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Sbilanciamoci.info, 6 febbraio 2015

Alexis Tsipras ha vinto le recenti elezioni in Grecia con un chiaro mandato elettorale: cancellare una parte significativa del debito pubblico e porre fine al programma di aiuti – e relativi piani di austerità e aggiustamenti strutturali – della troika. Ma entrambi gli obiettivi si stanno rivelando molto più difficili del previsto. Anche per la feroce opposizione dell’establishment europeo, come dimostra la recente decisione della Bce di chiudere i rubinetti alle banche greche. Per capire come siamo arrivati a questo punto, però, dobbiamo fare un passo indietro.

Il debito pubblico greco ammonta a 323 miliardi di euro, pari al 177% del Pil. Di questi, il 15% è detenuto dal settore privato, il 10% dal Fondo monetario internazionale e il 6% dalla Bce. Il grosso del debito – il 60% del totale, pari a 195 miliardi di euro – è in mano agli altri governi dell’eurozona. Di questi 195 miliardi, 142 miliardi sono arrivati alla Grecia attraverso l’Efsf, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (più comunemente noto come “Fondo salva-stati”); 53 miliardi sono invece il frutto di prestiti bilaterali ricevuti dagli altri stati membri. I paesi più esposti al debito greco sono la Germania (56 miliardi), la Francia (42 miliardi), l’Italia (37 miliardi), la Spagna (24 miliardi) e l’Olanda (11 miliardi).

E qui sta il primo problema: un’eventuale ristrutturazione del debito greco ricadrebbe soprattutto sulle spalle degli altri governi europei, molti dei quali – in particolare Germania, Francia e Finlandia – hanno già categoricamente escluso l’ipotesi di un taglio del valore nominale del debito. Questi sanno di avere dalla loro una componente cruciale di qualunque negoziato: il tempo. Tsipras deve trovare un accordo in fretta se vuole fermare l’emorragia di capitali dalle banche greche (oltre 10 miliardi a gennaio, 4 miliardi a dicembre). E infatti il neoministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, ha recentemente annunciato un clamoroso cambio di strategia: niente più taglio del debito ma uno “swap” della porzione di debito attualmente in mano all’Efsf e alla Bce con nuovi titoli di stato. Questi sarebbero di due tipi: i titoli in mano all’Efsf sarebbero rimpiazzati con bond indicizzati al tasso di crescita del Pil (in sostanza il servizio del debito e le scadenze di rimborso aumenterebbero o diminuirebbero a seconda dello stato di salute dell’economia), mentre quelli in mano alla Bce sarebbero rimpiazzati con quelli che Varoufakis ha definito “obbligazioni perpetue” (titoli a interessi zero che la banca centrale terrebbe a bilancio in perpetuo, il che equivarrebbe di fatto alla monetizzazione di quella porzione di debito). Secondo uno studio dell’istituto Bruegel, questo potrebbe ridurre la spesa per interessi della Grecia di più del 15% del Pil.

Questo rappresenterebbe un passo indietro non da poco rispetto alla richiesta di “cancellazione della maggior parte del valore nominale del debito pubblico” contenuta nel programma elettorale di Syriza, ma permetterebbe comunque a Tsipras di rispettare la seconda parte della sua promessa elettorale: ridurre l’avanzo primario dal 4-5% previsto dal memorandum all’1-2% – allentando, anche se di poco, la stretta fiscale che negli ultimi anni ha soffocato l’economia greca, bruciando un quarto del reddito nazionale – e porre fine al programma di assistenza finanziaria della troika. Il governo greco, infatti, si rifiuta di accettare l’ultima tranche da 7 miliardi, ma senza di essa non sarà in grado di far fronte ai 6.5 miliardi che deve restituire alla Bce entro l’estate (se la banca centrale non dovesse accettare la proposta di cancellazione ufficiosa del debito). Pare che Atene abbia a malapena fondi a sufficienza per rimborsare i 4.3 miliardi dell’Fmi in scadenza il mese prossimo.

In alternativa – in attesa di trovare un accordo – il governo greco potrebbe raccogliere una decina di miliardi sui mercati emettendo buoni del Tesoro a breve termine; ma anche questo richiederebbe l’approvazione dell’Eurotower (poiché Atene ha già raggiunto il tetto di 15 miliardi di euro sull’emissione di t-bills fissato dalla Bce) e al momento non sembra che Francoforte abbia alcuna intenzione di dare il via libera all’operazione. Anche se Atene decidesse di andare avanti lo stesso, la Bce – in qualità di garante del nuovo meccanismo di vigilanza unico (Ssm) – potrebbe tranquillamente vietare alle banche greche di comprare i nuovi titoli di stato (poiché la Grecia sarebbe di fatto insolvente, come peraltro ha riconosciuto lo stesso Varoufakis) o semplicemente negargli la liquidità necessaria.

Un’altra fonte di finanziamento a breve termine potrebbe arrivare dai profitti guadagnati dalla Bce e dalle vari banche centrali nazionali con l’acquisto di bond greci in base al programma Smp (Securities Markets Programme) nel 2010. Nel 2012 l’Eurogruppo accettò infatti di girare questi soldi – che oggi ammontano a 1.9 miliardi di euro – alla Grecia, ma questo non si è mai verificato. E oggi sono in molti a ritenere che i governi dell’eurozona accetteranno di sbloccare i fondi solo se la Grecia si impegnerà a rispettare una serie di conditionalities molto stringenti (sostanzialmente in linea con i memorandum della troika). Anche far digerire questo accordo ai creditori, insomma, non sarà facile.

Questo sul fronte delle finanze pubbliche greche. Ma come già detto il vero problema per la Grecia in questo momento è un altro: la fuga di capitali dal paese e più in generale la fragilità del sistema bancario. Fino a pochi giorni fa le banche greche riuscivano ad approvvigionarsi di liquidità fornendo a garanzia titoli di stato che ufficialmente sono considerati “spazzatura”; un’eccezione concessa a quei paesi che sottostanno a un programma di assistenza della troika. Ma il 4 febbraio – lo stesso giorno in cui Varoufakis ha dichiarato di essere “il ministro delle finanze di un paese in bancarotta” – la Bce ha fatto sapere in una nota di aver deciso di escludere i bond greci dai titoli che possono essere usati dalle banche come collaterale “poiché al momento non è possibile presumere una conclusione positiva del processo di revisione del programma greco”.

Questo non rappresenta una minaccia immediata per le banche greche – le quattro banche principali, dopo la fuga dai depositi delle ultime settimane, sono già appese alla liquidità d’emergenza fornita da Francoforte tramite l’Ela (Emergency Liquidity Assistance) – ma è un chiaro strumento di pressione nei confronti governo greco. Il prossimo passo per la Bce potrebbe essere quello di chiudere anche il rubinetto dell’Ela, ma questo richiederebbe l’approvazione dei due terzi del Consiglio direttivo. In quel caso, la Grecia si vedrebbe quasi sicuramente costretta a istituire dei controlli di capitale, mettendo in moto una sequenza di eventi che potrebbe rapidamente sfuggire di mano.

Il manifesto, 7 febbraio 2015
Se si nutriva ancora qual­che dub­bio che l’Europa fosse più vit­tima delle pro­prie poli­ti­che che della crisi, gli acca­di­menti degli ultimi giorni hanno tolto ogni dub­bio. I mer­cati ave­vano assor­bito quasi con non­cha­lance il cam­bio di governo in Gre­cia; la Borsa di Atene aveva oscil­lato, ma riu­scendo sem­pre a ripren­dersi, fino a rag­giun­gere rialzi da record; il ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico che aveva pro­vo­cato un forte deflusso di capi­tali prima delle ele­zioni sem­brava un’arma spuntata.

Ma appena si è arri­vati al dun­que è scat­tato il ricatto della Bce. Eppure le richie­ste del nuovo governo greco erano più che ragio­ne­voli. Né Tsi­pras né Varou­fa­kis chie­de­vano un taglio netto del debito, ma sola­mente moda­lità e tempi diversi per pagarlo senza con­ti­nuare a distrug­gere l’economia e la società greca, come ave­vano fatto i loro pre­de­ces­sori. Dichia­ra­zioni e docu­menti di eco­no­mi­sti a livello mon­diale, com­presi diversi premi Nobel, si rin­cor­rono per dimo­strare che le solu­zioni pro­po­ste dal governo greco sono per­fet­ta­mente appli­ca­bili, anzi le uni­che effi­caci se si vuole sal­vare l’Europa, che sarebbe tra­sci­nata nella vora­gine di un con­ta­gio dai con­fini impre­ve­di­bili se la Gre­cia dovesse fal­lire e uscire dall’euro. Per­fino il pen­siero main­stream – Finan­cial Times in testa — si dimo­strava più che possibilista.

Può darsi, come anche Varou­fa­kis ha osser­vato, che la mossa di Dra­ghi serva per evi­den­ziare che la solu­zione è poli­tica e non tecnico-economica. Quindi ha but­tato la palla nel campo dell’imminente Euro­gruppo che si riu­nirà l’11 feb­braio. Il guaio è che la poli­tica euro­pea attuale è ancora peg­gio della ragione eco­no­mica. Basti leg­gere le dichia­ra­zioni di un Renzi, sdra­iato sul comu­ni­cato della Bce, o quelle di uno Schulz o di un Gabriel.

Non è la prima volta, d’altro canto, che la social­de­mo­cra­zia tede­sca vota i «cre­diti di guerra». [Il riferimento è alla posizione che assunsero le socialdemocrazie francese, inglese, austriaca,tedesca, belga, quando - violando la linea politica decisa dalla Seconda Internazionale comunista (guerra alla guerra) - nei rispettivi parlamenti votarono a favore el riarmo, passo decisivo, su entrambi i fronti, per lo scatenamento della prima guerra mondiale. - nota di e.]

L’analogia non è troppo esa­ge­rata. Che spie­ga­zione tro­vare per un simile acca­ni­mento con­tro un paese il cui Pil non supera il 2% e il cui debito il 3% di quelli com­ples­sivi dell’eurozona?

La ragione è duplice. Se passa la solu­zione greca appare chiaro che non esi­ste un’unica strada per abbat­tere il debito. Anzi ce n’è una alter­na­tiva con­cre­ta­mente pra­ti­ca­bile rispetto a quella del fiscal com­pact. Più effi­cace e assai meno deva­stante. Tale da pun­tare su un nuovo tipo di svi­luppo che valo­rizzi il lavoro, l’ambiente e la società, come appare dal pro­gramma di Salo­nicco su cui Syriza ha costruito e vinto la sua cam­pa­gna elet­to­rale. Sarebbe una scon­fitta sto­rica per il neo­li­be­ri­smo europeo.

Il secondo motivo riguarda gli assetti poli­tico isti­tu­zio­nali della Ue. Sap­piamo che i greci hanno giu­sta­mente rifiu­tato l’intervento della Troika. Ma è pur vero che per­fino Junc­ker ha dichia­rato che quest’ultima ha fatto il suo tempo. C’è allora qual­cosa di più impor­tante in gioco che la soprav­vi­venza di que­sto o quell’organismo.

Finora la Ue attra­verso gli stru­menti della sua gover­nance a-democratica aveva messo il naso nelle poli­ti­che interne di ogni paese, in qual­che caso det­tan­done per filo e per segno le scelte da fare. Così è acca­duto nel caso ita­liano con la famosa let­tera della Bce del 5 ago­sto del 2011. Dove non era arri­vato Ber­lu­sconi ave­vano prov­ve­duto Monti e ora Renzi a finire i com­piti a casa.
Ma si trat­tava pur sem­pre di un inter­vento su governi amici, che si fon­da­vano su mag­gio­ranze che ave­vano espli­ci­tato la loro pre­ven­tiva sot­to­mis­sione alla Troika. In Gre­cia siamo di fronte al ten­ta­tivo di impe­dire che la volontà popo­lare espres­sasi nelle ele­zioni in modo abbon­dante e ine­qui­vo­ca­bile possa tro­vare imple­men­ta­zione per­ché con­tra­ria alle attuali scelte della Ue. Qual­cosa che si avvi­cina a un colpo di stato in bianco (per ora). I neo­na­zi­sti di Alba Dorata ave­vano dichia­rato che Syriza avrebbe fal­lito e dopo sarebbe toc­cato a loro governare.

E’ que­sto che le medio­cri classi diri­genti euro­pee vogliono? Non sarebbe la prima volta.

Impe­dia­mo­glielo. Non solo con gli stru­menti pro­pri delle sedi par­la­men­tari per influire sul ver­tice dei capi di stato, ma soprat­tutto riem­piendo le piazze, come suc­cede ora in Gre­cia e come vogliamo accada anche in Ita­lia e nel resto d’Europa il pros­simo 14 feb­braio. Un San Valen­tino di pas­sione con il popolo greco.

Syloslabini.info, 3 febbraio 2015 (m.p.r.)

In questi giorni sono usciti molti articoli sul nuovo governo greco e in particolare su alcuni suoi componenti. La maggior parte di questi articoli si è concentrata su aspetti di costume e non sulla sostanza, ossia su quali politiche economiche potrà mettere in atto la nuova compagine governativa.

Abbiamo quindi intervistato Joseph Halevi, professore di economia presso l’Università di Sydney, che ben conosce Yanis Varoufakis, neo ministro delle finanze in Grecia, di cui è amico e con cui ha anche scritto un libro (insieme a Nicholas Theocarakis): Modern Political Economy: making sense of the post-2008 world (Routledge).

Noi Restiamo: ci dai un giudizio sul risultato delle recenti elezioni in Grecia?
Joseph Halevi: il mio giudizio è essenzialmente positivo. C’è ovviamente un problema dovuto al fatto che Syriza ha delle posizioni molto eterogenee. Però voglio dire che l’esigenza che nasceva dalla crisi del Pasok ovviamente ha trovato sbocco in Syriza. Non poteva trovare sbocco nel KKE (partito comunista greco), impossibile. Per scegliere il partito comunista greco bisognava essere ideologicamente strutturati, e la popolazione che usciva dalla crisi del Pasok non lo era. Quindi il mio giudizio è sostanzialmente positivo, anche se a me Syriza non piace moltissimo.

NR: ha dei limiti come impostazione del partito, ricorda un po’ SEL per certi punti di vista.
JH: sì, anche se ovviamente in modo più serio. La componente centrale, quella che l’ha fondata seriamente, sono i comunisti del partito comunista dell’interno, che erano gli euro-comunisti, che si sono scissi dal KKE teoricamente dopo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Il KKE, comunque, negli ultimi 40/50 anni, non ha mai modificato la sua analisi sul sistema capitalistico, che è sempre quella sovietica: capitalismo monopolistico etc. Poi, sull’Unione Sovietica loro hanno riflettuto, e sono arrivati alla conclusione, basta andare sul loro sito per leggerlo, che l’Unione Sovietica è caduta perché hanno cercato di affrontare i problemi per via capitalistica. Se invece fossero rimasti all’interno dello schema socialista, non ci sarebbe stata questa crisi, questo crollo. Un approccio estremamente schematico: non analizza il perché il partito comunista sovietico sia andato in quella direzione, né un sacco di altri aspetti. Quindi anche se tendenzialmente hanno la mia simpatia, allo stesso tempo sono di un settarismo totale.

NR: Il problema principale di Syriza adesso è che, pur essendo partiti subito con una serie di proposte anche abbastanza interessanti, come l’aumento del salario minimo o il ripristino di una serie di condizioni di vita a livelli precedenti le impostazioni della Troika, si trovano in una posizione molto delicata per via del fardello del debito. Secondo te quanto spazio di manovra c’è per il nuovo governo greco?
JH: nessuno. E lo sanno. Quindi dovranno andare allo scontro. E lì si vedrà come agirà Syriza, al cui interno c’è la componente eurocomunista e non solo, c’è anche gente che ha lasciato il KKE successivamente. Questa componente è più possibilista sul debito, nel senso che sono per accettare dei compromessi invece che andare alla rottura. Questo potrebbe provocare problemi interni seri a Syriza.

NR: quando tu dici andare allo scontro cosa intendi?
JH: per scontro intendo la linea di Yanis Varoufakis. Quella è giustissima. Ossia fare default ma restando nell’eurozona.

NR: Quindi secondo Varoufakis è possibile fare default rimanendo nell’Eurozona?
JH: Certo, non paghi e basta. Mica devi uscire, nessuno ti obbliga ad uscire e loro non ti possono cacciare. Questo non lo capiscono coloro che parlano di “Grexit”, e nemmeno i Tedeschi che dicono: ah allora te ne vai. Nessuno può cacciare la Grecia, nessuno può cacciare nessun paese dalla zona euro. Quindi Yanis dice: va bene, se loro non vogliono accettare dei compromessi noi dichiariamo il default stando nella zona euro, vediamo un po’ che succede. L’ha scritto anche sul suo blog, spesso.

NR: Visto che lo abbiamo citato, in conclusione due battute sul nuovo governo. Tu conosci bene Varoufakis, con cui hai anche scritto un libro, ma ci sono anche altre figure interessanti, ad esempio Rania Antonopoulos dovrebbe occuparsi di lavoro.
JH – Sì, questo è un governo molto moderno, gente che veramente conosce il mondo, e non conosce il mondo dei banchieri. Tra l’altro la Grecia è molto meno provinciale dell’Italia, poiché in Grecia anche la borghesia è emigrata, non soltanto il popolo (diciamo il popolo delle isole, i contadini semi-analfabeti) degli anni Cinquanta. In Italia la borghesia è sempre stata stanziale: solo adesso la gente di origine middle-class si muove, emigra. La borghesia italiana è stata stanziale al massimo, provincialissima, magari perché ricca, sicura di sé; mentre in Grecia no, la borghesia parla molte lingue, nei dipartimenti delle facoltà universitarie greche c’è gente che si è formata in Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Germania, e anche in Russia. E’ gente che ha viaggiato vivendo in altri paesi, non vivendo da persone importanti – diciamo non come i Giavazzi, che vanno al MIT – ma dovendo cercare lavoro, vivendo veramente in altri paesi.

Però il punto centrale, la persona cruciale lì è proprio Yanis Varoufakis. Yanis ha sviluppato questo“algoritmo”: è inutile che gli andiamo a dire che usciamo dall’euro – che, secondo Yanis, potrebbe essere un ulteriore disastro – è inutile andare a chiedere di fare politiche keynesiane, tanto in Europa non ci sentono da questo orecchio. Bisogna partire da questo presupposto per fare delle proposte: una sulla questione della mutualizzazione di una parte del debito, la quota prevista da Maastricht, come più volte ha detto. L’altra sul fatto che si debbano attivare tutte quelle istituzioni che in Europa sono preposte alla spesa, come la Banca Europea degli investimenti. La devono sganciare dal fatto che ogni volta che la banca europea degli investimenti fa una spesa viene addebitata ad uno stato. E’ letta come spesa pubblica. Quindi questa è la sua idea: noi facciamo questa proposta, se si rifiutano sta a loro sostenere le conseguenze (ossia un default della Grecia).

NR: la maggior parte degli articoli usciti in questi giorni su Varoufakis hanno molto calcato la mano sull’aspetto, come dire, della personalità e della figura. Il “Manifesto” l’ha definito con entusiasmo un economista marxista. A noi francamente più che marxista Varoufakis sembra un keynesiano di sinistra, se vogliamo.
JH: Ma lui non è da questo punto di vista una persona semplice, non è accademicamente marxista, è – a mio avviso – strategicamente più leninista che marxista, perché sotto molti aspetti ha una concezione propria del giocare sui rapporti di forza. E di trovare i limiti degli avversari, da questo punto di vista ha molto assorbito la teoria dei giochi. Yanis viene da una famiglia resistenziale, il padre ha fatto anni di prigione, era già formato politicamente quando si è trasferito in Gran Bretagna. La Grecia è un paese come l’Italia, dove marxista significa essere militante, non puoi fare il marxista accademico e basta. Marxista è un sistema di idee che c’hai, poi fai altre cose, puoi anche fare il geometra.

Varoufakis ha fatto l’economista, studiando la teoria dei giochi. Gli piaceva, perchè prevedeva la possibilità del conflitto. Poi è arrivato ad una visione critica, e qui il suo contributo è molto importante. Ha una critica della teoria dei giochi che è tanto forte quanto la critica sraffiana alla teoria neoclassica. Inoltre lui è andato avanti epistemologicamente, al di là della caccia all’errore, che è insufficiente e anche sterile. Lui è andato alla radice, ossia ha fatto una critica dell’economia individualistica. Da questo punto di vista è molto più importante di quanto si creda. E lasciatemi dire che trovo veramente molto provinciale, piccolo-borghese che la maggior parte dei quotidiani italiani si sia concentrata su aspetti esteriori come il fatto che Varoufakis non porti la cravatta.
Anche la sua collaborazione con la Valve corporation è stata derubricata come consulenza ad una società che produce videogiochi. In realtà questa azienda si occupa di vendita di beni virtuali, Yanis era stato assunto per collaborare alla creazione di firewall che impedissero la nascita di bolle finanziarie virtuali, e questa esperienza gli ha dato una conoscenza di sistemi di moneta virtuale, su cui ha anche scritto, come “bitcoin” che gente come Visco o Padoan non potrà mai avere.

Il manifesto, 6 febbraio 2015

L’altolà di Dra­ghi al governo Tsi­pras mostra con duris­sima evi­denza lo stato di sospen­sione demo­cra­tica di que­sta “Europa reale”, e della Bce che ne costi­tui­sce un pila­stri. L’attacco di Dra­ghi e il pre­an­nun­cio di non garan­tire più per i bond greci mostra la volontà di stran­go­lare sul nascere il nuovo corso. Non si rico­no­sce il man­dato popo­lare rice­vuto da Tsi­pras, e non si capi­sce con quale auto­re­vo­lezza venga con­si­de­rato non atten­di­bile il piano pre­sen­tato dalla nuova com­pa­gine greca, da parte di chi ha par­te­ci­pato a misure, pre­vi­ste dal Memo­ran­dum, famose per aver fal­lito cla­mo­ro­sa­mente gli obiet­tivi dichiarati. La realtà è che le scelte sociali, eco­no­mi­che ed isti­tu­zio­nali, il non rico­no­sci­mento della Troika di Tsi­pras vanno in col­li­sione con la natura e i poteri dell’“Europa reale”, quelli finan­ziari, libe­ri­sti e della ege­mo­nia mer­ke­liana. Di que­sti poteri la Bce è un architrave.

Da tempo soste­niamo lo scan­dalo di un Par­la­mento euro­peo senza alcun potere d’influenza sulla Bce, un organo pre­teso tec­nico (25 per­sone, non elette), a cui i Trat­tati dell’Unione hanno affi­dato la piena respon­sa­bi­lità della poli­tica mone­ta­ria dell’Europa. Il fatto è che i nostri diri­genti hanno ade­rito al prin­ci­pio che la poli­tica mone­ta­ria e finan­zia­ria non debba essere più una fun­zione sovrana dei poteri pub­blici sta­tuali (nazio­nali ed euro­pei), ma il com­pito di sog­getti pri­vati poli­ti­ca­mente indi­pen­denti dalle isti­tu­zioni pubbliche. La Bce è il sog­getto chiave del Sistema euro­peo di ban­che cen­trali (Sebc) di cui fanno parte, oltre la Bce, le Ban­che cen­trali nazio­nali degli Stati che hanno adot­tato l’euro e for­mano l’Eurosistema. Suo com­pito prin­ci­pale è di attuare la poli­tica mone­ta­ria dell’Unione il cui l’obiettivo, fis­sato dai Trat­tati, è il man­te­ni­mento della sta­bi­lità dei prezzi, diven­tato l’imperativo mone­ta­rio dei paesi occidentali.

Il pro­blema nasce dal fatto che l’articolo 130 del Trat­tato sul Fun­zio­na­mento dell’Unione euro­pea (Tfue) sta­bi­li­sce il prin­ci­pio della totale indi­pen­denza poli­tica della Bce. Coe­ren­te­mente, il Trat­tato dispone l’obbligo per i governi degli Stati mem­bri e le isti­tu­zioni ed organi dell’Ue di aste­nersi da qual­siasi forma di inge­renza sulle atti­vità della Bce. Aver sti­pu­lato for­mal­mente l’indipendenza poli­tica alla Bce come prin­ci­pio costi­tu­zio­nale del Tfue ha creato una situa­zione giu­ri­dica, isti­tu­zio­nale e poli­tica, anomala. L’anomalia si esprime anzi­tutto rispetto alle ban­che cen­trali: la Bce è l’unica banca cen­trale al mondo ad essere poli­ti­ca­mente indi­pen­dente da ogni altra auto­rità. Le altre ban­che, com­presa la Fede­ral Reserve Bank (Usa) sono auto­nome. L’anomalia è però soprat­tutto rile­vante nell’assetto attuale dell’integrazione euro­pea. L’adozione dell’euro anche in assenza di uno Stato sovrano euro­peo, è avve­nuta in maniera con­tra­ria alle tesi costi­tu­zio­nali poli­ti­che che da sem­pre rico­no­scono che una moneta implica un governo, un potere sovrano, uno Stato.

Le ragioni per le quali i poteri forti euro­pei hanno creato una moneta senza Stato sono mol­te­plici. A nostro avviso, la più pre­gnante è di ordine ideo­lo­gico poli­tico: è l’idea che occorra stac­care l’economia dalla poli­tica ed affi­dare i com­piti di gestione dell’economia, in par­ti­co­lare della poli­tica mone­ta­ria, ad organi tec­nici “indi­pen­denti” dai governi pub­blici, capaci di dare fidu­cia ai mer­cati finanziari. Il com­pito della Bce non è di dare fidu­cia ai par­la­menti nazio­nali ed al par­la­mento euro­peo e di sal­va­guar­dare i diritti umani e sociali dei cit­ta­dini stessi. I suoi clienti, come si dice nel gergo domi­nante, sono i mer­cati finan­ziari, le ban­che e gli agenti finan­ziari spe­cu­la­tivi. La Bce è attual­mente il solo potere poli­tico sovra­na­zio­nale europeo.

L’indipendenza della Bce signi­fica prin­ci­pal­mente tre cose. Anzi­tutto, una misti­fi­ca­zione, deli­be­rata, per coprire legal­mente il fatto che essa non lo è ma che è sot­to­messa all’influenza degli inte­ressi dei poteri pub­blici (Stati) più forti dell’Ue sul piano mone­ta­rio e finan­zia­rio. Essa lo è nei con­fronti degli Stati più deboli come la Gre­cia, l’Irlanda, il Por­to­gallo .…ma non della Ger­ma­nia e del mondo finan­zia­rio rap­pre­sen­tato dal Lus­sem­burgo. In secondo luogo, una realtà effet­tiva nei con­fronti del Par­la­mento euro­peo e delle altre isti­tu­zioni dell’Ue. Il dia­logo eco­no­mico tra la Bce ed il Pe (per far cre­dere alla legit­ti­mità demo­cra­tica della Bce) e tra que­sta ed il Con­si­glio dei Mini­stri e la Com­mis­sione euro­pea (a dimo­stra­zione della respon­sa­bi­lità della prima nei con­fronti delle altre due) è un puro arram­pi­carsi sugli specchi.

Infine, la libertà dai poteri poli­tici pub­blici accor­data alla Bce è una tri­ste farsa politica. Lo stru­mento chiave del potere della Bce è l’intervento sul tasso di sconto (il costo del capi­tale) sulla moneta. Da anni que­sta fun­zione non appar­tiene più alle ban­che cen­trali (lo Stato) ma alle ban­che stesse (sog­getti pri­vati nella stra­grande mag­gio­ranza). La Bce, per suo pro­prio dire, si limita ad inter­ve­nire in rea­zione al tasso di sconto fis­sato dalle banche/mercati finan­ziari, abbas­san­dolo in caso di freddezza/stagnazione dell’economia o aumen­tan­dolo in caso di riscal­da­mento o ecci­ta­zione ele­vata dei mer­cati. Indi­pen­denza for­male, quindi, rispetto ai poteri poli­tici pub­blici ma dipen­denza chiara nei con­fronti dei mer­cati finanziari.

Cam­biare que­sto stato non è facile. Biso­gna ripor­tare la poli­tica mone­ta­ria euro­pea nel campo della demo­cra­zia effet­tiva, dando un governo poli­tico all’euro. Biso­gna abo­lire la dis­so­cia­zione tra poli­tica ed eco­no­mia ed eli­mi­nare il pri­mato dell’economia sulla poli­tica, per un pro­cesso costi­tuente europeo. Il par­la­mento euro­peo è l’istituzione più legit­tima per farlo, se lo vuole. E’ neces­sa­rio scar­di­nare il potere spe­cu­la­tivo e cri­mi­nale dei mer­cati finan­ziari, met­tendo fuori legge i para­disi fiscali, rego­la­men­tando i mer­cati dei deri­vati, le tran­sa­zioni finan­zia­rie ad alta fre­quenza e la finanza mobile, ripub­bli­ciz­zare le casse di rispar­mio ed il cre­dito alle col­let­ti­vità locali. E dichia­rare ille­gale le forme di com­pe­ti­ti­vità fiscale tra gli Stati.Terzo oltre che met­tere la finanza e la moneta in Europa al ser­vi­zio della giu­sti­zia e della soli­da­rietà umana e sociale e della giu­sti­zia ambien­tale. Tsi­pras ha aperto uno scon­tro duris­simo e cia­scuno di noi deve fare la sua parte.

La Repubblica, 5 febbraio 201

BCE NON ACCETTA PIÙ TITOLI GRECI
BANCHE A RISCHIO, L’EURO SCIVOLA

di Andrea Tarquini


«Noi vi proponiamo un piano radicale di lotta a sprechi evasione e corruzione, ma aiutateci a tenere la testa fuori dall’acqua, e sia la Francia a guidare l’emergenza», hanno detto ieri il nuovo premier greco Alexis Tsipras al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e poi al capo dello Stato francese, François Hollande, e nelle stesse ore il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis al presidente della Bce Mario Draghi. Anche se proprio l’Eurotower chiede impegni immediati: la Bce non accetterà oltre l’11 febbraio i titoli ellenici come garanzia, uno stop che aggraverebbe la crisi di liquidità delle banche. Solo un accordo politico con Bruxelles in una settimana può salvare la Grecia dall’uscita dall’euro.

All’annuncio dell’Eurotower, ieri sera l’euro è sceso sotto quota 1,1400 sul dollaro (1,394) La Germania chiede ad Atene di prendere le distanze dalle promesse elettorali, dice un documento governativo di Berlino secondo cui occorrono dalla Repubblica ellenica chiare promesse sulle riforme. E in ogni caso, fa sapere la cancelliera Angela Merkel, «abbiamo posizioni comuni con Hollande e Renzi». Come dire: siamo tutti contrari a sconti e rinvii.
Su questo sfondo Varoufakis si prepara domani al colloquio più difficile, quello a Berlino col collega tedesco Wolfgang Schaeuble. Con il documento riservato, la Bundesrepublik ha risposto nel modo più deciso all’offensiva mediatica (interviste, proposte di grandi piani, rivelazioni) lanciata da Tsipras e Varoufakis in giro per l’Europa.
Atene, dice la Germania, deve accettare la Troika, pagare i creditori come Bce, Fmi e fondo salva Stati, nonché i creditori bilaterali. Il nuovo governo deve inoltre riconoscere l’indipendenza della sua Banca centrale. Posizioni molto lontane da quelle di Tsipras, che vedendo Juncker e poi Hollande ha chiesto un “accordo provvisorio”: in sostanza dilazioni dei termini di pagamento in cambio dell’impegno ateniese a un “programma radicale” contro spreconi, corrotti, grandi evasori a casa. Tsipras sfoggia ottimismo, anche se «l’accordo non c’è ancora», e ribadisce l’intenzione di «rispettare le regole Ue», impegno chiesto anche dallo stesso presidente francese.
Rispetto delle regole, secondo il paper tedesco, vuol dire che Atene raggiunga un avanzo primario del 3% quest’anno e del 4,5 l’anno prossimo, che riduca di altre 150mila unità l’occupazione nel settore pubblico, tagli il salario minimo, àncori più strettamente le pensioni al pagamento dei contributi, acceleri le privatizzazioni e adatti le tariffe elettriche ai prezzi di mercato. E non a caso il presidente dell’esecutivo europeo, l’ex premier liberal polacco Donald Tusk, ha avvertito Tsipras che «i negoziati saranno difficili ».
Oggi, intanto, la Commissione europea renderà note le nuove previsioni economiche 2015 che per l’Italia confermerebbero una crescita dello 0,6% mentre si avvicinerebbero molto alle stime del governo sul deficit, visto al 2,6 invece dell’2,7% precedente. In salita la stima sull’occupazione: dal 12,6 al 12,8%.In tanta freddezza, è anche vero che l’Europa deve e vuole negoziare con Atene per scongiurare una bancarotta greca e un primo, pericolosissimo sfaldamento dell’Unione monetaria. E lo stesso premier greco sa bene che anche l’Europa dovrà fare concessioni importanti. Perché Tsipras è oggi l’unico, esile filo che tiene attaccata la Grecia all’Europa.

ASSE TRA BERLINO, ROMA E PARIGI
SU ATENE CALA IL GELO DEL RIGORE

di Andrea Bonanni

Il silenzio di Juncker e Draghi, il riserbo di Renzi, le smentite Fmi. E poi le scarne parole di Angela Merkel che suonano come una sentenza: «Ho parlato al telefono con il premier italiano e il presidente francese. Sulla Grecia le posizioni degli Stati membri non differiscono nella sostanza». L’offensiva diplomatica tra Roma, Bruxelles, Parigi e Francoforte di Alexis Tsipras ha prodotto un frastuono di dichiarazioni ottimistiche che però non ha trovato eco nei loro interlocutori. «I negoziati saranno difficili», ha detto il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, unica autorità comunitaria a rilasciare un commento dopo l’incontro con Tsipras.

Roma, Bruxelles, Francoforte e Parigi hanno mandato lo stesso messaggio, dunque: nessuna conferenza internazionale per rinegoziare il debito, nessuna cancellazione più o meno occulta dei 240 miliardi prestati, nessun trattamento di favore da parte di Fmi e Bce. L’unico tavolo negoziale al quale si devono rivolgere i nuovi governanti di Atene è quello dell’Eurogruppo. E devono farlo in fretta perché, senza un accordo dell’Eurogruppo, neppure la Bce sosterrà le banche greche già svenate dalla fuga di capitali.

Accolti dovunque con grandi sorrisi, baci, abbracci e pacche sulle spalle, Tsipras e Varoufakis sono tornati ieri sera ad Atene con ben poca farina nel sacco. E difficilmente se ne aggiungerà oggi, durante l’incontro che Varoufakis avrà a Berlino con il Finanzminister, Wolfgang Schauble. In una intervista a Repubblica, il ministro greco aveva annunciato di aver «avviato un negoziato» con il Fondo monetario internazionale per una dilazione del debito. Circostanza che l’Fmi ha smentito seccamente. In compenso si è saputo che Varoufakis ha incontrato nel week-end a Parigi il responsabile europeo del Fondo, che guardacaso è quel Poul Thomsen odiatissimo dai Greci perché per anni a capo della Troika e dei suoi ultimatum. I due, dice un breve e perfido comunicato Fmi, «hanno fatto conoscenza ed evocato le sfide a cui la Grecia deve far fronte».

Pure tra coloro che Tsipras considerava i suoi potenziali alleati, come Renzi, Hollande e il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, il leader greco ha trovato sorrisi, comprensione, ma anche una linea di demarcazione netta: la premessa per qualsiasi negoziato è che Atene si impegni a rispettare le regole europee e gli obblighi assunti. «Se la Grecia modifica unilateralmente gli accordi, l’altra parte non è più obbligata a rispettarli, pertanto lo Stato non sarà più in grado di finanziarsi», dice Schulz in una intervista a Handesblatt.

Intanto i tedeschi hanno fatto trapelare un loro “documento di lavoro” presentato agli altri governi dell’Eurozona in cui chiedono non solo che la Grecia garantisca di rimborsare il debito, ma che mantenga anche tutti gli impegni di tagli, riforme e privatizzazioni che i precedenti governi avevano concordato con la Troika. Ma questo, evidentemente, fa già parte della complicata partita negoziale che si aprirà oggi con l’incontro di Varoufakis e Schauble e che entrerà nel vivo l’11 febbraio alla riunione dell’Eurogruppo che precederà di un giorno il vertice dei capi di governo della Ue, quando finalmente Tsipras incontrerà la cancelliera Merkel.

Il manifesto, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)

Occorre dav­vero far ricorso a tutte le risorse eti­che e razio­nali di cui dispo­niamo per non rele­gare un intero pezzo di mondo nelle tene­bre della bar­ba­rie più effe­rata e auspi­carne l’annientamento a qual­siasi costo, «danni col­la­te­rali» compresi. La ten­ta­zione è forte. All’orribile morte tra le fiamme di Moath al-Kasasbeh, decisa magari «dal basso» dagli umori infami del popolo jiha­di­sta con­sul­tato sulla rete, fa seguito la rea­zione squi­si­ta­mente kap­ple­riana della monar­chia di Amman, che fa imme­dia­ta­mente impic­care Sajida al-Rishawi, la ter­ro­ri­sta dete­nuta nelle car­ceri gior­dane dal 2005 e che la Gior­da­nia era dispo­sta fino a ieri a scam­biare con il suo pilota, e un altro dete­nuto qae­di­sta ira­cheno, Ziad al-Karbouli.

In realtà cir­co­lava voce che altri cin­que dete­nuti sareb­bero stati giu­sti­ziati, ma non è chiaro quale sia la pro­por­zione della rap­pre­sa­glia rite­nuta ade­guata dalla monar­chia hashe­mita. Ci augu­riamo infe­riore a quella delle Fosse Ardea­tine. Intanto da quel san­tua­rio di sag­gezza isla­mica «mode­rata» che è l’università cora­nica di Al Azhar si leva l’invito a «ucci­dere, cro­ci­fig­gere e muti­lare» i ter­ro­ri­sti. Que­sto Islam potrebbe pia­cere per­fino, per l’occasione, alla destra islamofoba.

Lasciando per un momento da parte ogni con­si­de­ra­zione geo­po­li­tica, ci tro­viamo di fronte tutti gli ele­menti di una «guerra inter­fa­sci­sta» (per usare l’espressione sug­ge­sti­va­mente appli­cata da Franco Berardi Bifo alla guerra in Ucraina). L’orrore abita diversi luo­ghi nel mondo, in pro­por­zioni nume­ri­che più o meno spa­ven­tose dal Paki­stan alla Nige­ria, per­vade legi­sla­zioni, forme poli­ti­che e sociali di molti regimi fidati alleati dell’Occidente.

In un luogo spe­ci­fico, però, quello mili­tar­mente occu­pato dall’Isis, l’orrore si è «fatto stato» senza diplo­ma­tici velami. Uno stato che eser­cita il suo potere in forme tanto feroci da far impal­li­dire l’Afghanistan cru­del­mente tri­bale e «tra­di­zio­na­li­sta» del Mul­lah Omar. Vi si bru­ciano libri ed esseri umani in stile più nazi­sta che «medioevale». Que­sto stato deve essere can­cel­lato dalla carta geo­gra­fica, pre­stando però molta atten­zione a che non se ne disper­dano le spore. Ma è que­sta una ragione per tol­le­rare la bar­ba­rie «mode­rata» che fre­quenta la city nel timore che possa diven­tare «estrema», pro­ba­bil­mente senza smet­tere di frequentarla?

Le ragioni eco­no­mi­che e geo­stra­te­gi­che non abbi­so­gnano, si sa, di giu­sti­fi­ca­zioni morali. Ma il discorso pub­blico e anche la reto­rica demo­cra­tica non pos­sono farne a meno. E tacere sui sistemi di bru­tale oppres­sione eser­ci­tati dagli alleati dell’Occidente in casa propria. E’ di ieri la con­danna all’ergastolo di cen­ti­naia di mili­tanti del movi­mento che spo­de­stò Muba­rak in Egitto.

Non si vedono in giro per il mondo car­telli e magliette con la scritta «Je suis Moath». Certo un pilota che bom­barda, tutt’altro che chi­rur­gi­ca­mente, i ter­ri­tori domi­nati dall’orrore è ben diverso da vignet­ti­sti assas­si­nati per le loro opi­nioni ed eletti a sim­bolo della libertà di espres­sione, seb­bene tutti vit­time della mede­sima bar­ba­rie. Le bombe, que­sto è certo, non sono parole. Eppure dovreb­bero esserci, nono­stante tutto, que­ste magliette e que­sti car­telli, per­ché la Con­ven­zione di Gine­vra, per non par­lare dei più ele­men­tari prin­cipi di uma­nità, con­tiene diritti non meno impor­tanti da difen­dere. E anche chi par­te­cipa a una guerra, una volta pri­gio­niero non può subire la sorte ter­ri­fi­cante toc­cata al pilota giordano.

C’è un pro­blema però. Anche le vit­time della rap­pre­sa­glia gior­dana, e cioè di una logica fasci­sta, meri­te­reb­bero la stessa atten­zione. Capi­sco quanto sarebbe imba­raz­zante indos­sare una maglietta con la scritta «Je suis Sajida», una fana­tica ter­ro­ri­sta che ha par­te­ci­pato a un atten­tato che ha pro­vo­cato 60 morti, ma nel momento in cui non è più in grado di nuo­cere e diventa la pedina inerme e tor­tu­rata di un mostruoso gioco di imma­gini, l’oggetto di una ven­detta al ser­vi­zio della pro­pa­ganda hashe­mita, forse biso­gne­rebbe avere il corag­gio e lo sto­maco di farlo.

Ma solo da quel momento in poi. Prima gli uomini dell’Isis, come già gli eser­citi nazio­nal­so­cia­li­sti, non pos­sono che essere com­bat­tuti con le armi e i loro com­plici «mode­rati» e silen­ziosi costretti a get­tare la maschera e a ren­dere conto delle pro­prie azioni.

Riprendiamo da

Sbilanciamoci.info (2 febbraio 2014) l'intervista a Luciana Castellina apparsa su www.minimaemoralia.it. Nello spirito di una frase di Giorgio Agamben («per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia»), vi si parla di Syriza , del Pdup e del PCI, di Tsipras e di Napolitano, di Renzi e di Mitterand, di Berlinguer e di Togliatti, e di tanti altri

«Caro Lucio, carissimo compagno di tante lotte e di tante sconfitte: nessuna sconfitta è definitiva, finché gli echi delle nostre passioni riescono a rinascere in forme nuove». Nella tensione emotiva dell’omaggio di Pietro Ingrao a Lucio Magri si ritrova tutto il travaglio di una stagione repubblicana dall’eredità ancora irrisolta. Con il saggio Da Moro a Berlinguer – Il Pdup dal 1978 al 1984 (Ediesse, 402 pagine, 20 euro) Valerio Calzolaio e Carlo Latini colmano un vuoto pubblicistico sulla storia del partito nato dall’unificazione del Pdup di Vittorio Foa e del gruppo de Il Manifesto, che fin dalla radiazione dal Pci nel 1969 si pose il problema di aggregare la nuova sinistra del ’68. Il testo sull’esperienza del Pdup per il comunismo, composto da un’élite politico-culturale ma anche radicato sul territorio, offre almeno quattro linee guida d’interesse contemporaneo. Il rapporto fra partiti, o quel che ne resta, e movimenti, ripercorrendo lo sforzo di tradurre in soggettività politica i movimenti del ’68-’69. Poi annotiamo la questione dirimente della scelta europea della sinistra italiana; l’ecologia e lo sviluppo industriale; infine la fermezza contro la politica del terrore fine a sé stesso del partito armato senza smarrire la lucidità dell’analisi. Luciana Castellina, che nelle file del Pdup è stata eletta parlamentare nazionale ed europea, scrive nella prefazione: « (…) È la testimonianza di un tempo in cui la politica è stata bellissima: vissuta dentro la società, colma di dedizione appassionata, di grande affascinante interesse perché impegnata a capire come rendere migliore la vita di tutti gli umani. Anche se non abbiamo vinto. Ma se vogliamo provarci ancora, questa archeologia è importante». Nella Grecia di Tsipras la giornalista Castellina sembra aver riascoltato echi di passioni mai sopite.

Qual è il suo ritratto del premier?

«È un quarantenne, che non avverte la paura che ha frenato le precedenti generazioni della sinistra greca. I drammi della guerra civile, lo spettro del ritorno di una forma di dittatura fascista hanno sempre provocato una qualche timidezza. Appartiene a una generazione più sicura e dunque capace di osare di più. Tsipras ha un senso fortissimo della propria storia e della propria identità comunista. Ha ampliato il raggio dell’iniziativa politica, producendo la rottura di un assetto bipolare. Il linguaggio nuovo e responsabile di Syriza ha intercettato e aperto spazi politici. La drammaticità della situazione ha favorito la convergenza e coesione interna al partito, che riunisce varie forze, al contrario della nota frammentazione».

Fra le analisi giornalistiche post elettorali c’è chi ha prefigurato nel rapporto con l’Europa un parallelo con l’evoluzione del primo Mitterand. La rivoluzione a costo zero non si fa.

«I percorsi dei due personaggi sono profondamente diversi. La rottura di Mitterand non fu così drastica come quella proposta da Tsipras e la storia della Francia non è quella della Grecia. Mitterand, anche in giovinezza, è stato un uomo molto accomodante, tutt’altro che un eroe delle rotture».

La parola solidarietà è rientrata nel vocabolario politico? Syriza di governo, che ha limiti endogeni ed esogeni, riuscirà a mantenere una dinamica complessa con i movimenti?

«Lì i movimenti sono poco strutturati. Per capirsi non c’è qualcosa di simile a Indignados-Podemos. Syriza ha sostenuto le proteste alimentate dalla sofferenza sociale. Si è messa a disposizione per la costruzione di una società alternativa, a fronte di uno Stato che ha tagliato tutto. Nei quartieri, dove la gente affronta la miseria nera, sono nate forme di volontariato organizzato molto importanti. Il partito ha mostrato la capacità di contribuire a consolidare questa solidarietà mediante la propria organizzazione partitica. Tutte le forme di supplenza alle carenze statuali mi hanno ricordato il mutuo soccorso del movimento operaio alle origini».

Torniamo in Italia. Nei nove anni al Quirinale ha trovato riscontri del Giorgio Napolitano che conosceva? Curzio Malaparte, frequentato in giovane età dal presidente emerito, regalandogli una copia di Kaputt annotò nella dedica: «Non perde la calma neppure dinanzi all’Apocalisse».

«Ha esercitato il ruolo istituzionale andando sopra le righe, perché è una personalità molto forte fra tutti i nani dell’attuale scenario politico italiano. È un signore dalla lunga storia politica e relativa grande esperienza. Dunque inevitabilmente, oggettivamente, ha esercitato un’egemonia. Napolitano è stato sempre un uomo che ha apprezzato e dato priorità agli elementi di stabilità. Privilegia l’equilibrio, cristallizzato dalla strategia delle larghe intese, al cambiamento. D’altra parte la destra Pci era filo-sovietica, non tanto perché gli piacesse l’URSS, quanto per l’idea di sicurezza e stabilità che avrebbe dovuto assicurare al mondo il sistema dei blocchi contrapposti».

Che cos’è oggi il diritto al dissenso?

«Non sono mai andata d’accordo con Napolitano, tuttavia il dibattito, che rimpiango, è stato politicamente significativo e civile. Lui ha contribuito intensamente alla mia radiazione dal Pci. Ma ho nostalgia di quella radiazione, perché almeno si è discusso con un sincero turbamento. Oggi ripeto ai dissidenti di qualunque partito, che possono solo sognare una radiazione come la nostra. Il leader parla in televisione e gli altri sono costretti nella scelta binaria sì o no, con una sostanziale indifferenza per le posizioni e per le idee».

Il dissenso espresso dalla minoranza Pd sulla legge elettorale è stato davvero funzionale all’elezione di Sergio Mattarella?

«Non amo Renzi, ma è stato molto abile in questa operazione. Ha capito che aveva tirato troppo la corda con la minoranza interna al suo partito. Non poteva calpestarli ulteriormente, essendo arrivato al rischio di rottura. Ha dovuto cedere qualcosa. Penso avrebbe preferito una candidatura in accordo con Berlusconi».

In attesa del giuramento e del discorso d’insediamento in programma domani, qual è il segno distintivo del neo presidente?

«Innanzitutto la Prima Repubblica non è stata una cosa omogenea. Mattarella è un uomo di quella stagione, dimessosi dalla carica di ministro, poiché contrario all’approvazione della legge che ha determinato la vita della Seconda Repubblica. Mattarella, da questo punto di vista, è stato il primo con altri, seppure in una posizione interna al partito democristiano, a capire che cosa stesse accadendo. Nell’osservanza della legge ha tentato di tutelare l’interesse generale, per non assecondare l’ascesa di Berlusconi. Il termine rottamazione più che una rottura generazionale, ispirata da un rinnovamento necessario, evoca una rimozione forzata e stupida della storia. Come asserisce Giorgio Agamben per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia».

La cosiddetta Seconda Repubblica si è caratterizzata dalla nascita di un sistema bipolare impuro, con coalizioni estremamente eterogenee e politicamente frammentate. Con i partiti piccoli a determinare equilibri meramente elettorali. Lei sostiene che il Pdup abbia rifuggito il minoritarismo. In che modo?

«Non abbiamo mai pensato di costruire sopra la nostra testa il partito della rivoluzione, bensì d’incarnare l’essenza di una forza critica, destinata alla transitorietà. Volevamo innescare un rinnovamento sostanziale del Pci, che era ancora una forza molto vitale. Non coltivavamo un interesse particolare, se non quello della rifondazione dell’organizzazione storica del movimento operaio. Il nostro successo sarebbe derivato dall’aggregazione delle forze sane della nuova e vecchia sinistra. Purtroppo non è andata così. Per riprendere una frase di Santa Teresa di Lisieux: anche chi non conta niente deve sempre pensare come se tutto dipendesse da sé, muovendosi con il senso di responsabilità di chi decide. La nostra piccola impresa ha lasciato una rete di quadri, che non opera più a livello politico, ma è vitale nella società, perché era il prodotto di una cultura credo molto forte e rigorosa».

Calzolaio e Latini evidenziano il tratto leaderistico, nella persona di Lucio Magri, assunto dal Pdup.

«Leadership e personalizzazione, deriva pericolosa, non sono la stessa cosa. Non si costruisce un soggetto politico senza avere selezionato una leadership. Una selezione da maturare in un corpo sociale e politico vasto. Correttamente gli autori sottolineano il ruolo di Magri, decisivo fin dall’inizio nell’elaborazione della linea, nelle tesi del Manifesto con una costante apertura all’autocritica. La sua visione ha anticipato i tempi. Su Praga il Pci, pur in posizione critica, parlava ancora solo di errore. È interessante rileggere i suoi discorsi parlamentari, dai quali è possibile elaborare una ricostruzione della storia degli anni Settanta. La sua esistenza è finita in quella maniera, perché non ha accettato l’idea di una fase di piccoli accordi, di piccole storie. “La sinistra rinascerà, certo, ma ci vorrà molto tempo e a quel punto sarò morto”».

Nel febbraio 1968 Napolitano firmò una relazione sul movimento studentesco: riconoscimento della novità, volontà di raccoglierne le sollecitazioni e denuncia delle avvisaglie estremiste. Permane tutt’oggi quella carenza dialogica partito-movimenti?

«Il Pci non comprese appieno la portata del Sessantotto. Era finita la fase dell’Italia arretrata che doveva entrare nella modernità. Dentro a quella modernità erano esplose contraddizioni nuove nel lavoro, nell’alienazione, nell’ecologia, nelle questioni di genere. Il pregio dei movimenti è di avere antenne più alte dei partiti, spesso elefantiaci e immobili, per percepire le contraddizioni del proprio tempo. Il Pci considerava i movimenti tutt’al più portatori d’interessi e problemi settoriali, poi toccava al partito fare la sintesi. A noi non sfuggì l’importanza della dialettica con il movimento. Fu un’altra delle ragioni di differenziazione dal partito. I movimenti devono riuscire a mettere in discussione il quartier generale fino al limite di rifondarlo».

La sinistra è arrivata in ritardo sul tema Europa?

«Il Pci passò da un’opposizione d’assoluta chiusura, che aveva alcune buone ragioni, sulle modalità del processo di unificazione europea, all’europeismo acritico. Condivise la contrarietà a un’unione fondata sul liberismo e sulla dittatura del mercato con buona parte della sinistra continentale. Ricordo anche l’imbarazzo democristiano, pensando al pesante interventismo pubblico nella nostra economia. Leopoldo Elia, sorridendo, mi disse: «Non glielo diciamo all’Europa. Forse non se ne accorgono». Affermare che questa sia l’Europa sognata da Altiero Spinelli è una bugia. Basta rileggerlo o non scordarsi che nel 1957, a Roma, andò a volantinare per protesta nel luogo in cui venne firmato il Trattato CEE sotto l’egida di Ludwig Erhard, ministro dell’economia tedesco. Forse successivamente il suo errore fu quello di insistere un po’ troppo sugli aspetti istituzionali rispetto a quelli economico sociali».

In molte biografie e autobiografie di protagonisti del comunismo italiano, spesso intellettuali di estrazione borghese, ciò che viene rievocato con maggiore emozione, nel processo di formazione politica, è la scoperta del mondo andando a scuola dalla classe operaia.

«Questo forse è stato il tratto migliore del ’68, che in Italia è durato dieci anni. La considero un’esperienza formativa determinante. Fu la conoscenza di che cosa è la vita, della grande fabbrica operaia e la costruzione di un’idea di libertà basata nei rapporti sociali di produzione e non nel libertarismo. La conoscenza delle condizioni dei rapporti sociali di produzione, e dunque anche dell’umanità che da questi rapporti emerge, è stata un elemento fondante. Il Sessantotto viene dipinto come sesso droga e rock and roll, una rivolta antiautoritaria, una liberalizzazione dei costumi per l’affermazione della priorità dell’individuo sulle catene del noi imposte dalla chiesa e dai partiti. In realtà si provò a mettere radici che coniugassero la libertà con l’uguaglianza».

Pio La Torre, che borghese non era, fece quell’apprendistato sulla propria pelle dall’infanzia. Una vita ben spesa dalla parte degli sfruttati. Un leader naturale, forte e indipendente. Aggredì, con un’intensità inedita anche nel partito, al prezzo della vita l’intreccio promiscuo delle mafie. Che cosa le rimane della campagna pacifista che condivideste a Comiso?

«All’inizio ci fu una notevole timidezza da parte del Pci nell’assumere una posizione di contrasto netto. Nutrivano molta prudenza nei confronti del movimento, per poi compiere uno scatto con una larga partecipazione della Fgci. La Torre fu molto bravo, perché intuì la valenza di questa lotta e ne interpretò la causa. Dalla Sicilia arrivarono segnali forti e cominciammo a lavorare insieme. La Torre capì subito che dietro a quella vicenda si muoveva anche la mafia e un’ampia area grigia. La denuncia lo portò poi alla morte. Aveva una grande capacità nel mobilitare le persone. In Sicilia si raccolsero un milione di firme per la chiusura di Comiso. Il suo è stato un impegno trentennale senza mai rassegnarsi alla sconfitta».

Il vocabolo disarmo è ormai estraneo alla prassi politica.

«Uno dei più attivi nella protesta a Comiso fu l’attuale ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Lavorò al mio fianco nel giornale, che diressi insieme a Rodotà e Napoleoni, Pace e guerra. Era responsabile proprio della sezione degli esteri. Ha scritto anche un libro su quell’esperienza. Ma, insomma, i tempi cambiano».

Una peculiarità del Pdup fu una certa sensibilità per la questione ecologica allora fuori dall’agenda. Rimpiangevate il mondo rurale?

«È stato uno dei contributi al dibattito nazionale. Lotta continua ci prese in giro con un titolo d’apertura: «Come era verde la vostra vallata» con la firma di Guido Viale, che oggi riscopro alfiere ecologista. Non era una romantica nostalgia della società pastorale. Sul nucleare la battaglia è stata furibonda anche all’interno del Pci. I nodi di allora nella critica alla cultura industrialistica non sono stati risolti».

Il dossier Ilva è di attualità stringente. Il Pci, nella figura di Napolitano, ebbe un ruolo preminente nella nascita a Taranto di un modernissimo, per l’epoca, stabilimento siderurgico.

«La questione è complessa, ben raccontata dal recente film La zuppa del diavolo di Davide Ferrario. C’era il problema della modernizzazione dell’Italia, di cui come mostrano i materiali visuali d’archivio la classe operaia era fiera. Contemporaneamente il regista pone la critica, il deflagrare delle contraddizioni, con i testi di Volponi, Ottieri e Pasolini. Sono uscita dal cinema commossa. Quegli operai che escono in tuta, apparentemente felici, da una fabbrica che poi è l’Ilva con tutti i disastri che conosciamo».

Al riconoscimento della lungimiranza della questione morale, posta da Berlinguer, viene sovente accompagnata la tesi esplicitata in primis da Napolitano. In sintesi, quelle parole, affidate a Scalfari, in realtà celavano la tendenza del Pci a chiudersi nella sua «purezza», una sorta di rinuncia a fare politica, non riconoscendo più alcun interlocutore valido, e a rivolgersi al paese intero. Concorda?

«È curioso associare il concetto di rifiuto a un partito che registrava due milioni di iscritti. Piuttosto bisognerebbe rammentare chi rifiutava cosa. All’inizio c’è stata una voluta mistificazione di quel discorso. Diversità voleva dire che per pretendere di essere soggetto politico era necessario un di più di onestà, d’impegno, di dedizione e disinteresse: tutte qualità fondanti della politica. Il senso del discorso è stato stravolto, perché la sintonia che il Pci ha avuto con larga parte della società, anche in quella fase, non si è mai più ricreata per nessuno partito politico. La questione morale costituiva una critica per nulla moralista, come invece è stata immediatamente bollata, al sistema dei partiti. Il discorso sull’austerità fu scambiato per una cosa bigotta, contro la gioia del consumare, mentre invece anche lì era l’inizio di una riflessione critica sul modello di sviluppo. Su questi temi noi del Pdup ci ritrovammo nel Pci. Abbiamo avuto un rapporto difficile con Berlinguer. Sempre molto civile ma era lui il segretario quando fummo radiati. Alla fine c’è stato un grande rincontro».

Eric Hobsbawn, dopo aver seguito un intervento di Berlinguer durante una Festa dell’Unità, definì stupefacente il rapporto pedagogico di massa che il segretario riusciva a stabilire.

«Nei discorsi di Togliatti e Berlinguer è difficile rinvenire tracce di demagogia. Togliatti parlava come un professore di liceo. Non c’era mai un tono di troppo. Ricordo, in riferimento a Berlinguer, la frase pronunciata da una signora qualunque seduta vicino a me: «Parla così “male” che deve essere sicuramente sincero». La trovai e la trovo una frase bellissima, che esprimeva una grande verità. È una storia singolare il fascino che emanavano in un partito così grande e socialmente composito. I due si rivolgevano al popolo come se stessero in un’aula di liceo anziché in piazza. Pensiamo ai funerali di Berlinguer, c’era il mondo intero».

La Repubblica, 4 febbraio 2015

A porte chiuse, di fronte agli investitori della City, Varoufakis l’altro giorno è stato persino più abrasivo del solito. Il ministro dell’Economia greco ha rispolverato le formule che hanno fatto di lui un blogger di successo. La banca centrale europea si sta comportando come uno hedge fund - ha detto - . Hanno approfittato di noi. Se vogliono possono spararci addosso, ma sarebbe un omicidio».

Lo stile del ministro può non aver conquistato i gessati grigi di Londra, ma le sue frecce sono scagliate con precisione chirurgica. Varoufakis centra in pieno una delle troppe ipocrisie che rendono la Grecia un rebus quasi insolubile e rischiano di farne una fonte di contagio politico in Europa, tanto quanto lo fu di contagio finanziario cinque anni fa.

L’ipocrisia attorno alla Bce si snoda così. Nel 2010 e 2011, la banca centrale ha comprato titoli greci per 27,7 miliardi di euro e solo quest’estate Atene dovrà rimborsarne sei (oltre a circa 8 al Fondo monetario internazionale). A quel punto l’Eurotower, grazie ad Atene, realizzerà una plusvalenza degna dei migliori speculatori perché nel 2010 e 2011 aveva comprato quella «spazzatura» con rendimenti a doppia cifra. A differenza degli hedge fund però la Bce non accetta rischi di perdite benché il rendimento dei titoli sia astronomico, e pretende di essere ripagata fino in fondo. Si realizza così un trasferimento di risorse dai contribuenti greci a Francoforte. In teoria quei guadagni dovrebbero essere di nuovo stornati alla Grecia, ma accadrà solo a condizione che il nuovo governo di Atene accetti i termini di un programma sotto il controllo dell’area euro.

Non è l’unica doppia verità di questa vicenda, ovviamente. È fin troppo facile il gioco di scoprirne in ciascuno dei protagonisti. Barack Obama per esempio accusa gli europei di voler “strizzare” la Grecia, ma gli Stati Uniti non hanno mai usato il loro potere di veto nel Fmi - di cui sono primi azionisti - per allentare le richieste del Fondo e della troika verso Atene; e anche per Obama è inconcepibile un’estensione delle scadenze sui crediti del Fmi alla Grecia, perché in gioco c’è anche la quota versata dalla sua amministrazione. Quanto a Angela Merkel, non ha mai spiegato ai suoi elettori che i pacchetti di denaro degli europei sono serviti anche a far uscire indenni le banche tedesche esposte in Grecia fino a 45 miliardi di dollari; senza quei salvataggi, i tedeschi probabilmente avrebbero dovuto pagare ancora di più per ricapitalizzare gli istituti in rovina del loro stesso Paese.

Neanche Alexis Tsipras, il nuovo premier ellenico, è esente da una buona dose di ambivalenza. Non ha mai riconosciuto che il deficit greco, falsificato per anni, aveva superato il 15% del prodotto lordo. Non ha restituito la scorta né ha mai speso una parola per Andreas Georgiou, l’attuale presidente dell’istituto statistico greco, che da tempo è bersaglio di minacce anonime ed è formalmente imputato per alto tradimento alla nazione dopo aver osato svelare le frodi nel bilancio dello Stato.

È quando la verità inizia ad avere questi doppi e tripli fondi - secondo convenienza - che capisci che questa non è più una questione di tecnica finanziaria. È una partita politica giocata contro il tempo, con scadenza in estate, nella quale tutti hanno moltissimo da perdere se finirà senza accordo. Una Grecia spinta fuori dall’euro da un caotico default sarebbe uno Stato-paria, capace di perdere il 10% del Pil in un solo anno. L’Italia, la Spagna e la Francia dovrebbero pagare tassi d’interessi molto più alti, non appena per i mercati l’uscita dall’euro diventasse un’opzione credibile. E Angela Merkel si lascebbe alle spalle un’eredità di discredito. A quel punto il contagio delle forze anti-sistema in Europa diventerebbe inarrestabile.

Basta questo per capire che tutti alla fine faranno il massimo per mettere da parte le ipocrisie e trovare un compromesso. Tecnicamente non è impossibile. La Bce può essere indennizzata dal fondo salvataggi europeo Esm. Il rimborso del debito di Atene verso gli Stati europei può essere parametrato alla crescita della Grecia, come qualcuno da tempo propone persino da Berlino. Tsipras può impegnarsi su un serio programma basato su una giusta misura di rigore di bilancio, sulla lotta alla corruzione e all’evasione e sull’idea (inedita ad Atene) che anche i ricchi pagano per il risanamento. E l’area euro può favorire e garantire ciò che finora non ha dimenticato di fare: un piano di ricostruzione economica e di investimenti esteri in un Paese che ha fallito la transizione verso la modernità.

Per arrivarci tutti i leader dovranno accettare costi politici. Deve farlo Tsipras, che ha già promesso troppo ed è partito sotto il segno dell’intransigenza. Ma devono muovere un passo indietro anche Merkel e il governo di Madrid, dove si teme che un successo di questa Grecia in Europa rimetta in discussione chi in Spagna ha accettato enormi sacrifici e ora è tornato a crescere a un ritmo di oltre il 2% all’anno.

In mezzo a questi campi di forza si trova da ieri Matteo Renzi, e ha capito che a lui spetta uno spazio intermedio. Non vuole allinearsi del tutto con Merkel. Ma non deve diventare l’avvocato di Tsipras in Europa, perché presto molti sospetterebbero (a torto) che l’Italia è come la Grecia. Rischia ancora di finire male per tutti. Ma in caso contrario, per una volta, il contagio partito da Atene può aprire la strada a un equilibrio più stabile in Europa.

Si attende dal Presidente qualche gesto che dimostri che la lettera e lo spirito della Costituzione esige che si rispetti quel suo articolo secondo il quale "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli". Il manifesto, 4 febbraio 2015

Dav­vero quello di ieri in Par­la­mento del pre­si­dente Ser­gio Mat­ta­rella è stato un discorso non reto­rico d’investitura. Così come del resto, il giorno prima, il gesto di straor­di­na­ria rile­vanza: appena nomi­nato pre­si­dente, «c’è Stato» a ren­dere omag­gio alle Fosse ardea­tine, il luogo testi­mone della vio­lenza dell’occupazione nazi­sta, della ver­go­gna del fasci­smo, della volontà di ribel­lione e riscatto della Resi­stenza. E soprat­tutto sim­bolo nella capi­tale d’Italia della tra­ge­dia san­gui­nosa rap­pre­sen­tata dalla guerra. Che, nella Seconda guerra mon­diale, ha pro­dotto un cimi­tero di 50milioni di morti, lo ster­mi­nio della Shoah, e che si è con­clusa con le «paci­fi­ste» ato­mi­che di Hiro­shima e Nagasaki.

Nell’asciutto e pre­ciso inter­vento rivolto dal Par­la­mento agli ita­liani, una affer­ma­zione è apparsa subito chiara risuo­nando come un monito: la garan­zia più forte della nostra Costi­tu­zione con­si­ste nella sua appli­ca­zione, «nel viverla ogni giorno». E garan­tire la Costi­tu­zione, signi­fica tra l’altro «ripu­diare la guerra e pro­muo­vere la pace»: eccolo l’articolo 11 nel suo primo enun­ciato. Dichia­ra­zione che, nello stile di chi dichiara di essere attento al quo­ti­diano, alle dif­fi­coltà reali dei «con­cit­ta­dini», è sem­brato tutt’altro che reto­rica. Soprat­tutto riven­di­cata nella sede isti­tu­zio­nale più alta, dopo tanti silenzi e ipocrisie.

Ma nel seguito delle sue parole e nell’accoglienza tra i par­la­men­tari, molte ambi­guità sulla que­stione della guerra riman­gono. Sia nell’affermazione: «…A livello inter­na­zio­nale la meri­to­ria e indi­spen­sa­bile azione di man­te­ni­mento della pace, che vede impe­gnati i nostri mili­tari in tante mis­sioni, deve con­so­li­darsi con un’azione di rico­stru­zione poli­tica, sociale e cul­tu­rale senza la quale ogni sforzo è desti­nato a vani­fi­carsi». Sia nel rin­gra­zia­mento «…alle forze armate, sem­pre più stru­mento di pace ed ele­mento essen­siale della nostra poli­tica estera e di sicu­rezza…». In quale crisi — nei Bal­cani, in Iraq, in Afgha­ni­stan o in Libia -, l’uso della forza e della guerra «uma­ni­ta­ria» con la pre­senza inter­ven­ti­sta dei nostri sol­dati ha aiu­tato a risol­vere quei con­flitti e non ha invece incan­cre­nito la situa­zione, anche con la co-responsabilità in stragi con tante, troppe vit­time civili e fughe di milioni di disperati?

Per­ché tutto, nel discorso del Pre­si­dente Mat­ta­rella — sia quello in Par­la­mento che dopo la visita alle Fosse ardea­tine -, viene inscritto comun­que nella neces­sità di rispon­dere al «ter­ro­ri­smo inter­na­zio­nale» e ai «pre­di­ca­tori di odio» che insi­diano la nostra sicu­rezza e i nostri valori. Senza inter­ro­garsi mai se l’uso della forza mili­tare, vale a dire della guerra, abbia fin qui aiu­tato a fer­mare il ter­ro­ri­smo e non piut­to­sto a semi­nare mag­giore odio. Non è forse l’uso della guerra a pre­giu­di­care la pace e per­fino gli sforzi di pace degli orga­ni­smi inter­na­zio­nali? Visto il modo in cui è stata presa la deci­sione di par­te­ci­pare a molti con­flitti, con­tro e oltre la volontà dell’Onu. E ancora, come si rifiuta la guerra se le Forze armate ven­gono pro­mosse al rango di «ele­mento essen­ziale della poli­tica estera» che invece dovrebbe essere pro­pria della diplo­ma­zia, di fatto ine­si­stente in Ita­lia e nell’Unione euro­pea? Se dopo l’89 e la Guerra fredda, si è aperta ricorda Mat­ta­rella, una sta­gione nuova in Europa, che ci stanno a fare 100 piloti ita­liani di cac­cia­bom­bar­dieri nei Paesi bal­tici al seguito della stra­te­gia di allar­ga­mento a est della Nato, peri­co­lo­sa­mente al con­fine della Rus­sia? Dav­vero que­sto aiu­terà la con­clu­sione della crisi ucraina o al con­tra­rio l’approfondirà verso un con­fronto pre-’89?

E tutto que­sto quanto ci costa, visti i magri bilanci tagliati per via della crisi? Per­ché, se pro­prio non vogliamo ripe­tere la frase a noi cara del Pre­si­dente San­dro Per­tini, «Si aprano i gra­nai si chiu­dano gli arse­nali di armi», almeno osser­viamo che dai dati uffi­ciali di Nato e Sipri, l’attuale spesa mili­tare dell’Italia si aggira tra 50 e 70 milioni di euro al giorno. Al giorno. Senza dimen­ti­care che gli F-35 dal costo miliar­da­rio, sono stru­mento d’offesa non di difesa.

Eppure l’articolo 11 della Costi­tu­zione ita­liana rifiuta la guerra pro­prio «come mezzo di riso­lu­zione delle crisi inter­na­zio­nali». Senza malin­ter­pre­tare il secondo comma dell’articolo (che mette a dispo­si­zione risorse per sod­di­sfare le richie­ste degli orga­ni­smi inter­na­zio­nali come l’Onu), come fosse un’autorizzazione a fare la guerra, magari agget­ti­vata con «uma­ni­ta­ria». Ma come può la seconda parte di un arti­co­lato costi­tu­zio­nale fon­da­tivo con­trad­dire e negare la prima parte? Altri­menti, che costi­tu­zione sarebbe. Pen­sate se l’ arti­colo 1 che fonda l’Italia sul lavoro, dichia­rasse nella sua seconda riga invece fon­da­tiva la disoc­cu­pa­zione. La guerra è espli­ci­ta­mente «rifiu­tata». Pur­troppo di que­sto rifiuto si è fatto uso e abuso, e vale la pena ricor­dare che l’avvio della fine della leva mili­tare pro­mosso dal mini­stro della difesa Mat­ta­rella, non ha decre­tato la fine della par­te­ci­pa­zione ita­liana alle guerre ma il con­tra­rio: a par­tire dal 1999, quando Mat­ta­rella era vice-premier, è comin­ciata una nuova sta­gione della Nato che, con la guerra di raid aerei sulla ex Jugo­sla­via, si è tra­sfor­mata da patto di difesa in trat­tato offen­sivo, pronto all’intervento mili­tare. Quel con­flitto è diven­tato il modello di altre avven­ture bel­li­che come in Iraq, Afgha­ni­stan, Libia, Siria» e via dicendo.

Così, alla fine dav­vero è suo­nata appro­priata la stan­ding ova­tion di tutto il Par­la­mento appena Mat­ta­rella ha nomi­nato i «due marò». Certo, con­cor­diamo anche noi che due anni e mezzo di deten­zione senza pro­cesso sono insop­por­ta­bili, in India e sotto ogni giu­ri­sdi­zione. Ma come dimen­ti­care che que­sta dram­ma­tica vicenda è nella scia della scel­le­rata deci­sione bipar­ti­san del Par­la­mento che ha auto­riz­zato i mili­tari dello Stato ita­liano a fare da scorta a navi­gli pri­vati in difesa dei «pirati»; così indi­scri­mi­nata e poco mirata che abbiamo spa­rato, ucci­dendo due dimen­ti­cati pesca­tori indiani, in un’area, le coste del Kerala, dove la pira­te­ria non c’è. Soprat­tutto Mat­ta­rella ha fatto bene a rin­gra­ziare i tanti mili­tari morti nell’adempimento del loro dovere. Quei tanti marò di cui nes­suno parla, malati ter­mi­nali o morti per l’uranio impoverito.

Ora se la pre­si­denza Mat­ta­rella «pro­muo­verà la pace», sarà anche il Pre­si­dente dei paci­fi­sti. E ci aiu­terà a tirare fuori lo sche­le­tro della guerra dall’armadio delle demo­cra­zie occidentali

L'errore di fondo dell'attuale pensiero dominante (e azione governativa) sulla scuola, alla luce di due giganti del pensiero rivoluzionario del XX secolo.

Comune.info, newsletter, 3 gennaio 2015

Negli anni Sessanta uno degli studenti della scuola di Barbiana venne bocciato all’esame presso la scuola statale. Don Lorenzo Milani ne ragionò con i ragazzi della sua scuola, e ne venne fuori quel durissimo atto d’accusa contro la scuola pubblica italiana che è la Lettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto contadini e montanari, gli studenti di Barbiana sarebbero stati considerati studenti con bisogni educativi speciali (la direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali del 27 dicembre 2012 ricomprende in questa categoria anche lo svantaggio «socio-economico, linguistico, culturale»); si sarebbe fatto per loro un piano educativo personalizzato, e con ogni probabilità sarebbero stati promossi.

Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fare. Perché il centro del discorso della Lettera non è, come molti che l’hanno letta distrattamente o che non l´hanno letta affatto credono, la richiesta di non bocciare. C’è anche questo, nel libro; ma c´è soprattutto la denuncia del carattere esclusivamente ‒ nel senso etimologico: che esclude ‒borghese della cultura scolastica. La scuola è quel posto in cui il ragazzino figlio di contadini, abituato a salire sugli alberi, deve saper giocare a basket. La capacità di salire sugli alberi non conta nulla, non è una cosa borghese e non ha dunque nulla a che fare con la scuola. Il gioco della scuola è truccato: è un campo sul quale giocano borghesi e proletari, ma le regole sono quelle decise dai borghesi. E i proletari, inevitabilmente, perdono. Non perché siano meno capaci, non perché siano idioti: semplicemente perché la cultura scolastica non è la loro cultura.

Voleva, don Milani, che la scuola non fosse più espressione della sola classe borghese, che si aprisse ad accogliere le culture altre, che comprendesse il mondo dei contadini e degli operai non meno del mondo borghese. Voleva una scuola in cui si studiasse il contratto dei metalmeccanici, e non solo i classici della letteratura.

Ed ecco invece cosa succede. Chiunque provenga da una cultura non borghese viene dichiarato svantaggiato. «Svantaggio socio-culturale» è il nome che si dà ora qualsiasi modo di essere che non rientri nei canoni borghesi, così come comportarsi in modo non conforme alle aspettative della scuola borghese significa essere non scolarizzati (espressione atroce tristemente diffusa nel linguaggio dei docenti).

Invece di fare una scuola diversa, che dia voce anche a chi non è borghese, consideriamo chi non è borghese come un poveraccio di cui avere compassione, uno che senza avere colpa si trova indietro, e nei cui confronti bisogna essere comprensivi. Se don Milani era esigentissimo con i suoi ragazzi, non risparmiando loro nemmeno la frusta, ora agli svantaggiati si dà una scuola diluita, meno impegnativa, più facilmente digeribile. Ricorrere all’etichettamento – un etichettamento che avrà naturalmente conseguenze non lievi – è molto più semplice ed economico che ripensare a fondo la scuola.

Accade, insomma, quello che per Antonio Gramsci bisognava evitare. Nei Quaderni del carcere il filosofo prevedeva la situazione che si sarebbe creata con la nascita della scuola di massa: il figlio dell’operaio, non abituato al lavoro intellettuale, va a scuola e trova molte più difficoltà del ragazzino di una famiglia con tradizione intellettuale.

Ecco perché ‒ scriveva ‒ molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuoi dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. (Gramsci 1975, 1549-1550)

Il trucco in effetti c’era e c’è, e non è soltanto nel fatto che chi viene da una famiglia di operai e contadini non è avvezzo a certe fatiche. L’esperienza di Barbiana dimostra che dei figli di contadini possono sobbarcarsi un lavoro intellettuale anche molto consistente, se si tratta di un lavoro che ha contatti reali con la loro vita e la loro cultura. La disaffezione per la scuola nasce da altro. I figli dei contadini provano disaffezione per una scuola in cui si impara a vergognarsi dell’essere contadini; l’alternativa è che amino la scuola e si vergognino delle loro origini.

La scuola attuale si pretende multiculturale, anzi interculturale. I documenti che la riguardano sostengono che le differenze culturali di cui i sempre più numerosi studenti stranieri sono portatori devono essere valorizzate nel modo migliore, e ciò può accadere solo se la cultura dominante, quella che ospita, entra in dialogo con esse, in un fecondo rapporto di scambio reciproco.

Chiacchiere. Quella che abbiamo è, invece, una scuola penosamente monoculturale. Il crocifisso alle pareti, difeso con un fanatismo degno di miglior causa, esprime la chiusura sostanziale dell’istituzione a qualsiasi identità religiosa che non sia quella cattolica. La storia, la filosofia, la poesia, l’arte che si studiano sono quelle occidentali. La cultura manuale ed il lavoro, di cui i più grandi pedagogisti hanno affermato l’insostituibile valore educativo, sono banditi dalla scuola. L’ideale umano che la scuola impone oscilla tra l’intellettuale borghese, l’impiegato statale e l’uomo d’affari. Buona parte del compito sociale della scuola consiste nel giustificare le attribuzioni di status e la distribuzione dello stigma sociale. Grazie alla scuola, chiunque aderisca alla cultura borghese, ai suoi valori, al suo stile di vita (che, ricordava Illich, è anche uno stile di consumo) ha uno status sociale elevato; chi lo contesta, in modo più o meno consapevole, è colpito dallo stigma sociale. Grazie alla scuola, la mano che tiene la penna è più socialmente apprezzata e riconosciuta della mano che tiene la zappa.

Il compianto Gianfranco Zavalloni, preside-contadino, raccontava la sua esperienza come presidente di commissione all’esame di licenza media (Zavalloni 2012). Agli orali gli annunciarono che lo studente che stavano per esaminare era il peggiore della scuola. Si trattava di un ragazzone di campagna, che lavorava le terre insieme a suo nonno. Zavalloni lo interrogò di persona: non sul programma scolastico, ma sui dettagli del suo lavoro, sul passaggio dei prodotti dalla terra al mercato, fino alla vendita. Lo studente si espresse con proprietà di linguaggio, mostrando il possesso di conoscenza multidisciplinari connesse al suo lavoro. Fece, insomma,un buon esame; e «i professori commentarono il tutto dicendo “ma noi in tre anni non l’abbiamo mai sentito parlare così bene e con tale competenza” e poi “non sapevamo nulla di tutto questo”». Con i bisogni educativi speciali i professori potranno continuare a «non sapere nulla di tutto questo» ‒ dei mondi culturali che sono oltre il raggio della cultura scolastica ‒, illudendosi per giunta di essere inclusivi.

Il manifesto, 3 febbraio

«Par­ti­ranno attivi regio­nali dei dele­gati in tutte le regioni. Ini­zia l’Emilia venerdì, lunedì la Toscana, mar­tedì Cam­pa­nia, poi Pie­monte e Lom­bar­dia. Con­fer­miamo il giu­di­zio nega­tivo sui prov­ve­di­menti del governo, sia sugli ammor­tiz­za­tori sociali sia sul jobs act. Per noi resta cen­trale una vera riforma del fisco, con la lotta all’evasione e alla cor­ru­zione e un inter­vento sulle pen­sione». Mau­ri­zio Lan­dini, lea­der Fiom, alla fine della dire­zione del suo sin­da­cato annun­cia che le mobi­li­ta­zioni vanno avanti. «Renzi affronta male il tema del lavoro».

Però Renzi si è com­mosso quando ha par­lato del rien­tro degli ope­rai nell’Ast di Terni.
All’Ast di Terni i lavo­ra­tori hanno scio­pe­rato ad oltranza per­ché ave­vano rifiu­tato e boc­ciato una pro­po­sta di media­zione avan­zata dal governo. A Terni l’accordo è stato fatto gra­zie alla lotta dei lavo­ra­tori. Eviti di met­tere il mar­chio del governo su cose che non sono state il frutto suo lavoro.

Ma il jobs act è stato appro­vato e i sui decreti il par­la­mento ha un ruolo mar­gi­nale. Che farete?
Il 27 e il 28 feb­braio faremo l’assemblea nazio­nale dei dele­gati Fiom. Ci muo­ve­remo sia sul piano giu­ri­dico che sui con­tratti. Con il jobs act si con­ferma un apar­theid dei gio­vani assunti: ci bat­te­remo per­ché dopo un certo tempo siano garan­titi gli stessi tutele delli altri. Nei con­tratti azien­dali e in quelli nazio­nali. Sul piano legale valu­te­remo tutto quello che c’è da fare. Non esclu­diamo nulla. Apri­remo una con­sul­ta­zione straor­di­na­ria delle lavo­ra­trici e dei lavo­ra­tori metal­mec­ca­nici. Non esclu­diamo nem­meno un refe­ren­dum. E visto che sono temi che non riguar­dano solo i metal­mec­ca­nici ma anche i pre­cari, chi il lavoro non ce l’ha e chi si batte per la giu­sti­zia sociale, cer­che­remo di coin­vol­gere tutte le per­sone e le asso­cia­zioni che non con­di­vi­dono le scelte del governo.

È la nascita di un luogo per aggre­gare la sini­stra sociale?
La sini­stra o è sociale o non è, ed infatti è sotto gli occhi di tutti la crisi della sini­stra. Ma quando penso a una con­sul­ta­zione aperta vado oltre la sini­stra clas­si­ca­mente intesa. C’è un governo che decide senza tener conto del parere delle per­sone, dei sin­da­cati, delle asso­cia­zioni. Oggi il pri­mato della poli­tica che ammazza qual­siasi rap­pre­sen­tanza sociale. È utile che si costrui­sca una rete di rap­pre­sen­tanza sociale che a par­tire dal lavoro, dai beni comuni, da un nuovo modello di svi­luppo, dalla lotta con­tro le mafie, che esprima un altro punto di vista. Lo dico da un punto di vista sin­da­cale, ma anche di chi pensa che la demo­cra­zia che non rico­no­sce la par­te­ci­pa­zione non è demo­cra­zia ma comando.

Farete nascere una rete sociale, non solo sindacale?
Io fac­cio il sin­da­ca­li­sta. Ma un paese ormai la mag­gio­ranza non va a votare dovrebbe essere un segnale pre­oc­cu­pante per tutti.

La ’sinistra-sinistra’ la set­ti­mana scorsa, a Milano, ha lan­ciato un coor­di­na­mento. La sua pro­po­sta ha a che vedere con questo?
Ho rispetto per quello che avviene nel mondo poli­tico, e se ci sono pro­cessi di riag­gre­ga­zione li guardo con rispetto. La mia idea non è alter­na­tiva, ma è un’altra cosa. Siamo arri­vati al terzo governo che non risponde a pro­grammi che i cit­ta­dini hanno cono­sciuto e votato. C’è un par­la­mento che, nella sua mag­gio­ranza, ha can­cel­lato lo sta­tuto dei lavo­ra­tori, che poi era l’applicazione della Costi­tu­zione, e del diritto di cit­ta­di­nanza. Per que­sto dico che i valori del lavoro e della Costi­tu­zione non sono rap­pre­sen­tati: è più rap­pre­sen­tata la Con­fin­du­stria e l’idea libe­ri­sta e dell’austerità che imper­versa in Europa e che ha creato 25 milioni di disoc­cu­pati e messo a rischio la tenuta demo­cra­tica. Il governo Renzi ha appli­cato alla let­tera della Bce, come già prima Monti e Letta. Rispetto i par­titi, ma noi — Fiom e Cgil e il mondo che si è mosso con noi in que­sti mesi — dob­biamo dare una rap­pre­sen­tanza a un mondo che oggi non è rappresentato.

Ha apprez­zato la scelta del nuovo pre­si­dente Mattarella?
Se fossi stato in par­la­mento l’avrei votato. È un rife­ri­mento impor­tante sul piano etico, in un paese così sfi­du­ciato. È utile che al suo posto ì sieda chi ha a cuore la piena appli­ca­zione dei prin­cipi costituzionali.

La sini­stra Pd spera che ora cambi qual­cosa in parlamento.

Sono cose diverse. Non mi pare che il governo voglia ripri­sti­nare l’art.18 o can­cel­lare il jobs act, o modi­fi­care la legge elet­to­rale.

La sini­stra Pd con­ti­nuerà a con­tare poco?
Fin qui in par­la­mento non sono pas­sate cose di sini­stra. E que­sti prov­ve­di­menti, alla fine, in buona parte li hanno votati.

Sie­dono in par­la­mento molti ex sin­da­ca­li­sti Cgil, e molti hanno votato il jobs act.
Di fronte a que­ste cose non ho parole. Ognuno rispon­derà alla sua coscienza.

Non le chiedo se lei è lo Tsi­pras ita­liano. Ma Renzi incon­tra Tsi­pras. Che dovrebbe dirgli?
Quella di Tsi­pras è una novità: per la prima volta in libere ele­zioni un popolo elegge chi chiede di cam­biare i vin­coli euro­pei. La Fiom ha fatto pro­po­ste su come rimuo­vere il debito. Dob­biamo andare verso una forma di mutua­liz­za­zione, come hanno fatto gli Usa. La Bce dovrebbe fare un’operazione più impe­gna­tiva per libe­rare risorse da desti­nare agli inve­sti­menti. Nes­suno chiede che qual­cun altro paghi il suo debito. Ma, fac­cio un esem­pio, se uno paga un mutuo in più anni e gli inte­ressi li inve­ste per rilan­ciare la domanda, e se la Bce si rifor­masse per garan­tire que­sto, sarebbe un’altra sto­ria. L’Italia deve bat­tersi per­ché in Europa si apra que­sta discus­sione. Ini­ziando con il togliere il pareg­gio di bilan­cio in Costituzione.

Tsi­pras non rico­no­sce la Troika come inter­lo­cu­tore. Bene?
Tsi­pras è stato eletto dai greci. La Troika no.

Lei è stato soli­dale con Ser­gio Cof­fe­rati che ha lasciato il Pd. Non da Tsi­pras ita­liano, ma da osser­va­tore spe­ciale delle cose ita­liane, crede dav­vero che la sini­stra possa riaggregarsi?
Ho un grande rispetto per Ser­gio, per quello che ha fatto dalla Cgil in avanti. E quando uno come lui decide di lasciare il suo par­tito per ragioni eti­che è un fatto grave. Non è un suo poblema per­so­nale. Quando ho detto che l’etica è un pro­blema in que­sto paese dal Pd mi è stato rispo­sto male, ma chi mi ha rispo­sto così, il pre­si­dente del Pd (Mat­teo Orfini, ndr) oggi è com­mis­sa­rio della fede­ra­zione di Roma del Pd: evi­dente qual­che pro­blema di one­stà c’è. Non so cosa avverrà a sini­stra. Ma sic­come la mag­gio­ranza del paese deve lavo­rare per vivere, parlo di lavo­ra­tori ma anche degli impren­di­tori seri, que­ste per­sone hanno diritto di sen­tirsi rap­pre­sen­tate e di partecipare.

Pensa a un par­tito del lavoro?

No, io penso fare il sin­da­ca­li­sta. Ma certo le forme tra­di­zio­nali della poli­tica sono in crisi. C’è biso­gno di pen­sare a forme nuove di par­te­ci­pa­zione. Ma que­sto riguarda anche noi: c’è biso­gno di una riforma radi­cale anche del movi­mento sin­da­cale, Fiom e Cgil.

Camusso, la segre­ta­ria Cgil, è stata ’grande elet­trice’ di Ber­sani. Guar­dando al pas­sato, può non aver gio­vato al sindacato?
I sin­da­ca­li­sti sono per­sone e hanno diritto a essere iscritti a un par­tito e a fare poli­tica se vogliono. In gene­rale uno dei pro­blemi di que­sti anni è stata la scarsa auto­no­mia del sin­da­cato, a volte l’abbiamo pagata. Ma in que­sta ultima fase abbiamo recu­pe­rato la nostra auto­no­mia, e si vede dal suc­cesso delle mani­fe­sta­zioni. Ripeto, c’è biso­gno di una riforma demo­cra­tica anche del sindacato.

Que­sto vuol dire che non la si vedrà più alle ini­zia­tive dei partiti?
Vado dove mi invi­tano, destra cen­tro e sini­stra. Da sem­pre. Non ho tes­sere di par­tito e non dichiaro chi voto, ma è una mia scelta, rispetto chi ne fa altre. Fin­ché sono segre­ta­rio della Fiom rispondo gli iscritti, e nes­suno di loro deve sospet­tare che uso il ruolo che ho per fini diversi dal fare il segre­ta­rio gene­rale della Fiom

Il Fatto quotidiano online, 3 febbraio 2015

Rivolgo un saluto rispettoso a questa assemblea, ai parlamentari che interpretano la sovranità del nostro popolo e le danno voce e alle Regioni qui rappresentate. Ringrazio la Presidente Laura Boldrini e la Vice Presidente Valeria Fedeli. Ringrazio tutti coloro che hanno preso parte al voto.

Un pensiero deferente ai miei predecessori, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, che hanno svolto la loro funzione con impegno e dedizione esemplari. A loro va l’affettuosa riconoscenza degli italiani. Al Presidente Napolitano che, in un momento difficile, ha accettato l’onere di un secondo mandato, un ringraziamento particolarmente intenso. Rendo omaggio alla Corte Costituzionale organo di alta garanzia a tutela della nostra Carta fondamentale, al Consiglio Superiore della magistratura presidio dell’indipendenza e a tutte le magistrature.

Avverto pienamente la responsabilità del compito che mi è stato affidato. La responsabilità di rappresentare l’unità nazionale innanzitutto. L’unità che lega indissolubilmente i nostri territori, dal Nord al Mezzogiorno. Ma anche l’unità costituita dall’insieme delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini. Questa unità, rischia di essere difficile, fragile, lontana.

L’impegno di tutti deve essere rivolto a superare le difficoltà degli italiani e a realizzare le loro speranze. La lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del suo sistema produttivo. Ha aumentato le ingiustizie. Ha generato nuove povertà. Ha prodotto emarginazione e solitudine. Le angosce si annidano in tante famiglie per le difficoltà che sottraggono il futuro alle ragazze e ai ragazzi. Il lavoro che manca per tanti giovani, specialmente nel Mezzogiorno, la perdita di occupazione, l’esclusione, le difficoltà che si incontrano nel garantire diritti e servizi sociali fondamentali.

Sono questi i punti dell’agenda esigente su cui sarà misurata la vicinanza delle istituzioni al popolo. Dobbiamo saper scongiurare il rischio che la crisi economica intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione. Per uscire dalla crisi, che ha fiaccato in modo grave l’economia nazionale e quella europea, va alimentata l’inversione del ciclo economico, da lungo tempo attesa. E’ indispensabile che al consolidamento finanziario si accompagni una robusta iniziativa di crescita, da articolare innanzitutto a livello europeo. Nel corso del semestre di Presidenza dell’Unione Europea appena conclusosi, il Governo – cui rivolgo un saluto e un augurio di buon lavoro – ha opportunamente perseguito questa strategia.

Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza. L’urgenza di riforme istituzionali, economiche e sociali deriva dal dovere di dare risposte efficaci alla nostra comunità, risposte adeguate alle sfide che abbiamo di fronte.

Esistono nel nostro Paese energie che attendono soltanto di trovare modo di esprimersi compiutamente. Penso ai giovani che coltivano i propri talenti e che vorrebbero vedere riconosciuto il merito. Penso alle imprese, piccole medie e grandi che, tra rilevanti difficoltà, trovano il coraggio di continuare a innovare e a competere sui mercati internazionali. Penso alla Pubblica Amministrazione che possiede competenze di valore ma che deve declinare i principi costituzionali, adeguandosi alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e alle sensibilità dei cittadini, che chiedono partecipazione, trasparenza, semplicità degli adempimenti, coerenza nelle decisioni.

Non servono generiche esortazioni a guardare al futuro ma piuttosto la tenace mobilitazione di tutte le risorse della società italiana. Parlare di unità nazionale significa, allora, ridare al Paese un orizzonte di speranza. Perché questa speranza non rimanga un’evocazione astratta, occorre ricostruire quei legami che tengono insieme la società. A questa azione sono chiamate tutte le forze vive delle nostre comunità in Patria come all’estero.

Ai connazionali nel mondo va il mio saluto affettuoso. Un pensiero di amicizia rivolgo alle numerose comunità straniere presenti nel nostro Paese. La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica. La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza, nuove modalità di espressione che hanno già prodotto risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti.

Questo stesso Parlamento presenta elementi di novità e di cambiamento. La più alta percentuale di donne e tanti giovani parlamentari. Un risultato prezioso che troppe volte la politica stessa finisce per oscurare dietro polemiche e conflitti. I giovani parlamentari portano in queste aule le speranze e le attese dei propri coetanei. Rappresentano anche, con la capacità di critica, e persino di indignazione, la voglia di cambiare. A loro, in particolare, chiedo di dare un contributo positivo al nostro essere davvero comunità nazionale, non dimenticando mai l’essenza del mandato parlamentare.

L’idea, cioè, che in queste aule non si è espressione di un segmento della società o di interessi particolari, ma si è rappresentanti dell’intero popolo italiano e, tutti insieme, al servizio del Paese. Tutti sono chiamati ad assumere per intero questa responsabilità. Condizione primaria per riaccostare gli italiani alle istituzioni è intendere la politica come servizio al bene comune, patrimonio di ognuno e di tutti. E’ necessario ricollegare a esse quei tanti nostri concittadini che le avvertono lontane ed estranee.

La democrazia non è una conquista definitiva ma va inverata continuamente, individuando le formule più adeguate al mutamento dei tempi. E’ significativo che il mio giuramento sia avvenuto mentre sta per completarsi il percorso di un’ampia e incisiva riforma della seconda parte della Costituzione. Senza entrare nel merito delle singole soluzioni, che competono al Parlamento, nella sua sovranità, desidero esprimere l’auspicio che questo percorso sia portato a compimento con l’obiettivo di rendere più adeguata la nostra democrazia. Riformare la Costituzione per rafforzare il processo democratico.

Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l’esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare.

Come è stato più volte sollecitato dal Presidente Napolitano, un’altra priorità è costituita dall’approvazione di una nuova legge elettorale, tema sul quale è impegnato il Parlamento.

Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione. E’ una immagine efficace.All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza.

Il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione. La garanzia più forte della nostra Costituzione consiste, peraltro, nella sua applicazione. Nel viverla giorno per giorno. Garantire la Costituzione significa garantire il diritto allo studio dei nostri ragazzi in una scuola moderna in ambienti sicuri, garantire il loro diritto al futuro.

Significa riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro. Significa promuovere la cultura diffusa e la ricerca di eccellenza, anche utilizzando le nuove tecnologie e superando il divario digitale. Significa amare i nostri tesori ambientali e artistici. Significa ripudiare la guerra e promuovere la pace. Significa garantire i diritti dei malati. Significa che ciascuno concorra, con lealtà, alle spese della comunità nazionale. Significa che si possa ottenere giustizia in tempi rapidi. Significa fare in modo che le donne non debbano avere paura di violenze e discriminazioni.

Significa rimuovere ogni barriera che limiti i diritti delle persone con disabilità. Significa sostenere la famiglia, risorsa della società. Significa garantire l’autonomia ed il pluralismo dell’informazione, presidio di democrazia. Significa ricordare la Resistenza e il sacrificio di tanti che settanta anni fa liberarono l’Italia dal nazifascismo.

Significa libertà. Libertà come pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale come in quella economica, nella sfera personale e affettiva. Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità. La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute.

La corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile. Divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini. Impedisce la corretta esplicazione delle regole del mercato. Favorisce le consorterie e penalizza gli onesti e i capaci. L’attuale Pontefice, Francesco, che ringrazio per il messaggio di auguri che ha voluto inviarmi, ha usato parole severe contro i corrotti: «Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini».

E’ allarmante la diffusione delle mafie, antiche e nuove, anche in aree geografiche storicamente immuni. Un cancro pervasivo, che distrugge speranze, impone gioghi e sopraffazioni, calpesta diritti. Dobbiamo incoraggiare l’azione determinata della magistratura e delle forze dell’ordine che, spesso a rischio della vita, si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie abbiamo avuto molti eroi. Penso tra gli altri a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste, competenti, tenaci. E una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere.

Altri rischi minacciano la nostra convivenza. Il terrorismo internazionale ha lanciato la sua sfida sanguinosa, seminando lutti e tragedie in ogni parte del mondo e facendo vittime innocenti. Siamo inorriditi dalle barbare decapitazioni di ostaggi, dalle guerre e dagli eccidi in Medio Oriente e in Africa, fino ai tragici fatti di Parigi.

Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell’odio e dell’intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano.

La pratica della violenza in nome della religione sembrava un capitolo da tempo chiuso dalla storia. Va condannato e combattuto chi strumentalizza a fini di dominio il proprio credo, violando il diritto fondamentale alla libertà religiosa. Considerare la sfida terribile del terrorismo fondamentalista nell’ottica dello scontro tra religioni o tra civiltà sarebbe un grave errore.

La minaccia è molto più profonda e più vasta. L’attacco è ai fondamenti di libertà, di democrazia, di tolleranza e di convivenza. Per minacce globali servono risposte globali. Un fenomeno così grave non si può combattere rinchiudendosi nel fortino degli Stati nazionali. I predicatori d’odio e coloro che reclutano assassini utilizzano internet e i mezzi di comunicazione più sofisticati, che sfuggono, per la loro stessa natura, a una dimensione territoriale.

La comunità internazionale deve mettere in campo tutte le sue risorse. Nel salutare il Corpo Diplomatico accreditato presso la Repubblica, esprimo un auspicio di intensa collaborazione anche in questa direzione. La lotta al terrorismo va condotta con fermezza, intelligenza, capacità di discernimento. Una lotta impegnativa che non può prescindere dalla sicurezza: lo Stato deve assicurare il diritto dei cittadini a una vita serena e libera dalla paura.

Il sentimento della speranza ha caratterizzato l’Europa nel dopoguerra e alla caduta del muro di Berlino. Speranza di libertà e di ripresa dopo la guerra, speranza di affermazione di valori di democrazia dopo il 1989. Nella nuova Europa l’Italia ha trovato l’affermazione della sua sovranità; un approdo sicuro ma soprattutto un luogo da cui ripartire per vincere le sfide globali. L’Unione Europea rappresenta oggi, ancora una volta, una frontiera di speranza e la prospettiva di una vera Unione politica va rilanciata, senza indugio.

L’affermazione dei diritti di cittadinanza rappresenta il consolidamento del grande spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Le guerre, gli attentati, le persecuzioni politiche, etniche e religiose, la miseria e le carestie generano ingenti masse di profughi. Milioni di individui e famiglie in fuga dalle proprie case che cercano salvezza e futuro proprio nell’Europa del diritto e della democrazia. E’ questa un’emergenza umanitaria, grave e dolorosa, che deve vedere l’Unione Europea più attenta, impegnata e solidale. L’Italia ha fatto e sta facendo bene la sua parte e siamo grati a tutti i nostri operatori, ai vari livelli, per l’impegno generoso con cui fronteggiano questo drammatico esodo.

A livello internazionale la meritoria e indispensabile azione di mantenimento della pace, che vede impegnati i nostri militari in tante missioni, ¬ deve essere consolidata con un’azione di ricostruzione politica, economica, sociale e culturale, senza la quale ogni sforzo è destinato a vanificarsi.

Alle Forze Armate, sempre più strumento di pace ed elemento essenziale della nostra politica estera e di sicurezza, rivolgo un sincero ringraziamento, ricordando quanti hanno perduto la loro vita nell’assolvimento del proprio dovere. Occorre continuare a dispiegare il massimo impegno affinché la delicata vicenda dei due nostri fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, trovi al più presto una conclusione positiva, con il loro definitivo ritorno in Patria.

Desidero rivolgere un pensiero ai civili impegnati, in zone spesso rischiose, nella preziosa opera di cooperazione e di aiuto allo sviluppo. Di tre italiani, padre Paolo Dall’Oglio, Giovanni Lo Porto e Ignazio Scaravilli non si hanno notizie in terre difficili e martoriate. A loro e ai loro familiari va la solidarietà e la vicinanza di tutto il popolo italiano, insieme all’augurio di fare presto ritorno nelle loro case.

Onorevoli Parlamentari, Signori Delegati, Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo. Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani:il volto spensierato dei bambini, quello curioso dei ragazzi. I volti preoccupati degli anziani soli e in difficoltà il volto di chi soffre, dei malati, e delle loro famiglie, che portano sulle spalle carichi pesanti. Il volto dei giovani che cercano lavoro e quello di chi il lavoro lo ha perduto. Il volto di chi ha dovuto chiudere l’impresa a causa della congiuntura economica e quello di chi continua a investire nonostante la crisi.

Il volto di chi dona con generosità il proprio tempo agli altri. Il volto di chi non si arrende alla sopraffazione, di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto. Storie di donne e di uomini, di piccoli e di anziani, con differenti convinzioni politiche, culturali e religiose. Questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale. Un popolo che si senta davvero comunità e che cammini con una nuova speranza verso un futuro di serenità e di pace.

Viva la Repubblica, viva l’Italia!

«Mat­ta­rella dun­que interpreterà il suo ruolo di capo dello stato in base ai pro­pri sen­ti­menti, alla sua sen­si­bi­lità. Senza vin­coli di man­dato, né doveri di rico­no­scenza. Avrà un unico fon­da­men­tale obbligo: farsi garante della Costi­tu­zione». Il manifesto, 3 febbraio 2015

L’elezione di Ser­gio Mat­ta­rella alla pre­si­denza della Repub­blica può essere con­si­de­rata una spia della neces­sità di tor­nare alla nor­ma­lità costi­tu­zio­nale, dopo tante forzature. Nulla più di un segnale, poi­ché può essere solo il nuovo inqui­lino del Qui­ri­nale a dare il senso della pro­pria pre­si­denza, sin dal discorso «pro­gram­ma­tico» che svol­gerà tra poche ore, il 3 feb­braio, al momento del giu­ra­mento, e poi nel corso della sua atti­vità per i pros­simi sette anni.

Cio­no­no­stante, sin d’ora, non pos­sono essere tra­scu­rati tre dati: il signi­fi­cato della scelta di una per­sona estra­nea alla più con­vulsa fase poli­tica domi­nata da con­ti­nue disin­vol­ture costi­tu­zio­nali; la fama di garante intran­si­gente della lega­lità costi­tu­zio­nale del pre­scelto; il venir meno della opzione Nazareno.

Sino a pochi giorni addie­tro si stava seguendo una strada molto diversa nella scelta del capo dello stato. Si era alla ricerca di una per­so­na­lità che garan­tisse i sog­getti poli­tici: il can­di­dato del Naza­reno, frutto dell’accordo tra Ber­lu­sconi e Renzi, ovvero, in alter­na­tiva a que­sto, una per­so­na­lità che ras­si­cu­rasse altre mag­gio­ranze pos­si­bili. S’era anche molto enfa­tiz­zata la neces­sità che il nuovo pre­si­dente fosse per­sona che potesse favo­rire i pro­fondi pro­cessi di riforma costi­tu­zio­nale, isti­tu­zio­nale e sociale in corso. Nulla di più lon­tano dallo spi­rito della costi­tu­zione, che esclude un capo dello stato al ser­vi­zio di una stra­te­gia poli­tica ovvero fau­tore del cam­bia­mento istituzionale.

Le stesse moda­lità adot­tate lascia­vano assai per­plessi. Quella sorta di con­sul­ta­zioni tra tutte le forze poli­ti­che svolte dal pre­si­dente del Con­si­glio presso la sede del par­tito di cui è segre­ta­rio, che rice­veva in rapida suc­ces­sione tutte le dele­ga­zioni dei par­titi, riflet­te­vano un’immagine sba­gliata: evo­ca­vano la prassi della nomina dei governi. Con una con­fu­sione dei ruoli tra pre­si­dente del Con­si­glio e della Repub­blica che rischiava di com­pro­met­tere la stessa legit­ti­ma­zione della scelta del futuro presidente.

Per for­tuna non è andata così. Mat­ta­rella non è uomo di garan­zia per nes­sun lea­der e non è legato a nes­suna for­mula poli­tica; men­tre le «con­sul­ta­zioni» dei gruppi par­la­men­tari e delle forze poli­ti­che si sono rive­late sostan­zial­mente inin­fluenti, puro spettacolo.

Non v’è dub­bio che l’artefice della scelta sia stato Mat­teo Renzi. Il quale ha ope­rato in base a valu­ta­zioni di natura stret­ta­mente poli­tica e con moda­lità del tutto infor­mali. Ognuno potrà valu­tare sul piano poli­tico o etico il com­por­ta­mento tenuto dal lea­der del Pd, quel che si vuole qui rile­vare sono due par­ti­co­lari aspetti.

Se si ha in mente il sistema d’elezione del capo dello stato (un organo di garan­zia che non viene scelto in base ad un pro­gramma, bensì intuitu per­so­nae) si com­prende che da sem­pre è la capa­cità di creare un gra­di­mento dif­fuso tra i grandi elet­tori l’arma vin­cente, non invece l’accordo tra lea­der. In fondo, la sto­ria dei 101 sta li a dimo­strarlo. Se ci si volge al più lon­tano pas­sato si con­ferma che la regola aurea delle ele­zioni pre­si­den­ziali sia stata costan­te­mente quella del con­senso otte­nuto dalla più estesa mag­gio­ranza par­la­men­tare pos­si­bile, al di là di ogni schie­ra­mento pre­de­fi­nito. In fondo, quando il pre­si­dente è stato eletto in prima bat­tuta con le più ele­vate mag­gio­ranze pre­vi­ste in costi­tu­zione (nei casi di Cos­siga e Ciampi) gli arte­fici del suc­cesso furono i due lea­der del par­tito di mag­gio­ranza rela­tiva del tempo (rispet­ti­va­mente De Mita e Vel­troni), i quali ope­ra­rono anch’essi in modo infor­male e in base alla logica del con­senso diffuso.

Oggi è stato Mat­teo Renzi a farsi pro­mo­tore dell’elezione del pre­si­dente. Un suo per­so­nale suc­cesso poli­tico, non avrebbe senso negarlo. Quel che però deve anche esser detto - il secondo aspetto che si vuole rile­vare - è che que­sto è stato reso pos­si­bile solo per­ché è stata scelta una per­so­na­lità che non è parte del sistema poli­tico e di potere del segre­ta­rio del par­tito di mag­gio­ranza rela­tiva, tan­to­meno della sua cer­chia. Anche que­sto fa parte del gioco. Nei casi pre­ce­den­te­mente richia­mati, né Cos­siga era demi­tiano, né Ciampi era vel­tro­niano. Di più, una volta eletti, entrambi i pre­si­denti hanno ope­rato non certo per sal­va­guar­dare le poli­ti­che dei loro king­ma­ker, ma in rap­pre­sen­tanza dell’unità nazio­nale (tra­la­sciamo qui l’anomalia dell’ultimo bien­nio di Cos­siga, per non com­pli­care il discorso). La rinun­cia a pro­porre una per­so­na­lità esclu­si­va­mente gra­dita alla pro­pria parte si rivela, per­tanto, come la con­di­zione del suc­cesso, da ultimo anche per Renzi.

Mat­ta­rella dun­que inter­pre­terà il suo ruolo di capo dello stato in base ai pro­pri sen­ti­menti, alla sua sen­si­bi­lità. Senza vin­coli di man­dato, né doveri di rico­no­scenza. Avrà un unico fon­da­men­tale obbligo: farsi garante della costi­tu­zione. Una costi­tu­zione spesso disin­vol­ta­mente disat­tesa dal sistema poli­tico. Ed è per que­sto che oggi avremmo un gran biso­gno di un custode riser­vato nei modi e intran­si­gente nella sostanza.

Tra poche ore pren­derà la parola di fronte al Par­la­mento. Auguri a noi. Auguri Presidente.

La Repubblica, 3 febbraio 2015

PARAFRASANDO Marshall McLuhan: il “look” è il messaggio. Lo hanno capito il premier greco Alexis Tsipras e il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. Nella loro tournée europea hanno attirato l’attenzione anche per il guardaroba casual. Varoufakis senza cravatta, la camicia fuori dai pantaloni e il giaccone a Downing Street, di fronte al collega inglese molto formale, la dice lunga sulla volontà greca di non rispettare nessuna convenzione.

È un metodo già padroneggiato da Marchionne (golf in mezzo agli smoking), da Renzi (camicia sbottonata), e prima di loro dagli americani: Mark Zuckerberg con le sue T-shirt da surfista sintetizza lo spirito della Silicon Valley; Barack Obama con le sue corse in salita sulla scaletta dell’Air Force One incarna il salutismo per una generazione di maratoneti.

Dietro lo scompiglio dell’etichetta ce n’è uno più sostanziale. Oggi Tsipras arriva in Italia in una giornata particolare, con il discorso inaugurale del nuovo presidente della Repubblica. Guai però se passasse inosservato il premier greco: indossi pure bretelle rosse e All Star se serve ad attirare l’attenzione. Sullo scenario “Grexit” — la possibile uscita della Grecia dall’unione monetaria — si sta giocando una partita delicatissima. E fin qui sottovalutata. Annegata fra i tecnicismi sulla rinegoziazione dei debiti di Atene, i diktat della troika (Commissione Ue, Bce, Fondo monetario) e le condizioni di Draghi per erogare liquidità d’emergenza.

Un acuto osservatore tedesco come Wolfgang Munchau sul Financial Times descrive il pericolo che incombe sull’eurozona. La Germania si è convinta che Tsipras può essere snobbato, «perché un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una calamità per la Grecia, uno shock minore per l’eurozona, e un non-evento per l’economia globale». Poiché la storia è piena di incidenti imprevisti, il rischio è che si stia ripetendo l’errore-Lehman che fu all’origine del crac sistemico nel 2008. La Lehman Brothers era una banca relativamente piccola, lasciarla fallire poteva essere una lezione salutare per le altre, senza conseguenze per l’economia. Le cose sono andate diversamente. La banca era piccola, sì, ma legata da mille fili invisibili che risucchiarono la finanza mondiale verso il baratro. L’errore di calcolo costò caro. Di fronte alla noncuranza tedesca, sembra più lucido il cancelliere dello Scacchiere inglese, quello che portava la cravatta all’incontro con Varoufakis: la tensione fra Atene e l’eurozona secondo lui «è il più grave rischio che oggi fronteggia l’economia globale».

Dietro il look scapigliato dei suoi nuovi dirigenti, la piccola Grecia ha tanti difetti ma anche un grosso merito. Il difetto più grave è l’assenza di un patto di cittadinanza, di un contratto sociale rispettato, di una cultura delle regole: se nel 2011 i parlamentari di Atene fecero notizia perché trasferivano i risparmi in Svizzera, due settimane fa la vittoria elettorale di Syriza è stata preceduta da un’evasione fiscale in massa, un segnale di “liberi tutti” che lascia sgomento lo scrupoloso contribuente tedesco. Ma il governo Tsipras ha messo la lotta all’evasione in testa alla sua agenda e ha diritto a un’apertura di credito. Il suo merito maggiore: si presenterà anche scravattato, ma sta dicendo che il Re, che si crede elegantissimo, è nudo (o la Regina Merkel). Quando Varoufakis chiede ai partner europei se vogliono «una Grecia riformata oppure deformata » dalle terapie mortali dell’austerity, parla lo stesso linguaggio di Obama. Il presidente americano in un’intervista alla Cnn ha detto che la Grecia «ha bisogno di una strategia di crescita», dopo anni di tagli e salassi che hanno amputato del 25% il suo reddito nazionale. «La nostra esperienza americana — ha detto Obama — insegna che la via maestra per ridurre i deficit e risanare i conti pubblici, è la crescita». Dall’alto di cinque anni e mezzo di ripresa, può permettersi di darci questa lezione.

È sconcertante la deriva fondamentalista del pensiero economico nelle capitali europee che contano: Berlino, Bruxelles. Gli ayatollah dell’austerity non hanno bisogno di confrontarsi con i fatti — che dimostrano la follia delle loro ricette — proprio come i sacerdoti di una religione ottusa e feroce. A nulla è servito che l’America abbia fatto l’esatto contrario, con effetti benefici. Ben vengano le provocazioni greche, di stile e di sostanza, se dovessero svegliare un continente dal torpore mortale.

Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2015 (m.p.r.)

Questo controllo del voto adottato dai partiti è un esempio di cattiva politica. Sulla scheda si dovrebbe scrivere solo il cognome del ”candidato”. Il giorno dopo l’elezione di Sergio Mattarella, il professor Gianfranco Pasquino, politologo ed ex senatore dei Ds, condanna il fenomeno dei voti cifrati, che sabato l’ha fatta da padrone nel conteggio delle schede. Voti “firmati” in cui si sono contati i partiti e le correnti al loro interno, come i giovani turchi del Pd. Ma anche i consensi azzurri giunti in soccorso al nuovo capo dello Stato.


Professore, ha visto: “Mattarella”, “Sergio Mattarella”, “Mattarella S.”, ecc…?
Paradossalmente le dico che, visti i famosi 101 traditori di Romano Prodi, forse è meglio così. Per lo meno c’è più trasparenza. In realtà, il fatto che i partiti e i parlamentari usino questo sistema per controllarsi a vicenda è sgradevole e poco edificante. Lo accetto, ma prendo atto dell’incapacità dei parlamentari di assumersi le loro responsabilità. È una brutta politica che, però, in questo caso ha dato buoni frutti, perché Mattarella è il miglior presidente possibile nelle circostanze date.

Il fenomeno dei voti riconoscibili non vìola la Costituzione, che parla di voto segreto?
Si dovrebbe cambiare il regolamento e obbligare a scrivere solo il cognome. Detto questo, non vìola la Costituzione perché il voto non è riconducibile al singolo parlamentare, ma al massimo a gruppi di deputati o senatori.

È giusto su alcune votazioni mantenere il voto segreto?
Assolutamente sì, perché va difesa la libertà del parlamentare, che deve poter votare secondo coscienza. In questo caso difendo il diritto dei forzisti di dare il voto a Mattarella contro l’indicazione di Berlusconi. Inoltre, il voto segreto tutela il votante nei confronti del votato. Il quale, una volta eletto, e dalla sua posizione di potere, potrebbe in qualche modo vendicarsi. Ma le voglio raccontare un aneddoto.

Prego.
Nel 1994, quando ero senatore, a Palazzo Madama si doveva eleggere il presidente. Carlo Scognamiglio prevalse per un voto su Giovanni Spadolini, con una scheda contestata in cui c’era scritto “ScognaMIGLIO”. Tra l’altro, senatore all’epoca era anche il professor Gianfranco Miglio. Era chiaramente una scheda “firmata”. Che fu ritenuta valida permettendo a Scognamiglio di essere eletto.

Parliamo dell’elezione. Forza Italia ha contestato il metodo di Renzi…
Il metodo è stato assolutamente trasparente. Sia da parte di Renzi, che ha indicato Mattarella. Sia da parte di Berlusconi, che ha scelto di votare scheda bianca. Le obiezioni del leader di Forza Italia sono fuori luogo. Se il premier avesse proposto una rosa di nomi, avrebbe concesso all’ex Cavaliere, che sta all’opposizione, di scegliere il capo dello Stato. Le sembra giusto?

Dopo l’elezione di Mattarella, il patto del Nazareno continuerà?
Innanzitutto credo che il patto non contenesse il nome del capo dello Stato, ma il fatto di discuterne. Il Nazareno è al capolinea non per i fatti di questi giorni, ma perché ha già dato tutto quello che doveva dare: le riforme istituzionali e la legge elettorale. Si è, come dire, esaurito.

L’Italicum arriverà a breve al vaglio del Quirinale...
Oltre ad avere la solida cultura politica della sinistra diccì, Mattarella dà garanzia di autonomia e indipendenza, anche rispetto a Renzi. Quando dovrà dire dei no, lì dirà, ma non in maniera rumorosa e senza rompere il delicato equilibrio tra le istituzioni. Vedremo come si comporterà nel giudicare una legge elettorale nettamente inferiore alla sua.

Quanto durerà la ritrovata unità nel Pd?
Il premier ha fatto bene a ricompattare il partito su una scelta importante come quella del capo dello Stato. Ora dipenderà dalle scelte del governo. Non credo che le diverse minoranze del Pd faranno sconti a Renzi perché è stato eletto Mattarella…

Professore, il suo giudizio su Renzi è migliorato?

Io rimango antropologicamente anti renziano. Non mi piace il suo modo di fare e non mi piace il lessico mediocre. Ho sempre apprezzato, invece, la sua sfida alla vecchia classe dirigente del Pd. Alla cosiddetta “ditta”. Il premier è un abile equilibrista. Bisogna però dargli atto che finora è riuscito a ottenere tutto quello che voleva e ha inanellato una serie di successi non marginali. Tra cui l’elezione di Mattarella.

L’Arena chiarisce che la questione Salva Berlusconi è ancora sul tavolo. Peraltro, la Boschi sembra dimenticare che la legge francese mette una doppia soglia: o il 10% dell’imponibile o 153 euro». Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2014

La norma inserita nel decreto fiscale non è a favore di Berlusconi, ma riguarda tutti. Il 20 febbraio riaffronteremo il tema. Ma che non sia una norma per B. lo dimostra il fatto che in Francia hanno una norma uguale, con una soglia più alta, non del 3% ma del 10% di non punibilità dell’evasione fiscale ai fini penali”. Il giorno dopo la “grande vittoria” con la quale Renzi ha portato Mattarella al Colle, Maria Elena Boschi, a L’Arena chiarisce che la questione Salva Berlusconi è ancora sul tavolo. Peraltro, la Boschi sembra dimenticare che la legge francese mette una doppia soglia: o il 10% dell’imponibile o 153 euro. Il Ministro torna dunque sulla norma che cancella i reati di evasione e frode fiscale se le tasse sottratte al fisco sono inferiori al 3% del reddito dichiarato. Come primo effetto l’ex Cavaliere potrebbe chiedere la revoca della sentenza di condanna per frode fiscale nel processo Mediaset, quella che lo ha fatto decadere da senatore per la legge Severino, cancellando così anche la pena accessoria e l’interdizione che gli avrebbe impedito la ricandidatura fino al 2018.

«Non credo si possa fare o non fare una norma che riguarda 60 milioni di italiani perché riguarda anche Berlusconi», sottolinea la Boschi. Prima dell’inizio della partita per il Colle, il premier aveva rimandato tutto a dopo. Al 20 appunto. Adesso dovrà decidere cosa fare. Tra i punti “attenzionati” proprio la soglia del 3%: difficile però che il premier possa decidere di alzarla, visto che è stata fatta e modulata per i grandi gruppi industriali. Da capire se cambieranno i reati: una delle ipotesi è cancellare la frode fiscale, tagliata appositamente sull’ex Cav. Nessuna marcia indietro ufficiale per ora: il 20 è la prima data utile per capire quanto ancora Renzi abbia intenzione (ma soprattutto necessità) di rinsaldare il Patto del Nazareno. Si vedrà se ha ragione Bersani, secondo il quale l’elezione di Mattarella è stata “un colpetto” al Patto. Mentre Alfano prova ad avvertire: «Al governo, faremo sentire la nostra voce».

In questa partita c’è un nuovo protagonista: il neo presidente della Repubblica. Che ieri, non a caso, ha passato un’ora con Napolitano: si è fatto spiegare e raccontare quali ostacoli il Quirinale deve affrontare, come sono i rapporti con Palazzo Chigi, a che punto è il percorso delle riforme. I decreti attuativi della delega fiscale arriveranno presto sulla sua scrivania: firmerà? Chi lo conosce bene lo racconta come un uomo molto preciso, anzi pignolo, molto attento agli equilibri politici, ma anche agli aspetti istituzionali e costituzionali. Vedremo. In arrivo prossimamente i decreti attuativi del jobs act e il milleproroghe.

E poi, c’è tutta la partita delle riforme. L’Italicum deve tornare alla Camera: in Senato è passata la versione dei capilista bloccati nei collegi, nonostante l’opposizione della minoranza bersaniana. Ringalluzziti dal ruolo giocato nella partita per il Colle, Bersani & co. annunciano battaglia a Montecitorio. Anche qui, da vedere come si comporterà il nuovo Presidente, che peraltro è il padre del Mattarellum, legge da molti rimpianta, che prevedeva i collegi uninominali e una quota proporzionale. Renzi nella presentazione della candidatura ai Grandi elettori Pd l’ha quasi presentato come un antesignano della nuova legge elettorale. In realtà, la filosofia era diversa. Infine, le riforme costituzionali, adesso alla seconda lettura alla Camera. Come si comporterà il costituzionalista Mattarella di fronte ad alcune evidenti forzature?

La Repubblica, 2 febbraio 2015 (m.p.r.)

Sergio Mattarella e Matteo Renzi. I due Presidenti. Formano una strana coppia, tanto sono diversi e lontani. Anche se, fra i due, c’è un filo politico e culturale comune. Mattarella è stato e resta un democristiano - di sinistra. Uno di quelli che si definiscono - e vengono definiti - cattolici democratici. Renzi, invece, è post-democristiano. Interpreta un modello di (post) democrazia personalizzata e mediatizzata. Dove i partiti contano meno perché, in fondo, si sono liquefatti. Per questo l’elezione di Mattarella permette di precisare il tipo di leadership e di democrazia interpretati da Renzi. Leader dei tempi liquidi, al tempo della democrazia liquida. Secondo la nota formula di Zygmunt Bauman. Cioè: senza appigli stabili e senza riferimenti coerenti. In continua evoluzione e ri-definizione. Renzi ne ha fatto un ambiente amico. Dove agisce e decide, perlopiù, da solo.

Il confronto con la precedente elezione presidenziale, nell’aprile 2013, risulta, al proposito, esemplare. Allora, le elezioni politiche avevano fatto emergere un Parlamento diviso in tre grandi minoranze politiche. In-comunicanti e divise anche al loro interno. Pd, Pdl e M5s. L’elezione del Presidente ne ha fornito una prova decisiva. Ha, infatti, dimostrato che si era alla fine di una stagione infinita. Il Berlusconismo. Una storia chiusa, ancora nel 2011. Senza che ancora se ne fosse preso atto. Riproponendo gli stessi riti e le stesse procedure. Come se il mondo fosse lo stesso di prima. Diviso in due. Pro oppure contro. Berlusconi. Come non fosse avvenuta l’irruzione del M5s. Veicolo della frattura fra società, politica e istituzioni. Così è stata bruciata la candidatura di Franco Marini, ex leader della Cisl e della Sinistra Dc. Ma, soprattutto, si è consumata la candidatura di Romano Prodi. Padre dell’Ulivo e del Pd. In aula. Per mano dei franchi tiratori del Pd. Molti più dei 101 di cui si è parlato. In questo modo è finita la finzione. Che si potesse continuare come prima. Con le stesse logiche di “partito”. Quando i partiti erano finiti, insieme ai loro riferimenti. Crollati, insieme al muro di Arcore. La “proroga” di Napolitano al Colle segna questo passaggio incompiuto. Perché è una nondecisione . In attesa di tempi diversi. Leader diversi.

Due anni dopo, quei tempi sono maturati. Tempi liquidi. Segnati da partiti liquidi. Le tre grandi minoranze, uscite dal voto del 2013 non esistono più. Non sono più grandi come prima. Due di loro, almeno. Il Popolo delle Libertà, si è diviso in diversi popoli. Forza Italia, guidata da Berlusconi. Il Nuovo Centro Destra guidato da Alfano. Entrambi, peraltro, proprio in questa fase si sono scomposti ulteriormente. Mentre il M5s si è, a sua volta, frazionato, in Parlamento. Ormai non è chiaro quanti siano i “fedeli” a Grillo e Casaleggio. E quanti parlamentari abbiano defezionato. Quel che resta del Centro, infine, si è riunito in un’altra sigla: Alleanza Popolare. Ma, in effetti, appare una periferia del PdR. Il Pd di Renzi. Il principale, se non unico, vero “partito” di governo. Sfidato, solamente, da partiti anti-europei e anti-politici. M5s e la Lega di Salvini, per primi. Tuttavia, lo stesso Pd non si presenta unito. È “geneticamente” diviso. Negli ultimi mesi, minacciato dalla tentazione della sinistra interna di integrarsi con Sel. Per formare una sorta di Tsipras all’italiana.
Ripercorro fatti e avvenimenti noti. In modo disordinato e superficiale. Ma in grado, anche così, di rendere più evidente il segno di questa Repubblica. Di questa democrazia. Liquida. Senza schemi né riferimenti stabili. in questo ambiente immateriale e frammentario Matteo Renzi ha affermato la propria leadership. In Parlamento e fra gli elettori. Renzi, come si è detto fin dal suo esordio, è “veloce”. Mimetico. Spregiudicato. Spietato, se necessario. Ha stabilito, da subito, un dialogo con il Nemico. Berlusconi. Un Patto, si è detto, intorno alle riforme istituzionali e alla riforma elettorale. Ma poi ha proceduto diritto al “suo” scopo. Scegliendosi di volta in volta i nemici prima ancora degli amici. A Destra e a Sinistra. Il Centro l’ha assorbito subito.

Così, ha avviato e impostato le riforme con alleati diversi. Il Jobs act e l’abolizione del Senato elettivo. Fino alla riforma elettorale. L’Italicum. Di cui è difficile delineare i contorni, dopo tante mediazioni e riscritture. Modellando, di volta in volta, maggioranze à la carte. Di volta in volta diverse, a seconda dei casi e degli obiettivi. Primo alleato: Berlusconi. Formalmente all’opposizione ma, puntualmente, a sostegno delle maggioranza, nelle occasioni che contano. Fino a ieri. Cioè, fino all’elezione del Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella. Che non piace a Silvio Berlusconi. Per ragioni “storiche”, trattandosi di un “cattocomunista”. A suo tempo, ostile alla legge Mammì. Ma anche per ragioni “politiche” legate al presente. Anzi, al “momento”. Perché Renzi l’ha scelto senza consultarlo. Senza accordarsi con lui. E, in fondo, senza consultare nessuno. Così ha “liquefatto” ulteriormente Fi, Ncd e M5S. Ma ha riunito - e solidificato - il Pd. E la Sinistra, con cui il Pd si era alleato alle elezioni politiche del 2013.
Da ciò la differenza rispetto al 2013, quando l’elezione del Presidente aveva sancito l’impotenza del Pd e della sua leadership. Avviandone la crisi. La scelta di Mattarella, invece, oltre che al Paese, è utile a Renzi. Perché lo rafforza. Lo àncora alla storia politica del Centrosinistra, mentre lo disàncora da ogni alleanza stabile. Fuori e dentro il partito.
Renzi: è il premier dei tempi liquidi. Un “premier liquido”. Capace di cambiare forma. E di adattarsi a un sistema politico liquefatto. Renzi. Solo e veloce. Senza veri amici (politici). Questa è la sua forza. Ma anche il suo problema. Perché non ha vincoli. Ma neppure appigli e approdi stabili. Non ha neppure futuro. In questi tempi liquidi: esiste solo il presente. Ogni giorno: un porto nuovo. Un equipaggio diverso. E nuove insidie, nuovi nemici. Il viaggio potrebbe diventare faticoso. E rischioso. Anche per un navigatore liquido.

Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2015

Montepulciano d’Abruzzo. Vino DOCG, prodotto nelle province di Chieti, l’Aquila, Pescara e Teramo. Colore: rosso rubino intenso con lievi sfumature violacee, tendenza al granato con l’invecchiamento. Odore: profumi di frutti rossi, spezie, intenso, etereo. Sapore: pieno, asciutto, armonico, giustamente tannico. Solitamente si abbina a piatti dal gusto forte, selvaggina, carni rosse, formaggi stagionati. Ha una gradazione minima di 12,5°. Di particolare pregio il vitigno Montepulciano d'Abruzzo Colline Teramane, da coltivarsi con estrema cura e a debita distanza da impianti di ricerca di idrocarburi! Etichetta certificata #NOTRIV.

Mesi fa il Parlamento ha convertito in legge lo Sblocca Italia. Un provvedimento che mirava a rilanciare l’economia e accelerare la realizzazione di grandi opere, ad aprire inceneritori e a dare il via libera agli interventi paralizzati da piccoli comuni e comitati particolarmente resistenti. Il premier l’aveva twittato forte e chiaro: «#basta-comitatini, stanco di fare figuracce quando parlo di energia con i leader della pianeta».

Tra le grandi idee c’è un’intuizione moderna come il motore a scoppio! Aprire una stagione di trivellazioni in tutto il Paese: dalla Basilicata alla Sicilia, dalla Lombardia all’Emilia Romagna. Dalla Puglia, all’Abruzzo, alle Marche, lungo tutto l’Adriatico. Poco importa se il made in Italy ne pagherà le conseguenze. Per tenerne alto il morale basterà il sito verybello.it. Ma esistono comitatini e piccoli comuni che non vogliono perdere i beni comuni. E sanno essere tenaci. Soprattutto quelli abruzzesi. Forse per via dell’ottimo vitigno dall’odore etereo. Così, in Provincia di Teramo, i sindaci dei Comuni di Bellante, Campli e Mosciano S.Angelo, insieme ai comitatini NOTRIV e al giovane costituzionalista Enzo Di Salvatore, non si sono rassegnati al futuro che attendeva la terra su cui cresce il Montepulciano DOCG decantato sulle etichette che viaggiano per il mondo. E hanno detto “no!” allo skyline in cui le trivelle dovrebbero prendere il posto dei filari su un territorio di ben 83 km quadrati.

Assemblee, raccolte di firme, manifestazioni, interrogazioni, pressioni politiche su parlamentari, su consiglieri regionali. Tutto pareva inutile. La grande mobilitazione sembrava destinata ad essere ammutolita dalle decisioni del Ministero dello Sviluppo e della Regione Abruzzo. Sembrava. Perché come una doccia fredda sui cacciatori di giacimenti è arrivata la decisione del Tar del Lazio che ha annullato il permesso di ricerca di idrocarburi denominato romanticamente “Colle dei Nidi”. Una sentenza che potrebbe essere il classico granellino che inceppa la macchina. Perché è la prima sentenza di annullamento di un permesso di ricerca di idrocarburi in terraferma. Perché si è voluto imporre, senza consentire la partecipazione di sindaci e cittadini, un modello vecchio e obsoleto per produrre energia. Il Montepulciano d’Abruzzo, per ora, è salvo. Ma l’Italia è piena di vitigni, di bellezza e di sapori da tutelare. E la sentenza ha cominciato a girare ad alta velocità.

La Repubblica, 1 febbraio 2015 (m.p.r.)

Inevitabile che la Panda grigia di Sergio Mattarella che sfila fino alle Fosse Ardeatine, ultimo gesto privato e insieme primo gesto pubblico del nuovo presidente, si imprima nella retina del pubblico, vasto o meno vasto, che ancora guarda a Roma non come a un enorme detrito o a un incomprensibile groviglio di cinismo e di intrallazzi, ma come alla capitale del paese. L’utilitaria grigia di famiglia, non la berlina blu di Stato, trasporta l’uomo che incarna le istituzioni, e tanto basterebbe ad accendere l’attenzione.

La politica è fatta (anche) di simboli e ai simboli si aggrappa soprattutto quando si sente impoverita di significati e svuotata di prestigio. Del presidente uruguagio Pepe Mujica è proverbiale e notissimo il Maggiolino parcheggiato davanti alla porta di casa; magari meno l’opera politica, significativa almeno quanto l’automobile. Ma parole e gesti possono essere simbolici tanto quanto lo “stile”. E in questo senso la scelta di Mattarella di andare alle Fosse Ardeatine è stata potente e spiazzante, anche per l’impressionante scarto tra quel luogo tragico e solenne e lo scadente calibro che la politica per prima sembra concedersi, sfibrata da una crisi che in Italia non è solo economica. Il rischio retorico non è stato neppure considerato, è stato semplicemente polverizzato dal gesto di Mattarella: come se la misura della politica e delle sue istituzioni non fosse, per la persona che sale al Quirinale, neppure in discussione.
L’equazione nazismo-terrorismo non è nuova, Parigi l’ha appena fatta sua dopo le stragi islamiste, e anche in quel caso l’unità della Nazione (là soprattutto con la imponente comunità di musulmani francesi) è stata evocata, anzi rievocata come solo antidoto efficace allo smarrimento e alla paura, come negli anni terribili della guerra e dell’occupazione nazista. In una brevissima dichiarazione, raccolta dai pochi presenti e non in favore di telecamere, il nuovo presidente ha citato “l’alleanza tra Nazioni e popolo che seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario” aggiungendo che “la stessa unità in Europa e nel mondo saprà battere chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore”.
Che le radici della nostra democrazia e della Repubblica, e subito dopo dell’unità europea, affondino nella sconfitta del nazifascismo non è un’opinione, sono pagine di storia (italiana ed europea). Però sbiadite, per quasi l’intero corso della seconda Repubblica; e spesso rilette come ragione non di unità nazionale, ma di divisione. L’antifascismo defalcato da sentimento fondante (e politicamente plurale) della nostra comunità nazionale a causa di lite tra opposte fazioni, quasi una vecchia bega che il trascorrere degli anni rende sempre più immotivata, anacronistica, ridicola. Il breve pellegrinaggio del dodicesimo presidente della Repubblica alle Fosse Ardeatine, per quanto informale, prende di petto quella impostazione, tra l’altro molto tipica dei nuovi partiti e movimenti populisti. E sottolinea, al contrario, la vitalità non solo simbolica ma anche politica delle radici antifasciste e antitotalitarie dalle quali nacque la stagione costituente: non si combatte il nuovo terrore se ci si dimentica come si è combattuto, sconfiggendolo, quello vecchio.

Sarà interessante capire se la prima sortita di Sergio Mattarella da presidente verrà intesa da tutti come “unitaria”, e da quanti tra gli attori della politica italiana, media compresi. O se qualcuno la considererà “divisiva” per il solo fatto che rimette l’accento dell’identità politica nazionale, e continentale, sull’antitotalitarismo e l’antirazzismo, ovvero sulla democrazia. E’ come se i primi, timidi abbozzi di una Terza Repubblica trovassero ispirazione più nel dna politico della Prima che nella confusa vitalità della Seconda. Si presume che il dodicesimo presidente, andando con mezzi propri e idee proprie alle Fosse Ardeatine, sapesse che non è un gesto qualunque e forse, alla luce della nostra storia politica recente, neppure un gesto neutrale.

«Vorrei esprimere preoccupazione per lemisure antiterrorismo che Commissione e Consiglio stanno discutendo, e sui rischidi una legislazione emergenziale che - in nome dei valori - oppone Stato didiritto e sicurezza», ha detto Barbara Spinelli rivolgendosi alcommissario Dimitris Avramopolos durante la miniplenaria di Bruxelles. «Parlo di rischi, di misure giàannunciate da Stati membri: di monitoraggio e rimozione di siti internet, diimpedimenti alla libera circolazione nell'area Schengen, della raccoltasproporzionatamente lunga di dati dei passeggeri (PNR), che questo Parlamento ela Corte europea di giustizia hanno già respinto. Molte di queste misureesistevano prima dei terribili attentati in Francia: non li hanno impediti».

«Parlo del falso legame stabilito, intante scuole e tanti luoghi pubblici, fra terroristi e comunità musulmane», ha continuatol’eurodeputata, alludendo in particolare alla circolare recentemente emessadall’assessore alle Politiche dell’istruzione della Regione Veneto, in cui igenitori degli alunni musulmani vengono invitati a “prendere distanza” dagliattentati di Parigi. «Parlo della grave tendenza generale - s'è vista giàdopo l'attentato alle Torri gemelle - a parlare di guerra contro il terrorismo.Questa non è una guerra».
Nello stesso giorno,Barbara Spinelli ha avviato i procedimenti per depositare un’interrogazione sullacircolare veneta che chiede ai presidi di attivarsi perché «allaluce della presenza dei tanti alunni stranieri nelle nostre scuole e deiloro genitori nelle nostre comunità» è necessaria una condanna del «fatto terroristico di matriceislamica» euna presa di distanza da «una cultura che predica l’odio verso la nostracultura, la nostra mentalità, il nostro stile di vita, fino ad arrivareall’estremo gesto terroristico».
La domanda rivolta alla Commissione è chiara: «Visto il sollevarsi di politicheislamofobiche adottate a livello nazionale e locale da Stati membri, laCommissione ritiene di sviluppare una strategia di integrazione nazionaleeuropea al fine di promuovere un dibattito inclusivo sulle rispettive qualità eprincipi guida, secondo il motto dell’Unione: “unità nella diversità?”»

Il manifesto, 31 gennaio 2015

«Men­tre Pier­santi come capo dello Stato avrebbe potuto asso­mi­gliare più a Per­tini, Ser­gio lo vedo più simile a Einaudi. Due grandi pre­si­denti con i quali Mat­ta­rella comun­que con­di­vide le stesse posi­zioni rispetto alla Costi­tu­zione repub­bli­cana, al plu­ra­li­smo della poli­tica, all’equilibrio delle isti­tu­zioni, alla cen­tra­lità del par­la­mento, e molto altro». Guido Bodrato, classe 1933, più volte depu­tato, mini­stro ed euro­de­pu­tato, non nasconde il suo entu­sia­smo nel pre­gu­stare la salita al Colle del suo amico e com­pa­gno di tanti anni di bat­ta­glie nelle fila della sini­stra Dc. E, a dif­fe­renza di Napo­li­tano, dice, non occu­perà «la scena poli­tica, di una poli­tica diven­tata spettacolo».

In sostanza, lei vede Mat­ta­rella come un difen­sore d’altri tempi dei ruoli costituzionali…
«Io sono un elet­tore del Pd, ma non sono un iscritto per­ché fin­ché que­sto par­tito non avrà una posi­zione asso­lu­ta­mente coe­rente sui valori della Costi­tu­zione del ’48 - sic­come que­sto è il para­me­tro con cui più di ogni altro giu­dico una posi­zione poli­tica - io non lo sento pie­na­mente come il mio par­tito. Mat­ta­rella sarà l’uomo che rispet­terà più le isti­tu­zioni, atten­tis­simo agli aspetti della lega­lità e al rispetto della Costi­tu­zione, d’altronde non a caso è giu­dice costituzionale».

Que­sta sua cul­tura poli­tica secondo lei lo dif­fe­ren­zia molto dal pre­si­dente Napolitano?
«Ho più di 80 anni e sono in poli­tica da quando ne avevo 18, ma non cono­sco più l’assemblea par­la­men­tare. Sono cam­biate tante cose, quindi fare il con­fronto è dif­fi­cile. Però men­tre Napo­li­tano, anche se è della prima repub­blica, occupa in qual­che modo la scena poli­tica di una poli­tica che è diven­tata spet­ta­colo, invece Mat­ta­rella secondo me sarà bene accetto dall’opinione pub­blica per­ché è uomo con­vin­cente e tra­spa­rente. Par­lando di ciò che espri­mono poli­ti­ca­mente credo non ci sia una sostan­ziale dif­fe­renza, ma se par­liamo dell’immagine pub­blica, Mat­ta­rella è uomo riser­vato, silen­zioso, non è un grande ora­tore, men­tre Napo­li­tano lo è».

Ed è anche il grande pro­tet­tore del governo di lar­ghe intese non eletto e del patto del «Nazareno…
Vede, vor­rei dire a Ven­dola - per­sona di cui ho grande sim­pa­tia e con cui con­di­vido molte opi­nioni - che ho visto sod­di­sfat­tis­simo come se fosse lui il vin­ci­tore, che è cam­biato il qua­dro di rife­ri­mento. Usando un lin­guag­gio da prima repub­blica: il patto del Naza­reno in que­sti giorni non è nau­fra­gato, è supe­rato. Per­ché le cose che hanno fatto sulla base di quel patto credo che reste­ranno, sarà molto dif­fi­cile cam­biarle. Però è altret­tanto vero che quel tipo di intesa poli­tica costruita su due per­so­naggi molto diversi per certi aspetti e molto uguali per altri, non fun­zio­nerà più in quei ter­mini. Biso­gna vedere cosa cam­bierà, ma non credo che si possa tor­nare indie­tro per rifare la partita».

Ma Mat­ta­rella non è un soste­ni­tore del presidenzialismo?
«No, ecco, pre­si­den­zia­li­sta Mat­ta­rella pro­prio non lo è. Se è vero che Renzi ha pre­fe­rito Mat­ta­rella a Prodi, è per­ché Prodi, da ex pre­mier, come capo dello Stato avrebbe sicu­ra­mente invaso l’area del pre­si­dente del Con­si­glio, cosa che Mat­ta­rella non farà. Per que­sto dico che Ser­gio sarà più Einaudi: resterà uomo della Costi­tu­zione, pro­ba­bil­mente in un modo che potrà appa­rire tradizionale».

Siamo, come qual­cuno sostiene, alla fine della seconda repub­blica tor­nando alla prima?
«No, que­sto non lo credo. Sono cam­biate tal­mente tante cose, sono cam­biati i par­titi. Il modo con cui que­sto par­la­mento ha affron­tato la riforma del senato, con i sena­tori eletti dai con­si­gli regio­nali, mostra una cul­tura che per me è inim­ma­gi­na­bile. Io che da gio­vane ho fatto anche il docente uni­ver­si­ta­rio, se avessi dovuto esa­mi­nare chi ha soste­nuto le cose con le quali il par­la­mento quasi una­ni­me­mente si è mosso, li avrei boc­ciati tutti. Non vedo la coe­renza con l’ordinamento costi­tu­zio­nale.
«Però è così, è cam­biato il modo di pen­sare delle nuove gene­ra­zioni poli­ti­che, ma non si può far finta che que­ste cose non siano acca­dute. I muta­menti sono stati così pro­fondi che imma­gi­nare che si torni indie­tro, addi­rit­tura alla Dc, è un non senso. Anche se mi fa molto pia­cere che si rico­no­sca che tutti i par­titi della prima repub­blica, non solo la Dc, hanno pro­dotto una classe diri­gente che è rima­sta in piedi e che con­ti­nua a essere utile al paese».

Nel luglio 1990 venne varata la legge Mammì sul sistema radio­te­le­vi­sivo pri­vato: Craxi minac­ciava di far cadere il governo se non fosse pas­sata men­tre la sini­stra Dc si oppo­neva, tanto che cin­que vostri mini­stri si dimi­sero. Andreotti però accolse le dimis­sioni, pose la fidu­cia e andrò avanti come un treno.…
«E io mi dimisi dalla segre­te­ria del par­tito… Credo che l’ostilità di Ber­lu­sconi venga soprat­tutto da lì. Un epi­so­dio che allora fu fon­da­men­tale per­ché al di là della dispo­ni­bi­lità delle fre­quenze ave­vamo la pre­oc­cu­pa­zione di come si stava costruendo un’egemonia del sistema infor­ma­tivo sulla vita demo­cra­tica, con un’impronta che - come poi è diven­tato lam­pante - met­teva fuori gioco il plu­ra­li­smo demo­cra­tico e intro­du­ceva ten­denze auto­ri­ta­rie molto forti. Per que­sto abbiamo fatto quella bat­ta­glia. E l’abbiamo persa. La sini­stra demo­cri­stiana, prima e più pro­fon­da­mente di altri, aveva capito che si stava affer­mando una cul­tura sem­pre meno rispet­tosa dei valori della Costi­tu­zione. E anche delle norme defi­nite a livello euro­peo. Poi in effetti Ber­lu­sconi ha rea­liz­zato quasi un blitz elet­to­rale con que­gli stru­menti, ma anche per­ché ha saputo caval­care un modo di fare poli­tica che stava già dilagando».

Quindi secondo lei Ber­lu­sconi non è affatto con­tra­riato solo dal metodo con cui Renzi ha impo­sto il nome di Mattarella…
«Ora­mai diventa dif­fi­cile distin­guere. Però sì. Ber­lu­sconi secondo me sta sba­gliando nel con­cen­trare que­sta osti­lità su Mat­ta­rella. Leggo che in defi­ni­tiva lui con­si­dera la sini­stra demo­cri­stiana il suo prin­ci­pale avver­sa­rio. Forse sto­ri­ca­mente ha anche ragione, ma oggi tante cose sono cambiate».

Voi, e lei in par­ti­co­lare, però vi oppo­ne­ste sem­pre all’ingresso di Forza Ita­lia nel Ppe.
«Prima Casta­gnetti e poi io che ero respon­sa­bile del pic­colo gruppo dei Popo­lari ita­liani… Ora­mai tutti fanno coin­ci­dere il Ppe e Ber­lu­sconi, ma in verità lui quando arrivò al par­la­mento euro­peo non entrò subito nel gruppo del Ppe. Lo fece solo suc­ces­si­va­mente. Loro ave­vano più di 20 par­la­men­tari, noi era­vamo meno di 10 e il Ppe aveva l’obiettivo di diven­tare il primo par­tito del par­la­mento euro­peo. Per noi invece evi­den­te­mente il pro­blema era squi­si­ta­mente poli­tico. Pur­troppo adesso tutti si defi­ni­scono popo­lari, ma per la verità nel 2004 con Fra­nçois Bay­rou, (lea­der del Movi­mento demo­cra­tico fran­cese, ndr) por­tammo il gruppo Schu­man fuori dal Ppe pro­prio per­ché i popo­lari euro­pei ave­vano scelto, solo per ragioni di quan­tità, l’accordo con i con­ser­va­tori inglesi, così come ave­vano fatto cin­que anni prima con Ber­lu­sconi. Come si vede, quindi, le occa­sioni di scon­tro sono state diverse e sostan­zial­mente erano sem­pre tra una visione cattolico-democratica e una conservatrice».

Il manifesto, 30 gennaio 2015

Unione. Il Grexit non è del tutto escluso, malgrado la volontà del governo greco e dei cittadini del paese di non uscire dall’euro

Il con­fronto tra la Gre­cia e la Ue, viste le prime rea­zioni dopo la vit­to­ria di Syriza e la for­ma­zione del nuovo governo Tsi­pras, rischia di inca­gliarsi in fretta in un brac­cio di ferro distrut­tivo per tutti, se non si riu­scirà a tro­vare un’uscita verso l’alto dalla crisi. La disoc­cu­pa­zione cre­sce, non solo in Gre­cia (gli ultimi dati fran­cesi sono estre­ma­mente pre­oc­cu­panti, con un aumento con­si­de­re­vole nel 2014: 3,5 milioni di senza lavoro, cifra che sale a 5,2 milioni se si con­teg­giano coloro che sono costretti a un part time, un aumento di 190mila disoc­cu­pati nel 2014, che sarà seguito, se nulla cam­bia, da un altro eser­cito di 100mila per­sone senza lavoro in più nel 2015).

Solo un New Deal euro­peo, con un col­le­ga­mento tra solu­zione della crisi del debito e piano di inve­sti­menti di Junc­ker (finan­ziato per dav­vero e non solo con i 21 miliardi pro­messi a mol­ti­pli­carsi fino a 315), potrà far uscire la zona euro dal pan­tano, sosten­gono molti eco­no­mi­sti (gli Eco­no­mi­stes atter­rés hanno appena pub­bli­cato il loro Nou­veau Manifeste).

Ma le regole della zona euro impon­gono che ogni pro­gramma della Bei sia cofi­nan­ziato dagli stati almeno al 50% e per la Gre­cia anche que­sta è una solu­zione al ribasso, visto che Dra­ghi ha legato l’accesso alla liqui­dità pro rata alla par­te­ci­pa­zione nel capi­tale della Bce (2% per la Gre­cia). Un cir­colo vizioso, per paesi senza mar­gini di mano­vra finanziaria.

In que­sti primi giorni di governo Tsi­pras, la Gre­cia è stata lasciata sola di fronte ai movi­menti della finanza: come c’era da aspet­tarsi, la Borsa di Atene è crol­lata (mer­co­ledì meno 9% in seguito alla sospen­sione delle pri­va­tiz­za­zioni impo­ste dalla tro­jka, i titoli delle ban­che gre­che sono pre­ci­pi­tati del 26%), i capi­tali con­ti­nuano a fug­gire, men­tre le Borse euro­pee viag­giano per conto loro, senza subire con­trac­colpi greci con­si­stenti. I tassi di inte­resse sul debito pri­vato sono volati a più del 10%. L’irrazionalità potrebbe pren­dere il sopravvento.

Il Gre­xit non è del tutto escluso, mal­grado la volontà del governo greco e dei cit­ta­dini del paese di non uscire dall’euro. L’uscita dall’euro, inol­tre, non è con­tem­plata dai trat­tati: il Trat­tato di Lisbona pre­vede l’uscita dalla Ue, per Atene signi­fi­che­rebbe abban­do­nare prima l’Unione per poi rien­trarvi (con un voto all’unanimità dei part­ner), ma senza euro.

Per la Gre­cia, sarebbe ogget­ti­va­mente un disa­stro, con la sva­lu­ta­zione che ne con­se­gui­rebbe men­tre il debito reste­rebbe in euro, per oltre­pas­sare il 200% del pil. Nes­suno vor­rebbe più pre­stare denaro alla Gre­cia. Un’uscita dall’euro della Gre­cia, che pesa solo per il 2% del pil euro­peo, viene con­si­de­rata da Bru­xel­les al limite eco­no­mi­ca­mente gesti­bile, ma poli­ti­ca­mente esplo­siva: l’instabilità potrebbe rag­giun­gere altri paesi, a comin­ciare dalla Spagna.

Ma le isti­tu­zioni euro­pee si stanno inte­star­dendo sulla sola que­stione del debito. Ricor­dano che la Gre­cia ha avuto 240 miliardi in aiuti diversi dai part­ner, anche se si dimen­ti­cano di dire che una parte con­si­stente è tor­nata nelle casse dei cre­di­tori, che la cifra colos­sale è ser­vita per sal­vare le ban­che e non per sol­le­vare la vita quo­ti­diana dei cit­ta­dini greci. Gli euro­pei si ripa­rano die­tro il para­vento della mini­miz­za­zione del “con­ta­gio”. Con la crisi, sono stati isti­tuiti vari para­ful­mini, che limi­tano la pro­pa­ga­zione del crollo ad altri paesi inde­bi­tati, dal Mes all’Unione ban­ca­ria, fino al quan­ti­ta­tive easing lan­ciato da Mario Dra­ghi il 22 gen­naio. Ma tutte que­ste misure sono state con­ce­pite per pro­teg­gere i mer­cati, non le popolazioni.

Nei fatti, mal­grado i due Memo­ran­dum e gli «aiuti» di 240 miliardi, dal 2010 al 2014 il debito greco è dimi­nuito sol­tanto di una man­ciata di miliardi (da 330 a 321,7), men­tre, a causa del calo della pro­du­zione di ric­chezza nazio­nale, la per­cen­tuale del peso del debito è aumen­tata, dal 146 al 175% del Pil.

Ma i part­ner, Ger­ma­nia in testa, si inte­star­di­scono sui numeri: non devono essere i con­tri­buenti degli altri paesi a pagare. Il debito greco è a più del 70% nella mani di cre­di­tori pub­blici, 32 miliardi dell’Fmi, più di 141 miliardi dell’Fesf (fondo euro­peo di sta­bi­lità) e 53 miliardi di pre­stiti bila­te­rali da parte degli stati mem­bri (40 miliardi per la sola Fran­cia, ad esem­pio, una cifra ana­loga per l’Italia, un po’ supe­riore per la Ger­ma­nia).

Que­sti sono miliardi a cui i part­ner hanno dato una «garan­zia» e per que­sto sono stati cal­co­lati nei rispet­tivi defi­cit. Gli euro­pei vanno valere di aver già abbas­sato note­vol­mente i tassi di inte­resse impo­sti alla Gre­cia e di aver allun­gato i tempi del rim­borso (fino a 30 anni). Insi­stono sul fatto che, sot­traendo gli inte­ressi che la Bce riversa alla Gre­cia sui titoli del debito che detiene, il «peso» del ser­vi­zio del debito è infe­riore per Atene (2,6% secondo il think tank Brue­ghel) che per l’Italia (4,7%) o per il Por­to­gallo (5%). Per Bru­xel­les, quindi, il mar­gine di mano­vra di Tsi­pras sarebbe minimo, se decide di non rispet­tare gli «impe­gni» dei pre­de­ces­sori, sof­fo­cato dalla man­canza di liqui­dità e asse­diato dai mer­cati. La Ue cal­cola che i biso­gni della Gre­cia per quest’anno siano intorno ai 36 miliardi e spera così, con visione miope, di met­tere Tsi­pras con le spalle al muro e di far­gli pie­gare la testa sotto le for­che cau­dine del rispetto dell’austerità.

Ue da un lato e Tsi­pras dall’altro hanno in mano un’arma nucleare: Gre­xit e default (rinun­cia a rim­bor­sare). Ci vor­rebbe un Salt I e II, uno Start e un tele­fono rosso tra Atene e Bruxelles

Lettera 42 online, 30 gennaio 2015

DOMANDA. Ma questa vittoria di Syriza è di destra o di sinistra?
RISPOSTA. È prima di tutto una vittoria importantissima per la Grecia, perché è un riscatto dopo anni di miseria e impoverimento, ma anche di umiliazione. Il Paese è stato usato come una cavia per le politiche di austerità.

D. Che ripercussioni può avere sull'Europa?
R. Può avere un'importanza enorme perché in questi sei anni la terapia anti-crisi, basata sul contenimento della spesa pubblica ed essenzialmente sulla riduzione del reddito dei cittadini, è fallita. Siamo di nuovo caduti in una profondissima deflazione.
D. Eppure c'è chi ci crede ancora: «Gli impegni per la Grecia restano gli stessi», ha ribadito il vice presidente della Commissione Ue, il falco rigorista finlandese Jyrki Katainen.
R. Invece se l'Europa fosse intelligente questa sarebbe davvero la grande occasione per dire: proviamo altre ricette, altre visioni della crisi, altri modi di uscirne.

D. Per ora sono più quelli che parlano di Grexit: di fare uscire la Grecia dall'euro.
R. La cosa interessante e promettente è che questa di Syriza è la vittoria di una forza radicalmente critica delle politiche europee, ma intenzionata a restare nell'Ue. Quindi non ha vinto un partito che vuole uscire dall'euro.

D. In un momento in cui si parla di radicalizzazione solo in termini negativi (politici e religiosi), quella di Syriza può rappresentare un'eccezione positiva?
R. Sì, perché in fondo siamo abituati a pensare che la sinistra radicale sia contro il capitalismo, contro l'Unione europea. Invece qui abbiamo una sinistra che è radicale perché vuole cambiamenti e miglioramenti nella conduzione dell'economia capitalistica. E allo stesso tempo crede nelle istituzioni comunitarie.

D. Tanto da volere anche un'Europa federale?
R. Sì, i principali dirigenti del partito, da Tsipras al vice presidente dell'europarlamento Dimitris Papadimoulis, sono tutti adepti del Manifesto di Ventotene. Che è anche il tema del primo capitolo del libro che sta scrivendo l'eurodeputato Manolis Glezos.

D. In Europa chi può andare nella stessa direzione?
R. La Spagna è già molto avanti. Con Podemos ha una sinistra simile, in un certo modo anche più libera di Syriza.

D. Perché?
R. Perché Syriza ha messo insieme dei pezzetti un po' vecchi della sinistra radicale con parti nuove. Podemos è completamente nuova, non si basa più sul contrasto destra-sinistra, ma si rivolge a tutto l'elettorato, senza etichette politiche. E a questa radicalità non eravamo abituati.

D. In che cosa consiste esattamente?
R. Nel salvare il welfare state, nell'essere fedeli alle conquiste sociali che l'Europa ha fatto nel Dopoguerra e che non sono state fatte solo dalla sinistra, ma da tutti: italiani, francesi... Si tratta quindi di salvare quello che teneva insieme l'Ue.

D. In Italia e Francia questa radicalità esiste?
R. La sua affermazione sarà un processo più lento, perché c'è una sinistra socialdemocratica moderata ancora molto forte, che ha finito con l'adottare le politiche dell'austerità e che quindi dovrebbe lei stessa cambiare.

D. E se non ci riesce?
R. Si dovrebbero formare delle forze alternative a Hollande e a Renzi.

D. L'economista francese Thomas Piketty ha invitato i socialisti francesi e italiani a unirsi a Tsipras prima di sparire definitivamente. È uno scenario possibile?
R. Sì, ma prima questi partiti di centrosinistra dovrebbero fare un mea culpa: ammettere di essersi
sbagliati, che il trattato sui bilanci adottato nel 2012 è stato un fallimento.

D. Troppo orgogliosi per farlo?
R. Che lo facciano o no dipende da loro, per ora hanno fatto delle aperture a Syriza, ma solo a parole.

D. L'Italia ha fatto una battaglia sulla flessibilità però.
R. Era tutta aria fresca, perché flessibilità vuol dire combattere per delle percentuali. Invece è proprio il meccanismo del fiscal compact che va rinegoziato tutto. Oggi in Europa, più che la divisione tra destra e sinistra, c'è quella tra debitori e creditori: uno squilibrio che non deve più esistere.

D. La Germania non sembra essere molto favorevole al cambiamento.
R. La battaglia culturale sulle dottrine economiche buone contro la crisi deve partire invece proprio dalla Germania, perché senza di loro un'altra Europa non la potremo avere. E non sarebbe nemmeno giusto.

D. Ma la cancellazione del debito chiesta da Syriza non ha molti sostenitori a Berlino.
R. Non dico di ripetere la stessa Conferenza del 1953. Che tra l'altro non ha cancellato il debito tedesco, ma lo ha talmente diluito nel tempo e legato a una ripresa economica della Germania che alla fine una parte non è stata pagata perché si trattava di decenni di rinvio.

D. E cosa propone allora?
R. Ci si deve sedere tutti insieme intorno a un tavolo e discutere il debito greco, ristrutturandone una parte, rinviando i rimborsi, con l'idea che è in gioco la ricreazione di una solidarietà ormai perduta. E
che è uno dei fondamenti dell'Ue.

D. È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago?
R. La Germania non chiuderà in maniera drastica a qualsiasi negoziato. Molte regioni ormai sono governate dai socialdemocratici e dalla sinistra radicale, Linke. E nella prossima legislatura non è escluso che tra loro ci possa essere un'alleanza chiamata rossa-rossa.

D. Invece in Grecia Tsipras ha preferito fare un'alleanza rosso-nero con la destra di Anel. È delusa?
R. No. Purtroppo Tsipras ha tentato varie alleanze: il Kke, partito comunista estremamente stalinista ha subito detto di no, e Potami, partito liberale, ha detto sì, ma a patto che si annacquasse la parte anti-austerity.

D. Meglio allora sacrificare un ideale politico?
R. Il problema di Tsipras è che deve dare risultati economici nell'immediato, deve far respirare di nuovo la popolazione greca. Un po' come fece François Mitterand quando aumentò subito il salario minimo. Anel è un conglomerato di forze diverse, ma per il momento la maggioranza è anti-austerity. Questo è il link.

D. Un compromesso storico alla greca?
R. No, il compromesso storico è qualcosa di più strutturato e di lungo periodo. Ed era talmente strutturato che poi anche Enrico Berlinguer lo rinnegò. Questo è più un compromesso strategico, che potrebbe anche saltare perché in realtà Tsipras ha bisogno solo di altri due deputati per avere la maggioranza assoluta.

D. E che siano di destra non conta?
R. No, in Grecia oggi la divisione è tra chi è a favore e chi è contro il memorandum della Troika.

D. Così si è sostituito un ideale economico a uno politico?
R. Considerata l'enormità della crisi e il prezzo pagato da milioni di cittadini, sì. Oggi l'economia passa davvero al primo posto. Poi bisogna vedere anche cos'è la destra e cos'è la sinistra.

D. Nel suo ultimo libro, Sottomissione, Michel Houllebeck ha scritto «l'opposizione sinistra-destra struttura il gioco politico da così tanto tempo che ci sembra impossibile superarla. Eppure in fondo non c'è nessuna difficoltà». È d'accordo?
R. Dipende, in Italia per esempio difficilmente vedo possibile un accordo tra sinistra radicale e Lega Nord.

D. Anche perché in Italia la sinistra radicale è praticamente estinta.
R. Non sono d'accordo, diciamo che è in letargo. Bisogna fare come Tsipras, che ha preso tante cellule dormienti della vecchia sinistra e ne ha fatto qualcosa di nuovo.

D. Andando con Anel ha più che altro fatto una chimera.
R. La sinistra in molti Paesi è sociologicamente minoritaria, se vuole governare, per forza deve andare a pescare voti nel centro e nella destra.

D. Insomma come ha fatto Renzi?
R. No, il centrosinistra in Italia ha tagliato fuori la parte radicale, Syriza invece si è assicurata prima di avere tutti i voti della sinistra e poi ha aperto ad altri.

D. In questo caso il fine giustifica i mezzi?
R. In Grecia la situazione è talmente grave - siamo ai livelli della depressione americana degli Anni 30 - che per forza saltano divisioni vecchie tra destra e sinistra. E poi i Greci indipendenti più che alla destra mi fanno pensare al Movimento 5 stelle, che sull'immigrazione è prudente mentre sul sociale e sui diritti è più aperto.

D. Ma quali sono i rischi che Tsipras corre con questa alleanza?
R. Di cedere su alcuni diritti fondamentali, in particolare sui temi dell'immigrazione. Questo è un periodo in cui l'Ue sta combattendo una guerra economica interna, ma all'esterno è circondata da guerre che portano migliaia di richiedenti asilo, non più immigrati, alle nostre porte. E il pericolo è che l'Ue si chiuda in una fortezza.

D. Adesso a controllare quella porta c'è proprio un greco, Dimitris Avramopoulos, commissario europeo con il portafoglio per le Migrazioni, gli Affari interni e la Cittadinanza.
R. Sì ma Avramopoulos, che è di destra, forse andrà a fare il presidente della Repubblica. Una scelta che ha creato scontenti, ma è una mossa strategica molto astuta.

D. Perché?
R. Syriza pensa sia più importante avere un proprio uomo a Bruxelles come commissario all'immigrazione che averne uno presidente della Repubblica, un ruolo che tra l'altro non ha un gran peso come invece in altri Paesi.

D. In Italia ne ha tanto per esempio. Chi le piacerebbe?
R. Tra quelli usciti nessuno, anche se sicuramente il migliore è Romano Prodi. Ma il mio candidato ideale è Gustavo Zagrebelsky, che però non candideranno mai.

Il manifesto, 30 gennaio 2015

SPIANATAMATTARELLA

Norma Rangeri,

Se fos­simo in un altro paese, la can­di­da­tura di Luciana Castel­lina non sarebbe sol­tanto una testi­mo­nianza - a noi molto vicina e cara - ma qual­cosa di sim­bo­li­ca­mente forte. Resterà però come un omag­gio a chi è nel cuore della sini­stra italiana.

Tutt’altro rispetto a quanto è suc­cesso ieri. Per­ché die­tro la ban­diera di Ser­gio Mat­ta­rella, il demo­cri­stiano per­bene, sof­fiano le trombe della rot­tura del patto del Naza­reno e dell’unità ritro­vata del Pd. Rie­merge dalla pol­vere in cui era stato tra­sci­nato per­sino il fan­ta­sma del vec­chio cen­tro­si­ni­stra di ber­sa­niana memo­ria con Nichi Ven­dola che, dopo Luciana, sosterrà Mat­ta­rella. E tira un sospiro di sol­lievo la varie­gata mino­ranza del Pd men­tre davanti alle tele­ca­mere bran­di­sce la can­di­da­tura del giu­dice costi­tu­zio­nale come la prova della rot­tura del patto con Ber­lu­sconi. Mat­ta­rella ha come spia­nato divi­sioni e divergenze.

Si esi­bi­sce come con­tro­prova il no della squa­dra di Arcore al poli­tico sici­liano, già fiero avver­sa­rio delle leggi (Mammì, ma anche Gasparri) a favore del mono­po­li­sta tele­vi­sivo. E per giunta fermo oppo­si­tore dell’entrata di Forza Ita­lia nella fami­glia euro­pea del Par­tito popo­lare. Un no, quello dell’ex Cava­liere, appena ammor­bi­dito dall’esibito fair play di una gen­tile tele­fo­nata al can­di­dato. E poi mani­fe­stato non con un voto con­tra­rio ma con la scheda bianca (come per l’elezione di Napolitano).

È anche curioso che in que­sto tor­neo qui­ri­na­li­zio si repli­chi quel che accadde ai tempi di Ciriaco De Mita. Il lea­der della sini­stra demo­cri­stiana che, come Renzi oggi, era segre­ta­rio del par­tito e capo del governo. De Mita fu il regi­sta dell’elezione di Fran­ce­sco Cos­siga: riunì, ancora una volta, governo e pre­si­denza della repub­blica sotto il tetto di piazza Del Gesù.

Una replica della sto­ria che, dopo trent’anni, ieri pome­rig­gio, è tor­nata improv­vi­sa­mente d’attualità con una vec­chia, sto­rica coper­tina del mani­fe­sto, esi­bita nell’aula di Mon­te­ci­to­rio e in tv dal leghi­sta Cal­de­roli. Quel “Non mori­remo demo­cri­stiani” che cam­peg­giava sulla nostra prima pagina del 1983, rife­rito al tra­collo elet­to­rale della Dc demitiana.

Un titolo che allu­deva a «una spe­ranza - scri­veva Luigi Pin­tor - se la sini­stra ita­liana non dilapiderà un risul­tato a suo favore come mai prima era acca­duto». Tra prima e seconda repub­blica, quel patri­mo­nio è stato orgo­glio­sa­mente espulso dal cuore del nuovo Pd ren­ziano e oggi, se il dodi­ce­simo pre­si­dente della repub­blica sarà Ser­gio Mat­ta­rella, avremo ai ver­tici del paese, Palazzo Chigi e Qui­ri­nale, l’accoppiata di un qua­ran­tenne e un set­tan­tenne pro­ve­nienti dalla sto­ria demo­cri­stiana. E’ un dato di fatto che porta a com­pi­mento, anche sim­bo­li­ca­mente, quell’opera di rot­ta­ma­zione della radice comu­ni­sta dallo sce­na­rio poli­tico ita­liano per rin­ver­dire, con spre­giu­di­cati inne­sti, la pianta degasperiana.

Non che il voto una­nime dei grandi elet­tori del Pd per Ser­gio Mat­ta­rella pre­si­dente della repub­blica, sia un cer­ti­fi­cato di garan­zia con­tro un altro “Pro­di­ci­dio”. Tut­ta­via que­sta volta la “carica dei 101″ sem­bra piut­to­sto impro­ba­bile. Renzi ha già il piede schiac­ciato sull’acceleratore della nuova costru­zione media­tica del pre­si­dente «l’antimafia, le dimis­sioni per un ideale, i col­legi per i par­la­men­tari, l’abolizione della naja» che signo­reg­gia su gior­nali e televisioni.

Sfac­cia­ta­mente sosti­tuita a quella che ci ha bom­bar­dato fino a ieri sulla neces­sità di eleg­gere un capo dello stato di leva­tura inter­na­zio­nale, di grandi rela­zioni nel mondo di eco­no­mia e finanza. Tanto da spin­gere per la nomina del nuovo pre­si­dente della Repub­blica entro il week-end per non urtare la «suscet­ti­bi­lità» dei mer­cati. A Ser­gio Mat­ta­rella manca almeno la metà delle qua­lità impre­scin­di­bili che dove­vano carat­te­riz­zare la figura pre­si­den­ziale. Una evi­dente presa in giro. Tra le tante a cui ci ha abi­tuato il funam­bo­lico capo del governo.

Ma se alla quarta vota­zione Renzi riu­scirà a eleg­gere Mat­ta­rella per il par­tito di Ber­lu­sconi sarà una Capo­retto. Dopo aver steso la sua rete di pro­te­zione attorno al governo del Pd, assi­cu­rando numeri legali in aula, votando la legge elet­to­rale, soste­nendo la con­tro­ri­forma costi­tu­zio­nale, dovrà fare buon viso a cat­tivo gioco, sop­por­tando la vit­to­ria ren­ziana sul Quirinale.

Se le cose andranno come sem­bra, il capo del governo ne uscirà raf­for­zato. Tut­ta­via resterà l’impressione di aver assi­stito a una par­tita decisa a tavo­lino, dalla segre­te­ria di un par­tito, senza alcun dibat­tito e con­fronto interno. E senza pas­sione, coin­vol­gi­mento, emo­zione per gli ita­liani, per­ché quanto è acca­duto in que­sti giorni segna ancora di più il distacco tra i par­titi e i cittadini.



37VOLTE LUCIANA CASTELLINA
SCHEDA ROSSA LA TRIONFERÀ
di Tommaso Di Francesco

Ieri in Par­la­mento è stato un pic­colo tri­pu­dio per il mani­fe­sto. C’è stata la pre­sunta pro­te­sta leghi­sta con­tro gli inciuci renzian-berlusconiani, con Cal­de­roli che issava la nostra prima pagina del 1983, «Non mori­remo demo­cri­stiani», il bel titolo fatto da Luigi Pin­tor; poi la Bol­drini che ha allon­ta­nato leghi­sti e prime pagine, invece avrebbe fatto bene a cac­ciare i leghi­sti e a tenere in aula «il mani­fe­sto».

Sì, per­ché di lì a poco i depu­tati di Sel - e non solo - hanno comin­ciato, nella prima seduta desti­nata all’elezione del nuovo pre­si­dente della Repub­blica, dopo l’uscita di scena del compact-presidente Napo­li­tano, a votare per la nostra Luciana Castel­lina. Giusto.

Invece di votare scheda bianca, sta­volta è stata scheda rossa, una bella ban­diera issata per 37 volte. La vota­zione pur­troppo è sim­bo­lica, ma c’è poco da scher­zare. E poi metti che tra una recita e l’altra qual­cuno nel dispo­si­tivo sba­glia e allora esce dav­vero Luciana Castellina? Pur­troppo non acca­drà come nell’estate del 1978 quando pro­prio il drap­pello dei depu­tati dell’allora Pdup pro­pose il nome fino a quel momento mino­ri­ta­rio di San­dro Per­tini e alla fine fu una valanga di «Per­tini presidente».

Fon­da­trice con Ros­sana Ros­sanda, Luigi Pin­tor, Aldo Natoli, Valen­tino Par­lato, Lucio Magri prima dell’esperienza della rivi­sta «Il Mani­fe­sto», che fu poi causa della radia­zione dal Pci, poi pro­ta­go­ni­sti della nascita di que­sto giornale. Lo meri­te­rebbe eccome Luciana Castel­lina, donna, ex depu­tata, comu­ni­sta sem­pre in prima fila, anche con la parola e la scrit­tura. Capace di attra­ver­sare le sta­gioni poli­ti­che e le capi­tali del mondo come fosse a casa, cosmo­po­lita prima che la glo­ba­liz­za­zione fosse realtà. Con lei il Qui­ri­nale sarebbe un avam­po­sto della nuova Europa, una casa aperta, attenta e ospi­tale verso gli ultimi e i biso­gni della società.

Lo meri­te­rebbe dav­vero, sarebbe l’immagine dell’Italia che ha lot­tato, che non ha smesso di farlo. Ma che non ha vinto. E allora…

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