon­sa­bi­lità dei Musul­mani, o piut­to­sto un com­pito che tocca loro. Ma è anche il nostro, non solo per­ché il ‘noi’ di cui parlo, qui e ora, include per defi­ni­zione molti Musul­mani, ma per­ché le pos­si­bi­lità, già esili, di tale cri­tica e di tale riforma diver­reb­bero fran­ca­mente nulle se noi ci con­ten­tas­simo ancora a lungo di discorsi di iso­la­mento di cui essi, con la loro reli­gione e la loro cul­tura, sono gene­ral­mente il bersaglio.

La Repubblica, 13 gennaio 2015

C’è chi ha contato i turchi di Imperia e chi ha fotografato i cinesi di La Spezia, chi ha ascoltato i marocchini ad Albenga e chi ha avvistato gli alfaniani a Genova, e vai a sapere quanto hanno pesato queste incursioni sospette sulla vittoria della renziana Raffaella Paita.

Ma sulle primarie del Pd per la presidenza della Regione Liguria pesa l’inaccettabile sospetto che siano state decise da quegli stranieri che nel loro italiano pasticciato chiedevano la scheda per scegliere il successore di Burlando e poi, all’uscita, domandavano ingenuamente dove dovevano andare per ritirare il premio promesso.

È vero: non si raccolgono 29mila voti — quattromila in più di Sergio Cofferati, uno che non ha mai avuto bisogno di stampare volantini per farsi riconoscere dai suoi elettori — portando ai seggi i cinesi con il pulmino. E infatti persino ad Albenga, dove i marocchini reclamavano la ricompensa, non basterebbe annullare il voto di tutti i 147 extracomunitari che hanno votato lì per riequilibrare un risultato davvero senza storia: 1320 voti per la Paita, 246 per Cofferati. Eppure c’è qualcosa che non va, in quelle comitive di cinesi che si so- no presentati al seggio di La Spezia o in quella processione di settanta turchi che andavano a votare a Porto Maurizio.

Così come c’è qualcosa che non va in quel sindaco ex An di Albisola Superiore che ha radunato gli amministratori della Riviera per sostenere la Paita, o in quel capogruppo dell’Ncd che candidamente annuncia che manderà i suoi elettori a votare per la candidata renziana, dando nomi e volti ai sospetti di un inquinamento politico di una consultazione promossa, organizzata e riconosciuta dal Partito democratico.

Cosa c’è che non va? C’è che le primarie, quella festa della democrazia e della partecipazione che abbiamo importato — insieme a tante altre cose — dalla politica americana, rischiano di essere macchiate, snaturate e delegittimate dalle incursioni e dalle scorribande di chi non c’entra nulla né col Pd né con le elezioni italiane, e si presenta al seggio solo per dare un voto venduto davanti alla porta oppure per scegliersi l’avversario preferito. Non è, quella di Genova, una storia nuova. Le primarie per il sindaco di Napoli, quattro anni fa, furono annullate per i troppi sospetti, e poi si scoprì il tariffario del clan Lo Russo: dalla borsa di pane-latte-carne per un voto singolo ai cinquanta euro per un voto doppio, il primo alle primarie e il secondo alle amministrative. E anche adesso, in Campania, organizzare le primarie è diventato un incubo, visto che dopo aver rinviato la data per due volte stanno cercando di “superarle” con un candidato scelto a Roma.

L’invocazione delle primarie si è tramutata nella paura delle primarie. Ma sarebbe un errore imperdonabile tornare indietro. Senza le primarie, uomini estranei alla nomenklatura di partito non sarebbero diventati sindaci di Milano, di Genova, di Roma o di Cagliari. Senza le primarie, i partiti — non tutti: quelli che le hanno adottate, perché per gli altri non è cambiato nulla — continuerebbero a scegliere i candidati senza tener conto della volontà dei loro militanti, dei loro iscritti, dei loro elettori.

Ma le primarie, per funzionare, hanno bisogno di regole efficaci. La prima regola è che le primarie funzionano quando più persone si battono per una sola candidatura, perché così lo scontro diretto per la maggioranza assoluta fa emergere pregi e difetti di ciascuno. Sono invece un disastro se vengono organizzate per compilare una lista, quando basta un consenso parziale, perché allora si torna alla guerra delle preferenze (e ci sarà un motivo se il candidato più votato d’Italia alle primarie del Pd per il Parlamento, il messinese Francantonio Genovese, è stato anche il primo a finire in galera).

La seconda regola è che devono parteciparvi solo i cittadini che siano riconosciuti come elettori di quel partito. Negli Stati Uniti chi voleva scegliere tra Barack Obama e Hillary Clinton doveva essere un “registered democrat”, un elettore democratico regolarmente registrato nelle liste ufficiali. Quanto agli immigrati, nel Paese più multietnico del pianeta, possono votare tutti — cinesi, marocchini, turchi e sudamericani — ma solo dopo essere diventati cittadini americani.
La terza regola — la regola delle regole — è che le primarie vanno organizzate non con uno statuto ma con una legge dello Stato. Non giriamoci intorno: se vogliamo le primarie all’americana, dobbiamo adottare anche quelle scomode regole che lì le fanno funzionare. È finito il tempo delle primarie alle vongole.

La Federal Reserve e la crisi finanziaria", il libro di Ben S. Bernanke, che ne è stato governatore in America negli anni caldi. Le iniezioni di liquidità non sono tutto e non abbattono l'instabilità del mercato». Il manifesto, 13 gennaio 2015


Sono pas­sati sette anni dall’inizio della crisi economico-finanziaria più grave dal secondo dopo­guerra ad oggi. È tempo di bilanci. Ma poi­ché il periodo di crisi è lungi dall’essere supe­rato, tali bilanci sono neces­sa­ria­mente prov­vi­sori.
Tra que­sti, degno di nota è sicu­ra­mente quello di Ben S. Ber­nanke, gover­na­tore della Fede­ral Reserve Usa (Fed), pro­prio durante il periodo caldo della crisi e sosti­tuito alla guida della Banca Cen­trale Sta­tu­ni­tense a par­tire dal 6 gen­naio 2014 da Janet L. Yal­len, già sua vice dall’ottobre 2010. Si tratta di quat­tro semi­nari tenuti alla George Washing­ton Uni­ver­sity nel marzo del 2012, i cui video sono dispo­ni­bili al sito uffi­ciale: http:// www .fede ral re serve .gov/ new sevents/lectures/about.htm e la cui ver­sione scritta è ora dispo­ni­bile in ita­liano nel volume La Fede­ral Reserve e la crisi finan­zia­ria (Il Sag­gia­tore, trad. di Adele Oli­vieri, pp. 175, euro 16).
Con un lin­guag­gio sem­plice e chiaro, nel primo semi­na­rio, Ber­nanke descrive il ruolo della Banca Cen­trale e i suoi obiet­tivi. Nel secondo, la for­ma­zione da sto­rico eco­no­mico (Ber­nanke ha scritto infatti un libro sulla Grande Depres­sione degli anni Trenta) prende il soprav­vento, quando l’ex gover­na­tore descrive la crisi del ’29–30, gli errori dell’allora Fed, le deci­sioni politiche-economiche (New Deal) che ne hanno con­sen­tito la fuo­riu­scita (uni­ta­mente all’impegno mili­tare Usa nella seconda guerra mon­diale, aggiun­ge­remmo noi) e il suo ruolo nella cre­scita eco­no­mica del dopoguerra.

Dopo il panico

Negli ultimi due semi­nari, si ana­liz­zano le cause dell’attuale crisi finan­zia­ria e le sue con­se­guenze sul sistema eco­no­mico glo­bale. Al riguardo, nella lezione finale, ci si sof­ferma sull’analisi di come il ruolo della Fed sia stato deci­sivo a sven­tare la minac­cia di un tra­collo finan­zia­rio, soprat­tutto nel bien­nio 2009-10.
La tesi prin­ci­pale di Ber­nanke, come è anche ripor­tato nella IV di coper­tina, è che: «Gli Stati Uniti hanno scon­giu­rato il col­lasso finan­zia­rio e hanno imboc­cato la via della ripresa». Gra­zie soprat­tutto all’operato della Fede­ral Reserve.
Il com­pito delle Ban­che Cen­trali è duplice: da un lato, «per­se­guire la sta­bi­lità macroe­co­no­mica, ossia una cre­scita rego­lare dell’economia, evi­tando ampie flut­tua­zioni e man­te­nendo un’inflazione mode­rata e sta­bile», dall’altro, «pro­muo­vere la sta­bi­lità finan­zia­ria…, in par­ti­co­lare pun­tando a scon­giu­rare le crisi e le ondate di panico o, quan­to­meno, miti­garne gli effetti». Se nella crisi del ’29–30, l’intervento della Fed era stato meno pronto e comun­que ina­de­guato a con­tra­stare l’ondata di panico e a essere pre­sente come pre­sta­tore di ultima istanza, nella crisi del 2008–9 tali errori non si sono ripetuti.
Sulla base di que­sto assunto, Ber­nanke giu­sti­fica così l’interventismo imme­diato della Fed all’indomani del fal­li­mento della Leh­mann Bro­thers. Un inter­ven­ti­smo (accu­sato da destra di sta­ta­li­smo) che si è fon­dato su un dop­pio pila­stro. Nell’immediato, si è pro­ce­duto all’acquisto dei titoli in caduta libera e all’erogazione di pre­stiti alle prin­ci­pali società finan­zia­rie che erano sull’orlo del fal­li­mento: ci rife­riamo in par­ti­co­lare al colosso assi­cu­ra­tivo Aig (un pre­stito fede­rale di circa 40 mld di dol­lari) e alla nazio­na­liz­za­zione di fatto delle due società par­zial­mente pub­bli­che (GSE, Government-Sponsored Enter­prise) Fan­nie Mae e Fred­die Mac, le due finan­zia­rie prin­ci­pal­mente coin­volte nel crollo dei sub­prime. Nel medio ter­mine, la Fed ha invece intra­preso una poli­tica di quan­ti­ta­tive easing, fina­liz­zata a garan­tire la neces­sa­ria liqui­dità per il sosten­ta­mento e la ripresa dei mer­cati finanziari.
Ber­nanke dedica alcune pagine a giu­sti­fi­care que­sti inter­venti che rom­pono con l’ortodossia neo­li­be­rale e mone­ta­ri­sta, sia affer­mando che non vi era alter­na­tiva visto la gra­vità della crisi, sia mostrando come il ruolo di pre­sta­tore di ultima istanza non abbia influito in maniera deter­mi­nante sul debito pub­blico Usa (quasi rad­dop­piato negli anni della crisi), in quanto tutti pre­stiti ero­gati sono stati poco alla volta rim­bor­sati sino all’ultimo dol­laro. E anche le quote socie­ta­rie pri­vate acqui­state dallo Stato sono state suc­ces­si­va­mente riven­dute sul mer­cato pri­vato (vedi, ad esem­pio, il caso Chrysler).
Obiet­tivo della poli­tica della Fed non è mai stato quello di sosti­tuirsi al mer­cato pri­vato e al libero scam­bio, ma piut­to­sto riba­dirne il pri­mato, in una fase con­giun­tu­rale dove lo stesso mer­cato pri­vato aveva dimo­strato una sua inef­fi­cienza, a prezzo di costi sociali (in ter­mini di disoc­cu­pa­zione e sta­gna­zione dei red­diti). Ber­nanke si sof­ferma sul ruolo posi­tivo, ma tran­si­to­rio e anti­ci­clico, della poli­tica mone­ta­ria, per riba­dire che — in ogni caso — la Banca Cen­trale è ancora in grado di indi­riz­zare e gover­nare i mer­cati finanziari.
Qui sta il punto prin­ci­pale. È pro­prio vero che le Ban­che Cen­trali sono ancora in grado di con­trol­lare i mer­cati finan­ziari? O que­sta è un’illusione super­fi­ciale, sotto la quale si nasconde una realtà assai diversa? Ber­nanke mette a con­fronto la man­cata rispo­sta della Fed (soprat­tutto come pre­sta­tore di ultima istanza) nella Grande Depres­sione con il posi­tivo inter­vento del 2009. Impli­ci­ta­mente si sup­pone che il ruolo dei mkt finan­ziari sia rima­sto più o meno lo stesso: sem­plice rial­lo­ca­zione di rispar­mio (ovvero moneta già in cir­co­la­zione nel sistema eco­no­mico) dalle fami­glie alle imprese e allo Stato. Ma nel bio-capitalismo cogni­tivo e finan­zia­riz­zato non è più così, o almeno, non è più solo così.
Oggi i mkt finan­ziari gio­cano un ruolo di ben altro spes­sore: sono fonte di finan­zia­mento dell’attività inno­va­tiva tra­mite le plu­sva­lenze, sosti­tui­sco sem­pre più il wel­fare pub­blico con forme (pri­vate) di sicu­rezza sociale favo­rendo pro­cessi di gover­nance debi­to­ria che aumen­tano in modo nuovo la sus­sun­zione del lavoro al capi­tale, met­tono in moto un mol­ti­pli­ca­tore finan­zia­rio assai distorto che, sosti­tuendo in parte quello tra­di­zio­nale key­ne­siano (agito dal defi­cit spen­ding), influenza la domanda aggre­gata ma favo­rendo la pola­riz­za­zione dei red­diti. In altre parole, i mkt finan­ziari oggi det­tano la gover­nance del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo e non svol­gono più quel ruolo mar­gi­nale (sep­pur fon­da­men­tale) dell’epoca for­di­sta, fun­zio­nale alla rea­liz­za­zione mone­ta­ria del profitto.
In un simile con­te­sto, la gover­nance isti­tu­zio­nale (banca cen­trale e governo) tende ad essere subor­di­nata alla dina­mica degli mkt finan­ziari. Una dina­mica che sem­pre più dipende dallo svi­luppo delle con­ven­zioni finan­zia­rie, sulla base di un pode­roso pro­cesso di con­cen­tra­zione che oggi si fonda sul con­trollo dei flussi finan­ziari e non più sulla pro­prietà effet­tiva dei titoli.

Flussi e riflussi

Ne con­se­gue che la poli­tica mone­ta­ria viene decisa in fun­zione delle tra­iet­to­rie spe­cu­la­tive che le oli­gar­chie finan­zia­rie auto­no­ma­mente per­se­guono. Le Ban­che Cen­trali (anche la Fed) non può far altro che asse­con­dare pas­si­va­mente tali dina­mi­che, pena il rischio di aumen­tare un’instabilità che è già, di per se stessa, siste­mica e strut­tu­rale. La Fed, da que­sto punto di vista, a dif­fe­renza della Bce (che ha scon­tato per ragioni geo­po­li­ti­che e di ottu­sità ideo­lo­gica un ritardo che oggi paghiamo nel seguirne le orme), è stata abile non tanto a con­trol­lare e a indi­riz­zare i mer­cati finan­ziari ma piut­to­sto a assecondarli.

Non è un caso che appena ha cer­cato di libe­rarsi da que­sta dipen­denza (come è suc­cesso nell’estate scorsa quando il diret­to­rio Fed ha mani­fe­stato l’intenzione di ridurre dra­sti­ca­mente l’iniezione di liqui­dità – tape­ring), la rispo­sta del potere finan­zia­rio è stata tale da scon­si­gliarne l’applicazione, almeno fin­tanto che la crea­zione di nuova liqui­dità non tro­vava una nuova fonte. È in parte ciò che sta acca­dendo oggi con l’aumento di flussi di capi­tale inter­na­zio­nale verso gli Usa, a seguito delle ten­sioni valu­ta­rie che si sono veri­fi­cate nell’ultimo anno: a riprova che la sta­bi­lità finan­zia­ria è ben lungi dall’essere assicurata.
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