La Repubblica, 25 febbraio 2015
IL PRESIDENTE del Consiglio lancia l’ambizioso progetto “la buona scuola”. Lo fa alla fine di una consultazione con i diretti interessati (alunni, docenti e famiglie) che egli stesso ha giudicato un evento unico, non solo nel nostro Paese. In una recente puntata di Piazzapulita si è avuto modo di capire che le cose non stanno proprio in questi termini: l’ascolto è stato pilotato e molti temi concreti che le scuole statali hanno urgente bisogno di discutere e risolvere non hanno avuto centralità, anche perché poco attraenti.
Prima di tutto perché lo Stato ha dichiarato di non potere coprire le spese delle sue scuole. È come se dicesse: non possiamo garantire i diritti civili perché non abbiamo soldi a sufficienza per sostenere i tribunali. Non ci sono fondi a sufficienza. Ma se lo Stato (e i suoi organi amministrativi) finanziasse solo le sue scuole, come la Costituzione gli comanda, i soldi non sarebbero un problema così emergenziale. A fine gennaio l’Espresso ha dedicato al depauperamento della scuola statale un’inchiesta ben fatta. Eccone il senso: “Settecento milioni l’anno di denaro pubblico vanno ad aiutare gli istituti paritari, mentre lo Stato non ha soldi neppure per rendere sicure le aule. Un flusso che parte dal ministero dell’Istruzione, dalle Regioni e dai Comuni e finisce senza controlli ad enti privati di scarsa qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame”. Governatori e sindaci, continua l’Espresso, alimentano un fiume carsico di denaro pubblico per le private, un federalismo scolastico che si somma alla sovvenzione ministeriale. L’articolo 33 della Costituzione è raggirato, e non da oggi, con l’escamotage degli aiuti alle famiglie. La Costituzione sembra non avere forza, sembra parlare la lingua dei sogni, ma non di quelli che piacciono a chi la dovrebbe attuare.
E il progetto detto “buona scuola” non cambia questo trend privatistico, ma lo legittima, lo regolamenta e lo stabilizza. Lo ha confermato proprio il presidente del Consiglio in conferenza stampa: «In futuro chiederemo autonomia anche dal punto di vista economico, così che una parte della dichiarazione dei redditi possa andare a una singola scuola». Ovvero, chi non ha figli si sentirà libero di non dare alcun contributo alla scuola pubblica, trattata come la religione o i partiti politici: oggetto di libera scelta individuale. Benché la scuola sia un bene pubblico, non privato che si può scegliere o non scegliere. La logica che guida questo progetto è opinabile: prima di tutto perché associa la tassazione per beni pubblici al consenso individuale — questo è esattamente quanto dagli anni Settanta sono andati predicando i teorici liberisti; questa è stata la filosofia che ha guidato i governi Reagan. E il reaganomics è la direzione di marcia del nostro governo sulla scuola statale.
Lo Stato si impegna a istituire e sostenere scuole di ogni ordine e grado: lo Stato, non i singoli secondo la loro personale preferenza e decisione. È evidente che il governo cerca di vendere il prodotto appellandosi all’autonomia scolastica. Ma legare il destino della scuola statale alle preferenze individuali non è una condizione di autonomia ma di assoluta dipendenza dal privato. È stupefacente come non si crei un dibattito serio e ragionato su temi così rilevanti, come le rivendicazioni della minoranza nel Pd non sappiano tradursi in contro-proposte che incalzino la maggioranza con argomenti efficaci. La dialettica sarebbe di aiuto al governo che potrebbe voler accettare la sfida della discussione e migliorare la sua proposta. In questo momento, i cittadini restano fuori del palazzo, inascoltati e fortemente critici. Organizzano convegni, lanciano petizioni, firmano documenti, ma la loro voce non ha risonanza. Non hanno rappresentanti nei partiti e non hanno nel Parlamento un interlocutore. Politica costituita e opinione dei cittadini marciano su binari paralleli.
Grecia. Non mancano critiche ma all’interno di Syriza si loda la «praticità» del premier
Alexis Tsipras per evitare che il suo governo fosse una «parentesi di sinistra», come vorrebbero l’ ex premier Samaras e la maggioranza dei partner europei, ha preferito svoltare. Una «retromarcia di destra» come viene descritta dagli avversari interni al partito del premier, realistica e «di dignità» secondo il Megaro Maximou, sede di governo.
Tra pragmatismo e idealismo su una cosa sono d’ accordo ambedue le correnti della sinistra radicale greca. Il prolungamento del negoziato e il pericolo di un tracollo finanziario in Grecia avrebbero provocato uno scontro frontale tra il neo governo e i creditori internazionali. Ad Atene immagini simili a quanto era successo a Cipro nel marzo del 2013 con le lunghe file di fronte ai bancomat sarebbero inevitabili. Al di là di questa valutazione comune, le strade tra le due correnti si separano. Gli «inconciliabili» credono che una fuoriuscita della Grecia dall’Ue metterebbe i greci in salvo, senza tener conto che la competitività del Paese rimane bassissima; i realisti fanno notare che il governo del Syriza-Anel continua a trattare. «È meglio un Grexit che una continuazione perenne dello stato dell’ impoverimento attuale» sostiene l’economista e giornalista Leonidas Vatikiotis. Per aggiungere ciò che si sente molto in questi giorni da chi critica l’operato del governo: «il contenuto dell’ accordo di Bruxelles non deve essere paragonato con il programma del governo precedente, ma con il programma pre-elettorale del Syriza».
In realtà ministri e dirigenti del Syriza vicini al premier non nascondono il loro imbarazzo. Ciò che maggiormente ha colpito a livello morale è stata la reazione di Manolis Glezos. «Probabilmente Glezos era deluso per la mancata elezione a presidente della Repubblica» sostengono alcuni che conoscono da vicino il simbolo della resistenza greca contro i nazisti. Ieri Tsipras ha parlato telefonicamente con vari dirigenti del suo partito che si sono opposti all’accordo di Bruxelles, si è incontrato con Mikis Teodorakis a casa sua, ma non ha voluto scambiare una parola con il suo maestro Manolis.
Critiche sono arrivata anche da parte dei comunisti del Kke, che venerdì prossimo organizzeranno una manifestazione alla Platia Syntagmatos di fronte al parlamento per denunciare l’accordo di Bruxelles, mentre secondo il Pasok il governo «rimane senza finanziamenti fino al giugno».
Con il via libera dell’ Eurogruppo alla lista delle riforme greche la Borsa di Atene ha registrato ieri un rialzo record (9,81%), ma questa buona notizia non viene vista da alcuni media internazionali che fino a ieri continuavano a parlare della fuga dei capitali greci all’ estero. «Negli ultimi giorni sono stati prelevati dalle banche greche 500 milioni di euro al giorno… i soldi prelevati in fretta in parte sono finiti addirittura in Svizzera, dove i greci avrebbero depositi per 60 miliardi di euro» ha scritto pochi giorni fa il sito de Il sole 24 Ore, senza spiegare chi sono quelli che hanno questi soldi. Il sottinteso è chiaro: «i greci, piccoli e grandi risparmiatori» per il timore della sinistra radicale ritirano le proprie economie.
Le cose non stanno propriamente cosi. C’è stato un calo dei depositi bancari dai 160 miliardi (ultimo dato ufficiale del dicembre scorso) a 145 miliardi, secondo le stime a metà febbraio. Ma a sentire gli economisti, «i capitali fuggiti all’ estero non appartengono ai piccoli correntisti, bensì ai soliti evasori fiscali. I dipendenti pubblici e i pensionati non hanno soldi sufficienti per sopravvivere, figuriamoci se hanno dei soldi a parte».
A confermare l’identikit dei risparmiatori che hanno fatto fuggire i loro «risparmi» all’estero è il ministro dello Stato, adetto alla lotta contro la Corruzione, Panagiotis Nikoloudis, già procuratore della Corte suprema che ha preparato una lunga lista di 3.500 nomi, sospetti di aver evaso fiscalmente e di aver riciclato denaro sporco. Si tratta di persone sopra ogni sospetto dalla casta dei businessmen (proprietari di catene di supermercati e di negozi di abbigliamento, armatori) e dei liberi professionisti (medici, farmacisti, ingegneri civili, ecc.) che di crisi ne hanno capito poco, con depositi bancari che vanno oltre ai dieci milioni, mentre alle autorità si dichiarano «poveri» con introiti che non superano le poche migliaia di euro. Sono gli stessi che risultano irreperibili oppure descritti con il termine generico «greci» nei servizi di una parte della stampa internazionale
GRECIA: SÌ DELL'EUROGRUPPO, MA CON RISERVE
di Anna Maria Merlo
Gli esami non finiscono mai per la Grecia. Ieri, l’Eurogruppo ha finalmente approvato la “lista” presentata da Atene lunedi’ notte, proprio allo scadere dell’ora limite (“ho ricevuto una mail alle 23,15” ha precisato il presidente Jeroen Dijsselbloem). L’Eurogruppo ha seguito il parere favorevole dei creditori — Ue, Bce e Fmi — espresso in mattinata. Ma, ha spiegato il commissario agli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, questo “non significa che siamo d’accordo su queste riforme, siamo pero’ d’accordo sull’approccio, abbiamo evitato una crisi, ma restano numerose sfide di fronte a noi”. Sulla carta, la Grecia ha quattro mesi, fino a fine giugno, per ridiscutere la questione del debito con le “istituzioni”, il nuovo nome del trio Ue-Bce-Fmi, che ha sostituito l’odiato termine di “trojka”.
Ma, intanto, per avere la certezza che dal 28 febbraio, data di scadenza del secondo piano di aiuti (130 miliardi), ci sarà l’estensione di quattro mesi, bisogna che il progetto passi nei parlamenti dei quattro paesi che prevedono un voto ogni volta che vengono impegnati denari pubblici. Sono Olanda, Finlandia, Estonia e Germania. Il Bundestag vota venerdi’, Wolfgang Schäuble ha scritto ai deputati per invitarli ad approvare il piano, in caso di via libera da parte dell’Eurogruppo. Ma, ha precisato ieri il suo portavoce Martin Jaeger, “la lettera di Atene non conduce a soluzioni sostanziali”.
Riserve sono state emesse anche dall’Fmi: si tratta di un “valido punto di partenza”, ma “in vari settori” mancano rassicurazioni su riforme che erano state imposte dal Memorandum (aumento dell’Iva, abbassamento delle pensioni, privatizzazioni, riforma al ribasso del lavoro). Anche l’Eurogruppo, dopo l’approvazione, ha voluto aggiungere delle raccomandazioni: la Grecia deve “sviluppare e ampliare la lista delle riforme, sulla base del presente accordo, in stretta cooperazione con le istituzioni, per permettere una conclusione rapida e favorevole dell’esame”. Difatti, per il versamento dell‘ultima tranche di circa 7 miliardi di euro per la Commissione “sono attese ulteriori precisazioni sulle riforme e saranno concordate fino a fine aprile, in linea con quanto prevede la dichiarazione dell’Eurogruppo della scorsa settimana”. I creditori staranno attenti sulla promessa di lotta alla corruzione e all’evasione, vecchie richieste della trojka e promesse che i predecessori di Tsipras non erano riusciti a mettere in atto.
Il governo Tsipras ha dovuto correggere a più riprese la “lista” da presentare a Bruxelles. Il draft del comunicato ha fatto varie volte l’andata e ritorno tra Bruxelles e Atene, tra venerdi’ e lunedi’. La Grecia ha dovuto annacquare molto la proposta. Jean-Claude Juncker, per esempio, ha escluso un aumento del salario minimo. Nel testo resta una frase vaga: si parla di “approccio intelligente della negoziazione collettiva sui salari” e “questo include la volontà di aumentare il salario minimo, preservando la competitività”, mentre l’ “aumento del salario minimo e il timing saranno decisi in concertazione con le istituzioni europee e internazionali”. Per Juncker, sarebbe stato “intenibile” politicamente un salario minimo greco maggiore di quello “di sei paesi della Ue” (tra cui Slovacchia e Spagna), che sono chiamati a contribuire all’aiuto ad Atene.
La Grecia ha incluso nella proposta dei riferimenti al programma di Syriza sull’aiuto ai più poveri, ma ha dovuto precisare che “la lotta alla crisi umanitaria non avrà effetti negativi sul bilancio”. Non ci sono dettagli su queste misure, finite in fondo al testo. Inoltre, sulle privatizzazioni, Atene ha dovuto accettare che non saranno revocate quelle già approvate e che non tornerà indietro neppure su quelle per le quali è già stato pubblicato il bando. Invece, “rivedrà quelle non ancora lanciate, puntando a migliorare i benefici a lungo termine”. Dijsselbloem, che in mattinata è stato ricevuto dalla commissione affari economici del Parlamento europeo, ha precisato che la lista è “un primo passo, ma c’è ancora molto da lavorare”. Il presidente dell’Eurogruppo si è anche interrogato sulla tenuta del governo Tsipras: bisogna vedere se “potrà fare quello che vuole”, ha detto.
L’Eurogruppo si è soprattutto preoccupato di ottenere dalla Grecia l’assicurazione che non verranno “prese iniziative unilaterali” e che ogni decisione sarà presa “in consultazione con le istituzioni europee”. Dijsselbloem è stato ancora più diretto: “ci deve essere una forte cooperazione, non si possono fare mosse unilaterali, almeno fino a quando Atene vuole nuovi fondi dall’Eurozona”.
La vera preoccupazione è di evitare un Grexit, che farebbe tremare tutto l’edificio dell’euro. Per Christine Lagarde, alla testa dell’Fmi, “l’uscita della Grecia dell’euro è fuori discussione, faremo di tutto per aiutarli” (in questo e solo in questo)
Se c'è ancora chi non ha compreso che cos'e di nefasto il regime instaurato dal partito do Renzo Renzi, e ha deciso di non voler cambiare idea non legga questo lucidissimo, accorato articolo. LaRepubblica, 25 febbraio 2015
Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.
Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.
L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia
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PIl manifesto, 25 febbrai 2015
Scisso tra le imposizioni europee e la dura concretezza dei fatti, il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan proprio qualche giorno fa ha ammesso, in un’intervista all’Espresso, che ciò che finora non ha funzionato nel governo Renzi sono state le privatizzazioni. Difficile, nonostante l’ideologia dominante cerchi di far pensare il contrario, non rendersi conto che, nella situazione economica attuale, disfarsi di pezzi dello Stato voglia dire svenderli al miglior offerente. Lo stesso discorso vale per la Grecia di Tsipras, dove le pressioni più forti sono per proseguire il processo di alleggerimento del patrimonio pubblico, anche se per fortuna più nessuno propone di mettere all’asta il Partenone.
Ben vengano, allora, messe a punto giuridiche, innanzitutto, di una materia che attiene al diritto pubblico. Alberto Lucarelli, professore all’Università Federico II di Napoli, è uno studioso di quei beni, pubblici per appartenenza ma da non lasciare alla gestione statale, che vengono definiti “comuni”. Accorto a non sganciare mai la teoria dalla tecnica giuridica, di fronte all’esondare di definizioni che rischiano di annacquare definitivamente il potenziale antiprivatizzatore, e dunque antiliberista, dei beni comuni, lo studioso partenopeo ha sentito l’esigenza di perimetrare il campo d’azione, partendo dalla commissione Rodotà dalla quale tutto era cominciato, qualche anno fa. Lo ha fatto con un lungo articolo pubblicato sulla rivista on line Costituzionalismo (si può leggere integralmente su www.costi tuzionalismo.it), nel quale, affrontando la questione del demanio pubblico, ne fa un terreno d’azione della dottrina dei beni comuni.
Ferma restando la proprietà pubblica, dunque, cos’è che distingue un bene comune dagli altri? Lucarelli respinge la dottrina della “terza via”, né statale né privata, della proprietà di suddetti beni, ma è convinto che, piuttosto che la questione proprietaria, debba porsi quella della funzione: i beni comuni non sono gestiti dallo Stato ma neppure possono scadere nella logica della concessione, che sostanzialmente privatizza il bene. Ciò che è fondamentale è la loro funzione sociale, a beneficio di una comunità che non è quella delle «piccole patrie» ma è interpretata, con il filosofo Roberto Esposito, come «composta da soggetti attraversati da una differenza e legati dalla medesima urgenza di fruire del bene». Un legame funzionale, dunque, non escludente e neppure legato a un territorio, non proprietario ma inteso come «un dono nei confronti degli altri». È quest’ultimo aspetto, per Lucarelli, che apre le porte a una nuova funzione del diritto pubblico ed è il modo per superare una concezione dello Stato che, oggi che ci troviamo in pieno «ciclo del privato», per dirla con lo storico Paul Ginsborg, segna il passo.
Un lavoro prezioso, dunque, che definisce gli strumenti, teorici e concreti, per un’alternativa reale e li mette a disposizione delle Syriza e dei Podemos di casa nostra che intendano servirsene/l2:r
A leggere il comunicato di presentazione del corso di “alta formazione!” politico-istituzionale Eunomia in svolgimento in queste settimane a Firenze, c'è da stropicciarsi gli occhi per l'incredulità.
Sembra piuttosto un promo della novella di Ser Ciappelletto nel “Maraviglioso Boccaccio” dei fratelli Taviani in uscita sugli schermi proprio nello stesso periodo: chi chiamare a illustrare la “santità” dei comportamenti che asservono il ruolo degli enti pubblici agli interessi corporativi di aziende, cooperative, gruppi di interesse economico e/o politico-ideologico-religioso, se non coloro che più attivamente si sono adoperati a praticarli nel passato più o meno recente?
Su questo terreno si è costruita anche la carriera politica di Maurizio Lupi, ancor oggi dirigente in aspettativa per mandato politico di Fiera di Milano Esposizioni, dove era approdato all'epoca dell'incontrastata egemonia ciellina sui vari rami dell'Ente Fiera durante tutta la lunghissima presidenza di Roberto Formigoni alla Regione Lombardia. Questa veste lo ha reso particolarmente indicato a ricoprire il ruolo di assessore all'urbanistica del Comune di Milano nella Giunta Albertini, in modo da poter tutelare particolarmente gli interessi immobiliari di Fondazione Fiera (ente di cui formalmente non faceva parte e pur nell'ambito di una più generale favorevole disposizione d'animo verso l'immobilarismo milanese) promuovendone la migrazione verso il polo esterno di Rho-Pero e aprendo la strada al riuso immobiliare della vecchia sede, concluso dal suo successore ciellino Masseroli durante la Giunta Moratti con la concessione di un milione di metri cubi , metà in tre torri di oltre 200 metri di altezza che in inverno oscureranno le case vicine per l'intera giornata e metà in lussuosi condomini ammassati al loro piede. L'operazione fruttò a Fondazione Fiera il doppio del prezzo corrente atteso (523 milioni di € anziché 250), ma costringendo il Comune a monetizzare più della metà degli spazi pubblici mancanti al prezzo convenzionale di 300€/mq, invece che al prezzo di mercato di 2.000 €/mq ottenuto da Fondazione Fiera. Con quel surplus Fondazione Fiera cominciò ad acquistare a prezzo agricolo le aree contigue al nuovo polo di Rho-Pero, su cui oggi sta per avere inizio l'evento EXPO 2015 e di cui si discute la valorizzazione immobiliare successiva.
Finito di esercitarsi in queste vicende milanesi, dal 2001 Lupi si trasferisce al Parlamento come deputato di FI dove intesse una sino ad allora inedita convergenza bi-partisan col deputato milanese della Margherita, e poi PD, Pierluigi Mantini per proporre un disegno di legge urbanistica ispirato al principio della “consensualità” degli atti amministrativi tra enti pubblici e proprietà fondiario-immobiliare (e da loro connotato come “passaggio dall'urbanistica all'economistica”), desunto dalle istruttive esperienze amministrative e legislative in materia urbanistica milanese e lombarda. Dal 2013, prima con Letta per il PdL e poi con Renzi per NCD, è Ministro delle Infrastrutture e Trasporti distinguendosi non solo per i rapporti cordiali e servizievoli con i concessionari di opere statali, ma anche per essere tornato a proporre un gruppo di studio sull'urbanistica “consensuale” con le proprietà fondiario-immobiliari.
Anche in questo caso, di fronte a tanta capacità di adattamento della subordinazione del ruolo pubblico agli interessi privati, non si può che apprezzare l'opportunità della scelta di Eunomia di chiamarlo a diffondere ad altri la sua esperienza, augurando al Sindaco di Firenze Nardella, nonostante la sua più breve carriera, di saper stare al pari di tanto esperto!
Per capire perché la battaglia del nuovo governo greco di Alexis Tsipras riguarda tutti i cittadini europei – e in particolare quelli della periferia – dobbiamo innanzitutto tenere a mente che la rinegoziazione del debito non è per Syriza un fine a sé stante, combattuto in nome di un astratto principio di giustizia economica, ma piuttosto un mezzo per realizzare un obiettivo molto preciso: la riduzione dell’avanzo primario dal 4-5% richiesto dalla troika (oggi è intorno al 3%) all’1-1.5% del Pil. Per avanzo primario si intende un bilancio pubblico in positivo, esclusa la spesa per interessi sul debito pubblico: sostanzialmente vuol dire che le entrate (le tasse) superano le uscite (la spesa pubblica). Il motivo per cui un governo sceglie di perseguire un avanzo primario è solitamente quello di destinare il surplus di entrate al pagamento degli interessi sul debito, nella speranza di ridurre un po’ alla volta lo stock di debito.
Nel caso della Grecia questi interessi si aggirano intorno al 4% del Pil, a cui bisogna aggiungeregli obiettivi di riduzione del debito previsti dal Fiscal Compact (1/20esimo l’anno della porzione eccedente il 60% del Pil): considerando che la Grecia ha un rapporto debito/Pil pari al 177% si fa presto ad arrivare all’avanzo primario del 4-5% fissato dalla troika per la Grecia, che nel giro di un paio di anni dovrebbe salire addirittura al 7% (almeno fino al 2030). Se così non fosse, e senza una riduzione della spesa annuale per interessi – che è quello che chiede Syriza, attraverso una ricontrattazione del debito –, l’unica alternativa sarebbe quella di indebitarsi ulteriormente per continuare a ripagare gli interessi sul debito pregresso – che, in sostanza, è quello che vorrebbero la Germania e l’Eurogruppo, e che la Grecia si rifiuta di fare (“perché sarebbe come consigliare a un amico di farsi una seconda carta di credito per ripagare i debiti contratti con la prima carta di credito”, ha dichiarato Varoufakis).
E allora perché non fare come dice la troika e cercare di aumentare ulteriormente l’avanzo primario? Perché non potrà mai funzionare. Né dal punto di vista politico e sociale – la Grecia è già stremata da anni di brutali misure di austerità, e un incremento dell’avanzo primario potrebbe solo essere raggiunto attraverso ulteriori tagli alla spesa pubblica e/o aumenti di tasse, e dunque attraverso ulteriori misure di austerità –, né dal punto di vista economico: accumulare ampi avanzi primari è infatti considerato intrinsecamente recessivo, in quanto di fatto consiste nel sottrarre risorse all’economia reale per destinarle ai creditori, nazionali ed esteri (o, per dirla diversamente, nel sottrarre denaro ai più per alimentare le rendite di pochi). Se poi questa politica viene praticata in un contesto come quello europeo – di bassa inflazione (come quello che registra l’Italia) o addirittura di deflazione (come quello che registra la Grecia) e in assenza di una banca centrale in grado di agire da prestatrice di ultima istanza e di intervenire sui mercati sovrani per calmierare i tassi di interesse (e senza chiedere misure di austerità in cambio) – è puro masochismo, in quanto si può “consolidare” quanto si vuole, ma il debito continuerà inevitabilmente a salire sia in termini reali, a causa dell’effetto recessivo-deflattivo del cosiddetto moltiplicatore fiscale (ulteriormente esacerbato dalle misure di austerità), sia in termini assoluti, perché molti stati non sono in grado di accumulare avanzi primari sufficienti a far fronte agli interessi, e sono dunque costretti a indebitarsi ulteriormente solo per ripagare gli interessi sul debito pregresso (anche se con l’entrata in vigore del Fiscal Compact, che impone il pareggio di bilancio strutturale, questa strada in teoria non è più percorribile). E infatti, a fronte di alcune delle misure di austerità più estreme mai sperimentate in Occidente, nella maggior parte dei paesi dell’eurozona (soprattutto quelli della periferia) il debito continua a lievitare a ritmi vertiginosi.
Questo non è un problema che riguarda solo la Grecia, infatti: in tutti i paesi della periferia la spesa per interessi si aggira tra il 3.5 il 5% del Pil. Il caso dell’Italia è paradigmatico: nonostante il paese registri un avanzo primario fin dai primi anni novanta, il nostro debito pubblico è continuato a salire unicamente a causa della spesa per interessi – che oggi si aggira intorno al 4.5% del Pil, pari a poco meno di 80 miliardi l’anno – per poi esplodere negli ultimi anni. Ora, in base al duplice obiettivo del Fiscal Compact – pareggio di bilancio strutturale e riduzione del debito –, questi paesi dovrebbero mantenere da qui al 2030 avanzi primari da capogiro, come si può vedere nel seguente grafico: 7% in Grecia, 6.5% in Italia, 5.5% in Portogallo, 3.5% in Spagna.

Si tratta di una strada palesemente insostenibile – e che infatti non ha precedenti nella storia – sia dal punto di vista economico che dal punto di vista politico e sociale, per l’entità dei tagli alla spesa pubblica o dell’imposizione fiscale che essa comporterebbe: se consideriamo che lo stimolo fiscale implementato da Obama nel 2009 ammontava al 5.5% del Pil e che il New Deal di Roosevelt era pari al 5.9% del Pil, un avanzo primario delle dimensioni previste dal Fiscal Compact equivarrebbe per molti paesi a una sorta di anti-New Deal praticato ogni anno per i prossimi quindici anni (almeno). Una follia.
Ecco perché la battaglia di Syriza – che riguarda non tanto il debito pubblico in sé quanto le assurde imposizioni del Fiscal Compact in termini di avanzi primari – riguarda tutti i paesi della periferia. E soprattutto l’Italia.
LE RECENTI vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Walter Benjamin, e cioè che «ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al contempo testimonia di un potenziale rivoluzionario, un malcontento che la sinistra non è stata in grado di mobilitare. Non vale lo stesso per il cosiddetto «islamofascismo» di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è forse in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Taliban si impadronirono della valle dello Swat in Pakistan, il New York Times riferì che essi avevano architettato «una rivolta di classe sfruttando le profonde divisioni tra un gruppo ristretto di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra».
È un’osservazione di senso comune che lo Stato Islamico sia solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di risvegli anticoloniali (stiamo assistendo alla riconfigurazione dei confini tracciati arbitrariamente dalle grandi potenze dopo la Prima guerra mondiale), e allo stesso tempo un nuovo capitolo della resistenza ai tentativi del capitale globale di minare il potere degli Statinazione. A provocare tanto timore e sgomento è invece un altro tratto del regime dello Stato Islamico: le dichiarazioni delle autorità dell’Is indicano chiaramente che, a loro giudizio, l’obiettivo principale del potere statale non è il benessere della popolazione (sanità, lotta alla denutrizione ecc.) — ciò che realmente conta è la vita religiosa, che ogni aspetto della vita pubblica si conformi ai precetti religiosi. È per questo che l’Is rimane più o meno indifferente alle catastrofi umanitarie che avvengono all’interno dei suoi confini — il suo motto è «occupati della religione e il benessere provvederà a sé stesso». Qui appare lo scarto tra l’idea di potere praticato dall’Is e il concetto, occidentale e moderno, di «biopotere», di potere che regola la vita: il califfato dell’Is rifiuta totalmente la nozione di biopotere.
«Per il segretario della Fiom "la maggior parte del Paese, quella che per vivere deve lavorare, non è rappresentata". Il sindacato, quindi, "deve porsi il problema di una coalizione sociale"». Il Fatto quotidiano, 22 febbraio 2015
Sembra che non stia parlando di un governo di sinistra.
«Renzi dice di essere il nuovo, ma non siamo di fronte alle idee geniali di un giovane rampante. Si tratta, invece, delle direttive impartite dalla Bce con la famosa lettera del 2011 e che il governo sta applicando fedelmente. Bisogna aver chiaro quello che sta succedendo.
Su questo terreno la Cgil si è mobilitata e, visto che parliamo di temi europei, abbiamo visto la vittoria di Tsipras in Grecia. Le risposte, finora, non sono state efficaci.
«La situazione è complicata e difficile, questo è sotto gli occhi di tutti. Credo che ci sia bisogno di un coinvolgimento straordinario di tutti anche fuori dai luoghi di lavoro e una grande consapevolezza di quello che sta avvenendo. Non era mai avvenuto nella storia d’Italia che con leggi si cancellasse il diritto del lavoro. Cambiano radicalmente i rapporti di forza e le relazioni sindacali.
Serve dunque una risposta politica?
Occorre avere consapevolezza della situazione. Noi abbiamo innanzitutto bisogno di riconquistare un vero Statuto dei lavoratori di tutti, davvero tutti, i lavoratori. Per questo la Cgil ha avviato una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare senza escludere la possibilità di un referendum.
Si farà?
«Io penso di sì. Il direttivo ha indicato un percorso scegliendo una consultazione di tutti gli iscritti, che sono oltre 5 milioni. Ma la definizione del nuovo Statuto è un percorso che deve coinvolgere anche i non iscritti, perché parliamo della dignità delle persone. Renzi ha preso il programma di Confindustria e lo sta applicando senza che nessun italiano abbia potuto votarlo. Ma su questi temi non ha il consenso della maggioranza della popolazione. Vorrei sfidare Renzi a una verifica democratica».
A cosa, allora?
«Occorre la rappresentanza di quegli interessi. Apriamo questa discussione esplicitamente. Per quello che riguarda la Fiom dobbiamo rivolgerci a tutto ciò che è rappresentanza sociale, non solo i lavoratori. C’è tutto un mondo che si deve porre il problema di come affrontare questo nuovo quadro».
Il manifesto, 22 febbraio 2015
Ad essere colpito dalla furia restauratrice del governo Renzi è anzitutto il potere del lavoro e di conseguenza i diritti dei singoli dipendenti si spengono come degli astratti postulati morali. Il segno di classe della riforma strutturale varata dal governo l’ha colto bene l’Ocse che, in uno sperticato elogio delle misure renziane, le ha santificate come l’eden resuscitato della bella volontà di potenza dell’impresa. Nel documento l’Ocse spiega le ragioni del suo innamoramento totale: «accrescendo la prevedibilità la norma riduce i costi reali dei licenziamenti, anche quando sono giudicati illegittimi dai tribunali e incoraggia le imprese». Sono felici soltanto perché il governo ha reso meno costosa la facoltà licenziare.
Quest’assalto normativo alla civiltà del lavoro, con la riduzione del costo del licenziamento, secondo l’Ocse, è una divina benedizione che accrescerà la produttività perché, eliminando del tutto la possibilità del reintegro per l’esclusione dall’impiego per motivi illegittimi, e riducendo anche l’importo dell’indennizzo dovuto a chi viene gettato sul lastrico, il Jobs Act sollecita il risveglio immediato degli spiriti animali del capitalismo. Senza la sbrigativa libertà di licenziare, il capitale non riesce più a investire, a innovare, a competere. E quindi, il piano della nichilistica espropriazione del lavoro, continua ad essere perseguito come la variante più allettante per rilanciare l’accumulazione in un paese che si accasa definitivamente nelle periferie del capitalismo globale e che per il suo de te fabula narratur guarda ormai all’Albania.
La filosofia del renzismo si compie nel segno di una integrale decostituzionalizzazione del lavoro. E la sua genuina essenza ideologica è contenuta nella celebre formula sulla libertà dell’imprenditore di licenziare come segno di una grande innovazione destinata a fare epoca. La nuova legislazione, in effetti, è il cuore delle stravolte riforme post-moderne, quelle capovolte costruzioni giuridiche che sopprimono tutele e piccole libertà dal bisogno e assegnano proprio al soggetto già economicamente più forte il diritto di schiacciare il contraente più debole della relazione lavorativa.
Le condizioni sociali della modernità sono basate geneticamente sul differenziale di potere tra capitale e lavoro. E il diritto del lavoro, nato dallo scontro politico della società di massa, cercava di correggere con gli interventi della legislazione gli squilibri sociali più macroscopici conferendo poteri correttivi al lavoro come potenza sociale collettiva. Ora il diritto muta di segno. E’ costruito il diritto del più forte, cioè è scolpito anche sulla norma il potere legale sanzionatorio del capitale sul lavoro. Quando all’impresa si concede il diritto di licenziare il dipendente anche per un solo giorno ingiustificato di assenza, le si consegna un’arma di coercizione sproporzionata rispetto all’entità dell’illecito. E’ la pura forza dell’avere che succhia l’essere della persona che lavora, nel silenzio della cornice pubblica. Ma Rousseau spiegava che il diritto del più forte non è mai diritto. E quello scritto da Renzi è infatti la pura e semplice sanzione ufficiale e formale del dominio di fatto dell’impresa sulla forza lavoro ridotta a variabile inanimata.
Ad dominio del capitale, scritto già a chiare lettere nelle oggettive leggi dell’economia e confermato nelle anonime regolarità imposte dalla divisione sociale del lavoro, si aggiunge anche la norma di stampo classista che annichilisce la relativa autonomia conquistata nel Novecento dalla legislazione pubblica nel correggere le asimmetrie del rapporto sociale con norme dettate dal senso civile e morale di un’epoca democratica. Il giudice deve ammainare gli strumenti romantici con i quali inseguiva il miraggio della costituzionalizzazione dei rapporti di lavoro. Sebbene con strumenti coercitivi scarichi, perché privi di sanzione effettiva verso l’impresa inadempiente, il giudice del lavoro aveva introdotto la legge e il contratto a più stretto collegamento con l’essere del lavoratore. La bocca del giudice, nell’accertare la adeguata proporzione tra fatto e sanzione, ora si chiude dinanzi alla soverchiante potenza dell’avere, del capitale, che fa ciò che crede della forza lavoro, con il modico prezzo di una indennità.
Si disegna una individualizzazione crescente delle relazioni economiche imponendo un secco rapporto a due, da una parte sta il potere d’impresa che regna incontrastato e dall’altra il lavoro, soggetto ancor più precario appeso alla decisione d’azienda sui tempi, sui costi delle ristrutturazioni, sull’opportunità di un demensionamento di ruolo nel posto di lavoro. Lo scambio indecente tra un (solo) nominativo contratto a tempo indeterminato e un effettivo potere di licenziare senza giusta causa cambia in profondità i rapporti di forza dentro i luoghi di lavoro. Il sindacato è invitato a uscire dalla fabbrica o dall’ufficio, non essendo più rilevante il potere delle organizzazioni nel trattare le condizioni delle ristrutturazioni, degli esuberi, dei tempi, delle mobilità, dei licenziamenti collettivi.
Lo spiegava bene Spinoza: quando un soggetto cede un potere, non ha più le chiavi per rivendicare i suoi diritti. Non esistono infatti diritti fruibili senza una potenza collettiva che li sorregge. E l’attacco del governo è, con qualche perversa sistematicità, indirizzato contro le condizioni (sociali e sindacali) della potenza del lavoro. Strattonato dalle strategie d’impresa che lo rendevano una variabile sempre più precaria, il lavoro viene ora reso liquido anche dalla norma giuridica. Il pubblico si adagia alle esigenze funzionali dell’impresa privata e costruisce un diritto con moduli, tempi, risarcimenti monetari richiesti dal capitale. Con il suo turbo governo Renzi procede a passi di gambero verso l’Ottocento. Nella sua fabbrica entra solo il cartello che intima alla manodopera di perdere ogni speranza di riscatto e di non disturbare il padrone che dà l’opportunità di lavoro, e quindi va santificato.
Nel regime giuridico duale, cioè con la competizione innestata dalla norma diseguale che differenzia tra vecchi e nuovi assunti servendosi di profili discriminatori, l’impresa spera di ottenere maggiori potenziali di ricatto sul lavoro diviso e sotto minaccia in virtù di nuovi poteri dispositivi e sanzionatori. Con il suo Pier delle Vigne, la comandante dei vigili urbani di Firenze nominata sul campo capo dell’ufficio legislativo di palazzo Chigi, Renzi ha davvero posto fine al costituzionalismo della repubblica. Già sepolti i suoi soggetti politici (i partiti ideologici di massa), ora sono spenti anche i suoi soggetti sociali, il lavoro come sovrano della costituzione economica. E’ cominciata un’altra epoca nel segno della destra economica, cioè con lo sfacciato potere dell’impresa, con la sua giurisdizione privata spietata e senza contropartite. Il lavoro è sconfitto, ma non vinto
Uno strumento di autodifesa per chi vuole mantenere intatta la propria capacità di pensare, apprendere, valutate e quindi agire in modo sensato. Particolarmente utile in un'epoca in cui la manipolazione delle menti è diventa un sofisticato strumento di potere.
La Repubblica, 2 febbraio 2015
Liberi di criticare. Sono quasi dieci anni che all’università di Grenoble viene insegnata l’arte del dubbio. L’ateneo ha un corso di “Zetetica e Autodifesa intellettuale” frequentato da centinaia di studenti ma anche semplici curiosi, affascinati da una materia nuova e unica in Francia. La cattedra è guidata da Richard Monvoisin insieme ad altri insegnanti del Cortecs, Collectif de recherche transdisciplinaire esprit critique et sciences.
Com’è nata l’idea di un corso specifico?
«La zetetica, inventata da una scuola greca di scettici radicali nel IV secolo a. C., è stata riscoperta nel Novecento come investigazione scientifica su fenomeni paranormali da un americano di origini italiane, Marcello Truzzi, e poi dal francese Henri Broch. Dopo essermi laureato in didattica e scienze fisiche, ho fatto il mio dottorato con Broch. Mi sono accorto che la zetetica poteva essere una disciplina trasversale».
Su cosa si fonda questa disciplina?
«Partiamo sempre dall’analisi delle fonti, dalla ricerca su informazioni non verificate, dalla demistificazione di cifre o frasi vuote. Nel nostro collettivo ci sono specialisti di ogni disciplina, dall’informatica alla biologia, dalla medicina, all’economia, alle scienze politiche. Ormai ci sono corsi di zetetica anche a Marsiglia, Montpellier. Lavoriamo su temi diversi come il creazionismo o i gender studies, Internet aperto e la xenofobia in politica. L’obiettivo di Cortecs è mettere in rete contributi diversi, invitando altri esperti a dialogare con noi, in un processo evolutivo di conoscenza».
Perché nel titolo del corso si parla di “autodifesa intellettuale”?
«E’ una metodologia che combatte la manipolazione delle opinioni o l’emergenza di nuove forme di consenso. Come diceva Noam Chomsky, il pericolo è tanto più grande per chi studia e fa professioni intellettuali. Nel mondo accademico anglosassone c’è già chi insegna il critical thinking ».
È più facile oggi manipolare le opinioni?
«Sono nato nel 1976 e ho vissuto l’avvento di Internet come una benedizione. Ero convinto che le generazioni dopo di me avrebbero avuto accesso a ogni tipo di informazione. Oggi invece i giovani rischiano di annegare nella vastità della Rete oppure di accontentarsi di una rappresentazione parziale. Dietro una schermata di Google ci sono interessi economici che molti purtroppo ignorano. La pluralità delle fonti è uno dei punti di partenza. Se voglio farmi un’opinione su Vladimir Putin, ad esempio, cercherò di leggere testi francesi, russi e ucraini. Inoltre, la rapidità nella diffusione delle informazioni rende ancora più facile errori di analisi. Suggerisco ai miei alunni di aspettare almeno qualche settimana prima di prendere posizione su un evento. Insieme al dubbio, bisogna praticare un ritmo lento del pensiero».
La zetetica è una forma di scetticismo?
«Lo scetticismo è un atteggiamento filosofico che si può riassumere con la frase di Bertrand Russell: “Dammi una buona ragione di pensare quello che pensi”. La zetetica è la metodologia pratica dello scetticismo. Il nostro scopo è aiutare la libertà di pensiero dei cittadini».
Eppure i dubbi dilagano sul web, alimentando le teorie del complotto. Vi occupate anche di questo?
«Intanto non le chiamiamo teorie, ma scenari, miti moderni, perché non sono confutabili e dunque non rispettano il criterio di falsificabilità di Karl Popper. Quando ci troviamo di fronte a scenari complottisti, come quello sull’11 Settembre, non facciamo altro che usare nozioni di epistemologia, applicando il criterio di massima parsimonia o il cosiddetto “Rasoio di Occam” che prediligono spiegazioni dimostrabili e semplici. L’esercizio funziona quasi sempre».
Avete già affrontato il tema dell’informazione sugli attentati di Parigi?
«Cominceremo un nuovo ciclo questa settimana dal titolo “Censura e libertà di espressione”. Noi pensiamo che sia meglio pubblicare il libro di Eric Zemmour (popolare saggista francese contro l’immigrazione, n.d.r.) oppure autorizzare gli spettacoli di Dieudonné. Piuttosto che impedire a qualcuno di esprimersi, trasformandolo in una presunta vittima, è meglio diffondere strumenti critici e di analisi. La zetetica dovrebbe essere insegnata già nelle scuole ai bambini. Piuttosto che la censura, è meglio scommettere sull’intelligenza collettiva».
il manifesto, 21 febbraio 2015
UN ACCORDO TEMPORANEO
di Anna Maria Merlo
Eurogruppo . Intesa minima, per evitare un Grexident (un Grexit non voluto e programmato). Entro lunedi' Atene deve precisare gli impegni, giudicati troppo evasivi dai partner, Germania e alleati di ferro in testa, nella lettera di Varoufakis. Schäuble tentato della "lezione" ai trasgressori (Italia e Francia), utilizzando la Grecia come capro espiatorio
C’è un progetto di accordo all’Eurogruppo, un testo breve, che ha lo scopo di chiarire le differenze di interpretazione sulla crisi, che hanno portato allo scontro tra la Grecia, oggettivamente isolata sulla questione del «rispetto degli impegni presi», e i suoi 18 partner della zona euro: la Grecia deve presentare entro lunedì delle precisazioni. L’ipotesi di compromesso ha l’obiettivo di proteggere l’euro non tanto da un Grexit, che tutti escludono a parole, ma da un Grexident, cioè da un incidente che potrebbe arrivare senza che nessuno l’abbia veramente voluto o preparato. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha escluso ieri sera la convocazione di un vertice straordinario Ue domenica, ma si è detto pronto a convocarlo se necessario, come ha chiesto Tsipras.
Il testo, che dovrebbe servire da base per un prolungamento di quattro mesi del piano di aiuti alla Grecia, è stato redatto ai margini dell’Eurogruppo, prima che la riunione dei 19 ministri delle finanze della zona euro si aprisse (con un’ora e mezzo di ritardo). E’ il frutto dei numerosi incontri bilaterali del pomeriggio a Bruxelles, il più importante dei quali è stato quello tra i due nemici, Wolfgang Schäuble e Yanis Varoufakis, che tutto divide. I due ministri si sono visti grazie alla mediazione dell’Fmi e di Christine Lagarde, oltreché del commissario Pierre Moscovici.
Per Schäuble, che la vigilia aveva respinto al mittente la lettera di Varoufakis, giudicata «insufficiente», il punto principale «non sono le regole – ha ammesso nell’incontro con il ministro portoghese, Maria Luis Albuberque – ma la fiducia reciproca, chi distrugge la fiducia distrugge l’Europa». La Germania non ha digerito gli attacchi sul nazismo e la richiesta di versare le riparazioni di guerra. Varoufakis, che non conosce la diplomazia, ha affrontato Schäuble dicendo: «Lei non ha il monopolio dell’Europa». Tra i partner meno schierati con la Germania c’è persino il sospetto che Schäuble cerchi di dare una «lezione» a Italia e Francia attraverso la «punizione» della Grecia (trovando alleati in Spagna e Portogallo, dove i governi conservatori temono Podemos – esiste anche una versione portoghese — nel caso di un successo delle richieste di Syriza)? Ha l’appoggio di Jens Weidmann, presidente della Bundenbank: «La lettera è completamente vaga e la comunicazione greca è del tutto diversa a seconda del periodo e dei destinatari».
La giornata è stata intensa, con voci incontrollate (persino quella che Schäuble avesse respinto le proposte greche sulla base di un testo falso, che non era la lettera di Varoufakis). La vigilia c’erano state varie telefonate, Merkel e Hollande con Tsipras (50 minuti per la cancelliera tedesca), Merkel con Renzi, ieri Merkel era a pranzo all’Eliseo con Hollande (ma nell’incontro off con i giornalisti, l’Eliseo si è rifiutato di parlare della Grecia, tanto l’argomento era bollente e la divisione franco-tedesca forte sulla questione). La Commissione ha cercato la mediazione. Per Bruxelles, un «accordo è possibile nel prossimo futuro se tutti si mostrano ragionevoli». Per la Commissione ci sono «discussioni costruttive in corso», anche se, ha precisato il portavoce nel pomeriggio, «non ci siamo ancora».
Jeroen Dijsselbloem, il presidente dell’Eurogruppo con cui Varoufakis si è scontrato duramente lunendì scorso, è arrivato alla riunione convinto che ci siano «ragioni di essere ottimisti», anche se il negoziato è «molto difficile».
Lo scontro resta sempre lo stesso: la Grecia ha fatto molto concessioni, ha accettato l’ «estensione» del piano attuale per sei mesi, per avere il tempo di preparare un «nuovo contratto», per Tsipras «è arrivato il momento di una decisione politica storica per l’avvenire dell’Europa», ma per i partner difensori del risanamento dei conti, Atene deve dare delle «garanzie». Quelle date finora, a cominciare dal rispetto di un bilancio in eccedenza, non sembrano bastare. E queste «garanzie» erano scritte nero su bianco nel Memorandum, che Varoufakis non menziona nella sua lettera e sul cui rigetto Syriza ha vinto le elezioni. La Grecia ha cercato un accordo politico, la Ue ha risposto rimandando agli accordi «tecnici» e al loro rispetto. Merkel ha difatti sottolineato a Parigi che «c’è un gran numero di questioni tecniche da regolare». François Hollande accetta più di Merkel di mettere la questione greca sul piano politico: «Non c’è uno scenario di uscita della Grecia dall’euro» ha ancora ripetuto ieri. Anhe la Spagna è su questa posizione: «l’integrità della zona euro è un valore fondamentale», ha affermato il ministro Luis De Guindos.
La Germania ha mandato avanti i suoi alleati di ferro ieri. Il Portogallo ha fatto sapere che rifiuta nuovi prestiti alla Grecia senza condizioni. Per Maris Lauri, responsabile delle finanze dell’Estonia, un Grexit avrebbe «un debole impatto sull’euro» (lo dicono anche l’agenzia di rating S&P e l’istituto di congiuntura tedesco Ifo). Il ministro Janis Reir, della Lettonia, ha affermato che «attendiamo documenti chiari e comprensibili dalla Grecia». Il primo ministro slovacco, Robert Fico, non vuole più versare aiuti alla Grecia
Alle 7.30 di ieri sera dal Megaro Maximou, sede del governo greco, è arrivata la buona notizia: «Sembra ci sia un accordo alla riunione dell’Eurogruppo». Il contenuto non era ancora noto, molti i dubbi, — la riunione di Bruxelles era ancora in corso-, ma la soddisfazione era già evidente.
Alexis Tsipras, intanto, aveva preannunciato poche ore prima che nel caso che le cose sarebbero andate male, «noi chiederemo immediatamente un vertice dell’Ue per domenica prossima». Su questo almeno sembra che Berlino fosse d’ accordo.
Due ore più tardi non era ancora chiaro se Atene insisteva sul vertice e l’attenzione si era spostata sul tipo delle riforme che saranno promosse in base all’accordo – a questo proposito fonti governative dicono che entro lunedì prossimo ci sarà una lista -, e sulle misure unilaterali che il governo greco potrà – o non potrà — applicare per far fronte alla crisi umanitaria.
Si realizzerano per esempio le nuove misure annunciate ieri dal vice ministro dell’economia, Nadia Valavani, che permetteranno ai cittadini che hanno accumulato debiti verso lo stato di poter regolarizzare la loro posizione ricorrendo sino a cento rate mensili? Oppure saranno blocatte dai creditori internazionali? «Nel momento in cui non aggravano il bilancio dello stato, la risposta è positiva» affermano i ministri di Syriza, senza aspettare i dettagli dell’ accordo all’Eurogruppo.
Intanto cresce il dibattito sull’arroganza dimostrata dalla Germania: «Noi abbiamo fatto tutto quello che era possibile… Bisogna che ciascuno si prenda le proprie responsabilità», aveva commentato poche ore prima della riunione dell’Eurogruppo il vice-premier greco, Yanis Dragasakis, responsabile della politica economica del nuovo esecutivo.
Atene di fronte all’ultimatum dei suoi partner e al pericolo di un tracollo finanziario – le ultime settimane sono state critiche per l’economia — ha voluto fare un passo indietro per ottenere un compromesso «dignitoso». Il governo «ha gettato acqua nel suo vino», come si dice in Grecia quando qualcuno fa un compromesso. Si è reso conto che Berlino lo trascinava in un negoziato senza fine con l’obiettivo di indebolire il suo potere contrattuale. Più si avvicinava il 28 febbraio, più la posizione di Atene si sarebbe indebolita. Ecco perché Tsipras ha deciso di chiudere a tutti i costi il negoziato nella riunione di ieri. Il ministro delle Finanze greco aveva chiesto un emendamento dell’attuale programma, poi, invece, ha proposto un’estensione di sei mesi. Del programma nella sua totalità, come vorrebbero Berlino e altri partner europei? No di certo. Varoufakis ha chiesto l’estensione del Master Financial Assistance Facility Agreement, il termine legale con cui viene definito l’attuale programma economico, il memorandum, che scade il 28 febbraio, senza associarlo alle misure specifiche di austerity. A scadere è l’accordo di finanziamento, non le condizioni ad esso associate, fanno notare fonti di Bruxelles. Non si tratta quindi come è stato scritto di una guerra di parole, è una questione di sostanza.
Atene, inoltre, aveva chiesto un forte hair-cut del debito pubblico, perché insostenibile (180% del Pil), il dimezzamento dell’obiettivo dell’ avanzo primario (dal 4% al 1,5% per il 2015) in modo da «ottenere un po’ di soldi» e far fronte alla crisi umanitaria, la sostituzione del dialogo tra i rappresentanti della troika (Fmi, Ue, Bce) e i ministri greci con una supervisione politica, ovvero con un dialogo tra il governo e le istituzioni europee.
Nella sua lettera all’Eurogruppo Varoufakis lascia da parte per ora la richiesta di ridurre il debito, dice semplicemente che dovrà essere sostenibile, parla in modo generico della necessità di ridurre l’obiettivo dell’avanzo primario, accetterebbe il monitoraggio delle istituzioni internazionali, promette di puntare al risanamento del bilancio, mette l’accento sulla lotta all’evasione fiscale, promette di non prendere misure unilaterali.
«Un segnale positivo» in vista di «un compromesso ragionevole» ha definito la richiesta greca il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. Stesso sostegno indiretto anche da Roma e da Parigi. Quello forse che non è noto è il fatto che la lettera con la richiesta di Atene era il frutto di una strettissima collaborazione tra la Commissione europea e il governo di Syriza in vista della riunione decisiva. Sembra quindi che da parte dei creditori internazionali c’è la volontà di essere flessibili, di dare tempo e spazio ad Atene e il suo neo-governo di organizzare il suo piano di risanamento.
Berlino e lo schieramento degli «irriducibili», invece, ciascuno per motivi diversi, sono stati categorici dietro al nein tedesco. Temono l’eventualità di un contagio delle idee “sovversive” greche per i paesi che hanno subito l’austerity. Berlino vorrebbe schiacciare Atene. Se ci riuscirà si vedrà presto, dal contenuto dell’accordo
Un articolo interessante, ma un titolo sbagliato. Definiremmo "reazione", e non "rivoluzione", l'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Reazione feroce a quanto di positivo l'ultima metà del XX secolo ha prodotto sul terreno del lavoro.
La Repubblica, 21 febbraio 2015, con postilla
CHE , fra l’altro, riscrivono e ridimensionano le guarentigie per i licenziamenti. A prima vista, una svolta storica. Ma c’è da chiedersi forse se proprio la storia non avesse già svoltato da tempo e prima che le novità legislative arrivassero a registrarne i cambiamenti. In particolare, quelli intervenuti nella realtà economica del Paese con i suoi inesorabili riflessi sui rapporti di forza tra gli attori politici e sociali in campo.
Molte sono le ragioni che aiutano a spiegare come sia stato possibile realizzare oggi un intervento che appena tredici anni fa risultò del tutto impraticabile. Vale la pena di esaminarne almeno le principali per capire meglio quali profonde trasformazioni siano intervenute nel frattempo dentro il corpo vivo della società italiana. Non che siano mancate in questi mesi le dure reazioni del fronte sindacale contro la riforma delineata dal governo Renzi: la Cgil di Susanna Camusso e ancor più la Fiom di Maurizio Landini hanno protestato e mobilitato a più riprese le piazze. Ma la loro voce stavolta non ha trovato nel resto della società quella stessa cassa di risonanza favorevole a suo tempo ottenuta da Sergio Cofferati. E non certo, almeno nel caso di Landini, per difetto di leadership o di capacità di comunicazione. Oggi neppure un novello Cofferati avrebbe potuto replicare il memorabile successo del 2002.
Intanto va soppesata la differenza fra l’interlocutore politico di allora e quello di adesso. Per Silvio Berlusconi l’intervento sull’articolo 18 non aveva soltanto una valenza di genere economico ma anche, anzi soprattutto, di tipo politico. La modifica legislativa nasceva dall’intenzione, neppure troppo dissimulata, di perseguire attraverso una modifica dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro anche l’obiettivo di mettere all’angolo il potere tanto dei sindacati quanto dell’opposizione politica della sinistra. Un voler troppo che lo ha portato, come s’usa dire, a stroppiare.
Matteo Renzi ha avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici potendo spendere anche la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra. Ha polemizzato e anche con durezza con il mondo sindacale ma sempre tenendo la contesa sul versante specifico della questione. In più ha avuto anche l’abilità di sciogliere il nodo dell’articolo 18 all’interno di una riforma complessiva del mercato del lavoro che rottama i tanto sovente falsi contratti di collaborazione, che apre nuove strade agli ammortizzatori sociali e che con le cosiddette “tutele crescenti” schiude la porta a un rilancio delle assunzioni a tempo indeterminato. Tanto da ricevere al riguardo importanti segnali di consenso anche in sedi internazionali. Proprio in questi giorni perfino dall’Ocse che ha accreditato a questo Jobs Act del governo la capacità di far crescere il Pil del 6 per cento nel prossimo decennio. Magari, s’intende.
Ciò che più di tutto ha giocato a favore dell’iniziativa di Renzi e contro le resistenze del sindacato è comunque la profonda differenza della realtà economica di oggi rispetto a quella di tredici anni fa. L’assalto di Berlusconi all’articolo 18 è stato concepito in una fase nella quale il Pil del Paese cresceva a un ritmo dell’1,8 per cento l’anno e il tasso di disoccupazione era sceso dal 10,1 per cento al 9,2 nei dodici mesi precedenti. Una fase, insomma, nella quale le imprese assumevano senza badare all’articolo 18 e dunque la voce del fronte sindacale era conseguentemente forte e ascoltata. Va del resto ricordato che lo stesso Statuto dei lavoratori è una legge del 1970 figlia naturale di quell’autunno caldo che produsse la prima e importante redistribuzione dei redditi e dei diritti fra capitale e lavoro dopo gli anni del cosiddetto miracolo italiano.
Oggi la crescita economica, dopo anni di declino continuo, è ancora abbarbicata a uno stentato zero percentuale mentre la disoccupazione si mantiene più vicina al 13 che al 12 per cento. Non c’è bisogno di essere storici della lotta di classe per dedurne che una simile condizione statistica ridimensiona ruolo e potere delle rappresentanze sindacali. Non soltanto verso gli interlocutori politici e imprenditoriali ma anche all’interno del mondo del lavoro. E perfino su quello che si segnala come l’aspetto più imbarazzante della riforma ovvero quello di una monetizzazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro.
postilla
Solo un lettore disattento delle parole e degli atti del Renzi della prima Leopolda può ritenere che egli abbia «avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici». La politica che l'inventore del Partito della nazione ha espresso con chiarezza di parole e di atti è determinata dalla volontà di cancellare tutte le conquiste dei migliori momenti della storia italiana: dalla progressiva conquista della democrazia, avviata nella seconda metà del XIXsec., all'affermazione della centralità dei diritti del lavoro ottenuta nella seconda metà del XX. Della storia raccontata da Riva una cosa indigno, un'altra preoccupa. Indigna che, come scrive Riva, Renzi abbia potuto «spendere la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra»: c'è ancora chi crede che quel partito e il suo creatore, abbiano qualcosa di "sinistra". Preoccupa invece l'assenza del popolo: ciò che giustamente Riva rileva quando paragona la piazza che riuscì a mobilitare Cofferari con quella oggi riempita da Camussi e Landini. a questo è anche il frutto del lavaggio dei cervelli accuratamente svolto per qualche decennio dal regno mediatico del predecessore (e preparatore) di Matteo: Silvio Berlusconi, il Lazzaro dell'epoca renziana.
Un capo del governo pienamente post-democratico (sostanzialmente a-democratico) gestisce il declino italiano e fa passare la cura da cavallo Ue senza Memorandum». S
bilanciamoci.info, 20 febbraio 2015
La fotografia scattata un anno fa dallo speciale di “Sbilanciamo l’Europa” sull’alba del renzismo si rivela perfettamente a fuoco ancor oggi, in quello che potremmo definire il “meriggio del renzismo”. Non certo “grande” come quello dello Zarathustra di Nietzsche, ma, allo stesso modo, capace di mostrare le cose senz’ombre e per questo “rivelatore dell’enigma dell’eterno presente”.
S’individuavano allora i suoi tratti di continuità con il doroteismo democristiano, con l’aziendalismo mediatico berlusconiano e con l’affabulazione post-socialista e neo-liberista blairiana. Si mostrava il carattere sostanzialmente conservatore, se non reazionario, della sua rete sociale di riferimento (di “blocchi sociali” non si può più parlare nella nostra società liquida), collocato prevalentemente sul versante del “privilegio”, cioè di chi nel generale declino sociale conta di salvarsi, grazie a protezioni, giochi finanziari e posizioni di rendita.
Ed è proprio questo elemento che si è drammaticamente confermato, fino ad assumere carattere dominante, nell’anno di governo che ci sta alle spalle. Sia le cosiddette “riforme istituzionali” sbozzate con la scure dei colpi di mano parlamentari, sia quelle “sociali” (meglio sarebbe chiamarle anti-sociali) come il decreto Poletti e il Jobs Act, ma anche – non dimentichiamolo, il decreto Sblocca Italia – ricalcano, in forma imbarazzante, le linee guida della Troika, senza neppure uno scostamento di maniera. Riproducono, introiettate come proposte “autonome”, gli stessi punti dei famigerati Memorandum imposti, manu militari dai Commissari europei, a paesi come la Grecia (che di quelle cure è socialmente morta), ma anche come la Spagna (che si dice abbia i “conti a posto” ma una disoccupazione sopra il 25%), come il Portogallo (14% di disoccupati, quasi il 50% di pressione fiscale), e come l’Irlanda (debito delle famiglie sopra il 200% del loro reddito). Si chiamano privatizzazioni, abbattimento del reddito e dei diritti del lavoro, de-costruzione dei sistemi di welfare, tassazione spietata sulle fasce più basse, riduzione degli ammortizzatori sociali, riduzione della Pubblica Amministrazione, limitazione della democrazia e dell’autonomia delle assemblee rappresentative, neutralizzazione dei “corpi intermedi”.
Il tutto coperto da una narrazione roboante e “rivendicativa”, fatta di “pugni sul tavolo”, lotta alla “casta” e sua rottamazione, caccia al gufo e apologia della velocità, “cambiamenti di verso” e taglio delle gambe ai frenatori, denuncia dell’inefficienza degli organi rappresentativi (Senatus mala bestia), attacco ai sindacati e in generale alle rappresentanze sociali. È, appunto, il “populismo dall’alto”. O il “populismo di governo”: una delle peggiori forme di populismo perché somma la carica dissolvente di quello “dal basso” con la potenza istituzionale della statualità. E piega il legittimo senso di ribellione delle vittime a fattore di legittimazione dei loro carnefici. Non è difficile leggere, dietro la struttura linguistica del discorso renziano, le stesse immagini e gli stessi stilemi dell’apocalittica grillina, l’enfasi da “ultima spiaggia”, la denuncia dei “parassiti”, la stigmatizzazione dei partiti politici (compreso il proprio), e lo stesso perentorio “arrendetevi” rivolto ai propri vecchi compagni diventati nemici interni. Simile, ma finalizzato, in questo caso, a una semplice sostituzione di leadership interna. A una sorta di “rivoluzione conservatrice”.
Questo è stato Matteo Renzi in quest’anno di gestione del potere: un “populista istituzionale”. Forse l’unica forma politica in grado di permettere al programma antipopolare che costituisce il pensiero unico al vertice dell’Europa di imporsi in un paese come l’Italia, nella crisi generale e conclamata delle forme tradizionali della politica (in particolare della “forma partito”), e nel deficit verticale di fiducia nei confronti di tutte le istituzioni rappresentative novecentesche. È stato lui il primo “imprenditore politico” che ha scelto di quotare alla propria borsa quella crisi: di trasformare da problema in risorsa il male che consuma alla radice il nostro sistema democratico. Con un’operazione spregiudicata e spericolata, che gli ha garantito finora di galleggiare, giorno per giorno, sulle sabbie mobili di un sistema istituzionale lesionato e di una situazione economica sempre vicina al collasso, senza risolvere uno solo dei problemi, alcuni incancrenendoli, altri rinviandoli sempre oltre il successivo ostacolo. E comunque “gestendo il declino” col piglio del broker (è lui, d’altra parte, che ha dichiarato senza vergognarsene che è stato il primo a capire che l’Italia era un paese “scalabile”), pronto a uscire dall’investimento un attimo prima del crollo in borsa. Novello funambolo – per ritornare alle metafore nistzscheane –, in bilico sul filo. E la residua platea elettorale a naso in su, di sotto, nel mercato, incerta tra l’aspettativa della caduta e il timore che oltre quella sua siepe ci sia solo il buio.
È stato quel buio, finora, il suo principale alleato: la promessa-minaccia che “après moi le déluge”. Dalla Grecia, a oriente, e dalla Spagna a occidente, arrivano ora lampi di luce, che potranno, nei prossimi mesi, dissipare quel buio.
Il manifesto, 20 febbraio 2015
Le istituzioni internazionali (Ocse, Fmi, Commissione europea) sono colpite da un virus pericoloso. Le rilevazioni statistiche su crescita, occupazione e mercato del lavoro sono drammatiche, ma vengono presentate, con gli stessi dati, come fossero l’oro di re Mida. Lo scenario è quello di sempre: riduzione del valore dell’euro e del prezzo del petrolio, Quantitative easing della Bce e riforme del mercato del lavoro favoriscono la crescita. Restando alle previsioni per l’Italia, il responsabile Ocse Gurria si è spinto a sostenere che il Jobs Act può essere il motore del cambiamento, mentre i dati su crescita e occupazione di Ocse e Istat sono peggiori delle previsioni della Commissione europea e della Legge di Stabilità di Padoan e Renzi. Serve un psicologo, non un economista.
Lo scenario di crescita delineato è pessimo. Non solo il 2014 è andato peggio delle stime iniziali, ma le previsioni per il 2015 sono ancor più basse di quelle della Commissione europea. L’Ocse prevede una crescita dello 0,4%, contro uno scenario “positivo” di governo e Commissione europea dello 0,6%. La statistica consegna un quadro drammatico del Paese, ciò nonostante Gurria sostiene che il governo Renzi «ha scelto chiaramente un team efficace… nel 2014 si sono fatti grandi passi in avanti sulle riforme» (Gurria, Ocse). Non solo. Le previsioni potrebbero andare meglio appena le liberalizzazioni e privatizzazioni e, ovviamente, il Jobs Act, entreranno a regime. Complessivamente una crescita aggiuntiva di 3,2 punti di Pil: 2,6 dalle liberalizzazioni e 0,6 punti dal Jobs Act.
Contemporaneamente l’Istat presenta i dati su disagio sociale e lavoro: il 23,4% delle famiglie italiane vive in una situazione di disagio economico, per un totale di 14,6 milioni di individui, mentre il 12,4% dei nuclei si trova in grave difficoltà. Il lavoro? In Italia lavorano meno di 6 persone su 10, cioè peggio di Grecia, Croazia e Spagna, con 2,5 mln di giovani che non lavorano e non studiano. Come per il tasso di occupazione, solo la Grecia ha fatto peggio dell’Italia.
Nonostante il Jobs Act, l’Ocse sostiene la necessità di ulteriori riforme del mercato del lavoro (la schiavitù?). Serve veramente uno psicologo da quelle parti.
Prendendo i dati dell’Ocse relativi alla legislazione a protezione del lavoro (Epl), scopriamo che dal 1990 al 2013 tutti i paesi hanno contratto le tutele a favore del lavoro. La Germania comprime le tutele da 2,9 del 1990 a 2,0 del 2013, mentre l’Italia passa da 3,8 del 1990 a 2,3 del 2013. Sostanzialmente l’Italia non registra maggiore o minori livelli di tutela del lavoro rispetto ad altri paesi. Solo la Francia rafforza la sua posizione passando da 2,7 del 1990 a 3 del 2013. Inoltre, questo indicatore è al netto del Jobs Act.
Una stima di questo indice dopo l’introduzione del Jobs Act farebbe precipitare l’Italia al livello dei paesi emergenti, con tutte le implicazioni di politica industriale. Un altro e non banale aspetto è legato alla velocità dell’Italia nel ridurre le tutele del lavoro. Al netto della Francia che ha alzato il livello delle proprie tutele tra il 1990 e il 2013 dell’11,1% (variazione 1990–2013), tutti i paesi considerati hanno ridotto il proprio indice, ma l’Italia ha registrato un tasso di riduzione del 39,5%. Solo Spagna e Grecia hanno fatto peggio.
Ma il dibattito giornalistico e politico non ama confrontarsi su questi dati nasconde queste informazioni. C’è qualcosa che inquina la discussione politica ed economica.
Spesso si discute a sproposito della produttività del lavoro, ma quanti sanno che la produttività del capitale italiano tra il 1992 e il 2012 (Istat, dicembre 2013) è una frazione della produttività del lavoro? Qualcuno deve pur raccontare che nel periodo considerato la produttività del capitale è stata negativa dello 0,7 mentre quella del lavoro è stata positiva dello 0,8. Il problema non è se siamo usciti dalla crisi tecnica, arresto dell’arretramento del Pil, piuttosto se l’Italia è uscita dalla crisi di struttura.
L’Istat ricorda che la minore crescita del 2014 è interamente attribuibile alla diminuzione del valore aggiunto di agricoltura e industria, solo in parte compensato da quello dei servizi. Ma questo tipo di considerazioni non possono raccontare cosa si cela dietro la crisi italiana. Riforme o non riforme, l’Italia tra il 1996 e il 2014 è crescita meno della media europea di ben 19 punti di Pil, con una ulteriore aggravante: investiva in media più degli altri paesi e, crisi dopo crisi, aumentava il gap annuale di minore crescita del Pil rispetto alla media europea. Siamo passati da meno 0,5 punti del 2000 a meno 1,8 punti del 2014. Se poi pensiamo alla contrazione della produzione di beni strumentali, la peggiore tra i paesi europei, possiamo comprendere come l’Italia abbia compromesso quel vasto patrimonio di conoscenze che poteva contribuire all’uscita della crisi di struttura. Forse siamo usciti dalla recessione, ma aspettiamo ben altri segnali. Relativamente alla crisi di struttura dobbiamo lavorare ancora molto.
A Lampedusa oggi c’è il sole.
I morti in mare non ci stanno, i turisti si fanno il giro in barca e io con un mucchietto di persone me ne vado in giro ad intervistare gli abitanti dell’isola per capire come funziona la vita su questo scoglio a un passo dall’Africa.
Qui vediamo l’aspetto più tragico. Vedere arrivare una barca strapiena di persone che appena scendono… svengono, non è una situazione bella. E loro nemmeno parlano e dagli occhi capisci di cosa hanno bisogno. Di vestiti asciutti, di qualcosa di caldo da bere. Non c’è bisogno di parole per raccontare la propria esperienza.
Rischiano di morire, eppure qui sono solo all’inizio… chissà dove arriveranno. Ma per loro essere a Lampedusa significava essere salvi. Tutto il giorno dicevano: grazie Lampedusa!”
Il prete di Lampedusa, don Mimmo, ci dice “che dobbiamo fare? O spostiamo l’isola o ci prendiamo la responsabilità di essere uno scoglio in mezzo al Mediterraneo”.
Quelli che scappano coi barconi non cercano soldi o lavoro, ma solo una maniera qualunque per non morire. Sappiamo che scapperebbero anche se mandassimo le motovedette a sparargli addosso. Vengono via da una morte sicura e si buttano in braccio a una vita incerta.
Lampedusa non può essere un confine o una periferia, ma un’opportunità per un occidente che è stato per troppo tempo imperialista e violento e che può diventare una porta aperta attraverso la quale far passare esseri umani che cercano di salvarsi la vita.
Quanto ci costa questo pezzetto di umanità riconquistata?
Riunione decisiva. La lettera di Varoufakis fa molte concessioni ma irrita la Germania e gli ortodossi: fa riferimento all'accordo-quadro tra Grecia e Fesf, ma ignora il Memorandum. Lunedi' 16 è stato sfiorato lo scontro fisico da il ministro delle finanze greco e il presidente dell'Eurogruppo, Dijesselbloem. La Grecia è isolata, puo' contare solo sulla mediazione di Commissione, Italia e Francia. Ma, come Renzi, Valls ha fatto passare di forza la legge Macron, liberalizzazioni a vasto raggio come obolo a Bruxelles per evitare la "sanzione" a marzo.
Gli schieramenti sono in posizione di battaglia, in vista dell’Eurogruppo “decisivo” di oggi. Sul tavolo dei partner della zona euro, c’è la lettera di Yanis Varoufakis, che accetta l’ “estensione” del piano, ma la presenta in una forma di ingegneria linguistica che ieri sera ancora aveva suscitato un chiaro “nein” del governo tedesco (anche se, qualche fissura è apparsa a Berlino, con Sigmar Gabriel, vice-cancelliere Spd, che afferma: “riprendiamo immediatamente la discussione con la Grecia”). Varoufakis cita il piano con l’acronimo inglese, Mfafa, accetta anche l’articolo 10–1, che ammette “controlli” da parte dei creditori, che ormai non si chiamano più “trojka” – parola invisa, non solo ai greci – ma “istituzioni” o “trio” (sono sempre Bce, Ue e Fmi). Per la Commissione è “un segnale positivo”, che “apre la strada al compromesso”. Lunedi’ 16, l’Eurogruppo straordinario è finito quasi con uno scontro fisico, tra l’imponente Varoufakis, ormai paragonato a Bruce Willis, e Joeren Dijsselbloem, il presidente dell’Eurogruppo (olandese, social-democratico), con Wolfgand Schäuble che schiumava nervosismo e che palesemente non vuole più ritrovarsi nella stessa stanza con il suo collega greco delle finanze. Il malinteso, su cui insiste l’ala rigorista del governo tedesco guidata da Schäuble, è che il Mfafa è l’accordo-quadro di assistenza finanziaria e che la Grecia vuole limitare l’impegno a questo aspetto, mentre la Germania e Bruxelles quando si riferiscono agli “impegni” presi da Atene pensano al Memorandum in tutti i suoi dettagli.
“Prendere o lasciare” ha fatto sapere il governo greco a Bruxelles alla vigilia dell’Eurogruppo dell’ultima chance. Per Varoufakis oggi “si vedrà chi vuole una soluzione e chi no”. La Germania arriva forte del suo schieramento dei rigoristi: al suo fianco schiera la Slovacchia, i Baltici, la Finlandia, l’Olanda, la Slovenia e Spagna, Portogallo e Irlanda, paesi che hanno subito la mano di ferro della trojka e i cui governi ora temono la rivolta degli elettori sul modello greco. Tsipras puo’ contare solo su uno sguardo non troppo arcigno della Commissione Juncker, che ha promesso all’insediamento nel novembre scorso di rilanciare l’economia (con il programma ancora fantasma dei 315 miliardi).
E’ con questi alleati pusillanimi che Varoufakis che oggi si presenta al verdetto dell’Eurogruppo, con importanti concessioni, come il mantenimento dell’equilibrio di bilancio, l’accettazione della “supervisione” delle “istituzioni” e la promessa di non prendere decisioni “unilaterali”. In Germania, il fronte intransigente ha la tentazione di schiacciare Atene con una sconfitta senza condizioni (a Berlino, come in Finlandia, Olanda e Austria, c’è il ricatto che anche l’ “estensione” di sei mesi del piano greco deve essere approvata dal parlamento e il voto è a rischio). Per l’Ifo (Istituto di congiuntura tedesco) e per l’agenzia di rating S&P un Grexit “dolce” (sostenuto anche da Valéry Giscard d’Estaing) sarebbe indolore per la Germania.
La richiesta Dell'Unione Europea alla Grecia di proseguire con le catastrofiche Politiche di austerità degli Ultimi cinque anni, E UNO schiaffo alla democrazia e ai di sani criteri Economici.
Il popolo greco Attraverso Elezioni Democratiche ha rifiutato QUESTE azioni, Che Hanno Portato alla Contrazione del 26% della propria economia, al 27% del Tasso di disoccupazione e Hanno Portato il 40% della popolazione a vivere Sulla Soglia di Povertà.
Continuare con l'austerità significa tradire la Ue e tradire i Principi di Democrazia, Prosperità e solidarietà. Il Rischio E Che l'austerità finisca per osare un fiato Forze antidemocratiche tanto in Grecia, in Quanto ALTRI PAESI.
Chiediamo alla dirigenza Europea di da rispettare la decisione del popolo greco e di concedere al nuovo Governo il tempo per rimediare alla Crisi Umanitaria e Ripartire con la Necessaria Ricostruzione della devastata economia nazionale.
Costas Douzinas, Jacqueline Rose, Giorgio Agamben, Slavoj Zizek, Lynne Segal, Gayatri Spivak, Etienne Balibar, Judith Butler, Jean-Luc Nancy, Chantal Mouffe, David Harvey, Eric Fassin, Joanna Bourke, Immanuel Wallerstein, Wendy Brown, Sandro Mezzadra, Marina Warner, Drucilla Cornel
SEMBRA Che il signal di via libera alla possibilita dell'accordo this volta non Sia Venuto da Bruxelles, ma Direttamente dall'Eurotower di Francoforte: ieri il presidente Mario Draghi ha superato le contrarietà dei paesi Più rigoristi, un dalla Partire Germania, e ha DECISO di concedere altro credito alla Grecia: per Altre dovuto Settimane, elevando il tetto del Programma Ela da 65 a 68,3 miliardi, ma Sono soldi preziosi. Ed e Prezioso also IL MESSAGGIO rivolto all'Europa.
Sì Perché this decisione di Draghi E arrivata nel Momento di Massima Tensione all'interno della trattativa, tuttora aperta, Tra Atene e Bruxelles: sempre ieri il ministro dell'Economia grsco, Yanis Varoufakis, AVEVA Confermato di protagonista Preparando Una lettera di richiesta di Altri sei mesi di Finanziamento da parte della Ue, testo Che però dovrebbe escludere la sottomissione alle rigide direttive della troika.
Sulla linea, per Capirci, del documento Moscovici, Quello sostituito All'ultimo Momento da Uno Più duro, scritto dal presidente dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, e il Che AVEVA: determinato lunedì scorso la rottura. La Proposta del commissario francese, more morbida, era Sicuramente piaciuta Di Più Ai Greci, e Sara proprio su Quella linea Che Atene chiedera alle Cancellerie Europee, Oltre Che alla Commissione, di venirle incontro.
L'incontro decisivo, per discutere delle Richieste greche e delle controproposte di Bruxelles, potrebbe Essere Già Quello di Oggi: tutto dipenderà da venire verranno scritti i Documenti, da entrambe le parti, per arrivare a Una possibile sintesi: da parte greca si punta un osare l'impressione (Soprattutto all'opinione pubblica interna) Che Non Si e Tornati annuncio Accettare diktat rigidi venire Quelli della troika, ma da parte Europea si dovra dimostrare Che Non Si e ceduto troppo: Altrimenti non potrebbe arrivare un ok Dalla Germania. Paese che, vieni si sa bene, conta eccome.
Intanto ieri Berlino ha una Tenuto sottolineare le proprie POSIZIONI: un'estensione degli Aiuti alla Grecia e «inscindibile» dall'impegno a completare le Riforme, ah Detto il Portavoce del Ministero delle Finanze tedesco, Martin Jaeger. Ribadendo Quanto Detto NEGLI Ultimi giorni dall'inflessibile Wolfgang Schaeuble.
Ma il monito Più rilevante è arrivato da Washington: il Segretario al Tesoro Usa Jacob Lew ha chiesto alla Grecia di trovare velocemente un «percorso Costruttivo» per un Accordo con l'Europa e l'Fmi. Secondo quanto riportano i greci dei media, Lew a Una Telefonata con Varoufakis ha espresso le preoccupazioni citare in giudizio per l'attuale fase di stallo, il Che crea incertezze all'Europa. In mancanza di un Accordo, ha Detto il Segretario al tesoro statunitense, la Grecia si troverebbe ad affrontare Difficoltà immediato. Lew ha also said un Varoufakis Che incoraggerà i creditori della Grecia un internacionales trovare Accordo delle Nazioni Unite.
Varoufakis A Sua volta ha dichiarato Che il monito Non E rivolto solista alla Grecia, ma also alla Ue: «Il Segretario del Tesoro Usa mi ha effettivamente said Che un Mancato Accordo danneggerebbe la Grecia», ma «ha aggiunto Che danneggerebbe also l'Europa . Un Avvertimento una entrambe le parti », ha scritto il ministro ellenico in un Tweet.
Subito, una ruota, ë arrivata quindi Una Dichiarazione di Angela Merkel. Che se PUÒ Essere considerata venire un'apertura alla Grecia, Una Conferma Che dall'azione di Draghi in poi Si e imboccata la via per un'intesa, dall'altro lato Precisa Che Non Tutto è concesso: «Se ALCUNI Paesi Sono in difficolta , Allora Daremo Loro la nostra solidarietà - ha said la cancelliera un un congresso del Suo Partito - Ma la solidarietà non e Una strada a senso unico. Piuttosto, Con gli Sforzi dei paesi, e Una Faccia della STESSA medaglia e sara sempre Così ».
Vieni Si Può motivare infatti, con Qualche ragionevolezza, l'idea di arrivare at a possibile rottura con un Paese chiave del Mediterraneo, la Grecia, in Piena Crisi Libica, ndr ucrainica? Appunto Una follia.
E vieni Si Può Rispondere, sempre con Qualche ragionevolezza, alla Constatazione Evidente in sé del Fallimento delle Politiche di austerità in Grecia ma in generale in Europa? In Realtà non PUÒ lo si.
Per this le Strutture dell '"Europa reale", ei Poteri Forti, Nazionali e sovranazionali, Che le sostengono si trincerano Dietro Uno status quo Che sarebbe immodificabile pena il crollo del Sistema.
Uso this verbo, trincerarsi, volutamente. Lo mutuo da Collindrige Che lo uso per criticare le tecnologie Che Sono pensate in modo da risultare irreversibili, Anche di fronte a evidenti Segni di Fallimento. Erano I Tempi del Dibattito sul nucleare. Allora E Prendo a prestito un Termine Dalla fisica, «entropia», per dire Che l'attuale Sistema Europeo di posta Insieme Produttore di caos, entropico, e di rigidità, si Trincera. E 'cioè un Sistema Che assomma i Difetti dei grandi sistemi di Usa e Cina eliminandone i "pregi".
La realtà Ê Che la costruzione della Governance della austerità ha Portato un iperfetazione un Sistema Che VIENE da lontano e il Che ha Portato l'Europa alla attuale Condizione. E 'il modello funzionalistico e intergovernamentale, Quello di Monnet, Che Fino ad Un certo punto ha Avuto il Contrappeso delle FUNZIONI Democratiche statuali e del modello sociale progressivo Ma che poi degenera e fa degenerare il Sistema. Cio avviene Già con l'ingresso della moneta unica, cui non si accompagna Una forma di democrazia Europea, Che VIENE invece soppiantata Dalle Strutture tecnocratiche.
Il tutto si strutturalizza Ancora Di Più con la austerità. Nel minerale QUESTE E squadernato tutto il campionario di assurdità Messo in campo con i vari six pack, bicomponente e fiscal compact. Si e COSTRUITO un mostro istituzionale e Giuridico Che Rende Il Sistema strutturalmente impermeabile Sia alla democrazia Che Agli imput della Realtà. Per Di Più ci Si e mossi sommando il Metodo comunitario, con cui si Sono Fatte le direttive, e Quello intergovernativo, con cui Si e varato il fiscal compact. Con in piu l'eurogruppo Che in materia di austerità funziona Più Come un Consiglio di Amministrazione, Pesando le quote Finanziarie immesse, Che vengono Istituzione Una. Si aggiunga al quadro l'egemonismo della Merkel ei biechi Interessi di ALCUNI Paesi Prossimi annuncio Elezioni, venire la Spagna, per Capire Che l'Azione di Tsipras sta scoperchiando il verminaio.
Un verminaio Che ha inquinato i pozzi della democrazia. Non essendosi costruita Una democrazia Europea, Rolling chi Chiede il RISPETTO del Mandato popolare greco si Risponde, irresponsabilmente, Che C'è il Mandato elettorale tedesco. Lavorando Così, venire fa da tempo this sciagurata classe dirigente Europea, un separare i popoli invece Che ad unirli. Una classe dirigente sciagurata Che in Realta E tenuta in vita da solista dal Compito assegnatole e cioè Quello di favorire il passaggio DELL'EUROPA nell'ambito del Sistema della Globalizzazione capitalistica Finanziaria. Un Costo di distruggerla.
Perciò le Proposte di Tsipras Sono dirompenti e un Accordo Che ne recepisse il senso di marcia sarebbe straordinariamente Importante. E Evidente Che Al di là della Questione delle Cifre Le cose in gioco Sono il modello sociale e La Questione Democratica.
Uscire da Troika e memorandum, le Strutture incardinazione Dalla gestione della austerità per Essere Rese Permanenti, significa APRIRE la grande Questione di un altro modello sociale e di democrazia Una vera. Tsipras ha Avuto la Capacità di Portare lo scontro al Livello colomba Esso si pone e cioè Quello Europeo. E la mobilitazione popolare Che lo sta sostenendo in Tutta Europa dadi Che una this debiti formativi cominciano ad arrivare Anche i Cittadini Europei. Si apre cioè l'unica strada possibile e cioè Quella Di Una Europa Democratica e federale. Ma, per venire Tutte le rivoluzioni, la lotta dura E
Ciò che è realmente in ballo nella trattativa in corso a Bruxelles sul debito della Grecia non sono i soldi, ma chi vincerà nello scontro tra chi vuole un'altra Europa e chi accetta la sottomissione alla Deutche Strasse. Da che parte sta l'Italia?Il manifesto, 18 febbraio 2015
È un doppio pressing quello con cui deve fare i conti Alexis Tsipras, alle prese sia con l’ultimatum dei partner europei, che gli stanno imponendo l’estensione dell’attuale programma di risanamento, sia con gli avversari interni a Syriza, che non sono d’accordo con un eventuale compromesso con il resto dell’Ue.
Il governo greco mira a una soluzione vantaggiosa per tutte le parti, ma a parte il movimento di solidarietà che si è espresso nelle piazze del mondo, in seno dell’ Eurogruppo il suo ministro delle Finanze è rimasto solo contro i «18». Nonostante alcuni, come l’Italia e la Francia, sarebbero pronti a dare una mano. Yanis Varoufakis è rimasto solo non perché sprovvisto di una proposta ben articolata da presentare ai suoi colleghi, come hanno scritto alcuni opinion makers, bensì per il fatto che ha messo in evidenza le politiche catastrofiche dell’austerity e il modo di funzionare delle istituzioni europee (Commissione, Eurogruppo, Bce) che fanno il gioco dei mercati e del paese economicamente piú forte, la Germania, contro i principi fondativi dell’Unione europea.
Atene è rimasta sola perché Berlino ha rischiato di essere messa con le spalle al muro. Il gioco delle parole — l’estensione del programma attuale, come vogliono Bruxelles e Berlino, o l’«emendamento» a cui punta Atene — in realtà rispecchia uno scontro ideologico. Ed è quello che ha fatto fallire la riunione dell’Eurogruppo.
La Germania ha deciso di mostrare i denti alla Grecia non solo perché la soddisfazione di una parte delle richieste elleniche potrebbe «stimolare l’appetito» di altri paesi europei intenzionati a perseguire una politica anti-austerity. Né perché si sono confrontati due principi etici diversi: il primo basato su un razionalismo rigido secondo il quale «i debiti comunque vanno pagati»; l’altro basato sulla solidarietà, che rifiuta lo strangolamento economico di chi si trova in condizione di bisogno. Berlino ha cercato di screditare la politica del nuovo governo greco perché una soluzione a favore di Tsipras potrebbe mettere in dubbio la germanizzazione del vecchio continente e aprirebbe uno spiraglio a una rifondazione su basi diverse dell’Ue e delle sue istituzioni. Un’Europa rinnovata, dove saranno i popoli a decidere.
Non dimentichiamo che Alexis Tsipras è il primo leader europeo di sinistra — dopo il cipriota Dimitris Christofias, leader di Akel — che propone un modello diverso di Europa. Syriza, la sinistra radicale greca, nell’arco di poche settimane è riuscita da una parte a riunificare la maggioranza dei cittadini, restituendo loro speranza e un pezzo della dignità che il memorandum gli aveva strappato, e dall’altra a mobilitare le piazze europee «per un’altra Europa».
Non a caso, nel momento in cui il ministro delle Finanze greco esprimeva la sua disponibilità a firmare il comunicato finale dell’Eurogruppo che gli ha presentato in forma di bozza il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici — dove si parla di un piano intermedio, non di una semplice estensione — è intervenuto il ministro delle finanze tedesco per stoppare il tentativo di compromesso francese. «Il neo governo greco è irresponsabile» ha sottolineato Wolfgang Schauble poche ore prima della riunione dell’Eurogruppo. Che equivale a dire ai partner europei: «Non date fiducia ai greci, cercano di fregarvi».
Ora tocca alla Bce, che ha il potere assoluto sulla politica monetaria dell’Ue e che sfugge a qualsiasi controllo politico, stabilire oggi se bisogna chiudere i rubinetti del finanziamento di emergenza (Ela) che tiene in piedi le banche greche. A sentire i soliti media che non si stancano ogni giorno di riproporre gli scenari apocalittici del «Grexit», se entro venerdì non si raggiungerà un accordo tra Eurogruppo e governo ellenico, la Bce non potrà che fermare il finanziamento degli istituti di credito greci. Diverso, invece, sembra che sia per il momento il parere di Mario Draghi.
Alexis Tsipras sarebbe pronto a un compromesso, ma senza ricatti: «Il memorandum ha provocato una crisi umanitaria e l’ economia si trova in una via senza uscita. Il suo annullamento è l’ unica scelta dettata non solo dal risultato elettorale, ma dalla logica» ha affermato ieri il portavoce del governo, rispondendo così anche a chi fa notare che entro venerdì il governo greco deve decidere se essere o meno abbandonato a se stesso. Ottimista su un accordo — «nei prossimi due giorni, perché non vogliamo arrivare a un punto morto» — si è detto anche il ministro Varoufakis.
E ieri sera fonti del goveno confermavano la notizia giunta da Bruxelles: Atene chiederà l’estensione di 6 mesi non del memorandum, ma del «contratto di prestito» con i creditori internazionali; come a dire, rispettiamo il programma attuale, ma non ulteriori misure restrittive della troika. La domanda però resta la stessa: come superare le ossessioni di Berlino
«In questo simbolo della reggia dei papi che diventa reggia dei cittadini c’è un nesso profondo con la Carta: con l’articolo 1, che ci vuole “sovrani”».
La Repubblica, 17 febbraio 2015
L’aveva detto nel messaggio d’insediamento, il Presidente Mattarella: «Garantire la Costituzione significa » anche «amare i nostri tesori artistici e ambientali». Il verbo “amare” appartiene ad un vocabolario davvero lontanissimo dalla retorica corrente della “valorizzazione” (leggi mercificazione) del nostro patrimonio culturale: perché il sottotesto è il brano del Vangelo di Matteo dove si dice che: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore». È la stessa lingua della Costituzione, che dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio della Nazione » non per aumentare il Pil, ma per favorire «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3) attraverso «lo sviluppo della cultura» (art. 9). Parole che oggi diventano concrete nell’annuncio che il Quirinale sarà aperto tutti i giorni agli italiani.
Il manifesto, 17 febbraio 2015
Dopo gli incontri della scorsa settimana fra Ue e governo greco, si era sparso un certo ottimismo e alimentata la speranza di un «profumo d’accordo». C’era anche stato chi aveva pensato che la riunione di ieri all’Eurogruppo sarebbe risultata già decisiva per siglare un’intesa. Al contrario, pare proprio che quel profumo sia rapidamente svaporato. D’altro canto la riunione era cominciata con le peggiori premesse preannunciando una pesante e drammatica rottura della trattativa.
Il ministro della finanze tedesco Wolfgang Schauble ha battuto con insistenza sui tasti dello scetticismo e della intransigenza, giungendo a qualificare il governo greco come «un esecutivo irresponsabile» perché rimasto fermo sulle sue posizioni. Non c’è da stupirsi. Si tratta solo di una delle tante varianti dello spirito a-democratico che anima le élites europee, in particolare quelle tedesche. Schauble aveva già dichiarato che per lui le elezioni greche era come se non esistessero. E oggi ribadisce che è irresponsabile il governo greco che vuole coerentemente applicare il mandato elettorale e non accettare i diktat della Troika.
Dunque nulla di fatto. Anzi un arretramento. La Troika che pareva uscita dalla porta, rientra dalla finestra. Il documento presentato al governo greco ribadisce infatti che il programma della Troika resta e andrebbe esteso per sei mesi.
Il governo greco dovrebbe rinunciare a qualunque tipo di azione unilaterale. In altre parole dovrebbe rinunciare a governare, se non sotto dettatura. Infatti il documento esplicita che sono necessarie intese con i partners europei e internazionali per assumere iniziative in particolare sul tema della politica fiscale, delle privatizzazioni, del mercato del lavoro, del settore finanziario, delle pensioni. L’analogia con i temi citati dalla famigerata lettera della Bce al governo Berlusconi dei primi di agosto del 2011 è molto forte, a dimostrazione persino della scarsa fantasia della burocrazia di Bruxelles.
Infine il documento Ue precisa che ogni agevolazione finanziaria da parte della Bce e degli altri organi europei avverrà solo a fronte dell' estensione di sei mesi del programma della Troika, che dovranno essere usati per la ricapitalizzazione delle banche e saranno concesse sulla base di decisioni delle istituzioni europee e dello stesso Eurogruppo.
Come si vede una proposta capestro che il governo greco ha giustamente respinto con grande risolutezza, giudicandola «assurda e inaccettabile». Il tentativo di mediazione avanzato per conto della Francia dal ministro delle Finanze Michel Sapin è andato, per ora, a sbattere contro il muro della intransigenza tedesca.
Tuttavia non è l’ultima riunione. Altre ce ne saranno. Si tratta di capire se l’irrigidimento tedesco fa parte di una pura tattica o è una posizione inamovibile, legata magari anche ai recentissimi insuccessi elettorali della Merkel ad Amburgo, una sconfitta storica per la cancelliera. Ma molto può fare la mobilitazione internazionale cominciata con le manifestazioni di san Valentino.
«A Bruxelles stanno combattendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze perché hanno avuto la forza e il coraggio di sfidare Golia e la capacità di ricevere dal popolo greco la legittimazione a farlo. Sono lì a farsi ascoltare anche a nome nostro».
Il manifesto, 15 febbraio 2015
Non so se sono i greci che debbono ringraziarci per questa manifestazione grande, bella, unitaria che abbiamo promosso in tutta fretta perché a Bruxelles capissero bene che quanto lì si decide in questi giorni non riguarda solo Atene, ma tutti noi, tutti gli europei che vogliono un’Unione in grado di garantire più uguaglianza più democrazia più pace.
Un’Europa che almeno la smetta di ritenersi faro della civiltà quando è incapace di accogliere chi fugge da terre devastate dalla pesante eredità coloniale e dalle nostre più recenti, dissennate spedizioni militari. Proprio per questo sarebbe forse meglio dire che non sono i greci a dover ringraziare noi, ma noi che ringraziamo loro per quello che stanno facendo anche per noi. Noi che ringraziamo Alexis e Yannis - (li chiamiamo ormai per nome perché non sono più solo compagni ma sono diventati amici).
Siamo noi che li ringraziamo perché lì a Bruxelles stanno combattendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze perché hanno avuto la forza e il coraggio di sfidare Golia e la capacità di ricevere dal popolo greco la legittimazione a farlo. Sono lì a farsi ascoltare anche a nome nostro. (Direi che se la cavano piuttosto bene. La prova, lo sappiamo, è durissima, ma già dopo questi pochi/ primi giorni sembrano procedere con fermezza, con la sicurezza di rodati statisti). Ne siamo orgogliosi e soddisfatti. (Avete visto le loro immagini in tv, sono loro a dominare la scena, e tutti si affrettano ad avvicinarsi a loro per stringergli la mano).
Perché hanno capito che i nostri amici hanno aperto un nuovo capitolo della storia dell’Unione europea: perché hanno avuto la determinazione - che fino ad oggi era mancata a tutti - di dire che così non va, che occorre cambiare proprio se si vuole salvare il progetto d’Europa. Non sono andati a Buxelles a scusarsi per il loro debito e a mendicare aiuto, ma per dire alla troika che deve chiedere scusa.
Scusa per i danni che ha prodotto con le sue politiche. Scusa per essersi irresponsabilmente fidata, di un governo corrotto e incapace. La catastrofe è oggi sotto gli occhi di tutti. Di anno in anno, dal 2008, le medicine di Bruxelles anziché alleviare i mali e avviare un nuovo corso hanno peggiorato la situazione della Grecia. Qualsiasi menager che avesse prodotto in quattro anni un crollo del Pil pari al 25% e ritenesse questo il metodo migliore per accumulare le risorse per ripagare un debito, verrebbe licenziato. Con tanto parlare di efficienza, il criterio potrebbe esser applicato anche ai funzionari di Bruxelles! Se hanno rovinato così la Grecia vanno messi in condizione di non nuocere più. È necessario farglielo capire.
Noi siamo qui per far sentire anche la nostra voce. Buon lavoro Alexis, buon lavoro Yannis.
Comune-info, 15 febbraio 2015
L’abbattimento del regime di Gheddafi ha riportato la Libia al clima politico ed economico di due secoli fa, prima della colonizzazione italiana e ancora prima della presenza ottomana. In altre parole, si è tornati a una tribalizzazione del territorio. Scomparsi i confini amministrativi, ogni tribù difende le proprie frontiere e sfrutta le risorse petrolifere. Non c’è alcun dubbio che Muammar Gheddafi sia stato un crudele dittatore, ma nei suoi 42 anni di regno ha mantenuta intatta la nazione libica, l’ha dotata di un forte esercito e di un’eccellente amministrazione al punto che il reddito procapite del libico era il più alto dell’Africa e si avvicinava a quello dei paesi europei. Ma soprattutto ha dato ai libici una fierezza che non avevano mai conosciuto.
A tre anni dal suo assassinio (avrebbe meritato un processo), la Libia è nel caos più completo e già si parla con insistenza di risolvere la questione inviando truppe dall’estero per organizzarvi una seconda, micidiale e sciagurata guerra. Nel corso della prima infausta guerra, voluta soprattutto dalla Francia di Sarkozy, il paese ha subito danni immensi, 25 mila morti e distruzioni valutate dal Fondo Monetario Internazionale in 35 miliardi di dollari.
Poiché le voci di un intervento militare italiano si fanno più frequenti, noi chiediamo alle autorità del nostro Paese di non commettere il gravissimo errore compiuto nel 2011 quando offrimmo sette delle nostre basi aeree e più tardi una flotta di cacciabombardieri per aggredire un paese sovrano, violando, per cominciare, gli articoli 11, 52, 78 e 87 della nostra Costituzione. In un solo caso l’Italia può intervenire, nell’ambito di una missione di pace e dietro la precisa richiesta dei due governi di Tripoli e di Tobruk che oggi si affrontano in una sterile guerra civile.
Ma anche in questo caso l’azione dell’Italia deve essere coordinata con altri paesi europei e l’Unione Africana (Ua), animati soprattutto dal desiderio di riportare la pace in un paese la cui popolazione ha già sofferto abbastanza. Ci appelliamo al nostro ministro degli esteri Gentiloni, che non si faccia catturare dai venti di guerra che stanno soffiando insistenti. Ma sopratutto chiediamo a tutto il movimento per la pace perché faccia pressione sul governo Renzi affinché l’Italia, come ex-potenza coloniale, porti i vari rivali libici attorno a un tavolo. Questo per il bene della Libia, ma anche per il bene nostro e dell’Europa.
Sbilanciamoci.info, 13 febbraio 2015
Winnie Byamyima è la donna che al recente Davos dei potenti rappresentava il controcanto dei poveri; Byamyima è infatti il direttore esecutivo di Oxfam International, la coalizione di Ong che lottano contro la carestia e la fame nel mondo. Winnie Byamyima è condirettore del Forum di Davos dall’anno scorso e quest’anno si è presentata con un conteggio sensazionale. Il suo tema forte è la disuguaglianza nel mondo. Questa modalità dell’economia, da sé sola, è causa di milioni di morti ogni anno; potrebbe senza eccessivi sforzi essere superata, purché non venisse meno la volontà di raggiungere questo risultato.
Sembra di capire che la severa reprimenda dell’Oxfam, i ricconi la intendano in senso capovolto, come fosse l’esortazione: “Francesi ancora uno sforzo”, del marchese de Sade ai tempi della Grande rivoluzione.
Alla dichiarazione di Oxfam è seguito un fantastico fuoco d’artificio di numeri, accompagnati da riflessioni e ragionamenti profondi, impegni e promesse. Ne riferiremo in parte poco più avanti. Ora però è opportuno segnalare che alcuni degli intellettuali che seguono o scortano i re dell’economia e della finanza fino alla tradizionale “montagna incantata” celebrata da Thomas Mann, proprio come gli sciacalli che fiancheggiano i grandi predatori, hanno creduto opportuno svolgere il proprio ruolo di pensatori e di critici mettendo in ridicolo le cifre dell’Oxfam. Il loro intento non era quello di rivendicare - cifre alla mano - l’intelligenza del mercato, cioè la fortuna di disporre di una (o qualche) mano invisibile a reggere tutto. Essi davano per scontato questo e ironizzavano sulla possibilità di arrischiare previsioni, come faceva Oxfam, in tempi tanto calamitosi.
Le statistiche sui ricchi e sui poveri di Oxfam e sulla loro disparità sono due, una più impressionante dell’altra. La prima è quella segnalata più sopra e che riguarda la ripartizione della ricchezza tra ricchi e poveri: l’uno per cento più ricco della popolazione mondiale adulta e tutta la popolazione mondiale adulta, ricchi compresi. In altre parole, la sproporzione - talmente evidente - considera che l’uno per cento degli umani adulti ha una ricchezza che equivale a quella del 48% di tutti gli adulti del genere umano. Se le cose andranno avanti senza scarti, se le curve non cambieranno traiettoria nel 2016 l’uno per cento della popolazione mondiale avrà raggiunto e superato la ricchezza della metà del genere umano. Difficile dire se il risultato verrà magnificato come un successo del mercato e del capitale, un primato sportivo e umano glorioso, oppure se ne saranno messi in luce gli aspetti contraddittori: ridotto impegno dei più poveri, scarsa crescita delle occasioni per i giovani e i senza lavoro. Fermiamo per un attimo l’attenzione sul dato attuale 2014, l’uno per cento che dispone del 48% della ricchezza totale con una media individuale per adulto di 2,7 milioni di dollari. Il 52% della ricchezza globale che rimane è tutt’altro che ripartita equamente. Infatti il 19% dei quasi ricchiche tallonano il famoso uno per cento, dispone del 46% rimasto, mentre all’80 per cento della popolazione complessiva, pari a 5,6 miliardi di persone, testa più testa meno, resta circa il 5,5% rimasto (il 6% per fare cifra tonda).
Oxfam fa notare come una distribuzione della ricchezza simile non sia solo ingiusta ma anche inefficiente. Ai poveri, a quasi tutti, mancheranno capitali per aumentare la produzione, incentivi e margini per migliorare gli standard di vita. Non sarà possibile o sarà molto difficile, umanamente costosissimo, un risparmio individuale o collettivo. Ne risentiranno in modo assai grave l’istruzione, l’igiene, la salute, la speranza di vita stessa delle popolazioni.
Oxfam, per bocca di Byamyima, suggerisce sette punti d’intervento da sviluppare subito, senza perdersi in chiacchiere. Si tratta in primo luogo di combattere l’evasione fiscale, presente in ogni paese, regime e religione. Se i ricchi sono troppo ricchi è perché non hanno pagato le tasse. Risulta che dei 1.645 miliardari in dollari che “Forbes” ha classificato, oltre un terzo ha ereditato la propria ricchezza: in tutto il mondo le tasse di successione non funzionano o quanto meno favoriscono gli straricchi. Occorre poi rafforzare i servizi pubblici, in modo particolare quelli che riguardano salute e scuola. Occorrono poi più entrate pubblicheattraverso tasse più eque e convincenti. Serve inoltre un salario minimo che sostenga i redditi di donne, giovani, anziani, persone senza lavoro. Le donne in particolare ma anche gli immigrati devono ottenere la parità di salario per uno stesso lavoro. Serve poi una rete di sicurezza che consenta ai poveri di sopravvivere con dignità; quindi un tetto per ciascuno, e poi cibo e acqua. Infine serve un piano generale per combattere le disuguaglianze.
La seconda statistica redatta da Oxfam è ancor più impressionante. Le associazioni di Ong combattono la carestia, la fame, e accusano banchieri e finanzieri, industriali e venditori dei farmaci di gravi delitti e omissioni. Basterebbe poco per ovviare a molti guai, basterebbe l’intervento di pochi. Qui si sviluppa la polemica. Si è fatto cenno al numero dei miliardari in dollari. Oxfam si serve delle classifiche di “Forbes”, che, a beneficio di qualche distratto, è una rivista mensile con annesso un sistema di ricerca molto accreditato, assai stimata in ambiente miliardario, che fissa il numero dei suoi lettori privilegiati in 1.645. Sono persone molto potenti, inserite nei gangli della politica mondiale, ben capaci di farsi valere, di scegliere e di proibire, di procurare le guerre e firmare le paci, non solo nella finanza e nell’economia, loro ambiti propri. Negli anni scorsi, nel 2010, 387 di loro aveva ricchezze pari a quelle del mondo povero, metà di tutti i viventi, costituito da 3,5 miliardi di persone. La ricchezza (?) della metà più povera del mondo, corrispondente a 3,5 miliardi di viventi, equivaleva a quella di 387 miliardari. Un fatto enorme, una misura del mondo intollerabile. Questo però nel 2010. Dopo di allora, per effetto della crisi, le reciproche condizioni sono cambiate rapidamente. Non però con un decadimento della forza finanziaria dei miliardari, ma con un effetto opposto, maggiore ricchezza dei miliardari – la ricchezza dei primi 80 di essi è raddoppiata tra 2009 e 2014 – e contemporaneo disastro esistenziale della povera gente, di 3,5 miliardi persone, collettivamente prese, che certo hanno poco a che fare con borse e titoli derivati. Oggi è sufficiente la ricchezza di 80 miliardari per pareggiare sui piatti della bilancia globale il peso di mezzo mondo, e non per modo di dire, ma facendo riferimento proprio a 3,5 miliardi di esseri umani.