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La Nuova Venezia, 13 febbraio 2015 (m.p.r.)

Municipio occupato. Assemblea permanente e «lotta dura a oltranza». I comunali fann sul serio. E dopo la "presa in giro" del nuovo "no" ricevuto dal governo sul Patto di Stabilità alzano il tiro. Corteo in città, as semblea infuocata al teatro Malibran. E nel pomeriggio 1a rabbia esplode e arriva l'occupazione di Ca Farsetti. Le sigle sindacali sono più che mai unite nel proclamare lo stato di agitazione e nell'annunciar proteste clamorose. I confedarali di Cgil, Cisl e Uil, le Rsu e gli autonomi della Diccap, i più ai rabbiati. Giornata di mobilitazione ieri a Ca' Farsetti. Servizi ridotti al minimo per l'assemblea dc lavoratori. Poi la manifestazione e l'assemblea nel pomeriggio.
Applausi a chi ricorda che «da tre anni questa situazione non viene risolta e anzi si è aggravata». «Adesso il Comune a rischio default», grida dal palco del teatro il segretario dell Cgil Sergio Chiloiro. Gli interventi dei sindacalisti a un certo punto vengono sospesi. «Basta! grida il delegato degli autonomi Luca Lombardo», «ci stanno prendendo in giro. Andiamo a Ca' Farsetti e occupiamo».
L'assedio. Alle 16.30 cinquecento lavoratori, compresi i vigi urbani in agitazione, sfilano per San Giovanni Grisostomo e campo San Bartolomeo, arrivano davanti a Ca' Loredan. Tra le colonne decine di poliziotti con scudi e manganelli, carabinieri nelle calli. Palazzo blindato, su ordine del commissario Zappalorto e del direttore generale Agostini. A far da «messaggero» tra le parti un funzionario della Digos. Fischietti, urla, qualche intempranza. I sindacati chiedono di salire, la risposta è «no». Ma il blocco viene aggirato. Ci pensa qualche lavoratore a far passere dalle entrate di servizio un primo gruppo di manifestanti.

Lo striscione. Alle 17.15 sopra 1 teste dei poliziotti in assetto c battaglia viene calato un grande striscione bianco. «Il conto lo paga chi ha rubato», c'è scritto. Sul pennone sventolano le bandiere rosse della Cgil, quelle azzurre di Cisl e Diccap, quella a strisce della Uil. Pian piano salgono altri gruppetti di manifestanti. Finché intorno alle 19 arriva l'annuncio: «Il Comune è occupato, di qui non ci muoviamo».

La protesta. Sale di tono la rabbia dei lavoratori, quando i sindacalisti leggono dal palco le «promesse non mantenute» del governo. Ce l'hanno con Renzi e i suoi ministri, con il commissario Zappalorto e con la giunta precedente. Con i sottosegretari Baretta e Zanetti. «Siamo andati con loro a palazzo Chigi», dice Sergio Chiloiro della Cgil, «ma non ci hanno ascoltato».

Le conseguenze. I sindacalisti ripetono: «Non sono in pericolo solo i nostri stipendi, ma i servizi alla città. È un attacco alla democrazia». «Quest'anno con il commissario è andata ancora peggio», ripetono Mario Ragno della Uil e Andrea Alzetta della Volantino Cobas «I regolamenti? Tocca alla politica». Nel 2014 almeno il Salva Venezia aveva un po' mitigato le sanzioni. Stavolta nemmeno quello. «Se non cambia qualcosa («Ed è questione di pochi giorni, per questo dobbiamo mobilitarci», dice Ragno) le assunzioni di personale saranno bloccate, con conseguenze visibili sui servizi». Bloccato il turn over, bloccati i progetti speciali e una parte consistente dello stipendio. «Io ci ho già perso mille euro», protesta un vigile urbano.

La lotta. Ieri sera almeno un centinaio di lavoratori e sindacalisti erano ancora al piano nobile di Ca' Farsetti, intenzionati a passare lì la notte. «Rifiutiamo ogni tipo di trattativa», dice Chiara Scarpa della Diccap, «da qui non ci muoviamo». A sera arrivano in municipio i candidati alle primarie Felice Casson e Sebastiano Bonzio con l'ex consigliere Beppe Caccia. Esprimono «solidarietà» ai lavoratori.

«La Repubblica, 15 febbraio 2015

ITALIANI brava gente, si è sempre detto. Soprattutto quando si parla di Shoah. È vero, ci furono i “giusti”. Ma è anche vero che dietro la cattura di ogni ebreo ci furono almeno altrettanti italiani implicati: prefetti, questori, poliziotti, carabinieri, finanzieri, repubblichini, compilatori di liste, impiegati, delatori della porta accanto, traditori, autisti di camion, ferrovieri, persone che nel 1943-1945 non obbedirono solo agli ordini tedeschi, ma dichiararono gli ebrei “stranieri” e “nemici”, li identificarono su base razziale, li stanarono casa per casa, li arrestarono, li depredarono dei beni, li rinchiusero in campi di concentramento, li consegnarono al III Reich rendendosi colpevoli di genocidio, se, come si intende e come ha detto Raul Hilberg, furono responsabili tutti i gangli della macchina della morte e non solo gli esecutori finali. Le vittime furono oltre seimila. Il libro di Simon Levis Sullam dimostra questo.

Ogni caso ha la sua storia. Lo storico dell’università Ca’ Foscari, autore di molti saggi sull’argomento, ci avvolge di vicende cupe. All’inizio nomina gli ideologi, le leggi razziali del ‘38, la lenta disumanizzazione dell’“avversario”, gli antisemiti, i sostenitori della “totale eliminazione de- gli ebrei”. Ma è quando passa alle singole città, ai singoli provvedimenti, che vediamo quanto il veleno avesse conquistato spazio.

Andiamo a Roma, nel marzo 1944, la grande retata era già avvenuta da tempo, una bambina di sei anni, Emma Calò, e un cuginetto riescono a nascondersi mentre il commissario di Ps sta arrestando i genitori, i nonni e quattro fratelli. Il funzionario cerca e trova personalmente i piccoli. Tutta la famiglia non farà ritorno. A Venezia, 163 ebrei “puri”, in maggioranza anziani, vengono individuati, piantonati e infine rastrellati mentre, alla Fenice, Ar- turo Benedetti Michelangeli tiene un concerto. È il volenteroso Questore Filippo Cordova ad anticipare il ministero e a muovere la macchina, così come faranno molti colleghi e anche i prefetti. Trovano gli ebrei, i militari li scortano, qualcuno scova il vaporetto e lo conduce alla stazione. Un treno parte per Fossoli, dove giorni dopo due agenti ricongiungono dei bimbi tra i 3 e i 6 anni ai genitori: partiranno tutti in un convoglio per Auschwitz con oltre 640 prigionieri, tra cui Primo Levi. A nessuno venne in mente di salvare i piccoli, di ostacolare in qualche modo la ricerca delle vittime e il viaggio verso la morte. E così in tutta Italia.

Le delazioni riempivano le scrivanie dei funzionari. Migliaia. Anonime e no. E i funzionari non ne saltavano una. Così come le guide verso la Svizzera consegnarono spesso, depredandoli, i clienti alle guardie. Oppure era il vicino di casa che denunciava il condomino. Per invidia, rancore, soldi, per appropriarsi dei beni, andavano a prendere anche un solo ebreo nel mezzo della campagna. Perché in Italia catturarli, eliminarli dalla società, non fu un incidente, ma un cardine del totalitarismo.

Il manifesto, 15 febbraio 2015

Venerdì notte, la Camera dei Depu­tati — senza le oppo­si­zioni che ave­vano abban­do­nato l’aula — ha modi­fi­cato, nell’ambito della riforma della seconda parte della Costi­tu­zione, anche l’ex arti­colo 78, quello che norma le moda­lità della dichia­ra­zione dello «stato di guerra».

Ora basterà, con la modi­fica appro­vata, un voto della Camera dei Depu­tati (e non più, anche del Senato), con la mag­gio­ranza asso­luta dei com­po­nenti. Addi­rit­tura in una prima ver­sione, il governo aveva pre­vi­sto la mag­gio­ranza sem­plice, cioè dei pre­senti.

I depu­tati paci­fi­sti ave­vano pro­po­sto che la mag­gio­ranza fosse qua­li­fi­cata, almeno dei due terzi. Visto che l’articolo 11 della Costi­tu­zione ci dice che «l’Italia ripu­dia la guerra come stru­mento di offesa», se que­sta deve essere dichia­rata (evi­den­te­mente in casi ecce­zio­nali, estremi e solo per motivi di difesa dei con­fini), allora che sia una deci­sione il più con­di­visa pos­si­bile. I loro emen­da­menti sono stati bocciati.

Per­ché la modi­fica di venerdì notte è gra­vis­sima? Per­ché la riforma costi­tu­zio­nale è affian­cata da una riforma elet­to­rale (l’Italicum) che pre­vede il pre­mio di mag­gio­ranza al par­tito vin­ci­tore delle ele­zioni. Il com­bi­nato dispo­sto delle due riforme dà di fatto ad un par­tito poli­tico (che potrà avere la mag­gio­ranza asso­luta alla Camera anche con una mag­gio­ranza rela­tiva dei voti dell’elettorato) il potere e la respon­sa­bi­lità di dichia­rare lo «stato di guerra». Un’aberrazione.

Pare che que­sta modi­fica sia stata for­te­mente voluta dai ver­tici delle Forze Armate e dalle mini­stre Roberta Pinotti e Maria Elena Boschi, assi­stite dagli acca­de­mici molto «agguer­riti» della Fon­da­zione Magna Charta, quella di Gae­tano Qua­glia­rello, una cima del pen­siero costi­tu­zio­nale.

Dal 1947 il Par­la­mento non ha mai dichia­rato lo «stato di guerra», anche se di guerre — pre­sen­tate come inter­venti uma­ni­tari e in nome dei diritti umani — ne ha fatte tante: Iraq, Kosovo, Afga­ni­stan e ora forse tra qual­che giorno la Libia. Mai l’articolo 11 della Costi­tu­zione è stato così disat­teso. L’ex arti­colo 78 era di fatto un arti­colo «sim­bo­lico», che dava comun­que al Par­la­mento un ruolo per una deci­sione così dram­ma­tica: la riforma costi­tu­zio­nale voluta da Mat­teo Renzi ha fatto di que­sto arti­colo il sim­bolo di un’altra cosa, la pre­do­mi­nanza del governo sul parlamento.

Mat­teo Renzi sem­bra avere seguito le orme del vec­chio Sid­ney Son­nino quando invo­cava: «Tor­niamo allo Sta­tuto». Il vec­chio Sta­tuto Alber­tino infatti dava al Re il potere di dichia­rare guerra. La modi­fica dell’ex arti­colo 78 di venerdì notte — simil­mente — dà que­sto potere al governo e al suo nuovo Re: il bullo fiorentino

Una volta tanto su un giornale italiano si riconosce che i due "eroici marò" hanno ucciso due giovani e inoffensivi pescatori.

«In visita alla famiglia di uno dei pescatori uccisi tre anni fa ». La Repubblica, 15 febbraio 2015

NELLA casa linda e spoglia della famiglia di Celestine Galestine, ucciso esattamente tre anni fa dai militari di una petroliera italiana, una volta tanto si ride di gusto. Dora, la vedova di Celestine, ha una voce argentea in un corpo massiccio, e sorridono con gli occhi bassi anche i figli Derrick, 21 anni, al terzo anno di ingegneria, e Jwen, 13 anni.
È il racconto di un sacerdote del Kerala di ritorno da un anno in Italia a riportare un po’ di buon umore nel terzo anniversario di una vicenda dolorosa che coinvolge diverse famiglie: anche quella di Ajesh Binki, il giovane tamil ucciso il 15 febbraio 2012 insieme a Celestine su una barca da pesca scambiata per una goletta di pirati, così come le famiglie dei due marò italiani sospettati di aver sparato.
Padre Tommy era stato parroco in Abruzzo e ricorda a Dora di quando lo scorso anno si recò a visitare i suoi ex parrocchiani. «Una signora mia amica era molto arrabbiata con l’India perché secondo lei teneva in ostaggio ingiustamente Massimiliano La Torre e Salvatore Girone. Allora propose a un gruppo di persone che era con lei di sequestrarmi per uno scambio...».
Anche Dora è una kadel puram kaar, il popolo della spiaggia, uomini e donne che conoscono il mare e odiano le grandi navi che da tutto il mondo vengono a pescare con enormi reti nelle acque internazionali lasciando senza cibo i pescatori locali. Per questo - ci dice il loro leader - «gente come me e Celestine deve andare sempre più al largo con delle barchette e il rischio che comporta, come si è visto ».
Tutti nel villaggio di Muthakkara conoscono bene le ultime vicende: le dure prese di posizioni dell’Ue rivolte all’India, l’operazione al cuore di La Torre e l’autorizzazione dei giudici al rinvio del suo rientro per il processo, che non si è ancora celebrato né sembra destinato a iniziare presto. Ma per Dora è un capitolo chiuso. «Ho già detto di non serbare alcun rancore - ci spiega - e per me i due marò possono tornare per sempre dalle loro famiglie, perché so bene cosa significa l’assenza di chi è caro». Seduto col fratello e la madre sotto al ritratto del padre morto, il figlio maggiore Derrick ci tiene però a dire che - a parte aver ricevuto i soldi per gli studi di ingegneria - «nessuno ci ha mai chiesto scusa».

Anche su questo l’ambasciata italiana di Delhi preferisce mantenere il silenzio, per timore che ogni azione o parola possa essere male interpretata. Lo stesso riserbo hanno quasi sempre seguito La Torre e Girone, mentre una speciale agenzia investigativa nazionale, la Nia, prepara i documenti dell’indagine per i magistrati di una Corte altrettanto speciale. Neanche sul fronte del governo indiano c’è disponibilità a parlare per confermare un’eventuale trattativa in corso. «È tutto in mano alla magistratura », è la posizione ufficiale.

A due passi da casa Galestine incontriamo A. Andrews, il leader dell’associazione dei pescatori del distretto, secondo il quale «spetterebbe a noi il diritto di processare e condannare i responsabili ». «Se le famiglie hanno perdonato - dice Andrews sotto a un colorato crocifisso di Cristo che pende su una parete - noi non lo faremo mai. È nella nostra tradizione punire chi uccide degli innocenti».

In un paese dove migliaia di processi aspettano molto più di tre anni per rendere giustizia, la vicenda dei marò resta un caso a sé, per il clamore internazionale e i troppi dettagli ancora avvolti nel mistero. La fantomatica nave greca, le presunte segnalazioni dei militari alla barca “pirata” in rotta di collisione, le raffiche di mitra sparate da 20 metri di altezza e destinate in teoria a finire in acqua, la decisione del capitano di entrare in porto e consegnare i due marò.

La rabbia delle comunità locali - come ci racconta un testimone di quei giorni a Kochi - montò a maggio quando ai due marò consegnati dal capitano alla polizia del Kerala fu concesso di stare in un albergo da 10mila rupie a notte, 180 dollari, con pasti di uno chef italiano, e ospitalità per 20.30 persone in occasione degli arrivi dei familiari. Al loro seguito c’erano sempre anche tre ufficiali di Marina, un colonnello dei carabinieri e una psicologa, con un cambio trimestrale del team, tanto che per tagliare le spese ormai stratosferiche si pensò di affittargli una casa.
La fine delle costose missioni è arrivata con la decisione di ospitare Girone e La Torre nell’ambasciata di Delhi. Da allora nessun rappresentante dell’Italia è tornato in Kerala, né ha mai pensato di mandare un segno a lungo atteso da Dora e dai suoi figli che non credono più alla giustizia degli uomini: «Almeno una corona di fiori o una preghiera» - dicono - in occasione delle tre messe celebrate ogni vigilia del 15 febbraio nella chiesetta del Bambin Gesù, dov’è sepolto un onesto pescatore scambiato per pirata.

Il manifesto, 14 febbraio 2015

Alla scena rumo­rosa dei tumulti sui ban­chi di Mon­te­ci­to­rio da oggi se ne sosti­tuirà una silen­ziosa ma non per que­sto meno inde­co­rosa. Quella di un’aula par­la­men­tare mezza vuota, abban­do­nata dal varie­gato car­tello delle oppo­si­zioni. Dalla Lega a Fi, da Sel ai 5Stelle, tutti insieme per la scelta estrema di non essere né com­plici, né spet­ta­tori di una riforma che sfi­gura la Costi­tu­zione e inco­rona il pic­colo Cesare.

But­tare giù la Carta della demo­cra­zia par­la­men­tare non è un pranzo di gala e che gli animi si accen­dano è il minimo. Suc­cede dai tempi di Cavour e Gari­baldi, anche se que­sta volta le botte non sono volate tra destra e sini­stra ma tra i depu­tati del Pd e di Sel. Tut­ta­via non si tratta più di una que­stione di buone maniere, dif­fi­cili da man­te­nere tanto più se l’assemblea si vede imporre tempi e modi della “con­tro­ri­forma” da un pre­si­dente del con­si­glio che si aggira di notte come un ladro per i cor­ri­doi di Mon­te­ci­to­rio a rac­cat­tare voti minac­ciando le ele­zioni anticipate.

La scelta dell’Aventino è così solo l’ultimo atto di una brutta sto­ria di pre­va­ri­ca­zione, costante e con­ti­nua, di ogni regola e pro­ce­dura. Tra i tanti esempi dello stil novo ren­ziano baste­rebbe ricor­dare l’episodio della sosti­tu­zione dei sena­tori del Pd che in com­mis­sione non vota­vano come Renzi e Boschi comandavano.

La deci­sione di lasciare che il governo Renzi-Alfano approvi in soli­tu­dine la nuova Costi­tu­zione pur­troppo fa parte di uno sce­na­rio tutt’altro che ine­dito. Il tri­ste spet­ta­colo fu messo in scena quando Ber­lu­sconi varò la sua riforma, oltre­tutto anche molto simile a quella in discus­sione oggi, e per for­tuna poi boc­ciata dal refe­ren­dum (come spe­riamo si ripeta que­sta volta).

Oggi Renzi ne segue le orme inte­stan­do­sene una per­sino peg­giore (per esem­pio sulla com­po­si­zione del nuovo senato: allora dimi­nuiva il numero dei sena­tori ma l’elezione era di primo grado). E in ogni caso ispi­rata da un’idea della poli­tica (e del governo) che risponde alla stessa logica, alle mede­sime priorità.

Se non si stesse gio­cando una par­tita così impor­tante per gli assetti demo­cra­tici saremmo di fronte a una pes­sima farsa, con i par­la­men­tari ber­lu­sco­niani che scen­dono dal carro del vin­ci­tore e sal­gono sulle bar­ri­cate dell’opposizione pro­met­tendo di far vedere a Renzi «i sorci verdi». La minac­cia, che arriva dal pit­to­re­sco capo­gruppo Bru­netta, più che spa­ven­tare gli avver­sari del Pd sem­bra piut­to­sto voler attu­tire le divi­sioni della pro­pria truppa.

Del resto anche la bat­ta­glia delle oppo­si­zioni di sini­stra e dei 5Stelle, aldilà dell’impatto sim­bo­lico, rivela una evi­dente debo­lezza. Chi per bal­danza, chi per un malin­teso senso di respon­sa­bi­lità verso la “ditta” non è riu­scito a fer­mare il treno ora decide di togliersi dai binari.

Restano le mace­rie di un qua­dro poli­tico fran­tu­mato che, oltre­tutto, die­tro l’arroganza ren­ziana non può nem­meno esi­bire la forza del deci­sio­ni­smo cra­xiano ma solo offrire la palude di un potere balcanizzato.

«Syriza, Podemos e noi. Sta nascendo una nuova «coalizione» popolare e trans-nazionale, la sinistra italiana deve ricostruire questo grande spazio sociale e politico».

Il manifesto, 14 febbraio 2015

Oggi, a Roma, scen­diamo in piazza per la vita, la dignità e la demo­cra­zia del popolo greco. È un ritorno - impor­tante da non sot­to­va­lu­tare - della buona, antica soli­da­rietà inter­na­zio­nale, dopo anni e anni di chiu­sura di ognuno in se stesso. Ma non è solo questo. Per­ché mani­fe­stando per «sal­vare la Gre­cia», noi mani­fe­stiamo anche e soprat­tutto per sal­vare noi stessi: per sal­vare l’Italia. Per sal­vare l’Europa.

Se l’azione di Tsi­pras e Varou­fa­kis riu­scirà ad aprire una brec­cia nel muro di Ber­lino dell’austerità, ci sarà una spe­ranza anche per noi, che anna­spiamo sul pelo dell’acqua appena un poco più sopra di loro. E per gli spa­gnoli, i por­to­ghesi, gli irlan­desi, mas­sa­crati social­mente dallo stesso dogma feroce. Se da Atene potranno dimo­strare che la volontà popo­lare non può essere can­cel­lata con un tratto di penna dai ban­chieri e dai politici-tecnocrati in una stanza dell’Eurotower, della Bun­de­sbank o della Can­cel­le­ria della Bun­de­sre­pu­blik, sarà un passo impor­tante nel pas­sag­gio dall’Europa della moneta e una vera Europa poli­tica. La sola che può sopravvivere.

Lo sanno benis­simo a Bru­xel­les, a Fran­co­forte, a Ber­lino, che se i greci ce la fanno - se rie­scono a dimo­strare che «si può» - potrà inne­scarsi una rea­zione a catena, nel fronte medi­ter­ra­neo dell’Europa, ma non solo, in grado di scar­di­nare i dogmi mor­tali che ci stanno sof­fo­cando. Per que­sto resi­stono con­tro ogni buon senso, negando l’evidenza, trin­ce­ran­dosi die­tro il ritor­nello delle «regole che vanno rispet­tate» anche se quelle regole si sono rive­late con tutta evi­denza deva­stanti. E per que­sto, dalla nostra parte, ci si mobi­lita nelle prin­ci­pali piazze del con­ti­nente: per dimo­strare che quella rea­zione a catena è già ini­ziata. Che il cam­bia­mento è già in corso.

Sfi­le­remo, in molti, con un nastro nero in segno di lutto per il nuovo ecci­dio di migranti, sapendo che non è, quella, una «tra­ge­dia del mare» ma una «tra­ge­dia degli uomini». Una tra­ge­dia nostra, dell’Italia e dell’Europa. Che quelle nuove cen­ti­naia di morti testi­mo­niano dell’egoismo, cri­mi­nale, di un’Europa che chiude occhi orec­chie e brac­cia di fronte alla parte più sof­fe­rente dell’umanità. E lesina gli spic­cioli, con spi­rito da usu­raio, tagliando per­sino sui soc­corsi, per­ché que­sto è il senso del pas­sag­gio da Mare nostrum a Tri­ton… In fondo, lo vediamo bene, un filo nero lega il modo con cui la Troika ha ridotto in que­sti anni di «com­mis­sa­ria­mento» la Gre­cia al coma sociale, e quello con cui le classi diri­genti euro­pee, impas­si­bili, hanno tra­sfor­mato il canale di Sici­lia in un cimi­tero liquido. La stessa logica, imper­so­nale, delle cifre e dei pro­to­colli «a distanza», con deci­sioni prese in luo­ghi aset­tici, dove non si sente la puzza della mise­ria e l’odore della morte per anne­ga­mento. Senza nep­pure guar­dare in fac­cia le pro­prie vit­time: la «bana­lità del male», appunto, come direbbe Han­nah Arendt.

Ora il nostro capo del governo, con cini­smo degno della sua bio­gra­fia, getta il pro­blema al di là del Medi­ter­ra­neo, dicendo che la que­stione sta in Libia, non qui o a Bru­xel­les. Che sono loro - loro chi? il caos che abbiamo con­tri­buito a creare? – non noi il pro­blema, come se non aves­simo nes­suna respon­sa­bi­lità e nulla da modi­fi­care, rin­viando tutto a una crisi nord-africana con tutta evi­denza ingo­ver­na­bile. È lo stesso atteg­gia­mento tenuto nei con­fronti della Gre­cia, quando ebbe a defi­nire non solo «legit­tima» ma anche «oppor­tuna» la deci­sione della Bce di togliere ossi­geno alle ban­che gre­che, pro­prio quando la minac­cia mag­giore era la fuga dei capi­tali dei grandi miliar­dari ed eva­sori greci, appena due giorni dopo aver abbrac­ciato – gesto degno del dodi­ce­simo apo­stolo – Ale­xis Tsi­pras a Palazzo Chigi…

Anche per dimo­strare che quest’uomo non ci rap­pre­senta, scen­diamo oggi in piazza a Roma. Non è una mani­fe­sta­zione come tante altre. È il segno che una nuova poli­tica può nascere. In un nuovo «spa­zio della poli­tica» ormai in ampia misura tran-nazionale, dove «si pensa» in qual­che modo oltre i confini.

Non dimen­ti­cherò mai il 25 gen­naio, in piazza Omo­nia ad Atene, quando Tsi­pras finì il pro­prio discorso di chiu­sura della cam­pa­gna elet­to­rale e salì sul palco Pablo Igle­sias, parlò poco più di un minuto, prima in inglese, poi in greco (fluen­te­mente) infine in spa­gnolo per dire «Syriza, Pode­mos, ven­ce­re­mos», e la piazza, tutta, attaccò a can­tare Bella ciao. In ita­liano! Allora, al di là dell’emozione e del groppo in gola che tutti ci prese, capimmo, con chia­rezza, che era­vamo ormai in un «oltre».

In un altro spa­zio in cui le vec­chie sca­tole degli stati nazio­nali si rom­pe­vano – senza che i popoli per­des­sero le pro­prie carat­te­ri­sti­che, anzi! — per lasciar con­fluire le nuove sfide in un’altra dimen­sione, vor­rei dire in un altro «para­digma», della poli­tica, che si muove ormai in uno spa­zio com­piu­ta­mente con­ti­nen­tale. E che si apriva per noi una grande occa­sione. Unita a una grande respon­sa­bi­lità: di alli­neare anche l’Italia all’onda di piena che avanza sull’asse medi­ter­ra­neo, con­tri­buendo anche nel nostro Paese alla costru­zione di una grande «casa comune» per que­sta nuova sog­get­ti­vità ribelle.

Roma, testi­mone il Colos­seo, è una prima occa­sione per mostrare che anche qui si apre un pro­cesso in cui «coa­li­zione sociale» e «coa­li­zione poli­tica» pos­sono - anzi devono - mar­ciare insieme, stret­ta­mente intrec­ciate, per­ché l’una è con­di­zione dell’altra.

E se sapranno farlo, pur nella con­sa­pe­vo­lezza delle grandi dif­fi­coltà - non tanto cul­tu­rali quanto «tec­ni­che», pra­ti­che, com­por­ta­men­tali e les­si­cali - dell’operazione, allora si potrà dire che avranno saputo far nascere il primo degno abi­tante di quel nuovo «spa­zio», in grado di offrire rap­pre­sen­tanza all’oceano di spae­sati e di home­less della poli­tica in Ita­lia come in Europa.

Il tempo – come si è detto ad Atene, come dicono in Spa­gna e come ripe­te­remo a Roma — è, dav­vero, ora!

Il manifesto, 13 febbraio 2015 (m.p.r.)

È per la nostra vita che mani­fe­stiamo domani, a Roma, con­tro le poli­ti­che dell’Europa, che ne decide per tutti. Il nuovo governo greco ha il corag­gio e il merito di com­bat­terle per tutte e tutti. Un governo di sini­stra – certo in alleanza con un par­tito di destra come Anel – che per­se­gue un chiaro pro­gramma: pro­teg­gere le per­sone col­pite dalla crisi, miglio­rarne la vita per quanto pos­si­bile. Senza porsi obiet­tivi “finti” e con­fu­sivi, che nei decenni pas­sati hanno preso il nome di riforme e modernizzazione. Con il risul­tato di distrug­gere quell’insieme di norme e wel­fare che ave­vano fatto dell’Europa un esem­pio da addi­tare, un posto dove valeva la pena di vivere.

Oggi a deci­dere è quella spe­cie di super-governo che è la Troika: com­po­sta dai tre orga­ni­smi non demo­cra­tici, mai eletti - Bce, Fmi, e Com­mis­sione Euro­pea - che hanno det­tato i para­me­tri e le regole a cui gli stati e i popoli si devono atte­nere. Anche quando scel­gono diver­sa­mente, attra­verso le ele­zioni, come in Gre­cia. Super-governo senza con­trolli con cui il governo Tsi­pras si rifiuta di trat­tare, vero punto poli­tico di que­sto con­fronto durissimo.

Per que­sto andiamo in piazza. Per ridare fiato alla respon­sa­bi­lità poli­tica, al pro­getto di un’Europa che mette al cen­tro la poli­tica, non l’ottuso per­se­gui­mento del pareg­gio di bilan­cio, ricetta eco­no­mica in salsa tede­sca. Una ricetta pesante: può ucci­dere, invece di sal­vare. Lo vediamo nel nostro mare, con tra­gica rego­la­rità, ogni volta sem­pre peg­gio. Quale logica può spin­gere in mare nel gelo e la tem­pe­sta su impro­ba­bili gom­moni, se non la dispe­ra­zione e la vio­lenza alle spalle? Per con­te­nere le spese, per sanare i debiti, non si può aiu­tare chiun­que ha biso­gno. Que­sto il man­tra euro­peo di cui il governo ita­liano si fa volen­te­roso interprete.

È anche per que­sto che mani­fe­stiamo per la Gre­cia. Per quel nobile e gene­roso impulso che spinge ad andare in soc­corso di chi ha biso­gno, e che solo una radi­cata cru­deltà del cuore può qua­li­fi­care sprez­zante di buo­ni­smo, come se soc­cor­rere per­sone che muo­iono assi­de­rate in mare sia segno di stu­pi­dità o peg­gio, di qual­che oscura colpa, come la parola debito in tede­sco. La seconda spinta, quella che fa met­tere radice alla scelta gene­rosa del soste­gno, è com­pren­dere che tutto que­sto ci riguarda. Qui, in Ita­lia, noi ita­liani e ita­liane. Per­ché l’Europa è il tea­tro della poli­tica, nell’ampio spa­zio comune in cui che si pos­sono dispie­gare i con­flitti che i con­fini nazio­nali ren­dono asfit­tici, schiac­ciati dalla dop­pia pres­sione e del gioco delle parti tra governi nazio­nali e istanze euro­pei. Siamo in Europa, affrontiamola.

La lotta della Gre­cia è la nostra lotta. E, forse può sor­pren­dere, lo dico come donna ita­liana, sfi­dando le cri­ti­che risen­tite di tante donne al governo greco, delu­dente mono­lite della cit­ta­della maschile della poli­tica. Scelta che ovvia­mente non con­di­vido, e ritengo vada tenuta sotto attenzione.

Ancor più del governo mono­ses­suato al maschile, il vero punto di discus­sione sono le prio­rità, il rischio che il gioco duro dell’economia renda tutto il resto secon­da­rio. Com­prese le rela­zioni uomo-donna, e tutta la cri­tica al patriar­cato svi­lup­pata dai diversi fem­mi­ni­smi ne risulti depo­ten­ziata. È un dub­bio, forse anche un timore, che attra­versa molte donne. Di sen­tirsi ricac­ciate alla con­di­zione di pro­blema secondario.

Credo invece che com­bat­tere la crisi sia un’occasione. Un’occasione poli­tica. Pro­prio per­ché è in gioco come si vive, quali sono le rela­zioni tra donne, uomini, gene­ra­zioni, sessi, generi. Nel futuro. Che cosa è la vita, se non que­sto? Il livello ele­men­tare del vivere: avere da man­giare, dove dor­mire, un tetto sulla testa, prov­ve­dere ai pro­pri cari, avviene nelle rela­zioni che si hanno.

La crisi, l’avvento del nuovo mondo del finanz-capitalismo le ha messe tutte sot­to­so­pra. È quello che viene defi­nito bio­po­li­tica, quel patto ori­gi­na­rio su cui si è fon­data la moder­nità sta­tuale e sociale, è stata but­tata all’aria dal neo­li­be­ri­smo. L’unica donna del governo greco, l’unica che appare nella foto­gra­fia è la vice-ministra del lavoro Rania Anto­nou­po­los, (ricavo le infor­ma­zioni dall’articolo di di Roberta Car­lini): pro­pone misure inno­va­tive, di job gua­ran­tee, lavori a basso com­penso e a ter­mine, finan­ziati dallo Stato.

Non è que­sta la sede per discu­terne, c’è più di un’obiezione pos­si­bile. Mi inte­ressa qui indi­care l’approccio inno­va­tivo: che sa che i lavori com­pen­sati nel set­tore dei ser­vizi, gene­rano a loro volta nuovi lavori e ric­chezza. È una visione della vita, delle rela­zioni, molto diversa da quella che fonda tut­tora le nostre poli­ti­che. È un pos­si­bile punto di par­tenza, per pren­dersi cura della vita, e di una poli­tica che parta dalla vita come è, ora. Molte donne, molte fem­mi­ni­ste di diverse gene­ra­zioni (non ne fac­cio l’elenco, non vor­rei dimen­ti­carne nes­suna) hanno fir­mato l’appello, saranno sabato a Roma. Con la Gre­cia, per cer­care lo spa­zio comune della politica.

La Repubblica, 13 febbraio 2015 (m.p.r.)

«È una nuova Angela Merkel davanti ai nostri occhi. Leader, statista capace di trattare come nessun altro». Parola di Michael Stürmer, ex consigliere di Kohl, storico, intellettuale di punta del centrodestra.

Professore, come giudica la performance di “Angie”?
«Ne ammiro non solo la forza in giorni e notti insonni di vertici e voli intercontinentali: ora ha una leadership intelligente, piena di concetti forti. La credevamo eterna temporeggiatrice esitante. Ci siamo sbagliati tutti, ora chi la sottovaluta rischia molto».
Nuova Merkel, che significa?
«È diventata insostituibile, ha giocato un ruolo ben più importante che non Obama. A casa ha un forte consenso. A Minsk ha scritto la Storia. Facendo sì che Putin, non lei, annunciasse l’intesa di cui lei è stata grande moderatrice. Lei tedesca capisce l’anima ferita della Russia che si sente insieme paese sconfitto a Versailles 1918 e vittima di una crisi tipo Weimar. Ha dato a Putin prestigio impegnandolo a patti vincolanti. Gli americani non capiscono l’anima ferita russa, lei sì. Sa che se hai un nemico, devi capirlo».
Il suo stile è peculiare...
«A volte devi mostrarti modesto, secondo violino. È stata splendida moderatrice a Minsk senza cercare luci della ribalta, offrendole a Putin umiliato da tutti come al summit di Brisbane. Lei lo coinvolge, “Vladi, ora tocca a te”, lo richiama nel “grande gioco” mondiale».

Obama oppure Hollande avrebbero saputo farlo?
«Non credo. Lei in Russia ha prestigio enorme, parla russo, ha mostrato auctoritas et gravitas , che mancano agli altri».
Il New York Times la chiama “la nuova Kennedy”, l’Europa gira attorno a lei. È insieme Churchill, Adenauer, Jfk?
«Sì, prima volta mondiale di Berlino senza atomiche e con un miniesercito. Performance tutta carisma sobrio e sottovoce. Un enorme soft power, capacità di conoscere e capire gli altri restando decisa, senza inquietare o umiliare come faceva Thatcher. Adesso tocca alla partita eurozona. Vedremo: il mondo dovrà guardare sempre di più a lei. Usa l’autorità senza sprecarla. Chi altro lo sa fare oggi nel mondo libero?».

Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2015

C’è chi ha riso, molto, anche senza terremoto. C’è chi ha brindato, molto, a ogni inaugurazione, anche se farlocca. C’è chi ha ottenuto favori, passaggi di carriera, pacche sulle spalle, “ritroviamoci presto”, invece di pagare per le proprie inefficienze volontarie o meno. Tutto questo all’ombra dei Mondiali di calcio di Italia 90, la vetrina del Paese, il “nostro biglietto da visita”, come recitavano dal comitato organizzatore, la chance “per pubblicizzarci all’estero e portare turismo”, insistevano. Il risultato è stato, ed è ancora, una voragine di costi spropositati, moltiplicati in ogni cantiere, come un G8 alla Maddalena, ma alla decima potenza, e sotto la guida, il carisma, il sorriso fiero di Luca Cordero di Montezemolo, che oggi (o al massimo domani) sarà nominato a capo del comitato per le Olimpiadi a Roma del 2024.

Premessa d’obbligo: l’ex numero uno della Ferrari non ha assegnato alcun appalto, ma è lui a metterci la faccia, a ottimizzare, a comparire, a rassicurare, a rilanciare con questo tipo di concetti: «È stato il Mondiale dei record, dall’ascolto televisivo, agli incassi negli stadi e alla stampa accreditata. Sì, è stato un Mondiale da capogiro»; per poi «Grazie al lavoro di tutti abbiamo fatto una gran bella figura». Bene, giusto ricordare il valore e il livello di questa “gran bella figura”, magari da replicare nel prossimo futuro.

Se c'è in'immagine in grado di racchiudere tutta la vicenda dei Mondiali di Italia 90, è quella della stazione della metropolitana di Farneto, a Roma: un binario morto, vetri rotti, telecamere divelte, ingressi sbarrati, bottiglie vuote di birra per terra e graffiti sui muri. Insomma, l’emblema della stazione-fantasma aperta allora solo per il passaggio di 12 convogli e poi chiusa, per sempre, “in quanto il collegamento ferroviario – secondo le FS – usato a pieno regime non avrebbe offerto sufficienti garanzie di sicurezza”, per il rischio-crolli sotto la galleria. Il costo? Appena 82 miliardi di lire per realizzare il duo Farneto-Vigna Clara, pure quest’ultima mai aperta, poi subito abbandonata, quindi utilizzata solo per feste private, mercatini, altre iniziative occasionali.

Ma su Roma torneremo. Nella lista della spesa fu inserita la realizzazione di due nuovi impianti calcistici: il Delle Alpi di Torino e il San Nicola di Bari, Matarrese patron. Per la costruzione del primo il rialzo fu di oltre il 200 per cento rispetto alla cifra iniziale, inaugurato venti giorni prima dell’inizio del Mondiale, solo pochi mesi dopo non risulta agibile per il derby tra Juventus e Torino a causa della neve impossibile da spalare. Non va molto meglio in Puglia: il vento si porta via la copertura di Teflon. Altre città, altri casi: i lavori allo stadio di Bologna costano il 90 per cento in più e quelli all’Olimpico di Roma il 181 per cento oltre il previsto (235 miliardi di lire, la cifra finale); a Firenze il rifacimento dell’Artemio Franchi sarebbe dovuto costare 66,5 miliardi, ma quando viene consegnato il prezzo è lievitato a 87,3 miliardi, inoltre, i lavori per la costruzione del parcheggio e dell’area intorno all’impianto proseguiranno per anni, con altri costi a sorpresa. Alla fine i miliardi sono 111. Quando Montezemolo arriva sui cantieri fiorentini, viene contestato da manifestanti che lo accolgono con lo slogan: “Mondiale uguale morte”, vista la frequenza degli incidenti tra gli operai, l’agenzia Ansa li chiamerà esplicitamente “vittime degli stadi”. In tutto, alla fine, saranno 24.

Non solo stadi. Anche le altre infrastrutture offrono il loro “contributo”, come l’hotel Mundial, tra Milano e Ponte Lambro, mai terminato e infine demolito. Il costo? Dieci miliardi di lire. Già nel 1991 è il settimanale Il Mondo a proporre una stima parziale, e registra: a Milano si sono buttati 160 miliardi, a Torino 187, a Genova 81, a Verona 44 per la sala stampa, altri 4,2 per un campo di pre-riscaldamento, per tre parcheggi 7,6 miliardi, altri 19 per una strada d’accesso a quattro corsie. E all’epoca l’Hellas, squadra principale della città, aveva in media diecimila spettatori. E infine di nuovo Roma: l’Air Terminal Ostiense, 350 miliardi di lire il costo, chiuso nel 2003 perché inadeguato allo scopo. Oggi c’è uno degli Eataly di Oscar Farinetti.

In attesa della nomina di Montezemolo, il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, ironizza: «Con lui, sicuro le Olimpiadi si faranno altrove». Ragione o meno, bisogna però riconoscere a Luca Cordero di aver ricoperto in quegli anni, e in pieno, il ruolo di uomo immagine: gli italiani, dopo averlo visto ovunque, fotografato e ripreso, vincente con il cellulare in mano, decisero di far diventare il nostro Paese tra i primi mercati al mondo di telefonia. Peccato che la “bolletta” ci è costata molto cara...

Sbilanciamoci.info, 10 febbraio 2015

La questione greca assume la valenza soprattutto politica di un banco di prova per le possibilità del progetto europeo di andare avanti o di tornare indietro. La “questione greca” emersa dopo le recenti elezioni vinte da Syriza richiama l’attenzione anche sulle relazioni tra economia e politica e fa capire che se negli ultimi anni la prima ha preso il sopravvento sulla seconda, la spiegazione non sta solo nell’egemonia assunta dal neoliberismo, ma anche nella minore capacità della politica di fare la propria parte.

Rispetto a quando si verificò la prima crisi greca, oggi l’Unione europea è finanziariamente molto più protetta da una rete di strumenti specifici ideati dalla tecnocrazia per sostenere i paesi in carenza di liquidità (i fondi ESM ed EFS, i prestiti a lungo termine LTRO della BCE, i suoi acquisti di titoli di stato OMT, le misure non convenzionali come il QE); ma, più in generale, è stata decisiva la forte presa di posizione espressa nel 2012 dal presidente della BCE Mario Draghi nel suo famoso discorso del “wathever it takes” (“la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro. E credetemi, sarà sufficiente”). Tuttavia, a riprova delle cause strutturali della crisi che riguardano l’economia reale e l’assetto politico-istituzionale della costruzione europea, nei paesi dell’UE, e in particolare dell’Area Euro, persiste una grave condizione recessiva che ha ridotto non solo il reddito effettivo, ma anche quello potenziale. Le recenti previsioni di una pur modesta ripresa della crescita nel 2015 e nel 2016 sono labili e non più credibili di quelle sistematicamente smentite negli anni passati proprio perché gli organismi intergovernativi e i responsabili politici dell’Unione poco o nulla stanno facendo sul versante strutturale della crisi.

Tra le cause della specificità negativa dalla crisi in Europa e delle perplessità sulla sua evoluzione c’è il disegno politico della Germania di estendere a livello continentale il suo tradizionale modello di crescita guidato dall’austerità interna e dalle esportazioni che nei due passati decenni ha accentuato il perseguimento della competitività di prezzo, del contenimento dei salari, dei bassi consumi interni e dell’avanzo commerciale. Quel modello è miope poiché non valorizza l’innovazione e i connessi vantaggi comparati del sistema produttivo europeo storicamente fondati sulla conoscenza e sulle elevate condizioni sociali favorite dai nostri più sviluppati sistemi di welfare; i quali non sono un costo - come da qualche decennio viene sostenuto anche in Europa, cedendo politicamente alla vulgata neoliberista - ma uno strumento e una caratteristica del nostro sviluppo. Quel modello, oltre a peggiorare l’iniquità e le divisioni sociali connesse all’aggravarsi delle diseguaglianze degli ultimi decenni, diventerebbe ancor più insostenibile se esteso all’intera Unione: un persistente ed elevato avanzo commerciale dell’intera UE come da anni accade in Germania implicherebbe uno squilibrio nei rapporti internazionali più grave di quello che ha alimentato la crisi globale esplosa nel 2008.

Rispetto a questi problemi e alle prospettive incerte dell’UE, la “questione greca”, da un lato, ha dimensioni economiche relativamente molto modeste (il Pil greco è l’1,5% di quello dell’UE e il 2% di quello dell’Area Euro) e potrebbe indurre erroneamente a sottovalutarla; d’altro lato, assume la valenza soprattutto politica di un banco di prova per le possibilità del progetto europeo di andare avanti o di tornare indietro. Questo secondo aspetto è il più rilevante e lo diventa ancor più se si considera l’evoluzione in corso del contesto internazionale resa preoccupante dal confronto tra USA, paesi europei e Russia sui rapporti di quest’ultima con l’Ucraina; l’indebolimento della costruzione europea alimenterebbe la diversità degli interessi e delle singole posizioni nazionali e non aiuterebbe la stabilizzazione degli equilibri complessivi.

Finora il nuovo governo di Atene e la BCE hanno fatto ciascuno la propria parte seguendo percorsi non sorprendenti. Il primo ha opportunamente denunciato agli altri paesi dell’UE gli aspetti iniqui e controproducenti delle condizioni imposte alla Grecia per il suo cosiddetto salvataggio nella prima crisi, evidenziando anche l’incongruità istituzionale della Troika che non è certo un organismo dell’UE. Le richieste di ricontrattazione - non di ripudio - del debito e dei rapporti con i creditori sono coerenti con la più complessiva necessità di rivedere la visione politica dominante nell’Unione, una revisione che è indispensabile per la stessa sopravvivenza del progetto d’unificazione europea il quale è sempre stato e rimane l’obiettivo del neo capo di governo Tsipras.

D’altra parte, almeno negli ultimi tempi, la BCE ha spesso ricordato che con le funzioni di politica monetaria che le sono assegnate non può sopperire più di tanto alle responsabilità degli organismi politici dell’UE e dei governi dei paesi membri rispetto alla crescita e al consolidamento del progetto europeo. Il comunicato della BCE sull’incontro tra Draghi e Varoufakis, dopo aver specificato che non è nelle possibilità della banca rivedere un programma concordato dal precedente governo greco con i creditori internazionali, ha precisato che il Presidente “ha chiarito il mandato istituzionale della banca e sollecitato il nuovo Governo a confrontarsi in modo costruttivo e rapido con l’Eurogruppo per assicurare la continuazione della stabilità finanziaria”. Insomma, questa volta (anche se non sempre è stato così), a ciascuno le proprie funzioni e adesso la parola va alla politica con le riunioni previste nei prossimi quindici giorni dell’Eurogruppo, del Ecofin e del Consiglio europeo.

E’ giunto il momento che anche i responsabili delle decisioni politiche dicano e dimostrino con azioni concrete ed efficaci che vogliono e sapranno realizzare la costruzione dell’Unione europea “whatever it takes”, a cominciare dalla soluzione della questione greca che rappresenta un’occasione decisiva per gli organismi comunitari d’invertire le politiche controproducenti finora seguite e di non farsi travolgere dalle tattiche di contrattazione dei governi nazionali.

Il manifesto,12 febbraio 2015 (m.p.r.)

Dopo la strage dei gom­moni, par­lare di fata­lità sarebbe osceno. Basta ricor­dare che dall’ottobre scorso si sono mol­ti­pli­cati gli ammo­ni­menti euro­pei a sal­vare meno migranti pos­si­bile, soprat­tutto in aree lon­tane dai limiti dell’“Operazione Tri­ton” (trenta miglia marine). Ha comin­ciato il governo Came­ron, soste­nendo che i sal­va­taggi avreb­bero incen­ti­vato l’immigrazione clan­de­stina. Ha con­ti­nuato a dicem­bre un capo ope­ra­tivo di Fron­tex, di nome Klaus Rosler, già diri­gente della poli­zia bava­rese (ma chi li sce­glie que­sti tomi?), secondo il quale l’Italia è di manica troppo larga con gli stra­nieri che si avven­tu­rano in mare. L’Europa non vuole spen­dere per sal­vare vite umane e quindi migliaia e forse decine di migliaia di migranti potreb­bero anne­gare con l’arrivo della buona sta­gione: que­sta è la banale verità, che con­tra­sta con le affer­ma­zioni roboanti di Alfano, quanto l’operazione Tri­ton (ma chi avrà esco­gi­tato un nome così idiota?) ha sosti­tuito Mare Nostrum (altra bella siglia!), che era dotata di mezzi molto più consistenti.

Solo Came­ron o un poli­ziotto bava­rese può cre­dere o far cre­dere che la pro­spet­tiva di anne­gare con­vinca gente del Mali, del Paki­stan, dell’Eritrea, o di altri cento luo­ghi in cui si muore di fame o di guerra, a restare ad ago­niz­zare a casa loro. Solo una tre­menda, colos­sale ottu­sità, o qual­cosa di infi­ni­ta­mente peg­giore, può moti­vare quest’atteggiamento di chiu­sura verso le ragioni di una minima uma­nità e delle leggi del mare. Noi imma­gi­niamo la dispe­ra­zione dei nostri mari­nai che si sono visti morire assi­de­rati, accanto a sé, ragazzi che si sareb­bero potuti sal­vare se solo l’operazione Tri­ton avesse pre­vi­sto l’invio di navi più grandi a occor­rere i gom­moni. Noi sap­piamo, per­ché l’hanno detto a destra e manca, che i nostri pesca­tori e la nostra gente di mare non dorme la notte al pen­siero di quelli che sono anne­gati, anne­gano e anne­ghe­ranno al di là dei limiti pre­vi­sti dall’agenzia Fron­tex e dall’operazione Tri­ton, che Dio le male­dica entrambe.

E qui si misura come l’ottusità e la mio­pia dell’Europa bot­te­gaia si siano tra­mu­tate in delitti con­tro l’umanità. I soprav­vis­suti della strage dei gom­moni hanno dichia­rato che sono stati imbar­cati sotto la minac­cia delle armi dai mili­ziani in Libia. E que­sto non sor­prende pro­prio, vista la situa­zione che il genio poli­tico di Came­ron, Sar­kozy, Obama, per non tacere di Ber­lu­sconi hanno creato dalle parti di Tri­poli, Derna e Ben­gasi. Ora, igno­rare le con­se­guenze umane delle pro­prie insen­sate poli­ti­che è il prin­ci­pale tratto che acco­muna l’accozzaglia di stati egoi­sti che va sotto il nome di Unione euro­pea. Pen­sate solo alla povertà in Gre­cia, ai bam­bini senza latte, alla sven­dita delle infra­strut­ture di un intero paese che doveva essere punito per essersi inde­bi­tato. Un paese, la Gre­cia, il cui Pil rap­pre­senta il 2 per cento di quello euro­peo e il cui debito potrebbe essere con­do­nato senza danni per la Ue!

Ma die­tro l’indifferenza per le sorti dei greci e dei migranti che si avvie­ranno verso la morte c’è ormai un disprezzo asso­luto, con­cla­mato, trion­fale per il diritto che un tempo si sarebbe chia­mato delle genti. I soldi euro­pei devono restare nelle ban­che, e non spesi per sal­vare vite umane, que­sto è il mes­sag­gio di Fron­tex, di Came­ron, della troika, di Mer­kel, di Herr Rosler e di tutti quelli che si inchi­nano davanti alle ragioni dei più forti e dei più ricchi.

Sarebbe que­sta la “civiltà euro­pea” (parole di Renzi) per cui sono morte decine di milioni di esseri umani nella seconda guerra mon­diale?

Il manifesto, 12 febbraio 2015 (m.p.r.)

Più che di inge­gne­ria finan­zia­ria, l’Eurogruppo straor­di­na­rio di ieri sera era alla ricerca di un’ingegneria lin­gui­stica, per evi­tare a tutti i con­ten­denti di per­dere la fac­cia e far trion­fare la ragione dopo quin­dici giorni di scon­tri ver­bali sem­pre più vio­lenti. Nei fatti, si va verso un’accettazione da parte di Atene di un’«estensione tec­nica» del piano attuale di «aiuti» fino a fine ago­sto, per pre­pa­rare un «accordo olim­pico» di 4 anni.

Ieri, è entrata in vigore la deci­sione della Bce, annun­ciata il 4 feb­braio scorso, di chiu­dere uno dei rubi­netti della liqui­dità per le ban­che gre­che (Fran­co­forte non accetta più in «garan­zia» le obbli­ga­zioni gre­che) e tra due set­ti­mane, cioè quando scade il secondo piano di aiuti alle Gre­cia (130 miliardi), Atene sarà di fronte allo spet­tro del Gre­xit e del default, in man­canza di un accordo: dovrebbe rim­bor­sare 3 miliardi di euro all’Fmi a marzo e 7 miliardi alla Bce quest’estate. La Bce ha in mano l’arma ato­mica, per­ché, in caso di non accordo, potrebbe anche bloc­care l’Ela alla Gre­cia, cioè la liqui­dità di emergenza.

L’obiettivo degli incon­tri di que­sti giorni - dopo l’Eurogruppo dei 19 dell’euro ieri, oggi c’è il Con­si­glio dei capi di stato e di governo Ue e lunedì 16 un altro Euro­gruppo – è arri­vare a un accordo-quadro che dia il tempo di tro­vare una via d’uscita per evi­tare che la Gre­cia vada con­tro un muro e che per l’euro si apra un periodo di peri­co­losa incertezza.

I con­ten­denti sono arri­vati a Bru­xel­les con posi­zioni decise: Ale­xis Tsi­pras, nel discorso della fidu­cia ad Atene mar­tedì, ha affer­mato che la Gre­cia «non chie­derà un pro­lun­ga­mento del piano di aiuti». La Ger­ma­nia, capo­fila degli orto­dossi, ha ribat­tuto che «non ci sarà un nuovo pro­gramma» e, ha pre­ci­sato il mini­stro delle finanze Wol­fgang Schäu­ble, se la Gre­cia non accetta il ver­sa­mento dell’ultima tran­che (7,2 miliardi) nel qua­dro del pro­gramma di «aiuti» in corso, «è finita». Per la Ger­ma­nia, Atene deve comun­que pas­sare per la troika, che Tsi­pras non vuol più vedere all’orizzonte.

Pierre Mosci­vici, com­mis­sa­rio agli Affari eco­no­mici e mone­tari, non esclude una solu­zione ponte: «La Gre­cia deve esten­dere il pro­gramma per avere il tempo di tro­vare una solu­zione di ampio respiro». Per Schäu­ble il 16 è la dead­line visto che il 28 scade il pro­gramma di aiuti e, se ci sarà un nuovo accordo, alcuni par­la­menti lo dovranno votare (Ger­ma­nia, Fin­lan­dia). Il pre­si­dente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijs­sel­bloem, ha riba­dito che «even­tuali modi­fi­che devono essere in linea con gli accordi esi­stenti con i cre­di­tori inter­na­zio­nali di Atene».

Il piano pre­sen­tato ieri dal mini­stro dell’economia Yanis Varou­fa­kis è stato con­ce­pito con l’aiuto dell’Ocse. Il segre­ta­rio gene­rale, Angel Gur­ria ieri era ad Atene, e Tsi­pras potrebbe venire a Parigi ben pre­sto. Ma Gur­ria ha un po’ gelato le spe­ranze gre­che, pre­ci­sando che non sarà l’Ocse «a veri­fi­care i conti», cioè che l’organizzazione non si sosti­tuirà alla troika per «il monitoraggio».

Il piano in quat­tro punti di VArou­fa­kis è un pro­getto di inge­gne­ria finan­zia­ria per alleg­ge­rire il peso del debito «inso­ste­ni­bile» (175% del Pil), la Gre­cia accet­te­rebbe di appli­care il 70% delle riforme impo­ste dalla troika, men­tre il 30% restante, quelle defi­nite «tos­si­che» da Varou­fa­kis, saranno sosti­tuite da un impe­gno con­ce­pito assieme all’Ocse, una decina di misure che com­pren­dono la lotta all’evasione fiscale, alla cor­ru­zione e al clien­te­li­smo, che minano l’economia greca. La Gre­cia chiede poi una revi­sione al ribasso del dik­tat sull’avanzo pri­ma­rio dal 3% all’1,49%, per poter avere la pos­si­bi­lità di rispet­tare gli impe­gni elet­to­rali presi con la popo­la­zione, ed affron­tare la «crisi uma­ni­ta­ria» con inter­venti con­tro la povertà. Per poter met­tere in atto un «nuovo con­tratto» che deve ancora venire pre­ci­sato e che per­metta di uscire dall’austerità, Atene ha biso­gno infine di un programma-ponte per evi­tare il default, che copra sei mesi, fino al 1° set­tem­bre. «Un errore», avverte Schäu­ble. La Gre­cia vor­rebbe rinun­ciare ai 7,2 miliardi dell’ultima tran­che per sfug­gire alle grin­fie della troika ma chiede di recu­pe­rare subito 1,9 miliardi dalla Bce a titolo di inte­ressi matu­rati sulle obbli­ga­zioni gre­che. Inol­tre, chiede anche che la Bce aumenti di 8 miliardi la capa­cità del paese ad emet­tere buoni del Tesoro, oltre­ché l’accesso a 11 miliardi del Fondo elle­nico di sta­bi­lità finanziaria.

Ad avve­le­nare il clima ha con­tri­buito la richie­sta greca alla Ger­ma­nia di pagare «inden­nizzi di guerra», che la Corte dei conti greca valuta a 162 miliardi di euro. Subito è arri­vato il nein tede­sco (dopo l’accordo del ’53, nel ’60 c’è stato il ver­sa­mento di 115 milioni di mar­chi alla Gre­cia e nel ’90 il trat­tato 2+4, appro­vato dalla Gre­cia, avrebbe chiuso il caso).

Tsi­pras gioca anche la carta russa (oggi è a Mosca il mini­stro degli esteri, Nikos Kotzias e Ser­gei Lavrov ha pro­messo «aiuti finan­ziari se tale richie­sta arri­verà», usando i pro­blemi Atene nel con­fronto sull’Ucraina) e cinese (il pre­mier Li Keqiang ha invi­tato Tsi­pras a Pechino).

Forse il problema non è uscire dal lavoro così com’é configurato nell’economia capitalistica, ma costruire una nuova economia basata sul valor d’uso e non su quello di scambio. E facendo rientrare nel lavoro socialmente riconosciuto come tale anche le attività finalizzate alla produzioni di “beni” anziché di “merci”, che oggi vengono relegate al “tempo libero.

MicroMega, 11 febbraio 2014


Flexicurity, ovvero uno strumento europeo di politica del lavoro

Flexicurity

suona bene sin dalla sua pronuncia, certamente meglio dell’italico “flessicurezza”. E’ un termine sfavillante, che ha un’apparente sapore di modernità nella sua versione d’importazione. E, diciamola tutta, affascina anche nella sua astratta descrizione scientifica, riferendosi ad un “modello di politica del lavoro capace di riformare e unificare i diversi sistemi di welfare esistenti in Europa”, e costituendo “un mezzo per raggiungere un fine, ovvero assicurare che i benefici dei sistemi di welfare restino una garanzia per tutti (comprese le generazioni future), rafforzando l’adattabilità e la capacità di affrontare i cambiamenti sia per i singoli che per le imprese” .

Si tratta dunque di uno strumento di politica del lavoro ibrido, promosso direttamente a livello europeo-comunitario allo scopo di uniformare i diversi modelli degli Stati membri, sostenendo da un lato una domanda del lavoro quasi totalmente deregolamentata ed in linea con la teoria classica neoliberista, che richiede forme di flessibilità numerica, funzionale e salariale della “forza-lavoro” in modo da adeguarla “in tempo reale” (secondo il modello just in time) ai cambiamenti tecnologici e alle sempre mutevoli esigenze del mercato, e dall’altro garantendo un moderno sistema di sicurezza sociale, in grado di intervenire con efficaci sistemi di sostegno al reddito, considerato che le fasi di passaggio da un’occupazione ad un’altra non possono quasi mai essere senza soluzione di continuità.

Flexicurity e tecno-nichilismo

Se volessimo reperire un ascendente teorico-filosofico della flexicurity, ben potremmo porre lo sguardo - senza tema di smentita - ai caratteri propri della società della globalizzazione (o, come è stata meglio definita in un recente saggio, della “prima globalizzazione”). Società fondata sul dominio della tecnica (economico/finanziaria ed ingegneristica) che ha modellato in chiave reticolare l’esistenza dell’uomo, il quale si trova ora “navigante” (e quasi annegato) in un flusso di merci, beni, dati e informazioni che si compongono e scompongono con velocità estrema nell’intera “rete globale”, e che ne hanno smaterializzato (o meglio, liquefatto) la natura. E’ il topos del tecno-nichilismo in cui l’uomo, subordinato alla tecnica, è ora bene, ora merce, ora dato, ora capitale (cosiddetto “umano”) inserito nei miliardi di flussi che percorrono le reti (telematiche/commerciali/finanziarie/industriali/logistiche/lavorative/giuridiche) alla velocità della luce: ed i materiali così veicolati nei flussi delle reti valgono (e vengono considerati) solo e soltanto se funzionano nell’ambito delle reti stesse.

Siamo al trionfo del tecno-nichilismo e della volontà di potenza, in cui vale non ciò che è, ma solo ciò che si vuole far funzionare nei canali - strutture costitutive delle reti - deputati al veloce scorrimento dei flussi di beni, capitali, dati: è la legge dell’efficacia o “lois de l’efficacitè”, per dirla con Albert Camus.

Leggiamo un passo, splendido nella sua nettezza, di un grande giurista che così traduce il trionfo del tecno-nichilismo nello specifico campo del diritto:

«Il diritto costruisce la propria artificialità servendosi di macchine e applicando procedure…..il suo scopo non è né di garantire l’attuazione di eterne verità, né di difendere un’etica della vita, ma soltanto di funzionare….la macchina funziona senza riguardo ad uno od altro contenuto. Non importa il perché ed il che cosa, ma soltanto il come: non importa la verità, ma soltanto la validità della norma giuridica… Tutti i contenuti possono attraversare quei congegni produttivi… nomo-dotti, canali percorsi da ipotesi di norme. Poiché non c’è una verità condizionante, vige l’indifferenza contenutistica, la neutralità delle procedure rispetto alle materie che vi sono immesse. Fiat productio… soltanto il volere le fa valere”.

Flessicurezza e “doppia alienazione”

Se consideriamo l’uomo inserito in tale contesto produttivo tecno-nichilista, non possiamo non rinvenire i netti profili dell’alienazione; stiamo parlando di un uomo che non è più neanche res, cosa, ma mero, inanimato fluido: dal tipo dell’uomo-macchina proprio del modello fordista-taylorista al paradigma dell’uomo quale “lubrificante” della macchina. Ecco spiegata l’esigenza di “flessibilità”, ovverosia del termine flex, primo membro del binomio flexicurity. Ciò che non funziona o, meglio, non è abbastanza flessibile, liquido per circolare nei canali delle reti tecno-produttive, diventa ovviamente scarto: anche l’esistenza umana, reificata e veicolata nei flussi testè citati, può diventare “vita di scarto” o esubero, sinonimo di “rifiuto umano”.

Ma c’è una via di possibile e necessaria uscita e di recupero, diremmo di apparente ed illusoria “rinascita” in questo demoniaco sistema, che viene veicolato dal sistema stesso: l’uomo-fluido lubrificante della macchina è al contempo anche uomo-macchina desiderante (ovverosia consumatore), il cui desiderio di consumo è il motore interno della macchina. La macchina funziona, infatti, solo se vi è consumo (e non accumulo) di ciò che dalla stessa viene prodotto. Il sistema tecno-nichilista, infatti, si fonda e si muove precipuamente sulla base del consumo dei beni, dei servizi, delle informazioni prodotte dai circuiti reticolari: in poche parole, è la domanda il combustibile dell’intero sistema che altrimenti, in sua assenza, rischia di implodere, come evidenziato nell’ultima, sistemica crisi economica.

La domanda - e con essa l’uomo-macchina desiderante o consumatore- ha dunque bisogno di un sostegno, di un “meccanismo di sicurezza”, ovverosia proprio della security, secondo elemento del sintagma della “flessicurezza”: ne deriva la teorizzazione di strumenti di sostegno dei redditi, ora pubblici (quali sussidi di disoccupazione, assegni familiari, cassa integrazione et similia) ora privati (attraverso l’intermediazione bancario-finanziaria), con la diffusione del “credito al consumo” attraverso una pluralità di mezzi di indebitamento, quali carte di credito, finanziamenti brevi (i cd payday loans), rifinanziamenti delle ipoteche sugli immobili, scoperti di conto corrente e quant’altro serva a integrare i salari erosi dalla flessibilità.

Questa iniziale riflessione, dunque, ci porta ad un primo punto di arresto: la flexicurity è la filosofia generale - o meglio, l’“attrezzo comune”- del sistema tecno-nichilista, più comunemente noto come capitalismo neoliberista.

Flessibilità, mercato del lavoro e “uberizzazione”

Passiamo quindi ad osservare la concretizzazione della “flessicurezza” nel più specifico circuito del “mercato del lavoro” odierno. Il drammatico panorama della flessibilità lavorativa è ormai conoscenza comune acquisita da tempo, sostanziandosi nella tripartizione in:

a) flessibilità “numerica” della quantità di lavoro in entrata e in uscita, attraverso il proliferare di una moltitudine di contratti atipici (a chiamata, a progetto, di job sharing, di somministrazione di manodopera et similia) o di contratti di lavoro subordinati a tempo determinato (con la più ampia possibilità di apporre il termine in una serie quasi illimitata di contratti a scadenza come previsto ad esempio, per lo specifico ambito italiano, dall’ultimo “Decreto Poletti”) e a tempo indeterminato (con la flessibilità introdotta anche in tale area, attraverso la sostanziale abrogazione dell’art. 18 Stat. Lav. portata avanti dal nuovo “contratto a tutele crescenti” disciplinato dalla seconda parte del recente “Jobs Act”);

b) flessibilità “funzionale” nella gestione del rapporto di lavoro, attraverso la possibilità di modificare unilateralmente le mansioni, anche in peius dequalificando il patrimonio professionale (si veda quanto previsto dalla Legge delega 183 del 2014 in materia di demansionamenti) o attraverso la totale liberalizzazione degli orari di lavoro con i contratti a part-time, che consentono la gestione “premiale” o “sanzionatoria” della forza-lavoro, mercè la concessione o la negazione di ore supplementari di lavoro necessarie ad integrare salari-base esigui ed insufficienti per la sussistenza o forme di orario flessibile quale quello multiperiodale (ovverosia variabile entro un dato lasso di tempo) o elastico;

c) flessibilità salariale con retribuzioni che, con riferimento al singolo lavoratore, possono essere legate non solo all’orario di lavoro (si pensi al sopracitato contratto a part-time e alla possibile variazione in aumento o in diminuzione delle “ore supplementari”) ma anche a nuove, “moderne” forme di cottimo digitale: primo fra tutti, recentemente sbarcato anche in Italia, il cosiddetto crowdworking, una sorta di “asta digitale” in cui qualsiasi richiedente, attraverso una piattaforma telematica che fa da intermediario, “posta” on line i lavori richiesti (che consistono di solito in progetti tecnici e/o richieste di consulenze qualificate). A seguito dei molteplici lavori ricevuti, il richiedente ne sceglie solo uno: ovviamente il lavoro rifiutato non viene pagato, mentre quello accettato viene pagato a prezzi infimi. Basterà riprendere le parole di Guy Standing per un giudizio senza appello: «E’ cottimo, in una forma che porta alla spremitura estrema, la forma definitiva di precariato nella quale i lavoratori sono puri postulanti, privi di diritti o sicurezza».

Se poi volessimo dare uno sguardo ancora più aggiornato al panorama della flessibilità contemporanea, vedremmo come l’esasperazione di tale dinamica abbia condotto a forme di lavoro talmente liquefatte, da far venir meno addirittura la stessa identità professionale del singolo lavoratore, scisso in un patchwork di molteplici e contemporanee – rispetto alla singola giornata lavorativa – occupazioni: siamo alla “uberizzazione” del lavoro come icasticamente rilevato da Carlo Formenti, il quale nella sua acuta analisi sul neonato fenomeno della società Uber rileva la «definitiva dissoluzione di ogni identità di classe, nella misura in cui ci trasformerebbe tutti in una massa indistinta e orizzontale di individui indipendenti costretti ad arrabattarsi in un forsennato bricolage senza nessuna garanzia di stabilità di reddito, di futuro e senza nessun controllo sul proprio tempo di vita (per tacere della qualità stessa)”.

Quali sono stati gli effetti di questa iperflessibilizzazione? Sono sotto gli occhi di tutti: l’aumento vertiginoso della disoccupazione negli ultimi anni ed il crollo del livello medio dei salari (che gli economisti, con linguaggio farisaico, definiscono “moderazione salariale”), tali da scendere sotto la soglia necessaria a garantire un’esistenza libera e dignitosa, così come invece solennemente previsto dall’art. 36 della nostra Costituzione, dando origine al sempre più diffuso fenomeno del “lavoro povero”.

I dati di una recentissima ricerca presentata al Cnel sul fenomeno dei working poor non lascia spazio a repliche: 3 milioni e 750 mila “lavoratori poveri” solo in Italia, vale a dire persone con un reddito netto orario inferiore ai 2/3 del reddito medio. In pratica si tratta di lavoratori, sia subordinati che autonomi, le cui retribuzioni si aggirano sui 4,8 euro netti all’ora (quando la media netta è di 6,2 euro all’ora) e che, oltre ad essere lavoratori poveri, saranno condannati a diventare, tra qualche anno, pensionati poveri.

Effetti individuali e sociali della flessibilizzazione

Ma vi è di più.

Gli effetti si sono riverberati innanzitutto a livello individuale sugli stessi lavoratori vittime della “flessibilizzazione” i quali, in ragione della somma incertezza causata da queste forme lavorative (incerte sia nell’ sia nel quantum), sono stati comunemente definiti “lavoratori precari”. Precarietà che si è riflessa sull’esistenza e sulle vite stesse, attraverso lo smarrimento di una precisa identità professionale (scissa, come abbiamo visto, in una moltitudine di disperse tessere lavorative), la perdita del controllo del tempo (con lavori che possono occupare, senza preavviso, qualunque parte della giornata o della settimana -come i cosiddetti lavori a chiamata- o estendersi anche oltre l’orario canonico di lavoro -da cui il “lavoro senza fine”-), la fine della mobilità sociale (in ragione di retribuzioni sotto il livello minimo di sussistenza), la sottoccupazione (ovverosia lo svolgimento di mansioni di gran lunga inferiori rispetto al proprio patrimonio professionale).

I lavoratori flessibili, dunque, diventano ostaggi di due trappole: quella della precarietà e quella direttamente connessa della povertà, da cui drammaticamente non riescono ad uscire.

Ecco spiegato il dilagare, da alcuni anni a questa parte, di numerose patologie psichiche, in primo luogo della depressione, «la quale può essere definita la malattia sociale nell’era del tecno-nichilismo». Il crollo delle aspettative individuali e sociali in ordine alla realizzazione professionale (ovviamente vanificata da una vita precaria ed incerta) ed al correlativo culto della performance e dell’efficacia (la già citata “lois de l’efficacitè”), infatti, ben può ascriversi tra le cause di primo piano nella patogenesi dei sempre più numerosi disturbi depressivi (tra cui l’ansia e lo stress) espressione, a loro volta, “dell’insostenibilità del sistema tecnico e delle sue determinazioni sociali”.

Le conseguenze del profondo malessere sociale frutto dell’esplosiva miscellanea tra flessibilità, incertezza, disoccupazione e povertà sono alla radice anche dei sempre più numerosi movimenti sociali di protesta che, dal 2011 ad oggi, hanno spinto nelle piazze di tutto il mondo migliaia di persone “indignate” le quali, a loro volta, hanno ingrossato le fila della nuova “classe esplosiva”, il precariato, insieme di “non-cittadini” (denizens) «dipendenti dalla volontà altrui…postulanti privi di diritti, soggetti alla carità o al benvolere altrui» alla ricerca di una rinnovata cittadinanza sociale.

Flessibilità senza sicurezza

Che ne è invece della “sicurezza”, secondo elemento del binomio “flexicurity”, dinanzi a questo disastroso stato di cose causato dalla flessibilità?

Se da un lato la devastante crisi economico-finanziaria in corso dal 2008, sostanziatasi anche nel cosiddetto “credit crunch” (“stretta creditizia”) ha limitato notevolmente le forme di sostegno bancario al reddito attraverso la fine del “credito facile” e la riduzione degli strumenti di indebitamento (concessi soltanto dopo lunghe e severissime istruttorie), dall’altro le forme pubbliche di supporto del reddito e dell’occupazione sono state, soprattutto in Europa, falcidiate e ridotte ai minimi termini dalle rigorose politiche di austerity ormai in corso da anni.

Ciò si è tradotto, in concreto, nell’introduzione di rigorosi sistemi di controllo, valutazione e condizionamento dei richiedenti i sussidi pubblici nei Paesi Europei (la maggioranza) che hanno un meccanismo di reddito minimo garantito condizionato: innovazioni che, di fatto, hanno comportato una drastica riduzione nelle erogazioni dei sussidi necessari a garantire la “sicurezza” ai sempre più numerosi soggetti estromessi dal mondo del lavoro flessibile. L’Italia, ovviamente, si caratterizza per essere il “fanalino di coda” anche in materia di sicurezza sociale insieme agli altri paesi dell’ “area mediterranea”, il cui raggruppamento è connotato dall’ «assenza di una rete di protezione minima di base, non di categoria, erogata e gestita a livello di governo centrale». E tale linea di tendenza regressiva, peraltro, non sembra essere più di tanto intaccata dall’introduzione dei nuovi ammortizzatori sociali previsti nello schema di decreto del 24 dicembre 2014, che ha introdotto la cosiddetta Naspi, la Asdi e la Discoll, sussidi di disoccupazione limitati nel tempo, condizionali e non universali.

Il paradosso dell’improduttività

Abbiamo dunque visto, nel nostro breve volo radente sul mondo del lavoro, come le macerie lasciate dalla “flessibilità” non siano state neanche rimosse dalla “sicurezza”, la cui promessa sarebbe insita nel mito della “flexicurity”.

Al contrario ed anche sorprendentemente, decenni di “iniezione” del fluido lavoro flessibile nei circuiti del mercato del lavoro non hanno portato allo sperato aumento di produttività così come ipotizzato dalla dogmatica neoliberista, tutt’altro: l’analisi empirica dei dati economici degli ultimi anni ha anzi rivelato la sussistenza di una relazione inversa tra flessibilità e produttività, per cui all’aumento della prima diminuirebbe costantemente la seconda. Ed invero, «la maggiore occupazione, ottenuta con contratti di questo tipo -spesso riguardanti lavoratori marginali, sul cui capitale umano le imprese si presume che investano poco- si sarebbe accompagnata a minori contributi in termini di produttività. In questa direzione vanno sia i contributi che utilizzano dati a livello microeconomico sia i contributi di tipo macroeconomico»: una sentenza inappellabile.

Del resto, che la precarietà derivante dal lavoro flessibile non fosse sorella della produttività era già da tempo desumibile, sul piano della prospettiva sociologica, considerando il classico esempio del lavoratore con contratto a tempo determinato a breve scadenza il quale, dinanzi ad un pezzo difettoso trovato lungo la catena di montaggio, preferisce girare il capo piuttosto che preoccuparsi di rimuoverlo.

Scattiamo a questo punto un’istantanea del quadro lavorativo contemporaneo, riprendendo nel complesso i tratti già visti nel nostro fin qui breve percorso: ci troviamo dinanzi a lavoratori ormai totalmente mercificati, privi di potere contrattuale a causa sia dell’ampia massa di manodopera di riserva prodotta dalla disoccupazione sia in ragione della quasi totale perdita dei diritti un tempo contenuti negli “statuti lavorativi”, con retribuzioni dal livello molto basso, ai limiti della sussistenza (cosiddetto lavoro povero) e corrosi nel carattere e nella personalità dall’insicurezza generata dalla precarietà che è l’architrave dell’intero sistema lavorativo.

Lavoro e attività lavorativa

Se tuttavia mettiamo meglio a fuoco la visione del quadro generale, possiamo osservare come a fianco del lavoro svolto obbligatoriamente allo scopo di affrancarsi dal bisogno materiale e ciononostante povero di diritti e di salario e scarsamente produttivo di beni e di servizi, si pone un nuovo e diffuso fenomeno, analizzato da numerosi studiosi ed oggetto di molteplici definizioni; stiamo parlando di quella forma di lavoro scelto e svolto liberamente da milioni di persone ogni giorno, che pur non essendo remunerato è produttivo di un ingente valore sociale: il lavoro volontario nelle organizzazioni no profit (pensiamo ad esempio alle migliaia di persone attive nell’assistenza ai disabili, ai poveri, ai migranti, alle innumerevoli persone che con costanza e passione fanno vivere le associazioni culturali, ambientali e le associazioni dilettantistiche sportive), il lavoro di cura ed assistenza domestico e familiare (rammentiamo l’attività di cura dei nipoti da parte dei nonni, vero e proprio welfare sociale familiare e l’attività delle madri e dei padri che impegnano larga parte della giornata nella cura e nell’educazione dei figli), l’attività di creazione e diffusione della conoscenza con cui quotidianamente abbiamo a che fare nella “rete”, sia nei blog sia nei contributi a matrice aperta pubblicati sul web.

Distinzione, questa, che pare riflettere l’emergente divisione tra economia sociale ed economia di mercato, e che si sostanzia nella scissione tra attività umane produttive di valore sociale ma non certificate come tali dal “mercato” (trattandosi della produzione di valori “immateriali”, difficilmente quantificabili in forma di prezzo, unità di misura tipica del mercato) e processi lavorativi tradizionali oggetto di un costante processo di svalutazione economica e funzionale. Da qui, nella letteratura lavoristica, il moltiplicarsi delle contrapposizioni tra work e labour, tra opus e labor, tra lavoro e attività.

Siamo dunque alla fine del lavoro, vaticinata vent’anni orsono in un famoso saggio dall’omonimo titolo? La risposta non sembra positiva; al contrario, gli indicatori empirici paiono di tutt’altro segno: il lavoro è proteiforme, ha mutato rapidamente forma e aspetto. Se è vero infatti che l’art. 1 della Costituzione, nell’affermare solennemente il nesso inscindibile tra democrazia e lavoro, ci dice anche e soprattutto che “lavorare non è l’esperienza del servo o dello schiavo, ma del cittadino libero”[, allora ben potremo convenire con chi definisce come “lavoro alienato” le maggioritarie forme di lavoro povero flessibile (simulacri del lavoro), al contrario esaltando quale “lavoro libero” le attività lavorative non remunerate a finalità sociale.

E’ dunque possibile sostenere, a ragione, che queste ultime forme di attività rappresentano la sublimazione del lavoro così come costituzionalmente inteso, in quanto sintesi ed equilibrio della libera realizzazione del proprio daimon (talento) e della altresì necessaria finalità sociale. Eppure, manca l’elemento fondamentale ai fini della liberazione dell’uomo dalla schiavitù del bisogno, ovverosia la retribuzione. Eccoci arrivati allo snodo cruciale che richiede un coraggioso “salto culturale”.

Una via d’uscita: il reddito minimo universale

Se è vero, come abbiamo poc’anzi visto, che si è sviluppato un sistema parallelo di attività umane produttive di valore e ricchezza sociale senza remunerazione alcuna (tali da far parlare, come abbiamo visto, di “economia sociale”), è giusto che tali attività vengano remunerate direttamente dai beneficiari, ovvero dalla società: ecco nascere l’esigenza, sempre più diffusa, di forme di “reddito minimo universale” (definito anche basic income), erogabili dalle autorità pubbliche locali, nazionali o sovranazionali, ed a carico quindi della fiscalità generale.

Il reddito minimo universale, dunque, acquista in tale ottica la natura di un reddito (con cadenza mensile o periodica, attraverso un trasferimento diretto di denaro) versato dalla società (nella forma della comunità politica locale, nazionale o sovranazionale) a tutti i suoi membri, su base individuale e senza nè condizioni (ovvero non subordinato allo svolgimento di specifici lavori ordinari indicati, ad esempio, dai centri per l’impiego come nel modello del reddito minimo garantito) nè controllo dei mezzi economici (erogato dunque indipendentemente dalla sussistenza o meno di uno stato di bisogno economico), trattandosi della remunerazione per le molteplici forme di attività produttiva sociale svolte da ciascuno. Un reddito “minimo”, ovvero sufficiente alla sola sopravvivenza dell’individuo (al fine di stimolare la persona ad un miglioramento delle proprie condizioni materiali attraverso il classico lavoro proprio dell’economia di mercato, dunque cumulabile con eventuali altri redditi aggiuntivi) e al contempo sufficiente ad affrancare le persone dalla “trappola della povertà” e del bisogno immediato, conferendo appunto una minima sicurezza di base.

Esperienze concrete di tale istituto, a parte quella consolidata dello stato dell’Alaskae altre limitate applicazioni sociali, non se ne hanno: si tratta di un esperimento di “ingegneria sociale” inedito e di fatto nuovo per l’umanità. Ma vale la pena sperimentarlo, sia per le profonde motivazioni idealiivi sottese sia per le concrete ed impellenti istanze di giustizia sociale che esso porta con sé: del resto, “come è avvenuto nel passato per il suffragio universale, la metamorfosi del reddito minimo universale, da sogno di qualche eccentrico a evidenza per tutti, non avverrà in un sol giorno”.

Ovviamente non è nostra intenzione addentrarci nel “campo minato” delle discussioni relative alla compatibilità economica di questo vero e proprio strumento di “salario sociale”, pur ritenendo particolarmente interessanti e degne di rilievo le considerazioni svolte da Andrea Fumagalli il quale, nel suo recente saggio Lavoro male comune, ha posto in rilievo la fattibilità economica del reddito minimo garantito, che dovrebbe sostituire tutte le forme di ammortizzatori sociali oggi sussistenti (indennità di disoccupazione, cassa integrazione e simili), incidendo non sulla contribuzione sociale (Inps) ma sulla fiscalità generale (Irpef e altre imposte): con ciò, considerazione non secondaria, andando a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dal costo dei contributi, che diminuirebbero della quota corrispondente all’eliminazione dei relativi ammortizzatori.

Fine del lavoro, diritto alla scelta del lavoro e seconda globalizzazione

Ora, come si affaccerebbe sul mercato del lavoro ordinario la persona che, essendo già remunerata -nel minimo vitale- per le attività sociali svolte nella vita quotidiana, fosse quindi affrancata dal bisogno primario di vivere?

Eccoci tornati, attraverso il reddito minimo universale, alla riappropriazione del potere contrattuale sottratto dallo strumento della flessibilità: certamente l’incremento della disponibilità economica di base di ciascun individuo potrebbe chiudere le porte alla “ricerca di un lavoro qualsiasi”, schiudendo al contempo gli orizzonti del “diritto alla scelta del lavoro”. Con la correlativa necessità, per ciò che riguarda il lato della “domanda di lavoro” datoriale, di offrire condizioni lavorative più decorose e salari finalmente dignitosi, allo scopo di acquisire una manodopera che, altrimenti, diventerebbe pressoché irreperibile: e’ la fine del lavoro contemporaneo, e con esso la fine della dittatura della flessibilità esasperata e della “moderazione salariale”.

Questi potrebbero essere, in nuce, i germogli della “seconda globalizzazione”, di una nuova epoca in cui, oltre alla nascita di una nuova economia di mercato basata sullo sfruttamento delle energie rinnovabili, sulla conoscenza e sull’innovazione (la cosiddetta knoledge economy), sul ritorno della dialettica globale/locale con la riscoperta della centralità dei luoghi e delle comunità, vi sia altresì la forte affermazione della centralità dell’uomo attraverso un rinnovato illuminismo che, contro ogni forma di oscurantismo neoliberistico, ponga al servizio della società e della persona la tecnica e, prima fra tutte, la tecnica economica.

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La strage nel Mediterraneo prosegue. Pochi, nel Primo mondo, se ne fanno carico cominciando col ricordare le pesanti responsabilità degli USA e dell’Europa nel produrre e alimentare le la politica di saccheggio del Terzo mondo e, nei decenni più vicini, alla distruzione degli equilibri politici sella sponda meridionale del Mediterraneo: quindi le responsabilità che ne conseguono. Le stesse guerre che dilaniano i paesi della “Mezzaluna fertile sono il prodotto delle politiche degli stati del Nordatlantico. Noi siamo i principali colpevole, a noi tocca individuare le soluzioni appropriate, nel breve e nel lungo periodo.

Tra i pochi che fanno il proprio dovere troviamo Barbara Spinelli, eurodeputata italiana della sinistra europea, eletta nella lista “L’altra Europa con Tsipras”. Riportiamo qui il testo di un suo comunicato stampa.

Restaurare "Mare nostrum"

«Le notizie dal Mediterraneo sono tragiche: fra 300 e 400 morti, come nel 2013 a Lampedusa”, ha detto Barbara Spinelli intervenendo nella seduta plenaria di Strasburgo dedicata alla discussione sull’agenzia europea Frontex e sull’EASO.

«Ormai i fatti parlano da sé, afferma: la fine di “Mare Nostrum” produce ancora una volta disastri umanitari, e la missione Frontex che era stata descritta come risolutiva – mi riferisco a "Triton" – si rivela quella che è: una falsa sostituzione, e un fallimento radicale. È il motivo per cui non ritengo, nelle presenti circostanze, che Frontex debba ricevere ulteriori risorse: a dispetto di regolamenti troppo vaghi e non applicati, il suo compito è esclusivamente il pattugliamento delle frontiere, non la ricerca e il salvataggio di fuggitivi da guerre e caos che s’estendono anche per nostra responsabilità.

«Frontex mette addirittura in guardia il governo italiano, ricordando che i soccorsi da lei coordinati sono vietati oltre le 30 miglia dalla costa, ha continuato l’eurodeputata del GUE-NGL I naufragi di questi giorni sono tutti avvenuti in alto mare, presso le coste libiche. Dove appunto operava" Mare Nostrum". La verità è che “Mare Nostrum”, nonostante le dichiarazioni delle autorità europee e italiane, non è mai stato sostituito.

«Due cose dovremmo a questo punto chiedere, come Parlamento», ha concluso l’onorevole Spinelli. »Primo: che Frontex non opponga ostacoli, quando è chiamata a soccorrere oltre le 30 miglia. Secondo: che l’Europa si decida a sostenere finanziariamente la restaurazione di missioni come Mare Nostrum. Sia l’Alto Commissariato dell’Onu, sia il Consiglio d’Europa, hanno dichiarato che Triton ‘non è all’altezza’. Cosa aspettiamo per far sentire la nostra opinione? Ha detto il presidente del Senato italiano, Pietro Grasso: ‘Agire ora è già troppo tardi’».

Il manifesto, 11 febbraio 2015

A due set­ti­mane dalla vit­to­ria elet­to­rale di Syriza i ter­mini dello scon­tro tra il nuovo Governo greco e l’Unione Euro­pea si deli­neano con chia­rezza. Non è solo scon­tro tra dot­trine e poli­ti­che eco­no­mi­che diverse: una favo­re­vole alla spesa pub­blica, l’altra attac­cata all’austerity. E meno che mai un con­fronto tra euro sì ed euro no. In que­sta vicenda l’economia ha ceduto il posto alla poli­tica; anzi, a un puro rap­porto di forze.

Non è nem­meno, anche se così ci avvi­ci­niamo al nucleo del con­ten­dere, un con­fronto tra una poli­tica che mette al cen­tro le per­sone e una poli­tica incen­trata sul denaro. In gioco c’è l’accettazione o il rifiuto del domi­nio incon­tra­stato di chi ha il denaro su chi denaro non ne ha: quel domi­nio che Marx chiama Capi­tale, ben sapendo che esso è un rap­porto sociale, le cui poste sono la ripar­ti­zione del red­dito tra salari e pro­fitti (nelle loro varie forme), modi e tempi del lavoro, accesso ai ser­vizi sociali, appro­pria­zione di tutto l’esistente: risorse natu­rali, vita asso­ciata, ser­vizi pub­blici, sapere, genoma, salute.

Il pro­blema non è se la Gre­cia resti­tuirà o no il debito che i suoi gover­nanti hanno con­tratto per suo conto, come cer­cano di farci cre­dere gli apo­lo­geti della finanza, spie­gan­doci che a pagare per i Greci rischiamo di essere noi. È chiaro che quel debito «i Greci» non lo paghe­ranno mai: non hanno il denaro per farlo ora; non lo avranno nem­meno in futuro; per almeno una gene­ra­zione. Lo sanno tutti. Ma a chi tiene i cor­doni della borsa que­sto non inte­ressa: basta che quel debito sia regi­strato nelle scrit­ture con­ta­bili e che tutti - cre­di­tori e debi­tori - si inchi­nino di fronte al suo potere. Per­ché è con quelle scrit­ture con­ta­bili che gli «gnomi» della finanza pos­sono man­dare in rovina, in 24 ore, un intero popolo per diverse gene­ra­zioni. Se e fin­ché quel potere verrà loro rico­no­sciuto. Ma disco­no­scerlo non è facile. E mette paura. Soprat­tutto se a disco­no­scerlo si rimane da soli.

Anche il con­fine tra cre­di­tori e debi­tori, peral­tro, è tutt’altro che netto. Pren­dete l’Italia. Uffi­cial­mente è cre­di­trice della Gre­cia per 40 miliardi, pre­stati attra­verso il, Bce, Fmi e Fondo salva-stati. Pec­cato che per pre­stare quel denaro alla Gre­cia con il Fondo salva-stati, il nostro paese si sia inde­bi­tato di altret­tanti miliardi, andati ad aggiun­gersi alla mon­ta­gna del suo debito pub­blico: tanto grande da met­terla a rischio di fare la stessa fine della Gre­cia. Ma è così per tutti: il debito è come una serie di sca­tole cinesi, una den­tro l’altra, di cui, soprat­tutto in Europa - dove non esi­ste più una Banca cen­trale «pre­sta­tore di ultima istanza» - non si intra­vede la fine.

Chi detiene il debito dell’Italia? Ban­che, assi­cu­ra­zioni e fondi spe­cu­la­tivi (più qual­che pic­colo rispar­mia­tore). Ma ban­che e spe­cu­la­tori hanno acqui­stato quel debito facendo altri debiti. E que­sti chi li detiene? Altre ban­che, altri fondi, altri spe­cu­la­tori. E così di seguito, fino a che non si incappa in un pugno di ric­ca­stri (l’1 per cento - o forse per mille - della popo­la­zione mon­diale) che non sareb­bero mai diven­tati tali senza essere ben inse­riti in que­sto mar­chin­ge­gno; e in un eser­cito di polli pronti per essere spen­nati. Che, per svol­gere nor­mali atti­vità di com­pra­ven­dita, o per garan­tirsi cure medi­che, vec­chiaia e istru­zione, hanno affi­dato i loro risparmi a que­gli ope­ra­tori. I quali, gra­zie alla man­canza di con­trolli, rie­scono a mol­ti­pli­care quel denaro a loro esclu­sivo van­tag­gio. Sono loro, ora, i «pre­sta­tori di ultima istanza»: quelli che hanno il col­tello dalla parte del manico. Ma è un sistema tanto più fra­gile quanto più è mac­chi­noso. Un gra­nello di sab­bia potrebbe farlo cadere rovi­no­sa­mente, come sette anni fa con il fal­li­mento Leh­man Bro­thers. Ma cadere da che parte? Verso un regime ancora più auto­ri­ta­rio, o verso una società che impara a gover­narsi da sola?

Messa in que­sti ter­mini, si capi­sce la durezza di governi e auto­rità euro­pee con­tro il pro­gramma di Syriza. In gioco c’è pro­prio quel mar­chin­ge­gno, da cui dipende il destino dell’Europa così come è ora; e forse anche gran parte dei rap­porti tra le classi sociali e tra la società e l’ambiente in tutto il mondo. Se il governo Greco riu­scirà a «spun­tarla» è per­ché man­darlo in malora rischia di far crol­lare il castello su cui è costruito il potere di tanti governi fat­tisi tra­mite degli inte­ressi dell’alta finanza. E rischia di inne­scare un «effetto domino» capace di risuc­chiare den­tro un grande buco nero tutti i paesi più fra­gili dell’Unione euro­pea, per arri­vare poi a coin­vol­gere, uno die­tro l’altro anche quelli più solidi. Ma se il Governo greco la spun­terà, sarà anche e soprat­tutto per l’appoggio che rice­verà da una mobi­li­ta­zione che può e deve coin­vol­gere l’Europa intera. Per que­sto è così impor­tante la mobi­li­ta­zione di sabato pros­simo a soste­gno del popolo e del governo greco!

Non sarebbe una vit­to­ria da poco; sarebbe la dimo­stra­zione pra­tica che l’autorganizzazione di base e il mutuo soste­gno pagano: che le far­ma­cie e gli ambu­la­tori aperti dal volon­ta­riato, le mense popo­lari, le coo­pe­ra­tive e i far­mers mar­ket (i Gas), la tele­vi­sione di Stato che ha con­ti­nuato a tra­smet­tere su basi volon­ta­rie dopo la sua chiu­sura, le fab­bri­che auto­ge­stite, le monete alter­na­tive locali, e tutte quelle ini­zia­tive appog­giando e pro­muo­vendo le quali Syriza è diven­tata mag­gio­ranza pos­sono essere l’inizio di una rior­ga­niz­za­zione dei rap­porti sociali: un’organizzazione incen­trata non più sul potere del denaro, ma sui biso­gni delle persone.

Que­sta è la vera posta in gioco dello scon­tro in atto. Le auto­rità euro­pee non esclu­dono certo nuove forme di «aiuto» finan­zia­rio per le casse esau­ste del governo e delle ban­che gre­che; a con­di­zione, però, che venga rin­ne­gato quel soste­gno a una popo­la­zione esau­sta, a un’occupazione ridotta ai minimi ter­mini, ai biso­gni più ele­men­tari della gente; cioè al pro­gramma che l’elettorato ha votato per far valere la pro­pria dignità.

Con­ce­dere qual­cosa in ter­mini finan­ziari a un governo in crisi non costa molto: è solo un tra­sfe­ri­mento di qual­che posta da un capi­tolo all’altro dei bilanci delle parti in causa. Ma con­ce­dere qual­cosa oggi alla Gre­cia che si è ribel­lata al giogo della finanza coste­rebbe molto: sarebbe il segno che, se si vogliono rico­sti­tuire le basi di una con­vi­venza civile, si può e si deve fare a meno di «loro anche in ogni altro paese. Le pre­messe ci sono tutte e in Spa­gna con Pode­mos, o in Croa­zia con «Bar­riera umana», già si intrav­ve­dono forze che, cia­scuna a modo suo, si sono messe sulla strada che ha por­tato Syriza al governo.

E in Ita­lia? Pre­messe ce ne sono anche qui. Anzi, forse non c’è un altro paese euro­peo che abbia una ric­chezza e una varietà di lotte, di movi­menti, di comi­tati, di asso­cia­zioni, di mobi­li­ta­zioni, di ini­zia­tive grande come da noi. Ma in nes­sun altro paese la pos­si­bi­lità di que­ste forze di rap­pre­sen­tarsi poli­ti­ca­mente è così com­pressa e dispersa. Soprat­tutto dal biso­gno di auto­per­pe­tuarsi dei tanti par­titi «di sini­stra», inca­paci di quel passo indie­tro che tante volte si sono impe­gnati a fare e che mai – nem­meno ora – sem­brano capaci di attuare: per non per­dere quei pic­coli poteri che rica­vano, soprat­tutto a livello locale, di una con­so­li­data subal­ter­nità al Pd. Ma i tempi sono ormai maturi per la com­parsa di una realtà nuova, men­tre le respon­sa­bi­lità di chi impone que­sto stallo sono sem­pre più gravi.

La Nuova Sardegna, 10 febbraio 2015

Non c'era la Sardegna nel primo confuso elencone Verybello per Expo. È bastato un ritardo di poche ore - prima che comparissero alcune delle manifestazioni previste nell'isola durante l'estate - per suscitare un vespaio di rimostranze risentite. I soliti i bla bla sull' identità misconosciuta e l'orgoglio ferito dalla imperdonabile dimenticanza; per cui qualcuno è andato avanti con la presunzione, “deo so sardu”, la Sardegna che concorre alla bellezza italiana con un profilo distinto che ci dovrebbero ringraziare. Implicita la domanda sulla percezione dell'isola da parte dei forestieri consumatori; e dai sardi, il cui sguardo, è stato/ è molto distratto, anche omertoso sulla Sardegna com'è, e molto esitante sul futuro.

Ajò all'Expo: ma come ? La domanda non è di poco conto, dipende da come si pensa l'Expo, guai a confonderlo con la Borsa del Turismo (BIT) o con una delle grandi fiere enogastronomiche. Nelle Esposizioni Universali dai tempi del Crystal Palace, si trattano questioni ragguardevoli per l'umanità, e ogni Paese partecipante è chiamato a fornire la propria visione sul tema all'ordine del giorno. A mettere in vetrina idee, più che mercanzie in un'ottica bottegaia all'ingrosso. Il palcoscenico milanese è un'occasione per confrontarsi senza boria su emergenza alimentare e sprechi della terra.

Leggo su queste pagine il piano della Regione, l'idea di presentare “l'sola della qualità” attraverso la produzione agricola, le eccellenze naturali (con accenti su longevità e innovazione sostenibile). Il programma è solo delineato. E immagino che si assoceranno presto altri contributi, non solo semplici didascalie su cannonau e ballo tondo (e divagazioni su bandiere da rinnovare). Insomma non potrà mancare un apparato critico/ autocritico sul modello di sviluppo luogo per luogo, per ripensarlo come ha suggerito Francesco («Dio perdona sempre, l’uomo perdona a volte, la terra non perdona mai»), in sintonia con le attese di tanti credenti e miscredenti come me.

Il tema è il governo del territorio in una fase cruciale per la disorientata popolazione sarda. Nel 2006, un piano finalmente progredito è stato contrastato soprattutto per le scelte a difesa degli usi agricoli. Nei quali l'isola avrebbe potuto primeggiare se avesse creduto almeno un po' alla sua natura, al suolo fertile, all'aria buona, al sole generoso. La produzione agroalimentare conta su qualche prelibatezza, ma la Sardegna consuma otto prodotti su dieci importati, come scrive da un po' Giacomo Mameli preoccupato per le troppe ambiguità della produzione locale (torrone con ingredienti istranzi, bottarga fatta chissà dove, mirto da bacche non locali, ecc.) in danno di bravi artigiani.

La natura della Sardegna ha caratteri superstiti di primo livello - record di biodiversità - che dovremmo custodire con mille precauzioni, e invece da mezzo secolo è lasciata senza difese, aggredita nelle sue parti più pregiate, chissenefrega di di paesaggi sconvolti e continuità ecologiche interrotte.

Passeremo per guastafeste se diciamo al Mondo del nostro primato nella presenza di servitù militari, e dei 450mila ettari di aree avvelenate? Sui rischi di ulteriori inutili usi e consumi del suolo ? Magari per fare altre case al mare o per produrre energia da esportare con eccessi devastanti. Mentre avanza lo spopolamento che mette a rischio la tenuta di tanti territori privati di presìdi.

È eccessiva questa versione ? Meglio una rappresentazione attenuata, un adattamento per i tour operator? Sarà più conveniente - credo - dire e dirci la verità. D'altra parte Expo 2015 chiama le comunità “a interrogarsi sulla sostenibilità dei modelli economici, sociali, produttivi e scientifici adottati nel lungo periodo”.

Se si guardasse all'Expo solo per vendere pacchetti vacanze, pure con trailer raffinati, il racconto della Sardegna sarebbe banale, troppo somigliante a quelli che non ci piacciono. Senza cautele storico-antropologiche presenteremmo i sardi della caricatura, con i panni che ci vorrebbero vedere addosso. Per parlare ad una platea internazionale, meglio senza travestimenti che disturbano il confronto e impediscono di guardare avanti.

Il manifesto, 10 febbraio 2015
In un certo senso è il mondo alla rove­scia. Fin­ché era­vamo gover­nati da un patto scel­le­rato tra il capo del governo (e della «sini­stra di governo») e il capo della destra con­dan­nato per frode fiscale, tutto sem­brava in ordine. Ora che, dopo un anno di bar­ba­rie poli­tica e isti­tu­zio­nale, qual­cosa è andato storto e quel con­tratto con­tro­na­tura e con­tro­ra­gione è entrato in sof­fe­renza, ecco che tutti s’interrogano feb­bril­mente su come andrà a finire que­sta sto­ria, se non anche la legi­sla­tura. È tutto quanto meno bizzarro.

Ma si spiega, natu­ral­mente. Il fatto è che nulla di quel che si diceva era vero e nulla di ciò che è vero veniva detto. Il governo è stato fidu­ciato da una mag­gio­ranza vir­tuale che aveva ben poco a che fare con la sua reale base politica.

In teo­ria aveva i numeri per navi­gare, solo che Renzi aveva in mente tutt’altre cose rispetto a quelle che aveva detto per sca­lare la segre­te­ria demo­cra­tica ed espu­gnare palazzo Chigi. Cose che, invece, anda­vano per­fet­ta­mente a genio al mece­nate delle olget­tine, col quale ha subito sti­pu­lato una fat­tiva intesa. A danno soprat­tutto di quella parte del Pd che – stando almeno ai pro­clami – avrebbe «fre­nato», cor­retto, posto con­di­zioni e strap­pato modi­fi­che. Dimo­do­ché per un anno siamo stati gover­nati da una mag­gio­ranza sor­retta dall’opposizione con­tro una parte della mag­gio­ranza tra­sfor­mata in oppo­si­zione. Bor­ges si congratulerebbe.

Poi è venuto lo scon­tro sul Qui­ri­nale. Forse Renzi ha avver­tito un peri­colo. Ha temuto che, se avesse con­cor­dato con Forza Ita­lia anche il nome del capo dello Stato, non avrebbe solo avuto pro­blemi den­tro il Pd. Sarebbe anche apparso, più che un alleato, il cava­lier ser­vente di Ber­lu­sconi. Con effetti rovi­nosi sul piano dell’immagine, che tanto gli sta a cuore. Ma è anche pos­si­bile che Renzi abbia deciso di usare la par­tita del Colle per sog­gio­gare la for­tuna, umi­liare il vec­chio boss e imporsi come uomo solo al comando. Fatto sta che siamo alla lite furiosa di que­ste ore, agli stracci che volano tra i due com­pari del Naza­reno, al divor­zio annunciato.

Ma è vera crisi? Vedremo. Se la poli­tica non fosse anche ricerca del con­senso, ci sarebbe di che dubi­tarne. Le «riforme» ren­ziane stanno a cuore al padrone delle tv almeno quanto al loro autore uffi­ciale. La distru­zione delle tutele del lavoro dipen­dente, la subor­di­na­zione orga­nica del par­la­mento al governo, l’attribuzione di una mag­gio­ranza schiac­ciante al vin­ci­tore delle ele­zioni, la depe­na­liz­za­zione delle frodi fiscali figu­rano tra i desi­de­rata del capo di Forza Ita­lia da sem­pre, dai bei tempi della P2. In più c’è che Renzi ha sin qui evi­tato anche solo di nomi­nare il con­flitto d’interessi: per­ché dun­que infran­gere l’idillio? Ma ha qual­che ragione pure chi nelle file ber­lu­sco­niane scal­pita e fa pre­sente che un par­tito ha anche esi­genze di visi­bi­lità. Da que­sto punto di vista la scelta del nuovo pre­si­dente è stata in effetti uno sfre­gio irri­ce­vi­bile. Di qui la sce­neg­giata della finta defe­ne­stra­zione di Bru­netta, Romani e Ver­dini. D’altra parte non è pen­sa­bile che Renzi adesso, a un tratto, ci ripensi. Torni sui pro­pri passi, disfi la tela e riscriva le sue pes­sime leggi. I voti for­zai­ta­lioti vanno rim­piaz­zati, sem­pre che non arri­vino comun­que. In che modo? Que­sto è il busil­lis. E, si può dire, il più bel regalo che la par­tita del Qui­ri­nale ci ha fatto sinora.

I gio­chi sono all’improvviso venuti al chiaro, inchio­dando cia­scuno alle pro­prie respon­sa­bi­lità. Se la destra, che pure le «riforme» le vuole e paventa la crisi, si sfila, è per­ché pre­vede che i pro­pri voti non saranno indi­spen­sa­bili. Se Renzi lascia che il patto con Ber­lu­sconi vada a ramengo è per­ché ritiene di non dipen­dere più dal suo soste­gno. La ragione evi­dente è che conta sul con­senso della cosid­detta sini­stra del Pd. Dun­que ora final­mente il destino del governo e della legi­sla­tura è nelle mani dell’ospite ingrato sulla scac­chiera ren­ziana, per neu­tra­liz­zare il quale Ber­lu­sconi venne coop­tato, di fatto, nella maggioranza.

Che cosa vuol dire tutto que­sto? Una sola cosa: che non ci sono mar­gini per altre mes­sin­scene. Finora, che la «sini­stra» demo­cra­tica votasse o meno le «riforme» era indif­fe­rente. Ciò ha reso il suo siste­ma­tico cedi­mento irri­le­vante, se non meno inde­cente. Adesso la musica è cam­biata. D’ora in poi la «sini­stra» del Pd può deci­dere se pun­tare i piedi, può otte­nere modi­fi­che reali (non le prese in giro sin qui sban­die­rate) o, in caso con­tra­rio, impe­dire l’approvazione delle leggi. Costrin­gendo il governo a muo­versi nella car­reg­giata defi­nita dal voto popo­lare di due anni fa.

Molti osser­va­tori pre­ve­dono che nulla di tutto ciò acca­drà. Pen­sano che la fronda interna, a comin­ciare dai suoi capi, sarà d’ora in avanti prona al padrone della «ditta», rite­nen­dosi appa­gata dalla scelta di Mat­ta­rella. Signi­fi­che­rebbe che, nono­stante mesi di minacce, insulti e mor­ti­fi­ca­zioni da parte del pre­si­dente del Con­si­glio, costoro non anda­vano in cerca che di un con­ten­tino per tor­nare docili all’ovile. E scon­giu­rare il rischio capi­tale di una crisi che potrebbe por­tare alla fine anti­ci­pata della legi­sla­tura, con tutti i suoi con­trac­colpi morali e soprat­tutto materiali.

È pos­si­bile che vada pro­prio così. Tanto più che i por­ta­voce del capo del governo hanno chiuso ogni spi­ra­glio chia­rendo che sulle «riforme» non c’è più nulla da discu­tere. Da mar­tedì sapremo. Si ripren­derà a votare sulla «riforma» costi­tu­zio­nale e sco­pri­remo se la «sini­stra» demo­cra­tica vuole dav­vero fer­mare il dise­gno auto­ri­ta­rio di Renzi, come giura e sper­giura. Oppure, indif­fe­rente alla sua peri­co­lo­sità, ha sin qui reci­tato sol­tanto una com­me­dia. Di certo il tempo è sca­duto. L’elezione del pre­si­dente della Repub­blica ha come squar­ciato un velo die­tro al quale tutti gli attori si sono como­da­mente celati fino ad oggi. Si direbbe un caso di ete­ro­ge­nesi dei fini, e del resto si sa che pre­ve­dere il futuro in poli­tica è al con­tempo neces­sa­rio e impossibile

Il rumoroso rimbalzo dell’inchiesta “Swissleaks” condotta dal network di giornalismo investigativo internazionale Icij e, per l’Italia, dall’ Espresso, sui correntisti della filiale ginevrina della HSBC inclusi nella cosiddetta “lista Falciani” - 100 mila clienti (7 mila dei quali italiani) e 20 mila società off-shore per 180,6 miliardi di depositi - documenta la resa del Fisco e delle politiche anti-evasione del nostro Paese di fronte alla più colossale scoperta di fondi illegalmente trasferiti all’estero nella storia repubblicana.

La notizia, infatti, è che a distanza di 5 anni dalla consegna da parte della magistratura e del ministero delle Finanze francesi di 7 mila nomi alla nostra Guardia di Finanza e alla Procura della Repubblica di Torino, i soli italiani a “pagare” per intero il prezzo dell’evasione sono stati 190 (101 dei quali sono risultati evasori totali). Statisticamente un topolino, se paragonati ai 3.600 puniti dal Fisco inglese. Di più: si scopre che, in cinque anni, le verifiche non hanno superato le 3276 posizioni e, di queste, 1264 sono state “chiuse” con l’adesione allo scudo fiscale Tremonti del 2009. Il che, a conti fatti - almeno se si sta ai dati diffusi ieri con un comunicato dal Comando generale della Finanza - ha consentito di accertare «redditi non dichiarati per 741 milioni di euro, Iva dovuta e non versata per 4 milioni 520 mila euro» e di «riscuotere» 30 milioni di euro. Una miseria se paragonata al miliardo e 669 milioni di euro che è stato riportato in Italia dai conti ginevrini della Hsbc soltanto con lo scudo.
Né va meglio se dal terreno tributario ci si sposta su quello penale. Le indagini per reati tributari aperte da 120 procure della Repubblica (in ragione della diversa competenza territoriale) su quei 7 mila nomi, hanno portato a una valanga di archiviazioni per prescrizione. Tanto per dire, a Torino, su 250 nomi segnalati, c’è stata una sola richiesta di rinvio a giudizio, mentre le indagini ancora in corso riguardano meno di una decina di posizioni. A Roma, dove i nomi erano 800, le citazioni dirette a giudizio sono state tre. Perché, anche qui, la prescrizione prevista per i reati tributari (6 anni), ha fatto morire il processo prima ancora che cominciasse.
E tutto questo fino alla pietra tombale che - è questione ormai di meno di un mese - su tutta la vicenda metterà il famigerato decreto fiscale sulla cosiddetta “modica evasione” (sotto il 3% del dichiarato). Poiché, tra le altre norme contenute nel provvedimento ce n’è una che cancella la possibilità - che oggi esiste - di raddoppiare i termini di prescrizione per l’accertamento tributario (da 5 a 10 anni), qualora la persona soggetta a controlli sia stata denunciata penalmente. Le nuove norme obbligano infatti alla denuncia penale entro il termine ordinario della prescrizione tributaria (5 anni dalla presunta evasione). E, nel caso dei correntisti della “lista Falciani”, quel termine è abbondantemente scaduto nel 2013. Dunque, game over. Qualunque nuova informazione dovesse emergere di qui in avanti.
Come è stato possibile?
Per quanto ne riferiscono gli addetti - magistrati e fonti qualificate della Finanza che hanno lavorato al dossier - «la fine era scritta». La “lista Falciani” contiene infatti informazioni che, al più tardi, si riferiscono al 2008-2009 e per le quali, dunque, già al momento dello svelamento (è il 2010), la nostra giustizia penale e tributaria è costretta a correre contro il tempo. Quel che è peggio, tra il 2010 e il 2011, la magistratura svizzera nega per altro ogni forma di collaborazione all’allora Procuratore di Torino Giancarlo Caselli sui nomi e le movimentazioni dei conti HSBC eccependo che la “lista Falciani” è oggetto di un reato per la legge elvetica, trattandosi di «informazioni sottratte “fraudolentemente” al segreto bancario». Vengono dunque a mancare informazioni cruciali per ricostruire e contestare eventuali reati tributari. A Torino, come altrove.
Né va meglio all’accertamento fiscale. Perché, a dire degli inquirenti, dei 7 mila nomi iniziali dell’elenco, in almeno duemila casi «è impossibile un’identificazione certa dei correntisti o l’importo in giacenza dei conti». Non tutti insomma si chiamano Flavio Briatore, Valentino Rossi, o Valentino Garavani (per stare ad alcuni dei “vip” inclusi nella lista). E, in alcuni casi, anche quando il nome è pure certo e “vip” — come nel caso di Elisabetta Gregoraci, interrogata dalla Procura di Roma — si scopre che il conto svizzero era alimentato da assegni regolati dal suo contratto di matrimonio con Briatore e in quanto tali «non reddito imponibile».
La divisione territoriale degli accertamenti sui 5 mila nomi che sopravvivono alla prima “scrematura” fa il resto. Tra il 2011 e il 2014 il lavoro dell’Agenzia delle Entrate è affidato agli uffici periferici (tanto che, ad oggi, la direzione centrale non dispone di un dato aggregato e promette una “ricognizione” di qui alle prossime settimane). Mentre le diverse Procure, come detto, si devono arrendere alla prescrizione. Anche perché quando la Procura di Torino interroga finalmente Falciani (è il 2014) coltivando la speranza di poter far ripartire l’inchiesta, le informazioni di cui l’uomo dispone si rivelano identiche a quelle avute dai francesi nel 2010.

muore nel Mediterraneo poiché è stata abbandonato Mare Nostrum, e la "troika" prosegue il tentativo di strangolare, con la Grecia, l'Europa della speranza. Articoli di P. Nerantzis, A.M.Merlo, R.Chiari. Il manifesto, 10 febbraio 2015

L'ALLERTA DI ATENE
di Pavlos Nerantzis,

Grecia. Tsipras spera in un «new deal» con l’Eurogruppo e conferma: «Rispetteremo le promesse elettorali». Rappresentante Ue della troika si incontra con il vicepremier nella capitale greca
Alle porte di un com­pro­messo sto­rico: è que­sta la situa­zione in cui sem­brano essere Atene e i suoi part­ner europei. Que­sto new deal che sarà messo domani sul tavolo delle trat­ta­tive nella riu­nione di emer­genza dell’Eurogruppo, sarà discusso il giorno dopo al ver­tice Ue e -se tutto va bene - sarà varato il 16 feb­braio alla riu­nione ordi­na­ria dell’ Euro­gruppo, garan­tendo la liqui­dità ad Atene con dei pres­sup­po­sti pre­cisi affin­ché - vale a dire entro il giu­gno pros­simo - Ale­xis Tsi­pras pre­senta il piano di risa­na­mento qua­drien­nale dell’ eco­no­mia greca senza sco­mo­dare ulte­rior­mente i part­ner euro­pei, ne i cor­ren­ti­sti tede­schi che secondo le fan­fa­lu­che di Schaeu­ble, «sono sem­pre loro a pagare per i greci».

Che ci tro­viamo a pochi passi da que­sto deal e non di fronte ad una rot­tura, come sostiene gran parte della stampa inter­na­zio­nale per fare pres­sing su Atene, si capi­sce da una let­tura attenta delle dichia­ra­zioni di diri­genti euro­pei, ma anche da fondi vicine al pre­mier greco che espri­mono ottimismo.

Il pre­mier Tsi­pras, sabato scorso ha pre­sen­tato le linee pro­gram­ma­ti­che del suo governo e ha escluso ogni pro­lun­ga­mento dell’attuale memo­ran­dum e del moni­to­rag­gio della troika, chie­dendo un nuovo accordo per rine­go­ziare il debito di Atene nell’ambito di una «intesa comune con i part­ner per l’ inte­resse di tutti».

Atene ha biso­gno di una mora­to­ria del paga­mento del debito, ovvero di un pro­gramma di tran­si­zione a breve sca­denza (accordo –ponte) per recu­pe­rare i fondi per la cre­scita e non un sal­va­tag­gio perenne tra­mite nuovi finan­zia­men­tii da parte della troika (Fmi, Ue, Bce).

Alla Bce, si è aggiunta la Spa­gna, tra­mite il suo pre­mier. Rajoy ha chia­rito ieri che «la Gre­cia o chiede un pro­lun­ga­mento dell’ attuale pro­gramma di risa­na­mento (ovvero una nuova auste­rity, ndr.) oppure niente». Alleata ai governi della euro­zona che non vogliono sen­tirne par­lare delle richie­ste di Atene l’agenzia Stan­dard and Poor’s che ha declas­sato il rating della Gre­cia da B a B-. Alla Fran­cia e all’ Ita­lia, invece, che pur alli­nean­dosi alla fine con la can­cel­liera tede­sca sulla linea della fer­mezza, non vedono di cat­tivo occhio le richie­ste gre­che — per­ché affron­tano pro­blemi simili (debito, ecc.)- si è aggiunta ieri l’ Austria. Il can­cel­liere austriaco, Wer­ner Fay­mann, con un ruolo da inter­me­dia­rio tra Ber­lino e Atene, dopo il suo incon­tro con Ale­xis Tsi­pras a Vienna, ha detto che «biso­gna tro­vare una solu­zione di com­pro­messo tra il vec­chio pro­gramma di risa­na­mento dell’ eco­no­mia greca e al pro­gramma del nuovo governo» greco.

La neces­sità di tro­vare un new deal tra Atene e Ber­lino, è soste­nuta in un rap­porto dalla Com­merz­bank, la seconda banca tede­sca per gran­dezza e la stessa Gran Bre­ta­gna, prin­ci­pale part­ner com­mer­ciale dei paesi della zona euro. David Came­ron che teme l’effetto con­ta­gio sui mer­cati finan­ziari da una pos­si­bile uscita della Gre­cia dalla zona euro, ha con­vo­cato ieri una riu­nione per rie­sa­mi­nare i piani di emer­genza del suo governo nel caso di un Grexit.

Con­tra­ria a ogni forma di auste­rity irra­gio­ne­vole e rischiosa è la Casa Bianca che non incide sui fatti interni dell’ Ue, ma preme per una solu­zione visto che una rot­tura potrebbe avere riper­cus­sioni glo­bali. Per Atene Lon­dra e Washing­ton sono di fatto in que­sto momento alleati buoni.

Che tutte le parti, esclu­sione fatta per Ber­lino, si ren­dano conto che serve una solu­zione di com­pro­messo, si capi­sce dal viag­gio lampo ad Atene del capo dell’Euroworking group e del rap­pre­sen­tante dell’Ue alla troika che si sono incon­trati con il vice-premier e il mini­stro delle finanze greco per discu­tere le pro­po­ste che Atene sta pre­pa­rando per pre­sen­tarle domani alla riu­nione dell’ Euro­gruppo. Le pre­messe sono inco­rag­gianti, nono­stante «l’isolamento di Atene».

Intanto sta­sera si con­clude con il voto di fidu­cia al nuovo governo il dibat­tito par­la­men­tare sulle dichia­ra­zioni pro­gram­ma­ti­che di Ale­xis Tsi­pras, il quale tra l’altro ha annun­ciato un insieme di misure per far fronte alla crisi uma­ni­ta­ria: sala­rio minimo a 751 euro, assun­zione dei 3.500 dipen­denti pub­blici licen­ziati dalla troika, resti­tu­zione della tre­di­ces­sima ai pen­sio­nati. Ha deciso la sospen­sione dei pigno­ra­menti sulla prima casa, allog­gio, cibo e elet­tri­cità gra­tis per 300.000 fami­glie vit­time dell’ auste­rity, assi­stenza medica gra­tuita per i disoc­cu­pati, abro­ga­zione delle tasse supplementari alle case, vendita di uno dei tre aerei del premier e di 700 auto blu, di- mezzamentodel personale a Mega- ro Maximou, sede del governo, an- nullamento dei privilegi dei parla- mentari, riorganizzazione da zero della radiotelevisione pubblica, in- chiesta parlamentare su come si è arrivati al memorandum, conces- sione della cittadinanza ai figli di migranti nati in Grecia, disarmo dei poliziotti durante le manifesta- zioni, misure severe per combatte- re l’ evasione fiscale e la corruzio- ne, rivendicazione dei debiti di guerra da Berlino.

EURO E DEBITO

SETTIMANA CRUCIALE PER LA GRECIA
di Anna Maria Merlo

L'Eurogruppo vuole "un piano" preciso dalla Grecia e rappresentanti della trojka sono ad Atene. Londra soffia sul fuoco del Grexit ("solo questione di tempo" per Greenspan, ex Fed). Francia e Italia cercano di calmare il gioco. Padoan risponde a Varoufakis: il "contagio italiano è escluso". Per Gabriel (Spd, vice-cancelliere), ci sono probabilità "pari a zero" che la Germania prenda in considerazione la richiesta di riparazioni di guerra

Set­ti­mana cru­ciale per la Gre­cia e il suo debito inso­ste­ni­bile. L’Eurogruppo preme e pre­tende che Varou­fa­kis ”con­se­gni” alla riu­nione straor­di­na­ria di domani a Bru­xel­les il “piano” per uscire dalla crisi. C’è chi getta olio sul fuoco e chi cerca di cal­mare il gioco. In Gran Bre­ta­gna, David Came­ron ha con­vo­cato un ver­tice con il can­cel­liere dello scac­chiere, George Osborne, e dei rap­pre­sen­tanti della Bank of England, per pre­ve­nire il “con­ta­gio” nell’eventualità di un Gre­xit. Per l’ex capo della Fede­ral Reserve, Alan Green­span, difatti, l’uscita della Gre­cia dall’euro “è solo que­stione di tempo” (lo ha detto in un’intervista alla Bbc).

Hanno invece cer­cato di cal­mare il gioco, ieri, Fran­cia e Ita­lia. Il mini­stro delle Finanze, Michel Sapin, a Istam­bul per il G20, ha affer­mato che “biso­gna assi­cu­rare un finan­zia­mento” alla Gre­cia, per­ché in caso con­tra­rio il paese “sarà preda di una pos­si­bile situa­zione di panico sui mer­cati”. Ma, ha aggiunto Sapin, “non pos­siamo dire solo finan­ziamo, finan­ziamo, per­ché la con­tro­par­tita di que­sto soste­gno deve essere il rispetto delle regole euro­pee da parte di Atene”.
Parole di disten­sione sono venute anche da Pier Carlo Padoan, in rispo­sta all’attacco di Yanis Varou­fa­kis, che irri­tato dall’approvazione da parte di Renzi della deci­sione della Bce di mer­co­ledi’ scorso, ha affer­mato in tv che l’Italia rischia “il fal­li­mento” con un debito “inso­ste­ni­bile”. Padoan, dal G20, ha pre­ci­sato che il debito ita­liano “non è sul tavolo” e alla “parole fuori luogo” di Varou­fa­kis ha rispo­sto che “l’obiettivo è tro­vare una solu­zione con­di­visa per la Gre­cia a par­tire dall’Eurogruppo”. Padoan ha escluso un “rischio con­ta­gio” per l’Italia e ha riven­di­cato il nuovo corso dell’agenda euro­pea, con “cre­scita, occu­pa­zione e inve­sti­menti”. Intanto Padoan ha pre­sen­tato a Bru­xel­les un piano per un inter­vento pub­blico sulle ban­che e il pas­sivo accu­mu­lato, in vista di nuovi “stru­menti per gestire il pro­blema dei cre­diti dete­rio­rati” che non venga respinto dalla Ue come un aiuto sta­tale irregolare.

Il governo greco fa un discorso senza con­ces­sioni, ma non ha rotto i con­tatti con Bru­xel­les. Per pre­pa­rare l’Eurogruppo dell’11, che pre­cede di un giorno il ver­tice Ue che sarà il debutto di Tsi­pras a Bru­xel­les, Atene acco­glie dei rap­pre­sen­tanti dell’odiata tro­jka: da dome­nica sono in Gre­cia Declan Costello, rap­pre­sen­tante della Ue nella tro­jka, con Tho­mas Wie­ser, pre­si­dente dell’Euro Wor­king Group, che pre­para la riu­nione dell’Eurogruppo. La Bce, che mer­co­ledi’ ha chiuso un rubi­netto di finan­zia­mento alla Gre­cia, rifiu­tando dall’11 feb­braio pros­simo in garan­zia le obbli­ga­zioni di stato gre­che (valu­tate “spaz­za­tura” dalle agen­zie di rating, per S&P ormai la Gre­cia è scesa a B-), resta divisa sulla mossa di mer­co­ledi’ scorso. A causa del mec­ca­ni­smo di rota­zione nel voto al con­si­glio dei gover­na­tori, alcuni paesi non erano pre­senti al voto che ha deciso il colpo di mano di mer­co­ledi’: tra essi la Fran­cia (e anche Gre­cia e Cipro). E la pre­si­dente del con­si­glio di vigi­lanza dellz Bce, la fran­cese Danièle Nouy, ha affer­mato che “oggi le ban­che gre­che sono molto più solide”.

Dalla Ger­ma­nia è arri­vato un nuovo secco “nein” alla richie­sta delle ripa­ra­zioni di guerra da parte di Tsi­pras. Per Sig­mar Gabriel, Spd e vice-cancelliere, la “pro­ba­bi­lità è eguale a zero”. La que­stione “è stata risolta 25 anni fa, giu­ri­di­ca­mente con il trat­tato 2+4” del ’90 (le due Ger­ma­nie più gli Alleati), che hanno accet­tato la rinun­cia alle ripa­ra­zioni (e la Gre­cia l’aveva appro­vato). “Non serve a nulla pro­se­guire su que­sta strada” ha con­cluso Gabriel, al semi­na­rio Spd di Nauen. Per il por­ta­voce del mini­stero delle Finanze di Ber­lino, non c’è “nulla di nuovo” su que­sto fronte.

ATENE CHIAMA
FIOM IN PIAZZA
di Riccardo Chiari,

All'attivo toscano dei metalmeccanici Cgil, Maurizio Landini riepiloga i motivi della partecipazione alla manifestazione di sabato a Roma. Aderisce anche l'Arci, mentre in Corso Italia si sta discutendo sul che fare. Le minoranze Pd chiedono a Renzi di lavorare a un compromesso fra il governo greco e l'Ue.
Atene chiama, la Fiom ha già rispo­sto all’appello di piazza dell’Altra Europa, molti altri in que­ste ore ci stanno pen­sando su. “Abbiamo deciso di essere sabato a Roma – rie­pi­loga Mau­ri­zio Lan­dini – per­ché sia la Ces che la Fede­ra­zione euro­pea dell’industria, con note uffi­ciali, hanno detto che il piano pre­sen­tato da Tsi­pras e Varou­fa­kis può essere attuato. E se anche il debito pub­blico ita­liano fosse mutua­liz­zato, e a quel punto si pagasse 50 milioni di inte­ressi ogni anno invece dei 100 attuali, con gli altri a dispo­si­zione per gli inve­sti­menti e la difesa dei diritti e delle tutele dei lavo­ra­tori, cam­bie­rebbe o non cam­bie­rebbe la situa­zione nel nostro paese?”.

La rispo­sta è l’applauso dei 450 dele­gati metal­mec­ca­nici Cgil arri­vati da tutta la Toscana, nel veloce giro d’Italia che Lan­dini sta facendo in que­sti giorni con gli attivi regio­nali. Per fare il punto della situa­zione nelle fab­bri­che. Su che sta acca­dendo con il jobs act: “Non abbiamo mai vis­suto un pro­cesso del genere, che cam­bia la natura stessa delle rela­zioni sin­da­cali”. Sui con­tratti da rin­no­vare quando le con­tro­parti, dai ban­cari ai chi­mici, o li disdi­cono o pon­gono con­di­zioni cape­stro come la resti­tu­zione di parte del sala­rio. Poi sull’importanza di aumen­tare le iscri­zioni al primo sin­da­cato metal­mec­ca­nico, per pesare sem­pre più ai tavoli di trat­ta­tiva. Infine per riba­dire che lo scio­pero gene­rale di dicem­bre della Cgil è stato solo il primo passo di una mobi­li­ta­zione che deve andare avanti. E spie­gare che sì, si può fare.

Il ragio­na­mento del segre­ta­rio Fiom pro­cede passo passo. Molte argo­men­ta­zioni sono cono­sciute a chi mastica un po’ di poli­ti­che eco­no­mi­che e finan­zia­rie. Ma di fronte ai suoi iscritti Lan­dini ha — e sente — il dovere di spie­gare e rispie­gare il per­ché del pas­sag­gio poli­tico. Senza mai dimen­ti­care il suo punto di vista, quello del sin­da­ca­li­sta. “In tutta Europa – ricorda – è in atto una ope­ra­zione che punta a ridurre il ruolo dei sin­da­cati a sem­plici orga­niz­za­zioni azien­dali e cor­po­ra­tive. Il campo di gioco è quello, per la sem­plice ragione che ci sono 25 milioni di disoc­cu­pati nel con­ti­nente, sui quali si sta gio­cando per abbas­sare diritti e tutele a tutti gli altri. Dun­que non è un pro­blema solo ita­liano. Anche per­ché il governo ita­liano, come si dice dalle mie parti, comanda solo fino a mezzogiorno”.

Si gioca in Europa, ripete Lan­dini, per­ché dei 100 milioni di inte­ressi pagati ogni anno dall’Italia, una buona parte (“tra­mite la Bce”) fini­sce nelle casse della Bun­de­sbank tede­sca, che ha in pan­cia i titoli del debito ita­liano. “Se invece non paghi gli inte­ressi, soprat­tutto in que­sti anni di defla­zione, e resti­tui­sci il debito non in cin­que anni ma in trenta, non cre­dete che la situa­zione cambi parecchio?”.

I dele­gati toscani, ope­rai e impie­gati della fab­bri­che di una regione dove la Fiom ha con­qui­stato l’82% nei rin­novi delle Rsu, ascol­tano con atten­zione. Annui­scono. Applau­dono, quando il loro segre­ta­rio ricorda la let­tera della Bce del 5 ago­sto 2011: “C’era scritto che i ser­vizi pub­blici dove­vano essere pri­va­tiz­zati. Che salari e orari di lavoro dove­vano essere ‘rita­gliati’, azienda per azienda. Si doveva alzare l’età pen­sio­na­bile e abbas­sare gli asse­gni, ridurre il costo della pub­blica ammi­ni­stra­zione, dare ‘più libertà’ al mer­cato del lavoro, e ‘rifor­mare’ le isti­tu­zioni. Ebbene, sia Monti che Letta e ora Renzi hanno appli­cato tutto que­sto. Punto per punto”.

Non solo Fiom. Il comi­tato nazio­nale dell’Arci, per accla­ma­zione, ha dato l’adesione alla mani­fe­sta­zione di sabato. Anche den­tro la segre­te­ria Cgil si discute, più o meno infor­mal­mente, su che fare. E le mino­ranze del Pd hanno chie­sto a Renzi, Orfini e ai capi­gruppo Zanda e Spe­ranza di riu­nire le assem­blee par­la­men­tari e la dire­zione: “Per discu­tere della linea che il Pd terrà in occa­sione dei pros­simi appun­ta­menti euro­pei rela­tivi al caso Gre­cia”. Chia­mando al com­pro­messo, fra posi­zioni che fra loro restano oppo­ste, alla vigi­lia dell’Eurogruppo e dei ver­tice dei capi di governo Ue.

Intanto i metal­mec­ca­nici Cgil vanno avanti. Come treni. Al diret­tivo della con­fe­de­ra­zione del 18 feb­braio arri­verà la pro­po­sta di un pac­chetto di ore di scio­pero. Con­tro il jobs act e per modi­fi­care radi­cal­mente la legge For­nero. Si pensa ai ricorsi euro­pei, alle impu­gna­zioni dei licen­zia­menti, all’ipotesi di un refe­ren­dum abro­ga­tivo. “La nostra costi­tu­zione – ha ricor­dato Mau­ri­zio Lan­dini nella Casa del popolo di San Bar­tolo a Cin­toia – ci dà il prin­ci­pio di orga­niz­zarsi col­let­ti­va­mente, per discu­tere nelle aziende ma anche per con­tri­buire al miglio­ra­mento delle con­di­zioni sociali. Ebbene, non abbiamo mai avuto un governo come que­sto. Che non ha accet­tato un tavolo di discus­sione, men­tre appro­vava poli­ti­che con­tro i diritti dei lavoratori”

Un saggio interessante non solo per la storia che racconta, ma per l'efficacia con cui testimonia la potenza della manipolazione della memoria collettiva come maschera dei vincitori delle lotte per il potere. Ieri e oggi.
A cura di Ateneo Veneto e Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea Susanne Böhme Kuby ha tenuto una conferenza dal titolo "Riflessioni sul ricordo pubblico dell’Holocaust in Germania". La conferenza ha illustrato in modo ampio e documentato le premesse storico-politiche del mainstream della percezione pubblica dell'Holocaust in Germania, dall’immediato dopoguerra fino ai più recenti problemi dei risarcimenti alle vittime che si sono riaffacciati dopo la riunificazione nazionale. La contraddittoria memoria del passato nazista - tra rimozione ed eterno ritorno - rivela che quel passato non è né morto, né "superato", ma proietta le sue ombre sull’attualità.Nonostante l'ampiezza del testo, di affascinante e scorrevole lettura, lo pubblichiamo integralmente (in chiaro). Per consentirne una più meditata lettura ne alleghiamo, con il consenso dell'autrice, anche il file in formato .pdf scaricabile da eddyburg

RIFLESSIONI SUL RICORDO PUBBLICO
DELL’HOLOCAUST IN GERMANIA

di Susanne Böhme Kuby

Ho colto l’invito di Marco Borghi a parlare di questo argomento complesso per illustrarvi – ovviamente solo a grandi linee - su quale fondamento poggino il monumento all’Olocausto e i rispettivi musei eretti a Berlino a partire dalla fine dello scorso millennio. Da non pochi visitatori questi luoghi vengono percepiti come testimonianza visibile del fatto (presunto) che la Germania abbia “elaborato” il suo passato meglio di altre nazioni in Europa. Vorrei ripercorrere questa storia dall'inizio, nel tentativo di mostrarne la complessità. Una complessità maggiore di quanto questa conclusione apparentemente positiva, ma in realtà affrettata, non farebbe pensare.

Si può constatare, a 70 anni dalla fine della II.guerra mondiale e dalla scoperta dei suoi orrori, che la memoria del passato non ha – tra rimozione e eterno ritorno – guadagnato in profondità e complessità, ma piuttosto in superficialità e semplificazione. Ciò non soltanto, ma in modo particolare, in Germania (e non parlo qui della ricerca storica, bensì della memoria pubblica, collettiva e politica.) Per comprenderne il motivo occorre indagare le coordinate storico-politiche contingenti, che sono le premesse del mainstream della percezione pubblica nella Germania dei Täter (carnefici). Lascio da parte quindi il ricordo individuale che riaffiora anche in una più recente Erinnerungskultur/cultura della memoria. Mi piace però ricordare la constatazione di Christa Wolf, Trame d’infanzia, del 1976: “Il passato non è morto; e non è nemmeno passato. Noi ci stacchiamo da esso fingendoci estranei”.

Sappiamo che la memoria dell’Olocausto non è monolitica, ma comprende molte narrazioni a secondo dei contesti e delle prospettive, di vittime e Täter - in Germania, anzi nelle due ex-repubbliche tedesche, in Israele e altrove. Così come ogni memoria è un mosaico costituito da molti elementi a loro volta determinati dal rispettivo presente.

E qui vorrei subito anticipare una constatazione sull’attualità: Il governo tedesco federale ripete da più di mezzo secolo la liturgia di una immensa responsabilità morale della Germania nei confronti delle vittime del Terzo Reich, ma nello stesso tempo insiste sulla non esistenza di alcun obbligo legale nei loro confronti, oltre alle esigue forme di Wiedergutmachung “riparazioni”concesse dopo la guerra. Le vedremo più avanti.

Lo sterminio industriale di massa, di complessivamente ca.15 mio. di esseri umani, tra ebrei, prigionieri russi e polacchi, sinti, rom, e altri, (Holocaust Museum di Washington) eseguito da un vasto apparato costituito da cittadini tedeschi, è stato dall’ inizo rimosso dalla coscienza collettiva della nazione. Questo fatto è stato sempre spiegato con l’immensità dei crimini commessi e con le difficili condizioni del dopoguerra – ma ciò non coglie il nodo del problema. E’ fuor di dubbio che si è trattato di un complesso processo di rimozione collettiva o meglio di diniego, descritto da Ralph Giordano, 1987, così: “Il ‘collettivo nazionale dei seguaci di Hitler’ di ieri si comporta oggi, nella democrazia, in maniera corrispondente alla sua deformazione nazista. Da questo hanno origine gli ‘affetti collettivi’, la ‘seconda colpa’, che nella sua disumanità mostrata in maniera così disarmante ci fa comprendere perché il nazionalsocialismo ha potuto a suo tempo ottenere tanto successo. Nella rimozione e nella negazione non si tratta in prima linea della difesa del Terzo Reich e del suo Führer, ma del proprio Io, che non vuole ammettere nessuna colpa, nè davanti a sé, né davanti ad altri. La perdita di un orientamento umano attraverso la profonda identificazione con le idee di Hitler ...si è rivelata come l’eredità più ostinata lasciata dallo Statonazionalsocialista e dal suo terreno storico.”

La negazione della realtà, ancor prima della sua mistificazione, fu infatti uno dei pilastri dell’ideologia nazista. Questa aveva esautorati i tedeschi dalla lotta di classe, dallo scontro tra partiti (Weimar!), da ogni pensiero critico e dalla politica tout court. Dall’inizio, ovvero dal 1933 in poi, il regime aveva, p.es. distrutto anche le tracce dell’opposizione antinazista individuale e di gruppo, oltre alle persone. Hitler stesso si vantò del fatto che in Germania non c’era (più) resistenza al suo Reich. Eppure nei sei anni precedenti la guerra i nazisti avevano incarcerato e in parte ucciso circa. un milione di tedeschi antifascisti (politici, religiosi, oltre ai disabili, malati di mente ecc.), nelle carceri e nei Lager eretti dappertutto in Germania. Non se ne accorse nessuno? Questa domanda è rimasta per decenni un grande tabù.

Viktor Klemperer aveva descritto in loco i meccanismi mistificatori non solo del linguaggio del nazismo quotidiano (in LTI, Lingua Terti Imperii, 1947 Berlino est, nella RFT 1966 e i suoi Diari, trad. anche in italiano ). Fu Raul Hilberg a cominciare ad indagare negli anni ‘80 su ciò che era usuale nella totale anomalia della repressione puntando il dito sulla folla di spettatori che hanno convissuto tranquillamente con ciò che avevano deciso di non voler vedere. (cfr. Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori, 1994)

Di più. Ancora oggi la rimozione della Resistenza è attiva: sono vive nella memoria pubblica occidentale soltanto l’azione della Weisse Rose/Rosa Bianca dei fratelli Scholl a Monaco e l’attentato di Stauffenberg a Hitler del 20 luglio 1944. (Il ricordo della Resistenza politica soprattutto di comunisti e altri antifascisti era stato raccolto e custodito solo nella RDT ed è oggi scomparso con essa. Lì una visita al Campo di Buchenwald faceva presto parte della formazione delle scolaresche, per ricordare anche la resistenza antifascista che a Buchenwald aveva prodotto l’allora famoso Manifesto per la necessaria futura unità del movimento operaio).

Già nel 1943, Heinrich Himmler aveva annunciato (in uno dei suoi discorsi a Posen), che prima di una ritirata tedesca i campi di sterminio in Polonia avrebbero dovuti essere evacuati e rasi al suolo, “spurlos verschwinden”, senza lasciare traccia, vi doveva crescere l’erba sopra. Ecco il memoricidio annunciato che ha avuto conseguenze di lunga durata. E quando, dopo la resa della Wehrmacht nel maggio 1945, vennero esposte in molte piazze cittadine le prime foto ingrandite dell’orrore trovato nelle migliaia di lager sul territorio del Reich, i tedeschi restarono allibiti. Secondo la loro tesi di una ”colpa collettiva” di tutto il popolo - gli angloamericani avevano applicato alle immagini la scritta “Das ist eure Schuld!/ E’ colpa vostra!”. La maggioranza dei tedeschi - che fino a un momento prima aveva creduto alla vittoria finale del Führer - reagì anzitutto negando: “No, questo non può essere successo, non lo sapevamo, non è colpa nostra”. Rossana Rossanda ha descritto nella sua autobiografia il proprio smarrimento di fronte alle prime notizie e fotografie che giungevano anche in Italia, chiedendosi quale sarebbe stato l’angoscia dei tedeschi di fronte a queste rivelazioni.

Ma dopo aver visitato la Germania nel 1949, Hannah Arendt scrive che: “Da nessun’altra parte si percepisce meno che in Germania questo incubo di distruzione e orrore e da nessuna parte se ne parla meno”. (Report from Germany. The Aftermath of Nazi-Rule (1950, uscito ben 36 anni dopo in ted. “Besuch in Deutschland”, 1986). Arendt si chiedeva se si trattava di un diniego cosciente o di una reale Gefühlsunfähigkei/ mancanza d’empatia. Saranno più tardi, negli anni sessanta, i psicoanalisti Alexander e Margarethe Mitscherlich ad indagare questo fenomeno, constatando una vera e propria “incapacità a elaborare il lutto”, riferito alla perdita del Führer (e del Reich). (Die Unfähigkeit zu trauern,1967/Germania senza lutto, Psicoanalisi del Postnazismo, 1970)

Sono numerose le testimonianze di quel fenomeno descritto come Flucht vor der Wirklichkeit, che è una fuga non solo davanti alla realtà, ma anche davanti alla responsabilità. Franco Fortini ha osservato quella stessa, perdita di senso della realtà, descritta da H. Arendt come incapacità di valutare e di comprendere: “L’immensità delle stragi e della distruzione non spinge affatto gli uomini a vivere in modo diverso, a cercarsi un cuore nuovo; ma solo a ripararsi alla meno peggio nelle vecchie grotte dell’anima. Favorita dalla politica occidentale, la borghesia tedesca, appena ha potuto, ha gettato sul vuoto di una generazione i luoghi comuni più filistei” (Diario tedesco 1949, p. 24)

Continua Fortini: “E senti che questo aiutare a rendere vano il tentativo di vita nuova che vedi (...) è colpa anche più grave che prepararsi ad armare le compagnie di ventura tedesche e a giustificarle fin d’ora in nome della civiltà [occid.] e dello spirito”.

Qui viene chiamato in causa la politica degli alleati occidentali e il ruolo accondiscente della borghesia tedesca e si fa riferimento alla rapida dissoluzione dell’alleanza dei vincitori dopo lo scoppio delle bombe atomiche in Giappone nell’agosto del ’45. La superiorità militare statunitense fa da premessa per la seguente “guerra fredda”. Le zone occidentali della Germania diventano (Bizone1948/Trizone) il nucleo della RFT (1949), e il principale baluardo degli USA contro il blocco sovietico. Questo ha determinato tutto il futuro tedesco (ed europeo), e garantito la continuità di fondo delle strutture economiche e sociali, ma anche ideologiche del capitalismo tedesco. (Bisognerebbe aprire una parentesi sull’immediato dopoguerra, in cui il capitalismo sembrava essere superato persino nel programma di Ahlen della CDU (1947): “Il sistema capitalistico si è rivelato inadeguato agli interessi vitali dello stato e della società tedesca”, ma presto si chiuse ogni prospettiva alternativa per una Germania non allineata e democratizzata anche nelle sue strutture economiche, prevista ancora dagli Accordi di Potsdam, 1945).

Con l’inizio della Guerra fredda (1947) il vecchio anticomunismo servì di nuovo da collante anche per il nuovo establishment che ha tenuto insieme la RFT fino ad oggi, (l’anticomunismo, non l’antifascismo! Qui sta una differenza di fondo con l’Italia). L’anticomunismo ha favorito anche l’accettazione tacita della divisione nazionale, i tedeschi occidentali hanno potuto staccarsi da quest’altro “totalitarismo”! (Verlorenes Land, verlorene Schuld, come constatò P. Brückner,1978) Non solo: Un certo lassismo praticato già durante la denazificazione nella Bi-zona occidentale (tramite l’autocertificazione/ cfr. Der Fragebogen di Ernst von Salomon) permise il reintegro dell’intera classe dirigente (ex-)nazista nella RFT. (Diversamente nella zona sovietica, poi RDT, dove, dopo una diversa denazificazione, si è sostituto l’apparato dirigente con uno forgiato ex- novo delle Arbeite und bauernfakultäten(“Facoltà degli operai e dei contadini”) . Il che spiega almeno in parte l’accanimento post’89 dell’ establishment della RFT confronti di quello dell’RDT).

Infatti denazificazione e reeducation democratica (stabilite nel 1945 a Potsdam dagli Alleati) divergeranno notevolmente tra le quattro zone occupate a seconda delle divergenti analisi angloamericane, francesi e sovietiche del nazionalsocialismo. I primi passi di democratizzazione dal basso da parte di antifascisti tedeschi vennero per lo più ostacolati e rimasero al margine anche della coscienza pubblica. Tra i primi testi tedeschi che miravano ad una Aufklärung vorrei ricordare la Schuldfrage (1945/6), frutto delle prime lezioni all’università di Heidelberg del filosofo Karl Jaspers dedicati ad un'analisi storico-filosofico-giuridica della questione della colpa dei tedeschi, e il primo libro documentario che Eugen Kogon, prigioniero ebreo a Buchenwald, redasse in pochi mesi dopo la sua liberazione, Der SS-Staat (1946), che rimane una pietra miliare per la conoscenza del sistema di organizzazione industriale dell’impero delle SS.

Ma la guerra, come prodotto finale del nazionalsocialismo, ha provocato in molti tedeschi la distruzione dell’identità a livello nazionale, sociale e individuale. Per cui predomina nei contemporanei la sensazione che essi abbiano, nel 1945, vissuto un momento senza società e senza storia: Quella “sottrazione di senso” (Sinnentzug), percepita dai più, caratterizzò in seguito gli atteggiamenti di letargia o di ritiro alle esigenze più elementari, e produsse semmai scatti emotivi incontrollati di risentimento, anziché riflessione critica o pensiero e coscienza politica. (E qui vi rimando a “Germania anno zero” di Rossellini o a Die Mörder sind unter uns di W. Staudte che vedremo presto alla Casa del cinema).

La maggioranza dei tedeschi invece percepì - come vera e propria Katastrophe - non la guerra in sé, ma la pesante sconfitta (la seconda in pochi decenni) inflitta loro dagli alleati, anche se questa volta la accettarono senza cercare rivincite. Solo una piccola minoranza salutò gli alleati come “liberatori” (e gli americani più che non i russi). Molti recepirono invece la politica di occupazione come punitiva (e solo ora iniziano a conoscere fame e freddo!).

Goebbels aveva fino agli ultimi giorni di aprile del ’45 diffuso le sue profezie minacciose ca. vendette tremende che i vincitori avrebbero inflitte al popolo tedesco, che sarebbe stato, con la sconfitta non più degno di vita. Gli agghiaccianti processi di Norimberga furono valutati come Siegerjustiz/giustizia dei vincitori. E in quella sede Hermann Göring dichiarò anche: “Il popolo tedesco è senza colpa. Senza conoscenza dei gravi crimini di cui siamo venuti a conoscenza ... il popolo ha condotto una lotta per l’esistenza che si è scatenata senza la sua volontà fino alla morte, con fedeltà, valore e spirito di sacrificio”, dando espressione a una sensazione percepibile tuttora.

Semmai la liberazione dal nazionalsocialismo viene sentita come una liberazione dalla storia stessa, oppure altrove la sconfitta è al meglio interpretata come conquista morale, legata al fascino della libertà. (come ci ha trasmesso p.es.Alfred Andersch, Le ciliegie della libertà, 1952) Nella spettrale realtà delle rovine tornano i reduci, spesso storditi e incapaci di parlare: è la breve parentesi della “Trümmerliteratur”, con una vena neorealista, dei Böll e Borchert, per citare i più conosciuti. Ma le vittime di cui parlano sono comunque i tedeschi; nell’immaginario collettivo tedesco lo sterminato numero di vittime provocate da loro stessi in Europa non compare. La coscienza dei crimini perpetrati dalle truppe tedesche nel resto del mondo, la miseria nella quale hanno precipitato popoli interi, manca, anche nella letteratura e non solo quella dei primi anni (ad esclusione dei pochi autori antifascisti sopravvissuti, tornati dall’esilio per lo più a Berlino est: da Brecht e Anna Seghers a Peter Weiss). Empatia o compassione per le vittime dei tedeschi si troverà, anche dopo, solo nei superstiti (da Nelly Sachs e Paul Celan a Günter Kunert o Jureck Becker).]

Al di là del dopoguerra: Ci vorranno vent’anni perché anche gli storici tedeschi nella RFT comincino a confrontarsi con il nazionalsocialismo.

Lo sterminio degli ebrei irrompe nel discorso pubblico, addormentato dal decennio della Restauration, della ricostruzione - a partire dall'eco del processo contro Eichmann a Gerusalemme (1961) e poi dall’AuschwitzProzess a Francoforte (da dic.1963 al 1965), recentemente rievocato da un film “Im Labyrinth des Schweigens” di un regista italiano, Giulio Ricciarelli, emigrato da bambino con i genitori in Germania. Egli ricostruisce la dura impresa di Fritz Bauer, ebreo, ex-internato, diventato Pubblico Ministero Generale dell’Assia, che riuscì dal 1958 a riunire diversi procedimenti penali nei confronti di 22 aguzzini di Auschwitz (su ben 8.000 adetti delle SS nei campi di A.) Infine vennero condannati 17 imputati.

Emblematico mi è sempre parso il caso di Raul Hilberg, l’eminente storico americano di origini viennesi, allievo di Franz Neumann alla Columbia University di New York, che aveva scritto la sua fondamentale opera sullo sterminio The Destruction of the European Jews già nei primi anni 50, elaborando per primo l’enorme mole delle carte dei processi di Norimberga, ma in prima istanza non trovò un editore. Solo anni dopo, e grazie ad uno sponsor privato che gli donò 15.000 $, poté pubblicarlo negli USA(1961). Per una prima edizione tedesca (1982) ci vollero altri vent’anni e solo un piccolo editore di sinistra a Berlino (Olle &.Wolters) si rese disponibile. Hilberg stesso nella sua autobiografia ha definito l’atteggiamento reticente nei confronti della sua ricerca una “guerra dei trent’anni”. Solo nel 2006, poco prima della morte, è stato insignito del Bundesverdienstkreuz .

La presa di coscienza politica della generazione postbellica del Sessantotto tedesco e di una “nuova sinistra”, con la ribellione verbale nei confronti del “potere”, fu una reazione all’ipocrisia e al silenzio dei padri nazisti. La ricezione da parte degli studenti p.es. dei fondamentali studi dell’emigrazione degli Adorno, Horkheimer e Marcuse permette una prima critica al sistema: “Dovrebbe tacere anche del fascismo chi non vuole parlare del capitalismo”, aveva ammonito Horkheimer, già nel 1939. Ma presto, nel corso degli anni ’70 (Ostpolitik della SPD/FDP) questa critica verra’ demonizzata come antecedente tout court del terrorismo della RAF che sfocia nell’ autunno tedesco. E lo Stato, nella sua veste socialdemocratica, ristabilisce ‘calma e ordine’, preparando il terreno ad altri due decenni democristiani (di Helmut Kohl).

La valutazione adorniana della “singolarità” di Auschwitz come irreparabile Zivilisationsbruch (frattura di civiltà), vede la barbarie non come incombente, ma già avvenuta, che persiste fino a quando le condizioni di fondo che l’ hanno resa possibile continueranno ad esistere. Questo sembra non lasciare speranza, e rimane come peso sulla nostra società, nonostante la invisibilità odierna della miseria, scriveva Adorno nel 1966, in Erziehung nach Auschwitz.

Ma la vera presa d’atto emotiva dell’orrore da parte della più vasta opinione pubblica rimane legato alla trasmissione della serie TV americana “The Holocaust”, nel 1979. Entrando nelle case fu la televisione che mise i tedeschi della RFT di fronte all’epopea tragica della Famiglia Weiss, quasi 35 anni dopo l’apertura dei campi di concentramento da parte degli alleati. Da allora “Holocaust” è diventato il nome che indica tout court lo sterminio degli ebrei (delle altre vittime si parlerà solo più tardi, a fine anni ‘80) deplorato per la prima volta in pubblico da un Presidente della Repubblica federale, Richard von Weizsäcker, nel 1985, in occasione del quarantennale del 1945. Egli parlò di “crimini compiuti nel nome tedesco” (sic!) – lo stesso Weizsäcker che difese il padre a Norimberga, ambasciatore di Hitler presso la Santa Sede!

Nel 1982, Helmut Kohl, cancelliere, la Germania è un“gigante economico”, ma ancora un “nano politico” (come deplora F.J.Strauss, che auspicò il ruolo guida per la Germania nella Weltmacht Europa già dagli anni ’60, dotata magari di armamento atomico). La “normalizzazione” è alle porte. Poco dopo, nel 1987, la FAZ pubblica le (vecchie!) tesi revisioniste e apologetiche dello storico Ernst Nolte che danno l’avvìo al cosiddetto“Historikerstreit”, il dibattito sull’interpretazione del Terzo Reich, in cui si nega fra l’altro il carattere “singolare” dell’Olocausto, al quale ora si accosta e si equipara l’espulsione dei tedeschi dai territori orientali a fine guerra. Anche se non assunte dalla storiografia ufficiale queste tesi lasciano un’impronta nell’inconscio collettivo, sicché in occasione del cinquantenario del bombardamento di Dresda perfino un quotidiano berlinese di sinistra, la Taz (Tageszeitung), può scrivere: “Nei giorni successivi si estendeva l’odore di Auschwitz alla città” (13.2.1995).

La cosiddetta “Wende/ svolta” del 1989/90 con la seguente riunificazione ha cambiato tutti i termini anche del passato tedesco: perché con essa la RFT ha superato le conseguenze della guerra. Ora può finalmente cambiar pagina e uscire da quello stato di minorità politica, nel quale si sentiva relegata per decenni. Chi aveva supposto che la fine della guerra fredda avrebbe potuto sciogliere anche i “blocchi” mentali, che avevano condizionato la visione egemonica della storia (M. Stürmer 1986) per indagare più a fondo il “wie” und “warum” (come e perché) è potuto avvenire Auschwitz, rimane deluso. Sono presto arrivati i discorsi sulla presunta Normalität di una nuova Berliner Republik, che si basano sull’affermazione di assiomi come Nationalstaat e Kapitalismus.

Anche qui ed ora il ridimensionamento del passato corrisponde al bisogno di legittimare il presente: Lo “Spiegel”, non più istanza critica, ma dal 1990 allineato al governo, esordì con un titolo trionfalistico: Bewältigte Vergangenheit/ Passato superato! nel cinquantennale dell’8 maggio(1995), quando la Bundeswehr poté (finalmente) sfilare nella grande parata della vittoria a Parigi, accanto ai vincitori della guerra. Già un mese dopo il parlamento federale poté autorizzare le prime spedizioni militari “out of area” (dopo il 1945) e in luglio la Corte Costituzionale approvò questo svuotamento della Legge Fondamentale in materia militare, per cui oggi la Germania rivendica di dover difendere i propri interessi nazionali arrivando persino nelle montagne del Hindukush.] H.L. Gremliza, editore del mensile politico “Konkret”, annota nel 1995 come la riflessione storica e le ammissioni di colpa siano diventati più a buon mercato, ora, che la svolta generazionale è ormai compiuta anche nell’establishment politico: «Sulla sedia del Presidente della RFT non siede più nessuno che abbia conferito il potere al Führer» (come Theodor Heuss. primo Presidente. della RFT, FDP,1949-59, che aveva votato nel 1933 l’Ermächtigungsgesetz a favore di Hitler, nessun architetto di baracche per i lager (come Heinrich Lübke), secondo presidente, CDU,1959-1969. nessun membro di spicco del partito nazionalsocialista (come Walter Scheel) quarto presidente della FDP,1974-1979, o della SA (come Karl Carstens), quinto presidente della CDU, 1979-1984. Nella Cancelleria non c’è più nessun confidente del RSHA(massimo organo del Reich per la sicurezza (come Ludwig Erhardt), Ministro per l’economia 1949-1963 e padre del Wirtschaftswunder, poi secondo Cancelliere federale (dopo Adenauer) 1963-66, e nessun stretto collaboratore di Josef Goebbels (come Kurt G.Kiesinger), terzo cancelliere federale 1966-69.

E nemmeno il Consiglio di Amministrazione della Deutsche Bank è più presieduto (dal 1994) dall’uomo che aveva controllato l’attività produttiva dell’IG Farben ad Auschwitz-Birkenau”, ovvero da Hermann Josef Abs (1901-1994)”, direttore della Deutsche Bank dal 1938 al 1945, tra l’altro responsabile della “Arisierung”, che siedeva nel 1942 in ben quaranta consigli di amministrazione delle grandi imprese tedesche, compreso quello dell’IG Farben. Condannato come criminale di guerra in Jugoslavia a 15 anni di lavori forzati, non venne consegnato dalle truppe inglesi, ma venne chiamato nel 1948, nella bizona anglo-americana, a dirigere la Banca per la ricostruzione (KfW) e il Piano Marshall e poi nella RFT riprese le file della Deutsche Bank (presidente1957-67 e presidente onorario fino alla sua fine). Il banchiere dei nazisti mori a 93 anni, pluridecorato e venerato da tutti.[Per non nominare il famoso Hans Globke, dal 1949 il più stretto collaboratore di Adenauer alla Cancelleria RFT, che nel 1935 fu l’autore dei commenti alle leggi razziali di Norimberga.]

La nuova classe politica, costituita ora da quei figli ed eredi “senza colpa” dei padri nazisti, che lo sono grazie alla loro “nascita posteriore” (Gnade der späten Geburt, che H. Kohl aveva rivendicato per sé) ha incassato una tarda e – in fondo – ormai quasi inaspettata vittoria. E nelle trattative con gli alleati per la riunificazione della nazione ha ancora saputo aggirare (con l’”Accordo 2+4” del 12.9.1990) la stipula di un vero e proprio “Trattato di pace” della Germania con tutti gli ex-belligeranti – che avrebbe riaperto la questione ormai rimossa delle riparazioni di guerra (!) – con ingenti e incalcolabili conseguenze economiche.

E’ un tema molto complesso. Accennerò solo alla cosiddetta Wiedergutmachung (eufemismo che indica riparazione) per l’Olocausto: 3 mrd. DM assicurati da Adenauer (sembra su pressioni USA) a Ben Gurion nel 1952, dopo aspri dibattiti sia nella RFT che in Israele. (La CSU ritenne allora la richiesta “troppo esosa” e secondo il 44% dei tedeschi occidentali non si sarebbe dovuto pagare niente). La RDT, che aveva dovuto accollarsi da sola l’intero importo di ben oltre i 10 mrd. $ di riparazione all’URSS (pattuiti a Potsdam), si ritenne libera da dover risarcire lo stato d’Israele, convinta che la migliore Wiedergutmachung per lo sterminio fosse: eliminare quelle forze che lo avevano reso possibile.

Il capitolo delle riparazioni di guerra viene considerato chiuso da decenni dalla RFT, che aveva negli anni ’50 (come condizione per poter entrare nella NATO) e ‘60 stipulato accordi bilaterali con i principali stati occidentali e ottenuto con l’Accordo sul debito di Londra, nel 1953 (elaborato da HJ.Abs), una riduzione di oltre il 50% sul debito tedesco complessivo, rimandando quello post-1945 ed ulteriori risarcimenti (come per l’ingente Zwangsarbeit di 18 mio. deportati europei, di cui tornarono vivi solo 7 mio.) ad una futura riunificazione nazionale. Di fatto, le straordinarie agevolazioni concesse nel 1953 alla Germania fecero si che il debito della prima metà del ventesimo secolo fosse in realtà sostanzialmente cancellato.

Nel 2012, Alexis Tsipras, si è permesso di ricordare la grande sproporzione tra la cifra (irrisoria) di 115 mio. DM (=57 mio.€), concessa come forfait alla Grecia negli anni ’60, e gli ingenti danni di guerra subiti (fissati nel 1947 in 7.5 mrd. $, che ammonterebbero oggi a ca. 30 mrd. €) compresa la morte per fame di 300.000 cittadini, e ca. 60.000 ebrei deportati (per lo più da Salonicco). Tsipras ricorda inoltre che è rimasto fuori dagli Accordi di Londra del 1953 anche il risarcimento per il prestito forzato di poco meno di 500 mila RM, estorto al governo greco durante la guerra dall’Asse, per i costi dell’occupazione tedesca e italiana. L’Italia ha restituito il dovuto entro il 2000 (sec. il Trattato di pace con la Grecia), la Germania no. L’intera cifra dovuta ora (con tutti gli interessi) ammonterebbe a gran parte del debito pubblico greco. (le cifre calcolate variano tra 40, 70 e 160 mrd. €). Lo Spiegel (20/12) chiamò Tsipras uno Staatsfeind tout court e liquidò la questione col titolo: Acropoli addio! Sul titolo del numero oggi in edicola dello Spiegel Tsipras figura come Geisterfahrer (=uno che va contromano in autostrada).

Quando – dopo la riunificazione - le organizzazioni di vittime del Terzo Reich cominciarono ad avanzare le accantonate richieste di restituzione (provenienti soprattutto dagli USA per i patrimoni “arianizzati” degli ebrei) e di risarcimento (dai paesi dell’est) iniziò un’ altra lunga e penosa trattativa tra le parti, con notevoli accenti antisemiti (cfr. Norman Finkelstein, “The Holocaust Industry”). Istruttivo è il preciso e ampio resoconto del responsabile USA, Stuart E. Eizenstat, “Imperfect Justice” (NY, 2003) relativo alle trattative con le banche svizzere e con la controparte tedesca.
Dopo l’iniziale rigido rifiuto di pagare alcunché da parte di Helmut Kohl, Gerhard Schroeder (SPD), ancora presidente della Bassa Sassonia, ma desideroso di diventare Cancelliere(1998), ritenne utile non esasperare la discussione con gli USA. Egli promosse un fondo (denominato Stiftungsinitiative der deutschen Wirtschaft “Erinnerung, Verantwortung, Zukunft”/ EVZ) in cui le industrie tedesche beneficiarie del lavoro coatto versarono 5 Mrd. DM: alla fine risposero – non senza reticenze - ca. 6.000 imprese. Il governo raddoppiò la somma, così da poter rispondere almeno ad una parte delle richieste avanzate, in particolare dai paesi est europei: Polonia, Ucraina, Czechia, Belorussia, Paesi baltici. Di ca. 2,3 mio. richieste individuali fatte dal 2000 entro il 2007 vennero accettate ca. 1,6 mio. per complessivi 4,5 Mrd.€, mentre 20 mila ex-prigionieri (di complessivi milioni) sovietici vennero esclusi, perché “la prigionia non da diritto a nessun risarcimento”.

Gli Internati Militari italiani ne sanno qualcosa. Di fronte alle loro richieste, sancite da sentenze italiane eseguibili, la RFT aveva ottenuto dalla Corte Europea (3.2.2012) la garanzia dell’immunità di stato nei confronti di richieste di risarcimento da parte di persone private. Il governo Monti - sotto pressione finanziaria – l’aveva tradotto in una legge ordinaria (n.5/2013) e con ciò bloccato tutto. Ma la Corte Costituzionale italiana (n.238/14) ha nello scorso ottobre dichiarato però quella legge anticostituzionale. La questione dunque resta aperta.

E il governo tedesco si trova ancora una volta confrontato con obblighi morali e legali a cui continua ancora di volersi sottrarre. La vecchia RFT, addomesticata dagli alleati, è da 25 anni scomparsa insieme alla RDT. E il passato nazista – ora non più rimosso o negato, ma fortemente ridimensionato in Germania - resta oggi nella memoria pubblica, come anche nella storiografia bundesrepubblicana, sconnesso dalla sua contingenza materiale, ovvero da quel capitalismo tedesco sviluppatosi dal tardo Ottocento in un contesto feudal-autoritario, al quale la Repubblica di Weimar non seppe dare nessuna vera democratizzazione, ma solo una modernizzazione autoritaria sfociata e protrattasi nel Terzo Reich, e, direi, purtroppo anche oltre, nell’attuale potenza guida dell’Europa.

Susanna Böhme-Kuby, già docente di Letteratura Tedesca presso le Università di Udine e di Venezia,

si occupa di cultura tedesca con particolare attenzione al rapporto tra società e mass media. Tra le pubblicazioni:

Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar (Il Nuovo Megangolo, 2002) e L'avvenire del passato / Die Zukunft der Vergangenheit. Italia e Germania: le note dolenti (Forum Edizioni, 2007).

«Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi leader che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere altro che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto».

La Repubblica, 8 febbraio 2014

Il paradosso nel quale la crisi ci ha catapultato è far apparire rivoluzionario il linguaggio dei diritti sociali. Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere altro che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto. La democrazia è, essa, radicale. I leader che la impersonano non devono far altro che ricordarlo. Un promemoria che ci tenga svegli, disposti ad accettare di mettere in soffitta il discorso dei diritti, aspettando tempi migliori. E chi stabilisce quando i tempi saranno migliori?

Rimuovere gli ostacoli alla nostra libertà e eguaglianza è un lavoro dell’oggi, non di un futuro indefinito. Da quando le società hanno deciso di rinunciare alla violenza e di immettersi nel cammino della persuasione, lo slogan di battaglia ha rivestito i panni dei diritti fondamentali e delle promesse costituzionali. Non ha perso radicalità, ne ha anzi acquistata se è vero che pronunciarli fa apparire radicale un moderato.

Gli istituti di ricerca che misurano lo stato della democrazia nei Paesi occidentali segnalano un declino di fiducia dei cittadini nella capacità dei governi di determinare in meglio le sorti economiche dei loro Paesi. La crescita della corruzione e la perdita di legittimità dei partiti politici completano questo quadro piuttosto negativo. Evidenze empiriche, scrive Larry Diamond, di un decennio micidiale di «declino progressivo nell’attrazione verso la democrazia ». Decadenza, stagnazione, sfiducia rendono i governi occidentali perfino deboli competitori dei regimi autoritari, adagiati nella pratica del balbettio negativo del non possumus, quasi a sperare che i loro cittadini si adattino all’idea che diritti e principi debbano essere messi in deposito e non possano essere usati oggi. Sembra che il linguaggio dei diritti e dei principi costituzionali non si adatti ai tempi di crisi, che sia un lusso da rinviare a tempi migliori. Il pudore nell’uso di questo linguaggio è un indice della crisi che avvilisce le nostre società poiché sconfessa nella pratica quel che la democrazia promette: che i diritti siano guida del governo della vita materiale e dei bisogni. I diritti non sono sogni di visionari.

Il linguaggio dei diritti è il grano di utopia pragmatica del quale le società libere hanno bisogno affinché la politica non diventi una fotografia della stagnazione e i cittadini non vedano nello status quo l’unico orizzonte possibile. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente Sergio Mattarella ha reiterato, quasi a farne una litania, gli articoli della Costituzione. «Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza».

Il bisogno di “confermare” quel patto a noi stessi per primi, di leggere a voce alta quell’Articolo 3 che, a valutare lo stato della giustizia sociale, sembra più che una promessa una favola bella. E il Presidente lo ha letto proprio pensando che viviamo in un tempo di crisi, presentandolo come un volano per reagire. La politica che ci promette di trattare tutti e tutte con dignità di liberi e uguali non è una politica dei sogni; è una politica realistica, dotata di una bussola sicura e capace. Impegnarsi a togliere gli ostacoli che limitano la nostra libertà e eguaglianza vuol dire imprimere una svolta alla politica dell’austerità, cambiare rotta e seguire le coordinate delle eguali opportunità.

La Repubblica, 8 febbraio 2014 (m.p.r.)
Roma. Il 20 gennaio 1961 nel suo discorso inaugurale, John Kennedy disse: «Nessuno deve negoziare sotto la morsa della paura. E nessuno deve aver paura di negoziare». La frase l’aveva scritta John Kenneth Galbraith, l’economista che di Kennedy fu consigliere. Ce la ripete James Galbraith, che di Kenneth è il figlio ed è anch’egli un economista di primo piano, docente all’università del Texas dove è collega e grande amico di Yanis Varoufakis, neo-ministro delle Finanze greco, con il quale ha scritto il libro Modesta proposta per uscire dalla crisi dell’euro.

«Negli anni ’60 si parlava di guerra fredda», dice Galbraith. «Oggi è analogo l’acerrimo confronto sui debiti e la depressione che flagellano un Paese, la Grecia, che non merita di essere messo all’angolo. Dalla Merkel, da Draghi, da Bruxelles, da nessuno».

Domani c’è la fiducia a Tsipras. Lei ci sarà?
«Sto prendendo l’aereo per Atene. Sarò a fianco di Varoufakis e lo aiuterò a preparare il progetto per il negoziato: vi rendo noto che è una delle menti più lucide e brillanti dell’economia attuale. Come potevano pretendere, i capi europei, che già avesse pronto il contro-piano se le elezioni sono state convocate in tutta fretta alla fine del 2014? Non è possibile che venga isolato solo perché rompe gli schemi».
Quali schemi?
«In questi anni abbiamo visto decine di vertici paludati, in cui con reciproco compiacimento i capi dell’Europa prendevano atto della crisi e nominavano qualche comitato con l’impegno di “fare il punto” dopo uno o più mesi. Senza mettere in discussione il mantra reazionario del rientro dal debito quale unica priorità, l’unico modo per uscire dalla crisi. Intanto la Grecia affondava. Ma la signora Merkel c’è andata? Ha visto le condizioni in cui vive, anzi ormai sopravvive, la gente? Sento parlare di ripresa, di risultati conseguiti: ma quale ripresa? Quali risultati? Solo un intervento politico deciso, di rottura, di solidarietà, può restituire dignità all’Europa. Invece appena Tsipras pronuncia la parola “ristrutturazione del debito” che vuol dire allungare i tempi, aspettare la risalita del Pil per restituirli, forse concederne qualcuno nuovo, scatta la tagliola di opposizioni, di minacce, insomma la sindrome della paura. Si devono calmare gli animi per cominciare un negoziato vero. Ho sentito qualche capo europeo esasperato perché ad ogni cambio di governo greco si sentono fare proposte nuove e si deve ricominciare daccapo: scusate, ma allora le elezioni che si fanno a fare? Allora non le facciamo per niente e facciamo governare tutto alla Germania o alla Bce».
Propone qualcosa di simile all’intervento statale con cui l’America è uscita dalla recessione?
«L’intelligenza di Obama non è stata creare nuovi strumenti bensì valorizzare quelli esistenti: social security, Medicare, Medicaid, sussidi di disoccupazione. Accorgimenti di cui si dotano i Paesi evoluti per affrontare i momenti difficili. Anche in Europa ce n’erano: con l’ossessione dei debiti li state distruggendo tutti».

Il manifesto 7 febbraio2015

Con il pas­sag­gio ormai quasi com­pleto dei par­la­men­tari di Scelta civica nelle fila del Pd si rag­giunge una signi­fi­ca­tiva tappa nella navi­ga­zione del sistema poli­tico. Renzi ormai è una cala­mita attrat­tiva che assorbe un arco di forze ete­ro­ge­neo, che va da Ver­dini a Migliore. Dinanzi a que­sto vistoso scon­fi­na­mento, si tratta solo di chia­rire se è il Pd che si amplia, in virtù di una nuova voca­zione ege­mo­nica, o se non è invece Scelta civica che, pro­prio dile­guan­dosi, svela che il ren­zi­smo aiuta il defi­ni­tivo com­pi­mento della sua ori­gi­na­ria mis­sione di par­tito neo­pa­dro­nale. Crea­tura della flac­cida volontà di potenza di Monti, Scelta civica si insi­nuava nel solco delle for­ma­zioni poli­ti­che per­so­nali, così abbon­danti nel corso della seconda repub­blica. Con delle spe­ci­fi­che con­no­ta­zioni, però. La lista era il frutto della mani­fe­sta­zione di avi­dità poli­tica dei poteri forti che rinun­cia­vano alla loro tra­di­zio­nale tat­tica di influen­zare spez­zoni di diversi par­titi, senza però alle­stirne uno in pro­prio, con il rischio di raci­mo­lare solo magri frutti nel mer­cato elettorale.

Die­tro le armate di Monti si com­piva una bru­tale sem­pli­fi­ca­zione dell’antico cen­tro pre­si­diato con cura da Casini. Con le prove di sfon­da­mento con­dotte prima da Mon­te­ze­molo, e poi rin­sal­date con le ope­ra­zioni di occu­pa­zione gui­date da Monti, si ordi­nava la destrut­tu­ra­zione dell’area mode­rata. Il vec­chio cen­tro cat­to­lico non aveva più ragione di esi­stere nella sua auto­no­mia (con­tro di esso ven­nero non a caso get­tati in pista figure come Oli­ve­rio, Dal­lai, con l’avallo di alte o medie gerar­chie). Il mondo cat­to­lico era desti­nato a por­tare in dote i voti resi­dui al dise­gno dei poteri forti che in vista dell’appuntamento del 2013 entra­vano in ballo con una dop­pia bocca di fuoco: la prima a soste­gno della prova di bona­par­ti­smo tec­no­cra­tico ten­tata da Monti (prima va al potere, con gra­zia rice­vuta dal Colle, e poi va alla ricerca dei voti); la seconda, viste le insor­mon­ta­bili dif­fi­coltà espan­sive del boc­co­niano cavallo poco di razza, a dispo­si­zione di Grillo, cele­brato dai media per strap­pare deci­sive por­zioni di con­senso a Ber­sani e Ven­dola.

Il tec­nico e il comico erano le due figure spe­cu­lari che i poteri forti (il Cor­riere, Sky, la Sette) acca­rez­za­vano per deter­mi­nare un pareg­gio alle urne e sbar­rare così la strada ad una sini­stra scru­tata come troppo legata ai colori inquie­tanti del pas­sato. Il pro­getto è stato cen­trato in pieno. Non è un caso che figure come Men­tana o Galli della Log­gia siano pas­sati rapi­da­mente dalle sim­pa­tie per il comico geno­vese all’innamoramento totale verso Renzi. Quello che per loro con­tava era can­cel­lare ogni resi­dua trac­cia di rosso nella sto­ria repub­bli­cana. E lo sta­ti­sta nato sulle rive dell’Arno è la prov­vi­den­ziale con­giun­zione dei diversi sen­tieri che si erano aperti per abbat­tere le vel­leità di governo di una sini­stra «neosocialdemocratica».

Con la scon­fitta del 2013, il Pd ha subito una meta­mor­fosi com­pleta. Dalle vel­leità di ricol­lo­carsi in uno spa­zio più chia­ra­mente di sini­stra, deve acca­sarsi nelle paludi di un mode­ra­ti­smo dal volto neo­pa­dro­nale. Con Ichino, la Lan­zil­lotta rien­trano agli ordini del Naza­reno per­so­na­lità che erano fug­gite per­ché in disac­cordo con una virata a sini­stra mal dige­rita. L’operazione, gestita in per­fetto stile tra­sfor­mi­sta, trova però una giu­sti­fi­ca­zione sostan­ziale nell’operato del governo Renzi che ha, sul piano sociale e sin­da­cale, mostrato un’anima libe­ri­sta che tanto piace a Ichino ed altri pro­feti dell’abbattimento bru­tale del diritto del lavoro.

Con il soc­corso delle fre­sche truppe di Ichino e Migliore fini­sce anche la vel­leità della mino­ranza Pd di fic­care qual­che graf­fio nel volto sem­pre ridente del con­dot­tiero di Rignano. Con i ritro­vati del tra­sfor­mi­smo, Renzi diventa un capo par­la­men­tare che taglia e incolla i per­so­naggi ambi­gui, pronti a dare un soste­gno alla sua lea­der­ship. La mino­ranza del Pd viene così resa inof­fen­siva e paga le sue esi­ta­zioni stra­te­gi­che. Invece di andare all’assalto fron­tale quando il governo rom­peva la cul­tura dei diritti, strac­ciava il legame con il lavoro e sbef­feg­giava vol­gar­mente la Cgil, ha pre­fe­rito for­mu­lare fra­gili pro­po­ste di media­zione e infine alzare inno­cui segnali di fumo nella bat­ta­glia molto meno sim­bo­lica e diri­mente sul voto di pre­fe­renza. Un disastro.

Nei con­flitti poli­tici, chia­riva Locke, non si deve met­tere in campo una «fit­ti­zia resi­stenza», quella del tutto inno­cua di chi con timore chiede al nemico il «per­messo di col­pire». In ogni con­flitto, che «livella le parti», occorre una netta deter­mi­na­zione nel dare «colpi sulla testa e tagli sul viso». Al cospetto del boy scout spre­giu­di­cato che intro­ietta alla per­fe­zione le armi distrut­tive pre­di­spo­ste dal dia­bo­lico fra­zio­ni­smo demo­cri­stiano, la mino­ranza di sini­stra ha mostrato un disarmo pre­ven­tivo. E ora rischia di essere schiac­ciata dalle prove di lea­der­ship che si con­so­lida gra­zie alle risorse di un tra­sfor­mi­smo post­mo­derno che acchiappa ex gril­lini ed ex super­stiti dell’avventura di An.

Con gli spo­sta­menti di Scelta civica sono ormai quasi 200 i par­la­men­tari che hanno cam­biato casacca in meno di due anni. E que­sto, oltre che uno ste­rile pro­blema di deca­denza etico-politica, sol­leva anche que­stioni di ordine isti­tu­zio­nale. L’attuale geo­gra­fia del par­la­mento (fuga dal M5S e da Sel, disar­ti­co­la­zione di Forza Ita­lia, assor­bi­mento di Scelta civica) non cor­ri­sponde più alle pre­fe­renze elet­to­rali. Oltre che inco­sti­tu­zio­nale, il mec­ca­ni­smo elet­to­rale ha costruito un sistema non più rap­pre­sen­ta­tivo. Forse avviare le pra­ti­che per uno scio­gli­mento anti­ci­pato della legi­sla­tura non è poi una idea così malsana.

«La democrazia è la lotta con cui i popoli costruiscono sistemi politici per impedire il consolidarsi di gruppi di potere. L’Ue si è sottratta a questa concezione. Abbiamo bisogno di rinegoziare i trattati europei, di eliminare misure inique come il fiscal compact e il Patto di stabilità, di tirare fuori l’Ue dalla spirale di guerre innescata dagli Usa».

Comune.info, 7 febbraio 2015

La concezione della democrazia, da sempre, esprime il volere e il potere del popolo, che le istituzioni dovrebbero prendersi cura di realizzare. La Costituzione italiana del 1948 recepisce questo concetto. Le istituzioni sono pertanto espressione del popolo e della sua volontà, e la loro legittimità nasce dalla capacità di esercitare queste funzioni mediante il potere di revocabilità degli eletti, che le elezioni e altre forme di espressione del consenso consentono. Un sistema politico, questo, che impedisce il consolidarsi di gruppi di potere e posizioni privilegiate di governo in contrasto con la volontà popolare e il bene comune.

Da qui il “disagio” dei gruppi e delle persone che percepiscono il potere politico come la continuazione del proprio potere economico e personale, e il governo della società un esercizio troppo complicato e importante per lasciarlo nelle mani del “popolo”. In questa relazione funzionale tra popolo e istituzioni si è inserito il gioco del diritto, nel tentativo, spesso riuscito, di creare un dualismo nell’unità del popolo. Questo inizia con l’introduzione dell’autonomia delle istituzioni dalla politica, cioè dall’espressione della volontà popolare, la loro successiva indipendenza, che dalle alte cariche dello Stato si estende poi alle istituzioni (Parlamento), ai singoli rappresentanti, ecc. in una corsa generalizzata verso l’esproprio della sovranità popolare.

La base teorica di questa operazione di esproprio della sovranità popolare nello Stato moderno è la scoperta dell’individuo, la sua indipendenza dall’unità dell’insieme di cui fa parte, il suo diritto a stracciare quel contratto sociale che lo lega alla comunità, la sua indifferenza al volere dei cittadini che lo hanno eletto o nominato a svolgere determinate funzioni. Siamo quindi in presenza di quella che Pietro Barcellona definisce l’affermarsi della “soggettività astratta”, “la società degli individui”, cioè di un individuo libero dai vincoli della stratificazione sociale ma che “consegna tuttavia la sua libertà all’autonomia del sistema economico e alla trasformazione dei rapporti umani in rapporti di scambio tra cose equivalenti, cioè agli automatismi delle cosiddette leggi economiche e all’oggettivazione di ogni valore nella forma del valore di scambio”. (Barcellona P., Il declino dello Stato, Dedalo Bari 1998, pp. 21-22).

Si viene così a costituire un ordine “moderno” che ruota intorno a due poli “logicamente” incompatibili: “il principio della libertà individuale che assume l’esercizio del diritto soggettivo come fonte dell’ordinamento e il principio dell’autogoverno sociale, che istituisce la sovranità popolare e la democrazia come esclusiva depositaria del potere normativo”. (Barcellona, Diritto senza società, Dedalo, p. 88.). Nei decenni dell’affermarsi e dell’imporsi della globalizzazione (1970-2000) il domino del primo principio è apparso irreversibile, il che ha dato vita a numerose teorie (alienazione, omologazione, società liquida, ecc.). Diluito così il popolo nei flussi della “storia”, quella decisa e descritta da altri, si è tentato di sostituirlo con la teoria delle élite, una volta intellettuali oggi esperti e politici, alle quali spetta il compito di elaborare e governare i destini della società.

Al disagio della democrazia si è pertanto reagito intervenendo sui due soggetti capaci di dare espressione alla volontà popolare: il popolo e le élite. L’Europa, dagli anni Settanta in poi, è diventata un importante laboratorio della sperimentazione di questo nuovo meccanismo del controllo sociale e della fine della democrazia, introdotto dalla globalizzazione e governato dall’Unione Europea. Ci si è mossi scientificamente su più linee di azione. Anzitutto manipolando i processi di formazione del consenso popolare mediante la volgarizzazione della sua cultura di base realizzate con forme moderne di retorica e populismo messe in atto con i mass-media e la televisione in particolare. Si è così prodotta la manipolazione dei bisogni, dando a vita a società che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo ma sono prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone. In secondo luogo ci si è concentrati sulla formazione e selezione delle élite.

Sono state rianimate le forme di ingabbiamento dei gruppi sociali e professionaliche costituiscono la base di reclutamento dei ceti burocratico-amministrativi della società, mediante il rilancio delle associazioni massoniche e convogliando i ceti intellettuali nelle fondazioni. Parallelamente si è mirato ai processi di alta formazione mediante le istituzioni della “società della conoscenza” rivolte al controllo della formazione universitaria, della ricerca, ecc.. le cui fasi comprendono la destabilizzazione dell’insegnamento universitario e della ricerca a livello nazionale e la sua sostituzione con Centri di eccellenza. (Amoroso. B., Figli di Troika, Castelvecchi, Roma, 2013). Al convergere degli effetti di queste linee di intervento dobbiamo l’affermarsi del pensiero unico.

Ma la repressione del legame sociale non ha mai prodotto la sua estinzione, anche se lo ha costretto nelle catacombe della famiglia, del locale, delle associazioni di solidarietà e religiose, ecc. Infatti questo è riesploso alla luce del sole anche attraverso le maglie ben controllate e protette dei sistemi politici e di controllo economico predisposti quando le forme di rapina hanno travalicato i confini della sopravvivenza e della sopportabilità sociale. Le elezioni europee del 2014, le ottave dal 1979, si sono tenute a maggio nei 28 Stati membri dell’UE hanno dato chiara visibilità al formarsi e crescere di una rivolta sociale. In particolare la crisi dell’eurozona, che ha colpito tutti i paesi europei e in particolare i paesi dell’Europa del sud e l’Irlanda, ha prodotto una diminuzione significativa del consenso popolare per le politiche di austerità imposte dalla Troika, e portato la sfiducia dei cittadini in tutti i paesi membri verso i trattati e le istituzioni europee a un massimo storico. Indagini campionarie svolte prima delle elezioni avevano segnalato chel’approvazione dei greci per le misure di Bruxelles era diminuita dal 32 per centodel 2010 al 19 per cento nel 2013, e in Spagna dal 59 per cento del 2008 al 27 per cento del 2023 (Gallup 8.1.2014). Giudizi positivi sulle élite di Bruxelles sono espressi da 4 paesi membri su 28 (Huffington Post, 20.1. 2014).

La ‘vocazione democratica’ dell’élite di Bruxelles è ben messa in luce dalle reazioni che questi dati hanno provocato. ‘Reazioni infondate e dovute all’estremismo di destra e di sinistra’, secondo il presidente della CE José Manuel Barroso che è solito volare alto con il suo pensiero; e quelle più terrene del ministro degli esteri tedesco Frank- Walter Steinmeler secondo cui le forze centrifughe messe in moto dalla crisi sono “pericolose” e gli euroscettici “senza cervello”. Con l’avvicinarsi delle previsioni alla data delle elezioni si è andato prefigurando un quadro che ha visto aumentare le posizioni degli oppositori alle politiche di Bruxelles dal 12 per cento al 16 – 25 per cento con il diffondersi della preoccupazione delle classi dirigenti per il rafforzarsi dei partiti euroscettici, anche se la stampa di regime era tutta impegnata a dimostrane l’inconsistenza numerica e ideologica.

Il messaggio alla vigilia delle elezioni è stato quello di votare sui temi europei e per il Parlamento europeo, senza lasciarsi coinvolgere dai malumori verso le politiche dei governi nazionali. Si è cioè tentato in modo maldestro e poco lusinghiero per i partiti nazionali di scaricare su di loro le colpe della crisi e delle politiche adottate denunciandone implicitamente il ruolo di portaborse. Messaggio in gran parte pervenuto poiché i partiti euroscettici e di opposizione si sono concentrati sui temi europei uscendo dall’ambito specifico nazionale, e affrontando i temi nodali del potere della finanza, del centralismo burocratico di Bruxelles, degli errori nel processo d’integrazione che anziché favorire la cooperazione in Europa ne ha distrutto le basi stesse del progetto.

I risultati di questo confronto politico sono noti. Quasi la metà dei cittadini europei non ha partecipato alle elezioni per dimostrare il proprio dissenso da Bruxelles.Astensione particolarmente accentuata nei paesi dell’est dei quali si erano decantati gli entusiasmi europeisti a dimostrazione della giustezza delle politiche adottate dalla CE. I votanti in Slovacchia sono stati il 13 per cento, intorno al 20 per cento nella Repubblica Ceca e in Polonia, e al 30 per cento in Romania, Bulgaria e Ungheria. Negli altri paesi la percentuale ha oscillato nella media intorno al 50 per cento ma il dato più importante è che per la prima volta i partiti critici verso l’élite di Bruxelles hanno raggiunto posizione di guida politica nei rispettivi paesi: Danimarca, Gran Bretagna, Francia, ecc. A questo punto si registra il paradosso.

La reazione di Bruxelles, e delle “teste scambiate” della sinistra, non fa riferimento alla volontà popolare di critica della Troika e delle politiche di austerità, ma alla posizione che questi partiti occupano nella politica nazionale già prima delle elezioni. Sono le posizione espresse da alcuni di questi partiti nel contesto nazionale, di critica delle politiche sociali e d’immigrazione dei propri governi, che sono assunte a valutazione del loro orientamento. L’euroscetticismo cioè si trasforma secondo i soloni e portaborse della CE in xenofobia, nazionalismo, fascismo. Con l’eccezione, ovviamente, dei partiti di sinistra, conservatori e liberali, nonostante la loro responsabilità nel produrre le cause delle guerre e delle immigrazioni in Europa, e la gestione diretta di forme incivili di governo di questi “flussi”.

Il quadro europeo uscito dalle elezioni è chiaro. Solo due paesi esprimono, anche se con forti astensioni, la loro piena soddisfazione per i piani integralistici pantedeschi europei: la Germania e l’Italia. In Germania vincono i conservatori della Merkel e in Italia quella lobby di interessi massonici e corporativi coalizzata nel Pd. Se il Pd avesse portato i suoi voti nell’ambito delle opposizioni al progetto pantedesco dell’Europa si sarebbe creata l’occasione storica di rimettere in discussione su basi solide il progetto europeo di pace e cooperazione contro quello della competizione e della guerra sostenuto dai conservatori e liberali. Se le “teste scambiate” dei vari partiti di sinistra arrivati al parlamento europeo avessero saputo riconoscere le scelte della volontà popolare espressasi nei vari paesi, ovviamente canalizzatasi verso quei partiti che sulle politiche europee avevano espresso il proprio dissenso, si poteva costruire un fronte di opposizione alla Troika che avrebbe impedito lo sconcio dell’elezione del nuovo presidente dell’UE e del consolidarsi del potere della BCE. Ma così non è stato. Il Pd ha scelto la strada della “grande coalizione” con liberali e conservatori, insieme al resto della socialdemocrazia europea. Si realizza così il patto Berlino-Roma nel quale, come negli anni Venti, confluiscono gli interessi della Germania, certamente dominante, con la stampella italiana di mussoliniana memoria oggi impersonata da Renzi nella speranza di ricavare qualche briciolo di dividendo da questo tradimento degli interessi dell’Europa.

Le élite europee, su comando dei padroni della finanza internazionale gestiti sapientemente da Mario Draghi, stanno così riscaldando i motori che porteranno al disastro del progetto europeo e dei paesi dell’Europa del sud, compresa l’Italia. Nulla è cambiato nel funzionamento della Commissione Europea. La BCE sta portando avanti coerentemente i suoi piani di esproprio dei risparmi degli europei completando l’operazione iniziata nel 2008, e introducendo misure – l’Unione Bancaria – che mettono nelle mani della peggiore finanza speculativa il sistema bancario europeo.

Di questo fa parte lo smantellamento di tutte le forme anomale – perché cooperative e di sostegno dei sistemi produttivi locali – come le Banche Popolariecc (leggi anche Governo, capitali e banche impopolari). Le recenti misure di allargamento del credito predisposte dalla BCE non solo non rispondono a nessuno dei problemi urgenti posti dalle economie dell’Europa del sud, ma sfacciatamente mettono a disposizione del sistema finanziario una quota prestabilita (del 20 per cento) per il riciclaggio dei titoli speculativi e il finanziamento delle operazioni dell’alta finanza utili anche a salvare le proprie banche dal collasso, lasciando il restante 80 per cento a carico degli stati nazionali. Ma non per tutti ovviamente, e quindi la Grecia va tenuta fuori.

Come nelle precedenti crisi mondiali la reazione e la proposta di uscita dalla crisinon avviene nei paesi forti dove questa era attesa (Francia e Italia) ma nei punti deboli del sistema (la Grecia e la Spagna). Le élite politiche e imprenditoriali di Francia e Italia sono pronte a prostituirsi per avere i resti del dividendo delle guerre e delle rapine finanziarie; il che non salva i ceti colpiti dalla crisi dallo scivolamento graduale verso la povertà e la miseria, ma forse riesce a tenere il consenso di qualche settore del pubblico e del sindacato della grande industria.Potrà la Grecia, lasciata sola, affrontare l’arroganza e lo strapotere della finanza internazionale e della Germania?

La proposta del nuovo governo greco riproduce il testo di una proposta bene elaborata (A modest proposal) rivolta ad alleggerire con la solidarietà europea il peso della crisi verso il proprio paese. Una proposta di certo fattibile e realistica che indica anche gli strumenti a disposizione dell’UE, per risolvere la crisi. Tuttavia, come feci osservare al momento della sua presentazione al seminario nell’Università di Austin negli Stati Uniti organizzato da James Galbraith, è pensabile che la UE e la BCE rivedano i propri piani di rapina in base a considerazioni di buon senso? Una spinta più forte forse potrebbe. Come abbiamo scritto nel testo Un Europa possibile: dalla crisi alla cooperazione (Amoroso e Jespersen, Castelvecchi 2012) un fronte unito di paesi dell’Europa del sud (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia) avrebbe di certo maggiori capacità di pressione e negoziazione per arrivare a una “modesta proposta” capace tuttavia di alleviare la gravità della crisi sui ceti più colpiti e il peggio che si annuncia.

Un fronte di paesi che avrebbe la forza di imporre una rinegoziazione dei trattati europei, togliere le misure inique del fiscal compact e del Patto di stabilità, tirare fuori l’UE dalla spirale di guerre innescata dagli Stati Uniti. Una proposta che salverebbe l’Europa dal collasso inevitabile verso il quale si è avviata. Per far questo è importante che la sinistra e le altre forze che hanno espresso la loro opposizione ai piani della Troika si uniscano superando le divisioni partitiche e le etichette di destra e di sinistra che oggi servono solo a dividere i popoli europei.

La democrazia si riconquista dando voce al popolo, con buona pace di chi ama tuttora discettare sul “disagio” della democrazia.

Bruno Amoroso, presidente del Centro Studi Federico Caffè e collaboratore di Comune-info, è stato uno degli allievi e collaboratori del noto economista Federico Caffè (nel libro «La stanza rossa», per Città aperta, traccia il significato dell’avventura intellettuale e umana dell’amico e maestro). Docente presso l’università di Roskilde (Danimarca) e quella di Hanoi (Vietnam), Amoroso è tra i promotori dell’Università del Bene Comune ed è autore di numerosi articoli e libri (tra cui «Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro» per Dedalo edizioni; l’ultima pubblicazione è «L’Europa oltre l’Euro», edita da Castelvecchi).

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