«L’Europa è un deserto dove comanda il potere dei creditori». Ancora una considerazione che dimostra quanto lo strangolamento della Grecia da parte dell'Unione europea sia una minaccia per ciascuno di noi.
La Repubblica, 28 luglio 2015
SI PARLA di fallimento dello Stato come di cosa ovvia. Oggi, è “quasi” toccato ai Greci, domani chissà. È un concetto sconvolgente, che contraddice le categorie del diritto pubblico formatesi intorno all’idea dello Stato. Esso poteva contrarre debiti che doveva onorare. Ma poteva farlo secondo la sostenibilità dei suoi conti. Non era un contraente come tutti gli altri. Incorreva, sì, in crisi finanziarie che lo mettevano in difficoltà. Ma aveva, per definizione, il diritto all’ultima parola. Poteva, ad esempio, aumentare il prelievo fiscale, ridurre o “consolidare” il debito, oppure stampare carta moneta: la zecca era organo vitale dello Stato, tanto quanto l’esercito. Come tutte le costruzioni umane, anche questa poteva disintegrarsi e venire alla fine. Era il “dio in terra”, ma pur sempre un “dio mortale”, secondo l’espressione di Thomas Hobbes. Tuttavia, le ragioni della sua morte erano tutte di diritto pubblico: lotte intestine, o sconfitte in guerra. Non erano ragioni di diritto commerciale, cioè di diritto privato.
Se oggi diciamo che lo Stato può fallire, è perché il suo attributo fondamentale — la sovranità — è venuto a mancare. Di fronte a lui si erge un potere che non solo lo può condizionare, ma lo può spodestare. Lo Stato china la testa di fronte a una nuova sovranità, la sovranità dei creditori.
Esattamente come è per le società commerciali. I creditori esigono il pagamento dei loro crediti e, se il debitore è insolvente, possono aggredire lui e quello che resta del suo patrimonio e spartirselo tra loro.
Nell’Antichità, i debitori insolventi potevano essere messi sul lastrico e perfino ridotti in schiavitù dai creditori insoddisfatti. Lo Stato, quando fallisce, si trova in condizione analoga. Tanto più aumenta la sua “esposizione”, tanto meno è in condizione di resistere alle richieste espropriative dei creditori, anche le più pesanti e inimmaginabili. Abbiamo sorriso di Totò che vendeva ai turisti la Fontana di Trevi. La realtà supera la fantasia, se è vero che, tra le possibili garanzie dello Stato debitore, i creditori considerano imprese pubbliche, isole, porti, ferrovie, monumenti, ecc. Quanto sarà valutato il Partenone e, forse, per l’appunto la Fontana di Trevi?
Le armi dei creditori sono la promessa di salvezza e la minaccia di rovina, la carota e il bastone. Lo scenario immediato è la fine della “liquidità” degli istituti di credito, il panico tra i risparmiatori, l’impossibilità per lo Stato di pagare debiti, stipendi, pensioni, la disperazione dilagante; a media scadenza, chiusure e fallimenti d’imprese, disoccupazione, miseria. Chi potrebbe resistere alla forza intimidatrice di una simile catastrofe annunciata e alla forza seduttiva di qualunque prospettiva salvifica, fosse anche accompagnata da condizioni iugulatorie?
È quanto è toccato alla Grecia, con somma drammaticità ed evidenza. Il premier ha chiesto al Parlamento il voto a favore di un insieme di provvedimenti impostigli, ch’egli stesso dichiarava essere contrari al programma politico col quale si era presentato alle elezioni, vincendole. Non s’era mai vista così chiara, in Europa, una tale contraddizione. Egli era lì in base alla forza conferitagli dal suo popolo, confermata in referendum, e doveva smentire se stesso e riconoscere l’esistenza d’un’altra forza, alla quale non poteva resistere. L’imposizione, che lo Spiegel ha definito “catalogo delle atrocità”, comprende cose come le proprietà pubbliche, le misure di alleggerimento del malessere sociale, l’abolizione della contrattazione collettiva, il licenziamento di gruppo, le ipoteche su beni dello Stato, le aliquote Iva, le pensioni, perfino il codice di procedura civile (per rendere più efficace la liquidazione dei beni dei debitori insolventi).
S’è detto, con una certa superficialità: niente di sconvolgente. La Grecia, come tutti i Paesi dell’Unione Europea, ha da tempo accettato limiti alla sua sovranità a favore dell’Europa. La prova cui è sottoposta la Grecia sarebbe perciò una vittoria dell’Europa.
Basta dirle, cose come queste, per comprenderne l’assurdità. E non perché alcuni Stati abbiano fatto la parte del leone (la Germania, gli Stati baltici, ecc.) e altri della pecora, ma per una ragione più profonda: di fronte alla Grecia non c’era l’Europa, ma la finanza che si fa beffe di formalità e competenze codificate. Chi, in Europa, ha preso decisioni non ha agito “in quanto Europa”, ma in quanto rappresentante di interessi finanziari. Al capezzale della Grecia erano in tanti: Banca centrale europea (istituzione indipendente con compiti di equilibrio finanziario della “zona euro”), Fondo monetario internazionale (che si occupa del salvataggio di Stati a rischio in tutto il mondo) e anche — anche — organi vari dell’Europa (Eurogruppo, Eurosummit, il Consiglio europeo). Singoli capi degli esecutivi dei Paesi economicamente più “pesanti”, a tu per tu tra loro (Germania e Francia) hanno svolto la parte decisiva, senza alcun “mandato europeo”. Le “sanzioni” alla fine deliberate non trovano alcun fondamento nei Trattati. La “troika”, che ora ritorna in Grecia come commissaria ad acta, non è organo dell’Europa, è organo de facto degli interessi finanziari che s’intrecciano tra Commissione europea, Bce e Fmi. L’Europa come tale è stata totalmente assente. La condizione della Grecia non è quella di chi si è vista limitare la sovranità perché l’ha ceduta: è quella di chi ha subito il colpo d’un sovrano di tutt’altra specie — che qualcuno ha definito “colonialista finanziario” — con tante teste.
Pecunia regina mundi. L’erosione della sovranità statale a opera della finanza sembra dare ragione a questa tragica massima. Perché tragica? Innanzitutto, perché la finanza, come lo spirito, soffia dove vuole, irresponsabile di fronte alle comunità umane su cui scarica la sua forza, investendo o disinvestendo risorse, senz’altra guida se non l’accrescimento della sua potenza. Agli Stati indebitati e insolventi si può rimproverare il loro spirito di cicale. Ma il potere finanziario, nel suo insieme, vive di indebitamenti e accreditamenti ed è perciò amico delle cicale. Senza cicale e solo con formiche non potrebbe esistere. Onde, è vuoto moralismo il rimprovero d’essersi indebitati, quando proprio i creditori sono interessati al loro indebitamento. In secondo luogo, l’erosione della sovranità è la resa alla legge dei più forti. La sorte dei popoli finisce per essere la risultante dello scontro di forze che hanno, come obiettivo, la propria autoaffermazione. L’arma è la potenza finanziaria. Chi è più ricco è destinato a diventare sempre più ricco e gli altri sempre più poveri. La concentrazione progressiva della ricchezza nelle mani di pochi è sotto gli occhi di tutti. L’idea di un qualche “ordine mondiale” anche solo vagamente orientato alla giustizia è fuori di questo mondo.
E l’Europa? Non è stata pensata dai padri fondatori anche in funzione di un sistema di relazioni internazionali che promuova la pace e la giustizia tra le nazioni, come dice l’art. 11 della nostra Costituzione? Proprio la vicenda greca ha dato voce, ancora una volta, a chi invoca il passo verso la formazione di una vera unità europea, capace di valori politici solidali. Ma, si tratta di vox clamantis in deserto, anzi in un deserto che più arido di così, oggi, non potrebbe essere. Bisognerà forse attendere una crisi ancora più profonda e sconvolgente, perché si tocchi il fondo e, dal fondo, si riesca a intravedere nell’Europa politica un progetto all’ordine del giorno urgente e cogente.
ULa Repubblica, 27 luglio 2015
Un pacchetto di emendamenti al decreto “omnibus” enti locali, presentato nei giorni scorsi, darà la prima spinta alla spending review sulla Sanità. Dopo il via libera tecnico-politico giunto con le parole del Commissario alla revisione della spesa pubblica, Yoram Gutgeld, nell’intervista a Repubblica , si accelera la ratifica del piano concordato dalla Conferenza Stato-Regioni del 2 luglio scorso. Il provvedimento arriva oggi in aula al Senato e non è escluso il ricorso alla fiducia per poi passare alla Camera. «No agli allarmismi – ha rassicurato ieri il premier Renzi – sulla sanità si lavora soprattutto alla razionalizzazione e alla riduzione delle centrali di spesa». Mentre le Regioni si mettono in posizione di guardia: «Abbiamo già dato», dicono in coro gli assessori alla Sanità.
In ballo c’è un pacchetto di misure per 2,3 miliardi nel 2015, altrettanti nel 2016 e nel 2017. Importanti, e in qualche caso dolorosi, i provvedimenti che riguarderanno direttamente i cittadini. In primo luogo c’è il taglio delle prestazioni specialistiche (visite, esami strumentali ed esami di laboratorio) non necessarie (nel linguaggio tecnico: non appropriate). Il ministero della Salute con un imminente decreto stilerà la lista delle situazioni e patologie dove analisi e approfondimenti sono necessari,se si è fuori della lista si pagherà di tasca propria. La norma prevede anche una stretta sui medici perché il principo che ispira la razionalizzazione è che bisogna frenare il fenomeno della cosiddetta “medicina difensiva”: medici che per mettersi a riparo da eventuali vertenze giudiziarie, “elargiscono” con facilità analisi e controlli. Da oggi chi sbaglia subirà un taglio allo stipendio.
Lo stesso schema varrà per i ricoveri per riabilitazione: revisione delle tipologie in base alla appropriatezza e pagamento percentuale oltre i giorni di degenza previsti dalle nuove soglie; controlli e penalizzazioni.
Tanto per farsi un’idea: le prestazioni erogate ogni anno dal settore pubblico o privato sono circa 200 milioni: l’obiettivo sarebbe quello di ridurle del 15 per cento con il taglio di circa 28 milioni di prestazioni l’anno. Da questa operazione verrebbero risparmi per 198 milioni di euro l’anno.
C’è poi la questione degli ospedali. E’ previsto, oltre al controllo delle strutture in rosso, l’azzeramento dei ricoveri nelle case di cura convenzionate con meno di 40 posti letto, la riduzione della spesa del personale a seguito del taglio della rete ospedaliera, la riduzione della degenza media e del tasso di ospedalizzazione. Complessivamente: circa 210 milioni di tagli all’anno.
La gran parte dei risparmi verrà tuttavia dalla rinegoziazione dei contratti di acquisto di beni e servizi (con la centrale unica di acquisti) e in particolare dei dispositivi medici. Inoltre sarà costituito presso il ministero della Salute un osservatorio sui prezzi dei dispositivi medici (apparecchi, impianti, sostanze) il cui costo non potrà comunque superare il tetto del 4,4 per cento.
Le Regioni stanno sulla difensiva dopo l’uscita di Palazzo Chi- gi. «Esistono spazi di miglioramento nella sanità, ma li cerchino dove sono: noi abbiamo già tagliato nel 2012», ha detto Luca Colletto, assessore alla Sanità nel Veneto e coordinatore del settore nella Conferenza delle Regioni. Polemica Sonia Viale (Sanità, Liguria): «Questa è la logica del governo: tirano le righe sopra. Sulle Province, sugli ospedali in rosso. Li cancellano. La Liguria e la Lombardia, invece, propongono un modello costruttivo, non distruttivo: mettiamo in condivisione le eccellenze sanitarie delle due regioni». Più cauto Antonio Saitta (Sanità, Piemonte): «D’accordo ci sono margini, ma ricordo che noi siamo stati la prima Regione ad applicare la riorganizzazione della rete ospedaliera». Rincara la dose Fabio Rizzo ( Commissione sanita Lomardia): «Il governo si sveglia tardi, segua l’esempio Lombardo». Vantano passi avanti anche in Toscana: «La centrale unica d’acquisto noi ce l’abbiamo già per tutte le aziende sanitarie », aggiunge Stefania Saccari (Sanità). Persino la Sicilia si chiama fuori: «Per noi il percorso è più facile: abbiamo un avanzo di 30 milioni», dice l’assessore alla Sanità Baldo Guicciardi.
intervista di RosariaAmato a Costantino Troise, segretario di Anao-Assomed
Chi stabilirà se una prescrizione o un ricovero sono inappropriati e quindi il medico va sanzionato? Secondo Costantino Troise, segretario di Anaao-Assomed, l’associazione dei medici dirigenti, il compito non può certo essere affidato a «un gruppo di tecnocrati», a meno che il vero obiettivo del governo non sia quello di introdurre un nuovo, esoso «superticket» sulla sanità.
Non ci sono margini di razionalizzazione delle prescrizioni secondo voi?
«Esistono sicuramente molte prescrizioni inutili per quel determinato malato in quel determinato momento, ma il metodo per rivederle non è quello di intimidire il medico. Dubito che si possa fare senza i professionisti e contro i professionisti. La strada è quella della legge sulla responsabilità professionale, che invece giace da anni in Parlamento. Dubito fortemente che protocolli o linee guida di Stato messi a punto entro 30 giorni dal decreto possano avere una validità scientifica.».
Eppure anche le Regioni hanno dato il via libera.
«E’ curioso che Regioni e Stato di giorno litighino e di notte si accordino. L ’obiettivo vero di questa norma è quello di fare cassa, introdurre un superticket neanche tanto mascherato che porrà a carico dei cittadini una serie di prestazioni, con conseguente arretramento e impoverimento della sanità pubblica. Già adesso la spesa privata è a 30 miliardi, tra le più alte ».
Il governo calcola risparmi per 100 milioni.
«Non so come si possa dire che si risparmiano 100 o 200 milioni, c’è molta demagogia. È un atteggiamento di controllo dell’operato dei professionisti e sostanzialmente lancia un messaggio: da ora in poi è lo Stato che decide quanto si fa. Aumenteranno la diffidenza verso i medici, il contenzioso e le disuguaglianze, che sono già enormi».
Sarà ancora possibile fare prevenzione?
«La prevenzione porta sicuramente risparmi, ma in un orizzonte molto più lungo di quello elettorale».
Attenta analisi della nascita, crescita e conquista dell'economia da parte del neoliberismo, in una visione gramsciana della lotta per il potere. Come ha fatto a vincere l'ideologia che domina, utilizzando strumenti che la sinistra novecentesca ha gettato alle ortiche (e i vagiti di quelle del nostro secolo stenta a saper usare).
La Repubblica, 27 luglio 2015
Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago. È una montagnola svizzera a pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa. Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza.
Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori paesi. Ai tempi della presidenza Reagan ( 1981-88), su una ottantina di consiglieri economici del presidente più di un quarto erano della Mps. Le liberalizzazioni finanziarie decise dal governo Thatcher nella prima metà degli anni ‘80, che hanno cambiato il volto dell’economia britannica, furono elaborate in gran parte dall’Institute of Economic Affairs, una filiazione della Mps fondata e diretta da due soci, Antony Fisher e Ralph Harris. I vertici dell’industria francese e tedesca sono sempre stati numerosi nelle fila della Mps, intrattenendo stretti rapporti con i soci provenienti dal mondo politico.
Di rilievo è stata la partecipazione italiana alla Mps. Tra i suoi primi soci vi è stato Luigi Einaudi. Due italiani sono stati presidenti: Bruno Leoni (1967-68) e Antonio Martino (1988-1990) che figura tuttora fra i soci, accanto a (salvo errore), Domenico da Empoli, Alberto Mingardi, Angelo Maria Petroni, Sergio Ricossa.
Due caratteristiche segnano fortemente l’egemonia della Mps sulla cultura e la prassi economico- politica degli Stati europei a partire dagli anni ’80. La prima è la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero — specie in economia. Il keynesismo, fin dalle origini l’arcinemico dalla Mps, è stato ridotto all’insignificanza, e con esso quello di Schumpeter, di Graziani, di Minsky.
La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale formato Mps è la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno 15 anni. I primi anni 2000 hanno visto il crollo delle imprese dot.com, glorificate dagli economisti neolib, che in nove casi su dieci erano trovatine su cui le borse, in nome dell’ipotesi che i mercati sono sempre efficienti, scommettevano miliardi di dollari. I secondi anni 2000 hanno invece assistito al quasi crollo dell’economia mondiale, minata dalla finanza basata deliberatamente su milioni di mutui ipotecari che le famiglie non avevano i mezzi per ripagare.
Dopo il 2010, gli economisti neoliberali e i politici da loro indottrinati hanno imposto alle popolazioni della UE le politiche di austerità, rivelatesi un fallimento totale a giudizio dei loro stessi promotori. In sintesi, gli economisti formato Mps hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la grande crisi; non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla, e hanno proposto rimedi che hanno peggiorato la situazione. Ad onta di tutto ciò, continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della UE.
Inoltre, proseguirebbe Gramsci, dove sono i vostri articoli e libri che rivolgendosi sia agli esperti che ai politici e al largo pubblico si cimentano a provare ogni giorno, con solidi argomenti, la superiorità tecnica, economica, civile, morale della sanità pubblica su quella privata; delle pensioni pubbliche su quelle private, a fronte degli attacchi quotidiani alle prime dei media e dei politici, basati in genere su dati scorretti; dello Stato sulle imprese private per produrre innovazione e sviluppo, oggi come in tutta la seconda metà del Novecento; dell’importanza economica e politica dei beni comuni sull’assurdità della privatizzazioni?
Poiché la natura ha orrore del vuoto, il vuoto culturale, politico, morale delle sinistre è stato via via riempito dalle successive leve di lettori, elettori, docenti, funzionari di partito e delle istituzioni europee, istruite dall’intellettuale collettivo sortito dalla Mps. Il consenso bisogna costruirlo, e la MPS ha dimostrato di saperlo fare. Le sinistre non ci hanno nemmeno provato.
Il manifesto, 26 luglio 2015
Casualità vuole che l’annuncio dell’esito della consultazione degli iscritti di Podemos abbia coinciso con la diffusione di un sondaggio dell’autorevole istituto Metroscopia, pubblicato sulla pagina web del quotidiano El País.
Se si votasse oggi, il Partito socialista (Psoe) otterrebbe il 23,5%, in lieve vantaggio sul Partido popular (Pp) del premier Mariano Rajoy, al 23,1%. Più distanti, Podemos (18,1%) e i centristi di Ciudadanos (16%), a chiudere Iu con il 5,6%. Salta agli occhi che la somma di Podemos e Iu situerebbe l’ipotetica lista di «unità popolare» davanti a tutti gli altri, seppur di pochissimo, con il 23,7%.
Occorre chiedersi, tuttavia, se una lista di tal genere otterrebbe realmente la stessa quantità di consensi derivante dall’addizione delle preferenze ottenute separatamente. La questione è vecchia come la politica stessa: unirsi sotto le stesse insegne porta benefici o, al contrario, allontana potenziali elettori? Ogni situazione fa storia a sé, e nessuno, ovviamente, può essere sicuro di avere la risposta giusta.ù
E dunque, Iglesias e compagni sono convinti che presentarsi alle urne insieme a Iu non gioverebbe, mentre Garzón è dell’opinione opposta. Naturalmente, la sproporzione fra Podemos e Iu condiziona negativamente il confronto, dal momento che il disegno di Iu è anche interpretabile come un maldestro tentativo di «salire sul carro dei vincitori»: ed è esattamente così che la vede Iglesias.
In ogni caso, i media mainstream già suonano la grancassa della «crisi di Podemos», dal momento che a gennaio i sondaggi attribuivano alla nuova formazione il 28% dei suffragi.
Fra le spiegazioni addotte, il senso di rifiuto che genera il leader Iglesias, che è percepito – secondo le analisi dei sondaggisti di Metroscopia – come figura incapace di acquistare consensi trasversali: un personaggio «divisivo», si direbbe nel lessico politico italiano delle larghe intese. Più apprezzati – sempre stando alle analisi demoscopiche divulgate da El País – il socialista Pedro Sánchez e Albert Rivera di Ciudadanos, perché trasmetterebbero l’idea di essere più disponibili a cercare i necessarie compromessi con altre forze. Bocciato senza appello il premier Rajoy, che sembra ormai irrimediabilmente avviato sul viale del tramonto. Non prima, però, di avere dato gli ultimi velenosi colpi di coda.
A settembre entrerà in vigore – salvo che il Senato, a sorpresa, la bocci – la «legge per la sicurezza nazionale»: una norma che preoccupa molto le opposizioni.
Ufficialmente, deve servire a dotare il governo centrale di poteri speciali in casi di pandemie, disastri naturali o gravi minacce terroriste. In realtà, sono in molti a sospettare che Rajoy voglia utilizzarla anche contro eventuali azioni «separatiste» del governo di Barcellona. Il 27 settembre ci saranno le cruciali elezioni regionali in Catalogna, da cui potrebbe emergere una volontà maggioritaria di separarsi dal resto della Spagna. Per l’indipendentista Joan Tardá, deputato di Esquerra republicana de Catalunya (Erc), «il premier potrebbe porre al proprio diretto servizio i Mossos (la polizia autonoma catalana, ndr) e tutti i funzionari della Generalitat catalana con un semplice decreto». Preoccupati per l’eccesso di potere che la norma conferisce al governo sono anche i nazionalisti baschi del Pnv (centro-destra non indipendentista) e Iu. Favorevoli, con qualche riserva, i socialisti, convinti che non metta in pericolo le autonomie regionali.
Bisogna rovistare nelle cronache locali, ma accanto ai razzisti, agli xenofobi, ai neonazisti e agli ipocriti si trovano anche italiani puliti, e perciò solidali. Questa volta li abbiamo trovati alla periferia di Milano.
La Repubblica, ed Milano, 26 luglio 2015
È stato don Paolo Selmi assieme a don Vittorio Marelli, parroco di una chiesa nella vicina Affori (che l’estate scorsa aveva fatto la stessa esperienza ospitando centinaia di asilanti), a proporre ai suoi fedeli e al quartiere, a giugno, durante un’assemblea aperta, di aprire le porte ai profughi. «La risposta è stata subito entusiastica - racconta il “don”, ora che i migranti sono arrivati - . Quella sera avevamo preparato 40 sedie, abbiamo dovuto aggiungerne altrettante. E nei giorni successivi, siamo stati sommersi da richieste di partecipazione». L’assessore alla Sicurezza, Marco Granelli, che abita nel quartiere, è stato subito coinvolto e ovviamente ha accettato la proposta di mandare qui i profughi che arrivano in Centrale, all’hub che da poche settimane è stato inaugurato in via Tonale.
«Io mi chiamo Cristiana, ho 23 anni, e un bambino di due, che mi aspetta al mio paese, in Africa - racconta una ragazza dagli occhi grandi, che viene dalla Nigeria - . Sono venuta in Italia perché nel mio Paese c’è la guerra, mio marito è stato ammazzato, la mia famiglia è dispersa. Ho speso 2mila euro per arrivare fino a qua. Ho visto di tutto, la morte, la fame, la tortura. Ho gli occhi pieni di paura ». Storie come questa si raccolgono fra le persone che siedono nel grande cortile cortile alberato della chiesa, dove si aggira anche un accaldato don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, che darà alla parrocchia il sostegno dei mediatori culturali e degli operatori professionali fino alla fine del mese. «Abbiamo voluto fare questa proposta di solidarietà concreta alla città - spiega don Colmegna - perché abbiamo voglia di dare un messaggio di solidarietà e di speranza, di gioia e di fiducia, senza nessuna pretesa di risolvere l’emergenza che certo è molto più ampia di quel che vediamo qua, di quel che possiamo risolvere noi, offrendo al massimo 80 posti letto a notte. Ma l’importante è dare un segnale, dare l’esempio di una solidarietà gratuita».
Non ci sono convenzioni col Comune o con la Prefettura a coprire i costi di questa iniziativa, che i promotori hanno deciso di finanziare “dal basso”, facendo la colletta nel quartiere, attraverso il sito di Casa della Carità, e chiedendo ai cittadini di portare vestiti e generi di prima necessità. «I costi umani invece li mettiamo noi - scherza Attilio Cattaneo, 75 anni, volontario con lunga esperienza di servizio in parrocchia - . Tutto nostro è il piacere di far del bene a qualcuno che ha bisogno, senza stare a guardare il colore della pelle, il numero sul passaporto». Come il signor Attilio sono in tanti i cittadini di Bruzzano a darsi da fare. Fra loro anche molti giovani come Andrea Percivalli, 21 anni, studente: «Mi sembrava un bel modo per trascorrere l’estate sentendomi utile», dice con qualche timidezza. Sembrano tutti amici, tutti uniti dallo stesso desiderio di aiutare. «La politica la lasciamo fare ai politici, noi siamo qui perché ci piace far del bene in questa società in cui sembra che tutto vada male », dice il signor Lorenzo Gaglio, 58 anni, impiegato, che farà le ferie in chiesa in mezzo ai profughi, con la sorella Annalisa, medico, e la moglie Matilde. Marito e moglie avevano già lavorato con i rifugiati l’anno scorso ad Affori. «E questa volta abbiamo coinvolto nella compagnia anche la cognata», sorridono le due donne, a cui sembra normalissimo passare così le vacanze invece che in spiaggia sotto all’ombrellone.
E nessuno protesta? «C’è stato un po’ di dibattito sulla pagina Facebook del quartiere, nelle prime settimane. Credo che chi ha protestato abbia paura, ma soprattutto non conosca il fenomeno e abbia pregiudizi infondati - confessa don Paolo Selmi - . Ma sinceramente su poche voci critiche, sono prevalse le tante voci contente che ci mettessimo in questa iniziativa. C’è voglia di fare, di non stare a guardare».
Yusuf viene dall’Eritrea e parla in tigrino col mediatore culturale Tsehaies Woldeab, 46 anni, che di profughi ne ha visti passare tanti in questi mesi: «Hanno solo bisogno di ascolto, è gente che non farebbe mai male a nessuno. Hanno sofferto troppo. Aiutarli dovrebbe essere per tutti la cosa più naturale da fare».
La Repubblica, 23 luglio 2014
SI DICEVA anni fa, “non lasciamo la patria alla destra”. La competizione tra destra e sinistra riguardava allora la visione di comunità politica. In quel caso, la sinistra democratica sviluppò, grazie anche alla lungimiranza di intellettuali visionari come Jürgen Habarmas, l’idea di “patriottismo costituzionale”. La patria non era una comunità identitaria che escludeva e discriminava, ma una comunità politica di condivisione di diritti eguali e di dignità. Si trattò di una grande competizione, che liberò la sinistra dalle maglie strette della classe e la legittimò a governare la società liberale. Oggi lo stesso discorso sembra doversi fare sulla questione delle tasse. Si dice, “non lasciamo la battaglia per meno tasse alla destra”. Ovviamente la destra della lotta alle tasse non è quella comunitaria che voleva monopolizzare la patria. È invece quella che mette al centro l’individuo in funzione anti-sociale. Competere con una destra iper-liberale non è lo stesso che competere con una destra comunitaria e nazionalista.
Dalla fine degli anni ’70 la rinascita neoliberale o liberista è avvenuta sul terreno della contestazione della spesa sociale e quindi nel nome di “meno stato più mercato” — la premessa per giustificare il taglio delle tasse. La filosofia di Margaret Thatcher fu in questo rivoluzionaria e occupò il Palazzo d’Inverno per mettere in pratica il suo programma organico di smantellamento del welfare state: deregolamentando e privatizzando. La ridefinizione del pubblico fu tutt’uno con la politica di taglio delle tasse. Alla base di quella riscossa vi era una ridefinizione generale degli obblighi che gli individui riconoscono gli uni agli altri; vi era una filosofia dell’individuo che considerava gli altri o come ostacoli o come agenti competitivi e la società come un’astrazione, se identificata con qualcosa di più di un’aggregazione di egoisti competitori votati al massimo profitto con il minimo sforzo. Dicendo che non esiste la società ma esistono solo gli individui, la Iron Lady intendeva dire che nessuno ha obblighi verso gli altri mentre tutti hanno solo diritti e, in relazioni a questi, obblighi legali. Al centro vi era il diritto al perseguimento della felicità individuale e quindi alla conquista dei mezzi materiali per la realizzazione dei propri piani di vita.
Il liberalismo economico aveva una radicale connotazione individualistica, e questo lo rendeva forte nell’affermazione dei diritti civili, nella convinzione che questi avrebbero sgretolato la cultura autoritaria e paternalista ed espanso l’orizzonte di possibilità per il singolo. Non tutto quel che il liberalismo economico proponeva era dunque negativo. Nella mezza verità liberista c’era un granello di verità, quello del valore propulsivo dei diritti individuali. Fu del resto questa sua interna complessità a rendere il discorso liberista egemonico, capace di conquistare consensi anche a sinistra. La quale, nell’era liberista, ha dovuto rivedere parte del suo armamentario ideologico per riuscire a contestare la destra sul terreno della redistribuzione e della giustizia sociale, accogliendo invece il messaggio liberatorio e liberante dei diritti, soprattutto nella sfera della morale soggettiva e dei comportamenti individuali. Si trattava quindi non di rifiutare l’individualismo, ma di interpretarlo in modo da separare la questione morale e giuridica dei diritti da quella sociale delle opportunità o di giustizia redistributiva.
Non lasciare la questione della diminuzione della pressione fiscale alla destra deve essere inscritto in questa prospettiva — senza sposare l’individualismo egoistico ma interpretando l’individualismo in chiave democratica, come ricettivo rispetto agli altri, cooperatore e disposto a condividere costi e benefici in cambio di solidarietà sociale e contenimento del conflitto. A questa visione emancipatrice dell’individualismo corrisponde una visione di eguaglianza che è proporzionale, e quindi progressiva: a questa visione la politica fiscale dovrebbe essere connessa, come del resto propone la nostra Costituzione. Una visione che respinge la logica liberista della flat tax la quale tratta tutti indistintamente come identici, e che è attenta alle condizioni delle singole persone, per cui chi più ha più con-tribuisce, non tanto o soltanto perché questo è quanto l’etica della solidarietà chiede, ma anche perché chi più ha da perdere chiede anche più in termini di protezione dei diritti alla società e allo Stato. Progressività e proporzionalità sono le coordinate di una politica redistributiva che riesce a tagliare le tasse proprio perché vuole fare giustizia della pressione sproporzionata e ingiusta. Non tutte le prime case sono eguali nel valore e negli oneri che impongono alla società — trattarle come identiche è una semplificazione molto ingiusta.
«Beni comuni. La grande stampa in soccorso del nuovo ciclo di privatizzazioni promosso dal governo Renzi colpisce direttamente i beni di appartenenza collettiva». Una reazione alla crescente diffusione dell'idea (rivoluzionaria per l'ideologia corrente), che alcuni beni non possono essere ridotti a merci.
Il manifesto, 25 luglio 2015
È appena stata battezzata la nuova tribù degli “antibenicomunisti” capitanati dall’Istituto Bruno Leoni e promossa da Pierluigi Battista sulla grande stampa (il Corriere della Sera di giovedì scorso). L’obiettivo è imputare al “benicomunismo” di essere la «solita minestra statalista e dirigista che ha nutrito per oltre un secolo la sinistra». Si tratta di una formidabile mistificazione, ma ancor più significa non comprendere proprio il carattere innovativo e contemporaneo che sta alla base della teoria e dei movimenti dei beni comuni.
Per dirla in estrema sintesi, è evidente che Battista è poco avvezzo ad un pensiero che si situa dentro la specificità del capitalismo finanziario e della sua crisi e che si distanzia proprio da un’idea di pubblico statalista che ha accomunato la cultura della sinistra novecentesca, sia quella di estrazione comunista che di quella socialdemocratica.
La vera novità esplicitata dalla teoria e dai movimenti dei beni comuni, in opposizione al modello neoliberista, sta proprio nel vedere la generale mercificazione dei beni e dell’attività umana e, dunque, nell’affermare che i beni ad appartenenza collettiva alla base dei diritti umani fondamentali non possono essere consegnati al mercato e che, anzi, vanno gestiti in modo diffuso e partecipato.
Se proprio si vuole trovare un antecedente illustre in quest’approccio, più che a Proudhon, bisogna guardare a Polanyi che , non a caso, scrive sulla grande crisi del capitalismo degli anni ’30 del secolo scorso, e che già allora evidenzia che quando si vuol ridurre lavoro, terra (e cioè beni comuni) e moneta puramente a merce, essi si prendono la loro rivincita e rivelano come il mercato autoregolantesi sia, contemporaneamente, una grande costruzione artificiale e una grande illusione.
Ma quello che mi spinge a prendere in considerazione il ragionamento di Battista non sta tanto nel misurarsi su questi temi di fondo, quanto il suo intento dichiarato di voler sferrare un’offensiva contro l’ “ideologia dei beni comuni”, prendendo atto che essa ha segnato diversi punti a suo favore, e di chiedere che la politica si spenda con forza su questa strada. Per fare questo Battista non esita a ricorrere ad accostamenti perlomeno arditi, come quando riduce il tema della democrazia partecipativa ad una sorta di confuso assemblearismo, che poi si traduce nel rispolverare il vecchio luogo comune — questo sì– per cui piccole avanguardie militanti si sentono investite della volontà popolare. Soprattutto arriva a sostenere che i referendum sull’acqua del 2011 sarebbero stati, in buona sostanza, una grandiosa operazione manipolativa da parte di una piccola schiera di intellettuali che avrebbero falsamente propinato al popolo che era in campo l’intenzione di privatizzare l’acqua e il servizio idrico.
A parte qualunque considerazione sul fatto che vivremmo in un’epoca in cui il “popolo bue” si lascia incantare da qualche parolaio e, ancor più, il disprezzo che trapela per un istituto, come quello referendario, che ha visto comunque pronunciarsi in modo inequivoco la maggioranza assoluta dei cittadini italiani, è troppo chiedere al nostro di andare semplicemente a rileggersi il decreto Ronchi, che venne appunto abrogato da quel pronunciamento? E’ troppo ricordargli che quel provvedimento avrebbe obbligato tutte le società di proprietà pubblica a far entrare i soggetti privati, entro la fine del 2011, nel capitale sociale delle stesse, in una misura non inferiore al 40%?
E che dare la gestione del servizio idrico a soggetti privati, consentire ad essi di realizzare profitti in quest’attività, equivale esattamente a privatizzare l’acqua?
Il fatto è che bisogna allineare la grande stampa al nuovo ciclo di privatizzazione promosso direttamente dal governo Renzi e affidato concretamente alle grandi multiutilities quotate in Borsa. E ciò, come dimostra l’esperienza concreta e quella che si realizzerà se questo disegno andrà in porto, non solo comporta le conseguenze negative dei classici processi di privatizzazione, come l’incremento delle tariffe, il calo dell’occupazione, il decremento degli investimenti, il peggioramento della qualità del servizio, ma anche quelle nuove, quando sono promosse da grandi soggetti finanziarizzati, non radicati nei territori e orientati dalla quotazione in Borsa, e cioè in particolare la perdita di qualunque ruolo decisionale degli Enti locali e della possibilità di espressione democratica dei cittadini.
Del resto, quest’impostazione, che individua nel “socialismo municipale” uno dei nodi da aggredire nel nostro paese per farlo avanzare sulla strada della modernizzazione, non a caso incontra una chiara sintonia con quanto ci spiega il neodirettore dell’Unità Erasmo De Angelis, dalle colonne del giornale, per cui il nostro sarebbe rimasto l’unico Paese modellato sull’esperienza del socialismo reale.
Infine, non si può sottacere come questa spinta ideologica mira anche ad attaccare l’idea dell’esistenza di diritti fondamentali, come quello del diritto all’acqua. Come interpretare se non in questa chiave, ad esempio, alcuni fatti di questi giorni, quello per cui il sindaco di Bologna viene indagato dalla Procura perché aveva disposto l’allacciamento all’acqua in alcuni stabili occupati in quella città o il fermo di alcuni attivisti che si sono opposti al distacco dell’erogazione dell’acqua ad uno spazio occupato a Roma per trasformarlo in centro di aggregazione del quartiere?
In ogni caso, Battista può stare tranquillo: non saranno le interpretazioni di comodo, le mistificazione della realtà, l’accondiscendenza nei confronti dei poteri forti ad arrestare un processo che affonda le sue radici, materiali e soggettive, nelle trasformazioni radicali e regressive che ci consegna non il socialismo municipale, ma il capitalismo neoliberista. Soprattutto se, come mi auguro e come esistono le condizioni per realizzarlo già nei prossimi mesi, le ragioni dei beni comuni, del lavoro, di un rinnovato Stato sociale, accomunate dall’idea dell’universalimo dei diritti della persona, sapranno incontrarsi e rendere credibile l’idea di un modello produttivo e sociale alternativo a quello che le élites dominanti, in Europa come nel nostro Paese, continuano a proporci come l’unico possibile.
Durante il periodo estivo, in cui normalmente si assiste al picco degli sbarchi, “Triton schiererà , 6 navi d’altura, 12 pattugliatori e 2 elicotteri”, affermò il direttore esecutivo Fabrice Leggeri, “così da sostenere le autorità italiane nel controllo delle frontiere marittime e nel salvataggio di vite umane”. Pareva che le navi di numerosi Stati membri avessero dato vita a una missione umanitaria, una sorta di Mare Nostrum europeo, e in giugno non si registrò nessuna morte per naufragio. Ma i tempi d’impegno erano circoscritti a poche settimane. A fine mese, dopo aver salvato più di tremila naufraghi, la Marina britannica ha ritirato la nave da guerra Bulwark, che poteva caricare fino a 800 persone, e l’ha sostituita con l a nave oceanografica Enterprise, che può caricarne 120. Dopo il 30 giugno sono scomparse anche le navi tedesche Schleswig-Holstein e Werra.
Dall’inizio di luglio sono riprese le morti in mare. Almeno dodici persone sono annegate nel naufragio di quattro barconi nel Canale di Sicilia e più di cento cadaveri sono stati recuperati dalla Guardia costiera libica nel tratto di mare antistante Tripoli, nel sostanziale disinteresse dei media.
L'Unione europea in fuga. Rimangono le ONG
A soccorrere i naufraghi non c’era Frontex, non c’era l’Unione Europea, ma le tre navi umanitarie private di Migrant Offshore Aid Station (Moas), Medici Senza Frontiere e Sea-Watch, assieme alle unità della Guardia costiera e della Marina militare italiana, e alle poche navi rimaste degli Stati membri, la cui appartenenza organica alla missione Triton è tutt’altro che chiara, poiché sui rispettivi siti governativi risultano essere messe a disposizione dai singoli Stati, sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana. Lo stesso vale per la nave irlandese LÉ Niamh, per la cui opera di salvataggio non si fa riferimento all’operazione Triton-Frontex, ma a “operazioni congiunte con la Marina italiana”. Il quadro offerto dall’equipaggio della ong tedesca Sea-Watch, che con la sua nave ha salvato 587 persone in 6 giorni, è allarmante: “Non abbiamo passato un solo giorno in mare senza aver effettuato soccorsi, abbiamo incontrato la nave di Msf e quella del Moas, ma non abbiamo visto una sola nave di Triton né di Eunavfor Med. [...] L’Unione europea non sembra prendere sul serio il soccorso in mare. [...] Ci sentiamo abbandonati dall’Unione e dal governo federale”.
Il 1° luglio è avvenuto un passaggio di consegne tra l’operazione Triton e la missione Eunavfor Med di cui ancora non si conoscono con chiarezza i contenuti operativi; quel che sappiamo è che si è creato un vuoto denso di conseguenze. I segnali sono davanti ai nostri occhi, benché generalmente ignorati dai mezzi di comunicazione: il 2 luglio, 904 migranti sono stati recuperati e condotti nel porto di Reggio Calabria dalla nave Dattilo della Marina militare italiana; il 9 luglio, 12 cadaveri sono stati recuperati in mare e 500 naufraghi sono stati salvati dalla Guardia costiera italiana; il 14 luglio, più di cento cadaveri di migranti subsahariani sono stati raccolti dalla guardia costiera libica davanti alle coste tripoline; il 16 luglio, 835 persone partite dalle coste libiche sono state recuperate dalla nave Dattilo nel corso di quattro distinti naufragi nel Canale di Sicilia; il 17 luglio, una motovedetta della Guardia costiera partita da Lampedusa ha tratto in salvo duecento migranti; il 19 luglio, la nave di Medici Senza Frontiere ha salvato 129 persone, tra cui 13 donne e 12 bambini; il 22 luglio, la nave della Marina militare irlandese LÉ Niamh ha sbarcato 370 naufraghi a Palermo. Sempre il 22 luglio, un pattugliatore della Guardia costiera italiana ha salvato 578 migranti e li ha sbarcati a Messina. Ancora il 22 luglio, a Lampedusa, la Guardia costiera italiana ha salvato 414 migranti naufragati a bordo di quattro diversi gommoni, tra loro c’erano quattro neonati. Il 23 luglio la nave militare tedesca Holstein ha sbarcato ad Augusta 283 profughi che hanno fatto naufragio su tre diversi gommoni. Decine i morti.
Tre domande urgenti per la commissione europea
La Commissione, secondo le dichiarazioni di Leggeri, avrebbe “dotato Frontex di 26.25 milioni di euro aggiuntivi per rafforzare le operazioni Triton in Italia e Poseidon in Grecia”, ma non c’è chiarezza sulla destinazione e l’uso di quei fondi. Il bilancio di Frontex comprende i salvataggi effettuati dalla Guardia costiera italiana e dalle altre unità navali dei singoli Stati membri? Quali e quante navi operano nel Mediterraneo, e con che inquadramento nella missione Triton? Soprattutto: quali disposizioni sono previste perché l’Unione europea non si renda complice di altre sciagure in mare durante le prossime settimane di luglio e di agosto?
La «peggiore minaccia alla sicurezza degli Stati uniti da trent’anni a questa parte» non è l’ultima portaerei cinese, i silenziosi sottomarini diesel nordcoreani o i satelliti spia russi, è… l’F35. Un «programma ingestibile, insostenibile e che non raggiungerà mai i suoi obiettivi militari», «staccare la spina a questo pericoloso spreco di denaro non avverrà mai troppo tardi». Non sono slogan della campagna presidenziale del socialista democratico Bernie Sanders, ma parole di Mike Fredenburg, fondatore dell’Istituto Adam Smith di San Diego, una penna ferocemente conservatrice.
Considerazioni tanto più interessanti visto il pulpito da cui provengono, il sito dell’americana National Review, magazine della destra repubblicana dal 1955. Una rivista reaganiana, libertaria, liberista e ultra-conservatrice, che considera i sindacati un puro «strumento socialista» e l’Onu una trovata diplomatica delle élite liberal. Tra i principi dichiarati dalla redazione la «lotta senza sosta alla crescita del governo federale» e la guerra senza quartiere al comunismo, una «utopia satanica con cui è impossibile coesistere».
Insomma, mentre in Italia il dibattito sull’F35 è stato insabbiato dietro le coltri del «Libro bianco sulla Difesa» e il parlamento osserva inerte la partecipazione tricolore a questo strumento di guerra e immane spreco di risorse, negli Usa l’«aereo del futuro» è criticato ferocemente soprattutto dalla destra.
L’articolo di Fredenburg sulla National Review ripercorre tutte le promesse mancate dalla Lockheed Martin, i dubbi a mezza bocca dei generali, i difetti ripetuti nei progetti, le critiche delle varie analisi indipendenti che in vent’anni hanno esaminato il programma.
Secondo stime ufficiali del 2013, lo sviluppo dell’F35 e il suo mantenimento operativo per i prossimi 55 anni costeranno 1.500 miliardi di dollari, «il più costoso sistema di armamenti della storia dell’umanità». E alla fine – osserva spietato Fredenburg – avremo «un aereo più lento dell’F14 Tomcat del 1970, meno manovrabile dell’A6 Intruder di quarant’anni fa, con una performance operativa paragonabile a quella dell’F4 Phantom del 1960», «un aereo che in recenti test di combattimento ha perso perfino contro l’F16».
Un caccia che non caccia
Le rivelazioni su questo test sono apparse su Medium pochi giorni fa. Il combattimento simulato F16 contro F35 risalirebbe al 14 gennaio 2015, sopra l’oceano antistante la base dell’Air Force a Edwards, California.
L’F35A (designato col codice AF-02 e dotato di tecnologia stealth di serie) doveva intercettare e abbattere un normale F16D, uno degli aerei che dovrà sostituire, a un altitudine compresa tra 3mila e 9.500 metri. Le cinque pagine del rapporto del pilota descrivono l’aerodinamica del nuovo aereo sostanzialmente come un «cancello» inguidabile, incapace di abbattere il «nemico» e anzi, alla fine, destinato a essere abbattuto.
Secondo il collaudatore, l’F35 ha una sola manovra in cui è stato superiore all’F16. Sfortunatamente, questa consuma talmente tanta benzina che si tratta di una sola pallottola, poi al malcapitato non resterebbe che scappare più velocemente possibile con la coda tra le gambe. Alla fine, il collaudatore certifica che in combattimento ravvicinato l’F35A è inferiore all’F15E degli anni Ottanta.
Un programma mefistofelico
I ritardi ormai sono leggendari. Deciso dall’amministrazione Clinton nel gennaio 1994 come unico aereo per tutta le forze Usa, il programma dell’F35 o Joint Strike Fighter doveva entrare in produzione operativa nel 2010, poi nel 2012, ora nell’aprile 2019 (ma alcune funzioni sono attese dal 2021). Tutti sanno che questa data difficilmente sarà rispettata.
Ad oggi, il motore dell’F35 può prendere fuoco, ha problemi di aerodinamica (viste le funzioni richieste dai vari generali non ha ancora un design e un assetto stabili), presenta gravissimi problemi al software, al casco del pilota, ai sensori del radar, al sistema elettrico (a 270 volt, unicum nell’aviazione), alla mitragliatrice, all’alimentazione e all’espulsione sicura del carburante (infatti ancora non può essere rifornito in volo), al raffreddamento del motore e perfino alle gomme!
L’aereo è talmente sensibile ai fulmini (se colpito potrebbe esplodere sia in volo che parcheggiato a terra) che il Pentagono ne ha ufficialmente proibito l’utilizzo entro 30 chilometri da un temporale (tutto ufficiale, riassunto qui).
Il software a bordo dell’F35 ha 8 milioni di linee di codice. Per capirci, lo Space Shuttle della Nasa ne aveva 400mila. Una quantità di informazione pari a 16 volte quella contenuta in tutta l’Enciclopedia Treccani. Ma il totale del software necessario in volo e a terra è pari a 30 milioni di linee di codice. Inevitabili, sono già migliaia i «bug» di sistema difficili da scovare e risolvere.
Per dire l’ultima, soltanto il 22 luglio scorso è partita la sperimentazione sul campo della mitragliatrice da 25mm. In un aereo stealth completamente liscio, infatti, la semplice apertura del foro della mitragliatrice interna è un inedito tutto da verificare.
L’arma più costosa della storia, privatizzata
Secondo i sempre più numerosi critici (anche militari e insospettabili, per esempio l’aviazione israeliana), il progetto è partito malissimo.
Questo circolo vizioso di vecchi e nuovi problemi porta a costi di manutenzione letteralmente stratosferici: dai 32mila dollari per ora di volo preventivati si è passati a un più realistico 68mila dollari l’ora. Ma la Difesa americana non è in grado di fare la manutenzione a un oggetto così complesso, perciò è già messo in conto il ricorso totale ai contractor fino alla fine del secolo. Una manna per Lockheed Martin, Northrop Grumman, Pratt & Whitney e il loro indotto.
Nei 400 miliardi fin qui preventivati dagli Stati uniti, non sono inclusi inoltre:
- i maggiori costi per risolvere i problemi sopra sintetizzati
- tutti gli armamenti e munizioni
l- ’adattamento al trasporto di bombe nucleari
- l’adattamento per serbatoi esterni di carburante
- e nemmeno l’integrazione e la comunicazione con la flotta di F15, F16 e F22 esistente!
In breve, è l’aereo nudo e crudo. Solo questo elenco di migliorie potrebbe portare a maggiori costi per 68 miliardi di dollari, pari al costo finale di tutto il programma per l’F22.
Nel progetto del 1994, ogni aereo doveva costare tra 28 e 35 milioni di dollari a seconda delle versioni (45 e 61 milioni in dollari attuali). Non a caso, invece, le stime attendibili più recenti parlano di un costo ad aereo tra i 190 e i 270 milioni di dollari, il quintuplo.
Ma la Russia è in vantaggio
L’F35 è uno strumento di guerra tra grandi potenze. Se alla fine il Pentagono acquisterà davvero tutti gli aerei ordinati, gli Usa avranno una flotta 15 volte più grande della Cina. Ma la loro «superiorità aerea» strategica mondiale sarà tutt’altro che garantita.
Secondo gli analisti militari citati da Fredenburg, infatti, la Russia è già molto più avanti: il suo Sukhoi Su-35S di quarta generazione (finirà i test quest’anno) «è più veloce, ha un raggio operativo più ampio e porta il triplo dei missili».
Il futuro PAK T-50 stealth (previsto per il 2018) sarà ancora migliore. I «nemici», infatti, hanno già preso le contromisure, visto che il programma dura da vent’anni (l’F16, per fare un confronto, durò “solo” 5 anni).
L’F35 è un «programma troppo grande per fallire», un buco nero finanziario e militare ma non politico.
Il Pentagono ha aumentato da 34 a 57 gli aerei richiesti per il 2016, quasi il doppio dei 38 finanziati dal Congresso per quest’anno. Molto opportunamente, infatti, la Lockheed ha sparso le sue fabbriche in centinaia di collegi in 5 stati chiave, e ben pochi congressmen vogliono rischiare la perdita di 60mila posti di lavoro garantiti dal governo con soldi pubblici.
Entro l’estate alcuni F35B dovrebbero entrare in servizio presso il corpo dei Marines, che a questo punto pregheranno per non utilizzarli in combattimento, visto che i difetti accertati ufficialmente finora sono 1.151 (di cui 151 critici e inaggirabili).
«La Repubblica, 24 luglio 2015
A che serve una sentenza di condanna 41 anni dopo il fatto? È davvero giustizia? Domande come queste serpeggiano insistenti nell’opinione pubblica dopo la condanna dei due neofascisti Maggi e Tramonte per la strage di piazza della Loggia, lo scorso 22 luglio.
Un verdetto così tardivo, infatti, agli occhi di molti ha quasi il sapore di una beffa, l’ultimo scherzo maligno di uno Stato colluso e traditore. La giustizia, per esser tale, deve giungere tempestiva a riparare i torti e ristabilire l’ordine spezzato da un reato.
Quanto alla funzione di simili giudizi, poi, non si può certo invocare l’effetto di deterrenza: la prospettiva di decenni d’impunità non potrebbe che rassicurare, al contrario, qualunque aspirante criminale. Non regge la logica retributiva; della prospettiva costituzionale della rieducazione del detenuto, infine, neanche parlarne. Perché, allora, i mezzi d’informazione stanno dando tanta attenzione a questi due ergastoli fuori tempo massimo?
Credo si possano fare due ordini di considerazioni. In primo luogo, il significato e il valore di questa sentenza non possono prescindere dalla natura particolarissima del reato. Il massacro di piazza della Loggia s’iscrive a pieno titolo nella strategia della tensione. Tra il 1969 e il ‘74, anni di Guerra Fredda, anche per effetto del fortissimo vincolo di fedeltà atlantico, pezzi importanti degli apparati dello Stato non obbedivano alla Costituzione, ma piuttosto operavano secondo la logica di una costituzione materiale anticomunista, in nome della quale, pur di arginare lo scivolamento a sinistra dell’asse politico e l’ascesa elettorale del Partito comunista, pareva legittimo coprire e proteggere, anziché i cittadini inermi colpiti dalle bombe, i terroristi che organizzavano e compirono attentati che avevano la funesta finalità di “destabilizzare per stabilizzare”.
Con un passato del genere alle spalle, il fatto che oggi gli anticorpi democratici della Repubblica riescano a ottenere un po’ di giustizia contro quell’antica perversione del potere, è un risultato di grande significato politico e simbolico. Lo dobbiamo a chi è sempre rimasto fedele alla Costituzione contro la logica feroce della ragion di Stato. La durata abnorme di processi come quelli per le grandi stragi politiche o mafiose è dovuta ai reiterati depistaggi, non a inefficienze burocratiche. La giustizia, attraverso la parte sana della magistratura e delle forze di sicurezza, ha dovuto operare in un contesto a tal punto ostile e alterato che il fattore-tempo non deve far sminuire il valore di aver fatto prevalere un altro pezzetto di legalità costituzionale.
Ma la pur tardiva sentenza sulla strage di Brescia è preziosa anche in un’altra prospettiva. Possiamo immaginare la convivenza civile nella società come una preziosa seta multicolore, intessuta di molti fili, le vite dei cittadini. Alcuni crimini hanno un impatto diretto e profondo sulla collettività, non solo sulle vittime dirette: stragi, terrorismo, delitti di mafia producono lacerazioni profonde in questo tessuto delicato.
Luciano Gallino, Piero Bevilacqua, Alfonso Gianni,Tonino Perna, Guido Viale. E, dietro di loro le grandi ombre di Franklin Delano Roosvelt, John Maynsrd Keynes e, qui in Italia, Giuseppe Di Vittorio. Ancora troppo pochi per far prevalere un'idea giusta?
Il manifesto, 23 luglio 2015
È in corso in Europa una convergenza micidiale: una spinta nazionalistica e identitaria alimentata dalla crisi dell’euro e dal rigetto della burocrazia delle sue strutture; l’insofferenza verso i profughi, in fuga dalla guerra, ma sempre più difficili da distinguere dai profughi ambientali o dai “migranti economici”; il cinismo con cui governi e autorità dell’Unione hanno fatto quadrato contro il tentativo del governo greco di cambiare le regole dell’austerity, equiparandone l’operato a una colpa o a manifesta inferiorità.
C’è molto razzismo in tutti e tre questi processi: il giornale filogovernativo tedesco Die Welt ha giustificato le sue accuse contro i greci sostenendo che non sono i veri discendenti degli antichi abitanti dell’Ellade, ma un miscuglio di altre “razze”: turchi, albanesi, bulgari. Tutte degne, ovviamente, di disprezzo.
Questa miscela esplosiva è il frutto avvelenato delle politiche dell’Unione, ridotte a un feroce controllo ragionieristico dei conti degli Stati membri. Sono scomparse dal suo orizzonte tutte le grandi questioni: la lotta ai cambiamenti climatici (unica strada, anche, per rilanciare occupazione e sostenibilità economica); le guerre, dall’Ucraina al Medioriente; la dissoluzione sociale dell’Africa; i milioni di profughi prodotti da queste vicende.
Nessuna delle idee o delle azioni messe in campo ha la capacità o l’intento di contrastare quella micidiale convergenza di spinte autoritarie, identitarie e razziste. Ma tra tutte, centrale è ormai il problema dei profughi. Se la risposta ai tentativi di Syriza ha unito nella comune ferocia Stati e Governi, a spingere invece ciascuno per la propria strada, fatta di divieti, respingimenti, barriere fisiche e appelli identitari, sono i profughi.
In quell’allontanamento reciproco, tra governi comunque d’accordo, c’è però una vittima sacrificale. Anzi due: Grecia e Italia. Se non verranno espulse dal club dell’euro, come certo vorrebbero Schäuble e i suoi tanti seguaci, a metterle ai margini dell’Unione sarà la scelta di condannarle a essere plaghe su cui scaricare il “peso” dei profughi che gli altri paesi non vogliono. Una nave inglese raccoglie nel Mediterraneo centinaia di naufraghi e li sbarca in Italia: «sono roba vostra». E’ la strada da seguire: la Francia lo fa a Ventimiglia; l’Austria al Brennero.
In queste condizioni interne e internazionali non si può più pensare di trattare quei profughi come un’emergenza temporanea, mescolando improvvisazione e sfruttamento delle circostanze nel modo più bieco (non solo con Buzzi e la sua rete, perché a fare le stesse cose è tutto l’establishment della cosiddetta accoglienza in mano alle clientele del ministro degli interni). Il tutto a spese sia di profughi e migranti, sia di territori e comunità cui viene imposto senza preavvisi e preparazione l’onere di una ospitalità malvista e, nel migliore dei casi, mal sopportata; alimentando così rivolte in cui sguazzano le truppe fasciste e gli appelli velenosi per metterle a profitto elettorale.
Nessuno ne vuol prendere atto, ma le guerre ai confini dell’Europa e la massa di profughi (oltre sei milioni) che preme su di essi ci dicono che il tempo della normalità, quello a cui tutti vorrebbero tornare e che i politici continuano a promettere, è finito per sempre. Vanno messe all’ordine del giorno, proprio a partire dalla questione dei profughi, revisioni radicali a tutte le politiche: in campo economico, ambientale, sociale, internazionale.
Perché i profughi e i migranti ambientali o economici che sbarcano in Italia sono destinati ad aumentare, e molto, per quanto dure e spietate possano essere le politiche di respingimento adottate. Che fare? Gestire la loro presenza in modo diverso è ineludibile: non si dovrà più concentrarli in grandi gruppi e imporne la presenza a comunità impreparate ad accoglierli. Ci vogliono progetti mirati per distribuirli su tutto il territorio nazionale: condizione irrinunciabile se non di integrazione, per lo meno di tolleranza nei loro confronti.
Non si potrà più tenerli per mesi o per anni a far niente, accuditi malamente, o in modo brutale, dal personale di cooperative e società a scopo di lucro largamente inadeguate: è degradante per la loro dignità, ma è anche uno schiaffo a chi vive accanto lavorando per campare, o senza alcun sussidio, se inoccupato. Per questo dovrebbero poter autogestire la propria permanenza e i relativi fondi (i famigerati 35 euro al giorno); impegnarsi nella pulizia, nella manutenzione o nella ristrutturazione dei locali dove vivono, negli acquisti e nella preparazione dei loro pasti, affidando a personale italiano, adeguatamente preparato, solo compiti di sostegno e controllo. E se la scuola si è rivelata un potente mezzo di conoscenza e tolleranza reciproca tra nativi e migranti, lavorare insieme avrebbe un’efficacia anche maggiore. Per questo dovrebbero poter lavorare in forme legali e retribuite (il loro impegno nel volontariato, promosso da alcuni sindaci, è sì meritorio; ma sconfina con lo schiavismo; o rischia di consolidare un mercato del lavoro parallelo).
Certo, anche solo proporre una politica del genere in un paese con tre milioni di disoccupati ufficiali e nove effettivi sembra eresia; ma potrebbe rivelarsi un’opportunità straordinaria. Si potrebbero costituire cooperative e imprese miste di migranti e disoccupati nativi (soprattutto giovani) per impegnarle nella rivitalizzazione di borghi e terreni agricoli montani abbandonati, secondo una proposta già avanzata da Alfonso Gianni e Tonino Perna sviluppando idee di Piero Bevilacqua; ma anche in tante attività ecologicamente necessarie come la protezione dei suoli dal dissesto, la ristrutturazione di edifici dismessi o non a norma, la pulizia e la rinaturalizzazione di spiagge e greti di fiumi, ecc. O coinvolgerli in attività di assistenza a persone anziane o disabili, di istruzione e addestramento (molti tra loro hanno professioni, mestieri e competenze altamente qualificate) e in altri campi.
Ma chi pagherebbe? E’ lo stesso problema che pongono i nove milioni di disoccupati e inoccupati italiani: non si può aspettare che vengano assorbiti da una ripresa fantasma e da imprese che, anche quando prosperano, continuano ad “alleggerirsi” del loro carico di manodopera. Ci vuole un piano generale del lavoro come quello più volte prospettato da Luciano Gallino. Che collide frontalmente con le politiche di austerity e di disarmo economico imposte dall’Unione europea; ma la presenza di tanti profughi e migranti è una ragione in più, e delle più serie, per proporsi di rovesciarle, quelle politiche, azzerando così anche tanti motivi di competizione e rancore verso gli “stranieri”.
Un piano del lavoro del genere non può essere gestito dall’alto: ha bisogno di un’articolazione capillare e autonoma sul territorio; ma soprattutto di attori in grado di assumerne la gestione e di personale formato per avviarlo e per assisterlo sia in campo tecnico che organizzativo.
Dove trovarli? E’ questo un terreno decisivo di formazione e di selezione di una classe dirigente completamente nuova: quella di cui c’è bisogno. Il terzo settore – che non è solo Buzzi e Co — potrebbe fornire una prima base per mettere in piedi iniziative sperimentali in questa direzione; ma la selezione dei progetti e del personale dovrebbe essere affidata non alle clientele di ministeri, prefetti e giunte locali, bensì ad associazioni nazionali e locali di cui siano già state verificati competenze e rigore nella gestione di attività analoghe, come quella dei beni sequestrati alla mafia.
Tutto ciò sarebbe molto facilitato sostenendone l’aggregazione in associazioni delle varie nazionalità. Chi sfugge a guerre e miseria è messaggero di pace, pronto a impegnarsi perché nel suo paese si ricreino le condizioni del proprio ritorno, e ad attivare in tal senso anche i residui legami che mantiene con la propria comunità rimasta nei territori da cui è fuggito. Per questo associazioni di profughi e migranti potrebbero funzionare molto meglio di tanti governi fantoccio in esilio nel promuovere e orientare negoziati per riportare pace e democrazia nei loro paesi di origine.
Un pezzo importante, il migliore, di Africa e di Medioriente si ritroverebbe così a operare nel cuore stesso dell’Europa, trasformandone radicalmente i connotati: estendendone i confini ideali e la capacità di operare concretamente nel tessuto sociale dei paesi dove ora dominano guerre, miseria e dittature. E rendendo ogni giorno evidente, con la sua stessa presenza, che la missione dell’Unione europea, quella che la può salvare dallo sfacelo verso cui sta correndo, è proprio l’inclusione e la valorizzazione di chi ha raggiunto il suo suolo, con grande rischio, alla ricerca di pace, sicurezza, libertà.
Riferimenti
L'icona rappresenta un ritratto di Giuseppe Di Vittorio dipinto da Carlo Levi. Su Di Vittorio e il suo Piano del lavoro vedi qui su eddyburg, nonchè gli articoli linkati in quel testo. Articoli degli altri autori citati nell'articolo lsi trovano facilmente su eddyburg utilizzando il "cerca" in cma a ogni pagina
Con la Grecia, il Sud dell'Europa: «Non si può continuare a stare immobili e subire. Questo è un appello. E per questo ho scelto le colonne del
manifesto per lanciarlo». Il manifesto, 23 luglio 2015
L’Europa monetaria, unita solo dall’euro e dominata dalla teologia dell’austerità, non funziona proprio. Sono in molti ad affermarlo e non è un caso che la Gran Bretagna abbia voluto conservare la sterlina pur aderendo all’Unione europea nei confronti della quale manifesta dissensi crescenti. E, in generale, non dobbiamo dimenticare che siamo in una fase di continui cambiamenti, tali da indurre Guido Rossi a scrivere (Il Sole 24 Ore, 19 luglio) un editoriale dal titolo Quei Trattati superati che creano disordine.
Ma torniamo alla Grecia, la cui crisi strutturale non è stata affatto risolta con i prestiti e le dilazioni di pagamento del debito, ma solo rinviata e nemmeno a lungo termine e non sarà agevole una ripetizione dei prestiti. I punti sono due:
- tutti i paesi che hanno accettato l’euro sono in condizioni molto diverse e peggiori di quelle della Germania, che si conferma dominante nel circolo dell’euro;
- manca, anzi è rifiutata, una politica economica diretta a equilibrare i rapporti di forza all’interno della comunità: tutti abbiamo l’ euro, ma ci sono quelli che ne hanno tanti e li fanno crescere e quelli che ne hanno pochi e li vedono diminuire continuamente.
Di questa situazione noi italiani abbiamo una certa competenza: anche quando usavamo tutti la lira il Mezzogiorno era un disastro e, con l’aiuto di Gramsci, scoprimmo la “questione meridionale”, che oggi si ripropone a scala europea. E così mi ha colpito, e persuaso, il grande titolo del supplemento di la Repubblica del 20 luglio: Mezzogiorno, la Grecia d’Italia.
Nella nostra unità nazionale fin da principio a dominare fu la moneta, cioè la lira, e così si aprì la questione meridionale, con la miseria e l’emigrazione. In alcune regioni del Mezzogiorno si stava meglio ai tempi del regno di Napoli con i Borbone piuttosto che dopo con l’unità d’Italia e i Savoia.
La crisi della Grecia sarà lunga e dura e ci saranno – già lo si vede – altri paesi investiti dalla crisi prodotta dall’attuale unione monetaria e soltanto monetaria. Si tratta – già ci sono gli annunci – dei paesi mediterranei: la Spagna, dove si voterà questo autunno e dove sta crescendo il partito Podemos, abbastanza simile a Syriza e poi il Portogallo e anche l’Italia – è sotto gli occhi di tutti – non sta tanto bene.
Il futuro – allo stato attuale – è di crescita della disoccupazione e di deficit di bilancio. Insomma il percorso della Grecia – ancora per niente concluso – dovrebbe illuminarci. Siamo – ne sono convinto – all’apertura di un questione meridionale che provocherebbe una crisi ben più grave di quella che si è aperta con la Grecia che conta meno di dieci milioni di abitanti e un Pil pari al 2 per cento di quello europeo. Una crisi assai più difficile da affrontare con una unione solo monetaria, non politica e neppure economica.
La previsione più facile, e negativa, è che salti tutto provocando un disordine ingovernabile. Tra non molto tempo la crisi greca si riaprirà e investirà, assai più’ duramente che oggi, anche i paesi mediterranei: l’Europa sarà in una crisi più grave ed estesa di quella che ha investito la Grecia e anche la Germania avrà più di un problema. A questo punto mi pare utile citare un passo dell’ottimo articolo di Luciana Castellina (il manifesto, 17 luglio): «Altra cosa – scrive Luciana – è che a mettere in discussione l’eurozona sia uno schieramento più forte, almeno i paesi mediterranei, sulla base di un chiaro progetto di lotta e di reciproca solidarietà. Questo fronte oggi non c’è e noi italiani possiamo vergognarci perché il nostro presidente del consiglio avrebbe potuto e dovuto avere un ruolo di primo piano da svolgere in questa situazione, ha messo, pauroso, la testa sotto la sabbia. Tocca anche a noi costruire un piano B, ma non solo per la Grecia».
Quello che non ha fatto e non ha pensato il nostro attuale presidente del consiglio lo possono e lo debbono fare i nostri politici di sinistra.
Riunirsi, prendere contatto con le personalità di sinistra di Portogallo, Spagna, Grecia e anche Italia per affrontare l’attuale questione meridionale europea.
E’ lo sforzo che hanno fatto in questi mesi i gruppi e i partiti che stanno cercando di dar vita ad un nuovo soggetto di sinistra nel nostro paese, consapevoli che occorre oramai operare a livello europeo e non solo nazionale stabilendo rapporti o rendendoli meno formali.
Lo ha già fatto la Fiom con i sindacati metalmeccanici del sud Europa.
In questo senso si muovono anche Strauss-Kahn, Fitoussi, e Varoufakis con il sostegno del premio Nobel Stiglitz e anche James Galbraith per una formazione di sinistra a livello europeo. E’ urgente e positivo, e per noi italiani che sulla questione meridionale abbiamo avuto la lezione di Gramsci, ancora più pressante.
Non si può continuare a stare immobili e subire. Questo è un appello. E per questo ho scelto le colonne del manifesto per lanciarlo.
L’Unione europea è da realizzare, ma non può essere solo monetaria: non solo è insufficiente ma anche dannosa. Deve essere un’unione politica e quindi democratica cioè tale da prendere in considerazione le differenze economiche e sociali tra i vari paesi. Un’unione non è una sommatoria acritica di differenze.
«Intervista a Jean-Claude Juncker. Il presidente della Commissione europea critica il ritorno dei nazionalismi e ammette che è stata la paura a permettere l’accordo sulla Grecia, che tuttavia non deve sentirsi umiliata dalle nuove condizioni». dovrebbe sentirsi umiliato lui.
La Repubblica, 22 luglio 2015
Bruxelles. Otto giorni dopo il summit maratona della zona euro che ha concluso i negoziati tra la Grecia e i suoi creditori internazionali, il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, per la prima volta traccia il suo bilancio sulle trattative con Atene e la lezione che deve trarne tutta Europa. Juncker ci riceve nel suo ufficio del Berlaymont mentre è in corso la parata del 21 luglio. Dalla strada arriva un sottofondo di musica militare.
«I giudici di Strasburgo hanno esplicitamente ricordato le loro precedenti decisioni sul riconoscimento delle unioni civili, sì che nessun potrà dirsi colto di sorpresa o invocare la necessità di un adeguato tempo di riflessione».
La Repubblica, 22 luglio 2015 (m.p.r.)
La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo sui diritti da riconoscere alle unioni tra persone dello stesso sesso, che già suscita polemiche, era prevedibile per chi conosce la giurisprudenza di quella Corte, la sua evoluzione, le novità introdotte proprio in questa materia anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Interviene in un momento in cui la discussione si è fatta sempre più accesa dopo l’annuncio del Presidente del Consiglio di arrivare prima delle ferie parlamentari all’approvazione, almeno da parte di una delle Camere, di una legge in materia. Siamo di fronte ad un invito esplicito al legislatore italiano, con indicazioni importanti e che non possono essere trascurate.
«Un atto che si pone in alternativa alla linea teutonica della «secessione» che noi dovremmo conoscere bene. Infatti, la proposta della Grexit da parte tedesca è paragonabile a quella della Lega Nord negli anni ’90 per il Mezzogiorno».
Il manifesto, 22 luglio 2015 (m.p.r.)
L’aver salvato la Grecia dall’espulsione voluta da alcuni esponenti della classe politica del Nord Europa è un merito di Alexis Tsipras. Si tratta adesso di vedere se il giovane leader greco riuscirà ad arginare gli effetti negativi dell’amara medicina che ha dovuto accettare, usando l’astuzia e l’intelligenza di Ulisse di fronte ad un nemico che pensa di avere già vinto la guerra. Ha di fronte prove parlamentari difficili per la maggioranza di governo e un partito diviso.
C’eravamo entusiasmati come non succedeva da molto tempo. Abbiamo in tanti, in Italia ed in Europa, creduto in Tsipras e aspettato con apprensione i risultati del referendum sulle richieste di Bruxelles. La vittoria del No ci ha portato al settimo cielo, abbiamo visto aprirsi una strada concreta per costruire l’Altra Europa.
Quel grande OXI, che sulla stampa italiana è stato curiosamente trascritto come Oki, suonava come un noto farmaco antidolorifico, ed era di fatto un antico rimedio contro i terribili dolori e sofferenze dell’austerity. Poi, improvvisamente, la negoziazione tra il governo greco ed i potenti dell’Eurogruppo ha preso un’altra piega, inaspettata. Nessuno immaginava, infatti, che il consenso del popolo greco alla linea del governo Tsipras potesse portare ad un ulteriore irrigidimento da parte del governo tedesco e dei suoi satelliti.
In pochi giorni il quadro è tragicamente mutato. L’alternativa è diventata: uscire dall’euro o accettare la peggiore ricetta di politica economica che Bruxelles aveva presentato negli ultimi sei mesi di trattative. Prendere o lasciare. E Tsipras, il combattente, tenace e risoluto leader di Syriza, ha ceduto, si è inchinato ai diktat del ministro delle finanze tedesco. E’ inutile negarlo o ricamarci sopra: abbiamo subito una grande sconfitta che per molti si è tradotta in una Grande Delusione. Ma, è stata persa una battaglia e non la guerra.
Per superare questo stato depressivo, inevitabile dopo una botta del genere, dobbiamo elaborare il lutto e per farlo correttamente dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Se Tsipras avesse sbattuto la porta in faccia ai despoti di Bruxelles lo avremmo osannato, sarebbe diventato il Supereroe della sinistra europea, un simbolo per tutti coloro che non accettano più di essere trattati come servi. Ma, cosa sarebbe successo al popolo greco?
L’uscita improvvisa dall’euro avrebbe preso in contropiede il governo di Syriza e comportato un periodo di almeno due settimane di stallo, necessarie per stampare nuovamente la dracma e distribuirla, con banche chiuse e fuga generalizzata dei capitali in euro all’estero. Due settimane dove poteva accadere di tutto: la gente presa dal panico, affamata, potenzialmente esposta alle manipolazioni della destra neonazista, supermercati svuotati, tutti contro tutti. Una volta tornati alla dracma bisognava poi fare i conti con una svalutazione di almeno il 60 per cento rispetto a euro e dollaro, con una inevitabile ripercussione sui prezzi ed un rischio di iperinflazione, data la struttura della bilancia commerciale greca.
I lavoratori ed i pensionati greci avrebbero avuto una vittoria morale ed una sconfitta materiale molto pesante con un impoverimento improvviso, una netta perdita del potere d’acquisto dei già magri salari, sussidi e pensioni. Di contro, accettando i diktat di Schauble e Merkel il primo ministro greco avrebbe contraddetto tutto il percorso che lo aveva portato a indire il referendum, sarebbe stato accusato di incoerenza quando non di tradimento, e avrebbe prodotto una frattura in Syriza, come puntualmente è avvenuto.
Secondo alcune fonti giornalistiche Tsipras ha avuto dal presidente Jean-Claude Juncker un documento in cui veniva tracciato il quadro catastrofico che sarebbe scaturito dalla Grexit, secondo altre fonti sono stati gli stessi consulenti del governo greco a prospettargli scenari da seconda guerra mondiale. Un fatto è certo: Tsipras ha scelto di non fare l’Eroe, l’indomito guerriero che lotta contro tutto e tutti, ed ha lasciato ad altri questa parte. Ha scelto il male minore pur sapendo di dover pagare di persona un conto salato.
Un atto di coraggio e di responsabilità che solo col tempo verrà compreso da chi oggi lo liquida frettolosamente. Un atto che si pone in alternativa alla linea teutonica della «secessione» che noi dovremmo conoscere bene. Infatti, la proposta della Grexit da parte tedesca è paragonabile a quella della Lega Nord negli anni ’90 per il Mezzogiorno. Come la stampa tedesca ha creato lo stereotipo del greco fannullone, imbroglione, che vive alle spalle del lavoratore tedesco così negli anni ’90 in Italia, grazie anche a giornalisti democratici come Giorgio Bocca (vedi L’Inferno, 1990), si era creata l’immagine di un Mezzogiorno fatto solo di criminalità e assistenza.
Se la secessione fosse risultata vincente che cosa sarebbe capitato al popolo meridionale? Come risultava dalle simulazioni fatte in quel tempo il Mezzogiorno avrebbe dovuto avere una moneta propria svalutata al 40% rispetto alla valuta del Centro-Nord, avrebbe perso un flusso netto di risorse dello Stato pari al 35% del suo Pil e un crollo dei consumi di pari entità. Un collasso. Certo se la secessione del Nord-Italia fosse avvenuta subito dopo la seconda guerra mondiale le conseguenze per il Mezzogiorno sarebbero state ben diverse e non pochi sarebbero stati i vantaggi. Ma, ed è questo il punto: in economia come nella politica la scelta del tempo “giusto” è decisiva.
La Grexit è una questione seria che ci riguarda da vicino, non solo perché dopo la Grecia toccherà a noi - malgrado le rassicurazioni del ministro Padoan- ma perché pone un’ipoteca sul futuro della stessa Unione europea. Non sono pochi i segnali che vanno nella direzione di una generale secessione dei paesi ricchi del Nord Europa, al di là dell’Eurozona.
Basta citare il modo con cui i paesi della Ue hanno affrontato la tragedia dei migranti che muoiono nel Mediterraneo. Il parametro che è stato usato è quello delle “quote” come se si trattasse di latte o carne da macello, dimostrando al mondo di essere incapaci di andare al di là del linguaggio dei mercanti. Non diversamente sugli stessi spostamenti di popolazione all’interno della Ue, ad iniziare dalla Gran Bretagna, si parla di vincoli da porre ai giovani che dal Sud e dall’Est Europa cercano lavoro in questi paesi.
E, infine, non va sottovalutato il fatto che l’euro, con tutti i suoi errori, costituisce una base comune per contrastare l’egemonia del dollaro e giocare un ruolo a livello internazionale come Europa. Su questo punto la Merkel ha ragione: la fine dell’euro rappresenterebbe la fine della Ue. Si ritornerebbe necessariamente alle barriere doganali ed alle svalutazioni competitive, con tutti gli ingredienti di un ritorno al più becero e pericoloso nazionalismo. D’altra parte, continuando con queste politiche di austerity, che non risolvono la questione del debito pubblico insostenibile, non si fa altro che alimentare divisioni tra Nord e Sud Europa, e si va dritti verso l’implosione.
Da parte nostra si tratta di appoggiare, non solo politicamente, tutte quelle forme di economia solidale che sono nate in questi anni di crisi e che, come ci ha raccontato Angelo Mastrandrea, hanno avuto anche il sostegno della solidarietà internazionale. Senza dimenticare che questa crisi sta mettendo a nudo la questione monetaria, il bisogno di un controllo sociale di questo mezzo di pagamento che è diventato da strumento a fine dell’agire sociale, nonché l’insostenibilità di un processo di indebitamento infinito. Ma, su questa rilevante questione torneremo in altra occasione.
«“Quella giovane dietro di me è morta” recita la didascalia della foto con le vittime dell’attentato di Suruc, diventata virale. Una storia esemplare in tempi di terrore globalizzato».
La Repubblica, 22 luglio 2015 (m.p.r.)
La didascalia originale di questa immagine contiene una terribile frase di undici parole: «La ragazza con la maglietta bianca dietro di me è morta». È quella con il sorriso più esibito, gli occhi una fessura appena, il collo lungo, i capelli ricci sbandati di lato. Quella con le dita a V in segno di vittoria, un anello all’indice. Lei non c’è più. Forse non ci sono più altri che compaiono alle spalle di Madersahi, la ragazza in primo piano che ha scattato il selfie e che ci ha informato, prima di quelle undici parole, di essere ancora viva.
Gli scorsi giorni hanno visto in Italia l’asfittico ripetersi del ciclo monotono «emergenza migranti», guerra fra poveri, strumentalizzazioni delle destre, nella fattispecie, Lega, Casa Pound, Fratelli d’Italia. Il ciclo ricalca uno schema che ha già dato ampie prove di sé nel corso di tutto il Novecento. Questo schema si nutre sempre dello stesso veleno: negativizzazione e criminalizzazione dell’altro in quanto tale.
Questo risultato si ottiene attraverso meccanismi retorici di falsificazione, di generalizzazione, attraverso la dilatazione e la manipolazione strumentale di dati statistici, attraverso la propagazione di allarmi sociali, l’evocazione di paure irrazionali e la contrapposizione ancestrale fra il noi e il loro come antagonismo fra il legittimo e l’illegittimo, fra la titolarità e la clandestinità. Da questo schema è espunto lo statuto universale di dignità dell’essere umano. La politica sta all’interno di questo circuito perverso o per sopravvivere alla prossima cosiddetta emergenza o per parassitare qualche vantaggio elettorale con la pretesa di ergersi a paladina degli autoctoni assediati dagli invasori.
Coloro che per origine ideale dovrebbero opporsi allo squallido trantran della politichetta come mestiere non hanno nessuna autorevolezza o credibilità per farlo, non sanno ergersi oltre lo status quo, oltre la routine mediatica. Alzare lo sguardo significa ricordare che solo quarant’anni fa, nelle terre del nord, gli «altri» erano i nostri cittadini meridionali, i terroni, ricordare che nel corso di cento anni (1870–1970) gli «altri» sono stati gli italiani, 30 milioni di emigranti (molti clandestini) nelle Americhe, in Europa e in Australia.
È necessario ricordare che cittadini autoctoni simili in tutto e per tutto a quelli che oggi nel Veneto e alle porte di Roma non vogliono nel loro quartiere un pugno di migranti africani, allora, con la stessa attitudine intollerante, non volevano gli italiani, li descrivevano come pericolosi, sporchi, violenti, criminali.
Chi oggi vuole respingere i migranti è portatore della stessa patologica mentalità di chi allora calunniava, insultava e voleva ricacciare in mare i nostri concittadini che non sfuggivano alle guerre ma alla fame endemica, alla disperazione sociale, alla mancanza di futuro.
Nell’alluvione di retorica e falsità che accompagnano il pensiero reazionario sulla «questione migranti» emerge come apoteosi del raggiro lo slogan frusto e truffaldino: «Aiutiamoli a casa loro». Ma certo! Aiutiamoli a casa loro. Allora c’è un solo modo per farlo: espellere dall’Africa ogni interesse colonialista.
Il colonialismo è stato, al di là di ogni possibile dubbio, il più vasto e perdurante crimine della storia dell’umanità. Il primo e più efferato criminale anche se non il solo è stato l’Occidente e, per nulla pentito persiste. Il crimine è perdurante e prosegue nel nostro tempo con le guerre «umanitarie» o preventive, con l’azione delle multinazionali, con la sottrazione delle risorse più preziose ai legittimi titolari, impedisce la sovranità alimentare, idrica, arraffa terre ed è in combutta con i governanti più corrotti e tirannici. Vediamo questi politicastri da quattro soldi se sono capaci di aiutarli a casa loro. Vediamo sotto i nostri occhi come sono capaci di contrastare la schiavizzazione dei lavoratori stranieri nei nostri campi di pomodori e nei nostri frutteti. Ma fra le devastazioni più imperdonabili con le quali la mentalità colonialista ha inquinato il rapporto fra uomini di culture diverse c’è la concezione dell’altro visto come minore, sottomettibile, diseguale.
Prima l’ideologia colonialista si è auto assegnata il compito di civilizzazione di altre culture definite unilateralmente come incivili, oggi che le conseguenze dell’infestazione coloniale portano grandi flussi migratori verso l’Europa, l’altro diventa indesiderabile, minaccioso, da respingere. Ovviamente colui che maggiormente viene ostracizzato è il più povero, il più disperato, mentre, per confondere le acque, ci si mostra disponibili ad accogliere colui che è provvisto di attributi accettabili. Il razzista e lo xenofobo odierni non vogliono essere definiti come tali, fingono di risentirsi contro chi li apostrofa con l’epiteto che danno mostra di ritenere insultante.
Ma oggi il vero spartiacque fra chi, diciamo, crede nella piena dignità ed integrità dell’essere umano e chi con variegate motivazioni, non lo crede risiede nelle contrapposte concezioni dell’emigrazione. Per chi accoglie in sé la dignità dell’altro come bene supremo, l’emigrazione è progetto di trasformazione per la costruzione di una società di giustizia e solidarietà. Per coloro che non percepiscono in sé l’accoglienza dell’altro come orizzonte verso cui mettersi in cammino l’emigrazione è problema, emergenza, turbativa, invasione.
Chi, individuo, associazione, partito o movimento sostiene la piena dignità dell’altro e prende sul serio la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» ha il dovere di radicalizzare la propria perorazione chiedendo subito, come da tempo suggerisce il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, l’abolizione universale del permesso di soggiorno. Il cammino sarà certo lungo ma è tempo di iniziarlo con decisione.
«Nel corso dei secoli, le diverse figure del gay sono state costruite per legittimitarle, ma soprattutto per imporre la norma di una divisione «naturale» tra mascolinità e femminilità. Tutta un’altra storia, l’appassionata e documentata ricerca sul campo di Giovanni Dall’Orto per il Saggiatore».
Il Manifesto, 22 luglio 2015 (m.p.r.)
«È più facile nascondere cinque elefanti sotto un’ascella che un solo cinedo». Questo proverbio giunto fino a noi dal secondo secolo d.C. grazie alla penna di Luciano di Samosata, attesta che la favolosità non era acqua - per usare un’espressione camp - nemmeno nell’antichità classica. Il cinedo di cui si magnifica la capacità di attirare l’attenzione è infatti un personaggio che oggi potremmo definire una checca. E che evidentemente già allora si faceva notare parecchio per la parlantina, il senso estetico come minimo sopra le righe e la predilezione per il teatro di strada.
L’esempio basta e avanza per prendere in seria considerazione quanto sostiene Giovanni Dall’Orto nel suo volumone sulla storia dell’omosessualità maschile dalla Bibbia ai giorni nostri edito dal Saggiatore (Tutta un’altra storia, pp.730, 27 euro): l’identità omosessuale non è poi un’invenzione così moderna come certi accademici dicono perché già duemila e rotti anni fa esistevano dei tipi umani che venivano «dedotti» dalle loro peculiari inclinazioni sessuali. E non solo e non tanto i virili amanti dei ragazzi di cui ci sono state tramandate innumerevoli notizie attraverso l’arte e la letteratura greca e romana. Questi potevano benissimo rientrare nella norma a patto di salvaguardare la loro mascolinità secondo i criteri dell’epoca. I cinedi invece erano quelli che stavano dall’altra parte del fossato dell’onore in quanto votati a una passione esclusiva per i maschi che li rendeva simili alle femmine, fisicamente e/o psicologicamente. A tale categoria venivano ascritti indifferentemente finocchi, travestiti e trans gender ante litteram, ritenendo che i loro disdicevoli comportamenti fossero frutto di una condizione interiore, cioè un orientamento sessuale. «Dunque - dice Dall’Orto - se cercate l’omosessuale antico, eccolo qui».
Certo la parola «omosessuale» pare un po’ fuori contesto, visto che entrò nel linguaggio medico nel XIX secolo e in quello comune nel XX. Ma si tratta di un uso intenzionalmente polemico perché tra i principali obiettivi dell’autore c’è quello di smentire la cosiddetta teoria costruzionista, che discende dalle riflessioni storiche e filosofiche di Michel Foucault e secondo la quale «l’omosessualità sarebbe una costruzione sociale creata dal Potere per reprimere la libera sessualità umana» . Sarebbe stata inventata a questo scopo dalla medicina nell’Ottocento, mentre prima di allora esistevano sì comportamenti omosessuali ma non una «specie» a sé stante.
Per gli studiosi che sostengono questa tesi, accusati anche di monopolizzare il dibattito accademico sulla storia dell’omosessualità, Dall’Orto crea l’appellativo provocatorio di «invenzionisti» e con loro duella a distanza lungo tutto il corso delle sue riflessioni attraverso trenta secoli di storia occidentale. In primis, obietta, la sessualità umana non è determinata solo dalla cultura ma anche da un istinto irriducibile che quando cerchi di cacciarlo dalla porta rientra sempre dalla finestra, come dimostrano tra l’altro molti secoli di persecuzioni dei sodomiti e degli omosessuali. Con questo ineliminabile dato di fatto la cultura ha dovuto fare i conti da ben prima del XIX secolo, ponendosi domande che dall’antica Grecia fino a oggi sono sorprendentemente poco cambiate (vedi il plurimillenario dibattito sulle cause dell’inclinazione omosessuale). Inoltre gli storici «invenzionisti», sempre a giudizio dell’autore, propongono uno schema scandito da «faglie epistemologiche» in cui ogni paradigma culturale sostituisce ed elimina il precedente nei «discorsi del potere». Ritenendo però valida una sola concezione della sessualità alla volta si crea una sorta di incomunicabilità tra le varie epoche e si finisce per rappresentare come dei totali alieni gli abitanti di quelle passate che ragionavano secondo paradigmi diversi.
Sono cose che succedono, conclude Dall’Orto, quando si parte dalle teorie per dare un senso alle fonti storiche e non viceversa. Proponendosi di fare il contrario, «la documentazione mostra che ogni società, sia in passato che oggi, tende a coltivare contemporaneamente più concezioni dell’omosessualità, anche contraddittorie e inconciliabili, e queste concezioni si accavallano, si fondono, si mescolano e si trasformano a vicenda, in una continua dialettica fra “discorsi” e “controdiscorsi” nella quale è del tutto arbitraria ogni pretesa di indicare la concezione dell’omosessualità in un dato momento storico». Ne viene fuori una polifonia incasinata e pure lacunosa, perché quella del silenzio e della censura è stata una delle strategie più valide per limitare i danni prodotti dalla diffusione del peccato indicibile. Ma conforta scoprire attraverso le pagine di Tutta un’altra storia quanto si sia arricchito il puzzle negli ultimi trent’anni grazie all’effervescenza della ricerca nel modo anglosassone e nell’Europa occidentale.
Il testo e le densissime 160 pagine di note scomodamente piazzate in fondo al libro ci sommergono di citazioni e rimandi bibliografici da cui si può constatare che molta memoria di prima mano è già stata disseppellita dagli studi degli ultimi decenni e molta altra ancora sta solo aspettando che qualche giovane appassionato le tolga la polvere di dosso, come Dall’Orto non manca mai di far notare quando se ne presenta l’occasione. Quel tanto che è già stato riscoperto ci restituisce comunque un’immagine un po’ più definita del passato e consente di tentare di tentare un nuovo bilancio provvisorio. Questa è poi la sostanza del libro, che non è né un manuale né un’enciclopedia di storia gay ma il personale bilancio di uno storico che dopo oltre trent’anni di ricerche sul campo e di accesi confronti con amici e nemici cerca di fare il punto attraverso la documentazione disponibile. E rispettando la motivazione originaria del suo lavoro decide di raccontare «una storia degli omosessuali e non degli omofobi», privilegiando «i punti di vista dei perseguitati anziché dei persecutori».
Giovanni Dall’Orto, infatti, viene dal movimento lgbt ed è stato (è) un punto di riferimento indiscusso per la ricerca storica prodotta dentro o a fianco del movimento italiano, nella convinzione che ricostruire una memoria collettiva attendibile fosse un passo necessario verso l’uguaglianza prima di tutto psicologica. Fare la storia degli omosessuali espellendo gli omofobi dal quadro è utopistico, se non altro perché buona parte delle testimonianze che ci rimangono sono tracce delle persecuzioni subite dagli uni ad opera degli altri. Ma d’altra parte i punti di vista e le esistenze delle vittime parlano anche attraverso la memoria dei carnefici.
E cosa ci raccontano? Abbiamo già accennato al fatto che Grecia e Roma non erano il «paradiso» che varie generazioni di proto militanti gay avevano descritto per legittimare se stesse e che studi più recenti hanno molto ridimensionato. Il dato innegabile che in certi casi pratiche e affetti omosessuali fossero quantomeno tollerati, quando non addirittura raccomandati, non toglie che fossero oggetto della pubblica riprovazione coloro che confondevano ruoli e generi annullando le distinzioni «naturali» tra chi domina e chi è dominato. E nemmeno che il vero laboratorio dell’omofobia di stato ufficializzata dal cristianesimo sia stata l’antichità pagana ancor più di quella ebraica, in un filo rosso che unisce Platone agli stoici per arrivare a San Paolo e da qui proseguire per una schiera di santi e teologi successivi. Di suo il cristianesimo ci mise l’anatema divino, parificando nella colpa gli omosessuali attivi a quelli passivi e fornendo un’interpretazione anacronistica dell’episodio di Sodoma e Gomorra che avrebbe col tempo stimolato il ricorso ai roghi. Di cui però non c’è traccia riscontrabile, almeno nell’Europa occidentale, per tutto l’Alto Medioevo.
La regressione della civiltà urbana fece sparire per secoli persino la possibilità di sottoculture «gay» da reprimere, mentre «fra il VI e l’VIII secolo la repressione dei comportamenti omosessuali passa dalle mani dello stato a quelle della chiesa, la quale li punisce con penitenze, mandando nel dimenticatoio la pena di morte e ancor più quella del rogo prevista dagli ultimi imperatori romani». Lo scenario cambia dopo l’anno Mille, con il nuovo sviluppo urbano e gli sconvolgimenti socio-religiosi dei secoli XI-XIII. È qui che si perfeziona la figura del sodomita, periodicamente sacrificata sui roghi dalla metà del Duecento alla Rivoluzione Francese in gran parte dell’Europa ad ogni ondata di rigore morale e allarme sociale. In questo frattempo però cominciamo ad avere la certezza che gli stessi sodomiti imparano a percepirsi come tali e cercano di organizzarsi. Dalle cronache dei processi al profluvio di misure di polizia dirette ad arginare il fenomeno veniamo a conoscenza delle mappe gay e delle reti sociali di città grandi o piccole, ma arrivano fino a noi finalmente anche le voci dei sodomiti, che sempre più spesso mettono ereticamente in discussione la gravità del loro peccato.
Con il tempo, tra spinte e controspinte, sarà l’intera società occidentale a farlo e ciò porterà all’abolizione della pena di morte ma non alla fine delle persecuzioni. E qui giungiamo a un punto cruciale, quando nell’Ottocento nasce ufficialmente il concetto di omosessualità dopo che dell’argomento iniziano a occuparsi anche medici e psichiatri oltre a predicatori, giudici e poliziotti. L’opinione di Dall’Orto in proposito è che la medicina non inventò affatto l’omosessualità, ma si limitò a patologizzarla. Con conseguenze tuttavia impreviste, perché lo sviluppo del dibattito scientifico offrì uno spazio privilegiato per «bucare la cappa di omertà» della morale dominante e discutere apertamente, offrendo per la prima volta agli stessi omosessuali l’opportunità di intervenire nella discussione e di influenzare con le loro teorie e testimonianze i discorsi medici.
Si diffusero i memoriali e le confessioni in cui i pazienti cercavano scopertamente di tirare i dottori dalla loro parte, persino riuscendoci qualche volta. Dopodiché gli omosessuali cominciano ad organizzarsi davvero e a reclamare il diritto di vivere come tali alla luce del sole. Soprattutto in Germania, dove solo la violenza nazista riuscì a stroncare il più avanzato esperimento di liberazione omosessuale mai visto fino ad allora. Fascismo e nazismo, insieme alla versione staliniana del comunismo e all’America del maccartismo e dintorni (senza dimenticare la Gran Bretagna che suicidò Alan Turing) costituiscono altrettanti pezzi di quello che dall’Orto definisce «il picco più alto d’isteria omofobica dell’intera storia umana». Ma fu poi dalla reazione a queste persecuzioni che negli Stati Uniti nacque il movimento gay contemporaneo, che propagò attraverso il pianeta i propri stili, linguaggi e modelli organizzativi. Il resto è cronaca dell’apparentemente inarrestabile marcia di integrazione delle minoranze lgbt in tutto l’occidente. Con la vistosa eccezione dell’Italia che del resto, ammette l’autore, non è l’America.
«Yanis Varoufakis sta mettendo insieme una formazione politica con ambizioni europee più ancora che nazionali, dove Syriza resta forte. Una formazione di sinistra, radicale, intransigente “ma non biecamente marxista-leninista”».
La Repubblica, 21 luglio 2015 (m.p.r.)
Ma ancora più significativa è la tribuna da cui è stata resa pubblica la lettera di DSK: il blog di Yanis Varoufakis, che dichiaratamente sta mettendo insieme una formazione politica con ambizioni europee più ancora che nazionali, dove Syriza resta forte. Una formazione di sinistra, radicale, intransigente «ma non biecamente marxista-leninista», precisa Jean-Paul Fitoussi, l’economista che con Strauss-Kahn ha condiviso decenni di insegnamento in quell’atelier di cultura liberal che è la parigina SciencesPo. E che è tuttora suo grande amico: «State tranquilli, non è un rivoluzionario senza speranze, è un riformista moderato che ha a cuore il bene dell’Europa».
Nicosia. Il 20 luglio a Cipro c’è chi piange e chi festeggia. I greci fanno suonare le sirene alle 5,30 del mattino per ricordare l’invasione turca del 1974 delle coste a nord e vanno sulle tombe a commemorare i morti. I turchi disseminano le città di bandierine con su la mezzaluna e portano i bambini a vedere la parata militare con i poliziotti che si sdraiano sulle moto in corsa e fanno gli addominali. Nella parte Nord dell’isola è la giornata della Pace e della Libertà, una festa nazionale. Ma per il resto del mondo la data ricorda un’invasione e un’occupazione illegale che dura tuttora.
Quest’anno, però, molto è cambiato. Il presidente della Repubblica Turca di Cipro Nord, Mustafa Akinci, eletto lo scorso aprile, ha ammesso per la prima volta che l’operazione militare di 41 anni fa, in risposta al colpo di Stato che depose l’allora Capo di Stato Makarios, non fu un’operazione di pace: «Non c’è dubbio che possiamo chiamarla guerra - ha spiegato domenica prima dell’inizio dei festeggiamenti -. E che oltre alla grande sofferenza dei turchi ciprioti negli anni ‘50 e ‘60, c’è stata anche quella dei greci dopo la tragedia del 1974 causata dalla giunta greca». Parole molto apprezzate dall’omologo greco Nicos Anastasiades che dice: «Dobbiamo guarire le ferite e far sbiadire le cicatrici».
«Ma alla autorità e sovranità di una nuova Europa politicamente unita chi oggi sta seriamente pensando e lavorando? Soltanto costui potrebbe assumerne in futuro anche la guida politica. Tranquilli, non sembra proprio poter essere la Germania. Purtroppo».
La Repubblica, 21 luglio 2015 (m.p.r.)
La crisi che attraversa la costruzione dell’unità politica europea sta avendo, se non altro, il benefico effetto di farci comprendere che le relazioni tra popoli e culture investono problemi leggermente più complessi di quelli che sono in grado di affrontare non solo banche e ragionerie centrali, ma anche diplomazie e politici di professione. Il realismo degli stenterelli lascia qualche varco a considerazioni, per così dire, meta-politiche, indispensabili per interpretare la visione che un Paese ha di se stesso e dei suoi rapporti con gli altri. Certo, la storia insegna poco, poiché tutto muta (fuorché l’uomo), ma può tuttavia orientarci. Se gli “exempla” del passato non possono avere il peso che un Machiavelli attribuiva loro, nemmeno dobbiamo rassegnarci a un guicciardinismo in sedicesimo.
Raccontantoci che tutto è nuovo e solo conta l’esperienza attuale. Così sulla questione decisiva della relazione tra Berlino e mondo latino-mediterraneo è altrettanto sbagliato ricorrere a immagini di maniera, evocando una germanica volontà di potenza, quanto ripetere l’ovvietà che la storia tedesca dell’intero dopoguerra rende culturalmente inconcepibile, prima ancora che concretamente impercorribile, ogni velleità imperiale. Il dilemma proposto da Thomas Mann, “Europa germanica o Germania europea?”, appartiene certo al mondo di ieri, ma ciò non significa che esso non debba essere ripensato. Come storicamente la Germania si è immaginata europea? E tale immagine è ancora efficace? Come l’Europa può essere oggi germanica? O è necessario lottare perché non lo sia?
«La nostra proposta è stata accolta con un silenzio assordante. Più precisamente, l’Eurogruppo e la troika hanno continuato a far credere ai media del mondo che le autorità greche non avevano proposte credibili e innovative da offrire».
Corriere della Sera, 21 luglio 2015 (m.p.r.)
Il 12 luglio, il summit dell’eurozona ha imposto le condizioni della resa al primo ministro greco Alexis Tsipras, che, terrorizzato dalle alternative, le ha accettate tutte. Una di queste condizioni riguardava la cessione dei restanti beni pubblici della Grecia. I leader europei hanno chiesto che i beni pubblici greci siano trasferiti in un fondo equivalente al Treuhand - un’agenzia deputata alla svendita simile a quella usata dopo la caduta del muro di Berlino per privatizzare velocemente, con grandi perdite finanziarie e con effetti devastanti sull’occupazione, tutto il patrimonio pubblico della Germania dell’Est che stava scomparendo. Il Treuhand greco sarebbe situato - udite udite - a Lussemburgo, e sarebbe gestito da un gruppo supervisionato dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, autore del modello. Dovrebbe completare la svendita entro tre anni. Tuttavia, mentre il lavoro del Treuhand originale era accompagnato da un massiccio investimento della Germania dell’Ovest in infrastrutture e trasferimenti sociali su larga scala verso la Germania dell’Est, il popolo greco non riceverà nessun beneficio di alcun genere.
Yanis Varoufakis è l'ex ministro delle Finanze della Grecia
Il testo originale dell'articolo è stato pubblicato da www.project-syndicate.org
L'estrema gravità di una situazione nella quale la smania politica della coppia Merkel/Schäuble di sconfiggere, con Alexis Tsipras, la possibilità di un'Europa diversa da quella a trazione tedesca, e l'ignavia delle socialdemocrazie europee hanno gettato il nostro continente nelle macerie del sogno federalista, il preannuncio di un riemergere dei fantasmi del più feroce passato.
Il manifesto, 21 luglio 2015
Gli «accordi» del 13 luglio a Bruxelles tra l’unione europea e la Grecia segnano la fine di un’epoca? Sì, ma certamente non nel senso indicato dal comunicato conclusivo del «vertice». In effetti gli «accordi» sono fondamentalmente inapplicabili e tuttavia costituiscono una forzatura altrettanto violenta, e ancor più conflittuale, di quanto è già avvenuto negli ultimi cinque anni. Si è parlato di diktat e questa drammatizzazione è basata su fatti concreti.
Le proposte con le quali Alexis Tsipras è arrivato a Bruxelles erano in contraddizione con il risultato del referendum, ma facevano ancora parte di un progetto sul quale aveva l’iniziativa per potere sperare di sviluppare una politica nell’interesse del suo popolo. I suoi «interlocutori» si sono impegnati a far fallire questo tentativo. Il risultato è un anti-piano senza alcuna razionalità economica, che assomiglia a un salasso e a un saccheggio dell’economia nazionale.
Peggio ancora, le misure di «messa sotto tutela» istituiscono un protettorato nell’Unione Europea.
La Grecia non è più sovrana: non nel senso di una sovranità condivisa, che implicherebbe un progresso verso il federalismo europeo, ma nel senso di un assoggettamento al potere del Padrone. Di quale «Padrone» si tratta? Per descrivere il regime che governa oggi l’Europa, il filosofo tedesco Jürgen Habermas ha parlato di «federalismo esecutivo postdemocratico». Ma questo «esecutivo» è occulto e informale. La Commissione ha ceduto il potere all’Eurogruppo, che non dipende da alcun trattato e non obbedisce a nessuna legge. Il suo presidente si limita a essere il portavoce dello Stato più potente.
Questo significa che il nuovo regime non è altro che la maschera dell’imperialismo tedesco?
L’egemonia è senz’altro reale, certo, ma è esposta a numerose contestazioni, tra cui quella della Bce. Prosciugando la liquidità di emergenza, la Bce ha svolto un ruolo determinante, «terroristico», per piegare Atene. Questo non significa tuttavia che la concertazione tra Berlino e Francoforte funzioni sempre, né che gli interessi e le ideologie siano identiche. Questa divisione duratura nell’«esecutivo» europeo fa parte della sua costituzione materiale.
Come ne fanno parte le divergenze tra governo francese e tedesco. È importante capire ciò che li ha separati, senza naturalmente prendere per oro colato le loro giustificazioni. Per quanto riguarda i tedeschi, le ragioni politiche della loro «intransigenza» sono state più rilevanti di quelle economiche. I due schemi del Bundesfinanzministerium: uscita «provvisoria» della Grecia dall’euro, o espropriazione delle sue risorse nazionali, erano in fondo equivalenti, se si considera che l’obiettivo ultimo era (e resta) la caduta di Syriza.
Sul lato francese si era convinti che l’unica maniera per far passare l’aumento dell’austerità tra la popolazione greca era quella di scaricarlo su Syriza. Dopo tutto lo stesso Hollande ha una certa esperienza nel tradimento delle promesse elettorali… Ma la chiave è la preoccupazione evidenziata da Varoufakis: resistere al modo in cui la Germania si è servita della situazione greca per «disciplinare la Francia». Si può dire che, nella notte fatidica, Hollande abbia «vinto» sul mantenimento della Grecia nell’euro, ma abbia «perso» sulle sue condizioni. Quando si conoscerà il seguito di questa vicenda, è probabile che la sua vittoria non lo porterà lontano…
Queste trattative sulle spalle dei greci non hanno evidentemente risolto nessuno dei problemi che sono alla radice della crisi. Anzi, li hanno aggravati.
Il debito europeo accumulato, quello pubblico e soprattutto quello privato, rimane incontrollabile. Volerlo fissare in Grecia non serve ad altro che a farlo aumentare, mantenendo l’insicurezza della moneta comune.
Qualsiasi soluzione si scontra con un problema ancora più preoccupante per il futuro dell’Europa: l’aumento delle diseguaglianze e la loro trasformazione in rapporti di dominio. Un abisso si è allargato in un’«Unione» il cui progetto associava la riduzione delle inimicizie secolari con l’apertura di una prospettiva di prosperità e di complementarità tra i popoli.
Il 13 luglio ha evidenziato soprattutto la gravità del problema democratico in Europa, e della mancanza di legittimità che esso induce. Il più serio degli argomenti sollevati contro le richieste greche è quello che ha ribadito che la «volontà di un solo popolo» non può prevalere su quella degli altri. È incontestabile, ma non ha senso senza un contradditorio al quale tutti i cittadini europei siano invitati a partecipare insieme. La tecnostruttura e le classi politiche dei differenti paesi non vogliono nemmeno sentirne parlare.
Il malessere e la collera generati da questo spostamento di potere verso le istituzioni sovranazionali e gli organismi occulti continueranno così ad aumentare. In «compenso» si è messo in moto un dispositivo inquietante: i contribuenti dei diversi paesi sono stati martellati dall’idea che non smetteranno di «pagare per i greci» e che lo faranno di tasca loro. Questa propaganda genera un potente populismo «di centro» che alimenta le passioni xenofobe in tutto il continente. Sarà l’estrema destra a capitalizzarne i frutti.
In questa situazione, Syriza si trova di fronte a un dilemma terribile. Il memorandum è passato al Parlamento greco perché i vecchi partiti di governo hanno votato a favore, ma con una forte minoranza di oppositori, tra i quali ci sono una trentina di deputati di Syriza. Assumendosi le sue responsabilità, il primo ministro ha dichiarato di «non credere» nelle virtù del piano di Bruxelles, ma che bisognava accettarlo per evitare un «disastro». Ci sono già stati scioperi e manifestazioni. La crisi è aperta e continuerà.
Il principale appoggio «esterno» di cui dispone al momento Tsipras è giunto paradossalmente dal Fondo Monetario Internazionale. Pubblicando la sua analisi sull’insostenibilità del debito greco, chiedendo agli europei di «alleggerirlo», ha avviato una sorta di rinegoziazione strisciante. Ma Schäuble ha subito rilanciato l’idea di una «Grexit temporanea», che ha come posta la stessa appartenenza della Grecia all’Unione Europea.
La situazione interna è quella determinante. Da anni, la società greca si è difesa contro l’impoverimento e la disperazione sviluppando straordinarie lotte e molteplici forme di solidarietà. Ora è esausta, divisa secondo linee che possono divergere brutalmente.
Molto dipenderà dal modo in cui sarà percepita l’azione di governo: come «tradimento» o come «resistenza». È fondamentale che Tsipras abbia perseverato nella decisione di dire la verità. Ha dovuto però fare un rimpasto di governo e annunciare la possibilità di elezioni anticipate, che si presentano come altamente rischiose.
Soggetta a simili tensioni, Syriza resterà unita?
La spinta verso implosione viene dall’esterno, ma anche dai «marxisti» che hanno sempre visto nella Grexit un’occasione da cogliere. Pur legittima, ci sembra che la contestazione non dovrebbe portare a fare il gioco dell’avversario, pretendendo di monopolizzare la potenza espressa dal «No» del 5 luglio, che costituisce la forza del movimento. O l’unità tiene, e allora la dialettica tra attuazione dell’«accordo» e resistenza potrà svilupparsi in forme inedite, in cui un ruolo fondamentale dovrà essere svolto dalla mobilitazione sociale. Oppure cederà, seppellendo la speranza era nata in Grecia, in Europa e nel mondo.
Aggiungiamo solo un’ultima battuta.
Tsipras lo ha detto chiaramente: la soluzione che abbiamo dovuto scegliere non era la migliore, è stata solo quella meno disastrosa per la Grecia e per l’Europa. Questo impegno al servizio dell’interesse comune ci assegna grandi responsabilità. Fino ad oggi, bisogna pur dirlo chiaramente, il nostro sostegno non è stato all’altezza della situazione. Ma la «lunga marcia» per l’Europa solidale e democratica non è finita il 13 luglio 2015. Continuerà anche in Grecia, mentre altri movimenti carichi di speranza ne prenderanno il testimone. L’unione fa la forza.
Il presente testo sarà pubblicato dal quotidiano Liberation in Francia e dal giornale Der Freitag in Germania. Una versione più ampia si può leggere nel sito di Open Democracy.
Traduzione di Roberto Ciccarelli
In uno sgangherato messaggio via Facebook, l’autore delle minacce, il vicepresidente, leghista, del consiglio regionale delle Marche, indegno della carica istituzionale che ricopre, promette «olio di ricino» al «porco di un comunista».
Siamo ormai a un punto di svolta allarmante, con Salvini che vomita quotidianamente ingiurie e cliché razzisti come: «Smettete di coccolare migliaia di clandestini. Accoglieteli in prefettura o a casa vostra, se proprio li volete».
Mentre il sistema di accoglienza dei profughi mostra tutta la sua inadeguatezza, mentre sugli scogli di Ventimiglia il gruppo di giovani esuli continua a resistere da più di un mese, abbandonato da ogni istituzione centrale, il blocco fascioleghista, aizzato da caporioni quali Zaia e Salvini, imperversa da Nord a Sud, guidando la rivolta dei «proprietari del territorio»: marce, molotov, cassonetti incendiati e saluti romani.
Arduo è questa volta giustificare i tentati pogrom con la retorica della guerra tra poveri, sebbene alcuni media persistano. Non siamo in periferie estreme, degradate e abbandonate, ma in un comune tutt’altro che povero, amministrato da un monocolore leghista, e in un sobborgo romano tutto ville e piscine.
In realtà, gli imprenditori politici del razzismo, spalleggiati da quelli mediali, non fanno che legittimare od organizzare proteste che si nutrono di una percezione delirante degli altri: quella che li colloca, simbolicamente e fattualmente, nella sfera dell’estraneità all’umano. Solo così è spiegabile come si possa partecipare o consentire al lancio di sassi e bottiglie contro il furgone che a Casale San Nicola trasportava i diciannove giovani richiedenti-asilo, già sgomenti per aver dovuto abbandonare d’un tratto la sistemazione precedente e terrorizzati dalla torma degli scalmanati.
In realtà, coloro che si sono lasciati guidare dai fascioleghisti niente sanno dei profughi alloggiati o da alloggiare nel «loro territorio»: non ne conoscono neppure le nazionalità. Grazie al martellamento mediale dovrebbero, però, essere edotti dell’epopea che li vede tragici eroi del nostro tempo: la fuga da mondi in fiamme o in sfacelo, l’estenuante traversata perigliosa del Mediterraneo, i cadaveri, anche di bambini, abbandonati alle acque nostre, le madri che sbarcano orfane dei figli e i figli che approdano orfani dei genitori… Ma quel che forse sanno non li muove a pietà, non fa scattare la molla dell’empatia o solo della commiserazione: il delirio produce anche anaffettività, com’è ben noto.
Nulla sanno di ognuno di loro. E di tutti non possono dire neanche che sono ladri e rapitori di bambini, come dicono abitualmente degli «zingari». Eppure li hanno già catalogati come nemici della loro mediocre tranquillità borghese o piccolo-borghese, che essa alberghi nelle ville con piscina di Casale San Nicola oppure in alloggi ordinari di Quinto di Treviso.
Sanno o dovrebbero sapere quali gaglioffi siano i militanti di CasaPound, Forza Nuova, Militia Christi, Fratelli d’Italia, Lega Nord e via dicendo. Eppure è a loro che si affidano «per proteggere il nostro territorio dagli extracomunitari». Così una residente di Casale San Nicola all’inviato del Corriere della Sera, Fabrizio Roncone, in una dichiarazione preceduta dal classico «Noi non siamo razzisti, ma…», sublime per emblematicità razzista.
La molla dell’empatia, ma verso i difensori del loro territorio, è invece scattata nel M5S: una delegazione, costituita da parlamentari e da consiglieri comunali e municipali di Roma, si è affrettata a ricevere il «comitato spontaneo di Casale San Nicola, riunito in presidio».