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La Repubblica, 29 aprile 2015 (m.p.r.)

Chiamatelo “No 2.0” o, se preferite, opposizione ai tempi dei social media. Ecco la prima vera fotografia ad alta risoluzione di chi è contro in Italia. Poco importa poi se si tratta della Tav, l’Expo, le discariche, l’eolico, le trivellazioni in Adriatico, le grandi opere. L’analisi, che verrà resa pubblica oggi, è stata condotta da Public Affairs Advisors e da Fleed Digital ed è una lente di ingrandimento su quel che è accaduto nel Web nel corso degli ultimi sei mesi. Sono stati passati al setaccio oltre venticinquemila discussioni, novemila tweet, cinquemila post su Facebook. Intendiamoci, l’indagine non entra nel merito della legittimità dei singoli movimenti, ma si limita a tracciarne un profilo evidenziando origine, affinità, modus operandi. Un panorama fatto da quattro milioni di account, quelli dei quali è possibile vedere pubblicamente i contenuti, e oltre centomila fra forum, blog e siti. Non è un campione rappresentativo su base demografica e statistica, ma indicativo di quanto successo su Internet.

«La prima cosa che emerge è il tramonto dell’idea del “not in my back yard” (nimby), ovvero del “mi riguarda solo se avviene nel cortile di casa”, spiega Alessandro Giovannini, direttore di Fleed. «Sono pochi coloro chi si oppongono perché chiamati in causa direttamente. Il no sul Web è spesso ideologico, trasversale e non più riconducibile a un solo movimento politico parlamentare o extra parlamentare». In testa alla classifica c’è No Tav, nato nel 1993: ha generato un volume di discussioni tre volte superiore rispetto a quello che si oppone all’Expo dal 2007 e alle trivellazioni in Adriatico, No Triv, apparso nel 2012.
Molte le differenze, ma altrettante le similitudini e abituale il sostegno reciproco malgrado luoghi e date di nascita differenti. Come i No Tav del Piemonte e i No Muos siciliani che si oppongono all’installazione dei radar della Nato dal 2009. Il No Triv invece, sorto fra Basilicata, Abbruzzo e Irpinia, ovvero dove ci sono progetti di estrazione o esplorazione dei giacimenti petroliferi o di gas, è un movimento locale poi diventato nazionale collaborando con le associazioni ambientaliste per contrastare il decreto Sblocca Italia. La battaglia ha fatto fare ai No Triv anche un salto di qualità con l’alleanza con gli spagnoli che contrastano le trivellazioni a largo delle Canarie. Tanto che sui social media ora i post vengono scritti in doppia lingua, spagnolo e italiano. I No Tav invece preferiscono la diffusione di video, grazie all’alleanza strutturale con Anonymous. Partono da YouTube e Vimeo e poi vengono amplificati via social network. Nato in Val di Susa, ora il movimento si occupa di grandi opere a trecentosessanta gradi.
«La circolazione di informazioni è velocissima» racconta Giovanni Galgano, direttore di Public Affairs Advisors. «E in certi casi si tratta di notizie incomplete o false. Ma ciò nonostante, queste forme di dissenso dimostrano che le istituzioni perdono credibilità giorno dopo giorno. I cittadini si sentono da un lato abbandonati, dall’altro protagonisti ». Con una novità importante: ormai il no nasce quasi esclusivamente online, lì si evolve e poi solo dopo arriva nelle piazze. Ed è il movimento “liquido”, quello sulla Rete, a diventare a volte punto di riferimento della politica e non il contrario. «Questo è un aspetto interessante», concorda Stefano Epifani, docente di comunicazione digitale a La Sapienza di Roma e autore fra gli altri del saggio Manuale di comunicazione politica online.
«Se escludiamo i movimenti più grandi, ogni dissenso può esser costruito ad arte da multinazionali, gruppi di pressione, organizzazioni di vario tipo. È il “crowdlobbying” e consiste nell’utilizzare la Rete come strumento di persuasione dal basso. Ci sono aziende che, mentre continuano a fare comunicazione istituzionale, mettono in piedi pagine su Facebook di dissenso funzionali alla propria proposta ». Chiunque si occupi di lobbying sta studiando questi fenomeni. «Ma attenzione: non è detto che sia fatto per fini ideologicamente spregevoli», conclude Epifani. «Greenpeace, faccio un esempio a caso, potrebbe usare simili leve per promuovere le sue battaglie. E del resto, cosa ci sarebbe di male?» Nulla, verrebbe da dire, almeno finché è tutto alla luce del sole.

Il manifesto, 28 aprile 2015

Pronto a un com­pro­messo sem­pre ono­re­vole e non a una capi­to­la­zione incon­di­zio­nata, Ale­xis Tsi­pras. Ma il tempo stringe per il governo greco e il cam­pa­nello d’allarme non viene dalle casse dello stato più o meno vuote, né dai bot­te­gai, il cui pre­si­dente, già can­di­dato euro­par­la­men­tare con le liste della Nea Dimo­kra­tia, ha minac­ciato che «i lun­ghi nego­ziati» tra Atene e i suoi cre­di­tori «aggra­vano la crisi del com­mer­cio greco».

Manco a dirlo, l’allarme è giunto da Bru­xel­les e da Riga dove mini­stri dell’eurozona hanno espresso la loro rituale pre­oc­cu­pa­zione su cosa acca­drà nel caso in cui l’Eurogruppo dell’11 mag­gio dovesse finire con un altro nulla di fatto. Il pre­mier greco sa che anche que­sti «timori» fanno parte delle pres­sioni eser­ci­tate su Atene per farla retrocedere.

Ma il 12 mag­gio, senza un aiuto finan­zia­rio il governo greco dif­fi­cil­mente potrà rim­bor­sare i 700 milioni di euro al Fmi. A meno di sal­tare sti­pendi e pen­sioni per il pros­simo mese, cosa che Tsi­pras ha escluso. Lunedì sera, in un’intervista-fiume finita nella notte, si è detto pronto a un com­pro­messo ono­re­vole, ma non ha indie­treg­giato: fermo sem­pre sul pro­gramma di Salo­nicco, ma con uno spi­rito più ade­guato alle circostanze.

Pronto all’autocritica, ma anche espli­cito nel caso il nego­ziato dovesse fal­lire e le condizioni-diktat impo­ste dai cre­di­tori inter­na­zio­nali doves­sero costrin­gere il governo Syriza–Anel a vio­lare le pro­messe elettorali. Lo stallo delle ultime set­ti­mane «sta spin­gendo il paese nella reces­sione», per­ció «è neces­saro arri­vare a un accordo in tempi stretti… entro la fine della set­ti­mana pros­sima», ha detto Tsi­pras, che è parso prò otti­mi­sta: «Siamo vicini a un accordo — ha detto -, nono­stante restino diver­genze su lavoro, pen­sioni e pri­va­tiz­za­zioni». Per­ché i ricavi delle pri­va­tiz­za­zione, per il pre­mier greco, ser­vono a soste­nere la crisi sociale non, come sostiene Bru­xel­les, a ripa­gare il buco nero del debito lasciato dal governo Samaras.

Ma in caso di fal­li­mento delle trat­ta­tive o di intesa sfa­vo­re­vole ad Atene, nel caso che la Gre­cia var­casse le pre­an­nun­ciate «linee rosse», non si tor­ne­rebbe alla dracma, né ci sareb­bero ele­zioni anti­ci­pate come paven­tato da molte parti. Per Tsi­pras l’alternativa è un refe­ren­dum. Una con­sul­ta­zione popo­lare sui risul­tati del nego­ziato euro­peo, mal­grado le pole­mi­che pro­ve­nienti dall’opposizione e i dubbi di chi sostiene che la Costi­tu­zione elle­nica non pre­vede refe­ren­dum per leggi di bilancio.

Ma l’oggetto non sarebbe una legge di bilan­cio. «Si tratta di un argo­mento d’interesse nazio­nale che ha una com­po­nente finan­zia­ria», ha rispo­sto ieri Tsi­pras, che ha cri­ti­cato Jeroen Dijs­sel­bloem e Mario Dra­ghi. «Abbiamo sba­gliato a non chie­dere per iscritto ciò che ci ave­vano pro­messo, ovvero la garan­zia che dopo l’accordo del 20 feb­braio avreb­bero lasciato mano libera alle ban­che con­sen­tendo loro di inve­stire di più nei titoli di stato». Rife­ren­dosi al pre­si­dente della Bce, l’ha con­si­de­rato respon­sa­bile della deci­sione «non orto­dossa» di ridurre la pos­si­bi­lità del finan­zia­mento delle ban­che gre­che dall’Eurotower. Nes­suna frec­ciata sta­volta per Angela Mer­kel con la quale ha deciso nel recente ver­tice bila­te­rale di tenere sem­pre aperto il col­le­ga­mento tele­fo­nico per garan­tire il pro­se­gui­mento del negoziato.

Varou­fa­kis? Ora è meno solo

Tsi­pras ha poi tes­suto le lodi di Yanis Varou­fa­kis — «il mini­stro delle finanze resta un asset impor­tante per il Paese» -, nono­stante dome­nica scorsa, nella riu­nione a Megaro Maxi­mou, sede del governo, sia stato deciso di coa­diu­vare il suo potere di trat­ta­tiva. Varou­fa­kis man­tiene sem­pre l’incarico del mini­stero delle Finanze, ma respon­sa­bile dei nego­ziati con i part­ner euro­pei sarà d’ora in poi il vice­mi­ni­stro delle Rela­zioni inter­na­zio­nali Euclid Tsa­ka­lo­tos, che ha stu­diato a Oxford e che, secondo alcuni, avrebbe il pro­filo giu­sto per trat­tare con i cre­di­tori. Il governo ha inol­tre for­mato una squa­dra tec­nica coor­di­nata dal segre­ta­rio gene­rale Spy­ros Sagias, men­tre la respon­sa­bi­lità del gruppo che tratta con il Bruxelles-Group l’avrà il pre­si­dente del con­si­glio eco­no­mico Jor­gos Hou­lia­ra­kis. Diverse le inter­pre­ta­zioni del mini-rimpasto del gruppo che tratta con le «isti­tu­zioni» europee.

È opi­nione dif­fusa che con tale deci­sione il governo intenda «esten­dere il soste­gno» al mini­stro delle Finanze, men­tre a sen­tire parte della stampa locale e inter­na­zio­nale (impe­gnata in una vasta opera di fal­si­fi­ca­zione), il «depo­ten­zia­mento» di Varou­fa­kis era quasi obbli­gato dopo le enne­sime, dure cri­ti­che dell’Eurogruppo a Riga.

Pole­mi­che anche sul nego­ziato per le riforme. Alle voci secondo le quali Tsi­pras sarebbe giá pronto a rinun­ciare alle pro­messe elet­to­rali come l’aumento del sala­rio minimo e il raf­for­za­mento dei diritti dei lavo­ra­tori con il ripri­stino del con­tratto col­let­tivo nazio­nale di lavoro, il pre­mier mostra invece di non volere rinun­ciare a nes­suno di que­sti con­te­nuti; al mas­simo sem­bra dispo­sto solo a riman­dare a giu­gno il nego­ziato su que­sti argo­menti nell’ambito delle trat­tat­tive per la ridu­zione del debito e per un pro­gramma a lungo ter­mine. Comun­que ieri il pre­mier si é limi­tato a dire sol­tanto che l’ abo­li­zione della tassa unica sulla casa potrebbe slit­tare al 2016.

Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)

Ban Ki moon gela Mat­teo Renzi e i suoi pro­po­siti di distrug­gere i bar­coni degli sca­fi­sti con l’avallo dell’Onu. Non è bastata una gita sulla nave San Giu­sto della nostra Marina mili­tare per con­vin­cere il segre­ta­rio gene­rale delle Nazioni unite della bontà dei pro­getti del governo ita­liano, deciso più che mai ad affon­dare le imbar­ca­zioni con cui i traf­fi­canti di uomini tra­spor­tano nel canale di Sici­lia migliaia di dispe­rati in fuga dalla guerra. Ban è arri­vato ieri a Roma per un ver­tice Ue-Onu-Italia sull’emergenza immi­gra­zione facen­dosi pre­ce­dere da un ammo­ni­mento che ha fatto capire al pre­mier ita­liano come la strada per con­vin­cerlo ad auto­riz­zare un qual­siasi tipo di inter­vento in Libia sia a dir poco in salita. «Non esi­ste una solu­zione mili­tare alla tra­ge­dia umana che sta avve­nendo nel Medi­ter­ra­neo» ha detto il segre­ta­rio, get­tando così acqua sulle ambi­zioni inter­ven­ti­ste del governo. Al punto da costrin­gere ieri la por­ta­voce dell’Alto rap­pre­sen­tante Ue per la poli­tica estera Fede­rica Moghe­rini a cor­rere ai ripari: il piano che l’Unione euro­pea sta pre­pa­rando per distrug­gere i bar­coni «non è un inter­vento mili­tare» in Libia, ha detto la portavoce.

Moghe­rini e Ban Ki moon avranno avuto comun­que modo di chia­rirsi le idee ieri pome­rig­gio quando, insieme a Mat­teo Renzi, hanno preso il largo nel canale di Sici­lia sulla nave San Giu­sto. Una cro­ciera voluta dal pre­mier per mostrare al segre­ta­rio gene­rale quanto accade ogni giorno lungo la fron­tiera meri­dio­nale dell’Europa, nella con­vin­zione di riu­scire a por­tarlo dalla sua parte. Qual­cosa, però, non deve essere andato nel verso giu­sto. O forse Ban Ki moon ha capito qual è la vera urgenza del Medi­ter­ra­neo: «Le auto­rità devono foca­liz­zarsi sul sal­va­tag­gio delle vite dei migranti», ha detto il numero uno dell’Onu una volta rimesso piede a terra. Frase che sem­bre­rebbe pren­dere le distanze anche dai pochi risul­tati rag­giunti gio­vedì scorso dal con­si­glio euro­peo straor­di­na­rio sull’immigrazione dove sì, si sono stati tri­pli­cati i fondi desti­nati a Tri­ton, ma almeno per ora non è stato modi­fi­cato lo scopo della mis­sione, che resta di sor­ve­glianza delle fron­tiere e non di sal­va­tag­gio dei migranti. A Renzi e Moghe­rini non è rima­sto altro che fare buon viso a cat­tivo gioco: «L’Italia non è più sola», ha detto il pre­mier. «Fer­mare i traf­fi­canti di esseri umani per evi­tare una cata­strofe uma­ni­ta­ria è un’assoluta prio­rità su cui con­tiamo di avere il soste­gno delle Nazioni unite».

Nei pros­simi giorni si vedrà se sarà così, e soprat­tutto se gli sforzi diplo­ma­tici messi a punto dalla rap­pre­sen­tante euro­pea della poli­tica estera avranno rag­giunto o meno lo scopo (ieri la Moghe­rini ha par­lato di immi­gra­zione al tele­fono anche con il mini­stro degli esteri russo Ser­ghiei Lavrov ed è quasi scon­tato che tra i temi toc­cati ci sia stata anche la Libia). Intanto già in que­sta set­ti­mana si potrebbe comin­ciare a capire come l’Unione euro­pea intende muo­versi per met­tere fine alle stragi dei bar­coni. Un anti­cipo potrebbe arri­vare mer­co­ledì con l’intervento che il pre­si­dente della com­mis­sione Jun­ker farà nel corso della ple­na­ria pre­vi­sta a Stra­sburgo, men­tre la «road­map» degli inter­venti potrebbe arri­vare nei giorni imme­dia­ta­mente suc­ces­sivi con la spie­ga­zione dei tempi ad aumen­tare del tri­plo i finan­zia­menti per Tri­ton e la mis­sione di poli­tica di difesa e sicu­rezza su cui la Moghe­rini sta lavo­rando e che, dopo aver visto Ban Ki moon, la por­te­ranno oggi e domani a Washing­ton e New York. Il 13 mag­gio, invece, è pre­vi­sta la pre­sen­ta­zione del piano Ue sull’immigrazione in cui dovrebbe esserci anche un’ipotesi di sud­di­vi­sione dei pro­fu­ghi tra gli Stati mem­bri. Que­stione sulla quale fino a oggi si sono incon­trate le mag­giori dif­fi­coltà quando non dei veri veti da parti di alcuni Paesi.

«I muta­menti dell’organizzazione demo­cra­tica e i cam­bia­menti del sistema isti­tu­zio­nale pro­po­sti nei dise­gni di legge rimet­tono in discus­sione il rap­porto che esi­ste tra governo, par­la­mento e cit­ta­dini. Si pone dun­que l’esigenza di rive­dere gli stru­menti di par­te­ci­pa­zione attiva della popo­la­zione.

Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)

L’isteria con cui il governo avanza nella discus­sione sulla riforma della Costi­tu­zione e sulla legge elet­to­rale è un fatto del tutto nuovo nel nostro paese, e per que­sto deve farci riflet­tere. La neces­sità di attuare le riforme, da noi con­di­visa, non può pre­scin­dere da un per­corso di con­fronto e di ascolto sul merito delle que­stioni, e invece il governo si limita all’affermazione, più volte ripe­tuta dal mini­stro Boschi, «abbiamo già discusso». Le riforme isti­tu­zio­nali per la loro spe­ci­fica natura devono essere appro­vate con il più ampio con­senso e non a colpi di maggioranza.

La Cgil da tempo sostiene il supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo per­fetto, l’istituzione di una Camera rap­pre­sen­ta­tiva delle Regioni e delle auto­no­mie locali e la modi­fica del Titolo V della Costi­tu­zione. La stessa modi­fica del Titolo V appor­tata nel 2001 sulla quale è una­nime il giu­di­zio nega­tivo per aver pro­dotto un con­fuso fede­ra­li­smo con una forte sovrap­po­si­zione tra le pre­ro­ga­tive dello Stato e quelle delle Regioni, ci dimo­stra che non basta volere il cam­bia­mento, biso­gna anche saperlo pro­muo­vere e soprat­tutto qualificare.

Nel merito della discus­sione, ciò che ci pre­oc­cupa mag­gior­mente è il com­bi­nato dispo­sto della modi­fica costi­tu­zio­nale con la nuova legge elettorale.

La riforma costi­tu­zio­nale pro­po­sta dal governo intro­duce un pro­ce­di­mento legi­sla­tivo far­ra­gi­noso e non fa della seconda camera un luogo di rap­pre­sen­tanza delle isti­tu­zioni locali ade­guato a defi­nire un nuovo equi­li­brio isti­tu­zio­nale, reso ancor più neces­sa­rio dall’accentramento di com­pe­tenze legi­sla­tive pre­vi­sto dalle modi­fi­che pro­po­ste nel Titolo V.

Per noi il pro­blema non è l’elezione diretta dei sena­tori, ma quali saranno i poteri della seconda camera del Par­la­mento. Se il Senato deve rap­pre­sen­tare le Regioni e le Auto­no­mie, in una logica di equi­li­brio tra Stato, Regioni e Comuni e con l’obiettivo di eser­ci­tare la neces­sa­ria coo­pe­ra­zione isti­tu­zio­nale tra i dif­fe­renti livelli di governo, deve poter votare le leggi che hanno una rica­duta ter­ri­to­riale, a comin­ciare dalle risorse. Nell’attuale testo di riforma, invece, si attri­bui­sce a Palazzo Madama la pote­stà legi­sla­tiva piena sulla Costi­tu­zione, ma non sui prin­ci­pali prov­ve­di­menti che inte­res­sano Regioni e autonomie.

Que­sta situa­zione, uni­ta­mente ad una legge elet­to­rale come l’Italicum, che pre­vede un bal­lot­tag­gio con regole sba­gliate e deter­mina una grave incer­tezza su chi sce­glie real­mente i depu­tati che sie­de­ranno a Mon­te­ci­to­rio, potrebbe por­tare ad una peri­co­losa con­tra­zione democratica.

Nella legge elet­to­rale, noi non con­te­stiamo che il pre­mio di mag­gio­ranza venga dato al secondo turno, ma rite­niamo che per quest’ultimo deb­bano valere regole diverse da quelle con­te­nute nel testo gover­na­tivo. L’Italicum non pre­vede né la pos­si­bi­lità dell’apparentamento, né una soglia che per­metta il bal­lot­tag­gio uni­ca­mente tra par­titi con una rap­pre­sen­tanza pari, almeno, al 50% degli elet­tori del primo turno, come avviene in Fran­cia per l’elezione dell’assemblea nazio­nale, dove in caso di man­cato supe­ra­mento di tale soglia il bal­lot­tag­gio è allar­gato ai primi tre candidati.

Senza que­ste pre­vi­sioni si rischia di dare la mag­gio­ranza asso­luta dei seggi a una forza poli­tica che ha con­qui­stato solo il 20% dei voti al primo turno. Al con­tra­rio, l’auspicata sem­pli­fi­ca­zione isti­tu­zio­nale che si avrebbe con il supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo per­fetto, richiede neces­sa­ria­mente un sistema elet­to­rale in grado di garan­tire un forte man­dato ai depu­tati, che renda l’aula di Mon­te­ci­to­rio la sede della rap­pre­sen­tanza poli­tica del paese in tutta la sua com­ples­sità, senza mor­ti­fi­care, in nome del prin­ci­pio di gover­na­bi­lità che deve essere comun­que tute­lato, il plu­ra­li­smo politico.

I muta­menti dell’organizzazione demo­cra­tica posti dalla moder­nità e i cam­bia­menti del sistema isti­tu­zio­nale pro­po­sti nei dise­gni di legge rimet­tono in discus­sione il rap­porto che esi­ste tra governo, par­la­mento e cit­ta­dini. Si pone dun­que l’esigenza di rive­dere, in modo ade­guato, gli stru­menti di par­te­ci­pa­zione attiva della popo­la­zione. Su que­sto fronte pen­siamo che con la riforma costi­tu­zio­nale si sia persa un’occasione: il governo ha appor­tato delle pic­cole e insuf­fi­cienti modi­fi­che al refe­ren­dum abro­ga­tivo e alla pro­po­sta di legge di ini­zia­tiva popo­lare, e nel pre­ve­dere l’istituzione del refe­ren­dum pro­po­si­tivo e di indi­rizzo lo ha riman­dato ad una suc­ces­siva legge costi­tu­zio­nale, senza fis­sarne cri­teri e para­me­tri, rin­vian­done di fatto la reale introduzione.

Poi­ché siamo nell’epoca delle isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali e della velo­cità, c’è biso­gno di rie­qui­li­brare il rap­porto tra governo, par­la­mento e popolo attra­verso un’idea della demo­cra­zia che pre­veda l’espressione del popolo nel merito delle grandi scelte. Que­sta, secondo noi, deve essere la nuova fron­tiera degli stati demo­cra­tici moderni e deve diven­tare il prin­ci­pio di governo anche nei grandi stati, non solo nei pic­coli, altri­menti si rischia una demo­cra­zia rove­sciata in cui i governi deci­dono e i popoli si devono adeguare.

Danilo Barbi è Segretario confederale Cgil

Il manifesto, 28 aprile 2015

Premier Italicum, lo ha nominato Ilvo Diamanti. Stiamo parlando di Matteo Renzi, naturalmente. Difficile trovare un epiteto più azzeccato per il Presidente del Consiglio se gli riuscirà il colpo grosso di portare a casa, tra voti di fiducia, ricatti politici e psicologici, minacce di fine anticipata e traumatica della legislatura, la legge elettorale cui ha legato, inusitatamente, le sorti del proprio governo. In effetti Rosi Bindi ha rilevato quanto sia improprio che un governo ritenga vitale per la propria sopravvivenza un progetto su una materia che dovrebbe essere di squisita pertinenza parlamentare, come la legge elettorale.

Ma non si tratta di una stravaganza o semplicemente di un atto estremo di arroganza. Il problema è che l’Italicum è molto di più e peggio di una legge elettorale, anche se in quanto tale già fa rimpiangere i bei tempi della legge truffa di Alcide De Gasperi, dove almeno il premio di maggioranza veniva dato a chi già ce la aveva per conferimento elettorale.

In realtà con l’Italicum si vuole cambiare nel profondo la natura dello Stato italiano, modificandone la struttura istituzionale, i rapporti tra i poteri, i ruoli dei medesimi senza passare attraverso un’esplicita modifica del dettato costituzionale.

E’ quanto emerge dalle parole dei suoi stessi inventori e sostenitori, cui conviene prestare la dovuta attenzione. Roberto D’Alimonte deve odiare a tal punto il principio di non contraddizione, da riuscire, nello stesso articolo, a contraddire palesemente sé stesso. Sul Sole 24 Ore di domenica prima afferma che si tratterebbe di pura sciocchezza considerare l’Italicum come il cavallo di Troia che introduce il presidenzialismo nel nostro ordinamento, dal momento che le norme costituzionali concernenti le figure del Presidente del Consiglio e del Capo dello Stato non vengono toccati. Tutti sanno però – e il suo ideatore, cioè lo stesso D’Alimonte, non lo nasconde – che ben difficilmente un partito o una lista possono raggiungere e superare al primo colpo la soglia del 40% che farebbe scattare il premio di maggioranza, in realtà, più correttamente, di minoranza. Il della nuova legge è provocare il ballottaggio fra due schieramenti in modo da fare scegliere ai cittadini “direttamente” chi li governerà. In realtà - sia detto qui per inciso- si tratta di una pura illusione o meglio menzogna, dal momento che le politiche dei governi nazionali sono sovra determinate dalle scelte della Ue, come si vede nel caso greco.

Il nostro politologo non si scompone e con nonchalance afferma che se nel ballottaggio “la scelta è tra due leader e due partiti, sarà il leader del partito vincente a diventare capo del governo”. E il Capo dello Stato che cosa ci sta a fare? Non preoccupatevi: la nomina del Presidente del Consiglio spetterebbe formalmente sempre a lui. Ma sarà una nomina “obbligata”, continua il nostro, che aggiunge: “Dunque è vero: il meccanismo previsto dall’Italicum introduce l’elezione diretta del capo del governo” e questo al di là della forma, perché ”in politica la sostanza conta quanto la forma. Se non di più” e quindi “un sistema elettorale potente come l’Italicum influirà … sul funzionamento concreto delle istituzioni della Repubblica, in particolare Parlamento e Presidenza.”

Difficile leggere un disprezzo maggiore per le norme costituzionali, le quali verrebbero aggirate e profondamente modificate da una legge elettorale che è pur sempre legge ordinaria. Il presidenzialismo verrebbe imposto per via di fatto, e la modifica formale della Costituzione rimandata a tempi ancora più favorevoli di quelli attuali per la maggioranza renziana. Ancora una volta la volontà dei cittadini è messa sotto i piedi. Non quella virtuale, ma quella democraticamente espressa nel referendum del 2006. Che raggiunse il quorum per quanto non necessario, tanto fu partecipato, e che bocciò la riforma costituzionale votata dalla maggioranza berlusconiana che prevedeva il premierato, cioè l’incremento dei poteri del presidente del Consiglio, fra cui lo scioglimento delle camere, e la conseguente diminuzione di quelli del Capo dello Stato, fra cui la prerogativa prevista dall’articolo 92 della Costituzione, di nominare il primo ministro.

Pesante è la responsabilità di chi voterà l’Italicum nei prossimi giorni, in aperto e plateale contrasto con la Costituzione e la volontà popolare.

La Repubblica, 27 aprile 2015

MATTEO Renzi sta cambiando non solo la legge elettorale, ma anche il modello di democrazia che contrassegna il nostro Paese. Si tratta, in fondo, di un'osservazione scontata, perché il sistema elettorale è il "primo principio" della democrazia rappresentativa. Attraverso cui i cittadini partecipano alla scelta delle assemblee parlamentari e, quindi, del governo.

L'Italicum , però, delinea, al tempo stesso, una modifica della "forma di governo", perché conduce e induce all'elezione diretta del Presidente del Consiglio. E, insieme, al rafforzamento dei poteri dell'esecutivo a spese del legislativo. Di fatto, anche se non formalmente. Lo ha chiarito, in Commissione Affari costituzionali, alla Camera, Roberto D'Alimonte. Autore della versione originaria dell'Italicum. E l'ha ribadito ieri, sul Sole 24 ore: capo del governo e maggioranza parlamentare saranno decisi direttamente dai cittadini.

D'altronde, se, con le nuove regole, le elezioni garantiranno la maggioranza assoluta non a una coalizione ma a un partito, risulta evidente come il leader del partito vincitore diverrebbe automaticamente "premier". E disporrebbe di una maggioranza "fedele", visto che i capilista di circoscrizione, come prevede l'Italicum, sono pre-definiti. Bloccati. E, dunque, scelti dal "centro". Non si tratta, peraltro, di una novità, perché, da quasi 15 anni, i candidati premier vengono indicati nelle stesse schede elettorali. Insieme e accanto al nome del partito. O della lista. Giovanni Sartori, non per caso, ne ha sempre denunciato l'incostituzionalità. Perché si tratta di un metodo attraverso il quale si modifica la base "parlamentare" della nostra democrazia. Naturalmente, come hanno chiarito alcuni autorevoli giuristi (Barbera, Ceccanti, Clementi), l'Italicum non prevede cambiamenti sul piano "costituzionale". Ma ne produrrà, sicuramente, sul piano "istituzionale" e politico. Perché il potere legislativo, la fiducia al governo e al premier spetterebbero ancora al Parlamento. Tuttavia, a differenza del passato, anche recente, il leader del partito vincitore non solo diverrebbe, automatica- premier. Ma non dovrebbe più sottostare ai vincoli e ai condizionamenti di coalizioni instabili e frammentate. Di leader di piccoli partiti, ma con un grande potere di "ricatto". Si tratti di Mastella, Bertinotti. Di Rifondazione, dell'Udeur oppure della Lega.

È, dunque, lecito parlare di "premierizzazione". Una tendenza che, nel caso dell'Italia del nostro tempo, verrebbe accentuata dalla marcata personalizzazione dei partiti. Divenuti, ormai da tempo, "personali" (per citare la nota formula coniata da Mauro Calise). Tanto più nel caso del Partito democratico di Renzi, sempre più identificato e accentrato nella persona del Capo. Almeno quanto Forza Italia lo è nei confronti di Silvio Berlusconi. Con una differenza sostanziale, sul piano politico e parlamentare. Che, come si è detto, se il Pd vincesse le prossime elezioni, Renzi potrebbe governare senza il condizionamento degli alleati, con i quali, invece, Berlusconi ha sempre dovuto fare i conti.

Naturalmente, il Pd non è Forza Italia. Non è stato "creato" e modellato da "un" solo leader - da solo. Il Pd viene da lontano. Incrocio e confluenza dei partiti di massa che hanno segnato la storia e la politica della nostra Repubblica, per cinquant'anni e oltre. Tuttavia, il Pd, in questa fase, è cambiato profondamente, in tempi molto rapidi. E oggi coincide sempre più con la figura del leader. Dunque, del premier. È divenuto PdR (come ho scritto altre volte). Il Partito democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito di Renzi. In quanto il leader si sovrappone - in senso letterale: si "pone sopra" - al Pd. In modo aperto. In Parlamento e fuori. Come sottolinea la sostituzione, in Commissione Affari Costituzionali della Camera, di tutti gli esponenti della minoranza interna al Pd.

Un orientamento confermato in occasione della festa nazionale dell'Unità di Bologna, capitale storica dell'Italia Rossa. Dove non sono stati invitati, fra gli altri, Gianni Cuperlo (poi, sembra, "recuperato") e, soprattutto, Pier Luigi Bersani. Una biografia politica trascorsa nella famiglia del Pci e dei partiti post-comunisti. In Emilia Romagna. Dov'è stato governatore (fra il 1993 e il 1996). Un segno esplicito e perfino sfrontato di sopravvento sul passato. Tanto più perché l'Unità, il giornale a cui si ispira la Festa, è la testata storica del Pci. Bandiera della tradizione e della militanza comunista. Oggi "sottomessa" simbolicamente, e non solo, dal (e al) PdR. Matteo Renzi, peraltro, accompagna questo percorso accentuando lo stile e il linguaggio del "leader che fa e decide". E viceversa: "decide e fa". Così, nei giorni scorsi, ha dichiarato che "se l'Italicum non passa, il governo cade". Detto senza enfasi. Non una minaccia, ma, piuttosto, un annuncio. Quasi una constatazione. Perché "se il governo, nato per fare le cose, viene messo sotto, allora vuol dire che i parlamentari dicono: andate a casa". E, dunque, suggerisce Renzi, implicitamente: "vi manderò a casa". Tutti.

Se si guarda "oltre" l'Italicum, dunque, dentro alla riforma elettorale si scorge l'elezione diretta del premier. Il quale riassumerebbe e concentrerebbe ruolo e poteri del leader del partito. A conferma di una tendenza in atto da tempo, ma che ora verrebbe istituzionalizzata. Per Matteo Renzi si tratterebbe della conclusione - coerente e conseguente - del percorso condotto nell'ultimo anno e mezzo. Durante il quale ha governato in "solitudine". Il PdR e l'Italia. Renzi, dunque, si appresta a diventare il Premier Italicum.

La Repubblica online, blog "Articolo 9", 27 aprile 2015

Quando un ministro della cultura invoca pubblicamente la separazione tra etica e politica forse è il caso di cominciare a preoccuparsi.

Oggi Dario Franceschini ha rotto il silenzio politico che ha lodevolmente scelto da quando ha il peso del nostro patrimonio culturale. Lo ha fatto per giustificare la decisione di porre la fiducia sull'Italicum: invocare la libertà di coscienza (o di mandato: art. 67 della Costituzione) sarebbe «Assolutamente sbagliato. Ma come si fa a non vedere che la legge elettorale è il tema più politico del mondo? Non parliamo mica di problemi etici!».

Ora, appena ieri Eugenio Scalfari ha scritto che «Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto». Si potrà non esser d'accordo (io, invece, lo sono al cento per cento), ma come non vedere che se la posta in gioco è questa, il problema è radicalmente etico?

Ma la spia più interessante del discorso di Franceschini è l'opposizione aperta ed esplicita tra problemi 'politici' e problemi 'etici'. A me pare che una simile scissione – teorizzata e praticata – tra etica e politica rappresenti la vera antipolitica: ed è proprio a causa di questa deriva che in Italia vota ormai meno della metà dei cittadini.

Nelle scorse settimane questo violento divorzio si è celebrato pubblicamente nell'aula del Consiglio regionale toscano. Qui il Pd ha insultato l'assessore Anna Marson – una tecnica prestata al governo della regione –, rea di aver combattuto strenuamente per l'approvazione del Piano del Paesaggio, una conquista di civiltà per la quale i toscani del futuro le saranno grati.

I consiglieri del Pd hanno tacciato la Marson di «stupidità politica», trivializzando un'infelice uscita del presidente Enrico Rossi, che aveva definito l'assessore «un grande tecnico… che quando esprime giudizi politici compie scivoloni pericolosi». Nel suo bellissimo discorso finale, la Marson ha rivendicato con forza: «invece il mio agire “diversamente politico”, in quanto non guidato dal desiderio di mantenere un incarico di assessore, né dall’obbligo di restituire favori e accontentare interessi specifici». Questa è la vera politica, quella che rimane saldamente ancorata all'etica, e proprio per questo riesce a fare l'interesse generale. Ma alle prossime elezioni, tra un mese, nessun partito ricandiderà Anna Marson.

E quanti parlamentari del Pd riconosceranno che, con buona pace di Dario Franceschini, la legge elettorale è proprio un grande tema etico, che riguarda la stessa sopravvivenza della democrazia in Italia?

La Repubblica, 27 aprile 2015

PER la prima volta si tenta di esercitare qualche rarefatta pressione su Sergio Mattarella. Ed è curioso, ma non troppo, che al Quirinale guardino con una certa impazienza esponenti del mondo più vicino al capo dello Stato sul piano culturale e politico. La reticenza non sorprende perché la materia è delicata, trattandosi di quattro voti di fiducia sulla riforma elettorale.

MA è chiaro che Rosy Bindi, per citare un nome, freme e si aspetta che il presidente della Repubblica dica una parola, o meglio agisca dietro le quinte per dissuadere il governo dal mettere in pratica quelle che sembrano ormai le sue intenzioni.

La Bindi è una rappresentante storica della sinistra cattolica e aveva le lacrime agli occhi per la gioia il giorno dell’elezione di Mattarella. Ma ovviamente è pericoloso credere o anche solo pensare che il presidente della Repubblica porti con sé al Quirinale, tale e quale, il proprio patrimonio di vita e di cultura e si disponga ad agire senza filtri e mediazioni. Il vertice delle istituzioni impone una cautela eccezionale, specie in una fase di passaggio come quella che il Paese sta vivendo. E rappresentare al meglio il ruolo di garanzia significa anche scontentare, in qualche caso, persone con cui un tempo si sono condivise certe battaglie politiche.

In altri termini, sembra poco plausibile che il capo dello Stato tolga le castagne dal fuoco alla minoranza del Pd o ai gruppi di opposizione a cui non piace la riforma elettorale. E quando si parla di opposizione ci si riferisce in particolare a Forza Italia, che ancora in gennaio al Senato votava con convinzione (salvo eccezioni) la stessa legge contro cui oggi si scaglia. Quanto alla minoranza del Pd, non riesce a dimostrarsi compatta se non quando protesta — con ragione — contro il ricorso al voto di fiducia. La forzatura renziana sottolineata da Bersani è reale, ma nel complesso la minoranza non è credibile come gruppo organizzato. E quando l’ex capogruppo Speranza denuncia «la violenza contro il Parlamento », è di certo consapevole che l’aula deserta dell’altro giorno, mentre Gentiloni riferiva sul povero Lo Porto, non rappresenta una violenza meno dolorosa o una mortificazione più blanda della funzione parlamentare. In altre parole, se la riforma di Renzi diminuisce lo spazio delle assemblee, essa non fa che fotografare — senza dubbio a vantaggio dell’esecutivo — una realtà pre-esistente.

Si capisce allora che sperare in un intervento salvifico del capo dello Stato sia un modo ambiguo di trarsi d’impaccio. A maggior ragione se la speranza nasconde una vaga sollecitazione. Su questo punto Mattarella non sembra incoraggiare i critici della legge. Infatti un conto è auspicare, come ha detto il 25 aprile, «le opportune convergenze» per superare i contrasti in vista del «bene comune ». Altro conto sarebbe dar mano a una fazione che sta perdendo la contesa e che può al massimo fare conto sull’ostruzionismo (destinato peraltro a essere disinnescato nei prossimi giorni) o sui franchi tiratori del voto segreto: visto che alla fine dovrà esserci per forza un voto coperto sul testo della riforma, quali che siano state le richieste di fiducia.

La verità è che la battaglia contro l’Italicum dovrebbe essere combattuta in Parlamento a viso aperto, senza scorciatoie istituzionali. Ma i guerrieri non sembrano troppo convinti. I numeri sono scarsi anche perché ci si è ridotti all’ultimo fra contraddizioni di ogni genere. È probabile che l’opportunità di modificare la riforma, o in alternativa di affossarla, si fosse presentata al Senato nella votazione che precedette di pochi giorni la seduta comune delle due Camere per eleggere il presidente della Repubblica. Quella fu l’occasione persa dalla minoranza del Pd. Ma esisteva ancora il patto del Nazareno che di lì a poco si sarebbe dissolto. E adesso alla Camera i numeri sono impietosi.

La Stampa, 26 aprile 2015

«Non esiste una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo». È il primo messaggio che il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, manda all’Italia e all’Europa, che pensano di bombardare i barconi in partenza dalla Libia. Il secondo, in questa intervista alla vigilia della visita a Roma, che lo porterà domani dal premier Renzi e martedì da papa Francesco, è diretto invece ai Paesi che frenano sull’accoglienza: «Sono cruciali canali legali e regolari di immigrazione».

Al Consiglio europeo di giovedì sono state varate alcune misure per affrontare la crisi dei migranti, e l’Italia vorrebbe distruggere i barconi prima della partenza. L’Onu è pronta a dare l’autorizzazione legale per simili azioni?

«Sono a conoscenza di queste notizie, ma tale dibattito sottolinea come il Mediterraneo stia diventando rapidamente una mare di miseria per migliaia di migranti, e l’urgenza di affrontare la loro situazione disperata. Il focus principale delle Nazioni Unite è la sicurezza e la protezione dei diritti umani dei migranti e di coloro che chiedono asilo. È cruciale che la concentrazione di tutti sia su salvare le vite, inclusa l’area libica delle operazioni di ricerca e soccorso, che è quella da cui vengono la maggioranza delle richieste di aiuto.

«La sfida non riguarda solo il miglioramento dei soccorsi e dell’accesso alla protezione, ma anche assicurare il diritto all’asilo del crescente numero di persone che in tutto il mondo scappano dalla guerra e cercano rifugio. I loro viaggi sono carichi di rischi, inclusa la discriminazione, la violenza e lo sfruttamento, e hanno bisogno della nostra protezione nella loro ora di maggior necessità.
«Non c’è una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterraneo. È cruciale un approccio complessivo che guardi alla radice delle cause, alla sicurezza e ai diritti umani dei migranti e dei rifugiati, così come avere canali legali e regolari di immigrazione. Le Nazioni Unite sono pronte a collaborare con i nostri partner europei a questo fine. Ho preso nota delle recenti discussioni su tali temi avvenute nell’Unione Europea. L’intero sistema dell’Onu è pronto a fornire assistenza».

Lei ha detto al premier Renzi che il problema dei migranti è una responsabilità condivisa, ma alcuni Paesi europei resistono all’idea di ospitarli. Cosa possono fare l’Onu e i suoi Paesi membri per aiutare a trovare una soluzione nelle regioni più colpite, in termini di sicurezza, assistenza e sviluppo?

«Con oltre 1.700 morti e quasi 40.000 attraversamenti nel Mediterraneo, solo durante i primi quattro mesi del 2015, la dimensione di questa sfida richiede una risposta globale collettiva e onnicomprensiva. Io credo fortemente che la comunità internazionale abbia una responsabilità condivisa per assicurare la protezione dei migranti e dei rifugiati, che compiono un terribile viaggio attraverso il Mediterraneo. Le misure annunciate di recente in Lussemburgo e a Bruxelles sono un importante primo passo verso un’azione collettiva europea. Questo è l’unico approccio che può funzionare, per un problema di natura così ampia e transnazionale, e per prevenire che simili tragedie si ripetano nel futuro. Il prossimo passo sarà tradurre le misure in impegni concreti.

«Alla fine, il test non sarà tanto se vedremo la fine delle morti in mare, quanto un efficace accesso alla protezione in Europa. Sono crucialii un approccio complessivo che guardi alle radici delle cause, la sicurezza e i diritti umani di migranti e rifugiati, così come i canali legali e regolari di immigrazione. Il sistema dell’Onu è pronto a lavorare collaborativamente con i partner europei, e con altri Paesi in tutto il mondo, per affrontare le cause profonde di questi movimenti».

La stabilità in Libia sarebbe il primo passo per fermare insieme il traffico di esseri umani, e gruppi terroristici come l’Isis. La mediazione dell’inviato dell’Onu Bernardino Leon è ancora l’opzione migliore per centrare questo obiettivo? Come sta procedendo il negoziato e quando avremo qualche risultato?

«Sono molto preoccupato per l’instabilità in Libia. Anni dopo la rivoluzione, il processo di transizione resta ancora appeso, e i civili stanno subendo l’urto delle violenze. Io credo fortemente che non ci siano alternative al dialogo. Il mio Rappresentante speciale, Bernardino Leon, e la sua squadra continuano a lavorare in maniera instancabile con le parti libiche coinvolte, per aiutarle ad arrivare insieme ad uno spirito di compromesso. Gli atti di terrorismo e di estremismo sono un duro richiamo al fatto che una soluzione politica all’attuale crisi va trovata rapidamente, per ripristinare pace e stabilità. Le istituzioni statali devono essere rafforzate per fermare questi atti di violenza e risparmiare al popolo libico altri spargimenti di sangue e conflitti».

A Roma incontrerà papa Francesco, con cui discuterà anche di ambiente, che ha un impatto su sviluppo, sicurezza alimentare e stabilità. Quali sono le possibilità che si arrivi ad un accordo in dicembre alla Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, e quale appello vuole lanciare ai paesi che ancora frenano?

«Sono ottimista che i governi raggiungano un accordo. Però ci sono ancora alcuni ostacoli significativi da superare, e quindi ogni Paese deve fare la sua parte per trovare una soluzione accettabile per tutti. I leader tuttavia ora capiscono quanto sia in gioco, e quanto le loro economie potrebbero trarre beneficio da un’intesa globale, che mandi il giusto segnale per una forte crescita e prosperità con basse emissioni di carbonio. Sono sempre più gli amministratori di aziende, le città e i cittadini in tutto il mondo che stanno agendo. Ha senso economico. E da una prospettiva morale e religiosa. La cosa giusta da fare, per proteggere la gente e il nostro pianeta.

«Richiamo tutte le parti, specialmente le maggiori economie, a presentare ambiziosi impegni nazionali (INDCs) entro giugno. Sono anche ansioso di lavorare con i governi di Perù e Francia sulla Lima-Paris Action Agenda, che punta a catalizzare l’azione sui cambiamenti climatici per aumentare ulteriormente le ambizioni prima del 2020 e sostenere l’intesa di Parigi. Dobbiamo poi assicurare che i finanziamenti necessari per l’azione sul clima siano presenti prima di andare alla Conferenza in Francia. I negoziatori devono trovare opzioni che possano aprire la strada per raggiungere un accordo a dicembre».

Il manifesto, 26 aprile 2015

E così il pro­blema sarebbe Yanis Varou­fa­kis. Il quale si sarebbe dimo­strato nell’eurogruppo di Riga un «incom­pe­tente», un «dilet­tante», un «gio­ca­tore d’azzardo». Strano però per un pro­fes­sore di eco­no­mia tra i più bril­lanti attual­mente a livello inter­na­zio­nale, che ha inse­gnato nelle migliori uni­ver­sità anglo­sas­soni, com­presa Cam­bridge, sti­mato e soste­nuto dal nobel Joseph Sti­glitz e da James Galbraith.

Certo, se le cri­ti­che pro­ven­gono dall’agronomo (dal cur­ri­cu­lum fal­si­fi­cato) Jeroen Dijs­sel­bloem e dal lau­reato in legge Wol­fgang Schäu­ble, qual­cosa di vero ci deve essere.

Con­vince in par­ti­co­lare l’accusa di «dog­ma­ti­smo» lan­ciata con­tro il greco dall’accomodante mini­stro delle Finanze tede­sco, lo stesso che da cin­que anni ha impo­sto con pugno di ferro all’eurozona una bril­lante poli­tica eco­no­mica, che assi­cura alti tassi di cre­scita eco­no­mica e – soprat­tutto – sociale. Lo sanno tutti, gli spa­gnoli, i por­to­ghesi, i greci e anche gli ita­liani, che nuo­tano nell’abbondanza.

No, non è Schäu­ble il dog­ma­tico del neo­li­be­ri­smo. E’ Varou­fa­kis quello infles­si­bile, poi­ché si rifiuta osti­na­ta­mente di rega­lare alle ban­che le prime case, di abbas­sare le pen­sioni ai 350 euro, di licen­ziare migliaia di sta­tali e di sven­dere pro­prietà pubbliche.

Una fer­mezza che assi­cura al suo governo altis­simi tassi di con­senso tra la popo­la­zione greca, come dimo­stra l’ultimo son­dag­gio reso pub­blico appena ieri. Nello stesso tempo però in cui plaude alla fer­mezza con­tro l’austerità, la stra­grande mag­gio­ranza degli inter­vi­stati chiede a Varou­fa­kis e a Tsi­pras di non rom­pere con l’eurozona. Una posi­zione sag­gia, pie­na­mente in linea con il pro­gramma di Syriza. Un com­pro­messo ono­re­vole, ma per otte­nerlo biso­gna essere in due.

Ora però le cose si com­pli­cano. Il giorno prima dell’eurogruppo che ha ten­tato di lin­ciare Varou­fa­kis, Tsi­pras si era incon­trato con la Mer­kel in tutt’altro clima. La can­cel­liera aveva anche assi­cu­rato che la Gre­cia non avrebbe dovuto rima­nere senza liquidità.

Cosa è suc­cesso? E’ noto che l’eurogruppo è il regno di Schäu­ble men­tre la Mer­kel gioca su uno scac­chiere più grande.

C’è un gioco delle parti, del tipo poli­ziotto buono e poli­ziotto cat­tivo? Oppure anche a Ber­lino ci sono fal­chi e colombe? I primi con­ti­nue­reb­bero a gio­care la carta della desta­bi­liz­za­zione del governo Tsi­pras, assu­mendo anche il rischio di un inci­dente, sem­pre più pro­ba­bile man mano che pas­sano le set­ti­mane e i mesi. I secondi sta­reb­bero cer­cando di tro­vare una qua­dra­tura del cer­chio – tutta poli­tica – per uscire dall’impasse.

Comun­que sia, non è certo colpa di Varoufakis. Il mini­stro delle Finanze greco lavora all’interno di un gruppo ope­ra­tivo spe­ci­fi­ca­mente dedi­cato ai pro­blemi con i cre­di­tori, a capo del quale c’è il vice pre­si­dente del Con­si­glio Yan­nis Dra­ga­sa­kis, espo­nente tra i più mode­rati e più esperti di Syriza. Quindi ogni vir­gola dell’azione poli­tica del mini­stro delle Finanze riflette esat­ta­mente gli orien­ta­menti del governo greco. Una sua sosti­tu­zione è fuori discussione.

Anche se Schäu­ble (l’ha pure ammesso) si tro­vava molto più a suo agio con i suoi pre­de­ces­sori: Gior­gos Papa­kon­stan­ti­nou, con­dan­nato per falso, Yan­nis Stour­na­ras, l’architetto dei conti truc­cati per entrare nell’euro, Ghi­kas Har­dou­ve­lis, il ban­chiere che por­tava i soldi in Sviz­zera.

Come andrà a finire? Non sono nella testa di Schäu­ble. Ma ho cer­cato lumi sul Cor­riere della Sera di ieri e ho fatto una grande sco­perta. In un’intera pagina fonti (ano­nime) dei cre­di­tori accu­sano Tsi­pras di essere «fal­sa­mente di sini­stra» e «al ser­vi­zio degli oli­gar­chi». L’ho rac­con­tato anche in Gre­cia e ci siamo diver­titi molto. Fin­ché le pole­mi­che con­tro di lui saranno di que­sto tenore potrà stare tran­quillo: sarà al governo per un decen­nio e oltre.

Corriere della sera, 26 aprile 2015
Si può immaginare una prova di egoismo e di miope inettitudine più clamorosa di quella mostrata dall’Unione europea riunita giovedì a Bruxelles per discutere il da farsi rispetto all’ondata migratoria che sta rovesciandosi sulle coste meridionali del nostro continente? Posta davanti a una sfida geopolitica di carattere epocale, davanti alle sciagure e ai problemi di ogni tipo che questa produce, la sola cosa, infatti, che l’Unione si è saputa inventare è stata quella di mandare qualche altra nave nel Mediterraneo e di destinare una manciata in più di quattrini all’operazione Triton. Cioè di far finta di fare qualcosa allo scopo di non fare nulla.

Nel suo balbettio e nel suo riuscire a mancare regolarmente tutti gli appuntamenti decisivi che potrebbero farle fare un salto di qualità verso un’esistenza di soggetto politico, l’Europa è ormai diventata qualcosa d’imbarazzante. La mancanza di leadership e di visione minaccia di renderla un organismo sempre più ingombrante per le cose facili e sempre più inutile per quelle difficili. Un vuoto ammasso di egoismi nazionali che dura finché questi non vengono disturbati.

Del resto è apparso non meno insufficiente nei giorni scorsi anche il comportamento del governo italiano. Il presidente Renzi, recatosi a Bruxelles sperando verosimilmente grandi cose (anche se non si sa di preciso che cosa), ha dovuto accontentarsi di quasi nulla. Il fatto è che per ottenere seppure in parte da un sinedrio come quello di Bruxelles ciò che si desiderava, bisognava battere i pugni sul tavolo. Tutto il Paese avrebbe seguito un presidente del Consiglio che avesse tenuto un discorso del tipo: «Cari signori, l’Italia non intende vedere annegare centinaia di persone in mare senza muovere un dito. Noi quindi faremo di tutto per cercare di salvare il maggior numero possibile di migranti. Ma tutto questo costa, costa molto. Siccome però non siamo il Paese di Bengodi, e le nostre risorse sono limitate, sappiate che se voi non fate nulla di più del quasi niente che vi proponete di fare, allora alle prossime scadenze l’Italia si vedrà costretta con molto rammarico a sospendere qualsiasi tipo di finanziamento, anche quello ordinario, all’Unione e alle sue attività». E invece, ahimè, nulla di simile si è sentito. Evidentemente un conto è bacchettare Civati o tirare le orecchie alla Camusso, un altro affrontare a brutto muso Cameron o la Merkel (oltre, immagino, il mugugno sussiegoso della Farnesina). E così abbiamo dovuto accontentarci di una mancia accompagnata da un’amichevole pacca sulla spalla.

Giorni molto difficili si annunciano dunque nell’immediato per l’Italia. Ma per l’intera Europa si avvicina a più o meno lunga scadenza l’appuntamento con una catastrofe annunciata, quella di un’insostenibile pressione demografica del Sud del mondo la quale, proprio in quanto continua ad essere pervicacemente rimossa, tanto più minaccia inevitabilmente di assumere i tratti di un vero e proprio collasso geopolitico.

Non è vero che non ci sia nulla da fare. Se l’Europa esistesse, se avesse una vera guida politica dotata di autorità e di visione, potrebbe fare molto, specie per le migrazioni mosse da ragioni economiche. Previo un accordo quadro con l’Organizzazione dell’Unione africana, ogni Paese europeo (da solo o insieme a un altro) potrebbe ad esempio stabilire con uno Stato di quel continente una sorta di vero e proprio gemellaggio: rapporti speciali di aiuto e cooperazione per favorirne lo sviluppo; essere autorizzato a destinarvi investimenti privilegiati in campo economico e turistico; stabilire con esso accordi doganali speciali per favorirne le produzioni e le esportazioni; aprirvi centri culturali, inviarvi «missioni» di ogni tipo specie per migliorarne gli apparati scolastici, sanitari, giudiziari e di polizia; accoglierne gli studenti migliori con borse di studio; e anche, magari, aprirvi dei «campi di addestramento» lavorativo, linguistico e «antropologico-culturale», destinati a coloro che comunque intendessero abbandonare il loro Paese.

Costerebbe e non sarebbe facile, certo. Avrebbe anche dei rischi, forse. Ma sono per l’appunto queste le cose che fa la politica, che solo la politica sa fare. Perlomeno la politica che non gioca a scaricabarile, ma quella che immagina, che osa, che agisce.

Deluso dal con­si­glio euro­peo? «Vera­mente non mi aspet­tavo niente di più di quel poco che è stato deciso». Affon­dare i bar­coni degli sca­fi­sti? «Dovreb­bero spie­garmi come farlo senza pro­vo­care una strage». Aprire campi pro­fu­ghi in Africa? «E per­ché non al Polo Nord? Fareb­bero di tutto pur di tenere i migranti lon­tani dall’Europa».

Non si sot­trae a nes­suna domanda Romano Prodi. L’ex pre­si­dente del con­si­glio ed ex pre­si­dente della com­mis­sione euro­pea man­tiene sem­pre uno sguardo molto attento a quanto suc­cede in Europa, e in par­ti­co­lare ai drammi dell’immigrazione. Cosa che non gli impe­di­sce di repli­care al pre­si­dente del con­si­glio che ha deru­bri­cato a pub­bli­cità edi­to­riale (è in edi­cola «Mis­sione incom­piuta», il libro scritto con Marco Dami­lano) le opi­nioni poli­ti­che del lea­der dell’Ulivo. «Vera­mente la migliore pub­bli­cità me l’ha fatta lui. I librai si sono affret­tati a ordi­nare altre copie del libro», scherza.

Pre­si­dente come giu­dica le con­clu­sioni rag­giunte sull’immigrazione dal con­si­glio europeo?

Il giu­di­zio è misto, nel senso che c’è una parte di rac­colto posi­tivo, che è l’aumento della dota­zione euro­pea e poi ci fer­miamo lì. E’ un giu­di­zio di sod­di­sfa­zione nel senso che il dia­logo va avanti, ma anche di delu­sione per il fatto che sui punti car­dine, cioè sulla poli­tica dell’immigrazione e sulla stra­te­gia di acco­gli­mento non c’è pro­prio niente. Resta sim­bo­lica la frase di Came­ron: «Pren­diamo pro­fu­ghi e li por­tiamo in Italia».

Si aspet­tava o spe­rava qual­cosa di più?

Spe­ravo sì, aspet­tavo no. Pur­troppo sono abi­tuato alle delu­sioni. Era quello che nell’attuale situa­zione euro­pea si può pen­sare sarebbe arrivato.

Lei in pas­sato ha par­lato spesso di un’Europa «assente» di fronte alle grandi crisi e i risul­tati del ver­tice sem­brano con­fer­mare que­sto giu­di­zio. Quali sono le ragioni di que­sta assenza?

Il pro­gres­sivo pre­va­lere degli inte­ressi nazio­nali sugli inte­ressi col­let­tivi, un’involuzione totale che si esprime anche nei capi­toli dell’economia. Figu­ria­moci quindi in poli­tica estera e immi­gra­zione che sono il capi­tolo più deli­cato. Ho sem­pre pen­sato che poli­tica estera e difesa sareb­bero state le ultime a essere messe inte­gral­mente nell’agenda euro­pea. L’integrazione euro­pea indub­bia­mente è entrata in un lungo periodo di crisi e set­tori come esteri, difesa e immi­gra­zione sono i capi­toli dif­fi­ci­lis­simi. Quindi non rite­nevo che il ver­tice avrebbe potuto far com­piere dei passi in avanti. Il mio è un sen­ti­mento di delu­sione ma atteso. Pur­troppo è la nor­ma­lità dell’attuale situa­zione europea.

Sem­bra quasi voler san­cire il fal­li­mento del pro­getto europeo.

Il fal­li­mento no, una lunga sosta sì. Il pro­getto euro­peo non può fal­lire. Dalla boc­cia­tura della Costi­tu­zione in poi i lea­der euro­pei hanno ascol­tato i loro popu­li­smi e seguito la loro poli­tica di breve periodo. Così non si farà mai l’Europa.

Verrà però il momento in cui que­sto met­terà a rischio la stessa poli­tica interna dei diversi Paesi, allora si ricor­rerà di nuovo all’Europa, costretti da un’emergenza. Ma in que­sto momento non vedo la spinta.

Che pensa della pos­si­bi­lità di affon­dare i bar­coni degli scafisti?

Non c’è nes­suno che mi dica come si fa. Con que­sto sistema si rischia la strage di uomini, ma non mi sem­bra una solu­zione. E infatti la nota vati­cana che ho visto in mate­ria lo mette bene in rilievo. Che fac­ciamo, bom­bar­diamo i migranti? I para­goni che ven­gono fatti con l’Albania o la Soma­lia sono del tutto fuori luogo per­ché lì c’era un governo con cui si poteva interagire.

Inten­dia­moci: se uno potesse distrug­gere tutti i bar­coni vuoti messi uno in fila all’altro, io sarei il primo a dire di sì. Ma que­sta di bom­bar­darli è un’ipotesi che fa tanto pia­cere alla dema­go­gia e al sen­ti­mento popo­lare pre­va­lente. Per­ché atten­zione: quando io mi giro intorno e parlo vedo che il sen­ti­mento popu­li­stico è arri­vato alle radici del popolo ita­liano. Se votas­simo a mag­gio­ranza forse vor­reb­bero bom­bar­dare i bar­coni, ma ritengo la cosa del tutto irragionevole.

Teme un nuovo inter­vento in Libia?

Ritengo tal­mente scia­gu­rata la prima azione in Libia che l’idea di farne una seconda è impensabile.

Crede comun­que che si stia andando in quella direzione?

Vediamo prima di tutto cosa signi­fi­che­rebbe un inter­vento in Libia. Prima ipo­tesi: droni e aero­plani. Si fanno un sacco i morti e non decide niente. Seconda ipo­tesi: truppe. Signi­fica mobi­li­tare decine di migliaia di uomini o forse cen­ti­naia di migliaia di uomini, non mille o due­mila. Non è nem­meno pen­sa­bile. Poi c’è un altro pro­blema molto serio. L’obiettivo che si vuole col­pire in Libia è il ter­ro­ri­smo. Ma il ter­ro­ri­smo non è libico, è ubi­quo. Si fa la guerra in Libia e que­sti si spo­stano nel Sahel o negli altri punti già maturi per acco­glierli, come Siria, Iraq, Mali. Que­sto è l’unico effetto che si otterrebbe.

Nel libro che ha scritto insieme a Marco Dami­lano lei dice che l’intervento in Libia nel 2011 fu un errore. Le chiedo: dob­biamo a quell’errore anche l’emergenza immi­gra­zione di que­sti giorni?

Il fatto che sia incon­trol­la­bile sì, il fatto che ci sia no. Quando ero nel Sub­sa­hara me lo dice­vano tutti: guar­date che qui c’è una bomba demo­gra­fica, dove va la gente, dove scappa? Mi guar­da­vano pun­tando il dito e mi dice­vano: da voi. C’era anche prima l’emergenza, tut­ta­via alla fine pote­vamo trat­tare con la Libia di Ghed­dafi che minac­ciava sì di riem­pire dei bar­coni e di man­dar­celi, ma ave­vamo un inter­lo­cu­tore e alla fine si tro­vava il modo per farlo smet­tere. Oggi non c’è più un inter­lo­cu­tore, anzi è accla­rato che lo stesso ter­ro­ri­smo inter­na­zio­nale fac­cia buoni affari con i migranti.

A pro­po­sito, il pre­mier Mat­teo Renzi le rin­fac­cia i suoi rap­porti con Ghed­dafi.

Guardi, nel libro spiego tutta la sto­ria chia­ra­mente citando i docu­menti, com­presa la let­tera di Ban Ki-moon. Il libro non l’ho scritto per pole­mica ma per ricor­dare i vent’anni dell’Ulivo. E mi pro­pongo di scri­verne un altro tra vent’anni così potrò dare un giu­di­zio anche su que­sto periodo sto­rico, pensi come sarà bello. Ma veniamo a Ghed­dafi. Certo, gli inte­ressi ita­liani erano evi­denti. Con lui la linea è sem­pre stata ferma. Ci sono però due Ghed­dafi nella sto­ria. Il primo è un feroce dit­ta­tore all’interno del Paese. Rima­sto tale dall’inizio alla fine.

Poi c’è un secondo Ghed­dafi, quello della poli­tica estera. In una prima fase un Ghed­dafi trou­ble maker, un crea­tore di disor­dini. Ha pro­vo­cato guerre dap­per­tutto, voleva essere potenza mili­tare regio­nale e ha ali­men­tato il ter­ro­ri­smo: Loc­ker­bie, la disco­teca La Belle, tutte que­sti atti delin­quen­ziali. In una seconda fase ha capito che que­sto non gli dava frutto. Dopo alcuni anni che lo avevo capito, mi sono preso la respon­sa­bi­lità di invi­tarlo a Bru­xel­les sapendo di dare un con­tri­buto posi­tivo alla pace. Fu la sua prima visita uffi­ciale in Europa. Avevo capito che avremmo chiuso un pro­blema per la comu­nità inter­na­zio­nale. Ho avuto rea­zioni nega­tive dagli Stati uniti e da Gran Bre­ta­gna. Dopo due mesi però erano tutti con­tenti e per incon­trare Ghed­dafi biso­gnava fare la coda.

Si era chiuso un pro­blema. Da pre­si­dente della com­mis­sione divenni poi pre­si­dente del con­si­glio e ini­ziammo una lunga nego­zia­zione sul Trat­tato di ami­ci­zia che io non volli fir­mare. Non per ten­sioni per­so­nali o per­ché avevo cam­biato parere, sem­pli­ce­mente per­ché difen­devo gli inte­ressi del mio Paese e non mi era chiaro quello che sarebbe stato il costo da parte ita­liana. Poi altri hanno fir­mato. Quindi i miei rap­porti con Ghed­dafi sono stati fermi.

Le spiego un’altra cosa: io ho sem­pre avuto con­tatti anche con le tribù, i cui rap­pre­sen­tanti sono venuti in visita uffi­ciale a Bolo­gna. Pro­prio per­ché ho sem­pre col­ti­vato quel minimo di pos­si­bile dia­logo con la società civile. E que­sto mi ha reso una posi­zione abba­stanza aperta nei con­fronti sia di Ghed­dafi che delle altre realtà. Tant’è vero che l’anno scorso auto­re­voli inter­lo­cu­tori libici hanno chie­sto, in modo uffi­ciale al pre­si­dente del con­si­glio ita­liano, che io diven­tassi il media­tore in Libia. Non avendo avuto nes­suna rispo­sta né loro né io, non so cosa è successo.

Tor­niamo all’immigrazione, resta il nodo di una più equa distri­bu­zione dei richie­denti asilo, che l’Europa non sem­bra pro­prio voler sciogliere.

Que­sto è un punto che oggi non si rie­sce nean­che a discutere.

La can­cel­liera Mer­kel però ha detto che il rego­la­mento di Dublino non fun­ziona più. Si riu­scirà a modificarlo?

Mi auguro di sì, la spe­ranza c’è. Se però ragiono in modo razio­nale quando sento la rea­zione di Came­ron la leggo come la chiu­sura della porta per­fino alla discus­sione del pro­blema, per­ché di fronte ai suoi elet­tori lui dice no alla pos­si­bi­lità di acco­gliere pro­fu­ghi. Ma si rende conto di cosa ha detto? «Io li porto in Ita­lia», c’è pure lo sfottò. Poi, se la can­cel­liera Mer­kel si impunta, col tempo si può anche arri­vare a porlo all’ordine del giorno.

Ma per­ché non si aprono cor­ri­doi umanitari?

Per­ché dall’opinione pub­blica ven­gono rite­nuti dei taxi. Ritor­niamo sem­pre al pro­blema dell’elettorato. La que­stione è enorme e non si risolve senza una mas­sic­cia dose di aiuti a un’Africa che si sta sve­gliando. Que­sto è l’elemento di spe­ranza, ci vor­ranno trent’anni, ma l’Africa non è più un corpo immo­bile come era sei, sette anni fa. Pensi che il flusso delle rimesse degli immi­grati in Africa da un anno e mezzo ha supe­rato il flusso degli aiuti dall’esterno. Vuol dire che ci sono risorse auto­nome, alter­na­tive, poi ci sono inve­sti­menti stra­nieri che stanno crescendo.

Insomma il con­ti­nente comin­cia a muo­versi, se solo noi gli des­simo una spin­tina… C’è un fatto che la gente non capi­sce: che l’immigrazione cala non quando un Paese diventa ricco, ma quando nasce la spe­ranza. Comin­ciamo a inne­scare que­sta spe­ranza e il flusso dell’immigrazione calerà da solo, per­ché si emi­gra per disperazione.

Cosa pensa del pro­cesso di Khar­toum e della pos­si­bi­lità di aprire in Africa campi dove acco­gliere i pro­fu­ghi esa­mi­nando lì le richie­ste di asilo?

Pur­ché i migranti stiano lon­tani dall’Europa le pen­sano tutte. Per­ché allora i campi non li fac­ciamo al Polo Nord? (ride). Ma si rende conto? Da un lato c’è il Sudan, un Paese che tutti defi­ni­scono dit­ta­to­riale, e ci met­tiamo i campi pro­fu­ghi? Basta il buon senso per capire che non va bene.

Per finire par­liamo di poli­tica. La nuova legge elet­to­rale mette fine all’idea di centrosinistra?

Posso ripe­terle che l’Ulivo è nato per il bipo­la­ri­smo. Ho sem­pre soste­nuto all’inizio un sistema elet­to­rale di tipo inglese. Data la fram­men­ta­zione poli­tica ita­liana e che vi sareb­bero stati par­la­men­tari eletti con il 20% dei voti, sono pas­sato al sistema fran­cese a due turni. In ogni caso ci devono essere più par­titi, o più coa­li­zioni che si con­ten­dono il governo del Paese.

E’ vero, come l’accusa qual­cuno, che sta pre­pa­rando insieme a Enrico Letta un piano per suben­trare a Renzi in caso di crisi?

Dovrei rispon­derle con una risata e invece le rispondo sem­pli­ce­mente no. Tra l’altro in un Paese in cui nes­suno legge è bello pen­sare che si possa atten­tare al governo scri­vendo dei libri.

Renzi infatti ha detto che dovete pro­muo­vere i vostri libri.

One­sta­mente l’unica grande pro­mo­zione del libro l’ha fatta lui dicendo que­sta frase (ride). Nel mio caso almeno i librai si sono affret­tati a riordinarlo.

Ma esi­ste o no que­sto piano tra lei e Letta?

No, non abbiamo nes­sun piano. Non so se Letta ha voglia di rien­trare in poli­tica, ma io con l’età che ho se avessi voluto fare qual­che piano l’avrei fatto un po’ prima. Sono sette anni che sono fuori, che giro il mondo, fac­cio cose inte­res­santi e non ho nes­suna inten­zione di dare noia a nes­suno né di soste­nere nes­suno. Però ho il diritto di ricor­dare ed è per que­sto che ho scritto il libro. E ripeto, tra vent’anni ne scri­verò un altro

«Al di là dei rituali cele­bra­tivi, se oggi tor­niamo a riflet­tere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la sod­di­sfa­zione di ciò che abbiamo con­se­guito ma soprat­tutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato rea­liz­zato».

Il manifesto, 26 aprile 2015

Ven­ti­cin­que aprile settant’anni dopo. Il filo rosso della memo­ria è il tenue rac­cordo che ha attra­ver­sato que­sti sette decenni rima­nendo uguale a se stesso. Ma intorno tutto o quasi è cam­biato o sta cam­biando. Que­sto vale per il con­te­sto euro­peo come per lo stesso con­te­sto ita­liano. Non si tratta sol­tanto di un ovvio e natu­rale cam­bia­mento gene­ra­zio­nale, che pure ha il suo peso, ma di qual­cosa di più pro­fondo che segnala muta­menti di punti di vista, muta­menti di pro­spet­tive poli­ti­che, muta­menti di ana­lisi sto­ri­che, in una parola muta­menti di cultura.

In que­sto pro­cesso c’è qual­cosa che va al di là dell’esito natu­rale del tra­scor­rere del tempo. Che ogni gene­ra­zione e al limite ogni indi­vi­duo inter­pre­tino il 25 aprile a modo loro, muo­vendo dall’unico dato certo comune della con­clu­sione della lotta di libe­ra­zione dal nazi­fa­sci­smo, è un fatto ovvio e dif­fi­cil­mente con­te­sta­bile. Ciò che non era pre­ve­di­bile e che rap­pre­senta il fatto nuovo con il quale ci tro­viamo a fare i conti è la pre­senza in que­sto set­tan­te­simo anni­ver­sa­rio di quelli che siamo ten­tati di chia­mare strappi della sto­ria. Chi ha vis­suto que­sti settant’anni non può certo avere inte­rio­riz­zato una visione idil­liaca ma quanto meno lineare del per­corso di que­sti decenni.

Al di là dei rituali cele­bra­tivi, se oggi tor­niamo a riflet­tere sul senso e sull’attualità del 25 aprile non è solo per la sod­di­sfa­zione di ciò che abbiamo con­se­guito ma soprat­tutto per l’insoddisfazione di ciò che non è stato rea­liz­zato. Il 25 aprile del 1945 la ricon­qui­sta della libertà sot­to­li­neando lo scam­pato peri­colo dal rischio che l’umanità aveva corso di soc­com­bere alla bar­ba­rie del nazi­fa­sci­smo, sem­brò aprire la pro­spet­tiva di una uscita dalla crisi rela­ti­va­mente indo­lore. La capa­cità della rico­stru­zione in Ita­lia fu un esem­pio di quanto una popo­la­zione aperta alla spe­ranza è in grado di rea­liz­zare. Ripren­dersi la vita dopo le sof­fe­renze e le umi­lia­zioni della dit­ta­tura e della guerra era una parola d’ordine e una ragione suf­fi­ciente per rial­zare la schiena e segna­lare la volontà di tor­nare a contare.

Allora, settant’anni fa la quiete dopo la tem­pe­sta ali­mentò l’impressione che le grandi cesure dei decenni pre­ce­denti si stes­sero chiu­dendo. Un dif­fuso ma gene­rico euro­pei­smo sem­brò annun­ciare la paci­fi­ca­zione e rimar­gi­nare le ferite di un con­ti­nente che era stato dila­niato da una lunga guerra che aveva dato sfogo a lotte inte­stine di nazio­na­li­smi con­trap­po­sti e di sistemi poli­tici incompatibili.

Ma il mondo non poteva tor­nare ad essere quello di prima del 1939. Troppi equi­li­bri erano sal­tati e la ricerca di nuovi punti di rife­ri­mento den­tro e fuori dell’Europa mise in evi­denza il ridi­men­sio­na­mento della vec­chia Europa, inco­min­ciato già con la prima guerra mon­diale, l’ascesa degli Stati uniti d’America, il nuovo ruolo nella stessa Europa e a livello mon­diale dell’Unione Sovie­tica, l’accelerazione della deco­lo­niz­za­zione desti­nata a dare il colpo di gra­zia al pri­mato mon­diale dell’Europa. Non era sol­tanto un equi­li­brio geo­po­li­tico, ma gli stessi popoli libe­rati dal nazi­fa­sci­smo si tro­va­vano a dovere rico­struire le basi della con­vi­venza civile.

Pochi tra i paesi libe­rati pote­rono ripri­sti­nare le isti­tu­zioni e lo sta­tuto poli­tico sospesi dall’occupazione delle potenze dell’Asse. La mag­gior parte dei paesi libe­rati si trovò ad ela­bo­rare nuovi sta­tuti poli­tici; la crisi dell’Europa sfo­ciata nella guerra non era stata sol­tanto crisi di ege­mo­nia e delle rela­zioni fra i popoli, era stata anche crisi di un modello poli­tico, tra i gua­sti di una demo­cra­zia in disfa­ci­mento e le ten­ta­zioni auto­ri­ta­rie e cor­po­ra­tive di com­pa­gini sta­tuali più o meno improv­vi­sate che cer­ca­vano di sup­plire al defi­cit di tra­di­zioni demo­cra­ti­che con la scor­cia­toia della dema­go­gia corporativa.

La guerra sep­pellì sotto le sue mace­rie que­sta Europa inver­te­brata (ram­men­tata, piena di con­trad­di­zioni e priva di fidu­cia in se stessa). Nelle diverse parti dell’Europa i movi­menti di Resi­stenza rap­pre­sen­ta­rono la pro­te­sta e la rispo­sta ai dilemmi in cui la guerra e le occu­pa­zioni pre­ci­pi­ta­rono i rispet­tivi paesi.

I settant’anni tra­scorsi ci hanno inse­gnato che gli ele­menti di paci­fi­ca­zione intra­vi­sti, o forse solo auspi­cati, nel 1945 erano più insta­bili e più prov­vi­sori di quanto si sarebbe potuto spe­rare. Breve è stata la memo­ria degli indi­vi­dui per rea­liz­zare i bene­fici e le poten­zia­lità nella tre­gua dei con­flitti. Lo sce­na­rio che oggi si pre­senta in Europa e nel mondo ci induce a pen­sare che il ricordo del 25 aprile non si può esau­rire in un richiamo cele­bra­tivo o tanto meno nostal­gico; esso è piut­to­sto un per­ma­nente cam­pa­nello d’allarme, un appello a stare all’erta per­ché le insi­die con­tro la pace e con­tro i valori per i quali si è com­bat­tuto nella Resi­stenza tor­nano a frap­porsi sul cam­mino dell’umanità.

Se ci era­vamo illusi che il fasci­smo fosse stato debel­lato per sem­pre, il riaf­fio­rare a più livelli e in diverse parti d’Europa di movi­menti di estrema destra sol­le­cita una nuova “chia­mata alle armi”; il fatto che esso si pre­senti in forme diverse dal fasci­smo sto­rico non esime dal rico­no­scerne le ascen­denze e la peri­co­lo­sità, anche se non ha alle spalle il rife­ri­mento di una isti­tu­zione sta­tuale per­ché la sua peri­co­lo­sità risiede pro­prio nella sua dif­fu­sione come fasci­smo quotidiano.

Si è affie­vo­lita la sen­si­bi­lità al raz­zi­smo che la crisi economico-sociale ha rivi­ta­liz­zato spesso masche­rando latenti con­flitti di classe con fat­tori più facil­mente per­ce­pi­bili anche ad una sen­si­bi­lità popo­lare. Negli scon­tri tra popoli le riven­di­ca­zioni iden­ti­ta­rie hanno rie­su­mato forme di intol­le­ranza reli­giosa al limite di un nuovo asso­lu­ti­smo. Nuovi con­flitti di ege­mo­nie che spesso rical­cano le orme di una vec­chia geo­po­li­tica ten­dono a ripro­durre tra gli stati gerar­chie che sem­brano supe­rate: alcuni stati tor­nano ad essere più sovrani di altri.

In que­sto con­te­sto il 25 aprile non può essere solo la festa della libe­ra­zione. Deve essere l’occasione di una vigile rifles­sione sul suo signi­fi­cato sto­rico di tappa di un cam­mino che non è ter­mi­nato ma che dal giorno della libe­ra­zione trae la spinta per affron­tare gli osta­coli che ancora si frap­pon­gono al con­so­li­da­mento di una società demo­cra­tica sem­pre più compiuta.

La voce limpida di un economista che non ha smesso di pensare alle persone, e ai fini umani dell'economia. «Il neoliberismo ha reso la scienza economica qualcosa di enormemente pericoloso: un virus invisibile che può fare, anzi ha fatto, danni enormi al nostro organismo».

La Repubblica, 26 aprile 2015

Di Ruffolo ricordo le apparizioni pubbliche. Rare e forbite. I suoi interventi dotti da keynesiano convinto. Ora è un’altra persona. «Il neoliberismo ha reso la scienza economica qualcosa di enormemente pericoloso: un virus invisibile che può fare, anzi ha fatto, danni enormi al nostro organismo». Il volto che mi guarda e mi parla, in un pomeriggio di sabato, dentro una Roma pressoché deserta, mostra un’ansia particolare. Ruffolo vive in una grande casa. Molto borghese. A ridosso di via Veneto. Ma tutto lo spazio ornato di quadri, di libri, di oggetti è come se non lo interessasse. Le tende semichiuse lasciano filtrare una luce fioca. Un uomo in penombra mi è di fronte: «Ora che la parte biologica sta prendendo il sopravvento su quella sociale mi pare di essermi incamminato su un’altra strada, meno certa, meno luminosa, dove tutto ciò che si è amato e sognato resta prigioniero nella mente, non è più condivisibile con gli altri».

Perché non dovrebbe continuare a esserlo?
«Non c’è una ragione precisa. Si entra, dopo una certa età, in una zona in cui il disinteresse assume una sua purezza infantile. E lì accade che i vecchi amano e sognano molto meno. Quei pochi sogni che faccio mi sembrano cani da guardia. Abbaiano, ringhiano, mi lasciano solo. Con i miei dubbi e le mie assenze».

Quanto l’aiuta pensare di essere stato un economista, uno studioso riconosciuto e apprezzato?
«Conta poco o niente. Oddio, se hai fatto poche corbellerie magari ti verrà riconosciuto da qualcuno che ti dirà anche bravo. Ma se getto lo sguardo a cosa è diventata l’economia, la strada che ha intrapreso negli ultimi decenni, non posso non pensare che le nostre voci inascoltate hanno fallito. O meglio sono risultate troppo deboli di fronte all’avanzata impetuosa del capitalismo».

È la parola “capitalismo” che sembra svuotata di senso.
«Forse. Quando mi occupavo di economia la prima cosa che pensavo era: come riusciremo a far star meglio le persone? L’economia che ci ha travolto non ha dato risposte. Come si può pensare che sia equo un sistema in cui per uno che sta bene dieci o cento soffrono?».

C’entra qualcosa questo discorso con la felicità e l’infelicità?
«No, non lo penso. È stato detto che l’economia è una scienza triste. Ma è una tristezza che non c’entra nulla con l’infelicità. Mio padre diceva spesso: se discuti di economia non dimenticare il problema della fame. L’economia non parla di individui, di storie private. Si aggrappa alle statistiche, al calcolo, alla razionalità. La tristezza è nel cercare a tutti i costi di ridurre l’uomo a un numero. Ma la fame, in qualunque forma si presenti, è di nuovo qui, tra noi. I bisogni primari tornano a essere minacciati».

Cosa faceva suo padre?
«Era capo di gabinetto dell’Istituto Internazionale dell’Agricoltura. Questo prima che arrivasse la Fao. Si occupava, insomma, dei problemi legati allo sviluppo e alla fame. Anch’io volevo fare l’economista. Seguire le orme paterne. Mi laureai in Giurisprudenza nel 1947. Ricordo Roma liberata. Sulle facce delle persone c’erano ancora i segni della guerra ».

Come furono per lei quegli anni?
«Avevo 13 anni quando scoppiò la guerra. Due fra- telli più grandi che combatterono. La mamma piena di apprensioni. Ma non ci fu mai pericolo per me. Vivevamo nel quartiere di San Giovanni. Ho un ricordo del bombardamento di San Lorenzo. I morti allineati per strada. La paura che potesse toccare a qualche caro. La ferocia dei tedeschi e dei fascisti dopo il 1943. I miei fratelli Nicola e Sergio, diventati partigiani, furono arrestati. Entrambi furono presi la notte dell’8 maggio dal famigerato Giuseppe Bernasconi ».

Chi era?
«Uno dei capi della Banda Koch. Li bendarono, li fecero salire su una macchina e li portarono alla pensione Jaccarino. Un luogo ribattezzato il “buco” dove si usciva solo per essere fucilati o torturati in via Tasso. Prendevano chiunque fosse sospettato di attività antifascista. Nell’aprile del 1944 la Banda Koch aveva arrestato Luchino Visconti. Riuscì a salvarsi, nonostante fosse stata emanata sentenza di morte nei suoi riguardi, grazie all’intervento di Maria Denis, un’attrice dei telefoni bianchi che si diceva fosse l’amante di Pietro Koch».

Come si salvarono i suoi fratelli?
«Nicola riuscì a fuggire da un camion, che lo trasportava in una località a Nord di Roma, insieme ad altri condannati, per essere fucilato. Rocambolescamente fece perdere le sue tracce nella campagna romana. Sergio sarebbe stato liberato solo con la liberazione. Ricordo i bombardamenti di San Lorenzo, i morti, la paura che potesse toccare ai miei fratelli partigiani. Quando tutto rinacque la città sembrò piena di speranza

La Repubblica, 26 aprile 2015

«Quello che è successo a Riga è surreale. Ma chi sono questi signori che si permettono di dare del dilettante a Varoufakis? Chi è questo Djisselbloem, i ministri austriaco, maltese, sloveno, slovacco? Solo politici preoccupati del loro destino personale in patria, per lo più esponenti della destra estrema in coalizioni di centrodestra, oppure terrorizzati che a casa loro accada qualcosa di simile all’ascesa di Syriza. Magari in Spagna o Portogallo, Paesi dove si sta per votare».

James Galbraith, economista della Texas University di Austin, proprio non ci sta a vedere vilipeso e offeso di fronte a tutta Europa il suo compagno di istituto e grande amico Yanis Varoufakis.
«Ma lo sanno che è uno dei migliori economisti del nostro tempo, loro che preparazione economica ne hanno zero? E che ha il solo torto, lui che era bandito dai talk-show politici in patria fino a poco tempo fa per ragioni politiche, di essersi messo al servizio del suo Paese per cercare di salvarlo dal naufragio dopo decenni di gestione, quella sì, incompetente e corrotta?»

Però anche il ministro italiano Padoan, che non può essere certo accusato di essere un politico attaccato alla poltrona, ha accusato il governo di greco di tattiche dilatorie…

«Padoan è una persona troppo preparata e raffinata per non rendersi conto che bisogna dare un po’ di tempo alla Grecia. Io ho lavorato molto nelle passate settimane con Varoufakis e sono il primo ad ammettere che non tutti i documenti sono perfezionati, non tutte le tabelle sono complete in ogni loro parte, posso anche riconoscere che c’è qualche ritardo nelle traduzioni in inglese e francese dei testi. Ma bisogna rendersi conto che si tratta di riscrivere completamente le regole economiche con buon senso, ponderatezza, precisione. Su materie cruciali come stipendi, pensioni, privatizzazioni, evasione fiscale, corruzione, tasse. Il 20 febbraio a Bruxelles alla firma del preaccordo si era detto che il lavoro doveva essere completo per fine maggio: che senso ha ora, più di un mese prima, alzare così i toni? Solo per spaventare i mercati, o per riaffermare antiche gerarchie di potere in Europa? O forse non si vuole accettare il fatto che queste regole la Grecia ha deciso di scriverle da sola senza accettare quelle preparate dalla Troika o qualcosa di simile?».

Proprio qui sta il punto. I soldi, ci piaccia o no, sono un problema. Non pensa che i creditori comincino ad essere preoccupati di non rivedere il loro denaro?
«Se fanno così, non lo rivedranno davvero mai. Se invece permetteranno ad Atene di riprendere con le sue forze un cammino di crescita sicuramente sì, anche se in un futuro forse un po’ più lontano del previsto. Senza pretendere, per esempio, che il surplus di bilancio sia accantonato invece che essere investito. Guardi, in gioco qui c’è non solo il futuro della Grecia, ma anche dell’Europa e della democrazia. Ad un nuovo governo deve essere dato il tempo di attuare il proprio piano economico. Guardi, di tutto questo il più convinto oggi è il governo tedesco e direi personalmente la cancelliera Merkel».

Proprio lei?
«La signora Merkel si sta dimostrando una vera statista. E da questa sua nuova apertura beneficeranno anche tutti gli altri Paesi che sono stati distrutti dalla follia dell’austerity che ha aggravato oltre ogni misura una crisi che poteva essere risolta con rapidità. Ma questa è acqua passata. Il futuro sarà ben diverso, grazie alla conseguita consapevolezza tedesca. E di questo dovete tutti ringraziare Varoufakis».

La Repubblica, 26 aprile 2015

L’articolo che ora comincerete a leggere l’ho scritto ovviamente ieri, sabato 25 aprile. L’anniversario ricorda ciò che avvenne settant’anni fa: la liberazione dell’Italia dal giogo nazista ad opera delle armate angloamericane ma con il contributo importante della resistenza partigiana ed anche dei reparti dell’esercito regolare italiano inquadrati nell’VIII Armata a comando inglese.

Le brigate partigiane entrarono per prime a Milano, Torino, Genova dopo 18 mesi di resistenza sulle montagne alpine, prealpine e appenniniche e lo spirito che le unificò fu l’antifascismo. Nelle varie brigate c’era quello spirito comune a tutti e molto variamente rappresentato: le brigate Garibaldi erano comuniste ed erano le più numerose, ma c’erano anche quelle di Giustizia e Libertà del Partito d’Azione, quelle Matteotti socialiste, quelle cattoliche, quelle monarchiche ed anche repubblicane e liberali.Complessivamente erano alcune migliaia di giovani e c’erano anche donne con loro, ma il grosso che comprendeva una parte considerevole della popolazione italiana da Firenze in tutta la valle del Po e all’arco alpino era fatto dalle famiglie che abitavano quei luoghi e che rifornivano di cibo i partigiani e li ospitavano nelle notti in cui scendevano a valle per procurarsi quanto era loro necessario, comprese armi e munizioni.

Fu questo un movimento di popolo che diede vita alla Resistenza e mise la base etica e politica di quell’Italia democratica delle istituzioni repubblicane e della Costituzione che abbiamo votato con le elezioni e il referendum del 2 giugno del 1946.

Venerdì scorso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato un’ampia intervista su queste pagine al direttore Ezio Mauro, chiarendo il significato di quel periodo, mettendone anche in evidenza alcune ombre che non hanno però alterato né indebolito la nascita dell’Italia repubblicana e democratica, la ricostruzione sociale ed economica che ne seguì e i martiri che persero la vita nelle camere di tortura fasciste durante quei mesi terribili e tormentati. Ma l’inizio di tutti quei moti popolari avvenne prima d’ogni altro a Napoli con quattro giornate di rivoluzione; le truppe alleate erano ancora a Salerno e arrivarono nella città partenopea a rivoluzione già avvenuta che aveva messo i tedeschi in fuga.

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Sulla Resistenza bisognerebbe ora raccontare i numerosi episodi già oggetto di libri, articoli, narrazioni di diverso orientamento perché diversi erano i sentimenti degli autori, ma questo lavoro è già stato fatto da altri colleghi sulle nostre pagine. Giorgio Bocca, tra i tanti, dette testimonianze di cose viste e fatte e il suo è un racconto irripetibile. Piuttosto c’è da spiegare perché la Resistenza è considerata da molti storici e politici come il secondo atto del movimento risorgimentale. Questa tesi è stata compiuta dalla Costituzione e approfondita e diffusa da Carlo Azeglio Ciampi e da Giorgio Napolitano.

Gli esponenti principali di quel glorioso movimento risorgimentale furono Mazzini, Cavour, Garibaldi ed anche i Cairoli, Manara, Berchet, Mameli, Bixio, Pisacane e molti altri segregati nelle carceri austriache.

Anche il Risorgimento ebbe le sue ombre che segnarono profondamente il movimento e in parte ancora si protraggono con il dualismo economico tra Nord e Sud che proprio allora ebbe inizio. Proprio in quegli anni si manifestò anche il fenomeno mafioso che è andato via via crescendo fino a diventare un’organizzazione delinquenziale le cui radici restano al Sud ma le cui propaggini sono ormai arrivate fino a Roma, all’Emilia, alla Lombardia, al Piemonte, al Veneto e addirittura a Marsiglia e ad Amburgo.

La storia è sempre e ovunque molto complessa, il che non toglie che nel periodo di cui stiamo ora parlando il contenuto eticopolitico e sociale sia stato comunque positivo. Ma il nostro Paese è arrivato alla sua unità e alla trasformazione economica e sociale con grande ritardo rispetto al resto d’Europa. Questo sfasamento temporale ha avuto effetti profondamente negativi sulla democrazia italiana che è stata fin dall’inizio dello Stato unitario fragilissima. La causa è evidente: molti italiani hanno considerato e tuttora considerano lo Stato come un’entità estranea o addirittura nemica, oppure come strumento da utilizzare per i propri particolari interessi anziché a tutela degli interessi generale e del bene comune.

La diffusione non solo della mafia ma delle clientele e della corruzione così radicata sono fenomeni che hanno come causa prima il ritardo di secoli della nascita dello Stato unitario, sorto centocinquanta anni fa mentre in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Spagna era nato quattro secoli prima e con esso economie molto più avanzate rispetto alla nostra.

Ogni tanto ci sono in Italia ventate di patriottismo, ma sono fenomeni passeggeri e non a caso avvengono quando al vertice dello Stato si insedia — col favore di popolo — un dittatore.

Le istituzioni per molti italiani sono estranee rispetto ai loro interessi ed è questa la causa della fragilità democratica che anche ora è tutt’altro che cessata.

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I malanni di un Paese fortemente in ritardo rispetto all’orologio della storia dovrebbero tuttavia produrre degli anticorpi. È così che avviene in ogni organismo. Se vive ma ha batteri e virus che lo minacciano, gli anticorpi cercano di migliorare la situazione e di guarire la malattia. Ma accade qualche volta un fenomeno assai singolare: gli anticorpi invece di aggredire virus, batteri e corpi estranei che minacciano la vita, si rivolgono contro se stessi e finiscono per distruggersi lasciando campo libero al male ed anzi aggravandolo con la loro autodistruzione.

Se guardiamo alla storia dell’Italia moderna questo fenomeno è largamente diffuso. Gli anticorpi dovrebbero mettere riparo alla fragilità della nostra democrazia e dovrebbe essere il Partito democratico a produrli, specialmente ora che alla sua guida c’è un personaggio coraggioso, eloquente, dotato di molte capacità di convincere amici e avversari. Ma il fatto strano degli anticorpi che distruggono se stessi si sta invece verificando con preoccupante intensità ed è proprio Matteo Renzi, che adottando lo slogan del cambiamento, sta cambiando la democrazia italiana non rafforzandola ma rendendola ancora più fragile sì da consentirgli di decidere e comandare da solo. Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto.

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Prima di esaminare l’altro tema di grande attualità che è quello degli migranti, mi piace ricordare come passai la giornata del 25 aprile del 1945.

Ero a Sanremo dove avevo frequentato il liceo e dove risiedevo con i miei genitori. Nel ‘41 andai all’Università di Roma ma per le vacanze estive tornavo a Sanremo dove ritrovato tutti i miei amici, Calvino, Roero, Pigati, Donzella, Cossu, Maiga, Turco e insomma quella che noi stessi chiamavano la banda, e con i quali avevamo vissuto il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza.

Quella storia e quella giornata l’ho raccontata nel mio libro “L’uomo che non credeva in Dio” edito da Einaudi nel 2008.

Lo cito qui di seguito, è un piccolo spaccato che rende l’atmo- sfera di un Paese allo sfascio, in fuga davanti a se stesso, dal quale la Resistenza l’ha riscattato. L’8 settembre ci furono due fenomeni contemporanei: gli italiani distrussero il loro Paese e contemporaneamente una parte di essi lo ricostruì su basi nuove, moderne e democratiche.

Voglio raccontarla quella storia e spero che interessi i lettori.

«Fu una tristissima giornata che per noi arrivò quasi d’improvviso dopo la caduta del fascismo avvenuta nel luglio precedente e la precaria euforia che essa aveva suscitato di una riconquistata libertà.

Dall’inizio di agosto avevamo visto con crescente sgomento le colonne motorizzate tedesche che scendevano sull’Aurelia verso sud e lunghi convogli ferroviari che trasportavano nella stessa direzione i carri armati con la croce uncinata sulle fiancate.

Finché arrivò l’8 settembre e ancora una volta, come tutte i giorni dall’inizio della guerra, ascoltammo la voce che leggeva le notizie del giornale radio dagli altoparlanti di piazza Colombo.

Quella voce la risento ancora quando ci ripenso: leggeva il comunicato di Badoglio con la notizia dell’armistizio e ordinava alle truppe di collaborare con gli angloamericani opponendosi a chiunque volesse impedirlo.

All’annuncio del capovolgimento di fronte, peraltro atteso e già avvenuto nella coscienza di gran parte degli italiani, l’intera nazione visse un attimo di silenzio sospeso. Poi cominciò lo sfascio che in poche ore abbatté lo Stato in tutte le sue simboliche presenze: l’esercito prima di tutto, l’autorità del governo, le leggi, la monarchia.

Il sentimento comune fu la fuga. Disperdersi. Pensare a sé e alla propria famiglia.

Anche il nostro piccolo gruppo di amici si scompose e i nostri destini si separarono. Ma prima facemmo ancora una cosa insieme: ci demmo appuntamento per la mattina dopo e andammo al deposito della Marina, un piccolo edificio di poche stanze, sopra gli scogli sulla strada litoranea per Bordighera. C’erano soltanto quattro marinai che stavano preparando i loro sacchi per andarsene. Noi dicemmo di esser lì per conto del Comune. Loro non sapevano evidentemente nulla dei poteri e delle competenze, ma soprattutto avevano soltanto voglia di lasciare quel luogo al più presto e andarsene a casa propria.

Domandammo se c’erano esplosivi. Risposero: “Esplosivi no, ci sono soltanto proiettili per i cannoni costieri”. “Ci sono anche i cannoni?”. Risposero di no. “I cannoni sono nelle postazioni della guardia costiera. Qui ci sono le munizioni di riserva”. Noi dicemmo che le prendevamo in consegna per conto del Comune e ci offrimmo di fare ricevuta dopo l’inventario. Loro risposero che se ne andavano, della ricevuta non avrebbero saputo che farsene. Ci dettero la chiave del deposito e quella del portone. E via. Lavorammo per tre ore a portar su i proiettili e gettarli sugli scogli. Pesavano un bel po’ e ne buttammo a mare la metà. Non sapevamo perché stessimo facendo quella fatica assolutamente inutile e priva di senso. Probabilmente fu il nostro modo di esprimere smarrimento e rabbia. Alla fine, stanchi e sudati, decidemmo di piantarla lì. Ci salutammo alla svelta e senza abbracci. Io dissi che appena possibile sarei partito per Roma con mio padre e mia madre.

Due giorni dopo telefonai a Italo, gli dissi che partivo col treno delle sei del pomeriggio. Ci salutammo ancora al telefono, ma poi me lo vidi alla stazione. Ero già salito e affacciato al finestrino. Lo ringraziai d’essere venuto. “Ci vedremo presto”, gli dissi. “Non credo” rispose lui. Il treno si mosse. Lui disse “ciau” con la u».

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Dovrò ora dire qualche parola sulle decisioni dell’Europa (28 capi di Stati e di governo riuniti giovedì a Bruxelles) sul tema posto da Renzi dell’emergenza dell’emigrazione dalla Libia.

Avevano dinanzi, i 28, un problema enorme che doveva e dovrebbe affrontare almeno quattro questioni: portare in salvo i migranti che tentano di raggiungere il Sud d’Europa (praticamente la costa italiana) sfuggendo ad un inferno di povertà, schiavitù, stragi, nell’Africa subequatoriale; sgominare l’organizzazione delinquenziale degli scafisti-schiavisti che organizza i viaggi della morte; stabilizzare la Libia perché fin quando quel Paese non torni ad avere una struttura di governo è impossibile vincere la guerra del mare; infine intervenire a monte dell’emergenza nelle terre del Centroafrica dove milioni di persone sono in condizioni di stentata sopravvivenza e alimentano la fuga verso il benessere che diventa purtroppo una fuga verso la morte.

Ebbene, questi essendo i problemi intrecciati l’uno con l’altro, l’incontro a Bruxelles ha partorito un topolino: hanno deciso di portare l’assegno mensile europeo alla politica dell’immigrazione da 3 a 9 milioni al mese. Sul resto di fatto è silenzio. La Mogherini è stata incaricata di preparare un memorandum che sarà esaminato dal Consiglio d’Europa, con molti Stati membri che hanno però già detto che più di quanto è stato deciso non faranno. Si tratta di Germania, Gran Bretagna, Paesi baltici, Olanda e via numerando.

Renzi è contento. Noi no. Ma non solo noi: basta leggere su il Sole 24 Ore
di ieri l’articolo di Vittorio Emanuele Parsi che comincia dicendo che «la montagna ha partorito il topolino» e lo dimostra con una lucida analisi di quanto (non) è accaduto a Bruxelles. Lo stesso giorno è uscito l’articolo di Prodi sul Messaggero dove si spiega che per stabilizzare la Libia bisogna far intervenire le grandi potenze arabe (l’Egitto, l’ Arabia Saudita e gli Emirati) e la Turchia e il Qatar, i soli che possono assicurare in Libia un’autorità senza la quale ogni altra azione è impossibile.

Concludo tornando al tema della Resistenza.

Mi dicono che a Renzi non è simpatica la canzone “Bella Ciao” che è proprio quella dei partigiani. Sarebbe stato bello se l’avesse intonata anche lui alla manifestazione dell’Anpi. Non vorrei che invece di “Bella Ciao” dicesse “Ciao Bella”. È un cambiamento ma non andrebbe affatto bene.

Il manifesto, 26 aprile 2015

Il rap­porto tra discorso pub­blico e Libe­ra­zione ha cono­sciuto fasi molto diverse, a volte con­tra­stanti. Si pos­sono cer­ta­mente indi­vi­duare delle costanti, ma è ancora più utile riflet­tere sui muta­menti di fase e sulle loro impli­ca­zioni. Del resto è un feno­meno che si svi­luppa in forma sostan­zial­mente auto­noma rispetto alla sto­rio­gra­fia, che pro­cede in paral­lelo: non è certo inin­fluente, ma viene rece­pita, quando accade, molto tempo dopo.

È signi­fi­ca­tivo che una reto­rica uffi­ciale prenda forma prima ancora del com­ple­ta­mento degli eventi. Nasce infatti nel 1944, quando viene già isti­tuita una «gior­nata del par­ti­giano», fis­sata, per sot­tile e incon­sa­pe­vole iro­nia delle date, al 18 aprile. C’è una grande enfasi attorno ai com­bat­tenti ita­liani, in divisa e per bande, che deve ser­vire a faci­li­tare quelle che ven­gono imma­gi­nate nor­mali trat­ta­tive di pace. Non ser­virà a molto su que­sto ter­reno, ma per altri versi non sarà affatto inu­tile: la nuova imma­gine degli ita­liani si costrui­sce anche attra­verso il rico­no­sci­mento inter­na­zio­nale dell’esistenza di com­bat­tenti ita­liani per la libertà.

Ma notiamo subito alcune carat­te­ri­sti­che che reste­ranno a lungo impresse nel discorso pub­blico attorno a quella che poi, a cose fatte, verrà defi­nita, sull’esempio fran­cese, Resi­stenza. Il carat­tere pres­so­ché esclu­si­va­mente patriot­tico, da subito col­le­gato – come pro­ba­bil­mente era «natu­rale» che fosse – all’esperienza risor­gi­men­tale. E il carat­tere lar­ga­mente asso­lu­to­rio del richiamo ad essa: Resi­stenza uti­liz­zata come lava­cro delle colpe col­let­tive, delle com­pli­cità, dei ritardi e dell’acquiescenza della società ita­liana nei con­fronti del regime fasci­sta. L’illusione di far parte del novero dei vin­ci­tori («anche l’Italia ha vinto» tito­lava una rivi­sta già alla libe­ra­zione della Capi­tale). Infine, come era ine­vi­ta­bile in quel con­te­sto, il rilievo pre­pon­de­rante se non esclu­sivo attri­buito all’elemento della guerra in armi, sacri­fi­cando mol­tis­sime com­po­nenti dell’esperienza resi­sten­ziale che emer­ge­ranno len­ta­mente e con fatica nei decenni successivi.

Ma su tutto que­sto irrompe una bru­sca cesura a par­tire dal 1947, con la rot­tura dell’unità anti­fa­sci­sta e con l’ingresso a pieno titolo dell’Italia nel mondo che ci abi­tue­remo a defi­nire della «guerra fredda». Improv­vi­sa­mente la Resi­stenza cessa di essere una risorsa e diviene una com­pli­ca­zione, talora un far­dello per i gover­nanti. Si inau­gura quello che potremmo defi­nire il falso pro­blema della «guerra civile», che con­tra­ria­mente a quanto si dirà in seguito incombe nel discorso pub­blico (verrà dismesso solo a par­tire dagli anni Ses­santa) e in ter­mini ancor più depre­ca­tivi («guerra fra­tri­cida» sarà la for­mula ufficiale).

In gran parte falso pro­blema per­ché già ampia­mente risolto in ter­mini giu­ri­dici dall’amnistia del 1946, per­ché le sue dimen­sioni erano state cir­co­scritte in ter­mini minimi rispetto a «vere» guerre civili come quella spa­gnola o ad altri feno­meni, dif­fu­sis­simi, di col­la­bo­ra­zio­ni­smo nel corso del con­flitto. Infine per­ché il paese aveva già cono­sciuto un’autentica guerra fra ita­liani nel corso di quello stesso Risor­gi­mento cui la memo­ria pub­blica si richia­mava con acco­sta­mento pres­so­ché obbli­gato nelle cele­bra­zioni del 25 aprile.

Die­tro lo schermo della «guerra civile» si cela­vano però frat­ture desti­nate a rima­nere irri­solte nella coscienza nazio­nale. In primo luogo il pro­blema che potremmo defi­nire della lenta e dif­fi­cile meta­bo­liz­za­zione del fasci­smo da parte della società ita­liana: un lascito di men­ta­lità, cul­ture e con­sue­tu­dini che agiva sot­to­trac­cia ben al di là dell’apparente una­ni­mità del ripu­dio che aveva segnato i mesi della caduta di Mus­so­lini. In secondo luogo, dif­fi­cile da cogliere oltre l’ufficialità delle nar­ra­zioni, ope­rava la sovrap­po­si­zione tra Costi­tu­zione scritta sulla base dei valori dell’antifascismo e «costi­tu­zione mate­riale» anti­co­mu­ni­sta su cui si model­lava il nuovo potere delle classi diri­genti. Una ten­sione con­flit­tuale che rie­mer­gerà in mol­tis­simi momenti della vita repub­bli­cana, e che oltre­pas­serà anche i con­fini di quella che verrà defi­nita «Prima Repubblica».

Que­sto clima comin­cia a incri­narsi in occa­sione del primo Decen­nale, mal­grado la divi­sione per­du­rante tra le stesse orga­niz­za­zioni par­ti­giane. L’elezione di Gio­vanni Gron­chi, con un richiamo diretto alla Resi­stenza, guerra di popolo, e soprat­tutto con la con­sta­ta­zione che una Costi­tu­zione esi­steva e andava attuata al più pre­sto (si par­tirà a breve con la Corte costi­tu­zio­nale) era un segnale di muta­mento. Nella lun­ghis­sima incu­ba­zione del cen­tro­si­ni­stra gio­cherà un ruolo anche il reci­proco rico­no­sci­mento nei valori riaf­fer­mati della tra­di­zione antifascista.

La vera svolta si avrà nel luglio 1960, con la prova di forza vinta da un anti­fa­sci­smo vec­chio e nuovo, fatto anche di gio­va­nis­simi, con­tro il ten­ta­tivo di tor­nare indie­tro da parte del blocco cle­ri­co­fa­sci­sta che si era rico­no­sciuto nell’avventura di Tam­broni. Da que­sto momento in poi Resi­stenza e anti­fa­sci­smo diver­ranno a lungo cen­trali nel nuovo discorso pubblico.

Con qual­che ambi­guità per­du­rante, che replica i vizi di ori­gine, a volte per­fino ingi­gan­ten­doli. La for­mula cano­nica del «popolo unito con­tro la tiran­nide» che diviene ricor­rente nell’oratoria uffi­ciale nel tempo della pre­si­denza di Sara­gat è ancor più asso­lu­to­ria e ingan­na­trice di quanto non fosse stata la reto­rica delle ori­gini repub­bli­cane. Men­tre una nuova Ger­ma­nia farà rie­mer­gere pro­prio a par­tire dalla fine degli anni Ses­santa la grande rimo­zione del pas­sato nazi­sta, met­terà sotto accusa la «gene­ra­zione dei padri» e intro­durrà il tema deci­sivo delle «respon­sa­bi­lità col­let­tive», in Ita­lia que­sto appun­ta­mento verrà man­cato e la pro­ble­ma­tica del «con­senso» al fasci­smo sarà desti­nata ad affio­rare sotto un segno com­ple­ta­mente diverso, non pro­durrà sensi di colpa ma invece il sol­lievo della con­ferma di un giu­di­zio bona­rio e mini­miz­zante nei con­fronti dell’esperienza fasci­sta dive­nuto ormai vox populi.

Le ambi­guità saranno pre­senti anche nel discorso di una «nuova sini­stra» che in gran parte anima le mani­fe­sta­zioni e che nel rap­porto con la sto­ria si muo­verà in ter­mini molto diversi rispetto ai coe­ta­nei tede­schi. A lungo la Resi­stenza verrà sot­to­va­lu­tata e quasi messa sotto accusa per non aver dato luogo a un esito «rivo­lu­zio­na­rio». Alla svolta degli anni Set­tanta sarà improv­vi­sa­mente rein­ven­tata in forma favo­li­stica, scam­biando una parte per il tutto e attri­buendo al popolo ita­liano una pro­pen­sione rivo­lu­zio­na­ria in gran parte illu­so­ria. Tra le oppo­ste reto­ri­che di Resi­stenza «rossa» e «tri­co­lore» corre spesso il rischio di venire stri­to­lata la Resi­stenza popo­lare e civile, delle donne e degli uomini comuni, nella sua plu­ra­lità di pra­ti­che e di moti­va­zioni, che con grande fatica e con un lungo e impo­nente lavoro di scavo e di rifles­sione gli sto­rici faranno emer­gere con chia­rezza negli anni suc­ces­sivi. E che com­pren­deva ine­vi­ta­bil­mente memo­rie diverse, anche «divise» e con­flit­tuali come si sco­prirà tar­di­va­mente in seguito, che pote­vano rico­no­scersi e ricon­ci­liarsi, ma non avreb­bero mai potuto con­ver­gere in una «memo­ria unica», stra­va­ganza con­cet­tuale degna di un regime totalitario.

A par­tire dagli anni Ottanta l’antifascismo e — per la prima volta — anche la Costi­tu­zione saranno visti come osta­coli sulla strada della «moder­niz­za­zione» del paese. L’Italia pren­derà, di fatto, una strada diversa rispetto all’evoluzione della coscienza occi­den­tale, che pro­prio in que­gli anni, anche attra­verso una nuova con­sa­pe­vo­lezza della por­tata della Shoah, riflet­terà sull’enormità del pro­blema sto­rico del fasci­smo euro­peo, del suo radi­ca­mento, del con­senso otte­nuto e della cata­strofe inne­scata. Si apri­ranno, anche su que­sto ter­reno, i ter­mini di una nuova «ano­ma­lia ita­liana», che segne­ranno una lunga fase della sto­ria italiana.

Gli anni della «Seconda Repub­blica» sem­bre­ranno per quasi un ven­ten­nio domi­nati dall’ansia di offrire una legit­ti­ma­zione sto­rica alla nuova destra, in larga misura estra­nea oppure ostile alla Libe­ra­zione, e che emerge con ampio con­senso dopo il dis­sol­vi­mento del vec­chio equi­li­brio. Ascol­te­remo nei discorsi uffi­ciali di pre­si­denti e mini­stri il richiamo ricor­rente alla «buona fede» dei fasci­sti scon­fitti, attri­buendo rilievo e cen­tra­lità a una con­sta­ta­zione di bana­lità disar­mante, per­ché la buona fede in genere sul piano sto­rico non si nega a nes­suno, ed era attri­bui­bile a giu­sto titolo anche alle SS. Negli stessi discorsi di inse­dia­mento dei Pre­si­denti della Repub­blica il richiamo alle «ragioni» della parte scon­fitta nel 1945 appa­rirà improv­vi­sa­mente pro­blema attuale di cui farsi carico, fino all’eccezione rap­pre­sen­tata da Ser­gio Mat­ta­rella che con un lim­pido e det­ta­gliato richiamo alla Costi­tu­zione anti­fa­sci­sta porrà fine a quella pra­tica discorsiva.

L’antifascismo appa­rirà ine­vi­ta­bil­mente sulla difen­siva, costretto a bat­ta­glie talora di retro­guar­dia, nelle lun­ghe pole­mi­che sul cosid­detto «revi­sio­ni­smo», ma in grado ancora di mobi­li­ta­zioni impo­nenti, come nella grande mani­fe­sta­zione pro­mossa da que­sto gior­nale a Milano nel 1994 subito dopo lo sfon­da­mento elet­to­rale della destra. E riu­scirà anche a respin­gere nel refe­ren­dum del 2006 (con uno schie­ra­mento ani­mato dall’ex-presidente Oscar Luigi Scal­faro) l’imposizione di una nuova Costi­tu­zione sbi­lan­ciata sul ter­reno del «deci­sio­ni­smo» e del pri­mato dell’esecutivo, e che pre­fi­gu­rava anche il venir meno della coe­sione nazio­nale attra­verso i mec­ca­ni­smi della cosid­detta «devo­lu­zione» a favore dei par­ti­co­la­ri­smi regionali.

Si era trat­tato, come oggi com­pren­diamo bene, di una vit­to­ria appa­rente. La fase che viviamo appare domi­nata, a ben vedere, dalla ten­sione tra l’affermazione, non più messa in discus­sione, dei valori sto­rici della Libe­ra­zione e il disgre­garsi in paral­lelo del mondo di idee e di prin­cìpi che ave­vano pro­dotto, dal venir meno delle con­qui­ste di una civiltà repub­bli­cana pro­gres­si­va­mente svuo­tata dei suoi carat­teri ori­gi­nari e qualificanti.

Ben oltre la chias­sosa destra ita­liana, la civiltà costi­tu­zio­nale del nostro paese (e non solo del nostro) è entrata nel mirino delle nuove entità imper­so­nali che gover­nano il mondo e tra­sci­nano l’Europa al sui­ci­dio. Nel mag­gio 2013 un gigante della finanza glo­bale dirà espli­ci­ta­mente che le Costi­tu­zioni anti­fa­sci­ste nate dopo la seconda guerra mon­diale vanno rite­nute un osta­colo per la «moder­niz­za­zione» e l’«integrazione» dei sistemi eco­no­mici in Europa. Poli­tici dive­nuti zelanti sud­diti di quella volontà met­tono in atto un mec­ca­ni­smo ine­so­ra­bile che con­duce in quella direzione.

Per que­sto negli ultimi anni la ricor­renza del 25 aprile appare sem­pre di più una mesta ceri­mo­nia degli addii. Un pren­dere con­gedo dal mondo in cui ave­vamo vis­suto, dalle nostre spe­ranze e dalle nostre conquiste.

L’ossequio este­riore alla Libe­ra­zione non è più messo in discus­sione, ed essa viene cele­brata da cor­tei di popolo, da donne e uomini che dif­fi­cil­mente pos­sono ren­dersi conto di vivere la stessa situa­zione descritta in una famosa poe­sia di Bre­cht, incon­sa­pe­voli del fatto che «alla loro testa mar­cia il nemico».

Con ogni pro­ba­bi­lità la nostra demo­cra­zia par­la­men­tare verrà abo­lita can­tic­chiando Bella ciao. La Libe­ra­zione tor­nerà a essere, come è stata a lungo nella sto­ria ita­liana, fuoco che cova sotto la cenere, in attesa di venire rivi­ta­liz­zato da nuovi eredi

Il manifesto, 25 aprile 2015

Con­trol­lare le fron­tiere, respin­gere i migranti, impe­dire che par­tano. Que­sti i prin­ci­pali impe­gni che i governi euro­pei hanno assunto in occa­sione della riu­nione di gio­vedì del Con­si­glio d’Europa. Impe­gni in sin­to­nia con quanto dichia­rato in diverse occa­sioni dal nostro pre­si­dente del con­si­glio che, nel suo discorso alla Camera, a poche ore di distanza dalla strage più grande di sem­pre nel Medi­ter­ra­neo, non ha nem­meno accen­nato al dovere dei governi ita­liano ed euro­pei di farsi carico della pro­te­zione delle per­sone che fug­gono da guerre e violenze.

Cen­trali restano, dal suo punto di vista, la lotta agli sca­fi­sti e un’ulteriore stretta alle fron­tiere, con l’aggravante, che segna un’inedita con­ver­genza tra i due Mat­tei (Renzi e Sal­vini), di dare prio­rità alla distru­zione delle imbar­ca­zioni usate per le tra­ver­sate in mare. L’Unione Euro­pea riprende, in sede di Con­si­glio, la pro­po­sta ita­liana, pre­ve­dendo anche la pos­si­bi­lità di un inter­vento mili­tare per rag­giun­gere l’obbiettivo, dimen­ti­cando però che in Libia c’è una guerra civile in corso e che il rischio di ‘danni col­la­te­rali’ è molto alto.

Grande sin­to­nia quindi tra il nostro governo e l’Europa dei 28 (ma anche con un pezzo dell’agenda poli­tica della destra xeno­foba) sulla gestione delle fron­tiere, con l’obiettivo, espli­ci­tato soprat­tutto negli accordi del pro­cesso di Khar­toum e in quello di Rabat, così come negli accordi bila­te­rali che si vanno defi­nendo in que­sti mesi, di tra­sfe­rire ai Paesi della sponda sud la respon­sa­bi­lità di gestire i flussi di richie­denti asilo per bloc­carli prima che arri­vino alle nostre frontiere.

Una con­ver­genza che segna il punto più basso delle poli­ti­che migra­to­rie, di fronte alle migliaia di cada­veri che giac­ciono sul fondo del Medi­ter­ra­neo. Nell’ordine del giorno del Con­si­glio l’accoglienza viene affron­tata come il meno impor­tante dei pro­blemi e la sban­die­rata soli­da­rietà tra gli Stati Mem­bri si riduce a pro­getti pilota di rein­se­ri­mento per 5mila rifu­giati, una cifra ridi­cola.

La grande e potente Europa met­te­rebbe in campo un pro­getto spe­ri­men­tale per almeno (sic!) 5000 posti. Tanto per capire di che stiamo par­lando, basti pen­sare che il pic­colo e povero Libano o la pic­cola e povera Gior­da­nia accol­gono circa un milione di per­sone a testa. L’Europa della Mer­kel, di Holande e Renzi, della BCE di Dra­ghi, 5000 posti. Vergogna!

Esi­ste per for­tuna un’altra Ita­lia, che ha rea­gito subito con sde­gno, por­tando in piazza migliaia di per­sone, cer­cando di resti­tuire a quei morti la dignità che meri­tano e di espri­mere un cor­do­glio ed una soli­da­rietà fatta di pro­po­ste con­crete. Non di vane parole e di cini­smo. L’Italia dei sin­da­cati, delle orga­niz­za­zioni sociali reli­giose e lai­che, di stu­denti e ambien­ta­li­sti, che ogni giorno prova a con­tra­stare il raz­zi­smo di stato. Una rete di asso­cia­zioni che si è data appun­ta­mento il 21 aprile davanti a Mon­te­ci­to­rio a Roma e in altre 100 città per chie­dere che il governo ita­liano attivi subito una ope­ra­zione di ricerca e sal­va­tag­gio (come Mare Nostrum), in attesa che tutta l’Europa si assuma que­sta responsabilità.

Allo stesso tempo è stato chie­sto che Ita­lia e UE affi­dino all’Unhcr il tra­sfe­ri­mento in sicu­rezza verso l’Europa di coloro che, nei paesi intorno al medi­ter­ra­neo, aspet­tano di poter par­tire per chie­dere pro­te­zione, con un’equa ripar­ti­zione tra i diversi stati. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifu­giati (Unhcr) è infatti l’organizzazione che ha com­pe­tenze, stru­menti e mezzi per poter gestire legal­mente il flusso di pro­fu­ghi, senza dover modi­fi­care leggi nè orga­niz­zare impro­ba­bili rap­pre­sen­tanze e campi di tran­sito in africa, col vero scopo di bloc­carli lì.

Nei pros­simi giorni la mobi­li­ta­zione con­ti­nuerà e se l’Italia e l’Unione euro­pea non cam­biano dire­zione ci sarà una rea­zione ampia e uni­ta­ria, per fer­mare la strage e resti­tuire forza e inte­grità alla nostra democrazia

Per ricordare la Resistenza, molla della la Liberazione e radice della Costituzione, ripresentiamo uno scritto chi, dal passato, ci riconduce all'oggi anche per evitare che l'indifferenza all'oggi possa farci perdere che settant'anni fa abbiamo conquistato

. La città futura, febbraio 2017

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

11 febbraio 1917

Il manifesto, 25 aprile 2015

La cele­bra­zione delle date impor­tanti non è sem­pre uguale. Per­ché la memo­ria stessa è sog­getta alla sto­ria, e le cose si ricor­dano in modo diverso a seconda dei tempi. Tal­volta si è invece ripe­ti­tivi: è quando non ci sono par­ti­co­lari e nuove ragioni che spin­gono a ripen­sare l’evento com­me­mo­rato. E per­ciò resta un rituale. Quante volte nei tanti 8 marzo della mia vita mi è acca­duto di sbuf­fare per il fasti­dio della ripe­ti­ti­vità. Poi scop­piò il nuovo fem­mi­ni­smo e quella gior­nata si arric­chì di una carica inno­va­tiva che ci fece tor­nare con gioia a distri­buire mimose.

Per il 25 aprile non ho sbuf­fato mai, ma è vero che, pas­sato il peg­gio della guerra fredda — quando i governi dc arre­sta­vano i par­ti­giani, o quando arrivò Tam­broni — anche la Resi­stenza rimase spesso immo­bile. Oggi, 2015, è evi­dente a tutti che la data è cal­dis­sima, un’urgenza attuale nella nostra agenda. Per via di un suo spe­ci­fico aspetto: non tanto per­ché chi ne fu com­bat­tente riu­scì a cac­ciare i tede­schi , che pure non è poco. Piut­to­sto per­ché è in que­gli anni ’43–45 che ven­nero poste le fon­da­menta — per la prima volta — di uno stato demo­cra­tico in Ita­lia. Che oggi mi pare in peri­colo, non per­ché assa­lito dai fasci­sti, ma per­ché eroso dal di dentro.

Noi uno stato popo­lare, legit­ti­mato a livello di massa, non l’avevamo avuto mai : il Risor­gi­mento, come sap­piamo, fu assai eli­ta­rio e pro­dusse una par­te­ci­pa­zione assai ristretta, estra­nee le classi subal­terne; i governi della nuova Ita­lia nata nel 1860 restano nella memo­ria dei più per la disin­vol­tura con cui gene­rali e pre­fetti spa­ra­vano su ope­rai e con­ta­dini. Poi venne addi­rit­tura il fascismo.

A dif­fe­renza del maquis fran­cese o della resi­stenza danese o nor­ve­gese, la nostra non aveva pro­prio nulla da recu­pe­rare, niente e nes­suno da rimet­tere sul trono. Si trat­tava di inven­tarsi per intero uno stato ita­liano decente, e dun­que demo­cra­tico. (Come in Gre­cia, del resto, dove però una pur straor­di­na­ria Resi­stenza non ce l’ha fatta).

Non è una dif­fe­renza di poco. E se la Resi­stenza ita­liana ci ha per­messo di riu­scirci, è anche per­ché è stata la prima volta in cui in Ita­lia le masse popo­lari hanno par­te­ci­pato mas­sic­cia­mente e senza essere inqua­drate dai bor­ghesi alla deter­mi­na­zione della sto­ria nazionale.

E anche per un’altra ragione: per­ché il dato mili­tare, e quello stret­ta­mente poli­tico — l’accordo fra i par­titi anti­fa­sci­sti — pur impor­tanti, non esau­ri­scono la vicenda resi­sten­ziale. Un ruolo deci­sivo nel carat­te­riz­zarla l’ha avuto quello che un grande sto­rico, coman­dante della bri­gata Gari­baldi in Luni­giana, Roberto Bat­ta­glia, chiamò “società par­ti­giana”. E cioè qual­cosa di molto di più del tratto un po’ gia­co­bino, o meglio gari­bal­dino, dell’organizzazione mili­tare più i civili che ne aiu­ta­rono eroi­ca­mente la sus­si­stenza; e cioè l’autorganizzazione nel ter­ri­to­rio, l’assunzione, gra­zie a uno scatto di sog­get­ti­vità popo­lare di massa, di una respon­sa­bi­lità col­let­tiva, per rispon­dere alle esi­genze della comu­nità, il “noi” che pre­valse senza riserve sull’ “io”.

L’antifascismo come senso comune, più che nella tra­di­zione pre­bel­lica, ha ori­gine in Ita­lia da que­sto vis­suto, nell’ espe­rienza auto­noma e diretta di sen­tirsi — «attra­verso scelte che nascono dalle pic­cole cose quo­ti­diane», come ebbe a scri­vere Cala­man­drei — pro­ta­go­ni­sti di un nuovo stato, non quello dei monu­menti dedi­cati ai mar­tiri, ma quello su cui hai diritto di deci­dere, di una patria che non chiede sacri­fici ma ti garan­ti­sce pro­te­zione, legit­tima i tuoi biso­gni, ti dà voce. E’ la comu­nità, insomma, che si fa Stato, a par­tire dal senso di appartenenza.

La Costi­tu­zione par­to­rita dalla Resi­stenza riflette pro­prio que­sta presa di coscienza, e infatti defi­ni­sce la cit­ta­di­nanza come piena appar­te­nenza alla comu­nità. Non avrebbe potuto essere così se, ben più che da una media­zione di ver­tice fra i par­titi, non fosse nata pro­prio da quella espe­rienza diretta che fu la “società par­ti­giana.” E dalle sue aspi­ra­zioni. Per que­sto ha una ispi­ra­zione così ugua­li­ta­ria e for­mu­la­zioni in cui è palese lo sforzo di evi­tare for­mule astratte. E’ di lì che viene fuori quello straor­di­na­rio arti­colo ‚per esem­pio, che dice come, per ren­dere effet­tive libertà e ugua­glianza”, sia neces­sa­rio “rimuo­vere gli osta­coli che le limi­tano di fatto”.

Pro­prio riflet­tendo su quanto da più di un decen­nio sta acca­dendo, a me sem­bra che la crisi visi­bile della demo­cra­zia che stiamo vivendo non sia solo la con­se­guenza del venir meno di quel patto di ver­tice, e dei par­titi che l’avevano sot­to­scritto, ma più in gene­rale dell’impoverirsi del tes­suto politico-sociale che ne aveva costi­tuito il con­te­sto. E se è pos­si­bile l’attacco che oggi si sca­tena con­tro la Costi­tu­zione è pro­prio per­ché la nostra società non è più “par­ti­giana”, ma pas­siva, pri­vata di sog­get­ti­vità, estra­nea alla poli­tica di cui non si sente più, e infatti non è più, pro­ta­go­ni­sta, chiusa nelle angu­stie dell’”io”, sem­pre meno par­te­cipe del destino dell’altro, lon­tana dal decli­nare il “noi”.

Non ci sarà esito posi­tivo agli sforzi che in molti, e da punti di par­tenza anche dif­fe­ren­ziati, vanno facendo per uscire dalla crisi della sini­stra se non riu­sci­remo a risu­sci­tare prima sog­get­ti­vità e senso di respon­sa­bi­lità col­let­tiva . Non riu­sci­remo nem­meno a sal­vare la Costi­tu­zione, e fini­remo anche per can­cel­lare la spe­ci­fi­cità della Resi­stenza ita­liana. Quell’attacco mira pro­prio ad impo­ve­rire l’idea stessa della demo­cra­zia che essa ci ha rega­lato, ridu­cen­dola a un insieme di regole e garan­zie for­mali e indi­vi­duali, non più ter­reno su cui sia pos­si­bile eser­ci­tare potere.

Stiamo attenti a come cele­briamo il 25 Aprile. Ber­lu­sconi, quando per una volta si degnò di par­te­ci­pare a una ini­zia­tiva per il 25 aprile — fu ad Onna, subito dopo il ter­re­moto d’Abruzzo — ebbe a dire che sarebbe stato meglio cam­biare il nome della festa: non più “della Libe­ra­zione”, ma “della Libertà”. Pro­po­sta fur­bis­sima: la sua dizione richiama infatti un valore astratto calato dal cielo, la nostra dà conto della sto­ria e rac­conta chi la libertà ce l’aveva tolta e cosa abbiamo dovuto fare per ricon­qui­starla. Se smar­riamo la sto­ria can­cel­liamo il ricordo delle squa­dracce fasci­ste al soldo degli agrari e dei padroni che bru­cia­rono le Camere del lavoro, la vio­lenza con­tro le orga­niz­za­zioni popo­lari; depen­niamo la Resi­stenza stessa e sopra­tutto il ruolo che ha avuto nel costruire un nuovo stato ita­liano democratico.

Rischiamo di dimen­ti­care che per man­te­nere la libertà c’è biso­gno di sal­va­guar­dare la Costi­tu­zione e per farlo di rico­struire una “società par­ti­giana” per l’oggi: uno scatto di sog­get­ti­vità, di assun­zione di respon­sa­bi­lità, un impe­gno poli­tico col­let­tivo, rimet­tere il “noi” prima dell’”io”.

Sapendo che oggi il “noi” si è estre­ma­mente dila­tato. Non è più quello di chi vive attorno al cam­pa­nile, e nem­meno den­tro i con­fini nazio­nali. Il mondo è entrato ormai nel nostro quo­ti­diano, lo stra­niero — e con lui la poli­tica estera — lo incon­triamo al super­mar­ket, all’angolo della strada, nella scuola dei nostri figli. La sua libertà vale la nostra, la nostra senza la sua non ha più senso. Per que­sto non è pen­sa­bile festeg­giare il 25 Aprile senza pale­sti­nesi e immi­grati, così come senza gli ebrei che da qual­che parte pati­scono tutt’ora l’antisemitismo. Non è debor­dare dal tema “Libe­ra­zione” sen­tirsi parte, vit­time e però anche respon­sa­bili, di tutti i disa­stri che afflig­gono oggi il mondo.

Festa della Liberazione: in ricordo di Claudio Cianca, antifascista contro la speculazione edilizia.

Ilfattoquotidiano.it, 24 aprile 2015

Se ne è andato il 22 febbraio di quest’anno Claudio Cianca, con i suoi 101 anni di vita da antifascista, ribelle, protagonista della Resistenza romana, presente e partecipe della vita dei più deboli.

L’ordigno bellico che fece esplodere, nel giugno del 1933, nel pronao della Basilica di San Pietro, quando non era che un giovane di vent’anni, è stato un gesto simbolico che ricorderanno in molti e compiuto perché calasse l’attenzione proprio su quell’Italia oppressa dal regime fascista, l’Italia che voleva difendere. Dirigente della Cgil, parlamentare con il Pci, consigliere comunale in Campidoglio, Cianca è stato in primo piano anche nelle battaglie contro laspeculazione edilizia. Battaglie che a ripercorrerle ricordano molto quelle dei nostri giorni.

Nel 1956 con Aldo Natoli e Leone Cattani si è battuto contro la costruzione dell’Hotel Hilton. Costruirlo significava abbattere i due terzi di una zona di verde pubblico situata sulle pendici di Monte Mario e perché avvenisse occorreva la modifica del piano regolatore con l’approvazione del consiglio comunale. Il giorno della seduta è stata la Società Generale a mandare un gruppo di lavoratori con l’obiettivo di convincere Cianca a non partecipare con interventi contro la delibera. Eppure i lavoratori, dalla sua parte, lo fecero parlare. Volevano ascoltare il discorso che Cianca poi concluse con fermezza: “La società generale immobiliare paga bene l’approvazione di queste deliberazioni”.

E’ storia vecchia, dunque, molto vecchia, la complicità tra amministrazioni e gruppi privati disinteressati al bene pubblico per favorire logiche private. Roma era già infognata nella speculazione edilizia che si andava a intrecciare con la speculazione fondiaria. “Da mille lire – ha raccontato Cianca in Il mio viaggio fortunoso, a Giuseppe Sircana – terreni agricoli o destinati al pascolo da mille lire potevano arrivare fino a trentamila lire al metro quadro…”

Negli anni in cui è stato alla Camera Cianca si è battuto contro le leggi approvate per gli interessi privati. E’ con l’aiuto di Fiorentino Sullo che nel 1962 è stata varata la Legge 167, perché i comuni potessero acquisire aree demaniali per costruire case economiche e popolari. Una legge che, tuttavia, ha trovato numerose difficoltà di applicazione.

Claudio Cianca è stato anche membro della presidenza dell’Anppia, l’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti. Ha sempre cercato di tenere vivi e trasmettere ai giovani i valori che hanno guidato la sua stessa vita ricordando che “la libertà non si perde tutta insieme un brutto giorno, ma poco a poco giorno per giorno”.

E dalla sua vita, dal modo in cui scelse di condurla dedicandosi a quella dei più deboli, oggi di lui è viva e ricca di sfumature colorate, la fotografia di un uomo, un cittadino, un lavoratore che con gli altri, per usare le sue stesse parole, finalmente, dopo il congresso di Napoli della Cgil nel 1945 si sentiva “cittadino partecipe alla costruzione di una democrazia”. Anche per questo dovere e piacere si mischiano nel ricordare Claudio Cianca nel giorno della Liberazione.

Il manifesto, 23 aprile 2015, con postilla

L’Europa va rico­struita dalle fon­da­menta, a par­tire dalla ride­fi­ni­zione dei suoi con­fini. L’Europa che c’è ora si sta sfal­dando per­ché inca­pace di fron­teg­giare le tre sfide che i suoi popoli devono affron­tare: la sfida ambien­tale; quella eco­no­mica; e quella dei pro­fu­ghi. Pro­fu­ghi, non migranti; gente che preme ai con­fini dell’Europa non alla ricerca di una “vita migliore”, come negli scorsi decenni, ma per sfug­gire a guerre, stragi, morte per fame e schia­vitù.

Tre crisi inter­con­nesse che richie­dono uno sguardo alto sugli oriz­zonti, senza il quale vien meno ogni ragione di sovrap­porre un’entità regio­nale come l’Europa a quelle di Stati nazio­nali ormai pale­se­mente ina­de­guati. Eppure, nel dibat­tito poli­tico il tema della crisi ambien­tale è ormai affon­dato, som­merso dalle pre­oc­cu­pa­zioni finan­zia­rie; l’economia, che dovrebbe essere scienza del ben ammi­ni­strare la casa comune, si è ridotta a una misera par­tita dop­pia del dare e del pren­dere, dove pren­dere, per chi ha il bastone del comando, ha preso di gran lunga il soprav­vento sul dare. La que­stione dei pro­fu­ghi, finora con­si­de­rata mar­gi­nale (quasi un inci­dente di per­corso) è la più grave e urgente, per­ché rias­sume in sé tutte le altre; ma ridi­se­gnerà i con­fini dell’Europa e le sue fon­da­menta.

Una classe domi­nante tir­chia e vorace cerca di elu­dere i pro­blemi posti dalla crisi ambien­tale glo­bale, dall’“emergenza pro­fu­ghi”, dalle vio­la­zioni quo­ti­diane della dignità umana subite da chi è senza red­dito, senza lavoro, senza casa, senza cure, senza fami­glia o affetti, senza futuro: «non ci sono i soldi», «non c’è più posto», «non ci riguar­dano». Sem­bra quasi che il crollo di Stati e il caos di intere regioni, il pro­trarsi ende­mico di con­flitti inso­ste­ni­bili, o le stesse guerre guer­reg­giate ai suoi bordi — a cui a volte l’Europa prende parte, a volte assi­ste ignava — non la riguar­dino. Men­tre la stanno tra­sci­nando nell’abisso. Un abisso dove si intrav­ve­dono già le prime avvi­sa­glie — ma se ne ascol­tano ormai ad alta voce gli inci­ta­menti — di una poli­tica di ster­mi­nio.

Che dif­fe­renza c’è, infatti, se non in peg­gio, come ha fatto notare Erri De Luca, tra le navi negriere di secoli tra­scorsi e le car­rette del mare che tra­sci­nano a fondo i pro­fu­ghi costretti a salirvi? O, come ha fatto notare Gad Ler­ner, tra i treni piom­bati che por­ta­vano gli ebrei ad Ausch­witz, per tra­sfe­rirli subito nelle camere a gas, e le stive dei bar­coni den­tro cui i pro­fu­ghi, chiusi a chiave, spro­fon­dano in fondo al mare senza nem­meno vedere la luce del sole? I numeri, direte voi. No, quelli ci sono. Sono sei milioni – tanti quanti gli ebrei sop­pressi nei campi di ster­mi­nio nazi­sti – i pro­fu­ghi che affol­lano i campi dei paesi ai bordi del Medi­ter­ra­neo, o che si appre­stano a intra­pren­dere un viag­gio della morte verso le coste euro­pee. E se per loro non sapremo met­tere a punto solu­zioni diverse — per­ché man­cano i soldi, o per­ché non c’è posto, o per­ché scon­vol­ge­reb­bero il non più tanto quieto vivere dei cit­ta­dini euro­pei — la sorte che gli pre­pa­riamo è quella.

Biso­gna esserne con­sa­pe­voli. Che cosa signi­fi­cano infatti le “solu­zioni” pro­spet­tate dai nostri gover­nanti: sia ita­liani che euro­pei? Distrug­gere le car­rette del mare? Ne tro­ve­ranno altre, ancora più costose e insi­cure. Alle­stire campi di rac­colta ai con­fini dei paesi di imbarco? Ma per farne che cosa? Per tra­spor­tare in sicu­rezza i rifu­giati, di lì verso la loro meta? O per affi­dare a dit­ta­ture di ogni genere cen­ti­naia di migliaia di dere­litti senza più diritti, né patria, né nome, che prima o poi ten­te­ranno la fuga o ver­ranno ster­mi­nati? Fare la guerra ai paesi da cui si imbar­cano? Ma non sono state pro­prio quelle guerre a creare un numero così alto di uomini, donne e bam­bini senza più un posto dove vivere? Com­bat­tere e arre­stare gli sca­fi­sti (la solu­zione più ipo­crita di tutte)? Ma sono loro la causa di quei milioni di esseri umani che vogliono rag­giun­gere le coste euro­pee, o è la man­canza di alter­na­tive sicure, messe al bando dall’Europa, a pro­durre e ripro­durre gli sca­fi­sti?

La verità è che quei pro­fu­ghi sono già cit­ta­dini euro­pei. Cit­ta­dini di ultima classe, per­ché non viene rico­no­sciuto loro alcun diritto; ma tut­ta­via abi­tanti che fanno parte del con­te­sto dove si decide il destino dell’Europa. Pro­prio per que­sto i paesi da cui fug­gono sono già parte inte­grante del suolo euro­peo. Ma, a dif­fe­renza dei migranti degli scorsi decenni quei pro­fu­ghi non ten­tano la tra­ver­sata del Medi­ter­ra­neo, o lo sca­val­ca­mento dei con­fini orien­tali, per tra­sfe­rirsi in Europa per sem­pre; in gran parte sono pronti a tor­nare nei loro paesi non appena la situa­zione lo per­met­tesse. Quella situa­zione è la paci­fi­ca­zione e la rina­scita di quei ter­ri­tori: cose che non si otten­gono con la guerra, né con una diplo­ma­zia che finge di trat­tare con quelle stesse fazioni che ha armato; o che con­ti­nuano ad essere armate da gio­chi e trian­go­la­zioni su cui ha sem­pre meno con­trollo.

Quella paci­fi­ca­zione, in Asia, Africa, Medio Oriente, ha biso­gno di una base sociale solida. E quella base sociale, in potenza, c’è. Il nucleo por­tante potreb­bero essere pro­prio quei pro­fu­ghi che hanno rag­giunto o che cer­cano di rag­giun­gere il suolo euro­peo; i legami che li uni­scono sia a parenti e comu­nità già inse­diate in Europa, sia a coloro che sono rima­sti, o non sono riu­sciti a fug­gire dai loro paesi. Ma a quella mol­ti­tu­dine dispersa e dispa­rata (i flussi) occorre rico­no­scere la dignità di per­sone. Aiu­tan­dole innan­zi­tutto a rag­giun­gere in sicu­rezza la meta; ma anche, una volta qui, per­met­ten­dole di siste­marsi, sep­pure in modo prov­vi­so­rio, in con­di­zioni digni­tose: in case che non siano insa­lu­bri rico­veri ille­gali; pos­si­bil­mente dif­fuse sul ter­ri­to­rio sia per non gra­vare su sin­goli abi­tati votati al degrado, sia per faci­li­tare rap­porti di buon vici­nato con i locali. Con un lavoro, anche par­ziale, a par­tire dalla gestione e dalla siste­ma­zione fisica degli ambienti in cui devono tra­scor­rere una parte della loro vita: tra loro ci sono mura­tori, fab­bri, fale­gnami, elet­tri­ci­sti, agri­col­tori; ma anche mae­stri, con­ta­bili, infor­ma­tici, inge­gneri, medici infer­mieri; per­ché mai atti­vità che, ade­gua­ta­mente soste­nute, pos­sono fare loro, ven­gono invece affi­date a coo­pe­ra­tive che li sfrut­tano e costano il tri­plo? Ma, soprat­tutto, occorre faci­li­tar loro la pos­si­bi­lità di incon­trarsi, di met­tersi in rete, di eleg­gere i loro rap­pre­sen­tanti, di farsi comu­nità sociale e poli­tica, di met­tere a punto stra­te­gie per il loro ritorno.

Ma come si può anche solo pro­porre obiet­tivi del genere in paesi dove la disoc­cu­pa­zione è alle stelle e casa, red­dito e lavoro man­cano anche a tanti euro­pei? Non si può. A meno di per­se­guire per tutti, cit­ta­dini euro­pei e stra­nieri, degli stan­dard minimi di red­dito, di abi­ta­zione, di lavoro (pro­mosso o creato diret­ta­mente o indi­ret­ta­mente dai poteri pub­blici), di istru­zione, di assi­stenza sani­ta­ria. L’essenza stessa di un pro­gramma radi­cal­mente alter­na­tivo a quello per­se­guito dall’attuale gover­nance euro­pea con le poli­ti­che di auste­rità. Ma l’unico capace di affron­tare l’ondata del raz­zi­smo e della xeno­fo­bia ali­men­tata dagli impren­di­tori poli­tici della paura di destra e sini­stra. E l’unico per for­nire una road map alla rifon­da­zione radi­cale dell’Europa; a par­tire dal rico­no­sci­mento dei suoi con­fini di fatto e di quei diritti senza i quali la pre­tesa di tener uniti i suoi popoli non ha alcun fon­da­mento.

Uto­pia? Certo. Ma qual è l’alternativa? Il castello dell’euro, e quello dell’Unione, e la falsa imma­gine di un con­ti­nente oasi di pace dopo la seconda guerra mon­diale non resi­ste­ranno a lungo se non si lavora fin d’ora per inver­tire rotta. E la nuova rotta è que­sta: insieme ai nostri fra­telli e sorelle che fug­gendo dalle guerre ci por­tano, con la loro stessa vicenda esi­sten­ziale, un mes­sag­gio di pace.

postilla

A proposito di utopia. A chi lo accusava di essere utopista nella sua proposta l'economista Claudio Napoleoni rispondeva: «Il fatto è che posto a un livello più basso il problema non è risolvibile»

La Repubblica, 24 aprile 2015

La “quasi certezza”: è questo che la Casa Bianca pretende per dar via libera ai Predator B e ai loro missili Hellfire. E quando si uccidono le persone sbagliate, ha detto ieri Barack Obama, è perché «nella nebbia della guerra al terrorismo si possono compiere errori, a volte mortali». Errori che uccidono occidentali come Giovanni Lo Porto e il suo compagno di sventura, Warren Weinstein, o che straziano ragazzi, donne, civili e in genere tutti quelli che si trovavano al momento sbagliato nel posto sbagliato, Pakistan o Yemen che sia.

Al Pentagono usano l’atroce termine “danni collaterali”, presentando cifre che tutto sommato lasciano pensare a una percentuale modestissima di civili uccisi. Ma per respingere l’idea di tollerabilità, non c’è nemmeno bisogno di affrontare problemi di principio. Il fatto è che la dottrina della Difesa Usa classifica come “elementi ostili” tutti i maschi adulti presenti sul luogo dell’attacco. Il ragionamento è: se è grande abbastanza da imbracciare un kalashnikov e frequenta amicizie sospette, dev’essere per forza un nemico.
«In realtà i cosiddetti danni collaterali sono inevitabili nelle operazioni con i velivoli a pilotaggio remoto Uav. E sono già messi in conto», dice Gianfranco Bangone, autore di La guerra al tempo dei droni, edito da Castelvecchi. Secondo un rapporto del centro britannico per i diritti umani Reprieve, per inseguire i 41 super-ricercati della “lista da eliminare”, a partire dal mullah Omar ed Ayman al Zawahiri, i droni Usa hanno già ucciso 1.147 persone. Il Bureau of Investigative Journalism fornisce bilanci impressionanti, con il Pakistan al centro dell’offensiva americana (quasi 4mila vittime, un migliaio i civili), poi lo Yemen (un migliaio di vittime, un centinaio i civili), la Somalia e l’Afghanistan.
Più che un problema di droni, è una questione di scelte strategiche: colpire dall’alto — che sia dai Predator o da un cacciabombardiere — permette di ridurre o annullare del tutto le perdite, ma allo stesso tempo diminuisce la capacità di controllare quello che avviene sul terreno. In altre parole, dalla loro postazione lontana, magari in una base Usa, i piloti non hanno nessuna certezza di attaccare davvero miliziani di Al Qaeda o Taliban. Quello che conta è dunque la capacità di intelligence, cioè la raccolta di informazioni prima dell’attacco e a volte anche l’indicazione degli obiettivi in “tempo reale”, cioè con elementi delle truppe speciali infiltrati che “illuminano” l’obiettivo da colpire con speciali laser.
«Ma all’azione di un Uav partecipano più persone», dice un esperto della Difesa italiana: «Questo vuol dire che la responsabilità è distribuita a tutti i livelli. Grazie alle moderne tecnologie di comunicazione, la scelta di colpire o di rimandare l’attacco è condivisa. Insomma, quando ci sono dubbi, per decidere si coinvolge chi ha altre responsabilità, non solo tattiche, ma strategiche, e anche politiche». In più, le caratteristiche dei droni permettono ricognizioni di lunga durata, ben oltre i limiti fisici del pilota umano. E questo dovrebbe garantire una ragionevole sicurezza nell’individuare il bersaglio. A consolidare le informazioni dall’alto, deve intervenire anche l’Humint, l’intelligence umana sul terreno: i problemi sorgono solo quando il tempo stringe, magari perché si ritiene che l’obiettivo d’alto livello stia per andar via. È in questi casi che la percentuale di errore si alza.
Il Pentagono, però, ha adottato anche un sistema di individuazione degli elementi ostili basato su software. Sono i cosiddetti signature strike , cioè colpi basati su un comportamento considerato “la firma” dei terroristi. Individuato con certezza un esponente di Al Qaeda, se ne controllano le comunicazioni, dopo di che si comincia a seguire le persone che sono entrate in contatto con lui, rilevando i movimenti delle sim card contenute nei cellulari. Se alcune di queste persone frequentano altri esponenti “nemici”, o hanno comunque comportamenti “sospetti”, si presume che a loro volta siano ostili. In questo modo l’autorizzazione all’assalto dei Predator di fatto viene affidata a un calcolatore.
Molto probabilmente è a queste procedure che si riferiva ieri il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest, annunciando la decisione di Obama di “rivedere” i protocolli di attacco dei droni. La “quasi certezza” voluta dal presidente è altra cosa. Tanto più che se le informazioni sono inaffidabili, se il software del destino è imperfetto e c’è il sospetto di aver straziato civili senza colpa, anche per chi partecipa la missione è inaccettabile. Lo racconta Brandon Bryant, pilota di Predator che ha lasciato l’Air Force dopo oltre 1.600 vittime. Quando il missile Hellfire colpisce l’obiettivo, gli schermi del posto di comando mostrano l’esplosione, ovviamente senza rumore. Poi si vedono i corpi. L’immagine più sconvolgente compare sullo schermo a rilevazione termica, quando cambia la temperatura nei corpi delle persone colpite. Il sangue all’inizio appare caldo, poi si raffredda. E ha lo stesso colore, che sia di miliziani di Al Qaeda oppure di ragazzi innocenti.

Il manifesto, 24 aprile 2015 (m.p.r.)

Navi da guerra, por­tae­li­cot­teri, aerei arri­ve­ranno nel Medi­ter­ra­neo per met­tere ordine, per “smash the gangs”, come ha rias­sunto con grande ele­ganza il bri­tan­nico David Came­ron. Ma gli “inter­venti mirati” per distrug­gere i bar­coni dei traf­fi­canti, indi­vi­duati come i soli respon­sa­bili dell’ecatombe umana die­tro i quali la Ue tenta di nascon­dere le pro­prie respon­sa­bi­lità, restano un’ipotesi dif­fi­cile da rea­liz­zare nei paesi di par­tenza, a comin­ciare dalla Libia, e potreb­bero limi­tarsi ad azioni ex post, nei porti di sbarco euro­pei. A Mrs Pesc, Fede­rica Moghe­rini, è stato affi­dato il com­pito di tro­vare le vie legali per arri­vare al seque­stro e alla distru­zione dei bar­coni dei trafficanti.

Il Con­si­glio straor­di­na­rio sui migranti dei capi di stato e di governo della Ue si è aperto a Bru­xel­les con un minuto di silen­zio in memo­ria dei morti del Medi­ter­ra­neo. Sarà il solo momento in cui sono ricor­dati come esseri umani. Per il resto, i 28 hanno discusso per ore come sca­ri­carsi il “far­dello”, senza cam­biare di una vir­gola i cri­teri di Fron­tex, agen­zia nata per difen­dere la for­tezza Europa, come dice il suo nome. I finan­zia­menti a Tri­ton (al largo dell’Italia) e a Posei­don (al margo della Gre­cia) saranno rad­dop­piati: erano rispet­ti­va­mente di 2,9 milioni al mese e 8 milioni l’anno (ma anche con il rad­dop­pio non si rag­giun­gerà l’investimento di Mare Nostrum). Misure “molto lon­tane dal nostro appello pres­sante a favore di ope­ra­zioni di sal­va­tag­gio di grande ampiezza”, ha com­men­tato Amne­sty Inter­na­tio­nal, che ha fir­mato con una tren­tina di altre orga­niz­za­zioni non gover­na­tive un testo rivolto ai diri­genti euro­pei e rima­sto inascoltato.

Le con­clu­sioni del ver­tice ripren­dono i dieci punti del pro­gramma di emer­genza pre­sen­tato dalla Com­mis­sione lunedi’. Ma lo rive­dono ancora al ribasso. Biso­gnerà aspet­tare mag­gio, per esem­pio, e altre pro­po­ste della Com­mis­sione, per vederci più chiaro sulla “rein­stal­la­zione” dei richie­denti asilo nei 28 paesi: comun­que, l’offerta sarà solo “su base volon­ta­ria” e non dovrebbe riguar­dare più di 5mila per­sone, iden­ti­fi­cate dall’Onu come rifu­giati (oggi nei campi in Libano, Gior­da­nia e Tur­chia). Non è in discus­sione un cam­bia­mento di Dublino II, che pre­vede che sia il paese di primo arrivo ad aprire la pra­tica per il diritto d’asilo (cosa che incombe soprat­tutto su Ita­lia, Gre­cia, Spa­gna, Malta e Cipro). C’è una diret­tiva Ue del 2001, mai appli­cata, che pre­vede una “pro­te­zione tem­po­ra­nea” in caso di grave crisi, ma anche que­sto sem­bra troppo alla mag­gio­ranza degli euro­pei. David Came­ron, per esem­pio, che deve fron­teg­giare le ele­zioni il 7 mag­gio, ha subito fatto sapere che man­derà 3 eli­cot­teri e una nave (è già una svolta, prima non voleva nep­pur sen­tir par­lare di ricerca e sal­va­tag­gio), ma che comun­que la Gran Bre­ta­gna non accet­terà di ospi­tare rifu­giati. Nel 2014, come ha ricor­dato il pre­si­dente dell’Europarlamento Mar­tin Schultz, ci sono state 626mila domande di asilo nella Ue, ma ne è stata accolta solo un’infima per­cen­tuale (a titolo di para­gone, il Libano, che ha 5 milioni di abi­tanti, acco­glie un milione di siriani). La Fran­cia man­derà due navi e un aereo, la Sve­zia (con la Nor­ve­gia) una nave. La Ger­ma­nia, due navi. La Spa­gna e il Bel­gio accet­tano anch’esse di par­te­ci­pare. La mini­stra della difesa ita­liana, Pinotti, sostiene di sapere dove si tro­vano i traf­fi­canti, l’Italia spinge per ope­ra­zioni mirate in Libia. Ma molti fre­nano, e molto pro­ba­bil­mente la distru­zione dei bar­coni avverrà nei porti di sbarco euro­pei. Per poter agire in Libia, prin­ci­pale stato di par­tenza, ci vuole l’accordo del “governo”, ma, come ha sot­to­li­neato Hol­lande (rife­ren­dosi pole­mi­ca­mente al suo pre­de­ces­sore Sar­kozy), quel paese “non è gover­nato, è nel caos”, tre anni e mezzo dopo l’intervento. Ci vor­rebbe un man­dato Onu, ma qui l’Ue si scon­tre­rebbe con un sicuro veto russo. Il pre­ce­dente di Ata­lante, la mis­sione Ue al largo della Soma­lia con­tro la pira­te­ria, inse­gna: la mis­sione era stata decisa nel 2008, ma le prime azioni sono arri­vate solo nel 2011-12. Come ha rias­sunto un ammi­ra­glio fran­cese, Alain Col­defy: “cosa pos­siamo fare per con­te­nere que­sto traf­fico con la forza? La rispo­sta è sem­plice: niente”. Rebecca Harms, co-presidente dei Verdi al Par­la­mento euro­peo, afferma che l’ipotesi di inter­venti mirati è un “senza senso, la mis­sione di difesa e sicu­rezza comune signi­fica mili­ta­riz­za­zione della stra­te­gia Ue con­tro i migranti”.

La Ue si lascia ten­tare dal modello austra­liano. Il pre­mier, il con­ser­va­tore Tony Abbott, vanta che negli ultimi 18 mesi ci sono stati “zero morti” al largo dell’Australia, gra­zie all’operazione “fron­tiere sovrane”. Una cam­pa­gna di infor­ma­zione (“No way, you will not make Austra­lia home”) per sco­rag­giare le par­tenze, 908 baroni respinti nelle acque inter­na­zio­nali in 18 mesi, una spesa con­si­de­re­vole di cen­ti­naia di migliaia di dol­lari e per i migranti la sola pos­si­bi­lità di tor­nare da dove sono venuti oppure di andare in cen­tri di deten­zione off shore in “paesi part­ner”: Cam­berra dà soldi a paesi come la Cam­bo­gia (40 milioni di dol­lari) o la Papua­sia Nuova Gui­nea per­ché accol­gano i migranti che avreb­bero diritto all’asilo (l’Australia ha fir­mato la con­ven­zione inter­na­zio­nale del ’51). La Ue, difatti, cerca “part­ner” in Africa che si fac­ciano carico dei migranti.

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