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Intervista di Cladio Dionesalvi all'ex leader di Potere operaio. «Fare della presenza casuale all'incontro di Coalizione sociale la prova della dipendenza di Landini dai sovversivi, svela un’idea cospirativa di politica. Renzi più che l’amato La Pira, ricorda Fanfani».

Il manifesto, 10 luglio 2015

Franco Piperno, docente di Fisica ed ex lea­der di Potere Ope­raio, non ha ancora man­dato giù la pole­mica sca­te­na­tasi a causa della sua pre­senza al primo incon­tro della Coa­li­zione sociale, tenu­tosi a Roma pochi giorni fa.

Pro­fes­sore Piperno, è bastato che lei ed Ore­ste Scal­zone foste pre­senti ad un’assemblea con­vo­cata da Mau­ri­zio Lan­dini, e subito si è sca­te­nata la cac­cia agli ere­tici. Come quando la espul­sero dal Pci per le sue posi­zioni cri­ti­che sull’Urss…
Cono­sco bene la sala con­ve­gni in cui si è svolta l’assemblea. È la stessa che ci ospi­tava tanti anni fa. Era stata la sala della Fede­ra­zione Comu­ni­sta romana. All’epoca, ancora il PCI ci guar­dava con sim­pa­tia. Da allora in quella sezione è pas­sato Vel­troni, que­sto gio­vane finto-comunista a suo dire, quindi quel luogo porta abba­stanza iella. Ecco per­ché ero in dub­bio se andare o no all’iniziativa di Lan­dini. Mi ci sono tro­vato quasi per caso: avevo un appun­ta­mento con i com­pa­gni di ESC, una delle orga­niz­za­zioni che hanno ade­rito all’iniziativa. Ci saremmo potuti incon­trare al bar all’angolo e non sarebbe suc­cesso niente. Que­sto la dice lunga su come Renzi e il Pd vedano fan­ta­smi ovun­que. Farne una prova cru­ciale della dipen­denza di Lan­dini dai sov­ver­sivi, rivela un’idea cospi­ra­tiva della poli­tica. In fondo Renzi, essendo fio­ren­tino, è un cospi­ra­tore nato.

A dif­fe­renza di tanti per­so­naggi più o meno pre­sen­ta­bili iscritti al Pd, essendo della gene­ra­zione degli anni set­tanta, tra esi­lio e car­cere, lei un conto lo ha pagato…

Non vor­rei accen­tuare le mie ten­ta­zioni vit­ti­mi­sti­che, ma senza alcuna prova sono stato oggetto di accuse cosmi­che che anda­vano dal ten­ta­tivo di distrug­gere l’ordine mon­diale a 23 omi­cidi, 40 rapine. Alla fine sono stato con­dan­nato solo per costi­tu­zione di un’associazione sov­ver­siva che era Potere Ope­raio. Devo rin­gra­ziare Paesi come la Fran­cia e il Canada che ave­vano un fon­da­mento di diritto più sicuro di quello che viene a noi da Bec­ca­ria a Ber­lin­guer. Fu un pro­blema di un’intera gene­ra­zione. Basti pen­sare che son finite in galera 20mila per­sone. Di car­cere vero e pro­prio io ho fatto poco più di un anno. Ci sono com­pa­gni che per gli stessi reati ne hanno scon­tato nove. La legi­sla­zione spe­ciale è dovuta agli uomini di Stato come Mas­simo D’Alema che si van­tano d’aver scon­fitto il ter­ro­ri­smo, ma non si assu­mono la respon­sa­bi­lità sto­rica di aver avuto in Ita­lia una gene­ra­zione che ha preso le armi.

Quando il sin­daco di Cosenza, Gia­como Man­cini, la nominò asses­sore ai Vigili urbani, Toni Negri affet­tuo­sa­mente com­mentò: final­mente Piperno a capo di una “banda armata”… legale! Ma Renzi sa che per fare l’assessore lei ha otte­nuto una ria­bi­li­ta­zione dai tri­bu­nali italiani?

Non credo che si ponga il pro­blema. Io non sono stato mai con­dan­nato per fatti di san­gue. Ho sem­pre rico­no­sciuto di aver mili­tato in Potere Ope­raio e lo farei ancora. Per me la sov­ver­sione è un diritto. Natu­ral­mente ha un costo. La legge ita­liana, che è quella fasci­sta del codice Rocco, pre­vede la galera per i mili­tanti di un’associazione sov­ver­siva, al di là dei reati effet­ti­va­mente commessi”.

Renzi usa lo spau­rac­chio degli anni set­tanta per inde­bo­lire Lan­dini come Sal­vini cavalca la xeno­fo­bia per inde­bo­lire Renzi. Ma per­ché il pre­mier teme tanto Landini?
Renzi è un sorta di mode­rato di destra. Più che simile a La Pira, come lui si vanta d’essere, io lo asso­ce­rei a Fan­fani, anch’egli a suo tempo legato a La Pira, però con un fare deci­sio­ni­sta simile pro­prio a quello di Renzi. Gli rico­no­sco una forte ener­gia. Penso invece al viso di Fas­sino che sol­le­cita un gesto sca­ra­man­tico. Renzi con­ce­pi­sce tutto però come un atti­vità del lea­der. Il par­tito serve solo a rac­co­gliere voti. Que­sto acca­ni­mento del pre­mier con­tro Lan­dini e con­tro chiun­que emerga in una pro­spet­tiva diversa dalla sua, è dovuto al carat­tere per­so­nale della poli­tica che lui inter­preta, cioè il rap­porto del lea­der col popolo dei teleutenti”.

Punti di forza della nascente coalizione?
Lan­dini non ha com­messo l’errore di con­vo­carla nell’imminenza di una sca­denza elet­to­rale. Inol­tre, dopo Tren­tin, lui è l’unico sin­da­ca­li­sta che ammette gli errori del sindacato.

E se la Fiom usasse la crisi per man­dare Lan­dini alla segre­te­ria della Cgil?

Sarebbe sem­pre meglio di quella che c’è ora. Ma troppo poco rispetto alla pro­spet­tiva poli­tica generale.

Cosa pensa della bat­ta­glia per il red­dito di cittadinanza?

È ana­cro­ni­stica, però sarebbe meglio di niente. Negli anni set­tanta era una cam­pa­gna col­le­gata al rifiuto del lavoro. All’epoca vole­vamo per­met­tere agli ope­rai che lavo­ra­vano troppo, di avere il tempo per dedi­carsi alle lotte. Avve­niva molto prima che Grillo si con­ver­tisse alla poli­tica. L’economia ita­liana tirava. Adesso il lavoro non c’è, quindi il red­dito di cit­ta­di­nanza viene a con­fi­gu­rarsi come un soste­gno al consumo.

Un esem­pio?

In Canada è pre­vi­sto dagli anni Ses­santa, ma que­sto non ha modi­fi­cato il modo di vivere, non ha reso più libero il lavoro. Biso­gna evi­tare l’errore che com­mette il Movi­mento 5 Stelle: non può essere il tema cen­trale. Il pro­blema è riu­scire a far coin­ci­dere l’attività pre­fe­rita dal sog­getto con il lavoro che il mede­simo svolge. Mol­ti­pli­care le espe­rienze di auto­pro­du­zione ed autor­ga­niz­za­zione come quella fran­cese della comu­nità di Tar­nac o le Offi­cine Zero a Roma.
«I 28 leader che si riuniscono a Bruxelles domenica assieme ai vertici delle istituzioni europee non dovranno semplicemente superare le proprie posizioni, ma sormontare gli ostacoli strutturali creati dai loro predecessori andando oltre l’ortodossia dei tecnocrati e negoziando un processo per conciliare i legittimi imperativi di 28 democrazie nazionali».

La Repubblica, 10 luglio 2015 (m.p.r.)

Gli dei fanno prima impazzire coloro che vogliono distruggere. In questo caso li fanno annoiare. I vertici dell’eurozona sulla Grecia si moltiplicano, ogni volta annunciati come “l’ultima occasione” e gli europei ormai sono quasi in preda alla narcolessia. Sonnecchiamo sul sedile del passeggero anche mentre l’auto cade nel burrone. Ma non c’è niente da fare. Se i capi di governo dell’Ue non trovano una via d’uscita in occasione del vertice di emergenza convocato per questa domenica, il prossimo lunedì il progetto di integrazione europea potrebbe iniziare a disfarsi. Se pensate che in gioco ci sia solo il futuro della Grecia, be’, pensateci due volte.

Il problema è che la cronica incapacità dell’Eurozona di fare qualcosa che non sia tirare a campare non è semplicemente frutto di politiche sbagliate e di una leadership debole, che abbondano da ogni parte, governo greco, governo tedesco e istituzioni europee e internazionali inclusi. Ma le cause sono ben più profonde, radicate nella debolezza strutturale del progetto europeo già decenni fa. La maggioranza dei politici responsabili di queste debolezze ormai sono morti o vivono un’arzilla terza età. Sotto molti aspetti i leader di oggi sono intrappolati nella logica perversa delle istituzioni create dai loro predecessori. Sarà necessario uno straordinario balzo di coraggio e creatività per superarlo.
Se mi chiedete chi sono i due primi responsabili della crisi dell’Eurozona di cui la Grecia è solo la manifestazione più estrema, vi direi l’ex presidente francese François Mitterrand e Giulio Andreotti. Furono loro due che, subito dopo la caduta del muro di Berlino, costrinsero il cancelliere Helmut Kohl ad accettare il programma che avrebbe portato all’unione monetaria europea, offrendo in cambio, obtorto collo, il sostegno all’unificazione tedesca, ma senza accettare l’unione fiscale necessaria al funzionamento della moneta unica. «La storia recente, non solo in Germania», disse Kohl dall’alto del suo sapere, «c’insegna che è assurdo attendersi di poter mantenere nel lungo periodo l’unione economica e monetaria in assenza di unione politica». Come aveva ragione!
Questo non è che uno dei tanti peccati originali dell’eurozona. La Francia e l’Italia chiesero l’impegno nei confronti della moneta unica, ma fu la Germania a scrivere gran parte delle regole - ed erano regole tedesche, improntate all’ossessione della lotta all’inflazione e studiate per gli scenari macroeconomici di un’epoca diversa. Dato che si trattava soprattutto di un progetto politico e Francia e Italia dovevano essere parte dell’Eurozona fin dall’inizio, si ebbe una sorta di effetto domino al contrario. Se l’Italia era dentro, allora doveva entrare anche la Spagna, e poi il Portogallo e via così fino alla Grecia, uno stato profondamente clientelare e non toccato dalla modernizzazione. La Grecia non avrebbe mai dovuto aderire all’unione monetaria che, a sua volta, non sarebbe dovuta partire, neppure limitatamente a un gruppo più ristretto di economie compatibili, almeno fino a che non si fossero affrontati i peccati originali strutturali.
Il vecchio re Kohl sperava che, come era più volte accaduto nell’Europa post 1945, l’integrazione economica avrebbe finito per catalizzare la necessaria integrazione politica. Ma finora non è andata così. Con lo svanire della memoria della guerra, dell’occupazione e della dittatura l’opinione pubblica in tutto il continente - non da ultimo nella stessa Germania - ha sviluppato un atteggiamento più pragmatico, scettico o del tutto disincantato riguardo al progetto europeo. La soluzione proposta per sanare il cosiddetto deficit democratico dell’Ue, ossia conferire maggiori poteri al parlamento europeo a elezione diretta, quindi presentare Spitzenkandidaten, candidati alla presidenza della Commissione Europea scelti dai partiti, non ha funzionato. Molte volte negli ultimi mesi ho chiesto a platee di persone andate alle urne se avessero intenzionalmente votato per uno degli Spitzenkandidaten e quasi nessuno ha risposto di sì. La teoria è una cosa, la pratica un’altra.
Quindi qualunque opinione abbiate del comportamento di Alexis Tsipras Alexis Tsipras, non ha senso far finta che Jean-Claude Juncker goda di una legittimazione democratica europea maggiore in confronto al primo ministro greco. La realtà della democrazia europea resta nazionale: la sfera pubblica europea non è cresciuta molto rispetto a quando ho iniziato a studiare e a girare l’Europa 40 anni fa. Esistono pubblicazioni dirette a un pubblico ridotto e colto in tutto il continente, ma la maggior parte della gente in Europa si ferma ai media nazionali, anche quando la lingua è comune. A Vienna mi hanno spiegato quanto sia diverso il tono con cui i media austriaci trattano l’argomento Grecia rispetto ai media tedeschi.
Quindi non esiste una sola Grecia, bensì 28 grecie diverse, a seconda del paese in cui siete. La grecia estone o lituana sarebbe pressoché irriconoscibile agli occhi degli italiani, figuriamoci dei greci. Analogamente non c’è una sola Germania bensì 28 - e pochi tedeschi riconoscerebbero il proprio paese nella “Germania” dei quotidiani greci. Queste narrazioni in netto contrasto sono alimentate dai politici di ogni paese che emergono da ogni vertice di Bruxelles strombazzando i loro successi e attribuendo ogni partita persa ad altri governi o alle malefiche istituzioni europee. Il ministro degli esteri belga ha ironizzato sul fatto di essere l’unico a non poter dare la colpa a Bruxelles (perché è anche la sede del suo governo).
John Stuart Mill ha scritto che l’unità dell’opinione pubblica necessaria al funzionamento del governo rappresentativo non può aversi tra gente che manca di senso di comunità, soprattutto se si parlano lingue diverse. L’Europa non l’ha ancora smentito. Nelle scorse sei settimane sono stato in sei paesi diversi riscontrando dolorosamente l’assenza, tra di loro, di un senso di comunità. Contrapporre la democrazia alla tecnocrazia è ormai un cliché. Purtroppo la verità è ancora più amara, perché nell’Eurozona è presente il peggio di entrambi i termini. Istituzioni come la Commissione Europea e l’Fmi mostrano alcune delle pecche (nonché delle virtù) della tecnocrazia, inclusa la tendenza ad aderire a ortodossie irrealistiche, a un’economia a taglia unica.
Ma se parliamo dei leader europei allora lo scontro è tra democrazia e democrazia. Subito dopo il no greco di domenica scorsa Tsipras ha celebrato “la vittoria della democrazia” le Termopili rivisitate e corrette in modello agitprop. Ma, benché Angela Merkel non discenda direttamente da Pericle, è un leader in tutto e per tutto democratico quanto Tsipras e egualmente soggetto ai limiti imposti dall’interesse nazionale e (cosa spesso più importante) dalle emozioni nazionali. Così i 28 leader che si riuniscono a Bruxelles domenica assieme ai vertici delle istituzioni europee non dovranno semplicemente superare le proprie posizioni, ma sormontare gli ostacoli strutturali creati dai loro predecessori andando oltre l’ortodossia dei tecnocrati e negoziando un processo per conciliare i legittimi imperativi di 28 democrazie nazionali. Se falliranno, non solo la Grecia, ma l’intero progetto europeo precipiteranno in una crisi ancor più grave. La crisi esistenziale finirà per essere colta come kairos , l’oppotunità di azione decisiva? Da europeo lo spero, da analista ne dubito.

Traduzione di Emilia Benghi
Mediapart. Ciò che è realmente accaduto Durante la lunga trattativa fra la Grecia e Bruxelles. Ha ragione Tsipras, e tutti quelli che hanno votato per lui in Grecia e in Europa e quanti altri condividono il suo europeismo. Questa Europa è tutta da rifare. La Repubblica, 9 luglio 2015

Qualche giorno prima del referendum un importanti funzionario del governo greco ha ricevuto alcuni giornalisti francesi, tra i quali Christian Salmon di Mediapart, per raccontare loro quello che era successo negli ultimi mesi di trattative fra il governo di Syriza e Bruxelles: le discussioni con le istituzioni europee, la situazione catastrofica della Grecia, le strategie di soffocamento messe in atto dall'Eurogruppo e l'asfissia finanziaria che ha distrutto l'economia greca. Quello che segue è un estratto del racconto che il funzionario, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha fatto ai giornalisti.

"FIN dall'inizio non ero d'Accordo sul modo in cui ABBIAMO negoziato con gli europei. Il Governo greco ha Avuto delle Discussioni, degli accomodamenti sulla politica di bilancio, Sulle Condizioni, ma siamo sempre noi a static Concessioni tariffa, ad avvicinarci alla Troika, senza Che Loro facessero il movimento di minimo Nella nostra Direzione. Non Hanno mai discusso del Debito: la Ristrutturazione del Debito, la SUA sostenibilità. Non Hanno mai discusso dei Finanziamenti: la Bce avrebbe tolto o no le restrizioni? Con Quali Limiti le Banche avrebbero potuto prendere in prestito, e lo Stato prendere in prestito Dalle Banche? Perché noi non POSSIAMO prendere in prestito niente. Potevamo FARLO Fino a febbraio. Potevamo Ancora emettere carta commerciale : si Tratta di Titoli a breve Scadenza, Obbligazioni a Tasso fisso a tre mesi, Nella maggior parte dei Casi di un anno delle Nazioni Unite. Ma This Governo Non è mai Stato autorizzato a noiSei QUESTI Strumenti. Appena arrivato, la Bce ha said: «Niente più carta commerciale ».
IL REBUS DELLE BANCHE
Così, da marzo in poi, ABBIAMO cominciato a economizzare tutto Quello che potevamo Nelle SPESE dello Stato. ABBIAMO accorpato Tutte le riserve di Denaro delle varie Ramificazioni dello Stato, degli Enti Pubblici, degli enti locali, per Pagare il Fmi. This ha una Portato Una RIDUZIONE interna della liquidità in contanti. Le Banche, le Imprese esportatrici, le Imprese manifatturiere non potevano Più prendere soldi in prestito. Le PERSONE non potevano Più Pagare i Loro Debiti. Il Sistema del credito ha cominciato a disintegrarsi. Normalmente la liquidità sul Mercato, (Il Denaro in Circolazione), si colloca: ai Intorno 10 miliardi di euro. Ora, con Quello che è Successo, la gente tiene i soldi sotto il materasso e la liquidità si aggira INTORNO AI 50 miliardi di euro.
Le PERSONE Che Hanno sul Loro Conto venti, trenta o quarantamila euro possono ritirare Appena 60 € al giorno. Chi ha Più conti, puo ritirarne Di Più. Ma che Succede per le PERSONE Che Non Hanno Risparmi, Che Vivono del Loro stipendio? Alla multa di OGNI mese Sono al verde finchè non arriva l'assegno. E Improvvisamente si ritrovano una Poter ritirare assolo 60 €. Le riserve Che avevano Stanno per esaurirsi. Se Tutti ritirano € 60, Arriverà Il Momento in cui le Banche non avranno Più soldi del tutto. Ed è qui il Che comincia il Problema. In This Caso, se non avremo acces ai fondi di emergenza della Bce, non avremo altra Scelta Che emettere Una sorta di moneta parallela. Sarebbe la multa dell'Economia. C'è Già la paura. C'è il panico all'idea Che also se le Banche riapriranno dovranno Essere ricapitalizzate. Finora erano Solventi.
ONU waterboarding FINANZIARIO
Tutti i prestiti Che ABBIAMO Ricevuto - 240-250 miliardi - Sono Andati un Pagare Gli Interessi sul Debito, e dunque sono Tornati ai creditori. Il primo piano di Salvataggio e Stato un Salvataggio delle Banche e delle Nazioni Unite in TRASFERIMENTO please dello Stato. Non potevamo prendere nessuna misura per migliorare la liquidità dell'Economia: la Bce ha imposto restrizioni, l'UNA DOPO L'Altra. Fin dall'inizio l'ho This Chiamato strangolamento Attraverso il credito. Una meta marzo Qualcuno un Bruxelles ha said: «Sì, le Istituzioni (Bce, Fmi, Commissione Europea) Usano il Credito per costringere il Governo a sottomettersi e Accettare le Riforme. Fatele in fretta ». Per Quanto mi riguarda, equivaleva ad ammettere Che usavano il Peggiore degli Strumenti di ricatto economico Contro il Paese. La Peggiore delle sanzioni economiche.
Non Si Può sopravvivere troppo a Lungo un un Trattamento del Genere. Il ministro dell'Economia Yanis Varoufakis ha parlato di waterboarding Finanziario, io Gli ho said: «Dobbiamo molto Sapere Che Stanno commettendo un reato Equivalente un crimine delle Nazioni Unite Contro l'umanità. Tutta l'economia del Paese E distrutta. Ci Sono poveri e senzatetto, bambini COMPRESI. QUESTI Fatti have been PORTATI avanti in modo intensivo per arrivare a Una forma di ricatto Che E un crimine RISPETTO alle Internazionali leggi, ai di Trattati Europei. Non POSSIAMO continuare Così, Perché equivarrebbe a legittimare This crimine ».
IL RUOLO DELLA GERMANIA
Schäuble e Berlino Sono Intelligenti. Hanno alimentato artificialmente la crisi: «I Greci non collaborano. Hanno capito Che cosa bisogna tariffa non. Non forniscono nessuna cifra ». Avevo said Che Tsipras doveva Andare di fronte al Parlamento Europeo e rivelare Pubblicamente il modo in cui siamo static Trattati e Perché rifiutava di Mettere in atto le Misure di austerità Che ci venivano chieste, Perché preferiva Perdere le Elezioni Che APPLICARE Quelle Misure. OGNI volta Che ABBIAMO provato una Portare avanti delle trattative Politiche, ci Hanno mandati a Quel Paese. Quante Riunioni dell'Eurogruppo si Sono concluse con «Tornate Dai Gruppi di lavoro tecnici, tornate Dalla Trojka»?
C'è Stato un Eurogruppo, altro un Eurogruppo, delle Riunioni di lavoro e Ancora e sempre Altri Eurogruppi ...
Gli Europei Hanno Creato Una ridda di pseudotrattative: tempo perso, il Che dal Loro punto di vista e Stato tempo guadagnato. E intanto Hanno Condotto Una campagna incessante Contro Varoufakis, l'Hanno assassinato Mediaticamente. E lui continuava a negoziare. Che cosa sperava? ABBIAMO perso OGNI leva economica per trovare i termini di un nuovo Accordo, e perso OGNI credibilità per costringerli a negoziare con noi. Il Governo dice Tsipras Che when ci Hanno Presentato l'ultimatum c'erano delle Misure peggiori di Quelle Che avevano preteso dal precedente Governo. Un nuovo Accordo E Necessario. La prima cosa da Fare e Andare a elemosinare dei fondi di emergenza Dalla Bce. Ma gli europei Dicono Che Hanno bisogno di Tornare Davanti Ai Loro Parlamenti e Così via. Eppure E INDISPENSABILE Una ricapitalizzazione (delle Banche) per lontano funzionare di nuovo l'economia. E la prima Condizione per Stabilire un nuovo Programma.
CRIMINI CONTRO L'UMANITA
L'Uscita della Grecia dall'euro, vieni Tutte le altre Misure Che i greci Hanno subito, E Illegale RISPETTO alla legge internazionale, alle leggi sul lavoro, Ai Trattati Europei, alla Dichiarazione europea del Diritti dell'Uomo, alla Dichiarazione europea del lavoro. All'inizio del 2014 il Parlamento Europeo AVEVA cominciato ad attaccare la Trojka, rimproverandole di imporre Misure Che facevano a pezzi i Diritti Umani, i Diritti del lavoro. Ma noi avevamo un Governo Che non voleva sentir Parlare of this. Preferiva attaccare l'Opposizione Piuttosto Che i creditori. Non Si e reso Conto Che era l'arma Più Potente Che avevamo.
Oggi è troppo Tardi. E Una Questione di egemonia politica e ideologica. All'inizio Varoufakis da solista ha Cercato di gran lunga Cambiare verso all'opinione pubblica in Europa e perfino in Germania. I Responsabili dell'Eurogruppo Hanno Riposto un modo Loro. All'inizio di febbraio Dijsselbloem ha said un Varoufakis: «O firmate il memorandum o la Vostra economia Colera un picco. Vieni? Faremo crollare le Vostre Banche ». C'era una Volontà di umiliazione. Varoufakis ha Chiesto: «Chi lo ha DECISO?». Dijsselbloem Gli ha Riposto: «Io l'ho DECISO». Non avrebbe dovuto Esserci un voto? Quella decisione non avrebbe dovuto Essere presa all'unanimità? In un funzionamento normale, Sicuramente. Ma all'eurogruppo Non E Necessario, Perché Non C'è Nessun rendiconto scritto. E dunque, non C'è niente di Formale.
Varoufakis ha said di Aver Registrato le Riunioni, Perché doveva riferire al primo ministro e Agli Altri Membri del Governo Quello che Diceva. Gli Altri Hanno gridato allo scandalo. Ha descritto degli Episodi Che provano Che l'Eurozona E totalmente antidemocratica, neofascista quasi. Solo Varoufakis ha parlato Apertamente. Schaeuble ha said: «Quanto volete per lasciare l'euro? ». Non VUOLE la Grecia nell'euro. E Stato il primo a Parlare di Uscita della Grecia, nel 2011.
ABBIAMO sottovalutato il Loro Potere. E un Potere che sì iscrive in Una vera e propria fabbrica della società, del modo di Pensare delle PERSONE. Si fonda sul Controllo e il ricatto. L'edificio Europeo E kafkiano ".

(Traduzione di Fabio Galimberti)
Un filo nero lega tra loro molti eventi di queste settimane. E costituito dal tentativo di sostituire l'autoritarismo alla democrazia, gli interessi delle multinazionali ai diritti delle persone . Eccone un esempio al Parlamento europeo. il manifesto, 9 luglio 2015

L’ordine del giorno della ses­sione di ieri mat­tina del Par­la­mento euro­peo pre­ve­deva il dibat­tito sulla situa­zione in Gre­cia, alla pre­senza di Junc­ker e Tsi­pras e la vota­zione sul Ttip, il trat­tato di com­mer­cio tra Ue-Usa. Vero oggetto della discus­sione in entrambi i casi, filo rosso tra due que­stioni fon­da­men­tali per il pre­sente e il futuro dell’Ue, la demo­cra­zia in Europa. Da un lato, un primo mini­stro che ha con­vo­cato un refe­ren­dum anche per­ché potesse eser­ci­tarsi pie­na­mente la sovra­nità popo­lare, e che in aula afferma con forza che «o l’Europa è demo­cra­tica o non è »; dall’altro la riso­lu­zione su un trat­tato, il cui man­dato nego­ziale è rima­sto a lungo segreto, e la cui appli­ca­zione svuo­te­rebbe ulte­rior­mente la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva attra­verso mec­ca­ni­smi come il con­si­glio di coo­pe­ra­zione rego­la­to­ria e l’istituzione di tri­bu­nali arbi­trali per diri­mere le con­tro­ver­sie tra Stati e multinazionali.

Le parole di Tsi­pras — accolto dagli abbracci dei depu­tati del gruppo Gue-Ngl, di cui fa parte anche Syriza — risuo­nano di quello stesso orgo­glio, di quella dignità che ha por­tato il popolo greco a dire ’oxi’ (“no”) al ricatto di Fmi e Brus­sels group: «La mia patria è stata tra­sfor­mata in labo­ra­to­rio delle poli­ti­che di auste­rità, ma quelle ricette hanno fal­lito». Tsi­pras riven­dica che un governo demo­cra­ti­ca­mente eletto debba poter sce­gliere se repe­rire risorse tagliando le pen­sioni o tas­sando i ric­chi. E, dopo aver evo­cato la neces­sità di una con­fe­renza euro­pea sul debito in pole­mica con il capo­gruppo Ppe Weber, Tsi­pras chiude citando l’Antigone di Sofo­cle, il «diritto umano» che pre­vale sulla legge degli uomini, il diritto del popolo greco alla sua dignità che pre­vale su ogni memo­ran­dum. A spaz­zare via le men­zo­gne di chi rap­pre­sen­tava il refe­ren­dum come scelta tra euro e dracma, o la vit­to­ria del no come gre­xit, le parole del par­ti­giano Gle­zos: «Non solo non lasce­remo l’Europa. Non vi lasce­remo l’Europa», rivolto ai pala­dini dell’austerità.

A pre­sie­dere un dibat­tito acce­sis­simo Mar­tin Schulz, quello che faceva cam­pa­gna per il sì nono­stante il suo ruolo di Pre­si­dente. Lo stesso che nella scorsa ple­na­ria ha can­cel­lato voto e dibat­tito sul Ttip per­ché non vi era accordo nella grande coa­li­zione. Ecco, oggi è stato ancora più lam­pante come chi ha a cuore “almeno” la demo­cra­zia debba essere con Tsi­pras e con­tro Schulz.

E come nella subal­ter­nità nel dibat­tito sulla Gre­cia e nella com­pli­cità con i popo­lari nel voto sul Ttip i socia­li­sti euro­pei abbiano smar­rito qual­siasi fun­zione sto­rica, per usare un eufe­mi­smo. Appro­vato il com­pro­messo voluto dal duo Malmstrom-Schulz sul punto più con­tro­verso (la nuova ver­sione dell’Isds), la riso­lu­zione appro­vata ignora com­ple­ta­mente le pre­oc­cu­pa­zioni mani­fe­state in que­sti mesi da atti­vi­sti e movi­menti su que­stioni fon­da­men­tali come il prin­ci­pio di pre­cau­zione, la salute ali­men­tare, la per­dita di posti di lavoro.

Ieri è stata una gior­nata impor­tante anche per la ride­fi­ni­zione del ruolo stesso del par­la­mento euro­peo, che come Tsi­pras stesso ha ricor­dato avrebbe potuto essere coin­volto molto prima nella discussione.

Ora, se in Ita­lia smet­tes­simo di discu­tere di lea­der e for­mule, se lavo­ras­simo a unire soste­gno alla Gre­cia e lotta all’austerità, con­tra­sto al Ttip e bat­ta­glie per il diritto a lavoro e salute, forse potremmo sen­tire e com­pren­dere meglio l’orgoglio di Tsi­pras e del suo popolo, e costruire una sini­stra, una alter­na­tiva al socia­li­smo euro­peo e alle destre che ricordi, almeno vaga­mente, il Pride (in cui si uni­vano atti­vi­sti LGB e mina­tori) del bel film di Mat­thew Warchus.

L'autrice è par­la­men­tare euro­pea L’Altra Europa con Tsipras

Un riflessione del filosofo sloveno, e una conclusione: «Syriza è in realtà pericolosa, pone effettivamente una minaccia all’attuale orientamento della Ue - il capitalismo globale odierno non può permettersi un ritorno al vecchio stato sociale». La Repubblica, 9 luglio 2015

La vittoria del “no” al referendum greco, netta oltre ogni aspettativa, è un voto storico, espresso in una situazione disperata. In passato ho spesso citato la barzelletta che circolava negli ultimi dieci anni di vita dell’Unione Sovietica e che aveva come protagonista Rabinovitch, un ebreo intenzionato a emigrare. Il funzionario dell’ufficio emigrazione gliene chiede il motivo e Rabinovitch risponde: «I motivi sono due. Il primo è che ho paura che in Unione Sovietica i comunisti perdano il potere e che il nuovo governo incolpi noi ebrei di tutti i crimini dei comunisti — che si torni ai pogrom antisemiti…». «Ma è assurdo», lo interrompe il funzionario, «in Unione Sovietica non può cambiare nulla, il potere dei comunisti durerà in eterno!». «Beh» risponde calmo Rabinovitch, «quello è il secondo motivo ». Mi hanno detto che ora ad Atene circola una nuova versione della storiella: un giovane greco va al consolato australiano di Atene per chiedere il visto di lavoro. «Perché vuole lasciare la Grecia?» gli chiede il funzionario. «Per due motivi», risponde il giovane. «Il primo è che ho paura che la Grecia esca dall’Ue, della nuova povertà e del caos che ne verranno…». «Ma è assurdo », lo interrompe il funzionario, «la Grecia rimarrà nella Ue e si assoggetterà alla disciplina finanziaria!». «“Beh», risponde calmo il greco, «quello è il secondo motivo… ». Vuol forse dire che, parafrasando Stalin, entrambe le scelte sono le peggiori? È ora di andare oltre i dibattiti sterili sui possibili errori di comportamento e valutazione da parte del governo greco. Le poste in gioco ormai sono troppo alte.

Il fatto che negli attuali negoziati tra la Grecia e gli amministratori Ue si arrivi sempre a un passo da un accordo senza raggiungerlo è in sè profondamente sintomatico, poiché in realtà non si tratta di vere e proprie questioni finanziarie — a questo livello, la differenza è minima. La Ue di solito accusa i greci di esprimersi solo in termini generali, facendo promesse vaghe senza entrare nello specifico, mentre la Grecia accusa la Ue di voler controllare anche i minimi dettagli e di imporre al nuovo governo greco condizioni più dure rispetto al passato. Ma dietro queste recriminazioni aleggia un altro conflitto, più profondo. Tsipras ha dichiarato recentemente che se avesse avuto occasione di andare a cena da solo con Angela Merkel avrebbero trovato una soluzione in due ore. La sua tesi è che lui e la Merkel, due politici, avrebbero affrontato il dissidio come contrasto politico, a differenza degli amministratori tecnocrati, come il capo dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Se c’è un cattivo per eccellenza in tutta questa storia è Dijsselbloem: «Se pongo le questioni sul piano ideologico non risolvo nulla» è il suo motto.

Questo ci porta al nodo della questione: Tsipras si esprime come se i problemi fossero parte di un processo politico aperto, in cui si devono prendere decisioni in fin dei conti “ideologiche” (basate su preferenze normative) mentre i tecnocrati della Ue si esprimono come se tutto si riducesse a specifici regolamenti e nel momento in cui i greci rifiutano questo approccio e sollevano questioni più prettamente politiche, li si accusa di mentire, di evitare soluzioni concrete e così via. Non c’è dubbio che la verità qui sta dalla parte greca: rifiutare il “piano ideologico” come fa Dijsselbloem equivale alla più pura ideologia, significa spacciare per regolamenti elaborati da esperti decisioni che sono in realtà fondate su scelte politico-ideologiche.

La lotta in atto è la lotta per la Leitkultur economica e politica in Europa. Le potenze della Ue appoggiano lo status quo tecnocratico che da decenni mantiene l’Europa in uno stato d’inerzia. Nel suo Notes Towards a Definition of Culture (Note sulla definizione di cultura) il grande conservatore T.S.Eliot osserva che in alcuni momenti l’unica possibile scelta è tra l’eresia e il non credere, per tener viva una religione bisogna cioè creare nel suo corpo principale una frattura settaria. È questa la nostra posizione oggi riguardo all’Europa: solo una nuova “eresia” (rappresentata in questo momento da Syriza) può salvare quello che vale la pena di salvare dei valori europei: la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà egualitaria… L’Europa che vincerà se Syriza verrà messa fuori gioco sarà un’”Europa dai valori asiatici” (che ovviamente nulla ha a che fare con l’Asia, ma molto con la tendenza netta e attuale del capitalismo contemporaneo a sospendere la democrazia).

Non è solo che il destino della Grecia è in mano all’Europa. Noi dell’Europa occidentale amiamo guardare alla Grecia da osservatori distaccati, che seguono con compassione e simpatia il dramma della nazione impoverita. Questa posizione di comodo poggia su una pericolosa illusione — ciò che accade in Grecia in questi ultimi giorni ci riguarda tutti, è in gioco il futuro dell’Europa.

Il problema è che la politica dei tecnocrati si basa su una finzione, quella di estendere i termini di restituzione del debito dando a intendere che verrà ripagato in toto. Perché ci si ostina in questa finzione? Non è che renda l’estensione del debito più accettabile agli elettori tedeschi; e non è neppure che la cancellazione del debito greco possa innescare pretese analoghe da parte di Portogallo, Irlanda, Spagna… È che ai vertici in realtà non si vuole che il debito venga del tutto ripagato. I finanziatori accusano i paesi indebitati di non mostrare sufficiente senso di colpa, li accusano di sentirsi innocenti. Le loro pressioni corrispondono perfettamente a quello che gli psicoanalisti definiscono come"super io": il paradosso del "super io" sta nel fatto che, Freud ci insegna, più obbediamo alle sue richieste più ci sentiamo in colpa. Immaginate un perfido insegnante che assegna ai suoi alunni compiti impossibili e ghigna con sadismo vedendoli in ansia e in preda al panico. Il vero obiettivo di prestare denaro ai debitori non è ottenere il rimborso del debito lucrando, ma perpetuare il debito a tempo indefinito, tenendo il debitore in perenne dipendenza e subordinazione… questo per la maggior parte dei debitori, perché ne esistono varie tipologie. Non solo la Grecia, ma anche gli Usa non saranno in grado neppure in teoria di ripagare il loro debito, come ormai è di pubblico dominio. Esistono quindi debitori (le grandi banche) in grado di ricattare i creditori perché non possono permettersi di farle fallire, debitori che possono controllare le condizioni di pagamento del loro debito (il governo Usa) e, infine, debitori che possono essere maltrattati e umiliati (Grecia).

I finanziatori fondamentalmente accusano il governo Syriza di non mostrare sufficiente senso di colpa, lo accusano di sentirsi innocente. È questo che disturba l’establishment Ue: il governo Syriza riconosce il debito, ma senza colpa. Si sbarazza della pressione del "super io".

Ma ripetere all’infinito che la politica di Syriza rientra nei modesti confini della vecchia buona socialdemocrazia per convincere gli eurocrati che non è pericolosa e spingerli a concedere gli aiuti, in qualche misura non riesce nell’intento.

Syriza è in realtà pericolosa, pone effettivamente una minaccia all’attuale orientamento della Ue — il capitalismo globale odierno non può permettersi un ritorno al vecchio stato sociale. Quindi c’è dell’ipocrisia nelle rassicurazioni circa la sobrietà delle istanze di Syriza: in realtà il suo obiettivo è impossibile da realizzarsi entro le coordinate del sistema globale esistente. Servirà una seria scelta strategica: e se fosse giunto il momento di gettare la maschera della sobrietà e di chiedere invece apertamente il cambiamento ben più radicale necessario per ottenere un progresso, seppur modesto? Forse il referendum sarà il primo passo in questa direzione.

Traduzione di Emilia Benghi

Centrodestra e centrodestrasinistra uniti nella lotta per il prepotere delle multinazionale e contro i diritti degli abitanti del pianeta Gli emendamenti della società civile sono stati sacrificati sull’altare della "grosse koalition"

Il manifesto, 9 luglio 2015
L’Europarlamento ha appro­vato le regole per il Ttip con 436 sì (Ppe, S&D, Alde), 241 no (Gue, Verdi, destre) e 34 aste­nuti. In pra­tica sono state appro­vati le «rac­co­man­da­zioni» che inclu­dono un sistema alter­na­tivo alle con­tro­verse corti arbi­trali pri­vate per le dispute investitori-stati (il cosid­detto Isds).

Le regole in Europa — a quanto pare — val­gono per il debito greco, ma per la mag­gio­ranza del Par­la­mento euro­peo, come da para­digma orwel­lia­nio, val­gono meno. Soprat­tutto se alla mat­tina le tri­bune dell’emiciclo a Stra­sburgo hanno tra­boc­cato come mai in almeno vent’anni per Ale­xis Tsi­pras e al pome­rig­gio si deve votare la Riso­lu­zione con cui il Par­la­mento euro­peo esprime la sua valu­ta­zione sul Trat­tato tran­sa­tlan­tico di libe­ra­liz­za­zione di scambi e inve­sti­menti tra Usa e Ue.

Val­gono meno per­ché se una buona parte delle com­mis­sioni par­la­men­tari ha espresso pre­oc­cu­pa­zioni per come la Com­mis­sione euro­pea sta con­du­cendo il nego­ziato — con scarsa tra­spa­renza e con­si­de­rando ser­vizi, agri­col­tura e regole come merce di scam­bio per l’accesso al mer­cato finan­zia­rio, ener­ge­tico e degli appalti Usa — fuori dal Par­la­mento gli hanno fatto eco oltre 2 milioni di cit­ta­dini che hanno fir­mato una peti­zione che chiede lo Stop alle trat­ta­tive. E ciò fa pro­blema alla cabina di regia dell’istituzione Ue.

Il con­vi­tato di pie­tra si chiama «franco tira­tore»: da ormai da mesi le email, i pro­fili Face­book e Twit­ter degli euro­par­la­men­tari ven­gono inon­dati da migliaia di mes­saggi di cit­ta­dini che gli chie­dono di trat­tare con cura la fra­gile demo­cra­zia euro­pea e di dar voce, nella riso­lu­zione sul Ttip, alle pre­oc­cu­pa­zioni dif­fuse sul con­te­nuto di un trat­tato che mira a costruire un mer­cato comune tran­sa­tlan­tico che, valendo il 42% del Pil glo­bale, aspira a fare legge per il resto del pia­neta. Per que­sto, con una for­za­tura pro­ce­du­rale ine­dita, il pre­si­dente dell’Europarlamento il social­de­mo­cra­tico Mar­tin Schulz fa sal­tare l’emendamento 40 al testo, che avrebbe per­messo di far espri­mere l’aula sull’arbitrato inter­na­zio­nale per pro­teg­gere gli inve­sti­tori dalle deci­sioni degli Stati, il fami­ge­rato Isds, su cui pro­prio il gruppo social­de­mo­cra­tico si era spaccato.

Lo fa eser­ci­tando le pre­ro­ga­tive del pre­si­dente su un argo­mento con­tro­verso e lo fa una seconda volta, sce­gliendo di porre in vota­zione un emen­da­mento di com­pro­messo, ela­bo­rato dal suo stesso gruppo, in cui l’Isds si salva nella sostanza ma non viene più chia­mato tale, e anzi si pre­fi­gura l’introduzione di una «super corte» di giu­sti­zia impre­ci­sata nel medio periodo, che è una toppa quasi più brutta del buco alla giu­sti­zia ordi­na­ria creato con l’Isds.

Sal­tano, così, uno dopo­Tutti gli emen­da­menti della società civile ven­gono sacri­fi­cati all’altare della «grosse koa­li­tion» popo­lare — social­de­mo­cra­tica che mai come oggi teme l’Europa infiam­mata dal rialzo d’orgoglio greco. l’altro gli oltre cento emen­da­menti pre­sen­tati in meno di due ore, soprat­tutto quelli di buon senso soste­nuti dalle cam­pa­gne Stop Ttip.

Salta l’emendamento sulla Human Rights Clause, che avrebbe ante­po­sto la tutela vin­co­lante dei diritti umani rispetto alle dina­mi­che di mer­cato. Resta un capi­tolo sullo svi­luppo soste­ni­bile sola­mente con­sul­tivo senza nes­suno stru­mento impo­si­tivo. Viene boc­ciata la lista posi­tiva per i ser­vizi pub­blici, che avrebbe per­messo di scri­vere nero su bianco i ser­vizi che si vogliono met­tere sul mer­cato, sal­va­guar­dando quelli non elen­cati. Viene boc­ciata la pos­si­bi­lità di inse­rire il rife­ri­mento a set­tori sen­si­bili da esclu­dere dal nego­ziato, come dovrebbe avve­nire per alcune pro­du­zioni agri­cole, for­te­mente a rischio di estinzione.

La Com­mis­sa­ria al Com­mer­cio Ceci­lia Malm­strom, fur­be­sca­mente, rin­gra­zia via Twit­ter il Par­la­mento per il soste­gno rice­vuto, ma sot­to­li­nea anche che l’Isds è morto, cui con­trap­pone la sua pro­po­sta, quella che, per dirla con la cam­pa­gna «Stop Ttip» euro­pea, mette il ros­setto al maiale pre­ten­dendo che diventi qualcos’altro. Ma i conti non tor­nano per la coa­li­zione di mag­gio­ranza, che tanto grossa non è più. 241 sono stati i voti con­trari alla Riso­lu­zione, molti di più di quelli alge­brici tra mag­gio­ranza e oppo­si­zione. Si attende la lista del voto palese per capire chi c’è stato e chi no a far finta, per l’ennesima volta, di voler la demo­cra­zia impe­den­done l’esercizio.

E se l’Isds s’ha da cam­biare, come ammette anche la Com­mis­sa­ria, vanno ria­perti anche gli accordi com­mer­ciali con Canada e Sin­ga­pore, che con­ten­gono l’Isds ed espon­gono già a rischio di cause i nostri governi. Da lunedì 13 Usa e Ue si rive­dranno a Bru­xel­les per un nuovo ciclo di nego­ziati tran­sa­tlan­tici, e ritro­ve­ranno ad acco­glierli le stesse pro­te­ste e gli stessi dubbi di ieri. Il Par­la­mento ha perso l’occasione di far­sene inter­prete, di diven­tare parte del cam­bia­mento e non del pro­blema demo­cra­tico euro­peo che verrà affron­tato dalla grande mobi­li­ta­zione Stop Ttip di otto­bre, che sem­bra neces­sa­ria oggi ancor più di ieri.

L'autrice è por­ta­voce della Cam­pa­gna stop TTIP Ita­lia

«Il filosofo americano Michael Walzer e gli scenari aperti dallo scontro Ue-Tsipras: “Il centrosinistra esca dalla logica liberista della destra e rilanci il progetto di una federazione di Stati. Nell’Europa post-sovrana l’unica salvezza è il modello Usa"».

La Repubblica, 19 luglio 2015

«Se l’Unione Europea fa tanta fatica a uscire dalla crisi greca, non è soltanto per errori contingenti, commessi da una parte e dall’altra. Guardando la vicenda dall’altra sponda dell’Atlantico, mi sembra che il caso greco sia particolarmente importante perché mette a nudo i due problemi maggiori dell’Europa attuale: la politica economica e la cornice istituzionale. È assurdo che l’Unione Europea continui a imporre al governo ellenico le stesse misure di austerità che hanno fallito ovunque, ma è altrettanto grave il fatto che oggi l’Unione Europea non disponga di organi di controllo in grado di bilanciare in modo democratico lo strapotere della Bce». Michael Walzer, tra i massimi filosofi politici contemporanei, professore emerito all’Institute for Advanced Study di Princeton, guarda il modo in cui la politica europea sta gestendo l’emergenza Grexit, e vi scorge i limiti strutturali del progetto comunitario.

Professor Walzer, in questi giorni concitati ha ancora fiducia nella Ue?
«Credo che l’Unione sia un progetto ambizioso, che poggia su grandi valori e può vantare quantomeno un successo straordinario: quello di aver trasformato in un’area di pace un continente devastato da secoli di guerre e conflitti fratricidi. Detto ciò, non si può negare che l’Unione Europea sia un regime a dir poco curioso, l’unico che ha centralizzato il potere economico in una struttura oligarchica fatta di banchieri e burocrati, senza centralizzare la politica, che in forma democratica resiste solamente all’interno dei singoli Stati nazionali. In altre parole, il caso Grexit sta facendo emergere una contraddizione immanente al sistema istituzionale europeo, quella tra l’oligarchia sovranazionale dei banchieri e le democrazie nazionali dei popoli. E io non vedo in che modo questa asimmetria possa reggere a lungo. Servirebbe piuttosto uno scatto verso un governo genuinamente politico sia dell’eurozona sia dell’Unione Europea. Eppure, sebbene sia necessario, oggi il passo in avanti sembra piuttosto improbabile, perché nessun Paese europeo sembra pronto a compierlo. La Grecia paga anche l’assenza di un solo governo europeo».

L’altro problema, invece, è la politica economica. Perché l’Europa non ha saputo trovare una ricetta alternativa alle politiche di austerità?
«È un fatto che non mi so spiegare. L’idea che le misure di austerità siano la risposta giusta alla recessione è una menzogna. Basterebbe leggere Paul Krugman o Joseph Stiglitz. Anche negli Stati Uniti abbiamo vissuto una fase in cui il governo repubblicano ha seguito questa strategia, ma per fortuna il governo Obama ha imboccato una strada diversa. I partiti socialisti europei dovrebbero fare una battaglia comune per cambiare la politica economica imposta dalla Troika in Grecia».

Invece appaiono sempre più schiacciati tra la destra e la sinistra radicale.
«È così. E il fallimento della socialdemocrazia non inizia oggi e riguarda ormai tutti i paesi occidentali. Negli ultimi anni tutti partiti di centrosinistra, a cominciare dal New Labour blairiano, sono stati subalterni al neoliberismo della destra. In qualche occasione hanno provato a imprimergli un “volto umano”, ma il dato di fondo è che non hanno saputo articolare una strategia alternativa. E il risultato è un fallimento catastrofico, che vede scomparire i partiti neokeynesiani e lasciare lo spazio a sinistra a frange populiste come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Ma il populismo è uno stile politico, di destra o di sinistra, che per definizione è incapace di costruire una società che produca più risorse e le distribuisca in maniera equilibrata. Insomma, mi è molto difficile rimanere ottimista».

Dopo il referendum personaggi di spicco del centrosinistra europeo come Schulz e Gabriel hanno espresso posizioni più oltranziste della Merkel. Invece quale dovrebbe essere la visione istituzionale del fronte progressista?

«Non saprei fare un elenco delle specifiche riforme da adottare. Sono convinto però che una riforma dell’Unione Europea sia non solo necessaria, ma anche urgente. E penso inoltre che il riordino istituzionale debba andare nella direzione di una vera e propria federazione. Non sono abituato a spacciare gli Stati Uniti come un modello per il resto del mondo, ma in questo caso sì, l’assetto federalistico statunitense potrebbe essere molto utile per ripensare l’Europa. Anche a voi servirebbe un governo federale unico che controlli la moneta e la politica estera, pur concedendo larga autonomia agli Stati membri in materia sanitaria, educativa, sindacale».

Ma la prospettiva di una federazione di Stati non costringerebbe tutti i cittadini europei, e non solo i greci, a rinunciare alla loro sovranità?
«Basta dare un’occhiata a ciò che accade nel mondo per rendersi conto di quanto sia importante l’idea di sovranità. La maggior parte di chi oggi vive in condizioni di oppressione, in Africa o in Asia, soffre per l’assenza di uno Stato sovrano. Il primo grande bisogno del popolo siriano, per fare un esempio, è la costruzione uno Stato sovrano. Ma allo stesso tempo viviamo un’epoca post-sovrana. Un’epoca globale che sta riducendo il potere degli Stati, rendendo quelli piccoli simili a semplici province».

Come si colloca l’Unione europea in questo secondo scenario?

«La Ue ha rappresentato un grande esperimento per trascendere la sovranità statale, ma la crisi greca dimostra in modo definitivo che, da questo punto di vista, l’esperimento non ha funzionato. Non è più tollerabile che i vertici economici dell’Unione non rispondano democraticamente del proprio operato ai cittadini dei vari paesi. Ecco perché voi europei dovreste scongiurare il rischio Grexit e perseguire la strada di una federazione, ben sapendo che questa implica il sacrificio di determinate quote di sovranità. Un sacrificio che, però, che non potrà mai provocare la sofferenza che i greci stanno subendo in questi giorni».

Una cronaca e un'ampia sintesi del discorso di Alexis Tsipras e di alcuni interventi nel dibattito al Parlamento europeo. Il manifesto, 9 luglio 2015. In questa stessa colonna, qui sotto, un articolo il testo integrale del discorso e il link al video del discorso

Grecia. Il premier greco all’europarlamento difende le proprie scelte: «L’austerità è fallita, il salvataggio ha riguardato le banche, non il popolo». Poi rassicura l’Unione: «Resteremo nell’euro». La Grecia presenta al Mes la richiesta formale per il terzo piano di aiuti: previsti tagli alle pensioni baby e riforma fiscale

Con applausi, abbracci e grandi sor­risi Ale­xis Tsi­pras ha fatto ieri il suo primo ingresso al Par­la­mento Euro­peo. Non era una pas­seg­giata. Nel suo discorso intro­dut­tivo, il pre­mier greco si è con­cen­trato a rispon­dere, usando il buon senso e la ragio­ne­vo­lezza, a tutte le cri­ti­che, spesso del tutto infon­date, che sono state mosse in tutti que­sti mesi con­tro di lui e la Gre­cia. Pro­vo­cando spesso rea­zioni tem­pe­stose, attac­chi, per­sino invet­tive, da parte di alcuni depu­tati europei.

Innan­zi­tutto Tsi­pras ha voluto san­cire, anche in que­sta sede, il fal­li­mento del pro­gramma di auste­rità: «I soldi che ci avete pre­stato non sono andati a favore del popolo greco né a favore dell’economia reale. Sono andati alle ban­che, gre­che e stra­niere. La mia patria è stata tra­sfor­mata in un labo­ra­to­rio spe­ri­men­tale che ha por­tato il popolo greco a esau­rire la sua capa­cità di resi­stenza facendo fal­lire l’esperimento. Oggi, qual­siasi sia l’ orien­ta­mento di ognuno, tutto il popolo greco sente che non ha altra scelta che lot­tare per la sua liberazione».

La Gre­cia, ha con­ti­nuato, ha fatto uno «sforzo senza pre­ce­denti di ade­gua­mento» alle richie­ste dell’eurozona. «Nes­sun altro paese sotto pro­gramma di sal­va­tag­gio e con riforme in corso ha fatto uno sforzo simile alla Gre­cia», ha detto il pre­mier greco. Ma tutto invano.

Poi Tsi­pras ha rispo­sto a chi lo ha accu­sato di non aver por­tato pro­po­ste mar­tedì alla riu­nione dell’eurogruppo: «Abbiamo inviato un testo di 47 pagine che non com­prende le nostre posi­zioni ma il risul­tato del dif­fi­cile nego­ziato. In que­ste pro­po­ste è com­preso il nostro forte impe­gno a rag­giun­gere gli obiet­tivi di bilan­cio che abbiamo fis­sato. Man­te­niamo però il nostro diritto, come governo sovrano, di aggiun­gere o togliere impo­ste. È un nostro diritto tas­sare le imprese in utile e non tagliare le pen­sioni. Se non abbiamo il diritto a tro­vare da soli i set­tori in cui rispar­miare, allora saremmo con­dotti in una logica estrema e anti­po­po­lare. Si direbbe allora che nei paesi sotto pro­gramma di sal­va­tag­gio non si deb­bano tenere ele­zioni, solo nomi­nare dei tec­no­crati e che solo loro pos­sano decidere».
Il rife­ri­mento è alle ripe­tute inter­fe­renze dello stesso pre­si­dente del Par­la­mento euro­peo Mar­tin Schulz sulla com­po­si­zione del governo greco. Ma anche un colpo pre­ven­tivo verso i piani, acca­rez­zati da una parte della destra tede­sca, di pun­tare a risol­vere il caso Atene attra­verso il rove­scia­mento del governo.

Tsi­pras ha negato deci­sa­mente ogni pro­getto, segreto o palese, di ritorno alla dracma: «La set­ti­mana scorsa la mag­gior parte delle dichia­ra­zioni con­si­ste­vano nel dire che il vero que­sito del refe­ren­dum era la scelta tra euro e dracma e che la vit­to­ria del no signi­fi­cava l’uscita del paese dall’eurozona. I greci hanno votato No. Se avessi voluto far uscire il mio paese dall’euro non avrei fatto le dichia­ra­zioni che ho fatto dome­nica sera».

Il refe­ren­dum rap­pre­senta un «forte mes­sag­gio» del popolo greco: «Il forte no di dome­nica ci ha dato l’incarico di raf­for­zare i nostri sforzi verso una solu­zione soste­ni­bile al pro­blema greco, senza ripe­tere gli errori del pas­sato e senza l’eterna e inu­tile austerità».

La ringrazio molto signor presidente.

Onorevoli deputati, è un onore per me parlare in questo vero e proprio tempio della democrazia europea. La ringrazio molto per l'invito. Sono onorato di affrontare i rappresentanti eletti dei popoli d'Europa, in un momento critico sia per il mio paese-per la Grecia e per la zona euro e l'Unione europea nel suo insieme, come bene.

Mi trovo in mezzo a voi, solo pochi giorni dopo la forte verdetto del popolo greco, seguendo la nostra decisione di permettere loro di esprimere la propria volontà, a decidere direttamente, ad adottare una posizione e di prendere attivamente parte ai negoziati per quanto riguarda il loro futuro. Solo pochi giorni dopo la loro forte verdetto insegnarci a rafforzare i nostri sforzi per raggiungere una soluzione socialmente giusta e finanziariamente sostenibile al greco problema, senza gli errori del passato che ha condannato l'economia greca, e senza l'austerità perpetua e senza speranza che ha intrappolato l'economia in un circolo vizioso di recessione, e la società in una depressione duratura e profonda. Il popolo greco fatto una scelta coraggiosa, sotto pressioni senza precedenti, con le banche erano chiusi, con la maggior parte dei media che cercano di terrorizzare la gente che un NO votazione porterebbe a una rottura con l'Europa.

È il mio piacere essere in questo tempio della democrazia, perché credo che noi siamo qui per ascoltare prima gli argomenti e poi giudicare tali argomenti. "Mi Colpisci, ma prima mi ascolta".

La scelta coraggiosa del popolo greco non regge per una pausa con l'Europa, ma per un ritorno ai principi fondanti dell'integrazione europea, i principi di democrazia, solidarietà, rispetto reciproco e uguaglianza.

Si tratta di un messaggio chiaro che l'Europa: il nostro comune progetto europeo, l'Unione europea, o sarà democratica o si troveranno ad affrontare enormi difficoltà di sopravvivenza, viste le condizioni difficili che stiamo vivendo.

La trattativa tra il governo greco e ai suoi partner, che sarà completata a breve, cerca di riaffermare il rispetto dell'Europa per regole operative comuni, così come il rispetto assoluto per la scelta democratica del nostro popolo.

Il mio governo e io, personalmente, è salito al potere circa cinque mesi fa. Ma i programmi di soccorso sono in vigore per circa cinque anni. Mi assumo la piena responsabilità di ciò che è accaduto nel corso di questi cinque mesi. Ma tutti noi dovremmo riconoscere che la responsabilità principale per le difficoltà che l'economia greca sta vivendo oggi, per le difficoltà che l'Europa sta vivendo oggi, non è il risultato di scelte fatte negli ultimi cinque mesi, ma nei cinque anni di programmi di attuazione che non è finita la crisi. Voglio assicurarvi che, a prescindere dalla propria opinione se gli sforzi di riforma erano giuste o sbagliate, resta il fatto che la Grecia, e il popolo greco, ha fatto uno sforzo senza precedenti per regolare nel corso degli ultimi cinque anni. Estremamente difficile e dura. Questo sforzo ha esaurito la capacità di resistenza del popolo greco.

Naturalmente questi sforzi non solo si svolgono in Grecia. Hanno preso posto altrove, come pure - e mi rispettano pienamente lo sforzo di altre nazioni e governi che hanno dovuto affrontare, e decidere misure difficili - in molti paesi europei, dove sono stati attuati programmi di austerità. Tuttavia, in nessun altro posto erano questi programmi così difficile e di lunga durata come in Grecia. Non sarebbe esagerato dire che il mio paese è stato trasformato in un laboratorio sperimentale di austerità per gli ultimi cinque anni. Ma dobbiamo tutti ammettere che l'esperimento non è riuscito.

Negli ultimi cinque anni, la disoccupazione alle stelle, la povertà è salito alle stelle, l'emarginazione sociale è cresciuto enormemente, così come il debito pubblico, che prima del lancio dei programmi era 120% del PIL, ed è attualmente il 180% del PIL. Oggi la maggior parte di popolo greco, a prescindere dalle nostre valutazioni, questa è la realtà e dobbiamo accettarlo, sentono di non avere altra scelta che combattere per uscire da questo corso senza speranza. Ed è questo desiderio, espresso nel modo più diretto e democratica che noi, come governo, siamo chiamati a contribuire a realizzare.

Cerchiamo un accordo con i nostri partner. Un accordo, però, che porterà ad una fine definitiva alla crisi. Che darà speranza, che alla fine del tunnel, c'è la luce. Un accordo che prevede affidabili e necessarie riforme, nessuno si oppone a questa, ma che si sposterà l'onere di coloro che hanno davvero la capacità di spalla - e che, nel corso degli ultimi cinque anni, sono stati protetti dai governi precedenti e non farsi carico - che è stato messo interamente sulle spalle dei lavoratori, dei pensionati, quelli che non possono più sopportare. E, naturalmente, con le politiche redistributive che andrà a beneficio delle classi medie e basse in modo che una crescita equilibrata e sostenibile può essere raggiunta.

La proposta che sottoponiamo ai nostri partner comprende:
- Riforme credibili, sulla base, come ho detto prima, l'equa distribuzione degli oneri, e con il possibile effetto minimo di recessione.
- La richiesta di un'adeguata copertura dei fabbisogni di finanziamento a medio termine del paese, con un programma di crescita forte e front-caricato; se non ci concentriamo su un programma di crescita, quindi non vedremo mai la fine della crisi. Il nostro primo obiettivo deve essere quello di combattere la disoccupazione e incoraggiare l'imprenditorialità,
-e naturalmente, la richiesta di un impegno immediato per iniziare un dialogo sincero, una discussione significativa per affrontare il problema della sostenibilità del debito pubblico.

Non ci possono essere problemi di tabù tra di noi. Dobbiamo affrontare la realtà e cercare soluzioni a questa realtà, a prescindere da quanto sia difficile queste soluzioni possono essere.

La nostra proposta è stata presentata al all'Eurogruppo, per la revisione durante il vertice di ieri. Oggi, stiamo inviando una richiesta al meccanismo europeo di sostegno. Noi abbiamo commesso, in un paio di giorni, per fornire tutte le specifiche per quanto riguarda la nostra proposta, e spero che riusciremo a soddisfare le esigenze di questa situazione critica nei prossimi giorni, sia per il bene della Grecia, come pure come per il bene della zona euro. Direi, soprattutto, non solo per ragioni finanziarie, ma anche per il bene geopolitico dell'Europa.

Voglio essere molto chiaro su questo punto: le proposte del governo greco per finanziare i suoi obblighi e ristrutturare il proprio debito non sono destinati ad ulteriore onere del contribuente europeo. Il denaro dato alla Grecia-siamo onesti, in realtà mai raggiunto il popolo greco. E 'stato dato il denaro per salvare i greci ed europei banche-ma non è mai andato al popolo greco.

Inoltre, da agosto 2014, la Grecia non ha ricevuto alcuna rate di erogazione in base al piano di salvataggio sul posto fino alla fine del mese di giugno, le rate che ammontano a 7,2 miliardi di euro. Non sono state concesse da agosto 2014, e vorrei sottolineare che il nostro governo non era al potere da agosto 2014 a gennaio 2015. Le rate non sono stati erogati perché il programma non è stato attuato. Il programma non è stato attuato in quel periodo (vale a dire, agosto '14 -Jan. '15) -non A causa di questioni ideologiche, come avviene oggi, ma proprio perché il programma allora, come ora, mancava il consenso sociale. A nostro avviso, non è sufficiente per un programma sia corretto, è importante anche perché sia ​​possibile realizzare, che consenso sociale esiste affinché possa essere attuato.

Onorevoli deputati del Parlamento, allo stesso tempo, che la Grecia stava negoziando e rivendicando 7200000000 € di erogazioni, la Grecia ha dovuto rimborsare a le stesse istituzioni che stavamo per impetrare la erogazioni-rate del valore di 17,5 miliardi di euro. Il denaro è stato pagato dalle magre finanze del popolo greco.

Onorevoli deputati, a dispetto di quello che ho detto, io non sono uno di quei politici che sostengono che "stranieri cattivi" sono responsabili per la noia del mio paese. La Grecia è sull'orlo del fallimento, perché i precedenti governi greci hanno creato uno stato clientelare per molti anni, hanno sostenuto la corruzione, hanno tollerato o addirittura sostenuto l'interdipendenza tra la politica e l'élite economica e l'evasione fiscale su grandi quantità di ricchezza è stato lasciato incontrollato. Secondo uno studio del Credit Suisse, il 10% dei greci in possesso di 56% della ricchezza nazionale. E che il 10% dei greci, nel periodo di austerità e di crisi, sono stati lasciati intatti, essi non hanno contribuito agli oneri come il restante 90% dei greci hanno contribuito. I programmi di soccorso e il memorandum non ha neppure tentato di affrontare questi grandi ingiustizie. Invece, li aggravate, purtroppo. Nessuna delle riforme presunti programmi d'ordine, purtroppo, ha migliorato il meccanismo di riscossione delle imposte che è crollato, nonostante il desiderio di qualche "illuminato", così come giustamente spaventato, funzionari pubblici. Nessuna riforma presunti affrontato il triangolo famigerato di corruzione che è stato istituito nel nostro paese molti anni fa, prima della crisi, tra l'establishment politico, gli oligarchi e le banche. Nessun riforme hanno migliorato il funzionamento e l'efficienza dello Stato, che ha imparato a operare per servire interessi particolari piuttosto che il bene comune. E, purtroppo, le proposte per affrontare questi problemi sono ora sotto i riflettori. Le nostre proposte si concentrano sulle riforme reali, che mirano a cambiare la Grecia. Le riforme che i governi precedenti, la vecchia guardia politica, così come chi guida i piani Memoranda, non volevo vedere implementata in Grecia. Questa è la semplice verità. Trattare in modo efficace con la struttura oligopolistica e le pratiche di cartello nei singoli mercati - tra cui il mercato televisivo non regolamentata e inspiegabile - il rafforzamento dei meccanismi di controllo in materia di entrate pubbliche e il mercato del lavoro per combattere l'evasione fiscale e l'evasione, e modernizzare la Pubblica Amministrazione costituiscono priorità di riforma del nostro governo . E, naturalmente, ci aspettiamo che i nostri partner 'accordo su queste priorità.

Oggi, veniamo con un mandato forte da parte dei cittadini greci e con la ferma determinazione di non scontrarsi con l'Europa, ma a scontrarsi con gli interessi acquisiti nel nostro paese, e con le logiche e gli atteggiamenti stabilito che affondavano la Grecia in crisi, e stiamo mettendo un peso per l'Eurozona, pure.

Onorevoli deputati,

L'Europa è a un bivio critico. Ciò che noi chiamiamo la crisi greca non è che l'incapacità generale della zona euro per un trovare una soluzione definitiva a una crisi del debito autosufficiente. In realtà, questo è un problema europeo, e non un problema esclusivamente greca. E un problema europeo richiede una soluzione europea.

Storia europea è piena di conflitti, ma alla fine della giornata, di compromessi, anche. Ma è anche una storia di convergenza e l'allargamento. Una storia di unità, e non di divisione. Ecco perché si parla di una Europa unita, cerchiamo di non permettere che diventi un'Europa divisa. Attualmente stiamo chiamati a raggiungere un compromesso praticabile e onorevole al fine di evitare una rottura storica che ribaltare la tradizione di un'Europa unita.

Sono certo che tutti noi apprezziamo la gravità della situazione e che risponderemo di conseguenza; ci assumeremo la nostra responsabilità storica.

Grazie.
Riferimenti
Qui Potere VEDERE e Ascoltare i l il video del discorso in diretta di Alexis Tsipras, con la contemporanea traduzione in italiano

«Dopo il referendum. Il rifiuto greco del memorandum interroga gli altri paesi del sud dell'Europa. Se la sinistra italiana non saprà rispondere alla sfida lanciata da Atene il nostro default politico sarebbe totale». Il manifesto, 8 luglio 2015

Non si è trat­tato di una sfida tra demo­cra­zia e tec­no­cra­zia, bensì tra due con­ce­zioni di demo­cra­zia, tra due visioni poli­ti­che. Non è vero infatti che sia stata la troika a imporre l’austerità, sono stati i governi degli Stati — legit­ti­ma­mente eletti — a dele­gare alle isti­tu­zioni finan­zia­rie il com­pito di attuare le misure eco­no­mi­che di stampo neo­li­be­ri­sta volon­ta­ria­mente decise dagli Stati stessi in sede europea.

Visioni incon­ci­lia­bili

I Trat­tati e i rei­te­rati accordi tra i paesi mem­bri dell’Unione euro­pea (dal Six-Pack al Fiscal com­pact al Two-Pack) sono le fonti nor­ma­tive che hanno gene­rato le misure di rigore euro­pee. Il governo greco — anch’esso legit­ti­ma­mente eletto — chiede ora di cam­biare, denun­cia l’insuccesso delle misure di auste­rità sin qui seguite che hanno por­tato molti paesi ad un passo dal tra­collo, hanno impe­dito la ripresa, non sono riu­scite ad affron­tare le que­stioni che strut­tu­ral­mente carat­te­riz­zano la debo­lezza eco­no­mica dei sin­goli paesi. In que­sto qua­dro c’è poi la que­stione spe­ci­fica della Gre­cia, il cui debito è un osta­colo per ogni pos­si­bile ripresa del paese.

Ciò che ha impe­dito l’accordo tra i diciotto Stati dell’eurozona non è stato il debito, bensì le incon­ci­lia­bili visioni di poli­tica eco­no­mica. È que­sta la vera que­stione che il governo greco e ora anche il suo popolo ci pongono.

Incam­mi­narsi verso l’ignoto

Il No greco al memo­ran­dum dei cre­di­tori e all’ideologia da que­sto espresso rap­pre­senta il rifiuto di un modello di svi­luppo. Ci carica di respon­sa­bi­lità inter­ro­gan­doci sulla nostra con­ce­zione di demo­cra­zia, sul rap­porto tra diritti e mer­cato, sull’idea di società. Ci invita ad abban­do­nare il noto (le poli­ti­che sin qui seguite) per incam­mi­narci verso l’ignoto (almeno in Europa: negli Stati uniti la ripresa c’è stata pro­prio gra­zie all’abbandono delle poli­ti­che recessive).

Una sfida straor­di­na­ria. Sapremo in grado di raccoglierla?

Quel che può dirsi e che non baste­ranno le astu­zie o i ten­ta­tivi di addol­cire le poli­ti­che sin qui seguite. La Gre­cia ci ha mostrato che non si può pun­tare su un’«austerità espan­siva», ma è neces­sa­rio pun­tare ad una rot­tura di continuità.

Ciò vuol dire cam­biare i Trat­tati e gli accordi che defi­ni­scono le poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali tra Stati. Vuol dire risco­prire un’Europa poli­tica e sociale, pren­dere sul serio quel che è pur scritto nel pre­am­bolo della Carte dei diritti dell’Unione euro­pea («L’Unione pone la per­sona al cen­tro della sua azione»), ma che è stato tra­volto dal domi­nio arro­gante e disu­mano delle poli­ti­che di mercato.

È evi­dente che un’impresa così grande non è nella dispo­ni­bi­lità di un solo paese o di un pic­colo popolo, per quanto orgo­glioso e con­sa­pe­vole possa essere. Ed è anche per que­sto che il refe­ren­dum greco ci inter­roga diret­ta­mente e asse­gna ai popoli e a tutti gli Stati euro­pei una respon­sa­bi­lità immensa.

Niente egoi­smi nazionali

L’obiettivo di cam­biare i Trat­tati e far adot­tare poli­ti­che sociali alle isti­tu­zioni euro­pee (com­prese quelle finan­zia­rie e ban­ca­rie) potrà essere rag­giunto solo a seguito di una dif­fi­cile e respon­sa­bile lotta poli­tica da svol­gere in Europa. Non si potrà con­ce­dere nulla al popu­li­smo, nep­pure a quello radi­cale che tanto alletta parte della sini­stra. Non ci si potranno for­mare alleanze spu­rie con gli anti­eu­ro­pei­sti, nazio­na­li­sti, gli egoi­smi nazio­nali di varia natura.

Non si potrà fare affi­da­mento nep­pure sulle grandi social­de­mo­cra­zie, che potranno pur cam­biare e alla fine dare una mano, ma solo se costrette. I paesi del sud d’Europa dovreb­bero essere le più inte­res­sate a cam­biare: oltre la Gre­cia, la Spa­gna. La vit­to­ria di Pode­mos può essere un tas­sello deci­sivo in que­sta stra­te­gia. Poi il Por­to­gallo, chissà che ne sarà dell’ondivaga Fran­cia. E l’Italia?

La dele­ga­zione più folta

Se si guarda al nostro paese oggi non c’è da essere otti­mi­sti. Non c’è nes­suno che sia in grado di rap­pre­sen­tare con ade­guata forza le istanze del cam­bia­mento reale. Saremo anche pieni di buone inten­zioni e, a volte, per­sino gene­rosi. Ma c’è egual­mente da dispe­rare: la dele­ga­zione più folta che ha festeg­giato la vit­to­ria del refe­ren­dum ad Atene era quella ita­liana. Per forza, cia­scuno rap­pre­sen­tava se stesso! Per la Ger­ma­nia c’era la Linke, per la Spa­gna Pode­mos, per l’Irlanda Sinn Fein, e così via. Per l’Italia un eser­cito diviso di per­so­na­lità disor­ga­niz­zate e indistinte.

Ora vera­mente non c’è più tempo. Se noi ita­liani non sapremo rispon­dere alla sfida che è stata lan­ciata dalla Gre­cia rischiamo di com­pro­met­tere una stra­te­gia di riscatto dei popoli euro­pei. Un debito che poi non potremmo mai più resti­tuire e il nostro default poli­tico sarebbe totale.Un No che ci carica di responsabilità

Dopo il referendum. Il rifiuto greco del memorandum interroga gli altri paesi del sud dell'Europa. Se la sinistra italiana non saprà rispondere alla sfida lanciata da Atene il nostro default politico sarebbe totale

Postilla

Ma che cos'è "la sinistra italiana"? riusciamo a vederne un po' se guardiamo le persone, ma se guardiamo i partiti non ne vediamo nulla.
«Sognavo un’Italia pulita, invece è ancora Nera. Al popolo piace l’uomo forte, il cesarismo. Così si spiegano Berlusconi e Renzi. Non è per questo che abbiamo combattuto». Silvia Truzzi intervista lo scrittore, che va vissuto una lunga stagione con gli occhi aperti.

Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2015

L’appuntamento è al Castello di Lisignano: “La famiglia di mia moglie ci abita da oltre cento anni. Il primo inquilino era stato un messo del Barbarossa, nel XII secolo”. In questa storia comincia tutto molto tempo fa.

Angelo Del Boca, novanta primavere portate con invidiabile leggerezza, aspetta su una panchina, all’ombra di un albero, di fronte alle mura fortificate di questa dimora antica, sulla strada dei castelli piacentini: è da poco uscito Nella notte ci guidano le stelle, diario partigiano scritto oltre settant’anni fa. “La mia è una famiglia nobile. Intorno al 1200 nasce nella zona di Boca, a Borgomanero, vicino a Novara. Erano proprietari terrieri. Il mio bisnonno ha avuto 22 figli. Uno era un prete eccezionale con tre lauree, nominato Cavaliere del Regno d’Italia. Aveva intuito che le acque minerali sarebbero state un grande business, come si dice oggi. Consigliò lui a mio nonno di acquistare le fonti di Crodo: con le acque fondò un impero, ora lo stabilimento è della Campari. Lì mio padre aprì un albergo. Sventuratamente nel ‘24, l’anno prima che nascessi, ha venduto tutto e ha comprato dei buoni del Tesoro: trent’anni dopo erano carta straccia”.

Dov’è cresciuto?

A Novara: mio padre, grazie a Dio, aveva comprato una grande casa, dove abbiamo vissuto per molti anni. Lì ho scritto il mio primo romanzo, uscito per Einaudi, L’anno del giubileo, che ha vinto anche il premio Saint-Vincent. Era il 1948, in palio c’erano 300 mila lire e tra i concorrenti c’era Moravia. Ho fatto gli studi a Novara, mi sono diplomato e poi mi sono iscritto al primo anno di Lettere, a Torino. Subito dopo è scoppiata la guerra.
Quali erano gli umori politici in casa?

Le mie sorelle erano molto fasciste. Una era maestra elementare, ma era stata presa dal Fascismo, incaricata di fare un giornale per i soldati al fronte. Invece mia mamma era antifascista, proprio di quelle che sputavano sul quadro di Mussolini che era in cucina, appeso da mia sorella. E mio padre era sostanzialmente impolitico.
Dopo l’8 settembre si arruola a Salò?
Non proprio. Mia madre mi aveva consigliato di lasciare Novara. Andai da certi miei parenti nel Modenese: lì trovai un mio cugino che stava organizzando una brigata partigiana. Ma i fascisti hanno arrestato mio padre: quando il soldato era renitente, prendevano il padre. Era il loro ricatto. Ho preso il primo treno e mi sono presentato. Immediatamente mi hanno spedito in Germania: nella Foresta Nera stavano organizzando le divisioni di Graziani, addestrate dai tedeschi benissimo. Lì ho imparato a fare il soldato: ci sono stato sette mesi, un addestramento durissimo, nella neve, mangiando quasi niente. Siamo tornati in Italia in luglio. Dopo Verona, Mussolini è venuto a trovarci in Germania. Ricordo che mentre ci passava in rassegna, il Duce ha detto: “Non andrete a combattere contro i partigiani, andrete a combattere contro gli americani e gli inglesi”. Una falsa promessa.

Nessuno voleva combattere contro i propri fratelli?

Nessuno, a parte qualche fanatico privo di senso dell’onore. A un certo punto ci mandano ad assediare una formazione partigiana, qui vicino a Bobbio. In quei giorni accade un episodio che m’induce a disertare. Ero già deciso ad andarmene, perché ero già partigiano prima che mi portassero in Germania. Durante un combattimento con i partigiani, rimangono feriti due o tre ragazzi di cui uno giovanissimo. Era ferito a una gamba, una sciocchezza. Un mio ufficiale – voglio fare nome e cognome – si chiamava Longarotti, tenente Longarotti, l’ha ucciso fracassandogli il cranio con gli scarponi. La prima reazione è stata sparargli, ma poi ho pensato: ammazzano me e finisce. Mi sono detto “con gli assassini non rimango più…”.
Lei non aveva mai ucciso?

Probabilmente durante i combattimenti. Però mai uno contro uno. Ho chiesto a un parroco di mettermi in contatto con una formazione partigiana cui mi potessi unire. Sono andato di notte con dieci miei compagni che avevo convinto. Però non sono rimasto con loro: erano della divisione Cichero, comunisti, e non mi hanno trattato bene. Ero allievo ufficiale, come studente universitario, loro pensavano che fossi un ufficiale: “Te non ti vogliamo, i tuoi ragazzi, se vogliono rimanere, possono”. Invece sono tutti venuti con me. Così torniamo a Bobbio, dove troviamo un comandante partigiano, Italo Londei. Era maestro, aveva fatto la campagna di Russia e la guerra in Grecia. Aveva grande esperienza, era un uomo di grandissima umanità. I comunisti della Cichero mi avevano tolto tutti i vestiti, a Bobbio ero arrivato in ciabatte, con una tuta legata insieme dagli stracci. Italo mi ha rivestito, e con lui ho cominciato a fare il partigiano.
In che periodo siamo?
Siamo nel settembre-ottobre del ‘44. Alla fine di dicembre – ero diventato uno dei capi della brigata – il comandante mi dice: “Scendi in pianura per procurare denaro, medicinali e viveri”. I viveri ho fatto in fretta: sono andato in una fattoria e ho rubato cento vacche.
Rubato?
Diciamo prelevato. Ho prelevato cento vacche dalla corte di un fascista. Abbiamo attraversato il fiume in una zona che ancora sto male a pensarci. Andavo nelle farmacie e dicevo: datemi quello che potete. Tenevamo una specie di registro e lasciavamo delle “ricevute”. Scrivevamo: il tale ci ha dato dieci vacche, gli verranno ripagate. Dopo la guerra tutti sono stati risarciti completamente. Anche quello delle vacche.
L’ha rivisto?
Per Dio! Sì. Una volta mi ha fatto una scenata anche nella piazza di Agazzano. L’ho insultato anch’io, gli ho gridato “fascista”.
Torniamo alla missione di recupero viveri.

L’ho raccontata perché la sera di San Silvestro del ‘44 è stata la prima volta che ho messo piede in questo castello. Lo ricordo come fosse ieri. Arrivo e mi accoglie un’atmosfera cupissima. Mi dicono: “Fai piano, la figlia del proprietario sta morendo”. Per venti giorni non l’ho vista. Sapevo che stava migliorando, poi l’ho incontrata un giorno sulla scala. Maria Teresa. Era bellissima. Aveva otto anni più di me, aveva fatto studi di medicina, era già una donna. La malattia al cuore le era venuta perché aveva attraversato il Trebbia in gennaio dopo che avevano distrutto il ponte, a nuoto. Aveva un castello… io non avevo niente, la mia unica proprietà era una bicicletta.
Però v’innamorate.
Subito, lì sulla scala. Lei teneva un diario e anch’io, coincidono perfettamente: mentre io mi innamoravo di lei, lei si innamorava di me. Anche se i genitori non erano tanto d’accordo, un anno e mezzo dopo la fine della guerra ci siamo sposati.
Perché il suo diario partigiano è rimasto nel cassetto per settant’anni?

Sulla Resistenza ho scritto altri due libri. Uno è il mio primo libro di racconti pubblicato da Einaudi, Dentro mi è nato l’uomo. Qualche anno dopo è uscito La scelta, con Feltrinelli: raccontava in maniera molto precisa, già da storico, la Resistenza. Questo diario mi sembrava semplice e ingenuo: l’ho scritto mentre c’era la guerra, ero un ragazzo. L’ho messo in un cassetto e l’ho dimenticato. Mimmo Franzinelli sapeva che avevo un testo nel cassetto e mi ha chiesto: “Perché non lo pubblichi per i settant’anni dalla Liberazione?”. Sono andato a rileggerlo e ho pianto. Non ho cambiato neanche una riga.


Lei ha sempre avuto posizioni molto forti soprattutto sull’“avventura coloniale” in Africa, rivelando anche l’uso dei gas.

Montanelli lo negava. Per trent’anni c’è stata una specie di lotta tra noi. Una lotta feroce, ogni volta che usciva un mio libro, Indro diceva: “Di nuovo Del Boca con le sue balle sui gas. Io c’ero in Africa e non ho mai sentito l’odore di mostarda”. Diceva così perché l’iprite sa di mostarda. Ma lui non aveva sentito odore di mostarda perché quando hanno cominciato a gettare i gas non era più al fronte, era in ospedale.

Perché Montanelli ha negato così pervicacemente?
Era innamorato della sua “avventura africana”. Era partito volontario, comandava un piccolo reparto di indigeni eritrei. Per trent’anni mi ha dileggiato. Poi gli ho proposto di mettere la cosa nelle mani di un mediatore. Insieme abbiamo scelto Susanna Agnelli, che allora era ministro degli Esteri e il generale Corcione, ministro della Difesa. Hanno fatto un’inchiesta stabilendo che avevo ragione io. Indro ha accettato la verità: “Le carte mi danno torto, mi arrendo. E chiedo scusa a Del Boca e ai lettori che ho infastidito”.
L’Italia è stata una potenza coloniale da operetta. Cosa che non si può dire di altri Stati europei, come la Francia: che effetto le fa oggi la chiusura sulle politiche migratorie?
Qualche settimana fa Alex Zanotelli e io abbiamo fatto un appello contro la guerra alla Libia: sarebbe la terza volta che entriamo in guerra contro la Libia. Non serve a niente: oggi la Libia è una polveriera, è troppo divisa. Soltanto Gheddafi era stato in grado di mantenere compatta questa nazione per 42 anni.
Lei è stato il biografo di Gheddafi.

Mi aveva raccontato che ogni anno faceva un viaggio nel Paese e andava a parlare con ogni capo tribù: con loro aveva un rapporto molto stretto e li teneva uniti. Soltanto un uomo come Gheddafi era in grado di tenere insieme questa nazione.
Che pensa del dibattito fascismo-antifascismo: è ancora inspiegabilmente vivo, forse anacronisticamente vivo.
Tutto dipende dall’amnistia Togliatti, terribile perché ha ripulito tutto quello che c’era da ripulire. Si ricorda quel Longarotti che aveva scassato il cranio di un ragazzino? L’ho rivisto dieci anni dopo la Liberazione e sa cosa faceva? Il magistrato ad Aosta. Lo avevano accusato di omicidio: l’ergastolo era stato tramutato in dieci anni e i dieci anni in nulla. Quella volta mi sono dovuto trattenere, lo stavo per picchiare.
La Resistenza è una guerra che hanno fatto in pochi e dopo hanno usato in molti. O no?
Non eravamo più di 150 mila. Hanno sfilato, da supposti partigiani, in 300 mila. Infatti io non sono andato alla sfilata: avevo saputo che andavano delle persone che non erano partigiani.
Altri Paesi europei hanno fatto molto più i conti con la loro Storia?

In Germania il dibattito è ancora vivo, ed è un dibattito serio, storico. Aveva ragione Giorgio Bocca quando diceva: “Ho fatto la guerra contro i fascisti perché ero convinto che si potesse eliminare il fascismo. Ma adesso ne sono molto meno convinto”. In fondo l’italiano è molto fascista.
Piace l’uomo forte, l’attitudine al comando?

Sì e questo spiega il successo di Berlusconi prima e di Renzi ora. Piace il cesarismo, piace quest’uomo che gridava “rottamo tutti”. Piace l’uomo forte, l’uomo che decide, l’uomo che non ha dei tentennamenti.
Era questa l’Italia che v’immaginavate sulle montagne?
No, assolutamente. Ho scritto un articolo subito dopo la Liberazione per il giornale di Piacenza. L’ho riletto molti anni più tardi e mi sono dato dell’ingenuo. L’Italia che immaginavo io era un’Italia così depurata, così pulita. Ma erano sogni.
Chi sostiene le ragioni dell’amnistia dice che dopo le guerre c’è sempre bisogno di una pacificazione.
Anche in Francia hanno fatto un’amnistia, però è servita per qualche migliaio di persone. Da noi è servita a decine di milioni: tutta la popolazione era fascista. Dopo la guerra c’è stata una stagione di grande fervore, anche intellettuale, si è cominciato a ricostruire il Paese. Con foga, con convinzione e testardaggine. Accanto a questo la Costituente è riuscita, con un grande sforzo di mediazione, a produrre una carta fondamentale, che ha retto fino ad oggi nonostante gli urti e le spallate. Pare che tutti quelli che arrivano al governo vogliano toccare la Costituzione. È pazzesco.
Lei ha fatto anche il giornalista.

Per trent’anni. Sono stato inviato speciale alla Gazzetta del Popolo, dal 1950 al ‘68. Poi al Giorno sono stato caporedattore centrale. Mi ha chiamato Italo Pietra, che era stato partigiano come me. Il caporedattore del giornale era molto bravo ma aveva fatto una sciocchezza: una sera è andato via prima e nella notte due treni si sono scontrati a Voghera con cinquanta morti. La notizia è uscita su La Stampa e non sul Giorno: così sono stato chiamato io. Sono rimasto lì fino all’81, quando ho deciso di andarmene perché mi avevano offerto un posto di insegnante all’Università di Torino.
Cosa ricorda dell’esperienza dei quotidiani?
La prima parte è stata la più bella: per vent’anni sono stato inviato speciale e godevo di un’assoluta libertà. Avevo vinto dei premi, avevo già scritto libri: mi lasciavano fare quello che volevo. E quindi se dicevo: voglio andare in Etiopia a raccontare la guerra vista dagli etiopici, mi rispondevano “Parti subito!”. Sono andato in India, in Vietnam, in Giappone…
In Vietnam durante la guerra?

Di guerre ne ho fatte tante: l’Algeria, l’Angola, l’Egitto, il Sudan. La peggiore è stata il Vietnam: mi sono trovato molte volte in condizioni incredibili, ho pensato di non farcela. Ti ammazzavano anche in camera da letto. Nei miei viaggi ho incontrato anche persone incredibili.
Per esempio?
Madre Teresa. È stata un’esperienza stupenda, ho vissuto con lei un’intera giornata, dalle 4 del mattino fino a sera, nella sua missione a Calcutta. Aveva una forza d’animo incredibile. Dovevo vincere gli attacchi di vomito quando lei puliva i malati di lebbra. Era una donna tranquilla, semplice, veniva da una famiglia poverissima. Ma era intelligentissima: insieme abbiamo incontrato un architetto che le sottoponeva un progetto per la missione. Lei era preparatissima, gli suggerì ogni sorta di migliorie.

Riferimenti

Alcuni scritti di Angelo Del Boca sono inseriti nel vecchio archivio di eddyburg nella cartella Italiani Brava Gente.

«Un estratto dal saggio di Euclid Tsakalotos e Christos Laskos (PlutoPress 2013). E' uno testi migliori sulla crisi tra Grecia e Europa e presenta le analisi del successore di Yanis Varoufakis sui problemi che ora affronta come nuovo ministro delle finanze di Atene».

Il manifesto, 7 luglio 2015

La nostra tesi prin­ci­pale è che la crisi greca non sia asso­lu­ta­mente da con­si­de­rarsi un caso par­ti­co­lare. Al con­tra­rio, essa costi­tui­sce il para­digma di una più gene­rale crisi dell’assetto poli­tico ed eco­no­mico neoliberista. In que­sto senso, è neces­sa­rio non solo com­pren­dere le ori­gini della crisi eco­no­mica glo­bale ma anche capire per­ché la strut­tura eco­no­mica e isti­tu­zio­nale dell’eurozona si sia rive­lata ina­de­guata per affron­tare gli effetti della crisi esplosa nel 2008.

Le poli­ti­che di auste­rità che hanno domi­nato la scena sin dall’avvento della crisi hanno raf­for­zato l’impostazione neo­li­be­ri­sta dell’economia e della società. Lo spa­zio per rispon­dere alle domande pro­ve­nienti dagli strati più bassi della società si sono andati dram­ma­ti­ca­mente ridu­cendo, anche rispetto al periodo, comun­que con­tras­se­gnato dall’egemonia neo­li­be­rale, pre­ce­dente la crisi.

Tale irri­gi­di­mento ha coin­ciso con un sem­pre mag­giore distacco tra le élite la realtà sociale o, alter­na­ti­va­mente, con una cre­scente inca­pa­cità delle mede­sime élite di rece­pire pro­po­ste di solu­zione ai pro­blemi pro­ve­nienti dall’esterno dei loro circoli.

La riso­lu­zione finale della pre­sente crisi non potrà por­tare alla rico­stru­zione delle con­di­zioni vis­sute delle eco­no­mie neo­li­be­rali prima del 2008 né, tan­to­meno, con­durre verso il ritorno di un sistema social­de­mo­cra­tico di tipo Key­ne­siano. Dovremmo ricor­dare che non vi fu nes­sun ritorno agli sta­tus quo pre­ce­denti in seguito alle due grandi crisi degli anni ’30 e ’70.

Dun­que, da que­sta crisi si muo­verà o nella dire­zione di un’economia capi­ta­li­stica carat­te­riz­zata da un sostan­ziale auto­ri­ta­ri­smo oppure verso un lungo periodo di tra­scen­denza rispetto ad alcuni degli ele­menti fon­da­men­tali del capitalismo.

La nostra visione rispetto alla situa­zione attuale può essere sin­te­tiz­zata nelle quat­tro tesi che seguono.

La crisi che ha inve­stito la Gre­cia non pre­senta alcun carat­tere di eccezionalità

La nar­ra­tiva che vor­rebbe la Gre­cia come un caso iso­lato ed ecce­zio­nale si fonda su tre ele­menti tra di loro inter­con­nessi. In primo luogo, l’irresponsabilità fiscale dei poli­tici greci. In secondo luogo, le dina­mi­che clien­te­lari che afflig­gono il sistema poli­tico greco. Infine, sia l’irresponsabilità della classe poli­tica che il clien­te­li­smo dif­fuso sareb­bero da ricon­durre a una gene­rale inca­pa­cità di moder­niz­zarsi del paese.

Tutto ciò dovrebbe con­durre a una giu­sti­fi­ca­zione dell’austerità fon­data sulla favola cal­vi­ni­sta cara ad Angela Mer­kel, per la quale i pec­ca­tori deb­bono essere puniti per gli sba­gli da loro com­messi nel pas­sato. La nostra visione non potrebbe essere più lon­tana da quella appena sintetizzata.

La Gre­cia, all’alba dell’esplosione della crisi, era com­ple­ta­mente posi­zio­nata all’interno di un’impostazione neo­li­be­ri­sta sia dal punto di vista eco­no­mico che da quello poli­tico. Il paese si tro­vava a con­di­vi­dere con gli altri Stati mem­bri tutti i tratti carat­te­riz­zanti le eco­no­mie fon­date su basi neo­li­be­ri­ste, così come tutti i fal­li­menti spe­ri­men­tati dalle stesse eco­no­mie. In altre parole, la crisi greca è com­pren­si­bile solo se la si guarda come una mani­fe­sta­zione della crisi glo­bale del neo­li­be­ri­smo piut­to­sto che come una crisi dovuta all’incapacità di appli­care, in modo effi­cace, le ricette pro­prie dello stesso sistema neoliberale.

Siamo di fronte ad una crisi glo­bale del neo­li­be­ri­smo e del capitalismo

La nostra seconda tesi è con­fer­mata dal fatto che l’epicentro della crisi è loca­liz­za­bile nei paesi più avan­zati dal punto di vista dell’applicazione delle ricette neo­li­be­ri­ste, piut­to­sto che in paesi ‘sta­ta­li­sti’ quali la Fran­cia o la Gre­cia. La nostra inter­pre­ta­zione della crisi, inol­tre, rifiuta net­ta­mente l’interpretazione orto­dossa sulla base della quale il mal­fun­zio­na­mento dei sistemi eco­no­mici sarebbe da ricon­durre a ragioni eso­gene al sistema stesso. Le radici della crisi sono, altresì, legate all’incertezza e all’instabilità endo­ge­na­mente pro­dotta dal sistema capitalistico.

La crisi ha messo a nudo la fra­gi­lità del sistema poli­tico post 2008

Dopo una breve fase in cui i prin­ci­pali ele­menti carat­te­riz­zanti l’impostazione neo­li­be­ri­sta – la dere­go­la­men­ta­zione del sistema finan­zia­rio, i super­bo­nus dei mana­ger, gli squi­li­bri macroe­co­no­mici tra paesi o gli effetti dell’individualismo sulla coe­sione sociale – sono stati messi in discus­sione dalle stesse élite, vi è stato un rapida e rin­no­vata con­ver­genza verso lo sta­tus quo ideologico.

In tale con­te­sto, la domanda da un milione di dol­lari è stata: per quale motivo la crisi del 2008 non è stata colta, dalla social­de­mo­cra­zia, come un’opportunità per riaf­fer­mare le pro­prie ragioni sull’ideologia neoliberista?

La nostra ipo­tesi è che i social­de­mo­cra­tici siano intrap­po­lati in quel che viene defi­nito da Blyth nel 2002 il «cogni­tive loc­king». Dopo tanti anni di ege­mo­nia cul­tu­rale neo­li­be­ri­sta i social­de­mo­cra­tici si son sco­perti non più in grado di guar­dare il modo da un’altra prospettiva.

Dalla crisi attuale non è pos­si­bile tor­nare indietro

La nostra tesi con­clu­siva è che dalla crisi che stiamo spe­ri­men­tando non è pos­si­bile tor­nare indie­tro. Le strade pos­si­bili sono due. Una svolta verso una forma di capi­ta­li­smo auto­ri­ta­rio o una tra­scen­denza di alcuni degli ele­menti fon­da­men­tali del capi­ta­li­smo. Nel secondo caso si avrà un disve­la­mento degli effetti cor­ro­sivi pro­dotti da una visione inge­gne­ri­stica della eco­no­mia in cui un unico modello è valido per tutte le società.

Il razionalismo-tecnocratico fa di con­cetti quali la «com­pe­ti­ti­vità» o la «fles­si­bi­lità del mer­cato del lavoro» ele­menti di per sé pre­gni di valore e sulla base dei quali i paesi ven­gono costan­te­mente clas­si­fi­cati. Que­sta visione ha avuto un effetto deva­stante sullo stato di salute delle demo­cra­zie occi­den­tali. E sulla capa­cità di costruire una nar­ra­tiva basata sulle domande cre­scenti pro­ve­nienti dagli strati più bassi della società.

Il legame fon­da­men­tale tra la demo­cra­zia e il fun­zio­na­mento del sistema eco­no­mico dovrà, dun­que, essere posto al cen­tro della rispo­sta della sini­stra alla pre­sente crisi.

* Quello qui è pre­sen­tato è un estratto da «Cru­ci­ble of resi­stance. Greece, the Euro­zone and the World Eco­no­mic Cri­sis» di Euclid Tsa­ka­lo­tos e Chri­stos Laskos (Plu­to­Press 2013). E’ uno testi migliori sulla crisi tra Gre­cia e Europa e pre­senta le ana­lisi del suc­ces­sore di Yanis Varou­fa­kis sui pro­blemi che ora affronta come nuovo mini­stro delle finanze di Atene.

Tra­du­zione di Dario Guarascio.

Il manifesto, 8 luglio 2015

Tra i nume­rosi argo­menti messi in campo con­tro il governo di Atene e i suoi sforzi per non sot­to­stare ai dik­tat della Troika, ve ne è uno tanto inde­cen­te­mente sofi­stico quanto ampia­mente dif­fuso. Con poche varianti il ragio­na­mento fun­ziona pres­sa­poco così: è indub­bio che la popo­la­zione greca si sia demo­cra­ti­ca­mente espressa con­tro le poli­ti­che di auste­rità impo­ste dalla gover­nance euro­pea. Tut­ta­via anche i restanti mem­bri dell’Unione sono delle demo­cra­zie (seb­bene di qual­cuno, come l’Ungheria, sarebbe lecito comin­ciare a dubi­tare) cosic­ché il pro­nun­cia­mento di Atene non può in nes­sun modo pre­va­lere sulla volontà espressa, con il tra­mite dei loro governi, da que­ste democrazie.

Si applica insomma quel prin­ci­pio che Stuart Mill poneva a fon­da­mento della sua idea di libertà, la quale avrebbe ces­sato di essere legit­tima lad­dove risul­tasse di osta­colo alla libertà altrui. La spe­ciosa incon­si­stenza di una sif­fatta tra­spo­si­zione salta subito agli occhi.

In che modo il refe­ren­dum greco possa minac­ciare l’ordinamento demo­cra­tico di altri stati euro­pei resta un mistero della fede. Fatto sta che que­ste demo­cra­zie non sono mai state chia­mate ad espri­mersi sulle poli­ti­che di auste­rità che avreb­bero dovuto subire o imporre a se stesse e ad altri. E di certo, nella loro pro­pa­ganda elet­to­rale, i par­titi in lizza in que­sti paesi si sono sem­pre pro­di­gati nello smi­nuire i sacri­fici richie­sti e nell’enfatizzare le pro­messe, per­lo­più assai vacue, di cre­scita. Una volontà demo­cra­tica in favore dell’austerità o dell’iscrizione del pareg­gio di bilan­cio nelle Carte costi­tu­zio­nali non è mai stata regi­strata (men che meno nell’Italia al suo terzo governo non eletto). Tanto è vero che que­ste scelte sono sem­pre state pre­sen­tate all’opinione pub­blica non come un pos­si­bile oggetto di scelta demo­cra­tica, ma come vin­coli esterni: «Ce lo chiede l’Europa», intesa in que­sto caso come una entità sovraor­di­nata ai pro­cessi demo­cra­tici, come regola astratta sca­tu­rita da mec­ca­ni­smi imperscrutabili.

Le “riforme strut­tu­rali” in Gre­cia ci ven­gono invece pre­sen­tate come un biso­gno impel­lente dei cit­ta­dini euro­pei e una espres­sione della loro volontà demo­cra­tica. Il vero pro­blema che il governo di Atene ha posto all’Europa è infatti quello della demo­cra­zia, per una volta appli­cata non agli spet­tri della rap­pre­sen­tanza ma alle con­di­zioni mate­riali di vita di una intera popo­la­zione. Una simile appli­ca­zione rischie­rebbe di strap­pare le demo­cra­zie euro­pee ai governi che oggi, “per il loro bene” le ten­gono al guin­za­glio. Quale sia il peri­colo lo espli­cita senza mezzi ter­mini un gior­na­li­sta di Spie­gel on line (ma di scuola ultra­con­ser­va­trice): «Se qual­cuno aveva ancora biso­gno di una prova di quanto siano peri­co­losi i pro­nun­cia­menti popo­lari è ser­vito. La Gre­cia mostra una volta di più che i refe­ren­dum, ossia la regi­stra­zione con­tin­gente della volontà popo­lare, non pro­du­cono auto­ma­ti­ca­mente i migliori risul­tati» (Roland Nel­les). Sia pure. Sarà anche vero che gli elet­tori tede­schi, per quanto dan­neg­giati nei loro livelli di vita ben più dall’ossessione com­pe­ti­tiva e accu­mu­la­trice del governo di Ber­lino che non dal debito greco, vote­reb­bero l’immediata espul­sione di Atene dall’eurozona. Ma un conto è pro­nun­ciarsi per un’ideologia che ammicca alla supe­rio­rità nazio­nale (non è una novità che dalle urne pos­sano uscire governi o pro­nun­cia­menti mostruosi), un altro com­bat­tere per la pro­pria sopravvivenza.

Ma in spre­gio a qua­lun­que ragio­ne­vole valu­ta­zione della realtà, la favola delle 19 demo­cra­zie su un piede di parità cir­cola senza rite­gno. Baste­rebbe doman­darsi per­ché solo alcuni par­la­menti o solo alcune Corti costi­tu­zio­nali e non altre abbiano il diritto di rati­fi­care o di boc­ciare accordi e poli­ti­che di por­tata euro­pea, per uscire da que­sta ridi­cola pan­to­mima. Pos­siamo facil­mente imma­gi­nare quanto con­te­rebbe l’opinione dei paesi bal­tici se non dovesse coin­ci­dere con quella di Berlino.

La crisi greca ha por­tato in luce le peg­giori pul­sioni ali­men­tate dalle poli­ti­che gover­na­tive in Europa. Prima tra tutte quel “risen­ti­mento” con­si­de­rato da sem­pre un cavallo di bat­ta­glia della dema­go­gia popu­li­sta. Da Madrid a Lisbona si leva la pro­te­sta: per­ché i greci (comun­que già mas­sa­crati dai memo­ran­dum) dovreb­bero essere esen­tati da ciò che noi abbiamo dovuto accet­tare, rischiando il nostro con­senso elet­to­rale? Domanda accom­pa­gnata dalla messa in scena di una pre­sunta “uscita dalla crisi” che, con certi tassi di disoc­cu­pa­zione e povertà, è dav­vero inde­cente per­met­tersi. O la recita da Kin­der­gar­ten che rap­pre­senta i risparmi dei con­tri­buenti tede­schi, nella più totale inno­cenza del sistema finan­zia­rio, fluire nelle tasche degli sfac­cen­dati greci che se li godono alla loro faccia.

L’atmosfera greca della crisi in corso ha pro­vo­cato un’alluvione di sbia­diti ricordi sco­la­stici. Ma forse uno sarebbe per­ti­nente, non tanto per quel con­flitto tra le ragioni della forza e quelle della giu­sti­zia che lo ha reso esem­plare, ma per quello, col­la­te­rale, tra gover­nanti e gover­nati. Si tratta del cele­bre dia­logo tuci­di­deo tra i melii e gli ate­niesi. I primi chie­de­ranno ai messi di Atene di par­lare solo di fronte agli oli­gar­chi e gli stra­te­ghi e non di fronte a tutto il popolo che avrebbe potuto cadere preda dell’abile reto­rica ate­niese. Poco importa che l’oligarchia si dispo­nesse, in quel fran­gente, a respin­gere il dik­tat della potenza di Atene andando incon­tro a una cata­strofe. Ciò che conta è che il popolo doveva essere tenuto fuori da ogni decisione.

A parti inver­tite, schie­ran­dosi con­tro il dik­tat di Bru­xel­les, Tsi­pras ha fatto la scelta oppo­sta. Forse l’unica in grado di scon­giu­rare una catastrofe.

Che cos’è il debito? In tedesco il sostantivo femminile Schuld designa insieme il debito e la colpa. «Il capitalismo è un culto che non consente espiazione, ma produce colpa e debito», scriveva già nel 1921 Walter Benjamin. La vittoria del no al referendum greco ha richiamato l’attenzione del mondo non solo sulla drammaticità della situazione politica ma anche sul conflitto culturale, sull’antinomia profonda connessa alla concezione del debito nell’evolversi della psiche collettiva: ancora una volta, sull’antica polarità tra Grecia e Germania.

Debito e colpa è il titolo di un libro appena uscito (Ediesse, pagg. 240, euro 12) che Elettra Stimilli ha dedicato alla centralità della figura del debito come colpa nell’indebitamento planetario che segna la più recente fase del capitalismo contemporaneo. Le forme di consumo illimitato basate sull’indebitamento privato, partite dall’America, sono diventate, argomenta Stimilli, il motore principale dell’economia. Dal 2009, con l’immediato globalizzarsi della crisi americana, l’aumento esponenziale del debito privato ha coinvolto il debito pubblico dei paesi economicamente avanzati fino ad arrivare ai debiti sovrani. La finanziarizzazione della vita quotidiana, la “democratizzazione del credito”, ha prodotto uno stato di indebitamento generalizzato in cui ognuno, sia come lavoratore sia come consumatore, è diventato per definizione anzitutto debitore.

Nella cultura attuale dell’occidente, la parola debito è eminentemente connessa a quell’etica protestante, che già Max Weber vedeva all’origine ideale e psicologica, prima ancora che materiale e sociale, del sistema capitalista, alla cui indubbia efficienza i teorici, da Karl Marx a Joseph Schumpeter, hanno sempre contrapposto, con diversi gradi di perplessità, la difficoltà etica della giustificazione teorica. Se per Max Weber il capitale nella sua forma moderna nasceva dalla concezione calvinista della grazia e del peccato per poi secolarizzarsi in ideologia profana, secondo Benjamin il capitalismo può considerarsi in sé una religione, il culto di un dio minore, privo di dogmi ma dalla legge implacabile. È proprio la connessione religiosa fra debito economico e colpa morale — attinta peraltro a un’intuizione degli scritti giovanili di Marx — che porta il povero insolvente, scriveva Benjamin, «a fare di sé una moneta falsa, a carpire il credito con inganno, a mentire, così che il rapporto di credito diventi oggetto di abuso reciproco».

Se in tedesco i concetti di debito e colpa si stringono in uno stesso nodo lessicale, la lingua greca, che sta all’origine del nostro pensiero e della nostra sintassi filosofica, distingue nettamente tra l’uno e l’altra. Nel greco antico, come ancora oggi nel greco moderno, debito si dice chreos , un sostantivo che deriva dal verbo chraomai , “usare”, e dalla locuzione chre , “ciò che serve”, che si usa e di cui c’è bisogno; è inoltre connesso con chreia , la “mancanza”. Il termine chreos viene usato ampiamente dagli storici, come Tucidide, dai filosofi, come Platone, e dai giuristi, fino alle Novelle di Giustiniano e ai Basilika : il greco bizantino assicurerà la continuità e trasmetterà la certezza del diritto romano nel suo transito millenario dall’età antica a quella moderna, attraverso i secoli solo in occidente oscuri del cosiddetto medioevo dominato dal diritto barbarico.

Ma la prima attestazione della parola chreos nella letteratura greca è già nell’ottavo canto dell’ Odissea , nel passo in cui Efesto incatena Ares e Afrodite dopo averli colti in adulterio. Tutti gli dèi ridono tranne Poseidone, che gli intima di scioglierli. Efesto rifiuta perché, dice, se lo facesse Ares fuggirebbe eludendo insieme due vincoli, quello materiale della catena e quello morale, il chreos , che lo lega ormai a Efesto. Questo secondo legame non è una servitù, impossibile tra dèi, piuttosto una comunanza di destino, un pegno. Il dio della guerra si è indebitato con il dio del fuoco, dell’ingegneria, dei fabbri, di tutti gli artigiani: cedendo all’amore, condividendo il fascino della dea, si è sottomesso al vincolo di un reciproco scambio. Anche altrove il significato del
chreos greco sfuma spesso in quello di una comunanza ferrea di destino, di una ineludibile necessità: designa “il debito che tutti devono pagare”, ossia, almeno a partire da Teognide, anzitutto e per definizione la morte. Un’accezione metaforica di chreos che si ritrova lungo tutta la letteratura greca, da Platone alla Sapienza di Salomone tradotta nella bibbia dei Settanta.

La distinzione tra debito e colpa è evidente nel Nuovo Testamento, anzitutto in uno dei suoi passaggi più noti: la preghiera del discorso della montagna, che diventerà il padre nostro. Qui il greco della koiné usa, anziché chreos , il più materiale e umile sostantivo ophèilema , che si ritrova in Matteo 6, 12: “rimetti a noi i nostri debiti”. La clamorosa discrepanza dal testo di Luca 11, 4, che ha invece la variante “rimetti a noi i nostri peccati” e usa il ben distinto sostantivo amartìa , ha dato luogo a infinite dispute teologiche e fatto sospettare una comune ascendenza dall’ebraico hôb , hôbot , insieme debito e colpa. Ma proprio il fatto che il dettato neotestamentario debba adottare due voci diverse sottolinea l’estraneità dei due concetti nella psiche greca.

Lo squilibrio politico generato da un lungo e inestinguibile debito ha un precedente storico nel mondo greco. A provocare la caduta dell’impero di Bisanzio sei secoli fa è stato il debito con la repubblica di Venezia, incarnazione di quel capitalismo nascente che la percezione teologica e filosofica bizantina, erede di quella classica, non sarebbe mai riuscita ad assimilare né a comprendere.

L’indebitamento dello stato bizantino con i banchieri dell’occidente spinse le sue élite verso l’oriente. La civiltà bizantina entrò allora nella sfera geopolitica dell’islam ottomano, da cui solo nel XIX secolo la Grecia è emersa.


Non è scritto in nessun memorandum che l'Europa debba assumere l'ideologia della tradizione luterana, anziché quella della tradizione giudaico-greco-cristiana. Ma se pure così fosse, una cosa è il debito altra è il debitore. Far passare Alexis Tsipras come responsabile di un debito contratto dai governi contro i quali lui, il suo partito e il suo popolo hanno combattuto e vinto è una pesante mistificazione. Come dire che la Merkel e Schulze sono responsabili dei debiti dei nazisti.

Si tratta, molto prosaicamente, di un tassello di quel mosaico di menzogne sotto il quale si vuole nascondere la verità strategica di "questa" Europa: ciò che da essa si vuol cacciare Europa è la speranza del cambiamento che la Grecia di Tsipras.

«Il refe­ren­dum con­tro l’austerità in Gre­cia è stato poli­ti­ca­mente impor­tante per l’intera Europa — sostiene Luciano Gal­lino, autore di Finan­z­Ca­pi­ta­li­smo e Il colpo di stato di ban­che e governi (Einaudi) — Se un popolo ridotto in mise­ria, che conta 11 milioni di abi­tanti, rie­sce a creare seri pro­blemi ai paesi più impor­tanti d’Europa, con un peso eco­no­mico e poli­tico come la Ger­ma­nia, ad un certo numero di per­sone potreb­bero venire delle idee.

Quali, ad esem­pio?

Anzi­ché subire pas­si­va­mente le diret­tive di Bru­xel­les, che in molti casi sono quelle di Ber­lino, potreb­bero pun­tare i piedi e discu­tere i prov­ve­di­menti. Cosa che non è avve­nuto in Ita­lia negli ultimi quat­tro governi ita­liani che hanno accet­tato pas­si­va­mente e pedis­se­qua­mente obbe­dito alle tera­pie della Com­mis­sione Euro­pea o della Bce. Non si è mai vista una banca cen­trale chie­dere di ren­dere fles­si­bile il mer­cato del lavoro. Lo fece con Tri­chet da gover­na­tore con la let­tera del 2011. Il governo Monti messo al posto di quello Ber­lu­sconi ha imme­dia­ta­mente prov­ve­duto a farlo. Chissà se il caso della Gre­cia non farà cre­scere il numero delle per­sone che vogliono farsi sen­tire sull’euro o sul fun­zio­na­mento dell’Unione Europea.

Tsi­pras ha denun­ciato un colpo di stato con­tro il suo governo. Che cosa è acca­duto dav­vero in Gre­cia nell’ultima set­ti­mana?

Si è con­cre­tata la situa­zione che sta matu­rando da molti anni. La demo­cra­zia è un fat­tore di disturbo per le isti­tu­zioni euro­pee, per molti paesi a comin­ciare dalla stessa Ger­ma­nia o per il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale. Tanto Lagarde, quanto Mer­kel, hanno detto in varie occa­sioni che è molto bello vivere in demo­cra­zia ma che biso­gna anche ren­dersi conto che la demo­cra­zia si deve con­for­mare alle esi­genze del mer­cato. Io trovo que­ste dichia­ra­zioni poli­ti­che di una gra­vità ecce­zio­nale per­ché dovrebbe essere vero invece esat­ta­mente il con­tra­rio. In Europa la demo­cra­zia viene con­si­de­rata ormai un intoppo per le deci­sioni del mer­cato. Del resto nei trat­tati fon­da­tivi dell’Unione i rife­ri­menti alla demo­cra­zia sono nulli. Con la Gre­cia hanno pro­prio esa­ge­rato. Se anche i primi mini­stri, per non par­lare dei fun­zio­nari della Bce o di impor­tanti espo­nenti dei socia­li­sti hanno inter­fe­rito aper­ta­mente con il governo greco, dimo­strando che per loro la demo­cra­zia è una sec­ca­tura per la libera cir­co­la­zione dei capi­tali. La social­de­mo­cra­zia è scom­parsa total­mente. È ora di pren­dere posi­zione. Non che sia facile ma, piut­to­sto che bat­tere la testa con­tro un muro, vale la pena di provarci.

Pro­fes­sor Gal­lino lei sostiene che dal 2007–8 sia in corso in Europa pro­prio un colpo di stato. Il refe­ren­dum greco è stata una prima rispo­sta col­let­tiva?

È una rispo­sta poli­tica dei greci a cin­que anni di poli­ti­che deva­stanti impo­ste da Com­mis­sione Ue, Fmi e Bce, ed è anche la prima con­tro quanto è matu­rato in Europa dalla crisi dei debiti sovrani in poi. La prima fase del colpo di stato pre­sup­po­neva che le vit­time pro­te­stas­sero un po’, per poi obbe­dire come nulla fosse suc­cesso. Oggi, il fatto che un paese eco­no­mi­ca­mente insi­gni­fi­cante alzi la testa e prenda a calci negli stin­chi que­sti poteri è un fatto rile­vante. Ale­xis Tsi­pras ha rive­lato una tem­pra fisica e poli­tica ecce­zio­nale per reg­gere cin­que mesi di trat­ta­tive. Oggi il fatto nuovo è che qual­cuno abbia detto “No”, non solo nelle piazze, ma soprat­tutto nelle trat­ta­tive, impo­nendo un refe­ren­dum al quale hanno par­te­ci­pato milioni di per­sone. Que­sto ha inner­vo­sito molto Mer­kel e gli inef­fa­bili pre­to­riani della Com­mis­sione Euro­pea o del Con­si­glio Europeo.

Quante pos­si­bi­lità esi­stono per un accordo sul debito e sui fondi per la Gre­cia?

Lo spet­tro delle opzioni sul tavolo oggi è molto ampio. La ristrut­tu­ra­zione del debito è essen­ziale, ogni eco­no­mi­sta di mezza tacca ammette che non è paga­bile. La Gre­cia ha perso il 25% del pil gra­zie alle medi­cine tos­si­che di Bru­xel­les. In que­ste con­di­zioni, se va bene, riu­sci­ranno a pagare un debito che arri­verà al 180% del Pil tra mol­tis­simi anni. Que­sta situa­zione dimo­stra che gli eco­no­mi­sti che hanno pro­po­sto que­ste ricette non cono­scono il loro mestiere e andreb­bero licen­ziati. La solu­zione è quella di affron­tare i pro­blemi imme­diati: creare occu­pa­zione qua­li­fi­cata per milioni di per­sone, se è pos­si­bile evi­tando i gio­chetti come il Jobs Act che non ser­vono a nulla, aumen­tare la pro­du­zione pos­si­bil­mente non con le vec­chie poli­ti­che indu­striali e nuove poli­ti­che di inve­sti­menti pub­blici. Per fare que­sto è neces­sa­rio ridi­scu­tere il trat­tato isti­tu­tivo dell’Unione Euro­pea, oltre che lo sta­tuto della Bce, che non con­tem­pla la neces­sità della nostra epoca, cioè creare occu­pa­zione o il pre­stito di denaro ai governi. Una cosa inau­dita per una banca centrale.

In che modo si può inter­ve­nire?

Ci sono due pro­blemi col­le­gati da affron­tare. I trat­tati, oggi, non sono modi­fi­ca­bili, se non all’unanimità. È il segno dell’impossibilità pra­tica di inter­ve­nire: come si fa a far votare 28 paesi insieme? Que­sto è il fun­zio­na­mento di un’unione nata male, fon­data sulle neces­sità eco­no­mi­che e non su quelle demo­cra­ti­che, dove la par­te­ci­pa­zione non conta nulla. Poi c’è il pro­blema della Ger­ma­nia, l’unico paese ad avere avuto van­taggi dall’euro in ter­mini di export e pro­dut­ti­vità, anche se negli ultimi dieci anni in que­sto paese i salari sono rima­sti fermi. Con­vin­cerla a dimi­nuire l’export, è dif­fi­cile se non impos­si­bile, ma que­sto è uno dei pro­blemi fon­da­men­tali e lo dicono anche gli eco­no­mi­sti tede­schi. L’euro non fun­ziona e non fun­zio­nerà mai. Non si tratta però di con­ti­nuare le invet­tive con­tro la finanza, ma di met­tersi a stu­diare cosa fare per miglio­rare l’euro, per affian­carlo a monete paral­lele o dis­sol­verlo in maniera con­sen­suale. Così com’è l’euro è una cami­cia di forza che rende la vita impos­si­bile a tutti, tranne che alla Germania.

In Europa Tsi­pras è iso­lato. Se il suo governo perde la guerra, cosa si pre­para per la Spa­gna, con Pode­mos, e in gene­rale per l’Europa?

A que­sto punto, anche se perde, Tsi­pras ha vinto comun­que. Le vit­to­rie restano, spin­gono le per­sone a fare qual­cosa che prima non osa­vano nem­meno imma­gi­nare. Qual­cosa di nuovo può rina­scere dopo la scom­parsa totale della sini­stra in Europa.

L’asse Rignano-Berlino, messo su in gran fretta per spez­zare le reni alla Gre­cia, è mise­ra­mente crol­lato. Con il sogno di un pezzo di man­tello impe­riale da pog­giare sulle spalle, Renzi è volato dalla Mer­kel. In ginoc­chio dinanzi al nuovo sovrano del con­ti­nente, riven­di­cava un rico­no­sci­mento uffi­ciale del suo rango di vas­sallo fedele che ha ese­guito bene il man­dato. Con la distru­zione dei diritti del lavoro e il rogo della scuola pub­blica, lui si pre­sen­tava come la solu­zione, la ragione obbe­diente ai voleri dei signori della tec­nica e della finanza. Tsi­pras invece era il pro­blema, la fol­lia, il disor­dine. Mai viag­gio, per incas­sare bene­fici imme­diati, fu più incauto. La terra pro­messa, cioè l’ombrello pro­tet­tivo della signora della teu­to­nica potenza, per il gio­vin cava­liere errante si tra­sforma ora in incubo.

Un altro fal­li­mento. Dopo il trend elet­to­rale disa­stroso, che dall’Emilia alla Ligu­ria aveva visto la fuga del popolo della sini­stra da un par­tito che ha il pro­gramma mas­simo della destra eco­no­mica euro­pea, la bato­sta greca acce­lera il declino del ren­zi­smo. I suoi ideo­logi ave­vano cer­cato di but­tarla in velina di regime pre­sen­tando l’immagine di una Gre­cia con gli arse­nali pieni e le tasche vuote. E al coro di dele­git­ti­ma­zione si era aggiunto Vel­troni, dalle colonne di un gior­nale apo­crifo. Con la sua pre­di­ca­zione dome­ni­cale ammo­niva: Roo­se­velt non avrebbe fatto un refe­ren­dum per deci­dere se entrare in guerra. Il corag­gio di Tsi­pras si colo­rava, nella penna di solito buo­ni­sta dell’artefice della virata libe­ri­sta del Lin­gotto, di codardia.

Con Renzi alla corte della Mer­kel si con­geda, e in malo modo, anche una parte cospi­cua degli eredi della tra­di­zione del Pci, che hanno inte­rio­riz­zato valori, sim­boli, cre­denze, inte­ressi mate­riali della destra eco­no­mica e tec­no­cra­tica. Il refe­ren­dum greco suona la cam­pana a morte per le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste impo­ste in Ita­lia anche da una parte influente di quel mondo senza più radici e iden­tità. Il van­gelo della tran­si­zione post-berlusconiana, esi­geva riforme strut­tu­rali, sospen­sione delle ele­zioni, for­za­ture costi­tu­zio­nali, governi d’eccezione che alte­ra­vano i tempi del gioco dei poteri par­la­men­tari e adot­ta­vano il pro­gramma eco­no­mico scritto dalle potenze del capi­tale sotto il ricatto della spe­cu­la­zione. La mano­vra sullo spread è la nuova coer­ci­zione musco­lare che costringe i paesi privi dello scudo della sovra­nità alla resa nel tempo della post-politica. Gli eventi della Gre­cia man­dano in sof­fitta i simu­la­cri appas­siti del socia­li­smo euro­peo, per­ce­pito come brac­cio seco­lare del busi­ness e parte inte­grante del piano del capi­tale glo­bale con­tro i diritti del lavoro. Nell’Europa del sud si è aperta una frat­tura sto­rica, una di quelle cesure che impli­cano la com­parsa di nuovi attori poli­tici, la matu­ra­zione di altre culture.

La sfida di Tsi­pras non appar­tiene alla con­giun­tura, e non è un feno­meno solo locale, o la mani­fe­sta­zione radi­cale di un elle­ni­smo peri­fe­rico. È parte di un pro­cesso euro­peo più vasto, che da Atene si spinge verso Madrid, e annun­cia l’inizio di una nuova sini­stra, cri­tica verso il capi­ta­li­smo post­mo­derno, come impor­rebbe il suo stesso codice gene­tico, da troppi dimen­ti­cato. Una sini­stra legata al lavoro, in ogni paese dovrà assu­mere carat­teri ori­gi­nali nell’organizzazione, nella cul­tura, nei sim­boli. Le parti della tra­di­zione del comu­ni­smo ita­liano rima­ste coe­renti con i punti car­dine di una cul­tura cri­tica verso gli idoli del capi­tale, le reti dell’associazionismo civico, le sen­si­bi­lità sociali di un radi­ca­li­smo reli­gioso, e le nuove istanze dei diritti di libertà, il movi­mento sin­da­cale legato al con­flitto devono par­te­ci­pare a un pro­cesso per la defi­ni­zione di un nuovo sog­getto poli­tico. Biso­gna fare in fretta per­ché già si è accu­mu­lato un ritardo e tanti errori sono stati com­messi. È oppor­tuno ascol­tare la lezione greca che dà la carica per l’invenzione organizzativa.

I com­men­ta­tori che inca­sel­lano il feno­meno Tsi­pras nelle cate­go­rie del popu­li­smo com­piono un deli­be­rato com­pi­tino di depi­stag­gio cogni­tivo. Il dise­gno di Tsi­pras non ha nulla di popu­li­sta, cioè non costrui­sce inganni, devia­zioni, capri espia­tori. Non col­tiva la paura ma la per­ce­zione della pro­pria con­di­zione sociale e non c’entra nulla con la ruspa che se la prende con i nemici imma­gi­nari. Niente in comune ha poi con lo tsu­nami tour, che odia anche il sin­da­cato ed evita di col­lo­carsi in una parte pre­cisa nello spa­zio poli­tico e sociale. Tsi­pras non salta con imma­gini defor­manti il con­flitto, anzi lo nomina, lo poli­ti­cizza. E non si situa oltre la cop­pia destra-sinistra, al con­tra­rio la riven­dica come fon­da­tiva, la declina in forme tra­spa­renti. Il suo è un dise­gno di radi­ca­liz­za­zione della pro­po­sta poli­tica e sociale della sini­stra dinanzi alle sof­fe­renze di un paese ridotto in ginoc­chio dalle classi poli­ti­che tra­di­zio­nali, con la Spd che ora vuole la resa dei conti con­tro i ribelli greci e minac­cia “misure umanitarie”.

Per que­sto recu­pero da sini­stra dell’interesse nazio­nale, Tsi­pras parla all’Europa del sud ed è, il suo per­corso, l’esatto con­tra­rio del popu­li­smo, che inventa nemici di una cul­tura altra, li espone alla gogna in maniera osses­siva gra­zie alle coper­ture dei media, che fab­bri­cano fan­ta­smi di comodo pur di pro­teg­gere il capi­tale dagli attori del con­flitto. All’invenzione di un total­mente altro (immi­grato, islam, rom) con­tro cui spa­rare il risen­ti­mento e le paure degli esclusi, egli con­trap­pone la verità dei rap­porti mate­riali. Con forza denun­cia il domi­nio che vede l’idolo pagano con sim­bo­lo­gie teu­to­ni­che suc­chiare il suo net­tare dal cra­nio dei popoli uccisi con le poli­ti­che di auste­rità pale­se­mente inso­ste­ni­bili. La ven­detta dei mer­cati non tar­derà a sca­gliarsi con furore cieco con­tro la rivolta poli­tica inau­gu­rata ad Atene. Ma il voto greco dice che è pos­si­bile una grande poli­tica, con­tro il ser­vi­li­smo del fre­sco vigore di un Renzi, orfano delle magni­fi­che riforme impo­po­lari che senza una rimo­du­la­zione del debito, una rivi­si­ta­zione del fiscal com­pact saranno state prove inu­tili di sacri­fi­cio. Con il suo volo alto nei cieli di Ger­ma­nia, per assi­cu­rare a poche ore dal refe­ren­dum che la par­tita si gio­cava tra l’euro e la dracma, Renzi ha scor­dato le parole del poeta: «Ai voli troppo alti e repen­tini / sogliono i pre­ci­pizi esser vicini».

«La ferocia liberista della socialdemocrazia europea» e «È il tracollo del socialismo europeo»: sono i titoli degli articoli di Marco Bascetta e Marco Revelli che sintetizzano con efficacia il dramma dell'Unione europea. Liberare lo scenario dai rottami della sinistra del secolo breve è forse il passo essenziale da compiere per combattere vittoriosamente il neoliberismo, fase finale del capitalismo.

Il manifesto, 7 luglio 2015

LA FEROCIA LIBERISTA DELLA SOCIALDIMOCRAZIA EUROPEA

di Marco Bascetta

Le due ali politiche istituzionali fanno a gara per imporre i memorandum della Bce e del Fmi all’Europa. E chiudono gli occhi di fronte all’esercizio della democrazia che viene dalla Grecia
Il volto gri­gio e tirato di Mar­tin Schulz, pre­si­dente dell’Europarlamento, costretto a bal­bet­tare il suo com­mento «isti­tu­zio­nale» al risul­tato del refe­ren­dum greco è forse l’immagine più vivida dello stato in cui versa quella che fu la social­de­mo­cra­zia europea. Solo poche ore prima, a urne ancora aperte, era inter­ve­nuto, con un gesto inam­mis­si­bile per il ruolo che rico­pre, a soste­gno dello schie­ra­mento del sì. Per poi, una volta scon­fitta la sua «parte», offrire, inde­cen­te­mente, un soste­gno «umanitario» alla Grecia.

Herr Schulz, le cui dimis­sioni dovreb­bero essere cosa scon­tata, rispec­chia tut­ta­via pie­na­mente l’idea di demo­cra­zia pre­va­lente nelle segre­te­rie delle for­ma­zioni social­de­mo­cra­ti­che euro­pee. Il suo par­tito, la Spd, si è speso tanto acca­ni­ta­mente in favore del rigore e delle poli­ti­che di auste­rità da osta­co­lare per­fino quel tanto di aper­ture che la can­cel­liera Angela Mer­kel avrebbe potuto azzar­dare in alcune fasi del nego­ziato con Atene.

Nean­che per un istante la diri­genza social­de­mo­cra­tica, in buona com­pa­gnia di ita­liani e fran­cesi, si è disco­stata, sia pur di poco, da quello schema che pone al cen­tro della costru­zione euro­pea il rap­porto tra debi­tori e cre­di­tori e il rispar­mio a disca­pito dei red­diti e dei diritti. Cosic­ché oggi la social­de­mo­cra­zia tede­sca è tagliata fuori, per eccesso di zelo, (e per for­tuna) da qua­lun­que pos­si­bile ruolo nella ripresa di un nego­ziato con Atene. Come una can­ti­lena, ormai stan­tia, si limita a ripe­tere che il refe­ren­dum greco ha reso la ricerca di una solu­zione ancora più dif­fi­cile, per non dire impos­si­bile. Ma si guarda bene dall’aggiungere che que­sta «dif­fi­coltà» altro non è che il rifiuto di Syriza di gover­nare secondo regole ostili o indif­fe­renti alla volontà dei gover­nati, come sarebbe auspi­ca­bile secondo la gover­nance europea.

L’Europa sarebbe insomma minac­ciata da una over­dose di demo­cra­zia che rischia di legare le mani dei governi. E non è un caso che nell’Italia delle «riforme» si lavori a ren­dere sem­pre più dif­fi­col­toso il ricorso allo stru­mento refe­ren­da­rio, suscet­ti­bile di scom­pa­gi­nare i gio­chi dell’esecutivo. Oltre che sociale, la socialdemocrazia ha dunque cessato anche di essere democratica.

Resta così, nel ruolo sem­pre più pate­tico e impro­ba­bile di «pon­tiere», la figura più pal­lida e impo­po­lare che i par­titi socia­li­sti d’Europa abbiano mai espresso: Fra­nçois Hollande. Mezzo medi­ter­ra­neo e mezzo gover­nante sem­pre più in bilico di una grande nazione deci­siva per l’Unione euro­pea, ma del tutto subal­terno a quella visione tede­sca del Vec­chio con­ti­nente, che un tempo pre­oc­cu­pava non poco i governi di Parigi. La Francia, da tempo, più che una soluzione è diventata una parte rilevante del problema.

È il paese che ha votato no alla Costi­tu­zione poli­tica euro­pea, affos­san­done defi­ni­ti­va­mente per­fino l’idea, ma che in nes­sun modo si è poi spesa nel cor­reg­gerne la costi­tu­zione mate­riale, ossia i rap­porti di forze eco­no­mici e gli assetti gerar­chici che ne con­fi­gu­rano l’equilibrio: «No alla Costi­tu­zione, si ai Memo­ran­dum», que­sta la lieta novella che pro­viene da Parigi. Nel repub­bli­ca­ne­simo fran­cese si anni­dano molti più sen­ti­menti anti­eu­ro­pei di quanti se ne pos­sano incon­trare dalle parti di Atene. E non è sor­pren­dente che nel suo seno pro­speri e si svi­luppi una forza come il Front Natio­nal di Marine le Pen. Né che la social­de­mo­cra­zia fran­cese si riveli del tutto inca­pace di farvi in alcun modo fronte.

Sotto un velo reto­rico sem­pre più sot­tile e tra­spa­rente l’Unione va tra­sfor­man­dosi in un tavolo nego­ziale tra crip­to­scio­vi­ni­smi di potenza dise­guale, con l’entusiastica ade­sione delle social­de­mo­cra­zie in costante declino di cre­dito elet­to­rale. Affan­nato e petu­lante, truc­cando spu­do­ra­ta­mente i numeri del «suc­cesso», il nostro Pd par­te­cipa alla gara nelle seconde file. La «prio­rità dell’interesse nazio­nale» non è più l’evocazione impro­nun­cia­bile di una sto­ria obbro­briosa, ma un buon argo­mento da cam­pa­gna elettorale. In un sif­fatto con­te­sto in cui l’ipocrisia si fa neces­sità sto­rica, diventa essen­ziale soste­nere che il «no» uscito trion­fante dal refe­ren­dum greco è un no all’Europa e una delle molte insor­genze «popu­li­ste» o «ros­so­brune» che minano la costru­zione euro­pea e aprono sull’ignoto.

Sem­bre­rebbe esservi una sin­go­lare teo­ria che cir­cola da qual­che tempo nei prin­ci­pali media euro­pei e nel dibat­tito pub­blico. Se una volta anda­vano in gran voga gli «oppo­sti estre­mi­smi» ora sem­bra venuto il tempo dei «con­ver­genti estre­mi­smi» che, da destra e da sini­stra, allean­dosi fra loro, pun­tano a demo­lire la sta­bi­lità del Vec­chio con­ti­nente e a inde­bo­lirne le auree regole. Ogni voce cri­tica viene auto­ma­ti­ca­mente attri­buita a que­sto inquie­tante sce­na­rio. Non manca nem­meno chi anno­vera Alba dorata tra i soste­ni­tori di Tsi­pras, comun­que ricor­ren­te­mente assi­mi­lato al Front natio­nal, al Movimento5 stelle o ai nazio­na­li­sti polac­chi. Natu­ral­mente in com­pa­gnia del temu­tis­simo Podemos.

Que­sta opera di disin­for­ma­zione ha rag­giunto il paros­si­smo alla vigi­lia del refe­ren­dum in Gre­cia. Il quale espri­meva invece un punto irri­nun­cia­bile, riba­dito con gran­dis­sima insi­stenza: la per­ma­nenza nell’Unione euro­pea e la crea­zione di con­di­zioni tali da non far dipen­dere que­sta appar­te­nenza da un rap­porto tra cre­di­tori e debi­tori uni­ver­sal­mente rico­no­sciuto come insostenibile. Ciò che risulta vera­mente indi­ge­ri­bile dell’esperienza greca è appunto il suo con­vinto euro­pei­smo. Il quale minac­ce­rebbe non tanto i trat­tati euro­pei quanto gli inte­ressi nazio­nali (sovente più ideo­lo­gici che con­ta­bili) degli stati che gover­nano di fatto l’Unione.

Se di «salto nel buio» si deve par­lare non è certo rife­ren­dosi alla mossa refe­ren­da­ria di Tsi­pras, quanto alla capar­bia difesa di uno squi­li­brio che sta spia­nando la strada alle peg­giori forme di nazio­na­li­smo, alle quali la social­de­mo­cra­zia euro­pea risponde facen­dosi a sua volta por­ta­voce «ragio­ne­vole» dell’«interesse nazio­nale». E’ que­sta la deriva che sta minac­ciando l’Europa e che la crisi greca non ha certo pro­dotto, ma piut­to­sto chia­ra­mente rivelato.

E’ IL TRACOLLO DEL SOCIALISMO EUROPEO

di Marco Revelli

La valanga di «No» non è solo una vit­to­ria del governo e del popolo greco. E’ una vit­to­ria di tutti gli euro­pei che non hanno voluto smet­tere di cre­dere nella democrazia.

La paura è stata scon­fitta. Cla­mo­ro­sa­mente. Il ten­ta­tivo di semi­nare il ter­rore nell’elettorato da parte dei prin­ci­pali espo­nenti delle isti­tu­zioni euro­pee, a comin­ciare dal gover­na­tore della Bce Mario Dra­ghi (che togliendo l’ossigeno finan­zia­rio alle ban­che e al popolo greco si è assunto una respon­sa­bi­lità per­so­nale gra­vis­sima), è fal­lito. Occor­re­vano dav­vero degli «eroi ome­rici» per resi­stere a quel ricatto, e sono stati all’altezza della loro sto­ria migliore. Hanno dimo­strato che anche in tempi di crisi della poli­tica, la «grande poli­tica» è pos­si­bile. Per­ché è «grande poli­tica» mostrare che la pra­tica della demo­cra­zia è pos­si­bile, in un con­te­sto euro­peo che sem­bra aver dimen­ti­cato que­sto valore, e di fronte a oli­gar­chie che non la tol­le­rano e non per­dono occa­sione per dimo­strarlo. Ed è «grande poli­tica» aver mostrato - da quella che potrebbe appa­rire un’estrema peri­fe­ria del con­ti­nente e che invece se ne rivela il vero cen­tro - che l’architettura su cui si basa l’Unione euro­pea non regge. Che va cam­biata dalla radice. Pena la fine dell’Europa.

Dopo que­sto voto Ale­xis Tsi­pras assume sta­tura e ruolo di lea­der euro­peo. Quel «ragazzo», come lo chia­mano affet­tuo­sa­mente in patria, rap­pre­senta tutti gli euro­pei - e sono dav­vero tanti - che non si rico­no­scono in que­sta gestione inu­mana, arro­gante, egoi­stica e irre­spon­sa­bile da parte di coloro che - in nome di un dogma fal­li­men­tare - hanno por­tato l’Europa sull’orlo del disa­stro, tra­den­done gli ideali fon­da­tivi, ren­den­dola odiosa agli occhi del suo stesso popolo. Dovremo d’ora in poi gri­darlo forte, tutti insieme, con un coro trans­na­zio­nale, che l’Europa è troppo impor­tante per lasciarla nelle mani di oli­gar­chi di tal fatta. Di figure dal pro­filo tre­men­da­mente basso, inca­paci di visione, di sguardo, chiuse nella pic­ci­ne­ria di un’esistente inso­ste­ni­bile nel futuro, anche nel più vicino, di fronte alle quali spicca, per dif­fe­renza, la gran­dezza del gesto di Yanis Varou­fa­kis - l’eroe di piazza Syn­tagma, l’uomo accla­mato dal popolo del «No», un vin­ci­tore indi­scusso - che si dimette per favo­rire un accordo che va nell’interesse del pro­prio popolo. Per togliere anche un bri­ciolo di alibi ad avver­sari ran­co­rosi e nella sostanza meschini, in una situa­zione che è, con tutta evi­denza, durissima.

Il voto greco rivela anche il cata­stro­fico col­lasso del socia­li­smo euro­peo. La presa di posi­zione del vice-cancelliere tede­sco Gar­briel, schie­rato addi­rit­tura alla destra della Mer­kel a fare il lavoro sporco per lei – a riba­dirne la «peda­go­gia impe­ria­li­sta» di cui nel suo stesso paese è accu­sata (Der Spie­gel) -, è qual­cosa di ancor più tra­gico del cele­bre voto dei cre­diti di guerra nel 1914, per­ché segna una assi­mi­la­zione ormai senza più resi­dui. La dichia­rata fine di un’identità poli­tica. Così come la ver­go­gnosa posi­zione assunta da Mar­tin Schultz, offen­siva dello stesso par­la­mento euro­peo che dovrebbe rap­pre­sen­tare, esem­pio dell’abisso in cui è caduta la social­de­mo­cra­zia tede­sca ma anche dell’incapacità di rico­prire con dignità un ruolo isti­tu­zio­nale che dovrebbe essere rap­pre­sen­ta­tivo di tutti. Un par­la­mento degno di que­sto nome non dovrebbe esi­tare nem­meno un giorno a chie­derne le dimis­sioni. Per non par­lare delle posi­zioni assunte dal pre­si­dente del con­si­glio ita­liano Mat­teo Renzi: la sua imba­raz­zante per­for­mance di fronte alla can­cel­liera Mer­kel, gra­tuita forma di ser­vi­li­smo a danno degli stessi inte­ressi ita­liani, è il sim­bolo di un defi­ni­tivo degrado poli­tico, cul­tu­rale e morale. Che ne vani­fica ogni pos­si­bile aspi­ra­zione da «media­tore» di alcunché.

Da oggi inco­min­cia una nuova sto­ria per tutte le sini­stre euro­pee, a comin­ciare dalla nostra. I greci hanno aperto una brec­cia. Con­tro di loro si sca­ri­cherà la voglia di ven­detta degli scon­fitti, ancora incre­duli della pro­pria scon­fitta per­ché fidu­ciosi nell’onnipotenza dei pro­pri mezzi. Ten­te­ranno di con­ti­nuare a usarli quei mezzi di dis­sua­sione di massa. Ten­te­ranno di pro­lun­gare il vero e pro­prio asse­dio di tipo medie­vale che hanno pra­ti­cato nell’ultima set­ti­mana. Strin­ge­ranno ancora la gar­rota al collo dei greci per ten­tare di pie­garne i nego­zia­tori. Sta a tutti noi essere all’altezza del com­pito. Per­ché adesso tocca a noi fare la nostra parte, rom­pendo quell’assedio.

Facendo sen­tire forte la voce della vera Europa. Mobi­li­tan­doci per­ché è della nostra stessa pelle che si tratta.

In uno dei suoi aforismi, Ludwig Wittgenstein affermava che “ niente è così difficile come non ingannare se stessi”, specialmente quanto manca un minimo di onestà intellettuale, si potrebbe aggiungere. E’ precisamente il quadro che stampa e altri mass – media, ci presentano il giorno dopo della straordinaria vittoria del No in Grecia, con una percentuale tanto lontana da quel testa a testa che i sondaggi presentavano prima di domenica, al punto da farci pensare che fossero del tutto farlocchi.

La linea più comune è quella di chi dice che la vittoria del No non cambierebbe quasi nulla e lascerebbe inalterata la durezza del confronto in atto. C’è poi chi afferma, con una logica difficile da esplorare, che la vittoria del Sì avrebbe creato migliori condizioni per i greci nella trattativa. In realtà questa non ci sarebbe più stata perché sarebbe passata integralmente la proposta dei creditori. C’è chi, da destra come da sinistra – si fa per dire –, afferma invece che il No vuole dire ben altro e cioè l’addio all’euro, malgrado che la maggioranza del popolo greco si sia esplicitamente espressa in più di un’occasione per la permanenza nell’Eurozona.

Senza rincorrere le interpretazioni più stravaganti è chiaro che le élite europee e i loro fidi commentatori sono stati presi alla sprovvista da un esito così clamorosamente nitido del pronunciamento ellenico e si trovano in difficoltà a replicare in modo convincente, se non rincorrendo alla impossibile denegazione del suo significato e del suo valore.

La sconfitta della Merkel e di tutti coloro che perseguono ostinatamente- malgrado le bocciature che giungono al Fondo monetario internazionale persino dal Congresso americano - la strada dell’austerità, incapaci di pensarne un’altra, è stata questa volta netta e chiara. Ma non è stata la sola. Sulla vicenda greca si è consumato il definitivo harakiri della socialdemocrazia, quella tedesca in particolare. La dichiarazione di Sigmar Gabriel vicecancelliere tedesco e capo della Spd “Tsipras ha distrutto l’ultimo ponte verso un compromesso” è tanto perentoria ( assomiglia molto al tweet della Csu bavarese “Buonanotte Grecia”) quanto incosciente e chiude indegnamente un giro di pronunciamenti uno peggiore dell’altro.

Martin Schulz, dopo averne dette e combinate di tutti i colori, ha ribadito contro ogni evidenza che “il no significa che la Grecia torna alla dracma”, addirittura sulla falsariga di Matteo Renzi che aveva dipinto il referendum come un derby fra euro e dracma. Persino il silente Mattarella, anche se con una dichiarazione un po’ criptica ma comunque rispettosa del voto greco (“si aprono scenari inediti”), sembra prenderne le distanze. Il primato della pagina giornalistica peggiore in assoluto spetta alla risorta L’Unità, nella cui testata campeggia il nome martoriato di Antonio Gramsci, che scarica tutto il suo livore contro il governo greco con quel titolo di prima “Grecia: tasche vuote arsenali pieni”. Intanto Hollande è stato chiamato a consulto dalla Merkel, ma aspettarsi da lui un sussulto di autonomia di pensiero è forse ottimismo eccessivo.

Il primo ostacolo a una riapertura della trattativa, che la Merkel aveva voluto interrompere in attesa dell’esito del referendum - legittimandolo in anticipo al di là delle sue proprie intenzioni - è rappresentato da questa cecità volutamente diffusa e in particolare dalle posizioni della socialdemocrazia tedesca che vuole scavalcare a destra la stessa cancelliera. Non certo dalla intransigenza della delegazione greca, il cui obiettivo rimane quello che era fin dall’inizio: avere un po’ di tempo e di fiato finanziario, quindi rubinetti aperti da parte della Bce ( l’economista Paul de Grauwe giudica del tutto arbitraria la decisione di quest’ultima di escludere la Grecia dal quantitative easing in atto nel resto d’Europa). Si è detto che esattamente due anni fa Mario Draghi abbia salvato dal crollo la Ue con una semplice dichiarazione, la celebre “Whatever it takes”. Ma non lo ha ripetuto e soprattutto non lo ha fatto ora nei confronti della Grecia, essendo l’innalzamento dei limiti dei finanziamenti Ela, rimessi in forse, troppo poco e troppo cari. E avrebbe potuto farlo, sdrammatizzando la situazione almeno dal punto di vista dell’emergenza finanziaria.

Anzi, il comportamento del governo greco è stato contenuto nelle dichiarazioni post voto e soprattutto molto concreto nei fatti. Le dimissioni di Yanis Varoufakis vanno considerate in questo quadro. La stessa dichiarazione dell’economista greco va letta per quello che dice, abbandonando i soliti esercizi dietrologici: “Considero un mio dovere quello di aiutare Alexis Tsipras, nel modo che ritiene più opportuno, per ottenere il massimo dal risultato che ci ha affidato ieri il popolo greco tramite il referendum. Mi farò carico con orgoglio del disprezzo dei creditori”.

Egli sa bene che per andare avanti, ovvero per affrontare il tema di fondo – la ristrutturazione e la diminuzione del debito su cui ha sempre giustamente insistito e che la Germania respinge per ora nettamente -, bisogna prima superare l’emergenza e accumulare forze in campo europeo. Ora c’è il forte No del popolo greco che rafforza Tsipras e chiunque vada a trattare. Ogni pretesto va eliminato. Perciò egli con grande senso di responsabilità e di lealtà può benissimo tenersi da parte.

Non si tratta dell’esplodere di divergenze fra Tsipras e Varoufakis. Anche a sinistra c’è chi pensa così, vedendo un nuovo caso Che Guevara, con Tsipras nella parte di Fidel Castro. Ma non è questo il caso. I due hanno giocato fin dall’inizio la medesima partita con ruoli e modalità giustamente diverse per funzioni, competenze e carattere. Il tentativo di dividerli da parte delle elite europee, accreditando in Tsipras la figura più malleabile, è già stato respinto con la proclamazione del referendum fatta dal primo ministro greco.

Ma il farsi da parte di Varoufakis in questa delicatissima fase della riapertura della trattativa, non significa la sparizione dalla scena del professore di Houston. Anche perché i nodi del debito complessivo e della carenza di investimenti produttivi in settori innovativi verranno al pettine della crisi europea. E su queste cose Varoufakis ha molto da dire. Egli non è solo un brillante teorico di una possibile alternativa di politica economica ai modelli neoliberisti dominanti. Un’analista profondo della situazione economica mondiale. E’ anche lo studioso che si è impegnato a formulare soluzioni pratiche alla questione del debito e della rinascita dell’economia su nuove basi. In lui non vi è separazione inconciliabile fra teoria e pratica, come i suoi avversari – peraltro molto ignoranti sul primo fronte e incapaci sul secondo – vogliono fare credere. Ma la convinzione profonda che senza una lettura adeguata delle contraddizioni del moderno sistema capitalistico mondiale ogni soluzione tende ad accomodarsi sul carro del più forte ed a perpetuare l’attuale sistema.

Yanis Varoufakis si è dedicato a partire dall’annus horribilis della crisi economica in Europa, ovvero il 2009, a progettare un vero piano di investimenti – non come quello attuale di Juncker ridicolmente limitato a una manciata di miliardi -. La sua proposta, che sarebbe tuttora perfettamente valida, era quella di consentire alla Banca Europea degli Investimenti di emettere obbligazioni, che sarebbero state acquistate dalla Banca centrale europea per finanziare investimenti produttivi in settori qualitativamente diversi da quelli verso i quali si indirizza normalmente un mercato di capitali, peraltro restio a farlo perché votato interamente alla finanza. Come si vede si tratterebbe, per così dire, di un’altra forma di quantitative easing, dove però i soldi non verrebbero posteggiati nelle banche, gelose e sospettose a concederli in prestito, creando così una sorta della famosa “trappola della liquidità” di cui ci parlava Keynes, ma verrebbero direttamente impegnati nella economia reale.

Proprio qui sta la chiave per ridare una speranza all’Europa. Da un lato si tratta di affrontare seriamente il tema del debito in base al principio confortato da innumerevoli esempi storici - in primo luogo quelli della Germania nei due periodi postbellici, ove si praticarono scelte diverse con esiti politici non a caso opposti (il nazismo dal rigore nell’esigere il rimborso, la democrazia dal condono del debito nella conferenza di Londra del 1953) – e cioè che debiti troppo elevati non possono venire interamente pagati e che quindi è anche interesse dei creditori giungere alla loro ristrutturazione e riduzione. Se non vogliono perdere tutto costringendo un paese al default. Dall’altro bisogna pensare a un’Europa unita politicamente su basi federali, nella quale si arrivi all’unificazione fiscale e a un bilancio centrale capace di avviare un nuovo modello di sviluppo.

Purtroppo la Ue si muove in modo opposto, non solo nel caso greco, ma più in generale, visto il documento recentemente presentato da Juncker, Tusk, Draghi, Dijsselbloem e Schulz. Come ha detto l’economista americano Jeffrey Sachs il problema, se non vuole implodere o ridursi a una provincia tedesca, è dell’Europa, non della Grecia. Per questo per Varoufakis è solo un arrivederci.

Il giorno dopo le clamorose dimissioni di Varufakis emergono le virtù politiche e le prospettive della decisione, Articoli di Tommaso De Francesco, Pavlos Nerantsis, Annamaria Merlo. Il manifesto, 7 luglio 2015


IL SACRIFICIO DI VAROUFAKIS
di
Pavlos Nerantzis

Tsipras incontra i leader politici dei partiti, tranne i nazisti di Alba Dorata, e trova un’intesa comune per il negoziato. Il titolare delle finanze si dimette, al suo posto Euclid Tsakalotos

La Gre­cia sta vivendo un momento sto­rico. Il giorno dopo il refe­ren­dum, ha ritro­vato l’unità e la volontà di riven­di­care una solu­zione soste­ni­bile con i part­ner euro­pei. L’intero paese si pre­senta com­patto ai suoi cre­di­tori, dopo il ver­tice dei lea­der poli­tici che si è rea­liz­zato ieri sotto l’egida del pre­si­dente della Repub­blica, Pro­ko­pis Pavlopoulos.

È la prima volta, dopo tanti anni, che tutti i lea­der poli­tici par­te­ci­pano allo stesso ver­tice — l’ultimo risale ai primi anni ’90 — con l’esclusione dei nazi­sti di Alba dorata, assenti per «motivi ideo­lo­gici e poli­tici». Durante la riu­nione, durata più di sette ore, Tsi­pras ha pre­sen­tato ai suoi inter­lo­cu­tori un piano simile a quello discusso dieci giorni fa con i cre­di­tori, aggior­nato con i dati nuovi. In primo luogo ha riba­dito la richie­sta di Atene di un pre­stito dall’Esm pari a 29,1 miliardi di euro, cui si con­trap­pone Ber­lino che con­ti­nua a non voler sen­tir par­lare di ristrut­tu­ra­zione del debito.

Per il momento il pro­blema più urgente è la liqui­dità. Le ban­che gre­che rischiano di rima­nere a secco da un momento all’altro. La Bce, per ora, si è limi­tata a man­te­nere il flusso d’emergenza dell’Ela al livello pre-voto (89 miliardi) e a una «cor­re­zione» del col­la­te­rale offerto in garan­zia dagli isti­tuti greci. Per que­sto motivo il governo ha deciso il pro­lun­ga­mento della chiu­sura delle ban­che fino a domani. «La Gre­cia andrà al tavolo delle trat­ta­tive con l’obiettivo di ripor­tare alla nor­ma­lità il sistema ban­ca­rio» ha detto Tsi­pras. Il pre­mier greco è uscito dall’aula due volte. La prima per avere una con­ver­sa­zione tele­fo­nica con Mario Dra­ghi e l’altra con Putin. La Bce potrebbe togliere com­ple­ta­mente l’ossigeno alle ban­che gre­che, ma non vor­rebbe essere Dra­ghi a pro­vo­care il default.

Tsi­pras oggi è più forte che mai dopo aver otte­nuto oltre il 60% dei voti, strap­pando il con­senso anche di altre forze poli­ti­che. «L’esito del refe­ren­dum non è un man­dato di rot­tura ma un man­dato per con­ti­nuare gli sforzi per una solu­zione soste­ni­bile» sot­to­li­neano i lea­der poli­tici, aggiun­gendo che «cia­scuno farà il pos­si­bile per con­tri­buire all’obiettivo comune». Ovvero garan­tire la liqui­dità alle ban­che e la cre­scita del paese, pro­muo­vere le riforme tenendo conto la giu­sti­zia sociale e il nego­ziato per la ristrut­tu­ra­zione del debito.

Il pre­mier greco par­te­cipa oggi al ver­tice Ue con un man­dato chiaro: otte­nere un accordo al più pre­sto, pos­si­bil­mente «entro le pros­sime 48 ore». Un’intesa all’ interno dell’eurozona che apre la strada ad una Europa diversa, della soli­da­rietà e dei diritti con­tro l’austerità e la reces­sione. Il pre­mier greco deve affron­tare i fal­chi dell’eurozona che non vedono come un dramma l’uscita della Gre­cia dall’euro, a dif­fe­renza di altri che fanno di tutto per tenere Atene nell’eurozona, spe­cie nel momento in cui Jp Mor­gan e Bar­clays con­si­de­rano «pro­ba­bile» un’uscita.

Intanto i greci che per cin­que anni stanno vivendo sulla pro­pria pelle le con­se­guenze del peg­gior attacco del neo­li­be­ra­li­smo, nono­stante il ter­ro­ri­smo media­tico, la chiu­sura delle ban­che, le inti­mi­da­zioni e i ricatti di alcuni part­ner euro­pei in que­sti giorni sono otti­mi­sti. Come aveva scritto Yan­nis Ritsos, una delle voci poe­ti­che più forti della Gre­cia con­tem­po­ra­nea, «noi can­tiamo per unire il mondo».

Per arri­vare a que­sto punto d’intesa tra le forze poli­ti­che e un cam­bia­mento del clima nei rap­porti con i cre­di­tori era, però, neces­sa­rio un sacri­fi­cio. Yanis Varou­fa­kis, il mini­stro delle finanze greco, che per cin­que mesi ha tenuto duro, ieri mat­tina ha dovuto dimet­tersi non per­ché in disac­cordo con Tsi­pras, ma per­ché l’hanno chie­sto i part­ner euro­pei. E il pre­mier greco per togliere ogni alibi ai suoi inter­lo­cu­tori euro­pei ha chie­sto le dimis­sioni del suo mini­stro e amico.

Verso le otto di mat­tina Varou­fa­kis ha scritto sul suo blog di aver lasciato l’incarico per con­sen­tire al pre­mier di otte­nere più facil­mente un accordo. «Subito dopo l’annuncio dei risul­tati del refe­ren­dum, sono stato infor­mato di una certa pre­fe­renza di alcuni mem­bri dell’Eurogruppo e di part­ner assor­titi per una mia «assenza» dai loro ver­tici, un’idea che il primo mini­stro ha giu­di­cato poten­zial­mente utile per con­sen­tir­gli di rag­giun­gere un’intesa. Per que­sto motivo da oggi lascio il mini­stero delle Finanze. Con­si­dero mio dovere aiu­tare Ale­xis Tsi­pras a sfrut­tare come ritiene oppor­tuno il capi­tale che il popolo greco ci ha offerto con il refe­ren­dum d’ ieri». E poi con­clude: «Por­terò con orgo­glio il disprezzo dei creditori».

La noti­zia non ha sor­preso nes­suno. Anzi in un’ottica di rilan­cio del nego­ziato, le dimis­sioni sono state accolte posi­ti­va­mente dai mer­cati. Da parec­chio tempo era noto che il mini­stro delle finanze greco non era affatto grra­dito ai mem­bri dell’Eurogruppo e soprat­tutto al suo omo­logo tede­sco, Wol­fgang Schau­ble. Le posi­zioni diverse, ma anche l’aria da prof e l’abbigliamento casual di Varou­fa­kis hanno creato prima un’antipatia, poi uno scon­tro fron­tale e in seguito un vuoto che con il tempo è diven­tato cao­tico, tra il mini­stro greco e i 18 dell’eurozona.

Secondo fonti a Bru­xel­les, era diven­tato «un dia­logo tra sordi» a tal punto, che mesi fa, l’ambasciatore tede­sco ad Atene per ben due volte aveva chie­sto al governo greco l’allontanamento di Varoufakis.

Anche all’interno di Syriza non pia­ceva tanto que­sto spi­rito esi­bi­zio­ni­sta e scon­troso del mini­stro ormai ex. La set­ti­mana scorsa secondo un ser­vi­zio apparso sul quo­ti­diano Ta Nea (Le novità) che non è mai stato smen­tito dal governo, alcuni mini­stri ave­vano chie­sto l’allontanamento di Varoufakis.

E dome­nica sera quando l’ esito del «no» era quasi sicuro, durante un incon­tro, Tsi­pras ha chie­sto le dimis­sioni di Varou­fa­kis, il quale uscendo dalla sede di governo, ha usato toni duri con­tro i cre­di­tori, par­lando di «part­ner che ter­ro­riz­zano i greci» e di «valuta paral­lela all’euro», una dichia­ra­zione che non andava di pari passo con il ten­ta­tivo di Tsi­pras di tenere i toni bassi e tro­vare un compromesso.

L’allontanamento di Yanis Varou­fa­kis, tanto amato tra i greci, potrebbe para­go­narsi con il sacri­fi­cio di Ifi­ge­nia nella tra­ge­dia Aga­mem­none di Eschilo. Il suo soti­tuto sarà Euclid Tsa­ka­lo­tos, capo-gruppo della squa­dra di nego­ziato greca, stretto amico di Varoufakis.

UN PASSO INDIETRO PER FARNE DUE AVANTI INEUROPA
di Tommaso Di Francesco
Varoufakis. Dimissioni eccellenti, perché non c’entra la mitologia. Una rinuncia che richiama il dramma storico dell’isolamento della sinistra
«Por­terò con orgo­glio il disprezzo dei cre­di­tori verso di me»: parole piene di dignità quelle di ieri di Yanis Varou­fa­kis che cor­ri­spon­dono all’originalità della per­sona e alla fase della crisi greca — non­ché al visi­bile com­plesso d’inferiorità che l’establishment euro­peo deve sem­pre aver pro­vato di fronte alla sua sta­tura di sta­ti­sta ed eco­no­mi­sta mar­xi­sta di valore internazionale.

Parole e scelta ina­spet­tate per­ché annun­ciate appena il giorno dopo la vit­to­ria del no con­tro i dik­tat della troika. Come dice Ale­xis Tsi­pras, «per lot­tare per la libertà ser­vono virtù e coraggio».

C’è già chi para­gona il gesto di Varou­fa­kis a «Cin­cin­nato», chi sapien­te­mente torna sulle sfor­tune di Dio­niso rac­con­tate nel kylix di Exe­kias alle prese con gli etru­schi «del­fini», chi addi­rit­tura richiama alla memo­ria la scelta di allon­ta­narsi da Cuba fatta da Che Gue­vara d’accordo con Fidel Castro. Si rischia così però di fare della mito­lo­gia, antica o moderna che sia.

Qui al con­tra­rio ci tro­viamo di fronte ad una scelta imme­diata, stra­te­gica e con­sa­pe­vole: «Mi dimetto per favo­rire l’accordo». Si intui­sce l’accordo con­sen­suale (lo con­ferma la nomina al mini­stero delel Finanze al suo posto di Euclid Tsa­ka­lo­tos, for­te­mente legato a Varou­fa­kis ed espo­nente della piat­ta­forma di sini­stra di Syriza) tra i due diri­genti che, forti dell’immenso soste­gno popo­lare che arriva dai risul­tati del refe­ren­dum, hanno deciso di togliere, con que­sta mossa dolo­ro­sis­sima per entrambi, ogni alibi all’intransigenza della troika. Che ora non può più trin­ce­rarsi die­tro la pre­sunta «arro­ganza» dell’«intrattabile» e fuori dagli schemi, media­tore Varoufakis.

Il sacri­fi­cio di Varou­fa­kis, più che l’evento mito­lo­gico di rife­ri­mento, mostra la capa­cità di rispon­dere al «peso» della vit­to­ria. Nel senso della poe­sia di Costan­tino Kava­fis Che fece…il gran rifiuto (ispi­rata ai versi della Divina Com­me­dia di Dante) di più d’un secolo fa ma che sem­bra scritta in occa­sione del refe­ren­dum greco: «Per alcuni uomini giunge il giorno in cui/ devono pro­nun­ciare il grande Sì o il grande/ No. È chiaro sin da subito chi lo ha/ pronto den­tro di sé il Sì e pronunciandolo/ si sente più rispet­ta­bile e risoluto./ Chi rifiuta non si pente. Se glielo richiedessero,/ «no» pro­nun­ce­rebbe di nuovo. Eppure quel no — / quel no giu­sto lo annienta per tutta la vita».

Una rinun­cia, quella di Yanis Varou­fa­kis, che sot­to­li­nea l’originale dram­ma­ti­cità della sini­stra greca e della sua sto­ria. Intes­suta della neces­sità di rom­pere un pro­fondo iso­la­mento. Già nel secondo dopo­guerra con la dispe­ra­zione e scon­fitta san­gui­nosa della guerra civile con­ti­nuata dai comu­ni­sti con­tro i nuovi occu­panti bri­tan­nici, dopo la scon­fitta di quelli nazisti-fascisti.

Una scon­fitta con­su­mata, oltre che per i gravi errori dei comu­ni­sti greci, sull’altare di Yalta e di Sta­lin ma anche per respon­sa­bi­lità di Tito, l’emergente lea­der jugo­slavo anti-stalinista. Poi, men­tre in tutta Europa esplo­deva il ’68, in Gre­cia la sini­stra soc­com­beva già da un anno alla dit­ta­tura mili­tare dopo il golpe dei colon­nelli, soste­nuta dalla Nato. Il riscatto fu la rivolta del Poli­tec­nico del ’74. Ancora una volta per riven­di­care la spe­ci­fi­cità della crisi greca di fronte all’ordine mon­diale della Guerra fredda e alla sostan­ziale indifferenza-connivenza dell’Europa.

Ora la sini­stra — prima com­po­sita e ora con Syriza final­mente unita — che il lea­der Ale­xis Tsi­pras ha por­tato al governo del Paese dopo il disa­stro della destra, è impe­gnata nella diver­sità più dif­fi­cile: con­trad­dire il neo­li­be­ri­smo e l’economicismo dell’Unione euro­pea ridotta solo ad una moneta e al ruolo di recu­pero cre­diti al ser­vi­zio del Fmi.

Come dice Ale­xis Tsi­pras, «per lot­tare per la libertà ser­vono virtù e coraggio».
ATENE PORTA NUOVE PROPOSTE AI CREDITORI
di Anna Maria Merlo
Oggi Eurogruppo e vertice a 19 a Bruxelles. Incontro Hollande-Merkel, che cercano di accordare il discorso: Atene sia "responsabile", noi siamo (o siamo già stati) "solidali". Isteria in Germania: per il numero due del governo, Sigmar Gabriel (Spd), oggi si discuterà di "aiuti umanitari" ad Atene. La Bce mantiene in vita l'Ela, per il momento (la scadenza finale è il 20 luglio, quando la Grecia dovrà rimborsare 3,5 miliardi). Dissensi nel board dei governatori, Noyer chiude alla ristrutturazione del debito verso la Banca centrale (30 miliardi), che contraddirebbe l'art.123 del Trattato di Lisbona

Oggi la Gre­cia pre­senta nuove pro­po­ste, con­cor­date tra tutti i par­titi, ai due incon­tri pro­gram­mati a Bru­xel­les, l’ennesimo Euro­gruppo straor­di­na­rio a metà gior­nata, seguito in serata da un ver­tice dei capi di stato e di governo dei 19 della zona euro. La mossa è stata con­cor­data con Ale­xis Tsi­pras da Angela Mer­kel e Fra­nçois Hol­lande, in suc­ces­sive tele­fo­nate, tra dome­nica sera e ieri. Hol­lande ha rice­vuto Mer­kel ieri all’Eliseo, per cer­care un ter­reno di intesa, dopo le diver­genze recenti. Hol­lande attende «pro­po­ste serie e cre­di­bili», offrendo un equi­li­brio tra «soli­da­rietà e respon­sa­bi­lità», con «urgenza». Per Mer­kel, i part­ner hanno già dato prova «di molta soli­da­rietà», l’ultima pro­po­sta era «molto generosa».

Hol­lande è invi­tato, in Fran­cia, ad uscire dalla sua tra­di­zio­nale ambi­guità e a pro­porsi come un vero media­tore per evi­tare il peg­gio. Il mini­stro dell’Economia, Ema­nuel Macron, ha respinto l’ipotesi di orga­niz­zare un’uscita dall’euro della Gre­cia «senza drammi», avan­zata dall’ex primo mini­stro Alain Juppé (che sogna l’Eliseo per il 2017). Per la Ger­ma­nia, invece, «al momento non ci sono i pre­sup­po­sti per una nuova trat­ta­tiva su un altro pro­gramma di aiuto», ha affer­mato il por­ta­voce di Mer­kel, Stef­fen Sie­bert, che ha anche pre­ci­sato che «non c’è ragione per una ristrut­tu­ra­zione» del debito, come chiede Tsi­pras. La rea­zione tede­sca al risul­tato del Gre­fe­ren­dum sfiora l’isteria, al punto che il numero due del governo, l’Spd Sig­mar Gabriel ha annun­ciato che «il sum­mit discu­terà di aiuti uma­ni­tari» per la Gre­cia, «la gente lag­giù ha biso­gno di aiuto e noi non dovremmo rifiu­tar­glielo solo per­ché non siamo d’accordo con il risul­tato del refe­ren­dum». Di ricorso alla cha­rity aveva già par­lato l’ineffabile Mar­tin Schulz (Euro­par­la­mento), un’ipotesi ripresa dal gruppo Ppe a Strasburgo.

Il pre­si­dente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijs­sel­bloem, segue la posi­zione tede­sca e afferma che «la vit­to­ria del no è molto disdi­ce­vole per l’avvenire della Gre­cia», per­ché «per la ripresa eco­no­mica sono ine­vi­ta­bili misure dif­fi­cili e riforme» e che non c’è «niente da aspet­tarsi» dalle pro­po­ste gre­che. La Com­mis­sione ieri ha pub­bli­cato un com­mento mini­ma­li­sta, che «prende atto e rispetta» il risul­tato del refe­ren­dum. Il com­mis­sa­rio all’euro Vla­dis Dom­bro­v­skis ripete che «il posto della Gre­cia era e resta nell’eurozona», ma aspetta il risul­tato dell’Eurogruppo di oggi per vederci più chiaro. Atten­di­smo anche all’Fmi, dopo aver «preso atto» del Gre­fe­ren­dum: «Sor­ve­gliamo la situa­zione – ha detto Chri­stine Lagarde – e siamo pronti ad aiu­tare la Gre­cia se ce lo chiedono».

Comun­que, la Com­mis­sione è soprat­tutto pre­oc­cu­pata della sta­bi­lità dell’euro: «La sta­bi­lità della zona euro non è in gioco», insi­ste Bru­xel­les e Dom­bro­v­skis riba­di­sce: «La sta­bi­lità dell’eurozona non è in discus­sione». Jean-Claude Junc­ker ha avuto con­tatti con Tusk, Dijs­sel­bloem e Dra­ghi, che ha par­lato anche con Tsipras.

La Bce, suo mal­grado, è get­tata in prima linea in que­ste ore. Ha in mano l’arma fatale dell’Ela (liqui­dità di emer­genza), l’ultimo rubi­netto rima­sto aperto per finan­ziare il sistema ban­ca­rio greco. L’Ela è ferma a 89 miliardi e dome­nica la Banca cen­trale greca ha di nuovo chie­sto a Fran­co­forte un rialzo. Oggi e domani le ban­che non ria­prono, come pre­vi­sto, sono a secco. Per la Bce, che ha pre­stato alla Gre­cia 30 miliardi, la data finale è il 20 luglio, quando la Gre­cia deve rim­bor­sare 3,5 miliardi. Se non c’è l’accordo, non ci saranno i soldi. Di qui ad allora, la Bce potrebbe pro­gres­si­va­mente strin­gere il cap­pio attorno al collo della Gre­cia, fino a sospen­dere anche l’Ela. Allora ci saranno i fal­li­menti delle ban­che, che pre­ci­pi­te­ranno la Gre­cia nel caos, nel panico del bank run e a dover ricor­rere agli IOU (I owe you), cioè una moneta paral­lela per pagare fun­zio­nari e pen­sioni, equi­va­lente a un Gre­xi­dent nel disordine.

Jens Weid­mann, della Bun­de­sbank, sot­to­li­nea da tempo che l’Ela della Bce è al limite delle com­pe­tenze di Fran­co­forte, che sta rischiando la pro­pria repu­ta­zione. La ristrut­tu­ra­zione del debito chie­sta da Atene ha di fronte un osta­colo di peso: per Chri­stian Noyer, gover­na­tore della Ban­que de France, «per defi­ni­zione il debito greco verso la Bce non può essere ristrut­tu­rato per­ché costi­tui­rebbe un finan­zia­mento mone­ta­rio a uno stato», escluso dall’art.123 del Trat­tato di Lisbona.

In caso di Gre­xi­dent, ma anche di un Gre­xit ordi­nato, non sono del tutto dis­si­pati i timori di un con­ta­gio, a comin­ciare da Spa­gna e Por­to­gallo. Luis de Guin­dos, mini­stro spa­gnolo, ha affer­mato che «la Spa­gna non pre­vede asso­lu­ta­mente» un Gre­xit e ha aperto a un «terzo piano di aiuti, la Gre­cia ha diritto di chie­derlo», ma ha ricor­dato che «biso­gna appli­care le regole». Impa­zienza anche da parte di Mat­teo Renzi: le riu­nioni di oggi «devono indi­care una via defi­ni­tiva» per uscire da quello che Paolo Gen­ti­loni ha defi­nito «il labi­rinto greco».

Mambiailmondo, 6 luglio 2015

"Il referendum di domenica 5 luglio resterà nella storia come un momento unico in cui una piccola nazione europea si è ribellata alla stretta del debito. Come tutte le lotte per i diritti democratici, anche questo rifiuto storico dell’ultimatum dell’Eurogruppo del 25 giugno ha il suo prezzo. E’ quindi essenziale che il grande capitale elargito al nostro governo da questo splendido NO sia investito immediatamente in un SI' per una risoluzione adeguata – in un accordo che preveda la ristrutturazione del debito, meno austerità, ridistribuzione a favore dei bisognosi, e riforme reali.

Subito dopo l’annuncio dei risultati del referendum, sono stato messo al corrente di una certa preferenza da parte di alcuni partecipanti all’Eurogruppo, e ‘partner’, per la mia … ‘assenza’ da queste riunioni; un’idea che il Primo Ministro ha giudicato potenzialmente utile per trovare un accordo. Per questo lascio il Ministero delle Finanze oggi.

Considero un mio dovere aiutare Alexis Tsipras a sfruttare, come gli sembra opportuno, il capitale che il popolo greco ci ha accordato attraverso il referendum di ieri. E io porterò con orgoglio il disprezzo dei creditori.

Noi della sinistra sappiamo come agire collettivamente, iincuranti per i privilegi che derivano delle cariche. Sosterrò pienamente il Primo Ministro Tsipras, il nuovo ministro delle Finanze e il nostro governo. Lo sforzo sovrumano per rendere onore al coraggioso popolo greco, e al formidabile OXI (NO) che hanno affidato ai democratici di tutto il mondo, è appena cominciato, "

Il testo inglese

Like all struggles for democratic rights, so too this historic rejection of the Eurogroup’s 25th June ultimatum comes with a large price tag attached. It is, therefore, essential that the great capital bestowed upon our government by the splendid NO vote be invested immediately into a YES to a proper resolution – to an agreement that involves debt restructuring, less austerity, redistribution in favour of the needy, and real reforms.


Soon after the announcement of the referendum results, I was made aware of a certain preference by some Eurogroup participants, and assorted ‘partners’, for my… ‘absence’ from its meetings; an idea that the Prime Minister judged to be potentially helpful to him in reaching an agreement. For this reason I am leaving the Ministry of Finance today.

I consider it my duty to help Alexis Tsipras exploit, as he sees fit, the capital that the Greek people granted us through yesterday’s referendum. And I shall wear the creditors’ loathing with pride.

We of the Left know how to act collectively with no care for the privileges of office. I shall support fully Prime Minister Tsipras, the new Minister of Finance, and our government.
The superhuman effort to honour the brave people of Greece, and the famous OXI (NO) that they granted to democrats the world over, is just beginning."
«La vit­to­ria del «no» ha tanti signi­fi­cati. Ma prima di tutto onore ai greci, che hanno vinto la loro bat­ta­glia ma non certo la guerra, anche per noi ita­liani e per l’Europa, senza che l’Europa (e l’Italia) facesse molto per loro».

Il manifesto, 6 luglio 2015 (m.p.r.)

La vit­to­ria del «no» è la rispo­sta a quanti hanno cer­cato in tutti i modi di tra­sfor­mare il loro voto in un azzardo, come se il giu­sto diritto di un popolo di espri­mersi sul suo futuro rap­pre­sen­tasse un rischio da non far cor­rere ai mer­cati, in un con­te­sto reso con­fuso nell’ultima set­ti­mana dai com­por­ta­menti ricat­ta­tori della troika ed in par­ti­co­lare della Bce, che ha cer­cato in vari modi di influen­zare il voto con l’arma del panico, bloc­cando la liqui­dità agli spor­telli anche se le ban­che sono sol­vi­bili a stesso giu­di­zio della Bce. La demo­cra­zia non è azzardo, ma un diritto, e que­sto è il primo risul­tato del «no».

Que­sta vit­to­ria è la rispo­sta a quanti hanno voluto tra­sfor­mare il nego­ziato su un nuovo Memo­ran­dum in un «pren­dere o lasciare» tutto poli­tico, in un «den­tro o fuori l’Europa», per­ché la posta in gioco non era solo eco­no­mica ma, come è risul­tato evi­dente, era il diritto di una nazione a non accet­tare i dik­tat della dot­trina ordo­li­be­rale tede­sca che impone le sue regole, e a sce­gliere assieme in quale Europa si vuole stare. L’inclusione con­tro l’esclusione, secondo risul­tato del «no».

La vit­to­ria del «no» ha il merito di non azze­rare le pro­spet­tive di cam­bia­mento. L’uso poli­tico della nego­zia­zione sul Memo­ran­dum era far capire ai popoli euro­pei che non vi sarebbe stata altra strada se non quella trac­ciata da Bru­xel­les, Fran­co­forte, Washing­ton, e su tutti Ber­lino; che ogni ten­ta­tivo di avere una idea diversa di Europa doveva essere espulsa sul nascere, prima che rischiasse di con­ta­giare altre nazioni, altri popoli, quello spa­gnolo anzi­tutto. Con il governo di coa­li­zione a guida Syriza le isti­tu­zioni euro­pee e quelle inter­na­zio­nali (Fmi), sono costrette invece a fare i conti, e a nego­ziare, e in pro­spet­tiva altri governi di coa­li­zione potreb­bero essere eletti aprendo un fronte di nuove nego­zia­zioni,terzo risul­tato del «no».

La vit­to­ria del «no» è la rispo­sta al socia­li­smo euro­peo che co-governa le isti­tu­zioni nazio­nali e comu­ni­ta­rie con­di­vi­dendo la poli­tica dei par­titi con­ser­va­tori; a ciò che è rima­sto del socia­li­smo euro­peo, simu­la­cro per­sino dello spi­rito della social­de­mo­cra­zia dell’alternanza, che oggi delega con i governi di coa­li­zione al Ppe ogni scelta sul ter­reno eco­no­mico, sociale e poli­tico, e fuori dalle coa­li­zioni con­di­vide gli stessi para­digmi e le stesse ricette del libe­ri­smo più retrivo. Il quarto risul­tato del «no» prova che un’altra sini­stra è possibile.

La vit­to­ria del «no» con­sente di man­te­nere vivo il ten­ta­tivo di cam­biare l’agenda eco­no­mica euro­pea. Le ricette dell’austerità espan­siva hanno pro­dotto un peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita e di lavoro della gran parte delle popo­la­zioni che le hanno subite. La Gre­cia è solo il caso più ecla­tante, ma danni sono stati pro­cu­rati ovun­que la troika è arri­vata, oppure dove le poli­ti­che sono state da que­sta det­tate, in Irlanda, Spa­gna, Por­to­gallo, Fin­lan­dia, e Ita­lia da Monti a Renzi.

Al con­tempo il debito deve essere ristrut­tu­rato per­ché un paese quando non è in grado di ripa­gare il suo debito e viene for­zato a farlo, non ha alcuna pro­spet­tiva di cre­scita e fal­li­sce su entrambi i fronti, quello della cre­scita e quello del paga­mento del debito. Il quinto risul­tato è quello di pro­porre una agenda diversa: un nego­ziato per un Memo­ran­dum che segni una discon­ti­nuità con i pre­ce­denti, e una con­fe­renza sulla ristrut­tu­ra­zione del debito.

A que­sto punto quale sarà la rea­zione delle isti­tu­zioni euro­pee e della troika?

Un primo sce­na­rio è quello della irre­spon­sa­bi­lità. Ovvero riget­tare nei fatti il suc­cesso del «no» e per­se­guire come se nulla fosse acca­duto l’obiettivo poli­tico, met­tere in crisi ancor più la Gre­cia e far cadere il governo Tsi­pras. Quindi nes­sun accordo, Memo­ran­dum o meno, e costrin­gere la Gre­cia al default e alla uscita dall’euro tra­mite la Bce che blocca il cre­dito al sistema ban­ca­rio greco. Sce­na­rio assai rischioso per gli altri paesi dell’eurozona, per­ché saremmo nel campo dell’ignoto, non solo con costi ele­vati per la Grecia.

Un secondo sce­na­rio è quello della stu­pi­dità, in cui viene abban­do­nato l’obiettivo poli­tico ma non quello eco­no­mico, per cui nes­suna con­ces­sione alle richie­ste gre­che sul piano delle poli­ti­che di auste­rità e nes­suna ristrut­tu­ra­zione del debito. Il debito va pagato, le isti­tu­zioni euro­pee e inter­na­zio­nali sono dispo­ste ad inter­ve­nire con­ce­dendo linee di cre­dito solo a con­di­zione che la Gre­cia accetti un Memo­ran­dum 3 sulla linea dei pre­ce­denti. L’esito è il per­du­rare della depres­sione in Gre­cia, qua­lora il governo elle­nico accetti pur di non dichia­rare default e uscire dall’euro. Il rischio è che la crisi siste­mica venga sola­mente rin­viata a tempi futuri per­ché i fon­da­men­tali non mutano.

Il terzo sce­na­rio è quello della sag­gezza. Si rico­no­sce la neces­sità della ristrut­tu­ra­zione del debito e si con­cede alla Gre­cia una pro­spet­tiva per far uscire l’economia greca dalla depres­sione con misure che non sono di osser­vanza libe­ri­sta. I cre­di­tori rinun­ciano all’obbiettivo eco­no­mico di breve periodo di essere ripa­gati, e con­ce­dono alla Gre­cia di accom­pa­gnare alle poli­ti­che di offerta le poli­ti­che di soste­gno alla domanda, quindi aiuti non vin­co­lati alla sva­lu­ta­zione interna.

Pos­siamo essere fidu­ciosi in que­sta Europa a guida libe­ri­sta? Se doves­simo scom­met­tere, pun­te­remmo pur­troppo sul secondo sce­na­rio. Ma vi sono varia­bili in gioco nel 2015, pro­prio quelle che la troika voleva esclu­dere ribal­tando il governo Tsi­pras, ovvero che alla Gre­cia fac­cia seguito la Spa­gna. E que­sto apri­rebbe la strada affin­ché la discus­sione su «Quale Europa» diventi discus­sione poli­tica di tutti i cit­ta­dini europei.

«La festa spontanea a piazza Syntagma, subito dopo i primi risultati. Migliaia di bandiere greche, per strada un’intera generazione di giovani travolta dalla crisi, la classe media impoverita, gli operai e i disoccupati».

Il manifesto.info, 6 luglio 2015

Dopo giorni di ten­sione, minacce e allarmi, la festa esplode spon­ta­nea già all’arrivo dei primi ine­qui­voci risul­tati, a meno di due ore dalla chiu­sura dei seggi. Le strade si inta­sano di migliaia di per­sone dirette ancora una volta, come venerdì scorso, verso Syn­tagma, la piazza del Par­la­mento. Non c’è nulla di orga­niz­zato per­ché Ale­xis Tsi­pras alla vigi­lia aveva rac­co­man­dato calma e sobrietà, la stessa con la quale da ieri mat­tina cit­ta­dini greci di ogni età si sono messi in fila ai seggi per votare, ognuno senza chie­dere all’altro come la pen­sasse. Quella che per una set­ti­mana li aveva disci­pli­na­ta­mente fatti met­tere in fila ai ban­co­mat per riti­rare i 60 euro gior­na­lieri con­sen­titi dopo lo stop deciso dal governo o a qual­che super­mer­cato per la paura, infon­data, che come in guerra pren­des­sero a scar­seg­giare i viveri.

Fin dalle prime ore del mat­tino, prima gli anziani e poi man mano tutti gli altri, i seggi erano stati un tran­quillo via vai di per­sone, resti­tuendo un’idea di grande matu­rità e dando una lezione di demo­cra­zia all’Europa, lad­dove quest’ultima è nata, come ama ricor­dare spesso Ale­xis Tsi­pras. Divisi ma insieme, chi era con­vinto che dopo aver detto tanti sì all’Europa in cam­bio di un mas­sa­cro sociale era giunta l’ora di un bel no, e chi invece aveva paura di per­dere anche quel po’ che gli è rima­sto, chi non ha più alcun­ché da met­tere in gioco e chi invece sulla crisi ha gal­leg­giato come un sur­fi­sta su un mare in tempesta.

Ma la voglia di scen­dere in piazza è stata incon­te­ni­bile: troppo netto il suc­cesso, troppa la voglia di mostrare all’Europa che per i greci que­sta bat­ta­glia è appena comin­ciata e vogliono vin­cerla. È per que­sto che le ban­diere gre­che que­sta volta hanno la meglio sui sim­boli di par­tito e sui drappi rossi, per­sino sugli stracci con su scritto «Oxi», «no», dei quali ora non c’è più biso­gno. Ora è neces­sa­rio che i nego­zia­tori greci a Bru­xel­les sen­tano di non essere soli, e per que­sto si spre­cano i car­telli in inglese dai mes­saggi espli­citi. Il più chiaro di tutti recita: «This strug­gle is not about Europe, it’s about free­dom» («Que­sta lotta non riguarda l’Europa, ma la libertà»). C’è anche un gruppo di tede­schi, sono del movi­mento Bloc­kupy che lotta con­tro l’austerità e sono i ben­ve­nuti.

Come due giorni fa per la chiu­sura della cam­pa­gna refe­ren­da­ria, quello che stu­pi­sce è l’altissimo numero di gio­vani e gio­va­nis­simi: una intera gene­ra­zione (ma in realtà sono almeno due) che ha messo le radici ai tempi del G8 di Genova e dei social forum, si è ribel­lata al potere quando in viuzza di Exar­chia fu ucciso dalla poli­zia il sedi­cenne Ale­xis Gri­go­ro­pou­los e ha messo le tende in piazza Syn­tagma nel 2010 ai tempi degli Indi­gna­dos. Quella gio­ventù pre­ca­ria che nel 2008 fu defi­nita degli «800 euro» e che oggi non gua­da­gna più nem­meno quelli ed è costretta a emi­grare, gli stu­denti uni­ver­si­tari che devono tra­sfe­rirsi all’estero per cer­care una borsa di stu­dio o un impiego qua­li­fi­cato. Que­sta Gre­cia è diven­tata mag­gio­ri­ta­ria e, insieme a ope­rai, disoc­cu­pati e alla classe media impo­ve­rita è oggi il blocco sociale che dice no alla gab­bia dell’austerità, anche a costo di accet­tare ulte­riori sacri­fici, ma a patto che non siano coman­dati da Angela Mer­kel o Jean Claude Junc­kel e senza fare sconti a nes­suno. All’epoca veni­vano con­trap­po­sti ai loro padri, con­si­de­rati garan­titi e in quanto tali pri­vi­le­giati. Ora sono entrambi in piazza, mas­sa­crati entrambi da poli­ti­che a dir poco selvagge.

Un cauto otti­mi­smo ser­peg­giava già dal primo pome­rig­gio anche nel quar­tier gene­rale di Syriza in piazza Kou­moun­dou­rou. La sen­sa­zione che la vit­to­ria fosse a por­tata di mano è aumen­tata quando hanno comin­ciato a cir­co­lare i primi son­daggi non uffi­ciali, a urne ancora aperte: il no al 51 per cento, poi al 54. Fin­ché, alle 19 in punto, ai primi “opi­nion polls” che davano il no in van­tag­gio la gioia era esplosa e la ten­sione si era sciolta negli abbracci e nei sor­risi con­di­visi con gli alleati euro­pei (rap­pre­sen­tanti della Linke tede­sca, della spa­gnola Pode­mos, ciprioti dell’Akel, irlan­desi dello Sinn Fein, la nutrita dele­ga­zione ita­liana, rap­pre­sen­ta­tiva di tutta la galas­sia della sini­stra) accorsi già da venerdì a soste­nere la rivo­lu­zione euro­pea par­tita da una peri­fe­ria del con­ti­nente e il suo con­dot­tiero Ale­xis Tsi­pras, che ha vinto la scom­messa più grande tra­sci­nan­dosi die­tro più della metà abbon­dante del popolo greco.

Non sono ser­vite a molto le inge­renze euro­pee e la con­fu­sione media­tica, dav­vero impres­sio­nante, messa in piedi ad arte da un fronte del sì con pochi argo­menti a pro­pria dispo­si­zione se non quello, abi­tuale, della paura. Un argo­mento che però i greci hanno riget­tato, come si intuiva nelle strade e si è capito la sera della grande mani­fe­sta­zione di venerdì a soste­gno del no. Lo sape­vano tutti, anche quelli del sì che in un docu­mento a uso interno già gio­vedì scri­ve­vano che il no era al 70 per cento nei cen­tri urbani e che per­fino il 10 per cento degli elet­tori di Nea Demo­cra­tia avrebbe votato a favore del piano dei cre­di­tori. Ma hanno con­ti­nuato a fin­gere e a pro­pa­gan­dare son­daggi inat­ten­di­bili e costruiti alla biso­gna per sola pro­pa­ganda elet­to­rale. Ci sono cascati in molti, ma solo chi non voleva vedere per par­tito preso non ha capito quello che stava fer­men­tando ancora una volta nella pan­cia della società ellenica.

Nella notte di piazza Syn­tagma cir­cola una bat­tuta: «I colpi di stato non avven­gono più by tanks, but by banks», con chiaro rife­ri­mento ai carri armati della dit­ta­tura dei colon­nelli che in tanti ancora ricor­dano qui in Gre­cia e al rischio che siano ora le ban­che, asfis­siando la popo­la­zione, a pro­muo­vere il regime change. Ma but­tare giù Ale­xis Tsi­pras e il suo governo è ora molto più dif­fi­cile per tutti, anzi i più deboli sono i fal­chi dell’austerità, a comin­ciare da Angela Mer­kel e Jean Claude Junc­ker (anche se, tra i lea­der euro­pei, nes­suno esce bene da que­sta sto­ria, com­preso il nostro Mat­teo Renzi), ed è stato que­sto il colpo da mae­stro del pre­mier greco. Ma a come andare avanti si pen­serà da oggi, subito per­ché la situa­zione non con­sente di ter­gi­ver­sare, con calma e deter­mi­na­zione com’è stato fino a oggi. Ora è il tempo di festeg­giare, la notte di Syn­tagma è ancora lunga.

»Sulla Grecia abbiamo assi­stito a una straor­di­na­ria opera di mani­po­la­zione dell’informazione». Articoli di Norma Rangeri, Gianni Ferrari, Simorne Pieranni, e l'intervista di Anna Maria Merlo a Yaris Varoufakis. Il manifesto, 5 luglio 2015
LA SFIDA GRECA
di Norma Rangeri

«Abbiamo assi­stito a una straor­di­na­ria opera di mani­po­la­zione dell’informazione, par­ti­co­lar­mente sfron­tata nell’impegno pro­fuso a dare per verità son­daggi smen­titi dalle stesse fonti, a cen­su­rare noti­zie impor­tanti, come la cri­tica del con­gresso Usa, reca­pi­tata, nero su bianco, alla signora Lagarde».

Può suo­nare reto­rico dire che oggi la Gre­cia sarà tea­tro di un avve­ni­mento sto­rico. Ma così è. Il risul­tato del refe­ren­dum influirà sul futuro stesso dell’Unione euro­pea e su quello di uno dei paesi più pic­coli della Comunità. E pro­prio que­sta par­ti­co­la­rità merita una prima rifles­sione. Come è pos­si­bile che un paese tanto pic­colo possa, non dico tenere in scacco, ma con­di­zio­nare il domani di altri 27 stati? Non è strano che il voto di dieci milioni di per­sone possa influire sulla vita di altri quat­tro­cento? Lo sarebbe se que­sta vicenda non rap­pre­sen­tasse la quin­tes­senza della globalizzazione.

Dagli Stati uniti alla Cina tutti seguono con atten­zione quanto sta acca­dendo nella terra degli dei dell’Olimpo. Per­ciò il voto di oggi è qual­cosa di più e di diverso della sfida sim­bo­lica di Davide con­tro Golia, anche se la grande dispa­rità di forze può ben sug­ge­rire l’accostamento per­ché in que­sto cimento del pic­colo con­tro il gigante non sono certo i fili­stei di Bru­xel­les ad aver dovuto sfi­dare nella vita quo­ti­diana gli orsi e i leoni della lunga, infi­nita crisi che ha but­tato donne, uomini, bam­bini, anziani nella bat­ta­glia con­tro le bestie nere della povertà, della fame, della man­canza di medi­ci­nali, della depres­sione che ha fatto impen­nare le per­cen­tuali dei suicidi.

Il cit­ta­dino greco per lun­ghi anni ha sop­por­tato l’assedio e quando il Golia di Ber­lino lo ha inchio­dato all’ultimo duello, il pic­colo Davide ha tirato fuori la fionda del refe­ren­dum cogliendo tutti di sorpresa. Atene mette oggi in evi­denza non solo la spro­por­zione delle forze in campo ma le con­trad­di­zioni forti e divi­sive della Ue.

Sono lì a dimo­strarlo i poli­tici ita­liani che, da sini­stra a destra - da Ven­dola a Bru­netta a Sal­vini pas­sando per Grillo - tifano, pur tra molti distin­guo, per la bat­ta­glia del pic­colo Davide. Sicu­ra­mente per­ché molti vor­reb­bero usare il voto greco a fini di poli­tica interna. E non è curioso che grandi eco­no­mi­sti, quasi tutti nobel e libe­ral si siano pro­nun­ciati per il “No”, posi­zione mal dige­rita da tutte le grandi firme del gior­na­li­smo nostrano, scritto e televisivo?

Abbiamo assi­stito a una straor­di­na­ria opera di mani­po­la­zione dell’informazione, par­ti­co­lar­mente sfron­tata nell’impegno pro­fuso a dare per verità son­daggi smen­titi dalle stesse fonti, a cen­su­rare noti­zie impor­tanti, come la cri­tica del con­gresso Usa, reca­pi­tata, nero su bianco, alla signora Lagarde.

Que­sto voto mette strappa i veli alle magni­fi­che e pro­gres­sive sorti della Ue a tra­zione tede­sca. Denun­cia il difetto di nascita, una Unione calata dall’alto senza nulla chie­dere ai cit­ta­dini, con­trad­di­cendo lo spi­rito dell’Europa pen­sata da Altiero Spinelli. Sco­pre un’Unione costruita su un’impalcatura economico-finanziaria che sosti­tuiva alla val­vola di sfogo della sva­lu­ta­zione delle monete nazio­nali l’impressionante sva­lu­ta­zione del lavoro sot­to­messo alle duris­sime leggi dell’eterna precarietà.

Tut­ta­via la ten­sione e la pas­sione che viviamo nel giorno in cui ci sen­tiamo tutti greci è così forte non solo per­ché abbiamo impa­rato a memo­ria i numeri del disa­stro pro­vo­cato dalla cieca auste­rità, fino all’ultimo para­dosso del man­cato rim­borso di 1,6 miliardi non pagato da Atene che ha pro­vo­cato il falò di 287 bru­ciati dalle borse il giorno dopo. Per­ché i mer­cati si erano «spa­ven­tati», così tito­la­vano i gior­nali con la con­sueta bana­lità invece di rac­con­tare a let­tori e tele­spet­ta­tori l’assurdità della situazione.

E non si venga a dire che tagliando e dila­zio­nando il debito greco ver­rebbe annul­lato il prin­ci­pio fon­da­men­tale della Ue, cioè il rispetto delle regole. Se rispet­tarle signi­fica dan­neg­giare l’intera comu­nità, allora è solo un brac­cio di ferro poli­tico quello in corso, una pura guerra di potere con la volontà di arri­vare allo scon­tro frontale.

Ed eccolo lì il nostro Renzi, fin dal primo momento lesto a nascon­dersi die­tro lo scudo tede­sco, pronto ad accu­sare Tsi­pras di voler tor­nare alla dracma, non solo una bugia ma una meschi­ne­ria che spiega molte cose sulla stoffa del per­so­nag­gio. Natu­ral­mente in ottima com­pa­gnia di cuori corag­giosi come Hol­lande, Gabriel, Schulz…

C’è di più, è in gioco qual­cosa di più profondo. Oltre alla testa, alla razio­na­lità, c’è in ballo il cuore acceso dalla sfida demo­cra­tica, c’è la lezione di un grande popolo capace di sop­por­tare e tenere a bada la for­tis­sima ten­sione del momento. Tutti gli ita­liani, gio­vani e vec­chi, che danno lezioni sulle regole da rispet­tare sareb­bero stati capaci di met­tersi in fila così digni­to­sa­mente davanti ai ban­co­mat vuoti?

E, infine, nello scon­tro fron­tale gioca una par­tita molto rischiosa anche lo stesso Tsipras. Aveva già vinto le ele­zioni con un pro­gramma molto chiaro, no all’austerità, sì, mode­rato, all’Europa. Oggi il gio­vane lea­der tenta il tutto per tutto, il numero secco alla rou­lette, dove punti quello che hai. Se perdi è un disa­stro, se vinci sei più forte ma non hai risolto i tuoi pro­blemi. Che sono comuni a molti altri paesi. Ita­lia com­presa, come già dice l’Istat a pro­po­sito del ral­len­ta­mento di una ripresa già debolissima.

Da que­sto punto di vista il voto di Atene ha un signi­fi­cato sto­rico, unico. Nella mito­lo­gia greca ci sono nume­rosi esempi di uomini abban­do­nati dagli dei. Tsi­pras deve spe­rare che gli dei dell’Olimpo - e il popolo greco - oggi siano con lui.

LA CREDITOCRAZIA NON FERMA LA LOTTA DI CLASSE

di Gianni Ferrara

«Il capitale finanziario. Chi danneggia l’austerity, chi avvantaggia? Lo hanno confessato i creditori nel corso della trattativa. Chiedendo altri tagli alle pensioni, un’ulteriore riduzione dei salari, l’aumento dell’Iva, privatizzazioni più estese. Rifiutando però, e nettamente, aumenti dell’imposizione fiscale sui ceti più ricchi, e anche una tassa una tantum sugli utili di impresa superiori a 500.000 euro l’anno».
È poli­tico, tutto poli­tico il con­flitto tra la troika e il governo greco. Lo si com­batte con un’arma impro­pria e ter­ri­bile che ne è anche l’oggetto, l’euro, con­si­de­rato, misu­rato e distinto come cre­dito o come debito, cre­dito o debito di stati.

Il che si è sog­get­ti­va­mente tra­dotto nella sepa­ra­zione e oppo­si­zione tra stati cre­di­tori e stati debi­tori, i due ter­mini di un rap­porto di forza tra gli stati che è tutto a van­tag­gio di quelli cre­di­tori. Cre­di­tori che, per essere deten­tori della tito­la­rità e dell’esercizio del potere di ero­ga­zione, acqui­si­scono anche quello di imporre le con­di­zioni per otte­nerne l’assegnazione ed anche quello di vin­co­larne la destinazione. L’accumulazione aggre­gata di tali poteri ha pro­dotto la forma attuale del capi­tale finan­zia­rio, la «cre­di­to­cra­zia» e la ha munita di pro­pri organi isti­tu­zio­nali con­ver­tendo quelli esi­stenti o inven­tan­done nuovi.

Ma in quale ambito? Se fosse quello del mondo glo­ba­liz­zato ci sarebbe cer­ta­mente da com­bat­terla per­ché tale ma con mezzi ade­guati a quella dimen­sione spa­ziale. Come affron­tare invece la «cre­di­to­cra­zia» costi­tui­tasi all’interno di una entità ordi­na­men­tale, giu­ri­di­ca­mente inde­fi­ni­bile, ma mas­sic­cia­mente con­glo­me­rante come l’Unione euro­pea? Unione che, nel suo Trat­tato costi­tu­tivo, si impe­gna a «pro­muo­vere la coe­sione eco­no­mica, sociale e ter­ri­to­riale e la soli­da­rietà tra gli stati membri».

Il cui ver­tice però, troika o non troika che sia, ha deciso di usare l’euro-potere non ai fini della coe­sione che la impe­gna e della soli­da­rietà che strom­bazza, non per assi­cu­rare la qua­lità della vita o anche la sola soprav­vi­venza, almeno que­sta, degli esseri umani che com­pon­gono gli stati-comunità dell’Europa. Ai quali gli stati-governi hanno sot­tratto la sovra­nità appro­prian­do­sene per eser­ci­tarla con­giun­ta­mente agli altri stati-governi in fun­zione esclu­siva e asso­luta della pro­se­cu­zione di un’austerity inef­fi­cace e distrut­tiva come sosten­gono eco­no­mi­sti con l’autorità scien­ti­fica di Krug­man, Sti­glitz, Piketty.

Come dimo­strano gli effetti cata­stro­fici pro­dotti - e ai gover­nanti tede­schi ben noti - nei Laen­der dell’ex Ddr, a ven­ti­cin­que anni dalla caduta del muro. Per­ché l’austerity, allora? La rispo­sta è obbli­gata, le cifre sono note. Non può esserci altra spie­ga­zione che quella poli­tica. Chi dan­neg­gia l’austerity, chi avvan­tag­gia? Il caso Gre­cia è esem­plare. Obbe­dendo al pro­gramma che le dettò la troika 5 anni fa, la Gre­cia ha ridotto di un quarto, 106 miliardi, la spesa pub­blica e del venti per cento i salari. La vastità del disa­stro deter­mi­nato da que­ste misure non ha precedenti.

E indi­gna, ed è dove­roso indi­gnarsi, leg­gendo che l’enormità del debito greco è dovuta al sal­va­tag­gio delle ban­che tede­sche e fran­cesi. Ope­ra­zione, que­sta dell’attribuzione di un debito, comun­que ope­rata, a sog­getti doversi dai bene­fi­ciari, oltre che pale­se­mente cri­mi­nosa, dimo­stra a quale livello di igno­biltà si giunge invo­cando l’etica (pro­te­stante?) delle rela­zioni umane, l’intangibilità delle regole e della loro effi­ca­cia, e quale con­ce­zione si abbia per la «coe­sione eco­no­mica, sociale … e per la soli­da­rietà tra stati». È la Gre­cia che mette in crisi l’Unione euro­pea o chi ne rin­nega ope­ra­ti­va­mente i fon­da­menti morali ed ideali?

Chi dan­neg­gia l’austerity, chi avvan­tag­gia? Lo hanno con­fes­sato i cre­di­tori nel corso della trat­ta­tiva. Chie­dendo altri tagli alle pen­sioni, un’ulteriore ridu­zione dei salari, l’aumento dell’Iva, pri­va­tiz­za­zioni più estese. Rifiu­tando però, e net­ta­mente, aumenti dell’imposizione fiscale sui ceti più ric­chi, e anche una tassa una tan­tum sugli utili di impresa supe­riori a 500.000 euro l’anno.

C’è ancora qual­che dub­bio sul signi­fi­cato, l’obiettivo, l’effetto dell’austerity e, con esso, sulla fun­zione che si è assunta la Ue, sullo spe­ci­fico ruolo che la fase attuale del capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta affida alla «creditocrazia»? Un capi­ta­li­sta affermò, qual­che anno fa, che la lotta di classe c’era stata, ma la ave­vano vinto loro, i capi­ta­li­sti. È vero, la ave­vano vinta. Ma con­ti­nua. È indis­so­lu­bil­mente con­nessa alla demo­cra­zia che è chia­mata a vin­cere, oggi, lì dove nac­que e da dove inse­gnò cosa sia la civiltà politica.

VAROUFAKIS: «CHIUDERE LE BANCHE È TERRORISMO, DOPO IL REFERENDUM L'ACCORDO CI SARÀ»

di Anna Maria Merlo

Oggi il referendum. Lunedì 6 luglio, il consiglio dei governatori avrà potere di vita o di morte sulle finanze greche. Varoufakis accusa: creditori come "terroristi", "ci hanno forzato a chiudere le banche per far paura alla gente". L'appello alla ragionevolezza di Jacques Delors, mentre la Ue punta a un governo guidato dal presidente della Banca centrale greca, Yannis Stournaras

Oggi i greci votano e alla vigi­lia nes­suno si sbi­lan­cia in pre­vi­sioni. Ma già da domani, secondo le auto­rità di Bru­xel­les, il destino della Gre­cia sarà nelle mani della Bce. Domani, infatti, si riu­ni­sce il con­si­glio dei gover­na­tori della Banca cen­trale che avrà, nell’immediato, un grande potere: dovrà esa­mi­nare l’Ela (liqui­dità di emer­genza, ndr), l’unico rubi­netto ancora aperto.

Se vince il «sì», Fran­co­forte potrebbe alzare l’Ela, se vince il «no» potrebbe deci­dere di sof­fo­care il paese rifiu­tando di inter­ve­nire, con la con­se­guenza che le ban­che reste­ranno chiuse e, in una pro­spet­tiva non tanto lon­tana, spin­gere Atene all’uscita nella con­fu­sione più totale. Basti ricor­dare che il caos di que­sti giorni ha ori­gine nella deci­sione della Bce del 29 giu­gno scorso, che ha obbli­gato alla stretta sull’accesso ai conti e al con­trollo dei capi­tali (le imprese gre­che non hanno più accesso al tra­sfe­ri­mento elet­tro­nico di fondi all’interno della zona euro). Negli ultimi giorni, due mem­bri del con­si­glio dei gover­na­tori, Benoît Coeuré e Vic­tor Con­stan­cio, hanno per la prima volta espres­sa­mente fatto rife­ri­mento a un pos­si­bile Gre­xit.

In rispo­sta agli ultimi attac­chi, tra cui l’affondo dell’Spd Mar­tin Schulz (Euro­par­la­mento) che ingiunge di «met­tere fine all’era Syriza», Yanis Varou­fa­kis ha rea­gito con rab­bia: «Per­ché ci hanno for­zato a chiu­dere le ban­che? – si chiede il mini­stro delle Finanze greco in un’intervista allo spa­gnolo El Mundo - per far paura alla gente. E quando si tratta di dif­fon­dere la paura, que­sto feno­meno si chiama ter­ro­ri­smo». Varou­fa­kis con­ti­nua a cre­dere che «qua­lun­que sia il risul­tato del refe­ren­dum, mar­tedì ci sarà un accordo», per­ché «l’Europa ha biso­gno di un accordo e la Gre­cia anche. Se la Gre­cia crolla, mille miliardi di euro andranno in fumo» (è l’equivalente del pil spa­gnolo, ndr), avverte il mini­stro, «sono troppi soldi e non penso che l’Europa possa permetterselo».

Bru­xel­les tut­ta­via non fa mistero di pun­tare ad avere un governo di unità nazio­nale, con alla testa il pre­si­dente della Banca cen­trale greca, Yan­nis Stour­na­ras. Per il momento, un Euro­gruppo dovrebbe venire con­vo­cato martedì.

Nes­suno ascolta più in que­ste ore le voci della ragione. Da Joseph Sti­glitz, che ha par­lato di «respon­sa­bi­lità cri­mi­nale» dei cre­di­tori, fino all’ex pre­si­dente della Com­mis­sione, Jac­ques Delors, che firma un testo assieme a Pascal Lamy (ex Wto) e Anto­nio Vito­rin (ex com­mis­sa­rio) invi­tando le parti a «supe­rare i gio­chi tat­tici» del momento, la Ue a tener conto della «pro­spet­tiva geo-politica» (Bal­cani, crisi dei migranti etc.) e non solo delle que­stioni tecnico-finanziarie, per pro­porre ad Atene una «rico­stru­zione» in tre tappe: aiuto imme­diato «ragio­ne­vole» per restau­rare la sol­vi­bi­lità a breve; mobi­li­ta­zione degli stru­menti Ue per ria­ni­mare l’economia greca; infine, esa­mi­nare il «peso del debito», non solo in Grecia.

LA NARRAZIONE SULLA GRECIA DEI MEDIA ITALIANI È QUELLA DELLA TROIKA

di Simone Pieranni

«Informazione. Il gior­na­li­smo ita­liano main­stream, in grande mag­gio­ranza, ha mostrato i muscoli e ogni tipo di mezzo per rac­con­tare un paese - la Gre­cia - che a detta di tanti che sono in loco, non esi­ste».

La crisi greca non solo ha mostrato il vero volto della troika, basti pen­sare ai docu­menti segreti pub­bli­cati dal Guar­dian, alle inter­cet­ta­zioni di Mer­kel, o all’ostruzione dei paesi euro­pei alla dif­fu­sione del docu­mento del Fmi, che sostan­zial­mente dava ragione ai greci, ma ha per­messo di com­pren­dere come la nar­ra­zione dei fatti esteri dei media main­stream, sia giunto ad un suo punto di non ritorno.

La crisi greca non solo ha posto in discus­sione, evi­den­te­mente, l’Europa e l’eurozona, sep­pure in modo per ora imper­scru­ta­bile, ma ha messo in mostra una sorta di modus ope­randi dell’informazione ita­liana, che ha finito per aggan­ciarsi com­ple­ta­mente alla nar­ra­zione della troika, per sal­vare se stessa. Non ha tanto favo­rito le “isti­tu­zioni”, ne ha assunto in pieno le linee stra­te­gi­che comunicative.

Il gior­na­li­smo ita­liano main­stream, in grande mag­gio­ranza, ha mostrato i muscoli e ogni tipo di mezzo per rac­con­tare un paese - la Gre­cia - che a detta di tanti che sono in loco, non esi­ste. Dal “dramma del pen­sio­nato” con cui Repub­blica ha tenuto la sua home page per tutta la gior­nata di venerdì, fino al con­fronto tra le due piazze di venerdì sera, come se fos­sero la stessa cosa. Come se da una parte non fos­sero di più, e per lo più gio­vani e dall’altra non fos­sero meno e non fos­sero per lo più i vitu­pe­rati “pelan­droni pen­sio­nati” greci. Un corto cir­cuito – voluto — vero e pro­prio che ha por­tato la stessa Syriza a cer­care di comu­ni­care più sui social net­work, che sui media (come rac­conta Le Monde).

Non si può, oggi, fare un gior­nale come se non esi­stesse internet. Lo dovrebbe sapere l’esperto Fede­rico Fubini (vice diret­tore del Cor­riere della Sera), i cui rac­conti “in presa diretta” sono stati smen­titi, punto per punto, luogo per luogo da Mat­teo Nucci su mini­maet­mo­ra­lia Nucci è andato in ogni posto nel quale Fubini lamen­tava una situa­zione simile al disa­stro, dimo­strando cosa stesse real­mente acca­dendo in quei luoghi.

Senza par­lare dei “nostri” gior­na­li­sti sui social network. Tra­la­sciando i neo adepti ren­ziani come Clau­dio Cerasa, diret­tore de Il Foglio, che ha twittato come se il –26% del Pil gra­zie ai trat­ta­menti troika, fosse un’invenzione di Syriza, i social net­work si sono riem­piti di novelli esperti eco­no­mici, colmi di certezze.

Alcuni si sono distinti in modo particolare. È il caso di Vit­to­rio Zuc­coni di Repub­blica, in prima linea con­tro Tsi­pras, ispi­rato nel citare il Guar­dian su arti­coli circa il calo di turi­smo, ma deci­sa­mente meno pronto a lan­ciare gli scoop sui docu­menti segreti della troika.

Gli esempi sono mol­tis­simi ed evi­den­ziano - non solo in Ita­lia - come nel momento del biso­gno e di un grande rischio, la gran­cassa media­tica main­stream abbia saputo subito piaz­zarsi dalla parte del più forte, facendo finta di niente riguardo le “noti­zie” (la let­tera del Con­gresso, il docu­mento del Fmi, le pres­sioni dei paesi euro­pei, i docu­menti di Nuova Demo­cra­zia in Gre­cia per indi­riz­zare la comu­ni­ca­zione dei media in Gre­cia, i fal­li­menti della troika) e ingag­giando la lotta con­tro la con­trad­di­zione di un par­tito che non accetta le regole impo­ste dai “potenti”.

La nar­ra­zione a senso unico, fino ad arri­vare a misti­fi­care la realtà, pur­troppo, non è una novità (l’abbiamo vista all’opera anche in Ucraina, per fare un esem­pio, dove i neo­na­zi­sti sono diven­tati “europeisti”). Basta chie­dere a un qual­siasi free­lance, in giro per il mondo, quali siano spesso i suoi pen­sieri dopo la let­tura di molti, tanti, pezzi di “cor­ri­spon­denti” ben più noti e tito­lati. Non importa ciò che è vero, quanto ciò che è vero­si­mile. Il mito del gior­na­li­smo indi­pen­dente viene dun­que sma­sche­rato pro­prio da chi se ne fa pala­dino, attra­verso una vera e pro­pria nar­ra­zione di una realtà che si cerca di pie­gare alla pro­pria “visione del mondo” det­tata da inte­ressi acco­mu­na­bili, nel pro­prio “set­tore”, a quelli che non vuole per­dere la troika in Europa.

Si accusa chi fa un gior­na­li­smo poli­tico, evi­den­ziando quindi le con­trad­di­zioni ma ponen­dosi aper­ta­mente da un lato della bar­ri­cata, di essere di parte, fin­gendo di essere neutrali. Come se la scelta delle fonti, di chi si inter­vi­sta, della pro­spet­tiva con cui si sce­glie di par­lare di un argo­mento, fos­sero neu­trali, aset­tici e non pre­sup­po­nes­sero, invece, una chiara scelta.

E infine ci sono quelli imba­raz­zanti. Ieri l’Unità tito­lava “Gre­cia tasche vuote, arse­nali pieni”, facendo finta di niente su chi in pre­ce­denza ha com­prato le armi e sul fatto che quelle, insieme al mini­stro di destra del governo greco, dovrebbe ras­si­cu­rare pro­prio gli amici di Renzi, ovvero la Nato. Senza con­si­de­rare poi il silen­zio del quo­ti­diano fon­dato da Anto­nio Gram­sci, su guerre uma­ni­ta­rie e recenti acqui­sti in tema di F35.

LaRepubblica, 5 luglio 2015

In queste ore, discutere della Grecia è deprimente. Quindi se per voi va bene parleremo d’altro. Parleremo, per cominciare, della Finlandia - che di quel Paese corrotto e irresponsabile non potrebbe essere più diversa. La Finlandia è un modello: vanta un governo onesto, un’economia solida e un rating del credito affidabile che le permette di prendere in prestito denaro a tassi d’interesse incredibilmente vantaggiosi. Tuttavia, sta anche attraversando l’ottavo anno di una recessione che ha decurtato del dieci percento il suo prodotto interno lordo reale e che ancora non accenna a finire. Tanto che se l’Europa meridionale non stesse vivendo un incubo, i guai dell’economia finlandese sarebbero considerati un disastro di dimensioni epiche.

La Finlandia tuttavia non è sola: rientra infatti in una regione dell’Europa del nord che vive una fase di declino economico, e che si estende dalla Danimarca (la quale, pur non appartenendo all’eurozona gestisce il proprio denaro come se ne facesse parte) ai Paesi Bassi. Questi paesi se la passano ben peggio della Francia: una nazione la cui economia viene descritta in termini catastrofici dai giornalisti, che odiano la solidità degli ammortizzatori sociali, ma che di fatto ha resistito meglio di quasi ogni altro Paese europeo, ad eccezione della Germania.

Che dire poi dell’Europa meridionale, Grecia a parte? I funzionari europei esaltano la ripresa della Spagna, che ha fatto tutto quanto andava fatto e la cui economia ha finalmente ricominciato a crescere, creando addirittura nuovi posti di lavoro. Il concetto europeo di “successo” prevede però anche un tasso di disoccupazione che continua ad aggirarsi attorno al 23%. Anche il Portogallo ha diligentemente implementato un’austerità rigorosa, ma risulta del 6% più povero.

Come si spiegano tutti questi disastri economici in Europa? Ciò che stupisce, in realtà, è che in ogni paese la crisi sia stata innestata da cause diverse. Il governo greco ha contratto troppi debiti, ma quello spagnolo no: a segnare il suo destino sono stati piuttosto i prestiti ai privati e la bolla immobiliare. Nel caso della Finlandia sono stati determinanti il contrarsi della domanda per i prodotti del settore forestale, che sono ancora tra i suoi principali beni da esportazione, e le difficoltà del manifatturiero, in particolare della Nokia, che un tempo ne era la punta di diamante.

Ciò che queste economie hanno in comune tra loro è invece il fatto che aderendo all’eurozona si sono infilate in una camicia di forza economica. Alla fine degli anni Ottanta la Finlandia stava attraversando una crisi gravissima, che inizialmente era di gran lunga peggiore di quella che sta attraversando oggi. Tuttavia riuscì a mettere in atto una ripresa piuttosto rapida, grazie soprattutto alla forte svalutazione della propria valuta - che la rese più competitiva sul piano delle esportazioni. Purtroppo però questa volta non ha alcuna valuta da svalutare. E lo stesso vale per le altre zone problematiche dell’Europa.

Ciò significa forse che l’euro è stato un errore? Beh, sì. Questo però non equivale a dire che adesso occorrerebbe eliminarlo. La cosa urgente da fare è allentare la camicia di forza: un gesto che richiederebbe interventi su diversi fronti: da un sistema di garanzie bancarie unificato alla disponibilità a concedere una riduzione del debito ai Paesi per i quali è proprio il debito il problema. Richiederebbe, inoltre, la creazione di un ambiente complessivamente più favorevole a quei Paesi che si sforzano di far fronte alla cattiva sorte senza però sposare un’eccessiva austerità e facendo tutto il possibile per innalzare il tasso di inflazione europeo (attualmente inferiore all’1%) per riportarlo almeno all’obiettivo ufficiale del 2%.

Molti funzionari e politici europei si oppongono però a qualsiasi decisione che potrebbe far funzionare l’euro. E questo è il motivo per cui la posta in gioco nel referendum di domenica è persino più alta di quanto molti osservatori immaginino. Una vittoria del “sì” - ovvero un voto a favore delle richieste dei creditori, che boccia la posizione del governo greco e ne determina probabilmente la caduta - rischia di avvalorare e incoraggiare gli architetti del fallimento europeo. Un simile esito darà modo ai creditori di dimostrare la propria forza e la loro capacità di umiliare chiunque si opponga alle richieste di un’austerity senza fine. E di continuare ad affermare che imporre la disoccupazione di massa è l’unica via responsabile da percorrere.

E se la Grecia votasse no? In quel caso ci troveremmo su un terreno spaventoso e sconosciuto. La Grecia potrebbe abbandonare l’euro, con conseguenze immensamente destabilizzanti nel breve periodo. Tuttavia il “no”, oltre a minare l’autocompiacimento delle élite europee, fornirebbe alla Grecia anche l’opportunità di un’autentica ripresa. In altre parole, temere le conseguenze di un “no” è ragionevole, perché non si può prevedere cosa accadrebbe dopo. Ma le conseguenze della vittoria del “sì” dovrebbero spaventarci ancora di più.

Traduzione di Marzia Porta

NOBEL Paul Krugman editorialista del New York Times e premio Nobel per l’economia nel 2008

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