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Altraeconomia, 1 febbraio 2018
UN BUON MOTIVO
PER ANDARE A VOTARE CI SARÀ
Seppure alcuni volti, linguaggi, poteri siano ancora gli stessi, l’Italia del 2018 non è quella del 1994. Si è mossa. All’indietro. Buona parte dei programmi elettorali, però, non sembra proprio essersene accorta».
Non aiuta nemmeno la spiacevole sensazione di un déjà-vu lungo ormai un quarto di secolo per volti, linguaggio, poteri. Tuttavia l’Italia non è ferma al 1994. Perché l’Italia si muove, si è mossa, eccome. Ma all’indietro: ritornano spettri di un passato che sembrava, se non lontano, quantomeno stigmatizzato, demonizzato. Spettri che entrano nelle coscienze. A 80 anni dalle leggi razziali, si riaffaccia la cultura che le ha rese possibili. Non c’è crisi economica che giustifichi tutto questo. Che giustifichi l’incendio appiccato a una palazzina che avrebbe dovuto ospitare 35 profughi minorenni (ad Ascoli Piceno, a gennaio, in Italia). Eppure basta dare un’occhiata alla comunicazione elettorale. Più post, magari, e meno cartelloni per strada, forse. Ma la sostanza rimane sempre la stessa: fare leva sulla paura, sul risentimento, o peggio, sul senso di colpa. Ma il motore del cambiamento non può essere questo. Il cambiamento avviene quando lo si desidera. Chi, tra i candidati alle elezioni del 4 marzo, sarà capace di tratteggiare l’Italia che desideriamo? Quella capace di una strategia energetica nazionale diversa da quella intrapresa finora, ad esempio, che torni a puntare seriamente sulle fonti rinnovabili e la smetta di pensare alla Penisola come un hub del mercato europeo del gas.
Un’Italia che non promette improbabili flat tax o ancor più improbabili tagli miracolosi delle tasse, ma punta al valore, costituzionale, della progressività fiscale. Ci sono candidati che riconoscono che, se c’è un nemico, questi non sono i migranti ma la disuguaglianza? In un Paese dove la povertà assoluta cresce fra le famiglie numerose con figli minorenni, la disuguaglianza è un attentato alla democrazia. Ma non solo: oggi la disuguaglianza è anche uno degli ostacoli alla tutela dell’ambiente, perché è alimentata dal sistema consumistico, l’unico in grado di far sì che i 500 uomini più ricchi del Pianeta abbiano un patrimonio di 5.300 miliardi di dollari, mille in più rispetto all’anno passato. C’è qualcuno tra i candidati che ricordi che l’istruzione universitaria è un bene, che non esiste “meno studi più lavori”, in un Paese in cui solo un diplomato su due si iscrive a una Facoltà? E che il diritto allo studio si garantisce anche con sostegni alle abitazioni, ai trasporti, all’acquisto di libri? E infine: qualcuno che parli chiaramente, senza giochi di parole, sottointesi o fraintendimenti intenzionali, di disarmo? Di ritiro delle nostre truppe da scenari di guerra? Di conversione dell’industria bellica? Un buon motivo per andare a votare ci sarà e continuiamo a cercarlo. Se è difficile, forse ce lo siamo meritati, delegando ad altri responsabilità che sono nostre. Ma quanta fatica.
«Anche la nuova legge elettorale permette di candidarsi in più collegi diversi. Rispetto al passato, ci sono più vincoli alla discrezionalità, ma resta il fatto che un candidato bocciato all’uninominale dagli elettori può essere ripescato nel proporzionale».
Come funziona la candidatura plurima
I partiti hanno definitivamente presentato i simboli, i programmi e le liste elettorali che si sfideranno il 4 marzo. Può finalmente cominciare ufficialmente la campagna elettorale, che vedrà sfidarsi i candidati in 232 collegi uninominali alla Camera e in 116 al Senato. Tolti i seggi spettanti alla circoscrizione estero (12 alla Camera e 6 al Senato), i posti restanti - 386 alla Camera e 193 al Senato - saranno assegnati con metodo proporzionale a candidati raccolti in liste circoscrizionali brevi, bloccate, che rispettano le quote di genere e caratterizzate dalla possibilità di candidature plurime.
La candidatura plurima è un istituto che permette a un candidato di correre contemporaneamente in più collegi elettorali. Si tratta di una caratteristica tipica dei sistemi proporzionali o perlomeno misti. Nei collegi uninominali e con metodo di voto maggioritario, la rinuncia di un candidato eletto non porterebbe alla sua sostituzione con il secondo arrivato (significherebbe annullare la volontà della maggioranza relativa di quel collegio) bensì all’indizione di elezioni suppletive (come avviene nei casi di dimissioni o decesso di un eletto). È un metodo di sostituzione costoso (ci vogliono soldi e tempo per indire nuove elezioni in un seggio che altrimenti rimarrebbe vacante), ma senza alternative. Nel sistema proporzionale, invece, i seggi della circoscrizione sono assegnati a liste di partito, di fatto indipendentemente dall’identità di chi ne fa parte. È quindi del tutto possibile che un eletto venga sostituito da chi lo segue nella posizione in lista (o nel numero di preferenze, se fossero possibili). Quando però un candidato si presenta in più collegi plurinominali, la possibilità che sia effettivamente eletto in più luoghi non è affatto remota. La nuova legge elettorale (legge 165/2017) dà la possibilità a ogni candidato di essere incluso fino a un massimo di cinque volte in liste plurinominali, anche se risulta candidato all’uninominale.
Non si tratta certo di una novità: in Italia – e non solo – le pluricandidature sono sempre esistite (e sono possibili, per esempio, per le elezioni europee). L’intento è almeno triplice. Innanzitutto, offre al candidato maggiori possibilità di elezione: è quindi una norma che mette al riparo i leader – o talune personalità rilevanti – da eventuali bocciature ed è naturalmente molto apprezzata dai partiti più piccoli. Permette poi a eventuali leader acchiappavoti di aumentare i consensi per la propria lista in tutti i collegi in cui è presente (celebre il caso di Silvio Berlusconi capolista in tutte le circoscrizioni per le elezioni europee del 2009). Infine, permette allo stesso leader di decidere strategicamente chi far entrare in parlamento, imponendo la scelta del collegio di elezione al candidato e determinando quindi quali “secondi” far passare al suo posto e quale no.
Tutto come prima?
Di riforma in riforma, quindi, il vizio di permettere le pluricandidature non sembra abbandonare il legislatore italiano. Da un lato, la norma può avere aspetti positivi, perché consente appunto di tutelare alcune candidature, considerate meritorie (per ragioni più o meno legittime); dall’altro, tuttavia, interferisce con il meccanismo democratico perché rende ripescabile, cioè eleggibile, chi invece non è stato eletto in un determinato collegio.
A differenza del passato, però, la nuova legge elettorale contiene un elemento che vincola la discrezionalità dell’eletto: prevede infatti che il parlamentare eletto in più collegi plurinominali sia proclamato nel collegio nel quale la lista cui appartiene ha ottenuto la minore cifra percentuale di collegio plurinominale, così come determinata ai sensi della legge. Inoltre, il parlamentare eletto in un collegio uninominale e in uno o più collegi plurinominali si intende ovviamente eletto in quello uninominale.
Si tratta di un passo in avanti? Forse, ma solo se si accetta come naturale la presenza della candidatura plurima: diminuendo la discrezionalità dell’eletto, si rende la sua proclamazione “neutrale” rispetto alla composizione del parlamento. Tuttavia, resta il dubbio che la norma continui a essere usata per tutelare la longevità del ceto politico più che per promuovere l’elezione di outsider senza un bacino elettorale. È ancor più grave che la pluricandidatura permetta a un candidato non eletto all’uninominale di essere ripescato: se il voto proporzionale è più un voto di lista, quello maggioritario nel collegio uninominale è più personale. Il candidato bocciato nel collegio uninominale è un candidato rifiutato dal suo elettorato. Ritrovarselo comunque in parlamento, per gli elettori di quel territorio, non deve essere particolarmente gradito. Non è certo un buon metodo per aumentare il rapporto di fiducia tra elettore ed eletto.
Perché dunque non basare la propria preferenza elettorale anche su questo elemento? Come si comportano cioè i diversi partiti in questo caso? Una volta che le liste elettorali saranno ufficiali e disponibili, sarà interessante capire quale partito ha sfruttato di più la norma e per quale motivo.
, 1 febbraio 2018
CAMERA, NELLA BATTAGLIA DEI COLLEGI
«Le simulazioni verso le elezioni»
Roma. La partita per il governo il centrodestra se la gioca tutta in 87 maledettissimi collegi uninominali sui 232 totali, quelli dove la vittoria della coalizione di Berlusconi, Salvini e Meloni è possibile ma non certa. Al centrodestra, che parte da un bottino sicuro di 259 seggi (115 uninominali), basta conquistare 57 di quei collegi per avere la maggioranza di 316 deputati a Montecitorio. Al Pd, che conta su 133 seggi blindati (24 uninominali) non resta che sperare che la battaglia al Sud tra 5Stelle e centrodestra volga a favore dei primi, che partono da 112 possibili deputati (solo 4 nell’uninominale). Magari non troppo, perché Renzi punta al gruppo parlamentare più numeroso per restare in partita se il centrodestra fallisce la maggioranza assoluta.
Ytali
Il sistema democratico di tipo statunitense, che si era affermato nell’Europa uscita dalla Seconda guerra mondiale, è pervaso almeno dalla fine del mondo bipolare da una crisi strisciante che si manifesta in maniera diversificata nelle attuali nazioni europee. Che questa crisi appaia ora evidente anche nella Repubblica federale tedesca – nelle elezioni del 24 settembre scorso – può sorprendere solo chi finora ha visto nella Germania riunificata una roccaforte inespugnabile, un emblema di stabilità istituzionale e politica.
Eppure all’interno della Germania gli scricchiolii del sistema si sentono da molti anni, e fu proprio la politica della “grande coalizione” tra democristiani e socialdemocratici ad averli attutiti in nome della “governabilità”, ritenuta garanzia sufficiente per la “stabilità”. Eppure – osserva Marco Bascetta (il manifesto, 23/1/2018 ) – dopo il recente risicato consenso della base del SPD per concordare con il CDU/CSU un nuovo programma di governo, vi sono politiche di stabilità che a lungo andare favoriscono la peggiore delle destabilizzazioni, quella che conduce alle soluzioni autoritarie, se non al centro, almeno alla periferia.
Compito facile e difficile insieme: facile in quanto la futura politica deve comunque continuare a garantire alla Germania le condizioni produttive per mantenere il suo ruolo dominante in Europa e il rispettivo surplus economico – questo è il tacito consenso tra tutte le forze politiche. Difficile, perché all’interno di questo consenso ci si differenzia per questioni di ridistribuzione del consistente surplus della bilancia commerciale tra le varie frange della società.
Di fronte a una realtà economica in cui le quarantacinque famiglie più ricche posseggono quanto la metà dei tedeschi meno abbienti, si discute di fatto sulle percentuali dei contributi al sistema sanitario, sull’alleggerimento di questa o quella tassa, sulla misura del “tetto” da imporre al numero dei migranti da accogliere ecc. Ma non si ridiscutono le premesse di sistema nel loro complesso, che hanno prodotto e continuano a produrre anche quasi un milione di senzatetto e circa otto milioni di working poor, di lavoratori precari che non arrivano alla fine del mese senza gli aiuti del welfare pubblico. E non c’è dibattito sulla politica estera, né sull’intervento di truppe tedesche nel resto del mondo e ancor meno su una revisione del ruolo della Germania in Europa, perché si nega e si occulta la vera natura economica della conflittualità anche intereuropea.
Il neoliberalismo, diventato teoria e prassi dominante dopo la fine del mondo bipolare, ha negato la pluralità degli interessi, l’esistenza di conflitti di classe e non riconosce più una controparte sociale. Il che ha prodotto quella rigidità autoritaria che collega – pure in decenni e contesti politici diversi – Angela Merkel a Margaret Thatcher: “Non c'è alternativa”.
Negando l`esistenza di contraddizioni economiche antagoniste la politica degenera in una lotta all’interno del blocco di potere dominante. E mentre nel contesto europeo dopo Maastricht le attuali democrazie nazionali stanno perdendo parte delle funzioni che avevano in passato, la Germania è tornata a essere “Stato-nazione” proprio in quel momento storico che doveva ridimensionare il peso delle nazioni. Il contrasto tra Merkel e Trump si spiega anche così: Germany first vs America first.
La propaganda mainstream insiste in queste settimane sulla necessità di costituire al più presto un governo tedesco “capace di agire”, lo chiederebbero non solo i cittadini tedeschi, ma anche i partner europei, per non dire il mondo intero, che guarderebbe con ansia a Berlino! E si favorisce apertamente la riedizione di una Grande Coalizione, per poter continuare più o meno come prima (nonostante il fatto che gli elettori abbiano sottratto milioni di voti, circa il quattordici percento del consenso a questa opzione).
Ma l’ipotesi di un governo di minoranza è fuori dall’orizzonte dell’establishment politico, il cui atteggiamento richiama in mente la logica della propaganda elettorale democristiana degli anni Sessanta: Keine Experimente. Infatti “calma e ordine” costituiscono la consolidata massima della politica tedesca, almeno dal 1806 (Ruhe ist die erste Bürgerpflicht! – Mantenere la calma è il primo dovere dei cittadini! – fu l’ordine impartito ai sudditi berlinesi dopo la disfatta prussiana presso Jena a opera di Napoleone).
Anche la Repubblica Federale postbellica si votò alla restaurazione – ora dell’ordine capitalistico col modello consumistico statunitense, concepito come non conflittuale e armonico e reagì quindi male alle prime scosse a quell’idillio.
Dopo aver messo a tacere le estese proteste popolari contro il riarmo nei primi anni Cinquanta – solo pochi anni dopo l`ultima sconfitta – e messo fuori legge il partito comunista (KPD) nel 1956 (misura solo recentemente riconosciuta ufficialmente come incostituzionale) furono gli scioperi nella zona della Ruhr nei primi anni Sessanta e le svariate proteste sociali, accentuate dalla prima grande recessione postbellica del 1966 a turbare il sonno del’establishment e della maggioranza dei tedeschi.
Il tutto culminò poi nel cosiddetto Sessantotto che non solo attaccò le premesse dell’ordine costituito, almeno a parole, ma tentò per la prima volta dopo la guerra di sviluppare delle alternative politiche, sociali ed economiche al di fuori del sistema normativo tradizionale. Questa deviazione dal consenso maggioritario incontrò durissime reazioni da parte del’establishment politico e mediatico (cfr. il varo della legislazione d’emergenza, Notstandsgesetze, in barba allo stesso Grundgesetz), reazioni sproporzionate rispetto al “pericolo” costituito dagli studenti ribelli, subito stigmatizzati come estremisti, radicali e potenziali terroristi, ben prima della deriva degli attacchi della Rote Armee Fraktion negli anni Settanta, culminati nell’“autunno tedesco” (1977).
Toccò al primo governo social-liberale (SPD/FDP), in carica dal 1969, quando Willy Brandt aveva proposto ai tedeschi di “osare più democrazia” (Mehr Demokratie wagen), a promulgare nel 1972 quel Radikalenerlaß, diventato noto in tutte le lingue europee come Berufsverbot, con il quale si escludevano per anni e per motivi insindacabili i cosiddetti “elementi anticostituzionali” dai pubblici uffici (ovvero gli ex-sessantottini, allora ritenuti “nemici della costituzione” – Verfassungsfeinde). Centinaia di migliaia di giovani tedeschi vennero sottoposti a procedure inquisitorie, che ebbero a lungo anche un indubbio effetto intimidatorio sul resto della società.
I nemici della libertà e della democrazia sono dunque di nuovo pesantemente all`attacco, nella Rft [constatò Lucio Lombardo Radice nelle sue corrispondenze di viaggio dalla Germania del 1977 ( Germania che amiamo, Editori Riuniti, 1978) e non da] sostenitori di Hitler, e perciò (tali nemici) sono più pericolosi dei neonazisti antistorici. Si richiamano a una tradizione di conservatorismo e di “repressione legale” che è vecchia quanto lo Stato tedesco unificato dalla Prussia militarista un secolo fa, e più: è la tradizione di Bismarck e ancora di più di Hindenburg.
La SPD era ormai divenuta “immanente al sistema” con la decisiva svolta programmatica di Bad Godesberg (1959), abdicando definitivamente alla lotta di classe e al marxismo. Max Horkheimer aveva definito quel riformismo della SPD come pura “strategia per arrivare al potere”. Eppure, occorre constatare, che l’opposizione non arriva mai “al potere”, ma solo al “governo”, per periodi relativamente brevi e sostanzialmente a più riprese per togliere le castagne dal fuoco.
Accreditata dunque come possibile Juniorpartner alla direzione degli affari della vecchia Bundesrepublik, la SPD di Willy Brandt, dal 1969 al governo in coalizione con la FDP, poté finalmente avviare quella Ostpolitik che mise fine alla miopia politica della negazione dell’esistenza della Repubblica democratica tedesca e avviò una politica di distensione verso l’Europa sovietica. Ebbe inizio quel Wandel durch Annäherung (svolta attraverso l`avvicinamento), di cui la CDU era stata incapace, ma che contribuì infine alla dissoluzione del blocco sovietico – e del cui successo si vantò la SPD poi dopo il 1989.
Ma presto, nel 1974, Brandt fu fatto cadere e dovette cedere la cancelleria all’uomo forte della SPD, Helmut Schmidt, promulgatore di uno Stato forte, che preparò indirettamente quella geistige Wende (svolta dei valori) reclamata ormai da Helmut Kohl, già alla guida della CDU, con cui nel 1982 ebbero inizio altri sedici anni di governo democristiano.
La lunga “era Kohl” (1982-1998) lasciò la SPD nuovamente in seconda fila anche nel processo della riunificazione nazionale. Essa poté tornare al governo solo alla svolta del secolo, dopo che Kohl aveva privatizzato l’intera industria della Rdt, creando non pochi problemi sociali. Toccò quindi a una finora inedita coalizione tra SPD e Verdi a guida di Gerhard Schröder cancelliere, reimpostare l’economia tedesca, ora unificata, con le pesanti riforme base dell’Agenda 2010, finalizzate alla razionalizzazione del welfare (riforme Hartz) e al dumping salariale che poi fece esplodere la produzione e l’export tedesco non solo in Europa, ma nel mondo intero.
Nel 2002 i Verdi facevano posto alla FDP ed è da allora che la SPD viene punita dal suo elettorato tradizionale. Entra nella prima Grande Coalizione con Angela Merkel, CDU, nel 2005, ma perde sempre più credibilità e il quattordici per cento del suo elettorato durante gli ultimi dodici anni (dal 34 per cento nel 2005 al venti per cento dei voti nel 2017). E non pochi valutano la sua recente svolta verso una nuova GroKo per “responsabilità nazionale” – ennesima resa di fronte alla chiamata della patria – come un suicidio politico.
Eppure questa deriva non è nuova nella storia tedesca, anzi, si ha sempre più spesso l`impressione del déjà-vu. Già cento anni fa, durante la prima esperienza repubblicana dopo la prima guerra mondiale, allorché la SPD aveva votato i crediti di guerra per sfuggire allo stigma dei vaterlandslose Gesellen (gente senza patria) , inflittole dall’establishment del Reich guglielmino a causa dell’internazionalismo proletario degli inizi, la SPD perse consenso politico presso le masse a causa della sua politica troppo accondiscendente nei confronti dei poteri forti che sopravvissero anche a Weimar.
Di fronte alla crisi della SPD diventata irreversibile verso la fine della Repubblica di Weimar, Kurt Tucholsky aveva formulato nel 1927 il seguente “compito di matematica”:Il partito socialdemocratico ha in otto anni zero successi. Quando si accorge che la sua tattica è sbagliata?
E si potrebbe aggiungere oggi: perché nei novant’anni successivi non ha mai messo in dubbio la propria strategia politica, pur essendosi questa rivelata quasi sempre perdente nei grandi appuntamenti storici?
Nelle condizioni attuali e con i politici attualmente in campo è prevedibile che una prossima GroKo, se si realizzerà, sarà politicamente più debole, ma continuerà a perseguire gli interessi di Germany first, anche per “frenare la destra nel parlamento e nelle piazze”, come ripetono i media, una destra (AfD) che viene alimentata proprio da quella politica. Un circolo vizioso.
La strategia di fondo rimarrà quella della costruzione di un “Kerneuropa”, concetto di origini lontane, ripreso da Wolfgang Schäuble e non messo in questione dalla SPD, persino Jürgen Habermas si è schierato in questo senso. Quella “Europa a due velocità” rafforzerà il legame con la Francia, nel comune interesse di creare forze militari europee. Le nazioni “periferiche” rispetto al nucleo forte, a sud e a est, manterranno il loro status di supporto semicoloniale. Restano indispensabili, anche per ragioni geopolitiche, l’Italia come porta-aerei della NATO e gli stati del gruppo Visegrad, come supporto-base per gli interessi USA/NATO, al fine di limitare sia l’autonomia della Russia sia quella europea.
il manifesto,
Siamo lavoratori della cultura, dell’informazione e della conoscenza. Siamo scrittori, docenti, autori, musicisti, giornalisti, registi, ricercatori, attori, artisti, scenografi, direttori della fotografia, produttori; abbiamo tutti storie personali diverse e diversi percorsi interni alla sinistra. Ma tutti ci siamo ritrovati concordi nello scegliere, oggi, di votare i candidati della lista di «Potere al popolo».
Noi firmatari di questo appello votiamo «Potere al popolo» perché ci siamo battuti e continueremo a batterci contro le politiche neoliberiste portate avanti dai governi di centrodestra e centrosinistra in questi anni; contro «la barbarie che oggi ha mille volti: il lavoro che sfrutta e umilia, la povertà e l’ineguaglianza, i migranti lasciati annegare in mare, i disastri ambientali, i nuovi fascismi, la violenza sulle donne, la crescente repressione, i diritti negati».
Viviamo il tempo buio di una crisi economica, sociale, ambientale e culturale che apre la strada ad una vera e propria crisi di civiltà il cui emblema è la guerra tra i poveri, il razzismo, la xenofobia.
Noi firmatari di questo appello votiamo «Potere al popolo» perché ci battiamo per la costruzione di una sinistra basata sulla connessione tra diversi soggetti del conflitto e culture critiche, che coinvolga persone, associazioni, partiti, reti e organizzazioni della sinistra sociale, culturale e politica, antiliberista e anticapitalista; una sinistra che in tutti questi anni si è battuta contro le ingiustizie e lo sfruttamento, la demolizione della democrazia, dei diritti sociali e civili, contro la mercificazione della cultura, dei diritti, della vita, per la piena applicazione della Costituzione; una sinistra che non si è mai arresa; una sinistra che non ha rinunciato ad elaborare un pensiero forte, che non ha rinunciato alla sfida per l’egemonia e alla costruzione di un nuovo senso comune alternativo al pensiero unico neoliberista. Pensiero unico che l’intera gamma della comunicazione ha costruito in anni e anni di lavoro determinando una ormai generalizzata sfiducia e «insofferenza» nei confronti della politica e delle istituzioni, che produce rifiuto senza la forza di proposte di cambiamento.
Noi firmatari di questo appello votiamo «Potere al popolo» perché ci riconosciamo nell’alternativa di società che propone: una società fondata sulla dignità e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, sull’eliminazione di ogni discriminazione, sull’affermazione dei diritti delle donne, sul principio di eguaglianza sostanziale, sulla riconquista dei diritti sociali e civili, sulla salvaguardia del patrimonio ambientale, culturale ed artistico, sul ripudio della guerra.
Noi firmatari di questo appello votiamo «Potere al popolo» perché vogliamo cambiare lo stato delle cose esistenti.
Citto Maselli, Moni Ovadia, Francesca Fornario, Paolo Pietrangeli, Fabio Alberti, Carmine Amoroso, Gianluigi Antonelli, Enzo Apicella, Piero Arcangeli, Giorgio Arlorio, Marco Asunis, Manuela Ausilio, Saverio Aversa, Stefano G. Azzarà, Simona Baldanzi, Tiziana Barillà, Mauro Berardi, Cesare Bermani, Luca Bigazzi, Paola Boffo, Susanna Bhome-Kuby, Cinzia Bomoll, Marina Boscaino, Sergio Brenna, Mario Brunetti, Benedetta Buccellato, Paolo Cacciari, Enrico Calamai, Francesco Calandra, Francesco Caruso, Riccardo Cardellicchio, Carlo Cerciello, Salvatore Cingari, Lorenzo Cini, Paolo Ciofi, Elena Coccia, Gastone Cottino, Wasim Dahmash, Franco D’Aniello, Massimo Dapporto, Fabio de Nardis, Marco Dentici, Pippo di Marca, Enzo di Salvatore, Angelo d’Orsi, Valerio Evangelisti, Amedeo Fago, Paolo Favilli,, Luigi Fazzi, Beppe Gaudino, Alfonso Giancotti, Michele Giorgio, Giovanni Greco, Alexander Hobel, Maria Jatosti, Francesca Lacaita, Maria Lenti, Maria Grazia Liguori, Guido Liguori, Antonio Loru, Fabiomassimo Lozzi, Romano Luperini, Silvia Luzzi, Maicol&Mirco, Lucio Manisco, Danilo Maramotti, Fabio Marcelli, Gino Marchitelli, Eugenio Melandri, Lidia Menapace, Magda Mercatali, Maria Grazia Meriggi, Massimo Modonesi, Francesco Moneti, Giorgio Montanini, Giovanna Montella, Lia Francesca Morandini, Raul Mordenti, Roberto Musacchio, Federico Odling, Federico Oliveri,Federico Pacifici, Marco Pantosti, Vera Pegna, Riccardo Petrella, Pina Rosa Piras, Sabika Shah Povia, Alberto Prunetti, Stefania Ragusa, Christian Raimo, Elisabetta Randaccio, Gianfranco Rebucini, Gianluca Riggi, Annamaria Rivera, Annalisa Romani, Maria Letizia Ruello, Mimma Russo, Nino Russo, Giovanni Russo Spena, Arianna Sacerdoti, Carla Salinari, Cesare Salvi, Edoardo Salzano, Antonio Sanna, Angela Scarparo, Marino Severini, Alessandro Simoncini, Ernesto Screpanti, Paolo Sollier, Massimo Spiga, Stefano Taglietti, Angelo Tantaro, Enrico Terrinoni, Mario Tiberi, Stefania Tuzi, Renzo Ulivieri, Pierfrancesco Uva, Fulvio Vassallo Paleologo, Vauro, Guido Viale, Imma Villa, Lello Voce, Annalisa Volpone, Pasquale Voza, Giulia Zoppi.
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Gerusalemme, 1 febbraio 2018, Nena News – Critiche internazionali e condanne dei centri per i diritti umani non fermano il governo Netanyahu deciso ad espellere entro la fine di marzo circa 35mila eritrei e sudanesi richiedenti asilo, entrati negli anni passati in Israele. All’inizio di marzo dovrebbero entrare in azione, così riferiscono i media locali, 70 “ispettori speciali dell’immigrazione”, civili pagati dall’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione con 30mila shekel (circa 8mila euro) per due mesi di lavoro e incaricati di individuare gli stranieri illegali e chi li aiuta. In sostanza dovranno dare la caccia agli africani clandestini a Tel Aviv e in altre città e provare a scoprire se qualche cittadino israeliano li aiuta o offre loro un’occupazione.
Altri 40 ispettori, sempre secondo la stampa, saranno assunti con l’incarico di accertare la «sincerità» degli africani. «Stiamo cercando di saperne su questa assurda offerta di lavoro ma le autorità non si sbottonano. Tanti provvedimenti sono decisi in segreto ed emergono solo quando li vediamo applicati sul terreno», ci diceva ieri T. A., un’attivista dei diritti dei richiedenti asilo.
L’assunzione degli ispettori/cacciatori di africani illegali in Israele arriva poche settimane dopo l’annuncio della politica scelta dal governo Netanyahu per costringere eritrei e sudanesi a lasciare il Paese. Gli africani hanno la possibilità di partire volontariamente e di far ritorno nel loro Paese d’origine oppure di andare in Ruanda (e, pare, anche in Uganda) con in tasca 3500 dollari, in caso contrario saranno arrestati e incarcerati a tempo indeterminato.Gran parte degli “alieni”, così sono chiamati in Israele, sono scappati da Paesi in guerra e per sottrarsi ad abusi, torture e violenze. Invece per i dirigenti politici israeliani, con in testa il primo ministro, sono solo degli “infiltrati” alla ricerca di opportunità economiche e costituiscono una minaccia per il tessuto sociale e l’identità ebraica di Israele. Dal 2009 solo 10 eritrei e un sudanese sono stati riconosciuti come rifugiati dalle autorità israeliane. Ad altri 200 sudanesi del Darfur è stato riconosciuto lo status umanitario.
A nulla è valso l’appello lanciato a gennaio dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) affinché Israele ponga fine alle sue politiche di ricollocamento forzato di eritrei e sudanesi. L’agenzia dell’Onu aveva anche denunciato che almeno 80 persone “ricollocate” in Africa hanno poi tentato di raggiungere la Libia subendo lungo il tragitto abusi, torture ed estorsioni e hanno rischiato la vita attraversando il Mediterraneo per raggiungere l’Italia. Coloro che erano partiti da Israele, ha riferito ancora l’Unhcr, una volta giunti a destinazione hanno trovato una situazione ben diversa da quella che si aspettavano, con un’assistenza che raramente è andata oltre un posto dove dormire per la prima notte. Alcuni hanno riferito che diverse persone che viaggiavano con loro sono morte nel tragitto verso la Libia, dove in molti sono stati vittima di estorsioni, detenzione, abusi e violenze.
Ong, associazioni e attivisti israeliani stanno tentando di scuotere l’opinione pubblica largamente schierata con la politica del governo. Ma a ben poco è servito l’appello contro le espulsioni degli scrittori Amos Oz, David Grossman e A.B. Yehoshua, di esponenti religiosi e di un gruppo di sopravvissuti alla Shoah che si sono detti pronti a nascondere i profughi nelle proprie case, pur di sottrarli alla polizia e al provvedimento di espulsione. Nei giorni scorsi a margine del vertice economico a Davos, Netanyahu ha incontrato il presidente del Ruanda Paul Kagame che ha detto di avere una politica di porte aperte per chi desidera rientrare in Africa ma non ha confermato di aver sottoscritto un accordo con Israele. Per gli attivisti israeliani invece l’intesa segreta tra Ruanda e Israele esiste e per questo hanno intensificato le pressioni su Kagame affinchè cessi di ricevere nel suo Paese gli eritrei e sudanesi espulsi. Pressioni che non hanno gli effetti desiderati, a maggior ragione ora che il leader ruandese si fa forte dello status internazionale che ha conseguito dopo la nomina a presidente dell’Unione Africana.
Articolo ripreso da NENAnews". Qui è raggiungibile la pagina originaria
Comune-Info, 28 gennaio 2018.
“Arrendetevi siamo pazzi”. In questi cinque anni di occupazione la scritta all’ingresso dell’Asilo Filangieri di Napoli non è stata un bizzarro slogan ma il grimaldello con cui ripensare la gestione di uno spazio comune, tessere percorsi inediti tra teoria e prassi (a cavallo tra filosofia, mondo dell’arte e scienze umane), costruire legami con esperienze di altre città e perfino promuovere un’incursione nel diritto. Dopo un percorso complicato c’è stato il pieno riconoscimento dell’itinerario giuridico partito dal basso. Secondo Giuseppe Micciarelli, ricercatore presso l’Università di Salerno, l’idea vincente è stata immaginare una forma di gestione per cui un bene pubblico viene amministrato direttamente dai cittadini, non con un’assegnazione, «ma attraverso una dichiarazione d’uso collettivo ispirata agli usi civici, un antico istituto tutt’ora vigente che rappresenta uno degli echi di quell’altro modo di possedere quasi dimenticato dall’ordinamento»
Beni comuni e spazi urbani
Com’è possibile che da un’occupazione di uno spazio pubblico nasca un nuovo istituto giuridico? Com’è possibile che il collettivo che ha intrapreso l’azione si sciolga per costruire un sistema assembleare regolamentato, aperto a tutti i lavoratori del settore culturale e agli abitanti del territorio? E ancora, com’è possibile che questo strumento si sia diffuso tra altre esperienze di occupazioni, in diverse parti di Italia, e che queste stesse realtà abbiano deciso di scrivere pubblicamente delle dichiarazioni di autonormazione civica per mostrare e garantire l’accessibilità a questi spazi? La risposta a queste domande spiega l’anomalia che la città di Napoli sta percorrendo sui beni comuni. L’uso civico e collettivo urbano, nato a partire dalla sperimentazione pratica e teorica dell’Asilo Filangieri, ha sfidato l’ordinamento giuridico per dare la possibilità a tante realtà caratterizzate da una gestione collettiva e comunitaria di essere coerentemente riconosciute anche dal mondo del diritto. Molti elementi di questo percorso sono diventati, in questi anni, oggetto di studi e hanno portato la città di Napoli alla vittoria del prestigioso premio Urbact 2017. Proverò qui a descriverne alcuni passaggi essenziali.
Dal punto di vista teorico, anche questa battaglia nasce sulla sponda dei beni comuni. Eppure, essi sono diventati qualcosa di diverso da ciò che la Commissione Rodotà aveva ipotizzato nel 2007-2008. Quei lavori furono fondamentali perché avvicinarono le battaglie più disparate arricchendole, in senso evocativo, di una dirompente matrice comune. Si è venuta così a creare una polisemia feconda, che ha visto la proliferazione di nuovi beni pretesi come comuni. È questa la peculiarità, forse la forza e insieme la debolezza, della via italiana ai beni comuni che, diversamente dagli studi di ascendenza economica sui commons nel mondo anglosassone (Ostrom, 1990), si interroga ancora sul loro perimetro e sulla eventuale necessità di individuarne uno in forme consuete (Mattei, 2011; Marella, 2012). In parte si tratta di una debolezza perché, come Stefano Rodotà ammoniva se tutto è bene comune allora niente è un bene comune. Ma è anche un elemento di forza, perché l’incertezza ha dato la straordinaria opportunità a tanti conflitti sociali di riconoscersi reciprocamente in un significante capace di riempire di senso comune lotte solo geograficamente distanti (Negri-Hardt, 2010; Dardot-Laval, 2015). Ma c’è di più. Questa fase costituente ha dato la possibilità ai protagonisti di quelle lotte di prendere in prima persona parola sul loro significato, scavando nuovi percorsi intellettuali a cavallo tra filosofia, diritto, economia, mondo dell’arte e scienze umane. Un percorso raro dove studio e conflitto continuano ad andare di pari passo, alimentandosi reciprocamente.
Com’è noto la prima ondata di studi e lotte sui beni comuni è culminata con la vittoria referendaria del 2011. Dopo quel successo è nata una seconda generazione di conflitti, che si sono “appoggiati” al lessico dei beni comuni. Mi riferisco in particolare al movimento dei lavoratori dell’arte, dello spettacolo e della cultura che hanno dato vita a forme di riappropriazione diretta di teatri e spazi culturali abbandonati o sottoutilizzati. Il teatro Valle a Roma, l’Asilo Filangieri a Napoli, l’ex colorificio a Pisa e Macao a Milano sono stati non a caso la sede di una seconda Commissione itinerante – la costituente dei beni comuni – presieduta dallo stesso Rodotà con la partecipazione di alcuni degli studiosi che facevano parte di quella istituzionale del 2007, insieme a tanti giovani ricercatori e attivisti impegnati in prima persona in quelle esperienze. Tali pratiche sperimentali hanno prodotto uno scarto rispetto al profilo teorico originario, quando il bene di riferimento era limitato alla sola risorsa idrica. Infatti, rivendicare spazi urbani come beni comuni ha messo per certi versi in crisi la stessa loro tassonomia, che tanto difficilmente era stata abbozzata (Mattei-Reviglio-Rodotà, 2007).
Terminata anche questa esperienza è cresciuta una seconda generazione di pratiche e studi che hanno rimesso al centro del dibattito il tema che la prima Commissione non solo aveva ritenuto superabile, ma che anzi aveva definito un ostacolo alla protezione dei beni comuni, vale a dire il tema dei regimi di governo dei beni. Attualmente, al contrario, la rivendicazione di forme di gestione, o controllo, partecipate o dirette, di beni da parte di comunità organizzate di cittadini è diventato il cuore della questione sia politica sia teorica. In questo senso uno dei punti su cui si è poggiata l’esperienza napoletana è stata la nozione di beni comuni emergenti (Micciarelli 2014, 2017), cioè quei beni che, esprimendo utilità funzionali all’arricchimento del catalogo dei diritti fondamentali, si caratterizzano per una forma di gestione diretta e non esclusiva da parte delle comunità di riferimento individuabili, al fine di garantire, attraverso modelli di regolamentazione specifici, l’uso e il godimento collettivo del bene, indirizzandolo al soddisfacimento di tali diritti, nonché al libero sviluppo della persona e la salvaguardia per le generazioni future[1]. Un modo per materializzare, anche nel mondo del diritto, il principio secondo cui «non esistono beni comuni senza le pratiche e le consuetudini che consentono alla comunità di gestire le risorse per il bene collettivo (…) caratterizzati da partecipazione diffusa, responsabilità individuale e capacità autogestionali» (Bollier, 2015).
L’anomalia napoletana
Sono tanti gli spazi abbandonati che disegnano le nostre città: orfanotrofi, scuole, caserme dismesse, ospedali psichiatrici, conventi, stazioni. La brama di riempirli di nuove attività svela l’interesse trasversale per la rigenerazione urbana, che non a caso è uno dei temi più attraversati non solo dalla letteratura, ma anche da progetti europei, bandi regionali, corsi di laurea e premi. Ed è anche terreno di conquista dei soggetti economici più attrezzati. Si pensi ai grandi protagonisti della rigenerazione degli ultimi anni: i poli commerciali e le grandi multinazionali che, grazie a una forza di investimento e persuasione economica maggiore di tanti finanziamenti pubblici, hanno trasformato pezzi di città in “non luoghi”, secondo il fortunato paradigma descritto da Marc Augè, in cui gli individui si incrociano senza mai entrare in relazione, se non attraverso quelle mediate dal consumismo. Multi utilities dell’intrattenimento a gettone svolgono ora anche una funzione, in senso lato, “sociale”: arricchite oltre che di merci anche da arcipelaghi di bar, ristoranti, cinema, pub e asili nido sempre aperti e dal prezzo quasi conveniente, dove intere famiglie si rovesciano nel loro tempo libero.
Ribaltando l’espressione di Augè, possiamo riconoscere che a diverse latitudini ci sono degli “ex-luoghi”, sulla loro riscoperta e funzionalizzazione si gioca il futuro della città. Qui la creatività gioca un ruolo fondamentale; non a caso il campo artistico è quello che viene più di tutti chiamato in causa per favorire processi di rigenerazione di questi ex-luoghi. Purtroppo però, come mostra il caso di quartieri del genere di Kreuzberg a Berlino, Covent Garden a Londra, Isola a Milano, spesso l’azione di artisti e designer diventa il preludio alla gentrificazione di intere aree popolari.
Questo destino non è ineluttabile. Una delle ricchezze di quel movimento di artisti/attivisti che si è costituito intorno al lessico dei beni comuni è il tentativo di produrre una forma di rigenerazione consapevole e conflittuale dello spazio urbano, provando a mettere al centro tanto le vertenze dei lavoratori, la necessità di riforma dei finanziamenti e della governance del settore culturale, quanto i bisogni del tessuto sociale, degli abitanti di quartieri che normalmente vengono esclusi dalla fruizione dei prodotti artistici estranei al circuito mainstream. Un percorso quindi altamente politicizzato, legato da principio al tessuto connettivo di movimenti che sui territori lottavano per il diritto alla casa, a un ambiente salubre e contro le forme di razzismo e neofascismo che tipicamente infestano le zone socialmente più povere delle città.
In Italia, questo movimento così peculiare - che si immaginava come quinto Stato (Ciccarelli-Allegri, 2011) e trovava linfa nell’eco delle lotte degli intermittenti in Francia (Lazzarato, 2004) - aveva cominciato, subito dopo la vittoria referendaria, a organizzare una scia di occupazioni, sviluppando un’ondata di rivendicazioni non impiantante tanto su una base vertenziale di categoria, bensì sulla pretesa gestione diretta degli spazi culturali da parte degli stessi lavoratori, organizzati attraverso la messa in comune dei mezzi di produzione. Dopo il cinema Palazzo e il teatro Valle a Roma, Macao a Milano, a Napoli la manifestazione di questo movimento occupò il 2 marzo del 2012 l’Asilo Filangieri. Un’azione simbolica, nell’idea originaria di soli tre giorni, considerato che l’immenso edificio, un ex convento di circa 5.000 mq2 nel centro storico della città, era stato da poco ristrutturato e assegnato al Forum Universale delle Culture: organismo aspramente criticato in quanto parte di un modello di finanziamento che non avrebbe accolto le esigenze del territorio, data una permeabilità già presente nei confronti del circuito di clientele e favoritismi che attanaglia buona parte del settore dello spettacolo.
Le assemblee partecipate da centinaia di persone spinsero però gli occupanti a osare e il processo, dapprima limitato al solo terzo piano del palazzo, cominciò a estendersi in altre zone, protraendo per un paio di anni una coabitazione con altre stanze usate dagli uffici amministrativi del Forum, il quale poi si rivelò, come preconizzato, un fallimento (Cagnazzi, 2017). Parallelamente al crescente numero di attività, anche all’Asilo ci si interrogò sulla sperimentazione giuridica, che caratterizzava il movimento. Diversamente dal teatro Valle, che a Roma stava sperimentando un’innovativa idea di fondazione con l’aiuto di molti giuristi impegnati nella prima commissione Rodotà (Caleo, 2016), a Napoli si tentò di trovare una forma che potesse rispecchiare meglio il cuore teorico della pratica assembleare che si stava sperimentando, cioè quello di costruire una comunità aperta, orizzontale, porosa e non strettamente identitaria. Un modello che pretendeva di rinunciare alla direzione artistica e al contingentamento dei tempi e degli spazi finalizzati alla produttività piuttosto che alla libera ricerca. Una forma che creasse una interdipendenza - professionale e relazionale - tra soggetti diversi, disobbedendo così all’educazione alla concorrenza tra competitors imposta da bandi, festival e mercato.
Limitandomi al punto di vista giuridico, si trattava di evadere l’illusoria conquista di una concessione, che avrebbe magari dato la rassicurante immagine di un ambito di autonomia e indipendenza, ma che staccata da un tentativo di impatto più generale sul circuito arte/rigenerazione urbana avrebbe rischiato, anche nel caso di successo, di essere schiacciata dal peso degli oneri che qualunque soggetto giuridico concessionario di un bene pubblico si deve assumere. Avrebbe inoltre rischiato di favorire la costruzione di un privilegio proprietario a vantaggio di chi era riuscito a conquistare, sebbene con la lotta e alla luce del sole, un titolo di uso esclusivo. Un discorso che piccole associazioni, realtà informali e cittadinanza attiva conoscono purtroppo molto bene. D’altronde, il minimo comun denominatore per cui si stanno diffondendo nel paese tanti regolamenti sui beni comuni urbani, pur nella loro diversità, è appunto che il patrimonio abbandonato rappresenta per un ente locale un serio problema: ogni mancata manutenzione apre la porta a rischi sia in termini di responsabilità civile sia per danno erariale, nel caso si riscontrasse la violazione degli obblighi di messa a reddito degli immobili.
Si trattava perciò di provare a cambiare il sistema, e con esso immaginare una diversa erogazione dei fondi pubblici, che sfuggisse sia ai parametri del successo decretati solo dalle leggi del mercato sia alla subalternità clientelare con gli apparati amministrativi di turno. L’idea vincente fu quella di immaginare una forma di gestione per cui un bene pubblico fosse amministrato direttamente dai cittadini, non con un’assegnazione, ma attraverso una dichiarazione d’uso collettivo ispirata agli usi civici, un antico istituto tutt’ora vigente che rappresenta uno degli echi di quell’altro modo di possedere quasi dimenticato dall’ordinamento post unitario (Grossi, 1977).
La scelta di dotarsi di un regolamento, per quanto scritto a partire dalle proprie pratiche, fu ovviamente il fulcro di una rivoluzione identitaria. L’esito di questo complesso confronto può essere riassunto con delle parole molto efficaci che ricordano come l’immanenza e lo spontaneismo non possano chiudere «i conti con un passaggio istituzionale ineludibile: il riconoscimento giuridico di una destinazione propria a tali beni, procedimento tecnico che in taluni momenti della storia interviene con quella forza decisoria che le lotte politiche e le nuove acquisizioni conoscitive sono in grado di suscitare e le costruzioni formali provvedono poi a tutelare. Contrariamente a un certo marxismo dal sapore tralatizio, la “forma” giuridica non spegne, ingannandola, la prassi sociale, ma ne rappresenta un’articolazione di pari livello e sovente più attrezzata» (Napoli, 2013).
La scrittura della dichiarazione è diventata invece una straordinaria opportunità di auto-riflessività politica, in cui le pratiche vengono messe alla prova della teoria e viceversa. Una strategia anche concreta, perché la pur importante rivendicazione del diritto di uso civico, ove non regolamentato, rappresenterebbe altrimenti uno spazio indeterminato, in cui è facile prevedere l’espansione dei poteri ora dei soggetti privati più attrezzati ora della stessa Amministrazione, al primo cambio d’umore politico. Una strategia ambiziosa quella della riscoperta degli usi collettivi perché, com’è stato chiaramente messo in evidenza, può ambire a una possibile ricostruzione della nozione di proprietà pubblica, che in un clima di esasperata esaltazione della proprietà individuale è stato progressivamente rimosso dalla riflessione giuridica e politica dei diritti collettivi (Capone, 2016). Una sperimentazione originale, che si può riassumere nello slogan “arrendetevi siamo pazzi” che gli attivisti dell’Asilo affissero all’ingresso del bene, rivendicando una strategia politico-teorica che allora appariva eretica più che eterodossa, anche per il resto del movimento nazionale.
Nel frattempo la nuova amministrazione de Magistris aveva cominciato un suo percorso che, dopo la nascita dell’azienda speciale di diritto pubblico Abc (Acqua bene comune), per la gestione della risorsa idrica, modificava lo statuto del Comune di Napoli, riconoscendo “i beni comuni in quanto funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona nel suo contesto ecologico” e garantendone “il pieno godimento nell’ambito delle competenze Comunali”. Veniva inoltre istituito, caso unico in Italia, un assessorato ai beni comuni, presieduto da uno degli studiosi più radicali che avevano partecipato ai lavori della prima commissione Rodotà. A questo punto venne lanciato un dialogo che aveva il sapore della sfida, alle volte con toni aspri, nei confronti dell’Amministrazione: capire fino a che punto il riconoscimento da parte loro dei beni comuni potesse spingersi oltre la dimensione evocativa, per sostenere progettualità conflittuali che si muovevano in un orizzonte poco compatibile con declinazioni docili della sussidiarietà orizzontale, in cui a cittadini resi carpentieri e muratori viene concesso di prendersi cura di giardini e strade periferiche, in forme del tutto a-conflittuali.
Riconoscere l’uso civico era non facile e non era scontato, poiché si andava a definire un tipo di uso collettivo che non trovava piena collocazione giuridica tra gli strumenti tipicamente usati dagli enti locali. Di solito, infatti, la scorciatoia adottata nel caso di simili rivendicazioni è l’affidamento diretto o la sottoscrizione di patti di collaborazione tra Comune e un’associazione. Questi, però, in alcuni casi si risolvono in fictio iuris, cioè nella creazione di associazioni ad hoc, forme di affido a custodi o garanti che, però, non sono né gli animatori né i veri fruitori degli spazi; modalità che cioè non rispecchiano un uso collettivo non limitato a soci o cerchi di affinità ristretti. E invece in molti casi la scelta di non costituirsi in una singola associazione, il privilegiare la costituzione di gruppi informali o reti di realtà in continuo divenire, la garanzia del ricambio costante di utilizzatori, rappresentano una forma di uso la cui specificità è un patrimonio che l’ordinamento deve valorizzare, trovando strategie adeguate.
L’alternativa dell’uso civico urbano è stata dunque al centro dei lavori del tavolo di autogoverno dell’Asilo, e portò all’approvazione di una prima delibera già il 24 maggio 2012. Con questa gli attivisti impegnavano il Comune a «garantire una forma democratica di gestione del bene comune monumentale denominato ex asilo Filangieri in coerenza con una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 43al fine di agevolare una prassi costituente dell’“uso civico” del bene comune, da parte della comunità di riferimento dei lavoratori dell’immateriale». L’impianto però, nella parte del deliberato, tradiva il complesso sistema assembleare e di tavoli di lavoro, assegnando loro un ruolo semplicemente consultivo, mentre i poteri decisionali formalmente restavano in capo agli assessori di volta in volta competenti nel quadro partecipativo del cosiddetto. “laboratorio Napoli”[2]. Una soluzione provvisoria, che però ha avuto il pregio di dare respiro alla sperimentazione. Ci sono voluti oltre tre anni di tavoli di lavoro, scontri, riunioni interminabili con il nuovo assessore ai beni comuni Carmine Piscopo, studi fatti a tavolino anche con funzionari e dirigenti per provare a contaminare il quadro amministrativo vigente che riconoscesse l’uso civico come una nuova forma di amministrazione diretta del patrimonio pubblico (Micciarelli, 2017).
Un lavoro che è stato rafforzato anche da numerose realtà di movimento e associative, che stavano svolgendo altri esperimenti di autogestione nel panorama cittadino, il cui impatto sociale era enorme. Coinvolti poco a poco nel progetto di estensione dell’uso civico urbano si giunse alla importante tappa dell’approvazione in Consiglio Comunale di alcuni emendamenti, scritti dagli attivisti, per migliorare la regolamentazione quadro sulla gestione dei “cd. beni percepiti come comuni di proprietà pubblica” (delibera n. 7/2015). Così si introduceva un esplicito riferimento ai «regolamenti di uso civico o altra forma di autorganizzazione civica» da riconoscere in apposite convenzioni collettive e affiancando questo modello a quello delle concessioni e affidamenti.
Il pieno riconoscimento c’è stato però con una successiva delibera, la n. 893 del 29 gennaio 2015: la dichiarazione di uso civico e collettivo urbano, che a quel punto era stata completata dagli “abitanti” dell’Asilo, è stata assunta «quale complesso di regole di accesso, di programmazione delle attività e di funzionamento, e innovativo modello di governo di spazi pubblici». La dichiarazione, esplicitamente richiamata anche nella parte dispositiva, così diventava non lo statuto di un’associazione assegnataria, ma il regolamento pubblico di utilizzo dello spazio. Veniva acquisito anche il calendario, che indicava come il concetto di sostenibilità andasse di pari passo con quello di “redditività civica”, cioè i vantaggi economici per tutto il territorio generati dalla capacità autonoma degli abitanti di coordinarsi per accogliere un numero impressionante di richieste da parte di altri concittadini (ex Asilo Filangieri, 2016).
Così gli irrisori oneri di spesa per garantire l’accessibilità (come le utenze e la guardiania) potevano essere assunti dal Comune, mentre tutte le attività e la dotazione degli spazi gravavano sulla comunità generata dagli organi di autogoverno previsti dalla dichiarazione. Queste delibere hanno rappresentato la base per un’ulteriore estensione del modello. Un nuovo atto amministrativo, delibera n. 446 del 2016, ha riconosciuto «quali beni comuni emergenti e percepiti dalla cittadinanza quali ambienti di sviluppo civico e come tali strategici» altri sette ex-luoghi della città, occupati negli ultimi anni: ex Carcere minorile Filangieri (ora Scugnizzo Liberato); Ex Scuola Schipa; Villa Medusa; ex Lido Pola; ex Opg (ora Opg Je so’ pazzo); ex convento delle Teresiane (ora Giardino Liberato di Materdei); ex convento di Santa Maria della Fede (ora Santa Fede Liberata).
Nello specifico, aderendo alla “seconda via” aperta con gli emendamenti alla delibera n.7 sopra citata, è stata attivata “una procedura di ricognizione degli spazi di rilevanza civica ascrivibili nel novero di beni comuni” che si è tradotta nell’acquisizione da parte degli uffici competenti di sette dossier, contenenti le attività generate fino ad allora e le forme di gestione sviluppate dagli occupanti. Una spinta dal basso che oggi ha portato il comune di Napoli a riconoscere un percorso che, allo stato attuale, coinvolge un patrimonio immobiliare di circa 40 mila mq2 ed è rivendicato da una rete di altre esperienze da Torino a Palermo, da Firenze a Reggio Emilia. Una strategia che crea nuove istituzioni, sia come una piattaforma polemica di quelle esistenti, sia come banco di prova per la realizzazione concreta di comunità capaci di organizzarsi in una eterogeneità, che non significhi neutralità, nei confronti dei modelli di produzione esistenti.
NOTE
[1] Una differenziazione questa che segue quella che l’art. 822 c.c. opera per il demanio: i beni comuni necessari e quelli in senso eventuale o emergenti si distinguono per le forme di governance. Al primo caso appartengono beni necessariamente in comuni, come l’acqua, la cui governance dovrebbe essere connessa a forme tradizionali di democrazia partecipativa; i beni comuni emergenti sono invece da forme di gestione diretta da parte delle comunità di riferimento, e emergono si possono generare queste forme di partecipazione.
[2] Un modello di democrazia partecipativa su cui aveva alacremente lavorato l’allora assessore Alberto Lucarelli.
il Fatto quotidiano
Lavorare per 10, 12 ore, a volte addirittura 14. In un solo giorno. Con pause per il bagno conquistate con fatica, quasi fosse una concessione, mentre quintali di carne scorrono veloci sul nastro: i ritmi impongono a ciascun operaio di pulire decine, anche centinaia di pezzi. Sono questi i racconti che fanno da sfondo alla protesta degli ormai ex-operai in appalto della Castelfrigo, azienda di Castelnuovo Rangone, in provincia di Modena, dove si sezionano parti di maiali, in particolare pancette e gole. Qui i lavoratori lasciati a casa nell’autunno del 2017 dalle coop Work Service e Ilia D.A (a cui la Castelfrigo aveva dato in appalto i servizi di logistica) hanno superato il 90esimo giorno di sciopero. E da oltre un mese stanno vivendo, giorno e notte, davanti allo stabilimento, nelle tende montate dalla Flai-Cgil, dandosi il cambio per il presidio notturno e combattendo il freddo umido che punge la pianura, allungando le mani su una sorta di bidone stufa, utile anche per scaldare il cibo.
Sono tutti stranieri, arrivano in gran parte dall’Albania, dal Ghana, dalla Costa d’Avorio e dalla Cina. “Perché accettiamo queste condizioni? Il più grande problema di uno straniero è rinnovare il permesso di soggiorno e per farlo abbiamo bisogno di un contratto. È un ricatto”. E così spesso firmano di tutto, diventano soci o addirittura presidenti delle cooperative. Lulja Harum, 30enne albanese, ad esempio, è stato per molto tempo presidente di una cooperativa a sua insaputa. Lo ha scoperto solo quando la Guardia di Finanza ha bussato a casa sua e gli ha detto che avrebbe dovuto saldare un debito di 1milione e 700mila euro. “Mi avevano detto di firmare e stare tranquillo, che in questo modo avrei avuto il lavoro – racconta a fatica davanti alla telecamera – ma non io non sapevo né leggere, né scrivere”.
Ogni mattina, all’alba, chi protesta fuori dall’azienda vede gli ex colleghi varcare i cancelli dello stabilimento per andare al lavoro. Tra loro ci sono anche i 52 che non hanno scioperato, riassunti per 6 mesi tramite una società interinale, grazie a un accordo sottoscritto dalla Fai-Cisl e sotto accusa dalla Cgil: “Per la prima volta in Italia l’esercizio del diritto di sciopero è diventato elemento formale di discriminazione dei lavoratori in un accordo sindacale”.
Le storie si replicano, quasi sempre con lo stesso copione, se ci si sposta nelle altre aziende delle carni del modenese. Un settore che vale 3 miliardi di euro, con 170 imprese, molte delle quali si avvalgono di cooperative per tagliare i costi: secondo la Cgil dei 5mila occupati del distretto agroalimentare, circa 1500vivono condizioni di lavoro simili a quelli della Castelfrigo. Numero che cresce se si considera tutta Italia, e raggiunge i 17mila lavoratori. “Le responsabilità – spiega Franciosi – sono delle imprese che per abbattere i costi di produzione utilizzano queste forme di lavoro, ma anche della politica. Sono state cambiate ad hoc alcune leggi, a partire dalla legge Biagi che ha completamente tolto il reato penale per l’intermediazione illecita di manodopera. Per arrivare fino al Jobs act, con la depenalizzazione della somministrazione irregolare di manodopera. Una vera manna dal cielo per queste imprese”
Internazionale
Addis Abeba, Etiopia, dicembre 2013. È mezzanotte passata. L’aereo in arrivo dall’Arabia Saudita trasporta alcuni lavoratori che sono stati espulsi in fretta e furia. Erano partiti dall’Etiopia per svolgere lavori di ogni tipo in questa monarchia resa ricchissima dal petrolio. I lavoratori migranti etiopi scendono dall’aereo. Hanno dei sacchetti di plastica con dentro i loro oggetti. Non sembra che il duro lavoro in Arabia Saudita li abbia arricchiti. Alcuni sono scalzi. L’aria è rigida. Devono avere freddo con le loro camicie e i loro pantaloni, con i piedi nudi sulla dura terra.
Qual era stato il motivo della loro espulsione? Le autorità saudite avevano dichiarato che si trattava di migranti entrati nel paese senza documenti. Avevano attraversato il pericoloso golfo di Aden su imbarcazioni di fortuna. L’Arabia Saudita accoglie questi migranti, anche quelli senza documenti, soprattutto perché offrono il loro lavoro a prezzi molto bassi, e in condizioni molto dure. A intervalli regolari, il governo di Riyadh se la prende con questi lavoratori irregolari arrestandoli in pubblico, rinchiudendoli in campi d’espulsione e poi rispedendoli nel paese d’origine.
Tra il giugno e il dicembre 2017 le autorità saudite hanno detenuto 250mila cittadini stranieri e rispedito a casa 96mila etiopi. Quando il governo saudita vuole essere particolarmente crudele, trasporta gli etiopi sul confine tra l’Arabia Saudita e lo Yemen e li lascia dalla parte yemenita. Lo Yemen, che è ancora bersagliato quasi quotidianamente dai bombardamenti sauditi, non è il luogo migliore per accogliere degli etiopi disperati.
Le autorità che permettono a migranti senza documenti di entrare nel paese per poi umiliarli con questo genere di pubbliche espulsioni, di fatto ricattano i lavoratori consentendo ai trafficanti di esseri umani e ai datori di lavoro di mantenere i salari ai livelli più bassi possibile. Non c’è nessuno con cui lamentarsi.
Gli etiopi continuano ad andare in Arabia Saudita a causa della grave crisi del loro paese. Tra i sei e i nove milioni di etiopi hanno avuto bisogno di aiuti alimentari di qualche tipo nel 2017, visto che gravi siccità e povertà hanno contribuito a creare una situazione di quasi carestia. Nell’Etiopia sudorientale, da dove provengono molti dei migranti, la siccità ha decimato le mandrie di bestiame e ridotto la produzione agricola. Si tratta della stessa area nella quale l’Etiopia accoglie 894mila profughi provenienti da Eritrea, Somalia, Sud Sudan e Sudan. Questi rifugiati arrivano qui spinti dalla fame e dalle guerre. Solo nel 2017 sono arrivati in Etiopia 106mila profughi, la maggior parte dal Sud Sudan (sono 420mila i cittadini di questo paese oggi in Etiopia). Un paese che accoglie quasi un milione di profughi, a sua volta in grave crisi, ne spedisce forse un milione nella penisola araba (nella sola Arabia Saudita sono mezzo milione). Questo movimento circolare di profughi è uno degli elementi che definisce oggi il nostro pianeta.
Non riesco a togliermi dalla testa l’immagine delle persone scalze. I lavoratori etiopi affermano di essere quotidianamente maltrattati in Arabia Saudita, che si tratti di violenza sessuale sulle donne che lavorano come domestiche, di violenze fisiche su ogni tipo di lavoratori e di molestie della polizia. La cosa è diventata normale. È così che vivono ormai.
La dura realtà
All’inizio dell’anno sono andato a Dhaka, in Bangladesh, e ho visitato la Drik Gallery III, dove ho potuto vedere la mostra fotografica di Shahidul Alam dedicata ai migranti che dal Bangladesh raggiungono la Malesia. Le foto mostrano la speranza negli occhi dei migranti e il grande senso di delusione quando la vita si rivela, per molti di loro, diversa da quella che gli era stata promessa. Le fotografie di Alam sono scintillanti e la sua personale compassione fa emergere i sentimenti con grande sincerità dagli uomini e dalle donne che fotografa.
Alam mi ha dato il suo libro, The best years of my life (I migliori anni della mia vita), che raccoglie le foto che ho visto nella galleria, accompagnate da un suo testo commovente. Il libro racconta il viaggio di migranti del Bangladesh che, alla ricerca di un sogno, raggiungono i campi e le fabbriche della Malesia, dove lavorano per salari bassi e sono ingannati dai trafficanti, dai funzionari e dagli altri migranti. La speranza di guadagnare abbastanza da aiutare le loro famiglie rimaste a casa spinge i migranti a sacrifici indescrivibili. Sahanaz Parben ha un figlio di undici anni che la chiama zia: a malapena la conosce. I figli di Babu Biswas lo hanno visto, brevemente, tre volte in dieci anni. “Stanno bene”, dice l’uomo.
Lo status legale di questi migranti è spesso poco chiaro. Ed è proprio il loro fragile status che li obbliga ad accettare paghe misere. Ma il denaro dei migranti “illegali” non è illegale. In Bangladesh è il benvenuto. Sono circa nove milioni (secondo la Banca mondiale) gli emigrati del Bangladesh che spediscono a casa 15 miliardi di dollari. Su una media di cinque anni, si tratta del 10 per cento del prodotto interno lordo (pil) del Bangladesh.
Non è una percentuale alta come quella della Liberia, dove circa un quarto del pil proviene dalle rimesse dei lavoratori migranti. Queste economie crollerebbero senza le piccole somme di denaro che milioni di lavoratori spediscono e che costituiscono buona parte della valuta estera che arriva in questi paesi.
Vale la pena notare che gli investimenti esteri (ide) che arrivano in Bangladesh rappresentano appena lo 0,9 per cento del suo pil. Le rimesse dei lavoratori hanno un peso decisamente più importante sull’economia rispetto agli ide provenienti da banche e aziende straniere. Eppure, come rileva Alam, il governo del Bangladesh tratta con disprezzo i migranti.
L’alto commissario Mohammed Hafiz sembra una persona abbastanza per bene. Ma ha sostanzialmente rinunciato a fare il suo dovere. “Che posso fare?”, dice. Hanno ragione gli attivisti. Parimala Narayanasamy, del Coordinamento d’azione e ricerca sugli aiuti e la mobilità (Caram), spiega ad Alam che “i governi dei paesi di provenienza dovrebbero dire pubblicamente e chiaramente che se ci sono paesi che hanno bisogno di lavoratori, sono i paesi d’origine dei lavoratori stessi a dover fissare termini e condizioni”. Ma è esattamente quello che non viene fatto, né da parte del governo del Bangladesh né da parte dell’Etiopia, i quali invece trattano i banchieri e i dirigenti d’azienda stranieri come eroi, e da criminali i loro concittadini che spediscono quantità di denaro molto più consistenti.
All’aeroporto internazionale Shahjalal di Dhaka, ricarico il mio telefono. Due uomini vengono da me e mi chiedono di usare il mio caricatore. Sono diretti nel golfo Arabo. Non ho il caricatore giusto per il loro telefono. Una donna viene da me, mi porge la sua carta d’imbarco e mi chiede a che ora è previsto il suo volo per Abu Dhabi. Al suo arrivo l’accoglierà il suo datore di lavoro. Cerca il biglietto nella sua borsa, dove sono contenuti pochissimi oggetti. Uno dei due uomini le chiede se ha un caricatore. Lei non ce l’ha. Si sorridono a vicenda. Hanno moltissimo un comune. Troveranno un modo di aiutarsi a vicenda. È così che fanno questi lavoratori. Si aiutano a vicenda e aiutano le loro famiglie. E tutti li considerano una seccatura.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Abbiamo ripreso questo articolo dall', che l'ha a sua volta preso e tradotto da Alternet.
tiscali.it
Guerre che non finiscono mai e che forse mai vinceremo. E’ questa l’impressione che si ha guardando agli attentati in Afghanistan e in Libia, oppure all’operazione Ramoscello d’Ulivo della Turchia contro i curdi siriani. Eppure la novità della globalizzazione è proprio questa: vincere le guerre non serve. Sulle nevi di Davos, al Forum economico mondiale dove sta per arrivare The Donald, lo sanno bene ma fanno finta di parlare di altro. Per coprire veri o presunti fallimenti basta fare la dichiarazione opportuna: James Mattis, il capo del Pentagono, è stato chiaro, la guerra al terrorismo non è più una priorità, i veri nemici sono Russia e Cina. Basta cambiare obiettivo, come si cambia un vestito, e tornare al classico della guerra fredda, o riscaldata.
L’Iraq nel caos dopo il 2003
Il sospetto che vincere la guerra non fosse più un obiettivo ci aveva già colti a Baghdad nel 2003, quando il Paese sprofondò in un marasma dal quale non è più uscito. L’Iraq era stato in guerra otto anni con l’Iran (1980-88), Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait nel ’90 e poi era stato sconfitto nel ’91 da una coalizione a guida americana. Dodici anni di sanzioni poi il dittatore è caduto ed è cominciato un decennio di terrorismo. Infine, nel 2014, è arrivato anche il Califfato. Ma dopo la sconfitta dell’Isis, a Baghdad gli attentati continuano. Questo non impedirà di dare il via in Kuwait a un’affollata conferenza sulla ricostruzione dell’Iraq: business is business, soprattutto quando è alimentato dal petrolio.
In questi anni non si è mai visto niente di più ipocrita e di meno umanitario delle guerre “umanitarie”, di guerre per “esportare la democrazia” e “salvare popoli” che sono stati poi abbandonati a un destino che neppure loro hanno potuto decidere.
Afghanistan, il conflitto più lungo e costoso degli Usa
Chi oggi ragionevolmente può prevedere la pacificazione dell’Afghanistan, il conflitto più lungo e costoso mai intrapreso dagli Stati Uniti? Dopo avere proclamato che avrebbe ridotto la presenza militare a Kabul, anche il presidente americano Donald Trump ha deciso di aumentare le truppe Usa, da 8mila a oltre 14 mila uomini. Ma è una guerra che si può vincere? Sembra di no perché nel 2007-2008 c’erano tra truppe americane e Nato oltre 150mila uomini e oggi almeno un terzo del territorio afghano è controllato dai talebani o dai gruppi jihadisti. “Prima regola della politica: mai fare la guerra in Afghanistan”, disse il premier britannico Anthony Eden negli anni Trenta. Ma soprattutto mai fare la guerra in Afghanistan senza avere degli alleati tra i vicini dell’Afghanistan. Gli Usa si oppongono all’Iran, considerato un regime da cambiare e Trump ha anche litigato con il Pakistan congelando gli aiuti americani. Il vero motivo dell’acredine di Washington è che i pakistani sono alleati di Pechino e ospitano 13mila soldati cinesi. Il Pakistan considera l’Afghanistan parte della sua profondità strategica, difficilmente sarà pacificato senza la sua collaborazione.
Dopo Gheddafi la Libia è divisa in due
Un altro esempio di guerre che con finiscono mai è la Libia. Nel 2011 i francesi gli inglesi e gli americani bombardarono il Colonnello Gheddafi. Erano già caduti il tunisino Ben Alì e l’egiziano Mubarak, questo era il loro tentativo di dirigere da fuori le primavere arabe prendendo il controllo delle risorse energetiche e della geopolitica della regione. Già allora si capiva che la rivolta di Bengasi avrebbe spaccato il Paese, una creatura coloniale italiana: Tripolitania da una parte, Cirenaica dall’altra. Mentre i confini della Libia sprofondavano di mille chilometri, aprendo la via a un enorme flusso di profughi e alla destabilizzazione jihadista di Al Qaida e poi dell’Isis. Dopo la disgregazione dell’Iraq ne cominciava un’altra. Come se questo non bastasse la Francia, l’Egitto e la Russia hanno sostenuto in questi anni il generale Khalifa Haftar con l’idea di mettere un uomo forte a capo del Paese. Ma neppure Haftar, dopo avere annunciato qualche la liberazione “definitiva” di Bengasi da salafiti e jihadisti, controlla completamente la Cirenaica.
La Siria è la guerra più devastante di tutte
Non è più tempo di dittatori “forti” alla Saddam, che poi magari sfuggono al controllo, ma di autocrati a mezzo servizio che possono essere manovrati. Assad è un esempio. Dopo aver pensato di abbatterlo, si è capito che è meglio lasciarlo al suo posto, dimezzato, a fare il “lavoro sporco”. La Siria è la guerra più devastante di tutte. La peggiore perché studiata a tavolino per sfruttare la rivolta popolare non soltanto per cambiare un regime ma l’intero assetto geopolitico del Medio Oriente. Un’operazione fallita in Iraq nel 2003 per l’alleanza tra il governo sciita di Baghdad e l’Iran.
E’ stato il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, con il pieno appoggio di Francia e Gran Bretagna, a dare il via libera alla Turchia per aprire “l’autostrada del Jihad” e far affluire migliaia di combattenti in Siria. Nasceva una sorta di Afghanistan a un passo dall’Europa. Il 6 luglio del 2011 l’ambasciatore Usa Ford passeggiava con i ribelli di Hama, era il segnale che il conflitto poteva cominciare con il sostegno logistico della Turchia e quello finanziario dell’Arabia Saudita e del Qatar. Assad si sera rifiutato di rompere l’alleanza con l’Iran degli ayatollah, nemico giurato di americani, sauditi e israeliani, un ostacolo alle mire egemoniche di Erdogan sugli arabi. L’intervento della Russia nel 2015 ha cambiato il destino della guerra e la Turchia ha dovuto piegarsi a Mosca e Teheran.
La Turchia contro i curdi siriani
Ora Erdogan prova a incenerire i curdi siriani, ritenuti alleati del Pkk che da quasi 40 anni conduce la guerriglia nel Kurdistan turco. Questa volta si ha l’impressione che gli Usa lasceranno ai turchi la possibilità di creare una “fascia di sicurezza” dentro al territorio siriano. Dopo avere usato i curdi contro l’Isis, gli americani metteranno le loro basi nel Nord della Siria.
Lo ha confermato il segretario di Stato Rex Tillerson. Pur essendosi allontanata dall’Alleanza, la Turchia resta un Paese della Nato, con basi e missili puntati contro Mosca e Teheran, e giustificherà la permanenza in Siria degli americani che stanno facendo un cinico doppio gioco tra i curdi e i turchi. In cambio della fascia di sicurezza turca, la Russia e il governo di Damasco avranno mano libera per recuperare il controllo di Idlib. Israele è soddisfatto perché con queste presenze militari straniere (comprese quelle delle milizie filo-sciite e di quelle sunnite) si legittima ancora di più l’occupazione israeliana del Golan in corso dal 1967. Al vertice asiatico di novembre a Da Nang (casualmente in Vietnam) Stati Uniti e Russia avevano pubblicato un comunicato congiunto a favore “ della sovranità e dell’integrità territoriale della Siria”. Il che tradotto significava: “Siamo noi a fare le fette di torta per tutti in Siria”. Ovviamente non si tratta di soluzioni stabili ma in Medio Oriente a volte ciò che è precario rischia di diventare definitivo perché nessuno restituisce quello che si è preso.
I costi delle guerre
Le guerre che non finiscono mai costano. Quindi l’Occidente e la Russia dovranno vendere armi ai loro alleati e clienti per recuperare i bilanci della Difesa. Più difficile spiegare all’opinione pubblica che queste guerre hanno portato il terrorismo in Europa e centinaia di migliaia di profughi che continueranno ad affluire dalle aeree di conflitto, scendendo a patti con autocrati come Erdogan perché non riapra il rubinetto dei rifugiati. Anche qui però la politica aiuta: basta dire come il generale Mattis che il terrorismo non è più il principale obiettivo ma quello di contenere Mosca e Pechino.
Credere davvero a queste acrobazie però non è facile. Lo dice anche chi ci governa. Il viceministro degli Esteri Mario Giro, in un libro appena uscito, “La Globalizzazione difficile (edito da Mondadori Università), scrive testualmente: “Il fatto di non riuscire a chiudere le guerre, a risolverle, non rappresenta più uno scandalo dell’impotenza umana e della rassegnazione politica ma viene considerato un dato normale, prevedibile quasi biologico”. In questo contesto la pace, aggiunge, sembra davvero una cosa da ingenui. Non serve vincere le guerre ma farle, soprattutto un pò lontano da casa.
il manifesto,
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Raccolte oltre 40mila firme. Viola Carofalo: "Siamo gli unici che non rischiano di sciogliersi prima delle elezioni"»
Superato l’ultimo ostacolo in un collegio della circoscrizione Sicilia 1, è adesso ufficiale che alle elezioni del 4 marzo ci sarà anche la lista di sinistra Potere al Popolo! Liste e firme vengono consegnate stamattina alle 11.30 nelle corti d’appello, l’annuncio diffuso ieri ai militanti in giro per l’Italia è già di festa: «Portate i moduli, lo spumante, i dolci, le bandiere, le trombette, fate venire le persone da tutta la regione, trasformiamo un atto burocratico in una grande presa di parola collettiva». Servivano poco più di 25 mila firme, ne hanno raccolte in pochi giorni più di 40mila.
Nata a Napoli in un’assemblea del centro sociale Je so’ pazzo la notte successiva al definitivo fallimento delle assemblee del Brancaccio, la proposta di una lista che tenesse assieme movimenti e partiti della sinistra radicale è cresciuta attraverso 150 assemblee territoriali e l’adesione di Rifondazione comunista, Partito comunista italiano, Sinistra anticapitalista e rete Eurostop. Il nome riprende lo slogan con il quale il centro sociale napoletano conclude da tempo si suoi comunicati – richiamo al motto all power to the people del Black panther party – il simbolo è tutto nuovo. «Ce ne avevano proposto uno incredibile che aveva dentro tutto: la bandiera italiana, la parola sinistra, un pugno, una stella e la falce e martello. Uno dentro l’altro, sembrava disegnato da Escher», raccontano i militanti napoletani. Che hanno fatto di testa loro.
L’invito alle assemblee è stato invece quello di scegliere i candidati nelle liste senza votazioni, ma con la discussione. Qualche volta ci si è persino riusciti. «Mentre tutte le forze politiche dal Pd a Liberi e Uguali litigano sulle candidature per spartirsi tra ceti politici le poltrone in palio – dice Viola Carofalo, portavoce che per la legge elettorale è il capo politico della lista, ma che non sarà neanche candidata – mentre i cinque stelle dimostrano ancora una volta la mancanza di democrazia delle parlamentarie, noi, che abbiamo iniziato dal basso e senza mezzi, siamo riusciti in pochissimi giorni a raccogliere le firme e a elaborare le candidature che vengono soprattutto dalle vertenze e dalle lotte del territorio».
Negli elenchi, maggioranza di donne capolista nel proporzionale alla camera, 35 (il 56%) contro 28 uomini (44%). Tra le candidate la partigiana e pacifista Lidia Menapace a Trento, a Verona Patrizia Buffa, impegnata nelle lotte contro le mafie, Stefania Iaccarino nel Lazio, protagonista della vertenza contro Almaviva, Nicoletta Dosio, storica attivista No Tav, capolista nel plurinominale in Piemonte 2. Altri candidati di movimento sono Giovanni Ceraolo che viene dalle lotte per la casa a Livorno e Gianpiero Laurenzano, impiegato di banca impegnato nel Clash city workers, Giuseppe Aragno, professore di storia che correrà a Napoli nel collegio del Vomero dove Renzi ha schierato Paolo Siani. I segretari di Rifondazione Maurizio Acerbo e del Pci Mauro Alboresi sono capolista rispettivamente a Roma e in Emilia Romagna 3. Giorgio Cremaschi in Campania 1.
«Abbiamo scelto i nostri candidati alla luce del sole – dice ancora Viola Carofalo – per condividere con tutti le scelte e le ragioni del programma. Siamo l’unica lista che non rischia di sciogliersi prima ancora di iniziare la campagna elettorale». La soglia di sbarramento del 3% sembra lontanissima, anche se il fatto di essere ostinatamente esclusi da ogni sondaggio autorizza almeno a sognare. «Se andrà male avremo fatto comunque un passo in avanti, messo in contatto realtà di movimento che non si conoscevano, imparato a fare cose che prima non sapevamo fare. E non finisce qui».
Internazionale e R.it, g
Internazionale 18 gennaio 2018
È una sorta di cambio generazionale. Il 14 gennaio l’intero apparato dirigente palestinese ha constatato la totale impasse di quello che non possiamo più chiamare processo di pace e ha minacciato di sospendere il riconoscimento di Israele fino a quando lo stato ebraico non riconoscerà uno stato palestinese all’interno delle frontiere del 1967.
Mahmoud Abbas, presidente dell’autorità palestinese, ha definito “lo schiaffo del secolo” la decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, che la Casa Bianca considera ormai come la capitale di Israele e non più come una città da dividere, un giorno, in due capitali di due stati diversi. In questa riunione di uomini anziani, ormai consapevoli di aver fatto il loro tempo senza ottenere risultati, si percepiva una rabbia fredda.
La determinazione di Ahed
Nel 2012, quando Ahed aveva 12 anni, era già diventata famosa agitando il pugno verso un altro soldato minacciando di “rompergli la testa”. Un anno fa aveva morso un altro militare per impedirgli di interrogare suo fratello. Ora è arrivato lo schiaffo, filmato dalla madre e diventato virale sui social media.
Nata in una famiglia che ha scelto la non violenza, incarna una nuova generazione palestinese che non crede più al processo di pace Definita da Haaretz, quotidiano di riferimento israeliano, la “Giovanna d’Arco palestinese”, Ahed rappresenta per la giustizia militare un problema irrisolvibile, perché la sua liberazione le avrebbe permesso di presentarsi come un’eroina al processo mentre la sua detenzione la rende una martire, una ragazzina vittima dei soprusi di un’esercito potente.
I giudici militari hanno scelto di confermare la detenzione di Ahed considerandola il rischio minore. In ogni caso è evidente che questa adolescente, nata in una famiglia che ha scelto la non violenza, incarna una nuova generazione palestinese che non crede più al processo di pace e nemmeno alla soluzione dei due stati, decisa a battersi solo per il riconoscimento dei propri diritti e della propria dignità.
Il fallimento del negoziato ha insegnato a questa generazione che oggi essa non vive nella virtualità della Palestina, ma nella realtà di uno stato di Israele che comprende la Cisgiordania, uno stato unico a cui chiedere diritti civili, più difficili da rifiutare rispetto a un insieme di frontiere, uno stato e una capitale.
R.it 16 gennaio 2018
GERUSALEMME, PROLUNGATO IL CARCERE
(AsiaNews/Agenzie) – La corte militare israeliana di Ofer - 140 km circa a nord di Gerusalemme - ha prolungato per la quarta volta la detenzione di Ahed Tamimi, adolescente palestinese di 16 anni protagonista di un video virale in cui schiaffeggia un soldato israeliano, si apprende da AsiaNews. All’udienza di ieri, oltre alla famiglia della ragazza erano presenti personalità diplomatiche straniere e attivisti per i diritti umani. Il suo caso verrà esaminato di nuovo domani dopo “ulteriori indagini”.
Il video risale al 15 dicembre. Saputo che il cugino di 15 anni era stato ferito da un colpo alla testa ravvicinato durante una protesta, Tamimi si era scagliata contro i soldati israeliani entrati nel suo villaggio vicino Ramallah, che non hanno reagito. La giovane è stata poi arrestata nella notte del 19 dicembre. Gaby Lasky, avvocato della giovane militante, accusa le autorità israeliane di violare la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, secondo cui il carcere per un minore deve essere “un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile”.
Su di lei pendono anche altri reati. Su Tamimi pendono una decina di capi d’accusa anche per fatti passati, fra incitamento, assalto e lancio di pietre, per le quali le autorità non l'avevano mai perseguita. Il procuratore militare chiamerà 18 testimoni, per lo più soldati. Il processo potrebbe durare diversi mesi. Le corti militari israeliane negano ai minori palestinesi il rilascio su cauzione nel 70% dei casi. Un rapporto Unicef del 2013 riporta che quasi tutti i bambini e ragazzi si dichiarano colpevoli per ridurre la detenzione preliminare.
Ogni mese sono detenuti da Israele in media tra i 200 e i 300 minori. Fonti: No Way to Treat a Child, Military Court Watch, Save the Children, Addameer
Come vengono trattati i minori arrestati? Dalle interviste ai minori che sono stati detenuti, dal materiale video e dalle testimonianze degli avvocati emerge che le forze di sicurezza israeliane usano forza e violenza non necessarie durante l’arresto e la detenzione dei minori, che sono a volte picchiati e spesso tenuti in condizioni non sicure e pericolose. Fonte: HRW.
Arresti violenti: Molti minori sono arrestati in piena notte, svegliati nelle loro case da irruzioni di soldati pesantemente armati. Molti sono svegliati dai soldati che picchiano sulla porta d’ingresso, lanciano granate stordenti e ordinano urlando alla famiglia di uscire dalla casa. Bambini e ragazzi raccontano di essere terrorizzati dalle irruzioni dei soldati, che spesso distruggono mobili e finestre, lanciano accuse e minacce verbali e costringono i familiari a uscire di casa svestiti mentre i minori imputati sono portati via con la forza. Vengono date spiegazioni vaghe come “viene con noi, ve lo riporteremo dopo” o viene detto semplicemente che il minore è “ricercato”. Solo in pochi casi viene comunicato dove, perché o per quanto tempo il minore sarà detenuto. Fonte: UNICEF
Altri minori sono stati arrestati mentre giocavano o appena usciti da scuola, davanti a tutti i loro amici. A volte vengono presi a calci, picchiati o soffocati durante l'operazione. Le manette di plastica sono regolarmente strette al punto da provocare lesioni e ferite ai polsi. Quasi tutti sono bendati e legati durante il trasferimento, e la maggior parte riporta di aver subito violenza fisica durante l’arresto (fonte: DCI).
Interrogatori traumatici e illegittimi: Le forze di sicurezza israeliane sottopongono regolarmente i minori a interrogatori violenti che durano intere settimane, senza la presenza dei genitori. Usano intimidazioni, minacce e violenze fisiche, con il chiaro intento di costringere il minore a confessare. I minori sono tenuti legati durante l’interrogatorio, spesso alla sedia su cui sono seduti. Questa pratica può continuare per ore, causando dolore a mani, schiena, gambe e sfinimento. I minori sono stati minacciati di morte, isolamento e violenze fisiche e sessuali, contro di loro o i loro familiari.
il manifesto, 27 settembre 2018. non si può proprio dire che l'Italia fascista (e nemmeno quella prefascista) abbiano dovuto attendere Hitler e il nazismo per dimostrare queste virtù Le avventure in Abissinia, Somalia e Libia lo testimoniano, oltre le leggi antisemite del 1938.
Quest’anno il Giorno della Memoria coincide con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione ad opera di quel sovrano Vittorio Emanuele III al quale, se non altro per questa ragione, devono essere precluse le porte del Pantheon.
Come giustamente ricorda una importante pubblicazione edita l’anno scorso in Germania per gli ottanta anni dalle leggi di Norimberga, fu una iniziativa tutta italiana senza che vi fosse alcuna pressione da parte del Reich nazista, come si ostina a ripetere qualche tardo estimatore di Benito Mussolini.
Tutto quello che si può dire in proposito è che nell’Europa invasa dall’antisemitismo, l’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, ossessionata come era, fra l’altro, dallo spettro della contaminazione razziale. Frutto avvelenato dell’appena conquistato impero coloniale e della forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.
Come tutti i neofiti, anche il razzismo fascista ebbe il suo volto truce. La «Difesa della razza», l’organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante, ne forniva la prova in ogni numero contraffacendo le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo orripilanti quelle delle popolazioni nere.
Il tentativo di fare accreditare l’esistenza di una razza italiana pura nei secoli aveva il contrappasso di dare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda non impedì che essa facesse breccia in una parte almeno della società italiana e ancora oggi non è detto che essa si sia liberata dall’infezione inoculata dal fascismo, come stanno a dimostrare piccoli, ma numerosi episodi che si manifestano, e non solo negli stadi.
Non bisogna fra l’altro dimenticare che non solo tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale ebbe libero corso, ma che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
In nome della purezza della razza il regime costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento ebrei che in altre parti d’Europa si erano illusi di trovare un rifugio non precario entro i confini italiani; ma costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una componente culturale che, nella più parte dei casi, non avrebbe fatto ritorno in Italia neppure dopo la liberazione anche a causa degli ostacoli non solo burocratici alla reintegrazione di quanti erano stati costretti a espatriare e che per tornare a esercitare il proprio ruolo in patria non avrebbero potuto contare su nessun automatismo.
Le leggi contro gli ebrei costituirono un’ulteriore penetrazione del regime nel privato dei cittadini: il divieto dei matrimoni con cittadini ebrei; l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; l’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.
Di fatto, ma anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B, preludio dell’ostracismo generalizzato sancito dalla Repubblica Sociale che proclamò semplicemente gli ebrei cittadini di stati nemici, quasi a dare la motivazione non solo ideologica per la parteicpazione italiana alla Shoah.
Ancora oggi è difficile dare una valutazione sicura delle reazioni della popolazione italiana alle leggi razziali. Le azioni di salvataggio compiute dopo l’8 settembre non devono ingannare a proposito dei comportamenti che si manifestarono prima dell’armistizio.
Gli stessi ebrei non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali. Il fanatismo della stampa, in particolare nella congiuntura bellica in cui gli ebrei vennero imputati di tutti i disastri del Paese, andava probabilmente oltre il tenore dello spirito pubblico che oscillava tra indifferenza e cauto plauso, aldilà del solito stuolo dei profittatori.
Le autorità periferiche non ebbero affatto i comportamenti blandi che qualche interprete vuole tuttora addebitare loro. Il conformismo imperante coinvolse la più parte della popolazione. Il comportamento timido, più che cauto, della Chiesa cattolica non incoraggiò in alcun modo atteggiamenti critici che rompessero la sostanziale omogeneità dell’assuefazione al regime.
A ottanta anni di distanza la riflessione su questi trascorsi è ancora aperta e si intreccia con alcuni dei nodi essenziali della storiografia sul fascismo (per esempio la questione del consenso).
È una storia che deve indurci ad approfondire un esame di coscienza collettivo alle radici della nostra democrazia e a dare una risposta a fatti che sembrano insegnarci come la lezione della storia non sia servita a nulla se è potuto accadere che il presidente del tribunale fascista della razza diventasse anche presidente della Corte Costituzionale della Repubblica.
“La scelta dei nostri candidati non sul web ma in assemblea” Spesso si parla alla pancia delle persone – aggiunge -: si fa gioco sul razzismo, sui più bassi istinti. Noi vogliamo parlare alla testa e al cuore delle persone e dire che può esistere un’Italia solidale, più equa, più giusta dove non si venga sfruttati sul lavoro, dove non si discrimini per il colore della pelle, dove non si alimenti l’odio per chi sta peggio di te. Ma dove si cerchi una solidarietà tra persone che vivono condizioni analoghe”. Quindi diversi dai partiti considerati oggi populisti, il Movimento Cinque Stelle, e la Lega Nord.
Il metodo di selezione dei loro candidati è uguale in tutto il Paese: non il web, modus operandi del Movimento 5 Stelle, né le segreterie di partito, come avviene nelle formazioni politiche tradizionali. “Potere al Popolo ha scelto i suoi candidati in Italia nelle assemblee territoriali; ogni territorio sarà rappresentato da chi ne è stato il principale portavoce di lotte e battaglie”, spiega Viola Carofalo.
“Il lavoro deve essere stabile e non precario“, precisa la ricercatrice, secondo cui vanno abolite tutte le riforme approvate dai governi degli ultimi 20 anni “dal Jobs Act alla riforma Fornero, dal pacchetto Treu alle riforme che hanno peggiorato le condizioni dei lavoratori e degli sfruttati di questo Paese”. Al Sud “tutte le contraddizioni che viviamo nel Paese, dalla sanità, al lavoro, alla scuola, si vivono doppiamente. Partiamo dai territori – riflette Carofalo – che da troppo tempo sono stati abbandonati”. E quello che chiede Potere al Popolo è un governo che sia finalmente attento “ai diritti sociali”. “Dalla Buona Scuola ai tagli inflitti alla sanità: bisogna fare marcia indietro – spiega il candidato premier – e andare avanti verso un nuovo Stato sociale in cui tutti abbiano la possibilità di essere curati, di avere accesso a una istruzione adeguata, a una vita degna. Che è quello che non ci è stato dato negli ultimi anni”.
“De Luca è inqualificabile, non solo per il livello politico ma anche umano. E per noi le biografie delle persone contano: lui è l’incarnazione dell’arroganza della politica, del fregarsene dei bisogni di chi dovrebbe rappresentare”. Questo il giudizio di Carofalo sul governo della Regione Campania, guidata da Vincenzo De Luca.
Articolo ripreso dall'agenzia DIRE. qui raggiungibile
Sono trascorsi due anni da quel 25 gennaio e ancora le autorità egiziane si ostinano a non rivelare i nomi di chi ha ordinato, di chi ha eseguito, di chi ha coperto e ancora copre il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Per questo motivo, oggi in decine di città italiane si accenderanno migliaia di candele alle 19.41, l’ora del 25 gennaio di due anni fa in cui Giulio venne visto per l’ultima volta.
«In questo secondo anniversario di lutto e di domande che la famiglia Regeni fa da 24 mesi senza ottenere risposte, è fondamentale non consegnare Giulio alla memoria, rinunciando a chiedere la verità» – dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. «Noi proseguiamo a coltivare una speranza: che quell’insistere giorno dopo giorno a chiedere la verità, quelle iniziative che quotidianamente si svolgono in Italia e non solo producano il risultato che attendiamo: l’accertamento delle responsabilità per la sparizione, la tortura e l’uccisione di Giulio. Quella verità la deve fornire il governo egiziano e deve chiederla con forza quello italiano».
Al contrario il governo italiano con un colpo di spugna ha ripreso le relazioni diplomatiche e inviato al Cairo l’ambasciatore Cantini, in nome dei buoni affari e delle strette relazioni ecoomiche avviate in questi ultimi anni con l’Egitto, in particolare nel settore energetico. La famiglia Regeni, chi crede nella giustizia, chi non si arrende alla “ragion di stato”, continuano a reclamare quella verità che Roma e il Cairo hanno deciso di occultare.
Articolo tratto da NENAnews online, pagina raggiungibile qui
Huffington post
«Storia di un comunista: l'Italia degli anni '70-80, i teoremi politico-giudiziari, Pannella, Rodotà...»
Vale la pena leggere Storia di un comunista perché non tratta della mera difesa di un uomo cui è toccata la parte di "prigioniero da esibire", come Negri pure scrive nel libro, di "capro espiatorio di una stagione di insuccessi del potere nel reprimere la rivolta dei movimenti cominciata nel '68".
No: Storia di un comunista è un'autobiografia intellettuale e sentimentale, la biografia di un'intera generazione e la rivendicazione di una filosofia di vita e di lotta: l'Autonomia, richiesta collettiva di "trasformazione e partecipazione". Niente a che fare con lo "sciovinismo militarista" delle Brigate Rosse, che Negri si ritrovò come compagni di carcere, con cui si scontrò proprio lì tra le sbarre fino a riceverne minacce di morte e fino a scrivere "Terrorismus, nein danke!" ("Terrorismo, no grazie!"), testo pubblicato su 'il manifesto' nell'81 e riportato nel libro.
Parlava di dissociazione dalla lotta armata. "La linea armata della lotta di classe - scriveva - non è solo effettualmente sconfitta, ma logicamente scartata da un movimento di lotte che non vede, nella lotta armata, necessità di rigore e conseguenze". Le Br vengono accusate di aver "strumentalizzato" le rivolte nelle carceri: "L'assassinio politico è oggi prima di tutto assassinio delle lotte". Dalla primavera del 1979 "la ricchezza delle alternative politiche è stata tolta di mezzo e, attraverso la distruzione di ogni tessuto politico, si è di fatto affidata alle Brigate Rosse una rappresentanza globale del movimento, che faceva gioco sulla decisione statale di costruire un simulacro di guerra civile".
Un discorso che metteva a fuoco lo strabismo istituzionale e che arrivò anche in Parlamento, quando la Camera discusse e approvò la richiesta di autorizzazione a procedere per Toni Negri, deputato eletto nelle liste dei Radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino. "Mi permetto di ricordarvi - diceva allora all'aula - che quando il processo politico diviene una funzione propria dello Stato, il pericolo di degradazione delle istituzioni è molto forte...", dovrebbero "esistere regole che distinguono il processo dalla prevaricazione e che delimitano il potere".
In aula, la difesa di Stefano Rodotà, allora deputato della Sinistra indipendente: "La Repubblica ha veramente timore del deputato Antonio Negri libero? Se concludessi in questo senso, dovrei dire non essere vero che il terrorismo è stato battuto...". In aula il tradimento dei Radicali, che si astennero risultando determinanti per la concessione dell'autorizzazione: 300 sì, 293 no. Pannella "giacobino individualista", scrive Negri nell'autobiografia, salvando però Emma Bonino, che lo aiuta a scappare da un'intervista a Parigi, quando ormai Negri è già lì tra gli esuli italiani 'salvati' dalla dottrina Mitterand.
Comune-info.net. gennaio 2018.
Dopocapodannoa Sezano
3-4-5 gennaio 2018
PRIMA PARTE
Il compito che mi è stato assegnato è di guardare al tema dei “vinti” in chiave sociale. In questa ottica i “vinti” sono i dominati, i deprivati, gli inferiorizzati, gli emarginati, gli esclusi, gli “scarti” (per usare un’espressione di papa Bergoglio), le vittime, insomma, dei sistemi economici-sociali- istituzionali che penalizzano, umiliano fino a mortificare le persone infliggendo loro varie sofferenze.
Penso che in Italia nessuno meglio di Danilo Dolci e Nuto Revelli sia riuscito a dare la parola agli “sconfitti” della società. Il mio, quindi, vuole essere solo un invito a riprendere in mano i loro lavori, troppo presto dimenticati. Di Dolci ricordo Racconti siciliani (che è una selezione di interviste/racconti raccolti tra il 1952 e il 1960) e di Revelli, i due volumi de Il mondo dei vinti (testimonianze contadine raccolte nel Cuneese nel dopoguerra).
Sono le strutture e le logiche di potere/dominio/coercizione che creano subordinazione, sfruttamento fino alla perdita di autonomia e alla disumanizzazione dei “perdenti”.
Le scelte di vita di Dolci sono esemplari. Nato a Sesana, vicino a Trieste, renitente al servizio militare nel ’43, riesce a fuggire all’arresto da parte delle SS e a riparare negli Abruzzi. Finita la guerra, studia a Milano architettura e lavora come insegnate a Sesto San Giovanni. Le sue grandi passioni sono la musica e la poesia. Pubblica presto e diventerà un affermato poeta vincendo anche un premio Viareggio. Incontra padre Turoldo e la sua filosofia: “Godi del nulla che hai, del poco che basta giorno per giorno: e pure quel poco se necessario dividilo”. Nel 1950 lavora con don Zeno Santini alla Comunità Nomadelfa per orfani della guerra a Fossoli (Carpi) riutilizzando una parte dell’ex campo di concentramento. Ma ben presto anche questa struttura gli appare troppo protetta e va nella profonda Sicilia occidentale, a Trappeto, frazione di Partinico sul Golfo di Castellamare, che conosceva già perché suo padre vi era stato come capo stazione.
Cosa trova Dolci a Trappeto? Ce ne dà un’idea Carlo Levi ne Le parole sono pietre : “Scendemmo con lui nel Vallone, per le strade miserabili e putride, rivedemmo, ancora una volta, come in tanti altri villaggi e paesi del Sud, la grigia faccia della miseria; uomini senza lavoro, ‘disfiziati’, senza volontà e desideri, le madri senza latte, i bambini denutriti e ridotti a scheletri (...) Un uomo ancora giovane, dal viso smunto, infreddolito dalla tubercolosi, cercava, avvolto in uno scialle di lana, di scaldarsi al sole (...) Entrammo in un’altra casa dove vedemmo un uomo chiuso in una gabbia. La piccola stanza dove viveva tutta la famiglia era stata divisa con delle sbarre di ferro come quelle degli animali feroci, e nella gabbia camminava avanti e indietro un giovane dal viso bestiale, dai neri occhi terribili”. Era un infermo di mente.
Per molti mesi vive in una tenda ospite da amici del padre e poi costruisce un edificio con l’aiuto di amici e fonderà il Borgo di Dio. Inizia la sua attività di sociologo irregolare, di educatore informale, di animatore culturale, di attivista sociale. Animato da una profonda forza spirituale e da un metodo analitico rigoroso svolge un’infinità di azioni che nel suo Diario per gli amici descrive così:
Nel 1953 sposa Vincenzina, vedova di un sindacalista con cinque figli. Con Dolci ne avranno alti cinque.
Grazie alle inchieste e agli articoli di denuncia, Trappeto diventa un punto di riferimento per i maggiori intellettuali progressisti italiani e stranieri: Aldo Capitini, Norberto Bobbio, Vittorini, Calvino, Rodari. E poi: Erich Fromm, Bertrand Russell, Aldous Huxley, Lewis Munford, Paulo Freire, Johan Galtung... intrattengono rapporti con Dolci. Nasce il Centro studi ed iniziative per la piena occupazione, sulla ispirazione di Centri di Orientamento Sociale che Capitini aveva tentato di lanciare in Italia. Con i braccianti e i pescatori si organizzano digiuni, marce, scioperi alla rovescia.
Le parole d’ordine sono semplici: Pace e sviluppo, Acqua, Lavoro. Dolci e i suoi collaboratori arrivati da varie parti d’Italia e dall’estero subiranno vari processi ed anche incarcerazioni. Nel 1956, a seguito di uno sciopero alla rovescia con cui un gruppo di disoccupati intende ripristinare la strada comunale Trazzera Vecchia viene arrestato e carcerato per due mesi all’Ucciardone a Palermo come “individuo con spiccata capacità a delinquere”. Al processo sarà difeso da Pietro Calamandrei che svolgerà una celebre arringa, poi pubblicata in un libro Processo all’articolo 4.
Dolci sarà definito “il Gandhi siciliano”, uno “pseudo-apostolo”, ma riceverà critiche anche “da sinistra” per il suo eccessivo individualismo e il rifiuto a stare nelle logiche partitiche. Scriverà nel suo Diario per gli amici: “Alcuni (...) giudicano opportuna la nostra attività di informazione, ma deleteria la cura intima per il nostro prossimo più ferito in quanto ritarda con palliativi il rinnovamento della struttura. Rivoluzione: d’accordo. Non si può rimandare a domani il disoccupato che cerca lavoro perché ha i figli alla fame. Rivoluzione subito. Ma il modo della rivoluzione è essenziale. Se seminiamo piselli non nascono pesci. Se seminiamo morte ed inesattezze non nasce vita “ (p.219). E qui sono evidenti le sue radicate convinzioni nonviolente, gandhiane e tolstojane.
Le cronache delle sue iniziative e le sue conferenze lo fanno conoscere in tutto il mondo. Nel 1957 gli sarà conferito il Premio Lenin per il rafforzamento della pace tra i popoli (il Nobel dell’Unione sovietica). Accetterà quale riconoscimento della “validità delle vie rivoluzionarie nonviolente, accanto alle altre forme di azione e di lotta nell’affrontare la complessa realtà; la continua necessità di un’azione scientifica ed aperta, maieutica direi, dal basso”.
Negli anni ’60 Dolci riesce a raccogliere testimonianze e a formulare circostanziate accuse sul “sistema clientelare mafioso” che avvolge le istituzioni politiche della Sicilia e ottiene audizione presso la Commissione parlamentare antimafia dove depositerà dossier con i nomi “eccellenti” dell’allora ministro al commercio internazionale Bernardo Mattarella e del sottosegretario Calogero Volpe. Denunciato per diffamazione, Dolci verrà condannato – una delle sue tante sconfitte - ma la pena sarà condonata.
Sono centinaia le storie che Dolci riesce a farsi raccontare e costituiscono pezzi di letteratura. Ma ciò che interessa più a noi in questo contesto é scoprire che anche nelle persone più segnate dalla sofferenza, sventurate, sciagurate, “bandite” dalla società... emerge una umanità indomita. Sconfitte sì, ma mai vinte, potremmo dire. Perdenti nella impari lotta per la sopravvivenza in condizioni di estrema povertà, ma mai del tutto disumanizzate.
Solo per avere una piccola idea della bellezza di queste storie, riporto alcuni brevi stralci.
Rosario è un “verdurario”, un raccoglitore di ogni cosa: lumache, rane, anguille, granchi, carbonella, carbone lungo i binari, piombo nei poligoni di tiro.
Nonna Nedda racconta della violenza familiare.
“Quando ci danno legnate, ci mettiamo in un angolo e quelle che cadono cadono. C’è un Dio solo, e il marito è uno solo pure: - Uno è Dio, e uno è il marito,- si dice. Le carezze sono nostre, e le legnate sono nostre pure. Non si può uscire senza ordine suo: ci si deve passare la preferenza, l’ordine. Lui è padrone. (...) Giusto è che il marito picchia la moglie. Quando ha ragione, magari. Non è giusto? Magari linguaire, risponderci? Il marito non pretende, e picchia. (...) Quando una non ci ha che fare, si mette con una vicina e parla, accoppiata magari a quattro o cinque (...) Ci piace a parlare, per svariare il cervello. Quando affaccia il sole, ci affacciamo al sole. – Bih, - dicono, - il sole è affacciato, ha voglia a sparlare -. E io ci rispondo: -E allora il sole non ha affacciare mai? – Il sole è bello, quando si affaccia il sole, col sole si respira meglio. Una che si siede al sole piglia i pensieri di tutti i cristiani. Affacciare il sole vuol dire che la gente si siede in strada in conversazione.” (Racconti siciliani pp 91-93)
Leonardo è un pastorello di pecore e capre.
Da piccolo giocavo strad-strada, che facevo? Mi affitti a tredici anni: mio padre era pastore, e prima avevo fatto il pastore con lui. Le bestie quando uno ce l’ha sottocchio tutto l’anno poi le conosce. (...) Non sono tutte uguali a mungere: c’è quella più selvaggia, quella più mansa; c’è quella che ha le minne giuste, c’è quella che ce le ha più spostate: quella più dura e quella più molle a mungere. Da me si facevano afferrare, dagli altri non si facevano avvicinare.
Non le so contare, ma lo so da lontano se ce ne manca una. Guardo e guardo, fino che me ne accorgo. Le conosco una per una, quella è figlia di quella, quella e figlia di quella. Quante sono, le conosco tutte. Ci sono stato con cento pecore, con duecento. Le contava il padrone quando era ora. (...) Nomi non ne hanno. Quando ci getto una gridata, loro si voltano”. (Racconti siciliani pp 106- 107)
Xx è un truffatore incallito, baro, chiromante professionista, fabbricante di talismani, militare in Africa, frequentatore di bordelli, sifilitico... e fermiamoci qui.
“Io penso che se tutti gli esseri umani avrebbero la minima sensazione e comprensione di profondirsi che noi sulla terra fossimo provvisoriamente, i giorni i mesi e gli anni li dovremmo adorare, perché vedendoli trascorrere si trascorre la nostra vita, ragione per cui ci dovessimo tutti adorare, aiutarci uno con l’altro, come fisicamente, e come di tranquillizzarci l’animo gli uni con gli altri (...) il mondo è più in mano di queste persone egoiste, vendicative, che non si curano del bisogno del suo simile (...) L’uomo è così ignorante che trova più poesia nelle cose private, proibite, che nelle aperte. Come quando si è in galera, che se il carceriere lascia la porta aperta, non c’è la voglia di uscire nel corridoio; ma essendo chiusa, si patisce. E’ sempre per tutti così”. (Racconti siciliani pp 104-109).
Una amico di Palcido Rizzotto, sindacalista assassinato dalla mafia.
“Placido si era accorto che tutto, in questo stagno, andava in putrefazione. Qui è come acqua ferma: quando nasce la palude, le cose marciscono, germogliano gli in setti e nasce l’epidemia. Lui diceva: - Non credo che dovremo restare sempre bestie, qua; arriverà il tempo in cui la gente apre gli occhi -. (...) Non posso dare un giudizio: lui è morto e se è morto ha sbagliato, mi viene da dire, da un lato affettivo. Se giudico però da un altro lato, l’ideale di Placido era ammirevole, perché lui operava con tutto il cuore nell’interesse di tutta l’umanità” (Racconti siciliani p.264)
Angela, ha conosciuto suo marito a 15 anni
“Uscivo solo una volta la settimana per la messa, e dopo mi ritiravo subito. Non avevo frequenza con amiche ma avevo simpatia per i bambini e per le mamme. Le ragazze che conoscevo io erano quasi tutte come me.(...) Ci siamo sposati e per un po’ ha lavorato ancora al cantiere [navale]. Una sera di queste mi ha detto: “Sai, devo imbarcarmi”. Gli ho detto: “Perché?”, ero in stato interessante, piangevo, non volevo che mio marito si distaccava, non volevo rimanere sola. Al cantiere prendeva poco, mio marito pensava che venendo i figli ci voleva una casa, bisognava pensare avanti (...) Ognuno non dovrebbe perdersi facilmente: vorrei che gli uomini siano affrattellati, che abbiano salute, lavoro, ma anche che ciascuno abbia il suo silenzio, sentirsi vivere, il corpo che lo desidera, e che tutti siano affratellati, associati sì, ma che mio marito possa stare più in casa”.
Nuto Revelli
La vita, l’impegno e i luoghi di Nuto Revelli sono molto diversi. Nato nel 1919 è della “generazione del Littorio”. Diplomato geometra, ufficiale degli alpini e volontario allo scoppio della seconda guerra. Partecipa alla campagna di Russia – che chiamerà: “lunga marcia della follia”. Sopravvive alla disperata ritirata dal Don. Dopo l’8 Settembre del ’43 si unisce ai partigiani e diventa comandante della brigata Carlo Rosselli di Giustizia e Libertà operante nel cuneese, nelle Langhe. Il suo interesse per la vita delle persone delle classi subalterne e la sua passione per il “dialogo con la gente” incominciano già in caserma tra i commilitoni. Finita la guerra e spentasi “la fiammata della Resistenza”, incomincia a raccogliere una quantità enorme di testimonianze e interviste tra le famiglie dei contadini. Nasceranno i due volumi: Il mondo dei vinti (Einaudi, 1977) e L’anello forte (Einaudi 1985).
Quella di Marietta Ponzo è una delle testimonianze raccolte da Revelli in un borgo di montagna: “Siamo più in pochi su al Colletto, uno qui e uno là, dove un tempo vivevano cento persone (...) Oggi siamo padroni di un pezzo di terra che non vale niente. Il nostro domani? Scendere in pianura, scendere in città a morire in quelle scatole che sembrano prigioni, oppure finire la nostra vita in ricovero” (Il mondo dei vinti, primo volume, p. LXXIV).
Pietro Balsamo è uno dei tanti che racconta le storie dell’emigrazione. “In Francia ne andavano tantissimi, a piedi. Non era un problema andare in Francia, era come andare in campagna qui nei dintorni di Margarita. Passavano il confine di notte, senza documenti, andavano a Nizza o a Mentone a fare i lavori di campagna. Poi, con la guerra del ’15, l’emigrazione è finita”.
Un altro, Balsamo Giovanni, così commenta la fine della Grande Guerra: “Eh, l’abbiamo vinta quella guerra, ma l’abbiamo perduta. La statistica dice che sono più i tubercolotici tornati dalla guerra del ’15-18 che i morti di quella guerra”. Come dirà Nuto Revelli: “La guerra dei poveri non finisce mai”.
Ferdinando Manera, classe 1892, racconta: “C’era chi si stufava della guerra e disertava. Tutti eravamo stufi, come rimbambiti. Gli ufficiali avevano le balle piene anche loro. Conosco un capitano che si è sparato, che si è ferito ad una mano per farla finita... C’era il soldato che si sparava una schioppettata in una gamba pur di andare lontano dal fronte (...) Qui nella Langa saranno stati cinquanta i disertori, e avevano ancora tutti dei soldi. Aiutavano la gente nei lavori di campagna, aiutavano le donne che avevano i mariti al fronte, le tenevano allegre... La gente dava da mangiare ai disertori, anche perché aveva paura”.
Molte sono le storie intrise di violenza. Revelli scrive che “il culto della violenza” imperversa anche tra le classi povere e i deboli sembrano un peso.
SECONDA PARTE
La politica è tanto più forte, nella attuale comune concezione, quanto è più capace di prevalere e di imporre le proprie visioni e le conseguenti scelte sull’intero corpo sociale. Insomma, l’ideale politico è quello del dominio, attraverso la conquista degli apparati amministrativi e tecnici. Prevale un’idea del governo come comando, più che come garante e guida. Chi vince si adopera per “prendere tutto”, per superare le stesse divisioni e le autonomie dei diversi poteri costituzionali. Quando sentiamo ripetere in continuazione: “Il giorno dopo le elezioni dobbiamo sapere chi ha vinto e chi ha perso”, in realtà si vuole dire: “Chi vince non farà prigionieri”.
Insomma, la politica appare sempre più aggressiva nel linguaggio e autoritaria nei comportamenti. É evidente che si tratta di un colossale, paradossale abbaglio: all’indebolimento dei sistemi democratici nazionali – dovuto a enormi mutazioni macroeconomiche, tecnologiche, geopolitiche – il ceto politico si illude di rispondere menomandone il funzionamento, riducendo la loro rappresentatività e quindi la loro autorevolezza. Siamo entrati un una spirale pericolosissima, il cui punto di caduta è già evidente nel riemergere di tendenze neonazionaliste feroci, razziste, xenofobe: “American First”, “Prima gli italiani”, “Primi i veneti” e via balcanizzando e aizzando le popolazioni le une contro le altre.
Il problema della deriva dispotica della politica, della riduzione del tasso di democrazia della politica (per richiamare un libro fondamentale di Marco Revelli, La politica perduta, Einaudi 2002) è più grave di quel che si pensa, perché molto probabilmente non dipende dalle scelte occasionali dei leader, dei loro partiti e degli elettori, ma più al fondo deriva da antiche concezioni filosofiche e da consolidati postulati antropologici. La bipolarizzazione della politica tra vinti e vincitori, maggioranza e opposizione, governanti e governati, dirigenti e diretti, elite e masse non sarebbe
altro che un riflesso del modo di pensare dualistico della cultura occidentale che scompone e riduce la complessità della realtà umana su due assi cartesiani: bene/ male, giusto/sbagliato, vero/falso, pubblico/privato, individuo/comunità, struttura/sovrastruttura, oggettivo/soggettivo, fatti/valori, razionale/emotivo, teoria/prassi, tattica/strategia, forza/debolezza, uomo/donna... e, in generale, amico/nemico.
Ci portiamo addosso un’idea antropologica individualista dell’essere umano come se fosse un “atomo di egoismo” che per legge di natura è portato a ricercare il proprio tornaconto personale. Siamo ancora dentro l’ideal-tipo umano del sistema delle relazioni sociali capitalistiche, liberistiche. Siamo ancora completamente immersi nella visione di Thomas Hobbes dell’ homo homini lupus, del bellum omnium contra omnes.
Insomma, la politica continua ad essere una pratica che mutua le sue regole dalla guerra e ne richiama la logica di violenza. In guerra, come nella politica, vince il più forte e chi vince ha la ragione dalla sua parte. Carl Schmitt ci ricorda cinicamente la differenza tra l’autorità e la verità: auctoritas, non veritas facit legem. Così come, ben prima di lui, Machiavelli ci ha spiegato l’esistenza di un doppia etica: quella del Principe, per cui vale solo il risultato delle sue azioni, e quella dell’individuo singolo che è invece sempre vincolato a rispettare i precetti di vita cristiani; compresa l’ubbidienza al Principe, suo Cesare – ovviamente!
Oggi, la riproposizione in politica di un linguaggio e di comportamenti sempre più aggressivi e dispotici potrebbero sembrare persino ridicoli a fronte della manifesta incapacità dei governi nell’affrontare i sempre più gravi problemi che l’umanità ha di fronte (pensiamo ai cambiamenti climatici, alle migrazioni bibliche, alla corsa agli armamenti, all’inurbamento nelle megalopoli del terzo mondo, alle disparità sociali, agli sprechi di risorse, all’uso manipolatorio delle tecnologie, alla finanza fuori controllo...). Piccoli aspiranti dittatori giocano con un mappamondo a forma di palloncino prossimo a scoppiare.
Mi si obietterà che è generalmente accettato che il metodo migliore per stabilire chi abbia il diritto di governare sia quello elettorale. Ma anche le consultazioni elettorali, svestite dalla retorica, sembrano una pantomima di una battaglia campale. Si comincia con un lungo lavorio di preparazione (alleanze, coalizioni ecc.) per rifornire le salmerie (finanziamenti e sottoscrizioni, acquisizioni di mezzi di comunicazione ecc.), per stabilire le regole dello scontro (leggi elettorali), per selezionare i guerrieri più prestanti ed infine, all’ora x, viene dato fuoco alle polveri.
Ma è giusto segnalare l’esistenza di un altro modo di intendere la politica come una azione permanente per abbassare il baricentro delle decisioni, disseminare il potere, creare orizzontalità nelle reti civiche solidali. Guido Viale ci invita a distinguere tra com-petizione e con-correnza. Concorrere vuol dire correre insieme, alla pari e tra uguali, dove gli uni e gli altri contribuiscono al raggiungimento di uno scopo comune, di un bene da condividere. “Correre ha nella sua radice il verbo greco reo, scorro. Panta rei, tutto scorre, diceva Eraclito (...) Concorrere significa portare il proprio contributo a un processo comune”. Mentre: “Competizione viene dal verbo latino peto: chiedere per avere, cercare di ottenere” (G.Viale, Slessico familiare. Parole usurate, prospettive aperte, edizioni interno 4, 2017). Un vecchio sindacalista,
Sezano, gennaio 2018
Paolo Cacciari, La sconfitta. Condannati a vincere? è scaricabile qui
Abbiamo letto l’appello rivolto alle liste elettorali da parte di Felice Besostri e altri costituzionalisti a sottoscrivere un patto che contrasti «ogni ulteriore proposta di riforma che miri a modificare la forma democratica e parlamentare del nostro modello repubblicano» e ogni ulteriore tentativo di «costituzionalizzare principi neoliberisti o limitare la sovranità popolare, i diritti fondamentali delle persone».
Per Potere al Popolo si tratta di un impegno scontato: la nostra è la lista del No sociale al referendum del 4 dicembre, per questo non possiamo non aderire al Patto che pone le condizioni minime per qualunque lista che abbia a cuore la difesa dei diritti. Condizioni minime ma non sufficienti, a nostro avviso, ad assicurare attualmente quei diritti ai lavoratori, alle donne, agli studenti, ai pensionati, ai richiedenti asilo, ai senza casa, ai malati, ai precari, ai disoccupati, agli abitanti delle periferie.
L’appello infatti chiede di non violare la Costituzione «ulteriormente», visto che le violazioni negli ultimi anni sono state ripetute, persino da parte di chi oggi aderisce al Patto. Molti tra i candidati più in vista di LeU – firmatari dell’appello – come Bersani e D’Alema hanno deliberatamente modificato la Costituzione che oggi si impegnano a difendere.
Lo hanno fatto insieme a Berlusconi riscrivendo l’articolo 81 e inserendo l’obbligo del pareggio di bilancio imposto dalle oligarchie europee, votando la riforma Fornero, il Jobs Act e le altre leggi che hanno reso la Costituzione lettera morta.
Il pareggio di bilancio ha obbligato gli enti locali a tagliare drasticamente la spesa destinata ai servizi sociali fondamentali: sanità, edilizia popolare, trasporto pubblico, istruzione, solo per citarne alcuni. Oggi cinque milioni di italiani sono in povertà assoluta, dieci in povertà relativa, undici rinunciano alle cure mediche. Comprendiamo che chi in passato ha tradito il ripudio della guerra, bombardando gli inermi e votando a favore delle finanziarie che ogni anno hanno aumentato le spese militari, non possa oggi promettere la pace né sottrarsi ai vincoli della Nato, che chiede ai paesi aderenti di destinare il due per cento del Pil alle spese militari.
Potere al Popolo invece si batterà per garantire a tutte e tutti l’effettiva applicazione dei principi fondamentali della Costituzione, a cancellare l’obbligo del pareggio di bilancio, a contrastare le misure di austerity imposte dai trattati europei. Ci impegniamo a cancellare le leggi che hanno alzato muri tra le persone e limitato i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, degli omosessuali, dei richiedenti asilo. Aderiamo, con l’auspicio che la Costituzione, patrimonio di tutti i cittadini e non di una o più liste elettorali, possa in futuro essere modificata non per negare i diritti ma per estenderli alla maggioranza della popolazione.
Potere al popolo si opporrà a ogni tentativo di fare della prossima una «legislatura costituente»: un parlamento eletto col Rosatellum non ha la legittimità di toccare la Costituzione. Siamo l’unica lista che si pronuncia per l’approvazione di una legge elettorale proporzionale finalmente costituzionale. Soprattutto, continueremo a difendere la Costituzione non tanto firmando appelli ma sostenendo e prendendo parte alle lotte di coloro che si battono nelle piazze e nei luoghi di lavoro per tutelare e conquistare i diritti costituzionali finora negati.
Per vedere e sentire: Viola Carofalo è il “capo politico” di Potere al Popolo
il manifesto
«Povertà globale. Il Rapporto Oxfam fotografa non solo le vette, straordinarie nel 2017, della ricchezza ma guarda il mondo anche dalle profondità globali degli abissi sociali»
L’ultimo rapporto Oxfam sullo stato sociale del pianeta è piombato come un pugno sul tavolo dei signori di Davos. Dice che l’1% della popolazione mondiale controlla una ricchezza pari a quella del restante 99%. E questo lo riportano tutti i media. Ma dice anche di più. Dice, per esempio, che tra il marzo del 2016 e il marzo 2017 quell’infinitesimo gruppo di super-privilegiati (un paio di migliaia di maschi alfa, meno di 1 su 10 sono donne) si è accaparrato l’86% della nuova ricchezza prodotta, mentre ai 3 miliardi e 700 milioni di donne, uomini e bambini che costituiscono il 50% degli abitanti della terra non è andato nemmeno un penny (alla faccia della famigerata teoria del trickle down, cioè dello “sgocciolamento” dei soldi dall’alto verso il basso). Dice anche che lo scorso anno ha visto la più grande crescita del numero dei miliardari nel mondo (all’incirca uno in più ogni due giorni). E dell’ammontare della loro ricchezza: 762 miliardi, una cifra che da sola, se redistribuita, permetterebbe di porre fine alla povertà estrema globale non una ma sette volte!
E poi dice, soprattutto, che quella mostruosa accumulazione di ricchezza poggia sul lavoro povero, svalorizzato, umiliato di miliardi di uomini e soprattutto di donne, e anche bambini. E’, biblicamente, sterco del diavolo.
Anzi, non si limita a dirlo con l’aridità delle statistiche, confronta anche le vite dei protagonisti: quella, per esempio, di Amancio Ortega (il quarto nella classifica dei più ricchi), padrone di Zara, i cui profitti sono stati pari a un miliardo e 300 milioni di dollari, e quella di Anju che in Bangladesh cuce vestiti per lui, 12 ore al giorno, per 900 dollari all’anno (quasi 1 milione e mezzo di volte in meno) e che spesso deve saltare il pasto.
È QUESTA LA FORZA del rapporto Oxfam di quest’anno: che non si limita a guardare il mondo sul suo lato “in alto” – a descriverne il luminoso polo della ricchezza -, ma di misurarlo anche “in basso”. Di rivelarci la condizione miserabile e oscura del mondo del lavoro, dove uno su tre è un working poor, un lavoratore povero, in particolar modo una lavoratrice povera. E dove in 40 milioni lavorano in “condizione di schiavitù” o di “lavoro forzato” (secondo l’ILO “i lavoratori forzati hanno prodotto alcuni dei cibi che mangiamo e gli abiti che indossiamo, e hanno pulito gli edifici in cui molti di noi vivono o lavorano”).
IL SISTEMA ECONOMICO globale, plasmato sui dogmi del neo-liberismo – l’unico dogma ideologico sopravvissuto – si conferma così come quella maga-macchina globale (descritta a suo tempo perfettamente da Luciano Gallino) che mentre accumula a un polo una concentrazione disumana di ricchezza produce al polo opposto disgregazione sociale e devastazione politica (consumo di vita e consumo di democrazia). Allungando all’estremo le società, espandendo all’infinito i privilegi dei pochi, anzi pochissimi, e depauperando gli altri, erode alla radice le condizioni stesse della democrazia. La svuota alla base, cancellando il meccanismo della cittadinanza stessa: da società “democratiche” che eravamo diventati (di una democrazia incompiuta, parziale, manchevole, ma almeno fondata su un simulacro di eguaglianza) regrediamo a società servili, dove tra Signore e Servo passa una distanza assoluta, e dove al libero rapporto di partecipazione si sostituisce quello di fedeltà e di protezione. O, al contrario, di estraneità, di rabbia e di vendetta: è, appunto, il contesto in cui la variante populista e quella astensionista si intrecciano e si potenziano a vicenda, come forme attuali della politica nell’epoca dell’asocialità.
IN REALTÀ NESSUNO dei suggerimenti che il Rapporto avanza figura nell’agenda (quella vera, non gli specchietti per le allodole) dei governi di ogni colore e continente: non la tassazione massiccia delle super-ricchezze così da ridurre il gap (anzi, le flat tax che vanno di moda stanno agli antipodi), né la riduzione degli stipendi dei “top executives”, per ridurli almeno a un rapporto di 1 a 20 rispetto al resto dei dipendenti; men che meno la promozione delle rappresentanze collettive dei lavoratori, o la riduzione del precariato. Figurano, certo, nel démi-monde della politica governante, preoccupazioni formali, dichiarazioni d’intenti o di consapevolezza, promesse e moine, puntualmente e platealmente smentite dalla pratica (Oxfam porta gli esempi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, che mentre denunciano i pericoli del dumping salariale o dell’evasione appoggiano evasori e tagliatori di buste paga e di teste, e naturalmente di Donald Trump, che mentre lisciava il pelo ai blue collar riempiva la propria amministrazione di multimiliardari e di uomini delle banche).
COME DIRE CHE L’IPOCRISIA è diventata la forma attuale della post-democrazia. E che con questo qualunque sinistra che voglia rifondarsi non può non fare i conti.
La Santa Sede online 19 gennaio 2018. Non molti si sarebbe aspettati che da un papa venisse una critica a una società maschilista
«Mai prima d'ora Bergoglio aveva usato quella parola. L'ha fatto a Trujillo, invitando a "promuovere una legislazione e una cultura di ripudio di ogni forma di violenza"»
Femminicidio. Per la prima volta Francesco usa questa parola invitando a "lottare" contro "i numerosi casi di femminicidio", una "piaga" che colpisce in particolar modo il Sudamerica. E lo fa ricordando che "sono molte le situazioni di violenza che sono tenute sotto silenzio al di là di tante pareti". E invitando, insieme, "a lottare contro questa fonte di sofferenza chiedendo che si promuova una legislazione e una cultura di ripudio di ogni forma di violenza".
Trujillo, penultimo giorno di permanenza del Papa in Perù. Nella città dell'eterna primavera, nel nord del Paese, durante una celebrazione mariana a Plaza de Armas, Francesco torna a parlare contro la violenza sulle donne usando un termine per lui inedito. Trujillo è città che soffre particolarmente questa piaga, così tutto il continente. E Francesco usando questa parola vuole mostrare da che parte egli stia, sposando la battaglia per un cambio culturale e di mentalità a troppi ancora inviso. Anche al suo interno, la Chiesa, è a volte stata tiepida al riguardo. Non così la vuole Bergoglio.
Già ieri a Puerto Maldonado, incontrando la popolazione, Papa Bergoglio aveva detto che "non si può normalizzare la violenza verso le donne, sostenendo una cultura maschilista che non accetta il ruolo di protagonista della donna nelle nostre comunità». E ancora: «Non ci è lecito guardare dall'altra parte e lasciare che tante donne, specialmente adolescenti, siano calpestate nella loro dignità».
Parole analoghe Francesco le aveva usate anche in Amoris Laetita, parlando esplicitamente della «vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne». Penso - disse - alla grave mutilazione genitale della donna in alcune culture, ma anche alla disuguaglianza dell'accesso a posti di lavoro dignitosi e ai luoghi in cui si prendono le decisioni... ricordiamo anche la pratica dell''utero in affitto' o la strumentalizzazione e mercificazione del corpo femminile nell'attuale cultura mediatica».
L'articolo è tratto dal sito web La Santa Sede, e la paginaè raggiungibile qui
«Il parlamento si è fatto beffa del referendum del 2011. E la privatizzazione va avanti. È necessario perciò portare il tema dell’acqua nell’attuale campagna elettorale, chiedendo a ogni candidato e a ogni partito di esprimersi su questo tema vitale».
Il processo di privatizzazione dell’acqua, in atto in Italia, è una minaccia al diritto alla vita. Nonostante il Referendum del 2011 – quando il popolo italiano aveva deciso che l’acqua doveva uscire dal mercato e che non si poteva fare profitto su questo bene così sacro – i governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni hanno fatto a gara per favorire il processo di privatizzazione dell’oro blu.
Non migliore fortuna abbiamo avuto in parlamento, che aveva il dovere di tradurre in legge quello che il popolo italiano aveva deciso con il referendum, ma non l’ha fatto. A questo scopo il parlamento aveva a disposizione anche la legge di iniziativa popolare che aveva ottenuto oltre 500.000 firme. Ci sono voluti anni di pressione perché quella legge fosse presa in considerazione dalla Commissione ambiente della camera presieduta da Ermete Realacci (Pd). E quando l’ha finalmente accolta, la Commissione l’ha radicalmente snaturata e poi non l’ha mai fatta discutere in parlamento. È grave che due presidenti della Repubblica, Napolitano e Mattarella, non abbiano richiamato i parlamentari al loro dovere di legiferare secondo i dettami del referendum.
Invece il parlament, nella Finanziaria ,ha incoraggiato gli Enti Locali a privatizzare il servizio idrico, permettendo loro di utilizzare i proventi delle alienazioni dei beni comuni come i servizi idrici per coprire mutui e prestiti e così ripianare i loro debiti. È questa ormai la via maestra per forzare i Comuni indebitati a privatizzare l’acqua.
Inoltre, pochi giorni prima della chiusura del parlamento, è stato introdotto un emendamento nella Finanziaria per creare l’Acquedotto del Mezzogiorno, una multiutility, per gestire l’acqua del Centro-Sud dell’Italia! Un emendamento bipartisan proposto dal deputato pugliese Ginefra in nome del governatore della Puglia, Emiliano: «Nell’interesse dell’intero Mezzogiorno - aveva infatti detto Emiliano nel 2016 al Congresso nazionale ANCI, tenutosi a Bari - intendiamo dare avvio e realizzare un percorso nel quale l’Acquedotto Pugliese si trasformi in una holding industriale partecipata da quelle Regioni che intendono partecipare al progetto attraverso il conferimento delle rispettive partecipazioni azionarie nelle aziende regionali attive nell’acqua».
Per le proteste di varie regioni del Sud, questo emendamento non è passato, ma è stato sostituito con un altro più generico, ma che resta sempre molto pericoloso. Infatti Emiliano sta già lavorando per includere nell’Acquedotto Pugliese la Gesesa Spa di Benevento e l’Alto Calore di Avellino, per farne una piccola multiutility. Ma il suo sogno è sicuramente l’Acquedotto del Mezzogiorno. Un bel bocconcino per l’Acea di Roma , ma soprattutto per le due più potenti e onnipresenti multinazionali dell’acqua: Suez e Veolia.
Il popolo del referendum
È il tradimento del Referendum da parte di tutti i partiti. È in particolare il tradimento del Pd che ha continuato con la sua politica di privatizzazione dell’acqua, ma anche dei Cinque Stelle, nati dalla lotta contro la privatizzazione dell’acqua, incapaci a Roma come a Torino a ripubblicizzarla. Così, in Italia, nonostante la vittoria referendaria, rischiamo di perdere il bene più prezioso che abbiamo.
Per questo mi appello al popolo dell’acqua, a quel grande movimento popolare che ha portato alla straordinaria vittoria referendaria, perché ritorni ad obbligare una politica riottosa a conformarsi al volere popolare. Questo avverrà solo se sarà il popolo a muoversi. La prima cosa che tutti dobbiamo fare è quella di riportare il tema dell’acqua nell’attuale campagna elettorale, chiedendo a ogni politico e ogni partito di esprimersi su questo tema vitale.
Per questo chiedo che i comitati cittadini, provinciali, regionali insieme al Forum scendano in campo per rimettere l’acqua al centro del dibattito politico. Mi appello anche al Coordinamento Centro-Sud perché si impegni contro la costituzione dell’Acquedotto del Mezzogiorno.
Dobbiamo lavorare insieme, in rete. Le multinazionali dell’acqua infatti stanno unitariamente montando una campagna durissima. «L’acqua non è un diritto pubblico - ha detto recentemente il presidente della potentissima Nestlé, Peter Brabek-Letmahe. La Nestlé dovrebbe avere il controllo della fornitura idrica mondiale in modo che possa rivenderla alle persone con profitto». Ecco il loro piano! E contro questo enorme potere che dobbiamo batterci. Dobbiamo farcela. Si tratta di vita o di morte per miliardi di uomini e donne.
Si tratta – come afferma papa Francesco – del diritto alla vita.
La Santa Sede online 19 gennaio 2018. Un discorso pienamente politico, che parla dell'Amazzonia, ma si riferisce al mondo. È solo un papa della chiesa cattolica che parla, ma meriterebbe di guidare il mondo
"I popoli originari dell'Amazzonia non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora". È il primo storico incontro tra Francesco e l'Amazzonia, quello di quest'oggi a Puerto Maldonado, la capitale della biodiversità del Perù situata all'interno del più grande polmone verde del mondo. Qui i primi missionari domenicani arrivarono nel 1902, a piedi, dopo un viaggio lungo e molto pericoloso.
Oggi Francesco arriva in aereo per un appuntamento a lungo atteso: "Ho molto desiderato questo incontro", dice nel Coliseo Regional Madre de Dios davanti a 4mila rappresentanti delle popolazioni indigene, occasione per Francesco per toccare temi a lui cari: le periferie, i poveri, le popolazioni indigene, la custodia del creato, la "resilienza" che le stesse popolazioni devono mantenere di fronte a chi separa terra e popolo, a chi sfrutta le infinite risorse della foresta facendo a meno della gente che la abita.
"Il tesoro che racchiude questa regione", dice il Papa, non può essere compreso, capito, "senza la "vostra saggezza" e le "vostre conoscenze". Francesco conosce "le profonde ferite che portano con sé l'Amazzonia e i suoi popoli" e per questo ha voluto venire fin qui, per unirsi "alle vostre sfide e con voi riaffermare un'opzione convinta per la difesa della vita, per la difesa della terra e per la difesa delle culture".
I popoli dell'Amazzonia sono minacciati, oggi più di prima. Francesco riassume così queste minacce: "Da una parte, il neo-estrattivismo e la forte pressione da parte di grandi interessi economici che dirigono la loro avidità sul petrolio, il gas, l'oro, le monocolture agro-industriali". Dall'altra la minaccia "viene anche dalla perversione di certe politiche che promuovono la 'conservazione' della natura senza tenere conto dell'essere umano e, in concreto, di voi fratelli amazzonici che la abitate".
Il Papa dice di essere a conoscenza "di movimenti che, in nome della conservazione della foresta, si appropriano di grandi estensioni di boschi e negoziano su di esse generando situazioni di oppressione per i popoli originari per i quali, in questo modo, il territorio e le risorse naturali che vi si trovano diventano inaccessibili".
È questa problematica che soffoca i popoli e che "causa migrazioni delle nuove generazioni di fronte alla mancanza di alternative locali". Francesco chiede di "rompere il paradigma storico che considera l'Amazzonia come una dispensa inesauribile degli Stati senza tener conto dei suoi abitanti".
L'appello del Papa è che si aprano "spazi istituzionali" di rispetto, riconoscimento e dialogo con i popoli nativi, assumendo e riscattando cultura, lingua, tradizioni, diritti e spiritualità che sono loro propri.
I primi interlocutori di questo dialogo interculturale, tuttavia, devono essere le stesse popolazioni amazzoniche, affinché le risorse prodotte dalla stessa conservazione delle foreste "ritornino a beneficio delle vostre famiglie, a miglioramento delle vostre condizioni di vita, della salute e dell'istruzione delle vostre comunità". La vita dei popoli amazzonici è per il Papa "un grido rivolto alla coscienza di uno stile di vita che non è in grado di misurare i suoi costi".
Bergoglio, che ha indetto un Sinodo Pan Amazzonico convocato per il 2019 in Vaticano, entra ancora più in profondità nelle ferite di questa terra, la cui difesa non ha altra finalità "che non sia la difesa della vita". Dice: "Conosciamo la sofferenza che alcuni di voi patiscono per le fuoriuscite di idrocarburi che minacciano seriamente la vita delle vostre famiglie e inquinano il vostro ambiente naturale". Insieme, "esiste un'altra devastazione della vita che viene provocata con questo inquinamento ambientale causato dall'estrazione illegale. Mi riferisco alla tratta di persone: la mano d'opera schiavizzata e l'abuso sessuale. La violenza contro gli adolescenti e contro le donne è un grido che sale al cielo".
Fra i tanti popoli indifesi, i più indifesi di tutti: "Sto pensando - dice Papa Bergoglio - ai popoli denominati 'Popoli Indigeni in Isolamento Volontario' (Puav). Sappiamo che sono i più vulnerabili tra i vulnerabili". Francesco chiede si continui a stare dalla loro parte perché "è necessario che esistano limiti che ci aiutino a difenderci da ogni tentativo di distruzione di massa dell'habitat che ci costituisce". A loro, e a tutti, Francesco chiede "resilienza": "Confido nella capacità di resilienza dei popoli e nella vostra capacità di reazione davanti ai difficili momenti che vi tocca vivere".
L'articolo è tratto dal sito web La Santa Sede, e la paginaè raggiungibile qui
il manifest
Accogliere è una parola che viene dal latino: ad-cum-ligare, legare insieme. Ma più che cercare il suo significato nel passato, dobbiamo costruirne uno nuovo, adatto ai tempi in cui viviamo, ai problemi con cui ci confrontiamo, alle persone che oggi sono al centro dello scontro politico e sociale: i profughi.
Innanzitutto accogliere non ha niente a che fare con le “rilocalizzazioni” pretese e non realizzate dalla Commissione europea che trattano i profughi come “pezzi” (una parola che richiama ricordi atroci) da smistare. E con ciò, a prescindere dalla “selezione” (altro termine dai rimandi atroci) con cui l’Unione europea pretende di accettarne alcuni e di scartare gli altri, attacca loro l’etichetta di “ingombri, problemi. Questo produce insofferenza, rancore e razzismo e spinge i Governi a inseguire le parole d’ordine delle destre. Al di là delle false professioni di spirito umanitario, con i migranti Commissione europea è più feroce di Trump.
Inserita in questa cornice, anche la migliore “accoglienza” riservata a persone trattate come ingombri umilia sia loro che noi: sono esseri (umani?) di cui occorre sbarazzarsi al più presto.
L’ospitalità, che un tempo era sacra, ci può indicare un’altra strada: l’ospite, lo “straniero”, veniva trattato come un membro della famiglia (come il naufrago Ulisse nell’isola dei Feaci); poi veniva preparato e attrezzato per continuare il suo viaggio.
E qual è la meta del viaggio dei profughi del nostro tempo? Le mete possibili sono due: o la piena cittadinanza nel paese che li ospita; ed è certamente un percorso complesso. Oppure il ritorno nel paese da cui sono fuggiti, o sono stati cacciati, e in cui per ora non possono ritornare: un percorso ancora più arduo.
Ma che cosa può invertire l’effetto di una rilocalizzazione così disumanizzante? Il fatto che l’ospite porti con sé un dono, una “dote” più grande dei tanti problemi che pure può generare.
Perché questo succeda, l’ospite deve essere messo in grado di valorizzare, e di fare in modo che vengano apprezzate, la cultura, l’energia, l’esperienza, ma anche il dolore di cui è portatore: perché la comprensione del dolore, sia nostro che altrui, aiuta tutti ad affrontare meglio le circostanze della vita.
Ma deve anche portare con sé lavoro, reddito, diritti, salute. E non certo perché crea un po’ di lavoro per quei pochi che oggi vengono impiegati nella gestione dell’”accoglienza”; questo è un falso “beneficio” che costringe all’inattività e confina nell’inutilità l’ospite e che spesso induce nell’ospitante speculazione e sfruttamento delle altrui disgrazie.
La dote che l’ospite, lo straniero, il profugo, deve essere messo in grado di portare con sé è un grande piano europeo di conversione ecologica, di lavori pubblici, di potenziamento dei servizi, di promozione dell’agricoltura biologica: un piano capace di garantire lavoro e sicurezza sia a lui che a tutti i cittadini dei paesi dell’Unione che sono disoccupati, o in povertà, o costretti a lavori precari e umilianti, o senza casa.
Gli Stati membri dell’UE che accoglieranno i profughi avranno accesso ai fondi e ai progetti del piano; e quanti più profughi accoglieranno, tanto più potranno salvaguardare il proprio territorio, riconvertire la propria economia, creare posti di lavoro sicuri e un’abitazione decente anche per i propri disoccupati, per i propri lavoratori precari, per i propri cittadini emarginati. Così i profughi saranno i benvenuti, perché quanti più saranno, maggiori saranno le occasioni di risolvere i problemi sociali della popolazione. E i progetti dovranno avere un raggio di azione locale, in modo che la popolazione possa percepire il rapporto diretto tra arrivo dei migranti e aumento delle opportunità. Mentre i paesi che non vorranno accoglierli non avranno accesso a quei fondi.
Ma chi paga? Certo, c’è da ridurre, e poi azzerare, la spesa militare; da combattere l’evasione e l’elusione fiscali; da mettere la parola fine alle Grandi opere devastanti; da arginare la corruzione. Ma non basta. A finanziare questo piano di riconversione ecologica deve essere la BCE.
La BCE ha “tirato fuori dal cappello” più di 1000 miliardi di euro all’anno per salvare le banche e promuovere (forse; ma forse no) una ripresa stentata, precaria e in molti casi dannosa; comunque insignificante per l’occupazione. Per alcuni economisti quei soldi avrebbe potuto distribuirli a lavoratori e cittadini svantaggiati con quello schema paradossale di sostegno alla domanda detto helicopter money: gettare soldi a piene mani da un elicottero. Si sarebbero ottenuti sicuramente, dicono, risultati migliori.
Ma c’è una via di mezzo e più sensata tra questi due modi cretini di sostenere l’economia; ed è quello di finanziare, con altrettanto denaro (almeno 1000 miliardi all’anno) un piano europeo di riconversione ecologica vincolato all’accoglienza dei profughi, legandola indissolubilmente alla salvaguardia dell’ambiente.
Poi c’è da prendere seriamente in considerazione la seconda possibile meta del viaggio dei profughi: il ritorno. Non con i rimpatri forzati che equivalgono a riconsegnarli, incatenati, ai dittatori, o alle bande armate, o alle guerre, o ai suoli abbandonati, perché ormai sterili, da cui erano fuggiti. Bensì aiutandoli a farsi portatori di pace, di riconciliazione, di democrazia, di risanamento sociale e ambientale delle loro terre. Per farlo devono potersi organizzare durante la loro permanenza in Europa, aver voce in capitolo nelle trattative di pace del loro paese, nella politica estera del paese ospitante, nella destinazione dei fondi (immensi) che oggi vengono spesi per “esternalizzare” le frontiere e fare la guerra ai migranti lungo le loro rotte. E niente come la partecipazione a pieno titolo alla vita associata nei paesi “ospitanti” e la partecipazione, come lavoratori, ai progetti di conversione ecologica di questi paesi può preparare quelli di loro che lo vorranno, e saranno sicuramente molti, a un ritorno, da pionieri, nei paesi da cui sono fuggiti. Così si gettano le basi di una grande comunità euro-afro-mediterranea, dove la libera circolazione delle persone sia non solo un diritto, ma anche una reale possibilità.
Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Impraticabile per chi non vede alternative ai diktat dell’Unione europea e della BCE. Ma irrinunciabile per chi si candida a un ruolo di vera opposizione. Non dobbiamo scrivere l’elenco delle cose che faremmo “se fossimo al Governo”. Perché al Governo non ci andremo. Per ora. Il nostro compito è avvalorare e diffondere la prospettiva di una inversione radicale delle priorità, sostenerla, renderla concreta con gli esempi, individuare e affrontare gli ostacoli che si parano di fronte. Un programma di opposizione deve indicare la strada per arrivare: non al Governo, ma a governarci.
Tutti a pugno chiuso e con una stella rossa da seguire, quella di “Potere al popolo”, nuova forza politica nata a novembre sulle ceneri del movimento del Teatro Brancaccio (Roma), che si presenta alle elezioni da outsider e fuori dalle alleanze, raccolta di firme permettendo (“ma siamo già a buon punto”, dicono).
Un movimento dal basso, che viene dal mondo dei lavoratori precari, dei disoccupati, dei sindacati di base e dei centri sociali. Ed è proprio da un centro sociale napoletano – Je so pazzo, un ex ospedale psichiatrico giudiziario occupato nel quartiere Materdei – che arriva la sua portavoce, Viola Carofalo, 37enne ricercatrice precaria in filosofia all’Università Orientale. “Vogliamo ridare dignità alla parola sinistra perché di sinistra in Italia c’è bisogno. Io mi definisco comunista, ma non tutti quelli che hanno aderito lo sono: non vogliamo ingessarci dentro un’etichetta o un’ideologia”, spiega Carofalo, che però non sarà candidata.
“Potere al popolo” nasce, appunto, dal fallimento dell’assemblea del Brancaccio: “Tomaso Montanari è stato coerente: quando ha visto che quel movimento non aveva ossigeno, si è fatto da parte. Anna Falcone, invece, mi pare sia candidata per LeU. Forse era quello che voleva fin dall’inizio…”, continua Carofalo.
Il 3% che garantirebbe l’entrata in Parlamento a stare alle ultime affluenze è fissato a circa un milione di voti: un’impresa quasi impossibile. Ma se dovesse riuscire il miracolo, poi che succede? “Vogliamo entrare in Parlamento per far sentire la nostra voce, portare nel Palazzo le lotte dal basso. Ma escludiamo a priori qualsiasi alleanza. Il Movimento 5 Stelle è populista e non è di sinistra. LeU, invece, è un Pd 2.0: non c’è differenza, vengono tutti dal partito di Renzi e lì vogliono tornare, come dimostrano le parole di D’Alema”, sostiene la portavoce di Potere al popolo.
Ma Renzi e Berlusconi pari sono? “Non sono la stessa cosa, ma hanno messo in campo politiche in assoluta continuità e su alcune temi Renzi è stato pure peggio: sul lavoro, con il Jobs act, e sull’immigrazione. La Minniti-Orlando è una legge fascista”, dice Carofalo.
Uguaglianza sociale, lavoro, welfare, parità di genere (nelle liste le donne sono circa il 40%), difesa dell’ambiente, lotta per i deboli, antifascismo sono le parole d’ordine. Nel loro dna i movimenti antagonisti, la lotta per la casa, l’America Latina, Podemos. Che Guevara e il subcomandante Marcos. “Il mio idolo però è Bertolt Brecht, che ha saputo mettere in poesia e letteratura discorsi altissimi e complessi”, afferma Carofalo.
Che poi guarda verso destra. “CasaPound è un movimento fascista che andrebbe messo fuori legge. La Lega è più subdola, ma poi, come nel Dottor Stranamore, la destra che è in loro viene fuori, come si è visto con le dichiarazioni di Fontana”. Con Sinistra Italiana finita nelle spire di Grasso, Bersani e D’Alema, un po’ di spazio elettorale gauchiste davanti c’è, specie pescando tra i giovani diretti verso l’astensione. Alcuni sondaggi li danno attorno all’1% già ora: se Renzi deve preoccuparsi di Grasso, insomma, Grasso deve preoccuparsi di Carofalo & C. Power to the people, cantava John Lennon. Ma forse loro preferiscono Adelante, compañeros di Carlos Puebla
Qui apri il link al discorso di Viola Carofalo, portavoce di "Potere al popolo"
la Stampa
«Il consigliere delle Nazioni Unite Anuradha Seth: non esiste un solo paese, né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini»
Nel mondo le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini. Lo affermano le Nazioni Unite, secondo cui si è difronte al «più grande furto della storia». Secondo i dati raccolti dall’organizzazione, non vi sono distinzioni di aree, comparti, età o qualifiche. «Non esiste un solo paese, né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini», ha detto il consigliere delle Nazioni Unite Anuradha Seth. Il divario salariale non ha una o due cause, ma è dovuto all’accumulo di numerosi fattori che includono la sottovalutazione del lavoro delle donne, la mancata remunerazione del lavoro domestico, la minore partecipazione al mercato del lavoro, il livello di qualifiche assunte e la discriminazione. Pertanto, le donne guadagnano meno in generale perché lavorano meno ore retribuite, operano in settori a basso reddito o sono meno rappresentate nei livelli più alti delle aziende. Ma anche, semplicemente, perché ricevono in media salari più bassi rispetto ai loro colleghi maschi per fare esattamente lo stesso lavoro. Nel complesso, la stima dell’organizzazione è che per ogni dollaro guadagnato da un uomo, una donna guadagna in media 77 centesimi.
Le differenze tra paesi, tuttavia, sono importanti. Tra i membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), vi sono paesi con una differenza inferiore al 5% come Costa Rica o Lussemburgo e altri fino al 36% come la Corea del Sud. I confronti sono complicati, dal momento che i numeri cambiano a seconda della fonte e della metodologia. In Spagna, ad esempio, il divario è dell’11,5% secondo i dati del 2014 utilizzati dall’Ocse, e del 24% secondo i dati di un rapporto pubblicato un anno fa dal sindacato Ugt. Secondo i più recenti calcoli dell’Ocse, in Giappone il divario è del 25,7%, negli Usa del 18,9%, nel Regno Unito del 17.1%, in Germania del 15,7%. La differenza di salario tra uomini e donne si amplia generalmente in relazione all’età, soprattutto quando le donne hanno figli. Secondo recenti stime, con ogni nascita le donne perdono in media il 4% del loro stipendio rispetto a un uomo; per il padre il reddito aumenta invece di circa il 6%. Ciò dimostra, afferma Seth, che buona parte del problema è il lavoro familiare non retribuito che le donne continuano a svolgere in modo sproporzionato.