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«La democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte».

R.it online, 4 luglio 2015

In quel crogiuolo di pensiero radicale e critico che fu il gruppo riunito intorno a Jeremy Bentham, nella Londra degli anni Trenta dell'ottocento, avvenne un passaggio epocale di modelli politici: dalla Roma repubblicana all'Atene periclea. Il Settecento fu romano, come ci spiegò Arnaldo Momigliano, sia quando fu mito imperiale e cesaristico sia quando fu mito repubblicano. E non fu democratico. Nonostante le rivoluzioni costituzionali settecentesche americana e francese avrebbero inaugurato la democratizzazione in occidente, esse non nacquero all'insegna della democrazia, il nome ancora allora di un pessimo governo. I padri fondatori americani pensavano con orrore alle assemblee democratiche e congegnarono rappresentanza e federalismo come strategie per imbrigliare il demos: sostituendo i delegati eletti ai cittadini in assemblea, e rompendo la sovranità nazionale nell'articolazione federale. Circa i francesi, come avrebbe scritto con la sua penna inconfondibile Carlo Marx, essi vestirono i panni degli antichi romani come a coprire la mancanza di un linguaggio loro proprio che servisse a denotare la loro rivoluzione. E come i concittadini di Catone e di Cicerore, anch'essi disdegnavano la democrazia e riponevano nella virtù dei pochi tutta la fiducia nel futuro della rivoluzione, la quale deragliò verso la tirannia dei virtuosi perché fatta nel nome di una libertà che doveva essere meritata e non lasciata a tutti.

Ci volle la paura napoleonica per svegliare i liberali dal mito o dal terrore della virtù degli antichi e farli desiderosi di studiarli gli antichi invece di imitarli o mitizzarli. A Benjamin Constant, che dopo tutto continuava a rovescio la linea mitica settecentesca quando suggeriva ai suoi lettori di abbandonare gli antichi poiché avevano poco da dire ai moderni, John Stuart Mill, il più brillante del gruppo di Bentham, contrappose una strategia più convincente: quella della ricostruzione delle istituzioni e delle procedure inventate dall'Atene democratica, da Solone e Clistene fino a Pericle e Efialte. E il suo amico George Grote, sulla cui Storia della Grecia Momigliano scrisse nel 1952 pagine esemplari, si diede a ricostruire la storia politica, religiosa, filosofica e infine istituzionale dell'Atene classica, emancipando la democrazia dall'identificazione con il governo rozzo delle masse. Ne venne fuori un quadro straordinario di immaginazione costituzionale, di raffinatezza della conoscenza dei comportamenti umani collettivi, di cui già David Hume aveva colto l'originalità. Furono gli ateniesi dunque a mettere la democrazia sui binari delle procedure di decisione e dei controlli costituzionali, non gli spartani con le loro piazze di plebisciti urlati. Furono gli ateniesi a valorizzare il voto singolo e a prestare attenzione al suo conteggio, ad abbandonare la valutazione imprecisa del grido della massa, a scegliere la strada sicura e soprattutto libera da contestazioni dell'aritmetica.

I padri della democrazia moderna, liberale e costituzionale, furono dunque riattratti dalla Grecia antica, ma non per farne un mito irripetibile e pre-moderno, bensì per farne a tutti gli affetti il primo e fondamentale capitolo della storia dei moderni, che cominciava, ha spiegato Josiah Ober con la pratica democratica come "potere di fare succedere le cose insieme", non potere bruto, ma potere regolato da procedure e norme, dalla selezione per mezzo della lotteria all'elezione dei leader, alla diretta decisione popolare in assemblea. Una democrazia che escogitò sistemi di controllo delle proposte di legge (e dei proponenti) e delle leggi approvate; che, come Aristotele scrisse, sapeva assegnare ai pochi un ruolo nel governo dei molti.

A questa democrazia costituzionale, Mill e i liberali inglesi dell'ottocento si rivolsero per comprendere in che cosa la democrazia moderna era diversa da quella antica. E videro che tre furono le ragioni di superiorità dei moderni: l'invenzione della rappresentanza, l'emancipazione femminile e la liberazione del lavoro schiavo. Tre condizioni che rendevano la democrazia moderna capace di superare quella antica realizzando meglio il suo principio dell'eguaglianza politica. Quel modello, quella forma di governo per la quale, disse Pericle nell'orazione funebre, tutto il mondo ci ammira, ha ancora tanta forza simbolica da farci partecipare empaticamente ai destini di questo popolo che vuole riprendere Europa per impedire che nuovi despoti la conquistino. La priorità della politica su tutte le sfere sociali sta in questo mito che è squisitamente europeo perché e in quanto mito greco di una vita pubblica politica. Nelle parole di Aristotele, ai cui scritti la scienza e la pratica politica europee sono debitrici, la democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte.

Intervistato da Giulio Azzolini il sociologo american interviene a favore delle ragioni della Grecia di Tsipras e afferma «se fossi greco voterei no. Meglio poveri che sudditi dei poteri forti». La Repubblica, 5 luglio 2015

«OGNI giorno che passa dimostra come le élite politiche e burocratiche europee siano del tutto cieche sia sulle cause della crisi economica greca sia sulle sue possibili soluzioni. Sono abbagliate dalla stessa ideologia che nel 2008 ha portato alla crisi dei mutui sub-prime negli Stati Uniti: il neoliberismo. Ancora una volta si bada al guadagno di breve termine e non si scorgono gli effetti di lungo periodo delle proprie scelte. Evidentemente, sbagliando, non sempre si impara ». Questa l’impietosa diagnosi del sociologo americano Richard Sennett, professore alla New York University e alla London School of Economics, che da tempo denuncia i vizi di una politica ripiegata sul presente.

Professor Sennett, che cosa sarebbe l’Europa senza la Grecia?
«L’eventuale uscita della Grecia dall’eurozona non implicherebbe soltanto delle gravi ripercussioni sul piano economico. Avrebbe anche e soprattutto un immenso significato simbolico. Al netto della complessità e delle differenze, l’Unione europea ha senso soltanto come progetto politico ben radicato in una cultura condivisa. E la radice di questa cultura non può che essere la Grecia e l’idea di democrazia. Se l’Europa lo dimentica, è fatale che finisca in mano a banchieri e burocrati».

Se siamo arrivati a questo punto, però, una parte di responsabilità grava anche sui governi greci
«È vero, ma secondo me oggi il vero problema non è tanto il debito, che in termini assoluti sarebbe stato facilmente gestibile dalla Ue. Il vero problema, quello che ci ha condotto fin qui, sono la Troika e la cultura neoliberista che porta avanti. Il capitalismo finanziario mette in ginocchio non più soltanto il lavoro, ma anche la politica. Al punto che gli Stati rischiano di fallire come un’azienda qualsiasi. Per scongiurare quest’esito, dal 2010 la Grecia sta attuando le ricette imposte dal Fondo Monetario e il risultato è chiaro a tutti: un’economia ancora più depressa».

Non ritiene che il premier greco, convocando il referendum, sia venuto meno alle proprie responsabilità?
«No. Credo invece che il referendum rappresenti sempre, e tanto più in questo caso, una positiva occasione di esercizio della sovranità popolare. Non mi faccio illusioni sulle conseguenze del voto. So bene che se vincesse il “no” e la Grecia uscisse dall’eurozona, i cittadini greci incorrerebbero in una fase di sofferenza terribile, simile a quella subita dall’Argentina qualche anno fa. Sarebbe un disastro economico per tutte le fasce sociali, specie per quelle più deboli. Eppure, se io fossi un elettore greco, voterei sicuramente per il “no”. Non è più tollerabile essere comandati da un potere illegittimo. Meglio poveri che sudditi».

Pensa che le conseguenze politiche ed economiche del voto si faranno sentire anche nel resto d’Europa?
«Credo che tutte le economie più fragili dell’eurozona, Portogallo in testa, saranno esposte al rischio di un contagio finanziario. Ma ciò che più mi preoccupa sono i contraccolpi politici di quanto sta accadendo. In Gran Bretagna, ad esempio, un eventuale default greco offrirebbe l’ennesimo argomento a chi sostiene che il progetto dell’Unione Europea è insostenibile. La sfiducia cresce. E allora dopo Grexit, è probabile che esploda il pericolo Brexit».


Domenica sera dalle urne greche potrebbe uscire un “sì” al referendum indetto dal governo di Alexis Tsipras. Il ministro delle finanze Yanis Varoufakis ha annunciato giovedi che si dimetterebbe; non potrebbe firmare un memorandum – una versione ritoccata di quello su cui si sono rotte le trattative la settimana scorsa - che riporta l’austerità nel paese e non affronta la ristrutturazione del debito. E’ difficile che il governo Tsipras possa sopravvivere; le nuove proposte che verranno da Berlino e Bruxelles saranno fatte apposta per rendere la vita impossibile alla coalizione tra Syriza e Anel; molti deputati non saranno disponibili a votare una resa. Un cambio di governo ad Atene è proprio quello che i poteri europei hanno perseguito in tutti questi mesi; ora sono vicini a riuscirci e useranno ogni strumento per destabilizzare il paese e spingere i greci al “sì”; a quel punto le nuove proposte di Berlino e Bruxelles potranno spianare la strada a un nuovo esecutivo obbediente alla troika.

Oltre alla campagna mediatica, l’arma decisiva usata contro Atene è stata la stretta sulla liquidità che ha portato il governo Tsipras a chiudere le banche per una settimana e bloccare i movimenti di capitale. Non c’è nulla come il panico bancario che stimoli un riflesso d’ordine nei paesi che hanno sperimentato il benessere. Mario Draghi ha cercato di mettere le autorità europee di fronte alla responsabilità politica della scelta da fare sulla Grecia, ma le misure che ha preso sono proprio quelle che hanno strangolato il paese. E’ ragionevole pensare che sia stato Draghi a impedire ad Atene di introdurre per tempo il blocco dei movimenti di capitali. In nome delle regole comuni, centinaia di miliardi di euro sono usciti dalla Grecia: ricchi e imprese sono ora al sicuro e non in fila agli sportelli. Ma non aver fermato questa fuga di capitali ha dissanguato l’economia del paese. In cambio, ci sono stati gli 89 miliardi di fondi di liquidità di emergenza, che sono stati bloccati dopo la rottura delle trattative, provocando la chiusura forzata delle banche fino a martedì prossimo.

Ma prima ancora del mancato pagamento del debito al Fondo monetario, la Bce aveva richiesto maggiori garanzie per i crediti da concedere alle banche greche, riducendo il credito al paese e aumentandone il costo. In base alle sue regole, inoltre, la Bce non può prestare fondi a banche insolventi, ma le banche greche hanno in bilancio soprattutto titoli di stato che non vengono accettati a pieno valore e si trovano in molti casi in “quasi default” secondo alcune agenzie di rating: niente credito anche sui mercati privati dei capitali, quindi. Insomma, per le regole insensate della moneta unica, è diventato sempre più difficile far arrivare materialmente euro in Grecia per far funzionare l’economia. Lunedì, la fornitura di liquidità è la prima cosa che la Bce dovrà decidere per evitare il collasso dell’economia del paese.

Ma domenica sera dalle urne di Grecia potrebbe uscire un “no” all’umiliazione del paese e all’austerità. Le politiche imposte dai memorandum europei hanno fatto perdere al paese un quarto del Prodotto interno in sei anni: con il “sì” ai tagli di spesa la depressione sarebbe senza fine. Il governo Tsipras ha chiarito fino in fondo che il “no” sarebbe un mandato più forte per negoziare, non c’è nessuna ipotesi di uscita dall’euro. Ma con chi si negozia? Su quali proposte? La partita sarebbe complessa, la Germania forse irremovibile, ma non basterebbe più scaricare le colpe su Tsipras. Una politica degna di questo nome porterebbe alle dimissioni del Presidente della Commissione Jean Claude Juncker, che ha chiesto ai greci di votare “sì” ed è stato incapace di far fronte alla crisi.

L’agenda su cui negoziare dovrebbe essere ben diversa dai punti decimali di avanzo primario e dalle aliquote iva discusse finora. Dovrebbe essere la ridiscussione di come si sta in questa Europa e nell’euro. L’occasione sarebbe perfetta per convocare una grande conferenza sul debito in Europa, per introdurre la “mutualizzazione” su cui il ministro dell’economia italiano Pier Carlo Padoan si è detto così ottimista. Si potrebbe introdurre una responsabilità comune sul debito dell’Eurozona che porterebbe a zero gli spread (come sono stati tra l’introduzione dell’euro e la crisi del 2008) e la trasformazione di una parte del debito pregresso in titoli perpetui a rendimento zero da lasciare nei bilanci di Bce e fondi europei. Soluzioni più che digeribili per la finanza. E che permetterebbero all’economia di tutta Europa di uscirà dalla depressione iniziata nel 2008. Con grande sollievo – tra l’altro – degli Stati Uniti.

Ma le condizioni politiche per una strategia di così ampio respiro sono tutte da costruire: i socialisti e democratici (e i verdi) dovrebbero finalmente scontrarsi con democristiani e conservatori, Francia e Italia scontrarsi con Berlino, Merkel scontrarsi con Schauble, l’economia reale limitare i danni che ha fatto la finanza. E’ questa la vera partita che si gioca domenica nel referendum di Grecia, ed è uno scontro che ritroviamo in tutta Europa.

Il voto di Atene è un punto di svolta. A guardare vicino, se vince il “sì” Tsipras potrebbe perdere tutto; se vince il “no” Tsipras potrebbe non guadagnare nulla. Ma a guardare lontano, il “sì” prolungherebbe l’agonia del paese e lascerebbe mano libera alla disastrosa incapacità tedesca di comandare l’Europa. Il “no” affermerebbe che un po’ di democrazia esiste ancora in Europa e che cambiare si può.

Sono tante le ragioni per vergognarsi d'essere italiani. Quella offerta dalla vicenda raccolta (spero che si sia messo i guanti nel farlo) dall'autore di questa nota supera l'immaginabile. Se riuscite ad aprire il filmato fuggirete anche voi.

La Repubblica online, blog "Articolo 9", 4 luglio 2015. con postilla

Un amico newyorchese mi manda questa fotografia, chiedendomi cosa sia successo all'Italia.

Questo amico ama moltissimo Eataly, e ci va spesso «to buy some of their fantastic produce, mortadella and fresh mozzarella». Ma certo non si aspettava di trovare, nel settore dedicato alla pasta, una statua originale del secondo Quattrocento proveniente dal Duomo di Milano, buttata nel mezzo della sala dentro una scatola di plexiglass. In effetti questa fotografia illustra la mercificazione del patrimonio culturale italiano meglio di un intero volume dedicato all'argomento.

Perché la preziosa opera d'arte di un museo italiano deve decorare il negozio di un privato? Ed è opportuno che un'opera d'arte del passato (per giunta di soggetto sacro) venga estratta da un museo per essere straniantemente inscatolata in mezzo alla pasta e alla mortadella? Domande retoriche, visto che la mostra Tesoro d'Italia replica questo modello su vastissima scala, mescolando capolavori dei musei pubblici a opere private, e addirittura a opere in vendita (come la robbiana appoggiata per terra che si vede in questo incredibile filmato).

Molti pensano che questo sia un modo per avvicinare «la gente» all'«arte». Io credo che sia solo un modo per piegare il patrimonio artistico bene comune agli interessi commerciali dei nuovi padroni del vapore. Padroni a cui quelle opere d'arte interessano solo come strumenti del proprio marketing: presentando questo incredibile prestito, Oscar Farinetti parlò di una statua di Santa Lucia incinta, fraintendendo, fantozzescamente, la veste tardogotica allacciata sotto il seno, e ignorando evidentemente tutto della storia della vergine siracusana in generale, e di questa statua in particolare. Naturalmente non è questo il punto: ma dovrebbe far riflettere il fatto che chi parla continuamente di bellezza non ha in realtà la minima idea di quella bellezza.

Lo sfruttamento dell'arte da parte dei potenti di turno è una storia antica, ma la Costituzione italiana aveva messo le premesse di un futuro diverso, indicando un uso dell'arte del passato che fosse indirizzato verso la conoscenza, l'uguaglianza, il pieno sviluppo della persona umana. Ma era un'altra Italia. Oggi, anche agli occhi di un newyorkese è evidente che Eataly si è mangiata Italy.

Postilla
C'è da domandarsi con quale coraggio persone che tollerano questa demolizione del nostro patrimonio culturale, o addirittura vi collaborano, mostrino di indignarsi da quelle compiute dai barbari dell'Isis.

Il manifesto, 4 luglio 2015 (m.p.r.)

Qua­lun­que sarà l’esito della vicenda greca se ne pos­sono già trarre nume­rosi inse­gna­menti. Per l’oggi e per il tempo a venire. Nono­stante una mar­tel­lante cam­pa­gna media­tica che mira ad anno­ve­rare il governo di Atene tra i popu­li­smi anti­eu­ro­pei, affian­can­dolo alla Polo­nia o a Marine Le Pen (qual­cuno ha voluto per­fino sco­mo­dare l’impero d’Oriente e la fede orto­dossa), quella greca è pro­ba­bil­mente la prima lotta demo­cra­tica euro­pea e per l’Europa alla quale abbiamo assistito.

La prima volta in cui la tenuta dell’Unione viene affron­tata nella sua dimen­sione poli­tica, eco­no­mica e sociale. E l’occasione nella quale è venuto pie­na­mente in luce il rifiuto delle isti­tu­zioni e dei governi euro­pei di fare i conti con que­sta “tota­lità”, nono­stante gli enormi rischi che incom­bono sul pro­cesso di unificazione.

Il lungo pro­cesso nego­ziale tra Atene e le “isti­tu­zioni” non è stato che un esa­spe­rante gioco di fin­zioni poi­ché i dogmi, com’è noto, non sono nego­zia­bili e l’Europa è pri­gio­niera di una dog­ma­tica neo­li­be­ri­sta che, per defi­ni­zione, non può essere smen­tita dai suoi effetti nella realtà. Per quanto disa­strosi pos­sano rivelarsi.

Soprat­tutto nella sua ultima fase la trat­ta­tiva ha assunto i tratti incon­fon­di­bili della lotta di classe: i conti non devono tor­nare in un modo o nell’altro, ma solo man­te­nendo inal­te­rati (e pos­si­bil­mente ancor più squi­li­brati) i rap­porti tra le classi sociali. Le cor­re­zioni del Fmi al piano pro­po­sto da Atene non mostrano il minimo sforzo di masche­rare que­sta cir­co­stanza. Si ricor­derà che in anni ormai piut­to­sto lon­tani, nella tra­di­zione social­de­mo­cra­tica, le “riforme di strut­tura” indi­ca­vano una tra­sfor­ma­zione in senso sociale e mag­gior­mente inclu­sivo del sistema eco­no­mico e poli­tico. Oggi signi­fi­cano l’esatto con­tra­rio. Ragion per cui devono essere messe al riparo da pos­si­bili inter­fe­renze dei pro­cessi democratici.

Le social­de­mo­cra­zie euro­pee, enfa­tiz­zando i lati peg­giori della loro sto­ria, coniu­gando l’autoreferenzialità burocratico-amministrativa con la zelante ade­sione ai prin­cipi dell’accumulazione neo­li­be­ri­sta sono diven­tate il prin­ci­pale nemico della demo­cra­zia. In un duplice senso: o occu­pan­done diret­ta­mente lo spa­zio con il pro­prio deci­sio­ni­smo tec­no­cra­tico, o con­se­gnando i ceti popo­lari alle destre nazio­na­li­ste. Non si richie­dono par­ti­co­lari doti pro­fe­ti­che per imma­gi­nare nul­lità quali Hol­lande e Renzi men­di­care ben pre­sto il “voto utile” di fronte all’onda mon­tante delle destre. In uno scon­tro immi­nente, dagli esiti incerti, tra una Unione inso­ste­ni­bile e i nemici giu­rati dell’Europa.
Di fronte a que­sto pro­ba­bile sce­na­rio dovrebbe essere chiaro che Tsi­pras rap­pre­senta per ora, nel suo iso­la­mento, (almeno a livello di governi) l’unica chance dispo­ni­bile in difesa dell’Unione euro­pea. Tanto si discute dei rischi di un Gre­xit sul fronte della spe­cu­la­zione finan­zia­ria, tanto poco se ne ragiona su quello della spe­cu­la­zione poli­tica. Salvo abban­do­narsi di tanto in tanto alle solite sce­menze reto­ri­che sulla “culla della civiltà occi­den­tale”. Sta di fatto che le isti­tu­zioni euro­pee (e i governi nazio­nali che impon­gono loro di rispet­tarne la gerar­chia e i rap­porti di forze) con­di­vi­dono con le destre nazio­na­li­ste un punto deci­sivo: non può esservi altra Europa all’infuori di que­sta e dei suoi equi­li­bri di potere. Tanto che la si difenda quanto che la si avversi. Di qui la con­clu­sione che il ten­ta­tivo della Gre­cia è con­tro il prin­ci­pio di realtà.

Tut­ta­via, poi­ché nell’opinione pub­blica del vec­chio con­ti­nente, e in non poche ini­zia­tive di lotta, i dogmi della gover­nance neo­li­be­ri­sta euro­pea comin­ciano a per­dere cre­dito, sulla vicenda greca (e non solo) pio­vono le più incre­di­bili men­zo­gne. I greci che vanno tutti in pen­sione a 50 anni (misura cir­co­scritta che riguarda sog­getti ana­lo­ghi ai nostri eso­dati in un paese dove il 26 per cento di disoc­cu­pa­zione rende le pen­sioni un sostan­ziale stru­mento di soprav­vi­venza) fanno il paio con i “clan­de­stini” negli alber­ghi a 5 stelle. Ai cit­ta­dini euro­pei, presi ormai per scemi dalla mat­tina alla sera, si lascia inten­dere che recu­pe­rare l’irrecuperabile debito greco, ripor­terà quei soldi (sia pure indi­ret­ta­mente) nelle loro tasche e non in quelle della grande ren­dita finan­zia­ria. Biso­gna essere otte­ne­brati dalla birra e dalla tele­vi­sione per con­si­de­rarsi “azio­ni­sti” del pro­prio (ava­ris­simo) stato nazio­nale, secondo la mito­lo­gia attri­buita al con­tri­buente tede­sco. Quanto agli altri paesi inde­bi­tati (con tassi di disoc­cu­pa­zione che non si muo­vono di una vir­gola) è una gran corsa a taroc­care impro­ba­bili risul­tati per dimo­strare quanto siano distanti dalla Gre­cia, se non addi­rit­tura in una botte di ferro.

Que­sto ter­ro­ri­smo ci sospinge a pen­sare che a vin­cere (si fa per dire) la par­tita sarà chi è in grado di incu­tere mag­giore paura. Del resto non è una novità. Le classi subal­terne non hanno mai otte­nuto nulla se non quando sono state in con­di­zione di ter­ro­riz­zare la classe domi­nante. Tutta la sto­ria del Nove­cento ne è testi­mone. Da molto tempo non accade. Governi e gover­nati, lavo­ra­tori e pre­cari sotto ricatto non rap­pre­sen­tano più una minac­cia per le oli­gar­chie. Ma, per la prima volta, la vit­to­ria di Syriza, il brac­cio di ferro con le “isti­tu­zioni”, infine il Refe­ren­dum, fanno paura. Tal­mente tanta paura che anche i fal­chi si affret­tano a soste­nere che una vit­to­ria del no non signi­fi­cherà neces­sa­ria­mente la fine del nego­ziato, anche se lo ren­de­rebbe sem­pre più dif­fi­col­toso. Certo, la paura cre­sce­rebbe, tra­sfor­man­dosi in una forza vin­cente, se in tutta Europa si cogliesse l’occasione per mobi­li­tarsi con­tro l’ideologia e la pra­tica del neo­li­be­ri­smo che oggi la governa negando ogni alter­na­tiva. Non è insomma que­sto un nuovo accenno di “grande poli­tica”? Quella che inve­ste gli inte­ressi domi­nanti capar­bia­mente inca­paci di ogni com­pro­messo? Se, tra tante, vi è una ragione sin­te­tica per dire no ai dik­tat è che que­sto “no” incute final­mente timore a quanti desi­de­rano e con­ce­pi­scono la “sta­bi­lità” come tacita sot­to­mis­sione alle oli­gar­chie e alla ren­dita finan­zia­ria. Un no per l’Europa.

a Repubblica, 4 luglio 2015

Diceva Machiavelli che “assaltare una città disunita, per occuparla mediante la sua disunione, è partito contrario”, cioè può produrre il risultato opposto: quello di unire e rendere compatto il popolo diviso. Forse il referendum greco potrebbe dimostrare la verità di questa osservazione. Vedremo, tra pochi giorni e ore. Ma la domanda avrebbero potuto e forse dovuto porsela gli statisti tedeschi e i loro ossequenti alleati europei e magari velare meglio l’aggressione nei confronti del regime greco. Mai come in questo caso la regola della non ingerenza negli affari interni degli stati membri è stata così trasgredita. Tutti i capi di governo si sono schierati in maniera massiccia per il sì e contro Tsipras fin dal primo giorno. I media si sono uniformati. Assistiamo a episodi perfino grotteschi, come quello dell’inviato Rai che intervista cinque greci e vedi caso, scopre che tutt’e cinque sono decisi a votare sì. La disinformazione si unisce alle tante falsificazioni dei fatti: ad esempio, non è vero che la scelta sarà fra la dracma e l’euro, come ha sveltamente sintetizzato il premier Renzi.

Ma il nostro dovere, di tutti noi cittadini degli stati dell’unione europea, non è chiederci che cosa faranno gli elettori greci: la domanda è che cosa faranno le autorità che ci governano — la Germania di frau Merkel, il Fondo monetario internazionale — se e quando saranno riuscite a raggiungere il loro intento, cioè a delegittimare Syriza e il premier Tsipras. Perché una cosa è evidente: la natura politica e non economica o finanziaria dello scontro. Fin dall’inizio il governo espresso dalle elezioni greche ha dovuto fare i conti con un’ostilità fortissima. La stampa tedesca è stata perfino capace di superare il limite degli insulti personali nel descrivere l’abbigliamento del ministro Varoufakis. Dobbiamo all’attenzione non imparziale del Wall Street Journal se dalle zone nascoste della battaglia è emerso il documento delle proposte greche e delle correzioni con pennarello rosso di Bruxelles: un documento impressionante, una nuova versione della favola del lupo e dell’agnello. Non imparziale l’editore, certo: tutti sanno quanto siano grandi i problemi che gli conquassi europei e la crescita della superpotenza tedesca stanno creando alle esigenze strategiche e finanziarie di quella americana. Ma intanto quelle che ci toccano sono le conseguenze di una eventuale umiliazione referendaria per il governo greco: se ci sarà, non per questo i vincitori avranno risolto il problema fondamentale, quello di una costruzione sbagliata in grave e generale crisi.
L’errore grave, tremendo, come dovrebbe riconoscere oggi qualche responsabile che invece ancora cinguetta sui giornali, è stato quello di una unione monetaria a cui non ha corrisposto un’unione politica. L’Europa non è uno stato federale. Come ricordava l’altro ieri Paul Krugman spiegando perché è stato un errore tremendo, in un vero stato federale come gli Stati Uniti quando in Florida scoppia una bolla immobiliare è Washington che protegge automaticamente gli anziani contro ogni rischio per le loro cure mediche e i loro depositi bancari. In questa Europa anziani e malati e tutte le altre categorie dell’umanità debole sono vittime di misure di austerità imposte da una burocrazia politico-finanziaria tecnicamente irresponsabile all’insegna di un liberismo di facciata, con l’ossessione del fantasma dei diritti umani e politici, quelli dei lavoratori e dei migranti in primo luogo.
E oggi le misure che si vorrebbero imporre alla Grecia garantiscono che il crollo diverrà spaventoso e che non sarà solo la popolazione greca a pagarne il conto. Una vittoria di Pirro, se ci sarà: non solo perché i costi finanziari sono stati altissimi, di centinaia di volte superiori agli spiccioli necessari alla Grecia per andare avanti pagando il suo debito in scadenza. Ma perché vincere una battaglia aggraverà il problema di come convincere, lascerà aperta e più incerta la guerra per la costruzione di una vera Europa. Resterà il fatto dell’aver umiliato e spezzato il morale di un popolo che porta nel suo nome l’immenso capitale simbolico di avere inventato la democrazia e l’Europa. Diceva il grande storico del mondo antico, Arnaldo Momigliano, che se non fosse stato per la Grecia delle Termopili, per Maratona e Salamina (vi combatté un soldato che si chiamava Socrate), non ci sarebbe stata nessuna Europa: saremmo tutti sudditi di qualche deposta asiatico.
Postilla
E la storia si ribalterebbe: saremmo tutti sudditi di un qualche despota globale.
«Atene. Oceanica manifestazione a sostegno dell’oxi: «Respingiamo il ricatto». Il premier greco parla da vincitore "L’Europa che vogliamo non è quella degli ultimatum", ma un continente che "torni ai suoi principi fondativi". Sul palco Podemos e la Linke».

Il manifesto, 4 luglio 2015

Basta un colpo d’occhio dall’alto del palco di piazza Syn­tagma, al calar del sole, a squar­ciare all’improvviso la neb­bia che da giorni avvol­geva la vigi­lia del refe­ren­dum greco: una cor­tina fumo­gena fatta di inge­renze inde­bite dei lea­der euro­pei, ridi­co­liz­za­zione delle richie­ste gre­che all’Eurogruppo e dello stesso voto di dome­nica, pre­sen­tato come una scelta tra euro e dracma o tra euro­pei­sti e anti­eu­ro­pei­sti, titoli di gior­nale allar­mi­stici e bat­tage tele­vi­sivo a favore del sì.

La marea umana che si estende a per­dita d’occhio nell’enorme piazza e nelle arte­rie cir­co­stanti, senza solu­zione di con­ti­nuità fino a piazza Omo­nia, dice una cosa sola: il governo di Ale­xis Tsi­pras non è solo e il popolo che gli aveva dato fidu­cia appena cin­que mesi fa è sem­pre con lui. Anzi, è pronto a far­gli qua­drato attorno. Non sarà facile sba­raz­zar­sene, comun­que vada a finire dome­nica (e a que­sto punto sorge più di un dub­bio su son­daggi e pre­vi­sioni della vigi­lia, l’ultimo dif­fuso ieri da un gior­nale di cen­tro­de­stra, To Eth­nos, che dava il sì leg­ger­mente in vantaggio).

Quando sale sul palco in cami­cia bianca con i pol­sini arro­to­lati quasi fino al gomito, alle 21,50, Ale­xis Tsi­pras è con­sa­pe­vole del fatto che la prova di forza con il fronte del sì, radu­nato nel vicino Sta­dio del marmo, era ampia­mente vinta. Così, ha potuto tra­sci­nare la folla uti­liz­zando la stessa parola-simbolo della cam­pa­gna elet­to­rale dello scorso gen­naio: «elpida», «spe­ranza», la stessa parola che gli aveva con­sen­tito di scon­fig­gere pochi mesi fa «la poli­tica della paura» uti­liz­zata dagli avver­sari per pro­vare a non farlo vin­cere e ora ripro­po­sta in maniera ancora più bru­tale. Quello del pre­mier greco è un discorso da vin­ci­tore: «Popolo greco, oggi non pro­te­stiamo, festeg­giamo la vit­to­ria delle demo­cra­zia e man­diamo un mes­sag­gio di orgo­glio che nes­suno può invo­care», comin­cia. Poi, come nel pome­rig­gio in tele­vi­sione, incita i greci a «pren­dere il destino nelle pro­prie mani», per­ché «l’Europa che vogliamo non è quella degli ulti­ma­tum» ma un con­ti­nente che «torni ai suoi prin­cipi fon­da­tivi». Per que­sto «dome­nica man­de­remo un mes­sag­gio di egua­glianza e dignità», affonda il colpo.

In dieci minuti appena di discorso in mani­che di cami­cia, Tsi­pras non lesina qual­che stoc­cata a Jean Claude Junc­ker, Angela Mer­kel e il suo mini­stro del Tesoro Wol­fgang Schau­ble, rap­pre­sen­tato col volto truce nelle strade di Atene sui mani­fe­sti che inci­tano a votare no: «Nes­suno ha il diritto di dire che toglierà la Gre­cia dal suo spa­zio natu­rale», manda a dire ai fal­chi dell’austerità. Per que­sto invita «il popolo greco», che «ha dimo­strato molte volte di saper rispe­dire al mit­tente gli ulti­ma­tum», «a dire un grande e orgo­glioso no» anche a quest’ultimo, il più indecente.

Infine, prima di reci­tare alcuni versi di una poe­sia di Yan­nis Ritzos sul «pic­colo popolo senza spada né pal­lot­tole che com­batte per il pane di tutti», ben con­scio della deli­ca­tezza del momento, spende qual­che parola per smor­zare la ten­sione: «Lunedì, qual­siasi sarà il risul­tato, dob­biamo dire no alla divi­sione tra i greci». Unità, come aveva fatto appello in chiu­sura di cam­pa­gna elet­to­rale alla fine di gennaio.

Già nel pome­rig­gio, di fronte all’intensificarsi del bom­bar­da­mento media­tico e della pro­pa­ganda a favore del sì, Tsi­pras aveva deciso di lan­ciare un breve mes­sag­gio alla tele­vi­sione: «Dite no a ricatti e ulti­ma­tum, deci­dete con calma il vostro futuro», aveva detto alla popo­la­zione greca con l’obiettivo di tran­quil­liz­zarla. Durante la gior­nata era stata un’escalation di allarmi e pres­sioni: vec­chi arnesi della poli­tica greca, respon­sa­bili dell’indebitamento del paese come l’ex pre­mier Kostas Kara­man­lis, rima­sto in silen­zio durante tutti gli anni della crisi e dei Memo­ran­dum, che lan­cia­vano appelli per il sì, un gior­nale vicino alla destra che tito­lava su un pre­sunto pre­lievo dai risparmi supe­riori ai 20 mila euro, i ban­chieri che soste­ne­vano di avere liqui­dità fino a lunedì, per­fino una com­pa­gnia tele­fo­nica che si è messa a rega­lare minuti a chi inviava un mes­sag­gio con scritto «sì». Men­tre la Corte Costi­tu­zio­nale aveva dichia­rato valido il que­sito e smon­tato pure l’ultimo ten­ta­tivo di impedirlo.

Non è escluso che la ricom­parsa nell’agone poli­tico di per­so­naggi scre­di­tati e le fasti­diose inge­renze dei lea­der euro­pei nella cam­pa­gna refe­ren­da­ria, unite alla sen­sa­zione che l’Europa voglia asfis­siare la Gre­cia per arri­vare a un «regime change», abbiano gio­cato un ruolo nega­tivo per i soste­ni­tori del sì, facendo loro per­dere con­sensi piut­to­sto che guadagnarli.

In ogni modo, il pre­mier si è deciso a non limi­tarsi al pre­vi­sto comi­zio serale in piazza Syn­tagma e ha par­lato a tutti i greci, pre­ci­sando che «il refe­ren­dum non è sulla per­ma­nenza della Gre­cia nell’euro» e facen­dosi forza del fatto che anche il Fmi ha ammesso l’insostenibilità del debito elle­nico, con la pre­vi­sione un taglio del 30 per cento e la dila­zione del rima­nente 70 per cento in vent’anni: «Ha giu­sti­fi­cato la nostra scelta di non accet­tare un accordo che ignora il tema fon­da­men­tale del debito». Anche se stra­na­mente, ha fatto notare Tsi­pras, que­sto rap­porto «non è mai stato con­di­viso con le isti­tu­zioni nei cin­que mesi in cui abbiamo negoziato».

La boc­cia­tura del piano dei cre­di­tori rischia a que­sto punto di met­tere in pesante discus­sione pro­prio la lea­der euro­pea che voleva toglierlo di mezzo, e con lui le rina­scenti vel­leità delle sini­stre euro­pee, non a caso pre­senti in gran spol­vero sul palco di piazza Syn­tagma: un rap­pre­sen­tante della Linke strappa applausi quando dice «voi fate la vostra bat­ta­glia qui e noi faremo la nostra in Ger­ma­nia», ova­zione per Miguel Urban di Pode­mos che il pros­simo autunno potrebbe con­qui­stare la Spa­gna dopo aver già preso Madrid e Bar­cel­lona. Spa­zio pure a un mes­sag­gio di Gerry Adams per lo Sinn Fein, ai ciprioti dell’Akel, ai Verdi e a una espo­nente del cen­tro sociale Dik­tio di Exar­chia che tra­scina la folla reci­tando tutti i «no» dei movi­menti sociali. «La vit­to­ria del no signi­fi­cherà avere più forza sul tavolo dei nego­ziati» e non una fuga dall’Europa, ha detto Tipras. Da lunedì potrebbe avere ragione.

La presidente della nostra Camera dei deputati e il presidente dell'Assemblée nationale francese convergono nel giudicare insensata la politica dei terroristi di Bruxelles ai danni della Grecia e del Terzo mondo in fuga dalla miseria e dalla morte.

La Repubblica, 4 luglio 2015

È insensato continuare a chiudere gli occhi sul fatto che l’Europa, incapace di consolidare la propria integrazione politica e di proiettarsi nel futuro, rinuncia a se stessa. Due crisi di queste settimane dimostrano con chiarezza che non siamo sulla strada giusta.

Vi è in primo luogo la vicenda euro-greca, giunta ormai al suo drammatico parossismo con il referendum. Come si è potuto arrivare a questo punto? Come spiegare che non siamo riusciti a trovare un terreno d’intesa con le autorità di un’area economica che incide solo per il 2 per cento del Pil dell’Unione? Al tempo stesso, è giocoforza constatare che le politiche messe in atto negli anni scorsi dalla “troika” — Commissione europea, Banca Centrale europea, Fondo Monetario internazionale — sono fallite. Guardando ai risultati, si potrebbe anzi affermare che siano state attuate a svantaggio della Grecia: il Pil greco, che nel 2008 era solo 7 punti percentuali sotto la media Ue, nel 2013 è crollato a meno 28. Come si fa, in questo contesto, a chiamare “aiuti” degli interventi dagli effetti così devastanti sulla vita dei greci? Il medico ha sbagliato terapia, ma si accanisce sul paziente, e poco importa se il suo assistito rischia la vita! Non è solo un modo di dire: il numero di bambini abbandonati negli orfanotrofi greci è triplicato in pochi anni, un terzo della popolazione non ha copertura sanitaria e il potere di acquisto è diminuito del 40 per cento. Non è ammissibile che la consapevolezza di queste cifre non influisca sulle politiche economiche dell’Ue. E questi dati rendono altrettanto inammissibili le dichiarazioni di certi responsabili europei, che fingono di stupirsi che gran parte della popolazione greca respinga il regime che le viene imposto.

C’è poi la sfida dell’immigrazione, che ha ormai preso posto nel dibattito continentale come un tema ineludibile, che cristallizza le tensioni e lascia campo libero a ogni sorta di fantasmi. Anche in questa materia, se si analizzano oggettivamente i numeri, c’è da rimanere sconcertati. L’Unione europea viene descritta come assediata per aver ricevuto l’anno scorso, nei suoi 28 Paesi, 626mila domande d’asilo. Un continente che, nonostante la crisi, rappresenta l’economia più ricca del mondo, sarebbe messo in ginocchio — secondo campagne politiche di cui non serve svelare i secondi fini — dall’un per cento, o poco più, di quei circa 60 milioni di persone che sono costrette all’esilio da guerre e persecuzioni. Questo popolo senza terra e senza nome, il cui numero è pari a quello degli abitanti dell’Italia e di poco inferiore a quelli della Francia, l’Europa la lambisce appena, e invece si riversa in modo massiccio sui Paesi più vicini alle aree di crisi. Sono il Libano, la Giordania e la Turchia, che ospitano milioni di rifugiati siriani, a poter parlare legittimamente di emergenza. Possono farlo l’Iran e il Pakistan, che accolgono milioni di afghani. Ma come possiamo, noi qui, gridare all’invasione? Il dramma sono i migranti a conoscerlo, non certo noi. Che le migrazioni rappresentino una sfida per i nostri paesi è indiscutibile; ma abbiamo anche tutti i mezzi per affrontarla. Invece di assumerci serenamente le nostre responsabilità, rimaniamo inerti, afflitti e imbarazzati davanti alle immagini che ci arrivano da Ventimiglia: poche centinaia di persone sono diventate — incredibilmente — materia di tensione tra Italia e Francia, mentre basterebbe che ogni Stato dell’Unione accettasse di fare la sua parte.

Vedendoci lacerare, ripiegarci su noi stessi e rimanere fermi, che cosa penserebbero di noi Spinelli, Schuman e Adenauer? Come reagirebbero, scoprendo che su quegli scogli di confine si è incagliata, schiantata l’idea che loro seppero concepire in anni d’autentica tragedia, e far crescere tra le macerie del dopoguerra? Ricordiamoci che l’Europa esiste anche attraverso i principi che essa fa vivere: perché è il continente dei diritti, del rispetto della dignità umana, della solidarietà verso chi è in difficoltà. Questo ci ha resi grandi nel mondo, questo è un punto di riferimento per tutti coloro che abbiano a cuore libertà e giustizia sociale.

Dimenticare questa storia, non sentirne l’orgoglio, non è soltanto un tradimento. È anche una clamorosa dimostrazione di miopia e autolesionismo. Perché in un mondo globalizzato le questioni irrisolte — che si tratti dell’economia greca o dei conflitti dai quali fuggono i rifugiati — hanno e continueranno ad avere su di noi ripercussioni dirette, che ci piaccia o no. Sta a noi decidere se vogliamo affrontare queste sfide governandole con lucidità, lavorando sulle soluzioni, e dunque investire su un’Unione più solidale, al proprio interno e verso l’esterno, un’Unione politica, pienamente politica. Oppure se intendiamo seguitare ad agitarci senza andare avanti. Il che significa cedere di fronte ai tanti populismi che sulla crisi economica e la retorica xenofoba stanno costruendo le proprie fortune, e accettare che sulle rovine dell’ideale europeo volteggino soddisfatti i costruttori di muri. Siccome siamo degli ottimisti irriducibili, crediamo che sia possibile imboccare con decisione la prima strada. Speriamo che le due prove cui è sottoposta oggi la nostra Unione spingeranno ciascuno degli Stati membri a cogliere la misura dell’emergenza europea.

Laura Boldrini è Presidente della Camera dei Deputati Claude Bartolone è Presidente dell’Assemblea Nazionale francese

«I libri proibiti adesso sono chiusi in scatoloni sigillati e pronti per essere nascosti chissà dove. Così come aveva ordinato il nuovo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, non appena insediato».

La Repubblica, 4 luglio 2015 (m.p.r.)

I libri proibiti adesso sono chiusi in scatoloni sigillati e pronti per essere nascosti chissà dove. Così come aveva ordinato il nuovo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, non appena insediato. La censura ha colpito con solerzia. Via dalle scuole della laguna tutti i libri che parlano di “gender, o di genitore 1 e genitore 2” diceva frettolosamente la breve circolare inviata ai dirigenti scolastici. Strana definizione per albi illustrati destinati ai bambini dei nidi e delle materne, liberamente in vendita in tutte le librerie italiane, e dove i protagonisti sono oche, orsi, topi, principesse, elefanti, gatti, famiglie, madri e padri. Ma il risultato, grottesco, e già finito sui giornali stranieri, è che sotto la scure del presunto “gender” sono finiti ben 49 titoli delle migliori case editrici per ragazzi.

Capolavori per l’infanzia come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni, scrittore e illustratore celebre e amatissimo, dove due colori tanto diversi sono così profondamente amici, da mescolarsi per creare il verde...Difficile comprendere il messaggio eversivo di questo abbraccio cromatico. Tanto che contro la “lista di proscrizione”, dove si narra anche di (pericolose) ninne nanne per far addormentare i bebè, si sono mobilitati autori, editori, cittadini, librai, bibliotecari, con letture in piazza, flash mob, e campagne via Facebook dal titolo “Liberiamo i libri”. Durissima l’Associazione Italiana Scrittori per l’Infanzia, che parla di «prassi autoritaria che ha visto luce soltanto nei periodi più bui della storia delle dittature». Sottolineando come nella caccia al libro pericoloso ordinata dal nuovo sindaco di centrodestra, siano rimasti intrappolati volumi di ogni tipo, e assi poco “gender”. Dai lupi intelligenti di Mario Ramos ai figli dell’adozione di Amaltea, e altri cult della letteratura da zero a sei anni, da Orecchie di farfalla al Pentolino di Antonino di Isabel Carrer, delicata storia di un bambino disabile.

«Mi ha chiamato da New York Annie, la nipote di Leo Lionni, per chiedermi sbalordita come mai fossero stati censurati in Italia i libri del nonno», racconta Francesca Archinto, direttrice editoriale di “BabaLibri”, che ha diversi titoli “all’indice” nella lista veneziana. «È incredibile che la politica cerchi di controllare la cultura, in quegli albi illustrati c’è la vita reale, i bambini non possono ignorare che esistono diversi tipi di famiglie, e nelle scuole c’è il bullismo, e il razzismo esiste », incalza Francesca Archinto. «Che senso ha censurare una storia come Il segreto di Lu, dove si parla di soprusi a scuola? Francamente penso che il sindaco di Venezia non conosca i libri per bambini, e soprattutto la lista di titoli che ha messo al bando». Difficile ad esempio rintracciare il fantasma del “gender” nel I papà bis. Nei libri all’Indice per il gender anche i capolavori dell’infanzia storia di una famiglia ricomposta dopo un divorzio. Come accade in Italia a 174 coppie ogni mille matrimoni.

Però è vero, in questa lista di libri si parla molto di “famiglie” al plurale, raccontando, ad esempio nel famoso Piccolo uovo edito da Stampatello e disegnato da Altan, di tutte le forme di genitorialità attuali, comprese quelle “omo” e arcobaleno. Ideatrice del progetto “Leggere senza stereotipi”, è Camilla Seibezzi, già delegata ai Diritti Civili del Comune di Venezia. «Ma quei titoli furono scelti da una équipe di pedagogisti e psicologi e consegnati alle scuole dopo un corso di formazione per gli insegnanti. Dunque con estrema cautela». Sommerso dalle critiche Brugnaro ha adesso annunciato che sui libri proibiti verrà fatta un’analisi ulteriore, e forse alcuni saranno “liberati”. Replica Camilla Seibezzi: «Se accettiamo che anche solo uno dei 49 libri di favole venga censurato la battaglia è giá persa e la democrazia è venuta meno, perché la scuola pubblica ha il dovere di rappresentare e tutelare tutti i bambini e non una sola parte».

Qual­siasi fosse la nostra scelta di dome­nica, lunedì nulla ci divi­derà. Nes­suno mette in dub­bio la per­ma­nenza del paese in Europa».

Il manifesto, 4 luglio 2014 (m.p.r.)

Il momento della demo­cra­zia e della respon­sa­bi­lità è arri­vato. È ora che le sirene dell’allarmismo e del disfat­ti­smo tac­ciano. Quando un popolo prende il futuro nelle pro­prie mani non ha niente da temere. Andiamo tutti alle urne con calma e fac­ciamo la nostra scelta, valu­tando gli argo­menti e non gli slogan.

Ieri è acca­duto un fatto di grande impor­tanza poli­tica. È stato pub­bli­cato il rap­porto del Fmi per l’economia greca. Un rap­porto che ha reso giu­sti­zia al governo greco, per­ché con­ferma quanto è ovvio, cioè che il debito greco non è soste­ni­bile. Loro stessi dicono che l’unico modo per ren­dere soste­ni­bile il debito e per aprire la strada alla ripresa sia quello di pro­ce­dere a un taglio del debito del 30%, con­ce­dendo un periodo di gra­zia di 20 anni. Que­sta posi­zione, però, i cre­di­tori non l’hanno mai espo­sta al governo greco durante i 5 mesi della trat­ta­tiva. Anche nella pro­po­sta finale delle isti­tu­zioni, quella che dome­nica il popolo viene chia­mato ad appro­vare o respin­gere, ogni posi­zione simile è assente.

Il rap­porto del Fmi rende giu­sti­zia alla nostra scelta di non accet­tare un accordo che ignora il grande pro­blema del debito. In poche parole, il prin­ci­pale ispi­ra­tore del memo­ran­dum viene adesso a con­fer­mare la nostra giu­sta valu­ta­zione, ovvero che la pro­po­sta che ci viene data non porta a un’uscita dalla crisi. Cer­chiamo allora di capire, tutti noi. Dome­nica non si decide sulla per­ma­nenza della Gre­cia in Europa.

Si decide se, sotto ricatto, dob­biamo accet­tare il pro­se­gui­mento di una poli­tica senza via d’ uscita, come ormai ammet­tono i suoi stessi ideatori.

Dome­nica si decide se dob­biamo dare il nostro accordo alla morte lenta dell’economia e all’impoverimento della società, se dob­biamo accon­sen­tire a tagliare ulte­rior­mente le pen­sioni, per ripa­gare un debito non soste­ni­bile coi risparmi dei pen­sio­nati, o, se, con deter­mi­na­zione, dob­biamo raf­for­zare il nostro potere nego­ziale, per rag­giun­gere un accordo che ponga defi­ni­ti­va­mente fine a que­sto cata­stro­fico quinquennio.

Gre­che e greci, ora che ci divide poco tempo dall’apertura delle urne, dob­biamo tutte e tutti mostrarci respon­sa­bili, rispet­tando le opi­nioni con­tra­rie alle nostre, e affron­tare uniti il nostro comune futuro.
Qual­siasi fosse la nostra scelta di dome­nica, lunedì nulla ci divi­derà. Nes­suno mette in dub­bio la per­ma­nenza del paese in Europa. Il ‘no’ ad un accordo non soste­ni­bile non signi­fica rot­tura con l’Europa. Signi­fica pro­se­gui­mento dei nego­ziati in con­di­zioni migliori per il popolo greco.

Vi rivolgo dun­que l’invito di opporre un no agli ulti­ma­tum, ai ricatti, alla cam­pa­gna della paura. Ma vi rivolgo anche l’invito di dire di no alla divi­sione. No a chi cerca di spar­gere il panico e di impe­dirvi di deci­dere con calma e respon­sa­bi­lità per il vostro futuro. Vi rivolgo l’invito di deci­dere con deter­mi­na­zione a favore della demo­cra­zia e della dignità. Per una Gre­cia orgo­gliosa e fiera in un’Europa demo­cra­tica e solidale.

(a cura di Tonia Tsitsovic)

«Syriza nelle piazze e nei quartieri per far leva sulla "dignità", i sostenitori del sì non si vedono ma si appoggiano ai media amici. Facendo leva sulla paura».

Il manifesto, 3 luglio 2015 (m.p.r.)

Atene. Osser­vato dalla piazza di Labrini, peri­fe­ria nord di Atene, il refe­ren­dum che spa­venta l’Europa assume tutt’altra pro­spet­tiva rispetto a quella resti­tuita dalle dichia­ra­zioni di Angela Mer­kel o di Jean Claude Junc­ker. Si è appena con­cluso un dibat­tito pub­blico tra soste­ni­tori del no e la gente del quar­tiere, uno dei tanti che si sus­se­guono ogni sera nelle piazze della capi­tale elle­nica, e si tratta di capire, per quanto è pos­si­bile, quale sia l’orientamento dei diretti inte­res­sati: sot­to­met­tersi alle misure euro­pee che la mag­gio­ranza dei greci ha riget­tato appena cin­que mesi fa votando Syriza e gli altri par­titi anti-austerità oppure far sal­tare il banco accet­tando di «navi­gare in acque sco­no­sciute», per dirla con il pre­si­dente fran­cese Fran­cois Hol­lande, il lea­der poli­tico euro­peo che pare aver deluso più ancora di Angela Mer­kel o Jean Claude Juncker?

Tra locali e taverne affol­lati come al solito, frotte di bam­bini all’inseguimento di un pal­lone e alto­par­lanti che dif­fon­dono can­zoni della resi­stenza greca e ita­liana, in un clima a metà tra una vec­chia festa dell’Unità e una sagra pae­sana si ascolta di tutto: dal «colpo di stato euro­peo» per abbat­tere Tsi­pras al «volete rovi­narci» indi­riz­zato agli espo­nenti di Syriza, segno di una pola­riz­za­zione, soprat­tutto in pro­vin­cia, «che non si vedeva dai tempi della guerra civile», sostiene chi ha il polso della cam­pa­gna refe­ren­da­ria. In un angolo, a un ban­chetto del Kke si distri­bui­scono volan­tini che invi­tano a met­tere sulla scheda due no: al piano dei cre­di­tori e al governo Syriza-Anel, con il risul­tato di annul­lare la scheda e, di fatto, nuo­cere alle ragioni del no, a dif­fe­renza di Antar­sya, altro par­ti­tino della sini­stra radi­cale fuori dalla mag­gio­ranza ma schie­ra­tosi a soste­gno del refe­ren­dum voluto dal governo. Li rive­drò entrambi, Antar­sya e il Kke, il giorno dopo, cioè ieri sera, a mani­fe­stare sepa­rati per le vie del cen­tro cit­ta­dino, i primi per il no, i secondi a dire «né-né»: né con lo Stato né con la troika.

Divisi a metà

Una rap­pre­sen­ta­zione pla­stica della divi­sione nella società greca è arri­vata dalle due mani­fe­sta­zioni di qual­che giorno fa: piena quella del no, altret­tanto e forse per­sino di più quella del sì. La pro­pa­ganda media­tica non aiuta a capirne di più. Non è un mistero che i boss della comu­ni­ca­zione in Gre­cia abbiano mal dige­rito il governo della sini­stra e in que­sti giorni si sono tra­sfor­mati nel mega­fono del fronte del sì, altri­menti assente dalle mani­fe­sta­zioni pub­bli­che, a dif­fe­renza dei loro anta­go­ni­sti. Nella fretta di rispon­dere colpo su colpo ai discorsi di Tsi­pras e al quar­tiere per quar­tiere degli atti­vi­sti di Syriza, sono però sci­vo­lati sulla più clas­sica delle bucce di banana: un son­dag­gio pron­ta­mente smen­tito dagli stessi son­dag­gi­sti ai quali era stato attri­buito. Per rispon­dere a quello pub­bli­cato dal quo­ti­diano indi­pen­dente (edito da una coo­pe­ra­tiva di gior­na­li­sti) Efi­me­rida due giorni fa, che dava il no al 54 per cento, con­tro il 33 dei sì e un 13 per cento di inde­cisi, ieri è finito sul gior­nale di orien­ta­mento con­ser­va­tore Kathi­me­rini un contro-sondaggio com­mis­sio­nato dai ban­chieri di Bnp Pari­bas all’istituto Gpo, per il quale il 47,1 per cento dei greci vote­rebbe invece a favore del piano pre­sen­tato dai cre­di­tori, con­tro il 43,2 per cento che lo rifiu­te­rebbe (con gli inde­cisi sti­mati tra l’8 e il 17 per cento). Ma a smen­tire tutto è stata la stessa Gpo (che in pas­sato aveva for­nito son­daggi atten­di­bili sull’ascesa di Syriza), che ha negato di aver par­te­ci­pato alla rile­va­zione minac­ciando di por­tare il quo­ti­diano in tri­bu­nale e ha ribat­tuto che i son­daggi devono essere fatti in maniera «respon­sa­bile», in attesa della «cri­tica deci­sione del popolo greco».

I due fronti

Cer­cando di costruire una geo­gra­fia degli schie­ra­menti, fini­sco a una con­fe­renza stampa di avvo­cati, con­vo­cata per con­te­stare la deci­sione del Con­si­glio dell’ordine di dare indi­ca­zione ai pro­pri iscritti di votare sì al refe­ren­dum. Non sono i soli: ha fatto altret­tanto la Con­fe­de­ra­zione gene­rale dei lavo­ra­tori greci (Gsee), il più grande sin­da­cato elle­nico, e non è una buona noti­zia per Syriza anche se la fede­ra­zione dei metal­mec­ca­nici, al con­tra­rio, pur non espri­men­dosi aper­ta­mente a favore del no, si è schie­rata con il governo. Ma accade che le deci­sioni dei ver­tici siano con­te­state dagli iscritti, come sta avve­nendo tra i legali, let­te­ral­mente imbu­fa­liti per­ché, spie­gano, il loro Ordine non dovrebbe immi­schiarsi in que­stioni del genere, come spiega Saran­tos Theo­do­ro­pou­los, appena tor­nato da Ber­lino dov’è andato a incon­trare i depu­tati della Linke e della sini­stra Spd per spie­gare loro dal punto di vista legale la que­stione dei risar­ci­menti dovuti dalla Ger­ma­nia alla Gre­cia a causa dell’occupazione nazi­sta. Mai come in que­sto caso, sosten­gono diversi ana­li­sti, il voto potrebbe non rispet­tare le indi­ca­zioni delle orga­niz­za­zioni di riferimento.

Gli sce­nari del dopo-voto

Come andrà a finire dome­nica nes­suno è in grado di affer­marlo con sicu­rezza. «Quello che ha messo in dif­fi­coltà il governo è stata la deci­sione di chiu­dere le ban­che per una set­ti­mana», spie­gano nella reda­zione del set­ti­ma­nale indi­pen­dente Epohi, vicino alle posi­zioni della sini­stra radi­cale al governo. Una deci­sione estrema che ha con­sen­tito di evi­tare la ban­ca­rotta dovuta al panico e che potrebbe inci­dere nega­ti­va­mente sull’esito del voto, anche se otto­cento isti­tuti sono rima­sti aperti per pagare le pen­sioni e ieri il governo ha annun­ciato la ria­per­tura di tutti per mar­tedì. Tutto som­mato, i greci hanno affron­tato con grande calma lo stop al cre­dito (e pure ai tri­bu­nali), gra­zie anche al fatto che esso non è stato totale e il governo ha garan­tito pure la gra­tuità dei tra­sporti. Ma tutto ciò non basta a evi­tare che, per l’ennesima volta in pochi anni, un voto in Gre­cia si gio­chi sulla paura, quella stessa che solo alla fine di gen­naio Ale­xis Tsi­pras era riu­scito a scon­fig­gere con­trap­po­nen­dole la «speranza».

Anche gli sce­nari del dopo-voto riman­gono incerti: ieri il mini­stro delle Finanze Yan­nis Varou­fa­kis ha detto ieri di essere pronto a dimet­tersi se dovesse vin­cere il sì e lo stesso Tsi­pras ha già fatto sapere di non essere «un uomo per tutte le sta­gioni». Insomma, non ci sarà un governo Syriza che fir­merà l’accordo con i cre­di­tori. Ma cosa acca­drebbe se dovesse cadere il governo, come vogliono sull’asse Bruxelles-Berlino? Quale regime change sarebbe pos­si­bile? Bru­ciato dai fal­li­menti del pas­sato l’ex pre­mier di Nea Demo­cra­zia Anto­nis Sama­ras, ridotti ai minimi ter­mini i socia­li­sti del Pasok, il can­di­dato dell’Europa pare essere l’ex gior­na­li­sta tele­vi­sivo Sta­vros Theo­do­ra­kis, fon­da­tore e lea­der della for­ma­zione cen­tri­sta To Potami, che potrebbe finire alla testa di un governo di unità nazio­nale, l’unico in grado di far pas­sare un pro­gramma ancora una volta lacrime e san­gue. Ma con quali voti un sif­fatto ese­cu­tivo si reg­ge­rebbe se l’azionista di mag­gio­ranza Syriza non ci sta­rebbe e men che meno le altre mino­ranze da sini­stra a destra (anche se tre depu­tati dei Greci Indi­pen­denti, al governo, ieri si sono schie­rati per il sì)? In che modo si riu­sci­rebbe a met­tere in piedi un governo che firmi l’accordo con i cre­di­tori entro il 20 luglio, in tempo utile per rice­vere i soldi del pro­gramma e ripa­ga­rela rata di debiti con la Bce? Una scon­fitta del no, para­dos­sal­mente, rischie­rebbe di ren­dere ancora più con­fusa la situa­zione e di aprire un periodo di forte insta­bi­lità poli­tica nel paese.

La stra­te­gia della dignità

Syriza dal suo canto mira a smon­tare la stra­te­gia del «ci ridur­ranno in povertà» ricor­dando cosa hanno pro­dotto le poli­ti­che di auste­rità esa­spe­rate in Gre­cia: un tasso di disoc­cu­pa­zione al 27 per cento, un for­tis­simo aumento di depres­sioni e sui­cidi (uno stu­dio pub­bli­cato dal Bri­tish medi­cal jour­nal ne ha cen­siti 10 mila dal 2008, la mag­gior parte avve­nuti dopo l’approvazione del con­te­stato Memo­ran­dum del 2011), pre­ca­riz­za­zione del lavoro e sman­tel­la­mento di diritti. Quella cata­strofe sociale che ha por­tato in pochi anni la sini­stra radi­cale al governo del paese (e ali­men­tato pure l’ascesa dell’estrema destra di Alba Dorata).

Se dovesse far­cela per la seconda volta in un anno, Tsi­pras ne usci­rebbe da trion­fa­tore nono­stante i rischi di default incon­trol­lato, i rating al ribasso di Moody’s e Standard&Poor’s e le minacce euro­pee di abban­do­nare la Gre­cia al suo destino che rischie­reb­bero di lasciare il tempo che tro­vano di fronte a un qua­dro radi­cal­mente cam­biato. Il lea­der greco sostiene, forse a ragione, che una vit­to­ria del no gli darebbe più forza nego­ziale in Europa e alla paura con­trap­pone un altro sostan­tivo: dignità. Il mes­sag­gio, un piz­zico patriot­tico, è: non lascia­moci più calpestare.

«L’ex premier italiano non crede nella Grexit: “Il danno sarebbe troppo grande, si troverà un compromesso. Un’occasione per rilanciare l’Europa, ora senza forza e autonomia. Non possiamo dimostrare di essere incapaci di risolvere un piccolo problema come quello ellenico, sennò a che cosa serve la Ue?”».

La Repubblica, 2 luglio 2015 (m.p.r.)

Bruxelles. Qualunque sia l’esito del referendum, la Grecia alla fine non uscirà dall’euro. Tuttavia l’Europa, se vuole salvarsi, deve dotarsi immediatamente di una forte autorità di tipo federale, altrimenti sarà votata al fallimento. Di fronte al precipitare della crisi è questo il pensiero di Romano Prodi, uno dei “grandi vecchi” europei che guarda con preoccupazione, e non poca amarezza, ai sussulti che da Atene stanno dilangando in tutta la Ue. «Comunque vada a finire il referendum, il danno di una uscita della Grecia dall’euro sarebbe troppo grande. Si troverà un compromesso. Se tutto il mondo, da Obama ai cinesi, continua a ripeterci che bisogna trovare un accordo, vuol dire che c’è il diffuso sentimento di una catastrofe imminente che occorre evitare ad ogni costo».

Presidente, tutti dicono che la moneta non è a rischio, neppure in caso di Grexit. Possibile che un’economia che pesa per il due per cento del Pil europeo affondi l’euro?
«Non lo affonderà, perchè si farà un accordo. Ma il pericolo è reale. Proprio perchè la crisi è così piccola, un fallimento sarebbe clamoroso. Una istituzione che non riesce a governare un problema minuscolo come la Grecia che fiducia può dare sulla sua capacità di gestire un problema più grosso? Oggi non è all’orizzonte, ma tutti sappiamo che, prima o poi, arriverà. E lo sanno anche i mercati. L’uscita della Grecia non sarebbe tanto un danno economico, quanto un vulnus alla credibilità politica dell’Europa. Quando, da presidente della Commissione, dicevo che il parametro del 3 per cento era una follia, e che occorreva invece una politica di integrazione dei bilanci, mi hanno accusato di minare la credibilità dell’Europa. E’ urgente preparare le istituzioni ad affrontare gli eventi futuri, altrimenti non sono sicure nè credibili. Purtroppo le istituzioni europee sono un pane cotto a metà. Per questo non sono in grado di affrontare le crisi che ci aspettano, nè di affermarsi nel mondo».
Eppure non sembra esserci nell’aria molta voglia di compromesso...
«Un non compromesso è un evento impensabile. Voglio vedere come Merkel, Juncker o Lagarde possono prendersi la responsabilità di lasciare la Grecia fuori dall’euro. Certo, l’irrazionalità della Storia è sempre in agguato. Anche la Prima guerra mondiale scoppiò per un piccolo incidente. Ma voglio sperare che Atene non sia la nostra Sarajevo».
Come si è arrivati a questo?
«Perchè questa vicenda è stata gestita da protagonisti nazionali che l’hanno strumentalizzata per puri scopi di politica interna. Le due parti stanno continuando a parlare solo ai loro elettori. E questo ha impedito che si adottassero soluzioni di buon senso».
Quali?
«Mia madre diceva: dai cattivi debitori si prende quello che viene. Fin dall’inizio si sapeva che la Grecia non avrebbe mai potuto restituire per intero il suo enorme debito. Un compromesso di buonsenso, all’inizio di questa crisi, sarebbe stato un taglio del debito sopportabile per i creditori e l’imposizione di una austerità sopportabile per i greci. Ma non è successo perchè hanno prevalso logiche nazionali: gli estremisti di Tsipras da una parte, e i bavaresi dall’altra. Così si è continuato a pasticciare. Che cosa c’entra la troika in questa faccenda? Che cosa c’entra il Fondo monetario internazionale? Perchè abbiamo trattato un paese dell’Ue alla stregua di Portorico? Se l’Europa non sa risolvere da sola un problema piccolo come quello greco, a che cosa serve l’Europa? La verità è che, quando non si vogliono prendere le proprie responsabilità politiche, si cerca di scaricarle su strutture teoricamente tecniche».
Tutta colpa degli europei?
«Da parte greca si è fatto lo stesso. Quando Papandreou voleva indire un referendum per mettere i greci davanti alle proprie responsabilità, è stato costretto a dimettersi dopo un durissimo attacco dei principali leader europei. Così la politica greca è andata verso una deriva estremista. Tsipras ha approfittato della tragica caduta dell’economia per vincere le elezioni sulla base di un programma assolutamente irrealistico, facendo promesse impossibili. E questo è successo perché si sono eliminate le posizioni di mediazione, come quella di Papandreou».
Come è stata possibile una simile catena di errori?
«Perché manca una vera autorità europea. La Grecia è entrata nell’euro perché ha potuto ingannare vergognosamente sui dati reali della propria economia grazie al fatto che Francia, Germania e Italia avevano rifiutato il doveroso controllo europeo sui bilanci, magari affidato alla Corte dei conti. Se ci fosse stata una forte autorità federale, probabilmente Atene non sarebbe mai entrata nell’unione monetaria, o sarebbe entrata ad altre condizioni. Invece noi non abbiamo voluto un’autorità federale. Abbiamo delegato ogni potere ai leader nazionali, che sono ostaggi dei loro problemi di politica interna».
Ma allora qual è la soluzione?
«Occorre creare una vera e forte autorità europea, che è stata continuamente messa in un angolo dai governi nazionali. Se l’Europa si vuole salvare deve reagire immediatamente dotandosi di una autentica autorità federale. Alla fine anche la Merkel lo ammette, quando afferma che l’Ue può vivere solo se si lavora insieme. E’ chiaro che, dopo il referendum, quale che sia il risultato, si deve fare un balzo in avanti. E non è solo la crisi greca che ce lo chiede. Guardi all’Ucraina, guardi all’immigrazione. L’Europa non riesce ad avere un ruolo autonomo e forte. Così non può continuare. Questo secolo sta distruggendo il più bel progetto che era sbocciato dalle macerie del secolo precedente. Dobbiamo impedirlo».

Il manifesto, 2 luglio 2015 (m.p.r.)

Per Atene pas­sano vie che con­du­cono ai grandi e irri­solti pro­blemi che la crisi delle società, nelle quali viviamo, ci pon­gono quo­ti­dia­na­mente di fronte. Una di que­ste inve­ste più diret­ta­mente chi pensa che una con­di­zione neces­sa­ria per poterli affron­tare sia quella di con­tra­stare e scon­fig­gere le poli­ti­che di auste­rità e quella di met­tere in discus­sione l’assetto oli­gar­chico dell’Europa.

La Gre­cia ci ha pro­vato, ma l’ordine che regna nell’Europa reale pare essersi impo­sto. Il mani­fe­sto con­sen­tirà il riuso di un suo titolo famoso “Atene è sola”. Qui sta il dramma delle forze del cam­bia­mento in Europa. Le mani­fe­sta­zioni di soli­da­rietà sono neces­sa­rie ed apprez­za­bili, ma non cam­biano il quadro.

La con­tesa è stata tra il governo greco, da un lato, ed il governo dell’Europa reale, dall’altro, senza che in que­sta fosse ope­rato o si aprisse un con­flitto forte ed esteso con­tro le sua poli­ti­che. Il fatto che a Tsi­pras e ai suoi non si possa rim­pro­ve­rare alcun­ché aggrava la que­stione. Il governo greco ha pro­vato a rea­liz­zare un’impresa pres­so­ché impos­si­bile. La sua con­dotta è stata tanto effi­cace da averci per­sino indotti, in qual­che pas­sag­gio cru­ciale, a cre­dere (con­tro l’analisi di cosa sia mate­rial­mente quest’Europa) che ce l’avrebbe fatta. Que­sto qual­cosa è così pre­zioso per il futuro di tutti, anche ora che il ten­ta­tivo è stato scon­fitto, da dover con­ti­nuare a riflet­tere su di esso.

L’Europa reale, che pre­ten­deva di aver espulso da sé, in nome dell’ineluttabilità delle sue scelte stra­te­gi­che, la poli­tica, come auto­noma capa­cità di scelta, se la vede improv­vi­sa­mente parare davanti con la vit­to­ria elet­to­rale di Syriza e la nascita di un governo che pre­tende di tenere fede al man­dato rice­vuto dagli elet­tori, come se que­sto car­dine della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva non fosse ormai abro­gato in tutti i paesi euro­pei ove, con il voto, si può sce­gliere il governo, ma non le sue poli­ti­che, giac­ché que­ste sono pre­de­ter­mi­nate dal sistema eco­no­mico in costru­zione. Per­ché il governo greco può ten­tare l’impossibile? Per­ché si fonda su un’esperienza poli­tica straor­di­na­ria. Syriza assume pie­na­mente il con­flitto tra il basso e l’alto della società, orga­nizza mutua­lità, coo­pe­ra­zione sociale, pro­muove una par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica nell’organizzazione del par­tito, sta­bi­li­sce un rap­porto di scam­bio per­ma­nete con i movi­menti di lotta, e vede emer­gere, al suo interno, un lea­der e una lea­der­ship che inter­pre­tano poli­ti­ca­mente il biso­gno di una rot­tura radi­cale con tutto il passato.

Syriza si da un pro­gramma di governo alter­na­tivo alla poli­ti­che di auste­rità e che ha le sue fon­da­menta nel sod­di­sfa­ci­mento dei biso­gni prio­ri­tari della popo­la­zione greca. Per­ciò può ten­tare l’impossibile. Ma un’iniezione di demo­cra­zia nella costi­tu­zione mate­riale di que­sta Europa è incom­pa­ti­bile con essa stessa quanto l’uscita dalle poli­ti­che di auste­rità (che sono mici­diali poli­ti­che di destrut­tu­ra­zione e di desog­get­ti­va­zione del lavoro).

L’iniziativa greca ha sospeso la Troika, ma la con­tro­parte rap­pre­sen­tante del governo euro­peo che l’ha sosti­tuito, ha rive­lato che la vit­to­ria del fun­zio­na­li­smo sulla demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva si è già rea­liz­zato in Europa. Todos cabal­le­ros. I governi e i gover­nati devono appar­te­nere alla spe­cie del pen­siero unico e ten­den­ziale diven­tare parti di un governo unico, sovran­na­zio­nale ed arti­co­lato, ma nella sostanza uni­ta­rio. Ai governi nazio­nali è richie­sto di essere pro­con­soli del governo cen­trale, governo costi­tuito sal­da­mente dalla Com­mis­sione euro­pea, dalla Banca cen­trale euro­pea e dal Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale. Lo scan­dalo cau­sato dal governo greco è con­si­stito nel far vivere, in que­sto ordine oli­gar­chico, il man­dato rice­vuto dal suo popolo. Lo scan­dalo ha denu­dato il re ma la debo­lezza dei sud­diti (noi euro­pei) lo ha lasciato sul trono.

All’emersione della poli­tica come pos­si­bi­lità di scelta pro­vo­cata dal governo di Tsi­pras, quest’Europa ha rispo­sto con la poli­tica della con­ser­va­zione del potere. Poteva per­ciò con­tare poco che la Gre­cia fosse una parte così pic­cola dell’Europa da essere inin­fluente sui suoi destini eco­no­mici. Così come poteva con­tare ancora meno che il suo debito potesse essere age­vol­mente ristrut­tu­rato. Quel che andava dimo­strato è che nes­suno può dero­gare alla Regola: non già quella del debito (altri­menti fles­si­bile) bensì quella della com­pa­ti­bi­lità richie­sta tra le poli­ti­che di un qual­siasi governo euro­peo e l’ordine eco­no­mico pro­mosso dal nuovo capi­ta­li­smo, ordine adot­tato e garan­tito dal governo reale di quest’Europa. Non si era mai vista una trat­ta­tiva così squi­li­brata nei rap­porti di forza come quella tra il governo greco e quello euro­peo. Solo una mobi­li­ta­zione dei popoli euro­pei, o meglio un’accumulazione di forze ed espe­rienze, di lotte sociali nei diversi paesi euro­pei, avrebbe potuto col­mare lo squi­li­brio. Non c’era e non c’è stata. Al con­tra­rio qual­cosa di molto pesante è avve­nuto nelle forze di governo.

Non vor­rei che quel che è acca­duto sem­brasse scon­tato. Non vor­rei che il giu­di­zio seve­ra­mente nega­tivo che molti di noi hanno su di essi, oscu­rasse il pas­sag­gio sto­rico che è avve­nuto in que­sta vicenda. Certo, non si può dire, per senso delle pro­por­zioni, che la prima social­de­mo­cra­zia, muore sui cre­diti di guerra e l’ultima muore sce­gliendo di stare dalla parte dei paesi cre­di­tori. Ma che la Troika non abbia tro­vato un solo governo a con­tra­starla e nep­pure a dif­fe­ren­ziarsi da essa è un’enormità. La social­de­mo­cra­zia tede­sca, i socia­li­sti fran­cesi, il par­tito di Renzi, e più in gene­rale i cen­tro­si­ni­stra hanno por­tato a ter­mine, con i pro­pri governi, la pro­pria defi­ni­tiva muta­zione gene­tica. Con essa è morta in Europa ogni ipo­tesi social­de­mo­cra­tica e sono usciti defi­ni­ti­va­mente di scena, nella ver­go­gna, tutti i vari centrosinistra.

La soli­tu­dine di Atene tocca anche noi. Tocca anche tutto il campo, varie­gato e diviso, delle forze cri­ti­che. Non è que­sta la sede per un ragio­na­mento sulla sini­stra di alter­na­tiva in Europa e sui movi­menti, ma quel che non può sfug­gire è però la con­sta­ta­zione dram­ma­tica di un’impotenza. Per rile­varla, basti solo il con­fronto con una pre­ce­dente vicenda che pure ha riguar­dato il for­marsi della costi­tu­zione mate­riale euro­pea, quello della diret­tiva Bol­ke­stein. Allora si riflet­teva cri­ti­ca­mente sul livello di ini­zia­tive e di mobi­li­ta­zione in atto; eppure esse furono incom­pa­ra­bil­mente supe­riori a quelle d’oggi e furono capaci di influire sul vit­to­rioso refe­ren­dum fran­cese con­tro il Trattato.

Atene sola” ci dovrebbe costrin­gere a riflet­tere cri­ti­ca­mente, corag­gio­sa­mente e in un campo largo di forze che oggi ancora non sono attive ma che potreb­bero esserlo domani, sul nostro destino. Il rischio è che il con­flitto in essere tra l’alto e il basso della società diventi, nei diversi paesi la con­tesa esclu­siva tra il campo del governo e il campo delle oppo­si­zioni popu­li­ste, dei popu­li­smi. Ma anche in que­sto caso, molti ci inse­gnano che le pro­pen­sioni popu­li­ste pos­sono dar vita a sog­get­ti­vità sociali e poli­ti­che radi­cal­mente diverse tra loro. Se qual­cosa Syriza con­ti­nua a dirci, anche con l’appello al voto del suo popolo è che nel con­flitto tra l’alto e il basso della società, una forza di cam­bia­mento nasce e vive, oggi, solo sce­gliendo di stare radi­cal­mente su quest’ultimo ver­sante e solo se lo sa agire sul suo ter­reno di scon­tro che è quello del pro­prio paese ma ormai ine­so­ra­bil­mente anche dell’Europa intera.

Il luogo di voca­zione della rina­scita di un’alternativa, come ci inse­gna Syriza ma anche Pode­mos e come ci testi­mo­niano tutti i movi­menti di nuova gene­ra­zione, è diven­tata la piazza, una piazza che, a inten­dersi, si può anche chia­mare rivolta. Soste­nere le ragioni del “NO” di Syriza al refe­ren­dum di dome­nica pros­sima è sacro­santo, ma per stare dav­vero dalla parte di Syriza, in Europa, non basta la solidarietà.

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«Fino a poche ore dalla rottura definitiva di ieri pomeriggio l’accordo era a un passo. Ma poi hanno prevalso la diffidenza, i caratteri e il calcolo politico dei protagonisti». La Repubblica, 2 luglio 2015 (m.p.r.)

Bruxelles. Alexis Tsipras rimane intrappolato nel suo stesso referendum. Fino a poche ore dalla rottura definitiva di ieri pomeriggio l’accordo era a un passo. Prevedeva che i greci ritirassero la consultazione popolare e gli europei offrissero ad Atene un terzo programma di salvataggio con una serie di concessioni per renderne le condizioni meno amare. Ma poi hanno prevalso la diffidenza, i caratteri e il calcolo politico dei protagonisti. Ora si guarda a lunedì, il giorno dopo il referendum. A Bruxelles, Berlino, Atene e nelle altre capitali si studiano piani e scenari. Molti leader ora puntano a far fuori una volta per tutte Tsipras, determinato invece a resistere a prescindere dal risultato del voto. La fine ha avuto inizio ieri notte, quando a Bruxelles è arrivata la seconda lettera in poche ore con le richieste di Tsipras per annullare il referendum. Per la prima volta accettava il testo Juncker – piuttosto generoso - con riforme e impegni per Atene in cambio del salvataggio. Ma a sorpresa il capo del governo greco ha aggiunto cinque punti irrinunciabili. Il viceministro Euclid Tsakalotos si prodigava a spiegare a Bruxelles il perché di tanta rigidità: «Abbiamo bisogno di queste ulteriori concessioni altrimenti l’accordo non passa in Parlamento».

Ma l’ennesimo gioco al rialzo di Tsipras ha irritato diversi governi e ha fornito ai falchi un comodo match point per chiudere la partita. L’Eurogruppo viene spostato dalle 11.30 alle 17.30, ma il tempo non basta a negoziare le nuove richieste di Tsipras. Quindi Schaeuble e la Merkel pubblicamente affondano ogni speranza di accordo. Tsipras gli risponde in tv con parole altrettanto dure. In quei minuti Matteo Renzi è a colloquio a Berlino con Angela Merkel. Uscendo dalla stanza della Cancelliera confida al telefono a un ministro che lo chiama da Roma: «È finita, non c’è più niente da fare».
Eppure fino a ieri mattina la soluzione sembrava a portata di mano, con Juncker, Renzi e Hollande che avevano fatto di tutto per avvicinare Merkel e Tsipras ed evitare all’Europa altri giorni di fuoco. Solo 60 milioni dividevano le parti, niente rispetto ai 240 miliardi già mobilitati per salvare la Grecia. Una rottura non solo tecnica, ma molto politica. Descrive bene l’accaduto Roberto Gualtieri (Pd), presidente della commissione economica dell’Europarlamento tra gli ufficiali di collegamento nel negoziato: «Tsipras è stato cinico nel non volere l’accordo ed è sua gran parte della responsabilità del fallimento, ma anche altri governi sono stati inutilmente rigidi». Ieri Juncker ha tenuto una lunga discussione con i commissari europei per fare il punto della situazione. «I canali con Atene rimangono aperti – spiegava - ma non c’è più nessun movimento». Intanto i ministri delle Finanze dei paesi dell’euro hanno cancellato tutti gli impegni di lunedì, pronti a volare a Bruxelles per rispondere al voto greco.
Gli uomini di Tsipras fanno sapere agli europei le intenzioni del loro leader. Se passa il referendum, il premier si dimetterà ma metterà l’ala moderata del partito a disposizione di un governo di unità nazionale che firmi il memorandum per il terzo pacchetto di aiuti. Un minuto dopo si sfilerà dalla maggioranza provocando le elezioni anticipate, che si dice certo di vincere. In caso di vittoria del “no”, che lui sostiene, tornerà invece a Bruxelles chiedendo tutte le concessioni che ha richiesto in questi mesi. Da ieri Atene è fuori dal programma di salvataggio ed inadempiente con l’Fmi, ma per il default tecnico restano ancora un paio di settimane.
Ma dovrà fare i conti con gli altri. Con la vittoria del “sì” a Berlino e in altre capitali contano di sbarazzarsi una volta per tutte di Tsipras. Non tutti i governi sono così determinati sul punto, ma tutti quanti sono estremamente irritati con il premier greco accusato di scarsa affidabilità e di avere trasformato un suo problema interno in un problema europeo che aizza populisti di destra e sinistra in giro per il continente. Se passasse il “no”, invece, la Merkel e gli altri leader sono determinati a non concedere tutto al collega di Atene. Ripartirà il negoziato con Tsipras che minaccerà la rottura dell’eurozona e gli europei che risponderanno con lo spettro di un taglio definitivo dei viveri ad Atene costringendo il premier greco a lasciare.
Rende bene la situazione la battuta di un diplomatico mitteleuropeo: «Tsipras doveva decidere se morire firmando o non firmando il salvataggio. Sembra avere deciso la via più dolorosa per tutti».
La vittoria del “sì” farebbe ripartire il braccio di ferro, con i tedeschi decisi a non concedere quasi nulla alle autorità elleniche L’ennesimo gioco al rialzo del leader di Syriza ha fornito ai falchi dell’eurozona un comodo assist per chiudere la partita
«I greci si chiedono perché l’Europa voglia punirli. Tutti sanno la risposta. Hanno Atene • osato sfidarla votando Syriza, il partito «sbagliato»: di sinistra ed europeista».

Il manifesto, 2 luglio 2015 (m.p.r.)

Paura con­tro spe­ranza, ragio­na­mento e san­gue freddo con­tro il ter­ro­ri­smo media­tico. È una set­ti­mana dif­fi­cile per la Gre­cia a ancora di più per il governo, costretto a scu­sarsi per colpe non sue e in par­ti­co­lare per la chiu­sura delle banche.

C’è una cam­pa­gna media­tica di dimen­sioni mai viste, nean­che durante le dif­fi­cili ele­zioni di gen­naio. Tutte, ma tutte, senza ecce­zione alcuna, le emit­tenti pri­vate sca­te­nate in ter­ro­ri­smo, cata­stro­fi­smo e disin­for­ma­zione. Ogni assem­bra­mento con più di tre per­sone davanti a una detlle ban­che rima­ste aperte per i pen­sio­nati, diventa oggetto di dibat­tito per ore intere. Se poi l’anziano dà il minimo segno di stan­chezza, allora c’è la tra­ge­dia media­tica, con geron­to­logo invi­tato in stu­dio a spie­gare con fare severo che, in effetti, il sole estivo potrebbe essere dan­noso per chi è avanti con gli anni. Se poi la vec­chietta si avvia verso il «perip­tero» (il carat­te­ri­stico chio­schetto) a com­prare una bot­ti­glietta d’acqua, ecco la piog­gia di micro­foni che gri­dano pre­oc­cu­pati: «Si sente male? Chia­miamo un’ambulanza?». Il con­sumo dell’acqua va in diretta men­tre nello stu­dio se segue con grande appren­sione. Il col­le­ga­mento si inter­rompe solo quando l’anziana mostra di non avere alcuna inten­zione di stra­maz­zare per terra e si avvia per la sua strada.

Ancora peg­gio i noti­ziari: l’«informazione» è che il limite al pre­lievo dal Ban­co­mat sarà ridotto da 60 a 20 euro. Il mini­stero delle Finanze ha smen­tito ma peg­gio per lui. La noti­zia rim­balza, si mol­ti­plica, diventa un fatto. La Mer­kel ha detto nes­suna trat­ta­tiva prima del refe­ren­dum. La noti­zia diventa «nes­suna trat­ta­tiva», siamo già fuori dall’Europa e non lo sap­piamo. Quello che invece le emit­tenti pri­vate oli­gar­chi­che sanno di sicuro è che le tipo­gra­fie dello stato stanno lavo­rando giorno e notte per stam­pare le dracme. Non ci cre­dete? Ma come, l’ha detto la Tv. Molti elet­tori di Syriza sono inor­ri­diti. Accu­sano il governo di aver tol­le­rato que­sta scon­cezza media­tica. Biso­gnava pren­dere prov­ve­di­menti subito, fare loro pagare le tasse (evase siste­ma­ti­ca­mente) e l’occupazione (pra­ti­ca­mente gra­tuita) delle fre­quenze. Giu­sto, forse. Ma poi rischia­vamo una cam­pa­gna euro­pea in favore della libertà d’informazione vio­lata dagli sta­li­ni­sti al potere. Vagli poi a spie­gare che si trat­tava di cial­troni ben sti­pen­diati dagli oli­gar­chi. Quanto rende in ter­mini di voti que­sta incre­di­bile disin­for­ma­zione? Forse è que­sto il vero que­sito del refe­ren­dum. I greci osten­tano calma e san­gue freddo e si infa­sti­di­scono quando si vedono inqua­drati dalle tele­ca­mere. Gli anziani sono i più determinati.

Nes­sun inci­dente ai più di 800 spor­telli rima­sti aperti per loro, nes­suna folla, nes­sun panico. Ma sicu­ra­mente c’è pre­oc­cu­pa­zione, forse anche paura. Chi accusa il governo, si vede, è per par­tito preso ma tutti sono con­cordi nel chie­dersi mera­vi­gliati per­ché l’Europa demo­cra­tica li vuole punire. Tutti sanno la rispo­sta: hanno osato sfi­darla votando il par­tito sba­gliato: ma sono pochi coloro che vedono con sol­lievo l’abbandono dell’eurozona o anche l’Unione Euro­pea. I greci sono orgo­glio­sa­mente euro­pei, nes­suno può far­gli cam­biare idea.

È a loro che Tsi­pras ha voluto rivol­gere il suo appello tele­vi­sivo ieri sera. «Voglio rin­gra­ziarvi con tutto il cuore per la calma e il san­gue freddo che state mostrando in ogni momento di que­sta set­ti­mana dif­fi­cile. Voglio assi­cu­rarvi che que­sta situa­zione non durerà a lungo. Sarà prov­vi­so­ria. Gli sti­pendi e le pen­sioni non andranno persi. I conti dei cit­ta­dini che hanno scelto di non por­tare i loro soldi all’estero non saranno sacri­fi­cati sull’altare dei ricatti e delle oscure mano­vre poli­ti­che. Rivolgo l’appello di soste­nere que­sto pro­cesso nego­ziale, vi chiedo di dire no alle ricette di auste­rità che stanno distrug­gendo l’Europa». Molti si chie­dono. Va bene, ma se poi que­sta man­canza di liqui­dità durasse a lungo, come se ne esce? Tsi­pras, anche ieri, ha osten­tato la sua con­vin­zione che dopo la vit­to­ria del no ci saranno nuovi nego­ziati e la que­stione sarà risolta in tempi brevi. Mar­tedì sera si sono radu­nati a piazza Syn­tagma i soste­ni­tori del «Sì». Non tan­tis­simi, ma pio­veva. Però si sa che c’è una «mag­gio­ranza silen­ziosa» che non scende in piazza ma vota. Il pro­getto delle forze del Sì è chiaro, lo ha annun­ciato il lea­der della destra Sama­ras da Bru­xel­les: un nuovo pre­mier, pro­ba­bil­mente il suo ex mini­stro delle Finanze, ora gover­na­tore della Banca di Gre­cia, Yan­nis Stour­na­ras, per un governo «di unità nazionale».

Ma Sama­ras è una carta bru­ciata, den­tro il suo par­tito quasi nes­suno lo vuole. La nuova carta della rivin­cita delle forze pro auste­rità è il par­tito di pla­stica Tio Potami e il suo lea­der semia­nal­fa­beta Sta­vros Theo­do­ra­kis. È lui che regge il grosso della cam­pa­gna per il sì e pro­ba­bil­mente sarà lui a det­tare l’agenda del ribal­ta­mento poli­tico nel caso di vit­to­ria. Un’agenda molto chiara e sem­plice: accet­tare tutte le richie­ste di Ber­lino. Fine dell’anomalia greca, ritorno alla nor­ma­lità teutonica.

Se qualcuno avesse dubbi sulle ragioni di chi sta tentando di cacciare la Grecia di Tsipras dall'Unione europea, troverà l'elenco argomentato delle menzogne impiegate.

Il Fatto quotidiano, 2 luglio 2015

C’è un gran dibattito sul referendum in Grecia. E’ difficile riassumere i diversi aspetti economici, sociali e politici del problema che sono tutti ugualmente importanti: tutti richiedono un intervento che possa invertire una rotta che sembra destinata a naufragio sicuro. Qui di seguito ho isolato i punti a mio avviso più rilevanti.

Le politiche di austerità sono state ispirate dallo stesso paradigma ideologico neoclassico che ha fallito ogni previsione della crisi economica scoppiata nel 2007/2008, e sono basate su un famoso articolo degli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, tra i più citati negli ultimi anni, che ha evidenziato l’esistenza, in diversi paesi, di una correlazione tra un alto rapporto debito/Pil (maggiore del 90%) e la bassa crescita. L’articolo di Reinhart e Rogoff è stato mostrato essere effetto da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio di calcolo. Eppure questo studio è stato tra quelli usati per giustificare l’austerità, il pareggio di bilancio e la necessità di “rimettere a posto i conti” nei diversi paesi. Malgrado i dati stessi, analizzati correttamente, non mostrano alcuna correlazione tra debito e Pil, e dunque non giustificano in nessun modo le assunzioni delle politiche d’austerità, queste non sono cambiate e anzi sono continuamente riproposte.

Malgrado questa situazione la Grecia, come nota Andrea Boitani, ha seguito la ricette delle politiche d’austerità: “La Grecia ha mandato giù una forte dose di medicina amara, ma troppa rischia di ammazzare il paziente. E cosa vogliono i creditori al tavolo delle trattative? Un po’ di più della stessa medicina!”. Il problema è, appunto, la medicina.

Secondo Mario Monti la Grecia “è la manifestazione più completa del grande successo dell’Euro”. La Grecia dopo cinque anni il “salvataggio” della Troika (Banca Europea, Commissione Europea e Fondo Monetario) è ancora in recessione, ha un tasso di disoccupazione intorno al 30% che sale al 55% per i giovani, ha sofferto un abbassamento del PIL del 25% e il 30% della sua popolazione vive sotto il livello di povertà dell’Unione Europea. Le misure di austerità hanno causato una vera e propria emergenza umanitaria. In un articolo scientifico, pubblicato sulla rivista The Lancet, sono stati presentati dei dati impressionanti: in Grecia dopo quaranta anni è riapparsa la malaria, il 70% dei partecipanti ad un sondaggio ha dichiarato di non avere sufficiente denaro per comprare le medicine, i suicidi sono aumentati del 45%, i neonati sottopeso sono aumentati del 19% mentre i bambini nati morti sono incrementati del 21%.

Dall’inizio della crisi, cinque anni fa è avvenuta la più grande fuga di cervelli in un’economia occidentale avanzata nei tempi moderni, con oltre 200.000 greci che hanno lasciato il paese. Più della metà sono andati nel Regno Unito e in Germania, rappresentando un enorme spostamento di forza lavoro qualificata, formata a spesa del paese d’origine, che va dunque ad arricchire i paesi di destinazione. Quest’ondata di giovani, insieme con quelle provenienti dagli altri paesi dell’Europa meridionale, rappresenta forza lavoro qualificata che entra in concorrenza con quella locale abbassando dunque il costo del lavoro. D’altro canto questo impoverimento di risorse umane sta minando le residue possibilità di una ripresa del paese in un futuro più o meno lontano.

Ma i danni non sono finiti qui. Come spiega chiaramente, Andrea Baranes, il piano di salvataggio della Grecia è stato «concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del vecchio continente e non la Grecia» (fonte Fmi): infatti, uno studio indipendente ha mostrato come per lo meno il 77% di tutti gli aiuti forniti alla Grecia tra maggio 2010 e giugno 2013 sono finiti al settore finanziario e non alla popolazione o allo Stato ellenico. In parallelo l’esposizione delle banche francesi e tedesche si è trasformata in debito pubblico (si veda anche pagina 15 di questo documento del Parlamento Greco).

Questi semplici fatti, facilmente verificabili, mostrano l’assurdità delle politiche d’austerità che hanno l’effetto di deprimere l’economia sia nell’immediato che nel futuro. I vari “economisti”,come Francesco Giavazzi, che si agitano al grido “i Greci hanno scelto la povertà, lasciamoli al loro destino”, con argomenti che possono essere agevolmente falsificati, rendono semplicemente chiaro, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, come, utilizzando la propria cattedra universitaria, la scienza economica sia usata solo per puntellare scelte politiche e ideologiche. La discussione è in realtà tutta politica ma la bussola che si è persa è quella etica: solo indignandoci di fronte alle inutili sofferenze della gran parte di un paese potremo capire da che parte stare.

L'appello televisivo del premier greco. «Il refe­ren­dum di dome­nica non riguarda la per­ma­nenza o no della Gre­cia nell’eurozona. Que­sta è scon­tata e nes­suno può con­te­starla. Dome­nica dob­biamo sce­gliere se accet­tare l’accordo spe­ci­fico oppure riven­di­care subito, una volta espresso il responso del popolo, una solu­zione sostenibile».

Il manifesto, 2 luglio 2015

Il refe­ren­dum di dome­nica non riguarda la per­ma­nenza o no della Gre­cia nell’eurozona. Que­sta è scon­tata e nes­suno può con­te­starla. Dome­nica dob­biamo sce­gliere se accet­tare l’accordo spe­ci­fico oppure riven­di­care subito, una volta espresso il responso del popolo, una solu­zione sostenibile.

In ogni caso voglio assi­cu­rare al popolo greco che la ferma inten­zione del governo è quella di otte­nere un accordo con i part­ners, in con­di­zioni però di soste­ni­bi­lità e di pro­spet­tiva per il futuro. Già l’indomani della nostra deci­sione di pro­cla­mare un refe­ren­dum sono state poste sul tavolo pro­po­ste riguar­danti il debito e la neces­sità di ristrut­tu­rarlo, migliori di quelle che ci erano state pre­sen­tate fino a venerdì. Non le abbiamo lasciate cadere.

Abbiamo imme­dia­ta­mente pre­sen­tato le nostre con­tro­pro­po­ste, chie­dendo una solu­zione soste­ni­bile. È per que­sta ragione che c’è stata la riu­nione straor­di­na­ria dell’eurogruppo ieri e ci sarà una nuova riu­nione oggi pome­rig­gio. Se ci sarà una con­clu­sione posi­tiva, noi rispon­de­remo imme­dia­ta­mente. In ogni caso, il governo greco rimane al tavolo del nego­ziato e con­ti­nuerà a rima­nerci fino alla fine. Ma ci rimarrà su que­sto tavolo anche lunedì, subito dopo il refe­ren­dum, in con­di­zioni più favo­re­voli per la parte greca. Il ver­detto popo­lare, infatti, è sem­pre più potente rispetto alla volontà di un governo. Vor­rei anche riba­dire che il ricorso alla volontà popo­lare è uno dei fon­da­menti delle tra­di­zioni europee.

In momenti cru­ciali della sto­ria euro­pea, i popoli hanno preso deci­sioni impor­tanti attra­verso lo stru­mento del refe­ren­dum. E’ suc­cesso in Fran­cia e in tanti altri paesi, dove si sono svolti refe­ren­dum sulla Costi­tu­zione euro­pea. E’ suc­cesso in Irlanda, dove un refe­ren­dum ha tem­po­ra­nea­mente sospeso il Trat­tato di Lisbona e ha con­dotto a un nuovo nego­ziato, dal quale l’Irlanda ha otte­nuto con­di­zioni migliori. Nel caso della Gre­cia, pur­troppo, si usano due metri e due misure.

Per­so­nal­mente, non mi sarei mai aspet­tato che l’Europa demo­cra­tica non rie­sca a com­pren­dere la neces­sità di lasciare a un popolo sovrano lo spa­zio e il tempo neces­sa­rio per­ché fac­cia le sue scelte riguardo al pro­prio futuro. Sono pre­valsi ambienti estre­mi­sti con­ser­va­tori e di con­se­guenza le ban­che del nostro paese sono state por­tate all’asfissia. L’obiettivo è evi­dente: eser­ci­tare un ricatto che parte dal governo e arriva fino a ogni sin­golo cit­ta­dino greco.

E’ infatti inac­cet­ta­bile in un’Europa della soli­da­rietà e del rispetto reci­proco, vedere que­ste scene ver­go­gnose: far chiu­dere le ban­che pro­prio per­ché il governo ha deciso di far par­lare il popolo, creare disagi a migliaia di anziani, per i quali, mal­grado l’asfissia finan­zia­ria, il governo si è pre­oc­cu­pato e ha fatto in modo che la loro pen­sione fosse rego­lar­mente ver­sata nei loro conti. A que­ste per­sone dob­biamo delle spie­ga­zioni. E’ per pro­teg­gere le vostre pen­sioni che stiamo dando bat­ta­glia tutti que­sti mesi. Per pro­teg­gere il vostro diritto a una pen­sione digni­tosa e non a una man­cia. Le pro­po­ste che, in maniera ricat­ta­to­ria, ci hanno chie­sto di sot­to­scri­vere pre­ve­de­vano un taglio con­si­stente delle pen­sioni. Per que­sto motivo ci siamo rifiu­tati, per que­sto oggi si vendicano.

E’ stato dato al governo greco un ulti­ma­tum che com­pren­deva esat­ta­mente la stessa ricetta, com­pren­dente tutte le misure ancora non appli­cate del vec­chio Memo­ran­dum di auste­rità. Come se non bastasse, non hanno pre­vi­sto alcuna forma di alleg­ge­ri­mento del debito né di finan­zia­mento dello svi­luppo. L’ultimatum non è stato accet­tato. Poi­ché in regime di demo­cra­zia non ci sono strade senza uscita, l’ovvia via d’uscita era quella di rivol­gerci al popolo, ed è stato esat­ta­mente quello che abbiamo fatto.

Sono pie­na­mente con­sa­pe­vole che in que­ste ore c’è un’orgia di cata­stro­fi­smo. Vi ricat­tano e vi invi­tano a votare sì a tutte le misure chie­ste dai cre­di­tori, senza alcuna visi­bile via d’uscita dalla crisi. Vogliono fare dire anche a voi, come suc­ce­deva nei quei giorni bui della nostra vita par­la­men­tare che abbiamo lasciato die­tro di noi, sì a tutto. Farvi diven­tare simili a loro, com­plici nel piano di farci rima­nere per sem­pre sotto l’austerità.

Dall’altra parte, il no non è una sem­plice parola d’ordine. Il no rap­pre­senta un passo deci­sivo verso un accordo migliore che pun­tiamo a sot­to­scri­vere subito dopo la pro­cla­ma­zione dei risul­tati di dome­nica. Sarà l’inequivocabile scelta del popolo riguardo le sue con­di­zioni di vita nei giorni a venire. No non signi­fica rot­tura con l’Europa, ma ritorno all’Europa dei valori. No signi­fica pres­sione potente per un accordo eco­no­mi­ca­mente soste­ni­bile che trovi una solu­zione al pro­blema del debito, non lo farà schiz­zare a livelli inso­ste­ni­bili, non costi­tuirà un eterno osta­colo verso i nostri sforzi per far ripren­dere l’economia greca e dare sol­lievo alla società. No signi­fica pres­sione forte per un accordo social­mente equo che distri­buirà il peso ai pos­si­denti e non ai lavo­ra­tori dipen­denti e ai pensionati.

Un accordo cioè che por­terà in tempi brevi il paese a essere di nuovo pre­sente nei mer­cati finan­ziari inter­na­zio­nali, in modo che si ponga ter­mine alla sor­ve­glianza stra­niera e al com­mis­sa­ria­mento. Un accordo che com­prenda quelle riforme che puni­ranno una volta per sem­pre gli intrecci insani tra poli­tica, mezzi d’informazione e potere eco­no­mico che hanno con­trad­di­stinto in tutti que­sti anni il vec­chio sistema poli­tico. Nel con­tempo potrà affron­tare la crisi uma­ni­ta­ria: sten­derà, in altre parole, una rete di sicu­rezza per tutti quelli che oggi sono stati spinti all’emarginazione gra­zie alle poli­ti­che seguite in tutti que­sti anni nel nostro paese.

Gre­che e greci, sono pie­na­mente con­sa­pe­vole delle dif­fi­coltà che state affron­tando. Mi impe­gno per­so­nal­mente a fare qua­lun­que cosa per­ché siano prov­vi­so­rie. Alcuni fanno dipen­dere la per­ma­nenza della Gre­cia all’eurozona dal risul­tato del refe­ren­dum. Mi accu­sano di avere un’agenda segreta: nel caso di vit­to­ria del no, far uscire il paese dall’Unione Euro­pea. Men­tono sapendo di men­tire. Sono quelli stessi che dice­vano le stesse cose nel pas­sato e ren­dono un pes­simo ser­vi­zio sia al nostro popolo che all’Europa. D’altronde, sapete bene che un anno fa io stesso ero can­di­dato per la pre­si­denza della Com­mis­sione alle ele­zioni per il Par­la­mento europeo.

Anche allora ho detto agli euro­pei che le poli­ti­che di auste­rità devono finire, che non è que­sta la strada per uscire dalla crisi, che il pro­gramma appli­cato alla Gre­cia è stato un fal­li­mento. E che l’Europa deve smet­tere di com­por­tarsi in maniera non democratica.

Pochi mesi più tardi, nel gen­naio del 2015, il nostro popolo ha sigil­lato que­sta scelta. Sfor­tu­na­ta­mente, alcuni in Europa si rifiu­tano di com­pren­dere que­sta verità, non la vogliono ammet­tere. Quelli che pre­fe­ri­scono un’Europa anco­rata in logi­che auto­ri­ta­rie, di disprezzo verso le regole demo­cra­ti­che, che vogliono un’Europa unita solo in maniera epi­der­mica e tenuta insieme dal Fmi, non hanno una visione degna dell’Europa. Sono poli­tici senza corag­gio che non rie­scono a pen­sare come europei.

A loro fianco sta il nostro sistema poli­tico che ha por­tato il paese alla ban­ca­rotta e ora si pro­pone di get­tare la colpa a noi, a chi cerca di far finire que­sta mar­cia verso il disa­stro. Sognano il loro ritorno: lo hanno pro­get­tato nel caso che noi aves­simo accet­tato l’ultimatum – hanno pub­bli­ca­mente chie­sto la nomina di un altro pre­mier per appli­carlo– ma con­ti­nuano anche adesso, che abbiamo dato la parola al popolo. Par­lano di colpo di stato. Ma la demo­cra­zia non è un colpo di stato, i governi nomi­nati da fuori sono un colpo di stato.

Gre­che e greci, voglio rin­gra­ziarvi con tutto il cuore per la calma e il san­gue freddo che state mostrando in ogni momento di que­sta set­ti­mana dif­fi­cile. Voglio assi­cu­rarvi che que­sta situa­zione non durerà a lungo. Sarà prov­vi­so­ria. Gli sti­pendi e le pen­sioni non andranno persi. I conti dei cit­ta­dini che hanno scelto di non por­tare i loro soldi all’estero non saranno sacri­fi­cati sull’altare dei ricatti e delle oscure mano­vre poli­ti­che. Assumo io per­so­nal­mente la respon­sa­bi­lità di tro­vare una solu­zione al più pre­sto, subito dopo la con­clu­sione del refe­ren­dum. Allo stesso tempo rivolgo l’appello di soste­nere que­sto pro­cesso nego­ziale, vi chiedo di dire no alle ricette di auste­rità che stanno distrug­gendo l’Europa.

Vi chiedo di accet­tare la strada di una solu­zione soste­ni­bile, di aprire una bril­lante pagina di demo­cra­zia, nella spe­ranza certa di un accordo migliore. Siamo respon­sa­bili verso i nostri geni­tori, i nostri figli e verso noi stessi. E’ il nostro debito verso la storia.

(a cura di Dimi­tri Deliolanes)

Il messaggio ad Alexis Tsipras del Premio Nobel per la pace: «È urgente riformare il sistema economico e stabilire un nuovo contratto sociale»: ed è chiaro che non si parla delle "riforme" della Troika. La Repubblica, 2 luglio 2015

LETTERA A TSIPRAS

AL PRIMO ministro della Grecia, Alexis Tsipras.

Invio a lei e al popolo greco il mio abbraccio solidale per la grave situazione che state vivendo a causa della speculazione finanziaria che raggiunge i propri interessi a scapito dei popoli.

Qui dall’Argentina seguiamo da vicino le richieste che state facendo per trovare una giusta soluzione che non condanni il popolo greco alla fame e all’emarginazione sociale. Nel 2001 e 2002 abbiamo vissuto anche noi la stessa crisi. L’abbiamo superata unendo le forze e cercando cammini alternativi e creativi. Molte organizzazioni sociali e assemblee popolari hanno recuperato le fabbriche e hanno istituito un sistema di scambio di lavoro e di materie prime. La solidarietà popolare ha permesso di condividere il pane e la libertà.

Il debito estero è un meccanismo di dominazione. I grandi interessi economici privilegiano il capitale finanziario rispetto alla vita delle persone. Noi, purtroppo, ancora ne soffriamo le conseguenze.

Il governo greco ha avuto coraggio ad indire un referendum per chiedere al popolo di decidere sul cammino da intraprendere di fronte all’ultimatum dei soci europei. Questi ultimi, come sappiamo bene, contravvengono ai principi e ai valori sui quali si è fondata l’Europa, cercando d’imporre la deregolamentazione del mercato del lavoro, il taglio delle pensioni e dei salari pubblici, le privatizzazioni e l’aumento dell’Iva anche sugli alimenti. Si tratta di una violazione del diritto d’uguaglianza e di dignità.

Vi invito a resistere per rafforzare la democrazia e la sovranità nazionale. È ormai urgente riformare il sistema economico mondiale e stabilire un nuovo contratto sociale ed è giusto che il popolo greco scelga da solo quale debba essere il presente e il futuro del proprio Paese. La Grecia conosce la resistenza, la democrazia e il coraggio e noi la sosteniamo. Vi accompagno e vi auguro molta forza e speranza.

L’autore è premio Nobel per la pace (Traduzione di Grazia Tuzi)

«Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata».

Huffington post, 30 giugno 2015

Ogni referendum ha una storia sua propria. Quello greco è politico nei suoi fondamenti ed eccezionale. Non nasce dalla volontà del governo di Atene di scaricare la responsabilità di una decisione ardua sui suoi cittadini. Nasce da un coacervo di circostanze che hanno creato un'oggettiva situazione di stallo nella trattativa tra il governo greco, i partner europei e i rappresentanti del FMI volta ad approntare un iter realistico verso il ripiano del debito che non uccida i debitori o non li renda così impotenti da annullare la loro capacità di darsi una vita dignitosa. Si tratta di un referendum in ultima istanza; per superare la situazione di stallo o uscire dal binario morto nel quale le parti di questa lunga trattativa si sono cacciate.

Per un governo rappresentativo si tratta di una decisione determinante, una di quelle gravide di conseguenze non rivedibili per questa generazione e quelle a venire. La consultazione dei diretti interessati sul Memorandum politico dell'austerità è per questo legittima. Ma è anche ragionevole in vista proprio della continuazione della trattativa. Segno di un governo che rischia e ha il senso della gravità del momento. Del resto, nonostante sia identificato come un governo di sinistra radicale, la maggioranza dei greci che lo hanno votato, ha scritto Stathis Gourgouris, non é composta di persone ideologiche, ma di cittadini stanchi delle impotenze dei governi precedenti, della mancanza di coraggio delle leadership tradizionali. Il voto a Syriza ha espresso una richiesta di coraggio, di mutamento di percorso. E la sua classe politica giovane e nuova ha anche per questo avuto il sostegno di persone politicamente distanti.

Un fatto va sottolineato, e che non appare nei resoconti catastrofisti di questi giorni: Syriza ha pensato che per uscire dallo stallo della trattativa a Bruxelles solo l'appello al popolo poteva rimettere in moto le cose. Gli scienziati politici hanno in varie occasioni messo in evidenza come la scelta radicale, per esempio il ricorso diretto alla voce del popolo, ha precisamente la funzione di imprimere una svolta che dia nuovo vigore e immaginazione alle forze in campo. Non è il referendum che le erode, del resto.

L'erosione deriva semmai dal far trascinare la trattativa troppo a lungo perché questo rischia di generare una crescente incomprensione nei partner in quanto mette in moto emozioni ostruttive, come la diffidenza e perfino il disprezzo personale tra i contraenti. Le trattative faccia-a-faccia sono cruciali quando vi é la volontà di risolvere il contenzioso in modo che tutti abbiano covenienza. Ma la lunghezza dei tempi gioca contro perché apre lo spazio alla guerra psicologia, che mira non a trovare una soluzione equa o non a somma zero, ma ad annientare l'avversario.

In questo senso, il referendum puó avere la funzione di stemperare gli umori psicologici spostando il problema sul terreno della procedura e dell'aspettativa assolutamente impersonale, quale é l'esito di un voto segreto. Sappiamo del resto che in molti casi, forme di democrazia diretta hanno il merito di stabilizzare le relazioni pubbliche perché orientano chi deve subire le conseguenza di una decisione all'accettazione delle scelte, anche le più ostiche (il caso esemplare é quello della Svizzera, che si é consolidata con i referendum). A giudicare dai movimenti della diplomazia mai interrotta a Bruxelles, è probabile che il referendum greco abbia il merito di rianimare la scena e mettere in campo proposte nuove e intenzioni meno macchinose e fatali. Sia che Syriza perda o vinca, il referendum potrà forse stabilizzare anziché destabilizzare le relazioni tra Grecia e Europa, poiché il popolo greco si fa direttamente responsabile.

Sarebbe desiderabile valutare positivamente l'onestà e il coraggio di questo governo, virtù determinanti in una fase di grande difficoltà come l'attuale. Virtù politiche che hanno il potere di tenere insieme una situazione difficilissima e aprire vie d'uscita.

Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata come ha commentato Paul Krugman. Il referendum é a ben guardare il gesto di una politica europeista non anti-europeista. Solleva direttamente una questione che vale per tutti gli europei: che Europa é questa che tratta il debito secondo una logica contrattualistica privata e non sa comprendere la legittimità democratica che un popolo ha di tentare strade meno dolorose e ingiuste? Su quali basi e con quale logica la dirigenza europea pensa di poter evadere una richiesta democratica di mutare rotta per avviare una diversa strategia di risoluzione del debito che faccia perno sulla crescita e non sui tagli?

Il referendum greco ha posto un problema all'Europa, un problema che deve essere risolto in e con l'Europa: quello di un modo diverso di affrontare le politiche del debito - cioé come politiche di risanamento e di crescita, non di punizione. Così è stato in Europa dopo la distruzione lasciata dalla guerra, così dovrebbe essere oggi dopo la distruzione lasciata da questa crisi economica. E la scossa del referendum, nella sua tragicità può aiutare a intraprendere questo percorso.

Del resto la democrazia è un governo del rischio e della crisi. Da onorare sia quando la fortuna arride sia in tempi duri che richiedono un surplus di saggezza e di coraggio. Nel linguaggio di Aristotele, ai cui scritti la scienza e la pratica politica europee sono debitrici, la democrazia é modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere. Senza di che ci sono relazioni di dominio; senza di che non c'è posto per alcuna trattativa, ma solo per la non-scelta del prendere o lasciare.
Così la cancelliera sacrifica la battaglia greca per superare un’altra prova: salvare l’Euro(pa). In qualsiasi modo finisca, la campagna di Grecia ha lasciato sul terreno feriti. Un Paese nel caos. Enormi dubbi sulla capacità politica dei leader europei.

Corriere della Sera, 1 luglio 2015 (m.p.r.)

Berlino. Nel finale della partita greca, Angela Merkel ha scelto di sacrificare il breve termine per il lungo: non salvare necessariamente la Grecia rinnegando i principi ma cercare di proteggere l’euro. Decisione rischiosa: non si può sapere cosa abbia in serbo il futuro. Ma decisione in parte obbligata e potenzialmente saggia: l’evoluzione della realtà è spesso benigna per gli statisti pronti a perdere una battaglia per vincere la guerra.

La rottura delle trattative tra creditori e Atene è una sconfitta per la cancelliera, che per mesi ha cercato il compromesso. Non è riuscita a esercitare quella leadership che le chiedevano mezza Europa, la Washington di Barack Obama, politici e autorità economiche dall’Asia al Sudamerica. Non solo: se la crisi greca non sarà gestita con maestria dalla stessa signora Merkel e dall’Eurozona, potrebbe iniziare il tramonto dell’Unione europea come l’abbiamo conosciuta, quella uscita dalla Guerra fredda, modello di pace a espansione continua. La «ragazza» un tempo pupilla del «cancelliere della riunificazione» tedesca e dell’Europa unita, Helmut Kohl, passerebbe alla storia come la cancelliera della divisione del Vecchio Continente. In gioco c’è molto, per la leader e per l’intera Ue.
A questa situazione si è arrivati per più di un motivo. Frau Merkel voleva con determinazione un accordo con Atene. La sua convinzione-ritornello è sempre stata «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa». Aveva però di fronte due ostacoli non indifferenti. Sul piano interno, una maggioranza dell’opinione pubblica tedesca contraria a dare nuovi aiuti alla Grecia in cambio di nulla; sostenuta da una larga maggioranza di parlamentari. Sul piano esterno, un gruppo nutrito di partner dell’Eurozona che non avrebbe mai accettato regali ad Atene: perché i sacrifici per rimettere in piedi le loro finanze pubbliche li avevano fatti, ad esempio Irlanda, Portogallo, Spagna, Lettonia; oppure perché con redditi pro capite (e salari minimi) più bassi di quelli greci, ad esempio la Slovacchia e la Lituania.
A questo si aggiungeva una crescente sfiducia nel governo greco di Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis, che conduceva le trattative in modo da convincere via via praticamente tutti in Europa che in realtà non volesse un accordo ma solo soldi. In questa cornice, fare la scelta di dare denaro ad Atene senza un programma di riforme avrebbe voluto dire non solo mettersi contro tutti, in Germania e in Europa: avrebbe significato soprattutto rimuovere la pietra angolare dell’Eurozona a 19 Paesi, cioè il fatto che l’unico modo per sperare di stare assieme in un’Unione monetaria è rispettarne le regole. Superata quella linea rossa, liberi tutti, qualsiasi cosa sarebbe potuta succedere. Lunedì ha spiegato che se l’Europa rinnegasse i suoi principi «anche solo momentaneamente, nel medio e lungo termine ne soffrirebbe i danni». Tra cercare di vincere una battaglia sbagliata e cercare di vincere una guerra giusta, la cancelliera ha scelto la seconda strada. E ha dunque modificato il paradigma: salvare l’euro per salvare l’Europa non comporta più l’obbligo di salvare Atene.
Il problema è che, in qualsiasi modo finisca, la campagna di Grecia ha lasciato sul terreno feriti. Un Paese nel caos. Enormi dubbi sulla capacità politica dei leader europei. La dimostrazione della fragilità dell’architettura su cui poggia l’Unione monetaria. Si dice che di solito la Ue non spreca le proprie crisi, le usa per andare avanti nell’integrazione. Come fare, anche in questo caso, non è un mistero. Sul tavolo dei governi è arrivato da pochi giorni un documento, il «Rapporto dei 5 presidenti», che propone quali misure prendere per rafforzare la governance dell’Eurozona e in quali fasi farlo. Lo hanno preparato Jean-Claude Juncker, Mario Draghi, Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Martin Schulz. È ambizioso: punta a una progressiva convergenza strutturale delle economie dell’euro, a un’unione economica, finanziaria, di bilancio e politica che in un decennio dovrebbe essere realizzata.
Finora, Frau Merkel non ha preso l’occasione di questo documento per cercare di rilanciare la credibilità dell’Europa di domani. L’aspettativa è che lo faccia forse già dalla settimana prossima: d’altra parte, il Rapporto e la riforma della Ue chiesta dalla Gran Bretagna sono le due occasioni che l’Europa ha per non finire, dopo la crisi greca, in un gomitolo di recriminazioni, accuse reciproche e chiusure ma di rilanciare una prospettiva. Strada impervia. Ma l’alternativa, per Frau Merkel, è passare alla storia come colei che disfece ciò che Kohl costruì.

«È un gioco ormai politico, più che economico: creare paura e panico per far cadere Tsipras». Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2015 (m.p.r.)

«Inammisibile e quanto meno irrituale l’ennesimo tentativo tedesco di interferire nella politica greca». Una volta c’erano i colonnelli, oggi l’austerità della Germania, la Grecia è sempre la vittima e Barbara Spinelli, eurodeputata della Sinistra europea, figlia di Altiero, padre dell’Europa, accusa: «È in atto un tentativo di colpo di Stato post-moderno». Le ultime ore sono concitate. Juncker riapre, Tsipras avanza nuove richieste. Si riavviano le trattative, ma interviene la Merkel: «No al terzo salvataggio prima del referendum».

Cos’altro vuole la Germania? Il sangue greco? È un intervento gravissimo. Non può e non deve essere il cancelliere, l’interlocutore di Atene. Le trattative le porta avanti la Troika, anche se i greci rifiutano di chiamarla così: Commissione europea, Bce e Fmi. Anzi sarebbe bene che Atene negoziasse prescindendo dal Fmi. Il resto è ingerenza. Qual è il motivo dell’ingerenza?
Si configura come un colpo di Stato di tipo nuovo: una forma di regime change. È un gioco ormai politico, più che economico: creare paura e panico per far cadere Tsipras.
Perché?
Per avere di nuovo, in Grecia, un gruppo dirigente in linea con l’austerità voluta da Berlino. Ma è proprio così che si è generato il disastro europeo che stiamo vivendo. Non è responsabile solo la Merkel, ma anche la Lagarde, Renzi e molti altri.
Non era questa l’Europa sognata da suo padre a Ventotene...
Era l’opposto. È stata azzerata la solidarietà, l’Unione oggi viola il proprio stesso Trattato, che prescrive la “cooperazione leale” in caso di crisi. Dovrebbe essere citata davanti alla Corte di Lussemburgo. E la Bce non è in grado di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza. L’interruzione degli aiuti d’emergenza viola le regole stesse della Bce, che dovrebbe garantire stabilità finanziaria nell’eurozona.
Boccia anche l’operato di Mario Draghi, quindi?
Difendo l’indipendenza della Bce e il ruolo positivo spesso svolto durante la crisi dell’euro. Negli ultimi frangenti, però, la stessa Bce ha svolto un ruolo molto dubbio, di parte. Non indipendente.

Crede che il suo gruppo, la Sinistra europea, abbia responsabilità?
La Sinistra europea è minoritaria, non mi pare responsabile di questo dramma.

Almeno la responsabilità della sconfitta?
Il governo Tsipras ha indetto un referendum: non è una sconfitta, ma un ritorno alla natura democratica della costruzione europea contro le decisioni prese da poteri oligarchici. L’azione di Tsipras è una scommessa sulla democrazia, l’elemento che più è mancato nella crisi dell’euro.
La cura potrebbe essere l’unità tra sinistra radicale e socialdemocrazia?
È la cosa in cui spero moltissimo. Così come punto su alleanze con i Verdi. Ma non sembrano esserci ancora le condizioni. Dopotutto i partiti socialisti (la Spd tedesca e anche il Pd) hanno sulla Grecia una posizione perniciosa, ambigua: interpretano il referendum come una scelta tra dracma ed euro. Ma Tsipras non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro. I socialdemocratici sono dentro una deliberata strategia della paura e della menzogna, molto pericolosa.
Paradossalmente anche il Movimento cinque stelle racconta così questo referendum...
Fa molto male. Beppe Grillo ha tutto il diritto di pensare che la soluzione sia l’uscita dall’euro, ma non la penso così io e non la pensa così il governo Tsipras.
Che cosa succede se vince il sì? Il panico è tale che non si può escludere una vittoria del sì alle proposte della Troika, ancora nel segno dell’austerità. Credo che in quel caso il governo Tsipras accetterà comunque il nuovo mandato popolare, se ne farà interprete fino ad accettare le proposte della Troika e “riconfigurando il governo”, come ha detto il ministro Varoufakis.
L’Europa del dopoguerra era una speranza. Oggi non riesce a fornire alcuna risposta. Né economica né di civiltà. E il Mediterraneo sembra diventato un mare di migranti in costante pericolo di vita e di terroristi pronti a uccidere.
Non sono d’accordo con quest’ultima visione. È anch'essa il risultato della strategia della paura. È sbagliato mischiare migranti, richiedenti asilo, terroristi, scafisti: alimentando un immaginario di terrore nelle nazioni. Ingiusto e non corrispondente al vero.
«Un mini esercito di eroi per caso sostituisce lo Stato e fa a gara di solidarietà per salvare i più bisognosi».

La Repubblica, 1 luglio 2015 (m.p.r.)

Atene. L’armata degli angeli anti-crisi di Atene si è regalata un nuovo iscritto di peso. «Ci stavamo pensando da un po’» ammettono alla sede dell’Associazione dei medici ellenici. Poi domenica scorsa, davanti alle immagini in tv delle code ai bancomat e agli allarmi sulle scorte di medicine nelle farmacie, hanno rotto gli indugi. «Crisi o non crisi una cosa non cambia: i greci non hanno perso il vizio di ammalarsi», scherza Eirini Vathis, infermiera all’Evangelismos. E così la mini-Confindustria dei dottori – davanti al rischio dell’ennesima emergenza sanitaria - ha acceso il pc e mandato una mail a tutti i suoi iscritti: «Questa settimana, almeno fino al referendum, vi preghiamo di curare gratuitamente chiunque ne avesse davvero bisogno».

Un fiore nel deserto? Tutt’altro. Tsipras, Merkel e i tecnocrati della Troika sono i primattori mediatici della tragedia della Grecia. Dietro le quinte però, lontano dai riflettori, a scrivere il lato B dell’austerity sono altri protagonisti: un piccolo esercito di eroi per caso che in questi cinque anni passati come uno tsunami sul paese si è rimboccato le maniche e ha sostituito uno stato senza soldi, aprendo un ombrello di solidarietà sulla parte più debole della società. «Platone dice che la comunità si costruisce quando la gente non è più autosufficiente » è il mantra di Xenia Papastravou, laurea alla London School of Economics e anima della Ong Boroume. Lei è uno dei primi angeli della capitale: nel 2011 - mentre era dal panettiere verso l’ora di chiusura - ha adocchiato 12 torte di formaggio che due ore dopo sarebbero finite come avanzi in pattumiera. E, con l’ok del fornaio, le ha portate alla mensa della chiesa locale, dove ogni sera si allungava una fila di persone che non avevano i soldi per la cena.
L’economista che c’è in lei ha fiutato il business. A fin di bene. E oggi quelle torte di formaggio si sono moltiplicate come i pani e i pesci. Boroume ha distribuito lo scorso anno in tutta la Grecia 1,3 milioni di pasti strappati alla spazzatura (il 400% in più del 2013). Donano gli avanzi gli alberghi di lusso, regalano i cibi vicini alla scadenza le catene di supermercati. «Il telefono non smette mai di squillare» racconta uno dei 60 volontari che ruotano attorno al piccolo ufficio nel cuore della vecchia Atene, dove un data base hi-tech incrocia la domanda (purtroppo ancora in aumento) e l’offerta, pilotando a destinazione qualcosa come 4mila pasti al giorno.
A 100 metri dal quartier generale della geniale Borsa degli scarti alimentari di Alexandra c’è la clinica gratuita di Doctors of the world, che dal 2012 a due mesi fa – quando il governo Syriza ha reintrodotto il concetto di copertura sanitaria per tutti - è stata uno dei pochissimi punti di riferimento per quel milione di greci che dopo un anno di disoccupazione ha perso il diritto all’assistenza medica gratuita. «Pensavamo di aver visto tutto, ma di fronte al rischio del default del paese ci stiamo preparando al peggio» racconta Dimitris nel suo camice blu, uno dei pediatri volontari che la mattina visitano i bambini. «La nostra clinica mobile lo scorso anno ha assistito 80mila persone» racconta Nikitas Kanakis, l’anima di questa oasi di solidarietà in uno dei quartieri più problematici della capitale. E ogni mattina davanti all’ospedale c’è una fila di un centinaio di persone in attesa «tra cui i greci – ammette sconsolato -sono sempre di più». L’Europa si sta sfaldando in diretta in queste ore in un ping-pong tra Atene, Berlino e Bruxelles. I suoi valori, per fortuna, resistono ancora in queste strade strette e spesso un po’ malandate sotto il Partenone.
Ogni venerdì a Ermou, davanti ai negozi delle griffe, si piazza la cucina mobile di O Allos Anthropos sotto il cartello “Cibo gratis per tutti” a servire pasti gratuiti. Manna in un paese (dati Ocse) dove la percentuale di chi non può permettersi un pasto è raddoppiata dal 2008 al 18%. Ci sono gli psicologi di Klimaka che aiutano le persone in difficoltà neurologica (i suicidi nel paese sono aumentati del 35 per cento), la Kyada che ha organizzato centinaia di posti letto per i senza tetto. In questi giorni, da Salonicco ad Atene, si stanno moltiplicando le iniziative spontanee per aiutare le centinaia di migranti che ogni giorno passano qui nel corso dell’Odissea per fuggire dalle guerre.
Al Pireo, nel cuore della vecchia base americana, lavorano i volontari della Metropolitan Clinic of Helliniko. Il governo ha tagliato i fondi agli ospedali – scesi da 640 milioni a 43 nei primi quattro mesi dell’anno – e molti arrivano qui, di fronte al vecchio campo di baseball dei militari a stelle e strisce, per farsi curare o prendere medicinali. «Siamo a quota 1.100 visite al mese» dice Christos Sideris, uno dei coordinatori dell’iniziativa appena premiata dal Parlamento europeo con un riconoscimento («un premio ipocrita – dice Christos – senza l’imposizione della loro austerity di noi non ci sarebbe bisogno»). L’università di Atene calcola che nel paese – in questi cinque anni d’austerity - siano spuntate almeno 500 iniziative spontanee di solidarietà come queste.
Il Pil scende, la Troika taglia le pensioni. Ma il numero degli angeli di Atene, almeno quello e per fortuna, continua a crescere.

Articoli di di Dimitri Deliolanes e di Pavlos Nerantzis. sugli eventi di una giornata cruciale, per L'Europa e il suo futuro. Il manifesto, 1° luglio 2015


Ad Atene in piazza il fronte del sì
di Pavlos Nerantzis

Il governo greco non accetta l’ultima proposta in extremis dei «creditori», e conferma: «Referendum non in discussione»

Una gior­nata piena di riu­nioni al Megaro Maxi­mou, sede del governo, ma anche di infor­ma­zioni con­trad­dit­to­rie per un’eventuale intesa tra Atene e i suoi cre­di­tori. A piazza Syn­tagma di fronte al par­la­mento, que­sta volta era pre­sente il «fronte del sì», ovvero i greci che vor­reb­bero ad ogni costo un accordo con le «isti­tu­zioni». Migliaia di per­sone a mani­fe­stare la volontà di accet­tare le con­di­zioni dei cre­di­tori, spinti per strada — forse — dalla cam­pa­gna media­tica dell’opposizione che ritiene che il refe­ren­dum possa allon­ta­nare, per sem­pre, la Gre­cia dalla Ue.

Di sicuro rap­pre­sen­tano una parte dei greci, com­presi alcuni elet­tori di Syriza, che non vogliono in alcun modo il rischio di un’uscita dall’euro. Il pre­mier Tsi­pras (che ieri ha avuto comu­ni­ca­zioni tele­fo­ni­che con Dra­ghi, Mer­kel, Hol­lande e Schulz), secondo alcuni media locali si sarebbe schie­rato a favore di una solu­zione soste­ni­bile; altre fonti — invece — dice­vano che «siamo molto vicini ad un’intesa». Lo stesso Tsi­pras che fa cam­pa­gna per il «fronte del no», è stato chiaro anche durante un’intervista alla tv pub­blica Ert lunedi sera: «rispet­te­remo la volontà dell’elettorato, anche se io non sono un uomo per tutte le sta­gioni». Vale a dire che nel caso vin­cesse il «fronte del sì», il pre­mier non ha altra scelta che dimet­tersi, aprendo la strada ad un ricorso anti­ci­pato alle urne e a un periodo di insta­bi­lità poli­tica. In tal caso il governo delle sini­stre sarebbe una paren­tesi e la scon­fitta non sarà sol­tanto greca.

A que­sto punto si pone la domanda: per­ché il pre­mier greco non si è aggrap­pato all’opportunità for­nita da Junc­ker, che avrebbe pro­po­sto un accordo in extre­mis (con l’aliquota dell’Iva al 13% per gli alber­ghieri e i ser­vizi turi­stici e non al 23%) e un impe­gno da parte dell’ Euro­gruppo per una ristrut­tu­ra­zione del debito? Tanto è vero che Tsi­pras ha annun­ciato il refe­ren­dum per far mag­gior pres­sione sulle «isti­tu­zioni» affin­ché ridu­ces­sero le pre­tese per arri­vare ad un’intesa e per «distri­buire» il peso della respon­sa­bi­lità di una deci­sione che potrebbe essere inter­pre­tata come una resa ai cre­di­tori o, in caso con­tra­rio, un salto nel buio.

Nel caso dovesse esserci un accordo prima del refe­ren­dum della dome­nica pros­sima ci sono due pos­si­bi­lità: o la con­sul­ta­zione verrà annu­lata, un’eventualitá tutto som­mato scarsa — «il refe­ren­dum comun­que sarà rea­liz­zato» ha detto ieri il mini­stro Nikos Pap­pas, brac­cio destro di Tsi­pras — oppure il governo si schie­rerà a favore del «si».

La mag­gio­ranza dei greci vuole con­ti­nuare a uti­liz­zare la moneta unica e pre­fe­ri­rebbe un accordo con i part­ner euro­pei del Paese piut­to­sto che una rot­tura. È quanto risulta da due son­daggi effet­tuati prima di sabato, giorno in cui Tsi­pras ha annun­ciato il refe­ren­dum. Nel son­dag­gio della Alco per il set­ti­ma­nale Proto Thema, il 57% degli inter­vi­stati ha detto di rite­nere che la Gre­cia dovrebbe fare un accordo con i part­ner euro­pei, men­tre il 29% ha detto di pre­fe­rire una rottura.

Dal son­dag­gio con­dotto dalla Kapa Research per il quo­ti­diano To Vima è emerso che il 47,2% degli inter­vi­stati vote­rebbe a favore di un accordo, per quanto dolo­roso, con i cre­di­tori, con­tro il 33% che vote­rebbe no e il 18,4% di inde­cisi. Entrambi i son­daggi sono stati con­dotti a livello nazio­nale dal 24 al 26 giu­gno. Tenendo poi conto del clima di pre­oc­cu­pa­zione e di ten­sione crea­tosi dalla deci­sione di chiu­dere le ban­che gre­che, ana­li­sti fanno notare che «la per­cen­tuale a favore di un’intesa e quindi del sì dovrebbe essere aumentato».

A que­sto spo­sta­mento ha con­tri­buito la cam­pa­gna di inti­mi­da­zione, se non di ter­ro­ri­smo dell’opinione pub­blica da parte dei media main­stream, ali­men­tata da altri due fat­tori: la chiu­sura delle ban­che seguita dal capi­tal con­trol e il limite dei 60 euro al giorno dai ban­co­mat. Oggi apri­ranno i bat­tenti a quasi mille filiali per pagare le pen­sioni ai clienti che non pos­sie­dono carte di cre­dito, ma il clima è peg­gio­rato rispetto ai giorni precedenti.

La con­fu­sione, l’ansia e il ner­vo­si­smo sono evi­denti sui volti delle per­sone, in gran parte pen­sio­nati, che sotto la piog­gia fanno delle lun­ghe file di fronte ai ban­co­mat, soprat­tutto quelli della Natio­nal Bank of Greece. La poli­zia greca è stata posta in stato di allerta nel timore di atten­tati dina­mi­tardi con­tro i ban­co­mat o taf­fe­ru­gli tra i clienti in fila. Pre­oc­cu­pati pure i com­mer­cianti e le aziende di espor­ta­zione, per­ché oltre al calo pau­roso delle ven­dite — già ridotte — hanno pro­blemi di liqui­dità. 350 milioni di euro saranno persi que­sta set­ti­mana, secondo l’Associazione dei com­mer­cianti di Atene. Inol­tre, il «fronte del sì» sta cre­scendo per­ché il governo non ha ancora chia­rito cosa fare il giorno dopo il refe­ren­dum nel caso vin­cesse il «no», rispetto alle pro­po­ste dei cre­di­tori. Il discorso gene­rico «avremo un potere di nego­ziato più forte» con­vince i mili­tanti di Syriza, ma non tanti altri elettori.

Un «no» forte sicu­ra­mente raf­for­zerà il potere con­trat­tuale del pre­mier greco, ma pre­sen­tan­dosi a Bru­xel­les Tsi­pras rischia di non tro­vare i suoi inter­lo­cu­tori delle «isti­tu­zioni» per­ché sem­pli­ce­mente potreb­bero dire che il nego­ziato è ter­mi­nato. A quel punto la Gre­cia cam­mi­nerà su «acque sco­no­sciute». La Bce potrebbe chiu­dere i rubi­netti –da ieri il Paese non è più nel pro­gramma di aiuti e l’agenzia di ratings Fitch ha declas­sato le quat­tro ban­che elle­ni­che al grado Rd (fal­li­mento in parte, Restric­ted default)- pro­vo­cando in un primo momento il crollo del sistema ban­ca­rio greco e in seguito, l’intervento dello stato. Con un’economia in ginoc­chio da parec­chi anni causa reces­sione, il governo greco, anche se non lo vuole, non avrebbe altra pos­si­bi­lità che chie­dere aiuti da paesi fuori dalla Ue, nazio­na­liz­zare gli isti­tuti di cre­dito e stam­pare la dracma.

Visto che il pre­si­dente della Repub­blica, Pro­ko­pis Pavlo­pou­los, ex mini­stro della Nea Dimo­kra­tia, ha chia­rito parec­chie volte che «non sarò mai il pre­si­dente di un paese che esce dalla moneta unica», nel caso di un ritorno alla dracma Pavlo­pou­los si dimet­terà pro­vo­cando nuove ele­zioni. Nei trat­tati Ue non è pre­vi­sta l’uscita di un paese mem­bro, ma a quel punto la Gre­cia rischia l’isolamento e un’esplosione della crisi uma­ni­ta­ria. Ieri Atene ha chie­sto dall’Esm la ristrut­tu­ra­zione del debito greco e un accordo di due anni per sod­di­sfare i suoi biso­gni di bilan­cio, men­tre il mini­stro delle finanze Yanis Varou­fa­kis ha detto che farà ricorso al Tri­bu­nale euro­peo nel caso i cre­di­tori doves­sero obbli­gare il paese a uscire dall’eurozona.

Tsipras, il vero europeista
di Dimitri Deliolanes

Ale­xis Tsi­pras è un euro­pei­sta. Non di quelli tutti reto­rica e finan­zia­menti: è un euro­pei­sta vero, di quelli che ci cre­dono. Lo si è visto nella sua lunga inter­vi­sta alla tv pub­blica Ert lunedì sera. I gior­na­li­sti gli ave­vano chie­sto per­ché ha lasciato che la Gre­cia rima­nesse fuori dal pro­gramma di “sal­va­tag­gio” che sca­deva ieri, in modo che la Bce non potesse sten­dere la sua coper­tura (Ela) sulle ban­che gre­che. Da qui lo sgra­de­vole prov­ve­di­mento di chiu­dere le ban­che per evi­tare il bank run.

La rispo­sta del pre­mier greco è stata una testi­mo­nianza di euro­pei­smo: «Non me lo aspet­tavo — ha ammesso Tsi­pras — il pro­lun­ga­mento era stato sem­pre con­cesso, non imma­gi­navo che lo negas­sero per una set­ti­mana». In altre parole, Tsi­pras ha ammesso di non essersi aspet­tato l’atto di guerra annun­ciato sabato scorso con sor­ri­setto odioso da Dii­js­sel­bloem e fina­liz­zato a far spar­gere la paura tra i greci e con­di­zio­nare l’esito del referendum.

Un’operazione che ha avuto un certo suc­cesso: se prima della chiu­sura delle ban­che la vit­to­ria del no era scon­tata, ora le cose sono cam­biate. Una parte non tra­scu­ra­bile dell’opinione pub­blica si è fatta con­di­zio­nare: dalle emit­tenti oli­gar­chi­che che non per­dono occa­sione di annun­ciare cata­strofi cosmi­che, dalla reto­rica su pre­sunti gre­xit che rim­balza tra Atene e le capi­tali euro­pee, ma anche dalla incer­tezza reale riguar­dante i rap­porti tra la Gre­cia e l’Europa.

Tsi­pras non se lo aspet­tava per­ché pensa che l’Ue sia un’Unione di paesi di pari dignità, la patria della demo­cra­zia e dei diritti dell’uomo. Ma ora sem­bra abbia deci­sa­mente rea­liz­zato che l’Ue, e in par­ti­co­lare l’eurozona, sono il ter­reno di cac­cia di mostri finan­ziari, che hanno anche impo­sto una loro «Costi­tu­zione mate­riale». Non è ammis­si­bile con­te­starla. Per que­sto è stato alzato un muro di intran­si­genza e men­zo­gne: «Greci dite di sì a qual­siasi pro­po­sta venga dai cre­di­tori», è stata l’esortazione di Junker.

Tsi­pras potrebbe pigiare l’acceleratore della crisi den­tro l’eurozona, minac­ciando aper­ta­mente di farla esplo­dere con tutti i fili­stei. Pun­tando, per esem­pio, sul fatto che la Bce e l’Ue sono i garanti del debito greco di fronte al Fmi. Debito greco che non sarà pagato nei pros­simi mesi. Ma non lo fa per­ché è un euro­pei­sta. Piut­to­sto che spa­rare, ha pen­sato bene di rilan­ciare la sua pro­po­sta di com­pro­messo, pronto, sem­pre e in qual­siasi momento, a fir­mare un «accordo soste­ni­bile» per dare indi­ca­zioni ai suoi elet­tori di votare dome­nica «sì».

La gior­nata tumul­tuosa di ieri ha segnato un punto in favore degli sforzi euro­pei­sti di Tsi­pras. Tra con­ferme e smen­tite, pro­po­ste più o meno atten­di­bili da parte di Junc­ker e un acceso atti­vi­smo da parte di tutti, del gruppo socia­li­sta a Stra­sburgo, del Pre­si­dente cipriota, del mini­stro fran­cese e di quello irlan­dese (per­fino di Renzi che ha con­cesso una lunga inter­vi­sta al Sole 24 Ore, per­dendo una splen­dida occa­sione di tacere) alla fine si è arri­vati alla riu­nione dell’eurogruppo ieri sera, ancora in corso men­tre scriviamo.

Egual­mente impor­tante è anche la deci­sione di Atene di risol­vere i suoi pro­blemi di liqui­dità ricor­rendo al Mse, il mec­ca­ni­smo di sta­bi­lità instau­rato alcuni anni fa. In sostanza, si tenta di aggi­rare le dif­fi­coltà create dal domi­nio di Schau­ble den­tro l’eurogruppo, per instau­rare le nuove misure su un piano com­ple­ta­mente nuovo. In altre parole, né no né sì ma una terza pro­po­sta, ancora tutta da nego­ziare. Con il van­tag­gio che ai nego­ziati non par­te­ci­perà il Fmi.

a menzogna è la prima regola rispettata in Italia (e in Europa). Il peggio è che è una menzogna senza innocenza: non meriterebbe d'essere accostata al ligneo Pinocchio.

Il manifesto, 1° luglio 2015

Nono­stante l’amichevole gesto con cui Mat­teo Renzi, rega­lan­do­gli una cra­vatta, accolse la prima volta il neo eletto primo mini­stro greco, è pro­prio lui che, arri­vati al dun­que, ha ora reso il peg­gior ser­vi­zio a Ale­xis Tsi­pras. Dicendo che il refe­ren­dum di Atene avrà per oggetto un pro­nun­cia­mento a favore dell’euro o della dracma. Pro­prio il con­tra­rio di quanto il governo greco si è sfor­zato di spie­gare. E cioè che non intende affatto optare per un ritorno alla moneta nazio­nale e uscire dall’eurozona, e invece aver più forza per imporre una discus­sione– che fino ad ora non c’è stata mai — su quale debba essere in mate­ria la poli­tica europea.

Final­mente qual­cuno che, anzi­ché cer­care riparo die­tro la fati­dica affer­ma­zione “ce lo chiede Bru­xel­les”, come ci hanno abi­tuato i gover­nanti euro­pei, pre­tende di dire la sua sulle scelte lì compiute.

E’ certo vero che nella stessa Gre­cia, come del resto altrove in Europa e anche da noi, c’è chi vor­rebbe dire tout court che l’Unione è morta ed è meglio così, ma non è que­sto l’oggetto della con­sul­ta­zione. Tsi­pras chiede più forza per nego­ziare ancora e il ritorno alla dracma è solo il pos­si­bile even­tuale e depre­cato esito di un fal­li­mento defi­ni­tivo del negoziato.

Un’eventualità che in que­ste ore sem­bra forse scon­giu­rata, seb­bene il signor Tusk, il più rude delle isti­tu­zioni, abbia all’ultimo appun­ta­mento but­tato fuori dal tavolo i nego­zia­tori greci, dichia­rando che “the game is over”.(Perché così sono andate le cose e non il con­tra­rio). E’ una spe­ranza fle­bile, ma già dimo­stra che rifiu­tare i ricatti è giu­sto.

Pur­troppo tutta la lunga trat­ta­tiva è stata accom­pa­gnata da un fra­stuono media­tico che ha creato grande con­fu­sione. E così la gente meglio inten­zio­nata con­ti­nua a chie­dere se è pro­prio vero che i greci hanno una ple­tora di dipen­denti pub­blici, quando invece ne hanno, pro­por­zio­nal­mente, la metà della Germania.

Se è vero che vanno tutti in pen­sione nel pieno delle loro forze, e invece la media degli anni di lavoro nel paese è supe­riore a quella dell’Unione euro­pea e la spesa pub­blica per il pen­sio­na­mento, sem­pre pro­por­zio­nal­mente, metà di quella fran­cese e un quarto di quella tede­sca. La pro­dut­ti­vità è bassa ma è cre­sciuta assai di più che in Ita­lia e per­sino che in Germania.

Se poi si guar­dano nei det­ta­gli i punti sui quali la squa­dra greca ha trat­tato e si è rifiu­tata di acco­gliere le pro­po­ste delle isti­tu­zioni euro­pee è dif­fi­cile rima­nere insen­si­bili alle sue ragioni: rifiu­tare un aumento dell’Iva sui generi di prima neces­sità (cibo, pro­dotti sani­tari, elet­tri­cità), e quello a carico delle isole che vivono del solo turi­smo; respin­gere la richie­sta di varare una legge che con­senta licen­zia­menti di massa. Rifiuto, anche, a can­cel­lare i pre­pen­sio­na­menti esi­stenti, ma biso­gna ben tener conto che una quan­tità di gente è stata licen­ziata e non ha altre fonti di sosten­ta­mento. E invece è Bru­xel­les che ha rifiu­tato la richie­sta greca di un aumento del 12 % di tasse sui pro­fitti che supe­rano i 500.000 milioni.

Si con­ti­nua a ripe­tere osses­si­va­mente che la Gre­cia deve fare le riforme, ma, come del resto in Ita­lia, non si dice mai esat­ta­mente di quali riforme si tratti e in che modo quelle pro­po­ste, o attuate (vedi job act o Ita­li­cum da noi) pos­sano in qual­che modo aiu­tare una ripresa eco­no­mica. L’austerità, è forse una riforma, o non invece una poli­tica tanto miope da impe­dirla? Que­sta è la lezione che viene dalla Gre­cia: se invece di insi­stere su que­sta come sola ricetta già dal 2010 si fos­sero invece sacri­fi­cati pochi soldi per con­sen­tire gli inve­sti­menti neces­sari alla moder­niz­za­zione del paese non saremmo a que­sto punto.

I greci oltre che fan­nul­loni sareb­bero anche imbro­glioni per­ché hanno preso i soldi e non li resti­tui­scono. Se qual­cuno avesse memo­ria, un bene che sem­bra ormai raro, ci si ricor­de­rebbe di quanto divenne chiaro, e forse a noi stessi per la prima volta, quando scop­piò il dramma del debito accu­mu­lato dai paesi del terzo mondo da poco arri­vati all’indipendenza. Erano gli anni ’80 ed emerse che quei paesi erano stati vit­time di quelli che allora non si ebbe timore di chia­mare “spac­cia­tori”. Per­ché è così che si inde­bi­ta­rono oltre il ragio­ne­vole: per l’insistente offerta di acce­dere a un modello di con­sumo super­fluo e dan­noso, per il quale non c’erano risorse e che fu indotto per­ché così con­ve­niva ai pre­sta­tori che poi pas­sa­rono a chie­dere il conto.

La Gre­cia non è l’Africa, ma gran parte del suo debito è stata accu­mu­lata pro­prio così, per colpa di ban­che e di imprese senza scru­poli. Che peral­tro sono state oggi — erano tede­sche sopra­tutto ma non solo — feli­ce­mente ripa­gate con danaro pub­blico europeo.

Quando, poco dopo l’ingresso della Gre­cia nella Comu­nità Euro­pea, nell’81, si arrivò al seme­stre di pre­si­denza affi­dato per la prima volta ad Atene, l’allora mini­stro degli esteri del governo di Andreas Papan­dreu, Cha­ram­po­pu­los, dichiarò: «Non pos­siamo restare silen­ziosi di fronte a una linea poli­tica che non prende in con­si­de­ra­zione il fatto che un’Europa a nove era un’Unione fra nove paesi ric­chi, e un’Unione a dieci, e ancor più quando saranno dodici con il pros­simo ingresso di Spa­gna e Por­to­gallo, sof­frirà di un dram­ma­tico gap nord-sud per affron­tare il quale sarà neces­sa­rio un vasto tra­sfe­ri­mento di risorse pub­bli­che e di un piano sta­tale inteso a con­di­zio­nare le sel­vagge regole del mercato».

Si trattò di una sag­gia pre­vi­sione. Di cui tut­ta­via anche il governo socia­li­sta greco finì per dimen­ti­carsi, sic­ché anche quando i governi socia­li­sti furono in mag­gio­ranza nel Con­si­glio euro­peo non ci fu alcuna modi­fica sostan­ziale nella linea poli­tica dell’Unione. Fu pro­prio allora che fu decisa la libera cir­co­la­zione dei capi­tali senza che alcuna misura di con­trollo e di uni­fi­ca­zione fiscale fosse assunta.

Renzi avrebbe avuto una buona occa­sione per ripren­dere il discorso e far valere le ragioni dei paesi euro­pei del Medi­ter­ra­neo, con­tro la logica assur­da­mente e fal­sa­mente omo­lo­gante che pre­tende di adot­tare linee di poli­tica eco­no­mica ana­lo­ghe per realtà così diverse. Fa comodo, natu­ral­mente. A meno non si pensi ad una nuova Unione senza gli strac­cioni del sud. Per di più comu­ni­sti. «Un’Europa senza il Medi­ter­ra­neo sarebbe — come ha scritto Pere­drag Mat­ve­je­vitch — un adulto pri­vato della sua infan­zia». Cioè un mostro.

Quando l’altro giorno ho sen­tito nel corso di un mede­simo gior­nale radio che le ultime noti­zie da Bru­xel­les riguar­da­vano un for­mag­gio senza latte, un cioc­co­lato senza cioc­co­lata, e sopra­tutto un ter­ri­to­rio senza immi­grati, mi è venuta voglia di dire andate tutti al diavolo.

Ma non si può. Con la glo­ba­liz­za­zione abbiamo per­duto quel tanto di sovra­nità che gli stati nazio­nali ci con­sen­ti­vano. A livello mon­diale è quasi impos­si­bile costruire isti­tu­zioni che ce ne resti­tui­scano almeno una parte. La sola spe­ranza è di rico­struirle ad un livello più ampio del nazio­nale e più limi­tato del glo­bale, quello di grandi regioni in cui il mondo possa arti­co­larsi. L’Europa è una di que­ste. Ma il discorso vale solo se lo spa­zio comune non è solo un pezzo di mer­cato, ma una scelta, un modello di pro­du­zione e di con­sumo diversi, una rivi­si­ta­zione posi­tiva di una comune tra­di­zione. Il nego­ziato di Atene ci aiuta, in defi­ni­tiva, ad andare in que­sta dire­zione. Ed è per que­sto che va sostenuto.

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