Intervista di Cladio Dionesalvi all'ex leader di Potere operaio. «Fare della presenza casuale all'incontro di Coalizione sociale la prova della dipendenza di Landini dai sovversivi, svela un’idea cospirativa di politica. Renzi più che l’amato La Pira, ricorda Fanfani».
Il manifesto, 10 luglio 2015
Franco Piperno, docente di Fisica ed ex leader di Potere Operaio, non ha ancora mandato giù la polemica scatenatasi a causa della sua presenza al primo incontro della Coalizione sociale, tenutosi a Roma pochi giorni fa.
Professore Piperno, è bastato che lei ed Oreste Scalzone foste presenti ad un’assemblea convocata da Maurizio Landini, e subito si è scatenata la caccia agli eretici. Come quando la espulsero dal Pci per le sue posizioni critiche sull’Urss…
Conosco bene la sala convegni in cui si è svolta l’assemblea. È la stessa che ci ospitava tanti anni fa. Era stata la sala della Federazione Comunista romana. All’epoca, ancora il PCI ci guardava con simpatia. Da allora in quella sezione è passato Veltroni, questo giovane finto-comunista a suo dire, quindi quel luogo porta abbastanza iella. Ecco perché ero in dubbio se andare o no all’iniziativa di Landini. Mi ci sono trovato quasi per caso: avevo un appuntamento con i compagni di ESC, una delle organizzazioni che hanno aderito all’iniziativa. Ci saremmo potuti incontrare al bar all’angolo e non sarebbe successo niente. Questo la dice lunga su come Renzi e il Pd vedano fantasmi ovunque. Farne una prova cruciale della dipendenza di Landini dai sovversivi, rivela un’idea cospirativa della politica. In fondo Renzi, essendo fiorentino, è un cospiratore nato.
A differenza di tanti personaggi più o meno presentabili iscritti al Pd, essendo della generazione degli anni settanta, tra esilio e carcere, lei un conto lo ha pagato…
Non vorrei accentuare le mie tentazioni vittimistiche, ma senza alcuna prova sono stato oggetto di accuse cosmiche che andavano dal tentativo di distruggere l’ordine mondiale a 23 omicidi, 40 rapine. Alla fine sono stato condannato solo per costituzione di un’associazione sovversiva che era Potere Operaio. Devo ringraziare Paesi come la Francia e il Canada che avevano un fondamento di diritto più sicuro di quello che viene a noi da Beccaria a Berlinguer. Fu un problema di un’intera generazione. Basti pensare che son finite in galera 20mila persone. Di carcere vero e proprio io ho fatto poco più di un anno. Ci sono compagni che per gli stessi reati ne hanno scontato nove. La legislazione speciale è dovuta agli uomini di Stato come Massimo D’Alema che si vantano d’aver sconfitto il terrorismo, ma non si assumono la responsabilità storica di aver avuto in Italia una generazione che ha preso le armi.
Quando il sindaco di Cosenza, Giacomo Mancini, la nominò assessore ai Vigili urbani, Toni Negri affettuosamente commentò: finalmente Piperno a capo di una “banda armata”… legale! Ma Renzi sa che per fare l’assessore lei ha ottenuto una riabilitazione dai tribunali italiani?
Non credo che si ponga il problema. Io non sono stato mai condannato per fatti di sangue. Ho sempre riconosciuto di aver militato in Potere Operaio e lo farei ancora. Per me la sovversione è un diritto. Naturalmente ha un costo. La legge italiana, che è quella fascista del codice Rocco, prevede la galera per i militanti di un’associazione sovversiva, al di là dei reati effettivamente commessi”.
Renzi usa lo spauracchio degli anni settanta per indebolire Landini come Salvini cavalca la xenofobia per indebolire Renzi. Ma perché il premier teme tanto Landini?
Renzi è un sorta di moderato di destra. Più che simile a La Pira, come lui si vanta d’essere, io lo assocerei a Fanfani, anch’egli a suo tempo legato a La Pira, però con un fare decisionista simile proprio a quello di Renzi. Gli riconosco una forte energia. Penso invece al viso di Fassino che sollecita un gesto scaramantico. Renzi concepisce tutto però come un attività del leader. Il partito serve solo a raccogliere voti. Questo accanimento del premier contro Landini e contro chiunque emerga in una prospettiva diversa dalla sua, è dovuto al carattere personale della politica che lui interpreta, cioè il rapporto del leader col popolo dei teleutenti”.
Punti di forza della nascente coalizione?
Landini non ha commesso l’errore di convocarla nell’imminenza di una scadenza elettorale. Inoltre, dopo Trentin, lui è l’unico sindacalista che ammette gli errori del sindacato.
E se la Fiom usasse la crisi per mandare Landini alla segreteria della Cgil?
Sarebbe sempre meglio di quella che c’è ora. Ma troppo poco rispetto alla prospettiva politica generale.
Cosa pensa della battaglia per il reddito di cittadinanza?
È anacronistica, però sarebbe meglio di niente. Negli anni settanta era una campagna collegata al rifiuto del lavoro. All’epoca volevamo permettere agli operai che lavoravano troppo, di avere il tempo per dedicarsi alle lotte. Avveniva molto prima che Grillo si convertisse alla politica. L’economia italiana tirava. Adesso il lavoro non c’è, quindi il reddito di cittadinanza viene a configurarsi come un sostegno al consumo.
Un esempio?
«I 28 leader che si riuniscono a Bruxelles domenica assieme ai vertici delle istituzioni europee non dovranno semplicemente superare le proprie posizioni, ma sormontare gli ostacoli strutturali creati dai loro predecessori andando oltre l’ortodossia dei tecnocrati e negoziando un processo per conciliare i legittimi imperativi di 28 democrazie nazionali».
La Repubblica, 10 luglio 2015 (m.p.r.)
Gli dei fanno prima impazzire coloro che vogliono distruggere. In questo caso li fanno annoiare. I vertici dell’eurozona sulla Grecia si moltiplicano, ogni volta annunciati come “l’ultima occasione” e gli europei ormai sono quasi in preda alla narcolessia. Sonnecchiamo sul sedile del passeggero anche mentre l’auto cade nel burrone. Ma non c’è niente da fare. Se i capi di governo dell’Ue non trovano una via d’uscita in occasione del vertice di emergenza convocato per questa domenica, il prossimo lunedì il progetto di integrazione europea potrebbe iniziare a disfarsi. Se pensate che in gioco ci sia solo il futuro della Grecia, be’, pensateci due volte.
Mediapart. Ciò che è realmente accaduto Durante la lunga trattativa fra la Grecia e Bruxelles. Ha ragione Tsipras, e tutti quelli che hanno votato per lui in Grecia e in Europa e quanti altri condividono il suo europeismo. Questa Europa è tutta da rifare. La Repubblica, 9 luglio 2015
Qualche giorno prima del referendum un importanti funzionario del governo greco ha ricevuto alcuni giornalisti francesi, tra i quali Christian Salmon di Mediapart, per raccontare loro quello che era successo negli ultimi mesi di trattative fra il governo di Syriza e Bruxelles: le discussioni con le istituzioni europee, la situazione catastrofica della Grecia, le strategie di soffocamento messe in atto dall'Eurogruppo e l'asfissia finanziaria che ha distrutto l'economia greca. Quello che segue è un estratto del racconto che il funzionario, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha fatto ai giornalisti.
Un filo nero lega tra loro molti eventi di queste settimane. E costituito dal tentativo di sostituire l'autoritarismo alla democrazia, gli interessi delle multinazionali ai diritti delle persone . Eccone un esempio al Parlamento europeo. il manifesto, 9 luglio 2015
L’ordine del giorno della sessione di ieri mattina del Parlamento europeo prevedeva il dibattito sulla situazione in Grecia, alla presenza di Juncker e Tsipras e la votazione sul Ttip, il trattato di commercio tra Ue-Usa. Vero oggetto della discussione in entrambi i casi, filo rosso tra due questioni fondamentali per il presente e il futuro dell’Ue, la democrazia in Europa. Da un lato, un primo ministro che ha convocato un referendum anche perché potesse esercitarsi pienamente la sovranità popolare, e che in aula afferma con forza che «o l’Europa è democratica o non è »; dall’altro la risoluzione su un trattato, il cui mandato negoziale è rimasto a lungo segreto, e la cui applicazione svuoterebbe ulteriormente la democrazia rappresentativa attraverso meccanismi come il consiglio di cooperazione regolatoria e l’istituzione di tribunali arbitrali per dirimere le controversie tra Stati e multinazionali.
Le parole di Tsipras — accolto dagli abbracci dei deputati del gruppo Gue-Ngl, di cui fa parte anche Syriza — risuonano di quello stesso orgoglio, di quella dignità che ha portato il popolo greco a dire ’oxi’ (“no”) al ricatto di Fmi e Brussels group: «La mia patria è stata trasformata in laboratorio delle politiche di austerità, ma quelle ricette hanno fallito». Tsipras rivendica che un governo democraticamente eletto debba poter scegliere se reperire risorse tagliando le pensioni o tassando i ricchi. E, dopo aver evocato la necessità di una conferenza europea sul debito in polemica con il capogruppo Ppe Weber, Tsipras chiude citando l’Antigone di Sofocle, il «diritto umano» che prevale sulla legge degli uomini, il diritto del popolo greco alla sua dignità che prevale su ogni memorandum. A spazzare via le menzogne di chi rappresentava il referendum come scelta tra euro e dracma, o la vittoria del no come grexit, le parole del partigiano Glezos: «Non solo non lasceremo l’Europa. Non vi lasceremo l’Europa», rivolto ai paladini dell’austerità.
A presiedere un dibattito accesissimo Martin Schulz, quello che faceva campagna per il sì nonostante il suo ruolo di Presidente. Lo stesso che nella scorsa plenaria ha cancellato voto e dibattito sul Ttip perché non vi era accordo nella grande coalizione. Ecco, oggi è stato ancora più lampante come chi ha a cuore “almeno” la democrazia debba essere con Tsipras e contro Schulz.
E come nella subalternità nel dibattito sulla Grecia e nella complicità con i popolari nel voto sul Ttip i socialisti europei abbiano smarrito qualsiasi funzione storica, per usare un eufemismo. Approvato il compromesso voluto dal duo Malmstrom-Schulz sul punto più controverso (la nuova versione dell’Isds), la risoluzione approvata ignora completamente le preoccupazioni manifestate in questi mesi da attivisti e movimenti su questioni fondamentali come il principio di precauzione, la salute alimentare, la perdita di posti di lavoro.
Ieri è stata una giornata importante anche per la ridefinizione del ruolo stesso del parlamento europeo, che come Tsipras stesso ha ricordato avrebbe potuto essere coinvolto molto prima nella discussione.
Ora, se in Italia smettessimo di discutere di leader e formule, se lavorassimo a unire sostegno alla Grecia e lotta all’austerità, contrasto al Ttip e battaglie per il diritto a lavoro e salute, forse potremmo sentire e comprendere meglio l’orgoglio di Tsipras e del suo popolo, e costruire una sinistra, una alternativa al socialismo europeo e alle destre che ricordi, almeno vagamente, il Pride (in cui si univano attivisti LGB e minatori) del bel film di Matthew Warchus.
L'autrice è parlamentare europea L’Altra Europa con Tsipras
Il fatto che negli attuali negoziati tra la Grecia e gli amministratori Ue si arrivi sempre a un passo da un accordo senza raggiungerlo è in sè profondamente sintomatico, poiché in realtà non si tratta di vere e proprie questioni finanziarie — a questo livello, la differenza è minima. La Ue di solito accusa i greci di esprimersi solo in termini generali, facendo promesse vaghe senza entrare nello specifico, mentre la Grecia accusa la Ue di voler controllare anche i minimi dettagli e di imporre al nuovo governo greco condizioni più dure rispetto al passato. Ma dietro queste recriminazioni aleggia un altro conflitto, più profondo. Tsipras ha dichiarato recentemente che se avesse avuto occasione di andare a cena da solo con Angela Merkel avrebbero trovato una soluzione in due ore. La sua tesi è che lui e la Merkel, due politici, avrebbero affrontato il dissidio come contrasto politico, a differenza degli amministratori tecnocrati, come il capo dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Se c’è un cattivo per eccellenza in tutta questa storia è Dijsselbloem: «Se pongo le questioni sul piano ideologico non risolvo nulla» è il suo motto.
Questo ci porta al nodo della questione: Tsipras si esprime come se i problemi fossero parte di un processo politico aperto, in cui si devono prendere decisioni in fin dei conti “ideologiche” (basate su preferenze normative) mentre i tecnocrati della Ue si esprimono come se tutto si riducesse a specifici regolamenti e nel momento in cui i greci rifiutano questo approccio e sollevano questioni più prettamente politiche, li si accusa di mentire, di evitare soluzioni concrete e così via. Non c’è dubbio che la verità qui sta dalla parte greca: rifiutare il “piano ideologico” come fa Dijsselbloem equivale alla più pura ideologia, significa spacciare per regolamenti elaborati da esperti decisioni che sono in realtà fondate su scelte politico-ideologiche.
La lotta in atto è la lotta per la Leitkultur economica e politica in Europa. Le potenze della Ue appoggiano lo status quo tecnocratico che da decenni mantiene l’Europa in uno stato d’inerzia. Nel suo Notes Towards a Definition of Culture (Note sulla definizione di cultura) il grande conservatore T.S.Eliot osserva che in alcuni momenti l’unica possibile scelta è tra l’eresia e il non credere, per tener viva una religione bisogna cioè creare nel suo corpo principale una frattura settaria. È questa la nostra posizione oggi riguardo all’Europa: solo una nuova “eresia” (rappresentata in questo momento da Syriza) può salvare quello che vale la pena di salvare dei valori europei: la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà egualitaria… L’Europa che vincerà se Syriza verrà messa fuori gioco sarà un’”Europa dai valori asiatici” (che ovviamente nulla ha a che fare con l’Asia, ma molto con la tendenza netta e attuale del capitalismo contemporaneo a sospendere la democrazia).
Non è solo che il destino della Grecia è in mano all’Europa. Noi dell’Europa occidentale amiamo guardare alla Grecia da osservatori distaccati, che seguono con compassione e simpatia il dramma della nazione impoverita. Questa posizione di comodo poggia su una pericolosa illusione — ciò che accade in Grecia in questi ultimi giorni ci riguarda tutti, è in gioco il futuro dell’Europa.
Il problema è che la politica dei tecnocrati si basa su una finzione, quella di estendere i termini di restituzione del debito dando a intendere che verrà ripagato in toto. Perché ci si ostina in questa finzione? Non è che renda l’estensione del debito più accettabile agli elettori tedeschi; e non è neppure che la cancellazione del debito greco possa innescare pretese analoghe da parte di Portogallo, Irlanda, Spagna… È che ai vertici in realtà non si vuole che il debito venga del tutto ripagato. I finanziatori accusano i paesi indebitati di non mostrare sufficiente senso di colpa, li accusano di sentirsi innocenti. Le loro pressioni corrispondono perfettamente a quello che gli psicoanalisti definiscono come"super io": il paradosso del "super io" sta nel fatto che, Freud ci insegna, più obbediamo alle sue richieste più ci sentiamo in colpa. Immaginate un perfido insegnante che assegna ai suoi alunni compiti impossibili e ghigna con sadismo vedendoli in ansia e in preda al panico. Il vero obiettivo di prestare denaro ai debitori non è ottenere il rimborso del debito lucrando, ma perpetuare il debito a tempo indefinito, tenendo il debitore in perenne dipendenza e subordinazione… questo per la maggior parte dei debitori, perché ne esistono varie tipologie. Non solo la Grecia, ma anche gli Usa non saranno in grado neppure in teoria di ripagare il loro debito, come ormai è di pubblico dominio. Esistono quindi debitori (le grandi banche) in grado di ricattare i creditori perché non possono permettersi di farle fallire, debitori che possono controllare le condizioni di pagamento del loro debito (il governo Usa) e, infine, debitori che possono essere maltrattati e umiliati (Grecia).
I finanziatori fondamentalmente accusano il governo Syriza di non mostrare sufficiente senso di colpa, lo accusano di sentirsi innocente. È questo che disturba l’establishment Ue: il governo Syriza riconosce il debito, ma senza colpa. Si sbarazza della pressione del "super io".
Ma ripetere all’infinito che la politica di Syriza rientra nei modesti confini della vecchia buona socialdemocrazia per convincere gli eurocrati che non è pericolosa e spingerli a concedere gli aiuti, in qualche misura non riesce nell’intento.
Syriza è in realtà pericolosa, pone effettivamente una minaccia all’attuale orientamento della Ue — il capitalismo globale odierno non può permettersi un ritorno al vecchio stato sociale. Quindi c’è dell’ipocrisia nelle rassicurazioni circa la sobrietà delle istanze di Syriza: in realtà il suo obiettivo è impossibile da realizzarsi entro le coordinate del sistema globale esistente. Servirà una seria scelta strategica: e se fosse giunto il momento di gettare la maschera della sobrietà e di chiedere invece apertamente il cambiamento ben più radicale necessario per ottenere un progresso, seppur modesto? Forse il referendum sarà il primo passo in questa direzione.
Traduzione di Emilia Benghi
Centrodestra e centrodestrasinistra uniti nella lotta per il prepotere delle multinazionale e contro i diritti degli abitanti del pianeta Gli emendamenti della società civile sono stati sacrificati sull’altare della "grosse koalition"
Il manifesto, 9 luglio 2015
L’Europarlamento ha approvato le regole per il Ttip con 436 sì (Ppe, S&D, Alde), 241 no (Gue, Verdi, destre) e 34 astenuti. In pratica sono state approvati le «raccomandazioni» che includono un sistema alternativo alle controverse corti arbitrali private per le dispute investitori-stati (il cosiddetto Isds).
Le regole in Europa — a quanto pare — valgono per il debito greco, ma per la maggioranza del Parlamento europeo, come da paradigma orwellianio, valgono meno. Soprattutto se alla mattina le tribune dell’emiciclo a Strasburgo hanno traboccato come mai in almeno vent’anni per Alexis Tsipras e al pomeriggio si deve votare la Risoluzione con cui il Parlamento europeo esprime la sua valutazione sul Trattato transatlantico di liberalizzazione di scambi e investimenti tra Usa e Ue.
Valgono meno perché se una buona parte delle commissioni parlamentari ha espresso preoccupazioni per come la Commissione europea sta conducendo il negoziato — con scarsa trasparenza e considerando servizi, agricoltura e regole come merce di scambio per l’accesso al mercato finanziario, energetico e degli appalti Usa — fuori dal Parlamento gli hanno fatto eco oltre 2 milioni di cittadini che hanno firmato una petizione che chiede lo Stop alle trattative. E ciò fa problema alla cabina di regia dell’istituzione Ue.
Il convitato di pietra si chiama «franco tiratore»: da ormai da mesi le email, i profili Facebook e Twitter degli europarlamentari vengono inondati da migliaia di messaggi di cittadini che gli chiedono di trattare con cura la fragile democrazia europea e di dar voce, nella risoluzione sul Ttip, alle preoccupazioni diffuse sul contenuto di un trattato che mira a costruire un mercato comune transatlantico che, valendo il 42% del Pil globale, aspira a fare legge per il resto del pianeta. Per questo, con una forzatura procedurale inedita, il presidente dell’Europarlamento il socialdemocratico Martin Schulz fa saltare l’emendamento 40 al testo, che avrebbe permesso di far esprimere l’aula sull’arbitrato internazionale per proteggere gli investitori dalle decisioni degli Stati, il famigerato Isds, su cui proprio il gruppo socialdemocratico si era spaccato.
Lo fa esercitando le prerogative del presidente su un argomento controverso e lo fa una seconda volta, scegliendo di porre in votazione un emendamento di compromesso, elaborato dal suo stesso gruppo, in cui l’Isds si salva nella sostanza ma non viene più chiamato tale, e anzi si prefigura l’introduzione di una «super corte» di giustizia imprecisata nel medio periodo, che è una toppa quasi più brutta del buco alla giustizia ordinaria creato con l’Isds.
Saltano, così, uno dopoTutti gli emendamenti della società civile vengono sacrificati all’altare della «grosse koalition» popolare — socialdemocratica che mai come oggi teme l’Europa infiammata dal rialzo d’orgoglio greco. l’altro gli oltre cento emendamenti presentati in meno di due ore, soprattutto quelli di buon senso sostenuti dalle campagne Stop Ttip.
Salta l’emendamento sulla Human Rights Clause, che avrebbe anteposto la tutela vincolante dei diritti umani rispetto alle dinamiche di mercato. Resta un capitolo sullo sviluppo sostenibile solamente consultivo senza nessuno strumento impositivo. Viene bocciata la lista positiva per i servizi pubblici, che avrebbe permesso di scrivere nero su bianco i servizi che si vogliono mettere sul mercato, salvaguardando quelli non elencati. Viene bocciata la possibilità di inserire il riferimento a settori sensibili da escludere dal negoziato, come dovrebbe avvenire per alcune produzioni agricole, fortemente a rischio di estinzione.
La Commissaria al Commercio Cecilia Malmstrom, furbescamente, ringrazia via Twitter il Parlamento per il sostegno ricevuto, ma sottolinea anche che l’Isds è morto, cui contrappone la sua proposta, quella che, per dirla con la campagna «Stop Ttip» europea, mette il rossetto al maiale pretendendo che diventi qualcos’altro. Ma i conti non tornano per la coalizione di maggioranza, che tanto grossa non è più. 241 sono stati i voti contrari alla Risoluzione, molti di più di quelli algebrici tra maggioranza e opposizione. Si attende la lista del voto palese per capire chi c’è stato e chi no a far finta, per l’ennesima volta, di voler la democrazia impedendone l’esercizio.
E se l’Isds s’ha da cambiare, come ammette anche la Commissaria, vanno riaperti anche gli accordi commerciali con Canada e Singapore, che contengono l’Isds ed espongono già a rischio di cause i nostri governi. Da lunedì 13 Usa e Ue si rivedranno a Bruxelles per un nuovo ciclo di negoziati transatlantici, e ritroveranno ad accoglierli le stesse proteste e gli stessi dubbi di ieri. Il Parlamento ha perso l’occasione di farsene interprete, di diventare parte del cambiamento e non del problema democratico europeo che verrà affrontato dalla grande mobilitazione Stop Ttip di ottobre, che sembra necessaria oggi ancor più di ieri.
L'autrice è portavoce della Campagna stop TTIP Italia
«Il filosofo americano Michael Walzer e gli scenari aperti dallo scontro Ue-Tsipras: “Il centrosinistra esca dalla logica liberista della destra e rilanci il progetto di una federazione di Stati. Nell’Europa post-sovrana l’unica salvezza è il modello Usa"».
La Repubblica, 19 luglio 2015
«Se l’Unione Europea fa tanta fatica a uscire dalla crisi greca, non è soltanto per errori contingenti, commessi da una parte e dall’altra. Guardando la vicenda dall’altra sponda dell’Atlantico, mi sembra che il caso greco sia particolarmente importante perché mette a nudo i due problemi maggiori dell’Europa attuale: la politica economica e la cornice istituzionale. È assurdo che l’Unione Europea continui a imporre al governo ellenico le stesse misure di austerità che hanno fallito ovunque, ma è altrettanto grave il fatto che oggi l’Unione Europea non disponga di organi di controllo in grado di bilanciare in modo democratico lo strapotere della Bce». Michael Walzer, tra i massimi filosofi politici contemporanei, professore emerito all’Institute for Advanced Study di Princeton, guarda il modo in cui la politica europea sta gestendo l’emergenza Grexit, e vi scorge i limiti strutturali del progetto comunitario.
Professor Walzer, in questi giorni concitati ha ancora fiducia nella Ue?
«Credo che l’Unione sia un progetto ambizioso, che poggia su grandi valori e può vantare quantomeno un successo straordinario: quello di aver trasformato in un’area di pace un continente devastato da secoli di guerre e conflitti fratricidi. Detto ciò, non si può negare che l’Unione Europea sia un regime a dir poco curioso, l’unico che ha centralizzato il potere economico in una struttura oligarchica fatta di banchieri e burocrati, senza centralizzare la politica, che in forma democratica resiste solamente all’interno dei singoli Stati nazionali. In altre parole, il caso Grexit sta facendo emergere una contraddizione immanente al sistema istituzionale europeo, quella tra l’oligarchia sovranazionale dei banchieri e le democrazie nazionali dei popoli. E io non vedo in che modo questa asimmetria possa reggere a lungo. Servirebbe piuttosto uno scatto verso un governo genuinamente politico sia dell’eurozona sia dell’Unione Europea. Eppure, sebbene sia necessario, oggi il passo in avanti sembra piuttosto improbabile, perché nessun Paese europeo sembra pronto a compierlo. La Grecia paga anche l’assenza di un solo governo europeo».
L’altro problema, invece, è la politica economica. Perché l’Europa non ha saputo trovare una ricetta alternativa alle politiche di austerità?
«È un fatto che non mi so spiegare. L’idea che le misure di austerità siano la risposta giusta alla recessione è una menzogna. Basterebbe leggere Paul Krugman o Joseph Stiglitz. Anche negli Stati Uniti abbiamo vissuto una fase in cui il governo repubblicano ha seguito questa strategia, ma per fortuna il governo Obama ha imboccato una strada diversa. I partiti socialisti europei dovrebbero fare una battaglia comune per cambiare la politica economica imposta dalla Troika in Grecia».
Invece appaiono sempre più schiacciati tra la destra e la sinistra radicale.
«È così. E il fallimento della socialdemocrazia non inizia oggi e riguarda ormai tutti i paesi occidentali. Negli ultimi anni tutti partiti di centrosinistra, a cominciare dal New Labour blairiano, sono stati subalterni al neoliberismo della destra. In qualche occasione hanno provato a imprimergli un “volto umano”, ma il dato di fondo è che non hanno saputo articolare una strategia alternativa. E il risultato è un fallimento catastrofico, che vede scomparire i partiti neokeynesiani e lasciare lo spazio a sinistra a frange populiste come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Ma il populismo è uno stile politico, di destra o di sinistra, che per definizione è incapace di costruire una società che produca più risorse e le distribuisca in maniera equilibrata. Insomma, mi è molto difficile rimanere ottimista».
Dopo il referendum personaggi di spicco del centrosinistra europeo come Schulz e Gabriel hanno espresso posizioni più oltranziste della Merkel. Invece quale dovrebbe essere la visione istituzionale del fronte progressista?
«Non saprei fare un elenco delle specifiche riforme da adottare. Sono convinto però che una riforma dell’Unione Europea sia non solo necessaria, ma anche urgente. E penso inoltre che il riordino istituzionale debba andare nella direzione di una vera e propria federazione. Non sono abituato a spacciare gli Stati Uniti come un modello per il resto del mondo, ma in questo caso sì, l’assetto federalistico statunitense potrebbe essere molto utile per ripensare l’Europa. Anche a voi servirebbe un governo federale unico che controlli la moneta e la politica estera, pur concedendo larga autonomia agli Stati membri in materia sanitaria, educativa, sindacale».
Ma la prospettiva di una federazione di Stati non costringerebbe tutti i cittadini europei, e non solo i greci, a rinunciare alla loro sovranità?
«Basta dare un’occhiata a ciò che accade nel mondo per rendersi conto di quanto sia importante l’idea di sovranità. La maggior parte di chi oggi vive in condizioni di oppressione, in Africa o in Asia, soffre per l’assenza di uno Stato sovrano. Il primo grande bisogno del popolo siriano, per fare un esempio, è la costruzione uno Stato sovrano. Ma allo stesso tempo viviamo un’epoca post-sovrana. Un’epoca globale che sta riducendo il potere degli Stati, rendendo quelli piccoli simili a semplici province».
Come si colloca l’Unione europea in questo secondo scenario?
Una cronaca e un'ampia sintesi del discorso di Alexis Tsipras e di alcuni interventi nel dibattito al Parlamento europeo. Il manifesto, 9 luglio 2015. In questa stessa colonna, qui sotto, un articolo il testo integrale del discorso e il link al video del discorso
Grecia. Il premier greco all’europarlamento difende le proprie scelte: «L’austerità è fallita, il salvataggio ha riguardato le banche, non il popolo». Poi rassicura l’Unione: «Resteremo nell’euro». La Grecia presenta al Mes la richiesta formale per il terzo piano di aiuti: previsti tagli alle pensioni baby e riforma fiscale
Con applausi, abbracci e grandi sorrisi Alexis Tsipras ha fatto ieri il suo primo ingresso al Parlamento Europeo. Non era una passeggiata. Nel suo discorso introduttivo, il premier greco si è concentrato a rispondere, usando il buon senso e la ragionevolezza, a tutte le critiche, spesso del tutto infondate, che sono state mosse in tutti questi mesi contro di lui e la Grecia. Provocando spesso reazioni tempestose, attacchi, persino invettive, da parte di alcuni deputati europei.
Innanzitutto Tsipras ha voluto sancire, anche in questa sede, il fallimento del programma di austerità: «I soldi che ci avete prestato non sono andati a favore del popolo greco né a favore dell’economia reale. Sono andati alle banche, greche e straniere. La mia patria è stata trasformata in un laboratorio sperimentale che ha portato il popolo greco a esaurire la sua capacità di resistenza facendo fallire l’esperimento. Oggi, qualsiasi sia l’ orientamento di ognuno, tutto il popolo greco sente che non ha altra scelta che lottare per la sua liberazione».
La Grecia, ha continuato, ha fatto uno «sforzo senza precedenti di adeguamento» alle richieste dell’eurozona. «Nessun altro paese sotto programma di salvataggio e con riforme in corso ha fatto uno sforzo simile alla Grecia», ha detto il premier greco. Ma tutto invano.
Tsipras ha negato decisamente ogni progetto, segreto o palese, di ritorno alla dracma: «La settimana scorsa la maggior parte delle dichiarazioni consistevano nel dire che il vero quesito del referendum era la scelta tra euro e dracma e che la vittoria del no significava l’uscita del paese dall’eurozona. I greci hanno votato No. Se avessi voluto far uscire il mio paese dall’euro non avrei fatto le dichiarazioni che ho fatto domenica sera».
Onorevoli deputati, è un onore per me parlare in questo vero e proprio tempio della democrazia europea. La ringrazio molto per l'invito. Sono onorato di affrontare i rappresentanti eletti dei popoli d'Europa, in un momento critico sia per il mio paese-per la Grecia e per la zona euro e l'Unione europea nel suo insieme, come bene.
Mi trovo in mezzo a voi, solo pochi giorni dopo la forte verdetto del popolo greco, seguendo la nostra decisione di permettere loro di esprimere la propria volontà, a decidere direttamente, ad adottare una posizione e di prendere attivamente parte ai negoziati per quanto riguarda il loro futuro. Solo pochi giorni dopo la loro forte verdetto insegnarci a rafforzare i nostri sforzi per raggiungere una soluzione socialmente giusta e finanziariamente sostenibile al greco problema, senza gli errori del passato che ha condannato l'economia greca, e senza l'austerità perpetua e senza speranza che ha intrappolato l'economia in un circolo vizioso di recessione, e la società in una depressione duratura e profonda. Il popolo greco fatto una scelta coraggiosa, sotto pressioni senza precedenti, con le banche erano chiusi, con la maggior parte dei media che cercano di terrorizzare la gente che un NO votazione porterebbe a una rottura con l'Europa.
È il mio piacere essere in questo tempio della democrazia, perché credo che noi siamo qui per ascoltare prima gli argomenti e poi giudicare tali argomenti. "Mi Colpisci, ma prima mi ascolta".
La scelta coraggiosa del popolo greco non regge per una pausa con l'Europa, ma per un ritorno ai principi fondanti dell'integrazione europea, i principi di democrazia, solidarietà, rispetto reciproco e uguaglianza.
Si tratta di un messaggio chiaro che l'Europa: il nostro comune progetto europeo, l'Unione europea, o sarà democratica o si troveranno ad affrontare enormi difficoltà di sopravvivenza, viste le condizioni difficili che stiamo vivendo.
La trattativa tra il governo greco e ai suoi partner, che sarà completata a breve, cerca di riaffermare il rispetto dell'Europa per regole operative comuni, così come il rispetto assoluto per la scelta democratica del nostro popolo.
Il mio governo e io, personalmente, è salito al potere circa cinque mesi fa. Ma i programmi di soccorso sono in vigore per circa cinque anni. Mi assumo la piena responsabilità di ciò che è accaduto nel corso di questi cinque mesi. Ma tutti noi dovremmo riconoscere che la responsabilità principale per le difficoltà che l'economia greca sta vivendo oggi, per le difficoltà che l'Europa sta vivendo oggi, non è il risultato di scelte fatte negli ultimi cinque mesi, ma nei cinque anni di programmi di attuazione che non è finita la crisi. Voglio assicurarvi che, a prescindere dalla propria opinione se gli sforzi di riforma erano giuste o sbagliate, resta il fatto che la Grecia, e il popolo greco, ha fatto uno sforzo senza precedenti per regolare nel corso degli ultimi cinque anni. Estremamente difficile e dura. Questo sforzo ha esaurito la capacità di resistenza del popolo greco.
Negli ultimi cinque anni, la disoccupazione alle stelle, la povertà è salito alle stelle, l'emarginazione sociale è cresciuto enormemente, così come il debito pubblico, che prima del lancio dei programmi era 120% del PIL, ed è attualmente il 180% del PIL. Oggi la maggior parte di popolo greco, a prescindere dalle nostre valutazioni, questa è la realtà e dobbiamo accettarlo, sentono di non avere altra scelta che combattere per uscire da questo corso senza speranza. Ed è questo desiderio, espresso nel modo più diretto e democratica che noi, come governo, siamo chiamati a contribuire a realizzare.
Cerchiamo un accordo con i nostri partner. Un accordo, però, che porterà ad una fine definitiva alla crisi. Che darà speranza, che alla fine del tunnel, c'è la luce. Un accordo che prevede affidabili e necessarie riforme, nessuno si oppone a questa, ma che si sposterà l'onere di coloro che hanno davvero la capacità di spalla - e che, nel corso degli ultimi cinque anni, sono stati protetti dai governi precedenti e non farsi carico - che è stato messo interamente sulle spalle dei lavoratori, dei pensionati, quelli che non possono più sopportare. E, naturalmente, con le politiche redistributive che andrà a beneficio delle classi medie e basse in modo che una crescita equilibrata e sostenibile può essere raggiunta.
La proposta che sottoponiamo ai nostri partner comprende:
- Riforme credibili, sulla base, come ho detto prima, l'equa distribuzione degli oneri, e con il possibile effetto minimo di recessione.
- La richiesta di un'adeguata copertura dei fabbisogni di finanziamento a medio termine del paese, con un programma di crescita forte e front-caricato; se non ci concentriamo su un programma di crescita, quindi non vedremo mai la fine della crisi. Il nostro primo obiettivo deve essere quello di combattere la disoccupazione e incoraggiare l'imprenditorialità,
-e naturalmente, la richiesta di un impegno immediato per iniziare un dialogo sincero, una discussione significativa per affrontare il problema della sostenibilità del debito pubblico.
Non ci possono essere problemi di tabù tra di noi. Dobbiamo affrontare la realtà e cercare soluzioni a questa realtà, a prescindere da quanto sia difficile queste soluzioni possono essere.
Voglio essere molto chiaro su questo punto: le proposte del governo greco per finanziare i suoi obblighi e ristrutturare il proprio debito non sono destinati ad ulteriore onere del contribuente europeo. Il denaro dato alla Grecia-siamo onesti, in realtà mai raggiunto il popolo greco. E 'stato dato il denaro per salvare i greci ed europei banche-ma non è mai andato al popolo greco.
Inoltre, da agosto 2014, la Grecia non ha ricevuto alcuna rate di erogazione in base al piano di salvataggio sul posto fino alla fine del mese di giugno, le rate che ammontano a 7,2 miliardi di euro. Non sono state concesse da agosto 2014, e vorrei sottolineare che il nostro governo non era al potere da agosto 2014 a gennaio 2015. Le rate non sono stati erogati perché il programma non è stato attuato. Il programma non è stato attuato in quel periodo (vale a dire, agosto '14 -Jan. '15) -non A causa di questioni ideologiche, come avviene oggi, ma proprio perché il programma allora, come ora, mancava il consenso sociale. A nostro avviso, non è sufficiente per un programma sia corretto, è importante anche perché sia possibile realizzare, che consenso sociale esiste affinché possa essere attuato.
Onorevoli deputati del Parlamento, allo stesso tempo, che la Grecia stava negoziando e rivendicando 7200000000 € di erogazioni, la Grecia ha dovuto rimborsare a le stesse istituzioni che stavamo per impetrare la erogazioni-rate del valore di 17,5 miliardi di euro. Il denaro è stato pagato dalle magre finanze del popolo greco.
Onorevoli deputati, a dispetto di quello che ho detto, io non sono uno di quei politici che sostengono che "stranieri cattivi" sono responsabili per la noia del mio paese. La Grecia è sull'orlo del fallimento, perché i precedenti governi greci hanno creato uno stato clientelare per molti anni, hanno sostenuto la corruzione, hanno tollerato o addirittura sostenuto l'interdipendenza tra la politica e l'élite economica e l'evasione fiscale su grandi quantità di ricchezza è stato lasciato incontrollato. Secondo uno studio del Credit Suisse, il 10% dei greci in possesso di 56% della ricchezza nazionale. E che il 10% dei greci, nel periodo di austerità e di crisi, sono stati lasciati intatti, essi non hanno contribuito agli oneri come il restante 90% dei greci hanno contribuito. I programmi di soccorso e il memorandum non ha neppure tentato di affrontare questi grandi ingiustizie. Invece, li aggravate, purtroppo. Nessuna delle riforme presunti programmi d'ordine, purtroppo, ha migliorato il meccanismo di riscossione delle imposte che è crollato, nonostante il desiderio di qualche "illuminato", così come giustamente spaventato, funzionari pubblici. Nessuna riforma presunti affrontato il triangolo famigerato di corruzione che è stato istituito nel nostro paese molti anni fa, prima della crisi, tra l'establishment politico, gli oligarchi e le banche. Nessun riforme hanno migliorato il funzionamento e l'efficienza dello Stato, che ha imparato a operare per servire interessi particolari piuttosto che il bene comune. E, purtroppo, le proposte per affrontare questi problemi sono ora sotto i riflettori. Le nostre proposte si concentrano sulle riforme reali, che mirano a cambiare la Grecia. Le riforme che i governi precedenti, la vecchia guardia politica, così come chi guida i piani Memoranda, non volevo vedere implementata in Grecia. Questa è la semplice verità. Trattare in modo efficace con la struttura oligopolistica e le pratiche di cartello nei singoli mercati - tra cui il mercato televisivo non regolamentata e inspiegabile - il rafforzamento dei meccanismi di controllo in materia di entrate pubbliche e il mercato del lavoro per combattere l'evasione fiscale e l'evasione, e modernizzare la Pubblica Amministrazione costituiscono priorità di riforma del nostro governo . E, naturalmente, ci aspettiamo che i nostri partner 'accordo su queste priorità.
Oggi, veniamo con un mandato forte da parte dei cittadini greci e con la ferma determinazione di non scontrarsi con l'Europa, ma a scontrarsi con gli interessi acquisiti nel nostro paese, e con le logiche e gli atteggiamenti stabilito che affondavano la Grecia in crisi, e stiamo mettendo un peso per l'Eurozona, pure.
L'Europa è a un bivio critico. Ciò che noi chiamiamo la crisi greca non è che l'incapacità generale della zona euro per un trovare una soluzione definitiva a una crisi del debito autosufficiente. In realtà, questo è un problema europeo, e non un problema esclusivamente greca. E un problema europeo richiede una soluzione europea.
Storia europea è piena di conflitti, ma alla fine della giornata, di compromessi, anche. Ma è anche una storia di convergenza e l'allargamento. Una storia di unità, e non di divisione. Ecco perché si parla di una Europa unita, cerchiamo di non permettere che diventi un'Europa divisa. Attualmente stiamo chiamati a raggiungere un compromesso praticabile e onorevole al fine di evitare una rottura storica che ribaltare la tradizione di un'Europa unita.
Sono certo che tutti noi apprezziamo la gravità della situazione e che risponderemo di conseguenza; ci assumeremo la nostra responsabilità storica.
Non si è trattato di una sfida tra democrazia e tecnocrazia, bensì tra due concezioni di democrazia, tra due visioni politiche. Non è vero infatti che sia stata la troika a imporre l’austerità, sono stati i governi degli Stati — legittimamente eletti — a delegare alle istituzioni finanziarie il compito di attuare le misure economiche di stampo neoliberista volontariamente decise dagli Stati stessi in sede europea.
Visioni inconciliabili
I Trattati e i reiterati accordi tra i paesi membri dell’Unione europea (dal Six-Pack al Fiscal compact al Two-Pack) sono le fonti normative che hanno generato le misure di rigore europee. Il governo greco — anch’esso legittimamente eletto — chiede ora di cambiare, denuncia l’insuccesso delle misure di austerità sin qui seguite che hanno portato molti paesi ad un passo dal tracollo, hanno impedito la ripresa, non sono riuscite ad affrontare le questioni che strutturalmente caratterizzano la debolezza economica dei singoli paesi. In questo quadro c’è poi la questione specifica della Grecia, il cui debito è un ostacolo per ogni possibile ripresa del paese.
Ciò che ha impedito l’accordo tra i diciotto Stati dell’eurozona non è stato il debito, bensì le inconciliabili visioni di politica economica. È questa la vera questione che il governo greco e ora anche il suo popolo ci pongono.
Incamminarsi verso l’ignoto
Il No greco al memorandum dei creditori e all’ideologia da questo espresso rappresenta il rifiuto di un modello di sviluppo. Ci carica di responsabilità interrogandoci sulla nostra concezione di democrazia, sul rapporto tra diritti e mercato, sull’idea di società. Ci invita ad abbandonare il noto (le politiche sin qui seguite) per incamminarci verso l’ignoto (almeno in Europa: negli Stati uniti la ripresa c’è stata proprio grazie all’abbandono delle politiche recessive).
Una sfida straordinaria. Sapremo in grado di raccoglierla?
Quel che può dirsi e che non basteranno le astuzie o i tentativi di addolcire le politiche sin qui seguite. La Grecia ci ha mostrato che non si può puntare su un’«austerità espansiva», ma è necessario puntare ad una rottura di continuità.
Ciò vuol dire cambiare i Trattati e gli accordi che definiscono le politiche economiche e sociali tra Stati. Vuol dire riscoprire un’Europa politica e sociale, prendere sul serio quel che è pur scritto nel preambolo della Carte dei diritti dell’Unione europea («L’Unione pone la persona al centro della sua azione»), ma che è stato travolto dal dominio arrogante e disumano delle politiche di mercato.
È evidente che un’impresa così grande non è nella disponibilità di un solo paese o di un piccolo popolo, per quanto orgoglioso e consapevole possa essere. Ed è anche per questo che il referendum greco ci interroga direttamente e assegna ai popoli e a tutti gli Stati europei una responsabilità immensa.
Niente egoismi nazionali
L’obiettivo di cambiare i Trattati e far adottare politiche sociali alle istituzioni europee (comprese quelle finanziarie e bancarie) potrà essere raggiunto solo a seguito di una difficile e responsabile lotta politica da svolgere in Europa. Non si potrà concedere nulla al populismo, neppure a quello radicale che tanto alletta parte della sinistra. Non ci si potranno formare alleanze spurie con gli antieuropeisti, nazionalisti, gli egoismi nazionali di varia natura.
Non si potrà fare affidamento neppure sulle grandi socialdemocrazie, che potranno pur cambiare e alla fine dare una mano, ma solo se costrette. I paesi del sud d’Europa dovrebbero essere le più interessate a cambiare: oltre la Grecia, la Spagna. La vittoria di Podemos può essere un tassello decisivo in questa strategia. Poi il Portogallo, chissà che ne sarà dell’ondivaga Francia. E l’Italia?
La delegazione più folta
Se si guarda al nostro paese oggi non c’è da essere ottimisti. Non c’è nessuno che sia in grado di rappresentare con adeguata forza le istanze del cambiamento reale. Saremo anche pieni di buone intenzioni e, a volte, persino generosi. Ma c’è egualmente da disperare: la delegazione più folta che ha festeggiato la vittoria del referendum ad Atene era quella italiana. Per forza, ciascuno rappresentava se stesso! Per la Germania c’era la Linke, per la Spagna Podemos, per l’Irlanda Sinn Fein, e così via. Per l’Italia un esercito diviso di personalità disorganizzate e indistinte.
Ora veramente non c’è più tempo. Se noi italiani non sapremo rispondere alla sfida che è stata lanciata dalla Grecia rischiamo di compromettere una strategia di riscatto dei popoli europei. Un debito che poi non potremmo mai più restituire e il nostro default politico sarebbe totale.Un No che ci carica di responsabilità
Dopo il referendum. Il rifiuto greco del memorandum interroga gli altri paesi del sud dell'Europa. Se la sinistra italiana non saprà rispondere alla sfida lanciata da Atene il nostro default politico sarebbe totale
Postilla
«Sognavo un’Italia pulita, invece è ancora Nera. Al popolo piace l’uomo forte, il cesarismo. Così si spiegano Berlusconi e Renzi. Non è per questo che abbiamo combattuto». Silvia Truzzi intervista lo scrittore, che va vissuto una lunga stagione con gli occhi aperti.
Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2015
L’appuntamento è al Castello di Lisignano: “La famiglia di mia moglie ci abita da oltre cento anni. Il primo inquilino era stato un messo del Barbarossa, nel XII secolo”. In questa storia comincia tutto molto tempo fa.
Sulla Resistenza ho scritto altri due libri. Uno è il mio primo libro di racconti pubblicato da Einaudi, Dentro mi è nato l’uomo. Qualche anno dopo è uscito La scelta, con Feltrinelli: raccontava in maniera molto precisa, già da storico, la Resistenza. Questo diario mi sembrava semplice e ingenuo: l’ho scritto mentre c’era la guerra, ero un ragazzo. L’ho messo in un cassetto e l’ho dimenticato. Mimmo Franzinelli sapeva che avevo un testo nel cassetto e mi ha chiesto: “Perché non lo pubblichi per i settant’anni dalla Liberazione?”. Sono andato a rileggerlo e ho pianto. Non ho cambiato neanche una riga.
Montanelli lo negava. Per trent’anni c’è stata una specie di lotta tra noi. Una lotta feroce, ogni volta che usciva un mio libro, Indro diceva: “Di nuovo Del Boca con le sue balle sui gas. Io c’ero in Africa e non ho mai sentito l’odore di mostarda”. Diceva così perché l’iprite sa di mostarda. Ma lui non aveva sentito odore di mostarda perché quando hanno cominciato a gettare i gas non era più al fronte, era in ospedale.
Riferimenti
Alcuni scritti di Angelo Del Boca sono inseriti nel vecchio archivio di eddyburg nella cartella Italiani Brava Gente.
«Un estratto dal saggio di Euclid Tsakalotos e Christos Laskos (PlutoPress 2013). E' uno testi migliori sulla crisi tra Grecia e Europa e presenta le analisi del successore di Yanis Varoufakis sui problemi che ora affronta come nuovo ministro delle finanze di Atene».
Il manifesto, 7 luglio 2015
La nostra tesi principale è che la crisi greca non sia assolutamente da considerarsi un caso particolare. Al contrario, essa costituisce il paradigma di una più generale crisi dell’assetto politico ed economico neoliberista. In questo senso, è necessario non solo comprendere le origini della crisi economica globale ma anche capire perché la struttura economica e istituzionale dell’eurozona si sia rivelata inadeguata per affrontare gli effetti della crisi esplosa nel 2008.
Le politiche di austerità che hanno dominato la scena sin dall’avvento della crisi hanno rafforzato l’impostazione neoliberista dell’economia e della società. Lo spazio per rispondere alle domande provenienti dagli strati più bassi della società si sono andati drammaticamente riducendo, anche rispetto al periodo, comunque contrassegnato dall’egemonia neoliberale, precedente la crisi.
Tale irrigidimento ha coinciso con un sempre maggiore distacco tra le élite la realtà sociale o, alternativamente, con una crescente incapacità delle medesime élite di recepire proposte di soluzione ai problemi provenienti dall’esterno dei loro circoli.
La risoluzione finale della presente crisi non potrà portare alla ricostruzione delle condizioni vissute delle economie neoliberali prima del 2008 né, tantomeno, condurre verso il ritorno di un sistema socialdemocratico di tipo Keynesiano. Dovremmo ricordare che non vi fu nessun ritorno agli status quo precedenti in seguito alle due grandi crisi degli anni ’30 e ’70.
Dunque, da questa crisi si muoverà o nella direzione di un’economia capitalistica caratterizzata da un sostanziale autoritarismo oppure verso un lungo periodo di trascendenza rispetto ad alcuni degli elementi fondamentali del capitalismo.
La nostra visione rispetto alla situazione attuale può essere sintetizzata nelle quattro tesi che seguono.
La crisi che ha investito la Grecia non presenta alcun carattere di eccezionalità
La narrativa che vorrebbe la Grecia come un caso isolato ed eccezionale si fonda su tre elementi tra di loro interconnessi. In primo luogo, l’irresponsabilità fiscale dei politici greci. In secondo luogo, le dinamiche clientelari che affliggono il sistema politico greco. Infine, sia l’irresponsabilità della classe politica che il clientelismo diffuso sarebbero da ricondurre a una generale incapacità di modernizzarsi del paese.
Tutto ciò dovrebbe condurre a una giustificazione dell’austerità fondata sulla favola calvinista cara ad Angela Merkel, per la quale i peccatori debbono essere puniti per gli sbagli da loro commessi nel passato. La nostra visione non potrebbe essere più lontana da quella appena sintetizzata.
La Grecia, all’alba dell’esplosione della crisi, era completamente posizionata all’interno di un’impostazione neoliberista sia dal punto di vista economico che da quello politico. Il paese si trovava a condividere con gli altri Stati membri tutti i tratti caratterizzanti le economie fondate su basi neoliberiste, così come tutti i fallimenti sperimentati dalle stesse economie. In altre parole, la crisi greca è comprensibile solo se la si guarda come una manifestazione della crisi globale del neoliberismo piuttosto che come una crisi dovuta all’incapacità di applicare, in modo efficace, le ricette proprie dello stesso sistema neoliberale.
Siamo di fronte ad una crisi globale del neoliberismo e del capitalismo
La nostra seconda tesi è confermata dal fatto che l’epicentro della crisi è localizzabile nei paesi più avanzati dal punto di vista dell’applicazione delle ricette neoliberiste, piuttosto che in paesi ‘statalisti’ quali la Francia o la Grecia. La nostra interpretazione della crisi, inoltre, rifiuta nettamente l’interpretazione ortodossa sulla base della quale il malfunzionamento dei sistemi economici sarebbe da ricondurre a ragioni esogene al sistema stesso. Le radici della crisi sono, altresì, legate all’incertezza e all’instabilità endogenamente prodotta dal sistema capitalistico.
La crisi ha messo a nudo la fragilità del sistema politico post 2008
Dopo una breve fase in cui i principali elementi caratterizzanti l’impostazione neoliberista – la deregolamentazione del sistema finanziario, i superbonus dei manager, gli squilibri macroeconomici tra paesi o gli effetti dell’individualismo sulla coesione sociale – sono stati messi in discussione dalle stesse élite, vi è stato un rapida e rinnovata convergenza verso lo status quo ideologico.
In tale contesto, la domanda da un milione di dollari è stata: per quale motivo la crisi del 2008 non è stata colta, dalla socialdemocrazia, come un’opportunità per riaffermare le proprie ragioni sull’ideologia neoliberista?
La nostra ipotesi è che i socialdemocratici siano intrappolati in quel che viene definito da Blyth nel 2002 il «cognitive locking». Dopo tanti anni di egemonia culturale neoliberista i socialdemocratici si son scoperti non più in grado di guardare il modo da un’altra prospettiva.
Dalla crisi attuale non è possibile tornare indietro
La nostra tesi conclusiva è che dalla crisi che stiamo sperimentando non è possibile tornare indietro. Le strade possibili sono due. Una svolta verso una forma di capitalismo autoritario o una trascendenza di alcuni degli elementi fondamentali del capitalismo. Nel secondo caso si avrà un disvelamento degli effetti corrosivi prodotti da una visione ingegneristica della economia in cui un unico modello è valido per tutte le società.
Il razionalismo-tecnocratico fa di concetti quali la «competitività» o la «flessibilità del mercato del lavoro» elementi di per sé pregni di valore e sulla base dei quali i paesi vengono costantemente classificati. Questa visione ha avuto un effetto devastante sullo stato di salute delle democrazie occidentali. E sulla capacità di costruire una narrativa basata sulle domande crescenti provenienti dagli strati più bassi della società.
Il legame fondamentale tra la democrazia e il funzionamento del sistema economico dovrà, dunque, essere posto al centro della risposta della sinistra alla presente crisi.
* Quello qui è presentato è un estratto da «Crucible of resistance. Greece, the Eurozone and the World Economic Crisis» di Euclid Tsakalotos e Christos Laskos (PlutoPress 2013). E’ uno testi migliori sulla crisi tra Grecia e Europa e presenta le analisi del successore di Yanis Varoufakis sui problemi che ora affronta come nuovo ministro delle finanze di Atene.
Traduzione di Dario Guarascio.
Il manifesto, 8 luglio 2015
Si applica insomma quel principio che Stuart Mill poneva a fondamento della sua idea di libertà, la quale avrebbe cessato di essere legittima laddove risultasse di ostacolo alla libertà altrui. La speciosa inconsistenza di una siffatta trasposizione salta subito agli occhi.
In che modo il referendum greco possa minacciare l’ordinamento democratico di altri stati europei resta un mistero della fede. Fatto sta che queste democrazie non sono mai state chiamate ad esprimersi sulle politiche di austerità che avrebbero dovuto subire o imporre a se stesse e ad altri. E di certo, nella loro propaganda elettorale, i partiti in lizza in questi paesi si sono sempre prodigati nello sminuire i sacrifici richiesti e nell’enfatizzare le promesse, perlopiù assai vacue, di crescita. Una volontà democratica in favore dell’austerità o dell’iscrizione del pareggio di bilancio nelle Carte costituzionali non è mai stata registrata (men che meno nell’Italia al suo terzo governo non eletto). Tanto è vero che queste scelte sono sempre state presentate all’opinione pubblica non come un possibile oggetto di scelta democratica, ma come vincoli esterni: «Ce lo chiede l’Europa», intesa in questo caso come una entità sovraordinata ai processi democratici, come regola astratta scaturita da meccanismi imperscrutabili.
Le “riforme strutturali” in Grecia ci vengono invece presentate come un bisogno impellente dei cittadini europei e una espressione della loro volontà democratica. Il vero problema che il governo di Atene ha posto all’Europa è infatti quello della democrazia, per una volta applicata non agli spettri della rappresentanza ma alle condizioni materiali di vita di una intera popolazione. Una simile applicazione rischierebbe di strappare le democrazie europee ai governi che oggi, “per il loro bene” le tengono al guinzaglio. Quale sia il pericolo lo esplicita senza mezzi termini un giornalista di Spiegel on line (ma di scuola ultraconservatrice): «Se qualcuno aveva ancora bisogno di una prova di quanto siano pericolosi i pronunciamenti popolari è servito. La Grecia mostra una volta di più che i referendum, ossia la registrazione contingente della volontà popolare, non producono automaticamente i migliori risultati» (Roland Nelles). Sia pure. Sarà anche vero che gli elettori tedeschi, per quanto danneggiati nei loro livelli di vita ben più dall’ossessione competitiva e accumulatrice del governo di Berlino che non dal debito greco, voterebbero l’immediata espulsione di Atene dall’eurozona. Ma un conto è pronunciarsi per un’ideologia che ammicca alla superiorità nazionale (non è una novità che dalle urne possano uscire governi o pronunciamenti mostruosi), un altro combattere per la propria sopravvivenza.
Ma in spregio a qualunque ragionevole valutazione della realtà, la favola delle 19 democrazie su un piede di parità circola senza ritegno. Basterebbe domandarsi perché solo alcuni parlamenti o solo alcune Corti costituzionali e non altre abbiano il diritto di ratificare o di bocciare accordi e politiche di portata europea, per uscire da questa ridicola pantomima. Possiamo facilmente immaginare quanto conterebbe l’opinione dei paesi baltici se non dovesse coincidere con quella di Berlino.
La crisi greca ha portato in luce le peggiori pulsioni alimentate dalle politiche governative in Europa. Prima tra tutte quel “risentimento” considerato da sempre un cavallo di battaglia della demagogia populista. Da Madrid a Lisbona si leva la protesta: perché i greci (comunque già massacrati dai memorandum) dovrebbero essere esentati da ciò che noi abbiamo dovuto accettare, rischiando il nostro consenso elettorale? Domanda accompagnata dalla messa in scena di una presunta “uscita dalla crisi” che, con certi tassi di disoccupazione e povertà, è davvero indecente permettersi. O la recita da Kindergarten che rappresenta i risparmi dei contribuenti tedeschi, nella più totale innocenza del sistema finanziario, fluire nelle tasche degli sfaccendati greci che se li godono alla loro faccia.
L’atmosfera greca della crisi in corso ha provocato un’alluvione di sbiaditi ricordi scolastici. Ma forse uno sarebbe pertinente, non tanto per quel conflitto tra le ragioni della forza e quelle della giustizia che lo ha reso esemplare, ma per quello, collaterale, tra governanti e governati. Si tratta del celebre dialogo tucidideo tra i melii e gli ateniesi. I primi chiederanno ai messi di Atene di parlare solo di fronte agli oligarchi e gli strateghi e non di fronte a tutto il popolo che avrebbe potuto cadere preda dell’abile retorica ateniese. Poco importa che l’oligarchia si disponesse, in quel frangente, a respingere il diktat della potenza di Atene andando incontro a una catastrofe. Ciò che conta è che il popolo doveva essere tenuto fuori da ogni decisione.
A parti invertite, schierandosi contro il diktat di Bruxelles, Tsipras ha fatto la scelta opposta. Forse l’unica in grado di scongiurare una catastrofe.
Che cos’è il debito? In tedesco il sostantivo femminile Schuld designa insieme il debito e la colpa. «Il capitalismo è un culto che non consente espiazione, ma produce colpa e debito», scriveva già nel 1921 Walter Benjamin. La vittoria del no al referendum greco ha richiamato l’attenzione del mondo non solo sulla drammaticità della situazione politica ma anche sul conflitto culturale, sull’antinomia profonda connessa alla concezione del debito nell’evolversi della psiche collettiva: ancora una volta, sull’antica polarità tra Grecia e Germania.
Debito e colpa è il titolo di un libro appena uscito (Ediesse, pagg. 240, euro 12) che Elettra Stimilli ha dedicato alla centralità della figura del debito come colpa nell’indebitamento planetario che segna la più recente fase del capitalismo contemporaneo. Le forme di consumo illimitato basate sull’indebitamento privato, partite dall’America, sono diventate, argomenta Stimilli, il motore principale dell’economia. Dal 2009, con l’immediato globalizzarsi della crisi americana, l’aumento esponenziale del debito privato ha coinvolto il debito pubblico dei paesi economicamente avanzati fino ad arrivare ai debiti sovrani. La finanziarizzazione della vita quotidiana, la “democratizzazione del credito”, ha prodotto uno stato di indebitamento generalizzato in cui ognuno, sia come lavoratore sia come consumatore, è diventato per definizione anzitutto debitore.
Nella cultura attuale dell’occidente, la parola debito è eminentemente connessa a quell’etica protestante, che già Max Weber vedeva all’origine ideale e psicologica, prima ancora che materiale e sociale, del sistema capitalista, alla cui indubbia efficienza i teorici, da Karl Marx a Joseph Schumpeter, hanno sempre contrapposto, con diversi gradi di perplessità, la difficoltà etica della giustificazione teorica. Se per Max Weber il capitale nella sua forma moderna nasceva dalla concezione calvinista della grazia e del peccato per poi secolarizzarsi in ideologia profana, secondo Benjamin il capitalismo può considerarsi in sé una religione, il culto di un dio minore, privo di dogmi ma dalla legge implacabile. È proprio la connessione religiosa fra debito economico e colpa morale — attinta peraltro a un’intuizione degli scritti giovanili di Marx — che porta il povero insolvente, scriveva Benjamin, «a fare di sé una moneta falsa, a carpire il credito con inganno, a mentire, così che il rapporto di credito diventi oggetto di abuso reciproco».
Se in tedesco i concetti di debito e colpa si stringono in uno stesso nodo lessicale, la lingua greca, che sta all’origine del nostro pensiero e della nostra sintassi filosofica, distingue nettamente tra l’uno e l’altra. Nel greco antico, come ancora oggi nel greco moderno, debito si dice chreos , un sostantivo che deriva dal verbo chraomai , “usare”, e dalla locuzione chre , “ciò che serve”, che si usa e di cui c’è bisogno; è inoltre connesso con chreia , la “mancanza”. Il termine chreos viene usato ampiamente dagli storici, come Tucidide, dai filosofi, come Platone, e dai giuristi, fino alle Novelle di Giustiniano e ai Basilika : il greco bizantino assicurerà la continuità e trasmetterà la certezza del diritto romano nel suo transito millenario dall’età antica a quella moderna, attraverso i secoli solo in occidente oscuri del cosiddetto medioevo dominato dal diritto barbarico.
Ma la prima attestazione della parola chreos nella letteratura greca è già nell’ottavo canto dell’ Odissea , nel passo in cui Efesto incatena Ares e Afrodite dopo averli colti in adulterio. Tutti gli dèi ridono tranne Poseidone, che gli intima di scioglierli. Efesto rifiuta perché, dice, se lo facesse Ares fuggirebbe eludendo insieme due vincoli, quello materiale della catena e quello morale, il chreos , che lo lega ormai a Efesto. Questo secondo legame non è una servitù, impossibile tra dèi, piuttosto una comunanza di destino, un pegno. Il dio della guerra si è indebitato con il dio del fuoco, dell’ingegneria, dei fabbri, di tutti gli artigiani: cedendo all’amore, condividendo il fascino della dea, si è sottomesso al vincolo di un reciproco scambio. Anche altrove il significato del
chreos greco sfuma spesso in quello di una comunanza ferrea di destino, di una ineludibile necessità: designa “il debito che tutti devono pagare”, ossia, almeno a partire da Teognide, anzitutto e per definizione la morte. Un’accezione metaforica di chreos che si ritrova lungo tutta la letteratura greca, da Platone alla Sapienza di Salomone tradotta nella bibbia dei Settanta.
Lo squilibrio politico generato da un lungo e inestinguibile debito ha un precedente storico nel mondo greco. A provocare la caduta dell’impero di Bisanzio sei secoli fa è stato il debito con la repubblica di Venezia, incarnazione di quel capitalismo nascente che la percezione teologica e filosofica bizantina, erede di quella classica, non sarebbe mai riuscita ad assimilare né a comprendere.
L’indebitamento dello stato bizantino con i banchieri dell’occidente spinse le sue élite verso l’oriente. La civiltà bizantina entrò allora nella sfera geopolitica dell’islam ottomano, da cui solo nel XIX secolo la Grecia è emersa.
Non è scritto in nessun memorandum che l'Europa debba assumere l'ideologia della tradizione luterana, anziché quella della tradizione giudaico-greco-cristiana. Ma se pure così fosse, una cosa è il debito altra è il debitore. Far passare Alexis Tsipras come responsabile di un debito contratto dai governi contro i quali lui, il suo partito e il suo popolo hanno combattuto e vinto è una pesante mistificazione. Come dire che la Merkel e Schulze sono responsabili dei debiti dei nazisti.
Si tratta, molto prosaicamente, di un tassello di quel mosaico di menzogne sotto il quale si vuole nascondere la verità strategica di "questa" Europa: ciò che da essa si vuol cacciare Europa è la speranza del cambiamento che la Grecia di Tsipras.
«Il referendum contro l’austerità in Grecia è stato politicamente importante per l’intera Europa — sostiene Luciano Gallino, autore di FinanzCapitalismo e Il colpo di stato di banche e governi (Einaudi) — Se un popolo ridotto in miseria, che conta 11 milioni di abitanti, riesce a creare seri problemi ai paesi più importanti d’Europa, con un peso economico e politico come la Germania, ad un certo numero di persone potrebbero venire delle idee.
Quali, ad esempio?
Anziché subire passivamente le direttive di Bruxelles, che in molti casi sono quelle di Berlino, potrebbero puntare i piedi e discutere i provvedimenti. Cosa che non è avvenuto in Italia negli ultimi quattro governi italiani che hanno accettato passivamente e pedissequamente obbedito alle terapie della Commissione Europea o della Bce. Non si è mai vista una banca centrale chiedere di rendere flessibile il mercato del lavoro. Lo fece con Trichet da governatore con la lettera del 2011. Il governo Monti messo al posto di quello Berlusconi ha immediatamente provveduto a farlo. Chissà se il caso della Grecia non farà crescere il numero delle persone che vogliono farsi sentire sull’euro o sul funzionamento dell’Unione Europea.
Tsipras ha denunciato un colpo di stato contro il suo governo. Che cosa è accaduto davvero in Grecia nell’ultima settimana?
Si è concretata la situazione che sta maturando da molti anni. La democrazia è un fattore di disturbo per le istituzioni europee, per molti paesi a cominciare dalla stessa Germania o per il Fondo Monetario Internazionale. Tanto Lagarde, quanto Merkel, hanno detto in varie occasioni che è molto bello vivere in democrazia ma che bisogna anche rendersi conto che la democrazia si deve conformare alle esigenze del mercato. Io trovo queste dichiarazioni politiche di una gravità eccezionale perché dovrebbe essere vero invece esattamente il contrario. In Europa la democrazia viene considerata ormai un intoppo per le decisioni del mercato. Del resto nei trattati fondativi dell’Unione i riferimenti alla democrazia sono nulli. Con la Grecia hanno proprio esagerato. Se anche i primi ministri, per non parlare dei funzionari della Bce o di importanti esponenti dei socialisti hanno interferito apertamente con il governo greco, dimostrando che per loro la democrazia è una seccatura per la libera circolazione dei capitali. La socialdemocrazia è scomparsa totalmente. È ora di prendere posizione. Non che sia facile ma, piuttosto che battere la testa contro un muro, vale la pena di provarci.
Professor Gallino lei sostiene che dal 2007–8 sia in corso in Europa proprio un colpo di stato. Il referendum greco è stata una prima risposta collettiva?
È una risposta politica dei greci a cinque anni di politiche devastanti imposte da Commissione Ue, Fmi e Bce, ed è anche la prima contro quanto è maturato in Europa dalla crisi dei debiti sovrani in poi. La prima fase del colpo di stato presupponeva che le vittime protestassero un po’, per poi obbedire come nulla fosse successo. Oggi, il fatto che un paese economicamente insignificante alzi la testa e prenda a calci negli stinchi questi poteri è un fatto rilevante. Alexis Tsipras ha rivelato una tempra fisica e politica eccezionale per reggere cinque mesi di trattative. Oggi il fatto nuovo è che qualcuno abbia detto “No”, non solo nelle piazze, ma soprattutto nelle trattative, imponendo un referendum al quale hanno partecipato milioni di persone. Questo ha innervosito molto Merkel e gli ineffabili pretoriani della Commissione Europea o del Consiglio Europeo.
Quante possibilità esistono per un accordo sul debito e sui fondi per la Grecia?
Lo spettro delle opzioni sul tavolo oggi è molto ampio. La ristrutturazione del debito è essenziale, ogni economista di mezza tacca ammette che non è pagabile. La Grecia ha perso il 25% del pil grazie alle medicine tossiche di Bruxelles. In queste condizioni, se va bene, riusciranno a pagare un debito che arriverà al 180% del Pil tra moltissimi anni. Questa situazione dimostra che gli economisti che hanno proposto queste ricette non conoscono il loro mestiere e andrebbero licenziati. La soluzione è quella di affrontare i problemi immediati: creare occupazione qualificata per milioni di persone, se è possibile evitando i giochetti come il Jobs Act che non servono a nulla, aumentare la produzione possibilmente non con le vecchie politiche industriali e nuove politiche di investimenti pubblici. Per fare questo è necessario ridiscutere il trattato istitutivo dell’Unione Europea, oltre che lo statuto della Bce, che non contempla la necessità della nostra epoca, cioè creare occupazione o il prestito di denaro ai governi. Una cosa inaudita per una banca centrale.
In che modo si può intervenire?
Ci sono due problemi collegati da affrontare. I trattati, oggi, non sono modificabili, se non all’unanimità. È il segno dell’impossibilità pratica di intervenire: come si fa a far votare 28 paesi insieme? Questo è il funzionamento di un’unione nata male, fondata sulle necessità economiche e non su quelle democratiche, dove la partecipazione non conta nulla. Poi c’è il problema della Germania, l’unico paese ad avere avuto vantaggi dall’euro in termini di export e produttività, anche se negli ultimi dieci anni in questo paese i salari sono rimasti fermi. Convincerla a diminuire l’export, è difficile se non impossibile, ma questo è uno dei problemi fondamentali e lo dicono anche gli economisti tedeschi. L’euro non funziona e non funzionerà mai. Non si tratta però di continuare le invettive contro la finanza, ma di mettersi a studiare cosa fare per migliorare l’euro, per affiancarlo a monete parallele o dissolverlo in maniera consensuale. Così com’è l’euro è una camicia di forza che rende la vita impossibile a tutti, tranne che alla Germania.
In Europa Tsipras è isolato. Se il suo governo perde la guerra, cosa si prepara per la Spagna, con Podemos, e in generale per l’Europa?
A questo punto, anche se perde, Tsipras ha vinto comunque. Le vittorie restano, spingono le persone a fare qualcosa che prima non osavano nemmeno immaginare. Qualcosa di nuovo può rinascere dopo la scomparsa totale della sinistra in Europa.
L’asse Rignano-Berlino, messo su in gran fretta per spezzare le reni alla Grecia, è miseramente crollato. Con il sogno di un pezzo di mantello imperiale da poggiare sulle spalle, Renzi è volato dalla Merkel. In ginocchio dinanzi al nuovo sovrano del continente, rivendicava un riconoscimento ufficiale del suo rango di vassallo fedele che ha eseguito bene il mandato. Con la distruzione dei diritti del lavoro e il rogo della scuola pubblica, lui si presentava come la soluzione, la ragione obbediente ai voleri dei signori della tecnica e della finanza. Tsipras invece era il problema, la follia, il disordine. Mai viaggio, per incassare benefici immediati, fu più incauto. La terra promessa, cioè l’ombrello protettivo della signora della teutonica potenza, per il giovin cavaliere errante si trasforma ora in incubo.
Un altro fallimento. Dopo il trend elettorale disastroso, che dall’Emilia alla Liguria aveva visto la fuga del popolo della sinistra da un partito che ha il programma massimo della destra economica europea, la batosta greca accelera il declino del renzismo. I suoi ideologi avevano cercato di buttarla in velina di regime presentando l’immagine di una Grecia con gli arsenali pieni e le tasche vuote. E al coro di delegittimazione si era aggiunto Veltroni, dalle colonne di un giornale apocrifo. Con la sua predicazione domenicale ammoniva: Roosevelt non avrebbe fatto un referendum per decidere se entrare in guerra. Il coraggio di Tsipras si colorava, nella penna di solito buonista dell’artefice della virata liberista del Lingotto, di codardia.
Con Renzi alla corte della Merkel si congeda, e in malo modo, anche una parte cospicua degli eredi della tradizione del Pci, che hanno interiorizzato valori, simboli, credenze, interessi materiali della destra economica e tecnocratica. Il referendum greco suona la campana a morte per le politiche neoliberiste imposte in Italia anche da una parte influente di quel mondo senza più radici e identità. Il vangelo della transizione post-berlusconiana, esigeva riforme strutturali, sospensione delle elezioni, forzature costituzionali, governi d’eccezione che alteravano i tempi del gioco dei poteri parlamentari e adottavano il programma economico scritto dalle potenze del capitale sotto il ricatto della speculazione. La manovra sullo spread è la nuova coercizione muscolare che costringe i paesi privi dello scudo della sovranità alla resa nel tempo della post-politica. Gli eventi della Grecia mandano in soffitta i simulacri appassiti del socialismo europeo, percepito come braccio secolare del business e parte integrante del piano del capitale globale contro i diritti del lavoro. Nell’Europa del sud si è aperta una frattura storica, una di quelle cesure che implicano la comparsa di nuovi attori politici, la maturazione di altre culture.
La sfida di Tsipras non appartiene alla congiuntura, e non è un fenomeno solo locale, o la manifestazione radicale di un ellenismo periferico. È parte di un processo europeo più vasto, che da Atene si spinge verso Madrid, e annuncia l’inizio di una nuova sinistra, critica verso il capitalismo postmoderno, come imporrebbe il suo stesso codice genetico, da troppi dimenticato. Una sinistra legata al lavoro, in ogni paese dovrà assumere caratteri originali nell’organizzazione, nella cultura, nei simboli. Le parti della tradizione del comunismo italiano rimaste coerenti con i punti cardine di una cultura critica verso gli idoli del capitale, le reti dell’associazionismo civico, le sensibilità sociali di un radicalismo religioso, e le nuove istanze dei diritti di libertà, il movimento sindacale legato al conflitto devono partecipare a un processo per la definizione di un nuovo soggetto politico. Bisogna fare in fretta perché già si è accumulato un ritardo e tanti errori sono stati commessi. È opportuno ascoltare la lezione greca che dà la carica per l’invenzione organizzativa.
I commentatori che incasellano il fenomeno Tsipras nelle categorie del populismo compiono un deliberato compitino di depistaggio cognitivo. Il disegno di Tsipras non ha nulla di populista, cioè non costruisce inganni, deviazioni, capri espiatori. Non coltiva la paura ma la percezione della propria condizione sociale e non c’entra nulla con la ruspa che se la prende con i nemici immaginari. Niente in comune ha poi con lo tsunami tour, che odia anche il sindacato ed evita di collocarsi in una parte precisa nello spazio politico e sociale. Tsipras non salta con immagini deformanti il conflitto, anzi lo nomina, lo politicizza. E non si situa oltre la coppia destra-sinistra, al contrario la rivendica come fondativa, la declina in forme trasparenti. Il suo è un disegno di radicalizzazione della proposta politica e sociale della sinistra dinanzi alle sofferenze di un paese ridotto in ginocchio dalle classi politiche tradizionali, con la Spd che ora vuole la resa dei conti contro i ribelli greci e minaccia “misure umanitarie”.
Per questo recupero da sinistra dell’interesse nazionale, Tsipras parla all’Europa del sud ed è, il suo percorso, l’esatto contrario del populismo, che inventa nemici di una cultura altra, li espone alla gogna in maniera ossessiva grazie alle coperture dei media, che fabbricano fantasmi di comodo pur di proteggere il capitale dagli attori del conflitto. All’invenzione di un totalmente altro (immigrato, islam, rom) contro cui sparare il risentimento e le paure degli esclusi, egli contrappone la verità dei rapporti materiali. Con forza denuncia il dominio che vede l’idolo pagano con simbologie teutoniche succhiare il suo nettare dal cranio dei popoli uccisi con le politiche di austerità palesemente insostenibili. La vendetta dei mercati non tarderà a scagliarsi con furore cieco contro la rivolta politica inaugurata ad Atene. Ma il voto greco dice che è possibile una grande politica, contro il servilismo del fresco vigore di un Renzi, orfano delle magnifiche riforme impopolari che senza una rimodulazione del debito, una rivisitazione del fiscal compact saranno state prove inutili di sacrificio. Con il suo volo alto nei cieli di Germania, per assicurare a poche ore dal referendum che la partita si giocava tra l’euro e la dracma, Renzi ha scordato le parole del poeta: «Ai voli troppo alti e repentini / sogliono i precipizi esser vicini».
«La ferocia liberista della socialdemocrazia europea» e «È il tracollo del socialismo europeo»: sono i titoli degli articoli di Marco Bascetta e Marco Revelli che sintetizzano con efficacia il dramma dell'Unione europea. Liberare lo scenario dai rottami della sinistra del secolo breve è forse il passo essenziale da compiere per combattere vittoriosamente il neoliberismo, fase finale del capitalismo.
Il manifesto, 7 luglio 2015
Le due ali politiche istituzionali fanno a gara per imporre i memorandum della Bce e del Fmi all’Europa. E chiudono gli occhi di fronte all’esercizio della democrazia che viene dalla Grecia
Il volto grigio e tirato di Martin Schulz, presidente dell’Europarlamento, costretto a balbettare il suo commento «istituzionale» al risultato del referendum greco è forse l’immagine più vivida dello stato in cui versa quella che fu la socialdemocrazia europea. Solo poche ore prima, a urne ancora aperte, era intervenuto, con un gesto inammissibile per il ruolo che ricopre, a sostegno dello schieramento del sì. Per poi, una volta sconfitta la sua «parte», offrire, indecentemente, un sostegno «umanitario» alla Grecia.
Herr Schulz, le cui dimissioni dovrebbero essere cosa scontata, rispecchia tuttavia pienamente l’idea di democrazia prevalente nelle segreterie delle formazioni socialdemocratiche europee. Il suo partito, la Spd, si è speso tanto accanitamente in favore del rigore e delle politiche di austerità da ostacolare perfino quel tanto di aperture che la cancelliera Angela Merkel avrebbe potuto azzardare in alcune fasi del negoziato con Atene.
Neanche per un istante la dirigenza socialdemocratica, in buona compagnia di italiani e francesi, si è discostata, sia pur di poco, da quello schema che pone al centro della costruzione europea il rapporto tra debitori e creditori e il risparmio a discapito dei redditi e dei diritti. Cosicché oggi la socialdemocrazia tedesca è tagliata fuori, per eccesso di zelo, (e per fortuna) da qualunque possibile ruolo nella ripresa di un negoziato con Atene. Come una cantilena, ormai stantia, si limita a ripetere che il referendum greco ha reso la ricerca di una soluzione ancora più difficile, per non dire impossibile. Ma si guarda bene dall’aggiungere che questa «difficoltà» altro non è che il rifiuto di Syriza di governare secondo regole ostili o indifferenti alla volontà dei governati, come sarebbe auspicabile secondo la governance europea.
L’Europa sarebbe insomma minacciata da una overdose di democrazia che rischia di legare le mani dei governi. E non è un caso che nell’Italia delle «riforme» si lavori a rendere sempre più difficoltoso il ricorso allo strumento referendario, suscettibile di scompaginare i giochi dell’esecutivo. Oltre che sociale, la socialdemocrazia ha dunque cessato anche di essere democratica.
Resta così, nel ruolo sempre più patetico e improbabile di «pontiere», la figura più pallida e impopolare che i partiti socialisti d’Europa abbiano mai espresso: François Hollande. Mezzo mediterraneo e mezzo governante sempre più in bilico di una grande nazione decisiva per l’Unione europea, ma del tutto subalterno a quella visione tedesca del Vecchio continente, che un tempo preoccupava non poco i governi di Parigi. La Francia, da tempo, più che una soluzione è diventata una parte rilevante del problema.
È il paese che ha votato no alla Costituzione politica europea, affossandone definitivamente perfino l’idea, ma che in nessun modo si è poi spesa nel correggerne la costituzione materiale, ossia i rapporti di forze economici e gli assetti gerarchici che ne configurano l’equilibrio: «No alla Costituzione, si ai Memorandum», questa la lieta novella che proviene da Parigi. Nel repubblicanesimo francese si annidano molti più sentimenti antieuropei di quanti se ne possano incontrare dalle parti di Atene. E non è sorprendente che nel suo seno prosperi e si sviluppi una forza come il Front National di Marine le Pen. Né che la socialdemocrazia francese si riveli del tutto incapace di farvi in alcun modo fronte.
Sotto un velo retorico sempre più sottile e trasparente l’Unione va trasformandosi in un tavolo negoziale tra criptosciovinismi di potenza diseguale, con l’entusiastica adesione delle socialdemocrazie in costante declino di credito elettorale. Affannato e petulante, truccando spudoratamente i numeri del «successo», il nostro Pd partecipa alla gara nelle seconde file. La «priorità dell’interesse nazionale» non è più l’evocazione impronunciabile di una storia obbrobriosa, ma un buon argomento da campagna elettorale. In un siffatto contesto in cui l’ipocrisia si fa necessità storica, diventa essenziale sostenere che il «no» uscito trionfante dal referendum greco è un no all’Europa e una delle molte insorgenze «populiste» o «rossobrune» che minano la costruzione europea e aprono sull’ignoto.
Sembrerebbe esservi una singolare teoria che circola da qualche tempo nei principali media europei e nel dibattito pubblico. Se una volta andavano in gran voga gli «opposti estremismi» ora sembra venuto il tempo dei «convergenti estremismi» che, da destra e da sinistra, alleandosi fra loro, puntano a demolire la stabilità del Vecchio continente e a indebolirne le auree regole. Ogni voce critica viene automaticamente attribuita a questo inquietante scenario. Non manca nemmeno chi annovera Alba dorata tra i sostenitori di Tsipras, comunque ricorrentemente assimilato al Front national, al Movimento5 stelle o ai nazionalisti polacchi. Naturalmente in compagnia del temutissimo Podemos.
Questa opera di disinformazione ha raggiunto il parossismo alla vigilia del referendum in Grecia. Il quale esprimeva invece un punto irrinunciabile, ribadito con grandissima insistenza: la permanenza nell’Unione europea e la creazione di condizioni tali da non far dipendere questa appartenenza da un rapporto tra creditori e debitori universalmente riconosciuto come insostenibile. Ciò che risulta veramente indigeribile dell’esperienza greca è appunto il suo convinto europeismo. Il quale minaccerebbe non tanto i trattati europei quanto gli interessi nazionali (sovente più ideologici che contabili) degli stati che governano di fatto l’Unione.
Se di «salto nel buio» si deve parlare non è certo riferendosi alla mossa referendaria di Tsipras, quanto alla caparbia difesa di uno squilibrio che sta spianando la strada alle peggiori forme di nazionalismo, alle quali la socialdemocrazia europea risponde facendosi a sua volta portavoce «ragionevole» dell’«interesse nazionale». E’ questa la deriva che sta minacciando l’Europa e che la crisi greca non ha certo prodotto, ma piuttosto chiaramente rivelato.
E’ IL TRACOLLO DEL SOCIALISMO EUROPEO
La valanga di «No» non è solo una vittoria del governo e del popolo greco. E’ una vittoria di tutti gli europei che non hanno voluto smettere di credere nella democrazia.
La paura è stata sconfitta. Clamorosamente. Il tentativo di seminare il terrore nell’elettorato da parte dei principali esponenti delle istituzioni europee, a cominciare dal governatore della Bce Mario Draghi (che togliendo l’ossigeno finanziario alle banche e al popolo greco si è assunto una responsabilità personale gravissima), è fallito. Occorrevano davvero degli «eroi omerici» per resistere a quel ricatto, e sono stati all’altezza della loro storia migliore. Hanno dimostrato che anche in tempi di crisi della politica, la «grande politica» è possibile. Perché è «grande politica» mostrare che la pratica della democrazia è possibile, in un contesto europeo che sembra aver dimenticato questo valore, e di fronte a oligarchie che non la tollerano e non perdono occasione per dimostrarlo. Ed è «grande politica» aver mostrato - da quella che potrebbe apparire un’estrema periferia del continente e che invece se ne rivela il vero centro - che l’architettura su cui si basa l’Unione europea non regge. Che va cambiata dalla radice. Pena la fine dell’Europa.
Dopo questo voto Alexis Tsipras assume statura e ruolo di leader europeo. Quel «ragazzo», come lo chiamano affettuosamente in patria, rappresenta tutti gli europei - e sono davvero tanti - che non si riconoscono in questa gestione inumana, arrogante, egoistica e irresponsabile da parte di coloro che - in nome di un dogma fallimentare - hanno portato l’Europa sull’orlo del disastro, tradendone gli ideali fondativi, rendendola odiosa agli occhi del suo stesso popolo. Dovremo d’ora in poi gridarlo forte, tutti insieme, con un coro transnazionale, che l’Europa è troppo importante per lasciarla nelle mani di oligarchi di tal fatta. Di figure dal profilo tremendamente basso, incapaci di visione, di sguardo, chiuse nella piccineria di un’esistente insostenibile nel futuro, anche nel più vicino, di fronte alle quali spicca, per differenza, la grandezza del gesto di Yanis Varoufakis - l’eroe di piazza Syntagma, l’uomo acclamato dal popolo del «No», un vincitore indiscusso - che si dimette per favorire un accordo che va nell’interesse del proprio popolo. Per togliere anche un briciolo di alibi ad avversari rancorosi e nella sostanza meschini, in una situazione che è, con tutta evidenza, durissima.
Il voto greco rivela anche il catastrofico collasso del socialismo europeo. La presa di posizione del vice-cancelliere tedesco Garbriel, schierato addirittura alla destra della Merkel a fare il lavoro sporco per lei – a ribadirne la «pedagogia imperialista» di cui nel suo stesso paese è accusata (Der Spiegel) -, è qualcosa di ancor più tragico del celebre voto dei crediti di guerra nel 1914, perché segna una assimilazione ormai senza più residui. La dichiarata fine di un’identità politica. Così come la vergognosa posizione assunta da Martin Schultz, offensiva dello stesso parlamento europeo che dovrebbe rappresentare, esempio dell’abisso in cui è caduta la socialdemocrazia tedesca ma anche dell’incapacità di ricoprire con dignità un ruolo istituzionale che dovrebbe essere rappresentativo di tutti. Un parlamento degno di questo nome non dovrebbe esitare nemmeno un giorno a chiederne le dimissioni. Per non parlare delle posizioni assunte dal presidente del consiglio italiano Matteo Renzi: la sua imbarazzante performance di fronte alla cancelliera Merkel, gratuita forma di servilismo a danno degli stessi interessi italiani, è il simbolo di un definitivo degrado politico, culturale e morale. Che ne vanifica ogni possibile aspirazione da «mediatore» di alcunché.
Da oggi incomincia una nuova storia per tutte le sinistre europee, a cominciare dalla nostra. I greci hanno aperto una breccia. Contro di loro si scaricherà la voglia di vendetta degli sconfitti, ancora increduli della propria sconfitta perché fiduciosi nell’onnipotenza dei propri mezzi. Tenteranno di continuare a usarli quei mezzi di dissuasione di massa. Tenteranno di prolungare il vero e proprio assedio di tipo medievale che hanno praticato nell’ultima settimana. Stringeranno ancora la garrota al collo dei greci per tentare di piegarne i negoziatori. Sta a tutti noi essere all’altezza del compito. Perché adesso tocca a noi fare la nostra parte, rompendo quell’assedio.
Facendo sentire forte la voce della vera Europa. Mobilitandoci perché è della nostra stessa pelle che si tratta.
In uno dei suoi aforismi, Ludwig Wittgenstein affermava che “ niente è così difficile come non ingannare se stessi”, specialmente quanto manca un minimo di onestà intellettuale, si potrebbe aggiungere. E’ precisamente il quadro che stampa e altri mass – media, ci presentano il giorno dopo della straordinaria vittoria del No in Grecia, con una percentuale tanto lontana da quel testa a testa che i sondaggi presentavano prima di domenica, al punto da farci pensare che fossero del tutto farlocchi.
La linea più comune è quella di chi dice che la vittoria del No non cambierebbe quasi nulla e lascerebbe inalterata la durezza del confronto in atto. C’è poi chi afferma, con una logica difficile da esplorare, che la vittoria del Sì avrebbe creato migliori condizioni per i greci nella trattativa. In realtà questa non ci sarebbe più stata perché sarebbe passata integralmente la proposta dei creditori. C’è chi, da destra come da sinistra – si fa per dire –, afferma invece che il No vuole dire ben altro e cioè l’addio all’euro, malgrado che la maggioranza del popolo greco si sia esplicitamente espressa in più di un’occasione per la permanenza nell’Eurozona.
Senza rincorrere le interpretazioni più stravaganti è chiaro che le élite europee e i loro fidi commentatori sono stati presi alla sprovvista da un esito così clamorosamente nitido del pronunciamento ellenico e si trovano in difficoltà a replicare in modo convincente, se non rincorrendo alla impossibile denegazione del suo significato e del suo valore.
La sconfitta della Merkel e di tutti coloro che perseguono ostinatamente- malgrado le bocciature che giungono al Fondo monetario internazionale persino dal Congresso americano - la strada dell’austerità, incapaci di pensarne un’altra, è stata questa volta netta e chiara. Ma non è stata la sola. Sulla vicenda greca si è consumato il definitivo harakiri della socialdemocrazia, quella tedesca in particolare. La dichiarazione di Sigmar Gabriel vicecancelliere tedesco e capo della Spd “Tsipras ha distrutto l’ultimo ponte verso un compromesso” è tanto perentoria ( assomiglia molto al tweet della Csu bavarese “Buonanotte Grecia”) quanto incosciente e chiude indegnamente un giro di pronunciamenti uno peggiore dell’altro.
Martin Schulz, dopo averne dette e combinate di tutti i colori, ha ribadito contro ogni evidenza che “il no significa che la Grecia torna alla dracma”, addirittura sulla falsariga di Matteo Renzi che aveva dipinto il referendum come un derby fra euro e dracma. Persino il silente Mattarella, anche se con una dichiarazione un po’ criptica ma comunque rispettosa del voto greco (“si aprono scenari inediti”), sembra prenderne le distanze. Il primato della pagina giornalistica peggiore in assoluto spetta alla risorta L’Unità, nella cui testata campeggia il nome martoriato di Antonio Gramsci, che scarica tutto il suo livore contro il governo greco con quel titolo di prima “Grecia: tasche vuote arsenali pieni”. Intanto Hollande è stato chiamato a consulto dalla Merkel, ma aspettarsi da lui un sussulto di autonomia di pensiero è forse ottimismo eccessivo.
Il primo ostacolo a una riapertura della trattativa, che la Merkel aveva voluto interrompere in attesa dell’esito del referendum - legittimandolo in anticipo al di là delle sue proprie intenzioni - è rappresentato da questa cecità volutamente diffusa e in particolare dalle posizioni della socialdemocrazia tedesca che vuole scavalcare a destra la stessa cancelliera. Non certo dalla intransigenza della delegazione greca, il cui obiettivo rimane quello che era fin dall’inizio: avere un po’ di tempo e di fiato finanziario, quindi rubinetti aperti da parte della Bce ( l’economista Paul de Grauwe giudica del tutto arbitraria la decisione di quest’ultima di escludere la Grecia dal quantitative easing in atto nel resto d’Europa). Si è detto che esattamente due anni fa Mario Draghi abbia salvato dal crollo la Ue con una semplice dichiarazione, la celebre “Whatever it takes”. Ma non lo ha ripetuto e soprattutto non lo ha fatto ora nei confronti della Grecia, essendo l’innalzamento dei limiti dei finanziamenti Ela, rimessi in forse, troppo poco e troppo cari. E avrebbe potuto farlo, sdrammatizzando la situazione almeno dal punto di vista dell’emergenza finanziaria.
Anzi, il comportamento del governo greco è stato contenuto nelle dichiarazioni post voto e soprattutto molto concreto nei fatti. Le dimissioni di Yanis Varoufakis vanno considerate in questo quadro. La stessa dichiarazione dell’economista greco va letta per quello che dice, abbandonando i soliti esercizi dietrologici: “Considero un mio dovere quello di aiutare Alexis Tsipras, nel modo che ritiene più opportuno, per ottenere il massimo dal risultato che ci ha affidato ieri il popolo greco tramite il referendum. Mi farò carico con orgoglio del disprezzo dei creditori”.
Egli sa bene che per andare avanti, ovvero per affrontare il tema di fondo – la ristrutturazione e la diminuzione del debito su cui ha sempre giustamente insistito e che la Germania respinge per ora nettamente -, bisogna prima superare l’emergenza e accumulare forze in campo europeo. Ora c’è il forte No del popolo greco che rafforza Tsipras e chiunque vada a trattare. Ogni pretesto va eliminato. Perciò egli con grande senso di responsabilità e di lealtà può benissimo tenersi da parte.
Non si tratta dell’esplodere di divergenze fra Tsipras e Varoufakis. Anche a sinistra c’è chi pensa così, vedendo un nuovo caso Che Guevara, con Tsipras nella parte di Fidel Castro. Ma non è questo il caso. I due hanno giocato fin dall’inizio la medesima partita con ruoli e modalità giustamente diverse per funzioni, competenze e carattere. Il tentativo di dividerli da parte delle elite europee, accreditando in Tsipras la figura più malleabile, è già stato respinto con la proclamazione del referendum fatta dal primo ministro greco.
Ma il farsi da parte di Varoufakis in questa delicatissima fase della riapertura della trattativa, non significa la sparizione dalla scena del professore di Houston. Anche perché i nodi del debito complessivo e della carenza di investimenti produttivi in settori innovativi verranno al pettine della crisi europea. E su queste cose Varoufakis ha molto da dire. Egli non è solo un brillante teorico di una possibile alternativa di politica economica ai modelli neoliberisti dominanti. Un’analista profondo della situazione economica mondiale. E’ anche lo studioso che si è impegnato a formulare soluzioni pratiche alla questione del debito e della rinascita dell’economia su nuove basi. In lui non vi è separazione inconciliabile fra teoria e pratica, come i suoi avversari – peraltro molto ignoranti sul primo fronte e incapaci sul secondo – vogliono fare credere. Ma la convinzione profonda che senza una lettura adeguata delle contraddizioni del moderno sistema capitalistico mondiale ogni soluzione tende ad accomodarsi sul carro del più forte ed a perpetuare l’attuale sistema.
Yanis Varoufakis si è dedicato a partire dall’annus horribilis della crisi economica in Europa, ovvero il 2009, a progettare un vero piano di investimenti – non come quello attuale di Juncker ridicolmente limitato a una manciata di miliardi -. La sua proposta, che sarebbe tuttora perfettamente valida, era quella di consentire alla Banca Europea degli Investimenti di emettere obbligazioni, che sarebbero state acquistate dalla Banca centrale europea per finanziare investimenti produttivi in settori qualitativamente diversi da quelli verso i quali si indirizza normalmente un mercato di capitali, peraltro restio a farlo perché votato interamente alla finanza. Come si vede si tratterebbe, per così dire, di un’altra forma di quantitative easing, dove però i soldi non verrebbero posteggiati nelle banche, gelose e sospettose a concederli in prestito, creando così una sorta della famosa “trappola della liquidità” di cui ci parlava Keynes, ma verrebbero direttamente impegnati nella economia reale.
Proprio qui sta la chiave per ridare una speranza all’Europa. Da un lato si tratta di affrontare seriamente il tema del debito in base al principio confortato da innumerevoli esempi storici - in primo luogo quelli della Germania nei due periodi postbellici, ove si praticarono scelte diverse con esiti politici non a caso opposti (il nazismo dal rigore nell’esigere il rimborso, la democrazia dal condono del debito nella conferenza di Londra del 1953) – e cioè che debiti troppo elevati non possono venire interamente pagati e che quindi è anche interesse dei creditori giungere alla loro ristrutturazione e riduzione. Se non vogliono perdere tutto costringendo un paese al default. Dall’altro bisogna pensare a un’Europa unita politicamente su basi federali, nella quale si arrivi all’unificazione fiscale e a un bilancio centrale capace di avviare un nuovo modello di sviluppo.
Purtroppo la Ue si muove in modo opposto, non solo nel caso greco, ma più in generale, visto il documento recentemente presentato da Juncker, Tusk, Draghi, Dijsselbloem e Schulz. Come ha detto l’economista americano Jeffrey Sachs il problema, se non vuole implodere o ridursi a una provincia tedesca, è dell’Europa, non della Grecia. Per questo per Varoufakis è solo un arrivederci.
Il giorno dopo le clamorose dimissioni di Varufakis emergono le virtù politiche e le prospettive della decisione, Articoli di Tommaso De Francesco, Pavlos Nerantsis, Annamaria Merlo. Il manifesto, 7 luglio 2015
È la prima volta, dopo tanti anni, che tutti i leader politici partecipano allo stesso vertice — l’ultimo risale ai primi anni ’90 — con l’esclusione dei nazisti di Alba dorata, assenti per «motivi ideologici e politici». Durante la riunione, durata più di sette ore, Tsipras ha presentato ai suoi interlocutori un piano simile a quello discusso dieci giorni fa con i creditori, aggiornato con i dati nuovi. In primo luogo ha ribadito la richiesta di Atene di un prestito dall’Esm pari a 29,1 miliardi di euro, cui si contrappone Berlino che continua a non voler sentir parlare di ristrutturazione del debito.
Per il momento il problema più urgente è la liquidità. Le banche greche rischiano di rimanere a secco da un momento all’altro. La Bce, per ora, si è limitata a mantenere il flusso d’emergenza dell’Ela al livello pre-voto (89 miliardi) e a una «correzione» del collaterale offerto in garanzia dagli istituti greci. Per questo motivo il governo ha deciso il prolungamento della chiusura delle banche fino a domani. «La Grecia andrà al tavolo delle trattative con l’obiettivo di riportare alla normalità il sistema bancario» ha detto Tsipras. Il premier greco è uscito dall’aula due volte. La prima per avere una conversazione telefonica con Mario Draghi e l’altra con Putin. La Bce potrebbe togliere completamente l’ossigeno alle banche greche, ma non vorrebbe essere Draghi a provocare il default.
Tsipras oggi è più forte che mai dopo aver ottenuto oltre il 60% dei voti, strappando il consenso anche di altre forze politiche. «L’esito del referendum non è un mandato di rottura ma un mandato per continuare gli sforzi per una soluzione sostenibile» sottolineano i leader politici, aggiungendo che «ciascuno farà il possibile per contribuire all’obiettivo comune». Ovvero garantire la liquidità alle banche e la crescita del paese, promuovere le riforme tenendo conto la giustizia sociale e il negoziato per la ristrutturazione del debito.
Il premier greco partecipa oggi al vertice Ue con un mandato chiaro: ottenere un accordo al più presto, possibilmente «entro le prossime 48 ore». Un’intesa all’ interno dell’eurozona che apre la strada ad una Europa diversa, della solidarietà e dei diritti contro l’austerità e la recessione. Il premier greco deve affrontare i falchi dell’eurozona che non vedono come un dramma l’uscita della Grecia dall’euro, a differenza di altri che fanno di tutto per tenere Atene nell’eurozona, specie nel momento in cui Jp Morgan e Barclays considerano «probabile» un’uscita.
Intanto i greci che per cinque anni stanno vivendo sulla propria pelle le conseguenze del peggior attacco del neoliberalismo, nonostante il terrorismo mediatico, la chiusura delle banche, le intimidazioni e i ricatti di alcuni partner europei in questi giorni sono ottimisti. Come aveva scritto Yannis Ritsos, una delle voci poetiche più forti della Grecia contemporanea, «noi cantiamo per unire il mondo».
Per arrivare a questo punto d’intesa tra le forze politiche e un cambiamento del clima nei rapporti con i creditori era, però, necessario un sacrificio. Yanis Varoufakis, il ministro delle finanze greco, che per cinque mesi ha tenuto duro, ieri mattina ha dovuto dimettersi non perché in disaccordo con Tsipras, ma perché l’hanno chiesto i partner europei. E il premier greco per togliere ogni alibi ai suoi interlocutori europei ha chiesto le dimissioni del suo ministro e amico.
Verso le otto di mattina Varoufakis ha scritto sul suo blog di aver lasciato l’incarico per consentire al premier di ottenere più facilmente un accordo. «Subito dopo l’annuncio dei risultati del referendum, sono stato informato di una certa preferenza di alcuni membri dell’Eurogruppo e di partner assortiti per una mia «assenza» dai loro vertici, un’idea che il primo ministro ha giudicato potenzialmente utile per consentirgli di raggiungere un’intesa. Per questo motivo da oggi lascio il ministero delle Finanze. Considero mio dovere aiutare Alexis Tsipras a sfruttare come ritiene opportuno il capitale che il popolo greco ci ha offerto con il referendum d’ ieri». E poi conclude: «Porterò con orgoglio il disprezzo dei creditori».
La notizia non ha sorpreso nessuno. Anzi in un’ottica di rilancio del negoziato, le dimissioni sono state accolte positivamente dai mercati. Da parecchio tempo era noto che il ministro delle finanze greco non era affatto grradito ai membri dell’Eurogruppo e soprattutto al suo omologo tedesco, Wolfgang Schauble. Le posizioni diverse, ma anche l’aria da prof e l’abbigliamento casual di Varoufakis hanno creato prima un’antipatia, poi uno scontro frontale e in seguito un vuoto che con il tempo è diventato caotico, tra il ministro greco e i 18 dell’eurozona.
Secondo fonti a Bruxelles, era diventato «un dialogo tra sordi» a tal punto, che mesi fa, l’ambasciatore tedesco ad Atene per ben due volte aveva chiesto al governo greco l’allontanamento di Varoufakis.
Anche all’interno di Syriza non piaceva tanto questo spirito esibizionista e scontroso del ministro ormai ex. La settimana scorsa secondo un servizio apparso sul quotidiano Ta Nea (Le novità) che non è mai stato smentito dal governo, alcuni ministri avevano chiesto l’allontanamento di Varoufakis.
E domenica sera quando l’ esito del «no» era quasi sicuro, durante un incontro, Tsipras ha chiesto le dimissioni di Varoufakis, il quale uscendo dalla sede di governo, ha usato toni duri contro i creditori, parlando di «partner che terrorizzano i greci» e di «valuta parallela all’euro», una dichiarazione che non andava di pari passo con il tentativo di Tsipras di tenere i toni bassi e trovare un compromesso.
L’allontanamento di Yanis Varoufakis, tanto amato tra i greci, potrebbe paragonarsi con il sacrificio di Ifigenia nella tragedia Agamemnone di Eschilo. Il suo sotituto sarà Euclid Tsakalotos, capo-gruppo della squadra di negoziato greca, stretto amico di Varoufakis.
Parole e scelta inaspettate perché annunciate appena il giorno dopo la vittoria del no contro i diktat della troika. Come dice Alexis Tsipras, «per lottare per la libertà servono virtù e coraggio».
C’è già chi paragona il gesto di Varoufakis a «Cincinnato», chi sapientemente torna sulle sfortune di Dioniso raccontate nel kylix di Exekias alle prese con gli etruschi «delfini», chi addirittura richiama alla memoria la scelta di allontanarsi da Cuba fatta da Che Guevara d’accordo con Fidel Castro. Si rischia così però di fare della mitologia, antica o moderna che sia.
Qui al contrario ci troviamo di fronte ad una scelta immediata, strategica e consapevole: «Mi dimetto per favorire l’accordo». Si intuisce l’accordo consensuale (lo conferma la nomina al ministero delel Finanze al suo posto di Euclid Tsakalotos, fortemente legato a Varoufakis ed esponente della piattaforma di sinistra di Syriza) tra i due dirigenti che, forti dell’immenso sostegno popolare che arriva dai risultati del referendum, hanno deciso di togliere, con questa mossa dolorosissima per entrambi, ogni alibi all’intransigenza della troika. Che ora non può più trincerarsi dietro la presunta «arroganza» dell’«intrattabile» e fuori dagli schemi, mediatore Varoufakis.
Il sacrificio di Varoufakis, più che l’evento mitologico di riferimento, mostra la capacità di rispondere al «peso» della vittoria. Nel senso della poesia di Costantino Kavafis Che fece…il gran rifiuto (ispirata ai versi della Divina Commedia di Dante) di più d’un secolo fa ma che sembra scritta in occasione del referendum greco: «Per alcuni uomini giunge il giorno in cui/ devono pronunciare il grande Sì o il grande/ No. È chiaro sin da subito chi lo ha/ pronto dentro di sé il Sì e pronunciandolo/ si sente più rispettabile e risoluto./ Chi rifiuta non si pente. Se glielo richiedessero,/ «no» pronuncerebbe di nuovo. Eppure quel no — / quel no giusto lo annienta per tutta la vita».
Una rinuncia, quella di Yanis Varoufakis, che sottolinea l’originale drammaticità della sinistra greca e della sua storia. Intessuta della necessità di rompere un profondo isolamento. Già nel secondo dopoguerra con la disperazione e sconfitta sanguinosa della guerra civile continuata dai comunisti contro i nuovi occupanti britannici, dopo la sconfitta di quelli nazisti-fascisti.
Una sconfitta consumata, oltre che per i gravi errori dei comunisti greci, sull’altare di Yalta e di Stalin ma anche per responsabilità di Tito, l’emergente leader jugoslavo anti-stalinista. Poi, mentre in tutta Europa esplodeva il ’68, in Grecia la sinistra soccombeva già da un anno alla dittatura militare dopo il golpe dei colonnelli, sostenuta dalla Nato. Il riscatto fu la rivolta del Politecnico del ’74. Ancora una volta per rivendicare la specificità della crisi greca di fronte all’ordine mondiale della Guerra fredda e alla sostanziale indifferenza-connivenza dell’Europa.
Ora la sinistra — prima composita e ora con Syriza finalmente unita — che il leader Alexis Tsipras ha portato al governo del Paese dopo il disastro della destra, è impegnata nella diversità più difficile: contraddire il neoliberismo e l’economicismo dell’Unione europea ridotta solo ad una moneta e al ruolo di recupero crediti al servizio del Fmi.
Oggi la Grecia presenta nuove proposte, concordate tra tutti i partiti, ai due incontri programmati a Bruxelles, l’ennesimo Eurogruppo straordinario a metà giornata, seguito in serata da un vertice dei capi di stato e di governo dei 19 della zona euro. La mossa è stata concordata con Alexis Tsipras da Angela Merkel e François Hollande, in successive telefonate, tra domenica sera e ieri. Hollande ha ricevuto Merkel ieri all’Eliseo, per cercare un terreno di intesa, dopo le divergenze recenti. Hollande attende «proposte serie e credibili», offrendo un equilibrio tra «solidarietà e responsabilità», con «urgenza». Per Merkel, i partner hanno già dato prova «di molta solidarietà», l’ultima proposta era «molto generosa».
Hollande è invitato, in Francia, ad uscire dalla sua tradizionale ambiguità e a proporsi come un vero mediatore per evitare il peggio. Il ministro dell’Economia, Emanuel Macron, ha respinto l’ipotesi di organizzare un’uscita dall’euro della Grecia «senza drammi», avanzata dall’ex primo ministro Alain Juppé (che sogna l’Eliseo per il 2017). Per la Germania, invece, «al momento non ci sono i presupposti per una nuova trattativa su un altro programma di aiuto», ha affermato il portavoce di Merkel, Steffen Siebert, che ha anche precisato che «non c’è ragione per una ristrutturazione» del debito, come chiede Tsipras. La reazione tedesca al risultato del Greferendum sfiora l’isteria, al punto che il numero due del governo, l’Spd Sigmar Gabriel ha annunciato che «il summit discuterà di aiuti umanitari» per la Grecia, «la gente laggiù ha bisogno di aiuto e noi non dovremmo rifiutarglielo solo perché non siamo d’accordo con il risultato del referendum». Di ricorso alla charity aveva già parlato l’ineffabile Martin Schulz (Europarlamento), un’ipotesi ripresa dal gruppo Ppe a Strasburgo.
Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, segue la posizione tedesca e afferma che «la vittoria del no è molto disdicevole per l’avvenire della Grecia», perché «per la ripresa economica sono inevitabili misure difficili e riforme» e che non c’è «niente da aspettarsi» dalle proposte greche. La Commissione ieri ha pubblicato un commento minimalista, che «prende atto e rispetta» il risultato del referendum. Il commissario all’euro Vladis Dombrovskis ripete che «il posto della Grecia era e resta nell’eurozona», ma aspetta il risultato dell’Eurogruppo di oggi per vederci più chiaro. Attendismo anche all’Fmi, dopo aver «preso atto» del Greferendum: «Sorvegliamo la situazione – ha detto Christine Lagarde – e siamo pronti ad aiutare la Grecia se ce lo chiedono».
Comunque, la Commissione è soprattutto preoccupata della stabilità dell’euro: «La stabilità della zona euro non è in gioco», insiste Bruxelles e Dombrovskis ribadisce: «La stabilità dell’eurozona non è in discussione». Jean-Claude Juncker ha avuto contatti con Tusk, Dijsselbloem e Draghi, che ha parlato anche con Tsipras.
La Bce, suo malgrado, è gettata in prima linea in queste ore. Ha in mano l’arma fatale dell’Ela (liquidità di emergenza), l’ultimo rubinetto rimasto aperto per finanziare il sistema bancario greco. L’Ela è ferma a 89 miliardi e domenica la Banca centrale greca ha di nuovo chiesto a Francoforte un rialzo. Oggi e domani le banche non riaprono, come previsto, sono a secco. Per la Bce, che ha prestato alla Grecia 30 miliardi, la data finale è il 20 luglio, quando la Grecia deve rimborsare 3,5 miliardi. Se non c’è l’accordo, non ci saranno i soldi. Di qui ad allora, la Bce potrebbe progressivamente stringere il cappio attorno al collo della Grecia, fino a sospendere anche l’Ela. Allora ci saranno i fallimenti delle banche, che precipiteranno la Grecia nel caos, nel panico del bank run e a dover ricorrere agli IOU (I owe you), cioè una moneta parallela per pagare funzionari e pensioni, equivalente a un Grexident nel disordine.
Jens Weidmann, della Bundesbank, sottolinea da tempo che l’Ela della Bce è al limite delle competenze di Francoforte, che sta rischiando la propria reputazione. La ristrutturazione del debito chiesta da Atene ha di fronte un ostacolo di peso: per Christian Noyer, governatore della Banque de France, «per definizione il debito greco verso la Bce non può essere ristrutturato perché costituirebbe un finanziamento monetario a uno stato», escluso dall’art.123 del Trattato di Lisbona.
In caso di Grexident, ma anche di un Grexit ordinato, non sono del tutto dissipati i timori di un contagio, a cominciare da Spagna e Portogallo. Luis de Guindos, ministro spagnolo, ha affermato che «la Spagna non prevede assolutamente» un Grexit e ha aperto a un «terzo piano di aiuti, la Grecia ha diritto di chiederlo», ma ha ricordato che «bisogna applicare le regole». Impazienza anche da parte di Matteo Renzi: le riunioni di oggi «devono indicare una via definitiva» per uscire da quello che Paolo Gentiloni ha definito «il labirinto greco».
Mambiailmondo, 6 luglio 2015
Subito dopo l’annuncio dei risultati del referendum, sono stato messo al corrente di una certa preferenza da parte di alcuni partecipanti all’Eurogruppo, e ‘partner’, per la mia … ‘assenza’ da queste riunioni; un’idea che il Primo Ministro ha giudicato potenzialmente utile per trovare un accordo. Per questo lascio il Ministero delle Finanze oggi.
Considero un mio dovere aiutare Alexis Tsipras a sfruttare, come gli sembra opportuno, il capitale che il popolo greco ci ha accordato attraverso il referendum di ieri. E io porterò con orgoglio il disprezzo dei creditori.
Noi della sinistra sappiamo come agire collettivamente, iincuranti per i privilegi che derivano delle cariche. Sosterrò pienamente il Primo Ministro Tsipras, il nuovo ministro delle Finanze e il nostro governo. Lo sforzo sovrumano per rendere onore al coraggioso popolo greco, e al formidabile OXI (NO) che hanno affidato ai democratici di tutto il mondo, è appena cominciato, "
Like all struggles for democratic rights, so too this historic rejection of the Eurogroup’s 25th June ultimatum comes with a large price tag attached. It is, therefore, essential that the great capital bestowed upon our government by the splendid NO vote be invested immediately into a YES to a proper resolution – to an agreement that involves debt restructuring, less austerity, redistribution in favour of the needy, and real reforms.
«La vittoria del «no» ha tanti significati. Ma prima di tutto onore ai greci, che hanno vinto la loro battaglia ma non certo la guerra, anche per noi italiani e per l’Europa, senza che l’Europa (e l’Italia) facesse molto per loro».
Il manifesto, 6 luglio 2015 (m.p.r.)
La vittoria del «no» è la risposta a quanti hanno cercato in tutti i modi di trasformare il loro voto in un azzardo, come se il giusto diritto di un popolo di esprimersi sul suo futuro rappresentasse un rischio da non far correre ai mercati, in un contesto reso confuso nell’ultima settimana dai comportamenti ricattatori della troika ed in particolare della Bce, che ha cercato in vari modi di influenzare il voto con l’arma del panico, bloccando la liquidità agli sportelli anche se le banche sono solvibili a stesso giudizio della Bce. La democrazia non è azzardo, ma un diritto, e questo è il primo risultato del «no».
Questa vittoria è la risposta a quanti hanno voluto trasformare il negoziato su un nuovo Memorandum in un «prendere o lasciare» tutto politico, in un «dentro o fuori l’Europa», perché la posta in gioco non era solo economica ma, come è risultato evidente, era il diritto di una nazione a non accettare i diktat della dottrina ordoliberale tedesca che impone le sue regole, e a scegliere assieme in quale Europa si vuole stare. L’inclusione contro l’esclusione, secondo risultato del «no».
La vittoria del «no» ha il merito di non azzerare le prospettive di cambiamento. L’uso politico della negoziazione sul Memorandum era far capire ai popoli europei che non vi sarebbe stata altra strada se non quella tracciata da Bruxelles, Francoforte, Washington, e su tutti Berlino; che ogni tentativo di avere una idea diversa di Europa doveva essere espulsa sul nascere, prima che rischiasse di contagiare altre nazioni, altri popoli, quello spagnolo anzitutto. Con il governo di coalizione a guida Syriza le istituzioni europee e quelle internazionali (Fmi), sono costrette invece a fare i conti, e a negoziare, e in prospettiva altri governi di coalizione potrebbero essere eletti aprendo un fronte di nuove negoziazioni,terzo risultato del «no».
La vittoria del «no» è la risposta al socialismo europeo che co-governa le istituzioni nazionali e comunitarie condividendo la politica dei partiti conservatori; a ciò che è rimasto del socialismo europeo, simulacro persino dello spirito della socialdemocrazia dell’alternanza, che oggi delega con i governi di coalizione al Ppe ogni scelta sul terreno economico, sociale e politico, e fuori dalle coalizioni condivide gli stessi paradigmi e le stesse ricette del liberismo più retrivo. Il quarto risultato del «no» prova che un’altra sinistra è possibile.
La vittoria del «no» consente di mantenere vivo il tentativo di cambiare l’agenda economica europea. Le ricette dell’austerità espansiva hanno prodotto un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della gran parte delle popolazioni che le hanno subite. La Grecia è solo il caso più eclatante, ma danni sono stati procurati ovunque la troika è arrivata, oppure dove le politiche sono state da questa dettate, in Irlanda, Spagna, Portogallo, Finlandia, e Italia da Monti a Renzi.
Al contempo il debito deve essere ristrutturato perché un paese quando non è in grado di ripagare il suo debito e viene forzato a farlo, non ha alcuna prospettiva di crescita e fallisce su entrambi i fronti, quello della crescita e quello del pagamento del debito. Il quinto risultato è quello di proporre una agenda diversa: un negoziato per un Memorandum che segni una discontinuità con i precedenti, e una conferenza sulla ristrutturazione del debito.
A questo punto quale sarà la reazione delle istituzioni europee e della troika?
Un primo scenario è quello della irresponsabilità. Ovvero rigettare nei fatti il successo del «no» e perseguire come se nulla fosse accaduto l’obiettivo politico, mettere in crisi ancor più la Grecia e far cadere il governo Tsipras. Quindi nessun accordo, Memorandum o meno, e costringere la Grecia al default e alla uscita dall’euro tramite la Bce che blocca il credito al sistema bancario greco. Scenario assai rischioso per gli altri paesi dell’eurozona, perché saremmo nel campo dell’ignoto, non solo con costi elevati per la Grecia.
Un secondo scenario è quello della stupidità, in cui viene abbandonato l’obiettivo politico ma non quello economico, per cui nessuna concessione alle richieste greche sul piano delle politiche di austerità e nessuna ristrutturazione del debito. Il debito va pagato, le istituzioni europee e internazionali sono disposte ad intervenire concedendo linee di credito solo a condizione che la Grecia accetti un Memorandum 3 sulla linea dei precedenti. L’esito è il perdurare della depressione in Grecia, qualora il governo ellenico accetti pur di non dichiarare default e uscire dall’euro. Il rischio è che la crisi sistemica venga solamente rinviata a tempi futuri perché i fondamentali non mutano.
Il terzo scenario è quello della saggezza. Si riconosce la necessità della ristrutturazione del debito e si concede alla Grecia una prospettiva per far uscire l’economia greca dalla depressione con misure che non sono di osservanza liberista. I creditori rinunciano all’obbiettivo economico di breve periodo di essere ripagati, e concedono alla Grecia di accompagnare alle politiche di offerta le politiche di sostegno alla domanda, quindi aiuti non vincolati alla svalutazione interna.
Possiamo essere fiduciosi in questa Europa a guida liberista? Se dovessimo scommettere, punteremmo purtroppo sul secondo scenario. Ma vi sono variabili in gioco nel 2015, proprio quelle che la troika voleva escludere ribaltando il governo Tsipras, ovvero che alla Grecia faccia seguito la Spagna. E questo aprirebbe la strada affinché la discussione su «Quale Europa» diventi discussione politica di tutti i cittadini europei.
«La festa spontanea a piazza Syntagma, subito dopo i primi risultati. Migliaia di bandiere greche, per strada un’intera generazione di giovani travolta dalla crisi, la classe media impoverita, gli operai e i disoccupati».
Il manifesto.info, 6 luglio 2015
Dopo giorni di tensione, minacce e allarmi, la festa esplode spontanea già all’arrivo dei primi inequivoci risultati, a meno di due ore dalla chiusura dei seggi. Le strade si intasano di migliaia di persone dirette ancora una volta, come venerdì scorso, verso Syntagma, la piazza del Parlamento. Non c’è nulla di organizzato perché Alexis Tsipras alla vigilia aveva raccomandato calma e sobrietà, la stessa con la quale da ieri mattina cittadini greci di ogni età si sono messi in fila ai seggi per votare, ognuno senza chiedere all’altro come la pensasse. Quella che per una settimana li aveva disciplinatamente fatti mettere in fila ai bancomat per ritirare i 60 euro giornalieri consentiti dopo lo stop deciso dal governo o a qualche supermercato per la paura, infondata, che come in guerra prendessero a scarseggiare i viveri.
Fin dalle prime ore del mattino, prima gli anziani e poi man mano tutti gli altri, i seggi erano stati un tranquillo via vai di persone, restituendo un’idea di grande maturità e dando una lezione di democrazia all’Europa, laddove quest’ultima è nata, come ama ricordare spesso Alexis Tsipras. Divisi ma insieme, chi era convinto che dopo aver detto tanti sì all’Europa in cambio di un massacro sociale era giunta l’ora di un bel no, e chi invece aveva paura di perdere anche quel po’ che gli è rimasto, chi non ha più alcunché da mettere in gioco e chi invece sulla crisi ha galleggiato come un surfista su un mare in tempesta.
Ma la voglia di scendere in piazza è stata incontenibile: troppo netto il successo, troppa la voglia di mostrare all’Europa che per i greci questa battaglia è appena cominciata e vogliono vincerla. È per questo che le bandiere greche questa volta hanno la meglio sui simboli di partito e sui drappi rossi, persino sugli stracci con su scritto «Oxi», «no», dei quali ora non c’è più bisogno. Ora è necessario che i negoziatori greci a Bruxelles sentano di non essere soli, e per questo si sprecano i cartelli in inglese dai messaggi espliciti. Il più chiaro di tutti recita: «This struggle is not about Europe, it’s about freedom» («Questa lotta non riguarda l’Europa, ma la libertà»). C’è anche un gruppo di tedeschi, sono del movimento Blockupy che lotta contro l’austerità e sono i benvenuti.
Un cauto ottimismo serpeggiava già dal primo pomeriggio anche nel quartier generale di Syriza in piazza Koumoundourou. La sensazione che la vittoria fosse a portata di mano è aumentata quando hanno cominciato a circolare i primi sondaggi non ufficiali, a urne ancora aperte: il no al 51 per cento, poi al 54. Finché, alle 19 in punto, ai primi “opinion polls” che davano il no in vantaggio la gioia era esplosa e la tensione si era sciolta negli abbracci e nei sorrisi condivisi con gli alleati europei (rappresentanti della Linke tedesca, della spagnola Podemos, ciprioti dell’Akel, irlandesi dello Sinn Fein, la nutrita delegazione italiana, rappresentativa di tutta la galassia della sinistra) accorsi già da venerdì a sostenere la rivoluzione europea partita da una periferia del continente e il suo condottiero Alexis Tsipras, che ha vinto la scommessa più grande trascinandosi dietro più della metà abbondante del popolo greco.
Non sono servite a molto le ingerenze europee e la confusione mediatica, davvero impressionante, messa in piedi ad arte da un fronte del sì con pochi argomenti a propria disposizione se non quello, abituale, della paura. Un argomento che però i greci hanno rigettato, come si intuiva nelle strade e si è capito la sera della grande manifestazione di venerdì a sostegno del no. Lo sapevano tutti, anche quelli del sì che in un documento a uso interno già giovedì scrivevano che il no era al 70 per cento nei centri urbani e che perfino il 10 per cento degli elettori di Nea Democratia avrebbe votato a favore del piano dei creditori. Ma hanno continuato a fingere e a propagandare sondaggi inattendibili e costruiti alla bisogna per sola propaganda elettorale. Ci sono cascati in molti, ma solo chi non voleva vedere per partito preso non ha capito quello che stava fermentando ancora una volta nella pancia della società ellenica.
Nella notte di piazza Syntagma circola una battuta: «I colpi di stato non avvengono più by tanks, but by banks», con chiaro riferimento ai carri armati della dittatura dei colonnelli che in tanti ancora ricordano qui in Grecia e al rischio che siano ora le banche, asfissiando la popolazione, a promuovere il regime change. Ma buttare giù Alexis Tsipras e il suo governo è ora molto più difficile per tutti, anzi i più deboli sono i falchi dell’austerità, a cominciare da Angela Merkel e Jean Claude Juncker (anche se, tra i leader europei, nessuno esce bene da questa storia, compreso il nostro Matteo Renzi), ed è stato questo il colpo da maestro del premier greco. Ma a come andare avanti si penserà da oggi, subito perché la situazione non consente di tergiversare, con calma e determinazione com’è stato fino a oggi. Ora è il tempo di festeggiare, la notte di Syntagma è ancora lunga.
»Sulla Grecia abbiamo assistito a una straordinaria opera di manipolazione dell’informazione». Articoli di Norma Rangeri, Gianni Ferrari, Simorne Pieranni, e l'intervista di Anna Maria Merlo a Yaris Varoufakis. Il manifesto, 5 luglio 2015
LA SFIDA GRECA
di Norma Rangeri
«Abbiamo assistito a una straordinaria opera di manipolazione dell’informazione, particolarmente sfrontata nell’impegno profuso a dare per verità sondaggi smentiti dalle stesse fonti, a censurare notizie importanti, come la critica del congresso Usa, recapitata, nero su bianco, alla signora Lagarde».
Può suonare retorico dire che oggi la Grecia sarà teatro di un avvenimento storico. Ma così è. Il risultato del referendum influirà sul futuro stesso dell’Unione europea e su quello di uno dei paesi più piccoli della Comunità. E proprio questa particolarità merita una prima riflessione. Come è possibile che un paese tanto piccolo possa, non dico tenere in scacco, ma condizionare il domani di altri 27 stati? Non è strano che il voto di dieci milioni di persone possa influire sulla vita di altri quattrocento? Lo sarebbe se questa vicenda non rappresentasse la quintessenza della globalizzazione.
Dagli Stati uniti alla Cina tutti seguono con attenzione quanto sta accadendo nella terra degli dei dell’Olimpo. Perciò il voto di oggi è qualcosa di più e di diverso della sfida simbolica di Davide contro Golia, anche se la grande disparità di forze può ben suggerire l’accostamento perché in questo cimento del piccolo contro il gigante non sono certo i filistei di Bruxelles ad aver dovuto sfidare nella vita quotidiana gli orsi e i leoni della lunga, infinita crisi che ha buttato donne, uomini, bambini, anziani nella battaglia contro le bestie nere della povertà, della fame, della mancanza di medicinali, della depressione che ha fatto impennare le percentuali dei suicidi.
Il cittadino greco per lunghi anni ha sopportato l’assedio e quando il Golia di Berlino lo ha inchiodato all’ultimo duello, il piccolo Davide ha tirato fuori la fionda del referendum cogliendo tutti di sorpresa. Atene mette oggi in evidenza non solo la sproporzione delle forze in campo ma le contraddizioni forti e divisive della Ue.
Sono lì a dimostrarlo i politici italiani che, da sinistra a destra - da Vendola a Brunetta a Salvini passando per Grillo - tifano, pur tra molti distinguo, per la battaglia del piccolo Davide. Sicuramente perché molti vorrebbero usare il voto greco a fini di politica interna. E non è curioso che grandi economisti, quasi tutti nobel e liberal si siano pronunciati per il “No”, posizione mal digerita da tutte le grandi firme del giornalismo nostrano, scritto e televisivo?
Abbiamo assistito a una straordinaria opera di manipolazione dell’informazione, particolarmente sfrontata nell’impegno profuso a dare per verità sondaggi smentiti dalle stesse fonti, a censurare notizie importanti, come la critica del congresso Usa, recapitata, nero su bianco, alla signora Lagarde.
Questo voto mette strappa i veli alle magnifiche e progressive sorti della Ue a trazione tedesca. Denuncia il difetto di nascita, una Unione calata dall’alto senza nulla chiedere ai cittadini, contraddicendo lo spirito dell’Europa pensata da Altiero Spinelli. Scopre un’Unione costruita su un’impalcatura economico-finanziaria che sostituiva alla valvola di sfogo della svalutazione delle monete nazionali l’impressionante svalutazione del lavoro sottomesso alle durissime leggi dell’eterna precarietà.
Tuttavia la tensione e la passione che viviamo nel giorno in cui ci sentiamo tutti greci è così forte non solo perché abbiamo imparato a memoria i numeri del disastro provocato dalla cieca austerità, fino all’ultimo paradosso del mancato rimborso di 1,6 miliardi non pagato da Atene che ha provocato il falò di 287 bruciati dalle borse il giorno dopo. Perché i mercati si erano «spaventati», così titolavano i giornali con la consueta banalità invece di raccontare a lettori e telespettatori l’assurdità della situazione.
E non si venga a dire che tagliando e dilazionando il debito greco verrebbe annullato il principio fondamentale della Ue, cioè il rispetto delle regole. Se rispettarle significa danneggiare l’intera comunità, allora è solo un braccio di ferro politico quello in corso, una pura guerra di potere con la volontà di arrivare allo scontro frontale.
Ed eccolo lì il nostro Renzi, fin dal primo momento lesto a nascondersi dietro lo scudo tedesco, pronto ad accusare Tsipras di voler tornare alla dracma, non solo una bugia ma una meschineria che spiega molte cose sulla stoffa del personaggio. Naturalmente in ottima compagnia di cuori coraggiosi come Hollande, Gabriel, Schulz…
C’è di più, è in gioco qualcosa di più profondo. Oltre alla testa, alla razionalità, c’è in ballo il cuore acceso dalla sfida democratica, c’è la lezione di un grande popolo capace di sopportare e tenere a bada la fortissima tensione del momento. Tutti gli italiani, giovani e vecchi, che danno lezioni sulle regole da rispettare sarebbero stati capaci di mettersi in fila così dignitosamente davanti ai bancomat vuoti?
E, infine, nello scontro frontale gioca una partita molto rischiosa anche lo stesso Tsipras. Aveva già vinto le elezioni con un programma molto chiaro, no all’austerità, sì, moderato, all’Europa. Oggi il giovane leader tenta il tutto per tutto, il numero secco alla roulette, dove punti quello che hai. Se perdi è un disastro, se vinci sei più forte ma non hai risolto i tuoi problemi. Che sono comuni a molti altri paesi. Italia compresa, come già dice l’Istat a proposito del rallentamento di una ripresa già debolissima.
Da questo punto di vista il voto di Atene ha un significato storico, unico. Nella mitologia greca ci sono numerosi esempi di uomini abbandonati dagli dei. Tsipras deve sperare che gli dei dell’Olimpo - e il popolo greco - oggi siano con lui.
LA CREDITOCRAZIA NON FERMA LA LOTTA DI CLASSE
Il che si è soggettivamente tradotto nella separazione e opposizione tra stati creditori e stati debitori, i due termini di un rapporto di forza tra gli stati che è tutto a vantaggio di quelli creditori. Creditori che, per essere detentori della titolarità e dell’esercizio del potere di erogazione, acquisiscono anche quello di imporre le condizioni per ottenerne l’assegnazione ed anche quello di vincolarne la destinazione. L’accumulazione aggregata di tali poteri ha prodotto la forma attuale del capitale finanziario, la «creditocrazia» e la ha munita di propri organi istituzionali convertendo quelli esistenti o inventandone nuovi.
Ma in quale ambito? Se fosse quello del mondo globalizzato ci sarebbe certamente da combatterla perché tale ma con mezzi adeguati a quella dimensione spaziale. Come affrontare invece la «creditocrazia» costituitasi all’interno di una entità ordinamentale, giuridicamente indefinibile, ma massicciamente conglomerante come l’Unione europea? Unione che, nel suo Trattato costitutivo, si impegna a «promuovere la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli stati membri».
Il cui vertice però, troika o non troika che sia, ha deciso di usare l’euro-potere non ai fini della coesione che la impegna e della solidarietà che strombazza, non per assicurare la qualità della vita o anche la sola sopravvivenza, almeno questa, degli esseri umani che compongono gli stati-comunità dell’Europa. Ai quali gli stati-governi hanno sottratto la sovranità appropriandosene per esercitarla congiuntamente agli altri stati-governi in funzione esclusiva e assoluta della prosecuzione di un’austerity inefficace e distruttiva come sostengono economisti con l’autorità scientifica di Krugman, Stiglitz, Piketty.
Come dimostrano gli effetti catastrofici prodotti - e ai governanti tedeschi ben noti - nei Laender dell’ex Ddr, a venticinque anni dalla caduta del muro. Perché l’austerity, allora? La risposta è obbligata, le cifre sono note. Non può esserci altra spiegazione che quella politica. Chi danneggia l’austerity, chi avvantaggia? Il caso Grecia è esemplare. Obbedendo al programma che le dettò la troika 5 anni fa, la Grecia ha ridotto di un quarto, 106 miliardi, la spesa pubblica e del venti per cento i salari. La vastità del disastro determinato da queste misure non ha precedenti.
E indigna, ed è doveroso indignarsi, leggendo che l’enormità del debito greco è dovuta al salvataggio delle banche tedesche e francesi. Operazione, questa dell’attribuzione di un debito, comunque operata, a soggetti doversi dai beneficiari, oltre che palesemente criminosa, dimostra a quale livello di ignobiltà si giunge invocando l’etica (protestante?) delle relazioni umane, l’intangibilità delle regole e della loro efficacia, e quale concezione si abbia per la «coesione economica, sociale … e per la solidarietà tra stati». È la Grecia che mette in crisi l’Unione europea o chi ne rinnega operativamente i fondamenti morali ed ideali?
Chi danneggia l’austerity, chi avvantaggia? Lo hanno confessato i creditori nel corso della trattativa. Chiedendo altri tagli alle pensioni, un’ulteriore riduzione dei salari, l’aumento dell’Iva, privatizzazioni più estese. Rifiutando però, e nettamente, aumenti dell’imposizione fiscale sui ceti più ricchi, e anche una tassa una tantum sugli utili di impresa superiori a 500.000 euro l’anno.
C’è ancora qualche dubbio sul significato, l’obiettivo, l’effetto dell’austerity e, con esso, sulla funzione che si è assunta la Ue, sullo specifico ruolo che la fase attuale del capitalismo neoliberista affida alla «creditocrazia»? Un capitalista affermò, qualche anno fa, che la lotta di classe c’era stata, ma la avevano vinto loro, i capitalisti. È vero, la avevano vinta. Ma continua. È indissolubilmente connessa alla democrazia che è chiamata a vincere, oggi, lì dove nacque e da dove insegnò cosa sia la civiltà politica.
VAROUFAKIS: «CHIUDERE LE BANCHE È TERRORISMO, DOPO IL REFERENDUM L'ACCORDO CI SARÀ»
Oggi il referendum. Lunedì 6 luglio, il consiglio dei governatori avrà potere di vita o di morte sulle finanze greche. Varoufakis accusa: creditori come "terroristi", "ci hanno forzato a chiudere le banche per far paura alla gente". L'appello alla ragionevolezza di Jacques Delors, mentre la Ue punta a un governo guidato dal presidente della Banca centrale greca, Yannis Stournaras
Oggi i greci votano e alla vigilia nessuno si sbilancia in previsioni. Ma già da domani, secondo le autorità di Bruxelles, il destino della Grecia sarà nelle mani della Bce. Domani, infatti, si riunisce il consiglio dei governatori della Banca centrale che avrà, nell’immediato, un grande potere: dovrà esaminare l’Ela (liquidità di emergenza, ndr), l’unico rubinetto ancora aperto.
Se vince il «sì», Francoforte potrebbe alzare l’Ela, se vince il «no» potrebbe decidere di soffocare il paese rifiutando di intervenire, con la conseguenza che le banche resteranno chiuse e, in una prospettiva non tanto lontana, spingere Atene all’uscita nella confusione più totale. Basti ricordare che il caos di questi giorni ha origine nella decisione della Bce del 29 giugno scorso, che ha obbligato alla stretta sull’accesso ai conti e al controllo dei capitali (le imprese greche non hanno più accesso al trasferimento elettronico di fondi all’interno della zona euro). Negli ultimi giorni, due membri del consiglio dei governatori, Benoît Coeuré e Victor Constancio, hanno per la prima volta espressamente fatto riferimento a un possibile Grexit.
In risposta agli ultimi attacchi, tra cui l’affondo dell’Spd Martin Schulz (Europarlamento) che ingiunge di «mettere fine all’era Syriza», Yanis Varoufakis ha reagito con rabbia: «Perché ci hanno forzato a chiudere le banche? – si chiede il ministro delle Finanze greco in un’intervista allo spagnolo El Mundo - per far paura alla gente. E quando si tratta di diffondere la paura, questo fenomeno si chiama terrorismo». Varoufakis continua a credere che «qualunque sia il risultato del referendum, martedì ci sarà un accordo», perché «l’Europa ha bisogno di un accordo e la Grecia anche. Se la Grecia crolla, mille miliardi di euro andranno in fumo» (è l’equivalente del pil spagnolo, ndr), avverte il ministro, «sono troppi soldi e non penso che l’Europa possa permetterselo».
Bruxelles tuttavia non fa mistero di puntare ad avere un governo di unità nazionale, con alla testa il presidente della Banca centrale greca, Yannis Stournaras. Per il momento, un Eurogruppo dovrebbe venire convocato martedì.
Nessuno ascolta più in queste ore le voci della ragione. Da Joseph Stiglitz, che ha parlato di «responsabilità criminale» dei creditori, fino all’ex presidente della Commissione, Jacques Delors, che firma un testo assieme a Pascal Lamy (ex Wto) e Antonio Vitorin (ex commissario) invitando le parti a «superare i giochi tattici» del momento, la Ue a tener conto della «prospettiva geo-politica» (Balcani, crisi dei migranti etc.) e non solo delle questioni tecnico-finanziarie, per proporre ad Atene una «ricostruzione» in tre tappe: aiuto immediato «ragionevole» per restaurare la solvibilità a breve; mobilitazione degli strumenti Ue per rianimare l’economia greca; infine, esaminare il «peso del debito», non solo in Grecia.
LA NARRAZIONE SULLA GRECIA DEI MEDIA ITALIANI È QUELLA DELLA TROIKA
«Informazione. Il giornalismo italiano mainstream, in grande maggioranza, ha mostrato i muscoli e ogni tipo di mezzo per raccontare un paese - la Grecia - che a detta di tanti che sono in loco, non esiste».
La crisi greca non solo ha mostrato il vero volto della troika, basti pensare ai documenti segreti pubblicati dal Guardian, alle intercettazioni di Merkel, o all’ostruzione dei paesi europei alla diffusione del documento del Fmi, che sostanzialmente dava ragione ai greci, ma ha permesso di comprendere come la narrazione dei fatti esteri dei media mainstream, sia giunto ad un suo punto di non ritorno.
La crisi greca non solo ha posto in discussione, evidentemente, l’Europa e l’eurozona, seppure in modo per ora imperscrutabile, ma ha messo in mostra una sorta di modus operandi dell’informazione italiana, che ha finito per agganciarsi completamente alla narrazione della troika, per salvare se stessa. Non ha tanto favorito le “istituzioni”, ne ha assunto in pieno le linee strategiche comunicative.
Il giornalismo italiano mainstream, in grande maggioranza, ha mostrato i muscoli e ogni tipo di mezzo per raccontare un paese - la Grecia - che a detta di tanti che sono in loco, non esiste. Dal “dramma del pensionato” con cui Repubblica ha tenuto la sua home page per tutta la giornata di venerdì, fino al confronto tra le due piazze di venerdì sera, come se fossero la stessa cosa. Come se da una parte non fossero di più, e per lo più giovani e dall’altra non fossero meno e non fossero per lo più i vituperati “pelandroni pensionati” greci. Un corto circuito – voluto — vero e proprio che ha portato la stessa Syriza a cercare di comunicare più sui social network, che sui media (come racconta Le Monde).
Non si può, oggi, fare un giornale come se non esistesse internet. Lo dovrebbe sapere l’esperto Federico Fubini (vice direttore del Corriere della Sera), i cui racconti “in presa diretta” sono stati smentiti, punto per punto, luogo per luogo da Matteo Nucci su minimaetmoralia Nucci è andato in ogni posto nel quale Fubini lamentava una situazione simile al disastro, dimostrando cosa stesse realmente accadendo in quei luoghi.
Senza parlare dei “nostri” giornalisti sui social network. Tralasciando i neo adepti renziani come Claudio Cerasa, direttore de Il Foglio, che ha twittato come se il –26% del Pil grazie ai trattamenti troika, fosse un’invenzione di Syriza, i social network si sono riempiti di novelli esperti economici, colmi di certezze.
Alcuni si sono distinti in modo particolare. È il caso di Vittorio Zucconi di Repubblica, in prima linea contro Tsipras, ispirato nel citare il Guardian su articoli circa il calo di turismo, ma decisamente meno pronto a lanciare gli scoop sui documenti segreti della troika.
Gli esempi sono moltissimi ed evidenziano - non solo in Italia - come nel momento del bisogno e di un grande rischio, la grancassa mediatica mainstream abbia saputo subito piazzarsi dalla parte del più forte, facendo finta di niente riguardo le “notizie” (la lettera del Congresso, il documento del Fmi, le pressioni dei paesi europei, i documenti di Nuova Democrazia in Grecia per indirizzare la comunicazione dei media in Grecia, i fallimenti della troika) e ingaggiando la lotta contro la contraddizione di un partito che non accetta le regole imposte dai “potenti”.
La narrazione a senso unico, fino ad arrivare a mistificare la realtà, purtroppo, non è una novità (l’abbiamo vista all’opera anche in Ucraina, per fare un esempio, dove i neonazisti sono diventati “europeisti”). Basta chiedere a un qualsiasi freelance, in giro per il mondo, quali siano spesso i suoi pensieri dopo la lettura di molti, tanti, pezzi di “corrispondenti” ben più noti e titolati. Non importa ciò che è vero, quanto ciò che è verosimile. Il mito del giornalismo indipendente viene dunque smascherato proprio da chi se ne fa paladino, attraverso una vera e propria narrazione di una realtà che si cerca di piegare alla propria “visione del mondo” dettata da interessi accomunabili, nel proprio “settore”, a quelli che non vuole perdere la troika in Europa.
Si accusa chi fa un giornalismo politico, evidenziando quindi le contraddizioni ma ponendosi apertamente da un lato della barricata, di essere di parte, fingendo di essere neutrali. Come se la scelta delle fonti, di chi si intervista, della prospettiva con cui si sceglie di parlare di un argomento, fossero neutrali, asettici e non presupponessero, invece, una chiara scelta.
E infine ci sono quelli imbarazzanti. Ieri l’Unità titolava “Grecia tasche vuote, arsenali pieni”, facendo finta di niente su chi in precedenza ha comprato le armi e sul fatto che quelle, insieme al ministro di destra del governo greco, dovrebbe rassicurare proprio gli amici di Renzi, ovvero la Nato. Senza considerare poi il silenzio del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, su guerre umanitarie e recenti acquisti in tema di F35.
LaRepubblica, 5 luglio 2015
In queste ore, discutere della Grecia è deprimente. Quindi se per voi va bene parleremo d’altro. Parleremo, per cominciare, della Finlandia - che di quel Paese corrotto e irresponsabile non potrebbe essere più diversa. La Finlandia è un modello: vanta un governo onesto, un’economia solida e un rating del credito affidabile che le permette di prendere in prestito denaro a tassi d’interesse incredibilmente vantaggiosi. Tuttavia, sta anche attraversando l’ottavo anno di una recessione che ha decurtato del dieci percento il suo prodotto interno lordo reale e che ancora non accenna a finire. Tanto che se l’Europa meridionale non stesse vivendo un incubo, i guai dell’economia finlandese sarebbero considerati un disastro di dimensioni epiche.
La Finlandia tuttavia non è sola: rientra infatti in una regione dell’Europa del nord che vive una fase di declino economico, e che si estende dalla Danimarca (la quale, pur non appartenendo all’eurozona gestisce il proprio denaro come se ne facesse parte) ai Paesi Bassi. Questi paesi se la passano ben peggio della Francia: una nazione la cui economia viene descritta in termini catastrofici dai giornalisti, che odiano la solidità degli ammortizzatori sociali, ma che di fatto ha resistito meglio di quasi ogni altro Paese europeo, ad eccezione della Germania.
Che dire poi dell’Europa meridionale, Grecia a parte? I funzionari europei esaltano la ripresa della Spagna, che ha fatto tutto quanto andava fatto e la cui economia ha finalmente ricominciato a crescere, creando addirittura nuovi posti di lavoro. Il concetto europeo di “successo” prevede però anche un tasso di disoccupazione che continua ad aggirarsi attorno al 23%. Anche il Portogallo ha diligentemente implementato un’austerità rigorosa, ma risulta del 6% più povero.
Come si spiegano tutti questi disastri economici in Europa? Ciò che stupisce, in realtà, è che in ogni paese la crisi sia stata innestata da cause diverse. Il governo greco ha contratto troppi debiti, ma quello spagnolo no: a segnare il suo destino sono stati piuttosto i prestiti ai privati e la bolla immobiliare. Nel caso della Finlandia sono stati determinanti il contrarsi della domanda per i prodotti del settore forestale, che sono ancora tra i suoi principali beni da esportazione, e le difficoltà del manifatturiero, in particolare della Nokia, che un tempo ne era la punta di diamante.
Ciò che queste economie hanno in comune tra loro è invece il fatto che aderendo all’eurozona si sono infilate in una camicia di forza economica. Alla fine degli anni Ottanta la Finlandia stava attraversando una crisi gravissima, che inizialmente era di gran lunga peggiore di quella che sta attraversando oggi. Tuttavia riuscì a mettere in atto una ripresa piuttosto rapida, grazie soprattutto alla forte svalutazione della propria valuta - che la rese più competitiva sul piano delle esportazioni. Purtroppo però questa volta non ha alcuna valuta da svalutare. E lo stesso vale per le altre zone problematiche dell’Europa.
Ciò significa forse che l’euro è stato un errore? Beh, sì. Questo però non equivale a dire che adesso occorrerebbe eliminarlo. La cosa urgente da fare è allentare la camicia di forza: un gesto che richiederebbe interventi su diversi fronti: da un sistema di garanzie bancarie unificato alla disponibilità a concedere una riduzione del debito ai Paesi per i quali è proprio il debito il problema. Richiederebbe, inoltre, la creazione di un ambiente complessivamente più favorevole a quei Paesi che si sforzano di far fronte alla cattiva sorte senza però sposare un’eccessiva austerità e facendo tutto il possibile per innalzare il tasso di inflazione europeo (attualmente inferiore all’1%) per riportarlo almeno all’obiettivo ufficiale del 2%.
Molti funzionari e politici europei si oppongono però a qualsiasi decisione che potrebbe far funzionare l’euro. E questo è il motivo per cui la posta in gioco nel referendum di domenica è persino più alta di quanto molti osservatori immaginino. Una vittoria del “sì” - ovvero un voto a favore delle richieste dei creditori, che boccia la posizione del governo greco e ne determina probabilmente la caduta - rischia di avvalorare e incoraggiare gli architetti del fallimento europeo. Un simile esito darà modo ai creditori di dimostrare la propria forza e la loro capacità di umiliare chiunque si opponga alle richieste di un’austerity senza fine. E di continuare ad affermare che imporre la disoccupazione di massa è l’unica via responsabile da percorrere.
E se la Grecia votasse no? In quel caso ci troveremmo su un terreno spaventoso e sconosciuto. La Grecia potrebbe abbandonare l’euro, con conseguenze immensamente destabilizzanti nel breve periodo. Tuttavia il “no”, oltre a minare l’autocompiacimento delle élite europee, fornirebbe alla Grecia anche l’opportunità di un’autentica ripresa. In altre parole, temere le conseguenze di un “no” è ragionevole, perché non si può prevedere cosa accadrebbe dopo. Ma le conseguenze della vittoria del “sì” dovrebbero spaventarci ancora di più.
Traduzione di Marzia Porta
NOBEL Paul Krugman editorialista del New York Times e premio Nobel per l’economia nel 2008