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«Regno Unito. Fine dei sonni tranquilli per l’establishment finanziario, per i centristi e per il "blairismo". L’outsider propone tasse ai ricchi, opere pubbliche finanziate dallo stato e una rivoluzione delle alleanze in politica estera». Il manifesto, 15 agosto 2015

Si chiama Jeremy pro­prio come Clark­son, la con­tro­versa cele­brità tele­vi­siva, ma le simi­li­tu­dini per for­tuna fini­scono qui. Poli­ti­ca­mente, somi­glia assai di più a Ken Living­stone, l’ex sin­daco di Lon­dra e anche lui famosa spina del fianco del par­tito labu­ri­sta: una mina vagante a sini­stra con grosso seguito per­so­nale, e quindi imba­razzo per la mag­gio­ranza centrista.

Depu­tato al par­la­mento nella cir­co­scri­zione lon­di­nese di Isling­ton North, entrato quasi con­tro­vo­glia nella rosa dei can­di­dati al posto di un altro tanto per far vedere che il par­tito era plu­ra­li­sta, Cor­byn pre­senta peri­co­lose ete­ro­dos­sie (a parte natu­ral­mente il socia­li­smo): dal repub­bli­ca­ne­simo, che dalla mag­gio­ranza paese è ancora visto come com­mo­vente e vel­lei­ta­rio, al più grave rifiuto di con­dan­nare l’Ira, visto come un gesto chia­ra­mente antinazionale.

Eppure que­ste pri­ma­rie per la lea­der­ship del par­tito labu­ri­sta che, aper­tesi venerdì, chiu­de­ranno il 10 set­tem­bre con lo spo­glio due giorni dopo, Jeremy Cor­byn rischia di vin­cerle davvero.

Almeno stando ai son­dag­gi­sti di You­Gov, che pre­ve­dono per lui una vit­to­ria del 53% addi­rit­tura al primo turno. Già il mese scorso, l’outsider Cor­byn godeva di ben 17 punti di van­tag­gio sul suo rivale, Andy Bur­n­ham, ex-ministro del tesoro nel governo di Gor­don Brown e attual­mente mini­stro ombra alla sanità. Ora ci si aspetta un suo trionfo.

Sin dalla disa­strosa scon­fitta del mag­gio scorso, il par­tito vagola in un caos calmo d’indeterminatezza. Gli altri tre can­di­dati cen­tri­sti — Liz Ken­dall, Andy Bur­n­ham e Yvette Coo­per — bizan­ti­neg­giano su linee alter­na­tive alla tre­me­bonda pro­pen­sione a sini­stra di Ed Mili­band che sono vir­tual­mente indi­stin­gui­bili. Ed è pro­prio la cre­scente insof­fe­renza della base per la per­ce­pita vacuità delle loro argo­men­ta­zioni, dif­fusa e ampli­fi­cata attra­verso i net­work sociali, ad aver inne­scato un con­senso a sla­vina per Cor­byn, i cui comizi e incon­tri con l’elettorato ormai lasciano pun­tual­mente cen­ti­naia di per­sone fuori per la capienza limi­tata degli spazi a disposizione.

È dun­que un ter­re­moto che sta scuo­tendo le fon­da­menta labu­ri­ste e man­dando un bri­vido gelido lungo molte schiene. Prima fra tutte quella del con­vi­tato di pie­tra Tony Blair, dalla repu­ta­zione a bran­delli eppure — gra­zie alla for­mi­da­bile tri­pletta di vit­to­rie che con­dus­sero alla più lunga per­ma­nenza Labour al timone del paese — con­si­de­rato da molti ancora un faro di realpolitik.

Sup­por­tato da dichia­ra­zioni altret­tanto cupe del suo fami­ge­rato ex spin doc­tor Ala­stair Cam­p­bell, Blair ha scelto le colonne del Guar­dian per lan­ciare un duro e acco­rato monito a diri­genti, iscritti e atti­vi­sti per­ché non seguano Cor­byn in quello che defi­ni­sce un vero e pro­prio rischio di estin­zione del par­tito. «Anche se mi odiate, vi prego di non votare per Cor­byn» ha scritto Tony nel suo appello gron­dante panico.

Gli ha fatto eco Yvette Coo­per rom­pendo un silen­zio dei can­di­dati cen­tri­sti sul feno­meno Cor­byn, man­te­nuto finora per timore di un’escalation delle divi­sioni interne. «Jeremy pro­pone solu­zioni vec­chie a pro­blemi vec­chi», ha detto Coo­per che, al pari di Blair non si cura del pos­si­bile effetto boo­me­rang di simili attacchi.

Que­sto Cin­cin­nato socia­li­sta di vec­chia scuola sta dun­que togliendo il sonno all’establishment eco­no­mico finan­zia­rio. Potrebbe can­cel­larne la finora idil­liaca fre­quen­ta­zione con i ver­tici del par­tito, dovuta alla sapiente tes­si­tura di Blair il quale, coa­diu­vato da Gor­don Brown e Peter Man­del­son, ne comin­ciava entu­sia­sti­ca­mente a fre­quen­tare i pan­fili negli anni Novanta. Quando lui, Jeremy, al mas­simo fre­quen­tava il salotto di Tony Benn, di cui era gio­vane seguace negli anni in cui il grande vec­chio della sini­stra Labour fal­liva la pro­pria sca­lata alla leadership.

Ma è lo «spo­sta­mento fon­da­men­tale» in poli­tica eco­no­mica da lui pro­pu­gnato l’incubo per l’ortodossia neo­li­be­ri­sta: che potrebbe addi­rit­tura por­tare al ripu­dio dell’emblematica clau­sola IV che impe­gnava il par­tito alla nazio­na­liz­za­zione dell’industria, quella di cui Blair si liberò pre­ci­pi­to­sa­mente vent’anni fa onde ren­dere il par­tito «eleg­gi­bile» e «di governo». E che lo vin­cola a rea­liz­zare dav­vero la pro­prietà comune dei mezzi di produzione.

Posi­zioni di sini­stra socia­li­sta clas­sica non dis­si­mili da quelle del par­tito por­tato al potere nel 1945 da Cle­ment Attlee: fine dell’austerity, più tasse ai ric­chi, più cor­po­ra­tion tax, pro­te­zione dello stato sociale, un giro di vite sull’evasione fiscale e soprat­tutto una ven­tata di opere pub­bli­che finan­ziate con denaro stam­pato dalla Banca d’Inghilterra ribat­tez­zato «quan­ti­ta­tive easing popolare».

Resta il pro­po­sito di ridurre il defi­cit, ma a un ritmo dal volto umano, e non attra­verso tagli selvaggi.

Ancora più ambi­ziose le scelte in poli­tica estera. Le sue posi­zioni su Putin, con­si­de­rate esa­ge­ra­ta­mente soft, gli hanno imme­dia­ta­mente attratto le accuse di essere l’utile idiota del grande orso russo; in medio oriente rac­co­manda un dia­logo equi­li­brato tra le parti; ces­se­reb­bero gli attac­chi aerei all’Isis e in Siria e le posture muscolar-militari di cui la Gran Bre­ta­gna è stata assi­dua pra­ti­cante sin dal dopo­guerra, qua­lun­que fosse la mag­gio­ranza al governo.

La pub­blica istru­zione tor­ne­rebbe dav­vero pub­blica: via le «free schools» e le aca­de­mies; sal­te­reb­bero le asfis­sianti tasse uni­ver­si­ta­rie e le scuole pri­vate per­de­reb­bero i pro­pri finan­zia­menti pri­vi­le­giati. Il diritto alla casa sarebbe difeso cal­mie­rando i prezzi del mer­cato immo­bi­liare lon­di­nese, in per­pe­tua levi­ta­zione fino al pros­simo crash.

Tutte misure che improv­vi­sa­mente si vedono resti­tuire lo sta­tus di pos­si­bi­lità dopo essere state a lungo rele­gate a dibat­titi sull’archeologia delle idee. E pro­prio per que­sto enor­me­mente destabilizzanti.

Tanto che, com­plice un mec­ca­ni­smo elet­tivo che per­mette teo­ri­ca­mente a chiun­que di iscri­versi al voto (nelle ultime 24 ore prima della chiu­sura ci sono state ben 160.000 domande d’iscrizione ) si è tor­nato a par­lare di entri­smo, la stra­te­gia di infil­tra­zione del Labour party da parte di frange radi­cali trotz­ki­ste a cavallo fra gli anni Set­tanta e Ottanta. Insomma, che anche il rischio scis­sione sia pal­pa­bile è suf­fra­gato dalle voci di un putsch per esau­to­rare Cor­byn. E sem­pre venerdì il Guar­dian si è pro­dotto in un endor­se­ment a Yvette Coo­per entu­sia­smante come solo quelli scritti sotto la minac­cia delle armi sanno essere.

«Il manifesto, 14 agosto 2015)

Mentre le miopi e ingorde elite europee si accaniscono contro la pagliuzza greca, la trave cinese è penetrata nell’occhio della finanza mondiale. Due svalutazioni dello yuan stanno mettendo in fibrillazione il mondo intero e le Borse vanno in picchiata. Solo l’Europa “brucia” circa 230 miliardi nello spazio di un mattino. Praticamente i due terzi dell’intero debito greco. E non è finita.

Indubbiamente la mossa della Banca centrale cinese si iscrive nel capitolo delle “svalutazioni competitive”, come giustamente ha qui scritto Pieranni. Pechino doveva reagire in qualche modo al crollo del proprio export che a Luglio ha maturato una flessione dell’8%. D’altro canto il tentativo di svoltare nelle politiche economiche, puntando sulla valorizzazione e il potenziamento del mercato interno, era ed è obiettivo troppo ambizioso per potersi realizzare in breve tempo. Ma da qui a dire che è fallito, ce ne corre. Almeno per il momento ed in base ai dati disponibili. Alcuni commenti letti in queste ore peccano di una evidente sottovalutazione delle capacità proteiformi del capitalismo, di quello cinese in particolare. Troppo presto per suonare le campane a morto, anche se lo si vorrebbe.

La mossa cinese ha più motivazioni. C’è innanzitutto un fatto in controtendenza al quadro mondiale che va messo in evidenza. In Cina si è venuta realizzando negli ultimi anni una crescita dei salari medi, come ha registrato anche la stampa economica mainstream. Niente di eccezionale, visto che partivano da livelli molto bassi. Ma pur sempre un elemento significativo, soprattutto perché non deriva solo da una maggiore capacità nel prevenire e nel fronteggiare gli effetti della crisi mondiale da parte delle classi dirigenti cinesi rispetto a quelle di altri paesi – basta pensare alla Unione europea -, ma soprattutto da una presa di coscienza da parte delle classi lavoratrici cinesi nei settori manifatturieri. Ovvero la crescita dei salari e qualche miglioria nelle prestazioni lavorative è il frutto ancora acerbo, dell’incontro tra una rinascente lotta di classe in Cina e una qualche disponibilità ad allentare i cordoni delle borse – visti i margini esistenti – da parte delle classi dirigenti. In altre parole si aprono spazi di riformismo reale, che però la recente decisione della Bank of China rimette fortemente in discussione.

Infatti l’aumento delle retribuzioni è già sufficiente per intaccare la proverbiale competitività delle merci cinesi, ma non ancora in grado di fare da volano alla domanda interna, ovvero all’incremento dei consumi. La crisi mondiale impedisce che questa venga sostituita, senza interventi di tipo monetario, dalla domanda estera. Nello stesso tempo le previsioni sulla crescita quantitativa cinese non sono ottimali. Alcuni centri di analisi le stimano inferiori persino di parecchio a quelle ufficiali, tenendo conto dell’andamento dei consumi energetici e della stessa produzione industriale.

Lo stupore dei cinesi di fronte alle reazioni stizzite internazionali, ma non di tutti, non deriva solo dalla tradizionale astuta doppiezza orientale. Non hanno torto quando affermano che non hanno fatto altro che quello che il resto del mondo capitalistico chiedeva loro, ovvero aprirsi al mercato. L’obiettivo non è dunque una generica e confusa guerra valutaria – peraltro già in corso con altri mezzi– quanto quello di rispondere positivamente alle condizioni poste dallo stesso Fmi – che infatti ha gradito - per permettere allo yuan di affiancare le altre monete importanti nel paniere dei Diritti speciali di prelievo (SDR nell’acronimo inglese). Questo farebbe dello yuan una moneta di riserva globale. Il che la renderebbe più stabile e ridurrebbe il bisogno di detenere riserve massicce, liberalizzandone l’uso.

I primi a subire le conseguenze negative della decisione cinese sono i paesi del sud est asiatico, come il Vietnam (mai amato, come è noto, dai cinesi) che ha provveduto anch’esso ad allargare la banda di oscillazione della propria moneta per reggere la concorrenza internazionale. Anche qui la mossa cinese ha una logica tutt’altro che imprevedibile. Vuole rispondere al tentativo americano di stringerle attorno un cappio con il TPP, l’accordo commerciale con i paesi del Pacifico, che non a caso la esclude. La stessa massiccia immissione di liquidità (il quantitative easing) da parte della Fed ha reso ipercompetitivo il dollaro. Se di qualcosa ci saremmo dovuti stupire è che prima o poi non si manifestasse una reazione cinese.

Ma chi rischia veramente grosso è come al solito la nostra Europa. Da un lato le merci cinesi diventeranno più competitive e probabilmente i cinesi spenderanno meno da noi. Il tutto potrebbe tramutarsi persino in un campanello d’allarme utile a smorzare i toni trionfalistici della Germania, molto interessata al mercato orientale, ma ci verrebbe un’altra politica a Berlino. La crisi sta cambiando gli assetti del mondo. Anche l’eterogenesi dei fini gioca il suo ruolo. The Times They Are a-Changin’, anche se in una direzione ben diversa da quella auspicata da Bob Dylan più di 50 anni fa.

Quindi una strategia unitaria non è affatto impossibile se si mette al centro il lavoro e se si fanno ruotare attorno ad esso gli altri strumenti configurando, così, un lavoro di cittadinanza, un diritto -dovere, che connette esercizio della cittadinanza attiva e reddito di cittadinanza». Il manifesto, 14 agosto 2015 (m.p.r.)

Il decalogo del manifesto suggerendo alcuni nodi che impediscono il decollo di una nuova sinistra ci chiama ad intervenire dove ci sono carenze di analisi da colmare o punti di vista diversi da avvicinare. Al punto 6 tre domande da brivido: Chi sono oggi i lavoratori? Cosa è il lavoro? Come e quanto viene riconosciuto? Il solo fatto di porle significa riconoscere che la crisi investe le ragioni fondative del nostro essere. Ed infatti è cambiato tutto.

È cambiato il lavoro in sé, è cambiata la sua composizione interna. Si è ridotto il lavoro prevalentemente agro-industriale, concentrato in aggregati fisicamente riconoscibili. Si è dilatato enormemente quello nei servizi più disparati, alle persone, alle comunità, alle imprese, in piccola parte concentrato, in gran parte sparpagliato. Sono diminuiti i lavori manuali e pesanti e si sono moltiplicati lavori "leggeri", alcuni intellettuali e professionalizzati, molti altri fortemente banalizzati. È cambiata la distribuzione geografica del lavoro. Attività prima tipiche del mondo industrializzato si sono spostate nei paesi emergenti e si è prodotto uno straordinario rimescolamento per cui nei paesi arretrati emergenti, accanto a forme arretrate di agricoltura e di industria pesante, si sviluppano forme produttive tecnologicamente tra le più avanzate al mondo. Questo mentre nei paesi avanzati si ripresentano forme di schiavismo. Nei primi si avanza conquistando faticosamente nuovi diritti, nei secondi si arretra faticando a difendere quelli esistenti.
Sono venuti meno anche aspetti formali e contenutistici che prima definivano ed identificavano la prestazione lavorativa: lavoro materiale e lavoro immateriale, lavoro per dovere e lavoro per piacere, lavoro autonomo e lavoro dipendente, tempo di lavoro e tempo di vita, lavoro per il mercato per creare valori di scambio e lavoro per creare valori d’uso, oggi, si toccano, si contagiano, si mescolano confondendo identità, soggettività, appartenenze. In molti casi identità diverse si confondono e miscelano in una stessa persona. Ma c’è un cambiamento ancora più rilevante che riguarda il rapporto tra lavoro e non lavoro: se prima il non lavoro costituiva l’anticamera del lavoro, oggi, le società più avanzate alle quali apparteniamo, si qualificano sempre di più come jobless society, società senza lavoro o con lavoro decrescente e le stesse analisi teoriche prevedono una stagnazione secolare.
Non è un caso che i diversamente disoccupati, attivamente in cerca di lavoro e scoraggiati, toccano i dieci milioni in Italia e che la disoccupazione è a livelli record in tutta Europa. Questo introduce nello scenario descritto ulteriori cambiamenti e fa nascere altre domande: è possibile ipotizzare da sinistra una ripresa economica che ambisca ad una piena e buona occupazione? E, mentre si lotta per questo, quale risposta dare a chi sta fuori dal lavoro? Si può ricorrere a strumenti, temporanei o strutturali, come la redistribuzione del lavoro o il reddito di cittadinanza? Nella mutazione in corso, si è rotto anche quel matrimonio che sembrava indissolubile tra lavoro e reddito: non c’era lavoro senza reddito, non c’era reddito senza lavoro. Oggi da un lato lavorare non è più condizione sufficiente per avere un reddito (proliferano tante forme di lavoro gratuito sulle quali il manifesto si è soffermato) e dall’altro si diffonde la convinzione che il reddito è un diritto a prescindere dal lavoro, un diritto di cittadinanza.
Tra queste due posizioni estremizzate, lavoro senza reddito e reddito senza lavoro, si collocano a sinistra posizioni ed orientamenti diversi che attraversano partiti, sindacato, economisti di sinistra. Insomma questo è uno dei nodi che ostacolano il decollo di una nuova sinistra. L’idea di un reddito di cittadinanza si è concretizzata in una convergenza parlamentare tra parti del Pd, Sel e M5S, ma esistono differenze non di poco conto con le posizioni del movimento sindacale presenti nel Piano del Lavoro della Cgil e ribadite da Laura Pennacchi anche nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia. In questo testo si afferma che il neoliberismo va verso la disoccupazione di massa e si vede nelle proposte di reddito di cittadinanza un rischio di abdicazione e rinuncia, di accontentarsi di un risarcimento di un lavoro che non c’è o addirittura di introdurre un Welfare per la non piena occupazione.
Siamo in presenza, perciò, a sinistra, di posizioni diverse che riflettono evidentemente diverse visioni dello sviluppo e del futuro e scale di priorità differenti. Si possono far incontrare queste posizioni per delineare un disegno organico, una strategia credibile della sinistra? Penso che sia possibile se da ciascuna posizione si estrae il meglio senza forzarla per confermare la propria. Ad esempio le proposte di reddito di cittadinanza collegano la percezione del reddito alla disponibilità ad accettare offerte di lavoro che dovrebbero essere proposte dagli uffici del lavoro. Non sono, quindi proposte puramente assistenziali. E così la proposta di dare priorità e centralità a Piani del lavoro non esclude forme di sostegno economico alle situazioni più disagiate senza lavoro né scarta riduzioni di orari di lavoro che possono intervenire in seguito a contratti di solidarietà, aziendali o territoriali.
Quindi una strategia unitaria non è affatto impossibile se si mette al centro il lavoro e se si fanno ruotare attorno ad esso gli altri strumenti configurando, così, un lavoro di cittadinanza, un diritto -dovere, che connette esercizio della cittadinanza attiva e reddito di cittadinanza. Speriamo che il dibattito aperto dal manifesto spinga i diversi protagonisti ad intervenire ed a ricercare insieme quella sintesi unitaria che è sempre più urgente. Anche perché, nel frattempo, il governo spreca una diecina di miliardi per agevolazioni a pioggia sul lavoro che producono una bolla mediatica che dura due mesi e poi si sgonfia con la stessa velocità con cui era nata. Aggiungendo al danno la beffa: una piccola parte dei giovani crede alla promessa, esce dal mondo degli scoraggiati e si affaccia al mercato del lavoro, ma il lavoro non lo trova e finisce per ingrossare le file di disoccupati che, come è noto, si calcolano sulle forze di lavoro. Così invece di creare nuova occupazione si creano nuove disillusioni e la strada per una nuova sinistra diventa sempre più in salita.

«La mutazione antropologica. Bisognerebbe raccogliere i cocci dello sviluppo e con quelle macerie iniziare a costruire nuove architetture come si faceva con le cattedrali gotiche».

Il manifesto, 13 agosto 2015

Che ci sia (o meglio, che ci potrebbe essere) “vita a sini­stra” è quasi “natu­rale” con­si­de­rato come va il mondo, ovvero verso una rotta di col­li­sione ine­vi­ta­bile con l’ambiente, la povertà dif­fusa, l’esodo ine­vi­ta­bile di masse enormi di popo­la­zione dai ter­ri­tori deva­stati da guerre, care­stie, sic­cità. Ma rima­nendo alle disgra­ziate sorti ita­li­che, se poco poco si ascol­tano i rap­pre­sen­tanti delle gio­vani gene­ra­zioni, si ha la sen­sa­zione che nes­suno creda più a una qual­che pos­si­bi­lità col­let­tiva di riscatto, di alternativa.

Cir­co­lano per­fino mito­lo­gie antro­po­lo­gi­che sulla dan­na­zione della spe­cie umana, come a dire: l’uomo è fatto così, le guerre sono ine­vi­ta­bili, la povertà di molti è neces­sa­ria al fun­zio­na­mento dell’economia. Basta osser­vare, per con­vin­cersi della dif­fu­sione di que­sto virus, l’atteggiamento di tante (troppe) per­sone qua­lun­que nei riguardi degli esodi di massa dai paesi che si affac­ciano sull’altra sponda del Medi­ter­ra­neo: non pos­siamo acco­glierli tutti — si dice nel migliore dei casi -, fini­remmo col diven­tare come loro, ci rubano il lavoro (che non c’è). E poi ancora, a me sgo­menta il fatto che il Papa venga oscu­rato; i suoi mes­saggi com­pa­iono come tra­fi­letti nei media nazio­nale; quelli inter­na­zio­nali nep­pure lo citano: non era mai suc­cesso in pas­sato. C’è di che ras­se­gnarsi a una estin­zione di massa per asfis­sia cul­tu­rale, per impo­tenza poli­tica, per dispe­ra­zione. “Spe­riamo che io me la cavo” sem­bra essere il motto delle nuove gene­ra­zioni. Non può certo stu­pire il suc­cesso di Renzi: è pur sem­pre meglio cre­dere alla befana che ras­se­gnarsi alla cruda realtà che costei non esista.

E a vedere i tele­gior­nali il qua­dro si incu­pi­sce ancora di più: beghe con­do­mi­niali, litigi per­so­nali, lea­de­ri­smo occu­pano l’intero spa­zio poli­tico, quello dal quale dovrebbe nascere il pro­getto di futuro. Ha ragione Bevi­lac­qua a dire (il mani­fe­sto dell’8 ago­sto) che la sini­stra è oggi una testa senza gambe. Le gambe, quando ci sono, cam­mi­nano da sole senza testa, e la testa ancora non si accorge di non avere le gambe, o forse più cini­ca­mente pensa di non averne più biso­gno come in quei romanzi di fan­ta­scienza dove si parla di imma­gi­na­rie menti senza l’ingombro del corpo che par­to­ri­scono pen­sieri e comandi. Que­sto il punto cru­ciale all’ordine del giorno della politica.

Così come ha ragione Michele Pro­spero (il mani­fe­sto del 4 ago­sto) a dire che la mino­ranza Pd, piac­cia o no, è molto utile al gioco del par­tito della nazione for­nendo la sua mal­de­stra stam­pella all’esercito dei vin­centi. Chi mai, tra i gio­vani (e anche tra i non gio­vani) può cre­dere ad essa? Se vogliamo con­ti­nuare con i ten­ta­tivi di sui­ci­dio, fac­ciamo pure un nuovo par­tito, inven­tia­moci un nuovo lea­der per avere l’illusione di esi­stere ancora. Tutto ciò che resta dell’attuale sini­stra non è più cre­di­bile agli occhi di nes­suno, quando essa non viene addi­rit­tura rite­nuta la respon­sa­bile degli attuali guai nostrani per averci illuso – e ingan­nato — che esi­steva un altro mondo diverso da questo.

Per espe­rienza per­so­nale posso citare la que­stione dram­ma­tica dell’università. Tra i vec­chi docenti impe­gnati, molti hanno fatto domanda di pen­sio­na­mento anti­ci­pato, altri, pur restando, vivono in soli­tu­dine senza impe­gno a curare i pro­pri (legit­timi) inte­ressi di ricerca. Un’intera classe diri­gente ha dato for­fait: chi può scappa, chi rimane tace dif­fi­dando dell’impegno poli­tico, men­tre l’ideologia libe­ri­sta meri­to­cra­tica si dif­fonde alla velo­cità della luce attra­verso il disbrigo quo­ti­diano di schede da riem­pire e valu­ta­zioni da fare per dimo­strare di essere i “migliori” e acce­dere alle gra­dua­to­rie nazio­nali e inter­na­zio­nali. Se vuoi avere suc­cesso parla pure in ita­liano (ancora è con­sen­tito) ma scrivi in inglese e su rivi­ste che sono accre­di­tate da impro­po­ni­bili agen­zie di valu­ta­zione pagate a peso d’oro dalle isti­tu­zioni. Un intero sistema for­ma­tivo essen­ziale per lo svi­luppo del paese è stato sman­tel­lato nel giro di pochi anni e ancor di più minac­cia di esserlo prossimamente.

Ser­vi­rebbe, come è suc­cesso a L’Aquila, un popolo delle car­riole che cominci a rac­co­gliere i cocci dello svi­luppo e con quelle mace­rie ini­ziare a costruire nuove archi­tet­ture come si faceva con le cat­te­drali goti­che, quando ancora la figura dell’Architetto non era nata. C’erano però i Mastri che con la loro sapienza gui­da­vano i lavori, inven­tando di volta in volta e col­let­ti­va­mente le forme e le solu­zioni tec­ni­che quando com­pa­ri­vano pro­blemi. Biso­gne­rebbe che poi le car­riole, con il loro cor­redo di rovine, con­fluis­sero verso una stessa dire­zione anzi­ché andar­sene a spasso ognuna per suo conto.

In un altro mondo, quello che noi vor­remmo, a quello sco­no­sciuto migrante che ha attra­ver­sato a piedi il tun­nel sotto La Manica sfi­dando cavi ad alta ten­sione e treni ad alta velo­cità, avremmo attri­buito una meda­glia d’oro: è lui il vero mara­to­neta delle Olim­piadi gre­che. La rispo­sta di Fran­cia e Inghil­terra è stata: ma dov’è la falla nei nostri sistemi di sicurezza?

«L’indeterminatezza della parola sinistra che consente al renzismo di rivendicarla deve spingerci a declinarla in modo nuovo: non siamo "più a sinistra", siamo "diversi"». Il manifesto, 13 agosto 2015, con postilla

Ai molti aspetti para­dos­sali che con­trad­di­stin­guono la sfera poli­tica in Ita­lia, pos­siamo aggiun­gere un altro para­dosso che riguarda diret­ta­mente l’oggetto su cui Norma Ran­geri ci ha invi­tato a discu­tere. Quanto più la «sini­stra» diventa inco­no­sci­bile nelle «cose» tanto più estende i suoi con­fini nelle «parole».

A «sini­stra del Pd» si stanno aprendo vastis­simi spazi per la «sini­stra». Con for­mu­la­zioni appena un po’ dif­fe­renti, frasi di tal genere ven­gono costan­te­mente ripe­tute anche sulle colonne di que­sto gior­nale. Lo si dice ormai da tanto tempo, ma lo stato di cose pre­sente ci prova in maniera dif­fi­cil­mente con­tro­ver­ti­bile quanto grande sia la dif­fe­renza tra affer­ma­zioni desi­de­ranti e realtà effet­tuale. Comun­que non è senza inte­resse chie­dersi quale sia il modo con cui è pos­si­bile inten­dere il ter­mine «sinistra».

Pro­ba­bil­mente la mag­gio­ranza di coloro che si sen­tono impe­gnati nella costru­zione della cosid­detta «casa comune» ritiene che la «sini­stra» in fieri, quella che dovrà occu­pare gli spazi lasciati liberi dal Pd, sia la sola legit­ti­mata all’uso di quel ter­mine. Ci sono però anche coloro che pen­sano ad un sog­getto poli­tico «a sini­stra» del Pd. C’è poi il Pd che ha risco­perto il valore nella comu­ni­ca­zione (nella pro­pa­ganda cioè) di una parola dalla quale, pro­prio nel suo momento fon­dante, aveva invece teso a sot­to­li­neare la distanza. Ricor­diamo bene Vel­troni, fon­da­tore e primo segre­ta­rio, defi­nire la nuova ragione del par­tito con espres­sione di radi­cale chia­rezza. A chi gli faceva notare che ormai egli non pro­nun­ciava più «la pala­bra izquierda», rispon­deva : «Es que somos refor­mi­stas, no de izquier­das» («El País», 1/03/2008). Ora Vel­troni ha risco­perto la «parola», così come il suo crea­tivo epi­gono Renzi.

Natu­ral­mente, trat­tan­dosi di pura comunicazione/propaganda, la «parola» deve flut­tuare nell’aria, non avere alcun peso ed alcuna radice nelle «cose». Sini­stra è «cam­bia­mento», sini­stra è «fare», come diceva com­pul­si­va­mente Ber­lu­sconi, al mas­simo sini­stra è un fle­bile richiamo ai sem­pi­terni valori. Tal­mente sem­pi­terni che, pre­scin­dendo da qual­si­vo­glia dimen­sione storico-analitica dei con­creti rap­porti eco­no­mici e sociali, pos­sono andar bene per tutti.

Pro­prio per que­sto lo «sdo­ga­na­mento» (così ha tito­lato «la Repub­blica») veltron-renziano del ter­mine «sini­stra» è sem­pli­ce­mente fun­zione del mer­cato elet­to­rale. Fun­zione effi­cace peral­tro per­ché a) richiama una tra­di­zione di lungo periodo i cui effetti di tra­sci­na­mento non sono certo esau­riti; b) spo­sta il con­fronto con qual­siasi altro sog­getto che voglia defi­nirsi di sini­stra su un piano esclu­si­va­mente assiale.

La col­lo­ca­zione sulla dimen­sione assiale, essendo le deno­mi­na­zioni poli­ti­che stru­menti di bat­ta­glia, non è la con­se­guenza di una tec­nica natu­rale, ma degli esiti di lotte poli­ti­che e cul­tu­rali. Per que­sto tali col­lo­ca­zioni si ride­fi­ni­scono con­ti­nua­mente e vanno valu­tate come sin­tomi di pro­cessi in corso, del tutto esterni rispetto a qual­siasi cri­te­rio di ogget­ti­vità. È evi­dente, quindi, il van­tag­gio del Pd che, restando sul piano assiale, può com­pe­tere con un forza che si col­loca ine­vi­ta­bil­mente «più a sini­stra». E il «più a sini­stra» è il luogo di tutte le forme di «estre­mi­smo», è il luogo del «più uno».

L’espressione «quelli del più uno» veniva usata dal sin­da­cato (Fiom) e dal Pci di Piom­bino, la città-fabbrica dove è avve­nuta la mia prima for­ma­zione poli­tica. La città fab­brica dove, per un periodo non breve, la realtà della dire­zione ope­raia ha coin­ciso con le ipo­tesi for­mu­late negli scritti dei nostri clas­sici. Veniva usata nei con­fronti dei «grup­pu­scoli», che dopo ogni lotta e dopo il suc­ces­sivo accordo, e nei primi anni Set­tanta gli accordi erano sem­pre favo­re­voli ai «pro­dut­tori», ai side­rur­gici, si pre­sen­ta­vano ai can­celli della grande fab­brica insi­stendo sull’insufficienza di que­gli accordi, sulla scarsa radi­ca­lità delle lotte. Quelli del «più uno», appunto.

In un asse dove è col­lo­cata una forza di esta­blish­ment che si defi­ni­sce come «sini­stra» e così viene defi­nita dalla stra­grande mag­gio­ranza dei media, la con­tem­po­ra­nea pre­senza di una forza «più a sini­stra», indi­pen­den­te­mente dalle prassi poli­ti­che reali, fini­sce ine­vi­ta­bil­mente per ripre­sen­tare quella stessa dinamica.

Cer­ta­mente è la parola «sini­stra» ad avere assunto, ed ormai da lungo tempo, una tale inde­ter­mi­na­tezza seman­tica da per­met­tere qual­si­vo­glia scor­re­ria pro­pa­gan­di­stica. Un breve inter­vento non è la sede per discu­tere della con­ti­nuità o meno del suo uso nel pro­cesso in corso. D’altra parte quello che appare logi­ca­mente giu­sto assai spesso non lo è nei pro­cessi di realtà. Ciò che, però, dob­biamo del tutto evi­tare è qual­siasi rife­ri­mento ad un posi­zio­na­mento «più a sini­stra» del Pd.

Karl Polany ha affer­mato: «Il socia­li­smo è essen­zial­mente la ten­denza ine­rente ad una civiltà indu­striale a supe­rare il mer­cato auto­re­go­lato subor­di­nan­dolo con­sa­pe­vol­mente ad una società demo­cra­tica» (“La grande tra­sfor­ma­zione. Le ori­gini eco­no­mi­che e poli­ti­che della nostra epoca”, 1944). Se que­sta con­clu­sione della lunga ana­lisi di Polany, diventa il minimo comun deno­mi­na­tore di tutte le forze impe­gnate nella costru­zione della «casa comune», ecco che la col­lo­ca­zione assiale cessa di avere senso. Non si tratta di essere «più a sini­stra», bensì di fare un salto qua­li­ta­tivo, di essere «diversi».

In fondo il pro­blema della «diver­sità» è tutto qui. Il prius della diver­sità, anche quella di Ber­lin­guer, non stava nell’etica, nell’antropologia, stava in una con­ce­zione della poli­tica e degli obbiet­tivi della poli­tica.

Affer­mare una teo­ria e una prassi che ten­dono a subor­di­nare il «mer­cato auto­re­go­lato» alla società «demo­cra­tica» è com­pito che con­di­ziona tutti gli ambiti della poli­tica, tutta la sfera dei diritti ed anche la sfera dei valori. Il rife­ri­mento ai «valori», infatti, ha senso solo all’interno di una pre­cisa con­cre­tezza ana­li­tica. Frutto, cioè, di una con­si­de­ra­zione dei «valori» come dimen­sione non sepa­rata dalla con­ce­zione del rap­porto tra demo­cra­zia e forme del capi­tale indi­cato da Polany.

Tutto ciò è di sinistra?

postilla

Nomina sunt consequentia rerum. "Sinistra" è parola che esprime contenuti otto-novecenteschi. Forse varrebbe la pena di iniziare la riflessione su quale fosse la realtà (sociale, economica, ideologica) che in quei secoli (in quelle fasi del capitalismo) allora la parola "sinistra" esprimeva, e quale quella che vogliamo che sia espressa oggi da un nuovo soggetto politico che rappresenti oggi la "diversità".

«In Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”».

La Repubblica, 13 agosto 2015

«Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista». Queste parole di Hélder Câmara oggi suonano al contempo attualissime e superate: almeno in Italia, ormai sono pochissimi quelli che chiamano “santo” chi sfama i poveri — al massimo è un buonista — mentre, con il trionfo del pensiero unico neo-liberista, l’epiteto “comunista” è usato solo da alcuni ambienti della destra americana nei confronti di papa Francesco.

Eppure, con il fenomeno dell’immigrazione siamo di fronte a un paradosso simile: chi ha responsabilità di governo e chi dall’opposizione confida di averne a breve continua a parlare di “emergenza” per un fenomeno che ormai risale ad almeno una ventina d’anni — o abbiamo già dimenticato le navi stracolme di albanesi che approdavano in Puglia? — e a latitare in azioni politiche a medio e lungo termine, confidando che il tessuto sociale e le reti della solidarietà umana suppliscano alle loro carenze. La chiesa e molti cristiani — realtà ben più ampia sia della Cei che del Vaticano — sono da sempre in prima linea in questa carità attiva sul territorio e cercano di porsi di fronte all’umanità ferita senza chiedere passaporti né badare a identità etniche o culturali. Eppure quando si occupano dei poveri di cittadinanza italiana passano inosservati, come se la loro azione fosse dovuta e scontata, mentre quando si chinano su fratelli e sorelle in umanità di altri popoli e paesi, vengono sprezzantemente invitati a farsi carico dei disoccupati di “casa nostra”.

Purtroppo in Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”, escludendone gli “stranieri” come se non ne fossero degni. Sì, quando la fraternità viene meno, cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso: una paura che va presa sul serio ma che non va alimentata per farne uno strumento di propaganda politica. Va invece razionalizzata, contenuta e placata con un’autentica governance dell’immigrazione, con un volontà fattiva di collaborazione con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, con una politica che sappia interagire con i Paesi da cui hanno origine i flussi più intensi di emigrazione. Certo, non possiamo accogliere tutti, ma la solidarietà umana ci spinge a superare i limiti delle nostre comodità e ad accogliere l’altro per quello che siamo capaci, senza innalzare muri.

Questa “emergenza” non è tale: è un fenomeno che durerà a lungo ed è contenibile nei suoi effetti solo con uno sforzo di solidarietà. La sua portata, del resto, è tale che mette in crisi ogni tentativo di respingerlo con la forza. L’Europa sembra in piena confusione, non più sicura dei suoi valori umanistici, delle sue lotte secolari per il riconoscimento dei diritti di ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi. Ritrovare questi principi decisivi non è questione solo cristiana, è innanzitutto umana e, proprio per questo, cristiana: l’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti.

Su queste tematiche a volte la chiesa suscita ostilità quando parla e agisce con la parresia dei profeti e di Gesù di Nazareth. Il Vangelo per molti sarà utopia irrealizzabile, ma non pone condizioni o limiti al comandamento di servire affamati, assetati, stranieri, carcerati, ignudi, ammalati… Parla invece di “farsi prossimo”, di andare incontro a chi è nel bisogno, fino al paradosso di “amare i nemici”. Queste esigenze radicali poste da Gesù possono dar fastidio a molti, ma chi professa di essere suo discepolo non può fare a meno di sentirle come appelli ineludibili rivolti proprio a se stesso. Il cristiano si saprà sempre inadeguato nel mettere in pratica queste parole, sovente dovrà riconoscere che il proprio comportamento quotidiano le contraddice, ma non potrà mai accettare che carità fraterna, solidarietà, accoglienza siano variabili da sottomettere alle necessità della realpolitik.

Così un cristiano, di fronte al dramma di milioni di esseri umani vittime della guerra, della fame, della violenza, della cecità anonima della finanza e del mercato, della “politica” di potere, proverà vergogna per non riuscire a far nulla nemmeno per quelle poche migliaia di disgraziati che giungono fino al suo Paese, ma non potrà tacere e non gridare “vergogna” a chi chiude gli occhi di fronte al proprio fratello in umanità che soffre e muore, tanto più se chi si astiene dall’agire ha responsabilità, onori e oneri di governo.

Sì, come ha detto papa Francesco, «respingere gli immigrati è un atto di guerra!». Questo non è un proclama politico: piaccia o meno, è un grido di umanità.

Priore della comunità monastica di Bose

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Quando la fraternità viene meno cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso Va razionalizzata

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L’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti

Prima puntata di un viaggio lungo il confine che separa Ungheria, Serbia e Romania a pochi giorni dall’inizio della costruzione della barriera lunga 175 km con cui il governo Orbán intende fermare il flusso dei profughi. Per capire quanto è corta la memoria nella fortezza Europa.

Il manifesto, 12 agosto 2015

«Dove ci tro­viamo?» – chiede uno di loro.
«Sì, dove ci tro­viamo?» – insi­ste l’amico.
«Non sanno nean­che dove sono!» – esclama uno di noi, sor­preso.
«Io vengo dalla Siria, sono scap­pato dall’Isis».
«Io dall’Iraq, dal Kurdistan».

«Dove ci tro­viamo?», ripete ancora, più tardi, una ragazza afghana di dodici anni. È scap­pata dai tale­bani, ha lavo­rato un anno in Tur­chia con la madre, ora arri­vano insieme alle porte d’Europa. Nes­sun padre, almeno non qui e non ora.

Non sono in pochi a non sapere nem­meno come si chiama que­sto luogo. Siamo — noi e loro — alla sta­zione fer­ro­via­ria di Seghe­dino (Sze­gede), Unghe­ria, come alcuni hanno sco­perto gra­zie al GPS dei loro smart­phone, gli stessi tele­foni che sono ser­viti da guida per pas­sare alla cieca l’ultima fron­tiera, tra la Ser­bia e l’Ungheria. Con i sistemi di navi­ga­zione sono riu­sciti a loca­liz­zare le coor­di­nate tra­smesse dai traf­fi­canti in uno degli ultimi sms — segnali verso il futuro. E il futuro, che fino a que­sto punto è già costato cen­ti­naia o migliaia di euro, non è ancora qui, in que­sta sta­zione della peri­fe­ria euro­pea in cui tra­scor­riamo insieme le prime ore dell’alba.

Ma sap­piamo dav­vero dove ci tro­viamo, in que­sto sel­fie della “sto­ria del pre­sente”, men­tre una nuova cor­tina di ferro lunga 175 chi­lo­me­tri sem­bra poter nascere nel cuore d’Europa? Le 4 e 36 minuti: risuona l’altoparlante: «In par­tenza, dal bina­rio 1, treno con desti­na­zione…». «Dove ci tro­viamo, e dove stiamo andando?». «E noi?».

Il senso della vita ingabbiato

«Il senso della vita è sca­val­care fron­tiere», diceva il reporter-viaggiatore polacco Ryszard Kapu­scin­ski, frase che risuona ampli­fi­cata quando la fron­tiera con­verge su tre punti. Qui, dove Unghe­ria, Ser­bia e Roma­nia si toc­cano, al Tri­plex Con­fi­nium, sor­gerà l’estremità orien­tale della strut­tura di filo spi­nato, di tre o quat­tro metri d’altezza, la cui costru­zione è stata annun­ciata dalle auto­rità unghe­resi a fine pri­ma­vera 2015, come misura per arre­stare quella che minac­cia di diven­tare la più grande onda migra­to­ria verso l’Unione euro­pea degli ultimi quarant’anni. I due prin­ci­pali punti d’ingresso: l’Italia meri­dio­nale e – appunto — il sud dell’Ungheria, con Gre­cia o Bul­ga­ria, e poi Mace­do­nia e Ser­bia come paesi di transito.

Que­sto “Occi­dente Express” attra­verso i Bal­cani è già diven­tato la prin­ci­pale via d’accesso all’Unione euro­pea, ancor più movi­men­tata delle vie marit­time del Medi­ter­ra­neo fino alle spiagge di Lampedusa.

E per fer­mare i migranti, innal­zano reti: il trac­ciato pre­vi­sto dalle auto­rità di Buda­pest per la bar­riera si estende da qui, punto di par­tenza del nostro viag­gio, fino a un’altra fron­tiera tri­pla (tra Unghe­ria, Ser­bia e Croa­zia), a gomito su un brac­cio del Danu­bio, nostra desti­na­zione finale.

Alcuni lo chia­mano muro, altri dicono che è sol­tanto una «recin­zione»: e così viene defi­nita uffi­cial­mente. Non c’è ancora biso­gno di dar­gli un nome defi­ni­tivo, fin­ché nel pae­sag­gio l’orizzonte rimane ver­gine e lo sguardo sor­vola la pia­nura scon­fi­nata, come un’aquila che flut­tua sopra a una vec­chia e ormai abban­do­nata torre di con­trollo dell’esercito jugo­slavo. La gigan­te­sca torre resi­ste alla rug­gine del tempo, come sim­bolo archeo­lo­gico di un’antica frat­tura che non ha mai smesso di essere fron­tiera e che ora lo diven­terà ancora di più.

È stata la fron­tiera di Tito, ed è stata anche la fron­tiera di Kádár e di Mosca, e ora sarà la fron­tiera di Orbán. È stata la fron­tiera non alli­neata del socia­li­smo «dal volto umano» jugo­slavo e ora sarà la neo-frontiera del capi­ta­li­smo, anch’esso «dal volto umano», di un’Unione euro­pea che, più o meno imbel­let­tata, sta incor­po­rando i volti dei neo-nazionalismi che vin­cono alle urne da que­ste parti. Cama­leonti all’interno del pae­sag­gio reto­rico, gli «ismi» si toc­cano sem­pre, sfu­mano le fron­tiere, mor­dono la coda gli uni agli altri.

Uno sto­rico pic-nic paneuropeo

Aquile qui, che attra­ver­sano i cieli, gab­biani là nel Medi­ter­ra­neo sulla Sici­lia e su Lam­pe­dusa. Anche qui ci sono state isole un tempo, in un’altra era geo­lo­gica, prima dell’Uomo, quando tutto quest’infinito, ora verde come il mais, ora biondo come il grano, era il Mare di Pan­no­nia. Da un campo di gira­soli, una lepre salta all’improvviso davanti alla nostra auto. Nean­che un poli­ziotto, nean­che un rifu­giato, sol­tanto noi. «Qui si potrebbe fare un bel pic-nic!». A par­lare è stata Móni Bense, pro­fes­so­ressa uni­ver­si­ta­ria e tra­dut­trice, che è scesa da Buda­pest fino alla Terra Bassa per accom­pa­gnarmi in que­sto per­corso, men­tre io salivo da Bel­grado alla volta della Vojvodina.

La Terra Bassa unghe­rese e la Voj­vo­dina serba si mesco­lano, sia­mesi nella geo­gra­fia, sorelle su una mappa umana che la sto­ria ha tagliato varie volte. Anche se molto più pic­colo della torre di Tito, il segno della tri­pla fron­tiera è qui, in que­sto campo ster­mi­nato, e potrebbe fare da rendez-vous per il pic-nic che voleva fare Móni. Si sarebbe stesa la tova­glia lì… in piena terra di nes­suno. È in tavola per tutti, gou­lash per favore!

Lei non c’era, ma le sarebbe pia­ciuto par­te­ci­pare allo sto­rico pic-nic del 19 ago­sto 1989, vicino alla fron­tiera austro-ungarica tra Sankt Mar­ga­re­then im Bur­gen­land e Sopron­khida, a Sopron­puszta, dove unghe­resi e austriaci hanno orga­niz­zato l’incontro che il gior­nale fran­cese Le Monde ha defi­nito «il pic-nic che ha fatto oscil­lare la sto­ria». Il primo luogo, in tutta l’Europa, in cui qual­che set­ti­mana prima la cor­tina di ferro venne sim­bo­li­ca­mente can­cel­lata era lì vicino, ma in quel giorno d’estate, nel corso del «pic-nic paneu­ro­peo», cen­ti­naia di tede­schi dell’est (sareb­bero stati decine di migliaia nei mesi suc­ces­sivi) attra­ver­sa­rono il con­fine verso l’Austria, per poi rin­con­trarsi con le pro­prie fami­glie in quella che allora era la Ger­ma­nia Occidentale.

Non riu­scire più a ricordare

Il muro che era comin­ciato a cadere da quelle parti sarebbe crol­lato a Ber­lino sol­tanto tre mesi dopo, e con lui il resto del recinto di ferro che, in mezzo all’Europa, divi­deva il mondo. Móni allora era un’adolescente, e forse cre­sceva ridendo di Gusz­táv, il mitico car­tone ani­mato degli anni Ses­santa e Set­tanta, pro­dotto dal Pan­nó­nia Film­stú­dió, in pieno «comu­ni­smo gou­lash». Gusz­táv era vene­rato in Unghe­ria (ma anche fuori dalla Pan­no­nia, in Jugo­sla­via e non solo) dove c’è chi ha visto e rivi­sto all’infinito lo stesso epi­so­dio, cin­que o sei minuti ripe­tuti fino a sfi­nirsi dalle risate.

Ma su altri schermi, i ricordi sem­brano essere più sfu­mati: «La sto­ria si ripete così rapi­da­mente che la gene­ra­zione che ha vis­suto i suoi epi­sodi più tra­gici qui è ancora viva, ma pare non riu­scire più a ricor­dare», dice ras­se­gnata Móni, lamen­tan­dosi dell’amnesia par­ziale di molti suoi com­pa­trioti, imme­mori dell’eterno sta­tus di migranti e rifu­giati, se non di prima, di seconda o terza gene­ra­zione, che ha accom­pa­gnato il popolo unghe­rese ritor­nando indie­tro solo di un secolo, fino al trat­tato di pace di Trianon.

Forse una rilet­tura delle opere dello psi­ca­na­li­sta unghe­rese Sán­dor Ferenczi, con­tem­po­ra­neo di que­gli eventi, potrebbe aiu­tarci a capire come sia pos­si­bile iscri­vere un vuoto sui traumi vis­suti, un’apparente para­lisi del pen­siero, in grado di lasciare l’individuo, quindi anche il cit­ta­dino e l’elettore, più indi­feso. In effetti, se la sto­ria si ripete in qual­che modo, Ferenczi ci aveva già spie­gato il perché.

È pro­ba­bile che anche Robert Mol­nár sia cre­sciuto con le peri­pe­zie di Gusz­táv. Scom­metto che sarebbe pia­ciuto anche a lui par­te­ci­pare a quel «pic-nic paneu­ro­peo» dell’agosto ’89. In quell’estate che ha pre­ce­duto l’«Autunno dei Popoli», Mol­nár aveva 18 anni, fatti a Kübe­kháza, la cit­ta­dina che dista poco più di un chi­lo­me­tro dal Tri­plex Con­fi­nium, di cui oggi è il sin­daco. Quando lasciamo la linea di con­fine e trac­ciamo l’azimut, attra­verso i campi, diretti al cen­tro del vil­lag­gio, sap­piamo già che non lo incon­tre­remo, né a casa, né in Comune, né alla koc­sma, il bar-taverna locale. È all’estero da qual­che giorno, per lavoro, ma nono­stante tutto con­versa a lungo con noi al telefono.

Non è facile tro­vare, in Unghe­ria, soprat­tutto nel pano­rama poli­tico di centro-destra, una voce così diretta con­tro la costru­zione della nuova bar­riera. «Cono­scendo la Sto­ria — dice lui — in pas­sato, quando un Paese ha deciso di costruire un recinto o un muro, come ad Auschwitz-Birkenau, a Ber­lino o nel resto della fron­tiera del blocco comu­ni­sta, è sem­pre diven­tata una piaga per chi l’ha costruito». Per Mol­nár, «l’Ungheria è già un Paese iso­lato a livello intel­let­tuale e psi­co­lo­gico. Que­sto avrà come con­se­guenza la sua ghet­tiz­za­zione. L’Ungheria si cir­con­chiude, il che signi­fica che non esi­ste né uscita né entrata, né da fuori né da den­tro. Siamo in mezzo all’Europa, se non riu­sciamo a navi­gare in acque paci­fi­che, ne deriva che lo spa­zio d’azione degli unghe­resi andrà ridu­cen­dosi», fin­ché «le per­sone non per­de­ranno la spe­ranza e fug­gi­ranno dal Paese». Più che tra­sfor­marsi in un’isola, «l’Ungheria si ghet­tiz­zerà», sot­to­li­nea quest’uomo poli­tico che, fino al 2002, era stato depu­tato a Buda­pest per lo Szerz (Par­tito Indi­pen­dente dei Pic­coli Agri­col­tori e Cit­ta­dini). In quel periodo venne espulso dal par­tito e uscì dal Par­la­mento. È tor­nato nella terra in cui è cre­sciuto e da allora, come indi­pen­dente, dirige i destini di que­sto muni­ci­pio fron­ta­liero in cui vivono circa 1500 persone.

Al Tri­plex Con­fi­nium, un orec­chio acuto rie­sce forse a sen­tire tre cam­pane, a seconda dalla rosa dei venti: quella della chiesa di Kübe­kháza, qui in Unghe­ria, quella di Beba Veche, in Roma­nia, o quella di Rabe, in Ser­bia, tre pae­sini che, quasi equi­di­stanti, for­mano que­sto trian­golo (si riu­ni­scono tutti una volta all’anno, per una festa tran­sfron­ta­liera). Róbert Mol­nár ci tiene a dichia­rarsi cri­stiano pra­ti­cante per riba­dire che «c’è biso­gno di pren­dersi cura dei fore­stieri», il mes­sag­gio di Ste­fano I, re d’Ungheria, poi Santo Ste­fano per i cre­denti. «Lo dice la Bib­bia: non fare agli altri ciò che non vor­re­sti fosse fatto a te stesso», ricorda, e subito pro­fe­tizza che «la cat­ti­ve­ria ci verrà resti­tuita. Se non vogliamo essere mal­trat­tati, non pos­siamo mal­trat­tare gli altri. Per­ché come dice un’espressione che ci ricorda un mio col­lega, tu lec­chi il gelato, ma anche lui ti può leccare».

Nella koc­sma della via prin­ci­pale, le birre e le pálinke sono molto più popo­lari dei gelati. Un uomo, appog­giato all’entrata, si tiene in equi­li­brio con una birra per ogni mano e con­ti­nua a bere, ora una, ora l’altra. I tavo­lini della taverna si esten­dono tra la casa e la strada, come suc­cede per ogni casa, per ogni strada, nella Terra Bassa o nella Voj­vo­dina. Di fronte a ogni casa, que­sta fascia che sem­bra un giar­dino di cin­que o dieci metri, a volte quin­dici, crea una bella tran­si­zione, un’armonia, invece di una fron­tiera bru­sca, tra il legno della porta e l’asfalto della strada – una terra di nes­suno che tutti col­ti­vano come se fosse il pro­prio giar­dino, una terra di tutti. Quel che nasce o è pian­tato in que­sta fascia è pub­blico; anzi, nel mondo rurale, sem­bra impos­si­bile pen­sare a un esem­pio migliore di spa­zio pub­blico. Lì di fianco, un bam­bino, sor­retto dalle brac­cia del padre, coglie ciliegie.

Un’immagine quasi uguale ci verrà descritta, in un’altra koc­sma, in un altro pae­sino, dalla padrona del locale. Si era detta testi­mone «dell’allegria di un gruppo di rifu­giati che rac­co­glieva frutta da un albero». Qui all’entrata della koc­sma di Kübe­kháza, la padrona rac­conta un altro epi­so­dio, qual­cosa di simile, che ha visto in tele­vi­sione. Anzi, fino alla nostra visita, alla fine di giu­gno, i rifu­giati pas­sa­vano dav­vero sol­tanto in tele­vi­sione e lei stessa non aveva ancora visto nes­suno tran­si­tare di lì. L’unico pro­blema con­creto di cui lei aveva sen­tito par­lare era il seguente: un rifu­giato aveva rubato dei pomo­dori a un agri­col­tore che si lamen­tava del fatto, nel repor­tage tele­vi­sivo, come se fosse la fine del mondo. «Poveri», si sente una voce sullo sfondo, con tono empa­tico, «ave­vano fame, nella stessa situa­zione, ognuno di noi farebbe la stessa cosa».

Kübe­kháza non è ancora una nuova Lam­pe­dusa, alla fine della rotta bal­ca­nica dei migranti dell’est e del sud, ma sia il sin­daco della città, sia la signora della koc­sma intui­scono come finirà. Entrambi con­cor­dano, quando dicono che, con la bar­riera fron­ta­liera che sta per ini­ziare nel Tri­plex Con­fi­nium, a poco più di un chi­lo­me­tro dalla città, «è chiaro che i rifu­giati faranno il giro dalla Roma­nia e poi pas­se­ranno nuo­va­mente di qui». A que­sta dedu­zione, ovvia per chi guarda la car­tina, ha rispo­sto Péter Szi­j­jártó, il gio­vane mini­stro degli Esteri e dell’Investimento Estero, affer­mando a vari media che «in tutte le sezioni di fron­tiera su cui non esi­ste nes­suna altra forma effi­cace ad impe­dire l’immigrazione ille­gale [oltre alla linea di divi­sione tra la Ser­bia e l’Ungheria], verrà uti­liz­zato lo stru­mento sicuro della chiu­sura della fron­tiera», ovvero, il pro­lun­ga­mento del muro-recinto.

Fin­ché il filo spi­nato non gli taglia l’orizzonte, Robert Mol­nár, il poli­tico al governo di que­sta cit­ta­dina fron­ta­liera, sostiene che tocca «alla ricca Europa occi­den­tale tro­vare una­ni­me­mente una rispo­sta e che non si può dare la respon­sa­bi­lità solo all’Ungheria, per­ché que­sta è una cata­strofe uma­ni­ta­ria che riguarda il mondo intero”. Ma poi torna a guar­dare verso l’interno, quando parla del muro come di una deci­sione del governo nell’interesse dello stesso par­tito che forma l’esecutivo, il Fidesz (della destra popu­li­sta; 44,5% alle legi­sla­tive del 2014).

Uno spot nazionalista

Mól­nar clas­si­fica la deci­sione come un «mero atto di cam­pa­gna poli­tica interna», per cui lo Stato dovrà sbor­sare più di 20 milioni di euro. La strut­tura sarebbe così un enorme poster di pro­pa­ganda nazio­na­li­sta, con i suoi quat­tro metri d’altezza e 175 chi­lo­me­tri di lun­ghezza. Con­ti­nuando a pas­sare i fatti al setac­cio, l’ex-deputato con­clude che que­sta misura «non è con­tro l’immigrazione, ma serve solo a Vik­tor Orbán e al Fidesz per togliere vento alle vele dello Job­bik (con­si­de­rato un par­tito di estrema destra; 20,5% alle legi­sla­tive 2014), per­ché ci sono già dei radar ter­mici instal­lati su tutta la fron­tiera e il 98% dei rifu­giati ven­gono presi».

«Dove ci tro­viamo?». In un giar­dino in cui Orbán semina muri, che è anche un giar­dino dell’Europa. Qui, ai tavo­lini del­la­koc­sma, il giorno scorre len­ta­mente come il Tisza o il Danu­bio, come le due birre nelle mani di quell’uomo di Kübe­kháza. Sull’albero di fronte a noi, il bam­bino ha lasciato molti grap­poli di cilie­gie per il primo rifu­giato che pas­serà la fron­tiera in que­sto pae­sino tran­quillo. Domani o più avanti, non tar­de­ranno a pas­sare di qui. Forse Shar­bat, forse Moham­med, gente che incon­tre­remo alla sta­zione di Seghe­dino una notte di que­sto viag­gio, o forse Rafiq, che aspetta ancora, in una fab­brica abban­do­nata di Subo­tica, senza pas­sa­porto, che un traf­fi­cante gli dia le coor­di­nate per con­ti­nuare il viaggio.

Nel frat­tempo, nella memo­ria della taverna, rim­bomba la voce di quell’agricoltore unghe­rese che si lamenta in tele­vi­sione che «loro» gli hanno «rubato i pomodori».

«Loro» sono quelli che sono scap­pati dalla fine del mondo spe­rando di tro­vare un posto nell’eden-fortezza dell’Unione euro­pea. In unghe­rese, in serbo e in croato (i due lati della lin­gua serbo-croata), pomo­doro e para­diso sono parole sorelle, con la stessa radice, che indica sia il frutto-verdura che il luogo dell’idillio:paradiscom/paradiscom, paradajz/raj, rajica/raj. Ci usci­rebbe un bell’episiodio di Gusz­táv, penso io, Gusz­táv tra­sfor­mato in rifugiato-ladro di para­disi, un selfie-caricatura di cui l’Ungheria e l’Europa pro­ba­bil­mente hanno bisogno.

Que­sto arti­colo è stato ori­gi­na­ria­mente pub­bli­cato su Osser­va­to­rio Bal­cani e Cau­caso, tra­du­zione dal por­to­ghese di Serena Cac­chioli

(1 — continua)

La Repubblica, 13 agosto 2015

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Il filo d’acciaio annunciato a giugno da Orban per respingere i migranti in arrivo dai Balcani è quasi pronto in tempi record. Duecento chilometri costruiti dall’esercito e dai disoccupati
MÓRAHALOM . Ci vogliono 45 secondi esatti, cronometro alla mano. Il pilone di acciaio lungo sei metri entra con la forza due metri sottoterra; il macchinario che lo spinge giù — è un prodotto di alta tecnologia meccanica italiana, gli ingegneri ungheresi ne sono entusiasti — picchia come un martello a ritmi regolari, e fa lo stesso rumore di quando si chiude una bara. Sarà un caso, ma un po’ di Europa muore davvero qui, nella costruzione di questo muro alto quattro metri, rinforzato con il filo spinato, al confine tra Serbia e Ungheria. A mo’ di protezione contro l’invasione di un potente esercito straniero: migliaia di migranti pachistani, afghani e siriani esausti che attraversano i Balcani spesso a piedi.

Dopo l’annuncio del giugno scorso, il governo di Budapest guidato dal populista di destra Viktor Orbán ha messo il turbo alla costruzione del muro lungo 175 chilometri. Che infatti verrà ultimato il 31 agosto, dopo appena un mese e mezzo di lavori. Per fare subito, la progettazione e la messa in opera è stata affidata all’esercito, e insieme ai militari ci sono migliaia di disoccupati che in cambio di un reddito minimo sono tenuti a rispondere alla chiamata dello Stato.

Per arrivare al cantiere di Mórahalom, paese di cinquemila abitanti al confine dell’Ungheria meridionale, bisogna passare in mezzo ai campi di granturco e fare qualche chilometro di strada sterrata. C’è un accampamento di soldati e polizia, con gli operai che vanno e vengono portati coi camioncini in mimetica. Nei giorni scorsi i tecnici avevano fatto tre prove di muro: piloni di legno, veri e propri tronchi d’albero, con recinzione metallica; piloni e reticolato in acciaio; oppure un groviglio di di filo spinato, un rotolone sopra l’altro. «Alla fine — racconta Vedess, poliziotto, nome e numero identificativo sull’uniforme — si è scelta una via di mezzo tra le ultime due ipotesi. Piloni in acciaio, recinzione e un’aggiunta di filo spinato a terra. Così neanche se arrivano con la fiamma ossidrica ce la fanno…».

Dal 1° settembre lungo tutto il muro ci saranno i soldati a presidiare. Armati. Avranno anche la licenza di sparare? «Questo ancora non lo sappiamo, aspettiamo disposizioni», risponde. A poche centinaia di metri c’è la tenuta di Flórián, mais a perdita d’occhio. Indica un viottolo in mezzo alle piante, c’è qualche pannocchia mangiucchiata, bottigliette di plastica vuote, una ciabatta abbandonata: «Passano tutti di qui, ci sono volte che ne trovo qualcuno in fin di vita, agonizzante, quando arrivo al mattino. Ormai ho un rapporto regolare con ambulanze e polizia ». Molti altri, dice ancora, «sanno già tutto, sono muniti di tablet e hanno dei contatti: chiamano subito le autorità, vengono soccorsi e identificati, poi tentano di proseguire verso Germania, Austria e Svezia ». La spiegazione del perché, dopo lo sdegno iniziale, mezza Europa assista in silenzio all’innalzamento del muro, sarebbe proprio questa, ragionano qui: sanno tutti che a queste migliaia di disperati — 43mila nel 2014 — di restare in Ungheria interessa meno di niente. Le mete predilette sono altre. Orbán fa il cattivo e chiude le frontiere con la forza, ma a conti fatti conviene a molti, commenta un funzionario di polizia.

L’esibizione muscolare del governo sul tema immigrazione nei giorni scorsi ha fatto scoppiare un altro scandalo ancora, ma stavolta c’è stato un (parziale) dietrofront. Da Pécs, città di 160mila abitanti con antichissimo borgo medievale, ogni 24 ore partono due Intercity diretti a Budapest. Prima classe, seconda classe e “classe migranti”. L’ultimo vagone infatti è riservato ai rifugiati diretti a un centro di accoglienza e il primo giorno la compagnia di stato Magyar Államvasutak li aveva fatti viaggiare coi lucchetti alle porte ed un cartello: «Queste porte non possono essere aperte». Le associazioni umanitarie hanno protestato, i lucchetti sono stati tolti, ma resta la collocazione in fondo al convoglio, con i migranti spesso ammassati e che la notte prima del viaggio dormono per terra tra i sedili.

Alla stazione di Pécs c’è un monumento che ricorda lo sterminio degli ebrei. «Li ha uccisi l’odio, li protegge il ricordo», recita la stele. Garzó Gábor è un medico di Migration Aid, c’è un mini campo di soccorso proprio accanto alla statua dove lui presta aiuto: «È una specie di deportazione — dice — perché vieni ficcato su un treno, separato dagli altri, e non sai nemmeno dove sei diretto». I volontari mostrano le foto del piede di un bambino di quattro anni arrivato il giorno prima: non sembra neanche più un piede. Colpa delle punture degli insetti delle paludi serbe, spiega un altro dottore: «Lo abbiamo salvato, e facciamo tutto da soli. La sanità pubblica non li accetta». In compenso, si fa per dire, più volte li hanno minacciati gli estremisti di destra dello Jobbik. «La loro proposta è semplice: la chiamano perfino “soluzione finale”, proprio così. Di provocazione in provocazione, ci arriveremo», chiosa Gábor.

Il viaggio verso Budapest dura tre ore, con prima partenza alle 05.14. Alle 23 del giorno prima i ferrovieri avevano aperto l’ultimo vagone, così gli esuli hanno trovato un posto dove prendere sonno. La maggior parte non sono neanche maggiorenni. Il treno si muove e loro dormono ancora. Gli altri passeggeri neanche li considerano. I migranti si svegliano un’oretta prima dell’arrivo nella capitale. Uno di loro apre il finestrino, canta una canzone del suo paese e sembra quasi felice, nonostante i mille nonostante di tutta questa storia.

Il filmato de La Repubblica: 272541-multi-auto-muro_filospinato_def.mp4

Il partito delle discariche e degli inceneritori segue una strategia lineare. Rallenta come può il passaggio alla raccolta differenziata porta a porta ed enfatizza l’incipienza delle inevitabili emergenze». Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2015 (m.p.r.)

È una guerra. Guerra economica, ma guerra vera, feroce. E il governo, con il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti, impegnatissimo, non è neutrale. La preda in palio è l’immondizia, in gergo tecnico Rsu (rifiuti solidi urbani), un tesoro attorno al quale si muovono interessi miliardari. Da una parte c’è il partito della raccolta differenziata, del trattamento e del riciclaggio. Un partito fatto da aziende specializzate con i loro interessi, spalleggiato dagli ambientalisti. Dall’altra c’è il partito delle discariche e degli inceneritori: grandi aziende (molte municipalizzate), grandi interessi e collegamenti densi con i partiti di governo, quali che siano. Le regole del gioco, in nome del bon ton istituzionale, impongono di ignorare l’esistenza della criminalità organizzata, che della partita è protagonista sempre più ingombrante e sfrontato.

Il decreto attuativo dell’articolo 35 dello Sblocca Italia, con il quale Galletti tenta di imporre alla regioni 12 nuovi inceneritori, è schiettamente schierato con il partito dei “metodi tradizionali”: inceneritori e discariche, appunto. Per capire quale sia veramente la posta in gioco basta osservare la più stridente contraddizione nella strategia del governo Renzi. Da una parte si sostiene la necessità di costruire nuovi inceneritori per soddisfare una presunta domanda insoddisfatta. Dall’altra si liberalizza il traffico di rifiuti da una regione all’altra per far fronte al più drammatico problema dei cosiddetti termovalorizzatori: quelli attualmente in funzione sono quasi tutti sottoutilizzati, con pesanti ricadute sui conti delle società che li gestiscono, e hanno dunque disperato bisogno di importare rifiuti da bruciare, da qualunque parte provengano.
A segnalare il problema non sono movimenti ambientalisti o i grillini, bensì Intesa Sanpaolo. Pochi giorni fa un documento del suo centro studi ha confermato il rischio che da tempo qualche gufo segnala inascoltato, e cioè che l’operazione inceneritori sarà fulminata da un’inevitabile procedura d’infrazione europea: “Se è vero che l’attuale capacità di trattamento è sottoutilizzata (la capacità di trattamento viene utilizzata per circa l’80%), per ottimizzare l’uso della dotazione impiantisca, dovranno essere bypassati due principi chiave della gestione dei Rsu: 1) il principio di prossimità, in base al quale i luoghi di produzione dei rifiuti e di trattamento e smaltimento devono essere attigui; 2) il principio dell’autosufficienza, in base al quale lo smaltimento dei Rsu deve avvenire nella regione di produzione in modo da minimizzarne il trasporto”.
Il partito delle discariche e degli inceneritori segue una strategia lineare. Rallenta come può il passaggio alla raccolta differenziata porta a porta ed enfatizza l’incipienza delle inevitabili emergenze. A Roma la differenziata è tenuta a freno da anni, la storica discarica di Malagrotta è satura, così è gioco facile rilanciare l’idea dell’inceneritore di Albano (anche se sulla sua oscura origine è in corso un processo per corruzione) oppure prepararsi a mandare i rifiuti della capitale a Terni, dove l’A ce a (municipalizzata di Roma) ha già un inceneritore e vorrebbe farne uno di portata tripla.
A Genova la differenziata è di poco superiore al 10 per cento, ma niente paura: l’inesorabile emergenza sarà risolta mandando treni di immondizia all’inceneritore di Torino e a quello di Piacenza, tutti e due gestiti dalla Iren, la municipalizzata nata dalla fusione delle precedenti società di Torino, Genova e dell’Emilia. Iren è quotata in Borsa e non va benissimo. Nel 2014 i suoi ricavi sono scesi del 14 per cento e l’utile netto del 20 per cento, ha 2,3 miliardi di debiti contro un fatturato di 2,9, e ha appena annunciato che per un po’ i comuni azionisti devono scordarsi il dividendo. Anche le altre grandi municipalizzate quotate, Hera di Bologna e A2A di Milano e Brescia, hanno il problema di sfruttare meglio gli impianti di termovalorizzazione. Il vero tesoro nel decreto Galletti è dunque proprio la libertà di andare a comprare rifiuti in giro per l’Italia. Ma gli inceneritori hanno un ciclo di vita lungo, 20-30 anni, e per ripagare il capitale investito bisogna che ci sia immondizia da bruciare fino alla fine. Se dunque nel frattempo i comuni italiani imboccassero la strada virtuosa della differenziata porta a porta, che ridurrebbe quasi a zero i residui da incenerire o mandare in discarica, i signori degli inceneritori sarebbero rovinati.
Pochi giorni fa le cronache finanziarie ci hanno offerto un trailer del film che vedremo nei prossimi anni. Hanno annunciato la fusione due società quotate attive nel trattamento dei rifiuti, la Kinexia di Pietro Colucci e la Biancamano di Giovanni Battista Pizzimbone. Quest’ultimo, amico di Marcello Dell’Utri, aveva rilevato nel 2009 le attività ambientali del gigante cooperativo Manutencoop. Colucci si è distinto nel novembre scorso per la partecipazione alla cena da mille euro con Matteo Renzi per finanziare il Pd. “Il mercato dei rifiuti si sta concentrando su grandi soggetti ”, ha spiegato Colucci al Sole 24 Ore, come se la fusione fosse una mossa per la sopravvivenza, poi ha detto però che la nuova società sarà la maggiore in Italia. Nascerebbe con 260 milioni di fatturato e 370 di debiti, infatti l’operazione si farà solo se i debiti di Pizzimbone (il cui bilancio 2014 è stato bocciato dai revisori dei conti) saranno convertiti in azioni dalle banche creditrici. Tra le quali spicca naturalmente Intesa Sanpaolo. Auguri.

«Non si può giudicare la composizione della nuova camera alta tirandola fuori dal contesto in cui sarà inserita, a maggior ragione dopo la nuova legge elettorale. Napolitano continua a sottovalutare la concentrazione di potere su palazzo Chigi». Il manifesto, 12 agosto 2015 (m.p.r.)

Napolitano risponde sulla riforma costituzionale a Scalfari (La Repubblica, 9 agosto) dichiarando essenziale che non vi siano «due istituzioni rappresentative della generalità dei cittadini, sottraendo al senato solo (e a quel punto insostenibilmente!) il potere di dare la fiducia al governo». In breve, il senato di seconda scelta è cardine indispensabile della riforma. Non siamo e non saremo d’accordo, per molteplici motivi.

Il primo. È antica saggezza che bisogna saper vedere la foresta al di là dei singoli alberi che la compongono. È invece quel che accade qui, se si valuta il senato non elettivo come elemento a sé stante. Nella riforma costituzionale, va visto insieme al governo in parlamento, all’incidenza sugli organi di garanzia, agli strumenti di democrazia diretta, alla compressione delle autonomie territoriali. A questo si aggiungono altre riforme, tra cui anzitutto la legge elettorale, ed anche la riforma della Pubblica amministrazione. Le innovazioni sono univocamente orientate a concentrare il potere su palazzo Chigi, senza costruire un efficace sistema di checks and balances. Non bastano a tal fine le limature della camera sull’originario testo del senato.
Il secondo. In tale contesto, è cruciale l’insostenibile leggerezza dei partiti, ormai sostanzialmente privi di radicamento territoriale e di una militanza che vada al di là di campagne e comitati elettorali. La sinergia con l’Italicum (legge 52/2015) apre la porta a fenomeni estremi di personalizzazione, e traduce la concentrazione del potere su palazzo Chigi in una concentrazione sul leader del partito reso artificiosamente maggioritario dal sistema elettorale taroccato. È già successo, con Renzi, e domani succederebbe ancora, con altri. La legge sui partiti è di là da venire, e quel che si sa non fa sperare bene. A quanto pare il tema centrale è come ridurre all’obbedienza il dissenso interno.
Il terzo. Un ceto politico regionale e locale senza qualità tradurrebbe nella più alta sede di rappresentanza i cacicchi di territorio, o i loro sodali, amici, clienti, parenti che già popolano le istituzioni. Questo potrebbe solo rafforzare i peggiori tratti della politica regionale e locale, senza dare forza alle istituzioni nazionali. Negli anni Novanta fu fatta una grande scommessa su regioni ed enti locali per rivitalizzare il paese. È fallita, e oggi quelle istituzioni sono in larga misura il ventre molle del sistema Italia. Basta leggere le cronache giudiziarie e le relazioni della Corte dei conti. Il bisogno di oggi è l’esatto contrario di quel che si voleva ieri. E non basta certo a pareggiare il conto il risparmio - in larga misura apparente - delle indennità ai senatori.
Il quarto. Almeno funzionasse. Ma si potrà mai legiferare meglio attraverso un procedimento che sembra il labirinto del Minotauro? Come si può pensare che il senato eserciti funzioni di controllo e vigilanza essendo popolato da chi ha interesse a trattare con l’esecutivo per i fondi da destinare al territorio, base primaria del proprio potere oggi e domani? E perché affidare al voto di sindaci e consiglieri regionali le questioni bioetiche, sulla morte e sulla vita, e persino sulla revisione della Costituzione, incluse le libertà di tutti? Ne hanno parlato in campagna elettorale? Hanno chiesto un mandato ai propri cittadini, insieme a quello per la sistemazione delle fognature o per la viabilità e i trasporti?
Il quinto. La forza di una Costituzione è data dalla ampia condivisione dei valori che essa esprime. Sappiamo tutti che la riforma passa solo con i numeri dati da una legge elettorale incostituzionale, e forse con l’appoggio decisivo dei voltagabbana. Sappiamo tutti che viene non da un’investitura popolare come qualcuno ama far credere, ma da uno scambio di vertice per molti inaccettabile. Vediamo la pochezza degli argomenti a favore, e la sordità alle critiche. Vediamo ogni giorno che la si vuole far passare con la minaccia di crisi e nuove elezioni. La vediamo poggiare sulla paura di perdere le poltrone oggi occupate, o per domani agognate, nei palazzi del potere. E questa dovrebbe essere la «nostra» Costituzione? Mai.
Domande, censure, dubbi da tempo avanzati e tuttora senza risposta. Non basta citare qualche supposto precedente. La riforma del 2001 del titolo V (centrosinistra, ora legge costistuzionale 3/2001) e quella del 2005 sulla Parte II (centrodestra, respinta dal voto popolare il 25 giugno 2006), approvate a colpi di maggioranza e schiacciando il dissenso, furono entrambe pessime. Quanto alle Bicamerali, operavano quando i partiti non erano ancora evanescenti ectoplasmi. E non offrono più un raffronto utile. È dunque essenziale che il senato sia eletto direttamente, pur nell’ambito di un bicameralismo differenziato. Napolitano cita Gramsci affermando che bisogna respingere la «paura dei pericoli». È giusto. Ma altra cosa è il ragionato, consapevole, convinto, profondo dissenso.
C'è qualcuno che non si limita a essere solidale solo con le chiacchiere: magari sa che alla predica occorre coniugare la pratica. La Repubblica, 12 agosto 2015

LA VITA è strana, e nel mio caso anche in vacanza mi porta sempre lo stesso messaggio, «il popolo siriano ha bisogno di aiuto, non girarti dall’altra parte ». Faccio la volontaria da un anno al mezzanino della stazione Centrale perché non potevo più stare a guardare questa tragedia umana dei siriani in fuga dalla guerra, e anche qui mi sono ritrovata in una sorta di mezzanino sul mare del Dodecanneso. I primi segnali li ho avuti a Kalimnos e a Leros, vedendo i gommoni degli scafisti, sgonfi, abbandonati dopo aver traghettato centinaia di povere anime siriane. Qui sbarcano 100/200 profughi al giorno su ogni isola, e la Grecia non è preparata ad accoglierli.

Poi, sabato scorso alle quattro di mattina, nel buio pesto dell’isoletta di Pserimos (poche miglia a nord di Kos) siamo entrati in prima persona nell’incubo. Urla, pianti di bambini, parole in arabo. Non ho avuto dubbi, erano siriani spiaggiati. Io e mio marito ci siamo guardati e subito ci siamo messi un costume, preso alla rinfusa acqua, biscotti, pane e siamo saliti sul nostro gommoncino a remi per andare verso le urla. Non sbagliavamo. Con le torce abbiamo visto un gommone di una decina di metri bianco mezzo sfasciato sulle rocce, e lì un brulicare di ombre che si inerpicavano verso la montagna dalla parte sbagliata dell’isola, anziché costeggiare le rocce a pelo d’acqua e raggiungere la spiaggia a poche centinaia di metri da noi, e da lì, con un cammino di mezz’ora sulla montagna, arrivare al paesino di Pserimos.

Sapendo bene cosa vivono in questi sbarchi e con quanta paura arrivano in una terra che non conoscono, ho cominciato a chiamarli: « Yalla yalla , venite, scendete verso di noi, siamo italiani, fidatevi, vogliamo solo aiutarvi, fate scendere le donne coi bambini ». Ho parlato in inglese, ho usato le poche parole di arabo imparate alla Centrale e così ho convinto i primi giovani a scendere. Poi gli abbiamo passato acqua, biscotti, e molti sorrisi.

Siamo andati in fila indiana, io davanti con la torcia, dietro i ragazzi, poi le donne e i mariti coi bambini (11, di cui molti sotto l’anno di età). Ci siamo ritrovati sulla spiaggia increduli. Mio marito è tornato a bordo a prendermi un pareo per coprirmi e altri viveri e acqua. Con lui sono tornati anche i nostri due bambini (9 e 11 anni) svegliati dal trambusto a bordo e dalle grida dei siriani.

Ripreso fiato, ci siamo incamminati sulla collina che dalla baia di Ormos Vathi porta a Pserimos, dove attracca il piccolo ferry che collega con Kalimnos e Kos. Mio marito è tornato in barca con i bambini, io ho cominciato la mia giornata di mezzanino greco per aiutarli a organizzarsi il viaggio, orientarsi e capire cosa potevano e dovevano fare per continuare il loro viaggio.

Non abbiamo fatto niente di speciale, solo quello che qualunque marinaio farebbe, ma è vero che nella baia c’erano altre 15 barche alla fonda, e solo il nostro gommone è partito in soccorso ai profughi. E questo la dice lunga sulla paura dello straniero.

In tutto erano una cinquantina. Una trentina di uomini sui 25/30 anni, 11 bambini molto piccoli con genitori sfiniti e giovanissimi anche loro, due fratellini di 9 e 11 anni che “viaggiavano” soli con il fratello di 18 anni perché madre e padre sono morti sotto le bombe. C’era anche una coppia tenerissima sui 65 anni, lui con femore malandato, stampella e cuore malconcio. Ci siamo incamminati come una carovana unita, e insieme siamo sbarcati sull’altro versante, dove loro pensavano ci fosse un campo profughi, la prima cosa che mi hanno chiesto insieme alla stazione di polizia. Invece c’erano quattro ristoranti, due bar chiusi e una spiaggia bianchissima con il molo e i venditori di spugne. Un schiaffo quasi insopportabile, questa Grecia da cartolina.

Sono stata con loro quasi 12 ore, assicurandomi che trovassero tutti posto con regolare biglietto sul ferry delle 17 per Kalimnos. Il capitano è stato splendido: prima ha fatto salire donne, bambini e i due anziani, poi i turisti e poi tutti, fino all’ultimo, i siriani che nel frattempo erano diventati 80 con quelli che sono arrivati da altri punti dell’isola. I greci hanno portato pannolini di ricambio per i bambini, ceste di uva e fichi, hanno offerto le loro docce, il patio di una casa, il cortile della scuola.

Mille e 300 euro a testa, il prezzo della traversata da Bodrum in Turchia a qui. Pagati a delinquenti più disgraziati di loro, come il driver, un iracheno di 22 anni più spaventato di loro che nessuno voleva indicarmi.Nessuno lo denuncerà, perché se non li aiutano gli scafisti, chi li salva dall’inferno?
L’Assemblea regionale siciliana approva la legge che applica il referendum del 2011: «minimo vitale» di 50 litri a persona e fondo per i poveri, inver­tendo un pro­cesso di pri­va­tiz­za­zioni nei ser­vizi pub­blici che data dagli anni ’90».

Il manifesto 12 agosto 2015 (m.p.r.)

Fos­simo in Gre­cia, la potremmo tran­quil­la­mente attri­buire ad Ale­xis Tsi­pras e a Syriza. Ma la legge sull’acqua pub­blica appro­vata l’altra notte a Palazzo dei Nor­manni porta la firma del gover­na­tore sici­liano Rosa­rio Cro­cetta, si spinge oltre i risvolti uma­ni­tari (il minimo di 50 litri garan­titi a ogni cit­ta­dino, un fondo di soste­gno per chi non rie­sce a pagare le bol­lette) e si pre­senta come la prima in Ita­lia ad appli­care il refe­ren­dum del 2011, inver­tendo un pro­cesso di pri­va­tiz­za­zioni nei ser­vizi pub­blici che data dagli anni ’90. Fatta ecce­zione per la giunta gui­data da Luigi de Magi­stris a Napoli (che ha ripub­bli­ciz­zato inte­gral­mente l’azienda comu­nale con una deli­bera comu­nale all’avanguardia, gra­zie all’aiuto dell’allora asses­sore Alberto Luca­relli e del giu­ri­sta Ugo Mat­tei, poi silu­rato dalla pre­si­denza della neo­nata azienda Abc, Acqua bene comune), il voto di quat­tro anni fa era rima­sto let­tera morta. Ma ora c’è un ulte­riore passo in avanti: per la prima volta l’acqua ridi­venta «pre­va­len­te­mente pub­blica» per legge.

A Cro­cetta è riu­scita l’impresa di con­durre in porto un cavallo di bat­ta­glia della sua cam­pa­gna elet­to­rale, sfrut­tando le divi­sioni interne alle forze poli­ti­che e incas­sando un soste­gno tra­sver­sale, a par­tire dai 5 Stelle all’opposizione, forte del fal­li­mento delle pri­va­tiz­za­zioni alla sici­liana, che non hanno miglio­rato il ser­vi­zio né ridotto le bol­lette ai cit­ta­dini, e della spinta di un movi­mento ali­men­tato da decine di sin­daci espro­priati della gestione delle risorse idri­che e dai comi­tati che si rico­no­scono nel Forum dei movi­menti per l’acqua.

Per otte­nere il via libera defi­ni­tivo è stato neces­sa­rio un ultimo com­pro­messo: l’assessore ai Ser­vizi di pub­blica uti­lità, l’ex magi­strata ren­ziana Vania Con­tra­fatto, ha pre­teso l’inserimento della pos­si­bi­lità di avere anche gestioni miste o pri­vate, pena l’accusa di inco­sti­tu­zio­na­lità e un pro­ba­bile con­flitto con lo Stato. Ma la par­te­ci­pa­zione dei pri­vati è stata imbri­gliata da for­tis­sime limi­ta­zioni: dovranno offrire ser­vizi a prezzi infe­riori a quelli for­niti dal pub­blico, a «con­di­zioni bloc­cate per tutta la durata dell’affidamento», che non può supe­rare i nove anni (con­tro i qua­ranta, ad esem­pio, dell’attuale con­ces­sione a Sici­liac­que spa), e con multe sala­tis­sime in caso di dis­ser­vizi, dai 100 ai 300 milioni al giorno (da pagare all’Ato di rife­ri­mento), fino alla rescis­sione del con­tratto in caso di man­cata ero­ga­zione per più di quat­tro giorni in almeno il due per cento del bacino idrico.

Per que­sti motivi nei giorni scorsi, men­tre infu­riava la bufera inter­cet­ta­zioni sulla sanità sici­liana e si pro­spet­tava il rischio di un ritorno anti­ci­pato alle urne, il Forum dei movi­menti per l’acqua pub­blica invi­tava ad appro­vare la legge che rece­pi­sce diverse loro pro­po­ste, dal rico­no­sci­mento di un «minimo vitale» di 50 litri al giorno a per­sona, come sta­bi­li­sce il Con­tratto mon­diale dell’acqua, alle tariffe scon­tate del 50 per cento lad­dove l’acqua non è pota­bile e non può essere usata nep­pure per cuci­nare, a un fondo di soste­gno per il paga­mento delle bol­lette delle per­sone meno abbienti. Saranno gli Ambiti ter­ri­to­riali otti­mali (Ato), che riman­gono nove e non ven­gono accor­pati come aveva chie­sto il ple­ni­po­ten­zia­rio ren­ziano (e grande rivale di Cro­cetta) Davide Faraone appena tre giorni fa, a deci­dere, attra­verso «pro­ce­dure di evi­denza pub­blica», a chi affi­dare la gestione delle risorse idriche.

Un’altra norma pre­vede che si valuti «la sus­si­stenza dei pre­sup­po­sti per l’eventuale eser­ci­zio del diritto di recesso dalla con­ven­zione con Sici­liac­que ed in ogni caso avvia le pro­ce­dure per la revi­sione della stessa al fine di alli­nearla ai prin­cipi gene­rali dell’ordinamento giu­ri­dico sta­tale e comu­ni­ta­rio diretti a garan­tire la pos­si­bi­lità di accesso, secondo cri­teri di soli­da­rietà, all’acqua in quanto bene pub­blico pri­ma­rio». Sici­liac­que è il cavallo di Troia della tran­si­zione dal pub­blico al pri­vato in Sici­lia: è la con­ces­sio­na­ria che nel 2004 è suben­trata al vec­chio Ente acque­dotti sici­liano (Eas), inte­ra­mente di diritto pub­blico. Si tratta di una società per azioni (dun­que di diritto pri­vato) par­te­ci­pata al 25 per cento dalla Regione, che all’inizio dete­neva solo il 5 per cento ed ha poi rile­vato le quote del disciolto Eas. Il rima­nente 75 per cento è nelle mani di Idro­si­ci­lia spa, com­po­sta al 60 per cento dalla mul­ti­na­zio­nale fran­cese Veo­lia e dal 40 per cento dall’Enel. A Sici­liac­que è stato garan­tito un con­tratto qua­ran­ten­nale, che sca­drà nel 2044, ma ora la nuova legge pre­vede la pos­si­bi­lità di rece­dere, pur se già viene agi­tato lo spau­rac­chio di salate penali da pagare nel caso tutto venga rimesso in discus­sione. Ma alla Regione Sici­lia, che nomina tre con­si­glieri d’amministrazione su cin­que della spa, sono con­vinti di avere in mano gli stru­menti giu­ri­dici per garan­tire una tran­si­zione al con­tra­rio, dal pri­vato al pub­blico. Anche se sono con­sa­pe­voli che non sarà una passeggiata.

Intervista alla costituzionalista Lorenza Carlassare: si sta neutralizzando il popolo, cioè la fonte che legittima il potere. Qui tutto mira a indebolire la forza degli altri poteri in favore dell’esecutivo.».

Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2015 (m.p.r.)

Il timore è quello di ripetersi. Eppure sembra che le numerose, accorate, obiezioni dei (tantissimi) costituzionalisti sulla riforma del Senato, non siano state ascoltate nemmeno in parte. Lorenza Carlassare, professore emerito di Diritto costituzionale a Padova, comincia così: “La composizione del Senato non è solo incerta. È disastrosa: un piccolo gruppo di persone si autonomina. Oltre al caos provocato da senatori part - tim e che provengono dai consigli regionali, c’è un’anomalia anti democratica. Un meccanismo che non ha nulla a che vedere con quanto accade in qualunque altra democrazia”.
Indietro non si torna, dicono. Perfino il presidente Mattarella, pur mantenendo quella posizione di “sereno distacco” che il suo ruolo esige, ha trovato il modo di dire che nel nostro sistema non è ammissibile un uomo solo al comando. Non si riferiva a nessuno, però l’ha voluto sottolineare. E invece io credo sia proprio questo l’obiettivo cui tendono tutte le riforme: si sta neutralizzando il popolo, cioè la fonte che legittima il potere. Con la democrazia, poi, va a farsi benedire anche il costituzionalismo, che prevede poteri che reciprocamente si controllano e si bilanciano. Qui tutto mira a indebolire la forza degli altri poteri in favore dell’esecutivo.
Il governo che governa. Il governo che domina: il Senato, così com’è costruito, sarebbe controllato dalla maggioranza di governo. La Camera naturalmente lo è, grazie a quel meccanismo iper-maggioritario, contenuto nell’Italicum, con il premio che va alla lista e non alla coalizione.
Non votiamo più per niente: per i consigli provinciali, per il Senato... Senza dire del sistema elettorale della Camera.
Si vuol togliere voce ai cittadini. L’ho detto tante volte, ma ripeterlo non fa male, vista l’ostinazione di questa maggioranza. Che poi, a ben guardare, è una maggioranza trovata di volta in volta, una maggioranza numerica, casuale. Non una maggioranza politica. Nelle due Camere, gli allegri transfughi sono in aumento: deputati e senatori che si fanno trovare sull’attenti quando il potere chiama. Naturalmente per avere in cambio ricompense di varia natura.
Parlamento che poi è ancheminato dalla sentenza chedichiara incostituzionale ilPorcellum .Ecco: abbiamo non solo unamaggioranza casuale, ma unamaggioranza che si è formataattraverso un meccanismodichiarato illegittimo.Dunque, la maggioranzaesiste in base a un’illegittimità.È inutile che continuinoa dire che “hanno i numeri”.Se non esisteva quelpremio previsto dal Porcellum,la maggioranza nonc’era proprio. È assolutamenteparadossale che pretendanodi restare al governoe pure di scassinare l’architetturacostituzionale!
Secondo lei perché il governoinsiste tanto? Si puòfare una prova di forza politicasulla Costituzione?
Il presidente del Consigliosa benissimo che se va alleelezioni perde. E poi certamenteno, non si può fare unaprova di forza sulla leggefondamentale. Il procedimentodi revisione costituzionaleè costruito sulladoppia deliberazione e sumaggioranze più ampie.Perché? La finalità è nonconsentire che ogni maggioranzacambi a propriopiacimento la Costituzione,lo scopo è dare alla Carta unastabilità nel tempo. Ilmeccanismo è pensato perottenere un consenso piùampio possibile, in modoche si proceda con ponderazione.Che è completamentemancata, perché i tempidella discussione sono staticontingentati a suon di sedutenotturne. Ma in materiacostituzionale non sipossono forzare i tempi: ètutto contro l’articolo 138.
La necessità di tornarci sopraè evidente, moltissimisono d’accordo soprattuttoriguardo al nodo dell’elettivitàdei senatori. Aparte Renzi: ma è tecnicamentepossibile apportarevariazioni al testo?
È assolutamente necessarioche il discorso si riapra. E siarrivi a qualcosa di conformealla Costituzione, anchenei procedimenti. Il sensode ll ’articolo 138 è proprioche una maggioranza – a nchelegittima, e questa nonlo è – non possa arrivare dasola a modificare la Carta.
Ma è possibile che la Cortedichiari illegittimo anchel’Italicum?
Assolutamente sì. Ha glistessi difetti del Porcellum.È una prova di forza pericolosain tutti i sensi: non possiamocontinuare ad avereun Parlamento eletto in basea leggi illegittime. Non dimentichiamoche nella sentenzanumero 1 del 2014 laCorte è stata chiara: in tuttii suoi richiami si fa riferimentoal principio di continuitàdello Stato per un breveperiodo. La Corte costituzionaledice che il Parlamentopuò continuare a lavorarefino a nuove elezioni,ma di certo non pensava – eribadisco: è chiarissimo inpiù punti della sentenza – auna legislatura intera.
Matteo Renzi che della Tatcher condivide l'ideologia neoliberista, lo schierarsi sul versante destro, la subalternità ai poteri economici, ha però una marcia e un'ambizione in più.

Huffington post, blog , 10 agosto 2015, con postilla

Margaret Thatcher al colmo del potere dichiarò: "So che la Bbc mi attacca ma non posso farci niente". E non mosse un dito contro la Bbc. Matteo Renzi invece partecipa attivamente alle scelte del nuovo CdA della Rai e prima di partire per il Giappone riceve a Palazzo Chigi il candidato al ruolo di amministratore unico Antonio Campo Dall'Orto protagonista della Leopolda renziana. Una investitura personale, chiaramente. Il direttore generale di Bbc rimane in carica anni scelto per meriti professionali dai 12 "governors" della Fondazione i quali tutelano l'autonomia della Tv pubblica.

Renzi continua a parlare di Fondazione tipo Bbc e fa l'esatto contrario. Il CdA della Rai viene nominato con una accurata spartizione partitica, anzi correntizia. Lo stesso accade per la presidente che al Tg1 fu paladina della svolta di centrodestra del suo direttore Minzolini. E sì che aveva promesso: "Fuori i partiti dalla Rai!".

In tutte le principali emittenti radiotelevisive d'Europa esiste un organismo di garanzia che mette al riparo radio e tv pubblica dalle ingerenze dell'esecutivo e dei partiti tant'è che il direttore generale della rete pubblica tedesca ZDF, Dieter Stolte, è durato vent'anni in carica.

In Italia no. Però esisteva anni fa un primo filtro rappresentato dalla nomina di 5 consiglieri da parte dei presidenti di Camera e Senato e fra essi il CdA eleggeva il presidente. Sistema travolto da Berlusconi con la legge Gasparri.

Con Renzi il presidente lo nomina il governo e gli mette accanto come consigliere del Tesoro (proprietario dell'azienda) il suo suggeritore per la comunicazione. L'omologazione fra presidente/segretario e radio e tv pubblica appare totale. Si sono levate critiche per un CdA di basso profilo. Infatti il Consiglio conterà assai poco e il rapporto strategico sarà quello che correrà fra Matteo Renzi e Antonio Campo Dall'Orto. Il resto è figura. Succede in qualche alto Paese di democrazia compiuta? Non mi pare. E pensare che nel 1945 venne nominato dal CLN alla presidenza della Rai, ex Eiar, un personaggio del livello politico e culturale di Carlo Arturo Jemolo.

C'è il precedente della nomina diretta dei vertici dell'ente per l'informazione e la comunicazione: nel 1927 quando il fascismo creò l'Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR), Benito Mussolini nominò al vertice il principale collaboratore di Guglielmo Marconi, il professor Marchesi, però ci mise suo fratello Arnaldo in qualità di vice-presidente. Arnaldo Mussolini era già presidente dell'Istituto di Previdenza nato dalla fusione delle Casse Pie e dell'Albo dei giornalisti e pubblicisti al quale potevano associarsi soltanto quelli iscritti al PNF. Delle agenzie di stampa ne rimase una sola, la Stefani, presieduta e diretta da quel Manlio Morgagni forse l'unico amico fedele del duce (il solo a suicidarsi dopo il 25 luglio 1943).

postilla

Matteo Renzi che condivide l'ideologia neoliberista della Tatcher, ha però l'ambizione di fare un passo più deciso verso passato. Vuole costruire (e sta costruendo) una strutturs statale neofeudale nella quale in ogni settore della vita pubblica (la scuola, la salute, la cultura, l'informazione, l'uso dei beni culturali e in generale del territorio) ove non sia di stretta competenza dei potentati economici, sia assoggettato al Monarca tramite una catena di comando di vassalli, valvassori e valvassini, gerarchicamente ordinati e da lui prescelti. Ci sta riuscendo, e giàsi potrebbero individuare i nomi dei feudatari da lui già investiti.

Intervista di Stefano Feltri a Paolo Prodi. «Se non c'è passato non c'è nemmeno futuro. E questo si traduce in una crisi visibile delle istituzioni democratiche: manca l'idea di progetto, il mutamento rimasto è quello delle tecnologie. Ma si cambia senza sapere dove si va».

Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2015 (m.p.r.)

In una politica europea piena di populisti, indignati, ribelli contro l’austerità, l’ultima persona da cui ti aspetteresti discorsi sulla rivoluzione è Paolo Prodi. A 83 anni il professor Prodi, fratello del Romano che è stato premier, è uno dei più autorevoli storici italiani, ha scritto coltissimi libri sul potere e la storia delle nostre istituzioni. Adesso manda in libreria un piccolo saggio dal titolo che incuriosisce: Il tramonto della rivoluzione, pubblicato ovviamente dal Mulino.
Professor Prodi, cos'è una rivoluzione?
I colpi di Stato non sono mai mancati, la lotta di chi non ha potere contro chi ha potere esiste dalle civiltà mesopotamiche. Ma non è la rivoluzione. Quello che ha distinto l'Occidente dalle altre civiltà è la capacità di progettare un modello sociale nuovo. Spesso con gli aspetti tragici della sommossa, certo, ma all'interno di una visione di sviluppo.
Perché questo è avvenuto soltanto in Occidente?
La rivoluzione francese e l'illuminismo sono il culmine di un processo secolare che ha distinto il potere politico da quello economico e da quello sacro. Nelle antiche civiltà il palazzo e il tempio tendevano a coincidere. Con il cristianesimo si sviluppa il dualismo del “date a cesare quel che è di cesare e a Dio quel che è di Dio” che nel medioevo diventa lotta tra papato e impero, con la nascita del potere economico come un potere di tipo nuovo, non legato al possesso della terra.
Perché lei parla della distinzione tra profezia e utopia come una svolta decisiva?
Nell'Antico testamento si sviluppa l'idea di profezia come espressione di una volontà di un dio super partes. Non identificato col potere, ma che si mette in dialettica con esso e ne condanna gli abusi. È questa l'idea che mette le sue radici anche nel cristianesimo. La Chiesa diventa profezia istituzionalizzata: il profeta non è più isolato, ma diventa una comunità. Che non si identifica con il potere, anche se spesso finisce per entrarvi in combutta. Non voglio dire che la teocrazia non è esistita, anzi. Ha messo la testa fuori in Occidente in ogni generazione, il potere sacro ha sempre cercato di impadronirsi di quello politico ed economico, ma in Occidente non si sono mai identificati l'uno con l'altro. Questo ha prodotto una fibrillazione, una tensione continua, che ha portato allo sviluppo dell'idea di rivoluzione. E si arriva alla decapitazione di Carlo I nel 1648.
E l’utopia?
La prima utopia è quella di Thomas More. È la progettazione di una società “felice”. Che riempie il contenuto rivoluzionario di un nuovo potenziale. Non si parla più di profezia legata alla “fine dei tempi”, la profezia si storicizza e diventa utopia. La storia della salvezza diventa “progresso”, movimento.
E oggi è finita l'idea di progresso? Qualche anno fa anche l’Economist ha fatto una copertina sul tema.
Si è molto parlato di uso politico della storia. Ma non è più come un secolo fa, diciamo così, la matrice della cultura politica. Io ricordo sempre la famosa frase di Johann Gustav Droysen, uno storico dell'Ottocento, che diceva: “L'uomo politico è lo storico pratico”. Ma negli ultimi cinquant'anni le scienze della società, come la sociologia, sono subentrate alla storia come sostegno della politica.
Nel senso che c'è l'illusione di trovare leggi e ricette universali?
Ho visto interviste a politici che non sanno quando è stata la rivoluzione francese. Sono sciocchezze, ma sotto c'è la cancellazione del passato.
Non è più necessario conoscerlo?
Non è più ritenuto necessario. E questo porta a grandi sbagli, come quello della politica americana che si è convinta di poter esportare lo stato di diritto nei Paesi arabi.
Abbiamo rinunciato all'idea di una società alternativa?
Se non c'è passato non c'è nemmeno futuro. E questo si traduce in una crisi visibile delle istituzioni democratiche: manca l'idea di progetto, il mutamento rimasto è quello delle tecnologie. Ma si cambia senza sapere dove si va.
Perché, nel suo libro, lei dice che il Sessantotto, con “l'immaginazione al potere”, è stato la sconfitta definitiva della rivoluzione?
Io l'ho vissuto cercando di fare la riforma dell'università a Bologna, all'epoca, quando da noi era venuto Jean Paul Sartre, mi sentii in qualche modo respinto. Perché non c'era un progetto di riforma, ma solo una volontà di cancellazione della storia. Ma “l'immaginazione al potere” senza la storia porta a precipitare nel burrone. Nel Sessantotto si squarciano i veli del potere ma sotto non c'è nulla, è nudo non soltanto il vecchio re ma anche quello nuovo che ambisce a prenderne il posto. La generazione del Sessantotto infatti si è sciolta, disfatta, nei rivoli del potere tradizionale. C'era l'attacco al potere esistente, ma sotto questa lotta è rimasta schiacciata la progettazione di una società futura. La divisione in due blocchi, nella guerra fredda, ha coperto il vuoto. Dagli anni Novanta tutto è tornato a tremare.
L'anima dell'Europa è quella di una “rivoluzione permanente”, scrive. Tutto sembra questa Unione europea tranne che rivoluzionaria...
L'equilibrio di tensione, di fibrillazione, tra i vari poteri in concorrenza tra di loro è svanito. Il caso greco e la crisi dell'euro occupano la scena ma sono effetti, non cause. Lo Stato moderno non è più in grado di controllare il potere finanziario.
Alcuni Stati come la Repubblica popolare cinese, però, sembrano ben saldi.
La filosofia del neo confucianesimo è che l'ordine celeste corrisponde a quello terrestre del potere. Mentre le strutture democratiche dell'Occidente - il Parlamento, le legislature, il giuramento del presidente della Repubblica – sono nate dalla tensione tra poteri, in Cina, invece, dopo la crisi della cosiddetta Rivoluzione culturale, c'è stato un ritorno alle radici di tipo confuciano: il potere è uno solo e viene dall'alto. Mentre la società europea e occidentale arranca di elezione in elezione, i leader cinesi durano decenni. L'idea di legislatura di quattro-sei anni è nata nell'Inghilterra del Settencento e non regge più: è troppo breve. Se certe decisioni sull'ambiente sono prese per ottenere il consenso degli elettori, è difficile che vadano bene anche per i nostri nipoti. In un mondo che va sempre i più veloce i tempi della politica dovrebbero essere più lunghi.
Il Califfo Al Baghdadi, capo d el l’Isis, è l'ultimo rivoluzionario?
È una cosa totalmente diversa. L'Islam è un'eresia nata nell'humus ebraico-cristiano, che ha proposto una coincidenza tra potere politico e potere religioso. Per questo non può essere rivoluzionario, nell’accezione che uso io, è soltanto un urlo contro la civiltà dei consumi. Ma quello che propone l'Isis, con il Califfato e tutto il resto, è soltanto il ritorno a una storia pre-cristiana. A quell'unione tra potere sacro-politico ed economico che è stato il punto di partenza dell'Islam, nel settimo secolo.
Che cos’è il “diritto alla resistenza” di cui scrive?
È un concetto che ricorre nella nostra storia, da Tommaso D'Aquino alla Costituente italiana, 1946-1947, quando alcuni giuristi volevano inserire la liceità della resistenza all'ingiustizia. Poi non entrò nella Costituzione ma più aumenta la divaricazione tra la coscienza e la legge, più cresce l'importanza del diritto alla resistenza.
Nel complesso, lei sembra un po’ pessimista.
Come storico io mi fermo all'analisi di quello che è stato. Ma si apre in questa globalizzazione una battaglia estremamente interessante tra una società dominata dalle grandi potenze finanziarie e una società in cui le comunità locali e in particolare i corpi intermedi possono trovare una loro rinnovata espressione di tipo politico. Non possiamo più pensare all'Europa come un super Stato, come pensavano i nostri bravi padri federalisti. Bisogna pensarla come una società con una sovranità stratificata, non monolitica.

Un grande nebbione deve essere calato sull'Italia se Sergio Staino, e tante altre persone che hanno storie simili, possono pensare ancora che Matteo Renzi possa dirsi "di sinistra". È proprio arrivata l'ora di andar via da questo paese. LaRepubblica, 10 agosto 2015

«Gianni [Cuperlo], vai fra la gente, vai in un cinema affollato, in una trattoria, in un autobus e ur-la: “Questa sinistra Dem ci sta veramente scassando i coglioni”. Avrai come risposta una standing ovation, non vi sopporta più nessuno tranne, ovviamente, Renzi...». Sergio Staino attacca Gianni Cuperlo. Lo fa dalle pagine dell’Unità , nuova gestione D’Angelis. Una lettera di fuoco, in un primo tempo privata e indirizzata all’esponente della minoranza Pd, e poi resa pubblica «perché non ho ancora ricevuto risposta». Non c’è l’ironia di Bobo, ma la rabbia e il livore dell’ex «amico fraterno». Così si definisce Staino nei confronti di Cuperlo per poi infilargli il coltello nel costato: «State uccidendo la sinistra, date di voi stessi un’immagine di estremisti disperati che urlano su tutto e tutti senza sapere cosa proporre... Cosa stai offrendo di concreto allo smarrimento dei nostri elettori? Nulla. Solo la coscienza che Renzi è una m....».

Per Cuperlo, una sorpresa dolorosa, come ci dice al telefono: «Sono profondamente colpito dai toni e dal linguaggio usati e anche dall’enfasi con cui è stata pubblicata la lettera». Il direttore dell’ Unità , Erasmo D’Angelis, confidava ieri in una sua risposta pubblica: «L’ho chiamato al cellulare ma è irrintracciabile ».

Accusare uno come l’ex presidente (per 38 giorni) del Pd di volere la morte della sinistra è come dire a Don Ciotti che non sta facendo tutto per combattere la mafia. Perché tanta virulenza? Proprio per i rapporti pregressi. Staino, andato e tornato (era con Sel alle europee del 2009), considerava Gianni «un grande compagno». Ora non condivide nulla di quel che fa. Di qui, per proprietà transitoria, uno Staino «renziano» ( non è una novità, già mesi fa aveva lodato «la furbizia e l’intelligenza » del premier, ndr). Il segretario c’è ed è Renzi: «Lo considero un frutto amaro del nostro partito ». Tradotto: Renzi si è materializzato sui vostri errori, sugli errori di una dirigenza (leggi tutto il vecchio establishment)che dovrebbe ritirarsi a vita privata: «Sono ormai fuori dalla storia, finiti».

Ma perché prendersela tanto con Cuperlo, che di tutto il gruppo è sempre stato quello dai toni più riflessivi e meno demagogici? D’Angelis ha la versione del padre di Bobo: «A fine luglio c’è stato a Roma, alla Festa dell’Unità, un dibattito in cui Staino le ha cantate pubblicamente a Gianni il quale poi gli avrebbe mandato degli sms infastiditi ». Segue lettera privata, trasformata in attacco frontale pubblico: «Comportandovi così state tirando la volata a Grillo e Salvini».

Cuperlo è sconcertato: «Staino dice cose non vere. Non ho mai detto, per esempio, che Renzi e Berlusconi sono simili. Il mio problema non è Renzi, è di capire dove va il Pd».

Piovono commenti al giornale. D’Angelis: «La gran parte vengono dalla prima minoranza Pd, quella che adesso si è allontanata... Danno ragione a Staino». Orfini, infatti, detta la linea sobria sull’ Huffington : giusto criticare la minoranza (“Staino coglie un punto vero”, però «Matteo deve fare qualcosa più di sinistra».

Alla fine della giornata, resta soprattutto la pesantezza di Staino che non ne passa una all’ex amico: «Sei stato altezzoso e arrogante a non accettare la direzione dell’ Unità». D’Angelis concorda «sull’atteggiamento complessivo » di Cuperlo: «Si è dimesso da presidente del partito e non ha accettato la direzione del quotidiano, che non è poca cosa...».

La Repubblica, 9 agosto 2015.
LA LETTURA dei giornali in questo inizio d’agosto è piena di fatti drammatici o comici, talvolta comici per la loro drammaticità, soprattutto quando toccano non più la cronaca ma la politica. «Hanno distrutto la Rai», ha detto Walter Veltroni dopo le nomine fatte dal governo e dai partiti. «Mi viene da ridere pensando alla Rai», ha detto Renzo Arbore che cinquant’anni fa la rinnovò da capo a fondo. A leggere queste cose ti viene da pensare.

Ma ancora di più il turbamento aumenta su temi che riguardano la struttura di fondo del paese: il Mezzogiorno, l’occupazione, le tasse. Tre ferite aperte e purulente che concorrono alla mancata crescita del paese, antiche quasi come l’unità d’Italia. La nostra storia nazionale ha avuto anche aspetti positivi, altri pessimi, ma Mezzogiorno, occupazione e fisco sono state tre zavorre permanenti che hanno ostacolato il nostro cammino verso la modernità facendo aumentare la corruzione, le mafie, la tendenza verso regimi autocratici e addirittura dittatoriali.

Cristo si è fermato ad Eboli? Purtroppo no, se con la parola Cristo intendiamo il bene pubblico; si è fermato molto prima, a Cuneo, come disse alcuni anni fa il sindaco di quella città, oppure a Verona, a Bergamo, a Bologna, ma non più oltre. E adesso stiamo attraversando un guado assai rischioso. L’ha scritto Roberto Saviano su questo giornale a proposito di mafie e di corruzione, l’ha detto Ezio Mauro valutando la fragilità della nostra democrazia, l’hanno raccontato Michele Ainis e Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: siamo ad una svolta, ad un passaggio cruciale.

Ed è forse una delle rare occasioni che la maggioranza dei cittadini ne è consapevole, sia pure da posizioni diverse ed anche opposte.

***
Il birillo rosso al centro del biliardo è Matteo Renzi, il castello dei birilli bianchi che lo attorniano, cioè i co-protagonisti del gioco, sono Berlusconi, Salvini, Grillo, Bersani. Ai bordi del biliardo ci sino alcuni personaggi che suggeriscono le mosse della partita. Il più autorevole di tutti è Giorgio Napolitano.

Mi sono spesso domandato — fuor di metafora — perché lo fa e me lo chiedo ancora una volta dopo aver letto la lettera da lui inviata qualche giorno fa al Corriere della sera. Il tema — di capitale importanza — è la legge costituzionale di riforma del Senato che arriverà in terza lettura ai primi di settembre a palazzo Madama. Sarà, così sembra, la battaglia decisiva che vede quasi tutte le opposizioni ed anche i dissidenti del partito democratico contrari, con un Berlusconi in posizione di attesa, decisiva ai fini del risultato.

La tesi di Napolitano è radicale: la legge deve essere approvata così com’è, nel testo già approvato da Camera e Senato nelle prime due letture: il Senato trasformato in una Autorità di controllo e di rappresentanza territoriale senza più alcun potere legislativo nazionale, ridotto a cento componenti. Questo suggerisce il Presidente emerito e per lui non è certo un’improvvisazione: è su questa posizione da molti anni ed ora gli preme più che mai vederla portata a buon fine da Renzi che di un appoggio così autorevole ha certo molto bisogno.

Personalmente ho grande stima e amicizia per Napolitano. Ma su questo tema sono in totale disaccordo. L’ho già scritto in numerose occasioni perché si tratta di un tema che domina da mesi la politica italiana insieme alla riforma elettorale che vi è strettamente connessa. Purtroppo debbo ripetermi perché la lettera di Napolitano ripropone l’argomento e riapre il dibattito.

È senz’altro opportuno che il Senato sia privato del potere di votare la fiducia al governo, ma tutti gli altri poteri legislativi debbono restare integri. La nostra è una Repubblica parlamentare e la linea politica è indicata dal Parlamento mentre al potere esecutivo spetta — come dice il nome — il mandato di tradurre in atti esecutivi coerenti con la linea indicata dal Parlamento, che rappresenta il popolo sovrano. In Parlamento si approvano le leggi che attuano la linea indicata dalla maggioranza che il Parlamento esprime; sicché il sistema elettorale deve essere analogo in entrambe le Camere. Analogo ma non identico, a cominciare dall’età dei componenti e da altre accettabili difformità.

Naturalmente è anche possibile che il Senato scompaia e si attui un sistema monocamerale; in gran parte d’Europa è così. In tal caso però le elezioni alla Camera debbono essere totalmente libere e rappresentare fedelmente il popolo sovrano. Il sistema monocamerale previsto dall’“Italicum” di Renzi è in larga misura un monocamerale di “nominati” dal governo in carica; la conseguenza è evidente: il potere legislativo è declassato e subordinato all’esecutivo, il presidente del Consiglio diventa così il personaggio che “comanda da solo” esattamente il contrario della democrazia parlamentare.

Mi pare molto singolare che Napolitano non veda questo risvolto della abolizione di fatto del Senato. Un monocamerale in gran parte “nominato” dall’esecutivo ci avvia inevitabilmente all’autocrazia. E questo che si vuole?

Non sono in grado ovviamente di conoscere in proposito il parere del presidente Mattarella, ma supponiamo per pura ipotesi che egli ravvisi un’illegalità in questa soluzione e rinvii la legge costituzionale alle Camere. La posizione di Napolitano sarebbe in quel caso estremamente imbarazzante e sarebbe come se il papa emerito Benedetto XVI facesse pubblicamente affermazioni teologiche diverse da quelle di papa Francesco. Vi sembra possibile una situazione simile? *** Naturalmente la dissidenza del Pd si rende ben conto che la posizione critica che ha deciso di assumere di fronte alla legge del governo può portare ad uno strappo e addirittura ad una scissione del partito. Perché lo fa? Perché non si limita ad astenersi dal voto o a non presentare emendamenti profondamente diversi dal testo della legge in discussione? Se il motivo fosse soltanto quello connesso alla legge sul Senato, la dissidenza del Pd potrebbe ancora una volta chiuder gli occhi ed accettare l’amaro boccone che Renzi ha deciso di farle trangugiare, ma in realtà ci sono due altri motivi: la vocazione autocratica che si esprime attraverso le due leggi elettorale e costituzionale e lo spostamento in corso del Pd da partito di centrosinistra a partito di centro. Non a caso Renzi ha come punto di riferimento storico Tony Blair, che trasformò il partito laburista inglese e proseguì portandola a compimento la politica di Margaret Thatcher.

Quello spostamento consentì a Blair di governare per due legislature di seguito e ancora ne mena vanto sostenendo che i voti in una società moderna si prendono al centro e non a sinistra.

Sarà pur vero, ma quella che allora si chiamava Inghilterra non sembra abbia fatto passi da gigante dopo i lunghi anni di governo di Tony Blair; è rimasta un ex impero coloniale senza più colonie, ai margini dell’Europa e ormai diviso in una federazione dove l’Inghilterra convive con le sovranità della Scozia, del Galles e dell’Irlanda. Tony Blair ha un bel passato personale ma storicamente è stato una foglia al vento e il suo Paese conta ben poco nell’Europa di oggi; nella società globale, conta niente del tutto. Ha scritto a questo proposito Angelo Panebianco: «Il partito della Nazione ha bisogno di sostituire il mancato radicamento sociale con la crescita di potere dell’esecutivo. Per questo la riforma del Senato è oggi così importante e per questo la minoranza intende fare di tutto per batterlo e garantire la propria sopravvivenza. Sa che Renzi è uno che non fa prigionieri».

Tutto comprensibile. Ma che fine farà la democrazia parlamentare? Che fine farà la sinistra? E soprattutto che fine farà un Paese che sembra ricordarsi dell’Europa solo per ottenere libertà di “deficit spending”? Il “deficit spending” è importante, ma gli Stati Uniti d’Europa lo sono ancora di più. Quel tema però interessa assai poco. Gli immigrati interessano molto di più, ma sul quel tema non è stato compiuto nessun passo avanti e l’altro ieri sono morte in mare altre centinaia di persone. Sono questi i risultati?

La Repubblica, 8 agosto 2015


LA CONDIZIONE di declino e di degrado del Sud viene descritta dalla Svimez, un’agenzia nazionale non un sindacato come scrive Michele Salvati sul Corriere della Sera, con dati e cifre che Roberto Saviano ha tradotto in parole dirette e a tutti comprensibili quando ha parlato di un «un urlo di dolore, non un piagnisteo». Simbolo di pregiudizi vecchi e nuovi, già negli anni ’20 del secolo scorso Antonio Gramsci aveva messo in luce come per molto Nord intraprendente il Meridione fosse vissuto come una “palla al piede” che deturpava l’immagine di un Italia moderna e degna di un posto d’onore tra i grandi. Dunque, il Sud come questione nazionale la cui risoluzione richiederebbe un rinnovamento radicale, culturale e politico. Non solo finanziamenti (come il governo promette di fare, e che comunque sono necessari) ma anche una classe politica, nazionale e locale, che abbia il coraggio e l’onestà di interrompere una tradizione di malgoverno, disfunzioni e incapacità che è tanto antica quanto la nostra storia nazionale. Il dramma del Sud non è una questione relativa solo al Sud o “del” Sud, né è cominciato con la Prima Repubblica.

La questione meridionale è nata insieme all’unità d’Italia. È nata, scrissero Pasquale Villari e Francesco De Santis, quando gli italiani del Nord scoprirono che il Sud della realtà non corrispondeva a quello della lussureggiante fertilità della loro immaginazione. La miseria si cominciò a vedere con il governo liberale: i viaggi elettorali costrinsero i candidati e i giornalisti ad attraversarlo, il meridione. E il brigantaggio era una realtà, esploso insieme alle lotte risorgimentali come retroguardia di un potentato locale che non voleva essere scalzato via, ma anche come diffidenza e aperta opposizione verso i piemontesi, che con la loro supponenza di dominatori finirono, disse anni dopo Antonio Gramsci, per mostrarsi “dei dilettanti” che «non hanno alcuna simpatia per gli uomini...Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio e di volontà del cittadino italiano». Il brigantaggio, le forme di illegalità, le periodiche rivolte fecero in pochi anni temere che il Sud fosse una polveriera pronta a esplodere.

Negli anni ’70 dell’Ottocento la “questione meridionale” divenne un oggetto scientifico, anzi il primo oggetto sociale di studio scientifico nel nostro Paese, crocevia di diverse discipline, alcune nuovissime (come l’antropologia e la sociologia), altre rinnovate (come la letteratura popolare e la storia locale), altre nuove (come l’economia politica). Il problema fece nascere una scienza; che nel 1876 produsse la prima inchiesta sulla Sicilia a firma di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, grazie alla quale l’opinione nazionale scoprì l’esistenza della mafia. Ma fu un’autodidatta inglese a darci il primo importante racconto sociale sul meridione, Jessie White. Moglie di Alberto Mario, un patriota garibaldino di fede repubblicana e federalista, aveva perseguito sogni rivoluzionari partecipando al nostro Risorgimento, e nella sua Miseria di Napoli raccontò delle condizioni di dolore, malattia e degrado in cui languiva larga parte della popolazione partenopea, che viveva in grotte e sotterranei.

Quei due libri uscirono mentre una nuova “questione” sorgeva, questa volta non italiana soltanto ma continentale: la “questione sociale”, la nascita della classe operaia organizzata, che chiedeva diritti di sciopero e politici, assicurazioni mutualistiche e previdenziali. Questione meridionale e questione sociale in Italia marciarono insieme: l’una e l’altra figlie degli squilibri generati dall’industrializzazione e dall’erosione delle solidarietà comunitarie. Le due questioni confermavano che lo Stato non poteva “lasciar fare e lasciar passare” ma doveva intervenire. Gli interventi per risolvere la questione meridionale e quella sociale cominciarono pressoché insieme. Ma lo Stato liberale italiano li affrontò essenzialmente come questione di ordine pubblico e di sicurezza: per reprimere innanzitutto tutte le forme di “ribellione” nelle campagne come nelle città industriali.

Affiancava a questa strategia poliziesca una pratica di finanziamenti statali per le opere pubbliche che, lamentarono subito Silvio Spaventa e Marco Minghetti, finirono per favorire il malaffare locale e la corruzione politica. La questione era dunque nazionale, di competenza e di etica delle classi di governo. Il vuoto lasciato dalla mancanza di una forza conservatrice liberale, di una destra parlamentare moderna, fu presto riempito da un nazionalismo demagogico e populista che cronicizzò la “disgregazione sociale” e rese più facile al fascismo metter radici nella società italiana. Ecco dunque che, questione meridionale e questione nazionale o erano risolte insieme o insieme deragliavano il Paese.

Gramsci, che aborriva tanto il fatalismo quanto il volontarismo, non aveva dubbi su questo destino intrecciato. E la conferma veniva anche dai milioni di emigrati sfornati dal Sud, un’emorragia di forze che era prova provata del fallimento dei governi unitari.

In alcune lettere dal carcere, Gramsci ricostruì le tappe della devastante politica dello Stato italiano verso il Sud, legando la “questione meridionale” direttamente ai limiti delle classi dirigenti nazionali, politiche ed economiche. «Perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire quei bisogni; e necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere. Se non si possiede questa forza di drammatizzazione della vita, non si possono intuire i provvedimenti generali e particolari che armonizzino le necessita della vita con le disponibilità dello Stato».

Per rovesciare questo trend, Gramsci suggeriva di cominciare proprio da dove si era arenato il progetto liberale: incorporare il Sud nello Stato nazionale. Oggi l’Italia è una democrazia solida, eppure il degrado nel quale versa il Sud conferma integralmente il senso delle parole gramsciane: non considerare il Sud come un problema locale, perché il Meridione rappresenta l’intera nazione, le sue sconfitte come i suoi successi. L’Italia non riparte se non tutta insieme.

Per un laico è amaro ammetterlo: l'unico tra i potenti che esprime parole di saggezza politica (anche perché umane) appartiene alla sfera della religione. Se non fosse un potente qualcuno si direbbe "stai sereno".

Il manifesto, 8 agosto 2015

Papa Fran­ce­sco aveva già detto, dopo un’ennesima strage di migranti al largo di Lam­pe­dusa: «È una ver­go­gna». Que­sta ver­go­gna non ha fatto che ripe­tersi, per mesi, e c’è anche qual­cuno che si ral­le­gra per­ché l’Europa adesso mostre­rebbe un po’ più di sen­si­bi­lità, c’è per­fino una nave irlan­dese che par­te­cipa alle ope­ra­zioni di tumu­la­zione nel Medi­ter­ra­neo di cen­ti­naia e cen­ti­naia di pro­fu­ghi, men­tre una parte ne salva.

Intanto la Fran­cia sigilla la fron­tiera di Ven­ti­mi­glia, l’Inghilterra sta­bi­li­sce una linea Magi­not all’ingresso dell’Eurotunnel della Manica, l’Ungheria alza un muro e l’Italia è tutta con­tenta per­ché ha posto fine all’unica cosa buona che era riu­scita a fare, l’operazione «Mare Nostrum», ed è rien­trata nei ran­ghi dell’Europa per­ché sia chiaro che la vita negata ai pro­fu­ghi non è una scelta solo dell’Italia, ma è un sacri­fi­cio col­let­tivo che tutta l’Europa offre a se stessa avendo ces­sato di essere umana.

Ed ecco che il papa Fran­ce­sco dà il nome alla cosa: respin­gere i pro­fu­ghi è guerra, e cac­ciare via da un Paese, da un porto, da una sponda i migranti abban­do­nati al mare, è vio­lenza omicida.

Lo dice nell’anniversario del delitto fon­da­tore di que­sta fase della moder­nità, lo dice nei giorni di Hiro­shima e Nagasaki.

Quando aveva denun­ciato che la guerra mon­diale non era finita, per­ché nella glo­ba­liz­za­zione si sta com­bat­tendo una guerra mon­diale «a pezzi», era sem­brato che par­lasse per meta­fore; ma oggi mette le cose in chiaro: la guerra è que­sta, i garan­titi con­tro i dispe­rati, un mondo che voleva abo­lire le fron­tiere e ne ha alzate altre più spie­tate e inva­li­ca­bili, con­tro un’umanità senza patria né asilo che invano cerca salvezza.

E se è una guerra, una guerra non dichia­rata e non tute­lata da alcun diritto, nem­meno uma­ni­ta­rio, gli atti che vi si com­piono sono cri­mini di guerra. E que­sto vale per le vit­time in fuga dalla Bir­ma­nia nell’Oceano Indiano, a cui il papa spe­ci­fi­ca­mente si rife­riva, e vale per le vit­time che non rie­scono ad attra­ver­sare senza soc­com­bere la fossa comune del Mediterraneo.

Sono mesi e mesi che i siti non­vio­lenti, paci­fi­sti, o sem­pli­ce­mente umani, denun­ciano que­sti delitti per­pe­trati dai governi euro­pei, com­preso il nostro, sol­le­ci­tano appelli e firme dei cit­ta­dini per­ché ci si risolva a dare l’unica solu­zione vera al pro­blema, che è quella di aprire le fron­tiere, rico­no­scere l’antico diritto umano uni­ver­sale di migrare, per­met­tere ai pro­fu­ghi e ai fug­gia­schi di viag­giare al sicuro su treni, navi e aerei di linea. E sono mesi che siti nostal­gici e inte­gra­li­sti, invi­diosi di papa Fran­ce­sco, cer­cano di scre­di­tarlo lamen­tan­done la popo­la­rità, e ral­le­gran­dosi se quando parla ai poveri e ai movi­menti popo­lari, come ha fatto in Boli­via, il mondo per bene con i suoi media nean­che lo ascolta.

La verità è che papa Fran­ce­sco è l’unico che oggi ha parole all’altezza del dramma sto­rico che stiamo vivendo. Gli scar­tati della terra sono i veri sog­getti sto­rici attorno a cui si deve costruire la nuova con­vi­venza, sono il ful­cro dell’umanità di domani. E la giu­sti­zia e il diritto devono garan­tire la «casa comune» e tutti i suoi abi­tanti, a comin­ciare dal diritto a vivere, a pren­dere terra, a ripo­sarsi sotto qual­siasi sole. Que­sto dice il papa, e non è una cosa impos­si­bile, è solo una cosa non ancora avvenuta.

Commenti sull'ennesimo episodio della guerra condotta dal Primo mondo (l'Europa e gli europei in testa, con qualche nobile eccezione) contro i popoli che fuggono dalle persecuzioni, dalle torture e dalle carestie che il Primo mondo ha contribuito a provocare.

La Repubblica, 8 agosto 2015

IL PAPA DOPO LA TRAGEDIA
“RESPINGEREI MIGRANTI È UN ATTO DI GUERRA”
di Paolo Rodari

Francesco: “Questo è uccidere”. Arrestati gli scafisti. Arrivi record in Grecia,Tsipras chiede aiuto all’Ue

Tensioni e conflitti si risolvono «con il dialogo» e «il rispetto delle identità». Respingere i migranti è «guerra, significa uccidere». Così Papa Francesco, ieri, incontrando i ragazzi del Movimento eucaristico giovanile (Meg). Bergoglio, che segue le notizie provenienti dal Mediterraneo, si è poi soffermato sul dramma dei profughi birmani ricordando che respingere chi lascia la propria terra via mare in cerca di una vita dignitosa è un atto criminoso: «Questo si chiama violenza», ha detto. «Speriamo che i naufragi di questi giorni e l’irresponsabilità di istituzioni e politici rimangano una pagina nera di cui fare memoria perché tali tragedie non si ripetano più», ha detto invece padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, il servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia.

Fu proprio visitando il Centro Astalli nel 2013 che Francesco chiese ai conventi italiani di aprirsi all’accoglienza dei rifugiati, un appello a cui poi hanno risposto in molti. Negli ultimi tre giorni sono stati tratti in salvo oltre duemila migranti nel Mediterraneo, mentre martedì ventisei sono stati i morti e duecento i dispersi in un naufragio al largo delle coste libiche. I circa 400 sopravvissuti, sbarcati ieri a Palermo dalla nave irlandese Le Niham, hanno raccontato di terribili violenze e sevizie subite a bordo e diversificate a seconda delle etnie. Nella mattinata di oggi è previsto invece l’arrivo nel porto di Reggio Calabria della motonave Siem Pilot con a bordo 800 migranti.
Nel frattempo altri dati drammatici arrivano dalla Grecia dove nel mese di luglio si è registrato il record di arrivi di migranti: con 49.550 registrati, in un solo mese è stato superato il totale del 2014 (41.700). Da gennaio a luglio 2015, sono così 130.500 gli arrivi in Grecia, cinque volte più dello stesso periodo del 2014. Lo ha comunicato Frontex: «perché, nonostante i flussi verso l’Italia, da alcuni mesi la rotta greca è più battuta». Atene si affianca a Roma nel lanciare un appello all’Ue: «È quella della solidarietà o quella che cerca di proteggere i suoi confini?», ha chiesto Alexis Tsipras. In Italia le parole del Papa hanno provocato reazioni diverse dalla politica. Salvini, segretario leghista, ha attaccato ancora Francesco: «Respingere i clandestini un crimine? No, un dovere», ha detto. Eppure, al di là dei proclami, l’Italia continua a fare la sua parte nel lavoro di accoglienza. Nella prima mattinata di oggi, infatti, è previsto l’arrivo nel porto di Reggio Calabria della motonave Siem Pilot con a bordo 800 migranti, di cui 658 uomini, 94 donne (di cui due in stato di gravidanza) e 48 minori, di varie etnie. Al momento dello sbarco i migranti verranno sottoposti alle prime cure sanitarie da parte del personale medico presente sul posto. I migranti saranno trasferiti in base al piano di riparto predisposto dal Ministero dell’Interno.


I PUNTINI NEL MARE
GLI ANNEGATI EQUEGLI AGUZZINI
di Adriano Sofri
Le autorità, ma anche i comuni cittadini hanno una preziosa distanza da quel Mediterraneo, mezzo pieno o mezzo vuoto, dove gli esseri umani continuano a morire
La prima fotografia è presa da più lontano: il mare blu appena increspato e tanti puntini neri o colorati sparpagliati, forse uccelli marini, forse esseri umani.

Esseri umani? Se ne può dubitare, una volta che si sia saputo che cosa c’è sotto la fotografia. Sotto, invisibili, tanti altri puntini ammassati e andati a fondo, forse duecento, senza vedere un’ultima luce. Dicono alcuni sopravvissuti che gli scafisti li hanno costretti, per impedire ai dannati della stiva di arrampicarsi fino alla luce, a sedersi sulla botola chiusa.

In una foto successiva, più ravvicinata, c’è uno che sembra un ragazzino, ha un salvagente e batte forte i piedi, dallo spruzzo. Più indietro c’è un altro che sembra un bambino, e un adulto che lo sorregge. E altri, alla rinfusa. Stavano su un peschereccio di ferraglia, hanno ondeggiato verso il lato dal quale arrivavano i canotti di soccorso e l’hanno capovolto: è colato a picco in un momento. È il momento peggiore, quello in cui la salvezza arriva a portata di mano. Sono annegati in 26,
tre bambini, oltre alle centinaia della stiva.

Poi ci sono le fotografie di 5 scafisti arrestati, algerini e libici, tra i 21 e i 26 anni. La polizia li ha lasciati fotografare con pieno agio, e ha fatto bene: ma non si legge sulle loro facce la ferocia che i passeggeri hanno raccontato. Con le stesse facce, avrebbero potuto annegare anche loro o cercare un’altra vita. Uno è a torso nudo, uno, barba nera e lunga, gambe nude e maglietta verde che recita: Original Timberline. Crafted for toda ”. Uno ha la canottiera celeste, uno la t-shirt bianca con un marchio italiano famoso. L’ultimo ha i capelli rasta e la maglietta col manifesto di Full Metal Jacket, con la scritta spagnola — La chaqueta metálica — e l’elmetto famoso con il motto Born to kill . Che siano disgustosi, è fin troppo facile. Sono scafisti, cioè l’unica risorsa per chi ha attraversato i deserti e deve ancora attraversare il mare — e poi avrà tante altre traversate ancora da compiere a rischio della vita, fino alla più surreale, sotto il mare della Manica. Che siano anche aguzzini, è un eccesso di zelo, e anche un incerto del mestiere, dato che bisogna tener in equilibrio una mandria umana che sbandando può rovesciare la carretta. C’è poi la questione degli esseri umani, e della vita dichiarata sacra. Le autorità costituite europee e internazionali, anche quando hanno un nome e un cognome, e pure loro una faccia e magari una barba una camicia una cravatta, tengono una distanza accuratamente misurata dall’acqua in cui si annega. La distanza, e tutti i suoi gradi intermedi, impediscono che ci sia qualcuno cui incombe il doveroso compito di fissare il numero di migranti da far annegare nel Canale di Sicilia all’anno o al mese: non troppo pochi, per tentare almeno una dissuasione fra le centinaia di migliaia che premono sulle coste meridionali del Mediterraneo; e non troppi, perché non ne esca sfregiata la figurina di un’Europa civile.

Il numero giusto -tra i 3.279 del 2014 e i 4.000 previsti per quest’anno, che già ne conta già 2.400 -si fissa per così dire da sé, come succede con le statistiche. Si può essere responsabili di una morte o cinque, non di una statistica. La quale si consola col versante opposto, la statistica sui salvati dell’anno scorso, e i salvati di questo: già 88 mila, un netto progresso.

È la solita questione del Mediterraneo mezzo pieno o mezzo vuoto. Le autorità possono essere ottimiste o pessimiste, sono comunque innocenti. Intendiamoci, non solo le autorità, anche i cittadini hanno la loro preziosa distanza dall’acqua in cui si affoga, benché la televisione faccia vedere la cosa, prima più da lontano, puntini che forse sono gabbiani, forse esseri umani, poi più da vicino, fino ad avere la sensazione di tendere la mano da casa propria a una ragazzina intirizzita, e avvolgerla in una carta d’oro e una d’argento, e attaccarla a una flebo, e ringraziare il cielo per lei.

Ieri un commento alle foto (lo so, i commenti non si devono leggere) ammoniva gli imbarcati, vivi e morti: “Il volo Tunisi-Roma costa 160 euro!” E quelli che sono andati a picco serrati nella stiva, i più poveri, avevano pagato 1200. Che lezione! In realtà, si può volare a Tunisi anche per meno, e in meno di un’ora. La Tunisia, che resta il meno dispotico dei Paesi del Maghreb, per ostacolare i reclutamenti jihadisti, è arrivata a vietare ai suoi giovani (fino ai 35 anni!) di espatriare verso i Paesi a rischio — cioè, dalla Tunisia, tutti — con qualche eccezione autorizzata dai genitori (dei figli di 35 anni!). E figuriamoci i somali, i sudanesi, i siriani, gli eritrei, che al barcone arrivano dopo aver distrutto i documenti e magari limato i polpastrelli. Domanda: appartengono alla stessa specie vivente, sono ambedue animali umani, quello che con qualche decina di euro vola a Tunisi e a bordo ordina un succo di ananas, e quello che per 1.200 euro si guadagna uno spazio nella stiva di una carcassa di peschereccio, come in una camera a gas? Quello che viaggia col bagaglio a mano, e quello che crepa asfissiato dentro una valigia tra Melilla e la Spagna? Quello che arriva fino a Calais e, respinto per l’ennesima volta, getta la sua bambina di là dalla barriera, che almeno lei ce la faccia?

Lo so, bisogna stare attenti a non fare i demagoghi, a non vellicare sensi di colpa e buoni sentimenti del proprio prossimo. Ma non sto mettendo a confronto la foto dei 400 puntini sul mare blu, e dei 200 puntini che mancano, con quella delle caviglie di una signora che, sulla stessa homepage di ieri, aveva la didascalia: “300mila dollari per i sandali di diamanti”. Lo so che non è per permettere a quella signora il paio di scarpe che tante donne incinte di stupri vanno a fondo nel Canale di Sicilia. Che paragonare i naufragi nel Canale di Sicilia al raddoppio del Canale di Suez è populista: non sono vasi, né canali comunicanti. Si può però paragonare una parte di mondo, compresa la gran maggioranza dei suoi poveri, che non può sopportare di sentire la propria incolumità fisica minacciata, e un’altra parte di mondo che scappa dalla morte a rischio della morte e viaggia incontro a tante morti successive, non per rifarsi una vita, ma per farsela, e se non a sé almeno alla propria creatura.


Riferimenti
Sull'argomento abbiamo pubblicato numerosi articoli. Li trovate dispersi nella varie cartelle della sezione Società e politica, oppure digitando le parole profughi, o migranti. Segnaliamo in partoicolatr quello recente di Guido Viale, L'Europa dei profughi

La Repubblica, 7 agosto 2015

«Non li conosco, non li ho mai sentiti nominare. Ho anche guardato le fotine pubblicate dai giornali: ricordano quei tizi scomparsi di Chi l’ha visto. Invece sono i responsabili della principale azienda culturale del paese: davvero non mi capacito». Ugo Gregoretti, per la Rai, ha inventato un sacco di cose. Il “giornalismo faceto” di Controfagotto.La regia provocatoria del Circolo Pickwick . Il documentarismo di Sottotraccia. «Sì, facevamo cultura, che poi vuole dire far bene le cose, nel modo più innovativo possibile. Ma da tempo in Rai alla qualità non si bada più».

È ancora la principale fabbrica di cultura?
«Vorrei subito chiarire questo equivoco. Dopo l’epoca aurea di Bernabei la Rai ha continuato a esercitare un primato che attiene alla quantità più che alla qualità. Il primato della qualità è rimasto in altri posti: alla Scala, al festival di Spoleto o alla Normale di Pisa. Il nuovo consiglio d’amministrazione rivela l’imbroglio».

In che senso?
«L’Italia non ama la cultura. Siamo i cittadini più ignoranti dell’Occidente. Enfatizziamo in modo trombonesco la nozione di cultura e di culturale, vantando il settanta per cento del patrimonio artistico mondiale. Ma si tratta di un innamoramento finto e ridicolo. Quanti sanno distinguere Borromini da Berlusconi? Temo che la Rai sia lo specchio di tutto questo. Un elefante imbalsamato, privo di un intimo e reale anelito alla cultura. Salvo pochi stravaganti».

A chi si riferisce?
«A quei bei programmi di storia che vanno in onda in tarda serata. Esiste una ragnatela di nicchie aziendali, che però non modifica l’impronta generale della Tv pubblica. La cultura abita altrove. E non mi pare che il nuovo vertice rappresenti l’ambizione del cambiamento ».

Lei ha conosciuto un’altra azienda.
«Quando cominciai, negli anni Cinquanta, non erano certo rose e fiori. La politica esercitava un controllo ferreo. Però eravamo invitati tutti a fare bene. A inventare. E ci garantivano le condizioni per farlo. Ci si chiedeva uno stile, un’eleganza, una correttezza che oggi non vedo».

Cosa vede?
«Inquadrature sbagliate, sciatteria, errori a non finire. Ma chi sa più insegnare? La Rai era un grande centro sperimentale dove si imparava».

Era una Tv dal chiaro intento pedagogico.
«Sì, gli obiettivi erano morali più che estetici. Non contava tanto la belluria ma il fare bene, nella scelta dei temi e nel modo di affrontarli. Dovevamo essere un modello per l’Europa. Un documentario sul Gattopardo cambiò le mie sorti televisive: riuscii a battere la Bbc per la finale del Prix Italia e finalmente mi fecero fare Controfagotto» .

I direttori generali controllavano le mutande delle ballerine.
«Sì, Filippo Guala ordinava di allungare l’orlo. Però fu lo stesso dirigente che con un falso concorso fece entrare in Rai i migliori cervelli della nostra generazione. Umberto Eco. Fabiano Fabiani. Furio Colombo. Gianni Vattimo. Una trasfusione di sangue di cui la Rai avrebbe beneficiato a lungo».

La Rai produceva cultura quando eravamo un paese arretrato. Oggi che gli spettatori sono molto più alfabetizzati c’è meno attenzione.
«La regola era quella di rendere potabili i temi più complessi. Bisognava spiegare Gadamer alle portinaie».

Cosa la fa più arrabbiare della Tv di oggi?
«Le fiction. Io feci il Circolo Pickwick con pochi mezzi e “inventando” Gigi Proietti. Oggi prevale il divismo, la tv ha preso il peggio della maleducazione cinematografica » .

Proviamo a metterci nei panni dei profughi e a ragionare con rigore e immaginazione; potremo finalmente comprendere quale potrebbe essere un futuro positivo per l'Europa. L'autore ci riesce. Il manifesto, 7 agosto 2015


Immaginate di essere uno dei profughi accatastati a Calais, all’ingresso dell’Eurotunnel, e che ogni notte cercate di attraversarlo infilandovi sotto il rimorchio di un camion, per venirne ogni volta respinti. Oppure un migrante imboscato ai confini di Melilla in attesa di trovare il modo di scavalcare la rete che vi impedisce di entrare in Spagna. O un profugo siriano o afghano in marcia attraverso le strade secondarie della Serbia con quel che resta della sua famiglia che non sa ancora che ai confini con l’Ungheria troverà una rete a impedirgli di varcare il confine. O un eritreo imbarcato a forza, dopo mesi di attesa e violenze, nella stiva di una carretta del mare, che sa già che forse affonderà con quella, ma non ha altra scelta. O una donna aggrappata con i suoi figli agli scogli di Ventimiglia.

E’ un esercizio dell’immaginazione difficile e i risultati sono comunque parziali. Ma bisogna cercare lo stesso di farlo, perché “mettersi nei panni degli altri” serve sia a dare basi concrete a solidarietà e convivenza, sia a capire un po’ meglio dove va il mondo. Per lo stesso motivo è utile provare a immaginare che cosa passa nella testa (vuota) di uno come Dijsselblöm o in quella (troppo piena) di uno come Schäuble per cercare di “comprendere” meglio dove va l’Europa. Non che, in entrambi i casi, questo esercizio sia di per sé sufficiente; ma è anche vero che nelle cose di cui parliamo o scriviamo è troppo spesso assente questo risvolto, questo lavorìo dell’immaginazione.

La prima cosa che sapreste, mettendovi nei panni di quei profughi o di quei migranti (una differenza che da tempo esiste solo nella mente e nei discorsi abietti di uno come Salvini), è che nessuno vi vuole: non il paese da cui siete stati cacciati da guerre e miseria; non quello in cui vorreste arrivare, che vi respinge con crescente furore; non quello in cui siete temporaneamente in transito, che cerca solo di sbarazzarsi di voi. Per tutti loro, semplicemente, non dovreste esistere.

E’ una condizione che ormai riguarda, in Europa, decine di migliaia di persone, escluse dalla condizione di esseri umani. Qualcosa di più dell’apartheid. Sono sottouomini; persone per cui “non c’è posto” nel mondo; da eliminare. Il “come” non si è ancora deciso; o non si ha ancora il “coraggio” di deciderlo (quelli come Dijsselblöm o Schäuble per ora fingono, o forse sono convinti, di occuparsi d’altro). Ma nel Mediterraneo lo si lascia fare ai naufragi (la missione Triton, “sorvegliare le coste”, è stata concepita per questo): se ne lasciano affondare un po’ nella speranza (vana) che gli altri desistano: per doverne “salvare” di meno.

Ma non è una soluzione, come non lo è bombardare i barconi, portare la guerra in Libia o costruire altri muri e reticolati. Perché nessuno di loro può tornare – per ora; e per molti anni – da dove è scappato. Perché ai confini dell’Europa premono ormai almeno sei milioni di profughi (e domani saranno dieci e più: un intero popolo).

Sono il prodotto di guerre, occupazioni, devastazioni e contese per accaparrarsi risorse che l’Europa in parte ha promosso; in parte ha tollerato; e in parte se ne è resa complice, accodandosi a guerre volute o attizzate dagli Stati Uniti. Senza rendersi conto, però, che ormai la guerra, o uno stato di belligeranza continua prodotta dalla disgregazione di Stati che si voleva continuare a dominare, la circonda ormai da tutte le parti: a Est come lungo i confini del Mediterraneo. Se la Comunità, poi Unione, Europea era nata per porre fine alle guerre al proprio interno, le politiche adottate, insieme o separatamente, dai singoli Stati membri hanno ormai portato la guerra – o uno situazione che da un momento all’altro può sfociare o risfociare in guerra – ai suoi confini.

Una situazione così non può durare a lungo senza esplodere e l’ondata dei profughi, che non è destinata a finire, e che non si riesce a fermare, non ne è che la prima pesante avvisaglia. Anche se quelli come Dijsselblöm e Schäuble pensano che il futuro dell’Europa si decide solo saldando debiti che loro hanno creato.

Ma l’Europa non è solo quello di cui si occupano i suoi governanti; la lotta per scaricarsi a vicenda il “peso” di poche (finora) decine di migliaia di profughi divide tra loro gli Stati membri ben più della paura di subire domani il castigo inflitto oggi alla Grecia: che invece, finora, ha solo compattato i rispettivi Governi. Certo, il modo in cui la Grecia viene “aiutata” dall’Europa toglie non poco appeal a quel “aiutiamoli a casa loro” con cui, da Salvini alla Merkel, si crede, o si fa credere, di potersi sbarazzare del problema dei profughi.

Invece, mai come ora la situazione dell’Europa mette all’ordine del giorno il problema della pace. L’Europa sopravviverà, cambiando pelle anche sulle questioni di ordine interno, se saprà impegnarsi a cercare una soluzione a tutte quelle guerre; o ad aiutare gli interessati a trovarla.

Ma chi sono gli “interessati”? Prendiamo il caso della Siria: tutto è cominciato con una guerra di bande per impadronirsi di una rivolta popolare contro il regime dispotico di Assad: l’ultima delle “primavere arabe”. Ne è nato l’Isis, a lungo alimentato da quelli che ora sostengono di combatterlo, o fingono di farlo. E ha ridisegnato tutto il quadro del Medio Oriente, dalla Turchia alla Libia, passando, per ora, per Iraq e Yemen, fino a coinvolgere la Nigeria e altri paesi subsahariani.

Ma si potrà mai arrivare a una pace in Siria affidandola alle potenze che oggi se ne disputano il destino? Non c’è un’entità diversa dalle organizzazioni fantoccio come il Consiglio nazionale siriano o la Coalizione nazionale siriana - completamente controllati dai Governi che li hanno creati e li finanziano - a cui possano fare riferimento tutti coloro che, dentro e fuori il paese, vorrebbero la fine del massacro a cui sono esposti?

Quell’entità in realtà c’è; o, meglio, potrebbe esserci: sono i profughi siriani che hanno raggiunto l’Europa, o che cercheranno di raggiungerla domani, se solo nei loro confronti venisse adottata una politica di vera accoglienza; se gli si offrisse, in tutti i paesi dell’Europa, un posto e una condizione che ne legittimasse la presenza; che permettesse loro di organizzarsi e di far sentire la loro voce; di valorizzare i legami che mantengono o possono riallacciare con le famiglie e le comunità dei luoghi da cui sono fuggiti; di darsi una rappresentanza e sedere al tavolo delle trattative. E così per tutti quei contingenti in fuga da paesi in condizioni analoghe: Kurdistan, Iraq, Eritrea, Somalia, Sudan, Afghanistan, Nigeria e chissà quanti altri.

Certo, nell’immediato, non sarebbe una mossa risolutiva. Ma, “mettendosi nei loro panni”, sarebbe sicuramente una base per ricostruire una prospettiva di pace e un programma di rinascita delle loro comunità nazionali e delle loro terre, per restituire a tutti i loro connazionali l’idea di un’alternativa allo stato di cose presente. Una prospettiva che uscirebbe rafforzata garantendo dignità e diritti alle centinaia di migliaia di loro connazionali sfruttati come schiavi nei paesi europei.

L’Europa di domani, se ancora ci sarà come attore sullo scacchiere geopolitico globale, è questa: una comunità che abbraccia, idealmente e concretamente, tutti coloro che hanno cercato, che cercano e che cercheranno ancora nell’approdo alle sue coste o ai suoi confini una alternativa allo stato di caos dei paesi da cui sono fuggiti. Nessuno è “più Europa” di loro, che l’hanno cercata e inseguita con tanto impegno, mettendo a rischio la propria vita, la propria integrità fisica, il proprio futuro. Nessuno è più portatore di pace di coloro che fuggono le guerre anche a costo della propria vita. Nessuno minaccia l’integralismo su cui è stata costruita l’identità dello Stato islamico e dei suoi emuli, quanto le donne di questo popolo di fuggiaschi, se messe in condizioni di liberarsi dal gioco patriarcale sotto il quale le risospingono le discriminazioni a cui sono sottoposte nei nostri paesi.

E’ questa l’alternativa senza la quale l’intero edificio del pax europea, premessa e promessa dell’Europa disegnata a Ventotene, rischia di essere travolto. Ed è anche l’unica vera alternativa alla imminente frantumazione dell’Unione Europea perseguita dai Dijsselblöm e Schäuble.

Uno studio del

Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung può trionfalmente rivelare che la grande maggioranza dei lavoratori tedeschi, anche in condizioni di precarietà, bassi salari e scarsi diritti, è ben contenta del lavoro che ha. Gli insoddisfatti naturalmente esistono, ma sono pochi e di cattivo carattere. Il manifesto, 6 agosto 2015 (m.p.r.)

Pochi giorni fa, incontrando fortunatamente una diffusa resistenza, la Confindustria tedesca chiedeva di superare il limite di 8 ore della giornata lavorativa, in nome della flessibilità. E’ il segno inequivocabile di come la dottrina della competitività non contempli alcun principio di equilibrio o di autoregolazione. Non da ieri, numerosi economisti sottolineano come l’avanzo commerciale e di bilancio tedesco (8% del Pil quest’anno) costituiscano per l’Europa un problema ben più serio del debito greco.

L’eccesso di risparmio comincia a preoccupare perfino i vertici della Deutsche Bank. Come è possibile che una economia fiorente si arrocchi nel respingere qualsiasi ripresa della dinamica salariale, qualsiasi miglioramento dei diritti e dei redditi del lavoro precario, qualsiasi ripresa della spesa pubblica, tali da ridurre i fortissimi squilibri che affliggono il Vecchio continente, oltre a migliorare il livello di vita dei tedeschi? A partire da questa domanda, in molti lamentano un antigermanesimo di comodo che imputerebbe a Berlino ciò che in realtà è l’essenza del capitalismo globale.

La Germania, insomma, sottostà, sia pure con qualche eccesso di zelo e qualche specifica ossessione, alle leggi del neoliberismo, non le crea. Il pericolo non proverrebbe dunque da una ripresa del nazionalismo tedesco (del tutto evidente nei toni del dibattito pubblico in Germania) ma dalla dittatura dei mercati. Inutile prendersela con una presunta vocazione storica della Germania al comando. Se questa affermazione non teme smentite definitive, essa contiene tuttavia una ingenuità e un pericolo. La prima consiste in una idea del tutto astratta e disincarnata del mercato (dimentica del fatto che quest’ultimo è un rapporto sociale con le sue espressioni politiche) che non esisterebbe nelle forme attuali senza i suoi interpreti "sovrani", i suoi guardiani e i suoi retori.
Il successo di pubblico della politica teutonica in Europa deriva dall’aver convinto i cittadini tedeschi a considerarsi in primo luogo "azionisti" del ministero guidato da Wolfgang Schaeuble. Il secondo risiede nell’insidiosa illusione che la sovranità nazionale (e dunque il nazionalismo che frequentemente ne discende) possa essere contrapposta alla globalizzazione capitalistica, sia pure come argine parziale. L’illusione riverbera sulla questione della moneta distinguendo tra paesi con la vocazione all’export e paesi orientati al mercato interno. Gli uni favoriti, gli altri svantaggiati dalla moneta unica. Fatto sta che non si tratta affatto di "vocazioni", o di "caratteri nazionali", ma di rapporti di forza tra le classi che non dipendono dall’appartenenza o meno all’Unione europea e dai suoi trattati, come dimostra, per esempio, l’esplosione dell’export made in China con le condizioni politiche e poliziesche che la hanno resa possibile.
Il nazionalismo tedesco, dunque, è una delle condizioni del meccanismo di accumulazione in Europa, tanto è vero che esso è perfino in grado di riproporsi in una versione più federale e integrata, che ha tra i suoi promotori lo stesso Wolfgang Schaeuble, a condizione che la governance venga messa al riparo da qualunque interferenza di carattere democratico e si attenga strettamente alle regole date. Regole saldamente radicate nella tradizione ordoliberale tedesca. Questa forma di integrazione saprebbe avvantaggiarsi, inoltre, di uno sfoltimento dell’unione monetaria senza nessuna perdita significativa di egemonia o di sovranità, continuando a condizionare pesantemente le economie europee sospinte ai margini dell’eurozona. In queste condizioni un "atterraggio morbido" fuori dalla moneta unica non è che il sogno malsano dei nostalgici della sovranità nazionale. Il paracadute non si aprirà, come il governo di Tsipras sembra avere intuito per tempo. Del resto, la stessa alternativa tra la permanenza nell’euro o l’abbandono volontario della moneta unica si presenta come una operazione di decisionismo governativo, estraneo a qualsivoglia movimento di massa, come ci suggerisce l’esigua minoranza di greci disposti a uscire dall’euro.
La messa in scena di una rivincita, del tutto illusoria, della politica sull’economia, nel cui campo e secondo i cui schemi si gioca per intero la partita. Fuori dall’ eurozona, non meno che al suo interno, non c’è infatti libertà di azione, c’è il terreno minato dell’economia globale. Di fronte alla quale, sulla scala ridotta dello stato nazionale (perfino la Germania è troppo piccola per il “grande gioco”), si aprono due strade. O quella di uno sfruttamento intenso del lavoro e uno smantellamento radicale dello stato sociale, se possibile ancor più draconiano di quello preteso da Bruxelles, ma questa volta sotto il segno infetto dell’"orgoglio nazionale", per sostenere la competitività, oppure la via del protezionismo, dell’isolazionismo, delle politiche dirigiste di sviluppo nazionale, degli ateliers natonaux e del lavoro fittizio. Per non voler pensare a vere e proprie derive di natura autarchica.
Da destra e da sinistra vi sono in Europa diverse tendenze che sembrano convergere verso simili esiti. Gli uni nella speranza di restaurare un’idea forte di "Nazione", gli altri nell’illusione che questo passaggio conduca a una trasformazione in senso più democratico e ugualitario della società. Questi ultimi muovono da un tragico errore di fondo: il socialismo europeo non è fallito perché si è convertito al neoliberismo, ma si è convertito al neoliberismo perché era fallito. Perché il modello di stato, di welfare, di lavoro, di identità singolari e collettive che esso proponeva non corrispondevano più alle aspirazioni di soggettività sociali profondamente trasformate. Se non si parte da questo presupposto la partita con le promesse, sia pur disattese, del neoliberismo è irrimediabilmente perduta. E uno studio del Deutsches Institut fuür Wirtschaftsforschung può trionfalmente rivelare che la grande maggioranza dei lavoratori tedeschi, anche in condizioni di precarietà, bassi salari e scarsi diritti, è ben contenta del lavoro che ha. Gli insoddisfatti naturalmente esistono, ma sono pochi e di cattivo carattere.
«Resta valido l'obiettivo dell'integrazione ma la stanchezza sembra prevalere. Ricordiamo le parole di Péguy: la speranza è la più grande virtù».

Corriere della Sera, 6 agosto 2015 (m.p.r.)

Alcuni mesi fa ho chiesto a un mio amico, funzionario dell’Unione Europea e da tempo impegnato nella commissione Difesa, se esiste un esercito europeo. Sì, mi ha risposto. Ma mezzo minuto dopo ha aggiunto: No. Probabilmente avrà pensato al lambiccato groviglio di suddivisioni di compiti e funzioni - in ogni settore - tra i vari Stati, alle alternanze di gerarchie, ai bilancini di competenze, ai paralizzanti codicilli miranti a impossibili equilibri perfetti tra le singole componenti. Tutto ciò, per quel che riguarda l’organizzazione militare, gli sembrava troppo diverso da quello che deve essere un esercito, formato, nel caso sciagurato di una guerra, per agire in quest’ultima con rapidità, efficacia e determinazione. Alcune buone prove date in occasione di interventi delle forze armate, a cominciare da quelle italiane, non bastano per poter parlare di un esercito europeo, come si parla invece di esercito inglese, francese o americano. È vero che le nuove modalità dei conflitti mettono in difficoltà pure gli eserciti veri e propri, come dimostra la guerra nell’Afghanistan, che sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale.

Come non c’è un vero esercito europeo, è lecito chiedersi se esista una vera compagine politica europea o se l’Unione Europea assomigli troppo all’Onu e alla sua impotenza a risolvere problemi e contese. Forse essa assomiglia ancora di più al Sacro Romano Impero nei suoi ultimi decenni, coacervo politico-giuridico di autorità sovrapposte e contraddittorie, di poteri che si sommavano e si elidevano a vicenda, ciò che rendeva il venerando e grandioso impero, teoricamente senza confini, un assemblaggio paralizzato e paralizzante, che Goethe si chiedeva come potesse tenersi insieme e cui infatti Napoleone pose fine con un soffio, come si spegne una candela.
Un’Europa politicamente unita può esistere solo se esiste - se e quando esisterà - un vero Stato europeo, federale e decentrato ma con un reale unico governo eletto da tutti i cittadini europei, come il presidente degli Stati Uniti è eletto da tutti i cittadini americani, e le cui leggi fondamentali valgano per tutti. Uno Stato in cui gli attuali Stati nazionali diventino quelle che sono oggi, in ogni singolo attuale Stato, le Regioni, con i loro Consigli e i loro organi di governo per i problemi specifici che le riguardano.
Spero in questo Stato, perché credo sia la nostra unica salvezza possibile, visto che oggi i problemi, politici ed economici, sono europei. Solo uno Stato europeo potrebbe tutelare le identità nazionali, culturali e linguistiche numericamente o economicamente più deboli, che invece sono facilmente in balìa dei gruppi numericamente ed economicamente più forti. Nell’Unione Europea non dovrebbe ad esempio essere possibile che l’una o l’altra delle sue componenti innalzi muri di centinaia di chilometri ai confini con un’altra regione, così come oggi in Italia non è possibile che la Regione Campania innalzi muraglie cinesi alle frontiere con la Regione Lazio.
Purtroppo l’Unione Europea sembra fare assai poco in questo senso; un timido passo in avanti e subito mezzo passo indietro, un frequente rinvio dei problemi pressanti per evitare il fallimento della loro soluzione e dunque per rimandare non la soluzione, bensì il suo fallimento. Ad esempio l’atteggiamento dinanzi al gravissimo - sempre più impellente e sempre più difficilmente solubile - problema dell’immigrazione è un tipico esempio di questa inconsistenza dell’Unione Europea, che cerca di scaricare il problema sull’Italia, come se il governo italiano cercasse di scaricarlo sulla Sicilia, visto che i barconi dei disperati arrivano in Sicilia e non a Bologna o a Firenze. Una delle poche istituzioni europee che funzionano con decisione e con una visione globale e organicamente europea è la Banca Centrale, guidata da Mario Draghi. Se l’Unione Europea agisse in quel modo in ogni campo, non ci troveremmo nell’attuale penoso stallo.
Forse l’errore è stato quello di allargare l’Unione Europea prima di crearla realmente, rendendola così un pachiderma titubante. Forse sarebbe stato meglio se l’idea d’Europa formulata dai padri fondatori e messa inizialmente in moto dai Sei fosse prima divenuta uno Stato vero e proprio, con una sua struttura e una sua effettività precisa. Questo Stato, una volta costituito, avrebbe potuto e dovuto accogliere successivamente gli altri Paesi che ne condividessero i fondamenti. Non perché l’uno o l’altro Paese sia più o meno degno di altri, ma perché ogni realtà funzionante, in ogni campo, si basa su una costruzione precisa e non su confuse assemblee pulsionali o su patteggiamenti diplomatici. Quando nel 1933 Giulio Einaudi fonda la sua casa editrice, non va in Piazza Castello a invitare tutti i passanti a farne parte, quelli che vorrebbero pubblicare romanzi gialli e quelli che vorrebbero trattati teologici, ma la fonda su un progetto preciso, successivamente aperto a chi lo condivide. Ogni istituzione operante esclude l’unanimità, che paralizza ogni decisione e non è democrazia bensì il suo contrario. Sono le dittature a imporre e a fingere un’unanimità di consensi.
Le grandi formazioni statali cui dobbiamo la civiltà europea sono nate da guerre; l’Impero romano è una lontana fondamentale premessa di un’Europa unita, ma è nato senza che le legioni romane chiedessero il permesso di entrare in Gallia o in altre terre. Ovviamente noi vogliamo l’unità europea, ma non vogliamo a nessun costo costruirla con la guerra. Talora questo sogno e questo dovere, questa speranza in una reale unione europea, sembrano la quadratura del circolo.
È una ragione in più per lavorare per essa. La tentazione di una triste e rassegnata impotenza è forte. Forse mai come oggi la delusione e la stanchezza della politica sono state così vaste e deprimenti e sembrano riecheggiare quella settima lettera di Platone amaramente deluso dal potere politico, pubblicata non a caso di recente da Paolo Butti de Lima nella versione di una grande traduttrice dei classici, Maria Grazia Ciani (Marsilio). Non resta che sperare contra spem, contro il dilagante e giustificato pessimismo. La speranza, scrive Péguy, è la più grande delle virtù, proprio perché è così difficile vedere come vanno le cose e, ciononostante, sperare che domani possano andare meglio.
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