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Senza parole. «Il quotidiano inglese rivela che alcuni paesi europei, tra cui Inghilterra e Italia, starebbero trattando con il regime dell'Eritrea (una delle dittature più spietate del mondo) perché impedisca la partenza dei suoi cittadini rinforzando i controlli alle frontiere».

Il manifesto, 16 giugno 2015

Non ha ancora un nome, piano C o piano D, il pre­sunto accordo segreto tra alcuni stati euro­pei e l’Eritrea rive­lato ieri dal quo­ti­diano inglese The Guar­dian. Di sicuro, se con­fer­mato, sarebbe un piano con­cor­dato con uno stato che i fun­zio­nari delle Nazioni Unite e diverse orga­niz­za­zioni per i diritti umani chia­mano “la Corea del Nord dell’Africa”, tanto per dare l’idea del rispetto dei diritti umani in un regime repres­sivo e san­gui­na­rio come quello del pre­si­dente Isa­ias Afwerki. Secondo il quo­ti­diano inglese, che spesso rivela noti­zie sco­mode per i governi euro­pei che stanno anna­spando di fronte alla cosid­detta “emer­genza” immi­gra­zione — come quando ha reso pub­blico un docu­mento in cui si par­lava di ope­ra­zioni di terra in Libia per distrug­gere le bar­che degli sca­fi­sti — alcuni paesi avreb­bero avviato delle trat­ta­tive segrete per con­vin­cere il regime eri­treo a rin­for­zare i con­trolli alle fron­tiere. L’obiettivo pre­fi­gura un disa­stro uma­ni­ta­rio: blin­dare i con­fini per impe­dire con la forza la fuga dei cit­ta­dini eri­trei verso l’Europa. Ci sarebbe anche un pre­mio: in cam­bio arri­ve­reb­bero soldi oppure un ammor­bi­di­mento delle sanzioni.

Per que­sto motivo è già finito nel mirino il segre­ta­rio di stato nor­ve­gese Joran Kell­myr che si sarebbe recato in Eri­trea per con­cor­dare l’ipotesi di poter rispe­dire indie­tro i pro­fu­ghi eri­trei, facendo carta strac­cia del diritto di asilo. La rive­la­zione per ora avrebbe coin­volto anche altri due governi euro­pei: quello inglese (il mini­stero degli Interni di sua Mae­stà non ha voluto com­men­tare) e quello pre­sie­duto dalla cop­pia Renzi-Alfano (anche a Roma tutto tace). Secondo l’articolo pub­bli­cato ieri, infatti, anche fun­zio­nari ita­liani e bri­tan­nici avreb­bero viag­giato fino ad Asmara per testare la dispo­ni­bi­lità del regime eri­treo a col­la­bo­rare per brac­care i migranti sui con­fini. Una rive­la­zione piut­to­sto vero­si­mile visto che nel 2014 il 22% delle per­sone arri­vate in Ita­lia via mare pro­ve­niva pro­prio dall’Eritrea.

Gli eri­trei, dopo i siriani, sono i migranti più nume­rosi che cer­cano for­tuna sfi­dando la morte sulle rive del Medi­ter­ra­neo per entrare in Europa (circa due­cento al giorno lasciano l’Eritrea). Pro­prio la set­ti­mana scorsa alle Nazioni Unite è stato pub­bli­cato un rap­porto molto espli­cito sulla “cul­tura del ter­rore” che domina in Eri­trea, si parla di arre­sti som­mari, stu­pri e tor­ture siste­ma­tici, un ser­vi­zio mili­tare che viene equi­pa­rato alla schia­vitù, per­se­cu­zioni poli­ti­che ed ese­cu­zioni som­ma­rie. Nono­stante que­sta situa­zione, Nor­ve­gia e Inghil­terra nel corso del 2015 hanno già rifiu­tato molte domande di asilo poli­tico di cit­ta­dini eri­trei soste­nendo che si trat­tava di migranti per motivi eco­no­mici (il tasso di rifiuto è pas­sato dal 13% del 2014 al 23% dei primi sei mesi del 2015). “E’ evi­dente — ha dichia­rato un fun­zio­na­rio dell’Onu – che in Europa c’è una volontà poli­tica di risol­vere la crisi dei migranti chie­dendo la chiu­sura dei con­fini dell’Eritrea ed è una tat­tica molto peri­co­losa”. C’è addi­rit­tura chi teme che il regime possa spa­rare ai migranti in fuga.

Secondo un fun­zio­na­rio inglese del mini­stero degli Interni non ci sareb­bero piani imme­diati per cam­biare poli­tica nei con­fronti dell’Eritrea. E, comun­que, “noi pren­de­remo in con­si­de­ra­zione con atten­zione i risul­tati del rap­porto delle Nazioni Unite”. Spe­riamo che Mat­teo Renzi e Ange­lino Alfano, nel caso, fac­ciano altrettanto.

E' tutta colpa del M5S se a Venezia ha vinto quella destra? Articoli di Norma Rangeri ed Ernesto Milanesi e intervista a Davide Scano. Il manifesto, 16 giugno 2015

NEL DESERTO DELLE URNE
di Norma Rangeri

Il manifesto, 16 giugno 2015

Se dopo le ele­zioni regio­nali erano suo­nati i cam­pa­nelli d’allarme, dopo il voto comu­nale si sono messe all’opera pro­prio tutte le cam­pane. Innan­zi­tutto per Renzi e per il suo par­tito, che adesso non prova nep­pure a mini­miz­zare e parla aper­ta­mente di «una sconfitta».

La dop­pia bato­sta di Vene­zia e Arezzo, ven­ten­nali roc­ca­forti del cen­tro­si­ni­stra, col­pi­sce il premier-segretario sia come pre­si­dente del con­si­glio che come lea­der di par­tito. Né Cas­son, un can­di­dato che avrebbe dovuto fare il pieno dei voti di sini­stra, né il ren­zia­nis­simo Brac­cialli che avrebbe dovuto sfon­dare nel campo avverso, hanno avuto il con­senso degli elet­tori. Al con­tra­rio, in Laguna come nella pro­vin­cia toscana, sono stati pre­miati un impren­di­tore e un inge­gnere, due por­ta­ban­diera delle forze di cen­tro­de­stra, espo­nenti della società utili a nascon­dere i par­titi sotto il tap­peto. Ha poco di che ral­le­grarsi il vivace Bru­netta con Forza Ita­lia che a Vene­zia non arriva nem­meno al 4%, e hanno poco da recri­mi­nare sulle divi­sioni quelli del Pd se pro­prio il par­tito è stato abbon­dan­te­mente supe­rato dalla lista di Casson.

L’altro ele­mento rile­vante del voto è l’errore di sot­to­va­lu­tare l’avversario dan­dolo per scon­fitto in par­tenza o con­si­de­ran­dolo facil­mente bat­ti­bile. Come sem­pre, come fin dall’esordio del ber­lu­sco­ni­smo, a destra non trova casa il virus del tafaz­zi­smo, tipica pato­lo­gia della sini­stra, e quando è il momento le divi­sioni si annul­lano e il car­tello si mostra compatto.

Il tafaz­zi­smo, invece, ha con­ta­giato il Movi­mento dei 5Stelle, con­qui­stato dal tanto peg­gio tanto meglio. Nella spe­ranza di rac­co­gliere i frutti che gli avver­sari (tutto il Par­la­mento) non sono in grado di ripren­dere. Ma que­sto riguarda il futuro. Qui e ora va detto che se il M5S strappa qual­che impor­tante comune segnando un’altra tappa del suo radi­ca­mento, resta che il Movi­mento soprat­tutto si distin­gue per fare da spalla al centro-destra. Come dimo­stra in pieno il caso Venezia.

Non votare Cas­son signi­fica non soste­nere un per­so­nag­gio - un magi­strato - e una poli­tica - one­stà e mani pulite - che rien­tra per­fet­ta­mente nella cul­tura pen­ta­stel­lata. Se le scelte avve­nute alle regio­nali erano oltre­modo legit­time - un’organizzazione che rac­co­glie un con­senso ampio, deve essere ambi­ziosa - quella di non par­te­ci­pare al bal­lot­tag­gio vene­ziano è distrut­tiva e autodistruttiva.

Ma chi deve pre­oc­cu­parsi più di tutti è il premier/segretario. Dopo que­sto impor­tante voto ammi­ni­stra­tivo Renzi dovrebbe pre­stare meno atten­zione alla gran­cassa media­tica che gli suona la sere­nata e avere mag­gior cura alla realtà del paese per quella che è. Se il Pd perde sia con un can­di­dato di sini­stra che con uno di destra, vuol dire che lo sfon­da­mento al cen­tro è una chi­mera e la ricon­qui­sta di un con­senso a sini­stra un’illusione. Anche per­ché l’unico dato nazio­nale incon­tro­ver­ti­bile, indi­scu­ti­bile e appa­ren­te­mente anche invin­ci­bile resta l’astensionismo. Che col­pi­sce tutti, poli­tica e anti­po­li­tica, destra e sinistra.

La fuga dalle urne e l’emorragia di voti del Pd smen­ti­scono le magni­fi­che sorti delle fur­bi­zie costi­tu­zio­nali (l’Italicum) e delle scor­cia­toie libe­ri­ste (jobs act). Del resto la tra­ge­dia delle migra­zioni, che attra­versa i nostri ter­ri­tori met­tendo in forse per­sino la fron­tiera dell’umana soli­da­rietà, è testi­mo­nianza suf­fi­ciente per con­si­gliare di tor­nare con i piedi per terra.

CASSON AFFONDA UN'ALTRA VOLTA
di Ernesto Milanesi
. Storica vittoria del centrodestra con Luigi Brugnaro. Come nel 2005 l’ex pm sconfitto al ballottaggio, nonostante 1.540 voti in più rispetto al primo turno. E nel Pd si apre la caccia ai «traditori»

La sto­ria si ripete: Felice Cas­son affonda un’altra volta nel bal­lot­tag­gio. E se nel 2005 era un «derby» con la filo­so­fia ammi­ni­stra­tiva di Mas­simo Cac­ciari tar­gato Mar­ghe­rita, dome­nica la scon­fitta dell’intero cen­tro­si­ni­stra ha spa­lan­cato le porte di Ca’ Far­setti a Luigi Bru­gnaro, alla Lega Nord, al “civi­smo” di Fran­ce­sca Zac­ca­riotto e ai rigur­giti di fasci­smo.

L’ex pm e sena­tore Pd “dis­so­nante” è stato con­dan­nato dalle urne la seconda volta senza appello. Una notte da incubo, fin dai pri­mis­simi risultati. Un ver­detto che bru­cia ogni cer­tezza e squa­derna l’abisso. Con Cas­son che va k.o. dieci anni dopo, s’inabissano la «ditta» d’altri tempi, l’eredità ros­so­verde e per­fino il popolo della sini­stra. Nel deserto di Zaia­land ci si può a mala pena arroc­care nei muni­cipi peri­fe­rici (Tre­viso, Vicenza, Bel­luno), per­ché l’«effetto Bitonci» è dila­gato da Padova a Rovigo men­tre la «cata­strofe Moretti» ha tra­volto anche Venezia.

Il risul­tato del bal­lot­tag­gio è impie­toso. Lo scarto finale è 6.567 voti, cifra che non ammette repli­che. Solo la mar­cia trion­fale di Bru­gnaro (il figlio del poeta-operaio, che ora è paròn di Umana, della Reyer, della Mise­ri­cor­dia e della città…) dal quar­tier gene­rale in Calle del Sale fino alla stanza dei bot­toni sul Canal Grande. E il silen­zio di Cas­son che via Twit­ter rin­gra­zia i soste­ni­tori e si eclissa.

È dav­vero l’ammainabandiera di Vene­zia “rossa” con Gio­vanni Bat­ti­sta Gian­quinto, poi “rifor­mi­sta” con Gianni Pel­li­cani e “demo­cra­tica” con Cac­ciari, Paolo Costa e Gior­gio Orsoni. È una svolta dav­vero sto­rica, per­ché biso­gna risa­lire al 1990–93 per ritro­vare un sin­daco diverso: Ugo Ber­gamo, nota­bile Dc, non a caso rie­merso fra i sup­por­ter di Brugnaro.

In due set­ti­mane, laguna e ter­ra­ferma hanno matu­rato il dra­stico cam­bio di sce­na­rio, non solo poli­tico. Bru­gnaro ha con­vinto per­fino sestrieri come Castello, “roc­ca­forti” come Mar­ghera e l’intero Lido. E con il 10% in meno di votanti rispetto al primo turno, la coa­li­zione di cen­tro­de­stra si è para­dos­sal­mente impo­sta senza nem­meno fare il pieno dei pro­pri con­sensi. Bru­gnaro ha chiuso con 54.405 pre­fe­renze con­tro le 47.838 di Cas­son. Ma sulla carta gli appa­ren­ta­menti avreb­bero dovuto som­mare ai 34.790 voti fuc­sia, i 14.482 della Lega e gli 8.292 della Civica Zac­ca­riotto per un totale di 57.564.

Al con­tra­rio, lo schie­ra­mento Civica Cas­son, Pd, Verdi, Sel, Socia­li­sti e Cd par­tiva dai 46.298 voti del primo turno. Ma è lam­pante che quei 1.540 elet­tori in più di dome­nica non hanno com­pen­sato gli asten­sio­ni­sti incal­liti e nem­meno i «tra­di­tori» nel segreto dell’urna. I primi incar­nano forse l’effetto Mose, ma anche la disil­lu­sione nei con­fronti del Pd nazio­nale e lagu­nare. Ma gli altri rive­lano il bizan­ti­ni­smo busi­ness orien­ted di lobby, salotti e man­da­rini che fin dalle Pri­ma­rie hanno messo sab­bia nel motore di Casson.

Non è un mistero per nes­suno che a Vene­zia (e nel Veneto) il «sistema Galan»contasse sulla con­cer­ta­zione for­mato Con­sor­zio Vene­zia Nuova. Da almeno un anno erano al lavoro, su oppo­ste sponde, i vec­chi “refe­renti” dei nuovi equi­li­bri. Hanno sba­ra­gliato il campo e si pre­pa­rano ad un lustro all’insegna della sin­to­nia fra il gover­na­tore post-leghista Luca Zaia e il sin­daco post-berlusconiano Bru­gnaro. Forse, non è un caso che i rispet­tivi “par­titi elet­to­rali” abbiano mono­po­liz­zato i con­sensi tanto alle Regio­nali come alle Comunali…

Vene­zia, poi, rias­sume la più deva­stante deriva demo­krac. Il par­tito col­las­sato ben prima e peg­gio di Ale Moretti e Cas­son. L’eredità euro­pea dis­si­pata ad ogni angolo del Nord Est (sin­to­ma­tico Por­to­gruaro, dove Maria Teresa Sena­tore umi­lia il desi­gnato Pd che aveva 17 punti di van­tag­gio). E la deriva impaz­zita dei sin­daci anti-migranti, sce­riffi e deci­sio­ni­sti che riduce a simu­la­cro iscritti, cir­coli e dirigenti.

«Il Pd a Vene­zia ha rac­colto quel che ha semi­nato» sin­te­tizza Tom­maso Cac­ciari, atti­vi­sta del labo­ra­to­rio Morion e del Comi­tato No Grandi Navi. Tant’è che in ter­ra­ferma, nel cen­tro sto­rico e nelle isole nes­suno punta l’indice su Cas­son e tutti pre­fe­ri­scono aprire la cac­cia ai «bat­ti­tori liberi» tar­gati Pd. Sus­surri e grida su ven­dette per­so­na­liz­zate, indi­ca­zioni ere­ti­che alla guar­dia impe­riale dell’ex Pci, addi­rit­tura voti di scam­bio nel bal­lot­tag­gio di pro­ject, appalti e cantieri.

Intanto, a Vene­zia si riparte dalle muni­ci­pa­lità (5 di cen­tro­si­ni­stra, solo Favaro con Bru­gnaro). E dalle 883 pre­fe­renze di Nicola Pel­li­cani, scon­fitto alle Pri­ma­rie da Cas­son e poi capo­li­sta della sua lista civica.

L’M5S SCANO: «LA SCONFITTA DI CASSON COLPA NOSTRA?
NO, DEL SISTEMA PD»
intervista di Ernesto Milanesi a Davide Scano

Equi­di­stante. Dall’inizio alla fine. Senza sconti né rim­pianti. Davide Scano, 39 anni, avvo­cato, spo­sato con due figli, non accetta impu­ta­zioni per la con­qui­sta di Vene­zia da parte del cen­tro­de­stra. Anzi, difende senza appello la stra­te­gia “gril­lina” den­tro e fuori le urne: «A chi dice che la scon­fitta è colpa nostra replico, in tutta sin­ce­rità: è una vera scioc­chezza. Cas­son, Pd e cen­tro­si­ni­stra non hanno certo perso per il Movi­mento 5 Stelle. Respingo al mit­tente que­sta “rico­stru­zione” a nome di tutto il nostro gruppo».

Allora per­ché Cas­son ha perso la sfida di domenica?
A tanti era risul­tato assai poco cre­di­bile l’impianto del cen­tro­si­ni­stra. Nep­pure al bal­lot­tag­gio il can­di­dato e ciò che gli sta die­tro hanno potuto con­vin­cere. Signi­fica, se mai, non aver colto e capito che i segnali di cam­bia­mento matu­rati a Vene­zia sono più forti del pan­tano in cui si dibatte il Par­tito democratico.

Eppure Cas­son aveva sot­to­scritto le vostre cin­que richieste-chiave…
In tutta la cam­pa­gna elet­to­rale si è mosso pre­oc­cu­pato di non scon­ten­tare nes­suno. E non ha mai dimo­strato, dav­vero e fino in fondo, un impeto di corag­gio o un’iniziativa decisa nei con­fronti del pas­sato o di alcuni “set­tori” della sua coa­li­zione. Tant’è che già al primo turno il cen­tro­si­ni­stra ha scon­tato un altis­simo tasso di astensioni.

Ha pesato lo “scan­dalo Mose” che giu­sto un anno fa aveva costretto il sin­daco Gior­gio Orsoni alle dimissioni?

Non solo. Il vero punto è che i gior­nali nazio­nali e locali non hanno rac­con­tato Vene­zia, per­fino al di là degli arre­sti e delle inda­gini della Pro­cura. Il Comune viene infatti da decenni di pes­sime ammi­ni­stra­zioni: con­cen­trate sulle con­ni­venze con le cate­go­rie e sul clien­te­li­smo. Era tutto inges­sato, men­tre si but­ta­vano soldi dalla finestra.

Per­ché, secondo il M5S, nem­meno un ex pm e un’alleanza all’insegna della della mas­sima tra­spa­renza basta­vano a “sal­vare” Venezia?
Abbiamo cal­co­lato che dal 2007 a oggi è stato sven­duto patri­mo­nio comu­nale per com­ples­sivi 500 milioni: azioni Save e delle Società auto­strade, ma anche palazzi e altri immo­bili. Attual­mente, Ca’ Far­setti è som­mersa da debiti per un miliardo e mezzo di euro, di cui 200 milioni sono i fami­ge­rati deri­vati. Poi c’è il Casinò che va a ramengo a causa delle clau­sole con­trat­tuali dei dipen­denti per cui non si può nem­meno pun­tare sui nuovi gio­chi che ora vanno per la mag­giore. Senza dimen­ti­care un altro dato elo­quente: a Vene­zia si spen­dono due milioni di euro all’anno in con­su­lenze esterne, anche se ci sono 3.300 dipen­denti comu­nali più altri 7 mila delle società partecipate.

Scusi, Scano, ora che farete?
Noi siamo post-ideologici. In aula con le due col­le­ghe elette faremo oppo­si­zione più seria, per­ché anche pro­po­si­tiva. Ci votano come “cani da guar­dia”, ma a Vene­zia non siamo neo­fiti e pos­siamo con­tare su una rete ormai con­so­li­data di cit­ta­dini attivi.

Niente sconti nem­meno a Brugnaro?
Lui ha pro­vato spesso ad ammic­care, anche prima del bal­lot­tag­gio. Pec­cato che sol­tanto la sua vec­chia idea di urba­ni­stica e la par­tita delle Grandi Navi non lasciano mar­gini né dubbi al nostro giudizio.

Ma, insomma, qual è stata la vera chiave di volta del ballottaggio?
Porto e aero­porto, soprat­tutto, direi. Da una parte, quel che ruota intorno alla Marit­tima. E dall’altra il “giro” del Marco Polo, com­presi i pro­getti nel qua­drante Tes­sera. Noi, comun­que, aspet­tiamo Bru­gnaro anche sulle nuove linee del tram ex Lohr, visto che i costi sono lie­vi­tati da 127 a 208 milioni. Il nuovo sin­daco, forse un po’ mal con­si­gliato, sostiene che occorre por­tare il tram fino all’ospedale. Pec­cato che nella vera città metro­po­li­tana basta già la fer­mata del Smfr, senza biso­gno di dirot­tare tante altre linee di tra­sporto pubblico.

Ala solidarietà è l’unica strada per arginare futuri disastri, anche se il prezzo dei sacrifici che pagheremo sarà molto alto. Non ci sono alternative, se non si vuole che la rabbia egli esclusi, cacciati dalle loro terre dagli errori del Primo mondo, esploda cancellando quello che incontrano sul loro cammino. La Repubblica

ZYGMUNT Bauman, oggi uno dei pensatori più influenti del mondo, è stato più volte esule. La prima volta, quando nel 1939, giovane ebreo, scappò dalla Polonia verso la Russia, in condizioni simili a quelle dei profughi che, scampati alle guerre e alla traversata del Mediterraneo, sono in questo momento oggetto più delle nostre paure che di nostra solidarietà. E la dialettica dell’integrazione ed espulsione dei gruppi sociali ai tempi della modernità è uno dei temi che più ha approfondito nelle sue opere. Con Bauman abbiamo parlato di quello che intorno alla questione profughi succede in questi giorni in Italia; tra una destra razzista e una sinistra che stenta ad affrontare le paure di una parte della popolazione.
Sembra che non siamo in grado di far fronte alla questione immigrati.
«Il volume e la velocità dell’attuale ondata migratoria è una novità e un fenomeno senza precedenti. Non c’è motivo di stupirsi che abbia trovato i politici e i cittadini impreparati: materialmente e spiritualmente. La vista migliaia di persone sradicate accampate alle stazioni provoca uno shock morale e una sensazione di allarme e angoscia, come sempre accade nelle situazioni in cui abbiamo l’impressione che “le cose sfuggono al nostro controllo”. Ma a guardare bene i modelli sociali e politici con cui si risponde abitualmente alle situazioni di “crisi”, nell’attuale “emergenza immigrati”, ci sono poche novità. Fin dall’inizio della modernità fuggiaschi dalla brutalità delle guerre e dei dispotismi, dalla vita senza speranza, hanno bussato alle nostre porte. Per la gente da qua della porta, queste persone sono sempre state “estranei”, “altri”».

Quindi ne abbiamo paura. Per quale motivo?
«Perché sembrano spaventosamente imprevedibili nei loro comportamenti, a differenza delle persone con cui abbiamo a che fare nella nostra quotidianità e da cui sappiamo cosa aspettarci. Gli stranieri potrebbero distruggere le cose che ci piacciono e mettere a repentaglio i nostri modi di vita. Degli stranieri sappiamo troppo poco per essere in grado di leggere i loro modi di comportarsi, di indovinare quali sono le loro intenzioni e cosa faranno domani. La nostra ignoranza su che cosa fare in una situazione che non controlliamo è il maggior motivo della nostra paura».

La paura porta a creare capri espiatori? E per questo che si parla degli immigrati come portatori di malattie? E le malattie sono metafore del nostro disagio sociale?
«In tempi di accentuata mancanza di certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano quanto avremmo preferito rimuovere: ci rendono presente quanto forze potenti, globali, distanti di cui abbiamo sentito parlare, ma che rimangono per noi ineffabili, quanto queste forze misteriose, siano in grado di determinare le nostre vite, senza curarsi e anzi e ignorando le nostre autonome scelte. Ora, i nuovi nomadi, gli immigrati, vittime collaterali di queste forze, per una sorta di logica perversa finiscono per essere percepiti invece come le avanguardie di un esercito ostile, truppe al servizio delle forze misteriose appunto, che sta piantando le tende in mezzo a noi. Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un’abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso soggetti, per così dire “vicari”, verso gli immigrati, appunto».

Sta parlando del meccanismo grazie a cui crescono i consensi delle forze politiche razziste e xenofobe?
«Ci sono partiti abituati a trarre il loro capitale di voti opponendosi alla “redistribuzione delle difficoltà” (o dei vantaggi), e cioè rifiutandosi di condividere il benessere dei loro elettori con la parte meno fortunata della nazionale, del paese, del continente (per esempio Lega Nord). Si tratta di una tendenza intravvista o meglio, preannunciata molto tempo fa nel film Napoletani a Milano , del 1953, di Eduardo De Filippo, e manifestata negli ultimi anni con il rifiuto di condividere il benessere dei lombardi con le parti meno fortunate del paese. Alla luce di questa tradizione era del tutto prevedibile l’appello di Matteo Salvini e di Roberto Maroni ai sindaci della Lega di seguire le indicazioni del loro partito e non accettare gli immigrati nelle loro città, come era prevedibile la richiesta di Luca Zaia di espellere i nuovi arrivati dalla regione Veneto».

Una volta, in Europa, era la sinistra a integrare gli immigrati, attraverso le organizzazioni sul territorio, sindacati, lavoro politico...
«Intanto non ci sono più quartieri degli operai, mancano le istituzioni e le forme di aggregazione dei lavoratori. Ma soprattutto, la sinistra, o l’erede ufficiale di quella che era la sinistra, nel suo programma, ammicca alla destra con una promessa: faremo quello che fate voi, ma meglio. Tutte queste reazioni sono lontane dalle cause vere della tragedia cui siamo testimoni. Sto parlando infatti di una retorica che non ci aiuta a evitare di inabissarci sempre più profondamente nelle torbide acque dell’indifferenza e della mancanza dell’umanità. Tutto questo è il contrario all’imperativo kantiano di non fare ad altro ciò che non vogliamo sia fatto a noi».

E allora che fare?
«Siamo chiamati a unire e non dividere. Qualunque sia il prezzo della solidarietà con le vittime collaterali e dirette della forze della globalizzazione che regnano secondo il principio Divide et Impera, qualunque sia il prezzo dei sacrifici che dovremo pagare nell’immediato, a lungo termine, la solidarietà rimane l’unica via possibile per dare una forma realistica alla speranza di arginare futuri disastri e di non peggiorare la catastrofe in corso».

«A Venezia il partito non aveva da tempo una buona immagine e Casson non è bastato a rinnovarla, forse anche perché non ci ha provato abbastanza».

La Repubblica, 15 giugno 2015

Venezia scivola verso il centrodestra dopo oltre vent’anni di sindaci di sinistra. È il dato senza dubbio più significativo dei ballottaggi nelle città. Venezia città di frontiera sul piano politico, dentro i confini di una regione tradizionalmente amministrata dal centrodestra, prima Forza Italia e ora la Lega. Venezia laboratorio politico, se così si può dire: tant’è che con Massimo Cacciari ha vissuto l’esperimento di un centrosinistra che contendeva i voti alla marea montante leghista, nel tentativo di suggerire un cambio di passo al partito romano (prima Ds, poi Pd) e di imporre la “questione settentrionale” come problema politico cruciale che la sinistra non poteva ignorare.

Ebbene, Venezia ha smesso di fidarsi del Partito democratico dopo anni di disillusioni. E non si è fidata nemmeno di Felice Casson, l’ex magistrato, il candidato scelto attraverso il solito meccanismo delle primarie. Personaggio connotato come anti-Renzi, Casson; anzi, uno dei più tenaci e puntuali in Parlamento fra gli oppositori del presidente del Consiglio, tanto da essere etichettato come seguace di Civati. Ne deriva che Renzi non piangerà troppo per la sua sconfitta, visto che stavolta si tratta della disfatta di un avversario interno. In realtà per il premier sarebbe stato necessario vincere. Perdere nella più importante delle città in cui si è votato al secondo turno, è in ogni caso un passaggio a vuoto in un momento in cui Palazzo Chigi avrebbe bisogno di buone notizie e non della conferma di trovarsi nel mezzo di un periodo grigio.
Certo, questo risultato non influirà sul quadro nazionale. Ma sarebbe un errore sottovalutare i messaggi che gli elettori veneziani hanno mandato a Roma. Il primo è appunto che il Pd sta attraversando un periodo mediocre. A Venezia il partito non aveva da tempo una buona immagine e Casson non è bastato a rinnovarla, forse anche perché non ci ha provato abbastanza. Si conferma in ogni caso che oggi al Nord sono in difficoltà tanto i candidati vicini al presidente del Consiglio (e segretario del Pd) quanto i suoi avversari, portatori di una diversa idea del partito. Perdono sia le Moretti e le Paita, alle regionali, come i Casson alle comunali.
L’ex magistrato non è riuscito a convogliare su di sé i voti dei Cinque Stelle. Probabilmente gli elettori di Grillo sono rimasti a casa, in buona compagnia visto che circa il 52 per cento dei veneziani non si è scomodato per il secondo turno. Sta di fatto che la vittoria di Brugnaro, uomo pratico con la patina di indipendente, capace di battere sul problema del momento, la sicurezza, indica una notevole capacità di aggregazione da parte di un “uomo nuovo” o che riesce ad apparire tale. Niente Berlusconi a Venezia, niente retorica dei tempi andati. Brugnaro ha nascosto i buchi neri di Forza Italia ed è riuscito a convogliare su di sé i voti di Salvini e anche quelli di un ampio arco di forze eterogenee.
I grillini, come si è detto, probabilmente si sono astenuti. Ma non è senza significato che così facendo abbiano favorito in modo indiretto la vittoria del candidato di centrodestra. Fra un loro amico, quale Casson aveva dimostrato di essere in Parlamento, e un personaggio a loro sconosciuto come Brugnaro hanno preferito lasciar vincere quest’ultimo. È una riflessione che senza dubbio a Renzi non sfuggirà. Cosa accadrà il giorno in cui si voterà per le politiche nazionali con l’Italicum? Quel giorno Renzi andrà al ballottaggio con il Pd, ma dall’altra parte potrebbe trovarsi di fronte una coalizione eterogenea di tipo veneziano. Una coalizione, non sappiamo guidata da chi, in grado di mettere insieme leghisti e ex berlusconiani, oltre a coloro che esprimono in modo confuso un malessere e un desiderio di cambiare. È uno scenario molto pericoloso per il presidente del Consiglio. Venezia in fondo si conferma laboratorio politico. Un laboratorio per la nuova destra che cerca la sua direzione di marcia.

«Dopo trent’anni Venezia torna in mano al centrodestra. Scambio di accuse nel partito per la sconfitta di Casson. Il senatore democratico era “un candidato divisivo”, è la recriminazione. Lo ha condannato l’astensione M5S». Si apre una nuova fase, più acuta delle precedenti, di devastazione della città e della Laguna.

La Repubblica, 15 giugno 2015

Venezia. Lo psicodramma in “Largo donatori di sangue” a Mestre, al comitato di Felice Casson. Dove il sangue, figurativamente parlando, sta già scorrendo, tra shock e recriminazioni. Lo champagne a 100 metri di distanza, dove la piazza di Luigi Brugnaro festeggia con «chi non salta comunista è». Poco dopo lo stesso Brugnaro annuncia, mettendo altro sale sulla ferita: «Apriremo la nostra giunta al Pd renziano». Dopo trenta anni Venezia passa a destra, un risultato clamoroso ma non del tutto inaspettato. Il centrosinistra paga pegno un anno dopo lo scandalo del Mose che ha investito la giunta guidata dal pd Giorgio Orsoni, finito in manette e costretto a lasciare Ca’ Farsetti in mano al commissario.

La rincorsa del senatore vicino alla sinistra del Pd era cominciata sei mesi fa, con la sfida interna delle primarie vinta in scioltezza contro soprattutto il candidato appoggiato dalla maggioranza renziana, Nicola Pellicani. Anche al primo turno Casson era avanti, con il 38 per cento delle preferenze (a dispetto del 28,6 di Brugnaro). E però il centrodestra era diviso in tre liste, e aggiungendo Lega Nord più Fratelli d’Italia, la situazione era sostanzialmente capovolta.
Non è neanche mezzanotte e mezza quando a sinistra si capisce che la frittata è fatta. Le linee di pensiero sono due: tutta colpa del Pd che non ha mai sostenuto davvero Casson, proprio come avvenne nel 2005, quando mezzi Ds virarono sul ribelle Massimo Cacciari; tutta colpa dello stesso Casson, candidato sostenuto dalla sinistra radicale - “legato ai centri sociali”, l’accusa più frequente- da sempre bastian contrario dentro al Pd: insomma, troppo caratterizzato e divisivo. Tommaso Cacciari, nipote di Massimo ed esponente di primo piano della sinistra-centri sociali, si sfoga così: «Complimenti a questa sinistra di m... che regala la città alla destra, ora levatevi tutti dalle scatole».
Ma anche il più moderato Pellicani, probabilmente dal versante opposto, ribadisce lo stesso concetto: «Ora qualcuno deve assumersi le sue responsabilità. Qui serve il tabula rasa». L’ex magistrato si era presentato quasi come alternativo al suo stesso schieramento. Non è bastato questo per non venire travolto dalla slavina di chi - per dirla con Jacopo Molina, anche lui in lizza alle primarie- «ha votato contro un sistema di potere che ha governato venti anni questa città». Comunque sia, i numeri dicono che Casson ha rosso la stessa percentuale del 2005, e che i voti del primo turno sono più o meno gli stessi del secondo. Un colpo durissimo, tanto che il senatore non si fa vedere né sentire, spenge il telefono; per la seconda volta è crollato sul più bello, al ballottaggio, a un passo da quello che era diventato il sogno di una vita.
L’accusa di intelligenza con il nemico rivolta alla maggioranza del Pd e allo stesso Cacciari (zio) acquistano improvvisamente di peso grazie alle prime parole dello stesso neo sindaco. I suoi sostenitori lo accolgono con il tricolore, i cori da stadio e quelli di scherno contro Casson, lui dice che «la nostra non sarà una guida del Comune di parte, ma trasversale. I renziani sono i benvenuti, abbiamo bisogno di tutti». La sua lista civica tirata su in fretta e furia si era affermata come primo “partito” in città, e così da domani Brugnaro governerà con una maggioranza in Consiglio omogenea, legata appunto alla sua lista. Libero di stringere accordi con grande libertà, senza dover rendere conto a Forza Italia, praticamente scomparsa, ridotta al 4 per cento. Anche se il Carroccio, che al secondo turno lo ha appoggiato, avanza già pretese per il posto di direttore generale del Comune.
C’è un’altro tema, infine. Quello legato ai Cinque Stelle. Il loro 12 per cento al primo turno si è volatilizzato. Nonostante Casson fosse un candidato sindaco affine e compatibile con tutto quel mondo. Stefano Rodotá e Ferdinando Imposimatosi erano spesi per lui in più occasioni. Dalla Spagna si era fatto sentire persino il leader di Podemos Pablo Iglesias. Niente da fare. Ma i grillini non sono come gli eredi degli indignados.

Se la proposta infame dei razzisti nasce da una visione sbagliata del problema, allora è quella visione che va rovesciata: dall'espulsione all'accoglienza. A cominciare dai Rom.

Il manifesto, 14 giugno 2015

È al Roma Pride che i Radi­cali hanno comin­ciato a rac­co­gliere le firme sulle due deli­bere di ini­zia­tiva popo­lare pre­sen­tate ieri che pia­ni­fi­cano, «come finora non è mai stato fatto», il supe­ra­mento dei campi rom e la riforma dell’accoglienza ai rifu­giati. Per­ché, come dice durante la pre­sen­ta­zione in Cam­pi­do­glio il pre­si­dente di Cild Patri­zio Gon­nella, «i diritti di uno sono i diritti di tutti». «Anche que­sto ha un senso. Pro­fondo. Chi si sente escluso, mar­gi­na­liz­zato, sot­to­rap­pre­sen­tato, ha una bella occa­sione per farsi sen­tire», incita Pippo Civati.

Nella sala della Pic­cola Pro­to­mo­teca Emma Bonino cita Man­zoni: «Il buon senso ancora c’era ma se ne stava acquat­tato, com­ple­ta­mente tra­volto dal senso comune». Come al solito i Radi­cali hanno scelto il lavoro più sporco e impo­po­lare, quello più dif­fi­cile: uscire in strada per con­tra­stare il senso comune costruito e fomen­tato da anni di cam­pa­gne media­ti­che raz­zi­ste con­tro i rom e i «clan­de­stini» e che, con le rive­la­zioni sulla Mafia capi­tale, si arric­chi­sce ora di un «vele­noso sil­lo­gi­smo», come lo chiama il sena­tore Pd Luigi Man­coni, «di for­mi­da­bile sug­ge­stione»: «Se sui ser­vizi ai rom e sull’assistenza ai pro­fu­ghi si sono costruiti sistemi di cor­ru­zione e di spe­cu­la­zione, allora basta eli­mi­nare rom e rifugiati».

Così, invece di con­fi­dare ancora sull’impegno del con­si­gliere Ric­cardo Magi, pre­si­dente di Radi­cali ita­liani, o sul buon senso di (pochi) altri, un comi­tato di asso­cia­zioni — A buon diritto, 21 luglio, Cild, Arci Roma, Asgi, Un ponte per, ZaLab e Pos­si­bile (di Civati) — hanno dato vita con i Radi­cali Roma alla cam­pa­gna «Acco­glia­moci, per una capi­tale senza ghetti né ruspe». E al sin­daco Marino, Bonino e Magi «riba­di­scono la richie­sta di pre­sen­tarsi in Assem­blea capi­to­lina con una rela­zione poli­tica sul mal­fun­zio­na­mento dei con­trolli interni dell’Amministrazione e di descri­vere in modo chiaro pochi punti di riforma e di reale rot­tura che intende perseguire».

Cin­que mila firme da rac­co­gliere in tre mesi per por­tare le deli­bere in Assem­blea capi­to­lina. Che dovrà votarle, anche dopo un even­tuale rin­novo elet­to­rale, pena dif­fida presso la pre­fet­tura (azione a cui dovette ricor­rere Magi per costrin­gere l’allora pre­si­dente Mirko Coratti a calen­da­liz­zare la deli­bera sul testa­mento bio­lo­gico). La prima deli­bera pre­vede un’indagine cono­sci­tiva per ana­liz­zare le esi­genze di cia­scun nucleo fami­liare rom e sinto che vive negli otto vil­laggi di soli­da­rietà, nei quat­tro vil­laggi non attrez­zati e nei tre cen­tri di rac­colta defi­niti «discri­mi­na­tori» nella con­danna inflitta il 30 mag­gio scorso dal Tri­bu­nale di Roma al Cam­pi­do­glio, e che costano milioni di euro l’anno. Un’indagine neces­sa­ria per avviare per­corsi spe­ci­fici di vera inclusione.

È pre­vi­sta inol­tre l’elaborazione di un piano per la chiu­sura dei campi che «defi­ni­sca i tempi, i modi e gli inter­venti di accom­pa­gna­mento all’inserimento abi­ta­tivo e sociale, attin­gendo agli stan­zia­menti già pre­vi­sti e, lad­dove pos­si­bile, alle linee di finan­zia­mento euro­peo». Una serie di azioni, que­ste, che «nem­meno l’attuale asses­so­rato alle Poli­ti­che sociali sta met­tendo in atto», afferma Magi che smen­ti­sce quanto rife­rito al mani­fe­sto dall’assessora Fran­ce­sca Danese: «Un piano pronto per l’autorizzazione della giunta? A noi non risulta. Da novem­bre invece hanno in mano le nostre pro­po­ste, ma non ne abbiamo saputo più nulla».

Nem­meno i conti ripor­tati da Danese tor­nano al con­si­gliere comu­nale: «Siamo pas­sati dai 22 milioni di euro spesi effet­ti­va­mente nel 2013 nel busi­ness della “soli­da­rietà” ai campi rom (e non un euro alle fami­glie), al di là delle pre­vi­sioni ini­ziali e in nome degli inter­venti emer­gen­ziali, agli attuali 8 milioni pre­vi­sti nel bilan­cio pre­ven­tivo di cassa: come fanno a far par­tire un piano in attua­zione alla stra­te­gia nazio­nale di inclu­sione senza pre­ve­dere qual­che risorsa in più, neces­sa­ria per il lavoro di media­zione cul­tu­rale e per l’assegnazione degli alloggi?».

La seconda deli­bera pre­vede il moni­to­rag­gio e la rior­ga­niz­za­zione, attra­verso l’istituzione di una cabina di regia, del sistema di acco­glienza dei richie­denti asilo e dei tito­lari di pro­te­zione inter­na­zio­nale a Roma. «Un sistema — rife­ri­sce Clau­dio Gra­ziano di Arci Roma — che nell’ultimo anno e mezzo si è decu­plicto, pas­sando da 300 a 3 mila strut­ture di acco­glienza: resi­dence, alber­ghi, grandi cen­tri che hanno alte­rato il senso anche del sistema Sprar». E invece la solu­zione sta in un’accoglienza più dif­fusa sul ter­ri­to­rio e integrata.

Ed è urgente. Per­ché, come ammo­ni­sce Bonino, «l’Europa e l’Italia non pos­sono più sot­to­va­lu­tare il pro­blema strut­tu­rale di milioni di pro­fu­ghi che desta­bi­lizza il Sahel e tutta l’Africa. E noi non pos­siamo dimen­ti­care di quante car­rette del mare piene anche di ita­liani sono spro­fon­date tra la Prima e la Seconda guerra mondiale».

Anais Ginori intervista Marek Halter: «Oggi il problema non è più redistribuire i disperati alle frontiere ma pensare ai milioni che seguiranno» Comprendere questo è solo un primo passo per capire che cosa occorre fare. Ma proseguire il ragionamento è molto faticoso e scomodo . La Repubblica, 14 giugno 2015

FUORI da una chiesa, quante persone si fermano per dare una moneta al mendicante? Pochissime. Eppure sarebbe un dovere prescritto in tutte le religioni, anche nell’Islam. Allo stesso modo, i governi si sottraggono alla loro responsabilità morale: non esiste una legge che obbliga a essere generosi». Lo scrittore francese Marek Halter ha vissuto per dieci anni come ebreo polacco sans papiers e poi trent’anni da rifugiato politico. «Porto con me la memoria delle mie origini. Ma non voglio essere un demagogo, né un sognatore », avverte. «L’immigrazione è un tema sul quale anche noi intellettuali dobbiamo provare a ragione in modo pratico».

Cosa pensa di due paesi europei che si rimpallano migranti al confine, come accade in queste ore a Ventimiglia?
«Non è un bello spettacolo ma il governo francese non lo fa per ragioni ideologiche. È sotto pressione dell’opinione pubblica che ha paura. Dagli anni ‘60 agli anni ‘90 l’Europa viveva in una relativa tranquillità sociale. La Francia ha accolto più di un milione di francesi di Algeria. Oggi non sarebbe più possibile. C’è la crisi, esistono tre milioni di disoccupati che vivono con i sussidi. Come può reagire un francese, o un italiano, che ha paura per l’avvenire dei suoi figli vedendo arrivare migliaia di migranti?».

Si può sconfiggere il discorso della paura?
«Dovremmo tutti farci una domanda: sono pronto ad accogliere una famiglia di rifugiati a casa mia? Io lo farei, perché mi ricordo nel 1938 quando Hitler non aveva ancora deciso di massacrare tutti gli ebrei ma voleva già sbarazzarsene. Ci fu la conferenza internazionale di Evian per sapere quali paesi erano disposti ad accogliere ebrei. La sola nazione che ha risposto positivamente è stata la Repubblica Dominicana. In fondo oggi accade la stessa cosa. La reazione dei governi a Bruxelles, davanti al piano della Commissione che prevede la redistribuzione dei rifugiati, è stata la stessa di Evian: una serie di rifiuti».

Il ruolo di chi governa non dovrebbe essere proprio affrontare con lucidità emergenze come queste?
«Oggi il problema non è più redistribuire i migranti che sono a Calais o Lampedusa. Bisogna pensare ai milioni che seguiranno. Dobbiamo essere capaci di immaginare una soluzione globale per l’Africa. Abbiamo lasciato che la miseria devastasse un continente e ne paghiamo le conseguenze».

Si può trovare un’alternativa alla retorica del ritorno delle frontiere?
«Come aveva già previsto Karl Marx, il mondo è diventato uno. Ma dentro a questo mondo abbiamo creato delle disuguaglianze sociali ed economiche immense. La redistribuzione della ricchezza si fa attraverso ondate di immigrazione non controllata anche se prevedibile. Ho parlato qualche giorno fa con il presidente del Congo. Proponeva di riunire alcuni paesi africani per creare in Libia una zona sicura nella quale accogliere i rifugiati. Non sono sicuro che sia una buona idea. Ma bisogna ragionare su piccoli passi».

I campi di migranti evacuati nelle capitali, i piani Ue rifiutati, i muri anti-migranti ai confini. Qual è la differenza tra sinistra e destra sull’immigrazione?
«Magari non nelle azioni, ma almeno nelle parole. La destra non ha bisogno di trovare giustificazioni morali. La sinistra è costretta a fare dei gesti. La Francia è pronta a mandare coperte e cibo per dei migranti a patto che rimangano in Italia. Se il governo decidesse di aprire la frontiera a Ventimiglia, sa con matematica certezza che perderebbe le elezioni. E comunque la questione è complessa. Anne Hidalgo (sindaco socialista di Parigi, ndr ) ha chiesto di aprire un centro in cui accogliere i migranti. Ma per quanto tempo, e chi penserà al loro futuro? Non si tratta solo di accoglierli, bisogna anche sapere come integrarli nella società. Sono dilemmi umani che esistono dalla notte dei tempi. Caino si domanda se deve essere il guardiano di suo fratello. Di sicuro non deve essere il suo genitore ».

Perché si sente così poco la voce degli intellettuali?

«Prima erano battaglie politiche: dovevamo salvare vittime dei gulag, del regime in Cambogia o dell’apartheid in Sudafrica. Era facile. Si lanciavano campagne di boicottaggio, petizioni e manifestazioni. Erano battaglie da fare per persone che volevano la libertà. Oggi ci troviamo in una situazione imprevista: dobbiamo immaginare la condivisione della ricchezza del mondo. Certo, potremmo organizzare una manifestazione di solidarietà con i migranti a Ventimiglia. Ma sarebbe solo per darci una buona coscienza.Dovremmo tutti farci una domanda: saremmo pronti ad accogliere una famiglia di rifugiati?»
«Con la morte della discus­sione poli­tica è morta per asfis­sia anche la mente col­let­tiva, come sog­getto cri­tico». L'accettazione dello slogan della politica come cosa sporca e l'indifferenza nei coinfronti del genocidio dei profughi dalla misera e dalla guerra sono due facce della stessa medaglia.

Il manifesto, 14 giugno 2015
Qual­che giorno fa sul Cor­riere della sera è apparso un arti­colo che si inter­ro­gava sulle radici della cor­ru­zione dila­gante in Ita­lia. Gio­vanni Belar­delli invi­tava a con­si­de­rare le fina­lità per­se­guite da uomini poli­tici «spinti in via esclu­siva da mise­ra­bili aspi­ra­zioni di arric­chi­mento per­so­nale» e pun­tava il dito sulla sca­dente qua­lità di una classe diri­gente «priva di ogni aspi­ra­zione od obiet­tivo di natura poli­tica, come non era invece nella Prima Repub­blica». L’ascesa di una razza padrona del tutto indif­fe­rente alle sorti della cosa pub­blica era indi­cata tra le cause prin­ci­pali del ver­mi­naio sco­per­chiato ogni giorno dalle cro­na­che politico-giudiziarie.

In que­sto argo­mento c’è indub­bia­mente del vero, ma è pro­ba­bile che esso vada svi­lup­pato sino a coin­vol­gere gli stessi corpi sociali. Forse il tra­monto della poli­tica aiuta a com­pren­dere un feno­meno tra i più allar­manti: che il paese con­vive paci­fi­ca­mente con quella cloaca a cielo aperto che in molti ter­ri­tori (a comin­ciare dalla capi­tale) e in tanti gan­gli dello Stato cen­trale ha di fatto sosti­tuito le isti­tu­zioni della poli­tica e dell’amministrazione pub­blica. Certo non tutti appa­iono cini­ca­mente indif­fe­renti. Ma anche la rea­zione anti­po­li­tica con­verge nella pas­si­vità, tra­dendo un radi­cale disin­canto. La poli­tica appare ai più una «cosa sporca» con la quale il paese è costretto a con­vi­vere. Se pen­siamo al trauma che fu, venti e rotti anni fa, la sco­perta di Tan­gen­to­poli, non c’è para­gone. Non solo la piaga della cor­ru­zione è oggi ben più vasta e infetta. Non c’è nep­pure l’ombra dell’indignazione che allora scosse l’opinione pubblica.

Il fatto è che se non c’è più la poli­tica – il con­fronto tra cul­ture, modelli di società, pro­getti, con­ce­zioni diverse dei valori e dei fini della con­vi­venza civile – suben­tra il natu­ra­li­smo. Ci si iden­ti­fica imme­dia­ta­mente con l’esistente senza nem­meno imma­gi­nare la pos­si­bi­lità di un’alternativa. Magari si mugu­gna e si pro­te­sta, cia­scuno nel suo pic­colo. Ma intanto, forse incon­sa­pe­vol­mente, ci si ras­se­gna, per­ché così va il mondo. Il tra­monto della poli­tica è la morte della cri­tica, o nel silen­zio del risen­ti­mento o nelle grida della depre­ca­zione fine a se stessa.

Tutto ciò aiuta a spie­gare anche un’altra vicenda scon­vol­gente all’ordine del giorno: la rispo­sta ver­go­gnosa, inau­dita delle lea­der­ship euro­pee (a comin­ciare dai prin­ci­pali paesi dell’Unione) alla dram­ma­tica emer­genza uma­ni­ta­ria costi­tuita dall’arrivo in massa dei pro­fu­ghi dall’Africa. Che i Came­ron, i Mer­kel, gli Hol­lande e i Rajoy, per non par­lare dei com­mis­sari euro­pei e degli altri capi di Stato e di governo, non siano dei giganti, non c’è dub­bio. Ma biso­gna rico­no­scere che essi non mil­lan­tano affer­mando che, ove deci­des­sero di coin­vol­gere i pro­pri paesi in que­sta tra­ge­dia, rischie­reb­bero di per­dere buona parte del con­senso di cui ancora godono, e fareb­bero per di più il gioco degli impren­di­tori poli­tici del raz­zi­smo, del nazio­na­li­smo e della xenofobia.

Piac­cia o meno, si tratta di un timore fon­dato e ciò dà la misura della gra­vità del pro­blema con il quale si tratta di fare i conti. La fuga in massa dalla guerra, dal ter­rore, dalla mise­ria e dalla fame non si arre­sterà. L’Europa rimarrà a lungo per decine di milioni di per­sone una meta irri­nun­cia­bile. Il diritto di chi chiede asilo non è nego­zia­bile, ma l’ipotesi di un’immigrazione illi­mi­tata non è rea­li­stica e il rischio di una rea­zione di stampo raz­zi­sta e fasci­stoide in gran parte dei paesi euro­pei appare con­creto. Si può discu­tere fin che si vuole sulle respon­sa­bi­lità di que­sto stato di cose. Chia­mare in causa chi nell’ultimo quarto di secolo ha con­tri­buito a sca­te­nare una guerra dopo l’altra tra Corno d’Africa e Asia cen­trale, pas­sando per l’Iraq, i Bal­cani, la Libia e la Siria. Denun­ciare l’insipienza delle élite poli­ti­che euro­pee che hanno sem­pre sot­to­va­lu­tato il pro­blema, illu­den­dosi di gover­narlo con misure di tam­po­na­mento. Resta che oggi nes­suno sa come risol­verlo senza vio­lare i diritti dei migranti e al tempo stesso evi­tando in Europa ter­re­moti sociali e poli­tici che potreb­bero resu­sci­tare gli spet­tri più inquie­tanti del nostro passato.

L’Europa si è illusa di essersi libe­rata dal far­dello della pro­pria sto­ria dopo la Seconda guerra mon­diale. In realtà le ceneri dalle quali è rinata non con­te­ne­vano sol­tanto la coscienza demo­cra­tica e l’universalismo, l’illuminismo e la cul­tura dei diritti indi­vi­duali e sociali, ma anche il colo­nia­li­smo, il raz­zi­smo e la xeno­fo­bia, il nazio­na­li­smo e il comu­ni­ta­ri­smo. Nella ten­sione tra que­ste com­po­nenti dell’identità euro­pea la rivo­lu­zione neo­li­be­rale ha influito in modo deci­sivo. Non gover­nati, gli spi­riti ani­mali hanno impo­sto un fine indi­scu­ti­bile nell’impiego delle enormi risorse mate­riali e umane dispo­ni­bili nel Vec­chio con­ti­nente. Hanno decre­tato il ridursi della poli­tica ad ammi­ni­stra­zione, asser­ven­dola alla sovra­nità del capi­tale pri­vato. Come mostra da ultimo la guerra della troika con­tro la Gre­cia, hanno cri­mi­na­liz­zato e messo al bando il con­fronto cri­tico sui valori, i cri­teri di giu­di­zio e i modelli sociali. Ma l’avvento della post­de­mo­cra­zia tec­no­cra­tica ha com­por­tato un prezzo ele­va­tis­simo in ter­mini di con­sa­pe­vo­lezza e di respon­sa­bi­lità – di qua­lità etica – delle popolazioni.

Con la morte della discus­sione poli­tica è morta per asfis­sia anche la mente col­let­tiva, come sog­getto cri­tico. Le società euro­pee rista­gnano ormai da decenni in una morta gora e nei corpi sociali, ter­ro­riz­zati dalla crisi e con­se­gnati alla ripe­ti­zione di un eterno pre­sente, dila­gano le ansie e il ran­core, e ferve una ricerca mal orien­tata di sicu­rezza. Ci si rin­chiude cia­scuno nel pro­prio micro­mondo pri­vato. Il fuori inquieta, l’importante è non esserne sfio­rati. A chi comanda – non importa se inca­pace o cor­rotto – non si chiede che di essere lasciati in pace. Ma così non solo la cor­ru­zione stra­ripa, non solo l’umana pietà dile­gua. Rischia di tor­nare anche la rimossa fasci­na­zione di un’Europa fatta di caste e gerar­chie e di comu­nità chiuse agli stra­nieri e ai diversi.

Molte verità, qualche dubbio: serve davvero spegnere le guerre con le guerre? Bisognerebbe almeno prima denunciare e punire chi, nel Primo mondo, quelle guerre ha lasciato maturare, o addirittura le ha provocate.

La Repubblica, 14 giugno 2015

IL MARE, quello vero, ha ingoiato tanti esseri umani e tanti ne ha spaventati, che la lingua rilutta alle sue meravigliose metafore. Tuttavia anche noi di terraferma, siamo in alto mare. Si incappa in un gorgo e ci si affanna a uscirne, fino a perdere le forze. Forse stiamo facendo così. Fermiamoci un momento, e facciamo il punto. Abbiamo due punti cardinali, noi.

Il primo, la nostra stella, è il comandamento: restare umani. I migranti sono il nostro prossimo. Cercano la nostra mano per mettersi in salvo sulle nostre navi, per sbarcare sulla nostra terra. Questo è quanto. Coloro cui il nostro prossimo piace annegato, sono disgustosi. Noi vogliamo restare umani.

Coloro i quali si limitano ad ammonire che bisogna accogliere tutti, sono meravigliosi, purché vedano il costo. Cambiamenti così bruschi e drammatici, non si governano col richiamo alla fredda razionalità e alla calda morale. Il terreno manca, ci si sente sradicati e derubati — del proprio paesaggio famigliare, delle proprie abitudini, di sé. Quando quella soglia emotiva è superata, ricorrere all’appello alla razionalità, anche la più splendida, è come esortare alla calma una folla presa dal panico. Non importa quanto l’allarme — l’incendio, il naufragio — sia falso o vero. Quella soglia è stata in buona parte superata. Ci dividiamo fra un egoismo che si crede sacro e un altruismo che ignora come il travaso precipitoso di popolazione esasperi uno stato d’animo e minacci uno stile di vita.

Gli italiani, “brava gente”, erano andati per il mondo, e il mondo non era venuto da loro. Il ricambio è avvenuto dentro una globalizzazione che ha destituito classi — gli operai e gli artigiani, i ceti medi — che occupavano un posto riconosciuto nella gerarchia sociale e contavano su una promozione. E anche i più poveri hanno visto soppiantato il proprio titolo di ultimi da nuovi arrivati, e sono retrocessi al desolato rango di penultimi. Quelli che, davvero o in immaginazione, si vedono “ sorpassare dagli stranieri” nelle graduatorie… Nostalgia del passato e paura del futuro, non sono l’opera di neopopulisti xenofobi. (L’avvento del fascismo non fu l’opera dei fascisti). Costoro ne abusano, tanto più lucrosamente quanto meno lucida è la parte che confida di restare umana. La sinistra — chiamiamola così, per incoraggiamento — che emula la xenofobia della destra, facendole uno sconto, è destinata probabilmente a perdere, sicuramente a perdersi. Caccia agli scafisti, pescherecci affondati, il balletto sulle quote, sono un vivacchiare di espedienti.

Non che la crassa demagogia della Lega non meriti d’essere smascherata; l’ha fatto Enrico Rossi che conosce scabbia e treni pendolari. La Lega vota contro ogni partecipazione a missioni nei luoghi da cui fuggono i migranti, e però è pronta ad aprire il fuoco sui treni. Gridava che Mare Nostrum adescava i migranti. Con Triton aumentarono sia gli arrivi che gli annegati: sconfessione tragica, e hanno fatto finta di niente. Salvini ha la linea: il suo responsabile all’immigrazione, un signore nigeriano, lo accompagnerà ad Abuja, e lui chiederà “ai ministri di quel governo di che cosa hanno bisogno”: così si risolve il problema. In Nigeria: 180 milioni di abitanti, il nordest in mano a Boko Haram, mezzo paese governato dalla Sharia, petrolio e guerre civili a sud, la più forte economia africana, eccetera, e lui gli chiederà: “Di che cosa avete bisogno?”. Vorrei esserci, a vedere che faccia fanno.

Intervenire economicamente nei paesi dai quali nasce l’immigrazione, buona idea. In genere ci “interveniamo” per aiutare i dittatori a spogliarli delle loro ricchezze. L’idea è così invecchiata che viene da piangere: intervenire in Siria (quinto anno di guerra civile, 220 mila morti, 10 milioni e mezzo fra sfollati e profughi)? In Iraq? In Somalia? In Eritrea? Tali sono i paesi da cui ci arrivano gli scabbiosi.

Matteo Renzi può essere diabolicamente tentato di restare un po’ meno umano. Amato com’è, anche il Papa ha un problema. La Chiesa cattolica è il baluardo della solidarietà verso lo straniero, e però l’incupimento del sentimento popolare l’ha isolata, in questa degnissima causa, altrettanto che sui temi della sessualità o della fine della vita. Non c’è più un fondo cattolico che sorregga a sufficienza l’italiano brava gente.

Restare umani: ogni volta che ne incontriamo uno, di questi nostri simili che si giocano la vita per un sì o per un no. Intanto distinguere, e far leva sulle innumerevoli buone volontà che si adoperano nell’accoglienza, dissipatamente. Le assurde pratiche sull’asilo. Si può immaginare un Piano, e se paia troppo per i nostri tempi corti, tanti piani minori, invece di dilapidare gente nei Centri-galera e nei giardini delle giostre.

Questo movimento cesserà di essere febbrile se si addomesticherà la Grande Guerra nel vicino oriente. È quello il contagio, altro che la scabbia. Ormai ne parliamo come di un fenomeno di costume: come si passa a fil di lama senza schizzarsi, come si coprono le donne di un sudario nero. Il Califfato ha festeggiato il primo anniversario a Mosul. Là è la questione “epocale”, quello è l’altro polo del nostro impegno a restare umani. C’è una gara col tempo: se quelle guerre non saranno spente, l’Europa andrà in pezzi, e i pezzi saranno fascisti e razzisti. Andato al governo, Renzi poteva dire questo, e prima doveva convincersene. Le sorti di quelle guerre sono affare dell’Europa, quando le arriva ancora una minima risacca: milioni aspettano, nei campi di Libano, Giordania, Turchia, nei lager della Libia. Abbiamo lesinato fucilini di riporto ai curdi, e ventilato incursori subacquei al molo di Zuwara. È ridiventato un problema di Obama: il quale fa il minimo sindacale. L’Europa avrebbe qualcosa da raccontare a quei popoli martoriati: che anche lei ebbe la sua Grande Guerra fratricida, e che perché non tornasse più immaginò di federarsi, e che nonostante tutto la vita vi è ancora libera e dolce abbastanza perché gli scampati dal vicino oriente si mettano a un nuovo repentaglio per raggiungerla. I confini là non esistono più, e restaurarli è un’illusione. Un’Europa capace di queste due cose: contribuire a fermare le guerre di bande, e proporsi come un modo di convivenza rispettosa delle diversità, dovrebbe credere in se stessa. Dopotutto, lo farebbe per salvarsi.

«A Venezia, storica roccaforte, il Pd deve evitare a tutti i costi l’"effetto Moretti". Il capoluogo veneto sarà il vero termometro del turno di ballottaggio, giocato al Nord sul voto in libertà dei "grillini"».

Il manifesto, 14 giugno 2015

È il giorno della verità non sol­tanto per Felice Cas­son. L’ex pm e sena­tore “dis­so­nante” vuole scac­ciare l’incubo della scon­fitta 2005, ma il Pd deve evi­tare ad ogni costo l’«effetto Moretti» nella sto­rica roc­ca­forte e l’intero “popolo di cen­tro­si­ni­stra” può ricac­ciare l’assalto a Ca’ Far­setti della coa­li­zione di Luigi Bru­gnaro, fuc­sia di fuori e verde-nero nell’anima.

Cas­son non si è rispar­miato nel “secondo tempo” della cam­pa­gna elet­to­rale, con­clusa in piazza Fer­retto con lo spritz e la colonna sonora di Leo­nard Cohen. C’era anche Michele Emi­liano, nuovo pre­si­dente della Puglia, come testi­mo­nial: «Come l’amico Felice anch’io ero pub­blico mini­stero: incol­lavo vasi rotti, per­ché le indu­strie ave­vano già inqui­nato. Ho comin­ciato a far poli­tica per­ché volevo cam­biare il mondo. A Bari, deci­de­vano tutto quat­tro fami­glie. Vene­zia, con Bru­gnaro, rischia lo stesso». Sin­tesi efficace.

Vene­zia sarà comun­que il vero ter­mo­me­tro del turno di bal­lot­tag­gio, gio­cato al Nord sul voto in libertà dei “gril­lini”. In laguna sono uffi­cial­mente trin­ce­rati die­tro cin­que richie­ste pro­gram­ma­ti­che (gestione dei 3.300 dipen­denti comu­nali; mora­to­ria urba­ni­stica; stop al tram già costato 208 milioni; Grandi Navi fuori dalla città sto­rica; accor­pa­mento delle società par­te­ci­pate), tut­ta­via il tam tam della vigi­lia fa rim­bal­zare il soste­gno a Cas­son già espresso dalle firme di rife­ri­mento di Andrea Scanzi e Marco Travaglio.

Il voto di oggi a Vene­zia decide gli ultimi 15 seggi che garan­ti­scono la mag­gio­ranza ammi­ni­stra­tiva in aula. Cin­que sono già stati asse­gnati ai can­di­dati sin­daco (Cas­son, Bru­gnaro, Davide Scano del M5S, i civici Bel­lati e Zac­ca­riotto) e al primo turno sono stati eletti 5 con­si­glieri della lista Bru­gnaro, 4 con Cas­son, 3 del Pd, 2 del M5S e uno a testa di Lega e Fi.

Sfida aper­tis­sima a Rovigo: Nadia Romeo, 43enne del Pd, parte dal 24% nel bal­lot­tag­gio con Mas­simo Ber­ga­min (Lega-Fi) che inse­guiva con il 18% ma che conta sull’apparentamento con Paolo Avezzù di Tosi-Area popo­lare e Anto­nio Sac­car­din della lista “Mode­rati di cen­tro”. Ago della bilan­cia di nuovo i 2.589 voti M5S, ma anche i 1.380 della Sini­stra con Sel inchio­data a 541 preferenze.

Ma dall’Alto Adige si allunga lo spet­tro della prima intesa fra Lega e M5S: a Lai­ves, 17 mila abi­tanti, alla cla­mo­rosa scon­fitta della sin­daca e segre­ta­ria pro­vin­ciale Pd Liliana Di Fede era cor­ri­spo­sta l’impasse nume­rica della legge elet­to­rale a sta­tuto spe­ciale. Il nuovo sin­daco leghi­sta Chri­stian Bian­chi (ex Fra­telli d’Italia) ha però otte­nuto l’appoggio esterno dei due con­si­glieri gril­lini, soprat­tutto in alter­na­tiva al “com­pro­messo auto­no­mi­sta” Svp-Pd imploso nell’intera pro­vin­cia di Bolzano.

È pro­prio il Car­roc­cio a movi­men­tare le urne come a Faenza (58 mila abi­tanti nel Raven­nate) con Pie­tro Nenni che rischia di rivol­tarsi nella tomba. La Lega vanta un elo­quente 15,2% al primo turno, conta sul fronte di cen­tro­de­stra com­presa Forza Nuova al 3% e si appella espli­ci­ta­mente agli elet­tori di Grillo che al primo turno erano il 14%. Così Gabriele Pado­vani acca­rezza il sogno di vestire la fascia tri­co­lore, anche se Gio­vanni Mal­pezzi riparte dal 45% del primo turno. Un test dal mar­cato signi­fi­cato poli­tico, dun­que, nella regione sim­bolo del “buon­go­verno” ex Ds e del “modello” Uni­pol & Legacoop.

Si torna ai seggi anche a Man­tova: Mat­tia Palazzi (Pd, Sel, Popo­lari e Socia­li­sti) però non teme Paola Bul­ba­relli, stac­cata di 20 punti al primo turno. Invece Voghera (Pavia) avrà un nuovo sin­daco di cen­tro­de­stra per­ché per soli tre voti Pier Ezio Ghezzi non ha rag­giunto il bal­lot­tag­gio che vede in lizza il sin­daco for­zi­sta Carlo Bar­bieri e il leghi­sta Aure­lio Tor­riani. Con l’inevitabile spada di Damo­cle del ricorso che impone la veri­fica delle schede del 31 maggio…

Peri­fe­rici, ma altret­tanto signi­fi­ca­tivi, i destini dei muni­cipi di Arezzo e Lecco. In Toscana par­tita aperta fra Mat­teo Brac­ciali (Pd, 44,2% al primo turno) e Ales­san­dro Ghi­nelli (Fi-Lega-FdI, 36%). Nella città natale del ciel­lino For­mi­goni, il sin­daco uscente di cen­tro­si­ni­stra Vir­gi­nio Bri­vio (8.251 voti due dome­ni­che fa) deve veder­sela con il coe­ta­neo Alberto Negrini (5.582) che potrebbe ricom­pat­tare le anime del cen­tro­de­stra (4.253 voti al can­di­dato soste­nuto da Ncd e civi­che). Di nuovo: i 1.801 elet­tori del M5S fanno sem­pre la differenza…

«Venezia rappresenta l’ultimo baluardo e insieme il laboratorio da cui ripartire sulle macerie dell’epocale sconfitta di Alessandra Moretti alle elezioni regionali. Ma soprattutto è il simbolo del Nord Est appaltato in concessione unica». Il manifesto 13 giugno 2015

Venezia. Già senza più rappresentanza nel nuovo consiglio regionale, la città metropolitana domenica sarà a un bivio: si torna alle urne per decidere il sindaco. Ballottaggio fra Felice Casson (alla testa della coalizione disegnata fin dalle primarie) e Luigi Brugnaro (con berluscones e leghisti che sentono l’odore del sangue). I numeri del primo turno fissavano uno scarto di 11.508 voti a favore del centrosinistra. Ma, sulla carta, gli apparentamenti con il Carroccio e la lista di Francesca Zaccariotto valgono 22 mila consensi. Di conseguenza, il vero ago della bilancia sarà l’elettorato del M5S (15.348 voti con il 12,6% che vale tre seggi): fino all’ultimo Davide Scano & C si sono arroccati nella "neutralità" politica.

Eppure, è perfino banale capire qual è la posta in gioco. #Felicittà riassume la scelta di trasparenza, tutela del bene comune e Ca’ Farsetti non più ostaggio di lobby. I fucsia, invece, promettono un futuro all’insegna di cemento, interessi privati, amministrazione cannibale. Brugnaro incarna un profilo preciso: uomo di Confindustria, imprenditore del lavoro interinale con "Umana", era pronto a gestire l’isola di Poveglia come la Misericordia. E dalla sua parte si sono già schierati partiti, liste e personalità che sognano la prosecuzione del "sistema Mose" con altri mezzi: direttamente in Comune. Di più. Rispuntano personaggi a dir poco inquietanti. È il caso di Pietro Andreatta, candidato nella lista civica "Malgara 2020-Un nuovo inizio" inserita fin da subito nella coalizione di Brugnaro. Andreatta fu arrestato nel 1996 - con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Delfo Zorzi indagato per la strage di piazza Fontana - insieme all’ex segretario di Ordine Nuovo Veneto Carlo Maria Maggi e al fondatore del gruppo La Fenice di Milano Giancarlo Rognoni.
Casson ha già messo in campo la "squadra", annunciando che gli incarichi saranno assolutamente gratuiti per i suoi "superconsulenti": si tratta di Philippe Daverio (cultura e turismo) Francesco Giavazzi (economia e bilancio), Renzo Rosso (imprese e innovazione), Benedetta Arese (digitale). Le deleghe alla legge speciale per Venezia e alla sicurezza resteranno nell’ufficio del sindaco, mentre, a urne archiviate, si conoscerà anche il nome dell’esperto in materia di ordine pubblico e anti-crimine.
Brugnaro si è legato mani e piedi alla Lega Nord, che trasformerebbe il segretario provinciale Alberto Semenzato in vicesindaco. Poltrona garantita anche a Zaccariotto, ex presidente della Provincia che aveva rotto con Salvini prima di Tosi. E intanto riappare in scena Ugo Bergamo, ex sindaco democristiano… Così dieci anni dopo il ballottaggio fratricida con la Margherita di Massimo Cacciari, tutto il centrosinistra fa quadrato intorno a Casson che non si risparmia nel faccia a faccia con l’avversario come nelle iniziative fra la gente.
Venezia rappresenta l’ultimo baluardo e insieme il laboratorio da cui ripartire sulle macerie dell’epocale sconfitta di Alessandra Moretti alle elezioni regionali. Ma soprattutto è il simbolo del Nord Est appaltato in concessione unica: manager, professionisti e imprese del Consorzio Venezia Nuova rimbalzano dalle "piccole opere" sanitarie e autostradali fino ai mega-progetti futuribili in laguna come in terraferma. E un anno dopo lo "scandalo Mose" (5,4 miliardi solo in cantieri) il bivio del ballottaggio si profila davvero come una sentenza senza appello. Per Casson fa il tifo Pablo Iglesias di Podemos, mentre Marco Travaglio dalle colonne del Fatto Quotidiano ha lanciato un ultimo appello esplicito agli elettori del M5S: «Sanno bene che Casson è il più ’grillino’ del Pd e conoscono il suo curriculum di magistrato coraggioso e di uomo specchiato: proprio quello che ci vuole a Venezia per fermare le grandi navi e l’assalto alla diligenza di un patrimonio artistico, culturale e paesaggistico unico al mondo».
In ballo domenica c’è lo stesso destino della città metropolitana. Con il commissario straordinario Vittorio Zappalorto (5.926 euro e 86 cent al mese, indennità che comprende quella di prefetto a Gorizia) la scure si è abbattuta impietosa su Ca’ Farsetti: dipendenti e precari sul piede di guerra, servizi cancellati, patrimonio in vendita, preventivata stangata sul trasporto pubblico, addio al Casinò. E la nuova giunta dovrà sciogliere nodi tutt’altro che irrilevanti, come lo scavo del canale Contorta a beneficio delle "città galleggianti" o il piano urbanistico di Tessera, la rigenerazione dell’ex ospedale Umberto I e gli interventi che minacciano il Lido. Alla vigilia del ballottaggio, un’unica certezza: sarà lo spoglio più delicato della storia elettorale di Venezia. E paradossalmente sulla scheda Brugnaro da Mirano occupa la parte sinistra e Casson da Chioggia quella destra. Rosso o fucsia, alla fine sarà proclamato un sindaco foresto. Un altro segno dei tempi nella serenissima capitale di Zaialand…

Il manifesto, 12 giugno 2015, con postilla

Da set­ti­mane si agita lo spet­tro delle per­sone sbar­cate in Ita­lia per cer­care rifu­gio nel nostro o negli altri paesi euro­pei. In realtà, il loro numero dall’inizio dell’anno al 7 giu­gno è di 52.671. Quindi, poco più dei 47.708 regi­strati nello stesso periodo dell’anno scorso. Sulla base di que­sto trend è cal­co­la­bile un numero di 190.000 a fine anno (200.000 secondo altri). Come si giu­sti­fi­cano, allora, le posi­zioni estreme e i toni, talora quasi para­noici, rag­giunti nel dibat­tito su que­sto feno­meno in Ita­lia e in Europa? Dav­vero si vuol far cre­dere che l’arrivo di alcune cen­ti­naia di migliaia di per­sone costi­tui­sca una minac­cia per gli equi­li­bri eco­no­mici e sociali di un gruppo di paesi tra i più ric­chi del mondo?

In realtà, stiamo assi­stendo a una gros­so­lana mistificazione.

Intanto, sem­bra smar­rito ogni senso delle pro­por­zioni e si parla come se s’ignorassero dati di fatto signi­fi­ca­tivi. I paesi mem­bri dell’Ue, alla fine del 2013, con­ta­vano un numero di immi­grati di prima gene­ra­zione (cioè nati all’estero), rego­lar­mente regi­strati ed attivi nelle rispet­tive eco­no­mie assom­manti a più di 50 milioni, di cui circa 34 milioni nati in un paese non euro­peo. Que­sti immi­grati, come gli altri che li hanno pre­ce­duti, con­cor­rono diret­ta­mente alla pro­du­zione e alla ric­chezza di quei paesi. E non si vede pro­prio come nuovi flussi che si aggiun­gono a quelli regi­stra­tisi negli anni pre­ce­denti non pos­sono essere assor­biti con van­taggi demo­gra­fici, eco­no­mici e socio-culturali, solo che si adot­tino poli­ti­che appro­priate e posi­tive d’inclusione sociale.

In secondo luogo, invece di con­tra­stare sen­ti­menti xeno­fobi, che pure alli­gnano in parti della popo­la­zione, li si stru­men­ta­lizza e inco­rag­gia pur di gua­da­gnare con­sensi elet­to­rali nel modo più spre­giu­di­cato. L’esempio più vicino di tale irre­spon­sa­bile com­por­ta­mento viene dalle dichia­ra­zioni dei gover­na­tori di alcune delle regioni più ric­che del paese. Il loro lepe­ni­smo sem­bra igno­rare che pro­prio la van­tata ric­chezza di quelle regioni è dovuta anche al mas­sic­cio sfrut­ta­mento del lavoro degli immi­grati. Sfrut­ta­mento tanto più facile e pesante con i clan­de­stini. E que­sto ci porta dritto alla seconda misti­fi­ca­zione cui stiamo assi­stendo in Ita­lia e in Europa.

Indi­care gli immi­grati come una minac­cia serve a moti­vare misure di con­tra­sto e leggi restrit­tive che in realtà ser­vono a sfrut­tare al mas­simo il loro lavoro, indu­cen­doli a lavo­rare in nero, in impie­ghi pesanti e mal pagati, in affitto, a chia­mata e simili. Infatti, sono pro­prio le soglie di sbar­ra­mento all’integrazione, poste sem­pre più in basso, e il man­cato o dif­fi­col­toso rico­no­sci­mento dei diritti ai lavo­ra­tori immi­grati che per­met­tono ai gruppi diri­genti eco­no­mici e ai loro alleati poli­tici di sfrut­tare anche l’immigrazione per spin­gere verso la con­cor­renza al ribasso delle con­di­zioni di lavoro. In tal modo, si ren­dono più age­voli le poli­ti­che di restri­zione dei diritti dei lavo­ra­tori e di sman­tel­la­mento dello Stato sociale.

In terzo luogo, agi­tare lo spet­tro del peri­colo immi­gra­zione occulta altre respon­sa­bi­lità. Il fatto, cioè, che i mag­giori paesi euro­pei, Gran Bre­ta­gna e Fran­cia in testa, ma seguiti anche da Ger­ma­nia e Ita­lia si sono fatti pro­mo­tori, accanto agli Stati Uniti e insieme ad altri, di pesanti inter­venti politico-militari in Africa e in Medio Oriente. L’elenco è lungo. Si può comin­ciare dall’interminabile guerra in Afgha­ni­stan. Si può pro­se­guire con il sup­porto dato alla ribel­lione con­tro il regime siriano, rin­fo­co­lando con­flitti civili e reli­giosi che ora sfug­gono ad ogni con­trollo. Ancor più diretto è stato l’intervento in Libia, col risul­tato di una situa­zione, se pos­si­bile, ancor più con­fusa e ingo­ver­na­bile. Si è sof­fiato sul fuoco di vec­chi con­flitti tra le popo­la­zioni in Africa Centro-orientale per­se­guendo obiet­tivi tutt’altro che chiari. E lo stesso può dirsi per gli inter­venti in Mali e altri paesi.

Nel 2013, il numero di pro­fu­ghi che hanno cer­cato di fug­gire da zone di guerra, con­flitti civili, per­se­cu­zioni e vio­la­zioni dei diritti umani è stato di 51,2 milioni. Anche a con­si­de­rare circa un quinto di essi, vale a dire gli 11,7 milioni di per­sone che, in quell’anno, si tro­va­vano sotto il diretto man­dato dell’Alto com­mis­sa­riato per i rifu­giati delle nazioni unite e per i quali dispo­niamo di dati certi, vediamo che più della metà era costi­tuito da per­sone che fug­gi­vano dalla guerra in Afgha­ni­stan (2,5 milioni), dall’improvvisa defla­gra­zione del con­flitto in Siria (2,4 milioni), dalla recru­de­scenza degli scon­tri da tempo in atto in Soma­lia (1,1 milione). Ad essi segui­vano i pro­fu­ghi pro­ve­nienti dal Sudan, dalla Repub­blica demo­cra­tica del Congo, dal Myan­mar, dall’Iraq, dalla Colom­bia, dal Viet­nam, dall’Eritrea. Per un totale di altri 3 milioni, sem­pre nel solo 2013. Altri richie­denti asilo cer­ca­vano di scam­pare dai «nuovi» con­flitti in Mali e nella Repub­blica Centrafricana.

La grande mag­gio­ranza di que­ste e altri milioni di per­sone fug­gite da situa­zioni di peri­colo e sof­fe­renza, sem­pre nel 2013, non hanno cer­cato e tro­vato acco­glienza nei paesi più ric­chi d’Europa o negli Usa, bensì nei paesi più vicini. Paesi con un Pil pro capite basso e variante tra i 300 e i 1.500 dol­lari l’anno. Infatti, fin dallo scop­pio della guerra del 2001, il 95% degli afgani ha tro­vato rifu­gio in Paki­stan. Il Kenya ha accolto la mag­gio­ranza dei somali. Il Ciad molti suda­nesi. Men­tre altri somali e suda­nesi hanno tro­vato rifu­gio in Etio­pia, insieme a pro­fu­ghi eri­trei. I siriani si sono river­sati in mas­sima parte in Libano, Gior­da­nia e Tur­chia. Di fronte all’entità di que­sti flussi, il numero delle per­sone che, sem­pre nel 2013, hanno cer­cato pro­te­zione inter­na­zio­nale in 8 dei paesi più ric­chi dell’Ue, con Pil pro capite dai 33.000 ai 55.000 dol­lari, assom­mava a 360mila (pari all’83% dei rifu­giati in tutta l’Ue).

Que­sti dati di fatto dimo­strano l’assoluta man­canza di fon­da­mento e la totale stru­men­ta­lità che carat­te­rizza la discus­sione in atto tra i paesi mem­bri e le stesse isti­tu­zioni dell’Ue. Si discute di pat­tu­glia­menti navali, bom­bar­da­menti di bar­coni, per con­clu­dere con quello che viene defi­nito un «salto di qua­lità» nel dibat­tito e che con­si­ste­rebbe nella pro­po­sta di acco­gliere nei 28 paesi mem­bri dell’Ue un totale di 40.000 rifu­giati in due anni. Men­tre, nel 2013, Paki­stan, Iran, Libano, Gior­da­nia, Tur­chia, Kenya, Ciad, Etio­pia, da soli, ne hanno accolti 5.439.700. Il che signi­fica che un gruppo di paesi, il cui Pil è 1/5 di quello dei paesi dell’Ue, ha accolto in un anno un numero di immi­grati e rifu­giati che è 136 volte più grande del numero di quelli che sono dispo­sti ad acco­gliere i paesi della grande Europa in due anni! Ma per­fino que­sta misera pro­po­sta viene ora messa in discus­sione, dato anche l’atteggiamento nega­tivo di paesi come la Gran Bre­ta­gna e la Fran­cia, che pure si auto­de­fi­ni­scono grandi e civili. Lo spet­ta­colo di tanta pochezza poli­tica e morale induce a chie­dersi se i nostri gover­nanti e i diri­genti di Bru­xel­les si ren­dono conto che stanno asse­stando un altro colpo alla cre­di­bi­lità dell’Unione europea.

postilla

Tanto più indignano le reazioni - di troppi eletti e troppi elettori - in quanto la penisola chiamata Italia è abitata da popoli che hanno conosciuto tutti analoghe storie di fuga dalla miseria o dalla guerra. Quanti di noi italiani sono stati profughi nella prima guerra mondiale dopo la disfatta di Caporetto, o durante la Seconda per i bombardamenti e l'avanzata nel Sud, o cacciate dai campi e fuggiti nel Belgio o in Argentina, o cacciati dal loro Polesine dall'esondazione del Po... Sono ben pochi che hanno compreso come quella che viviamo sia l'esodo inarrestabile di un un'area che comprende più ancora che un intero continente, e che moltissime responsabilità delle catastrofi attuali hanno la loro origine (e la loro prosecuzione) nelle politiche di sfruttamento rapace delle risorse altrui compiuto dal Primo mondo. Quanto solitario, e quando alto, appare al confronto quel mite argentino che ammaestra il Vaticano.

Destra e sinistra (si fa per dire) unite nella lotta per spolpare lo Stato, accrescere i guadagni dei “capitani coraggiosi” e far pagare di più i posteri. Un’analisi che non rivela tutti i malefici della “finanza di progetto, ma quanto basta per capire la truffa.

Il Fatto quotidiano, 10 giugno 2015.

Un benedetto emendamento arrivato in Senato. Benedetto almeno per quei privati che con questo sistema si arricchiscono senza alcun rischio d’impresa. Il nuovo codice degli appalti una delega al governo che Palazzo Madama sta per approvare doveva essere il segno tangibile che il clima era cambiato: pubblicità, trasparenza, gare pubbliche, più poteri all’Autorità Anti-corruzione. In parte, va detto, la legge rispetta le premesse, ma crea uno strano binario parallelo in cui la trasparenza serve un po’ meno: l’obbligo di affidare i contratti di lavoro, servizi e forniture “mediante procedura ad evidenza pubblica” non vale infatti per le concessioni “affidate con la formula della finanza di progetto”. L’emendamento lo firmano i due relatori Stefano Esposito (Pd) e Lionello Marco Pagnoncelli (fittiano, ex FI) il che significa che è frutto di un accordo che comprende maggioranza e governo. di progetto”, meglio nota come project financing, funziona così: lo Stato decide di aver bisogno di un’opera, un privato la costruisce in cambio della concessione di utilizzo (o di un canone d’affitto) per un numero di anni sufficienti a ripagare la spesa e guadagnarci il giusto.

Fin qui, tutto bene, il problema è che le cose vanno così solo in teoria: intanto spesso i soldi con cui i privati fanno l’investimento sono garantiti dal pubblico (è il caso dell’autostrada Brebemi, costruita dai privati coi fondi di Cassa depositi e Banca europea degli investimenti) e poi la remunerazione della spesa iniziale è sempre scandalosamente alta. Tradotto: zero rischi, molto guadagno. Contrariamente a quanto si pensa, però, il project financing non viene usato solo dallo Stato per opere enormi tipo le autostrade, ma è il mezzo con cui Regioni, Comuni e Asl in questi anni hanno aggirato gli (stupidi) vincoli di bilancio che gli impediscono di fare investimenti. Per un ente locale o un’azienda sanitaria è oggi quasi impossibile costruire una scuola o un ospedale chiedendo un mutuo: sforerebbe i parametri sia sul deficit che sul debito. E qui arriva la finanza di progetto: il privato chiede il mutuo e costruisce l’opera, il sindaco firma un contratto d’affitto ventennale con annesso servizio di pulizia, manutenzione e chi più ne ha più ne metta. Quando questo accade e accade sempre senza gara il costo occulto viene scaricato sulla spesa corrente degli anni successivi con risultati bizzarri in termini di rapporto costi/benefici.

Qualche esempio aiuterà a capire di che buco nero stiamo parlando. Giorgio Meletti ne ha raccolti alcuni gustosi sul Fatto economico dell’8 aprile: l’ospedale di Nuoro doveva costare 45 milioni, ma l’affitto più contratti per vari servizi non sanitari per la bellezza di 28 anni porteranno ai privati circa 800 milioni; la centrale tecnologica del Sant’Orsola di Bologna costava 30 milioni, ma il contratto con forniture varie per 25 anni porterà a Manutencoop circa 400 milioni; la nuova sede del Comune di Bologna era un appalto da 70 milioni che porta ai costruttori un affitto da circa 9,5 milioni l’anno per 28 anni (all’ingrosso 250 milioni in tutto); l’ospedale di Mestre è costato al privato che l’ha costruito 140 milioni, ma la regione gliene sta ridando indietro 400 più contratti di forniture per 1,2 miliardi in 24 anni. Tradotto: con la “finanza di progetto” un’opera può essere pagata dieci o venti volte più di quel che costa. In totale secondo gli addetti ai lavori una stima prudente dell’indebitamento implicito, sotterraneo o nascosto spalmato sui prossimi due decenni ammonta a 200 miliardi di euro.

Anche i numeri totali confermano che si tratta di cifre molto rilevanti. Secondo l’ultimo report annuale di Palazzo Chigi disponibile, nel 2013 in Italia sono stati chiusi contratti di partenariato pubblico/privato per 19,5 miliardi (peraltro picco negativo causa spending review), in tutto il resto d’Europa per soli 16,2 miliardi. Magari l’idea di non fare le gare pubbliche non è proprio una furbata. O sì?

«Per paradosso, le città più depresse ammortizzano più facilmente i nuovi venuti, assorbendoli verso il basso; dove più alti sono invece reddito e qualità dei servizi, più larga diventa la distanza con gli stranieri e più marcato il pericolo di una loro ghettizzazione».

Corriere della Sera, 11 giugno 2015 (m.p.r.)

La faglia s’allarga. Da politica, rischia di diventare territoriale e sociale, attestandosi lungo rancori sedimentati tra due Italie. Già così distanti per qualità di servizi e sanità, trasporti e infrastrutture, Nord e Sud s’allontanano ora sull’ultima e più cruda emergenza: i migranti. Che al Sud sbarcano (e in gran parte restano) e al Nord andranno sempre più verso ponti levatoi alzati.

La «rivolta» contro Roma e i suoi prefetti, avviata dal presidente Maroni e subito appoggiata dai presidenti Zaia e Toti — asse del nuovo centrodestra in Lombardia, Veneto e Liguria dopo il voto del 31 maggio — sta cambiando segno. Ha trovato sponda tra i sindaci (o candidati sindaci) «nordisti» del Pd. Felice Casson a Venezia, il nome più famoso. Ma anche Achille Variati a Vicenza, che stigmatizzava le manifestazioni della destra xenofoba fino a poco tempo fa. E ancora decine di primi cittadini «riluttanti» all’accoglienza, secondo l’ufficio immigrazione di quella Toscana che, nell’emergenza degli sbarchi del 2011, si distinse per generosità. Il linguaggio cambia («non siamo il Paese di Bengodi», tuona Variati), sfumando di giorno in giorno le differenze tra destra e sinistra di fronte a un’opinione pubblica inferocita.
Casson è sotto ballottaggio e dunque il suo monito, «Venezia ha già dato», può risentire dell’effetto pre-elettorale. Ma apparirebbe ormai piuttosto miope ridurre questo vento del Nord a mera tattica, ai calcoli di Matteo Salvini per mettere nell’angolo l’altro Matteo, Renzi. Come pure sembrerebbe puerile derubricarlo a un tentativo di Maroni di distogliere l’attenzione da una fastidiosa inchiesta milanese per presunti favori a una giovane collaboratrice. I toni inseguono un sentimento popolare. Perfino Debora Serracchiani, vice di Renzi nel Pd, parlando da presidente del Friuli ammonisce: «Si scordino che prendiamo nella nostra Regione gli immigrati che loro non vogliono».
Nei territori il malessere è forse più profondo di quanto percepito a lungo nei palazzi della politica (i bivacchi dei migranti alla stazione di Milano bastano a capirlo), chi deve cercare consenso non può più prescinderne. E non aiuta certo scoprire ora che l’Europa prende ancora tempo, che il famoso piano per ricollocare 24 mila profughi (con annesso principio di divisione in quote tra gli Stati europei) va slittando a settembre: che in sostanza siamo soli come sempre mentre l’estate incombe con nuovi sbarchi.
Nella solitudine i toni si alzano, accentuando fin troppo le connotazioni identitarie. In assenza di un’idea politica forte, o anche di un’idea qualsiasi che appaia risolutiva, l’identità più marcata diventa geografica. Sicché a Maroni che grida alla «ritorsione contro il Nord» s’oppone Angelino Alfano, evidentemente qui non solo nella veste di ministro degli Interni, che denuncia «l’odio contro il Sud». Un bello studio della Fondazione Moressa di Mestre sul «rischio banlieue » nelle nostre periferie ci ha offerto tempo fa una spiegazione sorprendente eppure ragionevole di questo diverso approccio tra le due Italie verso l’impatto dei migranti: il rischio massimo è a Bologna, il minimo a Reggio Calabria; per paradosso, le città più depresse ammortizzano più facilmente i nuovi venuti, assorbendoli verso il basso; dove più alti sono invece reddito e qualità dei servizi, più larga diventa la distanza con gli stranieri e più marcato il pericolo di una loro ghettizzazione.
I numeri da fronteggiare, per il momento, sono meno allarmanti di come vengono raccontati. Se il Guardian ipotizza mezzo milione di profughi pronti a imbarcarsi in Nord Africa, gli arrivi l’anno scorso furono 219 mila in tutta Europa (statisticamente, mezzo migrante ogni mille europei) e quest’anno siamo in linea, con 103 mila. Come insegna Trilussa, tuttavia, la statistica non sempre aiuta: nel 2014, 170 mila arrivi toccarono a noi. Torniamo dunque sempre al punto di partenza, la solitudine dell’Italia.
Non è difficile capire, però, che, proprio perché soli, dovremmo essere coesi, mettere fine alla gazzarra di questi giorni: il rischio che qualche testa bacata assalti un pullman che porta i migranti al Nord non è così teorico. Se poi saremo davvero, nel medio periodo, la prima linea di una biblica riallocazione dei popoli inseguiti da guerre e carestie, dovremo imparare qualcosa di nuovo: a stare assieme tra noi. Lungi dal cavalcare il disagio, la politica dovrebbe indicarcene la via. Per dare risposte — ferme o solidali che siano, ma serie — a chi viene da tanto lontano, è indispensabile cominciare a capirsi tra una valle bergamasca e una spiaggia siciliana.
«In altre parole la politicizzazione del sociale è un processo necessario e inevitabile se si vuole contrapporre un nuovo potere costituente ad un potere costituito nelle attuali condizioni di degenerazione delle istituzioni e delle forme del potere politico».

Il manifesto, 11 giugno 2015

Non si sa se ridere o piangere quando si legge sulla stampa “maggiore” che l’unico interesse rivolto alla Assemblea della coalizione sociale di sabato e domenica a Roma è ancora incentrato sulla presenza silente tra il folto pubblico di Oreste Scalzone e Franco Piperno. Quella assemblea ha tutta la possibilità e il diritto di essere valutata su ben altri criteri.

Diciamo pure che era cominciata un po’ in sordina. Il documento preparatorio non era di quelli che hanno la forza di farti sobbalzare sulla sedia. Forse era un tattica di voluta prudenza. Poi, soprattutto nel passaggio tra la prima e la seconda giornata, l’ Assemblea ha preso quota e acquistato senso. Certamente ha influito la ricca discussione che si è tenuta nei vari gruppi tematici nel pomeriggio di sabato, ben sintetizzati dai report della mattina seguente. Alcuni dei quali possono essere considerati come un approfondimento specifico di una proposta di alternativa le cui fila si vanno tessendo in varie sedi e modalità.

Avendo partecipato come osservatore a uno di questi gruppi e sulla base dei report, balza agli occhi che le tematiche sono le stesse che vengono affrontate in altri incontri che si definiscono o vengono considerati direttamente politici. In altre parole quella distinzione fra il politico e il sociale, un po’ ingessata nelle prolusioni iniziali, si è molto assottigliata nel proseguo della discussione, mano a mano che si entrava nel merito di analisi e di proposte.

Non c’è da stupirsi. I temi per la costruzione di una opposizione e di una alternativa politica e sociale non possono in realtà che essere gli stessi, derivando entrambi dalle palesi contraddizioni del mondo contemporaneo. La distinzione – che non va risolta nell’autonomia del politico o per converso nell’assolutizzazione del primato del sociale – sta nella diversità dei piani con cui gli stessi temi e obiettivi vengono affrontati e portati avanti. La lotta al job act - per fare solo un esempio - va fatta, per essere efficace, sul terreno culturale, quanto su quello sociale; a partire dai luoghi di lavoro e dai territori; deve coinvolgere la dimensione sindacale e quella giudiziale; avrebbe dovuto – e qui il punto dolente - trovare più energica ed efficace opposizione a livello parlamentare; potrà raggiungere una piena dimensione di massa se si giungerà – come da più parti si sta riflettendo – ad un referendum abrogativo.

Non c’è solo bisogno di una ovvia moltiplicazione delle forze e dei punti di attacco utili per ottenere un risultato, ma soprattutto è in atto una ridefinizione del sistema di potere capitalistico nelle società mature che si è definitivamente separato dalla democrazia - pur nei limiti con cui l’abbiamo conosciuta e praticata -; che nega alla radice la dualità fra capitale e lavoro, quindi il conflitto; che vuole costruire un suo spazio , a-democratico ed extragiudiziale, oltre che no unions, per regolare, se possibile individualmente, il rapporto con il lavoratore. Il quale non è solo colui che lo è effettivamente, ma chi aspira ad esserlo, o lo è in modo intermittente o chi sta per perdere quella condizione.

In altre parole la politicizzazione del sociale è un processo necessario e inevitabile se si vuole contrapporre un nuovo potere costituente ad un potere costituito nelle attuali condizioni di degenerazione delle istituzioni e delle forme del potere politico, di cui ha anche parlato Stefano Rodotà nel suo intervento all’Assemblea andando ben al di là della tradizionale denuncia della corruzione e dell’italico stato duale.

Anche cambiando l’oggetto dell’intervento, che so io la “buona scuola”, l’Italicum oppure la privatizzazione dei beni comuni, il ragionamento di fondo non cambia, tanto per i soggetti sociali che per quelli politici.

Solo che se i primi non stanno benissimo – altrimenti non si parlerebbe di nuova coalizione sociale e perfino di rifondazione del sindacato – i secondi mancano del tutto. Per questo Renzi - pur avendo perso milioni di voti tra un’elezione e l’altra; pur affidandosi ad una maggioranza che si è fatta ancora più esile al Senato; pur apparendo meno “pigliatutto” (definizione che preferisco a quella di partito della nazione, visto che qui siamo di fronte ad una articolazione delle elites europee) di quanto lo era poche settimane fa - non ha per ora moltissimo da temere. Se non della propria arroganza.

Nei prossimi mesi può aprirsi una interessante e strategica campagna referendaria, dalla legge elettorale alle contro-riforme della Costituzione; dai decreti attuativi del job act allo scempio della legge sulla scuola. Dipenderà in primo luogo dai soggetti sociali promuovere concretamente questo percorso. Ma cosa succederà se non ci sarà in campo - quindi ben prima della tornata elettorale politica, al netto di elezioni anticipate - una forza politica dotata di credibilità e di una qualche consistenza che sappia a sinistra essere protagonista di queste battaglie? A parte il fatto che la legge elettorale chiama direttamente in causa la rappresentanza politica, anche nell’ipotesi di una vittoria ci potremmo trovare nella situazione nella quale già siamo, dove avendo pur vinto il referendum sull’acqua, non si riesce ad applicarne tutte le necessarie conseguenze sul piano operativo.

So bene che c’è bisogno di nuovi protagonisti e che dunque quelli che con luci e soprattutto ombre hanno popolato fin qui lo spazio enorme che si è aperto alla sinistra del Pd farebbero bene a scegliere per sé compiti da seconda e terza fila, peraltro non meno entusiasmanti. Ma potrebbero dare il là - e sarebbe un bel passaggio di testimone - all’avvio concreto di un processo di riunificazione delle disperse membra della sinistra d’alternativa, quale parte iniziale di un progetto ben più ambizioso di ricostruzione della sinistra in Italia. Farlo con una dichiarazione congiunta che contemporaneamente proponga una grande assemblea di tutte e di tutti entro l’estate, sarebbe la migliore risposta positiva, da parte di chi opera prevalentemente nel desertificato terreno politico, all’Assemblea della coalizione sociale.

Dal Presidente della Casa della Carità di Milano, un richiamo a trasparenza e solidarietà contro l'attacco all’accoglienza dei dannati della terra sferrato da destra, e un appello ad agire in modo umano e non bestiale (con tutto il rispetto per gli animali).

LaRepubblica, ed. Milano, 6 giugno 2015

Il nuovo capitolo dell’inchiesta di Mafia Capitale sta confermando che le emergenze sociali, come l'arrivo di tanti profughi e migranti, sono diventate un business ricco e appetibile per un sottobosco a cavallo tra malavita e malaffare, malaffare e corruzione politica. È un mix che purtroppo si ripropone spesso e che si ripresenta con una puntualità impressionante in ogni occasione, dal terremoto dell’Aquila al dramma dello smaltimento dei rifiuti nella Terra dei fuochi, con le sue tariffe, le sue minacce e con i suoi sberleffi sguaiati: dalle risate al telefono degli affaristi che si fregano le mani dopo il disastro abruzzese alla mucca che va munta di Mafia capitale.

Sulla pelle di migliaia di persone sfortunate, in fuga da guerre, in lotta per sopravvivere, emerge uno sfruttamento che, in barba ad appartenenze partitiche, a convinzioni ideologiche, a ragionamenti politici, unisce in un fronte unico la peggior politica e la peggior gestione del sociale in Italia. Con la conseguenza che nell’opinione pubblica si fa largo la convinzione che chi accoglie, chi lavora per dare un aiuto ai tanti profughi e migranti che arrivano nei nostri paesi e città, sotto sotto lo fa per interesse. Ovviamente non è così. La passione in cui noi della Casa della carità da dieci anni ci battiamo per offrire, spesso gratuitamente, accoglienza ai tanti che arrivano a Milano a seguito della tante emergenze, la disponibilità dei nostri operatori e dei nostri volontari è la stessa di decine e decine di tante altre organizzazioni, piccole e grandi, che si muovono, tra mille difficoltà, in ogni angolo d’Italia. Conosco onlus, fondazioni e cooperative che nulla hanno da nascondere perché il loro obbiettivo non è mai stato il guadagno, ma la solidarietà a chi ha bisogno.

Purtroppo, in molti casi non è così. In molti casi nella rete degli aiuti si sono infiltrate organizzazioni interessate solo a rastrellare i soldi della diaria riconosciuta per ogni persona accolta in una logica di disinteresse per la qualità del trattamento e per i servizi garantiti. È una delle conseguenze della gestione emergenziale della questione che ripropone la logica dell’appalto al ribasso (non a caso terreno spesso di infiltrazioni mafiose) tipico delle opere pubbliche con l’inevitabile corollario delle conoscenze partitiche nelle amministrazioni e nelle istituzioni. È una spirale che va spezzata subito. La magistratura accerterà illeciti, crimini e responsabilità. Ma sono necessarie anche una mobilitazione delle coscienze e una presa di posizione, forte e chiara, del mondo dell’associazionismo e del volontariato, laico e religioso, che rifiuta il marchio di “sono tutti uguali”. La corruzione politica va combattuta con la trasparenza: ogni numero, ogni convenzione, ogni servizio va documentato, reso noto (magari sul web) perché tutti sappiano nomi, cognomi, ragione sociale, appartenenza di chi ospita e rende un servizio sociale.

L’obbiettivo? Creare il vuoto attorno ai corrotti, far emergere i profittatori e le corruttele, denunciare i legami, quali che siano, con la politica e i suoi portaborse. Ribadire che l’assistenza non è un furto. Chiedere una nuova politica dell’immigrazione che sia rispettosa dei diritti, equa nella suddivisione dei costi sociali da affrontare tutti (in Italia come in tutta Europa), trasparente nella gestione, uniformata nella garanzia di qualità e portatrice di una cultura di responsabilità. La risposta al malaffare non può essere: fermiamo gli arrivi dei migranti. Basta demagogie, basta semplificazioni, basta strumentalizzazioni politiche. Lanciamo tutti insieme una sfida: l’accoglienza onesta, per bene, di qualità, da Lampedusa a Bolzano. Rivendichiamo insieme le nostre esperienze positive, documentiamo i risultati ottenuti, facciamoci sentire. Siamo tanti. Molti di più dei corrotti e dei corruttori.

«Lombardia, Veneto, Liguria e Valle d’Aosta hanno ragione di lamentare un sovraccarico di richiedenti asilo? I dati dicono che il sistema di accoglienza è semmai squilibrato verso Sud. Sommare rifugiati e migranti non è corretto, ma in ogni caso anche l’immigrazione è in calo».

Lavoce.info, 9 giugno 2015 (m.p.r.)

Chi accoglie i rifugiati

La presa di posizione sui profughi del presidente della Lombardia, seguito dai colleghi del Veneto, della Liguria e della Valle d’Aosta, apre una questione delicata: è vero che l’integrazione delle persone è sempre locale, ma diritti difesi dalla Costituzione (articolo 10), nonché dall’Onu e dalle convenzioni internazionali, possono essere messi in discussione da un presidente di regione o addirittura da uno o più sindaci? L’immagine internazionale dell’Italia può dipendere dalle deliberazioni di alcune autorità locali? Per questo, una materia già di per sé sensibile come quella dell’asilo è di pertinenza del governo centrale, ma le resistenze locali tendono a farne un terreno incerto e conteso.

Per cercare di apportare qualche elemento di chiarezza, proverò a rispondere ad alcune domande.
La prima: Lombardia, Veneto, Liguria e Valle d’Aosta hanno ragione di lamentare un sovraccarico di richiedenti asilo? Secondo i dati elaborati dalla redazione de lavoce.info, non parrebbe: la Lombardia ospita nei centri di accoglienza (o in altre strutture temporanee) 60 profughi ogni 100 mila abitanti, il Veneto 50, la Liguria 80, la Valle d’Aosta 50. Fanno molto di più le regioni del Sud: la Sicilia, prima in valore assoluto, ha nei centri di accoglienza 270 profughi ogni 100 mila abitanti, la Calabria 240, il Lazio 140. Il sistema di accoglienza è squilibrato verso Sud e questo non è un bene, per diverse ragioni. Ne cito una: i profughi che otterranno una qualche forma di asilo (in media, circa la metà), molto probabilmente si sposteranno verso Nord in cerca di lavoro, e l’impegno d’integrazione locale dovrà ricominciare praticamente da capo.

I costi per le comunità locali

Seconda domanda: l’accoglienza è un costo per le comunità locali? In linea di massima, no. Anzi, l’ospitalità agli immigrati porta risorse (i 35 euro al giorno pro capite per i gestori delle strutture). Questo pur modesto tesoretto si traduce in posti di lavoro per operatori locali, acquisto di derrate alimentari, abiti, generi di consumo. Per chi gestisce coscienziosamente l’accoglienza, non restano molti margini, ma intanto un po’ di circolazione di risorse si produce. È senz’altro opportuno coinvolgere i richiedenti asilo in attività socialmente utili: per incrementare le opportunità di socializzazione e integrazione sul territorio, per occupare il tempo in attesa della risposta alla domanda di asilo, per accrescere l’accettazione sociale.

Ma non è vero che i richiedenti asilo siano in debito con le comunità locali, è più vero il contrario.
Terzo: i rifugiati rimangono sul territorio, intasando le strutture e invadendo le città? A parte quanto già spiegato in altri articoli (l’86 per cento dei rifugiati è accolto nei paesi in via di sviluppo), la maggior parte di loro transita e cerca di oltrepassare le Alpi. Dei 170 mila sbarcati nel 2014 soltanto 7 mila hanno chiesto asilo in Italia. Per esempio a Milano, su circa 60 mila profughi transitati negli ultimi due anni, ne sono rimasti 200.

Immigrazione in calo

Quarto: è giusto sommare immigrati e rifugiati? L’immigrazione è aumentata per effetto degli sbarchi? Migranti in cerca di lavoro e richiedenti asilo possono in parte sovrapporsi, ma è importante tenere distinte le due categorie: i secondi hanno diritto a vedere esaminata la propria istanza e se riconosciuti come bisognosi di protezione, in un paese democratico, vanno accolti. Questo oggi è pressoché automatico nel caso di siriani, eritrei e somali, a motivo dei contesti di guerra e repressione da cui cercano scampo.

Nonostante la visibilità e i drammi degli sbarchi, va ricordato che i nuovi ingressi di immigrati sono diminuiti negli ultimi anni, a motivo della crisi economica: nel 2013 sono stati 307 mila, 43 mila in meno rispetto al 2012. Restano tuttavia più numerosi degli sbarcati, anche al lordo dei transiti verso altri paesi. I motivi del rifiuto sono dunque essenzialmente politici. Stupisce un po’ che i maggiori organi d’informazione li raccolgano con enfasi, con titoli in prima pagina come “Il Nord dice basta”.
Da questo punto di vista, l’offensiva del solstizio di Roberto Maroni ha senza dubbio già segnato un punto.

Collocheremmo nella cartella "Stupidario" l'articolo del Giavazzi se non fosse che possiamo corredarlo del gustoso commento di Marco Palombi, inserito in calce. Il primo dal

Corriere della Sera di venerdì 5 giugno, il secondo dal Fatto quotidiano del 7 giugno, Con postilla veneziana

Corriere della Sera, 5 giugno
DISCUTIAMO TROPPO DI GRECIA?
di Francesco Giavazzi


Da oltre 5 anni è la Grecia il problema che più preoccupa l’Europa: non il lavoro, non l’immigrazione e nemmeno la Russia di Putin, ma un Paese che rappresenta meno del 2 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) delle nazioni che partecipano all’unione monetaria. Sarebbe interessante calcolare quante ore la signora Merkel ha dedicato ad Atene in questi 5 anni. Che penseremmo se scoprissimo che il presidente Obama dedica altrettanto tempo ai problemi del Tennessee, uno Stato che conta, nella federazione americana, un po’ più della Grecia nell’eurozona?

In questi 5 anni il mondo, soprattutto in Oriente, è cambiato. In Cina e India sono saliti al potere politici nuovi, che hanno rotto con il passato. A Pechino il presidente Xi Jinping ha avviato un processo di riforme che ha un solo precedente: Deng Xiaoping all’inizio degli Anni 90. In India Modi ha messo fine a sei decenni di predominio politico della famiglia Gandhi e soprattutto rivendica la matrice induista del Paese. Noi invece, anziché chiederci quale Europa possa far sentire la propria voce e difendere i propri interessi, economici e militari, in un mondo geograficamente e politicamente in forte mutamento, passiamo le giornate a parlare di Grecia.

Dopo 5 anni di discussioni che non hanno prodotto alcuna riforma significativa - le poche fatte, come il tentativo di ridurre il numero di dipendenti pubblici, sono state in gran parte rovesciate da Tsipras - è ormai evidente che i greci non pensano che la loro società debba essere modernizzata e resa più efficiente. Sembrano non preoccuparsi di un sistema che per oltre quarant’anni, dagli anni 70 ad oggi, ha aumentato il numero degli occupati nel settore privato al ritmo dell’uno per cento l’anno, mentre i dipendenti pubblici crescevano del quattro per cento l’anno con un sistema di reclutamento fondato per lo più sulla raccomandazione politica.

Certo, anche gli europei hanno sbagliato. Da quando, nel 2002, Atene è entrata nell’unione monetaria abbiamo prestato alla Grecia oltre 400 miliardi di euro (circa due volte il Pil del Paese) senza chiederci se quella cifra sarebbe mai stata ripagata. È però inutile oggi sprecar tempo, coltivando l’illusione, che ha sfiorato i finlandesi, che forse potremmo venir ripagati in natura, con la cessione di qualche isola. Le cannoniere britanniche dell’Ottocento fortunatamente non ci sono più. Il passato è passato, meglio metterci una pietra sopra.

E se i greci non vogliono modernizzarsi, inutile insistere: d’altronde hanno votato a gran maggioranza un governo che continua ad essere popolare. Hanno scelto, spero consciamente, di rimanere un Paese con un reddito pro capite modesto, metà dell’Irlanda, inferiore a Slovenia e Corea del Sud, che fra qualche anno verrà superato dal Cile. Spero che però nessuno ad Atene si illuda che fuori dall’euro, anche una volta cancellato il debito, inflazione e svalutazione possano essere un’alternativa a rendere l’economia più efficiente.
Penso sia venuto il momento di chiederci quanto sia importante per noi tenere la Grecia nell’Unione Europea, perché di questo si tratta: se Atene abbandonasse l’euro dovrebbe anche uscire dall’Ue. Il criterio non può essere la difesa dei nostri crediti, che comunque non potranno essere recuperati. A guidarci non può essere nemmeno quanto rischi l’unione monetaria che ormai, grazie alla Banca centrale europea, è sufficientemente robusta per poter affrontare l’uscita di un Paese come la Grecia.

La vera domanda è quanto ci interessa mantenere in Europa non tanto il museo della nostra civiltà, quanto soprattutto la delicata cerniera geopolitica fra Europa e Paesi islamici, in primis la Turchia. Il che non significa cedere al ricatto di Tsipras, ma accettare il rischio che comporta la condivisione della moneta con un Paese che ha liberamente deciso di non volersi modernizzare. Ma il salto politico necessario per porci questa domanda non siamo in grado di farlo. L’unione monetaria ha avuto il grande merito di accelerare l’integrazione economica - si pensi al trasferimento a Francoforte della vigilanza sulle banche - ma non può essere un sostituto dell’integrazione politica. Se la crisi greca ci aiuterà a comprenderlo, non saranno stati 5 anni spesi invano.
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno
GIAVAZZI 
AL BAR
 E CERTE COSE DI BALZAC

di Marco Palombi

Dice che la Grecia ha rotto. Dice: cinque anni a parlare di Grecia, che poi è una nazione di pecorari fancazzisti, e intanto la Cina e l’India fanno cose e i cosacchi di Putin, come d’abitudine, vogliono far abbeverare i cavalli a piazza San Pietro. Dice: ma se i greci 
non si vogliono modernizzare, mettiamoci una 
croce sopra e via dall’Ue. Dice: hanno votato Tsipras vuol dire che vogliono restare poveri.

Questo non è, come sembra, il riassunto di una conversazione ascoltata in un bar, interrotta dal tintinnare delle tazzine e dal grido dell’ultimo arrivato (“un caffé”), ma il senso dell’editoriale che Francesco Giavazzi venerdì ha affidato alla prima del Corriere della Sera. Uno potrebbe spiegargli che se cinque anni fa la Ue avesse salvato la Grecia invece che le banche tedesche e francesi non staremmo qui a discutere; che le sue idee sui greci sono un po’ razziste; che 5 anni di “riforme” della Troika hanno creato ad Atene una catastrofe umanitaria e che la sua “austerità espansiva” è una boiata. Sarebbe inutile, nel bar c’è casino, Giavazzi non sente e poi sta già spiegando al barista che, per un lavoro così poco qualificato, guadagna troppo.

Solo che non siamo al bar e nemmeno nel salotto Verdurin di Proust, in cui sedevano i borghesi non abbastanza interessanti per i Guermantes. No, la prima del Corsera ormai è la Pensione Vauquer di Balzac. Lì, per dire, abitava tra gli altri tal Poiret, uno di quegli individui di cui, non potendo far altro, si dice: “Ci vuole pure gente così”. E poi si aggiunge: insegna alla Bocconi.


postilla


In questi giorni a Venezia, nell'area sociale e culturale che vorrebbe un rinnovamento radicale della pessima gestione del comune negli ultimi decenni, è
aperta un'animata discussione tra chi, al prossimo ballottaggio, si propone di votare Casson pur di non rischiare che vinca il suo antagonista (che sarebbe il peggio del peggio) e chi invece del peggio non ha paura (o addirittura se lo augura) e non se la sente di votare Casson, che si è molto legato all'establisment precedente. In questo quadro Casson ha reso pubblici i nomi di alcuni dei consulenti di cui si avvarrebbe. Terrificanti: uno è il sunnominato Giavazzi, il secondo il divulgatore televisivo d'arte Philippe D'Averio, il terzo il signor Rosso, il mecenate che con la sua elemosina pelosa ha pagato il restauro del Ponte di Rialto, con un tornaconto che la nostra Paola Somma ha puntigliosamente elencato in un suo articolo su questo sito. Temiamo che la scelta di Casson gli farà perdere consensi, e accrescerà le chances del suo antagonista. Tremano i veneziani, e gli amici di Venezia.
Replicando agli infantili cinguettii del Primo ministro, Stefano Rodotà lo accusa di comprendere poco e travisare molto, a proposito del tentativo di Landini e di altre cose importanti.

La Repubblica, 10 giugno 2015

Coalizione sociale, creatura di Landini, è diventata, nelle parole di Matteo Renzi, «Coalizione asociale» e Stefano Rodotà, colpevole di aver accusato il premier di applicare, per le faccende di giustizia, (in ultimo Mafia Capitale), lo stesso metodo «peloso e ipocrita» della Prima Repubblica, si è visto recapitare la risposta al vetriolo del giovane premier: «Rodotà? Lui sì che se ne intende di Prima Repubblica!». Comprensibile che il professore non abbia gradito. Da Madrid, dove si trova in queste ore, chiede «più rispetto» per il Movimento appena nato, respinge al mittente presunti feeling con i “compagni” Scalzone e Piperno, presenti alla due giorni di Landini, («Io non li ho nemmeno visti, c’erano 1087 persone») e attacca le ironie di Renzi: «Prima di parlare doveva informarsi. Siamo in presenza di un travisamento gravissimo ».

Professore, lei se ne intende di prima Repubblica?
«Certo. Per tutta la prima Repubblica mi sono battuto contro coloro che applicavano il meraviglioso meccanismo che adesso usa Renzi. Conosco bene la frase: “Io sono garantista. Aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso”. Con questo sistema, e potendo contare sulla lentezza dei processi, persone che ne avevano combinate di tutti i colori, sono riuscite tranquillamente a rimanere sulla scena politica».

Renzi le ricorda la presunzione di innocenza.
«Figuriamoci, tutti noi dobbiamo essere garantisti. Lo rimando però alla seconda parte dell’articolo 54 della Costituzione. Chi ricopre funzioni pubbliche ha un dovere in più. Deve comportarsi con disciplina e onore. La presunzione di innocenza riguarda i reati, poi c’è la responsabilità politica, l’etica pubblica, del tutto ignorate dalla prima Repubblica. In Renzi ritrovo quel tipo di approccio. Quando ero presidente del Pds, chiesi, inascoltato, una assise sulla corruzione. Manderò i miei libri al presidente».

Arrabbiato?
Un presidente del consiglio non può fermarsi alla superficie delle cose. La due giorni di “Coalizione Sociale” merita rispetto, meritano rispetto le 1087 persone che vi hanno partecipato e le 200 che hanno preso la parola. Evidentemente a Renzi la società non interessa se non è atomizzata. “Parlerò ai professori, parlerò agli alunni...”. Lui va a segmenti. Ma il rifiuto pregiudiziale della conoscenza è politicamente grave e culturalmente inquietante ».

Che ci facevano Scalzone e Piperno da Landini?
«Di due giorni di dibattiti rimane questo? Commentare questa iniziativa a partire da un caso che non esiste è un travisamento gravissimo. Scalzone e Piperno io non li ho visti, non sapevo nemmeno che ci fossero. Mi spiace che anche Cuperlo sia caduto in questa trappola. Anche lui doveva informarsi prima di commentare ».

C’è una sinistra che si agita dentro il Pd, ci sono i cosiddetti laboratori di Vendola e Civati. “Coalizione sociale” cosa vuol essere?
«È una scommessa difficile che parte dall’analisi della situazione italiana: partiti deboli, distinzione attenuata tra governo e Parlamento, a favore del primo, un drammatico difetto di rappresentanza, i cittadini che stanno scomparendo dalla vita pubblica, non vanno a votare, il potere affidato alla minoranza, la politica che si svuota con il rischio di estremismi e populismi...».

Da dove si riparte?
«Dalla società, dal territorio, si diceva una volta. Renzi ha cambiato idea sulla scuola, aprendo a modifiche, solo dopo che la società si è mobilitata. C’è tanta energia, tanta voglia di fare. È necessario creare una rete, non un altro partito. Ripartire dal basso nel nome del ripristino dei diritti e della dignità per tutti, dico tutti. Così hanno fatto Syriza in Grecia e “Podemos” in Spagna. Senza sponda sociale non si va da nessuna parte, senza buona cultura non c’è buona politica. Ma non si tratta di cominciare da zero. Penso alle esperienze tutte italiane di Don Ciotti sulla legalità, ad Emergency di Gino Strada...».

Professore, secondo i suoi parametri, Renzi è di sinistra?
«Non lo so. Lui dice di esserlo. Io non sono tra quelli che pensano che non ci sia più distinzione fra destra e sinistra. La distinzione c’è. Io metto al centro della politica la dignità, l’eguaglianza, i diritti, la redistribuzione delle risorse. Io penso ad un orizzonte espansivo di cambiamento della Costituzione. Renzi mi pare insegua un percorso opposto, di riduzione della democrazia costituzionale ».

«Per una Unione euro-mediterranea. Che significa quel "teneteveli", rivolto non solo a Italia e Grecia, Sicilia e Puglia, ma a Libano, Giordania, Turchia, Egitto, che di profughi ne "ospitano" milioni?»,

Il manifesto, 9 giugno 2015

Il capi­tolo «seces­sione», che le Regioni leghi­ste (la “Pada­nia” senza più il Pie­monte, ma con in più la Ligu­ria) non erano riu­scite ad aprire e legit­ti­mare in campo fiscale, viene oggi ripro­po­sto sulla que­stione delle «quote» di pro­fu­ghi e migranti da tra­sfe­rire al Nord dai porti di sbarco; nono­stante che a gui­dare la rivolta sia pro­prio Maroni, l’ex-ministro che quelle quote le aveva intro­dotte. Ma que­sta volta la fronda leghi­sta avrà un impatto mag­giore, per­ché è in per­fetta sin­to­nia con le posi­zioni che i paesi dell’Unione Euro­pea stanno adot­tando nell’affrontare lo stesso pro­blema: «Teneteveli».

Cioè: anche se, con­tro gli intenti ori­gi­nari, la mis­sione Tri­ton è costretta a sal­varli, i pro­fu­ghi restino là dove sbar­cano. E con loro se la vedano i paesi e le regioni a cui li lasciano in carico. Il default greco non è dun­que più l’unica minac­cia per la coe­sione dell’Unione Europea.

Una gover­nance che si com­porta così verso i suoi mem­bri non è più la legit­tima guida dell’Ue, come non sarebbe più uno Stato uni­ta­rio quello che accet­tasse una divi­sione simile tra le sue Regioni.

Le destre ita­liane ed euro­pee lo sanno, anche se ancora pos­sono — e torna loro comodo — nascon­dere a se stesse e agli altri le con­se­guenze di que­sta linea di con­dotta: che è desti­nare allo ster­mi­nio milioni di esseri umani. Cioè, pro­prio la ripro­po­si­zione di ciò che la Comu­nità, poi Unione Euro­pea, ha come sua ragion d’essere ori­gi­na­ria: che le tra­ge­die pro­dotte da due guerre mon­diali e dai campi di ster­mi­nio «non abbiano a ripe­tersi mai più». Invece sono di nuovo davanti a noi, e tra noi. Non lo si può igno­rare. Le deboli forze che in Ita­lia e in Europa si bat­tono per un mondo diverso ne devono pren­dere atto; anche se que­sta è in asso­luto la più dif­fi­cile delle bat­ta­glie che finora non siamo stati capaci di com­bat­tere, e soprat­tutto di vincere.

Che cosa signi­fica infatti quel «tene­te­veli», rivolto non solo a Ita­lia e Gre­cia, Sici­lia e Puglia, ma anche a Libano, Gior­da­nia, Tur­chia, Egitto, che di pro­fu­ghi ne «ospi­tano» già non decine di migliaia, ma milioni? O rivolto a Libia, Tuni­sia, Sudan, Mali, Niger, ecc.? Paesi, que­sti, dove non si rie­sce nep­pure a fare una conta som­ma­ria degli sban­dati (displa­ced per­sons) e dove è ormai impos­si­bile distin­guere tra pro­fu­ghi di guerra, di per­se­cu­zioni poli­ti­che, reli­giose o etni­che, di crisi ambien­tali o di fame e mise­ria (i cosid­detti migranti eco­no­mici); anche se l’esito di que­ste tante con­cause è quasi sem­pre una guerra ali­men­tata dal com­mer­cio di armi a bene­fi­cio di nazioni che le producono.

L’Italia affronta il pro­blema affi­dan­dolo a mala­vita, mafia e mal­go­verno, gli stru­menti tra­di­zio­nali di gestione di tutte le emer­genze vere o inven­tate: Expò, Mose, rifiuti, ter­re­moti, allu­vioni, ele­zioni, sanità, lavoro nero. Con i pro­fu­ghi, gli affari di mafia e mal­go­verno si asso­ciano a sfrut­ta­mento, umi­lia­zione e degrado di coloro che ven­gono affi­dati alle loro «cure». Ma anche a cre­scenti motivi di timore, mal­con­tento, rivolta aperta; a invo­ca­zione di poteri forti e solu­zioni defi­ni­tive (o «finali»?); a pro­fes­sioni di raz­zi­smo osten­tate delle popo­la­zioni locali.

Ma in che modo pen­siamo che ven­gano gestiti in Medio Oriente i campi pro­fu­ghi di milioni di esseri umani senza alcuna pro­spet­tiva di ritorno alle loro terre per molti anni? E in Libia, in Sudan, o in tutti gli altri paesi verso cui li vor­remmo riso­spin­gere? E che cosa ci aspet­tiamo che fac­ciano i Buzzi o gli Alfano di quei paesi? Il loro lavoro sarà «farli spa­rire», dopo averli tor­tu­rati, rapi­nati e vio­lati in tutti i modi: unica alter­na­tiva alla man­cata pos­si­bi­lità tra­ghet­tarli in Europa.

Ma lo Stato ita­liano, lasciato solo a veder­sela con flussi cre­scenti e incon­trol­la­bili, diven­terà anch’esso desti­na­ta­rio dei respingi-menti: ridotto a tra­sfor­mare la poli­zia, come già sta facendo, in «sca­fi­sti di Stato», per cer­care di far pas­sare la fron­tiera, in vio­la­zione della con­ven­zione di Dublino, al mag­gior numero pos­si­bile di migranti; o a «ester­na­liz­zarne» la gestione a orga­niz­za­zioni alla Buzzi (ma in campo c’è già anche di peg­gio); o ad abban­do­narli per strada, insce­nando fughe di massa dai luo­ghi di deten­zione, e creando così situa­zioni di degrado e di effet­tivo peri­colo con cui ali­men­tare rivolte sem­pre più dif­fuse di comu­nità locali.

Che l’Italia possa rima­nere «aggan­ciata» all’Europa in una situa­zione del genere è dif­fi­cile. Ma che l’Europa possa con­ti­nuare a occu­parsi di sfo­ra­menti dei defi­cit dello «0 vir­gola», senza darsi uno strac­cio di poli­tica per affron­tare, in una pro­spet­tiva di paci­fi­ca­zione, la bel­li­ge­ranza ende­mica ai suoi con­fini, o le derive auto­ri­ta­rie, nazio­na­li­sti­che e raz­zi­ste al suo interno, è altret­tanto surreale.

D’ora in poi tutti i pro­getti per cam­biare la società, o la distri­bu­zione del red­dito, o per difen­dere lavoro, ter­ri­to­rio, scuola, sanità, cul­tura, diritti, dovranno con­fron­tarsi con il pro­blema dei pro­fu­ghi e dei migranti: per cer­care una via di uscita paci­fica e nego­ziata alla crisi geo­po­li­tica del Medi­ter­ra­neo; e per tro­vare un posto e un ruolo alle cen­ti­naia di migliaia che cer­cano sal­vezza in Europa.

Una via di uscita soste­ni­bile, accet­ta­bile per tutti, che riduca anzi­ché esa­cer­bare le molte ragioni di con­tra­sto tra locali e migranti; che per­metta di vivere l’arrivo di tanti pro­fu­ghi non come una minac­cia e un peso inso­ste­ni­bili, bensì – lo hanno dimo­strato vicende locali esem­plari, come quella di Lam­pe­dusa — come un’opportunità di nuove forme di con­vi­venza, di cre­scita cul­tu­rale, di aper­tura poli­tica, di un approc­cio di respiro euro-mediterraneo ai pro­blemi quo­ti­diani: un approc­cio, cioè, che riguardi al tempo stesso il nostro con­ti­nente e i paesi dell’Africa, del Magh­reb e del Medio Oriente.

Con un piano che deve, sì, essere euro­peo, ma che va messo a punto qui, comin­ciando a dimo­strarne la fat­ti­bi­lità per pic­coli epi­sodi: a par­tire da una vigi­lanza e una con­te­sta­zione dif­fuse e di massa su tutti gli affidi in mate­ria di acco­glienza e gestione dei profughi.

Innan­zi­tutto i cit­ta­dini ita­liani non devono essere messi nella con­di­zione di temere che a loro siano riser­vate meno risorse e meno oppor­tu­nità di quelle desti­nate a pro­fu­ghi e migranti: dun­que, red­dito garan­tito e piani gene­rali per creare lavoro e dare occu­pa­zioni e solu­zioni abi­ta­tive decenti a tutti (e fine, quindi, dei patti di stabilità).

Poi, auto­ge­stione: è cri­mi­nale costrin­gere i pro­fu­ghi «accolti» a un ozio for­zato di anni e affi­dare a imprese cosid­dette sociali la gestione di ogni aspetto della loro vita quo­ti­diana. Assi­stiti e con­trol­lati, pro­fu­ghi e migranti pos­sono gestire da soli risorse ed edi­fici riser­vati alla loro permanenza.

Poi devono essere distri­buiti sul ter­ri­to­rio, con misure per faci­li­tare con­tatti e scambi con i locali: accesso a scuole, sanità, atti­vità ricrea­tive, media­zione cul­tu­rale. Infine devono potersi orga­niz­zare anche sul piano poli­tico, valo­riz­zando i con­tatti tra comu­nità nazio­nali già inse­diate in Europa, e con chi è restato nei paesi da cui sono fuggiti.

La costru­zione di una iden­tità regio­nale – di una comu­nità euro-mediterranea, da fon­dare sulle mace­rie dell’Unione attuale, che ha dimen­ti­cato le ragioni che l’hanno fatta nascere — ha biso­gno di que­ste cit­ta­dine e cit­ta­dini, che qui pos­sono met­tere a punto un pro­getto, un embrione di governo in esi­lio, e una road map per il riscatto poli­tico e sociale dei loro paesi di origine.

È una strada lunga e tor­tuosa (come lo è stata quella che ha por­tato alla fon­da­zione dell’Unione Euro­pea), ma ine­lu­di­bile per non venir sopraf­fatti da una guerra per­ma­nente ai con­fini dell’Unione e dal trionfo del raz­zi­smo al suo interno.

P.S. Que­sto è un tema ine­lu­di­bile per la coa­li­zione sociale, un pro­getto che poteva nascere un anno fa con L’Altra Europa con Tsi­pras, ma che è stato disat­teso a favore di un enne­simo assem­blag­gio di inu­tili par­ti­tini; ma che per for­tuna è stato ripreso dalla Fiom e da tutti coloro che vi si stanno impegnando.

«Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministratori, perché nulla è cambiato? Come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate».

Corriere Della Sera, 9 Giugno, 2015 (m.p.r.)

«Di nuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale.

L’appello all’onestà, tante volte ripetuto, non basta infatti di per sé a risolvere i mali della politica: e il sentimento «anti casta», pur animato da giustificato sdegno, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi alla magistratura. Così non è. E anche se la qualità del ceto dirigente, locale e nazionale, è evidentemente scadente (quanti sono coinvolti nelle inchieste sembrano spinti solo da miserabili aspirazioni di arricchimento), l’onestà personale non è, né sarà sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.
Dopo vent’anni di inchieste giudiziarie sulle malefatte dei politici e di denunce della corruzione formulate anche in sedi autorevolissime (dai più alti scranni della Repubblica al soglio di Pietro), ancora a questo punto siamo? Questo è ciò che mestamente devono essersi domandati tanti italiani, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa quanto meno ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile ma che andrebbe superato, per cominciare a chiedersi se non ci sia stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui per tanti anni abbiamo evocato la «questione morale». Una parte del mondo politico e dell’informazione, prevalentemente orientata a sinistra, lo ha fatto, ad esempio, accreditando l’idea che ad essere disonesti fossero gli «altri», i politici — e dietro di loro, si lasciava intendere, gli elettori — di centrodestra. Era l’idea di una frattura antropologica tra destra e sinistra che, prima ancora di Mafia Capitale, altri scandali bipartisan si sono incaricati di dimostrare infondata; ma è tuttavia un’idea cui una parte del Paese ha creduto a lungo, evitando anche per questo di riflettere seriamente sulle ragioni per cui in Italia guardiamo spesso con indulgenza e comprensione a certi comportamenti illegali.

Osservò una volta Benedetto Croce che la «petulante richiesta» di onestà nella vita politica è l’«ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Personalmente onestissimo, Croce non voleva certo fare l’apologia della disonestà in politica ma segnalare come l’appello all’onestà sia di per sé insufficiente a risolvere i mali della politica, che hanno anzitutto bisogno di rimedi - appunto - politici. Invece - ecco un altro errore di questi decenni - il sentimento «anticasta», pur animato da sdegno giustificatissimo per i privilegi e le malefatte del ceto politico, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi ai controlli e alle inchieste della magistratura, magari con un inasprimento delle pene cui pochi peraltro riconoscono una vera capacità dissuasiva.
Le notizie che si vanno pubblicando sull’inchiesta di Mafia Capitale mostrano, al di là di quelle che saranno poi le risultanze finali dei processi e al di là della congruità (per molti dubbia) del riferimento alla mafia, la qualità scadente del ceto politico locale, romano e non solo. Come lasciano trasparire anche altre inchieste di questi anni, si tratta spesso di un personale politico (quasi esclusivamente maschile: sarà un caso?) privo di ogni aspirazione od obiettivo di natura politica, come non era invece nella Prima Repubblica, che avrà avuto molti difetti ma non questo.
Quanti sono coinvolti nelle inchieste di cui si occupano i giornali in questi giorni sembrano infatti spinti in via esclusiva da miserabili aspirazioni di arricchimento personale: se non è (solo) il denaro, sono magari le assunzioni di parenti e amici (chi ne chiede due, chi tre, chi dieci). Il fatto è che un tempo l’accesso alle carriere politiche locali operava dentro un quadro di relazioni e controlli nazionali che ormai non esistono più o si sono indeboliti notevolmente. Tranne evidentemente nel caso delle primarie per il Pd, che però hanno spesso finito con l’esaltare proprio il potere e l’influenza dei «capibastone» (il termine era usato tre mesi fa da Fabrizio Barca in quella sua diagnosi sul Pd romano «pericoloso e dannoso» di cui forse i vertici del Nazareno avevano sottovalutato la drammaticità). Se le cose stanno così, i partiti — e in primo luogo, il principale partito di governo — non possono limitarsi alla (ovvia) esortazione affinché la giustizia faccia il suo corso, ma dovrebbero prendere delle decisioni politiche adeguate. Il Pd, in particolare, dovrebbe rendersi conto di quanto sia poco giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica continuare a sostenere il sindaco Marino solo perché non personalmente coinvolto nell’inchiesta giudiziaria.
Non c’è bisogno di citare ancora Croce per osservare che l’onestà personale non è sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.

Se c’è un aspetto che caratterizza l’elezione di Ada Colau a sindaca di Barcellona (alcaldesa, non è una corruzione del maschile alcalde) ed è l’aver fatto del diritto alla casa ed alla città la base della sua piattaforma politica. La lista civica che l’ha sostenuta, Barcelona en Comú, scaturita dalla fusione della rete di comitati e associazioni Guanyem Barcelona con una serie di partiti, ha vinto proponendo un’idea di nuovo municipalismo che chiede ai cittadini di partecipare alla gestione della città e che contrasta le politiche nazionali soprattutto riguardo alle conseguenze dell’esplosione della bolla immobiliare.

Colau è fondatrice del movimento Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH) che dal 2009 si batte per una diversa legislazione sull’insolvenza dei mutui ipotecari in Spagna, dove chi non riesce più pagare il mutuo viene buttato fuori casa dalla banca che poi la lascia vuota ma continua a chiedere il pagamento delle rate. Numerosissimi sono stati i cittadini che dopo aver perso la casa hanno in fine deciso di rinunciare alla vita. Nel 2012 insieme ad Adrià Alemany ha pubblicato Vidas hipotecadas, uno studio sull’origine e sulle conseguenze della bolla immobiliare in Spagna che passa al setaccio il primato iberico nel tasso di possesso dell’abitazione. Prima della crisi economica la Spagna era una nazione di proprietari immobiliari, dove nove cittadini su dieci possedevano la casa in cui vivevano. Questo dato è il principale indicatore della profonda crisi che ha sconvolto il paese negli ultimi sette anni e che ha le sue radici nella politica edilizia del franchismo. La cultura proprietaria della Spagna contemporanea è la pesante eredità di un regime politico che ha fatto del settore delle costruzioni l’industria nazionale per eccellenza. L’indebitamento generalizzato che si è prodotto a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, facilitato dai vantaggi fiscali e dall’ingresso della economia spagnola in quella europea, ha fatto il resto.

All’interno di questa eredità – e del progredire del settore edilizio come una delle principali componenti del prodotto interno lordo nazionale - trova spiegazione la legge che dal 1998 disciplina l’uso del suolo, non a caso definita dell’urbanizzazione totale, il cui impressionate risultato sono 6,6 milioni di abitazioni realizzate dalla sua promulgazione fino al 2007. L’impiego in edilizia, attraverso modalità precarie che sono poi state spazzate via dalla crisi, ha riguardato il 13% della popolazione attiva: un dato doppio rispetto, ad esempio, a quello della Germania. In tutto ciò l’intervento della Stato da diretto è diventato indiretto e finalizzato in modo crescente a sostenere la domanda e l’intervento privato nell’edilizia residenziale con strumenti come la detrazione fiscale degli interessi passivi del mutuo. Il grande investimento economico del settore edilizio non ha solo fatto della Spagna una nazione di proprietari immobiliari ma ha anche disseminato il paese di seconde case per il turismo nord-europeo. Il risultato è ciò che qualche tempo fa un servizio fotografico pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian ha definito La costa del concrete, ovvero la quasi totale edificazione del litorale spagnolo che si affaccia sul Mediterraneo.

Il connubio edilizia-turismo a Barcellona significa che la città è stata progressivamente sottratta ai suoi abitanti, facendone una sorta di grande albergo diffuso. Attualmente le presenze turistiche sono tre volte e mezzo i residenti della capitale catalana e l’amministrazione uscente non trovava nulla di male nel pensare che il dato: potesse essere aumentato fino a dieci milioni l’anno. Gli effetti del turismo di massa sulla vita delle persone, il triste declino di Barcellona da metropoli trainante l’economia di un’intera regione a parco tematico - qui si dirige la maggiore quantità di navi da crociera del Mediterraneo e d’Europa - è raccontata nel documentario di Eduardo Chibàs Bye Bye Barcelona, una dettagliata denuncia della progressiva perdita dei diritti di cittadinanza da parte degli abitanti tramite l’inarrestabile privatizzazione dello spazio pubblico incessantemente messo a profitto. Da tempo le manifestazioni e le iniziative di cittadini che protestano contro l’affitto illegale di appartamenti per vacanze, fenomeno favorito dalla deregolamentazione di fatto del cambio di destinazione d’uso degli edifici residenziali in alberghi, denunciano tutto ciò. Alla Barceloneta, lo storico quartiere sul mare, ci sono state assemblee, proteste, e in un caso anche tensioni con i turisti evidentemente ignari di trovarsi in una città, scambiata invece per un villaggio vacanze o un parco a tema.

Nella piattaforma politica di Colau un’abitazione dignitosa per chi l’ha persa – nella sola Barcellona sono 3000 persone che vivono negli alberghi messi a disposizione dalla municipalità e sono 900 coloro che dormono per strada – significa innanzi tutto togliere il settore immobiliare dal dominio della finanza: nel paese con il più alto numero di abitazioni vuote il sistema bancario è diventato il principale proprietario di case. La lotta contro gli sfratti, della quale la nuova alcaldesa è stata protagonista, dopo molti anni di oblio e di retorica sulla competitività e sui costi da pagare allo sviluppo economico ha rimesso al centro dell’agenda politica i fondamentali diritti di cittadinanza. Ora il cambiamento nella governo di una delle più importanti città europee sarà interpretato da una amministrazione guidata da una donna. Lo stesso molto probabilmente succederà a Madrid con Manuela Carmena, l’altro volto femminile della svolta municipalista che ha segnato le elezioni in Spagna.

Riferimenti
A. Colau, A. Alemany, Vidas hipotecadas, Cuadrilatero de libros, 2012.

La terza guerra mondiale, nella quale siamo immersi dalla fine del Primo millennio, nella visione di un papa venuto dal Sud del mondo e dal cuore di una raffinata civiltà.

La Repubblica, 8 giugno 2015

“UNA terza guerra mondiale combattuta a pezzi” l’ha definita Bergoglio nell’omelia tenuta sabato mattina allo stadio olimpico Koševo di Sarajevo durante l’oceanica messa gremita di reduci della guerra che ha insanguinato i Balcani negli anni ’90 del Novecento. Così, con l’usuale raffinatezza di un linguaggio solo apparentemente semplice, di una comunicazione intellettuale a più livelli, in contrapposizione a quello che ha definito “il clima di guerra della comunicazione globale”, papa Francesco ha fotografato lo scenario bellico su cui si è aperto il terzo millennio e rinominato il conflitto cui è stata applicata da molti, non ultimo il precedente papa, la contestabile nozione di scontro di civiltà.

“Scontro fra culture” al plurale, ha concesso Bergoglio, può se mai definirsi la guerra in corso. Non ci si aspetta di meno da un papa colto che ha fatto dell’understatement la propria cifra e del sottotesto il proprio mezzo; che ha adottato il motto di Ignazio di Loyola e di Hölderlin: Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est , “Scavalco il grande confinandomi nel piccolo”; che battendosi contro il “tomismo decadente” ha rivendicato il manifestarsi di dio nella rivelazione storica; il cui programma affonda nei millenni e guarda all’eredità dell’ellenismo e di Bisanzio, dunque all’ecumenismo come priorità; che sul dialogo interconfessionale, prima e oltre che interreligioso, gioca la sua partita a scacchi col secolo.

Il pontificato di Bergoglio è in questo senso erede diretto di quello del “papa geopolitico” Wojtyla. Dopo il definitivo esaurirsi nel secolo breve del fantasma imperiale postbizantino il blocco ottomano caduto al suo inizio, nel conflitto innescato proprio a Sarajevo, quello russo-sovietico dissolto alla sua fine, con la caduta del muro e il golpe di Eltsin — il millennio si è aperto su un nuovo scenario di conflitto. La Terza Guerra Mondiale a Pezzi di Bergoglio è molteplice, scava più solchi, dischiude più fronti; faglie di attrito antichissime ricominciano a entrare in moto complesso; un unico macroscopico sussulto tellurico scuote i Balcani, il Caucaso, la Mesopotamia, dilaga nel Medio Oriente, destabilizza e arroventa pezzo a pezzo le aree geografiche in cui i due imperi avevano imposto identità unitarie trasversali sia alla divisione stereotipa tra oriente e occidente, sia a quella tra religioni. È allora che si insinua nella fantasia collettiva l’idea di uno scontro frontale di civiltà tra oriente islamico e occidente cristiano.

Un’idea che Bergoglio rifiuta. Lo indica già in sé la mossa del cavallo con cui ha fatto slittare il discorso sull’islam allo scacchiere balcanico e partire il messaggio da Sarajevo, covo di antichi demoni e città martire dall’uno all’altro capo del Novecento, menzionando le sue diversità etniche e religiose, sottolineando la sua sofferenza storica, definendola “la Gerusalemme dell’occidente” con l’antico linguaggio che i papi rinascimentali applicarono a Costantinopoli nel primo frangente geopolitico che cinque secoli fa, a metà del quindicesimo, fece riflettere l’élite della curia romana sulla sorte degli equilibri mondiali alla prima islamizzazione ottomana dei Balcani.

Non è un caso che Bergoglio lanci il suo messaggio alla vigilia del G7, dove sia sulla questione ucraina, sia sui dossier Libia, Iraq e Siria il principale invitato è quello assente: il convitato di pietra Putin. Nella Terza Guerra Mondiale a Pezzi l’area slavo-balcanica interseca alla memoria islamica il più decisivo interlocutore di Bergoglio: la chiesa ortodossa, assuefatta a una perdurante fedeltà politica alla sfera russa, che già nel ’99 Julia Kristeva analizzava su Le monde partendo dalla millenaria alterità teologica tra chiesa d’oriente e d’occidente sintetizzabile nella contesa trinitaria sulla processione dello Spirito Santo. Il problema di Francesco, più ancora che quello della jihad, è quello del Filioque. È il risanamento dello scisma tra le chiese cristiane, prima ancora del patteggiamento tra cristianesimo e islam, a pesare nell’agenda del papa che per primo dopo Wojtyla, con raffinatezza gesuitica, ha ripreso il filo della geopolitica.

«Ha senso che un Paese dove la Costituzione garantisce ai cittadini l’uguaglianza di diritti abbia venti servizi sanitari diversi? Non è il momento di guardarsi allo specchio, e discuterne?».

Corriere della sera, 8 Giugno, 2015 (m.p.r.)

L a crisi delle Regioni è profonda, e per certi versi irreversibile. A certificarlo è il verdetto consegnatoci dalle ultime elezioni: il vuoto assoluto di programmi, il degrado della classe politica, la percezione degli Enti regionali come di istituzioni ipertrofiche, fonti di sprechi e inefficienze, hanno spinto molti elettori a disertare l’appuntamento con le urne. Di fronte a questa situazione, il silenzio dei partiti è assordante. E la riforma del titolo V della Costituzione rischia di essere insufficiente. Serve ben altro, se vogliamo che le Regioni smettano di essere in larga misura centri di potere fini a se stessi e diventino strumenti al servizio dei cittadini. Occorre il coraggio di mettere in discussione i meccanismi elettorali, il ruolo e le competenze, le funzioni istituzionali, i poteri reali. E occorre porsi domande scomode: hanno senso 20 sistemi sanitari diversi, sedi faraoniche, una quantità enorme di dipendenti? Hanno senso gli statuti speciali? E hanno senso Regioni con un numero di abitanti paragonabili al quartiere di una grande città?

L a crisi delle Regioni è profonda e per certi versi irreversibile. Il verdetto che ci hanno consegnato le ultime elezioni regionali, con il loro strascico di polemiche, veleni e sospetti, è senza appello. La campagna elettorale ha offerto spettacoli indecenti: e non parliamo soltanto della vicenda dei cosiddetti «impresentabili», ma anche di certi spregiudicati traslochi da uno schieramento politico all’altro. Abbiamo assistito a fatti come quelli di un governatore di sinistra che si è candidato con la destra pur di rimanere in partita, o di ex neofascisti accolti a braccia aperte dalla sinistra. Di tutto si è parlato tranne che di contenuti e programmi. Per un semplice motivo: non c’erano.

E se ne sono accorti anche gli elettori. Il drammatico calo della partecipazione al voto, che già aveva toccato il fondo in occasione delle elezioni in Calabria e ancor più in Emilia-Romagna, è una manifestazione di sfiducia da parte dei cittadini che più lampante non si potrebbe. Un cittadino su sei, di quelli che avevano votato alle precedenti regionali, non si è presentato al seggio. Sempre più le Regioni vengono percepite come istituzioni ipertrofiche di dubbia utilità, fonti di sprechi e inefficienze. Ed è sinceramente difficile non sospettare che servano più a chi viene eletto che non agli elettori. Dei consiglieri regionali inquisiti per l’uso improprio di fondi pubblici si è perso il conto. Sono centinaia. Nella generale mediocrità della classe dirigente, il livello di competenze e di moralità di certa politica locale è se possibile ancora più modesto. Con un degrado progressivo e inesorabile, come ha opportunamente sottolineato ieri sulle colonne di questo giornale Sabino Cassese.
Il problema della qualità della classe politica sta diventando drammatico, e nel caso dei consigli regionali (e talvolta anche comunali) ha motivazioni precise. Una volta eletti i candidati alle assemblee non avranno alcun potere concreto, se si eccettua quello di approvare la legge di bilancio e riscuotere un compenso non marginale: a loro viene chiesto soltanto di portare più voti possibile. E siccome il fine giustifica i mezzi, ecco che non si va troppo per il sottile. Non si chiedono credenziali né si accertano i profili morali. Meno che mai si pretende la rinuncia a metodi clientelari. Prevale così chi controlla spregiudicatamente i consensi, e non si fanno domande che sarebbe doveroso rivolgere a chi passa da destra a sinistra e viceversa senza aver avuto crisi di coscienza o particolari folgorazioni sulla via di Damasco: l’unica cosa che importa è il numero di voti che il trasloco garantisce. Un capitale che deve fruttare. L’elezione in un consiglio regionale o di una grande città si tinge così di squallidi toni affaristici. Chi porta in dote migliaia di voti si aspetta evidentemente un ritorno. Ecco la realtà.
Ciò che è peggio, di fronte a questa situazione il silenzio dei partiti è assordante. Nessuno vuole aprire gli occhi, riconoscere la crisi drammatica in cui è precipitata una politica locale mediocre, sempre più concentrata esclusivamente nella sopravvivenza del proprio potere quando non affogata nella corruzione, come dimostrano le storie agghiaccianti di Mafia capitale. Ma che il giocattolo sia ormai rotto, è assodato. Una classe dirigente seria e responsabile ne dovrebbe prendere atto e agire di conseguenza prima che la situazione precipiti.
Cominciando dal nodo oggi sicuramente più critico: le Regioni, appunto. Per la piega che hanno preso le cose, la riforma del titolo V della Costituzione rischia a questo punto di essere solo un pannicello caldo, insufficiente per quel cambiamento radicale di rotta che sarebbe necessario. Serve ben altro, se vogliamo che le Regioni smettano di essere in larga misura centri di potere fini a stessi, spreconi e clientelari, e diventino strumenti al servizio dei cittadini. Servirebbe il coraggio di mettere in discussione i meccanismi elettorali, il ruolo e le competenze, le funzioni istituzionali, i poteri reali. Fino in fondo, e non soltanto con una riverniciatina al Titolo V. Servirebbe il coraggio di dare risposte a domande che pochi hanno avuto l’ardire di porre.
Ha senso l’esistenza di Regioni come il Molise e la Valle D’Aosta, che hanno un numero di abitanti paragonabile al quartiere di una grande città, oppure come la stessa la Basilicata? Hanno ancora un senso gli statuti speciali che hanno trasformato certe autonomie in privilegi inconcepibili, facendo esplodere le spese? Ha senso che le Regioni abbiano una quantità enorme di dipendenti spesso inutili, e spesso assunti con meccanismi niente affatto trasparenti magari attraverso le centinaia di società controllate, a loro volta quasi sempre inutili? Ha senso che grazie a quei sistemi nei consigli regionali sia impiegato almeno il quadruplo delle persone che lavorano alla Camera dei Deputati? Ha senso che le Regioni investano somme faraoniche in sedi istituzionali scimmiottando lo Stato centrale, imbarcandosi in operazioni immobiliari insensate? Ha senso che un Paese dove la Costituzione garantisce sulla carta ai propri cittadini l’uguaglianza dei diritti fondamentali abbia venti servizi sanitari diversi, con Regioni che al Nord garantiscono le cure odontoiatriche gratuite a chi guadagna fino a 80 mila (ottantamila) euro l’anno e al Sud devono invece chiudere i servizi di emergenza per carenze igieniche? Ha un senso tutto questo, e altro ancora? Non è arrivato il momento di guardarsi allo specchio, e discuterne seriamente?
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