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«I cre­di­tori vogliono essere certi che a pagare il "risa­na­mento" e la per­ma­nenza nell’eurozona sia la grande massa pro­le­ta­riz­zata dei lavo­ra­tori dipen­denti, costretti a vivere sta­bil­mente in mise­ria e in schia­vitù. Se a pagare fos­sero i grandi capi­tali, i conti tor­ne­reb­bero ugual­mente».

Il manifesto, 30 giugno 2015 (m.p.r.)

C’è un aureo testo di Kant che torna alla mente in que­ste ore in cui si con­suma l’attacco finale alla Gre­cia demo­cra­tica da parte dei cani da guar­dia dell’Europa oli­gar­chica, della finanza inter­na­zio­nale e del Nuovo ordine colo­niale a cen­tra­lità franco-tedesca. Nel 1784, l’autore della Cri­tica della ragione pura, già cele­ber­rimo in tutto il con­ti­nente, rispon­deva alla domanda sull’essenza dell’illuminismo. La indi­vi­duava nella scelta dell’autonomia; nella deci­sione con­sa­pe­vole e non priva di rischi di «uscire da una mino­rità della quale si è responsabili».

Inten­deva dire che affi­darsi alla guida di un tutore che per noi sce­glie e deli­bera è umi­liante ben­ché comodo. Che la libertà è affa­sci­nante ma il più delle volte peri­co­losa. E che l’insegnamento fon­da­men­tale del movi­mento dei Lumi che di lì a poco avrebbe por­tato i fran­cesi a sol­le­varsi con­tro l’autocrazia dell’antico regime con­si­ste pro­prio in que­sto: nel con­si­de­rare l’esercizio dell’autonomia indi­vi­duale e col­let­tiva un inde­ro­ga­bile dovere morale e poli­tico. Un fatto di dignità. Essere uomini signi­fica in primo luogo deci­dere per sé e rispon­dere delle pro­prie scelte. Rifiu­tarsi di vivere sotto il giogo di qual­siasi potere impo­sto con la vio­lenza delle armi o della super­sti­zione, del denaro o del conformismo.

Sono tra­scorsi oltre due secoli densi di sto­ria. Il mondo è cam­biato. Ma nes­suno direbbe che quelle di Kant sono con­si­de­ra­zioni arcai­che, ina­datte al nostro tempo. Siamo tutti pronti a sot­to­scri­verle. Rifor­mu­late con parole meno alate, le ripe­tiamo ogni qual­volta ragio­niamo sui prin­cipi demo­cra­tici ai quali vor­remmo si ispi­ras­sero le nostre società. Eppure che suc­cede quando i nodi ven­gono al pet­tine e la dignità di tutto un popolo è messa dav­vero in discus­sione, quando un intero paese è posto di fronte al bivio tra mino­rità e autonomia?

Anche se tele­vi­sioni e gior­nali di tutto il mondo fanno a gara per nascon­dere la realtà descri­vendo i greci come un gregge di bugiardi paras­siti (e atten­zione: vale per i greci oggi quel che ci si pre­para a dire domani sul conto di spa­gnoli, por­to­ghesi e ita­liani, sudici d’Europa), è abba­stanza chiaro il motivo per cui Ue, Bce e Fmi hanno deciso di sca­te­nare la guerra con­tro la Gre­cia. I soldi (pochi) sono più che altro un pre­te­sto. La sostanza è il modello sociale che deve prevalere.

I cre­di­tori vogliono essere certi che a pagare il «risa­na­mento» e la per­ma­nenza nell’eurozona sia la grande massa pro­le­ta­riz­zata dei lavo­ra­tori dipen­denti, costretti a vivere sta­bil­mente in mise­ria e in schia­vitù. Se a pagare fos­sero i grandi capi­tali, i conti tor­ne­reb­bero ugual­mente. E solo così l’economia greca potrebbe per dav­vero risa­narsi. Ma il prezzo poli­tico sarebbe esor­bi­tante, tale da vani­fi­care quanto è stato sin qui fatto, per mezzo della crisi, al fine di «rifor­mare» i paesi euro­pei e con­for­marli final­mente al modello neo­li­be­rale di «società aperta».

La par­tita è quindi squi­si­ta­mente poli­tica. Se non c’è di mezzo tanto un pro­blema di ragio­ne­ria quanto una que­stione poli­tica di prima gran­dezza – il modello sociale, appunto: i cri­teri base dell’allocazione delle risorse – allora è sacro­santa la pre­tesa del governo greco che a deci­dere se obbe­dire o meno ai dik­tat della troika sia il popolo che dovrà pagare le con­se­guenze delle deci­sioni assunte in sede euro­pea. È un fatto ele­men­tare di demo­cra­zia. Che però spo­sta il con­flitto sul ter­reno, cru­ciale e deci­sivo, della legit­ti­ma­zione dell’Europa unita: uno spo­sta­mento del tutto inaccettabile.

Non c’è da sor­pren­dersi se pro­prio la deci­sione di Tsi­pras di andare al refe­ren­dum popo­lare abbia fatto sal­tare il banco. L’Europa – que­sta Europa dei tec­no­crati e degli spe­cu­la­tori – può accet­tare molte dero­ghe. Può tol­le­rare gravi infra­zioni alle regole finan­zia­rie, come ha dimo­strato pro­prio nei con­fronti di Fran­cia e Ger­ma­nia. Può anche fati­co­sa­mente chiu­dere un occhio su qual­che misura tesa a ridurre l’iniquità delle cosid­dette riforme strut­tu­rali che i paesi sono chia­mati a rea­liz­zare per con­for­marsi al modello sociale prescritto.

Ma sulla que­stione delle que­stioni – la sovra­nità – non si tran­sige. Nes­suno può rimet­tere in discus­sione il fatto che in Europa i pre­sunti «popoli sovrani» non hanno voce in capi­tolo sul pro­prio destino. Fin­ché si scherza, magari fin­gendo di avere un par­la­mento euro­peo, bene. Ma guai ad aprire una brec­cia sulla costi­tu­zione dispo­tica dell’Unione, che è il suo fon­da­mento ma anche, a guar­dar bene, il suo tal­lone d’Achille.

Se que­sto è vero, allora un silen­zio pesa assor­dante men­tre le cro­na­che docu­men­tano le bat­tute finali di quest’ultima guerra inte­stina del vec­chio con­ti­nente. Dove sono finiti i «grandi intel­let­tuali», quelli che lo spi­rito del tempo desi­gna a pro­pri por­ta­voce, coloro la cui sapienza e sag­gezza reca l’onore e l’onere di indi­care la retta via quando il cam­mino si ingar­bu­glia? Non se ne vede l’ombra. Tutto su que­sto fronte tace, come se si trat­tasse di baz­ze­cole. Eppure c’è ancora qual­che sedi­cente filo­sofo, qual­che sto­rico, qual­che giu­ri­sta o socio­logo in Europa. C’è chi si atteg­gia a inter­prete auten­tico della crisi e sforna a ripe­ti­zione libri che discu­tono di Europa e di demo­cra­zia. Forse che, per tor­nare al vec­chio Kant, ciò che vale in teo­ria non serve a nulla in pratica?

Ci si domanda che farebbe oggi un novello Zola (o un nuovo Sar­tre) di fronte alla pre­po­tenza e alla viltà di quest’Europa. Eppure non occor­rono gesti eroici per ricor­dare che esi­stono diritti invio­la­bili, per chia­rire che nes­suna ragione al mondo con­sente di sca­ra­ven­tare un popolo nell’indigenza e nella dispe­ra­zione, per ram­men­tare che in que­sta par­tita torti e ragioni sono, come sem­pre, ripar­titi fra tutte le parti in causa. Niente. Silen­zio. A sbrai­tare è solo chi può per­met­tersi di svol­gere due parti in com­me­dia, il ruolo dell’accusatore e quello del giu­dice. Quanto all’imputato, stiamo molto attenti. Nati a Palermo o a Sivi­glia, a Milano o a Lisbona, siamo tutti quanti greci anche noi.

«Intervista all'’economista Emiliano Brancaccio: “Se l’Euro registrerà una crepa sarà bene che avvenga da sinistra e non sull’onda nera montante di forze ultranazionaliste e xenofobe"».

Il manifesto, 30 giugno 2015

I «cre­di­tori» respin­gono la pro­po­sta del governo greco e chie­dono altre dosi di lacrime e san­gue. Tsi­pras si smarca dal ricatto e indice un refe­ren­dum, invi­tando a votare «no» alle richie­ste delle isti­tu­zioni euro­pee e del Fmi. Siamo a un passo dall’uscita della Gre­cia dall’euro? Quali saranno le riper­cus­sioni per il nostro paese e per l’Unione euro­pea? E in que­sto guado così dif­fi­cile, quale linea dovreb­bero assu­mere le forze poli­ti­che della sini­stra? Ne par­liamo con Emi­liano Bran­cac­cio, che inse­gna Eco­no­mia poli­tica ed Eco­no­mia inter­na­zio­nale all’Università del San­nio ed è stato pro­mo­tore del «monito degli eco­no­mi­sti» sulla crisi dell’eurozona pub­bli­cato nel 2013 sul Finan­cial Times.

Pro­fes­sor Bran­cac­cio, i prin­ci­pali organi di stampa attac­cano la deci­sione di Tsi­pras di indire un refe­ren­dum con cui chiede al popolo greco di respin­gere la bozza dei cosid­detti «cre­di­tori». Tor­nano alla ribalta gli slo­gan sui «greci irre­spon­sa­bili», che rifiu­te­reb­bero di «fare i com­piti» per risa­nare i conti e pre­ten­de­reb­bero di «pro­spe­rare a spese degli altri». Che ne pensa?
Basta osser­vare le sta­ti­sti­che uffi­ciali per ren­dersi conto che la realtà è un’altra. Negli ultimi cin­que anni i governi greci hanno dili­gen­te­mente appli­cato le ricette di auste­rity e di ridu­zione dei salari impo­ste dalla Troika. La spesa pub­blica è crol­lata del ven­ti­cin­que per­cento e le buste paga sono pre­ci­pi­tate di oltre il venti per­cento. Il risul­tato di que­ste misure è stato cata­stro­fico: la più pesante caduta della domanda, della pro­du­zione, dell’occupazione e dei red­diti mai regi­strata in epoca di pace, e un boom con­se­guente del rap­porto tra debito e red­dito. Il caso della Gre­cia sarà ricor­dato nei libri di sto­ria eco­no­mica come la prova empi­rica per eccel­lenza del fal­li­mento della dot­trina dell’austerity e della defla­zione salariale.

In que­ste ore però c’è chi è tor­nato a soste­nere che il disa­stro in cui versa la Gre­cia dipende anche dal fatto che per entrare nell’euro i governi elle­nici truc­ca­rono i conti.
È un’altra opi­nione infon­data. Innan­zi­tutto ricor­diamo che i ritoc­chi con­ta­bili li hanno fatti in tanti, per­sino i tede­schi. Ma poi stiamo ancora ai dati. Euro­stat ha sti­mato che tra il 1999 e il 2001 i «truc­chi con­ta­bili» della Gre­cia per entrare nell’euro ammon­ta­rono a meno di 10 miliardi. Non è una gran cifra se con­si­de­riamo che da quando la Gre­cia nel 2010 si è sot­to­po­sta ai pro­grammi della Troika, sono stati effet­tuati tagli alla spesa pub­blica per un ammon­tare com­ples­sivo di ben 106 miliardi. Insomma, i fami­ge­rati «truc­chi» per entrare nell’euro non rap­pre­sen­tano nem­meno il dieci per­cento degli enormi sacri­fici com­piuti dai greci per ten­tare di restarci, den­tro la moneta unica.

Veniamo alle pos­si­bili con­se­guenze del refe­ren­dum. Mat­teo Renzi afferma che si tratta di una scelta tra un «sì» e un «no» all’euro, lasciando inten­dere che lui sosterrà il «sì». Qual è la sua posi­zione?
Un’eventuale vit­to­ria dei «sì» pro­lun­ghe­rebbe solo l’agonia della Gre­cia e in pro­spet­tiva non garan­ti­rebbe la per­ma­nenza del paese nell’Unione mone­ta­ria. Di sicuro, invece, affos­se­rebbe per lungo tempo qual­siasi ipo­tesi di rilan­cio della sini­stra, in Gre­cia e non solo. Non esclu­de­rei la pos­si­bi­lità che Renzi miri esat­ta­mente a que­sto esito. Il «no» è l’unica opzione sen­sata.

Ma il «no» del popolo greco alla bozza delle isti­tu­zioni euro­pee impli­che­rebbe un’uscita del paese dall’euro? Il mini­stro delle finanze Varou­fa­kis con­ti­nua a soste­nere che la «Gre­xit» non è un’opzione con­tem­plata dal suo governo. Esi­ste ancora la pos­si­bi­lità di ria­prire la trat­ta­tiva?
Gli spazi di mano­vra si stanno strin­gendo, al punto in cui siamo non scom­met­te­rei su un’intesa. Molto dipen­derà dal com­por­ta­mento della Banca cen­trale euro­pea. In pas­sato Dra­ghi e gli altri mem­bri del diret­to­rio hanno con­di­zio­nato i loro inter­venti di sal­va­tag­gio al fatto che i paesi in dif­fi­coltà accet­tas­sero di sot­to­stare ai memo­ran­dum impo­sti dalla Troika, come nel caso cipriota. Se a Fran­co­forte non hanno cam­biato improv­vi­sa­mente linea, a un even­tuale «no» al refe­ren­dum pro­ba­bil­mente rispon­de­ranno con il blocco dei finan­zia­menti alle ban­che gre­che. A quel punto la Gre­cia sarebbe costretta ad avviare un per­corso di uscita dall’euro. Ma Tsi­pras e Varou­fa­kis potreb­bero affer­mare che sono stati but­tati fuori dall’Unione, e che la respon­sa­bi­lità dell’uscita è a carico della BCE e dei «cre­di­tori». In fin dei conti avreb­bero ragione.

Anche a sini­stra, c’è grande timore nei con­fronti di un tra­collo gene­rale dell’eurozona. La Gre­cia può diven­tare il fat­tore sca­te­nante in grado di met­tere in crisi l’intero pro­getto di uni­fi­ca­zione euro­pea?
La migliore ricerca eco­no­mica sostiene, da anni, che quello dell’eurozona è un pro­getto nato male, che crea squi­li­bri con­ti­nui tra paesi cre­di­tori e debi­tori e in pro­spet­tiva non è soste­ni­bile. Pre­sto o tardi biso­gnerà pren­derne atto, occor­rerà ripen­sare i ter­mini delle rela­zioni eco­no­mi­che inter­na­zio­nali. Occorre che la sini­stra affronti que­sta nuova fase sto­rica con una pro­pria visione e un pro­getto, potremmo dire un «nuovo inter­na­zio­na­li­smo del lavoro». Anche per que­sto, se l’impianto della moneta unica dovrà regi­strare una crepa, sarà bene che ciò avvenga da sini­stra, su impulso di un’Atene rossa, piut­to­sto che sull’onda nera mon­tante di forze ultra­na­zio­na­li­ste e xenofobe.

«Nella dannosa confusione di ruoli nell’Eurozona di questi mesi l’unica istituzione che ha fatto politica (cioè compromessi) è stata quella che dovrebbe essere solo un organismo tecnico: la Bce». Articoli di Angelo Baglioni e Fausto Panunzi.

Lavoce.info, 20 giugno 2015 (m.p.r.)

GRECIA: E ORA COSA SUCCEDE?
di Angelo Baglioni

Salvo sorprese dell’ultimo minuto, la Grecia sta scivolando verso l’insolvenza e l’uscita dall’euro. L’impatto immediato sarà drammatico per il paese ellenico. Ma in futuro chi rischia di perderci maggiormente saranno gli altri paesi europei. A cominciare dal nostro.

La vicenda greca è a una svolta decisiva e drammatica. È fin troppo facile individuare le responsabilità dei diversi partecipanti a questa tragedia: l’ottusità della Troika, l’improvvisazione del governo greco, la mancanza di iniziativa politica del governo tedesco e degli altri governi europei. Ben più difficile capire cosa potrà succedere d’ora in poi, ma cerchiamo comunque di farlo.

Le prospettive della Grecia…

Salvo una iniziativa a sorpresa, e molto tardiva, dei governi europei nelle prossime ore, domenica 5 luglio il popolo greco sarà chiamato a votare su un piano di assistenza finanziaria, condizionato a misure fiscali ed economiche, che di fatto non esiste più. Il piano è stato infatti ritirato dai ministri finanziari dell’Eurogruppo sabato 27 giugno, non appena appresa la notizia della indizione del referendum, che è stata accolta come una rottura delle trattative. Tecnicamente si tratta di un referendum privo di senso, anche per il fatto che implicitamente il popolo è chiamato a rispondere su una materia fiscale, che in genere non può essere materia referendaria per ovvie ragioni (non si va a chiedere alla gente se è d’accordo su un aumento della tasse). Tuttavia, il referendum ha un forte significato politico,sebbene Tsipras continui a negarlo: in sostanza il popolo greco deve decidere se restare nell’euro a ogni costo (comprese le misure imposte dalla Troika adesso e in futuro) oppure lanciarsi in un’avventura che potrebbe molto probabilmente portare il paese a uscire dall’euro.

Il referendum è un’iniziativa molto rischiosa, qualunque sia il suo esito. Se vincesse il “Sì” al piano della Troika, il governo attuale ne uscirebbe indebolito, visto che ha fatto campagna contro il piano stesso. Probabilmente si andrebbe a elezioni anticipate, e bisognerebbe ricominciare da capo una trattativa con un altro governo. Nel frattempo, per un periodo che potrebbe durare alcuni mesi, l’erogazione dei finanziamenti europei resterebbe bloccata. Se vincesse il “No”, quei finanziamenti verrebbero persi del tutto. Comunque vada, il governo greco non sarà in grado di fare fronte ai pagamenti più urgenti per restituire i suoi debiti nei confronti dell’Fmi (30 giugno ) e della Bce (20 luglio). In altre parole, la Grecia è insolvente.
A questo punto, ci si pone la domanda cruciale. L’insolvenza comporta l’uscita dall’euro? La risposta breve è: in questo caso si. La risposta più articolata è: dipende dal creditore. Se il creditore è un privato, un governo della zona euro può essere insolvente senza che questo comporti l’uscita dalla zona euro: questo è già successo nel 2012, quando il valore dei titoli di stato greci è stato tagliato della metà, senza che il paese uscisse dalla zona euro. Se invece il creditore è la Bce, le cose cambiano. Si tenga presente che il sistema bancario greco è nel mezzo di una grave crisi di liquidità: essendo sottoposto a un continuo ritiro di depositi, dipende dai prestiti forniti dalla Bce, che sono costantemente aumentati negli ultimi mesi. Questi prestiti possono essere mantenuti a due condizioni:

(i) le banche greche siano solvibili e (ii) i titoli presentati a garanzia siano accettati dalla Bce. Entrambe queste condizioni verranno meno con l’insolvenza dello Stato greco: (i) le banche subiranno perdite sui titoli detenuti in portafoglio e sui crediti alle imprese e alle famiglie, data la situazione che si verrà a creare, tali da erodere il loro patrimonio e portarle in una situazione di insolvenza; (ii) ben difficilmente la Bce potrà considerare accettabili come garanzia i titoli di debito di uno Stato insolvente, per di più verso la Bce stessa. Non a caso, il 28 giugno la Bce ha deciso di porre un limite a questi finanziamenti: per ora si è limitata a non aumentarli, ma è chiaro che è un passo verso la revoca, se la situazione dovesse precipitare. Una volta venuti meno i prestiti della Bce, l’unico modo per fare funzionare le banche greche sarà introdurre una nuova moneta, emessa dalla banca centrale greca. In una parola: Grexit.

…e per noi

Le conseguenze immediate del fallimento della Grecia e della sua uscita dall’euro potrebbero essere limitate. L’esposizione delle banche e dei soggetti privati è molto ridotta. Quella del governo è maggiore (50-60 miliardi), attraverso diversi canali (prestiti diretti, Fondo di stabilità europeo, Bce), ma l’impatto sui conti pubblici sarebbe dilazionato nel tempo. Quanto ai tassi d’interesse, l’Italia gode al momento dell’accesso ai mercati finanziari a costi bassi, anche per merito del Quantitative easing avviato dalla Bce a febbraio. Tuttavia, questo piano prima o poi terminerà, presumibilmente nel settembre del 2016. L’altro strumento a disposizione della Bce, l’Omt è di difficile utilizzo, poiché richiede che un governo stipuli un accordo di assistenza finanziaria con il Fondo di stabilità europeo (Esm), cosa che nessuno vuole fare per evitare di sottoporsi alle torture della Troika. Quindi in futuro l’uscita delle Grecia ci potrà danneggiare molto: qualora la sostenibilità della nostra finanza pubblica venisse rimessa in discussione, il rischio di nostra uscita dall’euro alimenterebbe la speculazione, e nessuno potrebbe più dire che l’euro è irreversibile. Questa, come abbiamo già sostenuto, è la differenza tra una unione monetaria e un accordo di cambio. Il ritorno del rischio di break-up potrebbe riportare lo spread ai terribili livelli del 2011. Più in generale, l’uscita della Grecia sarebbe l’inizio della fine per l’euro e comporterebbe un’inversione del processo di integrazione europea. Speriamo che i governi europei nelle ultime ore disponibili evitino il disastro. In fin dei conti, il resto dell’Europa ha molto più da perdere dal Grexit che la Grecia stessa.

ATENE, DOVE FALLISCE LA POLITICA EUROPEA

di Fausto Panunzi

Un accordo reciprocamente vantaggioso tra la Grecia e i suoi creditori sembrava possibile. Invece, si è arrivati alla rottura. Per molte ragioni, ma certo è che la governance dell’Eurozona non funziona. L’unica istituzione europea che in questo periodo ha fatto politica è stata la Bce.

Perché l’accordo era quasi certo
La scorsa settimana si era aperta all’insegna dell’ottimismo. La soluzione all’ormai estenuante trattativa tra il governo greco e le sue controparti europee sembrava essere a un passo. Poi c’è stato il moltiplicarsi dei vertici a Bruxelles fino all’annuncio del referendum chiesto da Alexis Tispras. Adesso è partito, come c’era da aspettarsi, il gioco a identificare il colpevole. Ma forse è più utile fare un passo indietro e capire la posta in gioco e quali fattori possono avere contribuito a questa impasse.
Considerate un’impresa che abbia un livello del debito molto elevato, tale da non poter essere interamente ripagato. L’impresa ha anche un nuovo progetto d’investimento che, se finanziato, genera utili. In questa situazione, potrebbe accadere che gli azionisti si rifiutino di finanziare il nuovo progetto perché gli utili da esso generati andrebbero a beneficio soprattutto dei creditori.

Come si può evitare l’inefficienza che tale fenomeno (detto debt overhang) crea? La risposta che si trova nei manuali è che occorre una rinegoziazione tra creditori e debitori che preveda da un lato la cancellazione (parziale) del debito in cambio del finanziamento del nuovo progetto. Chi guadagna di più dalla rinegoziazione? Dipende dal potere negoziale delle due parti. Ma il vero punto è che la rinegoziazione può essere nell’interesse sia del debitore (che vede il suo debito alleggerito) sia dei creditori (che si possono appropriare di una parte degli utili del nuovo progetto).
Adesso proviamo a pensare alla Grecia al posto dell’impresa e ai paesi e alle istituzioni europee nel ruolo dei creditori. Atene ha debiti che palesemente non può ripagare. Inoltre la sua economia è in recessione da anni, anche a causa di politiche di austerità prolungata. Far tornare a crescere il paese è nell’interesse sia dei cittadini greci che dei creditori. A tal fine, sono necessarie delle riforme (l’equivalente del nuovo progetto). La Grecia soffre di una forte evasione fiscale, ha una regolamentazione che sfavorisce la concorrenza nei mercati dei prodotti, una spesa pensionistica del 17 per cento del Pil (contro poco più del 12 della Germania), oltre a vari altri problemi.
Naturalmente, non è pensabile di combattere l’evasione fiscale in modo serio in pochi mesi. In Italia lo sappiamo fin troppo bene. Quindi il programma di riforme ha bisogno di un adeguato orizzonte temporale. Oltre alle riforme, occorre che la morsa dell’austerità sia allentata. Avanzi primari superiori all’1 per cento sono indesiderabili in questa fase. Programmi di aiuto alle fasce più deboli della popolazione sono invece indispensabili. Su queste basi, un accordo reciprocamente vantaggioso non sembra impossibile da raggiungere, specie tenendo conto che il Pil della Grecia è meno del 2 per cento di quello dell’Eurozona. Infatti, a un certo punto sembrava che l’accordo fosse dietro l’angolo. Eppure non è andata così, come la chiusura delle banche greche ci ricorda in modo fin troppo chiaro.

Che cosa è andato storto

Cosa è andato storto? In primo luogo, alcune delle istituzioni coinvolte non possono accettare una esplicita cancellazione, anche solo parziale, dei loro crediti. Questo rende anche le altre parti coinvolte meno propense a fare concessioni. In secondo luogo, la rinegoziazione è più difficile quando ci sono molte parti sedute al tavolo, specie se hanno obiettivi diversi. Chi parla per l’Europa? Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk? Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker? La cancelliera Angela Merkel? Chi di loro ha l’ultima parola? Dover convocare un Consiglio europeo ogni volta che un accordo sembra in vista non è il modo più efficace per convergere verso una soluzione. In terzo luogo, hanno pesato considerazioni politiche e non economiche.

Il primo ministro Tsipras è arrivato al potere dopo una campagna elettorale in cui aveva promesso fine dell’austerità e dei diktat della Troika e al contempo il mantenimento della Grecia nell’euro, senza però specificare come ciò poteva essere fatto. Dall’altra parte, ci sono paesi come la Spagna, che hanno attuato dure politiche di austerità, che vivrebbero come una sconfitta un accordo troppo “morbido” verso la Grecia. La paura che movimenti e partiti populisti possano esserne rafforzati ha certamente avuto un ruolo in queste settimane di trattative infruttuose.
In quarto luogo, ha pesato la mancanza di fiducia delle controparti verso il governo Tsipras. Proprio perché alcune riforme, come la lotta all’evasione richiedono tempo, ci si è concentrati su richieste, come quella dell’aumento dell’Iva, di immediata attuazione ma anche dagli effetti recessivi, particolarmente indigesti in questa fase. Infine, queste trattative avvengono con informazione incompleta. È difficile sapere fino a che punto può spingersi veramente la controparte. Quanto era credibile che Tsipras ottenesse un aiuto sostanziale da Putin? Chi pensava che il governo greco fosse pronto veramente a chiudere le banche? Quanto ha contato per Tsipras l’idea che i governi dell’Eurozona non avrebbero messo in discussione il dogma dell’irreversibilità dell’euro?
In queste condizioni, le trattative possono fallire, anche se un esito positivo sarebbe nell’interesse di tutte le parti coinvolte. Può darsi che il governo Tsipras abbia gran parte delle colpe nella vicenda. Personalmente giudico il referendum un’abdicazione dalle responsabilità della politica, ma su questo punto le opinioni possono divergere.
È difficile invece negare che la governance dell’Eurozona sia del tutto disfunzionale. Ogni volta che c’è una crisi si invoca una maggiore unione politica. Ma c’è davvero chi crede ancora che la mia generazione vedrà gli Stati Uniti d’Europa? E quella dei miei figli? La realtà, purtroppo, è che anche ipotesi meno radicali, come l’assicurazione sulla disoccupazione finanziata a livello europeo proposta da Luigi Zingales, non vengono nemmeno considerate. In questo vuoto politico, abbiamo lasciato per settimane a Mario Draghi la decisione se tenere a galla le banche greche mediante l’Ela (Emergency Liquidity Assistance) o farle fallire. L’unica istituzione europea che ha fatto politica è stata quella che dovrebbe essere solo un organismo tecnico, cioè la Banca centrale europea. Per quanto pensiamo si possa andare avanti così?

«Ridimensionare il ruolo del Pil nel dibattito e nelle scelte politiche significa intaccare il potere tecnocratico fondato su una teoria economica che non ammette alternative all’assolutezza delle sue prescrizioni». Sbilanciamoci.info, 30 giugno 2015

Già trent’anni fa Giorgio Ruffolo definiva il Prodotto nazionale lordo, un “idolo bugiardo”. Un indice al quale veniva attribuita la capacità di dar conto non solo della crescita economica di un paese, ma anche del suo progresso sociale.

L’inganno sta nel fatto che esso offre un’informazione distorta del progresso sociale. Questa consapevolezza ha sollecitato da tempo la costruzione di indicatori più appropriati del livello di “ben-essere” di una nazione. L’importanza dei nuovi indicatori risiede – oltre a certificare meglio le condizioni sociali esistenti – nel ruolo che avrebbero nel definire, in direzione socialmente più appropriata, gli obiettivi della politica economica.

La necessità di una tale innovazione è evidente nell’attuale fase storica nella quale la politica economica sta forzando la trasformazione degli assetti sociali ereditati dal passato. Legittimato da una teoria economica ristretta alle dimensioni strettamente economiche e quantitative del processo sociale, quando non ridotta esclusivamente agli aspetti finanziari, il policy maker può ignorare le altre dimensioni qualitative del benessere in quanto irrilevanti per le sue conclusioni.

Per tener conto del rapporto tra processo economico e situazione ambientale e socio-culturale non è peraltro sufficiente sviluppare una gamma di indicatori alternativi; è necessaria una teoria economica capace di spiegare come l’azione della politica economica influenzi e sia influenzata da quei fattori del benessere attualmente esclusi dal suo dominio di indagine.

Non si tratta di una questione teorica astratta, anzi. Si consideri, ad esempio, il caso – del Jobs Act? – nel quale la crescita della Pil è perseguita modificando la capacità contrattuale dei lavoratori con il deterioramento delle tutele e lo svilimento del loro ruolo e della loro dignità. Non disponendo di alcuna spiegazione della relazione tra benessere, aumento del Pil (peraltro sperato) e regressione nei rapporti di lavoro (peraltro certi), qualsiasi giudizio sugli effetti di questa politica in termini di benessere risulta infondato. In sostanza, assumere come obiettivo di politica economica il livello del Pil – solo parte del benessere della popolazione – condanna le prescrizioni degli economisti ad essere un’informazione distorta; tali prescrizioni non possono che avere un carattere “autoritario” quando - come si vede nel caso Grecia – si impone una teoria di riferimento che prevede una società ridotta ai soli rapporti economici per mettere a tacere le possibili alternative bollate come non scientifiche perché guardano al di là della sola contabilità nazionale.

Il superamento del Pil come criterio sufficiente per valutare i risultati perseguiti dalla politica economica non pone solo una questione analitica (l’estensione del dominio di indagine dell’economista), ma pone anche una questione politica dato che, in società complesse come la nostra, l’obiettivo di benessere può essere declinato in diversi modi. In altre parole, vi possono essere nel corpo sociale diverse idee di progresso sociale e civile tra le quali poter scegliere e ciò richiede la realizzazione di meccanismi di democrazia partecipata in grado di favorire, in uno spazio aperto e trasparente, le necessarie mediazioni tra interessi inevitabilmente diversi. In definitiva, assumere come riferimento il benessere piuttosto del Pil impone la ricerca di forme più avanzate di analisi economica e di pratiche democratiche.

Ma inevitabili sono anche le resistenze dei poteri costituiti. Ridimensionare il ruolo del Pil nel dibattito e nelle scelte politiche significa intaccare il potere tecnocratico fondato su una teoria economica che non ammette alternative all’assolutezza delle sue prescrizioni. La conquista di spazi di effettiva democrazia passa quindi anche attraverso la contestazione di quel nodo culturale che è l’informazione economica basata sul Pil che, a sua volta, è parte significativa di quella egemonia culturale fondata sulla pretesa “scientificità” di argomentazioni che, in maniera arbitraria e pretestuosa, delimitano i fattori (il prodotto invece del benessere) rilevanti per il futuro della società.

Riferimenti
Ci sembra d'obbligo il riferimento alla famosa definizione che Robert Kennedy dette del modermo totem chiamto PIL. Eccola qui.
«La Commissione europea ha ribadito all’Italia la richiesta di consentire la produzione di formaggi senza latte fresco».

La Repubblica, 29 giugno 2015 (m.p.r.)

Ora, colpire i formaggi significa colpire il cuore del patrimonio agricolo e gastronomico italiano. In Italia esistono oltre 400 tipi di formaggi frutto di una straordinaria diversità: di climi, di paesaggi, di pascoli, di razze animali, di tecniche, di saperi. Sono questi 400 formaggi, dalle tome di montagna alle paste filate del sud - orgoglio e ricchezza di altrettanti territori - che dovrebbero poter «circolare liberamente» in Europa, per restituire valore ai loro luoghi di origine, non di rado in montagne o alte colline che proprio le logiche dell’iperindustrializzazione hanno spinto sempre più ai margini. Ma lo stesso discorso vale per i numerosi formaggi di qualità di altre nazioni, patrimonio di un’Europa che troppo spesso si dimentica di queste realtà per rispondere ad altre logiche.

E invece, l’Unione si muove con una lettera di diffida per consentire la libera circolazione di una materia prima anonima e industriale, il latte in polvere. Per favorire, dunque, un’idea completamente diversa di cibo: un cibo divenuto merce, disponibile in grandi quantità a prezzi sempre più bassi. Per favorire, in questo caso specifico, allevamenti intensivi, che hanno trasformato le vacche in macchine da latte, che non hanno più legami con la terra, con i cicli naturali e con il territorio.
Come Slow Food, ci battiamo da anni per promuovere i formaggi a latte crudo, le produzioni di alpeggio, le tecniche tradizionali, le razze autoctone. Almeno dal 1997, prima edizione di Cheese, che proprio quest’anno a settembre celebrerà il decimo anniversario. In quella occasione saranno tutti i migliori produttori d’Europa a dire insieme a noi un secco e perentorio «no» a questa assurdità. Anzi, lavoreremo perché l’ottima legge italiana diventi norma in tutta Europa. Ci stupiamo che la Commissione europea, spesso aperta alle nostre istanze e sensibile al valore culturale e sociale ed economico della biodiversità, subisca poi un’influenza così pesante da parte della grande industria, al punto da prendere strade diametralmente opposte.
E questo atteggiamento altalenante ci preoccupa soprattutto perché, proprio in queste settimane, l’Europa sta discutendo il Ttip, ovvero il trattato commerciale con gli Usa. Non vorremmo che il libero scambio delle merci si traducesse in libertà dalle regole che tutelano l’ambiente, i piccoli produttori e i consumatori. Il nostro cibo e noi consumatori meritiamo più attenzione e tutela da parte
dell’Ue.

Alcuni giorni fa, la Commissione europea ha ribadito all’Italia la richiesta di consentire la produzione di formaggi senza latte fresco. Avete capito bene: senza latte. La legge nazionale del 1974 (la numero 138 dell’11 aprile) che vieta l’uso di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito per produrre yogurt, caciotte, robiole e mozzarelle, secondo Bruxelles rappresenterebbe infatti una restrizione alla «libera circolazione delle merci». Libera circolazione delle merci prodotte dalle solite grandi lobby industriali interessate solo a spendere poco per guadagnare tanto, aggiungiamo noi. La legge 138 è una legge nazionale di cui andare fieri, perché ha consentito nel tempo di tutelare e promuovere prodotti unici di altissima qualità: di quel made in Italy di cui tanto ci vantiamo. Mi aspetto che il Governo italiano difenda questa normativa e non una logica al ribasso che non è utile a nessuno, tanto meno all’immagine del nostro Paese.

Questa vicenda scandalosa è l’ultima trovata burocratica in questo settore. Ci vengono subito in mente altre iniziative simili della Commissione europea, come quella a favore del cioccolato senza burro di cacao, o del vino senza uva, fatto con il famoso wine-kit. E ci ricorda ancora una volta che l’Europa ha due volti, molto spesso contrapposti. Da un lato un patrimonio di piccole produzioni di alta qualità, che potrebbero rappresentare il futuro dell’agricoltura e dell’artigianato alimentare, ma che faticano a sopravvivere. Dall’altro una produzione industriale che troppo spesso punta ad appiattire, a omologare, a ignorare l’origine delle materie prime, a cancellare il valore dei territori e dei saperi. Quando si tratta di legiferare o di assegnare contributi, purtroppo, prevale questa seconda realtà, capace di portare sui tavoli della politica europea numeri, volumi e interessi ben più significativi.

o francese lanciano questo appello che eddyburg cercherà di rilanciare in modo adeguato alla gravità della situazione: non solo per la Grecia, ma per tutta l'Europa che vuole cambiare nella direzione degli interessi delle persone, e non di un'economia divenuta disumana. La Repubblica, 29 giugno 2015
CARO direttore, chiediamo ai tre creditori della Grecia (Commissione, Banca centrale europea, Fondo Monetario internazionale) se sanno quello che fanno, quando applicano alla Grecia un’ennesima terapia dell’austerità e giudicano irricevibile ogni controproposta proveniente da Atene. Se sanno che la Grecia già dal 2009 è sottoposta a un accanimento terapeutico che ha ridotto i suoi salari del 37%, le pensioni in molti casi del 48%, il numero degli impiegati statali del 30%, la spesa per i consumi del 33%, il reddito complessivo del 27%, mentre la disoccupazione è salita al 27% e il debito pubblico al 180% del Pil.

Al di là di queste cifre, chiediamo loro se conoscono l’Europa che pretendono di difendere, quando invece fanno di tutto per disgregarla definitivamente, deturparne la vocazione, e seminare ripugnanza nei suoi popoli.

Ricordiamo loro che l’unità europea non è nata per favorire in prima linea la governabilità economica, e ancor meno per diventare un incubo contabile e cader preda di economisti che hanno sbagliato tutti i calcoli. È nata per opporre la democrazia costituzionale alle dittature che nel passato avevano spezzato l’Europa, e per creare fra le sue società una convivenza solidale che non avrebbe più permesso alla povertà di dividere il continente e precipitarlo nella disperazione sociale e nelle guerre. La cosiddetta governance economica non può esser vista come sola priorità, a meno di non frantumare il disegno politico europeo alle radici. Non può calpestare la volontà democratica espressa dai cittadini sovrani in regolari elezioni, umiliando un paese membro in difficoltà e giocando con il suo futuro. La resistenza del governo Tsipras alle nuove misure di austerità — unitamente alla proposta di indire su di esse un referendum nazionale — è la risposta al colpo di Stato postmoderno che le istituzioni europee e il Fondo Monetario stanno sperimentando oggi nei confronti della Grecia, domani verso altri Paesi membri.

Chiediamo al Fondo Monetario di smettere l’atteggiamento di malevola indifferenza democratica che caratterizza le sue ultime mosse, e di non gettare nel dimenticatoio il senso di responsabilità mostrato nel dopoguerra con gli accordi di Bretton Woods. Ma è soprattutto alle due istituzioni europee che fanno parte della trojka — Commissione e Banca centrale europea — che vorremmo ricordare il loro compito, che non coincide con le mansioni del Fmi ed è quello di rappresentare non gli Stati più forti e nemmeno una maggioranza di Stati, ma l’Unione nella sua interezza.

Chiediamo infine che il negoziato sia tolto una volta per tutte dalle mani dei tecnocrati che l’hanno fin qui condotto, per essere restituito ai politici eletti e ai capi di Stato o di governo. Costoro hanno voluto il trasferimento di poteri a una ristretta cerchia di apprendisti contabili che nulla sanno della storia europea e degli abissi che essa ha conosciuto. È ora che si riprendano quei poteri, e che ne rispondano personalmente.

Barbara Spinelli è europarlamentare indipendente del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica. Étienne Balibar è un filosofo francese


Il premio Nobel per l'economia sputtana i mostri che governano l'Europa dell'UE: «Ritengo che spingere [Tsipras] sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti creditori, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anziché voltar loro le spalle».

La Repubblica, 29 giugno 2015

Ad oggi ogni monito riguardo a un’imminente frattura dell’euro si è dimostrato infondato. A dispetto di quanto affermato in fase di campagna elettorale, i governi cedono alle richieste della troika, e parallelamente la Bce interviene per calmare i mercati. Tale dinamica ha permesso di tenere insieme la moneta unica, ma ha al tempo stesso perpetuato un’austerità profondamente distruttiva: non lasciate che qualche trimestre di modesta crescita metta in ombra l’immenso costo di cinque anni di disoccupazione di massa.

Da un puto di vista politico, i grandi perdenti di questa dinamica sono stati i partiti di centro-sinistra, la cui acquiescenza in fase di rigorosa austerità — e il conseguente abbandono di quei valori per i quali avrebbero presumibilmente dovuto battersi — produce danni ben più gravi di quelli che politiche analoghe mietono nel centro-destra.

Ho l’impressione che la troika (credo sia ora di smettere di fingere che qualcosa sia cambiato, e tornare a chiamarla con il vecchio nome) si aspettasse, o quanto meno si augurasse, che nel caso della Grecia la storia si sarebbe ripetuta: o Tsipras avrebbe preso come al solito le distanze dalla maggior parte della propria coalizione, trovandosi probabilmente obbligato a stringere un’alleanza con il centro- destra, o il governo Syriza sarebbe caduto. Cosa che infatti potrebbe ancora accadere.

Tuttavia Tsipras non sembra per ora disposto a lasciarsi cadere sulla propria spada. Anzi: di fronte all’ultimatum posto dalla troika ha indetto un referendum sull’opportunità di accettarlo o meno. La sua scelta produrrà certo grande preoccupazione e numerose dichiarazioni sul suo scarso senso di responsabilità, ma in realtà egli sta facendo la cosa giusta, e per due motivi.

Per cominciare, una vittoria del referendum rafforzerà il governo, conferendogli una legittimità democratica — cosa che in Europa credo conti ancora (e se non contasse occorre saperlo).

In secondo luogo Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra, con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l’euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, è lo è a maggior ragione oggi. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la troika lo porti a un gesto estremo.

Ritengo che spingerlo sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti creditori, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anziché voltar loro le spalle.

©New York Times 2015 Traduzione di Marzia Porta

«Difficile da capire l’irrigidimento del Fondo monetario sul salvataggio greco. Dai dati viene fuori che Atene ha fatto molti tagli e alcune riforme anche in campo pensionistico. Con risparmi di spesa solo graduali nel tempo. È ora che i creditori ammettano che servono dieci anni, non tre, per aggiustare la Grecia». Lavoce.info, 26 giugno 2015 (m.p.r.)

Dopo il 2010 la Grecia ha ridotto il deficit pubblico, i salari e aumentato l’età del pensionamento. Oggi il paese è allo stremo, senza soldi per ripagare i suoi debiti. Il Fmi chiede di più, ma i creditori dovrebbero capire che ci vorranno cinque-dieci anni per rimettere la Grecia in carreggiata.

Il 24 giugno del 2011, con Angelo Baglioni e Massimo Bordignon firmavamo un pezzo intitolato “Grecia: peggio di così non si poteva fare”. Ci sbagliavamo: si poteva fare di peggio, eccome! Non si è pensato in tempo ad allungare l’orizzonte temporale dei prestiti e neppure quello delle manovre di consolidamento fiscali (eccessive e perciò recessive) e tantomeno quello delle cosiddette “riforme” (cioè riforma delle pensioni, riduzioni salariali e snellimento del pubblico impiego, rivelatesi altrettanto recessive). Il costo della crisi greca, con l’avvitamento recessivo, è salito enormemente, per i greci e per tutti gli europei. Ma si sa: pacta sunt servanda. Anche se sono pacta sceleris, magari imposti col ricatto dai più forti. Almeno, stavolta, la Bce è in mani più competenti di quelle che la reggevano nel giugno 2011 (anno in cui uno stordito board, ad aprile e ancora a luglio, aumentò il tasso di policy, temendo l’inflazione e non vedendo la seconda recessione europea e l’incombente tragedia greca). Ma, purtroppo, una Bce più saggia non può bastare, per come si sono messe le cose. Così, proprio mentre entriamo nella stagione che, col turismo, vale quasi il 15 per cento del Pil greco di un anno, la probabilità che si verifichi la Grexit è più alta che mai.

Una forte dose di medicina amara…

Eppure. Eppure la Grecia ha eseguito molti dei compiti che i creditori (l’odiata troika) avevano sciaguratamente richiesto. Il deficit pubblico è stato portato dal 15,6 per cento del 2009 al 3,5 nel 2014: il più consistente aggiustamento dell’intera Europa. Il surplus primario aggiustato per il ciclo supera il 5 per cento del Pil: il più alto d’Europa (l’Italia è seconda). Il Pil, nello stesso periodo, si è ridotto di 20 punti percentuali (contro una previsione del Fondo monetario di una riduzione del 5 per cento nei primi due anni e un successivo ritorno, nel 2014, ai livelli del 2009). La medicina fatta ingollare ai greci è stata amara: riduzione dei dipendenti pubblici del 25 per cento (255 mila unità); riduzione dei salari reali senza precedenti, dal momento che i salari nominali sono crollati ma i prezzi no; riforma delle pensioni che ha previsto di aumentare gradualmente l’età di pensionamento da 62 a 65 e poi a 67 anni per tutti (come risulta dall’Ageing Report 2015 della Commissione Europea, pp. 39-40); “riforme strutturali” che hanno portato la Grecia dal centonovesimo al sessantunesimo posto nel ranking del Doing Business Report tra 2010 e 2015. Col bel risultato che s’è detto: tracollo del Pil, aumento dell’incidenza della povertà assoluta e relativa, insolvenza finanziaria con i creditori.

…ma troppa rischia di ammazzare il paziente
E cosa vogliono questi ultimi al tavolo delle trattative? Un po’ di più della stessa medicina! Anzi il documento pubblicato oggi dal Wall Street Journal contiene un puntiglioso elenco di correzioni volte a inasprire e cambiare il mix di misure proposte dal governo Tsipras. Senza entrare nei dettagli, sembra che i creditori vogliano imporre un piano basato su maggiori tagli di spesa e minori incrementi delle tasse, secondo la dottrina (assai dubbia) che gli aumenti delle tasse sarebbero dannosi per la crescita mentre le riduzioni di spesa pubblica la favorirebbero. Se è difficile comprendere perché il governo greco voglia aumentare l’Iva, è incomprensibile perché i creditori glielo vogliano lasciar fare. Sarebbe utile nell’ambito di un’articolata strategia di svalutazione fiscale volta a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro per rilanciare la competitività delle esportazioni greche e, contemporaneamente, a ridurre i consumi interni grazie all’aumento dei prezzi al consumo (per l’aumento dell’Iva). Una strategia rischiosissima, dal momento che la Grecia al momento ha ben poco da esportare, anche guadagnando competitività, mentre deve assolutamente rilanciare i consumi interni se vuole sperare di tornare a crescere o quantomeno non decrescere (infelicemente) troppo. L’accelerazione dell’entrata a regime della riforma pensionistica e la riduzione dei prepensionamenti, come richiesto dai creditori, può essere un’idea ragionevole, purché non abbia effetti depressivi sulla domanda interna. Ma sarà così? Dove sono e quali sono le stime? Ci si limita agli effetti di impatto sul bilancio? O si guarda agli effetti complessivi, tenendo conto di quelli sul Pil? Nulla è chiaro in questa trattativa.
In generale, nessuno sembra capire, tra i creditori, che in Grecia più ancora che negli altri paesi della cosiddetta periferia dell’Eurozona, la crisi economica e finanziaria si è innestata su una debolezza strutturale per superare la quale si richiedono da cinque a dieci anni di lavoro costante, attento e cauto. Lavoro che non può essere svolto da nessun governo (anche più competente dell’attuale, che però è quello che i greci si sono democraticamente scelti) col permanente incubo del default e la rapinosa attenzione dei creditori alle scadenze trimestrali. Bene che i creditori (e il governo greco) abbiano chiaro nel rush finale di trattative dei prossimi giorni che il problema non è solo la scadenza di fine giugno o dei primi di luglio. Ma anche e soprattutto la sicurezza finanziaria per fare riforme per i prossimi 60-120 mesi, senza massacrare un intero paese. Se è troppo per le mire di rielezione di Christine Lagarde al Fmi, sarebbe bene che i paesi europei ripagassero il debito greco con il Fmi e lo facessero uscire dalla partita, assumendo sulle loro spalle (come sarebbe stato giusto fin dall’inizio) il problema di aiutare un paese membro dell’Unione a tornare in carreggiata.

«Thomas Piketty: “serve una conferenza per ristrutturare i debiti più insostenibili. Se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il boom, fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti, cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci”».

La Repubblica, 29 giugno 2015 (m.p.r.)

L’Europa sta per essere distrutta. Ma non dai greci e dall’ostinazione di Tsipras e Varoufakis, ma dai “conservatori” del Vecchio Continente, in particolare quelli tedeschi. E’ un Thomas Piketty furente a dire la sua, in un’intervista alla Zeit che il settimanale tedesco pubblica non a caso con grandissimo rilievo. Perché è un j’accuse - quello dell’economista divenuto una star internazionale con il suo Il capitale del XXI secolo - che cade come un meteorite in fiamme sulla cronaca greca di questi giorni.

«I conservatori stanno ad un passo dal devastare definitivamente l’idea europea, e lo fanno per colpa di uno spaventoso deficit di memoria storica. In particolare per quello che riguarda i debiti. Proprio la Germania di oggi dovrebbe capire il significato di quello che sta accadendo: dopo la guerra Gran Bretagna, Germania e Francia soffrirono di una situazione debitoria peggiore di quella della Grecia di oggi. La prima lezione che dovremmo trarne è che ci sono molti modi per saldare dei debiti: e non uno solo, come Berlino vorrebbe far intendere ai greci».
Sul banco degli imputati, non è difficile immaginarlo, soprattutto Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble. «Quando sento i tedeschi dire che sono mossi solo dall’etica e che sono fermamente convinti che i debiti debbano essere pagati, penso: ma questa è una barzelletta! La Germania è esattamente il paese che non ha mai onorato i suoi debiti, né dopo la prima né dopo la seconda guerra mondiale». Niente a che vedere con «l’accezione comune di ordine e giustizia: perché se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il , fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti, cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci».
Quello che propone Piketty è chiaro: una grande conferenza europea sul tema dei debiti. Qualcosa di paragonabile, come dimensione strategica, al Piano Marshall. Ma niente del genere è all’orizzonte, anzi. «La verità è che una ristrutturazione dei debiti è inevitabile in molti paesi europei, non soltanto in Grecia. E invece abbiamo appena perso inutilmente sei mesi di tempo a causa di trattative tutt’altro che trasparenti con Atene». Non solo. A Schaeuble, che sostiene che una eventuale Grexit addirittura favorirebbe una rinnovata compattazione europea, Piketty risponde con uno scenario opposto: se non cambia passo, l’Unione europea affronterà una crisi di fiducia ancora più grave. «Sarà l’inizio di una lenta agonia, nella quale sacrificheremo all’altare di una politica debitoria irrazionale il modello sociale europeo, persino in termini di democrazia e civilizzazione». L’ultimo pensiero, e non poteva essere altrimenti, è per la cancellera tedesca Angela Merkel: «Se vuole assicurarsi un posto nella storia, come Kohl con la riunificazione tedesca, deve avere il coraggio di un nuovo inizio. Chi invece oggi insiste nel voler cacciare la Grecia dall’eurozona finirà nella pattumiera della storia».
«Bisognava capire che fra la nostra mobilità (provvisoriamente) di lusso e la loro mobilità (perennemente) sventurata c'era e c'è uno scambio ineguale, ma inesorabile: e che l'una, affondando, si porta dietro l'altra».

Larepubblica.it, 27 giugno 2015 (m.p.r.)

C'è un modo peculiare per tener dietro alla rocambolesca evoluzione della scena geopolitica: star connessi al sito "Viaggiare sicuri" del Ministero degli esteri. Quegli addetti, come generali di una ritirata militare presso a farsi rotta, spostano via via più a ridosso dei nostri confini le bandierine del territorio ancora accessibile. La ritirata riguarda noi, la parte privilegiata, dalla quale si parte con documenti rispettabili, e un biglietto di andata e ritorno in tasca. Dalla parte opposta si viene arrancando, con le tasche vuote di andata e ritorno. La sicurezza, da quell'altra parte, è la più ironica delle parole. Ci si mette in viaggio a rischio della vita. Se si sopravvive, se si tocca terra d'Europa, libertà e democrazia, comincia un'altra traversata, altre soste immemorabili, sugli scogli di Ventimiglia e nei piazzali di Calais. Il vero discrimine del mondo di oggi, dice Zygmunt Bauman- lo ridice nel dialogo con Ezio Mauro - non corre più fra ricchi e poveri, ma fra mobilità e fissità, fra chi resta fermo e chi si sposta. Lui parla soprattutto della finanza globale, che a differenza dal capitalismo industriale non sottostà a vincoli territoriali e si muove fulmineamente da un capo all'altro del pianeta, fino ad annichilire la capacità negoziale di lavoratori e sindacati lasciati a boccheggiare su un loro suolo prosciugato.

Ma è la mobilità umana, nella sua doppia faccia, a opporre nuove classi: l'una urtata dalle guerre e le carestie, l'altra spinta da voglia di conoscenza e vacanza. Il fantasma dell'invasione barbarica e il miraggio del turismo, intelligente o avventuroso o semplicemente piacevole. Quanto pesa, nel nostro sentimento, anche il meno malintenzionato, la carta d'identità che ci fa attraversare con piede leggero i confini di Schengen, il passaporto che ci autorizza, tutt'al più con la seccatura d'un visto, a visitare il mondo pressoché intero. Quando diciamo "extracomunitario" non pensiamo a cittadini con passaporto canadese, o svizzero. Ed ecco che il mondo dei nostri dépliants ci si stringe sotto i piedi, nelle impronte rovesciate delle stesse eruzioni che travolgono e cacciano i fuggiaschi. A marzo, dopo il Bardo, era giusto proporsi di tornare, deprecare le grandi compagnie che cancellavano quelle coste dagli itinerari, promettersi un'estate tunisina colma di bellezze archeologiche e naturali e di dedizione solidale. Ma la cosa era legata a un filo: bastava uno o due di questi superstiziosi che infestano l'aria del tempo, col corredo di un kalashnikov e un paio di calzoncini da spiaggia per dare il colpo di grazia all'economia e all'anima di un paese intento a riscattarsi. Oggi è più difficile replicare gli impegni: non si chiede a bravi pensionati di andare in vacanza per resistere al terrorismo.

Sulla carta continuamente ridisegnata dalla violenza contemporanea si allargano i territori su cui è scritto: Hic sunt leones; e si cancellano le frontiere. Alla larga da quella fra Libia e Tunisia. Pericolante l'Algeria. Alla larga dal Sinai e dal mar Rosso. I paesi del Golfo insidiati, il Corno d'Africa al bando: nella fatale giornata di ieri all'eccidio tunisino si sono sommati la strage nella moschea sciita del Kuwait e quella nella base dell'Unione Africana in Somalia. Gli shabab hanno portato il terrore sempre più dentro un paradiso del nostro turismo come il Kenya. Luoghi materni del genere umano, l'Iraq, la Siria, lo Yemen, sono interdetti a un rischio peggiore della vita, e così gran parte dell'Africa sotto il Sahara. In Europa, a casa nostra, dove temiamo tanto l'avvento dei fuggiaschi del mondo invasato, fra poco commemoreremo i vent'anni di Srebrenica con un'Ucraina che ripercorre la strada ex-jugoslava, e i jet militari che si sfiorano sul Baltico.

Del resto, il fanatico assassino che va a conquistarsi il paradiso in calzoncini su una spiaggia di Susa non ci metterà molto ad approdare anche di qua dallo stesso mare arrivò già nel cuore dell'Europa, ed era casa sua. Bisognava saperlo, bisogna ancora. Anche a non essere innamorati del prossimo e dei diritti umani, anche a essere solo gelosi di Palmira e di Ninive e di Timbuctu e di Sanaa e della regina di Saba, e dei propri tour tutto compreso, bisognava capire che fra la nostra mobilità (provvisoriamente) di lusso e la loro mobilità (perennemente) sventurata c'era e c'è uno scambio ineguale, ma inesorabile: e che l'una, affondando, si porta dietro l'altra.

«Da un lato gli stati non possono ignorare le richieste degli elettori che li hanno investiti di un preciso mandato, come in Grecia, Italia o Portogallo; dall’altro sanno di non poter mantenere le promesse perché aumento della disoccupazione e abbassamento degli standard sociali non dipendono più dalla loro capacità d’intervento».

Corriere della Sera, 28 giugno 2015 (m.p.r.)

«Le statistiche ingannano. Dietro la crescita economica fotografata dai numeri si accumula malessere e la sola cura che conosciamo ci dice di spingere ancora sull’economia, ma non è così che impareremo ad essere felici». Zygmunt Bauman ragiona sull’impotenza della democrazia dei consumi di fronte alle domande fondamentali. Ospite d’onore di Berlucchi a Palazzo Lana per la cerimonia dei diplomi della Scuola estiva dell’Iseo di Brescia, il grande sociologo polacco descrive il capovolgimento dei rapporti tra politica e finanza in queste ore convulse di trattative. «Non solo lo Stato non dispone più della capacità di dirigere i processi economici ma ne è diretto a sua volta - dice Bauman al Corriere -. E questo accade mentre i governi sono sottoposti a una duplice pressione: da un lato non possono ignorare le richieste degli elettori che li hanno investiti di un preciso mandato, come in Grecia, Italia o Portogallo; dall’altro sanno di non poter mantenere le promesse perché aumento della disoccupazione e abbassamento degli standard sociali non dipendono più dalla loro capacità d’intervento».

In questo svuotamento di prerogative, che investe governi ed elettori, alla politica che dovrebbe risolvere le crisi spetta un ruolo residuale?
«Sì e non per colpa di programmi sbagliati o scandali di corruzione, ma per l’esternalizzazione delle funzioni dello Stato progressivamente cedute ai mercati, impolitici per definizione. Gli standard della nostra vita quotidiana dipendono dai movimenti dei capitali finanziari internazionali. Così i governi devono cercare l’approvazione dei cittadini, sola fonte di legittimità democratica, e al tempo stesso inseguire gli andamenti delle Borse».
Cosa impedisce al progresso economico di essere fattore di stabilità e benessere condiviso?
«Il perfido meccanismo per il quale gli indicatori economici crescono grazie a dinamiche socialmente dannose. La macchina provoca i guasti e si autoalimenta riparandoli. L’organizzazione che ci siamo dati non prevede collaborazione, non può promuovere solidarietà e stabilità perché ha bisogno di uno stato perenne di precarietà, mutuo sospetto e competizione. Eppure è la possibilità di collaborare con gli altri, di migliorare e sentirci parte di una comunità solidale che dà senso al nostro esistere. Facciamo un esempio. Se tra vicini ci si aiuta dando vita a un microsistema non produttivo ma virtuoso, non ci saranno ricadute positive per l’economia, che potrà invece beneficiare di un incidente d’auto. Se la vittima finisce in ospedale e viene sottoposta a un complicato intervento chirurgico, più soggetti ne trarranno vantaggi economici».
Se il paziente Grecia è sottoposto a un complicato intervento di salvataggio...
«La Grecia è un esempio lampante. Il popolo ha eletto una squadra che aveva promesso di ribaltare l’ordine creato dalle politiche di austerità. Si è così venuto a creare un conflitto insanabile tra la Grande Troika e un governo democraticamente eletto. Il fatto è che l’intera economia nazionale in questi anni è collassata ed è evidente che Atene non potrà ripagare i debiti. Sul fronte opposto, i creditori devono curare i propri interessi, dal loro punto di vista il fatto che l’austerità non abbia migliorato le condizioni di vita dei greci non rappresenta un problema».
Inevitabile che la trattativa si areni in assenza di «choc», come un referendum.
«Ormai il confronto tra Atene e i creditori assomiglia a certe gare di coraggio tra auto sulle strade americane, come nel film Duel. Una guerra di nervi tra automobilisti, perde chi si spaventa prima. Non c’è alcuna logica razionale».
Quali prospettive vede per la democrazia?
«Quelle che sapremo inventare, la Storia non finisce qui. Per quanto pervasive siano le forme di manipolazione che dobbiamo affrontare, nessuno potrà mai privarci della libertà di scegliere e immaginare altri mondi possibili» .

«Gli elet­tori greci sono chia­mati a deci­dere se il loro desi­de­rio di rima­nere all’interno dell’eurozona è supe­riore alla loro rab­bia e dispe­ra­zione per la poli­tica cri­mi­nale che la tro­jka vuole con­ti­nuare ad appli­care in Grecia».

Il manifesto, 28 giugno 2015 (m.p.r.)

L’Eurogruppo ha dichia­rato guerra alla Gre­cia. Ieri il suo pre­si­dente è apparso alla fine della riu­nione e poco ci è man­cato che sbat­tesse i pugni sul tavolo. La deci­sione della Gre­cia di indire un refe­ren­dum, ha detto, equi­vale all’interruzione uni­la­te­rale del nego­ziato. Quindi l’Unione Euro­pea se ne lava le mani di tutto quello che può suc­ce­dere. La richie­sta di Varou­fa­kis di pro­trarre di qual­che set­ti­mana il memo­ran­dum del 2012, che scade mar­tedì, è stata respinta. Quindi uffi­cial­mente la Gre­cia ha smesso di fare parte dei paesi sotto pro­gramma di aggiu­sta­mento da parte della tro­jka. Se ce ne sarà un altro dopo il refe­ren­dum non è sicuro, per­ché Dijs­sel­bloem è molto arrab­biato e non «c’è fidu­cia» verso la Grecia.

Prima della riu­nione, il ric­cio­luto agro­nomo olan­dese aveva ten­tato di nascon­dere la mano dopo aver lan­ciato il sasso: il testo scan­da­loso pre­sen­tato dal Fmi mar­tedì scorso «non era un ulti­ma­tum» e «c’era spa­zio per miglio­ra­menti». Pec­cato che appena il giorno prima egli stesso, e il suo datore di lavoro Schau­ble, ave­vano testual­mente detto che era pro­prio un ulti­ma­tum e che i greci dove­vano accet­tarlo o respin­gerlo. Par­lando di fidu­cia e di credibilità.

All’ultimatum Tsi­pras ha ripo­sto con il refe­ren­dum, rite­nuto, lo ave­vamo detto da tempo, una carta potente e una risorsa di mobi­li­ta­zione popolare. Mal­grado i grandi sforzi dei media euro­pei, la domanda non sarà euro o dracma. Riguar­derà invece pro­prio l’ipotesi di accordo pre­sen­tata in maniera ulti­ma­tiva dalla tro­jka. Tsi­pras è arri­vato alla deci­sione di indire il refe­ren­dum dopo aver con­sta­tato di non avere più alcuno spa­zio di manovra.

Il mas­simo di con­ces­sioni era stato già rag­giunto nel testo di Atene appro­vato in linea di mas­sima lunedì e poi a sor­presa disco­no­sciuto dalla troika. Da lì il fon­dato sospetto che da parte dei cre­di­tori non c’era alcuna volontà di com­pro­messo ma solo una guerra di logo­ra­mento per favo­rire un cam­bia­mento politico.

Anche se in que­ste ore i media pro–auste­rità cer­cano di fare con­fu­sione, soste­nendo che la pro­po­sta del Fmi non è più valida, quindi il refe­ren­dum sarebbe senza oggetto, l’oggetto c’è, eccome: gli elet­tori greci sono chia­mati a deci­dere se il loro desi­de­rio di rima­nere all’interno dell’eurozona è supe­riore alla loro rab­bia e dispe­ra­zione per la poli­tica cri­mi­nale che la tro­jka vuole con­ti­nuare ad appli­care in Grecia. Si tratta di deci­dere se si vuole essere un paese mem­bro di pari dignità in un’Unione di popoli liberi oppure un paese per sem­pre satel­lite, una colo­nia tede­sca, al livello dei Baltici.

Al suo pro­clama tele­vi­sivo Tsi­pras non ha par­lato di soldi ma di «ricatto inac­cet­ta­bile». Ieri in Par­la­mento ha ripe­tuto che la posta in gioco è la dignità, l’orgoglio e la libertà del paese. Anche il suo alleato al governo, il mini­stro della Difesa Kam­me­nos, con le lacrime agli occhi, ha insi­stito sull’importanza delle isole dell’Egeo, che la tro­jka vuole «svuo­tare» e «distruggere». La con­vin­zione è che l’atteggiamento dell’Europa non lascia spa­zio a equi­voci: il governo di sini­stra greco si deve sot­to­met­tere e umi­liare, per­ché den­tro l’eurozona non c’è posto per chi non accetta i dogmi neoliberisti.

Quale sarà il responso delle urne? È molto pro­ba­bile che vinca il «no» all’austerità. Anche se le Tv oli­gar­chi­che hanno già comin­ciato a spar­gere il ter­rore, chia­mando i greci a riti­rare i pro­pri soldi dalle ban­che, se uno giu­dica dall’atteggiamento dell’opposizione greca capi­sce che è in preda al panico. Girare per le Tv soste­nendo che biso­gna tagliare le pen­sioni e aumen­tare l’IVA al 23% per i ser­vizi turi­stici non è certo pia­ce­vole. Dopo grandi sforzi, alla fine la destra e il par­tito degli oli­gar­chi To Potami hanno deciso per il sì, men­tre i socia­li­sti del Pasok, in sprezzo del ridi­colo, hanno anche chie­sto le dimis­sioni del governo.

Il loro ragio­na­mento è esat­ta­mente quello dei cre­di­tori: dire no all’austerità equi­vale a uscita dall’eurozona. Al governo invece sono con­vinti che la vit­to­ria del «no» aiu­terà a pie­gare le grandi resi­stenze dei cre­di­tori. Un pro­nun­cia­mento diretto dif­fi­cile da igno­rare per­fino per l’eurozona.

Cosa suc­ce­derà nel caso vinca il sì? Tsi­pras ha assi­cu­rato che «rispet­terà qual­siasi responso delle urne» ma Varou­fa­kis è andato più in là, ipo­tiz­zando un rim­pa­sto gover­na­tivo, pro­ba­bil­mente inclu­dendo To Potami, ama­tis­simo a Bru­xel­les ma con­fi­nato dagli elet­tori a un misero 6%. Ad Atene però sono tutti con­vinti che né Tsi­pras né gli altri mini­stri di Syriza saranno dispo­sti a ese­guire una poli­tica che non è la loro.

Intanto biso­gna affron­tare la crisi di liqui­dità delle ban­che, pro­ba­bil­mente senza il soste­gno di Dra­ghi, men­tre il governo non ha alcuna inten­zione di pagare i debiti né di giu­gno né di luglio. Nelle capi­tali euro­pee si pensa a come evi­tare le con­se­guenze dello scon­tro tra Atene e la tro­jka. Ma sono pie illusioni. L’ignavia e la viltà di molti di loro hanno lasciato mano libera agli estre­mi­sti libe­ri­sti, sabo­tando ogni ipo­tesi di com­pro­messo. Se alla fine ci sarà l’esplosione dell’eurozona nes­suno sarà al riparo. Forse non è troppo tardi per far sen­tire la loro voce.

Un appello di "L'altra Europa con Tsipras" e un articolo di Raffaella Bolini. Solidarietà al popolo greco, aggredito dagli oligarchi che si sono impadroniti dell'Europa e tentano di rottamare la democrazia.

Il manifesto, 28 giugno 2015

Quando non c’era l’Ue i colpi di stato per libe­rarsi di governi demo­cra­tici li face­vano i colon­nelli (o per le pagliac­ciate i gene­rali Di Lorenzo ). Si dirà un passo in avanti, ma quale? Il rifiuto di acco­gliere il com­pro­messo che dopo mesi di trat­ta­tive Tsi­pras aveva con­tro­pro­po­sto equi­vale –lo hanno detto auto­re­voli eco­no­mi­sti — a un colpo di stato di tipo nuovo. Un ten­ta­tivo sco­perto di pugna­lare il primo governo di sini­stra greco. Appare adesso anche più chiaro che in ballo non c’era la resti­tu­zione del debito, ma pro­prio que­sto obiet­tivo poli­tico, per dimo­strare al mondo, e nell’immediato alla Spa­gna, che non è lecito con­te­stare la poli­tica decisa a Bruxelles.

Tsi­pras ha rispo­sto con corag­gio con­vo­cando per il 5 luglio un refe­ren­dum. Per avere dalla sua la forza di un appog­gio popo­lare. Si tratta di un voto deci­sivo e dram­ma­tico, per­ché tutti sono con­sa­pe­voli della durezza della scelta. È un voto che ci coin­volge e per que­sto dimo­striamo ai greci che non lo con­si­de­riamo qual­cosa che riguarda solo loro. Dob­biamo far sen­tire ai greci che non sono soli, dar loro soste­gno come pos­siamo: sin dal 3 sera mani­fe­stando, facendo una fiac­co­lata, attrez­zan­doci per seguire i fil­mati che da Atene ci invie­ranno. E per­ché la TV greca possa dar conto della nostra mobi­li­ta­zione a chi deve sen­tirsi meno solo quando andrà a votare.

Per il 5 sera, orga­niz­ziamo ovun­que un ascolto col­let­tivo dei risul­tati delle urne. Il rifiuto del dik­tat non sarà una vit­to­ria defi­ni­tiva, per­ché si aprirà comun­que una fase assai dif­fi­cile. Ma sarà un atto poli­tico sog­get­tivo di enorme impor­tanza, la testi­mo­nianza che siamo ancora con­vinti che Davide ce la può fare con­tro Golia. E appen­diamo alle nostre fine­stre, per dire quanto impor­tante sia anche per noi l’esito della vicenda, un drappo blu. (n drappo blu per que­sta volta, ma la pros­sima una vera ban­diera greca che ora non abbiamo ma faremo bene a procurarci).

Solidarietà con Atene, in movimento, dalla parte giusta

SOLIDARIETÀ CON ATENE, IN MOVIMENTO DALLA PARTE GIUSTA
di Raffaella Bolini

Grecia. La Grecia sta lottando da sola, in mezzo a intrighi di ogni genere. Vogliono far cadere Tsipras nonostante il consenso di cui gode
«Le isti­tu­zioni hanno pre­sen­tato una nuova pro­po­sta che tra­sfe­ri­sce il carico sui lavo­ra­tori e i pen­sio­nati con misure sociali ingiu­ste, men­tre al tempo stesso pro­pone di evi­tare l’aumento del peso su coloro che hanno di più». Que­sta è una nota del governo greco prima dell’Eurogruppo – e chiun­que abbia un bri­ciolo di cer­vello sa che è vero.

La Gre­cia sta lot­tando sostan­zial­mente da sola, in mezzo ad intri­ghi e spor­ci­zia di ogni genere – vogliono cer­care di far cadere il governo Tsi­pras nono­stante abbia la grande mag­gio­ranza di con­sensi nel suo paese, e vogliono impe­dire un accordo ono­re­vole che incrini la gab­bia dell’austerità. È una ter­ri­bile ver­go­gna euro­pea. Che cade non sol­tanto sulle isti­tu­zioni e sui libe­ri­sti, ma anche sulla società civile pro­gres­si­sta e sui movi­menti sociali.

Non si trat­tava di smet­tere di fare le pro­prie lotte e ini­zia­tive per dedi­carsi alla Gre­cia. Nep­pure i greci chie­de­vano que­sto. Ma non costa nulla aggiun­gere un logo, una ban­diera, uno slo­gan alle pro­prie ver­tenze. Per soli­da­rietà, ma soprat­tutto per dare più forza a se stessi costruendo una alleanza euro­pea con­tro l’austerità.

La sto­ria non è fatta di auto­ma­ti­smi, è fatta di scelte. Di tante scelte per­so­nali e col­let­tive. Della capa­cità di capire quale è il punto, lad­dove la sto­ria può cam­biare in meglio. E di dare un con­tri­buto per­ché ciò accada.

Chi non capi­sce, chi non ha gli stru­menti, a chi non è per­messo uscire può stare alla fine­stra, men­tre si gio­cano le par­tite fon­da­men­tali. Non è colpa sua. Ma chi gli stru­menti per capire ce l’ha, e nono­stante que­sto alla fine­stra rimane, dimo­stra — a mio mode­stis­simo parere — di non essere all’altezza della sfida.

E tanto più impor­tanti in que­ste ore sono le scelte di chi decide, o deci­derà, che que­sta poli­tica euro­pea e la sua ver­sione in salsa ita­liana richiede strappi grandi e corag­giosi – e un impe­gno vero, in prima per­sona, non dele­gato agli addetti ai lavori.

Oggi ad Atene si incon­trano di nuovo le cam­pa­gne di soli­da­rietà euro­pee, sin­da­cati, orga­niz­za­zioni e movi­menti sociali di diversi paesi che hanno com­preso fino in fondo quale è la scommessa. Ci saranno anche i tede­schi, che il 20 giu­gno con la mani­fe­sta­zione di Ber­lino hanno detto, in un appello forte pro­mosso da una bella coa­li­zione poli­tica e sociale, che l’Europa for­tezza e l’Europa della auste­rità sono due facce della stessa medaglia.

Tenerle sepa­rate rischia di essere una sud­di­tanza incon­sa­pe­vole verso le cul­ture rea­zio­na­rie che ali­men­tano la guerra dei nativi con­tro i migranti. I movi­menti pre­senti, dalla Spa­gna alla Ger­ma­nia alla Fran­cia, pre­sen­te­ranno la pro­po­sta di fare intorno al 17 otto­bre, gior­nata inter­na­zio­nale con­tro la povertà, una sorta di inva­sione popo­lare di Bruxelles.

Il pro­getto è di fare caro­vane che arri­vino da diversi paesi, azioni, un con­tro ver­tice e una mani­fe­sta­zione grande di cui sta discu­tendo anche il sin­da­cato belga.

Chie­dono all’Italia di essere della par­tita. Diverse orga­niz­za­zioni e reti ita­liane ne stanno già discutendo.

Si deci­derà anche, natu­ral­mente, di che cosa fare se le cose per la Gre­cia — diciamo meglio per l’Europa demo­cra­tica– vadano male nelle pros­sime ore.

Ma io con­fido. Con­fido soprat­tutto nella gran­dis­sima forza, nel corag­gio e nella straor­di­na­ria intel­li­genza e luci­dità poli­tica di Syriza. E nel popolo greco.

Sal­ve­ranno il loro paese, sal­ve­ranno que­sto Europa schi­fosa che chiude le porte in fac­cia alle per­sone: nativi, migranti e rifu­giati. Ter­ranno aperta la brec­cia per farci pas­sare tutti e tutte. E sal­ve­ranno anche chi non se lo merita e chi non ci arriva, per­ché sono gente gene­rosa. Forza Grecia.

* Cam­bia la Gre­cia Cam­bia l’Europa

Qualche idea ragionevole per tutti, e soprattutto per quanti, servizievoli verso il mondo del potere globale, accusano Tsipras di demagogia dimostrando così di preferire l'oligarchia alla democrazia.

La Repubblica, 28 giugno 2015

«Il referendum è lo strumento della sovranità popolare, che veniva utilizzato nell’età antica. Chi lo critica si mette dalla parte degli oligarchi». Luciano Canfora ha indagato da studioso del mondo classico le origini e i cambiamenti delle nostre democrazie, spiegandoci nelle sue opere come nel tempo siano andati evolvendosi i rapporti tra i cittadini e chi detiene il potere.

Com’era il referendum nel mondo antico?«Nell’Atene del V secolo a. C. il referendum non aveva senso: le decisioni erano prese dall’assemblea popolare. Qui due volte al mese si tenevano delle assemblee ordinarie nelle quali i cittadini votavano per alzata di mano e decidevano sulla loro rappresentatività. La repubblica romana invece era aristocratica: si votava per centurie e le classi ricche vincevano sempre».

Quando nasce storicamente l’esigenza di far partecipare il popolo alla vita pubblica?
«Aristotele spiega bene che in origine solamente in pochi prendevano parte alla vita politica della polis. Erano i signori a comandare. Solo quando s’introdusse un salario minimo anche le persone comuni poterono iniziare a partecipare attivamente».

Si può ricorrere al referendum per una questione così importante come l’accettazione del piano Ue sulla Grecia?
«Non solo si può, ma si deve. Nella storia d’Italia ci sono un paio di referendum che ci hanno segnato per sempre: quello per la Repubblica del 1946 e quello per il divorzio del 1974. E invece ora tutti si mettono a dare lezioni alla Grecia. Ma sono lezioncine in contrasto con l’idea di sovranità popolare. Sono reazioni oligarchiche»

Chiamare il popolo a decidere, non è un modo per abdicare alle proprie responsabilità politiche?
«No, tutt’altro. Se il concetto di sovranità popolare ha un senso, rimettersi al popolo è l’unica forma legittima».

Siamo di fronte ad una crisi delle democrazie rappresentative?
«Il modello della delega è logoro. Il referendum è un correttivo, un modo per restituire voce al cittadino comune. E’ una grande conquista, insieme al suffragio universale sicuramente una delle più grandi del Novecento. D’altra parte Jean-Jacques Rousseau diceva che il popolo inglese è libero soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento, ma appena questi sono eletti ridiventa schiavo.

In momenti delicati, non è rischioso affidarsi alla pancia degli elettori?
«Chi pensa questo non ha fiducia nel popolo sovrano. In realtà la democrazia s’impara praticandola e non continuando a tenere il cittadino comune sotto tutela».

Parole chiare a chi vuol sanare il male col male. «Dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto, sottolineo il verbo, dico fermare, non bombardare o fare la guerra», e «i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati».

Il Messaggero, 28 giugno 2015

Dalla guerra giusta alla necessità di fermare l'aggressore ingiusto, con una forte indicazione di multilateralismo e del ruolo dell'Onu. Ancora la denuncia della «crudeltà inaudita» dei conflitti non convenzionali e della tortura. Infine una constatazione: «siamo nella III guerra mondiale, ma a pezzi». Si può sintetizzare così la visione del Papa davanti al precipitare della situazione irachena e del conflitto in Terrasanta, mentre è in volo da Seul a Roma dopo il terzo viaggio internazionale del pontificato. Papa Francesco riceve una domanda molto diretta: «E' d'accordo se gli Stati Uniti bombardano l'Iraq per prevenire il genocidio?». «In questi casi dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto, sottolineo il verbo, dico fermare, non bombardare o fare la guerra», e «i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati».

Ma «quante volte - ammonisce - con questa scusa di fermare l'aggressore le potenze hanno fatto una vera guerra di conquista. Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore». Papa Bergoglio ricorda che «dopo la Seconda guerra mondiale è nata l'idea della Organizzazione delle Nazioni Unite, è là che si deve discutere: 'Come facciamo a fermarlo?'». «Fermare l'aggressore ingiusto - ha spiegato il Papa - è un diritto dell'umanità, ma è anche un diritto che ha l'aggressore di essere fermato perchè non faccia il male».

Racconta anche che ha studiato con i collaboratori tutti i passi da fare per la situazione irachena, ha emesso un comunicato, ha scritto al segretario dell'Onu Ban ki-moon, ha mandato il card. Fernando Filoni quale suo inviato in Iraq e Kurdistan, e ha deciso di essere «disposto ad andare in Kurdistan» e che «c'è questa possibilità», che è stata valutata prima di partire per il viaggio in Corea e per il momento resta una possibilità. «Questi sono i frutti della guerra», dice il Papa ricordando le vittime di oggi, e di ieri, e «il fumo delle bombe» che in Terrasanta non fa vedere la «porta» che si è aperta con la preghiera comune nei giardini vaticani dei presidenti israeliano e palestinese Shimon Peres e Abu Mazen, ma il fumo delle bombe «è congiuntura», mentre la porta resta aperta.

Dalla guerra alle speranze di dialogo, papa Francesco è pronto a partire per Pechino «magari, domani», spiega ai 72 giornalisti da 11 paesi del mondo che lo hanno accompagnato nel suo terzo viaggio internazionale. Conferma inoltre il viaggio a Filadelfia di settembre 2015 e spiega che, avendo ricevuto inviti anche dal presidente e dal parlamento americano e dal segretario dell'Onu si potrebbero visitare «forse le tre città insieme», cioè Filadelfia, Washington e New York. Spiega poi che andrà in Albania il 21 settembre per due motivi «importanti»: in Albania «sono riusciti a fare un governo nazionale» fra diverse componenti, cattolici, ortodossi, «e questo va bene - sottolinea il Papa perché vuol dire che è possibile lavorare bene insieme». Altro motivo è che «l'Albania è l'unico Paese comunista che aveva l'ateismo pratico nella costituzione, se andavi a messa era anticostituzionale». «Sono state distrutte - ha aggiunto - 1820 chiese, voglio citare il numero preciso, sia ortodosse che cattoliche, in altre sono stati fatti cinema e teatri». In ottima forma al termine dell'impegnativo viaggio in Oriente, il Papa racconta anche alcuni aspetti della sua vita in Vaticano, alla ricerca di normalità, e senza abbandonare la abitudine di non fare vacanze ma ritrovare un ritmo più disteso, leggendo e dormendo di più e ascoltando musica.

Contento anche della popolarità di cui gode, «se il popolo è felice per quello che faccio». «La vivo come generosità - spiega - ma cerco di pensare anche ai miei peccati, però cerco anche di godermela, perchè so che durerà poco tempo e poi sarò nella Casa del Padre».

L'incredibile faccia di bronzo di chi utilizza le parole di Jorge Borgoglio per sostenere la tesi opposta Ecco Luciano Violante nell'intervista di Dino Martirano.

Corriere della Sera, 28 giugno 2015, con postilla

«Noi europei siamo abituati a un terrorismo senza guerra. Il terrorismo europeo era inserito in uno scenario di pace: conseguentemente la reazione è stata giudiziaria e di polizia. Se non cambiamo i parametri, e non entriamo nella dimensione di una guerra che ci è stata dichiarata, rischiamo di soccombere. Tutti i cittadini europei, compresi gli italiani sono in grave pericolo».

L’ex presidente della Camera Luciano Violante - che da magistrato, negli anni 70, ha combattuto in prima linea a Torino il terrorismo delle Brigate Rosse - non mostra esitazione nel pronunciare la parola guerra: «Dobbiamo attrezzarci innanzitutto culturalmente per capire che una guerra tendenzialmente globale e che produce anche atti di terrorismo è cosa diversa dal terrorismo senza guerra. La risposta di polizia è utile ma insufficiente. Occorre soprattutto un nuovo esame della situazione che parta dalla idea che ci hanno dichiarato una guerra. Non si tratta di mandare i carri armati, ma di capire la situazione senza ipocrisie».

Presidente Violante, un tempo le guerre si dichiaravano. Qui non ci sono cancellerie, ultimatum, ritorsioni...
«Il Papa ha detto che è una guerra mondiale a rate. Tutti d’accordo, ma non se ne sono tratte le conseguenze. È una guerra senza Stati. C’è un’armata che si muove dal Caucaso alla Libia, un semicerchio attorno all’Europa, tanto per azione diretta quanto “per induzione”. Sulla spiaggia tunisina infatti avrebbe agito un gruppo non direttamente inquadrato nell’Isis».

Dopo gli attacchi dell’11 settembre negli Stati Uniti il mondo occidentale ha risposto con operazioni di «polizia internazionale».
«Abbiamo scardinato i regimi di Saddam Hussein e di Gheddafi, senza un piano per il futuro; e siamo diventati artefici del caos. In politica uno degli errori più gravi è non capire chi è il nemico, e poi come si muove, come si finanzia, quali sono gli obbiettivi vicini e lontani. È un errore che possiamo ancora correggere riconoscendo che é in atto una guerra contro di noi, che noi non abbiamo dichiarato e che agisce anche con atti di terrorismo. Gli atti di terrorismo sono l’effetto di questa guerra; non sono la guerra».

Qual è l’arma che distingue e rende pericoloso l’«esercito senza stato»?
«È composto da persone che non hanno paura di perdere la vita. Si è dotato di una missione ideale, per quanto inaccettabile, conquistare tutto il mondo alla loro idea di Islam, che coinvolge migliaia di persone in tutto il mondo. Ha enormi e ignoti finanziamenti. E poi durante il Ramadan sciiti e sunniti predicano da sempre l’interruzione di ogni atto di violenza. Qui invece assistiamo a un sovvertimento delle regole, quasi a cercare l’elevazione dello spirito attraverso l’eliminazione del nemico ».

Accettare l’idea di convivere con una guerra implica un conseguente contenimento delle libertà democratiche?
«No. Ma l’Europa deve reagire con un impegno nuovo. Più è grave il pericolo, più il rimedio deve essere serio. È una situazione che l’Europa deve prendere terribilmente sul serio e con assoluta priorità. Certo nei Paesi del Nord Europa si può far strada l’idea che a certe latitudini non arrivano questi venti di guerra. Ma non è così».

Lo «stato di guerra», seppure non dichiarato, comporta misure eccezionali?
«No. Bisogna innanzitutto mobilitare tutte le alleanze e tutte le risorse delle tecnologie più sofisticate, soprattutto per individuare e colpire i finanziatori. E la politica dell’immigrazione, fermo il diritto d’asilo, e ferme le libertà costituzionali, non può prescindere da questa situazione oggettiva».

Alcuni Paesi a prevalente presenza islamica giocano un ruolo chiave nella nuova mappa geo politica. Dove ha sbagliato fin qui l’Europa?
«Il mancato ingresso della Turchia nella Unione europea ha fatto sì che quel Paese sia diventato la frontiera dell’Est e non più dell’Ovest».

L’Iran, che aspira a diventare un punto di forza e di stabilità in Medio oriente come è stato trattato?
«L’Iran è sciita; perciò è pesantemente messo sotto attacco dall’Isis. Il presidente della Air Products, azienda colpita in Francia è un iraniano sciita che vive negli Stati Uniti. Aver colpito in quel modo orribile quell’azienda francese probabilmente non è un caso. Questo attacco ci dice che il terrorismo agisce per procura di chi dirige la guerra».

postilla

Il giorno stesso papa Francesco ha detto: «In questi casi dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto, sottolineo il verbo, dico fermare, non bombardare o fare la guerra», e «i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati». Nell'enciclica aveva individuato con chiarezza il sistema responsabile della "terza guerra mondiale"

Greche e greci,
da sei mesi il governo greco conduce una battaglia in condizioni di asfissia economica mai vista, con l’obiettivo di applicare il vostro mandato del 25 gennaio a trattare con i partner europei, per porre fine all’austerity e far tornare il nostro paese al benessere e alla giustizia sociale. Per un accordo che possa essere durevole, e rispetti sia la democrazia che le comuni regole europee e che ci conduca a una definitiva uscita dalla crisi.

In tutto questo periodo di trattative ci è stato chiesto di applicare gli accordi di memorandum presi dai governi precedenti, malgrado il fatto che questi stessi siano stati condannati in modo categorico dal popolo greco alle ultime elezioni. Ma neanche per un momento abbiamo pensato di soccombere, di tradire la vostra fiducia.

Dopo cinque mesi di trattative molto dure, i nostri partner, sfortunatamente, nell’eurogruppo dell’altro ieri (giovedì n.d.t.) hanno consegnato una proposta di ultimatum indirizzata alla Repubblica e al popolo greco. Un ultimatum che è contrario, non rispetta i principi costitutivi e i valori dell’Europa, i valori della nostra comune casa europea. È stato chiesto al governo greco di accettare una proposta che carica nuovi e insopportabili pesi sul popolo greco e minaccia la ripresa della società e dell’economia, non solo mantenendo l’insicurezza generale, ma anche aumentando in modo smisurato le diseguaglianze sociali.

La proposta delle istituzioni comprende misure che prevedono una ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, nuove diminuzioni dei salari del settore pubblico e anche l’aumento dell’IVA per i generi alimentari, per il settore della ristorazione e del turismo, e nello stesso tempo propone l’abolizione degli alleggerimenti fiscali per le isole della Grecia. Queste misure violano in modo diretto le conquiste comuni europee e i diritti fondamentali al lavoro, all’eguaglianza e alla dignità; e sono la prova che l’obiettivo di qualcuno dei nostri partner delle istituzioni non era un accordo durevole e fruttuoso per tutte le parti ma l’umiliazione di tutto il popolo greco.

Queste proposte mettono in evidenza l’attaccamento del Fondo Monetario Internazionale a una politica di austerity dura e vessatoria, e rendono più che mai attuale il bisogno che le leadership europee siano all’altezza della situazione e prendano delle iniziative che pongano finalmente fine alla crisi greca del debito pubblico, una crisi che tocca anche altri paesi europei minacciando lo stesso futuro dell’unità europea.

Greche e greci,
in questo momento pesa su di noi una responsabilità storica davanti alle lotte e ai sacrifici del popolo greco per garantire la Democrazia e la sovranità nazionale, una responsabilità davanti al futuro del nostro paese. E questa responsabilità ci obbliga a rispondere all’ultimatum secondo la volontà sovrana del popolo greco.

Poche ore fa (venerdì sera n.d.t.) si è tenuto il Consiglio dei Ministri al quale avevo proposto un referendum perché sia il popolo greco sovrano a decidere. La mia proposta è stata accettata all’unanimità.

Domani (oggi n.d.t.) si terrà l’assemblea plenaria del parlamento per deliberare sulla proposta del Consiglio dei Ministri riguardo la realizzazione di un referendum domenica 5 luglio che abbia come oggetto l’accettazione o il rifiuto della proposta delle istituzioni.

Ho già reso nota questa nostra decisione al presidente francese, alla cancelliera tedesca e al presidente della Banca Europea, e domani con una mia lettera chiederò ai leader dell’Unione Europea e delle istituzioni un prolungamento di pochi giorni del programma (di aiuti n.d.t.) per permettere al popolo greco di decidere libero da costrizioni e ricatti come è previsto dalla Costituzione del nostro paese e dalla tradizione democratica dell’Europa.

Greche e greci,
a questo ultimatum ricattatorio che ci propone di accettare una severa e umiliante austerity senza fine e senza prospettiva di ripresa sociale ed economica, vi chiedo di rispondere in modo sovrano e con fierezza, come insegna la storia dei greci. All’autoritarismo e al dispotismo dell’austerity persecutoria rispondiamo con democrazia, sangue freddo e determinazione.

La Grecia è il paese che ha fatto nascere la democrazia, e perciò deve dare una risposta vibrante di Democrazia alla comunità europea e internazionale. E prendo io personalmente l’impegno di rispettare il risultato di questa vostra scelta democratica qualsiasi esso sia. E sono del tutto sicuro che la vostra scelta farà onore alla storia della nostra patria e manderà un messaggio di dignità in tutto il mondo.

In questi momenti critici dobbiamo tutti ricordare che l’Europa è la casa comune dei suoi popoli. Che in Europa non ci sono padroni e ospiti. La Grecia è e rimarrà una parte imprescindibile dell’Europa, e l’Europa è parte imprescindibile della Grecia. Tuttavia un’Europa senza democrazia sarà un’Europa senza identità e senza bussola.

Vi chiamo tutti e tutte con spirito di concordia nazionale, unità e sangue freddo a prendere le decisioni di cui siamo degni. Per noi, per le generazioni che seguiranno, per la storia dei greci.

Per la sovranità e la dignità del nostro popolo.
Alexis Tsipras

(Traduzione di ad Aldo Piroso)

Tre sono i vizi degli atti con cui la Troika ha strangolato la Grecia: l'illegalità, l'illeggittimità e l'odiosità. Ma questi vizi sono identici a quelli con i quali la Troika (in gergo: "lo chiede l'Europa") ha sollecitato i governi italiani a incamminarsi sulla strada verso il baratro.

La Repubblica, 25 giugno 2015

POCHI giorni fa il Parlamento greco ha diffuso un rapporto del Comitato per la Verità sul Debito pubblico. Le conclusioni sono che per il modo in cui la Troika ha influito sul suo andamento, e per i disastrosi effetti che le politiche economiche e sociali da essa imposte hanno avuto sulla popolazione, il debito pubblico della Grecia è illegale, illegittimo e odioso. Pertanto il Paese avrebbe il diritto di non pagarlo. Il rapporto greco è fitto di riferimenti alle leggi e al diritto internazionali. E contiene, in modo abbastanza evidente, una lezione per l’Italia.

Il rapporto distingue con cura tra illegalità, illegittimità e odiosità di un debito pubblico. Un debito è illegale se il prestito contravviene alle appropriate procedure previste dalle leggi esistenti. È illegittimo quando le condizioni sotto le quali viene concesso il prestito includono prescrizioni nei confronti del debitore che violano le leggi nazionali o i diritti umani tutelati da leggi internazionali. Infine è odioso quando il prestatore sapeva o avrebbe dovuto sapere che il prestito era stato concesso senza scrupoli, da cui sarebbe seguita la negazione alla popolazione interessata di fondamentali diritti civili, politici, sociali e culturali. Il Fmi è responsabile di tutt’e tre le infrazioni perché le condizioni imposte alla Grecia in relazione ai suoi prestiti hanno gravemente peggiorato le sue condizioni economiche e il suo sistema di protezione sociale. Da vari documenti interni del Fondo stesso, risalenti al periodo 2010-2012, appare evidente che perfino il suo staff, una parte consistente del consiglio direttivo formato da rappresentanti di vari paesi, e non pochi dirigenti sapevano benissimo quali sarebbero state le conseguenze negative a danno della popolazione greca.

La Bce non è stata da meno, contribuendo ai programmi di aggiustamento macroeconomici della Troika e insistendo in special modo sulla de-regolazione del mercato del lavoro - violando in tal modo anche gli articoli del Trattato Ue che stabiliscono la sua indipendenza dagli stati membri. Con le sue manovre relative al commercio dei titoli sul mercato secondario ha reso possibile alle banche private greche di scaricare dal bilancio gran parte dei titoli di stato, peggiorando le condizioni del bilancio pubblico. Quanto al fondo Efsf, sebbene gestisca fondi pubblici europei, è stato costituito come società privata cui non si applicano le leggi Ue, persegue unicamente obbiettivi finanziari, e sapeva bene di imporre con i suoi prestiti costi abusivi alla Grecia, senza che essi recassero alcun beneficio al paese. Pertanto molte azioni svolte da Bce e Efsf nei confronti della Grecia nel periodo 2010-2015 sono classificabili come illegali, illegittime e odiose. Il testo abbonda di rimandi ad altre violazioni operate dalla troika. Esse vanno dalla falsificazione delle statistiche economiche e sociali della Grecia alla violazione della sovranità fiscale dello stato greco.

Si dirà: ma che c’entra l’Italia con le vicende del debito greco? C’entra eccome, poiché vi sono perentori memoranda e lettere di istruzione inviate al governo italiano dalle medesime istituzioni Ue, e nello stesso periodo, che nello spirito e nei contenuti sembrano delle fotocopie di quelle inviate al governo ellenico. Si veda ad esempio la lettera indirizzata al governo italiano dalla Bce nell’agosto 2011. Essa raccomandava varie misure pressanti, quali «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali»; «privatizzazioni su larga scala»; una ulteriore riforma del «sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello di impresa»; l’adozione di «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti»; un ulteriore intervento nel sistema pensionistico; «una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego»; infine chiedeva che «tutte le azioni elencate… siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare ». Questi e vari altri interventi peggiorativi delle condizioni di lavoro e di vita dei cittadini italiani sono stati prontamente adottati dai governi italiani, fino all’attuale con il suo scandaloso Jobs Act, non mancando di ripetere ad ogni momento la trita giustificazione «ce lo chiede l’Europa». In realtà non è l’Europa a chiederlo, ma singole istituzioni europee, molto spesso in violazione, come documenta il rapporto greco,degli stessi trattati Ue e di numerosi trattati internazionali. Al punto da far sorgere il dubbio che siano da considerare anch’essi, i dettati inviati all’Italia, illegali, illegittimi e odiosi. In attesa che qualcuno se ne accorga, avvii le procedure necessarie, e si impegni a chiedere alla Ue che rispetti almeno i medesimi trattati da essa sottoscritti. Tutto ciò non soltanto per il rispetto dovuto alle leggi ma perché il prossimo caso greco potremmo essere noi.

Cronaca del colpo mortale con cui il renzismo, asservendo la scuola al Monarca e ai suoi vassalli, ha pesantemente compromesso il diritto degli italiani a una formazione libera. Articoli di Carmelo Lopapa e Francesco Bei, e un'intervista di Corrado Zunino a Giovanni Cocchi.

La Repubblica, 26 giugno 2015


SCUOLA OK, RENZI INCASSA LAFIDUCIA
TRA URLA, INSULTI E FINTI FUNERALI
di Carmelo Lopapa
InSenato 159 sì e 112 no.Protestano le opposizioni, M5S contro Napolitano. Romani:“Governo senza maggioranza” La piazza con Fassina,fischi a Mineo

Il governo ce l’ha fatta sì, il ministro Stefania Giannini («Non sono commissariata») e il sottosegretario Davide Faraone si abbracciano. Ma con voti e assenze che pesano. Con i sì, ad esempio, degli ex Fi Sandro Bondi e Manuela Repetti, con l’assenza fin troppo evidente di Denis Verdini, ormai in rotta col suo partito. Se è per questo non si fanno vedere nel giorno decisivo, ma per marcare la distanza, nemmeno il senatore a vita Carlo Rubbia, e Elena Cattaneo e Mario Monti, uomini di scienza e di università. Tra le file della maggioranza spicca anche l’assenza di Carlo Giovanardi, ma l’Ncd di cui fa parte è compatto e determinante.

Dagli ultrà grillini e Sel non sarà risparmiato nessuno dei votanti a favore. Nemmeno, per la prima volta, l’ex presidente Giorgio Napolitano. Ha appena pronunciato il suo “sì” alla prima chiama e finisce sopraffatto da cori di “buu”, “bravo, bravo”, “vergogna” e fischi dai banchi dei Cinque stelle. Lui si allontana lentamente sostenendosi sul bastone, senza voltarsi. Sono da poco passate le 18, è il momento più basso di una giornata che è andata degradando come su piano inclinato verso il caos finale. Una corrida, protagonisti anche prof e studenti dalle tribune in alto, che si scatenerà contro tutti gli ex grillini che oseranno pronunciare il “sì” alla chiama, ma anche contro chi, come Miguel Gotor sta alla sinistra del PD, ma non al punto da negare la fiducia. «Voto sì per disciplina, ma gli elettori non ci perdoneranno», è il suo presagio. A mezzogiorno i parlamentari di Sel compaiono con t-shirt bianche con la scritta “Libertà di insegnamento” e “Diritto allo studio”, il clou sarà l’uso imperterrito dei fischietti in aula, stile Vuvuzelas ai mondiali del Sudafrica. La maglietta la indossa anche Maria Mussini del Misto e il presidente Grasso le chiede di toglierla. «Che faccio presidente, mi spoglio? Volete uno striptease?» La capogruppo Sel De Petris nel frattempo ha adagiato una di quelle magliette sul banco del ministro Giannini. «Fuori i bulli dalla scuola», campeggia sui cartelli mostrati dai leghisti con tanto di fotomontaggio del premier Renzi nei panni del Fonzie di “Happy days”. Nulla rispetto allo striscione che a un certo punto srotolano sempre i leghisti: «Difendiamo i nostri bambini dalla scuola di Satana», c’è scritto. Il loro Gian Marco Centinaio si distinguerà per aver paragonato il ddl alla “vaselina”. I grillini portano in aula i lumini mortuari, dopo averli ostentati in sala stampa a beneficio delle telecamere per il “funerale” della scuola. «Quei lumini che avete là non portano bene», li ammonisce con l’ultimo briciolo di ironia l’ormai esausto presidente Grasso. Perderà le staffe solo quando i banchi M5S si trasformeranno in curva sud pronta a colpire chiunque voti a favore o quasi: «Questi sono gesti di intolleranza. Il voto deve essere libero, non voglio commenti né prima, né dopo». Ma sarà inutile. Bondi e Repetti, con Casini e tutti gli ex grillini, i più tartassati. Beppe Grillo via Twitter sentenzia: «Hanno ucciso la scuola pubblica». I centomila da assumere tirano un sospiro di sollievo.


“ORA IL PEGGIO È ALLE SPALLE”
IL PREMIER TRATTA CON LA SINISTRA
I RITOCCHI AL BICAMERALISMO
di Francesco Bei

Soddisfazione per la tenuta del patto interno al Pd. Contatti con i dissidenti sulla nomina dei nuovi senatori: rispunta l’elettività in un listino a parte
Per Matteo Renzi, nonostante i tre dissidenti del Pd sulla fiducia, la giornata di ieri rappresenta il primo raggio di sole dopo giorni bui. Settimane difficili, a partire dal cattivo risultato delle elezioni fino alla decapitazione del pd romano. Il sospiro di sollievo, a cui si lascia andare in privato, riguarda l’oggi e il futuro. «Il peggio è alle nostre spalle – confida ai suoi – gli insegnanti capiranno. Da qui alla fine dell’anno spenderemo oltre un miliardo di euro sulla scuola, i soldi ci sono».
Ma anche la situazione interna ai gruppi parlamentari, dopo l’uscita di Civati e Fassina, appare più tranquilla. Certo, la mobilitazione del mondo scolastico ha toccato nervi sensibili e i musi lunghi di molti senatori della minoranza ieri testimoniavano quanto sia stato amaro il boccone ingoiato con la fiducia. «L’accordo interno ha tenuto – osserva tuttavia il premier – e adesso possiamo rimettere i pista la riforma costituzionale per approvarla prima dell’estate». Un atteggiamento quasi spavaldo, ben diverso da quella sera di dieci giorni fa quando il capo del governo, tra il depresso e l’arrabbiato, meditava di rimettere in un cassetto la riforma della scuola. «Se ci fossimo fermati – confida con il senno di poi il numero due renziano a palazzo Madama, Giorgio Tonini – sarebbe stato un tragico errore, l’inizio della fine. Ci avrebbero fatti a pezzi su tutto. Il nostro destino è andare avanti».
I numeri incoraggianti sull’aumento degli ordinativi dell’industria, sulle assunzioni, sulla ripresa dei consumi interni, fanno ben sperare il premier per i mesi a venire. E rafforzano l’idea di proseguire con l’orizzonte puntato sulla fine naturale della legislatura. Portando a casa il prima possibile la riforma costituzionale e tutto il resto che attende in coda, dalla Rai alle unioni civili.
Con l’occhio puntato sulle amministrative della prossima primavera, quando andranno al voto Milano, Napoli, Torino, Genova. La testa è già lì. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti, reduce dalla sconfitta della “sua” Paita alle regionali in Liguria, ammette che il governo e il Pd si giocheranno il tutto per tutto. «Tra il risultato elettorale e il mondo della scuola mobilitato contro di noi - spiega uscendo da palazzo Madama da una stradina laterale - abbiamo toccato il più più basso. Adesso ci dobbiamo mettere sotto per dare risposte al paese e, soprattutto, preparare bene le amministrative. Arrivarci impreparati, all’ultimo mese, è pericoloso». Perdere nelle grandi città, tutte amministrate dal centrosinistra, sarebbe per il governo Renzi il segnale del fine corsa. Per questo, a costo di smentire uno dei dogmi del Pd, al Nazareno si sta pensando di privilegiare i candidati politicamente giusti senza ricorrere alle primarie. Pinotti prende un respiro e annuisce: «Le primarie si fanno se c’è un percorso politico, non alla “spera-in-dio” e chi vuole si candida. Specie in realtà molto...complicate come Napoli».
Dunque ci saranno candidati scelti dalla segreteria, dopo una consultazione con le componenti interne. Anche perché, dopo la rottura con Sel, è ormai impossibile la riproposizione di quella stagione di centrosinistra che portò alla vittoria dei sindaci arancioni a Cagliari, Genova, Milano e Napoli.
L’altra partita fondamentale, che s’intreccia con il rapporto che Renzi sta provando a ricucire con la sinistra interna, è quella che ha come posta la riforma della Costituzione. Su questo fronte è già ricominciato, in via riservata, un dialogo che ha come protagonisti il ministro Boschi e alcuni esponenti della minoranza dem come i senatori Vannino Chiti e Claudio Martini. Il punto su cui il governo è pronto a cedere è quello dell’elettività dei futuri membri del Senato. Che saranno sempre consiglieri regionali, scelti però su un listino a parte che gli elettori si troveranno sulla scheda elettorale. A differenza della buona scuola, sulla riforma costituzionale Renzi non può forzare la mano alla sinistra interna con la fiducia. E quei 23 senatori se li può conquistare solo con la politica e il dialogo.
“RACCOGLIEREMO LE FIRME PER ABROGARE QUESTE REGOLE”
intervista di Corrado Zunino a Giovanni Cocchi
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Giovanni Cocchi, maestro per vent’anni, prof di medie per i successivi quindici (al Guercino di Bologna). E’ diventato il simbolo della protesta contro la riforma della scuola. «Ho discusso del disegno di legge con Renzi per un quarto d’ora, ognuno è rimasto delle sue idee, poi, quando è andato alla lavagna, gli ho rifatto il verso in video».
Perché Bologna e perché lei al centro della rivolta?
«Bologna ha la stessa tradizione forte della scuola italiana: affonda le radici nella Resistenza e nella Costituzione. Io sono riconosciuto perché sono solo un insegnante. Non sono iscritto a un sindacato e da sempre sono un elettore di sinistra deluso. Quando il Pd va al governo diventa irriconoscibile».
Per ora ha vinto Renzi con la sua Buona scuola. Come reagirete?«Non è finita qui. D’istinto dico che da settembre la scuola italiana farà di tutto per non far passare la riforma. Non ci sarà collaborazione con i presidi e i loro staff, sulle scartoffie da firmare creeremo problemi. Ci dedicheremo a insegnare ai nostri ragazzi, quello è sacro ».

E fuori?«Raccoglieremo le firme per abrogare una legge che divide territorio da territorio, quartiere da quartiere e che nelle scuole ricche formerà la nuova classe dirigente e in quelle povere manodopera disponibile impossibilitata ad affrancarsi nella vi
Ineccepibile invettiva contro il ducetto Renzi e chi, con la sua ignavia, gli permette di rottamare democrazia, istituzioni, scuola - e il futuro di noi tutti. L'elenco dei complici è presto fatto.

Ilmanifesto, 26 giugno 2015

Scor­rendo le cro­na­che di quest’ultimo enne­simo stu­pro del par­la­mento e della demo­cra­zia da parte del ren­zi­go­verno ver­rebbe voglia di chiu­dere lì il discorso prima ancora di aprirlo. Col più clas­sico e liqui­da­to­rio gesto di stizza che i bam­bini com­piono quando la rab­bia sacro­san­ta­mente li scuote. L’avete voluto, tene­te­velo. Quanto peg­gio, tanto meglio. Ma a chi poi si rivol­ge­rebbe que­sta stizza cieca, dato che i con­trac­colpi cadono tutti sulle nostre teste? Nostre, di noi che que­sto schifo non l’abbiamo mai voluto né mai abbiamo fatto alcun­ché per meri­tar­celo, se non l’essere stati inca­paci in tutti que­sti non brevi anni di raf­for­zare la parte sana o meno malata del paese e di rico­struire quella sini­stra comu­ni­sta o anche sol­tanto seria­mente socia­li­sta che era stata sui­ci­data nei secondi anni Ottanta?

Così ci sfor­ziamo di ritor­nare freddi nella misura del pos­si­bile di fronte a que­sta por­che­ria di un’ennesima fidu­cia richie­sta e pun­tual­mente votata anche da quanti non si stan­cano al tempo stesso di pro­te­stare e mugu­gnare e lamen­tarsi del destino cinico e baro che li costringe a rive­lare la pro­pria incon­si­stenza e viltà al cospetto dell’intero popolo sovrano.

Siamo arri­vati a que­sto voto in capo alla più tra­di­zio­nale delle pan­to­mime. Prima il ren­zi­go­verno annun­cia le linee fon­da­men­tali della «riforma» della scuola – quella scuola che il gio­vane bel­lim­bu­sto manin­ta­sca aveva cele­brato come epi­cen­tro della sua società ideale quando si era pre­sen­tato per la prima volta alle Camere l’anno scorso, liqui­dato e impa­lato il letta.

Linee che susci­tano la pronta corale rea­zione indi­gnata di tutte indi­stin­ta­mente le com­po­nenti del mondo della scuola, salvo la mogliera del renzi mede­simo e qual­che diri­gente sco­la­stico ram­pante bra­moso di impet­tarsi la stella dorata dello sceriffato.

Stu­denti, geni­tori, pro­fes­sori in ruolo e pre­cari, tecnico-amministrativi e sin­da­cati – per quel nulla che val­gono agli occhi del ducetto demo­cra­tico – scen­dono in piazza e pro­te­stano per lo scippo di quel po’ di garan­zie che ancora restano a tutela del posto di lavoro, del sala­rio e della libertà d’insegnamento, per la volontà di iper­per­so­na­liz­zare la dire­zione di plessi e isti­tuti, per la deci­sione di get­tare a mare senza pro­spet­tive metà del pre­ca­riato, per l’ennesima rega­lia alle scuole pri­vate pre­te­sche, insulto alla Costi­tu­zione. A chi pro­te­sta e scio­pera il ren­zi­go­verno e i suoi sche­rani in par­la­mento repli­cano uni­soni a muso duro: le sue ragioni val­gono zero, si «tira dritto», chi ci ama ci segua, non si è demo­cra­tici per niente.

Poi viene la bato­sta elet­to­rale, il renzi per qual­che ora sem­bra in con­fu­sione, teme di avere urtato uno sco­glio impre­vi­sto. Vacilla. E finge di aprire a qual­che con­ces­sione. Qual­cuno, incre­di­bile a dirsi, gli crede. In realtà stringe i tempi e la stra­te­gia è pronta in men che non si dica, con­tro ogni regola di con­si­de­ra­zione delle ragioni altrui ma non senza buone ragioni sul lato dei poteri. La com­mis­sione in Senato rischia di intral­ciare? Si salta. Il dibat­tito e il voto di merito in aula impen­sie­ri­scono? Si imbri­gliano. Il ren­zi­go­verno ha l’arma letale della fidu­cia ed è subito pronto a imbrac­ciarla, con buona pace del pre­si­dente della Repub­blica che forse s’immagina dav­vero di essere quel che la Costi­tu­zione afferma, per­ché non ha capito che qui è cam­biato tutto e che la Repub­blica ormai è solo una quinta di car­ta­pe­sta stesa a dis­si­mu­lare il regi­metto di un imbron­ciato reuccio.

La fidu­cia, l’arma letale. Già. Qui casca l’asino. Per­ché in teo­ria il governo non dovrebbe affatto con­si­de­rarsi al riparo dai rischi gra­zie a que­sto ricatto, stando alle forze in campo e pren­dendo una volta tanto sul serio le parole dette e financo scritte dai par­la­men­tari. Il governo in Senato non avrebbe i numeri. Li ha solo se può con­tare anche sul voto di chi, pur mili­tando nel par­ti­to­di­renzi, pro­te­sta e minac­cia e giura sul pro­prio onore di dis­sen­tire dalle deci­sioni del governo. Il quale può pun­tare sulla fidu­cia per restare in sella sol­tanto se sa (per­ché sa) che al dun­que (alla fidu­cia) le pro­te­ste rien­trano, le minacce dile­guano, i giu­ra­menti si sciol­gono come neve al sole. Il governo sce­glie la farsa dello scon­tro e poi mette la fidu­cia dram­ma­tiz­zando lo scon­tro per­ché sa che alla fine, con la fidu­cia, tutto rien­tra nell’ordine natu­rale delle cose. In aula si litiga, si urla, si invei­sce, si insulta per­sino. Ma poi a capo chino si stri­scia e si vota, e amici come prima.

Fino alla pros­sima sce­neg­giata a bene­fi­cio nostro, ché al mas­simo sta­remo a casa anche la pros­sima volta quando si trat­terà di votare.

Da dove viene al governo e al suo ducetto tanta sicu­rezza? Que­sto è il punto, non altre frot­tole amman­nite ai ben­pen­santi che ancora si bevono la fola della demo­cra­zia. La rispo­sta non è dif­fi­cile, è solo poco decente e per nulla edi­fi­cante. Viene dalla con­sa­pe­vo­lezza – si badi, gene­rale: poi si stende un velo pie­toso sull’indecenza: viene dalla con­sa­pe­vo­lezza che, pur di rima­nere fino alla morte natu­rale della legi­sla­tura (pur di tagliare il tra­guardo che vale un vita­li­zio), i par­la­men­tari si lasce­reb­bero anche tagliare una gamba, figu­ria­moci se si con­fon­dono a fidu­ciare un governo con­tro il quale lan­ciano gra­tis a giorni alterni male­di­zioni e ana­temi. E que­sto il renzi lo sa, cono­sce a mena­dito i suoi polli. Que­sto lo sanno anche i signori della «grande stampa». Ma per carità non si dice, non sta bene: è così una fac­cenda vol­gare, inde­co­rosa, spoetizzante.

Meglio rac­con­tare che il punto è la sta­bi­lità, l’Europa, lo spread. O la lealtà alla ditta. La tor­men­tosa con­trad­di­zione in foro inte­riore tra la con­vin­zione e la respon­sa­bi­lità. Meglio. Almeno fin­ché non suc­cede che il gio­cat­tolo si rompe, magari per­ché arriva sul più bello quello delle ruspe. Dopo­di­ché non resterà che rin­gra­ziare la pre­miata ditta, que­sta vera scia­gura ita­liana che non ha solo disperso tutta un’eredità di buona sto­ria. Ha anche lavo­rato e traf­fi­cato ogni giorno sotto men­tite spo­glie per ingan­nare, infe­stare, inghiot­tirsi il paese.

«la sociologa americana non ha dubbi: “In passato ci sono state fasi di grandi migrazioni ma mai così. Per troppo tempo la Sinistra ha sottovalutato il problema”». E per troppo tempo, più ancora, il Primo mondo che ci nutre e ci coccola lo ha fatto saccheggiando, espropriando e ammazzando quelli del Terzo mondo. La Repubblica, 26 giugno 2015

Oggi le coste italiane sono diventate il teatro di un evento profondamente diverso rispetto al passato. E basta volgere lo sguardo oltre il bacino del Mediterraneo per capirlo. Siamo di fronte a un grande esodo, che riguarda quasi tutto il pianeta». Saskia Sassen, economista e sociologa della Columbia University, tra i massimi esperti in tema di globalizzazione, non ha dubbi: «La storia ha già conosciuto fasi di grandi migrazioni, ma mai su questa scala, nello stesso periodo e con una tale rapidità».

Professoressa Sassen, come si spiega la fatica dell’Unione Europea per elaborare un piano condiviso?

«Negli ultimi decenni i Paesi europei — ma lo stesso vale per gli Stati Uniti — hanno seguito una sola strategia: accogliere i migranti, più o meno legali, finché hanno avuto bisogno di lavoratori a basso costo. Perché servivano a risolvere un problema interno all’economia occidentale. Ma non si sono preoccupati né dei governi dei Paesi da cui i migranti oggi scappano, né di programmare una politica migratoria sostenibile ed efficace».

Verso quale soluzione si dovrebbe quindi lavorare oggi?

«È difficile dirlo, perché la situazione sembra ormai sfuggita di mano, al punto che l’Alto commissariato per i rifugiati non sa nemmeno come chiamare le regioni d’origine dei 60 milioni di persone in fuga. Da “terre caotiche”, dice l’ultimo rapporto dell’Onu, visto che in molti casi — Libia inclusa — è impossibile stabilire quale sia il governo legittimo. Io di una cosa sono certa: non bisogna rinunciare a cercare interlocutori credibili in Africa. Senza di loro una politica migratoria resta impraticabile».

L’Europa, invece, si chiude. La Francia respinge i profughi a Ventimiglia, l’Ungheria innalza un muro sul confine con la Serbia. E si fatica a trovare un accordo comune per fronteggiare l’emergenza.

«Repressioni e misure di controllo sono soluzioni temporanee: forse possono tamponare provvisoriamente il flusso dei migranti, ma non incidono sulle ragioni delle migrazioni».

Il progetto di un’Europa unita e solidale rischia di naufragare?

«Spero che l’Unione Europea continui a rafforzarsi, ma penso che possa farcela solo a patto di diventare più democratica e meno neo-liberista. Perché l’accoglienza è più difficile quando la ricchezza si concentra nelle mani di pochi e anche la classe media viene piano piano espulsa da case e da zone decorose».

Da anni ormai l’estrema destra europea usa la leva della xenofobia. Crede che l’Italia e la Francia si consegneranno presto a Matteo Salvini e a Marine Le Pen?

«L’Europa sarebbe la regione meglio posizionata per opporre alla logica dell’esclusione la cultura dell’inclusione, ma è anche vero che molti elementi lasciano presagire ben altro. Basta pensare alle recenti elezioni in Danimarca (il Partito del popolo danese ha ottenuto il 21,1% dei voti, diventando il secondo partito in Parlamento, ndr ). In un paese che pure è per molti versi illuminato e ragionevole...».

E la sinistra? Ritiene che debba rimproverarsi di non aver capito l’importanza del problema migratorio per le fasce più deboli della popolazione?

«Stabilire di chi siano le colpe non porta da nessuna parte e non aiuta a trovare soluzioni. Ma penso che la sinistra paghi una certa noncuranza, l’incapacità di mettere a fuoco il problema e riconoscere le caratteristiche più sottili delle migrazioni. C’è stato un atteggiamento di semplicistico laissez faire . E nessuno ha saputo mettere minimamente in luce i nessi tra le guerre fuori dall’Occidente e tutte le tipologie di espulsione perpetrate nell’Occidente stesso».

Il suo ultimo libro, invece, si intitola per l’appunto Espulsioni (a settembre per il Mulino). Oggi le farà un certo effetto osservare come ciò che ogni Paese europeo chiede è esattamente “espellere” gli immigrati irregolari…

«Sì, proprio così. Ma il paradosso è che la maggioranza dei migranti che stanno approdando in Europa vive già in una condizione di espulsione. Direi anzi che gli sbarchi di queste settimane sono probabilmente il primo segnale di un futuro nel quale sempre più persone saranno costrette a muoversi, proprio perché espulse dall’economia globale. E quando il proprio territorio è devastato dalla guerra, ma anche da desertificazioni, inondazioni, espropriazioni terriere, non si aspira ad altro che alla mera sopravvivenza. Non si fugge in cerca di una vita migliore, ma soltanto per conservare la propria vita».

Articoli di Dimitri Deliolanes, Anna Maria Merlo, Sergio Cesaratto sulle manovre di chi vuole strozzare un popolo per impedire che la speranza di un'altra Europa, nella quale le persone valgano più dei soldi, resti viva. Il manifesto, 25 giugno 2015

C’È CHI VUOLE IL«GREXIT», E NON È AD ATENE
di Dimitri Deliolanes
Quando l’accordo sem­brava defi­nito nella sua impo­sta­zione di mas­sima e si trat­tava solo di defi­nire i det­ta­gli, ecco il Fmi lan­ciare il suo siluro, riman­dando il nego­ziato agli inizi di giu­gno, alle famose cin­que pagine di Junc­ker che ave­vano fatto infu­riare Atene. A sor­presa, l’organismo della Lagarde ha rimesso sul tavolo i tagli alle pen­sioni e per­fino l’avanzo pri­ma­rio delle casse pen­sio­ni­sti­che da otte­nere in con­di­zioni di disoc­cu­pa­zione del 26% della forza lavoro. Un capo­la­voro di realismo.

Ale­xis Tsi­pras ha saputo la cat­tiva noti­zia in aereo e ha spie­gato il suo rifiuto in que­sti ter­mini: o non vogliono un accordo oppure vogliono ser­vire gli inte­ressi degli oli­gar­chi greci.

Nelle pro­po­ste del Fmi, infatti, la tassa pro­po­sta da Atene sulle imprese con più di mezzo milione di utile annuo è stata depen­nata. Come è stata depen­nata la tas­sa­zione sulle società che gesti­scono il gioco d’azzardo via Inter­net. In gene­rale, gli oli­gar­chi greci non com­pa­iono nei bril­lanti piani del Fmi, né sotto la forma di pro­prie­tari di ban­che, né sotto quella di edi­tori televisivi.

Il motivo? Far­gli pagare le tasse avrebbe degli effetti reces­sivi. Infatti, in que­sti quat­tro anni che l’uomo del Fmi nella troika, Thom­sen, gover­nava con fare colo­niale la Gre­cia lasciando del tutto indi­stur­bati gli oli­gar­chi, il Pil greco ha rag­giunto risul­tati di cre­scita impressionanti:un bel — 26%.

La verità è che con la pro­po­sta greca che era stata accolta all’eurogruppo di lunedì il governo greco aveva esau­rito– forse anche supe­rato– i limiti che si era posto. Il piano greco di misure fiscali per otto miliardi in due anni per­met­teva al governo di van­tarsi di aver difeso le pen­sioni ed evi­tato i nuovi licen­zia­menti al set­tore pubblico.

Aveva accet­tato un nuovo aumento delle impo­ste (nel paese più tas­sato d’Europa: sono aumen­tate del 338% dal 2010) cer­cando di sal­vare il sal­va­bile: cibo mate­riale e spi­ri­tuale (libri) al 6%, altri con­sumi dif­fusi, come la cor­rente elet­trica, al 13% e il resto al 23%. Atene aveva inol­tre accet­tato la per­ma­nenza di leggi odiose, come il fami­ge­rato Enfia sugli immo­bili, aumen­tando le impo­ste ai red­diti supe­riori ai 30 mila euro annui. In sostanza, in un con­te­sto nega­tivo, il governo aveva cer­cato di dif­fe­ren­ziare il peso fiscale, aggra­van­dolo per i red­diti più alti.

Sic­come in Gre­cia più che nuove tasse serve un mec­ca­ni­smo più effi­ciente per le entrate pub­bli­che , Varou­fa­kis aveva anche avan­zato delle pro­po­ste per ren­dere più dif­fi­cile l’evasione dell’Iva. Pro­po­ste magi­ca­mente spa­rite dalle scan­da­lose richie­ste del Fmi. Non è un segreto che la pro­po­sta di Tsi­pras era stata accolta posi­ti­va­mente a Bru­xel­les ma non era suc­ceso lo stesso in Gre­cia. Il «com­pro­messo one­sto» richie­sto da Tsi­pras era diven­tato un «com­pro­messo doloroso.

Mal­grado i repor­tage fan­ta­siosi com­parsi sulla stampa euro­pea, l’ipotesi di accordo pro­po­sta da Atene non avrebbe avuto seri pro­blemi al Par­la­mento greco. I voti con­trari sareb­bero stati al mas­simo una decina. Il per­ché è stato chia­rito nella riu­nione di ieri della Segre­te­ria Poli­tica di Syriza. Prima Tsi­pras e poi il suo stretto col­la­bo­ra­tore Fla­bou­ria­ris hanno spie­gato che con­di­zione irri­nun­cia­bile della pro­po­sta greca è che i cre­di­tori assi­cu­rino uffi­cial­mente di «ren­dere soste­ni­bile il debito». In pra­tica, Atene esige che i cre­di­tori con­fer­mino l’impegno preso per iscritto con il secondo Memo­ran­dum del 2012: una volta finito il pro­gramma, i cre­di­tori dove­vano pren­dere prov­ve­di­menti per alleg­ge­rire il peso del debito sull’economia del paese.

Come è noto, tra i tre cre­di­tori, il Fmi è l’unico favo­re­vole al taglio del debito greco. In un col­lo­quio di qual­che giorno fa, il pre­mier greco aveva anche chie­sto a Lagarde di non limi­tarsi a chie­dere tagli e che ponesse anche la que­stione del debito.

Sem­bra quindi che nella con­fu­sione domi­nante in campo euro­peo, ancora una volta si rie­sce a rag­giun­gere una sin­tesi solo ai danni della Gre­cia. Vista però la ferma resi­stenza oppo­sta da Tsi­pras in tutti que­sti mesi a ogni pro­getto di abbat­ti­mento di pen­sioni e di sti­pendi pub­blici, è evi­dente che ora il Fmi pone un pro­blema poli­tico: desta­bi­liz­zare il governo di sini­stra greco, costrin­gerlo o alla resa verso l’austerità o a un rovi­noso (per tutti) scon­tro con l’eurozona, che il popolo greco non vuole. In ambe­due i casi, si pensa, Syriza è spac­ciata e si spera in un cam­bia­mento dello sce­na­rio politico.

È un pro­getto estre­mi­sta, non a caso in Europa con­di­viso solo da Schauble.

Tsi­pras ha di nuovo riba­dito che, in assenza di un «accordo com­ples­sivo», la tran­che dovuta al FMI a fine mese non sarà versata.

Ovvia­mente, il man­cato ver­sa­mento non sarà con­si­de­rato auto­ma­ti­ca­ti­ca­mente una ban­ca­rotta di Atene. Sarà invece un nuovo colpo di avver­ti­mento: o i cre­di­tori pren­de­ranno sul serio la volontà di Atene a non arri­vare allo scon­tro, oppure l’ipotesi di un’implosione dell’eurozona diventa sem­pre più rea­li­stica. Pro­ba­bil­mente, era que­sto il senso delle dichia­ra­zioni di ieri di Mat­teo Renzi: c’è chi vuole il Gre­xit, ha ammo­nito. Ma non si rivol­geva solo ad Atene.

ILSILURO DEL FMI: NO A TSIPRAS

di Anna Maria Merlo

Eurogruppo. L’Europa cestina le proposte di Atene. Il Fondo monetario cancella le tasse agli oligarchi e pretende il taglio delle pensioni. Moscovici incontra tutti i partiti di opposizione. A Bruxelles Tsipras incontra Draghi, Lagarde e Juncker: «Alla Grecia richieste senza precedenti, c’è chi dice no a tutto e vuole la rottura». Dopo sei ore di riunione è muro contro muro. L’eurogruppo si aggiorna a oggi, si tratta nella notte

Un’altra gior­nata este­nuante sulla que­stione greca, con­clu­sasi con l’ennesimo - il nono - Euro­gruppo dell’«ultima spe­ranza», ieri sera, a ridosso del Con­si­glio euro­peo di oggi e domani. Due pro­grammi a con­fronto, contro-progetto greco e contro-contro pro­getto dei cre­di­tori, respinti da entrambi i con­ten­denti, anche se le cifre ormai non sono così distanti.

Il governo Tsi­pras è messo al muro per accet­tare la logica del pro­se­gui­mento dell’austerità, «riforme con­tro soldi fre­schi», che ha dif­fi­coltà a pas­sare in patria. La pro­po­sta arriva a pochi giorni dalla dop­pia sca­denza del 30 giu­gno, rim­borso di 1,6 miliardi al Fmi e fine del secondo piano di «aiuti», già riman­dato due volte, che, in man­canza di intesa, vedrà l’evaporazione dei resi­dui 7,2 miliardi da ver­sare ad Atene, indi­spen­sa­bili non per una solu­zione dura­tura, ma per soprav­vi­vere qual­che set­ti­mana ed evi­tare il Gre­xit. I cre­di­tori hanno usato tutte le armi: fomen­tando il rischio di un bank run (5 miliardi riti­rati in pochi giorni) e la carta del degrado, reale, dell’economia greca, este­nuata, per far pie­gare Atene. E gio­cano anche sull’ipotesi di un cam­bio di mag­gio­ranza: ieri il com­mis­sa­rio Pierre Mosco­vici ha incon­trato Theo­do­ra­kis, lea­der di To Potami, par­tito di cen­tro greco, ruota di scorta pos­si­bile per una nuova maggioranza.

Tsi­pras ha fatto pro­po­ste dolo­rose, ma chiede sem­pli­ce­mente che l’accordo con­tenga un punto di buon senso: vista l’insostenibilità del debito greco, ci vuole un impe­gno sulla ristrut­tu­ra­zione. Del resto, que­sta ristrut­tu­ra­zione era stata pro­messa nel 2012, legata al rag­giun­gi­mento di un avanzo pri­ma­rio (prima del ser­vi­zio del debito) del bilan­cio greco. Que­sta clau­sola è stata rispet­tata da Atene nel 2013, con 1,5 miliardi di avanzo. Ma i cre­di­tori non hanno rispet­tato allora la parola data. E non lo fanno nep­pure adesso. Anche se Michel Sapin, mini­stro dell’economia fran­cese, ammette: «la que­stione del peso del debito dovrà essere affron­tata». Tsi­pras ha pas­sato la gior­nata a Bru­xel­les. Ha incon­trato Jean-Claude Junc­ker (Com­mis­sione), Mario Dra­ghi (Bce), Chri­stine Lagarde (Fmi), Dijs­sel­blome (Euro­gruppo), Regling (Mes).

Il primo mini­stro greco ha denun­ciato «l’insistenza di certe isti­tu­zioni che non accet­tano le misure com­pen­sa­to­rie» pre­sen­tate da Atene per ottem­pe­rare ai dik­tat dei cre­di­tori, «come non era mai acca­duto prima né per l’Irlanda né per il Por­to­gallo». Una carica in par­ti­co­lare con­tro il Fmi, che ha pre­stato 32 miliardi (a sca­denza breve, 10 anni) e che vuole assi­cu­rarsi i rim­borsi. Per Tsi­pras, «que­sto atteg­gia­mento può voler dire due cose: o non vogliono un accordo o sono al ser­vi­zio di inte­ressi spe­ci­fici in Gre­cia». Ma il Fmi è il solo cre­di­tore a non essere con­tra­rio a una ristrut­tu­ra­zione del debito (che nei fatti non lo toc­che­rebbe). Sono gli euro­pei, che hanno cre­diti, tra isti­tu­zioni e bila­te­rali, intorno ai 300 miliardi, ad essere reti­centi sulla ristrut­tu­ra­zione, a que­sto stadio.

La Gre­cia ha pre­sen­tato il suo ultimo sforzo: 8 miliardi di tagli in due anni, pari al 4,4% del Pil, con un rialzo dell’Iva, dei con­tri­buti e delle tasse alle imprese. Uno stu­dio della Deu­tsche Bank pre­vede un effetto nega­tivo fino a 3 punti del pil. Ma Tsi­pras spera che que­sta offerta, sbloc­cando il nego­ziato, per­metta una ripresa e che arri­vino gli inve­sti­menti euro­pei pro­messi dal piano Junc­ker (35 miliardi), oltre all’accesso al Quan­ti­ta­tive easing della Bce. Per il momento, la Gre­cia vive gra­zie al tubo di ossi­geno con­cesso dalla Bce, che ancora ieri, per il quinto giorno negli ultimi otto, ha alzato l’Ela, la liqui­dità di emer­genza, ultimo rubi­netto rima­sto aperto dopo la chiu­sura di tutti gli altri. Ma i cre­di­tori chie­dono di più, una cor­re­zione dei conti pub­blici dell’1,5% quest’anno e del 2,9% il pros­simo: il «contro-contro-piano» pre­tende ridu­zioni di esen­zioni Iva, che dovrebbe venire uni­fi­cata al 23% (con il 13% solo per cibo, ener­gia, acqua e hotel, ma senza sconto per le isole, e al 6% per pro­dotti far­ma­ceu­tici, libri e tea­tri), l’abolizione dei sus­sidi, l’aumento delle tasse di pro­prietà e sul lusso, ancora tagli alla spesa sani­ta­ria e al resi­duo wel­fare, una riforma delle pen­sioni più dra­stica, una gri­glia dei salari della pub­blica ammi­ni­stra­zione fiscal­mente neu­tra, oltre a una nuova legge con­tro l’evasione e una sem­pli­fi­ca­zione buro­cra­tica. I cre­di­tori chie­dono un avanzo pri­ma­rio in cre­scita: 1% quest’anno, ma 2% il pros­simo e via a seguire, fino al 3,5% nel 2018. «Esi­genze assurde e inac­cet­ta­bili» per Tsi­pras, visto che la Gre­cia è in defla­zione. Tsi­pras chiede inve­sti­menti per il rilan­cio economico.

La solu­zione, se ci sarà, sarà poli­tica. Ma Renzi ha messo in guar­dia Atene: «i greci devono sapere che esi­stono forti pres­sioni da parte di opi­nioni pub­bli­che di alcuni paesi a usare que­sta fine­stra per chiu­dere i conti con la Gre­cia». E «non si tratta sol­tanto dei paesi di più antica fre­quen­ta­zione dei tavoli euro­pei», la Ger­ma­nia, «ma anche di quelli entrati dopo». Per Renzi «lo sforzo deve essere reciproco».


STIAMOASSISTENDO
A UNA INDEGNA E INUTILE TORTURA
di Sergio Cesaratto

Con tutte le scelte sulla Grecia l'Europa esce priva di ogni residua credibilità. Le misure richieste prolungano l'agonia di Atene, centellinando la tortura
Con le pro­po­ste di lunedì scorso il governo Tsi­pras si è spinto molto in là nelle con­ces­sioni alla Troika. All’inasprimento della pres­sione fiscale sulle imprese si è aggiunto un ina­spri­mento non banale dei con­tri­buti sociali che col­pi­sce imprese, salari e pen­sioni. Que­ste in Gre­cia sono piut­to­sto basse con il 60% dei pen­sio­nati con un red­dito netto sotto i 700 euro men­sili, mal­grado le scioc­chezze che si sen­tono - mar­tedì sera dal prof. Qua­drio Cur­zio su Radio 1 - di pen­sioni a livello tede­sco. E spesso la pen­sione è l’unico red­dito della fami­glia estesa.

Nono­stante ciò la Troika non è sod­di­sfatta, soprat­tutto nei riguardi delle misure sulle imprese (che non neces­sa­ria­mente sono un bene). Si tratta di misure reces­sive che non inter­rom­pono l’austerità. Non ci deve con­so­lare l’alleggerimento del tar­get di sur­plus pri­ma­rio del bilan­cio pub­blico dai 3 o 4,5% chie­sti dalla Troika al’1% nel 2015 (e 2% nel 2016).

La dif­fe­renza è nell’uccidere subito il con­dan­nato o tor­tu­rarlo ancora più a lungo. Per­ché di una inde­gna e inu­tile tor­tura stiamo parlando. La solu­zione ragio­ne­vole c’è, e Varou­fa­kis l’ha ripro­po­sta all’Eurogruppo la scorsa set­ti­mana: il fondo salva-Stati euro­peo emetta titoli per acqui­stare i titoli greci in mano alla Bce (26 miliardi) con il duplice effetto di dila­zio­nare la resti­tu­zione di que­sto debito fra dieci o vent’anni dando respiro al bilan­cio greco e con­sen­tire alla Gre­cia di entrare nel pro­gramma di quan­ti­ta­tive easing della Bce (ora quest’ultima non può acqui­stare titoli greci per­ché già ne ha troppi in pancia).

Su que­sto tema l’Europa ha già detto no, che se ne ripar­lerà più avanti. Che se ne dovrà ripar­lare è sicuro visto che la con­fer­mata auste­rità impe­dirà alle finanze gre­che la resti­tu­zione di que­sti fondi alla Bce e anche di quelli al Fmi (32,5m).

L’unica con­ces­sione alla Gre­cia sono i famosi ultimi 7,2m del piano di sal­va­tag­gio in sca­denza con cui essa potrà ripa­gare la tran­che al Fmi in sca­denza que­sto mese e le rate di luglio e ago­sto alla Bce. Que­sto è per­verso. Si sa che un nuovo piano di sal­va­tag­gio sarà neces­sa­rio quando le pros­sime rate ver­ranno a sca­denza. Ma il sal­va­tag­gio deve avve­nire, nel dise­gno dei tor­tu­ra­tori, cen­tel­li­nando le ero­ga­zioni in cor­ri­spon­denza alle rate in sca­denza, tenendo il governo greco col cap­pio al collo.[/do]

Logica vor­rebbe che l’Europa si assu­messe subito e ora tutto il debito greco con Bce e anche Fmi — come molti eco­no­mi­sti hanno invo­cato, anche con­ser­va­tori quale Jacob Kir­ke­gaard del Peter­son Insti­tute — nei fatti dila­zio­nan­dolo per qual­che decen­nio sì da libe­rare per un po’ la Gre­cia dal fardello. A quel punto pur vin­co­lata da obiet­tivi strin­genti di bilan­cio, la Gre­cia dispor­rebbe di uno o due miliardi al mese in più (lo dico ad occhio) da spen­dere per soste­nere la domanda interna ed effet­tuare poli­ti­che di sviluppo. La pro­spet­tiva cam­bie­rebbe radicalmente.

La ragione dell’apparentemente illo­gico rifiuto euro­peo va pro­ba­bil­mente tro­vata nelle ele­zioni spa­gnole: far capire a Pode­mos che non v’è pos­si­bi­lità di euro­peiz­za­zione dei debiti sovrani e all’elettorato che le forze alter­na­tive tro­ve­ranno un muro.

E non si dica che il cat­tivo è il Fmi. Nel 2013 que­sto ha fatto auto­cri­tica affer­mando di essere stato tirato den­tro al primo «sal­va­tag­gio» della Gre­cia nel 2010 — quello che salvò le ban­che fran­cesi e tede­sche coi soldi anche del con­tri­buente ita­liano — con­sa­pe­vole già allora che il debito greco andava ristrutturato. Una volta tirato den­tro il Fmi, che gesti­sce quat­trini dei con­tri­buenti di tutto il mondo, fa il suo mestiere di pre­ten­derli indie­tro. Se vuole, l’Europa lo può liquidare.

È que­sta che ne esce priva di ogni resi­dua cre­di­bi­lità, spe­ra­bil­mente anche agli occhi di coloro che per­vi­ca­ce­mente ancora spe­rano in un suo mutamento.

Il testo di una nobile lettera, contro i respingimenti dei rifugiati alla frontiera con l’Italia, del principale sindacato dei ferrovieri francesi, scelta e tradotta da Maria Cristina Gibelli

Il principale sindacato dei ferrovieri francesi si ribella alla politica di respingimento dei rifugiati in atto alla frontiera con l’Italia e scrive una lettera al Presidente della SNCF (l’azienda nazionale delle ferrovie francesi), ricordando a lui, e quindi anche a Hollande e al ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve, che fra il 1942 e il 1944, durante il governo di Vichy, 76.000 ebrei francesi furono deportati nei campi di sterminio nazisti utilizzando i treni merci delle ferrovie dello stato; e ricordando altresì che molti furono gli episodi di eroismo dei ferrovieri in difesa dei deportati. Ieri si era costretti a viaggiare verso la morte, oggi si impedisce di viaggiare verso la vita (m.c.g.).

Signor Presidente,

la Federazione CGT dei ferrovieri le ha scritto per esprimere la sua ira quando lei è andato a presentare le sue scuse negli Stati Uniti presso le lobby americane a proposito del ruolo giocato dalle ferrovie francesi durante la seconda guerra mondiale. Abbiamo detto che certamente la SNCF ha partecipato al trasporto dei deportati verso i campi di concentramento per ordine del governo di Vichy, ma sarebbe stato opportuno ricordare anche quanti ferrovieri, in maggioranza militanti della CGT, sono stati uccisi, feriti o internati per aver opposto resistenza.

Il governo francese si è impegnato per un rimborso rilevante (a priori, 60 milioni di euro) nei confronti dei deportati ebrei, o dei loro discendenti residenti negli Stati Uniti. Fino ad allora, la direzione della Ferrovie dello stato si era difesa sulla base del principio della requisizione obbligatoria imposta dallo Stato francese in quel periodo oscuro della nostra storia. Ma non dimentichiamoci che dei ferrovieri sono stati mandati a morte per aver rifiutato di obbedire, altri hanno svolto questo ignobile compito sotto la minaccia delle armi, altri ancora hanno organizzato l’evasione dei deportati a rischio della loro vita e hanno ottenuto la qualifica di “Giusti”.

Oggi si stanno costituendo delle associazioni per portare aiuto ai migranti che arrivano dall’Africa o dal Medio Oriente. E anche in queste organizzazioni sono impegnati dei ferrovieri per lo più aderenti alla CGT. Queste donne, questi bambini, questi uomini, spesso giovani, fuggono la guerra, la carestia e la morte; vanno in esilio perché braccati in quanto oppositori politici di dittature.

Sappiamo tutti che la situazione catastrofica dalla quale fuggono i migranti ha la sua origine nel capitalismo mondializzato e nella avidità delle grandi multinazionali. Sappiamo tutti che le potenze economiche del “mondo dei ricchi”, per lo più occidentali, obbediscono ciecamente alle imprese transnazionali che commerciano con dittatori e oppressori. Anche la stessa SNCF non firma forse contratti con alcune monarchie del Golfo o con lo Stato di Israele malgrado la sorte che esso riserva al popolo palestinese violando le convenzioni dell’ONU?

Ecco perché, e con estrema urgenza, occorre accogliere questi migranti, garantire loro sicurezza, cura e asilo in Europa; perché anche noi francesi abbiamo delle responsabilità nei confronti della politica internazionale portata avanti dal nostro governo e da alcune imprese nazionali.

Contemporaneamente, apprendiamo che la stazione ferroviaria di Menton Garavan, alla frontiera italiana, funziona come un “parco dei migranti” controllato dalle forze dell’ordine, per organizzare il respingimento di questi poveretti. Apprendiamo che i dirigenti locali della SNCF si nascondono dietro le ordinanze della prefettura per mettere questo luogo sotto il controllo della polizia, tutto come 70 anni fa. Forse può apparire aneddotico, ma apprendiamo che queste persone sono in regola con la SNCF perché sono titolari di un biglietto ferroviario che non gli è neppure stato rimborsato, mentre il prezzo di un biglietto costituisce per loro un impegno enorme data la situazione di estrema precarietà.

Signor Presidente, fra qualche anno uno dei vostri successori andrà a presentare le sue scuse sul suolo africano? O il principio di requisizione verrà di nuovo utilizzato per coprire fatti ignobili? Vi poniamo solennemente questa domanda e vi chiediamo di porla ai signori Hollande, Valls e Cazeneuve, Fabius e Macron nei loro rispettivi ruoli.

Ci auguriamo che lei si ribelli e faccia rapidamente opposizione a queste procedure riprovevoli e che la nostra Società porti soccorso e assistenza ai migranti e dia loro il diritto di viaggiare, piuttosto che servire una politica europea e francese che non si assume le sue responsabilità e non trova risposte altro che la repressione e la chiusura delle frontiere.

In certi casi, la disobbedienza è un dovere.

L'immagine qui sotto rappresenta l'ingresso di bambini ebrei francesi ai vagoni piombati diretti verso i lager nazisti, in partenza dalle stazioni delle ferrovie francesi. Una storia che non si vorrebbe veder ripetere oggi, nel paese della Liberté, Egalité, Fraternité.

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