Si chiama Jeremy proprio come Clarkson, la controversa celebrità televisiva, ma le similitudini per fortuna finiscono qui. Politicamente, somiglia assai di più a Ken Livingstone, l’ex sindaco di Londra e anche lui famosa spina del fianco del partito laburista: una mina vagante a sinistra con grosso seguito personale, e quindi imbarazzo per la maggioranza centrista.
Deputato al parlamento nella circoscrizione londinese di Islington North, entrato quasi controvoglia nella rosa dei candidati al posto di un altro tanto per far vedere che il partito era pluralista, Corbyn presenta pericolose eterodossie (a parte naturalmente il socialismo): dal repubblicanesimo, che dalla maggioranza paese è ancora visto come commovente e velleitario, al più grave rifiuto di condannare l’Ira, visto come un gesto chiaramente antinazionale.
Eppure queste primarie per la leadership del partito laburista che, apertesi venerdì, chiuderanno il 10 settembre con lo spoglio due giorni dopo, Jeremy Corbyn rischia di vincerle davvero.
Almeno stando ai sondaggisti di YouGov, che prevedono per lui una vittoria del 53% addirittura al primo turno. Già il mese scorso, l’outsider Corbyn godeva di ben 17 punti di vantaggio sul suo rivale, Andy Burnham, ex-ministro del tesoro nel governo di Gordon Brown e attualmente ministro ombra alla sanità. Ora ci si aspetta un suo trionfo.
Sin dalla disastrosa sconfitta del maggio scorso, il partito vagola in un caos calmo d’indeterminatezza. Gli altri tre candidati centristi — Liz Kendall, Andy Burnham e Yvette Cooper — bizantineggiano su linee alternative alla tremebonda propensione a sinistra di Ed Miliband che sono virtualmente indistinguibili. Ed è proprio la crescente insofferenza della base per la percepita vacuità delle loro argomentazioni, diffusa e amplificata attraverso i network sociali, ad aver innescato un consenso a slavina per Corbyn, i cui comizi e incontri con l’elettorato ormai lasciano puntualmente centinaia di persone fuori per la capienza limitata degli spazi a disposizione.
È dunque un terremoto che sta scuotendo le fondamenta laburiste e mandando un brivido gelido lungo molte schiene. Prima fra tutte quella del convitato di pietra Tony Blair, dalla reputazione a brandelli eppure — grazie alla formidabile tripletta di vittorie che condussero alla più lunga permanenza Labour al timone del paese — considerato da molti ancora un faro di realpolitik.
Supportato da dichiarazioni altrettanto cupe del suo famigerato ex spin doctor Alastair Campbell, Blair ha scelto le colonne del Guardian per lanciare un duro e accorato monito a dirigenti, iscritti e attivisti perché non seguano Corbyn in quello che definisce un vero e proprio rischio di estinzione del partito. «Anche se mi odiate, vi prego di non votare per Corbyn» ha scritto Tony nel suo appello grondante panico.
Gli ha fatto eco Yvette Cooper rompendo un silenzio dei candidati centristi sul fenomeno Corbyn, mantenuto finora per timore di un’escalation delle divisioni interne. «Jeremy propone soluzioni vecchie a problemi vecchi», ha detto Cooper che, al pari di Blair non si cura del possibile effetto boomerang di simili attacchi.
Questo Cincinnato socialista di vecchia scuola sta dunque togliendo il sonno all’establishment economico finanziario. Potrebbe cancellarne la finora idilliaca frequentazione con i vertici del partito, dovuta alla sapiente tessitura di Blair il quale, coadiuvato da Gordon Brown e Peter Mandelson, ne cominciava entusiasticamente a frequentare i panfili negli anni Novanta. Quando lui, Jeremy, al massimo frequentava il salotto di Tony Benn, di cui era giovane seguace negli anni in cui il grande vecchio della sinistra Labour falliva la propria scalata alla leadership.
Ma è lo «spostamento fondamentale» in politica economica da lui propugnato l’incubo per l’ortodossia neoliberista: che potrebbe addirittura portare al ripudio dell’emblematica clausola IV che impegnava il partito alla nazionalizzazione dell’industria, quella di cui Blair si liberò precipitosamente vent’anni fa onde rendere il partito «eleggibile» e «di governo». E che lo vincola a realizzare davvero la proprietà comune dei mezzi di produzione.
Posizioni di sinistra socialista classica non dissimili da quelle del partito portato al potere nel 1945 da Clement Attlee: fine dell’austerity, più tasse ai ricchi, più corporation tax, protezione dello stato sociale, un giro di vite sull’evasione fiscale e soprattutto una ventata di opere pubbliche finanziate con denaro stampato dalla Banca d’Inghilterra ribattezzato «quantitative easing popolare».
Resta il proposito di ridurre il deficit, ma a un ritmo dal volto umano, e non attraverso tagli selvaggi.
Ancora più ambiziose le scelte in politica estera. Le sue posizioni su Putin, considerate esageratamente soft, gli hanno immediatamente attratto le accuse di essere l’utile idiota del grande orso russo; in medio oriente raccomanda un dialogo equilibrato tra le parti; cesserebbero gli attacchi aerei all’Isis e in Siria e le posture muscolar-militari di cui la Gran Bretagna è stata assidua praticante sin dal dopoguerra, qualunque fosse la maggioranza al governo.
La pubblica istruzione tornerebbe davvero pubblica: via le «free schools» e le academies; salterebbero le asfissianti tasse universitarie e le scuole private perderebbero i propri finanziamenti privilegiati. Il diritto alla casa sarebbe difeso calmierando i prezzi del mercato immobiliare londinese, in perpetua levitazione fino al prossimo crash.
Tutte misure che improvvisamente si vedono restituire lo status di possibilità dopo essere state a lungo relegate a dibattiti sull’archeologia delle idee. E proprio per questo enormemente destabilizzanti.
Tanto che, complice un meccanismo elettivo che permette teoricamente a chiunque di iscriversi al voto (nelle ultime 24 ore prima della chiusura ci sono state ben 160.000 domande d’iscrizione ) si è tornato a parlare di entrismo, la strategia di infiltrazione del Labour party da parte di frange radicali trotzkiste a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Insomma, che anche il rischio scissione sia palpabile è suffragato dalle voci di un putsch per esautorare Corbyn. E sempre venerdì il Guardian si è prodotto in un endorsement a Yvette Cooper entusiasmante come solo quelli scritti sotto la minaccia delle armi sanno essere.
«Il manifesto, 14 agosto 2015)
Mentre le miopi e ingorde elite europee si accaniscono contro la pagliuzza greca, la trave cinese è penetrata nell’occhio della finanza mondiale. Due svalutazioni dello yuan stanno mettendo in fibrillazione il mondo intero e le Borse vanno in picchiata. Solo l’Europa “brucia” circa 230 miliardi nello spazio di un mattino. Praticamente i due terzi dell’intero debito greco. E non è finita.
Indubbiamente la mossa della Banca centrale cinese si iscrive nel capitolo delle “svalutazioni competitive”, come giustamente ha qui scritto Pieranni. Pechino doveva reagire in qualche modo al crollo del proprio export che a Luglio ha maturato una flessione dell’8%. D’altro canto il tentativo di svoltare nelle politiche economiche, puntando sulla valorizzazione e il potenziamento del mercato interno, era ed è obiettivo troppo ambizioso per potersi realizzare in breve tempo. Ma da qui a dire che è fallito, ce ne corre. Almeno per il momento ed in base ai dati disponibili. Alcuni commenti letti in queste ore peccano di una evidente sottovalutazione delle capacità proteiformi del capitalismo, di quello cinese in particolare. Troppo presto per suonare le campane a morto, anche se lo si vorrebbe.
La mossa cinese ha più motivazioni. C’è innanzitutto un fatto in controtendenza al quadro mondiale che va messo in evidenza. In Cina si è venuta realizzando negli ultimi anni una crescita dei salari medi, come ha registrato anche la stampa economica mainstream. Niente di eccezionale, visto che partivano da livelli molto bassi. Ma pur sempre un elemento significativo, soprattutto perché non deriva solo da una maggiore capacità nel prevenire e nel fronteggiare gli effetti della crisi mondiale da parte delle classi dirigenti cinesi rispetto a quelle di altri paesi – basta pensare alla Unione europea -, ma soprattutto da una presa di coscienza da parte delle classi lavoratrici cinesi nei settori manifatturieri. Ovvero la crescita dei salari e qualche miglioria nelle prestazioni lavorative è il frutto ancora acerbo, dell’incontro tra una rinascente lotta di classe in Cina e una qualche disponibilità ad allentare i cordoni delle borse – visti i margini esistenti – da parte delle classi dirigenti. In altre parole si aprono spazi di riformismo reale, che però la recente decisione della Bank of China rimette fortemente in discussione.
Infatti l’aumento delle retribuzioni è già sufficiente per intaccare la proverbiale competitività delle merci cinesi, ma non ancora in grado di fare da volano alla domanda interna, ovvero all’incremento dei consumi. La crisi mondiale impedisce che questa venga sostituita, senza interventi di tipo monetario, dalla domanda estera. Nello stesso tempo le previsioni sulla crescita quantitativa cinese non sono ottimali. Alcuni centri di analisi le stimano inferiori persino di parecchio a quelle ufficiali, tenendo conto dell’andamento dei consumi energetici e della stessa produzione industriale.
Lo stupore dei cinesi di fronte alle reazioni stizzite internazionali, ma non di tutti, non deriva solo dalla tradizionale astuta doppiezza orientale. Non hanno torto quando affermano che non hanno fatto altro che quello che il resto del mondo capitalistico chiedeva loro, ovvero aprirsi al mercato. L’obiettivo non è dunque una generica e confusa guerra valutaria – peraltro già in corso con altri mezzi– quanto quello di rispondere positivamente alle condizioni poste dallo stesso Fmi – che infatti ha gradito - per permettere allo yuan di affiancare le altre monete importanti nel paniere dei Diritti speciali di prelievo (SDR nell’acronimo inglese). Questo farebbe dello yuan una moneta di riserva globale. Il che la renderebbe più stabile e ridurrebbe il bisogno di detenere riserve massicce, liberalizzandone l’uso.
I primi a subire le conseguenze negative della decisione cinese sono i paesi del sud est asiatico, come il Vietnam (mai amato, come è noto, dai cinesi) che ha provveduto anch’esso ad allargare la banda di oscillazione della propria moneta per reggere la concorrenza internazionale. Anche qui la mossa cinese ha una logica tutt’altro che imprevedibile. Vuole rispondere al tentativo americano di stringerle attorno un cappio con il TPP, l’accordo commerciale con i paesi del Pacifico, che non a caso la esclude. La stessa massiccia immissione di liquidità (il quantitative easing) da parte della Fed ha reso ipercompetitivo il dollaro. Se di qualcosa ci saremmo dovuti stupire è che prima o poi non si manifestasse una reazione cinese.
Ma chi rischia veramente grosso è come al solito la nostra Europa. Da un lato le merci cinesi diventeranno più competitive e probabilmente i cinesi spenderanno meno da noi. Il tutto potrebbe tramutarsi persino in un campanello d’allarme utile a smorzare i toni trionfalistici della Germania, molto interessata al mercato orientale, ma ci verrebbe un’altra politica a Berlino. La crisi sta cambiando gli assetti del mondo. Anche l’eterogenesi dei fini gioca il suo ruolo. The Times They Are a-Changin’, anche se in una direzione ben diversa da quella auspicata da Bob Dylan più di 50 anni fa.
Il decalogo del manifesto suggerendo alcuni nodi che impediscono il decollo di una nuova sinistra ci chiama ad intervenire dove ci sono carenze di analisi da colmare o punti di vista diversi da avvicinare. Al punto 6 tre domande da brivido: Chi sono oggi i lavoratori? Cosa è il lavoro? Come e quanto viene riconosciuto? Il solo fatto di porle significa riconoscere che la crisi investe le ragioni fondative del nostro essere. Ed infatti è cambiato tutto.
«La mutazione antropologica. Bisognerebbe raccogliere i cocci dello sviluppo e con quelle macerie iniziare a costruire nuove architetture come si faceva con le cattedrali gotiche».
Il manifesto, 13 agosto 2015
Che ci sia (o meglio, che ci potrebbe essere) “vita a sinistra” è quasi “naturale” considerato come va il mondo, ovvero verso una rotta di collisione inevitabile con l’ambiente, la povertà diffusa, l’esodo inevitabile di masse enormi di popolazione dai territori devastati da guerre, carestie, siccità. Ma rimanendo alle disgraziate sorti italiche, se poco poco si ascoltano i rappresentanti delle giovani generazioni, si ha la sensazione che nessuno creda più a una qualche possibilità collettiva di riscatto, di alternativa.
Circolano perfino mitologie antropologiche sulla dannazione della specie umana, come a dire: l’uomo è fatto così, le guerre sono inevitabili, la povertà di molti è necessaria al funzionamento dell’economia. Basta osservare, per convincersi della diffusione di questo virus, l’atteggiamento di tante (troppe) persone qualunque nei riguardi degli esodi di massa dai paesi che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo: non possiamo accoglierli tutti — si dice nel migliore dei casi -, finiremmo col diventare come loro, ci rubano il lavoro (che non c’è). E poi ancora, a me sgomenta il fatto che il Papa venga oscurato; i suoi messaggi compaiono come trafiletti nei media nazionale; quelli internazionali neppure lo citano: non era mai successo in passato. C’è di che rassegnarsi a una estinzione di massa per asfissia culturale, per impotenza politica, per disperazione. “Speriamo che io me la cavo” sembra essere il motto delle nuove generazioni. Non può certo stupire il successo di Renzi: è pur sempre meglio credere alla befana che rassegnarsi alla cruda realtà che costei non esista.
E a vedere i telegiornali il quadro si incupisce ancora di più: beghe condominiali, litigi personali, leaderismo occupano l’intero spazio politico, quello dal quale dovrebbe nascere il progetto di futuro. Ha ragione Bevilacqua a dire (il manifesto dell’8 agosto) che la sinistra è oggi una testa senza gambe. Le gambe, quando ci sono, camminano da sole senza testa, e la testa ancora non si accorge di non avere le gambe, o forse più cinicamente pensa di non averne più bisogno come in quei romanzi di fantascienza dove si parla di immaginarie menti senza l’ingombro del corpo che partoriscono pensieri e comandi. Questo il punto cruciale all’ordine del giorno della politica.
Così come ha ragione Michele Prospero (il manifesto del 4 agosto) a dire che la minoranza Pd, piaccia o no, è molto utile al gioco del partito della nazione fornendo la sua maldestra stampella all’esercito dei vincenti. Chi mai, tra i giovani (e anche tra i non giovani) può credere ad essa? Se vogliamo continuare con i tentativi di suicidio, facciamo pure un nuovo partito, inventiamoci un nuovo leader per avere l’illusione di esistere ancora. Tutto ciò che resta dell’attuale sinistra non è più credibile agli occhi di nessuno, quando essa non viene addirittura ritenuta la responsabile degli attuali guai nostrani per averci illuso – e ingannato — che esisteva un altro mondo diverso da questo.
Per esperienza personale posso citare la questione drammatica dell’università. Tra i vecchi docenti impegnati, molti hanno fatto domanda di pensionamento anticipato, altri, pur restando, vivono in solitudine senza impegno a curare i propri (legittimi) interessi di ricerca. Un’intera classe dirigente ha dato forfait: chi può scappa, chi rimane tace diffidando dell’impegno politico, mentre l’ideologia liberista meritocratica si diffonde alla velocità della luce attraverso il disbrigo quotidiano di schede da riempire e valutazioni da fare per dimostrare di essere i “migliori” e accedere alle graduatorie nazionali e internazionali. Se vuoi avere successo parla pure in italiano (ancora è consentito) ma scrivi in inglese e su riviste che sono accreditate da improponibili agenzie di valutazione pagate a peso d’oro dalle istituzioni. Un intero sistema formativo essenziale per lo sviluppo del paese è stato smantellato nel giro di pochi anni e ancor di più minaccia di esserlo prossimamente.
Servirebbe, come è successo a L’Aquila, un popolo delle carriole che cominci a raccogliere i cocci dello sviluppo e con quelle macerie iniziare a costruire nuove architetture come si faceva con le cattedrali gotiche, quando ancora la figura dell’Architetto non era nata. C’erano però i Mastri che con la loro sapienza guidavano i lavori, inventando di volta in volta e collettivamente le forme e le soluzioni tecniche quando comparivano problemi. Bisognerebbe che poi le carriole, con il loro corredo di rovine, confluissero verso una stessa direzione anziché andarsene a spasso ognuna per suo conto.
In un altro mondo, quello che noi vorremmo, a quello sconosciuto migrante che ha attraversato a piedi il tunnel sotto La Manica sfidando cavi ad alta tensione e treni ad alta velocità, avremmo attribuito una medaglia d’oro: è lui il vero maratoneta delle Olimpiadi greche. La risposta di Francia e Inghilterra è stata: ma dov’è la falla nei nostri sistemi di sicurezza?
«L’indeterminatezza della parola sinistra che consente al renzismo di rivendicarla deve spingerci a declinarla in modo nuovo: non siamo "più a sinistra", siamo "diversi"». Il manifesto, 13 agosto 2015, con postilla
Ai molti aspetti paradossali che contraddistinguono la sfera politica in Italia, possiamo aggiungere un altro paradosso che riguarda direttamente l’oggetto su cui Norma Rangeri ci ha invitato a discutere. Quanto più la «sinistra» diventa inconoscibile nelle «cose» tanto più estende i suoi confini nelle «parole».
A «sinistra del Pd» si stanno aprendo vastissimi spazi per la «sinistra». Con formulazioni appena un po’ differenti, frasi di tal genere vengono costantemente ripetute anche sulle colonne di questo giornale. Lo si dice ormai da tanto tempo, ma lo stato di cose presente ci prova in maniera difficilmente controvertibile quanto grande sia la differenza tra affermazioni desideranti e realtà effettuale. Comunque non è senza interesse chiedersi quale sia il modo con cui è possibile intendere il termine «sinistra».
Probabilmente la maggioranza di coloro che si sentono impegnati nella costruzione della cosiddetta «casa comune» ritiene che la «sinistra» in fieri, quella che dovrà occupare gli spazi lasciati liberi dal Pd, sia la sola legittimata all’uso di quel termine. Ci sono però anche coloro che pensano ad un soggetto politico «a sinistra» del Pd. C’è poi il Pd che ha riscoperto il valore nella comunicazione (nella propaganda cioè) di una parola dalla quale, proprio nel suo momento fondante, aveva invece teso a sottolineare la distanza. Ricordiamo bene Veltroni, fondatore e primo segretario, definire la nuova ragione del partito con espressione di radicale chiarezza. A chi gli faceva notare che ormai egli non pronunciava più «la palabra izquierda», rispondeva : «Es que somos reformistas, no de izquierdas» («El País», 1/03/2008). Ora Veltroni ha riscoperto la «parola», così come il suo creativo epigono Renzi.
Naturalmente, trattandosi di pura comunicazione/propaganda, la «parola» deve fluttuare nell’aria, non avere alcun peso ed alcuna radice nelle «cose». Sinistra è «cambiamento», sinistra è «fare», come diceva compulsivamente Berlusconi, al massimo sinistra è un flebile richiamo ai sempiterni valori. Talmente sempiterni che, prescindendo da qualsivoglia dimensione storico-analitica dei concreti rapporti economici e sociali, possono andar bene per tutti.
Proprio per questo lo «sdoganamento» (così ha titolato «la Repubblica») veltron-renziano del termine «sinistra» è semplicemente funzione del mercato elettorale. Funzione efficace peraltro perché a) richiama una tradizione di lungo periodo i cui effetti di trascinamento non sono certo esauriti; b) sposta il confronto con qualsiasi altro soggetto che voglia definirsi di sinistra su un piano esclusivamente assiale.
La collocazione sulla dimensione assiale, essendo le denominazioni politiche strumenti di battaglia, non è la conseguenza di una tecnica naturale, ma degli esiti di lotte politiche e culturali. Per questo tali collocazioni si ridefiniscono continuamente e vanno valutate come sintomi di processi in corso, del tutto esterni rispetto a qualsiasi criterio di oggettività. È evidente, quindi, il vantaggio del Pd che, restando sul piano assiale, può competere con un forza che si colloca inevitabilmente «più a sinistra». E il «più a sinistra» è il luogo di tutte le forme di «estremismo», è il luogo del «più uno».
L’espressione «quelli del più uno» veniva usata dal sindacato (Fiom) e dal Pci di Piombino, la città-fabbrica dove è avvenuta la mia prima formazione politica. La città fabbrica dove, per un periodo non breve, la realtà della direzione operaia ha coinciso con le ipotesi formulate negli scritti dei nostri classici. Veniva usata nei confronti dei «gruppuscoli», che dopo ogni lotta e dopo il successivo accordo, e nei primi anni Settanta gli accordi erano sempre favorevoli ai «produttori», ai siderurgici, si presentavano ai cancelli della grande fabbrica insistendo sull’insufficienza di quegli accordi, sulla scarsa radicalità delle lotte. Quelli del «più uno», appunto.
In un asse dove è collocata una forza di establishment che si definisce come «sinistra» e così viene definita dalla stragrande maggioranza dei media, la contemporanea presenza di una forza «più a sinistra», indipendentemente dalle prassi politiche reali, finisce inevitabilmente per ripresentare quella stessa dinamica.
Certamente è la parola «sinistra» ad avere assunto, ed ormai da lungo tempo, una tale indeterminatezza semantica da permettere qualsivoglia scorreria propagandistica. Un breve intervento non è la sede per discutere della continuità o meno del suo uso nel processo in corso. D’altra parte quello che appare logicamente giusto assai spesso non lo è nei processi di realtà. Ciò che, però, dobbiamo del tutto evitare è qualsiasi riferimento ad un posizionamento «più a sinistra» del Pd.
Karl Polany ha affermato: «Il socialismo è essenzialmente la tendenza inerente ad una civiltà industriale a superare il mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica» (“La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca”, 1944). Se questa conclusione della lunga analisi di Polany, diventa il minimo comun denominatore di tutte le forze impegnate nella costruzione della «casa comune», ecco che la collocazione assiale cessa di avere senso. Non si tratta di essere «più a sinistra», bensì di fare un salto qualitativo, di essere «diversi».
In fondo il problema della «diversità» è tutto qui. Il prius della diversità, anche quella di Berlinguer, non stava nell’etica, nell’antropologia, stava in una concezione della politica e degli obbiettivi della politica.
Affermare una teoria e una prassi che tendono a subordinare il «mercato autoregolato» alla società «democratica» è compito che condiziona tutti gli ambiti della politica, tutta la sfera dei diritti ed anche la sfera dei valori. Il riferimento ai «valori», infatti, ha senso solo all’interno di una precisa concretezza analitica. Frutto, cioè, di una considerazione dei «valori» come dimensione non separata dalla concezione del rapporto tra democrazia e forme del capitale indicato da Polany.
Tutto ciò è di sinistra?
postilla
Nomina sunt consequentia rerum. "Sinistra" è parola che esprime contenuti otto-novecenteschi. Forse varrebbe la pena di iniziare la riflessione su quale fosse la realtà (sociale, economica, ideologica) che in quei secoli (in quelle fasi del capitalismo) allora la parola "sinistra" esprimeva, e quale quella che vogliamo che sia espressa oggi da un nuovo soggetto politico che rappresenti oggi la "diversità".
«In Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”».
La Repubblica, 13 agosto 2015
Eppure, con il fenomeno dell’immigrazione siamo di fronte a un paradosso simile: chi ha responsabilità di governo e chi dall’opposizione confida di averne a breve continua a parlare di “emergenza” per un fenomeno che ormai risale ad almeno una ventina d’anni — o abbiamo già dimenticato le navi stracolme di albanesi che approdavano in Puglia? — e a latitare in azioni politiche a medio e lungo termine, confidando che il tessuto sociale e le reti della solidarietà umana suppliscano alle loro carenze. La chiesa e molti cristiani — realtà ben più ampia sia della Cei che del Vaticano — sono da sempre in prima linea in questa carità attiva sul territorio e cercano di porsi di fronte all’umanità ferita senza chiedere passaporti né badare a identità etniche o culturali. Eppure quando si occupano dei poveri di cittadinanza italiana passano inosservati, come se la loro azione fosse dovuta e scontata, mentre quando si chinano su fratelli e sorelle in umanità di altri popoli e paesi, vengono sprezzantemente invitati a farsi carico dei disoccupati di “casa nostra”.
Purtroppo in Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”, escludendone gli “stranieri” come se non ne fossero degni. Sì, quando la fraternità viene meno, cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso: una paura che va presa sul serio ma che non va alimentata per farne uno strumento di propaganda politica. Va invece razionalizzata, contenuta e placata con un’autentica governance dell’immigrazione, con un volontà fattiva di collaborazione con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, con una politica che sappia interagire con i Paesi da cui hanno origine i flussi più intensi di emigrazione. Certo, non possiamo accogliere tutti, ma la solidarietà umana ci spinge a superare i limiti delle nostre comodità e ad accogliere l’altro per quello che siamo capaci, senza innalzare muri.
Questa “emergenza” non è tale: è un fenomeno che durerà a lungo ed è contenibile nei suoi effetti solo con uno sforzo di solidarietà. La sua portata, del resto, è tale che mette in crisi ogni tentativo di respingerlo con la forza. L’Europa sembra in piena confusione, non più sicura dei suoi valori umanistici, delle sue lotte secolari per il riconoscimento dei diritti di ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi. Ritrovare questi principi decisivi non è questione solo cristiana, è innanzitutto umana e, proprio per questo, cristiana: l’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti.
Su queste tematiche a volte la chiesa suscita ostilità quando parla e agisce con la parresia dei profeti e di Gesù di Nazareth. Il Vangelo per molti sarà utopia irrealizzabile, ma non pone condizioni o limiti al comandamento di servire affamati, assetati, stranieri, carcerati, ignudi, ammalati… Parla invece di “farsi prossimo”, di andare incontro a chi è nel bisogno, fino al paradosso di “amare i nemici”. Queste esigenze radicali poste da Gesù possono dar fastidio a molti, ma chi professa di essere suo discepolo non può fare a meno di sentirle come appelli ineludibili rivolti proprio a se stesso. Il cristiano si saprà sempre inadeguato nel mettere in pratica queste parole, sovente dovrà riconoscere che il proprio comportamento quotidiano le contraddice, ma non potrà mai accettare che carità fraterna, solidarietà, accoglienza siano variabili da sottomettere alle necessità della realpolitik.
Così un cristiano, di fronte al dramma di milioni di esseri umani vittime della guerra, della fame, della violenza, della cecità anonima della finanza e del mercato, della “politica” di potere, proverà vergogna per non riuscire a far nulla nemmeno per quelle poche migliaia di disgraziati che giungono fino al suo Paese, ma non potrà tacere e non gridare “vergogna” a chi chiude gli occhi di fronte al proprio fratello in umanità che soffre e muore, tanto più se chi si astiene dall’agire ha responsabilità, onori e oneri di governo.
Sì, come ha detto papa Francesco, «respingere gli immigrati è un atto di guerra!». Questo non è un proclama politico: piaccia o meno, è un grido di umanità.
Priore della comunità monastica di Bose
©RIPRODUZIONE RISERVATA “
Quando la fraternità viene meno cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso Va razionalizzata
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L’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti
Prima puntata di un viaggio lungo il confine che separa Ungheria, Serbia e Romania a pochi giorni dall’inizio della costruzione della barriera lunga 175 km con cui il governo Orbán intende fermare il flusso dei profughi. Per capire quanto è corta la memoria nella fortezza Europa.
Il manifesto, 12 agosto 2015
«Dove ci troviamo?» – chiede uno di loro.
«Sì, dove ci troviamo?» – insiste l’amico.
«Non sanno neanche dove sono!» – esclama uno di noi, sorpreso.
«Io vengo dalla Siria, sono scappato dall’Isis».
«Io dall’Iraq, dal Kurdistan».
«Dove ci troviamo?», ripete ancora, più tardi, una ragazza afghana di dodici anni. È scappata dai talebani, ha lavorato un anno in Turchia con la madre, ora arrivano insieme alle porte d’Europa. Nessun padre, almeno non qui e non ora.
Non sono in pochi a non sapere nemmeno come si chiama questo luogo. Siamo — noi e loro — alla stazione ferroviaria di Seghedino (Szegede), Ungheria, come alcuni hanno scoperto grazie al GPS dei loro smartphone, gli stessi telefoni che sono serviti da guida per passare alla cieca l’ultima frontiera, tra la Serbia e l’Ungheria. Con i sistemi di navigazione sono riusciti a localizzare le coordinate trasmesse dai trafficanti in uno degli ultimi sms — segnali verso il futuro. E il futuro, che fino a questo punto è già costato centinaia o migliaia di euro, non è ancora qui, in questa stazione della periferia europea in cui trascorriamo insieme le prime ore dell’alba.
Ma sappiamo davvero dove ci troviamo, in questo selfie della “storia del presente”, mentre una nuova cortina di ferro lunga 175 chilometri sembra poter nascere nel cuore d’Europa? Le 4 e 36 minuti: risuona l’altoparlante: «In partenza, dal binario 1, treno con destinazione…». «Dove ci troviamo, e dove stiamo andando?». «E noi?».
Il senso della vita ingabbiato
«Il senso della vita è scavalcare frontiere», diceva il reporter-viaggiatore polacco Ryszard Kapuscinski, frase che risuona amplificata quando la frontiera converge su tre punti. Qui, dove Ungheria, Serbia e Romania si toccano, al Triplex Confinium, sorgerà l’estremità orientale della struttura di filo spinato, di tre o quattro metri d’altezza, la cui costruzione è stata annunciata dalle autorità ungheresi a fine primavera 2015, come misura per arrestare quella che minaccia di diventare la più grande onda migratoria verso l’Unione europea degli ultimi quarant’anni. I due principali punti d’ingresso: l’Italia meridionale e – appunto — il sud dell’Ungheria, con Grecia o Bulgaria, e poi Macedonia e Serbia come paesi di transito.
Questo “Occidente Express” attraverso i Balcani è già diventato la principale via d’accesso all’Unione europea, ancor più movimentata delle vie marittime del Mediterraneo fino alle spiagge di Lampedusa.
E per fermare i migranti, innalzano reti: il tracciato previsto dalle autorità di Budapest per la barriera si estende da qui, punto di partenza del nostro viaggio, fino a un’altra frontiera tripla (tra Ungheria, Serbia e Croazia), a gomito su un braccio del Danubio, nostra destinazione finale.
Alcuni lo chiamano muro, altri dicono che è soltanto una «recinzione»: e così viene definita ufficialmente. Non c’è ancora bisogno di dargli un nome definitivo, finché nel paesaggio l’orizzonte rimane vergine e lo sguardo sorvola la pianura sconfinata, come un’aquila che fluttua sopra a una vecchia e ormai abbandonata torre di controllo dell’esercito jugoslavo. La gigantesca torre resiste alla ruggine del tempo, come simbolo archeologico di un’antica frattura che non ha mai smesso di essere frontiera e che ora lo diventerà ancora di più.
È stata la frontiera di Tito, ed è stata anche la frontiera di Kádár e di Mosca, e ora sarà la frontiera di Orbán. È stata la frontiera non allineata del socialismo «dal volto umano» jugoslavo e ora sarà la neo-frontiera del capitalismo, anch’esso «dal volto umano», di un’Unione europea che, più o meno imbellettata, sta incorporando i volti dei neo-nazionalismi che vincono alle urne da queste parti. Camaleonti all’interno del paesaggio retorico, gli «ismi» si toccano sempre, sfumano le frontiere, mordono la coda gli uni agli altri.
Uno storico pic-nic paneuropeo
Aquile qui, che attraversano i cieli, gabbiani là nel Mediterraneo sulla Sicilia e su Lampedusa. Anche qui ci sono state isole un tempo, in un’altra era geologica, prima dell’Uomo, quando tutto quest’infinito, ora verde come il mais, ora biondo come il grano, era il Mare di Pannonia. Da un campo di girasoli, una lepre salta all’improvviso davanti alla nostra auto. Neanche un poliziotto, neanche un rifugiato, soltanto noi. «Qui si potrebbe fare un bel pic-nic!». A parlare è stata Móni Bense, professoressa universitaria e traduttrice, che è scesa da Budapest fino alla Terra Bassa per accompagnarmi in questo percorso, mentre io salivo da Belgrado alla volta della Vojvodina.
La Terra Bassa ungherese e la Vojvodina serba si mescolano, siamesi nella geografia, sorelle su una mappa umana che la storia ha tagliato varie volte. Anche se molto più piccolo della torre di Tito, il segno della tripla frontiera è qui, in questo campo sterminato, e potrebbe fare da rendez-vous per il pic-nic che voleva fare Móni. Si sarebbe stesa la tovaglia lì… in piena terra di nessuno. È in tavola per tutti, goulash per favore!
Lei non c’era, ma le sarebbe piaciuto partecipare allo storico pic-nic del 19 agosto 1989, vicino alla frontiera austro-ungarica tra Sankt Margarethen im Burgenland e Sopronkhida, a Sopronpuszta, dove ungheresi e austriaci hanno organizzato l’incontro che il giornale francese Le Monde ha definito «il pic-nic che ha fatto oscillare la storia». Il primo luogo, in tutta l’Europa, in cui qualche settimana prima la cortina di ferro venne simbolicamente cancellata era lì vicino, ma in quel giorno d’estate, nel corso del «pic-nic paneuropeo», centinaia di tedeschi dell’est (sarebbero stati decine di migliaia nei mesi successivi) attraversarono il confine verso l’Austria, per poi rincontrarsi con le proprie famiglie in quella che allora era la Germania Occidentale.
Non riuscire più a ricordare
Il muro che era cominciato a cadere da quelle parti sarebbe crollato a Berlino soltanto tre mesi dopo, e con lui il resto del recinto di ferro che, in mezzo all’Europa, divideva il mondo. Móni allora era un’adolescente, e forse cresceva ridendo di Gusztáv, il mitico cartone animato degli anni Sessanta e Settanta, prodotto dal Pannónia Filmstúdió, in pieno «comunismo goulash». Gusztáv era venerato in Ungheria (ma anche fuori dalla Pannonia, in Jugoslavia e non solo) dove c’è chi ha visto e rivisto all’infinito lo stesso episodio, cinque o sei minuti ripetuti fino a sfinirsi dalle risate.
Ma su altri schermi, i ricordi sembrano essere più sfumati: «La storia si ripete così rapidamente che la generazione che ha vissuto i suoi episodi più tragici qui è ancora viva, ma pare non riuscire più a ricordare», dice rassegnata Móni, lamentandosi dell’amnesia parziale di molti suoi compatrioti, immemori dell’eterno status di migranti e rifugiati, se non di prima, di seconda o terza generazione, che ha accompagnato il popolo ungherese ritornando indietro solo di un secolo, fino al trattato di pace di Trianon.
Forse una rilettura delle opere dello psicanalista ungherese Sándor Ferenczi, contemporaneo di quegli eventi, potrebbe aiutarci a capire come sia possibile iscrivere un vuoto sui traumi vissuti, un’apparente paralisi del pensiero, in grado di lasciare l’individuo, quindi anche il cittadino e l’elettore, più indifeso. In effetti, se la storia si ripete in qualche modo, Ferenczi ci aveva già spiegato il perché.
È probabile che anche Robert Molnár sia cresciuto con le peripezie di Gusztáv. Scommetto che sarebbe piaciuto anche a lui partecipare a quel «pic-nic paneuropeo» dell’agosto ’89. In quell’estate che ha preceduto l’«Autunno dei Popoli», Molnár aveva 18 anni, fatti a Kübekháza, la cittadina che dista poco più di un chilometro dal Triplex Confinium, di cui oggi è il sindaco. Quando lasciamo la linea di confine e tracciamo l’azimut, attraverso i campi, diretti al centro del villaggio, sappiamo già che non lo incontreremo, né a casa, né in Comune, né alla kocsma, il bar-taverna locale. È all’estero da qualche giorno, per lavoro, ma nonostante tutto conversa a lungo con noi al telefono.
Non è facile trovare, in Ungheria, soprattutto nel panorama politico di centro-destra, una voce così diretta contro la costruzione della nuova barriera. «Conoscendo la Storia — dice lui — in passato, quando un Paese ha deciso di costruire un recinto o un muro, come ad Auschwitz-Birkenau, a Berlino o nel resto della frontiera del blocco comunista, è sempre diventata una piaga per chi l’ha costruito». Per Molnár, «l’Ungheria è già un Paese isolato a livello intellettuale e psicologico. Questo avrà come conseguenza la sua ghettizzazione. L’Ungheria si circonchiude, il che significa che non esiste né uscita né entrata, né da fuori né da dentro. Siamo in mezzo all’Europa, se non riusciamo a navigare in acque pacifiche, ne deriva che lo spazio d’azione degli ungheresi andrà riducendosi», finché «le persone non perderanno la speranza e fuggiranno dal Paese». Più che trasformarsi in un’isola, «l’Ungheria si ghettizzerà», sottolinea quest’uomo politico che, fino al 2002, era stato deputato a Budapest per lo Szerz (Partito Indipendente dei Piccoli Agricoltori e Cittadini). In quel periodo venne espulso dal partito e uscì dal Parlamento. È tornato nella terra in cui è cresciuto e da allora, come indipendente, dirige i destini di questo municipio frontaliero in cui vivono circa 1500 persone.
Al Triplex Confinium, un orecchio acuto riesce forse a sentire tre campane, a seconda dalla rosa dei venti: quella della chiesa di Kübekháza, qui in Ungheria, quella di Beba Veche, in Romania, o quella di Rabe, in Serbia, tre paesini che, quasi equidistanti, formano questo triangolo (si riuniscono tutti una volta all’anno, per una festa transfrontaliera). Róbert Molnár ci tiene a dichiararsi cristiano praticante per ribadire che «c’è bisogno di prendersi cura dei forestieri», il messaggio di Stefano I, re d’Ungheria, poi Santo Stefano per i credenti. «Lo dice la Bibbia: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso», ricorda, e subito profetizza che «la cattiveria ci verrà restituita. Se non vogliamo essere maltrattati, non possiamo maltrattare gli altri. Perché come dice un’espressione che ci ricorda un mio collega, tu lecchi il gelato, ma anche lui ti può leccare».
Nella kocsma della via principale, le birre e le pálinke sono molto più popolari dei gelati. Un uomo, appoggiato all’entrata, si tiene in equilibrio con una birra per ogni mano e continua a bere, ora una, ora l’altra. I tavolini della taverna si estendono tra la casa e la strada, come succede per ogni casa, per ogni strada, nella Terra Bassa o nella Vojvodina. Di fronte a ogni casa, questa fascia che sembra un giardino di cinque o dieci metri, a volte quindici, crea una bella transizione, un’armonia, invece di una frontiera brusca, tra il legno della porta e l’asfalto della strada – una terra di nessuno che tutti coltivano come se fosse il proprio giardino, una terra di tutti. Quel che nasce o è piantato in questa fascia è pubblico; anzi, nel mondo rurale, sembra impossibile pensare a un esempio migliore di spazio pubblico. Lì di fianco, un bambino, sorretto dalle braccia del padre, coglie ciliegie.
Un’immagine quasi uguale ci verrà descritta, in un’altra kocsma, in un altro paesino, dalla padrona del locale. Si era detta testimone «dell’allegria di un gruppo di rifugiati che raccoglieva frutta da un albero». Qui all’entrata della kocsma di Kübekháza, la padrona racconta un altro episodio, qualcosa di simile, che ha visto in televisione. Anzi, fino alla nostra visita, alla fine di giugno, i rifugiati passavano davvero soltanto in televisione e lei stessa non aveva ancora visto nessuno transitare di lì. L’unico problema concreto di cui lei aveva sentito parlare era il seguente: un rifugiato aveva rubato dei pomodori a un agricoltore che si lamentava del fatto, nel reportage televisivo, come se fosse la fine del mondo. «Poveri», si sente una voce sullo sfondo, con tono empatico, «avevano fame, nella stessa situazione, ognuno di noi farebbe la stessa cosa».
Kübekháza non è ancora una nuova Lampedusa, alla fine della rotta balcanica dei migranti dell’est e del sud, ma sia il sindaco della città, sia la signora della kocsma intuiscono come finirà. Entrambi concordano, quando dicono che, con la barriera frontaliera che sta per iniziare nel Triplex Confinium, a poco più di un chilometro dalla città, «è chiaro che i rifugiati faranno il giro dalla Romania e poi passeranno nuovamente di qui». A questa deduzione, ovvia per chi guarda la cartina, ha risposto Péter Szijjártó, il giovane ministro degli Esteri e dell’Investimento Estero, affermando a vari media che «in tutte le sezioni di frontiera su cui non esiste nessuna altra forma efficace ad impedire l’immigrazione illegale [oltre alla linea di divisione tra la Serbia e l’Ungheria], verrà utilizzato lo strumento sicuro della chiusura della frontiera», ovvero, il prolungamento del muro-recinto.
Finché il filo spinato non gli taglia l’orizzonte, Robert Molnár, il politico al governo di questa cittadina frontaliera, sostiene che tocca «alla ricca Europa occidentale trovare unanimemente una risposta e che non si può dare la responsabilità solo all’Ungheria, perché questa è una catastrofe umanitaria che riguarda il mondo intero”. Ma poi torna a guardare verso l’interno, quando parla del muro come di una decisione del governo nell’interesse dello stesso partito che forma l’esecutivo, il Fidesz (della destra populista; 44,5% alle legislative del 2014).
Uno spot nazionalista
Mólnar classifica la decisione come un «mero atto di campagna politica interna», per cui lo Stato dovrà sborsare più di 20 milioni di euro. La struttura sarebbe così un enorme poster di propaganda nazionalista, con i suoi quattro metri d’altezza e 175 chilometri di lunghezza. Continuando a passare i fatti al setaccio, l’ex-deputato conclude che questa misura «non è contro l’immigrazione, ma serve solo a Viktor Orbán e al Fidesz per togliere vento alle vele dello Jobbik (considerato un partito di estrema destra; 20,5% alle legislative 2014), perché ci sono già dei radar termici installati su tutta la frontiera e il 98% dei rifugiati vengono presi».
«Dove ci troviamo?». In un giardino in cui Orbán semina muri, che è anche un giardino dell’Europa. Qui, ai tavolini dellakocsma, il giorno scorre lentamente come il Tisza o il Danubio, come le due birre nelle mani di quell’uomo di Kübekháza. Sull’albero di fronte a noi, il bambino ha lasciato molti grappoli di ciliegie per il primo rifugiato che passerà la frontiera in questo paesino tranquillo. Domani o più avanti, non tarderanno a passare di qui. Forse Sharbat, forse Mohammed, gente che incontreremo alla stazione di Seghedino una notte di questo viaggio, o forse Rafiq, che aspetta ancora, in una fabbrica abbandonata di Subotica, senza passaporto, che un trafficante gli dia le coordinate per continuare il viaggio.
Nel frattempo, nella memoria della taverna, rimbomba la voce di quell’agricoltore ungherese che si lamenta in televisione che «loro» gli hanno «rubato i pomodori».
«Loro» sono quelli che sono scappati dalla fine del mondo sperando di trovare un posto nell’eden-fortezza dell’Unione europea. In ungherese, in serbo e in croato (i due lati della lingua serbo-croata), pomodoro e paradiso sono parole sorelle, con la stessa radice, che indica sia il frutto-verdura che il luogo dell’idillio:paradiscom/paradiscom, paradajz/raj, rajica/raj. Ci uscirebbe un bell’episiodio di Gusztáv, penso io, Gusztáv trasformato in rifugiato-ladro di paradisi, un selfie-caricatura di cui l’Ungheria e l’Europa probabilmente hanno bisogno.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso, traduzione dal portoghese di Serena Cacchioli
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Per arrivare al cantiere di Mórahalom, paese di cinquemila abitanti al confine dell’Ungheria meridionale, bisogna passare in mezzo ai campi di granturco e fare qualche chilometro di strada sterrata. C’è un accampamento di soldati e polizia, con gli operai che vanno e vengono portati coi camioncini in mimetica. Nei giorni scorsi i tecnici avevano fatto tre prove di muro: piloni di legno, veri e propri tronchi d’albero, con recinzione metallica; piloni e reticolato in acciaio; oppure un groviglio di di filo spinato, un rotolone sopra l’altro. «Alla fine — racconta Vedess, poliziotto, nome e numero identificativo sull’uniforme — si è scelta una via di mezzo tra le ultime due ipotesi. Piloni in acciaio, recinzione e un’aggiunta di filo spinato a terra. Così neanche se arrivano con la fiamma ossidrica ce la fanno…».
L’esibizione muscolare del governo sul tema immigrazione nei giorni scorsi ha fatto scoppiare un altro scandalo ancora, ma stavolta c’è stato un (parziale) dietrofront. Da Pécs, città di 160mila abitanti con antichissimo borgo medievale, ogni 24 ore partono due Intercity diretti a Budapest. Prima classe, seconda classe e “classe migranti”. L’ultimo vagone infatti è riservato ai rifugiati diretti a un centro di accoglienza e il primo giorno la compagnia di stato Magyar Államvasutak li aveva fatti viaggiare coi lucchetti alle porte ed un cartello: «Queste porte non possono essere aperte». Le associazioni umanitarie hanno protestato, i lucchetti sono stati tolti, ma resta la collocazione in fondo al convoglio, con i migranti spesso ammassati e che la notte prima del viaggio dormono per terra tra i sedili.
Alla stazione di Pécs c’è un monumento che ricorda lo sterminio degli ebrei. «Li ha uccisi l’odio, li protegge il ricordo», recita la stele. Garzó Gábor è un medico di Migration Aid, c’è un mini campo di soccorso proprio accanto alla statua dove lui presta aiuto: «È una specie di deportazione — dice — perché vieni ficcato su un treno, separato dagli altri, e non sai nemmeno dove sei diretto». I volontari mostrano le foto del piede di un bambino di quattro anni arrivato il giorno prima: non sembra neanche più un piede. Colpa delle punture degli insetti delle paludi serbe, spiega un altro dottore: «Lo abbiamo salvato, e facciamo tutto da soli. La sanità pubblica non li accetta». In compenso, si fa per dire, più volte li hanno minacciati gli estremisti di destra dello Jobbik. «La loro proposta è semplice: la chiamano perfino “soluzione finale”, proprio così. Di provocazione in provocazione, ci arriveremo», chiosa Gábor.
Il viaggio verso Budapest dura tre ore, con prima partenza alle 05.14. Alle 23 del giorno prima i ferrovieri avevano aperto l’ultimo vagone, così gli esuli hanno trovato un posto dove prendere sonno. La maggior parte non sono neanche maggiorenni. Il treno si muove e loro dormono ancora. Gli altri passeggeri neanche li considerano. I migranti si svegliano un’oretta prima dell’arrivo nella capitale. Uno di loro apre il finestrino, canta una canzone del suo paese e sembra quasi felice, nonostante i mille nonostante di tutta questa storia.
Il partito delle discariche e degli inceneritori segue una strategia lineare. Rallenta come può il passaggio alla raccolta differenziata porta a porta ed enfatizza l’incipienza delle inevitabili emergenze». Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2015 (m.p.r.)
È una guerra. Guerra economica, ma guerra vera, feroce. E il governo, con il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti, impegnatissimo, non è neutrale. La preda in palio è l’immondizia, in gergo tecnico Rsu (rifiuti solidi urbani), un tesoro attorno al quale si muovono interessi miliardari. Da una parte c’è il partito della raccolta differenziata, del trattamento e del riciclaggio. Un partito fatto da aziende specializzate con i loro interessi, spalleggiato dagli ambientalisti. Dall’altra c’è il partito delle discariche e degli inceneritori: grandi aziende (molte municipalizzate), grandi interessi e collegamenti densi con i partiti di governo, quali che siano. Le regole del gioco, in nome del bon ton istituzionale, impongono di ignorare l’esistenza della criminalità organizzata, che della partita è protagonista sempre più ingombrante e sfrontato.
Napolitano risponde sulla riforma costituzionale a Scalfari (La Repubblica, 9 agosto) dichiarando essenziale che non vi siano «due istituzioni rappresentative della generalità dei cittadini, sottraendo al senato solo (e a quel punto insostenibilmente!) il potere di dare la fiducia al governo». In breve, il senato di seconda scelta è cardine indispensabile della riforma. Non siamo e non saremo d’accordo, per molteplici motivi.
L’Assemblea regionale siciliana approva la legge che applica il referendum del 2011: «minimo vitale» di 50 litri a persona e fondo per i poveri, invertendo un processo di privatizzazioni nei servizi pubblici che data dagli anni ’90».
Il manifesto 12 agosto 2015 (m.p.r.)
Fossimo in Grecia, la potremmo tranquillamente attribuire ad Alexis Tsipras e a Syriza. Ma la legge sull’acqua pubblica approvata l’altra notte a Palazzo dei Normanni porta la firma del governatore siciliano Rosario Crocetta, si spinge oltre i risvolti umanitari (il minimo di 50 litri garantiti a ogni cittadino, un fondo di sostegno per chi non riesce a pagare le bollette) e si presenta come la prima in Italia ad applicare il referendum del 2011, invertendo un processo di privatizzazioni nei servizi pubblici che data dagli anni ’90. Fatta eccezione per la giunta guidata da Luigi de Magistris a Napoli (che ha ripubblicizzato integralmente l’azienda comunale con una delibera comunale all’avanguardia, grazie all’aiuto dell’allora assessore Alberto Lucarelli e del giurista Ugo Mattei, poi silurato dalla presidenza della neonata azienda Abc, Acqua bene comune), il voto di quattro anni fa era rimasto lettera morta. Ma ora c’è un ulteriore passo in avanti: per la prima volta l’acqua ridiventa «prevalentemente pubblica» per legge.
A Crocetta è riuscita l’impresa di condurre in porto un cavallo di battaglia della sua campagna elettorale, sfruttando le divisioni interne alle forze politiche e incassando un sostegno trasversale, a partire dai 5 Stelle all’opposizione, forte del fallimento delle privatizzazioni alla siciliana, che non hanno migliorato il servizio né ridotto le bollette ai cittadini, e della spinta di un movimento alimentato da decine di sindaci espropriati della gestione delle risorse idriche e dai comitati che si riconoscono nel Forum dei movimenti per l’acqua.
Per ottenere il via libera definitivo è stato necessario un ultimo compromesso: l’assessore ai Servizi di pubblica utilità, l’ex magistrata renziana Vania Contrafatto, ha preteso l’inserimento della possibilità di avere anche gestioni miste o private, pena l’accusa di incostituzionalità e un probabile conflitto con lo Stato. Ma la partecipazione dei privati è stata imbrigliata da fortissime limitazioni: dovranno offrire servizi a prezzi inferiori a quelli forniti dal pubblico, a «condizioni bloccate per tutta la durata dell’affidamento», che non può superare i nove anni (contro i quaranta, ad esempio, dell’attuale concessione a Siciliacque spa), e con multe salatissime in caso di disservizi, dai 100 ai 300 milioni al giorno (da pagare all’Ato di riferimento), fino alla rescissione del contratto in caso di mancata erogazione per più di quattro giorni in almeno il due per cento del bacino idrico.
Per questi motivi nei giorni scorsi, mentre infuriava la bufera intercettazioni sulla sanità siciliana e si prospettava il rischio di un ritorno anticipato alle urne, il Forum dei movimenti per l’acqua pubblica invitava ad approvare la legge che recepisce diverse loro proposte, dal riconoscimento di un «minimo vitale» di 50 litri al giorno a persona, come stabilisce il Contratto mondiale dell’acqua, alle tariffe scontate del 50 per cento laddove l’acqua non è potabile e non può essere usata neppure per cucinare, a un fondo di sostegno per il pagamento delle bollette delle persone meno abbienti. Saranno gli Ambiti territoriali ottimali (Ato), che rimangono nove e non vengono accorpati come aveva chiesto il plenipotenziario renziano (e grande rivale di Crocetta) Davide Faraone appena tre giorni fa, a decidere, attraverso «procedure di evidenza pubblica», a chi affidare la gestione delle risorse idriche.
Un’altra norma prevede che si valuti «la sussistenza dei presupposti per l’eventuale esercizio del diritto di recesso dalla convenzione con Siciliacque ed in ogni caso avvia le procedure per la revisione della stessa al fine di allinearla ai principi generali dell’ordinamento giuridico statale e comunitario diretti a garantire la possibilità di accesso, secondo criteri di solidarietà, all’acqua in quanto bene pubblico primario». Siciliacque è il cavallo di Troia della transizione dal pubblico al privato in Sicilia: è la concessionaria che nel 2004 è subentrata al vecchio Ente acquedotti siciliano (Eas), interamente di diritto pubblico. Si tratta di una società per azioni (dunque di diritto privato) partecipata al 25 per cento dalla Regione, che all’inizio deteneva solo il 5 per cento ed ha poi rilevato le quote del disciolto Eas. Il rimanente 75 per cento è nelle mani di Idrosicilia spa, composta al 60 per cento dalla multinazionale francese Veolia e dal 40 per cento dall’Enel. A Siciliacque è stato garantito un contratto quarantennale, che scadrà nel 2044, ma ora la nuova legge prevede la possibilità di recedere, pur se già viene agitato lo spauracchio di salate penali da pagare nel caso tutto venga rimesso in discussione. Ma alla Regione Sicilia, che nomina tre consiglieri d’amministrazione su cinque della spa, sono convinti di avere in mano gli strumenti giuridici per garantire una transizione al contrario, dal privato al pubblico. Anche se sono consapevoli che non sarà una passeggiata.
Intervista alla costituzionalista Lorenza Carlassare: si sta neutralizzando il popolo, cioè la fonte che legittima il potere. Qui tutto mira a indebolire la forza degli altri poteri in favore dell’esecutivo.».
Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2015 (m.p.r.)
Matteo Renzi che della Tatcher condivide l'ideologia neoliberista, lo schierarsi sul versante destro, la subalternità ai poteri economici, ha però una marcia e un'ambizione in più.
Huffington post, blog , 10 agosto 2015, con postilla
Margaret Thatcher al colmo del potere dichiarò: "So che la Bbc mi attacca ma non posso farci niente". E non mosse un dito contro la Bbc. Matteo Renzi invece partecipa attivamente alle scelte del nuovo CdA della Rai e prima di partire per il Giappone riceve a Palazzo Chigi il candidato al ruolo di amministratore unico Antonio Campo Dall'Orto protagonista della Leopolda renziana. Una investitura personale, chiaramente. Il direttore generale di Bbc rimane in carica anni scelto per meriti professionali dai 12 "governors" della Fondazione i quali tutelano l'autonomia della Tv pubblica.
Renzi continua a parlare di Fondazione tipo Bbc e fa l'esatto contrario. Il CdA della Rai viene nominato con una accurata spartizione partitica, anzi correntizia. Lo stesso accade per la presidente che al Tg1 fu paladina della svolta di centrodestra del suo direttore Minzolini. E sì che aveva promesso: "Fuori i partiti dalla Rai!".
In Italia no. Però esisteva anni fa un primo filtro rappresentato dalla nomina di 5 consiglieri da parte dei presidenti di Camera e Senato e fra essi il CdA eleggeva il presidente. Sistema travolto da Berlusconi con la legge Gasparri.
Con Renzi il presidente lo nomina il governo e gli mette accanto come consigliere del Tesoro (proprietario dell'azienda) il suo suggeritore per la comunicazione. L'omologazione fra presidente/segretario e radio e tv pubblica appare totale. Si sono levate critiche per un CdA di basso profilo. Infatti il Consiglio conterà assai poco e il rapporto strategico sarà quello che correrà fra Matteo Renzi e Antonio Campo Dall'Orto. Il resto è figura. Succede in qualche alto Paese di democrazia compiuta? Non mi pare. E pensare che nel 1945 venne nominato dal CLN alla presidenza della Rai, ex Eiar, un personaggio del livello politico e culturale di Carlo Arturo Jemolo.
postilla
Matteo Renzi che condivide l'ideologia neoliberista della Tatcher, ha però l'ambizione di fare un passo più deciso verso passato. Vuole costruire (e sta costruendo) una strutturs statale neofeudale nella quale in ogni settore della vita pubblica (la scuola, la salute, la cultura, l'informazione, l'uso dei beni culturali e in generale del territorio) ove non sia di stretta competenza dei potentati economici, sia assoggettato al Monarca tramite una catena di comando di vassalli, valvassori e valvassini, gerarchicamente ordinati e da lui prescelti. Ci sta riuscendo, e giàsi potrebbero individuare i nomi dei feudatari da lui già investiti.
Intervista di Stefano Feltri a Paolo Prodi. «Se non c'è passato non c'è nemmeno futuro. E questo si traduce in una crisi visibile delle istituzioni democratiche: manca l'idea di progetto, il mutamento rimasto è quello delle tecnologie. Ma si cambia senza sapere dove si va».
Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2015 (m.p.r.)
Un grande nebbione deve essere calato sull'Italia se Sergio Staino, e tante altre persone che hanno storie simili, possono pensare ancora che Matteo Renzi possa dirsi "di sinistra". È proprio arrivata l'ora di andar via da questo paese. LaRepubblica, 10 agosto 2015
«Gianni [Cuperlo], vai fra la gente, vai in un cinema affollato, in una trattoria, in un autobus e ur-la: “Questa sinistra Dem ci sta veramente scassando i coglioni”. Avrai come risposta una standing ovation, non vi sopporta più nessuno tranne, ovviamente, Renzi...». Sergio Staino attacca Gianni Cuperlo. Lo fa dalle pagine dell’Unità , nuova gestione D’Angelis. Una lettera di fuoco, in un primo tempo privata e indirizzata all’esponente della minoranza Pd, e poi resa pubblica «perché non ho ancora ricevuto risposta». Non c’è l’ironia di Bobo, ma la rabbia e il livore dell’ex «amico fraterno». Così si definisce Staino nei confronti di Cuperlo per poi infilargli il coltello nel costato: «State uccidendo la sinistra, date di voi stessi un’immagine di estremisti disperati che urlano su tutto e tutti senza sapere cosa proporre... Cosa stai offrendo di concreto allo smarrimento dei nostri elettori? Nulla. Solo la coscienza che Renzi è una m....».
Per Cuperlo, una sorpresa dolorosa, come ci dice al telefono: «Sono profondamente colpito dai toni e dal linguaggio usati e anche dall’enfasi con cui è stata pubblicata la lettera». Il direttore dell’ Unità , Erasmo D’Angelis, confidava ieri in una sua risposta pubblica: «L’ho chiamato al cellulare ma è irrintracciabile ».
Accusare uno come l’ex presidente (per 38 giorni) del Pd di volere la morte della sinistra è come dire a Don Ciotti che non sta facendo tutto per combattere la mafia. Perché tanta virulenza? Proprio per i rapporti pregressi. Staino, andato e tornato (era con Sel alle europee del 2009), considerava Gianni «un grande compagno». Ora non condivide nulla di quel che fa. Di qui, per proprietà transitoria, uno Staino «renziano» ( non è una novità, già mesi fa aveva lodato «la furbizia e l’intelligenza » del premier, ndr). Il segretario c’è ed è Renzi: «Lo considero un frutto amaro del nostro partito ». Tradotto: Renzi si è materializzato sui vostri errori, sugli errori di una dirigenza (leggi tutto il vecchio establishment)che dovrebbe ritirarsi a vita privata: «Sono ormai fuori dalla storia, finiti».
Ma perché prendersela tanto con Cuperlo, che di tutto il gruppo è sempre stato quello dai toni più riflessivi e meno demagogici? D’Angelis ha la versione del padre di Bobo: «A fine luglio c’è stato a Roma, alla Festa dell’Unità, un dibattito in cui Staino le ha cantate pubblicamente a Gianni il quale poi gli avrebbe mandato degli sms infastiditi ». Segue lettera privata, trasformata in attacco frontale pubblico: «Comportandovi così state tirando la volata a Grillo e Salvini».
Cuperlo è sconcertato: «Staino dice cose non vere. Non ho mai detto, per esempio, che Renzi e Berlusconi sono simili. Il mio problema non è Renzi, è di capire dove va il Pd».
Piovono commenti al giornale. D’Angelis: «La gran parte vengono dalla prima minoranza Pd, quella che adesso si è allontanata... Danno ragione a Staino». Orfini, infatti, detta la linea sobria sull’ Huffington : giusto criticare la minoranza (“Staino coglie un punto vero”, però «Matteo deve fare qualcosa più di sinistra».
Alla fine della giornata, resta soprattutto la pesantezza di Staino che non ne passa una all’ex amico: «Sei stato altezzoso e arrogante a non accettare la direzione dell’ Unità». D’Angelis concorda «sull’atteggiamento complessivo » di Cuperlo: «Si è dimesso da presidente del partito e non ha accettato la direzione del quotidiano, che non è poca cosa...».
La Repubblica, 9 agosto 2015.
LA LETTURA dei giornali in questo inizio d’agosto è piena di fatti drammatici o comici, talvolta comici per la loro drammaticità, soprattutto quando toccano non più la cronaca ma la politica. «Hanno distrutto la Rai», ha detto Walter Veltroni dopo le nomine fatte dal governo e dai partiti. «Mi viene da ridere pensando alla Rai», ha detto Renzo Arbore che cinquant’anni fa la rinnovò da capo a fondo. A leggere queste cose ti viene da pensare.
Ma ancora di più il turbamento aumenta su temi che riguardano la struttura di fondo del paese: il Mezzogiorno, l’occupazione, le tasse. Tre ferite aperte e purulente che concorrono alla mancata crescita del paese, antiche quasi come l’unità d’Italia. La nostra storia nazionale ha avuto anche aspetti positivi, altri pessimi, ma Mezzogiorno, occupazione e fisco sono state tre zavorre permanenti che hanno ostacolato il nostro cammino verso la modernità facendo aumentare la corruzione, le mafie, la tendenza verso regimi autocratici e addirittura dittatoriali.
Cristo si è fermato ad Eboli? Purtroppo no, se con la parola Cristo intendiamo il bene pubblico; si è fermato molto prima, a Cuneo, come disse alcuni anni fa il sindaco di quella città, oppure a Verona, a Bergamo, a Bologna, ma non più oltre. E adesso stiamo attraversando un guado assai rischioso. L’ha scritto Roberto Saviano su questo giornale a proposito di mafie e di corruzione, l’ha detto Ezio Mauro valutando la fragilità della nostra democrazia, l’hanno raccontato Michele Ainis e Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: siamo ad una svolta, ad un passaggio cruciale.
Ed è forse una delle rare occasioni che la maggioranza dei cittadini ne è consapevole, sia pure da posizioni diverse ed anche opposte.
Mi sono spesso domandato — fuor di metafora — perché lo fa e me lo chiedo ancora una volta dopo aver letto la lettera da lui inviata qualche giorno fa al Corriere della sera. Il tema — di capitale importanza — è la legge costituzionale di riforma del Senato che arriverà in terza lettura ai primi di settembre a palazzo Madama. Sarà, così sembra, la battaglia decisiva che vede quasi tutte le opposizioni ed anche i dissidenti del partito democratico contrari, con un Berlusconi in posizione di attesa, decisiva ai fini del risultato.
La tesi di Napolitano è radicale: la legge deve essere approvata così com’è, nel testo già approvato da Camera e Senato nelle prime due letture: il Senato trasformato in una Autorità di controllo e di rappresentanza territoriale senza più alcun potere legislativo nazionale, ridotto a cento componenti. Questo suggerisce il Presidente emerito e per lui non è certo un’improvvisazione: è su questa posizione da molti anni ed ora gli preme più che mai vederla portata a buon fine da Renzi che di un appoggio così autorevole ha certo molto bisogno.
Personalmente ho grande stima e amicizia per Napolitano. Ma su questo tema sono in totale disaccordo. L’ho già scritto in numerose occasioni perché si tratta di un tema che domina da mesi la politica italiana insieme alla riforma elettorale che vi è strettamente connessa. Purtroppo debbo ripetermi perché la lettera di Napolitano ripropone l’argomento e riapre il dibattito.
È senz’altro opportuno che il Senato sia privato del potere di votare la fiducia al governo, ma tutti gli altri poteri legislativi debbono restare integri. La nostra è una Repubblica parlamentare e la linea politica è indicata dal Parlamento mentre al potere esecutivo spetta — come dice il nome — il mandato di tradurre in atti esecutivi coerenti con la linea indicata dal Parlamento, che rappresenta il popolo sovrano. In Parlamento si approvano le leggi che attuano la linea indicata dalla maggioranza che il Parlamento esprime; sicché il sistema elettorale deve essere analogo in entrambe le Camere. Analogo ma non identico, a cominciare dall’età dei componenti e da altre accettabili difformità.
Naturalmente è anche possibile che il Senato scompaia e si attui un sistema monocamerale; in gran parte d’Europa è così. In tal caso però le elezioni alla Camera debbono essere totalmente libere e rappresentare fedelmente il popolo sovrano. Il sistema monocamerale previsto dall’“Italicum” di Renzi è in larga misura un monocamerale di “nominati” dal governo in carica; la conseguenza è evidente: il potere legislativo è declassato e subordinato all’esecutivo, il presidente del Consiglio diventa così il personaggio che “comanda da solo” esattamente il contrario della democrazia parlamentare.
Mi pare molto singolare che Napolitano non veda questo risvolto della abolizione di fatto del Senato. Un monocamerale in gran parte “nominato” dall’esecutivo ci avvia inevitabilmente all’autocrazia. E questo che si vuole?
Non sono in grado ovviamente di conoscere in proposito il parere del presidente Mattarella, ma supponiamo per pura ipotesi che egli ravvisi un’illegalità in questa soluzione e rinvii la legge costituzionale alle Camere. La posizione di Napolitano sarebbe in quel caso estremamente imbarazzante e sarebbe come se il papa emerito Benedetto XVI facesse pubblicamente affermazioni teologiche diverse da quelle di papa Francesco. Vi sembra possibile una situazione simile? *** Naturalmente la dissidenza del Pd si rende ben conto che la posizione critica che ha deciso di assumere di fronte alla legge del governo può portare ad uno strappo e addirittura ad una scissione del partito. Perché lo fa? Perché non si limita ad astenersi dal voto o a non presentare emendamenti profondamente diversi dal testo della legge in discussione? Se il motivo fosse soltanto quello connesso alla legge sul Senato, la dissidenza del Pd potrebbe ancora una volta chiuder gli occhi ed accettare l’amaro boccone che Renzi ha deciso di farle trangugiare, ma in realtà ci sono due altri motivi: la vocazione autocratica che si esprime attraverso le due leggi elettorale e costituzionale e lo spostamento in corso del Pd da partito di centrosinistra a partito di centro. Non a caso Renzi ha come punto di riferimento storico Tony Blair, che trasformò il partito laburista inglese e proseguì portandola a compimento la politica di Margaret Thatcher.
Quello spostamento consentì a Blair di governare per due legislature di seguito e ancora ne mena vanto sostenendo che i voti in una società moderna si prendono al centro e non a sinistra.
Sarà pur vero, ma quella che allora si chiamava Inghilterra non sembra abbia fatto passi da gigante dopo i lunghi anni di governo di Tony Blair; è rimasta un ex impero coloniale senza più colonie, ai margini dell’Europa e ormai diviso in una federazione dove l’Inghilterra convive con le sovranità della Scozia, del Galles e dell’Irlanda. Tony Blair ha un bel passato personale ma storicamente è stato una foglia al vento e il suo Paese conta ben poco nell’Europa di oggi; nella società globale, conta niente del tutto. Ha scritto a questo proposito Angelo Panebianco: «Il partito della Nazione ha bisogno di sostituire il mancato radicamento sociale con la crescita di potere dell’esecutivo. Per questo la riforma del Senato è oggi così importante e per questo la minoranza intende fare di tutto per batterlo e garantire la propria sopravvivenza. Sa che Renzi è uno che non fa prigionieri».
Tutto comprensibile. Ma che fine farà la democrazia parlamentare? Che fine farà la sinistra? E soprattutto che fine farà un Paese che sembra ricordarsi dell’Europa solo per ottenere libertà di “deficit spending”? Il “deficit spending” è importante, ma gli Stati Uniti d’Europa lo sono ancora di più. Quel tema però interessa assai poco. Gli immigrati interessano molto di più, ma sul quel tema non è stato compiuto nessun passo avanti e l’altro ieri sono morte in mare altre centinaia di persone. Sono questi i risultati?
Per rovesciare questo trend, Gramsci suggeriva di cominciare proprio da dove si era arenato il progetto liberale: incorporare il Sud nello Stato nazionale. Oggi l’Italia è una democrazia solida, eppure il degrado nel quale versa il Sud conferma integralmente il senso delle parole gramsciane: non considerare il Sud come un problema locale, perché il Meridione rappresenta l’intera nazione, le sue sconfitte come i suoi successi. L’Italia non riparte se non tutta insieme.
Per un laico è amaro ammetterlo: l'unico tra i potenti che esprime parole di saggezza politica (anche perché umane) appartiene alla sfera della religione. Se non fosse un potente qualcuno si direbbe "stai sereno".
Il manifesto, 8 agosto 2015
Papa Francesco aveva già detto, dopo un’ennesima strage di migranti al largo di Lampedusa: «È una vergogna». Questa vergogna non ha fatto che ripetersi, per mesi, e c’è anche qualcuno che si rallegra perché l’Europa adesso mostrerebbe un po’ più di sensibilità, c’è perfino una nave irlandese che partecipa alle operazioni di tumulazione nel Mediterraneo di centinaia e centinaia di profughi, mentre una parte ne salva.
Intanto la Francia sigilla la frontiera di Ventimiglia, l’Inghilterra stabilisce una linea Maginot all’ingresso dell’Eurotunnel della Manica, l’Ungheria alza un muro e l’Italia è tutta contenta perché ha posto fine all’unica cosa buona che era riuscita a fare, l’operazione «Mare Nostrum», ed è rientrata nei ranghi dell’Europa perché sia chiaro che la vita negata ai profughi non è una scelta solo dell’Italia, ma è un sacrificio collettivo che tutta l’Europa offre a se stessa avendo cessato di essere umana.
Ed ecco che il papa Francesco dà il nome alla cosa: respingere i profughi è guerra, e cacciare via da un Paese, da un porto, da una sponda i migranti abbandonati al mare, è violenza omicida.
Lo dice nell’anniversario del delitto fondatore di questa fase della modernità, lo dice nei giorni di Hiroshima e Nagasaki.
Quando aveva denunciato che la guerra mondiale non era finita, perché nella globalizzazione si sta combattendo una guerra mondiale «a pezzi», era sembrato che parlasse per metafore; ma oggi mette le cose in chiaro: la guerra è questa, i garantiti contro i disperati, un mondo che voleva abolire le frontiere e ne ha alzate altre più spietate e invalicabili, contro un’umanità senza patria né asilo che invano cerca salvezza.
E se è una guerra, una guerra non dichiarata e non tutelata da alcun diritto, nemmeno umanitario, gli atti che vi si compiono sono crimini di guerra. E questo vale per le vittime in fuga dalla Birmania nell’Oceano Indiano, a cui il papa specificamente si riferiva, e vale per le vittime che non riescono ad attraversare senza soccombere la fossa comune del Mediterraneo.
Sono mesi e mesi che i siti nonviolenti, pacifisti, o semplicemente umani, denunciano questi delitti perpetrati dai governi europei, compreso il nostro, sollecitano appelli e firme dei cittadini perché ci si risolva a dare l’unica soluzione vera al problema, che è quella di aprire le frontiere, riconoscere l’antico diritto umano universale di migrare, permettere ai profughi e ai fuggiaschi di viaggiare al sicuro su treni, navi e aerei di linea. E sono mesi che siti nostalgici e integralisti, invidiosi di papa Francesco, cercano di screditarlo lamentandone la popolarità, e rallegrandosi se quando parla ai poveri e ai movimenti popolari, come ha fatto in Bolivia, il mondo per bene con i suoi media neanche lo ascolta.
La verità è che papa Francesco è l’unico che oggi ha parole all’altezza del dramma storico che stiamo vivendo. Gli scartati della terra sono i veri soggetti storici attorno a cui si deve costruire la nuova convivenza, sono il fulcro dell’umanità di domani. E la giustizia e il diritto devono garantire la «casa comune» e tutti i suoi abitanti, a cominciare dal diritto a vivere, a prendere terra, a riposarsi sotto qualsiasi sole. Questo dice il papa, e non è una cosa impossibile, è solo una cosa non ancora avvenuta.
Commenti sull'ennesimo episodio della guerra condotta dal Primo mondo (l'Europa e gli europei in testa, con qualche nobile eccezione) contro i popoli che fuggono dalle persecuzioni, dalle torture e dalle carestie che il Primo mondo ha contribuito a provocare.
La Repubblica, 8 agosto 2015
Tensioni e conflitti si risolvono «con il dialogo» e «il rispetto delle identità». Respingere i migranti è «guerra, significa uccidere». Così Papa Francesco, ieri, incontrando i ragazzi del Movimento eucaristico giovanile (Meg). Bergoglio, che segue le notizie provenienti dal Mediterraneo, si è poi soffermato sul dramma dei profughi birmani ricordando che respingere chi lascia la propria terra via mare in cerca di una vita dignitosa è un atto criminoso: «Questo si chiama violenza», ha detto. «Speriamo che i naufragi di questi giorni e l’irresponsabilità di istituzioni e politici rimangano una pagina nera di cui fare memoria perché tali tragedie non si ripetano più», ha detto invece padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, il servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia.
Esseri umani? Se ne può dubitare, una volta che si sia saputo che cosa c’è sotto la fotografia. Sotto, invisibili, tanti altri puntini ammassati e andati a fondo, forse duecento, senza vedere un’ultima luce. Dicono alcuni sopravvissuti che gli scafisti li hanno costretti, per impedire ai dannati della stiva di arrampicarsi fino alla luce, a sedersi sulla botola chiusa.
In una foto successiva, più ravvicinata, c’è uno che sembra un ragazzino, ha un salvagente e batte forte i piedi, dallo spruzzo. Più indietro c’è un altro che sembra un bambino, e un adulto che lo sorregge. E altri, alla rinfusa. Stavano su un peschereccio di ferraglia, hanno ondeggiato verso il lato dal quale arrivavano i canotti di soccorso e l’hanno capovolto: è colato a picco in un momento. È il momento peggiore, quello in cui la salvezza arriva a portata di mano. Sono annegati in 26,
tre bambini, oltre alle centinaia della stiva.
Poi ci sono le fotografie di 5 scafisti arrestati, algerini e libici, tra i 21 e i 26 anni. La polizia li ha lasciati fotografare con pieno agio, e ha fatto bene: ma non si legge sulle loro facce la ferocia che i passeggeri hanno raccontato. Con le stesse facce, avrebbero potuto annegare anche loro o cercare un’altra vita. Uno è a torso nudo, uno, barba nera e lunga, gambe nude e maglietta verde che recita: Original Timberline. Crafted for toda ”. Uno ha la canottiera celeste, uno la t-shirt bianca con un marchio italiano famoso. L’ultimo ha i capelli rasta e la maglietta col manifesto di Full Metal Jacket, con la scritta spagnola — La chaqueta metálica — e l’elmetto famoso con il motto Born to kill . Che siano disgustosi, è fin troppo facile. Sono scafisti, cioè l’unica risorsa per chi ha attraversato i deserti e deve ancora attraversare il mare — e poi avrà tante altre traversate ancora da compiere a rischio della vita, fino alla più surreale, sotto il mare della Manica. Che siano anche aguzzini, è un eccesso di zelo, e anche un incerto del mestiere, dato che bisogna tener in equilibrio una mandria umana che sbandando può rovesciare la carretta. C’è poi la questione degli esseri umani, e della vita dichiarata sacra. Le autorità costituite europee e internazionali, anche quando hanno un nome e un cognome, e pure loro una faccia e magari una barba una camicia una cravatta, tengono una distanza accuratamente misurata dall’acqua in cui si annega. La distanza, e tutti i suoi gradi intermedi, impediscono che ci sia qualcuno cui incombe il doveroso compito di fissare il numero di migranti da far annegare nel Canale di Sicilia all’anno o al mese: non troppo pochi, per tentare almeno una dissuasione fra le centinaia di migliaia che premono sulle coste meridionali del Mediterraneo; e non troppi, perché non ne esca sfregiata la figurina di un’Europa civile.
Il numero giusto -tra i 3.279 del 2014 e i 4.000 previsti per quest’anno, che già ne conta già 2.400 -si fissa per così dire da sé, come succede con le statistiche. Si può essere responsabili di una morte o cinque, non di una statistica. La quale si consola col versante opposto, la statistica sui salvati dell’anno scorso, e i salvati di questo: già 88 mila, un netto progresso.
È la solita questione del Mediterraneo mezzo pieno o mezzo vuoto. Le autorità possono essere ottimiste o pessimiste, sono comunque innocenti. Intendiamoci, non solo le autorità, anche i cittadini hanno la loro preziosa distanza dall’acqua in cui si affoga, benché la televisione faccia vedere la cosa, prima più da lontano, puntini che forse sono gabbiani, forse esseri umani, poi più da vicino, fino ad avere la sensazione di tendere la mano da casa propria a una ragazzina intirizzita, e avvolgerla in una carta d’oro e una d’argento, e attaccarla a una flebo, e ringraziare il cielo per lei.
Ieri un commento alle foto (lo so, i commenti non si devono leggere) ammoniva gli imbarcati, vivi e morti: “Il volo Tunisi-Roma costa 160 euro!” E quelli che sono andati a picco serrati nella stiva, i più poveri, avevano pagato 1200. Che lezione! In realtà, si può volare a Tunisi anche per meno, e in meno di un’ora. La Tunisia, che resta il meno dispotico dei Paesi del Maghreb, per ostacolare i reclutamenti jihadisti, è arrivata a vietare ai suoi giovani (fino ai 35 anni!) di espatriare verso i Paesi a rischio — cioè, dalla Tunisia, tutti — con qualche eccezione autorizzata dai genitori (dei figli di 35 anni!). E figuriamoci i somali, i sudanesi, i siriani, gli eritrei, che al barcone arrivano dopo aver distrutto i documenti e magari limato i polpastrelli. Domanda: appartengono alla stessa specie vivente, sono ambedue animali umani, quello che con qualche decina di euro vola a Tunisi e a bordo ordina un succo di ananas, e quello che per 1.200 euro si guadagna uno spazio nella stiva di una carcassa di peschereccio, come in una camera a gas? Quello che viaggia col bagaglio a mano, e quello che crepa asfissiato dentro una valigia tra Melilla e la Spagna? Quello che arriva fino a Calais e, respinto per l’ennesima volta, getta la sua bambina di là dalla barriera, che almeno lei ce la faccia?
Lo so, bisogna stare attenti a non fare i demagoghi, a non vellicare sensi di colpa e buoni sentimenti del proprio prossimo. Ma non sto mettendo a confronto la foto dei 400 puntini sul mare blu, e dei 200 puntini che mancano, con quella delle caviglie di una signora che, sulla stessa homepage di ieri, aveva la didascalia: “300mila dollari per i sandali di diamanti”. Lo so che non è per permettere a quella signora il paio di scarpe che tante donne incinte di stupri vanno a fondo nel Canale di Sicilia. Che paragonare i naufragi nel Canale di Sicilia al raddoppio del Canale di Suez è populista: non sono vasi, né canali comunicanti. Si può però paragonare una parte di mondo, compresa la gran maggioranza dei suoi poveri, che non può sopportare di sentire la propria incolumità fisica minacciata, e un’altra parte di mondo che scappa dalla morte a rischio della morte e viaggia incontro a tante morti successive, non per rifarsi una vita, ma per farsela, e se non a sé almeno alla propria creatura.
La Repubblica, 7 agosto 2015
«Non li conosco, non li ho mai sentiti nominare. Ho anche guardato le fotine pubblicate dai giornali: ricordano quei tizi scomparsi di Chi l’ha visto. Invece sono i responsabili della principale azienda culturale del paese: davvero non mi capacito». Ugo Gregoretti, per la Rai, ha inventato un sacco di cose. Il “giornalismo faceto” di Controfagotto.La regia provocatoria del Circolo Pickwick . Il documentarismo di Sottotraccia. «Sì, facevamo cultura, che poi vuole dire far bene le cose, nel modo più innovativo possibile. Ma da tempo in Rai alla qualità non si bada più».
È ancora la principale fabbrica di cultura?
«Vorrei subito chiarire questo equivoco. Dopo l’epoca aurea di Bernabei la Rai ha continuato a esercitare un primato che attiene alla quantità più che alla qualità. Il primato della qualità è rimasto in altri posti: alla Scala, al festival di Spoleto o alla Normale di Pisa. Il nuovo consiglio d’amministrazione rivela l’imbroglio».
In che senso?
«L’Italia non ama la cultura. Siamo i cittadini più ignoranti dell’Occidente. Enfatizziamo in modo trombonesco la nozione di cultura e di culturale, vantando il settanta per cento del patrimonio artistico mondiale. Ma si tratta di un innamoramento finto e ridicolo. Quanti sanno distinguere Borromini da Berlusconi? Temo che la Rai sia lo specchio di tutto questo. Un elefante imbalsamato, privo di un intimo e reale anelito alla cultura. Salvo pochi stravaganti».
A chi si riferisce?
«A quei bei programmi di storia che vanno in onda in tarda serata. Esiste una ragnatela di nicchie aziendali, che però non modifica l’impronta generale della Tv pubblica. La cultura abita altrove. E non mi pare che il nuovo vertice rappresenti l’ambizione del cambiamento ».
Lei ha conosciuto un’altra azienda.
«Quando cominciai, negli anni Cinquanta, non erano certo rose e fiori. La politica esercitava un controllo ferreo. Però eravamo invitati tutti a fare bene. A inventare. E ci garantivano le condizioni per farlo. Ci si chiedeva uno stile, un’eleganza, una correttezza che oggi non vedo».
Cosa vede?
«Inquadrature sbagliate, sciatteria, errori a non finire. Ma chi sa più insegnare? La Rai era un grande centro sperimentale dove si imparava».
Era una Tv dal chiaro intento pedagogico.
«Sì, gli obiettivi erano morali più che estetici. Non contava tanto la belluria ma il fare bene, nella scelta dei temi e nel modo di affrontarli. Dovevamo essere un modello per l’Europa. Un documentario sul Gattopardo cambiò le mie sorti televisive: riuscii a battere la Bbc per la finale del Prix Italia e finalmente mi fecero fare Controfagotto» .
I direttori generali controllavano le mutande delle ballerine.
«Sì, Filippo Guala ordinava di allungare l’orlo. Però fu lo stesso dirigente che con un falso concorso fece entrare in Rai i migliori cervelli della nostra generazione. Umberto Eco. Fabiano Fabiani. Furio Colombo. Gianni Vattimo. Una trasfusione di sangue di cui la Rai avrebbe beneficiato a lungo».
La Rai produceva cultura quando eravamo un paese arretrato. Oggi che gli spettatori sono molto più alfabetizzati c’è meno attenzione.
«La regola era quella di rendere potabili i temi più complessi. Bisognava spiegare Gadamer alle portinaie».
Cosa la fa più arrabbiare della Tv di oggi?
«Le fiction. Io feci il Circolo Pickwick con pochi mezzi e “inventando” Gigi Proietti. Oggi prevale il divismo, la tv ha preso il peggio della maleducazione cinematografica » .
Proviamo a metterci nei panni dei profughi e a ragionare con rigore e immaginazione; potremo finalmente comprendere quale potrebbe essere un futuro positivo per l'Europa. L'autore ci riesce. Il manifesto, 7 agosto 2015
Immaginate di essere uno dei profughi accatastati a Calais, all’ingresso dell’Eurotunnel, e che ogni notte cercate di attraversarlo infilandovi sotto il rimorchio di un camion, per venirne ogni volta respinti. Oppure un migrante imboscato ai confini di Melilla in attesa di trovare il modo di scavalcare la rete che vi impedisce di entrare in Spagna. O un profugo siriano o afghano in marcia attraverso le strade secondarie della Serbia con quel che resta della sua famiglia che non sa ancora che ai confini con l’Ungheria troverà una rete a impedirgli di varcare il confine. O un eritreo imbarcato a forza, dopo mesi di attesa e violenze, nella stiva di una carretta del mare, che sa già che forse affonderà con quella, ma non ha altra scelta. O una donna aggrappata con i suoi figli agli scogli di Ventimiglia.
E’ un esercizio dell’immaginazione difficile e i risultati sono comunque parziali. Ma bisogna cercare lo stesso di farlo, perché “mettersi nei panni degli altri” serve sia a dare basi concrete a solidarietà e convivenza, sia a capire un po’ meglio dove va il mondo. Per lo stesso motivo è utile provare a immaginare che cosa passa nella testa (vuota) di uno come Dijsselblöm o in quella (troppo piena) di uno come Schäuble per cercare di “comprendere” meglio dove va l’Europa. Non che, in entrambi i casi, questo esercizio sia di per sé sufficiente; ma è anche vero che nelle cose di cui parliamo o scriviamo è troppo spesso assente questo risvolto, questo lavorìo dell’immaginazione.
Uno studio del
Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung può trionfalmente rivelare che la grande maggioranza dei lavoratori tedeschi, anche in condizioni di precarietà, bassi salari e scarsi diritti, è ben contenta del lavoro che ha. Gli insoddisfatti naturalmente esistono, ma sono pochi e di cattivo carattere. Il manifesto, 6 agosto 2015 (m.p.r.)
Pochi giorni fa, incontrando fortunatamente una diffusa resistenza, la Confindustria tedesca chiedeva di superare il limite di 8 ore della giornata lavorativa, in nome della flessibilità. E’ il segno inequivocabile di come la dottrina della competitività non contempli alcun principio di equilibrio o di autoregolazione. Non da ieri, numerosi economisti sottolineano come l’avanzo commerciale e di bilancio tedesco (8% del Pil quest’anno) costituiscano per l’Europa un problema ben più serio del debito greco.
L’eccesso di risparmio comincia a preoccupare perfino i vertici della Deutsche Bank. Come è possibile che una economia fiorente si arrocchi nel respingere qualsiasi ripresa della dinamica salariale, qualsiasi miglioramento dei diritti e dei redditi del lavoro precario, qualsiasi ripresa della spesa pubblica, tali da ridurre i fortissimi squilibri che affliggono il Vecchio continente, oltre a migliorare il livello di vita dei tedeschi? A partire da questa domanda, in molti lamentano un antigermanesimo di comodo che imputerebbe a Berlino ciò che in realtà è l’essenza del capitalismo globale.
«Resta valido l'obiettivo dell'integrazione ma la stanchezza sembra prevalere. Ricordiamo le parole di Péguy: la speranza è la più grande virtù».
Corriere della Sera, 6 agosto 2015 (m.p.r.)
Alcuni mesi fa ho chiesto a un mio amico, funzionario dell’Unione Europea e da tempo impegnato nella commissione Difesa, se esiste un esercito europeo. Sì, mi ha risposto. Ma mezzo minuto dopo ha aggiunto: No. Probabilmente avrà pensato al lambiccato groviglio di suddivisioni di compiti e funzioni - in ogni settore - tra i vari Stati, alle alternanze di gerarchie, ai bilancini di competenze, ai paralizzanti codicilli miranti a impossibili equilibri perfetti tra le singole componenti. Tutto ciò, per quel che riguarda l’organizzazione militare, gli sembrava troppo diverso da quello che deve essere un esercito, formato, nel caso sciagurato di una guerra, per agire in quest’ultima con rapidità, efficacia e determinazione. Alcune buone prove date in occasione di interventi delle forze armate, a cominciare da quelle italiane, non bastano per poter parlare di un esercito europeo, come si parla invece di esercito inglese, francese o americano. È vero che le nuove modalità dei conflitti mettono in difficoltà pure gli eserciti veri e propri, come dimostra la guerra nell’Afghanistan, che sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale.