La Repubblica, 16 marzo 2015
Se non è un trionfo poco ci manca, i seggi sono chiusi da poco più di un’ora e Felice Casson stappa già lo spumante alla «Casa Fortuna », a Mestre. Dieci anni dopo la sconfitta alle elezioni contro Massimo Cacciari, l’ex pm si prende un pezzo di rivincita alle primarie: un civatiano che spazza via due renziani, e così sarà lui il candidato sindaco di Venezia il prossimo 31 maggio. Con il 55,6 per cento dei voti ha battuto il giornalista della Nuova Venezia Nicola Pellicani, appoggiato dal Pd renziano (24,4 per cento); e l’ex consigliere comunale e avvocato Jacopo Molina (20%), renziano pure lui ma senza il grosso del partito alle spalle.
Per il senatore, 61 anni, era sì una vittoria attesa, con i sondaggi degli ultimi giorni (tutti ufficiosi) che lo davano in vantaggio, ma non con uno stacco così netto. L’impostazione legalitaria della sua campagna elettorale, in contrapposizione al cosiddetto «apparato», lo hanno premiato in una città ancora scossa dall’arresto, nel giugno scorso, del sindaco pd Giorgio Orsoni, rimasto invischiato nello scandalo legato al Mose. «Quella vicenda ha pesato molto sul voto — spiega un deluso Pellicani — un voto che comunque ha dato una indicazione netta. Peccato perché ho avuto poco tempo per far conoscere la mia proposta, adesso però guardiamo avanti, le nostre idee restano valide». E’ un voto che potrebbe dare un segnale anche a livello nazionale, visto che Casson (area Civati) ha avuto spesso una posizione di dissenso verso il governo di Matteo Renzi. E visto che a livello locale la sua candidatura ha trovato l’adesione di Sel, Rifondazione e ambientalisti, in antitesi rispetto alle dinamiche romane.
Scontri interni a parte, il centrosinistra può comunque dirsi soddisfatto: nonostante gli scandali dei mesi passati, la partecipazione è stata buona. Nei 36 seggi dislocati tra Venezia, Mestre e Marghera sono andati a votare circa 13mila cittadini, addirittura qualche decina in più rispetto al precedente del 2010, quello in cui prevalse proprio Orsoni. Le votazioni erano aperte anche agli stranieri (trecento elettori in tutto) e agli under 18: ma solo diciotto minorenni si sono recati alle urne, numero abbastanza deludente. Nessun problema ai seggi, al massimo un po’ di fila nel centro storico della laguna. Unica nota movimentata di una giornata sonnacchiosa e di attesa, le Sentinelle in piedi in piazza a Mestre; una cinquantina di persone scortate dai carabinieri, con i militanti dei centri sociali a fronteggiarli.
Felice Casson viene accolto dai militanti in piazza Ferretto. Gli squilla il telefono in continuazione.
Chi è, Renzi?
«No, no, ma qualcuno da Roma ha già chiamato, non si preoccupi, non sono isolato come dicevano. Dai capigruppo alle Camere al vicesegretario. Ora mi ha appena scritto un esponente dell’Udc, me lo devo conservare questo messaggino».
Questo voto ha un valore nazionale?
«Non credo, è figlio di quello che è accaduto in questi mesi. Il nostro popolo ha chiesto di voltare pagina con forza, nel nome della trasparenza, della legalità e dell’etica. Un segnale importante, ha vinto tutta Venezia».
Cacciari non la sosteneva, cosa starà pensando adesso?
«Chi se ne importa, davvero. Quando giorni fa ha fatto una conferenza stampa per dire che sosteneva Pellicani mi sono detto: è andata, sono alla disperazione completa. Ora comincia una nuova era».
Per lei è comunque una rivincita, a distanza di dieci anni.
«Era un’epoca fa, ma c’è una differenza rispetto ad allora: stiamo messi molto peggio».
E’ fiducioso per le elezioni «vere»?
«Se il centrosinistra resta unito vinciamo senza alcun problema, chiunque si candidi dall’altra parte».
Perché dice «se»?
«E’ un’ipotetica delle realtà del terzo tipo, diciamo. Spero che nessuno voglia pensare ad altro...».
I suoi avversari dicono che lei è l’uomo dei no...
«Sono per una politica pulita, trasparente, di controllo. So benissimo che non possiamo limitarci a dire sempre no bloccando le attività territoriali, economiche, commerciali, imprenditoriali e così via che ci sono sul porto e sulle grandi navi. Ma dobbiamo essere in grado, e sono certo che lo saremo, di mettere in pratica proposte credibili e attuabili da contrapporre a chi vuole arricchirsi con il malaffare, a chi anzi lo ha fatto negli anni passati».
Senta, ma alla fine si farà questo Mose?
«Ormai i lavori sono arrivati a oltre l’80 per cento e se tutto va bene dovrebbe entrare in funzionamento a metà 2017. La grande questione sarà coprire i costi di gestione e manutenzione dell’opera. Servirà rinegoziare con il governo il patto di stabilità».
Privatizzerà il Casinò, se diventerà sindaco?
«No, vendere i gioielli di famiglia è una strategia miope» ( m. p.)
Benvenuta la mossa di Landini. A lungo attesa, ha il pregio di essere spiazzante. Due temi finora hanno provato a incontrarsi, ma senza successo. Quello del partito, di un’organizzazione politica elettoralmente credibile da opporre alla deriva moderata del Pd, e quello delle politiche: c’è modo di affrontare la cosiddetta crisi senza scaricarne i costi sui ceti deboli, che sono ormai una parte largamente maggioritaria della popolazione, giacché includono anche una fetta dei ceti medi, che si erano finora ritenuti protetti
Giorni fa D’Alema dava per perso il referendum confermativo delle controriforme costituzionali. Per tanti versi ha ragione. Quello screanzato che tra un ultimatum e l’altro ha preso in ostaggio il Pd e i suoi parlamentari, insieme a una parte dell’opposizione di destra, scatenerà una tempesta mediatica. Che non sarebbe però irresistibile ove si riuscisse a mostrare al paese che, una volta approvate quelle riforme, non solo i ceti popolari e il mondo del lavoro saranno definitivamente alla mercé dell’esecutivo e delle sue politiche, ma che lo stesso accadrà a una parte dei ceti medi tradizionalmente meno sensibili alla questione democratica.
Che s’introduca una tassa che colpisca i patrimoni è piuttosto ovvio. Ma l’entità e il direzionamento di tale tassa è da vedere. Che si dia una sforbiciata alla pensioni più elevate è ragionevole. Dove si collochi la soglia oltre cui intervenire non è detto. Lo deciderà un governo senza contraddittorio, come quello che si prospetta a riforme approvate: un governo asservito alla ristrettissima minoranza di cui sopra. Ai ceti medi vanno mostrati i rischi che corrono: non di pagare il giusto, ma anche assai di più. Non dimentichiamo che lo stato sociale nacque da una larga alleanza tra ceti popolari e ceti medi. Chi può promuoverla? Un nuovo partito di sinistra?
La mossa di Landini ha il pregio di aggirare la questione. Non che i partiti non servano, ma in questo momento sono diventati così impopolari che fare un nuovo partito non porterebbe a nulla. Lo provano gli insuccessi dei tentativi compiuti finora di costituire un nuovo partito a sinistra, o magari una coalizione elettorale, che comunque somiglia a un partito. I partiti sono vittima di una duplice ingiusta aggressione, in atto da decenni. Sono vittime di un’aggressione da destra, conservatrice e plebiscitaria, che imputa ai partiti i loro ben noti difetti, ma che ha in odio sopra ogni cosa il loro radicamento nella popolazione. Anche un partito conservatore non può concedersi il lusso di interloquire solo coi ceti superiori. Se vuole prendere tanti voti, deve offrire qualcosa anche al resto della società. Può offrire forme avvelenate di razzismo e populismo, come fanno la signora Le Pen e Salvini, ma deve offrire anche un po’ di protezione. I ceti ristrettissimi non sopportano neanche questo. Sognano la democrazia del plebiscito e del leader che governa a loro vantaggio senza rispondere a nessuno.
La seconda aggressione i partiti l’hanno subita da sinistra. Che quella dei partiti non sia una storia né di moralità, né di democrazia interna lo sappiamo. Benché non tanto come si racconta. E non sempre. Vi sono casi in cui i partiti hanno incluso migliaia di militanti, iscritti, simpatizzanti e li hanno fatti sentire a casa loro. Ignorarli e far di tutt’erba un fascio è errore grave. Comunque, l’effetto democratico dei partiti va cercato da un’altra parte. I partiti, con l’aiuto dei sindacati, hanno trasformato masse disperse e informi di operai, contadini, impiegati, uomini e donne in soggetti politici rispettati e temuti. Senza i partiti socialisti, il mondo del lavoro non sarebbe esistito politicamente. È il caso di prenderne atto.
Va tuttavia preso atto anche del fatto che la critica concentrica ai partiti è arrivata a bersaglio. Oggi proporre la costituzione di un nuovo partito verrebbe, almeno in Italia, accolta con indifferenza. Per quanto diversi tra loro, Podemos e Syriza suggeriscono di muoversi altrimenti. Ovvero di agire anzitutto sul fronte delle politiche, o, meglio, sul senso comune. There is no alternative, diceva la signora Thatcher e il ceto politico, salvo frange marginali, le è andato appresso: non c’è alternativa. L’alternativa invece c’è. Potrebbe essere in peggio: neoliberalismo più fascismo mediatico. Ma può essere in meglio. Basta crederci, ragionarci sopra e organizzarsi per mettere in circolo l’idea che l’offensiva dei mercati che sta devastando la società non è irresistibile. Magari attivando — secondo la lezione del movimento operaio d’una volta — forme solidaristiche e di aiuto reciproco utili a resistere già adesso. Attenzione: non è inimmaginabile un fascismo brutale come quello dello scorso secolo. Ma si può immaginare un fascismo subdolo e strisciante, così si può immaginare una somministrazione subdola, e non brutale come in Grecia, delle ricette delle Troika. Anzi: è quello che il signor Renzi sta facendo e vuol seguitare a fare, senza neanche i (modesti) intralci che al momento lo rallentano.
La nostra politologa preferita ci regala un'illuminante analisi del regime verso il quale, a colpi di frusta, ci avviamo. Segnaliamo in particolare il suo scritto a chi ancora nutre qualche illusione sulla democraticità del piccolo Cesare, oppure tarda a staccarsene.
Italianieuropei, marzo 2015, scaricato da Accademia.edu
Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).
Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica).
Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione La riforma della Costituzione avviata dal Partito Democratico, unita alla nuova legge elettorale, che la completa, rischia di portare l’Italia verso una democrazia di stampo cesaristico. Quale sicurezza può darci un assetto istituzionale privo del contrappeso al potere costituito rappresentato dal bicameralismo, con una diminuita prerogativa del diritto di suffragio e ostaggio del potere del leader, dell’esecutivo e della sua maggioranza?
Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).
Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica). Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione
di controllo che dovrebbe esercitare l’opposizione; solo di riflesso, perché questa funzione ha efficacia solo se le opposizioni hanno una voce non flebile e non fungono da materiale d’arredo, seggi che occupano uno spazio. Ci troviamo alle soglie di un cesarismo per consenso elettorale e un Parlamento monocamerale che la legge elettorale predisporrà verso una forte vocazione maggioritarista: concordia fidei et populi.
Nella storia politica del nostro paese governare con il dissenso e il pluralismo si è dimostrato più gravoso che allinearsi sotto un’insegna. Governare per mezzo della discussione e del dissenso, secondo una definizione canonica del governo rappresentativo, è un lavoro duro che chiede stamina e pazienza, insieme a tolleranza e fiducia nell’avversario, qualità etico-politiche ardue da formare e riprodurre. Fidarsi degli avversari – vivere tra partigiani amici – comporta diverse cose insieme: prima di tutto, a chi governa impone di non barare al gioco e non cambiare le regole in corso d’opera; e per chi perde e va all’opposizione implica continuare a stare al gioco sperando nelle future consultazioni e senza far saltare il banco.
Il governo rappresentativo vuole un consenso delle norme e delle regole proprio perché vive di conflitto politico e non di politica consensualista. Quando il consenso delle norme e delle regole stenta e non piace è al secondo, al consenso politico o propagandistico, che ci si rimette. Unire il popolo in un’idea, in una fede, in un uomo o in un partito è tutto sommato non troppo complicato in un paese che ha una secolare tradizione religiosa pressoché omogenea e, soprattutto, l’abituale familiarità con un leader che incorpora la fede e i fedeli sotto l’egida della suprema autorità. Il popolo italiano è unito in alcune credenze e abitudini di fondo (religiose e morali), cioè è unito nei mores, anche se è fazioso e litigioso nella divisione della torta politica, per dirla con James Harrington, ovvero nelle questioni direttamente legate agli interessi locali, territoriali, di fazione o di ceto.
La società civile è molto divisa e quasi incapace di trovare una simpatia unitaria (brutale nel linguaggio e nelle forme di interazione la descriveva Giacomo Leopardi). Essa è però desiderosa di avere una rappresentazione unitaria che si adatti ai suoi mores. L’unità del corpo cattolico-nazionale in una figura rappresentativa: una visione antiliberale della rappresentanza che ha sul suolo patrio una radicata attrazione e una sperimentata pratica.
Con l’eccezione di alcuni anni di interregno segnati da momenti conflittuali – di transizioni da un’unità consensuale a un’altra –, le fasi lunghe della politica nazionale sono state consensuali: o per consenso trasformista o per consenso dispotico o per consenso elettorale. Tanto per restare alla nostra epoca: dopo una dura fase di conflittualità politica seguita alla fine del consenso gestito dalla guerra fredda, oggi ritorniamo al partito nazionale e della nazione, incarnato in un leader e con il progetto di una nuova carta costituzionale.
Alla quale nuova Costituzione si doveva arrivare a tutti i costi. Non vi è alcuna emergenza ovviamente. La gestione di questa riforma – dirigistica a tutti i costi, anche spedendo sull’Aventino le minoranze – è coerente all’esito desiderato: la Costituzione trasformata in un decreto governativo che il Parlamento ha dovuto approvare (sapendo molto bene che nessun tempo limite esiste in questo caso, perché nessun decreto costituzionale può esistere e perché nessuna norma impone notti bianche a votar dormendo – anche se l’ideologia dell’emergenza ha governato l’intero processo di discussione costituzionale conquistando tutti, anche i critici). Questa è la logica dell’emergenza unitarista, del traghettamento verso la concordia fidei et populi.
Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà stava procedendo da più di due decenni: il bisogno di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egregiamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggioranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.
Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà tava procedendo da più di due decenni: il bisogno di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non
ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egre- giamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggio- ranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.
Servirebbe la penna arguta, ironica e graffiante di un Carlo Marx per parlare del bonapartismo italiano, fuoco sotto la cenere e oggi rigenerato per plebiscito da un Parlamento di fatto già monocamerale, da una società vogliosa di ricambio generazionale e cetuale, da un capitalismo corporate law model, un ordine, più che liberale, in effetti feudale, basato sulla devoluzione massiccia del pubblico sovrano statale (quale che sia, nazionale o sovranazionale, come si vede dalla resistenza dell’Unione europea a essere più che un’unione monetaria). A confermare questa tendenza è la politica del governo italiano: con la messa sul mercato delle banche popolari; con la dichiarazione contenuta nel progetto della Buona scuola per cui lo Stato dichiara di non voler più coprire le spese delle scuole statali; con la trasformazione piena e completa del lavoro in una merce. Questa politica amica del corporate law delle multinazionali ha un’ideologia unificante nella favola bella del merito individuale, artefice delle nostre vittorie e sconfitte, condito con la carità cristiana per chi fallisce. Liberismo per i vincitori, religione per i vinti. Nei convegni e nelle riviste specializzate questo fenomeno è analizzato come un esito della trasformazione del pubblico in un ordine legale e istituzionale funzionale al capitale multinazionale, a una lex mercatoria che va a sostituire poco alla volta il diritto pubblico degli Stati e i lacci costituzionali. Se Marx dovesse descrivere la trasformazione italiana da democrazia parlamentare a democrazia cesaristica lo farebbe, pro
prio come quando descrisse il destino bonapartista della Repubblica francese del 1848, nel contesto della trasformazione globale del capitale. L’Italia microcosmo. Ma non è necessario immaginare sce- nari da filosofia della storia ottocentesca per leggere la revisione cesaristica della Costituzione del 1948. La Costituzione è un nobile compromesso tra par ti. Ha successo se le parti in gioco riescono a incap sulare i loro calcoli di utilità contingente all’interno di una utilità bene intesa. È questa la premessa per il perseguimento di quel che chiamiamo “interesse generale”.
La saggezza costituzionale non è pertanto identica alla saggezza pratico-politica, perché non è celebrativa del presente e delle sue strategie di breve periodo in quanto deve saper prevedere le possibili disfunzioni che la sua applicazione può comportare e deve saper incanalare il comportamento degli attori politici e istituzionali in modo che la sua autorità non sia mai scalfita ma, al contrario, irrobustita. In questa capacità di anticipare il peggio e di neutralizzarlo sta la sua saggezza e la ragione della sua durata. Domanda: che sicurezza può darci una Costituzione votata al cesarismo e al maggioritarismo? Se scrivere Costituzioni, dice Stephen Holmes, è paragonabile alla saggezza di Peter sobrio che pensa a sé nel caso che si ubriachi, allora questa nuova Costituzione è davvero poco saggia, perché non ci protegge da potenziali leader pessimi, dalle ubriacature populiste, quali che siano.
La saggezza costituzionale è opera non di imperativi categorici, rigidi per loro natura, ma dell’imperativo ipotetico: se vuoi A devi volere B. Bisogna chiedersi allora quale sia la posta in gioco, il fine, di questa riforma. Sapevamo certamente i fini della Costituzione del 1948: i diritti che garantiscono le eguali libertà sono contenuti nella prima parte e la struttura dello Stato è così fatta da renderli sicuri perché protesa a limitare il potere della maggioranza, quale che essa sia. Forse i nostri Costituenti non avevano una forte cultura liberale, ma l’esperienza fascista li ha fatti liberali obtorto collo, e grazie a ciò abbiamo avuto una Costituzione democratica ottima. Essi avevano molto chiara l’idea che sarebbe illogico pensare che la prima parte sia fatta di principi immobili, adattabili alle più diverse ingegnerie costituzionali.
E per questa ragione dobbiamo usare l’imperativo ipotetico per valutare il senso della Costituzione. Dobbiamo sapere che ogni Costituzione segue questa logica: se vuoi A devi volere B. Ovvero, i modi di attuazione della democrazia elettorale, la struttura istituzionale dello Stato, i rapporti tra i poteri sono condizioni che devono servire a far funzionare la macchina dello Stato garantendo e rafforzando al contempo i diritti fondamentali contenuti nella prima parte. Ad esempio: in un’unità statale non federale i diritti civili e politici fondamentali sono sicuramente meglio garantiti se la sovranità popolare non grava sul corpo sociale in maniera assoluta e libera quanto più possibile da vincoli. La regola di maggioranza rende la forza della sovranità popolare – soprattutto negli Stati unitari – quasi assoluta, resa fatale dal fatto di riposare sulla volontà stessa dei cittadini.
È per contenere senza conculcare il potere invincibile del numero che si rendono necessari due tipi di contrappesi: il potere giuridico e le forze sociali. Il loro contropotere consiste nel fare affidamento sul giudizio (che è potere negativo per eccellenza) e sul pluralismo degli interessi, dei corpi associativi, delle idee. Spezzare l’omogeneità e l’unione concordataria del corpaccione sovrano è la condizione per ottenere un rispetto compiuto dei diritti sanciti nei fondamenti.
Per rendere più certa la limitazione del potere costituito, ai contrappesi giuridici e della società civile si devono aggiungere quelli istituzionali, ad esempio il bicameralismo (non perfetto ma comunque eletto per suffragio diretto) e i sistemi elettorali che non riconoscono come essenziale solo il diritto della maggioranza di governare ma anche quello dell’opposizione di avere una voce capace di controllare, limitare e, se necessario, bloccare il potere della maggioranza, infine di essere una permanente alternativa possibile.
Il disegno istituzionale deve essere giudicato in relazione allo scopo che intende ottenere e all’efficacia con la quale l’ottiene. In questo senso esso è un esercizio di imperativo ipotetico. E l’imperativo ipotetico che guida la nuova Costituzione in corso d’opera ci porta in una direzione che non assomiglia a quella che volevano i nostri Costituenti; ci porta verso una democrazia cesaristica. Per questo, abbiamo tutte le ragioni per esserne intimoriti e preoccupati, poiché le parti della Costituzione del 1948 non sono come camere stagne: quando si cambia una parte i mutamenti si riflettono sulle altre parti. La prima parte, quella che sancisce i diritti eguali, è messa a repentaglio da un Parlamento monocamerale, da una diminuita prerogativa del diritto di suffragio (un ritorno addirittura all’ottocentesco suffragio indiretto) e da un’impennata di potere dell’esecutivo e della sua maggioranza.
Qui potete scaricare il testo in formato .pdf, leggerlo nella formattazione originale e, se proprio volete, stamparvelo (preferibilmente su carta riciclata), leggerlo e annotarlo con comodo.
Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2015, con postilla
Non è un sottosegretario qualsiasi quello indagato a Catania, secondo l’anticipazione – non smentita e non confermata dalla Procura – del quotidiano La Sicilia. E non è un appalto qualsiasi quello che, secondo l’ipotesi dell’accusa, sarebbe stato truccato. Il sottosegretario Giuseppe Castiglione è nell’ordine: l’uomo forte del Ncd, l’asse portante del governo Renzi e il grande sponsor dell’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella. L’appalto incriminato invece è invece quello da 98,7 milioni (triennale e assegnato prima in via provvisoria nel 2011 e poi definitivamente nel 2014) del centro di assistenza ai rifugiati più grande di Europa: il Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Mineo (Catania), con i suoi 4 mila ospiti. Castiglione è stato soggetto attuatore, in qualità di presidente della Provincia di Catania, nella fase di emergenza per diventare presidente del Consorzio Calatino Terra di Accoglienza, composto dagli enti locali, per gestire il centro. Quando è stato eletto deputato nel 2013 e poi nominato sottosegretario all’Agricoltura da Enrico Letta e da Renzi, Castiglione ha lasciato il posto al sindaco Ncd di Mineo Anna Aloisi.
Le indagini per l’abuso d’ufficio e la turbativa d’asta della Procura di Catania, guidata da Giovanni Salvi e della Procura di Caltagirone, guidata da Giuseppe Verzera, erano in corso da mesi. Gli indagati sarebbero secondo le indiscrezioni ben undici. Un’accelerazione decisiva è arrivata quando l’Autorità nazionale anticorruzione ha spedito alla Procura di Catania il parere n.15 firmato da Raffaele Cantone e depositato il 3 marzo del 2015. La questione è giudiziaria ma anche politica. Sul Cara di Mineo si regge l’economia e il consenso elettorale della zona. «All’inizio non volevano il centro adesso se provi a levarglielo te ammazzano perché... 350 persone ci lavorano. Ma scherzi? Meglio dell’Ilva», chiosava Luca Odevaine nelle conversazioni intercettate dal Ros dei carabinieri per Mafia Capitale.
L’inchiesta è un colpo al cuore del Ncd che a Mineo prende il 39 per cento. Odevaine spiegava al suo commercialista che Castiglione sarebbe stato il vero dominus dell’assegnazione dell’appalto iniziale del 2011 (poi confermato dalla gara del 2014) a un consorzio che include il Consorzio Sisifo, una cooperativa rossa della Legacoop, e le coop bianche vicine a La Cascina e a Comunione e Liberazione più il Consorzio Sol Calatino (privato) che ha un nome simile a quello del Consorzio Calatino Terra di Accoglienza, guidato un tempo da Castiglione, stazione appaltante.
Cantone, lo sceriffo nominato da Renzi, ha avviato la sua azione contro il feudo del Ncd di Alfano su istanza della Cot società cooperativa: l’unica partecipante alla gara oltre all’associazione delle imprese (vicine a Castiglione e a Odevaine) uscenti e vincenti. Nel suo parere, Cantone scrive: «L’assenza di concorrenza e di convenienza per la stazione appaltante è dimostrata dal fatto che, oltre all’istante (Cot cooperativa, ndr) v’è stato un solo concorrente che ha partecipato alla procedura – il gestore uscente – cui è stato aggiudicato l’appalto con un ribasso molto ridotto pari al 1,00671 per cento». Odevaine spiegava così al suo commercialista Stefano Bravo l’inizio della storia nel 2011: «Mi è venuto a prendere lui (Castiglione, ndr) all’aeroporto, mi ha portato a pranzo, arriviamo al tavolo... c’era pure un’altra sedia vuota... dico eh “chi?”. E praticamente arrivai a capi’ che quello che veniva a pranzo con noi era quello che avrebbe dovuto vincere la gara (ride)».
Odevaine, poi arrestato con l’accusa di associazione mafiosa per altri fatti, non fa il nome del “predestinato” che sarebbe stato invitato a pranzo da Castiglione. I membri della cordata vincente che gestiscono oggi il Cara grazie alla gara da 97,8 milioni, oggetto dell’inchiesta catanese, sono gli stessi di allora: una coop rossa (Sisifo), una serie di coop bianche legate alla Cascina e il Consorzio Sol Calatino guidato da Paolo Ragusa, uomo vicino a Castiglione. «Se la vicinanza vuol dire amicizia, allora dico a chiare lettere che sono veramente onorato e orgoglioso di avere un amico come Giuseppe Castiglione, persona per bene che ha sempre avuto a cuore lo sviluppo del territorio» scriveva Ragusa sul sito del Sol Calatino, senza nascondere di avere appoggiato il progetto dell’Ncd.
Odevaine inserisce la storia del Cara di Mineo nel contesto politico nazionale che presiede ai governi Letta e Renzi: “Perché loro adesso... Castiglione si è avvicinato molto a Comunione e liberazione, insieme ad Alfano e adesso Comunione e liberazione di fatto sostiene strutturalmente tutta questa roba di Alfano e del centrodestra... Castiglione. Sono tra i principali finanziatori di tutta questa roba sì... sta dentro Lupi e infatti è il ministro delle Infrastrutture eh... e Castiglione fa il sottosegretario... all’Agricoltura ed è il loro principale referente in Sicilia... cioè quello che poi gli porta i voti, ce li hanno tutti in Sicilia”. Effettivamente il vero azionista di riferimento del Ncd non è Angelino Alfano o Maurizio Lupi, bensì proprio Castiglione: Ncd ha ottenuto il 9,1 nella circoscrizione isole e il più votato, con 56.446 voti, è stato Giovanni La Via, proprietario, “a sua insaputa”, della sede del consorzio che gestisce il Cara di Mineo, sostenuto alle elezioni proprio da Castiglione. Il ministro Maurizio Lupi si è fermato a 46.414 preferenze. I numeri parlano da soli.
L'attuale sottosegretario all'agricoltura del governo Renzi Giuseppe Castiglione, già presidente della provincia di Catania, vicepresidente della regione e parlamentare europeo di Forza Italia, quindi coordinatore regionale Pdl, era stato arrestato e condannato in 1° grado (poi assolto) proprio per turbativa d'asta (appalti dell'ospedale Garibaldi a Catania). È il suocero di Pino Firrarello, già sindaco di Bronte (Dc, andreottiano, poi Forza Italia), come lui condannato per corruzione e turbativa d'asta e prosciolto per prescrizione, a sua volta cugino del noto Vito Bonsignore (per capirci, quello della Ragusa-Catania e adesso, con la benedizione del ministro Lupi, della Orte-Mestre), nonché, per gli interessati, storico cementificatore del parco dell'Etna. Visto che le intercettazioni che riguardano questo signore sono di pubblico dominio da mesi, c'è da domandarsi come mai nessuno ne abbia chiesto subito le dimissioni. Forse in attesa della Cassazione, o di qualche prescrizione?
La Repubblica, 14 marzo 2015
Seduti al tavolo di Maurizio Landini oggi a Roma ci saranno gli altri due soggetti che insieme alla Fiom si preparano a sorreggere l’esperimento della “Coalizione sociale” anti-Renzi: Emergency e Libera. Con loro, pezzi di Arci, Libertà e Giustizia, sigle studentesche come Rete della Conoscenza e Uds e poi il mondo dei centri sociali, quelli meno radicali. Ma non i partiti come Sel o Prc; su quelli c’è quasi il veto, tanto che ad alcune delle associazioni che parteciperanno al vertice è stato fatto notare che le strade sono due: o si sta nel “campo” delle formazioni politiche oppure si sceglie la via del sindacato delle tute blu. La convocazione è arrivata con una lettera firmata da Landini in cui si legge che «la politica non è proprietà privata ». Per questo serve «promuovere la partecipazione», «superando il frazionamento».
Dall’antimafia ai precari, dagli operai al volontariato. Sono mondi diversi tra loro, uniti dalla mancanza di un referente politico di peso. L’idea è dare il via a un cantiere che sul medio termine (unodue anni di gestazione) punti a diventare un soggetto politico. Per ora ci si limita ad essere “l’associazione delle associazioni”. Landini si muove con i piedi di piombo, teme molto di bruciarsi. «Prima di ogni cosa occorre ricreare un terreno favorevole, anche come mobilitazione e movimento» ripetono gli uomini più vicini a lui. Giorni fa Gino Strada, parlando ai delegati sindacali via telefono dal Sierra Leone, è stato chiaro: «Per un polo di aggregazione impegnato su diritti, pace e uguaglianza io ci sono, per quel che posso fare». E anche il legame personale del sindacalista emiliano con il fondatore di Libera don Luigi Ciotti — che ha presentato una proposta di legge per il reddito minimo, allargando quindi la propria sfera di interesse — è ben saldo.
La “Coalizione sociale” — ragionano in Corso Trieste — avrebbe un’autorevolezza che per certi versi le sigle della sinistra radicale non hanno più. L’assenza di Landini alla Human Factor di Sel a Milano è stata vissuta male da Nichi Vendola. Mentre poche settimane fa Stefano Rodotà, intellettuale vicino al leader dei metalmeccanico, in un’intervista su Micro-Mega definì quei partiti «zavorre ».
Ora la prima vera tappa è la manifestazione del 28 marzo a Roma. C’è solo una possibile variante al disegno di Landini. Cioè il sogno, mai abbandonato, di guidare un giorno tutta la Cgil.
«E sarà stridente ascoltare, dopo questa vicenda, le retoriche invocazioni sull’Europa di pace e prosperità. Anche questa è una guerra. Con vittime umane». Non una guerra, un suicidio collettivo.
Il manifesto, 13 marzo 2015
«Gliela faremo pagare». In questa frase che le cronache sull’ultima riunione dell’Eurogruppo ci rimandano c’è tutto il caso greco. Al di là di ogni questione di merito, è evidente che a Bruxelles si sta giocando una partita politica di massima importanza e che ci riguarda: bisogna punire chi, per la prima volta in 58 anni di storia, ha osato sfidare i vertici dell’Unione europea e ha messo in discussione i criteri di conduzione di quella che dovrebbe essere una comunità. Questo è quel che conta: non deve più accadere, chi ci ha provato deve essere punito. Guai se si aprisse un varco alla politica. Cioè alla condivisione.
Perciò il signor Jeroen Dijssebloem ha alzato il ditino per dire no, sette riforme non ci bastano, ne vogliamo venti. La prossima volta diranno 25, chissà. Contro Varoufakis ci sono diciassette robot che continuano a chiedere al governo Tsipras, forte di un appoggio popolare senza precedenti, di pagare per le malefatte accumulate da chi sarà pur greco, ma è compagno di partito, e di casta, proprio di chi vorrebbe impartire lezioni di moralità: i ministri del governo Samaras. Proprio nelle stesse ore in cui questa scena andava in onda uno di loro, anzi il più importante perché l’ex ministro delle Finanze, Gikas Hardouvelis, veniva accusato di aver esportato illegalmente 450 mila euro in un paradiso fiscale inglese. «Volevo mettere al sicuro il capitale per i miei figli», si è scusato. Poveretto.
Non sono passati neppure due mesi da quando inediti personaggi, diversissimi da chi da sempre aveva comandato il paese, hanno preso le redini della Grecia, trovandosi a dover gestire un immane disastro economico e ormai umanitario. Ma la meravigliosa Europa non è disponibile a dargli tempo affinché possano riparare e riavviare lo sviluppo del paese, nonostante sempre più numerosi siano gli avvertimenti di economisti europei ed americani, che invitano Bruxelles a ragionare anziché ad emettere editti imperiali.
La partita in atto è durissima. Del resto sapevamo che così sarebbe stato. Ma è stato fondamentale avere accettato la sfida. Per la Grecia e per tutti noi che vorremmo un’altra Europa. Finalmente la grande questione di cosa voglia dire essere una comunità, che è cosa diversa da un mercato, è stata posta sul tappeto. Non si potrà più nasconderla sotto. E sarà stridente ascoltare, dopo questa vicenda, ripetere le retoriche invocazioni sull’Europa che ha portato pace e prosperità. Anche questa in corso è una guerra. Con le sue vittime umane.
Ci sono perplessità, e anche critiche per come Varoufakis e Tsipras hanno condotto le cose? Sì, certo. Provenienti dal loro stesso partito e Consiglio dei ministri. È comprensibile. Credo però che esse siano ingiuste. Si tratta di una guerra di lunga durata, non di una rapida e conclusiva battaglia, destinata a conoscere arretramenti e passi in avanti, per molti versi una vera guerriglia. Ma bisogna tenere i nervi saldi: i risultati non possono esser misurati nell’immediato, è già una vittoria aver imposto un nuovo discorso, aver aperto contraddizioni (che nonostante l’apparente unità del fronte di Bruxelles già emergono), aver forse, anche questo per la prima volta, animato un movimento popolare davvero europeo in solidarietà con Syriza, su un tema che riguarda tutti. È già molto. Ha dato coraggio a tutti. Per questo ringraziamo i compagni di Syriza e li invitiamo a continuare.
«».Il manifesto, 12 marzo 2015
Nella prefazione a questi due volumi [vedi riferimenti in calce] Stefano Rodotà scrive che Lucio Magri è stato uno dei protagonisti di questa stagione parlamentare di fine secolo. Una «bella stagione», aggiunge Rodotà, e debbo dire che la rilettura di questi testi suscita nostalgia: perché non solo nel caso di Lucio, ma per tutti in quell’epoca, ogni intervento alla Camera rappresentava un impegno, una riflessione, un esercizio di alto livello. Per questo, del resto, quegli interventi possono essere pubblicati dopo tanti anni.
Protagonista, dunque ma assai anomalo, perché all’inizio, nella legislatura ’76-’79, parte di un gruppo di appena sei deputati su 630 e segretario di un partito, il Pdup, che in quella coalizione elettorale – denominata Democrazia Proletaria – di deputati ne aveva solo tre. E però era in rappresentanza della sola opposizione, come si diceva allora, quando ancora si facevano distinzioni, “dell’arco democratico”.
Nel suo primo discorso parlamentare Lucio si era infatti trovato nella paradossale condizione di dover negare la fiducia a un governo sostenuto da una maggioranza quasi totale: il governo delle larghe intese dell’on. Andreotti. Anche questo dettaglio credo stia ad indicare (ed è bene ricordarlo in un momento in cui proprio di legge elettorale si sta discutendo) quanto importante sia il pluralismo parlamentare, una rappresentanza che esprima davvero tutte le anime del paese.
Che non bloccò affatto l’istituzione, ma consentì anzi inediti e stimolanti intrecci, penso innanzitutto al dialogo che si sviluppò fra il nostro attuale presidente della Repubblica — che davvero ringrazio per la sua presenza — e Magri, in occasione della assai conflittuale ridefinizione, nel 1993, della legge elettorale.
È una buona cosa rileggere gli atti parlamentari ed è una buona cosa che la Biblioteca della Camera sia impegnata a renderlo possibile con le sue pubblicazioni: perché si tratta della testimonianza più autentica e diretta di un periodo storico, e debbo dire che anche io, che pure ho vissuto da parlamentare quegli anni ’76-’99, rileggendo questi volumi sono stata aiutata ad approfondire la riflessione su quella stagione. Che ha peraltro rappresentato un passaggio epocale per il nostro paese, non a caso definito “passaggio dalla prima alla seconda Repubblica”.
Non un lamento impotente, ma la critica concreta all’autoreferenzialismo crescente dei partiti, alla loro incapacità di intendere quanto andava emergendo nella società attraverso i movimenti e indicando dunque la necessità non, come troppo spesso ora si fa, di offrire un’espressione diretta ad una indeterminata società civile sacralizzata e però frantumata e fatalmente subalterna alla cultura dominante, bensì un impegno a costruire quella che egli definiva «democrazia organizzata».
Non solo partiti chiusi in se stessi più rappresentanza delegata, ma anche una rete di organismi capaci di andar oltre la mera protesta e impegnati a imparare a gestire direttamente funzioni essenziali della società, così da ridurre via via la distanza fra governanti e governati (che poi è la base più salda della democrazia). E così colmare il solco che drammaticamente separa il cittadino dalle istituzioni.
Non a caso il Pdup fu un punto di riferimento per la crescita di queste reti che ebbero, — negli anni 70 — una particolare fioritura. Penso ai Consigli di fabbrica, a quelli di Zona, a movimenti come Medicina Democratica o Psichiatria, o nati attorno alle grandi questioni dell’assetto urbano e sociale.
Se la democrazia è solo questa sporadica consultazione, e non invece uno spazio deliberativo che ti rende partecipe e soggetto della costruzione di una società ogni volta innovativa, perché mai un giovane dovrebbe appassionarsi?
Il declino dei grandi partiti politici di massa ha lasciato un vuoto che dai tempi in cui Lucio ne denunciava i sintomi è diventato un oceano. Non li ricostruiremo tali quali erano (e anche loro, del resto, avevano non pochi difetti). Ma è importante tornare a riflettere sul senso della politica, — che non è ricerca di consenso, ma costruzione di senso — così come con questi discorsi, pur pronunciati in Parlamento e non a scuola, Magri ci spingeva a fare, per recuperare la politica, che poi è ricerca della propria identità nel rapporto con gli altri umani e non arroccamento sul proprio io nell’illusione di potersi salvare da soli.
Se non dovessimo riuscire a far capire quanto la lentezza della condivisione, — che è propria della democrazia – sia più preziosa della fretta, solo apparentemente più efficiente, del decisionismo, non ce la faremo nemmeno a far rivivere una vera Sinistra. Per questo sono davvero contenta — e con me tutti i compagni del Pdup — della sollecitazione che da questi testi ci viene per riflettere sull’oggi. E per aiutarci a discuterne con i più giovani.
La lucidità anticipatrice di Magri su questo come su altri temi — che è certamente stata una delle sue più significative caratteristiche — ha avuto una particolare incisività perché lui non era un profeta, un intellettuale separato.
In occasione della sua scomparsa, Perry Anderson, uno dei fondatori della autorevole New Left Review, ha scritto: «Lucio Magri non ha avuto uguali nel panorama della sinistra europea. È stato l’unico intellettuale rivoluzionario in grado di pensare in sintonia con i movimenti di massa, sviluppatisi durante il corso della sua vita. La sua riflessione teorica si è radicata realmente nell’azione, o nella mancanza d’azione, degli sfruttati e degli oppressi».
La ricerca, alla fine quasi ossessiva, del nesso fra teoria e militanza ha finito per essergli fatale. Nel 2004 Magri decise di porre fine alla nuova “Rivista” de il manifesto che era rinata nel 1999 sotto la sua direzione. Era una bella rivista. Ma Lucio non si rassegnava al fatto che mancassero i referenti sociali, non voleva essere solo un intellettuale che scriveva senza la verifica dell’azione politica. E poiché non vedeva nell’immediato le condizioni perché interlocutori consistenti si presentassero e che il dibattito politico in atto si sbriciolava in quisquilie, decise di cessare le pubblicazioni.
Furono motivazioni analoghe che lo condussero alla sua tragica decisione finale. «Non dico che la sinistra non rinascerà — ripeteva — ma ci vorranno molti anni e io sarò comunque già morto. Così come è il dibattito non mi interessa». Ma non era tuttavia pessimista nel lungo periodo. Come del resto prova il titolo del suo libro Il sarto di Ulm — oggi tradotto in Inghilterra, Germania, Spagna, Brasile, Argentina — titolo tratto da un apologo di Bertolt Brecht. Al sarto, che pretendeva che l’uomo poteva volare, — stufo dell’insistenza — il vescovo-principe di Ulm finisce per dire: «Vai sul campanile e buttati, vediamo se è vero quanto dici». Il sarto va e salta, e naturalmente si sfracella.
E però: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Il sarto, perché poi alla fine l’uomo ha volato. Ecco, diceva Lucio, per ora il comunismo si è schiantato, ma alla fine volerà. Noi continuiamo a provarci
A leggere Magri di fine anni 80 si incrocia l’Italia del 2015. Magri «indignato con il nuovismo che caratterizza lo scioglimento del Pci», non perché «non innovatore» ma perché «considerava un grave errore politico la retorica di un nuovo senza radici e senza futuro» (Crucianelli). Il bersaglio di ieri è il «nuovismo» occhettiano; ma le parole non calzano bene per «la rottamazione» renziana?
«Questi partiti tornati potenti si impoveriscono procedendo per espulsioni e promozioni non dei migliori ma dei fedeli. Trovare nuove forme di partecipazione e di rappresentanza è fondamentale, se non vogliamo rassegnarci a una politica ridimensionata a una questione per pochi intimi». Corriere della sera, 12 marzo 2015
Quante volte abbiamo celebrato il funerale dei partiti? Invece sono più vivi che mai. Meglio, sono più che mai le leve per il potere. Renzi è arrivato a Palazzo Chigi dopo aver scalato il Pd. Salvini ha conquistato la segreteria della Lega, con l’accordo che Tosi sarebbe stato il candidato premier, e ora l’ha cacciato. La nuova legge elettorale mette i partiti al centro di tutto: il partito più votato avrà il premio di maggioranza, i capi partito designeranno gran parte degli eletti. Eppure non ci sono né le regole, né le garanzie, forse neppure la volontà necessarie ad aprire i partiti alla partecipazione dei cittadini.
Chi si iscrive oggi a un partito, e perché? Quanti tra i giovani fanno politica? Sono davvero i migliori coloro che si avvicinano alla cosa pubblica? È lecito dubitarne. I partiti sono molto diversi da quelli di un tempo: non hanno sezioni, non hanno giornali, non hanno scuole di formazione e di pensiero, non hanno ideologie, forse non hanno neppure idee forti. Però non hanno mai avuto tanta influenza. Neppure i segretari della Dc e del Pci ricevevano premi di maggioranza e nominavano i propri parlamentari; e quasi mai il leader e il presidente del Consiglio erano la stessa persona (com’è accaduto a Berlusconi e come accade a Renzi). Eppure la Prima Repubblica era la Repubblica dei partiti. «Il partito, questo incredibile strumento del potere che da un giorno all’altro ti innalza ai vertici dello Stato, ti dà poteri economici decisionali anche se fino a ieri hai scritto libri di nessun valore, anche se sei un economista di cui nelle università dei Paesi avanzati riderebbero…»: così ha scritto Giorgio Bocca a proposito dell’ascesa di Fanfani; fin troppo severamente, visti i successori. «Partitocrazia» la chiamò Pannella.
Poi il sistema ricalcato sul mondo diviso in blocchi fu travolto dalla fine della Guerra Fredda, e dal dilagare insopportabile della corruzione. Una buona legge che portava il nome dell’attuale capo dello Stato creò collegi uninominali, in cui non si votava più un simbolo ma una persona. Si ironizzò sulle variazioni botaniche e floreali di partiti che erano stati potenti. Cominciò la stagione dei sindaci, che seppero interpretare la loro città e parvero offrire una nuova visione della politica, più aperta e vicina ai cittadini. E anche loro provarono a fondare un partito.
Oggi i sindaci non hanno più un soldo e sono ai minimi storici: Orsoni arrestato, de Magistris reintegrato dal Tar, Doria sbertucciato per strada, ora Tosi espulso; di Zedda e Merola si sono perse le tracce; a Palermo e a Catania ci sono gli stessi di oltre vent’anni fa; Pisapia non si ricandida (Marino purtroppo sì).
È vero che un ex sindaco mai passato dal Parlamento siede a Palazzo Chigi. Ma Renzi è salito al potere prendendosi il Pd e usandolo come una leva per scalzare Letta e insediarsi al suo posto. Ora, dopo aver concordato con Berlusconi una legge che enfatizza il ruolo dei partiti, annuncia di volerne uno «meno leggero di quello che pensavo», in cui iscritti e tessere tornino a pesare.
È difficile credere che Renzi desideri un improponibile ritorno al passato. Ma il futuro è tutto da costruire. La Costituzione all’articolo 49 prevede che all’interno dei partiti debba valere «il metodo democratico». Da decenni si discute di una legge che fissi regole per il funzionamento interno delle forze politiche (e sindacali); ora si parla di regolamentare per legge le primarie. Parliamoci chiaro: sarà molto difficile che queste norme vedano la luce. Ma non per questo il problema può essere eluso.
La semplificazione che le riforme di Renzi imprimeranno al sistema, sia pure al prezzo di qualche forzatura, può essere salutare. Ma proprio per questo servono regole chiare. Spesso le primarie, comprese le ultime in Campania, hanno creato più problemi di quelli che hanno risolto. I partiti rischiano di diventare club elettorali del capo e comitati d’affari, che inevitabilmente alimentano una corruzione tanto diffusa da non destare neppure più scandalo. E i social network sono una scorciatoia più semplice ma alla lunga più fragile del lavoro culturale e organizzativo che occorre per costruire movimenti attorno a energie e a interessi.
Oggi la politica non attrae i talenti e le intelligenze. Non forma quadri dirigenti e bravi amministratori. Disgusta o annoia, come confermano i dati d’ascolto dei talk-show . Il confronto delle idee langue, il livello della discussione pubblica non è all’altezza della gravità della situazione. Questi partiti tornati potenti si impoveriscono procedendo per espulsioni e promozioni non dei migliori ma dei fedeli. Trovare nuove forme di partecipazione e di rappresentanza è fondamentale, se non vogliamo rassegnarci a una politica ridimensionata a una questione per pochi intimi, con i militanti ridotti a clientes arraffoni o a fondale plaudente con bandiere a favore di telecamera .
Il manifesto, 12 marzo 2015
Non è gentile chiedere l’età a una donna e i supremi giudici della Cassazione non hanno potuto dimostrare che l’ottantenne presidente del consiglio sapesse che la ragazza scappata da una casa famiglia aveva appena diciassette anni quando si fermava la notte nel villa di Arcore. Un vero gentiluomo.
Per gli ermellini del Palazzaccio non deve essere stato facile nemmeno arrivare a una sentenza di assoluzione che infatti li ha impegnati per nove ore prima di giungere alla conclusione della beata ignoranza dell’ex cavaliere. Non solo. Hanno anche giudicato che la telefonata notturna del capo del governo italiano, impegnato in un vertice a Parigi, per chiedere di liberare la nipote di Mubarak fermata in questura, non era un atto di concussione del funzionario di polizia. Bisognava essere degli antiberlusconiani accecati dall’odio per non capire che se il politico più potente del paese si interessava alla ragazza certamente si trattava di un nobile sentimento di paterna preoccupazione per la sorte dell’illustre nipote. Infatti Ruby uscì dalla questura per ritrovarsi a casa di una prostituta dopo essere passata per le cure di una delle frequentatrici delle cene eleganti, Nicole Minetti, già promossa a consigliere regionale per evidenti meriti acquisiti sul campo.
Eppure per non fare la figura di un Ghedini qualsiasi, perfino l’avvocato Franco Coppi deve ammetterlo davanti ai cronisti: «Berlusconi non me ne voglia ma non posso calarmi il velo davanti agli occhi». Il luminare del foro milanese lo dice a proposito delle serate con le prostitute che l’allora presidente del consiglio spacciava per convivi musicali. Un giro vorticoso di donne a pagamento nella casa del capo del governo. Un «fatto prostitutivo», confermato da giudici e avvocati.
Tuttavia, come dicono gli addetti ai lavori, non si sono ravvisate «le fattispecie di reato» e tanto basta alla grande famiglia berlusconiana per far festa. Se ieri avete acceso la televisione avete visto piccole folle armate di bandiere davanti l’abitazione romana di Berlusconi. Avete ascoltato l’attuale ministro dell’interno di Renzi, confessare la propria felicità per aver sempre creduto nell’innocenza del suo leader, e con lui tutti i berlusconiani che ieri, invece di minacciare i giudici del tribunale di Milano con manifestazioni fuori e dentro il palazzo di giustizia, si sono limitati a chiedere il risarcimento per il loro amato capo.
E pazienza se resta sempre un condannato in via definitiva per frode fiscale, se deve affrontare a Napoli un processo per compravendita di parlamentari, se deve stare attento al processo di Bari sui traffici di prostitute dell’amico Tarantini, se deve tremare per il cosiddetto Ruby-ter sulla corruzione di atti giudiziari (le olgettine pagate per tacere). Piccole, fastidiose fissazioni della magistratura che non impediranno a un politico in declino di sentirsi di nuovo a cavallo, pronto a rimboccarsi le maniche per darci «un’Italia migliore». Quell’Italia che lo ha votato per vent’anni, che oggi non lo vota più anche perché una parte di quell’elettorato avverte una profonda sintonia con il giovane leader di palazzo Chigi che sembra volerne replicare successi e consensi.
Verranno giorni migliori ma la morale della favola di questa assoluzione del condannato eccellente l’abbiamo imparata da uno dei grandi maestri della letteratura americana che ci aveva avvertito per tempo: «Non c’è motivo per cui il bene non possa trionfare sul male, se solo gli angeli si dessero un’organizzazione ispirata a quella della mafia»
E' uscita l'edizione cartacea di
Rottama Italia,
Edizioni Altreconomia, 44 pagine €12,00
Rottama Italia
Perché lo Sblocca-Italia è una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro.
Testi di: Tomaso Montanari, Paolo Maddalena, Giovanni Losavio, Massimo Bray, Edoardo Salzano, Paolo Berdini, Vezio De Lucia, Salvatore Settis, Anna Donati, Maria Pia Guermandi, Pietro Dommarco, Domenico Finiguerra, Anna Maria Bianchi, Antonello Caporale, Carlo Petrini, Wu Ming, Luca Martinelli, Pietro Raitano
Il pane e le rose, 11 marzo 2015
Ieri è stata la sua grande giornata. E' passato alla storia ed ha coronato venti anni di attività politica di primissimo piano nella quale non c'è stato un solo giorno nel quale abbia giocato di rimessa e non sia stato l'attore principale. Aveva detto all'inizio: " Rivolterò l'Italia" come un calzino". L'ha fatto. E' stato il più rigoroso ideologo dell'anticomunismo che l'Italia abbia mai avuto al potere. Tutto quello che non è riuscito a fare pur creandone l'humus, il contesto è stato fatto dal suo legittimo successore: Matteo Renzi che sebbene non uscito dai saloni di Villa Arcore è il suo erede spirituale, colui che ha portato a compimento la sua opera.
Berlusconi si presenta venti anni fa al potere del Paese come la parte sconfitta dalla Resistenza, la parte cancellata e costretta a rifugiarsi nelle fogne,che ribalta la sua condizione in quella del vincitore. Sdogana Fini e lancia un segnale a tutta l'area fascista del Paese che non era riuscita a riciclarsi con Almirante. Assume di fatto la guida degli industriali italiani anche se all'inizio questi erano assai diffidenti e scostanti verso di lui. Quando scoppia una delle tante crisi della Fiat si presenta allo appuntamento con l'avvocato Gianni Agnelli a bordo di possenti auto straniere esibite al pubblico italiano.
Perchè ieri è stata la sua apoteosi, la sua assunzione in cielo, la sua divinizzazione? Perchè un parlamento trattato a staffilate dal suo successore approva una legge che sfascia la Costituzione deformandone il contenuto e perchè la Magistratura italiana che è stata la nemica con la quale si è confrontata per venti anni realizza un imbarazzante autogol: la Cassazione lo assolve di una gravissima accusa formulata dal Tribunale di Milano riguardante la corruzione di una minorenne e la concussione di funzionari di questura. Era stato condannato a sette anni, pubblico ministero accusatore Ilda Boccassini che fiammeggiava con la spada della giustizia nelle mani nelle requisitorie contro di lui.
Si dice che però ieri Berlusconi ha perso Forza Italia, il suo Partito perchè lo ha indotto a votare contro Renzi. Il fatto non ha nessuna importanza dal momento che il suo scaltro successore non avrà più bisogno dei suoi voti per andare avanti. Non ha neppure importanza se ci sarà un Nazareno secondo. Il PD è il suo partito, la sua Forza Italia. L'ideologia berlusconiana è penetrata profondamente in tutte le strutture della politica e dello Stato e si è inverata in un avventuriero di grande fortuna quale è Matteo Renzi.
Berlusconi ha vinto perchè ha fatto di quello che fu il PCI il suo partito: il PD è lo strumento che ha sfasciato la classe lavoratrice, ha ridotto il sindacato alla obbedienza al governo, ha portato avanti un programma di riforme costituzionali riducendo ad una sorta di ''dopolavoro'' il Senato e cancellando i valori resistenziali contenuti nella Costituzione a cominciare da quelli che tutelavano il lavoro.
Aveva ragione ieri il professore Marino a parlare della vittoria del berlusconismo alla fine di Berlusconi. E' proprio così. Naturalmente non è stato solo merito suo perchè i grandi cambiamenti della storia non sono mai merito di una sola causa. La Bolognina è una lontana sorgente dell'ideologia liberista che ha dato linfa e cultura al berlusconismo. L'assetto iperliberista e soffocante dell' Unione Europea ne è con causa importante.
La sconfitta della classe operaia è assoluta: perde la sua identità di classe perchè il lavoro non è più un diritto e la forza che conta è quella della impresa, perde il suo contesto culturale nella demolizione della Costituzione, perde il suo partito che ha avuto una mutazione maligna ed è diventato il partito del suo mortale nemico.
Una sconfitta destinata a pesare a lungo e che ha azzerato i diritti di due generazioni prive di diritti ed ingannate dalla Job Act che precarizza per sempre il lavoro. Non ci sarà mai più impiego a tempo indeterminato per nessuno. I pochi diritti sopravvissuti sono destinati ad essere cancellati.
Perché fanno così? Certo, c'è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C'è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C'è chi è sinceramente convinto che l'unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?"Il Pd non è solo un partito di potere, ci sono tanti uomini e donne che ci credono". Vero, ha ragione l'alto dirigente democratico che ti agita davanti una copia del Fatto Quotidiano. Ma ha anche torto. E la colpa non è solo di Matteo Renzi e della sua corte selezionata premiando l'ossequio più che i meriti.
No, la deriva del maggiore partito italiano - sempre più simile al Psi craxiano, ma forse ancora più insidioso - è responsabilità soprattutto di quella zona grigia di dirigenti e onorevoli che nasconde il proprio dissenso, che ha il coraggio di manifestarlo soltanto nel chiuso di stanze e corridoi. Non intendiamo i D'Alema che vorrebbero scalzare Renzi per riproporre il loro decrepito sistema di potere. Parliamo di gente talvolta capace e perbene. Che prova sincero disagio. Eppure tace, al massimo si limita a criptiche - e magari penose - manifestazioni di dissenso.
Perché fanno così? Certo, c'è chi ha una poltrona da difendere e se la perdesse finirebbe a spasso dal momento che non ha mai lavorato in vita sua. Ma non solo. C'è chi ci crede davvero. Gente che viene ancora dal Pci e ha conservato un profondo senso di fedeltà al partito. C'è chi è sinceramente convinto che l'unità sia un bene da preservare. Non sono valori da disprezzare. Eppure proprio a queste persone che puntellano e legittimano il renzismo verrebbe da porre alcune domande: conta più la fedeltà al Pd oppure ai propri ideali e ai programmi sui quali si è avuto il consenso? Che valore ha un partito nel momento in cui i suoi interessi confliggono con quelli di una regione, di un Paese e dei cittadini? Non sarebbe il momento di uno scatto di orgoglio e coraggio anche a costo di un sacrificio personale?
Una giornata memorabile. Con tristezza per oggi, e timore per domani.Articoli di Massimo Villone, Andrea Fabozzi, Daniela Preziosi.
Il manifesto, 11 marzo 2015
di Massimo Villone, 10.3.2015
Un brutto giorno per la Repubblica. Come era nelle previsioni, la Camera approva la riforma costituzionale Boschi-Renzi, già votata in Senato. 357 sì, 125 no, 7 astenuti, che alla Camera non contano. Movimento 5 Stelle fuori dall’Aula. Numeri certo favorevoli a Renzi. Ma è facile vedere, richiamando il consenso ai soggetti politici realmente espresso nel voto del 2013, che una Camera depurata dalla droga del premio di maggioranza dichiarato illegittimo con la sentenza 1/2014 della Corte costituzionale oggi avrebbe bocciato la proposta. Non è la Costituzione della Repubblica. È la costituzione del Pd con escrescenze. Una costituzione di minoranza.
Questo conferma tutte le critiche sulla mancanza di legittimazione a riformare la Costituzione di un parlamento fulminato nel suo fondamento elettorale. E dunque non abbiamo affatto un paese più semplice e giusto, come esulta Matteo Renzi. Invece, abbiamo in prospettiva una Costituzione che non riflette la realtà del paese.
Il voto della Camera ci consegna quel che sarà, molto probabilmente, il testo definitivo della riforma. Si richiede un nuovo passaggio in Senato per chiudere con l’approvazione di un identico testo la fase della prima deliberazione richiesta dall’art. 138 della Costituzione. Ma è ragionevole prevedere che Renzi alzerà barricate contro ogni ulteriore modifica, che potrebbe del resto toccare solo le parti ora emendate dalla Camera.
Immutata la sostanza. Lievemente migliorata la “ghigliottina” per cui il governo poteva pretendere a data certa il voto su un testo di sua scelta. Un vero e proprio potere di vita o di morte sui lavori parlamentari. Ora rimane solo la data certa, e non è poco. Fino ad oggi sarebbe stata materia riservata all’autonomia delle Camere attraverso i regolamenti parlamentari. Da domani — scritta in Costituzione — sarà invece un vincolo sul parlamento nei confronti del governo. Peggiorata la riforma del Titolo V, dove viene annacquato con inedite complicazioni il proposito — in sé apprezzabile — di una semplificazione del rapporto Stato-Regioni.
Ma su tutto prevale la inaccettabile scelta — che rimane — di un Senato non elettivo, di seconda mano e di doppio lavoro, tuttavia investito di poteri rilevanti, tra cui spicca quello di revisione della Costituzione. Mantengono piena validità le critiche più volte espresse su queste pagine. Soprattutto per la sinergia con l’Italicum, che va colta in tutto il suo significato. E se ne accentua il rilievo nel momento in cui la riforma costituzionale rimane pessima, e l’Italicum peggiora. Al già inaccettabile impianto di base, inosservante dei principi posti con la sentenza 1/2014, si aggiungono ora il premio alla sola lista, la beffa dei capilista bloccati e candidabili in più collegi, il ballottaggio. Il colpo alla rappresentatività delle istituzioni e ai processi democratici si aggrava.
La fine dichiarata da Berlusconi del patto del Nazareno aveva suscitato qualche speranza. La lettera dei “verdiniani” — Verdini è notoriamente in odore di renzismo — fa nascere dubbi sul controllo di Berlusconi sul partito. Forse una parte dei suoi si appresta a cambiare padrone, se non casacca. Nel prossimo voto in Senato — ancora in prima deliberazione — non sarà prescritta una particolare maggioranza. Ma sarà una prova generale per la seconda deliberazione ex art. 138, per cui si richiede il voto favorevole della metà più uno dei componenti l’assemblea. In Senato il dissenso potrebbe allora essere decisivo. E affossare la riforma trascinerebbe con sé anche l’Italicum, che nulla prevede per il Senato assumendone il carattere non elettivo.
Sapremo dunque già nel voto che si avvicina se la sinistra del Pd ha numeri e attributi. Sapremo se il patto del Nazareno è davvero morto. Berlusconi ha inteso fare a Renzi lo stesso sgambetto che fece a D’Alema nel 1997, quando affossò in Aula la proposta che Fi aveva votato in Commissione bicamerale Allora, pur avendo i numeri, la maggioranza di centrosinistra si fermò. Questa volta non gli è riuscito. In Senato provaci ancora, Silvio. Magari faremo il tifo per te.
Nel frattempo, bisognerà spiegare al popolo sovrano che nelle istituzioni si forgiano le politiche di governo. Per le donne e gli uomini di questo paese le scelte istituzionali non sono indifferenti. Istituzioni semplificate e poco rappresentative, assemblee elettive con la mordacchia, governi che funzionano come giunte comunali (formula renziana), partiti della nazione producono politiche conservatrici, disattente verso i diritti, subalterne ai poteri forti, sorde alle diversità, e invece tolleranti verso le diseguaglianze. Già accade.
Con pensosa pacatezza Bersani finalmente avverte che l’Italicum non è votabile per la sinergia perversa con la riforma costituzionale. Corra ai ripari. Qualcuno dovrebbe spiegare a lui e all’evanescente sinistra Pd che la ditta li ha già messi in cassa integrazione a zero ore. Anche il nuovo partito non più leggerissimo di cui Renzi favoleggia li metterebbe in mobilità. Per loro, solo contratti a tutele decrescenti.
Ai governativi mancano una quarantina di voti; 21 sono del Pd dove in tre si astengono (Capodicasa, Galli e Vaccaro), 7 sono assenti giustificati e 11 non partecipano perché in dissenso. Una minoranza, questi ultimi, della minoranza; il dissenso era stato più forte al senato nel primo passaggio sette mesi fa. La gran parte dei bersaniani vota sì: riconoscono nella riforma un pericoloso «cambiamento profondo della forma di democrazia parlamentare» (Bindi) eppure valutano che «non si può far fallire il percorso» (Cuperlo). Dicono un altro sì, ma assicurano che «è l’ultima volta» se «non si riaprirà il confronto» se «non ci sarà equilibrio» con la legge elettorale. Cioè l’Italicum che Renzi ha detto e ripetuto di non voler cambiare.
Due spicchi dell’emiciclo restano vuoti anche al momento del voto, sono quelli del Movimento 5 Stelle che non rinuncia all’Aventino. Appare solo il delegato Toninelli e la sua dichiarazione di voto comincia con «fascisti» e finisce con «disonesti». Ma in mezzo ha una citazione importante: le parole di fuoco contro la riforma costituzionale imposta dal governo Berlusconi, discorso del 2005 di Sergio Mattarella.
È difficile, dal momento che ci sono le elezioni regionali dietro l’angolo: saranno giorni di contrapposizioni accese e di pause nei lavori parlamentari. Ma non impossibile, visto che al senato spetta adesso un compito assai limitato. Solo gli articoli che la camera ha modificato rispetto al testo votato dai senatori potranno essere rimessi in discussione. E solo gli emendamenti strettamente legati alle novità potranno essere ammessi.
Renzisembra irremovibile: il merito della riforma per lui non il punto, il punto è la sua determinazione a non riportare l’Italicum al senato, camera infida da quando Forza Italia nega i voti. Dunque la legge non si tocca «neanche di una virgola». Così l’ex area Cuperlo, che prepara la «reunion» per il 21 a Roma (il 14 a Bologna però Speranza riunisce l’ala ’dialogante’) vede delinearsi all’orizzonte la scommessa finale: o un ’serrate i ranghi’ o il definitivo ’si salvi chi può’.
Le cinquanta sfumature della minoranza Pd praticano tre voti diversi. In tre si astengono (Capodicasa, Galli e Vaccaro), in sette non partecipano al voto (fra gli altri Fassina, Boccia, Civati, Pastorino), gli altri votano sì turandosi il naso. La dichiarazione a nome del gruppo è affidata a Lorenzo Guerini, non a Speranza, presidente dei deputati. Per Alfredo D’Attorre questo sì è «l’ultimo atto di responsabilità». In aula prima di lui Rosy Bindi parla di «ultimo voto favorevole» perché senza modifiche «nelle votazioni precedenti», vuole dire ’successive ma è un lapsus rivelatore, «non parteciperò al voto e nel referendum starò dalla parte dei cittadini». Il referendum confermativo è uno degli spettri: «Che faremo, una campagna contro le riforme di Renzi?», è il rovello di molti. Gianni Cuperlo annuncia il sì ma avverte che «senza modifiche ciascuno si assumerà le sue responsabilità». Più tardi la sua area Sinistradem ribasce l’ultimatum in un documento firmato da 24 parlamentari (fra gli altri Amici, Argentin, Bray, De Maria, Fontanelli, Miotto, Pollastrini).
Stefano Fassina non partecipa al voto e dichiara, rivolto più ai suoi che all’aula: «Abbiamo appreso dal presidente del Consiglio l’indisponibilità a correggere la legge elettorale». Come dire: è inutile promettere battaglia se poi alla fine vi allineate sempre. Pippo Civati lo dice esplicitamente: «Dopo il voto di stamani quasi l’intero testo della riforma risulta inattaccabile. Chi ha votato a favore condivide le scelte compiute e ne porta la responsabilità». Dal senato Chiti prende atto che «nella cosiddetta minoranza Pd ci sono differenze politiche profonde».
Il manifesto, 11 marzo 2015
Addio solidarietà. A rimettere in discussione il fondamento della nostra sanità pubblica sono quelle Regioni che Ivan della Mea nel 1969 avrebbe catalogato tra le cose che si stingono cambiando di colore «il rosso è diventato giallo» e che oggi altro non sono se non Regioni senza scrupoli che colpiscono alle spalle l’etica egualitaria del welfare. Sono le stesse Regioni che rispetto all’universalismo sono state di esempio a tutti. Vale a dire Emilia Romagna e Toscana, ma anche Liguria e anche altre.
Messe alle corde dalle restrizioni finanziarie, stanno aprendo la strada alla privatizzazione della sanità, incapaci di trovare soluzioni alternative pur avendone a disposizione un bel po’. Tradimenti quindi, cioè controriforme, in nulla giustificati dai contesti avversi e che si spiegano con la malafede politica, la disonestà intellettuale, i limiti culturali, lo spirito controriformatore del tempo e un cedimento al pensiero speculativo dell’intermediazione finanziaria.
La Toscana, la regione con il più alto tasso di copayment cioè di compartecipazione alla spesa pubblica da parte dei cittadini, è anche la Regione che di fatto ha praticamente appaltato la diagnostica e buona parte della specialistica ambulatoriale ai privati, incoraggiandoli a proporsi con prezzi competitivi e promozionali per battere il pubblico, oggi alle prese con un riordino esplicitamente contro riformatore.
L’Emilia Romagna, da tempo al lavoro per costruire fondi integrativi, recentemente ha raggiunto un’intesa con Coop e Unipol per fornire sistemi assistenziali paralleli e lo stesso presidente Bonaccini nel suo programma politico ha dichiarato di voler «spezzare la concezione ideologica che contrappone pubblico e privato». La Liguria è sulla medesima strada e da tempo.
Che senso hanno queste politiche? Mettere in conflitto due generi di solidarietà: quella mutualistica che dipende dai redditi delle persone e che per sua natura è discriminativa e quella pubblica che dipende dai diritti delle persone e che per sua natura è egualitaria. Cioè stanno contrapponendo la diseguaglianza alla eguaglianza facendo della prima un valore e della seconda un disvalore. Un gioco apertamente neoliberista a somma negativa.
C’è da chiedersi con una certa urgenza cosa fare per combattere queste tendenze. Rodotà recentemente con un suo libro (“Solidarietà, un’utopia necessaria” Laterza 2014) dice che oggi «è necessario…riprendere con determinazione il tema dei principi». Ma cosa vuol dire «seguire la via del costituzionalismo» per ribadire «la connessione tra principi e diritti» per non «rassegnarsi alla subordinazione alle compatibilità economiche»? A che serve ribadire il valore della solidarietà quale “principio generale” quando esso è già normato, e quando il vero problema che abbiamo è la sua inosservanza se non la sua negazione? Temo che la strada dei principi non basti.
In sanità come dimostrano le “Regioni gialle” la rottura del legame solidaristico inizia dai limiti anche culturali di una classe dirigente che non è capace di provvedere ad un pensiero riformatore e che vede nella controriforma l’ unica possibilità di gestire un limite economico. In sanità la solidarietà è in crisi per tante ragioni: economiche , culturali, sociali filosofiche e antropologiche, politiche . Il più grande sindacato dei medici di medicina generale al suo ultimo congresso si è dichiarato favorevole a ridurre la solidarietà dello Stato ai soli indigenti. Il sindacato confederale si trova dentro una contraddizione imbarazzante: da una parte difende il sistema sanitario solidale e universale e dall’altra per via contrattuale stipula per le “categorie forti” accordi per l’assistenza mutualistica.
La più grande rottura della solidarietà nel mio campo si ha con la crescita esponenziale del conflitto tra società e sanità, definita altrimenti “contenzioso legale”. I cittadini malati portano i medici in tribunale cioè rompono i legami di solidarietà che li ha sempre giustapposti ai propri terapeuti per millenni. Questi antichi legami si sono rotti anche perché l’uso della medicina oggi è fortemente condizionata da comportamenti apertamente antisolidaristici degli operatori come sono quelli agiti in modo opportunistico a difesa dei rischi professionali (medicina difensiva).
La solidarietà sino ad ora in sanità è stata vista, soprattutto da sinistra, come di tipo fondamentalmente fiscale ma in realtà di solidarietà ve ne sono tante e quello che ci manca è un pensiero riformatore in grado di ricomprenderle in un nuovo discorso che oltre che di diritti parli anche di doveri proprio nel senso indicato dall’art 2 della Costituzione. Non sono d’accordo con le “Regioni gialle” che riconducono tutto ad una questione di scarsità delle risorse ma neanche con coloro che parlano del controllo delle risorse come una priorità costituzionale.
Lorenza Carlassare, ad esempio, ci propone di distinguere «fondi doverosi» «destinazioni consentite» e «destinazione vietate»(Costituzionalismo.it,1,2013)…ma in sanità le differenze tra necessario/essenziale/utile/primario/secondario costituiscono un campo minato e poi allocare risorse con questa logica non è molto diverso da chi propone di finanziare la sanità per priorità che come è noto è il presupposto di partenza dell’universalismo selettivo. Se ragioniamo per “priorità” addio solidarietà.
Penso che la contraddizione solidarietà/risorse sia innegabile ma non giustifica il “tradimento” delle regioni nei confronti dell’universalismo. L’art 2 della costituzione ci invita a considerare la solidarietà come «dovere», mentre le regioni si sottraggono a questo dovere
«La volontà di concentrare tutti gli sforzi sull’Italicum offre l’impressione di una scaramuccia di retroguardia». La Sinistra Tremula risale in disordine e senza speranza le valli dell'opposizione interna al PD di Matteo Renzi. Il futura di una sinistra vera non è lì. La Repubblica, 11 marzo 2015
«Ho votato sì per l’ultima volta» dice Bersani dopo aver dato il suo consenso alla riforma del Senato. In realtà l’ex segretario del Pd, oggi figura di riferimento della minoranza anti-Renzi, racchiude in sé tutte le contraddizioni di un fronte che un passo dopo l’altro sta perdendo la guerra.
Del resto, non c’è nulla che alimenti il successo come il successo medesimo. Renzi si è costruito la fama del vincitore, una specie di «veni, vidi, vici» moderno. Finché la sorte lo assiste, è difficile credere che la minoranza del suo partito riesca a rovesciare il tavolo. Certo, l’argomento di Bersani e dei suoi amici non è irrilevante. In sostanza, si ritiene che la legge elettorale — l’Italicum — sia inadeguata per via dei numerosi deputati «nominati» dalle segreterie e non realmente eletti in un confronto nei collegi. Soprattutto il combinato disposto dell’Italicum e di un sistema monocamerale, prodotto dalla riforma che trasforma il Senato in un’assemblea di «secondo grado», cioè non eletta dal popolo, appare agli occhi degli oppositori un vulnus democratico. Un tema molto vicino alla posizione espressa dai vendoliani di Sel.
Il problema è che la minoranza non ha la forza e nemmeno una linea coerente per tentare di vincere la battaglia. Quando la riforma costituzionale era a Palazzo Madama in prima lettura, gli anti-Renzi del Pd — salvo alcune eccezioni — non seppero o non vollero impegnarsi all’unisono per bloccarla. Lasciarono intendere che il vero scontro sarebbe stato a Montecitorio, dove peraltro i numeri sono molto più favorevoli al premier- segretario. In realtà, come si è visto, alla Camera Bersani e quasi tutti i suoi hanno votato secondo la disciplina interna, sia pure «per l’ultima volta».
A questo punto la riforma è a due passi dalla sua definitiva approvazione ed è davvero arduo immaginare che possa essere insabbiata, nonostante l’esiguo margine di voti al Senato. Inoltre, come è noto, la linea del Pd è storicamente favorevole al sistema monocamerale e ciò spiega perché l’attenzione della minoranza si è già spostata verso la legge elettorale. L’obiettivo minimo è modificare lo schema delle liste bloccate, ma anche il premio alla lista anziché alla coalizione non piace.
Questa volontà di concentrare tutti gli sforzi sull’Italicum, in vista di ottenere modifiche significative all’impianto della legge, è in sé legittima, ma non si sfugge all’impressione che si tratti di una scaramuccia di retroguardia. Qualcosa a cui forse non tutti credono negli stessi ranghi della minoranza del Pd. Vale per la legge elettorale quello che si è detto per la riforma costituzionale: perché non c’è stato un maggiore impegno quando forse era possibile spuntare un risultato? Anche l’Italicum è già passato sotto le forche caudine del Senato ed è stato approvato. Eravamo in gennaio, prima che le Camere si riunissero per eleggere il capo dello Stato, e Renzi giocò abilmente sia Berlusconi sia la sua minoranza interna, ottenendo il «sì» alla riforma.
Anche allora i bersaniani annunciarono lotta senza quartiere, ma solo pochi di loro tennero fede ai propositi e alla fine furono comunque sconfitti dai numeri. Gli altri, per varie ragioni, si defilarono. Adesso l’Italicun si sta avviando verso Montecitorio per la seconda e definitiva lettura. Bersani chiede di non perdere l’ultima occasione di modificarne la sostanza ed è andato anche da Mattarella per illustrargli il suo punto di vista. Ma se è una battaglia per la rappresentanza democratica, il «pathos» è purtroppo assente. E di nuovo il terreno scelto — l’assemblea di Montecitorio — è il meno propizio per ribaltare i rapporti di forza con i renziani.
Peraltro il presidente del Consiglio già da tempo è dedito a dividere l’opposizione interna, portando dalla sua spezzoni più o meno consistenti. E lasciando intendere, invece, che per gli intransigenti non ci sarà futuro nelle liste elettorali dell’Italicum. I bersaniani ortodossi, più che vincere un braccio di ferro tardivo, non dovranno sembrare interessati solo a salvare il seggio in Parlamento.
Il manifesto, 10 marzo 2015
La legge di revisione costituzionale che oggi sarà approvata dalla camera modifica 47 articoli sui 134 che compongono l’attuale Costituzione. Più del 35%: l’intera seconda parte (Ordinamento della Repubblica) e un solo articolo, il 48, della prima parte (Diritti e doveri dei cittadini). Il disegno di legge porta la firma di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi ed è stato gestito come un affare di stretta competenza del governo (con una sorta di questione di fiducia: «Se il parlamento non fa le riforme va a casa») attraverso tempi contingentati, «canguri» (emendamenti cancellati a blocchi) e una seduta fiume alla camera. Dovrà tornare al senato — che però potrà discutere solo i 10 articoli modificati dalla camera — e, dopo la pausa di riflessione di tre mesi, dovrà passare per il voto conforme a maggioranza assoluta dei due rami del parlamento. Poi il referendum confermativo, con il quale si chiederà ai cittadini un voto prendere o lasciare su tutta la riforma. Non ci sarà cioè quel referendum «omogeneo» per materia prescritto dalla Corte Costituzionale e considerato ormai un punto fermo dai costituzionalisti, al punto da essere stato previsto nella precedente ipotesi di riforma «larghe intese» (governo Letta).
Le principali modifiche alla Costituzione possono essere riassunte in otto punti; tre invece sono le parole d’ordine scelte dal governo: fine del bicameralismo, semplificazione, risparmio. Tre slogan finiti in un solo articolo, il nuovo 55 della Costituzione, che cresce da 5 a 35 righe: d’ora in poi solo i deputati «rappresentano la nazione» mentre il nuovo senato «rappresenta le istituzioni territoriali». Secondo Renzi l’abolizione del senato elettivo e delle province produrrà un taglio di spesa di un miliardo, secondo la Ragioneria generale dello stato risparmieremo solo 49 milioni.
1 — Senato non elettivo. In luogo di 315 senatori eletti da tutti i cittadini che hanno compiuto 25 anni, a palazzo Madama siederanno in 95 scelti dai consiglieri regionali all’interno dei consigli e tra i sindaci della regione. Altri cinque senatori potranno essere scelti «per altissimi meriti» dal presidente della Repubblica per un incarico di sette anni. Le modalità di elezione all’interno dei consigli regionali sono tutte da scrivere: una buona simulazione è rappresentata dalla recente selezione dei delegati per l’elezione del presidente della Repubblica: il Pd da solo si è aggiudicato circa il 60% dei posti. La composizione del senato cambierà con il succedersi delle consiliature regionali, e anche il numero totale dei senatori potrà aumentare o diminuire in caso di novità nei censimenti. Il senato non vota la fiducia al governo.
2 — Procedimento legislativo. L’articolo 70 della Costituzione è attualmente di una sola riga: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere». Il nuovo è di oltre cinquanta righe. Prevede in sintesi quattro procedure: 1) Le leggi costituzionali sono approvate da entrambe le camere. 2) Sulle leggi ordinarie il senato può eventualmente esprimersi dopo che la camera le abbia approvate, ma la camera ha l’ultima parola a maggioranza semplice. 3) Per alcune leggi comprese in un elenco di materie (tutela dell’interesse nazionale) se il senato si esprime a maggioranza assoluta la camera può ignorare la deliberazione ma votando anche lei a maggioranza assoluta. 4) Il senato può proporre una legge alla camera votandola a maggioranza assoluta, ma la camera può ignorare la proposta a maggioranza semplice. Su eventuali, prevedibilissimi, conflitto di attribuzione tra le due camere «decidono i presidenti delle camere d’intesa tra loro». Nulla si dice nel caso di mancata intesa.
3 — Voto a data certa. Il governo potrà chiedere alla camera di votare in maniera definitiva entro settanta giorni una legge che considera «essenziale per l’attuazione del programma». Il termine include i tempi necessari per l’eventuale esame del senato. Il nuovo istituto non sostituisce i decreti legge, per i quali vengono solo previsti in Costituzione quei limiti per materia (leggi costituzionali, leggi elettorali e altre) che già sono previsti oggi dalla legge ordinaria.
4 — Giudizio preventivo di costituzionalità. È previsto solo per le leggi elettorali, compresa quella che sarà eventualmente approvata (Renzi se lo augura) nelle legislatura in corso (l’Italicum). Un terzo dei senatori o un quarto dei deputati potranno chiedere alla Consulta di valutare la legittimità delle nuove norme elettorali una volta concluso l’esame delle camere e prima che la legge venga promulgata dal capo dello stato. Si dovrebbero così evitare nuovi casi «Porcellum».
5 — Strumenti di democrazia diretta. Il governo ha detto di volerli agevolare, le modifiche vanno nel senso opposto. Per una legge di iniziativa popolare occorreranno il triplo delle firme (da 50mila a 150mila), viene enunciato il principio che il parlamento deve garantirne l’esame, rinviandolo però ai regolamenti parlamentari. Vengono citati in costituzione i referendum propositivi e di indirizzo, ma anche in questo caso c’è un rinvio: a una prossima legge costituzionale. Infine cambiano i numeri del referendum abrogativo: se la proposta è sottoscritta dagli attuali 500mila elettori continuerà a essere richiesta la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto perché il referendum sia valido. Se invece le firme saranno 800mila basterà il 50% più uno dei votanti alle ultime elezione per la camera.
6 — Deliberazione dello stato di guerra. Passa dalla competenza bicamerale e quella della sola camera, che dovrà decidere a maggioranza assoluta. Ma la legge elettorale in arrivo (Italicum) garantisce quella maggioranza a un solo partito. Resta previsto che una legge semplice può prorogare la durata della camera in caso di guerra. E così, almeno in teoria, viene messo in mano a un solo partito lo strumento per rinviare le elezioni politiche.
7– Elezione del presidente della Repubblica. Perde buona parte della carica bipartisan per effetto della diminuzione dei senatori e dell’abolizione dei delegati regionali. Sono previsti tre quorum: due terzi dei componenti per i primi tre scrutini, tre quinti dei componenti dal quarto scrutinio e tre quinti dei votanti dal settimo. A conti fatti (con l’Italicum) il primo partito potrebbe contare su 410 grandi elettori, dovendone mettere insieme dal quarto scrutinio appena 438.
8 — Titolo V. Viene soppressa la competenza concorrente tra stato e regioni, cresce rispetto alla Costituzione vigente l’elenco delle materie di competenza esclusiva dello stato (l’articolo 117 mette in fila 21 grandi capitoli, dalla politica estera ai porti e aeroporti). Viene introdotta la «clausola di supremazia» in base alla quale il parlamento può legiferare anche in materie di competenza regionale «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero l’interesse nazionale». Ma a decidere di far scattare la clausola potrà essere solo il governo.
La Repubblica, 10 marzo 2015
«SONO arrivati. Sono sanguinari, sono selvaggi… Uccidere e massacrare è il loro divertimento». Tagliano teste, arrostiscono, cavano occhi, amputano mani, piedi, nasi. Sono d’oltremare. Ma non vengono dall’altra sponda del Mediterraneo. Vengono dal Nord. Non sono islamici. Anzi, sono il terrore dei musulmani. La ferocia è il loro biglietto da visita, ne fanno un deliberato uso mediatico.
Un loro capo militare, Ruggero (non l’assai più tardo Ruggero di Sicilia ma
Sono i normanni. Inutilmente Carlo Magno aveva proibito i commerci di armi con loro. Si erano specializzati nel ruolo di strumenti e cani dei potenti in lotta tra di loro. Si erano resi indispensabili. Un ramo si sarebbe impadronito della parte della Francia che si affaccia sulla Manica, poi di tutta l’Inghilterra, restando vassalli del Re di Francia. Un altro ramo era approdato da tempo in Sicilia. Poi, passando per la Puglia, erano arrivati in Campania, chiamati dai signori longobardi di Salerno e Capua, infine si erano insediati in un loro castello a Canossa. Controllavano le vie di comunicazione, non un territorio preciso e delimitato. Un po’ come l’Is a cavallo di Iraq, Siria e Libia. Si facevano chiamare marchesi ma non avevano nemmeno una marca. Eppure nel giro di pochi decenni avrebbero finito col dare origine dal nulla all’invenzione statuale di più lungo periodo della storia italiana sin dalla Repubblica romana, il regno dell’Italia meridionale.
È uno dei quadri, anzi delle “cerniere”, su cui fa perno l’ultimo lavoro di Glauco Maria Cantarella, il Manuale della fine del mondo, sottotitolo Il travaglio dell’Europa medievale , pubblicato da Einaudi. La “fine del mondo” temuta al volgere del primo millennio, a dire il vero non c’entra. Se ne discettava da molti secoli e ne riparlavano ogni volta che le cose sembravano andar peggio. Ma allora non esisteva nemmeno il concetto di secolo, che sarebbe stato inventato molto più tardi. Anche il “Medioevo” sarebbe stato inventato più tardi, solo nel ‘500. Oggi gli storici concordano nel considerarla «un’età né più buia né più luminosa di altre ». Semmai, leggendo questo libro, che segue gli innumerevoli altri che questo studioso gli ha dedicato, si potrebbe parlare di “Medioevo continuo”. Che ci evoca qualcosa del nostro presente. O forse addirittura del nostro futuro.
Non bisogna fraintendere. Cantarella, colonna degli studi di storia dell’Europa medievale e delle Istituzioni politiche medievali all’Università di Bologna, è uno storico serissimo, non gli si possono imputare “attualizzazioni” ad effetto, trasposizioni tirate, analogie superficiali. Semmai pignoleria quasi maniacale sulle “fonti” e sugli aggiornamenti continui nel campo di cui si occupa da moltissimi anni. In quell’epoca lui è di casa. Frequenta i protagonisti e ne conosce a menadito le complicate vicende, il modo di far politica, di ragionare, di giustificare, di far propaganda. Sbircia persino nelle loro camere da letto. Il suo “manuale” è una summa da grande specialista. Che però evoca anche nel lettore non specialista o per mestiere schiavo dell’attualità una gragnuola di suggestioni.
Il secolo di cui parla questo libro non è quello della fine del mondo, ma degli stratagemmi per non farlo finire. Dai Papi che si facevano notare solo per la “cieca cupidigia” (fagiano, oppure gallo veniva soprannominato Giovanni XVIII, boccadiporco Sergio IV) si passa a quelli che invece fanno politica per venire ad un nuovo modus vivendi con l’Imperatore e i nuovi regni in formazione e a nuovi ingegnosi compromessi sulle investiture, cioè le nomine dei vescovi, insomma a chi dovesse far capo chi incassava i tributi ed esercitava poteri di polizia, oggi diremmo le nomine tout court . Fu una riforma istituzionale infinitamente più complessa di quelle su cui si discute e si litiga oggi, che impegnò i migliori specialisti e per la quale, tra alti e bassi, rotture e ricomposizioni, colpi di scena e ripensamenti ci volle più di un secolo.
Era anche l’epoca in cui si affacciavano in scena veri e propri “professionisti del governo”. «Oggi forse li chiameremmo tecnici», nota Cantarella. Solo molto, ma molto più tardi sarebbero arrivati quelli che chiamiamo “politici”. Molti di questi “tecnici” erano di grande levatura. I Normanni, che pure avevano esordito come feroci mercenari e briganti, in Sicilia avevano messo in piedi una cancelleria coi fiocchi, in cui si governava in tre lingue, arabo, greco e latino, e si impiegavano non solo musulmani ma anche “tecnici” di valore internazionale importati dall’Inghilterra come Thomas Brown (o Le Brun). Erano stati loro a inventare lo “Scacchiere”, la tavola su cui si computavano, con procedimenti matematici d’avanguardia, rendite e cespiti delle baronie, e che ancora oggi dà il nome al ministero dell’economia britannico. Palermo quasi come Bruxelles. Ma forse non funzionava così bene, se poi il Mezzogiorno arrivò tanto disastrato all’Unità, come un agglomerato di feudi inespugnabili, impervio al senso dello Stato. Colpa degli Angioini, degli Aragonesi, degli Spagnoli e dei Borboni (e magari degli intoccabili Svevi)? O di troppa tecnica e poca politica?
Quanto alle città, apprendiamo che prosperano grazie alle loro turbolenze. «Comune, nome nuovo e pessimo», lamentano i cronisti dell’epoca. I cives hanno la mala consuetudo di ribellarsi ai loro vescovi (e quindi alla potestas imperiale, quindi alle prerogative del governo) negandogli le imposte, «l’affitto dei mulini e il censo solito delle navi e la rendita delle case», e tagliano i boschi e demoliscono «la città vecchia per costruirne una più grande». Pretendono persino che i contadini paghino i tributi a loro… Succede in Lombardia, ma anche in Francia, in Castiglia, in Renania… il disordine investe tutta l’Europa. Finché zona per zona, caso per caso, per fronteggiare l’emergenza, dovranno inventarsi nuovi compromessi istituzionali differenziati…
Donna, Uomo. Vite e destini che più congiunti non si può, anche nella riflessione: ma questa, per ora, è arricchita solo sul versante femminile.
Il manifesto, 10 marzo 2014
Non è da ora che numerose parole-chiave culturalmente e mediaticamente fortunate ci avvertono di qualcosa di inquietante: viviamo un tempo che sembra incapace di definirsi per il suo presente o anche per il suo desiderio di futuro, e che si rassegna quindi a identificarsi con espressioni un po’ vuote, il cui senso immediato è quello di annunciare soltanto che un tempo precedente è finito.
È la celebre condizione «post-moderna» descritta alla fine degli anni ’70 da Lyotard, riempita via via da un modo di lavorare divenuto «post-fordista», da una cultura critica «post-marxista» e «post-strutturalista», e via declinando questo sentirsi immersi in qualcosa di cui l’unica cosa certa è che non è più quello che era una volta. Le scarse definizioni al presente non sono poi per nulla rassicuranti: viviamo in un mondo «liquido», in una «società del rischio», strutturata in «non luoghi». Anche le antiche certezze patriarcali sono venute meno. Ne scriveva il giovane Lacan già negli anni ’30, e un testo del femminismo italiano del 1996 (Sottosopra rosso. E’ accaduto non per caso) ha dichiarato la “fine” del patriarcato, giacché al predominio maschile è venuto meno il credito femminile.
Che cosa ne è seguito? La discussione è aperta. Una delle ipotesi – viviamo nel tempo del «Post-patriarcato», nell’«agonia di un ordine simbolico» non ancora conclusa — è avanzata da un breve ma intenso libro (edito da Aracne) di una giovane studiosa femminista, Irene Strazzeri. Va subito detto che l’autrice, pur non escludendo che da una fase percorsa da «sintomi» allarmanti e da «sfide» difficili possa anche riemergere una forma di «neopatriarcato», si dimostra fiduciosa che alla fine possa nascere un tempo capace di essere vissuto in modo positivo. E lo annuncia in esergo come solo una donna può fare, dedicando il testo «al bimbo che aspetto, e al mondo che gli auguro».
Il libro – come aiuta a capire l’introduzione di Elettra Deiana – è utile anche per incrociare le elaborazioni di un giovane neofemminismo che sta aprendo vari terreni di ricerca mettendo le elaborazioni del femminismo storico (italiano e occidentale, ma anche post-coloniale) a confronto con la lettura dell’attuale crisi globale e del dominio della «ragione» neoliberista. Una fase nella quale il capitalismo sembra in grado di sussumere ogni istanza critica alternativa. Per esempio riconoscendo il «valore» della differenza femminile ma finalizzandola all’efficienza della produzione e della competitività dell’economia data. Oppure amplificando lo scandalo della violenza maschile contro le donne, ma traducendolo in politiche di contrasto e in paradigmi capaci di costringere nuovamente le donne nel ruolo di vittime bisognose di «protezione».
La via di uscita indicata da Irene Strazzeri è quella di una rilettura del concetto e della pratica dell’«autorità femminile» così come è stata indicata soprattutto nei recenti testi di Luisa Muraro (Autorità, Rosembreg & Sellier) e di Annarosa Buttarelli (Sovrane, Il Saggiatore). Un’idea di autorità diversa e distinta da quella di potere che connota la politica maschile. Autorità come frutto della relazione e dello scambio linguistico. Come figura circolante indispensabile all’agire politico, che può superare gli stessi limiti della democrazia della rappresentanza.
Strazzeri propone di considerare intrinseca alla produzione di autorità anche la dinamica del riconoscimento. Un dispositivo che può accomunare donne e uomini, senza il bisogno di nuove tradizioni e religioni, per liberarsi da quell’agonia in un presente finalmente capace di riconoscere se stesso
Una dittatura che si fa chiamare governance. Del resto, er un regime tirannico è impensabile sottoporre i massmedia (un potere che è Quarto solo per ragioni cronologiche) a una gestione pluralistica: occorre riportarlo sotto il governo del tiranno. Perciò Renzi...
La Repubblica, 9 marzo 2015
Il cavallo di viale Mazzini avrà tra poco in groppa un solo cavaliere. Un vero amministratore delegato, con poteri ampi, come in qualunque azienda privata. «Modello codice civile», spiegano nel governo. E nominato direttamente dall’esecutivo.
È questa la principale innovazione della governance Rai immaginata da Renzi per superare la legge Gasparri. Un modello che porta a rottamare l’attuale gestione mista Cda-direttore generale, nel tentativo di allontanare i partiti dall’amministrazione diretta dell’azienda. Ma che, accentrando in capo al governo la scelta dell’amministratore unico, non mancherà di sollevare polemiche.
In ogni caso ci siamo, la svolta è vicina. «In settimana - scrive Renzi nella sua enews - iniziamo l’esame in consiglio dei ministri per chiuderlo velocemente. Poi la palla passa al Parlamento con lo stesso metodo della scuola». Significa l’abbandono ufficiale del decreto a favore di un disegno di legge. Di cui, tuttavia, nella prossima riunione del governo saranno discusse soltanto le linee guida. E qui sta l’altra novità, in fatto di metodo. Come avvenuto per “la buona scuola”, anche il progetto Rai sarà oggetto di una consultazione. Stavolta non troppo allargata, ma limitata a una trentina di esperti del settore già individuati e preallertati: comunicatori, giornalisti, professori universitari, giuristi, associazioni, economisti. Un processo di affinamento, tramite lo studio di questi «pareri», che porterà al disegno di legge definitivo.
Il modello, studiato da tempo a Palazzo Chigi fa perno sulla separazione netta tra la gestione e il controllo. «L’importante - anticipa Renzi - è affidare a un amministratore la responsabilità di guidare l’azienda senza continuamente mediare con il Cda sulle scelte operative. Se non porta risultati viene cacciato via, ma deve poter decidere come fanno tutti i manager». Resta ancora aperto il problema di «quale equilibrio di potere tra chi nomina l’amministratore e chi controlla». In sostanza il nodo non è stato ancora sciolto. Si capisce che il premier non intende rinunciare, come invece suggeriscono i grillini, alla commissione di Vigilanza. Anche perché sarebbe inutile cancellare la Vigilanza se comunque si intende affidare a un organismo parlamentare il controllo delle linee di indirizzo del servizio pubblico. Ma la Vigilanza (ovvero i partiti) sarà privata del potere decisivo che le ha affidato la Gasparri, ovvero quello di indicare i nove membri del Consiglio d’amministrazione. Allora a chi spetterà l’indicazione del Cda? Qui si entra in un terreno in parte ancora da definire. Uno di questi fili porta a un Consiglio di sorveglianza con membri nominati dal governo e dall’Autorità di garanzia. Il quale, a sua volta, dovrebbe scegliere il Cda vero e proprio, ridotto da nove a cinque componenti. Un altro filo riporta invece tutto in capo al Parlamento (che non convince la presidenza del con- siglio perché verrebbe meno la separazione tra gestione e controllo), al quale resterebbe l’elezione del Cda come del resto elegge altri organi di garanzia quali i componenti della Consulta o del Csm. I nomi dei cinque sarebbero però pescati in una “rosa” indicata da soggetti esterni come l’Agcom, la Conferenza Stato-Regioni, il Consiglio dei rettori, la Corte Costituzionale. Mentre a palazzo Chigi non trova ascolto l’idea del movimento cinque stelle di affidare a un sorteggio tra candidati con il curriculum giusto la scelta del Cda. Per Renzi è «ridicolo» anche solo parlarne.
L’altro grande capitolo riguarda il contratto di servizio pubblico, che disciplina i rapporti tra lo Stato e la più grande azienda culturale italiana. Quello attuale è scaduto nel 2012 e il governo ha intenzione di sfruttare l’occasione del rinnovo per ridefinire la «mission» della Rai e metterla in linea con la riforma complessiva. Il presidente della Vigilanza, Roberto Fico, ne ha già discusso con il sottosegretario Giacomelli e ha lanciato una campagna online («Firmerai.it») per sollecitare il ministero a firmare il nuovo contratto. Che prevede «più protezione per i bambini, più lingue straniere, più servizi per i disabili, più trasparenza». Per assicurare una programmazione di lungo periodo, la durata del contratto da triennale viene reso decennale. Così la Rai conoscerà in anticipo quanto incasserà dal gettito statale di anno in anno.
Ed è questo l’ultimo, importante capitolo della riforma. Dopo il decreto Irpef, che ha tagliato il bilancio di viale Mazzini di 150 milioni, il governo ha deciso che è arrivata l’ora di inserire il canone nella bolletta elettrica già dal prossimo anno. In modo da azzerare la mostruosa evasione dell’imposta. Il Sole24ore ha calcolato infatti che ci sono regioni, come la Campania, dove il canone è un perfetto sconosciuto. In alcuni comuni del casertano come Casal di Principe o Parete è in regola appena il 9% delle famiglie, mentre a Ferrara a pagare sono il 93,5% dei cittadini. Se d’ora in avanti chi non paga il canone si vedrà staccare la luce, un sollievo per i contribuenti sarà l’importo dimezzato rispetto agli attuali 113 euro.
Renzi ha dunque deciso di rinunciare al decreto legge, in obbedienza alla nuova “dottrina Mattarella”, ma non è detto che il disegno di legge incontrerà un cammino facile in Parlamento. Qualche punto di contatto con i grillini c’è stato, ma Forza Italia non intende cedere. E difende con le unghie la “sua” legge. Maurizio Gasparri parla di un «colpo di Stato» e chiede «il rispetto dei vincoli ribaditi dalla Consulta che al Parlamento e non al governo ha affidato il ruolo di garante nella scelta del vertice aziendale». Renzi tira dritto per la sua strada. «Figuriamoci se mi faccio dare lezioni di democrazia da Gasparri».
Il manifesto, 8 marzo 2015
Settimana lavorativa di 35 ore, permesso di paternità equiparato a quello di maternità, scuole infantili e ospizi gratuiti. Sono solo alcune delle proposte contenute in un documento che potrebbe gettare le basi per una rivoluzione culturale nella gestione delle politiche assistenziali. A firmarlo l’esperta fiscale Maria Pazos e l’economista Bibiana Madialdea, che su incarico di Podemos, hanno elaborato una proposta di taglio femminista per riformare un settore dello stato sociale congenitamente «obsoleto, ingiusto, insufficiente e insostenibile», come spiega María Pazos Morán, 61 anni, attivista della piattaforma internazionale per la parità di genere Plent e ricercatrice dell’Istituto nazionale di studi fiscali, dove dirige il programma di politiche pubbliche e uguaglianza di genere.
La proposta si basa su principi di solidarietà, proporzionalità, cittadinanza universale e individualizzazione dei diritti. Quasi un’utopia nel clima neoliberista spagnolo…
«In realtà si tratta di proposte concrete e attuabili, che sul medio termine porterebbero notevoli benefici economici e potrebbero contribuire al superamento della crisi. Riorganizzare le politiche assistenziali vuol dire anche razionalizzare la spesa e ridurre il rischio di esclusione sociale e povertà, attualmente i principali ostacoli al consumo. In questi anni si è agito in senso contrario e i tagli e l’individualismo neoliberista hanno contribuito al deterioramento dello stato sociale, anche se il problema va oltre l’insufficienza di risorse: non c’è dubbio che siano necessari più investimenti, ma altrettanto necessario è riorganizzare strutturalmente e ideologicamente il sistema».
Da dove bisogna cominciare?
«Il cuore del problema sono le politiche di conciliazione della vita familiare e lavorativa. Attualmente si incentiva l’abbandono totale o parziale del lavoro per chi si fa carico di mansioni si assistenza: così si dispensa lo stato dall’assistenza dei più bisognosi per relegarla all’ambito familiare, ovvero, per ragioni culturali e sociali, a quello femminile. Questa impostazione perpetua una concezione dicotomica dei ruoli di genere, e crea ingiustizie che hanno un alto costo sociale. In primo luogo per le donne stesse, che sono ostacolate nella loro realizzazione lavorativa, discriminate nella ricerca d’impiego e pertanto più soggette alla dipendenza economica e all’esclusione sociale.
«Ma anche per gli uomini, che vengono costretti al margine dell’ambito familiare e delle cure. Inoltre la rinuncia al lavoro non è compensata: l’assistenza non è considerata come un lavoro, non gode degli stessi diritti e protezioni, e dà luogo a fenomeni di segregazione e di economia sommersa».
La vostra è una proposta femminista contro un welfare maschilista?
«Più che maschilista direi patriarcale, basato su un modello disequilibrato uomo-capofamiglia/sposa dipendente. Il nostro modello vorrebbe ristabilire un’uguaglianza di diritti e doveri che è vantaggiosa per tutta la società: basti pensare al capitale umano che questa discriminazione disperde. Pertanto la nostra è una proposta femminista nel senso che punta a correggere un ordine che allo stato attuale pregiudica soprattutto le donne».
Su quali basi dovrebbe fondarsi un sistema assistenziale egualitario?
È imprescindibile che l’assistenza esca dall’alveo della famiglia, dove sarà sempre la donna a farsene carico: perciò abbiamo insistito sull’individualizzazione e l’intrasferibilità dei diritti. Ma non è solo una questione di uguaglianza e di emancipazione femminile.
«I dati demografici lo dimostrano: la popolazione invecchia e nel 2040 il numero delle persone bisognose d’assistenza saranno il doppio che nel 2008. E se si aggiunge che meno del 20% dei bambini sotto i 3 anni va all’asilo per più di 30 ore alla settimana, risulta chiaro che il cambio di paradigma è urgente. D’altra parte non si tratta di affidare tutto allo stato, ma di creare corresponsabilità e garantire diritti affinché uomini e donne possano dedicare indistintamente tempo all’assistenza familiare senza dover trascurare altri ambiti. In Svezia queste riforme sono state fatte verso la fine degli anni 60, in una società meno avanzata di quanto non lo sia quella spagnola di oggi».
E perché, invece, in Spagna, come in molti altri paesi mediterranei, si è fatto poco o nulla?
«Perché è necessaria un precisa volontà politica e un colpo di timone ideologico, come quello che diede Zapatero con la riforma sul matrimonio omosessuale. Non si sta parlando solo di un cambio di norme, ma anche di mentalità e di valori.
«Una riforma come questa è possibile solo all’interno di una catarsi sociale che sostituisca individualismo e consumismo con solidarietà, educazione, cultura, apertura all’altro. D’altra parte il fermento politico e le istanze di cambiamento che vengono dalla cittadinanza fanno pensare che i tempi siano maturi».
Quali sono le misure chiave del vostro programma?
Nell’ambito della cura degli anziani, garantire a ogni persona il diritto all’indipendenza e a essere assistita in strutture statali. Per quanto riguarda la maternità/paternità, la progressiva introduzione del permesso retribuito al 100% e di uguale durata per entrambi i genitori indipendentemente dal sesso e dall’orientamento sessuale. Le sole due settimane di permesso per i papà (a fronte delle 16 materne, ndr) sono costate solo 200 milioni di euro nel 2014.
Estenderle avrebbe un costo relativamente basso, ma inestimabili vantaggi: metterebbe fine, in primo luogo, alla discriminazione delle donne nella ricerca d’impiego e apporterebbe evidenti benefici nella cura del neonato. Per quanto riguarda l’educazione infantile, proponiamo asili gratis fino a 3 anni, e settimana lavorativa di 35 ore».
La misura più urgente?
«Direi l’equiparazione dei congedi parentali. È la più emblematica».
«La seduzione dello Stato Islamico poggia sul concetto di appartenenza e per chi non ce la fa più a sgomitare e cerca nei suoi simili un gruppo al quale appartenere». Il Fatto Quotidiano online, blog "Economia occulta", 8 marzo 2015
Lo Stato Islamico è diventato un business, come lo divenne il terrorismo all’indomani dell’11 settembre. Dai giornalisti ai professori, dagli esperti alle think tank specializzate nel processo di radicalizzazione, persino il comune cittadino, grazie ai social media, esprime le proprie opinioni e così facendo promuove se stesso o attacca chi la pensa diversamente. E’ questo un bene? Lo sapremo tra 50 anni quando i posteri scriveranno di come abbiamo gestito questo periodo buio della storia della nostra civiltà.
Ma se fermiamo per un momento tutta questa ‘caciara’ opinionista e cerchiamo di capire cosa succede usando non gli strumenti del presente, la tecnologia informatica che mette tutti a contatto con gli altri, ma quelli del passato, l’analisi del male, le cose cambiano. La storia europea ci offre un esempio di comportamento malvagio e disumano recente, la soppressione a livello industriale degli ebrei, l’olocausto. Anche Hitler faceva pulizia etnica, sopprimeva gli omossessuali e distruggeva scientificamente la diversità. Spogliava dell’umanità il diverso. E lo faceva con un esercito ben addestrato e con il consenso della popolazione. Ce lo siamo dimenticato? Eppure ogni anno celebriamo il giorno della memoria per ricordare gli orrori di cui questo continente è stato capace.
Il Papa, unica luce in questo buio esistenziale nel quale siamo piombati, ha il coraggio di mettere in dubbio la consuetudine ideologica-religiosa della nostra normalità. “Quando siamo schiavi dell’autoreferenzialità finiamo per coltivare una ‘spiritualità di etichetta': ‘Io sono Cl'; e cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento autoreferenziale, quel guardarci allo specchio che ci porta a disorientarci e a trasformarci in meri impresari di una Ong”. Queste le sue parole.
In fondo anche i giovani mussulmani che vengono sedotti dal messaggio dello Stato Islamico sono schiavi di un’ideologia totalmente autoreferenziale che gli fa credere di appartenere alla normalità di un mondo monolitico, dove tutti sono uguali agli altri. La storia di Jihadi John, un ragazzino che non riusciva a trovare una sua collocazione nell’Inghilterra contemporanea, vessato dai servizi segreti che lo volevano trasformare in una spia, assomiglia molto a quella di Abu Mussaq al Zarqawi, il proletario giordano, bulletto di quartiere che in prigione scopre la ‘normalità’ del salafismo radicale. Ed anche quella delle promesse spose dei guerrieri jihadisti, che sognano un marito con la sciabola alla cintura ed una famiglia a Raqqa, rientra in questa ‘normalità’. Accettare la diversità è quasi diventato impossibile in un mondo sovrappopolato dove per farsi spazio bisogna lavorare di gomito costantemente.
La seduzione dello Stato Islamico poggia sul concetto di appartenenza e di normalità per chi non ce la fa più a sgomitare e cerca nei suoi simili, i deboli, un gruppo al quale appartenere. La celebrazione dell’individualismo che lo smembramento del socialismo e la vittoria del neo-liberismo ci ha regalato ha prodotto anche questo, la solitudine esistenziale di chi non ha i numeri per emergere dalla massa. Questo sicuramente non lo abbiamo letto da nessuna parte.
Un incontro casuale su un treno che da Amsterdam mi portava a Parigi qualche settimana fa ben illustra questo concetto. Nel vagone ristoro c’era un ragazzo di vent’anni che leggeva la versione olandese del mio libro sull’ Isis.
Mi sono avvicinata ed abbiamo iniziato a chiacchierare. Era iracheno, di Baghdad, ed era sunnita. La famiglia si era trasferita ad Amsterdam quando aveva 12 anni perché sfollati, la loro casa è stata requisita da una delle tante milizie sciite ed hanno avuto la fortuna di trovare asilo in Olanda. Una storia come tante altre, simile a quella di mia suocera, ebrea fuggita da Berlino nel 1938 a soli 14 anni con la madre grazie ad uno sponsor di New York. Anche per loro l’impatto con il nuovo paese è stato traumatico, il padre del ragazzo era professore di chimica adesso fa il tassista e lui, laureatosi in ingegneria non trova lavoro ed è stanco di aiutare il padre con il tassi. Anche la nonna di mio marito è finita a fare la cameriera in un albergo mentre a Berlino lavorava in borsa. Ma nel 1940 per i giovani ebrei in America era possibile costruirsi un futuro, nell’Europa contemporanea per i giovani mussulmani diventa sempre più difficile, quasi impossibile, farlo.
Il ragazzo iracheno mi ha raccontato di alcuni suoi amici che un paio d’anni fa hanno deciso di andare in Siria a combattere, chissà forse qualcuno è finito anche nelle file dell’Isis o di al Nusra, lui non lo sa o almeno così mi ha detto. Ma capisce l’attrazione, la seduzione che l’idea di andarsene esercita sui suoi coetanei. Una normalità frutto della scelta comune e della vita da sogno prospettata dai reclutatori dello Stato islamico. E’ un’illusione, gli ho detto. E lui mi ha risposto che è vero ma qual è l’alternativa?
Nel 1961 Hanna Arendt descrisse la banalità del male, attribuendo ai nazisti un comportamento da automa dettato da codici di normalità che li hanno portati a commettere un genocidio. La tesi fu duramente criticata ed oggi viene accettata come una delle interpretazioni più autentiche della tragedia dell’olocausto.
La banalità del male è ancora oggi la chiave di lettura delle barbarie perpetrate dallo Stato Islamico. A prescindere dalle esecuzioni degli ostaggi, che senso ha distruggere monumenti di un’era antecedente alla nascita del profeta? Domandiamoci questo, come possono le statue Assiro babilonesi essere idoli dal momento che chi le ha costruite non conosceva la parola del profeta? Fare tabula rasa del passato aiuta la costruzione della normalità del presente, è per questo che Hitler voleva sterminare gli ebrei tedeschi, si stratta di uno sfoggio di debolezza da parte di chi non ha più il coraggio di pensare e di scegliere, individui alienati da una società che secondo loro non li vuole.
Le radici della radicalizzazione sono sempre le stesse ed affondano nel nostro subconscio. Uccidere e distruggere sono atti contro natura ma se questa si rivela nemica allora è facile costruirne un’altra, monolitica ad immagine e somiglianza della propria debolezza.
Il ragazzo iracheno mi ha dato ragione, la seduzione dello Stato Islamico altro non è che la normalità dei deboli che nella violenza si illudono di essere forti. E più l’esercito dei deboli cresce, più questa normalità diventa realtà. In fondo questa era anche la seduzione del nazismo.
Ci siamo salutati quando il treno entrava a Bruxelles. Mi ha chiesto di firmargli il libro, ho scritto “in bocca al lupo” ne abbiamo tutti bisogno.
Il manifesto, 8 marzo 2015
UN CORPO FUORI CONTROLLO
di Geraldina Colotti
Diritti. Libertà sessuali e riproduttive, educazione, agibilità politica, il manifesto di Amnesty. Medici senza frontiere mette l’accento sui problemi sanitari delle adolescenti
Il corpo e i diritti, My body: my right. S’intitola così il manifesto diffuso da Amnesty International per la giornata delle donne. Contiene 7 principi e una domanda: chi controlla il tuo corpo? I principi che Amnesty chiede di sottoscrivere attengono alle libertà sessuali e riproduttive, ma anche all’educazione e all’informazione necessarie per compiere scelte consapevoli e agli spazi di agibilità politica per influire sulle leggi e sui decisori. La presenza del punto 2 — «Cercare di abortire — o aiutare qualcuno a farlo — NON ci rende criminali» — la dice lunga sui passi indietro compiuti, anche in Italia, in questo ambito.
La sovranità della donna sul proprio corpo — bandiera insindacabile negli anni che hanno prodotto leggi avanzate e garantiste — è diventata un fortino da difendere da costrizioni economiche e pressioni simboliche dovute al ritorno di familismo e marianesimo. E così, fa riflettere anche il punto 3: «I servizi sanitari di qualità, a costi sostenibili e nel rispetto della riservatezza compreso l’accesso alla contraccezione, non sono un lusso, sono un diritto umano». Parlare di welfare e gratuità dei servizi è diventata quasi una bestemmia.
A 104 anni dall’8 marzo del 1857, quando morirono nell’incendio le operaie in sciopero in una fabbrica tessile di New York, nelle fabbriche ad alto sfruttamento si continua però a morire: è successo in Bangladesh solo 3 anni fa, quando 110 operaie che producevano per la Disney hanno perso la vita in un incendio. Epperò, non ci sono più le comuniste e le socialiste che, guidate da Clara Zetkin, allora dedicarono alle operaie un 8 marzo di lotta e la speranza di un’altra società.
Invece, anche analizzando i dati contenuti nell’ultimo Rapporto di Amnesty sui diritti (edito da Castelvecchi), emerge l’urgenza di coniugare libertà e giustizia sociale, anticorpo indispensabile contro guerre, soprusi e impunità. Medici senza frontiere mette l’accento sui problemi sanitari delle adolescenti e rileva che il 95% delle gravidanze precoci avviene nei paesi in via di sviluppo e che la mortalità materna è la seconda causa di morte tra i 15 e i 19 anni. «In molti paesi — scrive — ragazze e giovani donne in particolare, spesso non ricevono un’educazione sessuale di base né informazioni sulla salute riproduttiva e devono affrontare notevoli barriere per accedere all’assistenza sanitaria. In alcune culture le donne non hanno la possibilità di prendere le proprie decisioni sulla salute».
Certo, il patriarcato viene prima del capitalismo, ma nei paesi in cui le donne hanno accesso ai diritti elementari, prima di tutto al lavoro e all’istruzione, la loro condizione cambia. E laddove hanno più potere — potere di sé e di poter fare — la differenza di genere diventa forza. «Se non fossi stata ministra della Difesa non avrei mai potuto essere eletta presidente», ha detto Michelle Bachelet. La presidente cilena, che in precedenza ha diretto Onu Mujer, a fine febbraio ha organizzato in Cile un incontro internazionale di alto livello dal titolo: «Le donne nel potere e nelle decisioni: costruendo un mondo differente». Bachelet ha presentato i progressi compiuti dal suo governo per sostenere le donne «in particolare le più povere» e per aumentare l’assistenza ai bambini e agli anziani «in modo che questo non pesi più su di loro e possano trovare un lavoro e realizzarsi». Ha illustrato l’indirizzo adottato per modificare leggi e istituzioni. «Certo — ha detto -, il Cile ha eletto per la seconda volta una donna alla presidenza, la nostra presidente del Senato è una donna, la leader dei lavoratori, Barbara Figueroa, è una donna, e varie dirigenti del movimento degli studenti sono donne. Tuttavia, il Cile non è il paradiso per le donne». Infatti, il parlamento è ancora composto all’84% da uomini, e con quella composizione verrà discussa la proposta di legge sull’aborto.
Le cose non vanno certo meglio per le donne di altri continenti. Amnesty segnala che, in Afghanistan, i primi sei mesi del 2014 hanno fatto registrare 4.154 casi di violenza contro le donne. Violenze di genere commesse all’interno delle famiglie, ciò che ha reso impossibile l’azione giudiziaria.Oggi, il popolo curdo dedica l’8 marzo alla rivoluzione delle donne del Rojava e alla resistenza delle Unità di difesa delle donne (Ypj), che in Siria «combattono la loro guerra di Liberazione dall’Isis e difendono anche la nostra libertà». Lo Sciopero globale delle donne lancia invece una petizione internazionale per «Un salario degno per le madri e per altre lavoratrici di cura».
E, in Italia, la Rete Nazionale dei centri anti-violenza (DiRe) affida alla giornata una domanda per il governo Renzi: «Che fine ha fatto Piano Nazionale contro la violenza alle donne annunciato da oltre un anno?».
UN NUOVO MODELLO DI RIVOLTA
di Bia Sarasini
Neppure nel 1977, anno piuttosto turbolento. Allora l’arma fu il gesto femminista, in piazza, le mani unite in alto, nel triangolo che indica il vuoto e la potenza del sesso femminile. («Il gesto femminista», a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, Derive&Approdi). Atto forte, sovversivo. Mi è venuto in mente nel guardare la foto della ragazza che qualche giorno fa è andata in giro da sola per Kabul, coperta da una specie di armatura, indossata sopra gli abiti e comunque con il velo in testa, che disegnava il corpo nudo di una donna. Lei però era sola, in mezzo agli uomini esagitati che l’hanno circondata e semi-aggredita. La donna armata dice qualcosa di nuovo, segnala un cambiamento. La foto è stata scelta con cura, la ragazza non punta l’arma e non alimenta lo stereotipo della bella guerrigliera. L’invito delle donne curde dice: «Organizziamo la resistenza ovunque nel mondo le donne subiscano violenza. Diffondiamo insieme lo spirito di resistenza che ci unisce e ci rafforza contro ogni manifestazione del sistema di dominio patriarcale».
Un invito politico, che non trasporta in Occidente la guerra che viene combattuta dalle donne peshmerga in prima persona, sui campi di battaglia. Una lotta che è entrata con forza nel nostro immaginario da settembre, prima con i combattimenti e poi la successiva liberazione di Kobane. E così sono venuti i reportage, le interviste in tutti i media mainstream, soprattutto i femminili. Senza dubbio le combattenti hanno acceso l’immaginazione, hanno attivato un fuoco latente. Suscitano un’enorme ammirazione, combattono per la libertà loro e delle loro figlie, contro un esercito, quello dell’Isis, per il quale essere donne è una colpa, e fonte di contaminazione, all’interno di un’organizzazione, il Pkk, che ha fatto dell’uguaglianza tra donne e uomini un proprio valore.
Eppure. Come la mettiamo con la non violenza? Con la convinzione femminista che la guerra è una vicenda maschile? L’Isis è un nemico che mette a tacere qualunque dubbio, a proposito di guerra? Sono domande aperte, tutte da affrontare. E inquieta che non ci sia nessuna (e nessuno) che le raccolga. Ma non è il caso di confondere i piani. Non tutte le manifestazioni in Italia dedicate alla lotta delle donne curde mettono direttamente in scena una donna armata. In ogni caso un conto è un popolo in guerra, che difende la propria vita, altra è la situazione qui, in Italia.
Ma bisogna dirlo. In tutte queste manifestazioni si avverte un inedito spirito di rivolta. E non solo tra le più giovani e radicali.
Ci si ribella anche contro l’eterna ripetizione della donna vittima. Non che il femminicidio, o i maltrattamenti, siano un’invenzione. Eppure il martellamento implacabile dei dati, la ripetizione compiaciuta di storie di crudeltà e sopraffazione senza indicare vie d’uscita, è ormai insostenibile. Una generazione che ha scoperto di essere donna – differente dai propri coetanei – nel rifiuto della violenza contro il proprio genere, e ha dato vita alle prime manifestazioni del 25 novembre dieci anni fa, sperimenta ora la necessità di partire da sé, di non aspettare soluzioni da fuori, da altri. E anche la grande fiammata, ormai spenta, di Se non ora quando, la grande manifestazione del 13 febbraio 2011 che ha dato voce a un’enorme rabbia femminile, si è sedimentata. Siamo oltre, anche oltre la delusione.
Le donne sono dappertutto, dice la Libreria delle donne di Milano. È certamente vero Non siamo più in regime di scarsità, e sia pure con tutte le ben note mancanze, non c’è settore della vita pubblica, politica e professionale, in cui non ci siano donne. Che parlano, anche in Italia. La presidente della camera Laura Boldrini ha di nuovo ricordato la necessità di usare bene le parole, di declinarle sempre anche al femminile. Ottima battaglia, le reazioni sgangherate dicono quanto sia necessaria. Ma questo significa che il femminismo gode di buona salute? Che è disponibile all’elaborazione comune una visione politica che permetta di agire in questi tempi di crisi?
Ecco, la crisi. È la crisi che ha rimescolato le carte, che ha obbligato a guardare con occhi diversi le storie di ciascuna e ciascuno. Se la parità di retribuzione tra donne e uomini è un problema aperto, e giustamente rivendicato, che deve dire chi si trova incatenata al meccanismo dei piccoli lavori precari equamente mal retribuiti? Per non dire sottopagati? Lo spirito di rivolta nasce qui, in condizioni materiali di esistenza in cui si è imparato a vedere che differenze ci sono, tra donne e uomini, anche nella precarietà. Che non è una categoria indifferenziata, come in tante avevano rivendicato, scagliandosi contro l’ostinazione di pensarsi differenti delle femministe d’antan. Che il post-patriarcato non prescinde dai corpi e dalle loro differenze. Anzi li mette al lavoro in nuove forme peculiari, per esempio nella maternità surrogata, in un biolavoro schiavizzante che ha molte affinità con lo sfruttamento della natura, della terra. È su questo terreno che vanno ridefinite le relazioni, tra donne e uomini. E le protezioni sociali, quelle che l’austerità europea ha fatto sparire, vanno ripensate sulla base di nuovi modelli, di una nuova pratica della cura, che certo non potranno basarsi sul capofamiglia di un tempo. In un intreccio tra economia, bisogni, relazioni, sentimenti e affetti tutto da ripensare.
Insomma, è una speranza la ribellione alle trappole fabbricate dalla crisi. Fa piazza pulita delle zone fin troppo comode, fin troppo separate, che nel tempo si sono costruite. La crisi non ha pietà. Richiede tutta la nostra capacità di sognare grandi imprese.
«Nelle formazioni politiche a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette in discussione per costruire qualcosa di nuovo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, e nemmeno Die Linke o Front de Gauche».
Blog di Claudio Grassi, 7 marzo 2015
Senza affrontare questi nodi potremo scrivere ogni giorno che faremo come Syriza e Podemos, ma non faremo un passo avanti in quella direzione. La proposta di coalizione sociale avanzata dalla Fiom ha il pregio di cercare il bandolo della matassa a partire dai contenuti e di offrire una proposta di mobilitazione concreta per i prossimi mesi a partire dalla manifestazione del 28 marzo. Questo è positivo e tutti dobbiamo stare dentro questa proposta della FIOM. Il problema, però, è che sul versante delle formazioni politiche che sono a sinistra del Pd manca la consapevolezza che una fase si è chiusa e che se non ci si mette tutti in discussione per costruire qualcosa di nuovo non solo non si farà nessuna Syriza e nessun Podemos, ma non si farà nemmeno Die Linke o Front de Gauche. Siamo terribilmente indietro e fermi e nasconderlo non solo non serve, ma è inutile e dannoso.
Grazie alla cortesia dell'autore pubblichiamo la relazione introduttiva all'
Berlinguer e l’Europa
i fondamenti di un nuovo socialismo
1.
Enrico Berlinguer è stato senza dubbio una delle personalità politiche più rilevanti nella seconda metà del Novecento. Soprattutto per aver posto nel cuore dell’Europa, non in termini di pura ricerca intellettuale bensì di lotta politica concreta che ha mobilitato milioni di donne e di uomini, il problema della costruzione di una civiltà più avanzata oltre le colonne d’Ercole dell’ordinamento del capitale, dichiarate invalicabili dalla dogmatica del pensiero dominante.
Un «nuovo socialismo» e dunque, come Berlinguer stesso più volte ha sottolineato, una nuova gerarchia di valori, che abbia al centro l’uomo e il lavoro umano, che esalti «le virtù più alte dell’uomo»: la solidarietà, l’uguaglianza, la libertà, la giustizia. Forse il punto più alto toccato dalla politica europea nel secolo passato. E forse proprio perciò, in questo tempo buio di crisi del Vecchio Continente e della stessa idea di Europa, oggi maggiormente trascurato, nonostante le numerose e importanti iniziative che nel trentennale della morte hanno segnato in Italia un ritorno del suo pensiero e della sua alta visione della politica.
Il segretario del Pci è vissuto e ha lottato in un’altra epoca storica. Il partito comunista da lui guidato è stato messo in liquidazione più di vent’anni fa, l’Unione sovietica e il «socialismo realizzato» sono scomparsi dalla faccia della terra, gli Stati uniti e il capitalismo finanziario globalizzato hanno trionfato, mentre potenze emergenti come la Cina e l’India stanno oggi cambiando l’assetto geopolitico del mondo. Non si può dire però che nel mondo abbia trionfato il bene comune.
Al contrario, il capitalismo del nostro tempo non è stato emendato dei suoi vizi e delle sue contraddizioni che sono esplose con inusitata virulenza, fino al punto da mettere in discussione la sicurezza stessa del genere umano, come di recente ha messo in luce anche Naomi Klein[1]. I fattori di instabilità e i rischi per la pace si moltiplicano. E in Europa, invece di avanzare sul terreno dell’unità politica e di più evolute forme di democrazia e di partecipazione, prevalgono indirizzi oligarchici di tecnoburocrazie al servizio dei gruppi dominanti del capitale, che diffondono disoccupazione, precarietà e malessere di massa, alimentando moderni fascismi, populismi e nazionalismi su cui crescono aberranti forme di violenza e terrorismo.
Berlinguer torna di attualità oggi proprio perché i problemi del mondo e dell’Europa che voleva cambiare non solo persistono, ma per molti aspetti si sono drammaticamente aggravati. Per questa ragione, se l’intento che ci muove è quello di costruire un’altra Europa, è utile ripercorrere i passaggi più significativi del pensiero e della pratica politica del segretario del Pci. Non per nostalgiche e impossibili riviviscenze del passato, ma per riscoprire un metodo e impadronirci di chiavi di lettura che possono aprirci le porte all’interpretazione critica del presente, e quindi alla costruzione di un mondo nuovo e di una diversa Europa. A maggior ragione dopo la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia, che ha acceso grandi speranze e rende ancora più urgente l’esigenza di un generale cambiamento in tutto il Vecchio Continente.
2.In un’intervista rilasciata a poche ore dalla morte che lo ha colto improvvisamente a Padova durante il comizio per le elezioni europee del 1984, interrogato sulla posta in gioco in quel voto, Berlinguer rispondeva: «Prima di tutto, la questione della “unità politica” dell’Europa. È proprio dalle file del gruppo comunista che è venuta la proposta più innovativa che sia stata fatta nel corso di questi cinque anni di vita del Parlamento europeo». Quella di Altiero Spinelli, allora vicepresidente del gruppo comunista e apparentati, che - chiariva Berlinguer - «propone […] di passare da un semplice “mercato comune” a una “unificazione politica dell’Europa” e di spostare l’asse del potere dai governi che hanno fatto soltanto […] compromessi tra di loro al Parlamento europeo eletto a suffragio universale»[2].
Dunque, un tema oggi quanto mai aperto e un passaggio democratico decisivo, allora sostenuto dal Pci di Berlinguer, per costruire l’Europa dei popoli e dei lavoratori. A sua volta, Altiero Spinelli osservava: «Senza la forza del Pci non avrei potuto condurre la mia battaglia europeista». Ma - aggiungeva - «si è trattato solo di un primo passo», e se il progetto dell’Europa unita verrà alla fine affidato non al Parlamento ma alle diplomazie e ai mercanteggiamenti tra i governi avremo «la liquidazione del progetto», come poi nei fatti è avvenuto. Quanto a Berlinguer, Spinelli osservava: «La sua iniziativa ed elaborazione politica vengono da lontano, ma è stato lui che ha portato a compimento, con rigorosa conseguenza, la saldatura tra democrazia e socialismo e una politica comunista tesa a conquistare un’Europa fatta dagli europei»[3].
Già nel 1969, quando ancora non era segretario del partito, a Mosca aveva respinto «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni»[5]. Nella sua visione innovativa era chiara e irreversibile l’impraticabilità in Occidente del modello del socialismo sovietico realizzato ad Oriente, che poi sarebbe crollato. Ma d’altra parte, la crisi delle società capitalistiche in Occidente, che veniva alla luce già negli anni 70, portava Berlinguer a concludere, in modo altrettanto chiaro e irreversibile, che il modello da seguire non poteva essere quello della socialdemocrazia.
Non da pregiudizi ideologici, bensì dall’analisi della crisi nei punti alti del sistema scaturiva secondo Berlinguer «la necessità di uscire dal capitalismo e di andare verso una società superiore». Giacché anche nei Paesi dove i partiti socialdemocratici erano al potere da decenni, nonostante significative conquiste sociali e le protezioni del welfare, egli vedeva «tutti i segni tipici della crisi di fondo delle società “neocapitalistiche”». Una crisi che si manifestava non solo nei disagi materiali di grandi masse ma anche nella diffusa condizione di alienazione dell’individuo, in quella «che si potrebbe definire […] l’infelicità dell’uomo di oggi»[6]. Perciò occorreva ricercare e battere vie del tutto nuove.
Analizzando i profondi cambiamenti che vengono alla luce nell’economia mondiale dei primi anni 70 con la svalutazione del dollaro e poi con la crisi petrolifera, e che si intrecciano con il moto di liberazione dei Paesi in via di sviluppo culminato con la vittoria del piccolo Vietnam sul colosso Usa, dopo che Salvador Allende era stato abbattuto in Cile da un golpe fascista, Berlinguer giunge alla conclusione che il mondo si trova di fronte a una «crisi di tipo nuovo». Non già a una ricorrente crisi ciclica del capitale. Esplodono – osserva – le contraddizioni intrinseche ai meccanismi economici e sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo post-bellico dei Paesi capitalistici più progrediti, e la crisi non è solo economica, ma investe nell’insieme i rapporti sociali, la politica, la cultura, le relazioni internazionali. «Ciò non significa - precisa - che il capitalismo è vicino al suo crollo o è senza via d’uscita». Però «sta di fatto che la crisi attuale non è superabile come quelle precedenti» e richiede «trasformazioni profonde, anche di tipo socialista»[7].
4.Il giudizio di Berlinguer è netto. In definitiva, con l’esaurimento del ciclo espansivo cominciato dopo la seconda guerra mondiale (i cosiddetti “trenta gloriosi”) si esaurisce anche la spinta propulsiva della socialdemocrazia. E va in crisi il compromesso che in cambio di una condizione di elevata occupazione e di migliori livelli di vita, da ottenere attraverso la redistribuzione del reddito e l’incremento della spesa pubblica, assicurava ai gruppi dominanti del capitale la direzione dell’economia e della società. In altri termini, di fronte alla contraddizioni esplosive del capitale nella fase della sua globalizzazione finanziaria, le tradizionali vie socialdemocratiche non sono più percorribili.
Berlinguer ci dice che non basta la critica al neoliberismo come ideologia della dittatura del capitale sul lavoro. C’è bisogno di una critica al modo di essere e alla natura del capitale. Anche perché, di fronte a quella che considera una crisi di fondo del sistema, appare del tutto insufficiente la riproposizione di tradizionali politiche di tipo keynesiano che galleggiano nella sfera distributiva senza toccare la sostanza dei rapporti di produzione, ossia i rapporti di proprietà. Ignorando che il capitale non è una “cosa”, un dato “naturale” al di là del tempo e dello spazio, un semplice accumulo di merci e di strumenti finanziari e tanto meno un algoritmo, bensì un rapporto sociale in continua mutazione ma storicamente determinato, che si instaura tra chi vende le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere e chi le compra per ottenere un profitto.
Un rapporto sociale sempre sottoposto a tensioni, ma che nel mondo di oggi si manifesta nella contraddizione drammatica tra sfruttati e sfruttatori, portando in primo piano una questione per principio ignorata: la questione proprietaria. Come il segretario chiarisce nel rapporto al Comitato centrale del Pci il 10 dicembre 1974, «le radici delle ineguaglianze, delle ingiustizie e dello sfruttamento nei rapporti internazionali, tra popoli e Stati, sono nella divisione in classi sfruttatrici e sfruttate, al di sopra delle frontiere». «La piramide di tutto il complesso della divisione, dell’oppressione e dello sfruttamento – tra classi e tra interi Paesi – ha per base i rapporti proprietari e di produzione capitalistici, con i quali in parte si sono fusi i rapporti proprietari e di produzione agrari di origine precapitalistica e di tipo feudale”[8].
Non è superfluo ricordare che nel Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita, redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, la questione proprietaria è ben presente. La «rivoluzione europea» - vi si legge - «dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici» affrontando il nodo della «proprietà privata», che «deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio»[9]. Una formula di grande interesse che richiama alla memoria quella di un altro manifesto, il Manifesto di Marx ed Engels, secondo cui «il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui»[10].
Resta il fatto, peraltro oggi di pubblico dominio, che non solo i liberali ma anche i socialdemocratici, pur di fronte a una crisi che porta alla luce la natura distruttiva e il limite storico del capitalismo, non hanno manifestato alcuna intenzione di mettere in discussione e di superare il rapporto sociale che riproduce il capitale, al di là delle diverse forme in cui il capitale si manifesta. E dunque di misurarsi con il presupposto della proprietà e dell’accumulazione capitalistica, che è all’origine dei drammi del mondo contemporaneo.
Gli uni e gli altri, sebbene con motivazioni diverse, hanno lavorato per difendere, tutelare, coccolare il capitalismo, anche nelle sue forme più deteriori e speculative. Significative, da questo punto di vista, le “riforme” del lavoro adottate dal governo Schröder e predisposte dal capo del personale della Volkswagen. O le misure fiscali con le quali, durante la crisi ancora in corso, il socialista Gordon Brown, erede di Tony Blair, ha spinto l’ascesa della grande finanza e della city in perfetta sintonia con il pensiero neoliberista. Del resto, come è stato notato da chi se ne intende, «senza Thatcher non si diventa Blair»[11]. Per cui appare del tutto appropriato il giudizio tagliente e definitivo di Oskar Lafontaine: «Socialismo e socialdemocrazia hanno finito per sposare i dogmi del mercato e della filosofia neoliberale»[12].
6.All’opposto, il tentativo di Berlinguer è stato proprio quello di misurarsi con il rapporto sociale di sfruttamento della persona umana che caratterizza il capitale, sulla cui base è stata eretta la società ingiusta e alienante in cui oggi viviamo. Come, perché e per chi produrre? Viene al pettine, al di là della distribuzione della ricchezza che in ultima analisi ne è l’effetto, il nodo stringente della finalità del produrre e del consumare, e quindi dell’uso delle risorse, umane e naturali, e della loro accumulazione e proprietà. A maggior ragione in presenza di una rivoluzione scientifica e tecnologica, che cambiando il modo di produrre, di lavorare e di vivere non è più contenibile dentro le vecchie forme proprietarie. E mette in discussione l’appropriazione privatistica dei frutti del lavoro sociale, nonché la conduzione autoritaria dell’impresa, dell’economia, della società.
Nel famoso discorso al teatro Eliseo di Roma, il 15 gennaio del 1977, Berlinguer afferma: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo»[13]. E ciò richiede, come dirà in seguito, «un intervento innovatore nell’assetto proprietario, tale da spingere materialmente la struttura economica» verso il soddisfacimento dei grandi bisogni dell’uomo e della collettività[14].
Un’operazione inevitabile, peraltro prevista dalla Costituzione italiana del 1948, per aprire la strada a un socialismo nuovo, a una soluzione socialista diversa da ogni modello esistente. Esaurite le due fasi del «movimento per il socialismo» finora ad allora conosciute, quella «scaturita dalla rivoluzione di ottobre» e «quella socialdemocratica», secondo Berlinguer «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico». Dunque, una terza fase, o una terza via: «la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell’Est europeo». «Una ricerca - aggiunge - nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia»[15].
In campo economico, «la terza via», secondo la visione berlingueriana, rifiuta la sovranità totalitaria del mercato ma anche la statizzazione integrale dei mezzi di produzione. E si incardina invece sulla combinazione di diverse forme di proprietà - pubblica, privata, cooperativa, comunitaria; sul governo democratico del mercato come misuratore di efficienza e sulla democratizzazione dell’impresa; su una pianificazione strategica al tempo stesso flessibile, volta ad assicurare un’alta capacità produttiva e il benessere sociale.
«In altri termini, sostiene il segretario del Pci, il quadro attuale del capitalismo […] - per un verso scuote nel profondo le illusioni neocapitalistiche, e ripropone la prospettiva e la necessità storica del socialismo; - per altro verso, nell’immediato, rende urgente una programmazione democratica dell’economia nei singoli Paesi capitalistici e una cooperazione internazionale, lungo una linea che non è ancora quella del socialismo, ma già esce fuori dalla logica del capitalismo e muove nella direzione del socialismo». In questo percorso, nel quale «il socialismo ci guarda da ogni finestra del capitalismo moderno»[16], è necessario e possibile realizzare la più ampia unità e collaborazione di forze sociali, culturali e politiche.
7.Il pensiero e la strategia di Berlinguer hanno una dimensione globale, ma l’epicentro della sua azione è l’Europa. Nel discorso pronunciato 18 luglio del 1979 nella prima seduta del Parlamento europeo eletto a suffragio universale, senza nascondere le diversità di posizioni con altri partiti comunisti, egli sottolinea la necessità di «sostanziali convergenze» nell’impegno volto a far avanzare nel mondo «la funzione di pace, di cooperazione e di progresso di un’Europa nuova, nella quale il socialismo - un socialismo nella libertà - si affermi come la via maestra per arrestare il declino di questa parte del nostro continente […] e per rinnovarne profondamente le strutture, i modi di vita, le classi dirigenti»[17].
«Al movimento operaio dell’Europa occidentale - aveva precisato qualche mese prima - spetta il compito storico di cogliere in tutta la sua portata la dimensione di questo processo e di farsi forza propulsiva e dirigente della costruzione di un’Europa comunitaria democratica, progressista e pacifica, che muove in direzione del socialismo»[18]. Un’impostazione che sarà confermata e arricchita nella relazione al XVI congresso del Pci nel marzo 1983 - l’ultimo al quale Berlinguer ha partecipato prima della morte -, dove sostiene che le idee e le pratiche del socialismo devono radicalmente rinnovarsi perché, in presenza di diversi fattori che interagiscono contestualmente sullo scenario globale, «la storia umana - e per i pericoli e per le possibilità - è giunta a un momento per certi aspetti supremo del suo cammino». Tali fattori li individuava in sintesi come segue.
La tendenza alla sostanziale unificazione su scala mondiale della vicenda dell’umanità, in cui sono ugualmente coinvolti i Paesi ad alto sviluppo capitalistico e i Paesi del “terzo” e “quarto” mondo. La rivoluzione scientifica e tecnologica, che produce effetti sconvolgenti sui modi di lavorare e di vivere e quindi «sulla politica, e sull’attività dei suoi organismi (partiti e Stati)». Il mutato carattere della guerra, che, con l’uso delle armi atomiche e termonucleari e di altre armi di sterminio in caso di deflagrazione di un conflitto tra Usa e Urss, «porterebbe alla distruzione dell’intera civiltà umana»[19].
Un rischio, questo, che Berlinguer vedeva accrescersi in conseguenza dell’inasprimento delle tensioni alimentate dalla guerra fredda. E che quindi imponeva un’iniziativa prioritaria sul terreno della sicurezza e della distensione, per affermare una pace stabile e duratura. Premesso che la lotta per la pace non elimina la lotta di classe, ma non coincide con essa perché potenzialmente è molto più ampia e pone la stessa lotta delle classi subalterne su un terreno più avanzato, Berlinguer ritiene che l’Europa, un’Europa «né antisovietica né antiamericana», possa giocare un ruolo da protagonista per far avanzare un processo di coesistenza pacifica e di distensione tra i due blocchi.
8.Nella sua visione la coesistenza non è la presa d’atto e il consolidamento dello statu quo, vale a dire della spaccatura del mondo in due. Bensì un processo dinamico, volto al superamento dei blocchi contrapposti attraverso l’isolamento delle forze dell’imperialismo bellicista e delle politiche di potenza. Ciò che comporta lo smantellamento delle basi militari in un complessivo processo di disarmo bilanciato, nel quale siano garantite la libera autodeterminazione di ogni popolo e la piena sovranità di ogni Stato. Una visione di grande dinamicità a tutto campo: che delinea un nuovo internazionalismo e ricerca punti di incontro e di azione comune con altre forze; mentre considera decisivo il rapporto Nord-Sud, in cui l’Europa gioca un ruolo centrale come porta aperta sul Mediterraneo; e perciò mira al consolidamento dei rapporti con i movimenti di liberazione e con i Paesi di recente indipendenza.
Nella difficile e contrastata lotta per far avanzare l’Europa verso la conquista della sua autonomia, che avrebbe potuto portare a esiti imprevedibili nella configurazione del mondo, Berlinguer si incontra e interagisce con le posizioni più avanzate della socialdemocrazia, espresse allora da Olof Palme e da Willy Brandt con la sua ostpolitik. Un rapporto segnato da alti e bassi, che entra in crisi quando il leader della socialdemocrazia tedesca e capo del governo cede alle pesanti pressioni dell’amministrazione Nixon, dimettendosi e lasciando l’incarico a Helmut Schmidt. Il cancelliere del riallineamento europeo all’egemonia degli Usa, che nel 1976 fu tra i più accesi sostenitori del veto americano all’ingresso del Pci nel governo del Paese.
Solo negli anni seguenti si riannoderà un dialogo proficuo con la socialdemocrazia, o più precisamente con una parte di essa. Berlinguer, che aveva ipotizzato un governo mondiale come espressione di un diverso ordine geopolitico, riallacciandosi al Rapporto Brandt del 1980, propone una Carta della pace e dello sviluppo «che abbia al centro il tema di un nuovo rapporto tra Nord e Sud del mondo, dell’interdipendenza e della cooperazione dei popoli, della equa distribuzione delle risorse: del cibo, dei capitali, delle risorse energetiche»[20].
Molto attento alla realtà dei rapporti di forza, il segretario del Pci sostiene che il superamento dei blocchi contrapposti, e a maggior ragione l’uscita unilaterale dalla Nato, non si può porre come pregiudiziale nell’Europa divisa in aree d’influenza tra Usa e Urss, ma si può ottenere solo se va avanti il processo di distensione. Quindi, più che un presupposto, in presenza di due superpotenze dotate di armi di distruzione totale, è un obiettivo da perseguire con un movimento reale e con adeguate iniziative che portino a un progressivo allentamento delle rigidità dei blocchi militari, fino al loro scioglimento e all’affermazione di un nuovo ordine mondiale. Il vero problema, allora, è nell’immediato «come si sta nel Patto Atlantico e quale politica debbono fare il Patto Atlantico e la Nato»[21], lottando per ottenere la riduzione degli armamenti e la soluzione negoziata dei conflitti.
Sul punto, il giudizio del segretario del Pci è molto chiaro: il socialismo ha bisogno di un generale e profondo rinnovamento. Le sue parole, pronunciate nel marzo 1983, hanno la forza della denuncia e dell’indicazione di un programma d’azione, che con la tempra del combattente Berlinguer aveva cominciato ad attuare anche nel suo stesso partito, ma che la morte inaspettata, colpendolo all’improvviso, gli ha impedito di portare a compimento. «Dal generale panorama dell’epoca nostra - afferma - emerge […] la necessità di portare avanti la lotta per il socialismo su scala mondiale e nei singoli Paesi. Ma emerge anche la necessità di un grande rinnovamento del socialismo. E’ questo il problema che ci appassiona e che il Pci ha posto al centro del suo impegno teorico e pratico. Rinnovamento all’est e all’ovest; al nord e al sud. Generale è l’esigenza di approfondire la comprensione dei tempi attuali e di ridare vita a quella creatività che è la linfa di ogni teoria e prassi rivoluzionaria»[22].
Dunque, rinnovamento in tutti i campi. Che deve muovere dal principio teorico e ideale secondo cui per liberare l’uomo, «perché egli possa affermare in modo pieno la sua dignità di persona, è necessario un processo generale di trasformazione della società e del potere, ossia un processo rivoluzionario che, avanzando anche gradualmente, non lasci indietro né sfruttati, né subalterni, né discriminati, né emarginati, né diseredati per principio o per destino»[23].
Ciò significa che la politica deve sapersi misurare con la nuova dimensione della questione sociale e della questione ambientale, entrambe alimentate da un unico meccanismo di sfruttamento; che il patrimonio teorico e ideale dei comunisti e del movimento operaio deve saper riconoscere la portata dei nuovi movimenti, in particolare delle istanze rivoluzionarie indotte dalla differenza femminile; che non si possono sottovalutare le spinte al cambiamento provenienti da ispirazioni culturali diverse, come quelle di matrice cristiana.
10.Sulle lotte e sulle prospettive del movimento dei lavoratori in Europa - sottolinea il segretario del Pci - pesano fortemente le divisioni, le difficoltà e le resistenze a realizzare una politica di maggiore integrazione e di effettiva autonomia, facilitando con ciò la linea neoliberista di Reagan e di Thatcher che assesta duri colpi all’economia e alle conquiste sociali del Vecchio Continente, ridisegnando la configurazione delle classi sociali e ponendo su nuove basi il conflitto capitale-lavoro. Prioritaria, in queste condizioni, diventa l’esigenza di allargare le «basi sociali del movimento per una trasformazione socialista»[24], oltre la classe operaia e il movimento operaio tradizionalmente intesi. Questa, a mio parere, è una delle intuizioni di Berlinguer di maggior rilievo teorico e pratico, tuttora di grande attualità.
La ricerca, secondo la sua analisi, va condotta in due direzioni. Da una parte, verso le masse crescenti degli esclusi dal lavoro, che il meccanismo di sfruttamento capitalistico, giunto all’apice del suo dominio, pone ai margini della società in posizione di perenne subalternità, precarietà e incertezza. Dall’altra, in direzione di quelle nuove figure professionali del lavoro intellettuale e di ricerca (i camici bianchi) che la rivoluzione scientifica e digitale, mentre riduce il peso numerico della classe operaia tradizionalmente intesa (le tute blu), porta alla ribalta nella «lotta per la trasformazione della società» in quanto sfruttate «dalla appropriazione privata del profitto»[25].
Si tratta di una questione cruciale, che oggi, di fronte alla frantumazione che alimenta la guerra tra “garantititi” ed “esclusi”, propone in termini del tutto inediti l’unificazione del lavoro salariato ed eterodiretto, di tutti coloro, uomini e donne, che per vivere devono lavorare. Un’area molto vasta e dai confini incerti, dove, come è stato giustamente notato, «non c’è un solo protagonista - il knowledge worker o il precario o l’erede metropolitano dell’operaio massa - ma l’insieme delle figure lavorative»[26]. Ed è proprio qui, su questo terreno, che la sinistra gioca una partita decisiva nella costruzione di un’altra Europa.
Se costruire una civiltà più elevata, ossia un nuovo socialismo, vuol dire lottare per il «superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni» assicurando «la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento tra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura»[27], come egli stesso chiarisce, allora da Berlinguer e dalle sue analisi occorre riprendere il cammino. Nelle condizioni di oggi, appare sempre più chiaro che per la costruzione di un’altra Europa è indispensabile la presenza e l’affermazione in tutto il continente di una libera a forte coalizione politica dei nuovi lavoratori del XXI secolo, con caratteristiche popolari e di massa.
All’inizio di questo nostro travagliato secolo, le parole del segretario del Pci, pronunciate nel 1984, appaiono profetiche: «Si parla ormai di fallimento della Comunità. C’è chi raccomanda di tornare indietro all’Europa delle patrie. Ma non è pensabile che la via d’uscita dalla crisi della Comunità europea possa consistere nel ripiegamento di ogni singolo Stato nella sua peculiare identità. Una frammentazione dell’Europa in Stati nazionali costituisce, contrariamente a quanto avvenne nel secolo scorso, un freno allo sviluppo, alla crescita della civiltà in Europa e anche alla crescita della civiltà su tutto il pianeta. L’Europa dei popoli e dei lavoratori è l’unica Europa possibile»[28].
Questa è esattamente la questione strategica che sta di fronte a noi. E i segnali che vengono dalla Grecia e dalla Spagna ci dicono che si può aprire un percorso nuovo.
Note