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La Repubblica, 27 maggio 2015

IL GIARDINO chiuso dei partiti verrà aperto dal progetto di legge per una loro regolamentazione giuridica presentato ieri dal Partito democratico? La settantennale autoreferenzialità dei partiti e il roccioso rifiuto di rispondere del loro operato, in quanto corpo collettivo, di fronte alla legge, forse volgono al termine. Una norma sui partiti è quanto mai necessaria per molti motivi. Innanzitutto in rapporto con il nuovo sistema elettorale che offre agli organi dirigenti ampia discrezionalità nel collocare candidati direttamente sulla rampa di lancio dell’elezione sicura. Visto che gli elettori hanno una limitata possibilità di scelta di fronte a liste in gran parte bloccate, è opportuno che, per mantenere in vita almeno un filo di fiducia tra rappresentanti e cittadini, questi ultimi possano intervenire nella stesura delle liste elettorali. Se la legge annunciata offre garanzie su questo punto, e cioè obbliga i partiti a precisare le modalità con le quali vengono individuati i candidati, allora un passo in avanti è stato fatto. Riportare all’aperto, nell’ agorà pubblica, la selezione dei futuri rappresentanti consente di contrastare quella immagine di oligarchie chiuse sulla quale ha prosperato la polemica antipartitica e populista.

Ma, per rendere i partiti degli organismi in linea con le migliori pratiche di un sistema liberaldemocratico, altre regole sono necessarie e auspicabili. Ad esempio, è indispensabile rivedere l’infelice legge sul finanziamento pubblico — pura concessione alla demagogia antipolitica — per rendere più contenute e trasparenti le donazioni private. En passant, possibile che si sia invocata la privacy per i partecipanti alle sconvenienti cene di finanziamento del Pd anche dopo lo scoppio dello scandalo di “mafia capitale”. E come regolare i conflitti interni? Lasciarli alla piena discrezionalità dei partiti (i litigi si consumano tra le quattro mura…), oppure aprire uno spiraglio per un intervento arbitrale esterno? Nella maggior parte dei Paesi europei, soprattutto in quelli dell’Europa centroorientale, è in atto una crescente giuridicizzazione: ovvero, viene affidato alla magistratura il potere di intervenire a dirimere dispute interne laddove vengano violate le norme statutarie o le leggi sui partiti.

Questa tendenza non è necessariamente la strada migliore in un Paese come il nostro, ridondante di avvocati e di cause inutili. Però, sulla scia dell’esempio tedesco — e americano — una normativa che garantisca la “democraticità” interna dei partiti può persino favorire il depotenziamento delle tensioni interne. Le minoranze si sentirebbero in qualche modo più garantite rispetto alle tentazioni egemonizzanti di una maggioranza. Quasi tutte le leadership (o singoli leader, in casi particolari), anche al di là dei buoni propositi, tendono ad esercitare un dominio incontrastato senza alcun riguardo per le voci dissidenti. Il centralismo democratico di antica marca comunista, per quanto aborrito a parole da tutti i partiti democratici, è sempre stato allegramente praticato. Gli statuti sono stati calpestati innumerevoli volte, con la mozione degli affetti o con ricatti espliciti, invocando situazioni di emergenza o evocando un nemico alle porte, e, sopra di tutto, richiamando il valore dell’unità. Il tratto monistico e monolitico dei partiti non può essere modificato da una norma perché dipende dalla cultura politica degli aderenti e del contesto più generale.

Laddove, come in Italia, il valore del dissenso è svalutato a favore dell’unità (forzosa e inevitabilmente falsa), le minoranze finiscono emarginate. Questa sensazione di minorità, e quasi di illegittimità, che le minoranze interne percepiscono produce tensioni e favorisce la sviluppo di correnti e fazioni. Una norma che offra con forza di legge una rete di protezione alle minoranze può favorire un rapporto più disteso con la maggioranza. Mentre oggi assistiamo a scomuniche, fuoriuscite ed espulsioni, frutto di scarsa democraticità interna e di bulimia di potere delle leadership, lo scudo di una legge renderebbe la vita interna dei partiti meno aspra e rissosa. I conflitti e le divisioni non scompaiono, è evidente; ma con una buona norma sarebbero più regolati. E questo “pulirebbe” l’immagine dei partiti, spesso visti come campi di battaglia dove ambiziosi e arrivisti vogliono mantenere a tutti i costi il loro piccolo o grande potere.

Il vento antipolitico soffia in ogni parte d’Europa: non solo in Spagna, in Grecia e in Polonia, ma anche nella ricca e placida Germania crescono movimenti di protesta come gli antieuropei dell’Afd e i populisti di Pegida. E si mantiene forte anche sul nostro Paese. Norme che rendano i partiti più trasparenti e democratici nelle loro dinamiche interne e più rispondenti ai cittadini (e alla legge) offrono una buona opportunità per rivendicare la nobiltà del fare politica e contrastare l’antipolitica. Impresa ardua, ovviamente. Ma indispensabile per non cedere a demagoghi e arruffapopoli.

, nell'ultimo mezzo secolo, hanno condotto alla frantumazione della sinistra e al trionfo del renzismo. Una novità nelle posizioni dell'autrice: il riconoscimento delle ragioni dell'ambientalismo. S

bilanciamoci.info, newsletter n. 420, 26 maggio 2015


Dietro le formule nebulose del Jobs Act del governo si rivela la volontà di rendere la prestazione della manodopera più flessibile sia in entrata che in uscita, cioè meno garantita per i dipendenti sia nell’assunzione che nel licenziamento. Ma un'alternativa è possibile. ll testo dell'introduzione al Workers Act di Sbilanciamoci!

Le pagine che seguono spiegano, nella prima parte, il Jobs act del governo di Matteo Renzi e nella seconda presentano un’alternativa a esso: non per caso si chiamano “Workers act” perché esprimono il punto di vista dei lavoratori. È necessario spiegarlo perche l’insieme di testi presentato dal governo, non per essere discusso ma affidato con una serie di deleghe all’esecutivo, va chiarito a coloro che vi saranno obbligati senza aver potuto contribuire alla sua elaborazione. Dietro le formule nebulose si rivela, non detta, la volontà di rendere la prestazione della manodopera più flessibile in entrata e in uscita, cioè meno garantita per i dipendenti sia nell’assunzione, sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo quel che restava dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, dopo il già grave ridimensionamento operato dalla riforma Fornero del 2012.

Il lavoro diventa soggetto a tutte le versioni e forme diverse di precariato; il contratto a tempo indeterminato, definito in modo ingannevole “a tutele crescenti”, allarga tempi e spazi di precariato a cominciare senza remora alcuna dai primi tre anni, quando è perfino esente da imposizione fiscale per l’impresa. La troppo vasta tipologia dei contratti, con regolamenti relativi, non è stata corretta salvo in parte nel contratto a progetto, dov’era diventata scandalosa. In genere la molteplicità delle misure recepisce quella che – quando l’attuale Pd era ancora Pci e il sindacalismo cattolico aveva i suoi anni di gloria – era comunemente definita “giungla contrattuale”. I ripetuti annunci di semplificazione sono brutalmente smentiti da una legislazione il cui arruffamento non è indice di confusione, quanto moltiplicazione delle vie offerte al datore di lavoro di trattare i suoi dipendenti con il metodo “usa e getta”.
Si tratta di un arretramento poderoso dei lavoratori nei rapporti di forza con il capitale, perseguito dal governo nella convinzione – almeno presentata come tale – di agevolare l’imprenditore in un rilancio della crescita dell’economia, come se la sua attuale fluttuazione dallo zero allo zerovirgola si dovesse alle pretese eccessive imposte dai dipendenti, dai “lacci e lacciuoli” da loro messi allo sviluppo. L’assenza di qualsiasi piano di reindustrializzazione e di riduzione della disoccupazione crescente in Italia dimostra la miopia dell’attuale esecutivo nell’operare questa stretta.
Essa non è dovuta alla crisi, ma ne profitta per ridurre le tutele dei lavoratori e l’importo dei salari, insomma per allargare i profitti dell’impresa e indurre una ripresa degli investimenti a spese dei salariati, senza modificare il prodotto o le tecniche di produzione. È una svolta di 180 gradi rispetto alla linea keynesiana che aveva sorretto la crescita del dopoguerra; una svolta che non solo penalizza i dipendenti ma non riesce a vivificare il mercato, che già fa sapere di non contare su più di un punto di crescita come conseguenza dell’applicazione del Jobs act. Il cardine della politica di austerità si rivela non solo socialmente ingiusto, ma inefficace, producendo tensioni sociali e soffocamenti; l’esempio più negativo è quello che Bruxelles insiste ad imporre alla Grecia con filosofia del rimborso totale e in tempi stretti del debito, ma è una politica che pesa su tutti i paesi del sud Europa, mettendone in pericolo l’integrazione. È evidente l’intenzione di dare all’Europa una configurazione squilibrata fra nord e sud, confermando il potere dei primi, mentre si accantona ogni tentativo di definire condizioni uguali per tutti nella fiscalità e nelle strutture produttive.
Il Jobs act ha imposto di forza una diminuzione dei diritti del lavoro che interpella il parlamento e i partiti decisivi in esso, in primis il Pd, sulla svolta culturale avvenuta in questi anni; l’idea che un paese si fa del rapporto di lavoro è infatti fondamentale per la qualità della democrazia e della socialità che si persegue. L’idea del lavoro ha conosciuto una crescita difficoltosa ma costante dalla seconda guerra mondiale e dalla sconfitta del fascismo fino agli anni novanta del secolo scorso, e un’involuzione decisiva nella legificazione dell’attuale governo; è significativo che essa avvenga sotto l’egida di un premier espresso dal più grande partito di sinistra, fino a venti anni fa simbolo del movimento operaio. Non siamo una eccezione, sono chiamati governi di sinistra o di coalizione con la sinistra quelli che trascinano l’Europa sulla via dell’austerità, con la restrizione dei diritti sociali, del welfare e della spesa pubblica.
Questa svolta culturale ha radici lontane. C’è da riflettere sul fatto che il movimento sociale più partecipato e liberatorio, quello del 1968, che esplode alla fine di un decennio di lotte, apre in Italia la strada a due nuove e decisive forme del politico: il movimento delle donne (femminista) e quello ecologico, fra loro disuniti, ma prorompenti su strati e soggetti sociali nuovi rispetto al movimento operaio, e spinti più che a integrarlo a metterlo sotto accusa per la balbuzie con i quali i suoi esponenti politici e sindacali, piuttosto che sposarne gli intenti, vi restano in concreto estranei. Femministe e verdi accusano la già eccessivamente conclamata “fabbrica” di sordità sulla questione delle donne (sordità dovuta al maschilismo dominante sia a destra che a sinistra) e, peggio, di aver appoggiato o addirittura spinto a uno sviluppismo industriale sconsiderato, cieco ai limiti del pianeta e quindi opposto alla sostenibilità della produzione e dei territori.
Sta di fatto che questi grandi filoni di critica del presente investono masse crescenti ma divise e incapaci di parlarsi, ciascuna in contrapposizione alle altre e aspirante all’egemonia. La cosiddetta crisi della politica è stata una porta spalancata al liberismo che pareva espulso dall’orizzonte e vi è trionfalmente rientrato, e con tanto più impatto in quanto che essa si verifica contemporaneamente al precipitare delle società dette comuniste. L’Unione sovietica, la Repubblica popolare cinese e Cuba, rivoluzioni nate in condizioni storiche diverse ma che hanno avuto in comune l’obiettivo della liberazione del lavoro dal capitale sono tutte e tre passate – dopo il 1989 – a forme esplicite di capitalismo di stato, aperto all’iniziativa privata.
È stato il caso più evidente di eterogenesi dei fini di un movimento internazionale giovanile che, mirando a un approfondimento inedito del pensiero politico moderno e delle sue principali istituzioni attraverso uno scavo delle radici dell’autoritarismo ai fini di una più compiuta liberazione della persona, perde di vista la mondializzazione del capitale, e ritenendo impossibile metterla in causa , ha finito con l’offuscare dalle coscienze l’importanza del rapporto di lavoro, un tempo considerato “centrale”.
Certo non da solo; le modifiche dell’organizzazione proprietaria e della produzione, il venir meno della grande fabbrica, già contenitore della parte essenziale della forza lavoro e quindi luogo deputato delle sue elaborazioni politiche e sindacali, ha favorito la presa profonda nella società di alcune realtà e di alcune favole: la fine della figura operaia, proprio mentre essa assumeva proporzioni inedite sul globo, la fine di una identificabile proprietà del mezzo di produzione, il moltiplicarsi delle esternalizzazioni e delle tipologie contrattuali, il dilagare del prodotto immateriale rispetto alla fisicità del prodotto industriale, l’immaterialità delle tecniche del processo produttivo, la crescita, rispetto alle capacità elementari del lavoro parcellizzato, del ricorso a un “intelletto generale” che implicava facoltà e molteplici saperi della vita urbana. Tutto questo ha prodotto e accompagnato la frammentazione della coscienza dei lavoratori e il minore impatto delle loro organizzazioni tradizionali. Sta di fatto che dagli anni ottanta in poi l’aderenza di una “coscienza operaia” alle trasformazioni proprietarie e del processo produttivo è andata sfocandosi e indebolendosi, mentre nel formarsi in misura crescente di movimenti puntuali ma separati, appare perduta un’interpretazione comune dell’avversario capitalistico e del “che fare” degli sfruttati. I gruppi di ricerca infittiscono ma non comunicano, neanche nelle forme razionali: c’è la separatezza dei sindacati anche in Europa, il frantumarsi di un’opinione politica comune, fatta eccezione per Syriza in Grecia e Podemos in Spagna.
Neanche quando il governo lancia un’operazione capitalistica su grande scala, come il Jobs act, essa produce una scossa immediata di percezione da parte del blocco popolare, probabilmente perché di “blocco” non si può più, o non ancora, parlare – e qui si viene alla proposta di coalizione sociale di Maurizio Landini. In Italia occorre molto tempo perché si realizzi una manifestazione nazionale di protesta, mentre l’infiacchirsi dei meccanismi maggioranza/opposizione in democrazia induce reazioni scomposte del governo.
Non va dimenticato infatti che il frutto più velenoso della “crisi della politica”, visibile specialmente negli eventi elettorali, è l’impoverimento della rappresentanza e delle sue regole primarie che dà luogo al confuso emergere di un “partito della nazione” immaginato da Renzi, in cerca di un’investitura popolare, che rinnovi i fasti del 40% ottenuto alle elezioni europee, sul quale si basa l’autorità di cui fa sfoggio per indebolire il patto costituzionale. La ricezione inizialmente senza intoppi – tranne quelli venuti dalla Cgil o, come questo lavoro, da Sbilanciamoci!, nel silenzio del Partito democratico – è significativa di un’ennesima caduta culturale e morale del paese. Di qui l’importanza negativa del Jobs act e di questo tentativo di opporgli una critica e un’alternativa, offerte come materiale di lavoro alla classe operaia e ai suoi gruppi di studio, cui spetta discuterle ed eventualmente modificarle.

Singolare articolo quello di Paolo Flores D’Arcais sull’ultimo numero di Micromega: per le affermazioni, per le omissioni, per le disinformazioni. La prima disinformazione riguarda la Liguria. Preferisce, forse a ragione, la candidatura di Anna Salvatore, del movimento cinque stelle, a quella di Luca Pastorino, sostenuto dalla lista Rete a sinistra e da un pezzo del PD. Ma coglie l’occasione per disinformare e tacere di un’altra candidatura e un’altra lista, affermando che la candidatura di Pastorino sarebbe sostenuta da Giorgio Pagano, il quale invece ha promosso e tuttora sostiene la candidatura di Antonio Bruno, per la lista l’Altra Liguria, che raccoglie l’eredità della lista europea con Tsipras.

La scelta che Floris d’Arcais propone per Venezia è singolare per un altro verso. Egli afferma, perentoriamente, che Felice Casson deve vincere al primo turno, perchè la vittoria del senatore «vuol dire una politica della legalità, che dopo un quarto di secolo di spadroneggiare bipartisan su scala nazionale dell’impunità di establishment equivale a una rivoluzione della legalità». Floris pone Casson in alternativa al PD, ma trascura due elementi che a mio parere impediscono di votare per lui anche a chi, come io stesso, ha la massima stima personale per l’antico magistrato e il nuovo senatore: eccellente in entrambi i suoi ruoli. Voglio ribadire le due ragioni che già al tempo delle primarie del PD mi convinsero a non sostenere la sua candidatura.

La prima ragione attiene al panorama nazionale. Sono fermamente convinto che Matteo Renzi e il suo partito, nonostante le minuscole sacche di resistenza passiva che sopravvivono al suo interno, costituisce oggi il peggior rischio per la democrazia italiana. La vittoria di Casson, candidato del PD di Renzi, sarebbe salutato dai media nazionali come una vittoria del Re Matteo, e rafforzerebbe ancora la sua infausta presenza al vertice del partito, del governo, del parlamento e, per interposta e vassalla persona, in ogni istituzione privata.

La seconda ragione sta nel fatto che, come si poteva supporre, per esser certo d’essere eletto Casson ha dovuto accettare il sostegno proprio di quell’apparato del PD, e dei sui succubi alleati, che ha provocato i peggiori danni alla città. Non è certo per caso che Casson abbia scelto come suo capolista Nicola Pellicani, l’uomo sostenuta alle primarie da Matteo Renzi, Massimo Cacciari, Giorgio Napolitano – e perfino da Luigi Brugnaro, esponente di una destra legata all’uso dei patrimoni e dei servizi pubblici, non priva di venature razziste e xenofobe. E non è per caso che non abbia ancora reso noti i nomi che comporranno la squadra con la quale governerebbe, se vincesse, la città e il suo territorio. Data la composizione dell’ampio gruppo di liste che lo sorreggono è lecito attendersi la presenza, nella sala di regia del comune, di numerosi personaggi che hanno contribuito al degrado di Venezia nei passati decenni, e l’applicazione delle antiche regole della spartizione dei posti di rilievo.

La passione del direttore di Micromega per Casson lo induce poi a un’altra omissione, che nel contesto elettorale assume il valore di una disinformazione. Egli tace sulla presenza di altre liste che pur si collocano all’interno dell’area politica e culturale cui la rivista, e il suo direttore, si rivolgono. Mi riferisco alla lista Veneziacambia 2015, costituita da un gruppo di cittadini che hanno nei mesi scorsi svolto un lungo percorso di analisi e proposta per definire un programma di governo finalizzato al maggior benessere delle persone, e non alla crescita degli affari che da alcuni decenni si fanno sulla città. E’ la lista che presenta come suo candidato Giampietro Pizzo, fiancheggiato da una lista in cui non c’è nessuno che abbia assunto responsabilità istituzionali nelle precedenti sindacature: questi ultimi sono tutti considerati da un’ampia porzione della cittadinanza - e non a torto - complici delle scelte sbagliate che le giunte comunali hanno compiuto, dalla giunta Cacciari fino alla giunta Orsoni.

La lista comunale Veneziacambia 2015 è politicamente e culturalmente legata a una lista regionale (Vanezia non si può governare senza una forte presenza della Regione), denominata “Altro Veneto – Ora possiamo” anch’essa composta da persone che non hanno avuto nessuna responsabilità istituzionale nei decenni trascorsi. Anch’essa si oppone recisamente all’ideologia e alla prassi del renzismo, del quale è invece piena espressione la candidata per la presidenza regionale del PD. Candidata alla carica di presidente della regione nella lista “Altro Veneto” è Laura di Lucia Coletti, una insegnante di discipline umanistiche alle scuole superiori, impegnata da anni nei comitati che si battono per la difesa dei diritti, del territorio e dell’ambiente, del lavoro e per la salute.

La lista di Giampietro Pizzo e quella di Laura di Lucia sono entrambe il risultato di una vasta mobilitazione di donne e uomini oggi distanti (e nauseati) dai comportamenti dei partiti tradizionali. Esprimono tutti la volontà di impegnarsi in una politica nuova, che “restituisca al popolo lo scettro del potere” e sono tutti impegnati nei numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva che combattono gli effetti delle scelte sbagliate da 15 anni di malapolitica. La lotta alla corruzione, il ripristino della legalità, il restauro del primato del potere pubblico sul potere privato, e quello degli interessi delle persone su quello dei “mercati”, del salario e del profitto sulla rendita, il netto contrasto alle Grandi opere e alla liquidazione del patrimonio immobiliare pubblico: questi sono alcuni dei punti comuni alle due liste di cui Flores d’Arcais ignora l’esistenza

Le scelte del direttore di Micromega sono ovviamente legittime, come l’aver limitato il suo invito agli elettori di due sole regioni. E comprendo che, non essendo egli esperto di cose veneziane, abbia informazioni diverse dalle mie, che vivo a Venezia da quasi mezzo secolo. Ho voluto fornire ai lettori di questo sito alcune informazioni che Flores non aveva dato, o aveva dato in modo inesatto, anche per tentar di riparare almeno un po’ all’orrendo silenzio stampa che avvolge le formazioni politica piccole, nuove, povere e non bizzarre (bella lezione di democrazia applicata quella che viene dai grandi media!).

Mi resta una curiosità personale. Come mai le formazioni politiche che Flores trascura o su cui fornisce informazioni sbadate sono proprio quelle che nascono dall’esperienza della lista “L’Altra Europa con Tsipras”, di cui è stato uno dei promotori?

Micromega, 26 maggio 2015

Domenica prossima si vota. In sette regioni e in numerosi comuni. Dall’esito delle urne dipenderanno anche molte questioni nazionali. Per il comune di Venezia e per la regione Liguria la posta in gioco è molto più grande: un’occasione straordinaria per la democrazia di mettere un argine e lanciare un segnale per invertire la rotta rispetto alla deriva di berlusconismo senza Berlusconi rappresentata dal governo Renzi.

Vittoria della democrazia significa, a Venezia, elezione di Felice Casson al primo turno. Casson vuol dire una politica della legalità, che dopo un quarto di secolo di spadroneggiare bipartisan su scala nazionale dell’impunità di establishment equivale a una rivoluzione della legalità. Tanto più necessaria a Venezia, dove il ceto politico quasi nella sua interezza, duce Galan, si è reso promotore mallevadore o tre scimmiette (non vedo, non sento, non parlo) della melma di corruzione chiamata Mose.

Casson ha vinto le primarie contro le nomenklature vecchie e nuove del Pd, l’appoggio del partito in questa campagna elettorale è spesso tiepido. Se dovesse andare al ballottaggio tutte le forze della Venezia degli affari e malaffari e privilegi si salderebbero in una santa alleanza contro il “giustizialismo”, con tanto di santificazione delle megalopoli da crociera che ogni giorno mettono a rischio l’incolumità di Venezia. Riuscire a far vincere, e magari stravincere, la candidatura di Felice Casson al primo turno vorrebbe dire che la società civile, di nome e di fatto, non ha rinunciato alla presenza politica, non si è rassegnata al sonno della ragione e ai suoi mostri.

Vittoria della democrazia significa, in Liguria, elezione a governatore di Alice Salvatore, candidata del Movimento 5 stelle. Miracolo possibile, miraggio che può diventare realtà. La grancassa mediatica cerca di accreditare uno scontro tra la candidata del burlandismo-scajolismo ligure di decenni, Raffaella Paita, e il “dissidente” Pd Luca Pastorino, ma si tratta di una bufala in perfetta disinformacjia brezneviana, anzi di una duplice bufala. Intanto dell’eretico Luca Pastorino non ha un bel nulla, è un perfetto esemplare di uomo di apparato appoggiato da pezzi di apparato (ad esempio l’ex sindaco di La Spezia Pagano, di cui la Paita fu capo di gabinetto). Insomma, una faida dentro la nomenklatura Pd, niente di più. In secondo luogo tutti i sondaggisti, nelle anticamere delle trasmissioni televisive, sciorinano con preghiera di massima discrezione e riserbo, la verità dei sondaggi più aggiornati: Pastorino è totalmente fuori gioco, come Toti del resto, il fotofinish è tutto tra Paita e Alice Salvatore.

In Liguria dipenderà insomma da ogni singolo voto fino all’ultimo singolo istante di urne aperte. Alice Salvatore ha scoperto l’impegno civile coi girotondi e costituisce l’unica possibilità per la Liguria di sottrarsi al gorgo di immondizia morale, inefficienza tecnica, saccheggio e distruzione di risorse (materiali, ecologiche, culturali), insomma abiezionein cui l’ha precipitata l’intero ceto politico.

Sarebbe doveroso che quanto ancora resta di società civile nel tessuto ligure, nelle professioni, nella cultura, nel sindacalismo, nell’ecologismo, in una classe operaia ancora non interamente cancellata, pronunciasse ad alta voce il suo outing per la candidatura di Alice Salvatore, mettendo tra parentesi le tante ragioni di diffidenza verso il movimento di Grillo e Casaleggio, perché ora e qui conta solo mettere fine al ventennio di burlandismo-scajolismo, e al renzismo che se ne fa evidentemente erede. Come sarebbe doveroso e soprattutto intelligente, da parte del M5S ligure, uscire da una logica troppo frequente di autoreferenzialità, fare esplicito appello a tutta la società civile, capire che si può vincere solo conquistando i voti del partito oggi maggioritario, quello del non voto, dei cittadini oberati dalle delusioni e conseguente apatia.

La mia speranza è che ogni cittadino che abbia ancora a cuore la democrazia e non sia totalmente rassegnato, faccia quanto può, direttamente o indirettamente, perché a Venezia e in Liguria una bandierina di democrazia segni l’altolà alla deriva di liberismo autocratico che da un quarto di secolo ci sta immelmando. Direttamente, per chi in quelle zone vota, indirettamente, perché nell’epoca dei social network ciascuno ha l’opportunità di influire, di sollecitare amici e conoscenti, di esercitare opinion-leadership a distanza, di portare voti autentici, che bilancino e travolgano i voti comprati, i voti di scambio, i voti del clientelismo, i voti della rassegnazione, che ingrassano chi ha spolpato questo paese.


Volavano gli elicotteri, ieri, sulla notte madrilena. Ma non per controllare dall’alto calle Génova, via della storica sede del Partito popolare: per la prima volta qui il tradizionale balcone della vittoria è rimasto vuoto, nonostante la candidata sindaco Esperanza Aguirre abbia guadagnato un seggio in più. La polizia sorvolava la Cuesta de Moyano, dove migliaia di cittadini ascoltavano la diretta avversaria Manuela Carmena, giudice impegnata nella tutela dei diritti umani: “Ha vinto il cambiamento. Ha vinto la cittadinanza. Avete vinto voi”. I simpatizzanti di Ahora Madrid, lista di Podemos, si erano dati appuntamento vicino al museo Reina Sofía fin dal primo pomeriggio. Poi, in serata, al suono della banda ufficiale e del noto slogan “Sì, se puede” con l’arrivo del leader Pablo Iglesias, cominciava la festa. Il terremoto annunciato per la politica spagnola alla fine si è verificato alle amministrative e regionali di ieri (gli spagnoli sono andati alle urne per rinnovare 8.122 municipalità oltre che per assegnare i seggi nei parlamenti di 13 delle 17 regioni del Paese), che hanno visto i post-indignados di Podemos prendere Barcellona, avvicinarsi anche alla conquista della capitale e imporre ai due grandi partiti tradizionali Pp e Psoe un drastico ridimensionamento: 4 anni fa i popolari aveva ottenuto la maggioranza assoluta in 8 regioni, oggi devono scendere a patti con altre forze politiche.

Madrid vince il Pp, ma Podemos verso alleanza con il Psoe. Esperanza Aguirre ha vinto ma sa già che non potrà governare facilmente: sommando i 21 seggi agli ipotetici 7 di Ciudadanos non riuscirebbe comunque ad ottenere la maggioranza assoluta. La candidata di Ahora Madrid invece, con 20 seggi, insieme al Psoe di Antonio Miguel Carmona, potrebbe ottenere 29 scranni e le chiavi del palazzo della capitale spagnola. Per Iglesias è l’inizio della fine del bipartitismo: “Pp e Psoe hanno registrato uno dei peggiori risultati della loro storia” e “il cambiamento ora è irreversibile”, ha detto chiaro e tondo. Popolari e socialisti sono in realtà ancora i primi due partiti, ma insieme sommano il 53% e per governare dovranno scendere a patti.

Cresce anche Ciudadanos: è il terzo partito Il Partito popolare resta in generale infatti il più votato (27%), ma perde l’egemonia degli ultimi vent’anni e quasi tre milioni di preferenze: da oggi la possibilità che gli azzurri tornino a sedersi sulle stesse poltrone non dipenderà più da loro, ma dalla capacità di alleanza delle forze opposte. Il Pp perde quasi tutte le maggioranze assolute nelle regioni come nella principali città del Paese e, probabilmente, il potere in Cantabria, in Castilla-La Mancha e nelle comunità autonome di Valencia e Madrid. Inoltre, una coalizione di sinistra avrebbe la possibilità di sottrarre al partito gli esecutivi di Aragón, Extremadura e Baleari. Dietro al Psoe, che si ferma al secondo posto con il 25% delle preferenze e la conquista della città di Siviglia, sorprende l’ascesa inarrestabile di Ciudadanos, che da oggi diventa terza forza politica, anche se Podemos – che non ha lista propria – non entra a far parte dei dati pubblicati dal ministero degli Interni. È lo stesso leader Albert Rivera a commentare a caldo che il suo partito ha triplicato l’appoggio ottenuto alle elezioni europee del 2014, gettando le basi per vincere le prossime politiche. “Siamo qui e stiamo facendo la Storia”.

A Barcellona vince Ada Colau, paladina degli sfrattati Ma è da Barcellona che arriva il primo vero cambiamento: una “okkupa” si aggiudica la poltrona di sindaco. Ada Colau, 41 anni, attivista e fondatrice della Pah, la piattaforma per le vittime degli sfratti, ottiene il 25,20% e 11 consiglieri con la formazione civica Barcelona en Comú, appoggiata da Podemos, contro il 22,7% e 10 seggi del sindaco nazionalista uscente, Xavier Trias. Segue la formazione indipendentista di Convergencia i Unió dell’attuale presidente della Generalitat Artur Mas con 10 seggi, Ciudadanos con 5 e i socialisti con 4. “È la vittoria di Davide contro Golia” ha detto commossa davanti alla platea e ha ricordato, anche senza aver ottenuto la maggioranza assoluta, che si tratta di un successo “collettivo” dei cittadini contro “il voto della rassegnazione”. A Valencia invece migliaia di cittadini si sono riuniti nella centrale plaza del Ayuntamento per celebrare la sconfitta della popolare Rita Barberá, dopo 24 anni di governo. Il Pp perde la maggioranza assoluta e cede il passo al Psoe che ottiene il 20,4% e 23 scranni, seguito dalla lista civica di Compromís, con 20 seggi.

Tutto da rivedere insomma: adesso si apre la stagione di alleanze, di governi privi di maggioranza assoluta e di opinioni da tenere in conto. L’unica cosa certa è che le due nuove formazioni di Podemos e Ciudadanos da oggi non sono più solo uno stato d’animo, ma entrano a pieno titolo nelle istituzioni locali. E il sistema del bipartitismo, che ha governato la Spagna dalla fine del franchismo, sembra cedere il posto ad un quadro molto più frammentato.

Il manifesto, 24 maggio 2015

LA CGIL A RENZI:
«DERIVA TOTALITARIA»

di Roberto Ciccarelli


Lavoro. Il premier: «Sogno un sindacato unico». Camusso: «Si dice unitario». Furlan: «Basta con l'uomo solo al comando». Critico anche Sacconi (Ncd). Ma il premier su La7 bersaglia anche la Fiom: «Marchionne batte Landini 3-0»

Il sin­da­cato unico sognato da Renzi «esi­ste solo nei regimi tota­li­tari». Per la segre­ta­ria gene­rale della Cgil Susanna Camusso l’uscita del pre­si­dente del con­si­glio a"Bersaglio mobile" su La7 è «con­cet­tual­mente sba­gliata per­ché pre­sup­pone che la tota­lità di orien­ta­menti e la rap­pre­sen­tanza di tutti i sog­getti, anche diversi, che vi sono nel mondo del lavoro, ven­gano inclusi in un pen­siero unico che non fa parte della moder­nità. Penso invece che il tema del sin­da­cato sia quello del sin­da­cato unitario».
In realtà la «moder­nità» sognata da Renzi è quella legata alla pro­dut­ti­vità dell’impresa, dun­que alla con­trat­ta­zione azien­dale e non a quella nazio­nale e di cate­go­ria. Que­sta pra­tica, che costi­tui­sce l’obiettivo della destra neo­li­be­ri­sta e della Bce di Mario Dra­ghi – secondo il quale «la disoc­cu­pa­zione viene com­bat­tuta meglio dalla nego­zia­zione azien­dale che da quella nazio­nale» — è stata richia­mata da Renzi nella mede­sima inter­vi­sta quando ha citato lo smacco della Fiat Chry­sler Auto­mo­bi­les (Fca) alla Fiom: «Mar­chionne – ha detto Renzi – è la dimo­stra­zione che la scom­messa sin­da­cale di Lan­dini è una scon­fitta. Ha ria­perto le fab­bri­che e da un punto di vista sin­da­cale Mar­chionne batte Lan­dini 3 a 0».
Ai lavo­ra­tori Fca, e pros­si­ma­mente anche a quelli Cnh Indu­striai, Marelli, Tek­sid e Comau, sono stati desti­nati a mag­gio bonus da 77, 82 o 101 euro a seconda dell’area pro­fes­sio­nale, per un totale medio di 330 euro in 12 mesi, per quat­tro anni, legati alla red­di­ti­vità azien­dale e desti­nati anche a chi è in cassa inte­gra­zione. In virtù di un accordo che esclude la Fiom, e sot­to­scritto dagli altri sin­da­cati, la Fca mira alla «pro­gres­siva messa in sof­fitta del vec­chio inqua­dra­mento anni ’70».

L’intesa, defi­nita da Camusso e Lan­dini come un «vul­nus nell’unità sin­da­cale» è stata dun­que usata da Renzi per attac­care l’idea stessa del sin­da­cato e, in gene­rale, di «corpo inter­me­dio» nella con­trat­ta­zione sul sala­rio tra l’imprenditore e il lavo­ra­tore. Un attacco poli­tico non nuovo che usa le con­trad­di­zioni tra i sin­da­cati, e la loro debo­lezza poli­tica, con­tro la stessa idea di sin­da­cato novecentesco.
L’attacco avviene nell’ambito della stra­te­gia indi­cata da Dra­ghi, e già nota dalla famosa let­tera della Bce al governo Ber­lu­sconi nel 2011. Renzi, però, è andato oltre e trat­teg­gia un oriz­zonte dove viene meno il plu­ra­li­smo e la rap­pre­sen­ta­ti­vità dei sin­da­cati pre­vi­sta dall’arti. 39 della Costituzione.
Con il sistema delle rela­zioni sin­da­cali della società for­di­sta, il pre­si­dente del Con­si­glio vuole eli­mi­nare un pila­stro delle società liberal-democratiche.

Lo ha ammesso per­sino uno dei pala­dini della con­trat­ta­zione azien­dale come Mau­ri­zio Sac­coni. L’alleato di governo ha cri­ti­cato Renzi: «Anche la sola spe­ranza di un sin­da­cato unico — ha detto — è incom­pa­ti­bile non solo con la sto­ria plu­rale della nazione ma anche con l’idea di una società libera in cui i lavo­ra­tori, come gli impren­di­tori, si asso­ciano in forme varie che tra loro si rela­zio­nano liberamente».

L’ipotesi pro­spet­tata da Renzi sarebbe uno sce­na­rio ine­dito nei paesi a capi­ta­li­smo avan­zato, a comin­ciare dalla Ger­ma­nia dove, anzi, vige la coge­stione nelle grandi fab­bri­che. Un prin­ci­pio, la coge­stione appunto, che rien­trava in una delle bozze far­loc­che del Jobs Act messe in giro prima che il prov­ve­di­mento diven­tasse realtà.

Tutti i sin­da­cati sono inter­ve­nuti, con le sfu­ma­ture ideo­lo­gi­che del caso.«L’Italia non ha biso­gno di un sin­da­cato unico — ha detto Anna­ma­ria Fur­lan, della Cisl — ma di sin­da­cati respon­sa­bili e rifor­ma­tori, capaci, come ha fatto sem­pre la Cisl nella sua sto­ria, di gui­dare le tra­sfor­ma­zioni del paese con una linea par­te­ci­pa­tiva e non anta­go­ni­stica». Car­melo Bar­ba­gallo della Uil va al cuore del popu­li­smo ren­ziano: «Sem­bra che Renzi voglia espor­tare il modello dell’uomo solo al comando anche nel mondo del lavoro e del sociale». «Final­mente Renzi ha ammesso di volere un paese a sua imma­gine e somi­glianza – sostiene Fran­ce­sco Paolo Capone (Ugl) — par­tito della nazione, terzo pre­si­dente del con­si­glio non eletto, abo­li­zione del voto nelle pro­vin­cie e in senato». È lo stesso pro­getto appli­cato alla scuola con il pre­side mana­ger, anche se Renzi e il Pd sem­brano volerlo annac­quare al senato.

SINDACATO,
UN DESTINO DA ARTICOLO 18

di Umberto Romagnoli

Alzi la mano chi si è mera­vi­gliato della bat­tuta di Mat­teo Renzi. In realtà, c’era da mera­vi­gliarsi che con­ti­nuasse a man­care dal suo reper­to­rio. Ma non si creda che gli sia stata sug­ge­rita da uno dei suoi spin doc­tor. È farina del suo sacco. È spon­ta­nea. Anche se, sotto sotto, c’è la curio­sità di vedere l’effetto che avrebbe pro­dotto nel mondo sin­da­cale un pre­mier che fa sua l’opinione in cir­co­la­zione da chissà quanto tempo tra i clienti di un bar, men­tre sor­seg­giano l’aperitivo, o di un bar­biere, men­tre aspet­tano il turno. Dun­que, non si può liqui­dare la bat­tuta come se fosse una improvvisazione.

C’è invece più di un motivo per dare ragione ad Altan che pro­prio in que­sti giorni si sta chie­dendo se sia «meglio una poli­tica che non fa un tubo o una che ne com­bina una ogni giorno». L’ultima, infatti, è quella di avviare un discorso pub­blico sulla riforma del sistema sin­da­cale nella maniera più dirom­pente pos­si­bile, valo­riz­zando cioè la bana­lità e spe­cu­lando sulla disin­for­ma­zione e sui pre­giu­dizi.

Non a torto, per­ciò (per ripor­tare un po’ di razio­na­lità e al tempo stesso dimo­strare come i sin­da­cati sap­piano bene ciò che devono fare) l’attuale Segre­ta­rio gene­rale della Cisl Anna­ma­ria Fur­lan ha rite­nuto di doversi richia­mare al trit­tico con­fe­de­rale assem­blato con la Con­fin­du­stria nel cosid­detto Testo Unico del 2014, anch’esso ani­mato dalla tra­spa­rente inten­zione di pre­fab­bri­care l’impianto di un futu­ri­bile inter­vento legi­sla­tivo che lo stesso Renzi par­rebbe dispo­sto a con­get­tu­rare. Io tut­ta­via sono del parere che, anche qua­lora tale evento si pro­du­cesse, il pro­blema della rap­pre­sen­tanza sin­da­cale si por­rebbe egual­mente. Infatti, la rap­pre­sen­tanza sin­da­cale è in crisi non solo a causa del vuoto di diritto in cui la con­trat­ta­zione col­let­tiva vive da una set­tan­tina di anni, ma anche (e ormai soprat­tutto) per­ché si è affie­vo­lita la capa­cità del sin­da­cato di rispec­chiare la realtà.

È da qui che biso­gna par­tire ed è per que­sto che biso­gna veri­fi­care la qua­lità della rap­pre­sen­tanza che il sin­da­cato è capace di offrire di fronte alla domanda pro­ve­niente da una base mutata sia nella sua com­po­si­zione socio-professionale che sul piano antropologico-culturale, a comin­ciare dall’universo femminil-giovanil sco­la­riz­zato.

Vice­versa, pur essendo ricco di solu­zioni giuridico-formali nel ten­ta­tivo, in sé enco­mia­bile, di far uscire il con­tratto col­let­tivo da una crisi dipen­dente dall’eccesso d’informalità, il Testo Unico non con­tiene se non un prin­ci­pio di rispo­sta: la sola fes­sura da cui tra­pela la con­sa­pe­vo­lezza della sua esi­stenza è costi­tuita dalla pre­vi­sione che i con­tratti nazio­nali saranno sot­to­scritti «pre­via con­sul­ta­zione cer­ti­fi­cata delle lavo­ra­trici e dei lavo­ra­tori a mag­gio­ranza semplice».

Si met­tano pure da parte le per­ples­sità cau­sate dall’indeterminatezza delle pro­ce­dure e dalla vaghezza della loro obbli­ga­to­rietà. Accan­to­nare invece non si può la cir­co­stanza che nell’insieme il Testo Unico, dando il mas­simo risalto alla «esi­gi­bi­lità» del con­tratto col­let­tivo, cele­bra l’elogio dell’efficacia cogente degli impe­gni con­trat­tuali e spon­so­rizza il deci­sio­ni­smo dei ver­tici nien­te­meno che al livello che sem­bra desti­nato a diven­tare il ful­cro dell’intero sistema con­trat­tuale. Pre­vede infatti che i con­tratti azien­dali sono effi­caci per tutto il per­so­nale «se appro­vati dalla mag­gio­ranza dei com­po­nenti delle rsu» e, se fir­mati da rsa, sono sot­to­po­ni­bili a veri­fica entro certi limiti ed a certe con­di­zioni.

Non può certo sor­pren­dere che il Testo Unico affronti il pro­blema della rap­pre­sen­tanza sin­da­cale nell’ottica della con­trat­ta­zione col­let­tiva pri­vi­le­giando il ruolo d’ordine che i fir­ma­tari sareb­bero tenuti a garan­tire. Anzi, è one­sto rico­no­scere come sia poco meno che sen­sa­zio­nale che in quella sede le parti abbiano tenuto in qual­che modo conto che, dopo­tutto, la rap­pre­sen­tanza è uno stru­mento di eser­ci­zio del potere del rap­pre­sen­tante sui rap­pre­sen­tati. Que­sto infatti è un pro­blema che appar­tiene ad una dimen­sione schiet­ta­mente endo-associativa e la Con­fin­du­stria non c’entra per nulla né ha qual­cosa da insegnare.

Quindi, l’auto-riforma del sin­da­cato è senz’altro la via migliore. In astratto. In con­creto, però, non si col­gono segni signi­fi­ca­tivi dell’interesse del sin­da­cato ad ispe­zio­nare il lato nasco­sto della rap­pre­sen­tanza che è suo com­pito eser­ci­tare. Lo stesso Testo Unico è rima­sto let­tera morta. Per que­sto, può suc­ce­dere che sia il par­la­mento — lo stesso par­la­mento che non senza inge­nuità un’opinione pub­blica stufa di par­titi inca­paci di gestirsi in maniera decente sol­le­cita ad occu­par­sene mediante una legge ad hoc — che fini­sce per appa­rire la sede più adatta. In astratto. In con­creto, il governo Renzi, che non con­si­dera il sin­da­cato come l’interlocutore col quale con­fron­tarsi nem­meno in vista dell’adozione di misure in mate­ria di lavoro, dimo­stra di volere che fac­cia la fine dell’articolo 18: scom­pa­rire senza la neces­sità di abrogarlo.

Il manifesto, 24 maggio 2015

La com­me­dia delle bugie e delle prese in giro del governo sugli F35 è finita. A pagina 144 del Docu­mento pro­gram­ma­tico plu­rien­nale per la Difesa appena «pre­sen­tato al par­la­mento dalla mini­stra Roberta Pinotti» si legge a pro­po­sito del pro­gramma F35: «Oneri com­ples­sivi sti­mati per circa 10 miliardi: com­ple­ta­mento pre­vi­sto 2027».

Nel set­tem­bre del 2014 la camera aveva appro­vato una mozione (a prima firma Scanu del Pd) che impe­gnava il il governo «a rie­sa­mi­nare l’intero pro­gramma F35 per chia­rirne cri­ti­cità e costi con l’obiettivo finale di dimez­zare il bud­get finan­zia­rio ori­gi­na­ria­mente pre­vi­sto». Quella mozione non vale più niente, è carta strac­cia. Il governo ha preso in giro il par­la­mento e l’Italia per mesi. E ha preso in giro chi in que­sti anni (dalla cam­pa­gna Taglia le ali alle armi al mani­fe­sto) è stato in prima fila nella richie­sta di can­cel­la­zione del pro­gramma F35. Il governo prima ha detto che avremmo avuto la rispo­sta alla mozione della Camera nelle «risul­tanze» (espres­sione cara alla Pinotti) del Libro bianco sulla Difesa. Poi — non avendo tro­vato nulla nel Libro bianco — ci ha detto che avremmo avuto sod­di­sfa­zione nel Docu­mento pro­gram­ma­tico: sì, l’amara sod­di­sfa­zione di sapere di essere stati imbro­gliati da un governo infido.

Le avvi­sa­glie c’erano state qual­che giorno fa alla pre­sen­ta­zione in par­la­mento del Libro bianco. Un libro vuoto, invi­si­bile, inu­tile. Un docu­mento mode­sto, fatto in gran parte di bana­lità, a tratti imba­raz­zante. Un docu­mento in cui si parla ancora di bipo­la­ri­smo, muro di Ber­lino, inte­ressi nazio­nali, vil­lag­gio glo­bale (una novità), dove si auspica una poli­tica della difesa ed estera per un mondo migliore (ma va!).

Un docu­mento in cui si parla della neces­sità di una nuova «postura» (sic) dello stru­mento mili­tare e di valo­riz­zare la dimen­sione «capa­ci­tiva» (ri-sic) della nostra difesa: a volte il tra­dut­tore di Goo­gle tra­di­sce. Un docu­mento in cui si afferma la neces­sità di ricon­durre al mini­stro della difesa una mag­giore cen­tra­lità della dire­zione poli­tica: per fare que­sto ser­vono mag­giori con­su­lenti (in deroga alla spen­ding review), che vanno sotto il nome di «uffici di diretta col­la­bo­ra­zione». Una richie­sta roboante per un po’ di staff esterno in più.

Un docu­mento in cui natu­ral­mente non si parla degli F35.

E poi è arri­vato que­sto Docu­mento pro­gram­ma­tico che non cam­bia nulla rispetto al pas­sato. Avanti tutta con i cac­cia­bom­bar­dieri: i finan­zia­menti non si toc­cano. Con rara ipo­cri­sia, il docu­mento parla di «rispetto delle mozioni» e di «note­vole dimi­nu­zione» della spesa per gli F35: ma è quella che aveva già fatto 3 anni fa l’ex mini­stro della difesa Giam­paolo Di Paola. Per mesi la mini­stra ed ex paci­fi­sta Pinotti non ha rispet­tato le deci­sioni del par­la­mento. Adesso la cla­mo­rosa con­ferma. Roberta Pinotti è poli­ti­ca­mente ed isti­tu­zio­nal­mente ina­de­guata alla sua deli­cata fun­zione di governo. Sel ne ha chie­sto uffi­cial­mente le dimis­sioni. Nei pros­simi giorni rac­co­glierà le firme per for­ma­liz­zare e depo­si­tare la richie­sta alla camera.

Tre anni fa l’ex ammi­ra­glio Di Paola — cui pure non abbiamo rispar­miato dure cri­ti­che — decise in quat­tro e quattr’otto di tagliare 41 cac­cia F35 (da 131 a 90) facendo rispar­miare più di 5 miliardi di euro al paese. Nella pic­cola sto­ria ita­liana degli F35, la Pinotti sarà ricor­data per essersi sot­tratta alle deci­sioni par­la­men­tari e non avere ridotto la spesa per gli F35 e Di Paola per avere deciso senza tanti indugi di rin­viare alla Loc­kheed 41 cac­cia­bom­bar­dieri. È una bella lotta ed è para­dos­sale dirlo, ma — sugli F35 — meglio l’ex ammi­ra­glio che l’ex paci­fi­sta. Rida­teci Di Paola.

Il manifesto, 23 maggio 2015
In Libano ci sono 1,6 milioni di pro­fu­ghi siriani (oltre a 500mila pale­sti­nesi, lì da decenni): il 36 per cento (il 48, con i pale­sti­nesi) della popo­la­zione; in Gior­da­nia ce ne sono 600mila (su 6 milioni di abi­tanti, oltre a 1,7 milioni di pale­sti­nesi). In Tur­chia 650mila; in Iraq 250mila; in Iran 2 milioni (più tutti gli afgani). All’interno della Siria gli sfol­lati sono 6,5 milioni. In Egitto i pro­fu­ghi di diversa pro­ve­nienza sono oltre 500mila; in Libia non si sa: secondo il pro­cu­ra­tore di Palermo Sca­lia circa un milione. In Nige­ria Boko Haram, ma anche Eni e Shell, hanno creato 3,2 milioni di pro­fu­ghi: metà è già in Ciad, Came­run e Niger; metà sta cer­cando di fuggire.

Dif­fi­cile, in que­sti disa­stri, distin­guere pro­fu­ghi di guerra, pro­fu­ghi ambien­tali e “sem­plici” migranti. Poi c’è un milione di pro­fu­ghi del Don­bass: metà in Rus­sia, metà in Ucraina. Unhcr (l’agenzia dell’Onu che si occupa dei pro­fu­ghi), Croce rossa e Mez­za­luna rossa stanno finendo i fondi per assi­sterli, peral­tro, in con­di­zioni inso­ste­ni­bili: 41 per cento dei gio­vani “ospi­tati” in quei campi pro­fu­ghi, dice un’inchiesta, pensa al sui­ci­dio come unica via di uscita. Per­ché die­tro quei numeri ci sono delle per­sone: donne, vec­chi, bam­bini, uomini sfiancati.

E’ una situa­zione desti­nata a porre fine per sem­pre, in Europa, all’idea di una “nor­ma­lità” delle nostre vite. Per­ché i “flussi” visti finora sono desti­nati a mol­ti­pli­carsi. Ma quei pro­fu­ghi non sono migranti: tutti o quasi vor­reb­bero tor­nare a casa loro quando tor­nerà la pace. Ma sanno che non tor­nerà per molti anni. Nel frat­tempo cer­che­ranno in tutti i modi di rag­giun­gere l’Europa, anche a rischio della vita. Non hanno alter­na­tive. Inol­tre, molti di loro vedono nell’Europa un retro­terra, la zona forte di un’area che abbrac­cia Medi­ter­ra­neo, Medio Oriente e Africa cen­tro­set­ten­trio­nale, men­tre noi euro­pei non sap­piamo ancora vedere in quei ter­ri­tori mar­to­riati, in gran parte dalle nostre guerre, una pro­pag­gine delle nostre società.

Ma che cosa fa l’Europa e chi governa? Dichiara guerra ai pro­fu­ghi. Ai pro­fu­ghi, non agli sca­fi­sti. Bloc­care gli sca­fi­sti (oggi in Libia, domani chissà dove), posto che sia fat­ti­bile, signi­fica con­dan­nare cen­ti­naia di migliaia di fug­gia­schi a rima­nere dove sono: alla fame, al freddo e al caldo sof­fo­cante; spesso in preda a regimi o bande che li tor­tu­rano, li rapi­nano, le stu­prano, li ucci­dono. Fer­marli prima che rag­giun­gano la Libia, o altri porti, è ancora peg­gio: vuol dire allar­gare il fronte di guerra agli “sca­fi­sti del deserto”. Se tante per­sone fug­gono, sapendo che cosa li aspetta, è per­ché non hanno altra scelta. Voi che cosa fare­ste al loro posto? Respin­gerli signi­fica con­dan­narli a morte.

Il popolo tede­sco e chi viveva accanto ai campi di ster­mi­nio sape­vano. Sape­vano anche i governi alleati che non bom­bar­da­vano le fer­ro­vie ger­ma­ni­che per non dover acco­gliere, a guerra finita, gli ebrei soprav­vis­suti. Ma nean­che Hitler, all’inizio, voleva ster­mi­nare gli ebrei; voleva spe­dirli in Mada­ga­scar. Poi…Oggi chi invoca i respin­gi­menti sa benis­simo di pro­porre uno ster­mi­nio. Se i pro­fu­ghi noi non li vogliamo, come è pos­si­bile costrin­gere a “tener­seli” tanti Stati più fra­gili dei nostri, senza che ciò signi­fi­chi auto­riz­zarli a sba­raz­zar­sene in qual­siasi modo?

C’è un’alternativa a tutto ciò? C’è se si ammette che per noi, in Europa, è finita per sem­pre la nor­ma­lità. Sette anni di crisi, d’altronde, un po’ ce lo hanno inse­gnato. Non basta pro­porre cor­ri­doi uma­ni­tari per­ché pro­fu­ghi e fug­gia­schi rag­giun­gano in sicu­rezza le loro mete. Que­sto affronta (e non risolve) il prima. Ma che ne è del poi? Si pos­sono gestire cen­ti­naia di migliaia di pro­fu­ghi, e poi forse milioni, con i Cie, i Cara, gli Sprar? E affi­dare a ladri di Stato come Buzzi o le asso­cia­zioni di Alfano la gestione di un sistema che tiene lì a far niente, per anni, per­sone in gran parte gio­vani e sane, esi­ben­dole in que­sto ozio for­zato a una popo­la­zione aiz­zata a con­si­de­rarle nient’altro che un peso? E tra­sfor­mando la poli­zia in “sca­fi­sti di Stato” per aiu­tarle a pas­sare i con­fini, o farle scap­pare in massa dai cen­tri, o lasciarle ad arran­giarsi in mezzo alla strada, per­ché la con­ven­zione di Dublino pre­scri­ve­rebbe all’Italia di trat­te­nerle per sem­pre sul pro­prio suolo?

Solo ora i governi dell’Unione comin­ciano a rea­liz­zare che quei flussi non si pos­sono fer­mare nel modo faci­lone e cri­mi­nale su cui hanno tro­vato l’accordo: sor­ve­glianza armata alle fron­tiere e guerra agli sca­fi­sti. E allora si sfi­lano, uno dopo l’altro, dagli obbli­ghi di soli­da­rietà inter­sta­tuale (e se mai accet­te­ranno delle quote, sarà solo per con­trol­lare che tutto il resto non possa più scon­fi­nare: per l’Italia sarebbe ancor peg­gio). I pro­fu­ghi? se la veda il paese dove sbar­cano! Ma que­sta ripulsa della soli­da­rietà inter­sta­tuale suona a morto per l’Unione. E se Renzi non ha sol­le­vato la que­stione quando ne era alla Pre­si­denza, è per­ché rap­pre­senta più di tutti quella cul­tura da ragio­nieri che la sta distrug­gendo con l’austerity, e che ora pre­tende di risol­vere un pro­blema geo­po­li­tico di dimen­sioni pla­ne­ta­rie affon­dando dei bar­coni di legno con appa­rati da guerre stellari.

L’alternativa, allora, è un grande e lun­gi­mi­rante piano di coo­pe­ra­zione allo svi­luppo. Quei pro­fu­ghi vogliono tor­nare a casa loro; molti hanno dei legami con fami­glie o comu­nità già inse­diate in Europa, ma quasi tutti man­ter­ranno anche, come e quando potranno, solidi legami con le comu­nità da cui sono fug­giti. Ade­gua­ta­mente assi­stiti e con­trol­lati, pos­sono gestire auto­no­ma­mente strut­ture e fondi desti­nati alla loro per­ma­nenza in Europa. Se ben distri­buiti sul ter­ri­to­rio e pro­tetti con un con­tra­sto effi­cace alle cam­pa­gne raz­zi­ste, pos­sono inte­grarsi nel tes­suto sociale, tes­sere rela­zioni, impa­rare lin­gua e mestieri, man­dare i bam­bini e i ragazzi a scuola (stru­mento fon­da­men­tale di inclu­sione). Se coin­volti in piani per dare lavoro a milioni di disoc­cu­pati, ita­liani ed euro­pei – indi­spen­sa­bili per argi­nare gli effetti della crisi — pos­sono con­cor­rere a creare ric­chezza. Se auto­riz­zati e aiu­tati a orga­niz­zarsi, per comu­nità nazio­nali, pos­sono costi­tuire con le loro rela­zioni la base sociale e poli­tica indi­spen­sa­bile per un ritorno alla pace e alla nor­ma­lità dei loro paesi (altro che ter­ro­ri­sti! Chi attra­versa vicende del genere è il più grande amico della pace che si possa incon­trare). Con loro diven­te­rebbe pos­si­bile costruire una rete di rela­zioni per dare final­mente corpo a una grande comu­nità euromediterranea.

«Andiamo ad aiu­tarli nei loro paesi, così non emi­grano più» è l’ultimo alibi di chi non vuole pro­prio vederli. Ma per noi andare in quei paesi è sem­pre più rischioso, se non impos­si­bile; e i pro­getti di coo­pe­ra­zione sono da sem­pre, nel migliore dei casi, ini­zia­tive di nic­chia, di nes­suna effi­ca­cia sull’insieme della popo­la­zione (quando non sono vere e pro­prie rube­rie a spese delle comu­nità assi­stite). Quale occa­sione migliore, allora, per un grande pro­gramma di coo­pe­ra­zione medi­ter­ra­nea, lavo­rando e pro­get­tando insieme, con le per­sone che sono già qui per sopravvivere?

Il manifesto, 22 maggio 2018

Gli hac­ker ita­liani sono tre­mendi: sem­bra che nei giorni scorsi abbiano preso il con­trollo non solo del sito dell’Expo ma per­fino di quello del Mini­stero dell’Istruzione, Uni­ver­sità e ricerca. Su entrambi i siti, infatti, com­pare un testo uguale, desti­nato alle scuole, dove si legge che all’interno del sito espo­si­tivo mila­nese «non è con­sen­tito intro­durre qual­siasi tipo di mate­riale stam­pato o scritto, con­te­nente pro­pa­ganda a dot­trine poli­ti­che, ideo­lo­gi­che o reli­giose, asser­zioni o con­cetti diversi da quelli espli­ci­ta­mente auto­riz­zati dalle Auto­rità di Pub­blica Sicurezza».

Dice pro­prio così: «asser­zioni o con­cetti diversi da quelli espli­ci­ta­mente auto­riz­zati dalle Auto­rità di Pub­blica Sicu­rezza», il che impli­che­rebbe che miste­riose Auto­rità di Pub­blica Sicu­rezza pos­sie­dano una lista di «asser­zioni e con­cetti auto­riz­zati» e pas­sino il loro tempo a con­fron­tarla con tutte le innu­me­re­voli asser­zioni che pro­li­fe­rano su Face­book o Twit­ter, per veri­fi­carne la con­gruenza. Baste­rebbe Sal­vini a riem­pire le loro gior­nate lavo­ra­tive, figu­ria­moci se poi si volesse con­trol­lare ciò che viene detto o scritto nelle scuole ita­liane che, com’è noto, con­ten­gono circa un milione di inse­gnanti e parec­chi milioni di studenti.

Que­sta impro­ba­bile paro­dia di uno stato tota­li­ta­rio, dove occorre imba­va­gliare ogni stu­dente che mani­fe­sti un «mor­boso inte­resse per le que­stioni poli­ti­che e sociali» (come reci­tava la moti­va­zione dell’espulsione di Gian­carlo Pajetta da tutte le scuole del Regno, anno 1927) sem­bra però che esi­sta dav­vero e che non sia opera di hac­ker per­ché è stata fatta pro­pria niente meno che da Maria Elena Boschi. Il Mini­stro per le riforme isti­tu­zio­nali, pale­se­mente non ren­den­dosi conto di ciò che diceva, ha soste­nuto alla Camera che «Expo Spa è una società pri­vata» e quindi «ai sensi dell’articolo 1341 del codice civile, chiun­que voglia acce­dere ad Expo deve sot­to­stare al rego­la­mento», com­preso il divieto dei con­cetti non pre­ven­ti­va­mente autorizzati.

Pec­cato che Expo non sia una società pri­vata poi­ché i soci sono tutti pub­blici, come ha rico­no­sciuto espli­ci­ta­mente il Con­si­glio di Stato in una sen­tenza del 4 feb­braio scorso. E pec­cato che in Ita­lia esi­sta ancora un liber­colo (che il ducetto male­du­cato e Maria Elena vor­reb­bero abro­gare ma che per il momento resta ancora in vigore) dove all’art. 21 si spe­ci­fica: «Tutti hanno diritto di mani­fe­stare libe­ra­mente il pro­prio pen­siero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di dif­fu­sione». Si chiama Costi­tu­zione della Repub­blica Italiana.

Il che signi­fica che se i deliri dell’Expo e del Miur, pale­se­mente ispi­rati ai testi di gol­pi­sti cileni o argen­tini sono reali, ci sareb­bero parec­chie per­sone che dovreb­bero pren­dersi una lunga vacanza alle Antille: da Giu­seppe Sala (com­mis­sa­rio del governo e ammi­ni­stra­tore dele­gato di Expo) a Ste­fa­nia Gian­nini (mini­stro dell’Istruzione) fino alla già citata Boschi che ignora non solo la natura giu­ri­dica dell’Expo ma per­fino l’abc del libretto su cui ha giu­rato entrando in carica il 22 feb­braio 2014.

Sbilanciamoci.info, 21 maggio 2015
Tsi­pras ostenta otti­mi­smo e punta su un «accordo di reci­proco van­tag­gio» da defi­nire nel col­lo­quio con la Mer­kel e Hol­lande al Con­si­glio Euro­peo di Riga. Varou­fa­kis è ancora più det­ta­gliato: «La rot­tura delle trat­ta­tive è fuori dal nostro oriz­zonte», ha dichia­rato lunedì, spe­ci­fi­cando anche che il nodo più dif­fi­cile sono le pen­sioni. «Ci chie­dono casse in pareg­gio con 27% di disoc­cu­pa­zione», si è lamen­tato il mini­stro delle Finanze.

Se a Riga sarà fumata nera, allora Atene si avvierà spe­di­ta­mente verso una sospen­sione dei paga­menti del debito. Dal 5 giu­gno ini­zia infatti una sequenza infer­nale di ver­sa­menti che alla fine del mese ammon­te­ranno a 1,2 miliardi. Poi, a luglio e inizi ago­sto altri 6 miliardi, tra Fmi, Bce e titoli in sca­denza. Sono soldi che la Gre­cia sem­pli­ce­mente non ha.

Anche Varou­fa­kis è con­vinto che alla fine vin­cerà la «ragio­ne­vo­lezza». Secondo lui, il domi­nio di Schau­ble den­tro l’eurogruppo non è asso­luto: «Certo, ci sono i fana­tici dell’austerità, ma ci sono anche quelli che hanno dovuto subire l’austerità e che ora, per ragioni poli­ti­che, non pos­sono dire che hanno sba­gliato. E poi ci sono coloro che temono di alzare troppo la voce per non subire a loro volta misure di auste­rità». Ovvia­mente, nel secondo gruppo c’è la destra spa­gnola e por­to­ghese e nel terzo i socia­li­sti fran­cesi e i demo­cra­tici italiani.

Tsi­pras è con­vinto di avere alleati in Europa, sep­pure occa­sio­nali. Non per­ché piace loro la sini­stra radi­cale greca, ma per­ché vedono con grande pre­oc­cu­pa­zione i rischi che com­porta l’estremismo libe­ri­sta tede­sco. In sostanza, hanno il fon­da­tis­simo sospetto che sul caso greco Schau­ble stia gio­cando fino in fondo la sua carta più poli­tica: che la que­stione del debito esca anche uffi­cial­mente dagli schemi della poli­tica mone­ta­ria comune e diventi il para­digma della nuova geo­me­tria della poli­tica europea.

L’eventuale espul­sione della Gre­cia dall’eurozona segnerà nel modo più for­male l’incompatibilità tra la moneta comune e qual­siasi poli­tica eco­no­mica espan­siva. Ber­lino smet­te­rebbe di nascon­dersi die­tro ai trat­tati e mostre­rebbe la sua fac­cia di vero e unico prin­cipe euro­peo. Per otte­nere que­sto, la destra oltran­zi­sta tede­sca sem­bra anche dispo­sta a pro­ce­dere in mezzo alle rovine dell’eurozona. Le ripe­tute assi­cu­ra­zioni di Schau­ble sulla pre­sunta «corazza» che la difen­de­rebbe dal fal­li­mento greco espri­mono esat­ta­mente que­sto spi­rito avven­tu­riero: il «ricatto» di Tsi­pras non deve pas­sare, costi quel che costi.

In queste condizioni il progetto di unificazione europea sta arrivando in un punto critico.

La vit­to­ria di Came­ron ha aperto la strada verso il refe­ren­dum bri­tan­nico sulla per­ma­nenza nell’Ue e non è per niente scon­tato che vin­cano gli euro­pei­sti. Gli umori dei popoli euro­pei li abbiamo potuti tastare in maniera esau­riente nelle ele­zioni euro­pee dell’anno scorso. Infatti, non a caso, i risul­tati di quelle urne sono stati imme­dia­ta­mente rimossi, cen­su­rati e messi tra paren­tesi. Ora il loro spet­tro ritorna e batte forte sul tavolo: gli euro­pei sono furiosi con l’Europa, una fetta cre­scente della popo­la­zione non ne vuole più sapere: o si astiene visto­sa­mente oppure indi­rizza pole­mi­ca­mente il suo voto verso movi­menti anti­eu­ro­pei, spesso di destra.

Lasciando da parte la que­stione immi­gra­zione, sulla quale (pur­troppo) l’Europa incide pochis­simo, la pro­te­sta popo­lare si rivolge con­tro un avver­sa­rio che si chiama euro e le sue regole.

Negli ultimi 6 anni gli euro­pei hanno assi­stito a una gestione della crisi aper­ta­mente e spie­ta­ta­mente di classe, a una tem­pe­sta di tagli, all’abbattimento del costo del lavoro, alla disgre­ga­zione dello stato sociale e all’impoverimento della società. Tutto que­sto in nome di regole appli­cate da orga­ni­smi privi di legit­ti­ma­zione democratica.

La «destra» e la «sini­stra» non solo hanno «abban­do­nato» la società ma sono stati «com­plici» nel far nascere que­sto mostro, si sente dire, e non è facile smen­tire que­sta accusa. Que­sta nostra tra­ge­dia, ovvia­mente, si svolge di fronte al mondo intero e sarebbe strano che anche i bri­tan­nici non trag­gano le loro conseguenze.

Anche Tsi­pras viene accu­sato den­tro il suo par­tito di aver tirato le trat­ta­tive per le lun­ghe, con il rischio di «annac­quare troppo» il pro­gramma del governo di sinistra.

La vera accusa però è un’altra e nes­suno osa dirla a voce alta: è quella di non aver voluto rom­pere con l’eurozona, non aver voluto ricor­rere da subito alla «bomba ato­mica» in mano alla Gre­cia, cioè la sospen­sione imme­diata del paga­mento del debito. È un’accusa fon­data: né Tsi­pras né Varou­fa­kis hanno voluto spa­rare per primi e hanno sem­pre rispo­sto in maniera ferma ma con­ci­liante alle pro­vo­ca­zioni di Schau­ble e dei suoi amici. Il pre­mier greco si è giu­sti­fi­cato dicendo che il man­dato elet­to­rale diceva: niente auste­rità ma all’interno dell’eurozona. Una posi­zione estre­ma­mente più com­plessa e più dif­fi­cile di quella di Beppe Grillo, di Farage o di Marine Le Pen che vogliono farla finita con l’Ue una volta per tutte.

«una società dove la politica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia». Il manifesto, 221 maggio 2015

Riforma Scuola. Intervista. Stefano Rodotà a tutto campo su Matteo Renzi: «Con il preside manager trasferisce la sua visione del potere all’intera società». «La scuola dovrebbe impedire diseguaglianze, il Ddl spinge invece verso la segmentazione sociale». «Chi si oppone al renzismo dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere istituzionale»

Fino ad oggi ci siamo con­cen­trati sul modello di orga­niz­za­zione isti­tu­zio­nale emerso dal com­bi­narsi dell’Italicum e della riforma del Senato – afferma Ste­fano Rodotà – La riforma della scuola appro­vata ieri alla Camera mostra un ele­mento radi­cale: l’idea che Renzi ha della società».

Pos­siamo farne un pro­filo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elet­to­rale e di quella costi­tu­zio­nale?
La scuola è la parte più impor­tante del Wel­fare tra­di­zio­nale. In un momento in cui aumen­tano disoc­cu­pa­zione e povertà si dovrebbe inve­stire sul suo ruolo di inclu­sione per impe­dire il ripro­dursi delle disu­gua­glianze. Invece la riforma disco­no­sce che la scuola sia un corpo sociale com­po­sto da sog­getti dif­fe­ren­ziati e riba­di­sce una for­tis­sima spinta verso la seg­men­ta­zione sociale. Attacca il con­tratto nazio­nale, esclude i corpi inter­medi, e in par­ti­co­lare i sin­da­cati, non rico­no­sce la par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica espressa dagli inse­gnanti e dagli stu­denti che si stanno oppo­nendo. Sono gli ele­menti già emersi nel Jobs Act che ha por­tato l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti. In que­sto modello di società non c’è spa­zio per la coe­sione sociale.

Nel Ddl scuola appro­vato dalla Camera c’è lo «School Bonus», un cre­dito d’imposta al 65% per il bien­nio 2015 — 2016 e del 50% per 2017, rico­no­sciuto a chi farà dona­zioni in denaro per le scuole pub­bli­che o pri­vate. Cosa ne pensa?
È una forte spinta verso l’outsourcing. Que­sta norma è un incen­tivo a far uscire la scuola dall’ipoteca del pub­blico per affi­darla ai pri­vati che la gesti­ranno come meglio cre­dono. È come incen­ti­vare a farsi una pre­vi­denza pri­vata oppure una sanità privata.

Con­tra­sta con l’articolo 33 della Costi­tu­zione che pre­vede l’esistenza di scuole pri­vate «senza oneri per lo Stato»?
Sono stato ostile alla legge sulle scuole pari­ta­rie appro­vata nel 2000. Ci vedevo l’escamotage per aggi­rare pro­prio que­sto arti­colo. Quando l’hanno scritto, i costi­tuenti non ave­vano pre­clu­sioni ideo­lo­gi­che ma inten­de­vano rico­no­scere la prio­rità degli inve­sti­menti nella scuola pub­blica di ogni ordine e grado. Lo Stato deve in primo luogo per­met­tere che la scuola pub­blica fun­zioni al meglio. Solo quando que­sta con­di­zione sarà sod­di­sfatta, si potrà pen­sare di dare un euro anche ai pri­vati. Nel Ddl di Renzi non c’è alcuna una risorsa aggiun­tiva ai pri­vati. I fondi a loro desti­nati sono sot­tratti alla scuola pubblica.

È stato detto che que­sta norma rispec­chia il plu­ra­li­smo e, in più, rap­pre­senti la fine di un tabù ideo­lo­gico della sini­stra.
Altro che abbat­tere un tabù. Ne costrui­sce un altro: la distin­zione tra scuole per abbienti e per non abbienti, di serie A e di serie B. Chi sostiene que­ste posi­zioni crede che il ruolo della scuola pub­blica sia in con­trap­po­si­zione con quella dei preti, come si diceva secoli fa quando ero un ragaz­zino. Il pro­blema è un altro: la scuola pub­blica, come spa­zio pub­blico di rico­no­sci­mento e con­fronto, è irri­nun­cia­bile per­ché qui posso costi­tuirmi come cit­ta­dino. Se invece dico che ognuno può farsi la pro­pria scuola reli­giosa, etnica, ter­ri­to­riale o cul­tu­rale inne­sco un con­flitto. La scuola non è più un luogo dove si apprende a rico­no­scere l’altro in base alle sue diver­sità, ma un luogo dove si adem­pie una fun­zione pub­blica per un numero ten­den­zial­mente ridu­ci­bile di per­sone. Tutto que­sto è in con­flitto con l’idea di una società aperta e plu­rale dove l’uguaglianza esi­ste nella misura in cui viene rico­no­sciuta la diver­sità delle opinioni.

Crede che Renzi abbia attri­buito al «pre­side mana­ger» un’importanza para­go­na­bile alla lea­der­ship poli­tica che lui intende svol­gere in poli­tica e nello Stato?Cer­ta­mente. È rive­la­tore di que­sto atteg­gia­mento il fatto che abbia scelto di usare la lava­gna e il ges­setto: voi siete gli sco­lari e io il mae­stro che vi spiega la riforma. Dopo avere usato tweet e slide ha cam­biato la sua comu­ni­ca­zione e si è messo nella posi­zione di chi parla dall’alto. È la rap­pre­sen­ta­zione tan­gi­bile della con­cen­tra­zione dei poteri nella figura del pre­si­dente del con­si­glio, prima ancora che nell’esecutivo, che si vuole rea­liz­zare con le riforme isti­tu­zio­nali. Con que­sto dise­gno di legge Renzi tende a tra­sfe­rire que­sta visione del potere a tutti i livelli della società. Alle figure api­cali dei pre­sidi affida la mis­sione della scuola, quella di pro­durre buona cul­tura, ugua­glianza e rispetto dell’altro. Sono d’accordo con chi ha defi­nito que­sta poli­tica come una «peda­go­gia del Capo».

Renzi sostiene invece che il preside-manager sarà libero di deci­dere e di ren­dere più effi­ciente la scuola.
Ma il pro­blema della respon­sa­bi­lità diri­gen­ziale non può tra­dursi nell’accentramento del potere e soprat­tutto nella pos­si­bi­lità di sele­zio­nare i docenti. È lo stesso mec­ca­ni­smo visto all’opera nel Jobs Act: all’imprenditore sono stati con­cessi sgravi fiscali, l’abolizione dell’articolo 18, per faci­li­tare le assun­zioni. In que­sto modo i diritti dei lavo­ra­tori sono stati subor­di­nati al suo potere sociale. Con la riforma della scuola si crea un cen­tro di potere per gestire un isti­tuto con una logica tutta impren­di­to­riale e ad esso si subor­dina la par­te­ci­pa­zione nella scuola.

Chi si oppone a que­sta poli­tica è accu­sato di essere cor­po­ra­tivo o un relitto della sto­ria. Come si smonta que­sta reto­rica?
Dicendo che quella in atto non è un’opera di sbu­ro­cra­tiz­za­zione della società, ma di con­cen­tra­zione del potere in una sola per­sona. Nei set­tori dove que­sto è acca­duto, ad esem­pio nelle opere pub­bli­che, sono venuti meno i mec­ca­ni­smi di con­trollo, di par­te­ci­pa­zione e tra­spa­renza. Il potere è stato usato in maniera discre­zio­nale e la cor­ru­zione si è moltiplicata.

In Ita­lia è inne­ga­bile il pro­blema della buro­cra­zia, non crede?
Ma non lo si risolve aumen­tando dise­gua­glianze e ingiu­sti­zie. Man mano che si intro­duce la logica pri­va­ti­stica e l’accentramento della gestione si inde­bo­li­scono le pos­si­bi­lità di con­trollo e di par­te­ci­pa­zione. Que­ste fun­zioni sono essen­ziali anche nella vita della scuola il cui scopo è garan­tire l’inclusione sociale, non la com­pe­ti­zione tra le persone.

Per­ché, fino ad oggi, chi si richiama alla Costi­tu­zione non ha pro­dotto una poli­tica capace di affron­tare la sfida di Renzi?
Si è pen­sato che, tutto som­mato, ci sarebbe stato il tempo neces­sa­rio per aggiu­stare le cose. Quando poi si sono com­presi gli effetti isti­tu­zio­nali e sociali della sua poli­tica è stato troppo tardi. La poli­tica uffi­ciale non è stata in grado di con­trap­porsi a Renzi. Que­sto vale per chi sta nel Pd, ma anche per chi oggi cri­tica l’accentramento dei poteri nell’esecutivo. Que­sti ele­menti erano pre­senti sin dall’inizio e adesso le resi­stenze sono tar­dive. Non voglio dire che avevo ragione, quando ci chia­ma­vano «pro­fes­so­roni», né voglio fare la parte della Cas­san­dra ]Ma Cassandra ha sempre avuto ragione. ndr]. Per me è un ele­mento di autocritica.

Cosa è man­cato a que­sta oppo­si­zione?
La visione alter­na­tiva di una società dove la poli­tica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia. Oggi chi si oppone a Renzi dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire poli­tico per rie­qui­li­brare la forte con­cen­tra­zione di potere che si sta rea­liz­zando a livello isti­tu­zio­nale. La società deve ricon­qui­stare il suo ruolo nel momento in cui lo spa­zio nelle isti­tu­zioni si restringe. Rimet­tere in movi­mento que­sti mec­ca­ni­smi oggi è un pro­blema poli­tico che si devono porre anche chi sta nelle isti­tu­zioni. Non si può fare poli­tica solo attra­verso gli emen­da­menti. Quella può per­met­tere di sal­varsi l’anima solo quando si discute una legge.

Il manifesto, 22 maggio 2015

Il rapporto. L’organizzazione dei paesi più industrializzati ha registrato un aumento delle differenze tra ricchi e poveri: un fenomeno che con la crisi si è accentuato, e che non si arresta. Dal 2007 al 2011 il 40% della fascia più bassa ha perso il 40% del reddito, mentre i più facoltosi hanno guadagnato il 51%. Le cause: dal dilagare del lavoro precario alla detassazione dei milionari

Siamo arri­vati a «un punto cri­tico, le ine­gua­glianze non sono mai state così forti nei paesi Ocse», afferma Angel Gur­ria, segre­ta­rio gene­rale dell’organizzazione che riu­ni­sce i 34 paesi più indu­stria­liz­zati. «Stiamo cam­biando di dimen­sione», spiega un eco­no­mi­sta. Nel terzo rap­porto Ocse sulle ine­gua­glianze, pre­sen­tato ieri al Châ­teau de la Muette, la situa­zione appare peg­gio­rata rispetto ai pre­ce­denti studi (2008 e 2011): dall’inizio della crisi, il 40% della popo­la­zione più povera ha regi­strato un calo di red­dito; tra il 2007 e il 2011 il red­dito reale (cor­retto dagli effetti infla­zio­ni­stici) della fascia più debole è dimi­nuito di circa il 40%, men­tre il 10% più ricco, dal 1995 ha accu­mu­lato un aumento del 51%.

All’origine dell’aumento delle ine­gua­glianze c’è l’esplosione del part time impo­sto, dei con­tratti a ter­mine, del pre­ca­riato, dei tagli al sala­rio per spin­gere le per­sone al lavoro auto­nomo, accol­lan­dosi tutti i rischi, forme di occu­pa­zione che hanno rap­pre­sen­tato più della metà dei nuovi posti creati nei paesi Ocse dal 1995 al 2013. In più, sot­to­li­nea l’Ocse, nei prin­ci­pali paesi indu­stria­liz­zati più della metà del lavoro pre­ca­rio riguarda i gio­vani sotto i trent’anni. Le donne restano indie­tro, con salari in media del 15% più bassi degli uomini e il 16% in meno di pos­si­bi­lità di occu­pare un impiego.

Oggi, nei 34 paesi più ric­chi del mondo il 10% della popo­la­zione più agiata ha un red­dito 9,6 volte supe­riore a quello del 10% più povero. Nel 1980 que­sto scarto era di 7,1 volte supe­riore, nel 2000 era già salito a 9,1, cioè siamo di fronte a una pro­gres­sione costante delle dise­gua­glianze. Que­sti scarti aumen­tano in modo espo­nen­ziale se si cal­co­lano i patri­moni delle fami­glie. La crisi ha aggra­vato la situa­zione e acce­le­rato que­sto fenomeno.

L’Ocse sot­to­li­nea le con­se­guenze nega­tive della cre­scente ine­gua­glianza: nei 19 paesi esa­mi­nati, avrebbe ampu­tato la cre­scita di 4,7 punti tra il 1990 e il 2010. E per il futuro il per­pe­tuarsi di que­sta ten­denza è desti­nato a distrug­gere il capi­tale umano e a decur­tare le pos­si­bi­lità di cre­scita dell’economia. C’è stato l’aumento del pre­ca­riato che è andato di pari passo con la dimi­nu­zione dell’efficacia dei mec­ca­ni­smi di redi­stri­bu­zione, le tasse sono dimi­nuite per i ric­chi e ad esse sfug­gono lar­ga­mente le mul­ti­na­zio­nali gra­zie al ben oliato mec­ca­ni­smo dell’«ottimizzazione fiscale», oggi sotto accusa anche nella Ue. I tagli alle impo­ste per i più ric­chi, in un mondo dove ormai si è dif­fusa l’intolleranza fiscale (prima dell’era Rea­gan, negli Usa il decile più alto era tas­sato a più dell’80%, per­cen­tuale che oggi sarebbe con­si­de­rata insop­por­ta­bile), hanno con­tri­buito all’esplosione delle ineguaglianze.

Nel mondo indu­stria­liz­zato ci sono paesi più ine­guali di altri. Cile, Tur­chia, Mes­sico, ma anche Usa e Israele sono tra i più ine­guali, men­tre Dani­marca, Nor­ve­gia, Slo­ve­nia e Slo­vac­chia sono quelli dove le dif­fe­renze sono minori, come mette in evi­denza la tabella del rap­porto Ocse che pre­senta il coef­fi­ciente Gini. La Fran­cia è in una posi­zione cri­tica, ormai al 21esimo posto per ine­gua­glianza su 34 paesi: la situa­zione si sta aggra­vando con la crisi, il 10% delle per­sone più ric­che ha regi­strato una cre­scita del red­dito del 2% l’anno (cioè più della media Ocse), men­tre il 10% più povero ha subito un calo dell’1% (un po’ meno della media), gra­zie agli ammor­tiz­za­tori sociali, non ancora del tutto distrutti. Ma, dal punto di vista della con­cen­tra­zione patri­mo­niale, il 10% più ricco con­trolla più della metà del patri­mo­nio delle fami­glie. La pre­si­denza del socia­li­sta Hol­lande non sem­bra aver avuto alcuna influenza su que­sto trend di diseguaglianza.

Quest’ultimo rap­porto Ocse sug­ge­ri­sce agli stati mem­bri di inter­ve­nire, per rein­tro­durre più effi­caci poli­ti­che redi­stri­bu­tive. Siamo di fronte a un caso di schi­zo­fre­nia dell’organizzazione, che in nume­rosi altri rap­porti non fa che sug­ge­rire da anni la libe­ra­liz­za­zione del mer­cato del lavoro e il taglio ai diritti come solu­zione per uscire dalla crisi e com­bat­tere la disoc­cu­pa­zione. È que­sta la ricetta che viene pre­sen­tata come Tina (there is no alter­na­tive) a tutti gli stati della Ue, dall’Italia fino alla Grecia.

La pro­gres­siva distru­zione della classe media, che in gran parte si impo­ve­ri­sce, ha già con­se­guenze poli­ti­che, con l’irruzione della destra popu­li­sta, la cre­scita della paura e l’illusione di una solu­zione nel rifiuto dell’altro. La classe media, che si assot­ti­glia e perde ter­reno, si sente vit­tima della mon­dia­liz­za­zione e que­sto comin­cia ad avere effetti anche geo­po­li­tici. In Europa, cre­sce l’euroscetticismo e la chiu­sura nazio­na­li­sta.

Per­fino negli Usa si dif­fonde lo scet­ti­ci­smo verso le pro­po­ste di Obama su accordi inter­na­zio­nali di libe­ra­liz­za­zione com­mer­ciale, come il Ttip con la Ue o il Tpp con il Giap­pone e l’area del Pacifico.

Ocse: in Italia si amplia la forbice tra ricchi e poveri
di red.eco.
Il rapporto. Con la crisi la situazione si è aggravata. L'1% dei più facoltosi detiene il 15% della ricchezza nazionale, mentre il 40% della fascia più bassa si deve spartire il 5%. Penalizzati bambini, "atipici" e lavoratrici. Cgil: "Serve una patrimoniale". Uil: "Rinnovare i contratti e restituire il maltolto ai pensionati"
L’1% più ricco della popo­la­zione ita­liana detiene il 14,3% della ric­chezza nazio­nale netta (defi­nita come la somma degli asset finan­ziari e non finan­ziari, meno le pas­si­vità), pra­ti­ca­mente il tri­plo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9%. Que­sta è la foto­gra­fia della distri­bu­zione della ric­chezza nel Bel­paese secondo lo stu­dio dif­fuso ieri dall’Ocse.

In poche parole, se vogliamo tra­durla in numeri asso­luti, circa 600 mila fami­glie ita­liane (la crème dei ric­chi) deten­gono un patri­mo­nio pari a tre volte quello dete­nuto da 24 milioni di per­sone (la fascia più povera).

La crisi ha con­tri­buito ad aumen­tare le dif­fe­renze, ad aprire la for­bice tra ric­chi e poveri: la per­dita di red­dito dispo­ni­bile tra il 2007 e il 2011 è stata ben più elevata(-4%) per il 10% più povero della popo­la­zione rispetto al 10% più ricco (-1%).

La ric­chezza nazio­nale netta, dice ancora l’organizzazione pari­gina, in Ita­lia è distri­buita in modo molto diso­mo­ge­neo, con una con­cen­tra­zione par­ti­co­lar­mente mar­cata verso l’alto. Il 20% più ricco (primo quin­tile) detiene infatti il 61,6% della ric­chezza, e il 20% appena al di sotto (secondo quin­tile) il 20,9%. Il restante 60% si deve accon­ten­tare del 17,4% della ric­chezza nazio­nale, con appena lo 0,4% per il 20% più povero.

Anche nella fascia più ricca, inol­tre, la distri­bu­zione è net­ta­mente squi­li­brata a favore del ver­tice. Il 5% più ricco della popo­la­zione detiene infatti il 32,1% della ric­chezza nazio­nale netta, ovvero oltre la metà di quanto dete­nuto del primo quin­tile, e di que­sta quasi la metà è in mano all’1% più ricco.

In Ita­lia «la povertà è aumen­tata in modo mar­cato durante la crisi», in par­ti­co­lare per gio­vani e gio­va­nis­simi, dice l’Ocse. L’aumento del cosid­detto “tasso di povertà anco­rata” (soglia fis­sata all’anno pre­ce­dente) è stato di 3 punti tra il 2007 e il 2011, il quinto più ele­vato. La fascia con il mag­gior tasso di povertà sono gli under 18, con il 17% 4 punti in più della media Ocse, seguita dalla fascia 18–25, con il 14,7%, 0,9 punti sopra la media.

Il feno­meno è evi­dente fra i bam­bini (inci­denza di povertà del 17% rispetto al 13% della media Ocse) men­tre fra gli over 65 il livello è del 9,3% (con­tro una media del 12,6%). Il 40% della popo­la­zione opera in con­di­zioni «non stan­dard», cioè senza rego­lari con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato. E le dise­gua­glianze restano forti fra uomini e donne: solo il 38% delle lavo­ra­trici ha un impiego a tempo pieno con­tro la media Ocse del 52%.

Par­ti­co­lar­mente pena­liz­zati, come è pre­ve­di­bile, sono i lavo­ra­tori ati­pici. Il tasso di povertà i «non-standard» (auto­nomi, pre­cari, part time) è al 26,6%, con­tro il 5,4% per quelle di lavo­ra­tori sta­bili, e il 38,6% per quelle di disoc­cu­pati. In par­ti­co­lare, se si fissa a 100 il gua­da­gno medio dei lavo­ra­tori con posto fisso, quello degli ati­pici si ferma a 57, con grosse dispa­rità tra le varie cate­go­rie (72 per un auto­nomo, 55 per un con­tratto a ter­mine full time, 33 per un con­tratto a ter­mine part time).

E si resta pre­cari a lungo: tra le per­sone che nel 2008 ave­vano un lavoro a tempo deter­mi­nato, 5 anni dopo solo il 26% era riu­scito a otte­nere un tempo indeterminato.

L’Italia è il però Paese Ocse con la minor per­cen­tuale di fami­glie inde­bi­tate, il 25,2%, davanti a Slo­vac­chia (26,8%), Austria (35,6%) e Gre­cia (36,6%), e ben lon­tana dai livelli delle altre due grandi eco­no­mie dell’eurozona, Fran­cia (46,8%) e Ger­ma­nia (47,4%), della Gran Bre­ta­gna (50,3%) e degli Usa (75,2%).

Le pos­si­bili solu­zioni? La Cgil chiede una patri­mo­niale sui red­diti e i patri­moni più alti, la Uil chiede il rin­novo dei con­tratti, anche quelli pub­blici, e la resti­tu­zione del “mal­tolto” ai pensionati.

Sbilanciamoci.info, 19 maggio 2015

Il Governo ha deciso di applicare la sentenza della Corte Costituzionale al 12%. Questa infatti è, all’incirca, la percentuale del rimborso (2,180 miliardi di euro) che verrà effettuato ai pensionati rispetto a quello che sarebbe loro dovuto in base alla piena applicazione delle indicazioni della Corte (16,6 miliardi più gli interessi). Tra le righe della sentenza si possono anche individuare elementi per contenere la restituzione del mancato adeguamento all’inflazione, ma è fortemente dubbio che le sue indicazioni possano essere eluse per quasi il 90%. La restituzione parziale avverrà in misura progressiva: 750 euro per le pensioni superiori a tre volte il minimo (circa 1406 euro lordi mensili al dicembre 2011) fino a 1700 euro lordi; 450 euro per le pensioni fino a 2200 euro lordi; 278 euro per quelli fino a 3200 euro lordi. Anche per chi prenderà di più, si tratterà di un assegno una tantum (perché la questione dovrebbe essere rivista nella prossima legge di stabilità dove le pensioni saranno oggetto di altri interventi) e nettamente inferiore a quanto previsto dalla sentenza. Infatti, anche per la prima fascia d’importo, il rimborso avrebbe dovuto essere di circa 1700 euro, mentre per la fascia più alta dovrebbe essere di circa 3800.

Il Presidente Renzi ha specificato che i 2,180 miliardi necessari saranno presi da quanto era previsto per gli interventi contro la povertà il che conferma che sarà una redistribuzione ai margini della povertà. A differenza di altri paesi, dove i redditi da pensione hanno trattamenti fiscali ridotti, in Italia sono tassati con le normali aliquote, e una pensione lorda di 1406 euro diventa di circa 1200 netti. Rimane poi il fatto – da non dimenticare - che il sistema pensionistico pubblico presenta un saldo tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali nette che è attivo dal 1998 e che nell’ultimo anno per il quale si hanno dati, il 2013, è stato pari a circa 21 miliardi di euro (cioè dieci volte quello che gli si vuole restituire per il mancato adeguamento all’inflazione). Si aggiunga che il valore medio delle pensioni è attualmente pari a circa il 45% della retribuzione media degli occupati, che tale quota è in ulteriore discesa e che nell’assetto attuale, in base alle previsioni, raggiungerà il 33% nel 2036. Dunque quando il governo stabilisce di rispettare la sentenza della Corte al 12%, e il Presidente Renzi dice che non è contento di doverlo fare, sta perseverando nella politica redistributiva decisa da tempo che esclude la possibilità di colpire altri redditi e ricchezze più elevate per fronteggiare le esigenze di bilancio.

Ma è proprio la politica di bilancio del governo l’epicentro del problema che andrebbe messo in discussione. A questo riguardo, l’aspetto significativo da considerare è che, nonostante l’emergenza finanziaria determinata dalla sentenza della Corte, il Governo non vuole superare l’obiettivo fissato al 2,6% per il deficit di bilancio, quando avrebbe margini di manovra fino al 3%. Raggiungere quel limite gli consentirebbe altri 3 miliardi di aumento di spesa senza superare il vincolo di Maastricht. Il Governo, pur trovandosi di fronte alla necessità di fronteggiare una scelta del precedente governo Monti-Fornero così iniqua da essere definita “irragionevole” dalla Corte, ci tiene ad apparire ligio ai programmi delle politiche di consolidamento fiscale che oramai lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha dovuto ammettere essere controproducenti non solo rispetto agli obiettivi della crescita, ma anche per migliorare i conti pubblici.

Da questo punto di vista, l’Agenda Monti, nonostante i suoi effetti provatamente perversi, continua ad essere il sestante della nostra politica economica e sociale che si conferma essere iniqua e controproducente allo stesso tempo. Oramai non si tratta più nemmeno di essere o meno di sinistra o progressisti, ma semplicemente di uscire da una visione di politica economica e sociale conformista i cui effetti fallimentari sono generalmente riconosciuti. Se le politiche comunitarie stanno insistendo nel portarle avanti, e i nostri governanti le accettano supini, è perché è in corso il braccio di ferro sulla “questione greca”. Si tratta di un confronto dimostrativo che non risponde a nessun criterio di razionalità economica e che – oltre pregiudicare le condizioni sociali ed economiche della Grecia - sta mettendo a rischio la costruzione europea. Quella in atto è una politica pericolosamente miope che risponde ad idiosincrasie nazionali e alla necessità di dare soddisfazione agli interessi rappresentati da tutti i governi di centro-destra europei, in particolare da quelli dei paesi della “periferia” dell’Unione che quelle regole sbagliate le hanno accettate e adesso non tollererebbero – per questioni elettorali - di dover ammettere che è stato un errore.

La Repubblica, 20 maggio 2015

CHE sorpresa! A quanto sembra, avere il fratello di un presidente fallimentare che prova a sua volta la scalata alla Casa Bianca qualche risvolto positivo ce l’ha. Grazie a Jeb Bush, finalmente ha preso corpo quel dibattito franco e aperto sull’invasione dell’Iraq che un decennio fa non c’è stato. Ma molte persone influenti (non solo Bush), quel dibattito preferirebbero che non ci fosse. C’è la sensazione palpabile che l’élite politica e mediatica abbia voglia di tirare una riga sull’argomento. La loro versione suona più o meno così: adesso lo sappiamo che invadere l’Iraq è stato un terribile errore, ed è tempo che tutti lo riconoscano. Però ora andiamo avanti. Eh no, proprio per niente: perché è falso e tutti quelli che hanno preso parte al dibattito sulla guerra sanno che è falso. La guerra in Iraq non è stato un errore innocente, un’avventura intrapresa sulla base di informazioni di intelligence che si sono rivelate sbagliate. L’America ha invaso l’Iraq perché l’amministrazione Bush voleva una guerra. Le giustificazioni ufficiali per l’invasione non erano altro che pretesti, e pretesti contraffatti per giunta. In un certo senso, ci hanno condotti in guerra con l’inganno.

Il dolo fraudolento dei sostenitori della guerra era evidente anche all’epoca: le giustificazioni che cambiavano sempre per uno scopo sempre uguale lo dimostravano. E arrivati a questo punto abbiamo prove in abbondanza a conferma di ciò che dicevano gli oppositori della guerra. Ora sappiamo, per esempio, che proprio l’11 settembre, prima che la polvere si fosse posata (e lo dico letteralmente), Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa, stava già pianificando la guerra contro un regime che non aveva nulla a che fare con l’attacco terroristico. Insomma, questa era una guerra che la Casa Bianca voleva, e i presunti errori, come dice Jeb, che «sono stati commessi» da un soggetto innominato derivano da questo desiderio di fondo. I servizi segreti sono giunti alla conclusione sbagliata che l’Iraq avesse armi chimiche? Perché erano sottoposti a forti pressioni. Le valutazioni hanno sottostimato difficoltà e costi dell’occupazione? Perché il partito della guerra non voleva sentire dubbi.

Perché volevano una guerra? A questo è più difficile rispondere. Alcuni guerrafondai erano convinti che il potere degli Stati Uniti nel mondo ne sarebbe uscito rafforzato. Altri vedevano l’Iraq come un progetto pilota, la preparazione per una serie di cambi di regime. Ed è difficile non avere il sospetto che abbia pesato la volontà di usare il trionfo militare per rafforzare il brand repubblicano in patria. A prescindere dai motivi esatti, il risultato è stato un capitolo oscuro della storia dell’America. Lo ripeto: ci hanno condotti in guerra con l’inganno. Si può capire perché tanti personaggi della politica e dei media preferiscano non parlarne. Alcuni forse si sono fatti abbindolare, hanno abboccato alle bugie. Altri, sospetto più numerosi, sono stati complici: avevano capito che la giustificazione ufficiale per la guerra era un pretesto, ma avevano le loro ragioni per volere una guerra o hanno accondisceso per paura. Perché c’era un clima di paura nel 2002-2003: criticare il crescente entusiasmo per la guerra significava correre il rischio di dire addio alla propria carriera. Oltre alle motivazioni personali, i mezzi di informazione si trovano in imbarazzo di fronte all’insincerità dei politici. I giornalisti sono sempre riluttanti a mettere i politici di fronte alle loro bugie. Più è grossa la bugia, più è evidente che stanno mettendo in atto una truffa, più i giornalisti esitano a dirlo. Ed è difficile immaginare una cosa più grossa che condurre l’America in guerra con l’inganno.

Ma la verità è importante, e non solo perché chi si rifiuta di imparare le lezioni della storia è condannato a ripeterla. La campagna di menzogne che ci ha portati in Iraq è ancora sufficientemente recente da consentire di chiamare i singoli responsabili a renderne conto. Lasciamo perdere gli inciampi verbali di Jeb Bush: pensiamo invece al suo team di politica estera, guidato da persone che hanno contribuito direttamente a costruire una giustificazione falsa per la guerra. E allora sull’Iraq diciamo le cose come stanno. Sì, dal punto di vista dell’interesse della nazione, l’invasione è stato un errore. Ma (chiedendo scusa a Talleyrand) è stato peggio che un errore, è stato un crimine.

© 2-015 New York Times News Service ( Traduzione di Fabio Galimberti)

Contro questa pessima riforma della "buona scuola", perché è nella «struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano». La Repubblica, 19 maggio 2015 (m.p.g.)

La scuola è una grande questione nazionale. La più grande. Qui si intrecciano e qui si incontrano i drammi della disoccupazione giovanile e dell’integrazione di milioni di immigrati, qui si giocano le sorti presenti e future della cultura italiana come sapere e coscienza diffusa di cittadinanza. Che la questione della riforma della scuola venga vissuta come un conflitto tra governo e sindacati o tra governo e una specie di Fort Alamo della sinistra irriducibile, cioè come uno dei tanti conflitti sociali di un paese smarrito e impoverito, è qualcosa di intollerabile; è anche il segno della sconfitta che ci aspetta tutti alla prova di un passaggio decisivo.

La domanda che bisogna farci è: come siamo arrivati a questo punto? Per rispondere bisogna partire da lontano. L’on. Alfredo D’Attore in un’intervista al manifesto di sabato 16 maggio, ha accusato Renzi di avere imbroccato una strada che «amplifica le disuguaglianze e scardina un sistema nazionale di formazione su base universalistica». In realtà la cosa è più antica. Si aprì all’epoca lontana in cui il partito progenitore di quello di D’Attorre approvò la riforma dell’Università del suo ministro Berlinguer.

Fu allora che passò il paradigma economicista e classista della divisione tra serie A e serie B a tutti i livelli: tra le università condannate a un’autonomia che deresponsabilizzava lo Stato e cancellava la distinzione tra pubbliche e private, tra le lauree, divise fra triennali e quinquennali ma soprattutto tra quelle del sud e quelle del nord, tra insegnamento e ricerca — privata quest’ultima di investimenti necessari, declassata quella ad affabulazione oratoria da scuola media mentre passava in uso il linguaggio dei «crediti », grottesco scimmiottamento del valore supremo, il danaro, la banca. Intanto saliva il danaro richiesto per le tasse mentre si impoverivano biblioteche e laboratori. Intanto il mondo della docenza accademica si incanagliva nei suoi antichi difetti e il rapporto tra insegnamento e ricerca veniva sottomesso al potere dei rettori e a quello di consigli di amministrazione aperti al mondo della finanza e dell’impresa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, anche se non lo si vuole vedere. Somme immense sono state investite nel funzionamento di una agenzia di valutazione scelta dall’arbitrio politico che ha inventato sistemi spesso grotteschi e sempre costosi di “valutazione”.

Di fatto nelle università come nelle scuole tutte si è bloccato il ricambio con danni immensi per il paese. E si è perduta l’idea della funzione comune di tutto l’insieme della scuola pubblica. Si capisce così perché dall’università non si levi oggi quel coro di voci in difesa della scuola che sarebbe giusto e necessario. Eppure è nella struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano.

Chi si straccia le vesti davanti alla fine del bicameralismo dovrebbe farlo assai più davanti al percorso liquidatorio della scuola pubblica: un percorso da tempo avviato da una classe politica spesso penosamente incolta, selezionata con le liste bloccate, incapace di rispettare l’unica categoria insieme alla magistratura che eserciti la sua professione dopo avere studiato a lungo e dopo essersi sottoposta a pubblici concorsi. Senza una scuola dello Stato italiano che garantisca a tutti i cittadini la stessa qualità di offerta educativa, senza docenti selezionati in università statali di pari dignità e livello, senza concorsi pubblici, è difficile sperare che rinasca quell’unica condizione fondamentale perché l’incontro tra professore e allievo torni a essere quello giusto: la passione del docente per quello che fa. È solo lei che potrà lasciare una traccia positiva nella vita del giovane. Lo attesta il dialogo tra il maestro Fiorenzo Alfieri e suo nipote Leonardo nel libro Strade parallele. Ma per questo occorre che il docente sia ben preparato e abbia tutto il riconoscimento sociale cui ha diritto. E che raggiunga il suo luogo di lavoro senza dipendere dalla chiamata di un preside.

Non si dimentichi che la scuola ha creato la lingua degli italiani e con la lingua la letteratura ben prima che se ne occupassero il cinema e la televisione. È nella scuola che i diritti astrattamente descritti nella Costituzione diventano esercizio quotidiano, materia primaria di confronto e di palestra civile nel rapporto tra culture, religioni, questioni di colore e di sesso. Così è sempre stato. Si pensi alla figura della maestra suicida di Porciano, ai tempi della legge Coppino, quell’Italia Donati che portava nel nome le speranze del paese appena unificato. Alla creazione di questa scuola si sono dedicati i maggiori ingegni dell’Italia risorgimentale.

Se gli italiani non sono più il “volgo disperso” descritto da Manzoni, se la Recanati di Leopardi non è più un “borgo selvaggio” ma ha uno splendido Liceo dove anche gli ultimi nipoti dello zappatore e della “donzelletta” possono studiare, è per merito di un percorso faticoso ma fondamentale di costruzione di una buona scuola. O vogliamo tornare alle biblioteche e ai soldi di famiglia, ai precettori privati e ai colleges per i più fortunati lasciando gli altri a incanaglirsi nelle scuole e nelle università di serie B?

19 maggio 2015

Sulle orme di Berlusconi anche il grande comunicatore Matteo Renzi ha deciso di lanciare il suo messaggio elettorale dagli studi televisivi di un popolare contenitore domenicale dal titolo inutilmente gladiatorio, L’Arena. Renzi spera di volgere a suo completo vantaggio la sentenza 70 della Corte Costituzionale sulle pensioni. Cerca di farlo risparmiando ben 16 miliardi. Stabilisce quindi, del tutto arbitrariamente, che il governo sanerà il vulnus con soli 500 euro in media per circa quattro milioni di pensionati, il cui trattamento sia inferiore ai 3mila euro mensili lordi.

Il metodo non è nuovo. Risale ad Achille Lauro. La scarpa sinistra prima del voto, quella destra dopo. Solo che qui la seconda scarpa non si vede. L’erogazione è una tantum. Cosicchè le perdite per molti pensionati sono consistenti. La solerte Cgia di Mestre calcola che per la classe di importo da 1.500 (cioè poco più delle tre volte il minimo) lordi a 1.750, ove si collocano un milione e 260 mila pensionati, la perdita sarebbe di ben 2mila euro, destinata a crescere per le classi superiori.

A questo gioco di prestigio il Presidente del Consiglio accompagna qualche lacrima di coccodrillo sui giovani, utilizzando la vecchia tattica della guerra tra i poveri. I 2 miliardi di spesa così prevista assorbirebbero abbondantemente il cosiddetto tesoretto di 1,6 miliardi, ovvero la differenza tra deficit tendenziale e deficit programmato. Ma ahimè, la crudele Corte Costituzionale toglierebbe ai giovani per restituire ai vecchi, mettendo oltretutto le casse dello stato in difficoltà!

Straordinaria montatura, che ogni volta viene riproposta, malgrado che le cifre dimostrino il contrario. Come ci spiega in ogni annuale rapporto sullo stato sociale il professor Pizzuti, secondo gli ultimi dati disponibili del 2013, il saldo tra entrate contributive del sistema pubblico e prestazioni previdenziali è di 21 miliardi, con i quali quindi il primo “aiuta” il bilancio pubblico. La realtà è che la riforma Fornero, non meno delle precedenti, non è solo un disastro ma un buco senza fondo. Nessuno dimentichi infatti l’irrisolto dramma degli esodati. Ma tutto questo ha una causa di fondo: il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, che ha spezzato il patto generazionale tra giovani e anziani, tra occupati e pensionati, operato per giunta in una fase strutturalmente calante dell’occupazione aggravata dalla crisi economica.

Naturalmente Renzi si giustifica dicendo che la sentenza della Corte non esplicita tempi e modalità del risarcimento. Ovviamente, si potrebbe dire, visto che non è compito di quest’ultima. Se lo avesse fatto si sarebbero alzati alti lai contro l’invasività del massimo organo costituzionale nell’ambito delle scelte di politica economica proprie dell’Esecutivo. Ma tra il fatto che la Corte non prenda per mano il governo imponendogli il quando e il come del risarcimento e la conclusione che ce la si possa cavare con un’autosanatoria da 500 euro, ci sta un triplo salto mortale che solo l’arroganza del potere consente a Renzi di compiere in diretta televisiva, anticipando lo stesso Consiglio di Ministri ridotto a puro ratificatore di scelte già pubbliche.

La sentenza 70 della Corte è assai bene calibrata e meriterebbe un’analisi più puntuale. In primo luogo essa non contesta in assoluto la possibilità per un governo di intervenire per motivi di eccezionalità finanziaria solidamente dimostrabili sulle prestazioni a favore dei cittadini. Dipende dalle motivazioni, che in questo caso non sono esplicitate, dalle finalità, dalla misura e dalla durata dell’intervento stesso. Per questo la sentenza 70 ha ribadito che l’azzeramento del meccanismo perequativo operato nel 2008 per i trattamenti superiori otto volte il minimo per la durata di un solo anno, per compensare gli effetti del famoso “scalone”, rispondendo a criteri solidaristici, non violava alcuna norma costituzionale.

In secondo luogo, ed è questo un aspetto rimasto finora in ombra nel dibattito, tutto lo spirito e la lettera della sentenza 70 escludono che dal principio del pareggio di bilancio, infilato in Costituzione con la manipolazione dell’articolo 81, possa derivare meccanicamente una riduzione delle prestazioni che rispondono ai diritti dei cittadini. Per chi sta raccogliendo le firme per la legge popolare che vuole modificare l’attuale articolo 81, nel senso del primato dei diritti sulla contabilità, questa è una buona notizia.

Huffington Post on-line, 19 maggio 2015

La crisi economica ha cambiato il carattere e lo stile delle democrazie europee. Ha messo in discussione il rapporto tra deliberare e decidere, facendo pendere il piatto della bilancia dalla parte degli esecutivi, come ha ricordato Marc Lazar su questo giornale pochi giorni fa. L'amichevole inimicizia tra deliberazione e decisione è proverbiale nella democrazia, che i suoi detrattori hanno per secoli identificato con la perdita di tempo in chiacchiere, il troppo deliberare e poco decidere. Queste sono le opinioni ingenerose e non provate dei suoi detrattori. La decisione nelle democrazie è un momento finale, mai ultimo, di un processo deliberativo al quale partecipa, direttamente e indirettamente, un numero ampio di soggetti, singoli e collettivi. Nei governi rappresentativi la deliberazione è un gioco complesso che si avvale sia della selezione dei rappresentanti sia di un rapporto permanente del parlamento con la molteplicità delle opinioni che animano la società. Se le elezioni concludono temporaneamente il flusso deliberativo, la discussione non è tuttavia mai interrotta né lo è la riflessione ragionata del pubblico e l'influenza che i cittadini cercano di esercitare sulle istituzioni. La deliberazione non ostacola o ritarda la decisione, quindi, ma la incalza, la prepara e la cambia.

I pensatori democratici si trovano in disaccordo sull'intensità di questa tensione e sull'ampiezza dell'apporto deliberativo a elezioni concluse. Quant'anni fa, nel 1975, laTrilateral Commission (ispirata da Samuel Huntington) pubblicava il suo primo Rapporto sulla "governabilità" nei paesi occidentali dal titolo molto eloquente, La crisi della democrazia. Il Rapporto diceva in sostanza che la governabilità è messa a rischio dalla troppo ampia deliberazione, dai movimenti per i diritti civili e sociali e dalle richieste che questi rivolgono ai governi, i quali per mantenere il consenso dei cittadini sono indotti ad ampliare il loro intervento sociale così da generare una spirale di nuove richieste.

Secondo Huntington, gli stati democratici stavano perdendo autorità a causa del peso troppo forte rivendicato dal pluralismo sociale: era questa la crisi di governabilità decretata dalla Trilaterale, che suggeriva agli stati occidentali (soprattutto quelli a democrazia parlamentare) di rafforzare gli esecutivi, deprimere lo stato sociale, contenere la contestazione e i movimenti. "Eccesso di democrazia" era il problema: come nel mercato così anche nella politica, un'alta partecipazione era indice di un forte bisogno; ma contrariamente al mercato, in politica questo attivismo era segno di instabilità. All'opposto stava l'apatia, indice di soddisfazione.

La concezione deliberativa della democrazia, associata a Jürgen Habermas e alla teoria critica francofortese, prese corpo proprio in quegli anni, discutendo sul significato della "crisi" e della governabilità, e contestando la visione minimalista del processo decisionale. Deliberare era più che votare; aveva un significato ampio, proprio come i suoi critici della Trilaterale avevano temuto: la decisione per Habermas è una conclusione temporanea di un processo al quale in modo diretto e indiretto partecipa una pluralità di attori sociali e politici. Una società civile vibrante e non apatica è il segno non di una crisi di governabilità ma di una forte legittimità del sistema perché la decisione, ottenuta comunque a maggioranza, viene percepita da tutti non come un esito divisivo di una parte contro l'altra.

In Europa, la visione deliberativa ha caratterizzato la natura della democrazia nei decenni a partire dagli anni Settanta, mettendo a segno importanti risultati in termini di politiche sociali nazionali e di impulso a livello continentale alla costruzione dei trattati costituzionali dell'Unione Europea. Il suo declino, che la crisi economica ha accelerato, corrisponde in questi anni recenti a un'impennata della volontà decisionale degli esecutivi sia nazionali che comunitari, e un desiderio di allentare i lacci imposti dalla deliberazione, parlamentare e sociale, e di alleggerire l'impegno dei governi nelle politiche sociali. A livello europeo, questo cambio di passo è stato impresso dalla pratica dei trattati inter-governativi che hanno depresso la consuetudine comunitaria e, nello stesso tempo, esaltato il ruolo degli esecutivi degli stati.

La netta sterzata verso un federalismo di e tra esecutivi, con credenziali democratiche deboli, ha avuto un effetto a valanga negli stati membri. La crisi sembra rilanciare il progetto della Trilaterale dunque. Mette al tappeto la democrazia deliberativa decretando la centralità del potere di decisione dei governi centrali. Si tratta di vedere se la democrazia decisionista ci darà più efficienza nel rispetto dei fondamenti democratici, meno sprechi e meno corruzione, come promette di fare.

Il manifesto, 19 maggio 2015
Quello di lesa mae­stà è stato, fin dalla notte dei tempi, un delitto assai grave. Lo si pagava gene­ral­mente con la vita. Ma par­liamo di epo­che in cui il corpo del sovrano rien­trava nella sfera del sacro.

Sor­prende, dun­que, la sua rie­di­zione, certo assai meno cruenta e non inscritta in alcun codice, in una società lai­ciz­zata e demo­cra­tica come la nostra. Fatto sta che ad ogni pub­blica mani­fe­sta­zione di un espo­nente del governo chiun­que osi con­te­starlo facendo troppo rumore, si espone a rea­zioni spro­po­si­ta­ta­mente vio­lente da parte delle forze dell’ordine e a pesan­tis­simi prov­ve­di­menti giu­di­ziari: fogli di via e arre­sti domiciliari.

È acca­duto due volte a Bolo­gna: l’arresto di sei per­sone in rife­ri­mento alla con­te­sta­zione della mini­stra Madia nel dicem­bre dello scorso anno e le teste spac­cate (a soli due giorni dalla solenne pro­cla­ma­zione di una «nuova etica» di poli­zia) il 3 mag­gio scorso per difen­dere da una minac­cia ine­si­stente Mat­teo Renzi inter­ve­nuto per con­clu­dere la festa dell’Unità. Stiamo par­lando di slo­gan, di stri­scioni e di qual­che spin­tone. Ben di peg­gio si è visto, con una certa fre­quenza, nelle aule parlamentari.

Forse gli uomini e le donne dell’esecutivo, non­ché buona parte del ceto poli­tico, non arri­vano a con­si­de­rarsi pro­prio ema­na­zioni del sacro, ma cer­ta­mente pre­ten­dono di «incar­nare la nazione» nella quale i gover­nati devono stare al loro posto, dopo aver votato (i pochi che lo fanno ancora) e tal­volta dopo aver rice­vuto in gen­tile con­ces­sione un ascolto inu­tile e formale.

Può darsi anche che si tratti più sem­pli­ce­mente del volto aggres­sivo di un nar­ci­si­smo deci­sio­ni­sta e per­ma­loso. L’arroganza e le coreo­gra­fie nor­d­co­reane in for­mato stra­pae­sano stanno diven­tando tratti con­sueti dello stile di governo. Chi si per­mette di gua­stare que­ste «feste della nazione» paga salato.

Gli ortaggi e i fischi che pio­vono dal log­gione non hanno mai signi­fi­cato la fine del tea­tro, sem­mai testi­mo­niato della sua natura aperta e demo­cra­tica. Ogni attore che si rispetti, abi­tuato a cal­care la scena, è ben con­sa­pe­vole di esporsi a que­ste rea­zioni. Fa parte del suo mestiere. Diver­sa­mente, i mat­ta­tori della poli­tica, nono­stante anni di chiac­chiere sulla politica-spettacolo sem­brano rite­nere che le con­te­sta­zioni rumo­rose minac­cino, nella loro per­sona, la demo­cra­zia stessa (che per­fino Sal­vini & Casa Pound pre­ten­dono di incarnare).

Così, pur avendo bea­ti­fi­cato l’austero notaio mila­nese che, a pre­si­dio del tri­co­lore espo­sto alla sua fine­stra, si lasciava stoi­ca­mente ber­sa­gliare dalle uova lan­ciate dai mani­fe­stanti, i nostri poli­tici si guar­dano bene dal seguirne l’esempio.

Se vi fosse una magi­stra­tura con un senso non super­fi­ciale della demo­cra­zia si affret­te­rebbe a revo­care dei prov­ve­di­menti fuori misura e fuori luogo, e a ricon­durre l’azione giu­di­zia­ria al livello di una civiltà giu­ri­dica che dovrebbe essersi lasciata alle spalle il delitto di lesa maestà. Tanto più che que­sti prov­ve­di­menti costi­tui­scono un peri­co­loso pre­ce­dente, suscet­ti­bile di cri­mi­na­liz­zare ogni inter­fe­renza con­flit­tuale con la recita di chi ci governa.

conomist (Atene, 14-15 maggio 2015). Un ampio resoconto della grande fatica in corso da parte di Alexis Tsipras e Syriza per portare la Grecia fuori dalla crisi e aprire una breccia nell'Europa dell'austerity. Dal gruppo Facebook Sosteniamo Syriza, 19 maggio 2015

DISCORSO DI ALEXIS TSIPRAS
AL FORUM DELL' ECONOMIST AD ATENE

Signore e signori, Vorrei ringraziare gli organizzatori della conferenza per il loro gentile invito. Ho il piacere di partecipare alla manifestazione finanziaria annuale dell’Economist, in questo forum economico che ogni anno offre l'opportunità di ascoltare e di discutere le diverse percezioni politiche ed economiche che definiscono le linee di un dibattito pubblico sia a livello mondiale ed europeo.

Stiamo parlando di percezioni politiche ed economiche che non derivano da esperimenti condotti in un laboratorio di economisti, ma sono definiti dalle contraddizioni sociali di legge inerenti a tutte le moderne società occidentali.

In realtà, queste percezioni politiche ed economiche dipendono asserzioni ideologiche che sono, per definizione, incompatibili. È, quindi, l'obbligo di politici e dello stato organizzato risolvere ogni volta questo paradosso nel modo più efficiente. Perché in ultima analisi, la politica determina ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è possibile e ciò che è impossibile.

Per cinque anni la politica dei partiti precedenti, che detenevano il potere in Grecia, è fallita miseramente. Non sono riusciti a unire e sintetizzare le diverse aspettative sociali di tutti gli strati della società greca, per creare un concetto elastico di giustizia sociale e impostare le coordinate sostenibili per il futuro orientamento del paese. Questi partiti hanno scelto invece di schierarsi con le idee e le forze più estreme e di parte a livello mondiale ed europeo e attuare una politica di austerità contro la maggioranza sociale.

L'idea che la crisi in Grecia è stata causata dai benefici sociali dei lavoratori e dei pensionati, il settore pubblico sovradimensionato, l'attaccamento alle politiche protezionistiche, era dominante all'interno di questa classe politica, con il sostegno del potente a livello economico. E su questa base, un intero meccanismo è stato organizzato per ristrutturare l'economia greca e la società: è stato chiamato memorandum.

Il memorandum non era solo un errore economico, un programma cattivo, una svista. E' stata una scelta consapevole per posizionare il peso della crisi economica causata dagli squilibri nel sistema finanziario e aggravata da patologie intrinseche allo Stato greco e all'economia greca, sulle spalle dei lavoratori, dei pensionati, della classe media autonomi e dei piccoli imprenditori.

In realtà, il memorandum non era altro che un tentativo di superare la crisi, consentendo una liquidazione senza precedenti dei diritti e delle imprese e che potrebbe creare le basi per una nuova accumulazione di capitale a condizioni significativamente peggiori per la maggioranza sociale. E 'stato, ovviamente, un dato di fatto che questa politica avrebbe portato ad una recessione prolungata, ritenuta opportuna all’inizio dai creatori del Memorandum.

Essi erano ben consapevoli di ciò che stavano facendo e nonostante questo, sono andati avanti. Questa è espressione del loro cinismo assoluto.

Durante gli anni del Memorandum, le disuguaglianze sociali in Grecia sono salite (la Grecia occupa il primo posto in Europa della scala delle disuguaglianze sociali) la disoccupazione è triplicata, i salari abbassati, le pensioni hanno subito tagli drammatici e il welfare state è letteralmente crollato.Gli unici che non hanno subito danni durante questo periodo di cinque anni sono stati i ricchi greci.Secondo uno studio del Credit Suisse, attualmente il 10% dei greci più ricchi gestisce almeno il 56% della ricchezza nazionale.

Questa tempesta politica ed economica ha lasciato solo una cosa in piedi: lo stato clientelare e corrotto che ha sostenuto l'élite politica ed economica di questo Paese. O, per essere precisi, non solo è rimasto in piedi, ma ha permesso anche alle pratiche peggiori di mettere radici.

Nessuna delle riforme ha migliorato il meccanismo di riscossione delle imposte, che sta crollando, nonostante il desiderio di alcuni dipendenti illuminati e giustamente nervosi. Nessuna presunta riforma ha combattuto il triangolo della corruzione tra l'élite politica, proprietari dei media e le banche. Nessuna riforma ha migliorato il funzionamento e l'efficacia di uno Stato che ha imparato a operare per servire interessi particolari piuttosto che il bene comune. È stata proprio questa situazione, vale a dire l'incapacità di giustificare questa politica estrema, l'incapacità di proporre un discorso convincente che avrebbe trasformato gli interessi egoistici delle élite negli interessi della società nel suo complesso, ad aver portato SYRIZA e l'anti- blocco memorandum al potere. Perché si possono ingannare molte persone per poco tempo e poche persone per molto tempo, Ma non si può ingannare tutto il popolo per tutto il tempo.

Signore e signori, Le elezioni del 25 gennaio hanno dato un chiaro mandato a questo governo di salvezza sociale e di ricostruzione economica: cambiare le politiche dei memoranda che hanno distrutto la società greca e l’hanno portata sull'orlo della disperazione.

Il nuovo governo ha un punto di vista completamente diverso su come dovrebbero essere organizzate l'economia greca e la società. Una comprensione completamente diversa dei presupposti necessari per conseguire una crescita sostenibile in grado di ridurre le disuguaglianze, piuttosto che aumentarle. Perché se la crescita è semplicemente una continuazione dello stato delle cose esistenti, consentendo al divario sociale di rimanere intatto o addirittura esacerbare le divisioni sociali, allora c'è qualcosa di fondamentalmente sbagliato con il “regno di Europa".

Pertanto, è questo il mandato che abbiamo implementato durante i primi 100 giorni in carica, ed è questo il nuovo punto di vista che si evidenzia nel dibattito pubblico in un'Europa che invecchia. Stiamo legiferando e negoziando in nome della grande maggioranza sociale che ci sostiene, e in nome della giustizia sociale, della crescita e della promozione della parità. Perché l'uguaglianza è uno dei capisaldi della Europa unita che non dovrebbe essere sminuito da coloro che insistono a parlare solo in nome della libertà, dimenticando la condizione che rende per tutti possibile la libertà: quale potrebbe essere questo presupposto se non l’uguaglianza?

Quindi legiferiamo e negoziamo, guidati dalla bussola degli interessi e delle aspirazioni di questa maggioranza sociale: i lavoratori e la classe media che sono state socialmente ed eticamente schiacciati nei quattro anni di violenza del memorandum. E il nostro obiettivo è quello di costruire ancora una volta una versione di giustizia sociale che trasformerà la società greca ed europea da una somma di individui a vera comunità. Il nostro obiettivo è quello di ristabilire il vero significato della politica, al fine di raggiungere il nostro obiettivo finale, che tutti condividiamo: una versione sostenibile di interesse sociale che non creerà tensioni e ma incoraggerà il potenziale delle persone, fornendo l'opportunità di benessere. Tuttavia, stiamo legiferando e negoziando in un contesto economico difficile e senza precedenti.

Stiamo camminando attraverso un territorio minato preparato dai sostenitori del Memorandum da parte del governo precedente. È pratica comune per quelli votati al potere dire che hanno ereditato "terra bruciata". Ma nel nostro caso, questo non si qualificherebbe come un'esagerazione, ma piuttosto, come un commento moderato. Non abbiamo ereditato semplicemente terra bruciata.

Abbiamo ereditato un paese incapace di funzionare. Abbiamo ereditato un paese incapace di pagare gli stipendi e le pensioni appena un mese dopo le elezioni, vale a dire nel mese di febbraio 2015 e derivante dal precedente governo. E tuttavia, siamo riusciti a mantenere il paese a galla. Siamo riusciti a garantire pienamente il corretto funzionamento delle responsabilità dello Stato, impegnati allo stesso tempo in una trattativa difficile. E nonostante le pressioni finanziarie, la fiducia dei nostri cittadini è aumentata, e per questo è stata registrata un crescita dei ricavi e significativa dei fondi pubblici.

Nei quattro mesi che il nostro governo è stato in carica, l'avanzo primario ha raggiunto € 2.164.000 a fronte di un avanzo primario di € 1.046.000 dello stesso periodo del 2014, in contrasto con una previsione di deficit primario di 287.000.000 €. Nel solo mese di aprile abbiamo aumentato i ricavi netti del bilancio ordinario del 15,3% contro il bersaglio mensile. In tal modo, non solo abbiamo evitato il "crash" istituito deliberatamente dal precedente governo in programma per il mese di febbraio, ma abbiamo anche adempiuto al rimborso di tutte le passività interne ed esterne del paese, senza rischi, nonostante il fatto che nessuna rata di prestito è stata erogata da agosto 2014. E voglio assicurarvi che non vi è alcuna minaccia per gli stipendi e le pensioni.

Vi è, tuttavia, un grosso problema qui, che mi piacerebbe caratterizzare come una questione morale. L'accordo deve essere concluso, e dovrebbe essere onesto e reciprocamente vantaggioso. E 'inaccettabile che alcuni pensino che col passare del tempo la resistenza della parte greca sarà testata e le sue linee rosse svaniranno. Se hanno questo in mente dovranno dimenticare questo proposito, in quanto si verificherà l'esatto contrario. Dall’ agosto 2014 non abbiamo ricevuto la rata di 7,2 miliardi da parte dei nostri istituti di credito, in conformità con il programma di prestito in corso. Questo include anche i 1,9 miliardi di euro di profitti da parte delle banche centrali come risultato di obbligazioni greche. E i 1,2 miliardi di euro in obbligazioni pagate con i fondi del nostro bilancio e che sono state trasferite dal FSF al MES. Tuttavia, in questo periodo, mentre non riceviamo i finanziamenti che dovremmo ricevere, abbiamo pagato rate di 17,5 miliardi per le stesse istituzioni. Se alcuni credono che questo è legale, posso ascoltare il loro punto di vista. Essi sostengono che la legge è dalla parte del prestatore. Ma chiunque considera morale ciò, non è certamente imparziale. Signore e signori, Ci sono diversi membri dell'opposizione che sono profondamente frustrati perché non possono esprimere abbastanza critica politica, ci rimproverano di aver presumibilmente dimenticato i nostri impegni presi prima delle elezioni e che abbiamo fatto marcia indietro dal programma di Salonicco. Invece di rispondere, vorrei riassumere ciò che il governo ha fatto nei primi cento giorni, e lasciare che i fatti parlino da soli:

Più specificamente, nei suoi primi 100 giorni il governo ha:

1) mosso i primi passi per alleviare la crisi umanitaria attraverso il primo disegno di legge approvato dal nuovo Parlamento: Il programma è attuato su base quotidiana, mentre è in fase di espansione per coprire vitto, l'alloggio, l'elettricità.

2) preso misure immediate per riavviare l'economia e ristabilire la giustizia fiscale: le cento rate per il rimborso di debiti fiscali e previdenziali dei cittadini sono già in corso, consentendo a centinaia di migliaia di imprese di riaggiustare i loro debiti e di ottenere liquidazione fiscali e previdenziali per migliaia di famiglie e per sfuggire lo starter-hold di sovraindebitamento.

Questa misura fornisce anche i fondi pubblici con un'iniezione necessaria di liquidità. Entro l’11 maggio, vale a dire entro 24 giorni di attuazione del disegno di legge, circa 380.000 mutuatari hanno chiesto un adeguamento da parte delle autorità fiscali del paese. Il totale dei debiti rettificato è pari a € 2,8 miliardi. Durante questo stesso periodo, cioè, entro dal 12 maggio, circa 144.000 sofferenze rettificate assicurato che sono stati dovuti a fondi di previdenza sociale, con l'importo totale del debito rettificato pari a circa € 3,4 miliardi. Vale la pena di confrontare gli importi che sono state regolati sotto la nostra proposta di legge, vale a dire la partecipazione dei contribuenti e assicurazione dei rispettivi importi, e la limitata partecipazione dei cittadini alle rettifiche di valore sotto il governo precedente, per evidenziare veramente la retorica dalla realtà. • Inoltre, abbiamo votato una norma, ed è stata emessa una decisione ministeriale nella lotta contro i traffici triangolari, che mette fine a una delle tecniche più diffuse di evasione fiscale.

3) Inoltre, è stato votata la prima legge per la democratizzazione della pubblica amministrazione, che ripristina alcune delle ingiustizie palesi che hanno avuto luogo durante il periodo di Memorandum, come il licenziamento degli addetti alle pulizie del Ministero delle Finanze, le guardie della scuola e altri servitori di servizi pubblici.

4) Gli aspetti del programma in materia di ripresa dell'occupazione sono stati avviati, e continuano anche attraverso l'iniziativa annunciata dal Presidente Juncker per l'erogazione dei fondi a programmi già esistenti, per un totale di 2 miliardi di Euro. Siamo certamente di fronte a difficoltà, soprattutto a causa dei programmi inefficaci progettati dal precedente governo che siamo anche obbligati a seguire. Tuttavia, saremo in grado di modificare e correggere questi programmi in linea con il nostro ordine del giorno, come previsto per la seconda metà del 2015.

6) è stato anche votato il disegno di legge di riapertura di ERT (l'emittente-pubblico Hellenic Broadcasting Corporation), che è una pietra miliare simbolica. Abbiamo creato le condizioni per una nuova emittente pubblica libera da partigianerie, favori politici e da pratiche dispendiose del passato. Un corpo di informazione pubblica che rifletterà il nuovo ethos pubblico e la cultura politica democratica del nostro governo.

7) Si è proceduto, come previsto,al sovvenzionamento delle stazioni televisive con spese di funzionamento dovute, in particolare, per la questione di debiti non pagati che sono rimaste in attesa per anni, mentre il progetto di legge per quanto riguarda le licenze delle stazioni "è nella fase finale.

8) Ci stiamo consultando con l'Organizzazione internazionale del lavoro su un progetto di legge da votare nei prossimi mesi, per quanto riguarda il ripristino della normativa europea sui rapporti di lavoro, il ripristino della contrattazione collettiva, gli effetti di fine termine e il graduale ripristino del salario minimo di 751 euro.

Ed è uno sviluppo molto positivo che oggi, a seguito della riunione del Ministro per l'occupazione e il Direttore Generale dell'ILO, l'OIL ha rilasciato una dichiarazione accogliendo gli sforzi del governo greco e delle parti sociali per la promozione della contrattazione collettiva e il miglioramento del mercato del lavoro in Grecia.

9) è avviato il Comitato per la revisione del memorandum con le sue responsabilità.

10) Per la prima volta, la domanda nazionale di riparazioni tedesche è stata espressa ufficialmente al più alto livello possibile.

11) i sospettati di evasione fiscale previsti sulla lista Lagarde sono stati convocati a pagare e risolvere le loro tasse in sospeso -un primo passo, mentre un controllo dettagliato proseguono su altri casi.

12) gruppi di lavoro speciali stanno esaminando appalti pubblici inquinati del passato, come ad esempio l’accordo palesemente ingiusto extragiudiziale tra lo Stato greco e Siemens.

Signore e signori, questi sono esempi dei nostri sforzi iniziali per creare una rottura definitiva con le pratiche negative del passato, e ridistribuire le risorse e il potere dal corrotto e dall’ evasore fiscale e dall’oligarchia finanziaria alla grande maggioranza sociale, che ha investito la sua fiducia in noi e coltiva grandi aspettative.

Tuttavia, siamo ancora solo all'inizio. Non possiamo semplicemente dimenticare e andare avanti, eliminando in un colpo solo le forze negative del passato: la corruzione, la povertà e la dipendenza. Allo stesso tempo però, stiamo rigorosamente negoziando con gli istituti di credito a favore del nostro popolo, del nostro paese, e come pure per l'Europa. Nei primi giorni della trattativa abbiamo affrontato l'eredità del memorandum. Eravamo di fronte alla necessità di completare la quinta valutazione e di attuare gli impegni che il precedente governo aveva preso, come indicato nell'e-mail di Hardouvelis spesso citata.

Abbiamo chiesto il rispetto da parte dei nostri partner; il rispetto delle regole dell’Europa e del principio della sovranità popolare che è la pietra angolare della organizzazione democratica dell'Unione europea. Abbiamo combattuto, e con la decisione 20 febbraio dell'Eurogruppo, abbiamo realizzato un cambiamento negli atteggiamenti dei nostri istituti di credito – che sostenevano il Memorandum alla lettera - alla ricerca di un terreno comune in base alle nostre priorità. Questa è una decisione che noi rispettiamo. Ma per una soluzione reciprocamente vantaggiosa, un accordo deve essere raggiunto - e non uno che porta alle stesse vicoli ciechi – e che tutte le parti coinvolte dovrebbero tenere a mente. L'insistenza sulle misure, in conformità con il Protocollo, oltre alle accuse costanti che stiamo ricevendo di rinnegare ciò che è stato concordato con il precedente governo non aiutano il processo di negoziazione in corso. Il governo greco continua a negoziare per raggiungere un accordo economico giusto e socialmente valido con i suoi partner. Un accordo che concluderà l'austerità, ripristinerà la liquidità per l'economia reale e fornirà le prospettive di crescita per il paese.

Ciò richiede:
- Bassi avanzi primari, in particolare per quest'anno e per il 2016, al fine di fermare il meccanismo che promuove l'austerità e riguadagnare lo spazio fiscale necessario.
- Non ci siano nuovi tagli salariali e alle pensioni, vale a dire le misure che intensificheranno la disuguaglianza sociale.
- Ristrutturazione del debito pubblico, al fine di porre fine al circolo vizioso degli ultimi cinque anni in cui il paese ha dovuto prendere nuovi prestiti per rimborsare i prestiti esistenti.
- Un forte programma di investimenti, finanziamento coordinato per gli investimenti, in particolare quelli riguardanti le infrastrutture e le nuove tecnologie.

A questo punto sembra che il terreno comune è stato trovato con le istituzioni su una serie di questioni e, quindi, siamo molto vicini a un accordo. Terreno comune è stato trovata anche su temi quali gli obiettivi di bilancio, le variazioni marginali dell’ IVA, che dovrebbe funzionare in maniera redistributiva a favore delle classi subalterne, e le modifiche istituzionali per rafforzare l'amministrazione nella riscossione delle imposte.

Ci sono ovviamente delle questioni che restano aperte: Alcuni insistono sulla proposta di modifiche al quadro istituzionale che definisce il funzionamento del mercato del lavoro già liberalizzato. Questi cambiamenti non possono essere accettati. Il paradosso è che, mentre le stesse forze mettono dubbio la fattibilità del sistema pensionistico, insistono sulle politiche del Memorandum che chiedono tagli continui. Tuttavia, nei prossimi giorni dobbiamo lavorare duramente per costruire la necessaria intesa in termini di importi effettivi del sistema di sicurezza sociale e di garantire che tutte le proposte e le stime non si baseranno su una falsa immagine della situazione finanziaria e dei fondi della previdenza sociale. Per essere chiari, io voglio assicurare al popolo greco che non vi è alcuna probabilità o possibilità che il governo greco faccia marcia indietro sulla questione dei salari e delle pensioni. Dipendenti e pensionati hanno sofferto abbastanza. È giunto il momento della ridistribuzione, e dell'equa ripartizione degli oneri.

Signore e signori, Stiamo negoziando con tenacia e determinazione per un accordo unico, con requisiti uniformi, che garantirà la crescita e l'accesso della Grecia ai mercati entro un breve periodo di tempo. Questo è il piano di cui stiamo discutendo. Tutto il resto sarà una ripetizione di tentativi falliti ed errori intenzionali che alcune delle istituzioni hanno pubblicamente ammesso in passato, nel tentativo di ridurre la tensione sociale.

Ma queste ammissioni pubbliche per essere credibili, devono trovare riscontro anche nella pratica. Il piano negoziale del nostro governo non è né radicale né coraggioso, né aggressivo. Il piano negoziale del nostro governo è realistico e praticabile. Chiediamo all’altra parte , dopo cinque anni consecutivi di obiettivi irrealistici e di fallimenti continui, di aderire al realismo. Infine, chiediamo alla stragrande maggioranza sociale che ha riposto la sua fiducia in noi, e i cui interessi e aspettative difendiamo ogni giorno, di lavorare con noi. Insieme, siamo in grado di sostenere gli sforzi di negoziazione del nostro paese. Insieme, possiamo pianificare per il domani, un domani che comprenda una società giusta e un'economia in crescita. Grazie

Traduzione di Daniela Sansone, per il gruppo Facebook Sosteniamo Syriza

Dopo l’intervento di Nadia Urbinati del 6 maggio scorso su La Repubblica, contrario alla Buona Scuola renziana nel suo nucleo centrale -scuola azienda che realizzerà compiutamente la privatizzazione della scuola pubblica- mi aspettavo, se non un profluvio, almeno qualche altra presa di posizione dei nostri intellettuali. Invece niente. Hanno disertato. Storia italiana antica: anche questa volta spicca dunque il silenzio dei chierici. Alla fine della fiera insegnanti, studenti e sindacati, tranne qualche lodevole mosca bianca, nel dibattito pubblico sulla riforma della scuola sono stati lasciati soli.
Dove sono i filosofi, i letterati, gli scrittori, gli storici, i sociologhi, gli scienziati? Che cosa pensano i nostri illustri accademici, seduti sulle loro cattedre? Un silenzio assordante ha circondato questa riforma, il che significa che il mondo della cultura italiano – tanto la cultura scientifica, come quella “umanista” (Renzi docet)- non ha nulla da dire su questo tema, centrale per il paese. Mi aspettavo che qualche brillante linguista analizzasse, che so, quante volte ricorrono le parole “cultura” o “alfabetizzazione” nel disegno di legge e in quale accezione compaiano. O che qualche sociologo ci illustrasse in che senso Renzi, occupandosi “soltanto” di organizzazione della scuola ne uccida il nucleo profondo, quello della Costituzione: promuovere il pieno sviluppo della persona umana, lo sviluppo della cultura e la ricerca, rimuovere gli ostacoli, sostenere il diritto allo studio. Studio, studio... si chiama studio quello che si dovrebbe fare a scuola.

Gli intellettuali ne dovrebbero sapere qualcosa... Si sono chiesti se la Buona Scuola lo ha a cuore? Hanno speso qualche ora del loro tempo per capire quali sono le vere priorità di questa riforma e quale lo scopo di quel linguaggio da marketing così caro al premier? Si sono chiesti quale posto occupi nel DdL l’alfabetizzazione di base degli studenti? Quale spazio ci sarà nella nuova scuola disegnata dal trio Renzi-Farone-Giannini per costruire alfabeti forti: linguistico-matematico innanzitutto, proprio gli alfabeti dove i nostri ragazzi sono quasi sempre messi malissimo? Mi chiedo davvero come mai siano così mancate le analisi serie di questo testo renziano, come mai nessuno abbia tentato un confronto tematico e di stile fra la Buona Scuola del trio di governo e la LIP (Legge di iniziativa popolare) promossa dall’interno del mondo della scuola e caduta nel più totale oblio. Ma dove è finita la semiotica in questo paese?

Da tempo, si sa, la ricerca ha reciso ogni legame con la scuola, anche in sede istituzionale. Chi si ricorda più della libera docenza? La scuola ha stufato, troppo incasinata, si capisce poco. E poi l’esperienza autobiografica qui la fa da padrona: ognuno è stato a scuola e ognuno ha figli e nipoti che ci vanno. C’è sempre qualche maestro inadeguato da punire o qualche professore troppo severo che ha ferito il narcisismo familiare da ricordare con rabbia. E così assistiamo impotenti e muti alla campagna mediatica di Renzi. L’ultimo spettacolino, dismesse le slide, è il video davanti alla lavagna, tipo maestro Manzi. Seguono articolesse di colore su stampa e TV, che trasudano ampia ammirazione per le capacità comunicative del premier. Ma sul merito pochi si sono avventurati davvero e sempre con grande timidezza.

I conti delle riforme della scuola arrivano dopo decenni, quando maturano le generazioni. Molti di noi non ci saranno più, ma porteremo tuttavia la responsabilità di questa devastazione ignorante.

< i>L'autrice è insegnante di scuola secondaria< /i>

La Repubblica, 18 maggio 2015

Per la Buona Scuola sono arrivati gli esami finali. Si entra nel vivo già questa mattina, per gli ultimi tre giorni di battaglia nell’aula della Camera. Al voto gli articoli più contestati della riforma, il numero 9 sui poteri del preside, il 10 sui precari e l’articolo 17 che riguarda il 5x1000. Mentre le opposizioni affilano le armi (ma con i numeri della maggioranza a Montecitorio non potranno far molto), Renzi prosegue nel suo contrattacco mediatico iniziato la scorsa settimana con il video alla lavagna. «Non si può minacciare il blocco degli scrutini — ha dichiarato a l’Arena di Giletti — non si può giocare sulla pelle dei ragazzi. Anche chi boicotta il test Invalsi non dà un bell’esempio di educazione civica». E ancora, sui no piovuti contro la valutazione dei docenti: «Penso anche che in qualche professore ci sia ancora l’idea di mantenere la filosofia del 6 politico. Ma quella stagione è finita».

Intanto la minoranza dem sembra aver scelto una politica diversa rispetto alla totale contrapposizione sull’Italicum che portò 38 deputati a non votare la fiducia al governo. Non una tregua vera e propria, ma un’apertura speculare a quella mostrata dal governo. «Vediamo — afferma Nico Stumpo, uno dei leader dell’area bersaniana — se è possibile fare accordi nel Pd. Sull’Italicum fu la decisione di Renzi di mettere la fiducia a far saltare il tappo, ma sulla scuola non c’è alcuna logica di bandiera. Abbiamo presentato emendamenti di buon senso».

Quali siano i punti su cui insisteranno di più lo spiega Andrea Giorgis: «Il 5 per 1000 non ha più senso, visto che non si tratta di risorse aggiuntive ma di soldi dello Stato. Bisogna poi dare almeno una prospettiva futura di stabilizzazione a tutti i precari che hanno fatto corsi abilitanti. Infine c’è la questione centrale, la collocazione dei docenti sul territorio: non si può immaginare di creare scuole di serie A con più risorse e con i docenti migliori e scuole di serie B con gli altri ». Ma, di nuovo, niente barricate: «C’è un clima diverso — ammette Giorgis — perché il governo non ha blindato la riforma. In commissione il testo è stato migliorato e ora speriamo di migliorarlo anche in aula. Comunque a tutti noi sta a cuore una vittoria del Pd alle regionali e lavoriamo per riconnettere il partito con il mondo della scuola».
Chi invece ancora non ha scelto se votare o meno il ddl è Alfredo D’Attorre, l’anima più ribelle — insieme a Stefano Fassina — del Pd: «La mia valutazione finale dipenderà dalle modifiche sostanziali che devono essere fatte al progetto. Allo stato purtroppo non credo ci siano le condizioni per un voto favorevole ». Fassina fa della riforma della Scuola addirittura un test, «un passaggio decisivo per scegliere se restare» o meno nel partito. Anche Sel e Cinque Stelle, ovviamente, non faranno sconti. Carla Ruocco, l’unica donna del direttorio pentastellato, annuncia che domani il M5S sarà in piazza Montecitorio «per una grande mobilitazione insieme agli insegnanti e ai nostri attivisti». Ma già da oggi, benché molti deputati grillini (Ruocco compresa) non possano partecipare ai lavori perché sanzionati, «ci saranno scintille».

Il governo comunque ritiene di aver aperto a sufficienza già in commissione, in aula il testo sarà difeso così com’è. «Ulteriori modifiche — rivela un renziano — ce le riserviamo semmai per il passaggio al Senato». Intanto, sottotraccia, si apre un primo braccio di ferro tra governo e Ragioneria dello Stato. Oggetto: i bacini territoriali dai quali il preside potrà pescare gli insegnanti. Per la Ragioneria sarebbero troppo stretti.

Appuntamento a Roma, il 6 e 7 giugno. Un’assemblea pubblica per «associazioni, movimenti, sindacati, donne e uomini che in questi anni si sono battuti contro le molteplici forme di ingiustizia, discriminazione e progressivo deterioramento dei diritti. E che oggi decidono di promuovere un cammino comune ». La “coalizione sociale” di Maurizio Landini prende forma così, con un appello che verrà reso pubblico domani. Ma non sarà un soggetto politico. O almeno, non nell’immediato. «Come ha compreso il movimento delle donne — si spiega — vogliamo dimostrare che si può far politica attraverso un agire condiviso tra soggetti diversi, che si può rimotivare le persone a occuparsi dell’interesse generale nello spazio pubblico, al di fuori e non in competizione rispetto a partiti, organizzazioni politiche o cartelli elettorali».

L’incontro di messa a punto del progetto è avvenuto alla sede nazionale dell’Arci lo scorso fine settimana. Non c’era solo la Fiom, ma anche esponenti del variegato mondo dei centri sociali (come Action), Libertà e Giustizia, la Rete della Conoscenza, Act e associazioni ambientaliste. Ma stavolta si sono defilate sia Libera che Emergency, che sì collaboreranno ma indirettamente, più attraverso i singoli che altro. Una curiosità: si è rivista Simona Panzino, la candidata “senza volto” alle primarie dell’Unione del 2006 vinte da Romano Prodi. Non c’era nessuno (o quasi) dei partiti della sinistra come Sel, Rifondazione e L’Altra Europa con Tsipras. Ma la questione partitica è stata toccata più volte, ricordando che la “coalizione sociale” si struttura all’infuori delle vecchie organizzazioni.

Le parole d’ordine? Mutualismo, lotte sociali, mobilitazione e opposizione al governo. «Non lasciare nessuno indietro o da solo è la prima ragione che ci porta a intraprendere questo percorso per cambiare il Paese e l’Europa, formulando proposte che siano un’alternativa concreta alle divisioni e alle solitudini in cui ogni persona rischia di essere abbandonata», recita il documento. Alla due giorni verranno istituiti quattro gruppi di lavoro: “Unions”, dove si parlerà di reddito, migranti e democrazia; “Saperi e conoscenze”, e si affronterà anche la riforma della scuola; “Rigenerare le città”; “Economia, politica industriale e ambiente”. Tempi di intervento uguali per tutti e nessun esponente politico invitato sul palco.

La seconda fase invece sarà quella della mappatura e del radicamento territoriale: «Realizzare un modello d’impegno che si manifesti e qualifichi a partire dai territori, dai luoghi di lavoro e si caratterizzi per il fatto che ciascuno di noi offrirà il contributo delle proprie migliori pratiche e dei propri saperi; sulla base di tali principi in reciproca autonomia aderirà alle campagne per obiettivi comuni che insieme decideremo di avviare».

Nel corso della riunione il leader dei metalmeccanici della Cgil ha parlato di come — ad esempio — occorra reinterpretare il concetto di legalità: «Per una vita l’abbiamo difesa in fabbrica. Ma adesso le leggi le fa direttamente Confindustria attraverso questo governo, in un clima di piena restaurazione». Alla domanda (solita) di cosa sia davvero la “coalizione sociale”, Landini risponde così: «Un cantiere in evoluzione, senza ambizioni elettorali. Fate una cosa rivoluzionaria: prendetela per quel che è, senza retropensieri ».

Il Fatto quotidiano, 18 maggio 2015

Ormai inizia a rendersene conto perfino il sempre allineato Stefano Folli, già portaborse di Giovanni Spadolini e attualmente notaio del pensiero pensabile di Repubblica, il quale – nel suo Punto di mercoledì scorso (“La spina cruciale della Liguria”) – prendeva atto che nelle prossime regionali
Matteo Renzi rischia molto più di quanto non apparisse nelle scorse settimane. Anche perché l’ineffabile cinismo con cui sono state messe in pista le candidature Pd, il cui unico obiettivo sembra quello di fare fuori a livello locale “gufi e rematori contro” invisi al premier, si sta rivelando un boomerang. Il caso campano, con le alleanze “imbarazzanti” di Vincenzo De Luca, ormai scivola nella (pur amarissima) barzelletta. Difatti certe marce indietro governative dell’ultima ora, magari per non collidere con bacini elettorali importanti come quello del pubblico impiego nella scuola, rivelano il crescente nervosismo.

Secondo Folli il vero epicentro del possibile day after renziano è il pur piccolo scenario ligure; dove si è scelto senza tentennamenti e molta arroganza di puntare su Raffaela Paita; per benemerenze conseguite nell’aver fatto fuori nelle primarie locali, condotte senza esclusione di colpi (bassi), il disturbatore Sergio Cofferati. L’astio nei confronti del quale emerge dal voler svilirne il risentimento riducendolo all’infantilismo del “ha perso e scappa con il pallone”. Quando quella vicenda è stata altamente inquinata neppure troppo sottobanco, nella logica più che collaudata dell’asse Burlando-Scajola.

Dunque, Paita governatore. Nonostante l’aspetto vagamente grifagno della signora, che ne impedisce la collocazione nella squadra delle “soavi viperette” del premier (le Boschi, Serracchiani, Picierna, con la new entry Anna Ascani), a cui – comunque – si accomuna per l’incrollabile quanto ingiustificata determinazione (i marxiani “animal spirits”) nel perseguire obiettivi di carriera.

Eppure, nonostante i sondaggi taroccati e la grancassa di parte della stampa locale (tradizionalmente molto sensibile alle gerarchie politico-affaristiche regionali), la candidatura non decolla. Anche perché conferma la caratteristica decisiva della proposta Pd per queste regionali: aver messo in campo l’imbarazzante. E la candidata Paita ne è la migliore riprova: dalle performance al tempo della recente alluvione allo stile interlocutorio/argomentativi (tracotante); per arrivare al mistero del suo percorso culturale, visto che i suoi stessi siti ufficiali tacciono sui titoli di studio conseguiti e fanno riferimento a vaghe esperienze giornalistico/pubblicistiche di non facile individuazione nella natia La Spezia, non propriamente piazza sede di testate e imprese editoriali che superino la soglia del giornalino parrocchiale.

Che fare per rimediare? Ancora una volta la soluzione del presunto nuovo che avanza – da Rignano sull’Arno come dalla Val di Magra – fa ricorso ad armamentari propagandistici di antichissimo conio: lo slogan creato da Indro Montanelli per l’allora partito democristiano in difficoltà “turiamoci il naso ma votiamo Dc”. Non il massimo dell’apprezzamento per il destinatario del voto e certamente molto ricattatorio. Comunque efficace perché fa ricorso al sempre valido “fattore paura”.

Al solito Renzi ricicla (Montanelli) con toni da gag: “Se non votate Paita riesumate Berlusconi”. Una gag mistificatoria che vorrebbe ridurre lo scontro elettorale, in atto tra gli ulivi terremotati e le città disastrate di Liguria, a una sorta di derby Paita-Toti. Con la trasformazione del mite (rivestito grottescamente da mannaro) Giovanni Toti nell’armata di un berlusconismo in rotta; che giorni fa in Trentino ha già perso i ¾ dei propri consensi. Ma questa è la linea per sostenere l’imbarazzante Paita: ricatto e paura. Soprattutto la tecnica collaudata dell’illusionismo. Per nascondere il fatto che sanno crescendo alternative quanto meno di pari peso rispetto a quella dei burlandian-renziani in perdita costante di pezzi: in particolare i ragazzi di Cinquestelle (nonostante le mattane di Grillo su Veronesi e la campagna terroristica su fantomatici inquinamenti malavitosi accreditati da faide di paese).

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