Il capitalismo ha vinto, afferma il sociologo tedesco, «ma è una vittoria di Pirro. Intanto cedono le strutture democratiche, e poi lo sfruttamento parossistico delle risorse energetiche sta distruggendo l’ecosistema. Alla fine il capitalismo distruggerà se stesso». Corriere della sera, 17 maggio 2015
TORINO «Sono venuto a Torino all’inizio degli anni Ottanta, il Lingotto era stato chiuso da poco. Svolgevo una ricerca sulle grandi fabbriche di auto. Avevo già visitato Wolfsburg, la fabbrica della Volkswagen: costruita nel 1938, 15 anni dopo il Lingotto, funziona ancora. Wolfsburg e il Lingotto sono le cattedrali del XX secolo» (quello studio fu pubblicato nel 1984, con il titolo Relazioni industriali nella Germania Ovest. Il caso dell’industria automobilistica, ndr). Parla Wolfgang Streeck, a Torino con il suo saggio Tempo guadagnato (Feltrinelli) .
Oggi, però, si dice che gli effetti della crisi del 2008 cominciano a essere superati. «Comunque è ormai divenuta prassi quella di affidare a organismi non eletti dai cittadini le decisioni politiche. Come la Bce. È la finanza che comanda, e che vive sulla mobilità dei capitali: ci possono essere problemi a delocalizzare un’industria, ma per spostare il capitale da Francoforte a un qualunque paradiso fiscale ci vogliono pochi secondi. In questo regime, con i sindacati che hanno perso la loro forza, con l’aumento di disoccupazione e di povertà, la già fragile democrazia sta soccombendo». Il capitalismo neoliberista trionfa? «Già nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, si scrisse della vittoria del capitalismo. E la globalizzazione ha amplificato le sue potenzialità. Ma è una vittoria di Pirro. Intanto cedono le strutture democratiche, e poi lo sfruttamento parossistico delle risorse energetiche sta distruggendo l’ecosistema. Alla fine — quando, non si sa — il capitalismo distruggerà se stesso».
Critico nei confronti dell’euro («nel 1994, Ralf Dahrendorf lo definì una “pessima idea”, e già denunziava il progetto di far diventare tedesca l’Europa»), Streeck oggi indica i risultati di questa Europa nel manifestarsi ovunque di movimenti populisti, o peggio ancora xenofobi e neofascisti come il Front National. «Espropriati dei propri diritti — la Bce non è eletta dal popolo — i cittadini non hanno più fiducia nella politica, cresce l’astensionismo e chi vota sceglie formazioni populiste o anti-sistema. E non solo nei Paesi più esposti come Grecia, Spagna, Italia». Ma il quantitive easing di Draghi potrebbe cambiare le cose. «È un trucco, che serve solo a guadagnare tempo, ma non muta la situazione».
Negli anni Settanta e Ottanta, Streeck era un attivo sostenitore dei socialdemocratici tedeschi. «Guardavamo all’Italia, a Enrico Berlinguer — ricorda — che staccava il Pci dall’Unione Sovietica e si avvicinava all’area di governo. Ero a Firenze e andai ad ascoltare un suo comizio in Piazza della Signoria. Stimavo molto Berlinguer, la sua onestà intellettuale, la sua chiarezza. In Germania avevamo seguito il tentativo di Aldo Moro di far entrare il Pci al governo. Poi, Moro venne ucciso. Verrebbe voglia di credere alle teorie dei complotti... Sì, perché da allora la storia d’Italia ha preso un’altra strada. Berlinguer non si riprese più da quella sconfitta, cominciò l’ascesa dei socialisti di Craxi». E di Matteo Renzi, che cosa pensa? «Ha riempito un vuoto che si era aperto dopo la fine di Berlusconi. Fa bene o male? Difficile dirlo, certo si muove. Una cosa però non mi piace: la cura esagerata della comunicazione. Anche la scelta di mettere come ministri tutte quelle belle ragazze...» .
Sbilanciamoci.info, 15 maggio 2015
Le scelte di Renzi seguono il corso delle politiche europee all'insegna di austerità e neoliberismo. Quattro sono i pilastri (ben evidenti nel DEF e nella legge di stabilità) di queste politiche italiane ed europee: le privatizzazioni, la precarizzazione del mercato di lavoro, il sostegno agli investimenti privati (con l'assenza degli interventi pubblici) e la riduzione della spesa pubblica. I quattro contro-pilastri di una politica di sinistra dovrebbero essere, all'opposto: la difesa e la valorizzazione dei beni comuni e del patrimonio pubblico; un piano del lavoro fondato sulla dignità ed i diritti delle persone; il ruolo dell'intervento e degli investimenti pubblici; la difesa del welfare e dei diritti. E insieme a questi, una politica di redistribuzione del reddito fondata su una politica di giustizia e progressività fiscale.
Le politiche europee – oltre ad essere profondamente sbagliate – non hanno funzionato e non stanno funzionando: dall'inizio della crisi la disoccupazione è aumentata mediamente di 5 punti ed il debito pubblico nell'eurozona è passato dal 65% al 95% sul PIL. Crescita non ce n'è, stiamo sempre ai confini della deflazione, l'occupazione resta al palo. L'austerità non è la soluzione, è il problema.
Le politiche italiane hanno seguito l'onda europea e anche queste non hanno funzionato: la disoccupazione è arrivata ad oltre il 12%, la capacità produttiva del paese è calata del 25% dall'inizio della crisi i poveri sono diventati oltre 6 milioni di poveri. Nel frattempo Renzi ha dato tutto quello che poteva dare alla Confindustria (abrogazione dell'articolo 18, riduzione dell'Irap, sgravi fiscali, ecc.), ha cancellato i diritti dei lavoratori e ridotto selvaggiamente la spesa sociale.
Altre sono le strade che andrebbero seguite.
Non abbiamo bisogno del Jobs Act (a favore delle imprese e della possibilità di licenziare), ma – come propone Sbilanciamoci – di un Workers Act, fondato sui diritti dei lavoratori e della buona occupazione. Non abbiamo bisogno dello Sblocca Italia (a favore dei petrolieri e dei concessionari di autostrade), ma di un vero Green Act, come sostengono le associazioni ambientaliste. Non abbiamo bisogno della Cattiva Scuola (che dà soldi alle scuole private e trasforma i presidi in datori di lavoro) ma della rigenerazione della scuola pubblica, come chiedono le centinaia di migliaia di studenti ed insegnanti scesi in piazza lo scorso 5 maggio.
Sono tre le mosse immediate- nei prossimi sei mesi- per un “programma minimo” per uscire dalla crisi.
Primo. Bisogna rimettere in discussione i vincoli dei trattati europei, liberando risorse pubbliche per gli investimenti (pubblici). Portando il rapporto deficit-pil al 4% -come in Francia- si possono recuperare almeno 20-25 miliardi da destinare ad un piano del lavoro fondato sugli investimenti pubblici, le “piccole opere” (lotta al dissesto idrogeologico, messa in sicurezza delle scuole) e un Green New Deal capace di alimentare nuove produzioni e consumi. Si tratta di una scelta anche di carattere strategico: bisogna uscire dalla crisi in un modo diverso da quello con cui ci si è entrati, cambiando il modello di sviluppo.
Secondo. Bisogna investire nella scuola, nella ricerca e nell'innovazione e nel welfare – portando gli stanziamenti alla media dei paesi dell'Unione Europea – rispettando gli impegni presi con la strategia “Europa 2020”. Senza investimenti corposi in questa direzione, non solo vengono meno i diritti sociali, ma anche la capacità di darsi una economia di qualità. Vanno stanziati almeno 5 miliardi di euro che si potrebbero recuperare tagliando del 20% la spesa militare, cancellando gli F35 e fermando la folle impresa delle grandi opere, TAV innanzitutto.
Terzo. Serve un grande piano di lotta all'evasione e di misure per la giustizia fiscale finalizzato alla lotta alla povertà. Una piccola patrimoniale del 5 per 1000 sulle ricchezze finanziarie sopra il milione di euro e una autentica Tobin Tax (che colpisca tutti i prodotti e le transazioni finanziarie) potrebbero produrre 10 miliardi di gettito che andrebbero destinati a sostenere i redditi e le pensioni più basse. In questo contesto andrebbero costruite le fondamenta per l'introduzione di un reddito di cittadinanza universale
I soldi per queste tre alternative ci sono. Quella che manca è una visione politica orientata al superamento del paradigma dell'austerità, del modello neoliberista e – nello stesso tempo – la capacità (o la volontà) di liberarsi da un groviglio di interessi subalterno ai mercati finanziari, alle grandi imprese, alle rendite di posizione e monopoliste delle corporazioni di varia provenienza.
Si tratta di costruire allora le gambe di queste proposte alternative nella mobilitazione sociale di tutti i giorni, attraverso un'alleanza tra movimenti, buona politica, protesta sociale per “cambiare rotta” ad un paese che -con le politiche di Renzi- rischia di essere condannato alle diseguaglianze, alla precarietà e alla vittoria degli interessi di pochi. L'esito non è scontato, ma cambiare si può.
Gli italiani che credono davvero nella democrazia, e che al tempo stesso riescono a informarsi di ciò che il Palazzo Renzi gli sta preparando devono essere davvero pochi, se così pochi ne scendono in piazza .
Il manifesto, 17 maggio 2015
Tra poco — probabilmente tra un annetto — questo programma comincerà a realizzarsi organicamente. Ma non dobbiamo aspettare nemmeno pochi mesi per assaporarne i primi frutti avvelenati. Quanto sta accadendo con la «riforma» della scuola è un’anticipazione molto istruttiva di ciò che ci attende. Un indizio e una prova tecnica, somministrata per testare il paese e per assuefarlo al nuovo che avanza.
Raramente, forse mai prima d’ora, si era assistito alla scena di un ramo del parlamento italiano che vota in tranquillità a favore di un provvedimento di indiscutibile rilevanza (che modifica in profondità strutture e modo di operare di un settore vitale della società, e le condizioni materiali di lavoro e di vita di milioni di cittadini) mentre l’intero comparto investito da quel provvedimento esprime la propria assoluta contrarietà. Lo sciopero del 5 maggio e la manifestazione contro le prove Invalsi possono essere giudicati come si vuole, ma su una cosa non sarebbe serio eccepire. Entrambi attestano l’unanime avversione del complesso mondo della scuola — insegnanti, studenti, personale tecnico e amministrativo — a un modello che non per caso ruota intorno a due cardini della costituzione neoliberale: la sedicente meritocrazia (foglia di fico propagandistica a copertura del ritorno a logiche censitarie, autoritarie e oligarchiche) e la privatizzazione della sfera pubblica.
C’è tutto sommato di che stupirsi per la prontezza e precisione della diagnosi che insegnanti e studenti hanno fatto della «buona scuola» renziana. Evidentemente l’ideologia mercatista non ha ancora totalmente invaso l’anima del paese. O forse la realtà della scuola italiana è talmente evidente nelle sue contraddizioni e miserie da non permettere quelle operazioni di cosmesi — di camouflage, direbbe qualcuno — che funzionano altrove. Studenti, operatori della scuola e tanti genitori sanno troppo bene che cosa in realtà si nasconde dietro la vergognosa retorica dell’«eccellenza» e dell’«autonomia», della «selezione» e della logica premiale del «merito». E dietro il ricatto della stabilizzazione della metà dei precari in cambio dell’accettazione dell’intera «riforma».
In un paese che figura stabilmente all’ultimo posto della classifica Ocse per la percentuale di Pil investita nella formazione dei giovani le chiacchiere restano a zero. A chiarire come stanno le cose provvedono gli edifici fatiscenti e i tanti soldi come sempre regalati alle private. Le collette per comprare la carta igienica e il toner delle stampanti. E i bassi salari degli insegnanti di ogni ordine e grado, responsabili anche del poco rispetto che taluni genitori mostrano nei riguardi di chi si impegna per istruire i loro venerati rampolli.
Sta di fatto che contro la «riforma» renziana la scuola ha messo in campo una protesta pressoché universale, benché anni di divisioni tra le organizzazioni sindacali e un’eccessiva timidezza nelle iniziative di lotta rischino di vanificare le mobilitazioni. Non solo la scuola si è fermata in occasione delle agitazioni, ma è in fermento da settimane e manifesta senza reticenze un consapevole e argomentato dissenso. Peccato che tutto questo al parlamento non interessi né poco né punto. Quel che si mostra allo sguardo degli osservatori è uno sconcertante parallelismo, quasi che «paese legale» e «paese reale» non fossero distinti ma dialetticamente connessi, bensì proprio dislocati su pianeti diversi. Per cui quanto accade nell’uno - le agitazioni, le preoccupazioni, il disagio, la protesta - non turba l’impermeabile autoreferenzialità dell’altro, ormai (di già) assorbito nella recezione e promozione della volontà del reuccio che si balocca alla lavagna col suo approssimativo idioma burocratico.
Certo, non è la prima volta che si assiste a un fenomeno del genere. Qualcosa di simile è già accaduto col Jobs act, varato mentre le fabbriche erano in subbuglio per la cancellazione dell’articolo 18. Ma si sa che le questioni di lavoro e in particolare di lavoro operaio dividono il paese (e gli stessi sindacati) e offrono ai governi ampi varchi per operare forzature. Il caso della scuola è diverso per la sua connotazione essenzialmente interclassista e per questa ragione prefigura plasticamente il quadro al quale dovremo abituarci nel prossimo futuro. Protesti pure il paese, scendano pure in piazza i cittadini, si mobiliti quel che resta dell’opinione pubblica. La cittadella della politica non si degna nemmeno di verificare la pertinenza delle doglianze, tanto basta a se stessa e può fare da sé, in una miserabile riedizione dell’autocrazia di antico regime. Può darsi che questa non sia che un’illusione e che un programma incentrato sull’autonomia del politico si riveli, oltre che indecente, impraticabile in virtù della reattività del corpo sociale. Ma di certo risulta evidente a quale poverissima cosa si saranno ridotti, in tale scenario, parlamentari e partiti. Mentre la politica avrà negato se stessa con l’essersi anche formalmente ridotta a mera funzione di dominio di una casta sulla cittadinanza costretta a obbedire.
La Repubblica, 17 maggio 2015
Accade in tutte le trasmissione televisive che, oltre a diffondere informazioni sui fatti avvenuti in quel giorno, cercano anche di capire e di far capire al pubblico che le ascolta qual è il giudizio che gli italiani danno sui vari protagonisti della vita pubblica del nostro paese. E poiché ormai da molti mesi il protagonista è uno soltanto, la domanda ricorrente è: «Che cosa pensa di Renzi?». Le risposte sono varie ma la domanda è sempre questa, a tal punto ripetuta da essere ormai diventata noiosa anche perché è almeno in parte sbagliata.
Il problema e quindi le domande che debbono esser poste sono: «Che cosa è il popolo italiano? Che cos’è la destra e cos’è la sinistra?».
Questo tema me lo sono posto da tempo e da tempo lo studio; sono infatti domande che hanno radici lontane, storiche, perché un popolo, la sua mentalità, i suoi comportamenti, la sua sensibilità e infine il suo amor di patria (se c’è) non si formano da un giorno all’altro e neppure da un anno all’altro; ci vogliono secoli per farne un popolo che merita d’esser chiamato sovrano; c’è una storia che l’ha scolpito di virtù e di vizi. È un percorso molto complesso.
L’Inghilterra moderna inizia a formarsi con la guida della grande Elisabetta, all’inizio del Seicento; la Francia più o meno nello stesso periodo con Enrico di Borbone e poi con il Re Sole, Luigi XIV; idem la Spagna con Filippo II e la Germania con Carlo d’Asburgo; la Russia con Pietro il Grande e poi con Caterina. Insomma l’Europa moderna nacque sotto il potere assoluto dei monarchi, ma insieme a loro nacque una nobiltà di spada, una magistratura, una borghesia mercantile e culturalizzata.
Tre secoli dopo quella borghesia rovesciò i poteri assoluti e diventò la classe dominante. Ma un secolo dopo anche i lavoratori presero coscienza e nacque il socialismo.
Questa, ridotta in pillole, è stata la storia d’Europa con i suoi pregi e i suoi difetti come avviene sempre e dovunque nella vita di cui la storia è il racconto. E in Italia?
Anche da noi il tema si posse in quello stesso periodo e furono molti a studiarlo e a tentare di risolverlo. In alcune regioni, specialmente in quelle centrali del Paese, tentarono di risolverlo la casata dei Medici, alcuni capitani di ventura che fondarono tiranniche Signorie, la casata dei Borgia, quella dei Farnese, quella dei Della Rovere e insomma un Papato intriso di temporalismo.
Al Sud dominavano gli spagnoli d’Aragona, a Nord i francesi e poi ancora gli spagnoli e infine gli austriaci. Il Piemonte fu per secoli un principato-cuscinetto e in questo modo, con un lavoro assai lungo e tormentato, alla fine diventò indipendente. Non è caso che proprio di lì nacque quel motore che, dopo le cosiddette guerre d’indipendenza, costruì lo Stato d’Italia, proclamato da Cavour nel 1861 pochi mesi prima della sua morte. Il nostro Stato compare sulla scena europea con un ritardo di tre secoli rispetto agli altri. Ritardo che ebbe un’influenza terribilmente negativa, soprattutto per la cultura del bene comune e della partecipazione del popolo (sovrano se lo è) all’andamento della vita pubblica. Fino ai primi del Novecento la massa degli italiani era contadina, lavorava nelle campagne di proprietà dei latifondisti. Figliava e lavorava, si nutriva di fagioli o di polenta, arava, seminava, zappava, potava, per il padrone. Non aveva diritto al voto. Non era popolo, erano plebi e servitù della gleba.
Per sottrarsi a questa situazione di servaggio e di fame, nella seconda metà dell’Ottocento e fino allo scoppio della guerra del 1915 emigrarono 29 milioni di italiani. Giovani soprattutto, in prevalenza dalle terre del Sud, ma non soltanto.
Poi si scatenò la grande guerra, 600 mila morti, un milione i feriti. E molte cose cambiarono, ma il nocciolo del problema rimase e c’è ancora: la profonda diseguaglianza tra il Nord e il Sud, il disprezzo per lo Stato, una visione assai pallida del bene comune, una corruzione a tutti i livelli, le mafie ricche e potenti, clientele numerose e di basso conio. E soprattutto il desiderio diffuso, ossessivo, dominante, di comandare. A qualunque prezzo. Comandare anche al prezzo di essere comandati.
Non sembri paradossale: ognuno vuole comandare da solo, al proprio livello. Se ad un livello superiore al suo qualcuno vuole il suo appoggio per comandare da solo, io glielo do incondizionatamente, purché io a mia volta sia autorizzato a comandare da solo. E così via, da livelli alti fino ai più bassi. Alla base c’è la plebe, alla quale non puoi dare diritto di comando perché è plebe. Ne hai bisogno però in un’epoca di diritti generali. Hai bisogno che ti voti, localmente e poi su su fino al comando del Capo. Quella plebe te la conquisti con la demagogia e qualche tozzo di pane in più.
Questa, a guardarla e studiarla senza occhiali scuri che ti falsino la vista, è la situazione. Se fosse diversa non saremmo in testa nelle classifiche della corruzione e in coda in quelle dell’efficienza e della produttività.
* * *
Queste cose del resto le avevano già viste e studiate Machiavelli e Guicciardini cinquecento anni fa. Se vi andate a rileggere Il Principe di ser Niccolò e le Storie del Guicciardini, la descrizione del popolo italiano sembra scritta oggi nella sua essenza etico-politica. Machiavelli sperava che, mettendocela tutta, quel popolo sarebbe cresciuto. Guicciardini invece pensava di no. Purtroppo aveva ragione.
Anche Mazzini sperava. Cavour no. Ma lo Stato unitario lo fece Cavour. Mazzini avrebbe voluto uno Stato repubblicano creato dal basso, dalle rivoluzioni popolari. Cavour quello Stato lo conquistò; si avvalse anche di Garibaldi che la pensava come Mazzini ma non fu il popolo contadino a farlo trionfare nel Sud, furono i suoi volontari, quasi tutti del Nord, a farlo vincere a Calatafimi, a Marsala e sul Volturno. Con Mazzini nella rivoluzione di Roma del 1849 aveva perso contro i francesi a porta San Pancrazio sul Gianicolo. A Calatafimi vinse con l’appoggio indiretto di Cavour, ma quando tentò da solo di conquistare Roma partendo dalla Calabria, il governo italiano lo fermò (e lo ferì) sull’Aspromonte. Andate a rileggervi il Gattopardo o a rivederne il film di Visconti. Il nucleo essenziale della storia d’Italia (democratica?) è tutto lì.
* * *
Due articoli pubblicati sull’ultimo numero de l’Espresso mi hanno molto colpito. Uno è la Bustina di Minerva di Umberto Eco e racconta l’aneddoto di una signora che, parlando della sinistra italiana, si rallegra per una vittoria elettorale del Pd e dice al suo interlocutore: «Che bellezza, abbiamo vinto ed ora possiamo fare un’opposizione coi fiocchi!». Dal che Eco deduce che la sinistra ha nel sangue il suo compito di opposizione per non mescolarsi con il potere corruttore. La sinistra ha una sua vocazione morale prima ancora che politica e se il suo partito vince e cede alla tentazione del potere, allora molti dei suoi militanti l’abbandonano e ne fanno un altro più radicale (come sta accadendo oggi nel Pd).
L’altro articolo è del direttore de l’Espresso, Luigi Vicinanza, che considera le vicende della destra di Berlusconi che per vent’anni l’ha guidata ed oggi che è allo sfascio pretende ancora di guidarla.
Secondo Vicinanza quella destra italiana, quand’anche si presenti come moderata e liberale, ha sempre voluto governare a qualunque costo e con qualunque tipo di alleanza con lobby di varia natura, allo scopo di tutelare e rafforzare gli interessi aziendali del Capo nonché delle lobby e delle varie clientele alleate. Questa essendo la natura della destra berlusconiana, la visione del bene comune è sempre finita sotto i piedi e gli interessi particolari hanno avuto la netta prevalenza.
Riassumendo: una sinistra che dà la prevalenza alla questione morale ed ha la vocazione dell’opposizione; una destra che si mette il bene comune sotto i piedi e tutela gli interessi privati. Con la conseguenza che un sistema bipolare diventa inesistente e il partito che spregiudicamente ottiene la maggioranza si colloca al centro e riduce le ali a una poltiglia.
È appunto quanto sta accadendo. Queste cose noi le scriviamo da un pezzo e direi che siamo il solo giornale a dirle in modo compiuto e argomentato. Anche sul Corriere della Sera talvolta affiorano diagnosi analoghe. Ricordo un de Bortoli, già dimissionario, che ha chiarito la natura del partito renziano con parole poco riguardose e cito un articolo di venerdì scorso di Gian Antonio Stella che scrive così: «Come è possibile che dopo tante denunce, inchieste e condanne, tante promesse e assicurazioni di rottamatori più o meno improvvisati, tutti i partiti sono alle prese con cacicchi locali, arroccati nei loro feudi e ben decisi a far pesare le loro rendite di posizione? Accade dappertutto, dalla Campania alla Liguria, alle Marche e soprattutto nel Pd dove la Bindi ha aperto un’inchiesta dell’antimafia sui candidati “discutibili” delle liste sulle quali si voterà il prossimo 31 giugno».
Dopo questo ampio quadro di storia passata e contemporanea, posso rispondere alla domanda su Renzi: è uno dei pochi che sa convincere e sa tradurre in fatto politico il consenso ottenuto. Guida un partito di centrosinistra che cerca di prendere voti al centro, al punto tale che ormai è diventato un partito di centro dove lui decide e lui comanda. E fin qui nulla da dire, salvo due osservazioni. La prima: la sua legge elettorale ha organizzato benissimo il potere decisionale della maggioranza, cioè di lui che è il capo del partito ed anche del governo, ma ha completamente dimenticato l’elemento della rappresentanza che non è presente in un partito di “nominati”, i quali non sono soltanto i 100 capolista, ma 200 perché si presentano in tre circoscrizioni e se risultano eletti in più di una optano lasciando il posto a chi viene dopo nella lista, che è stato anche lui scelto centralmente. La seconda: l’abolizione del Senato, come già scritto infinite volte, indebolisce ulteriormente il potere legislativo a vantaggio di un esecutivo che si concentra nelle mani di un capo che comanda da solo. In questo modo si passa da una democrazia parlamentare ad una democrazia esecutiva, che è cosa del tutto diversa e sommamente pericolosa in un paese come il nostro. Mazzini avrebbe deprecato. Garibaldi si sarebbe ribellato. Machiavelli ne avrebbe avuto il cuore infranto. Guicciardini avrebbe avuto ragione.
Il paese è fatto così. Un governo autoritario gli piace. Renzi dovrà dunque combattere contro questo paese che lo vuole al potere da solo purché si ricordi di chi gliel’ha regalato. Ce la farà a tenersi alla larga da questa po’ po’ di tentazione? Dovrebbe avere come esempio papa Francesco, ma personalmente ne dubito molto. È uno scout e Crozza lo descrive meglio di tutti.
Il manifesto, 17 maggio 2015
L’ennesima riprova della conclamata frattura fra il Pd e uno suo storico bacino elettorale è arrivata nei giorni scorsi, quando il movimento delle “mamme no inceneritore” della Piana ha organizzato a Firenze una affollata assemblea informativa con i candidati. Disertata da Enrico Rossi e dai sindaci Pd della zona, la serata ha premiato la sinistra toscana del Sì, grazie alla riconfermata competenza di un candidato adeguato come Tommaso Fattori. In misura minore anche il M5S, che però è stato investito da espulsioni e divisioni interne, oltre che dalla mancanza di un effettivo radicamento sociale.
Radicata in Toscana è invece la Cgil, che con il suo mezzo milione di iscritti potrebbe rappresentare un fattore di forte rischio per le speranze del Pd di chiudere la partita senza discussioni. Non sono soltanto le categorie più critiche verso le politiche governative – dalla Fiom alla Funzione pubblica, fino alla Flc di scuola e università – a dare segnali di aperta contrarietà alla politiche del governo. C’è anche un lavorìo nemmeno troppo sotterraneo della sinistra sindacale, che trova conferma nella mobilitazione dei delegati di base in moltissimi luoghi di lavoro.
La situazione economica del resto è tutto fuori che rosea. Anche in Toscana la crisi ha colpito durissimo. E per una vertenza in via di lenta risoluzione come alle Acciaierie di Piombino, ce ne sono due o tre che si aprono. Ultime di una lunghissima lista quella della Smith di Saline di Volterra (scalpelli tri-conici per la perforazione legata agli idrocarburi), con la multinazionale Schlumberger che chiude lo storico sito industriale e licenzia 200 addetti diretti (più l’indotto). Poi il call center People Care di Guasticce alle porte di Livorno, che chiude a fine mese, e con almeno 300 addetti appesi a un filo.
Il tema del lavoro che non c’è, o è precario e malpagato, tiene banco. Del resto una recentissima ricerca del confindustriale Sole 24Ore segnala come il lavoro, la disoccupazione e il precariato siano l’unica vera preoccupazione degli italiani con quasi il 63%. Segue l’immigrazione, con un miserevole 6%. Ebbene, l’ultima analisi congiunturale di Cgil e Ires per la Toscana rileva una piccola crescita del lavoro stabile, grazie agli incentivi. Ma a marzo c’è stato un calo degli avviamenti sul 2014, nonostante il jobs act. Inoltre crescono i licenziamenti, e la produzione industriale batte ancora in testa (nel complesso 25 punti sotto il 2007). Soprattutto aumentano gli iscritti ai centri per l’impiego di persone in cerca di lavoro. In questi primi mesi del 2015 sono ben 595.048 (563.201 nello stesso periodo del 2014), in una regione dove i maggiorenni (e votanti) sono 3 milioni scarsi. A riprova, il tasso di attività, dato più significativo di quello di disoccupazione, è stabile intorno al 63,4% dei toscani in età da lavoro. Sono meno di due su tre.
Sette sono i candidati presidenti (Enrico Rossi per Pd e i centristi di Popolo toscano, Tommaso Fattori per Sì Toscana a Sinistra, Claudio Borghi di Lega e FdI, Giacomo Giannarelli del M5S, Gianni Lamioni per Ncd e Udc di Passione toscana, Stefano Mugnai di Forza Italia, e Gabriele Chiurli di Democrazia diretta). Fin d’ora appare certo che l’affluenza sarà bassa. Anche perché per il Pd renziano, almeno in Toscana, appare difficile ereditare il consenso dei berlusconiani, e di quella minoranza silenziosa che si mobilita solo nei casi di estrema polarizzazione. All’inverso, nota ad esempio Tommaso Fattori, “il governo Renzi è riuscito in un miracolo. È riuscito a riunire tutti i sindacati degli insegnanti, tutte le associazioni degli studenti, il personale tecnico-amministrativo, i genitori. Uniti nel contestare la controriforma di Renzi e Giannini”. E quello della scuola non è certo un tema isolato.
La Repubblica, 16 maggio 2015
In Europa, la modernizzazione è avvenuta in un arco temporale di secoli, e dunque è stato possibile adattarsi alla stessa, ammorbidire il suo impatto dirompente, attraverso il Kulturarbeit, vale a dire la formazione di nuove narrazioni e miti sociali; in altri contesti invece – in modo esemplare nelle società musulmane – l’impatto della modernizzazione è stato diretto, senza schermi o differimenti, determinando il collasso del loro universo simbolico: queste società hanno perso il loro fondamento (simbolico) senza avere il tempo di stabilire un nuovo equilibrio (simbolico). Non stupisce allora che, in alcuni casi, sia stato necessario levare lo scudo del “fondamentalismo”, la riaffermazione psicotico-delirante- incestuosa della religione quale accesso diretto al Reale divino; il che ha prodotto effetti disastrosi, in particolare la rivincita dell’oscena divinità superegotica che esige tributi di sangue. Il dominio del Super-io è uno degli aspetti che accomuna la permissività postmoderna e il nuovo fondamentalismo. Ciò che li distingue è il luogo del godimento: nel primo caso, a dover godere siamo noi; nel fondamentalismo, a godere è Dio.
Forse il simbolo supremo della devastata Corea post-storica è l’evento musicale dell’estate 2012: Gangnam Style di Psy. Il video di questo brano è il più visto di tutti i tempi, dopo aver superato, su YouTube, il numero di visualizzazioni di Beauty and a Beat di Justin Bieber. Il 21 dicembre 2012, giorno in cui chi dava credito alle predizioni del calendario maya si attendeva la fine del mondo, Gangnam Style ha raggiunto il numero magico di un miliardo di visualizzazioni. È probabile allora che gli antichi Maya avessero ragione: ciò èeffettivamente il segno del collasso di una civiltà. Il testo della canzone e l’allestimento scenico del video si prendono gioco dell’insensatezza e della vacuità dello Gangnam Style (secondo alcuni, con intento sottilmente rivoluzionario); malgrado questo, è difficile non farsi catturare dal demenziale ritmo da marcetta, riprodurlo in modo puramente mimetico. Il Gangnam Style è un prodotto ideologico in virtù della distanza ironica che stabilisce con il suo contenuto. Molti spettatori trovano la canzone disgustosamente seducente, e cioè «amano odiarla», o, piuttosto, amano trovarla ripugnante, e così la ascoltano ripetutamente per prolungare il disgusto – questa natura compulsiva dell’oscena jouissance è ciò da cui la vera arte dovrebbe liberarci. Ma non dovremmo allora osare un parallelo tra un concerto di Psy in un grande stadio di Seul e gli spettacoli allestiti non molto lontano, oltre la frontiera, a Pyongyang, per celebrare gli amati leader nordcoreani? In entrambi i casi, non siamo forse di fronte a rituali neosacri indirizzati a una jouissance oscena?
Si potrebbe ritenere che in Corea, come altrove, sopravvivano numerose forme di saggezza tradizionale in grado di mitigare l’impatto traumatico della modernizzazione. Tuttavia, è facile riconoscere come queste vestigia della tradizione siano già state trans-funzionalizzate, tradotte in strumenti ideologici volti ad accelerare la modernizzazione stessa. Questa impressione trova conferma nella cosiddetta spiritualità orientale (il buddhismo), che invita a stabilire un rapporto più “gentile”, equilibrato, olistico ed ecologico con il mondo. Non basta affermare che il buddhismo occidentale – questo fenomeno pop che predica l’indifferenza verso le frenetiche e competitive dinamiche del mercato – è verosimilmente la via più efficace per prendere parte alla società capitalistica preservando l’apparenza della salute mentale (in breve, che è l’ideologia paradigmatica del tardo capitalismo); occorre anche aggiungere che non è più possibile contrapporre questo buddhismo occidentale alla sua “autentica” versione orientale.
La mia analisi sembra essere confermata da Propaganda, un documentario del 2012 (facilmente reperibile in rete) sul capitalismo, l’imperialismo e la mercificazione della cultura di massa in Occidente, in particolare sugli effetti pervasivi di questi fattori in ogni aspetto della vita delle moltitudini beatamente istupidite e zombificate. Si tratta di un mockumentary, una parodia che finge di essere nordcoreana, mentre in realtà è stata girata da un gruppo di neozelandesi. Vengono illustrati l’uso della paura e della religione per manipolare le masse e il ruolo dei media nel distogliere l’attenzione dai problemi cruciali attraverso una varietà di diversivi. Uno dei pregi del film è il modo in cui demolisce il culto della celebrità: affermando che Madonna o Brad e Angelina «vanno a fare shopping di bambini nei paesi del Terzo mondo »; analizzando l’ossessione occidentale per la vita “glamour” dei vip e l’individualismo, unitamente all’indifferenza per le condizioni di vita dei senzatetto e in generale di chi soffre; raffigurando i vip come strumenti di mercificazione, anche inconsapevoli, ruolo che spesso li conduce sull’orlo della follia – tutto questo è trattato in modo talmente puntuale da risultare spaventoso: è il mondo attorno a noi. Il documentario, in particolare la parte dedicata a Michael Jackson – uno sguardo su «cosa ha fatto l’America a quest’uomo» –, sa raccontare verità difficili da digerire.
Se cancellassimo quegli spezzoni in cui si esalta la saggezza del grande e amato leader ecc., Propaganda verrebbe a coincidere con una classica critica del consumismo, della mercificazione e della Kulturindustrie – specificamente nello stile del marxismo occidentale della Scuola di Francoforte. Ma si deve prestare attenzione a un’avvertenza all’inizio del film: la voce narrante rivela agli spettatori che, per quanto ciò che vedranno potrebbe imbarazzarli e scioccarli, il grande e amato Leader confida sul fatto che siano abbastanza maturi da sopportare l’orribile verità sul mondo esterno – parole che un’autorità benevola, protettrice e materna userebbe per comunicare a un bambino un evento spiacevole.
La Repubblica, 16 maggio 2015
Perché prevede che finirà così, Mineo?
«Mi sembra che si vada in questa direzione. E d’altra parte la riforma pensata dal governo è una legge Gasparri con poteri ancora maggiori attribuiti all’amministratore delegato di nomina governativa. E continuerà lo spoil system ».
Cosa c’è che non va nella riforma?
«Oggi dovresti dare alla Rai più autonomia dal governo. Dovresti garantire all’azienda il tempo di costruire una vera politica culturale. La riforma della Rai pensata da Renzi, invece, attribuisce ancora più potere all’esecutivo. Sotto questo aspetto, peggiora persino la legge Gasparri».
Lei pensa che il ritardo della riforma sia dovuto alla volontà del premier di mantenere la lottizzazione?
«Guardi, per Renzi forse è meglio nominare il cda con la Gasparri. Ma in ogni caso, con la riforma o senza, il governo manterrà il controllo assoluto della Rai. E poi…».
Dica.
«Matteo ha un progetto rivoluzionario, sul quale non sono d’accordo. Lui pensa che tutte le riforme – quella della Rai, della pubblica amministrazione, della scuola, del fisco, del lavoro – debbano essere delle deleghe totali al governo. Il quale governo si riassume in una persona, il premier eletto con un ballottaggio che esercita il controllo militarizzato sull’unica Camera rimasta. Lui ritiene che solo così, con un uomo solo, si salvi l’Italia. Io penso di no».
Lei come salverebbe la tv pubblica?
«Negli ultimi venticinque anni c’era il duopolio Rai-Mediaset. Ecco, devi innanzitutto pensare a una riforma complessiva di tutto il sistema, non solo di viale Mazzini. E poi scusi, oggi ci sono tre Rai: una di servizio, quella commerciale di Rai1, e quella delle Regioni. Tutte e tre non si reggono, almeno separiamo le funzioni in modo che si sappia cosa si spende, per che cosa e che prodotto si offre ai cittadini ».
E invece Renzi?
«Temo che voglia usarla come uno strumento di potere. Per esempio sarebbe molto popolare abolire o ridurre drasticamente il canone, ma così le tre Rai fallirebbero. Oppure può essere utile togliere il tetto pubblicitario alla Rai, danneggiando le tv di Berlusconi per indurlo così a tornare al tavolo del Nazareno...»
Ricorderete sicuramente le lezioni televisive Rai del maestro Alberto Manzi nell’Italia del dopo guerra per insegnare a milioni d’italiani, ancora analfabeti, a leggere e scrivere. Una grande lezione di pedagogia popolare: Manzi aveva un approccio pedagogico del rispetto nel modo di comunicare con i suoi interlocutori che erano operai, contadini, casalinghe… ; sempre preoccupato di non ferire la dignità dell’altro. La sua era una pedagogia della valorizzazione e dell’emancipazione umana. Su questa scia l’Italia vivrà anche una stagione pedagogico-culturale intensa con le figure di Gianni Rodari, Bruno Ciari, Mario Lodi, Ernesto Codignola e Raffaele Laporta: la stagione dell’educazione concepita come processo di formazione dell’uomo e del cittadino, di garanzia delle eguali opportunità per tutti di fronte all’istruzione.
Mercoledì il primo ministro si è presentato con un video messaggio agli insegnanti (già qualcuno prima di lui usava molto i video-messaggi…) nella postura dell’insegnante che fa la lezione, ma un insegnante molto diverso da quello che proponeva a suo tempo Alberto Manzi: l’atteggiamento era quello del one man show, delle dichiarazioni perentorie che bisogna credere per forza, del trasmettitore di verità non discutibili e dove l’insegnante che ascolta la lezione viene trattato come l’alunno deposito del sapere del maestro.
L’idea di scuola che ha questo governo e il suo capo è stata bene illustrata dall’impostazione comunicativa e dallo stile pedagogico del venditore dove c’è chi vende un prodotto (pure se raccontando menzogne e dicendo cose vuote e contraddittorie), chi decide qual è il buon apprendimento e chi deve essere sedotto, invogliato, ascolta passivamente sentendosi spesso trattato da imbecille, e si trova nella posizione del soggetto passivo che deve restare in estasi davanti all’immenso sapere e la forza mediatica del maestro padrone.
La Scuola di Palo Alto, i lavori di Paul Watzlawick sulla pragmatica della comunicazione, gli studi di Pierre Bourdieu sulla violenza simbolica nello spazio mediatico che funziona come spazio simbolico manipolativo, i lavori della psicologia delle rappresentazioni nonché tutte le elaborazioni delle pedagogie attive sulle forme dei processi formativi ci hanno dimostrato che la forma della comunicazione è contenuto e sostanza. Allora quale è il contenuto pedagogico della forma comunicativa del maestro Renzi? Quella di una pedagogia del disprezzo, del televenditore e della svalutazione della figura docente considerata come analfabeta e problematica, esattamente come i cosiddetti alunni con Bisogni educativi speciali (Bes) che devono essere rieducati e adattati al contesto a causa dei loro comportamenti problema. Per loro ci vuole un trattamento personalizzato: quello dell’addestramento continuo alle sante parole e all’ideologia neoliberista del nuovo corso politico-culturale.
Il manifesto, 16 maggio 2015
Per ora l’unica cosa certa è che bisogna aspettare che dall’Onu arrivi la risoluzione che darà il via libera alla missione europea contro gli scafisti ma soprattutto che metterà finalmente fine al diluvio di dichiarazioni contrastanti tra loro dei vari ministri italiani. Dopo il titolare degli Interni Alfano, che due giorni fa ha parlato di «azioni mirate in Libia», ieri i suoi colleghi Gentiloni (Esteri) e Pinotti (Difesa) hanno negato che un solo soldato metterà piede sul suolo libico (ma entrambi in passato si sono detti pronti all’intervento). Intanto da New York arrivano le prime indiscrezioni su quella che potrebbe essere la bozza definitiva della risoluzione e che,s e confermata, smentirebbe a sua volta i responsabili della Difesa e della Farnesina.
Il testo anticipato ieri parla della possibilità per le navi che prenderanno parte alla missione di operare contro gli scafisti sia in acque internazionali, che in acque territoriali libiche, ma anche nei porti di partenza dei barconi. Una via libera, quindi, alla possibilità di colpire le imbarcazioni.
E’ chiaro che gli ultimi due punti, oltre a richiedere un esplicito mandato da parte della Nazioni unite, implicano uno scontro con le varie fazioni che oggi si dividono la Libia. A partire del governo di Tripoli, quello più direttamente interessati visto che la stragrande maggioranza degli scafisti prendono il via dalle sue coste.
Il testo non avrebbe incontrato particolari resistenze da parte della Russia che però, al pari degli american, preferirebbero mettere in chiaro che la missione è limitata al solo contrasto dei trafficanti di uomini, Una preoccupazione volta a impedire che una volta iniziato, si vada oltre il solo contrasto delle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani. «Non c’è nessuna intenzione di andare in Libia a intervenire», ha detto ieri la Pinotti. «C’è il problema di evitare che gli scafisti possano lucrare, in modo amplissimo sulla tragedia di queste persone. C’è bisogno di fare questo, le soluzioni verranno poi trovate».
Dall’Onu però intanto arrivano le considerazioni per le decisioni prese dalla Commissione europea riguardo al reinsediamento dei profughi,. Il relatore per i diritti umani dei migranti, Francois Crèpeau, pur apprezzando la linea scelta l’ha però giudicata «inadeguata». «Il numero di 20 mila posti di reinsediamento appare assolutamente insufficiente», si legge in una nota.
Per l’esperto non si tratta di una risposta adeguata alla crisi attuale, che nel 2014 ha visto oltre 200.000 migranti –la maggior parte dei quali richiedenti asilo –giungere in Europa via mare. «Per gli oltre 500 milioni di abitanti dell’Ue — ha concluso — 20 mila persone rappresentano lo 0,00004% della popolazione».
Il manifesto, 16 maggio 2015
C’è un lupo (bella copertina di Lisa Gelli) ad accoglierci sulla soglia di questo agile, ma molto denso e ricchissimo di documentazione e dati, Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli (Gruppo Abele, pp. 191, euro 14) di Livio Pepino. A Pepino dobbiamo da sempre il merito, piuttosto raro nel paese degli emergenzialismi ad oltranza, condivisi da destra e troppo spesso da sinistra, di aver difeso sempre con tenacia e lucidità il fronte delle garanzie. Ma, ancor più, di aver sostenuto un garantismo complessivo, all’interno di una visione impegnativa e ricca di uno stato sociale di diritto avanzato. Sempre più nettamente, nel suo percorso, il discorso sul diritto e sui diritti si è intrecciato con gli esperimenti di democrazia dal basso, con la critica al modello di sviluppo fondato sulle grandi opere e con l’azione giuridica e politica di difesa del territorio e dell’ambiente dal saccheggio da parte dei poteri pubblici e privati: ne è esempio la partecipazione attenta con cui Pepino segue le ragioni e le vicende del movimento No Tav.
Questo saggio è lo specchio perfetto dell’impegno intellettuale e politico del suo autore, articolato com’è su un doppio fronte. Da un lato, è una lettura critica, che incrocia in modo molto utile teoria giuridica e dati empirici, sulle strategie di governo della paura che segnano le politiche criminali contemporanee. Dall’altro, è un viaggio tra le soggettività concrete, tra i barbari, i marginali e i ribelli, contro cui quelle politiche securitarie continuamente si mobilitano. Sul primo fronte, quello della critica del governo contemporaneo della paura, incontriamo evidentemente il lupo che ci aspettava in copertina: è la scena primaria della modernità, lo stato di natura evocato da Thomas Hobbes, quell’insicurezza radicale e disperata da cui la città prima, lo stato nazionale poi, hanno storicamente promesso di salvarci. Una salvezza che coinciderebbe con l’esclusione, con l’estromissione fuori dai confini di tutti gli elementi di insicurezza e di conflitto che potrebbero turbare la vita ordinata dell’ordine politico.
Ma questo schema rigidamente binario, ordine/sicurezza/stato da un lato, stato di natura/insicurezza/conflitto dall’altro, si è ben presto svelato come un racconto tutto ideologico. La città – nata per escludere l’insicurezza – «diventerà nel tempo luogo di paura, perché chiunque può entrarvi, ognuno può muoversi come vuole», ricorda Pepino. Allo stesso modo, lo stato nazionale, quel Leviatano che doveva pacificare definitivamente i lupi, «sarà spesso protagonista di oppressione e corruzione sul versante interno e di guerre continue all’esterno, al punto che la società si sentirà sempre meno protetta». Lo schema ideologico che leggeva l’ordine statale come spazio di salvezza nei confronti dell’insicurezza radicale si rivela ben presto per quello che è: una fragile narrazione a fine di legittimazione del potere. Nella realtà, la paura, lungi dall’essere definitivamente tenuta fuori dalle mura della città ben sicura, viene continuamente prodotta e riprodotta, nonché utilizzata per riscrivere quotidianamente confini, modalità e gradazioni dell’inclusione e dell’esclusione sociale.
Nella crisi dello stato sociale e contemporaneamente all’attacco delle politiche neoliberali, questa continua capitalizzazione della paura, secondo l’espressione di Zygmunt Bauman ricordata da Pepino, produce tutta una gamma, molto differenziata e modulare, di strategie securitarie. Resiste ovviamente la tradizionale repressione carceraria, con l’innalzamento continuo dei tassi di carcerazione che ha caratterizzato il panorama penitenziario almeno fino al 2010 e che, come Pepino documenta in modo molto efficace, non ha nessuna relazione con l’andamento effettivo dei tassi di criminalità, in sostanziale e costante decrescita, in barba a tutti gli allarmi sicurezza prodotti dai mass media. Ma accanto al carcere, il libro di Pepino illustra anche diversi altri dispositivi securitari, che hanno a che fare più con il governo diffuso, preventivo e amministrativo della paura, e che vanno dalle detenzioni amministrative per i migranti, sino all’utilizzo di un’ampia gamma di strumenti cautelari e di sicurezza, sempre più segnati da una funzione preventiva e intimidatoria, piuttosto che repressiva: da strumenti come il Daspo, collaudati in quel laboratorio sperimentale del securitarismo che sono diventati gli stadi, all’utilizzo sempre più frequente, come sanno bene i militanti dei collettivi studenteschi e dei centri sociali, di fogli di via e obblighi di dimora.
Il libro di Pepino, però, non è solo un’analisi dettagliata di questi dispositivi: c’è l’altro lato di cui dicevamo all’inizio, il tentativo cioè di restituire carne e sangue ai soggetti reali che sono inseguiti, controllati e governati dalle strategie securitarie vecchie e nuove. Non è possibile elaborare un discorso sulle paure non strumentale, scrive molto opportunamente Pepino, se non si esaminano quelle soggettività che le politiche securitarie vorrebbero ridurre a fantasmi, in un processo di derealizzazione che pretenderebbe di farne spettrali fattori di rischio, ombre disincarnate, minacce da neutralizzare. Per questo, il libro attraversa le vite dei barbari (gli stranieri, i migranti, i nomadi, le figure dell’alterità che minacciano il mito dell’omogeneità interna ai confini nazionali), dei marginali (le vecchie e nuove povertà, sulle quali torna ad abbattersi, con nuovi andamenti «governamentali», la guerra alle classi pericolose, oggi condotta attraverso un workfare sempre più disciplinare), dei ribelli (dai movimenti sociali territoriali ai centri sociali, alla gestione poliziesca sempre più incapace di politica e di trattativa dell’ordine pubblico e delle piazze).
Ed è solo a partire da politiche che attraversino queste soggettività reali, che può aprirsi la strada indicata in conclusione da Pepino: una trasformazione di paradigma che riconosca il fallimento radicale dello stato hobbesiano, monopolista della gestione della sicurezza, e che guardi a politiche non paranoiche, in grado di «restituire un posto al disordine», di ritrovare forme diverse e differenziate, politiche, di mediazione produttiva e avanzata dei conflitti. E forse, aggiungerei, rompere le strategie securitarie significa principalmente, proprio a partire da quelle soggettività reali, oltretutto oggi sempre meno «marginali» o «escluse» in senso classico, lavorare per costruire ambiti di radicalizzazione democratica e di vita-in-comune, istituzioni che si nutrano della valorizzazione della cooperazione sociale piuttosto che dell’incubo della sicurezza proprietaria. In fondo ce lo indicava già Spinoza, contro Hobbes: la securitas non è compito da delegare a un sovrano salvifico, ma cresce insieme alla potenza democratica che il corpo politico riesce a sviluppare.
C’è però da chiedersi se è Barbara Spinelli a non volersi più considerare parte de L’Altra Europa o è L’Altra Europa – o i suoi “organi centrali” – a non considerarla più, e da tempo, parte del proprio “progetto”. Vi sembra un modo normale di tenere i rapporti tra colleghi di uno stesso gruppo parlamentare definire in una riunione pubblica “un carnevale” le scelte di Barbara Spinelli, come ha fatto Curzio Maltese, e senza che il COT abbia sentito il bisogno di eccepire alcunché (e ricevendone in premio l’assunzione negli organi direttivi di Sel)? Ma non si tratta purtroppo di una novità,
Barbara Spinelli è stata, fin dall’inizio di questa vicenda, per il suo nome, per il suo lavoro di giornalista, per i suoi interessi, testimone e garante non solo dell’orizzonte europeo del progetto, che è la prima delle grandi novità che fanno la differenza dell’Altra Europa rispetto a tutte le altre formazioni politiche; ma anche del suo carattere unitario ma apartitico, che è ciò che ha permesso a quel progetto di arrivare là dove tutte le precedenti “iniziative unitarie” non erano più da tempo riuscite ad arrivare. La lista Arcobaleno, quella Ingroia o la Federazione della sinistra avevano già abbondantemente dimostrato come anche gli elettori di sinistra avessero ormai voltato le spalle a qualsiasi lista con una caratterizzazione partitica.
Il fatto che Barbara si fosse “rimangiato” l’impegno a non accettare un eventuale seggio nell’Europarlamento, così come era stata indotta a “rimangiarsi” la decisione di non candidarsi, come tutti gli altri garanti (ma allora senza alcuna protesta) avrebbe potuto e dovuto essere accolto come un altro grande passo avanti lungo la strada intrapresa. Nessuno infatti osava negarlo; tanto che persino il segretario e il coordinatore dei due principali partiti che avevano sostenuto la lista erano stati concordi nel riconoscerlo. E l’autentica rappresentante, nel nome e nei fatti, della lista l’Altra Europa avrebbe potuto entrare nell’aula del Parlamento Europeo intitolata a suo padre come prova vivente di quel nuovo inizio. Invece ci è dovuta entrare accompagnata sì, dall’entusiasmo di tanti di noi, ma anche inseguita dagli insulti e dai lazzi di molti di coloro che avrebbero dovuta sostenerla (non poi così tanti; ma sufficienti a fare caciara, anche con il rincalzo di tanti nemici giurati della lista). Che cosa era mai successo? Era successo che Barbara aveva “portato via” il posto non a un altro candidato de L’Altra Europa (cosa che nelle liste elettorali è ordinaria amministrazione); ma all’”Europarlamentare di SEL”, rompendo quell’equilibrio così diligentemente illustrato dai cultori dell’alta politica (uno a Rifondazione, uno alla “società civile” e uno a Sel) che avrebbe dovuto riportare la lista a quella condizione di mera aggregazione di organizzazioni diverse a cui si era cercato in tutti i modi di sottrarla; peraltro non sempre riuscendoci, come evidenziato in molte situazioni da una conduzione separata della campagna elettorale.
Quella guerra contro Barbara, scatenata dall’interno e dall’esterno dell’organizzazione, è stata in realtà una guerra contro il progetto dell’Altra Europa; che da allora è rimasta paralizzata, nell’attesa di arrivare a un qualche compromesso con le sue presunte “componenti”. Che da allora, poco per volta, sono diventate tre: Rifondazione, Sel, ma anche l’Altra Europa: al tempo stesso (presunto) contenitore sia delle altre due componenti che di se stessa… Oggi si rinfaccia a chi non ha un partito il lavoro che i membri dei partiti hanno fatto per raccogliere le firme e fare campagna elettorale (i volantini, i manifesti, i comizi, i viaggi, i soldi, il tempo…). Ma non hanno fatto le stesse cose anche quelle e quelli senza partito? E non eravamo, o non avremmo dovuto essere, tutti della stessa partita? Invece oggi si invoca invece quell’impegno come se dovesse legittimare la compartecipazione alla gestione de L’Altra Europa non di chi vi milita, il che sarebbe normale, ma degli apparati dei relativi partiti. E perché mai? Perché questa è la strada che è stata imboccata da L’Altra Europa.
In realtà, una scelta o una decisione ufficiale non c’è mai stata; c’è stata una pratica che si è andata trascinando per mesi e mesi nell’inconcludenza: niente gruppi di lavoro (quindi niente elaborazione); niente apertura dell’associazione (perché Sel non voleva; ma chi l’ha deciso?); niente appoggio alle liste regionali Altra Emilia Romagna e Altra Calabria (il silenzio, in una situazione del genere, si chiama boicottaggio, che significa non “vendere” e non “comperare” un prodotto. Ma Sel si presentava con il PD, e non bisognava “dividersi”); niente rapporto con i movimenti (tutti) e, in particolare con No-triv e No-expo per non disturbare governanti e amministratori di Sel; niente autofinanziamento e quindi niente comunicazione per mesi e mesi (10); niente regole di funzionamento fino a che non sono state messe a punto quelle che, scimmiottando un congresso, hanno garantito al gruppo permanente al comando la propria perpetuazione; niente, ovviamente, dibattito su quelle regole, da prendere o lasciare. Ma abbiamo appoggiato la Grecia, Syriza e il governo Tsipras! Ci mancherebbe solo che non si fosse fatto… Ma una scelta del genere non basta a tenere in piedi un’organizzazione che si pretende politica. (di associazioni Italia-qualcosa ne abbiamo tante; tutte o quasi meritorie, anche se certo meno importanti). Ma quanto maggiore è stato il riferimento, sacrosanto, alla Grecia, di altrettanto si è affievolita la capacità di misurarsi con i maggiori processi sociali in corso nel nostro paese. Il punto di approdo di questa parabola è stato l’appoggio alla lista Pastorino. Certo è una lista che potrebbe anche avere un certo successo: non per proprio merito, ma per l’incancrenimento del PD. Dubito però, per come si è costituita, che possa pescare gran che tra tutti coloro che non votano più perché sono disgustati dalla politica, e non solo dal PD così com’è ora.
Ma quel punto di approdo era nella logica delle cose. Dal documento Siamo a un bivio, che è stata la bandiera del finto congresso di aprile dell’Altra Europa, si era esplicitamente voluto escludere una clausola – ed è stato il motivo per cui ho rifiutato di sottoscriverlo - che prevedeva di darsi “una struttura provvisoria, democraticamente eletta, che abbia il suo fulcro nei comitati e nelle associazioni dell’Altra Europa che si sono andati costituendo o si costituiranno nei territori”. La si è esclusa con l’esplicita affermazione che quei comitati “non contano nulla”, e che occorreva guardare al di là: alle decine di migliaia di firmatari dell’appello iniziale (quelli che così facendo abbiamo in gran parte perso) e al milione e passa di nostri elettori (idem): apparentemente un rapporto demiurgico tra il “centro” e una platea tutta da costituire; in realtà, la predisposizione di una sommatoria di “componenti” da non mettere in discussione.
Un tema finalmente all'ordine del giorno. Mentre il premier mostra di credere giusto un mondo in cui qualche persona non abbia un reddito, il dibattito oscilla tra lotta alla povertà e nuova concezione del lavoro.
La Repubblica, 15 maggio 2015
«IL reddito di cittadinanza nel senso che tutti i cittadini da Agnelli in giù hanno un reddito è una follia. L’idea di una misura contro la povertà è una cosa su cui stiamo lavorando e siamo disponibili a parlare con i 5Stelle e con gli altri, ovviamente compatibilmente con i vincoli di bilancio». Così ha dichiarato Renzi nella conversazione con Repubblica . Ma ciò che propongono i Cinquestelle è esattamente questo, una misura contro la povertà. Sbagliano a chiamarla reddito di cittadinanza, perché questo termine evoca altre proposte che circolano a livello internazionale e sono sostenute da studiosi di tutto rispetto, come Atkinson e Van Parijs, e da un network internazionale, che auspicano, appunto, un reddito di base per tutti. Ma la proposta dei Cinquestelle si riferisce a chi si trova in povertà, come quelle della Alleanza contro la povertà con il Reis (Reddito di inclusione sociale), della commissione Guerra con il Sia (Sostegno di inclusione attiva), di una proposta di legge di iniziativa popolare avanzata dal Bin (Basic Income Network) Italia, e prima ancora del lontano reddito minimo di inserimento sperimentato alla fine degli anni Novanta.
Non mancano, infatti, le proposte e neppure le sperimentazioni, anche se Maroni, che oggi a sorpresa annuncia di voler sperimentare il “reddito di cittadinanza” in Lombardia sembra aver dimenticato di aver affossato il reddito minimo di inserimento appena diventato ministro del welfare, chiudendo la sperimentazione e dichiarandola fallita, senza spiegazioni né discussioni.
Al di là dei nomi, ciò di cui si parla, e che esiste già nella stragrande maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea, in molti Paesi Ocse e in diversi Paesi dell’America Latina, è una misura universalistica, non categoriale (cioè non limitata a una o un’altra categoria di poveri) di sostegno al reddito per chi si trova in povertà, solitamente accompagnata dalla richiesta di disponibilità ad accettare richieste di lavoro per chi ne ha la capacità, o a partecipare a corsi di formazione per chi ne ha necessità, di fare in modo che i figli (per chi ne ha) frequentino regolarmente la scuola e abbiano le cure mediche necessarie e così via. Il termine “di cittadinanza” (anche se io non lo userei proprio perché si presta ad equivoci) si riferisce al diritto di ricevere sostegno se si è in condizione di bisogno (così come si ha diritto di ricevere una istruzione di base, o cure mediche quando si è malati), a prescindere dalla appartenenza ad una o un’altra categoria.
Si può discutere dell’importo base di questa misura, di come debbano essere definiti i diritti e i doveri di chi la riceve e dei doveri di chi deve fare funzionare le attività integrative e di accompagnamento (dalla scuola ai servizi per l’impiego), su come e con quale periodicità si devono effettuare i controlli. E si deve, ovviamente, ragionare su come finanziarla (senza tuttavia metterla sempre in coda rispetto ad altre priorità non adeguatamente discusse). Ma, ripeto, si tratta di misure che già esistono in altri Paesi (incluso il Portogallo, molto più povero dell’Italia) da diversi decenni. Sono state sperimentate anche in Italia e alcuni comuni hanno da tempo qualche cosa di simile. La provincia di Trento ha messo a regime il proprio reddito minimo da oltre due anni. Sono esperienze da cui si può imparare senza iniziare ennesime sperimentazioni che servono solo per rimandare la questione creando ulteriori disparità tra chi è coinvolto nella sperimentazione e chi no: una disparità che può essere accettabile una volta, ma che non può essere sistematicamente ripetuta, senza che si vada mai a regime.
Nei dibattiti di questi giorni, incluso “Ballarò” e “Di martedì” scorsi, si sono sentiti pareri, commenti, fondati su una intollerabile ignoranza da parte anche di illustri commentatori e commentatrici. Peraltro, nessuno sembra abbia pensato di sentire, oltre ai Cinquestelle, chi di queste cose si occupa da anni e ha fatto proposte argomentate (ad esempio l’Alleanza contro la povertà). Il dibattito sembra limitato a politici (inclusi quelli del Pd) e giornalisti apparentemente scelti tra chi ne sa meno ed ha meno memoria storica. Con il risultato di aumentare la confusione, delegittimando in partenza ogni proposta, lasciando aperto il campo ad ennesime sperimentazioni più o meno idiosincrasiche, o all’invenzione di qualche ennesima misura categoriale con cui vengono disperse risorse già scarse.
La parola alla saggezza. Se queste tre omissioni non saranno corrette vivremo «un tempo di dura lotta perché la nostra scuola continui a essere, secondo costituzione, la scuola della nostra repubblica».
L’internazionale, 11 maggio 2015
Il disegno di legge Giannini e altri, “Riforma del sistema nazionale di istruzione”, e i documenti governativi che lo hanno preceduto e lo accompagnano sono stati colpiti da molte critiche puntuali, tante da rendere difficile il compito di riassumerle. Lo hanno fatto su Internazionale due recenti messe a punto di Christian Raimo il 5 maggio e Mauro Piras il 7 maggio e mi rimetto a queste.
Tutti i critici, direi, si sono concentrati nel contrastare, smentire, sforzarsi di correggere singoli punti del disegno di legge fino a chiederne con ragione il ritiro, senza fermarsi a segnalare quel che nei testi non c’è. Però, come imparano gli studenti di prima annualità di buoni corsi di linguistica generale o filosofia del linguaggio o semiotica e comunicazione, un testo ci parla di un argomento non solo con quel che ci dice in esplicito, ma anche con quel che ne tace.
Sta nel potere delle nostre parole rendere significativi anche i silenzi. A me pare che nei testi di ispirazione renziana ci siano tre silenzi da segnalare, tre peccati di omissione. Sono silenzi che colorano malamente tutto ciò che si dice. Se non verranno corretti, devono metterci in allarme fin d’ora per le future politiche scolastiche governative e, ciò che più conta, per le sorti della nostra scuola.
1. La buona scuola che c'è
Ma anche questa differenziazione manca nella prospettiva renziana. La scuola, come fanno i giornalisti meno informati, è considerata come un blocco unitario, indifferenziato. Non se ne capiscono così i meriti e, anche, alcuni limiti.
All’inizio del cammino nell’età della repubblica la scuola e con lei l’intera società italiana si sono trovate schiacciate dall’eredità dello stato monarchico e fascista. Quasi due terzi degli ultraquattordicenni, il 60 per cento, erano privi di licenza elementare, un terzo dei quali analfabeti confessi (per l’Istat si era ed è analfabeti se tali ci si dichiara). Nelle classi giovani in età scolastica, per ragazzine e ragazzini, il titolo di licenza elementare (non il diploma, non la laurea) era riservato a un’élite, un terzo. Pochi, nel ceto intellettuale e politico, si rendevano ben conto di ciò: Umberto Zanotti Bianco, Guido Calogero, Anna Lorenzetto, Giuseppe Di Vittorio, Piero Calamandrei.
Soltanto dopo quasi dieci anni, alla pattuglia sparuta si aggiunse un giovane parroco rompiscatole del suburbio fiorentino, rimasto più noto per merito, dobbiamo dirlo, del Sant’Uffizio o simili. Il giovanotto aveva capito che era impossibile portare le parole del Vangelo a chi era immerso nell’analfabetismo e, in più, gli appariva già sedotto dalle prime ondate del consumismo, di cui nessuno, Pier Paolo Pasolini a parte, si rendeva conto. Cominciò a trafficare con le statistiche per capire quale era l’estensione del fenomeno. E scrisse un libro, Esperienze pastorali, che dispiacque alla sua chiesa, che isolò l’autore e lo relegò in una sperduta parrocchia di montagna, a Barbiana, sopra Vicchio, nel Mugello, nella convinzione che lontano dalla città avrebbe fatto meno danni. “Ecco il giudicio uman come spesso erra”, direbbe Ludovico Ariosto. Il ritardatario aggregato alla pattuglia, il rompiscatole mandato al confino si chiamava Lorenzo Milani.
Dinanzi alla realtà di dominante mancata scolarità la reazione fu lenta. Anche gli odiatori del populismo devono ammetterlo. La reazione cominciò dagli strati popolari, dalle campagne più povere del latifondo. Le famiglie capirono, sentirono, che dovevano mandare figlie e figli a scuola, sola alternativa al dispatrio.
Le statistiche ancora raccontano con i loro numeri, per chi si dà la briga di andarle a consultare, questa storia. Ragazze e ragazzi tra tardi anni quaranta e metà cinquanta affollarono le elementari e cominciarono a conquistare in grande maggioranza la licenza elementare prima preclusa invece alla grande maggioranza dei genitori, a non parlare dei nonni.
Mentre il parlamento discuteva del creare o no una scuola postelementare che onorasse il precetto costituzionale degli “almeno otto anni” di scuola “obbligatoria e gratuita” (articolo 34, comma 2), ragazze e ragazzi la scuola postelementare cominciarono a farsela da sé affollando i diversi canali che lo stato offriva e cercando di rimanerci. Varata nel 1962 la scuola media inferiore unificata, gli otto anni di scuola cominciarono a diventare realtà per percentuali crescenti, ma ancora lontane dal 100 per cento.
Il fatto è che una gran parte degli insegnanti resisteva e continuò a resistere. Erano convinti che il loro compito fosse censire, fermare e mandar fuori dai piedi i somari, gli svogliati, i testoni. Non erano stati attrezzati a capire che il loro compito era esattamente il contrario: fare in modo che i somari imparassero a non ragliare, gli svogliati ad avere voglia di studiare, i testoni a usare la testa per capire e orientarsi nella società. Facile a dirsi, non a farsi. Nel corso degli anni, gli e le insegnanti non solo delle elementari, ma anche delle medie inferiori hanno imparato a farlo. Le scuole elementari hanno raggiunto un doppio risultato: portano al loro termine il 100 per cento dei loro alunni e questi, nei confronti internazionali, si collocano tra quelli con i più alti livelli di competenza.
Interessante: il massimo di inclusività va a braccetto con la qualità più elevata dei risultati. Così è nel resto del mondo, così è stato ed è per la nostra scuola elementare. Comunque, in complesso, l’intera scuola di base è riuscita a portare alla licenza media dell’obbligo quasi il 100 per cento dei figli di famiglie in maggioranza analfabete o semianalfabete ancora quarant’anni fa e oggi in maggioranza dealfabetizzate. E perfino quello che è l’anello debole, la scuola media superiore, porta al diploma l’80 per cento di ragazzi e ragazze. E in questa scuola le nostre straordinarie ragazze nei test comparativi internazionali raggiungono punteggi superiori alla media delle loro compagne europee.
Questa è la scuola cui, senza conoscerla, voi volete mettere mano. Il vostro silenzio su ciò che la scuola ha saputo e sa fare fa temere che il vostro metter mano sia un manomettere. Questa scuola è la sola istituzione che ha aiutato la società italiana a evadere dalla prigione dell’analfabetismo primario, totale, e a conquistare almeno l’alfabetizzazione strumentale per il 95 per cento e quella pienamente funzionale (vedremo poi) per il 30 per cento. Mai erano stati raggiunti livelli così alti in tre mezzi secoli di storia patria.
“Se per strada incontro un mio collega lo saluto. Ma se incontro un insegnante mi fermo, mi cavo di capo il cappello e mi inchino”: così amava dire Guido Calogero nei lontani anni cinquanta e ne hanno conservato memoria quelli che lo hanno conosciuto e hanno condiviso con lui il confino come Carlo Azeglio Ciampi. E sapeva benissimo quante cose non funzionavano nella nostra scuola, come ha ricordato giorni fa Claudio Giunta.
Ma, interrompendo a tratti i suoi preziosi lavori specialistici di filosofo e di storico del pensiero antico e andando in giro per le scuole a conoscerne e capirne i problemi, aveva imparato quanto è duro, quanto è degno di riconoscenza e stima il lavoro di chi insegna. Voi cappelli non ne portate più, ma fermarvi e inchinarvi potreste e dovreste.
2. La Costituzione
Diffidenti o preveggenti i costituenti stabilirono una serie di vincoli.
1.La scuola deve essere “aperta a tutti” (articolo 34 comma primo: la frase è di sei parole, brevissima, e starebbe bene sull’ingresso di tutte le scuole): Gianni e Deborah non ci piacciono, ma non possiamo cacciarli via.
2.La scuola deve essere anzitutto e comunque luogo di un’istruzione “obbligatoria e gratuita” “impartita per almeno otto anni” (articolo 34 comma secondo).
3.Di conseguenza nemmeno la repubblica può cantare sempre libera degg’io: severa, la Costituzione le dice che deve istituire “scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (articolo 33, comma secondo).
In altre parole istruirsi è sì un diritto soggettivo di cittadini e cittadine, ma “rendere effettivo questo diritto” non è una faccenda privata, è un dovere della e per la repubblica, che, vincendo i pianti dei ministri del tesoro, deve trovare i mezzi per consentirne l’esercizio (articolo 34, comma quarto).
Non bisogna essere esimi costituzionalisti per capire perché tanta attenzione per la scuola. La Costituzione è scritta con grande chiarezza (per questo ha perfino vinto un premio Strega). Proprio perché “aperta a tutti” e perché “obbligatoria per almeno otto anni” la scuola è l’unico luogo istituzionale in cui per forza devono ritrovarsi, almeno nei loro anni giovani, “tutti i cittadini (…)
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (articolo 3, comma primo). È qui, nella scuola, che la repubblica può adempiere al suo “compito” (questa parola fu pensata, scelta e confermata con cura dai costituenti): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli (…) che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione (…) all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (articolo 3, comma secondo).
La scuola della repubblica è il luogo privilegiato per vincere le limitazioni della libertà e dell’eguaglianza, rimescolare le carte della stratificazione sociale, trasformare le diversità in ricchezza culturale comune, favorire lo sviluppo delle persone, costruire le premesse per l’effettiva partecipazione attiva alla vita del paese. Voi che mandate i figli all’American talent school non sapete che cosa gli fate perdere (o lo sapete ma non v’importa niente): la progressiva costruzione di una società di persone libere.
La scuola dunque, come vide Piero Calamandrei e tornarono poi a spiegare i ragazzi di Barbiana, non è un pezzo qualunque dello stato, ma è un “organo costituzionale”. È entro questi limiti che la repubblica “detta le norme generali sull’istruzione” (articolo 33, comma secondo). Buone norme per la scuola devono richiamarsi sempre alla sua natura di delicato, essenziale organo costituzionale. La “Buona scuola” ne tace. È il secondo, preoccupante silenzio. È un’omissione voluta? Oppure è una sciatteria, una dimenticanza non voluta “con l’aggravante della buona fede”, come diceva don Milani?
3. Il neoanafletismo
Oggi, dopo tre indagini osservative internazionali (fondate su osservazioni, non su autovalutazioni) sappiamo che in tutti i paesi ricchi e consumistici una parte consistente di popolazione, dopo avere raggiunto in età scolastica livelli anche eccellenti di competenza nella comprensione della lettura, nella scrittura, nel calcolo, nel ragionamento scientifico, in età adulta tende a dealfabetizzarsi. Quasi due anni fa Internazionale ha pubblicato l’essenziale di questi dati. In paesi con scuole eccellenti, come Giappone, Finlandia, Olanda la percentuale di persone adulte al di sotto dei livelli minimi necessari a capire un testo e a usare basilari concetti matematici e scientifici tocca quasi il 40 per cento. Tocca il 50 per cento in Corea del Sud, altro paese di buona scuola, buona davvero, supera la metà nel Regno Unito e Germania, arriva a toccare e superare il 60 per cento in Francia e Stati Uniti, raggiunge infine il 70 per cento in Spagna e Italia.
Fattore determinante non è evidentemente da sola la qualità della scuola, ma sono gli stili di vita che allontanano chi è uscito da scuola dalla voglia di tenersi informato, di ragionare, di partecipare in modo attivo alla vita sociale. E così le competenze acquisite a scuola si indeboliscono, si avvizziscono, perfino muoiono, Per l’Italia va osservato che, se si tengono presenti anche i dati sulla capacità di problem solving (uso delle conoscenze per risolvere problemi non routinari nelle singole discipline), la percentuale delle persone sotto i livelli minimi di competenza sale all’80 per cento.
Questa massa cospicua di neoanalfabeti interessa due volte la scuola ordinaria. Interessa una prima volta perché in qualche misura la scuola, specie quella media superiore, è complice della dealfabetizzazione adulta, nel senso che non riesce a fare abbastanza per garantire che i livelli buoni cui porta ragazze e ragazzi si fissino e durino nel tempo dell’età adulta e anziana. Cosa relativamente di poco peso di fronte al danno che la scuola riceve da questa massa.
Sappiamo bene da studi di ogni sorta e paese che il livello culturale delle famiglie incide in modo determinante sull’andamento degli apprendimenti scolastici dei ragazzi. Otto su dieci dei ragazzi e delle ragazze che la scuola si trova di fronte vengono da famiglie in cui non entrano libri e giornali e non si praticano collegamenti a banda larga con internet e Google.
Da decenni, in altri paesi, si sono sviluppati antidoti specifici: un’ampia offerta di corsi per l’istruzione degli adulti. In Italia siamo astralmente lontani da ciò. Una commissione nominata nel 2013 dai ministri Carrozza e Giovannini (istruzione e lavoro nel governo Letta) produsse nel febbraio 2014 un rapporto analitico su quel che scuole e imprese potevano e dovevano fare per contenere e ridurre la massa dei dealfabetizzati. Gli estensori dei testi renziani devono averlo considerato materiale da rottamare e fare stare sereno.
Male assai: proposte serie sulla scuola non possono mettere da parte quello che la scuola può e deve fare per l’istruzione degli adulti. Oltre tutto i renziani amano molto gli anglismi e l’espressione tecnica in uso per la cosa è life long learning, imparare per tutta la vita. Ma loro non l’hanno usata, e non per purismo: la sconoscono come si dice in Sicilia. Secondo norme già vigenti e secondo le analisi della commissione di cui s’è accennato sono le scuole il luogo deputato a far da centro a un sistema di life long learning e anche di continuum training, formazione continua. Esse possono e devono diventare “fabbriche della cultura”. Su tutto ciò silenzio tombale di Renzi e di quelli che omericamente si possono dire “quelli a lui d’intorno”.
Matteo Renzi pareva partito con buone intenzioni. La prima era ottima: aveva fatto capire che di scuola , del complesso della scuola, si sarebbe occupato in prima persona, quale capo del governo. Sembrava che avesse capito che così in effetti richiede la intricata complessità economica, amministrativa, culturale e politica della realtà scolastica di un grande paese sviluppato. Così, di conseguenza, nei maggiori paesi del mondo le grandi svolte delle politiche scolastiche ed educative sono gestite direttamente dai capi di governo o di stato.
Così invece non è stato nella tradizione italiana, dove, a parte casi isolati come quello di Giovanni Giolitti e lampi di interesse di Romano Prodi ai tempi del Prodi uno, si è creduto che le politiche scolastiche potessero esser lasciate ai ministri dell’istruzione. Questi però non hanno competenze e poteri rispetto a troppe facce del problema, a cominciare dai riassetti del bilancio dello stato necessari se davvero si vuole intervenire sul complesso della realtà educativa. Sono riassetti che comportano decisioni che può e deve prendere solo chi guida l’intera compagine governativa, non un singolo ministro, a meno che non abbia una delega in bianco come (ma solo per due anni) fece Mussolini con Giovanni Gentile.
Una seconda buona intenzione manifestata all’inizio è stata insistere sulla natura solo parziale degli interventi che annunziava: non chiamatela riforma, ebbe a dire il presidente, sono solo singoli provvedimenti più immediatamente necessari, la riforma la faremo, ma verrà dopo. Invece e però da un certo punto in poi la buona intenzione è svanita e in comunicazioni governative, nei mezzi di informazione e infine nel testo consegnato al parlamento si è parlato di riforma, parola pesante che, a usarla correttamente, implica l’esistenza di un ripensamento adeguato e di una revisione radicale e complessiva di uno stato di cose.
Le buone intenzioni del capo del governo, svaporando, hanno infine portato il 27 marzo al disegno di legge presentato al parlamento dai tre ministri di settore, Giannini, Madia e Padoan. Le omissioni di cui si è detto qui sono pesanti. Se non saranno corrette prefigurano un tempo di dura lotta perché la nostra scuola continui a essere, secondo costituzione, la scuola della nostra repubblica.
che: mura sempre più alte, e cannoni capaci di sparare sempre meglio. Il manifesto, 14 maggio
La differenza è che nel film il protagonista era simpatico, per l’interpretazione di Peter Sellers e la trama di fraintendimenti che fanno di uno sprovveduto un profeta della finanza e un modello di vita.
Renzi e Mogherini sfiorano invece il ridicolo, per un governo italiano che si vende — per i sondaggi, le elezioni o un twitter? — l’incredibile «non decisione» dell’Ue di ripartire le quote dei migranti fra i 28 Paesi membri: in tutto 20 mila e già presenti nei campi, per un costo di 50milioni di euro. Sarebbe questa la svolta di una Unione europea chiusa dentro la fortezza del Pil più bello d’Occidente? Eppure il presidente Juncker aveva riconosciuto «l’errore di cancellare l’operazione Mare Nostrum». Ma a guardar bene il «grandioso» annuncio altro non è che pura chiacchiera.
Perché i 28 paesi dell’Ue nonostante la meschinità della proposta, sono divisi: mezza Europa con in testa la Gran Bretagna dice no alle quote, come tutti i paesi dell’Est.
Ma il piatto forte è che, a fronte di questo vuoto dopo migliaia di morti nel Mediterraneo, avanza la proposta di una nuova guerra come soluzione definitiva. E grazie a The Guardian che ha raccontato le 19 pagine del piano «strategico» presentato da Mogherini all’Onu, ecco la conferma: l’obiettivo sono gli «scafisti».
Se milioni di esseri umani fuggono dalle guerre e dalla miseria delle quali siamo partecipi interessati, il nodo di fondo possono mai essere gli scafisti, che certo gestendo un traffico malavitoso, purtroppo sono i soli a corrispondere a questo disperato bisogno di fuga?
Nero su bianco, sta scritto che faremo la guerra con una «vasta gamma di capacità aeree, marittime e terrestri» con «intelligence, sorveglianza e ricognizione bombardamenti, squadre d’imbarco, unità di pattuglia, forze speciali». Previste anche «vittime innocenti».
Una guerra da mare, cielo e terra con effetti collaterali. Che sarà «da terra» Mogherini lo smentisce, ma pare confermato visto che Cina e Russia agitano il veto in sede Onu sui raid aerei, mancando, finora, l’accordo con il Paese interessato; stessa questione per l’intervento via mare che entrerà nelle acque territoriali libiche
Nella lettera con cui l'europarlamentare comunica il suo distacco dalla lista italiana "L'altra Europa con Tsipras" , e nel dibattito che ne è nato si fa riferimento a una lettera nella quale, a metà aprile scorso sono state comunicate le ragioni del dissenso. Crediamo sia utile pubblicarla oggi per i frequentatori di
eddyburg. In calce le prime firme
Abbiamo condiviso e continuiamo a condividere l’appello iniziale L’Europa a un bivio, che alcuni di noi hanno contribuito a redigere e che altri hanno sostenuto con la propria candidatura e con la propria militanza, ma – nonostante molte mediazioni – non possiamo condividere il percorso che l’attuale gruppo dirigente dell’Altra Europa sta perseguendo.
Durante l’ultima assemblea nazionale di Bologna, il 18 e 19 gennaio, non è stato definito alcun programma, dato che quell’assemblea era stata messa nell’impossibilità di esprimere un voto.
Non votare e non contarsi significa sempre eludere la sostanza: cioè i temi politici fondamentali su cui non c’è eventualmente accordo.
Era stato però designato un “Comitato operativo transitorio” formato dalle stesse persone che avevano dato corpo in precedenza ai molti e spesso stravaganti acronimi (Con, Cot) che indicavano organismi non eletti, incaricati di condurre all’assemblea successiva. Di assemblea in assemblea, con sempre meno militanti e sempre più invisibili al mondo, siamo giunti a compiere quel presunto “percorso unitario” – mai votato e mai deciso, reso possibile dall’immobilismo e dalla subalternità ai piccoli ceti partitici della sinistra – che ha portato a delegittimare il lavoro di aggregazione fatto con continuità e abnegazione dai comitati regionali nati in vista delle elezioni.
Fino a giungere al caso esemplare dell’Altra Liguria, di cui la dirigenza di Altra Europa ha ignorato o misconosciuto le scelte – analogamente a quanto accaduto per L’altra Sardegna, L’altra Calabria e L’altra Emilia Romagna - insieme a quelle delle tante forze con cui questa struttura locale era riuscita a costruire un primo embrione di coalizione sociale. Un disconoscimento volto ad appoggiare la candidatura Pastorino che, per le passate prese di posizione, contrasta con gran parte dei principi ispiratori e dei punti programmatici della nostra comunità. In particolare, contrasta con uno dei cardini dell’appello istitutivo de L’Altra Europa: quello di non candidare personaggi che ricoprissero o avessero ricoperto cariche elettive o ruoli dirigenti in altri partiti nella passata e nella presente legislazione, onde salvaguardare il carattere sostanzialmente apartitico della lista.
Il superamento delle piccole identità partitiche era la caratteristica che aveva maggiormente distinto il nostro progetto, permettendoci di raggiungere il risicato quattro per cento che ci aveva fatto esistere come forza politica: un principio che per l’Altra Europa dovrebbe avere valore statutario.
Le cose sono andate diversamente. La dirigenza che gestisce oggi quel che resta dell’Altra Europa ha voluto perseguire ciò che già aveva enunciato nel documento Siamo a un bivio: l’unità, in vista di una fantomatica e sempre di nuovo rinviata unificazione, tra i piccoli partiti della cosiddetta sinistra radicale, e dell’ancor più fantomatica unificazione con una frangia della sinistra Pd di cui non si conoscono le reali prospettive.
Il nucleo di una ventina di persone che, pur non essendo mai state elette, si sono insediate al comando dell’Altra Europa, si è di fatto ritagliato, all’interno dei circa quarantamila sottoscrittori dell’appello iniziale, un proprio “corpo sociale” costituito da poco più di settemila adesioni (dopo averne preannunciate decine di migliaia e aver detto che il vero referente erano il milione e centomila elettori), ormai formato in gran parte da militanti di partiti (soprattutto Rifondazione comunista) che tutt’ora hanno forti legami con le proprie case di appartenenza.
Il cosiddetto Comitato di Transizione ha trasformato la prossima assemblea nazionale del 18-19 aprile in un congresso per delegati – un ossimoro, e in buona parte un tradimento delle intese inziali – che eleggerà un organismo su lista unica bloccata, un comitato centrale inamovibile, solo formalmente legittimato “democraticamente”. Si sono tenute assemblee territoriali con la pretesa di voto su mozioni (una della quali, per altro, ritirata dagli stessi estensori) e con “controllori” centrali a verificare il rispetto dei criteri imposti. In questo modo, migliaia di militanti sono stati esclusi dal corpo sociale dell’Altra Europa. Dei sei promotori iniziali (poi garanti) del progetto, ne è rimasto solo uno. Tutti gli intellettuali, gli artisti, gli studiosi, gli esponenti di rilievo dei tanti movimenti che si erano raccolti intorno al progetto – un gran numero di persone, tra cui decine dei nostri candidati e candidate – ci hanno lasciato strada facendo.
Il risultato è che la linea politica dell’Altra Europa si piega ormai di volta in volta alle esigenze tattiche imposte dalla sua subalternità agli interessi dei partiti con cui vorrebbe unificarsi: basti pensare al voltafaccia sulla nostra costituzione in associazione, che Sel non gradiva e che per questo non si è più fatta, o al voltafaccia sulla partecipazione alle elezioni regionali, prima scartata perché “le Regioni non contano nulla”, poi sostenuta per offrire uno spazio a Sel, dove questo partito non riesce ad accordarsi con il Pd; o, ancora, al voltafaccia nei confronti del tema “coalizione sociale”, prima marginalizzato e addirittura irriso, e poi, dopo le prese di posizione di Landini e Rodotà, riannesso in modo posticcio al percorso della “Casa comune della sinistra e dei democratici”. Per non dire dei contorsionismi necessari a stare con i movimenti No Tav, No Triv, No Expo e al tempo stesso mantenersene fuori, così da non costituire una minaccia per chi, pur abbracciando astrattamente una posizione, ne pratica un’altra, spesso diametralmente opposta, quando siede in giunte comunali e regionali. Lo stesso vale per la vicenda di Tempa Rossa e per i movimenti che lottano contro le Grandi Opere, l’erosione del suolo in Liguria, il No Muos in Sicilia, le Grandi Navi e il No Mose in Veneto.
Tutto questo ha disgregato ciò che era unito: molti di coloro che hanno sostenuto la nascita dell’Altra Europa si sentono ormai come esuli in patria, alcuni si sono allontanati, altri hanno ritrovato entusiasmo riavviando un processo partecipativo. Tutti però sono convinti che il percorso seguito attualmente non abbia futuro, essendo una stanca e ancor più contorta riedizione di progetti di aggregazione tra forze politiche prive di una propria ragion d’essere, per quanto ben decise a salvaguardare la propria sopravvivenza, la propria identità e, il più delle volte, i propri apparati (o zavorra, come li definisce Stefano Rodotà).
Stanno tuttavia prendendo forma e moltiplicandosi molti punti da cui partire per far rivivere quello spirito unitario – fondato su partecipazione orizzontale e attenzione ai processi sociali, anziché sugli schieramenti partitici – che aveva animato l’adesione al nostro progetto iniziale. Li ritroviamo nelle reti fra movimenti, nella trasversalità delle mobilitazioni per i migranti, nella perseveranza di tanti militanti e comitati, nella fierezza con cui L’Altro Veneto e molte “Altre” Regioni hanno deciso di affrontare le elezioni regionali con slogan come “basta cemento, basta tangenti”, chiedendo che la politica ritrovi un rapporto con l’etica del bene comune e sappia mettere al primo posto la solidarietà, l’accoglienza, le persone. La politica vera dell’Altra Europa, per noi, si fa lì.
15aprile 2015. Primi firmatari: Antonella Leto, Daniela Padoan, Roberta Radich, Barbara Spinelli, Guido Viale
Barbara Spinelli presenta un'interrogazione a Bruxelles. Per chiedere alla Commissione europea d'indagare sul rispetto dei diritti dei profughi in Italia. Partendo da un video in cui i bambini dichiarano di aver subito percosse nella struttura di prima assistenza di Ragusa. Mentre la questura smentisce: Sono calunnie».
L'Espresso online, 12 maggio 2015
Uno sbarco a Pozzallo Dalla recinzione escono solo le grida. Voci di bambini, che urlano in arabo. Frasi che gli interpreti volontari traducono come un appello disperato: «Vogliamo uscire!». Gli viene chiesto: siete stati picchiati? La risposta è presentata in modo raccapricciante: «Si, con la corrente elettrica». Sono le cronache del centro ragusano di Pozzallo, dove vengono raccolti i profughi che hanno attraversato il Mediterraneo, riferite dai volontari siciliani in un video pubblicato il 24 aprile da MeridioNews .
La polizia ha smentito con decisione questa ricostruzione, presentando una querela. Ma la questione di Pozzallo adesso arriva a Bruxelles con un'interrogazione di Barbara Spinelli , che chiede di fare chiarezza: «Cittadini stranieri, anche minori, hanno dichiarato di aver subito percosse con manganelli elettrici, e un adulto ha mostrato segni di una bruciatura». L'eurodeputata invoca un'indagine perché in quel centro si sarebbe verificato «un uso illegittimo della forza». E domanda se «ciò che continua a registrarsi non violi la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione».
Dietro la denuncia c'è una questione decisiva, che rischia di esplodere con il nuovo esodo di disperati dalle coste dell'Africa. I profughi non vogliono essere registrati in Italia, perché questo li obbliga a restare nel nostro paese fino al completamento dell'istruttoria. Che da noi – come ha evidenziato un'inchiesta de “l'Espresso” - spesso richiede più di un anno. Durante Mare nostrum migranti e rifugiati venivano lasciati andare senza imporre la registrazione, in modo che potessero presentare la domanda di asilo in altri paesi. Più ospitali o più efficienti: solo nel 2014 in centomila hanno attraversato la frontiera senza lasciare traccia negli schedari della polizia. Adesso, in base alle ultime intese tra governi, questo non viene più tollerato.
Migranti, in centomila sono scomparsi
La grande fuga dopo lo sbarco. Mentre bruciamo miliardi per l’accoglienza. Senza riuscire ad aiutarli, né a controllarli. Cosi in 104.750 sono sfuggiti ai controlli. Scappano anche davanti ai militari. Che non intervengono: in esclusiva le immagini di Bari
Secondo l'Ansa, nel giorno in cui è stato reso noto il video, il 24 aprile 2015, sarebbe scattata una protesta dei rifugiati nella struttura di Pozzallo. I profughi, in prevalenza siriani e palestinesi, avevano rifiutato il pasto e la colazione, perché volevano essere trasferiti al più presto dalla Sicilia. Quel giorno la struttura ospitava 113 migranti. L'indomani il direttore, Angelo Zaccaria, ha assicurato che tutti avevano consumato il pranzo di mezzogiorno.
Ma la videodenuncia è arrivata fino a Bruxelles. Scrive Barbara Spinelli (che ha appena lasciato la lista Tsipras) : «Il 25 aprile 2015, nel centro di Pozzallo, risultavano trattenuti da sette giorni 113 cittadini siriani e palestinesi. Con particolare riferimento a Pozzallo, fonti diverse e concordanti documentano l’uso illegittimo della forza per costringere i migranti, anche minori, all’identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali in violazione delle salvaguardie previste dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo».
La Polizia ha smentito questa versione: «Sono state seguite con la consueta professionalità le rituali procedure relative all'accoglienza e alla successiva identificazione dei migranti», ha scritto la Questura di Ragusa in una nota diffusa lo stesso giorno del video: «Coloro che hanno mostrato resistenze, sono stati puntualmente denunciati per il rifiuto di sottoporsi alle procedure di foto-segnalamento», e conclude dichiarando di aver depositato alla procura della Repubblica una denuncia per diffamazione.
Ma le tensioni per il segnalamento dei profughi sono destinate ad aumentare con i nuovi sbarchi. Siriani, eritrei, palestinesi, spesso anche afghani, iracheni e nigeriani in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni religiose chiedono di potere raggiungere altri paesi europei, dove vivono i loro familiari e ci sono maggiori possibilità di inserimento. La legge europea, applicata ora con rigore dalle nostre forze dell'ordine, non lo permette.
E almeno al Brennero adesso le polizie tedesche e austriache bloccano tutti i profughi. Solo l'approvazione delle nuove misure sulla distribuzione dei rifugiati in tutte le nazioni dell'Unione potrebbe offrire una soluzione diversa. Ma le trattative sono lontane da un accordo. Adesso però i governi europei si devono domandare quali siano i limiti per costringere all'identificazione e se sia tollerabile che venga imposta con la forza.
Una recensione di due testi di Stefano Massini ( "Sette minuti" e "Lehman Trilogy") sul dramma del lavoro nel capitalismo.
L'Indice dei libri, aprile 2015
Con “7 minuti” Stefano Massini è riuscito a portare in teatro un fatto normale facendoci meravigliare. Undici operaie tessili di un consiglio di fabbrica intorno a un contratto da rinnovare. L’ azienda va bene, è stata venduta, la nuova proprietà in cambio di una garanzia dell’ occupazione e dello stipendio propone alle maestranze di rinunciare a 7 minuti “dell’ intervallo pattuito in sede di contratto premiando lo sforzo della proprietà di venirvi incontro in questo delicato passaggio storico”. La prima reazione delle donne è un grande sollievo. Perfino un sentimento di gratitudine. Questa garanzia, la tranquillità di un lavoro e di uno stipendio, valgono il sacrificio di 7 minuti al giorno. Altre fabbriche chiudono, ma qui si continua a lavorare. L’ offerta va accettata subito. Solo Blanche, trent’ anni al telaio, ha una strana „sensazione alla bocca dello stomaco“. Vuole discutere, vuole vedere chiaro. “Perché ho sempre la sensazione che noi dobbiamo ringraziare? Non è uno scambio alla pari?”.
Massini ci porta fino alle soglie del mistero economico. Andare oltre è il compito del lettore o dello spettatore che legge/vede cose che forse già sa, ma delle quali difficilmente si rende conto: Il lavoratore salariato appartiene non al singolo capitalista, ma al capitale, perché le sue condizioni di vita dipendono dai movimenti e dalle esigenze del capitale che la nostra società considera essere oggettive. La dipendenza può assumere forme attenuate da diritti conquistati, può diventare sopportabile e perfino confortevole. Ma periodicamente la legge del profitto si affaccia con la sua maschera ferrea e richiede, come gli dei degli aztechi, i suoi sacrifici umani. Infatti, il capitalismo può essere considerato ormai una delle grandi religioni. E’ il dio denaro che dà senso alle nostre azioni, regola la nostra vita, i nostri sentimenti e i nostri sogni. Nella sua “” Massini racconta attraverso le vicende di una dinastia di banchieri e finanzieri, che sono i sacerdoti di questa religione, i suoi fasti e la sua gloria fin dalla sua incarnazione nel mito americano. La forza che dà fiato al suo canto epico scaturisce da una catastrofe: Il 15 settembre 2008 crolla la Lehman Brothers provocando il fallimento più grande nella storia delle bancarotte mondiali. La banca era considerata too big to fail. Eppure questa volta il sistema bancario e lo stesso governo americano hanno voluto statuire un esempio facendo squillare le trombe del giudizio universale. Un epoca è finita. Ma che cosa significa questa affermazione e che tipo di Requiem stiamo cantando?
La Lehman Trilogy ci illumina sui passaggi cruciali da un capitalismo arcaico della “roba” a quello trascendentale della finanza. I Lehman, ebrei poveri immigrati dalla Germania, vendono attrezzi agricoli, passano alla compra-vendita di cotone, si trasferiscono dopo la guerra civile dall’ Alabama a New York dove figurano tra i fondatori della Borsa di Cotone, lontani da attrezzi, campi e carri. Capiscono il bisogno di nuovi mezzi di trasporto, investono in ferrovie e petrolio, in aerei e armi di guerra, si sposano bene, rimangono attaccati alla religione dei padri e conducono una vita da capitalisti “protestanti”, direbbe Max Weber. Sono tra gli artefici dell’ industrializzazione di un continente, creatori, come scriveva Marx, di “meraviglie ben diverse dalle piramidi egizie, dagli acquedotti romani e dalle cattedrali gotiche”.
«Riforme. Ottenuto l’Italicum, il segretario del Pd ritira la sua offerta alle minoranze. E Civati presenta i referendum che potrebbero smontare la nuova legge elettorale. Contro i pluricandidati che "turbano" Prodi». Il manifesto, 13 maggio 2015
Italicum che è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale, ma che sarà valido, –per la «clausola di salvaguardia» — solo dal luglio 2016. I suoi avversari nel frattempo si organizzano e Pippo Civati presenterà oggi due quesiti referendari con i quali si possono smontare alcuni degli aspetti più critici della legge: i capilista bloccati e le pluricandidature; «aspetti che turbano», ha detto ieri Romano Prodi, perché «in questo modo si gestiscono dall’alto un numero rilevantissimo di parlamentari». Con il referendum si potrebbe anche pensare di far cadere il turno di ballottaggio, trasformando così l’Italicum in una legge proporzionale nel caso nessuna lista raggiungesse il 40%, soglia prevista per il premio di maggioranza. Ma sono aspetti che andranno approfonditi, dal momento che la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di referendum elettorali è assai rigorosa. Non si può rischiare di raccogliere le firme invano.Riforme. Ottenuto l’Italicum, il segretario del Pd ritira la sua offerta alle minoranze. E Civati presenta i referendum che potrebbero smontare la nuova legge elettorale. Contro i pluri candidati che †turbano» Prodi
«A me sembra molto complicato tornare all’eleggibilità del senato, sia da un punto di vista tecnico che politico. L’articolo due della riforma sostanzialmente è chiuso». Così diceva ieri mattina Matteo Renzi. Ed era lo stesso che un mese fa assicurava: «Cambiare la riforma costituzionale? Tornare al senato elettivo? Per me si può fare». Anche il suo intervistatore era lo stesso, il giornalista di Repubblica Claudio Tito — allora su carta, ieri in video. Cos’è cambiato nel frattempo? Il primo Renzi, quello di un mese fa, parla alla vigilia del voto finale sull’Italicum. «Il leader del Pd gioca la carta della trattativa sulla riforma costituzionale», è la sintesi del giornale amico. Nel frattempo il voto c’è stato, qualcuno ha creduto alla promessa e i dissensi non sono bastati a fermare la nuova legge elettorale.
Il paradosso è che ha più ragione il Renzi di oggi che quello di metà aprile. Come sanno bene i deputati della minoranza Pd che avevano provato a cambiare l’articolo 2 della riforma costituzionale, ma erano stati battuti (da un contro-emendamento del futuro capogruppo Rosato) proprio perché al governo interessava approvare la legge in un testo «blindato», non più modificabile al senato. A questo punto un ripensamento sull’eleggibilità dei senatori, per quanto auspicabile, dovrebbe poter contare su un’interpretazione disinvolta del regolamento da parte del presidente Grasso. Che non è impossibile, come dimostrano i precedenti dei «canguri», tutti però consonanti ai desideri del governo. La contrarietà del presidente del Consiglio fa pensare che quella strada debba considerarsi chiusa.
Anche il piano B che Renzi e i renziani stanno offrendo ai sostenitori del senato elettivo può risolversi in una falsa promessa. Dicono che, blindata la riforma, si potrà agire sulla legge attuativa, quella che a regime detterà le regole per la selezione dei nuovi senatori da parte dei consigli regionali. La proposta è quella di rendere riconoscibili i consiglieri-senatori già nel corso delle elezioni regionali, o in alternativa di premiare i più votati. Ma c’è un problema: il nuovo senato sarà organo perpetuo, che si rinnova senza passare per lo scioglimento. L’eventuale nuova legge si applicherebbe dalle elezioni regionali del 2020 e prima di allora (e anche dopo) dovrebbero coesistere senatori con due diverse legittimazioni.
La confusione è probabilmente un indice delle difficoltà che Renzi vede davanti a sé, dal momento che al senato la maggioranza può contare su un vantaggio assai ristretto. È vero che Forza Italia è ormai terreno di conquista, ma dall’altra parte si presenta determinata la pattuglia di venti senatori dissidenti del Pd. Renzi mette già in conto qualche modifica alla riforma costituzionale (magari le stesse che alla camera è stato impossibile discutere), purché il percorso della revisione sia completato entro quest’anno. Eppure ieri ha voluto precisare che «l’Italicum è efficace anche senza riforma costituzionale» — quindi anche se il senato rimarrà elettivo — malgrado si tratti di una legge elettorale riservata alla sola camera.
Italicum che è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale, ma che sarà valido, –per la «clausola di salvaguardia» — solo dal luglio 2016. I suoi avversari nel frattempo si organizzano e Pippo Civati presenterà oggi due quesiti referendari con i quali si possono smontare alcuni degli aspetti più critici della legge: i capilista bloccati e le pluricandidature; «aspetti che turbano», ha detto ieri Romano Prodi, perché «in questo modo si gestiscono dall’alto un numero rilevantissimo di parlamentari». Con il referendum si potrebbe anche pensare di far cadere il turno di ballottaggio, trasformando così l’Italicum in una legge proporzionale nel caso nessuna lista raggiungesse il 40%, soglia prevista per il premio di maggioranza. Ma sono aspetti che andranno approfonditi, dal momento che la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di referendum elettorali è assai rigorosa. Non si può rischiare di raccogliere le firme invano.
«Il motivo per cui ho preso le distanze da “L’Altra Europa” è che è stata la lista ad abbandonare il progetto originario, che era quello di creare un insieme di forze della sinistra molto costruito dal basso, basato sull’associazionismo, sulla società civile».
La Repubblica, 13 maggio 2015 con postilla
Barbara Spinelli, la sua decisione di lasciare la lista in cui era stata eletta all’europarlamento, “L’Altra Europa con Tsipras”, ha scatenato le polemiche. Il coordinatore di Sel, Fratoianni, la accusa di essere incoerente, rimproverandole di aver voluto tenere il seggio proprio per garantire la tenuta di quel progetto di cui oggi dichiara il fallimento. E sui social network c’è addirittura chi la accusa di tradimento. Come risponde?
«Io non trovo che ci siano né incoerenza né tradimento. Il motivo per cui, da tempo ormai, ho preso le distanze da “L’Altra Europa” è che secondo me è stata la lista ad abbandonare il progetto originario, che era quello di creare un insieme di forze della sinistra molto costruito dal basso, basato sull’associazionismo, sulla società civile. E soprattutto non dominato dai vecchi partiti della sinistra radicale. In questo anno e mezzo, piano piano ho avuto invece l’impressione di un predominio dei piccoli partiti che avevano promesso di sciogliersi ma non si sciolgono mai».
Quando ho letto la lettera di presa di distanza dalla lista ho scritto a Barbara Spinelli: «sono molto addolorato ma ti comprendo». Sono convinto che in un nuovo soggetto politico all'altezza dei problemi di oggi, che voglia promuovere una mobilitazione di massa, deve rivolgersi alle persone e non alle organizzazioni. Sono altrettanto convinto che la tecnica della lottizzazione delle posizioni di responsabilità sulla base delle appartenenze di gruppo non sia accettabile da parte di quanti hanno espresso la loro diffidenza verso la vecchia politica con l'astensionismo. Sono altrettanto convinto che oggi il pericolo maggiore sia rappresentato da Matteo Renzi, e che combattere dall'interno della sua macchina di guerra sia del tutto perdente. Infine, sono convinto che la priorità della lotta al renzismo non consenta alleanze con chi di Renzi è alleato. Per quanto riguarda la permanenza di Spinelli nel parlamento europeo ho votato con entusiasmo per lei non perchè la consideravo un buon capopartito, ma un ottimo parlamentare europeo e un magnifico rappresentante, in quella sede, di una nuova sinistra. Come ha dimostrato di saper essere. (e.s.)
La Repubblica, 13 maggio 2015 (m.p.r.)
Due milioni di disperati fuggono dalla guerra e dalle persecuzioni, molti tentano la traversata marittima, con naufragi, assalti di pirati, ecatombi. Ben 750.000 trovano accoglienza in una sola nazione. E lì diventano una comunità dinamica, imprenditoriale, perfettamente integrata.
È una storia che potrebbe parlare del Mediterraneo nel 2015. Ma con un lieto fine che forse nessuno oggi osa sognare. Invece è una storia vera. Comincia 40 anni fa con la fuga dei “boat people” dal Vietnam (cacciati dai comunisti, poi dalla guerra con la Cina), e la loro accoglienza qui negli Stati Uniti. La ricostruisce per me una guida d’eccezione, Stephen Briganti, chief executive della Statue of Liberty-Ellis Island Foundation.
Sembra che il reddito di cittadinanza, sinora teorizzato da isolate avanguardie, abbia fatto finalmente il suo ingresso nel cuore del Palazzo. Non ci sono solo i parlamentari di Sel e del movimento 5 Stelle, ma anche uomini del PD, il partito al governo, a premere per una sua realizzazione, che potrebbe trovare una strada praticabile nelle aule del Senato. E bisogna riconoscere che ancora una volta è stato Grillo e il suo movimento a imprimere una accelerazione di interesse politico sul tema.
Non sono così ingenuo da non sapere che la scarsa determinazione nel perseguire tale obiettivo non è solo dovuta a inerzia politico-organizzativa. A sinistra e soprattutto all'interno del sindacato, covano riserve tenaci nei confronti di questa misura assistenziale. Si teme la creazione di sacche di parassitismo, soprattutto fra la gioventù. E' la vecchia etica del lavoro, così radicata nel mondo comunista. L'etica del lavoro, introiettata da secoli di ideologia capitalistica, è stata certo trasformata col tempo dalle lotte del movimento operaio in fierezza di classe, un nuovo ethos civile che ha fatto delle classe operaia l'avanguardia sociale del Novecento.
Questo restringimento dell'età lavorativa in Italia ha almeno due gravi esiti. I giovani (almeno la maggioranza più fortunata) cercano protezione nel guscio della famiglia, rattrappendo aspirazioni e prospettive. Coloro che non ce l'hanno o non si accontentano, si rivolgono al welfare criminale. Spacciare droga non è un lavoro tranquillo, né eticamente apprezzabile, ma toglie tanti giovani dalla disperazione. E' dunque auspicabile che sia lo Stato a fornir loro un reddito, guastando l'etica capitalistica del lavoro, o preferiamo - come sempre più per tutto il resto, la scuola, la sanità, i trasporti - affidarci al mercato? Un mercato criminale, naturalmente, fra i più efficienti della Penisola. Ma naturalmente la questione giovanile riguarda, più gravemente, l'avvenire del nostro Paese. Stiamo perdendo le migliori intelligenze della presente generazione, che scappano nei grandi centri d'Europa e degli USA mentre il presidente del Consiglio e il suo governo ingannano gli italiani con le fumisterie della cosiddetta “buona scuola”.
Ma la condizione degli anziani che perdono il lavoro e non hanno ancora la pensione è tragica. Queste figure, esistenti da tempo in Italia, che la riforma Fornero ha fatto ingigantire, facendone le vittime sacrificali di una riforma ispirata dal panico e da una cultura produttivistica, non hanno nessuna famiglia a cui appoggiarsi. Quella famiglia in genere debbono reggerla loro, coi loro magri redditi. E spesso non pochi di loro si trovano in situazioni che nessuno potrebbe immaginare all'interno di una società opulenta come la nostra. Non solo devono provvedere spesso a mogli e figli disoccupati, ma talora hanno a carico anche qualche genitore anziano, tenuto in vita da una delle tante sontuose pensioni che allietano gli ultimi anni dei nostri vecchi.
Ci auguriamo che ne tengano conto i nostri parlamentari. Il reddito minimo toglierebbe dalla disperazione tante persone che hanno decenni di fatiche alle spalle e un futuro di incertezza. Aumenterebbe la domanda interna, di cui l'economia italiana ha un evidente bisogno. Costituirebbe la strada per ridurre le disuguaglianze sociali, offrirebbe a tanti nostri giovani un punto di partenza per intraprendere, studiare, continuare ricerche avviate. I giovani non si assopirebbero per un modesto reddito, vivendo da parassiti: si tranquillizzino sindacalisti e vetero comunisti. Questo lo credono coloro che dei giovani hanno solo sentito parlare.
Una versione ridotta dell'articolo è stato pubblicato su il manifesto
Il manifesto, 11 maggio 2015
«Perché i potenti non vogliono la pace? Perché vivono sulle guerre» e «guadagnano con le armi». Davanti a 7mila alunni delle scuole primarie, che ieri mattina hanno partecipato ad un’udienza nell’aula Nervi in Vaticano nell’ambito di un’iniziativa promossa dalla fondazione «La fabbrica della pace» (animata dalla psicoterapeuta Maria Rita Parsi), papa Francesco mette da parte il discorso ufficiale e risponde a braccio a 13 domande dei bambini, affrontando con inevitabile immediatezza e semplicità di linguaggio temi come la guerra, gli armamenti, la pace, ma anche il carcere e la disabilità («A me non piace dire che un bambino è disabile, questo bambino ha un’abilità differente, non è disabile»).
La semplicità della comunicazione permette a Bergoglio di andare al nocciolo delle questioni, peraltro già affrontate in altre occasioni. «I potenti, alcuni potenti, guadagnano con la fabbrica delle armi, e vendono le armi a questo Paese che è contro quello, e poi le vendono a quello che va contro questo. È l’industria della morte», dice Bergoglio rispondendo ad un bambino egiziano di Torpignattara, popolare quartiere delle periferia romana. «Si guadagna di più con la guerra. Si guadagnano i soldi, ma si perdono le vite, si perde la cultura, si perde l’educazione, si perdono tante cose». E per singolare coincidenza le parole del papa arrivano subito dopo la diffusione dei dati del 2014 sull’export italiano di armamenti, anticipata dal mensile dei missionari comboniani Nigrizia: 1 miliardo e 879 milioni di euro di esportazioni autorizzate dal governo (+34% rispetto al 2013), con quasi un terzo delle armi italiane (il 28%) finite nei Paesi del nord Africa e del Medio Oriente. «Tutto gira intorno al denaro – aggiunge Francesco –, il sistema economico gira intorno al denaro e non intorno alla persona, all’uomo, alla donna» e «si fa la guerra per difendere il denaro».
«La pace è prima di tutto che non ci siano le guerre», ma la pace è anche «giustizia», dice il papa, che fa ripetere in coro ai bambini – una costante delle catechesi «popolari» di Bergoglio, non limitata ai bambini – «dove non c’è giustizia, non c’è pace». «Tutti siamo uguali – prosegue –, ma non ci riconoscono questa verità, non ci riconoscono questa uguaglianza, e per questo alcuni sono più «felici» degli altri. Ma questo non è un diritto! Tutti abbiamo gli stessi diritti! Quando non si vede questo, quella società è ingiusta. E dove non c’è la giustizia, non può esserci la pace».
Nel carcere non c’è giustizia e non c’è perdono, dice anche papa Francesco (che, nella telefonata di qualche giorno fa per informarsi sulla sua malattia, ha invitato all’udienza anche Emma Bonino, paladina, insieme ai Radicali, dei diritti dei detenuti). «È più facile riempire le carceri che aiutare ad andare avanti chi ha sbagliato nella vita», che «aiutare a reinserire nella società chi ha sbagliato», aggiunge Bergoglio. «Tutti cadiamo. Ma la nostra vittoria è non rimanere «caduti» e aiutare gli altri a non rimanere «caduti». E questo è un lavoro molto difficile, perché è più facile scartare dalla società una persona che ha fatto uno sbaglio brutto e condannarlo a morte, chiudendolo all’ergastolo», «la soluzione del carcere è la cosa più comoda per dimenticare quelli che soffrono».
Discorso socialmente avanzato quello di Francesco, all’interno di una giornata che tuttavia presenta un elemento di confusione: la partecipazione ad un’udienza papale, in orario scolastico, di 7mila alunni delle scuole primarie – metà frequentanti istituti statali, metà istituti cattolici –, con la benedizione del ministero dell’Istruzione, come ha ricordato lo stesso Francesco al termine del suo discorso. Non si tratta di un’attività di culto – la normativa non permette di organizzarle durante le lezioni –, ma comunque di un’iniziativa a forte connotazione confessionale.
E’ veramente singolare quanto sta avvenendo a proposito del Ddl sugli ecoreati, che dopo 20 anni sembrava giunto al vaglio finale della Camera per introdurre i delitti contro l’ambiente nel codice penale.
Infatti, l’ultimo voto del Senato aveva licenziato il DDL con una larga maggioranza parlamentare ed il sostegno di molte associazioni ambientaliste, le quali chiedevano che il DDL venisse al più presto approvato definitivamente dalla Camera “senza modificare neanche una virgola”. Appello cui aderivano numerosi deputati e senatori del Pd, di Sel e del Movimento 5 stelle.
Tuttavia, subito dopo, da un lato i Verdi chiedevano la modifica della disposizione che punisce “chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale” nel senso della eliminazione dell’avverbio “abusivamente” (per non legittimare l’opinione che possa esistere un disastro ambientale autorizzato e lecito); e dall’altro il Ministro dell’Ambiente ed il Presidente del Consiglio chiedevano, su pressione dei petrolieri, che venisse eliminato dal Ddl il divieto di airgun (uso di esplosivi per prospezioni petrolifere) introdotto al Senato.
Il seguito è veramente singolare. Perché, a quel punto, in nome del “neanche una virgola”, la proposta dei Verdi sul disastro ambientale “abusivo” non veniva presa neppure in considerazione, mentre quella di sopprimere il divieto di air gun veniva approvata dalla Camera, con l’opposizione di Sel e Movimento 5 stelle ed il silenzio assordante dei tanti parlamentari Pd che avevano giurato “neanche una virgola”.
E così, visto che è stata modificata ben più di una virgola, adessoil Ddl è tornato al Senato che, con ogni probabilità, lo approverà anche se mutilato della disposizione più significativa a difesa dei nostri mari, proposta ed approvata proprio dal Senato appena due mesi fa.
Insomma, “neanche una virgola” valeva solo per gli emendamenti migliorativi. Per i diktat di petrolieri e governo si può sempre fare un’eccezione anche se bisogna rimangiarsi quello che si è approvato appena due mesi prima.
Avremo presto, così, con ogni probabilità, i sospirati delitti contro l’ambiente anche se senza divieto di airgun e con il disastro ambientale abusivo.
Ma è meglio non farsi troppe illusioni. Questi delitti, frutto di troppi compromessi maturati in 20 anni, presentano numerose criticità e danno adito a diversi dubbi. Sarà necessario, quindi, iniziare subito ad analizzarli per valorizzarne gli aspetti immediatamente operativi e risolvere questi dubbi interpretativi.
Anche perché, nel frattempo, sia per effetto della nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto sia a causa di alcune disposizioni “depenalizzanti” contenute nel nuovo testo, molti reati, oggi esistenti, del testo unico ambientale non saranno più punibili.
Ed anche perché la nuova legge sui delitti ambientali dimostra grande benevolenza verso gli inquinatori. Si pensi che, in caso di ipotesi colposa di disastro ambientale (praticamente, quella prevalente, visto che, per fortuna, salvo la problematica sul dolo eventuale, è difficile si verifichi un disastro ambientale doloso), la pena massima prevista non supera i 5 anni di reclusione. Praticamente, meno di uno scippo o di un borseggio, la cui pena massima arriva a 6 anni! E, come se non fosse sufficiente, la nuova legge prevede un “ravvedimento operoso” talmente benevolo (la diminuzione di pena dalla metà a due terzi, che comprende anche l’associazione a delinquere) da costituire, oggettivamente, un incentivo a distruggere l’ambiente. Tanto, il responsabile è sempre in tempo a pentirsi e ad uscirne praticamente senza danni.
Con buona pace delle “sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive” richieste dalla Ue a tutela dell’ambiente.
Oggi la Mogherini«illustrerà al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la drammatica situazione dei migranti nel Mediterraneo e la decisione del Consiglio europeo di condurre una missione per la distruzione delle barche usate dai trafficanti di esseri umani». La Repubblica, 11 maggio 2015
Mercoledì, invece, il collegio dei commissari dovrebbe approvare l’Agenda europea per le migrazioni, un documento che stabilirà una serie di principi per far fronte in modo strutturale alla questione degli immigrati, sia di quelli che cercano asilo, sia di quelli irregolari, sia dei migranti che richiedono un permesso di lavoro. Il documento prevede, tra l’altro, l’obbligo di ridistribuire i profughi tra i vari Stati membri tenendo conto della popolazione, del Pil e del numero di rifugiati già ospitati. Un obiettivo ambizioso, che infatti suscita forti resistenze da parte di molti Paesi, a partire dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda, dall’Ungheria e da numerosi governi del Nord e dell’Est europeo. Il dibattito sarà lungo. E difficilmente i primi atti legislativi concreti potranno vedere la luce prima dell’autunno prossimo. Per sbloccare la situazione, la Commissione ha deciso di ricorrere all’articolo 78.3 del Trattato, che dà all’esecutivo comunitario la possibilità di proporre «misure di urgenza» sulle quali il Consiglio deve decidere a maggioranza «sentito il Parlamento europeo», il cui via libera non è dunque vincolante. Queste misure di urgenza riguarderebbero l’accoglienza di un numero limitato di rifugiati da distribuire tra gli stati membri sempre in base alla stessa chiave di ripartizione. Quale sarà questo numero non è ancora deciso in via definitiva. In un primo momento si era parlato di cinquemila, cifra scartata perché considerata irrisoria. Alla fine è comunque probabile che la cifra proposta dalla Commissione si situerà tra dieci e ventimila rifugiati attualmente ammassati nei centri di accoglienza in Italia, a Malta e in Grecia.
La procedura di urgenza dovrebbe anche consentire di evitare che si crei una minoranza in grado di impedire l’approvazione della proposta della Commissione. Infatti, poiché si riferisce alle procedure di richiesta di asilo, la norma di fatto consente un «opt-out» di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. Se decidessero, come è probabile, di esercitare il loro diritto a chiamarsi fuori dal provvedimento, i tre Paesi sarebbero anche esclusi dalla votazione e tra i rimanenti non dovrebbe essere difficile raccogliere la maggioranza qualificata necessaria.