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La Repubblica, 25 febbraio 2015
IL PRESIDENTE del Consiglio lancia l’ambizioso progetto “la buona scuola”. Lo fa alla fine di una consultazione con i diretti interessati (alunni, docenti e famiglie) che egli stesso ha giudicato un evento unico, non solo nel nostro Paese. In una recente puntata di Piazzapulita si è avuto modo di capire che le cose non stanno proprio in questi termini: l’ascolto è stato pilotato e molti temi concreti che le scuole statali hanno urgente bisogno di discutere e risolvere non hanno avuto centralità, anche perché poco attraenti.

In effetti, parlare della mancanza cronica di carta igienica nelle scuole statali di ogni ordine e grado, sapere che i genitori si autotassano ormai abitualmente per coprire le spese ordinarie degli istituti frequentati dai loro figli che lo Stato non copre: tutta questa concretezza non consente di fare spot attraenti sulla buona scuola del futuro. Tuttavia questi sono i problemi. Che non svaniscono con gli slogan: “Sì, serve la carta igienica, ma fateci sognare”. Semmai, si potrebbe dire al presidente Renzi che i sogni li dovrebbero poter fare le scuole, non il governo. E vi è di che dubitare che questi provvedimenti ben propagandati vi riescano.

Prima di tutto perché lo Stato ha dichiarato di non potere coprire le spese delle sue scuole. È come se dicesse: non possiamo garantire i diritti civili perché non abbiamo soldi a sufficienza per sostenere i tribunali. Non ci sono fondi a sufficienza. Ma se lo Stato (e i suoi organi amministrativi) finanziasse solo le sue scuole, come la Costituzione gli comanda, i soldi non sarebbero un problema così emergenziale. A fine gennaio l’Espresso ha dedicato al depauperamento della scuola statale un’inchiesta ben fatta. Eccone il senso: “Settecento milioni l’anno di denaro pubblico vanno ad aiutare gli istituti paritari, mentre lo Stato non ha soldi neppure per rendere sicure le aule. Un flusso che parte dal ministero dell’Istruzione, dalle Regioni e dai Comuni e finisce senza controlli ad enti privati di scarsa qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame”. Governatori e sindaci, continua l’Espresso, alimentano un fiume carsico di denaro pubblico per le private, un federalismo scolastico che si somma alla sovvenzione ministeriale. L’articolo 33 della Costituzione è raggirato, e non da oggi, con l’escamotage degli aiuti alle famiglie. La Costituzione sembra non avere forza, sembra parlare la lingua dei sogni, ma non di quelli che piacciono a chi la dovrebbe attuare.

E il progetto detto “buona scuola” non cambia questo trend privatistico, ma lo legittima, lo regolamenta e lo stabilizza. Lo ha confermato proprio il presidente del Consiglio in conferenza stampa: «In futuro chiederemo autonomia anche dal punto di vista economico, così che una parte della dichiarazione dei redditi possa andare a una singola scuola». Ovvero, chi non ha figli si sentirà libero di non dare alcun contributo alla scuola pubblica, trattata come la religione o i partiti politici: oggetto di libera scelta individuale. Benché la scuola sia un bene pubblico, non privato che si può scegliere o non scegliere. La logica che guida questo progetto è opinabile: prima di tutto perché associa la tassazione per beni pubblici al consenso individuale — questo è esattamente quanto dagli anni Settanta sono andati predicando i teorici liberisti; questa è stata la filosofia che ha guidato i governi Reagan. E il reaganomics è la direzione di marcia del nostro governo sulla scuola statale.

Lo Stato si impegna a istituire e sostenere scuole di ogni ordine e grado: lo Stato, non i singoli secondo la loro personale preferenza e decisione. È evidente che il governo cerca di vendere il prodotto appellandosi all’autonomia scolastica. Ma legare il destino della scuola statale alle preferenze individuali non è una condizione di autonomia ma di assoluta dipendenza dal privato. È stupefacente come non si crei un dibattito serio e ragionato su temi così rilevanti, come le rivendicazioni della minoranza nel Pd non sappiano tradursi in contro-proposte che incalzino la maggioranza con argomenti efficaci. La dialettica sarebbe di aiuto al governo che potrebbe voler accettare la sfida della discussione e migliorare la sua proposta. In questo momento, i cittadini restano fuori del palazzo, inascoltati e fortemente critici. Organizzano convegni, lanciano petizioni, firmano documenti, ma la loro voce non ha risonanza. Non hanno rappresentanti nei partiti e non hanno nel Parlamento un interlocutore. Politica costituita e opinione dei cittadini marciano su binari paralleli.

Il manifesto, 25 febbraio 2015



TSIPRAS? «PRAGMATICO E IDEALISTA»
di Pavlos Nerantzis

Grecia. Non mancano critiche ma all’interno di Syriza si loda la «praticità» del premier


La riu­nione del con­si­glio dei mini­stri per discu­tere sull’ accordo di Bru­xel­les e la lista delle riforme pre­sen­tate all’ Euro­gruppo, è stata lunga. Ale­xis Tsi­pras ha dovuto tro­vare un dif­fi­cile equi­li­brio tra le richie­ste dei cre­di­tori inter­na­zio­nali e il suo piano anti-austerity; tra la neces­sità di retro­ce­dere, pun­tando sulla soprav­vi­venza del suo Paese e il biso­gno di appli­care una parte del pro­gramma di Salo­nicco, ovvero del «Piano di rico­stru­zione nazio­nale», basato su quat­tro pila­stri. Affron­tare la crisi uma­ni­ta­ria, riav­viare l’economia e pro­muo­vere la giu­sti­zia fiscale, ricon­qui­stare l’occupazione, tra­sfor­mare il sistema poli­tico per raf­for­zare la democrazia.

Ale­xis Tsi­pras per evi­tare che il suo governo fosse una «paren­tesi di sini­stra», come vor­reb­bero l’ ex pre­mier Sama­ras e la mag­gio­ranza dei part­ner euro­pei, ha pre­fe­rito svol­tare. Una «retro­mar­cia di destra» come viene descritta dagli avver­sari interni al par­tito del pre­mier, rea­li­stica e «di dignità» secondo il Megaro Maxi­mou, sede di governo.

Tra prag­ma­ti­smo e idea­li­smo su una cosa sono d’ accordo ambe­due le cor­renti della sini­stra radi­cale greca. Il pro­lun­ga­mento del nego­ziato e il peri­colo di un tra­collo finan­zia­rio in Gre­cia avreb­bero pro­vo­cato uno scon­tro fron­tale tra il neo governo e i cre­di­tori inter­na­zio­nali. Ad Atene imma­gini simili a quanto era suc­cesso a Cipro nel marzo del 2013 con le lun­ghe file di fronte ai ban­co­mat sareb­bero ine­vi­ta­bili. Al di là di que­sta valu­ta­zione comune, le strade tra le due cor­renti si sepa­rano. Gli «incon­ci­lia­bili» cre­dono che una fuo­riu­scita della Gre­cia dall’Ue met­te­rebbe i greci in salvo, senza tener conto che la com­pe­ti­ti­vità del Paese rimane bas­sis­sima; i rea­li­sti fanno notare che il governo del Syriza-Anel con­ti­nua a trat­tare. «È meglio un Gre­xit che una con­ti­nua­zione perenne dello stato dell’ impo­ve­ri­mento attuale» sostiene l’economista e gior­na­li­sta Leo­ni­das Vati­kio­tis. Per aggiun­gere ciò che si sente molto in que­sti giorni da chi cri­tica l’operato del governo: «il con­te­nuto dell’ accordo di Bru­xel­les non deve essere para­go­nato con il pro­gramma del governo pre­ce­dente, ma con il pro­gramma pre-elettorale del Syriza».

In realtà mini­stri e diri­genti del Syriza vicini al pre­mier non nascon­dono il loro imba­razzo. Ciò che mag­gior­mente ha col­pito a livello morale è stata la rea­zione di Mano­lis Gle­zos. «Pro­ba­bil­mente Gle­zos era deluso per la man­cata ele­zione a pre­si­dente della Repub­blica» sosten­gono alcuni che cono­scono da vicino il sim­bolo della resi­stenza greca con­tro i nazi­sti. Ieri Tsi­pras ha par­lato tele­fo­ni­ca­mente con vari diri­genti del suo par­tito che si sono oppo­sti all’accordo di Bru­xel­les, si è incon­trato con Mikis Teo­do­ra­kis a casa sua, ma non ha voluto scam­biare una parola con il suo mae­stro Manolis.

Cri­ti­che sono arri­vata anche da parte dei comu­ni­sti del Kke, che venerdì pros­simo orga­niz­ze­ranno una mani­fe­sta­zione alla Pla­tia Syn­tag­ma­tos di fronte al par­la­mento per denun­ciare l’accordo di Bru­xel­les, men­tre secondo il Pasok il governo «rimane senza finan­zia­menti fino al giugno».

Con il via libera dell’ Euro­gruppo alla lista delle riforme gre­che la Borsa di Atene ha regi­strato ieri un rialzo record (9,81%), ma que­sta buona noti­zia non viene vista da alcuni media inter­na­zio­nali che fino a ieri con­ti­nua­vano a par­lare della fuga dei capi­tali greci all’ estero. «Negli ultimi giorni sono stati pre­le­vati dalle ban­che gre­che 500 milioni di euro al giorno… i soldi pre­le­vati in fretta in parte sono finiti addi­rit­tura in Sviz­zera, dove i greci avreb­bero depo­siti per 60 miliardi di euro» ha scritto pochi giorni fa il sito de Il sole 24 Ore, senza spie­gare chi sono quelli che hanno que­sti soldi. Il sot­tin­teso è chiaro: «i greci, pic­coli e grandi rispar­mia­tori» per il timore della sini­stra radi­cale riti­rano le pro­prie economie.

Le cose non stanno pro­pria­mente cosi. C’è stato un calo dei depo­siti ban­cari dai 160 miliardi (ultimo dato uffi­ciale del dicem­bre scorso) a 145 miliardi, secondo le stime a metà feb­braio. Ma a sen­tire gli eco­no­mi­sti, «i capi­tali fug­giti all’ estero non appar­ten­gono ai pic­coli cor­ren­ti­sti, bensì ai soliti eva­sori fiscali. I dipen­denti pub­blici e i pen­sio­nati non hanno soldi suf­fi­cienti per soprav­vi­vere, figu­ria­moci se hanno dei soldi a parte».

A con­fer­mare l’identikit dei rispar­mia­tori che hanno fatto fug­gire i loro «risparmi» all’estero è il mini­stro dello Stato, adetto alla lotta con­tro la Cor­ru­zione, Pana­gio­tis Niko­lou­dis, già pro­cu­ra­tore della Corte suprema che ha pre­pa­rato una lunga lista di 3.500 nomi, sospetti di aver evaso fiscal­mente e di aver rici­clato denaro sporco. Si tratta di per­sone sopra ogni sospetto dalla casta dei busi­ness­men (pro­prie­tari di catene di super­mer­cati e di negozi di abbi­glia­mento, arma­tori) e dei liberi pro­fes­sio­ni­sti (medici, far­ma­ci­sti, inge­gneri civili, ecc.) che di crisi ne hanno capito poco, con depo­siti ban­cari che vanno oltre ai dieci milioni, men­tre alle auto­rità si dichia­rano «poveri» con introiti che non supe­rano le poche migliaia di euro. Sono gli stessi che risul­tano irre­pe­ri­bili oppure descritti con il ter­mine gene­rico «greci» nei ser­vizi di una parte della stampa internazionale

GRECIA: SÌ DELL'EUROGRUPPO, MA CON RISERVE
di Anna Maria Merlo

Debito eccessivo. Tsipras guadagna 4 mesi di tempo per ridiscutere il programma. Fmi chiede di più, la Ue pretende di "sviluppare e ampliare la lista". Moscovici: "non significa che siamo d'accordo su queste riforme". E l'accordo dipende ormai dal voto di 4 paesi, tra cui la Germania. Ma per la Grecia gli esami non finiscono mai

Gli esami non fini­scono mai per la Gre­cia. Ieri, l’Eurogruppo ha final­mente appro­vato la “lista” pre­sen­tata da Atene lunedi’ notte, pro­prio allo sca­dere dell’ora limite (“ho rice­vuto una mail alle 23,15” ha pre­ci­sato il pre­si­dente Jeroen Dijs­sel­bloem). L’Eurogruppo ha seguito il parere favo­re­vole dei cre­di­tori — Ue, Bce e Fmi — espresso in mat­ti­nata. Ma, ha spie­gato il com­mis­sa­rio agli Affari eco­no­mici e mone­tari, Pierre Mosco­vici, que­sto “non signi­fica che siamo d’accordo su que­ste riforme, siamo pero’ d’accordo sull’approccio, abbiamo evi­tato una crisi, ma restano nume­rose sfide di fronte a noi”. Sulla carta, la Gre­cia ha quat­tro mesi, fino a fine giu­gno, per ridi­scu­tere la que­stione del debito con le “isti­tu­zioni”, il nuovo nome del trio Ue-Bce-Fmi, che ha sosti­tuito l’odiato ter­mine di “tro­jka”.

Ma, intanto, per avere la cer­tezza che dal 28 feb­braio, data di sca­denza del secondo piano di aiuti (130 miliardi), ci sarà l’estensione di quat­tro mesi, biso­gna che il pro­getto passi nei par­la­menti dei quat­tro paesi che pre­ve­dono un voto ogni volta che ven­gono impe­gnati denari pub­blici. Sono Olanda, Fin­lan­dia, Esto­nia e Ger­ma­nia. Il Bun­de­stag vota venerdi’, Wol­fgang Schäu­ble ha scritto ai depu­tati per invi­tarli ad appro­vare il piano, in caso di via libera da parte dell’Eurogruppo. Ma, ha pre­ci­sato ieri il suo por­ta­voce Mar­tin Jae­ger, “la let­tera di Atene non con­duce a solu­zioni sostan­ziali”.

Riserve sono state emesse anche dall’Fmi: si tratta di un “valido punto di par­tenza”, ma “in vari set­tori” man­cano ras­si­cu­ra­zioni su riforme che erano state impo­ste dal Memo­ran­dum (aumento dell’Iva, abbas­sa­mento delle pen­sioni, pri­va­tiz­za­zioni, riforma al ribasso del lavoro). Anche l’Eurogruppo, dopo l’approvazione, ha voluto aggiun­gere delle rac­co­man­da­zioni: la Gre­cia deve “svi­lup­pare e ampliare la lista delle riforme, sulla base del pre­sente accordo, in stretta coo­pe­ra­zione con le isti­tu­zioni, per per­met­tere una con­clu­sione rapida e favo­re­vole dell’esame”. Difatti, per il ver­sa­mento dell‘ultima tran­che di circa 7 miliardi di euro per la Com­mis­sione “sono attese ulte­riori pre­ci­sa­zioni sulle riforme e saranno con­cor­date fino a fine aprile, in linea con quanto pre­vede la dichia­ra­zione dell’Eurogruppo della scorsa set­ti­mana”. I cre­di­tori sta­ranno attenti sulla pro­messa di lotta alla cor­ru­zione e all’evasione, vec­chie richie­ste della tro­jka e pro­messe che i pre­de­ces­sori di Tsi­pras non erano riu­sciti a met­tere in atto.

Il governo Tsi­pras ha dovuto cor­reg­gere a più riprese la “lista” da pre­sen­tare a Bru­xel­les. Il draft del comu­ni­cato ha fatto varie volte l’andata e ritorno tra Bru­xel­les e Atene, tra venerdi’ e lunedi’. La Gre­cia ha dovuto annac­quare molto la pro­po­sta. Jean-Claude Junc­ker, per esem­pio, ha escluso un aumento del sala­rio minimo. Nel testo resta una frase vaga: si parla di “approc­cio intel­li­gente della nego­zia­zione col­let­tiva sui salari” e “que­sto include la volontà di aumen­tare il sala­rio minimo, pre­ser­vando la com­pe­ti­ti­vità”, men­tre l’ “aumento del sala­rio minimo e il timing saranno decisi in con­cer­ta­zione con le isti­tu­zioni euro­pee e inter­na­zio­nali”. Per Junc­ker, sarebbe stato “inte­ni­bile” poli­ti­ca­mente un sala­rio minimo greco mag­giore di quello “di sei paesi della Ue” (tra cui Slo­vac­chia e Spa­gna), che sono chia­mati a con­tri­buire all’aiuto ad Atene.

La Gre­cia ha incluso nella pro­po­sta dei rife­ri­menti al pro­gramma di Syriza sull’aiuto ai più poveri, ma ha dovuto pre­ci­sare che “la lotta alla crisi uma­ni­ta­ria non avrà effetti nega­tivi sul bilan­cio”. Non ci sono det­ta­gli su que­ste misure, finite in fondo al testo. Inol­tre, sulle pri­va­tiz­za­zioni, Atene ha dovuto accet­tare che non saranno revo­cate quelle già appro­vate e che non tor­nerà indie­tro nep­pure su quelle per le quali è già stato pub­bli­cato il bando. Invece, “rive­drà quelle non ancora lan­ciate, pun­tando a miglio­rare i bene­fici a lungo ter­mine”. Dijs­sel­bloem, che in mat­ti­nata è stato rice­vuto dalla com­mis­sione affari eco­no­mici del Par­la­mento euro­peo, ha pre­ci­sato che la lista è “un primo passo, ma c’è ancora molto da lavo­rare”. Il pre­si­dente dell’Eurogruppo si è anche inter­ro­gato sulla tenuta del governo Tsi­pras: biso­gna vedere se “potrà fare quello che vuole”, ha detto.

L’Eurogruppo si è soprat­tutto pre­oc­cu­pato di otte­nere dalla Gre­cia l’assicurazione che non ver­ranno “prese ini­zia­tive uni­la­te­rali” e che ogni deci­sione sarà presa “in con­sul­ta­zione con le isti­tu­zioni euro­pee”. Dijs­sel­bloem è stato ancora più diretto: “ci deve essere una forte coo­pe­ra­zione, non si pos­sono fare mosse uni­la­te­rali, almeno fino a quando Atene vuole nuovi fondi dall’Eurozona”.

La vera pre­oc­cu­pa­zione è di evi­tare un Gre­xit, che farebbe tre­mare tutto l’edificio dell’euro. Per Chri­stine Lagarde, alla testa dell’Fmi, “l’uscita della Gre­cia dell’euro è fuori discus­sione, faremo di tutto per aiu­tarli” (in que­sto e solo in questo)

Se c'è ancora chi non ha compreso che cos'e di nefasto il regime instaurato dal partito do Renzo Renzi, e ha deciso di non voler cambiare idea non legga questo lucidissimo, accorato articolo. LaRepubblica, 25 febbraio 2015


VIVIAMO un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.

Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.

Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità.

Il tempo esecutivo e nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la democrazia. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa. La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica. Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.

Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un’ (altra) ideologia.
Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.

La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue per conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva.

Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche. Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.

Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno slogan — come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ ente viene presentato e imposto come se fosse l’ essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, eccetera.

Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umili spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro — deputati e senatori — che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?

Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo.

Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.

Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.

Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.

Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.

L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia

PIl manifesto, 25 febbrai 2015

Scisso tra le impo­si­zioni euro­pee e la dura con­cre­tezza dei fatti, il mini­stro dell’Economia Pier­carlo Padoan pro­prio qual­che giorno fa ha ammesso, in un’intervista all’Espresso, che ciò che finora non ha fun­zio­nato nel governo Renzi sono state le pri­va­tiz­za­zioni. Dif­fi­cile, nono­stante l’ideologia domi­nante cer­chi di far pen­sare il con­tra­rio, non ren­dersi conto che, nella situa­zione eco­no­mica attuale, disfarsi di pezzi dello Stato voglia dire sven­derli al miglior offe­rente. Lo stesso discorso vale per la Gre­cia di Tsi­pras, dove le pres­sioni più forti sono per pro­se­guire il pro­cesso di alleg­ge­ri­mento del patri­mo­nio pub­blico, anche se per for­tuna più nes­suno pro­pone di met­tere all’asta il Partenone.

Ben ven­gano, allora, messe a punto giu­ri­di­che, innan­zi­tutto, di una mate­ria che attiene al diritto pub­blico. Alberto Luca­relli, pro­fes­sore all’Università Fede­rico II di Napoli, è uno stu­dioso di quei beni, pub­blici per appar­te­nenza ma da non lasciare alla gestione sta­tale, che ven­gono defi­niti “comuni”. Accorto a non sgan­ciare mai la teo­ria dalla tec­nica giu­ri­dica, di fronte all’esondare di defi­ni­zioni che rischiano di annac­quare defi­ni­ti­va­mente il poten­ziale anti­pri­va­tiz­za­tore, e dun­que anti­li­be­ri­sta, dei beni comuni, lo stu­dioso par­te­no­peo ha sen­tito l’esigenza di peri­me­trare il campo d’azione, par­tendo dalla com­mis­sione Rodotà dalla quale tutto era comin­ciato, qual­che anno fa. Lo ha fatto con un lungo arti­colo pub­bli­cato sulla rivi­sta on line Costi­tu­zio­na­li­smo (si può leg­gere inte­gral­mente su www.costi tuzionalismo.it), nel quale, affron­tando la que­stione del dema­nio pub­blico, ne fa un ter­reno d’azione della dot­trina dei beni comuni.

Ferma restando la pro­prietà pub­blica, dun­que, cos’è che distin­gue un bene comune dagli altri? Luca­relli respinge la dot­trina della “terza via”, né sta­tale né pri­vata, della pro­prietà di sud­detti beni, ma è con­vinto che, piut­to­sto che la que­stione pro­prie­ta­ria, debba porsi quella della fun­zione: i beni comuni non sono gestiti dallo Stato ma nep­pure pos­sono sca­dere nella logica della con­ces­sione, che sostan­zial­mente pri­va­tizza il bene. Ciò che è fon­da­men­tale è la loro fun­zione sociale, a bene­fi­cio di una comu­nità che non è quella delle «pic­cole patrie» ma è inter­pre­tata, con il filo­sofo Roberto Espo­sito, come «com­po­sta da sog­getti attra­ver­sati da una dif­fe­renza e legati dalla mede­sima urgenza di fruire del bene». Un legame fun­zio­nale, dun­que, non esclu­dente e nep­pure legato a un ter­ri­to­rio, non pro­prie­ta­rio ma inteso come «un dono nei con­fronti degli altri». È quest’ultimo aspetto, per Luca­relli, che apre le porte a una nuova fun­zione del diritto pub­blico ed è il modo per supe­rare una con­ce­zione dello Stato che, oggi che ci tro­viamo in pieno «ciclo del pri­vato», per dirla con lo sto­rico Paul Gin­sborg, segna il passo.

Un lavoro pre­zioso, dun­que, che defi­ni­sce gli stru­menti, teo­rici e con­creti, per un’alternativa reale e li mette a dispo­si­zione delle Syriza e dei Pode­mos di casa nostra che inten­dano servirsene/l2:r


A leggere il comunicato di presentazione del corso di “alta formazione!” politico-istituzionale Eunomia in svolgimento in queste settimane a Firenze, c'è da stropicciarsi gli occhi per l'incredulità.

Sembra piuttosto un promo della novella di Ser Ciappelletto nel “Maraviglioso Boccaccio” dei fratelli Taviani in uscita sugli schermi proprio nello stesso periodo: chi chiamare a illustrare la “santità” dei comportamenti che asservono il ruolo degli enti pubblici agli interessi corporativi di aziende, cooperative, gruppi di interesse economico e/o politico-ideologico-religioso, se non coloro che più attivamente si sono adoperati a praticarli nel passato più o meno recente?

Lascio ad altri di articolare la dimostrazione dell'assunto nei campi dell'economia, delle banche, dell'energia (e ognuno credo possa ben capire a quali nomi faccia riferimento) e mi limito al campo di mia competenza: il ruolo degli enti locali territoriali nella gestione del territorio e delle opere pubbliche. Lodovico Meneghetti - che è stato a lungo docente di urbanistica al Politecnico di Milano, ma anche assessore comunale a Novara dove a metà degli anni Sessanta fece approvare uno storico PRG con aree edificabili quasi interamente in piani di iniziativa pubblica – in un recente intervento su eddyburg ricorda come fu proprio Bassanini nel 2001, come ministro delle riforme amministrative nel Governo Amato (due “alti formatori” in un sol colpo!) a far approvare il decreto delegato (si usava anche allora, anche se un po' più pudicamente di oggi) con cui si eliminò l'obbligo di versare gli oneri di urbanizzazione in un conto vincolato alla realizzazione di spazi ed opere pubbliche di urbanizzazione, istituito dalla legge n. 10/77, nota come “Bucalossi”, dal nome del ministro dei lavori pubblici dell'epoca e già Sindaco di Milano col PRI. Per i Comuni si aprì la cassa senza fondo degli ampliamenti edificatori dei PRG e degli accordi in deroga alle norme vigenti, per sostenere con i proventi degli oneri urbanizzativi bilanci comunali dalle spese correnti sempre più traballanti. Certo, come ricorda ancora Meneghetti, furono poi molti i responsansibili delle successive ripetute proroghe di questo andazzo che è ancora in vigore attualmente (da Tremonti che per primo nel 2005 avallò la richiesta delle Tesorerie comunali di “liberalizzare” l'uso dei conti vincolati ad opere urbanizzative al secondo Governo Prodi, partecipato persino dalla sinistra estrema, che ne perpetuò il sistema); eppure è giusto che per illustrarne i pregi ci si rivolga, più che ad altri, ai progenitori originari Amato e Bassanini.

Su questo terreno si è costruita anche la carriera politica di Maurizio Lupi, ancor oggi dirigente in aspettativa per mandato politico di Fiera di Milano Esposizioni, dove era approdato all'epoca dell'incontrastata egemonia ciellina sui vari rami dell'Ente Fiera durante tutta la lunghissima presidenza di Roberto Formigoni alla Regione Lombardia. Questa veste lo ha reso particolarmente indicato a ricoprire il ruolo di assessore all'urbanistica del Comune di Milano nella Giunta Albertini, in modo da poter tutelare particolarmente gli interessi immobiliari di Fondazione Fiera (ente di cui formalmente non faceva parte e pur nell'ambito di una più generale favorevole disposizione d'animo verso l'immobilarismo milanese) promuovendone la migrazione verso il polo esterno di Rho-Pero e aprendo la strada al riuso immobiliare della vecchia sede, concluso dal suo successore ciellino Masseroli durante la Giunta Moratti con la concessione di un milione di metri cubi , metà in tre torri di oltre 200 metri di altezza che in inverno oscureranno le case vicine per l'intera giornata e metà in lussuosi condomini ammassati al loro piede. L'operazione fruttò a Fondazione Fiera il doppio del prezzo corrente atteso (523 milioni di € anziché 250), ma costringendo il Comune a monetizzare più della metà degli spazi pubblici mancanti al prezzo convenzionale di 300€/mq, invece che al prezzo di mercato di 2.000 €/mq ottenuto da Fondazione Fiera. Con quel surplus Fondazione Fiera cominciò ad acquistare a prezzo agricolo le aree contigue al nuovo polo di Rho-Pero, su cui oggi sta per avere inizio l'evento EXPO 2015 e di cui si discute la valorizzazione immobiliare successiva.

Finito di esercitarsi in queste vicende milanesi, dal 2001 Lupi si trasferisce al Parlamento come deputato di FI dove intesse una sino ad allora inedita convergenza bi-partisan col deputato milanese della Margherita, e poi PD, Pierluigi Mantini per proporre un disegno di legge urbanistica ispirato al principio della “consensualità” degli atti amministrativi tra enti pubblici e proprietà fondiario-immobiliare (e da loro connotato come “passaggio dall'urbanistica all'economistica”), desunto dalle istruttive esperienze amministrative e legislative in materia urbanistica milanese e lombarda. Dal 2013, prima con Letta per il PdL e poi con Renzi per NCD, è Ministro delle Infrastrutture e Trasporti distinguendosi non solo per i rapporti cordiali e servizievoli con i concessionari di opere statali, ma anche per essere tornato a proporre un gruppo di studio sull'urbanistica “consensuale” con le proprietà fondiario-immobiliari.

Anche in questo caso, di fronte a tanta capacità di adattamento della subordinazione del ruolo pubblico agli interessi privati, non si può che apprezzare l'opportunità della scelta di Eunomia di chiamarlo a diffondere ad altri la sua esperienza, augurando al Sindaco di Firenze Nardella, nonostante la sua più breve carriera, di saper stare al pari di tanto esperto!

Per capire perché la battaglia del nuovo governo greco di Alexis Tsipras riguarda tutti i cittadini europei – e in particolare quelli della periferia – dobbiamo innanzitutto tenere a mente che la rinegoziazione del debito non è per Syriza un fine a sé stante, combattuto in nome di un astratto principio di giustizia economica, ma piuttosto un mezzo per realizzare un obiettivo molto preciso: la riduzione dell’avanzo primario dal 4-5% richiesto dalla troika (oggi è intorno al 3%) all’1-1.5% del Pil. Per avanzo primario si intende un bilancio pubblico in positivo, esclusa la spesa per interessi sul debito pubblico: sostanzialmente vuol dire che le entrate (le tasse) superano le uscite (la spesa pubblica). Il motivo per cui un governo sceglie di perseguire un avanzo primario è solitamente quello di destinare il surplus di entrate al pagamento degli interessi sul debito, nella speranza di ridurre un po’ alla volta lo stock di debito.

Nel caso della Grecia questi interessi si aggirano intorno al 4% del Pil, a cui bisogna aggiungeregli obiettivi di riduzione del debito previsti dal Fiscal Compact (1/20esimo l’anno della porzione eccedente il 60% del Pil): considerando che la Grecia ha un rapporto debito/Pil pari al 177% si fa presto ad arrivare all’avanzo primario del 4-5% fissato dalla troika per la Grecia, che nel giro di un paio di anni dovrebbe salire addirittura al 7% (almeno fino al 2030). Se così non fosse, e senza una riduzione della spesa annuale per interessi – che è quello che chiede Syriza, attraverso una ricontrattazione del debito –, l’unica alternativa sarebbe quella di indebitarsi ulteriormente per continuare a ripagare gli interessi sul debito pregresso – che, in sostanza, è quello che vorrebbero la Germania e l’Eurogruppo, e che la Grecia si rifiuta di fare (“perché sarebbe come consigliare a un amico di farsi una seconda carta di credito per ripagare i debiti contratti con la prima carta di credito”, ha dichiarato Varoufakis).

E allora perché non fare come dice la troika e cercare di aumentare ulteriormente l’avanzo primario? Perché non potrà mai funzionare. Né dal punto di vista politico e sociale – la Grecia è già stremata da anni di brutali misure di austerità, e un incremento dell’avanzo primario potrebbe solo essere raggiunto attraverso ulteriori tagli alla spesa pubblica e/o aumenti di tasse, e dunque attraverso ulteriori misure di austerità –, né dal punto di vista economico: accumulare ampi avanzi primari è infatti considerato intrinsecamente recessivo, in quanto di fatto consiste nel sottrarre risorse all’economia reale per destinarle ai creditori, nazionali ed esteri (o, per dirla diversamente, nel sottrarre denaro ai più per alimentare le rendite di pochi). Se poi questa politica viene praticata in un contesto come quello europeo – di bassa inflazione (come quello che registra l’Italia) o addirittura di deflazione (come quello che registra la Grecia) e in assenza di una banca centrale in grado di agire da prestatrice di ultima istanza e di intervenire sui mercati sovrani per calmierare i tassi di interesse (e senza chiedere misure di austerità in cambio) – è puro masochismo, in quanto si può “consolidare” quanto si vuole, ma il debito continuerà inevitabilmente a salire sia in termini reali, a causa dell’effetto recessivo-deflattivo del cosiddetto moltiplicatore fiscale (ulteriormente esacerbato dalle misure di austerità), sia in termini assoluti, perché molti stati non sono in grado di accumulare avanzi primari sufficienti a far fronte agli interessi, e sono dunque costretti a indebitarsi ulteriormente solo per ripagare gli interessi sul debito pregresso (anche se con l’entrata in vigore del Fiscal Compact, che impone il pareggio di bilancio strutturale, questa strada in teoria non è più percorribile). E infatti, a fronte di alcune delle misure di austerità più estreme mai sperimentate in Occidente, nella maggior parte dei paesi dell’eurozona (soprattutto quelli della periferia) il debito continua a lievitare a ritmi vertiginosi.

Questo non è un problema che riguarda solo la Grecia, infatti: in tutti i paesi della periferia la spesa per interessi si aggira tra il 3.5 il 5% del Pil. Il caso dell’Italia è paradigmatico: nonostante il paese registri un avanzo primario fin dai primi anni novanta, il nostro debito pubblico è continuato a salire unicamente a causa della spesa per interessi – che oggi si aggira intorno al 4.5% del Pil, pari a poco meno di 80 miliardi l’anno – per poi esplodere negli ultimi anni. Ora, in base al duplice obiettivo del Fiscal Compact – pareggio di bilancio strutturale e riduzione del debito –, questi paesi dovrebbero mantenere da qui al 2030 avanzi primari da capogiro, come si può vedere nel seguente grafico: 7% in Grecia, 6.5% in Italia, 5.5% in Portogallo, 3.5% in Spagna.

Si tratta di una strada palesemente insostenibile – e che infatti non ha precedenti nella storia – sia dal punto di vista economico che dal punto di vista politico e sociale, per l’entità dei tagli alla spesa pubblica o dell’imposizione fiscale che essa comporterebbe: se consideriamo che lo stimolo fiscale implementato da Obama nel 2009 ammontava al 5.5% del Pil e che il New Deal di Roosevelt era pari al 5.9% del Pil, un avanzo primario delle dimensioni previste dal Fiscal Compact equivarrebbe per molti paesi a una sorta di anti-New Deal praticato ogni anno per i prossimi quindici anni (almeno). Una follia.

Ecco perché la battaglia di Syriza – che riguarda non tanto il debito pubblico in sé quanto le assurde imposizioni del Fiscal Compact in termini di avanzi primari – riguarda tutti i paesi della periferia. E soprattutto l’Italia.

«». La Repubblica, 23 febbraio 2015

LE RECENTI vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Walter Benjamin, e cioè che «ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al contempo testimonia di un potenziale rivoluzionario, un malcontento che la sinistra non è stata in grado di mobilitare. Non vale lo stesso per il cosiddetto «islamofascismo» di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è forse in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Taliban si impadronirono della valle dello Swat in Pakistan, il New York Times riferì che essi avevano architettato «una rivolta di classe sfruttando le profonde divisioni tra un gruppo ristretto di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra».

Se «approfittandosi» della situazione dei contadini i Taliban hanno fatto «salire l’allarme circa i rischi che corre un Paese come il Pakistan, in gran parte ancora feudale», cosa impedisce ai liberal-democratici in Pakistan e negli Stati Uniti di «approfittare » della stessa situazione aiutando i fittavoli senza terra? La triste implicazione di tutto questo è che le forze feudali in Pakistan sono le «naturali alleate» della democrazia liberale…
Che dire allora dei valori fondamentali del liberalismo? Che ne è della libertà, dell’uguaglianza, ecc.? Il paradosso è che il liberalismo stesso non è abbastanza forte da preservarli dall’attacco del fondamentalismo. Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificante, ovviamente — a un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il primo è sempre, di nuovo, generato dal secondo. Abbandonato al proprio destino, il liberalismo va incontro alla propria distruzione — la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è il rinnovamento della sinistra. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. Questo è il solo modo di sconfiggere il fondamentalismo, di minare il terreno su cui esso poggia.

È un’osservazione di senso comune che lo Stato Islamico sia solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di risvegli anticoloniali (stiamo assistendo alla riconfigurazione dei confini tracciati arbitrariamente dalle grandi potenze dopo la Prima guerra mondiale), e allo stesso tempo un nuovo capitolo della resistenza ai tentativi del capitale globale di minare il potere degli Statinazione. A provocare tanto timore e sgomento è invece un altro tratto del regime dello Stato Islamico: le dichiarazioni delle autorità dell’Is indicano chiaramente che, a loro giudizio, l’obiettivo principale del potere statale non è il benessere della popolazione (sanità, lotta alla denutrizione ecc.) — ciò che realmente conta è la vita religiosa, che ogni aspetto della vita pubblica si conformi ai precetti religiosi. È per questo che l’Is rimane più o meno indifferente alle catastrofi umanitarie che avvengono all’interno dei suoi confini — il suo motto è «occupati della religione e il benessere provvederà a sé stesso». Qui appare lo scarto tra l’idea di potere praticato dall’Is e il concetto, occidentale e moderno, di «biopotere», di potere che regola la vita: il califfato dell’Is rifiuta totalmente la nozione di biopotere.

Ciò dimostra che l’Is è un fenomeno premoderno, un disperato tentativo di rimettere indietro le lancette del progresso storico? La resistenza al capitalismo globale non può ricevere impulso dal recupero di tradizioni premoderne, dalla difesa di forme di vita particolari — per il semplice motivo che un ritorno alle tradizioni premoderne è impossibile, considerato che la resistenza alla globalizzazione presuppone l’esistenza della globalizzazione stessa: chi si oppone alla globalizzazione in nome delle tradizioni che essa starebbe minacciando lo fa in una forma che è già moderna, parla già il linguaggio della modernità. Se il contenuto di queste restaurazioni è antico, la loro forma è ultramoderna.
Allora, anziché considerare l’Is come un caso estremo di resistenza alla modernizzazione, dovremmo semmai concepirlo come un caso di modernizzazione perversa. La nota fotografia che ritrae Al Baghdadi, leader dell’Is, con uno scintillante orologio svizzero al polso, è in questo senso emblematica: l’Is è ben organizzato in fatto di propaganda sul web e di operazioni finanziarie, ecc., malgrado faccia ricorso a queste pratiche ultramoderne per diffondere e imporre una visione ideologicopolitica che (più che conservatrice) appare come un disperato tentativo di stabilire chiare delimitazioni gerarchiche, in primo luogo quelle che disciplinano la religione, l’istruzione e la sessualità (regolamentazione strettamente asimmetrica della differenza sessuale, interdizione dell’istruzione laica…).
Tuttavia, anche quest’immagine di organizzazione fondamentalista severamente disciplinata e regolata non è priva di ambiguità: l’oppressione religiosa non è forse (più che) integrata dalla condotta delle unità militari locali dell’Is? Mentre l’ideologia ufficiale dello Stato Islamico fustiga il permissivismo occidentale, nella loro prassi quotidiana i reparti dell’Is compiono delle vere e proprie orge carnevalesche (stupri di gruppo, torture e uccisioni, rapine ai danni degli infedeli). La radicalità senza precedenti dell’Is riposa in questa brutalità ostentata, mostrata apertamente.
Questo articolo di Slavoj Zizek è tratto dal suo libro “L’Islam e la modernità. Riflessioni blasfeme (Ponte alle Grazie pagg. 92 euro 9)

«Per il segretario della Fiom "la maggior parte del Paese, quella che per vivere deve lavorare, non è rappresentata". Il sindacato, quindi, "deve porsi il problema di una coalizione sociale"». Il Fatto quotidiano, 22 febbraio 2015

«È cambiato tutto, siamo alla fine di un’epoca. È venuto il momento di sfidare democraticamente Renzi». Le parole di Maurizio Landini, il giorno dopo il varo del Jobs Act, sono molto chiare. Qualcosa sta per avvenire a sinistra e soprattutto nel rapporto tra il sindacato e la rappresentanza politica. Perché il segretario della Fiom ritiene che un limite storico sia stato valicato e ora occorra costruire una risposta adeguata.
Siamo dunque a un cambio d’epoca?
«Non c’è dubbio. Non solo Renzi applica tutto quello che gli ha chiesto Confindustria, ma afferma il principio che pur di lavorare si debba accettare qualsiasi condizione. Non c’è più il concetto che il lavoro è un diritto e la persona deve avere tutti i diritti di cittadinanza. Inoltre, viene messo in discussione un diritto fondamentale: quello di potersi coalizzare e agire collettivamente per contrattare la prestazione lavorativa
».
Lei vede in atto lo smantellamento dello Statuto dei lavoratori?
«Siamo a uno scardinamento sostanziale. Lo Statuto non solo tutelava le singole persone ma riconosceva la contrattazione collettiva e quindi la mediazione sociale come uno dei pilastri delle relazioni sindacali. Oggi questa logica viene messa in discussione. Non a caso Confindustria rilancia chiedendo di realizzare quanto fatto alla Fiat, oggi Fca: cancellare il contratto nazionale. E infatti alla Fca il salario minimo è più basso di quello nazionale».
Renzi, però, sostiene che la sua legge rottamerà la precarietà.
«È una grossa bugia, perché il nuovo contratto non è a tutele progressive. Se si pensa che ogni anno circa il 9% dei lavoratori cambia lavoro, si capisce che nel giro di poco tempo la tutela contro il licenziamento illegittimo non esisterà più».
Eppure, si dice, sono stati aboliti i contratti precari.
«Le forme fondamentali sono rimaste tutte, così come non sono state riviste le partite Iva. E gli ammortizzatori sociali non vengono realmente estesi. La cassa integrazione non lo è e la Naspi, che copre solo chi ha lavorato, sostituisce anche la mobilità. Solo che questa durava fino a tre anni mentre quella sarà portata a 18 mesi. Il demansionamento colpisce il lavoro così come eliminare il reintegro anche nei licenziamenti collettivi rappresenta un regalo alle imprese in un periodo in cui, nonostante si parli molto di ripresa, la crisi non è finita.

Sembra che non stia parlando di un governo di sinistra.
«Renzi dice di essere il nuovo, ma non siamo di fronte alle idee geniali di un giovane rampante. Si tratta, invece, delle direttive impartite dalla Bce con la famosa lettera del 2011 e che il governo sta applicando fedelmente. Bisogna aver chiaro quello che sta succedendo.

Su questo terreno la Cgil si è mobilitata e, visto che parliamo di temi europei, abbiamo visto la vittoria di Tsipras in Grecia. Le risposte, finora, non sono state efficaci.
«La situazione è complicata e difficile, questo è sotto gli occhi di tutti. Credo che ci sia bisogno di un coinvolgimento straordinario di tutti anche fuori dai luoghi di lavoro e una grande consapevolezza di quello che sta avvenendo. Non era mai avvenuto nella storia d’Italia che con leggi si cancellasse il diritto del lavoro. Cambiano radicalmente i rapporti di forza e le relazioni sindacali.

Serve dunque una risposta politica?
Occorre avere consapevolezza della situazione. Noi abbiamo innanzitutto bisogno di riconquistare un vero Statuto dei lavoratori di tutti, davvero tutti, i lavoratori. Per questo la Cgil ha avviato una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare senza escludere la possibilità di un referendum.

Si farà?
«Io penso di sì. Il direttivo ha indicato un percorso scegliendo una consultazione di tutti gli iscritti, che sono oltre 5 milioni. Ma la definizione del nuovo Statuto è un percorso che deve coinvolgere anche i non iscritti, perché parliamo della dignità delle persone. Renzi ha preso il programma di Confindustria e lo sta applicando senza che nessun italiano abbia potuto votarlo. Ma su questi temi non ha il consenso della maggioranza della popolazione. Vorrei sfidare Renzi a una verifica democratica».

Sta dicendo che è pronto a una sfida politica?
«Il problema è che la maggior parte del Paese, quella che per vivere deve lavorare, non è rappresentata. C’è un fatto nuovo nel rapporto tra politica e organizzazione sindacale».

Sta quindi pensando a un partito?

No, sarebbe una semplificazione.

A cosa, allora?
«Occorre la rappresentanza di quegli interessi. Apriamo questa discussione esplicitamente. Per quello che riguarda la Fiom dobbiamo rivolgerci a tutto ciò che è rappresentanza sociale, non solo i lavoratori. C’è tutto un mondo che si deve porre il problema di come affrontare questo nuovo quadro».

È l’idea della coalizione sociale?
«Sì. È un tema che come Fiom abbiamo già posto a settembre nella nostra assemblea dei delegati. Il sindacato si deve porre il problema di una coalizione sociale più larga e aprirsi a una rappresentanza anche politica. Quando un Parlamento cancella lo Statuto dei lavoratori con un colpo di spugna a essere rappresentato è solo l’interesse di uno, del più forte».
La sfida democratica a Renzi passa anche da qui?
P
enso assolutamente di sì».

Il manifesto, 22 febbraio 2015

È evi­dente che, con i decreti attua­tivi della fami­ge­rata carta di espro­pria­zione dei diritti deno­mi­nato Jobs Act, la Costi­tu­zione non è più la stessa. La prima parte, quella dei valori fon­da­men­tali, anche se non ancora toc­cata in modo espli­cito, è inde­bo­lita dalla legi­sla­zione più recente, vera pistola pun­tata con­tro il resi­duale diritto del lavoro. Frutto della seconda costi­tu­zio­na­liz­za­zione, lo Sta­tuto del 1970 era il com­pen­dio di una con­giun­tura sto­rica irri­pe­ti­bile che pre­sen­tava con­di­zioni poli­ti­che più favo­re­voli al mondo del lavoro. L’articolo 18 era in fondo il sim­bolo della rela­tiva potenza accu­mu­lata dal lavoro, rispetto al domi­nio asso­luto del capi­tale, e la dimo­stra­zione dei frutti posi­tivi sca­tu­riti dalla con­giun­zione di con­flitto sociale e grande mano­vra politica.

Ad essere col­pito dalla furia restau­ra­trice del governo Renzi è anzi­tutto il potere del lavoro e di con­se­guenza i diritti dei sin­goli dipen­denti si spen­gono come degli astratti postu­lati morali. Il segno di classe della riforma strut­tu­rale varata dal governo l’ha colto bene l’Ocse che, in uno sper­ti­cato elo­gio delle misure ren­ziane, le ha san­ti­fi­cate come l’eden resu­sci­tato della bella volontà di potenza dell’impresa. Nel docu­mento l’Ocse spiega le ragioni del suo inna­mo­ra­mento totale: «accre­scendo la pre­ve­di­bi­lità la norma riduce i costi reali dei licen­zia­menti, anche quando sono giu­di­cati ille­git­timi dai tri­bu­nali e inco­rag­gia le imprese». Sono felici sol­tanto per­ché il governo ha reso meno costosa la facoltà licenziare.

Quest’assalto nor­ma­tivo alla civiltà del lavoro, con la ridu­zione del costo del licen­zia­mento, secondo l’Ocse, è una divina bene­di­zione che accre­scerà la pro­dut­ti­vità per­ché, eli­mi­nando del tutto la pos­si­bi­lità del rein­te­gro per l’esclusione dall’impiego per motivi ille­git­timi, e ridu­cendo anche l’importo dell’indennizzo dovuto a chi viene get­tato sul lastrico, il Jobs Act sol­le­cita il risve­glio imme­diato degli spi­riti ani­mali del capi­ta­li­smo. Senza la sbri­ga­tiva libertà di licen­ziare, il capi­tale non rie­sce più a inve­stire, a inno­vare, a com­pe­tere. E quindi, il piano della nichi­li­stica espro­pria­zione del lavoro, con­ti­nua ad essere per­se­guito come la variante più allet­tante per rilan­ciare l’accumulazione in un paese che si accasa defi­ni­ti­va­mente nelle peri­fe­rie del capi­ta­li­smo glo­bale e che per il suo de te fabula nar­ra­tur guarda ormai all’Albania.

La filo­so­fia del ren­zi­smo si com­pie nel segno di una inte­grale deco­sti­tu­zio­na­liz­za­zione del lavoro. E la sua genuina essenza ideo­lo­gica è con­te­nuta nella cele­bre for­mula sulla libertà dell’imprenditore di licen­ziare come segno di una grande inno­va­zione desti­nata a fare epoca. La nuova legi­sla­zione, in effetti, è il cuore delle stra­volte riforme post-moderne, quelle capo­volte costru­zioni giu­ri­di­che che sop­pri­mono tutele e pic­cole libertà dal biso­gno e asse­gnano pro­prio al sog­getto già eco­no­mi­ca­mente più forte il diritto di schiac­ciare il con­traente più debole della rela­zione lavorativa.

Le con­di­zioni sociali della moder­nità sono basate gene­ti­ca­mente sul dif­fe­ren­ziale di potere tra capi­tale e lavoro. E il diritto del lavoro, nato dallo scon­tro poli­tico della società di massa, cer­cava di cor­reg­gere con gli inter­venti della legi­sla­zione gli squi­li­bri sociali più macro­sco­pici con­fe­rendo poteri cor­ret­tivi al lavoro come potenza sociale col­let­tiva. Ora il diritto muta di segno. E’ costruito il diritto del più forte, cioè è scol­pito anche sulla norma il potere legale san­zio­na­to­rio del capi­tale sul lavoro. Quando all’impresa si con­cede il diritto di licen­ziare il dipen­dente anche per un solo giorno ingiu­sti­fi­cato di assenza, le si con­se­gna un’arma di coer­ci­zione spro­por­zio­nata rispetto all’entità dell’illecito. E’ la pura forza dell’avere che suc­chia l’essere della per­sona che lavora, nel silen­zio della cor­nice pub­blica. Ma Rous­seau spie­gava che il diritto del più forte non è mai diritto. E quello scritto da Renzi è infatti la pura e sem­plice san­zione uffi­ciale e for­male del domi­nio di fatto dell’impresa sulla forza lavoro ridotta a varia­bile inanimata.

Ad domi­nio del capi­tale, scritto già a chiare let­tere nelle ogget­tive leggi dell’economia e con­fer­mato nelle ano­nime rego­la­rità impo­ste dalla divi­sione sociale del lavoro, si aggiunge anche la norma di stampo clas­si­sta che anni­chi­li­sce la rela­tiva auto­no­mia con­qui­stata nel Nove­cento dalla legi­sla­zione pub­blica nel cor­reg­gere le asim­me­trie del rap­porto sociale con norme det­tate dal senso civile e morale di un’epoca demo­cra­tica. Il giu­dice deve ammai­nare gli stru­menti roman­tici con i quali inse­guiva il mirag­gio della costi­tu­zio­na­liz­za­zione dei rap­porti di lavoro. Seb­bene con stru­menti coer­ci­tivi sca­ri­chi, per­ché privi di san­zione effet­tiva verso l’impresa ina­dem­piente, il giu­dice del lavoro aveva intro­dotto la legge e il con­tratto a più stretto col­le­ga­mento con l’essere del lavo­ra­tore. La bocca del giu­dice, nell’accertare la ade­guata pro­por­zione tra fatto e san­zione, ora si chiude dinanzi alla sover­chiante potenza dell’avere, del capi­tale, che fa ciò che crede della forza lavoro, con il modico prezzo di una indennità.

Si dise­gna una indi­vi­dua­liz­za­zione cre­scente delle rela­zioni eco­no­mi­che impo­nendo un secco rap­porto a due, da una parte sta il potere d’impresa che regna incon­tra­stato e dall’altra il lavoro, sog­getto ancor più pre­ca­rio appeso alla deci­sione d’azienda sui tempi, sui costi delle ristrut­tu­ra­zioni, sull’opportunità di un demen­sio­na­mento di ruolo nel posto di lavoro. Lo scam­bio inde­cente tra un (solo) nomi­na­tivo con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato e un effet­tivo potere di licen­ziare senza giu­sta causa cam­bia in pro­fon­dità i rap­porti di forza den­tro i luo­ghi di lavoro. Il sin­da­cato è invi­tato a uscire dalla fab­brica o dall’ufficio, non essendo più rile­vante il potere delle orga­niz­za­zioni nel trat­tare le con­di­zioni delle ristrut­tu­ra­zioni, degli esu­beri, dei tempi, delle mobi­lità, dei licen­zia­menti col­let­tivi.

Lo spie­gava bene Spi­noza: quando un sog­getto cede un potere, non ha più le chiavi per riven­di­care i suoi diritti. Non esi­stono infatti diritti frui­bili senza una potenza col­let­tiva che li sor­regge. E l’attacco del governo è, con qual­che per­versa siste­ma­ti­cità, indi­riz­zato con­tro le con­di­zioni (sociali e sin­da­cali) della potenza del lavoro. Strat­to­nato dalle stra­te­gie d’impresa che lo ren­de­vano una varia­bile sem­pre più pre­ca­ria, il lavoro viene ora reso liquido anche dalla norma giu­ri­dica. Il pub­blico si ada­gia alle esi­genze fun­zio­nali dell’impresa pri­vata e costrui­sce un diritto con moduli, tempi, risar­ci­menti mone­tari richie­sti dal capi­tale. Con il suo turbo governo Renzi pro­cede a passi di gam­bero verso l’Ottocento. Nella sua fab­brica entra solo il car­tello che intima alla mano­do­pera di per­dere ogni spe­ranza di riscatto e di non distur­bare il padrone che dà l’opportunità di lavoro, e quindi va santificato.

Nel regime giu­ri­dico duale, cioè con la com­pe­ti­zione inne­stata dalla norma dise­guale che dif­fe­ren­zia tra vec­chi e nuovi assunti ser­ven­dosi di pro­fili discri­mi­na­tori, l’impresa spera di otte­nere mag­giori poten­ziali di ricatto sul lavoro diviso e sotto minac­cia in virtù di nuovi poteri dispo­si­tivi e san­zio­na­tori. Con il suo Pier delle Vigne, la coman­dante dei vigili urbani di Firenze nomi­nata sul campo capo dell’ufficio legi­sla­tivo di palazzo Chigi, Renzi ha dav­vero posto fine al costi­tu­zio­na­li­smo della repub­blica. Già sepolti i suoi sog­getti poli­tici (i par­titi ideo­lo­gici di massa), ora sono spenti anche i suoi sog­getti sociali, il lavoro come sovrano della costi­tu­zione eco­no­mica. E’ comin­ciata un’altra epoca nel segno della destra eco­no­mica, cioè con lo sfac­ciato potere dell’impresa, con la sua giu­ri­sdi­zione pri­vata spie­tata e senza con­tro­par­tite. Il lavoro è scon­fitto, ma non vinto

Uno strumento di autodifesa per chi vuole mantenere intatta la propria capacità di pensare, apprendere, valutate e quindi agire in modo sensato. Particolarmente utile in un'epoca in cui la manipolazione delle menti è diventa un sofisticato strumento di potere.

La Repubblica, 2 febbraio 2015

Liberi di criticare. Sono quasi dieci anni che all’università di Grenoble viene insegnata l’arte del dubbio. L’ateneo ha un corso di “Zetetica e Autodifesa intellettuale” frequentato da centinaia di studenti ma anche semplici curiosi, affascinati da una materia nuova e unica in Francia. La cattedra è guidata da Richard Monvoisin insieme ad altri insegnanti del Cortecs, Collectif de recherche transdisciplinaire esprit critique et sciences.

Com’è nata l’idea di un corso specifico?
«La zetetica, inventata da una scuola greca di scettici radicali nel IV secolo a. C., è stata riscoperta nel Novecento come investigazione scientifica su fenomeni paranormali da un americano di origini italiane, Marcello Truzzi, e poi dal francese Henri Broch. Dopo essermi laureato in didattica e scienze fisiche, ho fatto il mio dottorato con Broch. Mi sono accorto che la zetetica poteva essere una disciplina trasversale».

Su cosa si fonda questa disciplina?
«Partiamo sempre dall’analisi delle fonti, dalla ricerca su informazioni non verificate, dalla demistificazione di cifre o frasi vuote. Nel nostro collettivo ci sono specialisti di ogni disciplina, dall’informatica alla biologia, dalla medicina, all’economia, alle scienze politiche. Ormai ci sono corsi di zetetica anche a Marsiglia, Montpellier. Lavoriamo su temi diversi come il creazionismo o i gender studies, Internet aperto e la xenofobia in politica. L’obiettivo di Cortecs è mettere in rete contributi diversi, invitando altri esperti a dialogare con noi, in un processo evolutivo di conoscenza».

Perché nel titolo del corso si parla di “autodifesa intellettuale”?

«E’ una metodologia che combatte la manipolazione delle opinioni o l’emergenza di nuove forme di consenso. Come diceva Noam Chomsky, il pericolo è tanto più grande per chi studia e fa professioni intellettuali. Nel mondo accademico anglosassone c’è già chi insegna il critical thinking ».

È più facile oggi manipolare le opinioni?
«Sono nato nel 1976 e ho vissuto l’avvento di Internet come una benedizione. Ero convinto che le generazioni dopo di me avrebbero avuto accesso a ogni tipo di informazione. Oggi invece i giovani rischiano di annegare nella vastità della Rete oppure di accontentarsi di una rappresentazione parziale. Dietro una schermata di Google ci sono interessi economici che molti purtroppo ignorano. La pluralità delle fonti è uno dei punti di partenza. Se voglio farmi un’opinione su Vladimir Putin, ad esempio, cercherò di leggere testi francesi, russi e ucraini. Inoltre, la rapidità nella diffusione delle informazioni rende ancora più facile errori di analisi. Suggerisco ai miei alunni di aspettare almeno qualche settimana prima di prendere posizione su un evento. Insieme al dubbio, bisogna praticare un ritmo lento del pensiero».

La zetetica è una forma di scetticismo?
«Lo scetticismo è un atteggiamento filosofico che si può riassumere con la frase di Bertrand Russell: “Dammi una buona ragione di pensare quello che pensi”. La zetetica è la metodologia pratica dello scetticismo. Il nostro scopo è aiutare la libertà di pensiero dei cittadini».

Eppure i dubbi dilagano sul web, alimentando le teorie del complotto. Vi occupate anche di questo?
«Intanto non le chiamiamo teorie, ma scenari, miti moderni, perché non sono confutabili e dunque non rispettano il criterio di falsificabilità di Karl Popper. Quando ci troviamo di fronte a scenari complottisti, come quello sull’11 Settembre, non facciamo altro che usare nozioni di epistemologia, applicando il criterio di massima parsimonia o il cosiddetto “Rasoio di Occam” che prediligono spiegazioni dimostrabili e semplici. L’esercizio funziona quasi sempre».

Avete già affrontato il tema dell’informazione sugli attentati di Parigi?
«Cominceremo un nuovo ciclo questa settimana dal titolo “Censura e libertà di espressione”. Noi pensiamo che sia meglio pubblicare il libro di Eric Zemmour (popolare saggista francese contro l’immigrazione, n.d.r.) oppure autorizzare gli spettacoli di Dieudonné. Piuttosto che impedire a qualcuno di esprimersi, trasformandolo in una presunta vittima, è meglio diffondere strumenti critici e di analisi. La zetetica dovrebbe essere insegnata già nelle scuole ai bambini. Piuttosto che la censura, è meglio scommettere sull’intelligenza collettiva».

il manifesto, 21 febbraio 2015

UN ACCORDO TEMPORANEO
di  Anna Maria Merlo

Eurogruppo . Intesa minima, per evitare un Grexident (un Grexit non voluto e programmato). Entro lunedi' Atene deve precisare gli impegni, giudicati troppo evasivi dai partner, Germania e alleati di ferro in testa, nella lettera di Varoufakis. Schäuble tentato della "lezione" ai trasgressori (Italia e Francia), utilizzando la Grecia come capro espiatorio

C’è un pro­getto di accordo all’Eurogruppo, un testo breve, che ha lo scopo di chia­rire le dif­fe­renze di inter­pre­ta­zione sulla crisi, che hanno por­tato allo scon­tro tra la Gre­cia, ogget­ti­va­mente iso­lata sulla que­stione del «rispetto degli impe­gni presi», e i suoi 18 part­ner della zona euro: la Gre­cia deve pre­sen­tare entro lunedì delle pre­ci­sa­zioni. L’ipotesi di com­pro­messo ha l’obiettivo di pro­teg­gere l’euro non tanto da un Gre­xit, che tutti esclu­dono a parole, ma da un Gre­xi­dent, cioè da un inci­dente che potrebbe arri­vare senza che nes­suno l’abbia vera­mente voluto o pre­pa­rato. Il pre­si­dente del Con­si­glio euro­peo, Donald Tusk, ha escluso ieri sera la con­vo­ca­zione di un ver­tice straor­di­na­rio Ue dome­nica, ma si è detto pronto a con­vo­carlo se neces­sa­rio, come ha chie­sto Tsipras.

Il testo, che dovrebbe ser­vire da base per un pro­lun­ga­mento di quat­tro mesi del piano di aiuti alla Gre­cia, è stato redatto ai mar­gini dell’Eurogruppo, prima che la riu­nione dei 19 mini­stri delle finanze della zona euro si aprisse (con un’ora e mezzo di ritardo). E’ il frutto dei nume­rosi incon­tri bila­te­rali del pome­rig­gio a Bru­xel­les, il più impor­tante dei quali è stato quello tra i due nemici, Wol­fgang Schäu­ble e Yanis Varou­fa­kis, che tutto divide. I due mini­stri si sono visti gra­zie alla media­zione dell’Fmi e di Chri­stine Lagarde, oltre­ché del com­mis­sa­rio Pierre Moscovici.

Per Schäu­ble, che la vigi­lia aveva respinto al mit­tente la let­tera di Varou­fa­kis, giu­di­cata «insuf­fi­ciente», il punto prin­ci­pale «non sono le regole – ha ammesso nell’incontro con il mini­stro por­to­ghese, Maria Luis Albu­ber­que – ma la fidu­cia reci­proca, chi distrugge la fidu­cia distrugge l’Europa». La Ger­ma­nia non ha dige­rito gli attac­chi sul nazi­smo e la richie­sta di ver­sare le ripa­ra­zioni di guerra. Varou­fa­kis, che non cono­sce la diplo­ma­zia, ha affron­tato Schäu­ble dicendo: «Lei non ha il mono­po­lio dell’Europa». Tra i part­ner meno schie­rati con la Ger­ma­nia c’è per­sino il sospetto che Schäu­ble cer­chi di dare una «lezione» a Ita­lia e Fran­cia attra­verso la «puni­zione» della Gre­cia (tro­vando alleati in Spa­gna e Por­to­gallo, dove i governi con­ser­va­tori temono Pode­mos – esi­ste anche una ver­sione por­to­ghese — nel caso di un suc­cesso delle richie­ste di Syriza)? Ha l’appoggio di Jens Weid­mann, pre­si­dente della Bun­den­bank: «La let­tera è com­ple­ta­mente vaga e la comu­ni­ca­zione greca è del tutto diversa a seconda del periodo e dei destinatari».

La gior­nata è stata intensa, con voci incon­trol­late (per­sino quella che Schäu­ble avesse respinto le pro­po­ste gre­che sulla base di un testo falso, che non era la let­tera di Varou­fa­kis). La vigi­lia c’erano state varie tele­fo­nate, Mer­kel e Hol­lande con Tsi­pras (50 minuti per la can­cel­liera tede­sca), Mer­kel con Renzi, ieri Mer­kel era a pranzo all’Eliseo con Hol­lande (ma nell’incontro off con i gior­na­li­sti, l’Eliseo si è rifiu­tato di par­lare della Gre­cia, tanto l’argomento era bol­lente e la divi­sione franco-tedesca forte sulla que­stione). La Com­mis­sione ha cer­cato la media­zione. Per Bru­xel­les, un «accordo è pos­si­bile nel pros­simo futuro se tutti si mostrano ragio­ne­voli». Per la Com­mis­sione ci sono «discus­sioni costrut­tive in corso», anche se, ha pre­ci­sato il por­ta­voce nel pome­rig­gio, «non ci siamo ancora».

Jeroen Dijs­sel­bloem, il pre­si­dente dell’Eurogruppo con cui Varou­fa­kis si è scon­trato dura­mente lunendì scorso, è arri­vato alla riu­nione con­vinto che ci siano «ragioni di essere otti­mi­sti», anche se il nego­ziato è «molto difficile».

Lo scon­tro resta sem­pre lo stesso: la Gre­cia ha fatto molto con­ces­sioni, ha accet­tato l’ «esten­sione» del piano attuale per sei mesi, per avere il tempo di pre­pa­rare un «nuovo con­tratto», per Tsi­pras «è arri­vato il momento di una deci­sione poli­tica sto­rica per l’avvenire dell’Europa», ma per i part­ner difen­sori del risa­na­mento dei conti, Atene deve dare delle «garan­zie». Quelle date finora, a comin­ciare dal rispetto di un bilan­cio in ecce­denza, non sem­brano bastare. E que­ste «garan­zie» erano scritte nero su bianco nel Memo­ran­dum, che Varou­fa­kis non men­ziona nella sua let­tera e sul cui rigetto Syriza ha vinto le ele­zioni. La Gre­cia ha cer­cato un accordo poli­tico, la Ue ha rispo­sto riman­dando agli accordi «tec­nici» e al loro rispetto. Mer­kel ha difatti sot­to­li­neato a Parigi che «c’è un gran numero di que­stioni tec­ni­che da rego­lare». Fra­nçois Hol­lande accetta più di Mer­kel di met­tere la que­stione greca sul piano poli­tico: «Non c’è uno sce­na­rio di uscita della Gre­cia dall’euro» ha ancora ripe­tuto ieri. Anhe la Spa­gna è su que­sta posi­zione: «l’integrità della zona euro è un valore fon­da­men­tale», ha affer­mato il mini­stro Luis De Guindos.

La Ger­ma­nia ha man­dato avanti i suoi alleati di ferro ieri. Il Por­to­gallo ha fatto sapere che rifiuta nuovi pre­stiti alla Gre­cia senza con­di­zioni. Per Maris Lauri, respon­sa­bile delle finanze dell’Estonia, un Gre­xit avrebbe «un debole impatto sull’euro» (lo dicono anche l’agenzia di rating S&P e l’istituto di con­giun­tura tede­sco Ifo). Il mini­stro Janis Reir, della Let­to­nia, ha affer­mato che «atten­diamo docu­menti chiari e com­pren­si­bili dalla Gre­cia». Il primo mini­stro slo­vacco, Robert Fico, non vuole più ver­sare aiuti alla Grecia

UN COMPROMESSO DIGNITOSO
di Pavlos Nerantzis

Alle 7.30 di ieri sera dal Megaro Maxi­mou, sede del governo greco, è arri­vata la buona noti­zia: «Sem­bra ci sia un accordo alla riu­nione dell’Eurogruppo». Il con­te­nuto non era ancora noto, molti i dubbi, — la riu­nione di Bru­xel­les era ancora in corso-, ma la sod­di­sfa­zione era già evidente.

Ale­xis Tsi­pras, intanto, aveva pre­an­nun­ciato poche ore prima che nel caso che le cose sareb­bero andate male, «noi chie­de­remo imme­dia­ta­mente un ver­tice dell’Ue per dome­nica pros­sima». Su que­sto almeno sem­bra che Ber­lino fosse d’ accordo.

Due ore più tardi non era ancora chiaro se Atene insi­steva sul ver­tice e l’attenzione si era spo­stata sul tipo delle riforme che saranno pro­mosse in base all’accordo – a que­sto pro­po­sito fonti gover­na­tive dicono che entro lunedì pros­simo ci sarà una lista -, e sulle misure uni­la­te­rali che il governo greco potrà – o non potrà — appli­care per far fronte alla crisi umanitaria.

Si rea­liz­ze­rano per esem­pio le nuove misure annun­ciate ieri dal vice mini­stro dell’economia, Nadia Vala­vani, che per­met­te­ranno ai cit­ta­dini che hanno accu­mu­lato debiti verso lo stato di poter rego­la­riz­zare la loro posi­zione ricor­rendo sino a cento rate men­sili? Oppure saranno blo­catte dai cre­di­tori inter­na­zio­nali? «Nel momento in cui non aggra­vano il bilan­cio dello stato, la rispo­sta è posi­tiva» affer­mano i mini­stri di Syriza, senza aspet­tare i det­ta­gli dell’ accordo all’Eurogruppo.

Intanto cre­sce il dibat­tito sull’arroganza dimo­strata dalla Ger­ma­nia: «Noi abbiamo fatto tutto quello che era pos­si­bile… Biso­gna che cia­scuno si prenda le pro­prie respon­sa­bi­lità», aveva com­men­tato poche ore prima della riu­nione dell’Eurogruppo il vice-premier greco, Yanis Dra­ga­sa­kis, respon­sa­bile della poli­tica eco­no­mica del nuovo esecutivo.

Atene di fronte all’ultimatum dei suoi part­ner e al peri­colo di un tra­collo finan­zia­rio – le ultime set­ti­mane sono state cri­ti­che per l’economia — ha voluto fare un passo indie­tro per otte­nere un com­pro­messo «digni­toso». Il governo «ha get­tato acqua nel suo vino», come si dice in Gre­cia quando qual­cuno fa un com­pro­messo. Si è reso conto che Ber­lino lo tra­sci­nava in un nego­ziato senza fine con l’obiettivo di inde­bo­lire il suo potere con­trat­tuale. Più si avvi­ci­nava il 28 feb­braio, più la posi­zione di Atene si sarebbe inde­bo­lita. Ecco per­ché Tsi­pras ha deciso di chiu­dere a tutti i costi il nego­ziato nella riu­nione di ieri. Il mini­stro delle Finanze greco aveva chie­sto un emen­da­mento dell’attuale pro­gramma, poi, invece, ha pro­po­sto un’estensione di sei mesi. Del pro­gramma nella sua tota­lità, come vor­reb­bero Ber­lino e altri part­ner euro­pei? No di certo. Varou­fa­kis ha chie­sto l’estensione del Master Finan­cial Assi­stance Faci­lity Agree­ment, il ter­mine legale con cui viene defi­nito l’attuale pro­gramma eco­no­mico, il memo­ran­dum, che scade il 28 feb­braio, senza asso­ciarlo alle misure spe­ci­fi­che di auste­rity. A sca­dere è l’accordo di finan­zia­mento, non le con­di­zioni ad esso asso­ciate, fanno notare fonti di Bru­xel­les. Non si tratta quindi come è stato scritto di una guerra di parole, è una que­stione di sostanza.

Atene, inol­tre, aveva chie­sto un forte hair-cut del debito pub­blico, per­ché inso­ste­ni­bile (180% del Pil), il dimez­za­mento dell’obiettivo dell’ avanzo pri­ma­rio (dal 4% al 1,5% per il 2015) in modo da «otte­nere un po’ di soldi» e far fronte alla crisi uma­ni­ta­ria, la sosti­tu­zione del dia­logo tra i rap­pre­sen­tanti della troika (Fmi, Ue, Bce) e i mini­stri greci con una super­vi­sione poli­tica, ovvero con un dia­logo tra il governo e le isti­tu­zioni europee.

Nella sua let­tera all’Eurogruppo Varou­fa­kis lascia da parte per ora la richie­sta di ridurre il debito, dice sem­pli­ce­mente che dovrà essere soste­ni­bile, parla in modo gene­rico della neces­sità di ridurre l’obiettivo dell’avanzo pri­ma­rio, accet­te­rebbe il moni­to­rag­gio delle isti­tu­zioni inter­na­zio­nali, pro­mette di pun­tare al risa­na­mento del bilan­cio, mette l’accento sulla lotta all’evasione fiscale, pro­mette di non pren­dere misure unilaterali.

«Un segnale posi­tivo» in vista di «un com­pro­messo ragio­ne­vole» ha defi­nito la richie­sta greca il pre­si­dente della Com­mis­sione Jean-Claude Junc­ker. Stesso soste­gno indi­retto anche da Roma e da Parigi. Quello forse che non è noto è il fatto che la let­tera con la richie­sta di Atene era il frutto di una stret­tis­sima col­la­bo­ra­zione tra la Com­mis­sione euro­pea e il governo di Syriza in vista della riu­nione deci­siva. Sem­bra quindi che da parte dei cre­di­tori inter­na­zio­nali c’è la volontà di essere fles­si­bili, di dare tempo e spa­zio ad Atene e il suo neo-governo di orga­niz­zare il suo piano di risanamento.

Ber­lino e lo schie­ra­mento degli «irri­du­ci­bili», invece, cia­scuno per motivi diversi, sono stati cate­go­rici die­tro al nein tede­sco. Temono l’eventualità di un con­ta­gio delle idee “sov­ver­sive” gre­che per i paesi che hanno subito l’austerity. Ber­lino vor­rebbe schiac­ciare Atene. Se ci riu­scirà si vedrà pre­sto, dal con­te­nuto dell’accordo

Un articolo interessante, ma un titolo sbagliato. Definiremmo "reazione", e non "rivoluzione", l'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Reazione feroce a quanto di positivo l'ultima metà del XX secolo ha prodotto sul terreno del lavoro.

La Repubblica, 21 febbraio 2015, con postilla

VENTITRÉ marzo 2002: tre milioni di italiani invadono Roma per fermare (riuscendoci) la riforma del fatidico articolo 18 minacciata dal governo Berlusconi. Venti febbraio 2015: il Consiglio dei ministri presieduto da Matteo Renzi approva i decreti attuativi del cosiddetto Jobs Act.

CHE , fra l’altro, riscrivono e ridimensionano le guarentigie per i licenziamenti. A prima vista, una svolta storica. Ma c’è da chiedersi forse se proprio la storia non avesse già svoltato da tempo e prima che le novità legislative arrivassero a registrarne i cambiamenti. In particolare, quelli intervenuti nella realtà economica del Paese con i suoi inesorabili riflessi sui rapporti di forza tra gli attori politici e sociali in campo.

Molte sono le ragioni che aiutano a spiegare come sia stato possibile realizzare oggi un intervento che appena tredici anni fa risultò del tutto impraticabile. Vale la pena di esaminarne almeno le principali per capire meglio quali profonde trasformazioni siano intervenute nel frattempo dentro il corpo vivo della società italiana. Non che siano mancate in questi mesi le dure reazioni del fronte sindacale contro la riforma delineata dal governo Renzi: la Cgil di Susanna Camusso e ancor più la Fiom di Maurizio Landini hanno protestato e mobilitato a più riprese le piazze. Ma la loro voce stavolta non ha trovato nel resto della società quella stessa cassa di risonanza favorevole a suo tempo ottenuta da Sergio Cofferati. E non certo, almeno nel caso di Landini, per difetto di leadership o di capacità di comunicazione. Oggi neppure un novello Cofferati avrebbe potuto replicare il memorabile successo del 2002.

Intanto va soppesata la differenza fra l’interlocutore politico di allora e quello di adesso. Per Silvio Berlusconi l’intervento sull’articolo 18 non aveva soltanto una valenza di genere economico ma anche, anzi soprattutto, di tipo politico. La modifica legislativa nasceva dall’intenzione, neppure troppo dissimulata, di perseguire attraverso una modifica dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro anche l’obiettivo di mettere all’angolo il potere tanto dei sindacati quanto dell’opposizione politica della sinistra. Un voler troppo che lo ha portato, come s’usa dire, a stroppiare.

Matteo Renzi ha avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici potendo spendere anche la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra. Ha polemizzato e anche con durezza con il mondo sindacale ma sempre tenendo la contesa sul versante specifico della questione. In più ha avuto anche l’abilità di sciogliere il nodo dell’articolo 18 all’interno di una riforma complessiva del mercato del lavoro che rottama i tanto sovente falsi contratti di collaborazione, che apre nuove strade agli ammortizzatori sociali e che con le cosiddette “tutele crescenti” schiude la porta a un rilancio delle assunzioni a tempo indeterminato. Tanto da ricevere al riguardo importanti segnali di consenso anche in sedi internazionali. Proprio in questi giorni perfino dall’Ocse che ha accreditato a questo Jobs Act del governo la capacità di far crescere il Pil del 6 per cento nel prossimo decennio. Magari, s’intende.

Ciò che più di tutto ha giocato a favore dell’iniziativa di Renzi e contro le resistenze del sindacato è comunque la profonda differenza della realtà economica di oggi rispetto a quella di tredici anni fa. L’assalto di Berlusconi all’articolo 18 è stato concepito in una fase nella quale il Pil del Paese cresceva a un ritmo dell’1,8 per cento l’anno e il tasso di disoccupazione era sceso dal 10,1 per cento al 9,2 nei dodici mesi precedenti. Una fase, insomma, nella quale le imprese assumevano senza badare all’articolo 18 e dunque la voce del fronte sindacale era conseguentemente forte e ascoltata. Va del resto ricordato che lo stesso Statuto dei lavoratori è una legge del 1970 figlia naturale di quell’autunno caldo che produsse la prima e importante redistribuzione dei redditi e dei diritti fra capitale e lavoro dopo gli anni del cosiddetto miracolo italiano.

Oggi la crescita economica, dopo anni di declino continuo, è ancora abbarbicata a uno stentato zero percentuale mentre la disoccupazione si mantiene più vicina al 13 che al 12 per cento. Non c’è bisogno di essere storici della lotta di classe per dedurne che una simile condizione statistica ridimensiona ruolo e potere delle rappresentanze sindacali. Non soltanto verso gli interlocutori politici e imprenditoriali ma anche all’interno del mondo del lavoro. E perfino su quello che si segnala come l’aspetto più imbarazzante della riforma ovvero quello di una monetizzazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro.

La dura realtà economica del presente conduce così a un inevitabile paradosso: i più interessati a un successo dei decreti attuativi del Jobs Act soprattutto in termini occupazionali diventano quei sindacati che ne dissentono apertamente. Perché, allo stato, solo nella riuscita della scommessa renziana potrebbero ritrovare il potere perduto.

postilla
Solo un lettore disattento delle parole e degli atti del Renzi della prima Leopolda può ritenere che egli abbia «avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici». La politica che l'inventore del Partito della nazione ha espresso con chiarezza di parole e di atti è determinata dalla volontà di cancellare tutte le conquiste dei migliori momenti della storia italiana: dalla progressiva conquista della
democrazia, avviata nella seconda metà del XIXsec., all'affermazione della centralità dei diritti del lavoro ottenuta nella seconda metà del XX. Della storia raccontata da Riva una cosa indigno, un'altra preoccupa. Indigna che, come scrive Riva, Renzi abbia potuto «spendere la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra»: c'è ancora chi crede che quel partito e il suo creatore, abbiano qualcosa di "sinistra". Preoccupa invece l'assenza del popolo: ciò che giustamente Riva rileva quando paragona la piazza che riuscì a mobilitare Cofferari con quella oggi riempita da Camussi e Landini. a questo è anche il frutto del lavaggio dei cervelli accuratamente svolto per qualche decennio dal regno mediatico del predecessore (e preparatore) di Matteo: Silvio Berlusconi, il Lazzaro dell'epoca renziana.

Un capo del governo pienamente post-democratico (sostanzialmente a-democratico) gestisce il declino italiano e fa passare la cura da cavallo Ue senza Memorandum». S

bilanciamoci.info, 20 febbraio 2015

La fotografia scattata un anno fa dallo speciale di “Sbilanciamo l’Europa” sull’alba del renzismo si rivela perfettamente a fuoco ancor oggi, in quello che potremmo definire il “meriggio del renzismo”. Non certo “grande” come quello dello Zarathustra di Nietzsche, ma, allo stesso modo, capace di mostrare le cose senz’ombre e per questo “rivelatore dell’enigma dell’eterno presente”.

S’individuavano allora i suoi tratti di continuità con il doroteismo democristiano, con l’aziendalismo mediatico berlusconiano e con l’affabulazione post-socialista e neo-liberista blairiana. Si mostrava il carattere sostanzialmente conservatore, se non reazionario, della sua rete sociale di riferimento (di “blocchi sociali” non si può più parlare nella nostra società liquida), collocato prevalentemente sul versante del “privilegio”, cioè di chi nel generale declino sociale conta di salvarsi, grazie a protezioni, giochi finanziari e posizioni di rendita.

Soprattutto si denunciava l’“internità” del suo progetto all’“agenda liberista” della finanza internazionale e della cupola che domina l’Europa, mascherata sotto una retorica tribunizia da “palingenesi totale”. Un novum, nel panorama antropologico-politico, che permetteva fin da allora di parlare dell’“apertura di una nuova fase”, segnata da uno stile di governo ormai pienamente post-democratico (e sostanzialmente a-democratico).

Ed è proprio questo elemento che si è drammaticamente confermato, fino ad assumere carattere dominante, nell’anno di governo che ci sta alle spalle. Sia le cosiddette “riforme istituzionali” sbozzate con la scure dei colpi di mano parlamentari, sia quelle “sociali” (meglio sarebbe chiamarle anti-sociali) come il decreto Poletti e il Jobs Act, ma anche – non dimentichiamolo, il decreto Sblocca Italia – ricalcano, in forma imbarazzante, le linee guida della Troika, senza neppure uno scostamento di maniera. Riproducono, introiettate come proposte “autonome”, gli stessi punti dei famigerati Memorandum imposti, manu militari dai Commissari europei, a paesi come la Grecia (che di quelle cure è socialmente morta), ma anche come la Spagna (che si dice abbia i “conti a posto” ma una disoccupazione sopra il 25%), come il Portogallo (14% di disoccupati, quasi il 50% di pressione fiscale), e come l’Irlanda (debito delle famiglie sopra il 200% del loro reddito). Si chiamano privatizzazioni, abbattimento del reddito e dei diritti del lavoro, de-costruzione dei sistemi di welfare, tassazione spietata sulle fasce più basse, riduzione degli ammortizzatori sociali, riduzione della Pubblica Amministrazione, limitazione della democrazia e dell’autonomia delle assemblee rappresentative, neutralizzazione dei “corpi intermedi”.

Il tutto coperto da una narrazione roboante e “rivendicativa”, fatta di “pugni sul tavolo”, lotta alla “casta” e sua rottamazione, caccia al gufo e apologia della velocità, “cambiamenti di verso” e taglio delle gambe ai frenatori, denuncia dell’inefficienza degli organi rappresentativi (Senatus mala bestia), attacco ai sindacati e in generale alle rappresentanze sociali. È, appunto, il “populismo dall’alto”. O il “populismo di governo”: una delle peggiori forme di populismo perché somma la carica dissolvente di quello “dal basso” con la potenza istituzionale della statualità. E piega il legittimo senso di ribellione delle vittime a fattore di legittimazione dei loro carnefici. Non è difficile leggere, dietro la struttura linguistica del discorso renziano, le stesse immagini e gli stessi stilemi dell’apocalittica grillina, l’enfasi da “ultima spiaggia”, la denuncia dei “parassiti”, la stigmatizzazione dei partiti politici (compreso il proprio), e lo stesso perentorio “arrendetevi” rivolto ai propri vecchi compagni diventati nemici interni. Simile, ma finalizzato, in questo caso, a una semplice sostituzione di leadership interna. A una sorta di “rivoluzione conservatrice”.

Questo è stato Matteo Renzi in quest’anno di gestione del potere: un “populista istituzionale”. Forse l’unica forma politica in grado di permettere al programma antipopolare che costituisce il pensiero unico al vertice dell’Europa di imporsi in un paese come l’Italia, nella crisi generale e conclamata delle forme tradizionali della politica (in particolare della “forma partito”), e nel deficit verticale di fiducia nei confronti di tutte le istituzioni rappresentative novecentesche. È stato lui il primo “imprenditore politico” che ha scelto di quotare alla propria borsa quella crisi: di trasformare da problema in risorsa il male che consuma alla radice il nostro sistema democratico. Con un’operazione spregiudicata e spericolata, che gli ha garantito finora di galleggiare, giorno per giorno, sulle sabbie mobili di un sistema istituzionale lesionato e di una situazione economica sempre vicina al collasso, senza risolvere uno solo dei problemi, alcuni incancrenendoli, altri rinviandoli sempre oltre il successivo ostacolo. E comunque “gestendo il declino” col piglio del broker (è lui, d’altra parte, che ha dichiarato senza vergognarsene che è stato il primo a capire che l’Italia era un paese “scalabile”), pronto a uscire dall’investimento un attimo prima del crollo in borsa. Novello funambolo – per ritornare alle metafore nistzscheane –, in bilico sul filo. E la residua platea elettorale a naso in su, di sotto, nel mercato, incerta tra l’aspettativa della caduta e il timore che oltre quella sua siepe ci sia solo il buio.

È stato quel buio, finora, il suo principale alleato: la promessa-minaccia che “après moi le déluge”. Dalla Grecia, a oriente, e dalla Spagna a occidente, arrivano ora lampi di luce, che potranno, nei prossimi mesi, dissipare quel buio.

Il manifesto, 20 febbraio 2015

Le isti­tu­zioni inter­na­zio­nali (Ocse, Fmi, Com­mis­sione euro­pea) sono col­pite da un virus peri­co­loso. Le rile­va­zioni sta­ti­sti­che su cre­scita, occu­pa­zione e mer­cato del lavoro sono dram­ma­ti­che, ma ven­gono pre­sen­tate, con gli stessi dati, come fos­sero l’oro di re Mida. Lo sce­na­rio è quello di sem­pre: ridu­zione del valore dell’euro e del prezzo del petro­lio, Quan­ti­ta­tive easing della Bce e riforme del mer­cato del lavoro favo­ri­scono la cre­scita. Restando alle pre­vi­sioni per l’Italia, il respon­sa­bile Ocse Gur­ria si è spinto a soste­nere che il Jobs Act può essere il motore del cam­bia­mento, men­tre i dati su cre­scita e occu­pa­zione di Ocse e Istat sono peg­giori delle pre­vi­sioni della Com­mis­sione euro­pea e della Legge di Sta­bi­lità di Padoan e Renzi. Serve un psi­co­logo, non un economista.

Lo sce­na­rio di cre­scita deli­neato è pes­simo. Non solo il 2014 è andato peg­gio delle stime ini­ziali, ma le pre­vi­sioni per il 2015 sono ancor più basse di quelle della Com­mis­sione euro­pea. L’Ocse pre­vede una cre­scita dello 0,4%, con­tro uno sce­na­rio “posi­tivo” di governo e Com­mis­sione euro­pea dello 0,6%. La sta­ti­stica con­se­gna un qua­dro dram­ma­tico del Paese, ciò nono­stante Gur­ria sostiene che il governo Renzi «ha scelto chia­ra­mente un team effi­cace… nel 2014 si sono fatti grandi passi in avanti sulle riforme» (Gur­ria, Ocse). Non solo. Le pre­vi­sioni potreb­bero andare meglio appena le libe­ra­liz­za­zioni e pri­va­tiz­za­zioni e, ovvia­mente, il Jobs Act, entre­ranno a regime. Com­ples­si­va­mente una cre­scita aggiun­tiva di 3,2 punti di Pil: 2,6 dalle libe­ra­liz­za­zioni e 0,6 punti dal Jobs Act.

Con­tem­po­ra­nea­mente l’Istat pre­senta i dati su disa­gio sociale e lavoro: il 23,4% delle fami­glie ita­liane vive in una situa­zione di disa­gio eco­no­mico, per un totale di 14,6 milioni di indi­vi­dui, men­tre il 12,4% dei nuclei si trova in grave dif­fi­coltà. Il lavoro? In Ita­lia lavo­rano meno di 6 per­sone su 10, cioè peg­gio di Gre­cia, Croa­zia e Spa­gna, con 2,5 mln di gio­vani che non lavo­rano e non stu­diano. Come per il tasso di occu­pa­zione, solo la Gre­cia ha fatto peg­gio dell’Italia.

Nono­stante il Jobs Act, l’Ocse sostiene la neces­sità di ulte­riori riforme del mer­cato del lavoro (la schia­vitù?). Serve vera­mente uno psi­co­logo da quelle parti.

Pren­dendo i dati dell’Ocse rela­tivi alla legi­sla­zione a pro­te­zione del lavoro (Epl), sco­priamo che dal 1990 al 2013 tutti i paesi hanno con­tratto le tutele a favore del lavoro. La Ger­ma­nia com­prime le tutele da 2,9 del 1990 a 2,0 del 2013, men­tre l’Italia passa da 3,8 del 1990 a 2,3 del 2013. Sostan­zial­mente l’Italia non regi­stra mag­giore o minori livelli di tutela del lavoro rispetto ad altri paesi. Solo la Fran­cia raf­forza la sua posi­zione pas­sando da 2,7 del 1990 a 3 del 2013. Inol­tre, que­sto indi­ca­tore è al netto del Jobs Act.

Una stima di que­sto indice dopo l’introduzione del Jobs Act farebbe pre­ci­pi­tare l’Italia al livello dei paesi emer­genti, con tutte le impli­ca­zioni di poli­tica indu­striale. Un altro e non banale aspetto è legato alla velo­cità dell’Italia nel ridurre le tutele del lavoro. Al netto della Fran­cia che ha alzato il livello delle pro­prie tutele tra il 1990 e il 2013 dell’11,1% (varia­zione 1990–2013), tutti i paesi con­si­de­rati hanno ridotto il pro­prio indice, ma l’Italia ha regi­strato un tasso di ridu­zione del 39,5%. Solo Spa­gna e Gre­cia hanno fatto peg­gio.

Ma il dibat­tito gior­na­li­stico e poli­tico non ama con­fron­tarsi su que­sti dati nasconde que­ste infor­ma­zioni. C’è qual­cosa che inquina la discus­sione poli­tica ed economica.

Spesso si discute a spro­po­sito della pro­dut­ti­vità del lavoro, ma quanti sanno che la pro­dut­ti­vità del capi­tale ita­liano tra il 1992 e il 2012 (Istat, dicem­bre 2013) è una fra­zione della pro­dut­ti­vità del lavoro? Qual­cuno deve pur rac­con­tare che nel periodo con­si­de­rato la pro­dut­ti­vità del capi­tale è stata nega­tiva dello 0,7 men­tre quella del lavoro è stata posi­tiva dello 0,8. Il pro­blema non è se siamo usciti dalla crisi tec­nica, arre­sto dell’arretramento del Pil, piut­to­sto se l’Italia è uscita dalla crisi di struttura.

L’Istat ricorda che la minore cre­scita del 2014 è inte­ra­mente attri­bui­bile alla dimi­nu­zione del valore aggiunto di agri­col­tura e indu­stria, solo in parte com­pen­sato da quello dei ser­vizi. Ma que­sto tipo di con­si­de­ra­zioni non pos­sono rac­con­tare cosa si cela die­tro la crisi ita­liana. Riforme o non riforme, l’Italia tra il 1996 e il 2014 è cre­scita meno della media euro­pea di ben 19 punti di Pil, con una ulte­riore aggra­vante: inve­stiva in media più degli altri paesi e, crisi dopo crisi, aumen­tava il gap annuale di minore cre­scita del Pil rispetto alla media euro­pea. Siamo pas­sati da meno 0,5 punti del 2000 a meno 1,8 punti del 2014. Se poi pen­siamo alla con­tra­zione della pro­du­zione di beni stru­men­tali, la peg­giore tra i paesi euro­pei, pos­siamo com­pren­dere come l’Italia abbia com­pro­messo quel vasto patri­mo­nio di cono­scenze che poteva con­tri­buire all’uscita della crisi di strut­tura. Forse siamo usciti dalla reces­sione, ma aspet­tiamo ben altri segnali. Rela­ti­va­mente alla crisi di strut­tura dob­biamo lavo­rare ancora molto.

«Che fare? O spostiamo l’isola o ci prendiamo la responsabilità di essere uno scoglio nel Mediterraneo». Cartolina da una tragedia senza fine, che il Primo mondo provocato e alimenta con gli affari dei furbi, i rifiuti dei razzisti e i silenzi degli ignavi. Comune.info, 20 febbraio 2015

A Lampedusa oggi c’è il sole.

I morti in mare non ci stanno, i turisti si fanno il giro in barca e io con un mucchietto di persone me ne vado in giro ad intervistare gli abitanti dell’isola per capire come funziona la vita su questo scoglio a un passo dall’Africa.

Ci racconta Veronica, che ha lavorato nel centro di accoglienza e ha “fatto degli incontri che sono rimasti impressi nella mia mente, ma non capivo cosa stava accadendo intorno a me, ma il personale era sempre quello. Sempre sei o sette persone eravamo a gestire tutto quanto… un centro che era per 180 posti doveva bastare per 1000. Chi faceva la fila per la colazione, doveva iniziare quella per il pranzo e poi doveva mettersi in fila per la polizia. Faceva la fila per mangiare, fila per il dottore e fila per la polizia.

Qui vediamo l’aspetto più tragico. Vedere arrivare una barca strapiena di persone che appena scendono… svengono, non è una situazione bella. E loro nemmeno parlano e dagli occhi capisci di cosa hanno bisogno. Di vestiti asciutti, di qualcosa di caldo da bere. Non c’è bisogno di parole per raccontare la propria esperienza.

Rischiano di morire, eppure qui sono solo all’inizio… chissà dove arriveranno. Ma per loro essere a Lampedusa significava essere salvi. Tutto il giorno dicevano: grazie Lampedusa!”

Il prete di Lampedusa, don Mimmo, ci dice “che dobbiamo fare? O spostiamo l’isola o ci prendiamo la responsabilità di essere uno scoglio in mezzo al Mediterraneo”.

Quelli che scappano coi barconi non cercano soldi o lavoro, ma solo una maniera qualunque per non morire. Sappiamo che scapperebbero anche se mandassimo le motovedette a sparargli addosso. Vengono via da una morte sicura e si buttano in braccio a una vita incerta.

Lampedusa non può essere un confine o una periferia, ma un’opportunità per un occidente che è stato per troppo tempo imperialista e violento e che può diventare una porta aperta attraverso la quale far passare esseri umani che cercano di salvarsi la vita.

Quanto ci costa questo pezzetto di umanità riconquistata?

Il manifesto, 20 febbraio 2015

Riunione decisiva. La lettera di Varoufakis fa molte concessioni ma irrita la Germania e gli ortodossi: fa riferimento all'accordo-quadro tra Grecia e Fesf, ma ignora il Memorandum. Lunedi' 16 è stato sfiorato lo scontro fisico da il ministro delle finanze greco e il presidente dell'Eurogruppo, Dijesselbloem. La Grecia è isolata, puo' contare solo sulla mediazione di Commissione, Italia e Francia. Ma, come Renzi, Valls ha fatto passare di forza la legge Macron, liberalizzazioni a vasto raggio come obolo a Bruxelles per evitare la "sanzione" a marzo.

Gli schie­ra­menti sono in posi­zione di bat­ta­glia, in vista dell’Eurogruppo “deci­sivo” di oggi. Sul tavolo dei part­ner della zona euro, c’è la let­tera di Yanis Varou­fa­kis, che accetta l’ “esten­sione” del piano, ma la pre­senta in una forma di inge­gne­ria lin­gui­stica che ieri sera ancora aveva susci­tato un chiaro “nein” del governo tede­sco (anche se, qual­che fis­sura è apparsa a Ber­lino, con Sig­mar Gabriel, vice-cancelliere Spd, che afferma: “ripren­diamo imme­dia­ta­mente la discus­sione con la Gre­cia”). Varou­fa­kis cita il piano con l’acronimo inglese, Mfafa, accetta anche l’articolo 10–1, che ammette “con­trolli” da parte dei cre­di­tori, che ormai non si chia­mano più “tro­jka” – parola invisa, non solo ai greci – ma “isti­tu­zioni” o “trio” (sono sem­pre Bce, Ue e Fmi). Per la Com­mis­sione è “un segnale posi­tivo”, che “apre la strada al com­pro­messo”. Lunedi’ 16, l’Eurogruppo straor­di­na­rio è finito quasi con uno scon­tro fisico, tra l’imponente Varou­fa­kis, ormai para­go­nato a Bruce Wil­lis, e Joe­ren Dijs­sel­bloem, il pre­si­dente dell’Eurogruppo (olan­dese, social-democratico), con Wol­fgand Schäu­ble che schiu­mava ner­vo­si­smo e che pale­se­mente non vuole più ritro­varsi nella stessa stanza con il suo col­lega greco delle finanze. Il malin­teso, su cui insi­ste l’ala rigo­ri­sta del governo tede­sco gui­data da Schäu­ble, è che il Mfafa è l’accordo-quadro di assi­stenza finan­zia­ria e che la Gre­cia vuole limi­tare l’impegno a que­sto aspetto, men­tre la Ger­ma­nia e Bru­xel­les quando si rife­ri­scono agli “impe­gni” presi da Atene pen­sano al Memo­ran­dum in tutti i suoi det­ta­gli.

La let­tera di Varou­fa­kis va comun­que al di là del com­pro­messo pro­po­sto dal com­mis­sa­rio Pierre Mosco­vici lunedi’, testo poi sosti­tuito con una presa di posi­zione più dura da Dijs­sel­bloem, che ha esa­spe­rato Varou­fa­kis e ha rischiato di finire in rissa, anche fisica, quando il mini­stro greco ha urlato un fac­cio all’olandese “bugiardo, bugiardo”, mostrando il pugno e scon­vol­gendo la prassi ovat­tata delle riu­nioni dei 19 mini­stri delle finanze della zona euro.

“Pren­dere o lasciare” ha fatto sapere il governo greco a Bru­xel­les alla vigi­lia dell’Eurogruppo dell’ultima chance. Per Varou­fa­kis oggi “si vedrà chi vuole una solu­zione e chi no”. La Ger­ma­nia arriva forte del suo schie­ra­mento dei rigo­ri­sti: al suo fianco schiera la Slo­vac­chia, i Bal­tici, la Fin­lan­dia, l’Olanda, la Slo­ve­nia e Spa­gna, Por­to­gallo e Irlanda, paesi che hanno subito la mano di ferro della tro­jka e i cui governi ora temono la rivolta degli elet­tori sul modello greco. Tsi­pras puo’ con­tare solo su uno sguardo non troppo arci­gno della Com­mis­sione Junc­ker, che ha pro­messo all’insediamento nel novem­bre scorso di rilan­ciare l’economia (con il pro­gramma ancora fan­ta­sma dei 315 miliardi).

Fran­cia e Ita­lia fanno la parte dei media­tori, ma Mat­teo Renzi con il Jobs Act e Fra­nçois Hol­lande con la legge Macron, hanno ormai pie­gato la testa, con l’obiettivo di evi­tare la “san­zione” Ue – cioè una multa salata – a marzo, per non rispetto degli impe­gni di riforma. Ieri, il primo mini­stro fran­cese, Manuel Valls, ha affer­mato che “la Fran­cia farà di tutto per­ché la Gre­cia resti nell’euro”. Lo ha detto di fronte a un’Assemblea infuo­cata, al momento del voto della “cen­sura” al suo governo, pre­sen­tata, senza spe­ranze di vit­to­ria, dalla destra Ump e Udi dopo che l’esecutivo aveva deciso di far pas­sare con la forza, ricor­rendo al 49–3 (una fidu­cia rove­sciata), la legge Macron, che rischiava una boc­cia­tura al par­la­mento. La legge Macron è un’accozzaglia di circa 300 arti­coli, che vanno dalla libe­ra­liz­za­zione del tra­sporto su auto­bus a delle pic­cole limi­ta­zioni per cor­po­ra­zioni potenti come quella dei notai, ma soprat­tutto lega­lizza il lavoro la dome­nica e riduce ancora il diritto del lavoro ren­dendo più facili i licen­zia­menti. La sini­stra del Ps, la cosid­detta “fronda”, si sarebbe aste­nuta e alcuni avreb­bero votato con­tro: la legge sarebbe pas­sata con il voto del centro-destra, cosa che Valls ha voluto evi­tare. Al prezzo, pero’ di lasciare un campo di rovine a sini­stra: Ps diviso, mag­gio­ranza ine­si­stente, men­tre alcuni del Front de gau­che hanno accet­tato di votare la cen­sura assieme non solo all’Ump di Sar­kozy ma anche ai tre depu­tati del Fronte nazionale.

E’ con que­sti alleati pusil­la­nimi che Varou­fa­kis che oggi si pre­senta al ver­detto dell’Eurogruppo, con impor­tanti con­ces­sioni, come il man­te­ni­mento dell’equilibrio di bilan­cio, l’accettazione della “super­vi­sione” delle “isti­tu­zioni” e la pro­messa di non pren­dere deci­sioni “uni­la­te­rali”. In Ger­ma­nia, il fronte intran­si­gente ha la ten­ta­zione di schiac­ciare Atene con una scon­fitta senza con­di­zioni (a Ber­lino, come in Fin­lan­dia, Olanda e Austria, c’è il ricatto che anche l’ “esten­sione” di sei mesi del piano greco deve essere appro­vata dal par­la­mento e il voto è a rischio). Per l’Ifo (Isti­tuto di con­giuntura tede­sco) e per l’agenzia di rating S&P un Gre­xit “dolce” (soste­nuto anche da Valéry Giscard d’Estaing) sarebbe indo­lore per la Germania.

Il manifesto, 19 febbraio 2015
L'APPELLO DEGLI EUROPEI Intellettuali:
SULLA GRECIA L'UE CAMBI ROTTA

La richiesta Dell'Unione Europea alla Grecia di proseguire con le catastrofiche Politiche di austerità degli Ultimi cinque anni, E UNO schiaffo alla democrazia e ai di sani criteri Economici.

Il popolo greco Attraverso Elezioni Democratiche ha rifiutato QUESTE azioni, Che Hanno Portato alla Contrazione del 26% della propria economia, al 27% del Tasso di disoccupazione e Hanno Portato il 40% della popolazione a vivere Sulla Soglia di Povertà.

Continuare con l'austerità significa tradire la Ue e tradire i Principi di Democrazia, Prosperità e solidarietà. Il Rischio E Che l'austerità finisca per osare un fiato Forze antidemocratiche tanto in Grecia, in Quanto ALTRI PAESI.

Chiediamo alla dirigenza Europea di da rispettare la decisione del popolo greco e di concedere al nuovo Governo il tempo per rimediare alla Crisi Umanitaria e Ripartire con la Necessaria Ricostruzione della devastata economia nazionale.

Costas Douzinas, Jacqueline Rose, Giorgio Agamben, Slavoj Zizek, Lynne Segal, Gayatri Spivak, Etienne Balibar, Judith Butler, Jean-Luc Nancy, Chantal Mouffe, David Harvey, Eric Fassin, Joanna Bourke, Immanuel Wallerstein, Wendy Brown, Sandro Mezzadra, Marina Warner, Drucilla Cornel


G recia, LA MANO TESA DI DRAGHI
di Antonio Sciotto

SEMBRA Che il signal di via libera alla possibilita dell'accordo this volta non Sia Venuto da Bruxelles, ma Direttamente dall'Eurotower di Francoforte: ieri il presidente Mario Draghi ha superato le contrarietà dei paesi Più rigoristi, un dalla Partire Germania, e ha DECISO di concedere altro credito alla Grecia: per Altre dovuto Settimane, elevando il tetto del Programma Ela da 65 a 68,3 miliardi, ma Sono soldi preziosi. Ed e Prezioso also IL MESSAGGIO rivolto all'Europa.

Sì Perché this decisione di Draghi E arrivata nel Momento di Massima Tensione all'interno della trattativa, tuttora aperta, Tra Atene e Bruxelles: sempre ieri il ministro dell'Economia grsco, Yanis Varoufakis, AVEVA Confermato di protagonista Preparando Una lettera di richiesta di Altri sei mesi di Finanziamento da parte della Ue, testo Che però dovrebbe escludere la sottomissione alle rigide direttive della troika.

Sulla linea, per Capirci, del documento Moscovici, Quello sostituito All'ultimo Momento da Uno Più duro, scritto dal presidente dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, e il Che AVEVA: determinato lunedì scorso la rottura. La Proposta del commissario francese, more morbida, era Sicuramente piaciuta Di Più Ai Greci, e Sara proprio su Quella linea Che Atene chiedera alle Cancellerie Europee, Oltre Che alla Commissione, di venirle incontro.

L'incontro decisivo, per discutere delle Richieste greche e delle controproposte di Bruxelles, potrebbe Essere Già Quello di Oggi: tutto dipenderà da venire verranno scritti i Documenti, da entrambe le parti, per arrivare a Una possibile sintesi: da parte greca si punta un osare l'impressione (Soprattutto all'opinione pubblica interna) Che Non Si e Tornati annuncio Accettare diktat rigidi venire Quelli della troika, ma da parte Europea si dovra dimostrare Che Non Si e ceduto troppo: Altrimenti non potrebbe arrivare un ok Dalla Germania. Paese che, vieni si sa bene, conta eccome.

Intanto ieri Berlino ha una Tenuto sottolineare le proprie POSIZIONI: un'estensione degli Aiuti alla Grecia e «inscindibile» dall'impegno a completare le Riforme, ah Detto il Portavoce del Ministero delle Finanze tedesco, Martin Jaeger. Ribadendo Quanto Detto NEGLI Ultimi giorni dall'inflessibile Wolfgang Schaeuble.

Ma il monito Più rilevante è arrivato da Washington: il Segretario al Tesoro Usa Jacob Lew ha chiesto alla Grecia di trovare velocemente un «percorso Costruttivo» per un Accordo con l'Europa e l'Fmi. Secondo quanto riportano i greci dei media, Lew a Una Telefonata con Varoufakis ha espresso le preoccupazioni citare in giudizio per l'attuale fase di stallo, il Che crea incertezze all'Europa. In mancanza di un Accordo, ha Detto il Segretario al tesoro statunitense, la Grecia si troverebbe ad affrontare Difficoltà immediato. Lew ha also said un Varoufakis Che incoraggerà i creditori della Grecia un internacionales trovare Accordo delle Nazioni Unite.

Varoufakis A Sua volta ha dichiarato Che il monito Non E rivolto solista alla Grecia, ma also alla Ue: «Il Segretario del Tesoro Usa mi ha effettivamente said Che un Mancato Accordo danneggerebbe la Grecia», ma «ha aggiunto Che danneggerebbe also l'Europa . Un Avvertimento una entrambe le parti », ha scritto il ministro ellenico in un Tweet.

Subito, una ruota, ë arrivata quindi Una Dichiarazione di Angela Merkel. Che se PUÒ Essere considerata venire un'apertura alla Grecia, Una Conferma Che dall'azione di Draghi in poi Si e imboccata la via per un'intesa, dall'altro lato Precisa Che Non Tutto è concesso: «Se ALCUNI Paesi Sono in difficolta , Allora Daremo Loro la nostra solidarietà - ha said la cancelliera un un congresso del Suo Partito - Ma la solidarietà non e Una strada a senso unico. Piuttosto, Con gli Sforzi dei paesi, e Una Faccia della STESSA medaglia e sara sempre Così ».

Infine da segnalare E un inatteso appoggio pro-Grecia del Bild, il settimanale Più letto in Germania, in mano all'editore Conservatore Axel Springer, sostenitore di Merkel: «Cara Grecia - Scrive in un editoriale - se perdiamo te, non se ne Vanno in fumo assolo I nostri miliardi di euro, ma also Il Nostro cuore. Il greco si parla da 4.000 anni. Dobbiamo Salvare la Grecia: se Salviamo la Grecia Salviamo noi Stessi. Che cosa sono i miliardi Contro Omero, Aristotele, Socrate? La Grecia vale Piu di Tutti i miliardi ».

L '"EUROPA REALE" È IL NUOVO COLOSSO
DAI PIEDI D'ARGILLA
di Roberto Musacchio

Vieni Si Può motivare infatti, con Qualche ragionevolezza, l'idea di arrivare at a possibile rottura con un Paese chiave del Mediterraneo, la Grecia, in Piena Crisi Libica, ndr ucrainica? Appunto Una follia.

E vieni Si Può Rispondere, sempre con Qualche ragionevolezza, alla Constatazione Evidente in sé del Fallimento delle Politiche di austerità in Grecia ma in generale in Europa? In Realtà non PUÒ lo si.

Per this le Strutture dell '"Europa reale", ei Poteri Forti, Nazionali e sovranazionali, Che le sostengono si trincerano Dietro Uno status quo Che sarebbe immodificabile pena il crollo del Sistema.

Uso this verbo, trincerarsi, volutamente. Lo mutuo da Collindrige Che lo uso per criticare le tecnologie Che Sono pensate in modo da risultare irreversibili, Anche di fronte a evidenti Segni di Fallimento. Erano I Tempi del Dibattito sul nucleare. Allora E Prendo a prestito un Termine Dalla fisica, «entropia», per dire Che l'attuale Sistema Europeo di posta Insieme Produttore di caos, entropico, e di rigidità, si Trincera. E 'cioè un Sistema Che assomma i Difetti dei grandi sistemi di Usa e Cina eliminandone i "pregi".

La realtà Ê Che la costruzione della Governance della austerità ha Portato un iperfetazione un Sistema Che VIENE da lontano e il Che ha Portato l'Europa alla attuale Condizione. E 'il modello funzionalistico e intergovernamentale, Quello di Monnet, Che Fino ad Un certo punto ha Avuto il Contrappeso delle FUNZIONI Democratiche statuali e del modello sociale progressivo Ma che poi degenera e fa degenerare il Sistema. Cio avviene Già con l'ingresso della moneta unica, cui non si accompagna Una forma di democrazia Europea, Che VIENE invece soppiantata Dalle Strutture tecnocratiche.

Il tutto si strutturalizza Ancora Di Più con la austerità. Nel minerale QUESTE E squadernato tutto il campionario di assurdità Messo in campo con i vari six pack, bicomponente e fiscal compact. Si e COSTRUITO un mostro istituzionale e Giuridico Che Rende Il Sistema strutturalmente impermeabile Sia alla democrazia Che Agli imput della Realtà. Per Di Più ci Si e mossi sommando il Metodo comunitario, con cui si Sono Fatte le direttive, e Quello intergovernativo, con cui Si e varato il fiscal compact. Con in piu l'eurogruppo Che in materia di austerità funziona Più Come un Consiglio di Amministrazione, Pesando le quote Finanziarie immesse, Che vengono Istituzione Una. Si aggiunga al quadro l'egemonismo della Merkel ei biechi Interessi di ALCUNI Paesi Prossimi annuncio Elezioni, venire la Spagna, per Capire Che l'Azione di Tsipras sta scoperchiando il verminaio.

Un verminaio Che ha inquinato i pozzi della democrazia. Non essendosi costruita Una democrazia Europea, Rolling chi Chiede il RISPETTO del Mandato popolare greco si Risponde, irresponsabilmente, Che C'è il Mandato elettorale tedesco. Lavorando Così, venire fa da tempo this sciagurata classe dirigente Europea, un separare i popoli invece Che ad unirli. Una classe dirigente sciagurata Che in Realta E tenuta in vita da solista dal Compito assegnatole e cioè Quello di favorire il passaggio DELL'EUROPA nell'ambito del Sistema della Globalizzazione capitalistica Finanziaria. Un Costo di distruggerla.

Perciò le Proposte di Tsipras Sono dirompenti e un Accordo Che ne recepisse il senso di marcia sarebbe straordinariamente Importante. E Evidente Che Al di là della Questione delle Cifre Le cose in gioco Sono il modello sociale e La Questione Democratica.

Uscire da Troika e memorandum, le Strutture incardinazione Dalla gestione della austerità per Essere Rese Permanenti, significa APRIRE la grande Questione di un altro modello sociale e di democrazia Una vera. Tsipras ha Avuto la Capacità di Portare lo scontro al Livello colomba Esso si pone e cioè Quello Europeo. E la mobilitazione popolare Che lo sta sostenendo in Tutta Europa dadi Che una this debiti formativi cominciano ad arrivare Anche i Cittadini Europei. Si apre cioè l'unica strada possibile e cioè Quella Di Una Europa Democratica e federale. Ma, per venire Tutte le rivoluzioni, la lotta dura E

Ciò che è realmente in ballo nella trattativa in corso a Bruxelles sul debito della Grecia non sono i soldi, ma chi vincerà nello scontro tra chi vuole un'altra Europa e chi accetta la sottomissione alla Deutche Strasse. Da che parte sta l'Italia?Il manifesto, 18 febbraio 2015

È un dop­pio pres­sing quello con cui deve fare i conti Ale­xis Tsi­pras, alle prese sia con l’ultimatum dei part­ner euro­pei, che gli stanno impo­nendo l’estensione dell’attuale pro­gramma di risa­na­mento, sia con gli avver­sari interni a Syriza, che non sono d’accordo con un even­tuale com­pro­messo con il resto dell’Ue.

Il governo greco mira a una solu­zione van­tag­giosa per tutte le parti, ma a parte il movi­mento di soli­da­rietà che si è espresso nelle piazze del mondo, in seno dell’ Euro­gruppo il suo mini­stro delle Finanze è rima­sto solo con­tro i «18». Nono­stante alcuni, come l’Italia e la Fran­cia, sareb­bero pronti a dare una mano. Yanis Varou­fa­kis è rima­sto solo non per­ché sprov­vi­sto di una pro­po­sta ben arti­co­lata da pre­sen­tare ai suoi col­le­ghi, come hanno scritto alcuni opi­nion makers, bensì per il fatto che ha messo in evi­denza le poli­ti­che cata­stro­fi­che dell’austerity e il modo di fun­zio­nare delle isti­tu­zioni euro­pee (Com­mis­sione, Euro­gruppo, Bce) che fanno il gioco dei mer­cati e del paese eco­no­mi­ca­mente piú forte, la Ger­ma­nia, con­tro i prin­cipi fon­da­tivi dell’Unione europea.

Atene è rima­sta sola per­ché Ber­lino ha rischiato di essere messa con le spalle al muro. Il gioco delle parole — l’estensione del pro­gramma attuale, come vogliono Bru­xel­les e Ber­lino, o l’«emendamento» a cui punta Atene — in realtà rispec­chia uno scon­tro ideo­lo­gico. Ed è quello che ha fatto fal­lire la riu­nione dell’Eurogruppo.

La Ger­ma­nia ha deciso di mostrare i denti alla Gre­cia non solo per­ché la sod­di­sfa­zione di una parte delle richie­ste elle­ni­che potrebbe «sti­mo­lare l’appetito» di altri paesi euro­pei inten­zio­nati a per­se­guire una poli­tica anti-austerity. Né per­ché si sono con­fron­tati due prin­cipi etici diversi: il primo basato su un razio­na­li­smo rigido secondo il quale «i debiti comun­que vanno pagati»; l’altro basato sulla soli­da­rietà, che rifiuta lo stran­go­la­mento eco­no­mico di chi si trova in con­di­zione di biso­gno. Ber­lino ha cer­cato di scre­di­tare la poli­tica del nuovo governo greco per­ché una solu­zione a favore di Tsi­pras potrebbe met­tere in dub­bio la ger­ma­niz­za­zione del vec­chio con­ti­nente e apri­rebbe uno spi­ra­glio a una rifon­da­zione su basi diverse dell’Ue e delle sue isti­tu­zioni. Un’Europa rin­no­vata, dove saranno i popoli a decidere.

Non dimen­ti­chiamo che Ale­xis Tsi­pras è il primo lea­der euro­peo di sini­stra — dopo il cipriota Dimi­tris Chri­sto­fias, lea­der di Akel — che pro­pone un modello diverso di Europa. Syriza, la sini­stra radi­cale greca, nell’arco di poche set­ti­mane è riu­scita da una parte a riu­ni­fi­care la mag­gio­ranza dei cit­ta­dini, resti­tuendo loro spe­ranza e un pezzo della dignità che il memo­ran­dum gli aveva strap­pato, e dall’altra a mobi­li­tare le piazze euro­pee «per un’altra Europa».

Non a caso, nel momento in cui il mini­stro delle Finanze greco espri­meva la sua dispo­ni­bi­lità a fir­mare il comu­ni­cato finale dell’Eurogruppo che gli ha pre­sen­tato in forma di bozza il com­mis­sa­rio agli Affari eco­no­mici Pierre Mosco­vici — dove si parla di un piano inter­me­dio, non di una sem­plice esten­sione — è inter­ve­nuto il mini­stro delle finanze tede­sco per stop­pare il ten­ta­tivo di com­pro­messo fran­cese. «Il neo governo greco è irre­spon­sa­bile» ha sot­to­li­neato Wol­fgang Schau­ble poche ore prima della riu­nione dell’Eurogruppo. Che equi­vale a dire ai part­ner euro­pei: «Non date fidu­cia ai greci, cer­cano di fregarvi».

Ora tocca alla Bce, che ha il potere asso­luto sulla poli­tica mone­ta­ria dell’Ue e che sfugge a qual­siasi con­trollo poli­tico, sta­bi­lire oggi se biso­gna chiu­dere i rubi­netti del finan­zia­mento di emer­genza (Ela) che tiene in piedi le ban­che gre­che. A sen­tire i soliti media che non si stan­cano ogni giorno di ripro­porre gli sce­nari apo­ca­lit­tici del «Gre­xit», se entro venerdì non si rag­giun­gerà un accordo tra Euro­gruppo e governo elle­nico, la Bce non potrà che fer­mare il finan­zia­mento degli isti­tuti di cre­dito greci. Diverso, invece, sem­bra che sia per il momento il parere di Mario Draghi.

Ale­xis Tsi­pras sarebbe pronto a un com­pro­messo, ma senza ricatti: «Il memo­ran­dum ha pro­vo­cato una crisi uma­ni­ta­ria e l’ eco­no­mia si trova in una via senza uscita. Il suo annul­la­mento è l’ unica scelta det­tata non solo dal risul­tato elet­to­rale, ma dalla logica» ha affer­mato ieri il por­ta­voce del governo, rispon­dendo così anche a chi fa notare che entro venerdì il governo greco deve deci­dere se essere o meno abban­do­nato a se stesso. Otti­mi­sta su un accordo — «nei pros­simi due giorni, per­ché non vogliamo arri­vare a un punto morto» — si è detto anche il mini­stro Varoufakis.

E ieri sera fonti del goveno con­fer­ma­vano la noti­zia giunta da Bru­xel­les: Atene chie­derà l’estensione di 6 mesi non del memo­ran­dum, ma del «con­tratto di pre­stito» con i cre­di­tori inter­na­zio­nali; come a dire, rispet­tiamo il pro­gramma attuale, ma non ulte­riori misure restrit­tive della troika. La domanda però resta la stessa: come supe­rare le osses­sioni di Berlino

. Tommaso di Francesco intervista Angelo Del Boca Il manifesto, 17 febbraio 2015 (m.p.r.)
Abbiamo rivolto alcune domande sull’attuale crisi libica ad Angelo Del Boca, sto­rico del colo­nia­limso ita­liano, della Libia e autore di molti saggi sulla figura di Ghed­dafi (com­presa una impor­tante mono­gra­fia, rie­dita in que­sti giorni in una ver­sione più com­pleta da Laterza).
Come giu­di­chi l’affermazione del mini­stro degli esteri Paolo Gen­ti­loni: «Siamo pronti a com­bat­tere in Libia…», per­ché «è uno Stato fal­lito», sem­bra spie­gare Mat­teo Renzi?
È una dichia­ra­zione irre­spon­sa­bile e impru­dente. Per­ché mette l’accento (salvo mar­gi­nal­mente chia­rire il solito rife­ri­mento all’«egida Onu») pro­prio ad un inter­vento mili­tare dell’Italia che non siamo in grado di fare. Per­ché un conto è atti­vare una guerra aerea come abbiamo fatto nel 2011, un altro com­bat­tere con truppe di terra. È una dichia­ra­zione gra­vis­sima, per­ché siamo spinti den­tro uno sce­na­rio di guerra per il quale siamo ina­datti. Baste­rebbe che i nostri gover­nanti inca­paci stu­dias­sero un po’ la sto­ria, per sco­prire le tante scon­fitte libi­che che abbiamo subito. Altro che inviare 5mila uomini come ha evo­cato la mini­stra della difesa Pinotti. Da inviare con­tro chi? Su quale fronte?
Renzi, che rela­zio­nerà su que­sto gio­vedì in Par­la­mento, sem­bra ora fre­nare e parla di «solu­zione poli­tica». Ma è chiaro che, dopo il sì in patria di Ber­lu­sconi, lavora ad una «coa­li­zione di volen­te­rosi». Ma la situa­zione sem­bra pre­ci­pi­tare: l’Egitto del gene­rale gol­pi­sta Al Sisi, bypas­sando l’Italia, ieri notte ha bom­bar­dato le basi dell’Is a Derna; e ieri mat­tina la Fran­cia ha chie­sto la riu­nione urgente del Con­si­glio di sicu­rezza dell’Onu…
È nello stile di Renzi che vuole gio­care su due tavoli. Il primo è quello da «pro­ta­go­ni­sta», di una mis­sione mili­tare a guida ita­liana. Una cosa mai sen­tita, almeno nel dopo­guerra. L’altro è più pru­dente, viste le dif­fi­coltà reali di una tale enor­mità. Insomma: vabbè, lo fac­ciamo con l’Onu. Che è un atteg­gia­mento più mode­rato e più spen­di­bile. Soprat­tutto di fronte all’atteggiamento del Cairo.
Ieri notte l’aviazione egi­ziana ha bom­bar­dato le posta­zioni dello Stato isla­mico a Derna. Quali rea­zioni pro­voca in Libia l’entrata in campo dell’Egitto con l’offensiva mili­tare del generale-presidente Al Sisi? E qual è la situa­zione poli­tica interna al fronte libico, diviso e frammentato?
L’iniziativa mili­tare egi­ziana è rile­vante, anche se va ricor­dato che è ini­ziata da tempo, infatti aveva già bom­bar­dato nei giorni scorsi Ben­gasi. Di fatto il nuovo regime del Cairo appog­gia il governo libico in esi­lio di Tobruk che fa rife­ri­mento al gene­rale Kha­lifa Haf­tar e al suo eser­cito. Haf­tar com­batte già a Ben­gasi con­tro i jiha­di­sti e sta ria­bi­li­tando espo­nenti del regime di Ghed­dafi. E Al Sisi deve dare una prova di forza per­ché se non difende quel con­fine e il Sinai, per lui è finita. Il fatto è che den­tro la Libia a comin­ciare da Tri­poli, di alleati di Al Sisi non se ne vedono, Tri­poli è persa. Anche per­ché il governo legit­timo libico, eletto da ele­zioni suf­fra­gate dagli osser­va­tori inter­na­zio­nali, è nelle mani della coa­li­zione Al Fajr (Alba), for­ma­zione che va dai Fra­telli musul­mani alla mili­zia Scudo di Misu­rata. Come si ricor­derà nel 2013 il gene­rale Al Sisi ha depo­sto il pre­si­dente Morsi, mas­sa­crato e messo fuori legge i Fra­telli musul­mani. E ora le mili­zie del Calif­fato pun­tano alla con­qui­sta di Misu­rata, gover­nata appunto dalle stesse forze di Tripoli.
Non ti sem­bra che, anche sta­volta, venga taciuto l’interesse ita­liano, ormai deci­sivo, riguardo alle nostre fonti di approv­vi­gio­na­mento energetico?
Que­sto aspetto invece è fon­da­men­tale. Ma Renzi lo tace, anche per­ché la situa­zione dell’Eni in que­sto momento è pastic­ciata e inge­sti­bile. Dopo gli scan­dali legati all’Algeria e soprat­tutto per la crisi in Ucraina che, alla fine, ha sostan­zial­mente pena­liz­zato l’Unione euro­pea e in par­ti­co­lare l’Italia, visto il disa­stro della can­cel­la­zione del South Stream, il fon­da­men­tale mega-progetto di gasdotto euro­peo. Secondo me in que­sta fase - e non solo per l’insicurezza deri­vata dalla guerra per bande ma anche per il mer­cato stor­nato verso altri lidi -, l’Eni non è in grado di estrarre nem­meno un litro di petro­lio dai gia­ci­menti libici.
Come mai tanta arro­ganza e mio­pia del governo ita­liano in que­sta fase della crisi mon­diale?
È per­ché, in modo scel­le­rato, manca una poli­tica estera, una vera diplo­ma­zia ita­liana. Renzi dice che la Libia è uno «Stato fal­lito». E chi l’ha fatto fal­lire se non la guerra del 2011 voluta a tutti i costi dalla Fran­cia di Sar­kozy? Dimen­ti­cano che con quella guerra fug­gi­rono milioni di lavo­ra­tori migranti e di libici, dei quali ora un milione è in Egitto e 600mila in Tuni­sia. Voglio ricor­dare che quando gli aerei della Nato bom­bar­da­vano la Libia nel marzo del 2011, io ammo­nivo «la Libia diven­terà una nuova Soma­lia». È quello che è acca­duto. Ora va coin­volto, in una fun­zione di media­zione inter­na­zio­nale l’alta per­so­na­lità di Romano Prodi, già inviato spe­ciale nel Sahel dell’Onu, che ha espresso più volte la sua con­tra­rietà alla solu­zione mili­tare, e che è visto come inter­lo­cu­tore anche dalle attuali auto­rità di Tri­poli. Subito, prima che sia troppo tardi.
«In questo simbolo della reggia dei papi che diventa reggia dei cittadini c’è un nesso profondo con la Carta: con l’articolo 1, che ci vuole “sovrani”».

La Repubblica, 17 febbraio 2015

L’aveva detto nel messaggio d’insediamento, il Presidente Mattarella: «Garantire la Costituzione significa » anche «amare i nostri tesori artistici e ambientali». Il verbo “amare” appartiene ad un vocabolario davvero lontanissimo dalla retorica corrente della “valorizzazione” (leggi mercificazione) del nostro patrimonio culturale: perché il sottotesto è il brano del Vangelo di Matteo dove si dice che: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore». È la stessa lingua della Costituzione, che dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio della Nazione » non per aumentare il Pil, ma per favorire «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3) attraverso «lo sviluppo della cultura» (art. 9). Parole che oggi diventano concrete nell’annuncio che il Quirinale sarà aperto tutti i giorni agli italiani.

E anche in questo simbolo della reggia dei papi che diventa reggia dei cittadini c’è un nesso profondo con la Carta: con l’articolo 1, che ci vuole “sovrani”. Entrare nel Palazzo del Quirinale significa camminare sulla cresta sottile del vertice dell’arte barocca: quando Roma era, per l’ultima volta, la capitale artistica del mondo. Nemmeno i Palazzi Apostolici del Vaticano possono sfoggiare un appartamento di Stato delle dimensioni e della solennità del nesso costituito dall’immensa Sala Regia (oggi detta Salone dei Corazzieri) e dalla contigua Cappella Paolina, separate e unite da un portale di marmo degno di una basilica, disegnato da Carlo Maderno (autore, tra l’altro, della navata e della facciata di San Pietro) e scolpito dal dimenticato (ma bravissimo) Taddeo Landini. In questi spazi straordinari, che sfociano in una serie infinita di sale e gallerie, Paolo V Borghese (papa dal 1605 al 1621) riceveva gli ambasciatori, circondato dalle figure dipinte dai seguaci dei due grandi rivoluzionari di primo Seicento, Annibale Carracci e Caravaggio.
Come spesso succede nell’arte barocca, nella Sala Regia va eternamente in scena uno spettacolo, basato sullo sdoppiamento: grazie agli affreschi del fregio, anche quando è vuoto il salone sembra gremito di diplomatici, giunti ad omaggiare il papa da ogni angolo del mondo. Tra i tanti volti esotici che si affacciano dalle balconate dipinte è possibile riconoscere quelli degli inviati del re del Congo, e quello del dignitario giapponese Hasekura Rokuemon, che fu a Roma nel 1616. È una scena che si presta ad una doppia lettura: da una parte essa sottolinea l’aspirazione universale, oggi diremmo globale, del potere papale. Ma è solo il trucco di un bravo pittore illusionista: perché già al tempo di Paolo V il papato era ridotto al rango di potenza regionale, e per giunta di seconda fila. Dopo quattro secoli il messaggio colpisce con la stessa forza, e ci ricorda che la proiezione internazionale dell’Italia rischia di rimanere un’aspirazione, anzi un’illusione: la lama della retorica barocca è a doppio taglio, e noi non siamo cambiati.
Ma il Quirinale non è solo una scenografia piena di specchi (reali e metaforici), è anche il contenitore di una sterminata raccolta di opere d’arte (che vanno dall’antichità ai nostri giorni) e di una importantissima serie di arredi (dagli arazzi ai mobili) provenienti dalle regge degli antichi sovrani di tutta la Penisola, e qui concentrati (anche troppo disinvoltamente, per la verità) dai Savoia. Non c’è davvero alcun bisogno di pensare di trasformare questo luogo unico in un museo, perché è già un meraviglioso racconto del nesso profondissimo tra nazione italiana e patrimonio culturale. Bisogna solo farlo “parlare”: ed entrarci - da sovrani - ci verrà perfettamente naturale.

Il manifesto, 17 febbraio 2015

Dopo gli incon­tri della scorsa set­ti­mana fra Ue e governo greco, si era sparso un certo otti­mi­smo e ali­men­tata la spe­ranza di un «pro­fumo d’accordo». C’era anche stato chi aveva pen­sato che la riu­nione di ieri all’Eurogruppo sarebbe risul­tata già deci­siva per siglare un’intesa. Al con­tra­rio, pare pro­prio che quel pro­fumo sia rapi­da­mente sva­po­rato. D’altro canto la riu­nione era comin­ciata con le peg­giori pre­messe pre­an­nun­ciando una pesante e dram­ma­tica rot­tura della trattativa.

Il mini­stro della finanze tede­sco Wol­fgang Schau­ble ha bat­tuto con insi­stenza sui tasti dello scet­ti­ci­smo e della intran­si­genza, giun­gendo a qua­li­fi­care il governo greco come «un ese­cu­tivo irre­spon­sa­bile» per­ché rima­sto fermo sulle sue posi­zioni. Non c’è da stu­pirsi. Si tratta solo di una delle tante varianti dello spi­rito a-democratico che anima le éli­tes euro­pee, in par­ti­co­lare quelle tede­sche. Schau­ble aveva già dichia­rato che per lui le ele­zioni gre­che era come se non esi­stes­sero. E oggi riba­di­sce che è irre­spon­sa­bile il governo greco che vuole coe­ren­te­mente appli­care il man­dato elet­to­rale e non accet­tare i dik­tat della Troika.

Dun­que nulla di fatto. Anzi un arre­tra­mento. La Troika che pareva uscita dalla porta, rien­tra dalla fine­stra. Il docu­mento pre­sen­tato al governo greco riba­di­sce infatti che il pro­gramma della Troika resta e andrebbe esteso per sei mesi.

Il governo greco dovrebbe rinun­ciare a qua­lun­que tipo di azione uni­la­te­rale. In altre parole dovrebbe rinun­ciare a gover­nare, se non sotto det­ta­tura. Infatti il docu­mento espli­cita che sono neces­sa­rie intese con i part­ners euro­pei e inter­na­zio­nali per assu­mere ini­zia­tive in par­ti­co­lare sul tema della poli­tica fiscale, delle pri­va­tiz­za­zioni, del mer­cato del lavoro, del set­tore finan­zia­rio, delle pen­sioni. L’analogia con i temi citati dalla fami­ge­rata let­tera della Bce al governo Ber­lu­sconi dei primi di ago­sto del 2011 è molto forte, a dimo­stra­zione per­sino della scarsa fan­ta­sia della buro­cra­zia di Bruxelles.

Infine il docu­mento Ue pre­cisa che ogni age­vo­la­zione finan­zia­ria da parte della Bce e degli altri organi euro­pei avverrà solo a fronte dell' esten­sione di sei mesi del pro­gramma della Troika, che dovranno essere usati per la rica­pi­ta­liz­za­zione delle ban­che e saranno con­cesse sulla base di deci­sioni delle isti­tu­zioni euro­pee e dello stesso Eurogruppo.

Come si vede una pro­po­sta cape­stro che il governo greco ha giu­sta­mente respinto con grande riso­lu­tezza, giu­di­can­dola «assurda e inaccettabile». Il ten­ta­tivo di media­zione avan­zato per conto della Fran­cia dal mini­stro delle Finanze Michel Sapin è andato, per ora, a sbat­tere con­tro il muro della intran­si­genza tedesca.

Tut­ta­via non è l’ultima riu­nione. Altre ce ne saranno. Si tratta di capire se l’irrigidimento tede­sco fa parte di una pura tat­tica o è una posi­zione ina­mo­vi­bile, legata magari anche ai recen­tis­simi insuc­cessi elet­to­rali della Mer­kel ad Amburgo, una scon­fitta sto­rica per la can­cel­liera. Ma molto può fare la mobi­li­ta­zione inter­na­zio­nale comin­ciata con le mani­fe­sta­zioni di san Valentino.

«A Bru­xel­les stanno com­bat­tendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze per­ché hanno avuto la forza e il corag­gio di sfi­dare Golia e la capa­cità di rice­vere dal popolo greco la legit­ti­ma­zione a farlo. Sono lì a farsi ascol­tare anche a nome nostro».

Il manifesto, 15 febbraio 2015

Non so se sono i greci che deb­bono rin­gra­ziarci per que­sta mani­fe­sta­zione grande, bella, uni­ta­ria che abbiamo pro­mosso in tutta fretta per­ché a Bru­xel­les capis­sero bene che quanto lì si decide in que­sti giorni non riguarda solo Atene, ma tutti noi, tutti gli euro­pei che vogliono un’Unione in grado di garan­tire più ugua­glianza più demo­cra­zia più pace.

Un’Europa che almeno la smetta di rite­nersi faro della civiltà quando è inca­pace di acco­gliere chi fugge da terre deva­state dalla pesante ere­dità colo­niale e dalle nostre più recenti, dis­sen­nate spe­di­zioni mili­tari. Pro­prio per que­sto sarebbe forse meglio dire che non sono i greci a dover rin­gra­ziare noi, ma noi che rin­gra­ziamo loro per quello che stanno facendo anche per noi. Noi che rin­gra­ziamo Ale­xis e Yan­nis - (li chia­miamo ormai per nome per­ché non sono più solo com­pa­gni ma sono diven­tati amici).

Siamo noi che li rin­gra­ziamo per­ché lì a Bru­xel­les stanno com­bat­tendo anche per noi. Sono lì ed hanno avuto accesso a quelle stanze per­ché hanno avuto la forza e il corag­gio di sfi­dare Golia e la capa­cità di rice­vere dal popolo greco la legit­ti­ma­zione a farlo. Sono lì a farsi ascol­tare anche a nome nostro. (Direi che se la cavano piut­to­sto bene. La prova, lo sap­piamo, è duris­sima, ma già dopo que­sti pochi/ primi giorni sem­brano pro­ce­dere con fer­mezza, con la sicu­rezza di rodati sta­ti­sti). Ne siamo orgo­gliosi e sod­di­sfatti. (Avete visto le loro imma­gini in tv, sono loro a domi­nare la scena, e tutti si affret­tano ad avvi­ci­narsi a loro per strin­ger­gli la mano).

Per­ché hanno capito che i nostri amici hanno aperto un nuovo capi­tolo della sto­ria dell’Unione euro­pea: per­ché hanno avuto la deter­mi­na­zione - che fino ad oggi era man­cata a tutti - di dire che così non va, che occorre cam­biare pro­prio se si vuole sal­vare il pro­getto d’Europa. Non sono andati a Buxel­les a scu­sarsi per il loro debito e a men­di­care aiuto, ma per dire alla troika che deve chie­dere scusa.

Scusa per i danni che ha pro­dotto con le sue poli­ti­che. Scusa per essersi irre­spon­sa­bil­mente fidata, di un governo cor­rotto e inca­pace. La cata­strofe è oggi sotto gli occhi di tutti. Di anno in anno, dal 2008, le medi­cine di Bru­xel­les anzi­ché alle­viare i mali e avviare un nuovo corso hanno peg­gio­rato la situa­zione della Gre­cia. Qual­siasi mena­ger che avesse pro­dotto in quat­tro anni un crollo del Pil pari al 25% e rite­nesse que­sto il metodo migliore per accu­mu­lare le risorse per ripa­gare un debito, ver­rebbe licen­ziato. Con tanto par­lare di effi­cienza, il cri­te­rio potrebbe esser appli­cato anche ai fun­zio­nari di Bru­xel­les! Se hanno rovi­nato così la Gre­cia vanno messi in con­di­zione di non nuo­cere più. È neces­sa­rio far­glielo capire.

Noi siamo qui per far sen­tire anche la nostra voce. Buon lavoro Ale­xis, buon lavoro Yannis.

Comune-info, 15 febbraio 2015

L’abbattimento del regime di Gheddafi ha riportato la Libia al clima politico ed economico di due secoli fa, prima della colonizzazione italiana e ancora prima della presenza ottomana. In altre parole, si è tornati a una tribalizzazione del territorio. Scomparsi i confini amministrativi, ogni tribù difende le proprie frontiere e sfrutta le risorse petrolifere. Non c’è alcun dubbio che Muammar Gheddafi sia stato un crudele dittatore, ma nei suoi 42 anni di regno ha mantenuta intatta la nazione libica, l’ha dotata di un forte esercito e di un’eccellente amministrazione al punto che il reddito procapite del libico era il più alto dell’Africa e si avvicinava a quello dei paesi europei. Ma soprattutto ha dato ai libici una fierezza che non avevano mai conosciuto.

A tre anni dal suo assassinio (avrebbe meritato un processo), la Libia è nel caos più completo e già si parla con insistenza di risolvere la questione inviando truppe dall’estero per organizzarvi una seconda, micidiale e sciagurata guerra. Nel corso della prima infausta guerra, voluta soprattutto dalla Francia di Sarkozy, il paese ha subito danni immensi, 25 mila morti e distruzioni valutate dal Fondo Monetario Internazionale in 35 miliardi di dollari.

Poiché le voci di un intervento militare italiano si fanno più frequenti, noi chiediamo alle autorità del nostro Paese di non commettere il gravissimo errore compiuto nel 2011 quando offrimmo sette delle nostre basi aeree e più tardi una flotta di cacciabombardieri per aggredire un paese sovrano, violando, per cominciare, gli articoli 11, 52, 78 e 87 della nostra Costituzione. In un solo caso l’Italia può intervenire, nell’ambito di una missione di pace e dietro la precisa richiesta dei due governi di Tripoli e di Tobruk che oggi si affrontano in una sterile guerra civile.

Ma anche in questo caso l’azione dell’Italia deve essere coordinata con altri paesi europei e l’Unione Africana (Ua), animati soprattutto dal desiderio di riportare la pace in un paese la cui popolazione ha già sofferto abbastanza. Ci appelliamo al nostro ministro degli esteri Gentiloni, che non si faccia catturare dai venti di guerra che stanno soffiando insistenti. Ma sopratutto chiediamo a tutto il movimento per la pace perché faccia pressione sul governo Renzi affinché l’Italia, come ex-potenza coloniale, porti i vari rivali libici attorno a un tavolo. Questo per il bene della Libia, ma anche per il bene nostro e dell’Europa.

Sbilanciamoci.info, 13 febbraio 2015
Winnie Byamyima è la donna che al recente Davos dei potenti rappresentava il controcanto dei poveri; Byamyima è infatti il direttore esecutivo di Oxfam International, la coalizione di Ong che lottano contro la carestia e la fame nel mondo. Winnie Byamyima è condirettore del Forum di Davos dall’anno scorso e quest’anno si è presentata con un conteggio sensazionale. Il suo tema forte è la disuguaglianza nel mondo. Questa modalità dell’economia, da sé sola, è causa di milioni di morti ogni anno; potrebbe senza eccessivi sforzi essere superata, purché non venisse meno la volontà di raggiungere questo risultato.

L’uno per cento degli umani, molto ben rappresentati al Forum di Davos, disponeva alla fine del 2014 del 48% della ricchezza mondiale. Ogni adulto ricco ricompreso in tale aristocrazia risultava disporre in media di 2,7 milioni di dollari. Alcuni fortunati o molto capaci, come si vedrà, disponevano naturalmente di molto di più. In complesso la compagine era in netta risalita. Solo 5 anni prima, nel 2009 la parte di ricchezza mondiale appartenente allo stesso uno per cento valeva solo il 44%. Negli anni di crisi i ricchi avevano dunque dato il meglio di sé, avevano mostrato le proprie capacità e come esempio per tutti avevano saputo crescere del 4%. Non diremo cha abbiano saputo sfruttare la crisi, o addirittura che l’abbiano provocata, perché questo è un peccaminoso pensiero complottista. È certo però che nella nuova prospettiva internazionale il trend spettacolare dell’uno per cento dei ricchi potrebbe raggiungere e superare il 50% della ricchezza del mondo nel 2016.

Sembra di capire che la severa reprimenda dell’Oxfam, i ricconi la intendano in senso capovolto, come fosse l’esortazione: “Francesi ancora uno sforzo”, del marchese de Sade ai tempi della Grande rivoluzione.

Alla dichiarazione di Oxfam è seguito un fantastico fuoco d’artificio di numeri, accompagnati da riflessioni e ragionamenti profondi, impegni e promesse. Ne riferiremo in parte poco più avanti. Ora però è opportuno segnalare che alcuni degli intellettuali che seguono o scortano i re dell’economia e della finanza fino alla tradizionale “montagna incantata” celebrata da Thomas Mann, proprio come gli sciacalli che fiancheggiano i grandi predatori, hanno creduto opportuno svolgere il proprio ruolo di pensatori e di critici mettendo in ridicolo le cifre dell’Oxfam. Il loro intento non era quello di rivendicare - cifre alla mano - l’intelligenza del mercato, cioè la fortuna di disporre di una (o qualche) mano invisibile a reggere tutto. Essi davano per scontato questo e ironizzavano sulla possibilità di arrischiare previsioni, come faceva Oxfam, in tempi tanto calamitosi.

Gli economisti davosiani, per chiamarli così, volevano soprattutto togliere di mezzo il pensiero fastidioso e ostile di chi sostiene, ormai nel nuovo millennio, le ragioni dei poveri. Ancora i poveri, possibile che si parli sempre dei poveri, duecento anni dopo Malthus! L’accusa a Oxfam e ai pietosi colleghi cultori dell’economia misericordiosa era che questi ultimi non tenevano conto dell’esistenza di debiti a fianco degli attivi. In altre parole, le entrate delle persone nella finanza e nell’industria, in genere nelle attività economiche, devono essere depurate dai debiti contratti che possono a volte azzerare o peggio rendere negative le cosiddette ricchezze dei cosiddetti ricchi. «Così, rispondono quelli di Oxfam, voi ritenete che Bill Clinton e Hillary Diane Rodham Clinton, marito e moglie di una coppia notoriamente indebitata, fossero più poveri di una famiglia di contadini cinesi senza debiti?» Ma andando oltre la polemica politica, Oxfam - come riferisce l’articolo del “New Yorker” - accetta di depurare i ricchi, scartando i debitori dall’insieme. Il risultato non cambia di molto.

Le statistiche sui ricchi e sui poveri di Oxfam e sulla loro disparità sono due, una più impressionante dell’altra. La prima è quella segnalata più sopra e che riguarda la ripartizione della ricchezza tra ricchi e poveri: l’uno per cento più ricco della popolazione mondiale adulta e tutta la popolazione mondiale adulta, ricchi compresi. In altre parole, la sproporzione - talmente evidente - considera che l’uno per cento degli umani adulti ha una ricchezza che equivale a quella del 48% di tutti gli adulti del genere umano. Se le cose andranno avanti senza scarti, se le curve non cambieranno traiettoria nel 2016 l’uno per cento della popolazione mondiale avrà raggiunto e superato la ricchezza della metà del genere umano. Difficile dire se il risultato verrà magnificato come un successo del mercato e del capitale, un primato sportivo e umano glorioso, oppure se ne saranno messi in luce gli aspetti contraddittori: ridotto impegno dei più poveri, scarsa crescita delle occasioni per i giovani e i senza lavoro. Fermiamo per un attimo l’attenzione sul dato attuale 2014, l’uno per cento che dispone del 48% della ricchezza totale con una media individuale per adulto di 2,7 milioni di dollari. Il 52% della ricchezza globale che rimane è tutt’altro che ripartita equamente. Infatti il 19% dei quasi ricchiche tallonano il famoso uno per cento, dispone del 46% rimasto, mentre all’80 per cento della popolazione complessiva, pari a 5,6 miliardi di persone, testa più testa meno, resta circa il 5,5% rimasto (il 6% per fare cifra tonda).

Oxfam fa notare come una distribuzione della ricchezza simile non sia solo ingiusta ma anche inefficiente. Ai poveri, a quasi tutti, mancheranno capitali per aumentare la produzione, incentivi e margini per migliorare gli standard di vita. Non sarà possibile o sarà molto difficile, umanamente costosissimo, un risparmio individuale o collettivo. Ne risentiranno in modo assai grave l’istruzione, l’igiene, la salute, la speranza di vita stessa delle popolazioni.

Oxfam, per bocca di Byamyima, suggerisce sette punti d’intervento da sviluppare subito, senza perdersi in chiacchiere. Si tratta in primo luogo di combattere l’evasione fiscale, presente in ogni paese, regime e religione. Se i ricchi sono troppo ricchi è perché non hanno pagato le tasse. Risulta che dei 1.645 miliardari in dollari che “Forbes” ha classificato, oltre un terzo ha ereditato la propria ricchezza: in tutto il mondo le tasse di successione non funzionano o quanto meno favoriscono gli straricchi. Occorre poi rafforzare i servizi pubblici, in modo particolare quelli che riguardano salute e scuola. Occorrono poi più entrate pubblicheattraverso tasse più eque e convincenti. Serve inoltre un salario minimo che sostenga i redditi di donne, giovani, anziani, persone senza lavoro. Le donne in particolare ma anche gli immigrati devono ottenere la parità di salario per uno stesso lavoro. Serve poi una rete di sicurezza che consenta ai poveri di sopravvivere con dignità; quindi un tetto per ciascuno, e poi cibo e acqua. Infine serve un piano generale per combattere le disuguaglianze.

La seconda statistica redatta da Oxfam è ancor più impressionante. Le associazioni di Ong combattono la carestia, la fame, e accusano banchieri e finanzieri, industriali e venditori dei farmaci di gravi delitti e omissioni. Basterebbe poco per ovviare a molti guai, basterebbe l’intervento di pochi. Qui si sviluppa la polemica. Si è fatto cenno al numero dei miliardari in dollari. Oxfam si serve delle classifiche di “Forbes”, che, a beneficio di qualche distratto, è una rivista mensile con annesso un sistema di ricerca molto accreditato, assai stimata in ambiente miliardario, che fissa il numero dei suoi lettori privilegiati in 1.645. Sono persone molto potenti, inserite nei gangli della politica mondiale, ben capaci di farsi valere, di scegliere e di proibire, di procurare le guerre e firmare le paci, non solo nella finanza e nell’economia, loro ambiti propri. Negli anni scorsi, nel 2010, 387 di loro aveva ricchezze pari a quelle del mondo povero, metà di tutti i viventi, costituito da 3,5 miliardi di persone. La ricchezza (?) della metà più povera del mondo, corrispondente a 3,5 miliardi di viventi, equivaleva a quella di 387 miliardari. Un fatto enorme, una misura del mondo intollerabile. Questo però nel 2010. Dopo di allora, per effetto della crisi, le reciproche condizioni sono cambiate rapidamente. Non però con un decadimento della forza finanziaria dei miliardari, ma con un effetto opposto, maggiore ricchezza dei miliardari – la ricchezza dei primi 80 di essi è raddoppiata tra 2009 e 2014 – e contemporaneo disastro esistenziale della povera gente, di 3,5 miliardi persone, collettivamente prese, che certo hanno poco a che fare con borse e titoli derivati. Oggi è sufficiente la ricchezza di 80 miliardari per pareggiare sui piatti della bilancia globale il peso di mezzo mondo, e non per modo di dire, ma facendo riferimento proprio a 3,5 miliardi di esseri umani.

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