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«L’Europa è un deserto dove comanda il potere dei creditori». Ancora una considerazione che dimostra quanto lo strangolamento della Grecia da parte dell'Unione europea sia una minaccia per ciascuno di noi.

La Repubblica, 28 luglio 2015

SI PARLA di fallimento dello Stato come di cosa ovvia. Oggi, è “quasi” toccato ai Greci, domani chissà. È un concetto sconvolgente, che contraddice le categorie del diritto pubblico formatesi intorno all’idea dello Stato. Esso poteva contrarre debiti che doveva onorare. Ma poteva farlo secondo la sostenibilità dei suoi conti. Non era un contraente come tutti gli altri. Incorreva, sì, in crisi finanziarie che lo mettevano in difficoltà. Ma aveva, per definizione, il diritto all’ultima parola. Poteva, ad esempio, aumentare il prelievo fiscale, ridurre o “consolidare” il debito, oppure stampare carta moneta: la zecca era organo vitale dello Stato, tanto quanto l’esercito. Come tutte le costruzioni umane, anche questa poteva disintegrarsi e venire alla fine. Era il “dio in terra”, ma pur sempre un “dio mortale”, secondo l’espressione di Thomas Hobbes. Tuttavia, le ragioni della sua morte erano tutte di diritto pubblico: lotte intestine, o sconfitte in guerra. Non erano ragioni di diritto commerciale, cioè di diritto privato.

Se oggi diciamo che lo Stato può fallire, è perché il suo attributo fondamentale — la sovranità — è venuto a mancare. Di fronte a lui si erge un potere che non solo lo può condizionare, ma lo può spodestare. Lo Stato china la testa di fronte a una nuova sovranità, la sovranità dei creditori.

Esattamente come è per le società commerciali. I creditori esigono il pagamento dei loro crediti e, se il debitore è insolvente, possono aggredire lui e quello che resta del suo patrimonio e spartirselo tra loro.

Nell’Antichità, i debitori insolventi potevano essere messi sul lastrico e perfino ridotti in schiavitù dai creditori insoddisfatti. Lo Stato, quando fallisce, si trova in condizione analoga. Tanto più aumenta la sua “esposizione”, tanto meno è in condizione di resistere alle richieste espropriative dei creditori, anche le più pesanti e inimmaginabili. Abbiamo sorriso di Totò che vendeva ai turisti la Fontana di Trevi. La realtà supera la fantasia, se è vero che, tra le possibili garanzie dello Stato debitore, i creditori considerano imprese pubbliche, isole, porti, ferrovie, monumenti, ecc. Quanto sarà valutato il Partenone e, forse, per l’appunto la Fontana di Trevi?

Le armi dei creditori sono la promessa di salvezza e la minaccia di rovina, la carota e il bastone. Lo scenario immediato è la fine della “liquidità” degli istituti di credito, il panico tra i risparmiatori, l’impossibilità per lo Stato di pagare debiti, stipendi, pensioni, la disperazione dilagante; a media scadenza, chiusure e fallimenti d’imprese, disoccupazione, miseria. Chi potrebbe resistere alla forza intimidatrice di una simile catastrofe annunciata e alla forza seduttiva di qualunque prospettiva salvifica, fosse anche accompagnata da condizioni iugulatorie?

È quanto è toccato alla Grecia, con somma drammaticità ed evidenza. Il premier ha chiesto al Parlamento il voto a favore di un insieme di provvedimenti impostigli, ch’egli stesso dichiarava essere contrari al programma politico col quale si era presentato alle elezioni, vincendole. Non s’era mai vista così chiara, in Europa, una tale contraddizione. Egli era lì in base alla forza conferitagli dal suo popolo, confermata in referendum, e doveva smentire se stesso e riconoscere l’esistenza d’un’altra forza, alla quale non poteva resistere. L’imposizione, che lo Spiegel ha definito “catalogo delle atrocità”, comprende cose come le proprietà pubbliche, le misure di alleggerimento del malessere sociale, l’abolizione della contrattazione collettiva, il licenziamento di gruppo, le ipoteche su beni dello Stato, le aliquote Iva, le pensioni, perfino il codice di procedura civile (per rendere più efficace la liquidazione dei beni dei debitori insolventi).

S’è detto, con una certa superficialità: niente di sconvolgente. La Grecia, come tutti i Paesi dell’Unione Europea, ha da tempo accettato limiti alla sua sovranità a favore dell’Europa. La prova cui è sottoposta la Grecia sarebbe perciò una vittoria dell’Europa.

Basta dirle, cose come queste, per comprenderne l’assurdità. E non perché alcuni Stati abbiano fatto la parte del leone (la Germania, gli Stati baltici, ecc.) e altri della pecora, ma per una ragione più profonda: di fronte alla Grecia non c’era l’Europa, ma la finanza che si fa beffe di formalità e competenze codificate. Chi, in Europa, ha preso decisioni non ha agito “in quanto Europa”, ma in quanto rappresentante di interessi finanziari. Al capezzale della Grecia erano in tanti: Banca centrale europea (istituzione indipendente con compiti di equilibrio finanziario della “zona euro”), Fondo monetario internazionale (che si occupa del salvataggio di Stati a rischio in tutto il mondo) e anche — anche — organi vari dell’Europa (Eurogruppo, Eurosummit, il Consiglio europeo). Singoli capi degli esecutivi dei Paesi economicamente più “pesanti”, a tu per tu tra loro (Germania e Francia) hanno svolto la parte decisiva, senza alcun “mandato europeo”. Le “sanzioni” alla fine deliberate non trovano alcun fondamento nei Trattati. La “troika”, che ora ritorna in Grecia come commissaria ad acta, non è organo dell’Europa, è organo de facto degli interessi finanziari che s’intrecciano tra Commissione europea, Bce e Fmi. L’Europa come tale è stata totalmente assente. La condizione della Grecia non è quella di chi si è vista limitare la sovranità perché l’ha ceduta: è quella di chi ha subito il colpo d’un sovrano di tutt’altra specie — che qualcuno ha definito “colonialista finanziario” — con tante teste.

Pecunia regina mundi. L’erosione della sovranità statale a opera della finanza sembra dare ragione a questa tragica massima. Perché tragica? Innanzitutto, perché la finanza, come lo spirito, soffia dove vuole, irresponsabile di fronte alle comunità umane su cui scarica la sua forza, investendo o disinvestendo risorse, senz’altra guida se non l’accrescimento della sua potenza. Agli Stati indebitati e insolventi si può rimproverare il loro spirito di cicale. Ma il potere finanziario, nel suo insieme, vive di indebitamenti e accreditamenti ed è perciò amico delle cicale. Senza cicale e solo con formiche non potrebbe esistere. Onde, è vuoto moralismo il rimprovero d’essersi indebitati, quando proprio i creditori sono interessati al loro indebitamento. In secondo luogo, l’erosione della sovranità è la resa alla legge dei più forti. La sorte dei popoli finisce per essere la risultante dello scontro di forze che hanno, come obiettivo, la propria autoaffermazione. L’arma è la potenza finanziaria. Chi è più ricco è destinato a diventare sempre più ricco e gli altri sempre più poveri. La concentrazione progressiva della ricchezza nelle mani di pochi è sotto gli occhi di tutti. L’idea di un qualche “ordine mondiale” anche solo vagamente orientato alla giustizia è fuori di questo mondo.

E l’Europa? Non è stata pensata dai padri fondatori anche in funzione di un sistema di relazioni internazionali che promuova la pace e la giustizia tra le nazioni, come dice l’art. 11 della nostra Costituzione? Proprio la vicenda greca ha dato voce, ancora una volta, a chi invoca il passo verso la formazione di una vera unità europea, capace di valori politici solidali. Ma, si tratta di vox clamantis in deserto, anzi in un deserto che più arido di così, oggi, non potrebbe essere. Bisognerà forse attendere una crisi ancora più profonda e sconvolgente, perché si tocchi il fondo e, dal fondo, si riesca a intravedere nell’Europa politica un progetto all’ordine del giorno urgente e cogente.

ULa Repubblica, 27 luglio 2015

SANITÀ, TAGLI PER DECRETO
TETTO A ESAMI E VISITE
CHI SFORADOVRÀ PAGARE
di Roberto Petrini

Un pacchetto di emendamenti al decreto “omnibus” enti locali, presentato nei giorni scorsi, darà la prima spinta alla spending review sulla Sanità. Dopo il via libera tecnico-politico giunto con le parole del Commissario alla revisione della spesa pubblica, Yoram Gutgeld, nell’intervista a Repubblica , si accelera la ratifica del piano concordato dalla Conferenza Stato-Regioni del 2 luglio scorso. Il provvedimento arriva oggi in aula al Senato e non è escluso il ricorso alla fiducia per poi passare alla Camera. «No agli allarmismi – ha rassicurato ieri il premier Renzi – sulla sanità si lavora soprattutto alla razionalizzazione e alla riduzione delle centrali di spesa». Mentre le Regioni si mettono in posizione di guardia: «Abbiamo già dato», dicono in coro gli assessori alla Sanità.

In ballo c’è un pacchetto di misure per 2,3 miliardi nel 2015, altrettanti nel 2016 e nel 2017. Importanti, e in qualche caso dolorosi, i provvedimenti che riguarderanno direttamente i cittadini. In primo luogo c’è il taglio delle prestazioni specialistiche (visite, esami strumentali ed esami di laboratorio) non necessarie (nel linguaggio tecnico: non appropriate). Il ministero della Salute con un imminente decreto stilerà la lista delle situazioni e patologie dove analisi e approfondimenti sono necessari,se si è fuori della lista si pagherà di tasca propria. La norma prevede anche una stretta sui medici perché il principo che ispira la razionalizzazione è che bisogna frenare il fenomeno della cosiddetta “medicina difensiva”: medici che per mettersi a riparo da eventuali vertenze giudiziarie, “elargiscono” con facilità analisi e controlli. Da oggi chi sbaglia subirà un taglio allo stipendio.

Lo stesso schema varrà per i ricoveri per riabilitazione: revisione delle tipologie in base alla appropriatezza e pagamento percentuale oltre i giorni di degenza previsti dalle nuove soglie; controlli e penalizzazioni.

Tanto per farsi un’idea: le prestazioni erogate ogni anno dal settore pubblico o privato sono circa 200 milioni: l’obiettivo sarebbe quello di ridurle del 15 per cento con il taglio di circa 28 milioni di prestazioni l’anno. Da questa operazione verrebbero risparmi per 198 milioni di euro l’anno.

C’è poi la questione degli ospedali. E’ previsto, oltre al controllo delle strutture in rosso, l’azzeramento dei ricoveri nelle case di cura convenzionate con meno di 40 posti letto, la riduzione della spesa del personale a seguito del taglio della rete ospedaliera, la riduzione della degenza media e del tasso di ospedalizzazione. Complessivamente: circa 210 milioni di tagli all’anno.

La gran parte dei risparmi verrà tuttavia dalla rinegoziazione dei contratti di acquisto di beni e servizi (con la centrale unica di acquisti) e in particolare dei dispositivi medici. Inoltre sarà costituito presso il ministero della Salute un osservatorio sui prezzi dei dispositivi medici (apparecchi, impianti, sostanze) il cui costo non potrà comunque superare il tetto del 4,4 per cento.

Le Regioni stanno sulla difensiva dopo l’uscita di Palazzo Chi- gi. «Esistono spazi di miglioramento nella sanità, ma li cerchino dove sono: noi abbiamo già tagliato nel 2012», ha detto Luca Colletto, assessore alla Sanità nel Veneto e coordinatore del settore nella Conferenza delle Regioni. Polemica Sonia Viale (Sanità, Liguria): «Questa è la logica del governo: tirano le righe sopra. Sulle Province, sugli ospedali in rosso. Li cancellano. La Liguria e la Lombardia, invece, propongono un modello costruttivo, non distruttivo: mettiamo in condivisione le eccellenze sanitarie delle due regioni». Più cauto Antonio Saitta (Sanità, Piemonte): «D’accordo ci sono margini, ma ricordo che noi siamo stati la prima Regione ad applicare la riorganizzazione della rete ospedaliera». Rincara la dose Fabio Rizzo ( Commissione sanita Lomardia): «Il governo si sveglia tardi, segua l’esempio Lombardo». Vantano passi avanti anche in Toscana: «La centrale unica d’acquisto noi ce l’abbiamo già per tutte le aziende sanitarie », aggiunge Stefania Saccari (Sanità). Persino la Sicilia si chiama fuori: «Per noi il percorso è più facile: abbiamo un avanzo di 30 milioni», dice l’assessore alla Sanità Baldo Guicciardi.

“UN SUPERTICKET PER INTIMIDIRCI”

intervista di RosariaAmato a Costantino Troise, segretario di Anao-Assomed

Chi stabilirà se una prescrizione o un ricovero sono inappropriati e quindi il medico va sanzionato? Secondo Costantino Troise, segretario di Anaao-Assomed, l’associazione dei medici dirigenti, il compito non può certo essere affidato a «un gruppo di tecnocrati», a meno che il vero obiettivo del governo non sia quello di introdurre un nuovo, esoso «superticket» sulla sanità.

Non ci sono margini di razionalizzazione delle prescrizioni secondo voi?
«Esistono sicuramente molte prescrizioni inutili per quel determinato malato in quel determinato momento, ma il metodo per rivederle non è quello di intimidire il medico. Dubito che si possa fare senza i professionisti e contro i professionisti. La strada è quella della legge sulla responsabilità professionale, che invece giace da anni in Parlamento. Dubito fortemente che protocolli o linee guida di Stato messi a punto entro 30 giorni dal decreto possano avere una validità scientifica.».

Eppure anche le Regioni hanno dato il via libera.
«E’ curioso che Regioni e Stato di giorno litighino e di notte si accordino. L ’obiettivo vero di questa norma è quello di fare cassa, introdurre un superticket neanche tanto mascherato che porrà a carico dei cittadini una serie di prestazioni, con conseguente arretramento e impoverimento della sanità pubblica. Già adesso la spesa privata è a 30 miliardi, tra le più alte ».

Il governo calcola risparmi per 100 milioni.
«Non so come si possa dire che si risparmiano 100 o 200 milioni, c’è molta demagogia. È un atteggiamento di controllo dell’operato dei professionisti e sostanzialmente lancia un messaggio: da ora in poi è lo Stato che decide quanto si fa. Aumenteranno la diffidenza verso i medici, il contenzioso e le disuguaglianze, che sono già enormi».

Sarà ancora possibile fare prevenzione?
«La prevenzione porta sicuramente risparmi, ma in un orizzonte molto più lungo di quello elettorale».

Attenta analisi della nascita, crescita e conquista dell'economia da parte del neoliberismo, in una visione gramsciana della lotta per il potere. Come ha fatto a vincere l'ideologia che domina, utilizzando strumenti che la sinistra novecentesca ha gettato alle ortiche (e i vagiti di quelle del nostro secolo stenta a saper usare).

La Repubblica, 27 luglio 2015

Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago. È una montagnola svizzera a pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa. Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza.

Gramsci avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps per conquistare l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think tank specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia, Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”. Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali (tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps, i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ‘90 erano diventati più di mille, sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa. Radicato per lo più nell’accademia, questo intellettuale collettivo non redasse ambiziosi manifesti programmatici (gli “intenti” formulati nel ’47 al momento della fondazione sono una paginetta piuttosto banale, che si può leggere anche oggi identica sul sito della Mps), o grandi progetti di riforme istituzionali. Produsse invece migliaia di saggi e di libri, non pochi di notevole livello, che ruotano tutti intorno ai temi che per i soci della Mps erano e sono l’essenza del neoliberalismo: la liberalizzazione dei movimenti di capitale; la superiorità fuor di discussione del libero mercato; la categorica riduzione del ruolo dello Stato a costruttore e guardiano delle condizioni che permettono la massima diffusione dell’uno e dell’altro.
Grazie a questo immenso e capillare lavoro, verso il 1980 le dottrine economiche e politiche neoliberali avevano occupato tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi. Non è stata ovviamente soltanto la Mps a spendersi a tal fine, ma il suo ruolo è stato soverchiante. Non esagerava uno storico del pensiero neo-liberale (Dieter Plehwe) quando definì la Mps, anni fa, «uno dei più potenti corpi di conoscenza della nostra epoca».

Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori paesi. Ai tempi della presidenza Reagan ( 1981-88), su una ottantina di consiglieri economici del presidente più di un quarto erano della Mps. Le liberalizzazioni finanziarie decise dal governo Thatcher nella prima metà degli anni ‘80, che hanno cambiato il volto dell’economia britannica, furono elaborate in gran parte dall’Institute of Economic Affairs, una filiazione della Mps fondata e diretta da due soci, Antony Fisher e Ralph Harris. I vertici dell’industria francese e tedesca sono sempre stati numerosi nelle fila della Mps, intrattenendo stretti rapporti con i soci provenienti dal mondo politico.

Di rilievo è stata la partecipazione italiana alla Mps. Tra i suoi primi soci vi è stato Luigi Einaudi. Due italiani sono stati presidenti: Bruno Leoni (1967-68) e Antonio Martino (1988-1990) che figura tuttora fra i soci, accanto a (salvo errore), Domenico da Empoli, Alberto Mingardi, Angelo Maria Petroni, Sergio Ricossa.

Due caratteristiche segnano fortemente l’egemonia della Mps sulla cultura e la prassi economico- politica degli Stati europei a partire dagli anni ’80. La prima è la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero — specie in economia. Il keynesismo, fin dalle origini l’arcinemico dalla Mps, è stato ridotto all’insignificanza, e con esso quello di Schumpeter, di Graziani, di Minsky.

Sopravvivono qui e là in qualche dipartimento universitario, ma nella politica economica della UE contano zero. A forza di liberalizzazioni ispirate dalla cultura Mps, il sistema finanziario domina la politica non meno dell’economia — come ha dimostrato per l’ennesima volta il caso greco. I sistemi pubblici di protezione sociale sono in corso di avanzata demolizione: non servono, anzi sono nocivi, poiché ciascun individuo, secondo la cultura neoliberale, è responsabile del suo destino. La scuola e l’università sono state riformate, a partire dalla Germania per finire con l’Italia, in modo da funzionare come aziende. Wilhelm von Humboldt si starà rivoltando nella tomba.

La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale formato Mps è la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno 15 anni. I primi anni 2000 hanno visto il crollo delle imprese dot.com, glorificate dagli economisti neolib, che in nove casi su dieci erano trovatine su cui le borse, in nome dell’ipotesi che i mercati sono sempre efficienti, scommettevano miliardi di dollari. I secondi anni 2000 hanno invece assistito al quasi crollo dell’economia mondiale, minata dalla finanza basata deliberatamente su milioni di mutui ipotecari che le famiglie non avevano i mezzi per ripagare.

Dopo il 2010, gli economisti neoliberali e i politici da loro indottrinati hanno imposto alle popolazioni della UE le politiche di austerità, rivelatesi un fallimento totale a giudizio dei loro stessi promotori. In sintesi, gli economisti formato Mps hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la grande crisi; non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla, e hanno proposto rimedi che hanno peggiorato la situazione. Ad onta di tutto ciò, continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della UE.

Se uno potesse chiedere a Gramsci come mai le sinistre europee comunque denominate, a cominciare da quelle italiane, sono state travolte senza opporre resistenza dall’offensiva egemonica del neoliberismo partita nel 1947 dal Mont Pélerin, forse risponderebbe «perché non li avete saputi imitare ». Al fiume di pubblicazioni volte ad affermare l’idea dei mercati efficienti non avete saputo opporre niente di simile per dimostrare con solidi argomenti che i modelli con cui si vorrebbe comprovare tale idea si fondano su presupposti del tutto inconsistenti.

Inoltre, proseguirebbe Gramsci, dove sono i vostri articoli e libri che rivolgendosi sia agli esperti che ai politici e al largo pubblico si cimentano a provare ogni giorno, con solidi argomenti, la superiorità tecnica, economica, civile, morale della sanità pubblica su quella privata; delle pensioni pubbliche su quelle private, a fronte degli attacchi quotidiani alle prime dei media e dei politici, basati in genere su dati scorretti; dello Stato sulle imprese private per produrre innovazione e sviluppo, oggi come in tutta la seconda metà del Novecento; dell’importanza economica e politica dei beni comuni sull’assurdità della privatizzazioni?

Poiché la natura ha orrore del vuoto, il vuoto culturale, politico, morale delle sinistre è stato via via riempito dalle successive leve di lettori, elettori, docenti, funzionari di partito e delle istituzioni europee, istruite dall’intellettuale collettivo sortito dalla Mps. Il consenso bisogna costruirlo, e la MPS ha dimostrato di saperlo fare. Le sinistre non ci hanno nemmeno provato.

Il manifesto, 26 luglio 2015

Alleanze regio­nali sì, ma nes­suna intesa a livello sta­tale con Izquierda unida (Iu): così si è espressa la «base» di Pode­mos. Il risul­tato della con­sul­ta­zione on line, dif­fuso ieri pome­rig­gio, non lascia spa­zio a dubbi: l’85% dei votanti (45 mila in totale) ha aval­lato la stra­te­gia pro­po­sta dal lea­der Pablo Igle­sias e dalla mag­gio­ranza del gruppo dirigente.

Tra­monta quindi – salvo sor­prese – l’opzione soste­nuta dal gio­vane numero uno di Iu, Alberto Gar­zón: una lista di «unità popo­lare» sul modello di quelle pre­sen­tate, con suc­cesso, alle scorse ele­zioni comu­nali (con la rile­vante ecce­zione di Madrid, dove Iu non c’era).

Casua­lità vuole che l’annuncio dell’esito della con­sul­ta­zione degli iscritti di Pode­mos abbia coin­ciso con la dif­fu­sione di un son­dag­gio dell’autorevole isti­tuto Metro­sco­pia, pub­bli­cato sulla pagina web del quo­ti­diano El País.

Se si votasse oggi, il Par­tito socia­li­sta (Psoe) otter­rebbe il 23,5%, in lieve van­tag­gio sul Par­tido popu­lar (Pp) del pre­mier Mariano Rajoy, al 23,1%. Più distanti, Pode­mos (18,1%) e i cen­tri­sti di Ciu­da­da­nos (16%), a chiu­dere Iu con il 5,6%. Salta agli occhi che la somma di Pode­mos e Iu situe­rebbe l’ipotetica lista di «unità popo­lare» davanti a tutti gli altri, sep­pur di pochis­simo, con il 23,7%.

Occorre chie­dersi, tut­ta­via, se una lista di tal genere otter­rebbe real­mente la stessa quan­tità di con­sensi deri­vante dall’addizione delle pre­fe­renze otte­nute sepa­ra­ta­mente. La que­stione è vec­chia come la poli­tica stessa: unirsi sotto le stesse inse­gne porta bene­fici o, al con­tra­rio, allon­tana poten­ziali elet­tori? Ogni situa­zione fa sto­ria a sé, e nes­suno, ovvia­mente, può essere sicuro di avere la rispo­sta giusta.ù

E dun­que, Igle­sias e com­pa­gni sono con­vinti che pre­sen­tarsi alle urne insieme a Iu non gio­ve­rebbe, men­tre Gar­zón è dell’opinione oppo­sta. Natu­ral­mente, la spro­por­zione fra Pode­mos e Iu con­di­ziona nega­ti­va­mente il con­fronto, dal momento che il dise­gno di Iu è anche inter­pre­ta­bile come un mal­de­stro ten­ta­tivo di «salire sul carro dei vin­ci­tori»: ed è esat­ta­mente così che la vede Iglesias.

In ogni caso, i media main­stream già suo­nano la gran­cassa della «crisi di Pode­mos», dal momento che a gen­naio i son­daggi attri­bui­vano alla nuova for­ma­zione il 28% dei suffragi.

Fra le spie­ga­zioni addotte, il senso di rifiuto che genera il lea­der Igle­sias, che è per­ce­pito – secondo le ana­lisi dei son­dag­gi­sti di Metro­sco­pia – come figura inca­pace di acqui­stare con­sensi tra­sver­sali: un per­so­nag­gio «divi­sivo», si direbbe nel les­sico poli­tico ita­liano delle lar­ghe intese. Più apprez­zati – sem­pre stando alle ana­lisi demo­sco­pi­che divul­gate da El País – il socia­li­sta Pedro Sán­chez e Albert Rivera di Ciu­da­da­nos, per­ché tra­smet­te­reb­bero l’idea di essere più dispo­ni­bili a cer­care i neces­sa­rie com­pro­messi con altre forze. Boc­ciato senza appello il pre­mier Rajoy, che sem­bra ormai irri­me­dia­bil­mente avviato sul viale del tra­monto. Non prima, però, di avere dato gli ultimi vele­nosi colpi di coda.

A set­tem­bre entrerà in vigore – salvo che il Senato, a sor­presa, la bocci – la «legge per la sicu­rezza nazio­nale»: una norma che pre­oc­cupa molto le opposizioni.

Uffi­cial­mente, deve ser­vire a dotare il governo cen­trale di poteri spe­ciali in casi di pan­de­mie, disa­stri natu­rali o gravi minacce ter­ro­ri­ste. In realtà, sono in molti a sospet­tare che Rajoy voglia uti­liz­zarla anche con­tro even­tuali azioni «sepa­ra­ti­ste» del governo di Bar­cel­lona. Il 27 set­tem­bre ci saranno le cru­ciali ele­zioni regio­nali in Cata­lo­gna, da cui potrebbe emer­gere una volontà mag­gio­ri­ta­ria di sepa­rarsi dal resto della Spa­gna. Per l’indipendentista Joan Tardá, depu­tato di Esquerra repu­bli­cana de Cata­lu­nya (Erc), «il pre­mier potrebbe porre al pro­prio diretto ser­vi­zio i Mos­sos (la poli­zia auto­noma cata­lana, ndr) e tutti i fun­zio­nari della Gene­ra­li­tat cata­lana con un sem­plice decreto». Pre­oc­cu­pati per l’eccesso di potere che la norma con­fe­ri­sce al governo sono anche i nazio­na­li­sti baschi del Pnv (centro-destra non indi­pen­den­ti­sta) e Iu. Favo­re­voli, con qual­che riserva, i socia­li­sti, con­vinti che non metta in peri­colo le auto­no­mie regionali.

Bisogna rovistare nelle cronache locali, ma accanto ai razzisti, agli xenofobi, ai neonazisti e agli ipocriti si trovano anche italiani puliti, e perciò solidali. Questa volta li abbiamo trovati alla periferia di Milano.

La Repubblica, ed Milano, 26 luglio 2015

C’e l’Italia che protesta contro i profughi, e quella che si mette in ferie per aiutarli. Succede a Bruzzano, estrema periferia nord di Milano, alla parrocchia della Beata Vergine Assunta di via Acerbi, dove da due notti sono ospiti 60 fra eritrei, sudanesi, nigeriani, somali e altri ne arriveranno, fino alla fine del mese . Profughi che arrivano a Milano dopo un lungo viaggio attraverso mari e deserti, paesi in guerra e carneficine. Per loro, il parroco di questa chiesa di frontiera ha aperto la palestra, allestita con brandine della Protezione civile e ha creato una mensa, nella stessa sala dove a giugno mangiavano i bambini dell’oratorio di San Luigi.

È stato don Paolo Selmi assieme a don Vittorio Marelli, parroco di una chiesa nella vicina Affori (che l’estate scorsa aveva fatto la stessa esperienza ospitando centinaia di asilanti), a proporre ai suoi fedeli e al quartiere, a giugno, durante un’assemblea aperta, di aprire le porte ai profughi. «La risposta è stata subito entusiastica - racconta il “don”, ora che i migranti sono arrivati - . Quella sera avevamo preparato 40 sedie, abbiamo dovuto aggiungerne altrettante. E nei giorni successivi, siamo stati sommersi da richieste di partecipazione». L’assessore alla Sicurezza, Marco Granelli, che abita nel quartiere, è stato subito coinvolto e ovviamente ha accettato la proposta di mandare qui i profughi che arrivano in Centrale, all’hub che da poche settimane è stato inaugurato in via Tonale.

«Io mi chiamo Cristiana, ho 23 anni, e un bambino di due, che mi aspetta al mio paese, in Africa - racconta una ragazza dagli occhi grandi, che viene dalla Nigeria - . Sono venuta in Italia perché nel mio Paese c’è la guerra, mio marito è stato ammazzato, la mia famiglia è dispersa. Ho speso 2mila euro per arrivare fino a qua. Ho visto di tutto, la morte, la fame, la tortura. Ho gli occhi pieni di paura ». Storie come questa si raccolgono fra le persone che siedono nel grande cortile cortile alberato della chiesa, dove si aggira anche un accaldato don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, che darà alla parrocchia il sostegno dei mediatori culturali e degli operatori professionali fino alla fine del mese. «Abbiamo voluto fare questa proposta di solidarietà concreta alla città - spiega don Colmegna - perché abbiamo voglia di dare un messaggio di solidarietà e di speranza, di gioia e di fiducia, senza nessuna pretesa di risolvere l’emergenza che certo è molto più ampia di quel che vediamo qua, di quel che possiamo risolvere noi, offrendo al massimo 80 posti letto a notte. Ma l’importante è dare un segnale, dare l’esempio di una solidarietà gratuita».

Non ci sono convenzioni col Comune o con la Prefettura a coprire i costi di questa iniziativa, che i promotori hanno deciso di finanziare “dal basso”, facendo la colletta nel quartiere, attraverso il sito di Casa della Carità, e chiedendo ai cittadini di portare vestiti e generi di prima necessità. «I costi umani invece li mettiamo noi - scherza Attilio Cattaneo, 75 anni, volontario con lunga esperienza di servizio in parrocchia - . Tutto nostro è il piacere di far del bene a qualcuno che ha bisogno, senza stare a guardare il colore della pelle, il numero sul passaporto». Come il signor Attilio sono in tanti i cittadini di Bruzzano a darsi da fare. Fra loro anche molti giovani come Andrea Percivalli, 21 anni, studente: «Mi sembrava un bel modo per trascorrere l’estate sentendomi utile», dice con qualche timidezza. Sembrano tutti amici, tutti uniti dallo stesso desiderio di aiutare. «La politica la lasciamo fare ai politici, noi siamo qui perché ci piace far del bene in questa società in cui sembra che tutto vada male », dice il signor Lorenzo Gaglio, 58 anni, impiegato, che farà le ferie in chiesa in mezzo ai profughi, con la sorella Annalisa, medico, e la moglie Matilde. Marito e moglie avevano già lavorato con i rifugiati l’anno scorso ad Affori. «E questa volta abbiamo coinvolto nella compagnia anche la cognata», sorridono le due donne, a cui sembra normalissimo passare così le vacanze invece che in spiaggia sotto all’ombrellone.

E nessuno protesta? «C’è stato un po’ di dibattito sulla pagina Facebook del quartiere, nelle prime settimane. Credo che chi ha protestato abbia paura, ma soprattutto non conosca il fenomeno e abbia pregiudizi infondati - confessa don Paolo Selmi - . Ma sinceramente su poche voci critiche, sono prevalse le tante voci contente che ci mettessimo in questa iniziativa. C’è voglia di fare, di non stare a guardare».

Yusuf viene dall’Eritrea e parla in tigrino col mediatore culturale Tsehaies Woldeab, 46 anni, che di profughi ne ha visti passare tanti in questi mesi: «Hanno solo bisogno di ascolto, è gente che non farebbe mai male a nessuno. Hanno sofferto troppo. Aiutarli dovrebbe essere per tutti la cosa più naturale da fare».

La Repubblica, 23 luglio 2014

SI DICEVA anni fa, “non lasciamo la patria alla destra”. La competizione tra destra e sinistra riguardava allora la visione di comunità politica. In quel caso, la sinistra democratica sviluppò, grazie anche alla lungimiranza di intellettuali visionari come Jürgen Habarmas, l’idea di “patriottismo costituzionale”. La patria non era una comunità identitaria che escludeva e discriminava, ma una comunità politica di condivisione di diritti eguali e di dignità. Si trattò di una grande competizione, che liberò la sinistra dalle maglie strette della classe e la legittimò a governare la società liberale. Oggi lo stesso discorso sembra doversi fare sulla questione delle tasse. Si dice, “non lasciamo la battaglia per meno tasse alla destra”. Ovviamente la destra della lotta alle tasse non è quella comunitaria che voleva monopolizzare la patria. È invece quella che mette al centro l’individuo in funzione anti-sociale. Competere con una destra iper-liberale non è lo stesso che competere con una destra comunitaria e nazionalista.

Dalla fine degli anni ’70 la rinascita neoliberale o liberista è avvenuta sul terreno della contestazione della spesa sociale e quindi nel nome di “meno stato più mercato” — la premessa per giustificare il taglio delle tasse. La filosofia di Margaret Thatcher fu in questo rivoluzionaria e occupò il Palazzo d’Inverno per mettere in pratica il suo programma organico di smantellamento del welfare state: deregolamentando e privatizzando. La ridefinizione del pubblico fu tutt’uno con la politica di taglio delle tasse. Alla base di quella riscossa vi era una ridefinizione generale degli obblighi che gli individui riconoscono gli uni agli altri; vi era una filosofia dell’individuo che considerava gli altri o come ostacoli o come agenti competitivi e la società come un’astrazione, se identificata con qualcosa di più di un’aggregazione di egoisti competitori votati al massimo profitto con il minimo sforzo. Dicendo che non esiste la società ma esistono solo gli individui, la Iron Lady intendeva dire che nessuno ha obblighi verso gli altri mentre tutti hanno solo diritti e, in relazioni a questi, obblighi legali. Al centro vi era il diritto al perseguimento della felicità individuale e quindi alla conquista dei mezzi materiali per la realizzazione dei propri piani di vita.

Il liberalismo economico aveva una radicale connotazione individualistica, e questo lo rendeva forte nell’affermazione dei diritti civili, nella convinzione che questi avrebbero sgretolato la cultura autoritaria e paternalista ed espanso l’orizzonte di possibilità per il singolo. Non tutto quel che il liberalismo economico proponeva era dunque negativo. Nella mezza verità liberista c’era un granello di verità, quello del valore propulsivo dei diritti individuali. Fu del resto questa sua interna complessità a rendere il discorso liberista egemonico, capace di conquistare consensi anche a sinistra. La quale, nell’era liberista, ha dovuto rivedere parte del suo armamentario ideologico per riuscire a contestare la destra sul terreno della redistribuzione e della giustizia sociale, accogliendo invece il messaggio liberatorio e liberante dei diritti, soprattutto nella sfera della morale soggettiva e dei comportamenti individuali. Si trattava quindi non di rifiutare l’individualismo, ma di interpretarlo in modo da separare la questione morale e giuridica dei diritti da quella sociale delle opportunità o di giustizia redistributiva.

Non lasciare la questione della diminuzione della pressione fiscale alla destra deve essere inscritto in questa prospettiva — senza sposare l’individualismo egoistico ma interpretando l’individualismo in chiave democratica, come ricettivo rispetto agli altri, cooperatore e disposto a condividere costi e benefici in cambio di solidarietà sociale e contenimento del conflitto. A questa visione emancipatrice dell’individualismo corrisponde una visione di eguaglianza che è proporzionale, e quindi progressiva: a questa visione la politica fiscale dovrebbe essere connessa, come del resto propone la nostra Costituzione. Una visione che respinge la logica liberista della flat tax la quale tratta tutti indistintamente come identici, e che è attenta alle condizioni delle singole persone, per cui chi più ha più con-tribuisce, non tanto o soltanto perché questo è quanto l’etica della solidarietà chiede, ma anche perché chi più ha da perdere chiede anche più in termini di protezione dei diritti alla società e allo Stato. Progressività e proporzionalità sono le coordinate di una politica redistributiva che riesce a tagliare le tasse proprio perché vuole fare giustizia della pressione sproporzionata e ingiusta. Non tutte le prime case sono eguali nel valore e negli oneri che impongono alla società — trattarle come identiche è una semplificazione molto ingiusta.

La politica fiscale è quindi una straordinaria opportunità per marcare il territorio ideologico tra destra e sinistra, tra un individualismo radicale che racconta la favola del trickle down (detassiamo chi più ha affinché investa e porti giovamento a chi meno ha) e un individualismo che ha invece un profondo rispetto per la specificità delle persone, di quel che hanno e producono, che sa essere proporzionale nel valutare obblighi e oneri, che insomma pensa alla società come a un coordinamento di diversi, una grande impresa cooperativa nella quale gli individui non sono identici benché eguali nei diritti.
«Beni comuni. La grande stampa in soccorso del nuovo ciclo di privatizzazioni promosso dal governo Renzi colpisce direttamente i beni di appartenenza collettiva». Una reazione alla crescente diffusione dell'idea (rivoluzionaria per l'ideologia corrente), che alcuni beni non possono essere ridotti a merci.

Il manifesto, 25 luglio 2015

È appena stata bat­tez­zata la nuova tribù degli “anti­be­ni­co­mu­ni­sti” capi­ta­nati dall’Istituto Bruno Leoni e pro­mossa da Pier­luigi Bat­ti­sta sulla grande stampa (il Cor­riere della Sera di gio­vedì scorso). L’obiettivo è impu­tare al “beni­co­mu­ni­smo” di essere la «solita mine­stra sta­ta­li­sta e diri­gi­sta che ha nutrito per oltre un secolo la sini­stra». Si tratta di una for­mi­da­bile misti­fi­ca­zione, ma ancor più signi­fica non com­pren­dere pro­prio il carat­tere inno­va­tivo e con­tem­po­ra­neo che sta alla base della teo­ria e dei movi­menti dei beni comuni.

Per dirla in estrema sin­tesi, è evi­dente che Bat­ti­sta è poco avvezzo ad un pen­siero che si situa den­tro la spe­ci­fi­cità del capi­ta­li­smo finan­zia­rio e della sua crisi e che si distan­zia pro­prio da un’idea di pub­blico sta­ta­li­sta che ha acco­mu­nato la cul­tura della sini­stra nove­cen­te­sca, sia quella di estra­zione comu­ni­sta che di quella socialdemocratica.

La vera novità espli­ci­tata dalla teo­ria e dai movi­menti dei beni comuni, in oppo­si­zione al modello neo­li­be­ri­sta, sta pro­prio nel vedere la gene­rale mer­ci­fi­ca­zione dei beni e dell’attività umana e, dun­que, nell’affermare che i beni ad appar­te­nenza col­let­tiva alla base dei diritti umani fon­da­men­tali non pos­sono essere con­se­gnati al mer­cato e che, anzi, vanno gestiti in modo dif­fuso e partecipato.

Se pro­prio si vuole tro­vare un ante­ce­dente illu­stre in quest’approccio, più che a Prou­d­hon, biso­gna guar­dare a Pola­nyi che , non a caso, scrive sulla grande crisi del capi­ta­li­smo degli anni ’30 del secolo scorso, e che già allora evi­den­zia che quando si vuol ridurre lavoro, terra (e cioè beni comuni) e moneta pura­mente a merce, essi si pren­dono la loro rivin­cita e rive­lano come il mer­cato auto­re­go­lan­tesi sia, con­tem­po­ra­nea­mente, una grande costru­zione arti­fi­ciale e una grande illusione.

Ma quello che mi spinge a pren­dere in con­si­de­ra­zione il ragio­na­mento di Bat­ti­sta non sta tanto nel misu­rarsi su que­sti temi di fondo, quanto il suo intento dichia­rato di voler sfer­rare un’offensiva con­tro l’ “ideo­lo­gia dei beni comuni”, pren­dendo atto che essa ha segnato diversi punti a suo favore, e di chie­dere che la poli­tica si spenda con forza su que­sta strada. Per fare que­sto Bat­ti­sta non esita a ricor­rere ad acco­sta­menti per­lo­meno arditi, come quando riduce il tema della demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva ad una sorta di con­fuso assem­blea­ri­smo, che poi si tra­duce nel rispol­ve­rare il vec­chio luogo comune — que­sto sì– per cui pic­cole avan­guar­die mili­tanti si sen­tono inve­stite della volontà popo­lare. Soprat­tutto arriva a soste­nere che i refe­ren­dum sull’acqua del 2011 sareb­bero stati, in buona sostanza, una gran­diosa ope­ra­zione mani­po­la­tiva da parte di una pic­cola schiera di intel­let­tuali che avreb­bero fal­sa­mente pro­pi­nato al popolo che era in campo l’intenzione di pri­va­tiz­zare l’acqua e il ser­vi­zio idrico.

A parte qua­lun­que con­si­de­ra­zione sul fatto che vivremmo in un’epoca in cui il “popolo bue” si lascia incan­tare da qual­che paro­laio e, ancor più, il disprezzo che tra­pela per un isti­tuto, come quello refe­ren­da­rio, che ha visto comun­que pro­nun­ciarsi in modo ine­qui­voco la mag­gio­ranza asso­luta dei cit­ta­dini ita­liani, è troppo chie­dere al nostro di andare sem­pli­ce­mente a rileg­gersi il decreto Ron­chi, che venne appunto abro­gato da quel pro­nun­cia­mento? E’ troppo ricor­dar­gli che quel prov­ve­di­mento avrebbe obbli­gato tutte le società di pro­prietà pub­blica a far entrare i sog­getti pri­vati, entro la fine del 2011, nel capi­tale sociale delle stesse, in una misura non infe­riore al 40%?

E che dare la gestione del ser­vi­zio idrico a sog­getti pri­vati, con­sen­tire ad essi di rea­liz­zare pro­fitti in quest’attività, equi­vale esat­ta­mente a pri­va­tiz­zare l’acqua?

Il fatto è che biso­gna alli­neare la grande stampa al nuovo ciclo di pri­va­tiz­za­zione pro­mosso diret­ta­mente dal governo Renzi e affi­dato con­cre­ta­mente alle grandi mul­tiu­ti­li­ties quo­tate in Borsa. E ciò, come dimo­stra l’esperienza con­creta e quella che si rea­liz­zerà se que­sto dise­gno andrà in porto, non solo com­porta le con­se­guenze nega­tive dei clas­sici pro­cessi di pri­va­tiz­za­zione, come l’incremento delle tariffe, il calo dell’occupazione, il decre­mento degli inve­sti­menti, il peg­gio­ra­mento della qua­lità del ser­vi­zio, ma anche quelle nuove, quando sono pro­mosse da grandi sog­getti finan­zia­riz­zati, non radi­cati nei ter­ri­tori e orien­tati dalla quo­ta­zione in Borsa, e cioè in par­ti­co­lare la per­dita di qua­lun­que ruolo deci­sio­nale degli Enti locali e della pos­si­bi­lità di espres­sione demo­cra­tica dei cittadini.

Del resto, quest’impostazione, che indi­vi­dua nel “socia­li­smo muni­ci­pale” uno dei nodi da aggre­dire nel nostro paese per farlo avan­zare sulla strada della moder­niz­za­zione, non a caso incon­tra una chiara sin­to­nia con quanto ci spiega il neo­di­ret­tore dell’Unità Era­smo De Ange­lis, dalle colonne del gior­nale, per cui il nostro sarebbe rima­sto l’unico Paese model­lato sull’esperienza del socia­li­smo reale.

Infine, non si può sot­ta­cere come que­sta spinta ideo­lo­gica mira anche ad attac­care l’idea dell’esistenza di diritti fon­da­men­tali, come quello del diritto all’acqua. Come inter­pre­tare se non in que­sta chiave, ad esem­pio, alcuni fatti di que­sti giorni, quello per cui il sin­daco di Bolo­gna viene inda­gato dalla Pro­cura per­ché aveva dispo­sto l’allacciamento all’acqua in alcuni sta­bili occu­pati in quella città o il fermo di alcuni atti­vi­sti che si sono oppo­sti al distacco dell’erogazione dell’acqua ad uno spa­zio occu­pato a Roma per tra­sfor­marlo in cen­tro di aggre­ga­zione del quartiere?

In ogni caso, Bat­ti­sta può stare tran­quillo: non saranno le inter­pre­ta­zioni di comodo, le misti­fi­ca­zione della realtà, l’accondiscendenza nei con­fronti dei poteri forti ad arre­stare un pro­cesso che affonda le sue radici, mate­riali e sog­get­tive, nelle tra­sfor­ma­zioni radi­cali e regres­sive che ci con­se­gna non il socia­li­smo muni­ci­pale, ma il capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta. Soprat­tutto se, come mi auguro e come esi­stono le con­di­zioni per rea­liz­zarlo già nei pros­simi mesi, le ragioni dei beni comuni, del lavoro, di un rin­no­vato Stato sociale, acco­mu­nate dall’idea dell’universalimo dei diritti della per­sona, sapranno incon­trarsi e ren­dere cre­di­bile l’idea di un modello pro­dut­tivo e sociale alter­na­tivo a quello che le éli­tes domi­nanti, in Europa come nel nostro Paese, con­ti­nuano a pro­porci come l’unico possibile.

Travolta dai marosi dei vaniloqui, affogata nell'oceano sconfinato delle chiacchiere ipocrite, è stata sepolta nelle acque innocenti del mare la solidarietà europea. I fatti, le accuse e le domande dell'eurodeputata italiana. Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2015
Dopo il naufragio del 18 aprile, l’Unione si impegnò a intensificare l’attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, e il 25 maggio l’agenzia europea Frontex annunciò la firma del nuovo piano della missione Triton che, con maggiori mezzi e fondi, avrebbe portato soccorso a 138 miglia marittime a sud della Sicilia, quasi quintuplicando il proprio raggio d’azione.

Durante il periodo estivo, in cui normalmente si assiste al picco degli sbarchi, “Triton schiererà , 6 navi d’altura, 12 pattugliatori e 2 elicotteri”, affermò il direttore esecutivo Fabrice Leggeri, “così da sostenere le autorità italiane nel controllo delle frontiere marittime e nel salvataggio di vite umane”. Pareva che le navi di numerosi Stati membri avessero dato vita a una missione umanitaria, una sorta di Mare Nostrum europeo, e in giugno non si registrò nessuna morte per naufragio. Ma i tempi d’impegno erano circoscritti a poche settimane. A fine mese, dopo aver salvato più di tremila naufraghi, la Marina britannica ha ritirato la nave da guerra Bulwark, che poteva caricare fino a 800 persone, e l’ha sostituita con l a nave oceanografica Enterprise, che può caricarne 120. Dopo il 30 giugno sono scomparse anche le navi tedesche Schleswig-Holstein e Werra.

Dall’inizio di luglio sono riprese le morti in mare. Almeno dodici persone sono annegate nel naufragio di quattro barconi nel Canale di Sicilia e più di cento cadaveri sono stati recuperati dalla Guardia costiera libica nel tratto di mare antistante Tripoli, nel sostanziale disinteresse dei media.

L'Unione europea in fuga. Rimangono le ONG

A soccorrere i naufraghi non c’era Frontex, non c’era l’Unione Europea, ma le tre navi umanitarie private di Migrant Offshore Aid Station (Moas), Medici Senza Frontiere e Sea-Watch, assieme alle unità della Guardia costiera e della Marina militare italiana, e alle poche navi rimaste degli Stati membri, la cui appartenenza organica alla missione Triton è tutt’altro che chiara, poiché sui rispettivi siti governativi risultano essere messe a disposizione dai singoli Stati, sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana. Lo stesso vale per la nave irlandese LÉ Niamh, per la cui opera di salvataggio non si fa riferimento all’operazione Triton-Frontex, ma a “operazioni congiunte con la Marina italiana”. Il quadro offerto dall’equipaggio della ong tedesca Sea-Watch, che con la sua nave ha salvato 587 persone in 6 giorni, è allarmante: “Non abbiamo passato un solo giorno in mare senza aver effettuato soccorsi, abbiamo incontrato la nave di Msf e quella del Moas, ma non abbiamo visto una sola nave di Triton né di Eunavfor Med. [...] L’Unione europea non sembra prendere sul serio il soccorso in mare. [...] Ci sentiamo abbandonati dall’Unione e dal governo federale”.

Il 1° luglio è avvenuto un passaggio di consegne tra l’operazione Triton e la missione Eunavfor Med di cui ancora non si conoscono con chiarezza i contenuti operativi; quel che sappiamo è che si è creato un vuoto denso di conseguenze. I segnali sono davanti ai nostri occhi, benché generalmente ignorati dai mezzi di comunicazione: il 2 luglio, 904 migranti sono stati recuperati e condotti nel porto di Reggio Calabria dalla nave Dattilo della Marina militare italiana; il 9 luglio, 12 cadaveri sono stati recuperati in mare e 500 naufraghi sono stati salvati dalla Guardia costiera italiana; il 14 luglio, più di cento cadaveri di migranti subsahariani sono stati raccolti dalla guardia costiera libica davanti alle coste tripoline; il 16 luglio, 835 persone partite dalle coste libiche sono state recuperate dalla nave Dattilo nel corso di quattro distinti naufragi nel Canale di Sicilia; il 17 luglio, una motovedetta della Guardia costiera partita da Lampedusa ha tratto in salvo duecento migranti; il 19 luglio, la nave di Medici Senza Frontiere ha salvato 129 persone, tra cui 13 donne e 12 bambini; il 22 luglio, la nave della Marina militare irlandese LÉ Niamh ha sbarcato 370 naufraghi a Palermo. Sempre il 22 luglio, un pattugliatore della Guardia costiera italiana ha salvato 578 migranti e li ha sbarcati a Messina. Ancora il 22 luglio, a Lampedusa, la Guardia costiera italiana ha salvato 414 migranti naufragati a bordo di quattro diversi gommoni, tra loro c’erano quattro neonati. Il 23 luglio la nave militare tedesca Holstein ha sbarcato ad Augusta 283 profughi che hanno fatto naufragio su tre diversi gommoni. Decine i morti.

Tre domande urgenti per la commissione europea

La Commissione, secondo le dichiarazioni di Leggeri, avrebbe “dotato Frontex di 26.25 milioni di euro aggiuntivi per rafforzare le operazioni Triton in Italia e Poseidon in Grecia”, ma non c’è chiarezza sulla destinazione e l’uso di quei fondi. Il bilancio di Frontex comprende i salvataggi effettuati dalla Guardia costiera italiana e dalle altre unità navali dei singoli Stati membri? Quali e quante navi operano nel Mediterraneo, e con che inquadramento nella missione Triton? Soprattutto: quali disposizioni sono previste perché l’Unione europea non si renda complice di altre sciagure in mare durante le prossime settimane di luglio e di agosto?

«ational Review un articolo che ripercorre tutti i difetti del caccia che l’Italia si è impegnata ad acquistare senza discussioni. La critica? Costa troppo e non funziona

La «peg­giore minac­cia alla sicu­rezza degli Stati uniti da trent’anni a que­sta parte» non è l’ultima por­tae­rei cinese, i silen­ziosi sot­to­ma­rini die­sel nor­d­co­reani o i satel­liti spia russi, è… l’F35. Un «pro­gramma inge­sti­bile, inso­ste­ni­bile e che non rag­giun­gerà mai i suoi obiet­tivi mili­tari», «stac­care la spina a que­sto peri­co­loso spreco di denaro non avverrà mai troppo tardi». Non sono slo­gan della cam­pa­gna pre­si­den­ziale del socia­li­sta demo­cra­tico Ber­nie San­ders, ma parole di Mike Fre­den­burg, fon­da­tore dell’Istituto Adam Smith di San Diego, una penna fero­ce­mente conservatrice.

Con­si­de­ra­zioni tanto più inte­res­santi visto il pul­pito da cui pro­ven­gono, il sito dell’americana Natio­nal Review, maga­zine della destra repub­bli­cana dal 1955. Una rivi­sta rea­ga­niana, liber­ta­ria, libe­ri­sta e ultra-conservatrice, che con­si­dera i sin­da­cati un puro «stru­mento socia­li­sta» e l’Onu una tro­vata diplo­ma­tica delle élite libe­ral. Tra i prin­cipi dichia­rati dalla reda­zione la «lotta senza sosta alla cre­scita del governo fede­rale» e la guerra senza quar­tiere al comu­ni­smo, una «uto­pia sata­nica con cui è impos­si­bile coesistere».

Insomma, men­tre in Ita­lia il dibat­tito sull’F35 è stato insab­biato die­tro le col­tri del «Libro bianco sulla Difesa» e il par­la­mento osserva inerte la par­te­ci­pa­zione tri­co­lore a que­sto stru­mento di guerra e immane spreco di risorse, negli Usa l’«aereo del futuro» è cri­ti­cato fero­ce­mente soprat­tutto dalla destra.

L’arti­colo di Fre­den­burg sulla Natio­nal Review riper­corre tutte le pro­messe man­cate dalla Loc­kheed Mar­tin, i dubbi a mezza bocca dei gene­rali, i difetti ripe­tuti nei pro­getti, le cri­ti­che delle varie ana­lisi indi­pen­denti che in vent’anni hanno esa­mi­nato il programma.

Secondo stime uffi­ciali del 2013, lo svi­luppo dell’F35 e il suo man­te­ni­mento ope­ra­tivo per i pros­simi 55 anni coste­ranno 1.500 miliardi di dol­lari, «il più costoso sistema di arma­menti della sto­ria dell’umanità». E alla fine – osserva spie­tato Fre­den­burg – avremo «un aereo più lento dell’F14 Tom­cat del 1970, meno mano­vra­bile dell’A6 Intru­der di quarant’anni fa, con una per­for­mance ope­ra­tiva para­go­na­bile a quella dell’F4 Phan­tom del 1960», «un aereo che in recenti test di com­bat­ti­mento ha perso per­fino con­tro l’F16».

Un cac­cia che non caccia
Le rive­la­zioni su que­sto test sono apparse su Medium pochi giorni fa. Il com­bat­ti­mento simu­lato F16 con­tro F35 risa­li­rebbe al 14 gen­naio 2015, sopra l’oceano anti­stante la base dell’Air Force a Edwards, California.

L’F35A (desi­gnato col codice AF-02 e dotato di tec­no­lo­gia stealth di serie) doveva inter­cet­tare e abbat­tere un nor­male F16D, uno degli aerei che dovrà sosti­tuire, a un alti­tu­dine com­presa tra 3mila e 9.500 metri. Le cin­que pagine del rap­porto del pilota descri­vono l’aerodinamica del nuovo aereo sostan­zial­mente come un «can­cello» ingui­da­bile, inca­pace di abbat­tere il «nemico» e anzi, alla fine, desti­nato a essere abbattuto.

Secondo il col­lau­da­tore, l’F35 ha una sola mano­vra in cui è stato supe­riore all’F16. Sfor­tu­na­ta­mente, que­sta con­suma tal­mente tanta ben­zina che si tratta di una sola pal­lot­tola, poi al mal­ca­pi­tato non reste­rebbe che scap­pare più velo­ce­mente pos­si­bile con la coda tra le gambe. Alla fine, il col­lau­da­tore cer­ti­fica che in com­bat­ti­mento rav­vi­ci­nato l’F35A è infe­riore all’F15E degli anni Ottanta.

Un pro­gramma mefistofelico

I ritardi ormai sono leg­gen­dari. Deciso dall’amministrazione Clin­ton nel gen­naio 1994 come unico aereo per tutta le forze Usa, il pro­gramma dell’F35 o Joint Strike Fighter doveva entrare in pro­du­zione ope­ra­tiva nel 2010, poi nel 2012, ora nell’aprile 2019 (ma alcune fun­zioni sono attese dal 2021). Tutti sanno che que­sta data dif­fi­cil­mente sarà rispettata.

Ad oggi, il motore dell’F35 può pren­dere fuoco, ha pro­blemi di aero­di­na­mica (viste le fun­zioni richie­ste dai vari gene­rali non ha ancora un design e un assetto sta­bili), pre­senta gra­vis­simi pro­blemi al soft­ware, al casco del pilota, ai sen­sori del radar, al sistema elet­trico (a 270 volt, uni­cum nell’aviazione), alla mitra­glia­trice, all’alimentazione e all’espulsione sicura del car­bu­rante (infatti ancora non può essere rifor­nito in volo), al raf­fred­da­mento del motore e per­fino alle gomme!

L’aereo è tal­mente sen­si­bile ai ful­mini (se col­pito potrebbe esplo­dere sia in volo che par­cheg­giato a terra) che il Pen­ta­gono ne ha uffi­cial­mente proi­bito l’utilizzo entro 30 chi­lo­me­tri da un tem­po­rale (tutto uffi­ciale, rias­sunto qui).

Il soft­ware a bordo dell’F35 ha 8 milioni di linee di codice. Per capirci, lo Space Shut­tle della Nasa ne aveva 400mila. Una quan­tità di infor­ma­zione pari a 16 volte quella con­te­nuta in tutta l’Enciclopedia Trec­cani. Ma il totale del soft­ware neces­sa­rio in volo e a terra è pari a 30 milioni di linee di codice. Ine­vi­ta­bili, sono già migliaia i «bug» di sistema dif­fi­cili da sco­vare e risolvere.

Per dire l’ultima, sol­tanto il 22 luglio scorso è par­tita la spe­ri­men­ta­zione sul campo della mitra­glia­trice da 25mm. In un aereo stealth com­ple­ta­mente liscio, infatti, la sem­plice aper­tura del foro della mitra­glia­trice interna è un ine­dito tutto da veri­fi­care.

L’arma più costosa della sto­ria, privatizzata

Secondo i sem­pre più nume­rosi cri­tici (anche mili­tari e inso­spet­ta­bili, per esem­pio l’aviazione israe­liana), il pro­getto è par­tito malissimo.

Que­sto cir­colo vizioso di vec­chi e nuovi pro­blemi porta a costi di manu­ten­zione let­te­ral­mente stra­to­sfe­rici: dai 32mila dol­lari per ora di volo pre­ven­ti­vati si è pas­sati a un più rea­li­stico 68mila dol­lari l’ora. Ma la Difesa ame­ri­cana non è in grado di fare la manu­ten­zione a un oggetto così com­plesso, per­ciò è già messo in conto il ricorso totale ai con­trac­tor fino alla fine del secolo. Una manna per Loc­kheed Mar­tin, Nor­th­rop Grum­man, Pratt & Whit­ney e il loro indotto.

Nei 400 miliardi fin qui pre­ven­ti­vati dagli Stati uniti, non sono inclusi inoltre:
- i mag­giori costi per risol­vere i pro­blemi sopra sintetizzati
- tutti gli arma­menti e munizioni
l- ’adattamento al tra­sporto di bombe nucleari
- l’adattamento per ser­ba­toi esterni di carburante
- e nem­meno l’integrazione e la comu­ni­ca­zione con la flotta di F15, F16 e F22 esistente!

In breve, è l’aereo nudo e crudo. Solo que­sto elenco di miglio­rie potrebbe por­tare a mag­giori costi per 68 miliardi di dol­lari, pari al costo finale di tutto il pro­gramma per l’F22.

Nel pro­getto del 1994, ogni aereo doveva costare tra 28 e 35 milioni di dol­lari a seconda delle ver­sioni (45 e 61 milioni in dol­lari attuali). Non a caso, invece, le stime atten­di­bili più recenti par­lano di un costo ad aereo tra i 190 e i 270 milioni di dol­lari, il quintuplo.

Ma la Rus­sia è in vantaggio

L’F35 è uno stru­mento di guerra tra grandi potenze. Se alla fine il Pen­ta­gono acqui­sterà dav­vero tutti gli aerei ordi­nati, gli Usa avranno una flotta 15 volte più grande della Cina. Ma la loro «supe­rio­rità aerea» stra­te­gica mon­diale sarà tutt’altro che garantita.

Secondo gli ana­li­sti mili­tari citati da Fre­den­burg, infatti, la Rus­sia è già molto più avanti: il suo Sukhoi Su-35S di quarta gene­ra­zione (finirà i test quest’anno) «è più veloce, ha un rag­gio ope­ra­tivo più ampio e porta il tri­plo dei missili».

Il futuro PAK T-50 stealth (pre­vi­sto per il 2018) sarà ancora migliore. I «nemici», infatti, hanno già preso le con­tro­mi­sure, visto che il pro­gramma dura da vent’anni (l’F16, per fare un con­fronto, durò “solo” 5 anni).

L’F35 è un «pro­gramma troppo grande per fal­lire», un buco nero finan­zia­rio e mili­tare ma non politico.

Il Pen­ta­gono ha aumen­tato da 34 a 57 gli aerei richie­sti per il 2016, quasi il dop­pio dei 38 finan­ziati dal Con­gresso per quest’anno. Molto oppor­tu­na­mente, infatti, la Loc­kheed ha sparso le sue fab­bri­che in cen­ti­naia di col­legi in 5 stati chiave, e ben pochi con­gress­men vogliono rischiare la per­dita di 60mila posti di lavoro garan­titi dal governo con soldi pubblici.

Entro l’estate alcuni F35B dovreb­bero entrare in ser­vi­zio presso il corpo dei Mari­nes, che a que­sto punto pre­ghe­ranno per non uti­liz­zarli in com­bat­ti­mento, visto che i difetti accer­tati uffi­cial­mente finora sono 1.151 (di cui 151 cri­tici e inaggirabili).

«La Repubblica, 24 luglio 2015
A che serve una sentenza di condanna 41 anni dopo il fatto? È davvero giustizia? Domande come queste serpeggiano insistenti nell’opinione pubblica dopo la condanna dei due neofascisti Maggi e Tramonte per la strage di piazza della Loggia, lo scorso 22 luglio.

Un verdetto così tardivo, infatti, agli occhi di molti ha quasi il sapore di una beffa, l’ultimo scherzo maligno di uno Stato colluso e traditore. La giustizia, per esser tale, deve giungere tempestiva a riparare i torti e ristabilire l’ordine spezzato da un reato.

Quanto alla funzione di simili giudizi, poi, non si può certo invocare l’effetto di deterrenza: la prospettiva di decenni d’impunità non potrebbe che rassicurare, al contrario, qualunque aspirante criminale. Non regge la logica retributiva; della prospettiva costituzionale della rieducazione del detenuto, infine, neanche parlarne. Perché, allora, i mezzi d’informazione stanno dando tanta attenzione a questi due ergastoli fuori tempo massimo?

Credo si possano fare due ordini di considerazioni. In primo luogo, il significato e il valore di questa sentenza non possono prescindere dalla natura particolarissima del reato. Il massacro di piazza della Loggia s’iscrive a pieno titolo nella strategia della tensione. Tra il 1969 e il ‘74, anni di Guerra Fredda, anche per effetto del fortissimo vincolo di fedeltà atlantico, pezzi importanti degli apparati dello Stato non obbedivano alla Costituzione, ma piuttosto operavano secondo la logica di una costituzione materiale anticomunista, in nome della quale, pur di arginare lo scivolamento a sinistra dell’asse politico e l’ascesa elettorale del Partito comunista, pareva legittimo coprire e proteggere, anziché i cittadini inermi colpiti dalle bombe, i terroristi che organizzavano e compirono attentati che avevano la funesta finalità di “destabilizzare per stabilizzare”.

Con un passato del genere alle spalle, il fatto che oggi gli anticorpi democratici della Repubblica riescano a ottenere un po’ di giustizia contro quell’antica perversione del potere, è un risultato di grande significato politico e simbolico. Lo dobbiamo a chi è sempre rimasto fedele alla Costituzione contro la logica feroce della ragion di Stato. La durata abnorme di processi come quelli per le grandi stragi politiche o mafiose è dovuta ai reiterati depistaggi, non a inefficienze burocratiche. La giustizia, attraverso la parte sana della magistratura e delle forze di sicurezza, ha dovuto operare in un contesto a tal punto ostile e alterato che il fattore-tempo non deve far sminuire il valore di aver fatto prevalere un altro pezzetto di legalità costituzionale.

Ma la pur tardiva sentenza sulla strage di Brescia è preziosa anche in un’altra prospettiva. Possiamo immaginare la convivenza civile nella società come una preziosa seta multicolore, intessuta di molti fili, le vite dei cittadini. Alcuni crimini hanno un impatto diretto e profondo sulla collettività, non solo sulle vittime dirette: stragi, terrorismo, delitti di mafia producono lacerazioni profonde in questo tessuto delicato.

Meno drammatica, ma profondamente logorante, la corruzione onnipervasiva lascia una miriade di strappi che lo indeboliscono. Ottenere giustizia per un attentato che mirava a sovvertire la democrazia come fu la bomba di piazza della Loggia vuol dire operare nel solco di una “giustizia riparativa” in senso lato: una giustizia che cerca di riparare i danni inflitti al rapporto di fiducia tra cittadini e Stato. Visto che il tessuto della società non è mai al riparo dal logoramento, e in Italia, in particolare, la seta è stata brutalmente stracciata in più punti, non è mai troppo tardi per provare a ridurre, se non riparare, qualcuno di quei vecchi strappi con una parola di giustizia. Non lo dobbiamo solo alle vittime della violenza del passato. È un investimento per il futuro.
Luciano Gallino, Piero Bevilacqua, Alfonso Gianni,Tonino Perna, Guido Viale. E, dietro di loro le grandi ombre di Franklin Delano Roosvelt, John Maynsrd Keynes e, qui in Italia, Giuseppe Di Vittorio. Ancora troppo pochi per far prevalere un'idea giusta?

Il manifesto, 23 luglio 2015

È in corso in Europa una con­ver­genza mici­diale: una spinta nazio­na­li­stica e iden­ti­ta­ria ali­men­tata dalla crisi dell’euro e dal rigetto della buro­cra­zia delle sue strut­ture; l’insofferenza verso i pro­fu­ghi, in fuga dalla guerra, ma sem­pre più dif­fi­cili da distin­guere dai pro­fu­ghi ambien­tali o dai “migranti eco­no­mici”; il cini­smo con cui governi e auto­rità dell’Unione hanno fatto qua­drato con­tro il ten­ta­tivo del governo greco di cam­biare le regole dell’austerity, equi­pa­ran­done l’operato a una colpa o a mani­fe­sta inferiorità.

C’è molto raz­zi­smo in tutti e tre que­sti pro­cessi: il gior­nale filo­go­ver­na­tivo tede­sco Die Welt ha giu­sti­fi­cato le sue accuse con­tro i greci soste­nendo che non sono i veri discen­denti degli anti­chi abi­tanti dell’Ellade, ma un miscu­glio di altre “razze”: tur­chi, alba­nesi, bul­gari. Tutte degne, ovvia­mente, di disprezzo.

Que­sta miscela esplo­siva è il frutto avve­le­nato delle poli­ti­che dell’Unione, ridotte a un feroce con­trollo ragio­nie­ri­stico dei conti degli Stati mem­bri. Sono scom­parse dal suo oriz­zonte tutte le grandi que­stioni: la lotta ai cam­bia­menti cli­ma­tici (unica strada, anche, per rilan­ciare occu­pa­zione e soste­ni­bi­lità eco­no­mica); le guerre, dall’Ucraina al Medio­riente; la dis­so­lu­zione sociale dell’Africa; i milioni di pro­fu­ghi pro­dotti da que­ste vicende.

Nes­suna delle idee o delle azioni messe in campo ha la capa­cità o l’intento di con­tra­stare quella mici­diale con­ver­genza di spinte auto­ri­ta­rie, iden­ti­ta­rie e raz­zi­ste. Ma tra tutte, cen­trale è ormai il pro­blema dei pro­fu­ghi. Se la rispo­sta ai ten­ta­tivi di Syriza ha unito nella comune fero­cia Stati e Governi, a spin­gere invece cia­scuno per la pro­pria strada, fatta di divieti, respin­gi­menti, bar­riere fisi­che e appelli iden­ti­tari, sono i profughi.

In quell’allontanamento reci­proco, tra governi comun­que d’accordo, c’è però una vit­tima sacri­fi­cale. Anzi due: Gre­cia e Ita­lia. Se non ver­ranno espulse dal club dell’euro, come certo vor­reb­bero Schäu­ble e i suoi tanti seguaci, a met­terle ai mar­gini dell’Unione sarà la scelta di con­dan­narle a essere pla­ghe su cui sca­ri­care il “peso” dei pro­fu­ghi che gli altri paesi non vogliono. Una nave inglese rac­co­glie nel Medi­ter­ra­neo cen­ti­naia di nau­fra­ghi e li sbarca in Ita­lia: «sono roba vostra». E’ la strada da seguire: la Fran­cia lo fa a Ven­ti­mi­glia; l’Austria al Bren­nero.

In que­ste con­di­zioni interne e inter­na­zio­nali non si può più pen­sare di trat­tare quei pro­fu­ghi come un’emergenza tem­po­ra­nea, mesco­lando improv­vi­sa­zione e sfrut­ta­mento delle cir­co­stanze nel modo più bieco (non solo con Buzzi e la sua rete, per­ché a fare le stesse cose è tutto l’establishment della cosid­detta acco­glienza in mano alle clien­tele del mini­stro degli interni). Il tutto a spese sia di pro­fu­ghi e migranti, sia di ter­ri­tori e comu­nità cui viene impo­sto senza pre­av­visi e pre­pa­ra­zione l’onere di una ospi­ta­lità mal­vi­sta e, nel migliore dei casi, mal sop­por­tata; ali­men­tando così rivolte in cui sguaz­zano le truppe fasci­ste e gli appelli vele­nosi per met­terle a pro­fitto elettorale.

Nes­suno ne vuol pren­dere atto, ma le guerre ai con­fini dell’Europa e la massa di pro­fu­ghi (oltre sei milioni) che preme su di essi ci dicono che il tempo della nor­ma­lità, quello a cui tutti vor­reb­bero tor­nare e che i poli­tici con­ti­nuano a pro­met­tere, è finito per sem­pre. Vanno messe all’ordine del giorno, pro­prio a par­tire dalla que­stione dei pro­fu­ghi, revi­sioni radi­cali a tutte le poli­ti­che: in campo eco­no­mico, ambien­tale, sociale, inter­na­zio­nale.

Per­ché i pro­fu­ghi e i migranti ambien­tali o eco­no­mici che sbar­cano in Ita­lia sono desti­nati ad aumen­tare, e molto, per quanto dure e spie­tate pos­sano essere le poli­ti­che di respin­gi­mento adot­tate. Che fare? Gestire la loro pre­senza in modo diverso è ine­lu­di­bile: non si dovrà più con­cen­trarli in grandi gruppi e imporne la pre­senza a comu­nità impre­pa­rate ad acco­glierli. Ci vogliono pro­getti mirati per distri­buirli su tutto il ter­ri­to­rio nazio­nale: con­di­zione irri­nun­cia­bile se non di inte­gra­zione, per lo meno di tol­le­ranza nei loro confronti.

Non si potrà più tenerli per mesi o per anni a far niente, accu­diti mala­mente, o in modo bru­tale, dal per­so­nale di coo­pe­ra­tive e società a scopo di lucro lar­ga­mente ina­de­guate: è degra­dante per la loro dignità, ma è anche uno schiaffo a chi vive accanto lavo­rando per cam­pare, o senza alcun sus­si­dio, se inoc­cu­pato. Per que­sto dovreb­bero poter auto­ge­stire la pro­pria per­ma­nenza e i rela­tivi fondi (i fami­ge­rati 35 euro al giorno); impe­gnarsi nella puli­zia, nella manu­ten­zione o nella ristrut­tu­ra­zione dei locali dove vivono, negli acqui­sti e nella pre­pa­ra­zione dei loro pasti, affi­dando a per­so­nale ita­liano, ade­gua­ta­mente pre­pa­rato, solo com­piti di soste­gno e con­trollo. E se la scuola si è rive­lata un potente mezzo di cono­scenza e tol­le­ranza reci­proca tra nativi e migranti, lavo­rare insieme avrebbe un’efficacia anche mag­giore. Per que­sto dovreb­bero poter lavo­rare in forme legali e retri­buite (il loro impe­gno nel volon­ta­riato, pro­mosso da alcuni sin­daci, è sì meri­to­rio; ma scon­fina con lo schia­vi­smo; o rischia di con­so­li­dare un mer­cato del lavoro parallelo).

Certo, anche solo pro­porre una poli­tica del genere in un paese con tre milioni di disoc­cu­pati uffi­ciali e nove effet­tivi sem­bra ere­sia; ma potrebbe rive­larsi un’opportunità straor­di­na­ria. Si potreb­bero costi­tuire coo­pe­ra­tive e imprese miste di migranti e disoc­cu­pati nativi (soprat­tutto gio­vani) per impe­gnarle nella rivi­ta­liz­za­zione di bor­ghi e ter­reni agri­coli mon­tani abban­do­nati, secondo una pro­po­sta già avan­zata da Alfonso Gianni e Tonino Perna svi­lup­pando idee di Piero Bevi­lac­qua; ma anche in tante atti­vità eco­lo­gi­ca­mente neces­sa­rie come la pro­te­zione dei suoli dal dis­se­sto, la ristrut­tu­ra­zione di edi­fici dismessi o non a norma, la puli­zia e la rina­tu­ra­liz­za­zione di spiagge e greti di fiumi, ecc. O coin­vol­gerli in atti­vità di assi­stenza a per­sone anziane o disa­bili, di istru­zione e adde­stra­mento (molti tra loro hanno pro­fes­sioni, mestieri e com­pe­tenze alta­mente qua­li­fi­cate) e in altri campi.

Ma chi paghe­rebbe? E’ lo stesso pro­blema che pon­gono i nove milioni di disoc­cu­pati e inoc­cu­pati ita­liani: non si può aspet­tare che ven­gano assor­biti da una ripresa fan­ta­sma e da imprese che, anche quando pro­spe­rano, con­ti­nuano ad “alleg­ge­rirsi” del loro carico di mano­do­pera. Ci vuole un piano gene­rale del lavoro come quello più volte pro­spet­tato da Luciano Gal­lino. Che col­lide fron­tal­mente con le poli­ti­che di auste­rity e di disarmo eco­no­mico impo­ste dall’Unione euro­pea; ma la pre­senza di tanti pro­fu­ghi e migranti è una ragione in più, e delle più serie, per pro­porsi di rove­sciarle, quelle poli­ti­che, azze­rando così anche tanti motivi di com­pe­ti­zione e ran­core verso gli “stra­nieri”.

Un piano del lavoro del genere non può essere gestito dall’alto: ha biso­gno di un’articolazione capil­lare e auto­noma sul ter­ri­to­rio; ma soprat­tutto di attori in grado di assu­merne la gestione e di per­so­nale for­mato per avviarlo e per assi­sterlo sia in campo tec­nico che organizzativo.

Dove tro­varli? E’ que­sto un ter­reno deci­sivo di for­ma­zione e di sele­zione di una classe diri­gente com­ple­ta­mente nuova: quella di cui c’è biso­gno. Il terzo set­tore – che non è solo Buzzi e Co — potrebbe for­nire una prima base per met­tere in piedi ini­zia­tive spe­ri­men­tali in que­sta dire­zione; ma la sele­zione dei pro­getti e del per­so­nale dovrebbe essere affi­data non alle clien­tele di mini­steri, pre­fetti e giunte locali, bensì ad asso­cia­zioni nazio­nali e locali di cui siano già state veri­fi­cati com­pe­tenze e rigore nella gestione di atti­vità ana­lo­ghe, come quella dei beni seque­strati alla mafia.

Tutto ciò sarebbe molto faci­li­tato soste­nen­done l’aggregazione in asso­cia­zioni delle varie nazio­na­lità. Chi sfugge a guerre e mise­ria è mes­sag­gero di pace, pronto a impe­gnarsi per­ché nel suo paese si ricreino le con­di­zioni del pro­prio ritorno, e ad atti­vare in tal senso anche i resi­dui legami che man­tiene con la pro­pria comu­nità rima­sta nei ter­ri­tori da cui è fug­gito. Per que­sto asso­cia­zioni di pro­fu­ghi e migranti potreb­bero fun­zio­nare molto meglio di tanti governi fan­toc­cio in esi­lio nel pro­muo­vere e orien­tare nego­ziati per ripor­tare pace e demo­cra­zia nei loro paesi di ori­gine.

Un pezzo impor­tante, il migliore, di Africa e di Medio­riente si ritro­ve­rebbe così a ope­rare nel cuore stesso dell’Europa, tra­sfor­man­done radi­cal­mente i con­no­tati: esten­den­done i con­fini ideali e la capa­cità di ope­rare con­cre­ta­mente nel tes­suto sociale dei paesi dove ora domi­nano guerre, mise­ria e dit­ta­ture. E ren­dendo ogni giorno evi­dente, con la sua stessa pre­senza, che la mis­sione dell’Unione euro­pea, quella che la può sal­vare dallo sfa­celo verso cui sta cor­rendo, è pro­prio l’inclusione e la valo­riz­za­zione di chi ha rag­giunto il suo suolo, con grande rischio, alla ricerca di pace, sicu­rezza, libertà.

Riferimenti
L'icona rappresenta un ritratto di Giuseppe Di Vittorio dipinto da Carlo Levi. Su Di Vittorio e il suo Piano del lavoro vedi qui su eddyburg, nonchè gli articoli linkati in quel testo. Articoli degli altri autori citati nell'articolo lsi trovano facilmente su eddyburg utilizzando il "cerca" in cma a ogni pagina

Con la Grecia, il Sud dell'Europa: «Non si può continuare a stare immobili e subire. Questo è un appello. E per questo ho scelto le colonne del

manifesto per lanciarlo». Il manifesto, 23 luglio 2015
L’Europa mone­ta­ria, unita solo dall’euro e domi­nata dalla teo­lo­gia dell’austerità, non fun­ziona pro­prio. Sono in molti ad affer­marlo e non è un caso che la Gran Bre­ta­gna abbia voluto con­ser­vare la ster­lina pur ade­rendo all’Unione euro­pea nei con­fronti della quale mani­fe­sta dis­sensi cre­scenti. E, in gene­rale, non dob­biamo dimen­ti­care che siamo in una fase di con­ti­nui cam­bia­menti, tali da indurre Guido Rossi a scri­vere (Il Sole 24 Ore, 19 luglio) un edi­to­riale dal titolo Quei Trat­tati supe­rati che creano disordine.

Ma tor­niamo alla Gre­cia, la cui crisi strut­tu­rale non è stata affatto risolta con i pre­stiti e le dila­zioni di paga­mento del debito, ma solo rin­viata e nem­meno a lungo ter­mine e non sarà age­vole una ripe­ti­zione dei pre­stiti. I punti sono due:
- tutti i paesi che hanno accet­tato l’euro sono in con­di­zioni molto diverse e peg­giori di quelle della Ger­ma­nia, che si con­ferma domi­nante nel cir­colo dell’euro;
- manca, anzi è rifiu­tata, una poli­tica eco­no­mica diretta a equi­li­brare i rap­porti di forza all’interno della comu­nità: tutti abbiamo l’ euro, ma ci sono quelli che ne hanno tanti e li fanno cre­scere e quelli che ne hanno pochi e li vedono dimi­nuire continuamente.

Di que­sta situa­zione noi ita­liani abbiamo una certa com­pe­tenza: anche quando usa­vamo tutti la lira il Mez­zo­giorno era un disa­stro e, con l’aiuto di Gram­sci, sco­primmo la “que­stione meri­dio­nale”, che oggi si ripro­pone a scala euro­pea. E così mi ha col­pito, e per­suaso, il grande titolo del sup­ple­mento di la Repub­blica del 20 luglio: Mez­zo­giorno, la Gre­cia d’Italia.

Nella nostra unità nazio­nale fin da prin­ci­pio a domi­nare fu la moneta, cioè la lira, e così si aprì la que­stione meri­dio­nale, con la mise­ria e l’emigrazione. In alcune regioni del Mez­zo­giorno si stava meglio ai tempi del regno di Napoli con i Bor­bone piut­to­sto che dopo con l’unità d’Italia e i Savoia.

La crisi della Gre­cia sarà lunga e dura e ci saranno – già lo si vede – altri paesi inve­stiti dalla crisi pro­dotta dall’attuale unione mone­ta­ria e sol­tanto mone­ta­ria. Si tratta – già ci sono gli annunci – dei paesi medi­ter­ra­nei: la Spa­gna, dove si voterà que­sto autunno e dove sta cre­scendo il par­tito Pode­mos, abba­stanza simile a Syriza e poi il Por­to­gallo e anche l’Italia – è sotto gli occhi di tutti – non sta tanto bene.

Il futuro – allo stato attuale – è di cre­scita della disoc­cu­pa­zione e di defi­cit di bilan­cio. Insomma il per­corso della Gre­cia – ancora per niente con­cluso – dovrebbe illu­mi­narci. Siamo – ne sono con­vinto – all’apertura di un que­stione meri­dio­nale che pro­vo­che­rebbe una crisi ben più grave di quella che si è aperta con la Gre­cia che conta meno di dieci milioni di abi­tanti e un Pil pari al 2 per cento di quello euro­peo. Una crisi assai più dif­fi­cile da affron­tare con una unione solo mone­ta­ria, non poli­tica e nep­pure economica.

La pre­vi­sione più facile, e nega­tiva, è che salti tutto pro­vo­cando un disor­dine ingo­ver­na­bile. Tra non molto tempo la crisi greca si ria­prirà e inve­stirà, assai più’ dura­mente che oggi, anche i paesi medi­ter­ra­nei: l’Europa sarà in una crisi più grave ed estesa di quella che ha inve­stito la Gre­cia e anche la Ger­ma­nia avrà più di un pro­blema. A que­sto punto mi pare utile citare un passo dell’ottimo arti­colo di Luciana Castel­lina (il mani­fe­sto, 17 luglio): «Altra cosa – scrive Luciana – è che a met­tere in discus­sione l’eurozona sia uno schie­ra­mento più forte, almeno i paesi medi­ter­ra­nei, sulla base di un chiaro pro­getto di lotta e di reci­proca soli­da­rietà. Que­sto fronte oggi non c’è e noi ita­liani pos­siamo ver­go­gnarci per­ché il nostro pre­si­dente del con­si­glio avrebbe potuto e dovuto avere un ruolo di primo piano da svol­gere in que­sta situa­zione, ha messo, pau­roso, la testa sotto la sab­bia. Tocca anche a noi costruire un piano B, ma non solo per la Grecia».

Quello che non ha fatto e non ha pen­sato il nostro attuale pre­si­dente del con­si­glio lo pos­sono e lo deb­bono fare i nostri poli­tici di sinistra.

Riunirsi, prendere contatto con le personalità di sinistra di Portogallo, Spagna, Grecia e anche Italia per affrontare l’attuale questione meridionale europea.

E’ lo sforzo che hanno fatto in que­sti mesi i gruppi e i par­titi che stanno cer­cando di dar vita ad un nuovo sog­getto di sini­stra nel nostro paese, con­sa­pe­voli che occorre ora­mai ope­rare a livello euro­peo e non solo nazio­nale sta­bi­lendo rap­porti o ren­den­doli meno formali.

Lo ha già fatto la Fiom con i sin­da­cati metal­mec­ca­nici del sud Europa.

In que­sto senso si muo­vono anche Strauss-Kahn, Fitoussi, e Varou­fa­kis con il soste­gno del pre­mio Nobel Sti­glitz e anche James Gal­braith per una for­ma­zione di sini­stra a livello euro­peo. E’ urgente e posi­tivo, e per noi ita­liani che sulla que­stione meri­dio­nale abbiamo avuto la lezione di Gram­sci, ancora più pressante.

Non si può continuare a stare immobili e subire. Questo è un appello. E per questo ho scelto le colonne del manifesto per lanciarlo.

L’Unione euro­pea è da rea­liz­zare, ma non può essere solo mone­ta­ria: non solo è insuf­fi­ciente ma anche dan­nosa. Deve essere un’unione poli­tica e quindi demo­cra­tica cioè tale da pren­dere in con­si­de­ra­zione le dif­fe­renze eco­no­mi­che e sociali tra i vari paesi. Un’unione non è una som­ma­to­ria acri­tica di differenze.

«Intervista a Jean-Claude Juncker. Il presidente della Commissione europea critica il ritorno dei nazionalismi e ammette che è stata la paura a permettere l’accordo sulla Grecia, che tuttavia non deve sentirsi umiliata dalle nuove condizioni». dovrebbe sentirsi umiliato lui.

La Repubblica, 22 luglio 2015

Bruxelles. Otto giorni dopo il summit maratona della zona euro che ha concluso i negoziati tra la Grecia e i suoi creditori internazionali, il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, per la prima volta traccia il suo bilancio sulle trattative con Atene e la lezione che deve trarne tutta Europa. Juncker ci riceve nel suo ufficio del Berlaymont mentre è in corso la parata del 21 luglio. Dalla strada arriva un sottofondo di musica militare.

Presidente, ritiene che quello sulla Grecia sia stato un buon accordo dal punto di vista economico e morale?
«L’aspetto morale non è la cosa meno importante, però abbiamo evitato il peggio e lo abbiamo evitato non perché siamo stati particolarmente saggi, ma perché avevamo paura. E’ la paura che ha permesso l’accordo. Dopo la paura c’è sempre il sollievo».
Un accordo basato sulla paura è un buon accordo?
«Sì perché abbiamo evitato il peggio. Ma su questo punto, come sull’immigrazione, ho constatato una rottura di fatto – che fino a quel momento era virtuale – dei legami di solidarietà in Europa. E dunque esco da questa esperienza contento ma non felice. Ne esco molto preoccupato per il futuro. Non parlo solo della Grecia, c’è un insieme di elementi che ci fanno preoccupare molto. Ad ogni modo l’accordo è buono perché esiste. Nella vita di una coppia ci sono momenti difficili dove ci sono dubbi e ci interroghiamo sul nostro futuro insieme. Poi però torniamo in noi per paura del futuro. A un certo punto avevo detto che il nuovo governo greco si stava per suicidare per paura di morire. Abbiamo evitato la morte e abbiamo fatto di tutto per evitare il suicidio».
Molti stigmatizzano gli elementi duri per la Grecia contenuti nell’accordo.
«Credo sinceramente che la Grecia non abbia alcuna ragione di sentirsi umiliata perché la Commissione ha fatto di tutto per smussare gli angoli tenendo conto delle preoccupazioni, delle paure e delle aspettative degli uni e degli altri. La Commissione è una delle tre istituzioni con Fmi e Bce che ha preparato l’accordo finale, ma noi l’abbiamo fatto con maggiore entusiasmo e cuore. La Commissione ha fatto un buon lavoro e in me resiste l’ammirazione per la nazione greca».
Anche per il suoi governanti?
«Ho trovato Alexis Tsipras simpatico, l’ho accolto con molta amicizia. Ho sempre fatto del mio meglio per non fargli perdere la faccia, non sarebbe stato un modo di negoziare europeo».
Un approccio condiviso da tutti?
«No, ma ne sono infischiato perché bisognava lasciare a questa grande nazione uno spazio di autodeterminazione».
Il sentimento di umiliazione è tuttavia molto presente, non soltanto in Grecia.
«Gli europei non amano l’idea che i pensionati greci piangono seduti sulle scale di una banca, questa non è l’Europa! Ho scelto con grande convinzione di parlare apertamente ai greci rispettando la loro dignità. L’avevo fatto molte volte come presidente dell’Eurogruppo contro l’opinione di tutti gli altri, che invece volevano picchiare duro. Ma io non gli ho dato retta perché mi dicevo sempre che “in Europa serve qualcuno del quale i greci possano avere fiducia”, altrimenti avrebbero avuto l’impressione che l’Europa fosse un’invenzione che si era trasformata in una macchina antigreca. Ho sempre parlato della Grecia con tenerezza, a volte quando mi rileggo mi sembra di essere stato persino ridicolo».
Questo sentimento antigreco o antitedesco la preoccupa?
«Sì, temo il sentimento che si è diffuso in Europa dopo questa umiliazione e temo che le reazioni provocate da questa soluzione terranno alta la temperatura nel Continente. Ho notato in molti paesi una rabbia antigreca che si spiega con motivi di politica interna e si limita a vedere l’aspetto economico delle cose. Ci dimentichiamo gli aspetti sociali della crisi. C’è una storia di disamoramento perché molti paesi erano più concentrati sugli aspetti della propria politica interna che sulla soluzione del problema».
Di cosa ha avuto più paura in queste settimane?
«Della una rottura definitiva. Mi sono detto che se l’eurozona si fosse spaccata a quel punto tutto si sarebbe potuto disintegrare».
E’ saltato un tabù quando Schaeuble ha proposto il fondo per le privatizzazioni come alternativa alla Grexit. Non è molto grave?
«Non ho un giudizio così drammatico, quest’ultima frase (sulla Grexit, ndr) prodotta dall’Eurogruppo era contenuta tra due parentesi all’inizio del vertice dei leader. Non era la soluzione che volevamo, ma quella che sarebbe rimasta se tutto il resto fosse fallito. Fin dall’inizio ho detto a Tsipras: “Non credere che salverò la Grecia con una magia”».
Cosa ha fatto piegare Tsipras?
«Gli ho spiegato che nell’eurozona ci sono 19 democrazie, non solo una. Spesso mi hanno rimproverato di avere detto che le elezioni non cambiavano i trattati e i comportamenti degli altri».
Tsipras ha avuto paura dopo il referendum?
«Ha sottovalutato la volontà degli altri. Dopo il referendum alcuni paesi dicevano: “E’ finita”. Abbiamo dovuto superare questa situazione. Non si può mai dare più importanza ad una democrazia che a tutte le altre. Tsipras è diventato un uomo di Stato quando ha capito che se fosse andato fino in fondo per la Grecia sarebbe stata la fine. Gli ho spiegato in dettaglio il piano di aiuti umanitari da 1,8 miliardi che avremmo lanciato all’indomani della Grexit fino alla fine del 2015. Ho anche insistito sul fatto che la Commissione aveva offerto 35 miliardi di risorse per la crescita ma lui di questa proposta non aveva mai parlato ai greci».
Sul debito ci sono pareri differenti tra le diverse istituzioni, tra gli economisti e gli stati.
«Sono stato sorpreso dalle dichiarazioni del Fondo monetario internazionale (sulla ristrutturazione del debito, ndr) due o tre giorni prima del referendum che ha aiutato la campagna del “no” in Grecia. Hanno scelto un momento sbagliato e sono stati strumentalizzati. Ma non si può rimproverare all’Fmi di dire che il debito greco non è sostenibile. Da mesi avevo detto a Tsipras che la questione del debito esisteva e che potevamo risolverla appena avesse attuato le prime misure. Nel testo approvato dal Consiglio europeo c’è scritto che valuteremo il debito “dopo una prima valutazione” (delle riforme, ndr), io invece nel testo che i greci hanno rifiutato avevo scritto ad “ottobre” in modo da aiutare Tsipras. Ma poi abbiamo tolto la data perché Irlanda, Portogallo, Spagna non volevano questa formulazione prima delle proprie elezioni. Erano molto arrabbiati con me. Vede, a fine 2012 abbiamo già alleggerito il servizio del debito greco e quello del Belgio, ad esempio, oggi costa di più. Questo ha causato un grande problema, setto-otto paesi pensavano che in Grecia la situazione fosse migliore che da loro, ad esempio sul salario minimo. Chi descrive il programma come un massacro o un catalogo di crudeltà non conosce bene il dossier e nemmeno i livelli di protezione sociale di molti altri paesi dell’eurozona che sono inferiori a quelli dei greci. Se la Grecia avesse approvato le riforme strutturali, non saremmo arrivati fino a qui».
Per quanto tempo reggerà questo accordo?
«Se la Grecia manterrà gli accordi e immaginiamo che dopo la prima valutazione delle misure alleggeriremo il debito, il problema non tornerà a porsi per i prossimi tre anni».
«I giudici di Strasburgo hanno esplicitamente ricordato le loro precedenti decisioni sul riconoscimento delle unioni civili, sì che nessun potrà dirsi colto di sorpresa o invocare la necessità di un adeguato tempo di riflessione».

La Repubblica, 22 luglio 2015 (m.p.r.)

La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo sui diritti da riconoscere alle unioni tra persone dello stesso sesso, che già suscita polemiche, era prevedibile per chi conosce la giurisprudenza di quella Corte, la sua evoluzione, le novità introdotte proprio in questa materia anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Interviene in un momento in cui la discussione si è fatta sempre più accesa dopo l’annuncio del Presidente del Consiglio di arrivare prima delle ferie parlamentari all’approvazione, almeno da parte di una delle Camere, di una legge in materia. Siamo di fronte ad un invito esplicito al legislatore italiano, con indicazioni importanti e che non possono essere trascurate.

I giudici di Strasburgo hanno esplicitamente ricordato le loro precedenti decisioni sul riconoscimento delle unioni civili, sì che nessun potrà dirsi colto di sorpresa o invocare la necessità di un adeguato tempo di riflessione. Su questo punto la sentenza è chiarissima. I silenzi del Governo, la totale disattenzione di fronte agli espliciti inviti rivolti nel 2010 dalla Corte costituzionale e nel 2012 dalla Corte di Cassazione, l’assoluta inazione del Parlamento hanno determinato una grave violazione del diritto alla tutela della vita privata e familiare, riconosciuto dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E qui le parole dei giudici di Strasburgo si fanno sferzanti. L’assoluto disinteresse di Governo e Parlamento per il gran lavoro fatto dalla magistratura italiana ha finito con il rappresentare una sua inammissibile delegittimazione, compromettendo il rispetto e l’effettività delle decisioni giudiziarie (a proposito: la somma indifferenza di Governo e Parlamento per l’elezione di tre giudici della Corte costituzionale non è forse già diventata una forma di delegittimazione di questa fondamentale e scomoda istituzione di garanzia?).
La decisione della Corte non può essere facilmente aggirata, ed è bene ricordare che essa è stata presa all’unanimità. Si dice e si ribadisce che siamo di fronte a diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone. In questi casi, la Corte lo sottolinea più volte, il margine di discrezionalità del legislatore è ristretto. Alle unioni stabili tra persone dello stesso sesso deve essere assicurato un riconoscimento effettivo attraverso una “solenne istituzione giuridica”, unioni civili riconosciute o partnerships registrate, che le sottraggano alla casualità e alla inaffidabilità che caratterizzano oggi la situazione italiana. L’esistenza non può essere affidata all’incertezza o a semplici patti privati o a regole limitate agli aspetti patrimoniali del rapporto. Siamo di fronte ad un “dovere positivo”, che lo Stato deve integralmente rispettare, soprattutto perché solo così può essere cancellata una inammissibile discriminazione, fondata com’è solo sull’orientamento sessuale.
Nelle argomentazioni dei giudici di Strasburgo si coglie una particolare attenzione per lo scarto crescente, e sempre più evidente, tra dinamiche della realtà sociale e immobilità del diritto. La Corte mette in evidenza che la maggioranza dei paesi aderenti al Consiglio d’Europa, 23 su 47, hanno già disciplinato in forme adeguate unioni tra le persone dello stesso segno, segno di una tendenza da considerare ormai irreversibile. Così l’inaccettabilità della situazione italiana diviene particolarmente evidente, il suo protrarsi nel tempo è giudicato inammissibile, e questo spiega anche la ragione per la quale alle coppie ricorrenti è stato riconosciuto il diritto ad un risarcimento del danno che dovrà essere pagato dallo Stato italiano.
Nella sentenza viene anche citato un sondaggio dal quale risulta che la maggioranza degli italiani è favorevole ad una legge che riconosca le unioni tra persone dello stesso sesso. Ma i tempi non sono propizi né alle discussioni ragionate, né alla consapevolezza della centralità del riconoscimento dei diritti fondamentali. Già si sono manifestate reazioni scomposte, con insolenze nei confronti dei giudici di Strasburgo che dimostrano l’assenza di una cultura delle garanzie. Non consideriamole manifestazioni folkloristiche, come troppe volte si è fatto in passato, favorendo così la regressione culturale e politica. Ma più preoccupanti devono essere considerati i tentativi di svuotare dall’interno la riforma in discussione al Senato, nei quali si riflette anche una rinnovata pretesa di valutare le leggi in primo luogo secondo la morale cattolica, e non alla luce dei diritti delle persone. La buona politica, se c’è ancora, può trovare in questa sentenza di Strasburgo un forte sostegno.
Il passo avanti, che la sentenza impone, è significativo. Ma non è destinato a chiudere definitivamente la questione. Dal mondo LGBT viene sempre più perentoria la richiesta di un riconoscimento anche alle coppie di persone dello stesso sesso del diritto a contrarre matrimonio. Di questo bisognerà discutere, soprattutto dopo la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha imboccato decisamente questa strada. La Corte di Strasburgo ci ha ricordato che qui la discrezionalità del legislatore nazionale è più larga, perché solo 9 nazioni su 47 hanno accettato questa linea. Ma si può prevedere che questi numeri cambieranno presto, sì che le corti dovranno prendere atto della crescita di questo consenso. E ai nostrani polemisti bisognerà pur ricordare che l’Italia ha firmato, e il Parlamento ha votato, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il cui articolo 9 ha cancellato il requisito della diversità di sesso per tutte le forme giuridiche di costruzione di una famiglia.
«Un atto che si pone in alter­na­tiva alla linea teu­to­nica della «seces­sione» che noi dovremmo cono­scere bene. Infatti, la pro­po­sta della Gre­xit da parte tede­sca è para­go­na­bile a quella della Lega Nord negli anni ’90 per il Mez­zo­giorno».

Il manifesto, 22 luglio 2015 (m.p.r.)

L’aver sal­vato la Gre­cia dall’espulsione voluta da alcuni espo­nenti della classe poli­tica del Nord Europa è un merito di Ale­xis Tsi­pras. Si tratta adesso di vedere se il gio­vane lea­der greco riu­scirà ad argi­nare gli effetti nega­tivi dell’amara medi­cina che ha dovuto accet­tare, usando l’astuzia e l’intelligenza di Ulisse di fronte ad un nemico che pensa di avere già vinto la guerra. Ha di fronte prove par­la­men­tari dif­fi­cili per la mag­gio­ranza di governo e un par­tito diviso.

C’eravamo entu­sia­smati come non suc­ce­deva da molto tempo. Abbiamo in tanti, in Ita­lia ed in Europa, cre­duto in Tsi­pras e aspet­tato con appren­sione i risul­tati del refe­ren­dum sulle richie­ste di Bru­xel­les. La vit­to­ria del No ci ha por­tato al set­timo cielo, abbiamo visto aprirsi una strada con­creta per costruire l’Altra Europa.

Quel grande OXI, che sulla stampa ita­liana è stato curio­sa­mente tra­scritto come Oki, suo­nava come un noto far­maco anti­do­lo­ri­fico, ed era di fatto un antico rime­dio con­tro i ter­ri­bili dolori e sof­fe­renze dell’austerity. Poi, improv­vi­sa­mente, la nego­zia­zione tra il governo greco ed i potenti dell’Eurogruppo ha preso un’altra piega, ina­spet­tata. Nes­suno imma­gi­nava, infatti, che il con­senso del popolo greco alla linea del governo Tsi­pras potesse por­tare ad un ulte­riore irri­gi­di­mento da parte del governo tede­sco e dei suoi satelliti.

In pochi giorni il qua­dro è tra­gi­ca­mente mutato. L’alternativa è diven­tata: uscire dall’euro o accet­tare la peg­giore ricetta di poli­tica eco­no­mica che Bru­xel­les aveva pre­sen­tato negli ultimi sei mesi di trat­ta­tive. Pren­dere o lasciare. E Tsi­pras, il com­bat­tente, tenace e riso­luto lea­der di Syriza, ha ceduto, si è inchi­nato ai dik­tat del mini­stro delle finanze tede­sco. E’ inu­tile negarlo o rica­marci sopra: abbiamo subito una grande scon­fitta che per molti si è tra­dotta in una Grande Delu­sione. Ma, è stata persa una bat­ta­glia e non la guerra.

Per supe­rare que­sto stato depres­sivo, ine­vi­ta­bile dopo una botta del genere, dob­biamo ela­bo­rare il lutto e per farlo cor­ret­ta­mente dob­biamo avere il corag­gio di guar­dare in fac­cia la realtà. Se Tsi­pras avesse sbat­tuto la porta in fac­cia ai despoti di Bru­xel­les lo avremmo osan­nato, sarebbe diven­tato il Supe­re­roe della sini­stra euro­pea, un sim­bolo per tutti coloro che non accet­tano più di essere trat­tati come servi. Ma, cosa sarebbe suc­cesso al popolo greco?

L’uscita improv­visa dall’euro avrebbe preso in con­tro­piede il governo di Syriza e com­por­tato un periodo di almeno due set­ti­mane di stallo, neces­sa­rie per stam­pare nuo­va­mente la dracma e distri­buirla, con ban­che chiuse e fuga gene­ra­liz­zata dei capi­tali in euro all’estero. Due set­ti­mane dove poteva acca­dere di tutto: la gente presa dal panico, affa­mata, poten­zial­mente espo­sta alle mani­po­la­zioni della destra neo­na­zi­sta, super­mer­cati svuo­tati, tutti con­tro tutti. Una volta tor­nati alla dracma biso­gnava poi fare i conti con una sva­lu­ta­zione di almeno il 60 per cento rispetto a euro e dol­laro, con una ine­vi­ta­bile riper­cus­sione sui prezzi ed un rischio di ipe­rin­fla­zione, data la strut­tura della bilan­cia com­mer­ciale greca.

I lavo­ra­tori ed i pen­sio­nati greci avreb­bero avuto una vit­to­ria morale ed una scon­fitta mate­riale molto pesante con un impo­ve­ri­mento improv­viso, una netta per­dita del potere d’acquisto dei già magri salari, sus­sidi e pen­sioni. Di con­tro, accet­tando i dik­tat di Schau­ble e Mer­kel il primo mini­stro greco avrebbe con­trad­detto tutto il per­corso che lo aveva por­tato a indire il refe­ren­dum, sarebbe stato accu­sato di incoe­renza quando non di tra­di­mento, e avrebbe pro­dotto una frat­tura in Syriza, come pun­tual­mente è avvenuto.

Secondo alcune fonti gior­na­li­sti­che Tsi­pras ha avuto dal pre­si­dente Jean-Claude Junc­ker un docu­mento in cui veniva trac­ciato il qua­dro cata­stro­fico che sarebbe sca­tu­rito dalla Gre­xit, secondo altre fonti sono stati gli stessi con­su­lenti del governo greco a pro­spet­tar­gli sce­nari da seconda guerra mon­diale. Un fatto è certo: Tsi­pras ha scelto di non fare l’Eroe, l’indomito guer­riero che lotta con­tro tutto e tutti, ed ha lasciato ad altri que­sta parte. Ha scelto il male minore pur sapendo di dover pagare di per­sona un conto salato.

Un atto di corag­gio e di respon­sa­bi­lità che solo col tempo verrà com­preso da chi oggi lo liquida fret­to­lo­sa­mente. Un atto che si pone in alter­na­tiva alla linea teu­to­nica della «seces­sione» che noi dovremmo cono­scere bene. Infatti, la pro­po­sta della Gre­xit da parte tede­sca è para­go­na­bile a quella della Lega Nord negli anni ’90 per il Mez­zo­giorno. Come la stampa tede­sca ha creato lo ste­reo­tipo del greco fan­nul­lone, imbro­glione, che vive alle spalle del lavo­ra­tore tede­sco così negli anni ’90 in Ita­lia, gra­zie anche a gior­na­li­sti demo­cra­tici come Gior­gio Bocca (vedi L’Inferno, 1990), si era creata l’immagine di un Mez­zo­giorno fatto solo di cri­mi­na­lità e assistenza.

Se la seces­sione fosse risul­tata vin­cente che cosa sarebbe capi­tato al popolo meri­dio­nale? Come risul­tava dalle simu­la­zioni fatte in quel tempo il Mez­zo­giorno avrebbe dovuto avere una moneta pro­pria sva­lu­tata al 40% rispetto alla valuta del Centro-Nord, avrebbe perso un flusso netto di risorse dello Stato pari al 35% del suo Pil e un crollo dei con­sumi di pari entità. Un collasso. Certo se la seces­sione del Nord-Italia fosse avve­nuta subito dopo la seconda guerra mon­diale le con­se­guenze per il Mez­zo­giorno sareb­bero state ben diverse e non pochi sareb­bero stati i van­taggi. Ma, ed è que­sto il punto: in eco­no­mia come nella poli­tica la scelta del tempo “giu­sto” è decisiva.

La Gre­xit è una que­stione seria che ci riguarda da vicino, non solo per­ché dopo la Gre­cia toc­cherà a noi - mal­grado le ras­si­cu­ra­zioni del mini­stro Padoan- ma per­ché pone un’ipoteca sul futuro della stessa Unione euro­pea. Non sono pochi i segnali che vanno nella dire­zione di una gene­rale seces­sione dei paesi ric­chi del Nord Europa, al di là dell’Eurozona.

Basta citare il modo con cui i paesi della Ue hanno affron­tato la tra­ge­dia dei migranti che muo­iono nel Medi­ter­ra­neo. Il para­me­tro che è stato usato è quello delle “quote” come se si trat­tasse di latte o carne da macello, dimo­strando al mondo di essere inca­paci di andare al di là del lin­guag­gio dei mer­canti. Non diver­sa­mente sugli stessi spo­sta­menti di popo­la­zione all’interno della Ue, ad ini­ziare dalla Gran Bre­ta­gna, si parla di vin­coli da porre ai gio­vani che dal Sud e dall’Est Europa cer­cano lavoro in que­sti paesi.

E, infine, non va sot­to­va­lu­tato il fatto che l’euro, con tutti i suoi errori, costi­tui­sce una base comune per con­tra­stare l’egemonia del dol­laro e gio­care un ruolo a livello inter­na­zio­nale come Europa. Su que­sto punto la Mer­kel ha ragione: la fine dell’euro rap­pre­sen­te­rebbe la fine della Ue. Si ritor­ne­rebbe neces­sa­ria­mente alle bar­riere doga­nali ed alle sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive, con tutti gli ingre­dienti di un ritorno al più becero e peri­co­loso nazio­na­li­smo. D’altra parte, con­ti­nuando con que­ste poli­ti­che di auste­rity, che non risol­vono la que­stione del debito pub­blico inso­ste­ni­bile, non si fa altro che ali­men­tare divi­sioni tra Nord e Sud Europa, e si va dritti verso l’implosione.

Da parte nostra si tratta di appog­giare, non solo poli­ti­ca­mente, tutte quelle forme di eco­no­mia soli­dale che sono nate in que­sti anni di crisi e che, come ci ha rac­con­tato Angelo Mastran­drea, hanno avuto anche il soste­gno della soli­da­rietà internazionale. Senza dimen­ti­care che que­sta crisi sta met­tendo a nudo la que­stione mone­ta­ria, il biso­gno di un con­trollo sociale di que­sto mezzo di paga­mento che è diven­tato da stru­mento a fine dell’agire sociale, non­ché l’insostenibilità di un pro­cesso di inde­bi­ta­mento infi­nito. Ma, su que­sta rile­vante que­stione tor­ne­remo in altra occasione.

«“Quella giovane dietro di me è morta” recita la didascalia della foto con le vittime dell’attentato di Suruc, diventata virale. Una storia esemplare in tempi di terrore globalizzato».

La Repubblica, 22 luglio 2015 (m.p.r.)

La didascalia originale di questa immagine contiene una terribile frase di undici parole: «La ragazza con la maglietta bianca dietro di me è morta». È quella con il sorriso più esibito, gli occhi una fessura appena, il collo lungo, i capelli ricci sbandati di lato. Quella con le dita a V in segno di vittoria, un anello all’indice. Lei non c’è più. Forse non ci sono più altri che compaiono alle spalle di Madersahi, la ragazza in primo piano che ha scattato il selfie e che ci ha informato, prima di quelle undici parole, di essere ancora viva.

La storia di questa fotografia è esemplare: racconta una piccola distorsione e una grande distrazione. Ha cominciato a rimbalzare sui social qualche ora dopo l’attentato di lunedì a Suruc, in Turchia, nel quale hanno perso la vita (finora) trentadue aderenti alla federazione dei giovani socialisti. Il massacro è stato attribuito allo Stato Islamico, in particolare a una diciottenne kamikaze, seguace del Califfato, di cui pure è stata diffusa l’immagine, che, nera e cupa, non potrebbe essere più differente da quella della «ragazza con la maglietta bianca». La piccola distorsione è consistita in un equivoco. Per ore sul web il selfie è stato tramandato e condiviso come se fosse scattato pochi istanti prima del botto. Come se quel gruppo di ragazzi festanti ( clic! ) non avessero fatto in tempo a spegnere i sorrisi che (boom !) i loro corpi, tutti quanti, fossero stati dilaniati.
È un peccato veniale, stupido sensazionalismo, bisogno di estremizzare qualcosa che è già estremo di suo e non meno inaccettabile. Cambia davvero qualcosa sapere che la foto era stata fatta tempo prima, dopo il successo elettorale del partito filocurdo e non alla vigilia di una partenza per Kobane a costruire una biblioteca e un campo giochi? Cambia qualcosa sapere che non sono morti tutti un attimo dopo? Che è viva Madershai, uno di quelli con la barba alle sue spalle e altri ancora? «La ragazza con la maglietta bianca dietro di lei è morta» ed è morta per tutti e con tutti, come il decimo della fila che deve fare un passo avanti verso il fucile. Quando cadono lui o lei cadono tutti, è un domino che non esclude nessuno.
Il tempo è irrilevante se il finale è irreversibile. La foto del turista sulla vetta di una delle torri gemelle con un aeroplano alle spalle è un falso idiota solo perché sincronizza per renderli sensazionali due eventi che sono tremendi anche nella loro separazione: ci sarà stato qualcuno in quel punto qualche minuto prima dell’impatto e sarà morto mentre scendeva, che differenza fa? Che non ha un volto, ne è un ultimo momento in cui possiamo identificarci con lui.
E questa è la grande distrazione. La ragazza con la maglietta bianca ci conduce tutti a Suruc dove, ammettiamolo, non è che i media occidentali ci avessero trascinato con la forza della persuasione.
Utoya, i giovani socialisti norvegesi, di lì eravamo passati. Ma Suruc? Studenti filocurdi? Chi sono questi? Sono la ragazza con la maglietta bianca, così simile a quella che incontri sulle scale, alla nuova fidanzata di tuo cugino o nipote. Da queste parti ci impressionano le stragi di crocieristi europei, non quelle di passanti orientali. Di cristiani, non di sciiti. Ci sarebbe voluto un selfie anche dalla moschea in Kuwait attaccata nello stesso giorno della strage sulla spiaggia tunisina. Una didascalia che dicesse: «L’uomo con la camicia blu dietro di me è morto». E quello, ripreso felice allo stadio, sarebbe stato simile al tuo benzinaio, o a tuo padre quando tu eri ancora un bambino.
Ci vorrebbero decine, centinaia di selfie, da ogni parte del mondo in cui un innocente è stato ammazzato per questo peccato mortale di causa. E ce ne vorrebbe uno scattato con un grandangolo immenso che mostri tutto e tutti, i Campi Elisi e Central Park , la corniche di Beirut e le case di Kobane, i milioni di facce che li abitano e il mondo che dovremmo difendere da ogni timore o sottomissione finché «il ragazzo con la maglietta bianca dietro di te è vivo e lotta».

«“Aiu­tia­moli a casa loro”. Ma certo! Aiu­tia­moli a casa loro. Allora c’è un solo modo per farlo: espel­lere dall’Africa ogni inte­resse colonialista». Il manifesto, 22 luglio 2015 (m.p.r.)

Gli scorsi giorni hanno visto in Ita­lia l’asfittico ripe­tersi del ciclo mono­tono «emer­genza migranti», guerra fra poveri, stru­men­ta­liz­za­zioni delle destre, nella fat­ti­spe­cie, Lega, Casa Pound, Fra­telli d’Italia. Il ciclo ricalca uno schema che ha già dato ampie prove di sé nel corso di tutto il Novecento. Que­sto schema si nutre sem­pre dello stesso veleno: nega­ti­viz­za­zione e cri­mi­na­liz­za­zione dell’altro in quanto tale.

Que­sto risul­tato si ottiene attra­verso mec­ca­ni­smi reto­rici di fal­si­fi­ca­zione, di gene­ra­liz­za­zione, attra­verso la dila­ta­zione e la mani­po­la­zione stru­men­tale di dati sta­ti­stici, attra­verso la pro­pa­ga­zione di allarmi sociali, l’evocazione di paure irra­zio­nali e la con­trap­po­si­zione ance­strale fra il noi e il loro come anta­go­ni­smo fra il legit­timo e l’illegittimo, fra la tito­la­rità e la clan­de­sti­nità. Da que­sto schema è espunto lo sta­tuto uni­ver­sale di dignità dell’essere umano. La poli­tica sta all’interno di que­sto cir­cuito per­verso o per soprav­vi­vere alla pros­sima cosid­detta emer­genza o per paras­si­tare qual­che van­tag­gio elet­to­rale con la pre­tesa di ergersi a pala­dina degli autoc­toni asse­diati dagli invasori.

Coloro che per ori­gine ideale dovreb­bero opporsi allo squal­lido tran­tran della poli­ti­chetta come mestiere non hanno nes­suna auto­re­vo­lezza o cre­di­bi­lità per farlo, non sanno ergersi oltre lo sta­tus quo, oltre la rou­tine media­tica. Alzare lo sguardo signi­fica ricor­dare che solo quarant’anni fa, nelle terre del nord, gli «altri» erano i nostri cit­ta­dini meri­dio­nali, i ter­roni, ricor­dare che nel corso di cento anni (1870–1970) gli «altri» sono stati gli ita­liani, 30 milioni di emi­granti (molti clan­de­stini) nelle Ame­ri­che, in Europa e in Australia.

È neces­sa­rio ricor­dare che cit­ta­dini autoc­toni simili in tutto e per tutto a quelli che oggi nel Veneto e alle porte di Roma non vogliono nel loro quar­tiere un pugno di migranti afri­cani, allora, con la stessa atti­tu­dine intol­le­rante, non vole­vano gli ita­liani, li descri­ve­vano come peri­co­losi, spor­chi, vio­lenti, criminali.

Chi oggi vuole respin­gere i migranti è por­ta­tore della stessa pato­lo­gica men­ta­lità di chi allora calun­niava, insul­tava e voleva ricac­ciare in mare i nostri con­cit­ta­dini che non sfug­gi­vano alle guerre ma alla fame ende­mica, alla dispe­ra­zione sociale, alla man­canza di futuro.

Nell’alluvione di reto­rica e fal­sità che accom­pa­gnano il pen­siero rea­zio­na­rio sulla «que­stione migranti» emerge come apo­teosi del rag­giro lo slo­gan fru­sto e truf­fal­dino: «Aiu­tia­moli a casa loro». Ma certo! Aiu­tia­moli a casa loro. Allora c’è un solo modo per farlo: espel­lere dall’Africa ogni inte­resse colonialista.

Il colo­nia­li­smo è stato, al di là di ogni pos­si­bile dub­bio, il più vasto e per­du­rante cri­mine della sto­ria dell’umanità. Il primo e più effe­rato cri­mi­nale anche se non il solo è stato l’Occidente e, per nulla pen­tito per­si­ste. Il cri­mine è per­du­rante e pro­se­gue nel nostro tempo con le guerre «uma­ni­ta­rie» o pre­ven­tive, con l’azione delle mul­ti­na­zio­nali, con la sot­tra­zione delle risorse più pre­ziose ai legit­timi tito­lari, impe­di­sce la sovra­nità ali­men­tare, idrica, arraffa terre ed è in com­butta con i gover­nanti più cor­rotti e tiran­nici. Vediamo que­sti poli­ti­ca­stri da quat­tro soldi se sono capaci di aiu­tarli a casa loro. Vediamo sotto i nostri occhi come sono capaci di con­tra­stare la schia­viz­za­zione dei lavo­ra­tori stra­nieri nei nostri campi di pomo­dori e nei nostri frut­teti. Ma fra le deva­sta­zioni più imper­do­na­bili con le quali la men­ta­lità colo­nia­li­sta ha inqui­nato il rap­porto fra uomini di cul­ture diverse c’è la con­ce­zione dell’altro visto come minore, sot­to­met­ti­bile, diseguale.

Prima l’ideologia colo­nia­li­sta si è auto asse­gnata il com­pito di civi­liz­za­zione di altre cul­ture defi­nite uni­la­te­ral­mente come inci­vili, oggi che le con­se­guenze dell’infestazione colo­niale por­tano grandi flussi migra­tori verso l’Europa, l’altro diventa inde­si­de­ra­bile, minac­cioso, da respin­gere. Ovvia­mente colui che mag­gior­mente viene ostra­ciz­zato è il più povero, il più dispe­rato, men­tre, per con­fon­dere le acque, ci si mostra dispo­ni­bili ad acco­gliere colui che è prov­vi­sto di attri­buti accet­ta­bili. Il raz­zi­sta e lo xeno­fobo odierni non vogliono essere defi­niti come tali, fin­gono di risen­tirsi con­tro chi li apo­strofa con l’epiteto che danno mostra di rite­nere insultante.

Ma oggi il vero spar­tiac­que fra chi, diciamo, crede nella piena dignità ed inte­grità dell’essere umano e chi con varie­gate moti­va­zioni, non lo crede risiede nelle con­trap­po­ste con­ce­zioni dell’emigrazione. Per chi acco­glie in sé la dignità dell’altro come bene supremo, l’emigrazione è pro­getto di tra­sfor­ma­zione per la costru­zione di una società di giu­sti­zia e soli­da­rietà. Per coloro che non per­ce­pi­scono in sé l’accoglienza dell’altro come oriz­zonte verso cui met­tersi in cam­mino l’emigrazione è pro­blema, emer­genza, tur­ba­tiva, invasione.

Chi, indi­vi­duo, asso­cia­zione, par­tito o movi­mento sostiene la piena dignità dell’altro e prende sul serio la «Dichia­ra­zione uni­ver­sale dei diritti dell’uomo» ha il dovere di radi­ca­liz­zare la pro­pria pero­ra­zione chie­dendo subito, come da tempo sug­ge­ri­sce il sin­daco di Palermo Leo­luca Orlando, l’abolizione uni­ver­sale del per­messo di sog­giorno. Il cam­mino sarà certo lungo ma è tempo di ini­ziarlo con decisione.

«Nel corso dei secoli, le diverse figure del gay sono state costruite per legittimitarle, ma soprattutto per imporre la norma di una divisione «naturale» tra mascolinità e femminilità. Tutta un’altra storia, l’appassionata e documentata ricerca sul campo di Giovanni Dall’Orto per il Saggiatore».

Il Manifesto, 22 luglio 2015 (m.p.r.)

«È più facile nascon­dere cin­que ele­fanti sotto un’ascella che un solo cinedo». Que­sto pro­ver­bio giunto fino a noi dal secondo secolo d.C. gra­zie alla penna di Luciano di Samo­sata, atte­sta che la favo­lo­sità non era acqua - per usare un’espressione camp - nem­meno nell’antichità clas­sica. Il cinedo di cui si magni­fica la capa­cità di atti­rare l’attenzione è infatti un per­so­nag­gio che oggi potremmo defi­nire una checca. E che evi­den­te­mente già allora si faceva notare parec­chio per la par­lan­tina, il senso este­tico come minimo sopra le righe e la pre­di­le­zione per il tea­tro di strada.

L’esempio basta e avanza per pren­dere in seria con­si­de­ra­zione quanto sostiene Gio­vanni Dall’Orto nel suo volu­mone sulla sto­ria dell’omosessualità maschile dalla Bib­bia ai giorni nostri edito dal Sag­gia­tore (Tutta un’altra sto­ria, pp.730, 27 euro): l’identità omo­ses­suale non è poi un’invenzione così moderna come certi acca­de­mici dicono per­ché già due­mila e rotti anni fa esi­ste­vano dei tipi umani che veni­vano «dedotti» dalle loro pecu­liari incli­na­zioni ses­suali. E non solo e non tanto i virili amanti dei ragazzi di cui ci sono state tra­man­date innu­me­re­voli noti­zie attra­verso l’arte e la let­te­ra­tura greca e romana. Que­sti pote­vano benis­simo rien­trare nella norma a patto di sal­va­guar­dare la loro masco­li­nità secondo i cri­teri dell’epoca. I cinedi invece erano quelli che sta­vano dall’altra parte del fos­sato dell’onore in quanto votati a una pas­sione esclu­siva per i maschi che li ren­deva simili alle fem­mine, fisi­ca­mente e/o psi­co­lo­gi­ca­mente. A tale cate­go­ria veni­vano ascritti indif­fe­ren­te­mente finoc­chi, tra­ve­stiti e trans gen­der ante lit­te­ram, rite­nendo che i loro disdi­ce­voli com­por­ta­menti fos­sero frutto di una con­di­zione inte­riore, cioè un orien­ta­mento ses­suale. «Dun­que - dice Dall’Orto - se cer­cate l’omosessuale antico, eccolo qui».

Il potere sulla sessualità

Certo la parola «omo­ses­suale» pare un po’ fuori con­te­sto, visto che entrò nel lin­guag­gio medico nel XIX secolo e in quello comune nel XX. Ma si tratta di un uso inten­zio­nal­mente pole­mico per­ché tra i prin­ci­pali obiet­tivi dell’autore c’è quello di smen­tire la cosid­detta teo­ria costru­zio­ni­sta, che discende dalle rifles­sioni sto­ri­che e filo­so­fi­che di Michel Fou­cault e secondo la quale «l’omosessualità sarebbe una costru­zione sociale creata dal Potere per repri­mere la libera ses­sua­lità umana» . Sarebbe stata inven­tata a que­sto scopo dalla medi­cina nell’Ottocento, men­tre prima di allora esi­ste­vano sì com­por­ta­menti omo­ses­suali ma non una «spe­cie» a sé stante.

Per gli stu­diosi che sosten­gono que­sta tesi, accu­sati anche di mono­po­liz­zare il dibat­tito acca­de­mico sulla sto­ria dell’omosessualità, Dall’Orto crea l’appellativo pro­vo­ca­to­rio di «inven­zio­ni­sti» e con loro duella a distanza lungo tutto il corso delle sue rifles­sioni attra­verso trenta secoli di sto­ria occi­den­tale. In pri­mis, obietta, la ses­sua­lità umana non è deter­mi­nata solo dalla cul­tura ma anche da un istinto irri­du­ci­bile che quando cer­chi di cac­ciarlo dalla porta rien­tra sem­pre dalla fine­stra, come dimo­strano tra l’altro molti secoli di per­se­cu­zioni dei sodo­miti e degli omo­ses­suali. Con que­sto ine­li­mi­na­bile dato di fatto la cul­tura ha dovuto fare i conti da ben prima del XIX secolo, ponen­dosi domande che dall’antica Gre­cia fino a oggi sono sor­pren­den­te­mente poco cam­biate (vedi il plu­ri­mil­le­na­rio dibat­tito sulle cause dell’inclinazione omo­ses­suale). Inol­tre gli sto­rici «inven­zio­ni­sti», sem­pre a giu­di­zio dell’autore, pro­pon­gono uno schema scan­dito da «faglie epi­ste­mo­lo­gi­che» in cui ogni para­digma cul­tu­rale sosti­tui­sce ed eli­mina il pre­ce­dente nei «discorsi del potere». Rite­nendo però valida una sola con­ce­zione della ses­sua­lità alla volta si crea una sorta di inco­mu­ni­ca­bi­lità tra le varie epo­che e si fini­sce per rap­pre­sen­tare come dei totali alieni gli abi­tanti di quelle pas­sate che ragio­na­vano secondo para­digmi diversi.

Sono cose che suc­ce­dono, con­clude Dall’Orto, quando si parte dalle teo­rie per dare un senso alle fonti sto­ri­che e non vice­versa. Pro­po­nen­dosi di fare il con­tra­rio, «la docu­men­ta­zione mostra che ogni società, sia in pas­sato che oggi, tende a col­ti­vare con­tem­po­ra­nea­mente più con­ce­zioni dell’omosessualità, anche con­trad­dit­to­rie e incon­ci­lia­bili, e que­ste con­ce­zioni si acca­val­lano, si fon­dono, si mesco­lano e si tra­sfor­mano a vicenda, in una con­ti­nua dia­let­tica fra “discorsi” e “con­tro­di­scorsi” nella quale è del tutto arbi­tra­ria ogni pre­tesa di indi­care la con­ce­zione dell’omosessualità in un dato momento sto­rico». Ne viene fuori una poli­fo­nia inca­si­nata e pure lacu­nosa, per­ché quella del silen­zio e della cen­sura è stata una delle stra­te­gie più valide per limi­tare i danni pro­dotti dalla dif­fu­sione del pec­cato indi­ci­bile. Ma con­forta sco­prire attra­verso le pagine di Tutta un’altra sto­ria quanto si sia arric­chito il puzzle negli ultimi trent’anni gra­zie all’effervescenza della ricerca nel modo anglo­sas­sone e nell’Europa occidentale.

Il testo e le den­sis­sime 160 pagine di note sco­mo­da­mente piaz­zate in fondo al libro ci som­mer­gono di cita­zioni e rimandi biblio­gra­fici da cui si può con­sta­tare che molta memo­ria di prima mano è già stata dis­sep­pel­lita dagli studi degli ultimi decenni e molta altra ancora sta solo aspet­tando che qual­che gio­vane appas­sio­nato le tolga la pol­vere di dosso, come Dall’Orto non manca mai di far notare quando se ne pre­senta l’occasione. Quel tanto che è già stato risco­perto ci resti­tui­sce comun­que un’immagine un po’ più defi­nita del pas­sato e con­sente di ten­tare di ten­tare un nuovo bilan­cio prov­vi­so­rio. Que­sta è poi la sostanza del libro, che non è né un manuale né un’enciclopedia di sto­ria gay ma il per­so­nale bilan­cio di uno sto­rico che dopo oltre trent’anni di ricer­che sul campo e di accesi con­fronti con amici e nemici cerca di fare il punto attra­verso la docu­men­ta­zione dispo­ni­bile. E rispet­tando la moti­va­zione ori­gi­na­ria del suo lavoro decide di rac­con­tare «una sto­ria degli omo­ses­suali e non degli omo­fobi», pri­vi­le­giando «i punti di vista dei per­se­gui­tati anzi­ché dei persecutori».

Il para­diso che non c’è

Gio­vanni Dall’Orto, infatti, viene dal movi­mento lgbt ed è stato (è) un punto di rife­ri­mento indi­scusso per la ricerca sto­rica pro­dotta den­tro o a fianco del movi­mento ita­liano, nella con­vin­zione che rico­struire una memo­ria col­let­tiva atten­di­bile fosse un passo neces­sa­rio verso l’uguaglianza prima di tutto psi­co­lo­gica. Fare la sto­ria degli omo­ses­suali espel­lendo gli omo­fobi dal qua­dro è uto­pi­stico, se non altro per­ché buona parte delle testi­mo­nianze che ci riman­gono sono tracce delle per­se­cu­zioni subite dagli uni ad opera degli altri. Ma d’altra parte i punti di vista e le esi­stenze delle vit­time par­lano anche attra­verso la memo­ria dei carnefici.

E cosa ci rac­con­tano? Abbiamo già accen­nato al fatto che Gre­cia e Roma non erano il «para­diso» che varie gene­ra­zioni di proto mili­tanti gay ave­vano descritto per legit­ti­mare se stesse e che studi più recenti hanno molto ridi­men­sio­nato. Il dato inne­ga­bile che in certi casi pra­ti­che e affetti omo­ses­suali fos­sero quan­to­meno tol­le­rati, quando non addi­rit­tura rac­co­man­dati, non toglie che fos­sero oggetto della pub­blica ripro­va­zione coloro che con­fon­de­vano ruoli e generi annul­lando le distin­zioni «natu­rali» tra chi domina e chi è domi­nato. E nem­meno che il vero labo­ra­to­rio dell’omofobia di stato uffi­cia­liz­zata dal cri­stia­ne­simo sia stata l’antichità pagana ancor più di quella ebraica, in un filo rosso che uni­sce Pla­tone agli stoici per arri­vare a San Paolo e da qui pro­se­guire per una schiera di santi e teo­logi suc­ces­sivi. Di suo il cri­stia­ne­simo ci mise l’anatema divino, pari­fi­cando nella colpa gli omo­ses­suali attivi a quelli pas­sivi e for­nendo un’interpretazione ana­cro­ni­stica dell’episodio di Sodoma e Gomorra che avrebbe col tempo sti­mo­lato il ricorso ai roghi. Di cui però non c’è trac­cia riscon­tra­bile, almeno nell’Europa occi­den­tale, per tutto l’Alto Medioevo.

La regres­sione della civiltà urbana fece spa­rire per secoli per­sino la pos­si­bi­lità di sot­to­cul­ture «gay» da repri­mere, men­tre «fra il VI e l’VIII secolo la repres­sione dei com­por­ta­menti omo­ses­suali passa dalle mani dello stato a quelle della chiesa, la quale li puni­sce con peni­tenze, man­dando nel dimen­ti­ca­toio la pena di morte e ancor più quella del rogo pre­vi­sta dagli ultimi impe­ra­tori romani». Lo sce­na­rio cam­bia dopo l’anno Mille, con il nuovo svi­luppo urbano e gli scon­vol­gi­menti socio-religiosi dei secoli XI-XIII. È qui che si per­fe­ziona la figura del sodo­mita, perio­di­ca­mente sacri­fi­cata sui roghi dalla metà del Due­cento alla Rivo­lu­zione Fran­cese in gran parte dell’Europa ad ogni ondata di rigore morale e allarme sociale. In que­sto frat­tempo però comin­ciamo ad avere la cer­tezza che gli stessi sodo­miti impa­rano a per­ce­pirsi come tali e cer­cano di orga­niz­zarsi. Dalle cro­na­che dei pro­cessi al pro­flu­vio di misure di poli­zia dirette ad argi­nare il feno­meno veniamo a cono­scenza delle mappe gay e delle reti sociali di città grandi o pic­cole, ma arri­vano fino a noi final­mente anche le voci dei sodo­miti, che sem­pre più spesso met­tono ere­ti­ca­mente in discus­sione la gra­vità del loro peccato.

Con il tempo, tra spinte e con­tro­spinte, sarà l’intera società occi­den­tale a farlo e ciò por­terà all’abolizione della pena di morte ma non alla fine delle per­se­cu­zioni. E qui giun­giamo a un punto cru­ciale, quando nell’Ottocento nasce uffi­cial­mente il con­cetto di omo­ses­sua­lità dopo che dell’argomento ini­ziano a occu­parsi anche medici e psi­chia­tri oltre a pre­di­ca­tori, giu­dici e poli­ziotti. L’opinione di Dall’Orto in pro­po­sito è che la medi­cina non inventò affatto l’omosessualità, ma si limitò a pato­lo­giz­zarla. Con con­se­guenze tut­ta­via impre­vi­ste, per­ché lo svi­luppo del dibat­tito scien­ti­fico offrì uno spa­zio pri­vi­le­giato per «bucare la cappa di omertà» della morale domi­nante e discu­tere aper­ta­mente, offrendo per la prima volta agli stessi omo­ses­suali l’opportunità di inter­ve­nire nella discus­sione e di influen­zare con le loro teo­rie e testi­mo­nianze i discorsi medici.

Iste­ria omofoba

Si dif­fu­sero i memo­riali e le con­fes­sioni in cui i pazienti cer­ca­vano sco­per­ta­mente di tirare i dot­tori dalla loro parte, per­sino riu­scen­doci qual­che volta. Dopo­di­ché gli omo­ses­suali comin­ciano ad orga­niz­zarsi dav­vero e a recla­mare il diritto di vivere come tali alla luce del sole. Soprat­tutto in Ger­ma­nia, dove solo la vio­lenza nazi­sta riu­scì a stron­care il più avan­zato espe­ri­mento di libe­ra­zione omo­ses­suale mai visto fino ad allora. Fasci­smo e nazi­smo, insieme alla ver­sione sta­li­niana del comu­ni­smo e all’America del mac­car­ti­smo e din­torni (senza dimen­ti­care la Gran Bre­ta­gna che sui­cidò Alan Turing) costi­tui­scono altret­tanti pezzi di quello che dall’Orto defi­ni­sce «il picco più alto d’isteria omo­fo­bica dell’intera sto­ria umana». Ma fu poi dalla rea­zione a que­ste per­se­cu­zioni che negli Stati Uniti nac­que il movi­mento gay con­tem­po­ra­neo, che pro­pagò attra­verso il pia­neta i pro­pri stili, lin­guaggi e modelli orga­niz­za­tivi. Il resto è cro­naca dell’apparentemente inar­re­sta­bile mar­cia di inte­gra­zione delle mino­ranze lgbt in tutto l’occidente. Con la vistosa ecce­zione dell’Italia che del resto, ammette l’autore, non è l’America.

«Yanis Varoufakis sta mettendo insieme una formazione politica con ambizioni europee più ancora che nazionali, dove Syriza resta forte. Una formazione di sinistra, radicale, intransigente “ma non biecamente marxista-leninista”».

La Repubblica, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

Roma. «Cari amici tedeschi, un’Europa in cui voi dettate le leggi con un gruppetto di Paesi nordici e baltici al seguito, è inaccettabile per tutti gli altri». Parole aspre e fiere, dettate da un amico, o forse è meglio dire un ex-amico: Dominique Strauss-Kahn, che prima di perdere il posto all’Fmi per le vicissitudini boccaccesche era stato il potente ministro dell’Economia al fianco di Francois Mitterrand nelle trattative con la Germania post-unificazione per la nascita dell’euro.

Ma ancora più significativa è la tribuna da cui è stata resa pubblica la lettera di DSK: il blog di Yanis Varoufakis, che dichiaratamente sta mettendo insieme una formazione politica con ambizioni europee più ancora che nazionali, dove Syriza resta forte. Una formazione di sinistra, radicale, intransigente «ma non biecamente marxista-leninista», precisa Jean-Paul Fitoussi, l’economista che con Strauss-Kahn ha condiviso decenni di insegnamento in quell’atelier di cultura liberal che è la parigina SciencesPo. E che è tuttora suo grande amico: «State tranquilli, non è un rivoluzionario senza speranze, è un riformista moderato che ha a cuore il bene dell’Europa».

La strana coppia Varoufakis-DSK insomma mette le basi per un raggruppamento politico transnazionale che può essere davvero un esperimento nuovo, al quale hanno già dato la loro adesione informale alcuni prestigiosi economisti americani, da James Galbraith al premio Nobel Joseph Stiligliz. «Voi contate i vostri miliardi – scrive DSK ai tedeschi – anziché usarli per aiutare chi sta peggio di voi, rifiutate di accettare una peraltro scontata riduzione dei crediti, mettere il risentimento davanti ai progetti per il futuro, voltate le spalle a quello che l’Europa dovrebbe essere, cioè una comunità solidale, a rischio che il castello vi crolli addosso». Prove tecniche, per ora, di un partito filo-europeo ma fortemente critico con il mainstream economico.

«A Nicosia sta accadendo l’incredibile: per la prima volta i leader delle due comunità, la minoranza turca e la maggioranza greca, hanno una visione comune, quella di uno Stato federato sullo stile dell’Unione Europea». Corriere della Sera, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

Nicosia. Il 20 luglio a Cipro c’è chi piange e chi festeggia. I greci fanno suonare le sirene alle 5,30 del mattino per ricordare l’invasione turca del 1974 delle coste a nord e vanno sulle tombe a commemorare i morti. I turchi disseminano le città di bandierine con su la mezzaluna e portano i bambini a vedere la parata militare con i poliziotti che si sdraiano sulle moto in corsa e fanno gli addominali. Nella parte Nord dell’isola è la giornata della Pace e della Libertà, una festa nazionale. Ma per il resto del mondo la data ricorda un’invasione e un’occupazione illegale che dura tuttora.
Quest’anno, però, molto è cambiato. Il presidente della Repubblica Turca di Cipro Nord, Mustafa Akinci, eletto lo scorso aprile, ha ammesso per la prima volta che l’operazione militare di 41 anni fa, in risposta al colpo di Stato che depose l’allora Capo di Stato Makarios, non fu un’operazione di pace: «Non c’è dubbio che possiamo chiamarla guerra - ha spiegato domenica prima dell’inizio dei festeggiamenti -. E che oltre alla grande sofferenza dei turchi ciprioti negli anni ‘50 e ‘60, c’è stata anche quella dei greci dopo la tragedia del 1974 causata dalla giunta greca». Parole molto apprezzate dall’omologo greco Nicos Anastasiades che dice: «Dobbiamo guarire le ferite e far sbiadire le cicatrici».

Passi enormi sulla via della pace. A Nicosia sta accadendo l’incredibile: per la prima volta i leader delle due comunità, la minoranza turca e la maggioranza greca, hanno una visione comune, quella di uno Stato federato sullo stile dell’Unione Europea. «Le differenze si assottigliano ogni giorno che passa» ha detto l’inviato speciale delle Nazioni Unite Espen Barth Eide che ha il compito di vigilare sul negoziato. «Se tutto va come dovrebbe - ha spiegato - la scelta cadrà su una struttura federale in cui ci sono due Stati costituenti con poteri e competenze chiare». Il Paese farà parte della Ue come già oggi la Cipro greca. «Su questo - dice Eide - l’accordo è pieno, al cento per cento».
Ma Ankara lascerà andare la sua creatura libera sulle proprie gambe? Ieri il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, presente ai festeggiamenti, ha parlato di «una buona opportunità che non deve essere persa». «Noi siamo qui - ha aggiunto rivolgendosi ad Akinci -, accanto a voi, come sempre. La terra madre e la terra bambina». Ma il cipriota, al contrario, già ad aprile rivendicava la sua autonomia di Stato indipendente per negoziare senza lacci e lacciuoli.

«Ma alla autorità e sovranità di una nuova Europa politicamente unita chi oggi sta seriamente pensando e lavorando? Soltanto costui potrebbe assumerne in futuro anche la guida politica. Tranquilli, non sembra proprio poter essere la Germania. Purtroppo».

La Repubblica, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

La crisi che attraversa la costruzione dell’unità politica europea sta avendo, se non altro, il benefico effetto di farci comprendere che le relazioni tra popoli e culture investono problemi leggermente più complessi di quelli che sono in grado di affrontare non solo banche e ragionerie centrali, ma anche diplomazie e politici di professione. Il realismo degli stenterelli lascia qualche varco a considerazioni, per così dire, meta-politiche, indispensabili per interpretare la visione che un Paese ha di se stesso e dei suoi rapporti con gli altri. Certo, la storia insegna poco, poiché tutto muta (fuorché l’uomo), ma può tuttavia orientarci. Se gli “exempla” del passato non possono avere il peso che un Machiavelli attribuiva loro, nemmeno dobbiamo rassegnarci a un guicciardinismo in sedicesimo.

Raccontantoci che tutto è nuovo e solo conta l’esperienza attuale. Così sulla questione decisiva della relazione tra Berlino e mondo latino-mediterraneo è altrettanto sbagliato ricorrere a immagini di maniera, evocando una germanica volontà di potenza, quanto ripetere l’ovvietà che la storia tedesca dell’intero dopoguerra rende culturalmente inconcepibile, prima ancora che concretamente impercorribile, ogni velleità imperiale. Il dilemma proposto da Thomas Mann, “Europa germanica o Germania europea?”, appartiene certo al mondo di ieri, ma ciò non significa che esso non debba essere ripensato. Come storicamente la Germania si è immaginata europea? E tale immagine è ancora efficace? Come l’Europa può essere oggi germanica? O è necessario lottare perché non lo sia?

Che tra cultura tedesca (cultura non in senso letterario o vetero-umanistico, ma come senso comune e “forma mentis”) e mondo mediterraneo la relazione sia sempre stata quella tra distinti inseparabili, in costante e fecondo alternarsi di amore e odio, di nostalgia e repulsione, è un fatto che non ci spiega ancora come tale inseparabilità venga interpretata e vissuta. Intanto, essa si pone in termini completamente diversi nei confronti del mondo latino (die Welsche!) e di quello greco. Lo stesso “viaggio in Italia” non è, a ben vedere, che tappa di un itinerario verso l’Ellade. E si tratta di un’anabasi alle fonti della propria stessa lingua! Il mito della consanguineità della “più perfetta delle lingue”, come Herder riteneva la greca, con quella tedesca percorre l’intera cultura germanica dal ‘700 fino alla grande filologia dei Wilamowitz e degli Jaeger, da Hegel a Heidegger.
Tuttavia, nessuno forse ci aiuta a intenderne il vero senso meglio del più grande lirico tedesco, Hoelderlin. Gli dèi della Grecia sono fuggiti; andavano un tempo tra i mortali, ma ora vivono nella stessa assenza. Ciò che verrà non è quell’Ellade, non sono quegli dèi. Verrà il loro erede. E questo è la Germania. Il viaggio in Grecia significa, in realtà, la trasmigrazione in Germania dello spirito greco. La Grecia non è più in Grecia, e soltanto il grembo tedesco potrà rigenerarla. Dove il genio di Atene sarà fatto di nuovo valere? Sulle rive dei fiumi tedeschi, nelle sue nobili città. E perché qui soltanto? Perché questo è il luogo “dove il lavoro si svolge silenzioso negli opifici” e la scienza, il sapere, illumina e orienta lo stesso artista zum Ernste, alla serietà.
Queste visionarie parole del grande inno Germanien forniscono la traccia più preziosa per intendere, nella sua sostanza meta-politica, il vitale rapporto della cultura tedesca con il mondo classico-mediterraneo. Questo mondo appare in sé un mero passato, e soltanto “traslato” in lingua tedesca (e cioè armonizzandolo con l’intera storia culturale e religiosa che in essa si custodisce) ha un avvenire. Facciamola finita, dunque, con gli irenistici discorsi intorno ad un generico “amore” per esso da parte della “serietà tedesca”. Amore certamente è stato, ma un amore che assimila, che fa proprio e si ama per questa sua capacità.
Facile intuire quanto una tale immagine sia ancora efficace. Essa comporta necessariamente velleità egemoniche? Nient’affatto – il che non significa sottovalutare l’efficacia demagogica in chiave micro-nazionalista delle chiacchiere sui “quarti Reich”. Ma è impensabile che la Germania possa affrontare la crisi greca, oggi, o qualunque altra crisi mediterranea in futuro, se non alla luce dell’idea-guida della sua storia, almeno dal dopoguerra: il valore etico assoluto attribuito alla “serietà” del proprio lavoro, che ha reso possibile la ricostruzione prima e la riunificazione dopo, sempre in condizioni di sicurezza e stabilità finanziaria. E proprio questo contraddice dalle fondamenta ogni pretesa o istanza di dominio!
La prospettiva di un’Europa germanica non esiste per il semplice motivo che qualsiasi volontà di potenza, per esprimersi, non può assumere a proprio valore guida la stabilità! Una Germania che volesse dominare in Europa dovrebbe svolgere politiche opposte a quelle cui spesso è tentata: politiche di sviluppo, di crescita, che le attirino interessi e simpatie da parte dei popoli europei. Forse il nostro dramma è esattamente l’opposto di quello che temono le anime belle ancora “incantate” da mitologie imperialistiche. Non è l’eccesso di auctoritas tedesca a distruggere l’Europa, ma piuttosto l’assenza di ogni auctoritas. Si continuano ad annusare in giro volontà di potenza, quando proprio tali volontà mancano del tutto, e ci si limita a fronteggiare le emergenze senza alcuna strategia geopolitica. Insorgeranno le anime belle: lo spirito europeo non tollera l’”ex pluribus unum”! la diversità dei suoi linguaggi non potrà mai essere cancellata e ridotta ad uno!
Certo; ma altrettanto poco funziona l’”ex pluribus plures”; anzi, questo motto altro non è che la più vuota delle tautologie. Possiamo parlare dei molti, soltanto se essi si presentano “raccolti” in una qualche forma, soltanto se una struttura li governa. Soltanto, insomma, se una qualche sovranità opera efficacemente. L’unica al momento disponibile è quella delle strutture tecnico- amministrativo-finanziarie, che mai ha avuto e mai avrà legittimità e autorità culturale-politica. Tantomeno potranno averla gli staterelli europei ognuno per proprio conto. Ma alla autorità e sovranità di una nuova Europa politicamente unita chi oggi sta seriamente pensando e lavorando? Soltanto costui potrebbe assumerne in futuro anche la guida politica. Tranquilli, non sembra proprio poter essere la Germania. Purtroppo.

«La nostra proposta è stata accolta con un silenzio assordante. Più precisamente, l’Eurogruppo e la troika hanno continuato a far credere ai media del mondo che le autorità greche non avevano proposte credibili e innovative da offrire».

Corriere della Sera, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

Il 12 luglio, il summit dell’eurozona ha imposto le condizioni della resa al primo ministro greco Alexis Tsipras, che, terrorizzato dalle alternative, le ha accettate tutte. Una di queste condizioni riguardava la cessione dei restanti beni pubblici della Grecia. I leader europei hanno chiesto che i beni pubblici greci siano trasferiti in un fondo equivalente al Treuhand - un’agenzia deputata alla svendita simile a quella usata dopo la caduta del muro di Berlino per privatizzare velocemente, con grandi perdite finanziarie e con effetti devastanti sull’occupazione, tutto il patrimonio pubblico della Germania dell’Est che stava scomparendo. Il Treuhand greco sarebbe situato - udite udite - a Lussemburgo, e sarebbe gestito da un gruppo supervisionato dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, autore del modello. Dovrebbe completare la svendita entro tre anni. Tuttavia, mentre il lavoro del Treuhand originale era accompagnato da un massiccio investimento della Germania dell’Ovest in infrastrutture e trasferimenti sociali su larga scala verso la Germania dell’Est, il popolo greco non riceverà nessun beneficio di alcun genere.

Euclid Tsakalotos, diventato mio successore come ministro delle Finanze della Grecia da due settimane, ha fatto del suo meglio per migliorare gli aspetti peggiori del Treuhand greco. È riuscito a mantenere il fondo ad Atene, e ha ottenuto dai creditori della Grecia (la cosiddetta troika della Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) l’importante concessione che le vendite siano estese a 30 anni, piuttosto che a 3. Una conquista importante, perché consentirà allo Stato di tenere gli asset sottostimati fino a che il loro prezzo non si riprenda dagli attuali cali che hanno indotto la recessione.
Ahimè, il Treuhand greco resta un abominio, e dovrebbe essere un marchio sulla coscienza dell’Europa. Peggio, è un’opportunità sprecata. Il piano è politicamente tossico, dal momento che il fondo, anche se domiciliato in Grecia, sarà effettivamente gestito dalla troika. È anche finanziariamente nocivo, poiché i proventi andranno a pagare quello che anche secondo l’Fmi è un debito insostenibile. E rappresenta un fallimento economico, poiché spreca una straordinaria opportunità di creare investimenti locali per contrastare l’impatto recessionistico del consolidamento fiscale punitivo che rientra nelle «condizioni» del summit del 12 luglio.
Non doveva andare così. Il 19 giugno ho comunicato al governo tedesco e alla troika una proposta alternativa, che fa parte del documento intitolato Fine della crisi greca: «Il governo greco propone di raggruppare i beni pubblici (esclusi quelli relativi alla sicurezza del Paese, le bellezze pubbliche e il patrimonio culturale) in una holding centrale separata dall’amministrazione del governo e gestita da un ente privato, sotto l’egida del Parlamento greco, con l’obiettivo di massimizzare il valore degli asset e di creare un flusso di investimenti locale. Lo Stato greco sarà l’unico azionista, ma non darà in garanzia le sue passività o il debito». La holding giocherà un ruolo attivo preparando i beni alla vendita: «Emetterà un bond completamente collateralizzato sui mercati dei capitali internazionali» per raccogliere 30-40 miliardi di euro (32-43 miliardi di dollari), che, «prendendo in considerazione l’attuale valore degli asset», saranno «investiti nella modernizzazione e ristrutturazione degli asset in gestione».
Il programma ha previsto un piano di investimenti di 3-4 anni, con conseguente «ulteriore spesa del 5% del Pil all’anno», con le attuali condizioni macroeconomiche che implicano «un moltiplicatore di crescita positivo superiore all’1,5», il che «dovrebbe spingere la crescita del Pil a un livello superiore al 5% per diversi anni». Ciò, a sua volta, indurrebbe «proporzionali aumenti del gettito fiscale contribuendo in tal modo alla sostenibilità fiscale e consentendo al contempo al governo greco di esercitare la disciplina della spesa senza affossare ulteriormente l’economia sociale». In questo scenario, l’avanzo primario (che esclude il pagamento degli interessi) «raggiungerà una certa rilevanza sia in termini assoluti che in termini percentuali nel tempo». Di conseguenza, alla holding «sarà concessa una licenza bancaria» entro un anno o due, «trasformandosi quindi in una Banca dello sviluppo capace di avere un assumere un ruolo primario negli investimenti privati alla Grecia e di partecipare a progetti collaborativi con la Banca europea di investimenti».
La Banca di sviluppo che abbiamo proposto «permetterà al governo di scegliere quali asset privatizzare e quali no, garantendo al contempo un maggiore impatto sulla riduzione del debito dalle privatizzazioni selezionate». Dopo tutto, «il valore degli asset dovrebbe aumentare di un importo superiore a quello attuale speso sulla modernizzazione e sulla ristrutturazione, sostenuto da un programma di partnership pubblico-privato il cui valore è aumentato in base alla probabilità di privatizzazione». La nostra proposta è stata accolta con un silenzio assordante. Più precisamente, l’Eurogruppo e la troika hanno continuato a far credere ai media del mondo che le autorità greche non avevano proposte credibili e innovative da offrire - il loro solito ritornello. Pochi giorni dopo, una volta constatato che il governo greco stava per capitolare del tutto di fronte alle richieste della troika, hanno ritenuto opportuno imporre alla Grecia il loro modello del Treuhand umiliante, inimmaginabile e pericoloso.
In un momento cruciale per la storia europea, la nostra alternativa innovativa è stata gettata via. Tocca agli altri recuperarla.

Yanis Varoufakis è l'ex ministro delle Finanze della Grecia
Il testo originale dell'articolo è stato pubblicato da www.project-syndicate.org

L'estrema gravità di una situazione nella quale la smania politica della coppia Merkel/Schäuble di sconfiggere, con Alexis Tsipras, la possibilità di un'Europa diversa da quella a trazione tedesca, e l'ignavia delle socialdemocrazie europee hanno gettato il nostro continente nelle macerie del sogno federalista, il preannuncio di un riemergere dei fantasmi del più feroce passato.

Il manifesto, 21 luglio 2015

Gli «accordi» del 13 luglio a Bru­xel­les tra l’unione euro­pea e la Gre­cia segnano la fine di un’epoca? Sì, ma cer­ta­mente non nel senso indi­cato dal comu­ni­cato con­clu­sivo del «ver­tice». In effetti gli «accordi» sono fon­da­men­tal­mente inap­pli­ca­bili e tut­ta­via costi­tui­scono una for­za­tura altret­tanto vio­lenta, e ancor più con­flit­tuale, di quanto è già avve­nuto negli ultimi cin­que anni. Si è par­lato di dik­tat e que­sta dram­ma­tiz­za­zione è basata su fatti concreti.

Le pro­po­ste con le quali Ale­xis Tsi­pras è arri­vato a Bru­xel­les erano in con­trad­di­zione con il risul­tato del refe­ren­dum, ma face­vano ancora parte di un pro­getto sul quale aveva l’iniziativa per potere spe­rare di svi­lup­pare una poli­tica nell’interesse del suo popolo. I suoi «inter­lo­cu­tori» si sono impe­gnati a far fal­lire que­sto ten­ta­tivo. Il risul­tato è un anti-piano senza alcuna razio­na­lità eco­no­mica, che asso­mi­glia a un salasso e a un sac­cheg­gio dell’economia nazionale.

Peg­gio ancora, le misure di «messa sotto tutela» isti­tui­scono un pro­tet­to­rato nell’Unione Europea.

La Gre­cia non è più sovrana: non nel senso di una sovra­nità con­di­visa, che impli­che­rebbe un pro­gresso verso il fede­ra­li­smo euro­peo, ma nel senso di un assog­get­ta­mento al potere del Padrone. Di quale «Padrone» si tratta? Per descri­vere il regime che governa oggi l’Europa, il filo­sofo tede­sco Jür­gen Haber­mas ha par­lato di «fede­ra­li­smo ese­cu­tivo post­de­mo­cra­tico». Ma que­sto «ese­cu­tivo» è occulto e infor­male. La Com­mis­sione ha ceduto il potere all’Eurogruppo, che non dipende da alcun trat­tato e non obbe­di­sce a nes­suna legge. Il suo pre­si­dente si limita a essere il por­ta­voce dello Stato più potente.

Que­sto signi­fica che il nuovo regime non è altro che la maschera dell’imperialismo tedesco?

L’egemonia è senz’altro reale, certo, ma è espo­sta a nume­rose con­te­sta­zioni, tra cui quella della Bce. Pro­sciu­gando la liqui­dità di emer­genza, la Bce ha svolto un ruolo deter­mi­nante, «ter­ro­ri­stico», per pie­gare Atene. Que­sto non signi­fica tut­ta­via che la con­cer­ta­zione tra Ber­lino e Fran­co­forte fun­zioni sem­pre, né che gli inte­ressi e le ideo­lo­gie siano iden­ti­che. Que­sta divi­sione dura­tura nell’«esecutivo» euro­peo fa parte della sua costi­tu­zione materiale.

Come ne fanno parte le diver­genze tra governo fran­cese e tede­sco. È impor­tante capire ciò che li ha sepa­rati, senza natu­ral­mente pren­dere per oro colato le loro giu­sti­fi­ca­zioni. Per quanto riguarda i tede­schi, le ragioni poli­ti­che della loro «intran­si­genza» sono state più rile­vanti di quelle eco­no­mi­che. I due schemi del Bun­de­sfi­nan­z­mi­ni­ste­rium: uscita «prov­vi­so­ria» della Gre­cia dall’euro, o espro­pria­zione delle sue risorse nazio­nali, erano in fondo equi­va­lenti, se si con­si­dera che l’obiettivo ultimo era (e resta) la caduta di Syriza.

Sul lato fran­cese si era con­vinti che l’unica maniera per far pas­sare l’aumento dell’austerità tra la popo­la­zione greca era quella di sca­ri­carlo su Syriza. Dopo tutto lo stesso Hol­lande ha una certa espe­rienza nel tra­di­mento delle pro­messe elet­to­rali… Ma la chiave è la pre­oc­cu­pa­zione evi­den­ziata da Varou­fa­kis: resi­stere al modo in cui la Ger­ma­nia si è ser­vita della situa­zione greca per «disci­pli­nare la Fran­cia». Si può dire che, nella notte fati­dica, Hol­lande abbia «vinto» sul man­te­ni­mento della Gre­cia nell’euro, ma abbia «perso» sulle sue con­di­zioni. Quando si cono­scerà il seguito di que­sta vicenda, è pro­ba­bile che la sua vit­to­ria non lo por­terà lontano…

Que­ste trat­ta­tive sulle spalle dei greci non hanno evi­den­te­mente risolto nes­suno dei pro­blemi che sono alla radice della crisi. Anzi, li hanno aggravati.

Il debito euro­peo accu­mu­lato, quello pub­blico e soprat­tutto quello pri­vato, rimane incon­trol­la­bile. Volerlo fis­sare in Gre­cia non serve ad altro che a farlo aumen­tare, man­te­nendo l’insicurezza della moneta comune.

Qual­siasi solu­zione si scon­tra con un pro­blema ancora più pre­oc­cu­pante per il futuro dell’Europa: l’aumento delle dise­gua­glianze e la loro tra­sfor­ma­zione in rap­porti di domi­nio. Un abisso si è allar­gato in un’«Unione» il cui pro­getto asso­ciava la ridu­zione delle ini­mi­ci­zie seco­lari con l’apertura di una pro­spet­tiva di pro­spe­rità e di com­ple­men­ta­rità tra i popoli.

Il 13 luglio ha evi­den­ziato soprat­tutto la gra­vità del pro­blema demo­cra­tico in Europa, e della man­canza di legit­ti­mità che esso induce. Il più serio degli argo­menti sol­le­vati con­tro le richie­ste gre­che è quello che ha riba­dito che la «volontà di un solo popolo» non può pre­va­lere su quella degli altri. È incon­te­sta­bile, ma non ha senso senza un con­trad­di­to­rio al quale tutti i cit­ta­dini euro­pei siano invi­tati a par­te­ci­pare insieme. La tec­no­strut­tura e le classi poli­ti­che dei dif­fe­renti paesi non vogliono nem­meno sen­tirne parlare.

Il males­sere e la col­lera gene­rati da que­sto spo­sta­mento di potere verso le isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali e gli orga­ni­smi occulti con­ti­nue­ranno così ad aumen­tare. In «com­penso» si è messo in moto un dispo­si­tivo inquie­tante: i con­tri­buenti dei diversi paesi sono stati mar­tel­lati dall’idea che non smet­te­ranno di «pagare per i greci» e che lo faranno di tasca loro. Que­sta pro­pa­ganda genera un potente popu­li­smo «di cen­tro» che ali­menta le pas­sioni xeno­fobe in tutto il con­ti­nente. Sarà l’estrema destra a capi­ta­liz­zarne i frutti.

In que­sta situa­zione, Syriza si trova di fronte a un dilemma ter­ri­bile. Il memo­ran­dum è pas­sato al Par­la­mento greco per­ché i vec­chi par­titi di governo hanno votato a favore, ma con una forte mino­ranza di oppo­si­tori, tra i quali ci sono una tren­tina di depu­tati di Syriza. Assu­men­dosi le sue respon­sa­bi­lità, il primo mini­stro ha dichia­rato di «non cre­dere» nelle virtù del piano di Bru­xel­les, ma che biso­gnava accet­tarlo per evi­tare un «disa­stro». Ci sono già stati scio­peri e mani­fe­sta­zioni. La crisi è aperta e continuerà.

Il prin­ci­pale appog­gio «esterno» di cui dispone al momento Tsi­pras è giunto para­dos­sal­mente dal Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale. Pub­bli­cando la sua ana­lisi sull’insostenibilità del debito greco, chie­dendo agli euro­pei di «alleg­ge­rirlo», ha avviato una sorta di rine­go­zia­zione stri­sciante. Ma Schäu­ble ha subito rilan­ciato l’idea di una «Gre­xit tem­po­ra­nea», che ha come posta la stessa appar­te­nenza della Gre­cia all’Unione Europea.

La situa­zione interna è quella deter­mi­nante. Da anni, la società greca si è difesa con­tro l’impoverimento e la dispe­ra­zione svi­lup­pando straor­di­na­rie lotte e mol­te­plici forme di soli­da­rietà. Ora è esau­sta, divisa secondo linee che pos­sono diver­gere brutalmente.

Molto dipen­derà dal modo in cui sarà per­ce­pita l’azione di governo: come «tra­di­mento» o come «resi­stenza». È fon­da­men­tale che Tsi­pras abbia per­se­ve­rato nella deci­sione di dire la verità. Ha dovuto però fare un rim­pa­sto di governo e annun­ciare la pos­si­bi­lità di ele­zioni anti­ci­pate, che si pre­sen­tano come alta­mente rischiose.

Sog­getta a simili ten­sioni, Syriza resterà unita?

La spinta verso implo­sione viene dall’esterno, ma anche dai «mar­xi­sti» che hanno sem­pre visto nella Gre­xit un’occasione da cogliere. Pur legit­tima, ci sem­bra che la con­te­sta­zione non dovrebbe por­tare a fare il gioco dell’avversario, pre­ten­dendo di mono­po­liz­zare la potenza espressa dal «No» del 5 luglio, che costi­tui­sce la forza del movi­mento. O l’unità tiene, e allora la dia­let­tica tra attua­zione dell’«accordo» e resi­stenza potrà svi­lup­parsi in forme ine­dite, in cui un ruolo fon­da­men­tale dovrà essere svolto dalla mobi­li­ta­zione sociale. Oppure cederà, sep­pel­lendo la spe­ranza era nata in Gre­cia, in Europa e nel mondo.

Aggiun­giamo solo un’ultima battuta.

Tsi­pras lo ha detto chia­ra­mente: la solu­zione che abbiamo dovuto sce­gliere non era la migliore, è stata solo quella meno disa­strosa per la Gre­cia e per l’Europa. Que­sto impe­gno al ser­vi­zio dell’interesse comune ci asse­gna grandi respon­sa­bi­lità. Fino ad oggi, biso­gna pur dirlo chia­ra­mente, il nostro soste­gno non è stato all’altezza della situa­zione. Ma la «lunga mar­cia» per l’Europa soli­dale e demo­cra­tica non è finita il 13 luglio 2015. Con­ti­nuerà anche in Gre­cia, men­tre altri movi­menti cari­chi di spe­ranza ne pren­de­ranno il testi­mone. L’unione fa la forza.

Il pre­sente testo sarà pub­bli­cato dal quo­ti­diano Libe­ra­tion in Fran­cia e dal gior­nale Der Frei­tag in Ger­ma­nia. Una ver­sione più ampia si può leg­gere nel sito di Open Demo­cracy.

Tra­du­zione di Roberto Ciccarelli

Il manifesto, 21 luglio 2015

La sim­bo­lo­gia del pogrom si era già espressa, a Quinto di Tre­viso, col rogo delle sup­pel­let­tili di uno degli alloggi desti­nati ai pro­fu­ghi: raz­ziate, get­tate in strada e date alle fiamme tra la folla plau­dente. Ora il maca­bro festino dell’intolleranza si arric­chi­sce di un det­ta­glio ancor più espli­cito: le minacce al pre­fetto di Roma, Franco Gabrielli, reo di non aver ceduto al ricatto dei cit­ta­dini «esa­spe­rati» di Casale San Nicola.

In uno sgan­ghe­rato mes­sag­gio via Face­book, l’autore delle minacce, il vice­pre­si­dente, leghi­sta, del con­si­glio regio­nale delle Mar­che, inde­gno della carica isti­tu­zio­nale che rico­pre, pro­mette «olio di ricino» al «porco di un comunista».

Siamo ormai a un punto di svolta allar­mante, con Sal­vini che vomita quo­ti­dia­na­mente ingiu­rie e cli­ché raz­zi­sti come: «Smet­tete di coc­co­lare migliaia di clan­de­stini. Acco­glie­teli in pre­fet­tura o a casa vostra, se pro­prio li volete».

Men­tre il sistema di acco­glienza dei pro­fu­ghi mostra tutta la sua ina­de­gua­tezza, men­tre sugli sco­gli di Ven­ti­mi­glia il gruppo di gio­vani esuli con­ti­nua a resi­stere da più di un mese, abban­do­nato da ogni isti­tu­zione cen­trale, il blocco fascio­le­ghi­sta, aiz­zato da capo­rioni quali Zaia e Sal­vini, imper­versa da Nord a Sud, gui­dando la rivolta dei «pro­prie­tari del ter­ri­to­rio»: marce, molo­tov, cas­so­netti incen­diati e saluti romani.

Arduo è que­sta volta giu­sti­fi­care i ten­tati pogrom con la reto­rica della guerra tra poveri, seb­bene alcuni media per­si­stano. Non siamo in peri­fe­rie estreme, degra­date e abban­do­nate, ma in un comune tutt’altro che povero, ammi­ni­strato da un mono­co­lore leghi­sta, e in un sob­borgo romano tutto ville e piscine.

In realtà, gli impren­di­tori poli­tici del raz­zi­smo, spal­leg­giati da quelli mediali, non fanno che legit­ti­mare od orga­niz­zare pro­te­ste che si nutrono di una per­ce­zione deli­rante degli altri: quella che li col­loca, sim­bo­li­ca­mente e fat­tual­mente, nella sfera dell’estraneità all’umano. Solo così è spie­ga­bile come si possa par­te­ci­pare o con­sen­tire al lan­cio di sassi e bot­ti­glie con­tro il fur­gone che a Casale San Nicola tra­spor­tava i dician­nove gio­vani richiedenti-asilo, già sgo­menti per aver dovuto abban­do­nare d’un tratto la siste­ma­zione pre­ce­dente e ter­ro­riz­zati dalla torma degli scalmanati.

In realtà, coloro che si sono lasciati gui­dare dai fascio­le­ghi­sti niente sanno dei pro­fu­ghi allog­giati o da allog­giare nel «loro ter­ri­to­rio»: non ne cono­scono nep­pure le nazio­na­lità. Gra­zie al mar­tel­la­mento mediale dovreb­bero, però, essere edotti dell’epopea che li vede tra­gici eroi del nostro tempo: la fuga da mondi in fiamme o in sfa­celo, l’estenuante tra­ver­sata peri­gliosa del Medi­ter­ra­neo, i cada­veri, anche di bam­bini, abban­do­nati alle acque nostre, le madri che sbar­cano orfane dei figli e i figli che appro­dano orfani dei geni­tori… Ma quel che forse sanno non li muove a pietà, non fa scat­tare la molla dell’empatia o solo della com­mi­se­ra­zione: il deli­rio pro­duce anche anaf­fet­ti­vità, com’è ben noto.

Nulla sanno di ognuno di loro. E di tutti non pos­sono dire nean­che che sono ladri e rapi­tori di bam­bini, come dicono abi­tual­mente degli «zin­gari». Eppure li hanno già cata­lo­gati come nemici della loro medio­cre tran­quil­lità bor­ghese o piccolo-borghese, che essa alber­ghi nelle ville con piscina di Casale San Nicola oppure in alloggi ordi­nari di Quinto di Treviso.

Sanno o dovreb­bero sapere quali gaglioffi siano i mili­tanti di Casa­Pound, Forza Nuova, Mili­tia Chri­sti, Fra­telli d’Italia, Lega Nord e via dicendo. Eppure è a loro che si affi­dano «per pro­teg­gere il nostro ter­ri­to­rio dagli extra­co­mu­ni­tari». Così una resi­dente di Casale San Nicola all’inviato del Cor­riere della Sera, Fabri­zio Ron­cone, in una dichia­ra­zione pre­ce­duta dal clas­sico «Noi non siamo raz­zi­sti, ma…», sublime per emble­ma­ti­cità razzista.

La molla dell’empatia, ma verso i difen­sori del loro ter­ri­to­rio, è invece scat­tata nel M5S: una dele­ga­zione, costi­tuita da par­la­men­tari e da con­siglieri comu­nali e muni­ci­pali di Roma, si è affret­tata a rice­vere il «comi­tato spon­ta­neo di Casale San Nicola, riu­nito in presidio».

Niente di nuovo. Del pari, tutt’altro che ine­dita nella sto­ria ita­liana recente è la ten­ta­zione del pogrom. Ma è pro­prio que­sto a farci temere: il fatto che nulla cambi, se non in peg­gio, dopo quasi quarant’anni d’immigrazione in Italia.
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