La Nuova Venezia, 13 febbraio 2015 (m.p.r.)
ITALIANI brava gente, si è sempre detto. Soprattutto quando si parla di Shoah. È vero, ci furono i “giusti”. Ma è anche vero che dietro la cattura di ogni ebreo ci furono almeno altrettanti italiani implicati: prefetti, questori, poliziotti, carabinieri, finanzieri, repubblichini, compilatori di liste, impiegati, delatori della porta accanto, traditori, autisti di camion, ferrovieri, persone che nel 1943-1945 non obbedirono solo agli ordini tedeschi, ma dichiararono gli ebrei “stranieri” e “nemici”, li identificarono su base razziale, li stanarono casa per casa, li arrestarono, li depredarono dei beni, li rinchiusero in campi di concentramento, li consegnarono al III Reich rendendosi colpevoli di genocidio, se, come si intende e come ha detto Raul Hilberg, furono responsabili tutti i gangli della macchina della morte e non solo gli esecutori finali. Le vittime furono oltre seimila. Il libro di Simon Levis Sullam dimostra questo.
Ogni caso ha la sua storia. Lo storico dell’università Ca’ Foscari, autore di molti saggi sull’argomento, ci avvolge di vicende cupe. All’inizio nomina gli ideologi, le leggi razziali del ‘38, la lenta disumanizzazione dell’“avversario”, gli antisemiti, i sostenitori della “totale eliminazione de- gli ebrei”. Ma è quando passa alle singole città, ai singoli provvedimenti, che vediamo quanto il veleno avesse conquistato spazio.
Andiamo a Roma, nel marzo 1944, la grande retata era già avvenuta da tempo, una bambina di sei anni, Emma Calò, e un cuginetto riescono a nascondersi mentre il commissario di Ps sta arrestando i genitori, i nonni e quattro fratelli. Il funzionario cerca e trova personalmente i piccoli. Tutta la famiglia non farà ritorno. A Venezia, 163 ebrei “puri”, in maggioranza anziani, vengono individuati, piantonati e infine rastrellati mentre, alla Fenice, Ar- turo Benedetti Michelangeli tiene un concerto. È il volenteroso Questore Filippo Cordova ad anticipare il ministero e a muovere la macchina, così come faranno molti colleghi e anche i prefetti. Trovano gli ebrei, i militari li scortano, qualcuno scova il vaporetto e lo conduce alla stazione. Un treno parte per Fossoli, dove giorni dopo due agenti ricongiungono dei bimbi tra i 3 e i 6 anni ai genitori: partiranno tutti in un convoglio per Auschwitz con oltre 640 prigionieri, tra cui Primo Levi. A nessuno venne in mente di salvare i piccoli, di ostacolare in qualche modo la ricerca delle vittime e il viaggio verso la morte. E così in tutta Italia.
Le delazioni riempivano le scrivanie dei funzionari. Migliaia. Anonime e no. E i funzionari non ne saltavano una. Così come le guide verso la Svizzera consegnarono spesso, depredandoli, i clienti alle guardie. Oppure era il vicino di casa che denunciava il condomino. Per invidia, rancore, soldi, per appropriarsi dei beni, andavano a prendere anche un solo ebreo nel mezzo della campagna. Perché in Italia catturarli, eliminarli dalla società, non fu un incidente, ma un cardine del totalitarismo.
Venerdì notte, la Camera dei Deputati — senza le opposizioni che avevano abbandonato l’aula — ha modificato, nell’ambito della riforma della seconda parte della Costituzione, anche l’ex articolo 78, quello che norma le modalità della dichiarazione dello «stato di guerra».
Ora basterà, con la modifica approvata, un voto della Camera dei Deputati (e non più, anche del Senato), con la maggioranza assoluta dei componenti. Addirittura in una prima versione, il governo aveva previsto la maggioranza semplice, cioè dei presenti.
I deputati pacifisti avevano proposto che la maggioranza fosse qualificata, almeno dei due terzi. Visto che l’articolo 11 della Costituzione ci dice che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa», se questa deve essere dichiarata (evidentemente in casi eccezionali, estremi e solo per motivi di difesa dei confini), allora che sia una decisione il più condivisa possibile. I loro emendamenti sono stati bocciati.
Perché la modifica di venerdì notte è gravissima? Perché la riforma costituzionale è affiancata da una riforma elettorale (l’Italicum) che prevede il premio di maggioranza al partito vincitore delle elezioni. Il combinato disposto delle due riforme dà di fatto ad un partito politico (che potrà avere la maggioranza assoluta alla Camera anche con una maggioranza relativa dei voti dell’elettorato) il potere e la responsabilità di dichiarare lo «stato di guerra». Un’aberrazione.
Pare che questa modifica sia stata fortemente voluta dai vertici delle Forze Armate e dalle ministre Roberta Pinotti e Maria Elena Boschi, assistite dagli accademici molto «agguerriti» della Fondazione Magna Charta, quella di Gaetano Quagliarello, una cima del pensiero costituzionale.
Dal 1947 il Parlamento non ha mai dichiarato lo «stato di guerra», anche se di guerre — presentate come interventi umanitari e in nome dei diritti umani — ne ha fatte tante: Iraq, Kosovo, Afganistan e ora forse tra qualche giorno la Libia. Mai l’articolo 11 della Costituzione è stato così disatteso. L’ex articolo 78 era di fatto un articolo «simbolico», che dava comunque al Parlamento un ruolo per una decisione così drammatica: la riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi ha fatto di questo articolo il simbolo di un’altra cosa, la predominanza del governo sul parlamento.
Matteo Renzi sembra avere seguito le orme del vecchio Sidney Sonnino quando invocava: «Torniamo allo Statuto». Il vecchio Statuto Albertino infatti dava al Re il potere di dichiarare guerra. La modifica dell’ex articolo 78 di venerdì notte — similmente — dà questo potere al governo e al suo nuovo Re: il bullo fiorentino
Una volta tanto su un giornale italiano si riconosce che i due "eroici marò" hanno ucciso due giovani e inoffensivi pescatori.
«In visita alla famiglia di uno dei pescatori uccisi tre anni fa ». La Repubblica, 15 febbraio 2015
Anche su questo l’ambasciata italiana di Delhi preferisce mantenere il silenzio, per timore che ogni azione o parola possa essere male interpretata. Lo stesso riserbo hanno quasi sempre seguito La Torre e Girone, mentre una speciale agenzia investigativa nazionale, la Nia, prepara i documenti dell’indagine per i magistrati di una Corte altrettanto speciale. Neanche sul fronte del governo indiano c’è disponibilità a parlare per confermare un’eventuale trattativa in corso. «È tutto in mano alla magistratura », è la posizione ufficiale.
A due passi da casa Galestine incontriamo A. Andrews, il leader dell’associazione dei pescatori del distretto, secondo il quale «spetterebbe a noi il diritto di processare e condannare i responsabili ». «Se le famiglie hanno perdonato - dice Andrews sotto a un colorato crocifisso di Cristo che pende su una parete - noi non lo faremo mai. È nella nostra tradizione punire chi uccide degli innocenti».
In un paese dove migliaia di processi aspettano molto più di tre anni per rendere giustizia, la vicenda dei marò resta un caso a sé, per il clamore internazionale e i troppi dettagli ancora avvolti nel mistero. La fantomatica nave greca, le presunte segnalazioni dei militari alla barca “pirata” in rotta di collisione, le raffiche di mitra sparate da 20 metri di altezza e destinate in teoria a finire in acqua, la decisione del capitano di entrare in porto e consegnare i due marò.
Alla scena rumorosa dei tumulti sui banchi di Montecitorio da oggi se ne sostituirà una silenziosa ma non per questo meno indecorosa. Quella di un’aula parlamentare mezza vuota, abbandonata dal variegato cartello delle opposizioni. Dalla Lega a Fi, da Sel ai 5Stelle, tutti insieme per la scelta estrema di non essere né complici, né spettatori di una riforma che sfigura la Costituzione e incorona il piccolo Cesare.
Buttare giù la Carta della democrazia parlamentare non è un pranzo di gala e che gli animi si accendano è il minimo. Succede dai tempi di Cavour e Garibaldi, anche se questa volta le botte non sono volate tra destra e sinistra ma tra i deputati del Pd e di Sel. Tuttavia non si tratta più di una questione di buone maniere, difficili da mantenere tanto più se l’assemblea si vede imporre tempi e modi della “controriforma” da un presidente del consiglio che si aggira di notte come un ladro per i corridoi di Montecitorio a raccattare voti minacciando le elezioni anticipate.
La scelta dell’Aventino è così solo l’ultimo atto di una brutta storia di prevaricazione, costante e continua, di ogni regola e procedura. Tra i tanti esempi dello stil novo renziano basterebbe ricordare l’episodio della sostituzione dei senatori del Pd che in commissione non votavano come Renzi e Boschi comandavano.
La decisione di lasciare che il governo Renzi-Alfano approvi in solitudine la nuova Costituzione purtroppo fa parte di uno scenario tutt’altro che inedito. Il triste spettacolo fu messo in scena quando Berlusconi varò la sua riforma, oltretutto anche molto simile a quella in discussione oggi, e per fortuna poi bocciata dal referendum (come speriamo si ripeta questa volta).
Oggi Renzi ne segue le orme intestandosene una persino peggiore (per esempio sulla composizione del nuovo senato: allora diminuiva il numero dei senatori ma l’elezione era di primo grado). E in ogni caso ispirata da un’idea della politica (e del governo) che risponde alla stessa logica, alle medesime priorità.
Se non si stesse giocando una partita così importante per gli assetti democratici saremmo di fronte a una pessima farsa, con i parlamentari berlusconiani che scendono dal carro del vincitore e salgono sulle barricate dell’opposizione promettendo di far vedere a Renzi «i sorci verdi». La minaccia, che arriva dal pittoresco capogruppo Brunetta, più che spaventare gli avversari del Pd sembra piuttosto voler attutire le divisioni della propria truppa.
Del resto anche la battaglia delle opposizioni di sinistra e dei 5Stelle, aldilà dell’impatto simbolico, rivela una evidente debolezza. Chi per baldanza, chi per un malinteso senso di responsabilità verso la “ditta” non è riuscito a fermare il treno ora decide di togliersi dai binari.
Restano le macerie di un quadro politico frantumato che, oltretutto, dietro l’arroganza renziana non può nemmeno esibire la forza del decisionismo craxiano ma solo offrire la palude di un potere balcanizzato.
«Syriza, Podemos e noi. Sta nascendo una nuova «coalizione» popolare e trans-nazionale, la sinistra italiana deve ricostruire questo grande spazio sociale e politico».
Il manifesto, 14 febbraio 2015
Oggi, a Roma, scendiamo in piazza per la vita, la dignità e la democrazia del popolo greco. È un ritorno - importante da non sottovalutare - della buona, antica solidarietà internazionale, dopo anni e anni di chiusura di ognuno in se stesso. Ma non è solo questo. Perché manifestando per «salvare la Grecia», noi manifestiamo anche e soprattutto per salvare noi stessi: per salvare l’Italia. Per salvare l’Europa.
Se l’azione di Tsipras e Varoufakis riuscirà ad aprire una breccia nel muro di Berlino dell’austerità, ci sarà una speranza anche per noi, che annaspiamo sul pelo dell’acqua appena un poco più sopra di loro. E per gli spagnoli, i portoghesi, gli irlandesi, massacrati socialmente dallo stesso dogma feroce. Se da Atene potranno dimostrare che la volontà popolare non può essere cancellata con un tratto di penna dai banchieri e dai politici-tecnocrati in una stanza dell’Eurotower, della Bundesbank o della Cancelleria della Bundesrepublik, sarà un passo importante nel passaggio dall’Europa della moneta e una vera Europa politica. La sola che può sopravvivere.
Lo sanno benissimo a Bruxelles, a Francoforte, a Berlino, che se i greci ce la fanno - se riescono a dimostrare che «si può» - potrà innescarsi una reazione a catena, nel fronte mediterraneo dell’Europa, ma non solo, in grado di scardinare i dogmi mortali che ci stanno soffocando. Per questo resistono contro ogni buon senso, negando l’evidenza, trincerandosi dietro il ritornello delle «regole che vanno rispettate» anche se quelle regole si sono rivelate con tutta evidenza devastanti. E per questo, dalla nostra parte, ci si mobilita nelle principali piazze del continente: per dimostrare che quella reazione a catena è già iniziata. Che il cambiamento è già in corso.
Sfileremo, in molti, con un nastro nero in segno di lutto per il nuovo eccidio di migranti, sapendo che non è, quella, una «tragedia del mare» ma una «tragedia degli uomini». Una tragedia nostra, dell’Italia e dell’Europa. Che quelle nuove centinaia di morti testimoniano dell’egoismo, criminale, di un’Europa che chiude occhi orecchie e braccia di fronte alla parte più sofferente dell’umanità. E lesina gli spiccioli, con spirito da usuraio, tagliando persino sui soccorsi, perché questo è il senso del passaggio da Mare nostrum a Triton… In fondo, lo vediamo bene, un filo nero lega il modo con cui la Troika ha ridotto in questi anni di «commissariamento» la Grecia al coma sociale, e quello con cui le classi dirigenti europee, impassibili, hanno trasformato il canale di Sicilia in un cimitero liquido. La stessa logica, impersonale, delle cifre e dei protocolli «a distanza», con decisioni prese in luoghi asettici, dove non si sente la puzza della miseria e l’odore della morte per annegamento. Senza neppure guardare in faccia le proprie vittime: la «banalità del male», appunto, come direbbe Hannah Arendt.
Ora il nostro capo del governo, con cinismo degno della sua biografia, getta il problema al di là del Mediterraneo, dicendo che la questione sta in Libia, non qui o a Bruxelles. Che sono loro - loro chi? il caos che abbiamo contribuito a creare? – non noi il problema, come se non avessimo nessuna responsabilità e nulla da modificare, rinviando tutto a una crisi nord-africana con tutta evidenza ingovernabile. È lo stesso atteggiamento tenuto nei confronti della Grecia, quando ebbe a definire non solo «legittima» ma anche «opportuna» la decisione della Bce di togliere ossigeno alle banche greche, proprio quando la minaccia maggiore era la fuga dei capitali dei grandi miliardari ed evasori greci, appena due giorni dopo aver abbracciato – gesto degno del dodicesimo apostolo – Alexis Tsipras a Palazzo Chigi…
Anche per dimostrare che quest’uomo non ci rappresenta, scendiamo oggi in piazza a Roma. Non è una manifestazione come tante altre. È il segno che una nuova politica può nascere. In un nuovo «spazio della politica» ormai in ampia misura tran-nazionale, dove «si pensa» in qualche modo oltre i confini.
Non dimenticherò mai il 25 gennaio, in piazza Omonia ad Atene, quando Tsipras finì il proprio discorso di chiusura della campagna elettorale e salì sul palco Pablo Iglesias, parlò poco più di un minuto, prima in inglese, poi in greco (fluentemente) infine in spagnolo per dire «Syriza, Podemos, venceremos», e la piazza, tutta, attaccò a cantare Bella ciao. In italiano! Allora, al di là dell’emozione e del groppo in gola che tutti ci prese, capimmo, con chiarezza, che eravamo ormai in un «oltre».
In un altro spazio in cui le vecchie scatole degli stati nazionali si rompevano – senza che i popoli perdessero le proprie caratteristiche, anzi! — per lasciar confluire le nuove sfide in un’altra dimensione, vorrei dire in un altro «paradigma», della politica, che si muove ormai in uno spazio compiutamente continentale. E che si apriva per noi una grande occasione. Unita a una grande responsabilità: di allineare anche l’Italia all’onda di piena che avanza sull’asse mediterraneo, contribuendo anche nel nostro Paese alla costruzione di una grande «casa comune» per questa nuova soggettività ribelle.
Roma, testimone il Colosseo, è una prima occasione per mostrare che anche qui si apre un processo in cui «coalizione sociale» e «coalizione politica» possono - anzi devono - marciare insieme, strettamente intrecciate, perché l’una è condizione dell’altra.
E se sapranno farlo, pur nella consapevolezza delle grandi difficoltà - non tanto culturali quanto «tecniche», pratiche, comportamentali e lessicali - dell’operazione, allora si potrà dire che avranno saputo far nascere il primo degno abitante di quel nuovo «spazio», in grado di offrire rappresentanza all’oceano di spaesati e di homeless della politica in Italia come in Europa.
Il tempo – come si è detto ad Atene, come dicono in Spagna e come ripeteremo a Roma — è, davvero, ora!
Il manifesto, 13 febbraio 2015 (m.p.r.)
È per la nostra vita che manifestiamo domani, a Roma, contro le politiche dell’Europa, che ne decide per tutti. Il nuovo governo greco ha il coraggio e il merito di combatterle per tutte e tutti. Un governo di sinistra – certo in alleanza con un partito di destra come Anel – che persegue un chiaro programma: proteggere le persone colpite dalla crisi, migliorarne la vita per quanto possibile. Senza porsi obiettivi “finti” e confusivi, che nei decenni passati hanno preso il nome di riforme e modernizzazione. Con il risultato di distruggere quell’insieme di norme e welfare che avevano fatto dell’Europa un esempio da additare, un posto dove valeva la pena di vivere.
Oggi a decidere è quella specie di super-governo che è la Troika: composta dai tre organismi non democratici, mai eletti - Bce, Fmi, e Commissione Europea - che hanno dettato i parametri e le regole a cui gli stati e i popoli si devono attenere. Anche quando scelgono diversamente, attraverso le elezioni, come in Grecia. Super-governo senza controlli con cui il governo Tsipras si rifiuta di trattare, vero punto politico di questo confronto durissimo.
Per questo andiamo in piazza. Per ridare fiato alla responsabilità politica, al progetto di un’Europa che mette al centro la politica, non l’ottuso perseguimento del pareggio di bilancio, ricetta economica in salsa tedesca. Una ricetta pesante: può uccidere, invece di salvare. Lo vediamo nel nostro mare, con tragica regolarità, ogni volta sempre peggio. Quale logica può spingere in mare nel gelo e la tempesta su improbabili gommoni, se non la disperazione e la violenza alle spalle? Per contenere le spese, per sanare i debiti, non si può aiutare chiunque ha bisogno. Questo il mantra europeo di cui il governo italiano si fa volenteroso interprete.
È anche per questo che manifestiamo per la Grecia. Per quel nobile e generoso impulso che spinge ad andare in soccorso di chi ha bisogno, e che solo una radicata crudeltà del cuore può qualificare sprezzante di buonismo, come se soccorrere persone che muoiono assiderate in mare sia segno di stupidità o peggio, di qualche oscura colpa, come la parola debito in tedesco. La seconda spinta, quella che fa mettere radice alla scelta generosa del sostegno, è comprendere che tutto questo ci riguarda. Qui, in Italia, noi italiani e italiane. Perché l’Europa è il teatro della politica, nell’ampio spazio comune in cui che si possono dispiegare i conflitti che i confini nazionali rendono asfittici, schiacciati dalla doppia pressione e del gioco delle parti tra governi nazionali e istanze europei. Siamo in Europa, affrontiamola.
La lotta della Grecia è la nostra lotta. E, forse può sorprendere, lo dico come donna italiana, sfidando le critiche risentite di tante donne al governo greco, deludente monolite della cittadella maschile della politica. Scelta che ovviamente non condivido, e ritengo vada tenuta sotto attenzione.
Ancor più del governo monosessuato al maschile, il vero punto di discussione sono le priorità, il rischio che il gioco duro dell’economia renda tutto il resto secondario. Comprese le relazioni uomo-donna, e tutta la critica al patriarcato sviluppata dai diversi femminismi ne risulti depotenziata. È un dubbio, forse anche un timore, che attraversa molte donne. Di sentirsi ricacciate alla condizione di problema secondario.
Credo invece che combattere la crisi sia un’occasione. Un’occasione politica. Proprio perché è in gioco come si vive, quali sono le relazioni tra donne, uomini, generazioni, sessi, generi. Nel futuro. Che cosa è la vita, se non questo? Il livello elementare del vivere: avere da mangiare, dove dormire, un tetto sulla testa, provvedere ai propri cari, avviene nelle relazioni che si hanno.
La crisi, l’avvento del nuovo mondo del finanz-capitalismo le ha messe tutte sottosopra. È quello che viene definito biopolitica, quel patto originario su cui si è fondata la modernità statuale e sociale, è stata buttata all’aria dal neoliberismo. L’unica donna del governo greco, l’unica che appare nella fotografia è la vice-ministra del lavoro Rania Antonoupolos, (ricavo le informazioni dall’articolo di di Roberta Carlini): propone misure innovative, di job guarantee, lavori a basso compenso e a termine, finanziati dallo Stato.
Non è questa la sede per discuterne, c’è più di un’obiezione possibile. Mi interessa qui indicare l’approccio innovativo: che sa che i lavori compensati nel settore dei servizi, generano a loro volta nuovi lavori e ricchezza. È una visione della vita, delle relazioni, molto diversa da quella che fonda tuttora le nostre politiche. È un possibile punto di partenza, per prendersi cura della vita, e di una politica che parta dalla vita come è, ora. Molte donne, molte femministe di diverse generazioni (non ne faccio l’elenco, non vorrei dimenticarne nessuna) hanno firmato l’appello, saranno sabato a Roma. Con la Grecia, per cercare lo spazio comune della politica.
La Repubblica, 13 febbraio 2015 (m.p.r.)
Il Fatto Quotidiano, 11 febbraio 2015
C’è chi ha riso, molto, anche senza terremoto. C’è chi ha brindato, molto, a ogni inaugurazione, anche se farlocca. C’è chi ha ottenuto favori, passaggi di carriera, pacche sulle spalle, “ritroviamoci presto”, invece di pagare per le proprie inefficienze volontarie o meno. Tutto questo all’ombra dei Mondiali di calcio di Italia 90, la vetrina del Paese, il “nostro biglietto da visita”, come recitavano dal comitato organizzatore, la chance “per pubblicizzarci all’estero e portare turismo”, insistevano. Il risultato è stato, ed è ancora, una voragine di costi spropositati, moltiplicati in ogni cantiere, come un G8 alla Maddalena, ma alla decima potenza, e sotto la guida, il carisma, il sorriso fiero di Luca Cordero di Montezemolo, che oggi (o al massimo domani) sarà nominato a capo del comitato per le Olimpiadi a Roma del 2024.
Se c'è in'immagine in grado di racchiudere tutta la vicenda dei Mondiali di Italia 90, è quella della stazione della metropolitana di Farneto, a Roma: un binario morto, vetri rotti, telecamere divelte, ingressi sbarrati, bottiglie vuote di birra per terra e graffiti sui muri. Insomma, l’emblema della stazione-fantasma aperta allora solo per il passaggio di 12 convogli e poi chiusa, per sempre, “in quanto il collegamento ferroviario – secondo le FS – usato a pieno regime non avrebbe offerto sufficienti garanzie di sicurezza”, per il rischio-crolli sotto la galleria. Il costo? Appena 82 miliardi di lire per realizzare il duo Farneto-Vigna Clara, pure quest’ultima mai aperta, poi subito abbandonata, quindi utilizzata solo per feste private, mercatini, altre iniziative occasionali.
Ma su Roma torneremo. Nella lista della spesa fu inserita la realizzazione di due nuovi impianti calcistici: il Delle Alpi di Torino e il San Nicola di Bari, Matarrese patron. Per la costruzione del primo il rialzo fu di oltre il 200 per cento rispetto alla cifra iniziale, inaugurato venti giorni prima dell’inizio del Mondiale, solo pochi mesi dopo non risulta agibile per il derby tra Juventus e Torino a causa della neve impossibile da spalare. Non va molto meglio in Puglia: il vento si porta via la copertura di Teflon. Altre città, altri casi: i lavori allo stadio di Bologna costano il 90 per cento in più e quelli all’Olimpico di Roma il 181 per cento oltre il previsto (235 miliardi di lire, la cifra finale); a Firenze il rifacimento dell’Artemio Franchi sarebbe dovuto costare 66,5 miliardi, ma quando viene consegnato il prezzo è lievitato a 87,3 miliardi, inoltre, i lavori per la costruzione del parcheggio e dell’area intorno all’impianto proseguiranno per anni, con altri costi a sorpresa. Alla fine i miliardi sono 111. Quando Montezemolo arriva sui cantieri fiorentini, viene contestato da manifestanti che lo accolgono con lo slogan: “Mondiale uguale morte”, vista la frequenza degli incidenti tra gli operai, l’agenzia Ansa li chiamerà esplicitamente “vittime degli stadi”. In tutto, alla fine, saranno 24.
Non solo stadi. Anche le altre infrastrutture offrono il loro “contributo”, come l’hotel Mundial, tra Milano e Ponte Lambro, mai terminato e infine demolito. Il costo? Dieci miliardi di lire. Già nel 1991 è il settimanale Il Mondo a proporre una stima parziale, e registra: a Milano si sono buttati 160 miliardi, a Torino 187, a Genova 81, a Verona 44 per la sala stampa, altri 4,2 per un campo di pre-riscaldamento, per tre parcheggi 7,6 miliardi, altri 19 per una strada d’accesso a quattro corsie. E all’epoca l’Hellas, squadra principale della città, aveva in media diecimila spettatori. E infine di nuovo Roma: l’Air Terminal Ostiense, 350 miliardi di lire il costo, chiuso nel 2003 perché inadeguato allo scopo. Oggi c’è uno degli Eataly di Oscar Farinetti.
In attesa della nomina di Montezemolo, il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, ironizza: «Con lui, sicuro le Olimpiadi si faranno altrove». Ragione o meno, bisogna però riconoscere a Luca Cordero di aver ricoperto in quegli anni, e in pieno, il ruolo di uomo immagine: gli italiani, dopo averlo visto ovunque, fotografato e ripreso, vincente con il cellulare in mano, decisero di far diventare il nostro Paese tra i primi mercati al mondo di telefonia. Peccato che la “bolletta” ci è costata molto cara...
Sbilanciamoci.info, 10 febbraio 2015
La questione greca assume la valenza soprattutto politica di un banco di prova per le possibilità del progetto europeo di andare avanti o di tornare indietro. La “questione greca” emersa dopo le recenti elezioni vinte da Syriza richiama l’attenzione anche sulle relazioni tra economia e politica e fa capire che se negli ultimi anni la prima ha preso il sopravvento sulla seconda, la spiegazione non sta solo nell’egemonia assunta dal neoliberismo, ma anche nella minore capacità della politica di fare la propria parte.
Rispetto a quando si verificò la prima crisi greca, oggi l’Unione europea è finanziariamente molto più protetta da una rete di strumenti specifici ideati dalla tecnocrazia per sostenere i paesi in carenza di liquidità (i fondi ESM ed EFS, i prestiti a lungo termine LTRO della BCE, i suoi acquisti di titoli di stato OMT, le misure non convenzionali come il QE); ma, più in generale, è stata decisiva la forte presa di posizione espressa nel 2012 dal presidente della BCE Mario Draghi nel suo famoso discorso del “wathever it takes” (“la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro. E credetemi, sarà sufficiente”). Tuttavia, a riprova delle cause strutturali della crisi che riguardano l’economia reale e l’assetto politico-istituzionale della costruzione europea, nei paesi dell’UE, e in particolare dell’Area Euro, persiste una grave condizione recessiva che ha ridotto non solo il reddito effettivo, ma anche quello potenziale. Le recenti previsioni di una pur modesta ripresa della crescita nel 2015 e nel 2016 sono labili e non più credibili di quelle sistematicamente smentite negli anni passati proprio perché gli organismi intergovernativi e i responsabili politici dell’Unione poco o nulla stanno facendo sul versante strutturale della crisi.
Tra le cause della specificità negativa dalla crisi in Europa e delle perplessità sulla sua evoluzione c’è il disegno politico della Germania di estendere a livello continentale il suo tradizionale modello di crescita guidato dall’austerità interna e dalle esportazioni che nei due passati decenni ha accentuato il perseguimento della competitività di prezzo, del contenimento dei salari, dei bassi consumi interni e dell’avanzo commerciale. Quel modello è miope poiché non valorizza l’innovazione e i connessi vantaggi comparati del sistema produttivo europeo storicamente fondati sulla conoscenza e sulle elevate condizioni sociali favorite dai nostri più sviluppati sistemi di welfare; i quali non sono un costo - come da qualche decennio viene sostenuto anche in Europa, cedendo politicamente alla vulgata neoliberista - ma uno strumento e una caratteristica del nostro sviluppo. Quel modello, oltre a peggiorare l’iniquità e le divisioni sociali connesse all’aggravarsi delle diseguaglianze degli ultimi decenni, diventerebbe ancor più insostenibile se esteso all’intera Unione: un persistente ed elevato avanzo commerciale dell’intera UE come da anni accade in Germania implicherebbe uno squilibrio nei rapporti internazionali più grave di quello che ha alimentato la crisi globale esplosa nel 2008.
Rispetto a questi problemi e alle prospettive incerte dell’UE, la “questione greca”, da un lato, ha dimensioni economiche relativamente molto modeste (il Pil greco è l’1,5% di quello dell’UE e il 2% di quello dell’Area Euro) e potrebbe indurre erroneamente a sottovalutarla; d’altro lato, assume la valenza soprattutto politica di un banco di prova per le possibilità del progetto europeo di andare avanti o di tornare indietro. Questo secondo aspetto è il più rilevante e lo diventa ancor più se si considera l’evoluzione in corso del contesto internazionale resa preoccupante dal confronto tra USA, paesi europei e Russia sui rapporti di quest’ultima con l’Ucraina; l’indebolimento della costruzione europea alimenterebbe la diversità degli interessi e delle singole posizioni nazionali e non aiuterebbe la stabilizzazione degli equilibri complessivi.
Finora il nuovo governo di Atene e la BCE hanno fatto ciascuno la propria parte seguendo percorsi non sorprendenti. Il primo ha opportunamente denunciato agli altri paesi dell’UE gli aspetti iniqui e controproducenti delle condizioni imposte alla Grecia per il suo cosiddetto salvataggio nella prima crisi, evidenziando anche l’incongruità istituzionale della Troika che non è certo un organismo dell’UE. Le richieste di ricontrattazione - non di ripudio - del debito e dei rapporti con i creditori sono coerenti con la più complessiva necessità di rivedere la visione politica dominante nell’Unione, una revisione che è indispensabile per la stessa sopravvivenza del progetto d’unificazione europea il quale è sempre stato e rimane l’obiettivo del neo capo di governo Tsipras.
D’altra parte, almeno negli ultimi tempi, la BCE ha spesso ricordato che con le funzioni di politica monetaria che le sono assegnate non può sopperire più di tanto alle responsabilità degli organismi politici dell’UE e dei governi dei paesi membri rispetto alla crescita e al consolidamento del progetto europeo. Il comunicato della BCE sull’incontro tra Draghi e Varoufakis, dopo aver specificato che non è nelle possibilità della banca rivedere un programma concordato dal precedente governo greco con i creditori internazionali, ha precisato che il Presidente “ha chiarito il mandato istituzionale della banca e sollecitato il nuovo Governo a confrontarsi in modo costruttivo e rapido con l’Eurogruppo per assicurare la continuazione della stabilità finanziaria”. Insomma, questa volta (anche se non sempre è stato così), a ciascuno le proprie funzioni e adesso la parola va alla politica con le riunioni previste nei prossimi quindici giorni dell’Eurogruppo, del Ecofin e del Consiglio europeo.
E’ giunto il momento che anche i responsabili delle decisioni politiche dicano e dimostrino con azioni concrete ed efficaci che vogliono e sapranno realizzare la costruzione dell’Unione europea “whatever it takes”, a cominciare dalla soluzione della questione greca che rappresenta un’occasione decisiva per gli organismi comunitari d’invertire le politiche controproducenti finora seguite e di non farsi travolgere dalle tattiche di contrattazione dei governi nazionali.
Il manifesto,12 febbraio 2015 (m.p.r.)
Dopo la strage dei gommoni, parlare di fatalità sarebbe osceno. Basta ricordare che dall’ottobre scorso si sono moltiplicati gli ammonimenti europei a salvare meno migranti possibile, soprattutto in aree lontane dai limiti dell’“Operazione Triton” (trenta miglia marine). Ha cominciato il governo Cameron, sostenendo che i salvataggi avrebbero incentivato l’immigrazione clandestina. Ha continuato a dicembre un capo operativo di Frontex, di nome Klaus Rosler, già dirigente della polizia bavarese (ma chi li sceglie questi tomi?), secondo il quale l’Italia è di manica troppo larga con gli stranieri che si avventurano in mare. L’Europa non vuole spendere per salvare vite umane e quindi migliaia e forse decine di migliaia di migranti potrebbero annegare con l’arrivo della buona stagione: questa è la banale verità, che contrasta con le affermazioni roboanti di Alfano, quanto l’operazione Triton (ma chi avrà escogitato un nome così idiota?) ha sostituito Mare Nostrum (altra bella siglia!), che era dotata di mezzi molto più consistenti.
Solo Cameron o un poliziotto bavarese può credere o far credere che la prospettiva di annegare convinca gente del Mali, del Pakistan, dell’Eritrea, o di altri cento luoghi in cui si muore di fame o di guerra, a restare ad agonizzare a casa loro. Solo una tremenda, colossale ottusità, o qualcosa di infinitamente peggiore, può motivare quest’atteggiamento di chiusura verso le ragioni di una minima umanità e delle leggi del mare. Noi immaginiamo la disperazione dei nostri marinai che si sono visti morire assiderati, accanto a sé, ragazzi che si sarebbero potuti salvare se solo l’operazione Triton avesse previsto l’invio di navi più grandi a occorrere i gommoni. Noi sappiamo, perché l’hanno detto a destra e manca, che i nostri pescatori e la nostra gente di mare non dorme la notte al pensiero di quelli che sono annegati, annegano e annegheranno al di là dei limiti previsti dall’agenzia Frontex e dall’operazione Triton, che Dio le maledica entrambe.
E qui si misura come l’ottusità e la miopia dell’Europa bottegaia si siano tramutate in delitti contro l’umanità. I sopravvissuti della strage dei gommoni hanno dichiarato che sono stati imbarcati sotto la minaccia delle armi dai miliziani in Libia. E questo non sorprende proprio, vista la situazione che il genio politico di Cameron, Sarkozy, Obama, per non tacere di Berlusconi hanno creato dalle parti di Tripoli, Derna e Bengasi. Ora, ignorare le conseguenze umane delle proprie insensate politiche è il principale tratto che accomuna l’accozzaglia di stati egoisti che va sotto il nome di Unione europea. Pensate solo alla povertà in Grecia, ai bambini senza latte, alla svendita delle infrastrutture di un intero paese che doveva essere punito per essersi indebitato. Un paese, la Grecia, il cui Pil rappresenta il 2 per cento di quello europeo e il cui debito potrebbe essere condonato senza danni per la Ue!
Ma dietro l’indifferenza per le sorti dei greci e dei migranti che si avvieranno verso la morte c’è ormai un disprezzo assoluto, conclamato, trionfale per il diritto che un tempo si sarebbe chiamato delle genti. I soldi europei devono restare nelle banche, e non spesi per salvare vite umane, questo è il messaggio di Frontex, di Cameron, della troika, di Merkel, di Herr Rosler e di tutti quelli che si inchinano davanti alle ragioni dei più forti e dei più ricchi.
Sarebbe questa la “civiltà europea” (parole di Renzi) per cui sono morte decine di milioni di esseri umani nella seconda guerra mondiale?
Il manifesto, 12 febbraio 2015 (m.p.r.)
Più che di ingegneria finanziaria, l’Eurogruppo straordinario di ieri sera era alla ricerca di un’ingegneria linguistica, per evitare a tutti i contendenti di perdere la faccia e far trionfare la ragione dopo quindici giorni di scontri verbali sempre più violenti. Nei fatti, si va verso un’accettazione da parte di Atene di un’«estensione tecnica» del piano attuale di «aiuti» fino a fine agosto, per preparare un «accordo olimpico» di 4 anni.
Ieri, è entrata in vigore la decisione della Bce, annunciata il 4 febbraio scorso, di chiudere uno dei rubinetti della liquidità per le banche greche (Francoforte non accetta più in «garanzia» le obbligazioni greche) e tra due settimane, cioè quando scade il secondo piano di aiuti alle Grecia (130 miliardi), Atene sarà di fronte allo spettro del Grexit e del default, in mancanza di un accordo: dovrebbe rimborsare 3 miliardi di euro all’Fmi a marzo e 7 miliardi alla Bce quest’estate. La Bce ha in mano l’arma atomica, perché, in caso di non accordo, potrebbe anche bloccare l’Ela alla Grecia, cioè la liquidità di emergenza.
L’obiettivo degli incontri di questi giorni - dopo l’Eurogruppo dei 19 dell’euro ieri, oggi c’è il Consiglio dei capi di stato e di governo Ue e lunedì 16 un altro Eurogruppo – è arrivare a un accordo-quadro che dia il tempo di trovare una via d’uscita per evitare che la Grecia vada contro un muro e che per l’euro si apra un periodo di pericolosa incertezza.
I contendenti sono arrivati a Bruxelles con posizioni decise: Alexis Tsipras, nel discorso della fiducia ad Atene martedì, ha affermato che la Grecia «non chiederà un prolungamento del piano di aiuti». La Germania, capofila degli ortodossi, ha ribattuto che «non ci sarà un nuovo programma» e, ha precisato il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, se la Grecia non accetta il versamento dell’ultima tranche (7,2 miliardi) nel quadro del programma di «aiuti» in corso, «è finita». Per la Germania, Atene deve comunque passare per la troika, che Tsipras non vuol più vedere all’orizzonte.
Pierre Moscivici, commissario agli Affari economici e monetari, non esclude una soluzione ponte: «La Grecia deve estendere il programma per avere il tempo di trovare una soluzione di ampio respiro». Per Schäuble il 16 è la deadline visto che il 28 scade il programma di aiuti e, se ci sarà un nuovo accordo, alcuni parlamenti lo dovranno votare (Germania, Finlandia). Il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, ha ribadito che «eventuali modifiche devono essere in linea con gli accordi esistenti con i creditori internazionali di Atene».
Il piano presentato ieri dal ministro dell’economia Yanis Varoufakis è stato concepito con l’aiuto dell’Ocse. Il segretario generale, Angel Gurria ieri era ad Atene, e Tsipras potrebbe venire a Parigi ben presto. Ma Gurria ha un po’ gelato le speranze greche, precisando che non sarà l’Ocse «a verificare i conti», cioè che l’organizzazione non si sostituirà alla troika per «il monitoraggio».
Il piano in quattro punti di VAroufakis è un progetto di ingegneria finanziaria per alleggerire il peso del debito «insostenibile» (175% del Pil), la Grecia accetterebbe di applicare il 70% delle riforme imposte dalla troika, mentre il 30% restante, quelle definite «tossiche» da Varoufakis, saranno sostituite da un impegno concepito assieme all’Ocse, una decina di misure che comprendono la lotta all’evasione fiscale, alla corruzione e al clientelismo, che minano l’economia greca. La Grecia chiede poi una revisione al ribasso del diktat sull’avanzo primario dal 3% all’1,49%, per poter avere la possibilità di rispettare gli impegni elettorali presi con la popolazione, ed affrontare la «crisi umanitaria» con interventi contro la povertà. Per poter mettere in atto un «nuovo contratto» che deve ancora venire precisato e che permetta di uscire dall’austerità, Atene ha bisogno infine di un programma-ponte per evitare il default, che copra sei mesi, fino al 1° settembre. «Un errore», avverte Schäuble. La Grecia vorrebbe rinunciare ai 7,2 miliardi dell’ultima tranche per sfuggire alle grinfie della troika ma chiede di recuperare subito 1,9 miliardi dalla Bce a titolo di interessi maturati sulle obbligazioni greche. Inoltre, chiede anche che la Bce aumenti di 8 miliardi la capacità del paese ad emettere buoni del Tesoro, oltreché l’accesso a 11 miliardi del Fondo ellenico di stabilità finanziaria.
Ad avvelenare il clima ha contribuito la richiesta greca alla Germania di pagare «indennizzi di guerra», che la Corte dei conti greca valuta a 162 miliardi di euro. Subito è arrivato il nein tedesco (dopo l’accordo del ’53, nel ’60 c’è stato il versamento di 115 milioni di marchi alla Grecia e nel ’90 il trattato 2+4, approvato dalla Grecia, avrebbe chiuso il caso).
Tsipras gioca anche la carta russa (oggi è a Mosca il ministro degli esteri, Nikos Kotzias e Sergei Lavrov ha promesso «aiuti finanziari se tale richiesta arriverà», usando i problemi Atene nel confronto sull’Ucraina) e cinese (il premier Li Keqiang ha invitato Tsipras a Pechino).
Forse il problema non è uscire dal lavoro così com’é configurato nell’economia capitalistica, ma costruire una nuova economia basata sul valor d’uso e non su quello di scambio. E facendo rientrare nel lavoro socialmente riconosciuto come tale anche le attività finalizzate alla produzioni di “beni” anziché di “merci”, che oggi vengono relegate al “tempo libero.
MicroMega, 11 febbraio 2014
Flexicurity, ovvero uno strumento europeo di politica del lavoro
Flexicurity
suona bene sin dalla sua pronuncia, certamente meglio dell’italico “flessicurezza”. E’ un termine sfavillante, che ha un’apparente sapore di modernità nella sua versione d’importazione. E, diciamola tutta, affascina anche nella sua astratta descrizione scientifica, riferendosi ad un “modello di politica del lavoro capace di riformare e unificare i diversi sistemi di welfare esistenti in Europa”, e costituendo “un mezzo per raggiungere un fine, ovvero assicurare che i benefici dei sistemi di welfare restino una garanzia per tutti (comprese le generazioni future), rafforzando l’adattabilità e la capacità di affrontare i cambiamenti sia per i singoli che per le imprese” .
Si tratta dunque di uno strumento di politica del lavoro ibrido, promosso direttamente a livello europeo-comunitario allo scopo di uniformare i diversi modelli degli Stati membri, sostenendo da un lato una domanda del lavoro quasi totalmente deregolamentata ed in linea con la teoria classica neoliberista, che richiede forme di flessibilità numerica, funzionale e salariale della “forza-lavoro” in modo da adeguarla “in tempo reale” (secondo il modello just in time) ai cambiamenti tecnologici e alle sempre mutevoli esigenze del mercato, e dall’altro garantendo un moderno sistema di sicurezza sociale, in grado di intervenire con efficaci sistemi di sostegno al reddito, considerato che le fasi di passaggio da un’occupazione ad un’altra non possono quasi mai essere senza soluzione di continuità.
Flexicurity e tecno-nichilismo
Se volessimo reperire un ascendente teorico-filosofico della flexicurity, ben potremmo porre lo sguardo - senza tema di smentita - ai caratteri propri della società della globalizzazione (o, come è stata meglio definita in un recente saggio, della “prima globalizzazione”). Società fondata sul dominio della tecnica (economico/finanziaria ed ingegneristica) che ha modellato in chiave reticolare l’esistenza dell’uomo, il quale si trova ora “navigante” (e quasi annegato) in un flusso di merci, beni, dati e informazioni che si compongono e scompongono con velocità estrema nell’intera “rete globale”, e che ne hanno smaterializzato (o meglio, liquefatto) la natura. E’ il topos del tecno-nichilismo in cui l’uomo, subordinato alla tecnica, è ora bene, ora merce, ora dato, ora capitale (cosiddetto “umano”) inserito nei miliardi di flussi che percorrono le reti (telematiche/commerciali/finanziarie/industriali/logistiche/lavorative/giuridiche) alla velocità della luce: ed i materiali così veicolati nei flussi delle reti valgono (e vengono considerati) solo e soltanto se funzionano nell’ambito delle reti stesse.
Siamo al trionfo del tecno-nichilismo e della volontà di potenza, in cui vale non ciò che è, ma solo ciò che si vuole far funzionare nei canali - strutture costitutive delle reti - deputati al veloce scorrimento dei flussi di beni, capitali, dati: è la legge dell’efficacia o “lois de l’efficacitè”, per dirla con Albert Camus.
«Il diritto costruisce la propria artificialità servendosi di macchine e applicando procedure…..il suo scopo non è né di garantire l’attuazione di eterne verità, né di difendere un’etica della vita, ma soltanto di funzionare….la macchina funziona senza riguardo ad uno od altro contenuto. Non importa il perché ed il che cosa, ma soltanto il come: non importa la verità, ma soltanto la validità della norma giuridica… Tutti i contenuti possono attraversare quei congegni produttivi… nomo-dotti, canali percorsi da ipotesi di norme. Poiché non c’è una verità condizionante, vige l’indifferenza contenutistica, la neutralità delle procedure rispetto alle materie che vi sono immesse. Fiat productio… soltanto il volere le fa valere”.
Flessicurezza e “doppia alienazione”
Se consideriamo l’uomo inserito in tale contesto produttivo tecno-nichilista, non possiamo non rinvenire i netti profili dell’alienazione; stiamo parlando di un uomo che non è più neanche res, cosa, ma mero, inanimato fluido: dal tipo dell’uomo-macchina proprio del modello fordista-taylorista al paradigma dell’uomo quale “lubrificante” della macchina. Ecco spiegata l’esigenza di “flessibilità”, ovverosia del termine flex, primo membro del binomio flexicurity. Ciò che non funziona o, meglio, non è abbastanza flessibile, liquido per circolare nei canali delle reti tecno-produttive, diventa ovviamente scarto: anche l’esistenza umana, reificata e veicolata nei flussi testè citati, può diventare “vita di scarto” o esubero, sinonimo di “rifiuto umano”.
Ma c’è una via di possibile e necessaria uscita e di recupero, diremmo di apparente ed illusoria “rinascita” in questo demoniaco sistema, che viene veicolato dal sistema stesso: l’uomo-fluido lubrificante della macchina è al contempo anche uomo-macchina desiderante (ovverosia consumatore), il cui desiderio di consumo è il motore interno della macchina. La macchina funziona, infatti, solo se vi è consumo (e non accumulo) di ciò che dalla stessa viene prodotto. Il sistema tecno-nichilista, infatti, si fonda e si muove precipuamente sulla base del consumo dei beni, dei servizi, delle informazioni prodotte dai circuiti reticolari: in poche parole, è la domanda il combustibile dell’intero sistema che altrimenti, in sua assenza, rischia di implodere, come evidenziato nell’ultima, sistemica crisi economica.
La domanda - e con essa l’uomo-macchina desiderante o consumatore- ha dunque bisogno di un sostegno, di un “meccanismo di sicurezza”, ovverosia proprio della security, secondo elemento del sintagma della “flessicurezza”: ne deriva la teorizzazione di strumenti di sostegno dei redditi, ora pubblici (quali sussidi di disoccupazione, assegni familiari, cassa integrazione et similia) ora privati (attraverso l’intermediazione bancario-finanziaria), con la diffusione del “credito al consumo” attraverso una pluralità di mezzi di indebitamento, quali carte di credito, finanziamenti brevi (i cd payday loans), rifinanziamenti delle ipoteche sugli immobili, scoperti di conto corrente e quant’altro serva a integrare i salari erosi dalla flessibilità.
Questa iniziale riflessione, dunque, ci porta ad un primo punto di arresto: la flexicurity è la filosofia generale - o meglio, l’“attrezzo comune”- del sistema tecno-nichilista, più comunemente noto come capitalismo neoliberista.
Flessibilità, mercato del lavoro e “uberizzazione”
Passiamo quindi ad osservare la concretizzazione della “flessicurezza” nel più specifico circuito del “mercato del lavoro” odierno. Il drammatico panorama della flessibilità lavorativa è ormai conoscenza comune acquisita da tempo, sostanziandosi nella tripartizione in:
a) flessibilità “numerica” della quantità di lavoro in entrata e in uscita, attraverso il proliferare di una moltitudine di contratti atipici (a chiamata, a progetto, di job sharing, di somministrazione di manodopera et similia) o di contratti di lavoro subordinati a tempo determinato (con la più ampia possibilità di apporre il termine in una serie quasi illimitata di contratti a scadenza come previsto ad esempio, per lo specifico ambito italiano, dall’ultimo “Decreto Poletti”) e a tempo indeterminato (con la flessibilità introdotta anche in tale area, attraverso la sostanziale abrogazione dell’art. 18 Stat. Lav. portata avanti dal nuovo “contratto a tutele crescenti” disciplinato dalla seconda parte del recente “Jobs Act”);
b) flessibilità “funzionale” nella gestione del rapporto di lavoro, attraverso la possibilità di modificare unilateralmente le mansioni, anche in peius dequalificando il patrimonio professionale (si veda quanto previsto dalla Legge delega 183 del 2014 in materia di demansionamenti) o attraverso la totale liberalizzazione degli orari di lavoro con i contratti a part-time, che consentono la gestione “premiale” o “sanzionatoria” della forza-lavoro, mercè la concessione o la negazione di ore supplementari di lavoro necessarie ad integrare salari-base esigui ed insufficienti per la sussistenza o forme di orario flessibile quale quello multiperiodale (ovverosia variabile entro un dato lasso di tempo) o elastico;
c) flessibilità salariale con retribuzioni che, con riferimento al singolo lavoratore, possono essere legate non solo all’orario di lavoro (si pensi al sopracitato contratto a part-time e alla possibile variazione in aumento o in diminuzione delle “ore supplementari”) ma anche a nuove, “moderne” forme di cottimo digitale: primo fra tutti, recentemente sbarcato anche in Italia, il cosiddetto crowdworking, una sorta di “asta digitale” in cui qualsiasi richiedente, attraverso una piattaforma telematica che fa da intermediario, “posta” on line i lavori richiesti (che consistono di solito in progetti tecnici e/o richieste di consulenze qualificate). A seguito dei molteplici lavori ricevuti, il richiedente ne sceglie solo uno: ovviamente il lavoro rifiutato non viene pagato, mentre quello accettato viene pagato a prezzi infimi. Basterà riprendere le parole di Guy Standing per un giudizio senza appello: «E’ cottimo, in una forma che porta alla spremitura estrema, la forma definitiva di precariato nella quale i lavoratori sono puri postulanti, privi di diritti o sicurezza».
Se poi volessimo dare uno sguardo ancora più aggiornato al panorama della flessibilità contemporanea, vedremmo come l’esasperazione di tale dinamica abbia condotto a forme di lavoro talmente liquefatte, da far venir meno addirittura la stessa identità professionale del singolo lavoratore, scisso in un patchwork di molteplici e contemporanee – rispetto alla singola giornata lavorativa – occupazioni: siamo alla “uberizzazione” del lavoro come icasticamente rilevato da Carlo Formenti, il quale nella sua acuta analisi sul neonato fenomeno della società Uber rileva la «definitiva dissoluzione di ogni identità di classe, nella misura in cui ci trasformerebbe tutti in una massa indistinta e orizzontale di individui indipendenti costretti ad arrabattarsi in un forsennato bricolage senza nessuna garanzia di stabilità di reddito, di futuro e senza nessun controllo sul proprio tempo di vita (per tacere della qualità stessa)”.
Quali sono stati gli effetti di questa iperflessibilizzazione? Sono sotto gli occhi di tutti: l’aumento vertiginoso della disoccupazione negli ultimi anni ed il crollo del livello medio dei salari (che gli economisti, con linguaggio farisaico, definiscono “moderazione salariale”), tali da scendere sotto la soglia necessaria a garantire un’esistenza libera e dignitosa, così come invece solennemente previsto dall’art. 36 della nostra Costituzione, dando origine al sempre più diffuso fenomeno del “lavoro povero”.
I dati di una recentissima ricerca presentata al Cnel sul fenomeno dei working poor non lascia spazio a repliche: 3 milioni e 750 mila “lavoratori poveri” solo in Italia, vale a dire persone con un reddito netto orario inferiore ai 2/3 del reddito medio. In pratica si tratta di lavoratori, sia subordinati che autonomi, le cui retribuzioni si aggirano sui 4,8 euro netti all’ora (quando la media netta è di 6,2 euro all’ora) e che, oltre ad essere lavoratori poveri, saranno condannati a diventare, tra qualche anno, pensionati poveri.
Effetti individuali e sociali della flessibilizzazione
Ma vi è di più.
Gli effetti si sono riverberati innanzitutto a livello individuale sugli stessi lavoratori vittime della “flessibilizzazione” i quali, in ragione della somma incertezza causata da queste forme lavorative (incerte sia nell’ sia nel quantum), sono stati comunemente definiti “lavoratori precari”. Precarietà che si è riflessa sull’esistenza e sulle vite stesse, attraverso lo smarrimento di una precisa identità professionale (scissa, come abbiamo visto, in una moltitudine di disperse tessere lavorative), la perdita del controllo del tempo (con lavori che possono occupare, senza preavviso, qualunque parte della giornata o della settimana -come i cosiddetti lavori a chiamata- o estendersi anche oltre l’orario canonico di lavoro -da cui il “lavoro senza fine”-), la fine della mobilità sociale (in ragione di retribuzioni sotto il livello minimo di sussistenza), la sottoccupazione (ovverosia lo svolgimento di mansioni di gran lunga inferiori rispetto al proprio patrimonio professionale).
I lavoratori flessibili, dunque, diventano ostaggi di due trappole: quella della precarietà e quella direttamente connessa della povertà, da cui drammaticamente non riescono ad uscire.
Ecco spiegato il dilagare, da alcuni anni a questa parte, di numerose patologie psichiche, in primo luogo della depressione, «la quale può essere definita la malattia sociale nell’era del tecno-nichilismo». Il crollo delle aspettative individuali e sociali in ordine alla realizzazione professionale (ovviamente vanificata da una vita precaria ed incerta) ed al correlativo culto della performance e dell’efficacia (la già citata “lois de l’efficacitè”), infatti, ben può ascriversi tra le cause di primo piano nella patogenesi dei sempre più numerosi disturbi depressivi (tra cui l’ansia e lo stress) espressione, a loro volta, “dell’insostenibilità del sistema tecnico e delle sue determinazioni sociali”.
Le conseguenze del profondo malessere sociale frutto dell’esplosiva miscellanea tra flessibilità, incertezza, disoccupazione e povertà sono alla radice anche dei sempre più numerosi movimenti sociali di protesta che, dal 2011 ad oggi, hanno spinto nelle piazze di tutto il mondo migliaia di persone “indignate” le quali, a loro volta, hanno ingrossato le fila della nuova “classe esplosiva”, il precariato, insieme di “non-cittadini” (denizens) «dipendenti dalla volontà altrui…postulanti privi di diritti, soggetti alla carità o al benvolere altrui» alla ricerca di una rinnovata cittadinanza sociale.
Flessibilità senza sicurezza
Che ne è invece della “sicurezza”, secondo elemento del binomio “flexicurity”, dinanzi a questo disastroso stato di cose causato dalla flessibilità?
Se da un lato la devastante crisi economico-finanziaria in corso dal 2008, sostanziatasi anche nel cosiddetto “credit crunch” (“stretta creditizia”) ha limitato notevolmente le forme di sostegno bancario al reddito attraverso la fine del “credito facile” e la riduzione degli strumenti di indebitamento (concessi soltanto dopo lunghe e severissime istruttorie), dall’altro le forme pubbliche di supporto del reddito e dell’occupazione sono state, soprattutto in Europa, falcidiate e ridotte ai minimi termini dalle rigorose politiche di austerity ormai in corso da anni.
Ciò si è tradotto, in concreto, nell’introduzione di rigorosi sistemi di controllo, valutazione e condizionamento dei richiedenti i sussidi pubblici nei Paesi Europei (la maggioranza) che hanno un meccanismo di reddito minimo garantito condizionato: innovazioni che, di fatto, hanno comportato una drastica riduzione nelle erogazioni dei sussidi necessari a garantire la “sicurezza” ai sempre più numerosi soggetti estromessi dal mondo del lavoro flessibile. L’Italia, ovviamente, si caratterizza per essere il “fanalino di coda” anche in materia di sicurezza sociale insieme agli altri paesi dell’ “area mediterranea”, il cui raggruppamento è connotato dall’ «assenza di una rete di protezione minima di base, non di categoria, erogata e gestita a livello di governo centrale». E tale linea di tendenza regressiva, peraltro, non sembra essere più di tanto intaccata dall’introduzione dei nuovi ammortizzatori sociali previsti nello schema di decreto del 24 dicembre 2014, che ha introdotto la cosiddetta Naspi, la Asdi e la Discoll, sussidi di disoccupazione limitati nel tempo, condizionali e non universali.
Il paradosso dell’improduttività
Abbiamo dunque visto, nel nostro breve volo radente sul mondo del lavoro, come le macerie lasciate dalla “flessibilità” non siano state neanche rimosse dalla “sicurezza”, la cui promessa sarebbe insita nel mito della “flexicurity”.
Al contrario ed anche sorprendentemente, decenni di “iniezione” del fluido lavoro flessibile nei circuiti del mercato del lavoro non hanno portato allo sperato aumento di produttività così come ipotizzato dalla dogmatica neoliberista, tutt’altro: l’analisi empirica dei dati economici degli ultimi anni ha anzi rivelato la sussistenza di una relazione inversa tra flessibilità e produttività, per cui all’aumento della prima diminuirebbe costantemente la seconda. Ed invero, «la maggiore occupazione, ottenuta con contratti di questo tipo -spesso riguardanti lavoratori marginali, sul cui capitale umano le imprese si presume che investano poco- si sarebbe accompagnata a minori contributi in termini di produttività. In questa direzione vanno sia i contributi che utilizzano dati a livello microeconomico sia i contributi di tipo macroeconomico»: una sentenza inappellabile.
Del resto, che la precarietà derivante dal lavoro flessibile non fosse sorella della produttività era già da tempo desumibile, sul piano della prospettiva sociologica, considerando il classico esempio del lavoratore con contratto a tempo determinato a breve scadenza il quale, dinanzi ad un pezzo difettoso trovato lungo la catena di montaggio, preferisce girare il capo piuttosto che preoccuparsi di rimuoverlo.
Scattiamo a questo punto un’istantanea del quadro lavorativo contemporaneo, riprendendo nel complesso i tratti già visti nel nostro fin qui breve percorso: ci troviamo dinanzi a lavoratori ormai totalmente mercificati, privi di potere contrattuale a causa sia dell’ampia massa di manodopera di riserva prodotta dalla disoccupazione sia in ragione della quasi totale perdita dei diritti un tempo contenuti negli “statuti lavorativi”, con retribuzioni dal livello molto basso, ai limiti della sussistenza (cosiddetto lavoro povero) e corrosi nel carattere e nella personalità dall’insicurezza generata dalla precarietà che è l’architrave dell’intero sistema lavorativo.
Se tuttavia mettiamo meglio a fuoco la visione del quadro generale, possiamo osservare come a fianco del lavoro svolto obbligatoriamente allo scopo di affrancarsi dal bisogno materiale e ciononostante povero di diritti e di salario e scarsamente produttivo di beni e di servizi, si pone un nuovo e diffuso fenomeno, analizzato da numerosi studiosi ed oggetto di molteplici definizioni; stiamo parlando di quella forma di lavoro scelto e svolto liberamente da milioni di persone ogni giorno, che pur non essendo remunerato è produttivo di un ingente valore sociale: il lavoro volontario nelle organizzazioni no profit (pensiamo ad esempio alle migliaia di persone attive nell’assistenza ai disabili, ai poveri, ai migranti, alle innumerevoli persone che con costanza e passione fanno vivere le associazioni culturali, ambientali e le associazioni dilettantistiche sportive), il lavoro di cura ed assistenza domestico e familiare (rammentiamo l’attività di cura dei nipoti da parte dei nonni, vero e proprio welfare sociale familiare e l’attività delle madri e dei padri che impegnano larga parte della giornata nella cura e nell’educazione dei figli), l’attività di creazione e diffusione della conoscenza con cui quotidianamente abbiamo a che fare nella “rete”, sia nei blog sia nei contributi a matrice aperta pubblicati sul web.
Siamo dunque alla fine del lavoro, vaticinata vent’anni orsono in un famoso saggio dall’omonimo titolo? La risposta non sembra positiva; al contrario, gli indicatori empirici paiono di tutt’altro segno: il lavoro è proteiforme, ha mutato rapidamente forma e aspetto. Se è vero infatti che l’art. 1 della Costituzione, nell’affermare solennemente il nesso inscindibile tra democrazia e lavoro, ci dice anche e soprattutto che “lavorare non è l’esperienza del servo o dello schiavo, ma del cittadino libero”[, allora ben potremo convenire con chi definisce come “lavoro alienato” le maggioritarie forme di lavoro povero flessibile (simulacri del lavoro), al contrario esaltando quale “lavoro libero” le attività lavorative non remunerate a finalità sociale.
E’ dunque possibile sostenere, a ragione, che queste ultime forme di attività rappresentano la sublimazione del lavoro così come costituzionalmente inteso, in quanto sintesi ed equilibrio della libera realizzazione del proprio daimon (talento) e della altresì necessaria finalità sociale. Eppure, manca l’elemento fondamentale ai fini della liberazione dell’uomo dalla schiavitù del bisogno, ovverosia la retribuzione. Eccoci arrivati allo snodo cruciale che richiede un coraggioso “salto culturale”.
Una via d’uscita: il reddito minimo universale
Se è vero, come abbiamo poc’anzi visto, che si è sviluppato un sistema parallelo di attività umane produttive di valore e ricchezza sociale senza remunerazione alcuna (tali da far parlare, come abbiamo visto, di “economia sociale”), è giusto che tali attività vengano remunerate direttamente dai beneficiari, ovvero dalla società: ecco nascere l’esigenza, sempre più diffusa, di forme di “reddito minimo universale” (definito anche basic income), erogabili dalle autorità pubbliche locali, nazionali o sovranazionali, ed a carico quindi della fiscalità generale.
Il reddito minimo universale, dunque, acquista in tale ottica la natura di un reddito (con cadenza mensile o periodica, attraverso un trasferimento diretto di denaro) versato dalla società (nella forma della comunità politica locale, nazionale o sovranazionale) a tutti i suoi membri, su base individuale e senza nè condizioni (ovvero non subordinato allo svolgimento di specifici lavori ordinari indicati, ad esempio, dai centri per l’impiego come nel modello del reddito minimo garantito) nè controllo dei mezzi economici (erogato dunque indipendentemente dalla sussistenza o meno di uno stato di bisogno economico), trattandosi della remunerazione per le molteplici forme di attività produttiva sociale svolte da ciascuno. Un reddito “minimo”, ovvero sufficiente alla sola sopravvivenza dell’individuo (al fine di stimolare la persona ad un miglioramento delle proprie condizioni materiali attraverso il classico lavoro proprio dell’economia di mercato, dunque cumulabile con eventuali altri redditi aggiuntivi) e al contempo sufficiente ad affrancare le persone dalla “trappola della povertà” e del bisogno immediato, conferendo appunto una minima sicurezza di base.
Esperienze concrete di tale istituto, a parte quella consolidata dello stato dell’Alaskae altre limitate applicazioni sociali, non se ne hanno: si tratta di un esperimento di “ingegneria sociale” inedito e di fatto nuovo per l’umanità. Ma vale la pena sperimentarlo, sia per le profonde motivazioni idealiivi sottese sia per le concrete ed impellenti istanze di giustizia sociale che esso porta con sé: del resto, “come è avvenuto nel passato per il suffragio universale, la metamorfosi del reddito minimo universale, da sogno di qualche eccentrico a evidenza per tutti, non avverrà in un sol giorno”.
Ovviamente non è nostra intenzione addentrarci nel “campo minato” delle discussioni relative alla compatibilità economica di questo vero e proprio strumento di “salario sociale”, pur ritenendo particolarmente interessanti e degne di rilievo le considerazioni svolte da Andrea Fumagalli il quale, nel suo recente saggio Lavoro male comune, ha posto in rilievo la fattibilità economica del reddito minimo garantito, che dovrebbe sostituire tutte le forme di ammortizzatori sociali oggi sussistenti (indennità di disoccupazione, cassa integrazione e simili), incidendo non sulla contribuzione sociale (Inps) ma sulla fiscalità generale (Irpef e altre imposte): con ciò, considerazione non secondaria, andando a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dal costo dei contributi, che diminuirebbero della quota corrispondente all’eliminazione dei relativi ammortizzatori.
Fine del lavoro, diritto alla scelta del lavoro e seconda globalizzazione
Ora, come si affaccerebbe sul mercato del lavoro ordinario la persona che, essendo già remunerata -nel minimo vitale- per le attività sociali svolte nella vita quotidiana, fosse quindi affrancata dal bisogno primario di vivere?
Eccoci tornati, attraverso il reddito minimo universale, alla riappropriazione del potere contrattuale sottratto dallo strumento della flessibilità: certamente l’incremento della disponibilità economica di base di ciascun individuo potrebbe chiudere le porte alla “ricerca di un lavoro qualsiasi”, schiudendo al contempo gli orizzonti del “diritto alla scelta del lavoro”. Con la correlativa necessità, per ciò che riguarda il lato della “domanda di lavoro” datoriale, di offrire condizioni lavorative più decorose e salari finalmente dignitosi, allo scopo di acquisire una manodopera che, altrimenti, diventerebbe pressoché irreperibile: e’ la fine del lavoro contemporaneo, e con esso la fine della dittatura della flessibilità esasperata e della “moderazione salariale”.
Questi potrebbero essere, in nuce, i germogli della “seconda globalizzazione”, di una nuova epoca in cui, oltre alla nascita di una nuova economia di mercato basata sullo sfruttamento delle energie rinnovabili, sulla conoscenza e sull’innovazione (la cosiddetta knoledge economy), sul ritorno della dialettica globale/locale con la riscoperta della centralità dei luoghi e delle comunità, vi sia altresì la forte affermazione della centralità dell’uomo attraverso un rinnovato illuminismo che, contro ogni forma di oscurantismo neoliberistico, ponga al servizio della società e della persona la tecnica e, prima fra tutte, la tecnica economica.
La strage nel Mediterraneo prosegue. Pochi, nel Primo mondo, se ne fanno carico cominciando col ricordare le pesanti responsabilità degli USA e dell’Europa nel produrre e alimentare le la politica di saccheggio del Terzo mondo e, nei decenni più vicini, alla distruzione degli equilibri politici sella sponda meridionale del Mediterraneo: quindi le responsabilità che ne conseguono. Le stesse guerre che dilaniano i paesi della “Mezzaluna fertile sono il prodotto delle politiche degli stati del Nordatlantico. Noi siamo i principali colpevole, a noi tocca individuare le soluzioni appropriate, nel breve e nel lungo periodo.
Restaurare "Mare nostrum"
«Le notizie dal Mediterraneo sono tragiche: fra 300 e 400 morti, come nel 2013 a Lampedusa”, ha detto Barbara Spinelli intervenendo nella seduta plenaria di Strasburgo dedicata alla discussione sull’agenzia europea Frontex e sull’EASO.
«Ormai i fatti parlano da sé, afferma: la fine di “Mare Nostrum” produce ancora una volta disastri umanitari, e la missione Frontex che era stata descritta come risolutiva – mi riferisco a "Triton" – si rivela quella che è: una falsa sostituzione, e un fallimento radicale. È il motivo per cui non ritengo, nelle presenti circostanze, che Frontex debba ricevere ulteriori risorse: a dispetto di regolamenti troppo vaghi e non applicati, il suo compito è esclusivamente il pattugliamento delle frontiere, non la ricerca e il salvataggio di fuggitivi da guerre e caos che s’estendono anche per nostra responsabilità.
«Frontex mette addirittura in guardia il governo italiano, ricordando che i soccorsi da lei coordinati sono vietati oltre le 30 miglia dalla costa, ha continuato l’eurodeputata del GUE-NGL I naufragi di questi giorni sono tutti avvenuti in alto mare, presso le coste libiche. Dove appunto operava" Mare Nostrum". La verità è che “Mare Nostrum”, nonostante le dichiarazioni delle autorità europee e italiane, non è mai stato sostituito.
«Due cose dovremmo a questo punto chiedere, come Parlamento», ha concluso l’onorevole Spinelli. »Primo: che Frontex non opponga ostacoli, quando è chiamata a soccorrere oltre le 30 miglia. Secondo: che l’Europa si decida a sostenere finanziariamente la restaurazione di missioni come Mare Nostrum. Sia l’Alto Commissariato dell’Onu, sia il Consiglio d’Europa, hanno dichiarato che Triton ‘non è all’altezza’. Cosa aspettiamo per far sentire la nostra opinione? Ha detto il presidente del Senato italiano, Pietro Grasso: ‘Agire ora è già troppo tardi’».
Il manifesto, 11 febbraio 2015
A due settimane dalla vittoria elettorale di Syriza i termini dello scontro tra il nuovo Governo greco e l’Unione Europea si delineano con chiarezza. Non è solo scontro tra dottrine e politiche economiche diverse: una favorevole alla spesa pubblica, l’altra attaccata all’austerity. E meno che mai un confronto tra euro sì ed euro no. In questa vicenda l’economia ha ceduto il posto alla politica; anzi, a un puro rapporto di forze.
Non è nemmeno, anche se così ci avviciniamo al nucleo del contendere, un confronto tra una politica che mette al centro le persone e una politica incentrata sul denaro. In gioco c’è l’accettazione o il rifiuto del dominio incontrastato di chi ha il denaro su chi denaro non ne ha: quel dominio che Marx chiama Capitale, ben sapendo che esso è un rapporto sociale, le cui poste sono la ripartizione del reddito tra salari e profitti (nelle loro varie forme), modi e tempi del lavoro, accesso ai servizi sociali, appropriazione di tutto l’esistente: risorse naturali, vita associata, servizi pubblici, sapere, genoma, salute.
Il problema non è se la Grecia restituirà o no il debito che i suoi governanti hanno contratto per suo conto, come cercano di farci credere gli apologeti della finanza, spiegandoci che a pagare per i Greci rischiamo di essere noi. È chiaro che quel debito «i Greci» non lo pagheranno mai: non hanno il denaro per farlo ora; non lo avranno nemmeno in futuro; per almeno una generazione. Lo sanno tutti. Ma a chi tiene i cordoni della borsa questo non interessa: basta che quel debito sia registrato nelle scritture contabili e che tutti - creditori e debitori - si inchinino di fronte al suo potere. Perché è con quelle scritture contabili che gli «gnomi» della finanza possono mandare in rovina, in 24 ore, un intero popolo per diverse generazioni. Se e finché quel potere verrà loro riconosciuto. Ma disconoscerlo non è facile. E mette paura. Soprattutto se a disconoscerlo si rimane da soli.
Anche il confine tra creditori e debitori, peraltro, è tutt’altro che netto. Prendete l’Italia. Ufficialmente è creditrice della Grecia per 40 miliardi, prestati attraverso il, Bce, Fmi e Fondo salva-stati. Peccato che per prestare quel denaro alla Grecia con il Fondo salva-stati, il nostro paese si sia indebitato di altrettanti miliardi, andati ad aggiungersi alla montagna del suo debito pubblico: tanto grande da metterla a rischio di fare la stessa fine della Grecia. Ma è così per tutti: il debito è come una serie di scatole cinesi, una dentro l’altra, di cui, soprattutto in Europa - dove non esiste più una Banca centrale «prestatore di ultima istanza» - non si intravede la fine.
Chi detiene il debito dell’Italia? Banche, assicurazioni e fondi speculativi (più qualche piccolo risparmiatore). Ma banche e speculatori hanno acquistato quel debito facendo altri debiti. E questi chi li detiene? Altre banche, altri fondi, altri speculatori. E così di seguito, fino a che non si incappa in un pugno di riccastri (l’1 per cento - o forse per mille - della popolazione mondiale) che non sarebbero mai diventati tali senza essere ben inseriti in questo marchingegno; e in un esercito di polli pronti per essere spennati. Che, per svolgere normali attività di compravendita, o per garantirsi cure mediche, vecchiaia e istruzione, hanno affidato i loro risparmi a quegli operatori. I quali, grazie alla mancanza di controlli, riescono a moltiplicare quel denaro a loro esclusivo vantaggio. Sono loro, ora, i «prestatori di ultima istanza»: quelli che hanno il coltello dalla parte del manico. Ma è un sistema tanto più fragile quanto più è macchinoso. Un granello di sabbia potrebbe farlo cadere rovinosamente, come sette anni fa con il fallimento Lehman Brothers. Ma cadere da che parte? Verso un regime ancora più autoritario, o verso una società che impara a governarsi da sola?
Messa in questi termini, si capisce la durezza di governi e autorità europee contro il programma di Syriza. In gioco c’è proprio quel marchingegno, da cui dipende il destino dell’Europa così come è ora; e forse anche gran parte dei rapporti tra le classi sociali e tra la società e l’ambiente in tutto il mondo. Se il governo Greco riuscirà a «spuntarla» è perché mandarlo in malora rischia di far crollare il castello su cui è costruito il potere di tanti governi fattisi tramite degli interessi dell’alta finanza. E rischia di innescare un «effetto domino» capace di risucchiare dentro un grande buco nero tutti i paesi più fragili dell’Unione europea, per arrivare poi a coinvolgere, uno dietro l’altro anche quelli più solidi. Ma se il Governo greco la spunterà, sarà anche e soprattutto per l’appoggio che riceverà da una mobilitazione che può e deve coinvolgere l’Europa intera. Per questo è così importante la mobilitazione di sabato prossimo a sostegno del popolo e del governo greco!
Non sarebbe una vittoria da poco; sarebbe la dimostrazione pratica che l’autorganizzazione di base e il mutuo sostegno pagano: che le farmacie e gli ambulatori aperti dal volontariato, le mense popolari, le cooperative e i farmers market (i Gas), la televisione di Stato che ha continuato a trasmettere su basi volontarie dopo la sua chiusura, le fabbriche autogestite, le monete alternative locali, e tutte quelle iniziative appoggiando e promuovendo le quali Syriza è diventata maggioranza possono essere l’inizio di una riorganizzazione dei rapporti sociali: un’organizzazione incentrata non più sul potere del denaro, ma sui bisogni delle persone.
Questa è la vera posta in gioco dello scontro in atto. Le autorità europee non escludono certo nuove forme di «aiuto» finanziario per le casse esauste del governo e delle banche greche; a condizione, però, che venga rinnegato quel sostegno a una popolazione esausta, a un’occupazione ridotta ai minimi termini, ai bisogni più elementari della gente; cioè al programma che l’elettorato ha votato per far valere la propria dignità.
Concedere qualcosa in termini finanziari a un governo in crisi non costa molto: è solo un trasferimento di qualche posta da un capitolo all’altro dei bilanci delle parti in causa. Ma concedere qualcosa oggi alla Grecia che si è ribellata al giogo della finanza costerebbe molto: sarebbe il segno che, se si vogliono ricostituire le basi di una convivenza civile, si può e si deve fare a meno di «loro anche in ogni altro paese. Le premesse ci sono tutte e in Spagna con Podemos, o in Croazia con «Barriera umana», già si intravvedono forze che, ciascuna a modo suo, si sono messe sulla strada che ha portato Syriza al governo.
E in Italia? Premesse ce ne sono anche qui. Anzi, forse non c’è un altro paese europeo che abbia una ricchezza e una varietà di lotte, di movimenti, di comitati, di associazioni, di mobilitazioni, di iniziative grande come da noi. Ma in nessun altro paese la possibilità di queste forze di rappresentarsi politicamente è così compressa e dispersa. Soprattutto dal bisogno di autoperpetuarsi dei tanti partiti «di sinistra», incapaci di quel passo indietro che tante volte si sono impegnati a fare e che mai – nemmeno ora – sembrano capaci di attuare: per non perdere quei piccoli poteri che ricavano, soprattutto a livello locale, di una consolidata subalternità al Pd. Ma i tempi sono ormai maturi per la comparsa di una realtà nuova, mentre le responsabilità di chi impone questo stallo sono sempre più gravi.
La Nuova Sardegna, 10 febbraio 2015
Non c'era la Sardegna nel primo confuso elencone Verybello per Expo. È bastato un ritardo di poche ore - prima che comparissero alcune delle manifestazioni previste nell'isola durante l'estate - per suscitare un vespaio di rimostranze risentite. I soliti i bla bla sull' identità misconosciuta e l'orgoglio ferito dalla imperdonabile dimenticanza; per cui qualcuno è andato avanti con la presunzione, “deo so sardu”, la Sardegna che concorre alla bellezza italiana con un profilo distinto che ci dovrebbero ringraziare. Implicita la domanda sulla percezione dell'isola da parte dei forestieri consumatori; e dai sardi, il cui sguardo, è stato/ è molto distratto, anche omertoso sulla Sardegna com'è, e molto esitante sul futuro.
Ajò all'Expo: ma come ? La domanda non è di poco conto, dipende da come si pensa l'Expo, guai a confonderlo con la Borsa del Turismo (BIT) o con una delle grandi fiere enogastronomiche. Nelle Esposizioni Universali dai tempi del Crystal Palace, si trattano questioni ragguardevoli per l'umanità, e ogni Paese partecipante è chiamato a fornire la propria visione sul tema all'ordine del giorno. A mettere in vetrina idee, più che mercanzie in un'ottica bottegaia all'ingrosso. Il palcoscenico milanese è un'occasione per confrontarsi senza boria su emergenza alimentare e sprechi della terra.
Leggo su queste pagine il piano della Regione, l'idea di presentare “l'sola della qualità” attraverso la produzione agricola, le eccellenze naturali (con accenti su longevità e innovazione sostenibile). Il programma è solo delineato. E immagino che si assoceranno presto altri contributi, non solo semplici didascalie su cannonau e ballo tondo (e divagazioni su bandiere da rinnovare). Insomma non potrà mancare un apparato critico/ autocritico sul modello di sviluppo luogo per luogo, per ripensarlo come ha suggerito Francesco («Dio perdona sempre, l’uomo perdona a volte, la terra non perdona mai»), in sintonia con le attese di tanti credenti e miscredenti come me.
Il tema è il governo del territorio in una fase cruciale per la disorientata popolazione sarda. Nel 2006, un piano finalmente progredito è stato contrastato soprattutto per le scelte a difesa degli usi agricoli. Nei quali l'isola avrebbe potuto primeggiare se avesse creduto almeno un po' alla sua natura, al suolo fertile, all'aria buona, al sole generoso. La produzione agroalimentare conta su qualche prelibatezza, ma la Sardegna consuma otto prodotti su dieci importati, come scrive da un po' Giacomo Mameli preoccupato per le troppe ambiguità della produzione locale (torrone con ingredienti istranzi, bottarga fatta chissà dove, mirto da bacche non locali, ecc.) in danno di bravi artigiani.
La natura della Sardegna ha caratteri superstiti di primo livello - record di biodiversità - che dovremmo custodire con mille precauzioni, e invece da mezzo secolo è lasciata senza difese, aggredita nelle sue parti più pregiate, chissenefrega di di paesaggi sconvolti e continuità ecologiche interrotte.
Passeremo per guastafeste se diciamo al Mondo del nostro primato nella presenza di servitù militari, e dei 450mila ettari di aree avvelenate? Sui rischi di ulteriori inutili usi e consumi del suolo ? Magari per fare altre case al mare o per produrre energia da esportare con eccessi devastanti. Mentre avanza lo spopolamento che mette a rischio la tenuta di tanti territori privati di presìdi.
È eccessiva questa versione ? Meglio una rappresentazione attenuata, un adattamento per i tour operator? Sarà più conveniente - credo - dire e dirci la verità. D'altra parte Expo 2015 chiama le comunità “a interrogarsi sulla sostenibilità dei modelli economici, sociali, produttivi e scientifici adottati nel lungo periodo”.
Se si guardasse all'Expo solo per vendere pacchetti vacanze, pure con trailer raffinati, il racconto della Sardegna sarebbe banale, troppo somigliante a quelli che non ci piacciono. Senza cautele storico-antropologiche presenteremmo i sardi della caricatura, con i panni che ci vorrebbero vedere addosso. Per parlare ad una platea internazionale, meglio senza travestimenti che disturbano il confronto e impediscono di guardare avanti.
Il manifesto, 10 febbraio 2015
In un certo senso è il mondo alla rovescia. Finché eravamo governati da un patto scellerato tra il capo del governo (e della «sinistra di governo») e il capo della destra condannato per frode fiscale, tutto sembrava in ordine. Ora che, dopo un anno di barbarie politica e istituzionale, qualcosa è andato storto e quel contratto contronatura e controragione è entrato in sofferenza, ecco che tutti s’interrogano febbrilmente su come andrà a finire questa storia, se non anche la legislatura. È tutto quanto meno bizzarro.
Ma si spiega, naturalmente. Il fatto è che nulla di quel che si diceva era vero e nulla di ciò che è vero veniva detto. Il governo è stato fiduciato da una maggioranza virtuale che aveva ben poco a che fare con la sua reale base politica.
In teoria aveva i numeri per navigare, solo che Renzi aveva in mente tutt’altre cose rispetto a quelle che aveva detto per scalare la segreteria democratica ed espugnare palazzo Chigi. Cose che, invece, andavano perfettamente a genio al mecenate delle olgettine, col quale ha subito stipulato una fattiva intesa. A danno soprattutto di quella parte del Pd che – stando almeno ai proclami – avrebbe «frenato», corretto, posto condizioni e strappato modifiche. Dimodoché per un anno siamo stati governati da una maggioranza sorretta dall’opposizione contro una parte della maggioranza trasformata in opposizione. Borges si congratulerebbe.
Poi è venuto lo scontro sul Quirinale. Forse Renzi ha avvertito un pericolo. Ha temuto che, se avesse concordato con Forza Italia anche il nome del capo dello Stato, non avrebbe solo avuto problemi dentro il Pd. Sarebbe anche apparso, più che un alleato, il cavalier servente di Berlusconi. Con effetti rovinosi sul piano dell’immagine, che tanto gli sta a cuore. Ma è anche possibile che Renzi abbia deciso di usare la partita del Colle per soggiogare la fortuna, umiliare il vecchio boss e imporsi come uomo solo al comando. Fatto sta che siamo alla lite furiosa di queste ore, agli stracci che volano tra i due compari del Nazareno, al divorzio annunciato.
Ma è vera crisi? Vedremo. Se la politica non fosse anche ricerca del consenso, ci sarebbe di che dubitarne. Le «riforme» renziane stanno a cuore al padrone delle tv almeno quanto al loro autore ufficiale. La distruzione delle tutele del lavoro dipendente, la subordinazione organica del parlamento al governo, l’attribuzione di una maggioranza schiacciante al vincitore delle elezioni, la depenalizzazione delle frodi fiscali figurano tra i desiderata del capo di Forza Italia da sempre, dai bei tempi della P2. In più c’è che Renzi ha sin qui evitato anche solo di nominare il conflitto d’interessi: perché dunque infrangere l’idillio? Ma ha qualche ragione pure chi nelle file berlusconiane scalpita e fa presente che un partito ha anche esigenze di visibilità. Da questo punto di vista la scelta del nuovo presidente è stata in effetti uno sfregio irricevibile. Di qui la sceneggiata della finta defenestrazione di Brunetta, Romani e Verdini. D’altra parte non è pensabile che Renzi adesso, a un tratto, ci ripensi. Torni sui propri passi, disfi la tela e riscriva le sue pessime leggi. I voti forzaitalioti vanno rimpiazzati, sempre che non arrivino comunque. In che modo? Questo è il busillis. E, si può dire, il più bel regalo che la partita del Quirinale ci ha fatto sinora.
I giochi sono all’improvviso venuti al chiaro, inchiodando ciascuno alle proprie responsabilità. Se la destra, che pure le «riforme» le vuole e paventa la crisi, si sfila, è perché prevede che i propri voti non saranno indispensabili. Se Renzi lascia che il patto con Berlusconi vada a ramengo è perché ritiene di non dipendere più dal suo sostegno. La ragione evidente è che conta sul consenso della cosiddetta sinistra del Pd. Dunque ora finalmente il destino del governo e della legislatura è nelle mani dell’ospite ingrato sulla scacchiera renziana, per neutralizzare il quale Berlusconi venne cooptato, di fatto, nella maggioranza.
Che cosa vuol dire tutto questo? Una sola cosa: che non ci sono margini per altre messinscene. Finora, che la «sinistra» democratica votasse o meno le «riforme» era indifferente. Ciò ha reso il suo sistematico cedimento irrilevante, se non meno indecente. Adesso la musica è cambiata. D’ora in poi la «sinistra» del Pd può decidere se puntare i piedi, può ottenere modifiche reali (non le prese in giro sin qui sbandierate) o, in caso contrario, impedire l’approvazione delle leggi. Costringendo il governo a muoversi nella carreggiata definita dal voto popolare di due anni fa.
Molti osservatori prevedono che nulla di tutto ciò accadrà. Pensano che la fronda interna, a cominciare dai suoi capi, sarà d’ora in avanti prona al padrone della «ditta», ritenendosi appagata dalla scelta di Mattarella. Significherebbe che, nonostante mesi di minacce, insulti e mortificazioni da parte del presidente del Consiglio, costoro non andavano in cerca che di un contentino per tornare docili all’ovile. E scongiurare il rischio capitale di una crisi che potrebbe portare alla fine anticipata della legislatura, con tutti i suoi contraccolpi morali e soprattutto materiali.
È possibile che vada proprio così. Tanto più che i portavoce del capo del governo hanno chiuso ogni spiraglio chiarendo che sulle «riforme» non c’è più nulla da discutere. Da martedì sapremo. Si riprenderà a votare sulla «riforma» costituzionale e scopriremo se la «sinistra» democratica vuole davvero fermare il disegno autoritario di Renzi, come giura e spergiura. Oppure, indifferente alla sua pericolosità, ha sin qui recitato soltanto una commedia. Di certo il tempo è scaduto. L’elezione del presidente della Repubblica ha come squarciato un velo dietro al quale tutti gli attori si sono comodamente celati fino ad oggi. Si direbbe un caso di eterogenesi dei fini, e del resto si sa che prevedere il futuro in politica è al contempo necessario e impossibile
Il rumoroso rimbalzo dell’inchiesta “Swissleaks” condotta dal network di giornalismo investigativo internazionale Icij e, per l’Italia, dall’ Espresso, sui correntisti della filiale ginevrina della HSBC inclusi nella cosiddetta “lista Falciani” - 100 mila clienti (7 mila dei quali italiani) e 20 mila società off-shore per 180,6 miliardi di depositi - documenta la resa del Fisco e delle politiche anti-evasione del nostro Paese di fronte alla più colossale scoperta di fondi illegalmente trasferiti all’estero nella storia repubblicana.
muore nel Mediterraneo poiché è stata abbandonato Mare Nostrum, e la "troika" prosegue il tentativo di strangolare, con la Grecia, l'Europa della speranza. Articoli di P. Nerantzis, A.M.Merlo, R.Chiari. Il manifesto, 10 febbraio 2015
Grecia. Tsipras spera in un «new deal» con l’Eurogruppo e conferma: «Rispetteremo le promesse elettorali». Rappresentante Ue della troika si incontra con il vicepremier nella capitale greca
Alle porte di un compromesso storico: è questa la situazione in cui sembrano essere Atene e i suoi partner europei. Questo new deal che sarà messo domani sul tavolo delle trattative nella riunione di emergenza dell’Eurogruppo, sarà discusso il giorno dopo al vertice Ue e -se tutto va bene - sarà varato il 16 febbraio alla riunione ordinaria dell’ Eurogruppo, garantendo la liquidità ad Atene con dei pressupposti precisi affinché - vale a dire entro il giugno prossimo - Alexis Tsipras presenta il piano di risanamento quadriennale dell’ economia greca senza scomodare ulteriormente i partner europei, ne i correntisti tedeschi che secondo le fanfaluche di Schaeuble, «sono sempre loro a pagare per i greci».
Che ci troviamo a pochi passi da questo deal e non di fronte ad una rottura, come sostiene gran parte della stampa internazionale per fare pressing su Atene, si capisce da una lettura attenta delle dichiarazioni di dirigenti europei, ma anche da fondi vicine al premier greco che esprimono ottimismo.
Il premier Tsipras, sabato scorso ha presentato le linee programmatiche del suo governo e ha escluso ogni prolungamento dell’attuale memorandum e del monitoraggio della troika, chiedendo un nuovo accordo per rinegoziare il debito di Atene nell’ambito di una «intesa comune con i partner per l’ interesse di tutti».
Atene ha bisogno di una moratoria del pagamento del debito, ovvero di un programma di transizione a breve scadenza (accordo –ponte) per recuperare i fondi per la crescita e non un salvataggio perenne tramite nuovi finanziamentii da parte della troika (Fmi, Ue, Bce).
Alla Bce, si è aggiunta la Spagna, tramite il suo premier. Rajoy ha chiarito ieri che «la Grecia o chiede un prolungamento dell’ attuale programma di risanamento (ovvero una nuova austerity, ndr.) oppure niente». Alleata ai governi della eurozona che non vogliono sentirne parlare delle richieste di Atene l’agenzia Standard and Poor’s che ha declassato il rating della Grecia da B a B-. Alla Francia e all’ Italia, invece, che pur allineandosi alla fine con la cancelliera tedesca sulla linea della fermezza, non vedono di cattivo occhio le richieste greche — perché affrontano problemi simili (debito, ecc.)- si è aggiunta ieri l’ Austria. Il cancelliere austriaco, Werner Faymann, con un ruolo da intermediario tra Berlino e Atene, dopo il suo incontro con Alexis Tsipras a Vienna, ha detto che «bisogna trovare una soluzione di compromesso tra il vecchio programma di risanamento dell’ economia greca e al programma del nuovo governo» greco.
La necessità di trovare un new deal tra Atene e Berlino, è sostenuta in un rapporto dalla Commerzbank, la seconda banca tedesca per grandezza e la stessa Gran Bretagna, principale partner commerciale dei paesi della zona euro. David Cameron che teme l’effetto contagio sui mercati finanziari da una possibile uscita della Grecia dalla zona euro, ha convocato ieri una riunione per riesaminare i piani di emergenza del suo governo nel caso di un Grexit.
Contraria a ogni forma di austerity irragionevole e rischiosa è la Casa Bianca che non incide sui fatti interni dell’ Ue, ma preme per una soluzione visto che una rottura potrebbe avere ripercussioni globali. Per Atene Londra e Washington sono di fatto in questo momento alleati buoni.
Che tutte le parti, esclusione fatta per Berlino, si rendano conto che serve una soluzione di compromesso, si capisce dal viaggio lampo ad Atene del capo dell’Euroworking group e del rappresentante dell’Ue alla troika che si sono incontrati con il vice-premier e il ministro delle finanze greco per discutere le proposte che Atene sta preparando per presentarle domani alla riunione dell’ Eurogruppo. Le premesse sono incoraggianti, nonostante «l’isolamento di Atene».
Intanto stasera si conclude con il voto di fiducia al nuovo governo il dibattito parlamentare sulle dichiarazioni programmatiche di Alexis Tsipras, il quale tra l’altro ha annunciato un insieme di misure per far fronte alla crisi umanitaria: salario minimo a 751 euro, assunzione dei 3.500 dipendenti pubblici licenziati dalla troika, restituzione della tredicessima ai pensionati. Ha deciso la sospensione dei pignoramenti sulla prima casa, alloggio, cibo e elettricità gratis per 300.000 famiglie vittime dell’ austerity, assistenza medica gratuita per i disoccupati, abrogazione delle tasse supplementari alle case, vendita di uno dei tre aerei del premier e di 700 auto blu, di- mezzamentodel personale a Mega- ro Maximou, sede del governo, an- nullamento dei privilegi dei parla- mentari, riorganizzazione da zero della radiotelevisione pubblica, in- chiesta parlamentare su come si è arrivati al memorandum, conces- sione della cittadinanza ai figli di migranti nati in Grecia, disarmo dei poliziotti durante le manifesta- zioni, misure severe per combatte- re l’ evasione fiscale e la corruzio- ne, rivendicazione dei debiti di guerra da Berlino.
SETTIMANA CRUCIALE PER LA GRECIA
di Anna Maria Merlo
L'Eurogruppo vuole "un piano" preciso dalla Grecia e rappresentanti della trojka sono ad Atene. Londra soffia sul fuoco del Grexit ("solo questione di tempo" per Greenspan, ex Fed). Francia e Italia cercano di calmare il gioco. Padoan risponde a Varoufakis: il "contagio italiano è escluso". Per Gabriel (Spd, vice-cancelliere), ci sono probabilità "pari a zero" che la Germania prenda in considerazione la richiesta di riparazioni di guerra
Settimana cruciale per la Grecia e il suo debito insostenibile. L’Eurogruppo preme e pretende che Varoufakis ”consegni” alla riunione straordinaria di domani a Bruxelles il “piano” per uscire dalla crisi. C’è chi getta olio sul fuoco e chi cerca di calmare il gioco. In Gran Bretagna, David Cameron ha convocato un vertice con il cancelliere dello scacchiere, George Osborne, e dei rappresentanti della Bank of England, per prevenire il “contagio” nell’eventualità di un Grexit. Per l’ex capo della Federal Reserve, Alan Greenspan, difatti, l’uscita della Grecia dall’euro “è solo questione di tempo” (lo ha detto in un’intervista alla Bbc).
Il governo greco fa un discorso senza concessioni, ma non ha rotto i contatti con Bruxelles. Per preparare l’Eurogruppo dell’11, che precede di un giorno il vertice Ue che sarà il debutto di Tsipras a Bruxelles, Atene accoglie dei rappresentanti dell’odiata trojka: da domenica sono in Grecia Declan Costello, rappresentante della Ue nella trojka, con Thomas Wieser, presidente dell’Euro Working Group, che prepara la riunione dell’Eurogruppo. La Bce, che mercoledi’ ha chiuso un rubinetto di finanziamento alla Grecia, rifiutando dall’11 febbraio prossimo in garanzia le obbligazioni di stato greche (valutate “spazzatura” dalle agenzie di rating, per S&P ormai la Grecia è scesa a B-), resta divisa sulla mossa di mercoledi’ scorso. A causa del meccanismo di rotazione nel voto al consiglio dei governatori, alcuni paesi non erano presenti al voto che ha deciso il colpo di mano di mercoledi’: tra essi la Francia (e anche Grecia e Cipro). E la presidente del consiglio di vigilanza dellz Bce, la francese Danièle Nouy, ha affermato che “oggi le banche greche sono molto più solide”.
Dalla Germania è arrivato un nuovo secco “nein” alla richiesta delle riparazioni di guerra da parte di Tsipras. Per Sigmar Gabriel, Spd e vice-cancelliere, la “probabilità è eguale a zero”. La questione “è stata risolta 25 anni fa, giuridicamente con il trattato 2+4” del ’90 (le due Germanie più gli Alleati), che hanno accettato la rinuncia alle riparazioni (e la Grecia l’aveva approvato). “Non serve a nulla proseguire su questa strada” ha concluso Gabriel, al seminario Spd di Nauen. Per il portavoce del ministero delle Finanze di Berlino, non c’è “nulla di nuovo” su questo fronte.
La risposta è l’applauso dei 450 delegati metalmeccanici Cgil arrivati da tutta la Toscana, nel veloce giro d’Italia che Landini sta facendo in questi giorni con gli attivi regionali. Per fare il punto della situazione nelle fabbriche. Su che sta accadendo con il jobs act: “Non abbiamo mai vissuto un processo del genere, che cambia la natura stessa delle relazioni sindacali”. Sui contratti da rinnovare quando le controparti, dai bancari ai chimici, o li disdicono o pongono condizioni capestro come la restituzione di parte del salario. Poi sull’importanza di aumentare le iscrizioni al primo sindacato metalmeccanico, per pesare sempre più ai tavoli di trattativa. Infine per ribadire che lo sciopero generale di dicembre della Cgil è stato solo il primo passo di una mobilitazione che deve andare avanti. E spiegare che sì, si può fare.
Il ragionamento del segretario Fiom procede passo passo. Molte argomentazioni sono conosciute a chi mastica un po’ di politiche economiche e finanziarie. Ma di fronte ai suoi iscritti Landini ha — e sente — il dovere di spiegare e rispiegare il perché del passaggio politico. Senza mai dimenticare il suo punto di vista, quello del sindacalista. “In tutta Europa – ricorda – è in atto una operazione che punta a ridurre il ruolo dei sindacati a semplici organizzazioni aziendali e corporative. Il campo di gioco è quello, per la semplice ragione che ci sono 25 milioni di disoccupati nel continente, sui quali si sta giocando per abbassare diritti e tutele a tutti gli altri. Dunque non è un problema solo italiano. Anche perché il governo italiano, come si dice dalle mie parti, comanda solo fino a mezzogiorno”.
Si gioca in Europa, ripete Landini, perché dei 100 milioni di interessi pagati ogni anno dall’Italia, una buona parte (“tramite la Bce”) finisce nelle casse della Bundesbank tedesca, che ha in pancia i titoli del debito italiano. “Se invece non paghi gli interessi, soprattutto in questi anni di deflazione, e restituisci il debito non in cinque anni ma in trenta, non credete che la situazione cambi parecchio?”.
I delegati toscani, operai e impiegati della fabbriche di una regione dove la Fiom ha conquistato l’82% nei rinnovi delle Rsu, ascoltano con attenzione. Annuiscono. Applaudono, quando il loro segretario ricorda la lettera della Bce del 5 agosto 2011: “C’era scritto che i servizi pubblici dovevano essere privatizzati. Che salari e orari di lavoro dovevano essere ‘ritagliati’, azienda per azienda. Si doveva alzare l’età pensionabile e abbassare gli assegni, ridurre il costo della pubblica amministrazione, dare ‘più libertà’ al mercato del lavoro, e ‘riformare’ le istituzioni. Ebbene, sia Monti che Letta e ora Renzi hanno applicato tutto questo. Punto per punto”.
Non solo Fiom. Il comitato nazionale dell’Arci, per acclamazione, ha dato l’adesione alla manifestazione di sabato. Anche dentro la segreteria Cgil si discute, più o meno informalmente, su che fare. E le minoranze del Pd hanno chiesto a Renzi, Orfini e ai capigruppo Zanda e Speranza di riunire le assemblee parlamentari e la direzione: “Per discutere della linea che il Pd terrà in occasione dei prossimi appuntamenti europei relativi al caso Grecia”. Chiamando al compromesso, fra posizioni che fra loro restano opposte, alla vigilia dell’Eurogruppo e dei vertice dei capi di governo Ue.
Intanto i metalmeccanici Cgil vanno avanti. Come treni. Al direttivo della confederazione del 18 febbraio arriverà la proposta di un pacchetto di ore di sciopero. Contro il jobs act e per modificare radicalmente la legge Fornero. Si pensa ai ricorsi europei, alle impugnazioni dei licenziamenti, all’ipotesi di un referendum abrogativo. “La nostra costituzione – ha ricordato Maurizio Landini nella Casa del popolo di San Bartolo a Cintoia – ci dà il principio di organizzarsi collettivamente, per discutere nelle aziende ma anche per contribuire al miglioramento delle condizioni sociali. Ebbene, non abbiamo mai avuto un governo come questo. Che non ha accettato un tavolo di discussione, mentre approvava politiche contro i diritti dei lavoratori”
Un saggio interessante non solo per la storia che racconta, ma per l'efficacia con cui testimonia la potenza della manipolazione della memoria collettiva come maschera dei vincitori delle lotte per il potere. Ieri e oggi.RIFLESSIONI SUL RICORDO PUBBLICO
DELL’HOLOCAUST IN GERMANIA
di Susanne Böhme Kuby
Ho colto l’invito di Marco Borghi a parlare di questo argomento complesso per illustrarvi – ovviamente solo a grandi linee - su quale fondamento poggino il monumento all’Olocausto e i rispettivi musei eretti a Berlino a partire dalla fine dello scorso millennio. Da non pochi visitatori questi luoghi vengono percepiti come testimonianza visibile del fatto (presunto) che la Germania abbia “elaborato” il suo passato meglio di altre nazioni in Europa. Vorrei ripercorrere questa storia dall'inizio, nel tentativo di mostrarne la complessità. Una complessità maggiore di quanto questa conclusione apparentemente positiva, ma in realtà affrettata, non farebbe pensare.
Si può constatare, a 70 anni dalla fine della II.guerra mondiale e dalla scoperta dei suoi orrori, che la memoria del passato non ha – tra rimozione e eterno ritorno – guadagnato in profondità e complessità, ma piuttosto in superficialità e semplificazione. Ciò non soltanto, ma in modo particolare, in Germania (e non parlo qui della ricerca storica, bensì della memoria pubblica, collettiva e politica.) Per comprenderne il motivo occorre indagare le coordinate storico-politiche contingenti, che sono le premesse del mainstream della percezione pubblica nella Germania dei Täter (carnefici). Lascio da parte quindi il ricordo individuale che riaffiora anche in una più recente Erinnerungskultur/cultura della memoria. Mi piace però ricordare la constatazione di Christa Wolf, Trame d’infanzia, del 1976: “Il passato non è morto; e non è nemmeno passato. Noi ci stacchiamo da esso fingendoci estranei”.
Sappiamo che la memoria dell’Olocausto non è monolitica, ma comprende molte narrazioni a secondo dei contesti e delle prospettive, di vittime e Täter - in Germania, anzi nelle due ex-repubbliche tedesche, in Israele e altrove. Così come ogni memoria è un mosaico costituito da molti elementi a loro volta determinati dal rispettivo presente.
E qui vorrei subito anticipare una constatazione sull’attualità: Il governo tedesco federale ripete da più di mezzo secolo la liturgia di una immensa responsabilità morale della Germania nei confronti delle vittime del Terzo Reich, ma nello stesso tempo insiste sulla non esistenza di alcun obbligo legale nei loro confronti, oltre alle esigue forme di Wiedergutmachung “riparazioni”concesse dopo la guerra. Le vedremo più avanti.
Lo sterminio industriale di massa, di complessivamente ca.15 mio. di esseri umani, tra ebrei, prigionieri russi e polacchi, sinti, rom, e altri, (Holocaust Museum di Washington) eseguito da un vasto apparato costituito da cittadini tedeschi, è stato dall’ inizo rimosso dalla coscienza collettiva della nazione. Questo fatto è stato sempre spiegato con l’immensità dei crimini commessi e con le difficili condizioni del dopoguerra – ma ciò non coglie il nodo del problema. E’ fuor di dubbio che si è trattato di un complesso processo di rimozione collettiva o meglio di diniego, descritto da Ralph Giordano, 1987, così: “Il ‘collettivo nazionale dei seguaci di Hitler’ di ieri si comporta oggi, nella democrazia, in maniera corrispondente alla sua deformazione nazista. Da questo hanno origine gli ‘affetti collettivi’, la ‘seconda colpa’, che nella sua disumanità mostrata in maniera così disarmante ci fa comprendere perché il nazionalsocialismo ha potuto a suo tempo ottenere tanto successo. Nella rimozione e nella negazione non si tratta in prima linea della difesa del Terzo Reich e del suo Führer, ma del proprio Io, che non vuole ammettere nessuna colpa, nè davanti a sé, né davanti ad altri. La perdita di un orientamento umano attraverso la profonda identificazione con le idee di Hitler ...si è rivelata come l’eredità più ostinata lasciata dallo Statonazionalsocialista e dal suo terreno storico.”
La negazione della realtà, ancor prima della sua mistificazione, fu infatti uno dei pilastri dell’ideologia nazista. Questa aveva esautorati i tedeschi dalla lotta di classe, dallo scontro tra partiti (Weimar!), da ogni pensiero critico e dalla politica tout court. Dall’inizio, ovvero dal 1933 in poi, il regime aveva, p.es. distrutto anche le tracce dell’opposizione antinazista individuale e di gruppo, oltre alle persone. Hitler stesso si vantò del fatto che in Germania non c’era (più) resistenza al suo Reich. Eppure nei sei anni precedenti la guerra i nazisti avevano incarcerato e in parte ucciso circa. un milione di tedeschi antifascisti (politici, religiosi, oltre ai disabili, malati di mente ecc.), nelle carceri e nei Lager eretti dappertutto in Germania. Non se ne accorse nessuno? Questa domanda è rimasta per decenni un grande tabù.
Viktor Klemperer aveva descritto in loco i meccanismi mistificatori non solo del linguaggio del nazismo quotidiano (in LTI, Lingua Terti Imperii, 1947 Berlino est, nella RFT 1966 e i suoi Diari, trad. anche in italiano ). Fu Raul Hilberg a cominciare ad indagare negli anni ‘80 su ciò che era usuale nella totale anomalia della repressione puntando il dito sulla folla di spettatori che hanno convissuto tranquillamente con ciò che avevano deciso di non voler vedere. (cfr. Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori, 1994)
Di più. Ancora oggi la rimozione della Resistenza è attiva: sono vive nella memoria pubblica occidentale soltanto l’azione della Weisse Rose/Rosa Bianca dei fratelli Scholl a Monaco e l’attentato di Stauffenberg a Hitler del 20 luglio 1944. (Il ricordo della Resistenza politica soprattutto di comunisti e altri antifascisti era stato raccolto e custodito solo nella RDT ed è oggi scomparso con essa. Lì una visita al Campo di Buchenwald faceva presto parte della formazione delle scolaresche, per ricordare anche la resistenza antifascista che a Buchenwald aveva prodotto l’allora famoso Manifesto per la necessaria futura unità del movimento operaio).
Già nel 1943, Heinrich Himmler aveva annunciato (in uno dei suoi discorsi a Posen), che prima di una ritirata tedesca i campi di sterminio in Polonia avrebbero dovuti essere evacuati e rasi al suolo, “spurlos verschwinden”, senza lasciare traccia, vi doveva crescere l’erba sopra. Ecco il memoricidio annunciato che ha avuto conseguenze di lunga durata. E quando, dopo la resa della Wehrmacht nel maggio 1945, vennero esposte in molte piazze cittadine le prime foto ingrandite dell’orrore trovato nelle migliaia di lager sul territorio del Reich, i tedeschi restarono allibiti. Secondo la loro tesi di una ”colpa collettiva” di tutto il popolo - gli angloamericani avevano applicato alle immagini la scritta “Das ist eure Schuld!/ E’ colpa vostra!”. La maggioranza dei tedeschi - che fino a un momento prima aveva creduto alla vittoria finale del Führer - reagì anzitutto negando: “No, questo non può essere successo, non lo sapevamo, non è colpa nostra”. Rossana Rossanda ha descritto nella sua autobiografia il proprio smarrimento di fronte alle prime notizie e fotografie che giungevano anche in Italia, chiedendosi quale sarebbe stato l’angoscia dei tedeschi di fronte a queste rivelazioni.
Ma dopo aver visitato la Germania nel 1949, Hannah Arendt scrive che: “Da nessun’altra parte si percepisce meno che in Germania questo incubo di distruzione e orrore e da nessuna parte se ne parla meno”. (Report from Germany. The Aftermath of Nazi-Rule (1950, uscito ben 36 anni dopo in ted. “Besuch in Deutschland”, 1986). Arendt si chiedeva se si trattava di un diniego cosciente o di una reale Gefühlsunfähigkei/ mancanza d’empatia. Saranno più tardi, negli anni sessanta, i psicoanalisti Alexander e Margarethe Mitscherlich ad indagare questo fenomeno, constatando una vera e propria “incapacità a elaborare il lutto”, riferito alla perdita del Führer (e del Reich). (Die Unfähigkeit zu trauern,1967/Germania senza lutto, Psicoanalisi del Postnazismo, 1970)
Sono numerose le testimonianze di quel fenomeno descritto come Flucht vor der Wirklichkeit, che è una fuga non solo davanti alla realtà, ma anche davanti alla responsabilità. Franco Fortini ha osservato quella stessa, perdita di senso della realtà, descritta da H. Arendt come incapacità di valutare e di comprendere: “L’immensità delle stragi e della distruzione non spinge affatto gli uomini a vivere in modo diverso, a cercarsi un cuore nuovo; ma solo a ripararsi alla meno peggio nelle vecchie grotte dell’anima. Favorita dalla politica occidentale, la borghesia tedesca, appena ha potuto, ha gettato sul vuoto di una generazione i luoghi comuni più filistei” (Diario tedesco 1949, p. 24)
Continua Fortini: “E senti che questo aiutare a rendere vano il tentativo di vita nuova che vedi (...) è colpa anche più grave che prepararsi ad armare le compagnie di ventura tedesche e a giustificarle fin d’ora in nome della civiltà [occid.] e dello spirito”.
Qui viene chiamato in causa la politica degli alleati occidentali e il ruolo accondiscente della borghesia tedesca e si fa riferimento alla rapida dissoluzione dell’alleanza dei vincitori dopo lo scoppio delle bombe atomiche in Giappone nell’agosto del ’45. La superiorità militare statunitense fa da premessa per la seguente “guerra fredda”. Le zone occidentali della Germania diventano (Bizone1948/Trizone) il nucleo della RFT (1949), e il principale baluardo degli USA contro il blocco sovietico. Questo ha determinato tutto il futuro tedesco (ed europeo), e garantito la continuità di fondo delle strutture economiche e sociali, ma anche ideologiche del capitalismo tedesco. (Bisognerebbe aprire una parentesi sull’immediato dopoguerra, in cui il capitalismo sembrava essere superato persino nel programma di Ahlen della CDU (1947): “Il sistema capitalistico si è rivelato inadeguato agli interessi vitali dello stato e della società tedesca”, ma presto si chiuse ogni prospettiva alternativa per una Germania non allineata e democratizzata anche nelle sue strutture economiche, prevista ancora dagli Accordi di Potsdam, 1945).
Con l’inizio della Guerra fredda (1947) il vecchio anticomunismo servì di nuovo da collante anche per il nuovo establishment che ha tenuto insieme la RFT fino ad oggi, (l’anticomunismo, non l’antifascismo! Qui sta una differenza di fondo con l’Italia). L’anticomunismo ha favorito anche l’accettazione tacita della divisione nazionale, i tedeschi occidentali hanno potuto staccarsi da quest’altro “totalitarismo”! (Verlorenes Land, verlorene Schuld, come constatò P. Brückner,1978) Non solo: Un certo lassismo praticato già durante la denazificazione nella Bi-zona occidentale (tramite l’autocertificazione/ cfr. Der Fragebogen di Ernst von Salomon) permise il reintegro dell’intera classe dirigente (ex-)nazista nella RFT. (Diversamente nella zona sovietica, poi RDT, dove, dopo una diversa denazificazione, si è sostituto l’apparato dirigente con uno forgiato ex- novo delle Arbeite und bauernfakultäten(“Facoltà degli operai e dei contadini”) . Il che spiega almeno in parte l’accanimento post’89 dell’ establishment della RFT confronti di quello dell’RDT).
Infatti denazificazione e reeducation democratica (stabilite nel 1945 a Potsdam dagli Alleati) divergeranno notevolmente tra le quattro zone occupate a seconda delle divergenti analisi angloamericane, francesi e sovietiche del nazionalsocialismo. I primi passi di democratizzazione dal basso da parte di antifascisti tedeschi vennero per lo più ostacolati e rimasero al margine anche della coscienza pubblica. Tra i primi testi tedeschi che miravano ad una Aufklärung vorrei ricordare la Schuldfrage (1945/6), frutto delle prime lezioni all’università di Heidelberg del filosofo Karl Jaspers dedicati ad un'analisi storico-filosofico-giuridica della questione della colpa dei tedeschi, e il primo libro documentario che Eugen Kogon, prigioniero ebreo a Buchenwald, redasse in pochi mesi dopo la sua liberazione, Der SS-Staat (1946), che rimane una pietra miliare per la conoscenza del sistema di organizzazione industriale dell’impero delle SS.
Ma la guerra, come prodotto finale del nazionalsocialismo, ha provocato in molti tedeschi la distruzione dell’identità a livello nazionale, sociale e individuale. Per cui predomina nei contemporanei la sensazione che essi abbiano, nel 1945, vissuto un momento senza società e senza storia: Quella “sottrazione di senso” (Sinnentzug), percepita dai più, caratterizzò in seguito gli atteggiamenti di letargia o di ritiro alle esigenze più elementari, e produsse semmai scatti emotivi incontrollati di risentimento, anziché riflessione critica o pensiero e coscienza politica. (E qui vi rimando a “Germania anno zero” di Rossellini o a Die Mörder sind unter uns di W. Staudte che vedremo presto alla Casa del cinema).
La maggioranza dei tedeschi invece percepì - come vera e propria Katastrophe - non la guerra in sé, ma la pesante sconfitta (la seconda in pochi decenni) inflitta loro dagli alleati, anche se questa volta la accettarono senza cercare rivincite. Solo una piccola minoranza salutò gli alleati come “liberatori” (e gli americani più che non i russi). Molti recepirono invece la politica di occupazione come punitiva (e solo ora iniziano a conoscere fame e freddo!).
Goebbels aveva fino agli ultimi giorni di aprile del ’45 diffuso le sue profezie minacciose ca. vendette tremende che i vincitori avrebbero inflitte al popolo tedesco, che sarebbe stato, con la sconfitta non più degno di vita. Gli agghiaccianti processi di Norimberga furono valutati come Siegerjustiz/giustizia dei vincitori. E in quella sede Hermann Göring dichiarò anche: “Il popolo tedesco è senza colpa. Senza conoscenza dei gravi crimini di cui siamo venuti a conoscenza ... il popolo ha condotto una lotta per l’esistenza che si è scatenata senza la sua volontà fino alla morte, con fedeltà, valore e spirito di sacrificio”, dando espressione a una sensazione percepibile tuttora.
Semmai la liberazione dal nazionalsocialismo viene sentita come una liberazione dalla storia stessa, oppure altrove la sconfitta è al meglio interpretata come conquista morale, legata al fascino della libertà. (come ci ha trasmesso p.es.Alfred Andersch, Le ciliegie della libertà, 1952) Nella spettrale realtà delle rovine tornano i reduci, spesso storditi e incapaci di parlare: è la breve parentesi della “Trümmerliteratur”, con una vena neorealista, dei Böll e Borchert, per citare i più conosciuti. Ma le vittime di cui parlano sono comunque i tedeschi; nell’immaginario collettivo tedesco lo sterminato numero di vittime provocate da loro stessi in Europa non compare. La coscienza dei crimini perpetrati dalle truppe tedesche nel resto del mondo, la miseria nella quale hanno precipitato popoli interi, manca, anche nella letteratura e non solo quella dei primi anni (ad esclusione dei pochi autori antifascisti sopravvissuti, tornati dall’esilio per lo più a Berlino est: da Brecht e Anna Seghers a Peter Weiss). Empatia o compassione per le vittime dei tedeschi si troverà, anche dopo, solo nei superstiti (da Nelly Sachs e Paul Celan a Günter Kunert o Jureck Becker).]
Al di là del dopoguerra: Ci vorranno vent’anni perché anche gli storici tedeschi nella RFT comincino a confrontarsi con il nazionalsocialismo.
Lo sterminio degli ebrei irrompe nel discorso pubblico, addormentato dal decennio della Restauration, della ricostruzione - a partire dall'eco del processo contro Eichmann a Gerusalemme (1961) e poi dall’AuschwitzProzess a Francoforte (da dic.1963 al 1965), recentemente rievocato da un film “Im Labyrinth des Schweigens” di un regista italiano, Giulio Ricciarelli, emigrato da bambino con i genitori in Germania. Egli ricostruisce la dura impresa di Fritz Bauer, ebreo, ex-internato, diventato Pubblico Ministero Generale dell’Assia, che riuscì dal 1958 a riunire diversi procedimenti penali nei confronti di 22 aguzzini di Auschwitz (su ben 8.000 adetti delle SS nei campi di A.) Infine vennero condannati 17 imputati.
Emblematico mi è sempre parso il caso di Raul Hilberg, l’eminente storico americano di origini viennesi, allievo di Franz Neumann alla Columbia University di New York, che aveva scritto la sua fondamentale opera sullo sterminio The Destruction of the European Jews già nei primi anni 50, elaborando per primo l’enorme mole delle carte dei processi di Norimberga, ma in prima istanza non trovò un editore. Solo anni dopo, e grazie ad uno sponsor privato che gli donò 15.000 $, poté pubblicarlo negli USA(1961). Per una prima edizione tedesca (1982) ci vollero altri vent’anni e solo un piccolo editore di sinistra a Berlino (Olle &.Wolters) si rese disponibile. Hilberg stesso nella sua autobiografia ha definito l’atteggiamento reticente nei confronti della sua ricerca una “guerra dei trent’anni”. Solo nel 2006, poco prima della morte, è stato insignito del Bundesverdienstkreuz .
La presa di coscienza politica della generazione postbellica del Sessantotto tedesco e di una “nuova sinistra”, con la ribellione verbale nei confronti del “potere”, fu una reazione all’ipocrisia e al silenzio dei padri nazisti. La ricezione da parte degli studenti p.es. dei fondamentali studi dell’emigrazione degli Adorno, Horkheimer e Marcuse permette una prima critica al sistema: “Dovrebbe tacere anche del fascismo chi non vuole parlare del capitalismo”, aveva ammonito Horkheimer, già nel 1939. Ma presto, nel corso degli anni ’70 (Ostpolitik della SPD/FDP) questa critica verra’ demonizzata come antecedente tout court del terrorismo della RAF che sfocia nell’ autunno tedesco. E lo Stato, nella sua veste socialdemocratica, ristabilisce ‘calma e ordine’, preparando il terreno ad altri due decenni democristiani (di Helmut Kohl).
La valutazione adorniana della “singolarità” di Auschwitz come irreparabile Zivilisationsbruch (frattura di civiltà), vede la barbarie non come incombente, ma già avvenuta, che persiste fino a quando le condizioni di fondo che l’ hanno resa possibile continueranno ad esistere. Questo sembra non lasciare speranza, e rimane come peso sulla nostra società, nonostante la invisibilità odierna della miseria, scriveva Adorno nel 1966, in Erziehung nach Auschwitz.
Ma la vera presa d’atto emotiva dell’orrore da parte della più vasta opinione pubblica rimane legato alla trasmissione della serie TV americana “The Holocaust”, nel 1979. Entrando nelle case fu la televisione che mise i tedeschi della RFT di fronte all’epopea tragica della Famiglia Weiss, quasi 35 anni dopo l’apertura dei campi di concentramento da parte degli alleati. Da allora “Holocaust” è diventato il nome che indica tout court lo sterminio degli ebrei (delle altre vittime si parlerà solo più tardi, a fine anni ‘80) deplorato per la prima volta in pubblico da un Presidente della Repubblica federale, Richard von Weizsäcker, nel 1985, in occasione del quarantennale del 1945. Egli parlò di “crimini compiuti nel nome tedesco” (sic!) – lo stesso Weizsäcker che difese il padre a Norimberga, ambasciatore di Hitler presso la Santa Sede!
Nel 1982, Helmut Kohl, cancelliere, la Germania è un“gigante economico”, ma ancora un “nano politico” (come deplora F.J.Strauss, che auspicò il ruolo guida per la Germania nella Weltmacht Europa già dagli anni ’60, dotata magari di armamento atomico). La “normalizzazione” è alle porte. Poco dopo, nel 1987, la FAZ pubblica le (vecchie!) tesi revisioniste e apologetiche dello storico Ernst Nolte che danno l’avvìo al cosiddetto“Historikerstreit”, il dibattito sull’interpretazione del Terzo Reich, in cui si nega fra l’altro il carattere “singolare” dell’Olocausto, al quale ora si accosta e si equipara l’espulsione dei tedeschi dai territori orientali a fine guerra. Anche se non assunte dalla storiografia ufficiale queste tesi lasciano un’impronta nell’inconscio collettivo, sicché in occasione del cinquantenario del bombardamento di Dresda perfino un quotidiano berlinese di sinistra, la Taz (Tageszeitung), può scrivere: “Nei giorni successivi si estendeva l’odore di Auschwitz alla città” (13.2.1995).
La cosiddetta “Wende/ svolta” del 1989/90 con la seguente riunificazione ha cambiato tutti i termini anche del passato tedesco: perché con essa la RFT ha superato le conseguenze della guerra. Ora può finalmente cambiar pagina e uscire da quello stato di minorità politica, nel quale si sentiva relegata per decenni. Chi aveva supposto che la fine della guerra fredda avrebbe potuto sciogliere anche i “blocchi” mentali, che avevano condizionato la visione egemonica della storia (M. Stürmer 1986) per indagare più a fondo il “wie” und “warum” (come e perché) è potuto avvenire Auschwitz, rimane deluso. Sono presto arrivati i discorsi sulla presunta Normalität di una nuova Berliner Republik, che si basano sull’affermazione di assiomi come Nationalstaat e Kapitalismus.
Anche qui ed ora il ridimensionamento del passato corrisponde al bisogno di legittimare il presente: Lo “Spiegel”, non più istanza critica, ma dal 1990 allineato al governo, esordì con un titolo trionfalistico: Bewältigte Vergangenheit/ Passato superato! nel cinquantennale dell’8 maggio(1995), quando la Bundeswehr poté (finalmente) sfilare nella grande parata della vittoria a Parigi, accanto ai vincitori della guerra. Già un mese dopo il parlamento federale poté autorizzare le prime spedizioni militari “out of area” (dopo il 1945) e in luglio la Corte Costituzionale approvò questo svuotamento della Legge Fondamentale in materia militare, per cui oggi la Germania rivendica di dover difendere i propri interessi nazionali arrivando persino nelle montagne del Hindukush.] H.L. Gremliza, editore del mensile politico “Konkret”, annota nel 1995 come la riflessione storica e le ammissioni di colpa siano diventati più a buon mercato, ora, che la svolta generazionale è ormai compiuta anche nell’establishment politico: «Sulla sedia del Presidente della RFT non siede più nessuno che abbia conferito il potere al Führer» (come Theodor Heuss. primo Presidente. della RFT, FDP,1949-59, che aveva votato nel 1933 l’Ermächtigungsgesetz a favore di Hitler, nessun architetto di baracche per i lager (come Heinrich Lübke), secondo presidente, CDU,1959-1969. nessun membro di spicco del partito nazionalsocialista (come Walter Scheel) quarto presidente della FDP,1974-1979, o della SA (come Karl Carstens), quinto presidente della CDU, 1979-1984. Nella Cancelleria non c’è più nessun confidente del RSHA(massimo organo del Reich per la sicurezza (come Ludwig Erhardt), Ministro per l’economia 1949-1963 e padre del Wirtschaftswunder, poi secondo Cancelliere federale (dopo Adenauer) 1963-66, e nessun stretto collaboratore di Josef Goebbels (come Kurt G.Kiesinger), terzo cancelliere federale 1966-69.
E nemmeno il Consiglio di Amministrazione della Deutsche Bank è più presieduto (dal 1994) dall’uomo che aveva controllato l’attività produttiva dell’IG Farben ad Auschwitz-Birkenau”, ovvero da Hermann Josef Abs (1901-1994)”, direttore della Deutsche Bank dal 1938 al 1945, tra l’altro responsabile della “Arisierung”, che siedeva nel 1942 in ben quaranta consigli di amministrazione delle grandi imprese tedesche, compreso quello dell’IG Farben. Condannato come criminale di guerra in Jugoslavia a 15 anni di lavori forzati, non venne consegnato dalle truppe inglesi, ma venne chiamato nel 1948, nella bizona anglo-americana, a dirigere la Banca per la ricostruzione (KfW) e il Piano Marshall e poi nella RFT riprese le file della Deutsche Bank (presidente1957-67 e presidente onorario fino alla sua fine). Il banchiere dei nazisti mori a 93 anni, pluridecorato e venerato da tutti.[Per non nominare il famoso Hans Globke, dal 1949 il più stretto collaboratore di Adenauer alla Cancelleria RFT, che nel 1935 fu l’autore dei commenti alle leggi razziali di Norimberga.]
La nuova classe politica, costituita ora da quei figli ed eredi “senza colpa” dei padri nazisti, che lo sono grazie alla loro “nascita posteriore” (Gnade der späten Geburt, che H. Kohl aveva rivendicato per sé) ha incassato una tarda e – in fondo – ormai quasi inaspettata vittoria. E nelle trattative con gli alleati per la riunificazione della nazione ha ancora saputo aggirare (con l’”Accordo 2+4” del 12.9.1990) la stipula di un vero e proprio “Trattato di pace” della Germania con tutti gli ex-belligeranti – che avrebbe riaperto la questione ormai rimossa delle riparazioni di guerra (!) – con ingenti e incalcolabili conseguenze economiche.
E’ un tema molto complesso. Accennerò solo alla cosiddetta Wiedergutmachung (eufemismo che indica riparazione) per l’Olocausto: 3 mrd. DM assicurati da Adenauer (sembra su pressioni USA) a Ben Gurion nel 1952, dopo aspri dibattiti sia nella RFT che in Israele. (La CSU ritenne allora la richiesta “troppo esosa” e secondo il 44% dei tedeschi occidentali non si sarebbe dovuto pagare niente). La RDT, che aveva dovuto accollarsi da sola l’intero importo di ben oltre i 10 mrd. $ di riparazione all’URSS (pattuiti a Potsdam), si ritenne libera da dover risarcire lo stato d’Israele, convinta che la migliore Wiedergutmachung per lo sterminio fosse: eliminare quelle forze che lo avevano reso possibile.
Il capitolo delle riparazioni di guerra viene considerato chiuso da decenni dalla RFT, che aveva negli anni ’50 (come condizione per poter entrare nella NATO) e ‘60 stipulato accordi bilaterali con i principali stati occidentali e ottenuto con l’Accordo sul debito di Londra, nel 1953 (elaborato da HJ.Abs), una riduzione di oltre il 50% sul debito tedesco complessivo, rimandando quello post-1945 ed ulteriori risarcimenti (come per l’ingente Zwangsarbeit di 18 mio. deportati europei, di cui tornarono vivi solo 7 mio.) ad una futura riunificazione nazionale. Di fatto, le straordinarie agevolazioni concesse nel 1953 alla Germania fecero si che il debito della prima metà del ventesimo secolo fosse in realtà sostanzialmente cancellato.
Nel 2012, Alexis Tsipras, si è permesso di ricordare la grande sproporzione tra la cifra (irrisoria) di 115 mio. DM (=57 mio.€), concessa come forfait alla Grecia negli anni ’60, e gli ingenti danni di guerra subiti (fissati nel 1947 in 7.5 mrd. $, che ammonterebbero oggi a ca. 30 mrd. €) compresa la morte per fame di 300.000 cittadini, e ca. 60.000 ebrei deportati (per lo più da Salonicco). Tsipras ricorda inoltre che è rimasto fuori dagli Accordi di Londra del 1953 anche il risarcimento per il prestito forzato di poco meno di 500 mila RM, estorto al governo greco durante la guerra dall’Asse, per i costi dell’occupazione tedesca e italiana. L’Italia ha restituito il dovuto entro il 2000 (sec. il Trattato di pace con la Grecia), la Germania no. L’intera cifra dovuta ora (con tutti gli interessi) ammonterebbe a gran parte del debito pubblico greco. (le cifre calcolate variano tra 40, 70 e 160 mrd. €). Lo Spiegel (20/12) chiamò Tsipras uno Staatsfeind tout court e liquidò la questione col titolo: Acropoli addio! Sul titolo del numero oggi in edicola dello Spiegel Tsipras figura come Geisterfahrer (=uno che va contromano in autostrada).
Quando – dopo la riunificazione - le organizzazioni di vittime del Terzo Reich cominciarono ad avanzare le accantonate richieste di restituzione (provenienti soprattutto dagli USA per i patrimoni “arianizzati” degli ebrei) e di risarcimento (dai paesi dell’est) iniziò un’ altra lunga e penosa trattativa tra le parti, con notevoli accenti antisemiti (cfr. Norman Finkelstein, “The Holocaust Industry”). Istruttivo è il preciso e ampio resoconto del responsabile USA, Stuart E. Eizenstat, “Imperfect Justice” (NY, 2003) relativo alle trattative con le banche svizzere e con la controparte tedesca.
Dopo l’iniziale rigido rifiuto di pagare alcunché da parte di Helmut Kohl, Gerhard Schroeder (SPD), ancora presidente della Bassa Sassonia, ma desideroso di diventare Cancelliere(1998), ritenne utile non esasperare la discussione con gli USA. Egli promosse un fondo (denominato Stiftungsinitiative der deutschen Wirtschaft “Erinnerung, Verantwortung, Zukunft”/ EVZ) in cui le industrie tedesche beneficiarie del lavoro coatto versarono 5 Mrd. DM: alla fine risposero – non senza reticenze - ca. 6.000 imprese. Il governo raddoppiò la somma, così da poter rispondere almeno ad una parte delle richieste avanzate, in particolare dai paesi est europei: Polonia, Ucraina, Czechia, Belorussia, Paesi baltici. Di ca. 2,3 mio. richieste individuali fatte dal 2000 entro il 2007 vennero accettate ca. 1,6 mio. per complessivi 4,5 Mrd.€, mentre 20 mila ex-prigionieri (di complessivi milioni) sovietici vennero esclusi, perché “la prigionia non da diritto a nessun risarcimento”.
Gli Internati Militari italiani ne sanno qualcosa. Di fronte alle loro richieste, sancite da sentenze italiane eseguibili, la RFT aveva ottenuto dalla Corte Europea (3.2.2012) la garanzia dell’immunità di stato nei confronti di richieste di risarcimento da parte di persone private. Il governo Monti - sotto pressione finanziaria – l’aveva tradotto in una legge ordinaria (n.5/2013) e con ciò bloccato tutto. Ma la Corte Costituzionale italiana (n.238/14) ha nello scorso ottobre dichiarato però quella legge anticostituzionale. La questione dunque resta aperta.
E il governo tedesco si trova ancora una volta confrontato con obblighi morali e legali a cui continua ancora di volersi sottrarre. La vecchia RFT, addomesticata dagli alleati, è da 25 anni scomparsa insieme alla RDT. E il passato nazista – ora non più rimosso o negato, ma fortemente ridimensionato in Germania - resta oggi nella memoria pubblica, come anche nella storiografia bundesrepubblicana, sconnesso dalla sua contingenza materiale, ovvero da quel capitalismo tedesco sviluppatosi dal tardo Ottocento in un contesto feudal-autoritario, al quale la Repubblica di Weimar non seppe dare nessuna vera democratizzazione, ma solo una modernizzazione autoritaria sfociata e protrattasi nel Terzo Reich, e, direi, purtroppo anche oltre, nell’attuale potenza guida dell’Europa.
si occupa di cultura tedesca con particolare attenzione al rapporto tra società e mass media. Tra le pubblicazioni:
Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar (Il Nuovo Megangolo, 2002) e L'avvenire del passato / Die Zukunft der Vergangenheit. Italia e Germania: le note dolenti (Forum Edizioni, 2007).
«Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi leader che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere altro che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto».
La Repubblica, 8 febbraio 2014
Gli istituti di ricerca che misurano lo stato della democrazia nei Paesi occidentali segnalano un declino di fiducia dei cittadini nella capacità dei governi di determinare in meglio le sorti economiche dei loro Paesi. La crescita della corruzione e la perdita di legittimità dei partiti politici completano questo quadro piuttosto negativo. Evidenze empiriche, scrive Larry Diamond, di un decennio micidiale di «declino progressivo nell’attrazione verso la democrazia ». Decadenza, stagnazione, sfiducia rendono i governi occidentali perfino deboli competitori dei regimi autoritari, adagiati nella pratica del balbettio negativo del non possumus, quasi a sperare che i loro cittadini si adattino all’idea che diritti e principi debbano essere messi in deposito e non possano essere usati oggi. Sembra che il linguaggio dei diritti e dei principi costituzionali non si adatti ai tempi di crisi, che sia un lusso da rinviare a tempi migliori. Il pudore nell’uso di questo linguaggio è un indice della crisi che avvilisce le nostre società poiché sconfessa nella pratica quel che la democrazia promette: che i diritti siano guida del governo della vita materiale e dei bisogni. I diritti non sono sogni di visionari.
Il linguaggio dei diritti è il grano di utopia pragmatica del quale le società libere hanno bisogno affinché la politica non diventi una fotografia della stagnazione e i cittadini non vedano nello status quo l’unico orizzonte possibile. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente Sergio Mattarella ha reiterato, quasi a farne una litania, gli articoli della Costituzione. «Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza».
Il bisogno di “confermare” quel patto a noi stessi per primi, di leggere a voce alta quell’Articolo 3 che, a valutare lo stato della giustizia sociale, sembra più che una promessa una favola bella. E il Presidente lo ha letto proprio pensando che viviamo in un tempo di crisi, presentandolo come un volano per reagire. La politica che ci promette di trattare tutti e tutte con dignità di liberi e uguali non è una politica dei sogni; è una politica realistica, dotata di una bussola sicura e capace. Impegnarsi a togliere gli ostacoli che limitano la nostra libertà e eguaglianza vuol dire imprimere una svolta alla politica dell’austerità, cambiare rotta e seguire le coordinate delle eguali opportunità.
La Repubblica, 8 febbraio 2014 (m.p.r.)
Roma. Il 20 gennaio 1961 nel suo discorso inaugurale, John Kennedy disse: «Nessuno deve negoziare sotto la morsa della paura. E nessuno deve aver paura di negoziare». La frase l’aveva scritta John Kenneth Galbraith, l’economista che di Kennedy fu consigliere. Ce la ripete James Galbraith, che di Kenneth è il figlio ed è anch’egli un economista di primo piano, docente all’università del Texas dove è collega e grande amico di Yanis Varoufakis, neo-ministro delle Finanze greco, con il quale ha scritto il libro Modesta proposta per uscire dalla crisi dell’euro.
Il manifesto 7 febbraio2015
Con il passaggio ormai quasi completo dei parlamentari di Scelta civica nelle fila del Pd si raggiunge una significativa tappa nella navigazione del sistema politico. Renzi ormai è una calamita attrattiva che assorbe un arco di forze eterogeneo, che va da Verdini a Migliore. Dinanzi a questo vistoso sconfinamento, si tratta solo di chiarire se è il Pd che si amplia, in virtù di una nuova vocazione egemonica, o se non è invece Scelta civica che, proprio dileguandosi, svela che il renzismo aiuta il definitivo compimento della sua originaria missione di partito neopadronale. Creatura della flaccida volontà di potenza di Monti, Scelta civica si insinuava nel solco delle formazioni politiche personali, così abbondanti nel corso della seconda repubblica. Con delle specifiche connotazioni, però. La lista era il frutto della manifestazione di avidità politica dei poteri forti che rinunciavano alla loro tradizionale tattica di influenzare spezzoni di diversi partiti, senza però allestirne uno in proprio, con il rischio di racimolare solo magri frutti nel mercato elettorale.
Dietro le armate di Monti si compiva una brutale semplificazione dell’antico centro presidiato con cura da Casini. Con le prove di sfondamento condotte prima da Montezemolo, e poi rinsaldate con le operazioni di occupazione guidate da Monti, si ordinava la destrutturazione dell’area moderata. Il vecchio centro cattolico non aveva più ragione di esistere nella sua autonomia (contro di esso vennero non a caso gettati in pista figure come Oliverio, Dallai, con l’avallo di alte o medie gerarchie). Il mondo cattolico era destinato a portare in dote i voti residui al disegno dei poteri forti che in vista dell’appuntamento del 2013 entravano in ballo con una doppia bocca di fuoco: la prima a sostegno della prova di bonapartismo tecnocratico tentata da Monti (prima va al potere, con grazia ricevuta dal Colle, e poi va alla ricerca dei voti); la seconda, viste le insormontabili difficoltà espansive del bocconiano cavallo poco di razza, a disposizione di Grillo, celebrato dai media per strappare decisive porzioni di consenso a Bersani e Vendola.
Il tecnico e il comico erano le due figure speculari che i poteri forti (il Corriere, Sky, la Sette) accarezzavano per determinare un pareggio alle urne e sbarrare così la strada ad una sinistra scrutata come troppo legata ai colori inquietanti del passato. Il progetto è stato centrato in pieno. Non è un caso che figure come Mentana o Galli della Loggia siano passati rapidamente dalle simpatie per il comico genovese all’innamoramento totale verso Renzi. Quello che per loro contava era cancellare ogni residua traccia di rosso nella storia repubblicana. E lo statista nato sulle rive dell’Arno è la provvidenziale congiunzione dei diversi sentieri che si erano aperti per abbattere le velleità di governo di una sinistra «neosocialdemocratica».
Con la sconfitta del 2013, il Pd ha subito una metamorfosi completa. Dalle velleità di ricollocarsi in uno spazio più chiaramente di sinistra, deve accasarsi nelle paludi di un moderatismo dal volto neopadronale. Con Ichino, la Lanzillotta rientrano agli ordini del Nazareno personalità che erano fuggite perché in disaccordo con una virata a sinistra mal digerita. L’operazione, gestita in perfetto stile trasformista, trova però una giustificazione sostanziale nell’operato del governo Renzi che ha, sul piano sociale e sindacale, mostrato un’anima liberista che tanto piace a Ichino ed altri profeti dell’abbattimento brutale del diritto del lavoro.
Con il soccorso delle fresche truppe di Ichino e Migliore finisce anche la velleità della minoranza Pd di ficcare qualche graffio nel volto sempre ridente del condottiero di Rignano. Con i ritrovati del trasformismo, Renzi diventa un capo parlamentare che taglia e incolla i personaggi ambigui, pronti a dare un sostegno alla sua leadership. La minoranza del Pd viene così resa inoffensiva e paga le sue esitazioni strategiche. Invece di andare all’assalto frontale quando il governo rompeva la cultura dei diritti, stracciava il legame con il lavoro e sbeffeggiava volgarmente la Cgil, ha preferito formulare fragili proposte di mediazione e infine alzare innocui segnali di fumo nella battaglia molto meno simbolica e dirimente sul voto di preferenza. Un disastro.
Nei conflitti politici, chiariva Locke, non si deve mettere in campo una «fittizia resistenza», quella del tutto innocua di chi con timore chiede al nemico il «permesso di colpire». In ogni conflitto, che «livella le parti», occorre una netta determinazione nel dare «colpi sulla testa e tagli sul viso». Al cospetto del boy scout spregiudicato che introietta alla perfezione le armi distruttive predisposte dal diabolico frazionismo democristiano, la minoranza di sinistra ha mostrato un disarmo preventivo. E ora rischia di essere schiacciata dalle prove di leadership che si consolida grazie alle risorse di un trasformismo postmoderno che acchiappa ex grillini ed ex superstiti dell’avventura di An.
Con gli spostamenti di Scelta civica sono ormai quasi 200 i parlamentari che hanno cambiato casacca in meno di due anni. E questo, oltre che uno sterile problema di decadenza etico-politica, solleva anche questioni di ordine istituzionale. L’attuale geografia del parlamento (fuga dal M5S e da Sel, disarticolazione di Forza Italia, assorbimento di Scelta civica) non corrisponde più alle preferenze elettorali. Oltre che incostituzionale, il meccanismo elettorale ha costruito un sistema non più rappresentativo. Forse avviare le pratiche per uno scioglimento anticipato della legislatura non è poi una idea così malsana.
Comune.info, 7 febbraio 2015
Da qui il “disagio” dei gruppi e delle persone che percepiscono il potere politico come la continuazione del proprio potere economico e personale, e il governo della società un esercizio troppo complicato e importante per lasciarlo nelle mani del “popolo”. In questa relazione funzionale tra popolo e istituzioni si è inserito il gioco del diritto, nel tentativo, spesso riuscito, di creare un dualismo nell’unità del popolo. Questo inizia con l’introduzione dell’autonomia delle istituzioni dalla politica, cioè dall’espressione della volontà popolare, la loro successiva indipendenza, che dalle alte cariche dello Stato si estende poi alle istituzioni (Parlamento), ai singoli rappresentanti, ecc. in una corsa generalizzata verso l’esproprio della sovranità popolare.
La base teorica di questa operazione di esproprio della sovranità popolare nello Stato moderno è la scoperta dell’individuo, la sua indipendenza dall’unità dell’insieme di cui fa parte, il suo diritto a stracciare quel contratto sociale che lo lega alla comunità, la sua indifferenza al volere dei cittadini che lo hanno eletto o nominato a svolgere determinate funzioni. Siamo quindi in presenza di quella che Pietro Barcellona definisce l’affermarsi della “soggettività astratta”, “la società degli individui”, cioè di un individuo libero dai vincoli della stratificazione sociale ma che “consegna tuttavia la sua libertà all’autonomia del sistema economico e alla trasformazione dei rapporti umani in rapporti di scambio tra cose equivalenti, cioè agli automatismi delle cosiddette leggi economiche e all’oggettivazione di ogni valore nella forma del valore di scambio”. (Barcellona P., Il declino dello Stato, Dedalo Bari 1998, pp. 21-22).
Si viene così a costituire un ordine “moderno” che ruota intorno a due poli “logicamente” incompatibili: “il principio della libertà individuale che assume l’esercizio del diritto soggettivo come fonte dell’ordinamento e il principio dell’autogoverno sociale, che istituisce la sovranità popolare e la democrazia come esclusiva depositaria del potere normativo”. (Barcellona, Diritto senza società, Dedalo, p. 88.). Nei decenni dell’affermarsi e dell’imporsi della globalizzazione (1970-2000) il domino del primo principio è apparso irreversibile, il che ha dato vita a numerose teorie (alienazione, omologazione, società liquida, ecc.). Diluito così il popolo nei flussi della “storia”, quella decisa e descritta da altri, si è tentato di sostituirlo con la teoria delle élite, una volta intellettuali oggi esperti e politici, alle quali spetta il compito di elaborare e governare i destini della società.
Al disagio della democrazia si è pertanto reagito intervenendo sui due soggetti capaci di dare espressione alla volontà popolare: il popolo e le élite. L’Europa, dagli anni Settanta in poi, è diventata un importante laboratorio della sperimentazione di questo nuovo meccanismo del controllo sociale e della fine della democrazia, introdotto dalla globalizzazione e governato dall’Unione Europea. Ci si è mossi scientificamente su più linee di azione. Anzitutto manipolando i processi di formazione del consenso popolare mediante la volgarizzazione della sua cultura di base realizzate con forme moderne di retorica e populismo messe in atto con i mass-media e la televisione in particolare. Si è così prodotta la manipolazione dei bisogni, dando a vita a società che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo ma sono prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone. In secondo luogo ci si è concentrati sulla formazione e selezione delle élite.
Sono state rianimate le forme di ingabbiamento dei gruppi sociali e professionaliche costituiscono la base di reclutamento dei ceti burocratico-amministrativi della società, mediante il rilancio delle associazioni massoniche e convogliando i ceti intellettuali nelle fondazioni. Parallelamente si è mirato ai processi di alta formazione mediante le istituzioni della “società della conoscenza” rivolte al controllo della formazione universitaria, della ricerca, ecc.. le cui fasi comprendono la destabilizzazione dell’insegnamento universitario e della ricerca a livello nazionale e la sua sostituzione con Centri di eccellenza. (Amoroso. B., Figli di Troika, Castelvecchi, Roma, 2013). Al convergere degli effetti di queste linee di intervento dobbiamo l’affermarsi del pensiero unico.
Ma la repressione del legame sociale non ha mai prodotto la sua estinzione, anche se lo ha costretto nelle catacombe della famiglia, del locale, delle associazioni di solidarietà e religiose, ecc. Infatti questo è riesploso alla luce del sole anche attraverso le maglie ben controllate e protette dei sistemi politici e di controllo economico predisposti quando le forme di rapina hanno travalicato i confini della sopravvivenza e della sopportabilità sociale. Le elezioni europee del 2014, le ottave dal 1979, si sono tenute a maggio nei 28 Stati membri dell’UE hanno dato chiara visibilità al formarsi e crescere di una rivolta sociale. In particolare la crisi dell’eurozona, che ha colpito tutti i paesi europei e in particolare i paesi dell’Europa del sud e l’Irlanda, ha prodotto una diminuzione significativa del consenso popolare per le politiche di austerità imposte dalla Troika, e portato la sfiducia dei cittadini in tutti i paesi membri verso i trattati e le istituzioni europee a un massimo storico. Indagini campionarie svolte prima delle elezioni avevano segnalato chel’approvazione dei greci per le misure di Bruxelles era diminuita dal 32 per centodel 2010 al 19 per cento nel 2013, e in Spagna dal 59 per cento del 2008 al 27 per cento del 2023 (Gallup 8.1.2014). Giudizi positivi sulle élite di Bruxelles sono espressi da 4 paesi membri su 28 (Huffington Post, 20.1. 2014).
La ‘vocazione democratica’ dell’élite di Bruxelles è ben messa in luce dalle reazioni che questi dati hanno provocato. ‘Reazioni infondate e dovute all’estremismo di destra e di sinistra’, secondo il presidente della CE José Manuel Barroso che è solito volare alto con il suo pensiero; e quelle più terrene del ministro degli esteri tedesco Frank- Walter Steinmeler secondo cui le forze centrifughe messe in moto dalla crisi sono “pericolose” e gli euroscettici “senza cervello”. Con l’avvicinarsi delle previsioni alla data delle elezioni si è andato prefigurando un quadro che ha visto aumentare le posizioni degli oppositori alle politiche di Bruxelles dal 12 per cento al 16 – 25 per cento con il diffondersi della preoccupazione delle classi dirigenti per il rafforzarsi dei partiti euroscettici, anche se la stampa di regime era tutta impegnata a dimostrane l’inconsistenza numerica e ideologica.
Il messaggio alla vigilia delle elezioni è stato quello di votare sui temi europei e per il Parlamento europeo, senza lasciarsi coinvolgere dai malumori verso le politiche dei governi nazionali. Si è cioè tentato in modo maldestro e poco lusinghiero per i partiti nazionali di scaricare su di loro le colpe della crisi e delle politiche adottate denunciandone implicitamente il ruolo di portaborse. Messaggio in gran parte pervenuto poiché i partiti euroscettici e di opposizione si sono concentrati sui temi europei uscendo dall’ambito specifico nazionale, e affrontando i temi nodali del potere della finanza, del centralismo burocratico di Bruxelles, degli errori nel processo d’integrazione che anziché favorire la cooperazione in Europa ne ha distrutto le basi stesse del progetto.
I risultati di questo confronto politico sono noti. Quasi la metà dei cittadini europei non ha partecipato alle elezioni per dimostrare il proprio dissenso da Bruxelles.Astensione particolarmente accentuata nei paesi dell’est dei quali si erano decantati gli entusiasmi europeisti a dimostrazione della giustezza delle politiche adottate dalla CE. I votanti in Slovacchia sono stati il 13 per cento, intorno al 20 per cento nella Repubblica Ceca e in Polonia, e al 30 per cento in Romania, Bulgaria e Ungheria. Negli altri paesi la percentuale ha oscillato nella media intorno al 50 per cento ma il dato più importante è che per la prima volta i partiti critici verso l’élite di Bruxelles hanno raggiunto posizione di guida politica nei rispettivi paesi: Danimarca, Gran Bretagna, Francia, ecc. A questo punto si registra il paradosso.
Il quadro europeo uscito dalle elezioni è chiaro. Solo due paesi esprimono, anche se con forti astensioni, la loro piena soddisfazione per i piani integralistici pantedeschi europei: la Germania e l’Italia. In Germania vincono i conservatori della Merkel e in Italia quella lobby di interessi massonici e corporativi coalizzata nel Pd. Se il Pd avesse portato i suoi voti nell’ambito delle opposizioni al progetto pantedesco dell’Europa si sarebbe creata l’occasione storica di rimettere in discussione su basi solide il progetto europeo di pace e cooperazione contro quello della competizione e della guerra sostenuto dai conservatori e liberali. Se le “teste scambiate” dei vari partiti di sinistra arrivati al parlamento europeo avessero saputo riconoscere le scelte della volontà popolare espressasi nei vari paesi, ovviamente canalizzatasi verso quei partiti che sulle politiche europee avevano espresso il proprio dissenso, si poteva costruire un fronte di opposizione alla Troika che avrebbe impedito lo sconcio dell’elezione del nuovo presidente dell’UE e del consolidarsi del potere della BCE. Ma così non è stato. Il Pd ha scelto la strada della “grande coalizione” con liberali e conservatori, insieme al resto della socialdemocrazia europea. Si realizza così il patto Berlino-Roma nel quale, come negli anni Venti, confluiscono gli interessi della Germania, certamente dominante, con la stampella italiana di mussoliniana memoria oggi impersonata da Renzi nella speranza di ricavare qualche briciolo di dividendo da questo tradimento degli interessi dell’Europa.
Le élite europee, su comando dei padroni della finanza internazionale gestiti sapientemente da Mario Draghi, stanno così riscaldando i motori che porteranno al disastro del progetto europeo e dei paesi dell’Europa del sud, compresa l’Italia. Nulla è cambiato nel funzionamento della Commissione Europea. La BCE sta portando avanti coerentemente i suoi piani di esproprio dei risparmi degli europei completando l’operazione iniziata nel 2008, e introducendo misure – l’Unione Bancaria – che mettono nelle mani della peggiore finanza speculativa il sistema bancario europeo.
Di questo fa parte lo smantellamento di tutte le forme anomale – perché cooperative e di sostegno dei sistemi produttivi locali – come le Banche Popolariecc (leggi anche Governo, capitali e banche impopolari). Le recenti misure di allargamento del credito predisposte dalla BCE non solo non rispondono a nessuno dei problemi urgenti posti dalle economie dell’Europa del sud, ma sfacciatamente mettono a disposizione del sistema finanziario una quota prestabilita (del 20 per cento) per il riciclaggio dei titoli speculativi e il finanziamento delle operazioni dell’alta finanza utili anche a salvare le proprie banche dal collasso, lasciando il restante 80 per cento a carico degli stati nazionali. Ma non per tutti ovviamente, e quindi la Grecia va tenuta fuori.
Come nelle precedenti crisi mondiali la reazione e la proposta di uscita dalla crisinon avviene nei paesi forti dove questa era attesa (Francia e Italia) ma nei punti deboli del sistema (la Grecia e la Spagna). Le élite politiche e imprenditoriali di Francia e Italia sono pronte a prostituirsi per avere i resti del dividendo delle guerre e delle rapine finanziarie; il che non salva i ceti colpiti dalla crisi dallo scivolamento graduale verso la povertà e la miseria, ma forse riesce a tenere il consenso di qualche settore del pubblico e del sindacato della grande industria.Potrà la Grecia, lasciata sola, affrontare l’arroganza e lo strapotere della finanza internazionale e della Germania?
La proposta del nuovo governo greco riproduce il testo di una proposta bene elaborata (A modest proposal) rivolta ad alleggerire con la solidarietà europea il peso della crisi verso il proprio paese. Una proposta di certo fattibile e realistica che indica anche gli strumenti a disposizione dell’UE, per risolvere la crisi. Tuttavia, come feci osservare al momento della sua presentazione al seminario nell’Università di Austin negli Stati Uniti organizzato da James Galbraith, è pensabile che la UE e la BCE rivedano i propri piani di rapina in base a considerazioni di buon senso? Una spinta più forte forse potrebbe. Come abbiamo scritto nel testo Un Europa possibile: dalla crisi alla cooperazione (Amoroso e Jespersen, Castelvecchi 2012) un fronte unito di paesi dell’Europa del sud (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia) avrebbe di certo maggiori capacità di pressione e negoziazione per arrivare a una “modesta proposta” capace tuttavia di alleviare la gravità della crisi sui ceti più colpiti e il peggio che si annuncia.
Un fronte di paesi che avrebbe la forza di imporre una rinegoziazione dei trattati europei, togliere le misure inique del fiscal compact e del Patto di stabilità, tirare fuori l’UE dalla spirale di guerre innescata dagli Stati Uniti. Una proposta che salverebbe l’Europa dal collasso inevitabile verso il quale si è avviata. Per far questo è importante che la sinistra e le altre forze che hanno espresso la loro opposizione ai piani della Troika si uniscano superando le divisioni partitiche e le etichette di destra e di sinistra che oggi servono solo a dividere i popoli europei.
La democrazia si riconquista dando voce al popolo, con buona pace di chi ama tuttora discettare sul “disagio” della democrazia.