Sbilanciamoci.info, 6 febbraio 2015
Alexis Tsipras ha vinto le recenti elezioni in Grecia con un chiaro mandato elettorale: cancellare una parte significativa del debito pubblico e porre fine al programma di aiuti – e relativi piani di austerità e aggiustamenti strutturali – della troika. Ma entrambi gli obiettivi si stanno rivelando molto più difficili del previsto. Anche per la feroce opposizione dell’establishment europeo, come dimostra la recente decisione della Bce di chiudere i rubinetti alle banche greche. Per capire come siamo arrivati a questo punto, però, dobbiamo fare un passo indietro.
Il debito pubblico greco ammonta a 323 miliardi di euro, pari al 177% del Pil. Di questi, il 15% è detenuto dal settore privato, il 10% dal Fondo monetario internazionale e il 6% dalla Bce. Il grosso del debito – il 60% del totale, pari a 195 miliardi di euro – è in mano agli altri governi dell’eurozona. Di questi 195 miliardi, 142 miliardi sono arrivati alla Grecia attraverso l’Efsf, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (più comunemente noto come “Fondo salva-stati”); 53 miliardi sono invece il frutto di prestiti bilaterali ricevuti dagli altri stati membri. I paesi più esposti al debito greco sono la Germania (56 miliardi), la Francia (42 miliardi), l’Italia (37 miliardi), la Spagna (24 miliardi) e l’Olanda (11 miliardi).
E qui sta il primo problema: un’eventuale ristrutturazione del debito greco ricadrebbe soprattutto sulle spalle degli altri governi europei, molti dei quali – in particolare Germania, Francia e Finlandia – hanno già categoricamente escluso l’ipotesi di un taglio del valore nominale del debito. Questi sanno di avere dalla loro una componente cruciale di qualunque negoziato: il tempo. Tsipras deve trovare un accordo in fretta se vuole fermare l’emorragia di capitali dalle banche greche (oltre 10 miliardi a gennaio, 4 miliardi a dicembre). E infatti il neoministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, ha recentemente annunciato un clamoroso cambio di strategia: niente più taglio del debito ma uno “swap” della porzione di debito attualmente in mano all’Efsf e alla Bce con nuovi titoli di stato. Questi sarebbero di due tipi: i titoli in mano all’Efsf sarebbero rimpiazzati con bond indicizzati al tasso di crescita del Pil (in sostanza il servizio del debito e le scadenze di rimborso aumenterebbero o diminuirebbero a seconda dello stato di salute dell’economia), mentre quelli in mano alla Bce sarebbero rimpiazzati con quelli che Varoufakis ha definito “obbligazioni perpetue” (titoli a interessi zero che la banca centrale terrebbe a bilancio in perpetuo, il che equivarrebbe di fatto alla monetizzazione di quella porzione di debito). Secondo uno studio dell’istituto Bruegel, questo potrebbe ridurre la spesa per interessi della Grecia di più del 15% del Pil.
Questo rappresenterebbe un passo indietro non da poco rispetto alla richiesta di “cancellazione della maggior parte del valore nominale del debito pubblico” contenuta nel programma elettorale di Syriza, ma permetterebbe comunque a Tsipras di rispettare la seconda parte della sua promessa elettorale: ridurre l’avanzo primario dal 4-5% previsto dal memorandum all’1-2% – allentando, anche se di poco, la stretta fiscale che negli ultimi anni ha soffocato l’economia greca, bruciando un quarto del reddito nazionale – e porre fine al programma di assistenza finanziaria della troika. Il governo greco, infatti, si rifiuta di accettare l’ultima tranche da 7 miliardi, ma senza di essa non sarà in grado di far fronte ai 6.5 miliardi che deve restituire alla Bce entro l’estate (se la banca centrale non dovesse accettare la proposta di cancellazione ufficiosa del debito). Pare che Atene abbia a malapena fondi a sufficienza per rimborsare i 4.3 miliardi dell’Fmi in scadenza il mese prossimo.
In alternativa – in attesa di trovare un accordo – il governo greco potrebbe raccogliere una decina di miliardi sui mercati emettendo buoni del Tesoro a breve termine; ma anche questo richiederebbe l’approvazione dell’Eurotower (poiché Atene ha già raggiunto il tetto di 15 miliardi di euro sull’emissione di t-bills fissato dalla Bce) e al momento non sembra che Francoforte abbia alcuna intenzione di dare il via libera all’operazione. Anche se Atene decidesse di andare avanti lo stesso, la Bce – in qualità di garante del nuovo meccanismo di vigilanza unico (Ssm) – potrebbe tranquillamente vietare alle banche greche di comprare i nuovi titoli di stato (poiché la Grecia sarebbe di fatto insolvente, come peraltro ha riconosciuto lo stesso Varoufakis) o semplicemente negargli la liquidità necessaria.
Un’altra fonte di finanziamento a breve termine potrebbe arrivare dai profitti guadagnati dalla Bce e dalle vari banche centrali nazionali con l’acquisto di bond greci in base al programma Smp (Securities Markets Programme) nel 2010. Nel 2012 l’Eurogruppo accettò infatti di girare questi soldi – che oggi ammontano a 1.9 miliardi di euro – alla Grecia, ma questo non si è mai verificato. E oggi sono in molti a ritenere che i governi dell’eurozona accetteranno di sbloccare i fondi solo se la Grecia si impegnerà a rispettare una serie di conditionalities molto stringenti (sostanzialmente in linea con i memorandum della troika). Anche far digerire questo accordo ai creditori, insomma, non sarà facile.
Questo sul fronte delle finanze pubbliche greche. Ma come già detto il vero problema per la Grecia in questo momento è un altro: la fuga di capitali dal paese e più in generale la fragilità del sistema bancario. Fino a pochi giorni fa le banche greche riuscivano ad approvvigionarsi di liquidità fornendo a garanzia titoli di stato che ufficialmente sono considerati “spazzatura”; un’eccezione concessa a quei paesi che sottostanno a un programma di assistenza della troika. Ma il 4 febbraio – lo stesso giorno in cui Varoufakis ha dichiarato di essere “il ministro delle finanze di un paese in bancarotta” – la Bce ha fatto sapere in una nota di aver deciso di escludere i bond greci dai titoli che possono essere usati dalle banche come collaterale “poiché al momento non è possibile presumere una conclusione positiva del processo di revisione del programma greco”.
Il manifesto, 7 febbraio 2015
Se si nutriva ancora qualche dubbio che l’Europa fosse più vittima delle proprie politiche che della crisi, gli accadimenti degli ultimi giorni hanno tolto ogni dubbio. I mercati avevano assorbito quasi con nonchalance il cambio di governo in Grecia; la Borsa di Atene aveva oscillato, ma riuscendo sempre a riprendersi, fino a raggiungere rialzi da record; il terrorismo psicologico che aveva provocato un forte deflusso di capitali prima delle elezioni sembrava un’arma spuntata.
Ma appena si è arrivati al dunque è scattato il ricatto della Bce. Eppure le richieste del nuovo governo greco erano più che ragionevoli. Né Tsipras né Varoufakis chiedevano un taglio netto del debito, ma solamente modalità e tempi diversi per pagarlo senza continuare a distruggere l’economia e la società greca, come avevano fatto i loro predecessori. Dichiarazioni e documenti di economisti a livello mondiale, compresi diversi premi Nobel, si rincorrono per dimostrare che le soluzioni proposte dal governo greco sono perfettamente applicabili, anzi le uniche efficaci se si vuole salvare l’Europa, che sarebbe trascinata nella voragine di un contagio dai confini imprevedibili se la Grecia dovesse fallire e uscire dall’euro. Perfino il pensiero mainstream – Financial Times in testa — si dimostrava più che possibilista.
Può darsi, come anche Varoufakis ha osservato, che la mossa di Draghi serva per evidenziare che la soluzione è politica e non tecnico-economica. Quindi ha buttato la palla nel campo dell’imminente Eurogruppo che si riunirà l’11 febbraio. Il guaio è che la politica europea attuale è ancora peggio della ragione economica. Basti leggere le dichiarazioni di un Renzi, sdraiato sul comunicato della Bce, o quelle di uno Schulz o di un Gabriel.
Non è la prima volta, d’altro canto, che la socialdemocrazia tedesca vota i «crediti di guerra». [Il riferimento è alla posizione che assunsero le socialdemocrazie francese, inglese, austriaca,tedesca, belga, quando - violando la linea politica decisa dalla Seconda Internazionale comunista (guerra alla guerra) - nei rispettivi parlamenti votarono a favore el riarmo, passo decisivo, su entrambi i fronti, per lo scatenamento della prima guerra mondiale. - nota di e.]
La ragione è duplice. Se passa la soluzione greca appare chiaro che non esiste un’unica strada per abbattere il debito. Anzi ce n’è una alternativa concretamente praticabile rispetto a quella del fiscal compact. Più efficace e assai meno devastante. Tale da puntare su un nuovo tipo di sviluppo che valorizzi il lavoro, l’ambiente e la società, come appare dal programma di Salonicco su cui Syriza ha costruito e vinto la sua campagna elettorale. Sarebbe una sconfitta storica per il neoliberismo europeo.
Il secondo motivo riguarda gli assetti politico istituzionali della Ue. Sappiamo che i greci hanno giustamente rifiutato l’intervento della Troika. Ma è pur vero che perfino Juncker ha dichiarato che quest’ultima ha fatto il suo tempo. C’è allora qualcosa di più importante in gioco che la sopravvivenza di questo o quell’organismo.
E’ questo che le mediocri classi dirigenti europee vogliono? Non sarebbe la prima volta.
Syloslabini.info, 3 febbraio 2015 (m.p.r.)
Abbiamo quindi intervistato Joseph Halevi, professore di economia presso l’Università di Sydney, che ben conosce Yanis Varoufakis, neo ministro delle finanze in Grecia, di cui è amico e con cui ha anche scritto un libro (insieme a Nicholas Theocarakis): Modern Political Economy: making sense of the post-2008 world (Routledge).
Noi Restiamo: ci dai un giudizio sul risultato delle recenti elezioni in Grecia?
Joseph Halevi: il mio giudizio è essenzialmente positivo. C’è ovviamente un problema dovuto al fatto che Syriza ha delle posizioni molto eterogenee. Però voglio dire che l’esigenza che nasceva dalla crisi del Pasok ovviamente ha trovato sbocco in Syriza. Non poteva trovare sbocco nel KKE (partito comunista greco), impossibile. Per scegliere il partito comunista greco bisognava essere ideologicamente strutturati, e la popolazione che usciva dalla crisi del Pasok non lo era. Quindi il mio giudizio è sostanzialmente positivo, anche se a me Syriza non piace moltissimo.
NR: ha dei limiti come impostazione del partito, ricorda un po’ SEL per certi punti di vista.
JH: sì, anche se ovviamente in modo più serio. La componente centrale, quella che l’ha fondata seriamente, sono i comunisti del partito comunista dell’interno, che erano gli euro-comunisti, che si sono scissi dal KKE teoricamente dopo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Il KKE, comunque, negli ultimi 40/50 anni, non ha mai modificato la sua analisi sul sistema capitalistico, che è sempre quella sovietica: capitalismo monopolistico etc. Poi, sull’Unione Sovietica loro hanno riflettuto, e sono arrivati alla conclusione, basta andare sul loro sito per leggerlo, che l’Unione Sovietica è caduta perché hanno cercato di affrontare i problemi per via capitalistica. Se invece fossero rimasti all’interno dello schema socialista, non ci sarebbe stata questa crisi, questo crollo. Un approccio estremamente schematico: non analizza il perché il partito comunista sovietico sia andato in quella direzione, né un sacco di altri aspetti. Quindi anche se tendenzialmente hanno la mia simpatia, allo stesso tempo sono di un settarismo totale.
NR: Il problema principale di Syriza adesso è che, pur essendo partiti subito con una serie di proposte anche abbastanza interessanti, come l’aumento del salario minimo o il ripristino di una serie di condizioni di vita a livelli precedenti le impostazioni della Troika, si trovano in una posizione molto delicata per via del fardello del debito. Secondo te quanto spazio di manovra c’è per il nuovo governo greco?
JH: nessuno. E lo sanno. Quindi dovranno andare allo scontro. E lì si vedrà come agirà Syriza, al cui interno c’è la componente eurocomunista e non solo, c’è anche gente che ha lasciato il KKE successivamente. Questa componente è più possibilista sul debito, nel senso che sono per accettare dei compromessi invece che andare alla rottura. Questo potrebbe provocare problemi interni seri a Syriza.
NR: quando tu dici andare allo scontro cosa intendi?
JH: per scontro intendo la linea di Yanis Varoufakis. Quella è giustissima. Ossia fare default ma restando nell’eurozona.
NR: Quindi secondo Varoufakis è possibile fare default rimanendo nell’Eurozona?
JH: Certo, non paghi e basta. Mica devi uscire, nessuno ti obbliga ad uscire e loro non ti possono cacciare. Questo non lo capiscono coloro che parlano di “Grexit”, e nemmeno i Tedeschi che dicono: ah allora te ne vai. Nessuno può cacciare la Grecia, nessuno può cacciare nessun paese dalla zona euro. Quindi Yanis dice: va bene, se loro non vogliono accettare dei compromessi noi dichiariamo il default stando nella zona euro, vediamo un po’ che succede. L’ha scritto anche sul suo blog, spesso.
NR: Visto che lo abbiamo citato, in conclusione due battute sul nuovo governo. Tu conosci bene Varoufakis, con cui hai anche scritto un libro, ma ci sono anche altre figure interessanti, ad esempio Rania Antonopoulos dovrebbe occuparsi di lavoro.
JH – Sì, questo è un governo molto moderno, gente che veramente conosce il mondo, e non conosce il mondo dei banchieri. Tra l’altro la Grecia è molto meno provinciale dell’Italia, poiché in Grecia anche la borghesia è emigrata, non soltanto il popolo (diciamo il popolo delle isole, i contadini semi-analfabeti) degli anni Cinquanta. In Italia la borghesia è sempre stata stanziale: solo adesso la gente di origine middle-class si muove, emigra. La borghesia italiana è stata stanziale al massimo, provincialissima, magari perché ricca, sicura di sé; mentre in Grecia no, la borghesia parla molte lingue, nei dipartimenti delle facoltà universitarie greche c’è gente che si è formata in Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Germania, e anche in Russia. E’ gente che ha viaggiato vivendo in altri paesi, non vivendo da persone importanti – diciamo non come i Giavazzi, che vanno al MIT – ma dovendo cercare lavoro, vivendo veramente in altri paesi.
NR: la maggior parte degli articoli usciti in questi giorni su Varoufakis hanno molto calcato la mano sull’aspetto, come dire, della personalità e della figura. Il “Manifesto” l’ha definito con entusiasmo un economista marxista. A noi francamente più che marxista Varoufakis sembra un keynesiano di sinistra, se vogliamo.
JH: Ma lui non è da questo punto di vista una persona semplice, non è accademicamente marxista, è – a mio avviso – strategicamente più leninista che marxista, perché sotto molti aspetti ha una concezione propria del giocare sui rapporti di forza. E di trovare i limiti degli avversari, da questo punto di vista ha molto assorbito la teoria dei giochi. Yanis viene da una famiglia resistenziale, il padre ha fatto anni di prigione, era già formato politicamente quando si è trasferito in Gran Bretagna. La Grecia è un paese come l’Italia, dove marxista significa essere militante, non puoi fare il marxista accademico e basta. Marxista è un sistema di idee che c’hai, poi fai altre cose, puoi anche fare il geometra.
Il manifesto, 6 febbraio 2015
L’altolà di Draghi al governo Tsipras mostra con durissima evidenza lo stato di sospensione democratica di questa “Europa reale”, e della Bce che ne costituisce un pilastri. L’attacco di Draghi e il preannuncio di non garantire più per i bond greci mostra la volontà di strangolare sul nascere il nuovo corso. Non si riconosce il mandato popolare ricevuto da Tsipras, e non si capisce con quale autorevolezza venga considerato non attendibile il piano presentato dalla nuova compagine greca, da parte di chi ha partecipato a misure, previste dal Memorandum, famose per aver fallito clamorosamente gli obiettivi dichiarati. La realtà è che le scelte sociali, economiche ed istituzionali, il non riconoscimento della Troika di Tsipras vanno in collisione con la natura e i poteri dell’“Europa reale”, quelli finanziari, liberisti e della egemonia merkeliana. Di questi poteri la Bce è un architrave.
Da tempo sosteniamo lo scandalo di un Parlamento europeo senza alcun potere d’influenza sulla Bce, un organo preteso tecnico (25 persone, non elette), a cui i Trattati dell’Unione hanno affidato la piena responsabilità della politica monetaria dell’Europa. Il fatto è che i nostri dirigenti hanno aderito al principio che la politica monetaria e finanziaria non debba essere più una funzione sovrana dei poteri pubblici statuali (nazionali ed europei), ma il compito di soggetti privati politicamente indipendenti dalle istituzioni pubbliche. La Bce è il soggetto chiave del Sistema europeo di banche centrali (Sebc) di cui fanno parte, oltre la Bce, le Banche centrali nazionali degli Stati che hanno adottato l’euro e formano l’Eurosistema. Suo compito principale è di attuare la politica monetaria dell’Unione il cui l’obiettivo, fissato dai Trattati, è il mantenimento della stabilità dei prezzi, diventato l’imperativo monetario dei paesi occidentali.
Il problema nasce dal fatto che l’articolo 130 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (Tfue) stabilisce il principio della totale indipendenza politica della Bce. Coerentemente, il Trattato dispone l’obbligo per i governi degli Stati membri e le istituzioni ed organi dell’Ue di astenersi da qualsiasi forma di ingerenza sulle attività della Bce. Aver stipulato formalmente l’indipendenza politica alla Bce come principio costituzionale del Tfue ha creato una situazione giuridica, istituzionale e politica, anomala. L’anomalia si esprime anzitutto rispetto alle banche centrali: la Bce è l’unica banca centrale al mondo ad essere politicamente indipendente da ogni altra autorità. Le altre banche, compresa la Federal Reserve Bank (Usa) sono autonome. L’anomalia è però soprattutto rilevante nell’assetto attuale dell’integrazione europea. L’adozione dell’euro anche in assenza di uno Stato sovrano europeo, è avvenuta in maniera contraria alle tesi costituzionali politiche che da sempre riconoscono che una moneta implica un governo, un potere sovrano, uno Stato.
Le ragioni per le quali i poteri forti europei hanno creato una moneta senza Stato sono molteplici. A nostro avviso, la più pregnante è di ordine ideologico politico: è l’idea che occorra staccare l’economia dalla politica ed affidare i compiti di gestione dell’economia, in particolare della politica monetaria, ad organi tecnici “indipendenti” dai governi pubblici, capaci di dare fiducia ai mercati finanziari. Il compito della Bce non è di dare fiducia ai parlamenti nazionali ed al parlamento europeo e di salvaguardare i diritti umani e sociali dei cittadini stessi. I suoi clienti, come si dice nel gergo dominante, sono i mercati finanziari, le banche e gli agenti finanziari speculativi. La Bce è attualmente il solo potere politico sovranazionale europeo.
L’indipendenza della Bce significa principalmente tre cose. Anzitutto, una mistificazione, deliberata, per coprire legalmente il fatto che essa non lo è ma che è sottomessa all’influenza degli interessi dei poteri pubblici (Stati) più forti dell’Ue sul piano monetario e finanziario. Essa lo è nei confronti degli Stati più deboli come la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo .…ma non della Germania e del mondo finanziario rappresentato dal Lussemburgo. In secondo luogo, una realtà effettiva nei confronti del Parlamento europeo e delle altre istituzioni dell’Ue. Il dialogo economico tra la Bce ed il Pe (per far credere alla legittimità democratica della Bce) e tra questa ed il Consiglio dei Ministri e la Commissione europea (a dimostrazione della responsabilità della prima nei confronti delle altre due) è un puro arrampicarsi sugli specchi.
Infine, la libertà dai poteri politici pubblici accordata alla Bce è una triste farsa politica. Lo strumento chiave del potere della Bce è l’intervento sul tasso di sconto (il costo del capitale) sulla moneta. Da anni questa funzione non appartiene più alle banche centrali (lo Stato) ma alle banche stesse (soggetti privati nella stragrande maggioranza). La Bce, per suo proprio dire, si limita ad intervenire in reazione al tasso di sconto fissato dalle banche/mercati finanziari, abbassandolo in caso di freddezza/stagnazione dell’economia o aumentandolo in caso di riscaldamento o eccitazione elevata dei mercati. Indipendenza formale, quindi, rispetto ai poteri politici pubblici ma dipendenza chiara nei confronti dei mercati finanziari.
Cambiare questo stato non è facile. Bisogna riportare la politica monetaria europea nel campo della democrazia effettiva, dando un governo politico all’euro. Bisogna abolire la dissociazione tra politica ed economia ed eliminare il primato dell’economia sulla politica, per un processo costituente europeo. Il parlamento europeo è l’istituzione più legittima per farlo, se lo vuole. E’ necessario scardinare il potere speculativo e criminale dei mercati finanziari, mettendo fuori legge i paradisi fiscali, regolamentando i mercati dei derivati, le transazioni finanziarie ad alta frequenza e la finanza mobile, ripubblicizzare le casse di risparmio ed il credito alle collettività locali. E dichiarare illegale le forme di competitività fiscale tra gli Stati.Terzo oltre che mettere la finanza e la moneta in Europa al servizio della giustizia e della solidarietà umana e sociale e della giustizia ambientale. Tsipras ha aperto uno scontro durissimo e ciascuno di noi deve fare la sua parte.
La Repubblica, 5 febbraio 201
«Noi vi proponiamo un piano radicale di lotta a sprechi evasione e corruzione, ma aiutateci a tenere la testa fuori dall’acqua, e sia la Francia a guidare l’emergenza», hanno detto ieri il nuovo premier greco Alexis Tsipras al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e poi al capo dello Stato francese, François Hollande, e nelle stesse ore il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis al presidente della Bce Mario Draghi. Anche se proprio l’Eurotower chiede impegni immediati: la Bce non accetterà oltre l’11 febbraio i titoli ellenici come garanzia, uno stop che aggraverebbe la crisi di liquidità delle banche. Solo un accordo politico con Bruxelles in una settimana può salvare la Grecia dall’uscita dall’euro.
Il silenzio di Juncker e Draghi, il riserbo di Renzi, le smentite Fmi. E poi le scarne parole di Angela Merkel che suonano come una sentenza: «Ho parlato al telefono con il premier italiano e il presidente francese. Sulla Grecia le posizioni degli Stati membri non differiscono nella sostanza». L’offensiva diplomatica tra Roma, Bruxelles, Parigi e Francoforte di Alexis Tsipras ha prodotto un frastuono di dichiarazioni ottimistiche che però non ha trovato eco nei loro interlocutori. «I negoziati saranno difficili», ha detto il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, unica autorità comunitaria a rilasciare un commento dopo l’incontro con Tsipras.
Roma, Bruxelles, Francoforte e Parigi hanno mandato lo stesso messaggio, dunque: nessuna conferenza internazionale per rinegoziare il debito, nessuna cancellazione più o meno occulta dei 240 miliardi prestati, nessun trattamento di favore da parte di Fmi e Bce. L’unico tavolo negoziale al quale si devono rivolgere i nuovi governanti di Atene è quello dell’Eurogruppo. E devono farlo in fretta perché, senza un accordo dell’Eurogruppo, neppure la Bce sosterrà le banche greche già svenate dalla fuga di capitali.
Accolti dovunque con grandi sorrisi, baci, abbracci e pacche sulle spalle, Tsipras e Varoufakis sono tornati ieri sera ad Atene con ben poca farina nel sacco. E difficilmente se ne aggiungerà oggi, durante l’incontro che Varoufakis avrà a Berlino con il Finanzminister, Wolfgang Schauble. In una intervista a Repubblica, il ministro greco aveva annunciato di aver «avviato un negoziato» con il Fondo monetario internazionale per una dilazione del debito. Circostanza che l’Fmi ha smentito seccamente. In compenso si è saputo che Varoufakis ha incontrato nel week-end a Parigi il responsabile europeo del Fondo, che guardacaso è quel Poul Thomsen odiatissimo dai Greci perché per anni a capo della Troika e dei suoi ultimatum. I due, dice un breve e perfido comunicato Fmi, «hanno fatto conoscenza ed evocato le sfide a cui la Grecia deve far fronte».
Pure tra coloro che Tsipras considerava i suoi potenziali alleati, come Renzi, Hollande e il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, il leader greco ha trovato sorrisi, comprensione, ma anche una linea di demarcazione netta: la premessa per qualsiasi negoziato è che Atene si impegni a rispettare le regole europee e gli obblighi assunti. «Se la Grecia modifica unilateralmente gli accordi, l’altra parte non è più obbligata a rispettarli, pertanto lo Stato non sarà più in grado di finanziarsi», dice Schulz in una intervista a Handesblatt.
Intanto i tedeschi hanno fatto trapelare un loro “documento di lavoro” presentato agli altri governi dell’Eurozona in cui chiedono non solo che la Grecia garantisca di rimborsare il debito, ma che mantenga anche tutti gli impegni di tagli, riforme e privatizzazioni che i precedenti governi avevano concordato con la Troika. Ma questo, evidentemente, fa già parte della complicata partita negoziale che si aprirà oggi con l’incontro di Varoufakis e Schauble e che entrerà nel vivo l’11 febbraio alla riunione dell’Eurogruppo che precederà di un giorno il vertice dei capi di governo della Ue, quando finalmente Tsipras incontrerà la cancelliera Merkel.
Il manifesto, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)
Occorre davvero far ricorso a tutte le risorse etiche e razionali di cui disponiamo per non relegare un intero pezzo di mondo nelle tenebre della barbarie più efferata e auspicarne l’annientamento a qualsiasi costo, «danni collaterali» compresi. La tentazione è forte. All’orribile morte tra le fiamme di Moath al-Kasasbeh, decisa magari «dal basso» dagli umori infami del popolo jihadista consultato sulla rete, fa seguito la reazione squisitamente kappleriana della monarchia di Amman, che fa immediatamente impiccare Sajida al-Rishawi, la terrorista detenuta nelle carceri giordane dal 2005 e che la Giordania era disposta fino a ieri a scambiare con il suo pilota, e un altro detenuto qaedista iracheno, Ziad al-Karbouli.
In realtà circolava voce che altri cinque detenuti sarebbero stati giustiziati, ma non è chiaro quale sia la proporzione della rappresaglia ritenuta adeguata dalla monarchia hashemita. Ci auguriamo inferiore a quella delle Fosse Ardeatine. Intanto da quel santuario di saggezza islamica «moderata» che è l’università coranica di Al Azhar si leva l’invito a «uccidere, crocifiggere e mutilare» i terroristi. Questo Islam potrebbe piacere perfino, per l’occasione, alla destra islamofoba.
Lasciando per un momento da parte ogni considerazione geopolitica, ci troviamo di fronte tutti gli elementi di una «guerra interfascista» (per usare l’espressione suggestivamente applicata da Franco Berardi Bifo alla guerra in Ucraina). L’orrore abita diversi luoghi nel mondo, in proporzioni numeriche più o meno spaventose dal Pakistan alla Nigeria, pervade legislazioni, forme politiche e sociali di molti regimi fidati alleati dell’Occidente.
In un luogo specifico, però, quello militarmente occupato dall’Isis, l’orrore si è «fatto stato» senza diplomatici velami. Uno stato che esercita il suo potere in forme tanto feroci da far impallidire l’Afghanistan crudelmente tribale e «tradizionalista» del Mullah Omar. Vi si bruciano libri ed esseri umani in stile più nazista che «medioevale». Questo stato deve essere cancellato dalla carta geografica, prestando però molta attenzione a che non se ne disperdano le spore. Ma è questa una ragione per tollerare la barbarie «moderata» che frequenta la city nel timore che possa diventare «estrema», probabilmente senza smettere di frequentarla?
Le ragioni economiche e geostrategiche non abbisognano, si sa, di giustificazioni morali. Ma il discorso pubblico e anche la retorica democratica non possono farne a meno. E tacere sui sistemi di brutale oppressione esercitati dagli alleati dell’Occidente in casa propria. E’ di ieri la condanna all’ergastolo di centinaia di militanti del movimento che spodestò Mubarak in Egitto.
Non si vedono in giro per il mondo cartelli e magliette con la scritta «Je suis Moath». Certo un pilota che bombarda, tutt’altro che chirurgicamente, i territori dominati dall’orrore è ben diverso da vignettisti assassinati per le loro opinioni ed eletti a simbolo della libertà di espressione, sebbene tutti vittime della medesima barbarie. Le bombe, questo è certo, non sono parole. Eppure dovrebbero esserci, nonostante tutto, queste magliette e questi cartelli, perché la Convenzione di Ginevra, per non parlare dei più elementari principi di umanità, contiene diritti non meno importanti da difendere. E anche chi partecipa a una guerra, una volta prigioniero non può subire la sorte terrificante toccata al pilota giordano.
C’è un problema però. Anche le vittime della rappresaglia giordana, e cioè di una logica fascista, meriterebbero la stessa attenzione. Capisco quanto sarebbe imbarazzante indossare una maglietta con la scritta «Je suis Sajida», una fanatica terrorista che ha partecipato a un attentato che ha provocato 60 morti, ma nel momento in cui non è più in grado di nuocere e diventa la pedina inerme e torturata di un mostruoso gioco di immagini, l’oggetto di una vendetta al servizio della propaganda hashemita, forse bisognerebbe avere il coraggio e lo stomaco di farlo.
Ma solo da quel momento in poi. Prima gli uomini dell’Isis, come già gli eserciti nazionalsocialisti, non possono che essere combattuti con le armi e i loro complici «moderati» e silenziosi costretti a gettare la maschera e a rendere conto delle proprie azioni.
Riprendiamo da
Sbilanciamoci.info (2 febbraio 2014) l'intervista a Luciana Castellina apparsa su www.minimaemoralia.it. Nello spirito di una frase di Giorgio Agamben («per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia»), vi si parla di Syriza , del Pdup e del PCI, di Tsipras e di Napolitano, di Renzi e di Mitterand, di Berlinguer e di Togliatti, e di tanti altri
«Caro Lucio, carissimo compagno di tante lotte e di tante sconfitte: nessuna sconfitta è definitiva, finché gli echi delle nostre passioni riescono a rinascere in forme nuove». Nella tensione emotiva dell’omaggio di Pietro Ingrao a Lucio Magri si ritrova tutto il travaglio di una stagione repubblicana dall’eredità ancora irrisolta. Con il saggio Da Moro a Berlinguer – Il Pdup dal 1978 al 1984 (Ediesse, 402 pagine, 20 euro) Valerio Calzolaio e Carlo Latini colmano un vuoto pubblicistico sulla storia del partito nato dall’unificazione del Pdup di Vittorio Foa e del gruppo de Il Manifesto, che fin dalla radiazione dal Pci nel 1969 si pose il problema di aggregare la nuova sinistra del ’68. Il testo sull’esperienza del Pdup per il comunismo, composto da un’élite politico-culturale ma anche radicato sul territorio, offre almeno quattro linee guida d’interesse contemporaneo. Il rapporto fra partiti, o quel che ne resta, e movimenti, ripercorrendo lo sforzo di tradurre in soggettività politica i movimenti del ’68-’69. Poi annotiamo la questione dirimente della scelta europea della sinistra italiana; l’ecologia e lo sviluppo industriale; infine la fermezza contro la politica del terrore fine a sé stesso del partito armato senza smarrire la lucidità dell’analisi. Luciana Castellina, che nelle file del Pdup è stata eletta parlamentare nazionale ed europea, scrive nella prefazione: « (…) È la testimonianza di un tempo in cui la politica è stata bellissima: vissuta dentro la società, colma di dedizione appassionata, di grande affascinante interesse perché impegnata a capire come rendere migliore la vita di tutti gli umani. Anche se non abbiamo vinto. Ma se vogliamo provarci ancora, questa archeologia è importante». Nella Grecia di Tsipras la giornalista Castellina sembra aver riascoltato echi di passioni mai sopite.
Qual è il suo ritratto del premier?
«È un quarantenne, che non avverte la paura che ha frenato le precedenti generazioni della sinistra greca. I drammi della guerra civile, lo spettro del ritorno di una forma di dittatura fascista hanno sempre provocato una qualche timidezza. Appartiene a una generazione più sicura e dunque capace di osare di più. Tsipras ha un senso fortissimo della propria storia e della propria identità comunista. Ha ampliato il raggio dell’iniziativa politica, producendo la rottura di un assetto bipolare. Il linguaggio nuovo e responsabile di Syriza ha intercettato e aperto spazi politici. La drammaticità della situazione ha favorito la convergenza e coesione interna al partito, che riunisce varie forze, al contrario della nota frammentazione».
Fra le analisi giornalistiche post elettorali c’è chi ha prefigurato nel rapporto con l’Europa un parallelo con l’evoluzione del primo Mitterand. La rivoluzione a costo zero non si fa.
«I percorsi dei due personaggi sono profondamente diversi. La rottura di Mitterand non fu così drastica come quella proposta da Tsipras e la storia della Francia non è quella della Grecia. Mitterand, anche in giovinezza, è stato un uomo molto accomodante, tutt’altro che un eroe delle rotture».
La parola solidarietà è rientrata nel vocabolario politico? Syriza di governo, che ha limiti endogeni ed esogeni, riuscirà a mantenere una dinamica complessa con i movimenti?
«Lì i movimenti sono poco strutturati. Per capirsi non c’è qualcosa di simile a Indignados-Podemos. Syriza ha sostenuto le proteste alimentate dalla sofferenza sociale. Si è messa a disposizione per la costruzione di una società alternativa, a fronte di uno Stato che ha tagliato tutto. Nei quartieri, dove la gente affronta la miseria nera, sono nate forme di volontariato organizzato molto importanti. Il partito ha mostrato la capacità di contribuire a consolidare questa solidarietà mediante la propria organizzazione partitica. Tutte le forme di supplenza alle carenze statuali mi hanno ricordato il mutuo soccorso del movimento operaio alle origini».
Torniamo in Italia. Nei nove anni al Quirinale ha trovato riscontri del Giorgio Napolitano che conosceva? Curzio Malaparte, frequentato in giovane età dal presidente emerito, regalandogli una copia di Kaputt annotò nella dedica: «Non perde la calma neppure dinanzi all’Apocalisse».
«Ha esercitato il ruolo istituzionale andando sopra le righe, perché è una personalità molto forte fra tutti i nani dell’attuale scenario politico italiano. È un signore dalla lunga storia politica e relativa grande esperienza. Dunque inevitabilmente, oggettivamente, ha esercitato un’egemonia. Napolitano è stato sempre un uomo che ha apprezzato e dato priorità agli elementi di stabilità. Privilegia l’equilibrio, cristallizzato dalla strategia delle larghe intese, al cambiamento. D’altra parte la destra Pci era filo-sovietica, non tanto perché gli piacesse l’URSS, quanto per l’idea di sicurezza e stabilità che avrebbe dovuto assicurare al mondo il sistema dei blocchi contrapposti».
Che cos’è oggi il diritto al dissenso?
«Non sono mai andata d’accordo con Napolitano, tuttavia il dibattito, che rimpiango, è stato politicamente significativo e civile. Lui ha contribuito intensamente alla mia radiazione dal Pci. Ma ho nostalgia di quella radiazione, perché almeno si è discusso con un sincero turbamento. Oggi ripeto ai dissidenti di qualunque partito, che possono solo sognare una radiazione come la nostra. Il leader parla in televisione e gli altri sono costretti nella scelta binaria sì o no, con una sostanziale indifferenza per le posizioni e per le idee».
Il dissenso espresso dalla minoranza Pd sulla legge elettorale è stato davvero funzionale all’elezione di Sergio Mattarella?
«Non amo Renzi, ma è stato molto abile in questa operazione. Ha capito che aveva tirato troppo la corda con la minoranza interna al suo partito. Non poteva calpestarli ulteriormente, essendo arrivato al rischio di rottura. Ha dovuto cedere qualcosa. Penso avrebbe preferito una candidatura in accordo con Berlusconi».
In attesa del giuramento e del discorso d’insediamento in programma domani, qual è il segno distintivo del neo presidente?
«Innanzitutto la Prima Repubblica non è stata una cosa omogenea. Mattarella è un uomo di quella stagione, dimessosi dalla carica di ministro, poiché contrario all’approvazione della legge che ha determinato la vita della Seconda Repubblica. Mattarella, da questo punto di vista, è stato il primo con altri, seppure in una posizione interna al partito democristiano, a capire che cosa stesse accadendo. Nell’osservanza della legge ha tentato di tutelare l’interesse generale, per non assecondare l’ascesa di Berlusconi. Il termine rottamazione più che una rottura generazionale, ispirata da un rinnovamento necessario, evoca una rimozione forzata e stupida della storia. Come asserisce Giorgio Agamben per capire il presente bisogna occuparsi dell’archeologia».
La cosiddetta Seconda Repubblica si è caratterizzata dalla nascita di un sistema bipolare impuro, con coalizioni estremamente eterogenee e politicamente frammentate. Con i partiti piccoli a determinare equilibri meramente elettorali. Lei sostiene che il Pdup abbia rifuggito il minoritarismo. In che modo?
«Non abbiamo mai pensato di costruire sopra la nostra testa il partito della rivoluzione, bensì d’incarnare l’essenza di una forza critica, destinata alla transitorietà. Volevamo innescare un rinnovamento sostanziale del Pci, che era ancora una forza molto vitale. Non coltivavamo un interesse particolare, se non quello della rifondazione dell’organizzazione storica del movimento operaio. Il nostro successo sarebbe derivato dall’aggregazione delle forze sane della nuova e vecchia sinistra. Purtroppo non è andata così. Per riprendere una frase di Santa Teresa di Lisieux: anche chi non conta niente deve sempre pensare come se tutto dipendesse da sé, muovendosi con il senso di responsabilità di chi decide. La nostra piccola impresa ha lasciato una rete di quadri, che non opera più a livello politico, ma è vitale nella società, perché era il prodotto di una cultura credo molto forte e rigorosa».
Calzolaio e Latini evidenziano il tratto leaderistico, nella persona di Lucio Magri, assunto dal Pdup.
«Leadership e personalizzazione, deriva pericolosa, non sono la stessa cosa. Non si costruisce un soggetto politico senza avere selezionato una leadership. Una selezione da maturare in un corpo sociale e politico vasto. Correttamente gli autori sottolineano il ruolo di Magri, decisivo fin dall’inizio nell’elaborazione della linea, nelle tesi del Manifesto con una costante apertura all’autocritica. La sua visione ha anticipato i tempi. Su Praga il Pci, pur in posizione critica, parlava ancora solo di errore. È interessante rileggere i suoi discorsi parlamentari, dai quali è possibile elaborare una ricostruzione della storia degli anni Settanta. La sua esistenza è finita in quella maniera, perché non ha accettato l’idea di una fase di piccoli accordi, di piccole storie. “La sinistra rinascerà, certo, ma ci vorrà molto tempo e a quel punto sarò morto”».
Nel febbraio 1968 Napolitano firmò una relazione sul movimento studentesco: riconoscimento della novità, volontà di raccoglierne le sollecitazioni e denuncia delle avvisaglie estremiste. Permane tutt’oggi quella carenza dialogica partito-movimenti?
«Il Pci non comprese appieno la portata del Sessantotto. Era finita la fase dell’Italia arretrata che doveva entrare nella modernità. Dentro a quella modernità erano esplose contraddizioni nuove nel lavoro, nell’alienazione, nell’ecologia, nelle questioni di genere. Il pregio dei movimenti è di avere antenne più alte dei partiti, spesso elefantiaci e immobili, per percepire le contraddizioni del proprio tempo. Il Pci considerava i movimenti tutt’al più portatori d’interessi e problemi settoriali, poi toccava al partito fare la sintesi. A noi non sfuggì l’importanza della dialettica con il movimento. Fu un’altra delle ragioni di differenziazione dal partito. I movimenti devono riuscire a mettere in discussione il quartier generale fino al limite di rifondarlo».
La sinistra è arrivata in ritardo sul tema Europa?
«Il Pci passò da un’opposizione d’assoluta chiusura, che aveva alcune buone ragioni, sulle modalità del processo di unificazione europea, all’europeismo acritico. Condivise la contrarietà a un’unione fondata sul liberismo e sulla dittatura del mercato con buona parte della sinistra continentale. Ricordo anche l’imbarazzo democristiano, pensando al pesante interventismo pubblico nella nostra economia. Leopoldo Elia, sorridendo, mi disse: «Non glielo diciamo all’Europa. Forse non se ne accorgono». Affermare che questa sia l’Europa sognata da Altiero Spinelli è una bugia. Basta rileggerlo o non scordarsi che nel 1957, a Roma, andò a volantinare per protesta nel luogo in cui venne firmato il Trattato CEE sotto l’egida di Ludwig Erhard, ministro dell’economia tedesco. Forse successivamente il suo errore fu quello di insistere un po’ troppo sugli aspetti istituzionali rispetto a quelli economico sociali».
In molte biografie e autobiografie di protagonisti del comunismo italiano, spesso intellettuali di estrazione borghese, ciò che viene rievocato con maggiore emozione, nel processo di formazione politica, è la scoperta del mondo andando a scuola dalla classe operaia.
«Questo forse è stato il tratto migliore del ’68, che in Italia è durato dieci anni. La considero un’esperienza formativa determinante. Fu la conoscenza di che cosa è la vita, della grande fabbrica operaia e la costruzione di un’idea di libertà basata nei rapporti sociali di produzione e non nel libertarismo. La conoscenza delle condizioni dei rapporti sociali di produzione, e dunque anche dell’umanità che da questi rapporti emerge, è stata un elemento fondante. Il Sessantotto viene dipinto come sesso droga e rock and roll, una rivolta antiautoritaria, una liberalizzazione dei costumi per l’affermazione della priorità dell’individuo sulle catene del noi imposte dalla chiesa e dai partiti. In realtà si provò a mettere radici che coniugassero la libertà con l’uguaglianza».
Pio La Torre, che borghese non era, fece quell’apprendistato sulla propria pelle dall’infanzia. Una vita ben spesa dalla parte degli sfruttati. Un leader naturale, forte e indipendente. Aggredì, con un’intensità inedita anche nel partito, al prezzo della vita l’intreccio promiscuo delle mafie. Che cosa le rimane della campagna pacifista che condivideste a Comiso?
«All’inizio ci fu una notevole timidezza da parte del Pci nell’assumere una posizione di contrasto netto. Nutrivano molta prudenza nei confronti del movimento, per poi compiere uno scatto con una larga partecipazione della Fgci. La Torre fu molto bravo, perché intuì la valenza di questa lotta e ne interpretò la causa. Dalla Sicilia arrivarono segnali forti e cominciammo a lavorare insieme. La Torre capì subito che dietro a quella vicenda si muoveva anche la mafia e un’ampia area grigia. La denuncia lo portò poi alla morte. Aveva una grande capacità nel mobilitare le persone. In Sicilia si raccolsero un milione di firme per la chiusura di Comiso. Il suo è stato un impegno trentennale senza mai rassegnarsi alla sconfitta».
Il vocabolo disarmo è ormai estraneo alla prassi politica.
«Uno dei più attivi nella protesta a Comiso fu l’attuale ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Lavorò al mio fianco nel giornale, che diressi insieme a Rodotà e Napoleoni, Pace e guerra. Era responsabile proprio della sezione degli esteri. Ha scritto anche un libro su quell’esperienza. Ma, insomma, i tempi cambiano».
Una peculiarità del Pdup fu una certa sensibilità per la questione ecologica allora fuori dall’agenda. Rimpiangevate il mondo rurale?
«È stato uno dei contributi al dibattito nazionale. Lotta continua ci prese in giro con un titolo d’apertura: «Come era verde la vostra vallata» con la firma di Guido Viale, che oggi riscopro alfiere ecologista. Non era una romantica nostalgia della società pastorale. Sul nucleare la battaglia è stata furibonda anche all’interno del Pci. I nodi di allora nella critica alla cultura industrialistica non sono stati risolti».
Il dossier Ilva è di attualità stringente. Il Pci, nella figura di Napolitano, ebbe un ruolo preminente nella nascita a Taranto di un modernissimo, per l’epoca, stabilimento siderurgico.
«La questione è complessa, ben raccontata dal recente film La zuppa del diavolo di Davide Ferrario. C’era il problema della modernizzazione dell’Italia, di cui come mostrano i materiali visuali d’archivio la classe operaia era fiera. Contemporaneamente il regista pone la critica, il deflagrare delle contraddizioni, con i testi di Volponi, Ottieri e Pasolini. Sono uscita dal cinema commossa. Quegli operai che escono in tuta, apparentemente felici, da una fabbrica che poi è l’Ilva con tutti i disastri che conosciamo».
Al riconoscimento della lungimiranza della questione morale, posta da Berlinguer, viene sovente accompagnata la tesi esplicitata in primis da Napolitano. In sintesi, quelle parole, affidate a Scalfari, in realtà celavano la tendenza del Pci a chiudersi nella sua «purezza», una sorta di rinuncia a fare politica, non riconoscendo più alcun interlocutore valido, e a rivolgersi al paese intero. Concorda?
«È curioso associare il concetto di rifiuto a un partito che registrava due milioni di iscritti. Piuttosto bisognerebbe rammentare chi rifiutava cosa. All’inizio c’è stata una voluta mistificazione di quel discorso. Diversità voleva dire che per pretendere di essere soggetto politico era necessario un di più di onestà, d’impegno, di dedizione e disinteresse: tutte qualità fondanti della politica. Il senso del discorso è stato stravolto, perché la sintonia che il Pci ha avuto con larga parte della società, anche in quella fase, non si è mai più ricreata per nessuno partito politico. La questione morale costituiva una critica per nulla moralista, come invece è stata immediatamente bollata, al sistema dei partiti. Il discorso sull’austerità fu scambiato per una cosa bigotta, contro la gioia del consumare, mentre invece anche lì era l’inizio di una riflessione critica sul modello di sviluppo. Su questi temi noi del Pdup ci ritrovammo nel Pci. Abbiamo avuto un rapporto difficile con Berlinguer. Sempre molto civile ma era lui il segretario quando fummo radiati. Alla fine c’è stato un grande rincontro».
Eric Hobsbawn, dopo aver seguito un intervento di Berlinguer durante una Festa dell’Unità, definì stupefacente il rapporto pedagogico di massa che il segretario riusciva a stabilire.
«Nei discorsi di Togliatti e Berlinguer è difficile rinvenire tracce di demagogia. Togliatti parlava come un professore di liceo. Non c’era mai un tono di troppo. Ricordo, in riferimento a Berlinguer, la frase pronunciata da una signora qualunque seduta vicino a me: «Parla così “male” che deve essere sicuramente sincero». La trovai e la trovo una frase bellissima, che esprimeva una grande verità. È una storia singolare il fascino che emanavano in un partito così grande e socialmente composito. I due si rivolgevano al popolo come se stessero in un’aula di liceo anziché in piazza. Pensiamo ai funerali di Berlinguer, c’era il mondo intero».
La Repubblica, 4 febbraio 2015
A porte chiuse, di fronte agli investitori della City, Varoufakis l’altro giorno è stato persino più abrasivo del solito. Il ministro dell’Economia greco ha rispolverato le formule che hanno fatto di lui un blogger di successo. La banca centrale europea si sta comportando come uno hedge fund - ha detto - . Hanno approfittato di noi. Se vogliono possono spararci addosso, ma sarebbe un omicidio».
Lo stile del ministro può non aver conquistato i gessati grigi di Londra, ma le sue frecce sono scagliate con precisione chirurgica. Varoufakis centra in pieno una delle troppe ipocrisie che rendono la Grecia un rebus quasi insolubile e rischiano di farne una fonte di contagio politico in Europa, tanto quanto lo fu di contagio finanziario cinque anni fa.
L’ipocrisia attorno alla Bce si snoda così. Nel 2010 e 2011, la banca centrale ha comprato titoli greci per 27,7 miliardi di euro e solo quest’estate Atene dovrà rimborsarne sei (oltre a circa 8 al Fondo monetario internazionale). A quel punto l’Eurotower, grazie ad Atene, realizzerà una plusvalenza degna dei migliori speculatori perché nel 2010 e 2011 aveva comprato quella «spazzatura» con rendimenti a doppia cifra. A differenza degli hedge fund però la Bce non accetta rischi di perdite benché il rendimento dei titoli sia astronomico, e pretende di essere ripagata fino in fondo. Si realizza così un trasferimento di risorse dai contribuenti greci a Francoforte. In teoria quei guadagni dovrebbero essere di nuovo stornati alla Grecia, ma accadrà solo a condizione che il nuovo governo di Atene accetti i termini di un programma sotto il controllo dell’area euro.
Non è l’unica doppia verità di questa vicenda, ovviamente. È fin troppo facile il gioco di scoprirne in ciascuno dei protagonisti. Barack Obama per esempio accusa gli europei di voler “strizzare” la Grecia, ma gli Stati Uniti non hanno mai usato il loro potere di veto nel Fmi - di cui sono primi azionisti - per allentare le richieste del Fondo e della troika verso Atene; e anche per Obama è inconcepibile un’estensione delle scadenze sui crediti del Fmi alla Grecia, perché in gioco c’è anche la quota versata dalla sua amministrazione. Quanto a Angela Merkel, non ha mai spiegato ai suoi elettori che i pacchetti di denaro degli europei sono serviti anche a far uscire indenni le banche tedesche esposte in Grecia fino a 45 miliardi di dollari; senza quei salvataggi, i tedeschi probabilmente avrebbero dovuto pagare ancora di più per ricapitalizzare gli istituti in rovina del loro stesso Paese.
Neanche Alexis Tsipras, il nuovo premier ellenico, è esente da una buona dose di ambivalenza. Non ha mai riconosciuto che il deficit greco, falsificato per anni, aveva superato il 15% del prodotto lordo. Non ha restituito la scorta né ha mai speso una parola per Andreas Georgiou, l’attuale presidente dell’istituto statistico greco, che da tempo è bersaglio di minacce anonime ed è formalmente imputato per alto tradimento alla nazione dopo aver osato svelare le frodi nel bilancio dello Stato.
È quando la verità inizia ad avere questi doppi e tripli fondi - secondo convenienza - che capisci che questa non è più una questione di tecnica finanziaria. È una partita politica giocata contro il tempo, con scadenza in estate, nella quale tutti hanno moltissimo da perdere se finirà senza accordo. Una Grecia spinta fuori dall’euro da un caotico default sarebbe uno Stato-paria, capace di perdere il 10% del Pil in un solo anno. L’Italia, la Spagna e la Francia dovrebbero pagare tassi d’interessi molto più alti, non appena per i mercati l’uscita dall’euro diventasse un’opzione credibile. E Angela Merkel si lascebbe alle spalle un’eredità di discredito. A quel punto il contagio delle forze anti-sistema in Europa diventerebbe inarrestabile.
Basta questo per capire che tutti alla fine faranno il massimo per mettere da parte le ipocrisie e trovare un compromesso. Tecnicamente non è impossibile. La Bce può essere indennizzata dal fondo salvataggi europeo Esm. Il rimborso del debito di Atene verso gli Stati europei può essere parametrato alla crescita della Grecia, come qualcuno da tempo propone persino da Berlino. Tsipras può impegnarsi su un serio programma basato su una giusta misura di rigore di bilancio, sulla lotta alla corruzione e all’evasione e sull’idea (inedita ad Atene) che anche i ricchi pagano per il risanamento. E l’area euro può favorire e garantire ciò che finora non ha dimenticato di fare: un piano di ricostruzione economica e di investimenti esteri in un Paese che ha fallito la transizione verso la modernità.
Per arrivarci tutti i leader dovranno accettare costi politici. Deve farlo Tsipras, che ha già promesso troppo ed è partito sotto il segno dell’intransigenza. Ma devono muovere un passo indietro anche Merkel e il governo di Madrid, dove si teme che un successo di questa Grecia in Europa rimetta in discussione chi in Spagna ha accettato enormi sacrifici e ora è tornato a crescere a un ritmo di oltre il 2% all’anno.
In mezzo a questi campi di forza si trova da ieri Matteo Renzi, e ha capito che a lui spetta uno spazio intermedio. Non vuole allinearsi del tutto con Merkel. Ma non deve diventare l’avvocato di Tsipras in Europa, perché presto molti sospetterebbero (a torto) che l’Italia è come la Grecia. Rischia ancora di finire male per tutti. Ma in caso contrario, per una volta, il contagio partito da Atene può aprire la strada a un equilibrio più stabile in Europa.
Si attende dal Presidente qualche gesto che dimostri che la lettera e lo spirito della Costituzione esige che si rispetti quel suo articolo secondo il quale "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli". Il manifesto, 4 febbraio 2015
Nell’asciutto e preciso intervento rivolto dal Parlamento agli italiani, una affermazione è apparsa subito chiara risuonando come un monito: la garanzia più forte della nostra Costituzione consiste nella sua applicazione, «nel viverla ogni giorno». E garantire la Costituzione, significa tra l’altro «ripudiare la guerra e promuovere la pace»: eccolo l’articolo 11 nel suo primo enunciato. Dichiarazione che, nello stile di chi dichiara di essere attento al quotidiano, alle difficoltà reali dei «concittadini», è sembrato tutt’altro che retorica. Soprattutto rivendicata nella sede istituzionale più alta, dopo tanti silenzi e ipocrisie.
Ma nel seguito delle sue parole e nell’accoglienza tra i parlamentari, molte ambiguità sulla questione della guerra rimangono. Sia nell’affermazione: «…A livello internazionale la meritoria e indispensabile azione di mantenimento della pace, che vede impegnati i nostri militari in tante missioni, deve consolidarsi con un’azione di ricostruzione politica, sociale e culturale senza la quale ogni sforzo è destinato a vanificarsi». Sia nel ringraziamento «…alle forze armate, sempre più strumento di pace ed elemento essensiale della nostra politica estera e di sicurezza…». In quale crisi — nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan o in Libia -, l’uso della forza e della guerra «umanitaria» con la presenza interventista dei nostri soldati ha aiutato a risolvere quei conflitti e non ha invece incancrenito la situazione, anche con la co-responsabilità in stragi con tante, troppe vittime civili e fughe di milioni di disperati?
Perché tutto, nel discorso del Presidente Mattarella — sia quello in Parlamento che dopo la visita alle Fosse ardeatine -, viene inscritto comunque nella necessità di rispondere al «terrorismo internazionale» e ai «predicatori di odio» che insidiano la nostra sicurezza e i nostri valori. Senza interrogarsi mai se l’uso della forza militare, vale a dire della guerra, abbia fin qui aiutato a fermare il terrorismo e non piuttosto a seminare maggiore odio. Non è forse l’uso della guerra a pregiudicare la pace e perfino gli sforzi di pace degli organismi internazionali? Visto il modo in cui è stata presa la decisione di partecipare a molti conflitti, contro e oltre la volontà dell’Onu. E ancora, come si rifiuta la guerra se le Forze armate vengono promosse al rango di «elemento essenziale della politica estera» che invece dovrebbe essere propria della diplomazia, di fatto inesistente in Italia e nell’Unione europea? Se dopo l’89 e la Guerra fredda, si è aperta ricorda Mattarella, una stagione nuova in Europa, che ci stanno a fare 100 piloti italiani di cacciabombardieri nei Paesi baltici al seguito della strategia di allargamento a est della Nato, pericolosamente al confine della Russia? Davvero questo aiuterà la conclusione della crisi ucraina o al contrario l’approfondirà verso un confronto pre-’89?
E tutto questo quanto ci costa, visti i magri bilanci tagliati per via della crisi? Perché, se proprio non vogliamo ripetere la frase a noi cara del Presidente Sandro Pertini, «Si aprano i granai si chiudano gli arsenali di armi», almeno osserviamo che dai dati ufficiali di Nato e Sipri, l’attuale spesa militare dell’Italia si aggira tra 50 e 70 milioni di euro al giorno. Al giorno. Senza dimenticare che gli F-35 dal costo miliardario, sono strumento d’offesa non di difesa.
Eppure l’articolo 11 della Costituzione italiana rifiuta la guerra proprio «come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali». Senza malinterpretare il secondo comma dell’articolo (che mette a disposizione risorse per soddisfare le richieste degli organismi internazionali come l’Onu), come fosse un’autorizzazione a fare la guerra, magari aggettivata con «umanitaria». Ma come può la seconda parte di un articolato costituzionale fondativo contraddire e negare la prima parte? Altrimenti, che costituzione sarebbe. Pensate se l’ articolo 1 che fonda l’Italia sul lavoro, dichiarasse nella sua seconda riga invece fondativa la disoccupazione. La guerra è esplicitamente «rifiutata». Purtroppo di questo rifiuto si è fatto uso e abuso, e vale la pena ricordare che l’avvio della fine della leva militare promosso dal ministro della difesa Mattarella, non ha decretato la fine della partecipazione italiana alle guerre ma il contrario: a partire dal 1999, quando Mattarella era vice-premier, è cominciata una nuova stagione della Nato che, con la guerra di raid aerei sulla ex Jugoslavia, si è trasformata da patto di difesa in trattato offensivo, pronto all’intervento militare. Quel conflitto è diventato il modello di altre avventure belliche come in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria» e via dicendo.
Così, alla fine davvero è suonata appropriata la standing ovation di tutto il Parlamento appena Mattarella ha nominato i «due marò». Certo, concordiamo anche noi che due anni e mezzo di detenzione senza processo sono insopportabili, in India e sotto ogni giurisdizione. Ma come dimenticare che questa drammatica vicenda è nella scia della scellerata decisione bipartisan del Parlamento che ha autorizzato i militari dello Stato italiano a fare da scorta a navigli privati in difesa dei «pirati»; così indiscriminata e poco mirata che abbiamo sparato, uccidendo due dimenticati pescatori indiani, in un’area, le coste del Kerala, dove la pirateria non c’è. Soprattutto Mattarella ha fatto bene a ringraziare i tanti militari morti nell’adempimento del loro dovere. Quei tanti marò di cui nessuno parla, malati terminali o morti per l’uranio impoverito.
Ora se la presidenza Mattarella «promuoverà la pace», sarà anche il Presidente dei pacifisti. E ci aiuterà a tirare fuori lo scheletro della guerra dall’armadio delle democrazie occidentali
L'errore di fondo dell'attuale pensiero dominante (e azione governativa) sulla scuola, alla luce di due giganti del pensiero rivoluzionario del XX secolo.
Comune.info, newsletter, 3 gennaio 2015
Negli anni Sessanta uno degli studenti della scuola di Barbiana venne bocciato all’esame presso la scuola statale. Don Lorenzo Milani ne ragionò con i ragazzi della sua scuola, e ne venne fuori quel durissimo atto d’accusa contro la scuola pubblica italiana che è la Lettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto contadini e montanari, gli studenti di Barbiana sarebbero stati considerati studenti con bisogni educativi speciali (la direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali del 27 dicembre 2012 ricomprende in questa categoria anche lo svantaggio «socio-economico, linguistico, culturale»); si sarebbe fatto per loro un piano educativo personalizzato, e con ogni probabilità sarebbero stati promossi.
Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fare. Perché il centro del discorso della Lettera non è, come molti che l’hanno letta distrattamente o che non l´hanno letta affatto credono, la richiesta di non bocciare. C’è anche questo, nel libro; ma c´è soprattutto la denuncia del carattere esclusivamente ‒ nel senso etimologico: che esclude ‒borghese della cultura scolastica. La scuola è quel posto in cui il ragazzino figlio di contadini, abituato a salire sugli alberi, deve saper giocare a basket. La capacità di salire sugli alberi non conta nulla, non è una cosa borghese e non ha dunque nulla a che fare con la scuola. Il gioco della scuola è truccato: è un campo sul quale giocano borghesi e proletari, ma le regole sono quelle decise dai borghesi. E i proletari, inevitabilmente, perdono. Non perché siano meno capaci, non perché siano idioti: semplicemente perché la cultura scolastica non è la loro cultura.
Voleva, don Milani, che la scuola non fosse più espressione della sola classe borghese, che si aprisse ad accogliere le culture altre, che comprendesse il mondo dei contadini e degli operai non meno del mondo borghese. Voleva una scuola in cui si studiasse il contratto dei metalmeccanici, e non solo i classici della letteratura.
Ed ecco invece cosa succede. Chiunque provenga da una cultura non borghese viene dichiarato svantaggiato. «Svantaggio socio-culturale» è il nome che si dà ora qualsiasi modo di essere che non rientri nei canoni borghesi, così come comportarsi in modo non conforme alle aspettative della scuola borghese significa essere non scolarizzati (espressione atroce tristemente diffusa nel linguaggio dei docenti).
Invece di fare una scuola diversa, che dia voce anche a chi non è borghese, consideriamo chi non è borghese come un poveraccio di cui avere compassione, uno che senza avere colpa si trova indietro, e nei cui confronti bisogna essere comprensivi. Se don Milani era esigentissimo con i suoi ragazzi, non risparmiando loro nemmeno la frusta, ora agli svantaggiati si dà una scuola diluita, meno impegnativa, più facilmente digeribile. Ricorrere all’etichettamento – un etichettamento che avrà naturalmente conseguenze non lievi – è molto più semplice ed economico che ripensare a fondo la scuola.
Accade, insomma, quello che per Antonio Gramsci bisognava evitare. Nei Quaderni del carcere il filosofo prevedeva la situazione che si sarebbe creata con la nascita della scuola di massa: il figlio dell’operaio, non abituato al lavoro intellettuale, va a scuola e trova molte più difficoltà del ragazzino di una famiglia con tradizione intellettuale.
Ecco perché ‒ scriveva ‒ molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuoi dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. (Gramsci 1975, 1549-1550)
Il trucco in effetti c’era e c’è, e non è soltanto nel fatto che chi viene da una famiglia di operai e contadini non è avvezzo a certe fatiche. L’esperienza di Barbiana dimostra che dei figli di contadini possono sobbarcarsi un lavoro intellettuale anche molto consistente, se si tratta di un lavoro che ha contatti reali con la loro vita e la loro cultura. La disaffezione per la scuola nasce da altro. I figli dei contadini provano disaffezione per una scuola in cui si impara a vergognarsi dell’essere contadini; l’alternativa è che amino la scuola e si vergognino delle loro origini.
La scuola attuale si pretende multiculturale, anzi interculturale. I documenti che la riguardano sostengono che le differenze culturali di cui i sempre più numerosi studenti stranieri sono portatori devono essere valorizzate nel modo migliore, e ciò può accadere solo se la cultura dominante, quella che ospita, entra in dialogo con esse, in un fecondo rapporto di scambio reciproco.
Chiacchiere. Quella che abbiamo è, invece, una scuola penosamente monoculturale. Il crocifisso alle pareti, difeso con un fanatismo degno di miglior causa, esprime la chiusura sostanziale dell’istituzione a qualsiasi identità religiosa che non sia quella cattolica. La storia, la filosofia, la poesia, l’arte che si studiano sono quelle occidentali. La cultura manuale ed il lavoro, di cui i più grandi pedagogisti hanno affermato l’insostituibile valore educativo, sono banditi dalla scuola. L’ideale umano che la scuola impone oscilla tra l’intellettuale borghese, l’impiegato statale e l’uomo d’affari. Buona parte del compito sociale della scuola consiste nel giustificare le attribuzioni di status e la distribuzione dello stigma sociale. Grazie alla scuola, chiunque aderisca alla cultura borghese, ai suoi valori, al suo stile di vita (che, ricordava Illich, è anche uno stile di consumo) ha uno status sociale elevato; chi lo contesta, in modo più o meno consapevole, è colpito dallo stigma sociale. Grazie alla scuola, la mano che tiene la penna è più socialmente apprezzata e riconosciuta della mano che tiene la zappa.
Il compianto Gianfranco Zavalloni, preside-contadino, raccontava la sua esperienza come presidente di commissione all’esame di licenza media (Zavalloni 2012). Agli orali gli annunciarono che lo studente che stavano per esaminare era il peggiore della scuola. Si trattava di un ragazzone di campagna, che lavorava le terre insieme a suo nonno. Zavalloni lo interrogò di persona: non sul programma scolastico, ma sui dettagli del suo lavoro, sul passaggio dei prodotti dalla terra al mercato, fino alla vendita. Lo studente si espresse con proprietà di linguaggio, mostrando il possesso di conoscenza multidisciplinari connesse al suo lavoro. Fece, insomma,un buon esame; e «i professori commentarono il tutto dicendo “ma noi in tre anni non l’abbiamo mai sentito parlare così bene e con tale competenza” e poi “non sapevamo nulla di tutto questo”». Con i bisogni educativi speciali i professori potranno continuare a «non sapere nulla di tutto questo» ‒ dei mondi culturali che sono oltre il raggio della cultura scolastica ‒, illudendosi per giunta di essere inclusivi.
Il manifesto, 3 febbraio
Però Renzi si è commosso quando ha parlato del rientro degli operai nell’Ast di Terni.
All’Ast di Terni i lavoratori hanno scioperato ad oltranza perché avevano rifiutato e bocciato una proposta di mediazione avanzata dal governo. A Terni l’accordo è stato fatto grazie alla lotta dei lavoratori. Eviti di mettere il marchio del governo su cose che non sono state il frutto suo lavoro.
Ma il jobs act è stato approvato e i sui decreti il parlamento ha un ruolo marginale. Che farete?
Il 27 e il 28 febbraio faremo l’assemblea nazionale dei delegati Fiom. Ci muoveremo sia sul piano giuridico che sui contratti. Con il jobs act si conferma un apartheid dei giovani assunti: ci batteremo perché dopo un certo tempo siano garantiti gli stessi tutele delli altri. Nei contratti aziendali e in quelli nazionali. Sul piano legale valuteremo tutto quello che c’è da fare. Non escludiamo nulla. Apriremo una consultazione straordinaria delle lavoratrici e dei lavoratori metalmeccanici. Non escludiamo nemmeno un referendum. E visto che sono temi che non riguardano solo i metalmeccanici ma anche i precari, chi il lavoro non ce l’ha e chi si batte per la giustizia sociale, cercheremo di coinvolgere tutte le persone e le associazioni che non condividono le scelte del governo.
È la nascita di un luogo per aggregare la sinistra sociale?
La sinistra o è sociale o non è, ed infatti è sotto gli occhi di tutti la crisi della sinistra. Ma quando penso a una consultazione aperta vado oltre la sinistra classicamente intesa. C’è un governo che decide senza tener conto del parere delle persone, dei sindacati, delle associazioni. Oggi il primato della politica che ammazza qualsiasi rappresentanza sociale. È utile che si costruisca una rete di rappresentanza sociale che a partire dal lavoro, dai beni comuni, da un nuovo modello di sviluppo, dalla lotta contro le mafie, che esprima un altro punto di vista. Lo dico da un punto di vista sindacale, ma anche di chi pensa che la democrazia che non riconosce la partecipazione non è democrazia ma comando.
Farete nascere una rete sociale, non solo sindacale?
Io faccio il sindacalista. Ma un paese ormai la maggioranza non va a votare dovrebbe essere un segnale preoccupante per tutti.
La ’sinistra-sinistra’ la settimana scorsa, a Milano, ha lanciato un coordinamento. La sua proposta ha a che vedere con questo?
Ho rispetto per quello che avviene nel mondo politico, e se ci sono processi di riaggregazione li guardo con rispetto. La mia idea non è alternativa, ma è un’altra cosa. Siamo arrivati al terzo governo che non risponde a programmi che i cittadini hanno conosciuto e votato. C’è un parlamento che, nella sua maggioranza, ha cancellato lo statuto dei lavoratori, che poi era l’applicazione della Costituzione, e del diritto di cittadinanza. Per questo dico che i valori del lavoro e della Costituzione non sono rappresentati: è più rappresentata la Confindustria e l’idea liberista e dell’austerità che imperversa in Europa e che ha creato 25 milioni di disoccupati e messo a rischio la tenuta democratica. Il governo Renzi ha applicato alla lettera della Bce, come già prima Monti e Letta. Rispetto i partiti, ma noi — Fiom e Cgil e il mondo che si è mosso con noi in questi mesi — dobbiamo dare una rappresentanza a un mondo che oggi non è rappresentato.
Ha apprezzato la scelta del nuovo presidente Mattarella?
Se fossi stato in parlamento l’avrei votato. È un riferimento importante sul piano etico, in un paese così sfiduciato. È utile che al suo posto ì sieda chi ha a cuore la piena applicazione dei principi costituzionali.
La sinistra Pd spera che ora cambi qualcosa in parlamento.
Sono cose diverse. Non mi pare che il governo voglia ripristinare l’art.18 o cancellare il jobs act, o modificare la legge elettorale.
La sinistra Pd continuerà a contare poco?
Fin qui in parlamento non sono passate cose di sinistra. E questi provvedimenti, alla fine, in buona parte li hanno votati.
Siedono in parlamento molti ex sindacalisti Cgil, e molti hanno votato il jobs act.
Di fronte a queste cose non ho parole. Ognuno risponderà alla sua coscienza.
Non le chiedo se lei è lo Tsipras italiano. Ma Renzi incontra Tsipras. Che dovrebbe dirgli?
Quella di Tsipras è una novità: per la prima volta in libere elezioni un popolo elegge chi chiede di cambiare i vincoli europei. La Fiom ha fatto proposte su come rimuovere il debito. Dobbiamo andare verso una forma di mutualizzazione, come hanno fatto gli Usa. La Bce dovrebbe fare un’operazione più impegnativa per liberare risorse da destinare agli investimenti. Nessuno chiede che qualcun altro paghi il suo debito. Ma, faccio un esempio, se uno paga un mutuo in più anni e gli interessi li investe per rilanciare la domanda, e se la Bce si riformasse per garantire questo, sarebbe un’altra storia. L’Italia deve battersi perché in Europa si apra questa discussione. Iniziando con il togliere il pareggio di bilancio in Costituzione.
Tsipras non riconosce la Troika come interlocutore. Bene?
Tsipras è stato eletto dai greci. La Troika no.
Lei è stato solidale con Sergio Cofferati che ha lasciato il Pd. Non da Tsipras italiano, ma da osservatore speciale delle cose italiane, crede davvero che la sinistra possa riaggregarsi?
Ho un grande rispetto per Sergio, per quello che ha fatto dalla Cgil in avanti. E quando uno come lui decide di lasciare il suo partito per ragioni etiche è un fatto grave. Non è un suo poblema personale. Quando ho detto che l’etica è un problema in questo paese dal Pd mi è stato risposto male, ma chi mi ha risposto così, il presidente del Pd (Matteo Orfini, ndr) oggi è commissario della federazione di Roma del Pd: evidente qualche problema di onestà c’è. Non so cosa avverrà a sinistra. Ma siccome la maggioranza del paese deve lavorare per vivere, parlo di lavoratori ma anche degli imprenditori seri, queste persone hanno diritto di sentirsi rappresentate e di partecipare.
Pensa a un partito del lavoro?
No, io penso fare il sindacalista. Ma certo le forme tradizionali della politica sono in crisi. C’è bisogno di pensare a forme nuove di partecipazione. Ma questo riguarda anche noi: c’è bisogno di una riforma radicale anche del movimento sindacale, Fiom e Cgil.
Camusso, la segretaria Cgil, è stata ’grande elettrice’ di Bersani. Guardando al passato, può non aver giovato al sindacato?
I sindacalisti sono persone e hanno diritto a essere iscritti a un partito e a fare politica se vogliono. In generale uno dei problemi di questi anni è stata la scarsa autonomia del sindacato, a volte l’abbiamo pagata. Ma in questa ultima fase abbiamo recuperato la nostra autonomia, e si vede dal successo delle manifestazioni. Ripeto, c’è bisogno di una riforma democratica anche del sindacato.
Questo vuol dire che non la si vedrà più alle iniziative dei partiti?
Vado dove mi invitano, destra centro e sinistra. Da sempre. Non ho tessere di partito e non dichiaro chi voto, ma è una mia scelta, rispetto chi ne fa altre. Finché sono segretario della Fiom rispondo gli iscritti, e nessuno di loro deve sospettare che uso il ruolo che ho per fini diversi dal fare il segretario generale della Fiom
Il Fatto quotidiano online, 3 febbraio 2015
Un pensiero deferente ai miei predecessori, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, che hanno svolto la loro funzione con impegno e dedizione esemplari. A loro va l’affettuosa riconoscenza degli italiani. Al Presidente Napolitano che, in un momento difficile, ha accettato l’onere di un secondo mandato, un ringraziamento particolarmente intenso. Rendo omaggio alla Corte Costituzionale organo di alta garanzia a tutela della nostra Carta fondamentale, al Consiglio Superiore della magistratura presidio dell’indipendenza e a tutte le magistrature.
Avverto pienamente la responsabilità del compito che mi è stato affidato. La responsabilità di rappresentare l’unità nazionale innanzitutto. L’unità che lega indissolubilmente i nostri territori, dal Nord al Mezzogiorno. Ma anche l’unità costituita dall’insieme delle attese e delle aspirazioni dei nostri concittadini. Questa unità, rischia di essere difficile, fragile, lontana.
L’impegno di tutti deve essere rivolto a superare le difficoltà degli italiani e a realizzare le loro speranze. La lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del suo sistema produttivo. Ha aumentato le ingiustizie. Ha generato nuove povertà. Ha prodotto emarginazione e solitudine. Le angosce si annidano in tante famiglie per le difficoltà che sottraggono il futuro alle ragazze e ai ragazzi. Il lavoro che manca per tanti giovani, specialmente nel Mezzogiorno, la perdita di occupazione, l’esclusione, le difficoltà che si incontrano nel garantire diritti e servizi sociali fondamentali.
Sono questi i punti dell’agenda esigente su cui sarà misurata la vicinanza delle istituzioni al popolo. Dobbiamo saper scongiurare il rischio che la crisi economica intacchi il rispetto di principi e valori su cui si fonda il patto sociale sancito dalla Costituzione. Per uscire dalla crisi, che ha fiaccato in modo grave l’economia nazionale e quella europea, va alimentata l’inversione del ciclo economico, da lungo tempo attesa. E’ indispensabile che al consolidamento finanziario si accompagni una robusta iniziativa di crescita, da articolare innanzitutto a livello europeo. Nel corso del semestre di Presidenza dell’Unione Europea appena conclusosi, il Governo – cui rivolgo un saluto e un augurio di buon lavoro – ha opportunamente perseguito questa strategia.
Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza. L’urgenza di riforme istituzionali, economiche e sociali deriva dal dovere di dare risposte efficaci alla nostra comunità, risposte adeguate alle sfide che abbiamo di fronte.
Esistono nel nostro Paese energie che attendono soltanto di trovare modo di esprimersi compiutamente. Penso ai giovani che coltivano i propri talenti e che vorrebbero vedere riconosciuto il merito. Penso alle imprese, piccole medie e grandi che, tra rilevanti difficoltà, trovano il coraggio di continuare a innovare e a competere sui mercati internazionali. Penso alla Pubblica Amministrazione che possiede competenze di valore ma che deve declinare i principi costituzionali, adeguandosi alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e alle sensibilità dei cittadini, che chiedono partecipazione, trasparenza, semplicità degli adempimenti, coerenza nelle decisioni.
Non servono generiche esortazioni a guardare al futuro ma piuttosto la tenace mobilitazione di tutte le risorse della società italiana. Parlare di unità nazionale significa, allora, ridare al Paese un orizzonte di speranza. Perché questa speranza non rimanga un’evocazione astratta, occorre ricostruire quei legami che tengono insieme la società. A questa azione sono chiamate tutte le forze vive delle nostre comunità in Patria come all’estero.
Ai connazionali nel mondo va il mio saluto affettuoso. Un pensiero di amicizia rivolgo alle numerose comunità straniere presenti nel nostro Paese. La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica. La crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione, mentre dalla società emergono, con forza, nuove modalità di espressione che hanno già prodotto risultati avvertibili nella politica e nei suoi soggetti.
Questo stesso Parlamento presenta elementi di novità e di cambiamento. La più alta percentuale di donne e tanti giovani parlamentari. Un risultato prezioso che troppe volte la politica stessa finisce per oscurare dietro polemiche e conflitti. I giovani parlamentari portano in queste aule le speranze e le attese dei propri coetanei. Rappresentano anche, con la capacità di critica, e persino di indignazione, la voglia di cambiare. A loro, in particolare, chiedo di dare un contributo positivo al nostro essere davvero comunità nazionale, non dimenticando mai l’essenza del mandato parlamentare.
L’idea, cioè, che in queste aule non si è espressione di un segmento della società o di interessi particolari, ma si è rappresentanti dell’intero popolo italiano e, tutti insieme, al servizio del Paese. Tutti sono chiamati ad assumere per intero questa responsabilità. Condizione primaria per riaccostare gli italiani alle istituzioni è intendere la politica come servizio al bene comune, patrimonio di ognuno e di tutti. E’ necessario ricollegare a esse quei tanti nostri concittadini che le avvertono lontane ed estranee.
La democrazia non è una conquista definitiva ma va inverata continuamente, individuando le formule più adeguate al mutamento dei tempi. E’ significativo che il mio giuramento sia avvenuto mentre sta per completarsi il percorso di un’ampia e incisiva riforma della seconda parte della Costituzione. Senza entrare nel merito delle singole soluzioni, che competono al Parlamento, nella sua sovranità, desidero esprimere l’auspicio che questo percorso sia portato a compimento con l’obiettivo di rendere più adeguata la nostra democrazia. Riformare la Costituzione per rafforzare il processo democratico.
Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l’esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare.
Come è stato più volte sollecitato dal Presidente Napolitano, un’altra priorità è costituita dall’approvazione di una nuova legge elettorale, tema sul quale è impegnato il Parlamento.
Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione. E’ una immagine efficace.All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza.
Il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione. La garanzia più forte della nostra Costituzione consiste, peraltro, nella sua applicazione. Nel viverla giorno per giorno. Garantire la Costituzione significa garantire il diritto allo studio dei nostri ragazzi in una scuola moderna in ambienti sicuri, garantire il loro diritto al futuro.
Significa riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro. Significa promuovere la cultura diffusa e la ricerca di eccellenza, anche utilizzando le nuove tecnologie e superando il divario digitale. Significa amare i nostri tesori ambientali e artistici. Significa ripudiare la guerra e promuovere la pace. Significa garantire i diritti dei malati. Significa che ciascuno concorra, con lealtà, alle spese della comunità nazionale. Significa che si possa ottenere giustizia in tempi rapidi. Significa fare in modo che le donne non debbano avere paura di violenze e discriminazioni.
Significa rimuovere ogni barriera che limiti i diritti delle persone con disabilità. Significa sostenere la famiglia, risorsa della società. Significa garantire l’autonomia ed il pluralismo dell’informazione, presidio di democrazia. Significa ricordare la Resistenza e il sacrificio di tanti che settanta anni fa liberarono l’Italia dal nazifascismo.
Significa libertà. Libertà come pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale come in quella economica, nella sfera personale e affettiva. Garantire la Costituzione significa affermare e diffondere un senso forte della legalità. La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute.
La corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile. Divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini. Impedisce la corretta esplicazione delle regole del mercato. Favorisce le consorterie e penalizza gli onesti e i capaci. L’attuale Pontefice, Francesco, che ringrazio per il messaggio di auguri che ha voluto inviarmi, ha usato parole severe contro i corrotti: «Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini».
E’ allarmante la diffusione delle mafie, antiche e nuove, anche in aree geografiche storicamente immuni. Un cancro pervasivo, che distrugge speranze, impone gioghi e sopraffazioni, calpesta diritti. Dobbiamo incoraggiare l’azione determinata della magistratura e delle forze dell’ordine che, spesso a rischio della vita, si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie abbiamo avuto molti eroi. Penso tra gli altri a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste, competenti, tenaci. E una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere.
Altri rischi minacciano la nostra convivenza. Il terrorismo internazionale ha lanciato la sua sfida sanguinosa, seminando lutti e tragedie in ogni parte del mondo e facendo vittime innocenti. Siamo inorriditi dalle barbare decapitazioni di ostaggi, dalle guerre e dagli eccidi in Medio Oriente e in Africa, fino ai tragici fatti di Parigi.
Il nostro Paese ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell’odio e dell’intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell’ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano.
La pratica della violenza in nome della religione sembrava un capitolo da tempo chiuso dalla storia. Va condannato e combattuto chi strumentalizza a fini di dominio il proprio credo, violando il diritto fondamentale alla libertà religiosa. Considerare la sfida terribile del terrorismo fondamentalista nell’ottica dello scontro tra religioni o tra civiltà sarebbe un grave errore.
La minaccia è molto più profonda e più vasta. L’attacco è ai fondamenti di libertà, di democrazia, di tolleranza e di convivenza. Per minacce globali servono risposte globali. Un fenomeno così grave non si può combattere rinchiudendosi nel fortino degli Stati nazionali. I predicatori d’odio e coloro che reclutano assassini utilizzano internet e i mezzi di comunicazione più sofisticati, che sfuggono, per la loro stessa natura, a una dimensione territoriale.
La comunità internazionale deve mettere in campo tutte le sue risorse. Nel salutare il Corpo Diplomatico accreditato presso la Repubblica, esprimo un auspicio di intensa collaborazione anche in questa direzione. La lotta al terrorismo va condotta con fermezza, intelligenza, capacità di discernimento. Una lotta impegnativa che non può prescindere dalla sicurezza: lo Stato deve assicurare il diritto dei cittadini a una vita serena e libera dalla paura.
Il sentimento della speranza ha caratterizzato l’Europa nel dopoguerra e alla caduta del muro di Berlino. Speranza di libertà e di ripresa dopo la guerra, speranza di affermazione di valori di democrazia dopo il 1989. Nella nuova Europa l’Italia ha trovato l’affermazione della sua sovranità; un approdo sicuro ma soprattutto un luogo da cui ripartire per vincere le sfide globali. L’Unione Europea rappresenta oggi, ancora una volta, una frontiera di speranza e la prospettiva di una vera Unione politica va rilanciata, senza indugio.
L’affermazione dei diritti di cittadinanza rappresenta il consolidamento del grande spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Le guerre, gli attentati, le persecuzioni politiche, etniche e religiose, la miseria e le carestie generano ingenti masse di profughi. Milioni di individui e famiglie in fuga dalle proprie case che cercano salvezza e futuro proprio nell’Europa del diritto e della democrazia. E’ questa un’emergenza umanitaria, grave e dolorosa, che deve vedere l’Unione Europea più attenta, impegnata e solidale. L’Italia ha fatto e sta facendo bene la sua parte e siamo grati a tutti i nostri operatori, ai vari livelli, per l’impegno generoso con cui fronteggiano questo drammatico esodo.
A livello internazionale la meritoria e indispensabile azione di mantenimento della pace, che vede impegnati i nostri militari in tante missioni, ¬ deve essere consolidata con un’azione di ricostruzione politica, economica, sociale e culturale, senza la quale ogni sforzo è destinato a vanificarsi.
Alle Forze Armate, sempre più strumento di pace ed elemento essenziale della nostra politica estera e di sicurezza, rivolgo un sincero ringraziamento, ricordando quanti hanno perduto la loro vita nell’assolvimento del proprio dovere. Occorre continuare a dispiegare il massimo impegno affinché la delicata vicenda dei due nostri fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, trovi al più presto una conclusione positiva, con il loro definitivo ritorno in Patria.
Desidero rivolgere un pensiero ai civili impegnati, in zone spesso rischiose, nella preziosa opera di cooperazione e di aiuto allo sviluppo. Di tre italiani, padre Paolo Dall’Oglio, Giovanni Lo Porto e Ignazio Scaravilli non si hanno notizie in terre difficili e martoriate. A loro e ai loro familiari va la solidarietà e la vicinanza di tutto il popolo italiano, insieme all’augurio di fare presto ritorno nelle loro case.
Onorevoli Parlamentari, Signori Delegati, Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo. Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani:il volto spensierato dei bambini, quello curioso dei ragazzi. I volti preoccupati degli anziani soli e in difficoltà il volto di chi soffre, dei malati, e delle loro famiglie, che portano sulle spalle carichi pesanti. Il volto dei giovani che cercano lavoro e quello di chi il lavoro lo ha perduto. Il volto di chi ha dovuto chiudere l’impresa a causa della congiuntura economica e quello di chi continua a investire nonostante la crisi.
Il volto di chi dona con generosità il proprio tempo agli altri. Il volto di chi non si arrende alla sopraffazione, di chi lotta contro le ingiustizie e quello di chi cerca una via di riscatto. Storie di donne e di uomini, di piccoli e di anziani, con differenti convinzioni politiche, culturali e religiose. Questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale. Un popolo che si senta davvero comunità e che cammini con una nuova speranza verso un futuro di serenità e di pace.
Viva la Repubblica, viva l’Italia!
«Mattarella dunque interpreterà il suo ruolo di capo dello stato in base ai propri sentimenti, alla sua sensibilità. Senza vincoli di mandato, né doveri di riconoscenza. Avrà un unico fondamentale obbligo: farsi garante della Costituzione». Il manifesto, 3 febbraio 2015
L’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica può essere considerata una spia della necessità di tornare alla normalità costituzionale, dopo tante forzature. Nulla più di un segnale, poiché può essere solo il nuovo inquilino del Quirinale a dare il senso della propria presidenza, sin dal discorso «programmatico» che svolgerà tra poche ore, il 3 febbraio, al momento del giuramento, e poi nel corso della sua attività per i prossimi sette anni.
Ciononostante, sin d’ora, non possono essere trascurati tre dati: il significato della scelta di una persona estranea alla più convulsa fase politica dominata da continue disinvolture costituzionali; la fama di garante intransigente della legalità costituzionale del prescelto; il venir meno della opzione Nazareno.
Sino a pochi giorni addietro si stava seguendo una strada molto diversa nella scelta del capo dello stato. Si era alla ricerca di una personalità che garantisse i soggetti politici: il candidato del Nazareno, frutto dell’accordo tra Berlusconi e Renzi, ovvero, in alternativa a questo, una personalità che rassicurasse altre maggioranze possibili. S’era anche molto enfatizzata la necessità che il nuovo presidente fosse persona che potesse favorire i profondi processi di riforma costituzionale, istituzionale e sociale in corso. Nulla di più lontano dallo spirito della costituzione, che esclude un capo dello stato al servizio di una strategia politica ovvero fautore del cambiamento istituzionale.
Le stesse modalità adottate lasciavano assai perplessi. Quella sorta di consultazioni tra tutte le forze politiche svolte dal presidente del Consiglio presso la sede del partito di cui è segretario, che riceveva in rapida successione tutte le delegazioni dei partiti, riflettevano un’immagine sbagliata: evocavano la prassi della nomina dei governi. Con una confusione dei ruoli tra presidente del Consiglio e della Repubblica che rischiava di compromettere la stessa legittimazione della scelta del futuro presidente.
Per fortuna non è andata così. Mattarella non è uomo di garanzia per nessun leader e non è legato a nessuna formula politica; mentre le «consultazioni» dei gruppi parlamentari e delle forze politiche si sono rivelate sostanzialmente ininfluenti, puro spettacolo.
Non v’è dubbio che l’artefice della scelta sia stato Matteo Renzi. Il quale ha operato in base a valutazioni di natura strettamente politica e con modalità del tutto informali. Ognuno potrà valutare sul piano politico o etico il comportamento tenuto dal leader del Pd, quel che si vuole qui rilevare sono due particolari aspetti.
Se si ha in mente il sistema d’elezione del capo dello stato (un organo di garanzia che non viene scelto in base ad un programma, bensì intuitu personae) si comprende che da sempre è la capacità di creare un gradimento diffuso tra i grandi elettori l’arma vincente, non invece l’accordo tra leader. In fondo, la storia dei 101 sta li a dimostrarlo. Se ci si volge al più lontano passato si conferma che la regola aurea delle elezioni presidenziali sia stata costantemente quella del consenso ottenuto dalla più estesa maggioranza parlamentare possibile, al di là di ogni schieramento predefinito. In fondo, quando il presidente è stato eletto in prima battuta con le più elevate maggioranze previste in costituzione (nei casi di Cossiga e Ciampi) gli artefici del successo furono i due leader del partito di maggioranza relativa del tempo (rispettivamente De Mita e Veltroni), i quali operarono anch’essi in modo informale e in base alla logica del consenso diffuso.
Oggi è stato Matteo Renzi a farsi promotore dell’elezione del presidente. Un suo personale successo politico, non avrebbe senso negarlo. Quel che però deve anche esser detto - il secondo aspetto che si vuole rilevare - è che questo è stato reso possibile solo perché è stata scelta una personalità che non è parte del sistema politico e di potere del segretario del partito di maggioranza relativa, tantomeno della sua cerchia. Anche questo fa parte del gioco. Nei casi precedentemente richiamati, né Cossiga era demitiano, né Ciampi era veltroniano. Di più, una volta eletti, entrambi i presidenti hanno operato non certo per salvaguardare le politiche dei loro kingmaker, ma in rappresentanza dell’unità nazionale (tralasciamo qui l’anomalia dell’ultimo biennio di Cossiga, per non complicare il discorso). La rinuncia a proporre una personalità esclusivamente gradita alla propria parte si rivela, pertanto, come la condizione del successo, da ultimo anche per Renzi.
Mattarella dunque interpreterà il suo ruolo di capo dello stato in base ai propri sentimenti, alla sua sensibilità. Senza vincoli di mandato, né doveri di riconoscenza. Avrà un unico fondamentale obbligo: farsi garante della costituzione. Una costituzione spesso disinvoltamente disattesa dal sistema politico. Ed è per questo che oggi avremmo un gran bisogno di un custode riservato nei modi e intransigente nella sostanza.
Tra poche ore prenderà la parola di fronte al Parlamento. Auguri a noi. Auguri Presidente.
La Repubblica, 3 febbraio 2015
PARAFRASANDO Marshall McLuhan: il “look” è il messaggio. Lo hanno capito il premier greco Alexis Tsipras e il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. Nella loro tournée europea hanno attirato l’attenzione anche per il guardaroba casual. Varoufakis senza cravatta, la camicia fuori dai pantaloni e il giaccone a Downing Street, di fronte al collega inglese molto formale, la dice lunga sulla volontà greca di non rispettare nessuna convenzione.
È un metodo già padroneggiato da Marchionne (golf in mezzo agli smoking), da Renzi (camicia sbottonata), e prima di loro dagli americani: Mark Zuckerberg con le sue T-shirt da surfista sintetizza lo spirito della Silicon Valley; Barack Obama con le sue corse in salita sulla scaletta dell’Air Force One incarna il salutismo per una generazione di maratoneti.
Dietro lo scompiglio dell’etichetta ce n’è uno più sostanziale. Oggi Tsipras arriva in Italia in una giornata particolare, con il discorso inaugurale del nuovo presidente della Repubblica. Guai però se passasse inosservato il premier greco: indossi pure bretelle rosse e All Star se serve ad attirare l’attenzione. Sullo scenario “Grexit” — la possibile uscita della Grecia dall’unione monetaria — si sta giocando una partita delicatissima. E fin qui sottovalutata. Annegata fra i tecnicismi sulla rinegoziazione dei debiti di Atene, i diktat della troika (Commissione Ue, Bce, Fondo monetario) e le condizioni di Draghi per erogare liquidità d’emergenza.
Un acuto osservatore tedesco come Wolfgang Munchau sul Financial Times descrive il pericolo che incombe sull’eurozona. La Germania si è convinta che Tsipras può essere snobbato, «perché un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una calamità per la Grecia, uno shock minore per l’eurozona, e un non-evento per l’economia globale». Poiché la storia è piena di incidenti imprevisti, il rischio è che si stia ripetendo l’errore-Lehman che fu all’origine del crac sistemico nel 2008. La Lehman Brothers era una banca relativamente piccola, lasciarla fallire poteva essere una lezione salutare per le altre, senza conseguenze per l’economia. Le cose sono andate diversamente. La banca era piccola, sì, ma legata da mille fili invisibili che risucchiarono la finanza mondiale verso il baratro. L’errore di calcolo costò caro. Di fronte alla noncuranza tedesca, sembra più lucido il cancelliere dello Scacchiere inglese, quello che portava la cravatta all’incontro con Varoufakis: la tensione fra Atene e l’eurozona secondo lui «è il più grave rischio che oggi fronteggia l’economia globale».
Dietro il look scapigliato dei suoi nuovi dirigenti, la piccola Grecia ha tanti difetti ma anche un grosso merito. Il difetto più grave è l’assenza di un patto di cittadinanza, di un contratto sociale rispettato, di una cultura delle regole: se nel 2011 i parlamentari di Atene fecero notizia perché trasferivano i risparmi in Svizzera, due settimane fa la vittoria elettorale di Syriza è stata preceduta da un’evasione fiscale in massa, un segnale di “liberi tutti” che lascia sgomento lo scrupoloso contribuente tedesco. Ma il governo Tsipras ha messo la lotta all’evasione in testa alla sua agenda e ha diritto a un’apertura di credito. Il suo merito maggiore: si presenterà anche scravattato, ma sta dicendo che il Re, che si crede elegantissimo, è nudo (o la Regina Merkel). Quando Varoufakis chiede ai partner europei se vogliono «una Grecia riformata oppure deformata » dalle terapie mortali dell’austerity, parla lo stesso linguaggio di Obama. Il presidente americano in un’intervista alla Cnn ha detto che la Grecia «ha bisogno di una strategia di crescita», dopo anni di tagli e salassi che hanno amputato del 25% il suo reddito nazionale. «La nostra esperienza americana — ha detto Obama — insegna che la via maestra per ridurre i deficit e risanare i conti pubblici, è la crescita». Dall’alto di cinque anni e mezzo di ripresa, può permettersi di darci questa lezione.
È sconcertante la deriva fondamentalista del pensiero economico nelle capitali europee che contano: Berlino, Bruxelles. Gli ayatollah dell’austerity non hanno bisogno di confrontarsi con i fatti — che dimostrano la follia delle loro ricette — proprio come i sacerdoti di una religione ottusa e feroce. A nulla è servito che l’America abbia fatto l’esatto contrario, con effetti benefici. Ben vengano le provocazioni greche, di stile e di sostanza, se dovessero svegliare un continente dal torpore mortale.
Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2015 (m.p.r.)
Questo controllo del voto adottato dai partiti è un esempio di cattiva politica. Sulla scheda si dovrebbe scrivere solo il cognome del ”candidato”. Il giorno dopo l’elezione di Sergio Mattarella, il professor Gianfranco Pasquino, politologo ed ex senatore dei Ds, condanna il fenomeno dei voti cifrati, che sabato l’ha fatta da padrone nel conteggio delle schede. Voti “firmati” in cui si sono contati i partiti e le correnti al loro interno, come i giovani turchi del Pd. Ma anche i consensi azzurri giunti in soccorso al nuovo capo dello Stato.
Il fenomeno dei voti riconoscibili non vìola la Costituzione, che parla di voto segreto?
Si dovrebbe cambiare il regolamento e obbligare a scrivere solo il cognome. Detto questo, non vìola la Costituzione perché il voto non è riconducibile al singolo parlamentare, ma al massimo a gruppi di deputati o senatori.
È giusto su alcune votazioni mantenere il voto segreto?
Assolutamente sì, perché va difesa la libertà del parlamentare, che deve poter votare secondo coscienza. In questo caso difendo il diritto dei forzisti di dare il voto a Mattarella contro l’indicazione di Berlusconi. Inoltre, il voto segreto tutela il votante nei confronti del votato. Il quale, una volta eletto, e dalla sua posizione di potere, potrebbe in qualche modo vendicarsi. Ma le voglio raccontare un aneddoto.
Prego.
Nel 1994, quando ero senatore, a Palazzo Madama si doveva eleggere il presidente. Carlo Scognamiglio prevalse per un voto su Giovanni Spadolini, con una scheda contestata in cui c’era scritto “ScognaMIGLIO”. Tra l’altro, senatore all’epoca era anche il professor Gianfranco Miglio. Era chiaramente una scheda “firmata”. Che fu ritenuta valida permettendo a Scognamiglio di essere eletto.
Parliamo dell’elezione. Forza Italia ha contestato il metodo di Renzi…
Il metodo è stato assolutamente trasparente. Sia da parte di Renzi, che ha indicato Mattarella. Sia da parte di Berlusconi, che ha scelto di votare scheda bianca. Le obiezioni del leader di Forza Italia sono fuori luogo. Se il premier avesse proposto una rosa di nomi, avrebbe concesso all’ex Cavaliere, che sta all’opposizione, di scegliere il capo dello Stato. Le sembra giusto?
Dopo l’elezione di Mattarella, il patto del Nazareno continuerà?
Innanzitutto credo che il patto non contenesse il nome del capo dello Stato, ma il fatto di discuterne. Il Nazareno è al capolinea non per i fatti di questi giorni, ma perché ha già dato tutto quello che doveva dare: le riforme istituzionali e la legge elettorale. Si è, come dire, esaurito.
L’Italicum arriverà a breve al vaglio del Quirinale...
Oltre ad avere la solida cultura politica della sinistra diccì, Mattarella dà garanzia di autonomia e indipendenza, anche rispetto a Renzi. Quando dovrà dire dei no, lì dirà, ma non in maniera rumorosa e senza rompere il delicato equilibrio tra le istituzioni. Vedremo come si comporterà nel giudicare una legge elettorale nettamente inferiore alla sua.
Quanto durerà la ritrovata unità nel Pd?
Il premier ha fatto bene a ricompattare il partito su una scelta importante come quella del capo dello Stato. Ora dipenderà dalle scelte del governo. Non credo che le diverse minoranze del Pd faranno sconti a Renzi perché è stato eletto Mattarella…
Professore, il suo giudizio su Renzi è migliorato?
L’Arena chiarisce che la questione Salva Berlusconi è ancora sul tavolo. Peraltro, la Boschi sembra dimenticare che la legge francese mette una doppia soglia: o il 10% dell’imponibile o 153 euro». Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2014
In questa partita c’è un nuovo protagonista: il neo presidente della Repubblica. Che ieri, non a caso, ha passato un’ora con Napolitano: si è fatto spiegare e raccontare quali ostacoli il Quirinale deve affrontare, come sono i rapporti con Palazzo Chigi, a che punto è il percorso delle riforme. I decreti attuativi della delega fiscale arriveranno presto sulla sua scrivania: firmerà? Chi lo conosce bene lo racconta come un uomo molto preciso, anzi pignolo, molto attento agli equilibri politici, ma anche agli aspetti istituzionali e costituzionali. Vedremo. In arrivo prossimamente i decreti attuativi del jobs act e il milleproroghe.
La Repubblica, 2 febbraio 2015 (m.p.r.)
Sergio Mattarella e Matteo Renzi. I due Presidenti. Formano una strana coppia, tanto sono diversi e lontani. Anche se, fra i due, c’è un filo politico e culturale comune. Mattarella è stato e resta un democristiano - di sinistra. Uno di quelli che si definiscono - e vengono definiti - cattolici democratici. Renzi, invece, è post-democristiano. Interpreta un modello di (post) democrazia personalizzata e mediatizzata. Dove i partiti contano meno perché, in fondo, si sono liquefatti. Per questo l’elezione di Mattarella permette di precisare il tipo di leadership e di democrazia interpretati da Renzi. Leader dei tempi liquidi, al tempo della democrazia liquida. Secondo la nota formula di Zygmunt Bauman. Cioè: senza appigli stabili e senza riferimenti coerenti. In continua evoluzione e ri-definizione. Renzi ne ha fatto un ambiente amico. Dove agisce e decide, perlopiù, da solo.
Il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2015
Montepulciano d’Abruzzo. Vino DOCG, prodotto nelle province di Chieti, l’Aquila, Pescara e Teramo. Colore: rosso rubino intenso con lievi sfumature violacee, tendenza al granato con l’invecchiamento. Odore: profumi di frutti rossi, spezie, intenso, etereo. Sapore: pieno, asciutto, armonico, giustamente tannico. Solitamente si abbina a piatti dal gusto forte, selvaggina, carni rosse, formaggi stagionati. Ha una gradazione minima di 12,5°. Di particolare pregio il vitigno Montepulciano d'Abruzzo Colline Teramane, da coltivarsi con estrema cura e a debita distanza da impianti di ricerca di idrocarburi! Etichetta certificata #NOTRIV.
Mesi fa il Parlamento ha convertito in legge lo Sblocca Italia. Un provvedimento che mirava a rilanciare l’economia e accelerare la realizzazione di grandi opere, ad aprire inceneritori e a dare il via libera agli interventi paralizzati da piccoli comuni e comitati particolarmente resistenti. Il premier l’aveva twittato forte e chiaro: «#basta-comitatini, stanco di fare figuracce quando parlo di energia con i leader della pianeta».
Tra le grandi idee c’è un’intuizione moderna come il motore a scoppio! Aprire una stagione di trivellazioni in tutto il Paese: dalla Basilicata alla Sicilia, dalla Lombardia all’Emilia Romagna. Dalla Puglia, all’Abruzzo, alle Marche, lungo tutto l’Adriatico. Poco importa se il made in Italy ne pagherà le conseguenze. Per tenerne alto il morale basterà il sito verybello.it. Ma esistono comitatini e piccoli comuni che non vogliono perdere i beni comuni. E sanno essere tenaci. Soprattutto quelli abruzzesi. Forse per via dell’ottimo vitigno dall’odore etereo. Così, in Provincia di Teramo, i sindaci dei Comuni di Bellante, Campli e Mosciano S.Angelo, insieme ai comitatini NOTRIV e al giovane costituzionalista Enzo Di Salvatore, non si sono rassegnati al futuro che attendeva la terra su cui cresce il Montepulciano DOCG decantato sulle etichette che viaggiano per il mondo. E hanno detto “no!” allo skyline in cui le trivelle dovrebbero prendere il posto dei filari su un territorio di ben 83 km quadrati.
La Repubblica, 1 febbraio 2015 (m.p.r.)
Inevitabile che la Panda grigia di Sergio Mattarella che sfila fino alle Fosse Ardeatine, ultimo gesto privato e insieme primo gesto pubblico del nuovo presidente, si imprima nella retina del pubblico, vasto o meno vasto, che ancora guarda a Roma non come a un enorme detrito o a un incomprensibile groviglio di cinismo e di intrallazzi, ma come alla capitale del paese. L’utilitaria grigia di famiglia, non la berlina blu di Stato, trasporta l’uomo che incarna le istituzioni, e tanto basterebbe ad accendere l’attenzione.
Il manifesto, 31 gennaio 2015
«Mentre Piersanti come capo dello Stato avrebbe potuto assomigliare più a Pertini, Sergio lo vedo più simile a Einaudi. Due grandi presidenti con i quali Mattarella comunque condivide le stesse posizioni rispetto alla Costituzione repubblicana, al pluralismo della politica, all’equilibrio delle istituzioni, alla centralità del parlamento, e molto altro». Guido Bodrato, classe 1933, più volte deputato, ministro ed eurodeputato, non nasconde il suo entusiasmo nel pregustare la salita al Colle del suo amico e compagno di tanti anni di battaglie nelle fila della sinistra Dc. E, a differenza di Napolitano, dice, non occuperà «la scena politica, di una politica diventata spettacolo».
In sostanza, lei vede Mattarella come un difensore d’altri tempi dei ruoli costituzionali…
«Io sono un elettore del Pd, ma non sono un iscritto perché finché questo partito non avrà una posizione assolutamente coerente sui valori della Costituzione del ’48 - siccome questo è il parametro con cui più di ogni altro giudico una posizione politica - io non lo sento pienamente come il mio partito. Mattarella sarà l’uomo che rispetterà più le istituzioni, attentissimo agli aspetti della legalità e al rispetto della Costituzione, d’altronde non a caso è giudice costituzionale».
Questa sua cultura politica secondo lei lo differenzia molto dal presidente Napolitano?
«Ho più di 80 anni e sono in politica da quando ne avevo 18, ma non conosco più l’assemblea parlamentare. Sono cambiate tante cose, quindi fare il confronto è difficile. Però mentre Napolitano, anche se è della prima repubblica, occupa in qualche modo la scena politica di una politica che è diventata spettacolo, invece Mattarella secondo me sarà bene accetto dall’opinione pubblica perché è uomo convincente e trasparente. Parlando di ciò che esprimono politicamente credo non ci sia una sostanziale differenza, ma se parliamo dell’immagine pubblica, Mattarella è uomo riservato, silenzioso, non è un grande oratore, mentre Napolitano lo è».
Ed è anche il grande protettore del governo di larghe intese non eletto e del patto del «Nazareno…
Vede, vorrei dire a Vendola - persona di cui ho grande simpatia e con cui condivido molte opinioni - che ho visto soddisfattissimo come se fosse lui il vincitore, che è cambiato il quadro di riferimento. Usando un linguaggio da prima repubblica: il patto del Nazareno in questi giorni non è naufragato, è superato. Perché le cose che hanno fatto sulla base di quel patto credo che resteranno, sarà molto difficile cambiarle. Però è altrettanto vero che quel tipo di intesa politica costruita su due personaggi molto diversi per certi aspetti e molto uguali per altri, non funzionerà più in quei termini. Bisogna vedere cosa cambierà, ma non credo che si possa tornare indietro per rifare la partita».
Ma Mattarella non è un sostenitore del presidenzialismo?
«No, ecco, presidenzialista Mattarella proprio non lo è. Se è vero che Renzi ha preferito Mattarella a Prodi, è perché Prodi, da ex premier, come capo dello Stato avrebbe sicuramente invaso l’area del presidente del Consiglio, cosa che Mattarella non farà. Per questo dico che Sergio sarà più Einaudi: resterà uomo della Costituzione, probabilmente in un modo che potrà apparire tradizionale».
Siamo, come qualcuno sostiene, alla fine della seconda repubblica tornando alla prima?
«No, questo non lo credo. Sono cambiate talmente tante cose, sono cambiati i partiti. Il modo con cui questo parlamento ha affrontato la riforma del senato, con i senatori eletti dai consigli regionali, mostra una cultura che per me è inimmaginabile. Io che da giovane ho fatto anche il docente universitario, se avessi dovuto esaminare chi ha sostenuto le cose con le quali il parlamento quasi unanimemente si è mosso, li avrei bocciati tutti. Non vedo la coerenza con l’ordinamento costituzionale.
«Però è così, è cambiato il modo di pensare delle nuove generazioni politiche, ma non si può far finta che queste cose non siano accadute. I mutamenti sono stati così profondi che immaginare che si torni indietro, addirittura alla Dc, è un non senso. Anche se mi fa molto piacere che si riconosca che tutti i partiti della prima repubblica, non solo la Dc, hanno prodotto una classe dirigente che è rimasta in piedi e che continua a essere utile al paese».
Nel luglio 1990 venne varata la legge Mammì sul sistema radiotelevisivo privato: Craxi minacciava di far cadere il governo se non fosse passata mentre la sinistra Dc si opponeva, tanto che cinque vostri ministri si dimisero. Andreotti però accolse le dimissioni, pose la fiducia e andrò avanti come un treno.…
«E io mi dimisi dalla segreteria del partito… Credo che l’ostilità di Berlusconi venga soprattutto da lì. Un episodio che allora fu fondamentale perché al di là della disponibilità delle frequenze avevamo la preoccupazione di come si stava costruendo un’egemonia del sistema informativo sulla vita democratica, con un’impronta che - come poi è diventato lampante - metteva fuori gioco il pluralismo democratico e introduceva tendenze autoritarie molto forti. Per questo abbiamo fatto quella battaglia. E l’abbiamo persa. La sinistra democristiana, prima e più profondamente di altri, aveva capito che si stava affermando una cultura sempre meno rispettosa dei valori della Costituzione. E anche delle norme definite a livello europeo. Poi in effetti Berlusconi ha realizzato quasi un blitz elettorale con quegli strumenti, ma anche perché ha saputo cavalcare un modo di fare politica che stava già dilagando».
Quindi secondo lei Berlusconi non è affatto contrariato solo dal metodo con cui Renzi ha imposto il nome di Mattarella…
«Oramai diventa difficile distinguere. Però sì. Berlusconi secondo me sta sbagliando nel concentrare questa ostilità su Mattarella. Leggo che in definitiva lui considera la sinistra democristiana il suo principale avversario. Forse storicamente ha anche ragione, ma oggi tante cose sono cambiate».
Voi, e lei in particolare, però vi opponeste sempre all’ingresso di Forza Italia nel Ppe.
«Prima Castagnetti e poi io che ero responsabile del piccolo gruppo dei Popolari italiani… Oramai tutti fanno coincidere il Ppe e Berlusconi, ma in verità lui quando arrivò al parlamento europeo non entrò subito nel gruppo del Ppe. Lo fece solo successivamente. Loro avevano più di 20 parlamentari, noi eravamo meno di 10 e il Ppe aveva l’obiettivo di diventare il primo partito del parlamento europeo. Per noi invece evidentemente il problema era squisitamente politico. Purtroppo adesso tutti si definiscono popolari, ma per la verità nel 2004 con François Bayrou, (leader del Movimento democratico francese, ndr) portammo il gruppo Schuman fuori dal Ppe proprio perché i popolari europei avevano scelto, solo per ragioni di quantità, l’accordo con i conservatori inglesi, così come avevano fatto cinque anni prima con Berlusconi. Come si vede, quindi, le occasioni di scontro sono state diverse e sostanzialmente erano sempre tra una visione cattolico-democratica e una conservatrice».
Il manifesto, 30 gennaio 2015
Unione. Il Grexit non è del tutto escluso, malgrado la volontà del governo greco e dei cittadini del paese di non uscire dall’euro
Solo un New Deal europeo, con un collegamento tra soluzione della crisi del debito e piano di investimenti di Juncker (finanziato per davvero e non solo con i 21 miliardi promessi a moltiplicarsi fino a 315), potrà far uscire la zona euro dal pantano, sostengono molti economisti (gli Economistes atterrés hanno appena pubblicato il loro Nouveau Manifeste).
Ma le regole della zona euro impongono che ogni programma della Bei sia cofinanziato dagli stati almeno al 50% e per la Grecia anche questa è una soluzione al ribasso, visto che Draghi ha legato l’accesso alla liquidità pro rata alla partecipazione nel capitale della Bce (2% per la Grecia). Un circolo vizioso, per paesi senza margini di manovra finanziaria.
In questi primi giorni di governo Tsipras, la Grecia è stata lasciata sola di fronte ai movimenti della finanza: come c’era da aspettarsi, la Borsa di Atene è crollata (mercoledì meno 9% in seguito alla sospensione delle privatizzazioni imposte dalla trojka, i titoli delle banche greche sono precipitati del 26%), i capitali continuano a fuggire, mentre le Borse europee viaggiano per conto loro, senza subire contraccolpi greci consistenti. I tassi di interesse sul debito privato sono volati a più del 10%. L’irrazionalità potrebbe prendere il sopravvento.
Il Grexit non è del tutto escluso, malgrado la volontà del governo greco e dei cittadini del paese di non uscire dall’euro. L’uscita dall’euro, inoltre, non è contemplata dai trattati: il Trattato di Lisbona prevede l’uscita dalla Ue, per Atene significherebbe abbandonare prima l’Unione per poi rientrarvi (con un voto all’unanimità dei partner), ma senza euro.
Per la Grecia, sarebbe oggettivamente un disastro, con la svalutazione che ne conseguirebbe mentre il debito resterebbe in euro, per oltrepassare il 200% del pil. Nessuno vorrebbe più prestare denaro alla Grecia. Un’uscita dall’euro della Grecia, che pesa solo per il 2% del pil europeo, viene considerata da Bruxelles al limite economicamente gestibile, ma politicamente esplosiva: l’instabilità potrebbe raggiungere altri paesi, a cominciare dalla Spagna.
Ma le istituzioni europee si stanno intestardendo sulla sola questione del debito. Ricordano che la Grecia ha avuto 240 miliardi in aiuti diversi dai partner, anche se si dimenticano di dire che una parte consistente è tornata nelle casse dei creditori, che la cifra colossale è servita per salvare le banche e non per sollevare la vita quotidiana dei cittadini greci. Gli europei si riparano dietro il paravento della minimizzazione del “contagio”. Con la crisi, sono stati istituiti vari parafulmini, che limitano la propagazione del crollo ad altri paesi indebitati, dal Mes all’Unione bancaria, fino al quantitative easing lanciato da Mario Draghi il 22 gennaio. Ma tutte queste misure sono state concepite per proteggere i mercati, non le popolazioni.
Nei fatti, malgrado i due Memorandum e gli «aiuti» di 240 miliardi, dal 2010 al 2014 il debito greco è diminuito soltanto di una manciata di miliardi (da 330 a 321,7), mentre, a causa del calo della produzione di ricchezza nazionale, la percentuale del peso del debito è aumentata, dal 146 al 175% del Pil.
Ma i partner, Germania in testa, si intestardiscono sui numeri: non devono essere i contribuenti degli altri paesi a pagare. Il debito greco è a più del 70% nella mani di creditori pubblici, 32 miliardi dell’Fmi, più di 141 miliardi dell’Fesf (fondo europeo di stabilità) e 53 miliardi di prestiti bilaterali da parte degli stati membri (40 miliardi per la sola Francia, ad esempio, una cifra analoga per l’Italia, un po’ superiore per la Germania).
Questi sono miliardi a cui i partner hanno dato una «garanzia» e per questo sono stati calcolati nei rispettivi deficit. Gli europei vanno valere di aver già abbassato notevolmente i tassi di interesse imposti alla Grecia e di aver allungato i tempi del rimborso (fino a 30 anni). Insistono sul fatto che, sottraendo gli interessi che la Bce riversa alla Grecia sui titoli del debito che detiene, il «peso» del servizio del debito è inferiore per Atene (2,6% secondo il think tank Brueghel) che per l’Italia (4,7%) o per il Portogallo (5%). Per Bruxelles, quindi, il margine di manovra di Tsipras sarebbe minimo, se decide di non rispettare gli «impegni» dei predecessori, soffocato dalla mancanza di liquidità e assediato dai mercati. La Ue calcola che i bisogni della Grecia per quest’anno siano intorno ai 36 miliardi e spera così, con visione miope, di mettere Tsipras con le spalle al muro e di fargli piegare la testa sotto le forche caudine del rispetto dell’austerità.
Ue da un lato e Tsipras dall’altro hanno in mano un’arma nucleare: Grexit e default (rinuncia a rimborsare). Ci vorrebbe un Salt I e II, uno Start e un telefono rosso tra Atene e Bruxelles
Lettera 42 online, 30 gennaio 2015
D. Invece in Grecia Tsipras ha preferito fare un'alleanza rosso-nero con la destra di Anel. È delusa?
R. No. Purtroppo Tsipras ha tentato varie alleanze: il Kke, partito comunista estremamente stalinista ha subito detto di no, e Potami, partito liberale, ha detto sì, ma a patto che si annacquasse la parte anti-austerity.
Il manifesto, 30 gennaio 2015
Norma Rangeri,
Se fossimo in un altro paese, la candidatura di Luciana Castellina non sarebbe soltanto una testimonianza - a noi molto vicina e cara - ma qualcosa di simbolicamente forte. Resterà però come un omaggio a chi è nel cuore della sinistra italiana.
Tutt’altro rispetto a quanto è successo ieri. Perché dietro la bandiera di Sergio Mattarella, il democristiano perbene, soffiano le trombe della rottura del patto del Nazareno e dell’unità ritrovata del Pd. Riemerge dalla polvere in cui era stato trascinato persino il fantasma del vecchio centrosinistra di bersaniana memoria con Nichi Vendola che, dopo Luciana, sosterrà Mattarella. E tira un sospiro di sollievo la variegata minoranza del Pd mentre davanti alle telecamere brandisce la candidatura del giudice costituzionale come la prova della rottura del patto con Berlusconi. Mattarella ha come spianato divisioni e divergenze.
Si esibisce come controprova il no della squadra di Arcore al politico siciliano, già fiero avversario delle leggi (Mammì, ma anche Gasparri) a favore del monopolista televisivo. E per giunta fermo oppositore dell’entrata di Forza Italia nella famiglia europea del Partito popolare. Un no, quello dell’ex Cavaliere, appena ammorbidito dall’esibito fair play di una gentile telefonata al candidato. E poi manifestato non con un voto contrario ma con la scheda bianca (come per l’elezione di Napolitano).
È anche curioso che in questo torneo quirinalizio si replichi quel che accadde ai tempi di Ciriaco De Mita. Il leader della sinistra democristiana che, come Renzi oggi, era segretario del partito e capo del governo. De Mita fu il regista dell’elezione di Francesco Cossiga: riunì, ancora una volta, governo e presidenza della repubblica sotto il tetto di piazza Del Gesù.
Una replica della storia che, dopo trent’anni, ieri pomeriggio, è tornata improvvisamente d’attualità con una vecchia, storica copertina del manifesto, esibita nell’aula di Montecitorio e in tv dal leghista Calderoli. Quel “Non moriremo democristiani” che campeggiava sulla nostra prima pagina del 1983, riferito al tracollo elettorale della Dc demitiana.
Un titolo che alludeva a «una speranza - scriveva Luigi Pintor - se la sinistra italiana non dilapiderà un risultato a suo favore come mai prima era accaduto». Tra prima e seconda repubblica, quel patrimonio è stato orgogliosamente espulso dal cuore del nuovo Pd renziano e oggi, se il dodicesimo presidente della repubblica sarà Sergio Mattarella, avremo ai vertici del paese, Palazzo Chigi e Quirinale, l’accoppiata di un quarantenne e un settantenne provenienti dalla storia democristiana. E’ un dato di fatto che porta a compimento, anche simbolicamente, quell’opera di rottamazione della radice comunista dallo scenario politico italiano per rinverdire, con spregiudicati innesti, la pianta degasperiana.
Non che il voto unanime dei grandi elettori del Pd per Sergio Mattarella presidente della repubblica, sia un certificato di garanzia contro un altro “Prodicidio”. Tuttavia questa volta la “carica dei 101″ sembra piuttosto improbabile. Renzi ha già il piede schiacciato sull’acceleratore della nuova costruzione mediatica del presidente «l’antimafia, le dimissioni per un ideale, i collegi per i parlamentari, l’abolizione della naja» che signoreggia su giornali e televisioni.
Sfacciatamente sostituita a quella che ci ha bombardato fino a ieri sulla necessità di eleggere un capo dello stato di levatura internazionale, di grandi relazioni nel mondo di economia e finanza. Tanto da spingere per la nomina del nuovo presidente della Repubblica entro il week-end per non urtare la «suscettibilità» dei mercati. A Sergio Mattarella manca almeno la metà delle qualità imprescindibili che dovevano caratterizzare la figura presidenziale. Una evidente presa in giro. Tra le tante a cui ci ha abituato il funambolico capo del governo.
Ma se alla quarta votazione Renzi riuscirà a eleggere Mattarella per il partito di Berlusconi sarà una Caporetto. Dopo aver steso la sua rete di protezione attorno al governo del Pd, assicurando numeri legali in aula, votando la legge elettorale, sostenendo la controriforma costituzionale, dovrà fare buon viso a cattivo gioco, sopportando la vittoria renziana sul Quirinale.
Se le cose andranno come sembra, il capo del governo ne uscirà rafforzato. Tuttavia resterà l’impressione di aver assistito a una partita decisa a tavolino, dalla segreteria di un partito, senza alcun dibattito e confronto interno. E senza passione, coinvolgimento, emozione per gli italiani, perché quanto è accaduto in questi giorni segna ancora di più il distacco tra i partiti e i cittadini.
Ieri in Parlamento è stato un piccolo tripudio per il manifesto. C’è stata la presunta protesta leghista contro gli inciuci renzian-berlusconiani, con Calderoli che issava la nostra prima pagina del 1983, «Non moriremo democristiani», il bel titolo fatto da Luigi Pintor; poi la Boldrini che ha allontanato leghisti e prime pagine, invece avrebbe fatto bene a cacciare i leghisti e a tenere in aula «il manifesto».
Sì, perché di lì a poco i deputati di Sel - e non solo - hanno cominciato, nella prima seduta destinata all’elezione del nuovo presidente della Repubblica, dopo l’uscita di scena del compact-presidente Napolitano, a votare per la nostra Luciana Castellina. Giusto.
Invece di votare scheda bianca, stavolta è stata scheda rossa, una bella bandiera issata per 37 volte. La votazione purtroppo è simbolica, ma c’è poco da scherzare. E poi metti che tra una recita e l’altra qualcuno nel dispositivo sbaglia e allora esce davvero Luciana Castellina? Purtroppo non accadrà come nell’estate del 1978 quando proprio il drappello dei deputati dell’allora Pdup propose il nome fino a quel momento minoritario di Sandro Pertini e alla fine fu una valanga di «Pertini presidente».
Fondatrice con Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Lucio Magri prima dell’esperienza della rivista «Il Manifesto», che fu poi causa della radiazione dal Pci, poi protagonisti della nascita di questo giornale. Lo meriterebbe eccome Luciana Castellina, donna, ex deputata, comunista sempre in prima fila, anche con la parola e la scrittura. Capace di attraversare le stagioni politiche e le capitali del mondo come fosse a casa, cosmopolita prima che la globalizzazione fosse realtà. Con lei il Quirinale sarebbe un avamposto della nuova Europa, una casa aperta, attenta e ospitale verso gli ultimi e i bisogni della società.
Lo meriterebbe davvero, sarebbe l’immagine dell’Italia che ha lottato, che non ha smesso di farlo. Ma che non ha vinto. E allora…