La Repubblica, 27 maggio 2015
IL GIARDINO chiuso dei partiti verrà aperto dal progetto di legge per una loro regolamentazione giuridica presentato ieri dal Partito democratico? La settantennale autoreferenzialità dei partiti e il roccioso rifiuto di rispondere del loro operato, in quanto corpo collettivo, di fronte alla legge, forse volgono al termine. Una norma sui partiti è quanto mai necessaria per molti motivi. Innanzitutto in rapporto con il nuovo sistema elettorale che offre agli organi dirigenti ampia discrezionalità nel collocare candidati direttamente sulla rampa di lancio dell’elezione sicura. Visto che gli elettori hanno una limitata possibilità di scelta di fronte a liste in gran parte bloccate, è opportuno che, per mantenere in vita almeno un filo di fiducia tra rappresentanti e cittadini, questi ultimi possano intervenire nella stesura delle liste elettorali. Se la legge annunciata offre garanzie su questo punto, e cioè obbliga i partiti a precisare le modalità con le quali vengono individuati i candidati, allora un passo in avanti è stato fatto. Riportare all’aperto, nell’ agorà pubblica, la selezione dei futuri rappresentanti consente di contrastare quella immagine di oligarchie chiuse sulla quale ha prosperato la polemica antipartitica e populista.
Ma, per rendere i partiti degli organismi in linea con le migliori pratiche di un sistema liberaldemocratico, altre regole sono necessarie e auspicabili. Ad esempio, è indispensabile rivedere l’infelice legge sul finanziamento pubblico — pura concessione alla demagogia antipolitica — per rendere più contenute e trasparenti le donazioni private. En passant, possibile che si sia invocata la privacy per i partecipanti alle sconvenienti cene di finanziamento del Pd anche dopo lo scoppio dello scandalo di “mafia capitale”. E come regolare i conflitti interni? Lasciarli alla piena discrezionalità dei partiti (i litigi si consumano tra le quattro mura…), oppure aprire uno spiraglio per un intervento arbitrale esterno? Nella maggior parte dei Paesi europei, soprattutto in quelli dell’Europa centroorientale, è in atto una crescente giuridicizzazione: ovvero, viene affidato alla magistratura il potere di intervenire a dirimere dispute interne laddove vengano violate le norme statutarie o le leggi sui partiti.
Questa tendenza non è necessariamente la strada migliore in un Paese come il nostro, ridondante di avvocati e di cause inutili. Però, sulla scia dell’esempio tedesco — e americano — una normativa che garantisca la “democraticità” interna dei partiti può persino favorire il depotenziamento delle tensioni interne. Le minoranze si sentirebbero in qualche modo più garantite rispetto alle tentazioni egemonizzanti di una maggioranza. Quasi tutte le leadership (o singoli leader, in casi particolari), anche al di là dei buoni propositi, tendono ad esercitare un dominio incontrastato senza alcun riguardo per le voci dissidenti. Il centralismo democratico di antica marca comunista, per quanto aborrito a parole da tutti i partiti democratici, è sempre stato allegramente praticato. Gli statuti sono stati calpestati innumerevoli volte, con la mozione degli affetti o con ricatti espliciti, invocando situazioni di emergenza o evocando un nemico alle porte, e, sopra di tutto, richiamando il valore dell’unità. Il tratto monistico e monolitico dei partiti non può essere modificato da una norma perché dipende dalla cultura politica degli aderenti e del contesto più generale.
Laddove, come in Italia, il valore del dissenso è svalutato a favore dell’unità (forzosa e inevitabilmente falsa), le minoranze finiscono emarginate. Questa sensazione di minorità, e quasi di illegittimità, che le minoranze interne percepiscono produce tensioni e favorisce la sviluppo di correnti e fazioni. Una norma che offra con forza di legge una rete di protezione alle minoranze può favorire un rapporto più disteso con la maggioranza. Mentre oggi assistiamo a scomuniche, fuoriuscite ed espulsioni, frutto di scarsa democraticità interna e di bulimia di potere delle leadership, lo scudo di una legge renderebbe la vita interna dei partiti meno aspra e rissosa. I conflitti e le divisioni non scompaiono, è evidente; ma con una buona norma sarebbero più regolati. E questo “pulirebbe” l’immagine dei partiti, spesso visti come campi di battaglia dove ambiziosi e arrivisti vogliono mantenere a tutti i costi il loro piccolo o grande potere.
Il vento antipolitico soffia in ogni parte d’Europa: non solo in Spagna, in Grecia e in Polonia, ma anche nella ricca e placida Germania crescono movimenti di protesta come gli antieuropei dell’Afd e i populisti di Pegida. E si mantiene forte anche sul nostro Paese. Norme che rendano i partiti più trasparenti e democratici nelle loro dinamiche interne e più rispondenti ai cittadini (e alla legge) offrono una buona opportunità per rivendicare la nobiltà del fare politica e contrastare l’antipolitica. Impresa ardua, ovviamente. Ma indispensabile per non cedere a demagoghi e arruffapopoli.
, nell'ultimo mezzo secolo, hanno condotto alla frantumazione della sinistra e al trionfo del renzismo. Una novità nelle posizioni dell'autrice: il riconoscimento delle ragioni dell'ambientalismo. S
bilanciamoci.info, newsletter n. 420, 26 maggio 2015
Le pagine che seguono spiegano, nella prima parte, il Jobs act del governo di Matteo Renzi e nella seconda presentano un’alternativa a esso: non per caso si chiamano “Workers act” perché esprimono il punto di vista dei lavoratori. È necessario spiegarlo perche l’insieme di testi presentato dal governo, non per essere discusso ma affidato con una serie di deleghe all’esecutivo, va chiarito a coloro che vi saranno obbligati senza aver potuto contribuire alla sua elaborazione. Dietro le formule nebulose si rivela, non detta, la volontà di rendere la prestazione della manodopera più flessibile in entrata e in uscita, cioè meno garantita per i dipendenti sia nell’assunzione, sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo quel che restava dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, dopo il già grave ridimensionamento operato dalla riforma Fornero del 2012.
Singolare articolo quello di Paolo Flores D’Arcais sull’ultimo numero di Micromega: per le affermazioni, per le omissioni, per le disinformazioni. La prima disinformazione riguarda la Liguria. Preferisce, forse a ragione, la candidatura di Anna Salvatore, del movimento cinque stelle, a quella di Luca Pastorino, sostenuto dalla lista Rete a sinistra e da un pezzo del PD. Ma coglie l’occasione per disinformare e tacere di un’altra candidatura e un’altra lista, affermando che la candidatura di Pastorino sarebbe sostenuta da Giorgio Pagano, il quale invece ha promosso e tuttora sostiene la candidatura di Antonio Bruno, per la lista l’Altra Liguria, che raccoglie l’eredità della lista europea con Tsipras.
La scelta che Floris d’Arcais propone per Venezia è singolare per un altro verso. Egli afferma, perentoriamente, che Felice Casson deve vincere al primo turno, perchè la vittoria del senatore «vuol dire una politica della legalità, che dopo un quarto di secolo di spadroneggiare bipartisan su scala nazionale dell’impunità di establishment equivale a una rivoluzione della legalità». Floris pone Casson in alternativa al PD, ma trascura due elementi che a mio parere impediscono di votare per lui anche a chi, come io stesso, ha la massima stima personale per l’antico magistrato e il nuovo senatore: eccellente in entrambi i suoi ruoli. Voglio ribadire le due ragioni che già al tempo delle primarie del PD mi convinsero a non sostenere la sua candidatura.
La prima ragione attiene al panorama nazionale. Sono fermamente convinto che Matteo Renzi e il suo partito, nonostante le minuscole sacche di resistenza passiva che sopravvivono al suo interno, costituisce oggi il peggior rischio per la democrazia italiana. La vittoria di Casson, candidato del PD di Renzi, sarebbe salutato dai media nazionali come una vittoria del Re Matteo, e rafforzerebbe ancora la sua infausta presenza al vertice del partito, del governo, del parlamento e, per interposta e vassalla persona, in ogni istituzione privata.
La seconda ragione sta nel fatto che, come si poteva supporre, per esser certo d’essere eletto Casson ha dovuto accettare il sostegno proprio di quell’apparato del PD, e dei sui succubi alleati, che ha provocato i peggiori danni alla città. Non è certo per caso che Casson abbia scelto come suo capolista Nicola Pellicani, l’uomo sostenuta alle primarie da Matteo Renzi, Massimo Cacciari, Giorgio Napolitano – e perfino da Luigi Brugnaro, esponente di una destra legata all’uso dei patrimoni e dei servizi pubblici, non priva di venature razziste e xenofobe. E non è per caso che non abbia ancora reso noti i nomi che comporranno la squadra con la quale governerebbe, se vincesse, la città e il suo territorio. Data la composizione dell’ampio gruppo di liste che lo sorreggono è lecito attendersi la presenza, nella sala di regia del comune, di numerosi personaggi che hanno contribuito al degrado di Venezia nei passati decenni, e l’applicazione delle antiche regole della spartizione dei posti di rilievo.
La passione del direttore di Micromega per Casson lo induce poi a un’altra omissione, che nel contesto elettorale assume il valore di una disinformazione. Egli tace sulla presenza di altre liste che pur si collocano all’interno dell’area politica e culturale cui la rivista, e il suo direttore, si rivolgono. Mi riferisco alla lista Veneziacambia 2015, costituita da un gruppo di cittadini che hanno nei mesi scorsi svolto un lungo percorso di analisi e proposta per definire un programma di governo finalizzato al maggior benessere delle persone, e non alla crescita degli affari che da alcuni decenni si fanno sulla città. E’ la lista che presenta come suo candidato Giampietro Pizzo, fiancheggiato da una lista in cui non c’è nessuno che abbia assunto responsabilità istituzionali nelle precedenti sindacature: questi ultimi sono tutti considerati da un’ampia porzione della cittadinanza - e non a torto - complici delle scelte sbagliate che le giunte comunali hanno compiuto, dalla giunta Cacciari fino alla giunta Orsoni.
La lista comunale Veneziacambia 2015 è politicamente e culturalmente legata a una lista regionale (Vanezia non si può governare senza una forte presenza della Regione), denominata “Altro Veneto – Ora possiamo” anch’essa composta da persone che non hanno avuto nessuna responsabilità istituzionale nei decenni trascorsi. Anch’essa si oppone recisamente all’ideologia e alla prassi del renzismo, del quale è invece piena espressione la candidata per la presidenza regionale del PD. Candidata alla carica di presidente della regione nella lista “Altro Veneto” è Laura di Lucia Coletti, una insegnante di discipline umanistiche alle scuole superiori, impegnata da anni nei comitati che si battono per la difesa dei diritti, del territorio e dell’ambiente, del lavoro e per la salute.
La lista di Giampietro Pizzo e quella di Laura di Lucia sono entrambe il risultato di una vasta mobilitazione di donne e uomini oggi distanti (e nauseati) dai comportamenti dei partiti tradizionali. Esprimono tutti la volontà di impegnarsi in una politica nuova, che “restituisca al popolo lo scettro del potere” e sono tutti impegnati nei numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva che combattono gli effetti delle scelte sbagliate da 15 anni di malapolitica. La lotta alla corruzione, il ripristino della legalità, il restauro del primato del potere pubblico sul potere privato, e quello degli interessi delle persone su quello dei “mercati”, del salario e del profitto sulla rendita, il netto contrasto alle Grandi opere e alla liquidazione del patrimonio immobiliare pubblico: questi sono alcuni dei punti comuni alle due liste di cui Flores d’Arcais ignora l’esistenza
Le scelte del direttore di Micromega sono ovviamente legittime, come l’aver limitato il suo invito agli elettori di due sole regioni. E comprendo che, non essendo egli esperto di cose veneziane, abbia informazioni diverse dalle mie, che vivo a Venezia da quasi mezzo secolo. Ho voluto fornire ai lettori di questo sito alcune informazioni che Flores non aveva dato, o aveva dato in modo inesatto, anche per tentar di riparare almeno un po’ all’orrendo silenzio stampa che avvolge le formazioni politica piccole, nuove, povere e non bizzarre (bella lezione di democrazia applicata quella che viene dai grandi media!).
Mi resta una curiosità personale. Come mai le formazioni politiche che Flores trascura o su cui fornisce informazioni sbadate sono proprio quelle che nascono dall’esperienza della lista “L’Altra Europa con Tsipras”, di cui è stato uno dei promotori?
Micromega, 26 maggio 2015
Domenica prossima si vota. In sette regioni e in numerosi comuni. Dall’esito delle urne dipenderanno anche molte questioni nazionali. Per il comune di Venezia e per la regione Liguria la posta in gioco è molto più grande: un’occasione straordinaria per la democrazia di mettere un argine e lanciare un segnale per invertire la rotta rispetto alla deriva di berlusconismo senza Berlusconi rappresentata dal governo Renzi.
Vittoria della democrazia significa, a Venezia, elezione di Felice Casson al primo turno. Casson vuol dire una politica della legalità, che dopo un quarto di secolo di spadroneggiare bipartisan su scala nazionale dell’impunità di establishment equivale a una rivoluzione della legalità. Tanto più necessaria a Venezia, dove il ceto politico quasi nella sua interezza, duce Galan, si è reso promotore mallevadore o tre scimmiette (non vedo, non sento, non parlo) della melma di corruzione chiamata Mose.
Casson ha vinto le primarie contro le nomenklature vecchie e nuove del Pd, l’appoggio del partito in questa campagna elettorale è spesso tiepido. Se dovesse andare al ballottaggio tutte le forze della Venezia degli affari e malaffari e privilegi si salderebbero in una santa alleanza contro il “giustizialismo”, con tanto di santificazione delle megalopoli da crociera che ogni giorno mettono a rischio l’incolumità di Venezia. Riuscire a far vincere, e magari stravincere, la candidatura di Felice Casson al primo turno vorrebbe dire che la società civile, di nome e di fatto, non ha rinunciato alla presenza politica, non si è rassegnata al sonno della ragione e ai suoi mostri.
Vittoria della democrazia significa, in Liguria, elezione a governatore di Alice Salvatore, candidata del Movimento 5 stelle. Miracolo possibile, miraggio che può diventare realtà. La grancassa mediatica cerca di accreditare uno scontro tra la candidata del burlandismo-scajolismo ligure di decenni, Raffaella Paita, e il “dissidente” Pd Luca Pastorino, ma si tratta di una bufala in perfetta disinformacjia brezneviana, anzi di una duplice bufala. Intanto dell’eretico Luca Pastorino non ha un bel nulla, è un perfetto esemplare di uomo di apparato appoggiato da pezzi di apparato (ad esempio l’ex sindaco di La Spezia Pagano, di cui la Paita fu capo di gabinetto). Insomma, una faida dentro la nomenklatura Pd, niente di più. In secondo luogo tutti i sondaggisti, nelle anticamere delle trasmissioni televisive, sciorinano con preghiera di massima discrezione e riserbo, la verità dei sondaggi più aggiornati: Pastorino è totalmente fuori gioco, come Toti del resto, il fotofinish è tutto tra Paita e Alice Salvatore.
In Liguria dipenderà insomma da ogni singolo voto fino all’ultimo singolo istante di urne aperte. Alice Salvatore ha scoperto l’impegno civile coi girotondi e costituisce l’unica possibilità per la Liguria di sottrarsi al gorgo di immondizia morale, inefficienza tecnica, saccheggio e distruzione di risorse (materiali, ecologiche, culturali), insomma abiezionein cui l’ha precipitata l’intero ceto politico.
Sarebbe doveroso che quanto ancora resta di società civile nel tessuto ligure, nelle professioni, nella cultura, nel sindacalismo, nell’ecologismo, in una classe operaia ancora non interamente cancellata, pronunciasse ad alta voce il suo outing per la candidatura di Alice Salvatore, mettendo tra parentesi le tante ragioni di diffidenza verso il movimento di Grillo e Casaleggio, perché ora e qui conta solo mettere fine al ventennio di burlandismo-scajolismo, e al renzismo che se ne fa evidentemente erede. Come sarebbe doveroso e soprattutto intelligente, da parte del M5S ligure, uscire da una logica troppo frequente di autoreferenzialità, fare esplicito appello a tutta la società civile, capire che si può vincere solo conquistando i voti del partito oggi maggioritario, quello del non voto, dei cittadini oberati dalle delusioni e conseguente apatia.
La mia speranza è che ogni cittadino che abbia ancora a cuore la democrazia e non sia totalmente rassegnato, faccia quanto può, direttamente o indirettamente, perché a Venezia e in Liguria una bandierina di democrazia segni l’altolà alla deriva di liberismo autocratico che da un quarto di secolo ci sta immelmando. Direttamente, per chi in quelle zone vota, indirettamente, perché nell’epoca dei social network ciascuno ha l’opportunità di influire, di sollecitare amici e conoscenti, di esercitare opinion-leadership a distanza, di portare voti autentici, che bilancino e travolgano i voti comprati, i voti di scambio, i voti del clientelismo, i voti della rassegnazione, che ingrassano chi ha spolpato questo paese.
Volavano gli elicotteri, ieri, sulla notte madrilena. Ma non per controllare dall’alto calle Génova, via della storica sede del Partito popolare: per la prima volta qui il tradizionale balcone della vittoria è rimasto vuoto, nonostante la candidata sindaco Esperanza Aguirre abbia guadagnato un seggio in più. La polizia sorvolava la Cuesta de Moyano, dove migliaia di cittadini ascoltavano la diretta avversaria Manuela Carmena, giudice impegnata nella tutela dei diritti umani: “Ha vinto il cambiamento. Ha vinto la cittadinanza. Avete vinto voi”. I simpatizzanti di Ahora Madrid, lista di Podemos, si erano dati appuntamento vicino al museo Reina Sofía fin dal primo pomeriggio. Poi, in serata, al suono della banda ufficiale e del noto slogan “Sì, se puede” con l’arrivo del leader Pablo Iglesias, cominciava la festa. Il terremoto annunciato per la politica spagnola alla fine si è verificato alle amministrative e regionali di ieri (gli spagnoli sono andati alle urne per rinnovare 8.122 municipalità oltre che per assegnare i seggi nei parlamenti di 13 delle 17 regioni del Paese), che hanno visto i post-indignados di Podemos prendere Barcellona, avvicinarsi anche alla conquista della capitale e imporre ai due grandi partiti tradizionali Pp e Psoe un drastico ridimensionamento: 4 anni fa i popolari aveva ottenuto la maggioranza assoluta in 8 regioni, oggi devono scendere a patti con altre forze politiche.
Madrid vince il Pp, ma Podemos verso alleanza con il Psoe. Esperanza Aguirre ha vinto ma sa già che non potrà governare facilmente: sommando i 21 seggi agli ipotetici 7 di Ciudadanos non riuscirebbe comunque ad ottenere la maggioranza assoluta. La candidata di Ahora Madrid invece, con 20 seggi, insieme al Psoe di Antonio Miguel Carmona, potrebbe ottenere 29 scranni e le chiavi del palazzo della capitale spagnola. Per Iglesias è l’inizio della fine del bipartitismo: “Pp e Psoe hanno registrato uno dei peggiori risultati della loro storia” e “il cambiamento ora è irreversibile”, ha detto chiaro e tondo. Popolari e socialisti sono in realtà ancora i primi due partiti, ma insieme sommano il 53% e per governare dovranno scendere a patti.
Cresce anche Ciudadanos: è il terzo partito Il Partito popolare resta in generale infatti il più votato (27%), ma perde l’egemonia degli ultimi vent’anni e quasi tre milioni di preferenze: da oggi la possibilità che gli azzurri tornino a sedersi sulle stesse poltrone non dipenderà più da loro, ma dalla capacità di alleanza delle forze opposte. Il Pp perde quasi tutte le maggioranze assolute nelle regioni come nella principali città del Paese e, probabilmente, il potere in Cantabria, in Castilla-La Mancha e nelle comunità autonome di Valencia e Madrid. Inoltre, una coalizione di sinistra avrebbe la possibilità di sottrarre al partito gli esecutivi di Aragón, Extremadura e Baleari. Dietro al Psoe, che si ferma al secondo posto con il 25% delle preferenze e la conquista della città di Siviglia, sorprende l’ascesa inarrestabile di Ciudadanos, che da oggi diventa terza forza politica, anche se Podemos – che non ha lista propria – non entra a far parte dei dati pubblicati dal ministero degli Interni. È lo stesso leader Albert Rivera a commentare a caldo che il suo partito ha triplicato l’appoggio ottenuto alle elezioni europee del 2014, gettando le basi per vincere le prossime politiche. “Siamo qui e stiamo facendo la Storia”.
A Barcellona vince Ada Colau, paladina degli sfrattati Ma è da Barcellona che arriva il primo vero cambiamento: una “okkupa” si aggiudica la poltrona di sindaco. Ada Colau, 41 anni, attivista e fondatrice della Pah, la piattaforma per le vittime degli sfratti, ottiene il 25,20% e 11 consiglieri con la formazione civica Barcelona en Comú, appoggiata da Podemos, contro il 22,7% e 10 seggi del sindaco nazionalista uscente, Xavier Trias. Segue la formazione indipendentista di Convergencia i Unió dell’attuale presidente della Generalitat Artur Mas con 10 seggi, Ciudadanos con 5 e i socialisti con 4. “È la vittoria di Davide contro Golia” ha detto commossa davanti alla platea e ha ricordato, anche senza aver ottenuto la maggioranza assoluta, che si tratta di un successo “collettivo” dei cittadini contro “il voto della rassegnazione”. A Valencia invece migliaia di cittadini si sono riuniti nella centrale plaza del Ayuntamento per celebrare la sconfitta della popolare Rita Barberá, dopo 24 anni di governo. Il Pp perde la maggioranza assoluta e cede il passo al Psoe che ottiene il 20,4% e 23 scranni, seguito dalla lista civica di Compromís, con 20 seggi.
Tutto da rivedere insomma: adesso si apre la stagione di alleanze, di governi privi di maggioranza assoluta e di opinioni da tenere in conto. L’unica cosa certa è che le due nuove formazioni di Podemos e Ciudadanos da oggi non sono più solo uno stato d’animo, ma entrano a pieno titolo nelle istituzioni locali. E il sistema del bipartitismo, che ha governato la Spagna dalla fine del franchismo, sembra cedere il posto ad un quadro molto più frammentato.
di Roberto Ciccarelli
Alzi la mano chi si è meravigliato della battuta di Matteo Renzi. In realtà, c’era da meravigliarsi che continuasse a mancare dal suo repertorio. Ma non si creda che gli sia stata suggerita da uno dei suoi spin doctor. È farina del suo sacco. È spontanea. Anche se, sotto sotto, c’è la curiosità di vedere l’effetto che avrebbe prodotto nel mondo sindacale un premier che fa sua l’opinione in circolazione da chissà quanto tempo tra i clienti di un bar, mentre sorseggiano l’aperitivo, o di un barbiere, mentre aspettano il turno. Dunque, non si può liquidare la battuta come se fosse una improvvisazione.
C’è invece più di un motivo per dare ragione ad Altan che proprio in questi giorni si sta chiedendo se sia «meglio una politica che non fa un tubo o una che ne combina una ogni giorno». L’ultima, infatti, è quella di avviare un discorso pubblico sulla riforma del sistema sindacale nella maniera più dirompente possibile, valorizzando cioè la banalità e speculando sulla disinformazione e sui pregiudizi.
Non a torto, perciò (per riportare un po’ di razionalità e al tempo stesso dimostrare come i sindacati sappiano bene ciò che devono fare) l’attuale Segretario generale della Cisl Annamaria Furlan ha ritenuto di doversi richiamare al trittico confederale assemblato con la Confindustria nel cosiddetto Testo Unico del 2014, anch’esso animato dalla trasparente intenzione di prefabbricare l’impianto di un futuribile intervento legislativo che lo stesso Renzi parrebbe disposto a congetturare. Io tuttavia sono del parere che, anche qualora tale evento si producesse, il problema della rappresentanza sindacale si porrebbe egualmente. Infatti, la rappresentanza sindacale è in crisi non solo a causa del vuoto di diritto in cui la contrattazione collettiva vive da una settantina di anni, ma anche (e ormai soprattutto) perché si è affievolita la capacità del sindacato di rispecchiare la realtà.
È da qui che bisogna partire ed è per questo che bisogna verificare la qualità della rappresentanza che il sindacato è capace di offrire di fronte alla domanda proveniente da una base mutata sia nella sua composizione socio-professionale che sul piano antropologico-culturale, a cominciare dall’universo femminil-giovanil scolarizzato.
Viceversa, pur essendo ricco di soluzioni giuridico-formali nel tentativo, in sé encomiabile, di far uscire il contratto collettivo da una crisi dipendente dall’eccesso d’informalità, il Testo Unico non contiene se non un principio di risposta: la sola fessura da cui trapela la consapevolezza della sua esistenza è costituita dalla previsione che i contratti nazionali saranno sottoscritti «previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori a maggioranza semplice».
Si mettano pure da parte le perplessità causate dall’indeterminatezza delle procedure e dalla vaghezza della loro obbligatorietà. Accantonare invece non si può la circostanza che nell’insieme il Testo Unico, dando il massimo risalto alla «esigibilità» del contratto collettivo, celebra l’elogio dell’efficacia cogente degli impegni contrattuali e sponsorizza il decisionismo dei vertici nientemeno che al livello che sembra destinato a diventare il fulcro dell’intero sistema contrattuale. Prevede infatti che i contratti aziendali sono efficaci per tutto il personale «se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rsu» e, se firmati da rsa, sono sottoponibili a verifica entro certi limiti ed a certe condizioni.
Non può certo sorprendere che il Testo Unico affronti il problema della rappresentanza sindacale nell’ottica della contrattazione collettiva privilegiando il ruolo d’ordine che i firmatari sarebbero tenuti a garantire. Anzi, è onesto riconoscere come sia poco meno che sensazionale che in quella sede le parti abbiano tenuto in qualche modo conto che, dopotutto, la rappresentanza è uno strumento di esercizio del potere del rappresentante sui rappresentati. Questo infatti è un problema che appartiene ad una dimensione schiettamente endo-associativa e la Confindustria non c’entra per nulla né ha qualcosa da insegnare.
Quindi, l’auto-riforma del sindacato è senz’altro la via migliore. In astratto. In concreto, però, non si colgono segni significativi dell’interesse del sindacato ad ispezionare il lato nascosto della rappresentanza che è suo compito esercitare. Lo stesso Testo Unico è rimasto lettera morta. Per questo, può succedere che sia il parlamento — lo stesso parlamento che non senza ingenuità un’opinione pubblica stufa di partiti incapaci di gestirsi in maniera decente sollecita ad occuparsene mediante una legge ad hoc — che finisce per apparire la sede più adatta. In astratto. In concreto, il governo Renzi, che non considera il sindacato come l’interlocutore col quale confrontarsi nemmeno in vista dell’adozione di misure in materia di lavoro, dimostra di volere che faccia la fine dell’articolo 18: scomparire senza la necessità di abrogarlo.
Nel settembre del 2014 la camera aveva approvato una mozione (a prima firma Scanu del Pd) che impegnava il il governo «a riesaminare l’intero programma F35 per chiarirne criticità e costi con l’obiettivo finale di dimezzare il budget finanziario originariamente previsto». Quella mozione non vale più niente, è carta straccia. Il governo ha preso in giro il parlamento e l’Italia per mesi. E ha preso in giro chi in questi anni (dalla campagna Taglia le ali alle armi al manifesto) è stato in prima fila nella richiesta di cancellazione del programma F35. Il governo prima ha detto che avremmo avuto la risposta alla mozione della Camera nelle «risultanze» (espressione cara alla Pinotti) del Libro bianco sulla Difesa. Poi — non avendo trovato nulla nel Libro bianco — ci ha detto che avremmo avuto soddisfazione nel Documento programmatico: sì, l’amara soddisfazione di sapere di essere stati imbrogliati da un governo infido.
Le avvisaglie c’erano state qualche giorno fa alla presentazione in parlamento del Libro bianco. Un libro vuoto, invisibile, inutile. Un documento modesto, fatto in gran parte di banalità, a tratti imbarazzante. Un documento in cui si parla ancora di bipolarismo, muro di Berlino, interessi nazionali, villaggio globale (una novità), dove si auspica una politica della difesa ed estera per un mondo migliore (ma va!).
Un documento in cui si parla della necessità di una nuova «postura» (sic) dello strumento militare e di valorizzare la dimensione «capacitiva» (ri-sic) della nostra difesa: a volte il traduttore di Google tradisce. Un documento in cui si afferma la necessità di ricondurre al ministro della difesa una maggiore centralità della direzione politica: per fare questo servono maggiori consulenti (in deroga alla spending review), che vanno sotto il nome di «uffici di diretta collaborazione». Una richiesta roboante per un po’ di staff esterno in più.
Un documento in cui naturalmente non si parla degli F35.
E poi è arrivato questo Documento programmatico che non cambia nulla rispetto al passato. Avanti tutta con i cacciabombardieri: i finanziamenti non si toccano. Con rara ipocrisia, il documento parla di «rispetto delle mozioni» e di «notevole diminuzione» della spesa per gli F35: ma è quella che aveva già fatto 3 anni fa l’ex ministro della difesa Giampaolo Di Paola. Per mesi la ministra ed ex pacifista Pinotti non ha rispettato le decisioni del parlamento. Adesso la clamorosa conferma. Roberta Pinotti è politicamente ed istituzionalmente inadeguata alla sua delicata funzione di governo. Sel ne ha chiesto ufficialmente le dimissioni. Nei prossimi giorni raccoglierà le firme per formalizzare e depositare la richiesta alla camera.
Tre anni fa l’ex ammiraglio Di Paola — cui pure non abbiamo risparmiato dure critiche — decise in quattro e quattr’otto di tagliare 41 caccia F35 (da 131 a 90) facendo risparmiare più di 5 miliardi di euro al paese. Nella piccola storia italiana degli F35, la Pinotti sarà ricordata per essersi sottratta alle decisioni parlamentari e non avere ridotto la spesa per gli F35 e Di Paola per avere deciso senza tanti indugi di rinviare alla Lockheed 41 cacciabombardieri. È una bella lotta ed è paradossale dirlo, ma — sugli F35 — meglio l’ex ammiraglio che l’ex pacifista. Ridateci Di Paola.
Il manifesto, 23 maggio 2015
In Libano ci sono 1,6 milioni di profughi siriani (oltre a 500mila palestinesi, lì da decenni): il 36 per cento (il 48, con i palestinesi) della popolazione; in Giordania ce ne sono 600mila (su 6 milioni di abitanti, oltre a 1,7 milioni di palestinesi). In Turchia 650mila; in Iraq 250mila; in Iran 2 milioni (più tutti gli afgani). All’interno della Siria gli sfollati sono 6,5 milioni. In Egitto i profughi di diversa provenienza sono oltre 500mila; in Libia non si sa: secondo il procuratore di Palermo Scalia circa un milione. In Nigeria Boko Haram, ma anche Eni e Shell, hanno creato 3,2 milioni di profughi: metà è già in Ciad, Camerun e Niger; metà sta cercando di fuggire.
Difficile, in questi disastri, distinguere profughi di guerra, profughi ambientali e “semplici” migranti. Poi c’è un milione di profughi del Donbass: metà in Russia, metà in Ucraina. Unhcr (l’agenzia dell’Onu che si occupa dei profughi), Croce rossa e Mezzaluna rossa stanno finendo i fondi per assisterli, peraltro, in condizioni insostenibili: 41 per cento dei giovani “ospitati” in quei campi profughi, dice un’inchiesta, pensa al suicidio come unica via di uscita. Perché dietro quei numeri ci sono delle persone: donne, vecchi, bambini, uomini sfiancati.
E’ una situazione destinata a porre fine per sempre, in Europa, all’idea di una “normalità” delle nostre vite. Perché i “flussi” visti finora sono destinati a moltiplicarsi. Ma quei profughi non sono migranti: tutti o quasi vorrebbero tornare a casa loro quando tornerà la pace. Ma sanno che non tornerà per molti anni. Nel frattempo cercheranno in tutti i modi di raggiungere l’Europa, anche a rischio della vita. Non hanno alternative. Inoltre, molti di loro vedono nell’Europa un retroterra, la zona forte di un’area che abbraccia Mediterraneo, Medio Oriente e Africa centrosettentrionale, mentre noi europei non sappiamo ancora vedere in quei territori martoriati, in gran parte dalle nostre guerre, una propaggine delle nostre società.
Ma che cosa fa l’Europa e chi governa? Dichiara guerra ai profughi. Ai profughi, non agli scafisti. Bloccare gli scafisti (oggi in Libia, domani chissà dove), posto che sia fattibile, significa condannare centinaia di migliaia di fuggiaschi a rimanere dove sono: alla fame, al freddo e al caldo soffocante; spesso in preda a regimi o bande che li torturano, li rapinano, le stuprano, li uccidono. Fermarli prima che raggiungano la Libia, o altri porti, è ancora peggio: vuol dire allargare il fronte di guerra agli “scafisti del deserto”. Se tante persone fuggono, sapendo che cosa li aspetta, è perché non hanno altra scelta. Voi che cosa fareste al loro posto? Respingerli significa condannarli a morte.
Il popolo tedesco e chi viveva accanto ai campi di sterminio sapevano. Sapevano anche i governi alleati che non bombardavano le ferrovie germaniche per non dover accogliere, a guerra finita, gli ebrei sopravvissuti. Ma neanche Hitler, all’inizio, voleva sterminare gli ebrei; voleva spedirli in Madagascar. Poi…Oggi chi invoca i respingimenti sa benissimo di proporre uno sterminio. Se i profughi noi non li vogliamo, come è possibile costringere a “tenerseli” tanti Stati più fragili dei nostri, senza che ciò significhi autorizzarli a sbarazzarsene in qualsiasi modo?
C’è un’alternativa a tutto ciò? C’è se si ammette che per noi, in Europa, è finita per sempre la normalità. Sette anni di crisi, d’altronde, un po’ ce lo hanno insegnato. Non basta proporre corridoi umanitari perché profughi e fuggiaschi raggiungano in sicurezza le loro mete. Questo affronta (e non risolve) il prima. Ma che ne è del poi? Si possono gestire centinaia di migliaia di profughi, e poi forse milioni, con i Cie, i Cara, gli Sprar? E affidare a ladri di Stato come Buzzi o le associazioni di Alfano la gestione di un sistema che tiene lì a far niente, per anni, persone in gran parte giovani e sane, esibendole in questo ozio forzato a una popolazione aizzata a considerarle nient’altro che un peso? E trasformando la polizia in “scafisti di Stato” per aiutarle a passare i confini, o farle scappare in massa dai centri, o lasciarle ad arrangiarsi in mezzo alla strada, perché la convenzione di Dublino prescriverebbe all’Italia di trattenerle per sempre sul proprio suolo?
Solo ora i governi dell’Unione cominciano a realizzare che quei flussi non si possono fermare nel modo facilone e criminale su cui hanno trovato l’accordo: sorveglianza armata alle frontiere e guerra agli scafisti. E allora si sfilano, uno dopo l’altro, dagli obblighi di solidarietà interstatuale (e se mai accetteranno delle quote, sarà solo per controllare che tutto il resto non possa più sconfinare: per l’Italia sarebbe ancor peggio). I profughi? se la veda il paese dove sbarcano! Ma questa ripulsa della solidarietà interstatuale suona a morto per l’Unione. E se Renzi non ha sollevato la questione quando ne era alla Presidenza, è perché rappresenta più di tutti quella cultura da ragionieri che la sta distruggendo con l’austerity, e che ora pretende di risolvere un problema geopolitico di dimensioni planetarie affondando dei barconi di legno con apparati da guerre stellari.
L’alternativa, allora, è un grande e lungimirante piano di cooperazione allo sviluppo. Quei profughi vogliono tornare a casa loro; molti hanno dei legami con famiglie o comunità già insediate in Europa, ma quasi tutti manterranno anche, come e quando potranno, solidi legami con le comunità da cui sono fuggiti. Adeguatamente assistiti e controllati, possono gestire autonomamente strutture e fondi destinati alla loro permanenza in Europa. Se ben distribuiti sul territorio e protetti con un contrasto efficace alle campagne razziste, possono integrarsi nel tessuto sociale, tessere relazioni, imparare lingua e mestieri, mandare i bambini e i ragazzi a scuola (strumento fondamentale di inclusione). Se coinvolti in piani per dare lavoro a milioni di disoccupati, italiani ed europei – indispensabili per arginare gli effetti della crisi — possono concorrere a creare ricchezza. Se autorizzati e aiutati a organizzarsi, per comunità nazionali, possono costituire con le loro relazioni la base sociale e politica indispensabile per un ritorno alla pace e alla normalità dei loro paesi (altro che terroristi! Chi attraversa vicende del genere è il più grande amico della pace che si possa incontrare). Con loro diventerebbe possibile costruire una rete di relazioni per dare finalmente corpo a una grande comunità euromediterranea.
Il manifesto, 22 maggio 2018
Gli hacker italiani sono tremendi: sembra che nei giorni scorsi abbiano preso il controllo non solo del sito dell’Expo ma perfino di quello del Ministero dell’Istruzione, Università e ricerca. Su entrambi i siti, infatti, compare un testo uguale, destinato alle scuole, dove si legge che all’interno del sito espositivo milanese «non è consentito introdurre qualsiasi tipo di materiale stampato o scritto, contenente propaganda a dottrine politiche, ideologiche o religiose, asserzioni o concetti diversi da quelli esplicitamente autorizzati dalle Autorità di Pubblica Sicurezza».
Dice proprio così: «asserzioni o concetti diversi da quelli esplicitamente autorizzati dalle Autorità di Pubblica Sicurezza», il che implicherebbe che misteriose Autorità di Pubblica Sicurezza possiedano una lista di «asserzioni e concetti autorizzati» e passino il loro tempo a confrontarla con tutte le innumerevoli asserzioni che proliferano su Facebook o Twitter, per verificarne la congruenza. Basterebbe Salvini a riempire le loro giornate lavorative, figuriamoci se poi si volesse controllare ciò che viene detto o scritto nelle scuole italiane che, com’è noto, contengono circa un milione di insegnanti e parecchi milioni di studenti.
Questa improbabile parodia di uno stato totalitario, dove occorre imbavagliare ogni studente che manifesti un «morboso interesse per le questioni politiche e sociali» (come recitava la motivazione dell’espulsione di Giancarlo Pajetta da tutte le scuole del Regno, anno 1927) sembra però che esista davvero e che non sia opera di hacker perché è stata fatta propria niente meno che da Maria Elena Boschi. Il Ministro per le riforme istituzionali, palesemente non rendendosi conto di ciò che diceva, ha sostenuto alla Camera che «Expo Spa è una società privata» e quindi «ai sensi dell’articolo 1341 del codice civile, chiunque voglia accedere ad Expo deve sottostare al regolamento», compreso il divieto dei concetti non preventivamente autorizzati.
Peccato che Expo non sia una società privata poiché i soci sono tutti pubblici, come ha riconosciuto esplicitamente il Consiglio di Stato in una sentenza del 4 febbraio scorso. E peccato che in Italia esista ancora un libercolo (che il ducetto maleducato e Maria Elena vorrebbero abrogare ma che per il momento resta ancora in vigore) dove all’art. 21 si specifica: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Si chiama Costituzione della Repubblica Italiana.
Il che significa che se i deliri dell’Expo e del Miur, palesemente ispirati ai testi di golpisti cileni o argentini sono reali, ci sarebbero parecchie persone che dovrebbero prendersi una lunga vacanza alle Antille: da Giuseppe Sala (commissario del governo e amministratore delegato di Expo) a Stefania Giannini (ministro dell’Istruzione) fino alla già citata Boschi che ignora non solo la natura giuridica dell’Expo ma perfino l’abc del libretto su cui ha giurato entrando in carica il 22 febbraio 2014.
Sbilanciamoci.info, 21 maggio 2015
Tsipras ostenta ottimismo e punta su un «accordo di reciproco vantaggio» da definire nel colloquio con la Merkel e Hollande al Consiglio Europeo di Riga. Varoufakis è ancora più dettagliato: «La rottura delle trattative è fuori dal nostro orizzonte», ha dichiarato lunedì, specificando anche che il nodo più difficile sono le pensioni. «Ci chiedono casse in pareggio con 27% di disoccupazione», si è lamentato il ministro delle Finanze.
Se a Riga sarà fumata nera, allora Atene si avvierà speditamente verso una sospensione dei pagamenti del debito. Dal 5 giugno inizia infatti una sequenza infernale di versamenti che alla fine del mese ammonteranno a 1,2 miliardi. Poi, a luglio e inizi agosto altri 6 miliardi, tra Fmi, Bce e titoli in scadenza. Sono soldi che la Grecia semplicemente non ha.
Anche Varoufakis è convinto che alla fine vincerà la «ragionevolezza». Secondo lui, il dominio di Schauble dentro l’eurogruppo non è assoluto: «Certo, ci sono i fanatici dell’austerità, ma ci sono anche quelli che hanno dovuto subire l’austerità e che ora, per ragioni politiche, non possono dire che hanno sbagliato. E poi ci sono coloro che temono di alzare troppo la voce per non subire a loro volta misure di austerità». Ovviamente, nel secondo gruppo c’è la destra spagnola e portoghese e nel terzo i socialisti francesi e i democratici italiani.
Tsipras è convinto di avere alleati in Europa, seppure occasionali. Non perché piace loro la sinistra radicale greca, ma perché vedono con grande preoccupazione i rischi che comporta l’estremismo liberista tedesco. In sostanza, hanno il fondatissimo sospetto che sul caso greco Schauble stia giocando fino in fondo la sua carta più politica: che la questione del debito esca anche ufficialmente dagli schemi della politica monetaria comune e diventi il paradigma della nuova geometria della politica europea.
L’eventuale espulsione della Grecia dall’eurozona segnerà nel modo più formale l’incompatibilità tra la moneta comune e qualsiasi politica economica espansiva. Berlino smetterebbe di nascondersi dietro ai trattati e mostrerebbe la sua faccia di vero e unico principe europeo. Per ottenere questo, la destra oltranzista tedesca sembra anche disposta a procedere in mezzo alle rovine dell’eurozona. Le ripetute assicurazioni di Schauble sulla presunta «corazza» che la difenderebbe dal fallimento greco esprimono esattamente questo spirito avventuriero: il «ricatto» di Tsipras non deve passare, costi quel che costi.
In queste condizioni il progetto di unificazione europea sta arrivando in un punto critico.
La vittoria di Cameron ha aperto la strada verso il referendum britannico sulla permanenza nell’Ue e non è per niente scontato che vincano gli europeisti. Gli umori dei popoli europei li abbiamo potuti tastare in maniera esauriente nelle elezioni europee dell’anno scorso. Infatti, non a caso, i risultati di quelle urne sono stati immediatamente rimossi, censurati e messi tra parentesi. Ora il loro spettro ritorna e batte forte sul tavolo: gli europei sono furiosi con l’Europa, una fetta crescente della popolazione non ne vuole più sapere: o si astiene vistosamente oppure indirizza polemicamente il suo voto verso movimenti antieuropei, spesso di destra.
Lasciando da parte la questione immigrazione, sulla quale (purtroppo) l’Europa incide pochissimo, la protesta popolare si rivolge contro un avversario che si chiama euro e le sue regole.
Negli ultimi 6 anni gli europei hanno assistito a una gestione della crisi apertamente e spietatamente di classe, a una tempesta di tagli, all’abbattimento del costo del lavoro, alla disgregazione dello stato sociale e all’impoverimento della società. Tutto questo in nome di regole applicate da organismi privi di legittimazione democratica.
La «destra» e la «sinistra» non solo hanno «abbandonato» la società ma sono stati «complici» nel far nascere questo mostro, si sente dire, e non è facile smentire questa accusa. Questa nostra tragedia, ovviamente, si svolge di fronte al mondo intero e sarebbe strano che anche i britannici non traggano le loro conseguenze.
Anche Tsipras viene accusato dentro il suo partito di aver tirato le trattative per le lunghe, con il rischio di «annacquare troppo» il programma del governo di sinistra.
La vera accusa però è un’altra e nessuno osa dirla a voce alta: è quella di non aver voluto rompere con l’eurozona, non aver voluto ricorrere da subito alla «bomba atomica» in mano alla Grecia, cioè la sospensione immediata del pagamento del debito. È un’accusa fondata: né Tsipras né Varoufakis hanno voluto sparare per primi e hanno sempre risposto in maniera ferma ma conciliante alle provocazioni di Schauble e dei suoi amici. Il premier greco si è giustificato dicendo che il mandato elettorale diceva: niente austerità ma all’interno dell’eurozona. Una posizione estremamente più complessa e più difficile di quella di Beppe Grillo, di Farage o di Marine Le Pen che vogliono farla finita con l’Ue una volta per tutte.
«una società dove la politica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia». Il manifesto, 221 maggio 2015
Fino ad oggi ci siamo concentrati sul modello di organizzazione istituzionale emerso dal combinarsi dell’Italicum e della riforma del Senato – afferma Stefano Rodotà – La riforma della scuola approvata ieri alla Camera mostra un elemento radicale: l’idea che Renzi ha della società».
Possiamo farne un profilo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elettorale e di quella costituzionale?
La scuola è la parte più importante del Welfare tradizionale. In un momento in cui aumentano disoccupazione e povertà si dovrebbe investire sul suo ruolo di inclusione per impedire il riprodursi delle disuguaglianze. Invece la riforma disconosce che la scuola sia un corpo sociale composto da soggetti differenziati e ribadisce una fortissima spinta verso la segmentazione sociale. Attacca il contratto nazionale, esclude i corpi intermedi, e in particolare i sindacati, non riconosce la partecipazione democratica espressa dagli insegnanti e dagli studenti che si stanno opponendo. Sono gli elementi già emersi nel Jobs Act che ha portato l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti. In questo modello di società non c’è spazio per la coesione sociale.
Nel Ddl scuola approvato dalla Camera c’è lo «School Bonus», un credito d’imposta al 65% per il biennio 2015 — 2016 e del 50% per 2017, riconosciuto a chi farà donazioni in denaro per le scuole pubbliche o private. Cosa ne pensa?
È una forte spinta verso l’outsourcing. Questa norma è un incentivo a far uscire la scuola dall’ipoteca del pubblico per affidarla ai privati che la gestiranno come meglio credono. È come incentivare a farsi una previdenza privata oppure una sanità privata.
Contrasta con l’articolo 33 della Costituzione che prevede l’esistenza di scuole private «senza oneri per lo Stato»?
Sono stato ostile alla legge sulle scuole paritarie approvata nel 2000. Ci vedevo l’escamotage per aggirare proprio questo articolo. Quando l’hanno scritto, i costituenti non avevano preclusioni ideologiche ma intendevano riconoscere la priorità degli investimenti nella scuola pubblica di ogni ordine e grado. Lo Stato deve in primo luogo permettere che la scuola pubblica funzioni al meglio. Solo quando questa condizione sarà soddisfatta, si potrà pensare di dare un euro anche ai privati. Nel Ddl di Renzi non c’è alcuna una risorsa aggiuntiva ai privati. I fondi a loro destinati sono sottratti alla scuola pubblica.
È stato detto che questa norma rispecchia il pluralismo e, in più, rappresenti la fine di un tabù ideologico della sinistra.
Altro che abbattere un tabù. Ne costruisce un altro: la distinzione tra scuole per abbienti e per non abbienti, di serie A e di serie B. Chi sostiene queste posizioni crede che il ruolo della scuola pubblica sia in contrapposizione con quella dei preti, come si diceva secoli fa quando ero un ragazzino. Il problema è un altro: la scuola pubblica, come spazio pubblico di riconoscimento e confronto, è irrinunciabile perché qui posso costituirmi come cittadino. Se invece dico che ognuno può farsi la propria scuola religiosa, etnica, territoriale o culturale innesco un conflitto. La scuola non è più un luogo dove si apprende a riconoscere l’altro in base alle sue diversità, ma un luogo dove si adempie una funzione pubblica per un numero tendenzialmente riducibile di persone. Tutto questo è in conflitto con l’idea di una società aperta e plurale dove l’uguaglianza esiste nella misura in cui viene riconosciuta la diversità delle opinioni.
Crede che Renzi abbia attribuito al «preside manager» un’importanza paragonabile alla leadership politica che lui intende svolgere in politica e nello Stato?Certamente. È rivelatore di questo atteggiamento il fatto che abbia scelto di usare la lavagna e il gessetto: voi siete gli scolari e io il maestro che vi spiega la riforma. Dopo avere usato tweet e slide ha cambiato la sua comunicazione e si è messo nella posizione di chi parla dall’alto. È la rappresentazione tangibile della concentrazione dei poteri nella figura del presidente del consiglio, prima ancora che nell’esecutivo, che si vuole realizzare con le riforme istituzionali. Con questo disegno di legge Renzi tende a trasferire questa visione del potere a tutti i livelli della società. Alle figure apicali dei presidi affida la missione della scuola, quella di produrre buona cultura, uguaglianza e rispetto dell’altro. Sono d’accordo con chi ha definito questa politica come una «pedagogia del Capo».
Renzi sostiene invece che il preside-manager sarà libero di decidere e di rendere più efficiente la scuola.
Ma il problema della responsabilità dirigenziale non può tradursi nell’accentramento del potere e soprattutto nella possibilità di selezionare i docenti. È lo stesso meccanismo visto all’opera nel Jobs Act: all’imprenditore sono stati concessi sgravi fiscali, l’abolizione dell’articolo 18, per facilitare le assunzioni. In questo modo i diritti dei lavoratori sono stati subordinati al suo potere sociale. Con la riforma della scuola si crea un centro di potere per gestire un istituto con una logica tutta imprenditoriale e ad esso si subordina la partecipazione nella scuola.
Chi si oppone a questa politica è accusato di essere corporativo o un relitto della storia. Come si smonta questa retorica?
Dicendo che quella in atto non è un’opera di sburocratizzazione della società, ma di concentrazione del potere in una sola persona. Nei settori dove questo è accaduto, ad esempio nelle opere pubbliche, sono venuti meno i meccanismi di controllo, di partecipazione e trasparenza. Il potere è stato usato in maniera discrezionale e la corruzione si è moltiplicata.
In Italia è innegabile il problema della burocrazia, non crede?
Ma non lo si risolve aumentando diseguaglianze e ingiustizie. Man mano che si introduce la logica privatistica e l’accentramento della gestione si indeboliscono le possibilità di controllo e di partecipazione. Queste funzioni sono essenziali anche nella vita della scuola il cui scopo è garantire l’inclusione sociale, non la competizione tra le persone.
Perché, fino ad oggi, chi si richiama alla Costituzione non ha prodotto una politica capace di affrontare la sfida di Renzi?
Si è pensato che, tutto sommato, ci sarebbe stato il tempo necessario per aggiustare le cose. Quando poi si sono compresi gli effetti istituzionali e sociali della sua politica è stato troppo tardi. La politica ufficiale non è stata in grado di contrapporsi a Renzi. Questo vale per chi sta nel Pd, ma anche per chi oggi critica l’accentramento dei poteri nell’esecutivo. Questi elementi erano presenti sin dall’inizio e adesso le resistenze sono tardive. Non voglio dire che avevo ragione, quando ci chiamavano «professoroni», né voglio fare la parte della Cassandra ]Ma Cassandra ha sempre avuto ragione. ndr]. Per me è un elemento di autocritica.
Cosa è mancato a questa opposizione?
La visione alternativa di una società dove la politica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia. Oggi chi si oppone a Renzi dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere che si sta realizzando a livello istituzionale. La società deve riconquistare il suo ruolo nel momento in cui lo spazio nelle istituzioni si restringe. Rimettere in movimento questi meccanismi oggi è un problema politico che si devono porre anche chi sta nelle istituzioni. Non si può fare politica solo attraverso gli emendamenti. Quella può permettere di salvarsi l’anima solo quando si discute una legge.
Il manifesto, 22 maggio 2015
Il rapporto. L’organizzazione dei paesi più industrializzati ha registrato un aumento delle differenze tra ricchi e poveri: un fenomeno che con la crisi si è accentuato, e che non si arresta. Dal 2007 al 2011 il 40% della fascia più bassa ha perso il 40% del reddito, mentre i più facoltosi hanno guadagnato il 51%. Le cause: dal dilagare del lavoro precario alla detassazione dei milionari
Siamo arrivati a «un punto critico, le ineguaglianze non sono mai state così forti nei paesi Ocse», afferma Angel Gurria, segretario generale dell’organizzazione che riunisce i 34 paesi più industrializzati. «Stiamo cambiando di dimensione», spiega un economista. Nel terzo rapporto Ocse sulle ineguaglianze, presentato ieri al Château de la Muette, la situazione appare peggiorata rispetto ai precedenti studi (2008 e 2011): dall’inizio della crisi, il 40% della popolazione più povera ha registrato un calo di reddito; tra il 2007 e il 2011 il reddito reale (corretto dagli effetti inflazionistici) della fascia più debole è diminuito di circa il 40%, mentre il 10% più ricco, dal 1995 ha accumulato un aumento del 51%.
All’origine dell’aumento delle ineguaglianze c’è l’esplosione del part time imposto, dei contratti a termine, del precariato, dei tagli al salario per spingere le persone al lavoro autonomo, accollandosi tutti i rischi, forme di occupazione che hanno rappresentato più della metà dei nuovi posti creati nei paesi Ocse dal 1995 al 2013. In più, sottolinea l’Ocse, nei principali paesi industrializzati più della metà del lavoro precario riguarda i giovani sotto i trent’anni. Le donne restano indietro, con salari in media del 15% più bassi degli uomini e il 16% in meno di possibilità di occupare un impiego.
Oggi, nei 34 paesi più ricchi del mondo il 10% della popolazione più agiata ha un reddito 9,6 volte superiore a quello del 10% più povero. Nel 1980 questo scarto era di 7,1 volte superiore, nel 2000 era già salito a 9,1, cioè siamo di fronte a una progressione costante delle diseguaglianze. Questi scarti aumentano in modo esponenziale se si calcolano i patrimoni delle famiglie. La crisi ha aggravato la situazione e accelerato questo fenomeno.
L’Ocse sottolinea le conseguenze negative della crescente ineguaglianza: nei 19 paesi esaminati, avrebbe amputato la crescita di 4,7 punti tra il 1990 e il 2010. E per il futuro il perpetuarsi di questa tendenza è destinato a distruggere il capitale umano e a decurtare le possibilità di crescita dell’economia. C’è stato l’aumento del precariato che è andato di pari passo con la diminuzione dell’efficacia dei meccanismi di redistribuzione, le tasse sono diminuite per i ricchi e ad esse sfuggono largamente le multinazionali grazie al ben oliato meccanismo dell’«ottimizzazione fiscale», oggi sotto accusa anche nella Ue. I tagli alle imposte per i più ricchi, in un mondo dove ormai si è diffusa l’intolleranza fiscale (prima dell’era Reagan, negli Usa il decile più alto era tassato a più dell’80%, percentuale che oggi sarebbe considerata insopportabile), hanno contribuito all’esplosione delle ineguaglianze.
Nel mondo industrializzato ci sono paesi più ineguali di altri. Cile, Turchia, Messico, ma anche Usa e Israele sono tra i più ineguali, mentre Danimarca, Norvegia, Slovenia e Slovacchia sono quelli dove le differenze sono minori, come mette in evidenza la tabella del rapporto Ocse che presenta il coefficiente Gini. La Francia è in una posizione critica, ormai al 21esimo posto per ineguaglianza su 34 paesi: la situazione si sta aggravando con la crisi, il 10% delle persone più ricche ha registrato una crescita del reddito del 2% l’anno (cioè più della media Ocse), mentre il 10% più povero ha subito un calo dell’1% (un po’ meno della media), grazie agli ammortizzatori sociali, non ancora del tutto distrutti. Ma, dal punto di vista della concentrazione patrimoniale, il 10% più ricco controlla più della metà del patrimonio delle famiglie. La presidenza del socialista Hollande non sembra aver avuto alcuna influenza su questo trend di diseguaglianza.
Quest’ultimo rapporto Ocse suggerisce agli stati membri di intervenire, per reintrodurre più efficaci politiche redistributive. Siamo di fronte a un caso di schizofrenia dell’organizzazione, che in numerosi altri rapporti non fa che suggerire da anni la liberalizzazione del mercato del lavoro e il taglio ai diritti come soluzione per uscire dalla crisi e combattere la disoccupazione. È questa la ricetta che viene presentata come Tina (there is no alternative) a tutti gli stati della Ue, dall’Italia fino alla Grecia.
La progressiva distruzione della classe media, che in gran parte si impoverisce, ha già conseguenze politiche, con l’irruzione della destra populista, la crescita della paura e l’illusione di una soluzione nel rifiuto dell’altro. La classe media, che si assottiglia e perde terreno, si sente vittima della mondializzazione e questo comincia ad avere effetti anche geopolitici. In Europa, cresce l’euroscetticismo e la chiusura nazionalista.
Ocse: in Italia si amplia la forbice tra ricchi e poveri
di red.eco.
Il rapporto. Con la crisi la situazione si è aggravata. L'1% dei più facoltosi detiene il 15% della ricchezza nazionale, mentre il 40% della fascia più bassa si deve spartire il 5%. Penalizzati bambini, "atipici" e lavoratrici. Cgil: "Serve una patrimoniale". Uil: "Rinnovare i contratti e restituire il maltolto ai pensionati"
L’1% più ricco della popolazione italiana detiene il 14,3% della ricchezza nazionale netta (definita come la somma degli asset finanziari e non finanziari, meno le passività), praticamente il triplo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9%. Questa è la fotografia della distribuzione della ricchezza nel Belpaese secondo lo studio diffuso ieri dall’Ocse.
In poche parole, se vogliamo tradurla in numeri assoluti, circa 600 mila famiglie italiane (la crème dei ricchi) detengono un patrimonio pari a tre volte quello detenuto da 24 milioni di persone (la fascia più povera).
La crisi ha contribuito ad aumentare le differenze, ad aprire la forbice tra ricchi e poveri: la perdita di reddito disponibile tra il 2007 e il 2011 è stata ben più elevata(-4%) per il 10% più povero della popolazione rispetto al 10% più ricco (-1%).
La ricchezza nazionale netta, dice ancora l’organizzazione parigina, in Italia è distribuita in modo molto disomogeneo, con una concentrazione particolarmente marcata verso l’alto. Il 20% più ricco (primo quintile) detiene infatti il 61,6% della ricchezza, e il 20% appena al di sotto (secondo quintile) il 20,9%. Il restante 60% si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale, con appena lo 0,4% per il 20% più povero.
Anche nella fascia più ricca, inoltre, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Il 5% più ricco della popolazione detiene infatti il 32,1% della ricchezza nazionale netta, ovvero oltre la metà di quanto detenuto del primo quintile, e di questa quasi la metà è in mano all’1% più ricco.
In Italia «la povertà è aumentata in modo marcato durante la crisi», in particolare per giovani e giovanissimi, dice l’Ocse. L’aumento del cosiddetto “tasso di povertà ancorata” (soglia fissata all’anno precedente) è stato di 3 punti tra il 2007 e il 2011, il quinto più elevato. La fascia con il maggior tasso di povertà sono gli under 18, con il 17% 4 punti in più della media Ocse, seguita dalla fascia 18–25, con il 14,7%, 0,9 punti sopra la media.
Il fenomeno è evidente fra i bambini (incidenza di povertà del 17% rispetto al 13% della media Ocse) mentre fra gli over 65 il livello è del 9,3% (contro una media del 12,6%). Il 40% della popolazione opera in condizioni «non standard», cioè senza regolari contratti a tempo indeterminato. E le diseguaglianze restano forti fra uomini e donne: solo il 38% delle lavoratrici ha un impiego a tempo pieno contro la media Ocse del 52%.
Particolarmente penalizzati, come è prevedibile, sono i lavoratori atipici. Il tasso di povertà i «non-standard» (autonomi, precari, part time) è al 26,6%, contro il 5,4% per quelle di lavoratori stabili, e il 38,6% per quelle di disoccupati. In particolare, se si fissa a 100 il guadagno medio dei lavoratori con posto fisso, quello degli atipici si ferma a 57, con grosse disparità tra le varie categorie (72 per un autonomo, 55 per un contratto a termine full time, 33 per un contratto a termine part time).
E si resta precari a lungo: tra le persone che nel 2008 avevano un lavoro a tempo determinato, 5 anni dopo solo il 26% era riuscito a ottenere un tempo indeterminato.
L’Italia è il però Paese Ocse con la minor percentuale di famiglie indebitate, il 25,2%, davanti a Slovacchia (26,8%), Austria (35,6%) e Grecia (36,6%), e ben lontana dai livelli delle altre due grandi economie dell’eurozona, Francia (46,8%) e Germania (47,4%), della Gran Bretagna (50,3%) e degli Usa (75,2%).
Le possibili soluzioni? La Cgil chiede una patrimoniale sui redditi e i patrimoni più alti, la Uil chiede il rinnovo dei contratti, anche quelli pubblici, e la restituzione del “maltolto” ai pensionati.
Sbilanciamoci.info, 19 maggio 2015
Il Governo ha deciso di applicare la sentenza della Corte Costituzionale al 12%. Questa infatti è, all’incirca, la percentuale del rimborso (2,180 miliardi di euro) che verrà effettuato ai pensionati rispetto a quello che sarebbe loro dovuto in base alla piena applicazione delle indicazioni della Corte (16,6 miliardi più gli interessi). Tra le righe della sentenza si possono anche individuare elementi per contenere la restituzione del mancato adeguamento all’inflazione, ma è fortemente dubbio che le sue indicazioni possano essere eluse per quasi il 90%. La restituzione parziale avverrà in misura progressiva: 750 euro per le pensioni superiori a tre volte il minimo (circa 1406 euro lordi mensili al dicembre 2011) fino a 1700 euro lordi; 450 euro per le pensioni fino a 2200 euro lordi; 278 euro per quelli fino a 3200 euro lordi. Anche per chi prenderà di più, si tratterà di un assegno una tantum (perché la questione dovrebbe essere rivista nella prossima legge di stabilità dove le pensioni saranno oggetto di altri interventi) e nettamente inferiore a quanto previsto dalla sentenza. Infatti, anche per la prima fascia d’importo, il rimborso avrebbe dovuto essere di circa 1700 euro, mentre per la fascia più alta dovrebbe essere di circa 3800.
Il Presidente Renzi ha specificato che i 2,180 miliardi necessari saranno presi da quanto era previsto per gli interventi contro la povertà il che conferma che sarà una redistribuzione ai margini della povertà. A differenza di altri paesi, dove i redditi da pensione hanno trattamenti fiscali ridotti, in Italia sono tassati con le normali aliquote, e una pensione lorda di 1406 euro diventa di circa 1200 netti. Rimane poi il fatto – da non dimenticare - che il sistema pensionistico pubblico presenta un saldo tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali nette che è attivo dal 1998 e che nell’ultimo anno per il quale si hanno dati, il 2013, è stato pari a circa 21 miliardi di euro (cioè dieci volte quello che gli si vuole restituire per il mancato adeguamento all’inflazione). Si aggiunga che il valore medio delle pensioni è attualmente pari a circa il 45% della retribuzione media degli occupati, che tale quota è in ulteriore discesa e che nell’assetto attuale, in base alle previsioni, raggiungerà il 33% nel 2036. Dunque quando il governo stabilisce di rispettare la sentenza della Corte al 12%, e il Presidente Renzi dice che non è contento di doverlo fare, sta perseverando nella politica redistributiva decisa da tempo che esclude la possibilità di colpire altri redditi e ricchezze più elevate per fronteggiare le esigenze di bilancio.
Ma è proprio la politica di bilancio del governo l’epicentro del problema che andrebbe messo in discussione. A questo riguardo, l’aspetto significativo da considerare è che, nonostante l’emergenza finanziaria determinata dalla sentenza della Corte, il Governo non vuole superare l’obiettivo fissato al 2,6% per il deficit di bilancio, quando avrebbe margini di manovra fino al 3%. Raggiungere quel limite gli consentirebbe altri 3 miliardi di aumento di spesa senza superare il vincolo di Maastricht. Il Governo, pur trovandosi di fronte alla necessità di fronteggiare una scelta del precedente governo Monti-Fornero così iniqua da essere definita “irragionevole” dalla Corte, ci tiene ad apparire ligio ai programmi delle politiche di consolidamento fiscale che oramai lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha dovuto ammettere essere controproducenti non solo rispetto agli obiettivi della crescita, ma anche per migliorare i conti pubblici.
La Repubblica, 20 maggio 2015
Il dolo fraudolento dei sostenitori della guerra era evidente anche all’epoca: le giustificazioni che cambiavano sempre per uno scopo sempre uguale lo dimostravano. E arrivati a questo punto abbiamo prove in abbondanza a conferma di ciò che dicevano gli oppositori della guerra. Ora sappiamo, per esempio, che proprio l’11 settembre, prima che la polvere si fosse posata (e lo dico letteralmente), Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa, stava già pianificando la guerra contro un regime che non aveva nulla a che fare con l’attacco terroristico. Insomma, questa era una guerra che la Casa Bianca voleva, e i presunti errori, come dice Jeb, che «sono stati commessi» da un soggetto innominato derivano da questo desiderio di fondo. I servizi segreti sono giunti alla conclusione sbagliata che l’Iraq avesse armi chimiche? Perché erano sottoposti a forti pressioni. Le valutazioni hanno sottostimato difficoltà e costi dell’occupazione? Perché il partito della guerra non voleva sentire dubbi.
Perché volevano una guerra? A questo è più difficile rispondere. Alcuni guerrafondai erano convinti che il potere degli Stati Uniti nel mondo ne sarebbe uscito rafforzato. Altri vedevano l’Iraq come un progetto pilota, la preparazione per una serie di cambi di regime. Ed è difficile non avere il sospetto che abbia pesato la volontà di usare il trionfo militare per rafforzare il brand repubblicano in patria. A prescindere dai motivi esatti, il risultato è stato un capitolo oscuro della storia dell’America. Lo ripeto: ci hanno condotti in guerra con l’inganno. Si può capire perché tanti personaggi della politica e dei media preferiscano non parlarne. Alcuni forse si sono fatti abbindolare, hanno abboccato alle bugie. Altri, sospetto più numerosi, sono stati complici: avevano capito che la giustificazione ufficiale per la guerra era un pretesto, ma avevano le loro ragioni per volere una guerra o hanno accondisceso per paura. Perché c’era un clima di paura nel 2002-2003: criticare il crescente entusiasmo per la guerra significava correre il rischio di dire addio alla propria carriera. Oltre alle motivazioni personali, i mezzi di informazione si trovano in imbarazzo di fronte all’insincerità dei politici. I giornalisti sono sempre riluttanti a mettere i politici di fronte alle loro bugie. Più è grossa la bugia, più è evidente che stanno mettendo in atto una truffa, più i giornalisti esitano a dirlo. Ed è difficile immaginare una cosa più grossa che condurre l’America in guerra con l’inganno.
Ma la verità è importante, e non solo perché chi si rifiuta di imparare le lezioni della storia è condannato a ripeterla. La campagna di menzogne che ci ha portati in Iraq è ancora sufficientemente recente da consentire di chiamare i singoli responsabili a renderne conto. Lasciamo perdere gli inciampi verbali di Jeb Bush: pensiamo invece al suo team di politica estera, guidato da persone che hanno contribuito direttamente a costruire una giustificazione falsa per la guerra. E allora sull’Iraq diciamo le cose come stanno. Sì, dal punto di vista dell’interesse della nazione, l’invasione è stato un errore. Ma (chiedendo scusa a Talleyrand) è stato peggio che un errore, è stato un crimine.
© 2-015 New York Times News Service ( Traduzione di Fabio Galimberti)
Contro questa pessima riforma della "buona scuola", perché è nella «struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano». La Repubblica, 19 maggio 2015 (m.p.g.)
La scuola è una grande questione nazionale. La più grande. Qui si intrecciano e qui si incontrano i drammi della disoccupazione giovanile e dell’integrazione di milioni di immigrati, qui si giocano le sorti presenti e future della cultura italiana come sapere e coscienza diffusa di cittadinanza. Che la questione della riforma della scuola venga vissuta come un conflitto tra governo e sindacati o tra governo e una specie di Fort Alamo della sinistra irriducibile, cioè come uno dei tanti conflitti sociali di un paese smarrito e impoverito, è qualcosa di intollerabile; è anche il segno della sconfitta che ci aspetta tutti alla prova di un passaggio decisivo.
La domanda che bisogna farci è: come siamo arrivati a questo punto? Per rispondere bisogna partire da lontano. L’on. Alfredo D’Attore in un’intervista al manifesto di sabato 16 maggio, ha accusato Renzi di avere imbroccato una strada che «amplifica le disuguaglianze e scardina un sistema nazionale di formazione su base universalistica». In realtà la cosa è più antica. Si aprì all’epoca lontana in cui il partito progenitore di quello di D’Attorre approvò la riforma dell’Università del suo ministro Berlinguer.
Fu allora che passò il paradigma economicista e classista della divisione tra serie A e serie B a tutti i livelli: tra le università condannate a un’autonomia che deresponsabilizzava lo Stato e cancellava la distinzione tra pubbliche e private, tra le lauree, divise fra triennali e quinquennali ma soprattutto tra quelle del sud e quelle del nord, tra insegnamento e ricerca — privata quest’ultima di investimenti necessari, declassata quella ad affabulazione oratoria da scuola media mentre passava in uso il linguaggio dei «crediti », grottesco scimmiottamento del valore supremo, il danaro, la banca. Intanto saliva il danaro richiesto per le tasse mentre si impoverivano biblioteche e laboratori. Intanto il mondo della docenza accademica si incanagliva nei suoi antichi difetti e il rapporto tra insegnamento e ricerca veniva sottomesso al potere dei rettori e a quello di consigli di amministrazione aperti al mondo della finanza e dell’impresa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, anche se non lo si vuole vedere. Somme immense sono state investite nel funzionamento di una agenzia di valutazione scelta dall’arbitrio politico che ha inventato sistemi spesso grotteschi e sempre costosi di “valutazione”.
Di fatto nelle università come nelle scuole tutte si è bloccato il ricambio con danni immensi per il paese. E si è perduta l’idea della funzione comune di tutto l’insieme della scuola pubblica. Si capisce così perché dall’università non si levi oggi quel coro di voci in difesa della scuola che sarebbe giusto e necessario. Eppure è nella struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano.
Chi si straccia le vesti davanti alla fine del bicameralismo dovrebbe farlo assai più davanti al percorso liquidatorio della scuola pubblica: un percorso da tempo avviato da una classe politica spesso penosamente incolta, selezionata con le liste bloccate, incapace di rispettare l’unica categoria insieme alla magistratura che eserciti la sua professione dopo avere studiato a lungo e dopo essersi sottoposta a pubblici concorsi. Senza una scuola dello Stato italiano che garantisca a tutti i cittadini la stessa qualità di offerta educativa, senza docenti selezionati in università statali di pari dignità e livello, senza concorsi pubblici, è difficile sperare che rinasca quell’unica condizione fondamentale perché l’incontro tra professore e allievo torni a essere quello giusto: la passione del docente per quello che fa. È solo lei che potrà lasciare una traccia positiva nella vita del giovane. Lo attesta il dialogo tra il maestro Fiorenzo Alfieri e suo nipote Leonardo nel libro Strade parallele. Ma per questo occorre che il docente sia ben preparato e abbia tutto il riconoscimento sociale cui ha diritto. E che raggiunga il suo luogo di lavoro senza dipendere dalla chiamata di un preside.
Non si dimentichi che la scuola ha creato la lingua degli italiani e con la lingua la letteratura ben prima che se ne occupassero il cinema e la televisione. È nella scuola che i diritti astrattamente descritti nella Costituzione diventano esercizio quotidiano, materia primaria di confronto e di palestra civile nel rapporto tra culture, religioni, questioni di colore e di sesso. Così è sempre stato. Si pensi alla figura della maestra suicida di Porciano, ai tempi della legge Coppino, quell’Italia Donati che portava nel nome le speranze del paese appena unificato. Alla creazione di questa scuola si sono dedicati i maggiori ingegni dell’Italia risorgimentale.
Se gli italiani non sono più il “volgo disperso” descritto da Manzoni, se la Recanati di Leopardi non è più un “borgo selvaggio” ma ha uno splendido Liceo dove anche gli ultimi nipoti dello zappatore e della “donzelletta” possono studiare, è per merito di un percorso faticoso ma fondamentale di costruzione di una buona scuola. O vogliamo tornare alle biblioteche e ai soldi di famiglia, ai precettori privati e ai colleges per i più fortunati lasciando gli altri a incanaglirsi nelle scuole e nelle università di serie B?
Sulle orme di Berlusconi anche il grande comunicatore Matteo Renzi ha deciso di lanciare il suo messaggio elettorale dagli studi televisivi di un popolare contenitore domenicale dal titolo inutilmente gladiatorio, L’Arena. Renzi spera di volgere a suo completo vantaggio la sentenza 70 della Corte Costituzionale sulle pensioni. Cerca di farlo risparmiando ben 16 miliardi. Stabilisce quindi, del tutto arbitrariamente, che il governo sanerà il vulnus con soli 500 euro in media per circa quattro milioni di pensionati, il cui trattamento sia inferiore ai 3mila euro mensili lordi.
A questo gioco di prestigio il Presidente del Consiglio accompagna qualche lacrima di coccodrillo sui giovani, utilizzando la vecchia tattica della guerra tra i poveri. I 2 miliardi di spesa così prevista assorbirebbero abbondantemente il cosiddetto tesoretto di 1,6 miliardi, ovvero la differenza tra deficit tendenziale e deficit programmato. Ma ahimè, la crudele Corte Costituzionale toglierebbe ai giovani per restituire ai vecchi, mettendo oltretutto le casse dello stato in difficoltà!
Straordinaria montatura, che ogni volta viene riproposta, malgrado che le cifre dimostrino il contrario. Come ci spiega in ogni annuale rapporto sullo stato sociale il professor Pizzuti, secondo gli ultimi dati disponibili del 2013, il saldo tra entrate contributive del sistema pubblico e prestazioni previdenziali è di 21 miliardi, con i quali quindi il primo “aiuta” il bilancio pubblico. La realtà è che la riforma Fornero, non meno delle precedenti, non è solo un disastro ma un buco senza fondo. Nessuno dimentichi infatti l’irrisolto dramma degli esodati. Ma tutto questo ha una causa di fondo: il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, che ha spezzato il patto generazionale tra giovani e anziani, tra occupati e pensionati, operato per giunta in una fase strutturalmente calante dell’occupazione aggravata dalla crisi economica.
Naturalmente Renzi si giustifica dicendo che la sentenza della Corte non esplicita tempi e modalità del risarcimento. Ovviamente, si potrebbe dire, visto che non è compito di quest’ultima. Se lo avesse fatto si sarebbero alzati alti lai contro l’invasività del massimo organo costituzionale nell’ambito delle scelte di politica economica proprie dell’Esecutivo. Ma tra il fatto che la Corte non prenda per mano il governo imponendogli il quando e il come del risarcimento e la conclusione che ce la si possa cavare con un’autosanatoria da 500 euro, ci sta un triplo salto mortale che solo l’arroganza del potere consente a Renzi di compiere in diretta televisiva, anticipando lo stesso Consiglio di Ministri ridotto a puro ratificatore di scelte già pubbliche.
La sentenza 70 della Corte è assai bene calibrata e meriterebbe un’analisi più puntuale. In primo luogo essa non contesta in assoluto la possibilità per un governo di intervenire per motivi di eccezionalità finanziaria solidamente dimostrabili sulle prestazioni a favore dei cittadini. Dipende dalle motivazioni, che in questo caso non sono esplicitate, dalle finalità, dalla misura e dalla durata dell’intervento stesso. Per questo la sentenza 70 ha ribadito che l’azzeramento del meccanismo perequativo operato nel 2008 per i trattamenti superiori otto volte il minimo per la durata di un solo anno, per compensare gli effetti del famoso “scalone”, rispondendo a criteri solidaristici, non violava alcuna norma costituzionale.
In secondo luogo, ed è questo un aspetto rimasto finora in ombra nel dibattito, tutto lo spirito e la lettera della sentenza 70 escludono che dal principio del pareggio di bilancio, infilato in Costituzione con la manipolazione dell’articolo 81, possa derivare meccanicamente una riduzione delle prestazioni che rispondono ai diritti dei cittadini. Per chi sta raccogliendo le firme per la legge popolare che vuole modificare l’attuale articolo 81, nel senso del primato dei diritti sulla contabilità, questa è una buona notizia.
Huffington Post on-line, 19 maggio 2015
I pensatori democratici si trovano in disaccordo sull'intensità di questa tensione e sull'ampiezza dell'apporto deliberativo a elezioni concluse. Quant'anni fa, nel 1975, laTrilateral Commission (ispirata da Samuel Huntington) pubblicava il suo primo Rapporto sulla "governabilità" nei paesi occidentali dal titolo molto eloquente, La crisi della democrazia. Il Rapporto diceva in sostanza che la governabilità è messa a rischio dalla troppo ampia deliberazione, dai movimenti per i diritti civili e sociali e dalle richieste che questi rivolgono ai governi, i quali per mantenere il consenso dei cittadini sono indotti ad ampliare il loro intervento sociale così da generare una spirale di nuove richieste.
Secondo Huntington, gli stati democratici stavano perdendo autorità a causa del peso troppo forte rivendicato dal pluralismo sociale: era questa la crisi di governabilità decretata dalla Trilaterale, che suggeriva agli stati occidentali (soprattutto quelli a democrazia parlamentare) di rafforzare gli esecutivi, deprimere lo stato sociale, contenere la contestazione e i movimenti. "Eccesso di democrazia" era il problema: come nel mercato così anche nella politica, un'alta partecipazione era indice di un forte bisogno; ma contrariamente al mercato, in politica questo attivismo era segno di instabilità. All'opposto stava l'apatia, indice di soddisfazione.
La concezione deliberativa della democrazia, associata a Jürgen Habermas e alla teoria critica francofortese, prese corpo proprio in quegli anni, discutendo sul significato della "crisi" e della governabilità, e contestando la visione minimalista del processo decisionale. Deliberare era più che votare; aveva un significato ampio, proprio come i suoi critici della Trilaterale avevano temuto: la decisione per Habermas è una conclusione temporanea di un processo al quale in modo diretto e indiretto partecipa una pluralità di attori sociali e politici. Una società civile vibrante e non apatica è il segno non di una crisi di governabilità ma di una forte legittimità del sistema perché la decisione, ottenuta comunque a maggioranza, viene percepita da tutti non come un esito divisivo di una parte contro l'altra.
In Europa, la visione deliberativa ha caratterizzato la natura della democrazia nei decenni a partire dagli anni Settanta, mettendo a segno importanti risultati in termini di politiche sociali nazionali e di impulso a livello continentale alla costruzione dei trattati costituzionali dell'Unione Europea. Il suo declino, che la crisi economica ha accelerato, corrisponde in questi anni recenti a un'impennata della volontà decisionale degli esecutivi sia nazionali che comunitari, e un desiderio di allentare i lacci imposti dalla deliberazione, parlamentare e sociale, e di alleggerire l'impegno dei governi nelle politiche sociali. A livello europeo, questo cambio di passo è stato impresso dalla pratica dei trattati inter-governativi che hanno depresso la consuetudine comunitaria e, nello stesso tempo, esaltato il ruolo degli esecutivi degli stati.
La netta sterzata verso un federalismo di e tra esecutivi, con credenziali democratiche deboli, ha avuto un effetto a valanga negli stati membri. La crisi sembra rilanciare il progetto della Trilaterale dunque. Mette al tappeto la democrazia deliberativa decretando la centralità del potere di decisione dei governi centrali. Si tratta di vedere se la democrazia decisionista ci darà più efficienza nel rispetto dei fondamenti democratici, meno sprechi e meno corruzione, come promette di fare.
Il manifesto, 19 maggio 2015
Quello di lesa maestà è stato, fin dalla notte dei tempi, un delitto assai grave. Lo si pagava generalmente con la vita. Ma parliamo di epoche in cui il corpo del sovrano rientrava nella sfera del sacro.
Sorprende, dunque, la sua riedizione, certo assai meno cruenta e non inscritta in alcun codice, in una società laicizzata e democratica come la nostra. Fatto sta che ad ogni pubblica manifestazione di un esponente del governo chiunque osi contestarlo facendo troppo rumore, si espone a reazioni spropositatamente violente da parte delle forze dell’ordine e a pesantissimi provvedimenti giudiziari: fogli di via e arresti domiciliari.
È accaduto due volte a Bologna: l’arresto di sei persone in riferimento alla contestazione della ministra Madia nel dicembre dello scorso anno e le teste spaccate (a soli due giorni dalla solenne proclamazione di una «nuova etica» di polizia) il 3 maggio scorso per difendere da una minaccia inesistente Matteo Renzi intervenuto per concludere la festa dell’Unità. Stiamo parlando di slogan, di striscioni e di qualche spintone. Ben di peggio si è visto, con una certa frequenza, nelle aule parlamentari.
Forse gli uomini e le donne dell’esecutivo, nonché buona parte del ceto politico, non arrivano a considerarsi proprio emanazioni del sacro, ma certamente pretendono di «incarnare la nazione» nella quale i governati devono stare al loro posto, dopo aver votato (i pochi che lo fanno ancora) e talvolta dopo aver ricevuto in gentile concessione un ascolto inutile e formale.
Può darsi anche che si tratti più semplicemente del volto aggressivo di un narcisismo decisionista e permaloso. L’arroganza e le coreografie nordcoreane in formato strapaesano stanno diventando tratti consueti dello stile di governo. Chi si permette di guastare queste «feste della nazione» paga salato.
Gli ortaggi e i fischi che piovono dal loggione non hanno mai significato la fine del teatro, semmai testimoniato della sua natura aperta e democratica. Ogni attore che si rispetti, abituato a calcare la scena, è ben consapevole di esporsi a queste reazioni. Fa parte del suo mestiere. Diversamente, i mattatori della politica, nonostante anni di chiacchiere sulla politica-spettacolo sembrano ritenere che le contestazioni rumorose minaccino, nella loro persona, la democrazia stessa (che perfino Salvini & Casa Pound pretendono di incarnare).
Così, pur avendo beatificato l’austero notaio milanese che, a presidio del tricolore esposto alla sua finestra, si lasciava stoicamente bersagliare dalle uova lanciate dai manifestanti, i nostri politici si guardano bene dal seguirne l’esempio.
Se vi fosse una magistratura con un senso non superficiale della democrazia si affretterebbe a revocare dei provvedimenti fuori misura e fuori luogo, e a ricondurre l’azione giudiziaria al livello di una civiltà giuridica che dovrebbe essersi lasciata alle spalle il delitto di lesa maestà. Tanto più che questi provvedimenti costituiscono un pericoloso precedente, suscettibile di criminalizzare ogni interferenza conflittuale con la recita di chi ci governa.
conomist (Atene, 14-15 maggio 2015). Un ampio resoconto della grande fatica in corso da parte di Alexis Tsipras e Syriza per portare la Grecia fuori dalla crisi e aprire una breccia nell'Europa dell'austerity. Dal gruppo Facebook Sosteniamo Syriza, 19 maggio 2015
DISCORSO DI ALEXIS TSIPRAS
AL FORUM DELL' ECONOMIST AD ATENE
Signore e signori, Vorrei ringraziare gli organizzatori della conferenza per il loro gentile invito. Ho il piacere di partecipare alla manifestazione finanziaria annuale dell’Economist, in questo forum economico che ogni anno offre l'opportunità di ascoltare e di discutere le diverse percezioni politiche ed economiche che definiscono le linee di un dibattito pubblico sia a livello mondiale ed europeo.
Stiamo parlando di percezioni politiche ed economiche che non derivano da esperimenti condotti in un laboratorio di economisti, ma sono definiti dalle contraddizioni sociali di legge inerenti a tutte le moderne società occidentali.
In realtà, queste percezioni politiche ed economiche dipendono asserzioni ideologiche che sono, per definizione, incompatibili. È, quindi, l'obbligo di politici e dello stato organizzato risolvere ogni volta questo paradosso nel modo più efficiente. Perché in ultima analisi, la politica determina ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è possibile e ciò che è impossibile.
Per cinque anni la politica dei partiti precedenti, che detenevano il potere in Grecia, è fallita miseramente. Non sono riusciti a unire e sintetizzare le diverse aspettative sociali di tutti gli strati della società greca, per creare un concetto elastico di giustizia sociale e impostare le coordinate sostenibili per il futuro orientamento del paese. Questi partiti hanno scelto invece di schierarsi con le idee e le forze più estreme e di parte a livello mondiale ed europeo e attuare una politica di austerità contro la maggioranza sociale.
L'idea che la crisi in Grecia è stata causata dai benefici sociali dei lavoratori e dei pensionati, il settore pubblico sovradimensionato, l'attaccamento alle politiche protezionistiche, era dominante all'interno di questa classe politica, con il sostegno del potente a livello economico. E su questa base, un intero meccanismo è stato organizzato per ristrutturare l'economia greca e la società: è stato chiamato memorandum.
Il memorandum non era solo un errore economico, un programma cattivo, una svista. E' stata una scelta consapevole per posizionare il peso della crisi economica causata dagli squilibri nel sistema finanziario e aggravata da patologie intrinseche allo Stato greco e all'economia greca, sulle spalle dei lavoratori, dei pensionati, della classe media autonomi e dei piccoli imprenditori.
In realtà, il memorandum non era altro che un tentativo di superare la crisi, consentendo una liquidazione senza precedenti dei diritti e delle imprese e che potrebbe creare le basi per una nuova accumulazione di capitale a condizioni significativamente peggiori per la maggioranza sociale. E 'stato, ovviamente, un dato di fatto che questa politica avrebbe portato ad una recessione prolungata, ritenuta opportuna all’inizio dai creatori del Memorandum.
Essi erano ben consapevoli di ciò che stavano facendo e nonostante questo, sono andati avanti. Questa è espressione del loro cinismo assoluto.
Durante gli anni del Memorandum, le disuguaglianze sociali in Grecia sono salite (la Grecia occupa il primo posto in Europa della scala delle disuguaglianze sociali) la disoccupazione è triplicata, i salari abbassati, le pensioni hanno subito tagli drammatici e il welfare state è letteralmente crollato.Gli unici che non hanno subito danni durante questo periodo di cinque anni sono stati i ricchi greci.Secondo uno studio del Credit Suisse, attualmente il 10% dei greci più ricchi gestisce almeno il 56% della ricchezza nazionale.
Questa tempesta politica ed economica ha lasciato solo una cosa in piedi: lo stato clientelare e corrotto che ha sostenuto l'élite politica ed economica di questo Paese. O, per essere precisi, non solo è rimasto in piedi, ma ha permesso anche alle pratiche peggiori di mettere radici.
Nessuna delle riforme ha migliorato il meccanismo di riscossione delle imposte, che sta crollando, nonostante il desiderio di alcuni dipendenti illuminati e giustamente nervosi. Nessuna presunta riforma ha combattuto il triangolo della corruzione tra l'élite politica, proprietari dei media e le banche. Nessuna riforma ha migliorato il funzionamento e l'efficacia di uno Stato che ha imparato a operare per servire interessi particolari piuttosto che il bene comune. È stata proprio questa situazione, vale a dire l'incapacità di giustificare questa politica estrema, l'incapacità di proporre un discorso convincente che avrebbe trasformato gli interessi egoistici delle élite negli interessi della società nel suo complesso, ad aver portato SYRIZA e l'anti- blocco memorandum al potere. Perché si possono ingannare molte persone per poco tempo e poche persone per molto tempo, Ma non si può ingannare tutto il popolo per tutto il tempo.
Signore e signori, Le elezioni del 25 gennaio hanno dato un chiaro mandato a questo governo di salvezza sociale e di ricostruzione economica: cambiare le politiche dei memoranda che hanno distrutto la società greca e l’hanno portata sull'orlo della disperazione.
Il nuovo governo ha un punto di vista completamente diverso su come dovrebbero essere organizzate l'economia greca e la società. Una comprensione completamente diversa dei presupposti necessari per conseguire una crescita sostenibile in grado di ridurre le disuguaglianze, piuttosto che aumentarle. Perché se la crescita è semplicemente una continuazione dello stato delle cose esistenti, consentendo al divario sociale di rimanere intatto o addirittura esacerbare le divisioni sociali, allora c'è qualcosa di fondamentalmente sbagliato con il “regno di Europa".
Pertanto, è questo il mandato che abbiamo implementato durante i primi 100 giorni in carica, ed è questo il nuovo punto di vista che si evidenzia nel dibattito pubblico in un'Europa che invecchia. Stiamo legiferando e negoziando in nome della grande maggioranza sociale che ci sostiene, e in nome della giustizia sociale, della crescita e della promozione della parità. Perché l'uguaglianza è uno dei capisaldi della Europa unita che non dovrebbe essere sminuito da coloro che insistono a parlare solo in nome della libertà, dimenticando la condizione che rende per tutti possibile la libertà: quale potrebbe essere questo presupposto se non l’uguaglianza?
Quindi legiferiamo e negoziamo, guidati dalla bussola degli interessi e delle aspirazioni di questa maggioranza sociale: i lavoratori e la classe media che sono state socialmente ed eticamente schiacciati nei quattro anni di violenza del memorandum. E il nostro obiettivo è quello di costruire ancora una volta una versione di giustizia sociale che trasformerà la società greca ed europea da una somma di individui a vera comunità. Il nostro obiettivo è quello di ristabilire il vero significato della politica, al fine di raggiungere il nostro obiettivo finale, che tutti condividiamo: una versione sostenibile di interesse sociale che non creerà tensioni e ma incoraggerà il potenziale delle persone, fornendo l'opportunità di benessere. Tuttavia, stiamo legiferando e negoziando in un contesto economico difficile e senza precedenti.
Stiamo camminando attraverso un territorio minato preparato dai sostenitori del Memorandum da parte del governo precedente. È pratica comune per quelli votati al potere dire che hanno ereditato "terra bruciata". Ma nel nostro caso, questo non si qualificherebbe come un'esagerazione, ma piuttosto, come un commento moderato. Non abbiamo ereditato semplicemente terra bruciata.
Abbiamo ereditato un paese incapace di funzionare. Abbiamo ereditato un paese incapace di pagare gli stipendi e le pensioni appena un mese dopo le elezioni, vale a dire nel mese di febbraio 2015 e derivante dal precedente governo. E tuttavia, siamo riusciti a mantenere il paese a galla. Siamo riusciti a garantire pienamente il corretto funzionamento delle responsabilità dello Stato, impegnati allo stesso tempo in una trattativa difficile. E nonostante le pressioni finanziarie, la fiducia dei nostri cittadini è aumentata, e per questo è stata registrata un crescita dei ricavi e significativa dei fondi pubblici.
Nei quattro mesi che il nostro governo è stato in carica, l'avanzo primario ha raggiunto € 2.164.000 a fronte di un avanzo primario di € 1.046.000 dello stesso periodo del 2014, in contrasto con una previsione di deficit primario di 287.000.000 €. Nel solo mese di aprile abbiamo aumentato i ricavi netti del bilancio ordinario del 15,3% contro il bersaglio mensile. In tal modo, non solo abbiamo evitato il "crash" istituito deliberatamente dal precedente governo in programma per il mese di febbraio, ma abbiamo anche adempiuto al rimborso di tutte le passività interne ed esterne del paese, senza rischi, nonostante il fatto che nessuna rata di prestito è stata erogata da agosto 2014. E voglio assicurarvi che non vi è alcuna minaccia per gli stipendi e le pensioni.
Vi è, tuttavia, un grosso problema qui, che mi piacerebbe caratterizzare come una questione morale. L'accordo deve essere concluso, e dovrebbe essere onesto e reciprocamente vantaggioso. E 'inaccettabile che alcuni pensino che col passare del tempo la resistenza della parte greca sarà testata e le sue linee rosse svaniranno. Se hanno questo in mente dovranno dimenticare questo proposito, in quanto si verificherà l'esatto contrario. Dall’ agosto 2014 non abbiamo ricevuto la rata di 7,2 miliardi da parte dei nostri istituti di credito, in conformità con il programma di prestito in corso. Questo include anche i 1,9 miliardi di euro di profitti da parte delle banche centrali come risultato di obbligazioni greche. E i 1,2 miliardi di euro in obbligazioni pagate con i fondi del nostro bilancio e che sono state trasferite dal FSF al MES. Tuttavia, in questo periodo, mentre non riceviamo i finanziamenti che dovremmo ricevere, abbiamo pagato rate di 17,5 miliardi per le stesse istituzioni. Se alcuni credono che questo è legale, posso ascoltare il loro punto di vista. Essi sostengono che la legge è dalla parte del prestatore. Ma chiunque considera morale ciò, non è certamente imparziale. Signore e signori, Ci sono diversi membri dell'opposizione che sono profondamente frustrati perché non possono esprimere abbastanza critica politica, ci rimproverano di aver presumibilmente dimenticato i nostri impegni presi prima delle elezioni e che abbiamo fatto marcia indietro dal programma di Salonicco. Invece di rispondere, vorrei riassumere ciò che il governo ha fatto nei primi cento giorni, e lasciare che i fatti parlino da soli:
Più specificamente, nei suoi primi 100 giorni il governo ha:
1) mosso i primi passi per alleviare la crisi umanitaria attraverso il primo disegno di legge approvato dal nuovo Parlamento: Il programma è attuato su base quotidiana, mentre è in fase di espansione per coprire vitto, l'alloggio, l'elettricità.
2) preso misure immediate per riavviare l'economia e ristabilire la giustizia fiscale: le cento rate per il rimborso di debiti fiscali e previdenziali dei cittadini sono già in corso, consentendo a centinaia di migliaia di imprese di riaggiustare i loro debiti e di ottenere liquidazione fiscali e previdenziali per migliaia di famiglie e per sfuggire lo starter-hold di sovraindebitamento.
Questa misura fornisce anche i fondi pubblici con un'iniezione necessaria di liquidità. Entro l’11 maggio, vale a dire entro 24 giorni di attuazione del disegno di legge, circa 380.000 mutuatari hanno chiesto un adeguamento da parte delle autorità fiscali del paese. Il totale dei debiti rettificato è pari a € 2,8 miliardi. Durante questo stesso periodo, cioè, entro dal 12 maggio, circa 144.000 sofferenze rettificate assicurato che sono stati dovuti a fondi di previdenza sociale, con l'importo totale del debito rettificato pari a circa € 3,4 miliardi. Vale la pena di confrontare gli importi che sono state regolati sotto la nostra proposta di legge, vale a dire la partecipazione dei contribuenti e assicurazione dei rispettivi importi, e la limitata partecipazione dei cittadini alle rettifiche di valore sotto il governo precedente, per evidenziare veramente la retorica dalla realtà. • Inoltre, abbiamo votato una norma, ed è stata emessa una decisione ministeriale nella lotta contro i traffici triangolari, che mette fine a una delle tecniche più diffuse di evasione fiscale.
3) Inoltre, è stato votata la prima legge per la democratizzazione della pubblica amministrazione, che ripristina alcune delle ingiustizie palesi che hanno avuto luogo durante il periodo di Memorandum, come il licenziamento degli addetti alle pulizie del Ministero delle Finanze, le guardie della scuola e altri servitori di servizi pubblici.
4) Gli aspetti del programma in materia di ripresa dell'occupazione sono stati avviati, e continuano anche attraverso l'iniziativa annunciata dal Presidente Juncker per l'erogazione dei fondi a programmi già esistenti, per un totale di 2 miliardi di Euro. Siamo certamente di fronte a difficoltà, soprattutto a causa dei programmi inefficaci progettati dal precedente governo che siamo anche obbligati a seguire. Tuttavia, saremo in grado di modificare e correggere questi programmi in linea con il nostro ordine del giorno, come previsto per la seconda metà del 2015.
6) è stato anche votato il disegno di legge di riapertura di ERT (l'emittente-pubblico Hellenic Broadcasting Corporation), che è una pietra miliare simbolica. Abbiamo creato le condizioni per una nuova emittente pubblica libera da partigianerie, favori politici e da pratiche dispendiose del passato. Un corpo di informazione pubblica che rifletterà il nuovo ethos pubblico e la cultura politica democratica del nostro governo.
7) Si è proceduto, come previsto,al sovvenzionamento delle stazioni televisive con spese di funzionamento dovute, in particolare, per la questione di debiti non pagati che sono rimaste in attesa per anni, mentre il progetto di legge per quanto riguarda le licenze delle stazioni "è nella fase finale.
8) Ci stiamo consultando con l'Organizzazione internazionale del lavoro su un progetto di legge da votare nei prossimi mesi, per quanto riguarda il ripristino della normativa europea sui rapporti di lavoro, il ripristino della contrattazione collettiva, gli effetti di fine termine e il graduale ripristino del salario minimo di 751 euro.
Ed è uno sviluppo molto positivo che oggi, a seguito della riunione del Ministro per l'occupazione e il Direttore Generale dell'ILO, l'OIL ha rilasciato una dichiarazione accogliendo gli sforzi del governo greco e delle parti sociali per la promozione della contrattazione collettiva e il miglioramento del mercato del lavoro in Grecia.
9) è avviato il Comitato per la revisione del memorandum con le sue responsabilità.
10) Per la prima volta, la domanda nazionale di riparazioni tedesche è stata espressa ufficialmente al più alto livello possibile.
11) i sospettati di evasione fiscale previsti sulla lista Lagarde sono stati convocati a pagare e risolvere le loro tasse in sospeso -un primo passo, mentre un controllo dettagliato proseguono su altri casi.
12) gruppi di lavoro speciali stanno esaminando appalti pubblici inquinati del passato, come ad esempio l’accordo palesemente ingiusto extragiudiziale tra lo Stato greco e Siemens.
Signore e signori, questi sono esempi dei nostri sforzi iniziali per creare una rottura definitiva con le pratiche negative del passato, e ridistribuire le risorse e il potere dal corrotto e dall’ evasore fiscale e dall’oligarchia finanziaria alla grande maggioranza sociale, che ha investito la sua fiducia in noi e coltiva grandi aspettative.
Tuttavia, siamo ancora solo all'inizio. Non possiamo semplicemente dimenticare e andare avanti, eliminando in un colpo solo le forze negative del passato: la corruzione, la povertà e la dipendenza. Allo stesso tempo però, stiamo rigorosamente negoziando con gli istituti di credito a favore del nostro popolo, del nostro paese, e come pure per l'Europa. Nei primi giorni della trattativa abbiamo affrontato l'eredità del memorandum. Eravamo di fronte alla necessità di completare la quinta valutazione e di attuare gli impegni che il precedente governo aveva preso, come indicato nell'e-mail di Hardouvelis spesso citata.
Abbiamo chiesto il rispetto da parte dei nostri partner; il rispetto delle regole dell’Europa e del principio della sovranità popolare che è la pietra angolare della organizzazione democratica dell'Unione europea. Abbiamo combattuto, e con la decisione 20 febbraio dell'Eurogruppo, abbiamo realizzato un cambiamento negli atteggiamenti dei nostri istituti di credito – che sostenevano il Memorandum alla lettera - alla ricerca di un terreno comune in base alle nostre priorità. Questa è una decisione che noi rispettiamo. Ma per una soluzione reciprocamente vantaggiosa, un accordo deve essere raggiunto - e non uno che porta alle stesse vicoli ciechi – e che tutte le parti coinvolte dovrebbero tenere a mente. L'insistenza sulle misure, in conformità con il Protocollo, oltre alle accuse costanti che stiamo ricevendo di rinnegare ciò che è stato concordato con il precedente governo non aiutano il processo di negoziazione in corso. Il governo greco continua a negoziare per raggiungere un accordo economico giusto e socialmente valido con i suoi partner. Un accordo che concluderà l'austerità, ripristinerà la liquidità per l'economia reale e fornirà le prospettive di crescita per il paese.
Ciò richiede:
- Bassi avanzi primari, in particolare per quest'anno e per il 2016, al fine di fermare il meccanismo che promuove l'austerità e riguadagnare lo spazio fiscale necessario.
- Non ci siano nuovi tagli salariali e alle pensioni, vale a dire le misure che intensificheranno la disuguaglianza sociale.
- Ristrutturazione del debito pubblico, al fine di porre fine al circolo vizioso degli ultimi cinque anni in cui il paese ha dovuto prendere nuovi prestiti per rimborsare i prestiti esistenti.
- Un forte programma di investimenti, finanziamento coordinato per gli investimenti, in particolare quelli riguardanti le infrastrutture e le nuove tecnologie.
A questo punto sembra che il terreno comune è stato trovato con le istituzioni su una serie di questioni e, quindi, siamo molto vicini a un accordo. Terreno comune è stato trovata anche su temi quali gli obiettivi di bilancio, le variazioni marginali dell’ IVA, che dovrebbe funzionare in maniera redistributiva a favore delle classi subalterne, e le modifiche istituzionali per rafforzare l'amministrazione nella riscossione delle imposte.
Ci sono ovviamente delle questioni che restano aperte: Alcuni insistono sulla proposta di modifiche al quadro istituzionale che definisce il funzionamento del mercato del lavoro già liberalizzato. Questi cambiamenti non possono essere accettati. Il paradosso è che, mentre le stesse forze mettono dubbio la fattibilità del sistema pensionistico, insistono sulle politiche del Memorandum che chiedono tagli continui. Tuttavia, nei prossimi giorni dobbiamo lavorare duramente per costruire la necessaria intesa in termini di importi effettivi del sistema di sicurezza sociale e di garantire che tutte le proposte e le stime non si baseranno su una falsa immagine della situazione finanziaria e dei fondi della previdenza sociale. Per essere chiari, io voglio assicurare al popolo greco che non vi è alcuna probabilità o possibilità che il governo greco faccia marcia indietro sulla questione dei salari e delle pensioni. Dipendenti e pensionati hanno sofferto abbastanza. È giunto il momento della ridistribuzione, e dell'equa ripartizione degli oneri.
Signore e signori, Stiamo negoziando con tenacia e determinazione per un accordo unico, con requisiti uniformi, che garantirà la crescita e l'accesso della Grecia ai mercati entro un breve periodo di tempo. Questo è il piano di cui stiamo discutendo. Tutto il resto sarà una ripetizione di tentativi falliti ed errori intenzionali che alcune delle istituzioni hanno pubblicamente ammesso in passato, nel tentativo di ridurre la tensione sociale.
Ma queste ammissioni pubbliche per essere credibili, devono trovare riscontro anche nella pratica. Il piano negoziale del nostro governo non è né radicale né coraggioso, né aggressivo. Il piano negoziale del nostro governo è realistico e praticabile. Chiediamo all’altra parte , dopo cinque anni consecutivi di obiettivi irrealistici e di fallimenti continui, di aderire al realismo. Infine, chiediamo alla stragrande maggioranza sociale che ha riposto la sua fiducia in noi, e i cui interessi e aspettative difendiamo ogni giorno, di lavorare con noi. Insieme, siamo in grado di sostenere gli sforzi di negoziazione del nostro paese. Insieme, possiamo pianificare per il domani, un domani che comprenda una società giusta e un'economia in crescita. Grazie
Gli intellettuali ne dovrebbero sapere qualcosa... Si sono chiesti se la Buona Scuola lo ha a cuore? Hanno speso qualche ora del loro tempo per capire quali sono le vere priorità di questa riforma e quale lo scopo di quel linguaggio da marketing così caro al premier? Si sono chiesti quale posto occupi nel DdL l’alfabetizzazione di base degli studenti? Quale spazio ci sarà nella nuova scuola disegnata dal trio Renzi-Farone-Giannini per costruire alfabeti forti: linguistico-matematico innanzitutto, proprio gli alfabeti dove i nostri ragazzi sono quasi sempre messi malissimo? Mi chiedo davvero come mai siano così mancate le analisi serie di questo testo renziano, come mai nessuno abbia tentato un confronto tematico e di stile fra la Buona Scuola del trio di governo e la LIP (Legge di iniziativa popolare) promossa dall’interno del mondo della scuola e caduta nel più totale oblio. Ma dove è finita la semiotica in questo paese?
I conti delle riforme della scuola arrivano dopo decenni, quando maturano le generazioni. Molti di noi non ci saranno più, ma porteremo tuttavia la responsabilità di questa devastazione ignorante.
< i>L'autrice è insegnante di scuola secondaria< /i>
La Repubblica, 18 maggio 2015
Per la Buona Scuola sono arrivati gli esami finali. Si entra nel vivo già questa mattina, per gli ultimi tre giorni di battaglia nell’aula della Camera. Al voto gli articoli più contestati della riforma, il numero 9 sui poteri del preside, il 10 sui precari e l’articolo 17 che riguarda il 5x1000. Mentre le opposizioni affilano le armi (ma con i numeri della maggioranza a Montecitorio non potranno far molto), Renzi prosegue nel suo contrattacco mediatico iniziato la scorsa settimana con il video alla lavagna. «Non si può minacciare il blocco degli scrutini — ha dichiarato a l’Arena di Giletti — non si può giocare sulla pelle dei ragazzi. Anche chi boicotta il test Invalsi non dà un bell’esempio di educazione civica». E ancora, sui no piovuti contro la valutazione dei docenti: «Penso anche che in qualche professore ci sia ancora l’idea di mantenere la filosofia del 6 politico. Ma quella stagione è finita».
Intanto la minoranza dem sembra aver scelto una politica diversa rispetto alla totale contrapposizione sull’Italicum che portò 38 deputati a non votare la fiducia al governo. Non una tregua vera e propria, ma un’apertura speculare a quella mostrata dal governo. «Vediamo — afferma Nico Stumpo, uno dei leader dell’area bersaniana — se è possibile fare accordi nel Pd. Sull’Italicum fu la decisione di Renzi di mettere la fiducia a far saltare il tappo, ma sulla scuola non c’è alcuna logica di bandiera. Abbiamo presentato emendamenti di buon senso».
Appuntamento a Roma, il 6 e 7 giugno. Un’assemblea pubblica per «associazioni, movimenti, sindacati, donne e uomini che in questi anni si sono battuti contro le molteplici forme di ingiustizia, discriminazione e progressivo deterioramento dei diritti. E che oggi decidono di promuovere un cammino comune ». La “coalizione sociale” di Maurizio Landini prende forma così, con un appello che verrà reso pubblico domani. Ma non sarà un soggetto politico. O almeno, non nell’immediato. «Come ha compreso il movimento delle donne — si spiega — vogliamo dimostrare che si può far politica attraverso un agire condiviso tra soggetti diversi, che si può rimotivare le persone a occuparsi dell’interesse generale nello spazio pubblico, al di fuori e non in competizione rispetto a partiti, organizzazioni politiche o cartelli elettorali».
L’incontro di messa a punto del progetto è avvenuto alla sede nazionale dell’Arci lo scorso fine settimana. Non c’era solo la Fiom, ma anche esponenti del variegato mondo dei centri sociali (come Action), Libertà e Giustizia, la Rete della Conoscenza, Act e associazioni ambientaliste. Ma stavolta si sono defilate sia Libera che Emergency, che sì collaboreranno ma indirettamente, più attraverso i singoli che altro. Una curiosità: si è rivista Simona Panzino, la candidata “senza volto” alle primarie dell’Unione del 2006 vinte da Romano Prodi. Non c’era nessuno (o quasi) dei partiti della sinistra come Sel, Rifondazione e L’Altra Europa con Tsipras. Ma la questione partitica è stata toccata più volte, ricordando che la “coalizione sociale” si struttura all’infuori delle vecchie organizzazioni.
Le parole d’ordine? Mutualismo, lotte sociali, mobilitazione e opposizione al governo. «Non lasciare nessuno indietro o da solo è la prima ragione che ci porta a intraprendere questo percorso per cambiare il Paese e l’Europa, formulando proposte che siano un’alternativa concreta alle divisioni e alle solitudini in cui ogni persona rischia di essere abbandonata», recita il documento. Alla due giorni verranno istituiti quattro gruppi di lavoro: “Unions”, dove si parlerà di reddito, migranti e democrazia; “Saperi e conoscenze”, e si affronterà anche la riforma della scuola; “Rigenerare le città”; “Economia, politica industriale e ambiente”. Tempi di intervento uguali per tutti e nessun esponente politico invitato sul palco.
La seconda fase invece sarà quella della mappatura e del radicamento territoriale: «Realizzare un modello d’impegno che si manifesti e qualifichi a partire dai territori, dai luoghi di lavoro e si caratterizzi per il fatto che ciascuno di noi offrirà il contributo delle proprie migliori pratiche e dei propri saperi; sulla base di tali principi in reciproca autonomia aderirà alle campagne per obiettivi comuni che insieme decideremo di avviare».
Il Fatto quotidiano, 18 maggio 2015
Ormai inizia a rendersene conto perfino il sempre allineato Stefano Folli, già portaborse di Giovanni Spadolini e attualmente notaio del pensiero pensabile di Repubblica, il quale – nel suo Punto di mercoledì scorso (“La spina cruciale della Liguria”) – prendeva atto che nelle prossime regionali
Matteo Renzi rischia molto più di quanto non apparisse nelle scorse settimane. Anche perché l’ineffabile cinismo con cui sono state messe in pista le candidature Pd, il cui unico obiettivo sembra quello di fare fuori a livello locale “gufi e rematori contro” invisi al premier, si sta rivelando un boomerang. Il caso campano, con le alleanze “imbarazzanti” di Vincenzo De Luca, ormai scivola nella (pur amarissima) barzelletta. Difatti certe marce indietro governative dell’ultima ora, magari per non collidere con bacini elettorali importanti come quello del pubblico impiego nella scuola, rivelano il crescente nervosismo.
Secondo Folli il vero epicentro del possibile day after renziano è il pur piccolo scenario ligure; dove si è scelto senza tentennamenti e molta arroganza di puntare su Raffaela Paita; per benemerenze conseguite nell’aver fatto fuori nelle primarie locali, condotte senza esclusione di colpi (bassi), il disturbatore Sergio Cofferati. L’astio nei confronti del quale emerge dal voler svilirne il risentimento riducendolo all’infantilismo del “ha perso e scappa con il pallone”. Quando quella vicenda è stata altamente inquinata neppure troppo sottobanco, nella logica più che collaudata dell’asse Burlando-Scajola.
Dunque, Paita governatore. Nonostante l’aspetto vagamente grifagno della signora, che ne impedisce la collocazione nella squadra delle “soavi viperette” del premier (le Boschi, Serracchiani, Picierna, con la new entry Anna Ascani), a cui – comunque – si accomuna per l’incrollabile quanto ingiustificata determinazione (i marxiani “animal spirits”) nel perseguire obiettivi di carriera.
Eppure, nonostante i sondaggi taroccati e la grancassa di parte della stampa locale (tradizionalmente molto sensibile alle gerarchie politico-affaristiche regionali), la candidatura non decolla. Anche perché conferma la caratteristica decisiva della proposta Pd per queste regionali: aver messo in campo l’imbarazzante. E la candidata Paita ne è la migliore riprova: dalle performance al tempo della recente alluvione allo stile interlocutorio/argomentativi (tracotante); per arrivare al mistero del suo percorso culturale, visto che i suoi stessi siti ufficiali tacciono sui titoli di studio conseguiti e fanno riferimento a vaghe esperienze giornalistico/pubblicistiche di non facile individuazione nella natia La Spezia, non propriamente piazza sede di testate e imprese editoriali che superino la soglia del giornalino parrocchiale.
Che fare per rimediare? Ancora una volta la soluzione del presunto nuovo che avanza – da Rignano sull’Arno come dalla Val di Magra – fa ricorso ad armamentari propagandistici di antichissimo conio: lo slogan creato da Indro Montanelli per l’allora partito democristiano in difficoltà “turiamoci il naso ma votiamo Dc”. Non il massimo dell’apprezzamento per il destinatario del voto e certamente molto ricattatorio. Comunque efficace perché fa ricorso al sempre valido “fattore paura”.
Al solito Renzi ricicla (Montanelli) con toni da gag: “Se non votate Paita riesumate Berlusconi”. Una gag mistificatoria che vorrebbe ridurre lo scontro elettorale, in atto tra gli ulivi terremotati e le città disastrate di Liguria, a una sorta di derby Paita-Toti. Con la trasformazione del mite (rivestito grottescamente da mannaro) Giovanni Toti nell’armata di un berlusconismo in rotta; che giorni fa in Trentino ha già perso i ¾ dei propri consensi. Ma questa è la linea per sostenere l’imbarazzante Paita: ricatto e paura. Soprattutto la tecnica collaudata dell’illusionismo. Per nascondere il fatto che sanno crescendo alternative quanto meno di pari peso rispetto a quella dei burlandian-renziani in perdita costante di pezzi: in particolare i ragazzi di Cinquestelle (nonostante le mattane di Grillo su Veronesi e la campagna terroristica su fantomatici inquinamenti malavitosi accreditati da faide di paese).