La Repubblica, 29 aprile 2015 (m.p.r.)
Chiamatelo “No 2.0” o, se preferite, opposizione ai tempi dei social media. Ecco la prima vera fotografia ad alta risoluzione di chi è contro in Italia. Poco importa poi se si tratta della Tav, l’Expo, le discariche, l’eolico, le trivellazioni in Adriatico, le grandi opere. L’analisi, che verrà resa pubblica oggi, è stata condotta da Public Affairs Advisors e da Fleed Digital ed è una lente di ingrandimento su quel che è accaduto nel Web nel corso degli ultimi sei mesi. Sono stati passati al setaccio oltre venticinquemila discussioni, novemila tweet, cinquemila post su Facebook. Intendiamoci, l’indagine non entra nel merito della legittimità dei singoli movimenti, ma si limita a tracciarne un profilo evidenziando origine, affinità, modus operandi. Un panorama fatto da quattro milioni di account, quelli dei quali è possibile vedere pubblicamente i contenuti, e oltre centomila fra forum, blog e siti. Non è un campione rappresentativo su base demografica e statistica, ma indicativo di quanto successo su Internet.
Il manifesto, 28 aprile 2015
Pronto a un compromesso sempre onorevole e non a una capitolazione incondizionata, Alexis Tsipras. Ma il tempo stringe per il governo greco e il campanello d’allarme non viene dalle casse dello stato più o meno vuote, né dai bottegai, il cui presidente, già candidato europarlamentare con le liste della Nea Dimokratia, ha minacciato che «i lunghi negoziati» tra Atene e i suoi creditori «aggravano la crisi del commercio greco».
Manco a dirlo, l’allarme è giunto da Bruxelles e da Riga dove ministri dell’eurozona hanno espresso la loro rituale preoccupazione su cosa accadrà nel caso in cui l’Eurogruppo dell’11 maggio dovesse finire con un altro nulla di fatto. Il premier greco sa che anche questi «timori» fanno parte delle pressioni esercitate su Atene per farla retrocedere.
Ma il 12 maggio, senza un aiuto finanziario il governo greco difficilmente potrà rimborsare i 700 milioni di euro al Fmi. A meno di saltare stipendi e pensioni per il prossimo mese, cosa che Tsipras ha escluso. Lunedì sera, in un’intervista-fiume finita nella notte, si è detto pronto a un compromesso onorevole, ma non ha indietreggiato: fermo sempre sul programma di Salonicco, ma con uno spirito più adeguato alle circostanze.
Pronto all’autocritica, ma anche esplicito nel caso il negoziato dovesse fallire e le condizioni-diktat imposte dai creditori internazionali dovessero costringere il governo Syriza–Anel a violare le promesse elettorali. Lo stallo delle ultime settimane «sta spingendo il paese nella recessione», perció «è necessaro arrivare a un accordo in tempi stretti… entro la fine della settimana prossima», ha detto Tsipras, che è parso prò ottimista: «Siamo vicini a un accordo — ha detto -, nonostante restino divergenze su lavoro, pensioni e privatizzazioni». Perché i ricavi delle privatizzazione, per il premier greco, servono a sostenere la crisi sociale non, come sostiene Bruxelles, a ripagare il buco nero del debito lasciato dal governo Samaras.
Ma in caso di fallimento delle trattative o di intesa sfavorevole ad Atene, nel caso che la Grecia varcasse le preannunciate «linee rosse», non si tornerebbe alla dracma, né ci sarebbero elezioni anticipate come paventato da molte parti. Per Tsipras l’alternativa è un referendum. Una consultazione popolare sui risultati del negoziato europeo, malgrado le polemiche provenienti dall’opposizione e i dubbi di chi sostiene che la Costituzione ellenica non prevede referendum per leggi di bilancio.
Ma l’oggetto non sarebbe una legge di bilancio. «Si tratta di un argomento d’interesse nazionale che ha una componente finanziaria», ha risposto ieri Tsipras, che ha criticato Jeroen Dijsselbloem e Mario Draghi. «Abbiamo sbagliato a non chiedere per iscritto ciò che ci avevano promesso, ovvero la garanzia che dopo l’accordo del 20 febbraio avrebbero lasciato mano libera alle banche consentendo loro di investire di più nei titoli di stato». Riferendosi al presidente della Bce, l’ha considerato responsabile della decisione «non ortodossa» di ridurre la possibilità del finanziamento delle banche greche dall’Eurotower. Nessuna frecciata stavolta per Angela Merkel con la quale ha deciso nel recente vertice bilaterale di tenere sempre aperto il collegamento telefonico per garantire il proseguimento del negoziato.
Varoufakis? Ora è meno solo
Tsipras ha poi tessuto le lodi di Yanis Varoufakis — «il ministro delle finanze resta un asset importante per il Paese» -, nonostante domenica scorsa, nella riunione a Megaro Maximou, sede del governo, sia stato deciso di coadiuvare il suo potere di trattativa. Varoufakis mantiene sempre l’incarico del ministero delle Finanze, ma responsabile dei negoziati con i partner europei sarà d’ora in poi il viceministro delle Relazioni internazionali Euclid Tsakalotos, che ha studiato a Oxford e che, secondo alcuni, avrebbe il profilo giusto per trattare con i creditori. Il governo ha inoltre formato una squadra tecnica coordinata dal segretario generale Spyros Sagias, mentre la responsabilità del gruppo che tratta con il Bruxelles-Group l’avrà il presidente del consiglio economico Jorgos Houliarakis. Diverse le interpretazioni del mini-rimpasto del gruppo che tratta con le «istituzioni» europee.
È opinione diffusa che con tale decisione il governo intenda «estendere il sostegno» al ministro delle Finanze, mentre a sentire parte della stampa locale e internazionale (impegnata in una vasta opera di falsificazione), il «depotenziamento» di Varoufakis era quasi obbligato dopo le ennesime, dure critiche dell’Eurogruppo a Riga.
Polemiche anche sul negoziato per le riforme. Alle voci secondo le quali Tsipras sarebbe giá pronto a rinunciare alle promesse elettorali come l’aumento del salario minimo e il rafforzamento dei diritti dei lavoratori con il ripristino del contratto collettivo nazionale di lavoro, il premier mostra invece di non volere rinunciare a nessuno di questi contenuti; al massimo sembra disposto solo a rimandare a giugno il negoziato su questi argomenti nell’ambito delle trattattive per la riduzione del debito e per un programma a lungo termine. Comunque ieri il premier si é limitato a dire soltanto che l’ abolizione della tassa unica sulla casa potrebbe slittare al 2016.
Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)
Ban Ki moon gela Matteo Renzi e i suoi propositi di distruggere i barconi degli scafisti con l’avallo dell’Onu. Non è bastata una gita sulla nave San Giusto della nostra Marina militare per convincere il segretario generale delle Nazioni unite della bontà dei progetti del governo italiano, deciso più che mai ad affondare le imbarcazioni con cui i trafficanti di uomini trasportano nel canale di Sicilia migliaia di disperati in fuga dalla guerra. Ban è arrivato ieri a Roma per un vertice Ue-Onu-Italia sull’emergenza immigrazione facendosi precedere da un ammonimento che ha fatto capire al premier italiano come la strada per convincerlo ad autorizzare un qualsiasi tipo di intervento in Libia sia a dir poco in salita. «Non esiste una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo» ha detto il segretario, gettando così acqua sulle ambizioni interventiste del governo. Al punto da costringere ieri la portavoce dell’Alto rappresentante Ue per la politica estera Federica Mogherini a correre ai ripari: il piano che l’Unione europea sta preparando per distruggere i barconi «non è un intervento militare» in Libia, ha detto la portavoce.
Mogherini e Ban Ki moon avranno avuto comunque modo di chiarirsi le idee ieri pomeriggio quando, insieme a Matteo Renzi, hanno preso il largo nel canale di Sicilia sulla nave San Giusto. Una crociera voluta dal premier per mostrare al segretario generale quanto accade ogni giorno lungo la frontiera meridionale dell’Europa, nella convinzione di riuscire a portarlo dalla sua parte. Qualcosa, però, non deve essere andato nel verso giusto. O forse Ban Ki moon ha capito qual è la vera urgenza del Mediterraneo: «Le autorità devono focalizzarsi sul salvataggio delle vite dei migranti», ha detto il numero uno dell’Onu una volta rimesso piede a terra. Frase che sembrerebbe prendere le distanze anche dai pochi risultati raggiunti giovedì scorso dal consiglio europeo straordinario sull’immigrazione dove sì, si sono stati triplicati i fondi destinati a Triton, ma almeno per ora non è stato modificato lo scopo della missione, che resta di sorveglianza delle frontiere e non di salvataggio dei migranti. A Renzi e Mogherini non è rimasto altro che fare buon viso a cattivo gioco: «L’Italia non è più sola», ha detto il premier. «Fermare i trafficanti di esseri umani per evitare una catastrofe umanitaria è un’assoluta priorità su cui contiamo di avere il sostegno delle Nazioni unite».
Nei prossimi giorni si vedrà se sarà così, e soprattutto se gli sforzi diplomatici messi a punto dalla rappresentante europea della politica estera avranno raggiunto o meno lo scopo (ieri la Mogherini ha parlato di immigrazione al telefono anche con il ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov ed è quasi scontato che tra i temi toccati ci sia stata anche la Libia). Intanto già in questa settimana si potrebbe cominciare a capire come l’Unione europea intende muoversi per mettere fine alle stragi dei barconi. Un anticipo potrebbe arrivare mercoledì con l’intervento che il presidente della commissione Junker farà nel corso della plenaria prevista a Strasburgo, mentre la «roadmap» degli interventi potrebbe arrivare nei giorni immediatamente successivi con la spiegazione dei tempi ad aumentare del triplo i finanziamenti per Triton e la missione di politica di difesa e sicurezza su cui la Mogherini sta lavorando e che, dopo aver visto Ban Ki moon, la porteranno oggi e domani a Washington e New York. Il 13 maggio, invece, è prevista la presentazione del piano Ue sull’immigrazione in cui dovrebbe esserci anche un’ipotesi di suddivisione dei profughi tra gli Stati membri. Questione sulla quale fino a oggi si sono incontrate le maggiori difficoltà quando non dei veri veti da parti di alcuni Paesi.
«I mutamenti dell’organizzazione democratica e i cambiamenti del sistema istituzionale proposti nei disegni di legge rimettono in discussione il rapporto che esiste tra governo, parlamento e cittadini. Si pone dunque l’esigenza di rivedere gli strumenti di partecipazione attiva della popolazione.
Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)
L’isteria con cui il governo avanza nella discussione sulla riforma della Costituzione e sulla legge elettorale è un fatto del tutto nuovo nel nostro paese, e per questo deve farci riflettere. La necessità di attuare le riforme, da noi condivisa, non può prescindere da un percorso di confronto e di ascolto sul merito delle questioni, e invece il governo si limita all’affermazione, più volte ripetuta dal ministro Boschi, «abbiamo già discusso». Le riforme istituzionali per la loro specifica natura devono essere approvate con il più ampio consenso e non a colpi di maggioranza.
La Cgil da tempo sostiene il superamento del bicameralismo perfetto, l’istituzione di una Camera rappresentativa delle Regioni e delle autonomie locali e la modifica del Titolo V della Costituzione. La stessa modifica del Titolo V apportata nel 2001 sulla quale è unanime il giudizio negativo per aver prodotto un confuso federalismo con una forte sovrapposizione tra le prerogative dello Stato e quelle delle Regioni, ci dimostra che non basta volere il cambiamento, bisogna anche saperlo promuovere e soprattutto qualificare.
Nel merito della discussione, ciò che ci preoccupa maggiormente è il combinato disposto della modifica costituzionale con la nuova legge elettorale.
La riforma costituzionale proposta dal governo introduce un procedimento legislativo farraginoso e non fa della seconda camera un luogo di rappresentanza delle istituzioni locali adeguato a definire un nuovo equilibrio istituzionale, reso ancor più necessario dall’accentramento di competenze legislative previsto dalle modifiche proposte nel Titolo V.
Per noi il problema non è l’elezione diretta dei senatori, ma quali saranno i poteri della seconda camera del Parlamento. Se il Senato deve rappresentare le Regioni e le Autonomie, in una logica di equilibrio tra Stato, Regioni e Comuni e con l’obiettivo di esercitare la necessaria cooperazione istituzionale tra i differenti livelli di governo, deve poter votare le leggi che hanno una ricaduta territoriale, a cominciare dalle risorse. Nell’attuale testo di riforma, invece, si attribuisce a Palazzo Madama la potestà legislativa piena sulla Costituzione, ma non sui principali provvedimenti che interessano Regioni e autonomie.
Questa situazione, unitamente ad una legge elettorale come l’Italicum, che prevede un ballottaggio con regole sbagliate e determina una grave incertezza su chi sceglie realmente i deputati che siederanno a Montecitorio, potrebbe portare ad una pericolosa contrazione democratica.
Nella legge elettorale, noi non contestiamo che il premio di maggioranza venga dato al secondo turno, ma riteniamo che per quest’ultimo debbano valere regole diverse da quelle contenute nel testo governativo. L’Italicum non prevede né la possibilità dell’apparentamento, né una soglia che permetta il ballottaggio unicamente tra partiti con una rappresentanza pari, almeno, al 50% degli elettori del primo turno, come avviene in Francia per l’elezione dell’assemblea nazionale, dove in caso di mancato superamento di tale soglia il ballottaggio è allargato ai primi tre candidati.
Senza queste previsioni si rischia di dare la maggioranza assoluta dei seggi a una forza politica che ha conquistato solo il 20% dei voti al primo turno. Al contrario, l’auspicata semplificazione istituzionale che si avrebbe con il superamento del bicameralismo perfetto, richiede necessariamente un sistema elettorale in grado di garantire un forte mandato ai deputati, che renda l’aula di Montecitorio la sede della rappresentanza politica del paese in tutta la sua complessità, senza mortificare, in nome del principio di governabilità che deve essere comunque tutelato, il pluralismo politico.
I mutamenti dell’organizzazione democratica posti dalla modernità e i cambiamenti del sistema istituzionale proposti nei disegni di legge rimettono in discussione il rapporto che esiste tra governo, parlamento e cittadini. Si pone dunque l’esigenza di rivedere, in modo adeguato, gli strumenti di partecipazione attiva della popolazione. Su questo fronte pensiamo che con la riforma costituzionale si sia persa un’occasione: il governo ha apportato delle piccole e insufficienti modifiche al referendum abrogativo e alla proposta di legge di iniziativa popolare, e nel prevedere l’istituzione del referendum propositivo e di indirizzo lo ha rimandato ad una successiva legge costituzionale, senza fissarne criteri e parametri, rinviandone di fatto la reale introduzione.
Poiché siamo nell’epoca delle istituzioni sovranazionali e della velocità, c’è bisogno di riequilibrare il rapporto tra governo, parlamento e popolo attraverso un’idea della democrazia che preveda l’espressione del popolo nel merito delle grandi scelte. Questa, secondo noi, deve essere la nuova frontiera degli stati democratici moderni e deve diventare il principio di governo anche nei grandi stati, non solo nei piccoli, altrimenti si rischia una democrazia rovesciata in cui i governi decidono e i popoli si devono adeguare.
Il manifesto, 28 aprile 2015
Premier Italicum, lo ha nominato Ilvo Diamanti. Stiamo parlando di Matteo Renzi, naturalmente. Difficile trovare un epiteto più azzeccato per il Presidente del Consiglio se gli riuscirà il colpo grosso di portare a casa, tra voti di fiducia, ricatti politici e psicologici, minacce di fine anticipata e traumatica della legislatura, la legge elettorale cui ha legato, inusitatamente, le sorti del proprio governo. In effetti Rosi Bindi ha rilevato quanto sia improprio che un governo ritenga vitale per la propria sopravvivenza un progetto su una materia che dovrebbe essere di squisita pertinenza parlamentare, come la legge elettorale.
Ma non si tratta di una stravaganza o semplicemente di un atto estremo di arroganza. Il problema è che l’Italicum è molto di più e peggio di una legge elettorale, anche se in quanto tale già fa rimpiangere i bei tempi della legge truffa di Alcide De Gasperi, dove almeno il premio di maggioranza veniva dato a chi già ce la aveva per conferimento elettorale.
In realtà con l’Italicum si vuole cambiare nel profondo la natura dello Stato italiano, modificandone la struttura istituzionale, i rapporti tra i poteri, i ruoli dei medesimi senza passare attraverso un’esplicita modifica del dettato costituzionale.
E’ quanto emerge dalle parole dei suoi stessi inventori e sostenitori, cui conviene prestare la dovuta attenzione. Roberto D’Alimonte deve odiare a tal punto il principio di non contraddizione, da riuscire, nello stesso articolo, a contraddire palesemente sé stesso. Sul Sole 24 Ore di domenica prima afferma che si tratterebbe di pura sciocchezza considerare l’Italicum come il cavallo di Troia che introduce il presidenzialismo nel nostro ordinamento, dal momento che le norme costituzionali concernenti le figure del Presidente del Consiglio e del Capo dello Stato non vengono toccati. Tutti sanno però – e il suo ideatore, cioè lo stesso D’Alimonte, non lo nasconde – che ben difficilmente un partito o una lista possono raggiungere e superare al primo colpo la soglia del 40% che farebbe scattare il premio di maggioranza, in realtà, più correttamente, di minoranza. Il della nuova legge è provocare il ballottaggio fra due schieramenti in modo da fare scegliere ai cittadini “direttamente” chi li governerà. In realtà - sia detto qui per inciso- si tratta di una pura illusione o meglio menzogna, dal momento che le politiche dei governi nazionali sono sovra determinate dalle scelte della Ue, come si vede nel caso greco.
Il nostro politologo non si scompone e con nonchalance afferma che se nel ballottaggio “la scelta è tra due leader e due partiti, sarà il leader del partito vincente a diventare capo del governo”. E il Capo dello Stato che cosa ci sta a fare? Non preoccupatevi: la nomina del Presidente del Consiglio spetterebbe formalmente sempre a lui. Ma sarà una nomina “obbligata”, continua il nostro, che aggiunge: “Dunque è vero: il meccanismo previsto dall’Italicum introduce l’elezione diretta del capo del governo” e questo al di là della forma, perché ”in politica la sostanza conta quanto la forma. Se non di più” e quindi “un sistema elettorale potente come l’Italicum influirà … sul funzionamento concreto delle istituzioni della Repubblica, in particolare Parlamento e Presidenza.”
Difficile leggere un disprezzo maggiore per le norme costituzionali, le quali verrebbero aggirate e profondamente modificate da una legge elettorale che è pur sempre legge ordinaria. Il presidenzialismo verrebbe imposto per via di fatto, e la modifica formale della Costituzione rimandata a tempi ancora più favorevoli di quelli attuali per la maggioranza renziana. Ancora una volta la volontà dei cittadini è messa sotto i piedi. Non quella virtuale, ma quella democraticamente espressa nel referendum del 2006. Che raggiunse il quorum per quanto non necessario, tanto fu partecipato, e che bocciò la riforma costituzionale votata dalla maggioranza berlusconiana che prevedeva il premierato, cioè l’incremento dei poteri del presidente del Consiglio, fra cui lo scioglimento delle camere, e la conseguente diminuzione di quelli del Capo dello Stato, fra cui la prerogativa prevista dall’articolo 92 della Costituzione, di nominare il primo ministro.
Pesante è la responsabilità di chi voterà l’Italicum nei prossimi giorni, in aperto e plateale contrasto con la Costituzione e la volontà popolare.
La Repubblica, 27 aprile 2015
L'Italicum , però, delinea, al tempo stesso, una modifica della "forma di governo", perché conduce e induce all'elezione diretta del Presidente del Consiglio. E, insieme, al rafforzamento dei poteri dell'esecutivo a spese del legislativo. Di fatto, anche se non formalmente. Lo ha chiarito, in Commissione Affari costituzionali, alla Camera, Roberto D'Alimonte. Autore della versione originaria dell'Italicum. E l'ha ribadito ieri, sul Sole 24 ore: capo del governo e maggioranza parlamentare saranno decisi direttamente dai cittadini.
D'altronde, se, con le nuove regole, le elezioni garantiranno la maggioranza assoluta non a una coalizione ma a un partito, risulta evidente come il leader del partito vincitore diverrebbe automaticamente "premier". E disporrebbe di una maggioranza "fedele", visto che i capilista di circoscrizione, come prevede l'Italicum, sono pre-definiti. Bloccati. E, dunque, scelti dal "centro". Non si tratta, peraltro, di una novità, perché, da quasi 15 anni, i candidati premier vengono indicati nelle stesse schede elettorali. Insieme e accanto al nome del partito. O della lista. Giovanni Sartori, non per caso, ne ha sempre denunciato l'incostituzionalità. Perché si tratta di un metodo attraverso il quale si modifica la base "parlamentare" della nostra democrazia. Naturalmente, come hanno chiarito alcuni autorevoli giuristi (Barbera, Ceccanti, Clementi), l'Italicum non prevede cambiamenti sul piano "costituzionale". Ma ne produrrà, sicuramente, sul piano "istituzionale" e politico. Perché il potere legislativo, la fiducia al governo e al premier spetterebbero ancora al Parlamento. Tuttavia, a differenza del passato, anche recente, il leader del partito vincitore non solo diverrebbe, automatica- premier. Ma non dovrebbe più sottostare ai vincoli e ai condizionamenti di coalizioni instabili e frammentate. Di leader di piccoli partiti, ma con un grande potere di "ricatto". Si tratti di Mastella, Bertinotti. Di Rifondazione, dell'Udeur oppure della Lega.
È, dunque, lecito parlare di "premierizzazione". Una tendenza che, nel caso dell'Italia del nostro tempo, verrebbe accentuata dalla marcata personalizzazione dei partiti. Divenuti, ormai da tempo, "personali" (per citare la nota formula coniata da Mauro Calise). Tanto più nel caso del Partito democratico di Renzi, sempre più identificato e accentrato nella persona del Capo. Almeno quanto Forza Italia lo è nei confronti di Silvio Berlusconi. Con una differenza sostanziale, sul piano politico e parlamentare. Che, come si è detto, se il Pd vincesse le prossime elezioni, Renzi potrebbe governare senza il condizionamento degli alleati, con i quali, invece, Berlusconi ha sempre dovuto fare i conti.
Naturalmente, il Pd non è Forza Italia. Non è stato "creato" e modellato da "un" solo leader - da solo. Il Pd viene da lontano. Incrocio e confluenza dei partiti di massa che hanno segnato la storia e la politica della nostra Repubblica, per cinquant'anni e oltre. Tuttavia, il Pd, in questa fase, è cambiato profondamente, in tempi molto rapidi. E oggi coincide sempre più con la figura del leader. Dunque, del premier. È divenuto PdR (come ho scritto altre volte). Il Partito democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito di Renzi. In quanto il leader si sovrappone - in senso letterale: si "pone sopra" - al Pd. In modo aperto. In Parlamento e fuori. Come sottolinea la sostituzione, in Commissione Affari Costituzionali della Camera, di tutti gli esponenti della minoranza interna al Pd.
Se si guarda "oltre" l'Italicum, dunque, dentro alla riforma elettorale si scorge l'elezione diretta del premier. Il quale riassumerebbe e concentrerebbe ruolo e poteri del leader del partito. A conferma di una tendenza in atto da tempo, ma che ora verrebbe istituzionalizzata. Per Matteo Renzi si tratterebbe della conclusione - coerente e conseguente - del percorso condotto nell'ultimo anno e mezzo. Durante il quale ha governato in "solitudine". Il PdR e l'Italia. Renzi, dunque, si appresta a diventare il Premier Italicum.
La Repubblica online, blog "Articolo 9", 27 aprile 2015
Oggi Dario Franceschini ha rotto il silenzio politico che ha lodevolmente scelto da quando ha il peso del nostro patrimonio culturale. Lo ha fatto per giustificare la decisione di porre la fiducia sull'Italicum: invocare la libertà di coscienza (o di mandato: art. 67 della Costituzione) sarebbe «Assolutamente sbagliato. Ma come si fa a non vedere che la legge elettorale è il tema più politico del mondo? Non parliamo mica di problemi etici!».
Ora, appena ieri Eugenio Scalfari ha scritto che «Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto». Si potrà non esser d'accordo (io, invece, lo sono al cento per cento), ma come non vedere che se la posta in gioco è questa, il problema è radicalmente etico?
Ma la spia più interessante del discorso di Franceschini è l'opposizione aperta ed esplicita tra problemi 'politici' e problemi 'etici'. A me pare che una simile scissione – teorizzata e praticata – tra etica e politica rappresenti la vera antipolitica: ed è proprio a causa di questa deriva che in Italia vota ormai meno della metà dei cittadini.
Nelle scorse settimane questo violento divorzio si è celebrato pubblicamente nell'aula del Consiglio regionale toscano. Qui il Pd ha insultato l'assessore Anna Marson – una tecnica prestata al governo della regione –, rea di aver combattuto strenuamente per l'approvazione del Piano del Paesaggio, una conquista di civiltà per la quale i toscani del futuro le saranno grati.
E quanti parlamentari del Pd riconosceranno che, con buona pace di Dario Franceschini, la legge elettorale è proprio un grande tema etico, che riguarda la stessa sopravvivenza della democrazia in Italia?
La Repubblica, 27 aprile 2015
MA è chiaro che Rosy Bindi, per citare un nome, freme e si aspetta che il presidente della Repubblica dica una parola, o meglio agisca dietro le quinte per dissuadere il governo dal mettere in pratica quelle che sembrano ormai le sue intenzioni.
La Bindi è una rappresentante storica della sinistra cattolica e aveva le lacrime agli occhi per la gioia il giorno dell’elezione di Mattarella. Ma ovviamente è pericoloso credere o anche solo pensare che il presidente della Repubblica porti con sé al Quirinale, tale e quale, il proprio patrimonio di vita e di cultura e si disponga ad agire senza filtri e mediazioni. Il vertice delle istituzioni impone una cautela eccezionale, specie in una fase di passaggio come quella che il Paese sta vivendo. E rappresentare al meglio il ruolo di garanzia significa anche scontentare, in qualche caso, persone con cui un tempo si sono condivise certe battaglie politiche.
In altri termini, sembra poco plausibile che il capo dello Stato tolga le castagne dal fuoco alla minoranza del Pd o ai gruppi di opposizione a cui non piace la riforma elettorale. E quando si parla di opposizione ci si riferisce in particolare a Forza Italia, che ancora in gennaio al Senato votava con convinzione (salvo eccezioni) la stessa legge contro cui oggi si scaglia. Quanto alla minoranza del Pd, non riesce a dimostrarsi compatta se non quando protesta — con ragione — contro il ricorso al voto di fiducia. La forzatura renziana sottolineata da Bersani è reale, ma nel complesso la minoranza non è credibile come gruppo organizzato. E quando l’ex capogruppo Speranza denuncia «la violenza contro il Parlamento », è di certo consapevole che l’aula deserta dell’altro giorno, mentre Gentiloni riferiva sul povero Lo Porto, non rappresenta una violenza meno dolorosa o una mortificazione più blanda della funzione parlamentare. In altre parole, se la riforma di Renzi diminuisce lo spazio delle assemblee, essa non fa che fotografare — senza dubbio a vantaggio dell’esecutivo — una realtà pre-esistente.
Si capisce allora che sperare in un intervento salvifico del capo dello Stato sia un modo ambiguo di trarsi d’impaccio. A maggior ragione se la speranza nasconde una vaga sollecitazione. Su questo punto Mattarella non sembra incoraggiare i critici della legge. Infatti un conto è auspicare, come ha detto il 25 aprile, «le opportune convergenze» per superare i contrasti in vista del «bene comune ». Altro conto sarebbe dar mano a una fazione che sta perdendo la contesa e che può al massimo fare conto sull’ostruzionismo (destinato peraltro a essere disinnescato nei prossimi giorni) o sui franchi tiratori del voto segreto: visto che alla fine dovrà esserci per forza un voto coperto sul testo della riforma, quali che siano state le richieste di fiducia.
La verità è che la battaglia contro l’Italicum dovrebbe essere combattuta in Parlamento a viso aperto, senza scorciatoie istituzionali. Ma i guerrieri non sembrano troppo convinti. I numeri sono scarsi anche perché ci si è ridotti all’ultimo fra contraddizioni di ogni genere. È probabile che l’opportunità di modificare la riforma, o in alternativa di affossarla, si fosse presentata al Senato nella votazione che precedette di pochi giorni la seduta comune delle due Camere per eleggere il presidente della Repubblica. Quella fu l’occasione persa dalla minoranza del Pd. Ma esisteva ancora il patto del Nazareno che di lì a poco si sarebbe dissolto. E adesso alla Camera i numeri sono impietosi.
La Stampa, 26 aprile 2015
«Sono a conoscenza di queste notizie, ma tale dibattito sottolinea come il Mediterraneo stia diventando rapidamente una mare di miseria per migliaia di migranti, e l’urgenza di affrontare la loro situazione disperata. Il focus principale delle Nazioni Unite è la sicurezza e la protezione dei diritti umani dei migranti e di coloro che chiedono asilo. È cruciale che la concentrazione di tutti sia su salvare le vite, inclusa l’area libica delle operazioni di ricerca e soccorso, che è quella da cui vengono la maggioranza delle richieste di aiuto.
Lei ha detto al premier Renzi che il problema dei migranti è una responsabilità condivisa, ma alcuni Paesi europei resistono all’idea di ospitarli. Cosa possono fare l’Onu e i suoi Paesi membri per aiutare a trovare una soluzione nelle regioni più colpite, in termini di sicurezza, assistenza e sviluppo?
«Con oltre 1.700 morti e quasi 40.000 attraversamenti nel Mediterraneo, solo durante i primi quattro mesi del 2015, la dimensione di questa sfida richiede una risposta globale collettiva e onnicomprensiva. Io credo fortemente che la comunità internazionale abbia una responsabilità condivisa per assicurare la protezione dei migranti e dei rifugiati, che compiono un terribile viaggio attraverso il Mediterraneo. Le misure annunciate di recente in Lussemburgo e a Bruxelles sono un importante primo passo verso un’azione collettiva europea. Questo è l’unico approccio che può funzionare, per un problema di natura così ampia e transnazionale, e per prevenire che simili tragedie si ripetano nel futuro. Il prossimo passo sarà tradurre le misure in impegni concreti.
La stabilità in Libia sarebbe il primo passo per fermare insieme il traffico di esseri umani, e gruppi terroristici come l’Isis. La mediazione dell’inviato dell’Onu Bernardino Leon è ancora l’opzione migliore per centrare questo obiettivo? Come sta procedendo il negoziato e quando avremo qualche risultato?
«Sono molto preoccupato per l’instabilità in Libia. Anni dopo la rivoluzione, il processo di transizione resta ancora appeso, e i civili stanno subendo l’urto delle violenze. Io credo fortemente che non ci siano alternative al dialogo. Il mio Rappresentante speciale, Bernardino Leon, e la sua squadra continuano a lavorare in maniera instancabile con le parti libiche coinvolte, per aiutarle ad arrivare insieme ad uno spirito di compromesso. Gli atti di terrorismo e di estremismo sono un duro richiamo al fatto che una soluzione politica all’attuale crisi va trovata rapidamente, per ripristinare pace e stabilità. Le istituzioni statali devono essere rafforzate per fermare questi atti di violenza e risparmiare al popolo libico altri spargimenti di sangue e conflitti».
A Roma incontrerà papa Francesco, con cui discuterà anche di ambiente, che ha un impatto su sviluppo, sicurezza alimentare e stabilità. Quali sono le possibilità che si arrivi ad un accordo in dicembre alla Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, e quale appello vuole lanciare ai paesi che ancora frenano?
«Sono ottimista che i governi raggiungano un accordo. Però ci sono ancora alcuni ostacoli significativi da superare, e quindi ogni Paese deve fare la sua parte per trovare una soluzione accettabile per tutti. I leader tuttavia ora capiscono quanto sia in gioco, e quanto le loro economie potrebbero trarre beneficio da un’intesa globale, che mandi il giusto segnale per una forte crescita e prosperità con basse emissioni di carbonio. Sono sempre più gli amministratori di aziende, le città e i cittadini in tutto il mondo che stanno agendo. Ha senso economico. E da una prospettiva morale e religiosa. La cosa giusta da fare, per proteggere la gente e il nostro pianeta.
Il manifesto, 26 aprile 2015
E così il problema sarebbe Yanis Varoufakis. Il quale si sarebbe dimostrato nell’eurogruppo di Riga un «incompetente», un «dilettante», un «giocatore d’azzardo». Strano però per un professore di economia tra i più brillanti attualmente a livello internazionale, che ha insegnato nelle migliori università anglosassoni, compresa Cambridge, stimato e sostenuto dal nobel Joseph Stiglitz e da James Galbraith.
Certo, se le critiche provengono dall’agronomo (dal curriculum falsificato) Jeroen Dijsselbloem e dal laureato in legge Wolfgang Schäuble, qualcosa di vero ci deve essere.
Convince in particolare l’accusa di «dogmatismo» lanciata contro il greco dall’accomodante ministro delle Finanze tedesco, lo stesso che da cinque anni ha imposto con pugno di ferro all’eurozona una brillante politica economica, che assicura alti tassi di crescita economica e – soprattutto – sociale. Lo sanno tutti, gli spagnoli, i portoghesi, i greci e anche gli italiani, che nuotano nell’abbondanza.
No, non è Schäuble il dogmatico del neoliberismo. E’ Varoufakis quello inflessibile, poiché si rifiuta ostinatamente di regalare alle banche le prime case, di abbassare le pensioni ai 350 euro, di licenziare migliaia di statali e di svendere proprietà pubbliche.
Una fermezza che assicura al suo governo altissimi tassi di consenso tra la popolazione greca, come dimostra l’ultimo sondaggio reso pubblico appena ieri. Nello stesso tempo però in cui plaude alla fermezza contro l’austerità, la stragrande maggioranza degli intervistati chiede a Varoufakis e a Tsipras di non rompere con l’eurozona. Una posizione saggia, pienamente in linea con il programma di Syriza. Un compromesso onorevole, ma per ottenerlo bisogna essere in due.
Ora però le cose si complicano. Il giorno prima dell’eurogruppo che ha tentato di linciare Varoufakis, Tsipras si era incontrato con la Merkel in tutt’altro clima. La cancelliera aveva anche assicurato che la Grecia non avrebbe dovuto rimanere senza liquidità.
Cosa è successo? E’ noto che l’eurogruppo è il regno di Schäuble mentre la Merkel gioca su uno scacchiere più grande.
C’è un gioco delle parti, del tipo poliziotto buono e poliziotto cattivo? Oppure anche a Berlino ci sono falchi e colombe? I primi continuerebbero a giocare la carta della destabilizzazione del governo Tsipras, assumendo anche il rischio di un incidente, sempre più probabile man mano che passano le settimane e i mesi. I secondi starebbero cercando di trovare una quadratura del cerchio – tutta politica – per uscire dall’impasse.
Comunque sia, non è certo colpa di Varoufakis. Il ministro delle Finanze greco lavora all’interno di un gruppo operativo specificamente dedicato ai problemi con i creditori, a capo del quale c’è il vice presidente del Consiglio Yannis Dragasakis, esponente tra i più moderati e più esperti di Syriza. Quindi ogni virgola dell’azione politica del ministro delle Finanze riflette esattamente gli orientamenti del governo greco. Una sua sostituzione è fuori discussione.
Anche se Schäuble (l’ha pure ammesso) si trovava molto più a suo agio con i suoi predecessori: Giorgos Papakonstantinou, condannato per falso, Yannis Stournaras, l’architetto dei conti truccati per entrare nell’euro, Ghikas Hardouvelis, il banchiere che portava i soldi in Svizzera.
Come andrà a finire? Non sono nella testa di Schäuble. Ma ho cercato lumi sul Corriere della Sera di ieri e ho fatto una grande scoperta. In un’intera pagina fonti (anonime) dei creditori accusano Tsipras di essere «falsamente di sinistra» e «al servizio degli oligarchi». L’ho raccontato anche in Grecia e ci siamo divertiti molto. Finché le polemiche contro di lui saranno di questo tenore potrà stare tranquillo: sarà al governo per un decennio e oltre.
Corriere della sera, 26 aprile 2015
Si può immaginare una prova di egoismo e di miope inettitudine più clamorosa di quella mostrata dall’Unione europea riunita giovedì a Bruxelles per discutere il da farsi rispetto all’ondata migratoria che sta rovesciandosi sulle coste meridionali del nostro continente? Posta davanti a una sfida geopolitica di carattere epocale, davanti alle sciagure e ai problemi di ogni tipo che questa produce, la sola cosa, infatti, che l’Unione si è saputa inventare è stata quella di mandare qualche altra nave nel Mediterraneo e di destinare una manciata in più di quattrini all’operazione Triton. Cioè di far finta di fare qualcosa allo scopo di non fare nulla.
Nel suo balbettio e nel suo riuscire a mancare regolarmente tutti gli appuntamenti decisivi che potrebbero farle fare un salto di qualità verso un’esistenza di soggetto politico, l’Europa è ormai diventata qualcosa d’imbarazzante. La mancanza di leadership e di visione minaccia di renderla un organismo sempre più ingombrante per le cose facili e sempre più inutile per quelle difficili. Un vuoto ammasso di egoismi nazionali che dura finché questi non vengono disturbati.
Del resto è apparso non meno insufficiente nei giorni scorsi anche il comportamento del governo italiano. Il presidente Renzi, recatosi a Bruxelles sperando verosimilmente grandi cose (anche se non si sa di preciso che cosa), ha dovuto accontentarsi di quasi nulla. Il fatto è che per ottenere seppure in parte da un sinedrio come quello di Bruxelles ciò che si desiderava, bisognava battere i pugni sul tavolo. Tutto il Paese avrebbe seguito un presidente del Consiglio che avesse tenuto un discorso del tipo: «Cari signori, l’Italia non intende vedere annegare centinaia di persone in mare senza muovere un dito. Noi quindi faremo di tutto per cercare di salvare il maggior numero possibile di migranti. Ma tutto questo costa, costa molto. Siccome però non siamo il Paese di Bengodi, e le nostre risorse sono limitate, sappiate che se voi non fate nulla di più del quasi niente che vi proponete di fare, allora alle prossime scadenze l’Italia si vedrà costretta con molto rammarico a sospendere qualsiasi tipo di finanziamento, anche quello ordinario, all’Unione e alle sue attività». E invece, ahimè, nulla di simile si è sentito. Evidentemente un conto è bacchettare Civati o tirare le orecchie alla Camusso, un altro affrontare a brutto muso Cameron o la Merkel (oltre, immagino, il mugugno sussiegoso della Farnesina). E così abbiamo dovuto accontentarci di una mancia accompagnata da un’amichevole pacca sulla spalla.
Giorni molto difficili si annunciano dunque nell’immediato per l’Italia. Ma per l’intera Europa si avvicina a più o meno lunga scadenza l’appuntamento con una catastrofe annunciata, quella di un’insostenibile pressione demografica del Sud del mondo la quale, proprio in quanto continua ad essere pervicacemente rimossa, tanto più minaccia inevitabilmente di assumere i tratti di un vero e proprio collasso geopolitico.
Non è vero che non ci sia nulla da fare. Se l’Europa esistesse, se avesse una vera guida politica dotata di autorità e di visione, potrebbe fare molto, specie per le migrazioni mosse da ragioni economiche. Previo un accordo quadro con l’Organizzazione dell’Unione africana, ogni Paese europeo (da solo o insieme a un altro) potrebbe ad esempio stabilire con uno Stato di quel continente una sorta di vero e proprio gemellaggio: rapporti speciali di aiuto e cooperazione per favorirne lo sviluppo; essere autorizzato a destinarvi investimenti privilegiati in campo economico e turistico; stabilire con esso accordi doganali speciali per favorirne le produzioni e le esportazioni; aprirvi centri culturali, inviarvi «missioni» di ogni tipo specie per migliorarne gli apparati scolastici, sanitari, giudiziari e di polizia; accoglierne gli studenti migliori con borse di studio; e anche, magari, aprirvi dei «campi di addestramento» lavorativo, linguistico e «antropologico-culturale», destinati a coloro che comunque intendessero abbandonare il loro Paese.
Costerebbe e non sarebbe facile, certo. Avrebbe anche dei rischi, forse. Ma sono per l’appunto queste le cose che fa la politica, che solo la politica sa fare. Perlomeno la politica che non gioca a scaricabarile, ma quella che immagina, che osa, che agisce.
Deluso dal consiglio europeo? «Veramente non mi aspettavo niente di più di quel poco che è stato deciso». Affondare i barconi degli scafisti? «Dovrebbero spiegarmi come farlo senza provocare una strage». Aprire campi profughi in Africa? «E perché non al Polo Nord? Farebbero di tutto pur di tenere i migranti lontani dall’Europa».
Non si sottrae a nessuna domanda Romano Prodi. L’ex presidente del consiglio ed ex presidente della commissione europea mantiene sempre uno sguardo molto attento a quanto succede in Europa, e in particolare ai drammi dell’immigrazione. Cosa che non gli impedisce di replicare al presidente del consiglio che ha derubricato a pubblicità editoriale (è in edicola «Missione incompiuta», il libro scritto con Marco Damilano) le opinioni politiche del leader dell’Ulivo. «Veramente la migliore pubblicità me l’ha fatta lui. I librai si sono affrettati a ordinare altre copie del libro», scherza.
Presidente come giudica le conclusioni raggiunte sull’immigrazione dal consiglio europeo?
Il giudizio è misto, nel senso che c’è una parte di raccolto positivo, che è l’aumento della dotazione europea e poi ci fermiamo lì. E’ un giudizio di soddisfazione nel senso che il dialogo va avanti, ma anche di delusione per il fatto che sui punti cardine, cioè sulla politica dell’immigrazione e sulla strategia di accoglimento non c’è proprio niente. Resta simbolica la frase di Cameron: «Prendiamo profughi e li portiamo in Italia».
Si aspettava o sperava qualcosa di più?
Speravo sì, aspettavo no. Purtroppo sono abituato alle delusioni. Era quello che nell’attuale situazione europea si può pensare sarebbe arrivato.
Lei in passato ha parlato spesso di un’Europa «assente» di fronte alle grandi crisi e i risultati del vertice sembrano confermare questo giudizio. Quali sono le ragioni di questa assenza?
Il progressivo prevalere degli interessi nazionali sugli interessi collettivi, un’involuzione totale che si esprime anche nei capitoli dell’economia. Figuriamoci quindi in politica estera e immigrazione che sono il capitolo più delicato. Ho sempre pensato che politica estera e difesa sarebbero state le ultime a essere messe integralmente nell’agenda europea. L’integrazione europea indubbiamente è entrata in un lungo periodo di crisi e settori come esteri, difesa e immigrazione sono i capitoli difficilissimi. Quindi non ritenevo che il vertice avrebbe potuto far compiere dei passi in avanti. Il mio è un sentimento di delusione ma atteso. Purtroppo è la normalità dell’attuale situazione europea.
Sembra quasi voler sancire il fallimento del progetto europeo.
Il fallimento no, una lunga sosta sì. Il progetto europeo non può fallire. Dalla bocciatura della Costituzione in poi i leader europei hanno ascoltato i loro populismi e seguito la loro politica di breve periodo. Così non si farà mai l’Europa.
Verrà però il momento in cui questo metterà a rischio la stessa politica interna dei diversi Paesi, allora si ricorrerà di nuovo all’Europa, costretti da un’emergenza. Ma in questo momento non vedo la spinta.
Che pensa della possibilità di affondare i barconi degli scafisti?
Non c’è nessuno che mi dica come si fa. Con questo sistema si rischia la strage di uomini, ma non mi sembra una soluzione. E infatti la nota vaticana che ho visto in materia lo mette bene in rilievo. Che facciamo, bombardiamo i migranti? I paragoni che vengono fatti con l’Albania o la Somalia sono del tutto fuori luogo perché lì c’era un governo con cui si poteva interagire.
Intendiamoci: se uno potesse distruggere tutti i barconi vuoti messi uno in fila all’altro, io sarei il primo a dire di sì. Ma questa di bombardarli è un’ipotesi che fa tanto piacere alla demagogia e al sentimento popolare prevalente. Perché attenzione: quando io mi giro intorno e parlo vedo che il sentimento populistico è arrivato alle radici del popolo italiano. Se votassimo a maggioranza forse vorrebbero bombardare i barconi, ma ritengo la cosa del tutto irragionevole.
Teme un nuovo intervento in Libia?
Ritengo talmente sciagurata la prima azione in Libia che l’idea di farne una seconda è impensabile.
Crede comunque che si stia andando in quella direzione?
Vediamo prima di tutto cosa significherebbe un intervento in Libia. Prima ipotesi: droni e aeroplani. Si fanno un sacco i morti e non decide niente. Seconda ipotesi: truppe. Significa mobilitare decine di migliaia di uomini o forse centinaia di migliaia di uomini, non mille o duemila. Non è nemmeno pensabile. Poi c’è un altro problema molto serio. L’obiettivo che si vuole colpire in Libia è il terrorismo. Ma il terrorismo non è libico, è ubiquo. Si fa la guerra in Libia e questi si spostano nel Sahel o negli altri punti già maturi per accoglierli, come Siria, Iraq, Mali. Questo è l’unico effetto che si otterrebbe.
Nel libro che ha scritto insieme a Marco Damilano lei dice che l’intervento in Libia nel 2011 fu un errore. Le chiedo: dobbiamo a quell’errore anche l’emergenza immigrazione di questi giorni?
Il fatto che sia incontrollabile sì, il fatto che ci sia no. Quando ero nel Subsahara me lo dicevano tutti: guardate che qui c’è una bomba demografica, dove va la gente, dove scappa? Mi guardavano puntando il dito e mi dicevano: da voi. C’era anche prima l’emergenza, tuttavia alla fine potevamo trattare con la Libia di Gheddafi che minacciava sì di riempire dei barconi e di mandarceli, ma avevamo un interlocutore e alla fine si trovava il modo per farlo smettere. Oggi non c’è più un interlocutore, anzi è acclarato che lo stesso terrorismo internazionale faccia buoni affari con i migranti.
A proposito, il premier Matteo Renzi le rinfaccia i suoi rapporti con Gheddafi.
Guardi, nel libro spiego tutta la storia chiaramente citando i documenti, compresa la lettera di Ban Ki-moon. Il libro non l’ho scritto per polemica ma per ricordare i vent’anni dell’Ulivo. E mi propongo di scriverne un altro tra vent’anni così potrò dare un giudizio anche su questo periodo storico, pensi come sarà bello. Ma veniamo a Gheddafi. Certo, gli interessi italiani erano evidenti. Con lui la linea è sempre stata ferma. Ci sono però due Gheddafi nella storia. Il primo è un feroce dittatore all’interno del Paese. Rimasto tale dall’inizio alla fine.
Poi c’è un secondo Gheddafi, quello della politica estera. In una prima fase un Gheddafi trouble maker, un creatore di disordini. Ha provocato guerre dappertutto, voleva essere potenza militare regionale e ha alimentato il terrorismo: Lockerbie, la discoteca La Belle, tutte questi atti delinquenziali. In una seconda fase ha capito che questo non gli dava frutto. Dopo alcuni anni che lo avevo capito, mi sono preso la responsabilità di invitarlo a Bruxelles sapendo di dare un contributo positivo alla pace. Fu la sua prima visita ufficiale in Europa. Avevo capito che avremmo chiuso un problema per la comunità internazionale. Ho avuto reazioni negative dagli Stati uniti e da Gran Bretagna. Dopo due mesi però erano tutti contenti e per incontrare Gheddafi bisognava fare la coda.
Si era chiuso un problema. Da presidente della commissione divenni poi presidente del consiglio e iniziammo una lunga negoziazione sul Trattato di amicizia che io non volli firmare. Non per tensioni personali o perché avevo cambiato parere, semplicemente perché difendevo gli interessi del mio Paese e non mi era chiaro quello che sarebbe stato il costo da parte italiana. Poi altri hanno firmato. Quindi i miei rapporti con Gheddafi sono stati fermi.
Le spiego un’altra cosa: io ho sempre avuto contatti anche con le tribù, i cui rappresentanti sono venuti in visita ufficiale a Bologna. Proprio perché ho sempre coltivato quel minimo di possibile dialogo con la società civile. E questo mi ha reso una posizione abbastanza aperta nei confronti sia di Gheddafi che delle altre realtà. Tant’è vero che l’anno scorso autorevoli interlocutori libici hanno chiesto, in modo ufficiale al presidente del consiglio italiano, che io diventassi il mediatore in Libia. Non avendo avuto nessuna risposta né loro né io, non so cosa è successo.
Torniamo all’immigrazione, resta il nodo di una più equa distribuzione dei richiedenti asilo, che l’Europa non sembra proprio voler sciogliere.
Questo è un punto che oggi non si riesce neanche a discutere.
La cancelliera Merkel però ha detto che il regolamento di Dublino non funziona più. Si riuscirà a modificarlo?
Mi auguro di sì, la speranza c’è. Se però ragiono in modo razionale quando sento la reazione di Cameron la leggo come la chiusura della porta perfino alla discussione del problema, perché di fronte ai suoi elettori lui dice no alla possibilità di accogliere profughi. Ma si rende conto di cosa ha detto? «Io li porto in Italia», c’è pure lo sfottò. Poi, se la cancelliera Merkel si impunta, col tempo si può anche arrivare a porlo all’ordine del giorno.
Ma perché non si aprono corridoi umanitari?
Perché dall’opinione pubblica vengono ritenuti dei taxi. Ritorniamo sempre al problema dell’elettorato. La questione è enorme e non si risolve senza una massiccia dose di aiuti a un’Africa che si sta svegliando. Questo è l’elemento di speranza, ci vorranno trent’anni, ma l’Africa non è più un corpo immobile come era sei, sette anni fa. Pensi che il flusso delle rimesse degli immigrati in Africa da un anno e mezzo ha superato il flusso degli aiuti dall’esterno. Vuol dire che ci sono risorse autonome, alternative, poi ci sono investimenti stranieri che stanno crescendo.
Insomma il continente comincia a muoversi, se solo noi gli dessimo una spintina… C’è un fatto che la gente non capisce: che l’immigrazione cala non quando un Paese diventa ricco, ma quando nasce la speranza. Cominciamo a innescare questa speranza e il flusso dell’immigrazione calerà da solo, perché si emigra per disperazione.
Cosa pensa del processo di Khartoum e della possibilità di aprire in Africa campi dove accogliere i profughi esaminando lì le richieste di asilo?
Purché i migranti stiano lontani dall’Europa le pensano tutte. Perché allora i campi non li facciamo al Polo Nord? (ride). Ma si rende conto? Da un lato c’è il Sudan, un Paese che tutti definiscono dittatoriale, e ci mettiamo i campi profughi? Basta il buon senso per capire che non va bene.
Per finire parliamo di politica. La nuova legge elettorale mette fine all’idea di centrosinistra?
Posso ripeterle che l’Ulivo è nato per il bipolarismo. Ho sempre sostenuto all’inizio un sistema elettorale di tipo inglese. Data la frammentazione politica italiana e che vi sarebbero stati parlamentari eletti con il 20% dei voti, sono passato al sistema francese a due turni. In ogni caso ci devono essere più partiti, o più coalizioni che si contendono il governo del Paese.
E’ vero, come l’accusa qualcuno, che sta preparando insieme a Enrico Letta un piano per subentrare a Renzi in caso di crisi?
Dovrei risponderle con una risata e invece le rispondo semplicemente no. Tra l’altro in un Paese in cui nessuno legge è bello pensare che si possa attentare al governo scrivendo dei libri.
Renzi infatti ha detto che dovete promuovere i vostri libri.
Onestamente l’unica grande promozione del libro l’ha fatta lui dicendo questa frase (ride). Nel mio caso almeno i librai si sono affrettati a riordinarlo.
Ma esiste o no questo piano tra lei e Letta?
No, non abbiamo nessun piano. Non so se Letta ha voglia di rientrare in politica, ma io con l’età che ho se avessi voluto fare qualche piano l’avrei fatto un po’ prima. Sono sette anni che sono fuori, che giro il mondo, faccio cose interessanti e non ho nessuna intenzione di dare noia a nessuno né di sostenere nessuno. Però ho il diritto di ricordare ed è per questo che ho scritto il libro. E ripeto, tra vent’anni ne scriverò un altro
«Al di là dei rituali celebrativi, se oggi torniamo a riflettere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la soddisfazione di ciò che abbiamo conseguito ma soprattutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato realizzato».
Il manifesto, 26 aprile 2015
In questo processo c’è qualcosa che va al di là dell’esito naturale del trascorrere del tempo. Che ogni generazione e al limite ogni individuo interpretino il 25 aprile a modo loro, muovendo dall’unico dato certo comune della conclusione della lotta di liberazione dal nazifascismo, è un fatto ovvio e difficilmente contestabile. Ciò che non era prevedibile e che rappresenta il fatto nuovo con il quale ci troviamo a fare i conti è la presenza in questo settantesimo anniversario di quelli che siamo tentati di chiamare strappi della storia. Chi ha vissuto questi settant’anni non può certo avere interiorizzato una visione idilliaca ma quanto meno lineare del percorso di questi decenni.
Al di là dei rituali celebrativi, se oggi torniamo a riflettere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la soddisfazione di ciò che abbiamo conseguito ma soprattutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato realizzato. Il 25 aprile del 1945 la riconquista della libertà sottolineando lo scampato pericolo dal rischio che l’umanità aveva corso di soccombere alla barbarie del nazifascismo, sembrò aprire la prospettiva di una uscita dalla crisi relativamente indolore. La capacità della ricostruzione in Italia fu un esempio di quanto una popolazione aperta alla speranza è in grado di realizzare. Riprendersi la vita dopo le sofferenze e le umiliazioni della dittatura e della guerra era una parola d’ordine e una ragione sufficiente per rialzare la schiena e segnalare la volontà di tornare a contare.
Allora, settant’anni fa la quiete dopo la tempesta alimentò l’impressione che le grandi cesure dei decenni precedenti si stessero chiudendo. Un diffuso ma generico europeismo sembrò annunciare la pacificazione e rimarginare le ferite di un continente che era stato dilaniato da una lunga guerra che aveva dato sfogo a lotte intestine di nazionalismi contrapposti e di sistemi politici incompatibili.
Ma il mondo non poteva tornare ad essere quello di prima del 1939. Troppi equilibri erano saltati e la ricerca di nuovi punti di riferimento dentro e fuori dell’Europa mise in evidenza il ridimensionamento della vecchia Europa, incominciato già con la prima guerra mondiale, l’ascesa degli Stati uniti d’America, il nuovo ruolo nella stessa Europa e a livello mondiale dell’Unione Sovietica, l’accelerazione della decolonizzazione destinata a dare il colpo di grazia al primato mondiale dell’Europa. Non era soltanto un equilibrio geopolitico, ma gli stessi popoli liberati dal nazifascismo si trovavano a dovere ricostruire le basi della convivenza civile.
Pochi tra i paesi liberati poterono ripristinare le istituzioni e lo statuto politico sospesi dall’occupazione delle potenze dell’Asse. La maggior parte dei paesi liberati si trovò ad elaborare nuovi statuti politici; la crisi dell’Europa sfociata nella guerra non era stata soltanto crisi di egemonia e delle relazioni fra i popoli, era stata anche crisi di un modello politico, tra i guasti di una democrazia in disfacimento e le tentazioni autoritarie e corporative di compagini statuali più o meno improvvisate che cercavano di supplire al deficit di tradizioni democratiche con la scorciatoia della demagogia corporativa.
La guerra seppellì sotto le sue macerie questa Europa invertebrata (rammentata, piena di contraddizioni e priva di fiducia in se stessa). Nelle diverse parti dell’Europa i movimenti di Resistenza rappresentarono la protesta e la risposta ai dilemmi in cui la guerra e le occupazioni precipitarono i rispettivi paesi.
I settant’anni trascorsi ci hanno insegnato che gli elementi di pacificazione intravisti, o forse solo auspicati, nel 1945 erano più instabili e più provvisori di quanto si sarebbe potuto sperare. Breve è stata la memoria degli individui per realizzare i benefici e le potenzialità nella tregua dei conflitti. Lo scenario che oggi si presenta in Europa e nel mondo ci induce a pensare che il ricordo del 25 aprile non si può esaurire in un richiamo celebrativo o tanto meno nostalgico; esso è piuttosto un permanente campanello d’allarme, un appello a stare all’erta perché le insidie contro la pace e contro i valori per i quali si è combattuto nella Resistenza tornano a frapporsi sul cammino dell’umanità.
Se ci eravamo illusi che il fascismo fosse stato debellato per sempre, il riaffiorare a più livelli e in diverse parti d’Europa di movimenti di estrema destra sollecita una nuova “chiamata alle armi”; il fatto che esso si presenti in forme diverse dal fascismo storico non esime dal riconoscerne le ascendenze e la pericolosità, anche se non ha alle spalle il riferimento di una istituzione statuale perché la sua pericolosità risiede proprio nella sua diffusione come fascismo quotidiano.
Si è affievolita la sensibilità al razzismo che la crisi economico-sociale ha rivitalizzato spesso mascherando latenti conflitti di classe con fattori più facilmente percepibili anche ad una sensibilità popolare. Negli scontri tra popoli le rivendicazioni identitarie hanno riesumato forme di intolleranza religiosa al limite di un nuovo assolutismo. Nuovi conflitti di egemonie che spesso ricalcano le orme di una vecchia geopolitica tendono a riprodurre tra gli stati gerarchie che sembrano superate: alcuni stati tornano ad essere più sovrani di altri.
In questo contesto il 25 aprile non può essere solo la festa della liberazione. Deve essere l’occasione di una vigile riflessione sul suo significato storico di tappa di un cammino che non è terminato ma che dal giorno della liberazione trae la spinta per affrontare gli ostacoli che ancora si frappongono al consolidamento di una società democratica sempre più compiuta.
La voce limpida di un economista che non ha smesso di pensare alle persone, e ai fini umani dell'economia. «Il neoliberismo ha reso la scienza economica qualcosa di enormemente pericoloso: un virus invisibile che può fare, anzi ha fatto, danni enormi al nostro organismo».
La Repubblica, 26 aprile 2015
Di Ruffolo ricordo le apparizioni pubbliche. Rare e forbite. I suoi interventi dotti da keynesiano convinto. Ora è un’altra persona. «Il neoliberismo ha reso la scienza economica qualcosa di enormemente pericoloso: un virus invisibile che può fare, anzi ha fatto, danni enormi al nostro organismo». Il volto che mi guarda e mi parla, in un pomeriggio di sabato, dentro una Roma pressoché deserta, mostra un’ansia particolare. Ruffolo vive in una grande casa. Molto borghese. A ridosso di via Veneto. Ma tutto lo spazio ornato di quadri, di libri, di oggetti è come se non lo interessasse. Le tende semichiuse lasciano filtrare una luce fioca. Un uomo in penombra mi è di fronte: «Ora che la parte biologica sta prendendo il sopravvento su quella sociale mi pare di essermi incamminato su un’altra strada, meno certa, meno luminosa, dove tutto ciò che si è amato e sognato resta prigioniero nella mente, non è più condivisibile con gli altri».
Perché non dovrebbe continuare a esserlo?
«Non c’è una ragione precisa. Si entra, dopo una certa età, in una zona in cui il disinteresse assume una sua purezza infantile. E lì accade che i vecchi amano e sognano molto meno. Quei pochi sogni che faccio mi sembrano cani da guardia. Abbaiano, ringhiano, mi lasciano solo. Con i miei dubbi e le mie assenze».
Quanto l’aiuta pensare di essere stato un economista, uno studioso riconosciuto e apprezzato?
«Conta poco o niente. Oddio, se hai fatto poche corbellerie magari ti verrà riconosciuto da qualcuno che ti dirà anche bravo. Ma se getto lo sguardo a cosa è diventata l’economia, la strada che ha intrapreso negli ultimi decenni, non posso non pensare che le nostre voci inascoltate hanno fallito. O meglio sono risultate troppo deboli di fronte all’avanzata impetuosa del capitalismo».
È la parola “capitalismo” che sembra svuotata di senso.
«Forse. Quando mi occupavo di economia la prima cosa che pensavo era: come riusciremo a far star meglio le persone? L’economia che ci ha travolto non ha dato risposte. Come si può pensare che sia equo un sistema in cui per uno che sta bene dieci o cento soffrono?».
C’entra qualcosa questo discorso con la felicità e l’infelicità?
«No, non lo penso. È stato detto che l’economia è una scienza triste. Ma è una tristezza che non c’entra nulla con l’infelicità. Mio padre diceva spesso: se discuti di economia non dimenticare il problema della fame. L’economia non parla di individui, di storie private. Si aggrappa alle statistiche, al calcolo, alla razionalità. La tristezza è nel cercare a tutti i costi di ridurre l’uomo a un numero. Ma la fame, in qualunque forma si presenti, è di nuovo qui, tra noi. I bisogni primari tornano a essere minacciati».
Cosa faceva suo padre?
«Era capo di gabinetto dell’Istituto Internazionale dell’Agricoltura. Questo prima che arrivasse la Fao. Si occupava, insomma, dei problemi legati allo sviluppo e alla fame. Anch’io volevo fare l’economista. Seguire le orme paterne. Mi laureai in Giurisprudenza nel 1947. Ricordo Roma liberata. Sulle facce delle persone c’erano ancora i segni della guerra ».
Come furono per lei quegli anni?
«Avevo 13 anni quando scoppiò la guerra. Due fra- telli più grandi che combatterono. La mamma piena di apprensioni. Ma non ci fu mai pericolo per me. Vivevamo nel quartiere di San Giovanni. Ho un ricordo del bombardamento di San Lorenzo. I morti allineati per strada. La paura che potesse toccare a qualche caro. La ferocia dei tedeschi e dei fascisti dopo il 1943. I miei fratelli Nicola e Sergio, diventati partigiani, furono arrestati. Entrambi furono presi la notte dell’8 maggio dal famigerato Giuseppe Bernasconi ».
Chi era?
«Uno dei capi della Banda Koch. Li bendarono, li fecero salire su una macchina e li portarono alla pensione Jaccarino. Un luogo ribattezzato il “buco” dove si usciva solo per essere fucilati o torturati in via Tasso. Prendevano chiunque fosse sospettato di attività antifascista. Nell’aprile del 1944 la Banda Koch aveva arrestato Luchino Visconti. Riuscì a salvarsi, nonostante fosse stata emanata sentenza di morte nei suoi riguardi, grazie all’intervento di Maria Denis, un’attrice dei telefoni bianchi che si diceva fosse l’amante di Pietro Koch».
Come si salvarono i suoi fratelli?
«Nicola riuscì a fuggire da un camion, che lo trasportava in una località a Nord di Roma, insieme ad altri condannati, per essere fucilato. Rocambolescamente fece perdere le sue tracce nella campagna romana. Sergio sarebbe stato liberato solo con la liberazione. Ricordo i bombardamenti di San Lorenzo, i morti, la paura che potesse toccare ai miei fratelli partigiani. Quando tutto rinacque la città sembrò piena di speranza
La Repubblica, 26 aprile 2015
James Galbraith, economista della Texas University di Austin, proprio non ci sta a vedere vilipeso e offeso di fronte a tutta Europa il suo compagno di istituto e grande amico Yanis Varoufakis.
«Ma lo sanno che è uno dei migliori economisti del nostro tempo, loro che preparazione economica ne hanno zero? E che ha il solo torto, lui che era bandito dai talk-show politici in patria fino a poco tempo fa per ragioni politiche, di essersi messo al servizio del suo Paese per cercare di salvarlo dal naufragio dopo decenni di gestione, quella sì, incompetente e corrotta?»
Però anche il ministro italiano Padoan, che non può essere certo accusato di essere un politico attaccato alla poltrona, ha accusato il governo di greco di tattiche dilatorie…
Proprio qui sta il punto. I soldi, ci piaccia o no, sono un problema. Non pensa che i creditori comincino ad essere preoccupati di non rivedere il loro denaro?
«Se fanno così, non lo rivedranno davvero mai. Se invece permetteranno ad Atene di riprendere con le sue forze un cammino di crescita sicuramente sì, anche se in un futuro forse un po’ più lontano del previsto. Senza pretendere, per esempio, che il surplus di bilancio sia accantonato invece che essere investito. Guardi, in gioco qui c’è non solo il futuro della Grecia, ma anche dell’Europa e della democrazia. Ad un nuovo governo deve essere dato il tempo di attuare il proprio piano economico. Guardi, di tutto questo il più convinto oggi è il governo tedesco e direi personalmente la cancelliera Merkel».
Proprio lei?
«La signora Merkel si sta dimostrando una vera statista. E da questa sua nuova apertura beneficeranno anche tutti gli altri Paesi che sono stati distrutti dalla follia dell’austerity che ha aggravato oltre ogni misura una crisi che poteva essere risolta con rapidità. Ma questa è acqua passata. Il futuro sarà ben diverso, grazie alla conseguita consapevolezza tedesca. E di questo dovete tutti ringraziare Varoufakis».
La Repubblica, 26 aprile 2015
L’articolo che ora comincerete a leggere l’ho scritto ovviamente ieri, sabato 25 aprile. L’anniversario ricorda ciò che avvenne settant’anni fa: la liberazione dell’Italia dal giogo nazista ad opera delle armate angloamericane ma con il contributo importante della resistenza partigiana ed anche dei reparti dell’esercito regolare italiano inquadrati nell’VIII Armata a comando inglese.
Le brigate partigiane entrarono per prime a Milano, Torino, Genova dopo 18 mesi di resistenza sulle montagne alpine, prealpine e appenniniche e lo spirito che le unificò fu l’antifascismo. Nelle varie brigate c’era quello spirito comune a tutti e molto variamente rappresentato: le brigate Garibaldi erano comuniste ed erano le più numerose, ma c’erano anche quelle di Giustizia e Libertà del Partito d’Azione, quelle Matteotti socialiste, quelle cattoliche, quelle monarchiche ed anche repubblicane e liberali.Complessivamente erano alcune migliaia di giovani e c’erano anche donne con loro, ma il grosso che comprendeva una parte considerevole della popolazione italiana da Firenze in tutta la valle del Po e all’arco alpino era fatto dalle famiglie che abitavano quei luoghi e che rifornivano di cibo i partigiani e li ospitavano nelle notti in cui scendevano a valle per procurarsi quanto era loro necessario, comprese armi e munizioni.
Fu questo un movimento di popolo che diede vita alla Resistenza e mise la base etica e politica di quell’Italia democratica delle istituzioni repubblicane e della Costituzione che abbiamo votato con le elezioni e il referendum del 2 giugno del 1946.
Venerdì scorso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato un’ampia intervista su queste pagine al direttore Ezio Mauro, chiarendo il significato di quel periodo, mettendone anche in evidenza alcune ombre che non hanno però alterato né indebolito la nascita dell’Italia repubblicana e democratica, la ricostruzione sociale ed economica che ne seguì e i martiri che persero la vita nelle camere di tortura fasciste durante quei mesi terribili e tormentati. Ma l’inizio di tutti quei moti popolari avvenne prima d’ogni altro a Napoli con quattro giornate di rivoluzione; le truppe alleate erano ancora a Salerno e arrivarono nella città partenopea a rivoluzione già avvenuta che aveva messo i tedeschi in fuga.
Gli esponenti principali di quel glorioso movimento risorgimentale furono Mazzini, Cavour, Garibaldi ed anche i Cairoli, Manara, Berchet, Mameli, Bixio, Pisacane e molti altri segregati nelle carceri austriache.
Anche il Risorgimento ebbe le sue ombre che segnarono profondamente il movimento e in parte ancora si protraggono con il dualismo economico tra Nord e Sud che proprio allora ebbe inizio. Proprio in quegli anni si manifestò anche il fenomeno mafioso che è andato via via crescendo fino a diventare un’organizzazione delinquenziale le cui radici restano al Sud ma le cui propaggini sono ormai arrivate fino a Roma, all’Emilia, alla Lombardia, al Piemonte, al Veneto e addirittura a Marsiglia e ad Amburgo.
La storia è sempre e ovunque molto complessa, il che non toglie che nel periodo di cui stiamo ora parlando il contenuto eticopolitico e sociale sia stato comunque positivo. Ma il nostro Paese è arrivato alla sua unità e alla trasformazione economica e sociale con grande ritardo rispetto al resto d’Europa. Questo sfasamento temporale ha avuto effetti profondamente negativi sulla democrazia italiana che è stata fin dall’inizio dello Stato unitario fragilissima. La causa è evidente: molti italiani hanno considerato e tuttora considerano lo Stato come un’entità estranea o addirittura nemica, oppure come strumento da utilizzare per i propri particolari interessi anziché a tutela degli interessi generale e del bene comune.
La diffusione non solo della mafia ma delle clientele e della corruzione così radicata sono fenomeni che hanno come causa prima il ritardo di secoli della nascita dello Stato unitario, sorto centocinquanta anni fa mentre in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Spagna era nato quattro secoli prima e con esso economie molto più avanzate rispetto alla nostra.
Ogni tanto ci sono in Italia ventate di patriottismo, ma sono fenomeni passeggeri e non a caso avvengono quando al vertice dello Stato si insedia — col favore di popolo — un dittatore.
Le istituzioni per molti italiani sono estranee rispetto ai loro interessi ed è questa la causa della fragilità democratica che anche ora è tutt’altro che cessata.
Se guardiamo alla storia dell’Italia moderna questo fenomeno è largamente diffuso. Gli anticorpi dovrebbero mettere riparo alla fragilità della nostra democrazia e dovrebbe essere il Partito democratico a produrli, specialmente ora che alla sua guida c’è un personaggio coraggioso, eloquente, dotato di molte capacità di convincere amici e avversari. Ma il fatto strano degli anticorpi che distruggono se stessi si sta invece verificando con preoccupante intensità ed è proprio Matteo Renzi, che adottando lo slogan del cambiamento, sta cambiando la democrazia italiana non rafforzandola ma rendendola ancora più fragile sì da consentirgli di decidere e comandare da solo. Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto.
Ero a Sanremo dove avevo frequentato il liceo e dove risiedevo con i miei genitori. Nel ‘41 andai all’Università di Roma ma per le vacanze estive tornavo a Sanremo dove ritrovato tutti i miei amici, Calvino, Roero, Pigati, Donzella, Cossu, Maiga, Turco e insomma quella che noi stessi chiamavano la banda, e con i quali avevamo vissuto il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza.
Quella storia e quella giornata l’ho raccontata nel mio libro “L’uomo che non credeva in Dio” edito da Einaudi nel 2008.
Lo cito qui di seguito, è un piccolo spaccato che rende l’atmo- sfera di un Paese allo sfascio, in fuga davanti a se stesso, dal quale la Resistenza l’ha riscattato. L’8 settembre ci furono due fenomeni contemporanei: gli italiani distrussero il loro Paese e contemporaneamente una parte di essi lo ricostruì su basi nuove, moderne e democratiche.
Voglio raccontarla quella storia e spero che interessi i lettori.
«Fu una tristissima giornata che per noi arrivò quasi d’improvviso dopo la caduta del fascismo avvenuta nel luglio precedente e la precaria euforia che essa aveva suscitato di una riconquistata libertà.
Dall’inizio di agosto avevamo visto con crescente sgomento le colonne motorizzate tedesche che scendevano sull’Aurelia verso sud e lunghi convogli ferroviari che trasportavano nella stessa direzione i carri armati con la croce uncinata sulle fiancate.
Finché arrivò l’8 settembre e ancora una volta, come tutte i giorni dall’inizio della guerra, ascoltammo la voce che leggeva le notizie del giornale radio dagli altoparlanti di piazza Colombo.
Quella voce la risento ancora quando ci ripenso: leggeva il comunicato di Badoglio con la notizia dell’armistizio e ordinava alle truppe di collaborare con gli angloamericani opponendosi a chiunque volesse impedirlo.
All’annuncio del capovolgimento di fronte, peraltro atteso e già avvenuto nella coscienza di gran parte degli italiani, l’intera nazione visse un attimo di silenzio sospeso. Poi cominciò lo sfascio che in poche ore abbatté lo Stato in tutte le sue simboliche presenze: l’esercito prima di tutto, l’autorità del governo, le leggi, la monarchia.
Il sentimento comune fu la fuga. Disperdersi. Pensare a sé e alla propria famiglia.
Anche il nostro piccolo gruppo di amici si scompose e i nostri destini si separarono. Ma prima facemmo ancora una cosa insieme: ci demmo appuntamento per la mattina dopo e andammo al deposito della Marina, un piccolo edificio di poche stanze, sopra gli scogli sulla strada litoranea per Bordighera. C’erano soltanto quattro marinai che stavano preparando i loro sacchi per andarsene. Noi dicemmo di esser lì per conto del Comune. Loro non sapevano evidentemente nulla dei poteri e delle competenze, ma soprattutto avevano soltanto voglia di lasciare quel luogo al più presto e andarsene a casa propria.
Domandammo se c’erano esplosivi. Risposero: “Esplosivi no, ci sono soltanto proiettili per i cannoni costieri”. “Ci sono anche i cannoni?”. Risposero di no. “I cannoni sono nelle postazioni della guardia costiera. Qui ci sono le munizioni di riserva”. Noi dicemmo che le prendevamo in consegna per conto del Comune e ci offrimmo di fare ricevuta dopo l’inventario. Loro risposero che se ne andavano, della ricevuta non avrebbero saputo che farsene. Ci dettero la chiave del deposito e quella del portone. E via. Lavorammo per tre ore a portar su i proiettili e gettarli sugli scogli. Pesavano un bel po’ e ne buttammo a mare la metà. Non sapevamo perché stessimo facendo quella fatica assolutamente inutile e priva di senso. Probabilmente fu il nostro modo di esprimere smarrimento e rabbia. Alla fine, stanchi e sudati, decidemmo di piantarla lì. Ci salutammo alla svelta e senza abbracci. Io dissi che appena possibile sarei partito per Roma con mio padre e mia madre.
Due giorni dopo telefonai a Italo, gli dissi che partivo col treno delle sei del pomeriggio. Ci salutammo ancora al telefono, ma poi me lo vidi alla stazione. Ero già salito e affacciato al finestrino. Lo ringraziai d’essere venuto. “Ci vedremo presto”, gli dissi. “Non credo” rispose lui. Il treno si mosse. Lui disse “ciau” con la u».
***
Dovrò ora dire qualche parola sulle decisioni dell’Europa (28 capi di Stati e di governo riuniti giovedì a Bruxelles) sul tema posto da Renzi dell’emergenza dell’emigrazione dalla Libia.
Avevano dinanzi, i 28, un problema enorme che doveva e dovrebbe affrontare almeno quattro questioni: portare in salvo i migranti che tentano di raggiungere il Sud d’Europa (praticamente la costa italiana) sfuggendo ad un inferno di povertà, schiavitù, stragi, nell’Africa subequatoriale; sgominare l’organizzazione delinquenziale degli scafisti-schiavisti che organizza i viaggi della morte; stabilizzare la Libia perché fin quando quel Paese non torni ad avere una struttura di governo è impossibile vincere la guerra del mare; infine intervenire a monte dell’emergenza nelle terre del Centroafrica dove milioni di persone sono in condizioni di stentata sopravvivenza e alimentano la fuga verso il benessere che diventa purtroppo una fuga verso la morte.
Ebbene, questi essendo i problemi intrecciati l’uno con l’altro, l’incontro a Bruxelles ha partorito un topolino: hanno deciso di portare l’assegno mensile europeo alla politica dell’immigrazione da 3 a 9 milioni al mese. Sul resto di fatto è silenzio. La Mogherini è stata incaricata di preparare un memorandum che sarà esaminato dal Consiglio d’Europa, con molti Stati membri che hanno però già detto che più di quanto è stato deciso non faranno. Si tratta di Germania, Gran Bretagna, Paesi baltici, Olanda e via numerando.
Renzi è contento. Noi no. Ma non solo noi: basta leggere su il Sole 24 Ore
di ieri l’articolo di Vittorio Emanuele Parsi che comincia dicendo che «la montagna ha partorito il topolino» e lo dimostra con una lucida analisi di quanto (non) è accaduto a Bruxelles. Lo stesso giorno è uscito l’articolo di Prodi sul Messaggero dove si spiega che per stabilizzare la Libia bisogna far intervenire le grandi potenze arabe (l’Egitto, l’ Arabia Saudita e gli Emirati) e la Turchia e il Qatar, i soli che possono assicurare in Libia un’autorità senza la quale ogni altra azione è impossibile.
Concludo tornando al tema della Resistenza.
Mi dicono che a Renzi non è simpatica la canzone “Bella Ciao” che è proprio quella dei partigiani. Sarebbe stato bello se l’avesse intonata anche lui alla manifestazione dell’Anpi. Non vorrei che invece di “Bella Ciao” dicesse “Ciao Bella”. È un cambiamento ma non andrebbe affatto bene.
Il manifesto, 26 aprile 2015
Il rapporto tra discorso pubblico e Liberazione ha conosciuto fasi molto diverse, a volte contrastanti. Si possono certamente individuare delle costanti, ma è ancora più utile riflettere sui mutamenti di fase e sulle loro implicazioni. Del resto è un fenomeno che si sviluppa in forma sostanzialmente autonoma rispetto alla storiografia, che procede in parallelo: non è certo ininfluente, ma viene recepita, quando accade, molto tempo dopo.
È significativo che una retorica ufficiale prenda forma prima ancora del completamento degli eventi. Nasce infatti nel 1944, quando viene già istituita una «giornata del partigiano», fissata, per sottile e inconsapevole ironia delle date, al 18 aprile. C’è una grande enfasi attorno ai combattenti italiani, in divisa e per bande, che deve servire a facilitare quelle che vengono immaginate normali trattative di pace. Non servirà a molto su questo terreno, ma per altri versi non sarà affatto inutile: la nuova immagine degli italiani si costruisce anche attraverso il riconoscimento internazionale dell’esistenza di combattenti italiani per la libertà.
Ma notiamo subito alcune caratteristiche che resteranno a lungo impresse nel discorso pubblico attorno a quella che poi, a cose fatte, verrà definita, sull’esempio francese, Resistenza. Il carattere pressoché esclusivamente patriottico, da subito collegato – come probabilmente era «naturale» che fosse – all’esperienza risorgimentale. E il carattere largamente assolutorio del richiamo ad essa: Resistenza utilizzata come lavacro delle colpe collettive, delle complicità, dei ritardi e dell’acquiescenza della società italiana nei confronti del regime fascista. L’illusione di far parte del novero dei vincitori («anche l’Italia ha vinto» titolava una rivista già alla liberazione della Capitale). Infine, come era inevitabile in quel contesto, il rilievo preponderante se non esclusivo attribuito all’elemento della guerra in armi, sacrificando moltissime componenti dell’esperienza resistenziale che emergeranno lentamente e con fatica nei decenni successivi.
Ma su tutto questo irrompe una brusca cesura a partire dal 1947, con la rottura dell’unità antifascista e con l’ingresso a pieno titolo dell’Italia nel mondo che ci abitueremo a definire della «guerra fredda». Improvvisamente la Resistenza cessa di essere una risorsa e diviene una complicazione, talora un fardello per i governanti. Si inaugura quello che potremmo definire il falso problema della «guerra civile», che contrariamente a quanto si dirà in seguito incombe nel discorso pubblico (verrà dismesso solo a partire dagli anni Sessanta) e in termini ancor più deprecativi («guerra fratricida» sarà la formula ufficiale).
In gran parte falso problema perché già ampiamente risolto in termini giuridici dall’amnistia del 1946, perché le sue dimensioni erano state circoscritte in termini minimi rispetto a «vere» guerre civili come quella spagnola o ad altri fenomeni, diffusissimi, di collaborazionismo nel corso del conflitto. Infine perché il paese aveva già conosciuto un’autentica guerra fra italiani nel corso di quello stesso Risorgimento cui la memoria pubblica si richiamava con accostamento pressoché obbligato nelle celebrazioni del 25 aprile.
Dietro lo schermo della «guerra civile» si celavano però fratture destinate a rimanere irrisolte nella coscienza nazionale. In primo luogo il problema che potremmo definire della lenta e difficile metabolizzazione del fascismo da parte della società italiana: un lascito di mentalità, culture e consuetudini che agiva sottotraccia ben al di là dell’apparente unanimità del ripudio che aveva segnato i mesi della caduta di Mussolini. In secondo luogo, difficile da cogliere oltre l’ufficialità delle narrazioni, operava la sovrapposizione tra Costituzione scritta sulla base dei valori dell’antifascismo e «costituzione materiale» anticomunista su cui si modellava il nuovo potere delle classi dirigenti. Una tensione conflittuale che riemergerà in moltissimi momenti della vita repubblicana, e che oltrepasserà anche i confini di quella che verrà definita «Prima Repubblica».
Questo clima comincia a incrinarsi in occasione del primo Decennale, malgrado la divisione perdurante tra le stesse organizzazioni partigiane. L’elezione di Giovanni Gronchi, con un richiamo diretto alla Resistenza, guerra di popolo, e soprattutto con la constatazione che una Costituzione esisteva e andava attuata al più presto (si partirà a breve con la Corte costituzionale) era un segnale di mutamento. Nella lunghissima incubazione del centrosinistra giocherà un ruolo anche il reciproco riconoscimento nei valori riaffermati della tradizione antifascista.
La vera svolta si avrà nel luglio 1960, con la prova di forza vinta da un antifascismo vecchio e nuovo, fatto anche di giovanissimi, contro il tentativo di tornare indietro da parte del blocco clericofascista che si era riconosciuto nell’avventura di Tambroni. Da questo momento in poi Resistenza e antifascismo diverranno a lungo centrali nel nuovo discorso pubblico.
Con qualche ambiguità perdurante, che replica i vizi di origine, a volte perfino ingigantendoli. La formula canonica del «popolo unito contro la tirannide» che diviene ricorrente nell’oratoria ufficiale nel tempo della presidenza di Saragat è ancor più assolutoria e ingannatrice di quanto non fosse stata la retorica delle origini repubblicane. Mentre una nuova Germania farà riemergere proprio a partire dalla fine degli anni Sessanta la grande rimozione del passato nazista, metterà sotto accusa la «generazione dei padri» e introdurrà il tema decisivo delle «responsabilità collettive», in Italia questo appuntamento verrà mancato e la problematica del «consenso» al fascismo sarà destinata ad affiorare sotto un segno completamente diverso, non produrrà sensi di colpa ma invece il sollievo della conferma di un giudizio bonario e minimizzante nei confronti dell’esperienza fascista divenuto ormai vox populi.
Le ambiguità saranno presenti anche nel discorso di una «nuova sinistra» che in gran parte anima le manifestazioni e che nel rapporto con la storia si muoverà in termini molto diversi rispetto ai coetanei tedeschi. A lungo la Resistenza verrà sottovalutata e quasi messa sotto accusa per non aver dato luogo a un esito «rivoluzionario». Alla svolta degli anni Settanta sarà improvvisamente reinventata in forma favolistica, scambiando una parte per il tutto e attribuendo al popolo italiano una propensione rivoluzionaria in gran parte illusoria. Tra le opposte retoriche di Resistenza «rossa» e «tricolore» corre spesso il rischio di venire stritolata la Resistenza popolare e civile, delle donne e degli uomini comuni, nella sua pluralità di pratiche e di motivazioni, che con grande fatica e con un lungo e imponente lavoro di scavo e di riflessione gli storici faranno emergere con chiarezza negli anni successivi. E che comprendeva inevitabilmente memorie diverse, anche «divise» e conflittuali come si scoprirà tardivamente in seguito, che potevano riconoscersi e riconciliarsi, ma non avrebbero mai potuto convergere in una «memoria unica», stravaganza concettuale degna di un regime totalitario.
A partire dagli anni Ottanta l’antifascismo e — per la prima volta — anche la Costituzione saranno visti come ostacoli sulla strada della «modernizzazione» del paese. L’Italia prenderà, di fatto, una strada diversa rispetto all’evoluzione della coscienza occidentale, che proprio in quegli anni, anche attraverso una nuova consapevolezza della portata della Shoah, rifletterà sull’enormità del problema storico del fascismo europeo, del suo radicamento, del consenso ottenuto e della catastrofe innescata. Si apriranno, anche su questo terreno, i termini di una nuova «anomalia italiana», che segneranno una lunga fase della storia italiana.
Gli anni della «Seconda Repubblica» sembreranno per quasi un ventennio dominati dall’ansia di offrire una legittimazione storica alla nuova destra, in larga misura estranea oppure ostile alla Liberazione, e che emerge con ampio consenso dopo il dissolvimento del vecchio equilibrio. Ascolteremo nei discorsi ufficiali di presidenti e ministri il richiamo ricorrente alla «buona fede» dei fascisti sconfitti, attribuendo rilievo e centralità a una constatazione di banalità disarmante, perché la buona fede in genere sul piano storico non si nega a nessuno, ed era attribuibile a giusto titolo anche alle SS. Negli stessi discorsi di insediamento dei Presidenti della Repubblica il richiamo alle «ragioni» della parte sconfitta nel 1945 apparirà improvvisamente problema attuale di cui farsi carico, fino all’eccezione rappresentata da Sergio Mattarella che con un limpido e dettagliato richiamo alla Costituzione antifascista porrà fine a quella pratica discorsiva.
L’antifascismo apparirà inevitabilmente sulla difensiva, costretto a battaglie talora di retroguardia, nelle lunghe polemiche sul cosiddetto «revisionismo», ma in grado ancora di mobilitazioni imponenti, come nella grande manifestazione promossa da questo giornale a Milano nel 1994 subito dopo lo sfondamento elettorale della destra. E riuscirà anche a respingere nel referendum del 2006 (con uno schieramento animato dall’ex-presidente Oscar Luigi Scalfaro) l’imposizione di una nuova Costituzione sbilanciata sul terreno del «decisionismo» e del primato dell’esecutivo, e che prefigurava anche il venir meno della coesione nazionale attraverso i meccanismi della cosiddetta «devoluzione» a favore dei particolarismi regionali.
Si era trattato, come oggi comprendiamo bene, di una vittoria apparente. La fase che viviamo appare dominata, a ben vedere, dalla tensione tra l’affermazione, non più messa in discussione, dei valori storici della Liberazione e il disgregarsi in parallelo del mondo di idee e di princìpi che avevano prodotto, dal venir meno delle conquiste di una civiltà repubblicana progressivamente svuotata dei suoi caratteri originari e qualificanti.
Ben oltre la chiassosa destra italiana, la civiltà costituzionale del nostro paese (e non solo del nostro) è entrata nel mirino delle nuove entità impersonali che governano il mondo e trascinano l’Europa al suicidio. Nel maggio 2013 un gigante della finanza globale dirà esplicitamente che le Costituzioni antifasciste nate dopo la seconda guerra mondiale vanno ritenute un ostacolo per la «modernizzazione» e l’«integrazione» dei sistemi economici in Europa. Politici divenuti zelanti sudditi di quella volontà mettono in atto un meccanismo inesorabile che conduce in quella direzione.
Per questo negli ultimi anni la ricorrenza del 25 aprile appare sempre di più una mesta cerimonia degli addii. Un prendere congedo dal mondo in cui avevamo vissuto, dalle nostre speranze e dalle nostre conquiste.
L’ossequio esteriore alla Liberazione non è più messo in discussione, ed essa viene celebrata da cortei di popolo, da donne e uomini che difficilmente possono rendersi conto di vivere la stessa situazione descritta in una famosa poesia di Brecht, inconsapevoli del fatto che «alla loro testa marcia il nemico».
Con ogni probabilità la nostra democrazia parlamentare verrà abolita canticchiando Bella ciao. La Liberazione tornerà a essere, come è stata a lungo nella storia italiana, fuoco che cova sotto la cenere, in attesa di venire rivitalizzato da nuovi eredi
Il manifesto, 25 aprile 2015
Centrali restano, dal suo punto di vista, la lotta agli scafisti e un’ulteriore stretta alle frontiere, con l’aggravante, che segna un’inedita convergenza tra i due Mattei (Renzi e Salvini), di dare priorità alla distruzione delle imbarcazioni usate per le traversate in mare. L’Unione Europea riprende, in sede di Consiglio, la proposta italiana, prevedendo anche la possibilità di un intervento militare per raggiungere l’obbiettivo, dimenticando però che in Libia c’è una guerra civile in corso e che il rischio di ‘danni collaterali’ è molto alto.
Grande sintonia quindi tra il nostro governo e l’Europa dei 28 (ma anche con un pezzo dell’agenda politica della destra xenofoba) sulla gestione delle frontiere, con l’obiettivo, esplicitato soprattutto negli accordi del processo di Khartoum e in quello di Rabat, così come negli accordi bilaterali che si vanno definendo in questi mesi, di trasferire ai Paesi della sponda sud la responsabilità di gestire i flussi di richiedenti asilo per bloccarli prima che arrivino alle nostre frontiere.
Una convergenza che segna il punto più basso delle politiche migratorie, di fronte alle migliaia di cadaveri che giacciono sul fondo del Mediterraneo. Nell’ordine del giorno del Consiglio l’accoglienza viene affrontata come il meno importante dei problemi e la sbandierata solidarietà tra gli Stati Membri si riduce a progetti pilota di reinserimento per 5mila rifugiati, una cifra ridicola.
La grande e potente Europa metterebbe in campo un progetto sperimentale per almeno (sic!) 5000 posti. Tanto per capire di che stiamo parlando, basti pensare che il piccolo e povero Libano o la piccola e povera Giordania accolgono circa un milione di persone a testa. L’Europa della Merkel, di Holande e Renzi, della BCE di Draghi, 5000 posti. Vergogna!
Esiste per fortuna un’altra Italia, che ha reagito subito con sdegno, portando in piazza migliaia di persone, cercando di restituire a quei morti la dignità che meritano e di esprimere un cordoglio ed una solidarietà fatta di proposte concrete. Non di vane parole e di cinismo. L’Italia dei sindacati, delle organizzazioni sociali religiose e laiche, di studenti e ambientalisti, che ogni giorno prova a contrastare il razzismo di stato. Una rete di associazioni che si è data appuntamento il 21 aprile davanti a Montecitorio a Roma e in altre 100 città per chiedere che il governo italiano attivi subito una operazione di ricerca e salvataggio (come Mare Nostrum), in attesa che tutta l’Europa si assuma questa responsabilità.
Allo stesso tempo è stato chiesto che Italia e UE affidino all’Unhcr il trasferimento in sicurezza verso l’Europa di coloro che, nei paesi intorno al mediterraneo, aspettano di poter partire per chiedere protezione, con un’equa ripartizione tra i diversi stati. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) è infatti l’organizzazione che ha competenze, strumenti e mezzi per poter gestire legalmente il flusso di profughi, senza dover modificare leggi nè organizzare improbabili rappresentanze e campi di transito in africa, col vero scopo di bloccarli lì.
Nei prossimi giorni la mobilitazione continuerà e se l’Italia e l’Unione europea non cambiano direzione ci sarà una reazione ampia e unitaria, per fermare la strage e restituire forza e integrità alla nostra democrazia
Per ricordare la Resistenza, molla della la Liberazione e radice della Costituzione, ripresentiamo uno scritto chi, dal passato, ci riconduce all'oggi anche per evitare che l'indifferenza all'oggi possa farci perdere che settant'anni fa abbiamo conquistato
. La città futura, febbraio 2017
L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
11 febbraio 1917
Il manifesto, 25 aprile 2015
Per il 25 aprile non ho sbuffato mai, ma è vero che, passato il peggio della guerra fredda — quando i governi dc arrestavano i partigiani, o quando arrivò Tambroni — anche la Resistenza rimase spesso immobile. Oggi, 2015, è evidente a tutti che la data è caldissima, un’urgenza attuale nella nostra agenda. Per via di un suo specifico aspetto: non tanto perché chi ne fu combattente riuscì a cacciare i tedeschi , che pure non è poco. Piuttosto perché è in quegli anni ’43–45 che vennero poste le fondamenta — per la prima volta — di uno stato democratico in Italia. Che oggi mi pare in pericolo, non perché assalito dai fascisti, ma perché eroso dal di dentro.
Noi uno stato popolare, legittimato a livello di massa, non l’avevamo avuto mai : il Risorgimento, come sappiamo, fu assai elitario e produsse una partecipazione assai ristretta, estranee le classi subalterne; i governi della nuova Italia nata nel 1860 restano nella memoria dei più per la disinvoltura con cui generali e prefetti sparavano su operai e contadini. Poi venne addirittura il fascismo.
A differenza del maquis francese o della resistenza danese o norvegese, la nostra non aveva proprio nulla da recuperare, niente e nessuno da rimettere sul trono. Si trattava di inventarsi per intero uno stato italiano decente, e dunque democratico. (Come in Grecia, del resto, dove però una pur straordinaria Resistenza non ce l’ha fatta).
Non è una differenza di poco. E se la Resistenza italiana ci ha permesso di riuscirci, è anche perché è stata la prima volta in cui in Italia le masse popolari hanno partecipato massicciamente e senza essere inquadrate dai borghesi alla determinazione della storia nazionale.
E anche per un’altra ragione: perché il dato militare, e quello strettamente politico — l’accordo fra i partiti antifascisti — pur importanti, non esauriscono la vicenda resistenziale. Un ruolo decisivo nel caratterizzarla l’ha avuto quello che un grande storico, comandante della brigata Garibaldi in Lunigiana, Roberto Battaglia, chiamò “società partigiana”. E cioè qualcosa di molto di più del tratto un po’ giacobino, o meglio garibaldino, dell’organizzazione militare più i civili che ne aiutarono eroicamente la sussistenza; e cioè l’autorganizzazione nel territorio, l’assunzione, grazie a uno scatto di soggettività popolare di massa, di una responsabilità collettiva, per rispondere alle esigenze della comunità, il “noi” che prevalse senza riserve sull’ “io”.
L’antifascismo come senso comune, più che nella tradizione prebellica, ha origine in Italia da questo vissuto, nell’ esperienza autonoma e diretta di sentirsi — «attraverso scelte che nascono dalle piccole cose quotidiane», come ebbe a scrivere Calamandrei — protagonisti di un nuovo stato, non quello dei monumenti dedicati ai martiri, ma quello su cui hai diritto di decidere, di una patria che non chiede sacrifici ma ti garantisce protezione, legittima i tuoi bisogni, ti dà voce. E’ la comunità, insomma, che si fa Stato, a partire dal senso di appartenenza.
La Costituzione partorita dalla Resistenza riflette proprio questa presa di coscienza, e infatti definisce la cittadinanza come piena appartenenza alla comunità. Non avrebbe potuto essere così se, ben più che da una mediazione di vertice fra i partiti, non fosse nata proprio da quella esperienza diretta che fu la “società partigiana.” E dalle sue aspirazioni. Per questo ha una ispirazione così ugualitaria e formulazioni in cui è palese lo sforzo di evitare formule astratte. E’ di lì che viene fuori quello straordinario articolo ‚per esempio, che dice come, per rendere effettive libertà e uguaglianza”, sia necessario “rimuovere gli ostacoli che le limitano di fatto”.
Proprio riflettendo su quanto da più di un decennio sta accadendo, a me sembra che la crisi visibile della democrazia che stiamo vivendo non sia solo la conseguenza del venir meno di quel patto di vertice, e dei partiti che l’avevano sottoscritto, ma più in generale dell’impoverirsi del tessuto politico-sociale che ne aveva costituito il contesto. E se è possibile l’attacco che oggi si scatena contro la Costituzione è proprio perché la nostra società non è più “partigiana”, ma passiva, privata di soggettività, estranea alla politica di cui non si sente più, e infatti non è più, protagonista, chiusa nelle angustie dell’”io”, sempre meno partecipe del destino dell’altro, lontana dal declinare il “noi”.
Non ci sarà esito positivo agli sforzi che in molti, e da punti di partenza anche differenziati, vanno facendo per uscire dalla crisi della sinistra se non riusciremo a risuscitare prima soggettività e senso di responsabilità collettiva . Non riusciremo nemmeno a salvare la Costituzione, e finiremo anche per cancellare la specificità della Resistenza italiana. Quell’attacco mira proprio ad impoverire l’idea stessa della democrazia che essa ci ha regalato, riducendola a un insieme di regole e garanzie formali e individuali, non più terreno su cui sia possibile esercitare potere.
Stiamo attenti a come celebriamo il 25 Aprile. Berlusconi, quando per una volta si degnò di partecipare a una iniziativa per il 25 aprile — fu ad Onna, subito dopo il terremoto d’Abruzzo — ebbe a dire che sarebbe stato meglio cambiare il nome della festa: non più “della Liberazione”, ma “della Libertà”. Proposta furbissima: la sua dizione richiama infatti un valore astratto calato dal cielo, la nostra dà conto della storia e racconta chi la libertà ce l’aveva tolta e cosa abbiamo dovuto fare per riconquistarla. Se smarriamo la storia cancelliamo il ricordo delle squadracce fasciste al soldo degli agrari e dei padroni che bruciarono le Camere del lavoro, la violenza contro le organizzazioni popolari; depenniamo la Resistenza stessa e sopratutto il ruolo che ha avuto nel costruire un nuovo stato italiano democratico.
Rischiamo di dimenticare che per mantenere la libertà c’è bisogno di salvaguardare la Costituzione e per farlo di ricostruire una “società partigiana” per l’oggi: uno scatto di soggettività, di assunzione di responsabilità, un impegno politico collettivo, rimettere il “noi” prima dell’”io”.
Sapendo che oggi il “noi” si è estremamente dilatato. Non è più quello di chi vive attorno al campanile, e nemmeno dentro i confini nazionali. Il mondo è entrato ormai nel nostro quotidiano, lo straniero — e con lui la politica estera — lo incontriamo al supermarket, all’angolo della strada, nella scuola dei nostri figli. La sua libertà vale la nostra, la nostra senza la sua non ha più senso. Per questo non è pensabile festeggiare il 25 Aprile senza palestinesi e immigrati, così come senza gli ebrei che da qualche parte patiscono tutt’ora l’antisemitismo. Non è debordare dal tema “Liberazione” sentirsi parte, vittime e però anche responsabili, di tutti i disastri che affliggono oggi il mondo.
Festa della Liberazione: in ricordo di Claudio Cianca, antifascista contro la speculazione edilizia.
Ilfattoquotidiano.it, 24 aprile 2015
Se ne è andato il 22 febbraio di quest’anno Claudio Cianca, con i suoi 101 anni di vita da antifascista, ribelle, protagonista della Resistenza romana, presente e partecipe della vita dei più deboli.
L’ordigno bellico che fece esplodere, nel giugno del 1933, nel pronao della Basilica di San Pietro, quando non era che un giovane di vent’anni, è stato un gesto simbolico che ricorderanno in molti e compiuto perché calasse l’attenzione proprio su quell’Italia oppressa dal regime fascista, l’Italia che voleva difendere. Dirigente della Cgil, parlamentare con il Pci, consigliere comunale in Campidoglio, Cianca è stato in primo piano anche nelle battaglie contro laspeculazione edilizia. Battaglie che a ripercorrerle ricordano molto quelle dei nostri giorni.
Nel 1956 con Aldo Natoli e Leone Cattani si è battuto contro la costruzione dell’Hotel Hilton. Costruirlo significava abbattere i due terzi di una zona di verde pubblico situata sulle pendici di Monte Mario e perché avvenisse occorreva la modifica del piano regolatore con l’approvazione del consiglio comunale. Il giorno della seduta è stata la Società Generale a mandare un gruppo di lavoratori con l’obiettivo di convincere Cianca a non partecipare con interventi contro la delibera. Eppure i lavoratori, dalla sua parte, lo fecero parlare. Volevano ascoltare il discorso che Cianca poi concluse con fermezza: “La società generale immobiliare paga bene l’approvazione di queste deliberazioni”.
E’ storia vecchia, dunque, molto vecchia, la complicità tra amministrazioni e gruppi privati disinteressati al bene pubblico per favorire logiche private. Roma era già infognata nella speculazione edilizia che si andava a intrecciare con la speculazione fondiaria. “Da mille lire – ha raccontato Cianca in Il mio viaggio fortunoso, a Giuseppe Sircana – terreni agricoli o destinati al pascolo da mille lire potevano arrivare fino a trentamila lire al metro quadro…”
Negli anni in cui è stato alla Camera Cianca si è battuto contro le leggi approvate per gli interessi privati. E’ con l’aiuto di Fiorentino Sullo che nel 1962 è stata varata la Legge 167, perché i comuni potessero acquisire aree demaniali per costruire case economiche e popolari. Una legge che, tuttavia, ha trovato numerose difficoltà di applicazione.
Claudio Cianca è stato anche membro della presidenza dell’Anppia, l’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti. Ha sempre cercato di tenere vivi e trasmettere ai giovani i valori che hanno guidato la sua stessa vita ricordando che “la libertà non si perde tutta insieme un brutto giorno, ma poco a poco giorno per giorno”.
E dalla sua vita, dal modo in cui scelse di condurla dedicandosi a quella dei più deboli, oggi di lui è viva e ricca di sfumature colorate, la fotografia di un uomo, un cittadino, un lavoratore che con gli altri, per usare le sue stesse parole, finalmente, dopo il congresso di Napoli della Cgil nel 1945 si sentiva “cittadino partecipe alla costruzione di una democrazia”. Anche per questo dovere e piacere si mischiano nel ricordare Claudio Cianca nel giorno della Liberazione.
Il manifesto, 23 aprile 2015, con postilla
Tre crisi interconnesse che richiedono uno sguardo alto sugli orizzonti, senza il quale vien meno ogni ragione di sovrapporre un’entità regionale come l’Europa a quelle di Stati nazionali ormai palesemente inadeguati. Eppure, nel dibattito politico il tema della crisi ambientale è ormai affondato, sommerso dalle preoccupazioni finanziarie; l’economia, che dovrebbe essere scienza del ben amministrare la casa comune, si è ridotta a una misera partita doppia del dare e del prendere, dove prendere, per chi ha il bastone del comando, ha preso di gran lunga il sopravvento sul dare. La questione dei profughi, finora considerata marginale (quasi un incidente di percorso) è la più grave e urgente, perché riassume in sé tutte le altre; ma ridisegnerà i confini dell’Europa e le sue fondamenta.
Una classe dominante tirchia e vorace cerca di eludere i problemi posti dalla crisi ambientale globale, dall’“emergenza profughi”, dalle violazioni quotidiane della dignità umana subite da chi è senza reddito, senza lavoro, senza casa, senza cure, senza famiglia o affetti, senza futuro: «non ci sono i soldi», «non c’è più posto», «non ci riguardano». Sembra quasi che il crollo di Stati e il caos di intere regioni, il protrarsi endemico di conflitti insostenibili, o le stesse guerre guerreggiate ai suoi bordi — a cui a volte l’Europa prende parte, a volte assiste ignava — non la riguardino. Mentre la stanno trascinando nell’abisso. Un abisso dove si intravvedono già le prime avvisaglie — ma se ne ascoltano ormai ad alta voce gli incitamenti — di una politica di sterminio.
Che differenza c’è, infatti, se non in peggio, come ha fatto notare Erri De Luca, tra le navi negriere di secoli trascorsi e le carrette del mare che trascinano a fondo i profughi costretti a salirvi? O, come ha fatto notare Gad Lerner, tra i treni piombati che portavano gli ebrei ad Auschwitz, per trasferirli subito nelle camere a gas, e le stive dei barconi dentro cui i profughi, chiusi a chiave, sprofondano in fondo al mare senza nemmeno vedere la luce del sole? I numeri, direte voi. No, quelli ci sono. Sono sei milioni – tanti quanti gli ebrei soppressi nei campi di sterminio nazisti – i profughi che affollano i campi dei paesi ai bordi del Mediterraneo, o che si apprestano a intraprendere un viaggio della morte verso le coste europee. E se per loro non sapremo mettere a punto soluzioni diverse — perché mancano i soldi, o perché non c’è posto, o perché sconvolgerebbero il non più tanto quieto vivere dei cittadini europei — la sorte che gli prepariamo è quella.
Bisogna esserne consapevoli. Che cosa significano infatti le “soluzioni” prospettate dai nostri governanti: sia italiani che europei? Distruggere le carrette del mare? Ne troveranno altre, ancora più costose e insicure. Allestire campi di raccolta ai confini dei paesi di imbarco? Ma per farne che cosa? Per trasportare in sicurezza i rifugiati, di lì verso la loro meta? O per affidare a dittature di ogni genere centinaia di migliaia di derelitti senza più diritti, né patria, né nome, che prima o poi tenteranno la fuga o verranno sterminati? Fare la guerra ai paesi da cui si imbarcano? Ma non sono state proprio quelle guerre a creare un numero così alto di uomini, donne e bambini senza più un posto dove vivere? Combattere e arrestare gli scafisti (la soluzione più ipocrita di tutte)? Ma sono loro la causa di quei milioni di esseri umani che vogliono raggiungere le coste europee, o è la mancanza di alternative sicure, messe al bando dall’Europa, a produrre e riprodurre gli scafisti?
La verità è che quei profughi sono già cittadini europei. Cittadini di ultima classe, perché non viene riconosciuto loro alcun diritto; ma tuttavia abitanti che fanno parte del contesto dove si decide il destino dell’Europa. Proprio per questo i paesi da cui fuggono sono già parte integrante del suolo europeo. Ma, a differenza dei migranti degli scorsi decenni quei profughi non tentano la traversata del Mediterraneo, o lo scavalcamento dei confini orientali, per trasferirsi in Europa per sempre; in gran parte sono pronti a tornare nei loro paesi non appena la situazione lo permettesse. Quella situazione è la pacificazione e la rinascita di quei territori: cose che non si ottengono con la guerra, né con una diplomazia che finge di trattare con quelle stesse fazioni che ha armato; o che continuano ad essere armate da giochi e triangolazioni su cui ha sempre meno controllo.
Quella pacificazione, in Asia, Africa, Medio Oriente, ha bisogno di una base sociale solida. E quella base sociale, in potenza, c’è. Il nucleo portante potrebbero essere proprio quei profughi che hanno raggiunto o che cercano di raggiungere il suolo europeo; i legami che li uniscono sia a parenti e comunità già insediate in Europa, sia a coloro che sono rimasti, o non sono riusciti a fuggire dai loro paesi. Ma a quella moltitudine dispersa e disparata (i flussi) occorre riconoscere la dignità di persone. Aiutandole innanzitutto a raggiungere in sicurezza la meta; ma anche, una volta qui, permettendole di sistemarsi, seppure in modo provvisorio, in condizioni dignitose: in case che non siano insalubri ricoveri illegali; possibilmente diffuse sul territorio sia per non gravare su singoli abitati votati al degrado, sia per facilitare rapporti di buon vicinato con i locali. Con un lavoro, anche parziale, a partire dalla gestione e dalla sistemazione fisica degli ambienti in cui devono trascorrere una parte della loro vita: tra loro ci sono muratori, fabbri, falegnami, elettricisti, agricoltori; ma anche maestri, contabili, informatici, ingegneri, medici infermieri; perché mai attività che, adeguatamente sostenute, possono fare loro, vengono invece affidate a cooperative che li sfruttano e costano il triplo? Ma, soprattutto, occorre facilitar loro la possibilità di incontrarsi, di mettersi in rete, di eleggere i loro rappresentanti, di farsi comunità sociale e politica, di mettere a punto strategie per il loro ritorno.
Ma come si può anche solo proporre obiettivi del genere in paesi dove la disoccupazione è alle stelle e casa, reddito e lavoro mancano anche a tanti europei? Non si può. A meno di perseguire per tutti, cittadini europei e stranieri, degli standard minimi di reddito, di abitazione, di lavoro (promosso o creato direttamente o indirettamente dai poteri pubblici), di istruzione, di assistenza sanitaria. L’essenza stessa di un programma radicalmente alternativo a quello perseguito dall’attuale governance europea con le politiche di austerità. Ma l’unico capace di affrontare l’ondata del razzismo e della xenofobia alimentata dagli imprenditori politici della paura di destra e sinistra. E l’unico per fornire una road map alla rifondazione radicale dell’Europa; a partire dal riconoscimento dei suoi confini di fatto e di quei diritti senza i quali la pretesa di tener uniti i suoi popoli non ha alcun fondamento.
Utopia? Certo. Ma qual è l’alternativa? Il castello dell’euro, e quello dell’Unione, e la falsa immagine di un continente oasi di pace dopo la seconda guerra mondiale non resisteranno a lungo se non si lavora fin d’ora per invertire rotta. E la nuova rotta è questa: insieme ai nostri fratelli e sorelle che fuggendo dalle guerre ci portano, con la loro stessa vicenda esistenziale, un messaggio di pace.
postilla
A proposito di utopia. A chi lo accusava di essere utopista nella sua proposta l'economista Claudio Napoleoni rispondeva: «Il fatto è che posto a un livello più basso il problema non è risolvibile»
La Repubblica, 24 aprile 2015
La “quasi certezza”: è questo che la Casa Bianca pretende per dar via libera ai Predator B e ai loro missili Hellfire. E quando si uccidono le persone sbagliate, ha detto ieri Barack Obama, è perché «nella nebbia della guerra al terrorismo si possono compiere errori, a volte mortali». Errori che uccidono occidentali come Giovanni Lo Porto e il suo compagno di sventura, Warren Weinstein, o che straziano ragazzi, donne, civili e in genere tutti quelli che si trovavano al momento sbagliato nel posto sbagliato, Pakistan o Yemen che sia.
Il manifesto, 24 aprile 2015 (m.p.r.)
Navi da guerra, portaelicotteri, aerei arriveranno nel Mediterraneo per mettere ordine, per “smash the gangs”, come ha riassunto con grande eleganza il britannico David Cameron. Ma gli “interventi mirati” per distruggere i barconi dei trafficanti, individuati come i soli responsabili dell’ecatombe umana dietro i quali la Ue tenta di nascondere le proprie responsabilità, restano un’ipotesi difficile da realizzare nei paesi di partenza, a cominciare dalla Libia, e potrebbero limitarsi ad azioni ex post, nei porti di sbarco europei. A Mrs Pesc, Federica Mogherini, è stato affidato il compito di trovare le vie legali per arrivare al sequestro e alla distruzione dei barconi dei trafficanti.
Il Consiglio straordinario sui migranti dei capi di stato e di governo della Ue si è aperto a Bruxelles con un minuto di silenzio in memoria dei morti del Mediterraneo. Sarà il solo momento in cui sono ricordati come esseri umani. Per il resto, i 28 hanno discusso per ore come scaricarsi il “fardello”, senza cambiare di una virgola i criteri di Frontex, agenzia nata per difendere la fortezza Europa, come dice il suo nome. I finanziamenti a Triton (al largo dell’Italia) e a Poseidon (al margo della Grecia) saranno raddoppiati: erano rispettivamente di 2,9 milioni al mese e 8 milioni l’anno (ma anche con il raddoppio non si raggiungerà l’investimento di Mare Nostrum). Misure “molto lontane dal nostro appello pressante a favore di operazioni di salvataggio di grande ampiezza”, ha commentato Amnesty International, che ha firmato con una trentina di altre organizzazioni non governative un testo rivolto ai dirigenti europei e rimasto inascoltato.
Le conclusioni del vertice riprendono i dieci punti del programma di emergenza presentato dalla Commissione lunedi’. Ma lo rivedono ancora al ribasso. Bisognerà aspettare maggio, per esempio, e altre proposte della Commissione, per vederci più chiaro sulla “reinstallazione” dei richiedenti asilo nei 28 paesi: comunque, l’offerta sarà solo “su base volontaria” e non dovrebbe riguardare più di 5mila persone, identificate dall’Onu come rifugiati (oggi nei campi in Libano, Giordania e Turchia). Non è in discussione un cambiamento di Dublino II, che prevede che sia il paese di primo arrivo ad aprire la pratica per il diritto d’asilo (cosa che incombe soprattutto su Italia, Grecia, Spagna, Malta e Cipro). C’è una direttiva Ue del 2001, mai applicata, che prevede una “protezione temporanea” in caso di grave crisi, ma anche questo sembra troppo alla maggioranza degli europei. David Cameron, per esempio, che deve fronteggiare le elezioni il 7 maggio, ha subito fatto sapere che manderà 3 elicotteri e una nave (è già una svolta, prima non voleva neppur sentir parlare di ricerca e salvataggio), ma che comunque la Gran Bretagna non accetterà di ospitare rifugiati. Nel 2014, come ha ricordato il presidente dell’Europarlamento Martin Schultz, ci sono state 626mila domande di asilo nella Ue, ma ne è stata accolta solo un’infima percentuale (a titolo di paragone, il Libano, che ha 5 milioni di abitanti, accoglie un milione di siriani). La Francia manderà due navi e un aereo, la Svezia (con la Norvegia) una nave. La Germania, due navi. La Spagna e il Belgio accettano anch’esse di partecipare. La ministra della difesa italiana, Pinotti, sostiene di sapere dove si trovano i trafficanti, l’Italia spinge per operazioni mirate in Libia. Ma molti frenano, e molto probabilmente la distruzione dei barconi avverrà nei porti di sbarco europei. Per poter agire in Libia, principale stato di partenza, ci vuole l’accordo del “governo”, ma, come ha sottolineato Hollande (riferendosi polemicamente al suo predecessore Sarkozy), quel paese “non è governato, è nel caos”, tre anni e mezzo dopo l’intervento. Ci vorrebbe un mandato Onu, ma qui l’Ue si scontrerebbe con un sicuro veto russo. Il precedente di Atalante, la missione Ue al largo della Somalia contro la pirateria, insegna: la missione era stata decisa nel 2008, ma le prime azioni sono arrivate solo nel 2011-12. Come ha riassunto un ammiraglio francese, Alain Coldefy: “cosa possiamo fare per contenere questo traffico con la forza? La risposta è semplice: niente”. Rebecca Harms, co-presidente dei Verdi al Parlamento europeo, afferma che l’ipotesi di interventi mirati è un “senza senso, la missione di difesa e sicurezza comune significa militarizzazione della strategia Ue contro i migranti”.
La Ue si lascia tentare dal modello australiano. Il premier, il conservatore Tony Abbott, vanta che negli ultimi 18 mesi ci sono stati “zero morti” al largo dell’Australia, grazie all’operazione “frontiere sovrane”. Una campagna di informazione (“No way, you will not make Australia home”) per scoraggiare le partenze, 908 baroni respinti nelle acque internazionali in 18 mesi, una spesa considerevole di centinaia di migliaia di dollari e per i migranti la sola possibilità di tornare da dove sono venuti oppure di andare in centri di detenzione off shore in “paesi partner”: Camberra dà soldi a paesi come la Cambogia (40 milioni di dollari) o la Papuasia Nuova Guinea perché accolgano i migranti che avrebbero diritto all’asilo (l’Australia ha firmato la convenzione internazionale del ’51). La Ue, difatti, cerca “partner” in Africa che si facciano carico dei migranti.