«La democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte».
R.it online, 4 luglio 2015
Ci volle la paura napoleonica per svegliare i liberali dal mito o dal terrore della virtù degli antichi e farli desiderosi di studiarli gli antichi invece di imitarli o mitizzarli. A Benjamin Constant, che dopo tutto continuava a rovescio la linea mitica settecentesca quando suggeriva ai suoi lettori di abbandonare gli antichi poiché avevano poco da dire ai moderni, John Stuart Mill, il più brillante del gruppo di Bentham, contrappose una strategia più convincente: quella della ricostruzione delle istituzioni e delle procedure inventate dall'Atene democratica, da Solone e Clistene fino a Pericle e Efialte. E il suo amico George Grote, sulla cui Storia della Grecia Momigliano scrisse nel 1952 pagine esemplari, si diede a ricostruire la storia politica, religiosa, filosofica e infine istituzionale dell'Atene classica, emancipando la democrazia dall'identificazione con il governo rozzo delle masse. Ne venne fuori un quadro straordinario di immaginazione costituzionale, di raffinatezza della conoscenza dei comportamenti umani collettivi, di cui già David Hume aveva colto l'originalità. Furono gli ateniesi dunque a mettere la democrazia sui binari delle procedure di decisione e dei controlli costituzionali, non gli spartani con le loro piazze di plebisciti urlati. Furono gli ateniesi a valorizzare il voto singolo e a prestare attenzione al suo conteggio, ad abbandonare la valutazione imprecisa del grido della massa, a scegliere la strada sicura e soprattutto libera da contestazioni dell'aritmetica.
I padri della democrazia moderna, liberale e costituzionale, furono dunque riattratti dalla Grecia antica, ma non per farne un mito irripetibile e pre-moderno, bensì per farne a tutti gli affetti il primo e fondamentale capitolo della storia dei moderni, che cominciava, ha spiegato Josiah Ober con la pratica democratica come "potere di fare succedere le cose insieme", non potere bruto, ma potere regolato da procedure e norme, dalla selezione per mezzo della lotteria all'elezione dei leader, alla diretta decisione popolare in assemblea. Una democrazia che escogitò sistemi di controllo delle proposte di legge (e dei proponenti) e delle leggi approvate; che, come Aristotele scrisse, sapeva assegnare ai pochi un ruolo nel governo dei molti.
A questa democrazia costituzionale, Mill e i liberali inglesi dell'ottocento si rivolsero per comprendere in che cosa la democrazia moderna era diversa da quella antica. E videro che tre furono le ragioni di superiorità dei moderni: l'invenzione della rappresentanza, l'emancipazione femminile e la liberazione del lavoro schiavo. Tre condizioni che rendevano la democrazia moderna capace di superare quella antica realizzando meglio il suo principio dell'eguaglianza politica. Quel modello, quella forma di governo per la quale, disse Pericle nell'orazione funebre, tutto il mondo ci ammira, ha ancora tanta forza simbolica da farci partecipare empaticamente ai destini di questo popolo che vuole riprendere Europa per impedire che nuovi despoti la conquistino. La priorità della politica su tutte le sfere sociali sta in questo mito che è squisitamente europeo perché e in quanto mito greco di una vita pubblica politica. Nelle parole di Aristotele, ai cui scritti la scienza e la pratica politica europee sono debitrici, la democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte.
Professor Sennett, che cosa sarebbe l’Europa senza la Grecia?
«L’eventuale uscita della Grecia dall’eurozona non implicherebbe soltanto delle gravi ripercussioni sul piano economico. Avrebbe anche e soprattutto un immenso significato simbolico. Al netto della complessità e delle differenze, l’Unione europea ha senso soltanto come progetto politico ben radicato in una cultura condivisa. E la radice di questa cultura non può che essere la Grecia e l’idea di democrazia. Se l’Europa lo dimentica, è fatale che finisca in mano a banchieri e burocrati».
Se siamo arrivati a questo punto, però, una parte di responsabilità grava anche sui governi greci…
«È vero, ma secondo me oggi il vero problema non è tanto il debito, che in termini assoluti sarebbe stato facilmente gestibile dalla Ue. Il vero problema, quello che ci ha condotto fin qui, sono la Troika e la cultura neoliberista che porta avanti. Il capitalismo finanziario mette in ginocchio non più soltanto il lavoro, ma anche la politica. Al punto che gli Stati rischiano di fallire come un’azienda qualsiasi. Per scongiurare quest’esito, dal 2010 la Grecia sta attuando le ricette imposte dal Fondo Monetario e il risultato è chiaro a tutti: un’economia ancora più depressa».
Non ritiene che il premier greco, convocando il referendum, sia venuto meno alle proprie responsabilità?
«No. Credo invece che il referendum rappresenti sempre, e tanto più in questo caso, una positiva occasione di esercizio della sovranità popolare. Non mi faccio illusioni sulle conseguenze del voto. So bene che se vincesse il “no” e la Grecia uscisse dall’eurozona, i cittadini greci incorrerebbero in una fase di sofferenza terribile, simile a quella subita dall’Argentina qualche anno fa. Sarebbe un disastro economico per tutte le fasce sociali, specie per quelle più deboli. Eppure, se io fossi un elettore greco, voterei sicuramente per il “no”. Non è più tollerabile essere comandati da un potere illegittimo. Meglio poveri che sudditi».
Pensa che le conseguenze politiche ed economiche del voto si faranno sentire anche nel resto d’Europa?
«Credo che tutte le economie più fragili dell’eurozona, Portogallo in testa, saranno esposte al rischio di un contagio finanziario. Ma ciò che più mi preoccupa sono i contraccolpi politici di quanto sta accadendo. In Gran Bretagna, ad esempio, un eventuale default greco offrirebbe l’ennesimo argomento a chi sostiene che il progetto dell’Unione Europea è insostenibile. La sfiducia cresce. E allora dopo Grexit, è probabile che esploda il pericolo Brexit».
Domenica sera dalle urne greche potrebbe uscire un “sì” al referendum indetto dal governo di Alexis Tsipras. Il ministro delle finanze Yanis Varoufakis ha annunciato giovedi che si dimetterebbe; non potrebbe firmare un memorandum – una versione ritoccata di quello su cui si sono rotte le trattative la settimana scorsa - che riporta l’austerità nel paese e non affronta la ristrutturazione del debito. E’ difficile che il governo Tsipras possa sopravvivere; le nuove proposte che verranno da Berlino e Bruxelles saranno fatte apposta per rendere la vita impossibile alla coalizione tra Syriza e Anel; molti deputati non saranno disponibili a votare una resa. Un cambio di governo ad Atene è proprio quello che i poteri europei hanno perseguito in tutti questi mesi; ora sono vicini a riuscirci e useranno ogni strumento per destabilizzare il paese e spingere i greci al “sì”; a quel punto le nuove proposte di Berlino e Bruxelles potranno spianare la strada a un nuovo esecutivo obbediente alla troika.
Oltre alla campagna mediatica, l’arma decisiva usata contro Atene è stata la stretta sulla liquidità che ha portato il governo Tsipras a chiudere le banche per una settimana e bloccare i movimenti di capitale. Non c’è nulla come il panico bancario che stimoli un riflesso d’ordine nei paesi che hanno sperimentato il benessere. Mario Draghi ha cercato di mettere le autorità europee di fronte alla responsabilità politica della scelta da fare sulla Grecia, ma le misure che ha preso sono proprio quelle che hanno strangolato il paese. E’ ragionevole pensare che sia stato Draghi a impedire ad Atene di introdurre per tempo il blocco dei movimenti di capitali. In nome delle regole comuni, centinaia di miliardi di euro sono usciti dalla Grecia: ricchi e imprese sono ora al sicuro e non in fila agli sportelli. Ma non aver fermato questa fuga di capitali ha dissanguato l’economia del paese. In cambio, ci sono stati gli 89 miliardi di fondi di liquidità di emergenza, che sono stati bloccati dopo la rottura delle trattative, provocando la chiusura forzata delle banche fino a martedì prossimo.
Ma prima ancora del mancato pagamento del debito al Fondo monetario, la Bce aveva richiesto maggiori garanzie per i crediti da concedere alle banche greche, riducendo il credito al paese e aumentandone il costo. In base alle sue regole, inoltre, la Bce non può prestare fondi a banche insolventi, ma le banche greche hanno in bilancio soprattutto titoli di stato che non vengono accettati a pieno valore e si trovano in molti casi in “quasi default” secondo alcune agenzie di rating: niente credito anche sui mercati privati dei capitali, quindi. Insomma, per le regole insensate della moneta unica, è diventato sempre più difficile far arrivare materialmente euro in Grecia per far funzionare l’economia. Lunedì, la fornitura di liquidità è la prima cosa che la Bce dovrà decidere per evitare il collasso dell’economia del paese.
Ma domenica sera dalle urne di Grecia potrebbe uscire un “no” all’umiliazione del paese e all’austerità. Le politiche imposte dai memorandum europei hanno fatto perdere al paese un quarto del Prodotto interno in sei anni: con il “sì” ai tagli di spesa la depressione sarebbe senza fine. Il governo Tsipras ha chiarito fino in fondo che il “no” sarebbe un mandato più forte per negoziare, non c’è nessuna ipotesi di uscita dall’euro. Ma con chi si negozia? Su quali proposte? La partita sarebbe complessa, la Germania forse irremovibile, ma non basterebbe più scaricare le colpe su Tsipras. Una politica degna di questo nome porterebbe alle dimissioni del Presidente della Commissione Jean Claude Juncker, che ha chiesto ai greci di votare “sì” ed è stato incapace di far fronte alla crisi.
L’agenda su cui negoziare dovrebbe essere ben diversa dai punti decimali di avanzo primario e dalle aliquote iva discusse finora. Dovrebbe essere la ridiscussione di come si sta in questa Europa e nell’euro. L’occasione sarebbe perfetta per convocare una grande conferenza sul debito in Europa, per introdurre la “mutualizzazione” su cui il ministro dell’economia italiano Pier Carlo Padoan si è detto così ottimista. Si potrebbe introdurre una responsabilità comune sul debito dell’Eurozona che porterebbe a zero gli spread (come sono stati tra l’introduzione dell’euro e la crisi del 2008) e la trasformazione di una parte del debito pregresso in titoli perpetui a rendimento zero da lasciare nei bilanci di Bce e fondi europei. Soluzioni più che digeribili per la finanza. E che permetterebbero all’economia di tutta Europa di uscirà dalla depressione iniziata nel 2008. Con grande sollievo – tra l’altro – degli Stati Uniti.
Ma le condizioni politiche per una strategia di così ampio respiro sono tutte da costruire: i socialisti e democratici (e i verdi) dovrebbero finalmente scontrarsi con democristiani e conservatori, Francia e Italia scontrarsi con Berlino, Merkel scontrarsi con Schauble, l’economia reale limitare i danni che ha fatto la finanza. E’ questa la vera partita che si gioca domenica nel referendum di Grecia, ed è uno scontro che ritroviamo in tutta Europa.
Il voto di Atene è un punto di svolta. A guardare vicino, se vince il “sì” Tsipras potrebbe perdere tutto; se vince il “no” Tsipras potrebbe non guadagnare nulla. Ma a guardare lontano, il “sì” prolungherebbe l’agonia del paese e lascerebbe mano libera alla disastrosa incapacità tedesca di comandare l’Europa. Il “no” affermerebbe che un po’ di democrazia esiste ancora in Europa e che cambiare si può.
Sono tante le ragioni per vergognarsi d'essere italiani. Quella offerta dalla vicenda raccolta (spero che si sia messo i guanti nel farlo) dall'autore di questa nota supera l'immaginabile. Se riuscite ad aprire il filmato fuggirete anche voi.
La Repubblica online, blog "Articolo 9", 4 luglio 2015. con postilla
Questo amico ama moltissimo Eataly, e ci va spesso «to buy some of their fantastic produce, mortadella and fresh mozzarella». Ma certo non si aspettava di trovare, nel settore dedicato alla pasta, una statua originale del secondo Quattrocento proveniente dal Duomo di Milano, buttata nel mezzo della sala dentro una scatola di plexiglass. In effetti questa fotografia illustra la mercificazione del patrimonio culturale italiano meglio di un intero volume dedicato all'argomento.
Perché la preziosa opera d'arte di un museo italiano deve decorare il negozio di un privato? Ed è opportuno che un'opera d'arte del passato (per giunta di soggetto sacro) venga estratta da un museo per essere straniantemente inscatolata in mezzo alla pasta e alla mortadella? Domande retoriche, visto che la mostra Tesoro d'Italia replica questo modello su vastissima scala, mescolando capolavori dei musei pubblici a opere private, e addirittura a opere in vendita (come la robbiana appoggiata per terra che si vede in questo incredibile filmato).
Molti pensano che questo sia un modo per avvicinare «la gente» all'«arte». Io credo che sia solo un modo per piegare il patrimonio artistico bene comune agli interessi commerciali dei nuovi padroni del vapore. Padroni a cui quelle opere d'arte interessano solo come strumenti del proprio marketing: presentando questo incredibile prestito, Oscar Farinetti parlò di una statua di Santa Lucia incinta, fraintendendo, fantozzescamente, la veste tardogotica allacciata sotto il seno, e ignorando evidentemente tutto della storia della vergine siracusana in generale, e di questa statua in particolare. Naturalmente non è questo il punto: ma dovrebbe far riflettere il fatto che chi parla continuamente di bellezza non ha in realtà la minima idea di quella bellezza.
Lo sfruttamento dell'arte da parte dei potenti di turno è una storia antica, ma la Costituzione italiana aveva messo le premesse di un futuro diverso, indicando un uso dell'arte del passato che fosse indirizzato verso la conoscenza, l'uguaglianza, il pieno sviluppo della persona umana. Ma era un'altra Italia. Oggi, anche agli occhi di un newyorkese è evidente che Eataly si è mangiata Italy.
Il manifesto, 4 luglio 2015 (m.p.r.)
Qualunque sarà l’esito della vicenda greca se ne possono già trarre numerosi insegnamenti. Per l’oggi e per il tempo a venire. Nonostante una martellante campagna mediatica che mira ad annoverare il governo di Atene tra i populismi antieuropei, affiancandolo alla Polonia o a Marine Le Pen (qualcuno ha voluto perfino scomodare l’impero d’Oriente e la fede ortodossa), quella greca è probabilmente la prima lotta democratica europea e per l’Europa alla quale abbiamo assistito.
La prima volta in cui la tenuta dell’Unione viene affrontata nella sua dimensione politica, economica e sociale. E l’occasione nella quale è venuto pienamente in luce il rifiuto delle istituzioni e dei governi europei di fare i conti con questa “totalità”, nonostante gli enormi rischi che incombono sul processo di unificazione.
Il lungo processo negoziale tra Atene e le “istituzioni” non è stato che un esasperante gioco di finzioni poiché i dogmi, com’è noto, non sono negoziabili e l’Europa è prigioniera di una dogmatica neoliberista che, per definizione, non può essere smentita dai suoi effetti nella realtà. Per quanto disastrosi possano rivelarsi.
Soprattutto nella sua ultima fase la trattativa ha assunto i tratti inconfondibili della lotta di classe: i conti non devono tornare in un modo o nell’altro, ma solo mantenendo inalterati (e possibilmente ancor più squilibrati) i rapporti tra le classi sociali. Le correzioni del Fmi al piano proposto da Atene non mostrano il minimo sforzo di mascherare questa circostanza. Si ricorderà che in anni ormai piuttosto lontani, nella tradizione socialdemocratica, le “riforme di struttura” indicavano una trasformazione in senso sociale e maggiormente inclusivo del sistema economico e politico. Oggi significano l’esatto contrario. Ragion per cui devono essere messe al riparo da possibili interferenze dei processi democratici.
Le socialdemocrazie europee, enfatizzando i lati peggiori della loro storia, coniugando l’autoreferenzialità burocratico-amministrativa con la zelante adesione ai principi dell’accumulazione neoliberista sono diventate il principale nemico della democrazia. In un duplice senso: o occupandone direttamente lo spazio con il proprio decisionismo tecnocratico, o consegnando i ceti popolari alle destre nazionaliste. Non si richiedono particolari doti profetiche per immaginare nullità quali Hollande e Renzi mendicare ben presto il “voto utile” di fronte all’onda montante delle destre. In uno scontro imminente, dagli esiti incerti, tra una Unione insostenibile e i nemici giurati dell’Europa.
Di fronte a questo probabile scenario dovrebbe essere chiaro che Tsipras rappresenta per ora, nel suo isolamento, (almeno a livello di governi) l’unica chance disponibile in difesa dell’Unione europea. Tanto si discute dei rischi di un Grexit sul fronte della speculazione finanziaria, tanto poco se ne ragiona su quello della speculazione politica. Salvo abbandonarsi di tanto in tanto alle solite scemenze retoriche sulla “culla della civiltà occidentale”. Sta di fatto che le istituzioni europee (e i governi nazionali che impongono loro di rispettarne la gerarchia e i rapporti di forze) condividono con le destre nazionaliste un punto decisivo: non può esservi altra Europa all’infuori di questa e dei suoi equilibri di potere. Tanto che la si difenda quanto che la si avversi. Di qui la conclusione che il tentativo della Grecia è contro il principio di realtà.
Tuttavia, poiché nell’opinione pubblica del vecchio continente, e in non poche iniziative di lotta, i dogmi della governance neoliberista europea cominciano a perdere credito, sulla vicenda greca (e non solo) piovono le più incredibili menzogne. I greci che vanno tutti in pensione a 50 anni (misura circoscritta che riguarda soggetti analoghi ai nostri esodati in un paese dove il 26 per cento di disoccupazione rende le pensioni un sostanziale strumento di sopravvivenza) fanno il paio con i “clandestini” negli alberghi a 5 stelle. Ai cittadini europei, presi ormai per scemi dalla mattina alla sera, si lascia intendere che recuperare l’irrecuperabile debito greco, riporterà quei soldi (sia pure indirettamente) nelle loro tasche e non in quelle della grande rendita finanziaria. Bisogna essere ottenebrati dalla birra e dalla televisione per considerarsi “azionisti” del proprio (avarissimo) stato nazionale, secondo la mitologia attribuita al contribuente tedesco. Quanto agli altri paesi indebitati (con tassi di disoccupazione che non si muovono di una virgola) è una gran corsa a taroccare improbabili risultati per dimostrare quanto siano distanti dalla Grecia, se non addirittura in una botte di ferro.
Questo terrorismo ci sospinge a pensare che a vincere (si fa per dire) la partita sarà chi è in grado di incutere maggiore paura. Del resto non è una novità. Le classi subalterne non hanno mai ottenuto nulla se non quando sono state in condizione di terrorizzare la classe dominante. Tutta la storia del Novecento ne è testimone. Da molto tempo non accade. Governi e governati, lavoratori e precari sotto ricatto non rappresentano più una minaccia per le oligarchie. Ma, per la prima volta, la vittoria di Syriza, il braccio di ferro con le “istituzioni”, infine il Referendum, fanno paura. Talmente tanta paura che anche i falchi si affrettano a sostenere che una vittoria del no non significherà necessariamente la fine del negoziato, anche se lo renderebbe sempre più difficoltoso. Certo, la paura crescerebbe, trasformandosi in una forza vincente, se in tutta Europa si cogliesse l’occasione per mobilitarsi contro l’ideologia e la pratica del neoliberismo che oggi la governa negando ogni alternativa. Non è insomma questo un nuovo accenno di “grande politica”? Quella che investe gli interessi dominanti caparbiamente incapaci di ogni compromesso? Se, tra tante, vi è una ragione sintetica per dire no ai diktat è che questo “no” incute finalmente timore a quanti desiderano e concepiscono la “stabilità” come tacita sottomissione alle oligarchie e alla rendita finanziaria. Un no per l’Europa.
a Repubblica, 4 luglio 2015
Diceva Machiavelli che “assaltare una città disunita, per occuparla mediante la sua disunione, è partito contrario”, cioè può produrre il risultato opposto: quello di unire e rendere compatto il popolo diviso. Forse il referendum greco potrebbe dimostrare la verità di questa osservazione. Vedremo, tra pochi giorni e ore. Ma la domanda avrebbero potuto e forse dovuto porsela gli statisti tedeschi e i loro ossequenti alleati europei e magari velare meglio l’aggressione nei confronti del regime greco. Mai come in questo caso la regola della non ingerenza negli affari interni degli stati membri è stata così trasgredita. Tutti i capi di governo si sono schierati in maniera massiccia per il sì e contro Tsipras fin dal primo giorno. I media si sono uniformati. Assistiamo a episodi perfino grotteschi, come quello dell’inviato Rai che intervista cinque greci e vedi caso, scopre che tutt’e cinque sono decisi a votare sì. La disinformazione si unisce alle tante falsificazioni dei fatti: ad esempio, non è vero che la scelta sarà fra la dracma e l’euro, come ha sveltamente sintetizzato il premier Renzi.
«Atene. Oceanica manifestazione a sostegno dell’oxi: «Respingiamo il ricatto». Il premier greco parla da vincitore "L’Europa che vogliamo non è quella degli ultimatum", ma un continente che "torni ai suoi principi fondativi". Sul palco Podemos e la Linke».
Il manifesto, 4 luglio 2015
Basta un colpo d’occhio dall’alto del palco di piazza Syntagma, al calar del sole, a squarciare all’improvviso la nebbia che da giorni avvolgeva la vigilia del referendum greco: una cortina fumogena fatta di ingerenze indebite dei leader europei, ridicolizzazione delle richieste greche all’Eurogruppo e dello stesso voto di domenica, presentato come una scelta tra euro e dracma o tra europeisti e antieuropeisti, titoli di giornale allarmistici e battage televisivo a favore del sì.
La marea umana che si estende a perdita d’occhio nell’enorme piazza e nelle arterie circostanti, senza soluzione di continuità fino a piazza Omonia, dice una cosa sola: il governo di Alexis Tsipras non è solo e il popolo che gli aveva dato fiducia appena cinque mesi fa è sempre con lui. Anzi, è pronto a fargli quadrato attorno. Non sarà facile sbarazzarsene, comunque vada a finire domenica (e a questo punto sorge più di un dubbio su sondaggi e previsioni della vigilia, l’ultimo diffuso ieri da un giornale di centrodestra, To Ethnos, che dava il sì leggermente in vantaggio).
Quando sale sul palco in camicia bianca con i polsini arrotolati quasi fino al gomito, alle 21,50, Alexis Tsipras è consapevole del fatto che la prova di forza con il fronte del sì, radunato nel vicino Stadio del marmo, era ampiamente vinta. Così, ha potuto trascinare la folla utilizzando la stessa parola-simbolo della campagna elettorale dello scorso gennaio: «elpida», «speranza», la stessa parola che gli aveva consentito di sconfiggere pochi mesi fa «la politica della paura» utilizzata dagli avversari per provare a non farlo vincere e ora riproposta in maniera ancora più brutale. Quello del premier greco è un discorso da vincitore: «Popolo greco, oggi non protestiamo, festeggiamo la vittoria delle democrazia e mandiamo un messaggio di orgoglio che nessuno può invocare», comincia. Poi, come nel pomeriggio in televisione, incita i greci a «prendere il destino nelle proprie mani», perché «l’Europa che vogliamo non è quella degli ultimatum» ma un continente che «torni ai suoi principi fondativi». Per questo «domenica manderemo un messaggio di eguaglianza e dignità», affonda il colpo.
In dieci minuti appena di discorso in maniche di camicia, Tsipras non lesina qualche stoccata a Jean Claude Juncker, Angela Merkel e il suo ministro del Tesoro Wolfgang Schauble, rappresentato col volto truce nelle strade di Atene sui manifesti che incitano a votare no: «Nessuno ha il diritto di dire che toglierà la Grecia dal suo spazio naturale», manda a dire ai falchi dell’austerità. Per questo invita «il popolo greco», che «ha dimostrato molte volte di saper rispedire al mittente gli ultimatum», «a dire un grande e orgoglioso no» anche a quest’ultimo, il più indecente.
Infine, prima di recitare alcuni versi di una poesia di Yannis Ritzos sul «piccolo popolo senza spada né pallottole che combatte per il pane di tutti», ben conscio della delicatezza del momento, spende qualche parola per smorzare la tensione: «Lunedì, qualsiasi sarà il risultato, dobbiamo dire no alla divisione tra i greci». Unità, come aveva fatto appello in chiusura di campagna elettorale alla fine di gennaio.
Già nel pomeriggio, di fronte all’intensificarsi del bombardamento mediatico e della propaganda a favore del sì, Tsipras aveva deciso di lanciare un breve messaggio alla televisione: «Dite no a ricatti e ultimatum, decidete con calma il vostro futuro», aveva detto alla popolazione greca con l’obiettivo di tranquillizzarla. Durante la giornata era stata un’escalation di allarmi e pressioni: vecchi arnesi della politica greca, responsabili dell’indebitamento del paese come l’ex premier Kostas Karamanlis, rimasto in silenzio durante tutti gli anni della crisi e dei Memorandum, che lanciavano appelli per il sì, un giornale vicino alla destra che titolava su un presunto prelievo dai risparmi superiori ai 20 mila euro, i banchieri che sostenevano di avere liquidità fino a lunedì, perfino una compagnia telefonica che si è messa a regalare minuti a chi inviava un messaggio con scritto «sì». Mentre la Corte Costituzionale aveva dichiarato valido il quesito e smontato pure l’ultimo tentativo di impedirlo.
Non è escluso che la ricomparsa nell’agone politico di personaggi screditati e le fastidiose ingerenze dei leader europei nella campagna referendaria, unite alla sensazione che l’Europa voglia asfissiare la Grecia per arrivare a un «regime change», abbiano giocato un ruolo negativo per i sostenitori del sì, facendo loro perdere consensi piuttosto che guadagnarli.
In ogni modo, il premier si è deciso a non limitarsi al previsto comizio serale in piazza Syntagma e ha parlato a tutti i greci, precisando che «il referendum non è sulla permanenza della Grecia nell’euro» e facendosi forza del fatto che anche il Fmi ha ammesso l’insostenibilità del debito ellenico, con la previsione un taglio del 30 per cento e la dilazione del rimanente 70 per cento in vent’anni: «Ha giustificato la nostra scelta di non accettare un accordo che ignora il tema fondamentale del debito». Anche se stranamente, ha fatto notare Tsipras, questo rapporto «non è mai stato condiviso con le istituzioni nei cinque mesi in cui abbiamo negoziato».
La bocciatura del piano dei creditori rischia a questo punto di mettere in pesante discussione proprio la leader europea che voleva toglierlo di mezzo, e con lui le rinascenti velleità delle sinistre europee, non a caso presenti in gran spolvero sul palco di piazza Syntagma: un rappresentante della Linke strappa applausi quando dice «voi fate la vostra battaglia qui e noi faremo la nostra in Germania», ovazione per Miguel Urban di Podemos che il prossimo autunno potrebbe conquistare la Spagna dopo aver già preso Madrid e Barcellona. Spazio pure a un messaggio di Gerry Adams per lo Sinn Fein, ai ciprioti dell’Akel, ai Verdi e a una esponente del centro sociale Diktio di Exarchia che trascina la folla recitando tutti i «no» dei movimenti sociali. «La vittoria del no significherà avere più forza sul tavolo dei negoziati» e non una fuga dall’Europa, ha detto Tipras. Da lunedì potrebbe avere ragione.
La presidente della nostra Camera dei deputati e il presidente dell'Assemblée nationale francese convergono nel giudicare insensata la politica dei terroristi di Bruxelles ai danni della Grecia e del Terzo mondo in fuga dalla miseria e dalla morte.
La Repubblica, 4 luglio 2015
Vi è in primo luogo la vicenda euro-greca, giunta ormai al suo drammatico parossismo con il referendum. Come si è potuto arrivare a questo punto? Come spiegare che non siamo riusciti a trovare un terreno d’intesa con le autorità di un’area economica che incide solo per il 2 per cento del Pil dell’Unione? Al tempo stesso, è giocoforza constatare che le politiche messe in atto negli anni scorsi dalla “troika” — Commissione europea, Banca Centrale europea, Fondo Monetario internazionale — sono fallite. Guardando ai risultati, si potrebbe anzi affermare che siano state attuate a svantaggio della Grecia: il Pil greco, che nel 2008 era solo 7 punti percentuali sotto la media Ue, nel 2013 è crollato a meno 28. Come si fa, in questo contesto, a chiamare “aiuti” degli interventi dagli effetti così devastanti sulla vita dei greci? Il medico ha sbagliato terapia, ma si accanisce sul paziente, e poco importa se il suo assistito rischia la vita! Non è solo un modo di dire: il numero di bambini abbandonati negli orfanotrofi greci è triplicato in pochi anni, un terzo della popolazione non ha copertura sanitaria e il potere di acquisto è diminuito del 40 per cento. Non è ammissibile che la consapevolezza di queste cifre non influisca sulle politiche economiche dell’Ue. E questi dati rendono altrettanto inammissibili le dichiarazioni di certi responsabili europei, che fingono di stupirsi che gran parte della popolazione greca respinga il regime che le viene imposto.
C’è poi la sfida dell’immigrazione, che ha ormai preso posto nel dibattito continentale come un tema ineludibile, che cristallizza le tensioni e lascia campo libero a ogni sorta di fantasmi. Anche in questa materia, se si analizzano oggettivamente i numeri, c’è da rimanere sconcertati. L’Unione europea viene descritta come assediata per aver ricevuto l’anno scorso, nei suoi 28 Paesi, 626mila domande d’asilo. Un continente che, nonostante la crisi, rappresenta l’economia più ricca del mondo, sarebbe messo in ginocchio — secondo campagne politiche di cui non serve svelare i secondi fini — dall’un per cento, o poco più, di quei circa 60 milioni di persone che sono costrette all’esilio da guerre e persecuzioni. Questo popolo senza terra e senza nome, il cui numero è pari a quello degli abitanti dell’Italia e di poco inferiore a quelli della Francia, l’Europa la lambisce appena, e invece si riversa in modo massiccio sui Paesi più vicini alle aree di crisi. Sono il Libano, la Giordania e la Turchia, che ospitano milioni di rifugiati siriani, a poter parlare legittimamente di emergenza. Possono farlo l’Iran e il Pakistan, che accolgono milioni di afghani. Ma come possiamo, noi qui, gridare all’invasione? Il dramma sono i migranti a conoscerlo, non certo noi. Che le migrazioni rappresentino una sfida per i nostri paesi è indiscutibile; ma abbiamo anche tutti i mezzi per affrontarla. Invece di assumerci serenamente le nostre responsabilità, rimaniamo inerti, afflitti e imbarazzati davanti alle immagini che ci arrivano da Ventimiglia: poche centinaia di persone sono diventate — incredibilmente — materia di tensione tra Italia e Francia, mentre basterebbe che ogni Stato dell’Unione accettasse di fare la sua parte.
Vedendoci lacerare, ripiegarci su noi stessi e rimanere fermi, che cosa penserebbero di noi Spinelli, Schuman e Adenauer? Come reagirebbero, scoprendo che su quegli scogli di confine si è incagliata, schiantata l’idea che loro seppero concepire in anni d’autentica tragedia, e far crescere tra le macerie del dopoguerra? Ricordiamoci che l’Europa esiste anche attraverso i principi che essa fa vivere: perché è il continente dei diritti, del rispetto della dignità umana, della solidarietà verso chi è in difficoltà. Questo ci ha resi grandi nel mondo, questo è un punto di riferimento per tutti coloro che abbiano a cuore libertà e giustizia sociale.
Dimenticare questa storia, non sentirne l’orgoglio, non è soltanto un tradimento. È anche una clamorosa dimostrazione di miopia e autolesionismo. Perché in un mondo globalizzato le questioni irrisolte — che si tratti dell’economia greca o dei conflitti dai quali fuggono i rifugiati — hanno e continueranno ad avere su di noi ripercussioni dirette, che ci piaccia o no. Sta a noi decidere se vogliamo affrontare queste sfide governandole con lucidità, lavorando sulle soluzioni, e dunque investire su un’Unione più solidale, al proprio interno e verso l’esterno, un’Unione politica, pienamente politica. Oppure se intendiamo seguitare ad agitarci senza andare avanti. Il che significa cedere di fronte ai tanti populismi che sulla crisi economica e la retorica xenofoba stanno costruendo le proprie fortune, e accettare che sulle rovine dell’ideale europeo volteggino soddisfatti i costruttori di muri. Siccome siamo degli ottimisti irriducibili, crediamo che sia possibile imboccare con decisione la prima strada. Speriamo che le due prove cui è sottoposta oggi la nostra Unione spingeranno ciascuno degli Stati membri a cogliere la misura dell’emergenza europea.
Laura Boldrini è Presidente della Camera dei Deputati Claude Bartolone è Presidente dell’Assemblea Nazionale francese
«I libri proibiti adesso sono chiusi in scatoloni sigillati e pronti per essere nascosti chissà dove. Così come aveva ordinato il nuovo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, non appena insediato».
La Repubblica, 4 luglio 2015 (m.p.r.)
I libri proibiti adesso sono chiusi in scatoloni sigillati e pronti per essere nascosti chissà dove. Così come aveva ordinato il nuovo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, non appena insediato. La censura ha colpito con solerzia. Via dalle scuole della laguna tutti i libri che parlano di “gender, o di genitore 1 e genitore 2” diceva frettolosamente la breve circolare inviata ai dirigenti scolastici. Strana definizione per albi illustrati destinati ai bambini dei nidi e delle materne, liberamente in vendita in tutte le librerie italiane, e dove i protagonisti sono oche, orsi, topi, principesse, elefanti, gatti, famiglie, madri e padri. Ma il risultato, grottesco, e già finito sui giornali stranieri, è che sotto la scure del presunto “gender” sono finiti ben 49 titoli delle migliori case editrici per ragazzi.
Capolavori per l’infanzia come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni, scrittore e illustratore celebre e amatissimo, dove due colori tanto diversi sono così profondamente amici, da mescolarsi per creare il verde...Difficile comprendere il messaggio eversivo di questo abbraccio cromatico. Tanto che contro la “lista di proscrizione”, dove si narra anche di (pericolose) ninne nanne per far addormentare i bebè, si sono mobilitati autori, editori, cittadini, librai, bibliotecari, con letture in piazza, flash mob, e campagne via Facebook dal titolo “Liberiamo i libri”. Durissima l’Associazione Italiana Scrittori per l’Infanzia, che parla di «prassi autoritaria che ha visto luce soltanto nei periodi più bui della storia delle dittature». Sottolineando come nella caccia al libro pericoloso ordinata dal nuovo sindaco di centrodestra, siano rimasti intrappolati volumi di ogni tipo, e assi poco “gender”. Dai lupi intelligenti di Mario Ramos ai figli dell’adozione di Amaltea, e altri cult della letteratura da zero a sei anni, da Orecchie di farfalla al Pentolino di Antonino di Isabel Carrer, delicata storia di un bambino disabile.
«Mi ha chiamato da New York Annie, la nipote di Leo Lionni, per chiedermi sbalordita come mai fossero stati censurati in Italia i libri del nonno», racconta Francesca Archinto, direttrice editoriale di “BabaLibri”, che ha diversi titoli “all’indice” nella lista veneziana. «È incredibile che la politica cerchi di controllare la cultura, in quegli albi illustrati c’è la vita reale, i bambini non possono ignorare che esistono diversi tipi di famiglie, e nelle scuole c’è il bullismo, e il razzismo esiste », incalza Francesca Archinto. «Che senso ha censurare una storia come Il segreto di Lu, dove si parla di soprusi a scuola? Francamente penso che il sindaco di Venezia non conosca i libri per bambini, e soprattutto la lista di titoli che ha messo al bando». Difficile ad esempio rintracciare il fantasma del “gender” nel I papà bis. Nei libri all’Indice per il gender anche i capolavori dell’infanzia storia di una famiglia ricomposta dopo un divorzio. Come accade in Italia a 174 coppie ogni mille matrimoni.
Però è vero, in questa lista di libri si parla molto di “famiglie” al plurale, raccontando, ad esempio nel famoso Piccolo uovo edito da Stampatello e disegnato da Altan, di tutte le forme di genitorialità attuali, comprese quelle “omo” e arcobaleno. Ideatrice del progetto “Leggere senza stereotipi”, è Camilla Seibezzi, già delegata ai Diritti Civili del Comune di Venezia. «Ma quei titoli furono scelti da una équipe di pedagogisti e psicologi e consegnati alle scuole dopo un corso di formazione per gli insegnanti. Dunque con estrema cautela». Sommerso dalle critiche Brugnaro ha adesso annunciato che sui libri proibiti verrà fatta un’analisi ulteriore, e forse alcuni saranno “liberati”. Replica Camilla Seibezzi: «Se accettiamo che anche solo uno dei 49 libri di favole venga censurato la battaglia è giá persa e la democrazia è venuta meno, perché la scuola pubblica ha il dovere di rappresentare e tutelare tutti i bambini e non una sola parte».
Qualsiasi fosse la nostra scelta di domenica, lunedì nulla ci dividerà. Nessuno mette in dubbio la permanenza del paese in Europa».
Il manifesto, 4 luglio 2014 (m.p.r.)
Il momento della democrazia e della responsabilità è arrivato. È ora che le sirene dell’allarmismo e del disfattismo tacciano. Quando un popolo prende il futuro nelle proprie mani non ha niente da temere. Andiamo tutti alle urne con calma e facciamo la nostra scelta, valutando gli argomenti e non gli slogan.
Ieri è accaduto un fatto di grande importanza politica. È stato pubblicato il rapporto del Fmi per l’economia greca. Un rapporto che ha reso giustizia al governo greco, perché conferma quanto è ovvio, cioè che il debito greco non è sostenibile. Loro stessi dicono che l’unico modo per rendere sostenibile il debito e per aprire la strada alla ripresa sia quello di procedere a un taglio del debito del 30%, concedendo un periodo di grazia di 20 anni. Questa posizione, però, i creditori non l’hanno mai esposta al governo greco durante i 5 mesi della trattativa. Anche nella proposta finale delle istituzioni, quella che domenica il popolo viene chiamato ad approvare o respingere, ogni posizione simile è assente.
Il rapporto del Fmi rende giustizia alla nostra scelta di non accettare un accordo che ignora il grande problema del debito. In poche parole, il principale ispiratore del memorandum viene adesso a confermare la nostra giusta valutazione, ovvero che la proposta che ci viene data non porta a un’uscita dalla crisi. Cerchiamo allora di capire, tutti noi. Domenica non si decide sulla permanenza della Grecia in Europa.
Si decide se, sotto ricatto, dobbiamo accettare il proseguimento di una politica senza via d’ uscita, come ormai ammettono i suoi stessi ideatori.
Domenica si decide se dobbiamo dare il nostro accordo alla morte lenta dell’economia e all’impoverimento della società, se dobbiamo acconsentire a tagliare ulteriormente le pensioni, per ripagare un debito non sostenibile coi risparmi dei pensionati, o, se, con determinazione, dobbiamo rafforzare il nostro potere negoziale, per raggiungere un accordo che ponga definitivamente fine a questo catastrofico quinquennio.
Greche e greci, ora che ci divide poco tempo dall’apertura delle urne, dobbiamo tutte e tutti mostrarci responsabili, rispettando le opinioni contrarie alle nostre, e affrontare uniti il nostro comune futuro.
Qualsiasi fosse la nostra scelta di domenica, lunedì nulla ci dividerà. Nessuno mette in dubbio la permanenza del paese in Europa. Il ‘no’ ad un accordo non sostenibile non significa rottura con l’Europa. Significa proseguimento dei negoziati in condizioni migliori per il popolo greco.
Vi rivolgo dunque l’invito di opporre un no agli ultimatum, ai ricatti, alla campagna della paura. Ma vi rivolgo anche l’invito di dire di no alla divisione. No a chi cerca di spargere il panico e di impedirvi di decidere con calma e responsabilità per il vostro futuro. Vi rivolgo l’invito di decidere con determinazione a favore della democrazia e della dignità. Per una Grecia orgogliosa e fiera in un’Europa democratica e solidale.
(a cura di Tonia Tsitsovic)
«Syriza nelle piazze e nei quartieri per far leva sulla "dignità", i sostenitori del sì non si vedono ma si appoggiano ai media amici. Facendo leva sulla paura».
Il manifesto, 3 luglio 2015 (m.p.r.)
Atene. Osservato dalla piazza di Labrini, periferia nord di Atene, il referendum che spaventa l’Europa assume tutt’altra prospettiva rispetto a quella restituita dalle dichiarazioni di Angela Merkel o di Jean Claude Juncker. Si è appena concluso un dibattito pubblico tra sostenitori del no e la gente del quartiere, uno dei tanti che si susseguono ogni sera nelle piazze della capitale ellenica, e si tratta di capire, per quanto è possibile, quale sia l’orientamento dei diretti interessati: sottomettersi alle misure europee che la maggioranza dei greci ha rigettato appena cinque mesi fa votando Syriza e gli altri partiti anti-austerità oppure far saltare il banco accettando di «navigare in acque sconosciute», per dirla con il presidente francese Francois Hollande, il leader politico europeo che pare aver deluso più ancora di Angela Merkel o Jean Claude Juncker?
Tra locali e taverne affollati come al solito, frotte di bambini all’inseguimento di un pallone e altoparlanti che diffondono canzoni della resistenza greca e italiana, in un clima a metà tra una vecchia festa dell’Unità e una sagra paesana si ascolta di tutto: dal «colpo di stato europeo» per abbattere Tsipras al «volete rovinarci» indirizzato agli esponenti di Syriza, segno di una polarizzazione, soprattutto in provincia, «che non si vedeva dai tempi della guerra civile», sostiene chi ha il polso della campagna referendaria. In un angolo, a un banchetto del Kke si distribuiscono volantini che invitano a mettere sulla scheda due no: al piano dei creditori e al governo Syriza-Anel, con il risultato di annullare la scheda e, di fatto, nuocere alle ragioni del no, a differenza di Antarsya, altro partitino della sinistra radicale fuori dalla maggioranza ma schieratosi a sostegno del referendum voluto dal governo. Li rivedrò entrambi, Antarsya e il Kke, il giorno dopo, cioè ieri sera, a manifestare separati per le vie del centro cittadino, i primi per il no, i secondi a dire «né-né»: né con lo Stato né con la troika.
Divisi a metà
Una rappresentazione plastica della divisione nella società greca è arrivata dalle due manifestazioni di qualche giorno fa: piena quella del no, altrettanto e forse persino di più quella del sì. La propaganda mediatica non aiuta a capirne di più. Non è un mistero che i boss della comunicazione in Grecia abbiano mal digerito il governo della sinistra e in questi giorni si sono trasformati nel megafono del fronte del sì, altrimenti assente dalle manifestazioni pubbliche, a differenza dei loro antagonisti. Nella fretta di rispondere colpo su colpo ai discorsi di Tsipras e al quartiere per quartiere degli attivisti di Syriza, sono però scivolati sulla più classica delle bucce di banana: un sondaggio prontamente smentito dagli stessi sondaggisti ai quali era stato attribuito. Per rispondere a quello pubblicato dal quotidiano indipendente (edito da una cooperativa di giornalisti) Efimerida due giorni fa, che dava il no al 54 per cento, contro il 33 dei sì e un 13 per cento di indecisi, ieri è finito sul giornale di orientamento conservatore Kathimerini un contro-sondaggio commissionato dai banchieri di Bnp Paribas all’istituto Gpo, per il quale il 47,1 per cento dei greci voterebbe invece a favore del piano presentato dai creditori, contro il 43,2 per cento che lo rifiuterebbe (con gli indecisi stimati tra l’8 e il 17 per cento). Ma a smentire tutto è stata la stessa Gpo (che in passato aveva fornito sondaggi attendibili sull’ascesa di Syriza), che ha negato di aver partecipato alla rilevazione minacciando di portare il quotidiano in tribunale e ha ribattuto che i sondaggi devono essere fatti in maniera «responsabile», in attesa della «critica decisione del popolo greco».
I due fronti
Cercando di costruire una geografia degli schieramenti, finisco a una conferenza stampa di avvocati, convocata per contestare la decisione del Consiglio dell’ordine di dare indicazione ai propri iscritti di votare sì al referendum. Non sono i soli: ha fatto altrettanto la Confederazione generale dei lavoratori greci (Gsee), il più grande sindacato ellenico, e non è una buona notizia per Syriza anche se la federazione dei metalmeccanici, al contrario, pur non esprimendosi apertamente a favore del no, si è schierata con il governo. Ma accade che le decisioni dei vertici siano contestate dagli iscritti, come sta avvenendo tra i legali, letteralmente imbufaliti perché, spiegano, il loro Ordine non dovrebbe immischiarsi in questioni del genere, come spiega Sarantos Theodoropoulos, appena tornato da Berlino dov’è andato a incontrare i deputati della Linke e della sinistra Spd per spiegare loro dal punto di vista legale la questione dei risarcimenti dovuti dalla Germania alla Grecia a causa dell’occupazione nazista. Mai come in questo caso, sostengono diversi analisti, il voto potrebbe non rispettare le indicazioni delle organizzazioni di riferimento.
Gli scenari del dopo-voto
Come andrà a finire domenica nessuno è in grado di affermarlo con sicurezza. «Quello che ha messo in difficoltà il governo è stata la decisione di chiudere le banche per una settimana», spiegano nella redazione del settimanale indipendente Epohi, vicino alle posizioni della sinistra radicale al governo. Una decisione estrema che ha consentito di evitare la bancarotta dovuta al panico e che potrebbe incidere negativamente sull’esito del voto, anche se ottocento istituti sono rimasti aperti per pagare le pensioni e ieri il governo ha annunciato la riapertura di tutti per martedì. Tutto sommato, i greci hanno affrontato con grande calma lo stop al credito (e pure ai tribunali), grazie anche al fatto che esso non è stato totale e il governo ha garantito pure la gratuità dei trasporti. Ma tutto ciò non basta a evitare che, per l’ennesima volta in pochi anni, un voto in Grecia si giochi sulla paura, quella stessa che solo alla fine di gennaio Alexis Tsipras era riuscito a sconfiggere contrapponendole la «speranza».
Anche gli scenari del dopo-voto rimangono incerti: ieri il ministro delle Finanze Yannis Varoufakis ha detto ieri di essere pronto a dimettersi se dovesse vincere il sì e lo stesso Tsipras ha già fatto sapere di non essere «un uomo per tutte le stagioni». Insomma, non ci sarà un governo Syriza che firmerà l’accordo con i creditori. Ma cosa accadrebbe se dovesse cadere il governo, come vogliono sull’asse Bruxelles-Berlino? Quale regime change sarebbe possibile? Bruciato dai fallimenti del passato l’ex premier di Nea Democrazia Antonis Samaras, ridotti ai minimi termini i socialisti del Pasok, il candidato dell’Europa pare essere l’ex giornalista televisivo Stavros Theodorakis, fondatore e leader della formazione centrista To Potami, che potrebbe finire alla testa di un governo di unità nazionale, l’unico in grado di far passare un programma ancora una volta lacrime e sangue. Ma con quali voti un siffatto esecutivo si reggerebbe se l’azionista di maggioranza Syriza non ci starebbe e men che meno le altre minoranze da sinistra a destra (anche se tre deputati dei Greci Indipendenti, al governo, ieri si sono schierati per il sì)? In che modo si riuscirebbe a mettere in piedi un governo che firmi l’accordo con i creditori entro il 20 luglio, in tempo utile per ricevere i soldi del programma e ripagarela rata di debiti con la Bce? Una sconfitta del no, paradossalmente, rischierebbe di rendere ancora più confusa la situazione e di aprire un periodo di forte instabilità politica nel paese.
La strategia della dignità
Syriza dal suo canto mira a smontare la strategia del «ci ridurranno in povertà» ricordando cosa hanno prodotto le politiche di austerità esasperate in Grecia: un tasso di disoccupazione al 27 per cento, un fortissimo aumento di depressioni e suicidi (uno studio pubblicato dal British medical journal ne ha censiti 10 mila dal 2008, la maggior parte avvenuti dopo l’approvazione del contestato Memorandum del 2011), precarizzazione del lavoro e smantellamento di diritti. Quella catastrofe sociale che ha portato in pochi anni la sinistra radicale al governo del paese (e alimentato pure l’ascesa dell’estrema destra di Alba Dorata).
Se dovesse farcela per la seconda volta in un anno, Tsipras ne uscirebbe da trionfatore nonostante i rischi di default incontrollato, i rating al ribasso di Moody’s e Standard&Poor’s e le minacce europee di abbandonare la Grecia al suo destino che rischierebbero di lasciare il tempo che trovano di fronte a un quadro radicalmente cambiato. Il leader greco sostiene, forse a ragione, che una vittoria del no gli darebbe più forza negoziale in Europa e alla paura contrappone un altro sostantivo: dignità. Il messaggio, un pizzico patriottico, è: non lasciamoci più calpestare.
«L’ex premier italiano non crede nella Grexit: “Il danno sarebbe troppo grande, si troverà un compromesso. Un’occasione per rilanciare l’Europa, ora senza forza e autonomia. Non possiamo dimostrare di essere incapaci di risolvere un piccolo problema come quello ellenico, sennò a che cosa serve la Ue?”».
La Repubblica, 2 luglio 2015 (m.p.r.)
Bruxelles. Qualunque sia l’esito del referendum, la Grecia alla fine non uscirà dall’euro. Tuttavia l’Europa, se vuole salvarsi, deve dotarsi immediatamente di una forte autorità di tipo federale, altrimenti sarà votata al fallimento. Di fronte al precipitare della crisi è questo il pensiero di Romano Prodi, uno dei “grandi vecchi” europei che guarda con preoccupazione, e non poca amarezza, ai sussulti che da Atene stanno dilangando in tutta la Ue. «Comunque vada a finire il referendum, il danno di una uscita della Grecia dall’euro sarebbe troppo grande. Si troverà un compromesso. Se tutto il mondo, da Obama ai cinesi, continua a ripeterci che bisogna trovare un accordo, vuol dire che c’è il diffuso sentimento di una catastrofe imminente che occorre evitare ad ogni costo».
Bruxelles. Alexis Tsipras rimane intrappolato nel suo stesso referendum. Fino a poche ore dalla rottura definitiva di ieri pomeriggio l’accordo era a un passo. Prevedeva che i greci ritirassero la consultazione popolare e gli europei offrissero ad Atene un terzo programma di salvataggio con una serie di concessioni per renderne le condizioni meno amare. Ma poi hanno prevalso la diffidenza, i caratteri e il calcolo politico dei protagonisti. Ora si guarda a lunedì, il giorno dopo il referendum. A Bruxelles, Berlino, Atene e nelle altre capitali si studiano piani e scenari. Molti leader ora puntano a far fuori una volta per tutte Tsipras, determinato invece a resistere a prescindere dal risultato del voto. La fine ha avuto inizio ieri notte, quando a Bruxelles è arrivata la seconda lettera in poche ore con le richieste di Tsipras per annullare il referendum. Per la prima volta accettava il testo Juncker – piuttosto generoso - con riforme e impegni per Atene in cambio del salvataggio. Ma a sorpresa il capo del governo greco ha aggiunto cinque punti irrinunciabili. Il viceministro Euclid Tsakalotos si prodigava a spiegare a Bruxelles il perché di tanta rigidità: «Abbiamo bisogno di queste ulteriori concessioni altrimenti l’accordo non passa in Parlamento».
«I greci si chiedono perché l’Europa voglia punirli. Tutti sanno la risposta. Hanno Atene • osato sfidarla votando Syriza, il partito «sbagliato»: di sinistra ed europeista».
Il manifesto, 2 luglio 2015 (m.p.r.)
Paura contro speranza, ragionamento e sangue freddo contro il terrorismo mediatico. È una settimana difficile per la Grecia a ancora di più per il governo, costretto a scusarsi per colpe non sue e in particolare per la chiusura delle banche.
C’è una campagna mediatica di dimensioni mai viste, neanche durante le difficili elezioni di gennaio. Tutte, ma tutte, senza eccezione alcuna, le emittenti private scatenate in terrorismo, catastrofismo e disinformazione. Ogni assembramento con più di tre persone davanti a una detlle banche rimaste aperte per i pensionati, diventa oggetto di dibattito per ore intere. Se poi l’anziano dà il minimo segno di stanchezza, allora c’è la tragedia mediatica, con gerontologo invitato in studio a spiegare con fare severo che, in effetti, il sole estivo potrebbe essere dannoso per chi è avanti con gli anni. Se poi la vecchietta si avvia verso il «periptero» (il caratteristico chioschetto) a comprare una bottiglietta d’acqua, ecco la pioggia di microfoni che gridano preoccupati: «Si sente male? Chiamiamo un’ambulanza?». Il consumo dell’acqua va in diretta mentre nello studio se segue con grande apprensione. Il collegamento si interrompe solo quando l’anziana mostra di non avere alcuna intenzione di stramazzare per terra e si avvia per la sua strada.
Ancora peggio i notiziari: l’«informazione» è che il limite al prelievo dal Bancomat sarà ridotto da 60 a 20 euro. Il ministero delle Finanze ha smentito ma peggio per lui. La notizia rimbalza, si moltiplica, diventa un fatto. La Merkel ha detto nessuna trattativa prima del referendum. La notizia diventa «nessuna trattativa», siamo già fuori dall’Europa e non lo sappiamo. Quello che invece le emittenti private oligarchiche sanno di sicuro è che le tipografie dello stato stanno lavorando giorno e notte per stampare le dracme. Non ci credete? Ma come, l’ha detto la Tv. Molti elettori di Syriza sono inorriditi. Accusano il governo di aver tollerato questa sconcezza mediatica. Bisognava prendere provvedimenti subito, fare loro pagare le tasse (evase sistematicamente) e l’occupazione (praticamente gratuita) delle frequenze. Giusto, forse. Ma poi rischiavamo una campagna europea in favore della libertà d’informazione violata dagli stalinisti al potere. Vagli poi a spiegare che si trattava di cialtroni ben stipendiati dagli oligarchi. Quanto rende in termini di voti questa incredibile disinformazione? Forse è questo il vero quesito del referendum. I greci ostentano calma e sangue freddo e si infastidiscono quando si vedono inquadrati dalle telecamere. Gli anziani sono i più determinati.
Nessun incidente ai più di 800 sportelli rimasti aperti per loro, nessuna folla, nessun panico. Ma sicuramente c’è preoccupazione, forse anche paura. Chi accusa il governo, si vede, è per partito preso ma tutti sono concordi nel chiedersi meravigliati perché l’Europa democratica li vuole punire. Tutti sanno la risposta: hanno osato sfidarla votando il partito sbagliato: ma sono pochi coloro che vedono con sollievo l’abbandono dell’eurozona o anche l’Unione Europea. I greci sono orgogliosamente europei, nessuno può fargli cambiare idea.
È a loro che Tsipras ha voluto rivolgere il suo appello televisivo ieri sera. «Voglio ringraziarvi con tutto il cuore per la calma e il sangue freddo che state mostrando in ogni momento di questa settimana difficile. Voglio assicurarvi che questa situazione non durerà a lungo. Sarà provvisoria. Gli stipendi e le pensioni non andranno persi. I conti dei cittadini che hanno scelto di non portare i loro soldi all’estero non saranno sacrificati sull’altare dei ricatti e delle oscure manovre politiche. Rivolgo l’appello di sostenere questo processo negoziale, vi chiedo di dire no alle ricette di austerità che stanno distruggendo l’Europa». Molti si chiedono. Va bene, ma se poi questa mancanza di liquidità durasse a lungo, come se ne esce? Tsipras, anche ieri, ha ostentato la sua convinzione che dopo la vittoria del no ci saranno nuovi negoziati e la questione sarà risolta in tempi brevi. Martedì sera si sono radunati a piazza Syntagma i sostenitori del «Sì». Non tantissimi, ma pioveva. Però si sa che c’è una «maggioranza silenziosa» che non scende in piazza ma vota. Il progetto delle forze del Sì è chiaro, lo ha annunciato il leader della destra Samaras da Bruxelles: un nuovo premier, probabilmente il suo ex ministro delle Finanze, ora governatore della Banca di Grecia, Yannis Stournaras, per un governo «di unità nazionale».
Ma Samaras è una carta bruciata, dentro il suo partito quasi nessuno lo vuole. La nuova carta della rivincita delle forze pro austerità è il partito di plastica Tio Potami e il suo leader semianalfabeta Stavros Theodorakis. È lui che regge il grosso della campagna per il sì e probabilmente sarà lui a dettare l’agenda del ribaltamento politico nel caso di vittoria. Un’agenda molto chiara e semplice: accettare tutte le richieste di Berlino. Fine dell’anomalia greca, ritorno alla normalità teutonica.
Se qualcuno avesse dubbi sulle ragioni di chi sta tentando di cacciare la Grecia di Tsipras dall'Unione europea, troverà l'elenco argomentato delle menzogne impiegate.
Il Fatto quotidiano, 2 luglio 2015
C’è un gran dibattito sul referendum in Grecia. E’ difficile riassumere i diversi aspetti economici, sociali e politici del problema che sono tutti ugualmente importanti: tutti richiedono un intervento che possa invertire una rotta che sembra destinata a naufragio sicuro. Qui di seguito ho isolato i punti a mio avviso più rilevanti.
Le politiche di austerità sono state ispirate dallo stesso paradigma ideologico neoclassico che ha fallito ogni previsione della crisi economica scoppiata nel 2007/2008, e sono basate su un famoso articolo degli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, tra i più citati negli ultimi anni, che ha evidenziato l’esistenza, in diversi paesi, di una correlazione tra un alto rapporto debito/Pil (maggiore del 90%) e la bassa crescita. L’articolo di Reinhart e Rogoff è stato mostrato essere effetto da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio di calcolo. Eppure questo studio è stato tra quelli usati per giustificare l’austerità, il pareggio di bilancio e la necessità di “rimettere a posto i conti” nei diversi paesi. Malgrado i dati stessi, analizzati correttamente, non mostrano alcuna correlazione tra debito e Pil, e dunque non giustificano in nessun modo le assunzioni delle politiche d’austerità, queste non sono cambiate e anzi sono continuamente riproposte.
Secondo Mario Monti la Grecia “è la manifestazione più completa del grande successo dell’Euro”. La Grecia dopo cinque anni il “salvataggio” della Troika (Banca Europea, Commissione Europea e Fondo Monetario) è ancora in recessione, ha un tasso di disoccupazione intorno al 30% che sale al 55% per i giovani, ha sofferto un abbassamento del PIL del 25% e il 30% della sua popolazione vive sotto il livello di povertà dell’Unione Europea. Le misure di austerità hanno causato una vera e propria emergenza umanitaria. In un articolo scientifico, pubblicato sulla rivista The Lancet, sono stati presentati dei dati impressionanti: in Grecia dopo quaranta anni è riapparsa la malaria, il 70% dei partecipanti ad un sondaggio ha dichiarato di non avere sufficiente denaro per comprare le medicine, i suicidi sono aumentati del 45%, i neonati sottopeso sono aumentati del 19% mentre i bambini nati morti sono incrementati del 21%.
Dall’inizio della crisi, cinque anni fa è avvenuta la più grande fuga di cervelli in un’economia occidentale avanzata nei tempi moderni, con oltre 200.000 greci che hanno lasciato il paese. Più della metà sono andati nel Regno Unito e in Germania, rappresentando un enorme spostamento di forza lavoro qualificata, formata a spesa del paese d’origine, che va dunque ad arricchire i paesi di destinazione. Quest’ondata di giovani, insieme con quelle provenienti dagli altri paesi dell’Europa meridionale, rappresenta forza lavoro qualificata che entra in concorrenza con quella locale abbassando dunque il costo del lavoro. D’altro canto questo impoverimento di risorse umane sta minando le residue possibilità di una ripresa del paese in un futuro più o meno lontano.
Ma i danni non sono finiti qui. Come spiega chiaramente, Andrea Baranes, il piano di salvataggio della Grecia è stato «concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del vecchio continente e non la Grecia» (fonte Fmi): infatti, uno studio indipendente ha mostrato come per lo meno il 77% di tutti gli aiuti forniti alla Grecia tra maggio 2010 e giugno 2013 sono finiti al settore finanziario e non alla popolazione o allo Stato ellenico. In parallelo l’esposizione delle banche francesi e tedesche si è trasformata in debito pubblico (si veda anche pagina 15 di questo documento del Parlamento Greco).
Questi semplici fatti, facilmente verificabili, mostrano l’assurdità delle politiche d’austerità che hanno l’effetto di deprimere l’economia sia nell’immediato che nel futuro. I vari “economisti”,come Francesco Giavazzi, che si agitano al grido “i Greci hanno scelto la povertà, lasciamoli al loro destino”, con argomenti che possono essere agevolmente falsificati, rendono semplicemente chiaro, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, come, utilizzando la propria cattedra universitaria, la scienza economica sia usata solo per puntellare scelte politiche e ideologiche. La discussione è in realtà tutta politica ma la bussola che si è persa è quella etica: solo indignandoci di fronte alle inutili sofferenze della gran parte di un paese potremo capire da che parte stare.
L'appello televisivo del premier greco. «Il referendum di domenica non riguarda la permanenza o no della Grecia nell’eurozona. Questa è scontata e nessuno può contestarla. Domenica dobbiamo scegliere se accettare l’accordo specifico oppure rivendicare subito, una volta espresso il responso del popolo, una soluzione sostenibile».
Il manifesto, 2 luglio 2015
Il referendum di domenica non riguarda la permanenza o no della Grecia nell’eurozona. Questa è scontata e nessuno può contestarla. Domenica dobbiamo scegliere se accettare l’accordo specifico oppure rivendicare subito, una volta espresso il responso del popolo, una soluzione sostenibile.
In ogni caso voglio assicurare al popolo greco che la ferma intenzione del governo è quella di ottenere un accordo con i partners, in condizioni però di sostenibilità e di prospettiva per il futuro. Già l’indomani della nostra decisione di proclamare un referendum sono state poste sul tavolo proposte riguardanti il debito e la necessità di ristrutturarlo, migliori di quelle che ci erano state presentate fino a venerdì. Non le abbiamo lasciate cadere.
Abbiamo immediatamente presentato le nostre controproposte, chiedendo una soluzione sostenibile. È per questa ragione che c’è stata la riunione straordinaria dell’eurogruppo ieri e ci sarà una nuova riunione oggi pomeriggio. Se ci sarà una conclusione positiva, noi risponderemo immediatamente. In ogni caso, il governo greco rimane al tavolo del negoziato e continuerà a rimanerci fino alla fine. Ma ci rimarrà su questo tavolo anche lunedì, subito dopo il referendum, in condizioni più favorevoli per la parte greca. Il verdetto popolare, infatti, è sempre più potente rispetto alla volontà di un governo. Vorrei anche ribadire che il ricorso alla volontà popolare è uno dei fondamenti delle tradizioni europee.
In momenti cruciali della storia europea, i popoli hanno preso decisioni importanti attraverso lo strumento del referendum. E’ successo in Francia e in tanti altri paesi, dove si sono svolti referendum sulla Costituzione europea. E’ successo in Irlanda, dove un referendum ha temporaneamente sospeso il Trattato di Lisbona e ha condotto a un nuovo negoziato, dal quale l’Irlanda ha ottenuto condizioni migliori. Nel caso della Grecia, purtroppo, si usano due metri e due misure.
Personalmente, non mi sarei mai aspettato che l’Europa democratica non riesca a comprendere la necessità di lasciare a un popolo sovrano lo spazio e il tempo necessario perché faccia le sue scelte riguardo al proprio futuro. Sono prevalsi ambienti estremisti conservatori e di conseguenza le banche del nostro paese sono state portate all’asfissia. L’obiettivo è evidente: esercitare un ricatto che parte dal governo e arriva fino a ogni singolo cittadino greco.
E’ infatti inaccettabile in un’Europa della solidarietà e del rispetto reciproco, vedere queste scene vergognose: far chiudere le banche proprio perché il governo ha deciso di far parlare il popolo, creare disagi a migliaia di anziani, per i quali, malgrado l’asfissia finanziaria, il governo si è preoccupato e ha fatto in modo che la loro pensione fosse regolarmente versata nei loro conti. A queste persone dobbiamo delle spiegazioni. E’ per proteggere le vostre pensioni che stiamo dando battaglia tutti questi mesi. Per proteggere il vostro diritto a una pensione dignitosa e non a una mancia. Le proposte che, in maniera ricattatoria, ci hanno chiesto di sottoscrivere prevedevano un taglio consistente delle pensioni. Per questo motivo ci siamo rifiutati, per questo oggi si vendicano.
E’ stato dato al governo greco un ultimatum che comprendeva esattamente la stessa ricetta, comprendente tutte le misure ancora non applicate del vecchio Memorandum di austerità. Come se non bastasse, non hanno previsto alcuna forma di alleggerimento del debito né di finanziamento dello sviluppo. L’ultimatum non è stato accettato. Poiché in regime di democrazia non ci sono strade senza uscita, l’ovvia via d’uscita era quella di rivolgerci al popolo, ed è stato esattamente quello che abbiamo fatto.
Sono pienamente consapevole che in queste ore c’è un’orgia di catastrofismo. Vi ricattano e vi invitano a votare sì a tutte le misure chieste dai creditori, senza alcuna visibile via d’uscita dalla crisi. Vogliono fare dire anche a voi, come succedeva nei quei giorni bui della nostra vita parlamentare che abbiamo lasciato dietro di noi, sì a tutto. Farvi diventare simili a loro, complici nel piano di farci rimanere per sempre sotto l’austerità.
Dall’altra parte, il no non è una semplice parola d’ordine. Il no rappresenta un passo decisivo verso un accordo migliore che puntiamo a sottoscrivere subito dopo la proclamazione dei risultati di domenica. Sarà l’inequivocabile scelta del popolo riguardo le sue condizioni di vita nei giorni a venire. No non significa rottura con l’Europa, ma ritorno all’Europa dei valori. No significa pressione potente per un accordo economicamente sostenibile che trovi una soluzione al problema del debito, non lo farà schizzare a livelli insostenibili, non costituirà un eterno ostacolo verso i nostri sforzi per far riprendere l’economia greca e dare sollievo alla società. No significa pressione forte per un accordo socialmente equo che distribuirà il peso ai possidenti e non ai lavoratori dipendenti e ai pensionati.
Un accordo cioè che porterà in tempi brevi il paese a essere di nuovo presente nei mercati finanziari internazionali, in modo che si ponga termine alla sorveglianza straniera e al commissariamento. Un accordo che comprenda quelle riforme che puniranno una volta per sempre gli intrecci insani tra politica, mezzi d’informazione e potere economico che hanno contraddistinto in tutti questi anni il vecchio sistema politico. Nel contempo potrà affrontare la crisi umanitaria: stenderà, in altre parole, una rete di sicurezza per tutti quelli che oggi sono stati spinti all’emarginazione grazie alle politiche seguite in tutti questi anni nel nostro paese.
Greche e greci, sono pienamente consapevole delle difficoltà che state affrontando. Mi impegno personalmente a fare qualunque cosa perché siano provvisorie. Alcuni fanno dipendere la permanenza della Grecia all’eurozona dal risultato del referendum. Mi accusano di avere un’agenda segreta: nel caso di vittoria del no, far uscire il paese dall’Unione Europea. Mentono sapendo di mentire. Sono quelli stessi che dicevano le stesse cose nel passato e rendono un pessimo servizio sia al nostro popolo che all’Europa. D’altronde, sapete bene che un anno fa io stesso ero candidato per la presidenza della Commissione alle elezioni per il Parlamento europeo.
Anche allora ho detto agli europei che le politiche di austerità devono finire, che non è questa la strada per uscire dalla crisi, che il programma applicato alla Grecia è stato un fallimento. E che l’Europa deve smettere di comportarsi in maniera non democratica.
Pochi mesi più tardi, nel gennaio del 2015, il nostro popolo ha sigillato questa scelta. Sfortunatamente, alcuni in Europa si rifiutano di comprendere questa verità, non la vogliono ammettere. Quelli che preferiscono un’Europa ancorata in logiche autoritarie, di disprezzo verso le regole democratiche, che vogliono un’Europa unita solo in maniera epidermica e tenuta insieme dal Fmi, non hanno una visione degna dell’Europa. Sono politici senza coraggio che non riescono a pensare come europei.
A loro fianco sta il nostro sistema politico che ha portato il paese alla bancarotta e ora si propone di gettare la colpa a noi, a chi cerca di far finire questa marcia verso il disastro. Sognano il loro ritorno: lo hanno progettato nel caso che noi avessimo accettato l’ultimatum – hanno pubblicamente chiesto la nomina di un altro premier per applicarlo– ma continuano anche adesso, che abbiamo dato la parola al popolo. Parlano di colpo di stato. Ma la democrazia non è un colpo di stato, i governi nominati da fuori sono un colpo di stato.
Greche e greci, voglio ringraziarvi con tutto il cuore per la calma e il sangue freddo che state mostrando in ogni momento di questa settimana difficile. Voglio assicurarvi che questa situazione non durerà a lungo. Sarà provvisoria. Gli stipendi e le pensioni non andranno persi. I conti dei cittadini che hanno scelto di non portare i loro soldi all’estero non saranno sacrificati sull’altare dei ricatti e delle oscure manovre politiche. Assumo io personalmente la responsabilità di trovare una soluzione al più presto, subito dopo la conclusione del referendum. Allo stesso tempo rivolgo l’appello di sostenere questo processo negoziale, vi chiedo di dire no alle ricette di austerità che stanno distruggendo l’Europa.
Vi chiedo di accettare la strada di una soluzione sostenibile, di aprire una brillante pagina di democrazia, nella speranza certa di un accordo migliore. Siamo responsabili verso i nostri genitori, i nostri figli e verso noi stessi. E’ il nostro debito verso la storia.
(a cura di Dimitri Deliolanes)
Il messaggio ad Alexis Tsipras del Premio Nobel per la pace: «È urgente riformare il sistema economico e stabilire un nuovo contratto sociale»: ed è chiaro che non si parla delle "riforme" della Troika. La Repubblica, 2 luglio 2015
AL PRIMO ministro della Grecia, Alexis Tsipras.
Qui dall’Argentina seguiamo da vicino le richieste che state facendo per trovare una giusta soluzione che non condanni il popolo greco alla fame e all’emarginazione sociale. Nel 2001 e 2002 abbiamo vissuto anche noi la stessa crisi. L’abbiamo superata unendo le forze e cercando cammini alternativi e creativi. Molte organizzazioni sociali e assemblee popolari hanno recuperato le fabbriche e hanno istituito un sistema di scambio di lavoro e di materie prime. La solidarietà popolare ha permesso di condividere il pane e la libertà.
Il debito estero è un meccanismo di dominazione. I grandi interessi economici privilegiano il capitale finanziario rispetto alla vita delle persone. Noi, purtroppo, ancora ne soffriamo le conseguenze.
Il governo greco ha avuto coraggio ad indire un referendum per chiedere al popolo di decidere sul cammino da intraprendere di fronte all’ultimatum dei soci europei. Questi ultimi, come sappiamo bene, contravvengono ai principi e ai valori sui quali si è fondata l’Europa, cercando d’imporre la deregolamentazione del mercato del lavoro, il taglio delle pensioni e dei salari pubblici, le privatizzazioni e l’aumento dell’Iva anche sugli alimenti. Si tratta di una violazione del diritto d’uguaglianza e di dignità.
Vi invito a resistere per rafforzare la democrazia e la sovranità nazionale. È ormai urgente riformare il sistema economico mondiale e stabilire un nuovo contratto sociale ed è giusto che il popolo greco scelga da solo quale debba essere il presente e il futuro del proprio Paese. La Grecia conosce la resistenza, la democrazia e il coraggio e noi la sosteniamo. Vi accompagno e vi auguro molta forza e speranza.
L’autore è premio Nobel per la pace (Traduzione di Grazia Tuzi)
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«Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata».
Huffington post, 30 giugno 2015
Per un governo rappresentativo si tratta di una decisione determinante, una di quelle gravide di conseguenze non rivedibili per questa generazione e quelle a venire. La consultazione dei diretti interessati sul Memorandum politico dell'austerità è per questo legittima. Ma è anche ragionevole in vista proprio della continuazione della trattativa. Segno di un governo che rischia e ha il senso della gravità del momento. Del resto, nonostante sia identificato come un governo di sinistra radicale, la maggioranza dei greci che lo hanno votato, ha scritto Stathis Gourgouris, non é composta di persone ideologiche, ma di cittadini stanchi delle impotenze dei governi precedenti, della mancanza di coraggio delle leadership tradizionali. Il voto a Syriza ha espresso una richiesta di coraggio, di mutamento di percorso. E la sua classe politica giovane e nuova ha anche per questo avuto il sostegno di persone politicamente distanti.
Un fatto va sottolineato, e che non appare nei resoconti catastrofisti di questi giorni: Syriza ha pensato che per uscire dallo stallo della trattativa a Bruxelles solo l'appello al popolo poteva rimettere in moto le cose. Gli scienziati politici hanno in varie occasioni messo in evidenza come la scelta radicale, per esempio il ricorso diretto alla voce del popolo, ha precisamente la funzione di imprimere una svolta che dia nuovo vigore e immaginazione alle forze in campo. Non è il referendum che le erode, del resto.
L'erosione deriva semmai dal far trascinare la trattativa troppo a lungo perché questo rischia di generare una crescente incomprensione nei partner in quanto mette in moto emozioni ostruttive, come la diffidenza e perfino il disprezzo personale tra i contraenti. Le trattative faccia-a-faccia sono cruciali quando vi é la volontà di risolvere il contenzioso in modo che tutti abbiano covenienza. Ma la lunghezza dei tempi gioca contro perché apre lo spazio alla guerra psicologia, che mira non a trovare una soluzione equa o non a somma zero, ma ad annientare l'avversario.
In questo senso, il referendum puó avere la funzione di stemperare gli umori psicologici spostando il problema sul terreno della procedura e dell'aspettativa assolutamente impersonale, quale é l'esito di un voto segreto. Sappiamo del resto che in molti casi, forme di democrazia diretta hanno il merito di stabilizzare le relazioni pubbliche perché orientano chi deve subire le conseguenza di una decisione all'accettazione delle scelte, anche le più ostiche (il caso esemplare é quello della Svizzera, che si é consolidata con i referendum). A giudicare dai movimenti della diplomazia mai interrotta a Bruxelles, è probabile che il referendum greco abbia il merito di rianimare la scena e mettere in campo proposte nuove e intenzioni meno macchinose e fatali. Sia che Syriza perda o vinca, il referendum potrà forse stabilizzare anziché destabilizzare le relazioni tra Grecia e Europa, poiché il popolo greco si fa direttamente responsabile.
Sarebbe desiderabile valutare positivamente l'onestà e il coraggio di questo governo, virtù determinanti in una fase di grande difficoltà come l'attuale. Virtù politiche che hanno il potere di tenere insieme una situazione difficilissima e aprire vie d'uscita.
Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata come ha commentato Paul Krugman. Il referendum é a ben guardare il gesto di una politica europeista non anti-europeista. Solleva direttamente una questione che vale per tutti gli europei: che Europa é questa che tratta il debito secondo una logica contrattualistica privata e non sa comprendere la legittimità democratica che un popolo ha di tentare strade meno dolorose e ingiuste? Su quali basi e con quale logica la dirigenza europea pensa di poter evadere una richiesta democratica di mutare rotta per avviare una diversa strategia di risoluzione del debito che faccia perno sulla crescita e non sui tagli?
Il referendum greco ha posto un problema all'Europa, un problema che deve essere risolto in e con l'Europa: quello di un modo diverso di affrontare le politiche del debito - cioé come politiche di risanamento e di crescita, non di punizione. Così è stato in Europa dopo la distruzione lasciata dalla guerra, così dovrebbe essere oggi dopo la distruzione lasciata da questa crisi economica. E la scossa del referendum, nella sua tragicità può aiutare a intraprendere questo percorso.
Così la cancelliera sacrifica la battaglia greca per superare un’altra prova: salvare l’Euro(pa). In qualsiasi modo finisca, la campagna di Grecia ha lasciato sul terreno feriti. Un Paese nel caos. Enormi dubbi sulla capacità politica dei leader europei.
Corriere della Sera, 1 luglio 2015 (m.p.r.)
Berlino. Nel finale della partita greca, Angela Merkel ha scelto di sacrificare il breve termine per il lungo: non salvare necessariamente la Grecia rinnegando i principi ma cercare di proteggere l’euro. Decisione rischiosa: non si può sapere cosa abbia in serbo il futuro. Ma decisione in parte obbligata e potenzialmente saggia: l’evoluzione della realtà è spesso benigna per gli statisti pronti a perdere una battaglia per vincere la guerra.
«Inammisibile e quanto meno irrituale l’ennesimo tentativo tedesco di interferire nella politica greca». Una volta c’erano i colonnelli, oggi l’austerità della Germania, la Grecia è sempre la vittima e Barbara Spinelli, eurodeputata della Sinistra europea, figlia di Altiero, padre dell’Europa, accusa: «È in atto un tentativo di colpo di Stato post-moderno». Le ultime ore sono concitate. Juncker riapre, Tsipras avanza nuove richieste. Si riavviano le trattative, ma interviene la Merkel: «No al terzo salvataggio prima del referendum».
«Un mini esercito di eroi per caso sostituisce lo Stato e fa a gara di solidarietà per salvare i più bisognosi».
La Repubblica, 1 luglio 2015 (m.p.r.)
Atene. L’armata degli angeli anti-crisi di Atene si è regalata un nuovo iscritto di peso. «Ci stavamo pensando da un po’» ammettono alla sede dell’Associazione dei medici ellenici. Poi domenica scorsa, davanti alle immagini in tv delle code ai bancomat e agli allarmi sulle scorte di medicine nelle farmacie, hanno rotto gli indugi. «Crisi o non crisi una cosa non cambia: i greci non hanno perso il vizio di ammalarsi», scherza Eirini Vathis, infermiera all’Evangelismos. E così la mini-Confindustria dei dottori – davanti al rischio dell’ennesima emergenza sanitaria - ha acceso il pc e mandato una mail a tutti i suoi iscritti: «Questa settimana, almeno fino al referendum, vi preghiamo di curare gratuitamente chiunque ne avesse davvero bisogno».
Articoli di di Dimitri Deliolanes e di Pavlos Nerantzis. sugli eventi di una giornata cruciale, per L'Europa e il suo futuro. Il manifesto, 1° luglio 2015
Ad Atene in piazza il fronte del sì
di Pavlos Nerantzis
Il governo greco non accetta l’ultima proposta in extremis dei «creditori», e conferma: «Referendum non in discussione»
Una giornata piena di riunioni al Megaro Maximou, sede del governo, ma anche di informazioni contraddittorie per un’eventuale intesa tra Atene e i suoi creditori. A piazza Syntagma di fronte al parlamento, questa volta era presente il «fronte del sì», ovvero i greci che vorrebbero ad ogni costo un accordo con le «istituzioni». Migliaia di persone a manifestare la volontà di accettare le condizioni dei creditori, spinti per strada — forse — dalla campagna mediatica dell’opposizione che ritiene che il referendum possa allontanare, per sempre, la Grecia dalla Ue.
Di sicuro rappresentano una parte dei greci, compresi alcuni elettori di Syriza, che non vogliono in alcun modo il rischio di un’uscita dall’euro. Il premier Tsipras (che ieri ha avuto comunicazioni telefoniche con Draghi, Merkel, Hollande e Schulz), secondo alcuni media locali si sarebbe schierato a favore di una soluzione sostenibile; altre fonti — invece — dicevano che «siamo molto vicini ad un’intesa». Lo stesso Tsipras che fa campagna per il «fronte del no», è stato chiaro anche durante un’intervista alla tv pubblica Ert lunedi sera: «rispetteremo la volontà dell’elettorato, anche se io non sono un uomo per tutte le stagioni». Vale a dire che nel caso vincesse il «fronte del sì», il premier non ha altra scelta che dimettersi, aprendo la strada ad un ricorso anticipato alle urne e a un periodo di instabilità politica. In tal caso il governo delle sinistre sarebbe una parentesi e la sconfitta non sarà soltanto greca.
A questo punto si pone la domanda: perché il premier greco non si è aggrappato all’opportunità fornita da Juncker, che avrebbe proposto un accordo in extremis (con l’aliquota dell’Iva al 13% per gli alberghieri e i servizi turistici e non al 23%) e un impegno da parte dell’ Eurogruppo per una ristrutturazione del debito? Tanto è vero che Tsipras ha annunciato il referendum per far maggior pressione sulle «istituzioni» affinché riducessero le pretese per arrivare ad un’intesa e per «distribuire» il peso della responsabilità di una decisione che potrebbe essere interpretata come una resa ai creditori o, in caso contrario, un salto nel buio.
Nel caso dovesse esserci un accordo prima del referendum della domenica prossima ci sono due possibilità: o la consultazione verrà annulata, un’eventualitá tutto sommato scarsa — «il referendum comunque sarà realizzato» ha detto ieri il ministro Nikos Pappas, braccio destro di Tsipras — oppure il governo si schiererà a favore del «si».
La maggioranza dei greci vuole continuare a utilizzare la moneta unica e preferirebbe un accordo con i partner europei del Paese piuttosto che una rottura. È quanto risulta da due sondaggi effettuati prima di sabato, giorno in cui Tsipras ha annunciato il referendum. Nel sondaggio della Alco per il settimanale Proto Thema, il 57% degli intervistati ha detto di ritenere che la Grecia dovrebbe fare un accordo con i partner europei, mentre il 29% ha detto di preferire una rottura.
Dal sondaggio condotto dalla Kapa Research per il quotidiano To Vima è emerso che il 47,2% degli intervistati voterebbe a favore di un accordo, per quanto doloroso, con i creditori, contro il 33% che voterebbe no e il 18,4% di indecisi. Entrambi i sondaggi sono stati condotti a livello nazionale dal 24 al 26 giugno. Tenendo poi conto del clima di preoccupazione e di tensione creatosi dalla decisione di chiudere le banche greche, analisti fanno notare che «la percentuale a favore di un’intesa e quindi del sì dovrebbe essere aumentato».
A questo spostamento ha contribuito la campagna di intimidazione, se non di terrorismo dell’opinione pubblica da parte dei media mainstream, alimentata da altri due fattori: la chiusura delle banche seguita dal capital control e il limite dei 60 euro al giorno dai bancomat. Oggi apriranno i battenti a quasi mille filiali per pagare le pensioni ai clienti che non possiedono carte di credito, ma il clima è peggiorato rispetto ai giorni precedenti.
La confusione, l’ansia e il nervosismo sono evidenti sui volti delle persone, in gran parte pensionati, che sotto la pioggia fanno delle lunghe file di fronte ai bancomat, soprattutto quelli della National Bank of Greece. La polizia greca è stata posta in stato di allerta nel timore di attentati dinamitardi contro i bancomat o tafferugli tra i clienti in fila. Preoccupati pure i commercianti e le aziende di esportazione, perché oltre al calo pauroso delle vendite — già ridotte — hanno problemi di liquidità. 350 milioni di euro saranno persi questa settimana, secondo l’Associazione dei commercianti di Atene. Inoltre, il «fronte del sì» sta crescendo perché il governo non ha ancora chiarito cosa fare il giorno dopo il referendum nel caso vincesse il «no», rispetto alle proposte dei creditori. Il discorso generico «avremo un potere di negoziato più forte» convince i militanti di Syriza, ma non tanti altri elettori.
Un «no» forte sicuramente rafforzerà il potere contrattuale del premier greco, ma presentandosi a Bruxelles Tsipras rischia di non trovare i suoi interlocutori delle «istituzioni» perché semplicemente potrebbero dire che il negoziato è terminato. A quel punto la Grecia camminerà su «acque sconosciute». La Bce potrebbe chiudere i rubinetti –da ieri il Paese non è più nel programma di aiuti e l’agenzia di ratings Fitch ha declassato le quattro banche elleniche al grado Rd (fallimento in parte, Restricted default)- provocando in un primo momento il crollo del sistema bancario greco e in seguito, l’intervento dello stato. Con un’economia in ginocchio da parecchi anni causa recessione, il governo greco, anche se non lo vuole, non avrebbe altra possibilità che chiedere aiuti da paesi fuori dalla Ue, nazionalizzare gli istituti di credito e stampare la dracma.
Tsipras, il vero europeista
di Dimitri Deliolanes
Alexis Tsipras è un europeista. Non di quelli tutti retorica e finanziamenti: è un europeista vero, di quelli che ci credono. Lo si è visto nella sua lunga intervista alla tv pubblica Ert lunedì sera. I giornalisti gli avevano chiesto perché ha lasciato che la Grecia rimanesse fuori dal programma di “salvataggio” che scadeva ieri, in modo che la Bce non potesse stendere la sua copertura (Ela) sulle banche greche. Da qui lo sgradevole provvedimento di chiudere le banche per evitare il bank run.
La risposta del premier greco è stata una testimonianza di europeismo: «Non me lo aspettavo — ha ammesso Tsipras — il prolungamento era stato sempre concesso, non immaginavo che lo negassero per una settimana». In altre parole, Tsipras ha ammesso di non essersi aspettato l’atto di guerra annunciato sabato scorso con sorrisetto odioso da Diijsselbloem e finalizzato a far spargere la paura tra i greci e condizionare l’esito del referendum.
Un’operazione che ha avuto un certo successo: se prima della chiusura delle banche la vittoria del no era scontata, ora le cose sono cambiate. Una parte non trascurabile dell’opinione pubblica si è fatta condizionare: dalle emittenti oligarchiche che non perdono occasione di annunciare catastrofi cosmiche, dalla retorica su presunti grexit che rimbalza tra Atene e le capitali europee, ma anche dalla incertezza reale riguardante i rapporti tra la Grecia e l’Europa.
Tsipras non se lo aspettava perché pensa che l’Ue sia un’Unione di paesi di pari dignità, la patria della democrazia e dei diritti dell’uomo. Ma ora sembra abbia decisamente realizzato che l’Ue, e in particolare l’eurozona, sono il terreno di caccia di mostri finanziari, che hanno anche imposto una loro «Costituzione materiale». Non è ammissibile contestarla. Per questo è stato alzato un muro di intransigenza e menzogne: «Greci dite di sì a qualsiasi proposta venga dai creditori», è stata l’esortazione di Junker.
Tsipras potrebbe pigiare l’acceleratore della crisi dentro l’eurozona, minacciando apertamente di farla esplodere con tutti i filistei. Puntando, per esempio, sul fatto che la Bce e l’Ue sono i garanti del debito greco di fronte al Fmi. Debito greco che non sarà pagato nei prossimi mesi. Ma non lo fa perché è un europeista. Piuttosto che sparare, ha pensato bene di rilanciare la sua proposta di compromesso, pronto, sempre e in qualsiasi momento, a firmare un «accordo sostenibile» per dare indicazioni ai suoi elettori di votare domenica «sì».
La giornata tumultuosa di ieri ha segnato un punto in favore degli sforzi europeisti di Tsipras. Tra conferme e smentite, proposte più o meno attendibili da parte di Juncker e un acceso attivismo da parte di tutti, del gruppo socialista a Strasburgo, del Presidente cipriota, del ministro francese e di quello irlandese (perfino di Renzi che ha concesso una lunga intervista al Sole 24 Ore, perdendo una splendida occasione di tacere) alla fine si è arrivati alla riunione dell’eurogruppo ieri sera, ancora in corso mentre scriviamo.
Egualmente importante è anche la decisione di Atene di risolvere i suoi problemi di liquidità ricorrendo al Mse, il meccanismo di stabilità instaurato alcuni anni fa. In sostanza, si tenta di aggirare le difficoltà create dal dominio di Schauble dentro l’eurogruppo, per instaurare le nuove misure su un piano completamente nuovo. In altre parole, né no né sì ma una terza proposta, ancora tutta da negoziare. Con il vantaggio che ai negoziati non parteciperà il Fmi.
a menzogna è la prima regola rispettata in Italia (e in Europa). Il peggio è che è una menzogna senza innocenza: non meriterebbe d'essere accostata al ligneo Pinocchio.
Il manifesto, 1° luglio 2015
Finalmente qualcuno che, anziché cercare riparo dietro la fatidica affermazione “ce lo chiede Bruxelles”, come ci hanno abituato i governanti europei, pretende di dire la sua sulle scelte lì compiute.
E’ certo vero che nella stessa Grecia, come del resto altrove in Europa e anche da noi, c’è chi vorrebbe dire tout court che l’Unione è morta ed è meglio così, ma non è questo l’oggetto della consultazione. Tsipras chiede più forza per negoziare ancora e il ritorno alla dracma è solo il possibile eventuale e deprecato esito di un fallimento definitivo del negoziato.
Un’eventualità che in queste ore sembra forse scongiurata, sebbene il signor Tusk, il più rude delle istituzioni, abbia all’ultimo appuntamento buttato fuori dal tavolo i negoziatori greci, dichiarando che “the game is over”.(Perché così sono andate le cose e non il contrario). E’ una speranza flebile, ma già dimostra che rifiutare i ricatti è giusto.
Purtroppo tutta la lunga trattativa è stata accompagnata da un frastuono mediatico che ha creato grande confusione. E così la gente meglio intenzionata continua a chiedere se è proprio vero che i greci hanno una pletora di dipendenti pubblici, quando invece ne hanno, proporzionalmente, la metà della Germania.
Se è vero che vanno tutti in pensione nel pieno delle loro forze, e invece la media degli anni di lavoro nel paese è superiore a quella dell’Unione europea e la spesa pubblica per il pensionamento, sempre proporzionalmente, metà di quella francese e un quarto di quella tedesca. La produttività è bassa ma è cresciuta assai di più che in Italia e persino che in Germania.
Se poi si guardano nei dettagli i punti sui quali la squadra greca ha trattato e si è rifiutata di accogliere le proposte delle istituzioni europee è difficile rimanere insensibili alle sue ragioni: rifiutare un aumento dell’Iva sui generi di prima necessità (cibo, prodotti sanitari, elettricità), e quello a carico delle isole che vivono del solo turismo; respingere la richiesta di varare una legge che consenta licenziamenti di massa. Rifiuto, anche, a cancellare i prepensionamenti esistenti, ma bisogna ben tener conto che una quantità di gente è stata licenziata e non ha altre fonti di sostentamento. E invece è Bruxelles che ha rifiutato la richiesta greca di un aumento del 12 % di tasse sui profitti che superano i 500.000 milioni.
Si continua a ripetere ossessivamente che la Grecia deve fare le riforme, ma, come del resto in Italia, non si dice mai esattamente di quali riforme si tratti e in che modo quelle proposte, o attuate (vedi job act o Italicum da noi) possano in qualche modo aiutare una ripresa economica. L’austerità, è forse una riforma, o non invece una politica tanto miope da impedirla? Questa è la lezione che viene dalla Grecia: se invece di insistere su questa come sola ricetta già dal 2010 si fossero invece sacrificati pochi soldi per consentire gli investimenti necessari alla modernizzazione del paese non saremmo a questo punto.
I greci oltre che fannulloni sarebbero anche imbroglioni perché hanno preso i soldi e non li restituiscono. Se qualcuno avesse memoria, un bene che sembra ormai raro, ci si ricorderebbe di quanto divenne chiaro, e forse a noi stessi per la prima volta, quando scoppiò il dramma del debito accumulato dai paesi del terzo mondo da poco arrivati all’indipendenza. Erano gli anni ’80 ed emerse che quei paesi erano stati vittime di quelli che allora non si ebbe timore di chiamare “spacciatori”. Perché è così che si indebitarono oltre il ragionevole: per l’insistente offerta di accedere a un modello di consumo superfluo e dannoso, per il quale non c’erano risorse e che fu indotto perché così conveniva ai prestatori che poi passarono a chiedere il conto.
La Grecia non è l’Africa, ma gran parte del suo debito è stata accumulata proprio così, per colpa di banche e di imprese senza scrupoli. Che peraltro sono state oggi — erano tedesche sopratutto ma non solo — felicemente ripagate con danaro pubblico europeo.
Quando, poco dopo l’ingresso della Grecia nella Comunità Europea, nell’81, si arrivò al semestre di presidenza affidato per la prima volta ad Atene, l’allora ministro degli esteri del governo di Andreas Papandreu, Charampopulos, dichiarò: «Non possiamo restare silenziosi di fronte a una linea politica che non prende in considerazione il fatto che un’Europa a nove era un’Unione fra nove paesi ricchi, e un’Unione a dieci, e ancor più quando saranno dodici con il prossimo ingresso di Spagna e Portogallo, soffrirà di un drammatico gap nord-sud per affrontare il quale sarà necessario un vasto trasferimento di risorse pubbliche e di un piano statale inteso a condizionare le selvagge regole del mercato».
Si trattò di una saggia previsione. Di cui tuttavia anche il governo socialista greco finì per dimenticarsi, sicché anche quando i governi socialisti furono in maggioranza nel Consiglio europeo non ci fu alcuna modifica sostanziale nella linea politica dell’Unione. Fu proprio allora che fu decisa la libera circolazione dei capitali senza che alcuna misura di controllo e di unificazione fiscale fosse assunta.
Renzi avrebbe avuto una buona occasione per riprendere il discorso e far valere le ragioni dei paesi europei del Mediterraneo, contro la logica assurdamente e falsamente omologante che pretende di adottare linee di politica economica analoghe per realtà così diverse. Fa comodo, naturalmente. A meno non si pensi ad una nuova Unione senza gli straccioni del sud. Per di più comunisti. «Un’Europa senza il Mediterraneo sarebbe — come ha scritto Peredrag Matvejevitch — un adulto privato della sua infanzia». Cioè un mostro.
Quando l’altro giorno ho sentito nel corso di un medesimo giornale radio che le ultime notizie da Bruxelles riguardavano un formaggio senza latte, un cioccolato senza cioccolata, e sopratutto un territorio senza immigrati, mi è venuta voglia di dire andate tutti al diavolo.
Ma non si può. Con la globalizzazione abbiamo perduto quel tanto di sovranità che gli stati nazionali ci consentivano. A livello mondiale è quasi impossibile costruire istituzioni che ce ne restituiscano almeno una parte. La sola speranza è di ricostruirle ad un livello più ampio del nazionale e più limitato del globale, quello di grandi regioni in cui il mondo possa articolarsi. L’Europa è una di queste. Ma il discorso vale solo se lo spazio comune non è solo un pezzo di mercato, ma una scelta, un modello di produzione e di consumo diversi, una rivisitazione positiva di una comune tradizione. Il negoziato di Atene ci aiuta, in definitiva, ad andare in questa direzione. Ed è per questo che va sostenuto.
La Grecia ci ha provato, ma l’ordine che regna nell’Europa reale pare essersi imposto. Il manifesto consentirà il riuso di un suo titolo famoso “Atene è sola”. Qui sta il dramma delle forze del cambiamento in Europa. Le manifestazioni di solidarietà sono necessarie ed apprezzabili, ma non cambiano il quadro.
La contesa è stata tra il governo greco, da un lato, ed il governo dell’Europa reale, dall’altro, senza che in questa fosse operato o si aprisse un conflitto forte ed esteso contro le sua politiche. Il fatto che a Tsipras e ai suoi non si possa rimproverare alcunché aggrava la questione. Il governo greco ha provato a realizzare un’impresa pressoché impossibile. La sua condotta è stata tanto efficace da averci persino indotti, in qualche passaggio cruciale, a credere (contro l’analisi di cosa sia materialmente quest’Europa) che ce l’avrebbe fatta. Questo qualcosa è così prezioso per il futuro di tutti, anche ora che il tentativo è stato sconfitto, da dover continuare a riflettere su di esso.
L’Europa reale, che pretendeva di aver espulso da sé, in nome dell’ineluttabilità delle sue scelte strategiche, la politica, come autonoma capacità di scelta, se la vede improvvisamente parare davanti con la vittoria elettorale di Syriza e la nascita di un governo che pretende di tenere fede al mandato ricevuto dagli elettori, come se questo cardine della democrazia rappresentativa non fosse ormai abrogato in tutti i paesi europei ove, con il voto, si può scegliere il governo, ma non le sue politiche, giacché queste sono predeterminate dal sistema economico in costruzione. Perché il governo greco può tentare l’impossibile? Perché si fonda su un’esperienza politica straordinaria. Syriza assume pienamente il conflitto tra il basso e l’alto della società, organizza mutualità, cooperazione sociale, promuove una partecipazione democratica nell’organizzazione del partito, stabilisce un rapporto di scambio permanete con i movimenti di lotta, e vede emergere, al suo interno, un leader e una leadership che interpretano politicamente il bisogno di una rottura radicale con tutto il passato.
Syriza si da un programma di governo alternativo alla politiche di austerità e che ha le sue fondamenta nel soddisfacimento dei bisogni prioritari della popolazione greca. Perciò può tentare l’impossibile. Ma un’iniezione di democrazia nella costituzione materiale di questa Europa è incompatibile con essa stessa quanto l’uscita dalle politiche di austerità (che sono micidiali politiche di destrutturazione e di desoggettivazione del lavoro).
L’iniziativa greca ha sospeso la Troika, ma la controparte rappresentante del governo europeo che l’ha sostituito, ha rivelato che la vittoria del funzionalismo sulla democrazia rappresentativa si è già realizzato in Europa. Todos caballeros. I governi e i governati devono appartenere alla specie del pensiero unico e tendenziale diventare parti di un governo unico, sovrannazionale ed articolato, ma nella sostanza unitario. Ai governi nazionali è richiesto di essere proconsoli del governo centrale, governo costituito saldamente dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale. Lo scandalo causato dal governo greco è consistito nel far vivere, in questo ordine oligarchico, il mandato ricevuto dal suo popolo. Lo scandalo ha denudato il re ma la debolezza dei sudditi (noi europei) lo ha lasciato sul trono.
All’emersione della politica come possibilità di scelta provocata dal governo di Tsipras, quest’Europa ha risposto con la politica della conservazione del potere. Poteva perciò contare poco che la Grecia fosse una parte così piccola dell’Europa da essere ininfluente sui suoi destini economici. Così come poteva contare ancora meno che il suo debito potesse essere agevolmente ristrutturato. Quel che andava dimostrato è che nessuno può derogare alla Regola: non già quella del debito (altrimenti flessibile) bensì quella della compatibilità richiesta tra le politiche di un qualsiasi governo europeo e l’ordine economico promosso dal nuovo capitalismo, ordine adottato e garantito dal governo reale di quest’Europa. Non si era mai vista una trattativa così squilibrata nei rapporti di forza come quella tra il governo greco e quello europeo. Solo una mobilitazione dei popoli europei, o meglio un’accumulazione di forze ed esperienze, di lotte sociali nei diversi paesi europei, avrebbe potuto colmare lo squilibrio. Non c’era e non c’è stata. Al contrario qualcosa di molto pesante è avvenuto nelle forze di governo.
Non vorrei che quel che è accaduto sembrasse scontato. Non vorrei che il giudizio severamente negativo che molti di noi hanno su di essi, oscurasse il passaggio storico che è avvenuto in questa vicenda. Certo, non si può dire, per senso delle proporzioni, che la prima socialdemocrazia, muore sui crediti di guerra e l’ultima muore scegliendo di stare dalla parte dei paesi creditori. Ma che la Troika non abbia trovato un solo governo a contrastarla e neppure a differenziarsi da essa è un’enormità. La socialdemocrazia tedesca, i socialisti francesi, il partito di Renzi, e più in generale i centrosinistra hanno portato a termine, con i propri governi, la propria definitiva mutazione genetica. Con essa è morta in Europa ogni ipotesi socialdemocratica e sono usciti definitivamente di scena, nella vergogna, tutti i vari centrosinistra.
La solitudine di Atene tocca anche noi. Tocca anche tutto il campo, variegato e diviso, delle forze critiche. Non è questa la sede per un ragionamento sulla sinistra di alternativa in Europa e sui movimenti, ma quel che non può sfuggire è però la constatazione drammatica di un’impotenza. Per rilevarla, basti solo il confronto con una precedente vicenda che pure ha riguardato il formarsi della costituzione materiale europea, quello della direttiva Bolkestein. Allora si rifletteva criticamente sul livello di iniziative e di mobilitazione in atto; eppure esse furono incomparabilmente superiori a quelle d’oggi e furono capaci di influire sul vittorioso referendum francese contro il Trattato.
“Atene sola” ci dovrebbe costringere a riflettere criticamente, coraggiosamente e in un campo largo di forze che oggi ancora non sono attive ma che potrebbero esserlo domani, sul nostro destino. Il rischio è che il conflitto in essere tra l’alto e il basso della società diventi, nei diversi paesi la contesa esclusiva tra il campo del governo e il campo delle opposizioni populiste, dei populismi. Ma anche in questo caso, molti ci insegnano che le propensioni populiste possono dar vita a soggettività sociali e politiche radicalmente diverse tra loro. Se qualcosa Syriza continua a dirci, anche con l’appello al voto del suo popolo è che nel conflitto tra l’alto e il basso della società, una forza di cambiamento nasce e vive, oggi, solo scegliendo di stare radicalmente su quest’ultimo versante e solo se lo sa agire sul suo terreno di scontro che è quello del proprio paese ma ormai inesorabilmente anche dell’Europa intera.
Il luogo di vocazione della rinascita di un’alternativa, come ci insegna Syriza ma anche Podemos e come ci testimoniano tutti i movimenti di nuova generazione, è diventata la piazza, una piazza che, a intendersi, si può anche chiamare rivolta. Sostenere le ragioni del “NO” di Syriza al referendum di domenica prossima è sacrosanto, ma per stare davvero dalla parte di Syriza, in Europa, non basta la solidarietà.
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