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La Repubblica, 16 marzo 2015

Se non è un trionfo poco ci manca, i seggi sono chiusi da poco più di un’ora e Felice Casson stappa già lo spumante alla «Casa Fortuna », a Mestre. Dieci anni dopo la sconfitta alle elezioni contro Massimo Cacciari, l’ex pm si prende un pezzo di rivincita alle primarie: un civatiano che spazza via due renziani, e così sarà lui il candidato sindaco di Venezia il prossimo 31 maggio. Con il 55,6 per cento dei voti ha battuto il giornalista della Nuova Venezia Nicola Pellicani, appoggiato dal Pd renziano (24,4 per cento); e l’ex consigliere comunale e avvocato Jacopo Molina (20%), renziano pure lui ma senza il grosso del partito alle spalle.

Per il senatore, 61 anni, era sì una vittoria attesa, con i sondaggi degli ultimi giorni (tutti ufficiosi) che lo davano in vantaggio, ma non con uno stacco così netto. L’impostazione legalitaria della sua campagna elettorale, in contrapposizione al cosiddetto «apparato», lo hanno premiato in una città ancora scossa dall’arresto, nel giugno scorso, del sindaco pd Giorgio Orsoni, rimasto invischiato nello scandalo legato al Mose. «Quella vicenda ha pesato molto sul voto — spiega un deluso Pellicani — un voto che comunque ha dato una indicazione netta. Peccato perché ho avuto poco tempo per far conoscere la mia proposta, adesso però guardiamo avanti, le nostre idee restano valide». E’ un voto che potrebbe dare un segnale anche a livello nazionale, visto che Casson (area Civati) ha avuto spesso una posizione di dissenso verso il governo di Matteo Renzi. E visto che a livello locale la sua candidatura ha trovato l’adesione di Sel, Rifondazione e ambientalisti, in antitesi rispetto alle dinamiche romane.

Scontri interni a parte, il centrosinistra può comunque dirsi soddisfatto: nonostante gli scandali dei mesi passati, la partecipazione è stata buona. Nei 36 seggi dislocati tra Venezia, Mestre e Marghera sono andati a votare circa 13mila cittadini, addirittura qualche decina in più rispetto al precedente del 2010, quello in cui prevalse proprio Orsoni. Le votazioni erano aperte anche agli stranieri (trecento elettori in tutto) e agli under 18: ma solo diciotto minorenni si sono recati alle urne, numero abbastanza deludente. Nessun problema ai seggi, al massimo un po’ di fila nel centro storico della laguna. Unica nota movimentata di una giornata sonnacchiosa e di attesa, le Sentinelle in piedi in piazza a Mestre; una cinquantina di persone scortate dai carabinieri, con i militanti dei centri sociali a fronteggiarli.

Adesso lo sguardo è proiettato alle elezioni vere e proprie, e Casson potrebbe vedersela con Francesca Zaccariotto, ex leghista ed ex presidente della Provincia. Ma con il centrodestra diviso in più rivoli e il M5S in via di implosione, in una città storicamente «rossa», il risultato potrebbe sembrare a portata di mano. Lo stesso Casson ostenta sicurezza. Anche se nessuno può sapere se davvero per il centrosinistra i postumi dell’affare Mose siano finiti qui.

“Ora legalità e trasparenza per cambiare la città ma non sono il Signor No”
“Ora legalità e trasparenza per cambiare la città ma non sono il Signor No”
intervista di Matteo Pucciarelli a Felice Casson

Felice Casson viene accolto dai militanti in piazza Ferretto. Gli squilla il telefono in continuazione.

Chi è, Renzi?

«No, no, ma qualcuno da Roma ha già chiamato, non si preoccupi, non sono isolato come dicevano. Dai capigruppo alle Camere al vicesegretario. Ora mi ha appena scritto un esponente dell’Udc, me lo devo conservare questo messaggino».

Questo voto ha un valore nazionale?
«Non credo, è figlio di quello che è accaduto in questi mesi. Il nostro popolo ha chiesto di voltare pagina con forza, nel nome della trasparenza, della legalità e dell’etica. Un segnale importante, ha vinto tutta Venezia».

Cacciari non la sosteneva, cosa starà pensando adesso?

«Chi se ne importa, davvero. Quando giorni fa ha fatto una conferenza stampa per dire che sosteneva Pellicani mi sono detto: è andata, sono alla disperazione completa. Ora comincia una nuova era».

Per lei è comunque una rivincita, a distanza di dieci anni.
«Era un’epoca fa, ma c’è una differenza rispetto ad allora: stiamo messi molto peggio».

E’ fiducioso per le elezioni «vere»?
«Se il centrosinistra resta unito vinciamo senza alcun problema, chiunque si candidi dall’altra parte».

Perché dice «se»?
«E’ un’ipotetica delle realtà del terzo tipo, diciamo. Spero che nessuno voglia pensare ad altro...».

I suoi avversari dicono che lei è l’uomo dei no...
«Sono per una politica pulita, trasparente, di controllo. So benissimo che non possiamo limitarci a dire sempre no bloccando le attività territoriali, economiche, commerciali, imprenditoriali e così via che ci sono sul porto e sulle grandi navi. Ma dobbiamo essere in grado, e sono certo che lo saremo, di mettere in pratica proposte credibili e attuabili da contrapporre a chi vuole arricchirsi con il malaffare, a chi anzi lo ha fatto negli anni passati».

Senta, ma alla fine si farà questo Mose?

«Ormai i lavori sono arrivati a oltre l’80 per cento e se tutto va bene dovrebbe entrare in funzionamento a metà 2017. La grande questione sarà coprire i costi di gestione e manutenzione dell’opera. Servirà rinegoziare con il governo il patto di stabilità».

Privatizzerà il Casinò, se diventerà sindaco?

«No, vendere i gioielli di famiglia è una strategia miope» ( m. p.)

Il manifesto, 15 marzo 2015

LANDINI, LA COALIZIONE È SERVITA
di Antonio Sciotto

E così è nata: non in piazza, o con uno scio­pero, ma con una discus­sione a porte chiuse. Lon­tano dalla stampa, «dal cla­more dei media», come aveva pre­ci­sato qual­che giorno fa la stessa Fiom, invi­tando i sog­getti della costi­tuenda Coa­li­zione sociale. E mostrando una certa aller­gia sia nei con­fronti dei poli­tici che dei giornalisti.
Un netto distacco dall’“apparato” — in altri ambienti si direbbe la “casta” — che il segre­ta­rio dei metal­mec­ca­nici Cgil, Mau­ri­zio Lan­dini, ha voluto rimar­care, pro­prio per­ché l’intento di que­sto nuovo sog­getto è quello di riap­pro­priarsi della poli­tica: fin dalla base, dai movi­menti e dalle asso­cia­zioni, e ovvia­mente dai luo­ghi di lavoro. «Per­ché la poli­tica non è una pro­prietà pri­vata», come ha evi­den­ziato nella famosa frase scritta in gras­setto nella sua let­tera di con­vo­ca­zione agli alleati.

Per l’ennesima volta Lan­dini, aprendo i lavori poco dopo le 10,30 nella sala riu­nioni della Fiom nazio­nale a Roma, ha ripe­tuto che «la coa­li­zione sociale non vuole essere un par­tito e non vuole fare un par­tito». Anzi, come ha spie­gato il costi­tu­zio­na­li­sta Gianni Fer­rara uscendo durante una pausa, ha detto che «chi pensa che siamo qui per fare un par­tito se ne vada a casa».

Que­sto non vuol dire che la Coa­li­zione sociale non fac­cia poli­tica, anzi: la fa nel senso più nobile del ter­mine, e Lan­dini cita l’articolo 2 della Costi­tu­zione, quello che «rico­no­sce e garan­ti­sce i diritti invio­la­bili dell’uomo, sia come sin­golo sia nelle for­ma­zioni sociali ove si svolge la sua per­so­na­lità, e richiede l’adempimento dei doveri inde­ro­ga­bili di soli­da­rietà poli­tica, eco­no­mica e sociale». Unirsi, «coa­liz­zarsi», è quindi un diritto e anche un dovere.

Unirsi, «unire quel che il governo ha diviso»: per que­sto, ripete Lan­dini, «serve supe­rare le divi­sioni, il fra­zio­na­mento, le soli­tu­dini col­let­tive e indi­vi­duali e coa­liz­zarsi insieme». È que­sto, «lo spi­rito inno­va­tivo» su cui si fon­derà la nuova coa­li­zione sociale, «indi­pen­dente e auto­noma», pun­tua­lizza ancora, riba­dendo i con­cetti che aveva scritto nella sua let­tera: per poter affer­mare una «visione nuova del lavoro, della cit­ta­di­nanza, del wel­fare e della società».

Nel corso dei diversi inter­venti si trac­cia un pos­si­bile per­corso, da fare insieme: con Libera, Arci, Emer­gency, ma anche Legam­biente, Libertà e giu­sti­zia, il gruppo Abele. E ancora, la pos­si­bi­lità di coin­vol­gere le asso­cia­zioni di free­lance e par­tite Iva, come gli avvo­cati di Mga, i far­ma­ci­sti, i dot­to­randi di ricerca. Chiaro che Lan­dini vuole andare oltre il sin­da­ca­li­smo metal­mec­ca­nico di stampo clas­sico, per coin­vol­gere i nuovi lavo­ra­tori, anche quelli che non si rico­no­scono come dipendenti.
Per trac­ciare un nuovo «Sta­tuto dei lavo­ra­tori», a par­tire dall’elaborazione della stessa Cgil, ma non solo, e anche andare a un «refe­ren­dum»: per «can­cel­lare quello che delle leggi attuali non ci piace, come il Jobs Act». E per fare que­sto, «biso­gna creare con­senso, dif­fon­dere e col­ti­vare una cul­tura dei diritti», e «lo pos­siamo fare solo se stiamo nelle fab­bri­che ma anche fuori». Dove serve la soli­da­rietà: «Per­ché sem­pre più per­sone si avvi­ci­nano al sin­da­cato dicendo che non arri­vano alla fine del mese, e allora a que­ste per­sone noi dob­biamo dare risposte».

Non a caso la sal­da­tura con i gruppi cat­to­lici, e con asso­cia­zioni come Emer­gency che assi­cu­rano l’assistenza sani­ta­ria a poveri e immi­grati. E poi i recenti rife­ri­menti, tra il serio e il faceto, a papa Fran­ce­sco. Allar­gare oltre il con­sueto stec­cato della sini­stra, abban­do­nare i vec­chi par­titi che hanno perso, pol­ve­riz­zati da Renzi, Grillo, e Sal­vini. Biso­gna dare un mes­sag­gio di «nuovo», al di là dei con­te­nuti più solidi, e que­sto Lan­dini lo sa bene.

Anche se ieri è arri­vata una prima pun­tua­liz­za­zione di Libera, che ha spie­gato che sì, par­te­cipa e col­la­bora, ma che non entra in nes­suna coa­li­zione sociale: «Libera non par­te­cipa a nes­suna coa­li­zione sociale», ha fatto sapere l’associazione di Luigi Ciotti in una nota. Libera spe­ci­fica di aver sol­tanto rac­colto l’invito a «incon­trarsi per affron­tare sin­gole que­stioni di comune inte­resse». «Nel mani­fe­sto con­clu­sivo di Con­tro­ma­fie, gli Stati gene­rali dell’antimafia svolti a Roma nell’ottobre 2014 abbiamo indi­cato con chia­rezza i dieci punti su cui siamo impe­gnati, come rete che rac­co­glie oltre 1.600 associazioni».

Lo scon­tro con i democrat

Come si può imma­gi­nare le peg­giori stoc­cate sono venute dal Pd. Non solo l’entourage ren­ziano, che ha par­lato solo in serata: «Si con­ferma che l’opposizione di que­sti mesi era più poli­tica che sin­da­cale», dice il vice­se­gre­ta­rio del Pd Lorenzo Guerini.

Ma i più acidi sono quelli dell’area rifor­mi­sta del Pd, che vedono togliersi poten­ziale ter­reno sotto i piedi, men­tre vor­reb­bero essere loro, pur in preda a un eterno amle­ti­smo, a inter­pre­tare la sini­stra a sini­stra del Pd (vedi i bril­lanti risul­tati sul Jobs Act). E così Roberto Spe­ranza dice che «la parola scis­sione non esi­ste, non fa parte del voca­bo­la­rio Pd», e che «la solu­zione non può essere una nuova sini­stra anta­go­ni­sta che nasce dalle urla tele­vi­sive di Lan­dini, ma avere più sini­stra nel Pd e nella nostra azione di governo». Molti aspet­tano fiduciosi.

Gli risponde Lan­dini, che si dice «più attento ai con­te­nuti che ai deci­bel»: «Il par­tito di mag­gio­ranza, non tutti — aggiunge — ha votato la can­cel­la­zione dello Sta­tuto dei lavo­ra­tori. Ma il par­tito, que­sto governo, non hanno mai avuto un man­dato del popolo su un tale programma».

Porte aperte alla coa­li­zione sociale dal Prc di Paolo Fer­rero («Ottima noti­zia») e da Sel di Nichi Ven­dola: «È una necessità».L’appuntamento sabato pros­simo a Bolo­gna per la mani­fe­sta­zione di Libera, e poi sabato 28 a Roma, in Piazza del Popolo


AGGIRARE PER CAMBIARE
di Alfio Mastropaolo

Ben­ve­nuta la mossa di Lan­dini. A lungo attesa, ha il pre­gio di essere spiaz­zante. Due temi finora hanno pro­vato a incon­trarsi, ma senza suc­cesso. Quello del par­tito, di un’organizzazione poli­tica elet­to­ral­mente cre­di­bile da opporre alla deriva mode­rata del Pd, e quello delle poli­ti­che: c’è modo di affron­tare la cosid­detta crisi senza sca­ri­carne i costi sui ceti deboli, che sono ormai una parte lar­ga­mente mag­gio­ri­ta­ria della popo­la­zione, giac­ché inclu­dono anche una fetta dei ceti medi, che si erano finora rite­nuti protetti


È pro­prio quest’ultima novità che rivela la natura della crisi. Che non è affatto crisi. È un mostruoso pro­cesso redi­stri­bu­tivo su scala glo­bale dal basso verso l’altro, che vuol rove­sciare la sto­ria del Nove­cento, a bene­fi­cio di una mino­ranza ristret­ti­sima, di impren­di­tori, mana­ger, spe­cu­la­tori, finan­zieri, col con­torno di divi dello spet­ta­colo e dello sport. Ecco la novità di cui pren­dere coscienza e che potrebbe costi­tuire una risorsa poli­tica essenziale.

Giorni fa D’Alema dava per perso il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo delle con­tro­ri­forme costi­tu­zio­nali. Per tanti versi ha ragione. Quello screan­zato che tra un ulti­ma­tum e l’altro ha preso in ostag­gio il Pd e i suoi par­la­men­tari, insieme a una parte dell’opposizione di destra, sca­te­nerà una tem­pe­sta media­tica. Che non sarebbe però irre­si­sti­bile ove si riu­scisse a mostrare al paese che, una volta appro­vate quelle riforme, non solo i ceti popo­lari e il mondo del lavoro saranno defi­ni­ti­va­mente alla mercé dell’esecutivo e delle sue poli­ti­che, ma che lo stesso acca­drà a una parte dei ceti medi tra­di­zio­nal­mente meno sen­si­bili alla que­stione democratica.

Che s’introduca una tassa che col­pi­sca i patri­moni è piut­to­sto ovvio. Ma l’entità e il dire­zio­na­mento di tale tassa è da vedere. Che si dia una sfor­bi­ciata alla pen­sioni più ele­vate è ragio­ne­vole. Dove si col­lo­chi la soglia oltre cui inter­ve­nire non è detto. Lo deci­derà un governo senza con­trad­dit­to­rio, come quello che si pro­spetta a riforme appro­vate: un governo asser­vito alla ristret­tis­sima mino­ranza di cui sopra. Ai ceti medi vanno mostrati i rischi che cor­rono: non di pagare il giu­sto, ma anche assai di più. Non dimen­ti­chiamo che lo stato sociale nac­que da una larga alleanza tra ceti popo­lari e ceti medi. Chi può pro­muo­verla? Un nuovo par­tito di sinistra?

La mossa di Lan­dini ha il pre­gio di aggi­rare la que­stione. Non che i par­titi non ser­vano, ma in que­sto momento sono diven­tati così impo­po­lari che fare un nuovo par­tito non por­te­rebbe a nulla. Lo pro­vano gli insuc­cessi dei ten­ta­tivi com­piuti finora di costi­tuire un nuovo par­tito a sini­stra, o magari una coa­li­zione elet­to­rale, che comun­que somi­glia a un par­tito. I par­titi sono vit­tima di una duplice ingiu­sta aggres­sione, in atto da decenni. Sono vit­time di un’aggressione da destra, con­ser­va­trice e ple­bi­sci­ta­ria, che imputa ai par­titi i loro ben noti difetti, ma che ha in odio sopra ogni cosa il loro radi­ca­mento nella popo­la­zione. Anche un par­tito con­ser­va­tore non può con­ce­dersi il lusso di inter­lo­quire solo coi ceti supe­riori. Se vuole pren­dere tanti voti, deve offrire qual­cosa anche al resto della società. Può offrire forme avve­le­nate di raz­zi­smo e popu­li­smo, come fanno la signora Le Pen e Sal­vini, ma deve offrire anche un po’ di pro­te­zione. I ceti ristret­tis­simi non sop­por­tano nean­che que­sto. Sognano la demo­cra­zia del ple­bi­scito e del lea­der che governa a loro van­tag­gio senza rispon­dere a nessuno.

La seconda aggres­sione i par­titi l’hanno subita da sini­stra. Che quella dei par­titi non sia una sto­ria né di mora­lità, né di demo­cra­zia interna lo sap­piamo. Ben­ché non tanto come si rac­conta. E non sem­pre. Vi sono casi in cui i par­titi hanno incluso migliaia di mili­tanti, iscritti, sim­pa­tiz­zanti e li hanno fatti sen­tire a casa loro. Igno­rarli e far di tutt’erba un fascio è errore grave. Comun­que, l’effetto demo­cra­tico dei par­titi va cer­cato da un’altra parte. I par­titi, con l’aiuto dei sin­da­cati, hanno tra­sfor­mato masse disperse e informi di ope­rai, con­ta­dini, impie­gati, uomini e donne in sog­getti poli­tici rispet­tati e temuti. Senza i par­titi socia­li­sti, il mondo del lavoro non sarebbe esi­stito poli­ti­ca­mente. È il caso di pren­derne atto.

Va tut­ta­via preso atto anche del fatto che la cri­tica con­cen­trica ai par­titi è arri­vata a ber­sa­glio. Oggi pro­porre la costi­tu­zione di un nuovo par­tito ver­rebbe, almeno in Ita­lia, accolta con indif­fe­renza. Per quanto diversi tra loro, Pode­mos e Syriza sug­ge­ri­scono di muo­versi altri­menti. Ovvero di agire anzi­tutto sul fronte delle poli­ti­che, o, meglio, sul senso comune. There is no alter­na­tive, diceva la signora That­cher e il ceto poli­tico, salvo frange mar­gi­nali, le è andato appresso: non c’è alter­na­tiva. L’alternativa invece c’è. Potrebbe essere in peg­gio: neo­li­be­ra­li­smo più fasci­smo media­tico. Ma può essere in meglio. Basta cre­derci, ragio­narci sopra e orga­niz­zarsi per met­tere in cir­colo l’idea che l’offensiva dei mer­cati che sta deva­stando la società non è irre­si­sti­bile. Magari atti­vando — secondo la lezione del movi­mento ope­raio d’una volta — forme soli­da­ri­sti­che e di aiuto reci­proco utili a resi­stere già adesso. Atten­zione: non è inim­ma­gi­na­bile un fasci­smo bru­tale come quello dello scorso secolo. Ma si può imma­gi­nare un fasci­smo sub­dolo e stri­sciante, così si può imma­gi­nare una som­mi­ni­stra­zione sub­dola, e non bru­tale come in Gre­cia, delle ricette delle Troika. Anzi: è quello che il signor Renzi sta facendo e vuol segui­tare a fare, senza nean­che i (mode­sti) intralci che al momento lo rallentano.

La nostra politologa preferita ci regala un'illuminante analisi del regime verso il quale, a colpi di frusta, ci avviamo. Segnaliamo in particolare il suo scritto a chi ancora nutre qualche illusione sulla democraticità del piccolo Cesare, oppure tarda a staccarsene.

Italianieuropei, marzo 2015, scaricato da Accademia.edu

Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).

Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica).

Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione La riforma della Costituzione avviata dal Partito Democratico, unita alla nuova legge elettorale, che la completa, rischia di portare l’Italia verso una democrazia di stampo cesaristico. Quale sicurezza può darci un assetto istituzionale privo del contrappeso al potere costituito rappresentato dal bicameralismo, con una diminuita prerogativa del diritto di suffragio e ostaggio del potere del leader, dell’esecutivo e della sua maggioranza?

Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).

Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica). Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione

di controllo che dovrebbe esercitare l’opposizione; solo di riflesso, perché questa funzione ha efficacia solo se le opposizioni hanno una voce non flebile e non fungono da materiale d’arredo, seggi che occupano uno spazio. Ci troviamo alle soglie di un cesarismo per consenso elettorale e un Parlamento monocamerale che la legge elettorale predisporrà verso una forte vocazione maggioritarista: concordia fidei et populi.

Nella storia politica del nostro paese governare con il dissenso e il pluralismo si è dimostrato più gravoso che allinearsi sotto un’insegna. Governare per mezzo della discussione e del dissenso, secondo una definizione canonica del governo rappresentativo, è un lavoro duro che chiede stamina e pazienza, insieme a tolleranza e fiducia nell’avversario, qualità etico-politiche ardue da formare e riprodurre. Fidarsi degli avversari – vivere 
tra partigiani amici – comporta diverse cose insieme: prima di tutto, a chi governa impone di non 
barare al gioco e non cambiare le regole in corso
d’opera; e per chi perde e va all’opposizione implica continuare a stare al gioco sperando nelle future
consultazioni e senza far saltare il banco.

Il governo
rappresentativo vuole un consenso delle norme e
delle regole proprio perché vive di conflitto politico e non di politica consensualista. Quando il consenso delle norme e delle regole stenta e non piace è al secondo, al consenso politico o propagandistico, che ci si rimette. Unire il popolo in un’idea, in una fede, in un uomo o in un partito è tutto sommato non troppo complicato in un paese che ha una secolare tradizione religiosa pressoché omogenea e, soprattutto, l’abituale familiarità con un leader che incorpora la fede e i fedeli sotto l’egida della suprema autorità. Il popolo italiano è unito in alcune credenze e abitudini di fondo (religiose e morali), cioè è unito nei mores, anche se è fazioso e litigioso nella divisione della torta politica, per dirla con James Harrington, ovvero nelle questioni direttamente legate agli interessi locali, territoriali, di fazione o di ceto.

La società civile è molto divisa e quasi incapace di trovare una simpatia unitaria (brutale nel linguaggio e nelle forme di interazione la descriveva Giacomo Leopardi). Essa è però desiderosa di avere una rappresentazione unitaria che si adatti ai suoi mores. L’unità del corpo cattolico-nazionale in una figura rappresentativa: una visione antiliberale della rappresentanza che ha sul suolo patrio una radicata attrazione e una sperimentata pratica.

Con l’eccezione di alcuni anni di interregno segnati da momenti conflittuali – di transizioni da un’unità consensuale a un’altra –, le fasi lunghe della politica nazionale sono state consensuali: o per consenso trasformista o per consenso dispotico o per consenso elettorale. Tanto per restare alla nostra epoca: dopo una dura fase di conflittualità politica seguita alla fine del consenso gestito dalla guerra fredda, oggi ritorniamo al partito nazionale e della nazione, incarnato in un leader e con il progetto di una nuova carta costituzionale.

Alla quale nuova Costituzione si doveva arrivare a tutti i costi. Non vi è alcuna emergenza ovviamente. La gestione di questa riforma – dirigistica a tutti i costi, anche spedendo sull’Aventino le minoranze – è coerente all’esito desiderato: la Costituzione trasformata in un decreto governativo che il Parlamento ha dovuto approvare (sapendo molto bene che nessun tempo limite esiste in questo caso, perché nessun decreto costituzionale può esistere e perché nessuna norma impone notti bianche a votar dormendo – anche se l’ideologia dell’emergenza ha governato l’intero processo di discussione costituzionale conquistando tutti, anche i critici). Questa è la logica dell’emergenza unitarista, del traghettamento verso la concordia fidei et populi.

Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà
stava procedendo da più di due decenni: il bisogno
di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non
ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egregiamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggioranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.

Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà tava procedendo da più di due decenni: il bisogno di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non
ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egre- giamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggio- ranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.

Servirebbe la penna arguta, ironica e graffiante di un Carlo Marx per parlare del bonapartismo italiano, fuoco sotto la cenere e oggi rigenerato per plebiscito da un Parlamento di fatto già monocamerale, da una società vogliosa di ricambio generazionale e cetuale, da un capitalismo corporate law model, un ordine, più che liberale, in effetti feudale, basato sulla devoluzione massiccia del pubblico sovrano statale (quale che sia, nazionale o sovranazionale, come si vede dalla resistenza dell’Unione europea a essere più che un’unione monetaria). A confermare questa tendenza è la politica del governo italiano: con la messa sul mercato delle banche popolari; con la dichiarazione contenuta nel progetto della Buona scuola per cui lo Stato dichiara di non voler più coprire le spese delle scuole statali; con la trasformazione piena e completa del lavoro in una merce. Questa politica amica del corporate law delle multinazionali ha un’ideologia unificante nella favola bella del merito individuale, artefice delle nostre vittorie e sconfitte, condito con la carità cristiana per chi fallisce. Liberismo per i vincitori, religione per i vinti. Nei convegni e nelle riviste specializzate questo fenomeno è analizzato come un esito della trasformazione del pubblico in un ordine legale e istituzionale funzionale al capitale multinazionale, a una lex mercatoria che va a sostituire poco alla volta il diritto pubblico degli Stati e i lacci costituzionali. Se Marx dovesse descrivere la trasformazione italiana da democrazia parlamentare a democrazia cesaristica lo farebbe, pro

prio come quando descrisse il destino bonapartista
 della Repubblica francese del 1848, nel contesto
della trasformazione globale del capitale. L’Italia
microcosmo. Ma non è necessario immaginare sce-
nari da filosofia della storia ottocentesca per leggere
la revisione cesaristica della Costituzione del 1948.
La Costituzione è un nobile compromesso tra par
ti. Ha successo se le parti in gioco riescono a incap
sulare i loro calcoli di utilità contingente all’interno
di una utilità bene intesa. È questa la premessa per il perseguimento di quel che chiamiamo “interesse generale”.

La saggezza costituzionale non è pertanto identica alla saggezza pratico-politica, perché non è celebrativa del presente e delle sue strategie di breve periodo in quanto deve saper prevedere le possibili disfunzioni che la sua applicazione può comportare e deve saper incanalare il comportamento degli attori politici e istituzionali in modo che la sua autorità non sia mai scalfita ma, al contrario, irrobustita. In questa capacità di anticipare il peggio e di neutralizzarlo sta la sua saggezza e la ragione della sua durata. Domanda: che sicurezza può darci una Costituzione votata al cesarismo e al maggioritarismo? Se scrivere Costituzioni, dice Stephen Holmes, è paragonabile alla saggezza di Peter sobrio che pensa a sé nel caso che si ubriachi, allora questa nuova Costituzione è davvero poco saggia, perché non ci protegge da potenziali leader pessimi, dalle ubriacature populiste, quali che siano.

La saggezza costituzionale è opera non di imperativi categorici, rigidi per loro natura, ma dell’imperativo ipotetico: se vuoi A devi volere B. Bisogna chiedersi allora quale sia la posta in gioco, il fine, di questa riforma. Sapevamo certamente i fini della Costituzione del 1948: i diritti che garantiscono le eguali libertà sono contenuti nella prima parte e la struttura dello Stato è così fatta da renderli sicuri perché protesa a limitare il potere della maggioranza, quale che essa sia. Forse i nostri Costituenti non avevano una forte cultura liberale, ma l’esperienza fascista li ha fatti liberali obtorto collo, e grazie a ciò abbiamo avuto una Costituzione democratica ottima. Essi avevano molto chiara l’idea che sarebbe illogico pensare che la prima parte sia fatta di principi immobili, adattabili alle più diverse ingegnerie costituzionali.

E per questa ragione dobbiamo usare l’imperativo ipotetico per valutare il senso della Costituzione. Dobbiamo sapere che ogni Costituzione segue questa logica: se vuoi A devi volere B. Ovvero, i modi di attuazione della democrazia elettorale, la struttura istituzionale dello Stato, i rapporti tra i poteri sono condizioni che devono servire a far funzionare la macchina dello Stato garantendo e rafforzando al contempo i diritti fondamentali contenuti nella prima parte. Ad esempio: in un’unità statale non federale i diritti civili e politici fondamentali sono sicuramente meglio garantiti se la sovranità popolare non grava sul corpo sociale in maniera assoluta e libera quanto più possibile da vincoli. La regola di maggioranza rende la forza della sovranità popolare – soprattutto negli Stati unitari – quasi assoluta, resa fatale dal fatto di riposare sulla volontà stessa dei cittadini.

È per contenere senza conculcare il potere invincibile del numero che si rendono necessari due tipi di contrappesi: il potere giuridico e le forze sociali. Il loro contropotere consiste nel fare affidamento sul giudizio (che è potere negativo per eccellenza) e sul pluralismo degli interessi, dei corpi associativi, delle idee. Spezzare l’omogeneità e l’unione concordataria del corpaccione sovrano è la condizione per ottenere un rispetto compiuto dei diritti sanciti nei fondamenti.

Per rendere più certa la limitazione del potere costituito, ai contrappesi giuridici e della società civile si devono aggiungere quelli istituzionali, ad esempio il bicameralismo (non perfetto ma comunque eletto per suffragio diretto) e i sistemi elettorali che non riconoscono come essenziale solo il diritto della maggioranza di governare ma anche quello dell’opposizione di avere una voce capace di controllare, limitare e, se necessario, bloccare il potere della maggioranza, infine di essere una permanente alternativa possibile.

Il disegno istituzionale deve essere giudicato in relazione allo scopo che intende ottenere e all’efficacia con la quale l’ottiene. In questo senso esso è un esercizio di imperativo ipotetico. E l’imperativo ipotetico che guida la nuova Costituzione in corso d’opera ci porta in una direzione che non assomiglia a quella che volevano i nostri Costituenti; ci porta verso una democrazia cesaristica. Per questo, abbiamo tutte le ragioni per esserne intimoriti e preoccupati, poiché le parti della Costituzione del 1948 non sono come camere stagne: quando si cambia una parte i mutamenti si riflettono sulle altre parti. La prima parte, quella che sancisce i diritti eguali, è messa a repentaglio da un Parlamento monocamerale, da una diminuita prerogativa del diritto di suffragio (un ritorno addirittura all’ottocentesco suffragio indiretto) e da un’impennata di potere dell’esecutivo e della sua maggioranza.

Qui potete scaricare il testo in formato .pdf, leggerlo nella formattazione originale e, se proprio volete, stamparvelo (preferibilmente su carta riciclata), leggerlo e annotarlo con comodo.

Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2015, con postilla

Non è un sottosegretario qualsiasi quello indagato a Catania, secondo l’anticipazione – non smentita e non confermata dalla Procura – del quotidiano La Sicilia. E non è un appalto qualsiasi quello che, secondo l’ipotesi dell’accusa, sarebbe stato truccato. Il sottosegretario Giuseppe Castiglione è nell’ordine: l’uomo forte del Ncd, l’asse portante del governo Renzi e il grande sponsor dell’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella. L’appalto incriminato invece è invece quello da 98,7 milioni (triennale e assegnato prima in via provvisoria nel 2011 e poi definitivamente nel 2014) del centro di assistenza ai rifugiati più grande di Europa: il Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Mineo (Catania), con i suoi 4 mila ospiti. Castiglione è stato soggetto attuatore, in qualità di presidente della Provincia di Catania, nella fase di emergenza per diventare presidente del Consorzio Calatino Terra di Accoglienza, composto dagli enti locali, per gestire il centro. Quando è stato eletto deputato nel 2013 e poi nominato sottosegretario all’Agricoltura da Enrico Letta e da Renzi, Castiglione ha lasciato il posto al sindaco Ncd di Mineo Anna Aloisi.

Le indagini per l’abuso d’ufficio e la turbativa d’asta della Procura di Catania, guidata da Giovanni Salvi e della Procura di Caltagirone, guidata da Giuseppe Verzera, erano in corso da mesi. Gli indagati sarebbero secondo le indiscrezioni ben undici. Un’accelerazione decisiva è arrivata quando l’Autorità nazionale anticorruzione ha spedito alla Procura di Catania il parere n.15 firmato da Raffaele Cantone e depositato il 3 marzo del 2015. La questione è giudiziaria ma anche politica. Sul Cara di Mineo si regge l’economia e il consenso elettorale della zona. «All’inizio non volevano il centro adesso se provi a levarglielo te ammazzano perché... 350 persone ci lavorano. Ma scherzi? Meglio dell’Ilva», chiosava Luca Odevaine nelle conversazioni intercettate dal Ros dei carabinieri per Mafia Capitale.

Odevaine, prima consulente e poi dal giugno 2014 collaboratore a tempo determinato, pagato 12 mila e 872 euro all’anno del Consorzio, era membro influente della commissione del Consorzio che ha assegnato questo appalto prima in via provvisoria e poi in via definitiva nel 2014 con la gara da 97,8 milioni di euro ora contestata. Al suo commercialista spiegava : «Tornerò per la commissione per aggiudicarla però diciamo che è abbastanza blindato insomma, sarà difficile che se lo possa aggiudicare qualcun altro, vabbè, no vabbè dai, è quasi impossibile». Nel suo atto Cantone spiega perché: la scelta di mettere insieme lavori, servizi e forniture eterogenei, già gestiti dal soggetto che in via provvisoria si era aggiudicato il Cara di Mineo, impediva ai concorrenti di entrare in gara davvero.

L’inchiesta è un colpo al cuore del Ncd che a Mineo prende il 39 per cento. Odevaine spiegava al suo commercialista che Castiglione sarebbe stato il vero dominus dell’assegnazione dell’appalto iniziale del 2011 (poi confermato dalla gara del 2014) a un consorzio che include il Consorzio Sisifo, una cooperativa rossa della Legacoop, e le coop bianche vicine a La Cascina e a Comunione e Liberazione più il Consorzio Sol Calatino (privato) che ha un nome simile a quello del Consorzio Calatino Terra di Accoglienza, guidato un tempo da Castiglione, stazione appaltante.

Cantone, lo sceriffo nominato da Renzi, ha avviato la sua azione contro il feudo del Ncd di Alfano su istanza della Cot società cooperativa: l’unica partecipante alla gara oltre all’associazione delle imprese (vicine a Castiglione e a Odevaine) uscenti e vincenti. Nel suo parere, Cantone scrive: «L’assenza di concorrenza e di convenienza per la stazione appaltante è dimostrata dal fatto che, oltre all’istante (Cot cooperativa, ndr) v’è stato un solo concorrente che ha partecipato alla procedura – il gestore uscente – cui è stato aggiudicato l’appalto con un ribasso molto ridotto pari al 1,00671 per cento». Odevaine spiegava così al suo commercialista Stefano Bravo l’inizio della storia nel 2011: «Mi è venuto a prendere lui (Castiglione, ndr) all’aeroporto, mi ha portato a pranzo, arriviamo al tavolo... c’era pure un’altra sedia vuota... dico eh “chi?”. E praticamente arrivai a capi’ che quello che veniva a pranzo con noi era quello che avrebbe dovuto vincere la gara (ride)».

Odevaine, poi arrestato con l’accusa di associazione mafiosa per altri fatti, non fa il nome del “predestinato” che sarebbe stato invitato a pranzo da Castiglione. I membri della cordata vincente che gestiscono oggi il Cara grazie alla gara da 97,8 milioni, oggetto dell’inchiesta catanese, sono gli stessi di allora: una coop rossa (Sisifo), una serie di coop bianche legate alla Cascina e il Consorzio Sol Calatino guidato da Paolo Ragusa, uomo vicino a Castiglione. «Se la vicinanza vuol dire amicizia, allora dico a chiare lettere che sono veramente onorato e orgoglioso di avere un amico come Giuseppe Castiglione, persona per bene che ha sempre avuto a cuore lo sviluppo del territorio» scriveva Ragusa sul sito del Sol Calatino, senza nascondere di avere appoggiato il progetto dell’Ncd.

Odevaine inserisce la storia del Cara di Mineo nel contesto politico nazionale che presiede ai governi Letta e Renzi: “Perché loro adesso... Castiglione si è avvicinato molto a Comunione e liberazione, insieme ad Alfano e adesso Comunione e liberazione di fatto sostiene strutturalmente tutta questa roba di Alfano e del centrodestra... Castiglione. Sono tra i principali finanziatori di tutta questa roba sì... sta dentro Lupi e infatti è il ministro delle Infrastrutture eh... e Castiglione fa il sottosegretario... all’Agricoltura ed è il loro principale referente in Sicilia... cioè quello che poi gli porta i voti, ce li hanno tutti in Sicilia”. Effettivamente il vero azionista di riferimento del Ncd non è Angelino Alfano o Maurizio Lupi, bensì proprio Castiglione: Ncd ha ottenuto il 9,1 nella circoscrizione isole e il più votato, con 56.446 voti, è stato Giovanni La Via, proprietario, “a sua insaputa”, della sede del consorzio che gestisce il Cara di Mineo, sostenuto alle elezioni proprio da Castiglione. Il ministro Maurizio Lupi si è fermato a 46.414 preferenze. I numeri parlano da soli.

Postilla

L'attuale sottosegretario all'agricoltura del governo Renzi Giuseppe Castiglione, già presidente della provincia di Catania, vicepresidente della regione e parlamentare europeo di Forza Italia, quindi coordinatore regionale Pdl, era stato arrestato e condannato in 1° grado (poi assolto) proprio per turbativa d'asta (appalti dell'ospedale Garibaldi a Catania). È il suocero di Pino Firrarello, già sindaco di Bronte (Dc, andreottiano, poi Forza Italia), come lui condannato per corruzione e turbativa d'asta e prosciolto per prescrizione, a sua volta cugino del noto Vito Bonsignore (per capirci, quello della Ragusa-Catania e adesso, con la benedizione del ministro Lupi, della Orte-Mestre), nonché, per gli interessati, storico cementificatore del parco dell'Etna. Visto che le intercettazioni che riguardano questo signore sono di pubblico dominio da mesi, c'è da domandarsi come mai nessuno ne abbia chiesto subito le dimissioni. Forse in attesa della Cassazione, o di qualche prescrizione?

La Repubblica, 14 marzo 2015

Seduti al tavolo di Maurizio Landini oggi a Roma ci saranno gli altri due soggetti che insieme alla Fiom si preparano a sorreggere l’esperimento della “Coalizione sociale” anti-Renzi: Emergency e Libera. Con loro, pezzi di Arci, Libertà e Giustizia, sigle studentesche come Rete della Conoscenza e Uds e poi il mondo dei centri sociali, quelli meno radicali. Ma non i partiti come Sel o Prc; su quelli c’è quasi il veto, tanto che ad alcune delle associazioni che parteciperanno al vertice è stato fatto notare che le strade sono due: o si sta nel “campo” delle formazioni politiche oppure si sceglie la via del sindacato delle tute blu. La convocazione è arrivata con una lettera firmata da Landini in cui si legge che «la politica non è proprietà privata ». Per questo serve «promuovere la partecipazione», «superando il frazionamento».

Dall’antimafia ai precari, dagli operai al volontariato. Sono mondi diversi tra loro, uniti dalla mancanza di un referente politico di peso. L’idea è dare il via a un cantiere che sul medio termine (unodue anni di gestazione) punti a diventare un soggetto politico. Per ora ci si limita ad essere “l’associazione delle associazioni”. Landini si muove con i piedi di piombo, teme molto di bruciarsi. «Prima di ogni cosa occorre ricreare un terreno favorevole, anche come mobilitazione e movimento» ripetono gli uomini più vicini a lui. Giorni fa Gino Strada, parlando ai delegati sindacali via telefono dal Sierra Leone, è stato chiaro: «Per un polo di aggregazione impegnato su diritti, pace e uguaglianza io ci sono, per quel che posso fare». E anche il legame personale del sindacalista emiliano con il fondatore di Libera don Luigi Ciotti — che ha presentato una proposta di legge per il reddito minimo, allargando quindi la propria sfera di interesse — è ben saldo.

La “Coalizione sociale” — ragionano in Corso Trieste — avrebbe un’autorevolezza che per certi versi le sigle della sinistra radicale non hanno più. L’assenza di Landini alla Human Factor di Sel a Milano è stata vissuta male da Nichi Vendola. Mentre poche settimane fa Stefano Rodotà, intellettuale vicino al leader dei metalmeccanico, in un’intervista su Micro-Mega definì quei partiti «zavorre ».

I riferimenti sono più che altro europei. In ottobre, al comizio di chiusura del festival dei giovani di Syriza ad Atene, erano in tre sul palco: il padrone di casa Alexis Tsipras, il leader degli spagnoli di Podemos Pablo Iglesias e proprio Landini. Non a caso il segretario della Fiom ha in testa una via di mezzo tra i due esperimenti vincenti della sinistra radicale europea: coniugando il mutualismo dei greci con l’idea molto “indignados” di imporsi nel dibattito bypassando i partiti. La riflessione parte da un dato di fatto: nei paesi europei a suo tempo denominati “Pigs”, complice la crisi che ha impoverito molti, si stanno aprendo insperate praterie a sinistra. Italia a parte.
Copiare modelli stranieri è impossibile ma importare alcune pratiche e discorsi sì. E difatti il linguaggio di Landini è cambiato molto negli ultimi mesi. Il continuo riferimento alla necessità di «unire i soggetti che il governo (o “il neoliberismo”) ha diviso», è una frase-chiave del sindacalista ma pure un must di Tsipras. Così come nel concetto di ambire alla “maggioranza” — cioè conquistare il consenso andando oltre il bacino della sinistra radicale, oltre ai confini della fabbrica — si intravedono le parole e il piglio di Iglesias.

Ora la prima vera tappa è la manifestazione del 28 marzo a Roma. C’è solo una possibile variante al disegno di Landini. Cioè il sogno, mai abbandonato, di guidare un giorno tutta la Cgil.

«E sarà stri­dente ascol­tare, dopo que­sta vicenda, le reto­ri­che invo­ca­zioni sull’Europa di pace e pro­spe­rità. Anche que­sta è una guerra. Con vit­time umane». Non una guerra, un suicidio collettivo.

Il manifesto, 13 marzo 2015

«Gliela faremo pagare». In que­sta frase che le cro­na­che sull’ultima riu­nione dell’Eurogruppo ci riman­dano c’è tutto il caso greco. Al di là di ogni que­stione di merito, è evi­dente che a Bru­xel­les si sta gio­cando una par­tita poli­tica di mas­sima impor­tanza e che ci riguarda: biso­gna punire chi, per la prima volta in 58 anni di sto­ria, ha osato sfi­dare i ver­tici dell’Unione euro­pea e ha messo in discus­sione i cri­teri di con­du­zione di quella che dovrebbe essere una comu­nità. Que­sto è quel che conta: non deve più acca­dere, chi ci ha pro­vato deve essere punito. Guai se si aprisse un varco alla poli­tica. Cioè alla condivisione.

Per­ciò il signor Jeroen Dijs­se­bloem ha alzato il ditino per dire no, sette riforme non ci bastano, ne vogliamo venti. La pros­sima volta diranno 25, chissà. Con­tro Varou­fa­kis ci sono dicias­sette robot che con­ti­nuano a chie­dere al governo Tsi­pras, forte di un appog­gio popo­lare senza pre­ce­denti, di pagare per le male­fatte accu­mu­late da chi sarà pur greco, ma è com­pa­gno di par­tito, e di casta, pro­prio di chi vor­rebbe impar­tire lezioni di mora­lità: i mini­stri del governo Sama­ras. Pro­prio nelle stesse ore in cui que­sta scena andava in onda uno di loro, anzi il più impor­tante per­ché l’ex mini­stro delle Finanze, Gikas Har­dou­ve­lis, veniva accu­sato di aver espor­tato ille­gal­mente 450 mila euro in un para­diso fiscale inglese. «Volevo met­tere al sicuro il capi­tale per i miei figli», si è scu­sato. Poveretto.

Non sono pas­sati nep­pure due mesi da quando ine­diti per­so­naggi, diver­sis­simi da chi da sem­pre aveva coman­dato il paese, hanno preso le redini della Gre­cia, tro­van­dosi a dover gestire un immane disa­stro eco­no­mico e ormai uma­ni­ta­rio. Ma la mera­vi­gliosa Europa non è dispo­ni­bile a dar­gli tempo affin­ché pos­sano ripa­rare e riav­viare lo svi­luppo del paese, nono­stante sem­pre più nume­rosi siano gli avver­ti­menti di eco­no­mi­sti euro­pei ed ame­ri­cani, che invi­tano Bru­xel­les a ragio­nare anzi­ché ad emet­tere editti imperiali.

La par­tita in atto è duris­sima. Del resto sape­vamo che così sarebbe stato. Ma è stato fon­da­men­tale avere accet­tato la sfida. Per la Gre­cia e per tutti noi che vor­remmo un’altra Europa. Final­mente la grande que­stione di cosa voglia dire essere una comu­nità, che è cosa diversa da un mer­cato, è stata posta sul tap­peto. Non si potrà più nascon­derla sotto. E sarà stri­dente ascol­tare, dopo que­sta vicenda, ripe­tere le reto­ri­che invo­ca­zioni sull’Europa che ha por­tato pace e pro­spe­rità. Anche que­sta in corso è una guerra. Con le sue vit­time umane.

Ci sono per­ples­sità, e anche cri­ti­che per come Varou­fa­kis e Tsi­pras hanno con­dotto le cose? Sì, certo. Pro­ve­nienti dal loro stesso par­tito e Con­si­glio dei mini­stri. È com­pren­si­bile. Credo però che esse siano ingiu­ste. Si tratta di una guerra di lunga durata, non di una rapida e con­clu­siva bat­ta­glia, desti­nata a cono­scere arre­tra­menti e passi in avanti, per molti versi una vera guer­ri­glia. Ma biso­gna tenere i nervi saldi: i risul­tati non pos­sono esser misu­rati nell’immediato, è già una vit­to­ria aver impo­sto un nuovo discorso, aver aperto con­trad­di­zioni (che nono­stante l’apparente unità del fronte di Bru­xel­les già emer­gono), aver forse, anche que­sto per la prima volta, ani­mato un movi­mento popo­lare dav­vero euro­peo in soli­da­rietà con Syriza, su un tema che riguarda tutti. È già molto. Ha dato corag­gio a tutti. Per que­sto rin­gra­ziamo i com­pa­gni di Syriza e li invi­tiamo a continuare.

«».Il manifesto, 12 marzo 2015


CORPO A CORPO CON LA DEMOCRAZIA
di Luciana Castellina

Nella pre­fa­zione a que­sti due volumi [vedi riferimenti in calce] Ste­fano Rodotà scrive che Lucio Magri è stato uno dei pro­ta­go­ni­sti di que­sta sta­gione par­la­men­tare di fine secolo. Una «bella sta­gione», aggiunge Rodotà, e debbo dire che la rilet­tura di que­sti testi suscita nostal­gia: per­ché non solo nel caso di Lucio, ma per tutti in quell’epoca, ogni inter­vento alla Camera rap­pre­sen­tava un impe­gno, una rifles­sione, un eser­ci­zio di alto livello. Per que­sto, del resto, que­gli inter­venti pos­sono essere pub­bli­cati dopo tanti anni.

Pro­ta­go­ni­sta, dun­que ma assai ano­malo, per­ché all’inizio, nella legi­sla­tura ’76-’79, parte di un gruppo di appena sei depu­tati su 630 e segre­ta­rio di un par­tito, il Pdup, che in quella coa­li­zione elet­to­rale – deno­mi­nata Demo­cra­zia Pro­le­ta­ria – di depu­tati ne aveva solo tre. E però era in rap­pre­sen­tanza della sola oppo­si­zione, come si diceva allora, quando ancora si face­vano distin­zioni, “dell’arco demo­cra­tico”.

Nel suo primo discorso par­la­men­tare Lucio si era infatti tro­vato nella para­dos­sale con­di­zione di dover negare la fidu­cia a un governo soste­nuto da una mag­gio­ranza quasi totale: il governo delle lar­ghe intese dell’on. Andreotti. Anche que­sto det­ta­glio credo stia ad indi­care (ed è bene ricor­darlo in un momento in cui pro­prio di legge elet­to­rale si sta discu­tendo) quanto impor­tante sia il plu­ra­li­smo par­la­men­tare, una rap­pre­sen­tanza che esprima dav­vero tutte le anime del paese.

Che non bloccò affatto l’istituzione, ma con­sentì anzi ine­diti e sti­mo­lanti intrecci, penso innan­zi­tutto al dia­logo che si svi­luppò fra il nostro attuale pre­si­dente della Repub­blica — che dav­vero rin­gra­zio per la sua pre­senza — e Magri, in occa­sione della assai con­flit­tuale ride­fi­ni­zione, nel 1993, della legge elettorale.

È una buona cosa rileg­gere gli atti par­la­men­tari ed è una buona cosa che la Biblio­teca della Camera sia impe­gnata a ren­derlo pos­si­bile con le sue pub­bli­ca­zioni: per­ché si tratta della testi­mo­nianza più auten­tica e diretta di un periodo sto­rico, e debbo dire che anche io, che pure ho vis­suto da par­la­men­tare que­gli anni ’76-’99, rileg­gendo que­sti volumi sono stata aiu­tata ad appro­fon­dire la rifles­sione su quella sta­gione. Che ha peral­tro rap­pre­sen­tato un pas­sag­gio epo­cale per il nostro paese, non a caso defi­nito “pas­sag­gio dalla prima alla seconda Repub­blica”.

Tut­ta­via, più che ritor­nare a quella sta­gione vor­rei cogliere quanto di tut­tora estre­ma­mente attuale ho tro­vato in que­sti discorsi di Lucio Magri. E sof­fer­marmi soprat­tutto sul tema della crisi della demo­cra­zia, che a me sem­bra essere oggi il tema più pre­oc­cu­pante. Lucio ne avverte la dram­ma­ti­cità già allora e denun­cia i rischi — con quello che Rodotà ha defi­nito «impie­toso rea­li­smo» — della deriva dell’antipolitica oggi diven­tata così macroscopica.

Non un lamento impo­tente, ma la cri­tica con­creta all’autoreferenzialismo cre­scente dei par­titi, alla loro inca­pa­cità di inten­dere quanto andava emer­gendo nella società attra­verso i movi­menti e indi­cando dun­que la neces­sità non, come troppo spesso ora si fa, di offrire un’espressione diretta ad una inde­ter­mi­nata società civile sacra­liz­zata e però fran­tu­mata e fatal­mente subal­terna alla cul­tura domi­nante, bensì un impe­gno a costruire quella che egli defi­niva «demo­cra­zia organizzata».

Non solo par­titi chiusi in se stessi più rap­pre­sen­tanza dele­gata, ma anche una rete di orga­ni­smi capaci di andar oltre la mera pro­te­sta e impe­gnati a impa­rare a gestire diret­ta­mente fun­zioni essen­ziali della società, così da ridurre via via la distanza fra gover­nanti e gover­nati (che poi è la base più salda della demo­cra­zia). E così col­mare il solco che dram­ma­ti­ca­mente separa il cit­ta­dino dalle isti­tu­zioni.

Non a caso il Pdup fu un punto di rife­ri­mento per la cre­scita di que­ste reti che ebbero, — negli anni 70 — una par­ti­co­lare fio­ri­tura. Penso ai Con­si­gli di fab­brica, a quelli di Zona, a movi­menti come Medi­cina Demo­cra­tica o Psi­chia­tria, o nati attorno alle grandi que­stioni dell’assetto urbano e sociale.

Io non me la sento di accu­sare le nostre gio­vani gene­ra­zioni per il loro disin­te­resse alla poli­tica, per la pole­mica con­tro la “casta” che fatal­mente sfo­cia nel disin­te­resse anche per la stessa demo­cra­zia, o di que­sta assume una visione asso­lu­ta­mente ridut­tiva: un insieme di diritti e di garan­zie indi­vi­duali, non lo spa­zio su cui si salda ed opera una col­let­ti­vità.
Il ter­reno della poli­tica si è ormai a tal punto ridotto, come una pelle di zigrino, sì da diven­tare un eser­ci­zio pas­sivo in cui ci si limita ad inter­ro­gare il cit­ta­dino per­ché dica «mi piace o non mi piace» a quanto pro­po­sto da un ver­tice, come si trat­tasse di face­book. E infatti di solito si dice «I like it, I don’t».

Se la demo­cra­zia è solo que­sta spo­ra­dica con­sul­ta­zione, e non invece uno spa­zio deli­be­ra­tivo che ti rende par­te­cipe e sog­getto della costru­zione di una società ogni volta inno­va­tiva, per­ché mai un gio­vane dovrebbe appassionarsi?

Il declino dei grandi par­titi poli­tici di massa ha lasciato un vuoto che dai tempi in cui Lucio ne denun­ciava i sin­tomi è diven­tato un oceano. Non li rico­strui­remo tali quali erano (e anche loro, del resto, ave­vano non pochi difetti). Ma è impor­tante tor­nare a riflet­tere sul senso della poli­tica, — che non è ricerca di con­senso, ma costru­zione di senso — così come con que­sti discorsi, pur pro­nun­ciati in Par­la­mento e non a scuola, Magri ci spin­geva a fare, per recu­pe­rare la poli­tica, che poi è ricerca della pro­pria iden­tità nel rap­porto con gli altri umani e non arroc­ca­mento sul pro­prio io nell’illusione di potersi sal­vare da soli.

Se non doves­simo riu­scire a far capire quanto la len­tezza della con­di­vi­sione, — che è pro­pria della demo­cra­zia – sia più pre­ziosa della fretta, solo appa­ren­te­mente più effi­ciente, del deci­sio­ni­smo, non ce la faremo nem­meno a far rivi­vere una vera Sini­stra. Per que­sto sono dav­vero con­tenta — e con me tutti i com­pa­gni del Pdup — della sol­le­ci­ta­zione che da que­sti testi ci viene per riflet­tere sull’oggi. E per aiu­tarci a discu­terne con i più gio­vani.

La luci­dità anti­ci­pa­trice di Magri su que­sto come su altri temi — che è cer­ta­mente stata una delle sue più signi­fi­ca­tive carat­te­ri­sti­che — ha avuto una par­ti­co­lare inci­si­vità per­ché lui non era un pro­feta, un intel­let­tuale separato.

In occa­sione della sua scom­parsa, Perry Ander­son, uno dei fon­da­tori della auto­re­vole New Left Review, ha scritto: «Lucio Magri non ha avuto uguali nel pano­rama della sini­stra euro­pea. È stato l’unico intel­let­tuale rivo­lu­zio­na­rio in grado di pen­sare in sin­to­nia con i movi­menti di massa, svi­lup­pa­tisi durante il corso della sua vita. La sua rifles­sione teo­rica si è radi­cata real­mente nell’azione, o nella man­canza d’azione, degli sfrut­tati e degli oppressi».

La ricerca, alla fine quasi osses­siva, del nesso fra teo­ria e mili­tanza ha finito per esser­gli fatale. Nel 2004 Magri decise di porre fine alla nuova “Rivi­sta” de il mani­fe­sto che era rinata nel 1999 sotto la sua dire­zione. Era una bella rivi­sta. Ma Lucio non si ras­se­gnava al fatto che man­cas­sero i refe­renti sociali, non voleva essere solo un intel­let­tuale che scri­veva senza la veri­fica dell’azione poli­tica. E poi­ché non vedeva nell’immediato le con­di­zioni per­ché inter­lo­cu­tori con­si­stenti si pre­sen­tas­sero e che il dibat­tito poli­tico in atto si sbri­cio­lava in qui­squi­lie, decise di ces­sare le pubblicazioni.

Furono moti­va­zioni ana­lo­ghe che lo con­dus­sero alla sua tra­gica deci­sione finale. «Non dico che la sini­stra non rina­scerà — ripe­teva — ma ci vor­ranno molti anni e io sarò comun­que già morto. Così come è il dibat­tito non mi inte­ressa». Ma non era tut­ta­via pes­si­mi­sta nel lungo periodo. Come del resto prova il titolo del suo libro Il sarto di Ulm — oggi tra­dotto in Inghil­terra, Ger­ma­nia, Spa­gna, Bra­sile, Argen­tina — titolo tratto da un apo­logo di Ber­tolt Bre­cht. Al sarto, che pre­ten­deva che l’uomo poteva volare, — stufo dell’insistenza — il vescovo-principe di Ulm fini­sce per dire: «Vai sul cam­pa­nile e but­tati, vediamo se è vero quanto dici». Il sarto va e salta, e natu­ral­mente si sfracella.

E però: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Il sarto, per­ché poi alla fine l’uomo ha volato. Ecco, diceva Lucio, per ora il comu­ni­smo si è schian­tato, ma alla fine volerà. Noi con­ti­nuiamo a provarci


QUELLA LUCIDA DIFESA DEL MATTARELLUM
LEGGEREMAGRI NELL’ITALIA RENZIANA DEL 2015
di Daniela Preziosi

C’è una ragione, forse una in par­ti­co­lare, che ha por­tato il pre­si­dente della Repub­blica Ser­gio Mat­ta­rella ieri mat­tina nella Sala della Regina di Mon­te­ci­to­rio all’affollata pre­sen­ta­zione dei due volumi sull’attività par­la­men­tare di Lucio Magri, fon­da­tore de il mani­fe­sto poi del Pdup poi ancora fra i pro­ta­go­ni­sti della prima Rifon­da­zione comu­ni­sta, depu­tato dal 1976 al 1994, scom­parso per sua volontà non ancora ottan­tenne il 28 novem­bre 2011. A rac­con­tarla, que­sta ragione, in parte a rive­larla, è «l’amico di una vita» Famiano Cru­cia­nelli, con Luciana Castel­lina e Aldo Gar­zia cura­tore del libro Alla ricerca di un altro comu­ni­smo (2012) con arti­coli e inter­venti dello stesso Magri. «Io cono­sco la sto­ria e so qual era il rap­porto fra l’allora ono­re­vole Mat­ta­rella e Magri».

La «sto­ria» ha a che vedere con legge elet­to­rale che porta il nome del Pre­si­dente, alla quale Magri «pre­stò una forte atten­zione e che fu fer­tile ter­reno comune con l’onorevole Mat­ta­rella». Il depu­tato comu­ni­sta fece parte del gruppo ristretto che discusse inten­sa­mente del testo. Un corpo a corpo su una legge dif­fi­cile da scri­vere, a valle del refe­ren­dum mag­gio­ri­ta­rio votato a furor di popolo qual­che mese prima.

Poi la difese in aula con rea­li­smo: «Que­sta intesa avrebbe potuto essere migliore, ma con que­sti rap­porti di forza e que­sto pul­vi­scolo di inte­ressi in campo e sotto la pres­sione di un’opinione pub­blica appas­sio­nata ma male infor­mata sarebbe stato dif­fi­cile fare meglio», disse. Magri, rico­strui­sce Cru­cia­nelli (anche lui all’epoca depu­tato Prc, poi con Magri uscì dal par­tito con i ’comu­ni­sti uni­tari’), «si trovò come sem­pre a discu­tere su due fronti: quello di una parte con­si­stente del gruppo diri­gente di Rifon­da­zione comu­ni­sta che come una lita­nia ripro­po­neva il pro­por­zio­nale, con una straor­di­na­ria rimo­zione della realtà; e quello molto più potente del Pds, dei soste­ni­tori dell’ipermaggioritario che inten­de­vano can­cel­lare il sistema dei par­titi.

La legge Mat­ta­rella rap­pre­sen­tava il punto più avan­zato: per un verso accet­tava il ver­detto del refe­ren­dum e per l’altro teneva aperto con quel 25 per cento di pro­por­zio­nale la pos­si­bi­lità di ridare un senso gene­rale ai par­titi e a un tes­suto demo­cra­tico che vive nella par­te­ci­pa­zione dei sog­getti orga­niz­zati». Aver­cela oggi, quella legge, al posto dell’incipiente Italicum.
Già da que­sto brano si capi­sce che la sala stra­piena non è una riu­nione di reduci accorsi a omag­giare la fami­glia e a rim­pian­gere i tempi andati. C’è, sì, la comu­nità dei «com­pa­gni del Pdup», la breve ma feconda espe­rienza del ’par­tito d’unità pro­le­ta­ria per il comu­ni­smo’, del mani­fe­sto e delle cin­quanta sfu­ma­ture della sini­stra di ieri e di oggi, da Nichi Ven­dola e tutto il gruppo di Sel a Fau­sto Ber­ti­notti, da Luciano Pet­ti­nari a Paolo Guer­rini a Lucio Mani­sco a Franco Gior­dano, al gior­na­li­sta Valen­tino Par­lato; il costi­tu­zio­na­li­sta Gianni Fer­rara, gli ex sot­to­se­gre­tari Vin­cenzo Vita e Alfonso Gianni, l’ex euro­par­la­men­tare Roberto Musac­chio; fino a Ste­fano Fas­sina, Roberto Spe­ranza, Nico Stumpo e Vale­ria Fedeli (Pd); ma anche ai cat­to­lici ex dc Gerardo Bianco e Nicola Man­cino (dalla Dc pro­ve­niva Magri, iscritto al Pci nel ’57 prima essere radiato nel ’69), il già socia­li­sta poi Fi oggi Ncd Fabri­zio Cicchitto.
Il ragio­na­mento che si svi­luppa negli inter­venti (Laura Bol­drini, Gianni Melilla, Paolo Fon­ta­nelli, Bianco, Castel­lina, Cru­cia­nelli) a par­tire dai discorsi del depu­tato Magri sulla rap­pre­sen­tanza e sulla «demo­cra­zia orga­niz­zata» (lui, autore di un sag­gio su «par­la­mento o con­si­gli» — i soviet — in rispo­sta a Pie­tro Ingrao sul mani­fe­sto del 1970, così defi­ni­sce quella che ora con for­mula fessa si chiama ’società civile’) parla dell’oggi. Coglie già «l’avvio della deriva oli­gar­chica», sot­to­li­nea nella pre­fa­zione dei volumi il costi­tu­zio­na­li­sta Ste­fano Rodotà. La pre­si­dente Bol­drini, padrona di casa, riflette invece su ’quel par­la­mento’: nel ven­ten­nio 76–94 «c’era una curio­sità per le opi­nioni diverse, oggi alla Camera non sem­pre accade». Si intui­sce il rife­ri­mento alle pole­mi­che degli ultimi giorni.

A leg­gere Magri di fine anni 80 si incro­cia l’Italia del 2015. Magri «indi­gnato con il nuo­vi­smo che carat­te­rizza lo scio­gli­mento del Pci», non per­ché «non inno­va­tore» ma per­ché «con­si­de­rava un grave errore poli­tico la reto­rica di un nuovo senza radici e senza futuro» (Cru­cia­nelli). Il ber­sa­glio di ieri è il «nuo­vi­smo» occhet­tiano; ma le parole non cal­zano bene per «la rot­ta­ma­zione» ren­ziana?

A leg­gere Magri del ’93 si incon­tra il tor­mento della sini­stra di governo: «L’unica strada per­cor­ri­bile è quella non dell’improvvisa scom­parsa dei par­titi poli­tici ma delle gra­duali e pro­gres­sive coa­li­zioni fra gli stessi con piat­ta­forme pro­gram­ma­ti­che defi­nite». E cosa c’è di più attuale e più coevo della crisi di rap­pre­sen­tanza della sini­stra? «Magri rap­pre­senta un punto di vista, una parte certo di mino­ranza», dice Melilla, già Pdup-manifesto oggi depu­tato di Sel, «ma non fu mai mino­ri­ta­rio. Amava una frase di Teresa di Lisieux: ’so che niente dipende da me, ma parlo e agi­sco come se tutto dipen­desse da me’».

Pre­sen­ta­zione dei volumi
“Lucio Magri – Atti­vità parlamentare”
Mer­co­ledì 11 marzo, alle ore 11, presso la Sala della Regina di Palazzo Mon­te­ci­to­rio, sono stati pre­sen­tati i volumi “Lucio Magri — Atti­vità parlamentare”.
Ha aperto l’appuntamento il saluto della Pre­si­dente della Camera dei depu­tati, Laura Boldrini.
Sono inter­ve­nuti Paolo Fon­ta­nelli, Que­store della Camera, Gianni Melilla, Segre­ta­rio di Pre­si­denza della Camera, Gerardo Bianco, Luciana Castel­lina, Famiano Crucianelli.
Pre­sente il Pre­si­dente della Repub­blica, Ser­gio Mat­ta­rella.

Guarda il video sul sito della Camera.

«Questi partiti tornati potenti si impoveriscono procedendo per espulsioni e promozioni non dei migliori ma dei fedeli. Trovare nuove forme di partecipazione e di rappresentanza è fondamentale, se non vogliamo rassegnarci a una politica ridimensionata a una questione per pochi intimi». Corriere della sera, 12 marzo 2015

Quante volte abbiamo celebrato il funerale dei partiti? Invece sono più vivi che mai. Meglio, sono più che mai le leve per il potere. Renzi è arrivato a Palazzo Chigi dopo aver scalato il Pd. Salvini ha conquistato la segreteria della Lega, con l’accordo che Tosi sarebbe stato il candidato premier, e ora l’ha cacciato. La nuova legge elettorale mette i partiti al centro di tutto: il partito più votato avrà il premio di maggioranza, i capi partito designeranno gran parte degli eletti. Eppure non ci sono né le regole, né le garanzie, forse neppure la volontà necessarie ad aprire i partiti alla partecipazione dei cittadini.

Chi si iscrive oggi a un partito, e perché? Quanti tra i giovani fanno politica? Sono davvero i migliori coloro che si avvicinano alla cosa pubblica? È lecito dubitarne. I partiti sono molto diversi da quelli di un tempo: non hanno sezioni, non hanno giornali, non hanno scuole di formazione e di pensiero, non hanno ideologie, forse non hanno neppure idee forti. Però non hanno mai avuto tanta influenza. Neppure i segretari della Dc e del Pci ricevevano premi di maggioranza e nominavano i propri parlamentari; e quasi mai il leader e il presidente del Consiglio erano la stessa persona (com’è accaduto a Berlusconi e come accade a Renzi). Eppure la Prima Repubblica era la Repubblica dei partiti. «Il partito, questo incredibile strumento del potere che da un giorno all’altro ti innalza ai vertici dello Stato, ti dà poteri economici decisionali anche se fino a ieri hai scritto libri di nessun valore, anche se sei un economista di cui nelle università dei Paesi avanzati riderebbero…»: così ha scritto Giorgio Bocca a proposito dell’ascesa di Fanfani; fin troppo severamente, visti i successori. «Partitocrazia» la chiamò Pannella.

Poi il sistema ricalcato sul mondo diviso in blocchi fu travolto dalla fine della Guerra Fredda, e dal dilagare insopportabile della corruzione. Una buona legge che portava il nome dell’attuale capo dello Stato creò collegi uninominali, in cui non si votava più un simbolo ma una persona. Si ironizzò sulle variazioni botaniche e floreali di partiti che erano stati potenti. Cominciò la stagione dei sindaci, che seppero interpretare la loro città e parvero offrire una nuova visione della politica, più aperta e vicina ai cittadini. E anche loro provarono a fondare un partito.

Oggi i sindaci non hanno più un soldo e sono ai minimi storici: Orsoni arrestato, de Magistris reintegrato dal Tar, Doria sbertucciato per strada, ora Tosi espulso; di Zedda e Merola si sono perse le tracce; a Palermo e a Catania ci sono gli stessi di oltre vent’anni fa; Pisapia non si ricandida (Marino purtroppo sì).

È vero che un ex sindaco mai passato dal Parlamento siede a Palazzo Chigi. Ma Renzi è salito al potere prendendosi il Pd e usandolo come una leva per scalzare Letta e insediarsi al suo posto. Ora, dopo aver concordato con Berlusconi una legge che enfatizza il ruolo dei partiti, annuncia di volerne uno «meno leggero di quello che pensavo», in cui iscritti e tessere tornino a pesare.

È difficile credere che Renzi desideri un improponibile ritorno al passato. Ma il futuro è tutto da costruire. La Costituzione all’articolo 49 prevede che all’interno dei partiti debba valere «il metodo democratico». Da decenni si discute di una legge che fissi regole per il funzionamento interno delle forze politiche (e sindacali); ora si parla di regolamentare per legge le primarie. Parliamoci chiaro: sarà molto difficile che queste norme vedano la luce. Ma non per questo il problema può essere eluso.

La semplificazione che le riforme di Renzi imprimeranno al sistema, sia pure al prezzo di qualche forzatura, può essere salutare. Ma proprio per questo servono regole chiare. Spesso le primarie, comprese le ultime in Campania, hanno creato più problemi di quelli che hanno risolto. I partiti rischiano di diventare club elettorali del capo e comitati d’affari, che inevitabilmente alimentano una corruzione tanto diffusa da non destare neppure più scandalo. E i social network sono una scorciatoia più semplice ma alla lunga più fragile del lavoro culturale e organizzativo che occorre per costruire movimenti attorno a energie e a interessi.

Oggi la politica non attrae i talenti e le intelligenze. Non forma quadri dirigenti e bravi amministratori. Disgusta o annoia, come confermano i dati d’ascolto dei talk-show . Il confronto delle idee langue, il livello della discussione pubblica non è all’altezza della gravità della situazione. Questi partiti tornati potenti si impoveriscono procedendo per espulsioni e promozioni non dei migliori ma dei fedeli. Trovare nuove forme di partecipazione e di rappresentanza è fondamentale, se non vogliamo rassegnarci a una politica ridimensionata a una questione per pochi intimi, con i militanti ridotti a clientes arraffoni o a fondale plaudente con bandiere a favore di telecamera .

Il manifesto, 12 marzo 2015
Non è gen­tile chie­dere l’età a una donna e i supremi giu­dici della Cas­sa­zione non hanno potuto dimo­strare che l’ottantenne pre­si­dente del con­si­glio sapesse che la ragazza scap­pata da una casa fami­glia aveva appena dicias­sette anni quando si fer­mava la notte nel villa di Arcore. Un vero gentiluomo.

Per gli ermel­lini del Palaz­zac­cio non deve essere stato facile nem­meno arri­vare a una sen­tenza di asso­lu­zione che infatti li ha impe­gnati per nove ore prima di giun­gere alla con­clu­sione della beata igno­ranza dell’ex cava­liere. Non solo. Hanno anche giu­di­cato che la tele­fo­nata not­turna del capo del governo ita­liano, impe­gnato in un ver­tice a Parigi, per chie­dere di libe­rare la nipote di Muba­rak fer­mata in que­stura, non era un atto di con­cus­sione del fun­zio­na­rio di poli­zia. Biso­gnava essere degli anti­ber­lu­sco­niani acce­cati dall’odio per non capire che se il poli­tico più potente del paese si inte­res­sava alla ragazza cer­ta­mente si trat­tava di un nobile sen­ti­mento di paterna pre­oc­cu­pa­zione per la sorte dell’illustre nipote. Infatti Ruby uscì dalla que­stura per ritro­varsi a casa di una pro­sti­tuta dopo essere pas­sata per le cure di una delle fre­quen­ta­trici delle cene ele­ganti, Nicole Minetti, già pro­mossa a con­si­gliere regio­nale per evi­denti meriti acqui­siti sul campo.

Eppure per non fare la figura di un Ghe­dini qual­siasi, per­fino l’avvocato Franco Coppi deve ammet­terlo davanti ai cro­ni­sti: «Ber­lu­sconi non me ne voglia ma non posso calarmi il velo davanti agli occhi». Il lumi­nare del foro mila­nese lo dice a pro­po­sito delle serate con le pro­sti­tute che l’allora pre­si­dente del con­si­glio spac­ciava per con­vivi musi­cali. Un giro vor­ti­coso di donne a paga­mento nella casa del capo del governo. Un «fatto pro­sti­tu­tivo», con­fer­mato da giu­dici e avvocati.

Tut­ta­via, come dicono gli addetti ai lavori, non si sono rav­vi­sate «le fat­ti­spe­cie di reato» e tanto basta alla grande fami­glia ber­lu­sco­niana per far festa. Se ieri avete acceso la tele­vi­sione avete visto pic­cole folle armate di ban­diere davanti l’abitazione romana di Ber­lu­sconi. Avete ascol­tato l’attuale mini­stro dell’interno di Renzi, con­fes­sare la pro­pria feli­cità per aver sem­pre cre­duto nell’innocenza del suo lea­der, e con lui tutti i ber­lu­sco­niani che ieri, invece di minac­ciare i giu­dici del tri­bu­nale di Milano con mani­fe­sta­zioni fuori e den­tro il palazzo di giu­sti­zia, si sono limi­tati a chie­dere il risar­ci­mento per il loro amato capo.

E pazienza se resta sem­pre un con­dan­nato in via defi­ni­tiva per frode fiscale, se deve affron­tare a Napoli un pro­cesso per com­pra­ven­dita di par­la­men­tari, se deve stare attento al pro­cesso di Bari sui traf­fici di pro­sti­tute dell’amico Taran­tini, se deve tre­mare per il cosid­detto Ruby-ter sulla cor­ru­zione di atti giu­di­ziari (le olget­tine pagate per tacere). Pic­cole, fasti­diose fis­sa­zioni della magi­stra­tura che non impe­di­ranno a un poli­tico in declino di sen­tirsi di nuovo a cavallo, pronto a rim­boc­carsi le mani­che per darci «un’Italia migliore». Quell’Italia che lo ha votato per vent’anni, che oggi non lo vota più anche per­ché una parte di quell’elettorato avverte una pro­fonda sin­to­nia con il gio­vane lea­der di palazzo Chigi che sem­bra volerne repli­care suc­cessi e consensi.

Ver­ranno giorni migliori ma la morale della favola di que­sta asso­lu­zione del con­dan­nato eccel­lente l’abbiamo impa­rata da uno dei grandi mae­stri della let­te­ra­tura ame­ri­cana che ci aveva avver­tito per tempo: «Non c’è motivo per cui il bene non possa trion­fare sul male, se solo gli angeli si des­sero un’organizzazione ispi­rata a quella della mafia»

E' uscita l'edizione cartacea di
Rottama Italia,
Edizioni Altreconomia, 44 pagine €12,00


Rottama Italia
Perché lo Sblocca-Italia è una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro.

Testi di: Tomaso Montanari, Paolo Maddalena, Giovanni Losavio, Massimo Bray, Edoardo Salzano, Paolo Berdini, Vezio De Lucia, Salvatore Settis, Anna Donati, Maria Pia Guermandi, Pietro Dommarco, Domenico Finiguerra, Anna Maria Bianchi, Antonello Caporale, Carlo Petrini, Wu Ming, Luca Martinelli, Pietro Raitano

e disegni di: Sergio Staino, Ellekappa, Altan, Giannelli, Danilo Maramotti, Mauro Biani, Giovanni Beduschi, Vincino, Massimo Bucchi, Giuliano, Vauro Senesi, Tiziano Riverso, Giorgio Franzaroli

Il pane e le rose, 11 marzo 2015

Ieri è stata la sua grande giornata. E' passato alla storia ed ha coronato venti anni di attività politica di primissimo piano nella quale non c'è stato un solo giorno nel quale abbia giocato di rimessa e non sia stato l'attore principale. Aveva detto all'inizio: " Rivolterò l'Italia" come un calzino". L'ha fatto. E' stato il più rigoroso ideologo dell'anticomunismo che l'Italia abbia mai avuto al potere. Tutto quello che non è riuscito a fare pur creandone l'humus, il contesto è stato fatto dal suo legittimo successore: Matteo Renzi che sebbene non uscito dai saloni di Villa Arcore è il suo erede spirituale, colui che ha portato a compimento la sua opera.

Berlusconi si presenta venti anni fa al potere del Paese come la parte sconfitta dalla Resistenza, la parte cancellata e costretta a rifugiarsi nelle fogne,che ribalta la sua condizione in quella del vincitore. Sdogana Fini e lancia un segnale a tutta l'area fascista del Paese che non era riuscita a riciclarsi con Almirante. Assume di fatto la guida degli industriali italiani anche se all'inizio questi erano assai diffidenti e scostanti verso di lui. Quando scoppia una delle tante crisi della Fiat si presenta allo appuntamento con l'avvocato Gianni Agnelli a bordo di possenti auto straniere esibite al pubblico italiano.

Perchè ieri è stata la sua apoteosi, la sua assunzione in cielo, la sua divinizzazione? Perchè un parlamento trattato a staffilate dal suo successore approva una legge che sfascia la Costituzione deformandone il contenuto e perchè la Magistratura italiana che è stata la nemica con la quale si è confrontata per venti anni realizza un imbarazzante autogol: la Cassazione lo assolve di una gravissima accusa formulata dal Tribunale di Milano riguardante la corruzione di una minorenne e la concussione di funzionari di questura. Era stato condannato a sette anni, pubblico ministero accusatore Ilda Boccassini che fiammeggiava con la spada della giustizia nelle mani nelle requisitorie contro di lui.

Si dice che però ieri Berlusconi ha perso Forza Italia, il suo Partito perchè lo ha indotto a votare contro Renzi. Il fatto non ha nessuna importanza dal momento che il suo scaltro successore non avrà più bisogno dei suoi voti per andare avanti. Non ha neppure importanza se ci sarà un Nazareno secondo. Il PD è il suo partito, la sua Forza Italia. L'ideologia berlusconiana è penetrata profondamente in tutte le strutture della politica e dello Stato e si è inverata in un avventuriero di grande fortuna quale è Matteo Renzi.

Berlusconi ha vinto perchè ha fatto di quello che fu il PCI il suo partito: il PD è lo strumento che ha sfasciato la classe lavoratrice, ha ridotto il sindacato alla obbedienza al governo, ha portato avanti un programma di riforme costituzionali riducendo ad una sorta di ''dopolavoro'' il Senato e cancellando i valori resistenziali contenuti nella Costituzione a cominciare da quelli che tutelavano il lavoro.

Aveva ragione ieri il professore Marino a parlare della vittoria del berlusconismo alla fine di Berlusconi. E' proprio così. Naturalmente non è stato solo merito suo perchè i grandi cambiamenti della storia non sono mai merito di una sola causa. La Bolognina è una lontana sorgente dell'ideologia liberista che ha dato linfa e cultura al berlusconismo. L'assetto iperliberista e soffocante dell' Unione Europea ne è con causa importante.

La sconfitta della classe operaia è assoluta: perde la sua identità di classe perchè il lavoro non è più un diritto e la forza che conta è quella della impresa, perde il suo contesto culturale nella demolizione della Costituzione, perde il suo partito che ha avuto una mutazione maligna ed è diventato il partito del suo mortale nemico.

Una sconfitta destinata a pesare a lungo e che ha azzerato i diritti di due generazioni prive di diritti ed ingannate dalla Job Act che precarizza per sempre il lavoro. Non ci sarà mai più impiego a tempo indeterminato per nessuno. I pochi diritti sopravvissuti sono destinati ad essere cancellati.

Il Fatto quotidano, 9 marzo 2015

"Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono". Vero, ha ragione l'alto dirigente democratico che ti agita davanti una copia del Fatto Quotidiano. Ma ha anche torto. E la colpa non è solo di Matteo Renzi e della sua corte selezionata premiando l'ossequio più che i meriti.
No, la deriva del maggiore partito italiano - sempre più simile al Psi craxiano, ma forse ancora più insidioso - è responsabilità soprattutto di quella zona grigia di dirigenti e onorevoli che nasconde il proprio dissenso, che ha il coraggio di manifestarlo soltanto nel chiuso di stanze e corridoi. Non intendiamo i D'Alema che vorrebbero scalzare Renzi per riproporre il loro decrepito siste
ma di potere. Parliamo di gente talvolta capace e perbene. Che prova sincero disagio. Eppure tace, al massimo si limita a criptiche - e magari penose - manifestazioni di dissenso. Ti ritorna in mente quel pezzo grosso del partito che paonazzo di sdegno si scaglia - in privato - contro Davide Serra e il clan di finanzieri che stringono un nuovo Nazareno alla corte di Mediolanum. O magari quel membro del Governo che, sussurrando, giura e spergiura quanto per lui sarebbero importanti le riforme quelle vere - della giustizia: corruzione e falso in bilancio. Ma alla prova dei fatti sembra liquefarsi. E ancora quel sindaco di una grande città che punta il dito su Debora Serracchiani che passa le giornate a Roma dividendosi tra la poltrona del direttivo Pd e quelle degli studi televisivi, quando ha già un compito da governatrice del Friuli Venezia Giulia che da solo basterebbe a far tremare i polsi. O infine quel consigliere regionale della Toscana: in privato critica le cementificazioni selvagge firmate Pd e poi in consiglio presenta emendamenti che rischiano di vanificare il coraggioso Piano Paesaggistico dell'assessore Anna Marson.

Perché fanno così? Certo, c'è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C'è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C'è chi è sinceramente convinto che l'unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?"Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono". Vero, ha ragione l'alto dirigente democratico che ti agita davanti una copia del Fatto Quotidiano. Ma ha anche torto. E la colpa non è solo di Matteo Renzi e della sua corte selezionata premiando l'ossequio più che i meriti.

No, la deriva del maggiore partito italiano - sempre più simile al Psi craxiano, ma forse ancora più insidioso - è responsabilità soprattutto di quella zona grigia di dirigenti e onorevoli che nasconde il proprio dissenso, che ha il coraggio di manifestarlo soltanto nel chiuso di stanze e corridoi. Non intendiamo i D'Alema che vorrebbero scalzare Renzi per riproporre il loro decrepito sistema di potere. Parliamo di gente talvolta capace e perbene. Che prova sincero disagio. Eppure tace, al massimo si limita a criptiche - e magari penose - manifestazioni di dissenso.

Ti ritorna in mente quel pezzo grosso del partito che paonazzo di sdegno si scaglia - in privato - contro Davide Serra e il clan di finanzieri che stringono un nuovo Nazareno alla corte di Mediolanum. O magari quel membro del Governo che, sussurrando, giura e spergiura quanto per lui sarebbero importanti le riforme quelle vere - della giustizia: corruzione e falso in bilancio. Ma alla prova dei fatti sembra liquefarsi.
E ancora quel sindaco di una grande città che punta il dito su Debora Serracchiani che passa le giornate a Roma dividendosi tra la poltrona del direttivo Pd e quelle degli studi televisivi, quando ha già un compito da governatrice del Friuli Venezia Giulia che da solo basterebbe a far tremare i polsi. O infine quel consigliere regionale della Toscana: in privato critica le cementificazioni selvagge firmate Pd e poi in consiglio presenta emendamenti che rischiano di vanificare il coraggioso Piano Paesaggistico dell'assessore Anna Marson.

Perché fanno così? Certo, c'è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C'è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C'è chi è sinceramente convinto che l'unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?

Una giornata memorabile. Con tristezza per oggi, e timore per domani.Articoli di Massimo Villone, Andrea Fabozzi, Daniela Preziosi.

Il manifesto, 11 marzo 2015

UNA COSTITUZIONE DI MINORANZA

di Massimo Villone, 10.3.2015

Un brutto giorno per la Repub­blica. Come era nelle pre­vi­sioni, la Camera approva la riforma costi­tu­zio­nale Boschi-Renzi, già votata in Senato. 357 sì, 125 no, 7 aste­nuti, che alla Camera non con­tano. Movi­mento 5 Stelle fuori dall’Aula. Numeri certo favo­re­voli a Renzi. Ma è facile vedere, richia­mando il con­senso ai sog­getti poli­tici real­mente espresso nel voto del 2013, che una Camera depu­rata dalla droga del pre­mio di mag­gio­ranza dichia­rato ille­git­timo con la sen­tenza 1/2014 della Corte costi­tu­zio­nale oggi avrebbe boc­ciato la pro­po­sta. Non è la Costi­tu­zione della Repub­blica. È la costi­tu­zione del Pd con escre­scenze. Una costi­tu­zione di minoranza.

Que­sto con­ferma tutte le cri­ti­che sulla man­canza di legit­ti­ma­zione a rifor­mare la Costi­tu­zione di un par­la­mento ful­mi­nato nel suo fon­da­mento elet­to­rale. E dun­que non abbiamo affatto un paese più sem­plice e giu­sto, come esulta Mat­teo Renzi. Invece, abbiamo in pro­spet­tiva una Costi­tu­zione che non riflette la realtà del paese.

Il voto della Camera ci con­se­gna quel che sarà, molto pro­ba­bil­mente, il testo defi­ni­tivo della riforma. Si richiede un nuovo pas­sag­gio in Senato per chiu­dere con l’approvazione di un iden­tico testo la fase della prima deli­be­ra­zione richie­sta dall’art. 138 della Costi­tu­zione. Ma è ragio­ne­vole pre­ve­dere che Renzi alzerà bar­ri­cate con­tro ogni ulte­riore modi­fica, che potrebbe del resto toc­care solo le parti ora emen­date dalla Camera.

Immu­tata la sostanza. Lie­ve­mente miglio­rata la “ghi­gliot­tina” per cui il governo poteva pre­ten­dere a data certa il voto su un testo di sua scelta. Un vero e pro­prio potere di vita o di morte sui lavori par­la­men­tari. Ora rimane solo la data certa, e non è poco. Fino ad oggi sarebbe stata mate­ria riser­vata all’autonomia delle Camere attra­verso i rego­la­menti par­la­men­tari. Da domani — scritta in Costi­tu­zione — sarà invece un vin­colo sul par­la­mento nei con­fronti del governo. Peg­gio­rata la riforma del Titolo V, dove viene annac­quato con ine­dite com­pli­ca­zioni il pro­po­sito — in sé apprez­za­bile — di una sem­pli­fi­ca­zione del rap­porto Stato-Regioni.

Ma su tutto pre­vale la inac­cet­ta­bile scelta — che rimane — di un Senato non elet­tivo, di seconda mano e di dop­pio lavoro, tut­ta­via inve­stito di poteri rile­vanti, tra cui spicca quello di revi­sione della Costi­tu­zione. Man­ten­gono piena vali­dità le cri­ti­che più volte espresse su que­ste pagine. Soprat­tutto per la siner­gia con l’Italicum, che va colta in tutto il suo signi­fi­cato. E se ne accen­tua il rilievo nel momento in cui la riforma costi­tu­zio­nale rimane pes­sima, e l’Italicum peg­giora. Al già inac­cet­ta­bile impianto di base, inos­ser­vante dei prin­cipi posti con la sen­tenza 1/2014, si aggiun­gono ora il pre­mio alla sola lista, la beffa dei capi­li­sta bloc­cati e can­di­da­bili in più col­legi, il bal­lot­tag­gio. Il colpo alla rap­pre­sen­ta­ti­vità delle isti­tu­zioni e ai pro­cessi demo­cra­tici si aggrava.

La fine dichia­rata da Ber­lu­sconi del patto del Naza­reno aveva susci­tato qual­che spe­ranza. La let­tera dei “ver­di­niani” — Ver­dini è noto­ria­mente in odore di ren­zi­smo — fa nascere dubbi sul con­trollo di Ber­lu­sconi sul par­tito. Forse una parte dei suoi si appre­sta a cam­biare padrone, se non casacca. Nel pros­simo voto in Senato — ancora in prima deli­be­ra­zione — non sarà pre­scritta una par­ti­co­lare mag­gio­ranza. Ma sarà una prova gene­rale per la seconda deli­be­ra­zione ex art. 138, per cui si richiede il voto favo­re­vole della metà più uno dei com­po­nenti l’assemblea. In Senato il dis­senso potrebbe allora essere deci­sivo. E affos­sare la riforma tra­sci­ne­rebbe con sé anche l’Italicum, che nulla pre­vede per il Senato assu­men­done il carat­tere non elettivo.

Sapremo dun­que già nel voto che si avvi­cina se la sini­stra del Pd ha numeri e attri­buti. Sapremo se il patto del Naza­reno è dav­vero morto. Ber­lu­sconi ha inteso fare a Renzi lo stesso sgam­betto che fece a D’Alema nel 1997, quando affossò in Aula la pro­po­sta che Fi aveva votato in Com­mis­sione bica­me­rale Allora, pur avendo i numeri, la mag­gio­ranza di cen­tro­si­ni­stra si fermò. Que­sta volta non gli è riu­scito. In Senato pro­vaci ancora, Sil­vio. Magari faremo il tifo per te.

Nel frat­tempo, biso­gnerà spie­gare al popolo sovrano che nelle isti­tu­zioni si for­giano le poli­ti­che di governo. Per le donne e gli uomini di que­sto paese le scelte isti­tu­zio­nali non sono indif­fe­renti. Isti­tu­zioni sem­pli­fi­cate e poco rap­pre­sen­ta­tive, assem­blee elet­tive con la mor­dac­chia, governi che fun­zio­nano come giunte comu­nali (for­mula ren­ziana), par­titi della nazione pro­du­cono poli­ti­che con­ser­va­trici, disat­tente verso i diritti, subal­terne ai poteri forti, sorde alle diver­sità, e invece tol­le­ranti verso le dise­gua­glianze. Già accade.

Con pen­sosa paca­tezza Ber­sani final­mente avverte che l’Italicum non è vota­bile per la siner­gia per­versa con la riforma costi­tu­zio­nale. Corra ai ripari. Qual­cuno dovrebbe spie­gare a lui e all’evanescente sini­stra Pd che la ditta li ha già messi in cassa inte­gra­zione a zero ore. Anche il nuovo par­tito non più leg­ge­ris­simo di cui Renzi favo­leg­gia li met­te­rebbe in mobi­lità. Per loro, solo con­tratti a tutele decrescenti.

RIFORMA, NON È FINITA MA QUASI
di Andrea Fabozzi

La pre­si­dente Bol­drini, la mini­stra Boschi, il sot­to­se­gre­ta­rio Scal­fa­rotto, trenta depu­tati e nes­sun altro alle dieci alla camera, quando si aprono le dichia­ra­zioni di voto sulla riforma costi­tu­zio­nale. Aula vuota, sei­cento assenti per una seduta che durerà solo due ore e mezza. Par­tenza lenta di una gior­nata non memo­ra­bile, eppure deci­siva per la legge che riscrive 47 arti­coli della Costi­tu­zione. Epi­logo (quasi) di trent’anni di chiac­chiere, secondo la nota rico­stru­zione ren­ziana offerta in replica dal vice Gue­rini. Per il voto i ban­chi si riem­piono, e anche con il no di Forza Ita­lia la riforma figlia del patto del Naza­reno con­qui­sta una comoda mag­gio­ranza asso­luta: 357 sì.

Ai gover­na­tivi man­cano una qua­ran­tina di voti; 21 sono del Pd dove in tre si asten­gono (Capo­di­casa, Galli e Vac­caro), 7 sono assenti giu­sti­fi­cati e 11 non par­te­ci­pano per­ché in dis­senso. Una mino­ranza, que­sti ultimi, della mino­ranza; il dis­senso era stato più forte al senato nel primo pas­sag­gio sette mesi fa. La gran parte dei ber­sa­niani vota sì: rico­no­scono nella riforma un peri­co­loso «cam­bia­mento pro­fondo della forma di demo­cra­zia par­la­men­tare» (Bindi) eppure valu­tano che «non si può far fal­lire il per­corso» (Cuperlo). Dicono un altro sì, ma assi­cu­rano che «è l’ultima volta» se «non si ria­prirà il con­fronto» se «non ci sarà equi­li­brio» con la legge elet­to­rale. Cioè l’Italicum che Renzi ha detto e ripe­tuto di non voler cam­biare.

Due spic­chi dell’emiciclo restano vuoti anche al momento del voto, sono quelli del Movi­mento 5 Stelle che non rinun­cia all’Aventino. Appare solo il dele­gato Toni­nelli e la sua dichia­ra­zione di voto comin­cia con «fasci­sti» e fini­sce con «diso­ne­sti». Ma in mezzo ha una cita­zione impor­tante: le parole di fuoco con­tro la riforma costi­tu­zio­nale impo­sta dal governo Ber­lu­sconi, discorso del 2005 di Ser­gio Mat­ta­rella.

Sel invece torna in aula, depu­tati e depu­tate quando con una mano votano (no) con l’altra alzano una copia della Costi­tu­zione. Ora la legge costi­tu­zio­nale torna a palazzo Madama. Se il senato appro­verà l’identico testo della camera, da ieri si pos­sono comin­ciare a con­tare i tre mesi di «pausa di rifles­sione» prima che Mon­te­ci­to­rio possa dare l’ultimo sì a mag­gio­ranza asso­luta: dun­que nel caso più favo­re­vole al governo il 10 giugno.

È dif­fi­cile, dal momento che ci sono le ele­zioni regio­nali die­tro l’angolo: saranno giorni di con­trap­po­si­zioni accese e di pause nei lavori par­la­men­tari. Ma non impos­si­bile, visto che al senato spetta adesso un com­pito assai limi­tato. Solo gli arti­coli che la camera ha modi­fi­cato rispetto al testo votato dai sena­tori potranno essere rimessi in discus­sione. E solo gli emen­da­menti stret­ta­mente legati alle novità potranno essere ammessi.

È diret­ta­mente il rego­la­mento dell’assemblea a rispon­dere alle spe­ranze ecces­sive della mino­ranza Pd. Meglio dimen­ti­care da subito gli «ulte­riori miglio­ra­menti al testo di riforma costi­tu­zio­nale» in cui dicono di con­fi­dare i ber­sa­niani. I sena­tori potranno rimet­tere mano solo a una decina di arti­coli. Il dop­pio voto con­forme esclude modi­fi­che alla com­po­si­zione del nuovo senato, alla moda­lità di ele­zione di secondo livello, alla gra­tuità del man­dato, al fatto che la fidu­cia sarà votata solo alla camera, al potere di ini­zia­tiva legi­sla­tiva, al nuovo quo­rum del refe­ren­dum… C’è spa­zio solo per rive­dere le fun­zioni di quello che sarà il nuovo senato e per poche altre que­stioni. Alcune effet­ti­va­mente miglio­rate dalla camera, dun­que da maneg­giare con cura: le regole del pro­ce­di­mento legi­sla­tivo, le moda­lità di ele­zione dei giu­dici costi­tu­zio­nali, la pos­si­bi­lità di esame pre­ven­tivo della Con­sulta sulla leggi elet­to­rali. Altre al con­tra­rio modi­fi­cate solo in appa­renza, come i quo­rum per l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica e per la dichia­ra­zione di stato di guerra: due pas­saggi deli­cati che restano sostan­zial­mente nella dispo­ni­bi­lità del primo par­tito. Sarà pos­si­bile anche inter­ve­nire sugli elen­chi delle mate­rie di com­pe­tenza sta­tale e di com­pe­tenza regio­nale, le modi­fi­che della camera sono state all’insegna del centralismo.
Ma a que­sto punto sarà più facile sabo­tare la riforma che cor­reg­gerla. Ecco allora l’incognita: visti i numeri del senato, se Ber­lu­sconi non rien­trerà nella par­tita e i suoi lo segui­ranno ancora, i dis­si­denti del Pd (che ad ago­sto furono 16) potreb­bero essere deci­sivi. La trat­ta­tiva si gio­cherà in paral­lelo con l’Italicum che dopo le regio­nali dovrebbe appro­dare alla camera. Renzi vuole che sia appro­vato defi­ni­ti­va­mente a Mon­te­ci­to­rio, ma è una legge che, accanto ai difetti strut­tu­rali, con­tiene un certo numero di errori tec­nici che andreb­bero (almeno quelli) cor­retti. La mino­ranza Pd dovrebbe però muo­versi tra camera e senato in maniera com­patta. Quello che è suc­cesso ieri porta a escluderlo.

BERSANI: COSÌ SIAMO ALL’IMPENSABILE.
«L’ULTIMOSÌ» DELLA SINISTRA PD. FORSE
di Daniela Preziosi


«La riforma costi­tu­zio­nale è nel campo del pen­sa­bile. Ma se la si abbina al modello dell’Italicum, un modello iper-maggioritario con par­la­men­tari per lo più nomi­nati e senza che si capi­sca chi sia il nomi­nante, si entra nel campo dell’impensabile. E non ci può essere disci­plina di par­tito che tenga». Fac­cia scura, tono alte­rato, Pier Luigi Ber­sani esce dall’aula e si sfoga con i cro­ni­sti. In mat­ti­nata è stato rice­vuto dal pre­si­dente Mat­ta­rella.
«Que­sto è l’ultimo sì», giura in Tran­sa­tlan­tico. «Il patto del Naza­reno non c’è più, ora non si dica che non si tocca niente. O si modi­fica in modo sen­sato l’Italicum o io non voto più sì sulla legge elet­to­rale e di con­se­guenza sulle riforme per­ché il com­bi­nato dispo­sto crea una situa­zione inso­ste­ni­bile per la demo­cra­zia». Poi l’offerta a Renzi: «Se accetta di modi­fi­care l’Italicum chi dis­sente come me gli garan­ti­sce che al senato i voti ci saranno tutti». Ma l’offerta cade nel vuoto. La mino­ranza Pd chiede meno nomi­nati e pre­mio di mag­gio­ranza alla coa­li­zione (e non alla lista) e appa­ren­ta­menti al secondo turno. Ma in molti si accon­ten­te­reb­bero di un gesto: come sul jobs act. Per ora avver­tono, si appel­lano, si aggrap­pano alla spe­ranza che Renzi ’apra’. C’è chi dà per pros­simo «un tavolo con Gue­rini». Ma in serata la mini­stra Boschi è sprez­zante: «Se chi ha vinto il con­gresso non può dare dik­tat, non lo può fare nem­meno chi l’ha perso».

Ren­zi­sem­bra irre­mo­vi­bile: il merito della riforma per lui non il punto, il punto è la sua deter­mi­na­zione a non ripor­tare l’Italicum al senato, camera infida da quando Forza Ita­lia nega i voti. Dun­que la legge non si tocca «nean­che di una vir­gola». Così l’ex area Cuperlo, che pre­para la «reu­nion» per il 21 a Roma (il 14 a Bolo­gna però Spe­ranza riu­ni­sce l’ala ’dia­lo­gante’) vede deli­nearsi all’orizzonte la scom­messa finale: o un ’ser­rate i ran­ghi’ o il defi­ni­tivo ’si salvi chi può’.

Le cin­quanta sfu­ma­ture della mino­ranza Pd pra­ti­cano tre voti diversi. In tre si asten­gono (Capo­di­casa, Galli e Vac­caro), in sette non par­te­ci­pano al voto (fra gli altri Fas­sina, Boc­cia, Civati, Pasto­rino), gli altri votano sì turan­dosi il naso. La dichia­ra­zione a nome del gruppo è affi­data a Lorenzo Gue­rini, non a Spe­ranza, pre­si­dente dei depu­tati. Per Alfredo D’Attorre que­sto sì è «l’ultimo atto di respon­sa­bi­lità». In aula prima di lui Rosy Bindi parla di «ultimo voto favo­re­vole» per­ché senza modi­fi­che «nelle vota­zioni pre­ce­denti», vuole dire ’suc­ces­sive ma è un lap­sus rive­la­tore, «non par­te­ci­però al voto e nel refe­ren­dum starò dalla parte dei cit­ta­dini». Il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo è uno degli spet­tri: «Che faremo, una cam­pa­gna con­tro le riforme di Renzi?», è il rovello di molti. Gianni Cuperlo annun­cia il sì ma avverte che «senza modi­fi­che cia­scuno si assu­merà le sue respon­sa­bi­lità». Più tardi la sua area Sini­stra­dem riba­sce l’ultimatum in un docu­mento fir­mato da 24 par­la­men­tari (fra gli altri Amici, Argen­tin, Bray, De Maria, Fon­ta­nelli, Miotto, Pollastrini).

Ste­fano Fas­sina non par­te­cipa al voto e dichiara, rivolto più ai suoi che all’aula: «Abbiamo appreso dal pre­si­dente del Con­si­glio l’indisponibilità a cor­reg­gere la legge elet­to­rale». Come dire: è inu­tile pro­met­tere bat­ta­glia se poi alla fine vi alli­neate sem­pre. Pippo Civati lo dice espli­ci­ta­mente: «Dopo il voto di sta­mani quasi l’intero testo della riforma risulta inat­tac­ca­bile. Chi ha votato a favore con­di­vide le scelte com­piute e ne porta la respon­sa­bi­lità». Dal senato Chiti prende atto che «nella cosid­detta mino­ranza Pd ci sono dif­fe­renze poli­ti­che profonde».

Che la mino­ranza sia spap­po­lata e che la gran parte avrebbe votato sì lo si è pla­sti­ca­mente visto alla riu­nione di lunedì sera. Cuperlo è orien­tato per il non voto, ma a deve pren­dere atto che le sue truppe si stanno sfi­lac­ciando, per attra­zione verso Renzi ma anche per mani­fe­sta impo­tenza dell’opposizione interna. Idem Ber­sani. Il risul­tato è la solita pro­messa: la bat­ta­glia è riman­data alla pros­sima volta. Oggi tutti giu­rano che sull’Italicum andranno fino in fondo.
Ma sono in pochi a cre­dere di impres­sio­nare Renzi. Ci crede Davide Zog­gia: «Renzi non è sicuro di avere i voti sull’Italicum, lo dimo­stra il fatto che ha riman­dato il voto a dopo le regio­nali». Anche per­ché, spiega D’Attorre, «per la psi­co­lo­gia del par­la­men­tare medio una nuova legge elet­to­rale equi­vale a ele­zioni anti­ci­pate, anche se nella realtà non è così». Quindi sull’Italicum i più agguer­riti della mino­ranza si sono auto­con­vinti che non saranno soli. «Vi vedo per­plessi», dice D’Attorre ai cro­ni­sti allon­ta­nan­dosi. Poi si ferma un attimo: «Lo sono anche io»

Il manifesto, 11 marzo 2015

Addio soli­da­rietà. A rimet­tere in discus­sione il fon­da­mento della nostra sanità pub­blica sono quelle Regioni che Ivan della Mea nel 1969 avrebbe cata­lo­gato tra le cose che si stin­gono cam­biando di colore «il rosso è diven­tato giallo» e che oggi altro non sono se non Regioni senza scru­poli che col­pi­scono alle spalle l’etica egua­li­ta­ria del wel­fare. Sono le stesse Regioni che rispetto all’universalismo sono state di esem­pio a tutti. Vale a dire Emi­lia Roma­gna e Toscana, ma anche Ligu­ria e anche altre.

Messe alle corde dalle restri­zioni finan­zia­rie, stanno aprendo la strada alla pri­va­tiz­za­zione della sanità, inca­paci di tro­vare solu­zioni alter­na­tive pur aven­done a dispo­si­zione un bel po’. Tra­di­menti quindi, cioè con­tro­ri­forme, in nulla giu­sti­fi­cati dai con­te­sti avversi e che si spie­gano con la mala­fede poli­tica, la diso­ne­stà intel­let­tuale, i limiti cul­tu­rali, lo spi­rito con­tro­ri­for­ma­tore del tempo e un cedi­mento al pen­siero spe­cu­la­tivo dell’intermediazione finanziaria.

La Toscana, la regione con il più alto tasso di copay­ment cioè di com­par­te­ci­pa­zione alla spesa pub­blica da parte dei cit­ta­dini, è anche la Regione che di fatto ha pra­ti­ca­mente appal­tato la dia­gno­stica e buona parte della spe­cia­li­stica ambu­la­to­riale ai pri­vati, inco­rag­gian­doli a pro­porsi con prezzi com­pe­ti­tivi e pro­mo­zio­nali per bat­tere il pub­blico, oggi alle prese con un rior­dino espli­ci­ta­mente con­tro riformatore.

L’Emilia Roma­gna, da tempo al lavoro per costruire fondi inte­gra­tivi, recen­te­mente ha rag­giunto un’intesa con Coop e Uni­pol per for­nire sistemi assi­sten­ziali paral­leli e lo stesso pre­si­dente Bonac­cini nel suo pro­gramma poli­tico ha dichia­rato di voler «spez­zare la con­ce­zione ideo­lo­gica che con­trap­pone pub­blico e pri­vato». La Ligu­ria è sulla mede­sima strada e da tempo.

Che senso hanno que­ste poli­ti­che? Met­tere in con­flitto due generi di soli­da­rietà: quella mutua­li­stica che dipende dai red­diti delle per­sone e che per sua natura è discri­mi­na­tiva e quella pub­blica che dipende dai diritti delle per­sone e che per sua natura è egua­li­ta­ria. Cioè stanno con­trap­po­nendo la dise­gua­glianza alla egua­glianza facendo della prima un valore e della seconda un disva­lore. Un gioco aper­ta­mente neo­li­be­ri­sta a somma negativa.

C’è da chie­dersi con una certa urgenza cosa fare per com­bat­tere que­ste ten­denze. Rodotà recen­te­mente con un suo libro (“Soli­da­rietà, un’utopia neces­sa­ria” Laterza 2014) dice che oggi «è necessario…riprendere con deter­mi­na­zione il tema dei prin­cipi». Ma cosa vuol dire «seguire la via del costi­tu­zio­na­li­smo» per riba­dire «la con­nes­sione tra prin­cipi e diritti» per non «ras­se­gnarsi alla subor­di­na­zione alle com­pa­ti­bi­lità eco­no­mi­che»? A che serve riba­dire il valore della soli­da­rietà quale “prin­ci­pio gene­rale” quando esso è già nor­mato, e quando il vero pro­blema che abbiamo è la sua inos­ser­vanza se non la sua nega­zione? Temo che la strada dei prin­cipi non basti.

In sanità come dimo­strano le “Regioni gialle” la rot­tura del legame soli­da­ri­stico ini­zia dai limiti anche cul­tu­rali di una classe diri­gente che non è capace di prov­ve­dere ad un pen­siero rifor­ma­tore e che vede nella con­tro­ri­forma l’ unica pos­si­bi­lità di gestire un limite eco­no­mico. In sanità la soli­da­rietà è in crisi per tante ragioni: eco­no­mi­che , cul­tu­rali, sociali filo­so­fi­che e antro­po­lo­gi­che, poli­ti­che . Il più grande sin­da­cato dei medici di medi­cina gene­rale al suo ultimo con­gresso si è dichia­rato favo­re­vole a ridurre la soli­da­rietà dello Stato ai soli indi­genti. Il sin­da­cato con­fe­de­rale si trova den­tro una con­trad­di­zione imba­raz­zante: da una parte difende il sistema sani­ta­rio soli­dale e uni­ver­sale e dall’altra per via con­trat­tuale sti­pula per le “cate­go­rie forti” accordi per l’assistenza mutualistica.

La più grande rot­tura della soli­da­rietà nel mio campo si ha con la cre­scita espo­nen­ziale del con­flitto tra società e sanità, defi­nita altri­menti “con­ten­zioso legale”. I cit­ta­dini malati por­tano i medici in tri­bu­nale cioè rom­pono i legami di soli­da­rietà che li ha sem­pre giu­stap­po­sti ai pro­pri tera­peuti per mil­lenni. Que­sti anti­chi legami si sono rotti anche per­ché l’uso della medi­cina oggi è for­te­mente con­di­zio­nata da com­por­ta­menti aper­ta­mente anti­so­li­da­ri­stici degli ope­ra­tori come sono quelli agiti in modo oppor­tu­ni­stico a difesa dei rischi pro­fes­sio­nali (medi­cina difensiva).

La soli­da­rietà sino ad ora in sanità è stata vista, soprat­tutto da sini­stra, come di tipo fon­da­men­tal­mente fiscale ma in realtà di soli­da­rietà ve ne sono tante e quello che ci manca è un pen­siero rifor­ma­tore in grado di ricom­pren­derle in un nuovo discorso che oltre che di diritti parli anche di doveri pro­prio nel senso indi­cato dall’art 2 della Costi­tu­zione. Non sono d’accordo con le “Regioni gialle” che ricon­du­cono tutto ad una que­stione di scar­sità delle risorse ma nean­che con coloro che par­lano del con­trollo delle risorse come una prio­rità costituzionale.

Lorenza Car­las­sare, ad esem­pio, ci pro­pone di distin­guere «fondi dove­rosi» «desti­na­zioni con­sen­tite» e «desti­na­zione vietate»(Costituzionalismo.it,1,2013)…ma in sanità le dif­fe­renze tra necessario/essenziale/utile/primario/secondario costi­tui­scono un campo minato e poi allo­care risorse con que­sta logica non è molto diverso da chi pro­pone di finan­ziare la sanità per prio­rità che come è noto è il pre­sup­po­sto di par­tenza dell’universalismo selet­tivo. Se ragio­niamo per “prio­rità” addio solidarietà.

Penso che la con­trad­di­zione solidarietà/risorse sia inne­ga­bile ma non giu­sti­fica il “tra­di­mento” delle regioni nei con­fronti dell’universalismo. L’art 2 della costi­tu­zione ci invita a con­si­de­rare la soli­da­rietà come «dovere», men­tre le regioni si sot­trag­gono a que­sto dovere

«La volontà di concentrare tutti gli sforzi sull’Italicum offre l’impressione di una scaramuccia di retroguardia». La Sinistra Tremula risale in disordine e senza speranza le valli dell'opposizione interna al PD di Matteo Renzi. Il futura di una sinistra vera non è lì. La Repubblica, 11 marzo 2015

«Ho votato sì per l’ultima volta» dice Bersani dopo aver dato il suo consenso alla riforma del Senato. In realtà l’ex segretario del Pd, oggi figura di riferimento della minoranza anti-Renzi, racchiude in sé tutte le contraddizioni di un fronte che un passo dopo l’altro sta perdendo la guerra.

Del resto, non c’è nulla che alimenti il successo come il successo medesimo. Renzi si è costruito la fama del vincitore, una specie di «veni, vidi, vici» moderno. Finché la sorte lo assiste, è difficile credere che la minoranza del suo partito riesca a rovesciare il tavolo. Certo, l’argomento di Bersani e dei suoi amici non è irrilevante. In sostanza, si ritiene che la legge elettorale — l’Italicum — sia inadeguata per via dei numerosi deputati «nominati» dalle segreterie e non realmente eletti in un confronto nei collegi. Soprattutto il combinato disposto dell’Italicum e di un sistema monocamerale, prodotto dalla riforma che trasforma il Senato in un’assemblea di «secondo grado», cioè non eletta dal popolo, appare agli occhi degli oppositori un vulnus democratico. Un tema molto vicino alla posizione espressa dai vendoliani di Sel.

Il problema è che la minoranza non ha la forza e nemmeno una linea coerente per tentare di vincere la battaglia. Quando la riforma costituzionale era a Palazzo Madama in prima lettura, gli anti-Renzi del Pd — salvo alcune eccezioni — non seppero o non vollero impegnarsi all’unisono per bloccarla. Lasciarono intendere che il vero scontro sarebbe stato a Montecitorio, dove peraltro i numeri sono molto più favorevoli al premier- segretario. In realtà, come si è visto, alla Camera Bersani e quasi tutti i suoi hanno votato secondo la disciplina interna, sia pure «per l’ultima volta».

A questo punto la riforma è a due passi dalla sua definitiva approvazione ed è davvero arduo immaginare che possa essere insabbiata, nonostante l’esiguo margine di voti al Senato. Inoltre, come è noto, la linea del Pd è storicamente favorevole al sistema monocamerale e ciò spiega perché l’attenzione della minoranza si è già spostata verso la legge elettorale. L’obiettivo minimo è modificare lo schema delle liste bloccate, ma anche il premio alla lista anziché alla coalizione non piace.

Questa volontà di concentrare tutti gli sforzi sull’Italicum, in vista di ottenere modifiche significative all’impianto della legge, è in sé legittima, ma non si sfugge all’impressione che si tratti di una scaramuccia di retroguardia. Qualcosa a cui forse non tutti credono negli stessi ranghi della minoranza del Pd. Vale per la legge elettorale quello che si è detto per la riforma costituzionale: perché non c’è stato un maggiore impegno quando forse era possibile spuntare un risultato? Anche l’Italicum è già passato sotto le forche caudine del Senato ed è stato approvato. Eravamo in gennaio, prima che le Camere si riunissero per eleggere il capo dello Stato, e Renzi giocò abilmente sia Berlusconi sia la sua minoranza interna, ottenendo il «sì» alla riforma.

Anche allora i bersaniani annunciarono lotta senza quartiere, ma solo pochi di loro tennero fede ai propositi e alla fine furono comunque sconfitti dai numeri. Gli altri, per varie ragioni, si defilarono. Adesso l’Italicun si sta avviando verso Montecitorio per la seconda e definitiva lettura. Bersani chiede di non perdere l’ultima occasione di modificarne la sostanza ed è andato anche da Mattarella per illustrargli il suo punto di vista. Ma se è una battaglia per la rappresentanza democratica, il «pathos» è purtroppo assente. E di nuovo il terreno scelto — l’assemblea di Montecitorio — è il meno propizio per ribaltare i rapporti di forza con i renziani.

Peraltro il presidente del Consiglio già da tempo è dedito a dividere l’opposizione interna, portando dalla sua spezzoni più o meno consistenti. E lasciando intendere, invece, che per gli intransigenti non ci sarà futuro nelle liste elettorali dell’Italicum. I bersaniani ortodossi, più che vincere un braccio di ferro tardivo, non dovranno sembrare interessati solo a salvare il seggio in Parlamento.

Il manifesto, 10 marzo 2015
La legge di revi­sione costi­tu­zio­nale che oggi sarà appro­vata dalla camera modi­fica 47 arti­coli sui 134 che com­pon­gono l’attuale Costi­tu­zione. Più del 35%: l’intera seconda parte (Ordi­na­mento della Repub­blica) e un solo arti­colo, il 48, della prima parte (Diritti e doveri dei cit­ta­dini). Il dise­gno di legge porta la firma di Mat­teo Renzi e Maria Elena Boschi ed è stato gestito come un affare di stretta com­pe­tenza del governo (con una sorta di que­stione di fidu­cia: «Se il par­la­mento non fa le riforme va a casa») attra­verso tempi con­tin­gen­tati, «can­guri» (emen­da­menti can­cel­lati a bloc­chi) e una seduta fiume alla camera. Dovrà tor­nare al senato — che però potrà discu­tere solo i 10 arti­coli modi­fi­cati dalla camera — e, dopo la pausa di rifles­sione di tre mesi, dovrà pas­sare per il voto con­forme a mag­gio­ranza asso­luta dei due rami del par­la­mento. Poi il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo, con il quale si chie­derà ai cit­ta­dini un voto pren­dere o lasciare su tutta la riforma. Non ci sarà cioè quel refe­ren­dum «omo­ge­neo» per mate­ria pre­scritto dalla Corte Costi­tu­zio­nale e con­si­de­rato ormai un punto fermo dai costi­tu­zio­na­li­sti, al punto da essere stato pre­vi­sto nella pre­ce­dente ipo­tesi di riforma «lar­ghe intese» (governo Letta).

Le prin­ci­pali modi­fi­che alla Costi­tu­zione pos­sono essere rias­sunte in otto punti; tre invece sono le parole d’ordine scelte dal governo: fine del bica­me­ra­li­smo, sem­pli­fi­ca­zione, rispar­mio. Tre slo­gan finiti in un solo arti­colo, il nuovo 55 della Costi­tu­zione, che cre­sce da 5 a 35 righe: d’ora in poi solo i depu­tati «rap­pre­sen­tano la nazione» men­tre il nuovo senato «rap­pre­senta le isti­tu­zioni ter­ri­to­riali». Secondo Renzi l’abolizione del senato elet­tivo e delle pro­vince pro­durrà un taglio di spesa di un miliardo, secondo la Ragio­ne­ria gene­rale dello stato rispar­mie­remo solo 49 milioni.

1 — Senato non elet­tivo. In luogo di 315 sena­tori eletti da tutti i cit­ta­dini che hanno com­piuto 25 anni, a palazzo Madama sie­de­ranno in 95 scelti dai con­si­glieri regio­nali all’interno dei con­si­gli e tra i sin­daci della regione. Altri cin­que sena­tori potranno essere scelti «per altis­simi meriti» dal pre­si­dente della Repub­blica per un inca­rico di sette anni. Le moda­lità di ele­zione all’interno dei con­si­gli regio­nali sono tutte da scri­vere: una buona simu­la­zione è rap­pre­sen­tata dalla recente sele­zione dei dele­gati per l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica: il Pd da solo si è aggiu­di­cato circa il 60% dei posti. La com­po­si­zione del senato cam­bierà con il suc­ce­dersi delle con­si­lia­ture regio­nali, e anche il numero totale dei sena­tori potrà aumen­tare o dimi­nuire in caso di novità nei cen­si­menti. Il senato non vota la fidu­cia al governo.

2 — Pro­ce­di­mento legi­sla­tivo. L’articolo 70 della Costi­tu­zione è attual­mente di una sola riga: «La fun­zione legi­sla­tiva è eser­ci­tata col­let­ti­va­mente dalle due camere». Il nuovo è di oltre cin­quanta righe. Pre­vede in sin­tesi quat­tro pro­ce­dure: 1) Le leggi costi­tu­zio­nali sono appro­vate da entrambe le camere. 2) Sulle leggi ordi­na­rie il senato può even­tual­mente espri­mersi dopo che la camera le abbia appro­vate, ma la camera ha l’ultima parola a mag­gio­ranza sem­plice. 3) Per alcune leggi com­prese in un elenco di mate­rie (tutela dell’interesse nazio­nale) se il senato si esprime a mag­gio­ranza asso­luta la camera può igno­rare la deli­be­ra­zione ma votando anche lei a mag­gio­ranza asso­luta. 4) Il senato può pro­porre una legge alla camera votan­dola a mag­gio­ranza asso­luta, ma la camera può igno­rare la pro­po­sta a mag­gio­ranza sem­plice. Su even­tuali, pre­ve­di­bi­lis­simi, con­flitto di attri­bu­zione tra le due camere «deci­dono i pre­si­denti delle camere d’intesa tra loro». Nulla si dice nel caso di man­cata intesa.

3 — Voto a data certa. Il governo potrà chie­dere alla camera di votare in maniera defi­ni­tiva entro set­tanta giorni una legge che con­si­dera «essen­ziale per l’attuazione del pro­gramma». Il ter­mine include i tempi neces­sari per l’eventuale esame del senato. Il nuovo isti­tuto non sosti­tui­sce i decreti legge, per i quali ven­gono solo pre­vi­sti in Costi­tu­zione quei limiti per mate­ria (leggi costi­tu­zio­nali, leggi elet­to­rali e altre) che già sono pre­vi­sti oggi dalla legge ordi­na­ria.

4 — Giu­di­zio pre­ven­tivo di costi­tu­zio­na­lità. È pre­vi­sto solo per le leggi elet­to­rali, com­presa quella che sarà even­tual­mente appro­vata (Renzi se lo augura) nelle legi­sla­tura in corso (l’Italicum). Un terzo dei sena­tori o un quarto dei depu­tati potranno chie­dere alla Con­sulta di valu­tare la legit­ti­mità delle nuove norme elet­to­rali una volta con­cluso l’esame delle camere e prima che la legge venga pro­mul­gata dal capo dello stato. Si dovreb­bero così evi­tare nuovi casi «Por­cel­lum».

5 — Stru­menti di demo­cra­zia diretta. Il governo ha detto di volerli age­vo­lare, le modi­fi­che vanno nel senso oppo­sto. Per una legge di ini­zia­tiva popo­lare occor­re­ranno il tri­plo delle firme (da 50mila a 150mila), viene enun­ciato il prin­ci­pio che il par­la­mento deve garan­tirne l’esame, rin­vian­dolo però ai rego­la­menti par­la­men­tari. Ven­gono citati in costi­tu­zione i refe­ren­dum pro­po­si­tivi e di indi­rizzo, ma anche in que­sto caso c’è un rin­vio: a una pros­sima legge costi­tu­zio­nale. Infine cam­biano i numeri del refe­ren­dum abro­ga­tivo: se la pro­po­sta è sot­to­scritta dagli attuali 500mila elet­tori con­ti­nuerà a essere richie­sta la par­te­ci­pa­zione del 50% più uno degli aventi diritto al voto per­ché il refe­ren­dum sia valido. Se invece le firme saranno 800mila basterà il 50% più uno dei votanti alle ultime ele­zione per la camera.

6 — Deli­be­ra­zione dello stato di guerra. Passa dalla com­pe­tenza bica­me­rale e quella della sola camera, che dovrà deci­dere a mag­gio­ranza asso­luta. Ma la legge elet­to­rale in arrivo (Ita­li­cum) garan­ti­sce quella mag­gio­ranza a un solo par­tito. Resta pre­vi­sto che una legge sem­plice può pro­ro­gare la durata della camera in caso di guerra. E così, almeno in teo­ria, viene messo in mano a un solo par­tito lo stru­mento per rin­viare le ele­zioni poli­ti­che.

7– Ele­zione del pre­si­dente della Repub­blica. Perde buona parte della carica bipar­ti­san per effetto della dimi­nu­zione dei sena­tori e dell’abolizione dei dele­gati regio­nali. Sono pre­vi­sti tre quo­rum: due terzi dei com­po­nenti per i primi tre scru­tini, tre quinti dei com­po­nenti dal quarto scru­ti­nio e tre quinti dei votanti dal set­timo. A conti fatti (con l’Italicum) il primo par­tito potrebbe con­tare su 410 grandi elet­tori, doven­done met­tere insieme dal quarto scru­ti­nio appena 438.

8 — Titolo V. Viene sop­pressa la com­pe­tenza con­cor­rente tra stato e regioni, cre­sce rispetto alla Costi­tu­zione vigente l’elenco delle mate­rie di com­pe­tenza esclu­siva dello stato (l’articolo 117 mette in fila 21 grandi capi­toli, dalla poli­tica estera ai porti e aero­porti). Viene intro­dotta la «clau­sola di supre­ma­zia» in base alla quale il par­la­mento può legi­fe­rare anche in mate­rie di com­pe­tenza regio­nale «quando lo richieda la tutela dell’unità giu­ri­dica o eco­no­mica della Repub­blica ovvero l’interesse nazio­nale». Ma a deci­dere di far scat­tare la clau­sola potrà essere solo il governo.

«La ferocia delle conquiste i primi governi “tecnici” la sensazione di fine del mondo». Un saggio di Glauco Maria Cantarella ci ricorda che anche i nostri avi, creatori di quella che oggi è la nostra civiltà, avevano comportamenti non meno efferati di quelli che oggi imperversano sull'altra sponda del Mediterraneo.

La Repubblica, 10 marzo 2015

«SONO arrivati. Sono sanguinari, sono selvaggi… Uccidere e massacrare è il loro divertimento». Tagliano teste, arrostiscono, cavano occhi, amputano mani, piedi, nasi. Sono d’oltremare. Ma non vengono dall’altra sponda del Mediterraneo. Vengono dal Nord. Non sono islamici. Anzi, sono il terrore dei musulmani. La ferocia è il loro biglietto da visita, ne fanno un deliberato uso mediatico.

Un loro capo militare, Ruggero (non l’assai più tardo Ruggero di Sicilia ma

Ruggero di Toeni), attorno agli anni Venti del Primo secolo riconquista ai Cristiani la Spagna terrorizzando i Saraceni: ogni giorno fa squartare e cuocere nei calderoni un prigioniero musulmano, ne dà da mangiare la metà agli altri prigionieri e si riserva il resto per sé e i suoi.
Poi fa di tutto perché si risappia: ne fa scappare alcuni apposta perché vadano a raccontarlo. Testimonianza di Ademaro di Chavannes, cronista aquitano quasi loro contemporaneo. Ci tengono alla loro fama di “crudelissima gente”.

Sono i normanni. Inutilmente Carlo Magno aveva proibito i commerci di armi con loro. Si erano specializzati nel ruolo di strumenti e cani dei potenti in lotta tra di loro. Si erano resi indispensabili. Un ramo si sarebbe impadronito della parte della Francia che si affaccia sulla Manica, poi di tutta l’Inghilterra, restando vassalli del Re di Francia. Un altro ramo era approdato da tempo in Sicilia. Poi, passando per la Puglia, erano arrivati in Campania, chiamati dai signori longobardi di Salerno e Capua, infine si erano insediati in un loro castello a Canossa. Controllavano le vie di comunicazione, non un territorio preciso e delimitato. Un po’ come l’Is a cavallo di Iraq, Siria e Libia. Si facevano chiamare marchesi ma non avevano nemmeno una marca. Eppure nel giro di pochi decenni avrebbero finito col dare origine dal nulla all’invenzione statuale di più lungo periodo della storia italiana sin dalla Repubblica romana, il regno dell’Italia meridionale.

È uno dei quadri, anzi delle “cerniere”, su cui fa perno l’ultimo lavoro di Glauco Maria Cantarella, il Manuale della fine del mondo, sottotitolo Il travaglio dell’Europa medievale , pubblicato da Einaudi. La “fine del mondo” temuta al volgere del primo millennio, a dire il vero non c’entra. Se ne discettava da molti secoli e ne riparlavano ogni volta che le cose sembravano andar peggio. Ma allora non esisteva nemmeno il concetto di secolo, che sarebbe stato inventato molto più tardi. Anche il “Medioevo” sarebbe stato inventato più tardi, solo nel ‘500. Oggi gli storici concordano nel considerarla «un’età né più buia né più luminosa di altre ». Semmai, leggendo questo libro, che segue gli innumerevoli altri che questo studioso gli ha dedicato, si potrebbe parlare di “Medioevo continuo”. Che ci evoca qualcosa del nostro presente. O forse addirittura del nostro futuro.

Non bisogna fraintendere. Cantarella, colonna degli studi di storia dell’Europa medievale e delle Istituzioni politiche medievali all’Università di Bologna, è uno storico serissimo, non gli si possono imputare “attualizzazioni” ad effetto, trasposizioni tirate, analogie superficiali. Semmai pignoleria quasi maniacale sulle “fonti” e sugli aggiornamenti continui nel campo di cui si occupa da moltissimi anni. In quell’epoca lui è di casa. Frequenta i protagonisti e ne conosce a menadito le complicate vicende, il modo di far politica, di ragionare, di giustificare, di far propaganda. Sbircia persino nelle loro camere da letto. Il suo “manuale” è una summa da grande specialista. Che però evoca anche nel lettore non specialista o per mestiere schiavo dell’attualità una gragnuola di suggestioni.

Il secolo di cui parla questo libro non è quello della fine del mondo, ma degli stratagemmi per non farlo finire. Dai Papi che si facevano notare solo per la “cieca cupidigia” (fagiano, oppure gallo veniva soprannominato Giovanni XVIII, boccadiporco Sergio IV) si passa a quelli che invece fanno politica per venire ad un nuovo modus vivendi con l’Imperatore e i nuovi regni in formazione e a nuovi ingegnosi compromessi sulle investiture, cioè le nomine dei vescovi, insomma a chi dovesse far capo chi incassava i tributi ed esercitava poteri di polizia, oggi diremmo le nomine tout court . Fu una riforma istituzionale infinitamente più complessa di quelle su cui si discute e si litiga oggi, che impegnò i migliori specialisti e per la quale, tra alti e bassi, rotture e ricomposizioni, colpi di scena e ripensamenti ci volle più di un secolo.

Era anche l’epoca in cui si affacciavano in scena veri e propri “professionisti del governo”. «Oggi forse li chiameremmo tecnici», nota Cantarella. Solo molto, ma molto più tardi sarebbero arrivati quelli che chiamiamo “politici”. Molti di questi “tecnici” erano di grande levatura. I Normanni, che pure avevano esordito come feroci mercenari e briganti, in Sicilia avevano messo in piedi una cancelleria coi fiocchi, in cui si governava in tre lingue, arabo, greco e latino, e si impiegavano non solo musulmani ma anche “tecnici” di valore internazionale importati dall’Inghilterra come Thomas Brown (o Le Brun). Erano stati loro a inventare lo “Scacchiere”, la tavola su cui si computavano, con procedimenti matematici d’avanguardia, rendite e cespiti delle baronie, e che ancora oggi dà il nome al ministero dell’economia britannico. Palermo quasi come Bruxelles. Ma forse non funzionava così bene, se poi il Mezzogiorno arrivò tanto disastrato all’Unità, come un agglomerato di feudi inespugnabili, impervio al senso dello Stato. Colpa degli Angioini, degli Aragonesi, degli Spagnoli e dei Borboni (e magari degli intoccabili Svevi)? O di troppa tecnica e poca politica?

Quanto alle città, apprendiamo che prosperano grazie alle loro turbolenze. «Comune, nome nuovo e pessimo», lamentano i cronisti dell’epoca. I cives hanno la mala consuetudo di ribellarsi ai loro vescovi (e quindi alla potestas imperiale, quindi alle prerogative del governo) negandogli le imposte, «l’affitto dei mulini e il censo solito delle navi e la rendita delle case», e tagliano i boschi e demoliscono «la città vecchia per costruirne una più grande». Pretendono persino che i contadini paghino i tributi a loro… Succede in Lombardia, ma anche in Francia, in Castiglia, in Renania… il disordine investe tutta l’Europa. Finché zona per zona, caso per caso, per fronteggiare l’emergenza, dovranno inventarsi nuovi compromessi istituzionali differenziati…

Donna, Uomo. Vite e destini che più congiunti non si può, anche nella riflessione: ma questa, per ora, è arricchita solo sul versante femminile.

Il manifesto, 10 marzo 2014

Non è da ora che nume­rose parole-chiave cul­tu­ral­mente e media­ti­ca­mente for­tu­nate ci avver­tono di qual­cosa di inquie­tante: viviamo un tempo che sem­bra inca­pace di defi­nirsi per il suo pre­sente o anche per il suo desi­de­rio di futuro, e che si ras­se­gna quindi a iden­ti­fi­carsi con espres­sioni un po’ vuote, il cui senso imme­diato è quello di annun­ciare sol­tanto che un tempo pre­ce­dente è finito.

È la cele­bre con­di­zione «post-moderna» descritta alla fine degli anni ’70 da Lyo­tard, riem­pita via via da un modo di lavo­rare dive­nuto «post-fordista», da una cul­tura cri­tica «post-marxista» e «post-strutturalista», e via decli­nando que­sto sen­tirsi immersi in qual­cosa di cui l’unica cosa certa è che non è più quello che era una volta. Le scarse defi­ni­zioni al pre­sente non sono poi per nulla ras­si­cu­ranti: viviamo in un mondo «liquido», in una «società del rischio», strut­tu­rata in «non luo­ghi». Anche le anti­che cer­tezze patriar­cali sono venute meno. Ne scri­veva il gio­vane Lacan già negli anni ’30, e un testo del fem­mi­ni­smo ita­liano del 1996 (Sot­to­so­pra rosso. E’ acca­duto non per caso) ha dichia­rato la “fine” del patriar­cato, giac­ché al pre­do­mi­nio maschile è venuto meno il cre­dito femminile.

Che cosa ne è seguito? La discus­sione è aperta. Una delle ipo­tesi – viviamo nel tempo del «Post-patriarcato», nell’«agonia di un ordine sim­bo­lico» non ancora con­clusa — è avan­zata da un breve ma intenso libro (edito da Aracne) di una gio­vane stu­diosa fem­mi­ni­sta, Irene Straz­zeri. Va subito detto che l’autrice, pur non esclu­dendo che da una fase per­corsa da «sin­tomi» allar­manti e da «sfide» dif­fi­cili possa anche rie­mer­gere una forma di «neo­pa­triar­cato», si dimo­stra fidu­ciosa che alla fine possa nascere un tempo capace di essere vis­suto in modo posi­tivo. E lo annun­cia in esergo come solo una donna può fare, dedi­cando il testo «al bimbo che aspetto, e al mondo che gli auguro».

Il libro – come aiuta a capire l’introduzione di Elet­tra Deiana – è utile anche per incro­ciare le ela­bo­ra­zioni di un gio­vane neo­fem­mi­ni­smo che sta aprendo vari ter­reni di ricerca met­tendo le ela­bo­ra­zioni del fem­mi­ni­smo sto­rico (ita­liano e occi­den­tale, ma anche post-coloniale) a con­fronto con la let­tura dell’attuale crisi glo­bale e del domi­nio della «ragione» neo­li­be­ri­sta. Una fase nella quale il capi­ta­li­smo sem­bra in grado di sus­su­mere ogni istanza cri­tica alter­na­tiva. Per esem­pio rico­no­scendo il «valore» della dif­fe­renza fem­mi­nile ma fina­liz­zan­dola all’efficienza della pro­du­zione e della com­pe­ti­ti­vità dell’economia data. Oppure ampli­fi­cando lo scan­dalo della vio­lenza maschile con­tro le donne, ma tra­du­cen­dolo in poli­ti­che di con­tra­sto e in para­digmi capaci di costrin­gere nuo­va­mente le donne nel ruolo di vit­time biso­gnose di «protezione».

La via di uscita indi­cata da Irene Straz­zeri è quella di una rilet­tura del con­cetto e della pra­tica dell’«autorità fem­mi­nile» così come è stata indi­cata soprat­tutto nei recenti testi di Luisa Muraro (Auto­rità, Rosem­breg & Sel­lier) e di Anna­rosa But­ta­relli (Sovrane, Il Sag­gia­tore). Un’idea di auto­rità diversa e distinta da quella di potere che con­nota la poli­tica maschile. Auto­rità come frutto della rela­zione e dello scam­bio lin­gui­stico. Come figura cir­co­lante indi­spen­sa­bile all’agire poli­tico, che può supe­rare gli stessi limiti della demo­cra­zia della rappresentanza.
Straz­zeri pro­pone di con­si­de­rare intrin­seca alla pro­du­zione di auto­rità anche la dina­mica del rico­no­sci­mento. Un dispo­si­tivo che può acco­mu­nare donne e uomini, senza il biso­gno di nuove tra­di­zioni e reli­gioni, per libe­rarsi da quell’agonia in un pre­sente final­mente capace di rico­no­scere se stesso

Una dittatura che si fa chiamare governance. Del resto, er un regime tirannico è impensabile sottoporre i massmedia (un potere che è Quarto solo per ragioni cronologiche) a una gestione pluralistica: occorre riportarlo sotto il governo del tiranno. Perciò Renzi...

La Repubblica, 9 marzo 2015

Il cavallo di viale Mazzini avrà tra poco in groppa un solo cavaliere. Un vero amministratore delegato, con poteri ampi, come in qualunque azienda privata. «Modello codice civile», spiegano nel governo. E nominato direttamente dall’esecutivo.

È questa la principale innovazione della governance Rai immaginata da Renzi per superare la legge Gasparri. Un modello che porta a rottamare l’attuale gestione mista Cda-direttore generale, nel tentativo di allontanare i partiti dall’amministrazione diretta dell’azienda. Ma che, accentrando in capo al governo la scelta dell’amministratore unico, non mancherà di sollevare polemiche.

In ogni caso ci siamo, la svolta è vicina. «In settimana - scrive Renzi nella sua enews - iniziamo l’esame in consiglio dei ministri per chiuderlo velocemente. Poi la palla passa al Parlamento con lo stesso metodo della scuola». Significa l’abbandono ufficiale del decreto a favore di un disegno di legge. Di cui, tuttavia, nella prossima riunione del governo saranno discusse soltanto le linee guida. E qui sta l’altra novità, in fatto di metodo. Come avvenuto per “la buona scuola”, anche il progetto Rai sarà oggetto di una consultazione. Stavolta non troppo allargata, ma limitata a una trentina di esperti del settore già individuati e preallertati: comunicatori, giornalisti, professori universitari, giuristi, associazioni, economisti. Un processo di affinamento, tramite lo studio di questi «pareri», che porterà al disegno di legge definitivo.

Il modello, studiato da tempo a Palazzo Chigi fa perno sulla separazione netta tra la gestione e il controllo. «L’importante - anticipa Renzi - è affidare a un amministratore la responsabilità di guidare l’azienda senza continuamente mediare con il Cda sulle scelte operative. Se non porta risultati viene cacciato via, ma deve poter decidere come fanno tutti i manager». Resta ancora aperto il problema di «quale equilibrio di potere tra chi nomina l’amministratore e chi controlla». In sostanza il nodo non è stato ancora sciolto. Si capisce che il premier non intende rinunciare, come invece suggeriscono i grillini, alla commissione di Vigilanza. Anche perché sarebbe inutile cancellare la Vigilanza se comunque si intende affidare a un organismo parlamentare il controllo delle linee di indirizzo del servizio pubblico. Ma la Vigilanza (ovvero i partiti) sarà privata del potere decisivo che le ha affidato la Gasparri, ovvero quello di indicare i nove membri del Consiglio d’amministrazione. Allora a chi spetterà l’indicazione del Cda? Qui si entra in un terreno in parte ancora da definire. Uno di questi fili porta a un Consiglio di sorveglianza con membri nominati dal governo e dall’Autorità di garanzia. Il quale, a sua volta, dovrebbe scegliere il Cda vero e proprio, ridotto da nove a cinque componenti. Un altro filo riporta invece tutto in capo al Parlamento (che non convince la presidenza del con- siglio perché verrebbe meno la separazione tra gestione e controllo), al quale resterebbe l’elezione del Cda come del resto elegge altri organi di garanzia quali i componenti della Consulta o del Csm. I nomi dei cinque sarebbero però pescati in una “rosa” indicata da soggetti esterni come l’Agcom, la Conferenza Stato-Regioni, il Consiglio dei rettori, la Corte Costituzionale. Mentre a palazzo Chigi non trova ascolto l’idea del movimento cinque stelle di affidare a un sorteggio tra candidati con il curriculum giusto la scelta del Cda. Per Renzi è «ridicolo» anche solo parlarne.

L’altro grande capitolo riguarda il contratto di servizio pubblico, che disciplina i rapporti tra lo Stato e la più grande azienda culturale italiana. Quello attuale è scaduto nel 2012 e il governo ha intenzione di sfruttare l’occasione del rinnovo per ridefinire la «mission» della Rai e metterla in linea con la riforma complessiva. Il presidente della Vigilanza, Roberto Fico, ne ha già discusso con il sottosegretario Giacomelli e ha lanciato una campagna online («Firmerai.it») per sollecitare il ministero a firmare il nuovo contratto. Che prevede «più protezione per i bambini, più lingue straniere, più servizi per i disabili, più trasparenza». Per assicurare una programmazione di lungo periodo, la durata del contratto da triennale viene reso decennale. Così la Rai conoscerà in anticipo quanto incasserà dal gettito statale di anno in anno.

Ed è questo l’ultimo, importante capitolo della riforma. Dopo il decreto Irpef, che ha tagliato il bilancio di viale Mazzini di 150 milioni, il governo ha deciso che è arrivata l’ora di inserire il canone nella bolletta elettrica già dal prossimo anno. In modo da azzerare la mostruosa evasione dell’imposta. Il Sole24ore ha calcolato infatti che ci sono regioni, come la Campania, dove il canone è un perfetto sconosciuto. In alcuni comuni del casertano come Casal di Principe o Parete è in regola appena il 9% delle famiglie, mentre a Ferrara a pagare sono il 93,5% dei cittadini. Se d’ora in avanti chi non paga il canone si vedrà staccare la luce, un sollievo per i contribuenti sarà l’importo dimezzato rispetto agli attuali 113 euro.

Renzi ha dunque deciso di rinunciare al decreto legge, in obbedienza alla nuova “dottrina Mattarella”, ma non è detto che il disegno di legge incontrerà un cammino facile in Parlamento. Qualche punto di contatto con i grillini c’è stato, ma Forza Italia non intende cedere. E difende con le unghie la “sua” legge. Maurizio Gasparri parla di un «colpo di Stato» e chiede «il rispetto dei vincoli ribaditi dalla Consulta che al Parlamento e non al governo ha affidato il ruolo di garante nella scelta del vertice aziendale». Renzi tira dritto per la sua strada. «Figuriamoci se mi faccio dare lezioni di democrazia da Gasparri».

Il manifesto, 8 marzo 2015

Set­ti­mana lavo­ra­tiva di 35 ore, per­messo di pater­nità equi­pa­rato a quello di mater­nità, scuole infan­tili e ospizi gra­tuiti. Sono solo alcune delle pro­po­ste con­te­nute in un docu­mento che potrebbe get­tare le basi per una rivo­lu­zione cul­tu­rale nella gestione delle poli­ti­che assi­sten­ziali. A fir­marlo l’esperta fiscale Maria Pazos e l’economista Bibiana Madial­dea, che su inca­rico di Pode­mos, hanno ela­bo­rato una pro­po­sta di taglio fem­mi­ni­sta per rifor­mare un set­tore dello stato sociale con­ge­ni­ta­mente «obso­leto, ingiu­sto, insuf­fi­ciente e inso­ste­ni­bile», come spiega María Pazos Morán, 61 anni, atti­vi­sta della piat­ta­forma inter­na­zio­nale per la parità di genere Plent e ricer­ca­trice dell’Istituto nazio­nale di studi fiscali, dove dirige il pro­gramma di poli­ti­che pub­bli­che e ugua­glianza di genere.

La pro­po­sta si basa su prin­cipi di soli­da­rietà, pro­por­zio­na­lità, cit­ta­di­nanza uni­ver­sale e indi­vi­dua­liz­za­zione dei diritti. Quasi un’utopia nel clima neo­li­be­ri­sta spa­gnolo…
«In realtà si tratta di pro­po­ste con­crete e attua­bili, che sul medio ter­mine por­te­reb­bero note­voli bene­fici eco­no­mici e potreb­bero con­tri­buire al supe­ra­mento della crisi. Rior­ga­niz­zare le poli­ti­che assi­sten­ziali vuol dire anche razio­na­liz­zare la spesa e ridurre il rischio di esclu­sione sociale e povertà, attual­mente i prin­ci­pali osta­coli al con­sumo. In que­sti anni si è agito in senso con­tra­rio e i tagli e l’individualismo neo­li­be­ri­sta hanno con­tri­buito al dete­rio­ra­mento dello stato sociale, anche se il pro­blema va oltre l’insufficienza di risorse: non c’è dub­bio che siano neces­sari più inve­sti­menti, ma altret­tanto neces­sa­rio è rior­ga­niz­zare strut­tu­ral­mente e ideo­lo­gi­ca­mente il sistema».

Da dove biso­gna comin­ciare?
«Il cuore del pro­blema sono le poli­ti­che di con­ci­lia­zione della vita fami­liare e lavo­ra­tiva. Attual­mente si incen­tiva l’abbandono totale o par­ziale del lavoro per chi si fa carico di man­sioni si assi­stenza: così si dispensa lo stato dall’assistenza dei più biso­gnosi per rele­garla all’ambito fami­liare, ovvero, per ragioni cul­tu­rali e sociali, a quello fem­mi­nile. Que­sta impo­sta­zione per­pe­tua una con­ce­zione dico­to­mica dei ruoli di genere, e crea ingiu­sti­zie che hanno un alto costo sociale. In primo luogo per le donne stesse, che sono osta­co­late nella loro rea­liz­za­zione lavo­ra­tiva, discri­mi­nate nella ricerca d’impiego e per­tanto più sog­gette alla dipen­denza eco­no­mica e all’esclusione sociale.

«Ma anche per gli uomini, che ven­gono costretti al mar­gine dell’ambito fami­liare e delle cure. Inol­tre la rinun­cia al lavoro non è com­pen­sata: l’assistenza non è con­si­de­rata come un lavoro, non gode degli stessi diritti e pro­te­zioni, e dà luogo a feno­meni di segre­ga­zione e di eco­no­mia sommersa».

La vostra è una pro­po­sta fem­mi­ni­sta con­tro un wel­fare maschi­li­sta?

«Più che maschi­li­sta direi patriar­cale, basato su un modello dise­qui­li­brato uomo-capofamiglia/sposa dipen­dente. Il nostro modello vor­rebbe rista­bi­lire un’uguaglianza di diritti e doveri che è van­tag­giosa per tutta la società: basti pen­sare al capi­tale umano che que­sta discri­mi­na­zione disperde. Per­tanto la nostra è una pro­po­sta fem­mi­ni­sta nel senso che punta a cor­reg­gere un ordine che allo stato attuale pre­giu­dica soprat­tutto le donne».

Su quali basi dovrebbe fon­darsi un sistema assi­sten­ziale egua­li­ta­rio?
È impre­scin­di­bile che l’assistenza esca dall’alveo della fami­glia, dove sarà sem­pre la donna a far­sene carico: per­ciò abbiamo insi­stito sull’individualizzazione e l’intrasferibilità dei diritti. Ma non è solo una que­stione di ugua­glianza e di eman­ci­pa­zione femminile.

«I dati demo­gra­fici lo dimo­strano: la popo­la­zione invec­chia e nel 2040 il numero delle per­sone biso­gnose d’assistenza saranno il dop­pio che nel 2008. E se si aggiunge che meno del 20% dei bam­bini sotto i 3 anni va all’asilo per più di 30 ore alla set­ti­mana, risulta chiaro che il cam­bio di para­digma è urgente. D’altra parte non si tratta di affi­dare tutto allo stato, ma di creare cor­re­spon­sa­bi­lità e garan­tire diritti affin­ché uomini e donne pos­sano dedi­care indi­stin­ta­mente tempo all’assistenza fami­liare senza dover tra­scu­rare altri ambiti. In Sve­zia que­ste riforme sono state fatte verso la fine degli anni 60, in una società meno avan­zata di quanto non lo sia quella spa­gnola di oggi».

E per­ché, invece, in Spa­gna, come in molti altri paesi medi­ter­ra­nei, si è fatto poco o nulla?
«Per­ché è neces­sa­ria un pre­cisa volontà poli­tica e un colpo di timone ideo­lo­gico, come quello che diede Zapa­tero con la riforma sul matri­mo­nio omo­ses­suale. Non si sta par­lando solo di un cam­bio di norme, ma anche di men­ta­lità e di valori.
«Una riforma come que­sta è pos­si­bile solo all’interno di una catarsi sociale che sosti­tui­sca indi­vi­dua­li­smo e con­su­mi­smo con soli­da­rietà, edu­ca­zione, cul­tura, aper­tura all’altro. D’altra parte il fer­mento poli­tico e le istanze di cam­bia­mento che ven­gono dalla cit­ta­di­nanza fanno pen­sare che i tempi siano maturi».

Quali sono le misure chiave del vostro pro­gramma?
Nell’ambito della cura degli anziani, garan­tire a ogni per­sona il diritto all’indipendenza e a essere assi­stita in strut­ture sta­tali. Per quanto riguarda la maternità/paternità, la pro­gres­siva intro­du­zione del per­messo retri­buito al 100% e di uguale durata per entrambi i geni­tori indi­pen­den­te­mente dal sesso e dall’orientamento ses­suale. Le sole due set­ti­mane di per­messo per i papà (a fronte delle 16 materne, ndr) sono costate solo 200 milioni di euro nel 2014.
Esten­derle avrebbe un costo rela­ti­va­mente basso, ma ine­sti­ma­bili van­taggi: met­te­rebbe fine, in primo luogo, alla discri­mi­na­zione delle donne nella ricerca d’impiego e appor­te­rebbe evi­denti bene­fici nella cura del neo­nato. Per quanto riguarda l’educazione infan­tile, pro­po­niamo asili gra­tis fino a 3 anni, e set­ti­mana lavo­ra­tiva di 35 ore».

La misura più urgente?
«Direi l’equiparazione dei con­gedi paren­tali. È la più emblematica».

«La seduzione dello Stato Islamico poggia sul concetto di appartenenza e per chi non ce la fa più a sgomitare e cerca nei suoi simili un gruppo al quale appartenere». Il Fatto Quotidiano online, blog "Economia occulta", 8 marzo 2015

Lo Stato Islamico è diventato un business, come lo divenne il terrorismo all’indomani dell’11 settembre. Dai giornalisti ai professori, dagli esperti alle think tank specializzate nel processo di radicalizzazione, persino il comune cittadino, grazie ai social media, esprime le proprie opinioni e così facendo promuove se stesso o attacca chi la pensa diversamente. E’ questo un bene? Lo sapremo tra 50 anni quando i posteri scriveranno di come abbiamo gestito questo periodo buio della storia della nostra civiltà.

Ma se fermiamo per un momento tutta questa ‘caciara’ opinionista e cerchiamo di capire cosa succede usando non gli strumenti del presente, la tecnologia informatica che mette tutti a contatto con gli altri, ma quelli del passato, l’analisi del male, le cose cambiano. La storia europea ci offre un esempio di comportamento malvagio e disumano recente, la soppressione a livello industriale degli ebrei, l’olocausto. Anche Hitler faceva pulizia etnica, sopprimeva gli omossessuali e distruggeva scientificamente la diversità. Spogliava dell’umanità il diverso. E lo faceva con un esercito ben addestrato e con il consenso della popolazione. Ce lo siamo dimenticato? Eppure ogni anno celebriamo il giorno della memoria per ricordare gli orrori di cui questo continente è stato capace.

Il Papa, unica luce in questo buio esistenziale nel quale siamo piombati, ha il coraggio di mettere in dubbio la consuetudine ideologica-religiosa della nostra normalità. Quando siamo schiavi dell’autoreferenzialità finiamo per coltivare una ‘spiritualità di etichetta': ‘Io sono Cl'; e cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento autoreferenziale, quel guardarci allo specchio che ci porta a disorientarci e a trasformarci in meri impresari di una Ong”. Queste le sue parole.

In fondo anche i giovani mussulmani che vengono sedotti dal messaggio dello Stato Islamico sono schiavi di un’ideologia totalmente autoreferenziale che gli fa credere di appartenere alla normalità di un mondo monolitico, dove tutti sono uguali agli altri. La storia di Jihadi John, un ragazzino che non riusciva a trovare una sua collocazione nell’Inghilterra contemporanea, vessato dai servizi segreti che lo volevano trasformare in una spia, assomiglia molto a quella di Abu Mussaq al Zarqawi, il proletario giordano, bulletto di quartiere che in prigione scopre la ‘normalità’ del salafismo radicale. Ed anche quella delle promesse spose dei guerrieri jihadisti, che sognano un marito con la sciabola alla cintura ed una famiglia a Raqqa, rientra in questa ‘normalità’. Accettare la diversità è quasi diventato impossibile in un mondo sovrappopolato dove per farsi spazio bisogna lavorare di gomito costantemente.

La seduzione dello Stato Islamico poggia sul concetto di appartenenza e di normalità per chi non ce la fa più a sgomitare e cerca nei suoi simili, i deboli, un gruppo al quale appartenere. La celebrazione dell’individualismo che lo smembramento del socialismo e la vittoria del neo-liberismo ci ha regalato ha prodotto anche questo, la solitudine esistenziale di chi non ha i numeri per emergere dalla massa. Questo sicuramente non lo abbiamo letto da nessuna parte.

Un incontro casuale su un treno che da Amsterdam mi portava a Parigi qualche settimana fa ben illustra questo concetto. Nel vagone ristoro c’era un ragazzo di vent’anni che leggeva la versione olandese del mio libro sull’ Isis.

Mi sono avvicinata ed abbiamo iniziato a chiacchierare. Era iracheno, di Baghdad, ed era sunnita. La famiglia si era trasferita ad Amsterdam quando aveva 12 anni perché sfollati, la loro casa è stata requisita da una delle tante milizie sciite ed hanno avuto la fortuna di trovare asilo in Olanda. Una storia come tante altre, simile a quella di mia suocera, ebrea fuggita da Berlino nel 1938 a soli 14 anni con la madre grazie ad uno sponsor di New York. Anche per loro l’impatto con il nuovo paese è stato traumatico, il padre del ragazzo era professore di chimica adesso fa il tassista e lui, laureatosi in ingegneria non trova lavoro ed è stanco di aiutare il padre con il tassi. Anche la nonna di mio marito è finita a fare la cameriera in un albergo mentre a Berlino lavorava in borsa. Ma nel 1940 per i giovani ebrei in America era possibile costruirsi un futuro, nell’Europa contemporanea per i giovani mussulmani diventa sempre più difficile, quasi impossibile, farlo.

Il ragazzo iracheno mi ha raccontato di alcuni suoi amici che un paio d’anni fa hanno deciso di andare in Siria a combattere, chissà forse qualcuno è finito anche nelle file dell’Isis o di al Nusra, lui non lo sa o almeno così mi ha detto. Ma capisce l’attrazione, la seduzione che l’idea di andarsene esercita sui suoi coetanei. Una normalità frutto della scelta comune e della vita da sogno prospettata dai reclutatori dello Stato islamico. E’ un’illusione, gli ho detto. E lui mi ha risposto che è vero ma qual è l’alternativa?

Nel 1961 Hanna Arendt descrisse la banalità del male, attribuendo ai nazisti un comportamento da automa dettato da codici di normalità che li hanno portati a commettere un genocidio. La tesi fu duramente criticata ed oggi viene accettata come una delle interpretazioni più autentiche della tragedia dell’olocausto.

La banalità del male è ancora oggi la chiave di lettura delle barbarie perpetrate dallo Stato Islamico. A prescindere dalle esecuzioni degli ostaggi, che senso ha distruggere monumenti di un’era antecedente alla nascita del profeta? Domandiamoci questo, come possono le statue Assiro babilonesi essere idoli dal momento che chi le ha costruite non conosceva la parola del profeta? Fare tabula rasa del passato aiuta la costruzione della normalità del presente, è per questo che Hitler voleva sterminare gli ebrei tedeschi, si stratta di uno sfoggio di debolezza da parte di chi non ha più il coraggio di pensare e di scegliere, individui alienati da una società che secondo loro non li vuole.

Le radici della radicalizzazione sono sempre le stesse ed affondano nel nostro subconscio. Uccidere e distruggere sono atti contro natura ma se questa si rivela nemica allora è facile costruirne un’altra, monolitica ad immagine e somiglianza della propria debolezza.

Il ragazzo iracheno mi ha dato ragione, la seduzione dello Stato Islamico altro non è che la normalità dei deboli che nella violenza si illudono di essere forti. E più l’esercito dei deboli cresce, più questa normalità diventa realtà. In fondo questa era anche la seduzione del nazismo.

Ci siamo salutati quando il treno entrava a Bruxelles. Mi ha chiesto di firmargli il libro, ho scritto “in bocca al lupo” ne abbiamo tutti bisogno.

Il manifesto, 8 marzo 2015

UN CORPO FUORI CONTROLLO
di Geraldina Colotti

Diritti. Libertà sessuali e riproduttive, educazione, agibilità politica, il manifesto di Amnesty. Medici senza frontiere mette l’accento sui problemi sanitari delle adolescenti

Il corpo e i diritti, My body: my right. S’intitola così il mani­fe­sto dif­fuso da Amne­sty Inter­na­tio­nal per la gior­nata delle donne. Con­tiene 7 prin­cipi e una domanda: chi con­trolla il tuo corpo? I prin­cipi che Amne­sty chiede di sot­to­scri­vere atten­gono alle libertà ses­suali e ripro­dut­tive, ma anche all’educazione e all’informazione neces­sa­rie per com­piere scelte con­sa­pe­voli e agli spazi di agi­bi­lità poli­tica per influire sulle leggi e sui deci­sori. La pre­senza del punto 2 — «Cer­care di abor­tire — o aiu­tare qual­cuno a farlo — NON ci rende cri­mi­nali» — la dice lunga sui passi indie­tro com­piuti, anche in Ita­lia, in que­sto ambito.

La sovra­nità della donna sul pro­prio corpo — ban­diera insin­da­ca­bile negli anni che hanno pro­dotto leggi avan­zate e garan­ti­ste — è diven­tata un for­tino da difen­dere da costri­zioni eco­no­mi­che e pres­sioni sim­bo­li­che dovute al ritorno di fami­li­smo e maria­ne­simo. E così, fa riflet­tere anche il punto 3: «I ser­vizi sani­tari di qua­lità, a costi soste­ni­bili e nel rispetto della riser­va­tezza com­preso l’accesso alla con­trac­ce­zione, non sono un lusso, sono un diritto umano». Par­lare di wel­fare e gra­tuità dei ser­vizi è diven­tata quasi una bestem­mia.

A 104 anni dall’8 marzo del 1857, quando mori­rono nell’incendio le ope­raie in scio­pero in una fab­brica tes­sile di New York, nelle fab­bri­che ad alto sfrut­ta­mento si con­ti­nua però a morire: è suc­cesso in Ban­gla­desh solo 3 anni fa, quando 110 ope­raie che pro­du­ce­vano per la Disney hanno perso la vita in un incen­dio. Epperò, non ci sono più le comu­ni­ste e le socia­li­ste che, gui­date da Clara Zet­kin, allora dedi­ca­rono alle ope­raie un 8 marzo di lotta e la spe­ranza di un’altra società.

Invece, anche ana­liz­zando i dati con­te­nuti nell’ultimo Rap­porto di Amne­sty sui diritti (edito da Castel­vec­chi), emerge l’urgenza di coniu­gare libertà e giu­sti­zia sociale, anti­corpo indi­spen­sa­bile con­tro guerre, soprusi e impu­nità. Medici senza fron­tiere mette l’accento sui pro­blemi sani­tari delle ado­le­scenti e rileva che il 95% delle gra­vi­danze pre­coci avviene nei paesi in via di svi­luppo e che la mor­ta­lità materna è la seconda causa di morte tra i 15 e i 19 anni. «In molti paesi — scrive — ragazze e gio­vani donne in par­ti­co­lare, spesso non rice­vono un’educazione ses­suale di base né infor­ma­zioni sulla salute ripro­dut­tiva e devono affron­tare note­voli bar­riere per acce­dere all’assistenza sani­ta­ria. In alcune cul­ture le donne non hanno la pos­si­bi­lità di pren­dere le pro­prie deci­sioni sulla salute».

Certo, il patriar­cato viene prima del capi­ta­li­smo, ma nei paesi in cui le donne hanno accesso ai diritti ele­men­tari, prima di tutto al lavoro e all’istruzione, la loro con­di­zione cam­bia. E lad­dove hanno più potere — potere di sé e di poter fare — la dif­fe­renza di genere diventa forza. «Se non fossi stata mini­stra della Difesa non avrei mai potuto essere eletta pre­si­dente», ha detto Michelle Bache­let. La pre­si­dente cilena, che in pre­ce­denza ha diretto Onu Mujer, a fine feb­braio ha orga­niz­zato in Cile un incon­tro inter­na­zio­nale di alto livello dal titolo: «Le donne nel potere e nelle deci­sioni: costruendo un mondo dif­fe­rente». Bache­let ha pre­sen­tato i pro­gressi com­piuti dal suo governo per soste­nere le donne «in par­ti­co­lare le più povere» e per aumen­tare l’assistenza ai bam­bini e agli anziani «in modo che que­sto non pesi più su di loro e pos­sano tro­vare un lavoro e rea­liz­zarsi». Ha illu­strato l’indirizzo adot­tato per modi­fi­care leggi e isti­tu­zioni. «Certo — ha detto -, il Cile ha eletto per la seconda volta una donna alla pre­si­denza, la nostra pre­si­dente del Senato è una donna, la lea­der dei lavo­ra­tori, Bar­bara Figue­roa, è una donna, e varie diri­genti del movi­mento degli stu­denti sono donne. Tut­ta­via, il Cile non è il para­diso per le donne». Infatti, il par­la­mento è ancora com­po­sto all’84% da uomini, e con quella com­po­si­zione verrà discussa la pro­po­sta di legge sull’aborto.

Le cose non vanno certo meglio per le donne di altri con­ti­nenti. Amne­sty segnala che, in Afgha­ni­stan, i primi sei mesi del 2014 hanno fatto regi­strare 4.154 casi di vio­lenza con­tro le donne. Vio­lenze di genere com­messe all’interno delle fami­glie, ciò che ha reso impos­si­bile l’azione giudiziaria.Oggi, il popolo curdo dedica l’8 marzo alla rivo­lu­zione delle donne del Rojava e alla resi­stenza delle Unità di difesa delle donne (Ypj), che in Siria «com­bat­tono la loro guerra di Libe­ra­zione dall’Isis e difen­dono anche la nostra libertà». Lo Scio­pero glo­bale delle donne lan­cia invece una peti­zione inter­na­zio­nale per «Un sala­rio degno per le madri e per altre lavo­ra­trici di cura».

E, in Ita­lia, la Rete Nazio­nale dei cen­tri anti-violenza (DiRe) affida alla gior­nata una domanda per il governo Renzi: «Che fine ha fatto Piano Nazio­nale con­tro la vio­lenza alle donne annun­ciato da oltre un anno?».

UN NUOVO MODELLO DI RIVOLTA
di Bia Sarasini


Post-patrarcato - Contro il solito otto marzo ridotto a un san Valentino

Vediamo solo le trecce nere, della donna cer­ta­mente gio­vane che ha un fucile mitra­glia­tore in spalla, il viso è tutto girato dall’altra parte. Una com­bat­tente, imma­gine forte per una delle tante mani­fe­sta­zioni in Ita­lia che oggi hanno accolto l’invito delle donne curde di dedi­care la gior­nata inter­na­zio­nale delle donne 2015 alla loro lotta. Non è mai suc­cesso, che io mi ricordi, che donne armate siano state scelte a rap­pre­sen­tare l’8 marzo.

Nep­pure nel 1977, anno piut­to­sto tur­bo­lento. Allora l’arma fu il gesto fem­mi­ni­sta, in piazza, le mani unite in alto, nel trian­golo che indica il vuoto e la potenza del sesso fem­mi­nile. («Il gesto fem­mi­ni­sta», a cura di Ila­ria Bus­soni e Raf­faella Perna, Derive&Approdi). Atto forte, sov­ver­sivo. Mi è venuto in mente nel guar­dare la foto della ragazza che qual­che giorno fa è andata in giro da sola per Kabul, coperta da una spe­cie di arma­tura, indos­sata sopra gli abiti e comun­que con il velo in testa, che dise­gnava il corpo nudo di una donna. Lei però era sola, in mezzo agli uomini esa­gi­tati che l’hanno cir­con­data e semi-aggredita. La donna armata dice qual­cosa di nuovo, segnala un cam­bia­mento. La foto è stata scelta con cura, la ragazza non punta l’arma e non ali­menta lo ste­reo­tipo della bella guer­ri­gliera. L’invito delle donne curde dice: «Orga­niz­ziamo la resi­stenza ovun­que nel mondo le donne subi­scano vio­lenza. Dif­fon­diamo insieme lo spi­rito di resi­stenza che ci uni­sce e ci raf­forza con­tro ogni mani­fe­sta­zione del sistema di domi­nio patriarcale».

Un invito poli­tico, che non tra­sporta in Occi­dente la guerra che viene com­bat­tuta dalle donne pesh­merga in prima per­sona, sui campi di bat­ta­glia. Una lotta che è entrata con forza nel nostro imma­gi­na­rio da set­tem­bre, prima con i com­bat­ti­menti e poi la suc­ces­siva libe­ra­zione di Kobane. E così sono venuti i repor­tage, le inter­vi­ste in tutti i media main­stream, soprat­tutto i fem­mi­nili. Senza dub­bio le com­bat­tenti hanno acceso l’immaginazione, hanno atti­vato un fuoco latente. Susci­tano un’enorme ammi­ra­zione, com­bat­tono per la libertà loro e delle loro figlie, con­tro un eser­cito, quello dell’Isis, per il quale essere donne è una colpa, e fonte di con­ta­mi­na­zione, all’interno di un’organizzazione, il Pkk, che ha fatto dell’uguaglianza tra donne e uomini un pro­prio valore.

Eppure. Come la met­tiamo con la non vio­lenza? Con la con­vin­zione fem­mi­ni­sta che la guerra è una vicenda maschile? L’Isis è un nemico che mette a tacere qua­lun­que dub­bio, a pro­po­sito di guerra? Sono domande aperte, tutte da affron­tare. E inquieta che non ci sia nes­suna (e nes­suno) che le rac­colga. Ma non è il caso di con­fon­dere i piani. Non tutte le mani­fe­sta­zioni in Ita­lia dedi­cate alla lotta delle donne curde met­tono diret­ta­mente in scena una donna armata. In ogni caso un conto è un popolo in guerra, che difende la pro­pria vita, altra è la situa­zione qui, in Italia.

Ma biso­gna dirlo. In tutte que­ste mani­fe­sta­zioni si avverte un ine­dito spi­rito di rivolta. E non solo tra le più gio­vani e radi­cali.

Con­tro il solito otto­marzo, ridotto a un San Valen­tino con le mimose. Anche con­tro il cata­logo dei risul­tati rag­giunti, o dei suc­cessi man­cati. Che sono sem­pre gli stessi. Il gap retri­bu­tivo, tra donne e uomini, indi­cato a gran voce anche nelle élite, da donne come Chri­stine Lagarde, la pre­si­dente del Fmi, uno degli orga­ni­smi che con­trol­lano l’economia mon­diale. O da attrici famose come Patri­cia Arquette, che nel suo discorso alla con­se­gna dell’ Oscar come attrice non pro­ta­go­ni­sta per Boy­hood, ha dedi­cato il pre­mio a: «tutte le donne che hanno par­to­rito, tutte le cit­ta­dine e le con­tri­buenti di que­sta nazione: abbiamo com­bat­tuto per i diritti di tutti gli altri, adesso è ora di otte­nere la parità di retri­bu­zione una volta per tutte, e la parità di diritti per tutte le donne negli Stati Uniti».

Ci si ribella anche con­tro l’eterna ripe­ti­zione della donna vit­tima. Non che il fem­mi­ni­ci­dio, o i mal­trat­ta­menti, siano un’invenzione. Eppure il mar­tel­la­mento impla­ca­bile dei dati, la ripe­ti­zione com­pia­ciuta di sto­rie di cru­deltà e sopraf­fa­zione senza indi­care vie d’uscita, è ormai inso­ste­ni­bile. Una gene­ra­zione che ha sco­perto di essere donna – dif­fe­rente dai pro­pri coe­ta­nei – nel rifiuto della vio­lenza con­tro il pro­prio genere, e ha dato vita alle prime mani­fe­sta­zioni del 25 novem­bre dieci anni fa, spe­ri­menta ora la neces­sità di par­tire da sé, di non aspet­tare solu­zioni da fuori, da altri. E anche la grande fiam­mata, ormai spenta, di Se non ora quando, la grande mani­fe­sta­zione del 13 feb­braio 2011 che ha dato voce a un’enorme rab­bia fem­mi­nile, si è sedi­men­tata. Siamo oltre, anche oltre la delusione.

Le donne sono dap­per­tutto, dice la Libre­ria delle donne di Milano. È cer­ta­mente vero Non siamo più in regime di scar­sità, e sia pure con tutte le ben note man­canze, non c’è set­tore della vita pub­blica, poli­tica e pro­fes­sio­nale, in cui non ci siano donne. Che par­lano, anche in Ita­lia. La pre­si­dente della camera Laura Bol­drini ha di nuovo ricor­dato la neces­sità di usare bene le parole, di decli­narle sem­pre anche al fem­mi­nile. Ottima bat­ta­glia, le rea­zioni sgan­ghe­rate dicono quanto sia neces­sa­ria. Ma que­sto signi­fica che il fem­mi­ni­smo gode di buona salute? Che è dispo­ni­bile all’elaborazione comune una visione poli­tica che per­metta di agire in que­sti tempi di crisi?

Ecco, la crisi. È la crisi che ha rime­sco­lato le carte, che ha obbli­gato a guar­dare con occhi diversi le sto­rie di cia­scuna e cia­scuno. Se la parità di retri­bu­zione tra donne e uomini è un pro­blema aperto, e giu­sta­mente riven­di­cato, che deve dire chi si trova inca­te­nata al mec­ca­ni­smo dei pic­coli lavori pre­cari equa­mente mal retri­buiti? Per non dire sot­to­pa­gati? Lo spi­rito di rivolta nasce qui, in con­di­zioni mate­riali di esi­stenza in cui si è impa­rato a vedere che dif­fe­renze ci sono, tra donne e uomini, anche nella pre­ca­rietà. Che non è una cate­go­ria indif­fe­ren­ziata, come in tante ave­vano riven­di­cato, sca­glian­dosi con­tro l’ostinazione di pen­sarsi dif­fe­renti delle fem­mi­ni­ste d’antan. Che il post-patriarcato non pre­scinde dai corpi e dalle loro dif­fe­renze. Anzi li mette al lavoro in nuove forme pecu­liari, per esem­pio nella mater­nità sur­ro­gata, in un bio­la­voro schia­viz­zante che ha molte affi­nità con lo sfrut­ta­mento della natura, della terra. È su que­sto ter­reno che vanno ride­fi­nite le rela­zioni, tra donne e uomini. E le pro­te­zioni sociali, quelle che l’austerità euro­pea ha fatto spa­rire, vanno ripen­sate sulla base di nuovi modelli, di una nuova pra­tica della cura, che certo non potranno basarsi sul capo­fa­mi­glia di un tempo. In un intrec­cio tra eco­no­mia, biso­gni, rela­zioni, sen­ti­menti e affetti tutto da ripen­sare.

Insomma, è una spe­ranza la ribel­lione alle trap­pole fab­bri­cate dalla crisi. Fa piazza pulita delle zone fin troppo comode, fin troppo sepa­rate, che nel tempo si sono costruite. La crisi non ha pietà. Richiede tutta la nostra capa­cità di sognare grandi imprese.

«Nelle formazioni politiche a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette in discussione per costruire qualcosa di nuovo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, e nemmeno Die Linke o Front de Gauche».

Blog di Claudio Grassi, 7 marzo 2015

Da quando la sinistra alternativa in Italia è in difficoltà ha cominciato a identificarsi in modelli esterni. Dopo la disfatta del 2008 con la Sinistra Arcobaleno, a seconda delle stagioni, abbiamo assistito a diversi “innamoramenti”: Die Linke poi Front de Gauche, adesso è il momento di Syriza e Podemos. La cosa che mi colpisce, in tutto ciò, è la rimozione delle abissali differenze che esistono tra le realtà che hanno prodotto queste esperienze e la nostra. In particolare, quando si dice facciamo come Syriza e Podemos, si paragona la nostra realtà con quella della Grecia e della Spagna, senza considerare che la nostra situazione è profondamente diversa.

In primo luogo la devastazione che la crisi economica ha prodotto in Grecia, ma anche in Spagna, non è nemmeno lontanamente paragonabile a quanto ha prodotto in Italia. In secondo luogo, soprattutto in Grecia, ma anche in Spagna, le formazioni socialiste sono crollate (Pasok) o in fortissima crisi (Psoe). In Italia possiamo pensare quello che vogliamo di Renzi, ma il consenso elettorale del Pd è il più alto da quando è stato sciolto il Pci. In terzo luogo in Italia, da diversi anni, esiste una formazione politica (che non esiste né in Spagna, né in Grecia), il M5S, che sarà pure in crisi, ma che ancora oggi raccoglie il 20 per cento del consenso elettorale.
Sono solo battute messe lì, ma penso che non ci sarà nessuna Syriza e nessun Podemos in Italia se non si aprirà una crisi di consenso nel PD e nel M5S. Per esempio, nelle recenti elezioni regionali in Emilia Romagna ha votato solo il 37% degli aventi diritto. 700.000 elettori del Pd (su 3.400.000 aventi diritto al voto), non sono andati a votare. Una enormità, in una regione dove votare è sempre stato considerato un dovere, prima che un diritto. 700.000 elettori che non hanno votato nessuno.
Eppure non mancavano le opzioni a sinistra del Pd: Sel dentro la coalizione, L’Altra Emilia Romagna fuori. Ma nemmeno uno di questi 700.000 elettori, delusi dal Pd, ha scelto una di queste due opzioni. Mi sembra una cosa rilevantissima che da sola dimostra quanto non siano attrattive le offerte politiche in campo oggi a sinistra del Pd. Eppure nessuno ne ha discusso o ne discute in modo approfondito.

Senza affrontare questi nodi potremo scrivere ogni giorno che faremo come Syriza e Podemos, ma non faremo un passo avanti in quella direzione. La proposta di coalizione sociale avanzata dalla Fiom ha il pregio di cercare il bandolo della matassa a partire dai contenuti e di offrire una proposta di mobilitazione concreta per i prossimi mesi a partire dalla manifestazione del 28 marzo. Questo è positivo e tutti dobbiamo stare dentro questa proposta della FIOM. Il problema, però, è che sul versante delle formazioni politiche che sono a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette tutti in discussione per costruire qualcosa di nuovo non solo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, ma non si farà nemmeno Die Linke o Front de Gauche. Siamo terribilmente indietro e fermi e nasconderlo non solo non serve, ma è inutile e dannoso.

Grazie alla cortesia dell'autore pubblichiamo la relazione introduttiva all'

incontro internazionale sul tema “Berlinguer e l’Europa, i fondamenti di un nuovo socialismo” promosso da Futura Umanità, Rosa Luxemburg (Germania), Nicos Poulantzas (Grecia) e GUE/NGL. Qui si può scaricare il testo in formato .pdf e leggerlo con calma, anche in tram

Berlinguer e l’Europa
i fondamenti di un nuovo socialismo



1.

Enrico Berlinguer è stato senza dubbio una delle personalità politiche più rilevanti nella seconda metà del Novecento. Soprattutto per aver posto nel cuore dell’Europa, non in termini di pura ricerca intellettuale bensì di lotta politica concreta che ha mobilitato milioni di donne e di uomini, il problema della costruzione di una civiltà più avanzata oltre le colonne d’Ercole dell’ordinamento del capitale, dichiarate invalicabili dalla dogmatica del pensiero dominante.

Un «nuovo socialismo» e dunque, come Berlinguer stesso più volte ha sottolineato, una nuova gerarchia di valori, che abbia al centro l’uomo e il lavoro umano, che esalti «le virtù più alte dell’uomo»: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà, la giustizia. Forse il punto più alto toccato dalla politica europea nel secolo passato. E forse proprio perciò, in questo tempo buio di crisi del Vecchio Continente e della stessa idea di Europa, oggi maggiormente trascurato, nonostante le numerose e importanti iniziative che nel trentennale della morte hanno segnato in Italia un ritorno del suo pensiero e della sua alta visione della politica.

Il segretario del Pci è vissuto e ha lottato in un’altra epoca storica. Il partito comunista da lui guidato è stato messo in liquidazione più di vent’anni fa, l’Unione sovietica e il «socialismo realizzato» sono scomparsi dalla faccia della terra, gli Stati uniti e il capitalismo finanziario globalizzato hanno trionfato, mentre potenze emergenti come la Cina e l’India stanno oggi cambiando l’assetto geopolitico del mondo. Non si può dire però che nel mondo abbia trionfato il bene comune.

Al contrario, il capitalismo del nostro tempo non è stato emendato dei suoi vizi e delle sue contraddizioni che sono esplose con inusitata virulenza, fino al punto da mettere in discussione la sicurezza stessa del genere umano, come di recente ha messo in luce anche Naomi Klein[1]. I fattori di instabilità e i rischi per la pace si moltiplicano. E in Europa, invece di avanzare sul terreno dell’unità politica e di più evolute forme di democrazia e di partecipazione, prevalgono indirizzi oligarchici di tecnoburocrazie al servizio dei gruppi dominanti del capitale, che diffondono disoccupazione, precarietà e malessere di massa, alimentando moderni fascismi, populismi e nazionalismi su cui crescono aberranti forme di violenza e terrorismo.

Berlinguer torna di attualità oggi proprio perché i problemi del mondo e dell’Europa che voleva cambiare non solo persistono, ma per molti aspetti si sono drammaticamente aggravati. Per questa ragione, se l’intento che ci muove è quello di costruire un’altra Europa, è utile ripercorrere i passaggi più significativi del pensiero e della pratica politica del segretario del Pci. Non per nostalgiche e impossibili riviviscenze del passato, ma per riscoprire un metodo e impadronirci di chiavi di lettura che possono aprirci le porte all’interpretazione critica del presente, e quindi alla costruzione di un mondo nuovo e di una diversa Europa. A maggior ragione dopo la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, che ha acceso grandi speranze e rende ancora più urgente l’esigenza di un generale cambiamento in tutto il Vecchio Continente.

2.In un’intervista rilasciata a poche ore dalla morte che lo ha colto improvvisamente a Padova durante il comizio per le elezioni europee del 1984, interrogato sulla posta in gioco in quel voto, Berlinguer rispondeva: «Prima di tutto, la questione della “unità politica” dell’Europa. È proprio dalle file del gruppo comunista che è venuta la proposta più innovativa che sia stata fatta nel corso di questi cinque anni di vita del Parlamento europeo». Quella di Altiero Spinelli, allora vicepresidente del gruppo comunista e apparentati, che - chiariva Berlinguer - «propone […] di passare da un semplice “mercato comune” a una “unificazione politica dell’Europa” e di spostare l’asse del potere dai governi che hanno fatto soltanto […] compromessi tra di loro al Parlamento europeo eletto a suffragio universale»[2].

Dunque, un tema oggi quanto mai aperto e un passaggio democratico decisivo, allora sostenuto dal Pci di Berlinguer, per costruire l’Europa dei popoli e dei lavoratori. A sua volta, Altiero Spinelli osservava: «Senza la forza del Pci non avrei potuto condurre la mia battaglia europeista». Ma - aggiungeva - «si è trattato solo di un primo passo», e se il progetto dell’Europa unita verrà alla fine affidato non al Parlamento ma alle diplomazie e ai mercanteggiamenti tra i governi avremo «la liquidazione del progetto», come poi nei fatti è avvenuto. Quanto a Berlinguer, Spinelli osservava: «La sua iniziativa ed elaborazione politica vengono da lontano, ma è stato lui che ha portato a compimento, con rigorosa conseguenza, la saldatura tra democrazia e socialismo e una politica comunista tesa a conquistare un’Europa fatta dagli europei»[3].

3.Spinelli coglieva nel segno. Esattamente in questa saldatura, ossia nel nesso organico e inscindibile tra democrazia (come valore storicamente universale) e socialismo (come civiltà più elevata lungo il contrastato cammino di liberazione umana) si situa la visione europeista connessa a un «nuovo socialismo» per la quale ha lottato il segretario del Pci. Come egli stesso osserva, nel Pci e in diversi partiti comunisti d’Europa, pur con notevoli diversità di orientamento, «si è venuta affermando la convinzione che la lotta per il socialismo e la sua costruzione debbano attuarsi nella piena espansione della democrazia e di tutte le libertà». Ed «è questa - precisa - la scelta dell’eurocomunismo»[4].
Vale a dire di un’impostazione che, senza cancellare il valore della rottura storica rappresentata dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, intendeva aprire un altro percorso e un’altra prospettiva al socialismo in Occidente. Riprendendo e rinnovando le elaborazioni di Gramsci e di Togliatti, che nell’impianto della Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro hanno trovato originali e significativi riferimenti, in effetti Berlinguer apriva un orizzonte nuovo nei punti alti del capitalismo in crisi. Come mai prima di allora era avvenuto, il segretario del Pci andava delineando un processo rivoluzionario di trasformazione della società del tutto inedito, da realizzarsi nello sviluppo pieno della democrazia e della legalità costituzionale.

Già nel 1969, quando ancora non era segretario del partito, a Mosca aveva respinto «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni»[5]. Nella sua visione innovativa era chiara e irreversibile l’impraticabilità in Occidente del modello del socialismo sovietico realizzato ad Oriente, che poi sarebbe crollato. Ma d’altra parte, la crisi delle società capitalistiche in Occidente, che veniva alla luce già negli anni 70, portava Berlinguer a concludere, in modo altrettanto chiaro e irreversibile, che il modello da seguire non poteva essere quello della socialdemocrazia.

Non da pregiudizi ideologici, bensì dall’analisi della crisi nei punti alti del sistema scaturiva secondo Berlinguer «la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore». Giacché anche nei Paesi dove i partiti socialdemocratici erano al potere da decenni, nonostante significative conquiste sociali e le protezioni del welfare, egli vedeva «tutti i segni tipici della crisi di fondo delle società “neocapitalistiche”». Una crisi che si manifestava non solo nei disagi materiali di grandi masse ma anche nella diffusa condizione di alienazione dell’individuo, in quella «che si potrebbe definire […] l’infelicità dell’uomo di oggi»[6]. Perciò occorreva ricercare e battere vie del tutto nuove.

Analizzando i profondi cambiamenti che vengono alla luce nell’economia mondiale dei primi anni 70 con la svalutazione del dollaro e poi con la crisi petrolifera, e che si intrecciano con il moto di liberazione dei Paesi in via di sviluppo culminato con la vittoria del piccolo Vietnam sul colosso Usa, dopo che Salvador Allende era stato abbattuto in Cile da un golpe fascista, Berlinguer giunge alla conclusione che il mondo si trova di fronte a una «crisi di tipo nuovo». Non già a una ricorrente crisi ciclica del capitale. Esplodono – osserva – le contraddizioni intrinseche ai meccanismi economici e sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo post-bellico dei Paesi capitalistici più progrediti, e la crisi non è solo economica, ma investe nell’insieme i rapporti sociali, la politica, la cultura, le relazioni internazionali. «Ciò non significa - precisa - che il capitalismo è vicino al suo crollo o è senza via d’uscita». Però «sta di fatto che la crisi attuale non è superabile come quelle precedenti» e richiede «trasformazioni profonde, anche di tipo socialista»[7].

4.Il giudizio di Berlinguer è netto. In definitiva, con l’esaurimento del ciclo espansivo cominciato dopo la seconda guerra mondiale (i cosiddetti “trenta gloriosi”) si esaurisce anche la spinta propulsiva della socialdemocrazia. E va in crisi il compromesso che in cambio di una condizione di elevata occupazione e di migliori livelli di vita, da ottenere attraverso la redistribuzione del reddito e l’incremento della spesa pubblica, assicurava ai gruppi dominanti del capitale la direzione dell’economia e della società. In altri termini, di fronte alla contraddizioni esplosive del capitale nella fase della sua globalizzazione finanziaria, le tradizionali vie socialdemocratiche non sono più percorribili.

Berlinguer ci dice che non basta la critica al neoliberismo come ideologia della dittatura del capitale sul lavoro. C’è bisogno di una critica al modo di essere e alla natura del capitale. Anche perché, di fronte a quella che considera una crisi di fondo del sistema, appare del tutto insufficiente la riproposizione di tradizionali politiche di tipo keynesiano che galleggiano nella sfera distributiva senza toccare la sostanza dei rapporti di produzione, ossia i rapporti di proprietà. Ignorando che il capitale non è una “cosa”, un dato “naturale” al di là del tempo e dello spazio, un semplice accumulo di merci e di strumenti finanziari e tanto meno un algoritmo, bensì un rapporto sociale in continua mutazione ma storicamente determinato, che si instaura tra chi vende le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere e chi le compra per ottenere un profitto.

Un rapporto sociale sempre sottoposto a tensioni, ma che nel mondo di oggi si manifesta nella contraddizione drammatica tra sfruttati e sfruttatori, portando in primo piano una questione per principio ignorata: la questione proprietaria. Come il segretario chiarisce nel rapporto al Comitato centrale del Pci il 10 dicembre 1974, «le radici delle ineguaglianze, delle ingiustizie e dello sfruttamento nei rapporti internazionali, tra popoli e Stati, sono nella divisione in classi sfruttatrici e sfruttate, al di sopra delle frontiere». «La piramide di tutto il complesso della divisione, dell’oppressione e dello sfruttamento – tra classi e tra interi Paesi – ha per base i rapporti proprietari e di produzione capitalistici, con i quali in parte si sono fusi i rapporti proprietari e di produzione agrari di origine precapitalistica e di tipo feudale”[8].

Non è superfluo ricordare che nel Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita, redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, la questione proprietaria è ben presente. La «rivoluzione europea» - vi si legge - «dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici» affrontando il nodo della «proprietà privata», che «deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio»[9]. Una formula di grande interesse che richiama alla memoria quella di un altro manifesto, il Manifesto di Marx ed Engels, secondo cui «il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui»[10].

Resta il fatto, peraltro oggi di pubblico dominio, che non solo i liberali ma anche i socialdemocratici, pur di fronte a una crisi che porta alla luce la natura distruttiva e il limite storico del capitalismo, non hanno manifestato alcuna intenzione di mettere in discussione e di superare il rapporto sociale che riproduce il capitale, al di là delle diverse forme in cui il capitale si manifesta. E dunque di misurarsi con il presupposto della proprietà e dell’accumulazione capitalistica, che è all’origine dei drammi del mondo contemporaneo.

Gli uni e gli altri, sebbene con motivazioni diverse, hanno lavorato per difendere, tutelare, coccolare il capitalismo, anche nelle sue forme più deteriori e speculative. Significative, da questo punto di vista, le “riforme” del lavoro adottate dal governo Schröder e predisposte dal capo del personale della Volkswagen. O le misure fiscali con le quali, durante la crisi ancora in corso, il socialista Gordon Brown, erede di Tony Blair, ha spinto l’ascesa della grande finanza e della city in perfetta sintonia con il pensiero neoliberista. Del resto, come è stato notato da chi se ne intende, «senza Thatcher non si diventa Blair»[11]. Per cui appare del tutto appropriato il giudizio tagliente e definitivo di Oskar Lafontaine: «Socialismo e socialdemocrazia hanno finito per sposare i dogmi del mercato e della filosofia neoliberale»[12].

6.All’opposto, il tentativo di Berlinguer è stato proprio quello di misurarsi con il rapporto sociale di sfruttamento della persona umana che caratterizza il capitale, sulla cui base è stata eretta la società ingiusta e alienante in cui oggi viviamo. Come, perché e per chi produrre? Viene al pettine, al di là della distribuzione della ricchezza che in ultima analisi ne è l’effetto, il nodo stringente della finalità del produrre e del consumare, e quindi dell’uso delle risorse, umane e naturali, e della loro accumulazione e proprietà. A maggior ragione in presenza di una rivoluzione scientifica e tecnologica, che cambiando il modo di produrre, di lavorare e di vivere non è più contenibile dentro le vecchie forme proprietarie. E mette in discussione l’appropriazione privatistica dei frutti del lavoro sociale, nonché la conduzione autoritaria dell’impresa, dell’economia, della società.

Nel famoso discorso al teatro Eliseo di Roma, il 15 gennaio del 1977, Berlinguer afferma: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo»[13]. E ciò richiede, come dirà in seguito, «un intervento innovatore nell’assetto proprietario, tale da spingere materialmente la struttura economica» verso il soddisfacimento dei grandi bisogni dell’uomo e della collettività[14].

Un’operazione inevitabile, peraltro prevista dalla Costituzione italiana del 1948, per aprire la strada a un socialismo nuovo, a una soluzione socialista diversa da ogni modello esistente. Esaurite le due fasi del «movimento per il socialismo» finora ad allora conosciute, quella «scaturita dalla rivoluzione di ottobre» e «quella socialdemocratica», secondo Berlinguer «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico». Dunque, una terza fase, o una terza via: «la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell’Est europeo». «Una ricerca - aggiunge - nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia»[15].

In campo economico, «la terza via», secondo la visione berlingueriana, rifiuta la sovranità totalitaria del mercato ma anche la statizzazione integrale dei mezzi di produzione. E si incardina invece sulla combinazione di diverse forme di proprietà - pubblica, privata, cooperativa, comunitaria; sul governo democratico del mercato come misuratore di efficienza e sulla democratizzazione dell’impresa; su una pianificazione strategica al tempo stesso flessibile, volta ad assicurare un’alta capacità produttiva e il benessere sociale.

«In altri termini, sostiene il segretario del Pci, il quadro attuale del capitalismo […] - per un verso scuote nel profondo le illusioni neocapitalistiche, e ripropone la prospettiva e la necessità storica del socialismo; - per altro verso, nell’immediato, rende urgente una programmazione democratica dell’economia nei singoli Paesi capitalistici e una cooperazione internazionale, lungo una linea che non è ancora quella del socialismo, ma già esce fuori dalla logica del capitalismo e muove nella direzione del socialismo». In questo percorso, nel quale «il socialismo ci guarda da ogni finestra del capitalismo moderno»[16], è necessario e possibile realizzare la più ampia unità e collaborazione di forze sociali, culturali e politiche.

7.Il pensiero e la strategia di Berlinguer hanno una dimensione globale, ma l’epicentro della sua azione è l’Europa. Nel discorso pronunciato 18 luglio del 1979 nella prima seduta del Parlamento europeo eletto a suffragio universale, senza nascondere le diversità di posizioni con altri partiti comunisti, egli sottolinea la necessità di «sostanziali convergenze» nell’impegno volto a far avanzare nel mondo «la funzione di pace, di cooperazione e di progresso di un’Europa nuova, nella quale il socialismo - un socialismo nella libertà - si affermi come la via maestra per arrestare il declino di questa parte del nostro continente […] e per rinnovarne profondamente le strutture, i modi di vita, le classi dirigenti»[17].

«Al movimento operaio dell’Europa occidentale - aveva precisato qualche mese prima - spetta il compito storico di cogliere in tutta la sua portata la dimensione di questo processo e di farsi forza propulsiva e dirigente della costruzione di un’Europa comunitaria democratica, progressista e pacifica, che muove in direzione del socialismo»[18]. Un’impostazione che sarà confermata e arricchita nella relazione al XVI congresso del Pci nel marzo 1983 - l’ultimo al quale Berlinguer ha partecipato prima della morte -, dove sostiene che le idee e le pratiche del socialismo devono radicalmente rinnovarsi perché, in presenza di diversi fattori che interagiscono contestualmente sullo scenario globale, «la storia umana - e per i pericoli e per le possibilità - è giunta a un momento per certi aspetti supremo del suo cammino». Tali fattori li individuava in sintesi come segue.

La tendenza alla sostanziale unificazione su scala mondiale della vicenda dell’umanità, in cui sono ugualmente coinvolti i Paesi ad alto sviluppo capitalistico e i Paesi del “terzo” e “quarto” mondo. La rivoluzione scientifica e tecnologica, che produce effetti sconvolgenti sui modi di lavorare e di vivere e quindi «sulla politica, e sull’attività dei suoi organismi (partiti e Stati)». Il mutato carattere della guerra, che, con l’uso delle armi atomiche e termonucleari e di altre armi di sterminio in caso di deflagrazione di un conflitto tra Usa e Urss, «porterebbe alla distruzione dell’intera civiltà umana»[19].

Un rischio, questo, che Berlinguer vedeva accrescersi in conseguenza dell’inasprimento delle tensioni alimentate dalla guerra fredda. E che quindi imponeva un’iniziativa prioritaria sul terreno della sicurezza e della distensione, per affermare una pace stabile e duratura. Premesso che la lotta per la pace non elimina la lotta di classe, ma non coincide con essa perché potenzialmente è molto più ampia e pone la stessa lotta delle classi subalterne su un terreno più avanzato, Berlinguer ritiene che l’Europa, un’Europa «né antisovietica né antiamericana», possa giocare un ruolo da protagonista per far avanzare un processo di coesistenza pacifica e di distensione tra i due blocchi.

8.Nella sua visione la coesistenza non è la presa d’atto e il consolidamento dello statu quo, vale a dire della spaccatura del mondo in due. Bensì un processo dinamico, volto al superamento dei blocchi contrapposti attraverso l’isolamento delle forze dell’imperialismo bellicista e delle politiche di potenza. Ciò che comporta lo smantellamento delle basi militari in un complessivo processo di disarmo bilanciato, nel quale siano garantite la libera autodeterminazione di ogni popolo e la piena sovranità di ogni Stato. Una visione di grande dinamicità a tutto campo: che delinea un nuovo internazionalismo e ricerca punti di incontro e di azione comune con altre forze; mentre considera decisivo il rapporto Nord-Sud, in cui l’Europa gioca un ruolo centrale come porta aperta sul Mediterraneo; e perciò mira al consolidamento dei rapporti con i movimenti di liberazione e con i Paesi di recente indipendenza.

Nella difficile e contrastata lotta per far avanzare l’Europa verso la conquista della sua autonomia, che avrebbe potuto portare a esiti imprevedibili nella configurazione del mondo, Berlinguer si incontra e interagisce con le posizioni più avanzate della socialdemocrazia, espresse allora da Olof Palme e da Willy Brandt con la sua ostpolitik. Un rapporto segnato da alti e bassi, che entra in crisi quando il leader della socialdemocrazia tedesca e capo del governo cede alle pesanti pressioni dell’amministrazione Nixon, dimettendosi e lasciando l’incarico a Helmut Schmidt. Il cancelliere del riallineamento europeo all’egemonia degli Usa, che nel 1976 fu tra i più accesi sostenitori del veto americano all’ingresso del Pci nel governo del Paese.

Solo negli anni seguenti si riannoderà un dialogo proficuo con la socialdemocrazia, o più precisamente con una parte di essa. Berlinguer, che aveva ipotizzato un governo mondiale come espressione di un diverso ordine geopolitico, riallacciandosi al Rapporto Brandt del 1980, propone una Carta della pace e dello sviluppo «che abbia al centro il tema di un nuovo rapporto tra Nord e Sud del mondo, dell’interdipendenza e della cooperazione dei popoli, della equa distribuzione delle risorse: del cibo, dei capitali, delle risorse energetiche»[20].

Molto attento alla realtà dei rapporti di forza, il segretario del Pci sostiene che il superamento dei blocchi contrapposti, e a maggior ragione l’uscita unilaterale dalla Nato, non si può porre come pregiudiziale nell’Europa divisa in aree d’influenza tra Usa e Urss, ma si può ottenere solo se va avanti il processo di distensione. Quindi, più che un presupposto, in presenza di due superpotenze dotate di armi di distruzione totale, è un obiettivo da perseguire con un movimento reale e con adeguate iniziative che portino a un progressivo allentamento delle rigidità dei blocchi militari, fino al loro scioglimento e all’affermazione di un nuovo ordine mondiale. Il vero problema, allora, è nell’immediato «come si sta nel Patto Atlantico e quale politica debbono fare il Patto Atlantico e la Nato»[21], lottando per ottenere la riduzione degli armamenti e la soluzione negoziata dei conflitti.


9.Essenziale, in questo processo che comporta una vasta convergenza di forze democratiche e progressiste, è elevare il movimento operaio in Europa al ruolo di classe dirigente. Giacché solo la messa in mora dei vecchi e screditati gruppi di comando e l’avanzata di forze nuove potranno arrestare, nella visione di Berlinguer, il declino dell’Europa occidentale restituendole una funzione di primo piano nel progresso della civiltà e nel far avanzare uno nuovo sviluppo del socialismo.

Sul punto, il giudizio del segretario del Pci è molto chiaro: il socialismo ha bisogno di un generale e profondo rinnovamento. Le sue parole, pronunciate nel marzo 1983, hanno la forza della denuncia e dell’indicazione di un programma d’azione, che con la tempra del combattente Berlinguer aveva cominciato ad attuare anche nel suo stesso partito, ma che la morte inaspettata, colpendolo all’improvviso, gli ha impedito di portare a compimento. «Dal generale panorama dell’epoca nostra - afferma - emerge […] la necessità di portare avanti la lotta per il socialismo su scala mondiale e nei singoli Paesi. Ma emerge anche la necessità di un grande rinnovamento del socialismo. E’ questo il problema che ci appassiona e che il Pci ha posto al centro del suo impegno teorico e pratico. Rinnovamento all’est e all’ovest; al nord e al sud. Generale è l’esigenza di approfondire la comprensione dei tempi attuali e di ridare vita a quella creatività che è la linfa di ogni teoria e prassi rivoluzionaria»[22].

Dunque, rinnovamento in tutti i campi. Che deve muovere dal principio teorico e ideale secondo cui per liberare l’uomo, «perché egli possa affermare in modo pieno la sua dignità di persona, è necessario un processo generale di trasformazione della società e del potere, ossia un processo rivoluzionario che, avanzando anche gradualmente, non lasci indietro né sfruttati, né subalterni, né discriminati, né emarginati, né diseredati per principio o per destino»[23].

Ciò significa che la politica deve sapersi misurare con la nuova dimensione della questione sociale e della questione ambientale, entrambe alimentate da un unico meccanismo di sfruttamento; che il patrimonio teorico e ideale dei comunisti e del movimento operaio deve saper riconoscere la portata dei nuovi movimenti, in particolare delle istanze rivoluzionarie indotte dalla differenza femminile; che non si possono sottovalutare le spinte al cambiamento provenienti da ispirazioni culturali diverse, come quelle di matrice cristiana.

10.Sulle lotte e sulle prospettive del movimento dei lavoratori in Europa - sottolinea il segretario del Pci - pesano fortemente le divisioni, le difficoltà e le resistenze a realizzare una politica di maggiore integrazione e di effettiva autonomia, facilitando con ciò la linea neoliberista di Reagan e di Thatcher che assesta duri colpi all’economia e alle conquiste sociali del Vecchio Continente, ridisegnando la configurazione delle classi sociali e ponendo su nuove basi il conflitto capitale-lavoro. Prioritaria, in queste condizioni, diventa l’esigenza di allargare le «basi sociali del movimento per una trasformazione socialista»[24], oltre la classe operaia e il movimento operaio tradizionalmente intesi. Questa, a mio parere, è una delle intuizioni di Berlinguer di maggior rilievo teorico e pratico, tuttora di grande attualità.

La ricerca, secondo la sua analisi, va condotta in due direzioni. Da una parte, verso le masse crescenti degli esclusi dal lavoro, che il meccanismo di sfruttamento capitalistico, giunto all’apice del suo dominio, pone ai margini della società in posizione di perenne subalternità, precarietà e incertezza. Dall’altra, in direzione di quelle nuove figure professionali del lavoro intellettuale e di ricerca (i camici bianchi) che la rivoluzione scientifica e digitale, mentre riduce il peso numerico della classe operaia tradizionalmente intesa (le tute blu), porta alla ribalta nella «lotta per la trasformazione della società» in quanto sfruttate «dalla appropriazione privata del profitto»[25].

Si tratta di una questione cruciale, che oggi, di fronte alla frantumazione che alimenta la guerra tra “garantititi” ed “esclusi”, propone in termini del tutto inediti l’unificazione del lavoro salariato ed eterodiretto, di tutti coloro, uomini e donne, che per vivere devono lavorare. Un’area molto vasta e dai confini incerti, dove, come è stato giustamente notato, «non c’è un solo protagonista - il knowledge worker o il precario o l’erede metropolitano dell’operaio massa - ma l’insieme delle figure lavorative»[26]. Ed è proprio qui, su questo terreno, che la sinistra gioca una partita decisiva nella costruzione di un’altra Europa.

Se costruire una civiltà più elevata, ossia un nuovo socialismo, vuol dire lottare per il «superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni» assicurando «la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento tra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura»[27], come egli stesso chiarisce, allora da Berlinguer e dalle sue analisi occorre riprendere il cammino. Nelle condizioni di oggi, appare sempre più chiaro che per la costruzione di un’altra Europa è indispensabile la presenza e l’affermazione in tutto il continente di una libera a forte coalizione politica dei nuovi lavoratori del XXI secolo, con caratteristiche popolari e di massa.

All’inizio di questo nostro travagliato secolo, le parole del segretario del Pci, pronunciate nel 1984, appaiono profetiche: «Si parla ormai di fallimento della Comunità. C’è chi raccomanda di tornare indietro all’Europa delle patrie. Ma non è pensabile che la via d’uscita dalla crisi della Comunità europea possa consistere nel ripiegamento di ogni singolo Stato nella sua peculiare identità. Una frammentazione dell’Europa in Stati nazionali costituisce, contrariamente a quanto avvenne nel secolo scorso, un freno allo sviluppo, alla crescita della civiltà in Europa e anche alla crescita della civiltà su tutto il pianeta. L’Europa dei popoli e dei lavoratori è l’unica Europa possibile»[28].

Questa è esattamente la questione strategica che sta di fronte a noi. E i segnali che vengono dalla Grecia e dalla Spagna ci dicono che si può aprire un percorso nuovo.

Note

[1] Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, Milano 2015
[2] L’intervista di Enrico Berlinguer è stata ripubblicata dal Fatto Quotidiano il 19 maggio 2014
[3] Intervista di Altiero Spinelli a Romano Ledda, L’Unità, 11giugno 1984
[4] E. Berlinguer, Relazione al XV congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 37.
[5] E. Berlinguer, Un’altra idea del mondo, Antologia 1969-1984 a cura di P. Ciofi e G. Liguori, Editori Riuniti university press, Roma 2014, p. 58
[6] Ivi, pp.131, 130
[7] E. Berlinguer, Rapporto e conclusioni al CC e alla CCC in preparazione del XIV congresso del Pci, in La questione comunista, Editori Riuniti, Roma !975, p. 827
[8] Ivi, p.844
[9] A. Spinelli, E. Rossi, Il manifesto di Ventotene, Mondadori, Milano 2014, pp. 26, 27
[10] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 71
[11] Il Foglio, 16 dicembre 2013
[12] Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2014
13] E. B., Un’altra idea del mondo, cit., p. 160
[14] Ivi, p. 201
[15] Ivi, pp.175, 179
[16] E. Berlinguer, Rapporto e conclusioni al CC…, cit.pp.827-28, 843
[17] E. Berlinguer, Discorsi al Parlamento europeo, Editori Riuniti, Roma 2015, pp. 21-22
[18] E. Berlinguer, Relazione al XV congresso…, cit., p. 36
[19] E. Berlinguer, Relazione al XVI congresso del Pci, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 22,23
[20] Alexander Höbel, Berlinguer e la politica internazionale, in Critica marxista, n. 3-4 2014. Vedi anche: Raffaele D’Agata, Jalta e oltre. Sicurezza collettiva, stabilità geopolitica e prospettiva socialista, Ciclostilato; Fiamma Lussana, Il confronto con le socialdemocrazie e la ricerca di un nuovo socialismo nell’ultimo Berlinguer in Francesco Barbagallo e Albertina Vittoria, Enrico Berlinguer, la politica italiana e la crisi mondiale, Carocci, Roma 2007
[21] E. Berlinguer, Relazione al XVI congresso del Pci, cit., p. 27
[22] Ivi, p.32
[23] Ivi, p.38
[24] Ibidem, p. 36
[25] Cit., p. 36
[26] Benedetto Vecchi, il manifesto, 11 novembre 2014
[27] E, Berlinguer, Un’altra idea del mondo, cit., p.306
[28] Critica Marxista, 1984

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