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Altro che "sfida del Nord» al governo" : qui c’è solo miserabile squallore, giustamente stigmatizzato e liquidato. Certi figuri non fanno geografia.

La Repubblica Milano, 8 giugno 2015

C’è una sola parola per definire l‘ultima uscita del governatore leghista della Lombardia Roberto Maroni: miseria. Umana e politica. Minacciare il taglio dei fondi regionali ai sindaci disposti ad accogliere gli immigrati che stanno sbarcando in Italia dopo essere stati salvati dal naufragio è ben più di una “cattiveria”. È abuso ricattatorio della propria carica istituzionale. È appropriazione indebita di una funzione, quella di decidere delle politiche dell’immigrazione, che spetta allo Stato. Ed è una gravissima sottrazione di democrazia nei confronti dei cittadini che con il loro voto hanno eletto i sindaci, quelli favorevoli all’accoglienza e alla solidarietà verso l’immigrazione e anche quelli poco disponibili, che di queste scelte devono essere sempre pienamente responsabili. E su questo venire giudicati dai loro cittadini.

Maroni insegue il suo pupillo e delfino Salvini in una ignobile corsa a chi la spara più grossa. Qualche settimana fa l’escalation si sarebbe spiegata con la campagna elettorale per le Regionali. Ora, è vero, sono imminenti i ballottaggi in qualche decina di Comuni. Tuttavia la sensazione è che questo vociare sguaiato sia entrato stabilmente nel repertorio leghista. Anzi, sia diventato il “sale” anche del leghismo cosiddetto di governo. Non ha alcuna importanza, infatti, se i profughi non hanno per destinazione ultima l’Italia. Non importa se scappano da guerre e persecuzioni. Sono ridiventati, tutti, clandestini. E perciò non solo indesiderabili ma pericolosi per il solo fatto di esistere e pretendere di salvarsi la vita sbarcando in Europa.

Le minacce ritorsive di un presidente di Regione nei confronti dei sindaci hanno un sapore insieme medievale e postmoderno. Si proclama un regime di vassallaggio per una invasione inesistente al fine di accumulare paura: il capitale politico su cui la nuova Lega degli orchi vuole raccogliere consenso. Ma c’è anche il caso che la squallida pagina scritta ieri dal governatore sia molto meno e tutt’altro rispetto a una feroce levata di scudi sull’immigrazione. Com’è noto, infatti, Maroni negli ultimi giorni ha avuto un problema dal quale non riesce a venire fuori. È il cosiddetto “Paturzogate”, ovvero lo strano caso di una consulente assunta da Expo Spa che la Procura ritiene coinvolta in una relazione affettiva con il governatore e che, secondo l’accusa, Maroni voleva assolutamente portare con sé in missione in Giappone, come rappresentante di Expo. Una compagnia che al commissario Giuseppe Sala pareva costosa e fuori luogo.

Quel viaggio, poi, Maroni non lo fece, per via di un imprevisto. Per queste ragioni – e per altre vicende che coinvolgono la posizione di un’altra collaboratrice - il governatore è indagato per “induzione indebita e concorso in turbata libertà della scelta del contraente”. Forse non si sbaglia a sospettare che un’uscita come quella di ieri sugli immigrati, fra l’altro palesemente illegale e incostituzionale (nessun organo di governo può adottare una politica ritorsiva contro un’altra istituzione) sia una sparata costruita per gettar polvere sull’inchiesta in corso. Meglio fare la parte dell’orco antimmigrati che del politico che cerca di portarsi la consulente in viaggio premio. Una House of cards miserabile, degna di uno sceneggiatore di infimo livello.
Il leader Fiom all’assemblea di Coalizione sociale “Raccoglieremo chi è contro questo premier”. La Repubblica, 7 giugno 2015

“Coalizione sociale” di Maurizio Landini ha cominciato ieri il suo cammino al centro Frentani di Roma. E come ha voluto il segretario Fiom, la partenza è stata «dal basso». Dai lavoratori, dalle associazioni, dai sindacati. C’erano tanti ex militanti degli anni Settanta. E poi i militanti di Arci (che hanno aperto i lavori), dei centri sociali, dei movimenti studenteschi come Onda, del forum per “l’acqua bene comune”, di Legambiente, di Action “sfratti zero”, di “sciopero sociale”. Accanto a loro, sono spuntati a sorpresa (e per la prima volta), associazioni e gruppi di professionisti, avvocati, notai, lavoratori autonomi a partita Iva, categorie di questo pianeta di lavoratori spinte dalla crisi a cercare un rapporto con i sindacati. Insomma, un centinaio di associazioni per centinaia di simpatizzanti, molti studenti, molti esponenti della scuola, molti sindacalisti, fra questi il predecessore di Landini, Gianni Rinaldini, oggi coordinatore nazionale dell’area programmatica della Cgil.

Coalizione Sociale diventerà dunque un partito e Landini ne sarà il leader? «La prossima volta ve lo dirò in cinese — ha risposto quasi stizzito il segretario Fiom — Coalizione sociale è nata fuori dai partiti, per ricostruire la politica. Non mi faccio ingabbiare dal partito. Inizia un percorso che vuole essere democratico al massimo. Le presenze di questi giorni dimostrano che il bene del Paese si fa cercando di unire ciò che Renzi e il suo governo divide».

Obiettivo della due giorni, ha poi spiegato, è quello di selezionare, attraverso numerosi gruppi di lavoro, tre o quattro temi fondamentali sui quale scatenare delle campagne nazionali che potranno sfociare anche (ma non necessariamente) in referendum. Due temi sono già stati individuati, e sono quelli del jobs act e della riforma della scuola. Gli altri potranno essere legati all’ambiente. C’è grande attesa, intanto, per l’intervento di Stefano Rodotà previsto per oggi.

Nonostante non sia stato consentito loro di parlare, qualche politico s’è affacciato, ieri, al centro Frentani, come i deputati di Sel Nicola Fratoianni e Giorgio Airaudo. E l’europarlamentare Eleonora Forenza della lista Tsipras-L’Altra Europa. «Pur non essendo stati invitati i partiti - ha detto Forenza - l’assemblea di Coalizione sociale ha un valore politico: quello di ricomporre i pezzi di società che il neoliberismo ha diviso». «Siamo qui per ascoltare - ha aggiunto Airaudo - perché non si ricostruisce la politica attraverso i ceti, ma è con il radicamento sociale che si risponde ai problemi dei cittadini che il governo non risolve più».

«L’arrivo in Ger­ma­nia dei «grandi della terra» è stato pre­pa­rato da un’efficace cam­pa­gna di mobi­li­ta­zione che ha visto impe­gnate molte orga­niz­za­zioni che si bat­tono “per un altro mondo pos­si­bile”. Una rete plu­rale che ha tro­vato l’unità d’azione attorno a tre punti-chiave: “fer­mare il Ttip, sal­vare il clima, com­bat­tere la povertà”».

Il manifesto, 7 giugno 2015

Di norma, la ricca e pla­cida Baviera non è tea­tro abi­tuale di pro­te­ste e impo­nenti mani­fe­sta­zioni. Salvo ecce­zioni: come quelle, molto posi­tive, di que­sti giorni. Il motivo? Il ver­tice del G7 che comin­cia oggi allo Schloss Elmau, lus­suoso hotel nei pressi della loca­lità scii­stica di Gar­mi­sch, al con­fine con l’Austria: una loca­tion esclu­siva nella quale la pre­si­dente di turno Angela Mer­kel e i suoi ospiti discu­te­ranno fino a domani dei temi caldi della poli­tica inter­na­zio­nale. In agenda: il Ttip (trat­tato di «libero scam­bio» Usa-Ue), il cam­bia­mento cli­ma­tico (in vista della con­fe­renza di Parigi a fine anno) e le crisi politico-economiche in giro per il pia­neta, dall’Ucraina al Medio oriente. Il con­vi­tato di pie­tra è il pre­si­dente russo Vla­di­mir Putin, cac­ciato dall’esclusivo club in seguito all’annessione della Crimea.

L’arrivo in Ger­ma­nia dei «grandi della terra» è stato pre­pa­rato da un’efficace cam­pa­gna di mobi­li­ta­zione che ha visto impe­gnate molte orga­niz­za­zioni che si bat­tono «per un altro mondo pos­si­bile»: asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste, Attac, ong come Oxfam, i par­titi di oppo­si­zione Verdi e Linke, ma anche i gio­vani della Spd, in con­tra­sto con la linea del lea­der del par­tito, il vice­can­cel­liere Sig­mar Gabriel. Una rete plu­rale che ha tro­vato l’unità d’azione attorno a tre punti-chiave: «fer­mare il Ttip, sal­vare il clima, com­bat­tere la povertà».

Oltre ogni aspet­ta­tiva l’esito del cor­teo sfi­lato per le vie di Monaco gio­vedì scorso: 40 mila per­sone di fronte alle quali la can­cel­liera Mer­kel si è sen­tita in dovere di dire che le mani­fe­sta­zioni sono «un segno di vita­lità della demo­cra­zia». Chissà se la lea­der demo­cri­stiana e il suo vice social­de­mo­cra­tico avranno riflet­tuto anche sulla «vita­lità» dell’opposizione al Ttip pro­prio nel loro Paese.

La pro­te­sta anti-G7 è pro­se­guita ieri (Garmish, nella foto Lapresse), sdop­pian­dosi. Un appun­ta­mento era diret­ta­mente nei pressi del ver­tice con un’iniziativa sul modello bloc­kupy (l’assedio alla sede Bce a Fran­co­forte), soste­nuta da un arco di forze ancora più ampio di quello di gio­vedì, com­pren­dente anche gli Auto­no­men dei cen­tri sociali occu­pati: a sfi­lare per le strade di Gar­mi­sch si sono ritro­vati in quasi 10mila (3500 per le forze dell’ordine).

Qual­che momento di ten­sione con la poli­zia, mas­sic­cia­mente pre­sente, che ha attac­cato il cor­teo con lo spray urti­cante: per gli orga­niz­za­tori si è trat­tato di «un’aggressione senza giu­sti­fi­ca­zioni». L’altro mee­ting di nuovo a Monaco, nella König­splatz, per un con­certo orga­niz­zato da Save the Chil­dren e altre orga­niz­za­zioni non governative.

Peccato che Renzi non sappia scrivere e sappia solo twittare. Ci piacerebbe alimentare il nostro "stupidario" con i suoi testi. Questo cinguettio roco sul "reddito di cittadinanza" è veramente esemplare. Il manifesto, 7 giugno 2015 (m.p.r.)

«Il red­dito di cit­ta­di­nanza? È la cosa meno di sini­stra che esi­sta», «signi­fica negare il prin­ci­pio che l’Italia non è paese dei furbi ma chi lavora duro ce la può fare». Addi­rit­tura: «È inco­sti­tu­zio­nale». Renzi boc­cia il soste­gno al red­dito, nono­stante qual­cosa del genere esi­sta in 24 paesi euro­pei e anzi l’europarlamento da anni inviti i paesi a tro­vare forme di red­dito «in grado di sot­trarre ogni bam­bino, adulto e anziano alla povertà e garan­tire loro il diritto a una vita digni­tosa» (riso­lu­zione del 20 otto­bre 2010). Renzi, che parla da Genova dov’è ospite del palco della festa di Repub­blica inter­vi­stato dal diret­tore Ezio Mauro, forse ce l’ha con il Movi­mento 5 stelle, fan della pro­po­sta. Ma con tiro fa strike: pro­prio ieri in 200 città — Genova com­presa — l’associazione Libera di don Luigi Ciotti rac­co­glieva le firme per l’istituzione di «un red­dito minimo o di cit­ta­di­nanza» nell’ambito della (for­tu­nata) cam­pa­gna «Mise­ria Ladra». Cui ha ade­rito, oltre a tutti i par­la­men­tari del M5S e di Sel, anche la sini­stra del suo par­tito, almeno quella parte di Area Rifor­mi­sta rap­pre­sen­tata da Roberto Spe­ranza che il 22 mag­gio ha fir­mato la peti­zione di Libera e auspi­cato «un pro­getto di legge con­di­viso da tutti». In par­la­mento una mag­gio­ranza ci sarebbe. Ma da ieri sap­piamo che il parere del governo, fin qui sfu­mato e pos­si­bi­li­sta, è con­tra­rio. E per que­stioni alla sua maniera ideo­lo­gi­che («non è di sini­stra»), nean­che per più dige­ri­bili obie­zioni di cassa.

Messo a posto il Movi­mento 5 stelle, con il quale in que­sti giorni il Pd incro­cia i ferri (sulle liste degli «impre­sen­ta­bili» e sul caso Bindi, sulla giunta Marino e sull’inchiesta Mafia Capi­tale e infine sul ’caso Orfini’, attac­cato a testa bassa dallo stesso Grillo), Renzi si applica alla sua mino­ranza interna. Anche qui con parole ruvide. Siamo nel capo­luogo della regione che il Pd ha perso rovi­no­sa­mente. Set­tan­ta­tre­mila voti in meno rispetto alle regio­nali del 2010, 140mila in meno rispetto alle euro­pee dell’anno scorso e del 41,7 per cento (ora crol­lato al 27,8). Renzi ammette che si tratta di «un cam­pa­nello d’allarme», poi recita la con­su­mata sto­ria di quelli che se per­dono non hanno «diritto di spac­care tutto». Ma archi­viata la pole­mica con Pastorino&Cofferati è alla mino­ranza ancora nel Pd che invia un avviso di garan­zia: «Basta spac­ca­ture tutto. Se fai così, è finita la sto­ria del Pd». Domani sera alla dire­zione del par­tito ci sarà la resa dei conti: «Le molte mail che ricevo dicono ’vai alla dire­zione non solo con la mime­tica ma con i reparti spe­ciali’», assi­cura. Lui pro­mette «un dibat­tito vero» ma chie­derà «lealtà nei com­por­ta­menti per­ché ser­vono delle regole di con­dotta», «altri­menti stai in un par­tito anar­chico» (copy­right Mat­teo Orfini).

Dal Pd ren­ziano da giorni si mol­ti­pli­cano i boa­tos di «nuove regole». Ma è dif­fi­cile che la discus­sione interna prenda la curva disci­pli­nare, quella imboc­cata senza com­plessi dai 5 stelle. Non ora che al senato i numeri della mag­gio­ranza sono incerti e che una ven­tina di demo­cra­tici sono pronti a dare bat­ta­glia sul ddl scuola. Al loro indi­rizzo infatti Renzi sag­gia­mente invia un mes­sag­gio di pace: «Siamo pronti a ragio­nare e cer­che­remo di coin­vol­gere più persone».

Il fronte sini­stro del Pd si pre­para al con­fronto in ordine rigo­ro­sa­mente sparso. Un pre­sepe di posi­zioni diverse, da quelle in uscita dal Pd a quelle in entrata nella mag­gio­ranza ren­ziana. Dall’account uffi­ciale di Area rifor­mi­sta su twit­ter parte un «#Scuola #Senato #Par­tito fac­ciamo fatica ad andare avanti così. Ci stiamo pre­pa­rando alla sfida con­gres­suale». Replica Mat­teo Mauri, area ’dia­lo­gante’: «Chi con­ti­nua a con­cen­trarsi su una bat­ta­glia tutta interna al Pd, pen­sando ora al con­gresso del 2017 fa un danno al Pd, al paese e anche alla sini­stra del Pd». E Davide Zog­gia, altro ber­sa­niano: «Pro­por­remo un patto sul merito dei prov­ve­di­menti, così da arri­vare al 2018, dando all’Italia le rispo­ste di cui ha biso­gno». Per Gianni Cuperlo le mino­ranze non vogliono «una resa dei conti», ma «è bene discu­tere di cosa inten­diamo per par­tito della nazione», visto che le urne non hanno pre­miato il par­tito che si allon­tana dalla sini­stra «per sfon­dare nell’altro campo».

E qui il discorso di fa inte­res­sante per­ché si tratta della stessa argo­men­ta­zione svolta, all’indomani del voto, dal mini­stro della giu­sti­zia Andrea Orlando. Che è nella mag­gio­ranza ren­ziana, ma su posi­zioni ’tur­che’. E che ha dichia­rato «il par­tito della nazione» un’idea supe­rata, anzi «ambi­gua, a peri­co­losa». E che sulla scon­fitta ligure si è cavato un sasso dalla scarpa rive­lando di aver cer­cato «di dare qual­che indi­ca­zione, molto fel­pata», ma di essersi sen­tito rispon­dere «fatti i fatti tuoi».

La tenace battaglia per mantenere la speranza di un'Europa utile alle persone e non ai mangiatori di soldi, Articoli di Pavlos Nerantzis e di Dimitri Deliolanes. Il manifesto, 6 giugno 2015

ATENE VS. TROIKA
di

Gioco a carte sco­perte ieri al Par­la­mento greco da parte di Tsi­pras. I docu­menti dello scon­tro con i cre­di­tori sono ormai pub­blici. Per prima Atene ha messo in rete la sua pro­po­sta di 47 pagine e in rispo­sta Dijs­sel­bloem ha reso pub­blico anche il suo, di sole 5 pagine ma cro­no­lo­gi­ca­mente rima­sto al 2014 e al pre­ce­dente governo Sama­ras (il pdf qui). Docu­menti noti, ampia­mente com­men­tati anche dalla stampa internazionale. Il pre­mier greco ha difeso con pas­sione la sua pro­po­sta verso i cre­di­tori e ha riba­dito con forza che non è dispo­sto a fare un solo passo indie­tro. La sua pro­po­sta, ha spie­gato, «non è il pro­gramma di Syriza» ma è basata sulle «con­ver­genze acqui­site in que­sti quat­tro mesi di dura trat­ta­tiva» ed è quindi «l’unica base rea­li­stica» per uscire dall’impasse.

Mal­grado lo «spia­ce­vole passo indie­tro» rap­pre­sen­tato dall’«inaccettabile» docu­mento pre­sen­tato gio­vedì da Dijs­sel­bloem e Junc­ker, il pre­mier greco con­ti­nua a rite­nere che un accordo sia ora «più vicino che mai». La sua con­vin­zione nasce dall’assoluta cer­tezza che «nell’eurozona pre­val­gono le forze ragio­ne­voli che vogliono pre­ser­vare e raf­for­zare la moneta comune» con­tro una «mino­ranza» che cerca di «umi­liare» e «sot­to­met­tere» un popolo «orgo­glioso» come quello greco.

Tsi­pras ha anche espresso la sua per­so­nale cer­tezza che pro­po­ste, come quelle avan­zate, di tagliare ulte­rior­mente le pen­sioni e aumen­tare del 10% il costo della cor­rente elet­trica «non saranno votate da nes­sun depu­tato del Par­la­mento greco». Il lea­der di Syriza con­si­dera la pro­po­sta di gio­vedì quindi come facente parte di una «brutta tat­tica nego­ziale» che «non ha otte­nuto alcun effetto e molto pre­sto finirà nel dimenticatoio».

Tsi­pras ha rivolto un appello all’opposizione di sce­gliere tra le due pro­po­ste e di schie­rarsi a fianco del governo. Appello caduto nel vuoto: l’opposizione di destra e di cen­tro è fran­tu­mata, con­fusa e senza stra­te­gia, asso­lu­ta­mente non in grado di inci­dere mini­ma­mente sugli svi­luppi. Ma al lea­der di Syriza il dibat­tito par­la­men­tare è ser­vito per disar­mare le con­ti­nue grida di que­sti mesi di Sama­ras e del lea­der di To Potami verso il governo di fir­mare qual­siasi accordo pur di evi­tare disa­stri e catastrofi.

«Il popolo ci chiede di resi­stere e di non cedere alle richie­ste assurde dei cre­di­tori», ha riba­dito: «In que­sti quat­tro mesi abbiamo pagato per il debito 7,5 miliardi, da un anno il paese non incassa nes­sun finan­zia­mento, eppure siamo in piedi e abbiamo garan­tito con­di­zioni di sicu­rezza per il popolo greco e per quelli di tutta Europa».

Tsi­pras ha fatto un signi­fi­ca­tivo rife­ri­mento allo spo­sta­mento del paga­mento del debito al Fmi alla fine di giu­gno, facendo capire che la sospen­sione dei paga­menti da parte di Atene non è ora­mai un’eventualità remota ma molto rea­li­stica: in quel caso non ci sarà Gre­xit ma «una trau­ma­tica divi­sione dell’Europa che segnerà il suo fallimento».

Ma la «rot­tura» non ci sarà, ha assi­cu­rato. Per­ché non la vogliono i mer­cati, non la vogliono «i popoli euro­pei», non la vogliono le forze euro­pei­ste, al primo posto Syriza. Egual­mente il pre­mier ha evi­tato di con­fer­mare gli sce­nari che erano cir­co­lati in que­sti giorni di un nuovo ricorso alle urne oppure di un refe­ren­dum popo­lare sulla pro­po­sta Dijsselbloem.

TSIPRAS:"NON VOGLIAMO UN ACCORDO
VOGLIAMO LA SOLUZIONE
di Pavlos Nerantzis

Grecia. Il premier: «No ai ricatti e alle umiliazioni. Dalle istituzioni proposte assurde. Vogliamo risolvere in modo definitivo la questione del debito e mettere fine ai timori di Grexit»

Le forze poli­ti­che gre­che sono tutte d’accordo sulla posi­zione netta del governo greco di non accet­tare ulte­riori misure restrit­tive, ovvero il piano pro­po­sto dai cre­di­tori, per­ché «le con­se­guenze saranno cata­stro­fi­che per il paese». È quanto emerso ieri dal dibat­tito par­la­men­tare, dopo che un allarme all’esecutivo era par­tito anche dalla società, dai com­mer­cianti, dal mondo impren­di­to­riale, ai consumatori.

Senza mezze parole viene spe­ci­fi­cato da tutti che se — come richie­sto dalla tro­jaka — «l’Iva sarà aumen­tata di dieci punti» la reces­sione diven­terà ancora più profonda.

Secondo un nuovo stu­dio sulla situa­zione finan­zia­ria delle fami­glie gre­che pre­sen­tato da eco­no­mi­sti dell’Università di Atene «nei primi cin­que anni della grave crisi eco­no­mica, la fami­glia media ha perso quasi quat­tro decimi del pro­prio red­dito». La mag­gior parte delle per­dite regi­strate (il 23,1%) sono state in red­dito diretto. Un ulte­riore 8,8% è stato perso a causa di una mag­giore impo­si­zione fiscale e un altro 7% per l’inflazione non com­pen­sata da un aumento del red­dito nel periodo 2008–2012. La ricerca — che si basa sulle dichia­ra­zioni dei red­diti di 5,2 milioni di con­tri­buenti — sostiene inol­tre che nello stesso periodo preso in esame, la per­cen­tuale dei greci che vive al di sotto della soglia di povertà è pas­sata dal 27,9% al 31,1%.

Poche ore dopo l’incontro a Bru­xel­les tra Tsi­pras e Junc­ker , le rea­zioni ad Atene hanno preso la forma di una valanga. Certo la riu­nione è stata «buona» e «costrut­tiva» e ne segui­ranno altre, ma a sen­tire il pre­mier greco, cosa che ha fatto notare durante una tele­con­fe­renza a Mer­kel e Hol­lande, le pro­po­ste pre­sen­tate dai cre­di­tori aumen­te­reb­bero la povertà e la dis­so­cu­pa­zione, oltre a non essere state discusse al Brus­sels Group.

L’accordo sarebbe die­tro l’angolo, ma nes­suna delle due parti è dispo­sta a fare mar­cia indie­tro. Oltre a Tsi­pras non è da esclu­dere che pure i cre­di­tori pos­sano chie­dere un pro­lun­ga­mento dei nego­ziati per far pas­sare le loro pro­po­ste, ovvero un nuovo pesante memo­ran­dum invece di una «solu­zione» come chie­sto in modo ener­gico da Tsi­pras in par­la­mento. Di fatto, dopo la dichia­ra­zione del pre­mier greco, le voci più cri­ti­che sono quelle dei strati medi e dei par­la­men­tari di Syriza i quali que­sta volta pro­ven­gono non sol­tanto dalla potente oppo­si­zione interna, la «Piat­ta­forma della Sini­stra», bensì da tutte le com­po­nenti della sini­stra radi­cale greca.

In que­sto ambito Tsi­pras ha fatto due mosse: ha deciso di accor­pare i quat­tro paga­menti di giu­gno al Fmi in un unico esborso il 30 giu­gno e ha chie­sto la riu­nione straor­di­na­ria del par­la­mento. Il suo obiet­tivo era dop­pio: otte­nere il con­senso più largo pos­si­bile sia al seno del suo par­tito, sia dall’opposizione; gua­da­gnare tempo nei con­fronti dei suoi inter­lo­cu­tori internazionali.

La neces­sità è di arri­vare ad un accordo al più pre­sto pos­si­bile per­ché l’economia reale sof­fre, come ha sot­to­li­neato l’ ex pre­mier Anto­nis Sama­ras, lea­der dei con­ser­va­tori della Nea Dimo­kra­tia. Sama­ras deve fare i conti con tanti diri­genti «neo­de­mo­cra­tici» e una parte del suo par­tito che si schie­rano a favore di un even­tuale accordo tra il governo e i cre­di­tori internazionali.

Il prin­ci­pale par­tito dell’opposizione greca è con­tra­rio all’eventualitá di ele­zioni anti­ci­pate, ipo­tesi che viene avan­zata da alcuni diri­genti di Syriza in caso non ci sarà un accordo con i cre­di­tori, men­tre pro­muove l’idea di un governo di unità nazio­nale (pro­spet­tiva già rifiu­tata dal governo).

Più o meno simile è stata la posi­zione del Pasok, che si trova in un momento dif­fi­cile della sua sto­ria. Dopo la seconda scon­fitta elet­to­rale, ieri il Par­tito socia­li­sta greco ha aperto i lavori del suo con­gresso in vista delle ele­zioni, il 14 giu­gno, di un nuovo lea­der al posto di Evan­ghe­los Veni­ze­los il quale ha già reso noto che non si ricandiderà.

Il con­gresso è comin­ciato tra le pole­mi­che dei can­di­dati in carica con Fofi Gen­ni­mata, già sosti­tuto mini­stro della difesa durante il governo di coa­li­zione tra con­ser­va­tori e socia­li­sti, a lan­ciare accuse con­tro il segre­ta­rio del par­tito, Nikos Androu­la­kis, can­di­dato pure lui, per­ché «avrebbe inter­fe­rito con la sele­zione dei mem­bri del congresso».

Sta­vros Teo­do­ra­kis, il lea­der del «Potami» (Il fiume), la nuova for­ma­zione nell’area del centro-sinistra, si è schie­rato con Tsi­pras, pur cri­ti­can­dolo di aver perso troppo tempo senza in realtà trat­tare con i cre­di­tori. A favore di «una rot­tura con l’ Europa impe­ria­li­sta» sono i comu­ni­sti del Kke, il Par­tito comu­ni­sta di Gre­cia. «Se si ottiene un accordo sarà comun­que simile a quelli che hanno fir­mato i governi pre­ce­denti» ha detto il segre­ta­rio del par­tito, Dimi­tris Koutsoumbas.

Gli errori criminali dei governi che hanno preceduto la vittoria di Tsipras, la complicità della UE, la volontà tenace delle istituzioni europee di voler cancellare ogni tentativo di contrastare latenaglia dell'austerity neoliberista. Ecco, in sintesi, il dramma della Grecia di oggi - e dell'intera Europa.

Il manifesto, 5 giugno 2015

Il 25 gen­naio scorso, il popolo greco ha preso una deci­sione corag­giosa. Ha osato sfi­dare la strada a senso unico dell’austerità del Memo­ran­dum d’intesa per cer­care un nuovo accordo. Un nuovo accordo che con­sen­tisse la per­ma­nenza del Paese nell’euro, con un pro­gramma eco­no­mico effi­ciente, senza gli errori del passato.

Per que­sti errori il popolo greco ha pagato un prezzo alto: negli ultimi cin­que anni il tasso di disoc­cu­pa­zione è salito al 28% (per i gio­vani 60%), il red­dito medio è dimi­nuito del 40%, men­tre secondo i dati Euro­stat la Gre­cia è diven­tata il paese euro­peo con il più alto indice di disu­gua­glianza sociale. (…) Molti, tut­ta­via, sosten­gono che il governo greco non sta coo­pe­rando per rag­giun­gere un accordo, per­ché si pre­senta ai nego­ziati intran­si­gente e senza proposte.

È dav­vero così?

Poi­ché que­sti sono tempi cri­tici, forse sto­rici – non solo per il futuro della Gre­cia, ma anche per il futuro dell’Europa – vor­rei cogliere que­sta occa­sione per pre­sen­tare la verità e infor­mare respon­sa­bil­mente l’opinione pub­blica mon­diale sulle reali inten­zioni e posi­zioni della Grecia.

Il governo greco, sulla base della deci­sione dell’Eurogruppo del 20 feb­braio, ha pre­sen­tato un ampio pac­chetto di pro­po­ste di riforma, al fine di rag­giun­gere un accordo che coniu­gasse il rispetto del man­dato rice­vuto dal popolo greco con il rispetto delle regole e delle deci­sioni che gover­nano l’Eurozona.

Un punto chiave delle nostre pro­po­ste è l’impegno a ridurre – e quindi a ren­dere rea­liz­za­bili – gli avanzi pri­mari per il 2015 e il 2016, accon­sen­tendo ad avanzi pri­mari più ele­vati per gli anni suc­ces­sivi, poi­ché ci aspet­tiamo un aumento pro­por­zio­nale dei tassi di cre­scita dell’economia greca.

Un aspetto altret­tanto fon­da­men­tale delle nostre pro­po­ste è l’impegno ad aumen­tare le entrate pub­bli­che attra­verso una redi­stri­bu­zione dell’onere fiscale dalle classi medio-basse a quelle più alte che finora non hanno fatto la loro parte per con­tri­buire a far fronte alla crisi, pro­tette in que­sto sia dall’élite poli­tica che dalla troika che hanno chiuso un occhio.

Fin dall’inizio, il nostro governo ha chia­ra­mente dimo­strato la pro­pria inten­zione e deter­mi­na­zione ad affron­tare que­sti pro­blemi appro­vando una legge spe­ci­fica sulle frodi cau­sate dalle trian­go­la­zioni e inten­si­fi­cando i con­trolli doga­nali e fiscali per ridurre il con­trab­bando e l’evasione fiscale.

Men­tre, per la prima volta da anni, abbiamo fatto pagare ai pro­prie­tari dei media i loro debiti nei con­fronti del set­tore pub­blico greco. (…)

Abbiamo pre­sen­tato pro­po­ste con­crete con­cer­nenti misure che si tra­dur­ranno in un ulte­riore incre­mento delle entrate. Que­ste inclu­dono una tassa spe­ciale sui pro­fitti molto alti, una tassa sulle scom­messe online, l’intensificazione dei con­trolli sui tito­lari di conti ban­cari con somme ingenti – eva­sori fiscali, misure per la rac­colta degli arre­trati del set­tore pub­blico, una spe­ciale tassa sul lusso e una gara di appalto per la radio­dif­fu­sione e altre licenze, che la troika aveva stra­na­mente dimen­ti­cato negli ultimi cin­que anni. (…)

Infine – e nono­stante il nostro impe­gno verso i lavo­ra­tori di ripri­sti­nare imme­dia­ta­mente la lega­lità euro­pea del mer­cato del lavoro, com­ple­ta­mente sman­tel­lata nel corso degli ultimi cin­que anni con il pre­te­sto della com­pe­ti­ti­vità – abbiamo accet­tato di attuare le riforme del lavoro dopo una con­sul­ta­zione con l’Ilo, che ha già espresso un parere posi­tivo sulle pro­po­ste del governo greco.

Ciò detto, è ragio­ne­vole chie­dersi per­ché i fun­zio­nari delle isti­tu­zioni insi­stano a dire che la Gre­cia non pre­senta pro­po­ste. (…)

Quindi, cer­chiamo di essere chiari:

La man­canza di un accordo finora non è dovuta ad una pre­sunta posi­zione greca intran­si­gente, non incline ai com­pro­messi e incomprensibile.

È invece dovuta all’insistenza di alcuni attori isti­tu­zio­nali nel pre­sen­tare pro­po­ste assurde e mostrare una totale indif­fe­renza verso la recente scelta demo­cra­tica del popolo greco, nono­stante la pub­blica assi­cu­ra­zione delle tre Isti­tu­zioni sulla con­ces­sione della neces­sa­ria fles­si­bi­lità al fine di rispet­tare il ver­detto popolare.

Cosa deter­mina que­sta insistenza?

Si potrebbe innan­zi­tutto pen­sare che que­sta insi­stenza è dovuta al desi­de­rio di alcuni di non ammet­tere i pro­pri errori e, invece, di riba­dire le loro scelte igno­ran­done fal­li­menti.

Inol­tre, non dob­biamo dimen­ti­care che alcuni anni fa il Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale ha ammesso pub­bli­ca­mente di aver sba­gliato i cal­coli della pro­fon­dità della reces­sione che sarebbe deri­vata dal memorandum. (…)

La mia con­clu­sione, quindi, è che la que­stione greca non riguardi solo la Gre­cia; piut­to­sto, è l’epicentro di un con­flitto tra due stra­te­gie dia­me­tral­mente oppo­ste riguar­danti il futuro dell’unificazione europea.

La prima stra­te­gia si pro­pone di appro­fon­dire l’unificazione euro­pea nel con­te­sto di ugua­glianza e soli­da­rietà tra i popoli e i cittadini. (…)

La seconda stra­te­gia si pro­pone pro­prio que­sto: la spac­ca­tura e la divi­sione della zona euro, e quindi della UE.

Il primo passo per la rea­liz­za­zione di que­sto obiet­tivo con­si­ste nel creare una zona euro a due velo­cità, dove il cuore fis­serà regole severe in tema di auste­rità e di adat­ta­mento e nomi­nerà un super mini­stro delle Finanze dell’Eurozona con potere illi­mi­tato e per­sino la facoltà di rifiu­tare bilanci di Stati sovrani che non siano alli­neati con il neo­li­be­ri­smo estremo.

Per quei paesi che rifiu­tano di pie­garsi alla nuova auto­rità, la solu­zione sarà sem­plice: una puni­zione severa. Auste­rità obbli­ga­to­ria. E, peg­gio ancora, più restri­zioni ai movi­menti di capi­tali, san­zioni disci­pli­nari, multe e per­sino una moneta parallela.

A giu­di­care da quanto sta acca­dendo, sem­bra che que­sto nuovo potere euro­peo sia in costru­zione, con la Gre­cia come prima vittima. (…)

L’Europa è, dun­que, a un bivio. A seguito delle serie con­ces­sioni fatte dal governo greco, la deci­sione non è ora nelle mani delle isti­tu­zioni, che in ogni caso – con l’eccezione della Com­mis­sione euro­pea – non sono elette e non sono respon­sa­bili verso il popolo, ma piut­to­sto nelle mani dei lea­der europei.

Quale stra­te­gia pre­varrà? Quella che vuole un’Europa della soli­da­rietà, dell’uguaglianza e della demo­cra­zia, o quella che vuole rot­tura e divisione?

Tut­ta­via, se alcuni pen­sano o vogliono cre­dere che tale deci­sione riguardi solo la Gre­cia, com­met­tono un grave errore. Vor­rei sug­ge­rire loro di rileg­gere il capo­la­voro di Heming­way “Per chi suona la campana”.

(testo pub­bli­cato su Le Monde del 31 mag­gio 2015)

Molti elettori di sinistra si sono accorti che il PD di sinistra non è, ma non sono andati nelle liste antagoniste. Il manifesto, 4 giugno 2015
I prin­ci­pali dati di que­ste ele­zioni sono due: l’aumento dell’astensionismo e la fles­sione dei voti al Pd. I votanti si sono ridotti ad un elet­tore su due, il Pd con le sue liste ha perso due milioni di voti ed il 15% in meno rispetto alle euro­pee. Ma l’astensionismo non si è mani­fe­stato in modo uni­forme e la fles­sione del Pd pre­senta aspetti diversi nelle diverse regioni. Con­viene, quindi, ana­liz­zare i due feno­meni sepa­ra­ta­mente per trarne con­si­de­ra­zioni poli­ti­che utili anche per il futuro della sini­stra nel nostro paese.

Asten­sio­ni­smo

La par­te­ci­pa­zione al voto, del 63% alle pre­ce­denti regio­nali e del 59% alle euro­pee, è scesa al 52%. Sull’aumento dell’astensionismo pos­sono aver inciso un solo giorno di vita­zioni e il ponte. Ma sicu­ra­mente ha pesato il discre­dito che delle isti­tu­zioni regio­nali a seguito degli scan­dali degli ultimi anni, cir­co­stanza che richie­de­rebbe un ripen­sa­mento su decen­tra­mento e fede­ra­li­smo ben oltre la dema­go­gica mossa della finta abo­li­zione delle pro­vince. Ma c’è qual­cosa in più: in Puglia e Cam­pa­nia, due regioni in cui si con­cen­tra quasi la metà dei voti, l’astensionismo non è aumen­tato. E’ invece aumen­tato molto nelle regioni rosse (dai 10 punti della Ligu­ria ai 15 di Mar­che ed Umbria, ai 20 della Toscana). Se prima era più alto al sud e più basso al cen­tro nord, e soprat­tutto nelle regioni rosse, adesso si atte­sta dap­per­tutto intorno al 50%. E’ chiara la rela­zione tra aumento dell’astensionismo e fles­sione di voti al Pd.

Il voto al Pd

In ter­mini di voti di lista il Pd è tor­nato ai livelli delle regio­nali del 2010 e delle poli­ti­che del 2013. Ma nella let­tura del voto di lista regio­nale non si può tra­scu­rare che in que­ste ele­zioni si vota sepa­ra­ta­mente per pre­si­dente e liste di par­tito e che per rac­co­gliere voti si creano liste per­so­nali o civi­che che tol­gono voti ai par­titi. Si veri­fica così uno scarto tra voto di lista al Pd e voto al can­di­dato pre­si­dente del Pd. Anche in que­sto caso torna utile la distin­zione prima fatta tra regioni per­ché se in Puglia e Cam­pa­nia i voti al can­di­dato pre­si­dente sono stati più del dop­pio di quelli al Pd, nelle altre regioni la dif­fe­renza è minima. In sostanza in Puglia Cam­pa­nia sono state otte­nute due vit­to­rie con due per­so­naggi pro­rom­penti che hanno vinto per la loro forza e per le alleanze (in Puglia 8 liste, in Cam­pa­nia 9 liste) spesso discu­ti­bili che hanno messo in piedi. Qui, quindi, i voti per­duti dal Pd non sono signi­fi­ca­tivi per­ché se si dovesse votare per le poli­ti­che i voti presi dai pre­si­denti rien­tre­reb­bero in buona parte nel Pd. Ma nelle altre regioni, dove voti al Pd e voti al Pre­si­dente sono vicini, que­sto ragio­na­mento non vale ed i voti persi sono voti persi. Ed il fatto che essi siano con­cen­trati nelle regioni rosse e nelle regioni in cui si è regi­strata la mag­giore asten­sione fa pen­sare che il mag­giore asten­sio­ni­smo sia in buona parte dovuto a delu­sione dell’elettorato di sinistra.

La sini­stra e il voto

Se si esclude il caso Ligu­ria, le sini­stre sia dove si sono pre­sen­tate sepa­ra­ta­mente sia dove si sono pre­sen­tate insieme ed anche con i movi­menti non escono affatto bene da que­ste ele­zioni. E’ inu­tile girarci intorno: pur in una fase come que­sta con alle spalle lotte, grandi mani­fe­sta­zioni, prov­ve­di­menti del governo che con la sini­stra non hanno niente a che fare, le sini­stre esi­stenti non rie­scono a fre­nare la fuga dei delusi dal Pd verso l’astensione, non rie­scono a richia­mare al voto i vec­chi aste­nuti, non rie­scono a far tor­nare ad un voto a sini­stra i delusi che si erano spo­stati verso il M5S, non rie­scono ad attrarre gio­vani. Se così è, mi scuso per la cru­dezza, è bene deci­dere di met­terci una pie­tra sopra e pen­sare un per­corso radi­cal­mente nuovo.

L’unico caso in cui la sini­stra si afferma con una per­cen­tuale che può far spe­rare in un futuro è quello della Ligu­ria dove si è rea­liz­zata una con­di­zione nuova, l’unità tra coloro che hanno rotto col Pd e la sini­stra che si era aggre­gata alle euro­pee. Può, que­sta espe­rienza, costi­tuire una base di par­tenza, un labo­ra­to­rio? Molto dipen­derà da come evol­verà il con­fronto den­tro il Pd, e que­sto, a sua volta, dipen­derà dalla tem­pe­sti­vità e dalla capa­cità, a sini­stra, di qua­li­fi­carsi come novità, attraente nella forma orga­niz­za­tiva, nella costru­zione delle scelte poli­ti­che, della demo­cra­zia, delle forme di par­te­ci­pa­zione. E’ la scom­messa che si apre oggi per una nuova sini­stra. I tempi sono stret­tis­simi sia per­ché si sta con­so­li­dando un tri­po­la­ri­smo che lascia pochi spazi, sia per­ché potremmo essere chia­mati ad un appun­ta­mento elet­to­rale prima del pre­vi­sto. Quindi, dalla Ligu­ria, non un modello, ma uno spunto, uno sti­molo per provarci.

Un rapido commento, scritto per eddyburg, di un tenace costruttore di una prospettiva per una nuova sinistra, all'altezza dei tempi e di ciò che la nuova forma del proteiforme sistema capitalistico ha prodotto.

Umori mefitici escono dal ventre di mezza Europa. Il Venetooggi, la Lombardia ieri sono parte di questa Europa in disfacimento. Laxenofobia razzista è un ottimo arnese con cui indirizzare le frustrazioni dellepopolazioni verso nemici di comodo immaginari. La Lega è fin dalle sue originimaestra nell’arte della deviazione. Del resto, è proprio per questa suafunzione che l’establishment l’ha foraggiata, coccolata, tenuta al governo pervent’anni. Con altalenanti successi. Ma ora, con l’indebolimento deidispositivi di comando del capitalismo europeo, c’è il rischio che negli statia democrazia più debole i rianimati mostri barbarici sfuggano di mano. InPolonia come in Ungheria, nelle repubbliche dell’ex Jugoslavia come in Italia.
Impressionanti i flussi di voti (Swg e Istituto Cattaneo) afavore del “monocolore leghista” di Zaia (le tre liste leghiste sommate assiemeraggiungono il 65%) che si mangia Forza Italia, ma prende oltre quattro puntipercentuali dal Pd e altrettanti dal M5S che pure aveva ammiccato ai temi della“sicurezza”. La Lega è l’unica che attinge (oltre 7 punti) anche dall’astensionismo.Non c’è barriera che tenga. Il discredito raggiunto dal Pd con le vicende dellacorruzione non è stato compensato dal Renzi “gran comunicatore”. Il populismodi Grillo è già diventato “troppo politico”. Persino il piccolo patrimoniodell’Altra Europa con Tsipras si è dissolto. Per usare le parole del geografoFrancesco Vallerani, il Veneto è “il labirinto oscuro delle geografiedell’angoscia”.
Venezia era e deve tornare ad essere l’eccezione di questoVeneto. Questa diversità, esplicitamente rivendicata e argomentata, può essereil vero punto di forza di Felice Casson. Non serve andare a vedere cosa è successoa Barcellona con Ada Colau per capire cosa bisogna fare. Bastano le esperienzedi tutti quei (pochi) sindaci “arancione” (da De Magistris ad Accorinti) chenel recente passato sono riusciti ad aprire dei canali di comunicazione direttacon la cittadinanza attiva e a liberarsi dalle paralizzanti pratiche di potereimposte dai “corpi intermedi”, dalle lobby, dalle clientele.
Per farcela Cassonha bisogno di un di più. Ha bisogno dei voti di chi non è andato a votare. Eper smuoverli deve saper dimostrare di prendere sul serio le ragioni della lorodisaffezione. Il difficile è che molte di queste ragioni sono interneall’impostazione e al modo di fare tradizionale della sua coalizione. Se ce lafarà lui potremmo poi provare a risollevarci anche noi.

«Uscire da questo capitalismo non è una "bubbola", come pensa Scalfari. E neanche un insostenibile fardello da mettere sulle spalle dei nipoti. È invece un problema drammaticamente aperto, riproposto dagli effetti devastanti della crisi». Sbilanciamoci.info, 3 giugno 2015
Ha ragione Valentino Parlato, il quale su Sbilanciamoci del 15 maggio sosteneva che da questa crisi, persistente e distruttiva che investe l’Italia, l’Europa e il mondo, non si esce se non si ricostruisce la politica. Ma - aggiungeva - la politica, e per quel che ci riguarda una politica di sinistra, non si ricostruisce se non si dà una giusta analisi della crisi. Sono convinto che il punto da cui muovere sia esattamente questo, se vogliamo rovesciare la tendenza al declino e aprire la strada a una prospettiva nuova.

Da anni ormai conviviamo con una crisi difficile da afferrare, che nel suo svolgimento ha assunto in continuazione forme nuove. Emersa negli Usa sul finire del 2007 con i mutuisubprime, esplosa successivamente come crisi bancaria e finanziaria, è venuto poi il turno degli Stati nazionali e dell’intera Europa. In un contesto dominato dalla recessione e dalla stagnazione, che alimentano disoccupazione, lavori sottopagati e precarietà, e dunque una condizione di malessere umano e di rischio ambientale crescenti.

Nonostante gli sforzi per occultarne e mistificarne la natura più profonda, se andiamo alla sostanza dobbiamo oggettivamente prendere atto che siamo in presenza di una crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, le cui espressioni si manifestano in varia forma. Ormai, sebbene anche le interpretazioni della crisi siano le più diverse, è sempre più difficile negare che viviamo in una società spaccata in due, non solo in Italia e in Europa. Nella quale la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini è costretta a vendere in condizioni di subalternità e di permanente incertezza le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere a una classe dominante di proprietari universali, peraltro sempre più ristretta e parassitaria, che le usa allo scopo di ricavarne il massimo profitto.

Se non si prende atto di questo elementare dato di realtà, non per caso ideologicamente mascherato con destrezza, è difficile compiere qualche significativo passo avanti sul terreno politico. Come insegnava quel tale di Treviri, la lotta di classe è sempre lotta politica. Soprattutto in questa fase storica, giacché il capitale, prima ancora di una cosa o di un semplice algoritmo, di un accumulo di merci e di mezzi finanziari, è una relazione tra esseri umani, un rapporto sociale storicamente determinato. Non statico e sempre uguale a se stesso, bensì in incessante movimento per effetto del rivoluzionamento continuo degli strumenti della produzione e delle conquiste delle scienza e della tecnica, ma segnato da una contraddizione insuperabile, oggi diventata dirompente.

Aldo Tortorella direbbe che il capitale è vittima delle sue stesse macchinazioni. Per accrescere i profitti deve contenere i salari. Ma i bassi salari comprimono il potere d’acquisto impedendo la realizzazione dei profitti. E poiché la capacità di consumo dei produttori diretti è strutturalmente legata alla capacità di generare un plusvalore che è alla base del profitto, se questo plusvalore non viene generato, o non si realizza perché le merci restano invendute, la produzione si ferma e il lavoratore viene licenziato. Cioè, cancellato come produttore e come consumatore. Il suo destino è quello di andare ad accrescere l’esercito dei disoccupati e degli esclusi, con la conseguenza di rendere ancora più acuta la contraddizione tra capitale e lavoro.

Le crisi ricorrenti, come ben sappiamo, sono state finora il mezzo che ha consentito di riportare in temporaneo equilibrio il sistema attraverso la massiccia distruzione di capitali e di forze produttive umane e naturali, fino all’esplosione di guerre catastrofiche per l’accaparramento delle risorse del pianeta. In teoria, dalla crisi di un sistema il cui fine è l’estrazione del massimo profitto privato dagli esseri umani e dalla natura, su cui si conforma l’intero assetto della società e delle istituzioni, e quindi della politica, si esce in due modi. O attraverso un’ulteriore stretta del dominio del capitale sul lavoro e sull’intera comunità, con la conseguenza di acutizzare tutte le contraddizioni e con esiti imprevedibili. O attraverso l’avvio di un processo di superamento del sistema diventato insostenibile, ponendo dei limiti al dominio del capitale e aprendo la strada a una gestione comunitaria della produzione di ricchezza.

Un’altra soluzione non è data. Non dimentichiamo che dalla Grande Depressione del 1929-33, si è usciti temporaneamente in Europa con il nazismo e la seconda guerra mondiale. Oggi, mentre alle porte dell’Europa premono masse di diseredati e si moltiplicano le guerre guerreggiate, il ricatto cui viene sottoposta la Grecia è il paradigma di una regressione senza precedenti imposta dai poteri capitalistici dominanti: prima la remunerazione del capitale finanziario, poi la vita delle persone. La finanziarizzazione universale, tipica di questa fase di globalizzazione, non ha attenuato il processo di subordinazione del lavoro. Al contrario, lo ha generalizzato e modernizzato nelle modalità di sfruttamento, con l’intento di contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto e alla perdita di efficienza del sistema.

La spinta a fare denaro con il denaro bypassando la produzione ha generato, come osservava Hilferding, uno «schema mistico» del capitale, rivestendolo di sacralità e impenetrabilità. Nei fatti, garantendo alti rendimenti, ha moltiplicato i valori finanziari rispetto all’economia reale, diffuso la speculazione e la corruzione, accresciuto a dismisura le disuguaglianze. Grazie all’indebitamento di massa inventato dalle economie anglosassoni, si è ottenuto per un certo tempo il miracolo di tenere alti i consumi in regime di bassi salari. Ma il debito come fattore propulsivo dell’economia, in sostituzione della valorizzazione del lavoro, è il segnale vistoso del decadimento di un sistema.

D’altra parte, la rivoluzione scientifica e tecnologica, con l’uso dell’informatica e della microelettronica, non ha posto fine al lavoro, ma rivoluzionando il modo di lavorare e di vivere richiederebbe la formazione di una classe lavoratrice di livello superiore per cultura generale e conoscenze specifiche, e quindi un’attenzione particolare all’istruzione e alla ricerca. Mentre il superamento della tradizionale nozione del tempo e dello spazio consentirebbe di accorciare globalmente i tempi di lavoro allungando i tempi di vita, e di pianificare un’occupazione dignitosa per tutte e per tutti.

Ma alla socializzazione crescente dei processi produttivi, di comunicazione e di ricerca, cui concorre una molteplicità di soggetti diversi, non corrisponde la socializzazione della proprietà e la comune gestione degli strumenti indispensabili per il governo di tali processi. Il risultato è la formazione di un enorme esercito di manodopera di riserva nel mondo, disponibile per qualsiasi tipo di lavoro precario. Di qui la concorrenza e la guerra tra poveri. Il rapporto di proprietà capitalistico è diventato una gabbia che imprigiona il libero sviluppo di tutti e di ciascuno. La contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di proprietà, tra il lavoro e il capitale, è arrivata a un punto limite che è necessario riconoscere e mettere a nudo. Se non si vuole che al conflitto di classe si sostituisca una guerriglia permanente e senza sbocchi tra i subalterni.

Nella controrivoluzione liberista di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher si si è incarnato al massimo livello il dominio totalitario del capitale sul lavoro. Una vera e propria dittatura, non solo in ambito economico-sociale, ma anche nel linguaggio e nella comunicazione, fino al formarsi di un diffuso senso comune. In una fase di massima espansione della lotta di classe del capitale contro il lavoro è stata teorizzata la fine della lotta di classe, addirittura la fine delle classi. Lo slogan di lady Thatcher detta TINA (There Is No Alternative), secondo cui la società non esiste, esistono solo individui, ha fatto molta strada ed è assurto al rango di principio universalmente riconosciuto anche a sinistra con conseguenze politiche devastanti.

E’ evidente infatti che se si sostiene, come sostenne a suo tempo Giorgio Ruffolo scambiando lucciole per lanterne, che ormai «abbiamo una società di individui» e con ciò la sinistra ha raggiunto il suo scopo, vale a dire «la società senza classi», non ha alcun senso la presenza di una forza politica delle classi subalterne, essendo state le classi sociali cancellate. Peraltro, non da una rivoluzione socialista ma dalla forza egemonica del pensiero unico liberista. Nel deserto popolato da individui egoisti privi di legami sociali anche la visione del capitale come rapporto sociale viene azzerata, e si erge dominante l’homo oeconomicus, l’individuo che dispone dei mezzi necessari per mettere al lavoro a suo piacimento altri individui, ridotti al rango di capitale umano, spossessati anche della loro storia, oltre che della loro comunità sindacale e politica.

L’impianto egemonico neoliberista, nella sostanza acquisito e perfezionato dalla socialdemocrazia di Blair e di Schröder, ha espulso dall’agenda e dalla pratica politica europea e italiana un clamoroso dato di realtà: il conflitto capitale-lavoro, che pure segna il destino di milioni di donne e di uomini. Da una parte, i sindacati sono additati come un ostacolo da abbattere sulla via della piena libertà del capitale. Dall’altra, è stata semplicemente cancellata l’autonoma e libera presenza politica delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo. La politica come protesi dell’economia, cioè del capitale, è stato il punto di approdo. E con ciò è stato definitivamente archiviato il vecchio compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro. In un sistema politico-rappresentativo monoclasse, in cui i diritti diventano una variabile dipendente dal rendimento dei capitali, la democrazia traligna inevitabilmente in autoritarismo e oligarchia.

Su questa linea, corresponsabile dell’innesco e del dilagare della crisi ma presentata come una novità strabiliante, si è attestato Matteo Renzi. Ormai, dopo le più recenti vicende, il suo obiettivo dovrebbe risultare chiaro anche ai ciechi. Né più né meno, è la definitiva soppressione del fondamento politico della Repubblica democratica. Ma il corrispettivo potenziamento del capitalismo italiano cui mira Renzi attraverso radicali misure di internazionalizzazione e di privatizzazione che lo liberino da storiche inefficienze e incrostazioni, e insieme da ogni residua responsabilità sociale secondo il modello anglosassone, non ci farà uscire stabilmente dalla crisi perché non ne mette in discussione i fattori strutturali.

Un conto è il miglioramento dei parametri europei, definiti stupidi da Romano Prodi, o di quelli imposti dai colossi multinazionali del rating, che li fissano per assicurarsi laute rendite di posizione. Altro conto è affrontare i nodi della piena occupazione; di una remunerazione del lavoro che garantisca a tutte e tutti una vita dignitosa e degna di essere vissuta; di un nuovo welfare universale; della salvaguardia dell’ambiente e della pace; del trasferimento all’intera comunità dei benefici che la rivoluzione scientifica e tecnologica mette a disposizione. Di che parliamo, se non di un altro modello di società? Di un avanzamento di civiltà oltre i limiti imposti dal dominio del capitale? Un nuovo socialismo? Sì, se la parola non fosse stata deturpata e stravolta dai molti che se ne sono abusivamente appropriati.

Muovere nella direzione opposta a quella indicata da Renzi e dai governanti europei vuol dire costruire un’alternativa politica al dominio del capitale. È questa la questione di fondo che non si può eludere. E che innanzitutto richiede, per essere affrontata con qualche probabilità di successo, una visione del lavoro che abbandoni senza rimpianti lo schema novecentesco. In altre parole, c’è bisogno di una visione non limitata alla classe operaia tradizionalmente intesa come unico soggetto trainante dell’antagonismo al capitale, bensì allargata ai nuovi soggetti indotti dalla rivoluzione elettronica e digitale in tutti i campi delle attività lavorative. Perciò aperta al lavoro cognitivo e creativo, seppure erogato in forma individuale e a distanza. E nel contempo in grado di coinvolgere tutti coloro, giovani e donne innanzitutto, ma anche le teste grigie, che da qualunque forma di lavoro vengono esclusi.

In secondo luogo, occorre prendere atto una volta per sempre che l’esperienza del movimento operaio novecentesco, in tutte le sue forme, è davvero definitivamente conclusa. E non è ripetibile. Sia nella forma del cosiddetto socialismo realizzato nella Russia sovietica, sia nella forma socialdemocratica nell’Occidente europeo, che ha sposato i dogmi della controrivoluzione liberista. Come aveva intuito Enrico Berlinguer, esaurite le due fasi novecentesche del movimento operaio, adesso «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico», e dunque di «porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo».

Una sinistra nuova ha senso, e avrà un avvenire, se assume questa prospettiva, peraltro delineata con sufficiente chiarezza dalla Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro. Un progetto di portata europea per il quale vale la pena di impegnarsi e di lottare, attraverso l’espansione massima di una democrazia progressiva e partecipata. Uscire da questo capitalismo non è una «bubbola», come pensa Scalfari. E neanche un insostenibile fardello da mettere sulle spalle dei nipoti. È invece un problema drammaticamente aperto, riproposto dagli effetti devastanti della crisi.

Un intervento a gamba tesa del magistrato anticorruzione e l'intervento critico di un intellettuale che difende la divisione dei poteri. Come dargli torto?

La Repubblica e Huffington Post, 3 giugno 2013


La Repubblica
Cantone: “Rosy ha sbagliato
ora il governatore entra in carica
e solo dopo verrà sospeso

di Conchita Sannino


«Ora che le elezioni regionali sono alle spalle, si può dire: con il caso Campania siamo finiti in un’impasse giuridica inedita, che sarà anche molto stimolante e interessante sciogliere, a patto di non lasciarsi tirare per la giacca da nessun timore di strumentalizzazioni. Il mio parere? Non do per scontata l’interpretazione secondo cui De Luca debba essere sospeso subito dopo la proclamazione».

Raffaele Cantone spezza il silenzio “politico” che, da magistrato e da presidente dell’Anticorruzione aveva opposto durante la lunga, avvelenata campagna delle regionali che ha infiammato i rapporti politici sull’asse Napoli-Roma. Parla anche dei trasformisti, della querela del governatore campano contro la Bindi e di quel “grave passo falso” commesso dalla presidente della commissione Antimafia.

Presidente Cantone, autorevoli giuristi sostengono che De Luca non dovrebbe avere il tempo di nominare la sua giunta, ma essere sospeso un minuto dopo la proclamazione.«Penso che la questione sia controversa. Esiste secondo me, anche un’altra interpretazione. Gli articoli 7 e 8 del decreto che chiamiamo legge Severino prevedono infatti la decadenza o la sospensione. E quest’ultima interviene nei casi in cui l’amministratore abbia subito una condanna che però non è passata in giudicato, proprio come per De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio. In altri termini: se si sospendesse subito, senza consentire ai consiglieri eletti di insediarsi e al consiglio di funzionare anche in rapporto alla giunta, bisognerebbe dichiarare lo scioglimento del consiglio per impossibilità di funzionamento. E la sospensione prevista dalla Severino, che ha una funzione di natura cautelare e un carattere provvisorio, diventerebbe di fatto, una decadenza».

Eppure, la recente sentenza della Cassazione ha stabilito che la sospensione è un “atto vincolato” e che, in presenza di presupposti, non esiste valutazione di discrezionalità.
«Certo, è così. Ma la domanda è: quando si verificano i presupposti? Si radicano nel momento in cui c’è la sola nomina, oppure quando l’amministratore, in questo caso il governatore della Regione, ha assunto regolarmente quelle funzioni dalle quali deve essere momentaneamente allontanato?» Cantone, diranno che lei ha una tesi pro Renzi e De Luca?

«So bene che il dramma di questa storia è che una vicenda squisitamente tecnico-giuridica sarà letta con una chiave di politica o di strumentalizzazione. Ma sono letture che non mi toccano. Credo invece che il presidente del Consiglio debba fare appello a tutto il meglio dell’avvocatura dello Stato e dei giuristi italiani. Senza pressioni o timore alcuno, perché la soluzione che si trova oggi farà giurisprudenza».

Ma il Pd poteva evitare di cacciarsi in questo vicolo cieco?

«È un rompicapo senza precedenti. Ribadisco: anche affascinante, per chi ama le potenzialità del diritto. È ovvio che sarebbe stato meglio evitarsi una tale complicazione, ma questa valutazione non spetta a me».

De Luca dice: dovrà risolvere il Parlamento. In realtà pensa al governo.
«Un decreto legge non avrebbe senso. E per le eventuali modifiche in Parlamento c’è bisogno di tempi e di soluzioni certo meditate. Come Autorità anticorruzione, proprio il 10 giugno, vareremo una proposta ampia sulla Severino da affidare al Parlamento, per alcuni danni e problemi che la Severino crea su altri versanti, su cui non c’entra De Luca. Perché quella normativa è sacrosanta, è indispensabile e deve rimanere. Ma un miglioramento certo va pensato».

Intanto, l’era De Luca comincia con la querela alla Bindi. Cosa pensa della black list dell’Antimafia?
«Mi faccia fare una premessa. Credo che l’onorevole Bindi, nonostante non avesse una specifica esperienza, stesse facendo benissimo il suo lavoro, con quella capacità di impadronirsi degli argomenti e della complessità dei nodi che è propria dei politici di alto livello: una volta gliel’ho anche riconosciuto alla presenza del premier. Ma questa vicenda degli impresentabili è stato, per me, un grave passo falso, un errore istituzionale».

Perché snatura la funzione dell’Antimafia?
«Per vari motivi. Primo: è rischiosa e fuorviante la logica di “istituzionalizzare” gli impresentabili, i quali per loro stessa natura possono essere candidabili, eleggibili, non indagati eppure non idonei a entrare nella pubblica amministrazione, ad esempio per spregiudicato trasformismo; oppure perché è più grave che un politico si accompagni costantemente a persone dell’area grigia o a pregiudicati, rispetto al fatto di essere rinviato a giudizio per un abuso qualunque. Secondo: in questo modo, si rischia di produrre un’eterogenesi dei fini; cioè, di dare il bollino blu a tantissimi che, non vedendosi inseriti in quella lista, si sentono pienamente legittimati. E infine, perché questo porta la commissione antimafia e la sua fondamentale, indiscutibile direi sacra funzione, a fare e a parlare di altro. La commissione deve studiare, cogliere nessi, indagare fenomeni».

Se l’aspettava che De Luca l’avrebbe querelata?
«Sì, lo aveva detto. Anzi, da cittadino mi augurerei che come governatore De Luca sarà puntuale e preciso con tutte le altre promesse così come lo è stato nel depositare la denuncia».

La Repubblica, “Huffington post"

Dopo quella intervista su De Luca
le dimissioni di Cantonesarebbero dovute

di Alfonso Gianni

Mentre Vincenzo De Luca, trionfatore delle regionali campane con i voti determinanti del Centro democratico di Vassella Pisacane e dell’ Udc dell’intramontabile e in rottamabile Ciriaco De Mita, querela la Bindi per il semplice esercizio delle proprie istituzionali funzioni, Raffaele Cantone, Presidente nazionale anticorruzione (!?!), non trova di meglio che rilasciare un’ampia intervista a repubblica in cui se la prende con la Bindi e con la Corte Costituzionale. Eppure si tratta di una persona di cui si era fatto il nome persino per la carica di Presidente della Repubblica. E tutto ciò almeno ci consola dal punto di vista dello scampato pericolo.

Che si possa criticare la legge Severino è non solo lecito, ma per ciò che riguarda alcuni aspetti anche comprensibile, come quelli che concernono differenze di trattamento fra vari livelli istituzionali a fronte di processi giudiziari in corso. Ma bisognerebbe averlo fatto prima. Ora, fin tanto che quella è legge, non può non essere applicata. De Luca l’ha voluta sfidare. Il suo partito si è messo al suo servizio, infilandosi in cul de sac da cui è difficile uscire. D’altro canto questa è stata una scelta cosciente di Renzi. Una regione in più val bene l’aggiramento di una legge e la tacitazione di ogni sensibilità etica. Il giovane è spregiudicato.

Ma che il Presidente nazionale anticorruzione corresse in aiuto all’uomo forte della Campania, questa, almeno, speravamo di potercela risparmiare. E ci va giù duro.

La Bindi, secondo Cantone, avrebbe “istituzionalizzato” gli impresentabili. Cosa voglia dire non si capisce neppure, ma tant’è: si tratta di un’accusa destinata a fare effetto. In secondo luogo avrebbe dato il “bollino blu” a tutti quelli che non rientrano nella lista degli impresentabili. Qui siamo di fronte al capovolgimento radicale di ogni logica. Secondo Cantone qualunque iniziativa tesa ad avvertire l’elettorato che sono stati inseriti nelle liste persone che non hanno requisiti a termine di legge per poterci stare o per potere svolgere le funzioni che deriverebbero dalla loro eventuale elezione, sarebbe campagna elettorale per tutti gli altri. Ma allora, caro Cantone, se le cose stessero davvero così, aboliamola questa commissione antimafia. Sarebbe più dignitoso per tutti. Oppure releghiamola per norma a un ruolo marginale, come lei stesso dice nella intervista: “la commissione deve studiare, cogliere nessi, indagare fenomeni” , ma evidentemente non interferire mai con la politica attiva. In quest’ultima , come è noto, non ci sono nessi o fenomeni da indagare.

Per Cantone non conta neppure la sentenza della Corte Costituzionale che ha recentemente stabilito che la sospensione dalla carica è “un atto vincolato” non sottoponibile a valutazioni di discrezionalità. Cantone la butta sui tempi. Quando il governatore dovrebbe essere allontanato? Al momento della nomina o dopo l’insediamento della Giunta?

Che siamo di fronte a cavilli utilizzati all’unico scopo di sostenere la continuità dell’esercizio del potere da parte di De Luca, risulta poi chiaro in chiusura di intervista, quando Cantone si lancia in un intemerato augurio: “da cittadino mi augurerei che come governatore De Luca sarà puntuale e preciso con tutte le altre promesse come lo è stato nel depositare la denuncia”. Il riferimento alla querela di De Luca nei confronti della Bindi è esplicito.

Se lei la pensa così, caro Cantone, sarebbe assai meglio che tornasse ad essere un semplice cittadino e che abbandonasse nel più breve tempo possibile quella carica di Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Non mi pare materia per lei.


L'estremo tentativo dello statista greco di salvare la prospettiva di un'altra Europa. Incrociamo le dita.

La Stampa, 3 giugno 2015

Arriva Alexis Tsipras e la sua missione somiglia parecchio ad un “o la va, o la spacca”. Con una mossa a sorpresa, nuovamente fuori dai protocolli europei, il primo ministro greco ha deciso di volare a Bruxelles, dove nel pomeriggio incontrerà il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, per discutere la proposta di accordo fra Atene e i creditori internazionali. Il testo è stato compilato sul tavolo dal «gruppo di Bruxelles», ovvero i creditori di Atene, Ue, Bce e Fmi, come estremo tentativo di mediazione. Sul tavolo, e nella borsa del leader di Syriza, anche un contro documento ellenico da 47 pagine. Partita aperta. Ma, in questa fase, l’ottimismo appare in leggera prevalenza.

Il punto.

Tutti dicono che siamo in dirittura d’arrivo, che «entro fine settimana» si può chiudere un’intesa per ri-salvare la Grecia, scambiando miliardi per riforme. Fonti concordanti riferiscono che i tre creditori - Ue, Bce e Fmi - hanno completato una proposta di mediazione e chiesto ad Atene di esprimersi a stretto giro. Sarebbe il frutto diretto del vertice a cinque di lunedì a Berlino, del pressing orchestrato da Frau Merkel. Tsipras sostiene che la decisione tocca ai leader politici europei». Si parla di un accordo quadro per venerdì, termine entro il quale il governo ellenico deve pagare 301 milioni al Fondo. È possibile. Ma, visti i precedenti, è più facile concedersi alla speranza che non alla fiducia.

La politica prova a muoversi.

La Bce lo già fatto, di nuovo: secondo l’agenzia Bloomberg, la banca centrale europea ha aumentato di 500 milioni a 80,7 miliardi la linea di liquidità d’emergenza (Ela) alle banche greche, mossa utile per un sistema che «ha liquidità per circa 3 miliardi». E’ una mossa che cerca di facilitare il clima per un accordo. Possibile, sottolineano le fonti, perché «due cose sono cambiate e su queste si può costruire». La prima è che qualcuno, cioè la Merkel, si è messa d’impegno per uscire da uno stallo pericoloso. La seconda è che il contatto con Christine Lagarde avrebbe avvicinato le posizioni del Fmi a quelle di Commissione e Bce, portando Washington - che chiede più garanzie dall’Eurogruppo - su una linea di giudizio più flessibile. I tedeschi vorrebbero evitare che il caso greco inquini il G7 bavarese di fine settimana. Puntano a chiudere. Ma non basta. I margini di Tsipras sono ridotti dai limiti di consenso politico interno, e i conflitti interni all’Ue sono tutti meno che sopiti.

Tensioni a Bruxelles.
È sufficiente osservare le dichiarazioni di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, in teoria titolare della cattedra greca, invece fuori dal quintetto berlinese. «Si sono registrati dei progressi - sottolinea - ma sono insufficienti: siamo ancora lontani dall’accordo». Quest’ultima, precisa, «non è possibile dal punto di vista tecnico in settimana». Traduzione: si può fare solo nel «suo» conclave, cioè nel club dei ministri economici dell’Eurozona, che si riunisce il 18 giugno. Però i creditori vorrebbero poter rimpinguare le casse elleniche prima, a meno che Atene non chieda di unificare a fine mese i pagamenti dovuti al Fmi.

Anticipo greco.

Tsipras ha giocato di sorpresa. Arriva a Bruxelles, d’accordo con Juncker. Secondo l’agenzia di stampa greca Aman la sua proposta suggerisce un avanzo primario dello 0,8% per l’anno in corso, una riforma dell’Iva, privatizzazioni, riorganizzazione spesa. Non ci sono conferme che si parli di pensioni e mercato del lavoro, tasto che invece i creditori vorrebbero fosse toccato. Una fonte Ue suggerisce che l’ex Troika potrebbe accettare di avanzare anche soltanto col 70% del programma greco in tasca. Una seconda, assicura che «già si parla del terzo programma», da avviare una volta finito a giugno il secondo, quello di cui restano 7,2 miliardi che si cerca di sbloccare dal 20 febbraio. Segno dei tempi il fatto che ieri il Brussels Group dei creditori non si è riunito. Oggi è attesa una teleconferenza del Gruppo di lavoro dell’eurozona, i tecnici dei tesori nazionali. E oggi parla Mario Draghi, mentre si naviga a vista. Però le acque sono meno agitate, almeno in superficie.
«È passato sotto silenzio il record negativo della Toscana». Una riflessone sui risultati elettorali in una regione storica della sinistra. "Loro" hanno perso, ma "noi" non abbiamo vinto. Domandiamoci perché.

La Repubblica online, blog "Articolo 9", 3 giugno 2015

È proprio la regione del Presidente del Consiglio quella in cui si è votato di meno: con l'affluenza inchiodata a un clamoroso 48,24 per cento, in una specie di crollo verticale (aveva votato il 60,92 alle Regionali del 2010; e il 66,7 alle Europee dell'anno scorso: il che vuol dire che in dodici mesi ben 530.896 toscani hanno deciso che non val la pena di andare al seggio). Solo qualche mese fa chi avesse pronosticato questo drammatico disincanto per la rossa, civilissima, politicissima Toscana sarebbe stato considerato un eccentrico menagramo. E invece ora la maggioranza assoluta dei toscani urla di averne le tasche piene dei toscani Matteo Renzi ed Enrico Rossi: il Pd perde in un anno 454.773 voti (passando da 1.972.406 delle Europee al 1.441.510 di oggi), e Rossi è ora il presidente meno legittimato della storia della Toscana, essendo stato eletto da un miserrimo 23 per cento degli aventi diritto. Di questo passo, il prossimo governatore toscano lo eleggeranno direttamente i dipendenti della Regione.

Ancora più della disfatta ligure della imbarazzante Paita, dell'evaporazione dell'ultralight Moretti in Veneto o dell'imperdonabile follia di aver consegnato la Campania all'impresentabile De Luca, mi pare questa fuga toscana dalle urne la prima vera Caporetto del renzismo. Ricordate quando l'ex presidente Napolitano tuonava contro la (presunta) antipolitica dei 5 stelle? Ebbene, cosa si dovrebbe dire oggi del trionfante Pd, che riesce nel capolavoro di allontanare dalla politica il 51.76 % dei toscani?

Il presidente Mattarella ha sostenuto che le urne vuote siano una risposta alle «liti esasperate». Il che certamente può essere vero, ma non per la Toscana. Qui, invece, si paga l'incapacità della politica di sollevarsi dal piano della mera gestione del potere. L'assenza di una qualsivoglia visione del futuro che non sia la permanenza al comando – ed è questo il limite congenito del renzismo, che paradossalmente ricalca e cristallizza lo stato di fatto che dice di voler rottamare –: è questa la vera antipolitica. È la perfetta coincidenza tra 'Politica' e 'manovra politica' ad espellere dal gioco tutti tranne gli addetti ai lavori.

Lo si è visto plasticamente quando il Pd toscano ha attaccato a testa bassa l'assessore Anna Marson, accusandola di «stupidità politica» per aver difeso fino all'ultimo il Piano del Paesaggio: e cioè per aver scelto il governo del futuro e l'interesse pubblico, e non la gestione del presente e gli interessi privati. In quell'occasione (era l'ultimo consiglio regionale della legislatura) la Marson difese il suo «agire “diversamente politico”, in quanto non guidato dal desiderio di mantenere un incarico di assessore, né dall’obbligo di restituire favori e accontentare interessi specifici». La Marson, ovviamente, non è stata ricandidata: anzi è stata definitivamente espulsa dalla politica dei politici: e il Pd ha di nuovo saldamente in mano il governo della Toscana. Ma a che prezzo? Davvero pensiamo che le elezioni siano vinte anche quando la maggioranza assoluta non vota più?

Ma se i toscani hanno punito un Rossi mimetizzato tra i cacicchi del Caudillo Maleducato, non hanno certo premiato gli avanzi della sinistra radicale, vanamente rimessi insieme dal generoso Tommaso Fattori: il 6,28 per cento è un risultato deprimente, e l'astensione pesa come un macigno anche sopra chi non è riuscito a convincere i concittadini che esiste un'alternativa al mitico Partito della Nazione della Boschi & c. Non per caso, la Marson non è stata ricandidata nemmeno da questa residuale sinistra: così dimostrando che il vasto e agguerrito popolo dei comitati e delle associazioni che difendono paesaggio, ambiente, beni comuni non riesce a trovare una rappresentanza politica.

Il 31 maggio la regione di sinistra per eccellenza si è addormentata, facendo proprio il motto della Notte del suo Michelangelo: «Grato m'è il sonno e più l'esser di sasso / fino a che il danno e la vergogna dura». Chiunque voglia riprovare a declinare al futuro la politica italiana deve partire da questa domanda: come si risveglia la Toscana, Bella Addormentata della Sinistra?

«Al ballottaggio del 16 giugno la città lagunare rischia di passare alla destra. Occorre unire il meglio della società civile». Una lettura tra le tante che considerano far parte della "sinistra" anche i renziani doc.

Il manifesto, 3 giugno 2015

La spie­ga­zione dell’esito elet­to­rale veneto è abba­stanza sem­plice: la Lega vince, con Zaia, sapendo rap­pre­sen­tare sia il governo (locale e regio­nale) sia la pro­te­sta con­tro le poli­ti­che di Roma (e di Bruxelles).
La sini­stra non rie­sce a fare né una cosa né l’altra, con Ales­san­dra Moretti e la sua coa­li­zione ma anche con le pro­po­ste alter­na­tive in campo. Sulla carta, il pro­gramma del cen­tro­si­ni­stra veneto era il più avan­zato da almeno vent’anni, men­tre la can­di­data pre­si­dente, al di là di qual­che gaffe e bat­tuta discu­ti­bile, era accre­di­tata di una certa effi­ca­cia comu­ni­ca­tiva e di una certa con­cre­tezza poli­tica (con­fer­mata dalle espe­rienze ammi­ni­stra­tive e dal cur­ri­cu­lum elet­to­rale vin­cente), men­tre le forze aggre­gate copri­vano un arco vasto (a fronte di una divi­sione del fronte avverso, con la scis­sione di Tosi).

Eppure non ha fun­zio­nato. Fuori coa­li­zione, l’acuirsi del pro­filo con­tro­ri­for­mi­sta del governo Renzi (tra Jobs Act, Ita­li­cum e scuola), apri­vano uno spa­zio largo d’iniziativa. Nean­che que­sto, però, ha fun­zio­nato. Le per­cen­tuali della sini­stra den­tro e fuori la coa­li­zione sono le minime da sem­pre. La gran­dis­sima parte dello spa­zio poli­tico tra governo e oppo­si­zione è stata satu­rata da Zaia (e, dal lato della pro­te­sta, anche dal M5S, mal­grado il suo risul­tato sia fra i peg­giori d’Italia).

Chi ha con­vinto Zaia? Un Veneto scosso dalla crisi, che vede segnali di ripresa ma che teme siano illu­sori, ango­sciato da cassa inte­gra­zione, licen­zia­menti, fal­li­menti, mutui, tassi d’interesse, cre­diti usu­rai, mer­cato del lavoro spie­tato, con­cor­renza d’impresa feroce, infra­strut­ture cao­ti­che, stra­vol­gi­mento del qua­dro ambien­tale e sociale nella non gestita «meta­mor­fosi» in atto (per citare il titolo di un utile e recente libro di Daniele Marini, edito da Mar­si­lio). Ma anche stanco da una richie­sta ine­vasa di auto­no­mia, di fede­ra­li­smo, un’istanza qui poten­te­mente pre­sente e che la sini­stra assume solo quando la Lega cre­sce ma che viene poi dimen­ti­cata non appena la Lega declina (com’era acca­duto negli anni scorsi, prima del truce ma for­mi­da­bile rilan­cio salviniano).

Tutto ciò, nel tra­va­glio del mel­ting pot ribol­lente che signi­fica soprat­tutto igna­via e ini­quità delle poli­ti­che sull’immigrazione, che aprono spazi alla pre­di­ca­zione xeno­foba e agli impren­di­tori poli­tici della paura, un tempo i Gen­ti­lini e i Bossi oggi i Bitonci e i Salvini.

Zaia è la figura sin­tesi. La sini­stra non ha saputo pro­porre un’alternativa per­ché non ha for­nito rispo­ste ori­gi­nali e con­crete ma, al più, nell’azione di governo a Roma e spesso local­mente, sug­ge­stioni o rivi­si­ta­zioni «mode­rate» delle stesse ricette leghi­ste e libe­ri­ste. Certo, poi ci vuole anche la fac­cia tosta di Zaia, l’abilità a dipin­gersi come estra­neo non solo giu­di­zia­ria­mente ma anche poli­ti­ca­mente alla cor­ru­zione che ha segnato l’amministrazione da lui gui­data (o di cui era il vice, con Galan) di cui lo scan­dalo Mose è solo il più ecla­tante esem­pio, così da porsi come l’uomo giu­sto per gover­nare anche un Veneto giunto, dopo scan­dali e crisi, al suo «anno zero» (per citare un altro fre­sco libro impor­tante, di Renzo Maz­zaro, edito da Laterza).

All’anno zero del Veneto, e all’ora x di Vene­zia, l’ora in cui, il pros­simo 14 giu­gno, al bal­lot­tag­gio, per la prima volta da vent’anni la città rischia di pas­sare in mano alla destra peg­giore, la sini­stra si pre­senta inquieta, insi­cura e divisa.

Si è detto della Regione. Nel capo­luogo, lo scan­dalo Mose, con l’arresto del sin­daco, il com­mis­sa­ria­mento del Comune e l’esplodere della sua crisi finan­zia­ria (anche per gli effetti per­versi del patto di sta­bi­lità), ha disar­ti­co­lato il modello poli­tico e ammi­ni­stra­tivo svi­lup­pa­tosi dagli anni Novanta e ha rime­sco­lato le forze, con il pre­va­lere, a sini­stra (ma anche a destra), di for­ma­zioni civi­che che ripo­si­zio­nano l’offerta elet­to­rale in ter­mini più aperti e tra­sver­sali, a volte personalistici.

Anche a Vene­zia la sini­stra ha cer­cato strade diverse sia den­tro una coa­li­zione che la lea­der­ship di Cas­son ren­deva più natu­rale sia all’esterno. In entrambi i casi si è rac­colto poco. Le pro­po­ste sono sem­brate più resi­duali che inno­va­tive. Il bal­lot­tag­gio tra Cas­son e Bru­gnaro è anche segnato da que­sta debo­lezza della sini­stra, oltre che dalle ambi­guità e dif­fi­coltà del Pd, come in Regione.

Se la forza aperta di Cas­son, oltre che il suo pro­filo inte­ger­rimo, riu­sci­ranno a unire il meglio dell’esperienza di governo della città e le forze che si sono sem­pre oppo­ste al sistema cor­rotto con i movi­menti e i per­corsi «civici» che pun­tano a una vir­tuosa inno­va­zione poli­tica e ammi­ni­stra­tiva (e a un’idea di città all’altezza di que­sto ini­ziale terzo mil­len­nio di Vene­zia), oltre ad assi­cu­rarsi la vit­to­ria cree­ranno le con­di­zioni per un nuovo spa­zio poli­tico, in cui la stessa sini­stra, in forme ine­dite, potrà ritro­varsi e ria­vere forza e respiro.

L’anno zero del Veneto e l’ora x di Vene­zia coin­ci­dono e s’intrecciano, infine, con il com­plesso, agi­tato momento poli­tico nazio­nale, di esso risen­tono ma ad esso, dalla città e dai ter­ri­tori, pos­sono comin­ciare a rispon­dere in modo originale.

Articoli di Norma Rangeri e Daniela Preziosi sulle elezioni di oggi: Un voto contro l'arroganza del Presidente chiacchierone.

Il manifesto, 31 maggio 2015


UN VOTO CONTRO L’ARROGANZA
di Norma Rangeri
Altro che Regio­nali. Oggi è in gioco una par­tita nazio­nale. Non solo poli­tica, ma anche per­so­nale. Quasi una resa dei conti, sia a sini­stra che a destra.

Dopo un anno di governo ren­ziano, ven­gono messe alla prova le scelte isti­tu­zio­nali, le riforme del lavoro e della scuola, le bat­ta­glie interne al Pd. Per il segretario-presidente è il primo vero banco di prova per con­fer­mare la sua dop­pia lea­der­ship. Nel Paese e nel par­tito. Lui lo sa bene, anche se negli ultimi giorni ha gio­cato al ribasso, prima indi­cando come obiet­tivo la vit­to­ria di sei regioni su sette, poi scen­dendo all’Italia-Germania 4 a 3, infine smi­nuendo il peso nazio­nale del voto amministrativo.

Per la destra la par­tita non è solo interna a Forza Ita­lia (gli attac­chi di Fitto a Ber­lu­sconi, la per­dita di con­senso, il crollo d’immagine segnano la caduta del vec­chio impero di casa Arcore), ma soprat­tutto nello scon­tro che si deli­nea tra le diverse forze in campo, dove al momento pre­vale media­ti­ca­mente la vio­lenza fascio-leghista di Salvini.

Accanto a que­sta tri­pla resa dei conti, gioca una par­tita a sé il Movi­mento 5 Stelle, che dopo i “fel­pati” passi indie­tro di Grillo sem­bra avviato su un per­corso poli­tico meno iso­la­zio­ni­sta, più orien­tato a cogliere le occa­sioni di con­fronto e di bat­ta­glia par­la­men­tare con le altre oppo­si­zioni. Negli ultimi mesi hanno segnato dei punti a loro van­tag­gio con una pre­senza par­la­men­tare anche pro­po­si­tiva, come è suc­cesso nella legge sugli eco-reati.

C’è una par­tita poi altret­tanto impor­tante che coin­volge le forze, i movi­menti, le per­sone della sini­stra che cer­cano di rico­struire un con­senso, di ali­men­tare la par­te­ci­pa­zione nelle realtà locali anche con­for­tati dai recenti risul­tati elet­to­rali spa­gnoli. E in que­sta pro­spet­tiva si muove quella parte della mino­ranza del Pd che al momento cam­mina in ordine sparso. Tut­ta­via sia in Ligu­ria (con Pasto­rino), che in Toscana (con Fat­tori), che nelle Mar­che e in Cam­pa­nia (con Men­tra­sti e Vozza), [sia nel Veneto, con Di Lucia Coletti- n.d.r.]che altrove con le liste della sini­stra, c’è una occa­sione impor­tante per lasciare il segno.

Oltre gli aspetti poli­tici gene­rali, è in primo piano la que­stione squi­si­ta­mente ammi­ni­stra­tiva per­ché le regioni rap­pre­sen­tano il luogo più espo­sto al mal­go­verno e al malaf­fare. Non a caso ha assunto rile­vanza, per­fino ecces­siva, la pre­sen­ta­zione dei 16 can­di­dati «impre­sen­ta­bili». Pro­prio nei ter­ri­tori si regi­stra con forza il mal­con­tento dei cit­ta­dini (come è acca­duto in Emi­lia Roma­gna) che usano l’arma più dirom­pente per i par­titi: aste­nersi dal voto. La forza delle demo­cra­zie si regi­stra pro­prio su que­sto aspetto. Che Renzi snobba e non tiene in alcun conto. Ma qui si misura la pro­ter­via di chi ci governa e pro­prio per que­sto biso­gne­rebbe andare a votare: per punire la sua arroganza.

IL PRESIDENTE CHIACCHIERONE
di Daniela Preziosi

Democrack. «Il voto non è un test su di me». Renzi se ne frega del silenzio elettorale e straparla da Trento. Dal voto dipende la stabilità dell'esecutivo e la deflagrazione del Pd. Lui si dichiara «ottimista». E invece teme di brutto Liguria e Campania. Il Pd colabrodo nei territori. E dopo il risultato scatterà la resa dei conti. Per il premier l’unico vero avversario è l’astensionismo

«Otti­mi­sta». Figu­rarsi se alla vigi­lia del voto con cui si gioca la dua duplice fac­cia di pre­si­dente del con­si­glio e segre­ta­rio del Pd, Mat­teo Renzi si fac­cia sfug­gire l’occasione di dichia­rarsi otti­mi­sta. In realtà i segnali che arri­vano dalle regioni non sono sma­glianti. L’aria è cam­biata, dopo la prima fase della corsa elet­to­rale. E c’è da capire l’effetto che farà nelle urne la guerra civile esplosa nel Pd con la pub­bli­ca­zione della lista dei 16 «impre­sen­ta­bili» da parte della com­mis­sione anti­ma­fia. Fra loro lo stesso can­di­dato pre­si­dente del Pd in Cam­pa­nia Enzo De Luca. Un assist inspe­rato per i 5 stelle che, dopo aver accu­sato Rosy Bindi di fare accordi con la destra per pro­teg­gere il suo par­tito adesso le espri­mono soli­da­rietà. Ma è un abbrac­cio mor­tale, agli occhi dei ren­ziani.

Ieri don Luigi Ciotti, fon­da­tore di Libera, ha speso parole di elo­gio per lei: «Da anni auspi­chiamo un rin­no­va­mento della poli­tica, una sua puli­zia dal malaf­fare, dalla cor­ru­zione, e dai fian­cheg­gia­menti con il cri­mine orga­niz­zato, e ora che la Com­mis­sione Anti­ma­fia eser­cita fino in fondo le sue fun­zioni si riduce tutto ad una lotta di potere tra cor­renti di par­tito». Così Susanna Camusso: «Il tema è avere un com­por­ta­mento rigo­roso, che è quello che si deci­dono delle regole e poi si appli­cano. Non è che le regole deb­bano variare in ragione di altre con­ve­nienze». Per­sino il car­di­nal Bagna­sco, pre­si­dente Cei, le ha teso la mano: «Chi si pre­senta per fare un ser­vi­zio al paese, recita la nostra Costi­tu­zione, deve farlo in modo ono­ra­bile».
Ma la verità è che Bindi è rima­sta sola e le accuse che ha rice­vuto la invi­tano all’uscita dal Pd. Ieri da lei ha preso le distanze anche l’ex capo­gruppo Spe­ranza: «Cono­sco bene De Luca e vedere il suo nome acco­stato all’Antimafia è in totale con­trad­di­zione con il suo impe­gno e con la sua sto­ria». Appena ci saranno i risul­tati delle regio­nali e in par­ti­co­lare quello di Ligu­ria e Cam­pa­nia, le due regioni in bilico, nel Pd scat­terà la resa dei conti. Alcuni usci­ranno, come Ste­fano Fas­sina. Ma al di là degli addii, il par­tito è un cola­brodo, non c’è fede­ra­zione che vada al voto — tranne la Toscana — che non abbia dovuto affron­tare un qual­che ter­re­moto interno. Inu­til­mente Lorenzo Gue­rini, vice di Renzi e suo ple­ni­po­ten­zia­rio , ha cer­cato di porre rime­dio a situa­zioni vec­chie e ine­men­da­bili — come quella cam­pana — spesso sfug­gite al con­trollo cen­trale sin dai tempi di Ber­sani. Il caso De Luca, gli abban­doni in Ligu­ria, per­sino il pas­sag­gio del gover­na­tore delle Mar­che uscente a Forza Ita­lia ne sono gli esempi solo più eclatanti.

Così Renzi prova a ridi­men­sio­nare la por­tata del voto e, dopo tanta bal­danza, ora nega che sia un test su di lui: «Fran­ca­mente no. Que­sta può essere stata una let­tura che si è data sulle ele­zioni euro­pee, let­tura che anche in quel caso non con­di­vi­devo. Ma le ele­zioni locali ser­vono per le ele­zioni locali. Non c’è nes­suna con­se­guenza». Ma è solo un ten­ta­tivo di met­tere le mani avanti. Il voto di oggi porta alle urne 23 milioni di ita­liani. Sarà un vero test sul governo nazio­nale, più cre­di­bile di molti sondaggi.

Per que­sto ieri ha fatto pro­pa­ganda fino all’ultimo. Dal Festi­val dell’economia di Trento, dov’era ospite con il col­lega fran­cese Manuel Valls, ha cer­cato di acco­darsi agli euro­cri­tici vin­centi di Spa­gna e Polo­nia: «Il futuro dell’economia par­lerà ita­liano e fran­cese, ma non tede­sco», ha assi­cu­rato, e via con la pro­messa di fare «casino» a Bru­xel­les, e «con una deter­mi­na­zione che non imma­gi­nate». E se «in Polo­nia hanno vinto i nazio­na­li­sti, in Spa­gna non è chiaro cosa potrà acca­dere, la Gre­cia sta nelle con­di­zioni che sap­piamo, il Regno Unito riflette sull’Europa», noi ita­liani dob­biamo stare sereni che in Ita­lia si apre una sta­gione «fan­ta­stica». Segue pro­pa­ganda su jobs act, tasse, pre­sunti miglio­ra­menti delle con­di­zioni dei lavoratori.

Il pre­si­dente cerca di moti­vare i suoi elet­tori, e se ne infi­schia del silen­zio elet­to­rale. Anche per­ché l’astensionismo rischia di essere l’unico vero sfi­dante in campo. Quello che ottiene per ora è la furia degli avver­sari: il for­zi­sta Bru­netta chiede alla pro­cura di Trento di inter­ve­nire per­ché «la rot­tura del silen­zio elet­to­rale con mani­fe­sta­zioni dirette o indi­rette di pro­pa­ganda è punito fino a un anno di car­cere». Il depu­tato M5S Frac­caro annun­cia un espo­sto. Da sini­stra anche Civati e Fra­to­ianni attac­cano: «Prima di lui solo Ber­lu­sconi, alla vigi­lia delle ele­zioni poli­ti­che del 2013, violò il silen­zio. Ma almeno per un giorno può evi­tare di par­lare?». È l’accusa di ber­lu­sco­ni­smo, forse anche un auspi­cio: per­ché quella volta il giorno dopo Ber­lu­sconi perse.

SINISTRA UNITA QUASI SEMPRE.
MA OCCHIOAL DOPO
di red.int.

Ven­ti­tré milioni di elet­tori, più donne che uomini, oggi vanno al voto per rin­no­vare 7 con­si­gli regio­nali — Veneto, Ligu­ria, Toscana, Mar­che, Umbria, Cam­pa­nia e Puglia — e 742 comuni, fra i quali la sfida prin­ci­pale è senz’altro quella di Felice Cas­son (Pd) a Vene­zia. Dopo il disa­stro Orsoni e il com­mis­sa­ria­mento della città, tutta la sini­stra si è riu­nita a soste­gno dell’ex pm (tranne, per la cro­naca, Ales­san­dro Busetto per il Pcl; Davide Scano è il can­di­dato dei 5 stelle).
Quanto alle regio­nali, occhi pun­tati su Ligu­ria e Cam­pa­nia, dove il Pd ren­ziano si gioco la fac­cia e l’osso del collo. Par­tiamo dalla Ligu­ria da dove, secondo l’auspicio di molti , subito dopo il voto potrebbe nascere una nuova ‘cosa’ a sini­stra. Molto dipende dal risul­tato in que­sta regione dove con­tro la dem Raf­faella Paita – e con­tro il suo finto sfi­dante Gio­vanni Toti — per la prima volta si tenta un pro­getto uni­ta­rio fra sini­stre e sini­stra Pd: il depu­tato ‘civa­tiano’ Luca Pasto­rino ha infatti lasciato il suo par­tito e si è messo a capo della lista Rete a sini­stra. La sua corsa è soste­nuta da Sel, Prc, L’Altra Europa, è ’bene­detta’ da Ser­gio Cof­fe­rati (anche lui ha lasciato il Pd) e da uno schie­ra­mento di forze e asso­cia­zioni, fra cui ’Pos­si­bile’ di Civati. Anche 200 elet­tori pd hanno annun­ciato il voto disgiunto. Fuori dalla corsa uni­ta­ria si misu­rano anche Anto­nio Bruno per ’Pro­getto Altra Ligu­ria’, lista nata da una sepa­ra­zione di Altra Europa con Tsi­pras, e Mat­teo Pic­cardi del Pcl. Per i 5 stelle corre la tren­tenne Alice Salvatore.
È invece tutta salita per la sini­stra la sfida veneta. Luca Zaia, pre­si­dente uscente della Legae appog­giato da Forza Ita­lia, ha il vento in poppa nono­stante la can­di­da­tura dell’ex leghi­sta Tosi. Par­tita dispe­rata dun­que per Ales­san­dra Moretti, ex por­ta­voce di Ber­sani alle pri­ma­rie 2012 e oggi ultrà ren­ziana, soste­nuta dal car­tello Ven(e)to Nuovo (Sel, Verdi Green Ita­lia e Sini­stra Veneta). Con­tro il cen­tro­si­ni­stra corre Laura Di Lucia Coletti soste­nuta da L’Altro Veneto, lista di diretta deri­va­zione dall’Altra Europa per Tsi­pras, con il Prc, Pcdi e asso­cia­zioni. Per i 5 stelle corre Jacopo Bert
Dopodomani non è la festa della nazione, ma quella della Repubblica. Oggi, nei tempi bui nei quali gli egoismi nazionalistici, il degrado della democrazia e il tradimento dei principi della Costituzione sembrano prevalere, non dimentichiamo il significato delle elezioni che condussero a quel risultato. E torniamo a votare.

La Repubblica, 31 maggio 2015

IL CONSOLATO generale d’Italia di New York offre alla comunità italiana e italo-americana un ricco programma di attività per le celebrazioni del 2 giugno. Cinema, storia, letteratura, arte: un panorama della cultura dell’Italia repubblicana che inorgoglisce e rende giustizia a quel che il nostro Paese ha realizzato in questi settant’anni di libertà politica. Le celebrazioni della Festa della Repubblica sono pubblicizzate come “Italian National Day”. Una scelta che lascia perplessi in questo tempo di rinascita del fenomeno nazionalista, soprattutto in Europa, dove alle forme populiste si affiancano in questi giorni le resistenze degli stati membri alla politica comunitaria delle quote di accoglienza dei rifugiati nel nome della priorità della nazione. Ma più ancora desta perplessità che si interpreti il 2 giugno come una festa genericamente nazionale, perché questo rischia di alterare il significato della Festa della Repubblica.

In quella prima domenica di giugno del 1946, gli italiani e le italiane decisero con un solenne plebiscito di voler essere una Repubblica democratica. Il loro fu un atto di fondazione che diede vita a un nuovo ordine politico. I cittadini e le cittadine furono per la prima volta nella storia della nazione italiana chiamati a decidere sull’ordinamento politico e la loro identità pubblica, a farsi volontà sovrana. La nazione italiana ha avuto tre ordinamenti dal tempo della sua unificazione nel 1861: quello monarchico costituzionale, quello fascista, e quello repubblicano. Il 2 giugno non si festeggiano tutti e tre questi ordinamenti, e in questo senso non è il giorno della nazione; se ne festeggia uno solo, l’ultimo. Se si fa perno sull’aggettivo “nazionale” si rischia di perdere il senso storico e politico di ciò che si festeggia: la nazione repubblicana e solo quella.

Soprattutto, si mette in secondo piano il significato politico del plebiscito del 2 giugno 1946 e si normalizza quell’evento eccezionale traducendolo con un termine onnicomprensivo e diversamente interpretabile. La nazione comprende infatti tutta la storia politica, sociale, culturale e civile del Paese, non soltanto quella parte che ha preso avvio nel 1946. Certo, come ci insegnano gli storici, lo Stato italiano nelle sue strutture burocratiche e anche nel suo personale amministrativo ha registrato una sostanziale continuità dal fascismo alla Repubblica. Non così la sovranità politica, che con quel plebiscito cambiò radicalmente, passando da una casa monarchica a milioni di cittadini che compongono il popolo, come recita la nostra Costituzione, esito diretto di quel plebiscito.

Un esempio può aiutare a comprendere meglio perché la Festa della Repubblica non é semplicemente una festa della Nazione: prima del 1946, le italiane erano sia parte della nazione che suddite dello Stato italiano, ma non erano soggetti politici liberi. Come loro anche molti uomini; ma nel caso delle donne l’esclusione politica era totale, e l’appartenenza alla stessa nazione non valse a correggerla.

La nazione non è stata capace di rappresentare le donne italiane come cittadine. Fu il plebiscito del 2 giugno che cambiò il loro status, insieme a quello dei loro connazionali e dell’intera società. Si trattò di uno spartiacque politico fondamentale, documentato dalle cronache che raccontano l’emozione con la quale le cittadine e i cittadini si recarono alle urne, moltissimi di loro per la prima volta in assoluto, tutti vestiti a festa come per le ricorrenze più importanti.
Quel sasso di carta che gettarono nell’urna abbatté la monarchia. Il plebiscito fu come una simbolica “decapitazione” del Re con il solo potere del voto e la decretazione della fine della vecchia nazione politica, quella nella quale solo alcuni erano liberi. Si trattò di una rivoluzione pacifica fatta da milioni di donne e di uomini che, uno dopo l’altro, espressero il loro voto, in silenzio, incolonnati, pazienti e con la dignità che viene dal sapersi sovrani e non sudditi. Nella fondazione della Repubblica convergevano anni di fatiche, di dissensi, di lotte cruente, di guerra civile. E il 2 giugno fu il punto di inizio di una nuova convivenza politica nella quale solo con il voto e in maniera pacifica si sarebbero decisi i governi e i leader. Per non smarrire questo senso di libertà politica, di potere del suffragio universale, festeggiamo il 2 giugno come giorno della Repubblica.

Un'analisi dalla Catalogna. «Podemos non ha vinto le elezioni in Spagna, come hanno detto molti, ma ha mostrato prima di tutto l’emersione di realtà territoriali che tentano di riappropriarsi di spazi decisionali».

Comune.info, 28 maggio 2015.

Podemos non ha vinto le elezioni in Spagna, come hanno detto molti, ma ha mostrato prima di tutto l’emersione di realtà territoriali che tentano di riappropriarsi di spazi decisionali. Nato un anno fa come una macchina mediatico-elettorale gigantesca con una struttura di partito tradizionale, Podemos soltanto dopo ha cominciato a cercare il superamento della forma partito novecentesca a favore di reti orizzontali. Ci riuscirà? Saprà gestire il potere per disperderlo in basso? I movimenti sapranno tutelare la loro autonomia e creatività? Di certo in Spagna è in corso un terremoto politico non solo elettorale, cominciato da alcuni anni. Ha ragione Caterina Amicucci, che scrive per noi di Comune da Siviglia, “vale la pena di osservare molto da vicino se il progetto sarà all’altezza della sfida e soprattutto vedere cosa accadrà”

SIVIGLIA – La stampa italiana ha proclamato in maniera unanime ed errata la vittoria di Podemos alle elezioni amministrative spagnole. Basta dare uno sguardo ai dati elettorali per capire che la notizia è semplificata al punto da essere falsa. Il Partito Popolare pur avendo perso due milioni e mezzo di voti si conferma il partito più votato, seguito a brevissima distanza dal partito socialista. Podemos si attesta, salvo poche eccezioni, come terzo o quarto partito a seconda delle regioni e delle città.

Lo stesso Pablo Iglesias ha commentato domenica a urne chiuse che “la dissoluzione dei partiti tradizionali e la fine del bipartitismo si sta dimostrando un processo più lento di quello che speravamo”.

Potrebbe sembrare una cattiva notizia, ma con uno sguardo più attento si scopre che il terremoto e il segnale politico che arrivano dalle urne di Barcellona e Madrid sono molto più profondi e dirompenti di quello che sembrano. Per capirne un pò di più è necessario ripercorrere il frenetico anno appena trascorso, che inizia quando Podemos irrompe sulla scena raccogliendo l’otto per cento delle preferenze alle elezioni europee del maggio 2014. Da quel momento il gruppo di professori dell’Università Complutense di Madrid guidato da Pablo Iglesias, scatena una macchina mediatico-elettorale gigantesca per prepararsi all’election year.Obiettivo dichiarato: l’assalto al potere alle elezioni politiche dell’autunno 2015.

In pochi mesi i sondaggi posizionano Podemos come primo partito nelle intenzioni voto, nonostante ancora formalmente neanche esista, non abbia un programma nè un meccanismo chiaro di partecipazione e articolazione territoriale. Podemos celebra il suo primo congresso a novembre del 2014, optando per una struttura di partito tradizionale da un punto di vista di leadership e di partecipazione interna. Nella stessa occasione decide anche di non presentarsi con la sigla Podemos alle elezioni municipali, per diverse ragioni tattiche fra le quali evitare di dare un’indicazione a livello nazionale sulle iniziative Ganemos. E qui, occorre fare un passo indietro.

Poco prima del successo elettorale di Podemos, a Barcellona si forma l’iniziativa Guanyem Barcelona (ganemos in castigliano), una lista cittadina per concorrere alle elezioni municipali. La figura di Ada Colau è determinante a creare una coalizione ampia, sostenuta soprattutto dalla società civile e a far sfumare l’identità dei singoli partiti (Izquierda Unida, Equo, Podemos) dentro un progetto assimilabile a un fronte popolare. La sua potenza sta nel radicamento territoriale e nella penetrazione sociale dei movimenti che sono emersi con il 15M, primo fra tutti quello di cui Ada Colau è stata portavoce per diversi anni, la Plataforma de los afectados por hipoteca (Pah) – ovvero le vittime della bolla immobiliare e del sistema bancario spagnolo – che è riuscita nel blocco di centinaia di sfratti e la rinegoziazione di moltissimi mutui. Ma anche le diverse “maree”, ovvero i movimenti contro la privatizzazione e i tagli ai servizi pubblici dalla sanitá allascuola.

Sulla spinta di Barcellona, l’iniziativa Ganemos ha cercato di propagarsi a livello nazionale con alterna fortuna a seconda del contesto politico locale. In Andalusiaper esempio la presenza di Izquierda Unida, che ha appoggiato per anni il feudo clientelare del partito socialista, ha pregiudicato il tentativo unitario in molte cittá. Fa eccezione solo Malaga dove La Casa Invisibile, un importante luogo di riflessione sul tema dei beni comuni, ha favorito un processo di convergenza piu`ampio.

A Madrid il percorso è stato più lungo e complicato, ma comunque è approdato alla sigla comune di Ahora Madrid, progetto sostenuto da cinque liste, tra cui ovviamente Podemos e Madrid in Movimiento che ha ottenuto l’appoggio di numerose realtà associative e di base fra le quali per esempio Ecologistas en acciòn, la più grande rete nazionale di associazioni ambientaliste spagnole. Le elezioni primarie hanno indicato Manuela Carmena come candidata a sindaco, una ex giudice di settantuno anni fondatrice di Jueces por la Democracia (giudici per la democrazia) e da sempre impegnata nella difesa dei diritti umani.

Ed ora che succede?

Da domenica c’è grande cautela perché la situazione consegnata dalle urne è nuova e complicata, rompe le maggioranze assolute e costringe la politica a tornare alle alleanze e le geometrie variabili. Il Partito Popolare vincitore per pochi voti quasi ovunque non può governare solo e nella maggior parte dei casi neanche con l’eventuale appoggio di Ciudadanos. Nell’altro metà del campo le alleanze potrebbero essere difficili anche se a Madrid ormai l’accordo con i socialisti è quasi concluso e potrebbe dettare la línea a livello nazionale.

Sempre che, il fantasma della grande coalizione che si aggira per l’Europa, non irrompa anche in Spagna. Magari non subito ma a seguito di un periodo di incentivata instabilità.

Speculazioni a parte, a Barcellona e Madrid (e non solo) ciò che esce vittorioso dalle urne è una nuova forma di coalizione di soggetti fortemente radicati nella società, con forme organizzative e strutture diversificate, che pretende di riappropriarsi di spazi decisionali e quote di potere sfidando le oligarchie politico-economiche. Non è un caso che e nelle due cittá sia aumentata la partcipazione al voto nei quartieri più popolari.

Non si tratta dunque della fine del bipartitismo tanto auspicata da Pablo Iglesias, bensì del superamento della forma partito novecentesca a favore di reti orizzontali, meno gerarchiche e maggiormente inclusive.Varrà la pena di osservare molto da vicino se il progetto sarà all’altezza della sfida e soprattutto vedere cosa accadrà.

Anche

il manifesto (30 maggio 2015) vede a Venezia solo Felice Casson e le destre. Ignora la sinistra e non si accorge che dietro il bravo magistrato c'è Matteo Renzi, più che un'ombra. Nonchè l'establishment che ha «let­te­ral­mente mas­sa­crata negli ultimi vent’anni» la città. In calce un riferimento utile a chi vuol comprendere meglio

Lo spet­tro dello scan­dalo Mose incombe sem­pre su Ca’ Far­setti. Can­ni­bali del patri­mo­nio, lobby degli appalti e squali della sus­si­dia­rietà non hanno mai mol­lato la presa su Vene­zia che con­si­de­rano cosa loro. Il padi­glione Acquae a Mar­ghera, deso­la­ta­mente deserto dopo l’inaugurazione di Renzi, sin­te­tizza il flop dell’«economia mista» in laguna: per­fino la vetrina col­le­gata a Expo Milano non ripaga gli inve­sti­menti. Ma è già pronto il pro­getto di scavo del rio Con­torta a bene­fi­cio delle Grandi Navi, con l’inossidabile Paolo Costa (ex ret­tore, ex sin­daco, ex euro­par­la­men­tare Pd) che resta fedele agli inte­ressi degli “impren­di­tori” in con­ces­sione unica gra­zie al Con­sor­zio Vene­zia Nuova. E a Tes­sera si rigioca la par­tita del busi­ness nel qua­drante dell’aeroporto Marco Polo: Enrico Mar­chi, pre­si­dente di Save, cal­deg­gia il master­plan che fino al 2021 farebbe decol­lare anche l’urbanistica a senso unico.

Il nuovo sin­daco avrà già l’agenda infar­cita per l’intera estate, tanto più che l’eredità del com­mis­sa­rio Vit­to­rio Zap­pa­lorto è dav­vero un incubo: conti in rosso per 56 milioni nella spesa cor­rente 2015, scure ad alzo zero sui ser­vizi sociali e tra­sfe­ri­menti dello Stato a rischio “sta­bi­lità”. Dome­nica nei 256 seggi fra laguna, isole e ter­ra­ferma i 211.132 elet­tori della città metro­po­li­tana sono chia­mati a sce­gliere fra nove can­di­dati soste­nuti da 24 liste. È il giorno della verità per Felice Cas­son, 61 anni, ex pm e sena­tore “dis­si­dente”: ha trion­fato alle pri­ma­rie, aggre­gato il “cen­tro­si­ni­stra clas­sico” e perso tre chili nella mara­tona della cam­pa­gna elet­to­rale di pros­si­mità. Può vin­cere, forse, già al primo turno e can­cel­lare il ricordo della scon­fitta nel bal­lot­tag­gio 2005 con Mas­simo Cac­ciari. Sarebbe un segnale ine­qui­vo­ca­bile per la “vec­chia ditta” della Quer­cia vene­ziana, ma ancor di più per Renzi che avrebbe pre­fe­rito un can­di­dato più allineato.

Cas­son sulla scheda occupa la posi­zione cen­trale con i sim­boli della lista civica (con Nicola Pel­li­cani in cima), Pd, Vene­zia 2020, Vene­zia bene comune, Socia­li­sti e Vene­zia popo­lare. Il cen­tro­de­stra si è spac­cato in tre, per­ché alla fine Luigi Bru­gnaro (paròn di Umana e della Reyer Basket, ma anche sus­si­dia­rio non solo a Con­fin­du­stria) ha deciso di scen­dere in campo con la bene­di­zione del mini­stro Alfano. Dovrà veder­sela con Fran­ce­sca Zac­ca­riotto, ex pre­si­dente della pro­vin­cia ed ex leghi­sta, che sven­tola la ban­diera di “Vene­zia Domani” insieme al tri­co­lore di FdI. E con Gian Angelo Bel­lati, can­di­dato della Lega che rispol­vera il sepa­ra­ti­smo di Mestre da Venezia.

Il M5S si affida a Davide Scano, avvo­cato 39enne, spo­sato con due figli, che è già stato con­si­gliere dei Verdi nella muni­ci­pa­lità di Mestre. Com­ple­tano il qua­dro dei can­di­dati sin­daco Fran­ce­sco Mario d’Elia del Movi­mento auto­no­mia Vene­zia, Camilla Sei­bezzi di “Noi la città”, Giam­pie­tro Pizzo di “Vene­zia cam­bia 2015” e Ales­san­dro Busetto del Par­tito comu­ni­sta dei lavoratori.

La vigi­lia del voto si con­suma nel tra­di­zio­nale porta a porta della coa­li­zione di Cas­son, men­tre sull’altro fronte si urla al mas­simo nel mega­fono della “sicu­rezza”. Dome­nica scorsa gli atti­vi­sti dei cen­tri sociali Morion e Rivolta hanno con­te­stato il comi­zio di Mat­teo Sal­vini con i gom­moni a sim­bo­leg­giare i diritti dei migranti e con un paio di cari­che delle forze dell’ordine, che ora annun­ciano una raf­fica di denunce dopo le iden­ti­fi­ca­zioni della Digos. In attesa del ver­detto delle urne, Fili­berto Zovico (edi­tore del quo­ti­diano on line Vene­zie Post e pro­mo­tore dei festi­val tema­tici) non nasconde lo scet­ti­ci­smo ser­peg­giante: «Già il recente voto in Tren­tino è stato un segnale espli­cito del males­sere siste­mico a Nord Est. Vene­zia rischia di cer­ti­fi­carne la para­lisi, per­ché la città è stata let­te­ral­mente mas­sa­crata negli ultimi vent’anni. Il cen­tro­si­ni­stra, al di là dei pro­clami, non ha mai saputo costruire un vero pro­getto per la capi­tale del Veneto.

Unica ecce­zione la Bien­nale di Baratta che almeno ha resti­tuito un tocco di inter­na­zio­na­lità». Ora con Cas­son, che Zovico para­gona a De Magi­stris a Napoli, si rischia per­fino di repli­care in un even­tuale bal­lot­tag­gio la scon­fitta di Padova. «Per di più a bene­fi­cio di can­di­dati del cen­tro­de­stra non all’altezza di una città come Vene­zia, unica e deli­cata. Insomma, esau­riti i pri­vi­legi e ven­duti i gioielli di fami­glia l’offerta poli­tica si rivela fal­li­men­tare: la lunga crisi di Vene­zia sarà esplo­siva in assenza di un dise­gno, di un’amministrazione inno­va­tiva e di un effet­tivo governo della rigenerazione»

Riferimenti

Vedi qui la nostra risposta a un articolo di Paolo Floris d'Arcais.

La Repubblica, 30 maggio 2015

SIAMO un popolo di spreconi. Smemorati, distratti, incapaci di Programmare La Spesa e gli acquisti. Compriamo troppo cibo, cuciniamo Piu di Quello che mangiamo. E il resto finisce Nella pattumiera: 49 chili all'anno per famiglia. Pari a otto miliardi di euro bruciati caso Nelle Nostre, colomba buttiamo Piu di un Milione di Tonnellate di Alimenti. Una montagna Che diventa cinque Volte Più grande se si aggiungono i prodotti Lasciati nel campo (1,4 Milioni di Tonnellate), ecco Spreco Nella Trasformazione Industriale (2 Milioni di Tonnellate) e Quello Nella Distribuzione commerciale (300mila Tonnellate).
Le cose però Stanno Cambiando, e non solo per colpa della Crisi Che ha MODIFICATO i comportamenti, Visto Che ora un italiano su quattro Assaggia i prodotti scaduti prima di buttarli.

DOPO la Presentazione in Francia Di Una legge Che Prevede il reato di Spreco e multe per i Grandi Magazzini Che Non Donano Gli Avanzi, si muove l'Italia. Se in rete su change.org in 30mila Hanno Firmato la richiesta Di Una Normativa similitudine, l'onda lunga di Parigi arriva a Roma. E il ministro all'Ambiente Gian Luca Galletti ha le idee Chiare.

«E INDISPENSABILE Una legge Contro lo Spreco Alimentare. Voglio presentarla Entro fine anno. Una legge Diversa da Quella francese Perché Sono convinto Che E meglio Risolvere senza sanzioni ma con educazione e Incentivi ». Il ministro Vuole un Provvedimento Che Non punisca MA insegni a sprecare e Soprattutto dia Strumenti alle Aziende Che non Spesso ora Non Posso regalare prodotti in Scadenza senza perderci per Problemi Fiscali, di magazzino. «In Italia esiste ha Una grande e piccola Distribuzione sensibile, C'è la cultura, C'è ATTENZIONE, bisogna assolo osa Gli strumenti Fiscali e Soprattutto Insegnare alle Famiglie, venire Previsto dal piano nazionale con lezioni in classe sin da piccoli, Perché lo Spreco domestico E Ancora alto also se in Diminuzione: Dai 10 miliardi nel 2013 Si e Passati Agli 8 odierni ».

In Italia, la voragine del cibo gettato E grande Nelle Nostre caso, il 25%, Più che Nella Grande Distribuzione Che Tra l'altro dona al Banco Alimentare o Agli Oltre 50 progetti Last Minute Market e alle mille piccole Realtà locali, MENTRE a decine di città il cibo avanzato Dalle mense Pubbliche comunali va Direttamente annuncio Enti Benefici.

A fotografare l'Italia dello sperpero casalingo, Sono da anni le Inchieste di Last minute market, spin off dell'Università di Bologna ideato da Andrea Segré, il professore di agronomia ora presidente del Comitato Tecnico scientifico per il grande piano nazionale Contro lo Spreco voluto dal Ministero dell'Ambiente. Gli italiani, Dicono le Ricerche dell'Osservatorio Rifiuti osservatori buttano via 49 chili di cibo commestibile OGNI anno, con decisa costanza. Il 55 per cento getta avanzi giorno quasi OGNI, il 30 per cento tre volte a settimana, il 10 per cento a 1,2 Volte e solista l'1 per cento quasi mai.

Perché gettiamo via Gli Alimenti? In linea di Massima, raccontano le Indagini, Perché Compriamo troppo, senza Programmazione e Così Frutta e verdura Vanno un maschio prima di finire in pentola oppure cuciniamo troppo.

«Per Questo e Importanti L'educazione dall'asilo all'università, non le multe alla francese, demagogiche, Così solista si Cambiano veramente i comportamenti e si evitano sprechi. I corsi have been annunciati da un anno ma Ancora non si vedono e invece Sono necessari. Con urgenza. Bisogna Imparare Il Valore del cibo, venire non perdere Una Risorsa. E non DEVE diventare Una giustificazione il Sapere Che ci Sono Organizzazioni venire la nostra o il Banco Alimentare Che in maniera Diversa indirizzano le eccedenze a chi ha bisogno ». Andre Segré da anni Lavora in Prima Linea all'insegna del "nessuno spreco", puntando a diventare di gran lunga sprechi Risorse, concretamente, mettendo in contatto chat con i "Mercati dell'ultimo minuto" chi ha eccedenze e chi ha bisogno. E dal punto di vista della Programmazione, dell'ideazione, un Lavora Proposte e progetti Che, tramezzi per un Livello locale, sottoscritti da centinaia di comuni italiani, Hanno influenzato la risoluzione Europea sullo Spreco nel 2012 Che ragionava Sulle strategie per EVITARE Tonnellate di cibo buttato .

Cultura, Informazione per non distruggere il pianeta, colomba OGNI anno si gettano via mille miliardi di cibo. Perché PRODURRE tutto Quello buttiamo costa, Stati Uniti d'America, Consuma la terra, Cambiamenti Climatici provocazione. Lo Spreco Alimentare, se Fosse un paese, sarebbe infatti il ​​terzo inquinatore DOPO Cina e Usa. Perché la quantita di anidride carbonica Necessaria una Portare il cibo sui nostri piatti E pari a 3,3 miliardi di Tonnellate e per produrlo si usa il 30 per cento del terreno coltivabile del mondo e Una quantita di acqua OGNI anno che basterebbe alle esigenze di Tutti i Cittadini di New York per Piu di un Secolo. Senza Contare Che il Costo calcolato del cibo sprecato E pari a 750 miliardi di Dollari, il prodotto interno Praticamente lordo della Svizzera.

E a furia di campagne, Qualcosa però si muove also Nelle Nostre caso. E L'Ultima ricerca osservatori Rifiuti - Swg, che verrà Presentata Nei Prossimi giorni all'Expo, racconta il Che sempre Più Spesso i genitori italiani insegnano Ai figli un non sprecare il cibo (77%) e bis SCEGLIERE solista prodotti di stagione (56%) . Sempre più consci dei propri Limiti, che sì acquista troppo (49%) e si cucina in eccesso. Un primo passo verso il "senza sprechi".

«A Bindi non si per­dona la grave colpa di non essersi allineata al nuovo gruppo dirigente. Ma è innan­zi­tutto con se stessi e spe­cial­mente con Renzi che dovreb­bero pren­der­sela. Il caso De Luca lo ha creato chi lo ha can­di­dato».

Il manifesto, 30 maggio 2015

Affi­dare alla vigi­lia delle ele­zioni l’appalto milio­na­rio di un nuovo ospe­dale in Ligu­ria a uno dei nuovi padroni dell’Unità è un’operazione bene­me­rita. Lodare l’ottimo lavoro per Expo di Diana Bracco, oggi alle cro­na­che per pre­sunte fat­ture false della sua società far­ma­ceu­tica, è per­fet­ta­mente nor­male. Que­sto è il Pd e per que­sto l’attacco for­sen­nato sca­te­nato con­tro la pre­si­dente della Com­mis­sione anti­ma­fia, per aver adem­piuto al suo dovere, non stupisce.

Anche se par­ti­co­lar­mente vol­gare e arro­gante, l’assalto a Rosy Bindi mette in evi­denza l’impasto di que­sto nuovo par­tito ren­ziano, capace di tenere insieme le peg­giori abi­tu­dini del vec­chio (la dop­pia morale) mesco­late con i pes­simi vizietti del nuovo (la per­dita di memo­ria e di iden­tità). Un par­tito che pensa, tratta e pra­tica la poli­tica come stru­mento di un potere senza media­zioni né con­trap­pesi. Prima il vec­chio gruppo diri­gente, poi i sin­da­cati, i costi­tu­zio­na­li­sti, gli insegnanti… .

Trat­tare Bindi quasi fosse una gril­lina d’assalto, oltre che il migliore spot alla cam­pa­gna elet­to­rale dei 5Stelle, è nello stesso tempo indice di arro­ganza e sin­tomo di grande debo­lezza. Per aver ottem­pe­rato ai suoi obbli­ghi isti­tu­zio­nali (esa­mi­nare le liste elet­to­rali rispetto ai pro­fili giu­di­ziari rela­tivi al rap­porto tra mafia e poli­tica, secondo un codice di auto­re­go­la­men­ta­zione sot­to­scritto da tutti i par­titi), e per averlo fatto anche con cele­rità (dall’inizio della pre­sen­ta­zione delle liste, un mese fa, come da rego­la­mento), Bindi viene addi­tata dal pre­si­dente del par­tito, Orfini, come il nemico da distrug­gere («siamo tor­nati indie­tro di secoli quando i pro­cessi si face­vano in piazza aiz­zando le folle»).

Come se fosse della pre­si­dente della Com­mis­sione la respon­sa­bi­lità di aver messo in lista per­sone che hanno pro­blemi con il casel­la­rio giu­di­zia­rio. Qui il garan­ti­smo non c’entra, la Com­mis­sione anti­ma­fia a 48 ore dal voto (dun­que quando la cam­pa­gna è pres­so­ché con­clusa, quando i cit­ta­dini hanno visto all’opera i can­di­dati) tra­smette al cit­ta­dino infor­ma­zioni pub­bli­che ma cono­sciute solo da una ristretta cer­chia di addetti ai lavori. Tra l’altro si tratta di dicias­sette nomi su quat­tro­mila can­di­da­ture esa­mi­nate. Ma il tappo è sal­tato per la pre­senza dell’asso piglia­tutto della Cam­pa­nia, De Luca, e per i timori di qual­che brutta sor­presa nell’urna. Solo Ber­sani e Fas­sina hanno soli­da­riz­zato con Bindi rimet­tendo al cen­tro la que­stione politica.

Sarebbe da rive­dere cosa scri­ve­vano que­sti pate­tici per­so­naggi quando Ber­lu­sconi stril­lava sulla «per­se­cu­zione», sulla «giu­sti­zia a oro­lo­ge­ria». Ora sosten­gono le stesse cose che diceva la destra quando la magi­stra­tura faceva il pro­prio lavoro. Tra l’altro invo­care la legge per legit­ti­mare alcune discu­ti­bili can­di­da­ture è una pezza peg­giore del buco per­ché dice di una poli­tica che se fosse sicura e fiera delle liste le riven­di­che­rebbe, allon­ta­nando la sgra­de­vole sen­sa­zione di rac­cat­tare da ogni sponda e clientela.

Tanta viru­lenza in realtà sco­pre la lunga coda di paglia di chi mal sop­porta che le isti­tu­zioni fac­ciano il loro lavoro anche con­tro il potente di turno. A Bindi non si per­dona la grave colpa di non essersi alli­neata al nuovo gruppo diri­gente. Ma è innan­zi­tutto con se stessi e spe­cial­mente con Renzi che dovreb­bero pren­der­sela. Il caso De Luca lo ha creato chi lo ha can­di­dato. È stato pro­prio il presidente-segretario, che ora accusa Bindi di usare l’Antimafia per fini di bat­ta­glia interna, a sbi­lan­ciarsi fino a «scom­met­tere che nes­suno degli impre­sen­ta­bili sarà eletto, per­ché sono tutti espres­sione di pic­cole liste civi­che». Quando si dice che il dia­volo fa le pen­tole ma a volte dimen­tica i coperchi.

Dalla rubrica lettere del Corriere della Sera Milano, 29 maggio 2015, un piccolo illuminante esempio di cosa può combinare la paranoia securitaria, unita alla surreale burocrazia nostrana

Il prefetto di Milano ha ordinato la chiusura per quattro mesi dell’aeroporto di Bresso per timore che da lì possano partire attentati terroristici a Expo. Naturalmente i terroristi, si sa, hanno una fervida fantasia e la scelta di decollare dall’aeroclub Milano, a pochi minuti di volo dal sito Expo per bombardare la manifestazione può essere una delle idee vincenti per un terrorista spietato. Poco importa che su quel piccolo aeroporto abbia sede una quasi centenaria (nata nel 1926) scuola professionale per piloti di aeroplano e di elicottero, poco importa che l’aeroporto sia quotidianamente frequentato da giovani allievi (devono essere incensurati) che sognano di solcare i cieli con aeroplani di linea, da istruttori di volo (alcuni ex militari). Poco importa che sull’aeroporto ci sia un’officina con tecnici specializzati per le manutenzioni agli aeroplani della scuola. Durante le giornate anziani piloti, anziani tecnici aeronautici in pensione siedono sotto la torre di controllo per vedere decollare e atterrare i giovani allievi, commentando il buon atterraggio o l’atterraggio un po’ troppo brusco.

L’aeroportoè all’interno del Parco Nord di Milano, vigilato da guardie ecologiche, agentidi polizia, carabinieri dei tre comuni limitrofi: Bresso, Cinisello, Sesto SanGiovanni che, in servizio, percorrono i viali e le strade lungo il parco. Lapolizia, poi, è incaricata di prestare il servizio di Dogana per i voli inpartenza o arrivo dall’estero, quindi le pattuglie passano dall’Aeroclub per lepratiche doganali, e si fermano a discorrere con gli allievi piloti e con ipensionati in tribuna. L’aeroporto è operativo soltanto nelle ore diurne e conil bel tempo (non è strumentato per il volo senza visibilità). Di notte, gliaeroplani sono chiusi in hangar, telecamere, cellule fotoelettriche e guardienotturne vigilano, perché sono beni di valore, servono a addestrare piloti.Purtroppo quattro mesi (o forse sei?) di chiusura dell’aeroporto di Bressocauseranno la perdita di lavoro per i tecnici aeronautici dell’officina, pergli istruttori di volo, per gli operatori della torre di controllo, perl’impiegata della scuola professionale e i pensionati che non potranno piùvalutare gli atterraggi dei giovani piloti. Saranno loro le vere vittime deicattivi terroristi. Interveniamo in tempo per favore, grazie.

Nobiltà dell'ispirazione e dell'avvio, miseria della conclusione temuta: se la ragione non vince contro la finanza.

Alternative per il Socialismo n. 36

Nella prima decade di maggio, il nostro vecchio continente ha celebrato la vittoria contro il nazismo e i 65 anni della dichiarazione di Robert Schumann che pose la prima pietra per la costruzione della unità europea, pur nella forma squisitamente economica della Comunità del carbone e dell’acciaio, la Ceca. Ma non si può dire che siano stati anniversari lieti per l’Europa. La crisi economica e soprattutto le politiche dei suoi gruppi dirigenti la schiacciano e i rischi di implosione si moltiplicano.

Naturalmente non manca chi cerca di fare almeno un po’ di training autogeno, non fosse altro che per sollevare il morale. The European Economic Forecast, le previsioni economiche di primavera 2015, rese note dalla Commissione europea agli inizi di maggio, sembrano appartenere a questo tipo di pratiche e infatti recano un incipit davvero ottimistico, che in inglese suona ancora più enfatico: “The outlook for economic growth in the EU has brightened”. Ma davvero le prospettive economiche nel nostro continente sono diventate addirittura luminose? Scorrendo il resto del rapporto, e in particolare la prima tabella, si ha ragione di dubitarne. La crescita del Pil nell’Eurozona è stimata per il 2015 fino all’1,5%, per il 2016 all’1,9%. Tra i fanalini di coda troviamo l’Italia con un +0,6% nel 2015 e un +1,4% per l’anno successivo. Alla pari con Cipro e migliore solo rispetto alla Finlandia. Se ci si allarga all’area di tutta la Ue la crescita nel 2015 è prevista in un +1,8% nel 2015 e in un 2,1% nel 2016. Cifre lontane dal 3% degli Usa e ovviamente dal 6,8% della Cina, nel 2016, quest’ultima in rallentamento rispetto agli anni precedenti. Poco consolante il dato della disoccupazione che si prevede a fine 2015 posizionarsi sull’11% nell’eurozona e sul 9,6% nell’intera EU, con previsioni di diminuzione di solo qualche decimale nel 2016.

Se l’economia reale resta al palo o retrocede, la finanza ha ripreso, superati i primi terribili shock dell’inizio della crisi, a filare a gonfie vele. Nello scorso decennio le attività finanziarie europee – secondo il Banking Structures Report della Bce – si sono quasi raddoppiate, giungendo al livello, nel 2013, di quasi sei volte il Pil dell’intera Eurozona. La bolla finanziaria continua imperterrita a gonfiarsi lasciando il mondo intero con il fiato sospeso di fronte ad una sua possibile e improvvisa esplosione, dal momento che le misure cautelative nel frattempo adottate sono del tutto insufficienti.

La contingenza favorevole non scuote l’economia europea

D’accordo, i dati economici complessivi del 2014 e soprattutto del 2013 erano ancora peggiori e recavano un segno negativo per la crescita nell’Eurozona. Ma da allora ad oggi sono intervenuti fatti rilevanti nell’economia europea e soprattutto extraeuropea, dai quali in molti si attendevano di più. Quali il crollo del prezzo del greggio, la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, i tassi di interessi bassissimi in Europa, i concreti segnali di ripresa dell’economia americana, ma soprattutto la pioggia di denaro elargita alle banche europee con il famoso Quantitative Easing voluto fortemente da Mario Draghi. A questi elementi straordinariamente positivi in sé – anche se non privi di effetti collaterali negativi in termini di incremento delle diseguaglianze sociali, come vedremo poi – hanno fatto da contraltare altri negativi, come le tensioni geopolitiche con la Russia. Ma nel complesso questi ultimi non spiegano interamente il “nervosismo” dei mercati finanziari – come si suole dire con un linguaggio ormai stereotipato – né l’apparire di nuove nubi dietro quell’orizzonte luminoso, come lo stesso rapporto della Commissione europea riconosce poche righe dopo quell’incipit così trionfale.

Né è sufficiente affermare, pur restando nel giusto, quanto più volte abbiamo scritto in questa rivista: che l’Unione europea più che vittima della crisi lo è delle proprie sciagurate politiche di austerità. Questo non solo è vero, ma più si vede la differenza dell’andamento economico europeo con quello di altre zone a capitalismo sviluppato, più diventa evidente. Al punto che anche nel pensiero mainstream e persino nei documenti ufficiali del Fondo Monetario Internazionale la critica al rigore all’europea non viene certo sottaciuta.

Il guaio è che quelle politiche e l’andamento geopolitico ed economico mondiale hanno creato nel nostro continente guasti profondissimi, che non possono essere rimossi da un semplice mutamento, anche se molto favorevole, della congiuntura economica. Se anche supponessimo che le elite europee si convincessero come d’incanto che l’assoluta prevalenza della finanza sull’economia reale costituisce un errore strategico e decidessero di ridare slancio alla produzione, questa non potrebbe avvenire negli stessi modi, secondo gli stessi schemi e con gli stessi obiettivi produttivi del periodo anticrisi, anche perché molte di quelle forme e strutture produttive sono andate perdute, o completamente trasformate nelle loro finalità o de localizzate durante questi anni di stagnazione e di recessione. L’Italia, che ha perduto il 25% del proprio potenziale produttivo lungo questo periodo, è un caso di scuola in negativo.

Si aggrovigliano quindi nodi complessi di breve e lungo periodo, che riguardano gli aspetti più contingenti come quelli di più lunga durata. Difficilmente, anche se fosse animata dalla migliore classe dirigente – il che non è – l’Unione europea potrebbe scioglierli tutti contemporaneamente. Ma potrebbe, questo sì, cominciare ad aggredirne qualcuno in modo positivo. Il più urgente dei quali, senza la cui soluzione la Ue è destinata a implodere, è la questione del debito greco.

Avere aggravato la condizione della Grecia minaccia l’unità europea

Purtroppo sta avvenendo il contrario. Come non è difficile prevedere, anche l’appuntamento dell’Eurogruppo dell’11 maggio non è stato risolutivo. Anzi, ogni volta che ci si avvicina a queste riunioni, le distanze sembrano aumentare e le polemiche farsi sempre più aspre. Contemporaneamente cresce anche la consapevolezza in ambienti mainstream di andare a sbattere senza alcuna ragione contro il muro di una stupida rigidità. Qualche settimana fa una editorialista del Sole24Ore, Adriana Cerretelli, scriveva parole pesanti e inequivocabili sull’argomento: ““La Grecia, 2% del Pil dell’Eurozona e 3% del debito, non è mai stata un mostro di virtù pubbliche. Lo si sa da sempre. Come si sa che è stata salvata per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi. Come si sa che, rigore o no, non potrà ripagare i debiti. Se abbandonata al suo destino affonderà dunque nel marasma più nero. Ma … quell’atto di incoscienza collettiva ricadrà su euro e Europa. Non sarebbe meglio una sana Realpolitik. Meno costosa per tutti?”

Erano i giorni immediatamente antecedenti al vertice di Riga del 24 Aprile. Un vertice rivelatosi non solo infruttuoso – come era largamente prevedibile e previsto – ma addirittura negativo, perché in quell’occasione è partito un violento tentativo di delegittimazione di Yanis Varoufakis come capo della delegazione greca trattante. Un tentativo abilmente aggirato da Alexis Tsipras con un allargamento della delegazione e una fluidificazione di ruoli che non ha affatto tolto la fiducia al suo Ministro delle Finanze.

Le richieste della Grecia restano contenute. In sostanza puntano a guadagnare tempo per potere innescare un processo alternativo di crescita sociale ed economica. Nello stesso tempo i greci non sono mai venuti meno nel rispettare le loro scadenze con i debitori, anche a costo di promulgare decreti sul concentramento dei fondi degli enti pubblici presso la cassa centrale dello Stato. Il principio rimane quello detto da Varoufakis: “arrivare a compromessi senza essere compromessi”. Il che comporta che si può discutere anche di privatizzazioni, entro una certa misura, ma non si può retrocedere sui temi del lavoro e delle pensioni, che costituiscono il cuore sociale del programma su cui Syriza ha vinto le elezioni.

A fronte di questo i greci chiedono ciò che sarebbe loro, come quel 1,9 mld di euro che rappresentano i guadagni della Bce sui titoli greci; un’anticipazione sui 7,2 mld di euro che costituiscono l’ultima tranche del famoso programma di aiuti e l’innalzamento a 15 mld della possibilità di emettere titoli di stato a tre mesi, che potrebbero fornire un poco di fiato finanziario allo stato e al sistema economico ellenico. Su questo ultimo punto si è particolarmente irrigidito Mario Draghi, cosa apparentemente paradossale rispetto alla disponibilità di mettere sul piatto qualcosa come 1140 mld di euro fino al settembre del 2016 – con la possibilità di continuare ancora, se non basterà – per le banche europee, escluse quelle greche e cipriote (il quantitative easing appunto).

Ma come è noto attorno alla vicenda greca si gioca essenzialmente una partita politica più che economica. Se la Grecia se la cava è dimostrato in modo evidente che la strada alternativa alla austerità esiste ed è praticabile. Il che genera, per quei paesi che l’hanno praticata con fervore, evidenti problemi di credibilità verso i loro popoli. Per questo la Grecia nella trattativa in corso è sola contro gli altri 18 paesi, e quelli più scatenati sono quelli iberici che temono una vittoria delle sinistre nei loro paesi e quelli dell’est, come si conviene a dei veri e propri parvenu.

Il pericolo di un contagio economico-finanziario in caso di Grexit

Questa partita tutta politica, guidata con sapienza tattica, ma insipienza strategica da Angela Merkel, non esclude di correre rischi che potrebbero rivelarsi fatali. Non c’è solo il pericolo di un contagio politico derivante da una soluzione che veda la Grecia non sconfitta nel confronto, vi è anche quello di un contagio economico-finanziario in caso di una Grexit, cioè di un’uscita della Grecia dall’Euro e quindi dalla Ue. Per questo si affaccia una nuova tattica, in cui si alternano scientemente docce calde e docce gelate, per la quale è già nato un nuovo neologismo: “Grimbo”, ovvero tenere la Grecia in una sorta di limbo, nel quale la corda attorno al collo non viene mai mollata né stretta fino in fondo, in attesa che il governo di Tsipras sia costretto a cedere e conseguentemente a perdere il grande consenso di cui gode, magari con la prospettiva finale di un rovesciamento politico etero diretto, di un colpo di stato bianco per dirlo in termini più esatti.

Anche alla prima donna d’Europa converrebbe guardare bene le previsioni che gli analisti economici fanno in caso di una possibile Grexit. E’ vero che il sistema bancario europeo è molto meno esposto nei confronti del paese ellenico di qualche anno fa, ma lo sono gli Stati, sia in modo diretto, sia attraverso il Fondo salva stati. A loro non conviene un fallimento della Grecia e una Grexit, perché diventerebbe del tutto improbabile il recupero dei loro crediti. Vale il detto popolare: se hai un debito di mille euro con la tua banca il problema è tuo, se il debito è di milione il problema è della banca.

Tanto è vero che nei giorni immediatamente precedenti alla riunione dell’Eurogruppo dell’11 maggio, che sono gli stessi nei quali la Commissione europea ha reso noto il suo ottimistico rapporto con cui abbiamo aperto questo articolo, i mercati finanziari hanno ripreso a ballare. Le Borse tendono al ribasso, gli spread salgono. I rendimenti dei Btp e dei Bonos spagnoli puntano nuovamente verso l’alto come non accadeva dal gennaio scorso. Ma la novità più rilevante è che qualche sofferenza la evidenziano persino i potentissimi Bund tedeschi, che erano scesi a rendimenti negativi. Ora hanno cominciato a risalire. Quindi nemmeno la Germania è più vista come un porto assolutamente sicuro, dove posteggiare i capitali anche perdendoci un poco.

In sostanza l’economia finanziaria non crede alle parole della politica che ha cercato in una certa fase di sostenere la tesi della irrilevanza di un’uscita della Grecia dalla Ue e dall’Euro, come se il fatale default greco potesse essere derubricato a semplice tragedia nazionale e non coinvolgesse la credibilità dello stesso progetto di unità europea oltre al suo stato di salute economico-finanziario.

D’altro canto se si allenta anche solo per un attimo la tensione sul fronte greco, si accende subito un focolaio di un possibile grande incendio da un’altra parte. E’ quanto sta accadendo dopo la netta vittoria elettorale dei conservatori inglesi. Nessuno dimentica, soprattutto coloro che lo hanno eletto, che David Cameron aveva promesso urbi et orbi in campagna elettorale un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nella Ue da tenersi entro il 2017. Quindi vi è anche una possibile Brexit alle porte. I neologismi non mancano

Il termine quanto mai usato di “apprendista stregone” si spreca sui giornali di tutta Europa e viene riferito naturalmente ad Alexis Tsipras, il quale avrebbe irresponsabilmente suscitato speranze e bisogni che ora non riuscirebbe né a soddisfare né a dominare. D’altro canto le cancellerie di tutt’Europa vorrebbero decidere loro la politica economica interna della Grecia indipendentemente dall’esito elettorale. Invece la vera domanda che dovrebbero cominciare seriamente a porsi è se l’apprendista stregone non è invece quella politica di rigore che sta facendo implodere l’Europa dal punto di vista economico e che dal punto di vista politico sta dando la stura a populismi di ogni tipo, dall’alto e dal basso, che operano in senso apertamente disgregatore rispetto all’unità europea.

Gli sgradevoli effetti collaterali del Quantitative Easing

Il Quantitative Easing è stato certamente un intervento invocato e necessario, almeno per mettere una toppa ad una situazione che diveniva ogni giorno più drammatica. Ha rappresentato la continuazione logica e naturale di quel famoso “Whatever it takes” già pronunciato da Draghi tre anni orsono, nel momento di maggiore panico per la gravità della crisi. Una pioggia di miliardi sta inondando il sistema bancario europeo. Ma a parte il fatto che questo di per sé non garantisce che quella liquidità si trasformi in investimenti dell’economia reale, vi sono altri aspetti collaterali della iniziativa della Bce che andrebbero presi in considerazione.

Come per ogni cosa, cominciare è più facile che smettere. Il pompaggio di liquidità è previsto fino all’autunno del 2016, ma potrebbe continuare se l’inflazione non raggiungesse il 2%. Che è il target della Bce. Ma questo potrebbe creare, come già si vede, nuove bolle speculative, che andrebbero trattate con cura, per evitare che scoppino nelle mani di chi le ha create e per di più all’improvviso. Ci vorrebbe una strategia di sgonfiamento graduale. Ma se l’inflazione ripartisse e l’economia reale no, per quei motivi di fondo e strutturali cui si è fatto prima cenno, cosa potrebbe succedere? In base al suo mandato vincolato solo al tasso di inflazione la Bce dovrebbe bruscamente arrestare il proprio intervento, provocando in questo caso un shock negativo sui mercati. A differenza della Fed, che infatti ha iniziato il tapering, ovvero una graduale riduzione del pompaggio di liquidità prima ancora del probabile innalzamento dei tassi, la Bce non ha nella sua mission l’elasticità e cassetta degli attrezzi necessari per farlo. La possibilità che il celebrato QE si tramuti poi in una bolla incontrollabile è un effetto collaterale indesiderato ma tutt’altro che improbabile.

Ma vi è un altro effetto da tenere ancora di più in considerazione. L’abbassamento dei tassi di interesse trascina con sé la rivalutazione delle obbligazioni a lungo termine, delle azioni e del valore degli immobili. Soprattutto in assenza di una tassazione patrimoniale onnicomprensiva, come nel caso italiano. Il che incrementerebbe la ricchezza di quella piccola percentuale di popolazione (l’un per cento direbbero quelli di blockupy) con l’esito di una ulteriore divaricazione della forbice delle diseguaglianze reddituali e sociali.

Gli effetti si vedono già, come notano gli analisti economici, sia nel contesto generale europeo che nel caso italiano. La massa di liquidità rovesciata sul mercato induce gli operatori a liberarsi dei titoli in loro possesso fino a quel momento e a utilizzare il nuovo denaro per altri acquisti finanziari, piuttosto che prendere la strada degli investimenti nell’economia produttiva. Così l’azione della Bce gonfia il valore, come abbiamo visto, del mercato finanziario allontanandolo sempre più da quello dell’economia reale sottostante che conosce , se lo conosce, un progresso molto più lento.

Nel caso italiano questo è cominciato ad accadere ancora prima che il QE entrasse in azione: è bastato l’effetto annuncio. Il mercato azionario si è subito vivacizzato. A fine febbraio il principale indice milanese era salito del 20% dall’inizio dell’anno. L’indice Ftse-Mib aveva una valutazione assai elevata rispetto al rapporto fra i prezzi delle azioni e gli utili delle imprese. La Borsa di Milano ha battuto in questa direzione quella di Francoforte, di Parigi, di Londra e di Wall Street. In sostanza i prezzi degli attivi finanziari aumentano la loro distanza dalla realtà. Se l’economia reale sottostante non riparte, un nuovo tonfo verso il basso della crisi sarà inevitabile e di proporzioni ancora più terribili.

Le polemiche sull’incremento delle diseguaglianze

Quasi a esorcizzare questo pericolo e a contenere il successo e l’impatto sull’immaginario collettivo del famoso libro di Thomas Piketty, che più che una analisi del capitalismo del XXI secolo, è un’ottima fotografia della dilatazione delle diseguaglianze nel mondo contemporaneo, alcuni giornali economici, fra cui il Sole24Ore si sono gettati su un Dossier curato dalla Fondazione Hume, che vorrebbe dimostrare il carattere puramente immaginario, “leggendario” dice addirittura il curatore dell’articolo Luca Ricolfi, dell’aumento delle diseguaglianze su scala globale. Non siamo tornati evidentemente alla vecchia teoria dell’inizio della globalizzazione, secondo cui l’alta marea avrebbe alzato tutte le barche, ma non ne siamo molto distanti.

Ovviamente va riconosciuto che anche l’aumento delle diseguaglianze è avvenuto e avviene in modo diseguale, ovvero non dappertutto, non nella stessa misura o con la medesima velocità. Ma che siamo comunque di fronte ad una crescita complessiva della diseguaglianza a lungo termine nella Ue, non sembrano esserci dubbi, almeno stando ai dati forniti da altri autorevoli centri studi, quali il Luxemburg Income Survey (LIS). Lo osserva il Rapporto Euromemorandum 2015, secondo cui il fenomeno delle differenze di reddito all’interno dei singoli paesi e tra paesi diversi è in crescita in tutto il mondo: “in particolare in Europa si rischia di ritornare sugli elevatissimi livelli di diseguaglianza di due secoli fa”! La Banca dati del LIS contiene dati di lungo periodo sulla diseguaglianza di reddito in 21 Ue negli ultimi venti/trenta anni. Se si eccettuano tre paesi di piccole dimensioni, dove i valori della diseguaglianza erano già molto alti e quindi è comprensibile una certa diminuzione, e la Danimarca e la Svezia, dove al contrario tali valori erano già bassi, la diseguaglianza è cresciuta sotto diversi aspetti in tutti gli altri, i più popolosi. Qui è diminuita grandemente, e da lungo tempo, la quota nazionale del reddito destinata al lavoro e contemporaneamente la distribuzione dei salari è diventata molto più differenziata. In questo campo, come in altri, si è ulteriormente divaricata la condizione di genere, al punto da meritare un puntuale intervento di papa Francesco, ovviamente riverito ma inascoltato.

Come mai allora i dati riportati dal Sole 24 Ore dipingono un quadro diverso? Come osservano tre studiosi come Elena Granaglia, Maurizio Franzini e Michele Raitano (Eticaeconomia Menabò online) malgrado l’eterogeneità dei dati non si può disconoscere una “tendenza generalizzata alla crescita delle diseguaglianze”. Nel ragionamento di Ricolfi, oltre alla evidente ansia di tranquillizzare rispetto alle sorti non più né magnifiche né progressive della globalizzazione capitalistica, vi sono errori metodologici non infrequenti anche tra i migliori analisti. Il pensiero corre immediatamente all’ormai infaustamente celebre errore sull’uso del programma excel di Microsoft compiuto da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff.

Per la verità qui non siamo in un caso così banale. Il problema è che la misura principalmente utilizzata da Ricolfi per dimostrare la tendenza alla diminuzione delle diseguaglianze è l’indice di Gini, che però è una misura sintetica non sufficiente per comprendere proprio quello che accade nei segmenti estremi della distribuzione dei redditi e della ricchezza. Semplificando un poco, sarebbe dunque la stessa polarizzazione delle diseguaglianze a renderne difficile la lettura corretta utilizzando quella classica strumentazione inventata dal grande statistico italiano.

Inoltre l’editorialista del Sole24Ore sottovaluta l’importanza che nella misurazione delle diseguaglianze hanno assunto le diversità nei redditi da lavoro. Come sappiamo anche empiricamente, se venti/trenta anni fa la differenza tra un manager e un suo dipendente poteva arrivare a 40/50 volte la misura dei rispettivi stipendi, oggi si colloca tranquillamente sulle 400/500. Il peso dei super redditi da lavoro è enormemente aumentato. Si è formata, per usare un termine caro a David Rothkopf, una superclass, una elite mondiale di manager responsabili quanto e più dei proprietari dei mezzi di produzione dell’andamento del capitalismo mondiale. Branco Milanovic della Banca mondiale, famoso studioso della diseguaglianza, ha riconosciuto che nel 2008 l’indice di Gini della diseguaglianza globale sembrava essere diminuito di due punti rispetto al precedente ventennio. Ma se invece si stima correttamente anche il peso dei super ricchi tale indice non mostra alcuna diminuzione.

Infine gli autori dell’articolo su Eticaeconomia si soffermano sui periodi storici presi in considerazione. Ricolfi accusa addirittura Atkinson (nel suo recentissimo Inequality: What Can be Done, Harvard University Press, 2015) di scegliersi un periodo di comodo con cui confrontare la diseguaglianza attuale. Cioè gli anni ’80, quando la diseguaglianza era a un punto minimo. Ricolfi contrappone a quegli anni il periodo 1960-1972, dove invece questa era a un punto massimo. Si potrebbe perciò dire che entrambi sono accusabili di cherrypicking, come dicono gli anglosassoni, ovvero di scegliersi come le ciliegie il periodo più comodo per dimostrare i propri assunti. In realtà il procedimento di Atkinson appare più che corretto poiché sceglie proprio un periodo di faglia, nel quale il ciclo economico si inverte.

Reazioni e debolezze degli USA di fronte alla loro perdita di egemonia mondiale

Insomma gli imbellettatori del processo di globalizzazione devono rivolgere i loro sforzi altrove. Questa, aggravata dalla crisi, ci consegna un mondo più diseguale e la nostra Europa non fa eccezione, anzi ne è la conferma. Ma non è solo crisi. Sullo sfondo avviene un cambiamento epocale nell’organizzazione del capitalismo mondiale. Come in altre epoche storiche chiave, di cui ci hanno ampiamente parlato gli studi di un Braudel, di un Wallerstein, di un Arrighi, siamo di fronte ad un nuovo processo di transizione egemonica mondiale. Da Ovest ad Est. Il secolo americano è finito o è agli sgoccioli, solo che la leadership americana non si rassegna a questo cambiamento storicamente inevitabile. Il centro economico e produttivo si sta rapidamente spostando a Est. Verso la Cina, principalmente, anche se la crescita dell’India non scherza. Lo si vede anche nei rapporti di forza tra le monete. Scende quella del dollaro su scala internazionale, a riprova che la forza di una moneta non deriva solo e tanto dall’intrinseco valore economico che essa rappresenta, quanto dalla forza complessiva del paese che la emana e la sostiene.

Moises Naim, giornalista di fama mondiale ex caporedattore della autorevole Foreign Policy, si interroga se gli Stati Uniti continueranno a essere, malgrado tutto, il paese più potente del mondo. In fondo la Cina ha sì tassi di crescita invidiabili, ammodernamento industriale molto veloce ed efficace, riserve di valuta straniera incommensurabili, ma il reddito procapite, tenuto conto della sua sterminata popolazione, in gran parte abitante le zone interne arretrate, è equivalente a quello del Perù.

Sicuramente la preminenza della forza militare degli Stati Uniti d’America non può essere messa in discussione da nessuno. Per ora. La stessa Cina, però, non si limita ad acquistare solo industrie – come si vede anche in Europa e nel nostro paese – terra, soprattutto in Africa, infrastrutture e debiti stranieri, non a caso la Cina è assai interessata al porto del Pireo. Ma ha sviluppato enormemente gli investimenti in armamenti per cercare di colmare nel più breve tempo possibile l’handicap che la separa dalle grandi potenze in questo campo.

Non è affatto un buon segnale per la causa della pace, che avrebbe bisogno di trovare nuovo vigore dopo le grandi lotte negli anni Zero del nuovo secolo. Ma soprattutto ingenera preoccupazione sia sul versante orientale che su quello occidentale del pianeta, spingendo verso l’alto la corsa al riarmo da parte di tutti i paesi che se lo possono permettere. La conseguenza è che il mercato oggi globalmente più in espansione è quello degli armamenti. La Cina ne è protagonista. Qualche cosa si è visto nella sfilata del 9 maggio a Mosca per celebrare la fine della Seconda Guerra Mondiale (“La grande guerra patriottica”, come l’hanno sempre chiamata i russi), quando per la prima volta soldati dell’armata popolare di Pechino hanno sfilato sulla piazza Rossa a Mosca, per ribadire che vi fu anche un rilevante contributo asiatico nella sconfitta del nazifascismo. Vedremo cosa il governo cinese deciderà di mostrare al mondo il prossimo 3 settembre, quando la sfilata militare si terrà a Pechino per ricordare la vittoria sul Giappone.

Il Fmi e la Banca asiatica degli investimenti infrastrutturali (Baii)

Tuttavia Naim pare più preoccupato dalle divisioni politiche interne agli Usa che indebolirebbero l’eventuale possibilità della ripresa di un loro ruolo egemonico su scala mondiale. E’ il caso dell’impasse nel quale si troverebbe il Fondo monetario internazionale. I tentativi di migliorarlo – dopo le pesanti critiche fiondate da più parti al suo operato - non hanno avuto successo. Obama aveva anche proposto di accrescere il ruolo della Cina al suo interno. Per quanto la misura prevista fosse già del tutto insufficiente per tenere nel dovuto conto l’accresciuta forza economica del grande paese asiatico, il Congresso Usa non è riuscito in cinque anni ad approvare quella proposta. La Cina si è dunque mossa per conto suo, dando vita alla Banca asiatica degli investimenti infrastrutturali (Baii), cui hanno aderito, malgrado la dissuasione messa in atto dagli Usa, paesi come l’Australia e diversi paesi europei, fra cui il Regno Unito, la Germania, la Francia e l’ Italia. La Cina ha ammesso tra i 57 paesi componenti la Baii, ove compaiono anche molti paesi poveri, anche la Norvegia, un po’ a sorpresa vista l’ostilità verso questo paese dopo l’assegnazione nel 2010 del premio Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo. Ma evidentemente anche in Oriente pecunia non olet.

Molti commentatori politici ed economici hanno considerato addirittura una follia il rifiuto degli Usa a farne parte, poiché secondo questi critici la battaglia per l’egemonia andrebbe combattuta all’interno delle varie istituzioni che si formano a livello internazionale, specialmente quando queste mostrano comunque una considerevole capacità di attrattiva.

Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip)

Ma la leadership statunitense è tutta concentrata su altre imprese. Tra queste spicca il Ttip. La sigla è un acronimo inglese che tradotto significa Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti. Se ne parla da molto e le trattative fra Usa e Ue restano segrete. Perfino la consultazione del materiale di supporto può avvenire solo a certe condizioni che risultano essere complicate o addirittura ostative anche per gli stessi parlamentari europei. Naturalmente ogni tanto la coltre di segretezza viene bucata da abili hackers. Ma la privazione di trasparenza rimane.

Eppure si tratta di una questione di grande rilevanza – di cui la nostra rivista si è già occupata (Monica Di Sisto, in Alternative per il Socialismo n.33) - tale da condizionare l’economia e la società non solo del nostro paese ma di tutta Europa. La propaganda lo presenta come un passo in avanti nel libero commercio tra le due sponde dell’Atlantico, grazie all’abbattimento di dazi e dogane. La realtà è assai diversa. Ma per comprenderla appieno bisogna partire da qualche premessa basata su alcuni dati, scelti a scopo esemplificativo. Concentriamoci sull’Italia. Il nostro paese è da tempo pienamente inserito nei flussi della globalizzazione mondiale. E’ un punto di incontro delle filiere della produzione del valore globali. L’Istat ci dice che nel 2011 in Italia agivano 13.527 affiliate di multinazionali controllate dall’estero. Queste imprese realizzano un fatturato pari a oltre il 16% di quello complessivo del territorio nazionale. La loro attività è prevalente nel campo dei servizi, ma anche l’industria ne è interessata. Tra i paesi controllanti al primo posto ci sono gli Stati Uniti, cui seguono la Francia e la Germania. Viceversa la stessa Istat riferisce che sono 21.682 le affiliate di multinazionali italiane insediate all’estero, anche qui prevalentemente nei settori dei servizi.

L’integrazione produttiva e commerciale del nostro paese e quindi già un dato di fatto ed è avvenuta senza bisogno del Ttip, su cui tuttora si sta trattando. Da dove deriva allora e perché l’insistenza su questo Trattato? Il motivo sta altrove rispetto al libero scambio, con buona pace dei liberisti, ed anche rispetto all’impatto economico che potrà avere sulle due sponde dell’Atlantico. Come ha osservato Marcello de Cecco (Affari e Finanza, 24 nov. 2014) : “La prospettata unione euroamericana, infatti, farebbe aumentare assai poco sia il commercio totale che specialmente il Pil delle parti contraenti, e quel poco solo nel lungo periodo. Questo a detta persino degli studi di parte condotti per promuovere l’iniziativa.”

Il cuore del trattato non sta dunque nel fatto che una volta approvato, ad esempio, si potranno vendere sul mercato europeo i polli americani disinfettati con il cloro, ma nel nuovo sistema di governance che attraverso questo si vorrebbe imporre a livello globale, in particolare da parte degli Stati Uniti e nell’interesse delle grandi multinazionali. Ha sempre ragione De Cecco quando annota che “a spingere per la realizzazione del nuovo partner iato sono le associazioni industriali europee che vedono in esso un cavallo di Troia contro gli eccessi di regolamentazione degli stati nazionali”. Bisognerebbe dire, in verità, di ciò che resta degli stati nazionali.

La logica delle imprese vuole prevalere sui diritti degli Stati e dei cittadini

Infatti il Trattato prevede l’introduzione di organismi tecnici tali da svuotare di democrazia ogni processo decisionale e ogni residuo di sovranità sulle politiche economiche. Il primo consiste in un meccanismo di protezione degli investimenti (Isds secondo l’acronimo inglese), in base al quale le imprese possono citare in giudizio gli Stati qualora questi decidessero, secondo procedure democratiche, di adottare misure considerate nocive agli interessi delle multinazionali stesse. Ma non sarebbero i tribunali ordinari la sede del giudizio, bensì consessi riservati di avvocati commercialisti super specializzati, che giudicherebbero sulla base delle norme del Trattato se uno Stato ha creato un danno ad un’impresa, magari allo scopo di difendere la salute e l’ambiente (pensiamo ad esempio al caso Ilva). In questo caso quel consesso potrebbe pretendere che quello Stato o quell’Ente Locale ritiri il provvedimento e sia costretto a indennizzare l’impresa del presunto svantaggio economico arrecato. Il principio del profitto e del commercio la avrebbero vinta su quello di una giustizia basata sulla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini tutelati costituzionalmente.

Inoltre la bozza di Trattato prevede anche la creazione di un altro organismo (Regulatory Cooperation Council) composto da esperti nominati dalla Commissione Ue e dal ministero Usa competente, con il compito di valutare l’impatto commerciale di ogni etichetta, di ogni marchio ma anche di ogni contratto di lavoro a livello nazionale o europeo, al fine di stabilirne la congruità con un rapporto fra costi/benefici che sia vantaggioso per l’impresa. Anche qui il diritto del lavoro avrebbe la peggio rispetto al diritto commerciale, malgrado i nostri principi costituzionali assai espliciti su questo aspetto. In questo modo, sempre citando Marcello De Cecco, si realizzerebbe una modifica tanto radicale quanto regressiva del diritto internazionale, tale da cancellare “quasi due millenni di tradizione giuridica europea”.

Il Parlamento europeo, come al solito, può poco al riguardo. Dopo avere votato nel 2013 il mandato esclusivo di negoziare alla Commissione europea (che non è un organo elettivo ma scelto dai vari governi), può porre solamente dei quesiti circostanziati, cui la Commissione risponde nel rispetto della cosiddetta riservatezza obbligatoria tipica delle trattative bilaterali. Poi ci sarà un voto finale, ma senza possibilità di emendare nessuna parte del Trattato che dovrà essere accettato integralmente, senza modifica alcuna, o respinto in toto.

Per tutte queste ragioni, ha preso corpo da tempo una mobilitazione a livello europeo che coinvolge cittadini e organizzazioni. In Italia la Campagna Stop Ttip (www.stop-ttip-italia.net) raccoglie oltre 60 tra associazioni, sindacati, enti pubblici, comunità di cittadini. L’obiettivo è quello di fermare il Trattato prima che giunga alla fase finale non più modificabile, imponendo a livello italiano e europeo una nuova riflessione sulle politiche economiche e commerciali utili a uscire dalla crisi senza affossare le condizioni di vita delle persone e la democrazia. Il “diritto ad avere diritti”, per usare la celebre espressione di Hannah Arendt non deve e non può essere cancellato da nessuna logica di impresa o lex mercatoria.

Il manifesto, 27 maggio 2015

Il nodo è arri­vato al pet­tine. Entro la set­ti­mana pros­sima deve essere fir­mato l’accordo tra Atene e i cre­di­tori, altri­menti la Gre­cia non sarà in grado di pagare le rate del pre­stito del Fmi per­ché le sue casse sono vuote. Ieri sera il vice-ministro delle finanze Dimi­tris Mar­das ha dato un ordine ben pre­ciso: il tra­sfe­ri­mento d’urgenza di tutti i fondi del set­tore pub­blico che non pre­sen­tano un movi­mento negli ultimi 5 anni o che non hanno un saldo sotto ai 100 euro alla Banca cen­trale di Gre­cia. La scelta del pre­mier Tsi­pras è chiara: «prima gli uomini e poi il debito».

«Le pro­po­ste gre­che ai part­ner euro­pei e soprat­tutto al Fmi sono basate sul diritto inter­na­zio­nale» ha sot­to­li­neato il pre­si­dente della repub­blica elle­nica Pavlo­pou­los, pro­fes­sore di diritto all’Università di Atene.

Che ci fos­sero dei pro­blemi di liqui­dità il governo Syriza-Anel non l’ha mai nasco­sto, ben­ché abbia rispet­tato sem­pre gli impe­gni, pur senza chie­dere un euro ai cre­di­tori. Ma ora, come ha spie­gato lunedì il mini­stro degli interni Vou­tsis, manca il denaro per le quat­tro rate per il Fmi (1,6 miliardi). Stesso mes­sag­gio ma con un tono otti­mi­sta, è arri­vato da Varou­fa­kis: «La Gre­cia pagherà la rata da 312 milioni dovuta al Fmi, per­ché per allora sarà rag­giunto l’accordo con i creditori».

«Paghe­remo i nostri impe­gni come meglio potremo» aveva detto il giorno prima Sakel­la­ri­dis. Il pro­blema però è pro­prio l’accordo: ci sarà entro la set­ti­mana pros­sima? Varou­fa­kis, e insieme a lui il pre­mier Tsi­pras cre­dono di sì. E la domanda che si pone è sem­plice: nel caso Atene non abbia la pos­si­bi­lità di pagare que­ste poche cen­ti­naia di milioni di euro, alla fine della set­ti­mana pros­sima ci sarà un default con la chiu­sura delle ban­che e il governo costretto ad appli­care con­trolli sui capi­tali come era avve­nuto a Cipro nel marzo del 2013?

Ci sarà un «Gre­xit» come sostiene la mag­gio­ranza della stampa inter­na­zio­nale con effetti domino in tutta l’ euro­zona? Oppure come affer­mano alcuni ana­li­sti, il Fondo «chiu­derà un occhio» dando una pro­roga di un mese ad Atene per ver­sare i suoi debiti, dopo­di­ché –nel caso che Atene non dovesse pagare — ci sarà un fal­li­mento totale? In que­sto ambito, secondo alcuni media locali, non è da esclu­dere un inter­vento da parte di Washing­ton al Fmi per «aiu­tare la Gre­cia a pagare i suoi debiti».

A sen­tire Varou­fa­kis, «l’uscita della Gre­cia dalla moneta unica sarebbe l’inizio della fine per il pro­getto dell’euro». Varou­fa­kis, inol­tre, ha chia­rito che dopo le sue rea­zioni è stata riti­rata in parte la pro­po­sta per una tassa sui pre­lievi ai ban­co­mat, i tra­sfe­ri­menti di denaro via e-banking e uno scudo fiscale per far rien­trare i capi­tali depo­si­tati ille­gal­mente all’estero con un’imposta del 15%. L’imposta sull’e-banking è con­tra­ria alla poli­tica del mini­stero greco che vor­rebbe sfa­vo­rire l’utilizzo del con­tante per com­bat­tere l’evasione fiscale. In Gre­cia tutti i dipen­denti pub­blici e pri­vati, oltre ai pen­sio­nati, vale a dire più di due terzi della popo­la­zione, pagano le tasse nor­mal­mente, per­ché c’è la trat­te­nuta alla fonte.

Le altre cate­go­rie, invece, ovvero liberi pro­fes­sio­ni­sti (innan­zi­tutto medici, avvo­cati, idrau­lici, elet­tri­ci­sti, tec­nici, ecc.) e impren­di­tori di solito eva­dono, lasciando un buco nero dai 5 ai 20 mili­radi di euro l’anno.

A pre­scin­dere se Atene e cre­di­tori si pos­sano con­si­de­rare vicini alle bat­tute finali per un’intesa, sul tavolo restano ancora l’Iva, le pen­sioni e il mer­cato di lavoro, men­tre la spina della ristrut­tu­ra­zione del debito non è stata nem­meno toc­cata– non man­cano le voci secondo le quali la dichia­rata impos­si­bi­lità di rim­bor­sare il debito al Fmi non cor­ri­sponde alla realtà, ed è «una tec­nica nego­ziale da parte di Tsi­pras per ricat­tare i suoi cre­di­tori» da una parte, per cal­mare quelle voci all’interno di Syriza che vor­reb­bero una rot­tura dei rap­porti con i part­ner euro­pei dall’altra. «Stiamo lavo­rando giorno e notte per un’intesa, c’è il rischio di insol­venza e tanti rischi ad esso col­le­gati» ha detto al quo­ti­diano tede­sco Bild il diret­tore del fondo salva-Stati euro­peo (Esm), Klaus Regling.

Intanto ieri ha comin­ciato i suoi lavori la com­mis­sione d’inchiesta par­la­men­tare for­mata per esa­mi­nare sotto quali con­di­zioni eco­no­mi­che e per quali motivi i governo pre­ce­denti hanno fir­mato i due memo­ran­dum che hanno pro­vo­cato que­sta crisi uma­ni­ta­ria nel paese. Tra i testi­moni che sono stati pro­po­sti dai par­titi dell’opposizione sono l’ex diret­tore del Fmi, Domi­ni­que Strauss-Kahn, l’attuale Chri­stine Lagarde, il già pre­si­dente della Bce, Jean-Claude Tri­chet, Mario Dra­ghi, il pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea, Jean Claude Junc­ker, i rap­pre­sen­tanti dell’ ex troika ad Atene.

«Libia, le rivelazioni di Wikileaks sui piani di attacco dell'Europa. Una missione militare a tutti gli effetti e non un'operazione di polizia per salvare migranti, come invece raccontano i ministri Alfano e Gentiloni».

Il manifesto, 27 maggio 2015

Se ci fosse stato biso­gno di una con­ferma che di guerra si tratta per il docu­mento stra­te­gico di 19 pagine pre­sen­tato da Moghe­rini all’Onu nem­meno due set­ti­mane fa su «Libia, migranti e sca­fi­sti», ecco la rive­la­zione di Wiki­leaks — anti­ci­pata dall’Espresso — che rende noti due pro­to­colli riser­vati della Ue sull’operazione. È una mis­sione mili­tare in Libia a tutti gli effetti e non un’operazione di poli­zia per sal­vare migranti, come invece rac­con­tano i mini­stri Alfano e Gen­ti­loni. La Ue con la sua flotta navale unita — final­mente l’Unione — com­menta Wiki­leaks «schie­rerà la forza mili­tare con­tro infra­strut­ture civili in Libia per fer­mare il flusso di migranti. Dati i pas­sati attac­chi in Libia da parte di varie paesi euro­pei della Nato e date le pro­vate riserve di petro­lio della Libia, il piano può por­tare ad altro impe­gno mili­tare in Libia».

Pro­prio men­tre la Com­mis­sione Ue rivede al ribasso il «piano Junc­ker» per le quote dei migranti che quasi tutti i paesi euro­pei rifiu­tano; e men­tre al Cairo fal­li­scono gli enne­simi incon­tri tri­bali per avere in Libia un accordo di governo — utile solo ad appro­vare la nostra impresa bel­lica. La nuova guerra durerà un anno e comun­que tutto il tempo neces­sa­rio a «fer­mare il flusso migra­to­rio». All’infinito dun­que, visto che la dispe­ra­zione di chi fugge da guerre (spesso nostre) e mise­ria (spesso pro­vo­cata da noi) è inarrestabile.

Per que­sto «l’uso della forza deve essere ammesso, spe­cial­mente durante le atti­vità come l’imbarco, e quando si opera sulla terra o in pros­si­mità di coste non sicure o nell’interazione con imbar­ca­zioni non adatte alla navi­ga­zione». Quindi ci sono le ope­ra­zioni a terra, come scri­veva The Guar­dian. E per «la pre­senza di forze ostili, come estre­mi­sti o ter­ro­ri­sti come lo Stato Isla­mico», la mis­sione «richie­derà regole di ingag­gio robu­ste e rico­no­sciute per l’uso della forza».

Ma la vera novità è l’invito espli­cito dei mini­stri della difesa Ue: «Per l’operazione mili­tare sarà fon­da­men­tale il con­trollo delle infor­ma­zioni che cir­co­lano sui media». Per­ché il Comi­tato Mili­tare dell’Ue «cono­sce il rischio che ne può deri­vare alla repu­ta­zione dell’Unione Euro­pea… qual­siasi tra­sgres­sione per­ce­pita dall’opinione pub­blica in seguito alla cat­tiva com­pren­sione dei com­piti e degli obiet­tivi, o il poten­ziale impatto nega­tivo nel caso in cui la per­dita di vite umane fosse attri­buita, cor­ret­ta­mente o scor­ret­ta­mente, all’azione o all’inazione della mis­sione euro­pea. Quindi il Con­si­glio Mili­tare dell’Unione Euro­pea con­si­dera essen­ziale fin dall’inizio una stra­te­gia media­tica per enfa­tiz­zare gli scopi dell’operazione e per faci­li­tare la gestione delle aspet­ta­tive. Ope­ra­zioni di infor­ma­zione mili­tare dovreb­bero essere parte inte­grante di que­sta mis­sione europea».

Avete capito bene: ci saranno tante vit­time inno­centi, vale a dire i migranti, desti­nati alle fosse del Medi­ter­ra­neo e sot­to­po­sti sem­pre più ad arre­sti e vio­lenze in Libia. E ser­vi­ranno infor­ma­zioni «mirate» dai ver­tici mili­tari e un gior­na­li­smo veli­naro e/o embed­ded con «robu­ste regole d’ingaggio».

La Repubblica, 27 maggio 2015

SICERCAd i capire meglio che cosa è Podemos, il “post-partito” (non so se sia la definizione giusta) che ha ribaltato il panorama politico spagnolo. Se ne colgono la fortissima spinta anti-establishment (in Italia si usa dire: anti-casta) e il culto della democrazia diretta, che chiama i cittadini a una sorta di autogestione, sulla falsariga dei nostri Cinque Stelle. Si prende atto che Podemos si definisce post-ideologico e rifiuta in toto il vecchio bipolarismo destra/sinistra; tentazione molto diffusa non solamente in Spagna.

Ma la situazione si complica, e non di poco, quando si legge chi sono i pensatori di riferimento di Podemos: Antonio Gramsci, Pier Paolo Pasolini, Altiero Spinelli, Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Ce ne fosse mezzo che è di destra. Ce ne fosse mezzo che non è di sinistra.

Quasi tutti i nuovi movimenti “di cittadini” sono antiliberisti, spesso con venature decisamente anticapitaliste, hanno una certa impronta neo-socialista, sono per un Welfare più esteso, per il salario di cittadinanza, per un drastico allargamento del potere decisionale. Ma con pochissime eccezioni (una è Tsipras) hanno una vera e propria fobia per la parola “sinistra”. Che deve suonargli decrepita, compromessa, consunta. Sta di fatto che la loro politica, sia pure in forme inedite, profuma (o puzza, a seconda dei punti di vista) di sinistra in modo inconfondibile. Ci si chiede quando e come accadrà che la parola “sinistra” sia nuovamente utilizzabile per indicare la sinistra.
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