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Il manifesto, 23 giugno 2015

La costru­zione della grande mura­glia cinese fu ini­ziata nel 700 a. C. per con­clu­dersi nel 206 a.C. per volere dello zar Qin Shi Huang. Ser­viva a difen­dersi dalle incur­sioni dei popoli con­fi­nanti, soprat­tutto dai mon­goli. Ma non risultò molto effi­cace — anche se misu­rava 6.350 metri, si tro­vava sem­pre un punto vali­ca­bile e non coperto. In pic­colo fu nei secoli imi­tata da molte for­tezze e castelli sem­pre per impe­dire l’entrata ai non desi­de­rati o ai nemici. Dopo la seconda guerra mon­diale un muro venne eretto a Ber­lino per sepa­rare le due Ger­ma­nie. Fu abbat­tuto con grande giu­bilo il 9 novem­bre del 1989 e la Ger­ma­nia tornò ad essere di nuovo una sola.

Oggi l’Europa sta eri­gendo nuovi muri. L’Europa comu­ni­ta­ria, l’unica che si ritiene degna di por­tare que­sto nome. Altri paesi — per lo più quelli for­ma­tisi dopo la dis­so­lu­zione della Jugo­sla­via, ecce­zion fatta per la Slo­ve­nia e la Croa­zia, — non sono più «Europa», sono un con­ti­nente nuovo ancora senza nome.

Tra poco anche la Gre­cia, la culla demo­cra­tica di tutti gli altri, il paese dove la demo­cra­zia è nata men­tre nei paesi oggi «svi­lup­pati» gli uomini vive­vano ancora sugli alberi, non sara più «Europa», con buona pace del Fondo mone­ta­rio internazionale.

Anche la grande Rus­sia sem­bra non essere più Europa – il muro verso di lei sono le san­zioni – che dan­neg­giano più noi che i russi – e la Nato che la cir­conda da tutte le parti appro­fit­tando dell’ospitalità dei paesi «ven­di­ca­tori». (Ricor­dia­moci il ter­rore quando la marina sovie­tica si era avvi­ci­nata alle coste di Cuba!).

L’Ungheria, un paese di estrema destra, chiede che si costrui­sca un muro tra il suo con­fine e quello della Ser­bia. L’esempio sono i muri in Texas verso il Mes­sico, quelli a Bel­fast ovest che divi­dono i cat­to­lici dai pro­te­stanti, di Nico­sia, i tur­chi dai greci e soprat­tutto il muro che Israele ha eretto a Ramal­lah per sepa­rare i ter­ri­tori pale­sti­nesi dai «pro­pri». Muri che ser­vono a difen­derci dagli «infetti» che noi abbiamo con­ta­mi­nato. Sono di Bel­grado, ma vivo da ita­liana in Ita­lia da quasi cinquant’anni. Ho mili­tato in un par­tito che oggi non esi­ste più (il Pci), sono stata l’interprete anche di Enrico Berln­guer. Ho cer­cato di dif­fon­dere la cul­tura del mio paese (allora la Jugo­sla­via) tra­du­cendo le opere degli scrit­tori più impor­tanti. Avendo parenti in tutte le regioni delle ex repub­bli­che, sono etni­ca­mente «sporca» come si direbbe oggi. Ma sono con­tenta, il mio mondo è il Mondo anche se le radici contano.

I grandi paesi come la Fran­cia e l’Inghilterra (per non par­lare degli Stati Uniti e del disa­stro pro­vo­cato negli anni recenti in Iraq, Libia ecc.) non vogliono la nuova ondata degli immi­grati dopo aver sfrut­tato fino all’osso le colo­nie. Al con­fine di Ven­ti­mi­glia arri­vano cen­ti­naia di stra­nieri al giorno: sono sbar­cati con le loro misere cose in Ita­lia (pur­troppo la sua geo­gra­fia lo per­mette) ma vogliono andare oltre; spesso hanno già i parenti in altri paesi euro­pei con i quali si vor­reb­bero congiungere.

Nel periodo dei bom­bar­da­menti «uma­ni­tari» della Ser­bia per rag­giun­gere la fami­glia che viveva a Bel­grado, si andava a Buda­pest e poi con un pull­man sgan­ghe­rato si pro­se­guiva per la capi­tale. Al con­fine i finan­zieri non erano pro­prio gen­tili, spesso si doveva dar loro qual­cosa per essere lasciati in pace. Dice­vano: «Avete vis­suto bene sotto Tito, ora siete voi ad avere bisogno!».

Asot­tha­lom è una cit­ta­dina unghe­rese al con­fine con la Ser­bia. È qui soprat­tutto che si assie­pano immi­grati da diversi paesi afri­cani e asia­tici in fuga dalle guerre e dalla mise­ria. Qual­che con­ta­dino unghe­rese porge loro un bic­chier d’acqua e un po’ di pane. Sono esau­sti sotto il sole di giu­gno dopo aver fatto migliaia di chi­lo­me­tri a piedi e negli scafi stra­pa­gati dove hanno visto morire i pro­pri com­pa­gni. Cimi­tero azzurro è il poema del serbo Milu­tin Bojic dedi­cato ai caduti serbi nel Medi­ter­ra­neo nella prima guerra mon­diale. Il sin­daco dice che la cit­ta­dina ha 4.000 abi­tanti e che da qui hanno tran­si­tato 40 mila ille­gali. Arri­vano in Ser­bia dall’Albania e dal Kosovo e poi capi­scono che non c’è molto da aspet­tarsi da un paese già povero. E ora sono qui a cer­care di andare oltre, oltre e ancora oltre. Spesso non sapendo nem­meno dove, per ripren­dere anche un bri­ciolo della vita che hanno perduto.

Sono stati abbat­tuti i muri dei campi di con­cen­tra­mento e inter­na­mento, ci siamo tutti sen­titi più uomini. Ma i nuovi muri ci ripor­tano indie­tro. Capi­sco anche la gente che ha paura dell’«altro»: rubano, puz­zano, sono vio­lenti. Ma dopo giorni e set­ti­mane senza man­giare, noi saremmo diversi? Ora che l’unico di sini­stra sem­bra essere papa Fran­ce­sco, che ci richiama a sco­prire un po’ di uma­nità in noi, come con­vin­cere i grandi ad aiu­tare i «pic­coli» che spesso non con­si­de­rano nem­meno umani? Una scrit­trice croata molto pole­mica (Vedrana Rudan) pro­fe­tizza che un giorno guar­da­remo i bam­bini ame­ri­cani star male e non ci dispia­cerà dopo aver visto i volti dei bam­bini pale­sti­nesi, siriani, ivo­riani, nige­riani… Certo, un mondo così ingiu­sto dovrà esplo­dere. E allora si dovrà rico­min­ciare. Putroppo non sarò in grado di dare il mio contributo.

* scrit­trice e tra­dut­trice, ha tra­dotto in ita­liano tutte le opere di Ivo Andric

«Il filosofo tedesco: i politici non possono nascondersi dietro le lacune dovute a chiare incapacità istituzionali». Ancora una voce dal mondo della saggezza a favore delle ragioni di Alexis Tsipras.

LaRepubblica, 23 giugno 2015
La recente sentenza della Corte di Giustizia europea getta una luce impietosa su un errore di fondo della costruzione europea: quello di aver costituito un’unione monetaria senza un’unione politica. Tutti i cittadini dovrebbero essere grati a Mario Draghi, che nell’estate 2012 scongiurò con un’unica frase le conseguenze disastrose dell’incombente collasso della valuta europea. Aveva tolto la patata bollente dalle mani dell’Eurogruppo annunciando la disponibilità all’acquisto di titoli di stato senza limiti quantitativi in caso di necessità: un salto in avanti cui l’aveva costretto l’inerzia dei capi di governo, paralizzati dallo shock e incapaci di agire nell’interesse comune dell’Europa, aggrappati com’erano ai loro interessi nazionali. I mercati finanziari reagirono positivamente a quell’unica frase, benché il capo della Bce avesse simulato una sovranità fiscale che non possedeva, dato che oggi come ieri, sono le banche centrali degli Stati membri a dover garantire i crediti in ultima istanza.

GLI SPAZI DELLA BCE
Di fatto, la Corte di Giustizia europea non poteva confermare questa competenza, in contraddizione col testo dei Trattati europei; ma dalla sua decisione consegue la possibilità per la Banca centrale europea di disporre – tranne poche limitazioni - dei margini di manovra di un erogatore di crediti di ultima istanza. La Corte di Giustizia ha dunque ratificato quell’azione di salvataggio, benché non del tutto conforme alla Costituzione. Verrebbe voglia di dire che il diritto europeo dev’essere in qualche modo piegato, anche se non proprio forzato, dai suoi stessi custodi, per appianare di volta in volta le conseguenze negative del difetto strutturale dell’unione monetaria. L’unione monetaria resterà instabile finché non sarà integrata da un’unione bancaria, economica e fiscale. In altri termini, se non vogliamo che la democrazia sia palesemente ridotta a puro elemento decorativo, dobbiamo arrivare ad un’unione politica.

Fin dal maggio 2010 la cancelliera tedesca ha anteposto gli interessi degli investitori al risanamento dell’economia greca. Il risultato è che siamo di nuovo nel mezzo di una crisi che pone in luce, in tutta la sua nuda realtà, un altro deficit istituzionale. L’esito elettorale greco è quello di una nazione la cui netta maggioranza insorge contro l’opprimente e avvilente miseria sociale imposta al paese dall’austerità. In quel voto non c’è nulla da interpretare: la popolazione rifiuta la prosecuzione di una politica di cui subisce il fallimento sulla propria pelle. Sorretto da questa legittimazione democratica, il governo greco sta tentando di ottenere un cambio di politica nell’Eurozona; ma a Bruxelles si scontra coi rappresentanti di altri 18 paesi che giustificano il loro rifiuto adducendo con freddezza il proprio mandato democratico.

Il velo su questo deficit istituzionale non è ancora del tutto strappato. Le elezioni greche hanno gettato sabbia negli ingranaggi di Bruxelles, dato che in questo caso gli stessi cittadini hanno deciso su un’alternativa di politica europea subita dolorosamente sulla propria pelle. Altrove i rappresentanti dei governi prendono le decisioni in separata sede, a livelli tecnocratici, al riparo dell’opinione pubblica, tenuta a bada con inquietanti diversivi. Le trattative per la ricerca di un compromesso a Bruxelles sono in stallo, soprattutto perché da entrambi i lati si tende a incolpare gli interlocutori del mancato esito nei negoziati, piuttosto che imputarlo ai difetti strutturali delle istituzioni e delle procedure. Certo, nel caso di specie siamo di fronte all’attaccamento cieco ostinato a una politica di austerità giudicata negativamente dalla maggior parte degli studiosi a livello internazionale. Ma il conflitto di fondo è un altro: mentre una delle parti chiede un cambiamento di rotta, quella contrapposta rifiuta ostinatamente persino l’apertura di una trattativa a livello politico: ed è qui che si rivela una più profonda asimmetria.

SCELTE SCANDALOSE
Occorre avere ben chiaro il carattere scandaloso di un tale rifiuto: se il compromesso fallisce, non è per qualche miliardo in più o in meno, e neppure per la mancata accettazione di una qualche condizione, ma unicamente per via della richiesta greca di dare la possibilità di un nuovo inizio all’economia della Grecia, e alla sua popolazione sfruttata dalle élite corrotte, attraverso un taglio del debito o una misura analoga, quale ad esempio una moratoria collegata alla crescita. I creditori insistono invece sul riconoscimento di una montagna di debiti che l’economia greca non riuscirà mai a smaltire. Si noti che presto o tardi un taglio del debito sarà inevitabile. Eppure, contro ogni buon senso, i creditori non cessano di esigere il riconoscimento formale di un onere debitorio realmente insostenibile. Fino a poco tempo fa ribadivano anzi una pretesa surreale: quella di un avanzo primario superiore al 4%, ridotto poi a un 1% comunque non realistico. Così è fallito finora ogni tentativo di arrivare un accordo da cui dipende il futuro dell’Ue, soltanto in nome della pretesa dei creditori di mantenere in piedi una finzione.

Per parte mia, non sono in grado di giudicare se i procedimenti tattici del governo greco siano fondati su una strategia ragionata, o in qualche misura determinati da condizionamenti politici, incompetenza o inesperienza dei suoi esponenti. Ma le carenze del governo greco non tolgono nulla allo scandalo dell’atteggiamento dei politici di Bruxelles e Berlino, che rifiutano di incontrare i loro colleghi di Atene in quanto politici. Anche se si presentano come tali, sono presi in considerazione esclusivamente sul piano economico, nel loro ruolo di creditori. Questa trasformazione in zombie ha il significato di conferire alle annose insolvenze di uno Stato la parvenza di una questione di diritto privato, da deferire a un tribunale. In tal modo risulta anche più facile negare qualsiasi responsabilità politica.

L’ADDIO DELLA TROIKA
La nostra stampa ironizza sul cambio di nome della troika, che effettivamente assomiglia a un’operazione di magia. Ma è anche espressione del desiderio legittimo di far uscire allo scoperto, dietro la maschera dei finanziatori, il volto dei politici. Perché è solo in quanto tali che i responsabili possono essere chiamati a rispondere di un fallimento che porta alla distruzione di massa delle opportunità di vita, alla disoccupazione, alle malattie, alla miseria sociale, alla disperazione.

Per le sue opinabili misure di salvataggio Angela Merkel ha coinvolto fin dall’inizio l’Fmi. Questa dissoluzione della politica nel conformismo di mercato spiega tra l’altro l’arroganza con cui i rappresentanti del governo federale tedesco – persone moralmente ineccepibili, senza eccezione alcuna - rifiutano di ammettere la propria corresponsabilità politica per le devastanti conseguenze sociali che pure hanno messo in conto nell’attuazione del programma neoliberista. Lo scandalo nello scandalo è l’ingenerosità con cui il governo tedesco interpreta il proprio ruolo di guida.

IL RUOLO TEDESCO
La Germania deve lo slancio della sua ascesa economica, di cui si alimenta tuttora, alla saggezza delle nazioni creditrici, che nell’accordo di Londra del 1954 le condonarono la metà circa dei suoi debiti.Ma non si tratta qui di scrupoli moralistici, bensì di un punto politico essenziale: le élite della politica europea non possono più nascondersi ai loro elettori, eludendo le decisioni da prendere a fronte dei problemi creati dalle lacune politiche dell’unità monetaria. Devono essere i cittadini, e non i banchieri, a dire l’ultima parola sulle questioni essenziali per il destino dell’Europa. E davanti all’intorpidimento post-democratico di un’opinione pubblica tenuta ove possibile lontano dai conflitti, ovviamente anche la stampa dovrà fare la sua parte. I giornalisti non possono continuare a inseguire come un gregge quegli arieti della classe politici che li già li avevano ridotti a fare da giardinieri.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)
La follia, accettata da (quasi) tutti è che si accetti come un fatto normale che in questa Europa le decisioni che ammazzano i popoli e le loro volontà democraticamente espresse siano affidate a una Triade nessuno dei quali membri siano stati eletti (e due non siano neppure europei).

La Repubblica, 22 giugno 2015

Il meeting di giovedì scorso dell’Eurogruppo è scivolato via e passerà alla storia come un’occasione perduta di dar vita a un accordo tra la Grecia e i suoi creditori, per altro già tardivo. Forse, l’osservazione più significativa proferita da un ministro delle Finanze tra i partecipanti è stata quella dell’irlandese Micheal Noonan, che ha protestato perché i ministri delle Finanze non erano stati messi al corrente della proposta avanzata dalle istituzioni al mio governo. La zona euro si muove in modo misterioso. Decisioni di importanza preminente sono approvate senza riflettere da ministri delle Finanze che restano all’oscuro dei dettagli, mentre i funzionari non eletti di istituzioni potentissime sono bloccati in negoziati con una parte sola, un governo isolato e in difficoltà.

È come se l’Europa avesse deciso che i ministri eletti delle Finanze non sono all’altezza del compito di conoscere a fondo i dettagli tecnici, compito che è meglio lasciare a “esperti” che non rappresentano l’elettorato ma le istituzioni. È impossibile in tali circostanze non chiedersi fino a che punto tale metodo sia proficuo, e tanto meno se sia anche solo lontanamente democratico.
Sensazione di superiorità
I greci per anni hanno protestato a gran voce, hanno opposto una fiera resistenza alla troika, nel gennaio scorso hanno eletto il mio partito radicale di sinistra e restano fermi nella totale assenza di vento della recessione. Se tale sentimento è comprensibile, permettetemi, cari lettori, di sostenere che in ogni caso esso non è di alcun aiuto, per almeno tre motivi. Primo, non agevola la comprensione dell’attuale tragica situazione greca. Secondo, tralascia di informare adeguatamente il dibattito su come la zona euro, e più in generale l’Ue, dovrebbe progredire. Terzo, semina senza necessità alcuna discordia tra popoli che hanno in comune più di ciò di cui si rendono conto.
Il deficit greco
Dal 2009 il deficit pubblico greco è stato ridotto, in termini corretti per il ciclo, di uno strabiliante 20 per cento, tanto da trasformare un ingente deficit in una grande eccedenza primaria strutturale. I salari si sono contratti del 37%, le pensioni anche del 48%. Il numero dei dipendenti statali è sceso del 30%, la spesa per i consumi del 33% e perfino il disavanzo delle partite correnti si è contratto del 16%. Ahimè, la correzione è stata a tal punto drastica che l’attività economica è stata strangolata, il reddito complessivo è diminuito del 27%, la disoccupazione è balzata alle stelle del 27%, il lavoro sommerso è progressivamente aumentato arrivando al 34%, il debito pubblico è salito al 180% del Pil in rapido calo della nazione.
Ciò di cui la Grecia ha assolutamente bisogno ora non sono altri tagli, tali da spingere una popolazione già molto depauperata in una condizione di ulteriore avvilimento; né più alte percentuali di prelievo fiscale o oneri che finiscano con lo strangolare del tutto ciò che resta dell’attività economica. Queste misure “parametriche”, come le chiamano le istituzioni, sono state eccessive, e ad esse si deve il fatto che oggi la nazione è in ginocchio. Ciò di cui la Grecia ha disperatamente bisogno sono riforme serie ed equilibrate. Ci serve un nuovo apparato fiscale che contribuisca a debellare l’evasione fiscale e al contempo ad arginare le interferenze della politica e delle imprese. Ci servono un sistema di approvvigionamento esente da corruzione, procedure di concessione di licenze che siano business friendly, riforme giudiziarie, soppressione di scandalose prassi di pensionamento anticipato, adeguata regolamentazione dei media e del finanziamento dei partiti politici e così via.
Durante il meeting dell’Eurogruppo di giovedì scorso ho presentato l’agenda di tutte le riforme messe a punto dal nostro governo, studiate appositamente per raggiungere gli obbiettivi enumerati, e ho annunciato la nostra decisione di collaborare ufficialmente con l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OC-SE) per vararle. Ho anche presentato una tassativa proposta per far entrare in vigore un meccanismo di freno all’indebitamento instaurato per legge che, fatto scattare da una commissione fiscale indipendente, possa automaticamente ridurre tutte le spese pubbliche della percentuale necessaria a rimettere sulla giusta strada la spesa pubblica per il raggiungimento di obiettivi pre-concordati di primaria importanza. Ho presentato all’Eurogruppo una serie di proposte ben ponderate per procedere a swap del debito che consentirebbero alla Grecia di rientrare nei capital market e di prendere parte al programma della Bce (meglio noto come quantitative easing o alleggerimento quantitativo).
Un silenzio assordante
È increscioso, ma purtroppo la mia presentazione è stata accolta da un silenzio assordante. A eccezione dell’acuta osservazione di Michael Noonan, tutti gli altri interventi hanno ignorato completamente le nostre proposte e rafforzato la frustrazione dei ministri per il fatto che la Grecia…non aveva proposte! Chi avesse assistito in maniera imparziale alle delibere dell’Eurogruppo giungerebbe inesorabilmente alla conclusione che si tratta di un forum assai bizzarro, mal attrezzato per prendere buone e solide decisioni quando l’Europa ne ha davvero bisogno. Grecia e Irlanda all’inizio della crisi sono state fortemente colpite perché l’Eurogruppo non era stato concepito per gestire efficacemente le crisi. Ed è tuttora incapace di farlo.
La domanda pressante è la seguente: quanto è probabile che la zona euro diventi un’unione migliore alla quale appartenere, qualora la Grecia sia data in pasto ai lupi malgrado il tipo di proposte presentate al meeting dell’Eurogruppo di giovedì scorso? O è più probabile che un’intesa su queste proposte potrebbe effettivamente portare a maggiore apertura, maggiore efficienza e maggiore democrazia?
Traduzione di Anna Bissanti
Yanis Varoufakis è il ministro greco delle Finanze
Come si sta distruggendo la democrazia in Italia. in Francia e in Europa, senza che la "libera stampa" taccia quando si dovrebbe svelare e denunciare (e protesti solo a cose fatte).

Sbilanciamoci.info, 21 giugno 2015

Perdere in un anno due milioni di voti, come è successo al Pd, non è un incidente da poco. Si poteva pensare che il suo segretario, nonché premier, ne prendesse atto per correggere il tiro, mentre Renzi ha cercato soltanto di scrollarselo di dosso: “Non è una sconfitta mia, ma dell’opposizione”.

Non è neppure sfiorato dal sospetto che le minoranze non sono una disgrazia ma una condizione della democrazia; forse non ha mai saputo che della loro possibilità di muoversi in parlamento il garante è lui in quanto leader della maggioranza, convinto com’è che governare sia decidere da solo e per tutti. Due giorni dopo ha messo in atto le sue vendette rinviando una riforma della scuola e le attesissime centomila assunzioni di insegnanti che essa comportava dopo anni e anni di immobilità.

In verità gli attuali governi si prendono più di una libertà con i principi di quella democrazia rappresentativa che per loro sarebbe il santo dei santi, metro della misura della maturità e convenienza del sistema politico. Francia e Italia li stanno violando tutte e due sulla scuola, dove le politiche governative hanno incontrato resistenze inattese. In Italia, Renzi non è riuscito a far digerire agli insegnanti la sua “buona scuola”; quasi nelle stesse settimane in Francia la giovane ministra dell'istruzione Najat Vallaud-Belkacem (che ha sostituito il precedente ministro Benoît Hamon, messo da Hollande nella condizione di doversi dimettere perché troppo di sinistra) ha rapidamente deciso assieme al premier di ricorrere al fatale articolo 39-4, marchingegno infilato da De Gaulle nella costituzione del 1958, grazie al quale il governo ha diritto una volta per sessione parlamentare di bypassare il parlamento sulla misura che più gli preme; stavolta era la riforma del Collège, simile alla nostra media. Sembra che a suo tempo Michel Rocard vi sia ricorso una trentina di volte. Per chiudere il becco ai deputati il nostro governo ha finora usato il voto di fiducia, ma qualcuno deve aver suggerito a Renzi, Padoan, Poletti e compagnia di imitare i francesi introducendo il via libera anche da noi. Così ce lo troveremo nella prossima legge costituzionale nella distrazione (o accettazione) di tutto il Pd. Lo aveva già adocchiato nel 1935 Benito Mussolini. Ma soltanto i vecchi rottamandi e qualche gufo come me ne sono rimasti strabiliati, sia per l'Italia sia per la Francia, madre – a sentirla – di tutte le repubbliche.

Così non ci si deve più meravigliare se un centinaio di migranti abbia dormito alcune notti sugli scogli adiacenti al posto di frontiera vicino a Ventimiglia perché tirato giù a forza dalla polizia dai vagoni della linea che, percorsa la Costa azzurra, raggiunge Parigi e il sospirato nord e di là l'Olanda, magari l'Inghilterra, invece che la più ospitale ma linguisticamente incomprensibile Svezia. Quel gruppetto di disgraziati, avvolti dal freddo e dall'umidità oltre che indolenziti dalla dura roccia, è l'immagine parlante di un'Europa spietata, anzi della Commissione spietata che la governa perché gli abitanti francesi e italiani, al di qua e al di là del confine, lo varcano per dare loro una coperta calda.

La gente è meglio dei governi del nostro continente senza vergogna che, se potesse, metterebbe sugli scogli, e non gli mancano, l'intera Grecia, colpevole di avere speso senza pagare le tasse, peraltro non sotto l'egida dei detestati Tsipras e Varoufakis, ma dei precedenti Papandreu e Samaras. Nessuno quanto la Commissione era in grado di conoscere per filo e per segno l'allegra finanzia ellenica, ma a quei governi non aveva rimproverato né segnalato niente.

Della Commissione europea la perla è la libera stampa che si sveglia ogni tanto dal suo sonno scoprendo, a cose fatte, qualche orrore del Jobs Act tranquillamente digerito a suo tempo come la libertà data all'impresa di spiare con ogni possibile mezzo i suoi dipendenti, vita privata e opinione politica. Anche i sindacati più benigni con il padronato stanno protestando indignati. E non si può neanche dire meglio tardi che mai, perché la delega imposta è passata a suo tempo senza che battessero ciglio e ora disfare il già legiferato non sarà facile. Renzi, Poletti e le loro ministre dalle chiome lunghe come l'abitudine di non aprire il becco sembrano aver approvato alcune misure del premier che sta confezionando un paese su misura della destra, tale che nemmeno Berlusconi se l’era sognato.

«L’Unione europea non ha più alibi; un diritto di asilo europeo sarebbe un passo necessario, e un segno di voler invertire questo elenfantiaco attendismo, a tutti gli effetti un invito ai singoli Paesi a fare da soli, magari alzando muri».

La Repubblica, 22 giugno 2015

QUANDO la notizia che l’Ungheria costruirà una barriera sul confine con la Serbia trapela, la conferenza su “Frontiers of Democracy” promossa dalla Central European University di Budapest é in pieno svolgimento - tra relatori stranieri ci guardiamo increduli, mentre i colleghi ungheresi non vogliono parlarne né esprimere pareri. Tutto sembra svolgersi come in una scena onirica: si parla di frontiere e di nazionalismi che ritornano, si analizzano i nuovi regimi autoritari o ibridi che si inanellano ormai numerosi nell’Europa dell’Est, eppure il problema dei migranti e delle frontiere fisiche che si alzano per fermarli non sembra dover essere affrontato.

Poco europeista, e indifferente alle critiche rivolte dai partner europei alla riforma autoritaria della Costituzione varata nel 2013, il primo ministro ungherese Viktor Orbán è diventato all’improvviso il difensore delle frontiere europee, deciso a costruire una barriera fisica che sigilli l’Europa sigillando l’Ungheria. E ha dato l’annuncio proprio mentre Papa Francesco lanciava il suo monito a quelle nazioni che “chiudono le porte” a coloro che cercano non tanto una vita migliore, ma la vita pura e semplice. Criticando la decisione ungherese, il rappresentante dell’Agenzia Onu per i Rifugiati, Kitty McKinsey, ha ricordato che «quello di chiedere asilo è un diritto inalienabile. Erigere una barriera significa mettere ulteriori ostacoli a questo diritto ». I diritti inalienabili sono però impotenti, senza Stati ed eserciti che li impongano e li difendano. E la buona volontà e lo spirito umanitario si fanno moneta rara in questi tempi di crisi economica e con un’Europa che non ha autorità ed è destituita di autorevolezza. A premere verso l’Europa ci sono in primo luogo rifugiati, persone che sono sradicate dai loro Paesi a causa di guerre e persecuzioni, e della fame e assenza totale di risorse che esse provocano. Non emigrano ma fuggono; non cercano una vita più decente ma cercano di sfuggire alla morte e alla tortura. E l’Europa si trova all’improvviso viva; anzi, la sua esistenza si intensifica mano a mano che questi disperati premono alle sue frontiere.

Strano destino quello dell’Europa: un’entità che non è politica (e non sembra volerlo essere) e che però scopre di poter avere frontiere arcigne e ben protette, proprio come se fosse uno stato fortemente nazionalista. Un paradosso stridente di cui l’Europa né carne né pesce si rende responsabile, poiché questo non-essere-politica la rende un facile espediente nelle mani di chi si trova per caso ad essere un guardiano delle sue frontiere. Il ministro ungherese degli affari esteri ha detto che il suo governo ha ordinato che comincino subito i lavori per la costruzione di una barriera lunga 175 chilometri. La decisione ha generato sorpresa e indignazione, soprattutto tra i serbi, anche se, in effetti, non sono loro i veri destinatari di questo nuovo muro, ma i migranti dall’Africa e dal Medio oriente. La Serbia si adonta ma per una ragione che non è più nobile: perché si sente resa responsabile della situazione che ha provocato queste ondate di migranti, mentre ad essere responsabili di questa crisi, si legge in alcuni commenti, sono gli Stati Uniti, o per non essere intervenuti (come in Siria) o per essere intervenuti (come in Libia). L’Europa e gli Stati europei come vittime, dunque.

E intanto, ci si dimentica che l’Europa, nata per smantellare le barriere al suo interno ed essere un territorio di libera circolazione per cittadini di varie nazionalità, oggi diventa un comodo paravento per nuovi e rinati nazionalismi. Ancora in questi giorni, i ministri degli esteri dei Paesi europei non sono riusciti a giungere alla decisione di redistribuire tra i vari Paesi membri le diverse migliaia di siriani ed eritrei arrivati sul vecchio continente.

A fronte di questi dati e dei soldi spesi a creare barriere stanno migliaia di rifugiati e richiedenti asilo che non hanno di che ripararsi e vivere. L’Unione europea non ha più alibi; un diritto di asilo europeo sarebbe un passo necessario, e un segno di voler invertire questo elenfantiaco attendismo, a tutti gli effetti un invito ai singoli Paesi a fare da soli, magari alzando muri.

Le cinque bugie dei media d'osservanza renziana a proposito del mostro "la buona scuola" partorito dal nefasto comandante ancora insediato al vertice dei Palazzi. Dal

blog di Walter Tocci, 22 giugno 2015

Non credete alle notizie tendenziose che si leggono sulla scuola nei principali giornali. A poche ore dal confronto decisivo in Senato è necessario ristabilire la verità sul disegno di legge. Le principali mistificazioni sono cinque.

1. Assunzioni – E’ l’argomento più devastato dalla disinformazione. Intanto i posti disponibili non sono 100 mila ma circa 150 mila, come d’altronde ammise lo stesso governo nel documento iniziale della buona scuola. Ci sarebbero quindi la capienza e i soldi per assorbire già quest’anno quasi tutte le graduatorie a esaurimento, gli idonei e una parte degli abilitati, completando poi l’operazione con il piano poliennale.

Si poteva dare una risposta ai precari prima della “buona scuola”, come si fece guarda caso nei confronti degli imprenditori con il decreto Poletti approvato prima del Jobs Act. I fondi stanziati nella legge di stabilità consentivano di approvare già a gennaio una legge di poche righe per chiamare i nuovi insegnanti. Anche senza la legge bisognava comunque coprire 44 mila posti, anzi sarebbe un’omissione di atti d’ufficio non assumere nessuno. Le procedure dovevano essere attivate con largo anticipo, e invece si faranno le nomine in affanno ad agosto. Il governo rischia il caos all’inizio dell’anno scolastico per utilizzare i centomila come arma di pressione nell’approvazione di una legge sbagliata.

2. Autonomia. Si continua a ripetere che per fare le chiamate occorre il nuovo modello organizzativo della buona scuola. E’ falso. Già sono in vigore tutte le norme sull’organico dell’autonomia, sul potenziamento, sulle reti di scuole. Furono ben scritte nella legge n. 35 del 2012 sotto la guida di un sottosegretario competente come Marco Rossi Doria:

“Allo scopo di consolidare e sviluppare l'autonomia delle istituzioni scolastiche, .. secondo criteri di flessibilità e valorizzando la responsabilità e la professionalità del personale della scuola, con decreto del Ministro.. sono adottate.. linee guida per conseguire le seguenti finalità: a) potenziamento dell'autonomia delle istituzioni scolastiche.. ; b) definizione, per ciascuna istituzione scolastica, di un organico dell'autonomia, funzionale all'ordinaria attività didattica, educativa, amministrativa, tecnica e ausiliaria, alle esigenze di sviluppo delle eccellenze, di recupero, di integrazione e sostegno ai diversamente abili e di programmazione dei fabbisogni di personale scolastico; c) costituzione di reti territoriali tra istituzioni scolastiche, al fine di conseguire la gestione ottimale delle risorse umane, strumentali e finanziarie; d) definizione di un organico di rete per le finalità di cui alla lettera c) nonché per l'integrazione degli alunni diversamente abili, la prevenzione dell'abbandono e il contrasto dell'insuccesso scolastico e formativo, specie per le aree di massima corrispondenza tra povertà e dispersione scolastica”.

Il governo doveva quindi solo adottare le linee guida e procedere alle assunzioni. Ma era forse troppo semplice, ha preferito riscrivere le stesse norme in un confuso testo di cento pagine pur di poter dire che si faceva la riforma della scuola. Comunicare è sempre più facile che governare.

3. Alternanza scuola lavoro – Anche qui si tratta di una novità già vista. Il Parlamento aveva legiferato in materia (n. 128 del 2013), rinviando l’attuazione a un regolamento, ma il governo invece di scriverlo ricomincia da capo chiedendo una delega a scrivere il regolamento. Fa più notizia approvare una legge che attuarla. Bastava finanziare la norma esistente e occuparsi invece di come si innalza la didattica del saper fare. L’alternanza non va confusa con l’apprendistato, non è neppure un pendolo tra scuola e lavoro, ma una connessione cognitiva tra due diverse esperienze formative.

4. Più soldi agli insegnanti – I soldi promessi con la Card (spese per la formazione e la cultura) e l’incentivo individuale non compensano i tagli subiti in busta per i mancati rinnovi contrattuali e il blocco degli scatti. Bastava restituire il maltolto e gli insegnanti avrebbero speso gli adeguamenti salariali a loro piacimento. Non hanno bisogno dei consigli del governo per acquistare un libro o andare al cinema.

Sull’incentivo si sono dette tante sciocchezze. Non c’entra nulla con la valutazione, come spiegano bene gli esperti, si ridurrà a un compenso per le persone che coadiuveranno il preside nelle funzioni didattiche e gestionali, come previsto al comma 6 dell’articolo 9 del testo Camera. Anche questo strumento è già disponibile nella normativa vigente, con la retribuzione di incarichi e progetti finanziati dal Fondo MOF che però ha subito un taglio di circa il 50%. Bastava rimpinguarlo almeno con i 200 milioni previsti per l’incentivo e il governo si sarebbe risparmiato il conflitto con il mondo della scuola.

5. Cultura umanista(ica) – L’attenzione si è rivolta all’errore grammaticale dello speech presidenziale, ma è più grave il contenuto. Si complica la questione didattica invece di migliorarla. Sono ripristinate alcune discipline che erano state cancellate dalla Gelmini, dall’arte, alla musica, non la geografia chissà perché. È una meritoria intenzione ma il metodo è vecchio. Si aggiungono singole discipline che inevitabilmente vanno a restringere il tempo disponibile delle altre, senza una rielaborazione della metodologia. Si aggrava il difetto dell’attuale didattica, già troppo estensiva e poco intensiva. Il mondo nuovo richiede precisamente il contrario.

Questi cinque punti seguono le schema utilizzato dal Presidente Renzi per riassumere la “buona scuola”. Come si vede sono tutte vecchie novità, che riprendono le norme già in vigore e in molti casi le complicano inutilmente. L’unica vera novità è il potere del preside di nominare gli insegnanti. Si apre una breccia al clientelismo, all’aumento delle diseguaglianze, alle scuole di tendenza ideologica proprio mentre premono alle porte i fondamentalismi, come si è visto nella manifestazione dei cattolici integralisti. Soprattutto, la chiamata diretta conferisce al preside il potere illegittimo di derogare le graduatorie di merito certificate dallo Stato nei concorsi pubblici. L’insegnante perderebbe la titolarità della cattedra e quindi la libertà di insegnamento, come il lavoratore perde la tutele con il Jobs Act.

L’unica novità è l’applicazione ossessiva di uno solo al comando anche nel mondo della scuola. Nessuno dei veri problemi viene affrontato, né la riforma dei cicli, né l’abbandono degli studenti, né il neoanalfabetismo degli adulti. I centomila sono utilizzati come una clava per imporre scelte inutili o dannose. Uno, nessuno e centomila, è il titolo di un dramma che racconta lo smarrimento del protagonista.

«La funzione di questa esibizione è occultare la crisi e l’impasse di un’Europa a corto di sovranità, fra un contesto nazionale che si disfa e una costruzione europea che resta virtuale, fra Stati-nazione che la sovranità la stanno perdendo e un’Europa che la sovranità ancora non ce l’ha». La Repubblica, 22 giugno 2015 (m.p.r.)

Le immagini dei profughi bloccati a Ventimiglia hanno scioccato l’opinione pubblica da una parte e dall’altra delle Alpi. Ma tra quelle immagini c’è una foto che va ben oltre l’indignazione suscitata dal blocco. In essa si vedono dei migranti avvolti in coperte isotermiche che lottano contro il freddo sugli scogli in riva al mare. È stata scattata il 15 giugno. Se è assurta a icona probabilmente è perché quei rifugiati avvolti in coperte non hanno più forma umana, sono fantasmi, spettri, marziani venuti da un altro pianeta. In ogni caso non sono del tutto umani, della loro antica condizione conservano solo un’impronta sulla pellicola di poliestere che funge loro da involucro, sono dei mutanti, dei white walkers, dei morti viventi… Sono lo spettro della nostra società. L’immagine ci invita ad analizzare gli avvenimenti di questi ultimi giorni non solo in termini giuridici, politici o morali, ma come un teatro, il teatro della sovranità perduta.

Perché questo blocco, se è illegittimo rispetto al diritto d’asilo, è anche illegale rispetto agli accordi di Schengen e di Dublino. Rappresenta perciò non solo un’inadempienza morale e politica nei confronti di queste persone che hanno diritto di chiedere asilo, ma una negazione dell’Europa, perché intacca uno dei principi fondamentali che legittimano la costruzione europea, la libera circolazione delle persone all’interno di uno spazio comune. Nel momento in cui si brandisce di fronte al governo greco il rispetto delle regole instaurate dai trattati, ecco uno dei membri fondatori dell’Unione Europea che le calpesta esplicitamente sotto la pressione di un’opinione pubblica largamente influenzata dalle idee dell’estrema destra; ecco la Francia che erige in tutta fretta un muro di polizia di fronte all’Italia, che dovrebbe farsi carico da sola del diritto d’asilo!
Inadempienza morale contro i profughi, attentato al diritto d’asilo, negazione dell’Europa: il blocco di Ventimiglia è una sconfitta politica interna, una «Waterloo morale», come l’ha definita l’ex ministra delle Politiche per l’alloggio, Cécile Duflot. È l’agitazione a porte chiuse di un potere che crede, in questo modo, di gestire un’opinione pubblica in cerca di autorità e tormentata dalla paura. Perché qui non si sta neppure parlando di limitare l’afflusso di profughi sul territorio nazionale: a Ventimiglia si trattava di accogliere qualche migliaio di migranti in transito, quando in Francia abbiamo appena superato la soglia dei 300.000 lavoratori stranieri distaccati (una cifra che è raddoppiata in cinque anni!).
Qual è allora la razionalità di una politica del genere? Com’è possibile che un governo eletto per farla finita con gli accenti xenofobi di un Nicolas Sarkozy finisca per cedere a sua volta a questa hybris anti-immigrati che il filosofo Jacques Rancière ha definito «passione dall’alto »? Si tratta di ripristinare una sovranità sgretolata dalla costruzione europea e dalla globalizzazione? Si tratta di recuperare un po’ di quel potere d’agire che manca drammaticamente ai governanti? Tutto il contrario.
Al di là dell’indignazione che legittimamente suscitano, quelle immagini di rifugiati, quelle scene di gente fermata dalla polizia nei treni solo per il suo aspetto, quei naufraghi ricacciati da un capo all’altro dell’Europa, quelle violenze in piena Parigi contro lavoratori immigrati non sono segnali di sovranità, ma segnali di impotenza dell’Europa di fronte a problemi che essa stessa ha creato. Mettono a nudo delle falle di sovranità degli Stati-nazione e costituiscono, a furia di prove generali nello spazio pubblico, un’esibizione collettiva di cui i profughi sono, loro malgrado, i figuranti, e che va analizzata in quanto tale. Queste operazioni non puntano tanto a dissuadere i migranti quanto a gestire l’immagine della frontiera. I migranti non costituiscono soltanto «l’esercito di riserva del capitale» destinato a far abbassare i salari, come diceva Marx: costituiscono un «esercito di figuranti» scritturati nel teatro della sovranità perduta. Il controllo della frontiera è uno spazio rituale, scenografico, che ha come scopo immaginare il fantasma della frontiera, celebrare la frontiera: è un sacrificio rituale di cui i profughi fanno le spese.
La funzione di questa esibizione è occultare la crisi e l’impasse di un’Europa a corto di sovranità, fra un contesto nazionale che si disfa e una costruzione europea che resta virtuale, fra Stati-nazione che la sovranità la stanno perdendo e un’Europa che la sovranità ancora non ce l’ha. È qui che Ventimiglia si staglia, nella nebbia di un progetto europeo che nessuno vuole più. Non è uno Stato sovrano che fa rispettare il tracciato stabilito della frontiera; è uno Stato «insovrano» che mette in scena la frontiera, la traccia e la sposta, è uno Stato che fabbrica frontiere. È una frontiera di nuovo tipo. Una frontiera mobile, porosa, evanescente. Una frontiera che si muove. La frontiera è dappertutto, si sposta alla velocità delle camionette dei Crs, i celerini francesi, da Ventimiglia a Calais, da Parigi a Marsiglia.
«Le frontiere attraversano le nostre città», diceva il sindaco di Chicago dopo le rivolte razziali che avevano colpito la sua città negli anni 60. Ormai le frontiere dividono gli spiriti. La frontiera non è più soltanto territoriale, è morale, inquisitrice: distingue il bene dal male, noi dagli altri, il dentro dal fuori… Accredita il fantasma di un’Europa bastione da difendere a ogni costo e produce una scenografia visiva dello stato di emergenza di fronte a presunte invasioni. Produce l’iperbole mediatica di Stati che agiscono in mare e su terra, con pattuglie o «patriot act» alla francese, come il surrogato di una sovranità perduta. Il grande storico della Grande Muraglia cinese, Owen Lattimore,scriveva: «Le frontiere, contrariamente alle apparenze, sono fatte per impedire ai cittadini di uscire, più che per impedire agli stranieri di entrare».
Traduzione di Fabio Galimberti
«Non votano più. Per­ché non solo vanno tro­vate parole che scal­dino il cuore e la mente, che dicano di mondi da cam­biare, di giu­sti­zia da riven­di­care, di lotte da soste­nere. Ser­vono volti che quelle parole, quei mondi, quelle lotte le ren­dano rico­no­sci­bili».

Il manifesto, 21 giugno 2015

Chi vota a sini­stra pre­fe­ri­sce di no. È il mes­sag­gio più chiaro che viene dalle urne, dopo la defi­ni­tiva e amara chiu­sura di una tor­nata elet­to­rale che ancora una volta cam­bia le carte in tavola della scena poli­tica italiana.

Un mes­sag­gio che va oltre il tra­collo del Pd, tra­va­lica la bal­danza della destra con la fac­cia feroce di Sal­vini e della Lega, il con­so­li­da­mento nei ter­ri­tori dei M5S, pro­iet­tati su una dimen­sione di governo. Pre­fe­ri­scono di no, gli elet­tori e le elet­trici di sini­stra. Pre­fe­ri­scono non votare, e se votano, allora scel­gono M5S. Almeno sem­bra utile.

È la fine non della sto­ria, ma di una sto­ria, pro­prio come se fosse una sto­ria d’amore. E come nella fine degli amori quello che si perde sono le parole, i luo­ghi, i riti. Quello che aveva un senso unico e spe­ciale, e bril­lava di una chia­rezza lumi­nosa di imme­diata com­pren­sione, d’improvviso si spe­gne, ritorna parola e luogo ano­nimo, indi­stin­gui­bile tra gli altri. Si scio­glie il legame strin­gente, sem­bra che nulla rie­sca più ad accen­dere la pas­sione. Riman­gono ricordi, memo­rie, a volte brevi fiammate.

Il lin­guag­gio amo­roso resti­tui­sce e chia­ri­sce più di altri, a me sem­bra, quanto avviene. E ben di più dell’uso indi­scri­mi­nato della cate­go­ria dell’antipolitica rende ragione della fine dell’avventura. Non siamo negli anni Novanta, e nep­pure nel primo decen­nio del Due­mila. Non è solo né prin­ci­pal­mente il ran­core, che tanto si è ana­liz­zato in pas­sato, il motore della nuova asten­sione e dei nuovi flussi di voto. Gli elet­tori e le elet­trici che hanno pre­fe­rito di no, in que­sta tor­nata elet­to­rale, quelli con radi­cate scelte di sini­stra, come già si era visto in Emi­lia Roma­gna lo hanno fatto per scelta poli­tica. Quasi un atto estremo, dispe­rato, forse, ma l’unico pos­si­bile. Per dire che non ci cre­dono più. Non cre­dono più all’insieme di sigle che a ogni com­pe­ti­zione elet­to­rale si pre­sen­tano a garan­tire con i loro richiami al pas­sato comune la con­ti­nuità di una sto­ria. Per­ché in realtà non garan­ti­scono nulla. Da tempo. Per­ché quella sto­ria non c’è più.

È un punto di non ritorno, in cui è essen­ziale la com­pren­sione di quanto avviene, nel gioco delle forze come nel dispie­garsi dei sen­ti­menti. Per que­sto non è il momento di rin­vii o indugi. Biso­gna but­tarsi nell’impresa, dove si è, come si è.

Non ci sono truc­chi, for­mule magi­che, auto­rità esterne che pos­sano garan­tire alcun­ché. È l’atto di corag­gio che il pre­sente richiede. Quale impresa? Entrare con molta atten­zione nello spa­zio vuoto che gli elet­tori hanno creato. Con l’atto netto, auto­re­vole e umile di aprire ora, adesso un pro­cesso costi­tuente, in un’assemblea entro luglio. Indetta da parte di chi c’è, ora, adesso: forze poli­ti­che, gruppi, asso­cia­zioni, chi si muove nell’area aperta alla sini­stra del Pd. Con la con­sa­pe­vo­lezza che il gesto – neces­sa­rio – non è per nulla suf­fi­ciente. Per que­sto, tra le virtù richie­ste, l’umiltà è indi­spen­sa­bile. L’impresa più dif­fi­cile è essere cre­di­bili e con­vin­centi, mostrare nelle pra­ti­che che non ci si muove in una logica pat­ti­zia, che non si tratta di mano­vre in vista di nuovi car­telli elet­to­rali, per esem­pio per le ele­zioni della pros­sima pri­ma­vera in comuni impor­tanti come Milano e Napoli. Insomma, occorre un passo indie­tro. Biso­gna agire il para­dosso attuale, oggi assu­mersi respon­sa­bi­lità poli­tica signi­fica fare spa­zio, allar­gare, aprire. Non solo per­ché gli elet­tori non per­do­nano, quindi una scelta adot­tata per neces­sità tat­tica. Ma per con­vin­zione intima, auten­tica. È la parte più difficile.

Per­ché non solo vanno tro­vate parole che scal­dino il cuore e la mente, che dicano di mondi da cam­biare, di giu­sti­zia da riven­di­care, di lotte da soste­nere. Ser­vono volti che quelle parole, quei mondi, quelle lotte le ren­dano rico­no­sci­bili. Come in un romanzo, o in un film, o in una serie tv, sono i per­so­naggi che danno gambe alla sto­ria che si rac­conta. Che la ren­dono vera e potente, viva nella mente di chi par­te­cipa. E visto che non scri­viamo un romanzo, ma par­liamo di vite, di dolori, di rab­bia reale, sono le lotte in corso, i pro­ta­go­ni­sti e le pro­ta­go­ni­ste sociali a inter­pre­tare que­sta storia.

Tutto il movi­mento intorno alla scuola, com­preso il som­mo­vi­mento intorno alla pre­tesa «ideo­lo­gia di genere», le lotte per la casa, la nuova atten­zione ai beni comuni, il lavoro sem­pre più sva­lo­riz­zato. Che qui, in Ita­lia, si fac­cia fatica a fare spa­zio alle donne, che pure esi­stono, attive e auto­re­voli, fa parte del pro­blema. Che sia così arduo creare una mobi­li­ta­zione con­vinta intorno alla tra­ge­dia della migra­zione dice fino a che punto sono logori i legami, i vin­coli, per­fino le scelte ideali. È tempo di un nuovo amore.

Non ho usato volu­ta­mente ter­mini come coa­li­zione sociale e coa­li­zione poli­tica, non ho par­lato d’altro. Ciò che importa è lo spa­zio che si apre, in que­ste azioni che non pos­sono che intrec­ciarsi. Da cui pos­sono pas­sare sog­getti, movi­menti, per­sone che da troppo tempo vivono altrove e altri­menti. Fino a quando si potrà dire: pre­fe­ri­sco di sì.

«Spiccava ieri sui cartelloni innalzati in piazza - la negazione di ogni distinzione tra i sessi e la volontà di indirizzare i bambini e i ragazzi verso l’omosessualità o la transessualità, quasi che l’orientamento sessuale sia esito di scelte intenzionali e possa essere orientato dall’educazione». La Repubblica, 21 giugno 2015 (m.p.r.)

Quale sarà il grave pericolo per i bambini che ieri ha fatto scendere in piazza decine di migliaia di persone al grido di “salviamo i nostri figli”?

A sentir loro è l’indistinzione dei sessi, che sarebbe la conseguenza sia di una educazione che insegni a maschi e femmine a rispettarsi reciprocamente e a non chiudersi (e non chiudere l’altra/o) in ruoli stereotipici e rigidi, sia del riconoscimento della omosessualità come un modo in cui può esprimersi la sessualità, della legittimità dei rapporti di amore e solidarietà tra persone dello stesso sesso e della loro capacità genitoriale. Stravolgendo le riflessioni di sociologhe/i, filosofe/ i, antropologhe/i, persino teologhe/i sul genere come costruzione storico-sociale che attribuisce ai due sessi capacità, destini (e poteri) diversi e spesso asimmetrici, attribuiscono ad una fantomatica “teoria del genere” e alla sua imposizione nelle scuole - e la parola gender spiccava ieri sui cartelloni innalzati in piazza - la negazione di ogni distinzione tra i sessi e la volontà di indirizzare i bambini e i ragazzi verso l’omosessualità o la transessualità, quasi che l’orientamento sessuale sia esito di scelte intenzionali e possa essere orientato dall’educazione.

Timore, per altro, paradossale e contraddittorio in chi pensa che solo l’eterosessualità sia lo stato di natura. Rifiutando di distinguere tra conformazione sessuata dei corpi, ruoli sociali, orientamento sessuale, considerano chi propone questa distinzione come un pericoloso sostenitore tout court dell’androginia indifferenziata. Timorosi della “normalità”, e dello stigma e del disgusto che l’accompagnano, sono a loro agio solo nella perfetta, e unidimensionale, sovrapposizione delle tre dimensioni, che non dia adito a dubbi, in cui ciascuno “ sta al proprio posto”, assegnato da una natura priva di varietà, storia, cultura, intenzioni.
Per questo ce l’hanno tanto con l’omosessualità e il riconoscimento delle coppie omosessuali, perché non vi vedono solo uomini e donne che sono attratti da e amano persone del proprio sesso pur sentendosi rispettivamente maschi e femmine, ma uomini e donne che sconfinano dal proprio sesso, che non ne riconoscono le regole, sul piano della sessualità, ma anche della identità, incrinando perciò l’ordine di un mondo in cui maschile e femminile sono nettamente separati e l’eterosessualità non è solo una forma di sessualità, ma una norma sociale che assegna a ciascuno i propri compiti e posto in base al sesso di appartenenza.
In agitazione continua contro ogni proposta di riconoscimento delle coppie dello stesso sesso, a prescindere dalla affettività e solidarietà che le lega non diversamente dalle coppie di sesso diverso (migliaia di emendamenti alla proposta di legge Cirinná), da qualche tempo hanno aperto un fronte anche nei confronti della scuola, dalla materna in su. Se la prendono con le iniziative che mirano a contrastare sia il bullismo omofobico sia la stereotipia di genere (due fenomeni distinti, anche se la seconda può favorire il primo) e ad aiutare i bambini e ragazzi a comprendere la varietà delle forme famigliari in cui di fatto vivono. Purtroppo, come a suo tempo per l’educazione sessuale di cui hanno con successo impedito avvenisse a scuola, hanno trovato ascolto presso il ministero dell’educazione e la ministra Giannini, che dopo la manifestazione di ieri sarà ancora più attenta alle pressioni di chi non vuole che si tocchino questi temi a scuola.
Resta da vedere che cosa ha da dire il presidente Renzi, se si farà impaurire anche lui, che si propone come un innovatore, rimandando ancora una volta il riconoscimento delle coppie dello stesso sesso e lasciando fuori dalla “buona scuola” quei temi che, se affrontati serenamente e con consapevole legittimità, aiuterebbero ad evitare molte paure e molte violenze.

Afferma il filosofo, intervistato da Anais Ginori:«Penso in particolare ad afgani, iracheni, siriani, etiopi, libici, maliani. Noi occidentali abbiamo, almeno in parte, la responsabilità di queste persone: se non possono restare nel loro Paese è anche per colpa nostra».

La Repubblica, 21 giugno 2015 (m.p.r.)

Parigi. «Le scene di respingimento degli stranieri al confine franco-italiano sono insopportabili, vergognose». Il filosofo bulgaro Tzvetan Todorov è indignato dall’atteggiamento del governo socialista che ha blindato le frontiere, esattamente come fece quattro anni fa l’esecutivo della destra di Nicolas Sarkozy. Le maggioranze politiche cambiano ma la paura ancestrale dei “barbari”, che Todorov ha raccontato nei suoi saggi, riaffiora comunque. «Siamo responsabili in parte di questi movimenti migratori », spiega ricordando come il rigetto dello straniero non sia nuovo per i francesi. Centocinquant’anni fa, i “topi” da cacciare erano gli italiani che varcavano il confine per sfuggire alla povertà. «La Francia ha sempre avuto difficoltà ad accettare il passaggio da grande a media potenza, sperimentando nella sua Storia regolari picchi di febbre nazionalista».

Siamo in una nuova ondata di paura e incapacità di gestire il problema dell’immigrazione?
«Oggi il contesto è nuovo. Siamo davanti a un aumento dell’integrazione della popolazione mondiale, dovuto alla diffusione dell’informazione e alla facilità di spostarsi. Fino a qualche decennio fa, l’idea di partire per l’estero sfiorava pochi. Oggi, prima grazie alla tv e poi a Internet, assistiamo a un’unificazione dei popoli. È un fenomeno che ci accompagnerà ancora nei prossimi anni, e forse secoli. Rifiutarlo non è costruttivo».
I pochi sforzi di accoglienza che sono disposti a fare i governi ora si concentrano sulla distinzione tra migranti economici e politici. È d’accordo?
«Non mi pare assurdo, soprattutto quando le cause politiche sono guerre che abbiamo incoraggiato o addirittura provocato “noi”, intendo l’Unione europea e gli Stati Uniti. Penso in particolare ad afgani, iracheni, siriani, etiopi, libici, maliani. Noi occidentali abbiamo, almeno in parte, la responsabilità di queste persone: se non possono restare nel loro Paese è anche per colpa nostra. Alle guerre, bisogna aggiungere le persecuzioni politiche. La nostra responsabilità è meno diretta, ma se i valori che professiamo non sono pura ipocrisia dovremmo proteggere anche chi è perseguitato per le proprie idee».
Allora perché le procedure per l’asilo politico sono sempre più difficili, soprattutto in Francia?
«La Francia è stata in prima fila per promuovere un intervento militare in Siria. E ora è una delle nazioni in Europa che accoglie meno profughi siriani: ha accettato 500 rifugiati, mentre la Germania ne ha accolti 10mila. La Francia ha anche giocato un ruolo fondamentale nella guerra in Libia, senza che i dirigenti politici dell’epoca abbiano per un solo istante riflettuto sulle conseguenze disastrose dell’intervento militare, sia sul piano della dispersione delle armi nella regione, sia sull’anarchia creata nel paese. Tutti dobbiamo capire che un atto compiuto a migliaia di chilometri può avere oggi una conseguenza molto concreta sulle nostre vite».
E per i migranti economici, cosa si dovrebbe fare?
«Il bisogno di partire non è meno forte che nel caso di guerre e persecuzioni politiche. Quando si è convinti che non si può guadagnare onestamente da vivere nel proprio Paese, si è disposti a fuggire a qualsiasi prezzo e senza badare ai pericoli. Penso che dovremmo riuscire a dare un’informazione corretta sulle condizioni di vita in Europa: spiegare che qui non è un paradiso. E poi sarebbe opportuno fare accordi di cooperazione per permettere ai migranti di trovare lavoro nelle loro nazioni. Anche questa è una nostra responsabilità: siamo interdipendenti gli uni con gli altri ».
Intanto però l’Europa continua a litigare davanti ai migranti in bilico sugli scogli di Ventimiglia.
«Trovo inammissibile il comportamento di alcuni Paesi dell’Unione europea, tra cui la Francia. Non si può pretendere costruire la nostra Unione, rallegrandoci della pace che finalmente c’è tra paesi europei, e allo stesso tempo disinteressarci della protezione delle nostre frontiere esterne. Accettare i migranti solo perché hanno rischiato la vita e sono in pericolo di morte è una situazione assurda. Cosa sarebbe? Una sorta di “concorso d’ingresso” disumano, con un premio al più disperato?»
I governi sono ostaggio della xenofobia in aumento?
«La xenofobia è un sentimento più spontaneo dell’ospitalità. Non a caso, le religioni tradizionali elogiano l’ospitalità: è l’atteggiamento più meritorio».

«Una manifestazione così massiccia come si è vista ieri a Roma contro «l’ideologia

gender», ha fatto esplodere un sentimento covato da una parte consistente del mondo cattolico, ma senza input dall’alto, senza la mobilitazione partita dai pulpiti». Ne siamo proprio sicuri? Corriere della Sera, 21 giugno 2015 (m.p.r.)

Parte del mondo cattolico ha manifestato la sua disperazione culturale per un modo di vedere le cose, il demonizzato «gender», che sradica l’umanità da se stessa. È stata fornita un’immagine implicitamente polemica verso l’atteggiamento «accomodante» del Papa.

Stavolta il mondo laico non se la può prendere come al solito con le ingerenze vaticane, le intromissioni della Chiesa, il confessionalismo delle gerarchie. Una manifestazione così massiccia come si è vista ieri a Roma contro «l’ideologia gender», indicata come tirannica manipolazione della natura e degli stessi fondamenti umani della società, ha fatto esplodere un sentimento covato da una parte consistente del mondo cattolico, ma senza input dall’alto, senza la mobilitazione partita dai pulpiti. È l’antitesi di ciò che è accaduto in Irlanda con il referendum sui matrimoni gay. Lì, in assenza di una massiccia partecipazione dell’episcopato di Dublino, l’elettorato cattolico ha disobbedito esprimendosi a favore. Qui, nella città che è il luogo simbolico dove il Vicario di Cristo è anche il vescovo di Roma, le strade si sono riempite di cattolici che hanno manifestato la loro disperazione culturale per un modo di vedere le cose, il demonizzato «gender», che a loro avviso sradica l’umanità da se stessa.
È la prima volta che accade nell’era di papa Francesco. È la prima volta che il sesso, il genere, ciò che è uomo e ciò che è donna, l’atto stesso del congiungimento carnale da cui scaturisce la procreazione entra a pieno titolo nei «valori non negoziabili», in quella sfera di scelte che riguarda le questioni prime e ultime della vita e della morte. È la prima volta che la piazza viene mobilitata e riempita non semplicemente per quello che è chiamata «unione tra coppie dello stesso sesso», ma in una sfera di interrogativi che hanno a che fare con la cultura, la concezione del mondo, l’idea stessa della natura.
È un terreno su cui papa Francesco ha deciso di non intervenire con forza. Certo, non per rinunciare ai fondamenti della visione cristiana delle cose, ma per non esasperare la conflittualità con il mondo secolare. La chiesa «infermeria» di papa Francesco non vuole fare altri feriti, non vuole scavare trincee contro lo spirito del tempo, non vuole scatenare la guerra santa contro la deriva secolarista. La manifestazione di ieri invece sì. È stata l’espressione di un fronte del rifiuto che è più esteso di quanto i media non riescano a immaginare. È stata la rinascita di un movimento di guerra culturale contro la modernità che sembrava essersi spenta con il nuovo papato. Ecco l’altra differenza con movimenti come quello francese «Manif pour tous». In quel caso l’episcopato francese spinse l’acceleratore della protesta, sancì l’armonia tra un sentimento diffuso e le istituzioni preposte alla irreggimentazione del mondo cattolico. Qui a Roma si è visto il segno di uno scarto, di una sottile linea di frattura, di una insofferenza che le gerarchie ecclesiastiche difficilmente potranno ignorare. Questo è il vero segnale d’allarme per il mondo laico, o comunque per quella parte dell’opinione pubblica che ritiene indispensabile il riconoscimento delle tutele e del diritto per le coppie dello stesso sesso che vogliono unirsi civilmente, senza discriminazioni.
La guerra culturale era invece alla base dell’azione del cardinale Camillo Ruini quando dirigeva l’episcopato italiano. Lui la chiamava «progetto culturale» e voleva ribadire l’idea che il cristianesimo non dovesse essere solo vissuto nel chiuso delle coscienze, nella dimensione privata, ma imponesse i suoi valori culturali nell’arena pubblica. La battaglia sui «valori non negoziabili» aveva questa base: la guerra sull’aborto, sulla fecondazione assistita, sulla difesa dell’embrione, sul rifiuto dell’eutanasia. Tutti temi che toccavano direttamente la sfera della vita e della morte, o meglio dell’intervento umano sull’origine della vita e sulla sua fine, la protesta contro una tecnoscienza che voleva prendere con prepotenza il posto del Creatore nella determinazione della vita e della morte.
Ma l’azione di Ruini aveva direttamente l’appoggio di due Pontefici: Giovanni Paolo II (che già all’inizio degli anni Ottanta assecondò la mobilitazione cattolica nel referendum poi perso, sull’aborto) e poi papa Ratzinger.
Oggi è tutto diverso. Una parte del mondo cattolico fa da sé, riempie le piazze senza un comando ecclesiastico, fornendo un’immagine di sé implicitamente polemica nei confronti dell’atteggiamento «accomodante» di papa Bergoglio. E lo fa su un tema, quello del «gender», che oramai nella sensibilità del mondo moderno, e di una parte stessa dell’universo cattolico come è accaduto in Irlanda, è stato assimilato senza più traumi e crisi di rigetto. L’idea che su una visione filosofica del mondo, considerata però essenziale per l’integrità della fede, il mondo cattolico manifesti come ieri una sensibilità esasperata e risentita, è una novità che tutti noi stentavano a considerare così sentita e centrale. Nel cattolicesimo italiano si è aperta una spaccatura profonda che arriva dritta al cuore delle istituzioni ecclesiastiche. La manifestazione antigender è insieme uno spauracchio e un avvertimento. La fonte di un nuovo, imprevisto conflitto. Il mondo laico non può dormire sonni tranquilli.

Ue e Fmi agitano lo spettro del default contro la democrazia. Atene col fiato sospeso. Tutti gli scenari possibili. Il rischio più grave è nessun accordo e proposta per il Consiglio europeo di lunedì». Il manifesto, 20 giugno 2015

I rap­porti tra Gre­cia ed Europa sono arri­vati a una stretta deci­siva. Tra ora e lunedì pome­rig­gio, quando si riu­ni­sce a sor­presa il Con­si­glio euro­peo, pos­sono suc­ce­dere quat­tro cose.

La prima – quella auspi­ca­bile — è un accordo sulla base della pro­po­sta del lea­der greco Ale­xis Tsi­pras: fine dell’austerità, sblocco degli aiuti euro­pei pre­vi­sti, ristrut­tu­ra­zione radi­cale del debito. Ma per­fino il più mor­bido, Jean-Claude Junc­ker, ha detto ieri «non capi­sco Tsi­pras. Non mi è pos­si­bile evi­tare ad ogni costo il fal­li­mento dei col­lo­qui». Non si pre­para un accordo dicendo che c’è un dia­logo tra sordi.

La seconda pos­si­bi­lità è che i col­lo­qui di que­sto fine set­ti­mana por­tino a un com­pro­messo inter­me­dio: fondi ponte euro­pei per il rim­borso degli 1,6 miliardi di euro da resti­tuire al Fondo mone­ta­rio a fine giu­gno. E nel frat­tempo, ieri sono arri­vati 2 miliardi del fondo di liqui­dità di emer­genza for­nito da Mario Dra­ghi alle ban­che di Atene. Dopo che molti miliardi di capi­tali sono fug­giti dal paese.

La terza pos­si­bi­lità è la più pro­ba­bile. Una rot­tura radi­cale tra Atene e Bru­xel­les. Il primo mes­sag­gio l’ha dato Mario Dra­ghi lunedi scorso (ma l’aveva già detto il 18 aprile) «se la crisi dovesse pre­ci­pi­tare, entre­remmo in acque sco­no­sciute». Pierre Mosco­vici, com­mis­sa­rio euro­peo all’economia, l’ha con­fer­mato venerdi: «Siamo alla fine dei gio­chi. È ora di agire e deci­dersi. Non c’è molto tempo per evi­tare il peg­gio». Ancora più espli­cito Donald Tusk, pre­si­dente del Con­si­glio euro­peo: la Gre­cia deve accet­tare la nostra offerta, «o avviarsi verso il default». Ma la pro­po­sta euro­pea è quella di una ritorno al pas­sato che Syriza non potrà mai accet­tare. Così Ale­xis Tsi­pras, ieri a San Pie­tro­burgo con Putin, ha repli­cato tran­quillo: «Siamo al cen­tro di una tem­pe­sta, ma non ci spa­venta il mare aperto, siamo pronti a sol­care nuovi mari».

Quale forma potrà pren­dere la rot­tura? E con quali tempi? Ci sono tre «strappi» pos­si­bili. Il più mor­bido è una dichia­ra­zione d’insolvenza senza uscire dall’euro. Atene annun­cia che non ripa­gherà il debito pub­blico dete­nuto per l’80% da fondi euro­pei d’emergenza, paesi mem­bri, Fmi, Bce, né pagherà gli inte­ressi dovuti. Si toglie in que­sto modo la pie­tra che ha al collo, la spesa pub­blica greca non viene inta­scata dalla finanza, l’economia riparte.

Se la Bce fosse d’accordo, con­ti­nue­rebbe ad ali­men­tare la liqui­dità delle ban­che gre­che, e tro­ve­rebbe il modo di gestire senza troppi danni i 322 miliardi di euro non ripa­gati. Il grande van­tag­gio sarebbe evi­tare il con­ta­gio: nes­suna spe­cu­la­zione sulla fine dell’euro. Ma sarebbe un pre­ce­dente peri­co­loso di vit­to­ria di un paese inde­bi­tato e un trionfo poli­tico per Syriza che Ber­lino dif­fi­cil­mente potrebbe per­met­tere. L’alternativa oppo­sta – un’uscita dall’euro senza insol­venza – darebbe ad Atene solo svan­taggi: sva­lu­ta­zione e un debito sem­pre più impos­si­bile da restituire.

Resta l’uscita dall’euro accom­pa­gnata dal default sul debito pub­blico. L’Eurozona e Ber­lino si libe­rano del paese mem­bro indi­sci­pli­nato, Atene riprende la sua auto­no­mia di poli­tica eco­no­mica con una dracma che si sva­luta imme­dia­ta­mente (magari del 40%), il debito che non si paga, i mer­cati finan­ziari che dichia­rano guerra alla Gre­cia, l’economia che crolla per poi ripren­dersi. Ber­lino tira un sospiro di sol­lievo, ma a Roma, Madrid e Lisbona e nei pic­coli paesi dell’est euro­peo ini­zia l’incubo: spread alle stelle, scom­messe su chi sarà il pros­simo a uscire, assalto della speculazione.

A meno che l’Eurozona garan­ti­sca a tutti i soci «buoni» dell’euro le garan­zie che avreb­bero potuto sal­vare la Gre­cia e l’Europa fin dall’inizio: mutua­liz­za­zione del debito, azze­ra­mento dello spread con gli inter­venti della Bce, blocco della spe­cu­la­zione della finanza.

Come si rea­lizza que­sta rot­tura? Prima un periodo di attesa e le ras­si­cu­ra­zioni sulla sta­bi­lità dell’euro e dell’Europa, poi si aspetta la chiu­sura di borse e ban­che il venerdi sera, il sabato e dome­nica si bloc­cano i movi­menti di capi­tale e – se torna la dracma – si for­ni­scono le ban­che delle nuove ban­co­note fre­sche di stampa in arrivo da Mosca o Pechino.

Nel week end si annun­cia la rot­tura, a mer­cati chiusi, e il lunedi il Con­si­glio euro­peo san­ci­sce il cam­bia­mento, sper­giu­rando sull’unità dell’Europa e dell’euro. È quello che è suc­cesso nei giorni scorsi e che potrebbe suc­ce­dere pro­prio in que­ste ore. Oppure tutto que­sto si pre­para per il pros­simo fine set­ti­mana, alla sca­denza del rim­borso per il Fondo mone­ta­rio. O magari nel mezzo dell’estate, come la fine di Bret­ton Woods il 15 ago­sto 1971.

Un inter­ro­ga­tivo deci­sivo è se l’eventuale rot­tura avviene in forma con­cor­data — una sepa­ra­zione con­sen­suale — o al cul­mine di uno scon­tro poli­tico. Nel primo caso l’Europa potrebbe soprav­vi­vere e lo choc in una Gre­cia impo­ve­rita, ma non più oppressa, potrebbe essere supe­rato in qual­che mese. Nel secondo caso potrebbe suc­ce­dere qua­lun­que cosa, un avvi­ta­mento cao­tico che farebbe a pezzi l’Europa insieme alla Grecia.

Lo sce­na­rio più dram­ma­tico sarebbe pro­prio que­sto: nes­suna pro­po­sta al Con­si­glio euro­peo di lunedì, nes­sun «piano B», nes­sun accordo nem­meno su come sepa­rarsi, l’Europa che si acca­ni­sce con­tro la culla in cui è nata, una crisi ver­ti­cale dell’economia greca, una stra­te­gia della ten­sione con­tro il governo di Syriza, un con­ta­gio che da debito si estende al col­lasso poli­tico dell’Europa. C’è qual­che mar­gine per evi­tare que­sto peg­gio. E per soste­nere fino in fondo le ragioni di Ale­xis Tsi­pras e della Gre­cia, con l’euro o con la dracma. Che sono le ragioni della demo­cra­zia, ad Atene come in Europa.

«Primo Levi scriveva che ciò che è successo avrebbe potuto, per ciò stesso, succedere ancora. Pareva esagerato. Invece no. Tra i campi nazisti e le odierne barriere vi è ancora una non trascurabile differenza. Ma la strada è tracciata se non invertiamo la marcia».

Il Garantista, 20 giugno 2015

Su Repubblica di venerdì la vignetta di Massimo Bucchi coglie ancora una volta nel segno. Vi sono disegnati dei muri, in ordine di altezza crescente negli ultimi anni. La didascalia dice “Ottimismo in Borsa per la crescita dei Muri”. E dice tutto. Certo non c’è alcuna relazione meccanica o statistica tra il moltiplicarsi dei muri e delle cortine di filo spinato e l’andamento delle Borse. Ma c’è tra rifiorire della speculazione finanziaria – malgrado i disastri della attuale crisi – e la crescita della insensibilità verso chi è più debole e bisognoso. C’è una relazione inversa e tanto più significativa fra la fluidità e la rapidità inarrestabili dei movimenti di capitale e l’impossibilità per i profughi da fame, miseria, dittature, guerre di potere raggiungere un luogo sicuro.

Chi l’avrebbe detto che dopo l’abbattimento festoso del muro di Berlino nel 1989, i muri si sarebbero moltiplicati? Le note di Bach, dalle suite per violoncello solo, suonate davanti a quelle storiche macerie da Mstislav Rostropovich accorso a Berlino l’11 novembre del 1989, sembravano avere posto fine alle divisioni, agli steccati, alla visione concentrazionaria del mondo. Pure illusioni.

Chi costruisce muri o produce filo spinato, fa affari al giorno d’oggi. Mari e muri si ergono come barriere mortali contro i migranti. Da Ceuta a Melilla; da Tijuana al costruendo muro in Ungheria; dal muro costruito dagli israeliani per separarli dai palestinesi a quello tra India e Bangladesh; e altri ancora: sono 50 le barriere artificiali e ostili sparse in tutto il mondo. Circa 8mila chilometri hanno il compito di separare esseri umani e difendere i più ricchi dalla contaminazione con i più poveri. Alcuni sono grezzi, altri in mattoni, altri mettono in campo materiali più moderni, altri tornano al filo spinato dei campi di concentramento della seconda guerra mondiale. Non a caso Primo Levi scriveva, a conclusione della sua opera, che quello che voleva dire poteva essere riassunto nel fatto che ciò che è successo avrebbe potuto, per ciò stesso, succedere ancora. Pareva esagerato. Invece no. Certo tra i campi nazisti e le odierne barriere vi è ancora una non trascurabile differenza. Ma la strada è tracciata se non invertiamo la marcia.

Papa Francesco ha fatto sentire la sua voce, potente e chiara. Nella sua ultima enciclica non si rivolge solo agli uomini di buona volontà, come Giovanni XXIII nella “Pacem in terris” ma a “ogni persona che abita questo pianeta”. Gli è toccata la risposta volgare di un qualunque Salvini. Pietà l’è morta? Come diceva una bella canzone partigiana? No, non ancora per fortuna. Lo dimostra la manifestazione di sabato 30 a Roma, e tante iniziative di solidarietà che hanno alleviato in qualche misura le pene dei profughi in questi giorni nelle stazioni delle grandi città o sugli scogli di Ventimiglia. Ma l’aiuto spontaneo può bastare? Ovviamente no.

Il problema migratorio, date le cause di fondo che lo hanno generato che ci rimandano alla struttura del capitalismo globalizzato e finanzia rizzato, è di lungo periodo. Uno degli elementi caratterizzanti dell’epoca attuale. Con il quale la politica, se ancora esiste, deve misurarsi. Bisogna sapere affrontarlo nel breve e nel più lungo periodo. L’Europa non lo fa. Anzi su questa questione rinascono i nazionalismi, si ringalluzziscono con forza le organizzazioni di destra, si riproducono i più meschini conflitti di frontiera.

Invece ci sono delle cose che è possibile fare subito, come attivare un programma di ricerca e salvataggio in tutta l’area del Mediterraneo; evitare di pensare a interventi armati contro i paesi di provenienza; aprire canali umanitari e vie d’accesso al territorio europeo; sospendere il regolamento di Dublino che blocca i migranti nei paesi di primo arrivo; sospendere gli accordi di Rabat e di Khartoum che vorrebbero esternalizzare fino in Africa i confini europei; provvedere a piani di investimenti che favoriscano lo sviluppo dei paesi di provenienza, anziché vendere armamenti e fomentare guerre; favorire la rinegoziazione dei debiti pubblici di quei paesi, come del resto la Ue dovrebbe fare nei confronti della Grecia, anziché portarla irresponsabilmente sull’orlo del default.

Non è vero che l’Italia non può accogliere migranti. Anzi. Dal punto di vista squisitamente numerico la situazione è tutt’altro che quella che le televisioni ci trasmettono e che è frutto dell’incapacità di governo del fenomeno. In una recente intervista al Sole24Ore il responsabile dell’accoglienza immigrati, Mario Morcone, ci fa capire che c’è un’agitazione spropositata e strumentale attorno al tema, fino a farlo diventare uno degli argomenti o principali delle recenti campagne elettorali. “Ci sono oggi circa 90mila immigrati in accoglienza in tutta Italia – dice Morcone – è come dire che possiamo distribuire circa dieci stranieri per ognuno degli 8mila comuni del nostro Paese. L’impatto è senza dubbio sostenibile. Le cifre sono molto basse.” Certo la politica, neppure quella dell’accoglienza, si può fare con l’aritmetica, ma questa considerazione smonta alla radice l’allarmismo gettato a piene mani da Salvini a da Grillo.

E poi, è proprio vero che gli immigrati sono un peso e non una risorsa per il nostro paese? Il nostro è un paese che invecchia – ci avverte l’Istat -; la crescita demografica è sotto zero; il movimento naturale della popolazione, cioè il saldo tra nascite e decessi, ha fatto registrare nel 2014 un computo negativo di quasi 100mila unità, come non succedeva dagli ultimi due anni dalla “Grande Guerra” del ’15-’18; gli arrivi dall’estero hanno a mala pena compensato questo calo. Nessuno sogna una famiglia con sei figli, come al tempo del Duce, ma una società che solamente invecchia e non partorisce non ha un grande futuro.

Quindi le politiche di accoglienza dei flussi migratori dovrebbero fare parte non dell’emergenza negativa, ma delle nuove politiche di un nuovo modello di sviluppo per un paese europeo, e in particolare per il nostro paese. Questo chiama in causa le responsabilità della Ue e del governo Renzi. L’Europa pensata a Ventotene è sepolta dalle politiche di austerity e dalle concezioni del Vecchio Continente come fortezza.

Mentre scorrono le immagini delle forze dell’ordine che trascinano chissà dove i pacifici corpi dei migranti, si sta consumando il dramma greco. Sia verso l’esterno che al proprio interno le attuali politiche della Ue non reggono e rischiano di fare implodere il continente. L’intransigenze del Fmi e delle elite europee nei confronti della Grecia sono tipiche di chi si vuole perdere. Ha ragione Jeffrey Sachs, un economista americano, che ha recentemente avvertito che "Il governo greco ha ragione ad avere tracciato un limite invalicabile. Ha una precisa responsabilità nei confronti dei suoi cittadini. La vera scelta. dopo tutto, non spetta alla Grecia, bensì all'Europa" Quel limite invalicabile riguarda le pensioni, con cui gli anziani vengono in aiuto ai giovani, visto l’inesistenza , come in Italia, di qualunque forma di reddito minimo garantito, e i contratti collettivi nazionali di lavoro. Limiti di civiltà, di cui una volta il nostro continente andava fiero, ma che il cinismo del neoliberismo nella sue versione peggiore ha distolto dalla mente dei governanti europei.

«Per tenere insieme i suoi valori, uguaglianza e fraternità, la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente, ma oggi ne è anche la soma».

Corriere della Sera, 20 giugno 2015, con postilla

Come i dinosauri, anche il gigante della socialdemocrazia rischia l’estinzione? Le dimissioni presentate ieri alla regina di Danimarca da Helle Thorning-Schmidt, la più glamour dei leader della sinistra europea (Renzi escluso), sembrano l’ultimo segno di un destino crudele, e forse irreversibile, che si sta abbattendo sulla storia centenaria del riformismo. La vicenda danese è altamente simbolica. La giovane premier, sposata col figlio di Neil Kinnock, storico capo del laburismo britannico, non esce infatti di scena per una delle solite oscillazioni del pendolo elettorale; ma è stata travolta dal boom di quella destra anti-immigrati che dal circolo polare in Norvegia fino alla linea gotica in Italia sta rubando voti alla sinistra in nome di un «sacro egoismo» nazionale.

È il male oscuro che divora le radici di una storia ispirata all’uguaglianza e alla fraternità. Per tenere insieme i suoi valori la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente, ma oggi ne è anche la soma. La spesa pubblica non può più essere la misura della giustizia sociale, e la sinistra riformista non ha ancora trovato un altro modo di finanziarla. A soffrirne di più sono proprio gli elettori del tradizionale blocco sociale progressista. Nei quartieri dove sono nati il sindacato e il movimento cooperativo ora si aggirano disoccupati, giovani maschi arrabbiati, ceti medi impoveriti ed esposti alla concorrenza dei nuovi arrivati per la casa, per il lavoro, per l’assistenza.
Nelle società senza poveri, in Svizzera o negli Emirati, i lavoratori stranieri fanno meno paura, anzi, sono accettati come i nuovi servi. Ma non è così a Rotterdam, ad Anversa, o a Dresda. La sinistra riformista ha finora trovato una sola risposta: l’appello alla tolleranza e al cosmopolitismo. Ripete l’antico mantra di Roosevelt, non dobbiamo aver paura che delle nostre paure. Ma la gente ha paura lo stesso. Anche quando non va a destra, è attratta da un nuovo populismo non meno nazionalista, come Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, e Grillo in Italia. La socialdemocrazia sta perdendo la battaglia delle idee. E se un movimento politico smette di saper parlare al presente può anche estinguersi, come successe ai liberali inglesi in pochi anni dopo la Grande guerra, o come profetizza Houellebecq accadrà tra breve ai socialisti francesi. Per quanto Renzi non faccia parte, né per cultura né per stile, della storia della sinistra socialdemocratica, neanche il suo Pd può ritenersi immune da questo sommovimento continentale. Neanche la ripresa economica, di per sé, mette oggi al riparo dalla rabbia e dalla paura. Alla danese Helle, di certo, non è bastata.

postilla
Il vicedirettore del Corriere della sera ha evidentemente dimenticato le sue letturegiovanili. Altrimenti ricorderebbe cosa accadde quando i “padroni delvapore” furono costretti a ridurre i loro profitti riducendo così lo sfruttamento in patria ed “esportarono lecontraddizioni” del sistema capitalistico, allargando l’area dello sfruttamentoad altri popoli e ad altri gruppi sociali. E’ certamente noto anche a lui che questomodo del sistema capitalistico di “salvarsi” ha prodotto, saccheggi, attizzato fuochi e disperazioni in ogni partedel globo, generato ribellioni e guerre. Sa certamente che guerresono utili al sistema capitalistico perché le spese militari contribuiscono acreare una domanda di merci che tiene in piedi quel sistema.
Ci rendiamo contoche via Solferino è lontana dal Vaticano, e che nelle stanze del Corsera èdifficile formulare l’idea che ridurre drasticamante le spese militari, e lagigantesca lievitazione delle rendite finanziarie, potrebbe contribuire a garantirela sopravvivenza del welfare dove c’è, e magari a estenderlo dove ancora nonc’è. Ce ne dispiace un po', perchè Poilito è un bravo giornalista e il Corriere un giornale spesso interessante.

«L’appello di Ian McEwan ai giovani americani “Solo il sapere umanistico ci rende sensibili ai diritti”».

La Repubblica, 20 giugno 2015 (m.p.r.)

Vorrei condividere con voi qualche riflessione sulla libertà di parola (e libertà di parola qui include la scrittura e la lettura, l’ascolto e il pensiero): la libertà di parola, la linfa vitale dell’esistenza, la condizione essenziale dell’educazione umanistica che avete appena ricevuto. Partiamo da una nota positiva: con ogni probabilità oggi sulla terra esiste più libertà di parola, più libertà di pensiero, più libertà di ricerca che in qualsiasi altro momento della storia conosciuta ( anche prendendo in considerazione l’età dell’oro dei cosiddetti filosofi “pagani”). Ma la libertà di parola è stata, è e sarà sempre sotto attacco: da destra, da sinistra, dal centro. L’attacco verrà da sotto i vostri piedi, dagli estremisti religiosi come da ideologie non religiose.

Non è mai comodo, specialmente per i poteri più consolidati, avere tanta libertà di parola intorno. Come diceva sempre il mio defunto amico Christopher Hitchens, incontrare uno che pensa che la Terra sia piatta o che crede nella creazione può essere utile, perché ti obbliga a ricordare l’esatta ragione per cui sei convinto che la Terra sia rotonda, o ti fa scoprire se sei in grado di sostenere efficacemente la validità della teoria della selezione naturale. Per questo motivo non è un granché, come principio, mettere in prigione coloro che negano l’Olocausto o i massacri degli armeni, come fanno alcuni paesi civili, anche se si tratta di individui spregevoli. C’è una cosa che bisogna tenere a mente: la libertà di espressione è alla base di tutte le altre libertà di cui godiamo. Senza libertà di parola, la democrazia è un’impostura. Ogni libertà che possediamo o aspiriamo a possedere (l’habeas corpus, il diritto di voto, la libertà di riunione, la parità fra i sessi, la libertà di preferenza sessuale, i diritti dei bambini, i diritti degli animali… la lista potrebbe proseguire) è nata perché è stato possibile pensarla liberamente, discuterne liberamente, scriverne liberamente.
Se vi allontanerete un bel po’ da queste rive, e sono sicuro che molti di voi lo faranno, scoprirete che la situazione della libertà di espressione è drammatica. In quasi tutto il Medio Oriente chi pensa liberamente rischia di subire conseguenze o di essere ucciso, per mano di governi, folle inferocite o individui motivati. Lo stesso succede in Bangladesh, in Pakistan, in ampie parti dell’Africa. Negli ultimi anni lo spazio pubblico per il libero pensiero in Russia si è ristretto. In Cina la libertà di espressione viene monitorata dallo Stato su scala industriale: solo per censurare quotidianamente la Rete, il governo di Pechino impiega qualcosa come cinquantamila burocrati, un livello di repressione del pensiero senza precedenti nella storia umana.
Paradossalmente, è tanto più importante vigilare sulla libertà di espressione proprio là dov’è più florida. Ecco perché è stato così sconcertante, ultimamente, vedere decine di scrittori americani dissociarsi pubblicamente da un ricevimento del Pen in onore dei giornalisti della rivista satirica francese Charlie Hebdo assassinati a gennaio. Il Pen americano esiste per difendere e promuovere la libertà di parola. È molto deludente che un numero tanto alto di scrittori americani non abbia saputo schierarsi al fianco di altri scrittori e artisti coraggiosi in un momento tragico. C’è un fenomeno, nella vita intellettuale, che io chiamo pensiero bipolare. Non ci schieriamo con Charlie Hebdo perché potrebbe sembrare che approviamo la “guerra al terrore” di George Bush. È una forma di tribalismo intellettuale soffocante, e un modo di pensare insulso di per sé.
E allora è inquietante anche il caso di Ayaan Hirsi Ali, un’ex musulmana fortemente critica nei confronti dell’islam, troppo critica per alcuni. Si è battuta contro la mutilazione genitale femminile, lei che ne è stata personalmente vittima. Si è battuta per i diritti delle donne musulmane. In un libro di recente pubblicazione ha sostenuto che l’islam, se vuole convivere più agevolmente con la modernità, deve rivedere le sue posizioni verso l’omosessualità, l’interpretazione del Corano come parola letterale di Dio, la blasfemia, le severe punizioni agli apostati. Ma Ayaan Hirsi Ali ha ricevuto minacce di morte. E soprattutto in molte università americane non è la benvenuta, e la Brandeis University ha ritirato l’offerta di una laurea honoris causa. L’islam merita rispetto, come lo merita l’ateismo. Noi vogliamo che il rispetto scorra in tutte le direzioni.
L’intolleranza nei campus universitari verso oratori scomodi non è una novità. Nei lontani anni Sessanta la mia università impedì a uno psicologo di promuovere la teoria che ci fosse una componente ereditaria nell’intelligenza. Negli anni Settanta il grande biologo americano Edward Wilson fu sommerso da contestazioni che gli impedirono di parlare per aver ipotizzato che esistesse un elemento genetico nel comportamento sociale degli esseri umani. Ricordo che tutti e due venivano definiti fascisti: le loro teorie adesso sono la norma. Allargando il discorso, la Rete oggi ovviamente offre possibilità straordinarie per la libertà di parola. Ma allo stesso tempo ci ha condotti, in parte, su un terreno accidentato e inaspettato. Ha portato al lento declino dei quotidiani locali, eliminando una voce scettica e bene informata dalla scena della politica locale. La privacy è un elemento essenziale della libertà di espressione: i documenti di Snowden hanno portato alla luce un livello di sorveglianza della posta elettronica da parte delle agenzie governative smisurato quanto inutile. Un altro elemento essenziale della libertà di espressione è l’accesso all’informazione: internet ha concentrato un potere enorme nelle mani di aziende come Google, Facebook e Twitter. Dobbiamo vigilare perché non si abusi di questo potere.
Quando deciderete che posizione prendere su questi problemi, spero che vi ricorderete degli anni al Dickinson College e dei romanzi che avete letto qui. La mia speranza è che vi abbiano stimolato nella direzione della libertà mentale. Il romanzo, come forma letteraria, è nato dall’Illuminismo, dalla curiosità e dal rispetto per l’individuo. Le sue tradizioni lo spingono verso il pluralismo, l’apertura, un desiderio empatico di vivere nelle menti degli altri. I sistemi totalitari hanno ragione a mettere sotto chiave i romanzieri, perché il romanzo è, o può essere, l’espressione più profonda della libertà di parola. Io spero che userete la vostra educazione umanistica per preservare a beneficio delle generazioni future questa cultura della libertà di espressione. Portate con voi queste rinomate parole di George Washington: «Se verremo privati della libertà di parola, allora, muti e silenziosi, potremo essere condotti come pecore al macello».
Estratto del discorso tenuto alla cerimonia delle lauree al Dickinson College © 2015
(Traduzione di Fabio Galimberti)
«Con que­sta enci­clica il gioco di far finta di non capire non sarà più pos­si­bile. Biso­gnerà stare o dalla parte di Fran­ce­sco o con­tro di lui, per­ché sta chie­dendo una scelta. E que­sto vale non solo per i poli­tici, per gli opi­nio­ni­sti, per i gior­nali, vale anche per i vescovi, per i car­di­nali. E vale anche per i sem­plici fedeli».

Il manifesto, 19 giugno 2015 (m.p.r.)

C’è un debito estero dei Paesi poveri che non viene con­do­nato, e anzi si è tra­sfor­mato in uno stru­mento di con­trollo mediante cui i Paesi ric­chi con­ti­nuano a depre­dare e a tenere sotto scacco i Paesi impo­ve­riti, dice il papa (e la Gre­cia è lì a testi­mo­niare per lui). Ma il “debito eco­lo­gico” che il Nord ricco e dis­si­pa­tore ha con­tratto nel tempo e soprat­tutto negli ultimi due secoli nei con­fronti del Sud che è stato spo­gliato, nei con­fronti dei poveri cui è negata per­fino l’acqua per bere e nei con­fronti dell’intero pia­neta avviato sem­pre più rapi­da­mente al disa­stro eco­lo­gico, all’inabissamento delle città costiere, alla deva­sta­zione delle bio­di­ver­sità, non viene pagato, dice il papa (e non c’è Troika o Euro­zona o Banca Mon­diale che muova un dito per esigerlo).

La denun­cia del papa («il mio appello», dice Fran­ce­sco) non è gene­rica e rituale, come quella di una certa eco­lo­gia “super­fi­ciale ed appa­rente” che si limita a dram­ma­tiz­zare alcuni segni visi­bili di inqui­na­mento e di degrado e magari si lan­cia nei nuovi affari dell’economia “verde”, ma è estre­ma­mente cir­co­stan­ziata e pre­cisa: essa arriva a lamen­tare che la deser­ti­fi­ca­zione delle terre del Sud cau­sata dal vec­chio colo­nia­li­smo e dalle nuove mul­ti­na­zio­nali, pro­vo­cando migra­zioni di ani­mali e vege­tali neces­sari al nutri­mento, costringe all’esodo anche le popo­la­zioni ivi resi­denti; e que­sti migranti, in quanto vit­time non di per­se­cu­zioni e guerre ma di una mise­ria aggra­vata dal degrado ambien­tale, non sono rico­no­sciuti e accolti come rifu­giati, ma sbat­tuti sugli sco­gli di Ven­ti­mi­glia o al di là di muri che il mondo anche da poco appro­dato al pri­vi­le­gio si affretta ad alzare, come sta facendo l’Ungheria. L’«appello» del papa giunge poi fino ad accu­sare che lo sfrut­ta­mento delle risorse dei Paesi colo­niz­zati o abu­sati è stato tale che dalle loro miniere d’oro e di rame sono state pre­le­vate le ric­chezze e in cam­bio si è lasciato loro l’inquinamento da mer­cu­rio e da dios­sido di zolfo ser­viti per l’estrazione.

Que­sta enci­clica rap­pre­senta un salto di qua­lità nella rifles­sione sull’ambiente, si potrebbe dire che apre una seconda fase nella ela­bo­ra­zione del discorso eco­lo­gico, così come accadde nel costi­tu­zio­na­li­smo quando dalla prima gene­ra­zione dei diritti, quelli rela­tivi alle libertà civili e poli­ti­che, si passò alla con­si­de­ra­zione dei diritti di seconda e terza gene­ra­zione, sociali, eco­no­mici, ambien­tali, e cam­biò il con­cetto stesso di democrazia.

Ora il discorso della giu­sti­zia sociale e della con­di­zione dei poveri, a cui nei Paesi del Sud «l’accesso alla pro­prietà dei beni e delle risorse per sod­di­sfare le pro­prie neces­sità vitali è vie­tato da un sistema di rap­porti com­mer­ciali e di pro­prietà strut­tu­ral­mente per­versi», viene intro­dotto orga­ni­ca­mente da papa Fran­ce­sco nella que­stione eco­lo­gica, sic­ché essa non riguarda più sem­pli­ce­mente l’ambiente fisico, il suolo, l’aria, l’acqua, le fore­ste, le altre spe­cie viventi, ma assume la vita e il destino di tutti gli esseri umani sulla terra, diventa un’«ecologia inte­grale», a cui è dedi­cato l’intero capi­tolo quarto dell’enciclica: «Non ci sono due crisi sepa­rate, una ambien­tale e un’altra sociale, bensì una sola e com­plessa crisi socio-ambientale», dice il papa; e la prima cosa da sapere, come dicono i vescovi boli­viani ma anche molte altre Chiese, è che i primi a essere col­piti da «quello che sta suc­ce­dendo alla nostra casa comune» sono i poveri. E il salto di qua­lità è anche nel rigore dell’analisi, nella cura con cui ven­gono ricer­cate tutte le con­nes­sioni tra i diversi feno­meni ed eco­si­stemi, e anche nell’onestà con cui si dice che non tutto pos­siamo sapere, che la scienza deve fare ancora un grande cam­mino, e che non si può pre­su­mere di pre­ve­dere gli svi­luppi futuri, sic­ché il prin­ci­pio di pre­cau­zione diventa un obbligo di sag­gezza e di rispetto per l’umanità di domani, con­tro l’ideologia della ricerca imme­diata del pro­fitto e dell’egoismo realizzato.

Si può capire allora come con que­sta enci­clica che comin­cia con un can­tico di san Fran­ce­sco e fini­sce con una pre­ghiera in forma di poe­sia, l’idillio del mondo ricco con papa Fran­ce­sco sia finito. «Tocca i cuori di quanti cer­cano solo van­taggi a spese dei poveri e della terra», dice il papa nella sua pre­ghiera. «Non occu­parti di poli­tica, per­ché l’ambiente è poli­tica», gli dicono i ric­chi. E men­tre da un lato quello che negli Stati Uniti non si fa chia­mare Bush per ripren­dersi in fami­glia il governo dell’America dice che non si farà det­tare la sua agenda dal papa, dall’altro quello che da noi pub­blica sulle sue felpe mes­saggi di raz­zi­smo e di guerra dice che non c’è pro­prio di che essere per­do­nati per le porte chiuse in fac­cia ai pro­fu­ghi e tutti i «clan­de­stini» vor­rebbe met­terli a Santa Marta.

«Que­sto papa piace troppo» diceva la destra più zelante, allar­mata al vedere masse intere di per­sone in tutto il mondo affa­sci­nate da un pen­siero diverso dal pen­siero unico. Però si faceva finta di niente, spe­rando che la gente non capisse. Il papa diceva che l’attuale sistema non ha volto e fini vera­mente umani, e sta­vano zitti. Diceva che que­sta eco­no­mia uccide, e sta­vano zitti. Diceva che l’attuale società, in cui il denaro governa (Marx diceva «il capi­tale») è fon­data sull’esclusione e lo scarto di milioni di per­sone, e sta­vano zitti. Diceva ai poli­tici che erano cor­rotti, e sta­vano zitti. Diceva ai disoc­cu­pati di lot­tare per il lavoro e ai poveri di lot­tare con­tro l’ingiustizia, e face­vano il Jobs Act.

Ma con que­sta enci­clica il gioco di far finta di non capire non sarà più pos­si­bile. Biso­gnerà stare o dalla parte di Fran­ce­sco o con­tro di lui, per­ché non sta facendo una pre­dica, sta chie­dendo una scelta. E que­sto vale non solo per i poli­tici, per gli opi­nio­ni­sti, per i gior­nali, vale anche per i vescovi, per i car­di­nali. E vale anche per i sem­plici fedeli per­ché, scrive Fran­ce­sco «dob­biamo rico­no­scere che alcuni cri­stiani impe­gnati e dediti alla pre­ghiera, con il pre­te­sto del rea­li­smo e della prag­ma­ti­cità, spesso si fanno beffe delle pre­oc­cu­pa­zioni per l’ambiente».

Quello che infatti da Fran­ce­sco è posto davanti al mondo è il pro­blema vero: «il grido della terra» è anche il «grido dei poveri», ma nel monito che si leva dai poveri per­ché la loro vita non vada per­duta, c’è un monito che riguarda tutti, per­ché senza un rime­dio, senza un cam­bia­mento, senza un’assunzione di respon­sa­bi­lità uni­ver­sale la vita di tutti sarà perduta.

Ed è per que­sto che l’enciclica di papa Fran­ce­sco è rivolta a «ogni per­sona che abita que­sto pia­neta»: non ai cat­to­lici, e nem­meno agli «uomini di buona volontà», come faceva la «Pacem in ter­ris» di Gio­vanni XXIII, in cui si poteva sospet­tare ancora un resi­duo di esclu­sione, nei con­fronti di qual­cuno che even­tual­mente fosse di volontà non buona. Qui papa Fran­ce­sco abbrac­cia vera­mente tutti (come ne sono figura essen­zia­lis­sima per il cri­stiano le brac­cia di Cri­sto aperte sulla croce) e si pone non come capo di una Chiesa, e nem­meno come pro­feta dei cre­denti, ma come padre della intera uma­nità. Per­ché il mes­sag­gio è il seguente: non que­sta o quella Potenza o Isti­tu­zione, non que­sto o quello Stato, non quel par­tito o movi­mento, ma solo l’unità umana, solo la intera fami­glia umana giu­ri­di­ca­mente costi­tuita e agente come sog­getto poli­tico può pren­dere in mano la terra e assi­cu­rarne la vita per l’attuale e le pros­sime generazioni.

«È caduto ogni divieto sul controllo dei dipendenti. Pc, posta elettronica, telefonate non hanno più segreti per gli imprenditori. Gli unici limiti arrivano dal Garante della privacy: non si può abusare dei dati».

La Repubblica, 19 giugno 2015 (m.p.r.)

Siamo tutti lavoratori sorvegliati. Il Grande fratello c’era già prima che il governo approvasse l’ultimo decreto sul Jobs act. I “padroni della rete” sanno tutto di noi: conoscono i nostri gusti alimentari, i libri che leggiamo, la musica che ascoltiamo, i vestiti che indossiamo, i film che vediamo, probabilmente pure il partito che votiamo o che abbiamo intenzione di votare. Anche il “nostro padrone” sa quasi tutto di noi. Lo sa, ma non lo dice. La nostra posta elettronica nel posto di lavoro può essere controllata, i nostri accessi a internet pure, le nostre telefonate altrettanto. Tutto è tracciato. La rete, si sa, non dimentica, o non vuole dimenticare, mai. I dati sono ormai facilmente acquisibili, bisogna vedere l’uso che se ne fa dopo. Questo è il punto più delicato.

E il governo ha deciso che l’imprenditore potrà controllare a distanza il proprio dipendente attraverso il cellulare aziendale, il tablet, lo smartphone, le nostre propaggini tecnologiche che utilizziamo in maniera promiscua, un po’ per il lavoro un po’ per il privato. Dentro ci sono tante informazioni sensibili. Sono le nostre connessioni permanenti, fanno parte di noi. E del nostro lavoro. Il datore di lavoro potrà controllarci (se il testo del decreto delegato presentato in Parlamento non subirà modifiche nel prossimo mese), rispettando le regole sulla privacy, indipendentemente da un accordo con i sindacati, basterà che ottenga l’autorizzazione da parte dell’ufficio territoriale del ministero del Lavoro.
Questa è la svolta rispetto alla disciplina introdotta 45 anni fa con l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Lì è vietato il controllo a distanza dei lavoratori. «Una sorta di tutela ante litteram della privacy - sostiene Maurizio Del Conte, professore di diritto del lavoro alla Bocconi di Milano, consigliere giuridico di Palazzo Chigi - destinata però soltanto ai lavoratori». Insomma, negli anni Settanta i lavoratori erano privilegiati rispetto a tutti gli altri: erano gli anni di un aspro conflitto sociale e delle profonde divisioni ideologiche, e il “padrone” avrebbe potuto utilizzare le informazioni raccolte con le telecamere e gli audiovisivi, per scegliersi i dipendenti, discriminando, licenziando gli indesiderati dal punto di vista politico o sindacale. Alla Fiat, per fare un esempio, accadeva esattamente questo con le schedature dei comunisti. La barriera dell’articolo 4 insieme a quella dell’articolo 8 (divieto di indagini personali sul lavoratore) dello Statuto servivano a rendere più libero il lavoratore. «Oggi - aggiunge Del Conte - c’è la legge sulla privacy e si applica a tutti, nei posti di lavoro e all’esterno». Dunque negli uffici (ma non quelli pubblici) e nelle fabbriche, quando decadrà l’articolo 4 dello Statuto continuerà ad essere applicata la legge sulla tutela della privacy.
Ecco, allora, il Garante della privacy. Che ha fissato le linee guida per l’utilizzo della posta elettronica e della rete internet nel rapporto di lavoro. E a proposito dei controlli a distanza riconoscono che il datore di lavoro possa controllare la prestazione lavorativa e il corretto utilizzo degli impianti. Ma non può «ricostruire, a volte anche minuziosamente, l’attività del lavoratore». Non può leggere la posta elettronica, non può memorizzare le pagine di internet eventualmente visualizzate, non può in maniera occulta controllare ciò che il dipendente digita sulla tastiera.
Eppure i comportamenti non sono sempre così rispettosi delle regole. Proprio un’indagine dell’Authority disvelò nel 2012 il caso del Poligrafico dello Stato. Era stato introdotto un sistema di filtraggio per impedire l’accesso ai siti ritenuti «inconferenti con lo svolgimento dell’attività lavorativa ». Peccato che lo stesso sistema memorizzasse poi gli acces- si e i tentativi di accesso di ciascun dipendente (circa 1.200) ai domini selezionati. Ne derivarono report quotidiani sull’attività di ciascun lavoratore. Una vigilanza minuziosa in contrasto proprio con l’articolo 4 dello Statuto, come osservò il Garante. Un controllo altrettanto pervasivo veniva effettuato anche nelle mail.
Siamo accerchiati da potenziali strumenti di controllo. «Non per questo dobbiamo alzare la mani, accettare il predominio della tecnologia come un fatto naturale», dice Stefano Rodotà, giurista, primo Garante della privacy, «maniaco dei diritti », come si definisce. «La questione dei diritti va declinata in maniera tale da non rendere la tecnologia la padrona di tutto». E Rodotà ricorda il caso dello Stato della California dove ai datori di lavoro è vietato, pena severissime sanzioni, accedere al profilo Facebook dei candidati all’assunzione, perché il rapporto tra lavoratore e imprenditore non è mai sullo stesso piano, nemmeno prima che si stabilisca. Vietato chattare anche attraverso un’altra persona. Il mese scorso la Corte di Cassazione italiana (sentenza numero 10955 del 27 maggio 2015) ha confermato il licenziamento di un lavoratore che era stato “incastrato” proprio per via di Facebook. Il lavoratore era stato licenziato dalla Pelliconi Abruzzo dopo essersi allontanato per fare una telefonata privata e, così, non aver potuto intervenire tempestivamente su una pressa bloccata; essersi collegato con l’iPad e poi anche su Facebook. L’accertamento delle conversazioni sul social network era stato possibile perché il datore di lavoro aveva creato un falso profilo di donna la quale aveva avviato una fitta comunicazione con il lavoratore proprio durante l’orario di lavoro. Nessuna violazione dell’articolo 4 dello Statuto, secondo la Suprema Corte: «Il datore di lavoro ha posto in essere una attività di controllo che non ha avuto ad oggetto l’attività lavorativa più propriamente detta ed il suo esatto compimento, ma l’eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, poi effettivamente riscontrati ». In questo caso il lavoratore venne anche “localizzato” per colpa del suo accesso a internet. Dunque - sostiene la Corte - «nella presumibile consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato, attraverso il sistema di rilevazione satellitare del suo cellulare».
C’è chi ha chiesto al Garante esattamente la possibilità di poter localizzare, per ragioni organizzative e produttive, i suoi dipendenti. Lo hanno fatto, nell’autunno dello scorso anno, due aziende di telefonia, la Ericsson e Wind. E il Garante ha posto alcuni paletti ma non ha detto di no a una richiesta finalizzata a migliorare la capacità di intervento dei tecnici. Va bene usare lo smartphone - ha detto l’Authority - per la localizzazione del dipendente, ma le applicazioni dovranno essere solo quelle per la geolocalizzazione impedendo l’accesso ad altri dati, come sms, posta elettronica, traffico telefonico. E sempre le stesse applicazioni dovranno configurare il sistema in modo tale che sull’apparecchio sia sempre ben visibile un’icona che indichi ai dipendenti che la funzione di localizzazione è attiva. Insomma la via alla tutela dei nuovi diritti è lastricata di nuove applicazioni.
Il dilemma dell'Europa: igno­rare la sto­ria e sot­to­met­tersi ai dik­tat del "fondamentalismo del mercato" che ovun­que appli­cati hanno con­dotto al disa­stro e alla povertà dif­fusa, oppure opporsi fer­ma­mente e costruire una solu­zione alternativa.

Il manifesto, 18 giugno 2015

Altro che la sto­ria «luce della verità» o «vita della memo­ria» di cui par­lava Cice­rone nel De ora­tore. Rara­mente si rivela «mae­stra di vita», per­ché il mondo umano non ha alcuna inten­zione di farsi suo disce­polo o anche solo di pre­stare atten­zione alle forti testi­mo­nianze che pur essa ci dispensa.

È que­sto il caso della teo­lo­gia eco­no­mica, ossia dell’idea (o meglio: ideo­lo­gia), secondo cui si cerca di imporre i dogmi della finanza a guisa di leggi natu­rali e indi­scu­ti­bili, per­fet­ta­mente in grado di garan­tire la sal­vezza e financo il pro­gresso di quei paesi che si sot­to­met­tono al «fon­da­men­ta­li­smo del mer­cato».

E dire che non ci si sarebbe dovuti spin­gere tanto lon­tano con la memo­ria (Marx, Key­nes), per­ché un per­fetto e lapa­lis­siano esem­pio della fal­la­cia dei dik­tat impo­sti dal fon­da­men­ta­li­smo del mer­cato lo avremmo potuto riscon­trare anche ai giorni nostri.

Per la pre­ci­sione pochi anni prima che la grande crisi eco­no­mica col­pisse anche il mondo occi­den­tale, par­tendo dagli Stati Uniti per defla­grare poi in Europa tra il 2008 e il 2009.

I dogmi del mercato

Né era stato un testi­mone qua­lun­que a docu­men­tare con indi­scu­ti­bile luci­dità i fal­li­menti pro­dotti dai dogmi mer­ca­ti­sti, bensì quel Joseph Sti­glitz che par­lava con cogni­zione di causa (oltre che valente eco­no­mi­sta era stato vice­pre­si­dente della Banca mon­diale ai tempi della pre­si­denza di Clin­ton) e che per que­sto fu insi­gnito del pre­mio Nobel per l’economia nel 2001.

In un libro fon­da­men­tale per com­pren­dere il nostro tempo (Glo­ba­li­za­tion and Its Discon­tents, tra­dotto per Einaudi col titolo La glo­ba­liz­za­zione e i suoi oppo­si­tori), infatti, Sti­glitz spie­gava con pre­ci­sione cer­to­sina e ana­lisi incon­tro­ver­ti­bile il fal­li­mento a cui erano andati incon­tro i paesi (per esem­pio l’Argentina) che negli anni Novanta del secolo scorso si erano sot­to­messi ai dik­tat della troika mon­diale (Fmi, Banca mon­diale, Wto). Men­tre per esem­pio la Cina, fra quelli che respin­sero con sde­gno le sud­dette impo­si­zioni (anche per­ché poteva per­met­ter­selo in virtù della sua potenza mili­tare), costruì pro­prio in que­gli anni le pre­messe per la sua esplo­sione come potenza eco­no­mica mondiale.

Circa un decen­nio più avanti, dopo che gli impre­ve­di­bili svi­luppi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio hanno visto cre­scere pro­prio quei paesi che a suo tempo si oppo­sero ai dogmi del neo­li­be­ri­smo (la stessa Cina, ma anche India, Bra­sile), tocca sta­volta all’Europa non sol­tanto fare i conti con una gra­vis­sima e pro­lun­gata fase di sta­gna­zione e crisi, ma anche con que­gli stessi iden­tici dik­tat con i quali la teo­lo­gia eco­no­mica vor­rebbe indi­car­gli la via della salvezza.

Per il tra­mite di una nuova e spe­ci­fica troika (Com­mis­sione euro­pea, Bce, Fmi), quell’entità fumosa e incom­piuta che risponde al nome di Europa si trova di fronte al deja vu più dram­ma­tico della sua sto­ria recente: igno­rare la sto­ria e sot­to­met­tersi a dei dik­tat che ovun­que appli­cati hanno con­dotto al disa­stro e alla povertà dif­fusa, oppure opporsi fer­ma­mente e costruire una solu­zione alternativa.

In un libro uscito recen­te­mente (Against the Troika. Cri­sis and Auste­rity in the Euro­zone, proe­mio di Oskar Lafon­taine, pre­fa­zione di P. Mason, post­fa­zione di A. Gar­zón Espi­nosa, Verso), Hei­ner Flas­sbeck e Costas Lapa­vi­tsas affer­mano aper­ta­mente la «forte e rimar­che­vole cor­re­la­zione fra gli aggiu­sta­menti richie­sti dalla troika e il declino eco­no­mico dei paesi peri­fe­rici dell’Euro» (Gre­cia su tutti), non man­cando di men­zio­nare i casi della Fran­cia e dell’Italia, che peri­fe­rici non sono ma stanno subendo un for­tis­simo ridi­men­sio­na­mento delle rispet­tive eco­no­mie e, soprat­tutto, della qua­lità della vita dei cit­ta­dini che vi abitano.

Disu­gua­glianze crescono

I due stu­diosi met­tono in evi­denza senza mezzi ter­mini il bivio di fronte al quale si tro­vano le demo­cra­zie euro­pee, che secondo loro sem­bra desti­nato ad assu­mere più che altro le fat­tezze di un falso bivio e, piut­to­sto, di un cir­colo vizioso: da una parte, infatti, cedere ai dik­tat della troika signi­fica aumen­tare ulte­rior­mente le disu­gua­glianze e impo­ve­rire la classe media, ponendo le basi per un aumento smi­su­rato di quel mal­con­tento e con­flitto sociale che i popu­li­smi, i nazio­na­li­smi e le destre estreme sono pronti a caval­care con esiti ancora più nefasti.

Dall’altra, a fronte di governi sedi­centi di sini­stra, ma più in gene­rale di forze anta­go­ni­ste al capi­ta­li­smo che però si rive­lano inca­paci di ela­bo­rare e met­tere in atto stra­te­gie alter­na­tive, si lascia ine­vi­ta­bil­mente campo aperto ed esclu­sivo a solu­zioni desti­nate a distrug­gere defi­ni­ti­va­mente quel poco che resta dell’ (incom­piuta) unità euro­pea. Creando di fatto le con­di­zioni per­ché a com­bat­tersi (ma poi per dav­vero?) riman­gano sol­tanto le destre popu­li­ste (il cui pro­gramma è sem­plice: uscire dall’euro) e il fon­da­men­ta­li­smo del mercato.

Con esiti dele­teri in entrambi i casi: «Le diver­genze accu­mu­late in que­sti primi anni di Unione euro­pea e la natura ter­ri­bile dei pro­grammi di aggiu­sta­mento (in senso neo­li­be­ri­sta, n.d.r.) pon­gono la que­stione quanto mai cen­trale della soprav­vi­venza stessa dell’Unione. La pro­spet­tiva di un’eventuale disin­te­gra­zione e col­lasso dell’Unione euro­pea non può essere igno­rata più a lungo», si legge nel libro. Da que­sto punto di vista emerge con chia­rezza, stando ai due autori di Against the Troika, che spetta alla varie­gata e spesso fram­men­ta­ria galas­sia delle sini­stre anti­li­be­ri­ste rico­struire un con­senso popo­lare.

Con­senso popo­lare su cui impo­stare una dichia­ra­zione di default rispetto al debito, sospen­dendo il paga­mento degli inte­ressi matu­rati e rine­go­ziando le forme di appar­te­nenza all’Unione europea.

Solo una sini­stra rin­no­vata e corag­giosa, insomma, pos­si­bil­mente for­nita di un pro­gramma fon­dato e cre­di­bile, può gio­carsi seria­mente la par­tita con la teo­lo­gia libe­ri­sta, riu­scendo a tenere in pieni il grande pro­getto dell’Europa (sal­va­guar­dando la sua spe­ci­fi­cità a livello mon­diale: lo stato sociale) ma nella con­sa­pe­vo­lezza che la pro­spet­tiva dell’uscita non è qual­cosa né di proi­bito né di inimmaginabile.

Doppio risultato per il renzismo: si rafforza il controllo su quei potenziali facinorosi che sono i lavoratori, e s'incentiva ulteriormente la produzione di prodotti digitali.

La Repubblica, 18 giugno
Il decreto che attua il Jobs Act va in Parlamento Niente permessi per vigilare. Sindacati in rivolta
ROMA. Le informazioni raccolte dalle aziende - tramite cellulari, smartphone, tablet, portatili, badge in dotazione al lavoratore, ma anche telecamere di sorveglianza - «sono utilizzabili a tutti i fini». C’è anche questo, in uno dei decreti attuativi del Jobs Act, arrivato martedì nelle commissioni Lavoro di Camera e Senato, per un parere non vincolante.

Quindi non solo d’ora in avanti il datore di lavoro non avrà più bisogno di un accordo con i sindacati né del permesso delle Direzioni territoriali del lavoro (il ministero) per controllare da remoto il proprio dipendente tramite vecchi e nuovi strumenti high-tech. Non solo per le telecamere quell’accordo non sarà più obbligatorio, come dal 1970. Ma l’utilizzo dei dati a posteriori (tutti i dati, anche quelli video) potrà essere praticamente infinito. Utilizzo «ad ogni fine, connesso al rapporto di lavoro», si legge nella relazione illustrativa al decreto. «Purché sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti e l’effettuazione dei controlli, sempre comunque nel rispetto del Codice della privacy».

Un rispetto che ora i sindacati, uniti e furiosi, mettono in dubbio. Come anticipato da Repubblica , la norma non poteva non sollevare un polverone. «Siamo al colpo di mano», denuncia Serena Sorrentino, segretario confederale Cgil, che parla di «arretramento pesante» rispetto allo Statuto dei lavoratori (il cui articolo 4 in materia di controlli a distanza viene aggiornato). «Non solo daremo battaglia in Parlamento», annuncia. Ma «verificheremo anche con il Garante della privacy se ciò si può consentire». Anche la Cisl chiede una riscrittura del testo. «Così com’è non va bene, va cambiato, perché è attraverso la contrattazione sui luoghi di lavoro che si devono gestire questi aspetti così delicati per la vita di un lavoratore, ma anche per l’azienda», commenta Annamaria Furlan, segretario generale Cisl, in linea con le posizioni della Uil. Si allarma anche Cesare Damiano, presidente pd della commissione Lavoro della Camera: «Non bisogna far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta. La delega prevede un controllo sugli impianti e non sulle persone. Buon senso vorrebbe che il governo, com’è avvenuto nel passato, affidasse questa regolazione alla contrattazione delle parti sociali. E soltanto nel caso di mancata intesa, far intervenire la legge».

La norma tra l’altro non vale per gli statali, altra benzina sul fuoco delle polemiche. «Il Grande fratello è nelle cose, già oggi», commenta il giuslavorista e senatore pd Pietro Ichino a Radio24 . «I controlli a distanza sono stati inseriti nel 1970, nello Statuto dei lavoratori, ma con l’obbligo di negoziazione. Mezzo secolo dopo, passare da accordi con i sindacati vorrebbe dire non fare una rete Internet aziendale oppure le auto con il gps o rinunciare a dotare i lavoratori del cellulare». Il dibattito è aperto.

Il decreto sulle Semplificazioni, con la norma incriminata (l’articolo 23), dovrà ora essere esaminato dalla commissioni parlamentari, le cui raccomandazioni potrebbero o meno essere accolte dal governo (con altri decreti del Jobs Act, però, è successo).

«C’è un’amnesia totale. Nes­suno si ricorda più di quando a emi­grare era­vamo noi ita­liani: milioni di per­sone in cerca di futuro e anche loro a bordo di carrette».

Emma Bonino ne è sicura, non ci sarà nes­suna bar­riera in grado di fer­mare chi è dispo­sto a lasciarsi alle spalle tutto ciò che ha pur di sal­varsi la vita o pro­vare o ricrear­sela in un altro continente.

«L’Unhcr ci dice che a breve ci saranno 50 milioni di rifu­giati veri e pro­pri. Poi biso­gna con­si­de­rare le migra­zioni di altro tipo - spiega -. Quello migra­to­rio è un feno­meno strut­tu­rale e anche se ci sono delle punte emer­gen­ziali nei vari con­ti­nenti, con­vive da sem­pre con l’umanità. Noi ita­liani ne siamo stati grandi pro­ta­go­ni­sti in pas­sato, tra la prima e la seconda guerra mon­diale. Dico sem­pre che una delle cose migliori che potreb­bero fare le scuole ita­liane è por­tare i ragazzi a visi­tare i musei dell’emigrazione ita­liana. C’è un epi­so­dio che mi piace citare: una volta un museo ha fatto un espe­ri­mento met­tendo a con­fronto due foto­gra­fie. Una rap­pre­sen­tava una nave di emi­granti ita­liani, l’altra la prima nave carica di alba­nesi che arrivò in Ita­lia nel 1991. Poi hanno chie­sto ai ragazzi quali erano gli ita­liani e quali gli alba­nesi. I ragazzi non hanno quasi mai indovinato».

I demo­grafi spie­gano come l’immigrazione sia sem­pre più impor­tante per le popo­la­zioni occi­den­tali. Eppure alziamo muri, fac­ciamo bloc­chi navali, respin­giamo le per­sone. Il nostro è egoi­smo o inca­pa­cità di capire quanto que­ste per­sone pos­sono essere pre­ziose per noi?
Secondo me c’è una inca­pa­cità della classe diri­gente di gover­nare il feno­meno e di man­dare i mes­saggi giu­sti. E’ chiaro che se una per­sona vede solo Sal­vini che sbraita in tele­vi­sione finirà per cre­dere che se suo figlio non trova lavoro è per­ché c’è un keniota che glielo ha rubato. Par­lare alla pan­cia fun­ziona sem­pre, spe­cie in un periodo di crisi vera. Eppure abbiamo tutte le infor­ma­zioni per capire che l’immigrazione può essere una risorsa. Oggi gli immi­grati (lega­liz­zati) in Ita­lia sono circa 5 milioni, con­tri­bui­scono all’8.8% del Pil, con­tri­bui­scono all’Inps, pagano le nostre future pen­sioni che loro godono molto poco per­ché la stra­grande mag­gio­ranza rien­tra al suo Paese appena può. Quindi cosa siamo, egoi­sti o inca­paci di capire? Io direi che siamo vit­time del popu­li­smo della classe diri­gente, ma per quanto riguarda l’opinione pub­blica in gene­rale par­le­rei di igno­ranza. Hanno creato una guerra tra poveri che fun­ziona benis­simo. La verità è un’altra, ed è che noi non vogliamo i poveri, ita­liani o non ita­liani che siano.

Lei in pas­sato ha sem­pre sot­to­li­neato la neces­sità di avere rap­porti di par­te­na­riato con i paesi del Medi­ter­ra­neo e ha spon­so­riz­zato la costi­tu­zione di un com­mis­sa­rio euro­peo per il Medi­ter­ra­neo invece di uno per l’Immigrazione. Per quello che val­gono i ragio­na­menti fatti con i senno di poi, se tutto que­sto si fosse attuato sareb­bero diverse le cose?
Par­liamo un attimo prima di quanto accade oltre il Medi­ter­ra­neo. In Asia c’è un gran­dis­simo movi­mento di cui i Rohin­gya sono solo la punta dell’iceberg. Pensi inol­tre ai Karen che, pove­racci, stanno nei campi pro­fu­ghi della Thai­lan­dia ormai da tre gene­ra­zioni e non rie­scono a rien­trare a Myan­mar né Myan­mar - che ha un cen­ti­naio di etnie - li vuole. Poi c’è la fron­tiera tra Mes­sico e Stati uniti, che ora è diven­tato il pro­blema Gua­te­mala, Mes­sico, Stati uniti, o l’esodo dalla Colom­bia per esem­pio. C’è il Vene­zuela… Molti sono movi­menti migra­tori pre­va­len­te­mente inter­la­tini, per­ché il Bra­sile va piut­to­sto bene eco­no­mi­ca­mente. Anche le migra­zioni del Medi­ter­ra­neo le pos­siamo con­si­de­rare intra­con­ti­nen­tali, per­ché il Medi­ter­ra­neo è poco più di un grande lago che ci uni­sce all’Africa. E qui cosa abbiamo? Da una parte un con­ti­nente in rapido declino demo­gra­fico, l’Europa, ma che è ancora il più ricco per quanto riguarda wel­fare, istru­zione, siamo anche più equi­li­brati degli Stati uniti. A Sud invece c’è un giar­dino d’infanzia, un con­ti­nente con una cre­scita demo­gra­fica ovun­que per­lo­meno del 3–4%. Poi c’è la parte Sahel tor­men­tata da guerre, dit­ta­ture, Boko Haram, Sha­baab (movi­mento isla­mi­sta somalo, ndr). Dove vuoi che vada que­sta gente? In Botswana? Non è che uno sic­come è pove­rac­cio e senza pro­spet­tive di vita nel suo Paese, è anche igno­rante. Quindi va dove pensa di avere una spe­ranza, una pos­si­bi­lità, cioè in Europa. Dove magari ha già fami­glia o cono­scenti o amici.

Il pro­blema è che il numero dei con­flitti pre­senti a Sud aumenta quotidianamente.
Que­sto è un momento della sto­ria che pos­siamo defi­nire di risve­glio arabo e di con­ta­mi­na­zioni di vario tipo, per­ché c’è anche il ter­ro­ri­smo. Noi euro­pei era­vamo abi­tuati a lavo­rare solo con le élite, ne cono­sce­vamo vita, morte e mira­coli, le mogli, le amanti e con loro trat­ta­vamo. Ricordo che quando mi sono tra­sfe­rita al Cairo, nel 2001, dopo un po’ comin­ciai a fare una ras­se­gna stampa del mondo arabo per Radio Radi­cale nella quale pro­vai a dire: guar­date che qui c’è vera­mente una bomba a oro­lo­ge­ria. Par­lavo dal punto di vista sociale demo­gra­fico, non inte­re­li­gioso. In que­gli anni l’Egitto era pieno di bam­bini, ma con nes­suna cre­scita eco­no­mica, un milione di nuovi ragazzi che si affac­cia­vano al mer­cato del lavoro ogni anno, pro­spet­tive zero, tutti inter­con­nessi e la stra­grande mag­gio­ranza di loro non aveva mai visto un’altra fac­cia oltre alla foto­gra­fia di Muba­rak appeso al muro di casa sua. Mi sem­brava che ci fosse un sub­bu­glio, un popolo che in qual­che modo bron­to­lava. Avevo la stessa impres­sione anche per la Tuni­sia per dire la verità, ma quando pro­vavo a dirlo mi rispon­de­vano che no, erano popoli stabili.

Per­ché vive­vano sotto dit­ta­ture che li obbli­ga­vano a essere stabili.
Certo, ma erano come una pen­tola a pres­sione senza val­vola e quindi pronti a scop­piare. Non ave­vano nes­suna agi­bi­lità poli­tica, o sin­da­cale. Niente di niente. All’epoca si poteva fare poli­tica solo il venerdì nelle moschee, unico spa­zio che veniva dato, con tutte le com­pli­ca­zioni che ne pote­vano deri­vare. Non sapevo quando e dove tutto que­sto sarebbe sfo­ciato, ma avevo l’impressione che tutta la regione fosse così: un giar­dino d’infanzia, senza sfo­ghi poli­tici né pos­si­bi­lità di alter­na­tive poli­ti­che, nes­suna pro­spet­tiva eco­no­mica salvo ovvia­mente le monar­chie del Golfo, ma que­sto è un altro discorso. E infatti sia l’Egitto che la Tuni­sia fin­ché hanno potuto hanno fatto una grande poli­tica di sus­sidi, al pane, alla ben­zina, a qua­lun­que cosa. Però non hanno retto, nono­stante i poten­tis­simi ser­vizi segreti. Tor­niamo allora alla mia pro­po­sta di un com­mis­sa­rio per il Medi­ter­ra­neo. Quando la lan­ciai ho pen­sato che sarebbe stato impor­tante – e lo penso anche ora — fare una poli­tica di con­te­ni­mento, cer­care di aiu­tare quei Paesi che ancora non sono nel bara­tro: Tuni­sia, Marocco, Alge­ria. Vogliamo par­lare dell’Algeria, capire un attimo cosa sta suc­ce­dendo lì? Qua­ranta milioni di per­sone, tan­tis­simi gio­vani, quasi tutti nati dopo o durante la guerra civile, un bilan­cio dello Stato che si è ridotto del 50% per il crollo del petro­lio. E’ vero che hanno riserve per due o tre anni, ma anche in Alge­ria - che non esporta nulla - hanno sem­pre tenuto calma la popo­la­zione con sus­sidi che prima o poi dovranno comin­ciare a ridurre. E allora cosa accadrà?

Certo che di fronte a un simile sce­na­rio l’Europa che litiga per divi­dersi 40 mila pro­fu­ghi fa pensare.
Il piano Junc­ker è impor­tante dal punto di vista del prin­ci­pio, per­ché in defi­ni­tiva rimette in discus­sione il trat­tato di Dublino. Non è tanto quindi il risvolto pra­tico della vicenda. Nella timi­dezza com­ples­siva bru­xel­lese a cui siamo abi­tuati, in par­ti­co­lare della com­mis­sione Bar­roso, devo dire che la com­mis­sione Junc­ker è stata piut­to­sto decisa e ha posto almeno in discus­sione tre o quat­tro argo­menti con­si­de­rati finora un tabù, anche se per ora una revi­sione del rego­la­mento di Dublino non passa, per­ché non ci sono i numeri necessari.

L’Italia aveva salu­tato come un suc­cesso la pro­po­sta della com­mis­sione Junc­ker di divi­dere 40 mila pro­fu­ghi tra gli Stati mem­bri, ma l’entusiasmo è durato poco.
Il fatto è che i migranti sono una prio­rità per noi, ma non per i Paesi che si tro­vano dall’altra parte del Medi­ter­ra­neo. Non pos­siamo andare in Tuni­sia a dire: tene­tevi i migranti, anzi aprite un campo pro­fu­ghi e un uffi­cio per gestire l’emigrazione legale per­ché noi prima o poi apri­remo le quote. La rea­zione è scon­tata: oltre al milione di libici che già abbiamo, e che in un Paese di 11 milioni di abi­tanti sono un pro­blema non da poco, dovremmo ospi­tare anche tutti gli afri­cani che ver­reb­bero in attesa di avere un canale legale? E non basta pro­met­tere ulte­riori finan­zia­menti. La mia idea è che nes­suno ha solu­zioni mira­co­lose, nean­che i più decisi guer­ra­fon­dai, quelli con­vinti che biso­gna andare in Libia e bom­bar­dare non si è capito chi, come, né dove, però poi boots on the ground nes­suno li vuole mettere.

Sarà anche per que­sto che l’Onu tarda a fare la riso­lu­zione che darebbe il via alla mis­sione euro­pea con­tro gli scafisti?
L’Onu tarda per­ché sono state espresse una serie di riserve. Una è quella della Rus­sia, che non vuole essere bypas­sata come accadde nel 2011 quando con la moti­va­zione di sal­vare Ben­gasi è stato fatto fuori Ghed­dafi. Quindi fino a quando non c’è un lin­guag­gio pre­ciso che assi­curi alla Rus­sia chi, dove, come, quando vuole fare que­sta ope­ra­zione, non si muove nulla. Il piano pre­sen­tato poi è troppo ambi­guo, non si capi­sce cosa si deve fare e per quanto tempo. Tutta que­sta ope­ra­zione a mio mode­sto avviso non va da nes­suna parte, almeno non come era stata pen­sata inizialmente.

E allora come ne usciamo?
Chiun­que abbia in mente una solu­zione mira­co­losa, secondo me vende fumo. Credo che que­sta situa­zione si tra­sci­nerà ancora a lungo. In Libia, per esem­pio, oltre alle mili­zie locali è in corso la con­ti­nua­zione della guerra intra­sun­nita, per­ché Tobruck rap­pre­senta Egitto, Ara­bia Sau­dita ed Emi­rati men­tre Tri­poli Qatar e Tur­chia. Poi la poli­tica è molto fra­gile e non so se adesso la Tur­chia vuole ancora con­ti­nuare la sua pre­ce­dente poli­tica regio­nale oppure no. Ma anche quello che sta suc­ce­dendo in Ara­bia sau­dita dove la tran­si­zione dopo la morte del re non è affatto così tran­quilla come ce l’hanno dipinta. Atten­zione, per­ché le alleanze sono fra­gili. Penso che oggi stiamo assi­stendo a una guerra tra di loro, una guerra che noi abbiamo con­tri­buito a far scop­piare dal 2003 con l’Iraq senza sapere bene che fare il giorno dopo.

Quindi che fare? Secondo me il com­mis­sa­rio per l’Immigrazione andrebbe sosti­tuito da un nuovo respon­sa­bile della poli­tica che guardi a Sud e si con­cen­tri su quei tre Paesi che ancora reg­gono ed hanno inte­ressi veri ad un rap­porto più appro­fon­dito con l’Europa… Biso­gna sepa­rare Est da Sud sono due mondi diversi che invece trat­tiamo alla stessa maniera, con le stesse regole, gli stessi modelli, lo stesso com­mis­sa­rio e un unico bilan­cio di 15 miliardi di euro dal 2015 al 2020 dei quali non si capi­sce quanto va a Est e quanto va a Sud. Serve invece un com­mis­sa­rio solo per il Sud che tenga conto delle nostre prio­rità, come l’immigrazione, ma che sia capace di dia­lo­gare con que­sti Paesi che hanno tutt’altre esi­genze. A loro dell’emigrazione non inte­ressa molto, anzi sem­mai spe­rano nelle rimesse e in un alleg­ge­ri­mento interno anche sociale.
L'Ungheria traduce in fatti concreti, ferrigni e spinosi, l'ideologia dominante nell'Unione europea, che solo il velo dell'ipocrisia nasconde agli ingenui.

La Repubblica, 18 giugno 2015

Budapest. Quando l’annuncio è venuto, non voleva crederci nessuno: in Europa, con Orbàn e con la marea dei migranti, torna l’èra dei Muri, proprio quei Muri della cui caduta Orbàn allora giovane dissidente liberal fu coraggioso protagonista.

Sembra un incubo eppure è vero: il governo nazional-conservatore ed euroscettico ungherese ha annunciato che costruirà un Muro lungo tutta la frontiera con la Serbia. Un Muro per bloccare la marea umana di siriani, e africani che attraverso il ventre molle balcanico, dopo aver superato pericoli e insidie, cercano di arrivare al confine magiaro per entrare nell’Unione europea e nello spazio di Schengen. Da domani non sarà più possibile, è il messaggio. Arriva il muro di Orbàn, con cui il premier osteggiato e visto con sfiducia in tutta la Ue vuole rifarsi verginità e credibilità politica. Abile come sempre, mi dice un alto diplomatico d’un Paese chiave della Vecchia Europa, il premier magiaro sa come muoversi, «un po’ scacchista e un po’ giocatore di poker», cogliendo di sorpresa chiunque lo critichi, nel momento più giusto».
Annuncio inatteso, come un fulmine sebbene il cielo dell’Europa spaventata dai migranti non sia sereno, meno che mai qui nel torrido caldo danubiano. «Il governo», ha annunciato freddo e preciso alle 13 locali il portavoce dell’esecutivo, Péter Szìjjàrtò, «ha dato al ministro dell’Interno Sàndor Pinter l’incarico vincolante di costruire una barriera lungo il confine con la Serbia». È la prima volta in assoluto, nella vita dell’Unione europea dopo la caduta della Cortina di ferro, di una barriera che separa un pezzo d’Europa dall’altro. La Memoria rammenta amara che fu proprio in Ungheria, 26 anni fa, che incoraggiati dalla rivoluzione di Solidarnosc e dei generali in Polonia i comunisti riformatori allora al potere ma consci di stare per perderlo aprirono una prima breccia nel muro.
Quando guardie di frontiera magiare e austriache insieme tagliarono con le cesoie i primi tratti di filo spinato, tarda primavera del 1989. E quando pochi mesi dopo, il 16 settembre, l’Ungheria invasa da cittadini della Ddr in fuga decise di lasciarli passare oltre il confine austriaco, con l’accordo di Gorbaciov e Kohl e sfidando i gerarchi tedesco-orientali, cecoslovacchi e romeni, da Honecker a Bilak a Ceausescu che minacciò attacchi missilistici contro il Paese magiaro. Le mille coppie miste tra cittadini tedeschi dell’est e occidentali che nacquero allora a Budapest, nel campo profughi di Zugliget, che l’esercito magiaro difendeva dalle spie della Stasi, sono soltanto memoria. Il Muro che risorge ora non sarà un vero Muro, avvertono i portavoce del governo, confermati da osservatori e diplomatici occidentali. Ma un solido, robusto, invalicabile reticolato alto 4 metri. Lungo i 175 chilometri della frontiera tra Ungheria e Serbia.
«I lavori preparatori per la chiusura della frontiera dovranno essere ultimati entro mercoledì prossimo (24 giugno, ndr), poi il primo luglio informeremo di ogni dettaglio i nostri partner», ha precisato Szìjjàrtò. E intanto l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, protestava contro i manifesti ufficiali magiari volti a dissuadere i migranti, condannandoli come razzisti. Il premier serbo Aleksander Vucic ha replicato all’annuncio dichiarandosi «sorpreso e shockato. La Serbia è solo un Paese di transito per i migranti». Mentre la portavoce Ue Natasha Bertaud ribadiva che «la Ue non promuove l’uso di recinzioni e incoraggia gli Stati membri ad adottare misure alternative per sorvegliare le frontiere».
Attenti però, non è tutta colpa di Orbàn, dicono qui a Budapest in molti. Il piccolo Stato balcanico, erede della Jugoslavia senza mezzi né know-how , non ha saputo dimenticare il passato delle guerre di Milosevic, suggeriscono fonti Nato, non si è mostrato capace di mostrare alcuno sforzo per avvicinarsi all’Unione europea. Neanche per il controllo della frontiera. Al contrario: Belgrado ha a lungo dato l’impressione di voler lasciar passare tutti, le sue guardie di frontiera raccontano ai poveracci in fuga dalla Siria, dalla Libia, dalla Macedonia della quasi guerra civile o da ovunque altrove, che passando quel confine verso la Magyar Koeztarsasàg troveranno libertà di movimento all’interno della Ue. Quindi pane e lavoro. Ha persino istigato i giovani del Kosovo, ex provincia ribelle adesso riconosciuta da Berlino e molti altri, ad andarsene.
Almeno una cosa bisogna riconoscere a Orbàn: a suo modo ha preannunciato la scelta. «Non riteniamo giusto che i serbi ci spediscano tutti questi profughi, ci riserviamo il diritto di prendere adeguate contromisure », aveva detto pochi giorni fa il premier ungherese. E aveva aggiunto, preciso e ammonitore: «Noi ci teniamo ogni opzione aperta, compresa quella di una totale chiusura del confine serbo». Detto, fatto. Le cifre d’altronde parlano: nel 2012 i profughi entrati nella Ue attraverso l’Ungheria erano stati appena 2mila, l’anno scorso sono invece saliti a 43mila, quanti tutti gli abitanti di una media città ungherese. Chi non ha ascoltato Orbàn allora, lo ha frainteso. Non è uomo di mezze misure. È arrivato recentemente persino a sfidare la Ue alludendo a una reintroduzione della pena di morte, poi solo le urla di Merkel e Juncker lo hanno indotto a frenare. «Ma figuriamoci », mi dice un amico dissidente ieri sotto la dittatura comunista e oggi sotto questo governo, «se esita a colpire duro contro i serbi che non vigiliano i confini: si mette semplicemente in sintonia con le numerose voci nella Ue, di destra ma non solo, che dicono basta alla marea umana».
Tranquillità che inganna, traffico caotico, belle ragazze e folla nello shopping della borghesia vicina al partito del premier: così si presentava oggi Budapest nel caldo d’un’estate precoce, quando l’annuncio è venuto. I deboli e divisi partiti d’opposizione progressista (socialisti dell’ex governo corrotto, verdi, altri minori) tacciono. E tace Jobbik, ultradestra neonazista e razzista che non fa che crescere nei consensi e ha seguito persino nelle migliori università da quando Orbàn è al potere, ma certo ai “camerati” la misura non dispiace. Anche a loro, come a tutte le destre radicali finanziate o appoggiate da Putin nella Ue, dànno gioia i Muri che risorgono.
Il 15 giugno le quattro associazioni ambientaliste Fondo Ambiente italiano, Italia Nostra, Legambiente, Rete dei comitati per la difesa del territorio, WWF hanno sottoscritto unitariamente un appello per chiedere continuità nelle politiche portate avanti in questi cinque anni sul governo del territorio e del paesaggio. Nessun quotidiano l'ha ripreso.

Comunicato stampa

Le Associazioni ambientaliste - Fondo Ambiente italiano, Italia Nostra, Legambiente, Rete dei comitati per la difesa del territorio, WWF - hanno condotto insieme una battaglia per affermare in Toscana i valori dell'ambiente, del territorio, del paesaggio. In modo particolare, hanno contribuito, nella passata legislatura, a far approvare provvedimenti legislativi di portata nazionale come la Legge per il governo del territorio e il Piano paesaggistico.

La battaglia però non può fermarsi qui. È necessario che nella prossima legislatura questi provvedimenti siano salvaguardati e correttamente applicati e, in proposito, le Associazioni auspicano e chiedono continuità nel lavoro svolto da Anna Marson durante la scorsa legislatura: e ritengono, inoltre, che la garanzia più efficace di una corretta gestione del Piano consista nel mettere prima possibile in funzione l’Osservatorio del paesaggio previsto dall’art. 59 della nuova Legge per il governo del territorio, articolato in una struttura regionale e in una rete di nodi locali aperti alla partecipazione delle comunità locali, come «strutture ecomuseali, associazioni ambientali e civiche, già attivi sul territorio» (da Relazione generale del Piano, p. 24). Se ciò, come vivamente è auspicabile, sarà realizzato le Associazioni ambientaliste si propongono di fornire al governo regionale il proprio contributo per mettere in atto i risultati positivi della precedente legislatura.

Firenze, 15 giugno 2015.

Fondo Ambiente italiano, Italia Nostra, Legambiente, Rete dei comitati per la difesa del territorio, WWF

. Comune.info, 17 giugno 2015

In questo periodo alcuni dirigenti politici alzano la voce contro gli stranieri, quelli miserabili (non i miliardari arabi che si stanno comprando mezza Italia), quelli che scappano dalla fame, dalla guerra, dalle situazioni disumane e tragiche prodotte dalle politiche occidentali, in primis gli Usa e le multinazionali euro-statunitensi che sfruttano le risorse dell’Africa e del Medio-oriente. Quei dirigenti usano una violenza verbale, veicolata dai media, che fanno così da cassa di risonanza allacostruzione del capro espiatorio in una situazione di crisi sociale, culturale, morale, politica ed economica che sta affondando la democrazia italiana, ma anche di molti paesi europei.

La violenza verbale si accompagna purtroppo anche dalla violenza fisica di chi viene sfruttato da scafisti di tutte le nazionalità, basta vedere la vicenda di Roma (sulle vicende di Roma, Milano, Ventimiglia e, più in generale sulla situazione dei migranti in questo momento, leggi anche Migranti in trappola di Fulvio Vassallo Paleologo e la durissima denuncia di Amnesty). L’importante è fare crescere l’odio verso i poveri del mondo che chiedono aiuto, l’importante è metterli alla gogna facendo tremare i cittadini impoveriti e impauriti con le favole sulla scabbia, il terrorismo ecc. La cosa grave è che il giornalismo italiano sembra non avere senso del pudore e della responsabilità sociale nell’influenzare l’opinione pubblica, anzi più si sbatte il mostro in prima pagina nei tg, più si dà spazi ai deliri razzisti e volgari di certi personaggi, più si amplifica il fenomeno della presunta invasione del paese. E se il paese è invaso vuol dire che siamo in guerra. Contro chi? Contro i poveri che arrivano dal Corno dell’Africa (ex colonie italiane), dal Medio-oriente (Sira, Iraq distrutti dalla guerre occidentali), dall’Africa centrale sfruttate dalle multinazionali per le sue materie prime. Non guerra alle diseguaglianza e alla povertà nel mondo e anche alle sue cause, dunque, ma guerra ai poveri.

Austerity

D’altronde che la guerra contro i poveri sia una realtà i cittadini europei se ne accorgono con le politiche di austerity che hanno avuto finora l’effetto d’impoverire la popolazione e di distruggere i sistema di diritti e di tutela dei lavoratori. Allora bisogna far crescere l’odio contro i profughi, scatenare la guerra tra i poveri facendo leva sugli istinti più bassi e incivili dell’essere umano per fare dimenticare che la crisi sociale in Italia e in Europa ha dei responsabili, cioè chi governa e conduce per conto dei mercati della finanza le politiche di distruzione dello Stato sociale per favorire il trasferimento di ricchezza verso chi è ricco e per rendere schiavi i salariati.

Come ha scritto René Girard nei suoi testi La violenza e il sacro e Il capro espiatorio, l’aggressione razzista è proporzionata non alla diversità dello straniero ma al fatto che ci assomiglia tanto, insomma aggrediamo l’altro perché è molto simile a noi e non il contrario (è quello che il filosofo francese chiama “la vendetta mimetica”). Nel caso dell’Italia con la sua storia d’emigrazione (rimossa anche se molto attuale, visto che negli ultimi tre anni hanno lasciato il paese 350.000 mila italiani) la questione diventa ancora più complicata poiché i profughi ci ricordano molte cose sulla sua storia passata e anche attuale. L’aggressività razzista e xenofoba è anche sempre lo specchio di una paura irrazionale, di una insicurezza e di un tentativo di eliminare l’altro diverso da sé per non fare i conti con se stesso, quindi con l’altro che ci sta dentro.

Il dominio sull’altro secondo Fanon

Psicologicamente si può dire, con lo psichiatra afro-martinichese Franz Fanon, chel’aggressività linguistica e simbolica nonché la violenza fisica sono parte di una logica di dominazione sull’altro agita da chi si sente insicuro (agendo come un “ferito psico-affettivo” che costruisce un rapporto di doppio legame con l’oggetto del proprio odio e della propria violenza). Si tratta di un tratto patologico che, negando dignità e umanità all’altro, porta a annichilire la propria dignità e umanità, quindi la propria capacità riflessiva lasciandosi travolgere dalle pur emozioni del momento, emozioni che non diventano sentimenti poiché quest’ultimi ci portano a relazionarci con i sentimenti dell’altro e quindi a considerarlo nella propria umanità.

L’odio ha purtroppo sempre funzionato nella storia umana permettendo alle classi dominanti di trovare, tra una parte dei dominati e sfruttati autoctoni, delle truppe e dei sostegni per continuare ad essere dominanti. L’odio è anche un modo molto più semplice di non dovere fare i conti con se stessi nella relazione con l’altro e quindi con la propria coscienza. Giuseppe Mazzini l’aveva già capito nella prima metà dell’800 e sosteneva che solo la fratellanza tra i popoli, in particolare tra i popoli sfruttati e oppressi avrebbe permesso di costruire una Europa più democratica e più giusta, scrisse anche in un proclama indirizzo ai giovani italiani che bisognava “abolire la parola straniero dalla favella dell’umanità”!

«La super­fi­cia­lità, l’inconsistenza e la cri­mi­na­lità tanto delle solu­zioni della Lega e delle destre euro­pee quanto delle non-soluzioni dei governi ita­liani ed euro­pei è una dram­ma­tica spia del tarlo che rode da anni l’edificio dell’Unione Euro­pea».

Il manifesto, 16 giugno 2015
È come se l’Europa fosse piom­bata di nuovo in una guerra. Solo i suoi gover­nanti non se ne sono accorti. Pochi di noi, sem­pre meno, in tutta Europa, sono ormai sicuri di poter tor­nare domani nella fab­brica o nell’ufficio dove hanno lavo­rato fino ad oggi; e non per­ché quei luo­ghi siano stati distrutti da una bomba, ma per­ché rischiano di venir chiusi dai debiti o da una delo­ca­liz­za­zione. Lo stesso vale per la casa dove si è abi­tato fino a ora: sfratto per moro­sità o rateo del mutuo non pagato. O per la pen­sione, dis­solta, dimez­zata o allon­ta­nata da un dik­tat della Com­mis­sione Euro­pea.

Ma oggi suc­cede anche che i giar­dini o le sta­zioni siano improv­vi­sa­mente invase da pro­fu­ghi abban­do­nati a se stessi. Sono ancora casi sin­goli, ma di un tale impatto da pro­iet­tare la loro imma­gine su tutto il paese. È una gene­rale situa­zione di insi­cu­rezza che si coa­gula, gra­zie anche (ma non solo) agli impren­di­tori poli­tici della paura, in una dif­fusa per­ce­zione di per­colo (anche se spesso die­tro il peri­colo com­pare soprat­tutto il fasti­dio) e nella ricerca di un capro espia­to­rio: cer­cato non nelle alte sfere di chi ha sca­te­nato quella guerra con­tro i popoli, ma, come sem­pre, tra le fasce più reiette: rom, pro­fu­ghi, migranti.

Il brac­cio di ferro tra il governo greco e le Isti­tu­zioni (già Tro­jka) è la riprova che i governi dell’Europa chiu­dono gli occhi di fronte alla realtà. Che cosa cre­dono mai di otte­nere? Se anche vin­ces­sero pie­gando o sfa­sciando Syriza, come stanno cer­cando di fare, non recu­pe­re­ranno mai il loro denaro (pre­stato per sal­vare in realtà le loro ban­che) e non fareb­bero che pro­cra­sti­nare quell’instabilità che già oggi pena­lizza tutte le loro eco­no­mie. Per­ché il debito greco, come quello ita­liano e di molti altri paesi, è inso­ste­ni­bile. Ma apri­reb­bero così le porte alla rimonta di Alba Dorata. Se invece finis­sero per cac­ciare la Gre­cia dall’Euro le cose non andreb­bero certo meglio. La deriva del paese ne tra­sci­ne­rebbe uno dopo l’altro, o tutti insieme, molti altri.

Ma le mani­fe­sta­zioni di insi­pienza non fini­scono qui: emer­gono ora con viru­lenza nella vicenda dei pro­fu­ghi: anche in que­sto campo Gre­cia e Ita­lia sono state elette a vit­time sacri­fi­cali di una poli­tica senza futuro. Quello che Maroni vor­rebbe fare delle Regioni dell’Italia meri­dio­nale e che Sal­vini (nella sua nuova veste di eroe nazio­nale) vor­rebbe fare della Libia - trat­te­nere là i pro­fu­ghi che non vogliono acco­gliere qua - l’Europa, cioè i governi dei paesi mem­bri, incal­zati e tra­volti dai furori xeno­fobi e anti­eu­ro­pei delle destre, lo stanno già facendo nei con­fronti di Gre­cia e Ita­lia: «È un pro­blema vostro; tene­te­veli. Siamo stati così desi­gnati a campo pro­fu­ghi, nuova Libia delle guerre che inve­stono ormai i con­fini di tutta l’Unione.

E’ la prova di una totale man­canza di visione di che cosa possa, ma anche debba, essere l’Europa; e di una totale man­canza di stra­te­gia di fronte ai pro­blemi più gravi. Dal canto suo, il governo ita­liano, inve­stito diret­ta­mente dall’ondata mon­tante (ma pre­ve­di­bile) dei pro­fu­ghi, ha messo a punto (accanto alla ini­zia­tiva sal­vi­fica, ma a ter­mine, di Mare Nostrum) due solu­zioni emble­ma­ti­che del modo con cui affronta le emer­genze. La solu­zione Alfano-Buzzi: spe­cu­lare a man bassa, sia in ter­mini eco­no­mici che elet­to­rali, su quei dispe­rati. E la solu­zione Alfano-Pansa: farli scap­pare dai luo­ghi di acco­glienza (cioè di deten­zione); lasciarli per strada. Che si arran­gino a riem­pire sta­zioni, giar­dini, fab­bri­che abban­do­nate, rico­veri improv­vi­sati. Così si ali­menta allar­mi­smo tra popo­la­zioni ignare della dimen­sione geo­po­li­tica del pro­blema e indotte a guar­dare solo ciò che inter­fe­ri­sce con le loro vite quo­ti­diane. Ma soprat­tutto si offrono nuovi argo­menti alle stra­te­gie di Salvini.

Ma che cosa suc­ce­derà se o quando vin­cerà Sal­vini? O quando le sue ricette saranno fatte pro­prie da chi ci governa (il piano B)? I campi pro­fu­ghi in Libia non si faranno. Ci sono già: sono quelli da cui si imbar­cano a decine di migliaia. Chi o che cosa potreb­bero mai otte­nere che non suc­ceda più? L’occupazione di tutta la costa libica? Ci vuole quella guerra che l’Onu per ora non per­mette; ma che poi, comun­que, biso­gne­rebbe vin­cere. Ma l’ultima guerra con­tro la Libia l’Europa in realtà l’ha persa. Così, sarebbe comun­que il deserto a inghiot­tire i pro­fu­ghi e migranti tenuti lon­tani dal mare (e dal nostro sguardo: chi si è mai pre­oc­cu­pato dei morti nel deserto, che sono già ora di più di quelli anne­gati in mare?). E magari, biso­gne­rebbe anche ricac­ciare verso i ter­ri­tori occu­pati dallo Stato Isla­mico i pro­fu­ghi accam­pati in Libano, Gior­da­nia e Tur­chia prima che cer­chino anche loro di rag­giun­gere l’Europa.

Oppure, si può smet­tere di sal­varli in mare, o respin­gerli con la forza quando chie­dono aiuto. Cioè farli anne­gare. In sostanza la pro­po­sta vera è que­sta, e si chiama ster­mi­nio. Ma alcuni, anzi molti, riu­sci­reb­bero comun­que a rag­giun­gere i nostri porti. Li si affonda lì? Davanti ai turi­sti che fanno il bagno? Senza nean­che capire che un’accoglienza come quella inau­gu­rata dalla sin­daca di Lam­pe­dusa è riu­scita a sal­vare sia turi­smo che vite umane?

Oppure, ancora, si adotta la linea Maroni, Zaia e Toti e si nega l’apertura di rico­veri decenti nelle regioni a cui i pro­fu­ghi sono stati desti­nati. Spin­gen­doli così ad accam­parsi nelle sta­zioni e nei giar­di­netti e, se ven­gono cac­ciati anche di lì, a spo­starsi in altre sta­zioni e in altri giar­di­netti (in una giran­dola come quella impo­sta ai campi rom): affi­dan­doli alle cure di quei tanti cit­ta­dini e asso­cia­zioni che mostrano ancora una grande voglia di aiu­tarli (ciò che dà ancora spe­ranza di poter costruire una società soli­dale). Ma met­ten­doli anche alla mercé di squa­dracce decise a farla pagare a quei disgra­ziati, rei di essersi sal­vati da una guerra, dal mare e dalle tor­ture inflitte loro durante il loro viaggio.

La super­fi­cia­lità, l’inconsistenza e la cri­mi­na­lità tanto delle solu­zioni della Lega e delle destre euro­pee quanto delle non-soluzioni dei governi ita­liani ed euro­pei è una dram­ma­tica spia del tarlo che rode da anni l’edificio dell’Unione Euro­pea. Vent’anni fa era già stato detto che, se non si fos­sero adot­tate misure ade­guate, pro­fu­ghi e migranti dall’Africa e dal Medio Oriente ci avreb­bero rag­giunti anche a nuoto. Ora quel momento è arri­vato e si parla solo di come fer­marli o far­gli inver­tire rotta; ma nes­suno ha ancora detto come. La solu­zione finale, lo ster­mi­nio dei pro­fu­ghi in mare o in Libia o nel deserto, ciò che l’Europa si era impe­gnata a non per­met­tere mai più, è inac­cet­ta­bile.

Ma l’accoglienza non basta, se non è inse­rita in un dise­gno di paci­fi­ca­zione e risa­na­mento dei paesi da cui pro­ven­gono: un dise­gno che abbia il suo punto di forza pro­prio nelle comu­nità espa­triate. Per que­sto occorre che pro­fu­ghi e migranti non ven­gano vis­suti come un ingom­bro, o facendo finta che non esi­stano. Biso­gna aiu­tarli a inse­rirsi nel tes­suto sociale e a rico­struire i legami con le loro comu­nità nazio­nali; ad abi­tare in luo­ghi decenti, ammi­ni­strando da soli i fondi desti­nati alla loro per­ma­nenza; non con­dan­narli a un ozio for­zato, pro­muo­vendo per loro vere oppor­tu­nità di lavoro, sia volon­ta­rio che retri­buito (ma per far que­sto biso­gna pro­muo­vere oppor­tu­nità ana­lo­ghe di lavoro e di red­dito anche per tutti i cit­ta­dini ita­liani).
E occorre costruire con loro, attra­verso i loro resi­dui legami con i paesi di ori­gine, un per­corso di paci­fi­ca­zione, a par­tire dal blocco delle for­ni­ture di armi che ali­men­tano le guerre da cui sono fug­giti. Get­tando così insieme le basi di una grande comu­nità euro-mediterranea ed euro-africana, su cui rico­struire una nuova Unione, e un nuovo governo dell’Unione, quando quello attuale avrà dovuto pren­der atto del suo fallimento.
Il titolo dell'articolo su il manifesto, da cui lo abbiamo tratto, è "Costruiamo un'Unione euroafricana"
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