Altro che "sfida del Nord» al governo" : qui c’è solo miserabile squallore, giustamente stigmatizzato e liquidato. Certi figuri non fanno geografia.
La Repubblica Milano, 8 giugno 2015
C’è una sola parola per definire l‘ultima uscita del governatore leghista della Lombardia Roberto Maroni: miseria. Umana e politica. Minacciare il taglio dei fondi regionali ai sindaci disposti ad accogliere gli immigrati che stanno sbarcando in Italia dopo essere stati salvati dal naufragio è ben più di una “cattiveria”. È abuso ricattatorio della propria carica istituzionale. È appropriazione indebita di una funzione, quella di decidere delle politiche dell’immigrazione, che spetta allo Stato. Ed è una gravissima sottrazione di democrazia nei confronti dei cittadini che con il loro voto hanno eletto i sindaci, quelli favorevoli all’accoglienza e alla solidarietà verso l’immigrazione e anche quelli poco disponibili, che di queste scelte devono essere sempre pienamente responsabili. E su questo venire giudicati dai loro cittadini.
Maroni insegue il suo pupillo e delfino Salvini in una ignobile corsa a chi la spara più grossa. Qualche settimana fa l’escalation si sarebbe spiegata con la campagna elettorale per le Regionali. Ora, è vero, sono imminenti i ballottaggi in qualche decina di Comuni. Tuttavia la sensazione è che questo vociare sguaiato sia entrato stabilmente nel repertorio leghista. Anzi, sia diventato il “sale” anche del leghismo cosiddetto di governo. Non ha alcuna importanza, infatti, se i profughi non hanno per destinazione ultima l’Italia. Non importa se scappano da guerre e persecuzioni. Sono ridiventati, tutti, clandestini. E perciò non solo indesiderabili ma pericolosi per il solo fatto di esistere e pretendere di salvarsi la vita sbarcando in Europa.
Le minacce ritorsive di un presidente di Regione nei confronti dei sindaci hanno un sapore insieme medievale e postmoderno. Si proclama un regime di vassallaggio per una invasione inesistente al fine di accumulare paura: il capitale politico su cui la nuova Lega degli orchi vuole raccogliere consenso. Ma c’è anche il caso che la squallida pagina scritta ieri dal governatore sia molto meno e tutt’altro rispetto a una feroce levata di scudi sull’immigrazione. Com’è noto, infatti, Maroni negli ultimi giorni ha avuto un problema dal quale non riesce a venire fuori. È il cosiddetto “Paturzogate”, ovvero lo strano caso di una consulente assunta da Expo Spa che la Procura ritiene coinvolta in una relazione affettiva con il governatore e che, secondo l’accusa, Maroni voleva assolutamente portare con sé in missione in Giappone, come rappresentante di Expo. Una compagnia che al commissario Giuseppe Sala pareva costosa e fuori luogo.
Coalizione Sociale diventerà dunque un partito e Landini ne sarà il leader? «La prossima volta ve lo dirò in cinese — ha risposto quasi stizzito il segretario Fiom — Coalizione sociale è nata fuori dai partiti, per ricostruire la politica. Non mi faccio ingabbiare dal partito. Inizia un percorso che vuole essere democratico al massimo. Le presenze di questi giorni dimostrano che il bene del Paese si fa cercando di unire ciò che Renzi e il suo governo divide».
Obiettivo della due giorni, ha poi spiegato, è quello di selezionare, attraverso numerosi gruppi di lavoro, tre o quattro temi fondamentali sui quale scatenare delle campagne nazionali che potranno sfociare anche (ma non necessariamente) in referendum. Due temi sono già stati individuati, e sono quelli del jobs act e della riforma della scuola. Gli altri potranno essere legati all’ambiente. C’è grande attesa, intanto, per l’intervento di Stefano Rodotà previsto per oggi.
Nonostante non sia stato consentito loro di parlare, qualche politico s’è affacciato, ieri, al centro Frentani, come i deputati di Sel Nicola Fratoianni e Giorgio Airaudo. E l’europarlamentare Eleonora Forenza della lista Tsipras-L’Altra Europa. «Pur non essendo stati invitati i partiti - ha detto Forenza - l’assemblea di Coalizione sociale ha un valore politico: quello di ricomporre i pezzi di società che il neoliberismo ha diviso». «Siamo qui per ascoltare - ha aggiunto Airaudo - perché non si ricostruisce la politica attraverso i ceti, ma è con il radicamento sociale che si risponde ai problemi dei cittadini che il governo non risolve più».
«L’arrivo in Germania dei «grandi della terra» è stato preparato da un’efficace campagna di mobilitazione che ha visto impegnate molte organizzazioni che si battono “per un altro mondo possibile”. Una rete plurale che ha trovato l’unità d’azione attorno a tre punti-chiave: “fermare il Ttip, salvare il clima, combattere la povertà”».
Il manifesto, 7 giugno 2015
Di norma, la ricca e placida Baviera non è teatro abituale di proteste e imponenti manifestazioni. Salvo eccezioni: come quelle, molto positive, di questi giorni. Il motivo? Il vertice del G7 che comincia oggi allo Schloss Elmau, lussuoso hotel nei pressi della località sciistica di Garmisch, al confine con l’Austria: una location esclusiva nella quale la presidente di turno Angela Merkel e i suoi ospiti discuteranno fino a domani dei temi caldi della politica internazionale. In agenda: il Ttip (trattato di «libero scambio» Usa-Ue), il cambiamento climatico (in vista della conferenza di Parigi a fine anno) e le crisi politico-economiche in giro per il pianeta, dall’Ucraina al Medio oriente. Il convitato di pietra è il presidente russo Vladimir Putin, cacciato dall’esclusivo club in seguito all’annessione della Crimea.
L’arrivo in Germania dei «grandi della terra» è stato preparato da un’efficace campagna di mobilitazione che ha visto impegnate molte organizzazioni che si battono «per un altro mondo possibile»: associazioni ambientaliste, Attac, ong come Oxfam, i partiti di opposizione Verdi e Linke, ma anche i giovani della Spd, in contrasto con la linea del leader del partito, il vicecancelliere Sigmar Gabriel. Una rete plurale che ha trovato l’unità d’azione attorno a tre punti-chiave: «fermare il Ttip, salvare il clima, combattere la povertà».
Oltre ogni aspettativa l’esito del corteo sfilato per le vie di Monaco giovedì scorso: 40 mila persone di fronte alle quali la cancelliera Merkel si è sentita in dovere di dire che le manifestazioni sono «un segno di vitalità della democrazia». Chissà se la leader democristiana e il suo vice socialdemocratico avranno riflettuto anche sulla «vitalità» dell’opposizione al Ttip proprio nel loro Paese.
La protesta anti-G7 è proseguita ieri (Garmish, nella foto Lapresse), sdoppiandosi. Un appuntamento era direttamente nei pressi del vertice con un’iniziativa sul modello blockupy (l’assedio alla sede Bce a Francoforte), sostenuta da un arco di forze ancora più ampio di quello di giovedì, comprendente anche gli Autonomen dei centri sociali occupati: a sfilare per le strade di Garmisch si sono ritrovati in quasi 10mila (3500 per le forze dell’ordine).
Qualche momento di tensione con la polizia, massicciamente presente, che ha attaccato il corteo con lo spray urticante: per gli organizzatori si è trattato di «un’aggressione senza giustificazioni». L’altro meeting di nuovo a Monaco, nella Königsplatz, per un concerto organizzato da Save the Children e altre organizzazioni non governative.
«Il reddito di cittadinanza? È la cosa meno di sinistra che esista», «significa negare il principio che l’Italia non è paese dei furbi ma chi lavora duro ce la può fare». Addirittura: «È incostituzionale». Renzi boccia il sostegno al reddito, nonostante qualcosa del genere esista in 24 paesi europei e anzi l’europarlamento da anni inviti i paesi a trovare forme di reddito «in grado di sottrarre ogni bambino, adulto e anziano alla povertà e garantire loro il diritto a una vita dignitosa» (risoluzione del 20 ottobre 2010). Renzi, che parla da Genova dov’è ospite del palco della festa di Repubblica intervistato dal direttore Ezio Mauro, forse ce l’ha con il Movimento 5 stelle, fan della proposta. Ma con tiro fa strike: proprio ieri in 200 città — Genova compresa — l’associazione Libera di don Luigi Ciotti raccoglieva le firme per l’istituzione di «un reddito minimo o di cittadinanza» nell’ambito della (fortunata) campagna «Miseria Ladra». Cui ha aderito, oltre a tutti i parlamentari del M5S e di Sel, anche la sinistra del suo partito, almeno quella parte di Area Riformista rappresentata da Roberto Speranza che il 22 maggio ha firmato la petizione di Libera e auspicato «un progetto di legge condiviso da tutti». In parlamento una maggioranza ci sarebbe. Ma da ieri sappiamo che il parere del governo, fin qui sfumato e possibilista, è contrario. E per questioni alla sua maniera ideologiche («non è di sinistra»), neanche per più digeribili obiezioni di cassa.
Messo a posto il Movimento 5 stelle, con il quale in questi giorni il Pd incrocia i ferri (sulle liste degli «impresentabili» e sul caso Bindi, sulla giunta Marino e sull’inchiesta Mafia Capitale e infine sul ’caso Orfini’, attaccato a testa bassa dallo stesso Grillo), Renzi si applica alla sua minoranza interna. Anche qui con parole ruvide. Siamo nel capoluogo della regione che il Pd ha perso rovinosamente. Settantatremila voti in meno rispetto alle regionali del 2010, 140mila in meno rispetto alle europee dell’anno scorso e del 41,7 per cento (ora crollato al 27,8). Renzi ammette che si tratta di «un campanello d’allarme», poi recita la consumata storia di quelli che se perdono non hanno «diritto di spaccare tutto». Ma archiviata la polemica con Pastorino&Cofferati è alla minoranza ancora nel Pd che invia un avviso di garanzia: «Basta spaccature tutto. Se fai così, è finita la storia del Pd». Domani sera alla direzione del partito ci sarà la resa dei conti: «Le molte mail che ricevo dicono ’vai alla direzione non solo con la mimetica ma con i reparti speciali’», assicura. Lui promette «un dibattito vero» ma chiederà «lealtà nei comportamenti perché servono delle regole di condotta», «altrimenti stai in un partito anarchico» (copyright Matteo Orfini).
Dal Pd renziano da giorni si moltiplicano i boatos di «nuove regole». Ma è difficile che la discussione interna prenda la curva disciplinare, quella imboccata senza complessi dai 5 stelle. Non ora che al senato i numeri della maggioranza sono incerti e che una ventina di democratici sono pronti a dare battaglia sul ddl scuola. Al loro indirizzo infatti Renzi saggiamente invia un messaggio di pace: «Siamo pronti a ragionare e cercheremo di coinvolgere più persone».
Il fronte sinistro del Pd si prepara al confronto in ordine rigorosamente sparso. Un presepe di posizioni diverse, da quelle in uscita dal Pd a quelle in entrata nella maggioranza renziana. Dall’account ufficiale di Area riformista su twitter parte un «#Scuola #Senato #Partito facciamo fatica ad andare avanti così. Ci stiamo preparando alla sfida congressuale». Replica Matteo Mauri, area ’dialogante’: «Chi continua a concentrarsi su una battaglia tutta interna al Pd, pensando ora al congresso del 2017 fa un danno al Pd, al paese e anche alla sinistra del Pd». E Davide Zoggia, altro bersaniano: «Proporremo un patto sul merito dei provvedimenti, così da arrivare al 2018, dando all’Italia le risposte di cui ha bisogno». Per Gianni Cuperlo le minoranze non vogliono «una resa dei conti», ma «è bene discutere di cosa intendiamo per partito della nazione», visto che le urne non hanno premiato il partito che si allontana dalla sinistra «per sfondare nell’altro campo».
E qui il discorso di fa interessante perché si tratta della stessa argomentazione svolta, all’indomani del voto, dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Che è nella maggioranza renziana, ma su posizioni ’turche’. E che ha dichiarato «il partito della nazione» un’idea superata, anzi «ambigua, a pericolosa». E che sulla sconfitta ligure si è cavato un sasso dalla scarpa rivelando di aver cercato «di dare qualche indicazione, molto felpata», ma di essersi sentito rispondere «fatti i fatti tuoi».
Malgrado lo «spiacevole passo indietro» rappresentato dall’«inaccettabile» documento presentato giovedì da Dijsselbloem e Juncker, il premier greco continua a ritenere che un accordo sia ora «più vicino che mai». La sua convinzione nasce dall’assoluta certezza che «nell’eurozona prevalgono le forze ragionevoli che vogliono preservare e rafforzare la moneta comune» contro una «minoranza» che cerca di «umiliare» e «sottomettere» un popolo «orgoglioso» come quello greco.
Tsipras ha anche espresso la sua personale certezza che proposte, come quelle avanzate, di tagliare ulteriormente le pensioni e aumentare del 10% il costo della corrente elettrica «non saranno votate da nessun deputato del Parlamento greco». Il leader di Syriza considera la proposta di giovedì quindi come facente parte di una «brutta tattica negoziale» che «non ha ottenuto alcun effetto e molto presto finirà nel dimenticatoio».
Tsipras ha rivolto un appello all’opposizione di scegliere tra le due proposte e di schierarsi a fianco del governo. Appello caduto nel vuoto: l’opposizione di destra e di centro è frantumata, confusa e senza strategia, assolutamente non in grado di incidere minimamente sugli sviluppi. Ma al leader di Syriza il dibattito parlamentare è servito per disarmare le continue grida di questi mesi di Samaras e del leader di To Potami verso il governo di firmare qualsiasi accordo pur di evitare disastri e catastrofi.
«Il popolo ci chiede di resistere e di non cedere alle richieste assurde dei creditori», ha ribadito: «In questi quattro mesi abbiamo pagato per il debito 7,5 miliardi, da un anno il paese non incassa nessun finanziamento, eppure siamo in piedi e abbiamo garantito condizioni di sicurezza per il popolo greco e per quelli di tutta Europa».
Tsipras ha fatto un significativo riferimento allo spostamento del pagamento del debito al Fmi alla fine di giugno, facendo capire che la sospensione dei pagamenti da parte di Atene non è oramai un’eventualità remota ma molto realistica: in quel caso non ci sarà Grexit ma «una traumatica divisione dell’Europa che segnerà il suo fallimento».
TSIPRAS:"NON VOGLIAMO UN ACCORDO
VOGLIAMO LA SOLUZIONE
di Pavlos Nerantzis
Grecia. Il premier: «No ai ricatti e alle umiliazioni. Dalle istituzioni proposte assurde. Vogliamo risolvere in modo definitivo la questione del debito e mettere fine ai timori di Grexit»
Le forze politiche greche sono tutte d’accordo sulla posizione netta del governo greco di non accettare ulteriori misure restrittive, ovvero il piano proposto dai creditori, perché «le conseguenze saranno catastrofiche per il paese». È quanto emerso ieri dal dibattito parlamentare, dopo che un allarme all’esecutivo era partito anche dalla società, dai commercianti, dal mondo imprenditoriale, ai consumatori.
Senza mezze parole viene specificato da tutti che se — come richiesto dalla trojaka — «l’Iva sarà aumentata di dieci punti» la recessione diventerà ancora più profonda.
Secondo un nuovo studio sulla situazione finanziaria delle famiglie greche presentato da economisti dell’Università di Atene «nei primi cinque anni della grave crisi economica, la famiglia media ha perso quasi quattro decimi del proprio reddito». La maggior parte delle perdite registrate (il 23,1%) sono state in reddito diretto. Un ulteriore 8,8% è stato perso a causa di una maggiore imposizione fiscale e un altro 7% per l’inflazione non compensata da un aumento del reddito nel periodo 2008–2012. La ricerca — che si basa sulle dichiarazioni dei redditi di 5,2 milioni di contribuenti — sostiene inoltre che nello stesso periodo preso in esame, la percentuale dei greci che vive al di sotto della soglia di povertà è passata dal 27,9% al 31,1%.
Poche ore dopo l’incontro a Bruxelles tra Tsipras e Juncker , le reazioni ad Atene hanno preso la forma di una valanga. Certo la riunione è stata «buona» e «costruttiva» e ne seguiranno altre, ma a sentire il premier greco, cosa che ha fatto notare durante una teleconferenza a Merkel e Hollande, le proposte presentate dai creditori aumenterebbero la povertà e la dissocupazione, oltre a non essere state discusse al Brussels Group.
L’accordo sarebbe dietro l’angolo, ma nessuna delle due parti è disposta a fare marcia indietro. Oltre a Tsipras non è da escludere che pure i creditori possano chiedere un prolungamento dei negoziati per far passare le loro proposte, ovvero un nuovo pesante memorandum invece di una «soluzione» come chiesto in modo energico da Tsipras in parlamento. Di fatto, dopo la dichiarazione del premier greco, le voci più critiche sono quelle dei strati medi e dei parlamentari di Syriza i quali questa volta provengono non soltanto dalla potente opposizione interna, la «Piattaforma della Sinistra», bensì da tutte le componenti della sinistra radicale greca.
In questo ambito Tsipras ha fatto due mosse: ha deciso di accorpare i quattro pagamenti di giugno al Fmi in un unico esborso il 30 giugno e ha chiesto la riunione straordinaria del parlamento. Il suo obiettivo era doppio: ottenere il consenso più largo possibile sia al seno del suo partito, sia dall’opposizione; guadagnare tempo nei confronti dei suoi interlocutori internazionali.
La necessità è di arrivare ad un accordo al più presto possibile perché l’economia reale soffre, come ha sottolineato l’ ex premier Antonis Samaras, leader dei conservatori della Nea Dimokratia. Samaras deve fare i conti con tanti dirigenti «neodemocratici» e una parte del suo partito che si schierano a favore di un eventuale accordo tra il governo e i creditori internazionali.
Il principale partito dell’opposizione greca è contrario all’eventualitá di elezioni anticipate, ipotesi che viene avanzata da alcuni dirigenti di Syriza in caso non ci sarà un accordo con i creditori, mentre promuove l’idea di un governo di unità nazionale (prospettiva già rifiutata dal governo).
Più o meno simile è stata la posizione del Pasok, che si trova in un momento difficile della sua storia. Dopo la seconda sconfitta elettorale, ieri il Partito socialista greco ha aperto i lavori del suo congresso in vista delle elezioni, il 14 giugno, di un nuovo leader al posto di Evanghelos Venizelos il quale ha già reso noto che non si ricandiderà.
Il congresso è cominciato tra le polemiche dei candidati in carica con Fofi Gennimata, già sostituto ministro della difesa durante il governo di coalizione tra conservatori e socialisti, a lanciare accuse contro il segretario del partito, Nikos Androulakis, candidato pure lui, perché «avrebbe interferito con la selezione dei membri del congresso».
Stavros Teodorakis, il leader del «Potami» (Il fiume), la nuova formazione nell’area del centro-sinistra, si è schierato con Tsipras, pur criticandolo di aver perso troppo tempo senza in realtà trattare con i creditori. A favore di «una rottura con l’ Europa imperialista» sono i comunisti del Kke, il Partito comunista di Grecia. «Se si ottiene un accordo sarà comunque simile a quelli che hanno firmato i governi precedenti» ha detto il segretario del partito, Dimitris Koutsoumbas.
Gli errori criminali dei governi che hanno preceduto la vittoria di Tsipras, la complicità della UE, la volontà tenace delle istituzioni europee di voler cancellare ogni tentativo di contrastare latenaglia dell'austerity neoliberista. Ecco, in sintesi, il dramma della Grecia di oggi - e dell'intera Europa.
Il manifesto, 5 giugno 2015
Il 25 gennaio scorso, il popolo greco ha preso una decisione coraggiosa. Ha osato sfidare la strada a senso unico dell’austerità del Memorandum d’intesa per cercare un nuovo accordo. Un nuovo accordo che consentisse la permanenza del Paese nell’euro, con un programma economico efficiente, senza gli errori del passato.
Per questi errori il popolo greco ha pagato un prezzo alto: negli ultimi cinque anni il tasso di disoccupazione è salito al 28% (per i giovani 60%), il reddito medio è diminuito del 40%, mentre secondo i dati Eurostat la Grecia è diventata il paese europeo con il più alto indice di disuguaglianza sociale. (…) Molti, tuttavia, sostengono che il governo greco non sta cooperando per raggiungere un accordo, perché si presenta ai negoziati intransigente e senza proposte.
È davvero così?
Poiché questi sono tempi critici, forse storici – non solo per il futuro della Grecia, ma anche per il futuro dell’Europa – vorrei cogliere questa occasione per presentare la verità e informare responsabilmente l’opinione pubblica mondiale sulle reali intenzioni e posizioni della Grecia.
Il governo greco, sulla base della decisione dell’Eurogruppo del 20 febbraio, ha presentato un ampio pacchetto di proposte di riforma, al fine di raggiungere un accordo che coniugasse il rispetto del mandato ricevuto dal popolo greco con il rispetto delle regole e delle decisioni che governano l’Eurozona.
Un punto chiave delle nostre proposte è l’impegno a ridurre – e quindi a rendere realizzabili – gli avanzi primari per il 2015 e il 2016, acconsentendo ad avanzi primari più elevati per gli anni successivi, poiché ci aspettiamo un aumento proporzionale dei tassi di crescita dell’economia greca.
Un aspetto altrettanto fondamentale delle nostre proposte è l’impegno ad aumentare le entrate pubbliche attraverso una redistribuzione dell’onere fiscale dalle classi medio-basse a quelle più alte che finora non hanno fatto la loro parte per contribuire a far fronte alla crisi, protette in questo sia dall’élite politica che dalla troika che hanno chiuso un occhio.
Fin dall’inizio, il nostro governo ha chiaramente dimostrato la propria intenzione e determinazione ad affrontare questi problemi approvando una legge specifica sulle frodi causate dalle triangolazioni e intensificando i controlli doganali e fiscali per ridurre il contrabbando e l’evasione fiscale.
Mentre, per la prima volta da anni, abbiamo fatto pagare ai proprietari dei media i loro debiti nei confronti del settore pubblico greco. (…)
Abbiamo presentato proposte concrete concernenti misure che si tradurranno in un ulteriore incremento delle entrate. Queste includono una tassa speciale sui profitti molto alti, una tassa sulle scommesse online, l’intensificazione dei controlli sui titolari di conti bancari con somme ingenti – evasori fiscali, misure per la raccolta degli arretrati del settore pubblico, una speciale tassa sul lusso e una gara di appalto per la radiodiffusione e altre licenze, che la troika aveva stranamente dimenticato negli ultimi cinque anni. (…)
Infine – e nonostante il nostro impegno verso i lavoratori di ripristinare immediatamente la legalità europea del mercato del lavoro, completamente smantellata nel corso degli ultimi cinque anni con il pretesto della competitività – abbiamo accettato di attuare le riforme del lavoro dopo una consultazione con l’Ilo, che ha già espresso un parere positivo sulle proposte del governo greco.
Ciò detto, è ragionevole chiedersi perché i funzionari delle istituzioni insistano a dire che la Grecia non presenta proposte. (…)
Quindi, cerchiamo di essere chiari:
La mancanza di un accordo finora non è dovuta ad una presunta posizione greca intransigente, non incline ai compromessi e incomprensibile.
È invece dovuta all’insistenza di alcuni attori istituzionali nel presentare proposte assurde e mostrare una totale indifferenza verso la recente scelta democratica del popolo greco, nonostante la pubblica assicurazione delle tre Istituzioni sulla concessione della necessaria flessibilità al fine di rispettare il verdetto popolare.
Cosa determina questa insistenza?
Si potrebbe innanzitutto pensare che questa insistenza è dovuta al desiderio di alcuni di non ammettere i propri errori e, invece, di ribadire le loro scelte ignorandone fallimenti.
Inoltre, non dobbiamo dimenticare che alcuni anni fa il Fondo monetario internazionale ha ammesso pubblicamente di aver sbagliato i calcoli della profondità della recessione che sarebbe derivata dal memorandum. (…)
La mia conclusione, quindi, è che la questione greca non riguardi solo la Grecia; piuttosto, è l’epicentro di un conflitto tra due strategie diametralmente opposte riguardanti il futuro dell’unificazione europea.
La prima strategia si propone di approfondire l’unificazione europea nel contesto di uguaglianza e solidarietà tra i popoli e i cittadini. (…)
La seconda strategia si propone proprio questo: la spaccatura e la divisione della zona euro, e quindi della UE.
Il primo passo per la realizzazione di questo obiettivo consiste nel creare una zona euro a due velocità, dove il cuore fisserà regole severe in tema di austerità e di adattamento e nominerà un super ministro delle Finanze dell’Eurozona con potere illimitato e persino la facoltà di rifiutare bilanci di Stati sovrani che non siano allineati con il neoliberismo estremo.
Per quei paesi che rifiutano di piegarsi alla nuova autorità, la soluzione sarà semplice: una punizione severa. Austerità obbligatoria. E, peggio ancora, più restrizioni ai movimenti di capitali, sanzioni disciplinari, multe e persino una moneta parallela.
A giudicare da quanto sta accadendo, sembra che questo nuovo potere europeo sia in costruzione, con la Grecia come prima vittima. (…)
L’Europa è, dunque, a un bivio. A seguito delle serie concessioni fatte dal governo greco, la decisione non è ora nelle mani delle istituzioni, che in ogni caso – con l’eccezione della Commissione europea – non sono elette e non sono responsabili verso il popolo, ma piuttosto nelle mani dei leader europei.
Quale strategia prevarrà? Quella che vuole un’Europa della solidarietà, dell’uguaglianza e della democrazia, o quella che vuole rottura e divisione?
Tuttavia, se alcuni pensano o vogliono credere che tale decisione riguardi solo la Grecia, commettono un grave errore. Vorrei suggerire loro di rileggere il capolavoro di Hemingway “Per chi suona la campana”.
(testo pubblicato su Le Monde del 31 maggio 2015)
Astensionismo
La partecipazione al voto, del 63% alle precedenti regionali e del 59% alle europee, è scesa al 52%. Sull’aumento dell’astensionismo possono aver inciso un solo giorno di vitazioni e il ponte. Ma sicuramente ha pesato il discredito che delle istituzioni regionali a seguito degli scandali degli ultimi anni, circostanza che richiederebbe un ripensamento su decentramento e federalismo ben oltre la demagogica mossa della finta abolizione delle province. Ma c’è qualcosa in più: in Puglia e Campania, due regioni in cui si concentra quasi la metà dei voti, l’astensionismo non è aumentato. E’ invece aumentato molto nelle regioni rosse (dai 10 punti della Liguria ai 15 di Marche ed Umbria, ai 20 della Toscana). Se prima era più alto al sud e più basso al centro nord, e soprattutto nelle regioni rosse, adesso si attesta dappertutto intorno al 50%. E’ chiara la relazione tra aumento dell’astensionismo e flessione di voti al Pd.
Il voto al Pd
In termini di voti di lista il Pd è tornato ai livelli delle regionali del 2010 e delle politiche del 2013. Ma nella lettura del voto di lista regionale non si può trascurare che in queste elezioni si vota separatamente per presidente e liste di partito e che per raccogliere voti si creano liste personali o civiche che tolgono voti ai partiti. Si verifica così uno scarto tra voto di lista al Pd e voto al candidato presidente del Pd. Anche in questo caso torna utile la distinzione prima fatta tra regioni perché se in Puglia e Campania i voti al candidato presidente sono stati più del doppio di quelli al Pd, nelle altre regioni la differenza è minima. In sostanza in Puglia Campania sono state ottenute due vittorie con due personaggi prorompenti che hanno vinto per la loro forza e per le alleanze (in Puglia 8 liste, in Campania 9 liste) spesso discutibili che hanno messo in piedi. Qui, quindi, i voti perduti dal Pd non sono significativi perché se si dovesse votare per le politiche i voti presi dai presidenti rientrerebbero in buona parte nel Pd. Ma nelle altre regioni, dove voti al Pd e voti al Presidente sono vicini, questo ragionamento non vale ed i voti persi sono voti persi. Ed il fatto che essi siano concentrati nelle regioni rosse e nelle regioni in cui si è registrata la maggiore astensione fa pensare che il maggiore astensionismo sia in buona parte dovuto a delusione dell’elettorato di sinistra.
La sinistra e il voto
Se si esclude il caso Liguria, le sinistre sia dove si sono presentate separatamente sia dove si sono presentate insieme ed anche con i movimenti non escono affatto bene da queste elezioni. E’ inutile girarci intorno: pur in una fase come questa con alle spalle lotte, grandi manifestazioni, provvedimenti del governo che con la sinistra non hanno niente a che fare, le sinistre esistenti non riescono a frenare la fuga dei delusi dal Pd verso l’astensione, non riescono a richiamare al voto i vecchi astenuti, non riescono a far tornare ad un voto a sinistra i delusi che si erano spostati verso il M5S, non riescono ad attrarre giovani. Se così è, mi scuso per la crudezza, è bene decidere di metterci una pietra sopra e pensare un percorso radicalmente nuovo.
L’unico caso in cui la sinistra si afferma con una percentuale che può far sperare in un futuro è quello della Liguria dove si è realizzata una condizione nuova, l’unità tra coloro che hanno rotto col Pd e la sinistra che si era aggregata alle europee. Può, questa esperienza, costituire una base di partenza, un laboratorio? Molto dipenderà da come evolverà il confronto dentro il Pd, e questo, a sua volta, dipenderà dalla tempestività e dalla capacità, a sinistra, di qualificarsi come novità, attraente nella forma organizzativa, nella costruzione delle scelte politiche, della democrazia, delle forme di partecipazione. E’ la scommessa che si apre oggi per una nuova sinistra. I tempi sono strettissimi sia perché si sta consolidando un tripolarismo che lascia pochi spazi, sia perché potremmo essere chiamati ad un appuntamento elettorale prima del previsto. Quindi, dalla Liguria, non un modello, ma uno spunto, uno stimolo per provarci.
Un rapido commento, scritto per eddyburg, di un tenace costruttore di una prospettiva per una nuova sinistra, all'altezza dei tempi e di ciò che la nuova forma del proteiforme sistema capitalistico ha prodotto.
Da anni ormai conviviamo con una crisi difficile da afferrare, che nel suo svolgimento ha assunto in continuazione forme nuove. Emersa negli Usa sul finire del 2007 con i mutuisubprime, esplosa successivamente come crisi bancaria e finanziaria, è venuto poi il turno degli Stati nazionali e dell’intera Europa. In un contesto dominato dalla recessione e dalla stagnazione, che alimentano disoccupazione, lavori sottopagati e precarietà, e dunque una condizione di malessere umano e di rischio ambientale crescenti.
Nonostante gli sforzi per occultarne e mistificarne la natura più profonda, se andiamo alla sostanza dobbiamo oggettivamente prendere atto che siamo in presenza di una crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, le cui espressioni si manifestano in varia forma. Ormai, sebbene anche le interpretazioni della crisi siano le più diverse, è sempre più difficile negare che viviamo in una società spaccata in due, non solo in Italia e in Europa. Nella quale la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini è costretta a vendere in condizioni di subalternità e di permanente incertezza le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere a una classe dominante di proprietari universali, peraltro sempre più ristretta e parassitaria, che le usa allo scopo di ricavarne il massimo profitto.
Se non si prende atto di questo elementare dato di realtà, non per caso ideologicamente mascherato con destrezza, è difficile compiere qualche significativo passo avanti sul terreno politico. Come insegnava quel tale di Treviri, la lotta di classe è sempre lotta politica. Soprattutto in questa fase storica, giacché il capitale, prima ancora di una cosa o di un semplice algoritmo, di un accumulo di merci e di mezzi finanziari, è una relazione tra esseri umani, un rapporto sociale storicamente determinato. Non statico e sempre uguale a se stesso, bensì in incessante movimento per effetto del rivoluzionamento continuo degli strumenti della produzione e delle conquiste delle scienza e della tecnica, ma segnato da una contraddizione insuperabile, oggi diventata dirompente.
Aldo Tortorella direbbe che il capitale è vittima delle sue stesse macchinazioni. Per accrescere i profitti deve contenere i salari. Ma i bassi salari comprimono il potere d’acquisto impedendo la realizzazione dei profitti. E poiché la capacità di consumo dei produttori diretti è strutturalmente legata alla capacità di generare un plusvalore che è alla base del profitto, se questo plusvalore non viene generato, o non si realizza perché le merci restano invendute, la produzione si ferma e il lavoratore viene licenziato. Cioè, cancellato come produttore e come consumatore. Il suo destino è quello di andare ad accrescere l’esercito dei disoccupati e degli esclusi, con la conseguenza di rendere ancora più acuta la contraddizione tra capitale e lavoro.
Le crisi ricorrenti, come ben sappiamo, sono state finora il mezzo che ha consentito di riportare in temporaneo equilibrio il sistema attraverso la massiccia distruzione di capitali e di forze produttive umane e naturali, fino all’esplosione di guerre catastrofiche per l’accaparramento delle risorse del pianeta. In teoria, dalla crisi di un sistema il cui fine è l’estrazione del massimo profitto privato dagli esseri umani e dalla natura, su cui si conforma l’intero assetto della società e delle istituzioni, e quindi della politica, si esce in due modi. O attraverso un’ulteriore stretta del dominio del capitale sul lavoro e sull’intera comunità, con la conseguenza di acutizzare tutte le contraddizioni e con esiti imprevedibili. O attraverso l’avvio di un processo di superamento del sistema diventato insostenibile, ponendo dei limiti al dominio del capitale e aprendo la strada a una gestione comunitaria della produzione di ricchezza.
Un’altra soluzione non è data. Non dimentichiamo che dalla Grande Depressione del 1929-33, si è usciti temporaneamente in Europa con il nazismo e la seconda guerra mondiale. Oggi, mentre alle porte dell’Europa premono masse di diseredati e si moltiplicano le guerre guerreggiate, il ricatto cui viene sottoposta la Grecia è il paradigma di una regressione senza precedenti imposta dai poteri capitalistici dominanti: prima la remunerazione del capitale finanziario, poi la vita delle persone. La finanziarizzazione universale, tipica di questa fase di globalizzazione, non ha attenuato il processo di subordinazione del lavoro. Al contrario, lo ha generalizzato e modernizzato nelle modalità di sfruttamento, con l’intento di contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto e alla perdita di efficienza del sistema.
La spinta a fare denaro con il denaro bypassando la produzione ha generato, come osservava Hilferding, uno «schema mistico» del capitale, rivestendolo di sacralità e impenetrabilità. Nei fatti, garantendo alti rendimenti, ha moltiplicato i valori finanziari rispetto all’economia reale, diffuso la speculazione e la corruzione, accresciuto a dismisura le disuguaglianze. Grazie all’indebitamento di massa inventato dalle economie anglosassoni, si è ottenuto per un certo tempo il miracolo di tenere alti i consumi in regime di bassi salari. Ma il debito come fattore propulsivo dell’economia, in sostituzione della valorizzazione del lavoro, è il segnale vistoso del decadimento di un sistema.
D’altra parte, la rivoluzione scientifica e tecnologica, con l’uso dell’informatica e della microelettronica, non ha posto fine al lavoro, ma rivoluzionando il modo di lavorare e di vivere richiederebbe la formazione di una classe lavoratrice di livello superiore per cultura generale e conoscenze specifiche, e quindi un’attenzione particolare all’istruzione e alla ricerca. Mentre il superamento della tradizionale nozione del tempo e dello spazio consentirebbe di accorciare globalmente i tempi di lavoro allungando i tempi di vita, e di pianificare un’occupazione dignitosa per tutte e per tutti.
Ma alla socializzazione crescente dei processi produttivi, di comunicazione e di ricerca, cui concorre una molteplicità di soggetti diversi, non corrisponde la socializzazione della proprietà e la comune gestione degli strumenti indispensabili per il governo di tali processi. Il risultato è la formazione di un enorme esercito di manodopera di riserva nel mondo, disponibile per qualsiasi tipo di lavoro precario. Di qui la concorrenza e la guerra tra poveri. Il rapporto di proprietà capitalistico è diventato una gabbia che imprigiona il libero sviluppo di tutti e di ciascuno. La contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di proprietà, tra il lavoro e il capitale, è arrivata a un punto limite che è necessario riconoscere e mettere a nudo. Se non si vuole che al conflitto di classe si sostituisca una guerriglia permanente e senza sbocchi tra i subalterni.
Nella controrivoluzione liberista di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher si si è incarnato al massimo livello il dominio totalitario del capitale sul lavoro. Una vera e propria dittatura, non solo in ambito economico-sociale, ma anche nel linguaggio e nella comunicazione, fino al formarsi di un diffuso senso comune. In una fase di massima espansione della lotta di classe del capitale contro il lavoro è stata teorizzata la fine della lotta di classe, addirittura la fine delle classi. Lo slogan di lady Thatcher detta TINA (There Is No Alternative), secondo cui la società non esiste, esistono solo individui, ha fatto molta strada ed è assurto al rango di principio universalmente riconosciuto anche a sinistra con conseguenze politiche devastanti.
E’ evidente infatti che se si sostiene, come sostenne a suo tempo Giorgio Ruffolo scambiando lucciole per lanterne, che ormai «abbiamo una società di individui» e con ciò la sinistra ha raggiunto il suo scopo, vale a dire «la società senza classi», non ha alcun senso la presenza di una forza politica delle classi subalterne, essendo state le classi sociali cancellate. Peraltro, non da una rivoluzione socialista ma dalla forza egemonica del pensiero unico liberista. Nel deserto popolato da individui egoisti privi di legami sociali anche la visione del capitale come rapporto sociale viene azzerata, e si erge dominante l’homo oeconomicus, l’individuo che dispone dei mezzi necessari per mettere al lavoro a suo piacimento altri individui, ridotti al rango di capitale umano, spossessati anche della loro storia, oltre che della loro comunità sindacale e politica.
L’impianto egemonico neoliberista, nella sostanza acquisito e perfezionato dalla socialdemocrazia di Blair e di Schröder, ha espulso dall’agenda e dalla pratica politica europea e italiana un clamoroso dato di realtà: il conflitto capitale-lavoro, che pure segna il destino di milioni di donne e di uomini. Da una parte, i sindacati sono additati come un ostacolo da abbattere sulla via della piena libertà del capitale. Dall’altra, è stata semplicemente cancellata l’autonoma e libera presenza politica delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo. La politica come protesi dell’economia, cioè del capitale, è stato il punto di approdo. E con ciò è stato definitivamente archiviato il vecchio compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro. In un sistema politico-rappresentativo monoclasse, in cui i diritti diventano una variabile dipendente dal rendimento dei capitali, la democrazia traligna inevitabilmente in autoritarismo e oligarchia.
Su questa linea, corresponsabile dell’innesco e del dilagare della crisi ma presentata come una novità strabiliante, si è attestato Matteo Renzi. Ormai, dopo le più recenti vicende, il suo obiettivo dovrebbe risultare chiaro anche ai ciechi. Né più né meno, è la definitiva soppressione del fondamento politico della Repubblica democratica. Ma il corrispettivo potenziamento del capitalismo italiano cui mira Renzi attraverso radicali misure di internazionalizzazione e di privatizzazione che lo liberino da storiche inefficienze e incrostazioni, e insieme da ogni residua responsabilità sociale secondo il modello anglosassone, non ci farà uscire stabilmente dalla crisi perché non ne mette in discussione i fattori strutturali.
Un conto è il miglioramento dei parametri europei, definiti stupidi da Romano Prodi, o di quelli imposti dai colossi multinazionali del rating, che li fissano per assicurarsi laute rendite di posizione. Altro conto è affrontare i nodi della piena occupazione; di una remunerazione del lavoro che garantisca a tutte e tutti una vita dignitosa e degna di essere vissuta; di un nuovo welfare universale; della salvaguardia dell’ambiente e della pace; del trasferimento all’intera comunità dei benefici che la rivoluzione scientifica e tecnologica mette a disposizione. Di che parliamo, se non di un altro modello di società? Di un avanzamento di civiltà oltre i limiti imposti dal dominio del capitale? Un nuovo socialismo? Sì, se la parola non fosse stata deturpata e stravolta dai molti che se ne sono abusivamente appropriati.
Muovere nella direzione opposta a quella indicata da Renzi e dai governanti europei vuol dire costruire un’alternativa politica al dominio del capitale. È questa la questione di fondo che non si può eludere. E che innanzitutto richiede, per essere affrontata con qualche probabilità di successo, una visione del lavoro che abbandoni senza rimpianti lo schema novecentesco. In altre parole, c’è bisogno di una visione non limitata alla classe operaia tradizionalmente intesa come unico soggetto trainante dell’antagonismo al capitale, bensì allargata ai nuovi soggetti indotti dalla rivoluzione elettronica e digitale in tutti i campi delle attività lavorative. Perciò aperta al lavoro cognitivo e creativo, seppure erogato in forma individuale e a distanza. E nel contempo in grado di coinvolgere tutti coloro, giovani e donne innanzitutto, ma anche le teste grigie, che da qualunque forma di lavoro vengono esclusi.
In secondo luogo, occorre prendere atto una volta per sempre che l’esperienza del movimento operaio novecentesco, in tutte le sue forme, è davvero definitivamente conclusa. E non è ripetibile. Sia nella forma del cosiddetto socialismo realizzato nella Russia sovietica, sia nella forma socialdemocratica nell’Occidente europeo, che ha sposato i dogmi della controrivoluzione liberista. Come aveva intuito Enrico Berlinguer, esaurite le due fasi novecentesche del movimento operaio, adesso «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico», e dunque di «porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo».
Una sinistra nuova ha senso, e avrà un avvenire, se assume questa prospettiva, peraltro delineata con sufficiente chiarezza dalla Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro. Un progetto di portata europea per il quale vale la pena di impegnarsi e di lottare, attraverso l’espansione massima di una democrazia progressiva e partecipata. Uscire da questo capitalismo non è una «bubbola», come pensa Scalfari. E neanche un insostenibile fardello da mettere sulle spalle dei nipoti. È invece un problema drammaticamente aperto, riproposto dagli effetti devastanti della crisi.
Un intervento a gamba tesa del magistrato anticorruzione e l'intervento critico di un intellettuale che difende la divisione dei poteri. Come dargli torto?
La Repubblica e Huffington Post, 3 giugno 2013
«Ora che le elezioni regionali sono alle spalle, si può dire: con il caso Campania siamo finiti in un’impasse giuridica inedita, che sarà anche molto stimolante e interessante sciogliere, a patto di non lasciarsi tirare per la giacca da nessun timore di strumentalizzazioni. Il mio parere? Non do per scontata l’interpretazione secondo cui De Luca debba essere sospeso subito dopo la proclamazione».
Raffaele Cantone spezza il silenzio “politico” che, da magistrato e da presidente dell’Anticorruzione aveva opposto durante la lunga, avvelenata campagna delle regionali che ha infiammato i rapporti politici sull’asse Napoli-Roma. Parla anche dei trasformisti, della querela del governatore campano contro la Bindi e di quel “grave passo falso” commesso dalla presidente della commissione Antimafia.
Presidente Cantone, autorevoli giuristi sostengono che De Luca non dovrebbe avere il tempo di nominare la sua giunta, ma essere sospeso un minuto dopo la proclamazione.«Penso che la questione sia controversa. Esiste secondo me, anche un’altra interpretazione. Gli articoli 7 e 8 del decreto che chiamiamo legge Severino prevedono infatti la decadenza o la sospensione. E quest’ultima interviene nei casi in cui l’amministratore abbia subito una condanna che però non è passata in giudicato, proprio come per De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio. In altri termini: se si sospendesse subito, senza consentire ai consiglieri eletti di insediarsi e al consiglio di funzionare anche in rapporto alla giunta, bisognerebbe dichiarare lo scioglimento del consiglio per impossibilità di funzionamento. E la sospensione prevista dalla Severino, che ha una funzione di natura cautelare e un carattere provvisorio, diventerebbe di fatto, una decadenza».
Eppure, la recente sentenza della Cassazione ha stabilito che la sospensione è un “atto vincolato” e che, in presenza di presupposti, non esiste valutazione di discrezionalità.
«Certo, è così. Ma la domanda è: quando si verificano i presupposti? Si radicano nel momento in cui c’è la sola nomina, oppure quando l’amministratore, in questo caso il governatore della Regione, ha assunto regolarmente quelle funzioni dalle quali deve essere momentaneamente allontanato?» Cantone, diranno che lei ha una tesi pro Renzi e De Luca?
«So bene che il dramma di questa storia è che una vicenda squisitamente tecnico-giuridica sarà letta con una chiave di politica o di strumentalizzazione. Ma sono letture che non mi toccano. Credo invece che il presidente del Consiglio debba fare appello a tutto il meglio dell’avvocatura dello Stato e dei giuristi italiani. Senza pressioni o timore alcuno, perché la soluzione che si trova oggi farà giurisprudenza».
Ma il Pd poteva evitare di cacciarsi in questo vicolo cieco?
«È un rompicapo senza precedenti. Ribadisco: anche affascinante, per chi ama le potenzialità del diritto. È ovvio che sarebbe stato meglio evitarsi una tale complicazione, ma questa valutazione non spetta a me».
De Luca dice: dovrà risolvere il Parlamento. In realtà pensa al governo.
«Un decreto legge non avrebbe senso. E per le eventuali modifiche in Parlamento c’è bisogno di tempi e di soluzioni certo meditate. Come Autorità anticorruzione, proprio il 10 giugno, vareremo una proposta ampia sulla Severino da affidare al Parlamento, per alcuni danni e problemi che la Severino crea su altri versanti, su cui non c’entra De Luca. Perché quella normativa è sacrosanta, è indispensabile e deve rimanere. Ma un miglioramento certo va pensato».
Intanto, l’era De Luca comincia con la querela alla Bindi. Cosa pensa della black list dell’Antimafia?
«Mi faccia fare una premessa. Credo che l’onorevole Bindi, nonostante non avesse una specifica esperienza, stesse facendo benissimo il suo lavoro, con quella capacità di impadronirsi degli argomenti e della complessità dei nodi che è propria dei politici di alto livello: una volta gliel’ho anche riconosciuto alla presenza del premier. Ma questa vicenda degli impresentabili è stato, per me, un grave passo falso, un errore istituzionale».
Perché snatura la funzione dell’Antimafia?
«Per vari motivi. Primo: è rischiosa e fuorviante la logica di “istituzionalizzare” gli impresentabili, i quali per loro stessa natura possono essere candidabili, eleggibili, non indagati eppure non idonei a entrare nella pubblica amministrazione, ad esempio per spregiudicato trasformismo; oppure perché è più grave che un politico si accompagni costantemente a persone dell’area grigia o a pregiudicati, rispetto al fatto di essere rinviato a giudizio per un abuso qualunque. Secondo: in questo modo, si rischia di produrre un’eterogenesi dei fini; cioè, di dare il bollino blu a tantissimi che, non vedendosi inseriti in quella lista, si sentono pienamente legittimati. E infine, perché questo porta la commissione antimafia e la sua fondamentale, indiscutibile direi sacra funzione, a fare e a parlare di altro. La commissione deve studiare, cogliere nessi, indagare fenomeni».
Se l’aspettava che De Luca l’avrebbe querelata?
«Sì, lo aveva detto. Anzi, da cittadino mi augurerei che come governatore De Luca sarà puntuale e preciso con tutte le altre promesse così come lo è stato nel depositare la denuncia».
La Repubblica, “Huffington post"
di Alfonso Gianni
Mentre Vincenzo De Luca, trionfatore delle regionali campane con i voti determinanti del Centro democratico di Vassella Pisacane e dell’ Udc dell’intramontabile e in rottamabile Ciriaco De Mita, querela la Bindi per il semplice esercizio delle proprie istituzionali funzioni, Raffaele Cantone, Presidente nazionale anticorruzione (!?!), non trova di meglio che rilasciare un’ampia intervista a repubblica in cui se la prende con la Bindi e con la Corte Costituzionale. Eppure si tratta di una persona di cui si era fatto il nome persino per la carica di Presidente della Repubblica. E tutto ciò almeno ci consola dal punto di vista dello scampato pericolo.
Che si possa criticare la legge Severino è non solo lecito, ma per ciò che riguarda alcuni aspetti anche comprensibile, come quelli che concernono differenze di trattamento fra vari livelli istituzionali a fronte di processi giudiziari in corso. Ma bisognerebbe averlo fatto prima. Ora, fin tanto che quella è legge, non può non essere applicata. De Luca l’ha voluta sfidare. Il suo partito si è messo al suo servizio, infilandosi in cul de sac da cui è difficile uscire. D’altro canto questa è stata una scelta cosciente di Renzi. Una regione in più val bene l’aggiramento di una legge e la tacitazione di ogni sensibilità etica. Il giovane è spregiudicato.
Ma che il Presidente nazionale anticorruzione corresse in aiuto all’uomo forte della Campania, questa, almeno, speravamo di potercela risparmiare. E ci va giù duro.
La Bindi, secondo Cantone, avrebbe “istituzionalizzato” gli impresentabili. Cosa voglia dire non si capisce neppure, ma tant’è: si tratta di un’accusa destinata a fare effetto. In secondo luogo avrebbe dato il “bollino blu” a tutti quelli che non rientrano nella lista degli impresentabili. Qui siamo di fronte al capovolgimento radicale di ogni logica. Secondo Cantone qualunque iniziativa tesa ad avvertire l’elettorato che sono stati inseriti nelle liste persone che non hanno requisiti a termine di legge per poterci stare o per potere svolgere le funzioni che deriverebbero dalla loro eventuale elezione, sarebbe campagna elettorale per tutti gli altri. Ma allora, caro Cantone, se le cose stessero davvero così, aboliamola questa commissione antimafia. Sarebbe più dignitoso per tutti. Oppure releghiamola per norma a un ruolo marginale, come lei stesso dice nella intervista: “la commissione deve studiare, cogliere nessi, indagare fenomeni” , ma evidentemente non interferire mai con la politica attiva. In quest’ultima , come è noto, non ci sono nessi o fenomeni da indagare.
Per Cantone non conta neppure la sentenza della Corte Costituzionale che ha recentemente stabilito che la sospensione dalla carica è “un atto vincolato” non sottoponibile a valutazioni di discrezionalità. Cantone la butta sui tempi. Quando il governatore dovrebbe essere allontanato? Al momento della nomina o dopo l’insediamento della Giunta?
Che siamo di fronte a cavilli utilizzati all’unico scopo di sostenere la continuità dell’esercizio del potere da parte di De Luca, risulta poi chiaro in chiusura di intervista, quando Cantone si lancia in un intemerato augurio: “da cittadino mi augurerei che come governatore De Luca sarà puntuale e preciso con tutte le altre promesse come lo è stato nel depositare la denuncia”. Il riferimento alla querela di De Luca nei confronti della Bindi è esplicito.
Se lei la pensa così, caro Cantone, sarebbe assai meglio che tornasse ad essere un semplice cittadino e che abbandonasse nel più breve tempo possibile quella carica di Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Non mi pare materia per lei.
L'estremo tentativo dello statista greco di salvare la prospettiva di un'altra Europa. Incrociamo le dita.
La Stampa, 3 giugno 2015
Il punto.
La politica prova a muoversi.
Tensioni a Bruxelles.
È sufficiente osservare le dichiarazioni di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, in teoria titolare della cattedra greca, invece fuori dal quintetto berlinese. «Si sono registrati dei progressi - sottolinea - ma sono insufficienti: siamo ancora lontani dall’accordo». Quest’ultima, precisa, «non è possibile dal punto di vista tecnico in settimana». Traduzione: si può fare solo nel «suo» conclave, cioè nel club dei ministri economici dell’Eurozona, che si riunisce il 18 giugno. Però i creditori vorrebbero poter rimpinguare le casse elleniche prima, a meno che Atene non chieda di unificare a fine mese i pagamenti dovuti al Fmi.
Anticipo greco.
«È passato sotto silenzio il record negativo della Toscana». Una riflessone sui risultati elettorali in una regione storica della sinistra. "Loro" hanno perso, ma "noi" non abbiamo vinto. Domandiamoci perché.
La Repubblica online, blog "Articolo 9", 3 giugno 2015
È proprio la regione del Presidente del Consiglio quella in cui si è votato di meno: con l'affluenza inchiodata a un clamoroso 48,24 per cento, in una specie di crollo verticale (aveva votato il 60,92 alle Regionali del 2010; e il 66,7 alle Europee dell'anno scorso: il che vuol dire che in dodici mesi ben 530.896 toscani hanno deciso che non val la pena di andare al seggio). Solo qualche mese fa chi avesse pronosticato questo drammatico disincanto per la rossa, civilissima, politicissima Toscana sarebbe stato considerato un eccentrico menagramo. E invece ora la maggioranza assoluta dei toscani urla di averne le tasche piene dei toscani Matteo Renzi ed Enrico Rossi: il Pd perde in un anno 454.773 voti (passando da 1.972.406 delle Europee al 1.441.510 di oggi), e Rossi è ora il presidente meno legittimato della storia della Toscana, essendo stato eletto da un miserrimo 23 per cento degli aventi diritto. Di questo passo, il prossimo governatore toscano lo eleggeranno direttamente i dipendenti della Regione.
Ancora più della disfatta ligure della imbarazzante Paita, dell'evaporazione dell'ultralight Moretti in Veneto o dell'imperdonabile follia di aver consegnato la Campania all'impresentabile De Luca, mi pare questa fuga toscana dalle urne la prima vera Caporetto del renzismo. Ricordate quando l'ex presidente Napolitano tuonava contro la (presunta) antipolitica dei 5 stelle? Ebbene, cosa si dovrebbe dire oggi del trionfante Pd, che riesce nel capolavoro di allontanare dalla politica il 51.76 % dei toscani?
Il presidente Mattarella ha sostenuto che le urne vuote siano una risposta alle «liti esasperate». Il che certamente può essere vero, ma non per la Toscana. Qui, invece, si paga l'incapacità della politica di sollevarsi dal piano della mera gestione del potere. L'assenza di una qualsivoglia visione del futuro che non sia la permanenza al comando – ed è questo il limite congenito del renzismo, che paradossalmente ricalca e cristallizza lo stato di fatto che dice di voler rottamare –: è questa la vera antipolitica. È la perfetta coincidenza tra 'Politica' e 'manovra politica' ad espellere dal gioco tutti tranne gli addetti ai lavori.
Lo si è visto plasticamente quando il Pd toscano ha attaccato a testa bassa l'assessore Anna Marson, accusandola di «stupidità politica» per aver difeso fino all'ultimo il Piano del Paesaggio: e cioè per aver scelto il governo del futuro e l'interesse pubblico, e non la gestione del presente e gli interessi privati. In quell'occasione (era l'ultimo consiglio regionale della legislatura) la Marson difese il suo «agire “diversamente politico”, in quanto non guidato dal desiderio di mantenere un incarico di assessore, né dall’obbligo di restituire favori e accontentare interessi specifici». La Marson, ovviamente, non è stata ricandidata: anzi è stata definitivamente espulsa dalla politica dei politici: e il Pd ha di nuovo saldamente in mano il governo della Toscana. Ma a che prezzo? Davvero pensiamo che le elezioni siano vinte anche quando la maggioranza assoluta non vota più?
Ma se i toscani hanno punito un Rossi mimetizzato tra i cacicchi del Caudillo Maleducato, non hanno certo premiato gli avanzi della sinistra radicale, vanamente rimessi insieme dal generoso Tommaso Fattori: il 6,28 per cento è un risultato deprimente, e l'astensione pesa come un macigno anche sopra chi non è riuscito a convincere i concittadini che esiste un'alternativa al mitico Partito della Nazione della Boschi & c. Non per caso, la Marson non è stata ricandidata nemmeno da questa residuale sinistra: così dimostrando che il vasto e agguerrito popolo dei comitati e delle associazioni che difendono paesaggio, ambiente, beni comuni non riesce a trovare una rappresentanza politica.
Il 31 maggio la regione di sinistra per eccellenza si è addormentata, facendo proprio il motto della Notte del suo Michelangelo: «Grato m'è il sonno e più l'esser di sasso / fino a che il danno e la vergogna dura». Chiunque voglia riprovare a declinare al futuro la politica italiana deve partire da questa domanda: come si risveglia la Toscana, Bella Addormentata della Sinistra?
«Al ballottaggio del 16 giugno la città lagunare rischia di passare alla destra. Occorre unire il meglio della società civile». Una lettura tra le tante che considerano far parte della "sinistra" anche i renziani doc.
Il manifesto, 3 giugno 2015
Eppure non ha funzionato. Fuori coalizione, l’acuirsi del profilo controriformista del governo Renzi (tra Jobs Act, Italicum e scuola), aprivano uno spazio largo d’iniziativa. Neanche questo, però, ha funzionato. Le percentuali della sinistra dentro e fuori la coalizione sono le minime da sempre. La grandissima parte dello spazio politico tra governo e opposizione è stata saturata da Zaia (e, dal lato della protesta, anche dal M5S, malgrado il suo risultato sia fra i peggiori d’Italia).
Chi ha convinto Zaia? Un Veneto scosso dalla crisi, che vede segnali di ripresa ma che teme siano illusori, angosciato da cassa integrazione, licenziamenti, fallimenti, mutui, tassi d’interesse, crediti usurai, mercato del lavoro spietato, concorrenza d’impresa feroce, infrastrutture caotiche, stravolgimento del quadro ambientale e sociale nella non gestita «metamorfosi» in atto (per citare il titolo di un utile e recente libro di Daniele Marini, edito da Marsilio). Ma anche stanco da una richiesta inevasa di autonomia, di federalismo, un’istanza qui potentemente presente e che la sinistra assume solo quando la Lega cresce ma che viene poi dimenticata non appena la Lega declina (com’era accaduto negli anni scorsi, prima del truce ma formidabile rilancio salviniano).
Tutto ciò, nel travaglio del melting pot ribollente che significa soprattutto ignavia e iniquità delle politiche sull’immigrazione, che aprono spazi alla predicazione xenofoba e agli imprenditori politici della paura, un tempo i Gentilini e i Bossi oggi i Bitonci e i Salvini.
Zaia è la figura sintesi. La sinistra non ha saputo proporre un’alternativa perché non ha fornito risposte originali e concrete ma, al più, nell’azione di governo a Roma e spesso localmente, suggestioni o rivisitazioni «moderate» delle stesse ricette leghiste e liberiste. Certo, poi ci vuole anche la faccia tosta di Zaia, l’abilità a dipingersi come estraneo non solo giudiziariamente ma anche politicamente alla corruzione che ha segnato l’amministrazione da lui guidata (o di cui era il vice, con Galan) di cui lo scandalo Mose è solo il più eclatante esempio, così da porsi come l’uomo giusto per governare anche un Veneto giunto, dopo scandali e crisi, al suo «anno zero» (per citare un altro fresco libro importante, di Renzo Mazzaro, edito da Laterza).
All’anno zero del Veneto, e all’ora x di Venezia, l’ora in cui, il prossimo 14 giugno, al ballottaggio, per la prima volta da vent’anni la città rischia di passare in mano alla destra peggiore, la sinistra si presenta inquieta, insicura e divisa.
Si è detto della Regione. Nel capoluogo, lo scandalo Mose, con l’arresto del sindaco, il commissariamento del Comune e l’esplodere della sua crisi finanziaria (anche per gli effetti perversi del patto di stabilità), ha disarticolato il modello politico e amministrativo sviluppatosi dagli anni Novanta e ha rimescolato le forze, con il prevalere, a sinistra (ma anche a destra), di formazioni civiche che riposizionano l’offerta elettorale in termini più aperti e trasversali, a volte personalistici.
Anche a Venezia la sinistra ha cercato strade diverse sia dentro una coalizione che la leadership di Casson rendeva più naturale sia all’esterno. In entrambi i casi si è raccolto poco. Le proposte sono sembrate più residuali che innovative. Il ballottaggio tra Casson e Brugnaro è anche segnato da questa debolezza della sinistra, oltre che dalle ambiguità e difficoltà del Pd, come in Regione.
Se la forza aperta di Casson, oltre che il suo profilo integerrimo, riusciranno a unire il meglio dell’esperienza di governo della città e le forze che si sono sempre opposte al sistema corrotto con i movimenti e i percorsi «civici» che puntano a una virtuosa innovazione politica e amministrativa (e a un’idea di città all’altezza di questo iniziale terzo millennio di Venezia), oltre ad assicurarsi la vittoria creeranno le condizioni per un nuovo spazio politico, in cui la stessa sinistra, in forme inedite, potrà ritrovarsi e riavere forza e respiro.
L’anno zero del Veneto e l’ora x di Venezia coincidono e s’intrecciano, infine, con il complesso, agitato momento politico nazionale, di esso risentono ma ad esso, dalla città e dai territori, possono cominciare a rispondere in modo originale.
Articoli di Norma Rangeri e Daniela Preziosi sulle elezioni di oggi: Un voto contro l'arroganza del Presidente chiacchierone.
Il manifesto, 31 maggio 2015
Dopo un anno di governo renziano, vengono messe alla prova le scelte istituzionali, le riforme del lavoro e della scuola, le battaglie interne al Pd. Per il segretario-presidente è il primo vero banco di prova per confermare la sua doppia leadership. Nel Paese e nel partito. Lui lo sa bene, anche se negli ultimi giorni ha giocato al ribasso, prima indicando come obiettivo la vittoria di sei regioni su sette, poi scendendo all’Italia-Germania 4 a 3, infine sminuendo il peso nazionale del voto amministrativo.
Per la destra la partita non è solo interna a Forza Italia (gli attacchi di Fitto a Berlusconi, la perdita di consenso, il crollo d’immagine segnano la caduta del vecchio impero di casa Arcore), ma soprattutto nello scontro che si delinea tra le diverse forze in campo, dove al momento prevale mediaticamente la violenza fascio-leghista di Salvini.
Accanto a questa tripla resa dei conti, gioca una partita a sé il Movimento 5 Stelle, che dopo i “felpati” passi indietro di Grillo sembra avviato su un percorso politico meno isolazionista, più orientato a cogliere le occasioni di confronto e di battaglia parlamentare con le altre opposizioni. Negli ultimi mesi hanno segnato dei punti a loro vantaggio con una presenza parlamentare anche propositiva, come è successo nella legge sugli eco-reati.
C’è una partita poi altrettanto importante che coinvolge le forze, i movimenti, le persone della sinistra che cercano di ricostruire un consenso, di alimentare la partecipazione nelle realtà locali anche confortati dai recenti risultati elettorali spagnoli. E in questa prospettiva si muove quella parte della minoranza del Pd che al momento cammina in ordine sparso. Tuttavia sia in Liguria (con Pastorino), che in Toscana (con Fattori), che nelle Marche e in Campania (con Mentrasti e Vozza), [sia nel Veneto, con Di Lucia Coletti- n.d.r.]che altrove con le liste della sinistra, c’è una occasione importante per lasciare il segno.
Oltre gli aspetti politici generali, è in primo piano la questione squisitamente amministrativa perché le regioni rappresentano il luogo più esposto al malgoverno e al malaffare. Non a caso ha assunto rilevanza, perfino eccessiva, la presentazione dei 16 candidati «impresentabili». Proprio nei territori si registra con forza il malcontento dei cittadini (come è accaduto in Emilia Romagna) che usano l’arma più dirompente per i partiti: astenersi dal voto. La forza delle democrazie si registra proprio su questo aspetto. Che Renzi snobba e non tiene in alcun conto. Ma qui si misura la protervia di chi ci governa e proprio per questo bisognerebbe andare a votare: per punire la sua arroganza.
Democrack. «Il voto non è un test su di me». Renzi se ne frega del silenzio elettorale e straparla da Trento. Dal voto dipende la stabilità dell'esecutivo e la deflagrazione del Pd. Lui si dichiara «ottimista». E invece teme di brutto Liguria e Campania. Il Pd colabrodo nei territori. E dopo il risultato scatterà la resa dei conti. Per il premier l’unico vero avversario è l’astensionismo
«Ottimista». Figurarsi se alla vigilia del voto con cui si gioca la dua duplice faccia di presidente del consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi si faccia sfuggire l’occasione di dichiararsi ottimista. In realtà i segnali che arrivano dalle regioni non sono smaglianti. L’aria è cambiata, dopo la prima fase della corsa elettorale. E c’è da capire l’effetto che farà nelle urne la guerra civile esplosa nel Pd con la pubblicazione della lista dei 16 «impresentabili» da parte della commissione antimafia. Fra loro lo stesso candidato presidente del Pd in Campania Enzo De Luca. Un assist insperato per i 5 stelle che, dopo aver accusato Rosy Bindi di fare accordi con la destra per proteggere il suo partito adesso le esprimono solidarietà. Ma è un abbraccio mortale, agli occhi dei renziani.
Così Renzi prova a ridimensionare la portata del voto e, dopo tanta baldanza, ora nega che sia un test su di lui: «Francamente no. Questa può essere stata una lettura che si è data sulle elezioni europee, lettura che anche in quel caso non condividevo. Ma le elezioni locali servono per le elezioni locali. Non c’è nessuna conseguenza». Ma è solo un tentativo di mettere le mani avanti. Il voto di oggi porta alle urne 23 milioni di italiani. Sarà un vero test sul governo nazionale, più credibile di molti sondaggi.
Per questo ieri ha fatto propaganda fino all’ultimo. Dal Festival dell’economia di Trento, dov’era ospite con il collega francese Manuel Valls, ha cercato di accodarsi agli eurocritici vincenti di Spagna e Polonia: «Il futuro dell’economia parlerà italiano e francese, ma non tedesco», ha assicurato, e via con la promessa di fare «casino» a Bruxelles, e «con una determinazione che non immaginate». E se «in Polonia hanno vinto i nazionalisti, in Spagna non è chiaro cosa potrà accadere, la Grecia sta nelle condizioni che sappiamo, il Regno Unito riflette sull’Europa», noi italiani dobbiamo stare sereni che in Italia si apre una stagione «fantastica». Segue propaganda su jobs act, tasse, presunti miglioramenti delle condizioni dei lavoratori.
Il presidente cerca di motivare i suoi elettori, e se ne infischia del silenzio elettorale. Anche perché l’astensionismo rischia di essere l’unico vero sfidante in campo. Quello che ottiene per ora è la furia degli avversari: il forzista Brunetta chiede alla procura di Trento di intervenire perché «la rottura del silenzio elettorale con manifestazioni dirette o indirette di propaganda è punito fino a un anno di carcere». Il deputato M5S Fraccaro annuncia un esposto. Da sinistra anche Civati e Fratoianni attaccano: «Prima di lui solo Berlusconi, alla vigilia delle elezioni politiche del 2013, violò il silenzio. Ma almeno per un giorno può evitare di parlare?». È l’accusa di berlusconismo, forse anche un auspicio: perché quella volta il giorno dopo Berlusconi perse.
Dopodomani non è la festa della nazione, ma quella della Repubblica. Oggi, nei tempi bui nei quali gli egoismi nazionalistici, il degrado della democrazia e il tradimento dei principi della Costituzione sembrano prevalere, non dimentichiamo il significato delle elezioni che condussero a quel risultato. E torniamo a votare.
La Repubblica, 31 maggio 2015
In quella prima domenica di giugno del 1946, gli italiani e le italiane decisero con un solenne plebiscito di voler essere una Repubblica democratica. Il loro fu un atto di fondazione che diede vita a un nuovo ordine politico. I cittadini e le cittadine furono per la prima volta nella storia della nazione italiana chiamati a decidere sull’ordinamento politico e la loro identità pubblica, a farsi volontà sovrana. La nazione italiana ha avuto tre ordinamenti dal tempo della sua unificazione nel 1861: quello monarchico costituzionale, quello fascista, e quello repubblicano. Il 2 giugno non si festeggiano tutti e tre questi ordinamenti, e in questo senso non è il giorno della nazione; se ne festeggia uno solo, l’ultimo. Se si fa perno sull’aggettivo “nazionale” si rischia di perdere il senso storico e politico di ciò che si festeggia: la nazione repubblicana e solo quella.
Soprattutto, si mette in secondo piano il significato politico del plebiscito del 2 giugno 1946 e si normalizza quell’evento eccezionale traducendolo con un termine onnicomprensivo e diversamente interpretabile. La nazione comprende infatti tutta la storia politica, sociale, culturale e civile del Paese, non soltanto quella parte che ha preso avvio nel 1946. Certo, come ci insegnano gli storici, lo Stato italiano nelle sue strutture burocratiche e anche nel suo personale amministrativo ha registrato una sostanziale continuità dal fascismo alla Repubblica. Non così la sovranità politica, che con quel plebiscito cambiò radicalmente, passando da una casa monarchica a milioni di cittadini che compongono il popolo, come recita la nostra Costituzione, esito diretto di quel plebiscito.
Un esempio può aiutare a comprendere meglio perché la Festa della Repubblica non é semplicemente una festa della Nazione: prima del 1946, le italiane erano sia parte della nazione che suddite dello Stato italiano, ma non erano soggetti politici liberi. Come loro anche molti uomini; ma nel caso delle donne l’esclusione politica era totale, e l’appartenenza alla stessa nazione non valse a correggerla.
Un'analisi dalla Catalogna. «Podemos non ha vinto le elezioni in Spagna, come hanno detto molti, ma ha mostrato prima di tutto l’emersione di realtà territoriali che tentano di riappropriarsi di spazi decisionali».
Comune.info, 28 maggio 2015.
Podemos non ha vinto le elezioni in Spagna, come hanno detto molti, ma ha mostrato prima di tutto l’emersione di realtà territoriali che tentano di riappropriarsi di spazi decisionali. Nato un anno fa come una macchina mediatico-elettorale gigantesca con una struttura di partito tradizionale, Podemos soltanto dopo ha cominciato a cercare il superamento della forma partito novecentesca a favore di reti orizzontali. Ci riuscirà? Saprà gestire il potere per disperderlo in basso? I movimenti sapranno tutelare la loro autonomia e creatività? Di certo in Spagna è in corso un terremoto politico non solo elettorale, cominciato da alcuni anni. Ha ragione Caterina Amicucci, che scrive per noi di Comune da Siviglia, “vale la pena di osservare molto da vicino se il progetto sarà all’altezza della sfida e soprattutto vedere cosa accadrà”
SIVIGLIA – La stampa italiana ha proclamato in maniera unanime ed errata la vittoria di Podemos alle elezioni amministrative spagnole. Basta dare uno sguardo ai dati elettorali per capire che la notizia è semplificata al punto da essere falsa. Il Partito Popolare pur avendo perso due milioni e mezzo di voti si conferma il partito più votato, seguito a brevissima distanza dal partito socialista. Podemos si attesta, salvo poche eccezioni, come terzo o quarto partito a seconda delle regioni e delle città.
Lo stesso Pablo Iglesias ha commentato domenica a urne chiuse che “la dissoluzione dei partiti tradizionali e la fine del bipartitismo si sta dimostrando un processo più lento di quello che speravamo”.
Potrebbe sembrare una cattiva notizia, ma con uno sguardo più attento si scopre che il terremoto e il segnale politico che arrivano dalle urne di Barcellona e Madrid sono molto più profondi e dirompenti di quello che sembrano. Per capirne un pò di più è necessario ripercorrere il frenetico anno appena trascorso, che inizia quando Podemos irrompe sulla scena raccogliendo l’otto per cento delle preferenze alle elezioni europee del maggio 2014. Da quel momento il gruppo di professori dell’Università Complutense di Madrid guidato da Pablo Iglesias, scatena una macchina mediatico-elettorale gigantesca per prepararsi all’election year.Obiettivo dichiarato: l’assalto al potere alle elezioni politiche dell’autunno 2015.
In pochi mesi i sondaggi posizionano Podemos come primo partito nelle intenzioni voto, nonostante ancora formalmente neanche esista, non abbia un programma nè un meccanismo chiaro di partecipazione e articolazione territoriale. Podemos celebra il suo primo congresso a novembre del 2014, optando per una struttura di partito tradizionale da un punto di vista di leadership e di partecipazione interna. Nella stessa occasione decide anche di non presentarsi con la sigla Podemos alle elezioni municipali, per diverse ragioni tattiche fra le quali evitare di dare un’indicazione a livello nazionale sulle iniziative Ganemos. E qui, occorre fare un passo indietro.
Poco prima del successo elettorale di Podemos, a Barcellona si forma l’iniziativa Guanyem Barcelona (ganemos in castigliano), una lista cittadina per concorrere alle elezioni municipali. La figura di Ada Colau è determinante a creare una coalizione ampia, sostenuta soprattutto dalla società civile e a far sfumare l’identità dei singoli partiti (Izquierda Unida, Equo, Podemos) dentro un progetto assimilabile a un fronte popolare. La sua potenza sta nel radicamento territoriale e nella penetrazione sociale dei movimenti che sono emersi con il 15M, primo fra tutti quello di cui Ada Colau è stata portavoce per diversi anni, la Plataforma de los afectados por hipoteca (Pah) – ovvero le vittime della bolla immobiliare e del sistema bancario spagnolo – che è riuscita nel blocco di centinaia di sfratti e la rinegoziazione di moltissimi mutui. Ma anche le diverse “maree”, ovvero i movimenti contro la privatizzazione e i tagli ai servizi pubblici dalla sanitá allascuola.
Sulla spinta di Barcellona, l’iniziativa Ganemos ha cercato di propagarsi a livello nazionale con alterna fortuna a seconda del contesto politico locale. In Andalusiaper esempio la presenza di Izquierda Unida, che ha appoggiato per anni il feudo clientelare del partito socialista, ha pregiudicato il tentativo unitario in molte cittá. Fa eccezione solo Malaga dove La Casa Invisibile, un importante luogo di riflessione sul tema dei beni comuni, ha favorito un processo di convergenza piu`ampio.
A Madrid il percorso è stato più lungo e complicato, ma comunque è approdato alla sigla comune di Ahora Madrid, progetto sostenuto da cinque liste, tra cui ovviamente Podemos e Madrid in Movimiento che ha ottenuto l’appoggio di numerose realtà associative e di base fra le quali per esempio Ecologistas en acciòn, la più grande rete nazionale di associazioni ambientaliste spagnole. Le elezioni primarie hanno indicato Manuela Carmena come candidata a sindaco, una ex giudice di settantuno anni fondatrice di Jueces por la Democracia (giudici per la democrazia) e da sempre impegnata nella difesa dei diritti umani.
Ed ora che succede?
Da domenica c’è grande cautela perché la situazione consegnata dalle urne è nuova e complicata, rompe le maggioranze assolute e costringe la politica a tornare alle alleanze e le geometrie variabili. Il Partito Popolare vincitore per pochi voti quasi ovunque non può governare solo e nella maggior parte dei casi neanche con l’eventuale appoggio di Ciudadanos. Nell’altro metà del campo le alleanze potrebbero essere difficili anche se a Madrid ormai l’accordo con i socialisti è quasi concluso e potrebbe dettare la línea a livello nazionale.
Sempre che, il fantasma della grande coalizione che si aggira per l’Europa, non irrompa anche in Spagna. Magari non subito ma a seguito di un periodo di incentivata instabilità.
Speculazioni a parte, a Barcellona e Madrid (e non solo) ciò che esce vittorioso dalle urne è una nuova forma di coalizione di soggetti fortemente radicati nella società, con forme organizzative e strutture diversificate, che pretende di riappropriarsi di spazi decisionali e quote di potere sfidando le oligarchie politico-economiche. Non è un caso che e nelle due cittá sia aumentata la partcipazione al voto nei quartieri più popolari.
Non si tratta dunque della fine del bipartitismo tanto auspicata da Pablo Iglesias, bensì del superamento della forma partito novecentesca a favore di reti orizzontali, meno gerarchiche e maggiormente inclusive.Varrà la pena di osservare molto da vicino se il progetto sarà all’altezza della sfida e soprattutto vedere cosa accadrà.
Anche
il manifesto (30 maggio 2015) vede a Venezia solo Felice Casson e le destre. Ignora la sinistra e non si accorge che dietro il bravo magistrato c'è Matteo Renzi, più che un'ombra. Nonchè l'establishment che ha «letteralmente massacrata negli ultimi vent’anni» la città. In calce un riferimento utile a chi vuol comprendere meglio
Lo spettro dello scandalo Mose incombe sempre su Ca’ Farsetti. Cannibali del patrimonio, lobby degli appalti e squali della sussidiarietà non hanno mai mollato la presa su Venezia che considerano cosa loro. Il padiglione Acquae a Marghera, desolatamente deserto dopo l’inaugurazione di Renzi, sintetizza il flop dell’«economia mista» in laguna: perfino la vetrina collegata a Expo Milano non ripaga gli investimenti. Ma è già pronto il progetto di scavo del rio Contorta a beneficio delle Grandi Navi, con l’inossidabile Paolo Costa (ex rettore, ex sindaco, ex europarlamentare Pd) che resta fedele agli interessi degli “imprenditori” in concessione unica grazie al Consorzio Venezia Nuova. E a Tessera si rigioca la partita del business nel quadrante dell’aeroporto Marco Polo: Enrico Marchi, presidente di Save, caldeggia il masterplan che fino al 2021 farebbe decollare anche l’urbanistica a senso unico.
Il nuovo sindaco avrà già l’agenda infarcita per l’intera estate, tanto più che l’eredità del commissario Vittorio Zappalorto è davvero un incubo: conti in rosso per 56 milioni nella spesa corrente 2015, scure ad alzo zero sui servizi sociali e trasferimenti dello Stato a rischio “stabilità”. Domenica nei 256 seggi fra laguna, isole e terraferma i 211.132 elettori della città metropolitana sono chiamati a scegliere fra nove candidati sostenuti da 24 liste. È il giorno della verità per Felice Casson, 61 anni, ex pm e senatore “dissidente”: ha trionfato alle primarie, aggregato il “centrosinistra classico” e perso tre chili nella maratona della campagna elettorale di prossimità. Può vincere, forse, già al primo turno e cancellare il ricordo della sconfitta nel ballottaggio 2005 con Massimo Cacciari. Sarebbe un segnale inequivocabile per la “vecchia ditta” della Quercia veneziana, ma ancor di più per Renzi che avrebbe preferito un candidato più allineato.
Casson sulla scheda occupa la posizione centrale con i simboli della lista civica (con Nicola Pellicani in cima), Pd, Venezia 2020, Venezia bene comune, Socialisti e Venezia popolare. Il centrodestra si è spaccato in tre, perché alla fine Luigi Brugnaro (paròn di Umana e della Reyer Basket, ma anche sussidiario non solo a Confindustria) ha deciso di scendere in campo con la benedizione del ministro Alfano. Dovrà vedersela con Francesca Zaccariotto, ex presidente della provincia ed ex leghista, che sventola la bandiera di “Venezia Domani” insieme al tricolore di FdI. E con Gian Angelo Bellati, candidato della Lega che rispolvera il separatismo di Mestre da Venezia.
Il M5S si affida a Davide Scano, avvocato 39enne, sposato con due figli, che è già stato consigliere dei Verdi nella municipalità di Mestre. Completano il quadro dei candidati sindaco Francesco Mario d’Elia del Movimento autonomia Venezia, Camilla Seibezzi di “Noi la città”, Giampietro Pizzo di “Venezia cambia 2015” e Alessandro Busetto del Partito comunista dei lavoratori.
La vigilia del voto si consuma nel tradizionale porta a porta della coalizione di Casson, mentre sull’altro fronte si urla al massimo nel megafono della “sicurezza”. Domenica scorsa gli attivisti dei centri sociali Morion e Rivolta hanno contestato il comizio di Matteo Salvini con i gommoni a simboleggiare i diritti dei migranti e con un paio di cariche delle forze dell’ordine, che ora annunciano una raffica di denunce dopo le identificazioni della Digos. In attesa del verdetto delle urne, Filiberto Zovico (editore del quotidiano on line Venezie Post e promotore dei festival tematici) non nasconde lo scetticismo serpeggiante: «Già il recente voto in Trentino è stato un segnale esplicito del malessere sistemico a Nord Est. Venezia rischia di certificarne la paralisi, perché la città è stata letteralmente massacrata negli ultimi vent’anni. Il centrosinistra, al di là dei proclami, non ha mai saputo costruire un vero progetto per la capitale del Veneto.
La Repubblica, 30 maggio 2015
DOPO la Presentazione in Francia Di Una legge Che Prevede il reato di Spreco e multe per i Grandi Magazzini Che Non Donano Gli Avanzi, si muove l'Italia. Se in rete su change.org in 30mila Hanno Firmato la richiesta Di Una Normativa similitudine, l'onda lunga di Parigi arriva a Roma. E il ministro all'Ambiente Gian Luca Galletti ha le idee Chiare.
«E INDISPENSABILE Una legge Contro lo Spreco Alimentare. Voglio presentarla Entro fine anno. Una legge Diversa da Quella francese Perché Sono convinto Che E meglio Risolvere senza sanzioni ma con educazione e Incentivi ». Il ministro Vuole un Provvedimento Che Non punisca MA insegni a sprecare e Soprattutto dia Strumenti alle Aziende Che non Spesso ora Non Posso regalare prodotti in Scadenza senza perderci per Problemi Fiscali, di magazzino. «In Italia esiste ha Una grande e piccola Distribuzione sensibile, C'è la cultura, C'è ATTENZIONE, bisogna assolo osa Gli strumenti Fiscali e Soprattutto Insegnare alle Famiglie, venire Previsto dal piano nazionale con lezioni in classe sin da piccoli, Perché lo Spreco domestico E Ancora alto also se in Diminuzione: Dai 10 miliardi nel 2013 Si e Passati Agli 8 odierni ».
In Italia, la voragine del cibo gettato E grande Nelle Nostre caso, il 25%, Più che Nella Grande Distribuzione Che Tra l'altro dona al Banco Alimentare o Agli Oltre 50 progetti Last Minute Market e alle mille piccole Realtà locali, MENTRE a decine di città il cibo avanzato Dalle mense Pubbliche comunali va Direttamente annuncio Enti Benefici.
A fotografare l'Italia dello sperpero casalingo, Sono da anni le Inchieste di Last minute market, spin off dell'Università di Bologna ideato da Andrea Segré, il professore di agronomia ora presidente del Comitato Tecnico scientifico per il grande piano nazionale Contro lo Spreco voluto dal Ministero dell'Ambiente. Gli italiani, Dicono le Ricerche dell'Osservatorio Rifiuti osservatori buttano via 49 chili di cibo commestibile OGNI anno, con decisa costanza. Il 55 per cento getta avanzi giorno quasi OGNI, il 30 per cento tre volte a settimana, il 10 per cento a 1,2 Volte e solista l'1 per cento quasi mai.
Perché gettiamo via Gli Alimenti? In linea di Massima, raccontano le Indagini, Perché Compriamo troppo, senza Programmazione e Così Frutta e verdura Vanno un maschio prima di finire in pentola oppure cuciniamo troppo.
«Per Questo e Importanti L'educazione dall'asilo all'università, non le multe alla francese, demagogiche, Così solista si Cambiano veramente i comportamenti e si evitano sprechi. I corsi have been annunciati da un anno ma Ancora non si vedono e invece Sono necessari. Con urgenza. Bisogna Imparare Il Valore del cibo, venire non perdere Una Risorsa. E non DEVE diventare Una giustificazione il Sapere Che ci Sono Organizzazioni venire la nostra o il Banco Alimentare Che in maniera Diversa indirizzano le eccedenze a chi ha bisogno ». Andre Segré da anni Lavora in Prima Linea all'insegna del "nessuno spreco", puntando a diventare di gran lunga sprechi Risorse, concretamente, mettendo in contatto chat con i "Mercati dell'ultimo minuto" chi ha eccedenze e chi ha bisogno. E dal punto di vista della Programmazione, dell'ideazione, un Lavora Proposte e progetti Che, tramezzi per un Livello locale, sottoscritti da centinaia di comuni italiani, Hanno influenzato la risoluzione Europea sullo Spreco nel 2012 Che ragionava Sulle strategie per EVITARE Tonnellate di cibo buttato .
Cultura, Informazione per non distruggere il pianeta, colomba OGNI anno si gettano via mille miliardi di cibo. Perché PRODURRE tutto Quello buttiamo costa, Stati Uniti d'America, Consuma la terra, Cambiamenti Climatici provocazione. Lo Spreco Alimentare, se Fosse un paese, sarebbe infatti il terzo inquinatore DOPO Cina e Usa. Perché la quantita di anidride carbonica Necessaria una Portare il cibo sui nostri piatti E pari a 3,3 miliardi di Tonnellate e per produrlo si usa il 30 per cento del terreno coltivabile del mondo e Una quantita di acqua OGNI anno che basterebbe alle esigenze di Tutti i Cittadini di New York per Piu di un Secolo. Senza Contare Che il Costo calcolato del cibo sprecato E pari a 750 miliardi di Dollari, il prodotto interno Praticamente lordo della Svizzera.
E a furia di campagne, Qualcosa però si muove also Nelle Nostre caso. E L'Ultima ricerca osservatori Rifiuti - Swg, che verrà Presentata Nei Prossimi giorni all'Expo, racconta il Che sempre Più Spesso i genitori italiani insegnano Ai figli un non sprecare il cibo (77%) e bis SCEGLIERE solista prodotti di stagione (56%) . Sempre più consci dei propri Limiti, che sì acquista troppo (49%) e si cucina in eccesso. Un primo passo verso il "senza sprechi".
«A Bindi non si perdona la grave colpa di non essersi allineata al nuovo gruppo dirigente. Ma è innanzitutto con se stessi e specialmente con Renzi che dovrebbero prendersela. Il caso De Luca lo ha creato chi lo ha candidato».
Il manifesto, 30 maggio 2015
Anche se particolarmente volgare e arrogante, l’assalto a Rosy Bindi mette in evidenza l’impasto di questo nuovo partito renziano, capace di tenere insieme le peggiori abitudini del vecchio (la doppia morale) mescolate con i pessimi vizietti del nuovo (la perdita di memoria e di identità). Un partito che pensa, tratta e pratica la politica come strumento di un potere senza mediazioni né contrappesi. Prima il vecchio gruppo dirigente, poi i sindacati, i costituzionalisti, gli insegnanti… .
Trattare Bindi quasi fosse una grillina d’assalto, oltre che il migliore spot alla campagna elettorale dei 5Stelle, è nello stesso tempo indice di arroganza e sintomo di grande debolezza. Per aver ottemperato ai suoi obblighi istituzionali (esaminare le liste elettorali rispetto ai profili giudiziari relativi al rapporto tra mafia e politica, secondo un codice di autoregolamentazione sottoscritto da tutti i partiti), e per averlo fatto anche con celerità (dall’inizio della presentazione delle liste, un mese fa, come da regolamento), Bindi viene additata dal presidente del partito, Orfini, come il nemico da distruggere («siamo tornati indietro di secoli quando i processi si facevano in piazza aizzando le folle»).
Come se fosse della presidente della Commissione la responsabilità di aver messo in lista persone che hanno problemi con il casellario giudiziario. Qui il garantismo non c’entra, la Commissione antimafia a 48 ore dal voto (dunque quando la campagna è pressoché conclusa, quando i cittadini hanno visto all’opera i candidati) trasmette al cittadino informazioni pubbliche ma conosciute solo da una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Tra l’altro si tratta di diciassette nomi su quattromila candidature esaminate. Ma il tappo è saltato per la presenza dell’asso pigliatutto della Campania, De Luca, e per i timori di qualche brutta sorpresa nell’urna. Solo Bersani e Fassina hanno solidarizzato con Bindi rimettendo al centro la questione politica.
Sarebbe da rivedere cosa scrivevano questi patetici personaggi quando Berlusconi strillava sulla «persecuzione», sulla «giustizia a orologeria». Ora sostengono le stesse cose che diceva la destra quando la magistratura faceva il proprio lavoro. Tra l’altro invocare la legge per legittimare alcune discutibili candidature è una pezza peggiore del buco perché dice di una politica che se fosse sicura e fiera delle liste le rivendicherebbe, allontanando la sgradevole sensazione di raccattare da ogni sponda e clientela.
Tanta virulenza in realtà scopre la lunga coda di paglia di chi mal sopporta che le istituzioni facciano il loro lavoro anche contro il potente di turno. A Bindi non si perdona la grave colpa di non essersi allineata al nuovo gruppo dirigente. Ma è innanzitutto con se stessi e specialmente con Renzi che dovrebbero prendersela. Il caso De Luca lo ha creato chi lo ha candidato. È stato proprio il presidente-segretario, che ora accusa Bindi di usare l’Antimafia per fini di battaglia interna, a sbilanciarsi fino a «scommettere che nessuno degli impresentabili sarà eletto, perché sono tutti espressione di piccole liste civiche». Quando si dice che il diavolo fa le pentole ma a volte dimentica i coperchi.
Il prefetto di Milano ha ordinato la chiusura per quattro mesi dell’aeroporto di Bresso per timore che da lì possano partire attentati terroristici a Expo. Naturalmente i terroristi, si sa, hanno una fervida fantasia e la scelta di decollare dall’aeroclub Milano, a pochi minuti di volo dal sito Expo per bombardare la manifestazione può essere una delle idee vincenti per un terrorista spietato. Poco importa che su quel piccolo aeroporto abbia sede una quasi centenaria (nata nel 1926) scuola professionale per piloti di aeroplano e di elicottero, poco importa che l’aeroporto sia quotidianamente frequentato da giovani allievi (devono essere incensurati) che sognano di solcare i cieli con aeroplani di linea, da istruttori di volo (alcuni ex militari). Poco importa che sull’aeroporto ci sia un’officina con tecnici specializzati per le manutenzioni agli aeroplani della scuola. Durante le giornate anziani piloti, anziani tecnici aeronautici in pensione siedono sotto la torre di controllo per vedere decollare e atterrare i giovani allievi, commentando il buon atterraggio o l’atterraggio un po’ troppo brusco.
L’aeroportoè all’interno del Parco Nord di Milano, vigilato da guardie ecologiche, agentidi polizia, carabinieri dei tre comuni limitrofi: Bresso, Cinisello, Sesto SanGiovanni che, in servizio, percorrono i viali e le strade lungo il parco. Lapolizia, poi, è incaricata di prestare il servizio di Dogana per i voli inpartenza o arrivo dall’estero, quindi le pattuglie passano dall’Aeroclub per lepratiche doganali, e si fermano a discorrere con gli allievi piloti e con ipensionati in tribuna. L’aeroporto è operativo soltanto nelle ore diurne e conil bel tempo (non è strumentato per il volo senza visibilità). Di notte, gliaeroplani sono chiusi in hangar, telecamere, cellule fotoelettriche e guardienotturne vigilano, perché sono beni di valore, servono a addestrare piloti.Purtroppo quattro mesi (o forse sei?) di chiusura dell’aeroporto di Bressocauseranno la perdita di lavoro per i tecnici aeronautici dell’officina, pergli istruttori di volo, per gli operatori della torre di controllo, perl’impiegata della scuola professionale e i pensionati che non potranno piùvalutare gli atterraggi dei giovani piloti. Saranno loro le vere vittime deicattivi terroristi. Interveniamo in tempo per favore, grazie.
Nobiltà dell'ispirazione e dell'avvio, miseria della conclusione temuta: se la ragione non vince contro la finanza.
Alternative per il Socialismo n. 36
Nella prima decade di maggio, il nostro vecchio continente ha celebrato la vittoria contro il nazismo e i 65 anni della dichiarazione di Robert Schumann che pose la prima pietra per la costruzione della unità europea, pur nella forma squisitamente economica della Comunità del carbone e dell’acciaio, la Ceca. Ma non si può dire che siano stati anniversari lieti per l’Europa. La crisi economica e soprattutto le politiche dei suoi gruppi dirigenti la schiacciano e i rischi di implosione si moltiplicano.
Naturalmente non manca chi cerca di fare almeno un po’ di training autogeno, non fosse altro che per sollevare il morale. The European Economic Forecast, le previsioni economiche di primavera 2015, rese note dalla Commissione europea agli inizi di maggio, sembrano appartenere a questo tipo di pratiche e infatti recano un incipit davvero ottimistico, che in inglese suona ancora più enfatico: “The outlook for economic growth in the EU has brightened”. Ma davvero le prospettive economiche nel nostro continente sono diventate addirittura luminose? Scorrendo il resto del rapporto, e in particolare la prima tabella, si ha ragione di dubitarne. La crescita del Pil nell’Eurozona è stimata per il 2015 fino all’1,5%, per il 2016 all’1,9%. Tra i fanalini di coda troviamo l’Italia con un +0,6% nel 2015 e un +1,4% per l’anno successivo. Alla pari con Cipro e migliore solo rispetto alla Finlandia. Se ci si allarga all’area di tutta la Ue la crescita nel 2015 è prevista in un +1,8% nel 2015 e in un 2,1% nel 2016. Cifre lontane dal 3% degli Usa e ovviamente dal 6,8% della Cina, nel 2016, quest’ultima in rallentamento rispetto agli anni precedenti. Poco consolante il dato della disoccupazione che si prevede a fine 2015 posizionarsi sull’11% nell’eurozona e sul 9,6% nell’intera EU, con previsioni di diminuzione di solo qualche decimale nel 2016.
Se l’economia reale resta al palo o retrocede, la finanza ha ripreso, superati i primi terribili shock dell’inizio della crisi, a filare a gonfie vele. Nello scorso decennio le attività finanziarie europee – secondo il Banking Structures Report della Bce – si sono quasi raddoppiate, giungendo al livello, nel 2013, di quasi sei volte il Pil dell’intera Eurozona. La bolla finanziaria continua imperterrita a gonfiarsi lasciando il mondo intero con il fiato sospeso di fronte ad una sua possibile e improvvisa esplosione, dal momento che le misure cautelative nel frattempo adottate sono del tutto insufficienti.
La contingenza favorevole non scuote l’economia europea
D’accordo, i dati economici complessivi del 2014 e soprattutto del 2013 erano ancora peggiori e recavano un segno negativo per la crescita nell’Eurozona. Ma da allora ad oggi sono intervenuti fatti rilevanti nell’economia europea e soprattutto extraeuropea, dai quali in molti si attendevano di più. Quali il crollo del prezzo del greggio, la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, i tassi di interessi bassissimi in Europa, i concreti segnali di ripresa dell’economia americana, ma soprattutto la pioggia di denaro elargita alle banche europee con il famoso Quantitative Easing voluto fortemente da Mario Draghi. A questi elementi straordinariamente positivi in sé – anche se non privi di effetti collaterali negativi in termini di incremento delle diseguaglianze sociali, come vedremo poi – hanno fatto da contraltare altri negativi, come le tensioni geopolitiche con la Russia. Ma nel complesso questi ultimi non spiegano interamente il “nervosismo” dei mercati finanziari – come si suole dire con un linguaggio ormai stereotipato – né l’apparire di nuove nubi dietro quell’orizzonte luminoso, come lo stesso rapporto della Commissione europea riconosce poche righe dopo quell’incipit così trionfale.
Né è sufficiente affermare, pur restando nel giusto, quanto più volte abbiamo scritto in questa rivista: che l’Unione europea più che vittima della crisi lo è delle proprie sciagurate politiche di austerità. Questo non solo è vero, ma più si vede la differenza dell’andamento economico europeo con quello di altre zone a capitalismo sviluppato, più diventa evidente. Al punto che anche nel pensiero mainstream e persino nei documenti ufficiali del Fondo Monetario Internazionale la critica al rigore all’europea non viene certo sottaciuta.
Il guaio è che quelle politiche e l’andamento geopolitico ed economico mondiale hanno creato nel nostro continente guasti profondissimi, che non possono essere rimossi da un semplice mutamento, anche se molto favorevole, della congiuntura economica. Se anche supponessimo che le elite europee si convincessero come d’incanto che l’assoluta prevalenza della finanza sull’economia reale costituisce un errore strategico e decidessero di ridare slancio alla produzione, questa non potrebbe avvenire negli stessi modi, secondo gli stessi schemi e con gli stessi obiettivi produttivi del periodo anticrisi, anche perché molte di quelle forme e strutture produttive sono andate perdute, o completamente trasformate nelle loro finalità o de localizzate durante questi anni di stagnazione e di recessione. L’Italia, che ha perduto il 25% del proprio potenziale produttivo lungo questo periodo, è un caso di scuola in negativo.
Si aggrovigliano quindi nodi complessi di breve e lungo periodo, che riguardano gli aspetti più contingenti come quelli di più lunga durata. Difficilmente, anche se fosse animata dalla migliore classe dirigente – il che non è – l’Unione europea potrebbe scioglierli tutti contemporaneamente. Ma potrebbe, questo sì, cominciare ad aggredirne qualcuno in modo positivo. Il più urgente dei quali, senza la cui soluzione la Ue è destinata a implodere, è la questione del debito greco.
Purtroppo sta avvenendo il contrario. Come non è difficile prevedere, anche l’appuntamento dell’Eurogruppo dell’11 maggio non è stato risolutivo. Anzi, ogni volta che ci si avvicina a queste riunioni, le distanze sembrano aumentare e le polemiche farsi sempre più aspre. Contemporaneamente cresce anche la consapevolezza in ambienti mainstream di andare a sbattere senza alcuna ragione contro il muro di una stupida rigidità. Qualche settimana fa una editorialista del Sole24Ore, Adriana Cerretelli, scriveva parole pesanti e inequivocabili sull’argomento: ““La Grecia, 2% del Pil dell’Eurozona e 3% del debito, non è mai stata un mostro di virtù pubbliche. Lo si sa da sempre. Come si sa che è stata salvata per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi. Come si sa che, rigore o no, non potrà ripagare i debiti. Se abbandonata al suo destino affonderà dunque nel marasma più nero. Ma … quell’atto di incoscienza collettiva ricadrà su euro e Europa. Non sarebbe meglio una sana Realpolitik. Meno costosa per tutti?”
Erano i giorni immediatamente antecedenti al vertice di Riga del 24 Aprile. Un vertice rivelatosi non solo infruttuoso – come era largamente prevedibile e previsto – ma addirittura negativo, perché in quell’occasione è partito un violento tentativo di delegittimazione di Yanis Varoufakis come capo della delegazione greca trattante. Un tentativo abilmente aggirato da Alexis Tsipras con un allargamento della delegazione e una fluidificazione di ruoli che non ha affatto tolto la fiducia al suo Ministro delle Finanze.
Le richieste della Grecia restano contenute. In sostanza puntano a guadagnare tempo per potere innescare un processo alternativo di crescita sociale ed economica. Nello stesso tempo i greci non sono mai venuti meno nel rispettare le loro scadenze con i debitori, anche a costo di promulgare decreti sul concentramento dei fondi degli enti pubblici presso la cassa centrale dello Stato. Il principio rimane quello detto da Varoufakis: “arrivare a compromessi senza essere compromessi”. Il che comporta che si può discutere anche di privatizzazioni, entro una certa misura, ma non si può retrocedere sui temi del lavoro e delle pensioni, che costituiscono il cuore sociale del programma su cui Syriza ha vinto le elezioni.
A fronte di questo i greci chiedono ciò che sarebbe loro, come quel 1,9 mld di euro che rappresentano i guadagni della Bce sui titoli greci; un’anticipazione sui 7,2 mld di euro che costituiscono l’ultima tranche del famoso programma di aiuti e l’innalzamento a 15 mld della possibilità di emettere titoli di stato a tre mesi, che potrebbero fornire un poco di fiato finanziario allo stato e al sistema economico ellenico. Su questo ultimo punto si è particolarmente irrigidito Mario Draghi, cosa apparentemente paradossale rispetto alla disponibilità di mettere sul piatto qualcosa come 1140 mld di euro fino al settembre del 2016 – con la possibilità di continuare ancora, se non basterà – per le banche europee, escluse quelle greche e cipriote (il quantitative easing appunto).
Ma come è noto attorno alla vicenda greca si gioca essenzialmente una partita politica più che economica. Se la Grecia se la cava è dimostrato in modo evidente che la strada alternativa alla austerità esiste ed è praticabile. Il che genera, per quei paesi che l’hanno praticata con fervore, evidenti problemi di credibilità verso i loro popoli. Per questo la Grecia nella trattativa in corso è sola contro gli altri 18 paesi, e quelli più scatenati sono quelli iberici che temono una vittoria delle sinistre nei loro paesi e quelli dell’est, come si conviene a dei veri e propri parvenu.
Il pericolo di un contagio economico-finanziario in caso di Grexit
Questa partita tutta politica, guidata con sapienza tattica, ma insipienza strategica da Angela Merkel, non esclude di correre rischi che potrebbero rivelarsi fatali. Non c’è solo il pericolo di un contagio politico derivante da una soluzione che veda la Grecia non sconfitta nel confronto, vi è anche quello di un contagio economico-finanziario in caso di una Grexit, cioè di un’uscita della Grecia dall’Euro e quindi dalla Ue. Per questo si affaccia una nuova tattica, in cui si alternano scientemente docce calde e docce gelate, per la quale è già nato un nuovo neologismo: “Grimbo”, ovvero tenere la Grecia in una sorta di limbo, nel quale la corda attorno al collo non viene mai mollata né stretta fino in fondo, in attesa che il governo di Tsipras sia costretto a cedere e conseguentemente a perdere il grande consenso di cui gode, magari con la prospettiva finale di un rovesciamento politico etero diretto, di un colpo di stato bianco per dirlo in termini più esatti.
Anche alla prima donna d’Europa converrebbe guardare bene le previsioni che gli analisti economici fanno in caso di una possibile Grexit. E’ vero che il sistema bancario europeo è molto meno esposto nei confronti del paese ellenico di qualche anno fa, ma lo sono gli Stati, sia in modo diretto, sia attraverso il Fondo salva stati. A loro non conviene un fallimento della Grecia e una Grexit, perché diventerebbe del tutto improbabile il recupero dei loro crediti. Vale il detto popolare: se hai un debito di mille euro con la tua banca il problema è tuo, se il debito è di milione il problema è della banca.
Tanto è vero che nei giorni immediatamente precedenti alla riunione dell’Eurogruppo dell’11 maggio, che sono gli stessi nei quali la Commissione europea ha reso noto il suo ottimistico rapporto con cui abbiamo aperto questo articolo, i mercati finanziari hanno ripreso a ballare. Le Borse tendono al ribasso, gli spread salgono. I rendimenti dei Btp e dei Bonos spagnoli puntano nuovamente verso l’alto come non accadeva dal gennaio scorso. Ma la novità più rilevante è che qualche sofferenza la evidenziano persino i potentissimi Bund tedeschi, che erano scesi a rendimenti negativi. Ora hanno cominciato a risalire. Quindi nemmeno la Germania è più vista come un porto assolutamente sicuro, dove posteggiare i capitali anche perdendoci un poco.
In sostanza l’economia finanziaria non crede alle parole della politica che ha cercato in una certa fase di sostenere la tesi della irrilevanza di un’uscita della Grecia dalla Ue e dall’Euro, come se il fatale default greco potesse essere derubricato a semplice tragedia nazionale e non coinvolgesse la credibilità dello stesso progetto di unità europea oltre al suo stato di salute economico-finanziario.
D’altro canto se si allenta anche solo per un attimo la tensione sul fronte greco, si accende subito un focolaio di un possibile grande incendio da un’altra parte. E’ quanto sta accadendo dopo la netta vittoria elettorale dei conservatori inglesi. Nessuno dimentica, soprattutto coloro che lo hanno eletto, che David Cameron aveva promesso urbi et orbi in campagna elettorale un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nella Ue da tenersi entro il 2017. Quindi vi è anche una possibile Brexit alle porte. I neologismi non mancano
Il termine quanto mai usato di “apprendista stregone” si spreca sui giornali di tutta Europa e viene riferito naturalmente ad Alexis Tsipras, il quale avrebbe irresponsabilmente suscitato speranze e bisogni che ora non riuscirebbe né a soddisfare né a dominare. D’altro canto le cancellerie di tutt’Europa vorrebbero decidere loro la politica economica interna della Grecia indipendentemente dall’esito elettorale. Invece la vera domanda che dovrebbero cominciare seriamente a porsi è se l’apprendista stregone non è invece quella politica di rigore che sta facendo implodere l’Europa dal punto di vista economico e che dal punto di vista politico sta dando la stura a populismi di ogni tipo, dall’alto e dal basso, che operano in senso apertamente disgregatore rispetto all’unità europea.
Gli sgradevoli effetti collaterali del Quantitative Easing
Il Quantitative Easing è stato certamente un intervento invocato e necessario, almeno per mettere una toppa ad una situazione che diveniva ogni giorno più drammatica. Ha rappresentato la continuazione logica e naturale di quel famoso “Whatever it takes” già pronunciato da Draghi tre anni orsono, nel momento di maggiore panico per la gravità della crisi. Una pioggia di miliardi sta inondando il sistema bancario europeo. Ma a parte il fatto che questo di per sé non garantisce che quella liquidità si trasformi in investimenti dell’economia reale, vi sono altri aspetti collaterali della iniziativa della Bce che andrebbero presi in considerazione.
Come per ogni cosa, cominciare è più facile che smettere. Il pompaggio di liquidità è previsto fino all’autunno del 2016, ma potrebbe continuare se l’inflazione non raggiungesse il 2%. Che è il target della Bce. Ma questo potrebbe creare, come già si vede, nuove bolle speculative, che andrebbero trattate con cura, per evitare che scoppino nelle mani di chi le ha create e per di più all’improvviso. Ci vorrebbe una strategia di sgonfiamento graduale. Ma se l’inflazione ripartisse e l’economia reale no, per quei motivi di fondo e strutturali cui si è fatto prima cenno, cosa potrebbe succedere? In base al suo mandato vincolato solo al tasso di inflazione la Bce dovrebbe bruscamente arrestare il proprio intervento, provocando in questo caso un shock negativo sui mercati. A differenza della Fed, che infatti ha iniziato il tapering, ovvero una graduale riduzione del pompaggio di liquidità prima ancora del probabile innalzamento dei tassi, la Bce non ha nella sua mission l’elasticità e cassetta degli attrezzi necessari per farlo. La possibilità che il celebrato QE si tramuti poi in una bolla incontrollabile è un effetto collaterale indesiderato ma tutt’altro che improbabile.
Ma vi è un altro effetto da tenere ancora di più in considerazione. L’abbassamento dei tassi di interesse trascina con sé la rivalutazione delle obbligazioni a lungo termine, delle azioni e del valore degli immobili. Soprattutto in assenza di una tassazione patrimoniale onnicomprensiva, come nel caso italiano. Il che incrementerebbe la ricchezza di quella piccola percentuale di popolazione (l’un per cento direbbero quelli di blockupy) con l’esito di una ulteriore divaricazione della forbice delle diseguaglianze reddituali e sociali.
Gli effetti si vedono già, come notano gli analisti economici, sia nel contesto generale europeo che nel caso italiano. La massa di liquidità rovesciata sul mercato induce gli operatori a liberarsi dei titoli in loro possesso fino a quel momento e a utilizzare il nuovo denaro per altri acquisti finanziari, piuttosto che prendere la strada degli investimenti nell’economia produttiva. Così l’azione della Bce gonfia il valore, come abbiamo visto, del mercato finanziario allontanandolo sempre più da quello dell’economia reale sottostante che conosce , se lo conosce, un progresso molto più lento.
Nel caso italiano questo è cominciato ad accadere ancora prima che il QE entrasse in azione: è bastato l’effetto annuncio. Il mercato azionario si è subito vivacizzato. A fine febbraio il principale indice milanese era salito del 20% dall’inizio dell’anno. L’indice Ftse-Mib aveva una valutazione assai elevata rispetto al rapporto fra i prezzi delle azioni e gli utili delle imprese. La Borsa di Milano ha battuto in questa direzione quella di Francoforte, di Parigi, di Londra e di Wall Street. In sostanza i prezzi degli attivi finanziari aumentano la loro distanza dalla realtà. Se l’economia reale sottostante non riparte, un nuovo tonfo verso il basso della crisi sarà inevitabile e di proporzioni ancora più terribili.
Le polemiche sull’incremento delle diseguaglianze
Quasi a esorcizzare questo pericolo e a contenere il successo e l’impatto sull’immaginario collettivo del famoso libro di Thomas Piketty, che più che una analisi del capitalismo del XXI secolo, è un’ottima fotografia della dilatazione delle diseguaglianze nel mondo contemporaneo, alcuni giornali economici, fra cui il Sole24Ore si sono gettati su un Dossier curato dalla Fondazione Hume, che vorrebbe dimostrare il carattere puramente immaginario, “leggendario” dice addirittura il curatore dell’articolo Luca Ricolfi, dell’aumento delle diseguaglianze su scala globale. Non siamo tornati evidentemente alla vecchia teoria dell’inizio della globalizzazione, secondo cui l’alta marea avrebbe alzato tutte le barche, ma non ne siamo molto distanti.
Ovviamente va riconosciuto che anche l’aumento delle diseguaglianze è avvenuto e avviene in modo diseguale, ovvero non dappertutto, non nella stessa misura o con la medesima velocità. Ma che siamo comunque di fronte ad una crescita complessiva della diseguaglianza a lungo termine nella Ue, non sembrano esserci dubbi, almeno stando ai dati forniti da altri autorevoli centri studi, quali il Luxemburg Income Survey (LIS). Lo osserva il Rapporto Euromemorandum 2015, secondo cui il fenomeno delle differenze di reddito all’interno dei singoli paesi e tra paesi diversi è in crescita in tutto il mondo: “in particolare in Europa si rischia di ritornare sugli elevatissimi livelli di diseguaglianza di due secoli fa”! La Banca dati del LIS contiene dati di lungo periodo sulla diseguaglianza di reddito in 21 Ue negli ultimi venti/trenta anni. Se si eccettuano tre paesi di piccole dimensioni, dove i valori della diseguaglianza erano già molto alti e quindi è comprensibile una certa diminuzione, e la Danimarca e la Svezia, dove al contrario tali valori erano già bassi, la diseguaglianza è cresciuta sotto diversi aspetti in tutti gli altri, i più popolosi. Qui è diminuita grandemente, e da lungo tempo, la quota nazionale del reddito destinata al lavoro e contemporaneamente la distribuzione dei salari è diventata molto più differenziata. In questo campo, come in altri, si è ulteriormente divaricata la condizione di genere, al punto da meritare un puntuale intervento di papa Francesco, ovviamente riverito ma inascoltato.
Come mai allora i dati riportati dal Sole 24 Ore dipingono un quadro diverso? Come osservano tre studiosi come Elena Granaglia, Maurizio Franzini e Michele Raitano (Eticaeconomia Menabò online) malgrado l’eterogeneità dei dati non si può disconoscere una “tendenza generalizzata alla crescita delle diseguaglianze”. Nel ragionamento di Ricolfi, oltre alla evidente ansia di tranquillizzare rispetto alle sorti non più né magnifiche né progressive della globalizzazione capitalistica, vi sono errori metodologici non infrequenti anche tra i migliori analisti. Il pensiero corre immediatamente all’ormai infaustamente celebre errore sull’uso del programma excel di Microsoft compiuto da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff.
Per la verità qui non siamo in un caso così banale. Il problema è che la misura principalmente utilizzata da Ricolfi per dimostrare la tendenza alla diminuzione delle diseguaglianze è l’indice di Gini, che però è una misura sintetica non sufficiente per comprendere proprio quello che accade nei segmenti estremi della distribuzione dei redditi e della ricchezza. Semplificando un poco, sarebbe dunque la stessa polarizzazione delle diseguaglianze a renderne difficile la lettura corretta utilizzando quella classica strumentazione inventata dal grande statistico italiano.
Inoltre l’editorialista del Sole24Ore sottovaluta l’importanza che nella misurazione delle diseguaglianze hanno assunto le diversità nei redditi da lavoro. Come sappiamo anche empiricamente, se venti/trenta anni fa la differenza tra un manager e un suo dipendente poteva arrivare a 40/50 volte la misura dei rispettivi stipendi, oggi si colloca tranquillamente sulle 400/500. Il peso dei super redditi da lavoro è enormemente aumentato. Si è formata, per usare un termine caro a David Rothkopf, una superclass, una elite mondiale di manager responsabili quanto e più dei proprietari dei mezzi di produzione dell’andamento del capitalismo mondiale. Branco Milanovic della Banca mondiale, famoso studioso della diseguaglianza, ha riconosciuto che nel 2008 l’indice di Gini della diseguaglianza globale sembrava essere diminuito di due punti rispetto al precedente ventennio. Ma se invece si stima correttamente anche il peso dei super ricchi tale indice non mostra alcuna diminuzione.
Infine gli autori dell’articolo su Eticaeconomia si soffermano sui periodi storici presi in considerazione. Ricolfi accusa addirittura Atkinson (nel suo recentissimo Inequality: What Can be Done, Harvard University Press, 2015) di scegliersi un periodo di comodo con cui confrontare la diseguaglianza attuale. Cioè gli anni ’80, quando la diseguaglianza era a un punto minimo. Ricolfi contrappone a quegli anni il periodo 1960-1972, dove invece questa era a un punto massimo. Si potrebbe perciò dire che entrambi sono accusabili di cherrypicking, come dicono gli anglosassoni, ovvero di scegliersi come le ciliegie il periodo più comodo per dimostrare i propri assunti. In realtà il procedimento di Atkinson appare più che corretto poiché sceglie proprio un periodo di faglia, nel quale il ciclo economico si inverte.
Reazioni e debolezze degli USA di fronte alla loro perdita di egemonia mondiale
Insomma gli imbellettatori del processo di globalizzazione devono rivolgere i loro sforzi altrove. Questa, aggravata dalla crisi, ci consegna un mondo più diseguale e la nostra Europa non fa eccezione, anzi ne è la conferma. Ma non è solo crisi. Sullo sfondo avviene un cambiamento epocale nell’organizzazione del capitalismo mondiale. Come in altre epoche storiche chiave, di cui ci hanno ampiamente parlato gli studi di un Braudel, di un Wallerstein, di un Arrighi, siamo di fronte ad un nuovo processo di transizione egemonica mondiale. Da Ovest ad Est. Il secolo americano è finito o è agli sgoccioli, solo che la leadership americana non si rassegna a questo cambiamento storicamente inevitabile. Il centro economico e produttivo si sta rapidamente spostando a Est. Verso la Cina, principalmente, anche se la crescita dell’India non scherza. Lo si vede anche nei rapporti di forza tra le monete. Scende quella del dollaro su scala internazionale, a riprova che la forza di una moneta non deriva solo e tanto dall’intrinseco valore economico che essa rappresenta, quanto dalla forza complessiva del paese che la emana e la sostiene.
Moises Naim, giornalista di fama mondiale ex caporedattore della autorevole Foreign Policy, si interroga se gli Stati Uniti continueranno a essere, malgrado tutto, il paese più potente del mondo. In fondo la Cina ha sì tassi di crescita invidiabili, ammodernamento industriale molto veloce ed efficace, riserve di valuta straniera incommensurabili, ma il reddito procapite, tenuto conto della sua sterminata popolazione, in gran parte abitante le zone interne arretrate, è equivalente a quello del Perù.
Sicuramente la preminenza della forza militare degli Stati Uniti d’America non può essere messa in discussione da nessuno. Per ora. La stessa Cina, però, non si limita ad acquistare solo industrie – come si vede anche in Europa e nel nostro paese – terra, soprattutto in Africa, infrastrutture e debiti stranieri, non a caso la Cina è assai interessata al porto del Pireo. Ma ha sviluppato enormemente gli investimenti in armamenti per cercare di colmare nel più breve tempo possibile l’handicap che la separa dalle grandi potenze in questo campo.
Non è affatto un buon segnale per la causa della pace, che avrebbe bisogno di trovare nuovo vigore dopo le grandi lotte negli anni Zero del nuovo secolo. Ma soprattutto ingenera preoccupazione sia sul versante orientale che su quello occidentale del pianeta, spingendo verso l’alto la corsa al riarmo da parte di tutti i paesi che se lo possono permettere. La conseguenza è che il mercato oggi globalmente più in espansione è quello degli armamenti. La Cina ne è protagonista. Qualche cosa si è visto nella sfilata del 9 maggio a Mosca per celebrare la fine della Seconda Guerra Mondiale (“La grande guerra patriottica”, come l’hanno sempre chiamata i russi), quando per la prima volta soldati dell’armata popolare di Pechino hanno sfilato sulla piazza Rossa a Mosca, per ribadire che vi fu anche un rilevante contributo asiatico nella sconfitta del nazifascismo. Vedremo cosa il governo cinese deciderà di mostrare al mondo il prossimo 3 settembre, quando la sfilata militare si terrà a Pechino per ricordare la vittoria sul Giappone.
Il Fmi e la Banca asiatica degli investimenti infrastrutturali (Baii)
Tuttavia Naim pare più preoccupato dalle divisioni politiche interne agli Usa che indebolirebbero l’eventuale possibilità della ripresa di un loro ruolo egemonico su scala mondiale. E’ il caso dell’impasse nel quale si troverebbe il Fondo monetario internazionale. I tentativi di migliorarlo – dopo le pesanti critiche fiondate da più parti al suo operato - non hanno avuto successo. Obama aveva anche proposto di accrescere il ruolo della Cina al suo interno. Per quanto la misura prevista fosse già del tutto insufficiente per tenere nel dovuto conto l’accresciuta forza economica del grande paese asiatico, il Congresso Usa non è riuscito in cinque anni ad approvare quella proposta. La Cina si è dunque mossa per conto suo, dando vita alla Banca asiatica degli investimenti infrastrutturali (Baii), cui hanno aderito, malgrado la dissuasione messa in atto dagli Usa, paesi come l’Australia e diversi paesi europei, fra cui il Regno Unito, la Germania, la Francia e l’ Italia. La Cina ha ammesso tra i 57 paesi componenti la Baii, ove compaiono anche molti paesi poveri, anche la Norvegia, un po’ a sorpresa vista l’ostilità verso questo paese dopo l’assegnazione nel 2010 del premio Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo. Ma evidentemente anche in Oriente pecunia non olet.
Molti commentatori politici ed economici hanno considerato addirittura una follia il rifiuto degli Usa a farne parte, poiché secondo questi critici la battaglia per l’egemonia andrebbe combattuta all’interno delle varie istituzioni che si formano a livello internazionale, specialmente quando queste mostrano comunque una considerevole capacità di attrattiva.
Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip)
Ma la leadership statunitense è tutta concentrata su altre imprese. Tra queste spicca il Ttip. La sigla è un acronimo inglese che tradotto significa Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti. Se ne parla da molto e le trattative fra Usa e Ue restano segrete. Perfino la consultazione del materiale di supporto può avvenire solo a certe condizioni che risultano essere complicate o addirittura ostative anche per gli stessi parlamentari europei. Naturalmente ogni tanto la coltre di segretezza viene bucata da abili hackers. Ma la privazione di trasparenza rimane.
Eppure si tratta di una questione di grande rilevanza – di cui la nostra rivista si è già occupata (Monica Di Sisto, in Alternative per il Socialismo n.33) - tale da condizionare l’economia e la società non solo del nostro paese ma di tutta Europa. La propaganda lo presenta come un passo in avanti nel libero commercio tra le due sponde dell’Atlantico, grazie all’abbattimento di dazi e dogane. La realtà è assai diversa. Ma per comprenderla appieno bisogna partire da qualche premessa basata su alcuni dati, scelti a scopo esemplificativo. Concentriamoci sull’Italia. Il nostro paese è da tempo pienamente inserito nei flussi della globalizzazione mondiale. E’ un punto di incontro delle filiere della produzione del valore globali. L’Istat ci dice che nel 2011 in Italia agivano 13.527 affiliate di multinazionali controllate dall’estero. Queste imprese realizzano un fatturato pari a oltre il 16% di quello complessivo del territorio nazionale. La loro attività è prevalente nel campo dei servizi, ma anche l’industria ne è interessata. Tra i paesi controllanti al primo posto ci sono gli Stati Uniti, cui seguono la Francia e la Germania. Viceversa la stessa Istat riferisce che sono 21.682 le affiliate di multinazionali italiane insediate all’estero, anche qui prevalentemente nei settori dei servizi.
L’integrazione produttiva e commerciale del nostro paese e quindi già un dato di fatto ed è avvenuta senza bisogno del Ttip, su cui tuttora si sta trattando. Da dove deriva allora e perché l’insistenza su questo Trattato? Il motivo sta altrove rispetto al libero scambio, con buona pace dei liberisti, ed anche rispetto all’impatto economico che potrà avere sulle due sponde dell’Atlantico. Come ha osservato Marcello de Cecco (Affari e Finanza, 24 nov. 2014) : “La prospettata unione euroamericana, infatti, farebbe aumentare assai poco sia il commercio totale che specialmente il Pil delle parti contraenti, e quel poco solo nel lungo periodo. Questo a detta persino degli studi di parte condotti per promuovere l’iniziativa.”
Il cuore del trattato non sta dunque nel fatto che una volta approvato, ad esempio, si potranno vendere sul mercato europeo i polli americani disinfettati con il cloro, ma nel nuovo sistema di governance che attraverso questo si vorrebbe imporre a livello globale, in particolare da parte degli Stati Uniti e nell’interesse delle grandi multinazionali. Ha sempre ragione De Cecco quando annota che “a spingere per la realizzazione del nuovo partner iato sono le associazioni industriali europee che vedono in esso un cavallo di Troia contro gli eccessi di regolamentazione degli stati nazionali”. Bisognerebbe dire, in verità, di ciò che resta degli stati nazionali.
La logica delle imprese vuole prevalere sui diritti degli Stati e dei cittadini
Infatti il Trattato prevede l’introduzione di organismi tecnici tali da svuotare di democrazia ogni processo decisionale e ogni residuo di sovranità sulle politiche economiche. Il primo consiste in un meccanismo di protezione degli investimenti (Isds secondo l’acronimo inglese), in base al quale le imprese possono citare in giudizio gli Stati qualora questi decidessero, secondo procedure democratiche, di adottare misure considerate nocive agli interessi delle multinazionali stesse. Ma non sarebbero i tribunali ordinari la sede del giudizio, bensì consessi riservati di avvocati commercialisti super specializzati, che giudicherebbero sulla base delle norme del Trattato se uno Stato ha creato un danno ad un’impresa, magari allo scopo di difendere la salute e l’ambiente (pensiamo ad esempio al caso Ilva). In questo caso quel consesso potrebbe pretendere che quello Stato o quell’Ente Locale ritiri il provvedimento e sia costretto a indennizzare l’impresa del presunto svantaggio economico arrecato. Il principio del profitto e del commercio la avrebbero vinta su quello di una giustizia basata sulla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini tutelati costituzionalmente.
Inoltre la bozza di Trattato prevede anche la creazione di un altro organismo (Regulatory Cooperation Council) composto da esperti nominati dalla Commissione Ue e dal ministero Usa competente, con il compito di valutare l’impatto commerciale di ogni etichetta, di ogni marchio ma anche di ogni contratto di lavoro a livello nazionale o europeo, al fine di stabilirne la congruità con un rapporto fra costi/benefici che sia vantaggioso per l’impresa. Anche qui il diritto del lavoro avrebbe la peggio rispetto al diritto commerciale, malgrado i nostri principi costituzionali assai espliciti su questo aspetto. In questo modo, sempre citando Marcello De Cecco, si realizzerebbe una modifica tanto radicale quanto regressiva del diritto internazionale, tale da cancellare “quasi due millenni di tradizione giuridica europea”.
Il Parlamento europeo, come al solito, può poco al riguardo. Dopo avere votato nel 2013 il mandato esclusivo di negoziare alla Commissione europea (che non è un organo elettivo ma scelto dai vari governi), può porre solamente dei quesiti circostanziati, cui la Commissione risponde nel rispetto della cosiddetta riservatezza obbligatoria tipica delle trattative bilaterali. Poi ci sarà un voto finale, ma senza possibilità di emendare nessuna parte del Trattato che dovrà essere accettato integralmente, senza modifica alcuna, o respinto in toto.
Per tutte queste ragioni, ha preso corpo da tempo una mobilitazione a livello europeo che coinvolge cittadini e organizzazioni. In Italia la Campagna Stop Ttip (www.stop-ttip-italia.net) raccoglie oltre 60 tra associazioni, sindacati, enti pubblici, comunità di cittadini. L’obiettivo è quello di fermare il Trattato prima che giunga alla fase finale non più modificabile, imponendo a livello italiano e europeo una nuova riflessione sulle politiche economiche e commerciali utili a uscire dalla crisi senza affossare le condizioni di vita delle persone e la democrazia. Il “diritto ad avere diritti”, per usare la celebre espressione di Hannah Arendt non deve e non può essere cancellato da nessuna logica di impresa o lex mercatoria.
Il manifesto, 27 maggio 2015
«Le proposte greche ai partner europei e soprattutto al Fmi sono basate sul diritto internazionale» ha sottolineato il presidente della repubblica ellenica Pavlopoulos, professore di diritto all’Università di Atene.
Che ci fossero dei problemi di liquidità il governo Syriza-Anel non l’ha mai nascosto, benché abbia rispettato sempre gli impegni, pur senza chiedere un euro ai creditori. Ma ora, come ha spiegato lunedì il ministro degli interni Voutsis, manca il denaro per le quattro rate per il Fmi (1,6 miliardi). Stesso messaggio ma con un tono ottimista, è arrivato da Varoufakis: «La Grecia pagherà la rata da 312 milioni dovuta al Fmi, perché per allora sarà raggiunto l’accordo con i creditori».
«Pagheremo i nostri impegni come meglio potremo» aveva detto il giorno prima Sakellaridis. Il problema però è proprio l’accordo: ci sarà entro la settimana prossima? Varoufakis, e insieme a lui il premier Tsipras credono di sì. E la domanda che si pone è semplice: nel caso Atene non abbia la possibilità di pagare queste poche centinaia di milioni di euro, alla fine della settimana prossima ci sarà un default con la chiusura delle banche e il governo costretto ad applicare controlli sui capitali come era avvenuto a Cipro nel marzo del 2013?
Ci sarà un «Grexit» come sostiene la maggioranza della stampa internazionale con effetti domino in tutta l’ eurozona? Oppure come affermano alcuni analisti, il Fondo «chiuderà un occhio» dando una proroga di un mese ad Atene per versare i suoi debiti, dopodiché –nel caso che Atene non dovesse pagare — ci sarà un fallimento totale? In questo ambito, secondo alcuni media locali, non è da escludere un intervento da parte di Washington al Fmi per «aiutare la Grecia a pagare i suoi debiti».
A sentire Varoufakis, «l’uscita della Grecia dalla moneta unica sarebbe l’inizio della fine per il progetto dell’euro». Varoufakis, inoltre, ha chiarito che dopo le sue reazioni è stata ritirata in parte la proposta per una tassa sui prelievi ai bancomat, i trasferimenti di denaro via e-banking e uno scudo fiscale per far rientrare i capitali depositati illegalmente all’estero con un’imposta del 15%. L’imposta sull’e-banking è contraria alla politica del ministero greco che vorrebbe sfavorire l’utilizzo del contante per combattere l’evasione fiscale. In Grecia tutti i dipendenti pubblici e privati, oltre ai pensionati, vale a dire più di due terzi della popolazione, pagano le tasse normalmente, perché c’è la trattenuta alla fonte.
Le altre categorie, invece, ovvero liberi professionisti (innanzitutto medici, avvocati, idraulici, elettricisti, tecnici, ecc.) e imprenditori di solito evadono, lasciando un buco nero dai 5 ai 20 miliradi di euro l’anno.
A prescindere se Atene e creditori si possano considerare vicini alle battute finali per un’intesa, sul tavolo restano ancora l’Iva, le pensioni e il mercato di lavoro, mentre la spina della ristrutturazione del debito non è stata nemmeno toccata– non mancano le voci secondo le quali la dichiarata impossibilità di rimborsare il debito al Fmi non corrisponde alla realtà, ed è «una tecnica negoziale da parte di Tsipras per ricattare i suoi creditori» da una parte, per calmare quelle voci all’interno di Syriza che vorrebbero una rottura dei rapporti con i partner europei dall’altra. «Stiamo lavorando giorno e notte per un’intesa, c’è il rischio di insolvenza e tanti rischi ad esso collegati» ha detto al quotidiano tedesco Bild il direttore del fondo salva-Stati europeo (Esm), Klaus Regling.
Intanto ieri ha cominciato i suoi lavori la commissione d’inchiesta parlamentare formata per esaminare sotto quali condizioni economiche e per quali motivi i governo precedenti hanno firmato i due memorandum che hanno provocato questa crisi umanitaria nel paese. Tra i testimoni che sono stati proposti dai partiti dell’opposizione sono l’ex direttore del Fmi, Dominique Strauss-Kahn, l’attuale Christine Lagarde, il già presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, Mario Draghi, il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, i rappresentanti dell’ ex troika ad Atene.
«Libia, le rivelazioni di Wikileaks sui piani di attacco dell'Europa. Una missione militare a tutti gli effetti e non un'operazione di polizia per salvare migranti, come invece raccontano i ministri Alfano e Gentiloni».
Il manifesto, 27 maggio 2015
Se ci fosse stato bisogno di una conferma che di guerra si tratta per il documento strategico di 19 pagine presentato da Mogherini all’Onu nemmeno due settimane fa su «Libia, migranti e scafisti», ecco la rivelazione di Wikileaks — anticipata dall’Espresso — che rende noti due protocolli riservati della Ue sull’operazione. È una missione militare in Libia a tutti gli effetti e non un’operazione di polizia per salvare migranti, come invece raccontano i ministri Alfano e Gentiloni. La Ue con la sua flotta navale unita — finalmente l’Unione — commenta Wikileaks «schiererà la forza militare contro infrastrutture civili in Libia per fermare il flusso di migranti. Dati i passati attacchi in Libia da parte di varie paesi europei della Nato e date le provate riserve di petrolio della Libia, il piano può portare ad altro impegno militare in Libia».
Proprio mentre la Commissione Ue rivede al ribasso il «piano Juncker» per le quote dei migranti che quasi tutti i paesi europei rifiutano; e mentre al Cairo falliscono gli ennesimi incontri tribali per avere in Libia un accordo di governo — utile solo ad approvare la nostra impresa bellica. La nuova guerra durerà un anno e comunque tutto il tempo necessario a «fermare il flusso migratorio». All’infinito dunque, visto che la disperazione di chi fugge da guerre (spesso nostre) e miseria (spesso provocata da noi) è inarrestabile.
Per questo «l’uso della forza deve essere ammesso, specialmente durante le attività come l’imbarco, e quando si opera sulla terra o in prossimità di coste non sicure o nell’interazione con imbarcazioni non adatte alla navigazione». Quindi ci sono le operazioni a terra, come scriveva The Guardian. E per «la presenza di forze ostili, come estremisti o terroristi come lo Stato Islamico», la missione «richiederà regole di ingaggio robuste e riconosciute per l’uso della forza».
Ma la vera novità è l’invito esplicito dei ministri della difesa Ue: «Per l’operazione militare sarà fondamentale il controllo delle informazioni che circolano sui media». Perché il Comitato Militare dell’Ue «conosce il rischio che ne può derivare alla reputazione dell’Unione Europea… qualsiasi trasgressione percepita dall’opinione pubblica in seguito alla cattiva comprensione dei compiti e degli obiettivi, o il potenziale impatto negativo nel caso in cui la perdita di vite umane fosse attribuita, correttamente o scorrettamente, all’azione o all’inazione della missione europea. Quindi il Consiglio Militare dell’Unione Europea considera essenziale fin dall’inizio una strategia mediatica per enfatizzare gli scopi dell’operazione e per facilitare la gestione delle aspettative. Operazioni di informazione militare dovrebbero essere parte integrante di questa missione europea».
Avete capito bene: ci saranno tante vittime innocenti, vale a dire i migranti, destinati alle fosse del Mediterraneo e sottoposti sempre più ad arresti e violenze in Libia. E serviranno informazioni «mirate» dai vertici militari e un giornalismo velinaro e/o embedded con «robuste regole d’ingaggio».