L’appello è presto fatto: ci sono tutti ma proprio tutti a festeggiare i cent’anni di Pietro Ingrao. Come una riunione di famiglia, certo. Ma la famiglia è grande, allargata, cent’anni di storia d’Italia. «Lui non ha potuto portare il carico dei suoi anni qui con noi», spiega Mario Tronti.
Nei banchi, Sua Maestà il Caso scompone e ricompone la storia del Pci-Pds-Ds-Pd in nuove curiose sequenze: Occhetto l’uomo della Svolta accanto a Luciana Castellina fondatrice del manifesto, Aldo Tortorella il comunista democratico padre dell’associazione per il Rinnovamento della sinistra accanto all’ex premier Massimo D’Alema che due settimane fa ha proposto una nuova omonima associazione. L’ex presidente del senato Mancino accanto ai colleghi ex della camera Violante e Bertinotti, a seguire Gennaro Migliore, l’ultimo (per ora) a guidare un frammento di sinistra in una simil scissione, onore alle vecchie abitudini; l’ex governatore Bassolino con la pasionaria antirenziana Pollastrini, a sua volta accanto al pacato capogruppo Pd Speranza; il migliore dei miglioristi Macaluso con l’ingraiano Tocci, l’asorrosiano Asor Rosa e il civatiano Corradino Mineo. La ditta Bersani&Epifani con la prodiana Zampa. Il leader della Fiom Landini, inseguito dalle telecamere, accanto a Mussi, alla giovane eurorinfondarola Eleonora Forenza e al dc Gerardo Bianco. Sparsi per la sala il sindaco di Roma Marino, Anna Finocchiaro, Ugo Sposetti, parlamentari di Sel, Valentino Parlato, tanti giornalisti anche di giornali chiusi (come l’Unità che Ingrao diresse dal ’47 al ’57, riaprirà il 25 aprile). Menzione speciale per tutte le minoranze Pd, Fassina, Cuperlo, D’Attorre, Damiano, Civati, reduci dal ring della direzione, la sera prima: iniziata con un commosso applauso a Ingrao, l’uomo del dissenso, finita con porte sbattute e un voto bulgaro.
E la lezione del ’professorone’ Gustavo Zagrebelsky sul carteggio Ingrao-Bobbio, divisi su tutto ma uniti sul timore di una democrazia che non partecipa e si trasforma «in un elenco di elettori». Fino allo scritto di Rossana Rossanda letto da Maria Luisa Boccia (femminista, ingraiana e curatrice con Alberto Olivetti del nuovo Coniugare al presente), che torna sulla scena dell’intervento dell’XIesimo congresso, «accolto con un’ovazione finché però la platea non si accorse dell’accoglienza glaciale da parte della presidenza».
«». Il manifesto
Il progetto di coalizione sociale promosso dalla Fiom e consolidato dall’imponente manifestazione del 28 marzo offre a tutte le persone di buona volontà un’opportunità che non va lasciata cadere.
La proposta circolava da tempo: era già stata avanzata da Rodotà in un’assemblea dell’Altra Europa lo scorso giugno e raccolta in diversi documenti di questa organizzazione, rimasti però senza seguito, avendo L’Altra Europa imboccato invece la strada di un accordo tra partiti e correnti della sinistra esterna e interna al Pd.
Ora, sotto l’ombrello della Fiom, la coalizione sociale sarà per sua natura una realtà policentrica, la cui trama può cominciare a esser tessuta dai punti più diversi del territorio e della struttura sociale, senza che tra le diverse iniziative si vengano a creare per forza competizioni o sovrapposizioni.
L’obiettivo comune è quello di aggregare formazioni, comitati, associazioni, movimenti, sindacati – ma anche singoli non organizzati - non solo differenti tra loro per storia, composizione sociale, obiettivi e pratiche, ma tra i quali sussistono spesso, latenti o espliciti, fattori di incompatibilità o di conflitto. Ma il lavoro di ricomposizione di queste differenze - che una volta affrontate si rivelano un fattore di ricchezza sia per tutti che per il progetto comune - è proprio ciò che rende anche politica la coalizione sociale. Una formazione composta da movimenti e iniziative che per natura o per la loro storia hanno obiettivi monotematici, o operano in campi limitati, o sono confinati in ambiti locali.
Perché la politica «buona» - quella orientata alla promozione, al rafforzamento e al collegamento di lotte e iniziative contro le strutture consolidate del potere o le misure che colpiscono la maggioranza della popolazione - non è altro che questo: unire ciò che il capitalismo (e in particolare, la sua configurazione globalizzata e finanziarizzata di oggi) divide.
Per questo una coalizione sociale ben praticata è anche sempre «politica».
Ma non è vero il contrario: una aggregazione di organizzazioni politiche oggi tende a rivelarsi fattore di divisione tra le componenti sociali che dovrebbero esserne il riferimento. Perché qui entrano in gioco diverse rivalità: nel migliore dei casi tra visioni (a volte anche solo linguaggi) differenti e ciascuna aspira ad affermare la propria egemonia sulle altre; nel caso peggiore, e più frequente, tra esigenze rivali di sopravvivenza delle strutture o di riproduzione della porzione di ceto politico presente in ciascuna organizzazione. Un rischio da cui non sono esenti nemmeno le grandi associazioni, che hanno anch’esse una propria piccola burocrazia interna; ma in misura infinitamente minore, perché la loro missione e le loro radici nella società le inchiodano in qualche modo a comportamenti meno ondivaghi.
E’ quello che a mio avviso non hanno capito i molti – tra cui Paolo Favilli in un articolo sul manifesto del 28 marzo scorso – che giocano sulla reversibilità tra i due concetti: se una coalizione sociale è necessariamente politica, una coalizione politica non può che essere anche sociale. Le cose non stanno così e molte vicende, anche recenti, ce lo hanno dimostrato. Per questo una coalizione sociale, a differenza di un accordo tra partiti, non può che essere «né di destra né di sinistra», nonostante che gran parte dei valori che fa propri siano quelli della sinistra tradizionale (ma anche su questo il femminismo ha certamente molto da dire; e da ridire).
Ovviamente metter d’accordo organizzazioni sociali differenti e tra loro in gran parte estranee è più complicato e richiede più tempo, ma è anche più solido, che stringere un patto tra i vertici di partiti o di correnti diverse. Ma può aiutare, in questo compito, ciò che già era stato prospettato, e mai attuato, all’interno de L’Altra Europa dopo le elezioni europee: la formazione di gruppi di lavoro in cui le diverse componenti della coalizione possono confrontare le loro posizioni su alcuni temi specifici; ma anche le loro pratiche, che sono spesso, assai più delle dichiarazioni programmatiche, ciò che divide.
E’ in sedi come queste che si possono individuare i punti di convergenza e promuovere iniziative comuni: non necessariamente tra tutte le componenti della coalizione in fieri, ma solo tra coloro che su quei punti già si trovano d’accordo. Poi si può mettere a confronto le posizioni di coloro tra i quali l’accordo non è stato trovato e verificare, con uno scavo sulle ragioni delle divergenze, ma anche attraverso il confronto con le tante posizioni diverse che vi partecipano, se è possibile arrivare a una mediazione.
Ed è nel corso di questo lavoro che, tra alcune - non necessariamente tutte - componenti della coalizione può emergere e consolidarsi la proposta di una lista elettorale, senza che una scelta del genere impegni tutti.
Per questo il problema dei due tempi posto da Rodotà – prima la coalizione sociale; poi, magari, anche la lista elettorale – non si pone. Le due cose possono marciare separatamente in un unico progetto; a condizione che si tengano a bada, escludendole dalla coalizione, le aspirazioni egemoniche dei partiti.
Presto il progetto della coalizione sociale, promosso a livello nazionale, si riproporrà a livello locale: qui le combinazioni, come i punti di partenza e le prime esperienze di un’iniziativa che mira all’unità, ma non parte da essa, potranno essere le più varie; ed è bene che ciascuno cominci a lavorare nei modi e con gli interlocutori che gli sono più consoni. Si tratterà di aggregazioni che, come indica il nome - Unions! - della mobilitazione del 28, si richiamano allo spirito mutualistico e solidale degli albori del movimento operaio. Ma che riprodurranno anche, per il loro legame con territori e comunità, quel community unionism che ha innescato la ripresa del movimento sindacale negli Stati Uniti, soprattutto tra i lavoratori immigrati e meno qualificati; e che non si ferma - anche se ovviamente non la trascura - alla contrattazione salariale e delle condizioni di lavoro, ma si fa carico di tutta la condizione sociale, e anche esistenziale, dei suoi adepti.
Per questo la coalizione sociale è anche un ritorno alle origini: rinnovato per misurarsi con la complessità degli assetti sociali odierni. Alle origini, le istituzioni del movimento operaio avevano una base sociale anche nel territorio: la fabbrica non distava dalle abitazioni degli addetti e i quartieri operai erano contigui alle unità produttive.
Le prime lotte operaie traevano gran parte della loro forza dal loro retroterra. La disgregazione di quel tessuto sociale ad opera di un’urbanistica che aveva come obiettivo la separazione tra lavoro e residenza - e dispersione di questa in un pulviscolo abitato da lavoratori di fabbriche e uffici tra loro lontani – ha cambiato i connotati della condizione operaia: ben prima che la frammentazione dell’impresa fordista in una molteplicità di unità produttive separate, sottoposte a differenti regimi contrattuali in paesi e continenti diversi cominciasse ad aggredire l’unità della classe operaia anche sui luoghi di lavoro.
Il sindacalismo «operaista» che ha avuto la sua epopea in Italia e in Europa negli anni ’60 e ’70 e negli Stati Uniti negli anni ’30 e ’40 – ma il cui modello permane, pur in un contesto completamente cambiato – non è che il residuo di questo «intermezzo» storico: tra la disgregazione dell’unità di classe sul territorio del tardo ottocento e del primo novecento e quella sui luoghi di lavoro della fine del novecento e dell’inizio di questo secolo. Oggi, in un contesto globalizzato, la dimensione territoriale delle alleanze (dove il lavoro di cura, domestico e no, l’altra economia e la conversione ecologica possono trovare il loro spazio più proprio) torna ad avere un ruolo di primo piano. E’da lì che possono ricrearsi processi stabili di confronto e di unità tra diversi
Intervistato da Anais Ginoi il sociologo interviene nella discussione aperta ieri da Nadia Urbinati. In Francia considerano di sinistra il partito di Hollande; nessuno al mondo potrebbe considerare tale il partito di Renza. La Repubblica, 1. aprile 2015
«LA sinistra può morire. Come qualsiasi essere vivente, non è eterna». La profezia di Alain Touraine, dall’alto dei suoi quasi novant’anni e dei numerosi saggi sulle società post-industriali, non lascia molta scelta: prepariamoci a scrivere un epitaffio oppure a pubblicare un nuovo certificato di nascita. «La gauche è in agonia, fuori tempo e fuori dal mondo. Non potrà resistere a lungo» spiega il sociologo francese all’indomani dell’ennesima sconfitta del partito socialista al potere.
«La sinistra – spiega Touraine – non riesce a reinventarsi in un’epoca post-sociale, in cui i rapporti di forza non sono più basati, come un secolo fa, sulla produzione. Non ha più una classe sociale di riferimento, alla quale corrispondono valori, ideali, rapporti di forza. Non è più portatrice di un orizzonte, di una speranza».
Già nel 1979 lei pubblicava un saggio dal titolo Mort d’une gauche . Quante sinistre sono morte da allora?
«Nel ventunesimo secolo tutti i partiti politici faticano a riposizionarsi all’interno di un’architettura della società che è crollata. È una situazione simile a quella che si è verificata alla fine dell’Ottocento, quando le formazioni politiche uscite dalla Rivoluzione faticavano a dare una risposta davanti alle nuove realtà industriali dell’epoca. Per il partito socialista la perdita di identità è più forte perché non ha saputo rinnovare la concezione dello Stato. Nonostante tutte le presunte svolte, da François Mitterrand in poi, non c’è stata una ridefinizione di quale debba essere il ruolo dello Stato e dunque della nazione in un mondo globale».
Gli elettori ormai votano più per rabbia che per convinzione?
«C’è una radicalizzazione de- gli estremi, sia a sinistra che a destra. Il Front de Gauche di Mélenchon non è poi tanto diverso dal Front National di Marine Le Pen. Entrambi sono il sintomo di una rottura del popolo con l’élite politica che sembra impotente. Sono quasi tre anni che François Hollande è al potere e ancora non ho sentito una proposta concreta per rispondere alla crisi. L’unica strategia è aspettare la ripresa. Negli ultimi mesi, ci siamo trovati a discutere di cose grottesche come l’apertura domenicale dei negozi o i privilegi dei notai. Non è così che si creano 500mila posti di lavoro. Hollande ha proposto un patto con le imprese, alle quali ha regalato oltre 40 miliardi di euro in sconti fiscali, ma loro non hanno creato posti di lavoro. Anche gli imprenditori continuano a perdere tempo, probabilmente aspettano che torni al potere la destra, dalla quale si sentono più garantiti».
La gauche al potere ha tradito il suo elettorato?
«Il capitalismo finanziario ha sostituito il capitalismo industriale. È un dato di fatto. Non possiamo chiedere alla sinistra di governare come nel 1936 quando c’era il Front Populaire. Mélenchon è un velleitario, ha una linea del “né né”, né con Hollande né con Sarkozy. Con chi allora? Dietro ai suoi proclami, c’è solo il vuoto. E intanto gli operai votano per il Front National, mentre Mélenchon seduce solo qualche professore. Il partito socialista si è sottoposto, come tutte le forze di governo della nostra epoca, al dogma finanziario e materialista, ma ha un problema in più: deve conciliare un individualismo al plurale, facendo per esempio convivere i diritti economici strettamente personali, con valori e diritti universali, in una visione collettivista che è nel suo Dna».
Hollande ha sbagliato a seguire la dottrina europea dell’austerità?
«Ma di quale austerità parliamo? Il bilancio dello Stato francese è in deficit da trent’anni. Oggi c’è una sola parola che dovrebbe contare: competitività. La sinistra ha rinunciato a fare una vera politica di risanamento. Ha scelto di non scegliere. Tutti i paesi europei attraversano le stesse difficoltà, l’unica differenza è su chi far ricadere il peso della crisi. La Terza Via di Tony Blair è stato un progetto reazionario, ha portato a compimento la deindustrializzazione del paese, sviluppando un’economia solo finanziaria, e riducendo i salari. Gerhard Schröder ha invece puntato sull’industria ma ha creato dei minijob che sono pagati meno del salario minimo francese. In Francia, come in Italia, abbiamo scelto di far pagare il prezzo della crisi alle classi popolari con la disoccupazione. Sono entrambi strategie perdenti».
Quindi ci troviamo in un’impasse?
«Sarò brutale, ma nella situazione attuale l’unico modo di ri- lanciare l’occupazione è avere un bilancio dello Stato in equilibrio. Oggi non ci sono margini. Lo Stato non può contribuire alla crescita con investimenti pubblici. È costretto a chiedere aiuto al patronato, che ovviamente resta nel vago. Da anni la Francia non progredisce perché non può agire sull’economia prima di aver risanato i conti pubblici. La spesa dello Stato pesa per oltre metà del Pil, abbiamo il record mondiale. Per fortuna c’è l’Europa che ci costringe a mantenere un minimo di realismo».
Il partito socialista è sull’orlo dell’implosione?
«Siamo in un momento cruciale. Mi ha impressionato in negativo il discorso di Manuel Valls dopo la sconfitta. In sostanza ha detto: va tutto male, la disoccupazione non scende, le tasse sono troppe, ma continuiamo così. È un messaggio piuttosto scoraggiante per un francese medio. Forse da parte del premier è una prova di sincerità. Forse è davvero convinto che bisogna solo aspettare che il vento della ripresa soffi anche sulla Francia. Ma tra due mesi ci sarà il congresso del partito socialista e la resa dei conti tra le varie correnti è già cominciata. I dissidenti si preparano a un attacco mortale contro un governo che sembra già esausto, senza nulla da offrire. Hollande e Valls devono vincere l’apatia. Se non ci sarà un vero chiarimento, allora serviremo su un piatto d’argento la vittoria a Nicolas Sarkozy nel 2017».
. Inseriamo la nota editoriale e il contributo di Luciana Castellina,
Un secolo in una vita. Il cinema, la letteratura, le istituzioni, la democrazia. Quando una nuova generazione di giovani comunisti porta nel Pci l’assillo di un confronto con le trasformazioni del capitalismo italiano
Ricordo ancora nitidamente la prima volta che celebrai un compleanno di Pietro Ingrao: era il 1965, lui compiva cinquant’anni (un’età che mi parve avanzatissima) ed era mezzo secolo fa. Con Sandro Curzi, ambedue non da molto usciti dalla irrequieta Federazione Giovanile, gli regalammo il suo primo paio di mocassini, con una dedica che lo sollecitava ad essere meno prudente: «Cammina coi tempi, cammina con noi».
Lo ricordo bene perché eravamo in piena battaglia «ingraiana», proprio alla vigilia del fatidico XI congresso del Pci, quando i compagni che si riconoscevano nelle sue idee (non una corrente, per carità), uscirono un po’ più allo scoperto per sostenerle; e lui stesso operò quella che fu definita una inedita rottura. Disse con chiarezza nel suo intervento congressuale: «Sarei insincero se tacessi che il compagno Longo non mi ha persuaso rifiutando di introdurre nella vita del nostro partito il nuovo costume di una pubblicità del dibattito, cosicché siano chiari a tutti i compagni non solo gli orientamenti e le decisioni che prevalgono e tutti impegnano ma anche il processo dialettico di cui sono il risultato».
Fu, come è noto, applauditissimo, ma tuttavia successivamente emarginato dal vertice del partito e «relegato» (allora Botteghe Oscure contava più di Montecitorio) alla presidenza del gruppo parlamentare e poi della Camera dei Deputati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.
Lo ricordo bene perché in fondo fu allora che cominciò la storia de «il manifesto», che pure vide la luce solo quattro anni più tardi. Senza Pietro, che come sempre nella sua vita ha fatto prevalere sulle sue scelte politiche la preoccupazione di non abbandonare il «gorgo», quello entro cui si addensava il popolo comunista. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sentire profondo di tutto il partito, il timore di sacrificare l’opinione collettiva alla propria individuale.
Noi del manifesto alla fine lo facemmo, ma anche perché le nostre responsabilità nel Pci erano infinitamente minori e dunque il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse conseguenze di quello di Ingrao. Ma non crediate che sia stato facile neppure per noi, fu anzi una scelta molto molto sofferta e talvolta è capitato anche decenni dopo di interrogarsi se non avremmo dovuto restare a combattere dentro anziché metterci nelle condizioni di essere messi fuori.
(Per favore non reagite, voi giovani, dicendo: ma che tempi, non si poteva neppure dichiarare un dissenso! È vero, non era bello. E però le opinioni nonostante tutto pesavano più di adesso, la nostra radiazione fu un trauma per tutto il partito. Ora si può dire di tutto, ma perché non conta più niente).
Oggi Pietro Ingrao di anni ne compie 100, e noi de il manifesto, se contiamo anche l’incubazione, 50.
Col tempo si è forse smarrito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i giovani della redazione del giornale c’è ancora qualcuno che sa di cosa si sia trattato. Non fu, badate, solo una battaglia per la democratizzazione del partito, il famoso diritto al dissenso. C’era molto di più: si è trattato del tentativo più serio del pensiero comunista di fare i conti con il capitalismo nei suoi punti più alti, di individuare le nuove, moderne contraddizioni e su queste — più che su quelle antiche dell’Italietta rurale — far leva, non per «inseguire mille rivoli rivendicativi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di sviluppo alternativo.
Si trattava della rottura con l’idea di uno sviluppo lineare, col mito della «modernità acritica», che fu alla base della cultura neocapitalista (e craxiana) di quegli anni. E, ancora, il tentativo di capire che la crisi italiana non rappresentava una anomalia (un vizio tutt’ora diffuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capitalismo avanzato quale si stava sviluppando nel mondo.
Dal giudizio sulla fase discendevano due diverse linee strategiche e per questo il confronto non fu solo teorico, ma strettamente intrecciato con il che fare politico: se bisognava agire per rendere l’Italia «normale», e cioè allinearla alla modernità europea, o invece incidere su quel nesso anche per risolvere i vecchi problemi e preparare un’alternativa anche alla «normalità» capitalistica.
La destra del Pci ovviamente si oppose a questa prospettiva. Quando il Pci, dopo la Bolognina, fu avviato allo scioglimento, proprio su questa necessaria innovazione costruimmo — questa volta ufficialmente assieme a Pietro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liquidazione del partito si opponeva. Non in nome della conservazione ma, al contrario, del cambiamento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le rafforzava. Le vecchie categorie non bastavano più e Ingrao è sempre stato attento a non ripetere litanie ma a individuare ogni volta le potenzialità nuove offerte dallo sviluppo storico, i soggetti antagonisti, a capire come si formano e si aggregano per diventare classe dirigente in grado di prospettare una società alternativa. Oggi e qui.
Come sapete, perdemmo.
Su quel nostro dibattito degli anni 60 — che trovò poi una sistemazione nel 1970 proprio nelle «Tesi per il comunismo» del Manifesto (che non dissero che il comunismo era maturo nel senso di imminente, come qualcuno equivocò — e ironizzò -, ma che non sarebbe stato più possibile dare soluzione ai problemi posti dalla crisi nel quadro del sistema capitalistico sia pure ammodernato).
Questo fu l’XI congresso del Pci, quello spartiacque delle cui emozioni, passioni, sofferenze Pietro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».
Nell’anniversario del suo centesimo anno di vita avrei forse dovuto parlare di Pietro Ingrao ricordandone di più i suoi aspetti umani, la sua personalità, il modo come ha dipanato la sua esistenza, e non invece andar subito dritta al nocciolo politico della sua vita di comunista.
L’ho fatto per due ragioni: perché troppo spesso ormai nel celebrare gli anniversari si tende a ridurre tutto ai tratti del carattere di chi si ricorda, alle sue qualità morali, e sempre meno a riflettere sulle loro scelte politiche. E poi perché Pietro in particolare, invecchiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sinistra italiana — ha finito per ricordarsi sottotono, persino con qualche vezzo civettuolo, più come poeta che come dirigente politico. Che è invece stato e di primo piano.
Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pensare al suo modo di esprimersi, mai politichese, sempre attento a illuminare l’immaginazione e non a ripetere catechismi. Vi ricordate la sua sorprendente uscita nell’intervento al primo dei due congressi di scioglimento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo clamoroso «viventi non umani», per chiedere attenzione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poesia, che come tale suonò, del resto, in quel grigio e mesto dibattito di fine partita?
Pietro non usava il politichese perché ascoltava. Sembra banale, ma quasi nessuno ascolta. E siccome ascoltava è stato anche ascoltato da generazioni assai più giovani, quelle che dei nostri dibattiti all’XI congresso del Pci, e del Pci stesso, non sapevano niente. Penso al Forum sociale europeo di Firenze nel 2002, per esempio, dove il suo discorso sulla pace conquistò ragazzi che non sapevano neppure chi fosse.
Ascoltava perché della democrazia ha sempre sottolineato un elemento ormai in disuso, soprattutto il protagonismo delle masse, la partecipazione.
Può sembrare curioso, ma molto del pensiero politico di Ingrao è stato segnato dalla sua adolescenziale formazione cinematografica. Nei molti anni in cui per via del mio incarico nella promozione del cinema italiano ho avuto con i big di Hollywood molti incontri e spesso la discussione scivolava sull’Italia e sul come era stato possibile che ci fossero tanti comunisti. Un po’ scherzando e un po’ sul serio ho sempre finito per ricorrere ad un paradosso: «Badate — dicevo — il comunismo italiano è così speciale perché oltreché a Mosca ha le sue radici qui a Hollywood, che dunque ne porta le responsabilità». E poi raccontavo loro la storia, tante volte sentita da Pietro, della formazione di un pezzo non secondario di quello che poi diventò il gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra: Mario Alicata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai vertici sul partito avevano avuto una fortissima influenza, Visconti, Lizzani, De Santis. Tutti allievi del Centro sperimentale di cinematografia.
Raccontavo loro, dunque, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua generazione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo proprio nel cinema. E, segnatamente, nel grande cinema — e nella letteratura — americani del New Deal, tortuosamente conosciuti proprio al Centro grazie a una fortuita circostanza: l’arrivo, come insegnante, di un singolare personaggio, Ahrnheim, ebreo tedesco sfuggito al nazismo e chissà come approdato proprio lì, prima che le leggi razziali fossero introdotte anche in Italia.
«Proprio quelle pellicole — mi disse Pietro in occasione di un’intervista (per il settimanale Pace e guerra che allora dirigevo) su una importante mostra allestita a Milano sugli anni ’30 — mostravano cariche di socialità, in cui c’era la classe operaia, la solidarietà sociale, la lotta. Proprio grazie a quei film, che erano mezzi di comunicazione fra i movimenti sociali e l’americano qualunque, così diversi dalla cultura antifascista italiana degli anni ’20 — elitaria, ermetica — che avevamo amato, ma non ci aveva aiutato; proprio quei film che ci aprivano una finestra sull’intellettuale impegnato, noi ci siamo politicizzati. Sono stati il primo passo verso la politica».
Questo nesso fra cultura e politica è stato un tratto che ha distinto il comunismo italiano. E Pietro Ingrao ne è stato uno dei più significativi interpreti.
Grazie e tanti auguri, Pietro
I francesi sono appena andati al voto per il rinnovo dei Dipartimenti e tutti l'abbiamo considerato non solo un importante test politico, ma anche una prova di democrazia di quel Paese. Peccato che nessuno abbia fatto notare che da noi l'equivalente istituzione delle Province si è vista sottrarre questa possibilità.
Ma loro non hanno le Regioni, mi sono detto: non è vero. La Francia ha 22 Regioni elette a suffragio universale ogni 6 anni. Ma almeno non avranno il Senato: sbagliato. Anche se eletto da 150.000 grandi elettori e non vota la fiducia al governo, perché una legge sia promulgata, essa deve essere approvata da entrambe le camere.
Il manifesto, 31 marzo 2015
«CERCARE di sfondare il tetto di cristallo non ci salverà». Parola della femminista americana Nancy Fraser, nei giorni in cui persino dalla terra dell’innovazione, la Silicon Valley, arriva l’allarme sessismo. «Lo abbiamo tradito — ci siamo tradite — e non ce ne siamo neppure accorte. Il femminismo è stato rinnegato con campagne social, è diventato mainstream e si è trasformato in brand, come la campagna Lean in di Sheryl Sandberg, direttrice di Facebook. La lotta delle donne si è concentrata sul corpo, l’identità, la conquista dei vertici della società: lavorare per emergere».
Ma acosa serve che poche sfondino il vetro mentre la maggior parte delle donne lavora in condizioni precarie e l’austerity sferra gli ultimi colpi al sistema di welfare? Il femminismo come ancella del neoliberismo è centro d’attrazione dell’indagine di Nancy Fraser. Professoressa di scienze politiche e sociali alla New School, è nota in Italia per le sue riflessioni sul tema della giustizia sociale: quella politica della rappresentanza in un contesto globale, quella economica della redistribuzione e quella culturale del riconoscimento. Su questa giustizia che abbiamo smesso di inseguire Fraser ha scritto Fortune del femminismo: dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista , pubblicato in Italia da Ombrecorte. Temi su cui torna in questa intervista, oltre ad affrontare argomenti legati all’attualità di queste settimane. Come la questione del sessismo nella Silicon Valley, dove una donna manager, Ellen Pao, ha intentato una causa contro la sua ex azienda, il fondo Kpcb: il tribunale le ha dato torto, ma il dibattito è apertissimo.
A proposito di Silicon Valley: per fare carriera e scegliere quando mettere su famiglia, il “benefit aziendale” proposto da Facebook e Apple è congelare gli ovuli. Che cosa ne pensa?
«Quel benefit potrebbe sembrare positivo per le singole donne in un contesto tecnologico che segue ritmi velocissimi e in cui se vieni lasciato indietro per mesi o un anno sei finito. Consente di posticipare la cura dei figli. Ma l’idea “noi adattiamo la famiglia e la riproduzione all’agenda aziendale” in realtà è folle. Le donne possono individualisticamente esserne sollevate, sembrerà che possano avere tutto. Ma di fatto è la biologia che viene sottomessa e piegata al capitalismo delle corporation».
Di recente la direttrice del Fondo Monetario Christine Lagarde ha puntato il dito sulla «cospirazione contro le donne perché non siano economicamente attive». È d’accordo?
«Lagarde è un esempio calzante delle contraddizioni del femminismo. Il fatto è che la seconda ondata femminista, a cavallo tra fine anni Sessanta e fine Settanta, si focalizzava sul tema della redistribuzione: un approccio solidaristico vicino alla tradizione socialdemocratica. Quando lo Zeitgeist è cambiato a favore del neoliberismo, anche il femminismo ha preso un’altra direzione: l’emancipazione legata all’equità è stata soppiantata dall’emancipazione in senso individualistico. Prendiamo proprio la Lagarde: una donna potente, ai vertici, ma che allo stesso tempo ha supportato politiche di austerity di fatto molto dannose per le condizioni delle donne. Il suo femminismo neolib rivendica un ruolo più attivo delle donne nel lavoro, ma quali precondizioni garantisce loro? Oggi il lavoro è mal pagato, le donne ricevono salari più bassi, i governi tagliano la spesa sociale».
Nell’era del welfare state si lottava per l’inclusione delle donne. Ora che il welfare è in crisi, possono essere proprio le donne a salvarlo?
«Nel modello fordista o keynesiano, nel sistema capitalistico organizzato dallo Stato, le donne – almeno nei Paesi ricchi occidentali – erano incluse anzitutto come madri. La famiglia si reggeva sul salario del marito. Ora che il lavoro è precario, per le donne è necessario lavorare. La nuova forma di capitalismo neoliberista non vuole le donne a casa come madri full time, anzi: le vuole lavoratrici, ma con stipendi bassi. Insomma, il passaggio è stato da un modello di svantaggio a un altro modello di svantaggio. Questo mentre il welfare viene tagliato».
Un processo irreversibile?
«Credo che il genio della globalizzazione sia uscito troppo dalla sua lampada per poterlo riportare dentro. Lo Stato di una volta alimentava il sistema di welfare attraverso la redistribuzione fiscale, ora non governa neppure più la propria valuta: guardate la Grecia e l’euro. Ma se in qualche modo democrazia sociale deve esserci oggi, allora deve essere organizzata in un quadro transnazionale o persino globale: le femministe dovrebbero essere in prima linea per imboccare questa strada. Alcuni hanno creduto che proprio l’Ue potesse realizzare una democrazia sociale transnazionale, ma l’Europa sta seguendo la sirena neoliberista. Gli sforzi antiausterity di Syriza e Podemos rappresentano una speranza anche per il femminismo, nel senso che si oppongono al degrado delle condizioni di vita».
Luc Boltanski ieri, Slavoj Zizek oggi, sostengono che fenomeni come il Sessantotto e l’ambientalismo sono stati fagocitati dal capitalismo liberista. Concorda?
«Il capitalismo ha da dato un nuovo significato a questi temi, li ha “corrotti”: lo hanno spiegato in modo esemplare Luc Boltanski ed Ève Chiapello ne Il nuovo spirito del capitalismo , ed è lo stesso argomento che io declino da anni nell’ambito del femminismo. È stato usato per legittimare pratiche “market friendly” che non risolvono i divari. Stessa cosa per il capitalismo “green”. I movimenti sono stati indirizzati su queste chiavi: privatizzare, consumare, individualizzare».
La crisi globale di questi ultimi anni ha cambiato qualcosa?
«C’è stato un frangente in cui è sembrato che l’ordine finanziario e la sua legittimità dovessero collassare, ma oggi non è chiaro se il neoliberismo sia uscito danneggiato dalla crisi oppure no: scoraggia come il capitalismo riesca paradossalmente a trasformare la crisi in opportunità di profitto. La stabilità del neoliberismo come regime è tutta da vedere, i problemi e il peggioramento delle condizioni di vita emergeranno con sempre più prepotenza. Ma anche nell’opporsi al neoliberismo, bisogna emanciparsi dall’approccio neolib. Ad eccezione di Podemos, i movimenti come Occupy che si erano coagulati in un blocco antiegemonico qualche anno fa si sono rivelati effimeri. Questo perché non erano strutturati, erano dominati da una sensibilità neoanarchica».
E allora qual è la ricetta giusta per il futuro?
«Di femminismo e di un’alleanza per la democrazia c’è bisogno più che mai: ma perché siano i popoli e non i mercati a dettare la linea ai governi, dobbiamo abbandonare l’ossessione individualista. E recuperare la solidarietà».
Quando Renzi pretende (proprio lui!) di essere l'unico a poter rivendicare l'uso di quella parola esprime il più arcaico dei modelli della vecchia sinistra. Che la nuova sinistra trovi la bussola per non ricadere nell'errore.
La Repubblica, 31 marzo 2015
La vecchia Sinistra parlava al singolare. Aveva una dottrina che dettava la via, una leadership granitica e (nei Paesi comunisti) personale, una classe sociale compatta e omogenea per forza o, nel migliore degli scenari, per propaganda.
Liberare la Sinistra dal linguaggio singolare, scioglierla dal vincolo del consenso unanime e dal verticalismo è stato un lavoro difficile e nei fatti mai compiuto, realizzato parzialmente grazie prima di tutto al successo e alla tenuta della democrazia elettorale. Perché più gli elettori si sono sentiti liberi di andarsene e cambiare partito, più la Sinistra che parlava al singolare si è indebolita.
«Non lascio ad altri il monopolio della parola sinistra», dice adesso il segretario del Partito democratico. Ma governare il pluralismo non è per nulla facile. La difficoltà sta nel riuscire a tenere insieme la lealtà ad alcuni valori e principi di giustizia e l’interpretazione sui modi e la strategia della loro realizzazione. Come ci ha spiegato Thomas Piketty in un articolo su Repubblica, le politiche neoliberali che hanno in questi anni ammagliato i partiti di Sinistra dell’establishment mettono in seria discussione la possibilità di tenere viva un’unità di discorso in forza, non di fedi a una dottrina o una leadership, ma della ragionata condivisione e della competente realizzazione di politiche ispirate ai valori e ai principi che sono tradizionalmente della Sinistra e che, non per caso, sono anche quelli che meglio realizzano le promesse della democrazia. La Sinistra deve accettare la sfida del pluralismo interpretativo senza cedere alla tentazione di affastellare tutto quello che gli esperti di comunicazione suggeriscono per vincere nei sondaggi e conquistare la maggioranza. Vincere per che cosa? Cercare di costruire maggioranze solide per avviare quali politiche?
La Sinistra post-singolare non ha ancora appreso a rispondere con convinzione e coerenza a queste domande. E le Sinistre si moltiplicano. Collidono tra di loro proprio perché si è frantumata la linea interpretativa capace di dare un’unità di discorso e di intenti alla pluralità delle opinioni. A frantumarsi è la capacità di competere per il meglio, ovvero su come rendere possibile la giustizia sociale, su quali politiche adottare per affermarla o difenderla, su quali siano le parti della società che la rivendicano o perché ne sono state private o perché non l’hanno ancora goduta. Diventando plurale, la Sinistra non deve diventare un agglomerato indistinto: questo non è un obiettivo facile, ed è in effetti proprio quel che sembra oggi più difficile da ottenere a giudicare dalla fioritura delle Sinistre, soprattutto sociali (a Sinistra della Sinistra parlamentare), come ha ben argomentato da Marc Lazar qualche giorno fa su questo giornale.
Da quando esiste (ovvero da quando funziona la competizione politica per il consenso elettorale), la Sinistra si è proposta come una forza che parteggia per quella parte di società che rappresenta bisogni più universali ed è per questo sorgente di diritti. Scriveva Antonio Gramsci parlando dei partiti dell’establishment del suo tempo che essi erano incapaci di «spirito pubblico» e di politiche nazionali perché incapaci di «sentire» la sofferenza o i bisogni delle moltitudini, di comprendere il significato della «solidarietà disinteressata ». Tradotto in linguaggio contemporaneo, il problema della Sinistra è di accettare troppo acriticamente il modello neoliberale, di identificare occupazione con qualunque lavoro, di dissociare il lavoro dai diritti, diritti sociali ma anche di libertà dal dominio che il potere economico diseguale rende fatale.
La Sinistra plurale ha di fronte a sé un compito arduo e per nulla immune da rischi di divisioni e di abbandoni: quello di tenere la bussola orientata verso il benessere dei molti e non dei pochi e di farlo senza buttare alle ortiche i diritti. E ancora Piketty: «Dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri». Un benessere interpretato con il linguaggio dei diritti e della solidarietà sociale, fondato su politiche sociali e servizi pubblici: sono queste le parole che dovrebbero tornare ad avere piena legittimità nella Sinistra plurale.
Da giovedì 9 a domenica 12 aprile, torna a Pistoia la rassegna Leggere la Città, organizzata dal Comune di Pistoia. Quest’anno ha per tema lo spazio pubblico. Interverranno, tra gli altri, Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Ilaria Boniburini, Paolo Maddalena, Antonietta Mazzette (segue qui)
Da giovedì 9 a domenica 12 aprile, torna aPistoia la rassegna Leggere la Citta’, promossa e organizzata dal Comune diPistoia. Quest’anno ha per tema Lo spazio pubblico.
Un'analisi riferita alla situazione francese, ma perfettamente calzante per l'Italia e l'Europa. In estrema sintesi, la risposta al titolo è questa: il popolo tradisce la "sinistra" perché la sinistra non c'è.
La Repubblica, 30 marzo 2015
PERCHÉ le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo? E perchè in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica.
Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione.
Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario.
Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.
La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.
Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze. Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società, che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80. Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks. In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali. Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate. Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia). Che fare, allora?
Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari. La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica.
L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle. La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perché gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica.
Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali. E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro. Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università.
Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli. Su tutte queste questioni, la totale assenza di proposte da parte del Governo francese sta diventando assordante. Non si può stare ad aspettare a braccia conserte le elezioni regionali di dicembre e l’arrivo al potere dell’estrema destra nelle regioni francesi.
Traduzione di Fabio Galimberti
Interessante analisi delle diverse forme, ragioni e dinamiche dei movimenti di protesta. «Se i movimenti del 2012 erano quelli dei precari, negli anni seguenti a scendere in piazza è stata la classe impoverita. Le ampie ondate di protesta hanno un carattere costitutivo, e sospendendo vecchie regole ne creano di nuove. In questo modo la democrazia si è evoluta nelle strade». sbilanciamoci.info, 25 marzo 2015
Gli studi sui movimenti sociali hanno sviluppato un insieme di strumenti utile ad affrontare l’azione collettiva durante periodi normali – ovvero periodi ordinati. I sistemi a cui si sono principalmente rivolti sono le cosiddette democrazie avanzate, aventi forme di welfare sviluppate. Le teorie proposte si sono principalmente orientate verso la spiegazione dell’impatto di queste strutture sui movimenti collettivi. La principale aspettativa è che le proteste coinvolgano opportunità e risorse.
In realtà, sappiamo molto meno delle questioni che sono di fondamentale importanza per analizzare il tardo neoliberalismo ed il relativo malcontento, come:
- Movimenti in periodi di crisi, i.e. quando la protesta è scatenata più da minacce che da opportunità
- Movimenti in periodi straordinari, ovvero movimentati, quando l’azione cambia le relazioni
- Movimenti come processi, i.e. come produttori delle proprie risorse e fonte di empowerment
L’attività di ricerca in economia politica ha indicato alcune caratteristiche generali del neoliberalismo: l’emergenza di un libero mercato come ideologia, che indirizza le politiche non verso il ritiro dello stato dal mercato, bensì verso la riduzione degli investimenti nei servizi sociali che diminuiscono le disuguaglianze, e porta protezione al posto del capitalismo finanziario; la privatizzazione dei beni pubblici ed il salvataggio delle banche; la flessibilizzazione del mercato del lavoro, affiancato però a forti attività di regolamentazione, che aumentano le opportunità di trarre vantaggi speculativi.
Questi sviluppi hanno chiare conseguenze sulle basi sociali della politica del conflitto contemporanea. Entrambe le ondate di protesta del 2011 e del 2013 hanno infatti causato nuove tensioni nelle basi sociali della politica del conflitto. Nel 2011, i manifestanti sono stati generalmente considerati, per la maggior parte, come membri di una nuova classe precaria, che era stata fortemente colpita dalle politiche di austerità. Diversamente da quelli del 2011, le proteste del 2013 sono state interpretate come fenomeni del “ceto medio”.
Le informazioni collezionate sul background sociale dei manifestanti non hanno confermato in modo inequivocabile ne’ la tesi della mobilitazione di un nuovo precariato, ne’ quella di un movimento della classe media. In tutte le manifestazioni sono rappresentati una vasta gamma di background sociali: dagli studenti ai lavoratori precari, dai lavoratori manuali e non manuali alla piccola borghesia e ai professionisti. Maggiormente popolate da giovani e figure di elevata istruzione, le manifestazioni hanno anche osservato la partecipazione di altre coorti di età.
Le varie proteste coinvolgono diverse classi sociali, ma non sono un fenomeno tra classi. Tendono piuttosto a riflettere alcuni cambiamenti nella struttura delle classi sociali che hanno caratterizzato il neoliberalismo e la sua crisi: in particolare, la proletarizzazione delle classi medie e la precarizzazione dei lavoratori. Quanto al primo fenomeno, molti studi indicano il declino del potere della classe media, con le tendenze alla proletarizzazione di
a) la piccola borghesia indipendente (come ad esempio la trasformazione delle strutture commerciali che portano all’eliminazione dei negozianti indipendenti a favore delle multinazionali);
b) i liberi professionisti (attraverso processi di privatizzazione dei servizi, creazione di aziende oligopolistiche e de-professionalizzazione attraverso la Taylorizzazione dei compiti);
c) i dipendenti pubblici (attraverso la riduzione dello status e del salario, e attraverso la flessibilizzazione del contratto, etc.).
Per quanto riguarda quest’ultima, la precarizzazione colpisce i dipendenti privati nei settori industriali (attraverso la chiusura dei tradizionali settori fordisti, oltre alla flessibilizzazione delle condizioni lavorative), come nel settore terziario, con l’aumento del lavoro informale, di lavori scarsamente retribuiti, e di condizioni di lavoro precarie.
In sintesi, anziché mobilitare una singola classe sociale, le manifestazioni hanno mobilitato cittadini con diversi background sociali. I movimenti degli anni 2000 sono stati infatti visti come segni di comune opposizione alla mercificazione degli spazi pubblici, in un tentativo di costituzione comunitaria.
Nella mobilitazione di queste vaste e variegate basi sociali, i movimenti sociali in tempi di crisi devono far fronte a specifiche sfide, tra cui la simbolica sfida della costruzione di un nuovo soggetto; la sfida materiale di mobilitare risorse limitate; la sfida strategica di influenzare un sistema politico estremamente chiuso.
Anche se non totalmente limitate da esse, le risposte del movimento alla crisi sono infatti strutturate sulla base delle risorse materiali esistenti (come succede nelle reti di movimento), e anche da risorse simboliche (espresse come cultura del movimento). Questo implica una limitazione delle opzioni disponibili, ma scatena un processo di apprendimento in termini di lezioni dal passato.
Anche se certamente limitati dalle strutture esistenti, una caratteristica dei movimenti nei periodi di crisi è la loro capacità di creare risorse attraverso l’invenzione di nuove strutture, nuovi sistemi organizzativi e nuove forme di azione. In questo senso, per capire le condizioni per l’azione di conflitto, l’attenzione deve spostarsi a ciò che è stato individuato come divenire: non esistono ancora le identità, né sono state costituite; le reti si sono riformate attraverso il superamento di vecchie scissioni. In periodi straordinari, a causa della rottura di vecchie identità e di vecchie aspettative, emerge un nuovo spirito: i movimenti sociali esprimono allora, prima di tutto, il diritto di esistere.
Lo sviluppo di uno spirito nuovo è stato osservato nelle piazze occupate, che hanno caratterizzato il nuovo repertorio di proteste. Esse rappresentano infatti spazi per la formazione di una nuova soggettività, basata sulla ricomposizione di precedenti scissioni e l’emergenza di nuove identità. Le manifestazioni sono quindi da vedere come produttrici di entità emergenti, che vanno al di là dei propri elementi costitutivi. L’attenzione sul divenire affiora attraverso le pratiche che sottolineano l’importanza degli incontri – infatti, viene celebrata nelle varie piazze la diversità delle persone.
In questo senso, come indicato dal percorso evolutivo di Grecia e Spagna, anche se apparentemente in ritirata, le ampie ondate di protesta hanno un carattere costitutivo, e sospendendo vecchie regole ne creano di nuove. In questo modo la democrazia si è evoluta nelle strade.
(traduzione di Alessandro Castiello D'Antonio)
La Repubblica, 29 marzo 2015
Insieme ai fatti ci sono i personaggi protagonisti, quelli che non sono identificabili con un solo avvenimento ma con una serie che copre un periodo, guida un percorso, adotta una strategia. Quelli che più ci interessano operano sulla scena italiana ed europea. Non sono molti, è ovvio: i protagonisti tengono la scena riducendo gli altri al ruolo di comprimari o addirittura di comparse. Per capire il meglio possibile ciò che sta avvenendo dobbiamo dunque identificarli, per scriverne pregi e difetti, eventualmente proporre i possibili rimedi, cercando a nostra volta un possibile Virgilio che ci aiuti nel viaggio.
Io quel Virgilio lo indicai già domenica scorsa. Si discuteva del rapporto tra governo e pubblica amministrazione e feci il nome di Marco Minghetti. Visse e scrisse (e governò) 150 anni fa, e credo che come tutti i maestri sia ancora di attualità. Tra le tante cose che disse c’è una frase che trovo molto significativa: «Napoleone governò per vent’anni la Francia e il suo fu un governo che ammodernò il Paese e tutelò l’eguaglianza ma non la libertà e perciò ebbe più difetti che virtù». Ecco, già queste righe mi confermano nell’idea che è un buon Virgilio.
Il personaggio che oggi mi sembra opportuno esaminare è Matteo Renzi. In poco più di due anni è passato dal ruolo di comparsa a quello di protagonista.
Quindi ha se non altro i pregi dell’innovazione, del coraggio e della volontà. Queste doti gli hanno consentito d’essere alla testa del Partito democratico, di farne il più forte partito italiano e portare lui alla guida del Paese. È ispirato dal desiderio d’essere giovevole agli italiani, molti dei quali ripongono in lui la fiducia e quell’obiettivo ha già cominciato a realizzarsi e in tempo breve lo raggiungerà pienamente.
Naturalmente ha anche molti avversari e ancora di più molti perplessi che attendono risultati che ancora non vedono.
Attendendo si astengono dal voto o lo danno ad un movimento (quello di Grillo) che equivale da tutti i punti di vista ad un’astensione fortemente critica. Se si sommano insieme i grillini e gli astenuti così come sono registrati dai vari sondaggi, si astiene più o meno il 60 per cento degli elettori. Quindi la partita che Matteo Renzi sta giocando ha come terreno il 40 per cento degli aventi diritto al voto, ma di quelli che andranno alle urne, ivi compresi i grillini che votano ma non giocano.
Questa è dunque la situazione. Dimenticavo però di dire che un altro elemento fondamentale di Renzi è il suo Narciso. L’amore per se stessi c’è in tutti gli umani e particolarmente in quelli che si occupano professionalmente della conquista del potere. Qualunque potere, quello politico e quello economico in particolare e spesso quei due poteri sono affiancati.
Renzi ama molto se stesso, ma questo è normale. Resta solo da sapere se quest’amore non disturba il suo desiderio di giovare agli altri.
Il mio Virgilio a questo proposito dice che «l’uomo mira all’utile proprio e non all’altrui, anzi è pronto a immolare questo a quello. L’uomo singolo, come l’unione di molti e ogni classe della società e ogni corporazione tendono sempre a esorbitare, uscendo fuori dalla sfera dei loro diritti per invadere gli altrui ». Ma poi concede che questo principio illegittimo può essere contenuto dall’intelligenza di chi governa e vuole essere di giovamento agli altri sicché tiene per la briglia il suo Narciso affinché gli altri gli rinnovino la fiducia e rafforzino il suo ruolo di protagonista.
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Io credo che questo progetto corrisponda alla politica di Renzi e quindi possa essere di qualche giovamento anche al Paese. Ma è dunque indispensabile per produrre questi effetti per lui positivi che il potere effettivo si concentri nelle sue mani. Questo spiega molte cose, la prima delle quali è un progressivo indebolimento dei vari ministeri e la costruzione di uno staff a palazzo Chigi capace di determinare le linee concrete dell’azione governativa. La prova più recente è quella del suo interim al ministero delle Infrastrutture e Trasporti che doveva durare pochi giorni e durerà invece più a lungo, almeno fino a quando Renzi non lo avrà completamente disossato; lo scheletro rimane ma la polpa se la porta alla presidenza del Consiglio.
Così si spiega anche l’abolizione del Senato e soprattutto dei senatori che non saranno scelti dal popolo ma dai consigli regionali. L’effetto come più volte abbiamo sottolineato è la costruzione d’un sistema monocamerale con una Camera in gran parte “nominata” dal segretario del partito di maggioranza, il che significa che il governo ha la Camera a propria disposizione e non viceversa come in teoria la democrazia parlamentare prevede.
Questo sistema risulta ulteriormente aggravato dal fatto che la legge elettorale denominata Italicum è dominata dal principio della governabilità mentre non trova spazio alcuno il principio di rappresentanza; l’effetto di tutto il sistema che abbiamo considerato è evidentemente quello di evocare la tentazione dell’autoritarismo. Non è detto che si ceda a questa tentazione ma certo ne esistono tutte le condizioni perché il solo freno a questa deriva resta il capo dello Stato. Un freno tuttavia limitato ai poteri arbitrali di cui il presidente della Repubblica dispone, basati certamente sulla Costituzione come principio ma in pratica sulla legislazione ordinaria la quale ultima è in larga misura nelle mani del presidente del Consiglio date le tante circostanze qui ricordate.
In questo quadro si iscrive anche l’eventuale conquista della Rai. Che una riforma della maggiore istituzione culturale del Paese sia opportuna, se non addirittura necessaria, è evidente ma non dovrebbe avere come elemento fondamentale il passaggio dei poteri dal Parlamento e quindi dai partiti al governo. La nomina dell’amministratore delegato dell’azienda, dotato di poteri quasi assoluti, è formalmente del consiglio d’amministrazione ma nella pratica non è così anche perché quel consiglio è di fatto nominato — come del resto è giusto che sia — dal governo e in teoria dal ministro dell’Economia che ha la completa proprietà dell’azienda. L’ideale sarebbe affidare la scelta dei consiglieri d’amministrazione e dell’amministratore delegato ad una Fondazione composta da persone non politiche ma autorevolissime per i meriti acquisiti nei vari campi del loro interesse culturale. La Bbc inglese è per l’appunto sotto la tutela di una fondazione di questo tipo che le consente piena libertà d’azione. È sperabile che la legge opti per questa soluzione, ma è un auspicio che sicuramente non sarà raccolto.
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Il tema della corruzione è un altro con i quali il governo dovrà misurarsi, anzi ha già cominciato. Il mio Virgilio ne sa assai poco di questo tema: lui fu uno dei dirigenti della Destra storica e nella fase in cui fu la destra a governare la corruzione era pressoché assente dalla società e dallo Stato. Oggi la corruzione è un malanno molto diffuso, dovunque nel mondo e in Italia in particolare. Su questo tema mi dovrò ripetere perché non solo io ho già scritto più volte ma altri come e meglio di me: intellettuali “disorganici”, operatori, esperti e politici di buon conio (rari).
La prima distinzione da fare è tra il reato penale (le cui pene sono state aumentate nel disegno di legge in discussione) e il codice etico che dovrebbe essere applicato dalla pubblica amministrazione attraverso le necessarie inchieste effettuate anzitutto sulla medesima pubblica amministrazione e poi anche dal consiglio della magistratura per quanto lo riguarda e dal governo sui suoi membri. Quello che abbiamo chiamato codice etico si può anche chiamare con più chiarezza un peccato e la distinzione è dunque fra il peccato e il reato. La punizione del peccato non può prevedere restrizioni della libertà personale ma semplicemente sospensione o rimozione dall’incarico e relativa denuncia, ove ne ricorrano gli estremi, alla magistratura. Per il reato vale il principio della presunta innocenza fino a sentenza definitiva, per il peccato questo principio non vale e quindi una volta acquisiti i risultati delle varie inchieste, la punizione può e deve avvenire subito, come del resto è avvenuto nel caso Lupi. Si continua dunque a non comprendere le ragioni per le quali nel governo esistano ancora quattro persone che mantengono la loro attività governativa nonostante siano oggetto di indagine giudiziaria. E non si comprende neppure perché esistano dei candidati del Partito democratico per i quali ricorrono tutti i requisiti del “peccato” (ovviamente anche i partiti debbono indagare sugli eventuali peccati dei loro membri).
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Un altro rimedio per diminuire il rischio d’un governo che abbia una vocazione autoritaria riguarda la creazione di corpi intermedi e su questo tema il mio Virgilio la sapeva lunga: «Ministri, senatori, deputati e uomini politici di ogni sorte hanno una tendenza ad insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione per trarne profitto per se medesimi e per gli aderenti ai loro partiti per mantenere il governo nelle proprie mani. Codesto pericolo che spunta sempre dove il governo di partito cresce e giganteggia si svolse storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliamenti e di adattamenti. Ma il vero rimedio è quello di creare o favorire le istituzioni autonome, gli enti morali e le associazioni che tengano insieme una parte dei cittadini. Con cittadini disgregati ogni conato di resistenza sarà vano ed è per questo che le democrazie sgranate si acconciano facilmente ad un padrone e purché egli rispetti l’eguaglianza, calpesti a suo talento la libertà. L’associazione, organizzandole, raddoppia le forze dei singoli che la compongono, le disciplina e le prepara a resistere ad ogni usurpazione. Ho sovente considerato quanto poco ci siano istituzioni del genere in Italia rispetto a tutti gli altri Paesi d’Europa ».
Questi corpi intermedi che il Minghetti auspicava poiché ne sentiva la mancanza già all’epoca sua, dovrebbero dare oggi in Italia maggior peso alle forze sindacali che rappresentano gli interessi di categorie e le tutelano attraverso i contratti ma hanno anche un interesse politico per rafforzare i diritti dei lavoratori. A questo proposito è interessante la nascita della Coalizione sociale la quale ha promosso ieri una manifestazione nelle strade di Roma per iniziativa del sindacato Fiom e alla quale ha partecipato anche tutta la segreteria della Cgil. Quell’associazione si propone di rappresentare i lavoratori non più per categorie né per luoghi di lavoro né con modalità contrattuali ma di fare in modo che la politica generale del Paese tenga conto del lavoro e dei lavoratori come del resto è previsto addirittura nel primo articolo della nostra Costituzione.
D’altra parte i sindacati hanno sempre partecipato alla politica generale dai tempi di Lama, di Trentin, di Cofferati e dei loro successori. Da questo punto di vista la concertazione costruita da Amato, da Ciampi e da Prodi fu uno dei passaggi fondamentali che consentì la creazione della moneta comune europea con la partecipazione fin dall’inizio dell’Italia. Era stata ottenuta attraverso una politica di moderazione salariale che fu riconosciuta più volte nelle conclusioni finali che ogni anno il governatore della Banca d’Italia legge nell’assemblea generale dell’istituto.
Bisognerebbe dunque che questi corpi intermedi e in particolare quelli dei lavoratori fossero sviluppati e opportunamente riconosciuti.
C’erano alcuni altri temi molto importanti da trattare fin da oggi, di politica estera, di terrorismo, dell’andamento dell’economia e della congiuntura. Ne parleremo nel prossimo futuro. Per ora mi limito ad attirare l’attenzione su quello che sta accadendo sul mercato monetario. Draghi sta portando l’Europa fuori dalla deflazione e sta favorendo in ogni modo una ripresa del finanziamento delle banche alla clientela, un aumento della domanda interna e delle esportazioni e quindi dell’occupazione. L’ho già scritto una volta ma lo ripeto. Meno male che Draghi c’è.
«Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustizia sociale. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?».
Glistatigenerali.com, 27 marzo 2015 , con postilla
Oggi meritocrazia è una delle parole più di moda nel dibattito pubblico italiano. Tuttavia, mi sembra che non si colga affatto la ricchezza dei problemi ad essa connessi. Questo vale soprattutto per la sinistra, la quale dovrebbe impegnarsi particolarmente nel promuovere una sua personale visione di società meritocratica. Infatti, la strategicità nel definire chiaramente la propria visione della meritocrazia è urgente per la sinistra poiché questo termine è entrato di forza nel vocabolario politico delle forze socialdemocratiche europee, finendo di essere il marchio di fabbrica dei partiti liberisti e conservatori.
Prima del crollo dei regimi comunisti le sinistre europee criticavano aspramente le disuguaglianze materiali delle società capitaliste. Consideravano ingiusto un sistema centrato sull’ineguaglianza delle opportunità e la conseguente legittimazione delle disparità materiali. Si battevano in vista della realizzazione di una società senza nessuna forma di sfruttamento, in cui regnasse l’uguaglianza dei risultati: tutti devono avere in egual misura, si diceva. Esse erano anti-meritocratiche proprio poiché vedevano nella meritocrazia l’ideologia delle forze conservatrici interessate a riprodurre il loro potere di generazione in generazione. Il PCI italiano non faceva eccezione nell’allineamento a questa ortodossia.
Oggi quel mondo è finito e le sinistre europee, sopratutto quelle ex-marxiste, faticano molto a ridefinire la loro identità culturale, quei riferimenti ideali che in politica contano molto. Le logiche di mercato hanno trionfato su scala globale ed anche i regimi comunisti ancora in vita si danno un’organizzazione capitalista. Le battaglie di un tempo sembrano non avere più senso: vincoli sui licenziamenti e aumenti retributivi automatici sono considerati iniqui ed inefficienti; i diritti acquisiti divengono rendite di posizione. Molti si chiedono cosa significhi oggi essere di sinistra e vedono nella meritocrazia un appiattimento sulle agende delle destre.
In verità, è proprio trattando della meritocrazia che la sinistra può ritrovare quei problemi che oggi sembrano persi. Ma i suoi leader, almeno in Italia, paiono alquanto disorientati nel parlare di merito e della sua valorizzazione. Essi oscillano tra un semplicistico elogio delle taumaturgiche qualità di una fantomatica società meritocratica e un ideologico rifiuto di questa caricatura. Da un alto si enfatizzano le questioni relative agli incentivi economici, pensando che meritocrazia significhi solo valutare e incentivare; dall’altra ci si oppone polemicamente sulla base dei soliti slogan, qualche citazione colta e molta ideologia retrò.
Coloro cha propongono la meritocrazia da sinistra non vanno oltre un ragionamento molto elementare: si pensa che il merito di un individuo debba riflettere il talento, l’impegno, le competenze o qualsiasi altra cosa in relazione alla mansione svolta. Comunque lo si intenda, il succo del discorso non cambia: il merito va in qualche modo misurato indipendentemente da ogni altra valutazione potenzialmente discriminatoria. Una volta misurato, le ricompense, i premi, le punizioni e tutti gli altri tipi di incentivi/disincentivi saranno la chiave per massimizzare le prestazioni lavorative. Il vantaggio, ci spiegano, sarà collettivo: maggiori controlli e maggior trasparenza per via delle valutazioni continue; una più alta efficienza istituzionale dovuta alla migliore allocazione del capitale umano. Inoltre, e soprattutto, sarà garantita la giustizia sociale: tutti sono trattati come eguali e ricompensati solo in base ai loro meriti. In questa visione, le diseguaglianze divengono giuste: riflettono i meriti individuali.
Questa semplicistica visione della meritocrazia è difesa proprio perché, a prima vista, sembra essere il miglior modo di garantire efficienza istituzionale ed equità sociale, di legittimare le ineliminabili diseguaglianze materiali delle nostre società e di criticare ingiuste rendite di posizione. Non potendo difendere l’egualitarismo di un tempo si cerca di trovare il miglior modo di legittimare le diseguaglianze. Ma così la crisi d’identità politica divampa: i discorsi meritocratici della sinistra sono totalmente sovrapposti a quelli della destra.
Quale domanda dovrebbe porsi la sinistra a questo punto? Dovrebbe domandarsi in vista di quali finalità disegnare dei meccanismi istituzionali in grado di premiare il merito, chiedendosi con quale ideale di giustizia si sposa la concezione efficientista della meritocrazia. Tentare di rispondere a questa domanda significa porsi seriamente il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale, non a caso due temi totalmente assenti dal dibattito pubblico italiano.
Sono veramente garantite a tutti pari opportunità di partecipazione alla gara del successo e della realizzazione? Esiste realmente quel fenomeno chiamato mobilità sociale per cui i figli degli ultimi possono aspirare a diventare i primi?
Il problema da pensare per rispondere a queste domande è l’origine delle disuguaglianze. Da cosa dipende il fatto che un individuo sviluppi più competenze, talento, conoscenze e capacità di un altro? E’ molto complicato rispondere con precisione a questa domanda ma, certamente, è chiaro un punto: lo sviluppo di tutto ciò che può determinare il merito di un individuo non dipende esclusivamente da lui. Molte determinanti sono sociali, altre economiche, altre addirittura genetiche. L’immagine più appropriata è quella usata da John Rawls: il merito dipende dalla lotteria naturale e sociale. Nessuno merita di nascere con maggior talento e nemmeno merita di nascere in luoghi e contesti cognitivamente stimolanti o economicamente depressi. Non lo merita ma, inevitabilmente, ne trae vantaggio. Questo ha una conseguenza devastante per la nozione di giustizia come uguaglianza delle opportunità: non tutti hanno le stesse possibilità di sviluppare le componenti che gli permetteranno di meritare uno status sociale o una posizione professionale. Detto in altre parole: se vogliamo creare dei meccanismi meritocratici e crediamo che giustizia consista nell’uguaglianza delle opportunità, dobbiamo fare i conti con il più potente freno ad ogni sogno meritocratico e di giustizia sociale: il fenomeno dell’ereditarietà sociale.
Questo fenomeno è raffigurabile in vari modi. Questo grafico, per esempio, indica il legame tra il livello dei redditi dei figli e quello dei padri in vari paesi OCSE (fonte: OCSE Economic Policy Reforms: Going for Growth 2010): in paesi come USA, Italia e UK avere un padre con alta educazione e alto reddito aumenta del 40%, rispetto ai paesi scandinavi e al Canada, la possibilità che i figli ripercorrano la strada del padre.
L’indagine Multiscopo dell’Istat “famiglia e soggetti sociali” (2003)
presenta dati eloquenti a questo proposito: in Italia tra i figli delle classi sociali più basse solo il 5% raggiunge la classe dirigente; solo il 7% degli eredi di coloro che svolgono lavori autonomi fa meglio dei padri; il tasso di immobilità generale dei figli maschi è del 43%. Da altri dati presentati nella ricerca non emerge un paese totalmente immobile ma, certo, un paese dove prevalgono fenomeni di mobilità entro classi sociali vicine e dove non esistono le lunghe traversate dal basso all’alto della scala sociale e viceversa. Nel sud della penisola la situazione si aggrava parecchio: nascere in una classe agiata economicamente costituisce una sicura protezione sociale che garantisce la riproduzione dello status di famiglia.
Sovente si pensa che la scuola sia la più ovvia arma contro questi fenomeni di “dinastia sociale”. Garantendo a più persone possibile l’accesso all’istruzione si regala la possibilità di autodeterminare il proprio futuro. Purtroppo anche qui i dati dipingono un’altra situazione. Infatti, l’appartenenza ad un basso contesto socio-economico condiziona fortemente la scelta scolastica dei ragazzi (se proseguire o meno negli studi; quale scuola scegliere; se rischiare denaro mandando proprio figlio all’università in sedi lontane da casa, etc..) e, conseguentemente, il destino lavorativo e lo status sociale. Nel Rapporto 2012 dell’Istat si evidenzia che tra i giovani nati negli anni ’80 solo il 20% dei figli di operai si iscrive all’Università contro il 60% dei figli della borghesia.
Ma si dirà: l’Italia non è un paese meritocratico, per questo c’è una forte ereditarietà sociale. È bene notare che la situazione è simile in molti altri paesi. USA e UK (certamente due modelli per i loro sistemi universitari meritocratici) sono molto iniqui da questo punto di vista: nascere in una zona depressa economicamente e poco stimolante intellettualmente (spesso le due cose sono collegate) diventa quasi una condanna a frequentare scuole di bassa qualità e ad abbandonarle presto. Dagli anni 80 sino ai primi anni del 2000 gli studenti americani di bassa estrazione sociale non hanno aumentato la loro presenza nelle università d’èlite. In Inghilterra le diseguaglianze di opportunità scolastiche sono molto costanti nel tempo e la mobilità sociale è molto bassa.
Questi pochi dati (e moltissimi altri studi collettanei) ci dicono una cosa chiara: una caratteristica delle società democratiche post-industriali è la relativa ma costante ineguaglianza di opportunità tra individui appartenenti a diverse classi sociali. Con buona pace di Abravanel e del duo Alesina Giavazzi che continuano a credere che “la meritocrazia produce l’uguaglianza”. Produce l’uguaglianza di chi se la può permettere.
Pochi giorni fa è morto il Lee Kuan Yew, l’uomo che ha reso Singapore un modello di città-stato a cui tutto l’oriente guarda con rispetto e ammirazione. Christine Lagarde, direttrice del FMI, ha definito Lee «a visionary statesman whose uncompromising stand for meritocracy, efficiency and education transformed Singapore into one of the most prosperous nations in the world”. Il leader asiatico una volta disse che la meritocrazia non presentava svantaggi: non si è mai posto il problema dell’uguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale. Le meritocrazia era la sua ideologia efficientista e i risultati economici sono dalla sua parte. Ma la visione politica non è data solo dalla concezione dell’efficienza economica. Gli ideali di giustizia devono contare. Lee ammoniva spesso l’Inghilterra per il suo welfarismo, condivise la decisione di Piazza Tienanmen ed era solito chiudere la bocca a giornalisti e critici. Lo statista asiatico è un bel esempio di meritocrazia efficientista senza preoccupazioni di giustizia politica.
L’esempio virtuoso viene, invece, dalle social-democrazie scandinave. Questi sono i regimi politici dove le opportunità scolastiche e lavorative sono maggiormente garantite a tutti. Dove l’uguaglianza delle opportunità è compresa e ricercata attraverso la politica. Il sucesso scandinavo è stato raggiunto attraverso costose misure di sostegno economico ai redditi più bassi, di aiuti occupazionali ai gruppo svantaggiati, di sostegno allo studio. Queste politiche fanno in modo che questi paesi siano molto omogenei dal punto di vista socio-economico, in modo che le scelte scolastiche degli individui siano condizionate il meno possibile dalla loro estrazione sociale. In modo che una giusta concorrenza meritocratica possa coinvolgere più persone possibile. Se la corsa non è equa, chi vince non merita nulla.
Molto spesso si dice che l’istruzione è un fattore produttivo. Sarebbe insensato dire il contrario. Tuttavia se introduciamo il problema delle opportunità di accesso all’istruzione dobbiamo renderci conto che senza un livellamento delle condizioni economiche di vita, le opportunità di riuscita individuale sono profondamente diseguali. La sfida della meritocrazia consiste nel coniugare efficienza economica e istituzionale con gli ideali di giustizia sociale che riteniamo politicamente più adeguati. Pensare, come fa la sinistra italiana, che tutto si risolva nella valutazione e negli incentivi (pur importanti) è un attentato alla cultura politica social-democratica.
Realizzare riforme meritocratiche è sopratutto un complesso esercizio di ingegneria sociale che non può dimenticare la stella polare della giustiza []. Esiste oggi per la sinistra una sfida politica più accattivante di questa?
postilla
Una volta accertato che il merito non dipende solo dalle capacità delle persone e dalla corrispondenza di ciò che sono capaci di produrre, nonchè dal valore sociale (ed economico) che il sistema economico-sociale attribuisce alla loro produzione, c'è ancora da chiedersi perchè in alcuni paesi esiste la ricchezza che consente di investire risorse collettive per aiutare le persone socialmente sfavorite e in altre no. Perchè, ad esempio, il Belgio è ricco e il Congo no?
Il manifesto, 29 marzo 2015
Se la misura della piazza serve a far capire la forza delle opposizioni sociali di un paese, si può dire senza dubbio che piazza del Popolo a Roma ha dato un grande segnale. Con qualche novità rispetto a molte manifestazioni degli ultimi anni. La presenza di tanti giovani, e quindi non solo dei valorosi pensionati della Cgil che di solito riempiono i cortei sindacali; il ritorno di molte bandiere rosse, non del vecchio Pci e tantomeno di quelle sbiadite del Pd, ma della Fiom; l’entusiasmo della gente che si è ritrovata per esprimere un punto di vista che oggi non ha la necessaria rappresentanza politica.
Naturalmente una piazza non fa primavera, anche se la giornata era piena di sole e Maurizio Landini, il protagonista della manifestazione, con la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso a fare da potente spalla dell’iniziativa, ha voluto sottolineare che una «nuova primavera per il paese è iniziata».
Ma la “protesta” di ieri forse rappresenta l’inizio di un processo trainato da un’idea forte di rinnovamento delle forze sociali e sindacali, politiche e di movimento, un’idea riassunta dallo slogan della manifestazione, «Unions», traducibile in un ritorno alle radici del sindacalismo. Che il segretario della Fiom, nel suo discorso conclusivo, ha riassunto con i ripetuti rimandi all’idea fondativa della Cgil di Di Vittorio: di un sindacato delle Confederazioni, così diverso da un sindacalismo corporativo, basato sulla competizione dei lavoratori.
E’ la spinta verso un ripensamento profondo della natura del sindacato, dettata sia dalle sconfitte subite con il progetto confindustriale che marcia spedito sotto le ali del governo, sia dalla perdita di rappresentatività prodotta da una crisi economica che ha allargato il mare della disoccupazione e prodotto un esercito di precari fuori da ogni tutela e diritto. Così chi oggi ha ancora un lavoro deve subire il comando pieno dell’impresa (abolizione dell’articolo 18, demansionamento, contratti nazionali polverizzati dalla catena perversa del sistema degli appalti), e chi un lavoro lo cerca è merce di scambio e manovalanza per la feroce guerra tra poveri.
Più che una fantasia, una velleità o una scorciatoia, la coalizione sociale è una necessità vitale per ricostruire la figura del cittadino lavoratore (come appunto indicava Di Vittorio quando negli anni ’50 già parlava di uno statuto del «cittadino lavoratore»). E coalizione sociale vuol dire una cosa semplice: ricostruire le basi di una partecipazione democratica, dunque politica, ai destini dell’Italia.
Perché chi oggi accusa il segretario della Fiom di voler fare l’ennesimo partitino dovrebbe piuttosto domandarsi come è stato possibile arrivare a questo disastro sociale, a un così forte ridimensionamento del ruolo del sindacato, alla negazione dei diritti. E anche interrogarsi sulla subalternità, questa sì politica, verso governi o partiti amici di quel «giaguaro» che nessuno ha smacchiato e in molti hanno nutrito.
Ritrovare una soggettività politica diventa un bisogno naturale e l’alleanza con tutte le realtà associative che non si rassegnano è una via maestra per rafforzare l’opposizione a un governo ricco di slogan almeno quanto è povero di un innovativo progetto di sviluppo. Perché mettere in pratica la linea di Squinzi, o una riforma costituzionale ed elettorale di regressione verso forme di plebiscitarismo mediatico non sembra davvero una grande novità. Né in Italia, né in Europa. Come direbbe Landini «non raccontiamoci di balle». Che fa traballare la sintassi, ma si capisce.
Domani è il compleanno di Pietro Ingrao. Cento anni applauditi da tutto il popolo della piazza quando Landini ha ricordato il giorno in cui, da presidente della Camera, si recò, come primo atto pubblico, alle Acciaierie di Terni per rivolgersi agli operai chiamandoli «i costituenti». Un messaggio a chi ha scarsa memoria del paese che pretende di governare
La Repubblica, 29 marzo 2015
Le mille bandiere che colorano di rosso piazza del Popolo garriscono più forte al vento, quando Maurizio Landini lancia la sua scomunica, l’accusa dalla quale non si può più tornare indietro: Renzi è peggio di Berlusconi. E’ lui, il leader del Pd, il vero nemico dei lavoratori. Perché è il presidente del Consiglio, e non gli industriali metalmeccanici, l’obiettivo numero uno di questa adunata generale convocata a Roma del leader della Fiom, un fiume di gente che ancora continuava ad arrivare in una piazza già strapiena quando già avevano parlato i primi tre oratori. E infatti è a Renzi, che Landini grida che «ci siamo stancati degli spot elettorali, delle slide e delle balle ». E’ a Renzi, anzi «a questi giovani ragazzi che stanno al governo», che manda a dire che «pensiamo di avere più consenso di quello che hanno loro». E’ a Renzi, che rivolge l’accusa di «aver adottato la logica padronale», e poi anche quella di «mettere a rischio la nostra democrazia». Ed è a Renzi, che lancia la sua sfida contro il Jobs Act: «Noi non ci fermeremo finché non avremo cancellato questa legge sbagliata».
Portare in piazza gli italiani che non ci stanno: che fosse questa, la vera parola d’ordine della manifestazione organizzata dai metalmeccanici della Cgil con un titolo anglosassone, «Unions!», l’avevano capito tutti, a cominciare dal gruppone milanese che è arrivato per ultimo in piazza della Repubblica per l’inizio del corteo, e mentre saliva le scale mobili della metropolitana cantava a squarciagola, tra bandiere rosse e campanacci, «Abbiamo un sogno nel cuore/ Renzi a San Vittore» (lo stesso coro che a suo tempo veniva dedicato a Bettino Craxi). E per quanto Su- sanna Camusso — accolta con un bacio di Landini ma tenuta lontana dal microfono — si sforzi ora di minimizzare l’impatto politico dell’evento, e precisi gelidamente dai gradini del palco che «in questa piazza ci sono i lavoratori metalmeccanici iscritti alla Cgil, che giustamente sono in lotta perché la legge delega sul lavoro riduce i diritti», si avvicina di più alla verità Nichi Vendola, guest star del corteo, quando spiega la vera ragione che ha spinto queste diverse anime del popolo di sinistra, queste cinquanta sfumature di rosso, a convergere su Roma nel primo sabato di primavera: «E’ ora che tutti coloro che non si adeguano all’idea che ci sia un uomo solo al comando, e che non si rassegnano a una deriva autoritaria, facciano massa critica».
E mentre il corteo passava davanti al Grand Hotel, sfidando gli sguardi curiosi ma stupiti dei suoi ospiti, sembrava di fare un viaggio indietro nel tempo risentendo gli stessi cori che — forse cantati dalle medesime voci — risuonavano quasi mezzo secolo fa, «Il potere dev’essere operaio», o ascoltando le canzonette anni Settanta del rivalutato Rino Gaetano che il furgone di testa mandava a palla, a cominciare da Nuntereggaepiù: «I ministri puliti/ i buffoni di corte/ ladri di polli/ super pensioni/ ladri di stato e stupratori/ il grasso ventre dei commendatori/ diete politicizzate/ evasori legalizzati/ auto blu/ sangue blu/ cieli blu/ amore blu/ rock and blues/ nuntereggaepiù!».
Ma se il canto che animava quel variopinto e allegro serpentone in cui si mescolavano anziani militanti e studenti barricaderi era «Bella ciao» — l’inno che tutta la piazza canterà alla fine della giornata — il vero segno unificante è la bandiera rossa. Accanto a quelle della Fiom sventolano le bandiere rosse di Rifondazione, le bandiere rosse della lista Tzipras e persino qualche bandiera rossa del Pci, tirata fuori da chissà quale armadio. Un coraggioso metalmeccanico modenese temerariamente prova ad alzare la bandiera del Pd, ma è subito circondato da gente che gli urla minacciosamente «Via, via, quella bandiera! ». E lui, sia pure protestando («Intolleranti, vergognatevi ») deve ripiegarla e rimettersela nello zaino.
Landini, intanto, marcia dietro lo striscione della Fincantieri. Cosa significano tutte queste bandiere rosse? Lui prima finge di ignorare il senso della domanda: «Significano che il lavoro vuole essere rappresentato ». Poi però sorride, e aggiunge: «A me le bandiere rosse mettono il buonumore». E allora alle sue spalle parte partito il coro: «Avanti o popolo/ alla riscossa/ Bandiera rossa/ Bandiera rossa!».
Adesso quelle bandiere rosse punteggiano piazza del Popolo, salutate dallo speaker che annuncia: «Noi siamo le persone perbene, siamo il Paese reale!». Sventolano per salutare Rodotà, salito sul palco nonostante una recentissima frattura alla gamba, che usa l’ironia per attaccare Renzi: «Non sono un professorone pigro. Sono qui con le stampelle». In piazza ci sono anche parlamentari del Pd, testimoni di un dissenso sempre più evidente. «Sono qui per colmare un deficit di rappresentanza, visto che il governo è molto più vicino ai poteri forti» dichiara Stefano Fassina, mentre Pippo Civati ricorda che lui il Jobs Act non l’ha votato e Rosy Bindi avverte che «anche chi è contro il governo deve essere ascoltato».
E’ il battesimo di un nuovo soggetto politico? Landini lascia tutti nel dubbio, ripetendo alla fine del suo comizio che lui non vuol fare un partito «ma il sindacato deve avere una sua soggettività politica». Poi conclude citando, significativamente, papa Giovanni XXIII: «Quando sei per strada e incontri qualcuno, non gli chiedere da dove viene ma chiedigli dove va, e se va nella stessa direzione, cammina insieme a lui». E chi vuole intendere intenda.
L'Espresso, 2 aprile 2015 (m.p.r.)
L'infinita metro C
Di Perotti si è detto che la sua specialità sono le vie ferrate, metropolitane o treni. Con il completamento della linea dell'alta velocità (Torino-Milano-Napoli) la Spm ha allargato il perimetro verso il settore stradale prendendo tre lavori sulla Salerno-Reggio. Tecnico molto apprezzato da Incalza, Perotti ha diretto il macrolotto 2 in Basilicata (200 milioni di euro di extracosti) per conto del consorzio italo-spagnolo Sis guidato da Claudio Dogliani. Con Pizzarotti ha gestito il macrolotto 4h e con la cooperativa Cmc il tratto Atcna Lucana-Sicignano. Poco prima che l'ingegnere romano venisse arrestato, un altro intervento sulla Salerno-Reggio (macrolotto 3.2) ha creato qualche problema alla Spm, con il crollo del viadotto Italia e la morte di un operaio.
Una vera maledizione visto che Spm è subentrata nella direzione lavori dopo l'esclusione di Giuseppe Marascio ingaggiato dalla Technical di Alessandro Mazzi, arrestato per l'inchiesta sul Mose. Marascio, un tempo molto vicino agli ambienti di An e all'ex ministro Matteoli, oggi indagato per il Mose, sta valutando se presentare ricorso contro la decisione dell'Anas attraverso il figlio Francesco, avvocato amministra-tivista e autore di un testo giuridico sulla revisione prezzi nei lavori pubblici con prefazione dello stesso Matteoli. Nel curriculum di Perotti spicca la direzione lavori della tratta Colosseo-San Giovanni della metro C di Roma (Astaldi, Caltagirone, Ansaldo Sts e Lega coop). In ritardo di anni, esplosa nei costi, la Metro C ha una delle commissioni di collaudo più care della storia per un totale di oltre 7 milioni di euro pagati da Roma metropolitane ai tre commissari Giuseppe Ricceri (3,3 milioni), ex presidente del consiglio superiore dei I.avori pubblici e consulente per il Mose, Andrea Monorchio (1,9 milioni di euro), ex Ragioniere generale dello Stato, e Dario Zaninelli (1,9 milioni di euro), citato nell'inchiesta sulla Cricca per la consulenza alla Scuola dei marescialli di Firenze.
Quadri e vigneti
L'ascesa di Perotti è avvenuta quando Antonio Bevilacqua detto Nino, 52 anni, era già il numero uno grazie alla quantità di incarichi accumulati dalle sue società: la Sis e la A&S prima, e oggi l'Italconsult. L'ingegnere palermitano è passato indenne dalla decadenza dei suoi protettori forzisti, dall'ex viceministro dell'Economia Gianfranco Miccichè a Denis Verdini. Per lui c'è stato il sostegno bipartisan di Lupi e del democrat Giuseppe Lumia, mentre il suo riferimento in Anas è Ugo Dibennardo, proconsole della spa pubblica in Sicilia dal 2008 al 2013. Sotto il profilo economico, Bevilacqua è il più forte del settore. Può vantare un fatturato di oltre 30 milioni di euro all'anno con Italconsult. In aggiunta, ha due alleati di peso nell'azionariato. Uno è Intesa, il colosso bancario che Burchi si vantava di rappresentare nel mondo delle infrastrutture lombarde (Teem, Brebemi e Pedemontana). L'altro è Tecnoholding, la società che riunisce le camere di commercio italiane. Appassionato di arte moderna e vitivinicoltore part-time (Terrazze dell'Etna), Bevilacqua è stato nominato presidente del porto di Palermo nel 2001 dal sindaco forzista Diego Cammarata. Si è dimesso nel 2013.
Oltre alla Catania-Siracusa con Pizzarotti, Bevilacqua ha gestito il raddoppio della statale 640, divisa in due lotti da oltre 1,5 miliardi di euro. Nel primo è stato progettista con la Sintel di Giandomenico Monorchio (figlio e Andrea) alla direzione lavori. Nel secondo ha diretto i lavori del consorzio Empedocle (Cmc, Ccc e Tec nis). Oltre alla statale 640, Bevilacqua ha fatto la parte del leone anche con la statale 106 Jonica (Reggio Calabria-Taranto). I maxilotti 1 e 2 sono suoi. Nel maxilotto 3 l'ingegnere siciliano ha soltanto la progettazione mentre la direzione lavori è di Monorchio.
Ci pensa papà
Classe 1970, Monorchio junior ha fondato Sintel engineering nel settembre 1998, tre mesi dopo essersi iscritto all'albo professionale e tre anni prima che il padre iniziasse a occuparsi di lavori pubblici alla guida di Infrastrutture spa (Ispa), la holding di Stato creata nel 2002. Prima di essere assorbita nella Cassa depositi e prestiti (2005), Ispa ha finanziato il Quadrilatero Marche-Umbria, i lotti 2 e 3 dell'A3, l'alta velocità ferroviaria Torino-Milano-Napoli (Sintel ha lavorato sulla Firenze-Bologna) e il Tay Milano-Genova dove la Sintel ha avuto la direzione lavori dal contraente generale Cociv, passato dal controllo del gruppo Gavio a Impregilo-Condotte. Sintel ha inoltre progettato il laboratorio del centro sperimentale dell'Anas a Cesano e l'impiantistica per il nuovo palazzo del cinema di Venezia, mai realizzato ma costato 37 milioni di euro.
Nel settore strade, Monorchio ha avuto la Torino-Novara dalla Sina del gruppo Gavio. A Sud ha diretto i lavori del macrolotto 6 dell'A3 per conto di Impregilio-Condotte. In entrambi i casi, le opere sono andate avanti fra ritardi e spese fuori controllo. Anche peggio è finita sulla Palermo-Agrigento, con lo smottamento del viadotto Scorciavacche. La Sintel era responsabile della direzione lavori con Fulvio Giovannini, rimosso dopo l'incidente su richiesta del presidente dell'Anas. Monorchio ha tentato la carriera politica presentandosi alle ultime comunali di Roma nella lista del collega ingegnere Alfio Marchini. l suoi 537 voti non sono bastati per un seggio.
Transoceanica
Con i suoi 86 anni appena compiuti e una transoceanica in barca a vela portata a termine nel 2010 è il decano del settore. Ma non si limita a navigare e ad esibirsi ai fornelli durante le serate Masterchef al circolo Canottieri Aniene. Dopo che Perotti è stato estromesso dalla direzione lavori sul macrolotto 3.2 della Salerno-Reggio, dove è sprofondato il viadotto Italia, tocca a Beomonte seguire un'opera che in fase di progettazione esecutiva ha già ottenuto un ritocco economico consistente. I lavori sono passati da 425 a 495 milioni di euro. Oltre che con la sua Cilento ingegneria, Beomonte ha spesso collaborato con un'altra primaria società di engineering, la 3Ti di Alfredo Ingletti e Giorgio Casciani. 3Ti ha ricavi superiori ai 20 milioni di euro e ha lavorato sull'A3 (macrolotti 5 e 6), sugli aeroporti di Bologna e di Fiumicino, nei paesi della penisola arabica, in Romania e in Sierra Leone.
«Un’intervista con lo studioso inglese, ospite della 'Biennale Democrazia' di Torino. La necessità di una puntuale critica al potere dei giganti e di una complementare capacità innovativa della sinistra europea».
Il manifesto, 26 marzo 2015
Colin Crouch appartiene alla esigua, ma autorevole schiera di economisti, filosofi, sociologi «riformisti» che, rimanendo fedeli alle loro convinzioni, sono ormai indicati, dai media mainstream, come teorici radicali. Ne fanno parte studiosi come Richard Sennett, Zygmunt Bauman, Alessandro Pizzorno e Luciano Gallino. Negli anni tutti loro si sono applicati ad indagare le trasformazioni del mondo del lavoro o il venir meno di quelle identità collettive che hanno caratterizzato il Novecento. Si sono applicati al loro specifico campo disciplinare, registrando le continuità e le discontinuità nello sviluppo capitalistico. Non hanno mai nascosto la convinzione che l’economia di mercato potesse continuare a prosperare solo in presenza di robusti, seppur flessibili diritti sociali di cittadinanza che garantissero una «ragionevole» redistribuzione della ricchezza.
Crouch è inoltre lo studioso che ha, come gli altri, individuato nel welfare state il punto più avanzato raggiunto durante «il secolo socialdemocratico», per usare un’espressione coniata da Ralph Darendhorf, altra figura chiave di questa cultura politica democratica europea. Non un «radicale» dunque, anche se i suoi ultimi studi - Il potere dei giganti e Postdemocrazia, entrambi pubblicati da Laterza - sono stati considerati una corrosiva critica del neoliberismo. Colin Crouch sarà ospite della «Biennale Democrazia».
Sono anni che la discussione sulla democrazia occupa un posto rilevante nella riflessione di filosofi, economisti, sociologi. Lei ha scritto diffusamente di regimi politici postdemocratici, caratterizzati da un paradosso: in essi sono vigenti tutti i diritti civili e politici acquisita dalla modernità, ma i centri decisionali sono caratterizzati da logiche che difficilmente possono essere sottoposte al controllo dei cittadini. Stiamo cioè assistendo a una cambiamento della forma-stato. Può spiegare cosa intende per postdemocrazia?
Parallelamente alla discussione della democrazia, c’è quella sul «deperimento» dello stato-nazione, vista la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali, come l’Unione europea, il Fondo Monetario Internazionale, il Wto o la Banca mondiale. Eppure assistiamo a una superfetazione dell’intervento statale in termini di norme amministrative che regolano la vita dei singoli. In Inghilterra, ciò è stato qualificato come «politica della vita». Da una parte dunque, perdita della sovranità, dall’altra aumento delle sfere di intervento dello Stato. Come vede lei questa situazione?
Il "deperimento" dello stato-nazione è sotto gli occhi di tutti. Per me, però, le cose sono complesse. Alla luce della globalizzazione, un fenomeno che ritengo positivo, abbiamo bisogno di trascendere lo stato-nazione, perché è un modo di organizzare e gestire la vita pubblica inadeguato rispetto i compiti politici che abbiamo di fronte. Abbiamo bisogno di queste istituzioni sovranazionali. Più che abolirle dobbiamo però lavorare a una loro democratizzazione. Questo vale anche per l’Unione Europea. Per quanto riguarda l’Europa siamo di fronte a un caso direculer pour mieux sauter, come dicono i francesi, cioè di arretrare un po’ per meglio compiere un balzo in avanti. È infine vero che la politica nazionale ormai si interessa, forse troppo, delle piccole cose, in una miscela di superfetazione degli interventi sulla vita dei singoli e incapacità di fronteggiare i problemi derivanti dalla globalizzazione».
L’Europa politica e sociale è l’oggetto del desiderio del riformismo socialdemocratico europeo. Tuttavia, l’Europa sembra essere un laboratorio sociale e politico di un neoliberismo in crisi, certo, ma ancora abbastanza forte da definire draconiane politiche di austerità. Cosa nel pensa della situazione europea?
C’è stata sempre una tensione nella politica europea tra il neoliberalismo e una politica sociale, con una egemonia del primo aspetto. D’altronde non possiamo dimenticare che il progetto iniziale era di fare un mercato comune. Ma la «mercatizzazione», benché porta alcuni vantaggi, produce danni sociali. Da questo punto di vista la definizione di politiche sociali è indispensabile per riparare i «danni» prodotti dalle politiche neoliberali. Per sintetizzare: più si diffonde la «mercatizzazione», più deve crescere l’impegno per sviluppare interventi politico-sociali per stabilirne limiti e argini. Questo è accaduto, seppur parzialmente, durante i lavori delle commissioni europee presiedute da Delors e da Prodi. Quel che manca oggi è invece l’opera di «bilanciamento» che può essere esercito da parte della politica. È questo un aspetto del trionfo della postdemocrazia. Affinché si sviluppi un’Europa sociale servono proteste e mobilitazioni dei cittadini. Solo in questo modo i governi, le banche e le altre istituzioni (sia nazionali, che europee che internazionali) potranno cambiare la loro agenda».
In tutto il mondo sono cresciute le diseguaglianze sociali. Anche questo rimette in discussione la democrazia. È come se nei gloriosi, meglio sarebbe dire infausti trenta anni di neoliberismo ci sia stato uno spostamento rilevante di potere nella società. Poche centinaia di migliaia di persone hanno redditi e poteri di gran lunga superiore a quelli della maggioranza della popolazione. Lei ha scritto un saggio su questo elemento (Il potere dei giganti). A che punto siamo di questa tendenza alla crescita delle crescita delle disuguaglianze sociali?
Questo è il tema al centro delle analisi non solo di studiosi autorevoli come Joseph Stiglitz e Thomas Piketty, ma anche di organismi come l’Ocse e il Fondo Monetario Internazionale. Dalle loro analisi emerge un elemento comune: il negativo impatto economico dovuto alla crescita delle disuguaglianze. Concordo però con Stiglitz quando afferma che ci sono anche aspetti politici scaturiti dalle disuguaglianze sociali. Il principale è che la ricchezza economica può trasformarsi in potere politico; il quale, a sua volta, può essere usato per acquisire ulteriori vantaggi economici. Ma sta a noi interrompere questa spirale alimentata dalla «crescita incardinata sulla crescita delle disuguaglianze sociali».
Uno dei suoi primi libri, scritto e curato assieme con Alessandro Pizzorno, è pervaso dalla convinzione che il conflitto di classe avesse portato a compimento la definizione dei diritti sociali di cittadinanza. Uscì quando era cominciato a spirare il vento neoliberista. Da allora i diritti sociali di cittadinanza sono stato il bersaglio preferito di molte politiche in Europa, mentre la precarietà ha fatto crescere a dismisura l’esercito dei «working poor», che hanno bassi salari e pochissimi diritti. Come vede la situazione dei rapporti di lavoro nel capitalismo?
Il declino dei sindacati - causato principalmente dal declino della gran industria e la crescita dei settori postindustriali non organizzati - ha reso più facile un attacco contro i diritti sociali di cittadinanza. Ora però è importante capire i cambiamenti nel lavoro. Le conquiste operaie e sindacali degli anni Settanta hanno come sfondo un’economia industriale, che non è ovviamente scomparsa, ma è tuttavia segnata da una sistematica condizione «congiunturale» dovuta ai continui e repentini mutamenti nell’economia. Prendiamo, ad esempio, l’articolo 18 del vostro Statuto dei lavoratori. È una norma pensata e valida in un preciso contesto storico-produttivo tesa a garantire alcuni diritti dei lavoratori, come ad esempio il licenziamento ingiustificato. L’esito delle profonde e drammatiche trasformazioni economiche è la «sparizione» di interi settori produttivi in alcuni paesi europei. Da qui la necessità di elaborare nuove tipologie di diritti a difesa del lavoro. Se i lavoratori sono costretti a vivere periodi più o meno lunghi di disoccupazione, hanno bisogno di un compenso generoso per continuare a vivere. Allo stesso tempo devono accedere a corsi di formazione professionale finalizzati a trovare un nuovo lavoro. Politiche di questo tipo sono particolarmente deboli in Italia. I sindacati, più che attestarsi nella sola difesa dell’articolo 18, dovrebbero attivarsi anche per lo sviluppo di politiche del lavoro. Allo stesso tempo, però, il governo non può limitarsi a volere l’abolizione dell’articolo 18: dovrebbe sviluppare nuovi diritti adeguati per l’economia attuale».
Nel suo ultimo libro tradotto in Italia - Quanto capitalismo può sopportare la società - lei scrive diffusamente sulla «socialdemocrazia assertiva». Cosa intende con questa espressione?
In ogni paese europeo, i socialdemocratici sono attestati su una posizione difensiva. Credono che il trionfo del mercato e del neoliberalismo li abbiano ridotti a dinosauri in via di estinzione o a pezzi da museo. Ritengo che per i socialdemocratici si aprono nuove e inedite strade politiche da percorrere. Come ho già detto, il mercato crea problemi sociali; è proprio in questa situazione di potere del mercato che abbiamo bisogno delle politiche sociali della socialdemocrazia. Il potere del mercato, delle grandi e spesso globali imprese più mercato, la crescita delle disuguaglianze sociali prevedono la forte presenza della socialdemocrazia che può rappresentare gli interessi sociali, civili, culturali di chi è penalizzato dall’egemonia dell’economia di mercato. Certo, dovrebbe essere una socialdemocrazia innovativa, nel senso di una democrazia «femminilizzata» e verde. Il neoliberalismo non può infatti riuscire a risolvere i problemi sociali e di svuotamento della democrazia creati proprio del neoliberalismo».
Dal 27 al 29 marzo 2015 si terrà a Milano, presso i Frigoriferi Milanesi (via Piranesi 10), Book Pride, la prima fiera nazionale dell’editoria indipendente. In questa intervista Andrea Staid, che coordina il dibattito di sabato 28 marzo, anticipa gli argomenti che verranno affrontati nel corso di questa conversazione, con due grandi antropologi come Marc Augé e Marco Aime, su alterità e geografie umane.
La prima domanda è perché trovate importante che l’antropologia non si occupi soltanto di popoli lontani ma anche delle “nostre” società?
Marc Augé – È importante perché viviamo in un mondo che si muove, e questo vale tanto per le società cosiddette “tradizionali” quanto per l’Occidente moderno. Questo movimento sovverte le vecchie distinzioni e non permette più di distinguere fra differenti tipi di studio e di sguardo. È sempre stato così, ma lo è sempre di più.
Marco Aime – Perché credo che l’approccio antropologico, grazie anche al suo bagaglio di carattere “etnografico”, possa fornire uno sguardo nuovo sui processi che stanno accadendo nelle nostre città e nei nostri paesi. Un approccio dinamico e incentrato sui modelli relazionali, che fornisce nuove chiavi di lettura rispetto a quelle adottate da altre discipline.
Mi chiedo spesso se l’antropologia possa aiutarci realmente a capire il complesso mondo contemporaneo e soprattutto se possa trovare risposte possibili per muoverci meglio e con più consapevolezza nella società. Voi come la pensate?
Marco Aime – In qualche modo sì. Non dico che l’antropologia proponga soluzioni particolari, ma al contrario, proprio grazie al fatto di porre continuamente domande, ci aiuta a indagare, con angolazioni diverse, il nostro presente.
Marc Augé – Sì, ma precisamente analizzando quello che si muove e criticando le categorie create dalla prima etnologia: cultura, tradizione, comunità, ecc.
Le angolazioni diverse sono centrali per noi antropologi, il mondo è scosso da quello che la stampa chiama, dal mio punto di vista erroneamente, uno scontro di civiltà, o di religioni. Due antropologi come voi ci possono aiutare a fare chiarezza nella confusione creata dai media?
Marco Aime – Lo spero: l’uso di concetti come cultura, civiltà, identità, fatto nelle retoriche comunicative dei media e in quelle politiche, è quanto mai approssimativo, se non errato e strumentale. Si vogliono interpretare in chiave culturale conflitti le cui cause spesso vanno ricercate in altri campi. Inoltre si usano concetti come cultura e identità nello stesso modo in cui si utilizzava quello di “razza” nel secolo scorso.
Marc Augé - A mio avviso viviamo oggi le ultime convulsioni (ma può anche durare a lungo!) della forma più totalitaria del senso sociale: la religione.
.* Marc Augé (Poitiers, 1935), antropologo, è noto a livello internazionale per la teorizzazione dei concetti di surmodernità e di nonluogo. È stato direttore dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales a Parigi ed è autore di numersi libri tradotti in tutto il mondo; tra quelli diffusi in Italia ricordiamo Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Il bello della bicicletta, Diario di un senza fissa dimora, Un etnologo nel metrò, Il mestiere dell’antropologo, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità.
* Marco Aime (Torino 1956) insegna Antropologia culturale all’Università di Genova, dopo aver condotto ricerche sul campo in Benin, Burkina Faso e Mali, oltre che sulle Alpi italiane. Autore di numerosi saggi antropologici, come Le radici nella sabbia, Diario dogon, Sapersi muovere, La casa di nessuno, Etnografia del quotidiano, ha anche scritto opere di narrativa, come Taxi brousse, Fiabe nei barattoli. Nuovi stili di vita spiegati ai bambini, Le nuvole dell’Atakor
Sbilanciamoci.info, 25 marzo 2015
La nuova inchiesta della Procura di Firenze sulla corruzione nelle grandi opere pubbliche, con 51 indagati, che ha portato all’arresto tra gli altri di Ercole Incalza ed alle dimissioni del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, rende purtroppo evidente il cronico ed endemico legame tra realizzare infrastrutture, distorsione delle regole e malaffare. Numerose sono le grandi opere nel mirino delle inchieste: tratte ad Alta velocità come il terzo valico Milano-Genova, il sottoattraversamento AV di Firenze, l’AV Brescia-Verona, o le grandi autostrade come la Orte-Mestre, la Pedemontana Veneta e quella Lombarda, la Cispadana. Ma anche linee metropolitane come la linea C di Roma, e la M4 ed M5 a Milano. Incredibilmente dieci di queste grandi opere avevano lo stesso direttore dei lavori, ora arrestato nell’ambito dell’inchiesta.
Sarà la magistratura a stabilire le responsabilità personali di tutti i soggetti indagati nel Sistema degli appalti pubblici, mentre sul piano politico ed istituzionale abbiamo l’obbligo di un cambio deciso di passo sul sistema delle grandi opere. Sugli effetti distorsivi della Legge Obiettivo, sulla sterminata lista di opere che si vorrebbe realizzare di nessuna utilità collettiva, sulle deroghe e proroghe che diventano la regola nel sistema degli affidamenti, sulla mancanza di una credibile Politica dei Trasporti sostenibile. Così, nel caso più macroscopico delle scelte per mobilità e trasporti, non si è mai valutata la qualità del servizio da offrire ai cittadini dando priorità al trasporto pendolare e nelle città, ma piuttosto si sono privilegiati gli investimenti ad alta intensità di cemento, asfalto e consumo di suolo.
E’ il 9° rapporto sullo Stato di Attuazione della Legge Obiettivo, elaborato dal Servizio Studi Camera, Cresme ed Autorità Anticorruzione che espone i numeri esatti. Dal 2001 al 2014 le grandi opere strategiche sono diventate 419 ed il costo presunto pari a 383 miliardi di euro. Di queste quelle inserite nell’Allegato Infrastrutture 2014 del Governo valgono 285 miliardi di euro, ma quelle che effettivamente hanno un progetto preliminare o definitivo approvato al Cipe sono pari a 153 miliardi di Euro. Secondo il rapporto le opere completate si fermano a 6.5 miliardi di euro pari al 4,3% del totale. Se si considerano i singoli lotti ultimati questa percentuale sale all’8,4% del totale. Per quanto riguarda la tipologia di opere il 95% del totale riguarda infrastrutture nei trasporti: tra queste ben il 52% sono strade ed autostrade, gli investimenti ferroviari il 35% e le metropolitane poco più del 6%.
Più che evidente che se le liste sono sterminate, le risorse pubbliche assai scarse, le risorse private un miraggio sventolato per farsi approvare i progetti, i sistemi di decisione accentrati e semplificatori, in assenza di valutazioni Costi Benefici accurate e senza Valutazione Ambientale Strategica sulle grandi opere, l’unico criterio di selezione diventano le pressioni debite e soprattutto quelle indebite per fare avanzare e finanziare un’opera invece di un’altra al Cipe.
Da notare che una buona parte di grandi opere sono realizzate in concessione senza gara, (vi è solo un obbligo di porre una quota dei lavori a gara sul mercato), come il Mose, le grandi Autostrade private e pubbliche in concessione, l’Alta velocità ferroviaria: ne deriva un sistema bloccato e dei soliti noti, sia sul piano delle imprese che dei referenti politici.
La legge Obiettivo, voluta dal Governo Berlusconi nel 200, nel corso del tempo è stata anche peggiorata, con la possibilità di realizzare lotti funzionali e poi ancora “lotti costruttivi” tradendo quindi completamente la logica dei “tempi certi e costi certi” per le infrastrutture. E poi le semplificazioni procedurali, la Struttura Tecnica di Missione e le decisioni al Cipe, l’esclusione degli Enti locali, il General Contractor che diviene un soggetto privato impossibile da vigilare, le Valutazioni di Impatto Ambientale addomesticate.
A questo si aggiunga un Codice Appalti del 2006 con un doppio regime tra opere ordinarie e opere strategiche, con continue modifiche normative che rendono ormai impossibile comprendere cosa e come applicare le procedure, rendendo ancora più facile la vita a chi le regole le vuole evadere per i propri interessi privati.
Ed in continuità con queste distorsioni è stata anche l’approvazione nel 2014 del Decreto Sblocca Italia, dove con l’articolo 5, il Governo vuole prorogare la scadenza delle concessioni autostradali allungandogli la vita per realizzare le grandi autostrade, nonostante che robuste proroghe siano a suo tempo già state assicurate alle Concessionarie, evitando quindi le gare. Con tanto di aiuti fiscali retroattivi all’Autostrada Orte-Mestre ed ampie garanzie pubbliche verso i privati, come ben descritto nel testo di denuncia Rottama Italia. Perché lo Sblocca Italia è una minaccia per la democrazia ed il nostro futuro.” (Altreconomia Edizioni, 2015). Non a caso il Presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, si è scagliato contro queste proroghe delle concessioni ed ha definito la Legge Obiettivo “criminogena”.
Noi ambientalisti abbiamo contestato da sempre e duramente la Legge Obiettivo, ed ancora prima la logica dei grandi eventi come Mondiali ‘90 e Colombiane ‘92, o il sistema delle Ordinanze della Protezione Civile, delle ricostruzioni post terremoto e delle grandi emergenze, vere false o presunte, invocate per evitare gare ed una selezione trasparente gli investimenti utili. Ma fino ad oggi è stato impossibile vincere la battaglia delle "opere utili" con i mezzi delle razionali analisi tecniche su costi e benefici, della discussione aperta e democratica su cosa sia davvero necessario per realizzare trasporti e infrastrutture efficienti. E’ stato impossibile perché la commistione fra irresponsabilità politica, strapotere di funzionari pubblici inamovibili, appetiti di imprenditori senza scrupoli, “deregulation” che ha fortemente ridotto le garanzie sulla trasparenza amministrativa, la mancanza di politiche dei trasporti, hanno impedito un processo decisionale pubblico e scelte razionali nell’interesse collettivo.
Questo sistema ha di certo complicato anche la vita e l’attività delle imprese sane, quelle capaci di progettare e lavorare seriamente, di realizzare investimenti complessi e promuovere l’innovazione, che spesso per sopravvivere nel mercato, ancora di più in tempi di crisi dell’edilizia, si sono dovute “adattare” al Sistema distorto degli appalti pubblici.
Adesso è il momento di voltare pagina. E’ necessario abolire la Legge Obiettivo, il suo elenco di opere spesso inutili e insostenibili e di procedure che scavalcano procedure e regole a difesa delle finanze pubbliche e dell'ambiente: bisogna rivedere le norme sulla valutazione di impatto ambientale, permettendo un vero “dibattito pubblico” che consenta una valutazione ponderata e partecipata su cosa serva davvero al territorio, alle città e alla comunità.
Va poi rivisto il Codice Appalti del 2006, introducendo norme chiare e semplici per garantire gare trasparenti e piena concorrenza nel mercato dei lavori pubblici, impedire ogni genere di proroga o deroga rispetto alle vie ordinarie, rafforzare i poteri d’intervento dell’Autorità Anticorruzione.
È indispensabile eliminare quelle disposizioni contenute nel Decreto "Sblocca Italia" e nell’ultima Legge di Stabilità che nel solco della Legge Obiettivo aprono la strada a una nuova ondata di opere di nessuna utilità pubblica (trivellazioni petrolifere, inceneritori di rifiuti) ed elargiscono inaccettabili “favori” a lobby potenti con la proroga delle concessioni ai “signori delle autostrade”.
Insieme a tutto questo, è urgente riconsiderare le scelte su opere in corsa – dal tunnel per l’alta velocità Torino-Lione, al “terzo valico Milano-Genova, ai progetti di nuove autostrade (Lombardia e Veneto, Orte-Mestre, Autostrada della Maremma) - che a fronte di un costo per la collettività esorbitante, non servono a risolvere i problemi di mobilità dei cittadini/e ed hanno un elevato impatto ambientale.
Per scegliere le opere utili, grandi e piccole che siano, serve invece adottare un Piano dei Trasporti e della Logistica Sostenibile, applicando alle grandi opere le procedure previste dalle Direttive Europee per la Valutazione Ambientale Strategica. E’ dal 2001, quando fu messo rapidamente nel cassetto il PGTL del Ministro Bersani ed approvata dal centrodestra la Legge Obiettivo, che parliamo solo di liste e di grandi opere, senza una politica dei trasporti strategica, sostenibile e capace di futuro. Una politica di non solo infrastrutture, ma fatta di servizi di trasporto per i pendolari e le città, dove si muovono due terzi dei cittadini e che oggi non hanno un sistema di trasporto adeguato ed efficiente.
La corruzione è furto di bene comune, furto di diritti e di speranze, di opportunità e di lavoro. Per sconfiggerla occorrono innanzitutto leggi all’altezza: rapida approvazione del 416ter e della legge sugli ecoreati; confisca dei beni ai corrotti; pene adeguate per "reati civetta" come il falso in bilancio, l'autoriciclaggio, l'evasione fiscale; norme rigorose sul conflitto d’interessi. Ma le leggi da sole non bastano: serve anche l'impegno di tutti - a cominciare da quanti hanno titolo nelle decisioni pubbliche - a farle vivere attraverso le scelte e i comportamenti quotidiani.
Infine, è decisivo che la scelta del/la nuovo/a Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti - che il Presidente del Consiglio Renzi si appresta a scegliere - risponda a un radicale cambio di rotta negli indirizzi e nei metodi delle politiche pubbliche in materia di infrastrutture. Occorre un/a Ministro consapevole che le grandi opere essenziali per l’Italia sono quelle dettate dall’interesse generale di tutti, non quelle imposte dalla convenienza privata di pochissimi: sono, dunque, rimettere in sesto il nostro territorio, assicurare una mobilità pubblica efficiente nelle città e rimediare allo stato arretrato del trasporto regionale, puntare sul ferro e sul cabotaggio costiero per il trasporto delle merci smettendo di favorire con regali milionari il settore dell’autotrasporto.
Questo gli ecologisti reclamano inutilmente da anni. Se il Governo vuole davvero demolire la “cupola” che da anni governa i grandi affari delle grandi opere, l’occasione è oggi.
«La crisi della forma partito ha trovato una sua soluzione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, partiti della nazione, monocratici, mediatici, oracolari, trasformisti, postparlamentari. C’è da dubitare che da qualche costola, miracolosamente sana, di queste formazioni possa prender avvio una diversa direzione di marcia».
Il manifesto, 26 marzo 2015
Che cosa significa “coalizione sociale”? Il susseguirsi delle precisazioni e dei distinguo indica che la risposta non è semplice né univoca. Di certo il nome non è conseguenza delle cose. Le quali, nel nostro Paese, indicherebbero piuttosto una società poco incline alle coalizioni, tutt’ora pervasa da pulsioni corporative saldamente radicate nella sua storia, attraversata da conflitti che faticano a parlarsi e riconoscersi a vicenda. Se non si tratta di una formula generica da spendersi nelle dispute interne ai contesti politici canonizzati per ridefinirne gli equilibri, tuttavia, ha il valore di una presa di coscienza, sia pure tardiva, delle trasformazioni che hanno investito non solo il lavoro, ma l’insieme dei rapporti sociali, delle prospettive di vita individuali e collettive.
Il problema che l’idea stessa di “coalizione sociale” mette a fuoco altro non è, per farla breve, che quello di una soggettività politica all’altezza dei tempi. La quale precede, e spesso contraddice, il tema, ampiamente screditato dalle poco brillanti avventure elettorali, parlamentari e convegnistiche dell’agognato “nuovo soggetto politico”. Una “soggettività politica” è, in primo luogo, un modo di guardare alle cose e di relazionarsi ad esse sul piano dell’azione e dell’organizzazione.
Il fatto che mette in gioco l’idea della “coalizione sociale”, a prescindere dalle forme che potrà assumere e dalle sue possibilità di successo, è l’indiscutibile indebolimento della prospettiva sindacale. Insidiata su due fronti principali. Il più evidente è quello del lavoro intermittente e precario, del lavoro autonomo impoverito, e del “non lavoro” produttivo ma a reddito zero che non solo lo statuto degli anni’70, ma l’intera cultura sindacale e la sua organizzazione per categorie non abbraccia, non contempla e nemmeno capisce. Avendo lungamente coltivato l’idea, ingenua a voler essere clementi, che si trattasse di una “anomalia” provvisoria destinata ad essere riassorbita nel lavoro a tempo indeterminato. Un atteggiamento, questo, che ha agevolato quanti giocavano il precariato, senza peraltro tutelarlo in alcun modo, contro l’”egoismo” degli occupati. Con un discreto successo di pubblico.
È in questo contesto di radicale mutamento e commistione delle condizioni lavorative ed esistenziali che hanno cominciato a svilupparsi, per approssimazione, concetti come quello di “sindacalismo sociale” e strumenti di lotta, ancora piuttosto indistinti, come lo “sciopero sociale”. Alla ricerca di una soggettività politica che faccia dello “stare in società”, meglio del “produrre società” il teatro di un agire efficace, che cancelli il confine, scomparso nei fatti, ma persistente nella dottrina, tra dimensione sindacale e dimensione politica. Questa divisione dei compiti tra partito e sindacato risale a una impostazione antropologica fondata sulla distinzione tra l’immediatezza dei bisogni e la lungimiranza della “coscienza” (per quanto riguarda la tradizione socialista) o sulla capacità “professionale” di tenere in equilibrio interessi contrastanti proteggendo adeguatamente l’ordine proprietario (per quanto riguarda il parlamentarismo liberale). Su un’idea di soggettività, dunque, quella proletaria e quella borghese, che dovevano essere “completate” da una guida “specializzata”, dagli strateghi della classe di appartenenza.
Su questa prospettiva incombono, tuttavia, due probabili derive. La prima è quella di una sommatoria di associazioni e soggetti collettivi gelosi delle rispettive identità, ma accomunati dalla denuncia di una politica divenuta “asociale” e ostile ai segmenti più deboli della società. Qualcosa di non molto dissimile dal mito della “società civile” in cui defluì il movimento altermondialista dei primi anni 2000 con l’esperienza, presto trasformatasi in “alterparlamentare”, dei social forum. Ma senza lo slancio, l’azzardo e l’entusiasmo che caratterizzarono quegli anni. Una “coalizione”, insomma, nella quale obiettivi apprezzabili e settori specifici di intervento sociale e politico si affianchino senza però stabilire nessi cogenti. Nella quale interessi comuni e reciproche indifferenze convivano in una condizione fragile e sostanzialmente instabile tenuta insieme da occasionali mobilitazioni.
La seconda deriva possibile, di segno contrario, è una pretesa di sintesi, l’aspirazione a istituire una rappresentanza dei movimenti intesi come semplici portatori di “istanze” che altri dovranno poi trasformare in programma politico. In poche parole, una restaurazione, in altri termini, della divisione di compiti e dei rapporti gerarchici tra la dimensione politica e quella sindacale.
Come sfuggire a queste alternative fallimentari resta un problema aperto. Ma quel che deve essere chiaro è che, comunque si voglia chiamare la direzione in cui muovere, “coalizione sociale”, “nuovo soggetto politico” o “sindacalismo sociale”, non basterà affiancarsi come una sorta di “terzo settore” alla sfera della politica e a quella del sindacato lasciandone intatti poteri e dispositivi di perpetuazione. Quando si tratta di reinventare la politica bisognerà pure entrare in rotta di collisione con le forze che si sono insediate al suo posto.
La crisi della forma partito ha trovato una sua soluzione a destra: partiti-azienda, partiti-ditta, partiti della nazione, monocratici, mediatici, oracolari, trasformisti, postparlamentari. C’è da dubitare che da qualche costola, miracolosamente sana, di queste formazioni possa prender avvio una diversa direzione di marcia. La crisi della forma-sindacato è, invece, ancora aperta. E anche quella dei movimenti lo è. Ma se non riusciranno, in un modo o nell’altro, a entrare in relazione con la dimensione politica (forza, efficacia, durata, organizzazione) non è fuori luogo profetizzare, anche in questo caso, una soluzione a destra: quella neocorporativa.
La Repubblica, 26 marzo 2015
Proprio contro questa visione, sulla base di studi antropologici, storici, sociologici e filosofici, alcune studiose femministe hanno proposto il concetto di genere, per indicare quanto di costruzione sociale — per lo più entro rapporti di potere asimmetrici — ci fosse e ci sia tuttora in ciò che viene definito maschile e femminile: nelle caratteristiche, capacità e possibilità attribuite all’uno e all’altro sesso e alle regole che dovrebbero governare i rapporti tra i due. Sono costrutti sociali così potenti da essere diventati, direbbe Durkheim, “fatti sociali”, dati per scontati e utilizzati sia come modelli organizzativi in società e in famiglia, sia come mappe mentali che guidano le scelte soggettive e danno perfino forma ai desideri. Per questo può apparire “innaturale” che una donna non desideri avere figli o che voglia avere sia figli che una carriera professionale, o che un uomo si dedichi più alla cura dei figli che alla propria carriera, che uomini e donne vogliano scegliere le proprie mete e avere identità meno rigide e polarizzate lungo il crinale della differenza sessuale. È a motivo della potenza di quella visione pseudo-naturale che in alcune società le donne sono considerate “naturalmente” esseri inferiori agli uomini, che questi possono usare e controllare a piacimento.
Se nelle società democratiche si è raggiunta una qualche misura di uguaglianza tra uomini e donne è perché si è permesso a uomini e donne di sviluppare le proprie capacità e interessi senza essere confinati nella propria, pur importante, reciproca differenza sessuale ed insieme essere più liberi di vivere quella differenza. La cultura, l’incessante opera di costruzione sociale che è la caratteristica del vivere umano, è diventata più riflessiva anche su questo fondamentale aspetto dell’umanità, la differenza sessuale, come univoco e immodificabile destino. Una conquista, non uno «sbaglio della mente umana», secondo le parole di papa Bergoglio riprese da Bagnasco.
Anche l’orrore per l’omosessualità e l’assimilazione di questa al rifiuto della differenza sessuale nascono da quella visione di una umanità stereotipicamente dicotomizzata. A chi riduce l’identità delle persone prevalentemente, se non esclusivamente, al loro corpo sessuato, l’omosessualità non appare solo una devianza sessuale che rompe la norma dell’eterosessualità complementare. Appare anche un “innaturale” ibrido umano, in cui si confondono maschile e femminile. Tutto sommato, è la vecchia concezione della omosessualità come inversione sessuale, come il fare l’uomo in un corpo di donna e viceversa.
Per chi appiattisce le potenzialità e varietà degli esseri umani alla dicotomia della differenza degli organi sessuali e dell’apparato genitale, l’omosessualità appare mostruosa, letteralmente, sia sul piano della natura sia su quello sociale, come un ippogrifo, o un uomo-cavallo. Ma altrettanto, se non mostruoso, pericoloso appare ogni comportamento di uomini e donne che smentisce l’ovvietà degli stereotipi. Mentre agitano lo spettro della «colonizzazione da parte di una teoria del genere che mira alla creazione di un transumano», le parole di Bagnasco testimoniano il persistere di teorie e pratiche che, in nome della natura, vogliono costringere uomini e donne nella corazza di ruoli e destini rigidi e asimmetrici, riduttivi della ricchezza, varietà e potenzialità degli esseri umani. Non è questo che vogliamo per noi stesse e per i nostri figli e figlie.
Il manifesto, 26 marzo 2015 (m.p.r.)
La nuova direttiva europea sugli Organismi geneticamente modificati (2015/412) è appena stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale europea. A una prima lettura sembrerebbe una norma in difesa della biodiversità e dell’agricoltura sostenibile poiché prevede la possibilità per gli stati dell’Unione europea di vietare la coltivazione di Ogm. Anche i dati relativi al 2014 pubblicati dall’International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications (Isaaa) non sono incoraggianti per le multinazionali biotech: con un ulteriore calo del tre per cento la superficie coltivata a Ogm in Europa si è ridotta a 143.016 ettari di mais Bt coltivati in 5 paesi su 28 (si coltiva in Spagna il 90% delle superficie totale). Il resto sono briciole sparse tra Portogallo, Romania, Slovacchia e Repubblica Ceca. In Italia, nell’immediato, non dovrebbero aprirsi scenari allarmanti: è in vigore un divieto temporaneo che impedisce la coltivazione dell’unico Ogm autorizzato per la coltivazione in Europa, il mais Mon810 di Monsanto.
Battaglia vinta? Tutt’altro. La nuova legge europea presenta alcune criticità. Una in particolare. Il governo che volesse bandire gli Ogm dal suo territorio non potrà addurre motivazioni che contrastano con la valutazione di impatto ambientale condotta dall’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare). «Significa che i governi - spiega Federica Ferrario di Greenpeace - non possono basare i bandi su specifici impatti ambientali o evidenze di possibili danni da parte delle coltivazioni Ogm a livello nazionale nel caso in cui questi rischi non siano stati presi in considerazione da parte della valutazione dell’Efsa».
Ma la vera trappola che potrebbe vanificare un decennio di lotte condotte dagli ambientalisti europei e stravolgere le regole della produzione del sistema agroalimentare del vecchio continente - non solo per l’insidia Ogm - si chiama Transatlantic Trade and Investment Partnership, meglio (s)conosciuto ai più con la sigla Ttip. Si tratta di un accordo semi segreto per «facilitare» gli scambi economici tra Europa e Stati Uniti. L’obiettivo dichiarato è agevolare la circolazione delle merci armonizzando le diverse normative che esistono in Europa e negli Stati Uniti. Cosa succederà per quanto riguarda agricoltura e cibo? Il mistero è fitto. Le trattative febbrili.
Lo scontro è tra un paese con un sistema agricolo che punta sulla quantità e uno che sta sul mercato grazie alla qualità della sua produzione. Un sistema a maglie larghe contro uno con normative più rigide. Per le associazioni ambientaliste e dei consumatori l’esito è scontato: «l’armonizzazione» delle leggi per l’Europa si tradurrà in una cessione di sovranità in termini di sicurezza.
La consapevolezza del rischio per il settore agro alimentare dell’Europa è documenta anche da uno studio specifico realizzato per il Parlamento europeo dalla Direzione generale delle politiche interne. Secondo il dossier, «se il commercio fosse liberalizzato senza una convergenza normativa, i produttori europei potrebbero subire gli effetti negativi della concorrenza in alcuni settori… Questo è particolarmente rilevante per quanto riguarda i vincoli dell’Ue in merito all’uso degli Ogm, dei pesticidi e alle misure di sicurezza alimentare nel settore della carne».
La Repubblica, 26 marzo 2015 (m.p.r.)
Il mondo sta cambiando, il modo di approcciare il cibo e gli acquisti alimentari sta cambiando. E’ un dato di fatto incontrovertibile ancorché lento, progressivo e non esplosivo. In gran parte del mondo, Stati Uniti in testa, le persone si orientano ogni giorno di più verso consumi alimentari attenti alle produzioni locali di piccola scala, stagionali, organiche. A fronte di questo processo è significativo che la grande industria, che si vede minacciata da un radicale cambio di mentalità, risponda andando esattamente nella direzione opposta.
La finanziarizzazione e la fusione di grandi gruppi è una risposta di corto respiro, buona per chiudere in positivo ancora qualche bilancio ma di certo incapace in alcun modo cambiare quello che innanzitutto è un processo di coscientizzazione e consapevolizzazione, in definitiva un lento cambiamento culturale dei consumatori, sempre più cittadini, sempre più coproduttori.