Senza parole. «Il quotidiano inglese rivela che alcuni paesi europei, tra cui Inghilterra e Italia, starebbero trattando con il regime dell'Eritrea (una delle dittature più spietate del mondo) perché impedisca la partenza dei suoi cittadini rinforzando i controlli alle frontiere».
Il manifesto, 16 giugno 2015
Non ha ancora un nome, piano C o piano D, il presunto accordo segreto tra alcuni stati europei e l’Eritrea rivelato ieri dal quotidiano inglese The Guardian. Di sicuro, se confermato, sarebbe un piano concordato con uno stato che i funzionari delle Nazioni Unite e diverse organizzazioni per i diritti umani chiamano “la Corea del Nord dell’Africa”, tanto per dare l’idea del rispetto dei diritti umani in un regime repressivo e sanguinario come quello del presidente Isaias Afwerki. Secondo il quotidiano inglese, che spesso rivela notizie scomode per i governi europei che stanno annaspando di fronte alla cosiddetta “emergenza” immigrazione — come quando ha reso pubblico un documento in cui si parlava di operazioni di terra in Libia per distruggere le barche degli scafisti — alcuni paesi avrebbero avviato delle trattative segrete per convincere il regime eritreo a rinforzare i controlli alle frontiere. L’obiettivo prefigura un disastro umanitario: blindare i confini per impedire con la forza la fuga dei cittadini eritrei verso l’Europa. Ci sarebbe anche un premio: in cambio arriverebbero soldi oppure un ammorbidimento delle sanzioni.
Per questo motivo è già finito nel mirino il segretario di stato norvegese Joran Kellmyr che si sarebbe recato in Eritrea per concordare l’ipotesi di poter rispedire indietro i profughi eritrei, facendo carta straccia del diritto di asilo. La rivelazione per ora avrebbe coinvolto anche altri due governi europei: quello inglese (il ministero degli Interni di sua Maestà non ha voluto commentare) e quello presieduto dalla coppia Renzi-Alfano (anche a Roma tutto tace). Secondo l’articolo pubblicato ieri, infatti, anche funzionari italiani e britannici avrebbero viaggiato fino ad Asmara per testare la disponibilità del regime eritreo a collaborare per braccare i migranti sui confini. Una rivelazione piuttosto verosimile visto che nel 2014 il 22% delle persone arrivate in Italia via mare proveniva proprio dall’Eritrea.
Gli eritrei, dopo i siriani, sono i migranti più numerosi che cercano fortuna sfidando la morte sulle rive del Mediterraneo per entrare in Europa (circa duecento al giorno lasciano l’Eritrea). Proprio la settimana scorsa alle Nazioni Unite è stato pubblicato un rapporto molto esplicito sulla “cultura del terrore” che domina in Eritrea, si parla di arresti sommari, stupri e torture sistematici, un servizio militare che viene equiparato alla schiavitù, persecuzioni politiche ed esecuzioni sommarie. Nonostante questa situazione, Norvegia e Inghilterra nel corso del 2015 hanno già rifiutato molte domande di asilo politico di cittadini eritrei sostenendo che si trattava di migranti per motivi economici (il tasso di rifiuto è passato dal 13% del 2014 al 23% dei primi sei mesi del 2015). “E’ evidente — ha dichiarato un funzionario dell’Onu – che in Europa c’è una volontà politica di risolvere la crisi dei migranti chiedendo la chiusura dei confini dell’Eritrea ed è una tattica molto pericolosa”. C’è addirittura chi teme che il regime possa sparare ai migranti in fuga.
Secondo un funzionario inglese del ministero degli Interni non ci sarebbero piani immediati per cambiare politica nei confronti dell’Eritrea. E, comunque, “noi prenderemo in considerazione con attenzione i risultati del rapporto delle Nazioni Unite”. Speriamo che Matteo Renzi e Angelino Alfano, nel caso, facciano altrettanto.
Se dopo le elezioni regionali erano suonati i campanelli d’allarme, dopo il voto comunale si sono messe all’opera proprio tutte le campane. Innanzitutto per Renzi e per il suo partito, che adesso non prova neppure a minimizzare e parla apertamente di «una sconfitta».
L’altro elemento rilevante del voto è l’errore di sottovalutare l’avversario dandolo per sconfitto in partenza o considerandolo facilmente battibile. Come sempre, come fin dall’esordio del berlusconismo, a destra non trova casa il virus del tafazzismo, tipica patologia della sinistra, e quando è il momento le divisioni si annullano e il cartello si mostra compatto.
Il tafazzismo, invece, ha contagiato il Movimento dei 5Stelle, conquistato dal tanto peggio tanto meglio. Nella speranza di raccogliere i frutti che gli avversari (tutto il Parlamento) non sono in grado di riprendere. Ma questo riguarda il futuro. Qui e ora va detto che se il M5S strappa qualche importante comune segnando un’altra tappa del suo radicamento, resta che il Movimento soprattutto si distingue per fare da spalla al centro-destra. Come dimostra in pieno il caso Venezia.
Non votare Casson significa non sostenere un personaggio - un magistrato - e una politica - onestà e mani pulite - che rientra perfettamente nella cultura pentastellata. Se le scelte avvenute alle regionali erano oltremodo legittime - un’organizzazione che raccoglie un consenso ampio, deve essere ambiziosa - quella di non partecipare al ballottaggio veneziano è distruttiva e autodistruttiva.
Ma chi deve preoccuparsi più di tutti è il premier/segretario. Dopo questo importante voto amministrativo Renzi dovrebbe prestare meno attenzione alla grancassa mediatica che gli suona la serenata e avere maggior cura alla realtà del paese per quella che è. Se il Pd perde sia con un candidato di sinistra che con uno di destra, vuol dire che lo sfondamento al centro è una chimera e la riconquista di un consenso a sinistra un’illusione. Anche perché l’unico dato nazionale incontrovertibile, indiscutibile e apparentemente anche invincibile resta l’astensionismo. Che colpisce tutti, politica e antipolitica, destra e sinistra.
La fuga dalle urne e l’emorragia di voti del Pd smentiscono le magnifiche sorti delle furbizie costituzionali (l’Italicum) e delle scorciatoie liberiste (jobs act). Del resto la tragedia delle migrazioni, che attraversa i nostri territori mettendo in forse persino la frontiera dell’umana solidarietà, è testimonianza sufficiente per consigliare di tornare con i piedi per terra.
La storia si ripete: Felice Casson affonda un’altra volta nel ballottaggio. E se nel 2005 era un «derby» con la filosofia amministrativa di Massimo Cacciari targato Margherita, domenica la sconfitta dell’intero centrosinistra ha spalancato le porte di Ca’ Farsetti a Luigi Brugnaro, alla Lega Nord, al “civismo” di Francesca Zaccariotto e ai rigurgiti di fascismo.
L’ex pm e senatore Pd “dissonante” è stato condannato dalle urne la seconda volta senza appello. Una notte da incubo, fin dai primissimi risultati. Un verdetto che brucia ogni certezza e squaderna l’abisso. Con Casson che va k.o. dieci anni dopo, s’inabissano la «ditta» d’altri tempi, l’eredità rossoverde e perfino il popolo della sinistra. Nel deserto di Zaialand ci si può a mala pena arroccare nei municipi periferici (Treviso, Vicenza, Belluno), perché l’«effetto Bitonci» è dilagato da Padova a Rovigo mentre la «catastrofe Moretti» ha travolto anche Venezia.
Il risultato del ballottaggio è impietoso. Lo scarto finale è 6.567 voti, cifra che non ammette repliche. Solo la marcia trionfale di Brugnaro (il figlio del poeta-operaio, che ora è paròn di Umana, della Reyer, della Misericordia e della città…) dal quartier generale in Calle del Sale fino alla stanza dei bottoni sul Canal Grande. E il silenzio di Casson che via Twitter ringrazia i sostenitori e si eclissa.
È davvero l’ammainabandiera di Venezia “rossa” con Giovanni Battista Gianquinto, poi “riformista” con Gianni Pellicani e “democratica” con Cacciari, Paolo Costa e Giorgio Orsoni. È una svolta davvero storica, perché bisogna risalire al 1990–93 per ritrovare un sindaco diverso: Ugo Bergamo, notabile Dc, non a caso riemerso fra i supporter di Brugnaro.
In due settimane, laguna e terraferma hanno maturato il drastico cambio di scenario, non solo politico. Brugnaro ha convinto perfino sestrieri come Castello, “roccaforti” come Marghera e l’intero Lido. E con il 10% in meno di votanti rispetto al primo turno, la coalizione di centrodestra si è paradossalmente imposta senza nemmeno fare il pieno dei propri consensi. Brugnaro ha chiuso con 54.405 preferenze contro le 47.838 di Casson. Ma sulla carta gli apparentamenti avrebbero dovuto sommare ai 34.790 voti fucsia, i 14.482 della Lega e gli 8.292 della Civica Zaccariotto per un totale di 57.564.
Al contrario, lo schieramento Civica Casson, Pd, Verdi, Sel, Socialisti e Cd partiva dai 46.298 voti del primo turno. Ma è lampante che quei 1.540 elettori in più di domenica non hanno compensato gli astensionisti incalliti e nemmeno i «traditori» nel segreto dell’urna. I primi incarnano forse l’effetto Mose, ma anche la disillusione nei confronti del Pd nazionale e lagunare. Ma gli altri rivelano il bizantinismo business oriented di lobby, salotti e mandarini che fin dalle Primarie hanno messo sabbia nel motore di Casson.
Non è un mistero per nessuno che a Venezia (e nel Veneto) il «sistema Galan»contasse sulla concertazione formato Consorzio Venezia Nuova. Da almeno un anno erano al lavoro, su opposte sponde, i vecchi “referenti” dei nuovi equilibri. Hanno sbaragliato il campo e si preparano ad un lustro all’insegna della sintonia fra il governatore post-leghista Luca Zaia e il sindaco post-berlusconiano Brugnaro. Forse, non è un caso che i rispettivi “partiti elettorali” abbiano monopolizzato i consensi tanto alle Regionali come alle Comunali…
Venezia, poi, riassume la più devastante deriva demokrac. Il partito collassato ben prima e peggio di Ale Moretti e Casson. L’eredità europea dissipata ad ogni angolo del Nord Est (sintomatico Portogruaro, dove Maria Teresa Senatore umilia il designato Pd che aveva 17 punti di vantaggio). E la deriva impazzita dei sindaci anti-migranti, sceriffi e decisionisti che riduce a simulacro iscritti, circoli e dirigenti.
«Il Pd a Venezia ha raccolto quel che ha seminato» sintetizza Tommaso Cacciari, attivista del laboratorio Morion e del Comitato No Grandi Navi. Tant’è che in terraferma, nel centro storico e nelle isole nessuno punta l’indice su Casson e tutti preferiscono aprire la caccia ai «battitori liberi» targati Pd. Sussurri e grida su vendette personalizzate, indicazioni eretiche alla guardia imperiale dell’ex Pci, addirittura voti di scambio nel ballottaggio di project, appalti e cantieri.
Intanto, a Venezia si riparte dalle municipalità (5 di centrosinistra, solo Favaro con Brugnaro). E dalle 883 preferenze di Nicola Pellicani, sconfitto alle Primarie da Casson e poi capolista della sua lista civica.
Equidistante. Dall’inizio alla fine. Senza sconti né rimpianti. Davide Scano, 39 anni, avvocato, sposato con due figli, non accetta imputazioni per la conquista di Venezia da parte del centrodestra. Anzi, difende senza appello la strategia “grillina” dentro e fuori le urne: «A chi dice che la sconfitta è colpa nostra replico, in tutta sincerità: è una vera sciocchezza. Casson, Pd e centrosinistra non hanno certo perso per il Movimento 5 Stelle. Respingo al mittente questa “ricostruzione” a nome di tutto il nostro gruppo».
Allora perché Casson ha perso la sfida di domenica?
A tanti era risultato assai poco credibile l’impianto del centrosinistra. Neppure al ballottaggio il candidato e ciò che gli sta dietro hanno potuto convincere. Significa, se mai, non aver colto e capito che i segnali di cambiamento maturati a Venezia sono più forti del pantano in cui si dibatte il Partito democratico.
Eppure Casson aveva sottoscritto le vostre cinque richieste-chiave…
In tutta la campagna elettorale si è mosso preoccupato di non scontentare nessuno. E non ha mai dimostrato, davvero e fino in fondo, un impeto di coraggio o un’iniziativa decisa nei confronti del passato o di alcuni “settori” della sua coalizione. Tant’è che già al primo turno il centrosinistra ha scontato un altissimo tasso di astensioni.
Ha pesato lo “scandalo Mose” che giusto un anno fa aveva costretto il sindaco Giorgio Orsoni alle dimissioni?
Non solo. Il vero punto è che i giornali nazionali e locali non hanno raccontato Venezia, perfino al di là degli arresti e delle indagini della Procura. Il Comune viene infatti da decenni di pessime amministrazioni: concentrate sulle connivenze con le categorie e sul clientelismo. Era tutto ingessato, mentre si buttavano soldi dalla finestra.
Perché, secondo il M5S, nemmeno un ex pm e un’alleanza all’insegna della della massima trasparenza bastavano a “salvare” Venezia?
Abbiamo calcolato che dal 2007 a oggi è stato svenduto patrimonio comunale per complessivi 500 milioni: azioni Save e delle Società autostrade, ma anche palazzi e altri immobili. Attualmente, Ca’ Farsetti è sommersa da debiti per un miliardo e mezzo di euro, di cui 200 milioni sono i famigerati derivati. Poi c’è il Casinò che va a ramengo a causa delle clausole contrattuali dei dipendenti per cui non si può nemmeno puntare sui nuovi giochi che ora vanno per la maggiore. Senza dimenticare un altro dato eloquente: a Venezia si spendono due milioni di euro all’anno in consulenze esterne, anche se ci sono 3.300 dipendenti comunali più altri 7 mila delle società partecipate.
Scusi, Scano, ora che farete?
Noi siamo post-ideologici. In aula con le due colleghe elette faremo opposizione più seria, perché anche propositiva. Ci votano come “cani da guardia”, ma a Venezia non siamo neofiti e possiamo contare su una rete ormai consolidata di cittadini attivi.
Niente sconti nemmeno a Brugnaro?
Lui ha provato spesso ad ammiccare, anche prima del ballottaggio. Peccato che soltanto la sua vecchia idea di urbanistica e la partita delle Grandi Navi non lasciano margini né dubbi al nostro giudizio.
Ma, insomma, qual è stata la vera chiave di volta del ballottaggio?
Porto e aeroporto, soprattutto, direi. Da una parte, quel che ruota intorno alla Marittima. E dall’altra il “giro” del Marco Polo, compresi i progetti nel quadrante Tessera. Noi, comunque, aspettiamo Brugnaro anche sulle nuove linee del tram ex Lohr, visto che i costi sono lievitati da 127 a 208 milioni. Il nuovo sindaco, forse un po’ mal consigliato, sostiene che occorre portare il tram fino all’ospedale. Peccato che nella vera città metropolitana basta già la fermata del Smfr, senza bisogno di dirottare tante altre linee di trasporto pubblico.
Ala solidarietà è l’unica strada per arginare futuri disastri, anche se il prezzo dei sacrifici che pagheremo sarà molto alto. Non ci sono alternative, se non si vuole che la rabbia egli esclusi, cacciati dalle loro terre dagli errori del Primo mondo, esploda cancellando quello che incontrano sul loro cammino. La Repubblica
«A Venezia il partito non aveva da tempo una buona immagine e Casson non è bastato a rinnovarla, forse anche perché non ci ha provato abbastanza».
La Repubblica, 15 giugno 2015
Venezia scivola verso il centrodestra dopo oltre vent’anni di sindaci di sinistra. È il dato senza dubbio più significativo dei ballottaggi nelle città. Venezia città di frontiera sul piano politico, dentro i confini di una regione tradizionalmente amministrata dal centrodestra, prima Forza Italia e ora la Lega. Venezia laboratorio politico, se così si può dire: tant’è che con Massimo Cacciari ha vissuto l’esperimento di un centrosinistra che contendeva i voti alla marea montante leghista, nel tentativo di suggerire un cambio di passo al partito romano (prima Ds, poi Pd) e di imporre la “questione settentrionale” come problema politico cruciale che la sinistra non poteva ignorare.
«Dopo trent’anni Venezia torna in mano al centrodestra. Scambio di accuse nel partito per la sconfitta di Casson. Il senatore democratico era “un candidato divisivo”, è la recriminazione. Lo ha condannato l’astensione M5S». Si apre una nuova fase, più acuta delle precedenti, di devastazione della città e della Laguna.
La Repubblica, 15 giugno 2015
Venezia. Lo psicodramma in “Largo donatori di sangue” a Mestre, al comitato di Felice Casson. Dove il sangue, figurativamente parlando, sta già scorrendo, tra shock e recriminazioni. Lo champagne a 100 metri di distanza, dove la piazza di Luigi Brugnaro festeggia con «chi non salta comunista è». Poco dopo lo stesso Brugnaro annuncia, mettendo altro sale sulla ferita: «Apriremo la nostra giunta al Pd renziano». Dopo trenta anni Venezia passa a destra, un risultato clamoroso ma non del tutto inaspettato. Il centrosinistra paga pegno un anno dopo lo scandalo del Mose che ha investito la giunta guidata dal pd Giorgio Orsoni, finito in manette e costretto a lasciare Ca’ Farsetti in mano al commissario.
Se la proposta infame dei razzisti nasce da una visione sbagliata del problema, allora è quella visione che va rovesciata: dall'espulsione all'accoglienza. A cominciare dai Rom.
Il manifesto, 14 giugno 2015
Nella sala della Piccola Protomoteca Emma Bonino cita Manzoni: «Il buon senso ancora c’era ma se ne stava acquattato, completamente travolto dal senso comune». Come al solito i Radicali hanno scelto il lavoro più sporco e impopolare, quello più difficile: uscire in strada per contrastare il senso comune costruito e fomentato da anni di campagne mediatiche razziste contro i rom e i «clandestini» e che, con le rivelazioni sulla Mafia capitale, si arricchisce ora di un «velenoso sillogismo», come lo chiama il senatore Pd Luigi Manconi, «di formidabile suggestione»: «Se sui servizi ai rom e sull’assistenza ai profughi si sono costruiti sistemi di corruzione e di speculazione, allora basta eliminare rom e rifugiati».
Così, invece di confidare ancora sull’impegno del consigliere Riccardo Magi, presidente di Radicali italiani, o sul buon senso di (pochi) altri, un comitato di associazioni — A buon diritto, 21 luglio, Cild, Arci Roma, Asgi, Un ponte per, ZaLab e Possibile (di Civati) — hanno dato vita con i Radicali Roma alla campagna «Accogliamoci, per una capitale senza ghetti né ruspe». E al sindaco Marino, Bonino e Magi «ribadiscono la richiesta di presentarsi in Assemblea capitolina con una relazione politica sul malfunzionamento dei controlli interni dell’Amministrazione e di descrivere in modo chiaro pochi punti di riforma e di reale rottura che intende perseguire».
Cinque mila firme da raccogliere in tre mesi per portare le delibere in Assemblea capitolina. Che dovrà votarle, anche dopo un eventuale rinnovo elettorale, pena diffida presso la prefettura (azione a cui dovette ricorrere Magi per costringere l’allora presidente Mirko Coratti a calendalizzare la delibera sul testamento biologico). La prima delibera prevede un’indagine conoscitiva per analizzare le esigenze di ciascun nucleo familiare rom e sinto che vive negli otto villaggi di solidarietà, nei quattro villaggi non attrezzati e nei tre centri di raccolta definiti «discriminatori» nella condanna inflitta il 30 maggio scorso dal Tribunale di Roma al Campidoglio, e che costano milioni di euro l’anno. Un’indagine necessaria per avviare percorsi specifici di vera inclusione.
È prevista inoltre l’elaborazione di un piano per la chiusura dei campi che «definisca i tempi, i modi e gli interventi di accompagnamento all’inserimento abitativo e sociale, attingendo agli stanziamenti già previsti e, laddove possibile, alle linee di finanziamento europeo». Una serie di azioni, queste, che «nemmeno l’attuale assessorato alle Politiche sociali sta mettendo in atto», afferma Magi che smentisce quanto riferito al manifesto dall’assessora Francesca Danese: «Un piano pronto per l’autorizzazione della giunta? A noi non risulta. Da novembre invece hanno in mano le nostre proposte, ma non ne abbiamo saputo più nulla».
Nemmeno i conti riportati da Danese tornano al consigliere comunale: «Siamo passati dai 22 milioni di euro spesi effettivamente nel 2013 nel business della “solidarietà” ai campi rom (e non un euro alle famiglie), al di là delle previsioni iniziali e in nome degli interventi emergenziali, agli attuali 8 milioni previsti nel bilancio preventivo di cassa: come fanno a far partire un piano in attuazione alla strategia nazionale di inclusione senza prevedere qualche risorsa in più, necessaria per il lavoro di mediazione culturale e per l’assegnazione degli alloggi?».
La seconda delibera prevede il monitoraggio e la riorganizzazione, attraverso l’istituzione di una cabina di regia, del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale a Roma. «Un sistema — riferisce Claudio Graziano di Arci Roma — che nell’ultimo anno e mezzo si è decuplicto, passando da 300 a 3 mila strutture di accoglienza: residence, alberghi, grandi centri che hanno alterato il senso anche del sistema Sprar». E invece la soluzione sta in un’accoglienza più diffusa sul territorio e integrata.
Ed è urgente. Perché, come ammonisce Bonino, «l’Europa e l’Italia non possono più sottovalutare il problema strutturale di milioni di profughi che destabilizza il Sahel e tutta l’Africa. E noi non possiamo dimenticare di quante carrette del mare piene anche di italiani sono sprofondate tra la Prima e la Seconda guerra mondiale».
Anais Ginori intervista Marek Halter: «Oggi il problema non è più redistribuire i disperati alle frontiere ma pensare ai milioni che seguiranno» Comprendere questo è solo un primo passo per capire che cosa occorre fare. Ma proseguire il ragionamento è molto faticoso e scomodo . La Repubblica, 14 giugno 2015
FUORI da una chiesa, quante persone si fermano per dare una moneta al mendicante? Pochissime. Eppure sarebbe un dovere prescritto in tutte le religioni, anche nell’Islam. Allo stesso modo, i governi si sottraggono alla loro responsabilità morale: non esiste una legge che obbliga a essere generosi». Lo scrittore francese Marek Halter ha vissuto per dieci anni come ebreo polacco sans papiers e poi trent’anni da rifugiato politico. «Porto con me la memoria delle mie origini. Ma non voglio essere un demagogo, né un sognatore », avverte. «L’immigrazione è un tema sul quale anche noi intellettuali dobbiamo provare a ragione in modo pratico».
Cosa pensa di due paesi europei che si rimpallano migranti al confine, come accade in queste ore a Ventimiglia?
«Non è un bello spettacolo ma il governo francese non lo fa per ragioni ideologiche. È sotto pressione dell’opinione pubblica che ha paura. Dagli anni ‘60 agli anni ‘90 l’Europa viveva in una relativa tranquillità sociale. La Francia ha accolto più di un milione di francesi di Algeria. Oggi non sarebbe più possibile. C’è la crisi, esistono tre milioni di disoccupati che vivono con i sussidi. Come può reagire un francese, o un italiano, che ha paura per l’avvenire dei suoi figli vedendo arrivare migliaia di migranti?».
Si può sconfiggere il discorso della paura?
«Dovremmo tutti farci una domanda: sono pronto ad accogliere una famiglia di rifugiati a casa mia? Io lo farei, perché mi ricordo nel 1938 quando Hitler non aveva ancora deciso di massacrare tutti gli ebrei ma voleva già sbarazzarsene. Ci fu la conferenza internazionale di Evian per sapere quali paesi erano disposti ad accogliere ebrei. La sola nazione che ha risposto positivamente è stata la Repubblica Dominicana. In fondo oggi accade la stessa cosa. La reazione dei governi a Bruxelles, davanti al piano della Commissione che prevede la redistribuzione dei rifugiati, è stata la stessa di Evian: una serie di rifiuti».
Il ruolo di chi governa non dovrebbe essere proprio affrontare con lucidità emergenze come queste?
«Oggi il problema non è più redistribuire i migranti che sono a Calais o Lampedusa. Bisogna pensare ai milioni che seguiranno. Dobbiamo essere capaci di immaginare una soluzione globale per l’Africa. Abbiamo lasciato che la miseria devastasse un continente e ne paghiamo le conseguenze».
I campi di migranti evacuati nelle capitali, i piani Ue rifiutati, i muri anti-migranti ai confini. Qual è la differenza tra sinistra e destra sull’immigrazione?
«Magari non nelle azioni, ma almeno nelle parole. La destra non ha bisogno di trovare giustificazioni morali. La sinistra è costretta a fare dei gesti. La Francia è pronta a mandare coperte e cibo per dei migranti a patto che rimangano in Italia. Se il governo decidesse di aprire la frontiera a Ventimiglia, sa con matematica certezza che perderebbe le elezioni. E comunque la questione è complessa. Anne Hidalgo (sindaco socialista di Parigi, ndr ) ha chiesto di aprire un centro in cui accogliere i migranti. Ma per quanto tempo, e chi penserà al loro futuro? Non si tratta solo di accoglierli, bisogna anche sapere come integrarli nella società. Sono dilemmi umani che esistono dalla notte dei tempi. Caino si domanda se deve essere il guardiano di suo fratello. Di sicuro non deve essere il suo genitore ».
Perché si sente così poco la voce degli intellettuali?
«Con la morte della discussione politica è morta per asfissia anche la mente collettiva, come soggetto critico». L'accettazione dello slogan della politica come cosa sporca e l'indifferenza nei coinfronti del genocidio dei profughi dalla misera e dalla guerra sono due facce della stessa medaglia.
Il manifesto, 14 giugno 2015
Qualche giorno fa sul Corriere della sera è apparso un articolo che si interrogava sulle radici della corruzione dilagante in Italia. Giovanni Belardelli invitava a considerare le finalità perseguite da uomini politici «spinti in via esclusiva da miserabili aspirazioni di arricchimento personale» e puntava il dito sulla scadente qualità di una classe dirigente «priva di ogni aspirazione od obiettivo di natura politica, come non era invece nella Prima Repubblica». L’ascesa di una razza padrona del tutto indifferente alle sorti della cosa pubblica era indicata tra le cause principali del verminaio scoperchiato ogni giorno dalle cronache politico-giudiziarie.
In questo argomento c’è indubbiamente del vero, ma è probabile che esso vada sviluppato sino a coinvolgere gli stessi corpi sociali. Forse il tramonto della politica aiuta a comprendere un fenomeno tra i più allarmanti: che il paese convive pacificamente con quella cloaca a cielo aperto che in molti territori (a cominciare dalla capitale) e in tanti gangli dello Stato centrale ha di fatto sostituito le istituzioni della politica e dell’amministrazione pubblica. Certo non tutti appaiono cinicamente indifferenti. Ma anche la reazione antipolitica converge nella passività, tradendo un radicale disincanto. La politica appare ai più una «cosa sporca» con la quale il paese è costretto a convivere. Se pensiamo al trauma che fu, venti e rotti anni fa, la scoperta di Tangentopoli, non c’è paragone. Non solo la piaga della corruzione è oggi ben più vasta e infetta. Non c’è neppure l’ombra dell’indignazione che allora scosse l’opinione pubblica.
Il fatto è che se non c’è più la politica – il confronto tra culture, modelli di società, progetti, concezioni diverse dei valori e dei fini della convivenza civile – subentra il naturalismo. Ci si identifica immediatamente con l’esistente senza nemmeno immaginare la possibilità di un’alternativa. Magari si mugugna e si protesta, ciascuno nel suo piccolo. Ma intanto, forse inconsapevolmente, ci si rassegna, perché così va il mondo. Il tramonto della politica è la morte della critica, o nel silenzio del risentimento o nelle grida della deprecazione fine a se stessa.
Tutto ciò aiuta a spiegare anche un’altra vicenda sconvolgente all’ordine del giorno: la risposta vergognosa, inaudita delle leadership europee (a cominciare dai principali paesi dell’Unione) alla drammatica emergenza umanitaria costituita dall’arrivo in massa dei profughi dall’Africa. Che i Cameron, i Merkel, gli Hollande e i Rajoy, per non parlare dei commissari europei e degli altri capi di Stato e di governo, non siano dei giganti, non c’è dubbio. Ma bisogna riconoscere che essi non millantano affermando che, ove decidessero di coinvolgere i propri paesi in questa tragedia, rischierebbero di perdere buona parte del consenso di cui ancora godono, e farebbero per di più il gioco degli imprenditori politici del razzismo, del nazionalismo e della xenofobia.
Piaccia o meno, si tratta di un timore fondato e ciò dà la misura della gravità del problema con il quale si tratta di fare i conti. La fuga in massa dalla guerra, dal terrore, dalla miseria e dalla fame non si arresterà. L’Europa rimarrà a lungo per decine di milioni di persone una meta irrinunciabile. Il diritto di chi chiede asilo non è negoziabile, ma l’ipotesi di un’immigrazione illimitata non è realistica e il rischio di una reazione di stampo razzista e fascistoide in gran parte dei paesi europei appare concreto. Si può discutere fin che si vuole sulle responsabilità di questo stato di cose. Chiamare in causa chi nell’ultimo quarto di secolo ha contribuito a scatenare una guerra dopo l’altra tra Corno d’Africa e Asia centrale, passando per l’Iraq, i Balcani, la Libia e la Siria. Denunciare l’insipienza delle élite politiche europee che hanno sempre sottovalutato il problema, illudendosi di governarlo con misure di tamponamento. Resta che oggi nessuno sa come risolverlo senza violare i diritti dei migranti e al tempo stesso evitando in Europa terremoti sociali e politici che potrebbero resuscitare gli spettri più inquietanti del nostro passato.
L’Europa si è illusa di essersi liberata dal fardello della propria storia dopo la Seconda guerra mondiale. In realtà le ceneri dalle quali è rinata non contenevano soltanto la coscienza democratica e l’universalismo, l’illuminismo e la cultura dei diritti individuali e sociali, ma anche il colonialismo, il razzismo e la xenofobia, il nazionalismo e il comunitarismo. Nella tensione tra queste componenti dell’identità europea la rivoluzione neoliberale ha influito in modo decisivo. Non governati, gli spiriti animali hanno imposto un fine indiscutibile nell’impiego delle enormi risorse materiali e umane disponibili nel Vecchio continente. Hanno decretato il ridursi della politica ad amministrazione, asservendola alla sovranità del capitale privato. Come mostra da ultimo la guerra della troika contro la Grecia, hanno criminalizzato e messo al bando il confronto critico sui valori, i criteri di giudizio e i modelli sociali. Ma l’avvento della postdemocrazia tecnocratica ha comportato un prezzo elevatissimo in termini di consapevolezza e di responsabilità – di qualità etica – delle popolazioni.
Con la morte della discussione politica è morta per asfissia anche la mente collettiva, come soggetto critico. Le società europee ristagnano ormai da decenni in una morta gora e nei corpi sociali, terrorizzati dalla crisi e consegnati alla ripetizione di un eterno presente, dilagano le ansie e il rancore, e ferve una ricerca mal orientata di sicurezza. Ci si rinchiude ciascuno nel proprio micromondo privato. Il fuori inquieta, l’importante è non esserne sfiorati. A chi comanda – non importa se incapace o corrotto – non si chiede che di essere lasciati in pace. Ma così non solo la corruzione straripa, non solo l’umana pietà dilegua. Rischia di tornare anche la rimossa fascinazione di un’Europa fatta di caste e gerarchie e di comunità chiuse agli stranieri e ai diversi.
Molte verità, qualche dubbio: serve davvero spegnere le guerre con le guerre? Bisognerebbe almeno prima denunciare e punire chi, nel Primo mondo, quelle guerre ha lasciato maturare, o addirittura le ha provocate.
La Repubblica, 14 giugno 2015
Il primo, la nostra stella, è il comandamento: restare umani. I migranti sono il nostro prossimo. Cercano la nostra mano per mettersi in salvo sulle nostre navi, per sbarcare sulla nostra terra. Questo è quanto. Coloro cui il nostro prossimo piace annegato, sono disgustosi. Noi vogliamo restare umani.
Coloro i quali si limitano ad ammonire che bisogna accogliere tutti, sono meravigliosi, purché vedano il costo. Cambiamenti così bruschi e drammatici, non si governano col richiamo alla fredda razionalità e alla calda morale. Il terreno manca, ci si sente sradicati e derubati — del proprio paesaggio famigliare, delle proprie abitudini, di sé. Quando quella soglia emotiva è superata, ricorrere all’appello alla razionalità, anche la più splendida, è come esortare alla calma una folla presa dal panico. Non importa quanto l’allarme — l’incendio, il naufragio — sia falso o vero. Quella soglia è stata in buona parte superata. Ci dividiamo fra un egoismo che si crede sacro e un altruismo che ignora come il travaso precipitoso di popolazione esasperi uno stato d’animo e minacci uno stile di vita.
Non che la crassa demagogia della Lega non meriti d’essere smascherata; l’ha fatto Enrico Rossi che conosce scabbia e treni pendolari. La Lega vota contro ogni partecipazione a missioni nei luoghi da cui fuggono i migranti, e però è pronta ad aprire il fuoco sui treni. Gridava che Mare Nostrum adescava i migranti. Con Triton aumentarono sia gli arrivi che gli annegati: sconfessione tragica, e hanno fatto finta di niente. Salvini ha la linea: il suo responsabile all’immigrazione, un signore nigeriano, lo accompagnerà ad Abuja, e lui chiederà “ai ministri di quel governo di che cosa hanno bisogno”: così si risolve il problema. In Nigeria: 180 milioni di abitanti, il nordest in mano a Boko Haram, mezzo paese governato dalla Sharia, petrolio e guerre civili a sud, la più forte economia africana, eccetera, e lui gli chiederà: “Di che cosa avete bisogno?”. Vorrei esserci, a vedere che faccia fanno.
Matteo Renzi può essere diabolicamente tentato di restare un po’ meno umano. Amato com’è, anche il Papa ha un problema. La Chiesa cattolica è il baluardo della solidarietà verso lo straniero, e però l’incupimento del sentimento popolare l’ha isolata, in questa degnissima causa, altrettanto che sui temi della sessualità o della fine della vita. Non c’è più un fondo cattolico che sorregga a sufficienza l’italiano brava gente.
Restare umani: ogni volta che ne incontriamo uno, di questi nostri simili che si giocano la vita per un sì o per un no. Intanto distinguere, e far leva sulle innumerevoli buone volontà che si adoperano nell’accoglienza, dissipatamente. Le assurde pratiche sull’asilo. Si può immaginare un Piano, e se paia troppo per i nostri tempi corti, tanti piani minori, invece di dilapidare gente nei Centri-galera e nei giardini delle giostre.
Questo movimento cesserà di essere febbrile se si addomesticherà la Grande Guerra nel vicino oriente. È quello il contagio, altro che la scabbia. Ormai ne parliamo come di un fenomeno di costume: come si passa a fil di lama senza schizzarsi, come si coprono le donne di un sudario nero. Il Califfato ha festeggiato il primo anniversario a Mosul. Là è la questione “epocale”, quello è l’altro polo del nostro impegno a restare umani. C’è una gara col tempo: se quelle guerre non saranno spente, l’Europa andrà in pezzi, e i pezzi saranno fascisti e razzisti. Andato al governo, Renzi poteva dire questo, e prima doveva convincersene. Le sorti di quelle guerre sono affare dell’Europa, quando le arriva ancora una minima risacca: milioni aspettano, nei campi di Libano, Giordania, Turchia, nei lager della Libia. Abbiamo lesinato fucilini di riporto ai curdi, e ventilato incursori subacquei al molo di Zuwara. È ridiventato un problema di Obama: il quale fa il minimo sindacale. L’Europa avrebbe qualcosa da raccontare a quei popoli martoriati: che anche lei ebbe la sua Grande Guerra fratricida, e che perché non tornasse più immaginò di federarsi, e che nonostante tutto la vita vi è ancora libera e dolce abbastanza perché gli scampati dal vicino oriente si mettano a un nuovo repentaglio per raggiungerla. I confini là non esistono più, e restaurarli è un’illusione. Un’Europa capace di queste due cose: contribuire a fermare le guerre di bande, e proporsi come un modo di convivenza rispettosa delle diversità, dovrebbe credere in se stessa. Dopotutto, lo farebbe per salvarsi.
«A Venezia, storica roccaforte, il Pd deve evitare a tutti i costi l’"effetto Moretti". Il capoluogo veneto sarà il vero termometro del turno di ballottaggio, giocato al Nord sul voto in libertà dei "grillini"».
Il manifesto, 14 giugno 2015
È il giorno della verità non soltanto per Felice Casson. L’ex pm e senatore “dissonante” vuole scacciare l’incubo della sconfitta 2005, ma il Pd deve evitare ad ogni costo l’«effetto Moretti» nella storica roccaforte e l’intero “popolo di centrosinistra” può ricacciare l’assalto a Ca’ Farsetti della coalizione di Luigi Brugnaro, fucsia di fuori e verde-nero nell’anima.
Casson non si è risparmiato nel “secondo tempo” della campagna elettorale, conclusa in piazza Ferretto con lo spritz e la colonna sonora di Leonard Cohen. C’era anche Michele Emiliano, nuovo presidente della Puglia, come testimonial: «Come l’amico Felice anch’io ero pubblico ministero: incollavo vasi rotti, perché le industrie avevano già inquinato. Ho cominciato a far politica perché volevo cambiare il mondo. A Bari, decidevano tutto quattro famiglie. Venezia, con Brugnaro, rischia lo stesso». Sintesi efficace.
Venezia sarà comunque il vero termometro del turno di ballottaggio, giocato al Nord sul voto in libertà dei “grillini”. In laguna sono ufficialmente trincerati dietro cinque richieste programmatiche (gestione dei 3.300 dipendenti comunali; moratoria urbanistica; stop al tram già costato 208 milioni; Grandi Navi fuori dalla città storica; accorpamento delle società partecipate), tuttavia il tam tam della vigilia fa rimbalzare il sostegno a Casson già espresso dalle firme di riferimento di Andrea Scanzi e Marco Travaglio.
Il voto di oggi a Venezia decide gli ultimi 15 seggi che garantiscono la maggioranza amministrativa in aula. Cinque sono già stati assegnati ai candidati sindaco (Casson, Brugnaro, Davide Scano del M5S, i civici Bellati e Zaccariotto) e al primo turno sono stati eletti 5 consiglieri della lista Brugnaro, 4 con Casson, 3 del Pd, 2 del M5S e uno a testa di Lega e Fi.
Sfida apertissima a Rovigo: Nadia Romeo, 43enne del Pd, parte dal 24% nel ballottaggio con Massimo Bergamin (Lega-Fi) che inseguiva con il 18% ma che conta sull’apparentamento con Paolo Avezzù di Tosi-Area popolare e Antonio Saccardin della lista “Moderati di centro”. Ago della bilancia di nuovo i 2.589 voti M5S, ma anche i 1.380 della Sinistra con Sel inchiodata a 541 preferenze.
Ma dall’Alto Adige si allunga lo spettro della prima intesa fra Lega e M5S: a Laives, 17 mila abitanti, alla clamorosa sconfitta della sindaca e segretaria provinciale Pd Liliana Di Fede era corrisposta l’impasse numerica della legge elettorale a statuto speciale. Il nuovo sindaco leghista Christian Bianchi (ex Fratelli d’Italia) ha però ottenuto l’appoggio esterno dei due consiglieri grillini, soprattutto in alternativa al “compromesso autonomista” Svp-Pd imploso nell’intera provincia di Bolzano.
È proprio il Carroccio a movimentare le urne come a Faenza (58 mila abitanti nel Ravennate) con Pietro Nenni che rischia di rivoltarsi nella tomba. La Lega vanta un eloquente 15,2% al primo turno, conta sul fronte di centrodestra compresa Forza Nuova al 3% e si appella esplicitamente agli elettori di Grillo che al primo turno erano il 14%. Così Gabriele Padovani accarezza il sogno di vestire la fascia tricolore, anche se Giovanni Malpezzi riparte dal 45% del primo turno. Un test dal marcato significato politico, dunque, nella regione simbolo del “buongoverno” ex Ds e del “modello” Unipol & Legacoop.
Si torna ai seggi anche a Mantova: Mattia Palazzi (Pd, Sel, Popolari e Socialisti) però non teme Paola Bulbarelli, staccata di 20 punti al primo turno. Invece Voghera (Pavia) avrà un nuovo sindaco di centrodestra perché per soli tre voti Pier Ezio Ghezzi non ha raggiunto il ballottaggio che vede in lizza il sindaco forzista Carlo Barbieri e il leghista Aurelio Torriani. Con l’inevitabile spada di Damocle del ricorso che impone la verifica delle schede del 31 maggio…
Periferici, ma altrettanto significativi, i destini dei municipi di Arezzo e Lecco. In Toscana partita aperta fra Matteo Bracciali (Pd, 44,2% al primo turno) e Alessandro Ghinelli (Fi-Lega-FdI, 36%). Nella città natale del ciellino Formigoni, il sindaco uscente di centrosinistra Virginio Brivio (8.251 voti due domeniche fa) deve vedersela con il coetaneo Alberto Negrini (5.582) che potrebbe ricompattare le anime del centrodestra (4.253 voti al candidato sostenuto da Ncd e civiche). Di nuovo: i 1.801 elettori del M5S fanno sempre la differenza…
Venezia. Già senza più rappresentanza nel nuovo consiglio regionale, la città metropolitana domenica sarà a un bivio: si torna alle urne per decidere il sindaco. Ballottaggio fra Felice Casson (alla testa della coalizione disegnata fin dalle primarie) e Luigi Brugnaro (con berluscones e leghisti che sentono l’odore del sangue). I numeri del primo turno fissavano uno scarto di 11.508 voti a favore del centrosinistra. Ma, sulla carta, gli apparentamenti con il Carroccio e la lista di Francesca Zaccariotto valgono 22 mila consensi. Di conseguenza, il vero ago della bilancia sarà l’elettorato del M5S (15.348 voti con il 12,6% che vale tre seggi): fino all’ultimo Davide Scano & C si sono arroccati nella "neutralità" politica.
Il manifesto, 12 giugno 2015, con postilla
Da settimane si agita lo spettro delle persone sbarcate in Italia per cercare rifugio nel nostro o negli altri paesi europei. In realtà, il loro numero dall’inizio dell’anno al 7 giugno è di 52.671. Quindi, poco più dei 47.708 registrati nello stesso periodo dell’anno scorso. Sulla base di questo trend è calcolabile un numero di 190.000 a fine anno (200.000 secondo altri). Come si giustificano, allora, le posizioni estreme e i toni, talora quasi paranoici, raggiunti nel dibattito su questo fenomeno in Italia e in Europa? Davvero si vuol far credere che l’arrivo di alcune centinaia di migliaia di persone costituisca una minaccia per gli equilibri economici e sociali di un gruppo di paesi tra i più ricchi del mondo?
In realtà, stiamo assistendo a una grossolana mistificazione.
Intanto, sembra smarrito ogni senso delle proporzioni e si parla come se s’ignorassero dati di fatto significativi. I paesi membri dell’Ue, alla fine del 2013, contavano un numero di immigrati di prima generazione (cioè nati all’estero), regolarmente registrati ed attivi nelle rispettive economie assommanti a più di 50 milioni, di cui circa 34 milioni nati in un paese non europeo. Questi immigrati, come gli altri che li hanno preceduti, concorrono direttamente alla produzione e alla ricchezza di quei paesi. E non si vede proprio come nuovi flussi che si aggiungono a quelli registratisi negli anni precedenti non possono essere assorbiti con vantaggi demografici, economici e socio-culturali, solo che si adottino politiche appropriate e positive d’inclusione sociale.
In secondo luogo, invece di contrastare sentimenti xenofobi, che pure allignano in parti della popolazione, li si strumentalizza e incoraggia pur di guadagnare consensi elettorali nel modo più spregiudicato. L’esempio più vicino di tale irresponsabile comportamento viene dalle dichiarazioni dei governatori di alcune delle regioni più ricche del paese. Il loro lepenismo sembra ignorare che proprio la vantata ricchezza di quelle regioni è dovuta anche al massiccio sfruttamento del lavoro degli immigrati. Sfruttamento tanto più facile e pesante con i clandestini. E questo ci porta dritto alla seconda mistificazione cui stiamo assistendo in Italia e in Europa.
Indicare gli immigrati come una minaccia serve a motivare misure di contrasto e leggi restrittive che in realtà servono a sfruttare al massimo il loro lavoro, inducendoli a lavorare in nero, in impieghi pesanti e mal pagati, in affitto, a chiamata e simili. Infatti, sono proprio le soglie di sbarramento all’integrazione, poste sempre più in basso, e il mancato o difficoltoso riconoscimento dei diritti ai lavoratori immigrati che permettono ai gruppi dirigenti economici e ai loro alleati politici di sfruttare anche l’immigrazione per spingere verso la concorrenza al ribasso delle condizioni di lavoro. In tal modo, si rendono più agevoli le politiche di restrizione dei diritti dei lavoratori e di smantellamento dello Stato sociale.
In terzo luogo, agitare lo spettro del pericolo immigrazione occulta altre responsabilità. Il fatto, cioè, che i maggiori paesi europei, Gran Bretagna e Francia in testa, ma seguiti anche da Germania e Italia si sono fatti promotori, accanto agli Stati Uniti e insieme ad altri, di pesanti interventi politico-militari in Africa e in Medio Oriente. L’elenco è lungo. Si può cominciare dall’interminabile guerra in Afghanistan. Si può proseguire con il supporto dato alla ribellione contro il regime siriano, rinfocolando conflitti civili e religiosi che ora sfuggono ad ogni controllo. Ancor più diretto è stato l’intervento in Libia, col risultato di una situazione, se possibile, ancor più confusa e ingovernabile. Si è soffiato sul fuoco di vecchi conflitti tra le popolazioni in Africa Centro-orientale perseguendo obiettivi tutt’altro che chiari. E lo stesso può dirsi per gli interventi in Mali e altri paesi.
Nel 2013, il numero di profughi che hanno cercato di fuggire da zone di guerra, conflitti civili, persecuzioni e violazioni dei diritti umani è stato di 51,2 milioni. Anche a considerare circa un quinto di essi, vale a dire gli 11,7 milioni di persone che, in quell’anno, si trovavano sotto il diretto mandato dell’Alto commissariato per i rifugiati delle nazioni unite e per i quali disponiamo di dati certi, vediamo che più della metà era costituito da persone che fuggivano dalla guerra in Afghanistan (2,5 milioni), dall’improvvisa deflagrazione del conflitto in Siria (2,4 milioni), dalla recrudescenza degli scontri da tempo in atto in Somalia (1,1 milione). Ad essi seguivano i profughi provenienti dal Sudan, dalla Repubblica democratica del Congo, dal Myanmar, dall’Iraq, dalla Colombia, dal Vietnam, dall’Eritrea. Per un totale di altri 3 milioni, sempre nel solo 2013. Altri richiedenti asilo cercavano di scampare dai «nuovi» conflitti in Mali e nella Repubblica Centrafricana.
La grande maggioranza di queste e altri milioni di persone fuggite da situazioni di pericolo e sofferenza, sempre nel 2013, non hanno cercato e trovato accoglienza nei paesi più ricchi d’Europa o negli Usa, bensì nei paesi più vicini. Paesi con un Pil pro capite basso e variante tra i 300 e i 1.500 dollari l’anno. Infatti, fin dallo scoppio della guerra del 2001, il 95% degli afgani ha trovato rifugio in Pakistan. Il Kenya ha accolto la maggioranza dei somali. Il Ciad molti sudanesi. Mentre altri somali e sudanesi hanno trovato rifugio in Etiopia, insieme a profughi eritrei. I siriani si sono riversati in massima parte in Libano, Giordania e Turchia. Di fronte all’entità di questi flussi, il numero delle persone che, sempre nel 2013, hanno cercato protezione internazionale in 8 dei paesi più ricchi dell’Ue, con Pil pro capite dai 33.000 ai 55.000 dollari, assommava a 360mila (pari all’83% dei rifugiati in tutta l’Ue).
Questi dati di fatto dimostrano l’assoluta mancanza di fondamento e la totale strumentalità che caratterizza la discussione in atto tra i paesi membri e le stesse istituzioni dell’Ue. Si discute di pattugliamenti navali, bombardamenti di barconi, per concludere con quello che viene definito un «salto di qualità» nel dibattito e che consisterebbe nella proposta di accogliere nei 28 paesi membri dell’Ue un totale di 40.000 rifugiati in due anni. Mentre, nel 2013, Pakistan, Iran, Libano, Giordania, Turchia, Kenya, Ciad, Etiopia, da soli, ne hanno accolti 5.439.700. Il che significa che un gruppo di paesi, il cui Pil è 1/5 di quello dei paesi dell’Ue, ha accolto in un anno un numero di immigrati e rifugiati che è 136 volte più grande del numero di quelli che sono disposti ad accogliere i paesi della grande Europa in due anni! Ma perfino questa misera proposta viene ora messa in discussione, dato anche l’atteggiamento negativo di paesi come la Gran Bretagna e la Francia, che pure si autodefiniscono grandi e civili. Lo spettacolo di tanta pochezza politica e morale induce a chiedersi se i nostri governanti e i dirigenti di Bruxelles si rendono conto che stanno assestando un altro colpo alla credibilità dell’Unione europea.
postilla
Tanto più indignano le reazioni - di troppi eletti e troppi elettori - in quanto la penisola chiamata Italia è abitata da popoli che hanno conosciuto tutti analoghe storie di fuga dalla miseria o dalla guerra. Quanti di noi italiani sono stati profughi nella prima guerra mondiale dopo la disfatta di Caporetto, o durante la Seconda per i bombardamenti e l'avanzata nel Sud, o cacciate dai campi e fuggiti nel Belgio o in Argentina, o cacciati dal loro Polesine dall'esondazione del Po... Sono ben pochi che hanno compreso come quella che viviamo sia l'esodo inarrestabile di un un'area che comprende più ancora che un intero continente, e che moltissime responsabilità delle catastrofi attuali hanno la loro origine (e la loro prosecuzione) nelle politiche di sfruttamento rapace delle risorse altrui compiuto dal Primo mondo. Quanto solitario, e quando alto, appare al confronto quel mite argentino che ammaestra il Vaticano.
Destra e sinistra (si fa per dire) unite nella lotta per spolpare lo Stato, accrescere i guadagni dei “capitani coraggiosi” e far pagare di più i posteri. Un’analisi che non rivela tutti i malefici della “finanza di progetto, ma quanto basta per capire la truffa.
Il Fatto quotidiano, 10 giugno 2015.
Un benedetto emendamento arrivato in Senato. Benedetto almeno per quei privati che con questo sistema si arricchiscono senza alcun rischio d’impresa. Il nuovo codice degli appalti una delega al governo che Palazzo Madama sta per approvare doveva essere il segno tangibile che il clima era cambiato: pubblicità, trasparenza, gare pubbliche, più poteri all’Autorità Anti-corruzione. In parte, va detto, la legge rispetta le premesse, ma crea uno strano binario parallelo in cui la trasparenza serve un po’ meno: l’obbligo di affidare i contratti di lavoro, servizi e forniture “mediante procedura ad evidenza pubblica” non vale infatti per le concessioni “affidate con la formula della finanza di progetto”. L’emendamento lo firmano i due relatori Stefano Esposito (Pd) e Lionello Marco Pagnoncelli (fittiano, ex FI) il che significa che è frutto di un accordo che comprende maggioranza e governo. di progetto”, meglio nota come project financing, funziona così: lo Stato decide di aver bisogno di un’opera, un privato la costruisce in cambio della concessione di utilizzo (o di un canone d’affitto) per un numero di anni sufficienti a ripagare la spesa e guadagnarci il giusto.
Fin qui, tutto bene, il problema è che le cose vanno così solo in teoria: intanto spesso i soldi con cui i privati fanno l’investimento sono garantiti dal pubblico (è il caso dell’autostrada Brebemi, costruita dai privati coi fondi di Cassa depositi e Banca europea degli investimenti) e poi la remunerazione della spesa iniziale è sempre scandalosamente alta. Tradotto: zero rischi, molto guadagno. Contrariamente a quanto si pensa, però, il project financing non viene usato solo dallo Stato per opere enormi tipo le autostrade, ma è il mezzo con cui Regioni, Comuni e Asl in questi anni hanno aggirato gli (stupidi) vincoli di bilancio che gli impediscono di fare investimenti. Per un ente locale o un’azienda sanitaria è oggi quasi impossibile costruire una scuola o un ospedale chiedendo un mutuo: sforerebbe i parametri sia sul deficit che sul debito. E qui arriva la finanza di progetto: il privato chiede il mutuo e costruisce l’opera, il sindaco firma un contratto d’affitto ventennale con annesso servizio di pulizia, manutenzione e chi più ne ha più ne metta. Quando questo accade e accade sempre senza gara il costo occulto viene scaricato sulla spesa corrente degli anni successivi con risultati bizzarri in termini di rapporto costi/benefici.
Qualche esempio aiuterà a capire di che buco nero stiamo parlando. Giorgio Meletti ne ha raccolti alcuni gustosi sul Fatto economico dell’8 aprile: l’ospedale di Nuoro doveva costare 45 milioni, ma l’affitto più contratti per vari servizi non sanitari per la bellezza di 28 anni porteranno ai privati circa 800 milioni; la centrale tecnologica del Sant’Orsola di Bologna costava 30 milioni, ma il contratto con forniture varie per 25 anni porterà a Manutencoop circa 400 milioni; la nuova sede del Comune di Bologna era un appalto da 70 milioni che porta ai costruttori un affitto da circa 9,5 milioni l’anno per 28 anni (all’ingrosso 250 milioni in tutto); l’ospedale di Mestre è costato al privato che l’ha costruito 140 milioni, ma la regione gliene sta ridando indietro 400 più contratti di forniture per 1,2 miliardi in 24 anni. Tradotto: con la “finanza di progetto” un’opera può essere pagata dieci o venti volte più di quel che costa. In totale secondo gli addetti ai lavori una stima prudente dell’indebitamento implicito, sotterraneo o nascosto spalmato sui prossimi due decenni ammonta a 200 miliardi di euro.
Anche i numeri totali confermano che si tratta di cifre molto rilevanti. Secondo l’ultimo report annuale di Palazzo Chigi disponibile, nel 2013 in Italia sono stati chiusi contratti di partenariato pubblico/privato per 19,5 miliardi (peraltro picco negativo causa spending review), in tutto il resto d’Europa per soli 16,2 miliardi. Magari l’idea di non fare le gare pubbliche non è proprio una furbata. O sì?
«Per paradosso, le città più depresse ammortizzano più facilmente i nuovi venuti, assorbendoli verso il basso; dove più alti sono invece reddito e qualità dei servizi, più larga diventa la distanza con gli stranieri e più marcato il pericolo di una loro ghettizzazione».
Corriere della Sera, 11 giugno 2015 (m.p.r.)
La faglia s’allarga. Da politica, rischia di diventare territoriale e sociale, attestandosi lungo rancori sedimentati tra due Italie. Già così distanti per qualità di servizi e sanità, trasporti e infrastrutture, Nord e Sud s’allontanano ora sull’ultima e più cruda emergenza: i migranti. Che al Sud sbarcano (e in gran parte restano) e al Nord andranno sempre più verso ponti levatoi alzati.
«In altre parole la politicizzazione del sociale è un processo necessario e inevitabile se si vuole contrapporre un nuovo potere costituente ad un potere costituito nelle attuali condizioni di degenerazione delle istituzioni e delle forme del potere politico».
Il manifesto, 11 giugno 2015
Diciamo pure che era cominciata un po’ in sordina. Il documento preparatorio non era di quelli che hanno la forza di farti sobbalzare sulla sedia. Forse era un tattica di voluta prudenza. Poi, soprattutto nel passaggio tra la prima e la seconda giornata, l’ Assemblea ha preso quota e acquistato senso. Certamente ha influito la ricca discussione che si è tenuta nei vari gruppi tematici nel pomeriggio di sabato, ben sintetizzati dai report della mattina seguente. Alcuni dei quali possono essere considerati come un approfondimento specifico di una proposta di alternativa le cui fila si vanno tessendo in varie sedi e modalità.
Avendo partecipato come osservatore a uno di questi gruppi e sulla base dei report, balza agli occhi che le tematiche sono le stesse che vengono affrontate in altri incontri che si definiscono o vengono considerati direttamente politici. In altre parole quella distinzione fra il politico e il sociale, un po’ ingessata nelle prolusioni iniziali, si è molto assottigliata nel proseguo della discussione, mano a mano che si entrava nel merito di analisi e di proposte.
Non c’è da stupirsi. I temi per la costruzione di una opposizione e di una alternativa politica e sociale non possono in realtà che essere gli stessi, derivando entrambi dalle palesi contraddizioni del mondo contemporaneo. La distinzione – che non va risolta nell’autonomia del politico o per converso nell’assolutizzazione del primato del sociale – sta nella diversità dei piani con cui gli stessi temi e obiettivi vengono affrontati e portati avanti. La lotta al job act - per fare solo un esempio - va fatta, per essere efficace, sul terreno culturale, quanto su quello sociale; a partire dai luoghi di lavoro e dai territori; deve coinvolgere la dimensione sindacale e quella giudiziale; avrebbe dovuto – e qui il punto dolente - trovare più energica ed efficace opposizione a livello parlamentare; potrà raggiungere una piena dimensione di massa se si giungerà – come da più parti si sta riflettendo – ad un referendum abrogativo.
Non c’è solo bisogno di una ovvia moltiplicazione delle forze e dei punti di attacco utili per ottenere un risultato, ma soprattutto è in atto una ridefinizione del sistema di potere capitalistico nelle società mature che si è definitivamente separato dalla democrazia - pur nei limiti con cui l’abbiamo conosciuta e praticata -; che nega alla radice la dualità fra capitale e lavoro, quindi il conflitto; che vuole costruire un suo spazio , a-democratico ed extragiudiziale, oltre che no unions, per regolare, se possibile individualmente, il rapporto con il lavoratore. Il quale non è solo colui che lo è effettivamente, ma chi aspira ad esserlo, o lo è in modo intermittente o chi sta per perdere quella condizione.
In altre parole la politicizzazione del sociale è un processo necessario e inevitabile se si vuole contrapporre un nuovo potere costituente ad un potere costituito nelle attuali condizioni di degenerazione delle istituzioni e delle forme del potere politico, di cui ha anche parlato Stefano Rodotà nel suo intervento all’Assemblea andando ben al di là della tradizionale denuncia della corruzione e dell’italico stato duale.
Anche cambiando l’oggetto dell’intervento, che so io la “buona scuola”, l’Italicum oppure la privatizzazione dei beni comuni, il ragionamento di fondo non cambia, tanto per i soggetti sociali che per quelli politici.
Solo che se i primi non stanno benissimo – altrimenti non si parlerebbe di nuova coalizione sociale e perfino di rifondazione del sindacato – i secondi mancano del tutto. Per questo Renzi - pur avendo perso milioni di voti tra un’elezione e l’altra; pur affidandosi ad una maggioranza che si è fatta ancora più esile al Senato; pur apparendo meno “pigliatutto” (definizione che preferisco a quella di partito della nazione, visto che qui siamo di fronte ad una articolazione delle elites europee) di quanto lo era poche settimane fa - non ha per ora moltissimo da temere. Se non della propria arroganza.
Nei prossimi mesi può aprirsi una interessante e strategica campagna referendaria, dalla legge elettorale alle contro-riforme della Costituzione; dai decreti attuativi del job act allo scempio della legge sulla scuola. Dipenderà in primo luogo dai soggetti sociali promuovere concretamente questo percorso. Ma cosa succederà se non ci sarà in campo - quindi ben prima della tornata elettorale politica, al netto di elezioni anticipate - una forza politica dotata di credibilità e di una qualche consistenza che sappia a sinistra essere protagonista di queste battaglie? A parte il fatto che la legge elettorale chiama direttamente in causa la rappresentanza politica, anche nell’ipotesi di una vittoria ci potremmo trovare nella situazione nella quale già siamo, dove avendo pur vinto il referendum sull’acqua, non si riesce ad applicarne tutte le necessarie conseguenze sul piano operativo.
So bene che c’è bisogno di nuovi protagonisti e che dunque quelli che con luci e soprattutto ombre hanno popolato fin qui lo spazio enorme che si è aperto alla sinistra del Pd farebbero bene a scegliere per sé compiti da seconda e terza fila, peraltro non meno entusiasmanti. Ma potrebbero dare il là - e sarebbe un bel passaggio di testimone - all’avvio concreto di un processo di riunificazione delle disperse membra della sinistra d’alternativa, quale parte iniziale di un progetto ben più ambizioso di ricostruzione della sinistra in Italia. Farlo con una dichiarazione congiunta che contemporaneamente proponga una grande assemblea di tutte e di tutti entro l’estate, sarebbe la migliore risposta positiva, da parte di chi opera prevalentemente nel desertificato terreno politico, all’Assemblea della coalizione sociale.
Dal Presidente della Casa della Carità di Milano, un richiamo a trasparenza e solidarietà contro l'attacco all’accoglienza dei dannati della terra sferrato da destra, e un appello ad agire in modo umano e non bestiale (con tutto il rispetto per gli animali).
LaRepubblica, ed. Milano, 6 giugno 2015
Il nuovo capitolo dell’inchiesta di Mafia Capitale sta confermando che le emergenze sociali, come l'arrivo di tanti profughi e migranti, sono diventate un business ricco e appetibile per un sottobosco a cavallo tra malavita e malaffare, malaffare e corruzione politica. È un mix che purtroppo si ripropone spesso e che si ripresenta con una puntualità impressionante in ogni occasione, dal terremoto dell’Aquila al dramma dello smaltimento dei rifiuti nella Terra dei fuochi, con le sue tariffe, le sue minacce e con i suoi sberleffi sguaiati: dalle risate al telefono degli affaristi che si fregano le mani dopo il disastro abruzzese alla mucca che va munta di Mafia capitale.
Sulla pelle di migliaia di persone sfortunate, in fuga da guerre, in lotta per sopravvivere, emerge uno sfruttamento che, in barba ad appartenenze partitiche, a convinzioni ideologiche, a ragionamenti politici, unisce in un fronte unico la peggior politica e la peggior gestione del sociale in Italia. Con la conseguenza che nell’opinione pubblica si fa largo la convinzione che chi accoglie, chi lavora per dare un aiuto ai tanti profughi e migranti che arrivano nei nostri paesi e città, sotto sotto lo fa per interesse. Ovviamente non è così. La passione in cui noi della Casa della carità da dieci anni ci battiamo per offrire, spesso gratuitamente, accoglienza ai tanti che arrivano a Milano a seguito della tante emergenze, la disponibilità dei nostri operatori e dei nostri volontari è la stessa di decine e decine di tante altre organizzazioni, piccole e grandi, che si muovono, tra mille difficoltà, in ogni angolo d’Italia. Conosco onlus, fondazioni e cooperative che nulla hanno da nascondere perché il loro obbiettivo non è mai stato il guadagno, ma la solidarietà a chi ha bisogno.
Purtroppo, in molti casi non è così. In molti casi nella rete degli aiuti si sono infiltrate organizzazioni interessate solo a rastrellare i soldi della diaria riconosciuta per ogni persona accolta in una logica di disinteresse per la qualità del trattamento e per i servizi garantiti. È una delle conseguenze della gestione emergenziale della questione che ripropone la logica dell’appalto al ribasso (non a caso terreno spesso di infiltrazioni mafiose) tipico delle opere pubbliche con l’inevitabile corollario delle conoscenze partitiche nelle amministrazioni e nelle istituzioni. È una spirale che va spezzata subito. La magistratura accerterà illeciti, crimini e responsabilità. Ma sono necessarie anche una mobilitazione delle coscienze e una presa di posizione, forte e chiara, del mondo dell’associazionismo e del volontariato, laico e religioso, che rifiuta il marchio di “sono tutti uguali”. La corruzione politica va combattuta con la trasparenza: ogni numero, ogni convenzione, ogni servizio va documentato, reso noto (magari sul web) perché tutti sappiano nomi, cognomi, ragione sociale, appartenenza di chi ospita e rende un servizio sociale.
L’obbiettivo? Creare il vuoto attorno ai corrotti, far emergere i profittatori e le corruttele, denunciare i legami, quali che siano, con la politica e i suoi portaborse. Ribadire che l’assistenza non è un furto. Chiedere una nuova politica dell’immigrazione che sia rispettosa dei diritti, equa nella suddivisione dei costi sociali da affrontare tutti (in Italia come in tutta Europa), trasparente nella gestione, uniformata nella garanzia di qualità e portatrice di una cultura di responsabilità. La risposta al malaffare non può essere: fermiamo gli arrivi dei migranti. Basta demagogie, basta semplificazioni, basta strumentalizzazioni politiche. Lanciamo tutti insieme una sfida: l’accoglienza onesta, per bene, di qualità, da Lampedusa a Bolzano. Rivendichiamo insieme le nostre esperienze positive, documentiamo i risultati ottenuti, facciamoci sentire. Siamo tanti. Molti di più dei corrotti e dei corruttori.
«Lombardia, Veneto, Liguria e Valle d’Aosta hanno ragione di lamentare un sovraccarico di richiedenti asilo? I dati dicono che il sistema di accoglienza è semmai squilibrato verso Sud. Sommare rifugiati e migranti non è corretto, ma in ogni caso anche l’immigrazione è in calo».
Lavoce.info, 9 giugno 2015 (m.p.r.)
Chi accoglie i rifugiati
La presa di posizione sui profughi del presidente della Lombardia, seguito dai colleghi del Veneto, della Liguria e della Valle d’Aosta, apre una questione delicata: è vero che l’integrazione delle persone è sempre locale, ma diritti difesi dalla Costituzione (articolo 10), nonché dall’Onu e dalle convenzioni internazionali, possono essere messi in discussione da un presidente di regione o addirittura da uno o più sindaci? L’immagine internazionale dell’Italia può dipendere dalle deliberazioni di alcune autorità locali? Per questo, una materia già di per sé sensibile come quella dell’asilo è di pertinenza del governo centrale, ma le resistenze locali tendono a farne un terreno incerto e conteso.
I costi per le comunità locali
Seconda domanda: l’accoglienza è un costo per le comunità locali? In linea di massima, no. Anzi, l’ospitalità agli immigrati porta risorse (i 35 euro al giorno pro capite per i gestori delle strutture). Questo pur modesto tesoretto si traduce in posti di lavoro per operatori locali, acquisto di derrate alimentari, abiti, generi di consumo. Per chi gestisce coscienziosamente l’accoglienza, non restano molti margini, ma intanto un po’ di circolazione di risorse si produce. È senz’altro opportuno coinvolgere i richiedenti asilo in attività socialmente utili: per incrementare le opportunità di socializzazione e integrazione sul territorio, per occupare il tempo in attesa della risposta alla domanda di asilo, per accrescere l’accettazione sociale.
Ma non è vero che i richiedenti asilo siano in debito con le comunità locali, è più vero il contrario.
Terzo: i rifugiati rimangono sul territorio, intasando le strutture e invadendo le città? A parte quanto già spiegato in altri articoli (l’86 per cento dei rifugiati è accolto nei paesi in via di sviluppo), la maggior parte di loro transita e cerca di oltrepassare le Alpi. Dei 170 mila sbarcati nel 2014 soltanto 7 mila hanno chiesto asilo in Italia. Per esempio a Milano, su circa 60 mila profughi transitati negli ultimi due anni, ne sono rimasti 200.
Immigrazione in calo
Quarto: è giusto sommare immigrati e rifugiati? L’immigrazione è aumentata per effetto degli sbarchi? Migranti in cerca di lavoro e richiedenti asilo possono in parte sovrapporsi, ma è importante tenere distinte le due categorie: i secondi hanno diritto a vedere esaminata la propria istanza e se riconosciuti come bisognosi di protezione, in un paese democratico, vanno accolti. Questo oggi è pressoché automatico nel caso di siriani, eritrei e somali, a motivo dei contesti di guerra e repressione da cui cercano scampo.
Nonostante la visibilità e i drammi degli sbarchi, va ricordato che i nuovi ingressi di immigrati sono diminuiti negli ultimi anni, a motivo della crisi economica: nel 2013 sono stati 307 mila, 43 mila in meno rispetto al 2012. Restano tuttavia più numerosi degli sbarcati, anche al lordo dei transiti verso altri paesi. I motivi del rifiuto sono dunque essenzialmente politici. Stupisce un po’ che i maggiori organi d’informazione li raccolgano con enfasi, con titoli in prima pagina come “Il Nord dice basta”.
Da questo punto di vista, l’offensiva del solstizio di Roberto Maroni ha senza dubbio già segnato un punto.
Collocheremmo nella cartella "Stupidario" l'articolo del Giavazzi se non fosse che possiamo corredarlo del gustoso commento di Marco Palombi, inserito in calce. Il primo dal
Corriere della Sera di venerdì 5 giugno, il secondo dal Fatto quotidiano del 7 giugno, Con postilla veneziana
In questi 5 anni il mondo, soprattutto in Oriente, è cambiato. In Cina e India sono saliti al potere politici nuovi, che hanno rotto con il passato. A Pechino il presidente Xi Jinping ha avviato un processo di riforme che ha un solo precedente: Deng Xiaoping all’inizio degli Anni 90. In India Modi ha messo fine a sei decenni di predominio politico della famiglia Gandhi e soprattutto rivendica la matrice induista del Paese. Noi invece, anziché chiederci quale Europa possa far sentire la propria voce e difendere i propri interessi, economici e militari, in un mondo geograficamente e politicamente in forte mutamento, passiamo le giornate a parlare di Grecia.
Dopo 5 anni di discussioni che non hanno prodotto alcuna riforma significativa - le poche fatte, come il tentativo di ridurre il numero di dipendenti pubblici, sono state in gran parte rovesciate da Tsipras - è ormai evidente che i greci non pensano che la loro società debba essere modernizzata e resa più efficiente. Sembrano non preoccuparsi di un sistema che per oltre quarant’anni, dagli anni 70 ad oggi, ha aumentato il numero degli occupati nel settore privato al ritmo dell’uno per cento l’anno, mentre i dipendenti pubblici crescevano del quattro per cento l’anno con un sistema di reclutamento fondato per lo più sulla raccomandazione politica.
Dice che la Grecia ha rotto. Dice: cinque anni a parlare di Grecia, che poi è una nazione di pecorari fancazzisti, e intanto la Cina e l’India fanno cose e i cosacchi di Putin, come d’abitudine, vogliono far abbeverare i cavalli a piazza San Pietro. Dice: ma se i greci non si vogliono modernizzare, mettiamoci una croce sopra e via dall’Ue. Dice: hanno votato Tsipras vuol dire che vogliono restare poveri.
Questo non è, come sembra, il riassunto di una conversazione ascoltata in un bar, interrotta dal tintinnare delle tazzine e dal grido dell’ultimo arrivato (“un caffé”), ma il senso dell’editoriale che Francesco Giavazzi venerdì ha affidato alla prima del Corriere della Sera. Uno potrebbe spiegargli che se cinque anni fa la Ue avesse salvato la Grecia invece che le banche tedesche e francesi non staremmo qui a discutere; che le sue idee sui greci sono un po’ razziste; che 5 anni di “riforme” della Troika hanno creato ad Atene una catastrofe umanitaria e che la sua “austerità espansiva” è una boiata. Sarebbe inutile, nel bar c’è casino, Giavazzi non sente e poi sta già spiegando al barista che, per un lavoro così poco qualificato, guadagna troppo.
Replicando agli infantili cinguettii del Primo ministro, Stefano Rodotà lo accusa di comprendere poco e travisare molto, a proposito del tentativo di Landini e di altre cose importanti.
La Repubblica, 10 giugno 2015
Coalizione sociale, creatura di Landini, è diventata, nelle parole di Matteo Renzi, «Coalizione asociale» e Stefano Rodotà, colpevole di aver accusato il premier di applicare, per le faccende di giustizia, (in ultimo Mafia Capitale), lo stesso metodo «peloso e ipocrita» della Prima Repubblica, si è visto recapitare la risposta al vetriolo del giovane premier: «Rodotà? Lui sì che se ne intende di Prima Repubblica!». Comprensibile che il professore non abbia gradito. Da Madrid, dove si trova in queste ore, chiede «più rispetto» per il Movimento appena nato, respinge al mittente presunti feeling con i “compagni” Scalzone e Piperno, presenti alla due giorni di Landini, («Io non li ho nemmeno visti, c’erano 1087 persone») e attacca le ironie di Renzi: «Prima di parlare doveva informarsi. Siamo in presenza di un travisamento gravissimo ».
Professore, lei se ne intende di prima Repubblica?
«Certo. Per tutta la prima Repubblica mi sono battuto contro coloro che applicavano il meraviglioso meccanismo che adesso usa Renzi. Conosco bene la frase: “Io sono garantista. Aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso”. Con questo sistema, e potendo contare sulla lentezza dei processi, persone che ne avevano combinate di tutti i colori, sono riuscite tranquillamente a rimanere sulla scena politica».
Renzi le ricorda la presunzione di innocenza.
«Figuriamoci, tutti noi dobbiamo essere garantisti. Lo rimando però alla seconda parte dell’articolo 54 della Costituzione. Chi ricopre funzioni pubbliche ha un dovere in più. Deve comportarsi con disciplina e onore. La presunzione di innocenza riguarda i reati, poi c’è la responsabilità politica, l’etica pubblica, del tutto ignorate dalla prima Repubblica. In Renzi ritrovo quel tipo di approccio. Quando ero presidente del Pds, chiesi, inascoltato, una assise sulla corruzione. Manderò i miei libri al presidente».
Arrabbiato?
Un presidente del consiglio non può fermarsi alla superficie delle cose. La due giorni di “Coalizione Sociale” merita rispetto, meritano rispetto le 1087 persone che vi hanno partecipato e le 200 che hanno preso la parola. Evidentemente a Renzi la società non interessa se non è atomizzata. “Parlerò ai professori, parlerò agli alunni...”. Lui va a segmenti. Ma il rifiuto pregiudiziale della conoscenza è politicamente grave e culturalmente inquietante ».
Che ci facevano Scalzone e Piperno da Landini?
«Di due giorni di dibattiti rimane questo? Commentare questa iniziativa a partire da un caso che non esiste è un travisamento gravissimo. Scalzone e Piperno io non li ho visti, non sapevo nemmeno che ci fossero. Mi spiace che anche Cuperlo sia caduto in questa trappola. Anche lui doveva informarsi prima di commentare ».
C’è una sinistra che si agita dentro il Pd, ci sono i cosiddetti laboratori di Vendola e Civati. “Coalizione sociale” cosa vuol essere?
«È una scommessa difficile che parte dall’analisi della situazione italiana: partiti deboli, distinzione attenuata tra governo e Parlamento, a favore del primo, un drammatico difetto di rappresentanza, i cittadini che stanno scomparendo dalla vita pubblica, non vanno a votare, il potere affidato alla minoranza, la politica che si svuota con il rischio di estremismi e populismi...».
Da dove si riparte?
«Dalla società, dal territorio, si diceva una volta. Renzi ha cambiato idea sulla scuola, aprendo a modifiche, solo dopo che la società si è mobilitata. C’è tanta energia, tanta voglia di fare. È necessario creare una rete, non un altro partito. Ripartire dal basso nel nome del ripristino dei diritti e della dignità per tutti, dico tutti. Così hanno fatto Syriza in Grecia e “Podemos” in Spagna. Senza sponda sociale non si va da nessuna parte, senza buona cultura non c’è buona politica. Ma non si tratta di cominciare da zero. Penso alle esperienze tutte italiane di Don Ciotti sulla legalità, ad Emergency di Gino Strada...».
Professore, secondo i suoi parametri, Renzi è di sinistra?
«Non lo so. Lui dice di esserlo. Io non sono tra quelli che pensano che non ci sia più distinzione fra destra e sinistra. La distinzione c’è. Io metto al centro della politica la dignità, l’eguaglianza, i diritti, la redistribuzione delle risorse. Io penso ad un orizzonte espansivo di cambiamento della Costituzione. Renzi mi pare insegua un percorso opposto, di riduzione della democrazia costituzionale ».
«Per una Unione euro-mediterranea. Che significa quel "teneteveli", rivolto non solo a Italia e Grecia, Sicilia e Puglia, ma a Libano, Giordania, Turchia, Egitto, che di profughi ne "ospitano" milioni?»,
Il manifesto, 9 giugno 2015
Il capitolo «secessione», che le Regioni leghiste (la “Padania” senza più il Piemonte, ma con in più la Liguria) non erano riuscite ad aprire e legittimare in campo fiscale, viene oggi riproposto sulla questione delle «quote» di profughi e migranti da trasferire al Nord dai porti di sbarco; nonostante che a guidare la rivolta sia proprio Maroni, l’ex-ministro che quelle quote le aveva introdotte. Ma questa volta la fronda leghista avrà un impatto maggiore, perché è in perfetta sintonia con le posizioni che i paesi dell’Unione Europea stanno adottando nell’affrontare lo stesso problema: «Teneteveli».
Cioè: anche se, contro gli intenti originari, la missione Triton è costretta a salvarli, i profughi restino là dove sbarcano. E con loro se la vedano i paesi e le regioni a cui li lasciano in carico. Il default greco non è dunque più l’unica minaccia per la coesione dell’Unione Europea.
Una governance che si comporta così verso i suoi membri non è più la legittima guida dell’Ue, come non sarebbe più uno Stato unitario quello che accettasse una divisione simile tra le sue Regioni.
Le destre italiane ed europee lo sanno, anche se ancora possono — e torna loro comodo — nascondere a se stesse e agli altri le conseguenze di questa linea di condotta: che è destinare allo sterminio milioni di esseri umani. Cioè, proprio la riproposizione di ciò che la Comunità, poi Unione Europea, ha come sua ragion d’essere originaria: che le tragedie prodotte da due guerre mondiali e dai campi di sterminio «non abbiano a ripetersi mai più». Invece sono di nuovo davanti a noi, e tra noi. Non lo si può ignorare. Le deboli forze che in Italia e in Europa si battono per un mondo diverso ne devono prendere atto; anche se questa è in assoluto la più difficile delle battaglie che finora non siamo stati capaci di combattere, e soprattutto di vincere.
Che cosa significa infatti quel «teneteveli», rivolto non solo a Italia e Grecia, Sicilia e Puglia, ma anche a Libano, Giordania, Turchia, Egitto, che di profughi ne «ospitano» già non decine di migliaia, ma milioni? O rivolto a Libia, Tunisia, Sudan, Mali, Niger, ecc.? Paesi, questi, dove non si riesce neppure a fare una conta sommaria degli sbandati (displaced persons) e dove è ormai impossibile distinguere tra profughi di guerra, di persecuzioni politiche, religiose o etniche, di crisi ambientali o di fame e miseria (i cosiddetti migranti economici); anche se l’esito di queste tante concause è quasi sempre una guerra alimentata dal commercio di armi a beneficio di nazioni che le producono.
L’Italia affronta il problema affidandolo a malavita, mafia e malgoverno, gli strumenti tradizionali di gestione di tutte le emergenze vere o inventate: Expò, Mose, rifiuti, terremoti, alluvioni, elezioni, sanità, lavoro nero. Con i profughi, gli affari di mafia e malgoverno si associano a sfruttamento, umiliazione e degrado di coloro che vengono affidati alle loro «cure». Ma anche a crescenti motivi di timore, malcontento, rivolta aperta; a invocazione di poteri forti e soluzioni definitive (o «finali»?); a professioni di razzismo ostentate delle popolazioni locali.
Ma in che modo pensiamo che vengano gestiti in Medio Oriente i campi profughi di milioni di esseri umani senza alcuna prospettiva di ritorno alle loro terre per molti anni? E in Libia, in Sudan, o in tutti gli altri paesi verso cui li vorremmo risospingere? E che cosa ci aspettiamo che facciano i Buzzi o gli Alfano di quei paesi? Il loro lavoro sarà «farli sparire», dopo averli torturati, rapinati e violati in tutti i modi: unica alternativa alla mancata possibilità traghettarli in Europa.
Ma lo Stato italiano, lasciato solo a vedersela con flussi crescenti e incontrollabili, diventerà anch’esso destinatario dei respingi-menti: ridotto a trasformare la polizia, come già sta facendo, in «scafisti di Stato», per cercare di far passare la frontiera, in violazione della convenzione di Dublino, al maggior numero possibile di migranti; o a «esternalizzarne» la gestione a organizzazioni alla Buzzi (ma in campo c’è già anche di peggio); o ad abbandonarli per strada, inscenando fughe di massa dai luoghi di detenzione, e creando così situazioni di degrado e di effettivo pericolo con cui alimentare rivolte sempre più diffuse di comunità locali.
Che l’Italia possa rimanere «agganciata» all’Europa in una situazione del genere è difficile. Ma che l’Europa possa continuare a occuparsi di sforamenti dei deficit dello «0 virgola», senza darsi uno straccio di politica per affrontare, in una prospettiva di pacificazione, la belligeranza endemica ai suoi confini, o le derive autoritarie, nazionalistiche e razziste al suo interno, è altrettanto surreale.
D’ora in poi tutti i progetti per cambiare la società, o la distribuzione del reddito, o per difendere lavoro, territorio, scuola, sanità, cultura, diritti, dovranno confrontarsi con il problema dei profughi e dei migranti: per cercare una via di uscita pacifica e negoziata alla crisi geopolitica del Mediterraneo; e per trovare un posto e un ruolo alle centinaia di migliaia che cercano salvezza in Europa.
Una via di uscita sostenibile, accettabile per tutti, che riduca anziché esacerbare le molte ragioni di contrasto tra locali e migranti; che permetta di vivere l’arrivo di tanti profughi non come una minaccia e un peso insostenibili, bensì – lo hanno dimostrato vicende locali esemplari, come quella di Lampedusa — come un’opportunità di nuove forme di convivenza, di crescita culturale, di apertura politica, di un approccio di respiro euro-mediterraneo ai problemi quotidiani: un approccio, cioè, che riguardi al tempo stesso il nostro continente e i paesi dell’Africa, del Maghreb e del Medio Oriente.
Con un piano che deve, sì, essere europeo, ma che va messo a punto qui, cominciando a dimostrarne la fattibilità per piccoli episodi: a partire da una vigilanza e una contestazione diffuse e di massa su tutti gli affidi in materia di accoglienza e gestione dei profughi.
Innanzitutto i cittadini italiani non devono essere messi nella condizione di temere che a loro siano riservate meno risorse e meno opportunità di quelle destinate a profughi e migranti: dunque, reddito garantito e piani generali per creare lavoro e dare occupazioni e soluzioni abitative decenti a tutti (e fine, quindi, dei patti di stabilità).
Poi, autogestione: è criminale costringere i profughi «accolti» a un ozio forzato di anni e affidare a imprese cosiddette sociali la gestione di ogni aspetto della loro vita quotidiana. Assistiti e controllati, profughi e migranti possono gestire da soli risorse ed edifici riservati alla loro permanenza.
Poi devono essere distribuiti sul territorio, con misure per facilitare contatti e scambi con i locali: accesso a scuole, sanità, attività ricreative, mediazione culturale. Infine devono potersi organizzare anche sul piano politico, valorizzando i contatti tra comunità nazionali già insediate in Europa, e con chi è restato nei paesi da cui sono fuggiti.
La costruzione di una identità regionale – di una comunità euro-mediterranea, da fondare sulle macerie dell’Unione attuale, che ha dimenticato le ragioni che l’hanno fatta nascere — ha bisogno di queste cittadine e cittadini, che qui possono mettere a punto un progetto, un embrione di governo in esilio, e una road map per il riscatto politico e sociale dei loro paesi di origine.
È una strada lunga e tortuosa (come lo è stata quella che ha portato alla fondazione dell’Unione Europea), ma ineludibile per non venir sopraffatti da una guerra permanente ai confini dell’Unione e dal trionfo del razzismo al suo interno.
P.S. Questo è un tema ineludibile per la coalizione sociale, un progetto che poteva nascere un anno fa con L’Altra Europa con Tsipras, ma che è stato disatteso a favore di un ennesimo assemblaggio di inutili partitini; ma che per fortuna è stato ripreso dalla Fiom e da tutti coloro che vi si stanno impegnando.
«Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministratori, perché nulla è cambiato? Come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate».
Corriere Della Sera, 9 Giugno, 2015 (m.p.r.)
«Di nuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale.
Se c’è un aspetto che caratterizza l’elezione di Ada Colau a sindaca di Barcellona (alcaldesa, non è una corruzione del maschile alcalde) ed è l’aver fatto del diritto alla casa ed alla città la base della sua piattaforma politica. La lista civica che l’ha sostenuta, Barcelona en Comú, scaturita dalla fusione della rete di comitati e associazioni Guanyem Barcelona con una serie di partiti, ha vinto proponendo un’idea di nuovo municipalismo che chiede ai cittadini di partecipare alla gestione della città e che contrasta le politiche nazionali soprattutto riguardo alle conseguenze dell’esplosione della bolla immobiliare.
Colau è fondatrice del movimento Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH) che dal 2009 si batte per una diversa legislazione sull’insolvenza dei mutui ipotecari in Spagna, dove chi non riesce più pagare il mutuo viene buttato fuori casa dalla banca che poi la lascia vuota ma continua a chiedere il pagamento delle rate. Numerosissimi sono stati i cittadini che dopo aver perso la casa hanno in fine deciso di rinunciare alla vita. Nel 2012 insieme ad Adrià Alemany ha pubblicato Vidas hipotecadas, uno studio sull’origine e sulle conseguenze della bolla immobiliare in Spagna che passa al setaccio il primato iberico nel tasso di possesso dell’abitazione. Prima della crisi economica la Spagna era una nazione di proprietari immobiliari, dove nove cittadini su dieci possedevano la casa in cui vivevano. Questo dato è il principale indicatore della profonda crisi che ha sconvolto il paese negli ultimi sette anni e che ha le sue radici nella politica edilizia del franchismo. La cultura proprietaria della Spagna contemporanea è la pesante eredità di un regime politico che ha fatto del settore delle costruzioni l’industria nazionale per eccellenza. L’indebitamento generalizzato che si è prodotto a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, facilitato dai vantaggi fiscali e dall’ingresso della economia spagnola in quella europea, ha fatto il resto.
All’interno di questa eredità – e del progredire del settore edilizio come una delle principali componenti del prodotto interno lordo nazionale - trova spiegazione la legge che dal 1998 disciplina l’uso del suolo, non a caso definita dell’urbanizzazione totale, il cui impressionate risultato sono 6,6 milioni di abitazioni realizzate dalla sua promulgazione fino al 2007. L’impiego in edilizia, attraverso modalità precarie che sono poi state spazzate via dalla crisi, ha riguardato il 13% della popolazione attiva: un dato doppio rispetto, ad esempio, a quello della Germania. In tutto ciò l’intervento della Stato da diretto è diventato indiretto e finalizzato in modo crescente a sostenere la domanda e l’intervento privato nell’edilizia residenziale con strumenti come la detrazione fiscale degli interessi passivi del mutuo. Il grande investimento economico del settore edilizio non ha solo fatto della Spagna una nazione di proprietari immobiliari ma ha anche disseminato il paese di seconde case per il turismo nord-europeo. Il risultato è ciò che qualche tempo fa un servizio fotografico pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian ha definito La costa del concrete, ovvero la quasi totale edificazione del litorale spagnolo che si affaccia sul Mediterraneo.
Il connubio edilizia-turismo a Barcellona significa che la città è stata progressivamente sottratta ai suoi abitanti, facendone una sorta di grande albergo diffuso. Attualmente le presenze turistiche sono tre volte e mezzo i residenti della capitale catalana e l’amministrazione uscente non trovava nulla di male nel pensare che il dato: potesse essere aumentato fino a dieci milioni l’anno. Gli effetti del turismo di massa sulla vita delle persone, il triste declino di Barcellona da metropoli trainante l’economia di un’intera regione a parco tematico - qui si dirige la maggiore quantità di navi da crociera del Mediterraneo e d’Europa - è raccontata nel documentario di Eduardo Chibàs Bye Bye Barcelona, una dettagliata denuncia della progressiva perdita dei diritti di cittadinanza da parte degli abitanti tramite l’inarrestabile privatizzazione dello spazio pubblico incessantemente messo a profitto. Da tempo le manifestazioni e le iniziative di cittadini che protestano contro l’affitto illegale di appartamenti per vacanze, fenomeno favorito dalla deregolamentazione di fatto del cambio di destinazione d’uso degli edifici residenziali in alberghi, denunciano tutto ciò. Alla Barceloneta, lo storico quartiere sul mare, ci sono state assemblee, proteste, e in un caso anche tensioni con i turisti evidentemente ignari di trovarsi in una città, scambiata invece per un villaggio vacanze o un parco a tema.
Nella piattaforma politica di Colau un’abitazione dignitosa per chi l’ha persa – nella sola Barcellona sono 3000 persone che vivono negli alberghi messi a disposizione dalla municipalità e sono 900 coloro che dormono per strada – significa innanzi tutto togliere il settore immobiliare dal dominio della finanza: nel paese con il più alto numero di abitazioni vuote il sistema bancario è diventato il principale proprietario di case. La lotta contro gli sfratti, della quale la nuova alcaldesa è stata protagonista, dopo molti anni di oblio e di retorica sulla competitività e sui costi da pagare allo sviluppo economico ha rimesso al centro dell’agenda politica i fondamentali diritti di cittadinanza. Ora il cambiamento nella governo di una delle più importanti città europee sarà interpretato da una amministrazione guidata da una donna. Lo stesso molto probabilmente succederà a Madrid con Manuela Carmena, l’altro volto femminile della svolta municipalista che ha segnato le elezioni in Spagna.
Riferimenti
A. Colau, A. Alemany, Vidas hipotecadas, Cuadrilatero de libros, 2012.
La terza guerra mondiale, nella quale siamo immersi dalla fine del Primo millennio, nella visione di un papa venuto dal Sud del mondo e dal cuore di una raffinata civiltà.
La Repubblica, 8 giugno 2015
“Scontro fra culture” al plurale, ha concesso Bergoglio, può se mai definirsi la guerra in corso. Non ci si aspetta di meno da un papa colto che ha fatto dell’understatement la propria cifra e del sottotesto il proprio mezzo; che ha adottato il motto di Ignazio di Loyola e di Hölderlin: Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est , “Scavalco il grande confinandomi nel piccolo”; che battendosi contro il “tomismo decadente” ha rivendicato il manifestarsi di dio nella rivelazione storica; il cui programma affonda nei millenni e guarda all’eredità dell’ellenismo e di Bisanzio, dunque all’ecumenismo come priorità; che sul dialogo interconfessionale, prima e oltre che interreligioso, gioca la sua partita a scacchi col secolo.
Il pontificato di Bergoglio è in questo senso erede diretto di quello del “papa geopolitico” Wojtyla. Dopo il definitivo esaurirsi nel secolo breve del fantasma imperiale postbizantino il blocco ottomano caduto al suo inizio, nel conflitto innescato proprio a Sarajevo, quello russo-sovietico dissolto alla sua fine, con la caduta del muro e il golpe di Eltsin — il millennio si è aperto su un nuovo scenario di conflitto. La Terza Guerra Mondiale a Pezzi di Bergoglio è molteplice, scava più solchi, dischiude più fronti; faglie di attrito antichissime ricominciano a entrare in moto complesso; un unico macroscopico sussulto tellurico scuote i Balcani, il Caucaso, la Mesopotamia, dilaga nel Medio Oriente, destabilizza e arroventa pezzo a pezzo le aree geografiche in cui i due imperi avevano imposto identità unitarie trasversali sia alla divisione stereotipa tra oriente e occidente, sia a quella tra religioni. È allora che si insinua nella fantasia collettiva l’idea di uno scontro frontale di civiltà tra oriente islamico e occidente cristiano.
Un’idea che Bergoglio rifiuta. Lo indica già in sé la mossa del cavallo con cui ha fatto slittare il discorso sull’islam allo scacchiere balcanico e partire il messaggio da Sarajevo, covo di antichi demoni e città martire dall’uno all’altro capo del Novecento, menzionando le sue diversità etniche e religiose, sottolineando la sua sofferenza storica, definendola “la Gerusalemme dell’occidente” con l’antico linguaggio che i papi rinascimentali applicarono a Costantinopoli nel primo frangente geopolitico che cinque secoli fa, a metà del quindicesimo, fece riflettere l’élite della curia romana sulla sorte degli equilibri mondiali alla prima islamizzazione ottomana dei Balcani.
Non è un caso che Bergoglio lanci il suo messaggio alla vigilia del G7, dove sia sulla questione ucraina, sia sui dossier Libia, Iraq e Siria il principale invitato è quello assente: il convitato di pietra Putin. Nella Terza Guerra Mondiale a Pezzi l’area slavo-balcanica interseca alla memoria islamica il più decisivo interlocutore di Bergoglio: la chiesa ortodossa, assuefatta a una perdurante fedeltà politica alla sfera russa, che già nel ’99 Julia Kristeva analizzava su Le monde partendo dalla millenaria alterità teologica tra chiesa d’oriente e d’occidente sintetizzabile nella contesa trinitaria sulla processione dello Spirito Santo. Il problema di Francesco, più ancora che quello della jihad, è quello del Filioque. È il risanamento dello scisma tra le chiese cristiane, prima ancora del patteggiamento tra cristianesimo e islam, a pesare nell’agenda del papa che per primo dopo Wojtyla, con raffinatezza gesuitica, ha ripreso il filo della geopolitica.
«Ha senso che un Paese dove la Costituzione garantisce ai cittadini l’uguaglianza di diritti abbia venti servizi sanitari diversi? Non è il momento di guardarsi allo specchio, e discuterne?».
Corriere della sera, 8 Giugno, 2015 (m.p.r.)
L a crisi delle Regioni è profonda, e per certi versi irreversibile. A certificarlo è il verdetto consegnatoci dalle ultime elezioni: il vuoto assoluto di programmi, il degrado della classe politica, la percezione degli Enti regionali come di istituzioni ipertrofiche, fonti di sprechi e inefficienze, hanno spinto molti elettori a disertare l’appuntamento con le urne. Di fronte a questa situazione, il silenzio dei partiti è assordante. E la riforma del titolo V della Costituzione rischia di essere insufficiente. Serve ben altro, se vogliamo che le Regioni smettano di essere in larga misura centri di potere fini a se stessi e diventino strumenti al servizio dei cittadini. Occorre il coraggio di mettere in discussione i meccanismi elettorali, il ruolo e le competenze, le funzioni istituzionali, i poteri reali. E occorre porsi domande scomode: hanno senso 20 sistemi sanitari diversi, sedi faraoniche, una quantità enorme di dipendenti? Hanno senso gli statuti speciali? E hanno senso Regioni con un numero di abitanti paragonabili al quartiere di una grande città?
L a crisi delle Regioni è profonda e per certi versi irreversibile. Il verdetto che ci hanno consegnato le ultime elezioni regionali, con il loro strascico di polemiche, veleni e sospetti, è senza appello. La campagna elettorale ha offerto spettacoli indecenti: e non parliamo soltanto della vicenda dei cosiddetti «impresentabili», ma anche di certi spregiudicati traslochi da uno schieramento politico all’altro. Abbiamo assistito a fatti come quelli di un governatore di sinistra che si è candidato con la destra pur di rimanere in partita, o di ex neofascisti accolti a braccia aperte dalla sinistra. Di tutto si è parlato tranne che di contenuti e programmi. Per un semplice motivo: non c’erano.