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Il manifesto, 1º aprile 2015

L’appello è pre­sto fatto: ci sono tutti ma pro­prio tutti a festeg­giare i cent’anni di Pie­tro Ingrao. Come una riu­nione di fami­glia, certo. Ma la fami­glia è grande, allar­gata, cent’anni di sto­ria d’Italia. «Lui non ha potuto por­tare il carico dei suoi anni qui con noi», spiega Mario Tronti.

Ma gli Ingrao sono tanti, com­po­sti ed emo­zio­nati, quat­tro gene­ra­zioni, dalla sorella Giu­lia, ai figli Cele­ste, Bruna, Renata, Chiara e Guido fino ai loro nipoti. Non basta la Sala della Regina della Camera, così l’incontro inti­to­lato ’Per­ché la poli­tica’ «senza punto inter­ro­ga­tivo», spiega la pre­si­dente Laura Bol­drini, si spo­sta nella ster­mi­nata aula dei gruppi par­la­men­tari. Le prime file sono per gli Ingrao, gli amici e i pre­si­denti della Repub­blica Mat­ta­rella e Napolitano.
Die­tro di loro le sini­stre diverse che però tutte (o quasi) non pos­sono non dirsi ingra­iane, almeno per gra­ti­tu­dine, per aver impa­rato da lui la pra­tica del dis­senso e quella del dubbio.

Nei ban­chi, Sua Mae­stà il Caso scom­pone e ricom­pone la sto­ria del Pci-Pds-Ds-Pd in nuove curiose sequenze: Occhetto l’uomo della Svolta accanto a Luciana Castel­lina fon­da­trice del mani­fe­sto, Aldo Tor­to­rella il comu­ni­sta demo­cra­tico padre dell’associazione per il Rin­no­va­mento della sini­stra accanto all’ex pre­mier Mas­simo D’Alema che due set­ti­mane fa ha pro­po­sto una nuova omo­nima asso­cia­zione. L’ex pre­si­dente del senato Man­cino accanto ai col­le­ghi ex della camera Vio­lante e Ber­ti­notti, a seguire Gen­naro Migliore, l’ultimo (per ora) a gui­dare un fram­mento di sini­stra in una simil scis­sione, onore alle vec­chie abi­tu­dini; l’ex gover­na­tore Bas­so­lino con la pasio­na­ria anti­ren­ziana Pol­la­strini, a sua volta accanto al pacato capo­gruppo Pd Spe­ranza; il migliore dei miglio­ri­sti Maca­luso con l’ingraiano Tocci, l’asorrosiano Asor Rosa e il civa­tiano Cor­ra­dino Mineo. La ditta Bersani&Epifani con la pro­diana Zampa. Il lea­der della Fiom Lan­dini, inse­guito dalle tele­ca­mere, accanto a Mussi, alla gio­vane euro­rin­fon­da­rola Eleo­nora Forenza e al dc Gerardo Bianco. Sparsi per la sala il sin­daco di Roma Marino, Anna Finoc­chiaro, Ugo Spo­setti, par­la­men­tari di Sel, Valen­tino Par­lato, tanti gior­na­li­sti anche di gior­nali chiusi (come l’Unità che Ingrao diresse dal ’47 al ’57, ria­prirà il 25 aprile). Men­zione spe­ciale per tutte le mino­ranze Pd, Fas­sina, Cuperlo, D’Attorre, Damiano, Civati, reduci dal ring della dire­zione, la sera prima: ini­ziata con un com­mosso applauso a Ingrao, l’uomo del dis­senso, finita con porte sbat­tute e un voto bulgaro.

Tutti pre­senti, indo­vina chi non c’è? Non c’è il pre­mier, né il governo, nean­che un gio­vane mini­stro inviato per buona creanza. C’è, sì, la sot­to­se­gre­ta­ria Amici, ma non vale, è dale­miana. E c’è di meglio, anzi non c’è: non c’è un ren­ziano, ecce­zion fatta per il neo­fita Migliore, che però viene dal giro del Prc, il par­tito dove alla fine Ingrao approdò. Né un gio­vane turco, quelli della maglietta di Togliatti, un tempo guar­diani non di un’ortodossia mai cono­sciuta ma almeno di una qual­che idea di par­tito. Il pre­si­dente Mat­teo Orfini spiega l’assenza con la con­sueta pole­mica verso ’gli anar­chici’ della sini­stra interna: «Ci hanno detto che dove­vamo restare in aula a votare il decreto anti­ter­ro­ri­smo. Io sono tenuto a seguire le indi­ca­zione del gruppo. Come dovreb­bero fare tutti».

Ci fosse stato, Renzi avrebbe ascol­tato Alfredo Rei­chlin, pro­prio il Rei­chlin che ha coniato la ren­zia­nissma for­mula «par­tito della nazione» rac­con­tare di come Ingrao all’XIesimo con­gresso (del ’66) abbia pro­cla­mato «il diritto a mani­fe­stare pub­bli­ca­mente il dis­senso» e nel Pci di sessant’anni fa come «abbia rotto quel vin­colo quasi sacrale in base al quale il ver­tice del par­tito si pre­senta unito all’esterno».

E la lezione del ’pro­fes­so­rone’ Gustavo Zagre­bel­sky sul car­teg­gio Ingrao-Bobbio, divisi su tutto ma uniti sul timore di una demo­cra­zia che non par­te­cipa e si tra­sforma «in un elenco di elettori». Fino allo scritto di Ros­sana Ros­sanda letto da Maria Luisa Boc­cia (fem­mi­ni­sta, ingra­iana e cura­trice con Alberto Oli­vetti del nuovo Coniu­gare al pre­sente), che torna sulla scena dell’intervento dell’XIesimo con­gresso, «accolto con un’ovazione fin­ché però la pla­tea non si accorse dell’accoglienza gla­ciale da parte della presidenza».

Per tre ore si parla di Ingrao, appunto, ’coniu­gato al pre­sente’. Fino all’ultimo «non ci sto», dopo l’89 che invita, spiega lo sto­rico Leo­nardo Paggi, «alla rico­sti­tu­zione di una sini­stra cri­tica», a «tor­nare nel gorgo con la forza ragio­nata di un pro­gramma, senza l’attesa di un mitico quanto impro­ba­bile lea­der», oggi che siamo in pre­senza «di un attacco fron­tale ai diritti del lavoro e alla demo­cra­zia par­la­men­tare». A que­sto pro­gramma «dovreb­bero atten­dere quanto prima le forze che sen­tono un legame con la vita di Ingrao».
Ecco, appunto: Renzi non c’è per­ché il Pd di Renzi ha reciso quel legame. «Un finale impe­tuoso, un appello infuo­cato», scherza ma anche no D’Alema, avvian­dosi all’uscita. Pre­si­dente, ha visto?, Renzi non c’era. D’Alema non resi­ste alla bat­tuta: «Chi?

«». Il manifesto

Il pro­getto di coa­li­zione sociale pro­mosso dalla Fiom e con­so­li­dato dall’imponente mani­fe­sta­zione del 28 marzo offre a tutte le per­sone di buona volontà un’opportunità che non va lasciata cadere.

La pro­po­sta cir­co­lava da tempo: era già stata avan­zata da Rodotà in un’assemblea dell’Altra Europa lo scorso giu­gno e rac­colta in diversi docu­menti di que­sta orga­niz­za­zione, rima­sti però senza seguito, avendo L’Altra Europa imboc­cato invece la strada di un accordo tra par­titi e cor­renti della sini­stra esterna e interna al Pd.

Ora, sotto l’ombrello della Fiom, la coa­li­zione sociale sarà per sua natura una realtà poli­cen­trica, la cui trama può comin­ciare a esser tes­suta dai punti più diversi del ter­ri­to­rio e della strut­tura sociale, senza che tra le diverse ini­zia­tive si ven­gano a creare per forza com­pe­ti­zioni o sovrapposizioni.

L’obiettivo comune è quello di aggre­gare for­ma­zioni, comi­tati, asso­cia­zioni, movi­menti, sin­da­cati – ma anche sin­goli non orga­niz­zati - non solo dif­fe­renti tra loro per sto­ria, com­po­si­zione sociale, obiet­tivi e pra­ti­che, ma tra i quali sus­si­stono spesso, latenti o espli­citi, fat­tori di incom­pa­ti­bi­lità o di con­flitto. Ma il lavoro di ricom­po­si­zione di que­ste dif­fe­renze - che una volta affron­tate si rive­lano un fat­tore di ric­chezza sia per tutti che per il pro­getto comune - è pro­prio ciò che rende anche poli­tica la coa­li­zione sociale. Una for­ma­zione com­po­sta da movi­menti e ini­zia­tive che per natura o per la loro sto­ria hanno obiet­tivi mono­te­ma­tici, o ope­rano in campi limi­tati, o sono con­fi­nati in ambiti locali.

Per­ché la poli­tica «buona» - quella orien­tata alla pro­mo­zione, al raf­for­za­mento e al col­le­ga­mento di lotte e ini­zia­tive con­tro le strut­ture con­so­li­date del potere o le misure che col­pi­scono la mag­gio­ranza della popo­la­zione - non è altro che que­sto: unire ciò che il capi­ta­li­smo (e in par­ti­co­lare, la sua con­fi­gu­ra­zione glo­ba­liz­zata e finan­zia­riz­zata di oggi) divide.

Per que­sto una coa­li­zione sociale ben pra­ti­cata è anche sem­pre «politica».

Ma non è vero il con­tra­rio: una aggre­ga­zione di orga­niz­za­zioni poli­ti­che oggi tende a rive­larsi fat­tore di divi­sione tra le com­po­nenti sociali che dovreb­bero esserne il rife­ri­mento. Per­ché qui entrano in gioco diverse riva­lità: nel migliore dei casi tra visioni (a volte anche solo lin­guaggi) dif­fe­renti e cia­scuna aspira ad affer­mare la pro­pria ege­mo­nia sulle altre; nel caso peg­giore, e più fre­quente, tra esi­genze rivali di soprav­vi­venza delle strut­ture o di ripro­du­zione della por­zione di ceto poli­tico pre­sente in cia­scuna orga­niz­za­zione. Un rischio da cui non sono esenti nem­meno le grandi asso­cia­zioni, che hanno anch’esse una pro­pria pic­cola buro­cra­zia interna; ma in misura infi­ni­ta­mente minore, per­ché la loro mis­sione e le loro radici nella società le inchio­dano in qual­che modo a com­por­ta­menti meno ondivaghi.

E’ quello che a mio avviso non hanno capito i molti – tra cui Paolo Favilli in un arti­colo sul mani­fe­sto del 28 marzo scorso – che gio­cano sulla rever­si­bi­lità tra i due con­cetti: se una coa­li­zione sociale è neces­sa­ria­mente poli­tica, una coa­li­zione poli­tica non può che essere anche sociale. Le cose non stanno così e molte vicende, anche recenti, ce lo hanno dimo­strato. Per que­sto una coa­li­zione sociale, a dif­fe­renza di un accordo tra par­titi, non può che essere «né di destra né di sini­stra», nono­stante che gran parte dei valori che fa pro­pri siano quelli della sini­stra tra­di­zio­nale (ma anche su que­sto il fem­mi­ni­smo ha cer­ta­mente molto da dire; e da ridire).

Ovvia­mente met­ter d’accordo orga­niz­za­zioni sociali dif­fe­renti e tra loro in gran parte estra­nee è più com­pli­cato e richiede più tempo, ma è anche più solido, che strin­gere un patto tra i ver­tici di par­titi o di cor­renti diverse. Ma può aiu­tare, in que­sto com­pito, ciò che già era stato pro­spet­tato, e mai attuato, all’interno de L’Altra Europa dopo le ele­zioni euro­pee: la for­ma­zione di gruppi di lavoro in cui le diverse com­po­nenti della coa­li­zione pos­sono con­fron­tare le loro posi­zioni su alcuni temi spe­ci­fici; ma anche le loro pra­ti­che, che sono spesso, assai più delle dichia­ra­zioni pro­gram­ma­ti­che, ciò che divide.

E’ in sedi come que­ste che si pos­sono indi­vi­duare i punti di con­ver­genza e pro­muo­vere ini­zia­tive comuni: non neces­sa­ria­mente tra tutte le com­po­nenti della coa­li­zione in fieri, ma solo tra coloro che su quei punti già si tro­vano d’accordo. Poi si può met­tere a con­fronto le posi­zioni di coloro tra i quali l’accordo non è stato tro­vato e veri­fi­care, con uno scavo sulle ragioni delle diver­genze, ma anche attra­verso il con­fronto con le tante posi­zioni diverse che vi par­te­ci­pano, se è pos­si­bile arri­vare a una mediazione.

Ed è nel corso di que­sto lavoro che, tra alcune - non neces­sa­ria­mente tutte - com­po­nenti della coa­li­zione può emer­gere e con­so­li­darsi la pro­po­sta di una lista elet­to­rale, senza che una scelta del genere impe­gni tutti.

Per que­sto il pro­blema dei due tempi posto da Rodotà – prima la coa­li­zione sociale; poi, magari, anche la lista elet­to­rale – non si pone. Le due cose pos­sono mar­ciare sepa­ra­ta­mente in un unico pro­getto; a con­di­zione che si ten­gano a bada, esclu­den­dole dalla coa­li­zione, le aspi­ra­zioni ege­mo­ni­che dei partiti.

Pre­sto il pro­getto della coa­li­zione sociale, pro­mosso a livello nazio­nale, si ripro­porrà a livello locale: qui le com­bi­na­zioni, come i punti di par­tenza e le prime espe­rienze di un’iniziativa che mira all’unità, ma non parte da essa, potranno essere le più varie; ed è bene che cia­scuno cominci a lavo­rare nei modi e con gli inter­lo­cu­tori che gli sono più con­soni. Si trat­terà di aggre­ga­zioni che, come indica il nome - Unions! - della mobi­li­ta­zione del 28, si richia­mano allo spi­rito mutua­li­stico e soli­dale degli albori del movi­mento ope­raio. Ma che ripro­dur­ranno anche, per il loro legame con ter­ri­tori e comu­nità, quel com­mu­nity unio­nism che ha inne­scato la ripresa del movi­mento sin­da­cale negli Stati Uniti, soprat­tutto tra i lavo­ra­tori immi­grati e meno qua­li­fi­cati; e che non si ferma - anche se ovvia­mente non la tra­scura - alla con­trat­ta­zione sala­riale e delle con­di­zioni di lavoro, ma si fa carico di tutta la con­di­zione sociale, e anche esi­sten­ziale, dei suoi adepti.

Per que­sto la coa­li­zione sociale è anche un ritorno alle ori­gini: rin­no­vato per misu­rarsi con la com­ples­sità degli assetti sociali odierni. Alle ori­gini, le isti­tu­zioni del movi­mento ope­raio ave­vano una base sociale anche nel ter­ri­to­rio: la fab­brica non distava dalle abi­ta­zioni degli addetti e i quar­tieri ope­rai erano con­ti­gui alle unità produttive.

Le prime lotte ope­raie trae­vano gran parte della loro forza dal loro retro­terra. La disgre­ga­zione di quel tes­suto sociale ad opera di un’urbanistica che aveva come obiet­tivo la sepa­ra­zione tra lavoro e resi­denza - e disper­sione di que­sta in un pul­vi­scolo abi­tato da lavo­ra­tori di fab­bri­che e uffici tra loro lon­tani – ha cam­biato i con­no­tati della con­di­zione ope­raia: ben prima che la fram­men­ta­zione dell’impresa for­di­sta in una mol­te­pli­cità di unità pro­dut­tive sepa­rate, sot­to­po­ste a dif­fe­renti regimi con­trat­tuali in paesi e con­ti­nenti diversi comin­ciasse ad aggre­dire l’unità della classe ope­raia anche sui luo­ghi di lavoro.

Il sin­da­ca­li­smo «ope­rai­sta» che ha avuto la sua epo­pea in Ita­lia e in Europa negli anni ’60 e ’70 e negli Stati Uniti negli anni ’30 e ’40 – ma il cui modello per­mane, pur in un con­te­sto com­ple­ta­mente cam­biato – non è che il resi­duo di que­sto «inter­mezzo» sto­rico: tra la disgre­ga­zione dell’unità di classe sul ter­ri­to­rio del tardo otto­cento e del primo nove­cento e quella sui luo­ghi di lavoro della fine del nove­cento e dell’inizio di que­sto secolo. Oggi, in un con­te­sto glo­ba­liz­zato, la dimen­sione ter­ri­to­riale delle alleanze (dove il lavoro di cura, dome­stico e no, l’altra eco­no­mia e la con­ver­sione eco­lo­gica pos­sono tro­vare il loro spa­zio più pro­prio) torna ad avere un ruolo di primo piano. E’da lì che pos­sono ricrearsi pro­cessi sta­bili di con­fronto e di unità tra diversi

Intervistato da Anais Ginoi il sociologo interviene nella discussione aperta ieri da Nadia Urbinati. In Francia considerano di sinistra il partito di Hollande; nessuno al mondo potrebbe considerare tale il partito di Renza. La Repubblica, 1. aprile 2015

«LA sinistra può morire. Come qualsiasi essere vivente, non è eterna». La profezia di Alain Touraine, dall’alto dei suoi quasi novant’anni e dei numerosi saggi sulle società post-industriali, non lascia molta scelta: prepariamoci a scrivere un epitaffio oppure a pubblicare un nuovo certificato di nascita. «La gauche è in agonia, fuori tempo e fuori dal mondo. Non potrà resistere a lungo» spiega il sociologo francese all’indomani dell’ennesima sconfitta del partito socialista al potere.

«La sinistra – spiega Touraine – non riesce a reinventarsi in un’epoca post-sociale, in cui i rapporti di forza non sono più basati, come un secolo fa, sulla produzione. Non ha più una classe sociale di riferimento, alla quale corrispondono valori, ideali, rapporti di forza. Non è più portatrice di un orizzonte, di una speranza».

Già nel 1979 lei pubblicava un saggio dal titolo Mort d’une gauche . Quante sinistre sono morte da allora?
«Nel ventunesimo secolo tutti i partiti politici faticano a riposizionarsi all’interno di un’architettura della società che è crollata. È una situazione simile a quella che si è verificata alla fine dell’Ottocento, quando le formazioni politiche uscite dalla Rivoluzione faticavano a dare una risposta davanti alle nuove realtà industriali dell’epoca. Per il partito socialista la perdita di identità è più forte perché non ha saputo rinnovare la concezione dello Stato. Nonostante tutte le presunte svolte, da François Mitterrand in poi, non c’è stata una ridefinizione di quale debba essere il ruolo dello Stato e dunque della nazione in un mondo globale».

Gli elettori ormai votano più per rabbia che per convinzione?
«C’è una radicalizzazione de- gli estremi, sia a sinistra che a destra. Il Front de Gauche di Mélenchon non è poi tanto diverso dal Front National di Marine Le Pen. Entrambi sono il sintomo di una rottura del popolo con l’élite politica che sembra impotente. Sono quasi tre anni che François Hollande è al potere e ancora non ho sentito una proposta concreta per rispondere alla crisi. L’unica strategia è aspettare la ripresa. Negli ultimi mesi, ci siamo trovati a discutere di cose grottesche come l’apertura domenicale dei negozi o i privilegi dei notai. Non è così che si creano 500mila posti di lavoro. Hollande ha proposto un patto con le imprese, alle quali ha regalato oltre 40 miliardi di euro in sconti fiscali, ma loro non hanno creato posti di lavoro. Anche gli imprenditori continuano a perdere tempo, probabilmente aspettano che torni al potere la destra, dalla quale si sentono più garantiti».

La gauche al potere ha tradito il suo elettorato?
«Il capitalismo finanziario ha sostituito il capitalismo industriale. È un dato di fatto. Non possiamo chiedere alla sinistra di governare come nel 1936 quando c’era il Front Populaire. Mélenchon è un velleitario, ha una linea del “né né”, né con Hollande né con Sarkozy. Con chi allora? Dietro ai suoi proclami, c’è solo il vuoto. E intanto gli operai votano per il Front National, mentre Mélenchon seduce solo qualche professore. Il partito socialista si è sottoposto, come tutte le forze di governo della nostra epoca, al dogma finanziario e materialista, ma ha un problema in più: deve conciliare un individualismo al plurale, facendo per esempio convivere i diritti economici strettamente personali, con valori e diritti universali, in una visione collettivista che è nel suo Dna».

Hollande ha sbagliato a seguire la dottrina europea dell’austerità?
«Ma di quale austerità parliamo? Il bilancio dello Stato francese è in deficit da trent’anni. Oggi c’è una sola parola che dovrebbe contare: competitività. La sinistra ha rinunciato a fare una vera politica di risanamento. Ha scelto di non scegliere. Tutti i paesi europei attraversano le stesse difficoltà, l’unica differenza è su chi far ricadere il peso della crisi. La Terza Via di Tony Blair è stato un progetto reazionario, ha portato a compimento la deindustrializzazione del paese, sviluppando un’economia solo finanziaria, e riducendo i salari. Gerhard Schröder ha invece puntato sull’industria ma ha creato dei minijob che sono pagati meno del salario minimo francese. In Francia, come in Italia, abbiamo scelto di far pagare il prezzo della crisi alle classi popolari con la disoccupazione. Sono entrambi strategie perdenti».

Quindi ci troviamo in un’impasse?

«Sarò brutale, ma nella situazione attuale l’unico modo di ri- lanciare l’occupazione è avere un bilancio dello Stato in equilibrio. Oggi non ci sono margini. Lo Stato non può contribuire alla crescita con investimenti pubblici. È costretto a chiedere aiuto al patronato, che ovviamente resta nel vago. Da anni la Francia non progredisce perché non può agire sull’economia prima di aver risanato i conti pubblici. La spesa dello Stato pesa per oltre metà del Pil, abbiamo il record mondiale. Per fortuna c’è l’Europa che ci costringe a mantenere un minimo di realismo».

Il partito socialista è sull’orlo dell’implosione?
«Siamo in un momento cruciale. Mi ha impressionato in negativo il discorso di Manuel Valls dopo la sconfitta. In sostanza ha detto: va tutto male, la disoccupazione non scende, le tasse sono troppe, ma continuiamo così. È un messaggio piuttosto scoraggiante per un francese medio. Forse da parte del premier è una prova di sincerità. Forse è davvero convinto che bisogna solo aspettare che il vento della ripresa soffi anche sulla Francia. Ma tra due mesi ci sarà il congresso del partito socialista e la resa dei conti tra le varie correnti è già cominciata. I dissidenti si preparano a un attacco mortale contro un governo che sembra già esausto, senza nulla da offrire. Hollande e Valls devono vincere l’apatia. Se non ci sarà un vero chiarimento, allora serviremo su un piatto d’argento la vittoria a Nicolas Sarkozy nel 2017».

In Francia considerano che

. Inseriamo la nota editoriale e il contributo di Luciana Castellina,

«Da oggi è in tutte le edi­cole con il mani­fe­sto un numero spe­ciale di 16 pagine dedi­cato a Pie­tro Ingrao (costa 50 cen­te­simi più il prezzo del giornale). Contiene arti­coli di Luciana Castel­lina, Citto Maselli, Mas­simo Raf­faeli, Alfredo Rei­chlin, Leo­nardo Paggi, Guido Liguori, Alberto Oli­vetti più inter­venti e discorsi di Ingrao dalla «que­stione del mani­fe­sto» del 1969 alle riforme costi­tu­zio­nali del 2004.Con un ine­dito impor­tante del 1972 pub­bli­cato per gen­tile con­ces­sione dell’Archivio audio­vi­sivo del movi­mento ope­raio e demo­cra­tico che parla anche dell’oggi.Il sup­ple­mento sarà pre­sto dispo­ni­bile anche in for­mato pdf sul nostro sito ed ebook su Ama­zon».


LA STORIA DI PIETRO
di Luciana Castellina

Un secolo in una vita. Il cinema, la letteratura, le istituzioni, la democrazia. Quando una nuova generazione di giovani comunisti porta nel Pci l’assillo di un confronto con le trasformazioni del capitalismo italiano

Ricordo ancora niti­da­mente la prima volta che cele­brai un com­pleanno di Pie­tro Ingrao: era il 1965, lui com­piva cinquant’anni (un’età che mi parve avan­za­tis­sima) ed era mezzo secolo fa. Con San­dro Curzi, ambe­due non da molto usciti dalla irre­quieta Fede­ra­zione Gio­va­nile, gli rega­lammo il suo primo paio di mocas­sini, con una dedica che lo sol­le­ci­tava ad essere meno pru­dente: «Cam­mina coi tempi, cam­mina con noi».

Lo ricordo bene per­ché era­vamo in piena bat­ta­glia «ingra­iana», pro­prio alla vigi­lia del fati­dico XI con­gresso del Pci, quando i com­pa­gni che si rico­no­sce­vano nelle sue idee (non una cor­rente, per carità), usci­rono un po’ più allo sco­perto per soste­nerle; e lui stesso operò quella che fu defi­nita una ine­dita rot­tura. Disse con chia­rezza nel suo inter­vento con­gres­suale: «Sarei insin­cero se tacessi che il com­pa­gno Longo non mi ha per­suaso rifiu­tando di intro­durre nella vita del nostro par­tito il nuovo costume di una pub­bli­cità del dibat­tito, cosic­ché siano chiari a tutti i com­pa­gni non solo gli orien­ta­menti e le deci­sioni che pre­val­gono e tutti impe­gnano ma anche il pro­cesso dia­let­tico di cui sono il risultato».

Fu, come è noto, applau­di­tis­simo, ma tut­ta­via suc­ces­si­va­mente emar­gi­nato dal ver­tice del par­tito e «rele­gato» (allora Bot­te­ghe Oscure con­tava più di Mon­te­ci­to­rio) alla pre­si­denza del gruppo par­la­men­tare e poi della Camera dei Depu­tati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.

Lo ricordo bene per­ché in fondo fu allora che comin­ciò la sto­ria de «il mani­fe­sto», che pure vide la luce solo quat­tro anni più tardi. Senza Pie­tro, che come sem­pre nella sua vita ha fatto pre­va­lere sulle sue scelte poli­ti­che la pre­oc­cu­pa­zione di non abban­do­nare il «gorgo», quello entro cui si adden­sava il popolo comu­ni­sta. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sen­tire pro­fondo di tutto il par­tito, il timore di sacri­fi­care l’opinione col­let­tiva alla pro­pria indi­vi­duale.

Noi del mani­fe­sto alla fine lo facemmo, ma anche per­ché le nostre respon­sa­bi­lità nel Pci erano infi­ni­ta­mente minori e dun­que il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse con­se­guenze di quello di Ingrao. Ma non cre­diate che sia stato facile nep­pure per noi, fu anzi una scelta molto molto sof­ferta e tal­volta è capi­tato anche decenni dopo di inter­ro­garsi se non avremmo dovuto restare a com­bat­tere den­tro anzi­ché met­terci nelle con­di­zioni di essere messi fuori.

(Per favore non rea­gite, voi gio­vani, dicendo: ma che tempi, non si poteva nep­pure dichia­rare un dis­senso! È vero, non era bello. E però le opi­nioni nono­stante tutto pesa­vano più di adesso, la nostra radia­zione fu un trauma per tutto il par­tito. Ora si può dire di tutto, ma per­ché non conta più niente).

Oggi Pie­tro Ingrao di anni ne com­pie 100, e noi de il mani­fe­sto, se con­tiamo anche l’incubazione, 50.

Col tempo si è forse smar­rito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i gio­vani della reda­zione del gior­nale c’è ancora qual­cuno che sa di cosa si sia trat­tato. Non fu, badate, solo una bat­ta­glia per la demo­cra­tiz­za­zione del par­tito, il famoso diritto al dis­senso. C’era molto di più: si è trat­tato del ten­ta­tivo più serio del pen­siero comu­ni­sta di fare i conti con il capi­ta­li­smo nei suoi punti più alti, di indi­vi­duare le nuove, moderne con­trad­di­zioni e su que­ste — più che su quelle anti­che dell’Italietta rurale — far leva, non per «inse­guire mille rivoli riven­di­ca­tivi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di svi­luppo alternativo.

Si trat­tava della rot­tura con l’idea di uno svi­luppo lineare, col mito della «moder­nità acri­tica», che fu alla base della cul­tura neo­ca­pi­ta­li­sta (e cra­xiana) di que­gli anni. E, ancora, il ten­ta­tivo di capire che la crisi ita­liana non rap­pre­sen­tava una ano­ma­lia (un vizio tutt’ora dif­fuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capi­ta­li­smo avan­zato quale si stava svi­lup­pando nel mondo.

Dal giu­di­zio sulla fase discen­de­vano due diverse linee stra­te­gi­che e per que­sto il con­fronto non fu solo teo­rico, ma stret­ta­mente intrec­ciato con il che fare poli­tico: se biso­gnava agire per ren­dere l’Italia «nor­male», e cioè alli­nearla alla moder­nità euro­pea, o invece inci­dere su quel nesso anche per risol­vere i vec­chi pro­blemi e pre­pa­rare un’alternativa anche alla «nor­ma­lità» capitalistica.

La destra del Pci ovvia­mente si oppose a que­sta pro­spet­tiva. Quando il Pci, dopo la Bolo­gnina, fu avviato allo scio­gli­mento, pro­prio su que­sta neces­sa­ria inno­va­zione costruimmo — que­sta volta uffi­cial­mente assieme a Pie­tro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liqui­da­zione del par­tito si oppo­neva. Non in nome della con­ser­va­zione ma, al con­tra­rio, del cam­bia­mento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le raf­for­zava. Le vec­chie cate­go­rie non basta­vano più e Ingrao è sem­pre stato attento a non ripe­tere lita­nie ma a indi­vi­duare ogni volta le poten­zia­lità nuove offerte dallo svi­luppo sto­rico, i sog­getti anta­go­ni­sti, a capire come si for­mano e si aggre­gano per diven­tare classe diri­gente in grado di pro­spet­tare una società alter­na­tiva. Oggi e qui.

Come sapete, perdemmo.

Su quel nostro dibat­tito degli anni 60 — che trovò poi una siste­ma­zione nel 1970 pro­prio nelle «Tesi per il comu­ni­smo» del Mani­fe­sto (che non dis­sero che il comu­ni­smo era maturo nel senso di immi­nente, come qual­cuno equi­vocò — e iro­nizzò -, ma che non sarebbe stato più pos­si­bile dare solu­zione ai pro­blemi posti dalla crisi nel qua­dro del sistema capi­ta­li­stico sia pure ammodernato).

Que­sto fu l’XI con­gresso del Pci, quello spar­tiac­que delle cui emo­zioni, pas­sioni, sof­fe­renze Pie­tro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».

Nell’anniversario del suo cen­te­simo anno di vita avrei forse dovuto par­lare di Pie­tro Ingrao ricor­dan­done di più i suoi aspetti umani, la sua per­so­na­lità, il modo come ha dipa­nato la sua esi­stenza, e non invece andar subito dritta al noc­ciolo poli­tico della sua vita di comunista.

L’ho fatto per due ragioni: per­ché troppo spesso ormai nel cele­brare gli anni­ver­sari si tende a ridurre tutto ai tratti del carat­tere di chi si ricorda, alle sue qua­lità morali, e sem­pre meno a riflet­tere sulle loro scelte poli­ti­che. E poi per­ché Pie­tro in par­ti­co­lare, invec­chiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sini­stra ita­liana — ha finito per ricor­darsi sot­to­tono, per­sino con qual­che vezzo civet­tuolo, più come poeta che come diri­gente poli­tico. Che è invece stato e di primo piano.

Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pen­sare al suo modo di espri­mersi, mai poli­ti­chese, sem­pre attento a illu­mi­nare l’immaginazione e non a ripe­tere cate­chi­smi. Vi ricor­date la sua sor­pren­dente uscita nell’intervento al primo dei due con­gressi di scio­gli­mento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo cla­mo­roso «viventi non umani», per chie­dere atten­zione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poe­sia, che come tale suonò, del resto, in quel gri­gio e mesto dibat­tito di fine partita?

Pie­tro non usava il poli­ti­chese per­ché ascol­tava. Sem­bra banale, ma quasi nes­suno ascolta. E sic­come ascol­tava è stato anche ascol­tato da gene­ra­zioni assai più gio­vani, quelle che dei nostri dibat­titi all’XI con­gresso del Pci, e del Pci stesso, non sape­vano niente. Penso al Forum sociale euro­peo di Firenze nel 2002, per esem­pio, dove il suo discorso sulla pace con­qui­stò ragazzi che non sape­vano nep­pure chi fosse.

Ascol­tava per­ché della demo­cra­zia ha sem­pre sot­to­li­neato un ele­mento ormai in disuso, soprat­tutto il pro­ta­go­ni­smo delle masse, la partecipazione.

Può sem­brare curioso, ma molto del pen­siero poli­tico di Ingrao è stato segnato dalla sua ado­le­scen­ziale for­ma­zione cine­ma­to­gra­fica. Nei molti anni in cui per via del mio inca­rico nella pro­mo­zione del cinema ita­liano ho avuto con i big di Hol­ly­wood molti incon­tri e spesso la discus­sione sci­vo­lava sull’Italia e sul come era stato pos­si­bile che ci fos­sero tanti comu­ni­sti. Un po’ scher­zando e un po’ sul serio ho sem­pre finito per ricor­rere ad un para­dosso: «Badate — dicevo — il comu­ni­smo ita­liano è così spe­ciale per­ché oltre­ché a Mosca ha le sue radici qui a Hol­ly­wood, che dun­que ne porta le respon­sa­bi­lità». E poi rac­con­tavo loro la sto­ria, tante volte sen­tita da Pie­tro, della for­ma­zione di un pezzo non secon­da­rio di quello che poi diventò il gruppo diri­gente del Pci nel dopo­guerra: Mario Ali­cata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai ver­tici sul par­tito ave­vano avuto una for­tis­sima influenza, Visconti, Liz­zani, De San­tis. Tutti allievi del Cen­tro spe­ri­men­tale di cinematografia.

Rac­con­tavo loro, dun­que, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua gene­ra­zione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo pro­prio nel cinema. E, segna­ta­mente, nel grande cinema — e nella let­te­ra­tura — ame­ri­cani del New Deal, tor­tuo­sa­mente cono­sciuti pro­prio al Cen­tro gra­zie a una for­tuita cir­co­stanza: l’arrivo, come inse­gnante, di un sin­go­lare per­so­nag­gio, Ahr­n­heim, ebreo tede­sco sfug­gito al nazi­smo e chissà come appro­dato pro­prio lì, prima che le leggi raz­ziali fos­sero intro­dotte anche in Italia.

«Pro­prio quelle pel­li­cole — mi disse Pie­tro in occa­sione di un’intervista (per il set­ti­ma­nale Pace e guerra che allora diri­gevo) su una impor­tante mostra alle­stita a Milano sugli anni ’30 — mostra­vano cari­che di socia­lità, in cui c’era la classe ope­raia, la soli­da­rietà sociale, la lotta. Pro­prio gra­zie a quei film, che erano mezzi di comu­ni­ca­zione fra i movi­menti sociali e l’americano qua­lun­que, così diversi dalla cul­tura anti­fa­sci­sta ita­liana degli anni ’20 — eli­ta­ria, erme­tica — che ave­vamo amato, ma non ci aveva aiu­tato; pro­prio quei film che ci apri­vano una fine­stra sull’intellettuale impe­gnato, noi ci siamo poli­ti­ciz­zati. Sono stati il primo passo verso la poli­tica».

Que­sto nesso fra cul­tura e poli­tica è stato un tratto che ha distinto il comu­ni­smo ita­liano. E Pie­tro Ingrao ne è stato uno dei più signi­fi­ca­tivi interpreti.

Gra­zie e tanti auguri, Pietro

I francesi sono appena andati al voto per il rinnovo dei Dipartimenti e tutti l'abbiamo considerato non solo un importante test politico, ma anche una prova di democrazia di quel Paese. Peccato che nessuno abbia fatto notare che da noi l'equivalente istituzione delle Province si è vista sottrarre questa possibilità.
Ma loro non hanno le Regioni, mi sono detto: non è vero. La Francia ha 22 Regioni elette a suffragio universale ogni 6 anni. Ma almeno non avranno il Senato: sbagliato. Anche se eletto da 150.000 grandi elettori e non vota la fiducia al governo, perché una legge sia promulgata, essa deve essere approvata da entrambe le camere.

E negli Stati Uniti, modello di democrazia occidentale? Il Senato condivide con la Camera dei Rappresentanti il potere legislativo i senatori possono presentare proposte di legge; non possono però proporre leggi tributarie (questa funzione spetta in esclusiva ai rappresentanti), anche se possono modificarle senza limitazioni. Ciascuna proposta, per divenire legge, deve essere esaminata e approvata da entrambe le camere e il Senato possiede anche alcuni poteri esclusivi, tra cui la ratifica dei trattati internazionali e l'approvazione delle nomine di molti funzionari e dei giudici federali.
Non mi pare che il problema principale su cui si misura l'efficienza e la democrazia di questi due Paesi sia il cambiamento di questi sistemi istituzionali ed elettorali: Renzi crede davvero che quello da lui delineato costituirà un loro modello di orientamento?

«Stato di crisi» di Carlo Bordoni e Zygmunt Bauman, per Einaudi. L’impoverimento e le disuguaglianze sociali hanno evidenziato l’implosione di un modello economico. L'Ue è il laboratorio dove sperimentare, in più occasioni, le varie politiche legate all’austerity».

Il manifesto, 31 marzo 2015

Un dia­logo dove uno dei par­te­ci­panti incalza l’altro, il quale si sot­trae e spinge la discus­sione su altri binari. E quando la parola torna al primo, quest’ultimo non può che ripren­dere il ban­dolo della matassa e cer­care di rites­sere le fila di una discus­sione che corre il rischio annul­larsi in una serie di mono­lo­ghi. La forma del dia­logo per affron­tare un tema è antica, la si trova nella filo­so­fia greca, ma anche in testi sacri, com­preso il vec­chio testa­mento. La sua effi­ca­cia dipende dal tema pre­scelto e dalla volontà dei pro­ta­go­ni­sti del dia­logo di misu­rarsi con punti di vista che non sem­pre coin­ci­dono. Nel caso di Stato di crisi (Einaudi, pp. 198, euro 18) è però evi­dente che Zyg­munt Bau­man e Carlo Bor­doni sono più che dispo­ni­bili a misu­rarsi con le tesi che ven­gono espresse.

Carlo Bor­doni è un socio­logo che stu­dia da tempo la «demas­si­fi­ca­zione» delle società con­tem­po­ra­nee. Ha deli­neato la deriva cul­tu­rale verso un indi­vi­dua­li­smo pro­prie­ta­rio, sot­to­li­neando i tratti di nichi­li­smo, nar­ci­si­smo che emer­gono quando una mol­ti­tu­dine – una som­ma­to­ria gene­rica di sin­goli di sin­goli, per Bor­doni — prende il posto delle classi sociali. Zyg­munt Bau­man è invece il teo­rico della moder­nità liquida.

In que­sto libro svolge il ruolo del sag­gio stu­dioso che, alla luce della sua espe­rienza, è poco incline a fare pro­prie sug­ge­stioni teo­ri­che che il sistema dei media porta alla ribalta. Misura le parole, quasi volesse sug­ge­rire al suo inter­lo­cu­tore che la crisi, il tema attorno al quale ruota il loro dia­logo, costringa a misu­rarsi pro­prio con la moder­nità, i suoi punti di forza, ma anche i vicoli cie­chi che l’hanno carat­te­riz­zata. Segnala, infatti, che in nome delle pro­messe degli esordi — libertà, benes­sere per tutti — sono state erette pri­gioni e costruiti campi di lavoro. E che per ren­dere ope­ra­tiva almeno una di quelle pro­messe, il benes­sere della nazione, sono stati indi­vi­duati dei nemici e pia­ni­fi­cato il loro ster­mi­nio. Per que­sto invita più volte a dotarsi di bus­sole che orien­tino con chia­rezza la mar­cia da intra­pren­dere nell’interregno che separa il pre­sente e un futuro che in molti vedono negato dalle poli­ti­che del neo­li­be­ra­li­smo e che altri temono come la peste, per­ché con­vinti che non potrà che peg­gio­rare le loro con­di­zioni di vita. A tale richie­sta di cau­tela pro­gram­ma­tica Bor­doni ade­ri­sce, ma più volte mette nero su bianco che — rispetto le sfide poste dalla situa­zione di crisi eco­no­mica — vanno imma­gi­nate anche rispo­ste politiche.

Legit­ti­mità perduta

Il titolo del libro in que­stione chia­ri­sce tut­ta­via quale sia il timore di Carlo Bor­doni. Lo Stato di crisi attorno al quale discu­tono i due stu­diosi non si rife­ri­sce solo alla crisi che dal 2007 in poi ha get­tato nel panico e nel lastrico milioni di per­sone. L’impoverimento, la disoc­cu­pa­zione di massa, l’aumento espo­nen­ziale delle disu­gua­glianze sociali hanno reso evi­dente l’implosione di un modello eco­no­mico e sociale che era stato impo­sto per­ché il pre­ce­dente mostrava evi­denti segni di logo­ra­mento; per que­sto si è impo­sta la con­vin­zione che ha avuto la capa­cità di costruire un forte e niente affatto effi­mero con­senso, di rimuo­vere, con le buone ma anche con le cat­tive, i vin­coli posti dal cosid­detto regime di accu­mu­la­zione capi­ta­li­stica fordista.

Sono ormai pas­sati trent’anni da quando alcuni lea­der poli­tici (Mar­ga­ret That­cher e Ronald Rea­gan) e un nutrito gruppo di eco­no­mi­sti invi­ta­vano con voce sua­dente a lasciare liberi gli spi­riti ani­mali del mer­cato per­ché — così facendo — tutto sarebbe andato per il meglio. Le cose non sono andate per niente bene, ma l’idea che il libero mer­cato fosse il miglior modo di pen­sare e di far fun­zio­nare l’economia è stata egemone.

Non è sem­pre con­vin­cente la gene­ra­liz­za­zione che i due autori fanno, spe­cial­mente quando met­tono in secondo piano il fatto che il neo­li­be­ri­smo ha modi­fi­cato a favore delle imprese, e del capi­tale, i rap­porti di forza. Le posi­zioni di Bau­man e Bor­doni col­gono però il segno quando sot­to­li­neano che, con la crisi, il neo­li­be­ri­smo, ha perso con­senso e legit­ti­mità, anche se non si capi­sce con chia­rezza quale sia il modo di pro­durre che possa far ripar­tire la loco­mo­tiva dell’economia mondiale.

Il neo­li­be­ri­smo, infatti, ha costi­tuito una discon­ti­nuità rispetto al pas­sato. Dif­fi­cile ripro­porre un ritorno al wel­fare state su base nazio­nale, viste le inter­di­pen­denze che carat­te­riz­zano l’economia mon­diale. Un modo per sbro­gliare la matassa potrebbe par­tire però dall’analisi di come ha col­pito la crisi. Sono cre­sciute le disu­gua­glianze nel capi­ta­li­smo euro­peo e sta­tu­ni­tense; i diritti di cit­ta­di­nanza sono diven­tati merci da acqui­stare sul mer­cato dei ser­vizi sociali; la pre­ca­rietà è diven­tata l’alfa e l’omega nei rap­porti di lavoro.

Cose note, meno evi­dente è invece il fatto che sono state defi­nite vie d’uscita dalla crisi del neo­li­be­ri­smo all’interno dello stessa regime di accu­mu­la­zione. L’Unione euro­pea è, da que­sto punto di vista, un labo­ra­to­rio sociale e poli­tico di uscita dalla crisi attra­verso le poli­ti­che di auste­rity.
Ad altre lati­tu­dini, sono ope­ra­tive solu­zioni che, sem­pre in nome del libero mer­cato, vedono lo stato svol­gere, attra­verso un governo gestito con mano ferma di un par­tito comu­ni­sta, una dut­tile e comun­que evi­dente fun­zione pia­ni­fi­ca­trice. Non è tut­ta­via que­sto che i due autori vogliono indagare.

Un futuro da ricreare

Il libro oscilla dalla volontà di offrire una foto­gra­fia non sfo­cata della realtà con­tem­po­ra­nea e l’ambizione di costruire una vera e pro­pria capa­cità inter­pre­ta­tiva dello stato di crisi, appunto, che nelle pagine di que­sto libro ha molto a che fare con la crisi della modernità.
E se Bau­man pre­fe­ri­sce, come è noto, par­lare di moder­nità liquida, Bor­doni avanza il sospetto che più di fine della moder­nità si debba par­lare di una sorta di venir meno di un intera costel­la­zione cul­tu­rale, poli­tica e eco­no­mica basata sul l’idea di pro­gresso, dove il futuro non poteva essere che migliore del pas­sato.

Ele­mento cen­trale della sua rifles­sione è appunto la «demas­si­fi­ca­zione» delle società con­tem­po­ra­nee: pro­spet­tiva ana­li­tica che il socio­logo polacco inqua­dra però come un ele­mento pro­prio della moder­nità, che al sem­pre messo al cen­tro il sin­golo, che poteva certo atten­dere per con­se­guire i suoi obiet­tivi, ma era con­sa­pe­vole che tutti gli sforzi erano fina­liz­zati alla sua feli­cità.

La parola chiave, magica del libro è dun­que inter­re­gno, cioè di una tran­si­zione da un modo di pro­du­zione all’altro. Quel che però è assente dal libro che la crisi, cioè lo stare pro­prio in un inter­re­gno, è una con­di­zione non con­giun­tu­rale, ma sta­bile del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo. In altri ter­mini, l’interregno sarà la realtà «sta­bile» della vita asso­ciata. E che in que­sto inter­re­gno si defi­ni­ranno poli­ti­che sociali e eco­no­mi­che per gestire una realtà che ha sì messo in qua­ran­tena l’idea di pro­gresso, ma senza rinun­ciare a defi­nire le regole bron­zee del capi­ta­li­smo nella pro­du­zione della ricchezza.

C’è sem­pre un però da met­tere in campo: che la crisi, così come vivere nell’interregno, diventi una pos­si­bi­lità per affer­mare quel ren­dere realtà un bino­mio che ha accom­pa­gnato la moder­nità: cioè quella pos­si­bi­lità di vivere insieme, ma da liberi e eguali.

«CERCARE di sfondare il tetto di cristallo non ci salverà». Parola della femminista americana Nancy Fraser, nei giorni in cui persino dalla terra dell’innovazione, la Silicon Valley, arriva l’allarme sessismo. «Lo abbiamo tradito — ci siamo tradite — e non ce ne siamo neppure accorte. Il femminismo è stato rinnegato con campagne social, è diventato mainstream e si è trasformato in brand, come la campagna Lean in di Sheryl Sandberg, direttrice di Facebook. La lotta delle donne si è concentrata sul corpo, l’identità, la conquista dei vertici della società: lavorare per emergere».

Ma acosa serve che poche sfondino il vetro mentre la maggior parte delle donne lavora in condizioni precarie e l’austerity sferra gli ultimi colpi al sistema di welfare? Il femminismo come ancella del neoliberismo è centro d’attrazione dell’indagine di Nancy Fraser. Professoressa di scienze politiche e sociali alla New School, è nota in Italia per le sue riflessioni sul tema della giustizia sociale: quella politica della rappresentanza in un contesto globale, quella economica della redistribuzione e quella culturale del riconoscimento. Su questa giustizia che abbiamo smesso di inseguire Fraser ha scritto Fortune del femminismo: dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista , pubblicato in Italia da Ombrecorte. Temi su cui torna in questa intervista, oltre ad affrontare argomenti legati all’attualità di queste settimane. Come la questione del sessismo nella Silicon Valley, dove una donna manager, Ellen Pao, ha intentato una causa contro la sua ex azienda, il fondo Kpcb: il tribunale le ha dato torto, ma il dibattito è apertissimo.

A proposito di Silicon Valley: per fare carriera e scegliere quando mettere su famiglia, il “benefit aziendale” proposto da Facebook e Apple è congelare gli ovuli. Che cosa ne pensa?

«Quel benefit potrebbe sembrare positivo per le singole donne in un contesto tecnologico che segue ritmi velocissimi e in cui se vieni lasciato indietro per mesi o un anno sei finito. Consente di posticipare la cura dei figli. Ma l’idea “noi adattiamo la famiglia e la riproduzione all’agenda aziendale” in realtà è folle. Le donne possono individualisticamente esserne sollevate, sembrerà che possano avere tutto. Ma di fatto è la biologia che viene sottomessa e piegata al capitalismo delle corporation».

Di recente la direttrice del Fondo Monetario Christine Lagarde ha puntato il dito sulla «cospirazione contro le donne perché non siano economicamente attive». È d’accordo?

«Lagarde è un esempio calzante delle contraddizioni del femminismo. Il fatto è che la seconda ondata femminista, a cavallo tra fine anni Sessanta e fine Settanta, si focalizzava sul tema della redistribuzione: un approccio solidaristico vicino alla tradizione socialdemocratica. Quando lo Zeitgeist è cambiato a favore del neoliberismo, anche il femminismo ha preso un’altra direzione: l’emancipazione legata all’equità è stata soppiantata dall’emancipazione in senso individualistico. Prendiamo proprio la Lagarde: una donna potente, ai vertici, ma che allo stesso tempo ha supportato politiche di austerity di fatto molto dannose per le condizioni delle donne. Il suo femminismo neolib rivendica un ruolo più attivo delle donne nel lavoro, ma quali precondizioni garantisce loro? Oggi il lavoro è mal pagato, le donne ricevono salari più bassi, i governi tagliano la spesa sociale».

Nell’era del welfare state si lottava per l’inclusione delle donne. Ora che il welfare è in crisi, possono essere proprio le donne a salvarlo?

«Nel modello fordista o keynesiano, nel sistema capitalistico organizzato dallo Stato, le donne – almeno nei Paesi ricchi occidentali – erano incluse anzitutto come madri. La famiglia si reggeva sul salario del marito. Ora che il lavoro è precario, per le donne è necessario lavorare. La nuova forma di capitalismo neoliberista non vuole le donne a casa come madri full time, anzi: le vuole lavoratrici, ma con stipendi bassi. Insomma, il passaggio è stato da un modello di svantaggio a un altro modello di svantaggio. Questo mentre il welfare viene tagliato».

Un processo irreversibile?

«Credo che il genio della globalizzazione sia uscito troppo dalla sua lampada per poterlo riportare dentro. Lo Stato di una volta alimentava il sistema di welfare attraverso la redistribuzione fiscale, ora non governa neppure più la propria valuta: guardate la Grecia e l’euro. Ma se in qualche modo democrazia sociale deve esserci oggi, allora deve essere organizzata in un quadro transnazionale o persino globale: le femministe dovrebbero essere in prima linea per imboccare questa strada. Alcuni hanno creduto che proprio l’Ue potesse realizzare una democrazia sociale transnazionale, ma l’Europa sta seguendo la sirena neoliberista. Gli sforzi antiausterity di Syriza e Podemos rappresentano una speranza anche per il femminismo, nel senso che si oppongono al degrado delle condizioni di vita».

Luc Boltanski ieri, Slavoj Zizek oggi, sostengono che fenomeni come il Sessantotto e l’ambientalismo sono stati fagocitati dal capitalismo liberista. Concorda?

«Il capitalismo ha da dato un nuovo significato a questi temi, li ha “corrotti”: lo hanno spiegato in modo esemplare Luc Boltanski ed Ève Chiapello ne Il nuovo spirito del capitalismo , ed è lo stesso argomento che io declino da anni nell’ambito del femminismo. È stato usato per legittimare pratiche “market friendly” che non risolvono i divari. Stessa cosa per il capitalismo “green”. I movimenti sono stati indirizzati su queste chiavi: privatizzare, consumare, individualizzare».

La crisi globale di questi ultimi anni ha cambiato qualcosa?

«C’è stato un frangente in cui è sembrato che l’ordine finanziario e la sua legittimità dovessero collassare, ma oggi non è chiaro se il neoliberismo sia uscito danneggiato dalla crisi oppure no: scoraggia come il capitalismo riesca paradossalmente a trasformare la crisi in opportunità di profitto. La stabilità del neoliberismo come regime è tutta da vedere, i problemi e il peggioramento delle condizioni di vita emergeranno con sempre più prepotenza. Ma anche nell’opporsi al neoliberismo, bisogna emanciparsi dall’approccio neolib. Ad eccezione di Podemos, i movimenti come Occupy che si erano coagulati in un blocco antiegemonico qualche anno fa si sono rivelati effimeri. Questo perché non erano strutturati, erano dominati da una sensibilità neoanarchica».

E allora qual è la ricetta giusta per il futuro?

«Di femminismo e di un’alleanza per la democrazia c’è bisogno più che mai: ma perché siano i popoli e non i mercati a dettare la linea ai governi, dobbiamo abbandonare l’ossessione individualista. E recuperare la solidarietà».

Quando Renzi pretende (proprio lui!) di essere l'unico a poter rivendicare l'uso di quella parola esprime il più arcaico dei modelli della vecchia sinistra. Che la nuova sinistra trovi la bussola per non ricadere nell'errore.

La Repubblica, 31 marzo 2015

La vecchia Sinistra parlava al singolare. Aveva una dottrina che dettava la via, una leadership granitica e (nei Paesi comunisti) personale, una classe sociale compatta e omogenea per forza o, nel migliore degli scenari, per propaganda.

Liberare la Sinistra dal linguaggio singolare, scioglierla dal vincolo del consenso unanime e dal verticalismo è stato un lavoro difficile e nei fatti mai compiuto, realizzato parzialmente grazie prima di tutto al successo e alla tenuta della democrazia elettorale. Perché più gli elettori si sono sentiti liberi di andarsene e cambiare partito, più la Sinistra che parlava al singolare si è indebolita.

«Non lascio ad altri il monopolio della parola sinistra», dice adesso il segretario del Partito democratico. Ma governare il pluralismo non è per nulla facile. La difficoltà sta nel riuscire a tenere insieme la lealtà ad alcuni valori e principi di giustizia e l’interpretazione sui modi e la strategia della loro realizzazione. Come ci ha spiegato Thomas Piketty in un articolo su Repubblica, le politiche neoliberali che hanno in questi anni ammagliato i partiti di Sinistra dell’establishment mettono in seria discussione la possibilità di tenere viva un’unità di discorso in forza, non di fedi a una dottrina o una leadership, ma della ragionata condivisione e della competente realizzazione di politiche ispirate ai valori e ai principi che sono tradizionalmente della Sinistra e che, non per caso, sono anche quelli che meglio realizzano le promesse della democrazia. La Sinistra deve accettare la sfida del pluralismo interpretativo senza cedere alla tentazione di affastellare tutto quello che gli esperti di comunicazione suggeriscono per vincere nei sondaggi e conquistare la maggioranza. Vincere per che cosa? Cercare di costruire maggioranze solide per avviare quali politiche?

La Sinistra post-singolare non ha ancora appreso a rispondere con convinzione e coerenza a queste domande. E le Sinistre si moltiplicano. Collidono tra di loro proprio perché si è frantumata la linea interpretativa capace di dare un’unità di discorso e di intenti alla pluralità delle opinioni. A frantumarsi è la capacità di competere per il meglio, ovvero su come rendere possibile la giustizia sociale, su quali politiche adottare per affermarla o difenderla, su quali siano le parti della società che la rivendicano o perché ne sono state private o perché non l’hanno ancora goduta. Diventando plurale, la Sinistra non deve diventare un agglomerato indistinto: questo non è un obiettivo facile, ed è in effetti proprio quel che sembra oggi più difficile da ottenere a giudicare dalla fioritura delle Sinistre, soprattutto sociali (a Sinistra della Sinistra parlamentare), come ha ben argomentato da Marc Lazar qualche giorno fa su questo giornale.

Da quando esiste (ovvero da quando funziona la competizione politica per il consenso elettorale), la Sinistra si è proposta come una forza che parteggia per quella parte di società che rappresenta bisogni più universali ed è per questo sorgente di diritti. Scriveva Antonio Gramsci parlando dei partiti dell’establishment del suo tempo che essi erano incapaci di «spirito pubblico» e di politiche nazionali perché incapaci di «sentire» la sofferenza o i bisogni delle moltitudini, di comprendere il significato della «solidarietà disinteressata ». Tradotto in linguaggio contemporaneo, il problema della Sinistra è di accettare troppo acriticamente il modello neoliberale, di identificare occupazione con qualunque lavoro, di dissociare il lavoro dai diritti, diritti sociali ma anche di libertà dal dominio che il potere economico diseguale rende fatale.

La Sinistra plurale ha di fronte a sé un compito arduo e per nulla immune da rischi di divisioni e di abbandoni: quello di tenere la bussola orientata verso il benessere dei molti e non dei pochi e di farlo senza buttare alle ortiche i diritti. E ancora Piketty: «Dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri». Un benessere interpretato con il linguaggio dei diritti e della solidarietà sociale, fondato su politiche sociali e servizi pubblici: sono queste le parole che dovrebbero tornare ad avere piena legittimità nella Sinistra plurale.

Da giovedì 9 a domenica 12 aprile, torna a Pistoia la rassegna Leggere la Città, organizzata dal Comune di Pistoia. Quest’anno ha per tema lo spazio pubblico. Interverranno, tra gli altri, Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Ilaria Boniburini, Paolo Maddalena, Antonietta Mazzette (segue qui)

Da giovedì 9 a domenica 12 aprile, torna aPistoia la rassegna Leggere la Citta’, promossa e organizzata dal Comune diPistoia. Quest’anno ha per tema Lo spazio pubblico.


La rassegna, unica nel suogenere, rende omaggio anche nel titolo al grande architetto pistoiese GiovanniMichelucci, richiamando il suo libro “Pistoia: leggere una città”. Leggere lacittà come un libro di pietra, leggere la città variabile, la città tenda, lacittà del dialogo sono tra le pagine più belle del pensiero di Michelucci che,attento al disagio urbano, al tessuto degradato e a quello marginale, mise alcentro delle sue architetture le persone e il loro vivere.

Quattro giorni di incontri, lezioni, mostre,concerti, spettacoli e laboratori faranno di Pistoia la casa del pensierourbano per riflettere sullo spazio pubblico, questo spazio collettivo, luogo dipassaggio e di incontro, da leggere e interrogare insieme a scrittori, artisti,critici e storici dell’arte, critici teatrali, antropologi, poeti, giuristi,pedagogisti, filosofi, teologi, ingegneri, architetti, paesaggisti, urbanisti,sociologi e giornalisti.

Il rapporto inscindibile tra lo spazio pubblico e lacomunità è il principale filo conduttore della rassegna: una comunità creaspazi pubblici nei quali può vivere, rappresentarsi e perpetuarsi; gli spazipubblici, a loro volta, definiscono e connotano l'identità di unacomunità.

Nei quattro giorni della rassegna numerosi gli interventidi persone note ai frequentatori di eddyburg.
L’intervento di apertura sarà diEdoardo Salzano, e avrà come titolo “Spazi pubblici, cerniera tra città esocietà”, Vezio De Lucia dialogherà con Ugo Perone, su “Ripensare lo spaziopubblico”, Ilaria Boniburini parlerà sul tema “La lotta per lo spazio pubblicocome pratica di cambiamento”, Paolo Maddalena dedicherà il suo intervento al “Rapportotra territorio e sovranità”, e Antonietta Mazzette al tema “La città trapubblico e privato.

Ilricchissimo programma è scaricabile qui: Leggere la città 2015. Pistoia è unabellissima città, il sindaco Samuele Bertinelli, la sua giunta e il personaledegli uffici credono nell’utilità dell’urbanistica e nell’importanza dellospazio comune. Che volete di più?
Un'analisi riferita alla situazione francese, ma perfettamente calzante per l'Italia e l'Europa. In estrema sintesi, la risposta al titolo è questa: il popolo tradisce la "sinistra" perché la sinistra non c'è.

La Repubblica, 30 marzo 2015

PERCHÉ le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo? E perchè in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica.

Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione.

Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario.

Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.

La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.

Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80. Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks. In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate. Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia). Che fare, allora?

Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica.

L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perché gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica.

Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università.

Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste questioni, la totale assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le elezioni regionali di dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema destra nelle regioni francesi.

Traduzione di Fabio Galimberti

Interessante analisi delle diverse forme, ragioni e dinamiche dei movimenti di protesta. «Se i movimenti del 2012 erano quelli dei precari, negli anni seguenti a scendere in piazza è stata la classe impoverita. Le ampie ondate di protesta hanno un carattere costitutivo, e sospendendo vecchie regole ne creano di nuove. In questo modo la democrazia si è evoluta nelle strade». sbilanciamoci.info, 25 marzo 2015

Gli studi sui movimenti sociali hanno sviluppato un insieme di strumenti utile ad affrontare l’azione collettiva durante periodi normali – ovvero periodi ordinati. I sistemi a cui si sono principalmente rivolti sono le cosiddette democrazie avanzate, aventi forme di welfare sviluppate. Le teorie proposte si sono principalmente orientate verso la spiegazione dell’impatto di queste strutture sui movimenti collettivi. La principale aspettativa è che le proteste coinvolgano opportunità e risorse.

In realtà, sappiamo molto meno delle questioni che sono di fondamentale importanza per analizzare il tardo neoliberalismo ed il relativo malcontento, come:
- Movimenti in periodi di crisi, i.e. quando la protesta è scatenata più da minacce che da opportunità
- Movimenti in periodi straordinari, ovvero movimentati, quando l’azione cambia le relazioni
- Movimenti come processi, i.e. come produttori delle proprie risorse e fonte di empowerment

L’attività di ricerca in economia politica ha indicato alcune caratteristiche generali del neoliberalismo: l’emergenza di un libero mercato come ideologia, che indirizza le politiche non verso il ritiro dello stato dal mercato, bensì verso la riduzione degli investimenti nei servizi sociali che diminuiscono le disuguaglianze, e porta protezione al posto del capitalismo finanziario; la privatizzazione dei beni pubblici ed il salvataggio delle banche; la flessibilizzazione del mercato del lavoro, affiancato però a forti attività di regolamentazione, che aumentano le opportunità di trarre vantaggi speculativi.

Questi sviluppi hanno chiare conseguenze sulle basi sociali della politica del conflitto contemporanea. Entrambe le ondate di protesta del 2011 e del 2013 hanno infatti causato nuove tensioni nelle basi sociali della politica del conflitto. Nel 2011, i manifestanti sono stati generalmente considerati, per la maggior parte, come membri di una nuova classe precaria, che era stata fortemente colpita dalle politiche di austerità. Diversamente da quelli del 2011, le proteste del 2013 sono state interpretate come fenomeni del “ceto medio”.

Le informazioni collezionate sul background sociale dei manifestanti non hanno confermato in modo inequivocabile ne’ la tesi della mobilitazione di un nuovo precariato, ne’ quella di un movimento della classe media. In tutte le manifestazioni sono rappresentati una vasta gamma di background sociali: dagli studenti ai lavoratori precari, dai lavoratori manuali e non manuali alla piccola borghesia e ai professionisti. Maggiormente popolate da giovani e figure di elevata istruzione, le manifestazioni hanno anche osservato la partecipazione di altre coorti di età.

Le varie proteste coinvolgono diverse classi sociali, ma non sono un fenomeno tra classi. Tendono piuttosto a riflettere alcuni cambiamenti nella struttura delle classi sociali che hanno caratterizzato il neoliberalismo e la sua crisi: in particolare, la proletarizzazione delle classi medie e la precarizzazione dei lavoratori. Quanto al primo fenomeno, molti studi indicano il declino del potere della classe media, con le tendenze alla proletarizzazione di
a) la piccola borghesia indipendente (come ad esempio la trasformazione delle strutture commerciali che portano all’eliminazione dei negozianti indipendenti a favore delle multinazionali);
b) i liberi professionisti (attraverso processi di privatizzazione dei servizi, creazione di aziende oligopolistiche e de-professionalizzazione attraverso la Taylorizzazione dei compiti);
c) i dipendenti pubblici (attraverso la riduzione dello status e del salario, e attraverso la flessibilizzazione del contratto, etc.).

Per quanto riguarda quest’ultima, la precarizzazione colpisce i dipendenti privati nei settori industriali (attraverso la chiusura dei tradizionali settori fordisti, oltre alla flessibilizzazione delle condizioni lavorative), come nel settore terziario, con l’aumento del lavoro informale, di lavori scarsamente retribuiti, e di condizioni di lavoro precarie.

In sintesi, anziché mobilitare una singola classe sociale, le manifestazioni hanno mobilitato cittadini con diversi background sociali. I movimenti degli anni 2000 sono stati infatti visti come segni di comune opposizione alla mercificazione degli spazi pubblici, in un tentativo di costituzione comunitaria.

Nella mobilitazione di queste vaste e variegate basi sociali, i movimenti sociali in tempi di crisi devono far fronte a specifiche sfide, tra cui la simbolica sfida della costruzione di un nuovo soggetto; la sfida materiale di mobilitare risorse limitate; la sfida strategica di influenzare un sistema politico estremamente chiuso.

Anche se non totalmente limitate da esse, le risposte del movimento alla crisi sono infatti strutturate sulla base delle risorse materiali esistenti (come succede nelle reti di movimento), e anche da risorse simboliche (espresse come cultura del movimento). Questo implica una limitazione delle opzioni disponibili, ma scatena un processo di apprendimento in termini di lezioni dal passato.

Anche se certamente limitati dalle strutture esistenti, una caratteristica dei movimenti nei periodi di crisi è la loro capacità di creare risorse attraverso l’invenzione di nuove strutture, nuovi sistemi organizzativi e nuove forme di azione. In questo senso, per capire le condizioni per l’azione di conflitto, l’attenzione deve spostarsi a ciò che è stato individuato come divenire: non esistono ancora le identità, né sono state costituite; le reti si sono riformate attraverso il superamento di vecchie scissioni. In periodi straordinari, a causa della rottura di vecchie identità e di vecchie aspettative, emerge un nuovo spirito: i movimenti sociali esprimono allora, prima di tutto, il diritto di esistere.

Lo sviluppo di uno spirito nuovo è stato osservato nelle piazze occupate, che hanno caratterizzato il nuovo repertorio di proteste. Esse rappresentano infatti spazi per la formazione di una nuova soggettività, basata sulla ricomposizione di precedenti scissioni e l’emergenza di nuove identità. Le manifestazioni sono quindi da vedere come produttrici di entità emergenti, che vanno al di là dei propri elementi costitutivi. L’attenzione sul divenire affiora attraverso le pratiche che sottolineano l’importanza degli incontri – infatti, viene celebrata nelle varie piazze la diversità delle persone.

In questo senso, come indicato dal percorso evolutivo di Grecia e Spagna, anche se apparentemente in ritirata, le ampie ondate di protesta hanno un carattere costitutivo, e sospendendo vecchie regole ne creano di nuove. In questo modo la democrazia si è evoluta nelle strade.

(traduzione di Alessandro Castiello D'Antonio)

La Repubblica, 29 marzo 2015

DI FATTI politici ed economici ne sono in questi giorni avvenuti quantità innumerevoli ed anche di fatti di cronaca, uno dei quali, quello dell’aereo caduto sulle Alpi francesi, ha trascinato l’opinione pubblica di tutta l’Europa nel mondo dell’orrore e della disperazione.

Insieme ai fatti ci sono i personaggi protagonisti, quelli che non sono identificabili con un solo avvenimento ma con una serie che copre un periodo, guida un percorso, adotta una strategia. Quelli che più ci interessano operano sulla scena italiana ed europea. Non sono molti, è ovvio: i protagonisti tengono la scena riducendo gli altri al ruolo di comprimari o addirittura di comparse. Per capire il meglio possibile ciò che sta avvenendo dobbiamo dunque identificarli, per scriverne pregi e difetti, eventualmente proporre i possibili rimedi, cercando a nostra volta un possibile Virgilio che ci aiuti nel viaggio.

Io quel Virgilio lo indicai già domenica scorsa. Si discuteva del rapporto tra governo e pubblica amministrazione e feci il nome di Marco Minghetti. Visse e scrisse (e governò) 150 anni fa, e credo che come tutti i maestri sia ancora di attualità. Tra le tante cose che disse c’è una frase che trovo molto significativa: «Napoleone governò per vent’anni la Francia e il suo fu un governo che ammodernò il Paese e tutelò l’eguaglianza ma non la libertà e perciò ebbe più difetti che virtù». Ecco, già queste righe mi confermano nell’idea che è un buon Virgilio.

Il personaggio che oggi mi sembra opportuno esaminare è Matteo Renzi. In poco più di due anni è passato dal ruolo di comparsa a quello di protagonista.

Quindi ha se non altro i pregi dell’innovazione, del coraggio e della volontà. Queste doti gli hanno consentito d’essere alla testa del Partito democratico, di farne il più forte partito italiano e portare lui alla guida del Paese. È ispirato dal desiderio d’essere giovevole agli italiani, molti dei quali ripongono in lui la fiducia e quell’obiettivo ha già cominciato a realizzarsi e in tempo breve lo raggiungerà pienamente.

Naturalmente ha anche molti avversari e ancora di più molti perplessi che attendono risultati che ancora non vedono.

Attendendo si astengono dal voto o lo danno ad un movimento (quello di Grillo) che equivale da tutti i punti di vista ad un’astensione fortemente critica. Se si sommano insieme i grillini e gli astenuti così come sono registrati dai vari sondaggi, si astiene più o meno il 60 per cento degli elettori. Quindi la partita che Matteo Renzi sta giocando ha come terreno il 40 per cento degli aventi diritto al voto, ma di quelli che andranno alle urne, ivi compresi i grillini che votano ma non giocano.

Questa è dunque la situazione. Dimenticavo però di dire che un altro elemento fondamentale di Renzi è il suo Narciso. L’amore per se stessi c’è in tutti gli umani e particolarmente in quelli che si occupano professionalmente della conquista del potere. Qualunque potere, quello politico e quello economico in particolare e spesso quei due poteri sono affiancati.

Renzi ama molto se stesso, ma questo è normale. Resta solo da sapere se quest’amore non disturba il suo desiderio di giovare agli altri.

Il mio Virgilio a questo proposito dice che «l’uomo mira all’utile proprio e non all’altrui, anzi è pronto a immolare questo a quello. L’uomo singolo, come l’unione di molti e ogni classe della società e ogni corporazione tendono sempre a esorbitare, uscendo fuori dalla sfera dei loro diritti per invadere gli altrui ». Ma poi concede che questo principio illegittimo può essere contenuto dall’intelligenza di chi governa e vuole essere di giovamento agli altri sicché tiene per la briglia il suo Narciso affinché gli altri gli rinnovino la fiducia e rafforzino il suo ruolo di protagonista.

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Io credo che questo progetto corrisponda alla politica di Renzi e quindi possa essere di qualche giovamento anche al Paese. Ma è dunque indispensabile per produrre questi effetti per lui positivi che il potere effettivo si concentri nelle sue mani. Questo spiega molte cose, la prima delle quali è un progressivo indebolimento dei vari ministeri e la costruzione di uno staff a palazzo Chigi capace di determinare le linee concrete dell’azione governativa. La prova più recente è quella del suo interim al ministero delle Infrastrutture e Trasporti che doveva durare pochi giorni e durerà invece più a lungo, almeno fino a quando Renzi non lo avrà completamente disossato; lo scheletro rimane ma la polpa se la porta alla presidenza del Consiglio.

Così si spiega anche l’abolizione del Senato e soprattutto dei senatori che non saranno scelti dal popolo ma dai consigli regionali. L’effetto come più volte abbiamo sottolineato è la costruzione d’un sistema monocamerale con una Camera in gran parte “nominata” dal segretario del partito di maggioranza, il che significa che il governo ha la Camera a propria disposizione e non viceversa come in teoria la democrazia parlamentare prevede.

Questo sistema risulta ulteriormente aggravato dal fatto che la legge elettorale denominata Italicum è dominata dal principio della governabilità mentre non trova spazio alcuno il principio di rappresentanza; l’effetto di tutto il sistema che abbiamo considerato è evidentemente quello di evocare la tentazione dell’autoritarismo. Non è detto che si ceda a questa tentazione ma certo ne esistono tutte le condizioni perché il solo freno a questa deriva resta il capo dello Stato. Un freno tuttavia limitato ai poteri arbitrali di cui il presidente della Repubblica dispone, basati certamente sulla Costituzione come principio ma in pratica sulla legislazione ordinaria la quale ultima è in larga misura nelle mani del presidente del Consiglio date le tante circostanze qui ricordate.

In questo quadro si iscrive anche l’eventuale conquista della Rai. Che una riforma della maggiore istituzione culturale del Paese sia opportuna, se non addirittura necessaria, è evidente ma non dovrebbe avere come elemento fondamentale il passaggio dei poteri dal Parlamento e quindi dai partiti al governo. La nomina dell’amministratore delegato dell’azienda, dotato di poteri quasi assoluti, è formalmente del consiglio d’amministrazione ma nella pratica non è così anche perché quel consiglio è di fatto nominato — come del resto è giusto che sia — dal governo e in teoria dal ministro dell’Economia che ha la completa proprietà dell’azienda. L’ideale sarebbe affidare la scelta dei consiglieri d’amministrazione e dell’amministratore delegato ad una Fondazione composta da persone non politiche ma autorevolissime per i meriti acquisiti nei vari campi del loro interesse culturale. La Bbc inglese è per l’appunto sotto la tutela di una fondazione di questo tipo che le consente piena libertà d’azione. È sperabile che la legge opti per questa soluzione, ma è un auspicio che sicuramente non sarà raccolto.

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Il tema della corruzione è un altro con i quali il governo dovrà misurarsi, anzi ha già cominciato. Il mio Virgilio ne sa assai poco di questo tema: lui fu uno dei dirigenti della Destra storica e nella fase in cui fu la destra a governare la corruzione era pressoché assente dalla società e dallo Stato. Oggi la corruzione è un malanno molto diffuso, dovunque nel mondo e in Italia in particolare. Su questo tema mi dovrò ripetere perché non solo io ho già scritto più volte ma altri come e meglio di me: intellettuali “disorganici”, operatori, esperti e politici di buon conio (rari).

La prima distinzione da fare è tra il reato penale (le cui pene sono state aumentate nel disegno di legge in discussione) e il codice etico che dovrebbe essere applicato dalla pubblica amministrazione attraverso le necessarie inchieste effettuate anzitutto sulla medesima pubblica amministrazione e poi anche dal consiglio della magistratura per quanto lo riguarda e dal governo sui suoi membri. Quello che abbiamo chiamato codice etico si può anche chiamare con più chiarezza un peccato e la distinzione è dunque fra il peccato e il reato. La punizione del peccato non può prevedere restrizioni della libertà personale ma semplicemente sospensione o rimozione dall’incarico e relativa denuncia, ove ne ricorrano gli estremi, alla magistratura. Per il reato vale il principio della presunta innocenza fino a sentenza definitiva, per il peccato questo principio non vale e quindi una volta acquisiti i risultati delle varie inchieste, la punizione può e deve avvenire subito, come del resto è avvenuto nel caso Lupi. Si continua dunque a non comprendere le ragioni per le quali nel governo esistano ancora quattro persone che mantengono la loro attività governativa nonostante siano oggetto di indagine giudiziaria. E non si comprende neppure perché esistano dei candidati del Partito democratico per i quali ricorrono tutti i requisiti del “peccato” (ovviamente anche i partiti debbono indagare sugli eventuali peccati dei loro membri).

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Un altro rimedio per diminuire il rischio d’un governo che abbia una vocazione autoritaria riguarda la creazione di corpi intermedi e su questo tema il mio Virgilio la sapeva lunga: «Ministri, senatori, deputati e uomini politici di ogni sorte hanno una tendenza ad insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione per trarne profitto per se medesimi e per gli aderenti ai loro partiti per mantenere il governo nelle proprie mani. Codesto pericolo che spunta sempre dove il governo di partito cresce e giganteggia si svolse storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliamenti e di adattamenti. Ma il vero rimedio è quello di creare o favorire le istituzioni autonome, gli enti morali e le associazioni che tengano insieme una parte dei cittadini. Con cittadini disgregati ogni conato di resistenza sarà vano ed è per questo che le democrazie sgranate si acconciano facilmente ad un padrone e purché egli rispetti l’eguaglianza, calpesti a suo talento la libertà. L’associazione, organizzandole, raddoppia le forze dei singoli che la compongono, le disciplina e le prepara a resistere ad ogni usurpazione. Ho sovente considerato quanto poco ci siano istituzioni del genere in Italia rispetto a tutti gli altri Paesi d’Europa ».

Questi corpi intermedi che il Minghetti auspicava poiché ne sentiva la mancanza già all’epoca sua, dovrebbero dare oggi in Italia maggior peso alle forze sindacali che rappresentano gli interessi di categorie e le tutelano attraverso i contratti ma hanno anche un interesse politico per rafforzare i diritti dei lavoratori. A questo proposito è interessante la nascita della Coalizione sociale la quale ha promosso ieri una manifestazione nelle strade di Roma per iniziativa del sindacato Fiom e alla quale ha partecipato anche tutta la segreteria della Cgil. Quell’associazione si propone di rappresentare i lavoratori non più per categorie né per luoghi di lavoro né con modalità contrattuali ma di fare in modo che la politica generale del Paese tenga conto del lavoro e dei lavoratori come del resto è previsto addirittura nel primo articolo della nostra Costituzione.

D’altra parte i sindacati hanno sempre partecipato alla politica generale dai tempi di Lama, di Trentin, di Cofferati e dei loro successori. Da questo punto di vista la concertazione costruita da Amato, da Ciampi e da Prodi fu uno dei passaggi fondamentali che consentì la creazione della moneta comune europea con la partecipazione fin dall’inizio dell’Italia. Era stata ottenuta attraverso una politica di moderazione salariale che fu riconosciuta più volte nelle conclusioni finali che ogni anno il governatore della Banca d’Italia legge nell’assemblea generale dell’istituto.

Bisognerebbe dunque che questi corpi intermedi e in particolare quelli dei lavoratori fossero sviluppati e opportunamente riconosciuti.

C’erano alcuni altri temi molto importanti da trattare fin da oggi, di politica estera, di terrorismo, dell’andamento dell’economia e della congiuntura. Ne parleremo nel prossimo futuro. Per ora mi limito ad attirare l’attenzione su quello che sta accadendo sul mercato monetario. Draghi sta portando l’Europa fuori dalla deflazione e sta favorendo in ogni modo una ripresa del finanziamento delle banche alla clientela, un aumento della domanda interna e delle esportazioni e quindi dell’occupazione. L’ho già scritto una volta ma lo ripeto. Meno male che Draghi c’è.

«Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustizia sociale. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?».

Glistatigenerali.com, 27 marzo 2015 , con postilla

Oggi meritocrazia è una delle parole più di moda nel dibattito pubblico italiano. Tuttavia, mi sembra che non si colga affatto la ricchezza dei problemi ad essa connessi. Questo vale soprattutto per la sinistra, la quale dovrebbe impegnarsi particolarmente nel promuovere una sua personale visione di società meritocratica. Infatti, la strategicità nel definire chiaramente la propria visione della meritocrazia è urgente per la sinistra poiché questo termine è entrato di forza nel vocabolario politico delle forze socialdemocratiche europee, finendo di essere il marchio di fabbrica dei partiti liberisti e conservatori.

Prima del crollo dei regimi comunisti le sinistre europee criticavano aspramente le disuguaglianze materiali delle società capitaliste. Consideravano ingiusto un sistema centrato sull’ineguaglianza delle opportunità e la conseguente legittimazione delle disparità materiali. Si battevano in vista della realizzazione di una società senza nessuna forma di sfruttamento, in cui regnasse l’uguaglianza dei risultati: tutti devono avere in egual misura, si diceva. Esse erano anti-meritocratiche proprio poiché vedevano nella meritocrazia l’ideologia delle forze conservatrici interessate a riprodurre il loro potere di generazione in generazione. Il PCI italiano non faceva eccezione nell’allineamento a questa ortodossia.

Oggi quel mondo è finito e le sinistre europee, sopratutto quelle ex-marxiste, faticano molto a ridefinire la loro identità culturale, quei riferimenti ideali che in politica contano molto. Le logiche di mercato hanno trionfato su scala globale ed anche i regimi comunisti ancora in vita si danno un’organizzazione capitalista. Le battaglie di un tempo sembrano non avere più senso: vincoli sui licenziamenti e aumenti retributivi automatici sono considerati iniqui ed inefficienti; i diritti acquisiti divengono rendite di posizione. Molti si chiedono cosa significhi oggi essere di sinistra e vedono nella meritocrazia un appiattimento sulle agende delle destre.

In verità, è proprio trattando della meritocrazia che la sinistra può ritrovare quei problemi che oggi sembrano persi. Ma i suoi leader, almeno in Italia, paiono alquanto disorientati nel parlare di merito e della sua valorizzazione. Essi oscillano tra un semplicistico elogio delle taumaturgiche qualità di una fantomatica società meritocratica e un ideologico rifiuto di questa caricatura. Da un alto si enfatizzano le questioni relative agli incentivi economici, pensando che meritocrazia significhi solo valutare e incentivare; dall’altra ci si oppone polemicamente sulla base dei soliti slogan, qualche citazione colta e molta ideologia retrò.

Coloro cha propongono la meritocrazia da sinistra non vanno oltre un ragionamento molto elementare: si pensa che il merito di un individuo debba riflettere il talento, l’impegno, le competenze o qualsiasi altra cosa in relazione alla mansione svolta. Comunque lo si intenda, il succo del discorso non cambia: il merito va in qualche modo misurato indipendentemente da ogni altra valutazione potenzialmente discriminatoria. Una volta misurato, le ricompense, i premi, le punizioni e tutti gli altri tipi di incentivi/disincentivi saranno la chiave per massimizzare le prestazioni lavorative. Il vantaggio, ci spiegano, sarà collettivo: maggiori controlli e maggior trasparenza per via delle valutazioni continue; una più alta efficienza istituzionale dovuta alla migliore allocazione del capitale umano. Inoltre, e soprattutto, sarà garantita la giustizia sociale: tutti sono trattati come eguali e ricompensati solo in base ai loro meriti. In questa visione, le diseguaglianze divengono giuste: riflettono i meriti individuali.

Questa semplicistica visione della meritocrazia è difesa proprio perché, a prima vista, sembra essere il miglior modo di garantire efficienza istituzionale ed equità sociale, di legittimare le ineliminabili diseguaglianze materiali delle nostre società e di criticare ingiuste rendite di posizione. Non potendo difendere l’egualitarismo di un tempo si cerca di trovare il miglior modo di legittimare le diseguaglianze. Ma così la crisi d’identità politica divampa: i discorsi meritocratici della sinistra sono totalmente sovrapposti a quelli della destra.

Quale domanda dovrebbe porsi la sinistra a questo punto? Dovrebbe domandarsi in vista di quali finalità disegnare dei meccanismi istituzionali in grado di premiare il merito, chiedendosi con quale ideale di giustizia si sposa la concezione efficientista della meritocrazia. Tentare di rispondere a questa domanda significa porsi seriamente il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale, non a caso due temi totalmente assenti dal dibattito pubblico italiano.

Sono veramente garantite a tutti pari opportunità di partecipazione alla gara del successo e della realizzazione? Esiste realmente quel fenomeno chiamato mobilità sociale per cui i figli degli ultimi possono aspirare a diventare i primi?

Il problema da pensare per rispondere a queste domande è l’origine delle disuguaglianze. Da cosa dipende il fatto che un individuo sviluppi più competenze, talento, conoscenze e capacità di un altro? E’ molto complicato rispondere con precisione a questa domanda ma, certamente, è chiaro un punto: lo sviluppo di tutto ciò che può determinare il merito di un individuo non dipende esclusivamente da lui. Molte determinanti sono sociali, altre economiche, altre addirittura genetiche. L’immagine più appropriata è quella usata da John Rawls: il merito dipende dalla lotteria naturale e sociale. Nessuno merita di nascere con maggior talento e nemmeno merita di nascere in luoghi e contesti cognitivamente stimolanti o economicamente depressi. Non lo merita ma, inevitabilmente, ne trae vantaggio. Questo ha una conseguenza devastante per la nozione di giustizia come uguaglianza delle opportunità: non tutti hanno le stesse possibilità di sviluppare le componenti che gli permetteranno di meritare uno status sociale o una posizione professionale. Detto in altre parole: se vogliamo creare dei meccanismi meritocratici e crediamo che giustizia consista nell’uguaglianza delle opportunità, dobbiamo fare i conti con il più potente freno ad ogni sogno meritocratico e di giustizia sociale: il fenomeno dell’ereditarietà sociale.

Questo fenomeno è raffigurabile in vari modi. Questo grafico, per esempio, indica il legame tra il livello dei redditi dei figli e quello dei padri in vari paesi OCSE (fonte: OCSE Economic Policy Reforms: Going for Growth 2010): in paesi come USA, Italia e UK avere un padre con alta educazione e alto reddito aumenta del 40%, rispetto ai paesi scandinavi e al Canada, la possibilità che i figli ripercorrano la strada del padre.

L’indagine Multiscopo dell’Istat “famiglia e soggetti sociali” (2003)

presenta dati eloquenti a questo proposito: in Italia tra i figli delle classi sociali più basse solo il 5% raggiunge la classe dirigente; solo il 7% degli eredi di coloro che svolgono lavori autonomi fa meglio dei padri; il tasso di immobilità generale dei figli maschi è del 43%. Da altri dati presentati nella ricerca non emerge un paese totalmente immobile ma, certo, un paese dove prevalgono fenomeni di mobilità entro classi sociali vicine e dove non esistono le lunghe traversate dal basso all’alto della scala sociale e viceversa. Nel sud della penisola la situazione si aggrava parecchio: nascere in una classe agiata economicamente costituisce una sicura protezione sociale che garantisce la riproduzione dello status di famiglia.

Sovente si pensa che la scuola sia la più ovvia arma contro questi fenomeni di “dinastia sociale”. Garantendo a più persone possibile l’accesso all’istruzione si regala la possibilità di autodeterminare il proprio futuro. Purtroppo anche qui i dati dipingono un’altra situazione. Infatti, l’appartenenza ad un basso contesto socio-economico condiziona fortemente la scelta scolastica dei ragazzi (se proseguire o meno negli studi; quale scuola scegliere; se rischiare denaro mandando proprio figlio all’università in sedi lontane da casa, etc..) e, conseguentemente, il destino lavorativo e lo status sociale. Nel Rapporto 2012 dell’Istat si evidenzia che tra i giovani nati negli anni ’80 solo il 20% dei figli di operai si iscrive all’Università contro il 60% dei figli della borghesia.

Ma si dirà: l’Italia non è un paese meritocratico, per questo c’è una forte ereditarietà sociale. È bene notare che la situazione è simile in molti altri paesi. USA e UK (certamente due modelli per i loro sistemi universitari meritocratici) sono molto iniqui da questo punto di vista: nascere in una zona depressa economicamente e poco stimolante intellettualmente (spesso le due cose sono collegate) diventa quasi una condanna a frequentare scuole di bassa qualità e ad abbandonarle presto. Dagli anni 80 sino ai primi anni del 2000 gli studenti americani di bassa estrazione sociale non hanno aumentato la loro presenza nelle università d’èlite. In Inghilterra le diseguaglianze di opportunità scolastiche sono molto costanti nel tempo e la mobilità sociale è molto bassa.

Questi pochi dati (e moltissimi altri studi collettanei) ci dicono una cosa chiara: una caratteristica delle società democratiche post-industriali è la relativa ma costante ineguaglianza di opportunità tra individui appartenenti a diverse classi sociali. Con buona pace di Abravanel e del duo Alesina Giavazzi che continuano a credere che “la meritocrazia produce l’uguaglianza”. Produce l’uguaglianza di chi se la può permettere.

Pochi giorni fa è morto il Lee Kuan Yew, l’uomo che ha reso Singapore un modello di città-stato a cui tutto l’oriente guarda con rispetto e ammirazione. Christine Lagarde, direttrice del FMI, ha definito Lee «a visionary statesman whose uncompromising stand for meritocracy, efficiency and education transformed Singapore into one of the most prosperous nations in the world”. Il leader asiatico una volta disse che la meritocrazia non presentava svantaggi: non si è mai posto il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale. Le meritocrazia era la sua ideologia efficientista e i risultati economici sono dalla sua parte. Ma la visione politica non è data solo dalla concezione dell’efficienza economica. Gli ideali di giustizia devono contare. Lee ammoniva spesso l’Inghilterra per il suo welfarismo, condivise la decisione di Piazza Tienanmen ed era solito chiudere la bocca a giornalisti e critici. Lo statista asiatico è un bel esempio di meritocrazia efficientista senza preoccupazioni di giustizia politica.

L’esempio virtuoso viene, invece, dalle social-democrazie scandinave. Questi sono i regimi politici dove le opportunità scolastiche e lavorative sono maggiormente garantite a tutti. Dove l’uguaglianza delle opportunità è compresa e ricercata attraverso la politica. Il sucesso scandinavo è stato raggiunto attraverso costose misure di sostegno economico ai redditi più bassi, di aiuti occupazionali ai gruppo svantaggiati, di sostegno allo studio. Queste politiche fanno in modo che questi paesi siano molto omogenei dal punto di vista socio-economico, in modo che le scelte scolastiche degli individui siano condizionate il meno possibile dalla loro estrazione sociale. In modo che una giusta concorrenza meritocratica possa coinvolgere più persone possibile. Se la corsa non è equa, chi vince non merita nulla.

Molto spesso si dice che l’istruzione è un fattore produttivo. Sarebbe insensato dire il contrario. Tuttavia se introduciamo il problema delle opportunità di accesso all’istruzione dobbiamo renderci conto che senza un livellamento delle condizioni economiche di vita, le opportunità di riuscita individuale sono profondamente diseguali. La sfida della meritocrazia consiste nel coniugare efficienza economica e istituzionale con gli ideali di giustizia sociale che riteniamo politicamente più adeguati. Pensare, come fa la sinistra italiana, che tutto si risolva nella valutazione e negli incentivi (pur importanti) è un attentato alla cultura politica social-democratica.

Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustiza []. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?

postilla

Una volta accertato che il merito non dipende solo dalle capacità delle persone e dalla corrispondenza di ciò che sono capaci di produrre, nonchè dal valore sociale (ed economico) che il sistema economico-sociale attribuisce alla loro produzione, c'è ancora da chiedersi perchè in alcuni paesi esiste la ricchezza che consente di investire risorse collettive per aiutare le persone socialmente sfavorite e in altre no. Perchè, ad esempio, il Belgio è ricco e il Congo no?

Il manifesto, 29 marzo 2015

Se la misura della piazza serve a far capire la forza delle oppo­si­zioni sociali di un paese, si può dire senza dub­bio che piazza del Popolo a Roma ha dato un grande segnale. Con qual­che novità rispetto a molte mani­fe­sta­zioni degli ultimi anni. La pre­senza di tanti gio­vani, e quindi non solo dei valo­rosi pen­sio­nati della Cgil che di solito riem­piono i cor­tei sin­da­cali; il ritorno di molte ban­diere rosse, non del vec­chio Pci e tan­to­meno di quelle sbia­dite del Pd, ma della Fiom; l’entusiasmo della gente che si è ritro­vata per espri­mere un punto di vista che oggi non ha la neces­sa­ria rap­pre­sen­tanza politica.

Natu­ral­mente una piazza non fa pri­ma­vera, anche se la gior­nata era piena di sole e Mau­ri­zio Lan­dini, il pro­ta­go­ni­sta della mani­fe­sta­zione, con la segre­ta­ria gene­rale della Cgil, Susanna Camusso a fare da potente spalla dell’iniziativa, ha voluto sot­to­li­neare che una «nuova pri­ma­vera per il paese è iniziata».

Ma la “pro­te­sta” di ieri forse rap­pre­senta l’inizio di un pro­cesso trai­nato da un’idea forte di rin­no­va­mento delle forze sociali e sin­da­cali, poli­ti­che e di movi­mento, un’idea rias­sunta dallo slo­gan della mani­fe­sta­zione, «Unions», tra­du­ci­bile in un ritorno alle radici del sin­da­ca­li­smo. Che il segre­ta­rio della Fiom, nel suo discorso con­clu­sivo, ha rias­sunto con i ripe­tuti rimandi all’idea fon­da­tiva della Cgil di Di Vit­to­rio: di un sin­da­cato delle Con­fe­de­ra­zioni, così diverso da un sin­da­ca­li­smo cor­po­ra­tivo, basato sulla com­pe­ti­zione dei lavoratori.

E’ la spinta verso un ripen­sa­mento pro­fondo della natura del sin­da­cato, det­tata sia dalle scon­fitte subite con il pro­getto con­fin­du­striale che mar­cia spe­dito sotto le ali del governo, sia dalla per­dita di rap­pre­sen­ta­ti­vità pro­dotta da una crisi eco­no­mica che ha allar­gato il mare della disoc­cu­pa­zione e pro­dotto un eser­cito di pre­cari fuori da ogni tutela e diritto. Così chi oggi ha ancora un lavoro deve subire il comando pieno dell’impresa (abo­li­zione dell’articolo 18, deman­sio­na­mento, con­tratti nazio­nali pol­ve­riz­zati dalla catena per­versa del sistema degli appalti), e chi un lavoro lo cerca è merce di scam­bio e mano­va­lanza per la feroce guerra tra poveri.

Più che una fan­ta­sia, una vel­leità o una scor­cia­toia, la coa­li­zione sociale è una neces­sità vitale per rico­struire la figura del cit­ta­dino lavo­ra­tore (come appunto indi­cava Di Vit­to­rio quando negli anni ’50 già par­lava di uno sta­tuto del «cit­ta­dino lavo­ra­tore»). E coa­li­zione sociale vuol dire una cosa sem­plice: rico­struire le basi di una par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica, dun­que poli­tica, ai destini dell’Italia.

Per­ché chi oggi accusa il segre­ta­rio della Fiom di voler fare l’ennesimo par­ti­tino dovrebbe piut­to­sto doman­darsi come è stato pos­si­bile arri­vare a que­sto disa­stro sociale, a un così forte ridi­men­sio­na­mento del ruolo del sin­da­cato, alla nega­zione dei diritti. E anche inter­ro­garsi sulla subal­ter­nità, que­sta sì poli­tica, verso governi o par­titi amici di quel «gia­guaro» che nes­suno ha smac­chiato e in molti hanno nutrito.

Ritro­vare una sog­get­ti­vità poli­tica diventa un biso­gno natu­rale e l’alleanza con tutte le realtà asso­cia­tive che non si ras­se­gnano è una via mae­stra per raf­for­zare l’opposizione a un governo ricco di slo­gan almeno quanto è povero di un inno­va­tivo pro­getto di svi­luppo. Per­ché met­tere in pra­tica la linea di Squinzi, o una riforma costi­tu­zio­nale ed elet­to­rale di regres­sione verso forme di ple­bi­sci­ta­ri­smo media­tico non sem­bra dav­vero una grande novità. Né in Ita­lia, né in Europa. Come direbbe Lan­dini «non rac­con­tia­moci di balle». Che fa tra­bal­lare la sin­tassi, ma si capisce.

Domani è il com­pleanno di Pie­tro Ingrao. Cento anni applau­diti da tutto il popolo della piazza quando Lan­dini ha ricor­dato il giorno in cui, da pre­si­dente della Camera, si recò, come primo atto pub­blico, alle Accia­ie­rie di Terni per rivol­gersi agli ope­rai chia­man­doli «i costi­tuenti». Un mes­sag­gio a chi ha scarsa memo­ria del paese che pre­tende di governare

La Repubblica, 29 marzo 2015

Le mille bandiere che colorano di rosso piazza del Popolo garriscono più forte al vento, quando Maurizio Landini lancia la sua scomunica, l’accusa dalla quale non si può più tornare indietro: Renzi è peggio di Berlusconi. E’ lui, il leader del Pd, il vero nemico dei lavoratori. Perché è il presidente del Consiglio, e non gli industriali metalmeccanici, l’obiettivo numero uno di questa adunata generale convocata a Roma del leader della Fiom, un fiume di gente che ancora continuava ad arrivare in una piazza già strapiena quando già avevano parlato i primi tre oratori. E infatti è a Renzi, che Landini grida che «ci siamo stancati degli spot elettorali, delle slide e delle balle ». E’ a Renzi, anzi «a questi giovani ragazzi che stanno al governo», che manda a dire che «pensiamo di avere più consenso di quello che hanno loro». E’ a Renzi, che rivolge l’accusa di «aver adottato la logica padronale», e poi anche quella di «mettere a rischio la nostra democrazia». Ed è a Renzi, che lancia la sua sfida contro il Jobs Act: «Noi non ci fermeremo finché non avremo cancellato questa legge sbagliata».

Portare in piazza gli italiani che non ci stanno: che fosse questa, la vera parola d’ordine della manifestazione organizzata dai metalmeccanici della Cgil con un titolo anglosassone, «Unions!», l’avevano capito tutti, a cominciare dal gruppone milanese che è arrivato per ultimo in piazza della Repubblica per l’inizio del corteo, e mentre saliva le scale mobili della metropolitana cantava a squarciagola, tra bandiere rosse e campanacci, «Abbiamo un sogno nel cuore/ Renzi a San Vittore» (lo stesso coro che a suo tempo veniva dedicato a Bettino Craxi). E per quanto Su- sanna Camusso — accolta con un bacio di Landini ma tenuta lontana dal microfono — si sforzi ora di minimizzare l’impatto politico dell’evento, e precisi gelidamente dai gradini del palco che «in questa piazza ci sono i lavoratori metalmeccanici iscritti alla Cgil, che giustamente sono in lotta perché la legge delega sul lavoro riduce i diritti», si avvicina di più alla verità Nichi Vendola, guest star del corteo, quando spiega la vera ragione che ha spinto queste diverse anime del popolo di sinistra, queste cinquanta sfumature di rosso, a convergere su Roma nel primo sabato di primavera: «E’ ora che tutti coloro che non si adeguano all’idea che ci sia un uomo solo al comando, e che non si rassegnano a una deriva autoritaria, facciano massa critica».

E mentre il corteo passava davanti al Grand Hotel, sfidando gli sguardi curiosi ma stupiti dei suoi ospiti, sembrava di fare un viaggio indietro nel tempo risentendo gli stessi cori che — forse cantati dalle medesime voci — risuonavano quasi mezzo secolo fa, «Il potere dev’essere operaio», o ascoltando le canzonette anni Settanta del rivalutato Rino Gaetano che il furgone di testa mandava a palla, a cominciare da Nuntereggaepiù: «I ministri puliti/ i buffoni di corte/ ladri di polli/ super pensioni/ ladri di stato e stupratori/ il grasso ventre dei commendatori/ diete politicizzate/ evasori legalizzati/ auto blu/ sangue blu/ cieli blu/ amore blu/ rock and blues/ nuntereggaepiù!».

Ma se il canto che animava quel variopinto e allegro serpentone in cui si mescolavano anziani militanti e studenti barricaderi era «Bella ciao» — l’inno che tutta la piazza canterà alla fine della giornata — il vero segno unificante è la bandiera rossa. Accanto a quelle della Fiom sventolano le bandiere rosse di Rifondazione, le bandiere rosse della lista Tzipras e persino qualche bandiera rossa del Pci, tirata fuori da chissà quale armadio. Un coraggioso metalmeccanico modenese temerariamente prova ad alzare la bandiera del Pd, ma è subito circondato da gente che gli urla minacciosamente «Via, via, quella bandiera! ». E lui, sia pure protestando («Intolleranti, vergognatevi ») deve ripiegarla e rimettersela nello zaino.

Landini, intanto, marcia dietro lo striscione della Fincantieri. Cosa significano tutte queste bandiere rosse? Lui prima finge di ignorare il senso della domanda: «Significano che il lavoro vuole essere rappresentato ». Poi però sorride, e aggiunge: «A me le bandiere rosse mettono il buonumore». E allora alle sue spalle parte partito il coro: «Avanti o popolo/ alla riscossa/ Bandiera rossa/ Bandiera rossa!».

Adesso quelle bandiere rosse punteggiano piazza del Popolo, salutate dallo speaker che annuncia: «Noi siamo le persone perbene, siamo il Paese reale!». Sventolano per salutare Rodotà, salito sul palco nonostante una recentissima frattura alla gamba, che usa l’ironia per attaccare Renzi: «Non sono un professorone pigro. Sono qui con le stampelle». In piazza ci sono anche parlamentari del Pd, testimoni di un dissenso sempre più evidente. «Sono qui per colmare un deficit di rappresentanza, visto che il governo è molto più vicino ai poteri forti» dichiara Stefano Fassina, mentre Pippo Civati ricorda che lui il Jobs Act non l’ha votato e Rosy Bindi avverte che «anche chi è contro il governo deve essere ascoltato».

E’ il battesimo di un nuovo soggetto politico? Landini lascia tutti nel dubbio, ripetendo alla fine del suo comizio che lui non vuol fare un partito «ma il sindacato deve avere una sua soggettività politica». Poi conclude citando, significativamente, papa Giovanni XXIII: «Quando sei per strada e incontri qualcuno, non gli chiedere da dove viene ma chiedigli dove va, e se va nella stessa direzione, cammina insieme a lui». E chi vuole intendere intenda.

La Repubblica, 28 marzo 2015

Spaccarsi per una piazza che non ti vuole. È il paradosso che imbriglia il Pd di lotta, in corteo con la Fiom e contro i democratici di governo. Toccherà a Stefano Fassina, Rosy Bindi, Pippo Civati e forse Gianni Cuperlo manifestare oggi per le vie di Roma, fino al comizio finale di Maurizio Landini. Dichiarerà guerra a Palazzo Chigi, si intesterà la battaglia per abolire il Jobs act con un referendum. Ma i riflettori sono già puntati sul futuro, quando la Coalizione sociale tenterà di scalare la Cgil e, chissà, anche la sinistra.
Due settimane dopo la prima riunione a porte chiuse in un seminterrato di corso Trieste, la struttura di Landini inizia a prendere forma in piazza del Popolo. Arriveranno in migliaia. Trecento pullman, bandiere dei metalmeccanici e i colori dei poster della prima campagna presidenziale di Obama. L’obiettivo è radunare cinquantamila persone, provando a immaginare nuove “Unions”, che è anche lo slogan dell’evento. La colonna sonora, neanche a dirlo, seguirà lo spartito degli storici canti operai del gruppo “Il muro del Canto”. Sul palco interverranno rappresentanti di Libera (con il suo “reddito di dignità”) e delegati Fiom, insegnanti della Cgil, studenti e i movimenti per la casa. Sarà proiettato un saluto di Gino Strada (Emergency) e letto un messaggio di Gustavo Zagrebelsky. E parlerà anche Stefano Rodotà.
Su un punto, però, il leader non transige: braccia aperte ad associazioni e movimenti (Arci, Giustizia e libertà) porte sprangate per le vecchie sigle. Certo, ci sarà Nichi Vendola nonostante il gelo degli ultimi mesi. E pure, come detto, frammenti della minoranza dem. «Visti da fuori - li ha massacrati Landini sull’Espresso - alcuni esponenti sembrano interessati soprattutto alla ricandidatura». Previsioni impietose. L’altra faccia della medaglia, quella renziana: «Hanno visto i dati positivi sull’occupazione? - domanda il vicesegretario dem Lorenzo Guerini - Quanto ai nostri, manifestano con chi si oppone al governo guidato dal loro segretario... Fatico a comprendere, lo ammetto».
Fuori dalla Coalizione sociale, in effetti, è tutto un rebus targato Pd. Con Matteo Renzi che ridimensiona - «è una manifestazione contro il governo, “no news”, non c’è titolo» -, la pattuglia bersaniana che si sfila e un altro pezzo di minoranza dem che spera di costruire un ponte. «Sarò lì per ascoltare - spiega Bindi - E anche un grande partito di centrosinistra dovrebbe ascoltare». Non che tutto fili liscio, anzi: «Sento la contraddizione - ammette Stefano Fassina - e mi preoccupa che tanti lavoratori avvertono il Pd lontano».

La tabella di marcia delle “Unions” di Landini è serrata: ad aprile un appuntamento per stilare il programma, poi le prime sedi territoriali e a maggio la convention nazionale. Una corsa senza respiro, mentre la sinistra politica antirenziana arranca. Fino a dove? Fino all’opa sulla Cgil, che Susanna Camusso proverà a contrastare affacciandosi in piazza del Popolo (l’intervento dal palco, invece, è ancora in bilico). E soprattutto fino a una nuova forza politica, nonostante l’estenuante pretattica: «Io resterò nel sindacato - giura Landini - ma chi partecipa al percorso risponderà al vuoto di rappresentanza ». Un partito, appunto. «Il dilemma lo risolverà Maurizio», taglia corto Civati. «Noi sforziamoci di non dividere la sinistra».

L'Espresso, 2 aprile 2015 (m.p.r.)

Lo scorso autunno una delegazione libica sbarca a Roma per discutere della Coastal road. È l'autostrada che il governo italiano ha promesso al fu Muhammar Gheddafi nel 2008, con Silvio Berlusconi premier e Altero Matteoli ministro delle Infrastrutture, per compensare i danni della colonizzazione sabaudo-fascista. Lo schema dell'accordo, mantenuto anche dopo la caduta del Colonnello, prevede che la società pubblica Anas international enterprise, controllata al 100 per cento dall'Anas, si occupi del progetto e della direzione lavori. La Libia può scegliere le imprese, purché siano di preferenza italiane (Salini-Impregilo, Cmc, Condotte, Pizzarotti). L'incontro romano si svolge in un'atmosfera surreale. I libici si sentono dire che alla direzione lavori sulla Ras Ejdyer-Emssad Motorway parteciperà anche la Ingegneria Spm di Stefano Perorti. No problem, rispondono. Sanno bene che in questo momento la costruzione di un'autostrada è più probabile su Marte che nella Libia devastata da tre anni di guerra civile e dall'attacco dello Stato Islamico. Ma conoscono gli italiani e sanno stare al gioco. E in gioco per adesso non ci sono i 2,3 miliardi di euro della Motorway costiera ma i 12.5 milioni di euro di consulenze tecniche e amministrative bandite a gara dall'ambasciata di Tripoli ma pagate con fondi degli ex colonizzatori.
L'inchiesta "Sistema" della Procura di Firenze rivelerà che la Spm è stata imposta da Ercole Incalza, il burattinaio del Mit, arrestato insieme all'ingegnere Perotti. Per l'autostrada libica è finito sotto inchiesta anche il direttore generale di Anas international, Fabrizio Averardi Ripari, che oggi si difende dicendo di avere subito le pressioni di Incalza per inserire Spm nel business libico. E la stessa tesi che ha rilanciato in termini generali Pietro Ciucci, dominus uno e trino dell'Anas secondo la definizione del capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda. Secondo Ciucci, intervistato da Repubblica, i general contractors, ossia i grandi costruttori, sono appoggiati dai politici o dai grand commis del ministero e l'Anas è loro ostaggio.
Si potrebbe eccepire che un ostaggio, al contrario di Ciucci, non riceve ricchi emolumenti e non può dimettersi quando vuole. Ma la questione esiste, e da parecchi governi. II Partito democratico nemmeno era alle viste nel 2003 quando il senatore dell'Ulivo Zanda e i suoi colleghi Paolo Brutti e Anna Donati presentavano la prima interrogazione parlamentare sul "Sistema" che accentra progettazione e direzione lavori delle opere pubbliche nelle mani di un oligopolio. Nell'ultimo decennio giovani e meno giovani leoni dell'ingegneria hanno prosperato. I contraenti generali li nominavano come progettisti o direttori dei lavori, spesso con l'intermediazione interessata di sponsor politici. L'effetto è stato l'asservimento della tecnica al profitto.
Dalla Legge obiettivo di Berlusconi (2001) il settore è stato lottizzato a vantaggio di imprenditori privati dell'engineering e a scapito delle professionalità interne di società pubbliche come la stessa Anas o l'Iralferr (gruppo Fs) guidata un tempo da Giulio Burchi, un altro indagato di "Sistema". Ha fatto comodo a tutti. Alle imprese di costruzione, che guadagnano con le perizie di variante concesse dalla committenza pubblica su imbeccata dei tecnici. Ai controllori pubblici che, invece di controllare, si sono arricchiti con i collaudi. Ai tecnici che sono nominati dai contraenti generali, che incassano fra lo 0,7 e l'1 per cento dell'importo lavori e che hanno spesso una filiale straniera per smistare il nero. Ai politici, che fabbricano consenso con le inaugurazioni e ricevono favori sotto varie forme, dal versamento estero su estero all'assunzione dei figli, com'è accaduto all'ex ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi.
Nelle carte dell'inchiesta fiorentina sono citati vari progettisti di primo piano. Alcuni non sono indagati. Nel Sistema non è necessario commettere un reato. Basta che ognuno sappia trovare il suo posto in una lottizzazione dove i grandi hanno un giro d'affari a sette zeri e i meno grandi ricavano comunque 4-5 milioni di euro l'anno.

L'infinita metro C
Di Perotti si è detto che la sua specialità sono le vie ferrate, metropolitane o treni. Con il completamento della linea dell'alta velocità (Torino-Milano-Napoli) la Spm ha allargato il perimetro verso il settore stradale prendendo tre lavori sulla Salerno-Reggio. Tecnico molto apprezzato da Incalza, Perotti ha diretto il macrolotto 2 in Basilicata (200 milioni di euro di extracosti) per conto del consorzio italo-spagnolo Sis guidato da Claudio Dogliani. Con Pizzarotti ha gestito il macrolotto 4h e con la cooperativa Cmc il tratto Atcna Lucana-Sicignano. Poco prima che l'ingegnere romano venisse arrestato, un altro intervento sulla Salerno-Reggio (macrolotto 3.2) ha creato qualche problema alla Spm, con il crollo del viadotto Italia e la morte di un operaio.

Una vera maledizione visto che Spm è subentrata nella direzione lavori dopo l'esclusione di Giuseppe Marascio ingaggiato dalla Technical di Alessandro Mazzi, arrestato per l'inchiesta sul Mose. Marascio, un tempo molto vicino agli ambienti di An e all'ex ministro Matteoli, oggi indagato per il Mose, sta valutando se presentare ricorso contro la decisione dell'Anas attraverso il figlio Francesco, avvocato amministra-tivista e autore di un testo giuridico sulla revisione prezzi nei lavori pubblici con prefazione dello stesso Matteoli. Nel curriculum di Perotti spicca la direzione lavori della tratta Colosseo-San Giovanni della metro C di Roma (Astaldi, Caltagirone, Ansaldo Sts e Lega coop). In ritardo di anni, esplosa nei costi, la Metro C ha una delle commissioni di collaudo più care della storia per un totale di oltre 7 milioni di euro pagati da Roma metropolitane ai tre commissari Giuseppe Ricceri (3,3 milioni), ex presidente del consiglio superiore dei I.avori pubblici e consulente per il Mose, Andrea Monorchio (1,9 milioni di euro), ex Ragioniere generale dello Stato, e Dario Zaninelli (1,9 milioni di euro), citato nell'inchiesta sulla Cricca per la consulenza alla Scuola dei marescialli di Firenze.

Quadri e vigneti
L'ascesa di Perotti è avvenuta quando Antonio Bevilacqua detto Nino, 52 anni, era già il numero uno grazie alla quantità di incarichi accumulati dalle sue società: la Sis e la A&S prima, e oggi l'Italconsult. L'ingegnere palermitano è passato indenne dalla decadenza dei suoi protettori forzisti, dall'ex viceministro dell'Economia Gianfranco Miccichè a Denis Verdini. Per lui c'è stato il sostegno bipartisan di Lupi e del democrat Giuseppe Lumia, mentre il suo riferimento in Anas è Ugo Dibennardo, proconsole della spa pubblica in Sicilia dal 2008 al 2013. Sotto il profilo economico, Bevilacqua è il più forte del settore. Può vantare un fatturato di oltre 30 milioni di euro all'anno con Italconsult. In aggiunta, ha due alleati di peso nell'azionariato. Uno è Intesa, il colosso bancario che Burchi si vantava di rappresentare nel mondo delle infrastrutture lombarde (Teem, Brebemi e Pedemontana). L'altro è Tecnoholding, la società che riunisce le camere di commercio italiane. Appassionato di arte moderna e vitivinicoltore part-time (Terrazze dell'Etna), Bevilacqua è stato nominato presidente del porto di Palermo nel 2001 dal sindaco forzista Diego Cammarata. Si è dimesso nel 2013.

Oltre alla Catania-Siracusa con Pizzarotti, Bevilacqua ha gestito il raddoppio della statale 640, divisa in due lotti da oltre 1,5 miliardi di euro. Nel primo è stato progettista con la Sintel di Giandomenico Monorchio (figlio e Andrea) alla direzione lavori. Nel secondo ha diretto i lavori del consorzio Empedocle (Cmc, Ccc e Tec nis). Oltre alla statale 640, Bevilacqua ha fatto la parte del leone anche con la statale 106 Jonica (Reggio Calabria-Taranto). I maxilotti 1 e 2 sono suoi. Nel maxilotto 3 l'ingegnere siciliano ha soltanto la progettazione mentre la direzione lavori è di Monorchio.

Ci pensa papà
Classe 1970, Monorchio junior ha fondato Sintel engineering nel settembre 1998, tre mesi dopo essersi iscritto all'albo professionale e tre anni prima che il padre iniziasse a occuparsi di lavori pubblici alla guida di Infrastrutture spa (Ispa), la holding di Stato creata nel 2002. Prima di essere assorbita nella Cassa depositi e prestiti (2005), Ispa ha finanziato il Quadrilatero Marche-Umbria, i lotti 2 e 3 dell'A3, l'alta velocità ferroviaria Torino-Milano-Napoli (Sintel ha lavorato sulla Firenze-Bologna) e il Tay Milano-Genova dove la Sintel ha avuto la direzione lavori dal contraente generale Cociv, passato dal controllo del gruppo Gavio a Impregilo-Condotte. Sintel ha inoltre progettato il laboratorio del centro sperimentale dell'Anas a Cesano e l'impiantistica per il nuovo palazzo del cinema di Venezia, mai realizzato ma costato 37 milioni di euro.

Nel settore strade, Monorchio ha avuto la Torino-Novara dalla Sina del gruppo Gavio. A Sud ha diretto i lavori del macrolotto 6 dell'A3 per conto di Impregilio-Condotte. In entrambi i casi, le opere sono andate avanti fra ritardi e spese fuori controllo. Anche peggio è finita sulla Palermo-Agrigento, con lo smottamento del viadotto Scorciavacche. La Sintel era responsabile della direzione lavori con Fulvio Giovannini, rimosso dopo l'incidente su richiesta del presidente dell'Anas. Monorchio ha tentato la carriera politica presentandosi alle ultime comunali di Roma nella lista del collega ingegnere Alfio Marchini. l suoi 537 voti non sono bastati per un seggio.

Transoceanica
Con i suoi 86 anni appena compiuti e una transoceanica in barca a vela portata a termine nel 2010 è il decano del settore. Ma non si limita a navigare e ad esibirsi ai fornelli durante le serate Masterchef al circolo Canottieri Aniene. Dopo che Perotti è stato estromesso dalla direzione lavori sul macrolotto 3.2 della Salerno-Reggio, dove è sprofondato il viadotto Italia, tocca a Beomonte seguire un'opera che in fase di progettazione esecutiva ha già ottenuto un ritocco economico consistente. I lavori sono passati da 425 a 495 milioni di euro. Oltre che con la sua Cilento ingegneria, Beomonte ha spesso collaborato con un'altra primaria società di engineering, la 3Ti di Alfredo Ingletti e Giorgio Casciani. 3Ti ha ricavi superiori ai 20 milioni di euro e ha lavorato sull'A3 (macrolotti 5 e 6), sugli aeroporti di Bologna e di Fiumicino, nei paesi della penisola arabica, in Romania e in Sierra Leone.

«Un’intervista con lo studioso inglese, ospite della 'Biennale Democrazia' di Torino. La necessità di una puntuale critica al potere dei giganti e di una complementare capacità innovativa della sinistra europea».

Il manifesto, 26 marzo 2015

Colin Crouch appar­tiene alla esi­gua, ma auto­re­vole schiera di eco­no­mi­sti, filo­sofi, socio­logi «rifor­mi­sti» che, rima­nendo fedeli alle loro con­vin­zioni, sono ormai indi­cati, dai media main­stream, come teo­rici radi­cali. Ne fanno parte stu­diosi come Richard Sen­nett, Zyg­munt Bau­man, Ales­san­dro Piz­zorno e Luciano Gal­lino. Negli anni tutti loro si sono appli­cati ad inda­gare le tra­sfor­ma­zioni del mondo del lavoro o il venir meno di quelle iden­tità col­let­tive che hanno carat­te­riz­zato il Nove­cento. Si sono appli­cati al loro spe­ci­fico campo disci­pli­nare, regi­strando le con­ti­nuità e le discon­ti­nuità nello svi­luppo capi­ta­li­stico. Non hanno mai nasco­sto la con­vin­zione che l’economia di mer­cato potesse con­ti­nuare a pro­spe­rare solo in pre­senza di robu­sti, sep­pur fles­si­bili diritti sociali di cit­ta­di­nanza che garan­tis­sero una «ragio­ne­vole» redi­stri­bu­zione della ricchezza.

Crouch è inol­tre lo stu­dioso che ha, come gli altri, indi­vi­duato nel wel­fare state il punto più avan­zato rag­giunto durante «il secolo social­de­mo­cra­tico», per usare un’espressione coniata da Ralph Daren­d­horf, altra figura chiave di que­sta cul­tura poli­tica demo­cra­tica euro­pea. Non un «radi­cale» dun­que, anche se i suoi ultimi studi - Il potere dei giganti e Post­de­mo­cra­zia, entrambi pub­bli­cati da Laterza - sono stati con­si­de­rati una cor­ro­siva cri­tica del neo­li­be­ri­smo. Colin Crouch sarà ospite della «Bien­nale Democrazia».

Sono anni che la discus­sione sulla demo­cra­zia occupa un posto rile­vante nella rifles­sione di filo­sofi, eco­no­mi­sti, socio­logi. Lei ha scritto dif­fu­sa­mente di regimi poli­tici post­de­mo­cra­tici, carat­te­riz­zati da un para­dosso: in essi sono vigenti tutti i diritti civili e poli­tici acqui­sita dalla moder­nità, ma i cen­tri deci­sio­nali sono carat­te­riz­zati da logi­che che dif­fi­cil­mente pos­sono essere sot­to­po­ste al con­trollo dei cit­ta­dini. Stiamo cioè assi­stendo a una cam­bia­mento della forma-stato. Può spie­gare cosa intende per postdemocrazia?

«Si, viviamo una situa­zione para­dos­sale, come lei sug­ge­ri­sce. Oltre che un para­dosso, i regimi poli­tici euro­pei e sta­tu­ni­tense sono una forma di atro­fia della demo­cra­zia. La glo­ba­liz­za­zione lo rende evi­dente, così come rende mani­fe­sto il fatto che la demo­cra­zia (che rimane prin­ci­pal­mente nazio­nale) cessa di esi­stere sulla soglia dei posti dove si pren­dono le deci­sioni più impor­tanti sull’economia. Il declino delle iden­tità di classe e della reli­gione, ele­menti fon­da­men­tale nella defi­ni­zione delle iden­tità poli­ti­che nei primi decenni dei pro­cessi di demo­cra­tiz­za­zione, priva gli elet­tori di legami con il mondo poli­tico. Ma anche i par­titi poli­tici ormai si sen­tono lon­tani dalla popo­la­zione e usano i metodi del «mar­ke­ting» come sur­ro­gato dei legami venuti meno con chi dovreb­bero rappresentare. La cat­tura dell’attenzione creata dal mar­ke­ting poli­tico crea però legami arti­fi­ciali, con­tin­genti; e dun­que non con­vin­centi. La cre­scita della dise­gua­glianza rende infine molto più facile che le élite e le grandi imprese con­trol­lino la poli­tica. Que­sto com­porta una tra­sfor­ma­zione della forma dello stato. Ciò che stiamo assi­stendo è la for­ma­zione di uno stato post-feudale sal­da­mente nelle mani della nuova ari­sto­cra­zia delle grandi imprese. Uno stato, tut­ta­via, che ha una legit­ti­ma­zione demo­cra­tica. Alle élite non serve quindi più una dit­ta­tura per eser­ci­tare il potere.

Paral­le­la­mente alla discus­sione della demo­cra­zia, c’è quella sul «depe­ri­mento» dello stato-nazione, vista la ces­sione di sovra­nità ad orga­ni­smi sovra­na­zio­nali, come l’Unione euro­pea, il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale, il Wto o la Banca mon­diale. Eppure assi­stiamo a una super­fe­ta­zione dell’intervento sta­tale in ter­mini di norme ammi­ni­stra­tive che rego­lano la vita dei sin­goli. In Inghil­terra, ciò è stato qua­li­fi­cato come «poli­tica della vita». Da una parte dun­que, per­dita della sovra­nità, dall’altra aumento delle sfere di inter­vento dello Stato. Come vede lei que­sta situazione?

Il "depe­ri­mento" dello stato-nazione è sotto gli occhi di tutti. Per me, però, le cose sono com­plesse. Alla luce della glo­ba­liz­za­zione, un feno­meno che ritengo posi­tivo, abbiamo biso­gno di tra­scen­dere lo stato-nazione, per­ché è un modo di orga­niz­zare e gestire la vita pub­blica ina­de­guato rispetto i com­piti poli­tici che abbiamo di fronte. Abbiamo biso­gno di que­ste isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali. Più che abo­lirle dob­biamo però lavo­rare a una loro demo­cra­tiz­za­zione. Que­sto vale anche per l’Unione Euro­pea. Per quanto riguarda l’Europa siamo di fronte a un caso direcu­ler pour mieux sau­ter, come dicono i fran­cesi, cioè di arre­trare un po’ per meglio com­piere un balzo in avanti. È infine vero che la poli­tica nazio­nale ormai si inte­ressa, forse troppo, delle pic­cole cose, in una miscela di super­fe­ta­zione degli inter­venti sulla vita dei sin­goli e inca­pa­cità di fron­teg­giare i pro­blemi deri­vanti dalla globalizzazione».

L’Europa poli­tica e sociale è l’oggetto del desi­de­rio del rifor­mi­smo social­de­mo­cra­tico euro­peo. Tut­ta­via, l’Europa sem­bra essere un labo­ra­to­rio sociale e poli­tico di un neo­li­be­ri­smo in crisi, certo, ma ancora abba­stanza forte da defi­nire dra­co­niane poli­ti­che di auste­rità. Cosa nel pensa della situa­zione europea?

C’è stata sem­pre una ten­sione nella poli­tica euro­pea tra il neo­li­be­ra­li­smo e una poli­tica sociale, con una ege­mo­nia del primo aspetto. D’altronde non pos­siamo dimen­ti­care che il pro­getto ini­ziale era di fare un mer­cato comune. Ma la «mer­ca­tiz­za­zione», ben­ché porta alcuni van­taggi, pro­duce danni sociali. Da que­sto punto di vista la defi­ni­zione di poli­ti­che sociali è indi­spen­sa­bile per ripa­rare i «danni» pro­dotti dalle poli­ti­che neo­li­be­rali. Per sin­te­tiz­zare: più si dif­fonde la «mer­ca­tiz­za­zione», più deve cre­scere l’impegno per svi­lup­pare inter­venti politico-sociali per sta­bi­lirne limiti e argini. Que­sto è acca­duto, sep­pur par­zial­mente, durante i lavori delle com­mis­sioni euro­pee pre­sie­dute da Delors e da Prodi. Quel che manca oggi è invece l’opera di «bilan­cia­mento» che può essere eser­cito da parte della poli­tica. È que­sto un aspetto del trionfo della post­de­mo­cra­zia. Affin­ché si svi­luppi un’Europa sociale ser­vono pro­te­ste e mobi­li­ta­zioni dei cit­ta­dini. Solo in que­sto modo i governi, le ban­che e le altre isti­tu­zioni (sia nazio­nali, che euro­pee che inter­na­zio­nali) potranno cam­biare la loro agenda».

In tutto il mondo sono cre­sciute le dise­gua­glianze sociali. Anche que­sto rimette in discus­sione la demo­cra­zia. È come se nei glo­riosi, meglio sarebbe dire infau­sti trenta anni di neo­li­be­ri­smo ci sia stato uno spo­sta­mento rile­vante di potere nella società. Poche cen­ti­naia di migliaia di per­sone hanno red­diti e poteri di gran lunga supe­riore a quelli della mag­gio­ranza della popo­la­zione. Lei ha scritto un sag­gio su que­sto ele­mento (Il potere dei giganti). A che punto siamo di que­sta ten­denza alla cre­scita delle cre­scita delle disu­gua­glianze sociali?


Que­sto è il tema al cen­tro delle ana­lisi non solo di stu­diosi auto­re­voli come Joseph Sti­glitz e Tho­mas Piketty, ma anche di orga­ni­smi come l’Ocse e il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale. Dalle loro ana­lisi emerge un ele­mento comune: il nega­tivo impatto eco­no­mico dovuto alla cre­scita delle disu­gua­glianze. Con­cordo però con Sti­glitz quando afferma che ci sono anche aspetti poli­tici sca­tu­riti dalle disu­gua­glianze sociali. Il prin­ci­pale è che la ric­chezza eco­no­mica può tra­sfor­marsi in potere poli­tico; il quale, a sua volta, può essere usato per acqui­sire ulte­riori van­taggi eco­no­mici. Ma sta a noi inter­rom­pere que­sta spi­rale ali­men­tata dalla «cre­scita incar­di­nata sulla cre­scita delle disu­gua­glianze sociali».

Uno dei suoi primi libri, scritto e curato assieme con Ales­san­dro Piz­zorno, è per­vaso dalla con­vin­zione che il con­flitto di classe avesse por­tato a com­pi­mento la defi­ni­zione dei diritti sociali di cit­ta­di­nanza. Uscì quando era comin­ciato a spi­rare il vento neo­li­be­ri­sta. Da allora i diritti sociali di cit­ta­di­nanza sono stato il ber­sa­glio pre­fe­rito di molte poli­ti­che in Europa, men­tre la pre­ca­rietà ha fatto cre­scere a dismi­sura l’esercito dei «wor­king poor», che hanno bassi salari e pochis­simi diritti. Come vede la situa­zione dei rap­porti di lavoro nel capitalismo?

Il declino dei sin­da­cati - cau­sato prin­ci­pal­mente dal declino della gran indu­stria e la cre­scita dei set­tori postin­du­striali non orga­niz­zati - ha reso più facile un attacco con­tro i diritti sociali di cit­ta­di­nanza. Ora però è impor­tante capire i cam­bia­menti nel lavoro. Le con­qui­ste ope­raie e sin­da­cali degli anni Set­tanta hanno come sfondo un’economia indu­striale, che non è ovvia­mente scom­parsa, ma è tut­ta­via segnata da una siste­ma­tica con­di­zione «con­giun­tu­rale» dovuta ai con­ti­nui e repen­tini muta­menti nell’economia. Pren­diamo, ad esem­pio, l’articolo 18 del vostro Sta­tuto dei lavo­ra­tori. È una norma pen­sata e valida in un pre­ciso con­te­sto storico-produttivo tesa a garan­tire alcuni diritti dei lavo­ra­tori, come ad esem­pio il licen­zia­mento ingiu­sti­fi­cato. L’esito delle pro­fonde e dram­ma­ti­che tra­sfor­ma­zioni eco­no­mi­che è la «spa­ri­zione» di interi set­tori pro­dut­tivi in alcuni paesi euro­pei. Da qui la neces­sità di ela­bo­rare nuove tipo­lo­gie di diritti a difesa del lavoro. Se i lavo­ra­tori sono costretti a vivere periodi più o meno lun­ghi di disoc­cu­pa­zione, hanno biso­gno di un com­penso gene­roso per con­ti­nuare a vivere. Allo stesso tempo devono acce­dere a corsi di for­ma­zione pro­fes­sio­nale fina­liz­zati a tro­vare un nuovo lavoro. Poli­ti­che di que­sto tipo sono par­ti­co­lar­mente deboli in Ita­lia. I sin­da­cati, più che atte­starsi nella sola difesa dell’articolo 18, dovreb­bero atti­varsi anche per lo svi­luppo di poli­ti­che del lavoro. Allo stesso tempo, però, il governo non può limi­tarsi a volere l’abolizione dell’articolo 18: dovrebbe svi­lup­pare nuovi diritti ade­guati per l’economia attuale».

Nel suo ultimo libro tra­dotto in Ita­lia - Quanto capi­ta­li­smo può sop­por­tare la società - lei scrive dif­fu­sa­mente sulla «social­de­mo­cra­zia asser­tiva». Cosa intende con que­sta espressione?

In ogni paese euro­peo, i social­de­mo­cra­tici sono atte­stati su una posi­zione difen­siva. Cre­dono che il trionfo del mer­cato e del neo­li­be­ra­li­smo li abbiano ridotti a dino­sauri in via di estin­zione o a pezzi da museo. Ritengo che per i social­de­mo­cra­tici si aprono nuove e ine­dite strade poli­ti­che da per­cor­rere. Come ho già detto, il mer­cato crea pro­blemi sociali; è pro­prio in que­sta situa­zione di potere del mer­cato che abbiamo biso­gno delle poli­ti­che sociali della social­de­mo­cra­zia. Il potere del mer­cato, delle grandi e spesso glo­bali imprese più mer­cato, la cre­scita delle disu­gua­glianze sociali pre­ve­dono la forte pre­senza della social­de­mo­cra­zia che può rap­pre­sen­tare gli inte­ressi sociali, civili, cul­tu­rali di chi è pena­liz­zato dall’egemonia dell’economia di mer­cato. Certo, dovrebbe essere una social­de­mo­cra­zia inno­va­tiva, nel senso di una demo­cra­zia «fem­mi­ni­liz­zata» e verde. Il neo­li­be­ra­li­smo non può infatti riu­scire a risol­vere i pro­blemi sociali e di svuo­ta­mento della demo­cra­zia creati pro­prio del neoliberalismo».

Comune.info, newsletter, 26 marzo 2015

Dal 27 al 29 marzo 2015 si terrà a Milano, presso i Frigoriferi Milanesi (via Piranesi 10), Book Pride, la prima fiera nazionale dell’editoria indipendente. In questa intervista Andrea Staid, che coordina il dibattito di sabato 28 marzo, anticipa gli argomenti che verranno affrontati nel corso di questa conversazione, con due grandi antropologi come Marc Augé e Marco Aime, su alterità e geografie umane.

La prima domanda è perché trovate importante che l’antropologia non si occupi soltanto di popoli lontani ma anche delle “nostre” società?
Marc Augé – È importante perché viviamo in un mondo che si muove, e questo vale tanto per le società cosiddette “tradizionali” quanto per l’Occidente moderno. Questo movimento sovverte le vecchie distinzioni e non permette più di distinguere fra differenti tipi di studio e di sguardo. È sempre stato così, ma lo è sempre di più.

Marco Aime – Perché credo che l’approccio antropologico, grazie anche al suo bagaglio di carattere “etnografico”, possa fornire uno sguardo nuovo sui processi che stanno accadendo nelle nostre città e nei nostri paesi. Un approccio dinamico e incentrato sui modelli relazionali, che fornisce nuove chiavi di lettura rispetto a quelle adottate da altre discipline.

Mi chiedo spesso se l’antropologia possa aiutarci realmente a capire il complesso mondo contemporaneo e soprattutto se possa trovare risposte possibili per muoverci meglio e con più consapevolezza nella società. Voi come la pensate?

Marco Aime – In qualche modo sì. Non dico che l’antropologia proponga soluzioni particolari, ma al contrario, proprio grazie al fatto di porre continuamente domande, ci aiuta a indagare, con angolazioni diverse, il nostro presente.

Marc Augé – Sì, ma precisamente analizzando quello che si muove e criticando le categorie create dalla prima etnologia: cultura, tradizione, comunità, ecc.

Le angolazioni diverse sono centrali per noi antropologi, il mondo è scosso da quello che la stampa chiama, dal mio punto di vista erroneamente, uno scontro di civiltà, o di religioni. Due antropologi come voi ci possono aiutare a fare chiarezza nella confusione creata dai media?

Marco Aime – Lo spero: l’uso di concetti come cultura, civiltà, identità, fatto nelle retoriche comunicative dei media e in quelle politiche, è quanto mai approssimativo, se non errato e strumentale. Si vogliono interpretare in chiave culturale conflitti le cui cause spesso vanno ricercate in altri campi. Inoltre si usano concetti come cultura e identità nello stesso modo in cui si utilizzava quello di “razza” nel secolo scorso.

Marc Augé - A mio avviso viviamo oggi le ultime convulsioni (ma può anche durare a lungo!) della forma più totalitaria del senso sociale: la religione.

Gli sguardi altri possono essere un tentativo di condividere alcune possibili letture dei punti di rottura che segnano la nostra società e quindi trovare soluzioni condivise?
Marc Augé - È complicato: infatti, oggi più che mai, è difficile postulare l’esistenza di sguardi culturali differenti e coerenti. Penso che l’analisi critica possa essere feconda solo concentrandosi sulle tre dimensioni dell’essere umano: individuale, culturale e genetica. Essa deve chiedersi come conciliare il “senso” sociale (la necessità della relazione con l’altro) e la libertà dell’individuo.

.* Marc Augé (Poitiers, 1935), antropologo, è noto a livello internazionale per la teorizzazione dei concetti di surmodernità e di nonluogo. È stato direttore dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi ed è autore di numersi libri tradotti in tutto il mondo; tra quelli diffusi in Italia ricordiamo Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Il bello della bicicletta, Diario di un senza fissa dimora, Un etnologo nel metrò, Il mestiere dell’antropologo, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità.
* Marco Aime (Torino 1956) insegna Antropologia culturale all’Università di Genova, dopo aver condotto ricerche sul campo in Benin, Burkina Faso e Mali, oltre che sulle Alpi italiane. Autore di numerosi saggi antropologici, come Le radici nella sabbia, Diario dogon, Sapersi muovere, La casa di nessuno, Etnografia del quotidiano, ha anche scritto opere di narrativa, come Taxi brousse, Fiabe nei barattoli. Nuovi stili di vita spiegati ai bambini, Le nuvole dell’Atakor

Sbilanciamoci.info, 25 marzo 2015

La nuova inchiesta della Procura di Firenze sulla corruzione nelle grandi opere pubbliche, con 51 indagati, che ha portato all’arresto tra gli altri di Ercole Incalza ed alle dimissioni del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, rende purtroppo evidente il cronico ed endemico legame tra realizzare infrastrutture, distorsione delle regole e malaffare. Numerose sono le grandi opere nel mirino delle inchieste: tratte ad Alta velocità come il terzo valico Milano-Genova, il sottoattraversamento AV di Firenze, l’AV Brescia-Verona, o le grandi autostrade come la Orte-Mestre, la Pedemontana Veneta e quella Lombarda, la Cispadana. Ma anche linee metropolitane come la linea C di Roma, e la M4 ed M5 a Milano. Incredibilmente dieci di queste grandi opere avevano lo stesso direttore dei lavori, ora arrestato nell’ambito dell’inchiesta.

Sarà la magistratura a stabilire le responsabilità personali di tutti i soggetti indagati nel Sistema degli appalti pubblici, mentre sul piano politico ed istituzionale abbiamo l’obbligo di un cambio deciso di passo sul sistema delle grandi opere. Sugli effetti distorsivi della Legge Obiettivo, sulla sterminata lista di opere che si vorrebbe realizzare di nessuna utilità collettiva, sulle deroghe e proroghe che diventano la regola nel sistema degli affidamenti, sulla mancanza di una credibile Politica dei Trasporti sostenibile. Così, nel caso più macroscopico delle scelte per mobilità e trasporti, non si è mai valutata la qualità del servizio da offrire ai cittadini dando priorità al trasporto pendolare e nelle città, ma piuttosto si sono privilegiati gli investimenti ad alta intensità di cemento, asfalto e consumo di suolo.

E’ il 9° rapporto sullo Stato di Attuazione della Legge Obiettivo, elaborato dal Servizio Studi Camera, Cresme ed Autorità Anticorruzione che espone i numeri esatti. Dal 2001 al 2014 le grandi opere strategiche sono diventate 419 ed il costo presunto pari a 383 miliardi di euro. Di queste quelle inserite nell’Allegato Infrastrutture 2014 del Governo valgono 285 miliardi di euro, ma quelle che effettivamente hanno un progetto preliminare o definitivo approvato al Cipe sono pari a 153 miliardi di Euro. Secondo il rapporto le opere completate si fermano a 6.5 miliardi di euro pari al 4,3% del totale. Se si considerano i singoli lotti ultimati questa percentuale sale all’8,4% del totale. Per quanto riguarda la tipologia di opere il 95% del totale riguarda infrastrutture nei trasporti: tra queste ben il 52% sono strade ed autostrade, gli investimenti ferroviari il 35% e le metropolitane poco più del 6%.

Più che evidente che se le liste sono sterminate, le risorse pubbliche assai scarse, le risorse private un miraggio sventolato per farsi approvare i progetti, i sistemi di decisione accentrati e semplificatori, in assenza di valutazioni Costi Benefici accurate e senza Valutazione Ambientale Strategica sulle grandi opere, l’unico criterio di selezione diventano le pressioni debite e soprattutto quelle indebite per fare avanzare e finanziare un’opera invece di un’altra al Cipe.

Da notare che una buona parte di grandi opere sono realizzate in concessione senza gara, (vi è solo un obbligo di porre una quota dei lavori a gara sul mercato), come il Mose, le grandi Autostrade private e pubbliche in concessione, l’Alta velocità ferroviaria: ne deriva un sistema bloccato e dei soliti noti, sia sul piano delle imprese che dei referenti politici.

La legge Obiettivo, voluta dal Governo Berlusconi nel 200, nel corso del tempo è stata anche peggiorata, con la possibilità di realizzare lotti funzionali e poi ancora “lotti costruttivi” tradendo quindi completamente la logica dei “tempi certi e costi certi” per le infrastrutture. E poi le semplificazioni procedurali, la Struttura Tecnica di Missione e le decisioni al Cipe, l’esclusione degli Enti locali, il General Contractor che diviene un soggetto privato impossibile da vigilare, le Valutazioni di Impatto Ambientale addomesticate.

A questo si aggiunga un Codice Appalti del 2006 con un doppio regime tra opere ordinarie e opere strategiche, con continue modifiche normative che rendono ormai impossibile comprendere cosa e come applicare le procedure, rendendo ancora più facile la vita a chi le regole le vuole evadere per i propri interessi privati.

Ed in continuità con queste distorsioni è stata anche l’approvazione nel 2014 del Decreto Sblocca Italia, dove con l’articolo 5, il Governo vuole prorogare la scadenza delle concessioni autostradali allungandogli la vita per realizzare le grandi autostrade, nonostante che robuste proroghe siano a suo tempo già state assicurate alle Concessionarie, evitando quindi le gare. Con tanto di aiuti fiscali retroattivi all’Autostrada Orte-Mestre ed ampie garanzie pubbliche verso i privati, come ben descritto nel testo di denuncia Rottama Italia. Perché lo Sblocca Italia è una minaccia per la democrazia ed il nostro futuro.” (Altreconomia Edizioni, 2015). Non a caso il Presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, si è scagliato contro queste proroghe delle concessioni ed ha definito la Legge Obiettivo “criminogena”.

Noi ambientalisti abbiamo contestato da sempre e duramente la Legge Obiettivo, ed ancora prima la logica dei grandi eventi come Mondiali ‘90 e Colombiane ‘92, o il sistema delle Ordinanze della Protezione Civile, delle ricostruzioni post terremoto e delle grandi emergenze, vere false o presunte, invocate per evitare gare ed una selezione trasparente gli investimenti utili. Ma fino ad oggi è stato impossibile vincere la battaglia delle "opere utili" con i mezzi delle razionali analisi tecniche su costi e benefici, della discussione aperta e democratica su cosa sia davvero necessario per realizzare trasporti e infrastrutture efficienti. E’ stato impossibile perché la commistione fra irresponsabilità politica, strapotere di funzionari pubblici inamovibili, appetiti di imprenditori senza scrupoli, “deregulation” che ha fortemente ridotto le garanzie sulla trasparenza amministrativa, la mancanza di politiche dei trasporti, hanno impedito un processo decisionale pubblico e scelte razionali nell’interesse collettivo.

Questo sistema ha di certo complicato anche la vita e l’attività delle imprese sane, quelle capaci di progettare e lavorare seriamente, di realizzare investimenti complessi e promuovere l’innovazione, che spesso per sopravvivere nel mercato, ancora di più in tempi di crisi dell’edilizia, si sono dovute “adattare” al Sistema distorto degli appalti pubblici.

Adesso è il momento di voltare pagina. E’ necessario abolire la Legge Obiettivo, il suo elenco di opere spesso inutili e insostenibili e di procedure che scavalcano procedure e regole a difesa delle finanze pubbliche e dell'ambiente: bisogna rivedere le norme sulla valutazione di impatto ambientale, permettendo un vero “dibattito pubblico” che consenta una valutazione ponderata e partecipata su cosa serva davvero al territorio, alle città e alla comunità.

Va poi rivisto il Codice Appalti del 2006, introducendo norme chiare e semplici per garantire gare trasparenti e piena concorrenza nel mercato dei lavori pubblici, impedire ogni genere di proroga o deroga rispetto alle vie ordinarie, rafforzare i poteri d’intervento dell’Autorità Anticorruzione.

È indispensabile eliminare quelle disposizioni contenute nel Decreto "Sblocca Italia" e nell’ultima Legge di Stabilità che nel solco della Legge Obiettivo aprono la strada a una nuova ondata di opere di nessuna utilità pubblica (trivellazioni petrolifere, inceneritori di rifiuti) ed elargiscono inaccettabili “favori” a lobby potenti con la proroga delle concessioni ai “signori delle autostrade”.

Insieme a tutto questo, è urgente riconsiderare le scelte su opere in corsa – dal tunnel per l’alta velocità Torino-Lione, al “terzo valico Milano-Genova, ai progetti di nuove autostrade (Lombardia e Veneto, Orte-Mestre, Autostrada della Maremma) - che a fronte di un costo per la collettività esorbitante, non servono a risolvere i problemi di mobilità dei cittadini/e ed hanno un elevato impatto ambientale.

Per scegliere le opere utili, grandi e piccole che siano, serve invece adottare un Piano dei Trasporti e della Logistica Sostenibile, applicando alle grandi opere le procedure previste dalle Direttive Europee per la Valutazione Ambientale Strategica. E’ dal 2001, quando fu messo rapidamente nel cassetto il PGTL del Ministro Bersani ed approvata dal centrodestra la Legge Obiettivo, che parliamo solo di liste e di grandi opere, senza una politica dei trasporti strategica, sostenibile e capace di futuro. Una politica di non solo infrastrutture, ma fatta di servizi di trasporto per i pendolari e le città, dove si muovono due terzi dei cittadini e che oggi non hanno un sistema di trasporto adeguato ed efficiente.

La corruzione è furto di bene comune, furto di diritti e di speranze, di opportunità e di lavoro. Per sconfiggerla occorrono innanzitutto leggi all’altezza: rapida approvazione del 416ter e della legge sugli ecoreati; confisca dei beni ai corrotti; pene adeguate per "reati civetta" come il falso in bilancio, l'autoriciclaggio, l'evasione fiscale; norme rigorose sul conflitto d’interessi. Ma le leggi da sole non bastano: serve anche l'impegno di tutti - a cominciare da quanti hanno titolo nelle decisioni pubbliche - a farle vivere attraverso le scelte e i comportamenti quotidiani.

Infine, è decisivo che la scelta del/la nuovo/a Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti - che il Presidente del Consiglio Renzi si appresta a scegliere - risponda a un radicale cambio di rotta negli indirizzi e nei metodi delle politiche pubbliche in materia di infrastrutture. Occorre un/a Ministro consapevole che le grandi opere essenziali per l’Italia sono quelle dettate dall’interesse generale di tutti, non quelle imposte dalla convenienza privata di pochissimi: sono, dunque, rimettere in sesto il nostro territorio, assicurare una mobilità pubblica efficiente nelle città e rimediare allo stato arretrato del trasporto regionale, puntare sul ferro e sul cabotaggio costiero per il trasporto delle merci smettendo di favorire con regali milionari il settore dell’autotrasporto.

Questo gli ecologisti reclamano inutilmente da anni. Se il Governo vuole davvero demolire la “cupola” che da anni governa i grandi affari delle grandi opere, l’occasione è oggi.

«La crisi della forma par­tito ha tro­vato una sua solu­zione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, par­titi della nazione, mono­cra­tici, media­tici, ora­co­lari, tra­sfor­mi­sti, post­par­la­men­tari. C’è da dubi­tare che da qual­che costola, mira­co­lo­sa­mente sana, di que­ste for­ma­zioni possa pren­der avvio una diversa dire­zione di mar­cia».

Il manifesto, 26 marzo 2015

Che cosa signi­fica “coa­li­zione sociale”? Il sus­se­guirsi delle pre­ci­sa­zioni e dei distin­guo indica che la rispo­sta non è sem­plice né uni­voca. Di certo il nome non è con­se­guenza delle cose. Le quali, nel nostro Paese, indi­che­reb­bero piut­to­sto una società poco incline alle coa­li­zioni, tutt’ora per­vasa da pul­sioni cor­po­ra­tive sal­da­mente radi­cate nella sua sto­ria, attra­ver­sata da con­flitti che fati­cano a par­larsi e rico­no­scersi a vicenda. Se non si tratta di una for­mula gene­rica da spen­dersi nelle dispute interne ai con­te­sti poli­tici cano­niz­zati per ride­fi­nirne gli equi­li­bri, tut­ta­via, ha il valore di una presa di coscienza, sia pure tar­diva, delle tra­sfor­ma­zioni che hanno inve­stito non solo il lavoro, ma l’insieme dei rap­porti sociali, delle pro­spet­tive di vita indi­vi­duali e collettive.

Il pro­blema che l’idea stessa di “coa­li­zione sociale” mette a fuoco altro non è, per farla breve, che quello di una sog­get­ti­vità poli­tica all’altezza dei tempi. La quale pre­cede, e spesso con­trad­dice, il tema, ampia­mente scre­di­tato dalle poco bril­lanti avven­ture elet­to­rali, par­la­men­tari e con­ve­gni­sti­che dell’agognato “nuovo sog­getto poli­tico”. Una “sog­get­ti­vità poli­tica” è, in primo luogo, un modo di guar­dare alle cose e di rela­zio­narsi ad esse sul piano dell’azione e dell’organizzazione.

Per­sino Susanna Camusso la riven­dica al suo sin­da­cato, ma si tratta, appunto, di una “sog­get­ti­vità poli­tica” pri­gio­niera dell’ottica sin­da­cale, che guarda anche a que­stioni gene­rali, ma dal punto di vista di spe­ci­fi­che con­di­zioni di esi­stenza, par­ziali, sem­pli­fi­cate e cir­co­scritte, per giunta, ai loro aspetti “sin­da­ca­liz­za­bili”. Per scen­dere nel con­creto tra­mite un esem­pio, una sif­fatta “sog­get­ti­vità” dif­fi­cil­mente potrà venire a capo di una con­trad­di­zione, tipica del nostro tempo, come quella tra indu­stria­liz­za­zione e que­stione ambientale.

Il fatto che mette in gioco l’idea della “coa­li­zione sociale”, a pre­scin­dere dalle forme che potrà assu­mere e dalle sue pos­si­bi­lità di suc­cesso, è l’indiscutibile inde­bo­li­mento della pro­spet­tiva sin­da­cale. Insi­diata su due fronti prin­ci­pali. Il più evi­dente è quello del lavoro inter­mit­tente e pre­ca­rio, del lavoro auto­nomo impo­ve­rito, e del “non lavoro” pro­dut­tivo ma a red­dito zero che non solo lo sta­tuto degli anni’70, ma l’intera cul­tura sin­da­cale e la sua orga­niz­za­zione per cate­go­rie non abbrac­cia, non con­tem­pla e nem­meno capi­sce. Avendo lun­ga­mente col­ti­vato l’idea, inge­nua a voler essere cle­menti, che si trat­tasse di una “ano­ma­lia” prov­vi­so­ria desti­nata ad essere rias­sor­bita nel lavoro a tempo inde­ter­mi­nato. Un atteg­gia­mento, que­sto, che ha age­vo­lato quanti gio­ca­vano il pre­ca­riato, senza peral­tro tute­larlo in alcun modo, con­tro l’”egoismo” degli occu­pati. Con un discreto suc­cesso di pubblico.

Il secondo fronte, quello meno evi­dente, è la muta­zione che ha inve­stito la stessa figura del lavo­ra­tore sta­bil­mente occu­pato (ma sem­pre più ricat­ta­bile e minac­ciato). Que­sta figura è dive­nuta più com­plessa e sfac­cet­tata di un tempo, non più inte­ra­mente cen­trata sull’identità con­fe­rita dal lavoro, ma arric­chita da domande cul­tu­rali, da desi­deri di libertà, da inte­ressi mol­te­plici e aspi­ra­zioni di cre­scita indi­vi­duale che mal si con­ci­liano con i “sacri­fici” sem­pre più pesanti, scam­biati con il man­te­ni­mento del posto di lavoro. La stessa espres­sione “mer­cato del lavoro” suona oggi, nella sua pre­sunta auto­no­mia “tec­nica”, come una ingan­ne­vole astrazione.
Le per­cen­tuali ver­ti­gi­nose della disoc­cu­pa­zione gio­va­nile discen­dono, anche se solo par­zial­mente, da que­sto genere di resi­stenze esi­sten­ziali, effet­tive o anche solo temute dalle imprese, deci­sa­mente restie ad assu­mere pos­si­bili pian­ta­grane. Sono soprat­tutto que­sti ele­menti ad avere gra­ve­mente ridotto la forza con­trat­tuale del sin­da­cato e, soprat­tutto, la sua capa­cità di par­lare all’insieme della società. Senza con­tare l’insufficienza della dimen­sione nazio­nale per qual­siasi ipo­tesi di cam­bia­mento o anche di pura e sem­plice difesa dei diritti acqui­siti. La pro­spet­tiva sin­da­cale, arroc­cata nella sua tra­di­zione, è altret­tanto impo­tente quanto quella nazio­nale abbar­bi­cata alle sue anti­che prerogative.

È in que­sto con­te­sto di radi­cale muta­mento e com­mi­stione delle con­di­zioni lavo­ra­tive ed esi­sten­ziali che hanno comin­ciato a svi­lup­parsi, per appros­si­ma­zione, con­cetti come quello di “sin­da­ca­li­smo sociale” e stru­menti di lotta, ancora piut­to­sto indi­stinti, come lo “scio­pero sociale”. Alla ricerca di una sog­get­ti­vità poli­tica che fac­cia dello “stare in società”, meglio del “pro­durre società” il tea­tro di un agire effi­cace, che can­celli il con­fine, scom­parso nei fatti, ma per­si­stente nella dot­trina, tra dimen­sione sin­da­cale e dimen­sione poli­tica. Que­sta divi­sione dei com­piti tra par­tito e sin­da­cato risale a una impo­sta­zione antro­po­lo­gica fon­data sulla distin­zione tra l’immediatezza dei biso­gni e la lun­gi­mi­ranza della “coscienza” (per quanto riguarda la tra­di­zione socia­li­sta) o sulla capa­cità “pro­fes­sio­nale” di tenere in equi­li­brio inte­ressi con­tra­stanti pro­teg­gendo ade­gua­ta­mente l’ordine pro­prie­ta­rio (per quanto riguarda il par­la­men­ta­ri­smo libe­rale). Su un’idea di sog­get­ti­vità, dun­que, quella pro­le­ta­ria e quella bor­ghese, che dove­vano essere “com­ple­tate” da una guida “spe­cia­liz­zata”, dagli stra­te­ghi della classe di appartenenza.

Di quel mondo, e del rap­porto tra eco­no­mia e poli­tica che lo carat­te­riz­zava, non v’è più trac­cia. Resta, invece, flut­tuando nel vuoto di una sto­ria con­clusa, la difesa, tipica di una antica tra­di­zione cor­po­ra­tiva, delle rispet­tive sfere di “com­pe­tenza”, dei “segreti pro­fes­sio­nali” tra­man­dati dai mae­stri agli appren­di­sti anche quelli appa­ren­te­mente più ribelli. Par­titi che si auto­ri­pro­du­cono in vitro con pochi elet­tori e ancor meno iscritti, com­prese le fol­klo­ri­sti­che oppo­si­zioni interne; sin­da­cati ben attenti a rima­nere “parte sociale” senza immi­schiarsi in ciò che non li riguarda, ma che riguarda, eccome, la vita di coloro che pre­ten­dono di rap­pre­sen­tare, non­ché di molti altri la cui esi­stenza, con­su­man­dosi fuori dalla sfera di azione sin­da­cale, non è che un “dramma” impre­vi­sto e ingom­brante. Se “coa­li­zione sociale” signi­fica che la poli­tica non abita più né dalla prima, né dalla seconda parte è una pro­spet­tiva ben­ve­nuta. Se prende atto della crisi della rap­pre­sen­tanza, senza la pia illu­sione di poterla ripri­sti­nare, può essere un’occasione.

Su que­sta pro­spet­tiva incom­bono, tut­ta­via, due pro­ba­bili derive. La prima è quella di una som­ma­to­ria di asso­cia­zioni e sog­getti col­let­tivi gelosi delle rispet­tive iden­tità, ma acco­mu­nati dalla denun­cia di una poli­tica dive­nuta “aso­ciale” e ostile ai seg­menti più deboli della società. Qual­cosa di non molto dis­si­mile dal mito della “società civile” in cui defluì il movi­mento alter­mon­dia­li­sta dei primi anni 2000 con l’esperienza, pre­sto tra­sfor­ma­tasi in “alter­par­la­men­tare”, dei social forum. Ma senza lo slan­cio, l’azzardo e l’entusiasmo che carat­te­riz­za­rono que­gli anni. Una “coa­li­zione”, insomma, nella quale obiet­tivi apprez­za­bili e set­tori spe­ci­fici di inter­vento sociale e poli­tico si affian­chino senza però sta­bi­lire nessi cogenti. Nella quale inte­ressi comuni e reci­pro­che indif­fe­renze con­vi­vano in una con­di­zione fra­gile e sostan­zial­mente insta­bile tenuta insieme da occa­sio­nali mobilitazioni.

La seconda deriva pos­si­bile, di segno con­tra­rio, è una pre­tesa di sin­tesi, l’aspirazione a isti­tuire una rap­pre­sen­tanza dei movi­menti intesi come sem­plici por­ta­tori di “istanze” che altri dovranno poi tra­sfor­mare in pro­gramma poli­tico. In poche parole, una restau­ra­zione, in altri ter­mini, della divi­sione di com­piti e dei rap­porti gerar­chici tra la dimen­sione poli­tica e quella sindacale.

Come sfug­gire a que­ste alter­na­tive fal­li­men­tari resta un pro­blema aperto. Ma quel che deve essere chiaro è che, comun­que si voglia chia­mare la dire­zione in cui muo­vere, “coa­li­zione sociale”, “nuovo sog­getto poli­tico” o “sin­da­ca­li­smo sociale”, non basterà affian­carsi come una sorta di “terzo set­tore” alla sfera della poli­tica e a quella del sin­da­cato lascian­done intatti poteri e dispo­si­tivi di per­pe­tua­zione. Quando si tratta di rein­ven­tare la poli­tica biso­gnerà pure entrare in rotta di col­li­sione con le forze che si sono inse­diate al suo posto.

La crisi della forma par­tito ha tro­vato una sua solu­zione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, par­titi della nazione, mono­cra­tici, media­tici, ora­co­lari, tra­sfor­mi­sti, post­par­la­men­tari. C’è da dubi­tare che da qual­che costola, mira­co­lo­sa­mente sana, di que­ste for­ma­zioni possa pren­der avvio una diversa dire­zione di mar­cia. La crisi della forma-sindacato è, invece, ancora aperta. E anche quella dei movi­menti lo è. Ma se non riu­sci­ranno, in un modo o nell’altro, a entrare in rela­zione con la dimen­sione poli­tica (forza, effi­ca­cia, durata, orga­niz­za­zione) non è fuori luogo pro­fe­tiz­zare, anche in que­sto caso, una solu­zione a destra: quella neocorporativa.

La Repubblica, 26 marzo 2015

ANCORA una volta, per voce del capo dell’episcopato italiano, il cardinale Bagnasco, la Chiesa cattolica ha lanciato il proprio anatema contro la “teoria del genere” in quanto promuoverebbe la confusione tra maschile e femminile dando vita, per ciò stesso, ad un «transumano», ad una sorta di Dr. Jekyll e Mr. Hyde, «privo di meta e di identità». È fin troppo facile pensare che dietro a queste parole si celi innanzitutto la condanna di ogni tentativo di normalizzare l’omosessualità come uno dei modi in cui uomini e donne sperimentano la propria sessualità. Esse tuttavia rappresentano una visione dell’umanità che ci riguarda, donne e uomini, a prescindere dall’orientamento sessuale. Si tratta di una visione in cui la differenza sessuale diviene totalizzante, assorbe e spesso impedisce ogni altra differenza, una forma di naturalizzazione priva di storia e riflessività che di fatto ipostatizza non tanto le differenze sessuali, quanto il modo in cui, a partire da esse, si sono costruiti rapporti e identità sociali e interi modelli organizzativi e culturali.

Proprio contro questa visione, sulla base di studi antropologici, storici, sociologici e filosofici, alcune studiose femministe hanno proposto il concetto di genere, per indicare quanto di costruzione sociale — per lo più entro rapporti di potere asimmetrici — ci fosse e ci sia tuttora in ciò che viene definito maschile e femminile: nelle caratteristiche, capacità e possibilità attribuite all’uno e all’altro sesso e alle regole che dovrebbero governare i rapporti tra i due. Sono costrutti sociali così potenti da essere diventati, direbbe Durkheim, “fatti sociali”, dati per scontati e utilizzati sia come modelli organizzativi in società e in famiglia, sia come mappe mentali che guidano le scelte soggettive e danno perfino forma ai desideri. Per questo può apparire “innaturale” che una donna non desideri avere figli o che voglia avere sia figli che una carriera professionale, o che un uomo si dedichi più alla cura dei figli che alla propria carriera, che uomini e donne vogliano scegliere le proprie mete e avere identità meno rigide e polarizzate lungo il crinale della differenza sessuale. È a motivo della potenza di quella visione pseudo-naturale che in alcune società le donne sono considerate “naturalmente” esseri inferiori agli uomini, che questi possono usare e controllare a piacimento.

Se nelle società democratiche si è raggiunta una qualche misura di uguaglianza tra uomini e donne è perché si è permesso a uomini e donne di sviluppare le proprie capacità e interessi senza essere confinati nella propria, pur importante, reciproca differenza sessuale ed insieme essere più liberi di vivere quella differenza. La cultura, l’incessante opera di costruzione sociale che è la caratteristica del vivere umano, è diventata più riflessiva anche su questo fondamentale aspetto dell’umanità, la differenza sessuale, come univoco e immodificabile destino. Una conquista, non uno «sbaglio della mente umana», secondo le parole di papa Bergoglio riprese da Bagnasco.

Anche l’orrore per l’omosessualità e l’assimilazione di questa al rifiuto della differenza sessuale nascono da quella visione di una umanità stereotipicamente dicotomizzata. A chi riduce l’identità delle persone prevalentemente, se non esclusivamente, al loro corpo sessuato, l’omosessualità non appare solo una devianza sessuale che rompe la norma dell’eterosessualità complementare. Appare anche un “innaturale” ibrido umano, in cui si confondono maschile e femminile. Tutto sommato, è la vecchia concezione della omosessualità come inversione sessuale, come il fare l’uomo in un corpo di donna e viceversa.

Per chi appiattisce le potenzialità e varietà degli esseri umani alla dicotomia della differenza degli organi sessuali e dell’apparato genitale, l’omosessualità appare mostruosa, letteralmente, sia sul piano della natura sia su quello sociale, come un ippogrifo, o un uomo-cavallo. Ma altrettanto, se non mostruoso, pericoloso appare ogni comportamento di uomini e donne che smentisce l’ovvietà degli stereotipi. Mentre agitano lo spettro della «colonizzazione da parte di una teoria del genere che mira alla creazione di un transumano», le parole di Bagnasco testimoniano il persistere di teorie e pratiche che, in nome della natura, vogliono costringere uomini e donne nella corazza di ruoli e destini rigidi e asimmetrici, riduttivi della ricchezza, varietà e potenzialità degli esseri umani. Non è questo che vogliamo per noi stesse e per i nostri figli e figlie.

Il manifesto, 26 marzo 2015 (m.p.r.)

La nuova diret­tiva euro­pea sugli Orga­ni­smi gene­ti­ca­mente modi­fi­cati (2015/412) è appena stata pub­bli­cata sulla Gaz­zetta uffi­ciale euro­pea. A una prima let­tura sem­bre­rebbe una norma in difesa della bio­di­ver­sità e dell’agricoltura soste­ni­bile poi­ché pre­vede la pos­si­bi­lità per gli stati dell’Unione euro­pea di vie­tare la col­ti­va­zione di Ogm. Anche i dati rela­tivi al 2014 pub­bli­cati dall’International Ser­vice for the Acqui­si­tion of Agri-biotech Appli­ca­tions (Isaaa) non sono inco­rag­gianti per le mul­ti­na­zio­nali bio­tech: con un ulte­riore calo del tre per cento la super­fi­cie col­ti­vata a Ogm in Europa si è ridotta a 143.016 ettari di mais Bt col­ti­vati in 5 paesi su 28 (si col­tiva in Spa­gna il 90% delle super­fi­cie totale). Il resto sono bri­ciole sparse tra Por­to­gallo, Roma­nia, Slo­vac­chia e Repub­blica Ceca. In Ita­lia, nell’immediato, non dovreb­bero aprirsi sce­nari allar­manti: è in vigore un divieto tem­po­ra­neo che impe­di­sce la col­ti­va­zione dell’unico Ogm auto­riz­zato per la col­ti­va­zione in Europa, il mais Mon810 di Monsanto.

Bat­ta­glia vinta? Tutt’altro. La nuova legge euro­pea pre­senta alcune cri­ti­cità. Una in par­ti­co­lare. Il governo che volesse ban­dire gli Ogm dal suo ter­ri­to­rio non potrà addurre moti­va­zioni che con­tra­stano con la valu­ta­zione di impatto ambien­tale con­dotta dall’Efsa (Auto­rità euro­pea per la sicu­rezza ali­men­tare). «Signi­fica che i governi - spiega Fede­rica Fer­ra­rio di Green­peace - non pos­sono basare i bandi su spe­ci­fici impatti ambien­tali o evi­denze di pos­si­bili danni da parte delle col­ti­va­zioni Ogm a livello nazio­nale nel caso in cui que­sti rischi non siano stati presi in con­si­de­ra­zione da parte della valu­ta­zione dell’Efsa».

Quindi i paesi non potranno uti­liz­zare argo­men­ta­zioni di carat­tere ambien­tale per giu­sti­fi­care il divieto di col­ti­va­zione. Inol­tre, la nuova diret­tiva rimette in moto l’attività della Com­mis­sione euro­pea sem­pre molto dispo­ni­bile ad auto­riz­zare nuovi Ogm (il primo in esame è il mais 1507, inven­tato per resi­stere all’erbicida glu­fo­si­nato che nel 2017 sarà vie­tato in Europa per la sua tos­si­cità). Ma anche di fronte a un Ogm buono auto­riz­zato dalla Ue e cer­ti­fi­cato dall’Efsa non sarebbe scon­giu­rato il fat­tore di rischio più peri­co­loso per col­ti­va­tori e con­su­ma­tori: la con­ta­mi­na­zione. Secondo uno stu­dio di Green­peace, con­dotto con il gruppo di ricerca inglese GeneWatch e pub­bli­cato dalla rivi­sta Inter­na­tio­nal jour­nal of food con­ta­mi­na­tion, dal 1997 al 2013 si sono veri­fi­cati circa 400 casi di contaminazione.

Ma la vera trap­pola che potrebbe vani­fi­care un decen­nio di lotte con­dotte dagli ambien­ta­li­sti euro­pei e stra­vol­gere le regole della pro­du­zione del sistema agroa­li­men­tare del vec­chio con­ti­nente - non solo per l’insidia Ogm - si chiama Tran­sa­tlan­tic Trade and Invest­ment Part­ner­ship, meglio (s)conosciuto ai più con la sigla Ttip. Si tratta di un accordo semi segreto per «faci­li­tare» gli scambi eco­no­mici tra Europa e Stati Uniti. L’obiettivo dichia­rato è age­vo­lare la cir­co­la­zione delle merci armo­niz­zando le diverse nor­ma­tive che esi­stono in Europa e negli Stati Uniti. Cosa suc­ce­derà per quanto riguarda agri­col­tura e cibo? Il mistero è fitto. Le trat­ta­tive feb­brili.

I cata­stro­fi­sti riten­gono che le nuove regole del trat­tato favo­ri­ranno le aziende a stelle e stri­sce. Le con­se­guenze? Cibi Ogm dif­fi­cil­mente rin­trac­cia­bili, mag­gior uti­lizzo di pesti­cidi, pre­do­mi­nio dei grandi car­telli agroin­du­striali, scarsa tutela dei pro­dotti tipici, eti­chet­ta­ture e trac­cia­bi­lità meno appro­fon­dite e delo­ca­liz­za­zione della pro­du­zione ali­men­tare dove costa meno. Non è la “pistola fumante” ma poco ci manca: su quasi 600 incon­tri di con­sul­ta­zione rea­liz­zati dalla Com­mis­sione euro­pea - di cui ci sono pochi docu­menti in cir­co­la­zione - circa 500 si sono svolti alla pre­senza di potenti aziende del set­tore (sementi, alle­va­mento e man­gimi, bio­tech, pro­dut­tori di bevande e cibi).

Lo scon­tro è tra un paese con un sistema agri­colo che punta sulla quan­tità e uno che sta sul mer­cato gra­zie alla qua­lità della sua pro­du­zione. Un sistema a maglie lar­ghe con­tro uno con nor­ma­tive più rigide. Per le asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste e dei con­su­ma­tori l’esito è scon­tato: «l’armonizzazione» delle leggi per l’Europa si tra­durrà in una ces­sione di sovra­nità in ter­mini di sicu­rezza.

Marco Zullo, par­la­men­tare euro­peo del M5S (com­mis­sione agri­col­tura) non ha dubbi. «La qua­lità dei cibi che arri­ve­ranno sulle nostre tavole è a rischio - ha spie­gato - per­ché per­de­remo la tutela deri­vante dalle infor­ma­zioni pre­senti sulle nostre eti­chette. Gli Usa non hanno un sistema di eti­chet­ta­tura fer­reo come quello euro­peo e non hanno certo inten­zione di intro­durlo con il Ttip. In Europa le pro­ce­dure di con­trollo per otte­nere un’autorizzazione sulla sicu­rezza ali­men­tare sono più com­plesse. Negli Usa sono per­messe sostanze vie­tate in Europa, come cereali Ogm, anti­bio­tici, carne deri­vata da ani­mali clo­nati e sostanze chi­mi­che. In nome del libero mer­cato tutte que­ste infor­ma­zioni non saranno a nostra dispo­si­zione nelle eti­chette post-Ttip».
Que­sto è vero in par­ti­co­lare quando si parla di Ogm. Men­tre in Europa, nono­stante i ten­ta­tivi delle lobby, esi­ste un qua­dro giu­ri­dico che si basa sul prin­ci­pio di pre­cau­zione (pro­ce­dure rigide per l’autorizzazione ampia valu­ta­zione del rischio, con­sul­ta­zione pub­blica obbli­ga­to­ria), negli Stati Uniti gli Ogm non devono essere sot­to­po­sti ad auto­riz­za­zione. Non esi­ste nem­meno un regi­stro pub­blico degli Ogm auto­riz­zati. Per non par­lare della tra­spa­renza. In Europa, dove non esi­ste un solo pro­dotto Ogm desti­nato all’alimentazione umana, è obbli­ga­to­rio segna­lare sull’etichetta una quan­tità gene­ti­ca­mente modi­fi­cata supe­riore allo 0,9 per cento. Negli Stati Uniti, invece, l’etichettatura è volon­ta­ria. Ma anche nella patria di Monsanto&Co. i con­su­ma­tori comin­ciano a chie­dere più tra­spa­renza: lo stato del Ver­mont ha deciso che dal luglio 2016 sarà obbli­ga­to­rio segna­lare una quan­tità di Ogm supe­riore allo 0,9%, una legge che è stata impu­gnata da una potente asso­cia­zione che rag­gruppa pro­dut­tori e distri­bu­tori alimentari.

La con­sa­pe­vo­lezza del rischio per il set­tore agro ali­men­tare dell’Europa è docu­menta anche da uno stu­dio spe­ci­fico rea­liz­zato per il Par­la­mento euro­peo dalla Dire­zione gene­rale delle poli­ti­che interne. Secondo il dos­sier, «se il com­mer­cio fosse libe­ra­liz­zato senza una con­ver­genza nor­ma­tiva, i pro­dut­tori euro­pei potreb­bero subire gli effetti nega­tivi della con­cor­renza in alcuni set­tori… Que­sto è par­ti­co­lar­mente rile­vante per quanto riguarda i vin­coli dell’Ue in merito all’uso degli Ogm, dei pesti­cidi e alle misure di sicu­rezza ali­men­tare nel set­tore della carne».

Il gioco d’azzardo degli ame­ri­cani non è un mistero per nes­suno. «Nei nego­ziati rela­tivi al Ttip - si legge nel dos­sier - una faci­li­ta­zione nell’approvazione e nel com­mer­cio degli Ogm è un’importante richie­sta dei col­ti­va­tori e delle imprese sta­tu­ni­tensi. Essi sono soste­nuti dalle auto­rità Usa, che lamen­tano la len­tezza e le poche auto­riz­za­zioni alla ven­dita e al com­mer­cio di orga­ni­smi gene­ti­ca­mente modi­fi­cati. Il governo ame­ri­cano, inol­tre, ritiene che l’etichettatura obbli­ga­to­ria degli Ogm discri­mini ingiu­sta­mente que­sti pro­dotti». Come se ne esce? Secondo Dan Mul­la­ney, uno dei nego­zia­tori sta­tu­ni­tensi per il Ttip, dovrebbe essere la scienza a fare da arbi­tro: «Se l’Unione euro­pea ha un pro­cesso scien­ti­fico per le bio­tec­no­lo­gie, que­sto deve essere seguito», ecco il sug­ge­ri­mento. Quindi, «le deci­sioni in mate­ria di sicu­rezza ali­men­tare dovreb­bero essere basate sulla scienza e sulla valu­ta­zione d’impatto». Tra­du­zione: che decida l’Autorità euro­pea per la sicu­rezza ali­men­tare (l’Efsa) e che gli stati euro­pei fac­ciano un passo indie­tro davanti a un parere scien­ti­fico favo­re­vole all’introduzione di un Ogm sul mer­cato. Che si siano già accorti delle cri­ti­cità (o trap­pole) della nuova diret­tiva europea?

La Repubblica, 26 marzo 2015 (m.p.r.)

Il mondo sta cambiando, il modo di approcciare il cibo e gli acquisti alimentari sta cambiando. E’ un dato di fatto incontrovertibile ancorché lento, progressivo e non esplosivo. In gran parte del mondo, Stati Uniti in testa, le persone si orientano ogni giorno di più verso consumi alimentari attenti alle produzioni locali di piccola scala, stagionali, organiche. A fronte di questo processo è significativo che la grande industria, che si vede minacciata da un radicale cambio di mentalità, risponda andando esattamente nella direzione opposta.

Grandi fusioni tra gruppi con fatturati a nove zeri creano a gran velocità pachidermi ansiosi di rispondere in qualche modo alle nuove tendenze che assottigliano margini e utili e creano i primi scricchiolii in Borsa. Ma gli accorpamenti mastodontici sono monodirezionali: l’obiettivo è ristrutturare le dinamiche produttive tagliando i costi e rendendo più efficienti i processi senza operare alcun miglioramento nella qualità del prodotto. La fusione tra Kraft e Heinz non porterà ad avere sugli scaffali dei supermercati salse più buone o con materie prime migliori, piuttosto servirà a risistemare nodi finanziari che sui mercati azionari non rendono quanto previsto dagli azionisti.
In sostanza siamo davanti a una grande operazione di carattere finanziario, che ben poco - o meglio nulla - ha a che fare con il cibo, che pure dovrebbe essere il fulcro dell’attività di entrambe le aziende che si uniscono.

Ma reazioni di questa portata nulla potranno per invertire il trend di un nuovo approccio al consumo di cibo che ormai è avviato e non accenna a fermarsi; al contrario, il pericolo è che a perdere e a rischiare di rimanere schiacciati siano, nel prossimo futuro, le piccole realtà industriali, che pure sanno spesso fare qualità oltre che occupazione.

Ci aspettano tempi interessanti, ma sul fatto che formaggi a latte crudo fatti in piccole quantità e venduti localmente così come conserve realizzate con frutta autoctona o microbirrifici di provincia continueranno a erodere piccole ma diffuse quote di mercato, e che non ci sia modo di invertire la corsa di questo treno non c’è dubbio.

La finanziarizzazione e la fusione di grandi gruppi è una risposta di corto respiro, buona per chiudere in positivo ancora qualche bilancio ma di certo incapace in alcun modo cambiare quello che innanzitutto è un processo di coscientizzazione e consapevolizzazione, in definitiva un lento cambiamento culturale dei consumatori, sempre più cittadini, sempre più coproduttori.

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