«I creditori vogliono essere certi che a pagare il "risanamento" e la permanenza nell’eurozona sia la grande massa proletarizzata dei lavoratori dipendenti, costretti a vivere stabilmente in miseria e in schiavitù. Se a pagare fossero i grandi capitali, i conti tornerebbero ugualmente».
Il manifesto, 30 giugno 2015 (m.p.r.)
C’è un aureo testo di Kant che torna alla mente in queste ore in cui si consuma l’attacco finale alla Grecia democratica da parte dei cani da guardia dell’Europa oligarchica, della finanza internazionale e del Nuovo ordine coloniale a centralità franco-tedesca. Nel 1784, l’autore della Critica della ragione pura, già celeberrimo in tutto il continente, rispondeva alla domanda sull’essenza dell’illuminismo. La individuava nella scelta dell’autonomia; nella decisione consapevole e non priva di rischi di «uscire da una minorità della quale si è responsabili».
Intendeva dire che affidarsi alla guida di un tutore che per noi sceglie e delibera è umiliante benché comodo. Che la libertà è affascinante ma il più delle volte pericolosa. E che l’insegnamento fondamentale del movimento dei Lumi che di lì a poco avrebbe portato i francesi a sollevarsi contro l’autocrazia dell’antico regime consiste proprio in questo: nel considerare l’esercizio dell’autonomia individuale e collettiva un inderogabile dovere morale e politico. Un fatto di dignità. Essere uomini significa in primo luogo decidere per sé e rispondere delle proprie scelte. Rifiutarsi di vivere sotto il giogo di qualsiasi potere imposto con la violenza delle armi o della superstizione, del denaro o del conformismo.
Sono trascorsi oltre due secoli densi di storia. Il mondo è cambiato. Ma nessuno direbbe che quelle di Kant sono considerazioni arcaiche, inadatte al nostro tempo. Siamo tutti pronti a sottoscriverle. Riformulate con parole meno alate, le ripetiamo ogni qualvolta ragioniamo sui principi democratici ai quali vorremmo si ispirassero le nostre società. Eppure che succede quando i nodi vengono al pettine e la dignità di tutto un popolo è messa davvero in discussione, quando un intero paese è posto di fronte al bivio tra minorità e autonomia?
Anche se televisioni e giornali di tutto il mondo fanno a gara per nascondere la realtà descrivendo i greci come un gregge di bugiardi parassiti (e attenzione: vale per i greci oggi quel che ci si prepara a dire domani sul conto di spagnoli, portoghesi e italiani, sudici d’Europa), è abbastanza chiaro il motivo per cui Ue, Bce e Fmi hanno deciso di scatenare la guerra contro la Grecia. I soldi (pochi) sono più che altro un pretesto. La sostanza è il modello sociale che deve prevalere.
I creditori vogliono essere certi che a pagare il «risanamento» e la permanenza nell’eurozona sia la grande massa proletarizzata dei lavoratori dipendenti, costretti a vivere stabilmente in miseria e in schiavitù. Se a pagare fossero i grandi capitali, i conti tornerebbero ugualmente. E solo così l’economia greca potrebbe per davvero risanarsi. Ma il prezzo politico sarebbe esorbitante, tale da vanificare quanto è stato sin qui fatto, per mezzo della crisi, al fine di «riformare» i paesi europei e conformarli finalmente al modello neoliberale di «società aperta».
La partita è quindi squisitamente politica. Se non c’è di mezzo tanto un problema di ragioneria quanto una questione politica di prima grandezza – il modello sociale, appunto: i criteri base dell’allocazione delle risorse – allora è sacrosanta la pretesa del governo greco che a decidere se obbedire o meno ai diktat della troika sia il popolo che dovrà pagare le conseguenze delle decisioni assunte in sede europea. È un fatto elementare di democrazia. Che però sposta il conflitto sul terreno, cruciale e decisivo, della legittimazione dell’Europa unita: uno spostamento del tutto inaccettabile.
Non c’è da sorprendersi se proprio la decisione di Tsipras di andare al referendum popolare abbia fatto saltare il banco. L’Europa – questa Europa dei tecnocrati e degli speculatori – può accettare molte deroghe. Può tollerare gravi infrazioni alle regole finanziarie, come ha dimostrato proprio nei confronti di Francia e Germania. Può anche faticosamente chiudere un occhio su qualche misura tesa a ridurre l’iniquità delle cosiddette riforme strutturali che i paesi sono chiamati a realizzare per conformarsi al modello sociale prescritto.
Ma sulla questione delle questioni – la sovranità – non si transige. Nessuno può rimettere in discussione il fatto che in Europa i presunti «popoli sovrani» non hanno voce in capitolo sul proprio destino. Finché si scherza, magari fingendo di avere un parlamento europeo, bene. Ma guai ad aprire una breccia sulla costituzione dispotica dell’Unione, che è il suo fondamento ma anche, a guardar bene, il suo tallone d’Achille.
Se questo è vero, allora un silenzio pesa assordante mentre le cronache documentano le battute finali di quest’ultima guerra intestina del vecchio continente. Dove sono finiti i «grandi intellettuali», quelli che lo spirito del tempo designa a propri portavoce, coloro la cui sapienza e saggezza reca l’onore e l’onere di indicare la retta via quando il cammino si ingarbuglia? Non se ne vede l’ombra. Tutto su questo fronte tace, come se si trattasse di bazzecole. Eppure c’è ancora qualche sedicente filosofo, qualche storico, qualche giurista o sociologo in Europa. C’è chi si atteggia a interprete autentico della crisi e sforna a ripetizione libri che discutono di Europa e di democrazia. Forse che, per tornare al vecchio Kant, ciò che vale in teoria non serve a nulla in pratica?
Ci si domanda che farebbe oggi un novello Zola (o un nuovo Sartre) di fronte alla prepotenza e alla viltà di quest’Europa. Eppure non occorrono gesti eroici per ricordare che esistono diritti inviolabili, per chiarire che nessuna ragione al mondo consente di scaraventare un popolo nell’indigenza e nella disperazione, per rammentare che in questa partita torti e ragioni sono, come sempre, ripartiti fra tutte le parti in causa. Niente. Silenzio. A sbraitare è solo chi può permettersi di svolgere due parti in commedia, il ruolo dell’accusatore e quello del giudice. Quanto all’imputato, stiamo molto attenti. Nati a Palermo o a Siviglia, a Milano o a Lisbona, siamo tutti quanti greci anche noi.
«Intervista all'’economista Emiliano Brancaccio: “Se l’Euro registrerà una crepa sarà bene che avvenga da sinistra e non sull’onda nera montante di forze ultranazionaliste e xenofobe"».
Il manifesto, 30 giugno 2015
I «creditori» respingono la proposta del governo greco e chiedono altre dosi di lacrime e sangue. Tsipras si smarca dal ricatto e indice un referendum, invitando a votare «no» alle richieste delle istituzioni europee e del Fmi. Siamo a un passo dall’uscita della Grecia dall’euro? Quali saranno le ripercussioni per il nostro paese e per l’Unione europea? E in questo guado così difficile, quale linea dovrebbero assumere le forze politiche della sinistra? Ne parliamo con Emiliano Brancaccio, che insegna Economia politica ed Economia internazionale all’Università del Sannio ed è stato promotore del «monito degli economisti» sulla crisi dell’eurozona pubblicato nel 2013 sul Financial Times.
Professor Brancaccio, i principali organi di stampa attaccano la decisione di Tsipras di indire un referendum con cui chiede al popolo greco di respingere la bozza dei cosiddetti «creditori». Tornano alla ribalta gli slogan sui «greci irresponsabili», che rifiuterebbero di «fare i compiti» per risanare i conti e pretenderebbero di «prosperare a spese degli altri». Che ne pensa?
Basta osservare le statistiche ufficiali per rendersi conto che la realtà è un’altra. Negli ultimi cinque anni i governi greci hanno diligentemente applicato le ricette di austerity e di riduzione dei salari imposte dalla Troika. La spesa pubblica è crollata del venticinque percento e le buste paga sono precipitate di oltre il venti percento. Il risultato di queste misure è stato catastrofico: la più pesante caduta della domanda, della produzione, dell’occupazione e dei redditi mai registrata in epoca di pace, e un boom conseguente del rapporto tra debito e reddito. Il caso della Grecia sarà ricordato nei libri di storia economica come la prova empirica per eccellenza del fallimento della dottrina dell’austerity e della deflazione salariale.
In queste ore però c’è chi è tornato a sostenere che il disastro in cui versa la Grecia dipende anche dal fatto che per entrare nell’euro i governi ellenici truccarono i conti.
È un’altra opinione infondata. Innanzitutto ricordiamo che i ritocchi contabili li hanno fatti in tanti, persino i tedeschi. Ma poi stiamo ancora ai dati. Eurostat ha stimato che tra il 1999 e il 2001 i «trucchi contabili» della Grecia per entrare nell’euro ammontarono a meno di 10 miliardi. Non è una gran cifra se consideriamo che da quando la Grecia nel 2010 si è sottoposta ai programmi della Troika, sono stati effettuati tagli alla spesa pubblica per un ammontare complessivo di ben 106 miliardi. Insomma, i famigerati «trucchi» per entrare nell’euro non rappresentano nemmeno il dieci percento degli enormi sacrifici compiuti dai greci per tentare di restarci, dentro la moneta unica.
Veniamo alle possibili conseguenze del referendum. Matteo Renzi afferma che si tratta di una scelta tra un «sì» e un «no» all’euro, lasciando intendere che lui sosterrà il «sì». Qual è la sua posizione?
Un’eventuale vittoria dei «sì» prolungherebbe solo l’agonia della Grecia e in prospettiva non garantirebbe la permanenza del paese nell’Unione monetaria. Di sicuro, invece, affosserebbe per lungo tempo qualsiasi ipotesi di rilancio della sinistra, in Grecia e non solo. Non escluderei la possibilità che Renzi miri esattamente a questo esito. Il «no» è l’unica opzione sensata.
Ma il «no» del popolo greco alla bozza delle istituzioni europee implicherebbe un’uscita del paese dall’euro? Il ministro delle finanze Varoufakis continua a sostenere che la «Grexit» non è un’opzione contemplata dal suo governo. Esiste ancora la possibilità di riaprire la trattativa?
Gli spazi di manovra si stanno stringendo, al punto in cui siamo non scommetterei su un’intesa. Molto dipenderà dal comportamento della Banca centrale europea. In passato Draghi e gli altri membri del direttorio hanno condizionato i loro interventi di salvataggio al fatto che i paesi in difficoltà accettassero di sottostare ai memorandum imposti dalla Troika, come nel caso cipriota. Se a Francoforte non hanno cambiato improvvisamente linea, a un eventuale «no» al referendum probabilmente risponderanno con il blocco dei finanziamenti alle banche greche. A quel punto la Grecia sarebbe costretta ad avviare un percorso di uscita dall’euro. Ma Tsipras e Varoufakis potrebbero affermare che sono stati buttati fuori dall’Unione, e che la responsabilità dell’uscita è a carico della BCE e dei «creditori». In fin dei conti avrebbero ragione.
Anche a sinistra, c’è grande timore nei confronti di un tracollo generale dell’eurozona. La Grecia può diventare il fattore scatenante in grado di mettere in crisi l’intero progetto di unificazione europea?
La migliore ricerca economica sostiene, da anni, che quello dell’eurozona è un progetto nato male, che crea squilibri continui tra paesi creditori e debitori e in prospettiva non è sostenibile. Presto o tardi bisognerà prenderne atto, occorrerà ripensare i termini delle relazioni economiche internazionali. Occorre che la sinistra affronti questa nuova fase storica con una propria visione e un progetto, potremmo dire un «nuovo internazionalismo del lavoro». Anche per questo, se l’impianto della moneta unica dovrà registrare una crepa, sarà bene che ciò avvenga da sinistra, su impulso di un’Atene rossa, piuttosto che sull’onda nera montante di forze ultranazionaliste e xenofobe.
«Nella dannosa confusione di ruoli nell’Eurozona di questi mesi l’unica istituzione che ha fatto politica (cioè compromessi) è stata quella che dovrebbe essere solo un organismo tecnico: la Bce». Articoli di Angelo Baglioni e Fausto Panunzi.
Lavoce.info, 20 giugno 2015 (m.p.r.)
GRECIA: E ORA COSA SUCCEDE?
di Angelo Baglioni
Salvo sorprese dell’ultimo minuto, la Grecia sta scivolando verso l’insolvenza e l’uscita dall’euro. L’impatto immediato sarà drammatico per il paese ellenico. Ma in futuro chi rischia di perderci maggiormente saranno gli altri paesi europei. A cominciare dal nostro.
Le prospettive della Grecia…
Salvo una iniziativa a sorpresa, e molto tardiva, dei governi europei nelle prossime ore, domenica 5 luglio il popolo greco sarà chiamato a votare su un piano di assistenza finanziaria, condizionato a misure fiscali ed economiche, che di fatto non esiste più. Il piano è stato infatti ritirato dai ministri finanziari dell’Eurogruppo sabato 27 giugno, non appena appresa la notizia della indizione del referendum, che è stata accolta come una rottura delle trattative. Tecnicamente si tratta di un referendum privo di senso, anche per il fatto che implicitamente il popolo è chiamato a rispondere su una materia fiscale, che in genere non può essere materia referendaria per ovvie ragioni (non si va a chiedere alla gente se è d’accordo su un aumento della tasse). Tuttavia, il referendum ha un forte significato politico,sebbene Tsipras continui a negarlo: in sostanza il popolo greco deve decidere se restare nell’euro a ogni costo (comprese le misure imposte dalla Troika adesso e in futuro) oppure lanciarsi in un’avventura che potrebbe molto probabilmente portare il paese a uscire dall’euro.
(i) le banche greche siano solvibili e (ii) i titoli presentati a garanzia siano accettati dalla Bce. Entrambe queste condizioni verranno meno con l’insolvenza dello Stato greco: (i) le banche subiranno perdite sui titoli detenuti in portafoglio e sui crediti alle imprese e alle famiglie, data la situazione che si verrà a creare, tali da erodere il loro patrimonio e portarle in una situazione di insolvenza; (ii) ben difficilmente la Bce potrà considerare accettabili come garanzia i titoli di debito di uno Stato insolvente, per di più verso la Bce stessa. Non a caso, il 28 giugno la Bce ha deciso di porre un limite a questi finanziamenti: per ora si è limitata a non aumentarli, ma è chiaro che è un passo verso la revoca, se la situazione dovesse precipitare. Una volta venuti meno i prestiti della Bce, l’unico modo per fare funzionare le banche greche sarà introdurre una nuova moneta, emessa dalla banca centrale greca. In una parola: Grexit.
…e per noi
Le conseguenze immediate del fallimento della Grecia e della sua uscita dall’euro potrebbero essere limitate. L’esposizione delle banche e dei soggetti privati è molto ridotta. Quella del governo è maggiore (50-60 miliardi), attraverso diversi canali (prestiti diretti, Fondo di stabilità europeo, Bce), ma l’impatto sui conti pubblici sarebbe dilazionato nel tempo. Quanto ai tassi d’interesse, l’Italia gode al momento dell’accesso ai mercati finanziari a costi bassi, anche per merito del Quantitative easing avviato dalla Bce a febbraio. Tuttavia, questo piano prima o poi terminerà, presumibilmente nel settembre del 2016. L’altro strumento a disposizione della Bce, l’Omt è di difficile utilizzo, poiché richiede che un governo stipuli un accordo di assistenza finanziaria con il Fondo di stabilità europeo (Esm), cosa che nessuno vuole fare per evitare di sottoporsi alle torture della Troika. Quindi in futuro l’uscita delle Grecia ci potrà danneggiare molto: qualora la sostenibilità della nostra finanza pubblica venisse rimessa in discussione, il rischio di nostra uscita dall’euro alimenterebbe la speculazione, e nessuno potrebbe più dire che l’euro è irreversibile. Questa, come abbiamo già sostenuto, è la differenza tra una unione monetaria e un accordo di cambio. Il ritorno del rischio di break-up potrebbe riportare lo spread ai terribili livelli del 2011. Più in generale, l’uscita della Grecia sarebbe l’inizio della fine per l’euro e comporterebbe un’inversione del processo di integrazione europea. Speriamo che i governi europei nelle ultime ore disponibili evitino il disastro. In fin dei conti, il resto dell’Europa ha molto più da perdere dal Grexit che la Grecia stessa.
ATENE, DOVE FALLISCE LA POLITICA EUROPEA
Un accordo reciprocamente vantaggioso tra la Grecia e i suoi creditori sembrava possibile. Invece, si è arrivati alla rottura. Per molte ragioni, ma certo è che la governance dell’Eurozona non funziona. L’unica istituzione europea che in questo periodo ha fatto politica è stata la Bce.
Perché l’accordo era quasi certo
La scorsa settimana si era aperta all’insegna dell’ottimismo. La soluzione all’ormai estenuante trattativa tra il governo greco e le sue controparti europee sembrava essere a un passo. Poi c’è stato il moltiplicarsi dei vertici a Bruxelles fino all’annuncio del referendum chiesto da Alexis Tispras. Adesso è partito, come c’era da aspettarsi, il gioco a identificare il colpevole. Ma forse è più utile fare un passo indietro e capire la posta in gioco e quali fattori possono avere contribuito a questa impasse.
Considerate un’impresa che abbia un livello del debito molto elevato, tale da non poter essere interamente ripagato. L’impresa ha anche un nuovo progetto d’investimento che, se finanziato, genera utili. In questa situazione, potrebbe accadere che gli azionisti si rifiutino di finanziare il nuovo progetto perché gli utili da esso generati andrebbero a beneficio soprattutto dei creditori.
Che cosa è andato storto
Cosa è andato storto? In primo luogo, alcune delle istituzioni coinvolte non possono accettare una esplicita cancellazione, anche solo parziale, dei loro crediti. Questo rende anche le altre parti coinvolte meno propense a fare concessioni. In secondo luogo, la rinegoziazione è più difficile quando ci sono molte parti sedute al tavolo, specie se hanno obiettivi diversi. Chi parla per l’Europa? Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk? Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker? La cancelliera Angela Merkel? Chi di loro ha l’ultima parola? Dover convocare un Consiglio europeo ogni volta che un accordo sembra in vista non è il modo più efficace per convergere verso una soluzione. In terzo luogo, hanno pesato considerazioni politiche e non economiche.
Già trent’anni fa Giorgio Ruffolo definiva il Prodotto nazionale lordo, un “idolo bugiardo”. Un indice al quale veniva attribuita la capacità di dar conto non solo della crescita economica di un paese, ma anche del suo progresso sociale.
La necessità di una tale innovazione è evidente nell’attuale fase storica nella quale la politica economica sta forzando la trasformazione degli assetti sociali ereditati dal passato. Legittimato da una teoria economica ristretta alle dimensioni strettamente economiche e quantitative del processo sociale, quando non ridotta esclusivamente agli aspetti finanziari, il policy maker può ignorare le altre dimensioni qualitative del benessere in quanto irrilevanti per le sue conclusioni.
Per tener conto del rapporto tra processo economico e situazione ambientale e socio-culturale non è peraltro sufficiente sviluppare una gamma di indicatori alternativi; è necessaria una teoria economica capace di spiegare come l’azione della politica economica influenzi e sia influenzata da quei fattori del benessere attualmente esclusi dal suo dominio di indagine.
Non si tratta di una questione teorica astratta, anzi. Si consideri, ad esempio, il caso – del Jobs Act? – nel quale la crescita della Pil è perseguita modificando la capacità contrattuale dei lavoratori con il deterioramento delle tutele e lo svilimento del loro ruolo e della loro dignità. Non disponendo di alcuna spiegazione della relazione tra benessere, aumento del Pil (peraltro sperato) e regressione nei rapporti di lavoro (peraltro certi), qualsiasi giudizio sugli effetti di questa politica in termini di benessere risulta infondato. In sostanza, assumere come obiettivo di politica economica il livello del Pil – solo parte del benessere della popolazione – condanna le prescrizioni degli economisti ad essere un’informazione distorta; tali prescrizioni non possono che avere un carattere “autoritario” quando - come si vede nel caso Grecia – si impone una teoria di riferimento che prevede una società ridotta ai soli rapporti economici per mettere a tacere le possibili alternative bollate come non scientifiche perché guardano al di là della sola contabilità nazionale.
Il superamento del Pil come criterio sufficiente per valutare i risultati perseguiti dalla politica economica non pone solo una questione analitica (l’estensione del dominio di indagine dell’economista), ma pone anche una questione politica dato che, in società complesse come la nostra, l’obiettivo di benessere può essere declinato in diversi modi. In altre parole, vi possono essere nel corpo sociale diverse idee di progresso sociale e civile tra le quali poter scegliere e ciò richiede la realizzazione di meccanismi di democrazia partecipata in grado di favorire, in uno spazio aperto e trasparente, le necessarie mediazioni tra interessi inevitabilmente diversi. In definitiva, assumere come riferimento il benessere piuttosto del Pil impone la ricerca di forme più avanzate di analisi economica e di pratiche democratiche.
Ma inevitabili sono anche le resistenze dei poteri costituiti. Ridimensionare il ruolo del Pil nel dibattito e nelle scelte politiche significa intaccare il potere tecnocratico fondato su una teoria economica che non ammette alternative all’assolutezza delle sue prescrizioni. La conquista di spazi di effettiva democrazia passa quindi anche attraverso la contestazione di quel nodo culturale che è l’informazione economica basata sul Pil che, a sua volta, è parte significativa di quella egemonia culturale fondata sulla pretesa “scientificità” di argomentazioni che, in maniera arbitraria e pretestuosa, delimitano i fattori (il prodotto invece del benessere) rilevanti per il futuro della società.
«La Commissione europea ha ribadito all’Italia la richiesta di consentire la produzione di formaggi senza latte fresco».
La Repubblica, 29 giugno 2015 (m.p.r.)
Ora, colpire i formaggi significa colpire il cuore del patrimonio agricolo e gastronomico italiano. In Italia esistono oltre 400 tipi di formaggi frutto di una straordinaria diversità: di climi, di paesaggi, di pascoli, di razze animali, di tecniche, di saperi. Sono questi 400 formaggi, dalle tome di montagna alle paste filate del sud - orgoglio e ricchezza di altrettanti territori - che dovrebbero poter «circolare liberamente» in Europa, per restituire valore ai loro luoghi di origine, non di rado in montagne o alte colline che proprio le logiche dell’iperindustrializzazione hanno spinto sempre più ai margini. Ma lo stesso discorso vale per i numerosi formaggi di qualità di altre nazioni, patrimonio di un’Europa che troppo spesso si dimentica di queste realtà per rispondere ad altre logiche.
Alcuni giorni fa, la Commissione europea ha ribadito all’Italia la richiesta di consentire la produzione di formaggi senza latte fresco. Avete capito bene: senza latte. La legge nazionale del 1974 (la numero 138 dell’11 aprile) che vieta l’uso di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito per produrre yogurt, caciotte, robiole e mozzarelle, secondo Bruxelles rappresenterebbe infatti una restrizione alla «libera circolazione delle merci». Libera circolazione delle merci prodotte dalle solite grandi lobby industriali interessate solo a spendere poco per guadagnare tanto, aggiungiamo noi. La legge 138 è una legge nazionale di cui andare fieri, perché ha consentito nel tempo di tutelare e promuovere prodotti unici di altissima qualità: di quel made in Italy di cui tanto ci vantiamo. Mi aspetto che il Governo italiano difenda questa normativa e non una logica al ribasso che non è utile a nessuno, tanto meno all’immagine del nostro Paese.
Al di là di queste cifre, chiediamo loro se conoscono l’Europa che pretendono di difendere, quando invece fanno di tutto per disgregarla definitivamente, deturparne la vocazione, e seminare ripugnanza nei suoi popoli.
Ricordiamo loro che l’unità europea non è nata per favorire in prima linea la governabilità economica, e ancor meno per diventare un incubo contabile e cader preda di economisti che hanno sbagliato tutti i calcoli. È nata per opporre la democrazia costituzionale alle dittature che nel passato avevano spezzato l’Europa, e per creare fra le sue società una convivenza solidale che non avrebbe più permesso alla povertà di dividere il continente e precipitarlo nella disperazione sociale e nelle guerre. La cosiddetta governance economica non può esser vista come sola priorità, a meno di non frantumare il disegno politico europeo alle radici. Non può calpestare la volontà democratica espressa dai cittadini sovrani in regolari elezioni, umiliando un paese membro in difficoltà e giocando con il suo futuro. La resistenza del governo Tsipras alle nuove misure di austerità — unitamente alla proposta di indire su di esse un referendum nazionale — è la risposta al colpo di Stato postmoderno che le istituzioni europee e il Fondo Monetario stanno sperimentando oggi nei confronti della Grecia, domani verso altri Paesi membri.
Chiediamo al Fondo Monetario di smettere l’atteggiamento di malevola indifferenza democratica che caratterizza le sue ultime mosse, e di non gettare nel dimenticatoio il senso di responsabilità mostrato nel dopoguerra con gli accordi di Bretton Woods. Ma è soprattutto alle due istituzioni europee che fanno parte della trojka — Commissione e Banca centrale europea — che vorremmo ricordare il loro compito, che non coincide con le mansioni del Fmi ed è quello di rappresentare non gli Stati più forti e nemmeno una maggioranza di Stati, ma l’Unione nella sua interezza.
Chiediamo infine che il negoziato sia tolto una volta per tutte dalle mani dei tecnocrati che l’hanno fin qui condotto, per essere restituito ai politici eletti e ai capi di Stato o di governo. Costoro hanno voluto il trasferimento di poteri a una ristretta cerchia di apprendisti contabili che nulla sanno della storia europea e degli abissi che essa ha conosciuto. È ora che si riprendano quei poteri, e che ne rispondano personalmente.
Barbara Spinelli è europarlamentare indipendente del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica. Étienne Balibar è un filosofo francese
La Repubblica, 29 giugno 2015
Da un puto di vista politico, i grandi perdenti di questa dinamica sono stati i partiti di centro-sinistra, la cui acquiescenza in fase di rigorosa austerità — e il conseguente abbandono di quei valori per i quali avrebbero presumibilmente dovuto battersi — produce danni ben più gravi di quelli che politiche analoghe mietono nel centro-destra.
Ho l’impressione che la troika (credo sia ora di smettere di fingere che qualcosa sia cambiato, e tornare a chiamarla con il vecchio nome) si aspettasse, o quanto meno si augurasse, che nel caso della Grecia la storia si sarebbe ripetuta: o Tsipras avrebbe preso come al solito le distanze dalla maggior parte della propria coalizione, trovandosi probabilmente obbligato a stringere un’alleanza con il centro- destra, o il governo Syriza sarebbe caduto. Cosa che infatti potrebbe ancora accadere.
Tuttavia Tsipras non sembra per ora disposto a lasciarsi cadere sulla propria spada. Anzi: di fronte all’ultimatum posto dalla troika ha indetto un referendum sull’opportunità di accettarlo o meno. La sua scelta produrrà certo grande preoccupazione e numerose dichiarazioni sul suo scarso senso di responsabilità, ma in realtà egli sta facendo la cosa giusta, e per due motivi.
Per cominciare, una vittoria del referendum rafforzerà il governo, conferendogli una legittimità democratica — cosa che in Europa credo conti ancora (e se non contasse occorre saperlo).
In secondo luogo Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra, con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l’euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, è lo è a maggior ragione oggi. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la troika lo porti a un gesto estremo.
Ritengo che spingerlo sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti creditori, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anziché voltar loro le spalle.
©New York Times 2015 Traduzione di Marzia Porta
«Difficile da capire l’irrigidimento del Fondo monetario sul salvataggio greco. Dai dati viene fuori che Atene ha fatto molti tagli e alcune riforme anche in campo pensionistico. Con risparmi di spesa solo graduali nel tempo. È ora che i creditori ammettano che servono dieci anni, non tre, per aggiustare la Grecia». Lavoce.info, 26 giugno 2015 (m.p.r.)
Dopo il 2010 la Grecia ha ridotto il deficit pubblico, i salari e aumentato l’età del pensionamento. Oggi il paese è allo stremo, senza soldi per ripagare i suoi debiti. Il Fmi chiede di più, ma i creditori dovrebbero capire che ci vorranno cinque-dieci anni per rimettere la Grecia in carreggiata.
Il 24 giugno del 2011, con Angelo Baglioni e Massimo Bordignon firmavamo un pezzo intitolato “Grecia: peggio di così non si poteva fare”. Ci sbagliavamo: si poteva fare di peggio, eccome! Non si è pensato in tempo ad allungare l’orizzonte temporale dei prestiti e neppure quello delle manovre di consolidamento fiscali (eccessive e perciò recessive) e tantomeno quello delle cosiddette “riforme” (cioè riforma delle pensioni, riduzioni salariali e snellimento del pubblico impiego, rivelatesi altrettanto recessive). Il costo della crisi greca, con l’avvitamento recessivo, è salito enormemente, per i greci e per tutti gli europei. Ma si sa: pacta sunt servanda. Anche se sono pacta sceleris, magari imposti col ricatto dai più forti. Almeno, stavolta, la Bce è in mani più competenti di quelle che la reggevano nel giugno 2011 (anno in cui uno stordito board, ad aprile e ancora a luglio, aumentò il tasso di policy, temendo l’inflazione e non vedendo la seconda recessione europea e l’incombente tragedia greca). Ma, purtroppo, una Bce più saggia non può bastare, per come si sono messe le cose. Così, proprio mentre entriamo nella stagione che, col turismo, vale quasi il 15 per cento del Pil greco di un anno, la probabilità che si verifichi la Grexit è più alta che mai.
Una forte dose di medicina amara…
Eppure. Eppure la Grecia ha eseguito molti dei compiti che i creditori (l’odiata troika) avevano sciaguratamente richiesto. Il deficit pubblico è stato portato dal 15,6 per cento del 2009 al 3,5 nel 2014: il più consistente aggiustamento dell’intera Europa. Il surplus primario aggiustato per il ciclo supera il 5 per cento del Pil: il più alto d’Europa (l’Italia è seconda). Il Pil, nello stesso periodo, si è ridotto di 20 punti percentuali (contro una previsione del Fondo monetario di una riduzione del 5 per cento nei primi due anni e un successivo ritorno, nel 2014, ai livelli del 2009). La medicina fatta ingollare ai greci è stata amara: riduzione dei dipendenti pubblici del 25 per cento (255 mila unità); riduzione dei salari reali senza precedenti, dal momento che i salari nominali sono crollati ma i prezzi no; riforma delle pensioni che ha previsto di aumentare gradualmente l’età di pensionamento da 62 a 65 e poi a 67 anni per tutti (come risulta dall’Ageing Report 2015 della Commissione Europea, pp. 39-40); “riforme strutturali” che hanno portato la Grecia dal centonovesimo al sessantunesimo posto nel ranking del Doing Business Report tra 2010 e 2015. Col bel risultato che s’è detto: tracollo del Pil, aumento dell’incidenza della povertà assoluta e relativa, insolvenza finanziaria con i creditori.
«Thomas Piketty: “serve una conferenza per ristrutturare i debiti più insostenibili. Se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il boom, fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti, cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci”».
La Repubblica, 29 giugno 2015 (m.p.r.)
L’Europa sta per essere distrutta. Ma non dai greci e dall’ostinazione di Tsipras e Varoufakis, ma dai “conservatori” del Vecchio Continente, in particolare quelli tedeschi. E’ un Thomas Piketty furente a dire la sua, in un’intervista alla Zeit che il settimanale tedesco pubblica non a caso con grandissimo rilievo. Perché è un j’accuse - quello dell’economista divenuto una star internazionale con il suo Il capitale del XXI secolo - che cade come un meteorite in fiamme sulla cronaca greca di questi giorni.
«Bisognava capire che fra la nostra mobilità (provvisoriamente) di lusso e la loro mobilità (perennemente) sventurata c'era e c'è uno scambio ineguale, ma inesorabile: e che l'una, affondando, si porta dietro l'altra».
Larepubblica.it, 27 giugno 2015 (m.p.r.)
C'è un modo peculiare per tener dietro alla rocambolesca evoluzione della scena geopolitica: star connessi al sito "Viaggiare sicuri" del Ministero degli esteri. Quegli addetti, come generali di una ritirata militare presso a farsi rotta, spostano via via più a ridosso dei nostri confini le bandierine del territorio ancora accessibile. La ritirata riguarda noi, la parte privilegiata, dalla quale si parte con documenti rispettabili, e un biglietto di andata e ritorno in tasca. Dalla parte opposta si viene arrancando, con le tasche vuote di andata e ritorno. La sicurezza, da quell'altra parte, è la più ironica delle parole. Ci si mette in viaggio a rischio della vita. Se si sopravvive, se si tocca terra d'Europa, libertà e democrazia, comincia un'altra traversata, altre soste immemorabili, sugli scogli di Ventimiglia e nei piazzali di Calais. Il vero discrimine del mondo di oggi, dice Zygmunt Bauman- lo ridice nel dialogo con Ezio Mauro - non corre più fra ricchi e poveri, ma fra mobilità e fissità, fra chi resta fermo e chi si sposta. Lui parla soprattutto della finanza globale, che a differenza dal capitalismo industriale non sottostà a vincoli territoriali e si muove fulmineamente da un capo all'altro del pianeta, fino ad annichilire la capacità negoziale di lavoratori e sindacati lasciati a boccheggiare su un loro suolo prosciugato.
Ma è la mobilità umana, nella sua doppia faccia, a opporre nuove classi: l'una urtata dalle guerre e le carestie, l'altra spinta da voglia di conoscenza e vacanza. Il fantasma dell'invasione barbarica e il miraggio del turismo, intelligente o avventuroso o semplicemente piacevole. Quanto pesa, nel nostro sentimento, anche il meno malintenzionato, la carta d'identità che ci fa attraversare con piede leggero i confini di Schengen, il passaporto che ci autorizza, tutt'al più con la seccatura d'un visto, a visitare il mondo pressoché intero. Quando diciamo "extracomunitario" non pensiamo a cittadini con passaporto canadese, o svizzero. Ed ecco che il mondo dei nostri dépliants ci si stringe sotto i piedi, nelle impronte rovesciate delle stesse eruzioni che travolgono e cacciano i fuggiaschi. A marzo, dopo il Bardo, era giusto proporsi di tornare, deprecare le grandi compagnie che cancellavano quelle coste dagli itinerari, promettersi un'estate tunisina colma di bellezze archeologiche e naturali e di dedizione solidale. Ma la cosa era legata a un filo: bastava uno o due di questi superstiziosi che infestano l'aria del tempo, col corredo di un kalashnikov e un paio di calzoncini da spiaggia per dare il colpo di grazia all'economia e all'anima di un paese intento a riscattarsi. Oggi è più difficile replicare gli impegni: non si chiede a bravi pensionati di andare in vacanza per resistere al terrorismo.
Sulla carta continuamente ridisegnata dalla violenza contemporanea si allargano i territori su cui è scritto: Hic sunt leones; e si cancellano le frontiere. Alla larga da quella fra Libia e Tunisia. Pericolante l'Algeria. Alla larga dal Sinai e dal mar Rosso. I paesi del Golfo insidiati, il Corno d'Africa al bando: nella fatale giornata di ieri all'eccidio tunisino si sono sommati la strage nella moschea sciita del Kuwait e quella nella base dell'Unione Africana in Somalia. Gli shabab hanno portato il terrore sempre più dentro un paradiso del nostro turismo come il Kenya. Luoghi materni del genere umano, l'Iraq, la Siria, lo Yemen, sono interdetti a un rischio peggiore della vita, e così gran parte dell'Africa sotto il Sahara. In Europa, a casa nostra, dove temiamo tanto l'avvento dei fuggiaschi del mondo invasato, fra poco commemoreremo i vent'anni di Srebrenica con un'Ucraina che ripercorre la strada ex-jugoslava, e i jet militari che si sfiorano sul Baltico.
Del resto, il fanatico assassino che va a conquistarsi il paradiso in calzoncini su una spiaggia di Susa non ci metterà molto ad approdare anche di qua dallo stesso mare arrivò già nel cuore dell'Europa, ed era casa sua. Bisognava saperlo, bisogna ancora. Anche a non essere innamorati del prossimo e dei diritti umani, anche a essere solo gelosi di Palmira e di Ninive e di Timbuctu e di Sanaa e della regina di Saba, e dei propri tour tutto compreso, bisognava capire che fra la nostra mobilità (provvisoriamente) di lusso e la loro mobilità (perennemente) sventurata c'era e c'è uno scambio ineguale, ma inesorabile: e che l'una, affondando, si porta dietro l'altra.
«Da un lato gli stati non possono ignorare le richieste degli elettori che li hanno investiti di un preciso mandato, come in Grecia, Italia o Portogallo; dall’altro sanno di non poter mantenere le promesse perché aumento della disoccupazione e abbassamento degli standard sociali non dipendono più dalla loro capacità d’intervento».
Corriere della Sera, 28 giugno 2015 (m.p.r.)
«Le statistiche ingannano. Dietro la crescita economica fotografata dai numeri si accumula malessere e la sola cura che conosciamo ci dice di spingere ancora sull’economia, ma non è così che impareremo ad essere felici». Zygmunt Bauman ragiona sull’impotenza della democrazia dei consumi di fronte alle domande fondamentali. Ospite d’onore di Berlucchi a Palazzo Lana per la cerimonia dei diplomi della Scuola estiva dell’Iseo di Brescia, il grande sociologo polacco descrive il capovolgimento dei rapporti tra politica e finanza in queste ore convulse di trattative. «Non solo lo Stato non dispone più della capacità di dirigere i processi economici ma ne è diretto a sua volta - dice Bauman al Corriere -. E questo accade mentre i governi sono sottoposti a una duplice pressione: da un lato non possono ignorare le richieste degli elettori che li hanno investiti di un preciso mandato, come in Grecia, Italia o Portogallo; dall’altro sanno di non poter mantenere le promesse perché aumento della disoccupazione e abbassamento degli standard sociali non dipendono più dalla loro capacità d’intervento».
«Gli elettori greci sono chiamati a decidere se il loro desiderio di rimanere all’interno dell’eurozona è superiore alla loro rabbia e disperazione per la politica criminale che la trojka vuole continuare ad applicare in Grecia».
Il manifesto, 28 giugno 2015 (m.p.r.)
L’Eurogruppo ha dichiarato guerra alla Grecia. Ieri il suo presidente è apparso alla fine della riunione e poco ci è mancato che sbattesse i pugni sul tavolo. La decisione della Grecia di indire un referendum, ha detto, equivale all’interruzione unilaterale del negoziato. Quindi l’Unione Europea se ne lava le mani di tutto quello che può succedere. La richiesta di Varoufakis di protrarre di qualche settimana il memorandum del 2012, che scade martedì, è stata respinta. Quindi ufficialmente la Grecia ha smesso di fare parte dei paesi sotto programma di aggiustamento da parte della trojka. Se ce ne sarà un altro dopo il referendum non è sicuro, perché Dijsselbloem è molto arrabbiato e non «c’è fiducia» verso la Grecia.
Prima della riunione, il riccioluto agronomo olandese aveva tentato di nascondere la mano dopo aver lanciato il sasso: il testo scandaloso presentato dal Fmi martedì scorso «non era un ultimatum» e «c’era spazio per miglioramenti». Peccato che appena il giorno prima egli stesso, e il suo datore di lavoro Schauble, avevano testualmente detto che era proprio un ultimatum e che i greci dovevano accettarlo o respingerlo. Parlando di fiducia e di credibilità.
All’ultimatum Tsipras ha riposto con il referendum, ritenuto, lo avevamo detto da tempo, una carta potente e una risorsa di mobilitazione popolare. Malgrado i grandi sforzi dei media europei, la domanda non sarà euro o dracma. Riguarderà invece proprio l’ipotesi di accordo presentata in maniera ultimativa dalla trojka. Tsipras è arrivato alla decisione di indire il referendum dopo aver constatato di non avere più alcuno spazio di manovra.
Il massimo di concessioni era stato già raggiunto nel testo di Atene approvato in linea di massima lunedì e poi a sorpresa disconosciuto dalla troika. Da lì il fondato sospetto che da parte dei creditori non c’era alcuna volontà di compromesso ma solo una guerra di logoramento per favorire un cambiamento politico.
Anche se in queste ore i media pro–austerità cercano di fare confusione, sostenendo che la proposta del Fmi non è più valida, quindi il referendum sarebbe senza oggetto, l’oggetto c’è, eccome: gli elettori greci sono chiamati a decidere se il loro desiderio di rimanere all’interno dell’eurozona è superiore alla loro rabbia e disperazione per la politica criminale che la trojka vuole continuare ad applicare in Grecia. Si tratta di decidere se si vuole essere un paese membro di pari dignità in un’Unione di popoli liberi oppure un paese per sempre satellite, una colonia tedesca, al livello dei Baltici.
Al suo proclama televisivo Tsipras non ha parlato di soldi ma di «ricatto inaccettabile». Ieri in Parlamento ha ripetuto che la posta in gioco è la dignità, l’orgoglio e la libertà del paese. Anche il suo alleato al governo, il ministro della Difesa Kammenos, con le lacrime agli occhi, ha insistito sull’importanza delle isole dell’Egeo, che la trojka vuole «svuotare» e «distruggere». La convinzione è che l’atteggiamento dell’Europa non lascia spazio a equivoci: il governo di sinistra greco si deve sottomettere e umiliare, perché dentro l’eurozona non c’è posto per chi non accetta i dogmi neoliberisti.
Quale sarà il responso delle urne? È molto probabile che vinca il «no» all’austerità. Anche se le Tv oligarchiche hanno già cominciato a spargere il terrore, chiamando i greci a ritirare i propri soldi dalle banche, se uno giudica dall’atteggiamento dell’opposizione greca capisce che è in preda al panico. Girare per le Tv sostenendo che bisogna tagliare le pensioni e aumentare l’IVA al 23% per i servizi turistici non è certo piacevole. Dopo grandi sforzi, alla fine la destra e il partito degli oligarchi To Potami hanno deciso per il sì, mentre i socialisti del Pasok, in sprezzo del ridicolo, hanno anche chiesto le dimissioni del governo.
Il loro ragionamento è esattamente quello dei creditori: dire no all’austerità equivale a uscita dall’eurozona. Al governo invece sono convinti che la vittoria del «no» aiuterà a piegare le grandi resistenze dei creditori. Un pronunciamento diretto difficile da ignorare perfino per l’eurozona.
Cosa succederà nel caso vinca il sì? Tsipras ha assicurato che «rispetterà qualsiasi responso delle urne» ma Varoufakis è andato più in là, ipotizzando un rimpasto governativo, probabilmente includendo To Potami, amatissimo a Bruxelles ma confinato dagli elettori a un misero 6%. Ad Atene però sono tutti convinti che né Tsipras né gli altri ministri di Syriza saranno disposti a eseguire una politica che non è la loro.
Intanto bisogna affrontare la crisi di liquidità delle banche, probabilmente senza il sostegno di Draghi, mentre il governo non ha alcuna intenzione di pagare i debiti né di giugno né di luglio. Nelle capitali europee si pensa a come evitare le conseguenze dello scontro tra Atene e la trojka. Ma sono pie illusioni. L’ignavia e la viltà di molti di loro hanno lasciato mano libera agli estremisti liberisti, sabotando ogni ipotesi di compromesso. Se alla fine ci sarà l’esplosione dell’eurozona nessuno sarà al riparo. Forse non è troppo tardi per far sentire la loro voce.
Un appello di "L'altra Europa con Tsipras" e un articolo di Raffaella Bolini. Solidarietà al popolo greco, aggredito dagli oligarchi che si sono impadroniti dell'Europa e tentano di rottamare la democrazia.
Il manifesto, 28 giugno 2015
Quando non c’era l’Ue i colpi di stato per liberarsi di governi democratici li facevano i colonnelli (o per le pagliacciate i generali Di Lorenzo ). Si dirà un passo in avanti, ma quale? Il rifiuto di accogliere il compromesso che dopo mesi di trattative Tsipras aveva controproposto equivale –lo hanno detto autorevoli economisti — a un colpo di stato di tipo nuovo. Un tentativo scoperto di pugnalare il primo governo di sinistra greco. Appare adesso anche più chiaro che in ballo non c’era la restituzione del debito, ma proprio questo obiettivo politico, per dimostrare al mondo, e nell’immediato alla Spagna, che non è lecito contestare la politica decisa a Bruxelles.
Tsipras ha risposto con coraggio convocando per il 5 luglio un referendum. Per avere dalla sua la forza di un appoggio popolare. Si tratta di un voto decisivo e drammatico, perché tutti sono consapevoli della durezza della scelta. È un voto che ci coinvolge e per questo dimostriamo ai greci che non lo consideriamo qualcosa che riguarda solo loro. Dobbiamo far sentire ai greci che non sono soli, dar loro sostegno come possiamo: sin dal 3 sera manifestando, facendo una fiaccolata, attrezzandoci per seguire i filmati che da Atene ci invieranno. E perché la TV greca possa dar conto della nostra mobilitazione a chi deve sentirsi meno solo quando andrà a votare.
Per il 5 sera, organizziamo ovunque un ascolto collettivo dei risultati delle urne. Il rifiuto del diktat non sarà una vittoria definitiva, perché si aprirà comunque una fase assai difficile. Ma sarà un atto politico soggettivo di enorme importanza, la testimonianza che siamo ancora convinti che Davide ce la può fare contro Golia. E appendiamo alle nostre finestre, per dire quanto importante sia anche per noi l’esito della vicenda, un drappo blu. (n drappo blu per questa volta, ma la prossima una vera bandiera greca che ora non abbiamo ma faremo bene a procurarci).
Grecia. La Grecia sta lottando da sola, in mezzo a intrighi di ogni genere. Vogliono far cadere Tsipras nonostante il consenso di cui gode
«Le istituzioni hanno presentato una nuova proposta che trasferisce il carico sui lavoratori e i pensionati con misure sociali ingiuste, mentre al tempo stesso propone di evitare l’aumento del peso su coloro che hanno di più». Questa è una nota del governo greco prima dell’Eurogruppo – e chiunque abbia un briciolo di cervello sa che è vero.
La Grecia sta lottando sostanzialmente da sola, in mezzo ad intrighi e sporcizia di ogni genere – vogliono cercare di far cadere il governo Tsipras nonostante abbia la grande maggioranza di consensi nel suo paese, e vogliono impedire un accordo onorevole che incrini la gabbia dell’austerità. È una terribile vergogna europea. Che cade non soltanto sulle istituzioni e sui liberisti, ma anche sulla società civile progressista e sui movimenti sociali.
Non si trattava di smettere di fare le proprie lotte e iniziative per dedicarsi alla Grecia. Neppure i greci chiedevano questo. Ma non costa nulla aggiungere un logo, una bandiera, uno slogan alle proprie vertenze. Per solidarietà, ma soprattutto per dare più forza a se stessi costruendo una alleanza europea contro l’austerità.
La storia non è fatta di automatismi, è fatta di scelte. Di tante scelte personali e collettive. Della capacità di capire quale è il punto, laddove la storia può cambiare in meglio. E di dare un contributo perché ciò accada.
Chi non capisce, chi non ha gli strumenti, a chi non è permesso uscire può stare alla finestra, mentre si giocano le partite fondamentali. Non è colpa sua. Ma chi gli strumenti per capire ce l’ha, e nonostante questo alla finestra rimane, dimostra — a mio modestissimo parere — di non essere all’altezza della sfida.
E tanto più importanti in queste ore sono le scelte di chi decide, o deciderà, che questa politica europea e la sua versione in salsa italiana richiede strappi grandi e coraggiosi – e un impegno vero, in prima persona, non delegato agli addetti ai lavori.
Oggi ad Atene si incontrano di nuovo le campagne di solidarietà europee, sindacati, organizzazioni e movimenti sociali di diversi paesi che hanno compreso fino in fondo quale è la scommessa. Ci saranno anche i tedeschi, che il 20 giugno con la manifestazione di Berlino hanno detto, in un appello forte promosso da una bella coalizione politica e sociale, che l’Europa fortezza e l’Europa della austerità sono due facce della stessa medaglia.
Tenerle separate rischia di essere una sudditanza inconsapevole verso le culture reazionarie che alimentano la guerra dei nativi contro i migranti. I movimenti presenti, dalla Spagna alla Germania alla Francia, presenteranno la proposta di fare intorno al 17 ottobre, giornata internazionale contro la povertà, una sorta di invasione popolare di Bruxelles.
Il progetto è di fare carovane che arrivino da diversi paesi, azioni, un contro vertice e una manifestazione grande di cui sta discutendo anche il sindacato belga.
Chiedono all’Italia di essere della partita. Diverse organizzazioni e reti italiane ne stanno già discutendo.
Si deciderà anche, naturalmente, di che cosa fare se le cose per la Grecia — diciamo meglio per l’Europa democratica– vadano male nelle prossime ore.
Ma io confido. Confido soprattutto nella grandissima forza, nel coraggio e nella straordinaria intelligenza e lucidità politica di Syriza. E nel popolo greco.
Salveranno il loro paese, salveranno questo Europa schifosa che chiude le porte in faccia alle persone: nativi, migranti e rifugiati. Terranno aperta la breccia per farci passare tutti e tutte. E salveranno anche chi non se lo merita e chi non ci arriva, perché sono gente generosa. Forza Grecia.
* Cambia la Grecia Cambia l’Europa
Qualche idea ragionevole per tutti, e soprattutto per quanti, servizievoli verso il mondo del potere globale, accusano Tsipras di demagogia dimostrando così di preferire l'oligarchia alla democrazia.
La Repubblica, 28 giugno 2015
Com’era il referendum nel mondo antico?«Nell’Atene del V secolo a. C. il referendum non aveva senso: le decisioni erano prese dall’assemblea popolare. Qui due volte al mese si tenevano delle assemblee ordinarie nelle quali i cittadini votavano per alzata di mano e decidevano sulla loro rappresentatività. La repubblica romana invece era aristocratica: si votava per centurie e le classi ricche vincevano sempre».
Quando nasce storicamente l’esigenza di far partecipare il popolo alla vita pubblica?
«Aristotele spiega bene che in origine solamente in pochi prendevano parte alla vita politica della polis. Erano i signori a comandare. Solo quando s’introdusse un salario minimo anche le persone comuni poterono iniziare a partecipare attivamente».
Si può ricorrere al referendum per una questione così importante come l’accettazione del piano Ue sulla Grecia?
«Non solo si può, ma si deve. Nella storia d’Italia ci sono un paio di referendum che ci hanno segnato per sempre: quello per la Repubblica del 1946 e quello per il divorzio del 1974. E invece ora tutti si mettono a dare lezioni alla Grecia. Ma sono lezioncine in contrasto con l’idea di sovranità popolare. Sono reazioni oligarchiche»
Siamo di fronte ad una crisi delle democrazie rappresentative?
«Il modello della delega è logoro. Il referendum è un correttivo, un modo per restituire voce al cittadino comune. E’ una grande conquista, insieme al suffragio universale sicuramente una delle più grandi del Novecento. D’altra parte Jean-Jacques Rousseau diceva che il popolo inglese è libero soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento, ma appena questi sono eletti ridiventa schiavo.
In momenti delicati, non è rischioso affidarsi alla pancia degli elettori?
«Chi pensa questo non ha fiducia nel popolo sovrano. In realtà la democrazia s’impara praticandola e non continuando a tenere il cittadino comune sotto tutela».
Parole chiare a chi vuol sanare il male col male. «Dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto, sottolineo il verbo, dico fermare, non bombardare o fare la guerra», e «i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati».
Il Messaggero, 28 giugno 2015
Ma «quante volte - ammonisce - con questa scusa di fermare l'aggressore le potenze hanno fatto una vera guerra di conquista. Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore». Papa Bergoglio ricorda che «dopo la Seconda guerra mondiale è nata l'idea della Organizzazione delle Nazioni Unite, è là che si deve discutere: 'Come facciamo a fermarlo?'». «Fermare l'aggressore ingiusto - ha spiegato il Papa - è un diritto dell'umanità, ma è anche un diritto che ha l'aggressore di essere fermato perchè non faccia il male».
Racconta anche che ha studiato con i collaboratori tutti i passi da fare per la situazione irachena, ha emesso un comunicato, ha scritto al segretario dell'Onu Ban ki-moon, ha mandato il card. Fernando Filoni quale suo inviato in Iraq e Kurdistan, e ha deciso di essere «disposto ad andare in Kurdistan» e che «c'è questa possibilità», che è stata valutata prima di partire per il viaggio in Corea e per il momento resta una possibilità. «Questi sono i frutti della guerra», dice il Papa ricordando le vittime di oggi, e di ieri, e «il fumo delle bombe» che in Terrasanta non fa vedere la «porta» che si è aperta con la preghiera comune nei giardini vaticani dei presidenti israeliano e palestinese Shimon Peres e Abu Mazen, ma il fumo delle bombe «è congiuntura», mentre la porta resta aperta.
Dalla guerra alle speranze di dialogo, papa Francesco è pronto a partire per Pechino «magari, domani», spiega ai 72 giornalisti da 11 paesi del mondo che lo hanno accompagnato nel suo terzo viaggio internazionale. Conferma inoltre il viaggio a Filadelfia di settembre 2015 e spiega che, avendo ricevuto inviti anche dal presidente e dal parlamento americano e dal segretario dell'Onu si potrebbero visitare «forse le tre città insieme», cioè Filadelfia, Washington e New York. Spiega poi che andrà in Albania il 21 settembre per due motivi «importanti»: in Albania «sono riusciti a fare un governo nazionale» fra diverse componenti, cattolici, ortodossi, «e questo va bene - sottolinea il Papa perché vuol dire che è possibile lavorare bene insieme». Altro motivo è che «l'Albania è l'unico Paese comunista che aveva l'ateismo pratico nella costituzione, se andavi a messa era anticostituzionale». «Sono state distrutte - ha aggiunto - 1820 chiese, voglio citare il numero preciso, sia ortodosse che cattoliche, in altre sono stati fatti cinema e teatri». In ottima forma al termine dell'impegnativo viaggio in Oriente, il Papa racconta anche alcuni aspetti della sua vita in Vaticano, alla ricerca di normalità, e senza abbandonare la abitudine di non fare vacanze ma ritrovare un ritmo più disteso, leggendo e dormendo di più e ascoltando musica.
Contento anche della popolarità di cui gode, «se il popolo è felice per quello che faccio». «La vivo come generosità - spiega - ma cerco di pensare anche ai miei peccati, però cerco anche di godermela, perchè so che durerà poco tempo e poi sarò nella Casa del Padre».
L'incredibile faccia di bronzo di chi utilizza le parole di Jorge Borgoglio per sostenere la tesi opposta Ecco Luciano Violante nell'intervista di Dino Martirano.
Corriere della Sera, 28 giugno 2015, con postilla
L’ex presidente della Camera Luciano Violante - che da magistrato, negli anni 70, ha combattuto in prima linea a Torino il terrorismo delle Brigate Rosse - non mostra esitazione nel pronunciare la parola guerra: «Dobbiamo attrezzarci innanzitutto culturalmente per capire che una guerra tendenzialmente globale e che produce anche atti di terrorismo è cosa diversa dal terrorismo senza guerra. La risposta di polizia è utile ma insufficiente. Occorre soprattutto un nuovo esame della situazione che parta dalla idea che ci hanno dichiarato una guerra. Non si tratta di mandare i carri armati, ma di capire la situazione senza ipocrisie».
Presidente Violante, un tempo le guerre si dichiaravano. Qui non ci sono cancellerie, ultimatum, ritorsioni...
«Il Papa ha detto che è una guerra mondiale a rate. Tutti d’accordo, ma non se ne sono tratte le conseguenze. È una guerra senza Stati. C’è un’armata che si muove dal Caucaso alla Libia, un semicerchio attorno all’Europa, tanto per azione diretta quanto “per induzione”. Sulla spiaggia tunisina infatti avrebbe agito un gruppo non direttamente inquadrato nell’Isis».
Dopo gli attacchi dell’11 settembre negli Stati Uniti il mondo occidentale ha risposto con operazioni di «polizia internazionale».
«Abbiamo scardinato i regimi di Saddam Hussein e di Gheddafi, senza un piano per il futuro; e siamo diventati artefici del caos. In politica uno degli errori più gravi è non capire chi è il nemico, e poi come si muove, come si finanzia, quali sono gli obbiettivi vicini e lontani. È un errore che possiamo ancora correggere riconoscendo che é in atto una guerra contro di noi, che noi non abbiamo dichiarato e che agisce anche con atti di terrorismo. Gli atti di terrorismo sono l’effetto di questa guerra; non sono la guerra».
Qual è l’arma che distingue e rende pericoloso l’«esercito senza stato»?
«È composto da persone che non hanno paura di perdere la vita. Si è dotato di una missione ideale, per quanto inaccettabile, conquistare tutto il mondo alla loro idea di Islam, che coinvolge migliaia di persone in tutto il mondo. Ha enormi e ignoti finanziamenti. E poi durante il Ramadan sciiti e sunniti predicano da sempre l’interruzione di ogni atto di violenza. Qui invece assistiamo a un sovvertimento delle regole, quasi a cercare l’elevazione dello spirito attraverso l’eliminazione del nemico ».
Accettare l’idea di convivere con una guerra implica un conseguente contenimento delle libertà democratiche?
«No. Ma l’Europa deve reagire con un impegno nuovo. Più è grave il pericolo, più il rimedio deve essere serio. È una situazione che l’Europa deve prendere terribilmente sul serio e con assoluta priorità. Certo nei Paesi del Nord Europa si può far strada l’idea che a certe latitudini non arrivano questi venti di guerra. Ma non è così».
Lo «stato di guerra», seppure non dichiarato, comporta misure eccezionali?
«No. Bisogna innanzitutto mobilitare tutte le alleanze e tutte le risorse delle tecnologie più sofisticate, soprattutto per individuare e colpire i finanziatori. E la politica dell’immigrazione, fermo il diritto d’asilo, e ferme le libertà costituzionali, non può prescindere da questa situazione oggettiva».
Alcuni Paesi a prevalente presenza islamica giocano un ruolo chiave nella nuova mappa geo politica. Dove ha sbagliato fin qui l’Europa?
«Il mancato ingresso della Turchia nella Unione europea ha fatto sì che quel Paese sia diventato la frontiera dell’Est e non più dell’Ovest».
L’Iran, che aspira a diventare un punto di forza e di stabilità in Medio oriente come è stato trattato?
«L’Iran è sciita; perciò è pesantemente messo sotto attacco dall’Isis. Il presidente della Air Products, azienda colpita in Francia è un iraniano sciita che vive negli Stati Uniti. Aver colpito in quel modo orribile quell’azienda francese probabilmente non è un caso. Questo attacco ci dice che il terrorismo agisce per procura di chi dirige la guerra».
postilla
Il giorno stesso papa Francesco ha detto: «In questi casi dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto, sottolineo il verbo, dico fermare, non bombardare o fare la guerra», e «i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati». Nell'enciclica aveva individuato con chiarezza il sistema responsabile della "terza guerra mondiale"
In tutto questo periodo di trattative ci è stato chiesto di applicare gli accordi di memorandum presi dai governi precedenti, malgrado il fatto che questi stessi siano stati condannati in modo categorico dal popolo greco alle ultime elezioni. Ma neanche per un momento abbiamo pensato di soccombere, di tradire la vostra fiducia.
Dopo cinque mesi di trattative molto dure, i nostri partner, sfortunatamente, nell’eurogruppo dell’altro ieri (giovedì n.d.t.) hanno consegnato una proposta di ultimatum indirizzata alla Repubblica e al popolo greco. Un ultimatum che è contrario, non rispetta i principi costitutivi e i valori dell’Europa, i valori della nostra comune casa europea. È stato chiesto al governo greco di accettare una proposta che carica nuovi e insopportabili pesi sul popolo greco e minaccia la ripresa della società e dell’economia, non solo mantenendo l’insicurezza generale, ma anche aumentando in modo smisurato le diseguaglianze sociali.
La proposta delle istituzioni comprende misure che prevedono una ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, nuove diminuzioni dei salari del settore pubblico e anche l’aumento dell’IVA per i generi alimentari, per il settore della ristorazione e del turismo, e nello stesso tempo propone l’abolizione degli alleggerimenti fiscali per le isole della Grecia. Queste misure violano in modo diretto le conquiste comuni europee e i diritti fondamentali al lavoro, all’eguaglianza e alla dignità; e sono la prova che l’obiettivo di qualcuno dei nostri partner delle istituzioni non era un accordo durevole e fruttuoso per tutte le parti ma l’umiliazione di tutto il popolo greco.
Greche e greci,
in questo momento pesa su di noi una responsabilità storica davanti alle lotte e ai sacrifici del popolo greco per garantire la Democrazia e la sovranità nazionale, una responsabilità davanti al futuro del nostro paese. E questa responsabilità ci obbliga a rispondere all’ultimatum secondo la volontà sovrana del popolo greco.
Domani (oggi n.d.t.) si terrà l’assemblea plenaria del parlamento per deliberare sulla proposta del Consiglio dei Ministri riguardo la realizzazione di un referendum domenica 5 luglio che abbia come oggetto l’accettazione o il rifiuto della proposta delle istituzioni.
Ho già reso nota questa nostra decisione al presidente francese, alla cancelliera tedesca e al presidente della Banca Europea, e domani con una mia lettera chiederò ai leader dell’Unione Europea e delle istituzioni un prolungamento di pochi giorni del programma (di aiuti n.d.t.) per permettere al popolo greco di decidere libero da costrizioni e ricatti come è previsto dalla Costituzione del nostro paese e dalla tradizione democratica dell’Europa.
Greche e greci,
a questo ultimatum ricattatorio che ci propone di accettare una severa e umiliante austerity senza fine e senza prospettiva di ripresa sociale ed economica, vi chiedo di rispondere in modo sovrano e con fierezza, come insegna la storia dei greci. All’autoritarismo e al dispotismo dell’austerity persecutoria rispondiamo con democrazia, sangue freddo e determinazione.
La Grecia è il paese che ha fatto nascere la democrazia, e perciò deve dare una risposta vibrante di Democrazia alla comunità europea e internazionale. E prendo io personalmente l’impegno di rispettare il risultato di questa vostra scelta democratica qualsiasi esso sia. E sono del tutto sicuro che la vostra scelta farà onore alla storia della nostra patria e manderà un messaggio di dignità in tutto il mondo.
In questi momenti critici dobbiamo tutti ricordare che l’Europa è la casa comune dei suoi popoli. Che in Europa non ci sono padroni e ospiti. La Grecia è e rimarrà una parte imprescindibile dell’Europa, e l’Europa è parte imprescindibile della Grecia. Tuttavia un’Europa senza democrazia sarà un’Europa senza identità e senza bussola.
Per la sovranità e la dignità del nostro popolo.
Alexis Tsipras
Tre sono i vizi degli atti con cui la Troika ha strangolato la Grecia: l'illegalità, l'illeggittimità e l'odiosità. Ma questi vizi sono identici a quelli con i quali la Troika (in gergo: "lo chiede l'Europa") ha sollecitato i governi italiani a incamminarsi sulla strada verso il baratro.
La Repubblica, 25 giugno 2015
POCHI giorni fa il Parlamento greco ha diffuso un rapporto del Comitato per la Verità sul Debito pubblico. Le conclusioni sono che per il modo in cui la Troika ha influito sul suo andamento, e per i disastrosi effetti che le politiche economiche e sociali da essa imposte hanno avuto sulla popolazione, il debito pubblico della Grecia è illegale, illegittimo e odioso. Pertanto il Paese avrebbe il diritto di non pagarlo. Il rapporto greco è fitto di riferimenti alle leggi e al diritto internazionali. E contiene, in modo abbastanza evidente, una lezione per l’Italia.
Il rapporto distingue con cura tra illegalità, illegittimità e odiosità di un debito pubblico. Un debito è illegale se il prestito contravviene alle appropriate procedure previste dalle leggi esistenti. È illegittimo quando le condizioni sotto le quali viene concesso il prestito includono prescrizioni nei confronti del debitore che violano le leggi nazionali o i diritti umani tutelati da leggi internazionali. Infine è odioso quando il prestatore sapeva o avrebbe dovuto sapere che il prestito era stato concesso senza scrupoli, da cui sarebbe seguita la negazione alla popolazione interessata di fondamentali diritti civili, politici, sociali e culturali. Il Fmi è responsabile di tutt’e tre le infrazioni perché le condizioni imposte alla Grecia in relazione ai suoi prestiti hanno gravemente peggiorato le sue condizioni economiche e il suo sistema di protezione sociale. Da vari documenti interni del Fondo stesso, risalenti al periodo 2010-2012, appare evidente che perfino il suo staff, una parte consistente del consiglio direttivo formato da rappresentanti di vari paesi, e non pochi dirigenti sapevano benissimo quali sarebbero state le conseguenze negative a danno della popolazione greca.
La Bce non è stata da meno, contribuendo ai programmi di aggiustamento macroeconomici della Troika e insistendo in special modo sulla de-regolazione del mercato del lavoro - violando in tal modo anche gli articoli del Trattato Ue che stabiliscono la sua indipendenza dagli stati membri. Con le sue manovre relative al commercio dei titoli sul mercato secondario ha reso possibile alle banche private greche di scaricare dal bilancio gran parte dei titoli di stato, peggiorando le condizioni del bilancio pubblico. Quanto al fondo Efsf, sebbene gestisca fondi pubblici europei, è stato costituito come società privata cui non si applicano le leggi Ue, persegue unicamente obbiettivi finanziari, e sapeva bene di imporre con i suoi prestiti costi abusivi alla Grecia, senza che essi recassero alcun beneficio al paese. Pertanto molte azioni svolte da Bce e Efsf nei confronti della Grecia nel periodo 2010-2015 sono classificabili come illegali, illegittime e odiose. Il testo abbonda di rimandi ad altre violazioni operate dalla troika. Esse vanno dalla falsificazione delle statistiche economiche e sociali della Grecia alla violazione della sovranità fiscale dello stato greco.
Si dirà: ma che c’entra l’Italia con le vicende del debito greco? C’entra eccome, poiché vi sono perentori memoranda e lettere di istruzione inviate al governo italiano dalle medesime istituzioni Ue, e nello stesso periodo, che nello spirito e nei contenuti sembrano delle fotocopie di quelle inviate al governo ellenico. Si veda ad esempio la lettera indirizzata al governo italiano dalla Bce nell’agosto 2011. Essa raccomandava varie misure pressanti, quali «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali»; «privatizzazioni su larga scala»; una ulteriore riforma del «sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello di impresa»; l’adozione di «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti»; un ulteriore intervento nel sistema pensionistico; «una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego»; infine chiedeva che «tutte le azioni elencate… siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare ». Questi e vari altri interventi peggiorativi delle condizioni di lavoro e di vita dei cittadini italiani sono stati prontamente adottati dai governi italiani, fino all’attuale con il suo scandaloso Jobs Act, non mancando di ripetere ad ogni momento la trita giustificazione «ce lo chiede l’Europa». In realtà non è l’Europa a chiederlo, ma singole istituzioni europee, molto spesso in violazione, come documenta il rapporto greco,degli stessi trattati Ue e di numerosi trattati internazionali. Al punto da far sorgere il dubbio che siano da considerare anch’essi, i dettati inviati all’Italia, illegali, illegittimi e odiosi. In attesa che qualcuno se ne accorga, avvii le procedure necessarie, e si impegni a chiedere alla Ue che rispetti almeno i medesimi trattati da essa sottoscritti. Tutto ciò non soltanto per il rispetto dovuto alle leggi ma perché il prossimo caso greco potremmo essere noi.
Cronaca del colpo mortale con cui il renzismo, asservendo la scuola al Monarca e ai suoi vassalli, ha pesantemente compromesso il diritto degli italiani a una formazione libera. Articoli di Carmelo Lopapa e Francesco Bei, e un'intervista di Corrado Zunino a Giovanni Cocchi.
La Repubblica, 26 giugno 2015
Il governo ce l’ha fatta sì, il ministro Stefania Giannini («Non sono commissariata») e il sottosegretario Davide Faraone si abbracciano. Ma con voti e assenze che pesano. Con i sì, ad esempio, degli ex Fi Sandro Bondi e Manuela Repetti, con l’assenza fin troppo evidente di Denis Verdini, ormai in rotta col suo partito. Se è per questo non si fanno vedere nel giorno decisivo, ma per marcare la distanza, nemmeno il senatore a vita Carlo Rubbia, e Elena Cattaneo e Mario Monti, uomini di scienza e di università. Tra le file della maggioranza spicca anche l’assenza di Carlo Giovanardi, ma l’Ncd di cui fa parte è compatto e determinante.
Dagli ultrà grillini e Sel non sarà risparmiato nessuno dei votanti a favore. Nemmeno, per la prima volta, l’ex presidente Giorgio Napolitano. Ha appena pronunciato il suo “sì” alla prima chiama e finisce sopraffatto da cori di “buu”, “bravo, bravo”, “vergogna” e fischi dai banchi dei Cinque stelle. Lui si allontana lentamente sostenendosi sul bastone, senza voltarsi. Sono da poco passate le 18, è il momento più basso di una giornata che è andata degradando come su piano inclinato verso il caos finale. Una corrida, protagonisti anche prof e studenti dalle tribune in alto, che si scatenerà contro tutti gli ex grillini che oseranno pronunciare il “sì” alla chiama, ma anche contro chi, come Miguel Gotor sta alla sinistra del PD, ma non al punto da negare la fiducia. «Voto sì per disciplina, ma gli elettori non ci perdoneranno», è il suo presagio. A mezzogiorno i parlamentari di Sel compaiono con t-shirt bianche con la scritta “Libertà di insegnamento” e “Diritto allo studio”, il clou sarà l’uso imperterrito dei fischietti in aula, stile Vuvuzelas ai mondiali del Sudafrica. La maglietta la indossa anche Maria Mussini del Misto e il presidente Grasso le chiede di toglierla. «Che faccio presidente, mi spoglio? Volete uno striptease?» La capogruppo Sel De Petris nel frattempo ha adagiato una di quelle magliette sul banco del ministro Giannini. «Fuori i bulli dalla scuola», campeggia sui cartelli mostrati dai leghisti con tanto di fotomontaggio del premier Renzi nei panni del Fonzie di “Happy days”. Nulla rispetto allo striscione che a un certo punto srotolano sempre i leghisti: «Difendiamo i nostri bambini dalla scuola di Satana», c’è scritto. Il loro Gian Marco Centinaio si distinguerà per aver paragonato il ddl alla “vaselina”. I grillini portano in aula i lumini mortuari, dopo averli ostentati in sala stampa a beneficio delle telecamere per il “funerale” della scuola. «Quei lumini che avete là non portano bene», li ammonisce con l’ultimo briciolo di ironia l’ormai esausto presidente Grasso. Perderà le staffe solo quando i banchi M5S si trasformeranno in curva sud pronta a colpire chiunque voti a favore o quasi: «Questi sono gesti di intolleranza. Il voto deve essere libero, non voglio commenti né prima, né dopo». Ma sarà inutile. Bondi e Repetti, con Casini e tutti gli ex grillini, i più tartassati. Beppe Grillo via Twitter sentenzia: «Hanno ucciso la scuola pubblica». I centomila da assumere tirano un sospiro di sollievo.
Ineccepibile invettiva contro il ducetto Renzi e chi, con la sua ignavia, gli permette di rottamare democrazia, istituzioni, scuola - e il futuro di noi tutti. L'elenco dei complici è presto fatto.
Ilmanifesto, 26 giugno 2015
Così ci sforziamo di ritornare freddi nella misura del possibile di fronte a questa porcheria di un’ennesima fiducia richiesta e puntualmente votata anche da quanti non si stancano al tempo stesso di protestare e mugugnare e lamentarsi del destino cinico e baro che li costringe a rivelare la propria inconsistenza e viltà al cospetto dell’intero popolo sovrano.
Siamo arrivati a questo voto in capo alla più tradizionale delle pantomime. Prima il renzigoverno annuncia le linee fondamentali della «riforma» della scuola – quella scuola che il giovane bellimbusto manintasca aveva celebrato come epicentro della sua società ideale quando si era presentato per la prima volta alle Camere l’anno scorso, liquidato e impalato il letta.
Linee che suscitano la pronta corale reazione indignata di tutte indistintamente le componenti del mondo della scuola, salvo la mogliera del renzi medesimo e qualche dirigente scolastico rampante bramoso di impettarsi la stella dorata dello sceriffato.
Studenti, genitori, professori in ruolo e precari, tecnico-amministrativi e sindacati – per quel nulla che valgono agli occhi del ducetto democratico – scendono in piazza e protestano per lo scippo di quel po’ di garanzie che ancora restano a tutela del posto di lavoro, del salario e della libertà d’insegnamento, per la volontà di iperpersonalizzare la direzione di plessi e istituti, per la decisione di gettare a mare senza prospettive metà del precariato, per l’ennesima regalia alle scuole private pretesche, insulto alla Costituzione. A chi protesta e sciopera il renzigoverno e i suoi scherani in parlamento replicano unisoni a muso duro: le sue ragioni valgono zero, si «tira dritto», chi ci ama ci segua, non si è democratici per niente.
Poi viene la batosta elettorale, il renzi per qualche ora sembra in confusione, teme di avere urtato uno scoglio imprevisto. Vacilla. E finge di aprire a qualche concessione. Qualcuno, incredibile a dirsi, gli crede. In realtà stringe i tempi e la strategia è pronta in men che non si dica, contro ogni regola di considerazione delle ragioni altrui ma non senza buone ragioni sul lato dei poteri. La commissione in Senato rischia di intralciare? Si salta. Il dibattito e il voto di merito in aula impensieriscono? Si imbrigliano. Il renzigoverno ha l’arma letale della fiducia ed è subito pronto a imbracciarla, con buona pace del presidente della Repubblica che forse s’immagina davvero di essere quel che la Costituzione afferma, perché non ha capito che qui è cambiato tutto e che la Repubblica ormai è solo una quinta di cartapesta stesa a dissimulare il regimetto di un imbronciato reuccio.
La fiducia, l’arma letale. Già. Qui casca l’asino. Perché in teoria il governo non dovrebbe affatto considerarsi al riparo dai rischi grazie a questo ricatto, stando alle forze in campo e prendendo una volta tanto sul serio le parole dette e financo scritte dai parlamentari. Il governo in Senato non avrebbe i numeri. Li ha solo se può contare anche sul voto di chi, pur militando nel partitodirenzi, protesta e minaccia e giura sul proprio onore di dissentire dalle decisioni del governo. Il quale può puntare sulla fiducia per restare in sella soltanto se sa (perché sa) che al dunque (alla fiducia) le proteste rientrano, le minacce dileguano, i giuramenti si sciolgono come neve al sole. Il governo sceglie la farsa dello scontro e poi mette la fiducia drammatizzando lo scontro perché sa che alla fine, con la fiducia, tutto rientra nell’ordine naturale delle cose. In aula si litiga, si urla, si inveisce, si insulta persino. Ma poi a capo chino si striscia e si vota, e amici come prima.
Fino alla prossima sceneggiata a beneficio nostro, ché al massimo staremo a casa anche la prossima volta quando si tratterà di votare.
Da dove viene al governo e al suo ducetto tanta sicurezza? Questo è il punto, non altre frottole ammannite ai benpensanti che ancora si bevono la fola della democrazia. La risposta non è difficile, è solo poco decente e per nulla edificante. Viene dalla consapevolezza – si badi, generale: poi si stende un velo pietoso sull’indecenza: viene dalla consapevolezza che, pur di rimanere fino alla morte naturale della legislatura (pur di tagliare il traguardo che vale un vitalizio), i parlamentari si lascerebbero anche tagliare una gamba, figuriamoci se si confondono a fiduciare un governo contro il quale lanciano gratis a giorni alterni maledizioni e anatemi. E questo il renzi lo sa, conosce a menadito i suoi polli. Questo lo sanno anche i signori della «grande stampa». Ma per carità non si dice, non sta bene: è così una faccenda volgare, indecorosa, spoetizzante.
Meglio raccontare che il punto è la stabilità, l’Europa, lo spread. O la lealtà alla ditta. La tormentosa contraddizione in foro interiore tra la convinzione e la responsabilità. Meglio. Almeno finché non succede che il giocattolo si rompe, magari perché arriva sul più bello quello delle ruspe. Dopodiché non resterà che ringraziare la premiata ditta, questa vera sciagura italiana che non ha solo disperso tutta un’eredità di buona storia. Ha anche lavorato e trafficato ogni giorno sotto mentite spoglie per ingannare, infestare, inghiottirsi il paese.
«la sociologa americana non ha dubbi: “In passato ci sono state fasi di grandi migrazioni ma mai così. Per troppo tempo la Sinistra ha sottovalutato il problema”». E per troppo tempo, più ancora, il Primo mondo che ci nutre e ci coccola lo ha fatto saccheggiando, espropriando e ammazzando quelli del Terzo mondo. La Repubblica, 26 giugno 2015
Oggi le coste italiane sono diventate il teatro di un evento profondamente diverso rispetto al passato. E basta volgere lo sguardo oltre il bacino del Mediterraneo per capirlo. Siamo di fronte a un grande esodo, che riguarda quasi tutto il pianeta». Saskia Sassen, economista e sociologa della Columbia University, tra i massimi esperti in tema di globalizzazione, non ha dubbi: «La storia ha già conosciuto fasi di grandi migrazioni, ma mai su questa scala, nello stesso periodo e con una tale rapidità».
Professoressa Sassen, come si spiega la fatica dell’Unione Europea per elaborare un piano condiviso?
«Negli ultimi decenni i Paesi europei — ma lo stesso vale per gli Stati Uniti — hanno seguito una sola strategia: accogliere i migranti, più o meno legali, finché hanno avuto bisogno di lavoratori a basso costo. Perché servivano a risolvere un problema interno all’economia occidentale. Ma non si sono preoccupati né dei governi dei Paesi da cui i migranti oggi scappano, né di programmare una politica migratoria sostenibile ed efficace».
Verso quale soluzione si dovrebbe quindi lavorare oggi?
«È difficile dirlo, perché la situazione sembra ormai sfuggita di mano, al punto che l’Alto commissariato per i rifugiati non sa nemmeno come chiamare le regioni d’origine dei 60 milioni di persone in fuga. Da “terre caotiche”, dice l’ultimo rapporto dell’Onu, visto che in molti casi — Libia inclusa — è impossibile stabilire quale sia il governo legittimo. Io di una cosa sono certa: non bisogna rinunciare a cercare interlocutori credibili in Africa. Senza di loro una politica migratoria resta impraticabile».
«Repressioni e misure di controllo sono soluzioni temporanee: forse possono tamponare provvisoriamente il flusso dei migranti, ma non incidono sulle ragioni delle migrazioni».
Il progetto di un’Europa unita e solidale rischia di naufragare?
«Spero che l’Unione Europea continui a rafforzarsi, ma penso che possa farcela solo a patto di diventare più democratica e meno neo-liberista. Perché l’accoglienza è più difficile quando la ricchezza si concentra nelle mani di pochi e anche la classe media viene piano piano espulsa da case e da zone decorose».
Da anni ormai l’estrema destra europea usa la leva della xenofobia. Crede che l’Italia e la Francia si consegneranno presto a Matteo Salvini e a Marine Le Pen?
«L’Europa sarebbe la regione meglio posizionata per opporre alla logica dell’esclusione la cultura dell’inclusione, ma è anche vero che molti elementi lasciano presagire ben altro. Basta pensare alle recenti elezioni in Danimarca (il Partito del popolo danese ha ottenuto il 21,1% dei voti, diventando il secondo partito in Parlamento, ndr ). In un paese che pure è per molti versi illuminato e ragionevole...».
E la sinistra? Ritiene che debba rimproverarsi di non aver capito l’importanza del problema migratorio per le fasce più deboli della popolazione?
«Stabilire di chi siano le colpe non porta da nessuna parte e non aiuta a trovare soluzioni. Ma penso che la sinistra paghi una certa noncuranza, l’incapacità di mettere a fuoco il problema e riconoscere le caratteristiche più sottili delle migrazioni. C’è stato un atteggiamento di semplicistico laissez faire . E nessuno ha saputo mettere minimamente in luce i nessi tra le guerre fuori dall’Occidente e tutte le tipologie di espulsione perpetrate nell’Occidente stesso».
Il suo ultimo libro, invece, si intitola per l’appunto Espulsioni (a settembre per il Mulino). Oggi le farà un certo effetto osservare come ciò che ogni Paese europeo chiede è esattamente “espellere” gli immigrati irregolari…
Alexis Tsipras ha saputo la cattiva notizia in aereo e ha spiegato il suo rifiuto in questi termini: o non vogliono un accordo oppure vogliono servire gli interessi degli oligarchi greci.
Nelle proposte del Fmi, infatti, la tassa proposta da Atene sulle imprese con più di mezzo milione di utile annuo è stata depennata. Come è stata depennata la tassazione sulle società che gestiscono il gioco d’azzardo via Internet. In generale, gli oligarchi greci non compaiono nei brillanti piani del Fmi, né sotto la forma di proprietari di banche, né sotto quella di editori televisivi.
Il motivo? Fargli pagare le tasse avrebbe degli effetti recessivi. Infatti, in questi quattro anni che l’uomo del Fmi nella troika, Thomsen, governava con fare coloniale la Grecia lasciando del tutto indisturbati gli oligarchi, il Pil greco ha raggiunto risultati di crescita impressionanti:un bel — 26%.
La verità è che con la proposta greca che era stata accolta all’eurogruppo di lunedì il governo greco aveva esaurito– forse anche superato– i limiti che si era posto. Il piano greco di misure fiscali per otto miliardi in due anni permetteva al governo di vantarsi di aver difeso le pensioni ed evitato i nuovi licenziamenti al settore pubblico.
Aveva accettato un nuovo aumento delle imposte (nel paese più tassato d’Europa: sono aumentate del 338% dal 2010) cercando di salvare il salvabile: cibo materiale e spirituale (libri) al 6%, altri consumi diffusi, come la corrente elettrica, al 13% e il resto al 23%. Atene aveva inoltre accettato la permanenza di leggi odiose, come il famigerato Enfia sugli immobili, aumentando le imposte ai redditi superiori ai 30 mila euro annui. In sostanza, in un contesto negativo, il governo aveva cercato di differenziare il peso fiscale, aggravandolo per i redditi più alti.
Siccome in Grecia più che nuove tasse serve un meccanismo più efficiente per le entrate pubbliche , Varoufakis aveva anche avanzato delle proposte per rendere più difficile l’evasione dell’Iva. Proposte magicamente sparite dalle scandalose richieste del Fmi. Non è un segreto che la proposta di Tsipras era stata accolta positivamente a Bruxelles ma non era succeso lo stesso in Grecia. Il «compromesso onesto» richiesto da Tsipras era diventato un «compromesso doloroso.
Malgrado i reportage fantasiosi comparsi sulla stampa europea, l’ipotesi di accordo proposta da Atene non avrebbe avuto seri problemi al Parlamento greco. I voti contrari sarebbero stati al massimo una decina. Il perché è stato chiarito nella riunione di ieri della Segreteria Politica di Syriza. Prima Tsipras e poi il suo stretto collaboratore Flabouriaris hanno spiegato che condizione irrinunciabile della proposta greca è che i creditori assicurino ufficialmente di «rendere sostenibile il debito». In pratica, Atene esige che i creditori confermino l’impegno preso per iscritto con il secondo Memorandum del 2012: una volta finito il programma, i creditori dovevano prendere provvedimenti per alleggerire il peso del debito sull’economia del paese.
Come è noto, tra i tre creditori, il Fmi è l’unico favorevole al taglio del debito greco. In un colloquio di qualche giorno fa, il premier greco aveva anche chiesto a Lagarde di non limitarsi a chiedere tagli e che ponesse anche la questione del debito.
Sembra quindi che nella confusione dominante in campo europeo, ancora una volta si riesce a raggiungere una sintesi solo ai danni della Grecia. Vista però la ferma resistenza opposta da Tsipras in tutti questi mesi a ogni progetto di abbattimento di pensioni e di stipendi pubblici, è evidente che ora il Fmi pone un problema politico: destabilizzare il governo di sinistra greco, costringerlo o alla resa verso l’austerità o a un rovinoso (per tutti) scontro con l’eurozona, che il popolo greco non vuole. In ambedue i casi, si pensa, Syriza è spacciata e si spera in un cambiamento dello scenario politico.
È un progetto estremista, non a caso in Europa condiviso solo da Schauble.
Tsipras ha di nuovo ribadito che, in assenza di un «accordo complessivo», la tranche dovuta al FMI a fine mese non sarà versata.
Ovviamente, il mancato versamento non sarà considerato automaticaticamente una bancarotta di Atene. Sarà invece un nuovo colpo di avvertimento: o i creditori prenderanno sul serio la volontà di Atene a non arrivare allo scontro, oppure l’ipotesi di un’implosione dell’eurozona diventa sempre più realistica. Probabilmente, era questo il senso delle dichiarazioni di ieri di Matteo Renzi: c’è chi vuole il Grexit, ha ammonito. Ma non si rivolgeva solo ad Atene.
di Anna Maria Merlo
Eurogruppo. L’Europa cestina le proposte di Atene. Il Fondo monetario cancella le tasse agli oligarchi e pretende il taglio delle pensioni. Moscovici incontra tutti i partiti di opposizione. A Bruxelles Tsipras incontra Draghi, Lagarde e Juncker: «Alla Grecia richieste senza precedenti, c’è chi dice no a tutto e vuole la rottura». Dopo sei ore di riunione è muro contro muro. L’eurogruppo si aggiorna a oggi, si tratta nella notte
Un’altra giornata estenuante sulla questione greca, conclusasi con l’ennesimo - il nono - Eurogruppo dell’«ultima speranza», ieri sera, a ridosso del Consiglio europeo di oggi e domani. Due programmi a confronto, contro-progetto greco e contro-contro progetto dei creditori, respinti da entrambi i contendenti, anche se le cifre ormai non sono così distanti.
Il governo Tsipras è messo al muro per accettare la logica del proseguimento dell’austerità, «riforme contro soldi freschi», che ha difficoltà a passare in patria. La proposta arriva a pochi giorni dalla doppia scadenza del 30 giugno, rimborso di 1,6 miliardi al Fmi e fine del secondo piano di «aiuti», già rimandato due volte, che, in mancanza di intesa, vedrà l’evaporazione dei residui 7,2 miliardi da versare ad Atene, indispensabili non per una soluzione duratura, ma per sopravvivere qualche settimana ed evitare il Grexit. I creditori hanno usato tutte le armi: fomentando il rischio di un bank run (5 miliardi ritirati in pochi giorni) e la carta del degrado, reale, dell’economia greca, estenuata, per far piegare Atene. E giocano anche sull’ipotesi di un cambio di maggioranza: ieri il commissario Pierre Moscovici ha incontrato Theodorakis, leader di To Potami, partito di centro greco, ruota di scorta possibile per una nuova maggioranza.
Tsipras ha fatto proposte dolorose, ma chiede semplicemente che l’accordo contenga un punto di buon senso: vista l’insostenibilità del debito greco, ci vuole un impegno sulla ristrutturazione. Del resto, questa ristrutturazione era stata promessa nel 2012, legata al raggiungimento di un avanzo primario (prima del servizio del debito) del bilancio greco. Questa clausola è stata rispettata da Atene nel 2013, con 1,5 miliardi di avanzo. Ma i creditori non hanno rispettato allora la parola data. E non lo fanno neppure adesso. Anche se Michel Sapin, ministro dell’economia francese, ammette: «la questione del peso del debito dovrà essere affrontata». Tsipras ha passato la giornata a Bruxelles. Ha incontrato Jean-Claude Juncker (Commissione), Mario Draghi (Bce), Christine Lagarde (Fmi), Dijsselblome (Eurogruppo), Regling (Mes).
Il primo ministro greco ha denunciato «l’insistenza di certe istituzioni che non accettano le misure compensatorie» presentate da Atene per ottemperare ai diktat dei creditori, «come non era mai accaduto prima né per l’Irlanda né per il Portogallo». Una carica in particolare contro il Fmi, che ha prestato 32 miliardi (a scadenza breve, 10 anni) e che vuole assicurarsi i rimborsi. Per Tsipras, «questo atteggiamento può voler dire due cose: o non vogliono un accordo o sono al servizio di interessi specifici in Grecia». Ma il Fmi è il solo creditore a non essere contrario a una ristrutturazione del debito (che nei fatti non lo toccherebbe). Sono gli europei, che hanno crediti, tra istituzioni e bilaterali, intorno ai 300 miliardi, ad essere reticenti sulla ristrutturazione, a questo stadio.
La Grecia ha presentato il suo ultimo sforzo: 8 miliardi di tagli in due anni, pari al 4,4% del Pil, con un rialzo dell’Iva, dei contributi e delle tasse alle imprese. Uno studio della Deutsche Bank prevede un effetto negativo fino a 3 punti del pil. Ma Tsipras spera che questa offerta, sbloccando il negoziato, permetta una ripresa e che arrivino gli investimenti europei promessi dal piano Juncker (35 miliardi), oltre all’accesso al Quantitative easing della Bce. Per il momento, la Grecia vive grazie al tubo di ossigeno concesso dalla Bce, che ancora ieri, per il quinto giorno negli ultimi otto, ha alzato l’Ela, la liquidità di emergenza, ultimo rubinetto rimasto aperto dopo la chiusura di tutti gli altri. Ma i creditori chiedono di più, una correzione dei conti pubblici dell’1,5% quest’anno e del 2,9% il prossimo: il «contro-contro-piano» pretende riduzioni di esenzioni Iva, che dovrebbe venire unificata al 23% (con il 13% solo per cibo, energia, acqua e hotel, ma senza sconto per le isole, e al 6% per prodotti farmaceutici, libri e teatri), l’abolizione dei sussidi, l’aumento delle tasse di proprietà e sul lusso, ancora tagli alla spesa sanitaria e al residuo welfare, una riforma delle pensioni più drastica, una griglia dei salari della pubblica amministrazione fiscalmente neutra, oltre a una nuova legge contro l’evasione e una semplificazione burocratica. I creditori chiedono un avanzo primario in crescita: 1% quest’anno, ma 2% il prossimo e via a seguire, fino al 3,5% nel 2018. «Esigenze assurde e inaccettabili» per Tsipras, visto che la Grecia è in deflazione. Tsipras chiede investimenti per il rilancio economico.
La soluzione, se ci sarà, sarà politica. Ma Renzi ha messo in guardia Atene: «i greci devono sapere che esistono forti pressioni da parte di opinioni pubbliche di alcuni paesi a usare questa finestra per chiudere i conti con la Grecia». E «non si tratta soltanto dei paesi di più antica frequentazione dei tavoli europei», la Germania, «ma anche di quelli entrati dopo». Per Renzi «lo sforzo deve essere reciproco».
Nonostante ciò la Troika non è soddisfatta, soprattutto nei riguardi delle misure sulle imprese (che non necessariamente sono un bene). Si tratta di misure recessive che non interrompono l’austerità. Non ci deve consolare l’alleggerimento del target di surplus primario del bilancio pubblico dai 3 o 4,5% chiesti dalla Troika al’1% nel 2015 (e 2% nel 2016).
La differenza è nell’uccidere subito il condannato o torturarlo ancora più a lungo. Perché di una indegna e inutile tortura stiamo parlando. La soluzione ragionevole c’è, e Varoufakis l’ha riproposta all’Eurogruppo la scorsa settimana: il fondo salva-Stati europeo emetta titoli per acquistare i titoli greci in mano alla Bce (26 miliardi) con il duplice effetto di dilazionare la restituzione di questo debito fra dieci o vent’anni dando respiro al bilancio greco e consentire alla Grecia di entrare nel programma di quantitative easing della Bce (ora quest’ultima non può acquistare titoli greci perché già ne ha troppi in pancia).
Su questo tema l’Europa ha già detto no, che se ne riparlerà più avanti. Che se ne dovrà riparlare è sicuro visto che la confermata austerità impedirà alle finanze greche la restituzione di questi fondi alla Bce e anche di quelli al Fmi (32,5m).
L’unica concessione alla Grecia sono i famosi ultimi 7,2m del piano di salvataggio in scadenza con cui essa potrà ripagare la tranche al Fmi in scadenza questo mese e le rate di luglio e agosto alla Bce. Questo è perverso. Si sa che un nuovo piano di salvataggio sarà necessario quando le prossime rate verranno a scadenza. Ma il salvataggio deve avvenire, nel disegno dei torturatori, centellinando le erogazioni in corrispondenza alle rate in scadenza, tenendo il governo greco col cappio al collo.[/do]
Logica vorrebbe che l’Europa si assumesse subito e ora tutto il debito greco con Bce e anche Fmi — come molti economisti hanno invocato, anche conservatori quale Jacob Kirkegaard del Peterson Institute — nei fatti dilazionandolo per qualche decennio sì da liberare per un po’ la Grecia dal fardello. A quel punto pur vincolata da obiettivi stringenti di bilancio, la Grecia disporrebbe di uno o due miliardi al mese in più (lo dico ad occhio) da spendere per sostenere la domanda interna ed effettuare politiche di sviluppo. La prospettiva cambierebbe radicalmente.
La ragione dell’apparentemente illogico rifiuto europeo va probabilmente trovata nelle elezioni spagnole: far capire a Podemos che non v’è possibilità di europeizzazione dei debiti sovrani e all’elettorato che le forze alternative troveranno un muro.
E non si dica che il cattivo è il Fmi. Nel 2013 questo ha fatto autocritica affermando di essere stato tirato dentro al primo «salvataggio» della Grecia nel 2010 — quello che salvò le banche francesi e tedesche coi soldi anche del contribuente italiano — consapevole già allora che il debito greco andava ristrutturato. Una volta tirato dentro il Fmi, che gestisce quattrini dei contribuenti di tutto il mondo, fa il suo mestiere di pretenderli indietro. Se vuole, l’Europa lo può liquidare.
È questa che ne esce priva di ogni residua credibilità, sperabilmente anche agli occhi di coloro che pervicacemente ancora sperano in un suo mutamento.
Il testo di una nobile lettera, contro i respingimenti dei rifugiati alla frontiera con l’Italia, del principale sindacato dei ferrovieri francesi, scelta e tradotta da Maria Cristina Gibelli
Il principale sindacato dei ferrovieri francesi si ribella alla politica di respingimento dei rifugiati in atto alla frontiera con l’Italia e scrive una lettera al Presidente della SNCF (l’azienda nazionale delle ferrovie francesi), ricordando a lui, e quindi anche a Hollande e al ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve, che fra il 1942 e il 1944, durante il governo di Vichy, 76.000 ebrei francesi furono deportati nei campi di sterminio nazisti utilizzando i treni merci delle ferrovie dello stato; e ricordando altresì che molti furono gli episodi di eroismo dei ferrovieri in difesa dei deportati. Ieri si era costretti a viaggiare verso la morte, oggi si impedisce di viaggiare verso la vita (m.c.g.).
Signor Presidente,
la Federazione CGT dei ferrovieri le ha scritto per esprimere la sua ira quando lei è andato a presentare le sue scuse negli Stati Uniti presso le lobby americane a proposito del ruolo giocato dalle ferrovie francesi durante la seconda guerra mondiale. Abbiamo detto che certamente la SNCF ha partecipato al trasporto dei deportati verso i campi di concentramento per ordine del governo di Vichy, ma sarebbe stato opportuno ricordare anche quanti ferrovieri, in maggioranza militanti della CGT, sono stati uccisi, feriti o internati per aver opposto resistenza.
Il governo francese si è impegnato per un rimborso rilevante (a priori, 60 milioni di euro) nei confronti dei deportati ebrei, o dei loro discendenti residenti negli Stati Uniti. Fino ad allora, la direzione della Ferrovie dello stato si era difesa sulla base del principio della requisizione obbligatoria imposta dallo Stato francese in quel periodo oscuro della nostra storia. Ma non dimentichiamoci che dei ferrovieri sono stati mandati a morte per aver rifiutato di obbedire, altri hanno svolto questo ignobile compito sotto la minaccia delle armi, altri ancora hanno organizzato l’evasione dei deportati a rischio della loro vita e hanno ottenuto la qualifica di “Giusti”.
Oggi si stanno costituendo delle associazioni per portare aiuto ai migranti che arrivano dall’Africa o dal Medio Oriente. E anche in queste organizzazioni sono impegnati dei ferrovieri per lo più aderenti alla CGT. Queste donne, questi bambini, questi uomini, spesso giovani, fuggono la guerra, la carestia e la morte; vanno in esilio perché braccati in quanto oppositori politici di dittature.
Sappiamo tutti che la situazione catastrofica dalla quale fuggono i migranti ha la sua origine nel capitalismo mondializzato e nella avidità delle grandi multinazionali. Sappiamo tutti che le potenze economiche del “mondo dei ricchi”, per lo più occidentali, obbediscono ciecamente alle imprese transnazionali che commerciano con dittatori e oppressori. Anche la stessa SNCF non firma forse contratti con alcune monarchie del Golfo o con lo Stato di Israele malgrado la sorte che esso riserva al popolo palestinese violando le convenzioni dell’ONU?
Ecco perché, e con estrema urgenza, occorre accogliere questi migranti, garantire loro sicurezza, cura e asilo in Europa; perché anche noi francesi abbiamo delle responsabilità nei confronti della politica internazionale portata avanti dal nostro governo e da alcune imprese nazionali.
Contemporaneamente, apprendiamo che la stazione ferroviaria di Menton Garavan, alla frontiera italiana, funziona come un “parco dei migranti” controllato dalle forze dell’ordine, per organizzare il respingimento di questi poveretti. Apprendiamo che i dirigenti locali della SNCF si nascondono dietro le ordinanze della prefettura per mettere questo luogo sotto il controllo della polizia, tutto come 70 anni fa. Forse può apparire aneddotico, ma apprendiamo che queste persone sono in regola con la SNCF perché sono titolari di un biglietto ferroviario che non gli è neppure stato rimborsato, mentre il prezzo di un biglietto costituisce per loro un impegno enorme data la situazione di estrema precarietà.
Signor Presidente, fra qualche anno uno dei vostri successori andrà a presentare le sue scuse sul suolo africano? O il principio di requisizione verrà di nuovo utilizzato per coprire fatti ignobili? Vi poniamo solennemente questa domanda e vi chiediamo di porla ai signori Hollande, Valls e Cazeneuve, Fabius e Macron nei loro rispettivi ruoli.
Ci auguriamo che lei si ribelli e faccia rapidamente opposizione a queste procedure riprovevoli e che la nostra Società porti soccorso e assistenza ai migranti e dia loro il diritto di viaggiare, piuttosto che servire una politica europea e francese che non si assume le sue responsabilità e non trova risposte altro che la repressione e la chiusura delle frontiere.
In certi casi, la disobbedienza è un dovere.